ROBIN HOBB LA NAVE DEI PIRATI & LA NAVE DELLA PAZZIA (Mad Ship, 1999)
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ROBIN HOBB LA NAVE DEI PIRATI & LA NAVE DELLA PAZZIA (Mad Ship, 1999)
Primavera Prologo Ricordo di ali Sotto i serpenti i letti di alghe ondeggiavano lievi al mutare della marea. Lì l'acqua era calda, calda come lo era stata al Sud prima della migrazione. Maulkin aveva dichiarato che non avrebbero più seguito l'argentea dispensatrice di cibo, ma il suo profumo provocante indugiava nell'acqua salata. Non era lontana; la seguivano ancora, ma a distanza. Shreever considerò di discuterne con Maulkin, poi cambiò idea. Guardò preoccupata il loro capo. I danni subiti da Maulkin nella breve battaglia con il serpente bianco guarivano con lentezza. Le lacerazioni guastavano il disegno delle sue scaglie. I falsi occhi dorati che correvano lungo il suo corpo proclamandolo un profeta erano sbiaditi e opachi. Anche Shreever si sentiva sbiadita e opaca. Erano arrivati lontano in cerca di Uno Che Ricorda. All'inizio del viaggio Maulkin era stato così fiducioso. Ora sembrava confuso quanto Shreever e Sessurea. I tre erano tutto ciò che rimaneva del grande groviglio di serpenti marini che aveva dato inizio alla migrazione. Gli altri avevano perso fiducia nella cerca e si erano allontanati da Maulkin. L'ultima volta che Shreever li aveva visti stavano seguendo un grande dispensatore scuro, alimentandosi ciecamente della carne insensibile che elargiva. Era avvenuto molte maree prima. «A volte» confidò quietamente Maulkin a Shreever mentre riposavano «mi smarrisco nel tempo. Mi sembra che abbiamo già percorso questa via, abbiamo già compiuto queste azioni, forse abbiamo anche già scambiato queste parole. Qualche volta ne sono così convinto da pensare che l'oggi sia davvero un ricordo o un sogno. E penso che forse non dobbiamo agire affatto, perché qualunque cosa ci sia accaduta un tempo accadrà di nuovo. O forse è già accaduta.» La sua voce era priva di forza e di convinzione. Shreever si portò al suo fianco. Ondularono con dolcezza nella corrente, le pinne quasi immobili, se non per mantenere la posizione. Sotto di loro Sessurea scrollò all'improvviso la criniera, emanando una tenue nuvola di tossine per avvertirli con un grido squillante. «Guardate! Cibo!» In un barbaglio d'argento il branco di pesci scivolò verso di loro come una benedizione. Dietro i pesci un altro groviglio di serpenti li seguiva da
vicino, cibandosi delle frange del branco. Tre scarlatti, uno verde e due azzurri. Non erano un groviglio numeroso, ma apparivano sani e vivaci. La pelle luccicante e la carne florida erano in netto contrasto con le scaglie rade e la magrezza del groviglio di Maulkin. «Venite» ordinò questi ai compagni, e li guidò a nutrirsi insieme agli altri. Shreever emise un piccolo suono di sollievo. Almeno si sarebbero riempiti la pancia. Forse gli altri avrebbero addirittura compreso che Maulkin era un profeta e si sarebbero uniti al suo groviglio. Il branco, argenteo e luccicante, confondeva lo sguardo. Si muoveva come un'unica creatura, ma era in grado di aprirsi e scorrere attorno a un cacciatore impacciato. I serpenti del groviglio di Maulkin non erano impacciati, e tutti e tre inseguirono i pesci con grazia fluida. L'altro groviglio lanciò un richiamo di avvertimento, ma Shreever non vide alcun pericolo. Con uno scatto della coda si tuffò nel branco, e spalancando le fauci catturò almeno tre pesci. Dilatò la gola per ingoiarli. Due serpenti scarlatti si girarono all'improvviso e colpirono Maulkin, urtandolo con il muso come se fosse uno squalo o un altro comune nemico. Il serpente blu si lanciò su Shreever aprendo le mascelle. Shreever contrasse subito le spire e gli sfuggì, sfrecciando in un'altra direzione. Vide l'altro serpente scarlatto cercare di avvolgersi attorno a Sessurea con la criniera ritta, schizzando veleno e lanciando squilli di oscene minacce. Non c'era senso né sintassi nelle sue maledizioni, solo furia. Shreever fuggì emettendo grida stridule di confuso spavento. Maulkin non la seguì. Scrollò l'ampia criniera, spandendo una nube di tossine. Quasi storditi, i serpenti scarlatti si ritirarono, scuotendo le fauci aperte e pompando con le branchie nello sforzo di espellere il veleno. «Che vi succede?» chiese Maulkin al bizzarro groviglio. Si torse in una spirale, dilatando minaccioso la criniera mentre li rimproverava. Riuscì a far risplendere i falsi occhi. «Perché ci attaccate come bestie senz'anima in lotta per il cibo? Non è così che si comporta la nostra razza! Anche se sono pochi, i pesci appartengono a chi li prende, non a chi li ha visti per primo. Avete dimenticato chi siete, cosa siete? Vi hanno rubato del tutto la mente?» Per un istante l'altro groviglio rimase sospeso immobile, a parte lievi colpi di coda per stabilizzarsi. Il branco di pesci fuggì dimenticato. Poi, come se proprio la ragionevolezza delle parole di Maulkin li avesse fatti inferocire, i serpenti gli si rivoltarono contro. Tutti e sei confluirono su di lui, mascelle spalancate a mostrare i denti, criniere erette e grondanti di
tossine, code sferzanti. Con orrore Shreever fissò Maulkin che si dibatteva mentre lo avvolgevano e lo trascinavano giù nel fango. «Aiutami!» squillò Sessurea. «Lo soffocheranno!» Le sue parole infransero la paralisi di Shreever. Scesero fianco a fianco come frecce a colpire e frustare i serpenti che tenevano prigioniero Maulkin e lo laceravano con i denti, come una preda. Nella lotta il suo sangue si mescolava alle tossine in una nube soffocante. I falsi occhi luccicavano attraverso l'acqua sempre più torbida. Shreever gridò, inorridita dalla brutalità irragionevole dell'attacco. Eppure si trovò a dilaniare gli altri serpenti mentre Sessurea sfruttava la sua maggiore lunghezza per flagellarli con la coda. Al momento buono Sessurea avvolse il corpo lacerato di Maulkin con il suo e lo strappò dal groviglio infuriato. Fuggì stringendo Maulkin, e Shreever fu ben contenta di interrompere la battaglia e seguirlo. Gli altri non li rincorsero. Nella loro frenesia velenosa si aggredirono a vicenda, ruggendo insulti e provocazioni. Grida meccaniche, emesse senza senso fra morsi e colpi di coda. Shreever non si girò a guardare. Qualche tempo dopo, mentre lei stendeva il limo curativo del suo corpo sulla carne lacerata di Maulkin, lui le parlò. «Hanno dimenticato. Hanno dimenticato del tutto chi e cosa erano. È passato troppo tempo, Shreever. Hanno perso ogni brandello di memoria e di volontà.» Fremette mentre Shreever con delicatezza rimetteva a posto una falda di pelle strappata e la sigillava con uno strato di muco. «Sono ciò che diventeremo noi.» «Shhh» gli fece Shreever con dolcezza. «Shhh. Riposati.» Avvolse più strettamente il corpo attorno al suo e ancorò la coda a una pietra per resistere alla corrente. Aggrovigliato insieme a loro, Sessurea dormiva già. O forse era solo silenzioso e impassibile, preda dello stesso sconforto che divorava lei. Shreever sperò che non fosse così. Il coraggio che le rimaneva bastava solo a nutrire la sua risolutezza. Sessurea avrebbe dovuto badare a sé stesso. Maulkin la preoccupava di più. L'incontro con l'argentea dispensatrice di cibo lo aveva cambiato. Gli altri dispensatori che si muovevano fra Mancanza e Abbondanza erano solo fonti di nutrimento facile. Quella argentea era stata diversa. Il suo profumo aveva destato ricordi in tutti loro: l'avevano inseguita, certi che la fragranza li avrebbe condotti a Uno Che Ricorda. Invece non era neppure una di loro. L'avevano chiamata, continuando a sperare, ma lei non aveva risposto. Aveva offerto carne al serpente bianco che implorava. Maulkin le aveva voltato le spalle, proclamando che non
poteva essere Una Che Ricorda e che non l'avrebbero più seguita. Eppure, nelle maree che si erano succedute da allora, il suo profumo era sempre stato presente. Non la vedevano, ma Shreever sapeva che sarebbe bastato un breve tragitto per trovarla. Maulkin la seguiva ancora, e loro continuavano a seguire lui. Maulkin emise un gemito sordo e si mosse nel suo abbraccio. «È l'ultima volta che qualcuno di noi compie questo viaggio essendo più che una bestia, temo.» «Cosa vuoi dire?» chiese all'improvviso Sessurea. Si torse impacciato fino a guardarli negli occhi. Anche lui aveva subito molti danni, ma nulla di grave. Il peggiore era un taglio accanto a una delle ghiandole di veleno appena dietro l'articolazione della mascella. Un poco più profondo, e le sue stesse tossine lo avrebbero ucciso. Solo la pura fortuna aveva mantenuto intatto il groviglio. «Cerca nei tuoi ricordi» ordinò Maulkin con voce sorda. «Non solo nelle maree e i giorni: esplora le stagioni e gli anni, risali le decadi e i secoli. Siamo già stati qui, Sessurea. Tutti i grovigli hanno migrato a frotte verso queste acque, non solo una volta ma decine. Siamo venuti qui a cercare coloro che ricordano, i pochi cui sono affidate le memorie di tutta la nostra specie. La promessa era chiara. Dovevamo radunarci. Ci avrebbero restituito la nostra storia, per poi guidarci in un luogo sicuro. Là ci saremmo trasformati e saremmo rinati. Eppure, decine di volte, siamo stati delusi. Abbiamo migrato, e abbiamo atteso, ripetutamente. Ogni volta abbiamo finito per abbandonare le speranze e dimenticare il nostro scopo, e alla fine siamo tornati alle calde acque del Sud. Ogni volta quelli di noi che conservano un pugno di ricordi hanno detto: 'Forse ci siamo sbagliati. Forse non era il tempo, la stagione, l'anno del rinnovamento.' Ma lo era. Non sbagliavamo. Quelli che dovevano incontrarci ci hanno abbandonati. Non sono venuti. Non allora. Forse non verranno neanche questa volta.» Maulkin rimase in silenzio. Shreever continuò ad ancorarlo contro la corrente. Era uno sforzo. Lì non c'era fango rilassante in cui affondare, solo alghe ruvide e sassi e blocchi di pietra crollati. Dovevano trovare un luogo migliore per riprendersi. Però Shreever non voleva spostarsi prima che Maulkin fosse guarito. E poi, dove andare? Avevano percorso in lungo e in largo quella corrente impregnata di strani sali, e lei aveva smesso di credere che Maulkin sapesse dove li conduceva. Lasciata a sé stessa, dove sarebbe andata? Era una domanda all'improvviso troppo pesante per la sua mente. Non voleva pensare.
Ripulì le cornee e contemplò il proprio corpo aggrovigliato ai loro. Le scaglie scarlatte erano brillanti e vive, ma forse era solo il contrasto con la pelle spenta di Maulkin. I falsi occhi dorati di lui si erano affievoliti in un marrone opaco, sfigurati dai tagli delle ferite in suppurazione. Aveva bisogno di nutrirsi, crescere e cambiare pelle. Questo lo avrebbe fatto sentire meglio. Si sarebbero tutti sentiti meglio. Shreever si arrischiò a pronunciare ad alta voce il pensiero. «Dobbiamo nutrirci. Siamo sempre più affamati e deboli. Le mie sacche di veleno sono quasi vuote. Forse dovremmo andare a sud, dove il cibo abbonda e l'acqua è calda.» Maulkin si girò nel suo abbraccio per guardarla. I grandi occhi rotearono in un bagliore ramato di preoccupazione. «Spendi troppa energia per me, Shreever» la rimproverò. Lei avvertì lo sforzo che gli costava scuotere la criniera e drizzarla. Una seconda scrollata emise una debole nuvola di tossine che la punse e la risvegliò, riportandola alla consapevolezza. Sessurea si chinò più vicino, avvolgendoli entrambi nelle sue spire più lunghe. Condivise le tossine di Maulkin, pompando con le branchie per assorbirle. «Andrà tutto bene.» Tentò di rassicurare Shreever. «Sei solo stanca. E affamata. Lo siamo tutti.» «Stanchi morti» confermò Maulkin fiaccamente. «E affamati quasi alla follia. Le necessità del corpo impediscono alla mente di funzionare. Ma ascoltatemi, tutti e due. Ascoltatemi, fissatevi queste parole nella mente e tenetevele strette. Se tutto il resto è dimenticato, conserviamo questo. Non possiamo tornare a sud. Se lasciamo queste acque sarà la fine. Finché riusciamo a pensare dobbiamo rimanere qui e cercare Uno Che Ricorda. Me lo sento nel ventre. Se non saremo rinnovati questa volta, non lo saremo mai più. Noi e tutta la nostra specie periremo e saremo per sempre dimenticati nel mare o in cielo o sulla terra.» Pronunciò con lentezza quelle strane parole, e per un istante Shreever quasi ricordò cosa volevano dire. Non solo l'Abbondanza e la Mancanza. La terra, il cielo e il mare, le tre parti del loro dominio, un tempo le tre sfere di... qualcosa. Maulkin scrollò di nuovo la criniera. Questa volta Shreever e Sessurea spalancarono le branchie alle sue tossine e impressero i suoi ricordi dentro di sé. Shreever abbassò lo sguardo sui blocchi di pietra scolpita disseminati sul fondo marino, gli strati di cirripedi e alghe che nascondevano l'Arco del Conquistatore come una tenda. La pietra nera venata d'argento spuntava solo qua e là. La terra lo aveva abbattuto e il mare lo aveva ingoiato. Una volta, molte vite prima, Shreever si era posata su quell'arco, agitando le ali immense per poi ripiegarle sulla schiena. Aveva gridato al compagno
la sua gioia squillante per la fresca pioggia mattutina, e un drago splendente d'azzurro aveva tuonato una risposta. Un tempo gli Antichi avevano salutato il suo arrivo spargendo fiori e lanciando grida di benvenuto. Un tempo, in quella città, sotto un brillante cielo blu... La visione svanì. Non aveva senso. Le immagini si dissolsero come sogni al risveglio. «Siate forti» li esortò Maulkin. «Se non siamo destinati a sopravvivere, almeno lotteremo fino alla fine. Che sia il fato a estinguerci, non la nostra mancanza di coraggio. Per amore della nostra specie, restiamo fedeli a ciò che eravamo.» La sua gorgiera si drizzò piena e velenosa attorno alla gola. Ancora una volta era il capo e il profeta che tempo prima aveva conquistato la lealtà di Shreever. I loro cuori si gonfiarono d'amore per lui. Il mondo si oscurò e Shreever sollevò gli occhi verso una grande ombra in movimento. «No, Maulkin» disse in un trillo sommesso. «Non siamo destinati a morire, né a dimenticare. Guarda!» Un dispensatore scuro scivolava pigro sopra di loro. Quando passò sulle loro teste cominciò a spargere cibo. La carne affondò con lentezza, fluttuando sulla corrente. Erano "due-gambe morti", uno con la catena ancora attaccata. Non ci sarebbe stata lotta per quella carne. Bisognava solo accettarla. «Vieni.» Shreever incoraggiò Maulkin, mentre Sessurea si districava da loro e si muoveva con impazienza verso la carne. Con dolcezza trasse Maulkin con sé, salendo ad accettare il dono del dispensatore. 1 La nave impazzita La brezza contro il viso e il petto era frizzante e gelida, eppure in qualche modo gli faceva pensare alla primavera imminente. L'aria sapeva di iodio; la marea doveva essersi ritirata, scoprendo i banchi di alghe poco oltre la spiaggia. Sotto il suo scafo la sabbia ruvida era intrisa dell'ultimo acquazzone. Il fumo del fuocherello di Ambra gli faceva il solletico. La polena distolse il viso cieco e alzò una mano per grattarsi il naso. «Bella serata, vero?» gli chiese Ambra in tono di conversazione. «I cieli si sono schiariti. Ci sono ancora nubi, ma scorgo la luna e qualche stella. Ho raccolto i mitili e li ho avvolti nelle alghe. Quando il fuoco avrà preso bene sposterò parte della legna e li cucinerò sui carboni.» La voce fece una pausa speranzosa.
Paragon non rispose. «Vorresti assaggiarne alcuni, quando saranno cotti? So che non hai bisogno di mangiare, ma forse sarebbe un'esperienza interessante.» Paragon sbadigliò, si stiracchiò e incrociò le braccia sul petto. In quel gioco era molto più bravo di lei. Arenato su una spiaggia da trent'anni, aveva imparato la vera pazienza. Avrebbe resistito più a lungo. Si chiese se quella sera Ambra si sarebbe arrabbiata o rattristata. «A che serve rifiutare di parlarmi?» chiese lei, ragionevole. Paragon udì che la sua pazienza cominciava a logorarsi. Non si prese neanche la briga di scrollare le spalle. «Paragon, sei un incorreggibile sciocco. Perché non vuoi parlarmi? Non vedi che solo io posso salvarti?» Salvarmi da cosa?, avrebbe potuto chiederle. Se si fosse abbassato a parlarle. La udì alzarsi e passeggiare intorno alla sua prua per fermarsi di fronte a lui. Con noncuranza distolse da lei il viso sfigurato. «Bene. Fingi di ignorarmi. Non mi importa se mi rispondi o no, ma devi ascoltarmi. Sei in pericolo, un pericolo molto concreto. Non volevi che ti comprassi dalla tua famiglia, lo so, ma ho fatto l'offerta comunque. Hanno rifiutato.» Paragon si concesse un lieve sbuffo sdegnato. Certo che avevano rifiutato. Lui era il veliero vivente dei LaSuerte. Non importa quanto fosse profondo il suo disonore, non lo avrebbero mai venduto. Lo avevano tenuto incatenato a quella spiaggia per trent'anni, ma non lo avrebbero mai venduto! Non ad Ambra, non ai Nuovi Mercanti. Non lo avrebbero fatto. Lo sapeva da sempre. Ambra continuò, testarda. «Ho parlato con Amis LaSuerte in persona. Non è stato facile incontrarla. Quando ci sono riuscita si è finta sconvolta dalla mia offerta. Ha insistito che non sei in vendita, a nessun prezzo. Ha detto le stesse cose che hai detto tu, che nessuna famiglia di Mercanti di Borgomago venderebbe il suo veliero vivente. Non si fa, e basta.» Paragon non poté trattenere il lento sorriso che a poco a poco gli trasfigurò il volto. Gli volevano ancora bene. Come poteva averne dubitato? In un certo modo era quasi grato ad Ambra per quella ridicola proposta. Amis LaSuerte aveva ammesso davanti a un'estranea che lui faceva ancora parte della famiglia, e forse ora sarebbe stata spinta a venirlo a trovare. Una visita di Amis poteva condurre ad altre cose. Forse avrebbe di nuovo navigato i mari con una mano amica al timone. La sua immaginazione si involò.
La voce di Ambra lo richiamò senza pietà. «Si è finta sconvolta dalla diceria che tu fossi in vendita. Ha detto che era un insulto all'onore di famiglia. Poi ha detto...» La voce di Ambra si abbassò all'improvviso, per paura o rabbia. «Ha detto che aveva assunto qualcuno per rimorchiarti via da Borgomago. Che potrebbe essere meglio per tutti se tu fossi lontano dagli occhi e lontano dal cuore.» Ambra fece una pausa significativa. Paragon sentì qualcosa stringersi con convulsa durezza nel petto di legno magico. «Così le ho chiesto chi ha assunto.» Paragon alzò in fretta le mani e si cacciò le dita nelle orecchie. Non avrebbe ascoltato. Ambra voleva giocare sulle sue paure. E così la sua famiglia stava per spostarlo? Non significava nulla. Sarebbe stato bello andare da qualche parte. Forse questa volta lo avrebbero puntellato come si deve. Era stanco di essere sempre inclinato. «Ha detto che non erano affari miei.» Ambra alzò la voce. «Allora le ho chiesto se erano Mercanti di Borgomago. Lei mi ha solo guardato male. Così le ho chiesto dove Mingsley ti avrebbe portato per smantellarti.» Paragon cominciò disperatamente a canticchiare. Ad alta voce. Ambra continuò a parlare. Non poteva sentirla. Non la sentiva. Chiuse più ermeticamente le orecchie e cantò forte: «Un soldino per un dolcetto, un soldino per una prugna, un soldino per le corse, per vedere tanti cavalli...» «Mi ha cacciata via!» ruggì Ambra. «Quando sono rimasta fuori a gridare che avrei sottoposto la questione al Concilio dei Mercanti di Borgomago, mi ha scatenato contro i cani. E mi hanno quasi presa!» «Scende l'altalena, sale l'altalena, su su fino al cielo.» Paragon cantò la filastrocca con disperazione. Ambra aveva torto. Doveva avere torto. La sua famiglia stava per portarlo in un luogo sicuro. Tutto qui. Che importava chi era stato assunto per farlo? Una volta in acqua li avrebbe seguiti volentieri. Avrebbe mostrato com'era facile manovrarlo. Sì. Un'opportunità di dimostrare il suo valore davanti a loro. Poteva manifestare il suo pentimento per tutto quello che era stato spinto a fare. Ambra non parlava più. Paragon rallentò il canto, lasciò che si spegnesse in un mormorio a bocca chiusa. Silenzio, a parte la sua stessa voce. Tolse le dita dalle orecchie con cautela. Nulla, se non il fruscio delle onde, il vento che spingeva lieve la sabbia attraverso la spiaggia e il crepitio del fuoco di Ambra. Gli venne in mente una domanda, e la pronunciò prima di ricordarsi che non doveva parlare con lei. «Quando arriverò al mio nuovo approdo, verrai ancora a trovarmi?»
«Paragon, non puoi far finta di niente. Se ti portano via di qui, ti faranno a pezzi per avere il legno magico.» La polena tentò un approccio diverso. «Non mi importa. Sarebbe bello essere morto.» La voce di Ambra era bassa, sconfitta. «Non sono sicura che moriresti. Temo che ti separerebbero dalla nave. Se quello non ti uccide, probabilmente ti trasporteranno a Jamaillia e ti venderanno come una curiosità. O ti offriranno in dono al Satrapo in cambio di concessioni e favori. Non so come saresti trattato a Jamaillia.» «Farà male?» chiese Paragon. «Non lo so. Non capisco abbastanza quello che sei. Ti ha fatto... Quando ti hanno colpito al viso, ti ha fatto male?» Paragon distolse da lei il volto fracassato. Alzò le mani e percorse con le dita il legno scheggiato dove un tempo erano stati i suoi occhi. «Sì.» Aggrottò la fronte. Con il successivo respiro aggiunse: «Non ricordo. Ho dimenticato tante cose, sai. I miei diari di bordo non ci sono più.» «A volte non ricordare è la cosa più facile.» «Pensi che stia mentendo, vero? Pensi che me lo ricordo ma non lo ammetto.» Persistette, sperando in un litigio. «Paragon, non possiamo cambiare ciò che è stato ieri. Stiamo parlando del domani.» «Verranno domani?» «Non lo so! Dicevo in senso figurato.» All'improvviso Ambra si avvicinò e alzò le mani per appoggiare i palmi su di lui. Portava i guanti contro il freddo della notte, ma era pur sempre un contatto. Paragon sentiva la forma delle sue mani come due chiazze di calore contro il fasciame. «Non sopporto il pensiero che ti prendano per farti a pezzi. Anche se non fa male, anche se non ti uccide. Non lo sopporto.» «Non puoi farci niente» le fece notare Paragon. Esprimere quel pensiero lo fece sentire all'improvviso adulto. «Nessuno di noi può farci niente.» «Il fatalismo è inutile» dichiarò Ambra con rabbia. «Possiamo fare molto. Se non altro, giuro che resterò qui ad affrontarli.» «Non servirebbe» insisté Paragon. «Sarebbe stupido lottare sapendo che non si può vincere.» «Forse» rispose Ambra. «Spero che non si giunga a questo. Non voglio aspettare che la situazione sia così disperata. Voglio agire prima di loro. Paragon, ci serve aiuto. Ci serve qualcuno che parli al Concilio dei Mercanti di Borgomago per noi.»
«Non puoi farlo tu?» «Lo sai che non posso. Chi non è un Vecchio Mercante non può presenziare alle riunioni, tanto meno intervenire. Abbiamo bisogno di qualcuno che li convinca a fermare i LaSuerte.» «Chi?» Ambra parlò con voce sottile. «Speravo che tu conoscessi qualcuno.» Paragon rimase in silenzio. Poi rise brutalmente. «Nessuno mi difenderà. È uno sforzo stupido, Ambra. Pensaci. Neppure la mia famiglia si preoccupa per me. So quello che dicono. Sono un assassino. Ed è vero, non ti pare? Tutto l'equipaggio perso. Mi sono girato pancia all'aria e li ho affogati tutti, e non una volta sola. I LaSuerte hanno ragione, Ambra. Dovrebbero vendermi e lasciare che mi taglino a pezzi.» La disperazione lo sommerse, più fredda e più profonda di qualsiasi onda di uragano. «Mi piacerebbe essere morto» dichiarò. «Mi piacerebbe fermarmi.» «Non lo pensi davvero» disse piano Ambra, ma Paragon sentì nella sua voce che gli credeva. «Mi faresti un favore?» chiese la nave all'improvviso. «Che cosa?» «Uccidimi prima che lo facciano loro.» La sentì inspirare piano. «Io... No. Non potrei.» «Se tu sapessi che vengono a farmi a pezzi, lo faresti. Ti dirò l'unico modo sicuro. Devi darmi fuoco. In diversi punti, per assicurarti che non possano spegnere l'incendio e salvarmi. Se raduni legna asciutta, un poco ogni giorno, e fai dei mucchi nella mia stiva...» «Non parlare mai più di queste cose» disse Ambra con voce fioca. Turbata, aggiunse: «Ora dovrei mettere i mitili a cuocere.» Paragon la sentì smuovere il fuoco, poi gli arrivò lo sfrigolio delle alghe bagnate che friggevano sui carboni ardenti. Stava cuocendo i mitili vivi. Fu tentato di farglielo notare. Decise che l'avrebbe solo agitata, senza convertirla alla sua causa. Attese che tornasse da lui. Ambra sedette sulla sabbia, appoggiandosi allo scafo inclinato. I suoi capelli erano finissimi. Quando sfioravano il fasciame si impigliavano e si attaccavano al legno. «Non sei logica» le fece notare Paragon benevolo. «Giuri che combatterai per me, sapendo che perderesti. Ma mi rifiuti questa misericordia semplice e sicura.» «Morire fra le fiamme non è certo misericordia.» «No. Essere tagliato a pezzi è molto più piacevole, ne sono sicuro» ribatté Paragon sarcastico.
«Passi così in fretta dalle collere infantili alla fredda logica» commentò Ambra con meraviglia. «Sei un bambino o un uomo? Cosa sei?» «Entrambi, forse. Ma hai cambiato argomento. Forza. Promettimelo.» «No» implorò lei. Paragon emise un sospiro. Ambra avrebbe ceduto. Lo sentiva nella sua voce. Se non c'era altro modo di salvarlo, lo avrebbe fatto. Uno strano tremito lo percorse. Una strana vittoria. «E vasi di olio» aggiunse. «Quando vengono potresti non avere molto tempo. L'olio farebbe un bel falò rovente.» Seguì un lungo silenzio. Quando la donna parlò di nuovo, la sua voce era alterata. «Tenteranno di trasportarti in segreto. Fammi capire come potrebbero farlo.» «Nello stesso modo in cui mi hanno portato qui, suppongo. Aspetteranno un'alta marea. Probabilmente sceglieranno quella più alta del mese, di notte. Verranno con rulli, asini, operai e scialuppe. Non sarà un'impresa da poco, ma uomini esperti potrebbero farlo in fretta.» Ambra rifletté. «Dovrò portare la mia roba a bordo. Dovrò dormire qui per proteggerti. Oh, Paragon» esclamò all'improvviso. «Non hai qualcuno che parli per te al Concilio di Borgomago?» «Solo tu.» «Ci proverò. Ma dubito che mi daranno un'opportunità. Sono un'estranea a Borgomago. Ascoltano solo la loro gente.» «Una volta mi hai detto che qui sei rispettata.» «Mi rispettano come artigiana e commerciante. Non sono una dei Vecchi Mercanti. Non avrebbero molta pazienza con me se cominciassi a immischiarmi nei loro affari. Probabilmente scoprirei all'improvviso che non ho più clienti. O forse peggio. La divisione fra Vecchi Mercanti e nuovi venuti sta approfondendosi in tutta la città. Secondo una diceria il Concilio di Borgomago ha mandato una delegazione al Satrapo Cosgo, con il loro Statuto originale. Gli chiederanno di onorare la promessa del Satrapo Esclepius. Esigeranno che richiami tutti i Nuovi Mercanti e annulli tutte le loro concessioni terriere, così si dice. Vogliono anche che Cosgo rispetti l'antico statuto e si astenga dall'emettere altre concessioni terriere senza il beneplacito dei Mercanti di Borgomago.» «Una diceria particolareggiata» osservò Paragon. «Ho un orecchio acuto per voci e pettegolezzi. Mi ha salvato la vita più di una volta.» Cadde il silenzio.
«Vorrei sapere quando torna Althea.» La voce di Ambra era malinconica. «Potrei chiederle di parlare per noi.» Paragon si domandò se doveva menzionare Brashen Trell. Brashen era suo amico, lo avrebbe difeso. Ed era uno dei Vecchi Mercanti. Ma proprio mentre ci pensava ricordò che Brashen era stato diseredato. Brashen era un disonore per la famiglia Trell, come Paragon per i LaSuerte. Non sarebbe servito che Brashen parlasse per lui, se anche avesse convinto il Concilio dei Mercanti di Borgomago a dargli retta. Sarebbe stata la parola di una pecora nera in favore di un'altra. Nessuno lo avrebbe ascoltato. Paragon si toccò la cicatrice sul petto, nascondendo per un istante la rozza stella a sette punte impressa a fuoco in lui. La percorse con le dita, pensieroso. Sospirò, poi inspirò a fondo. «I mitili sono pronti. Sento l'odore.» «Vuoi assaggiarne uno?» «Perché no?» Doveva provare cose nuove finché poteva. Presto le sue opportunità di sperimentare sarebbero finite per sempre. 2 La gamba del pirata «Al monastero, Berandol era solito dire che un modo per dissipare la paura e creare la risolutezza è considerare la peggior conseguenza delle proprie azioni.» Dopo un momento Wintrow aggiunse: «Diceva che se ci si prepara ad affrontarla si può essere determinati quando è il momento di agire.» Vivacia gettò uno sguardo indietro verso Wintrow. Il ragazzo era rimasto appoggiato alla murata di prua per la maggior parte della mattina, guardando oltre l'acqua agitata del canale. Il vento gli aveva sciolto i capelli neri dal codino. I resti logori dei suoi indumenti bruni sembravano più gli stracci di un mendicante che la veste di un sacerdote. Pur consapevole di lui, la polena senziente aveva scelto di rispettare il suo cupo silenzio. Avevano poco da dirsi che già non sapessero. Anche ora il ragazzo parlava solo per mettere in ordine i propri pensieri, non per chiederle consiglio. Vivacia lo sapeva, ma lo esortò comunque. «E qual è la nostra paura peggiore?» Wintrow emise un pesante sospiro. «Il pirata soffre di una febbre che va e viene. Ogni volta che lo assale, Kennit ne emerge più debole. La fonte è evidentemente l'infezione nel moncone della gamba. Qualsiasi morso di
animale è una ferita infetta, ma a quanto pare quello di un serpente marino è particolarmente velenoso. La parte in suppurazione deve essere amputata al più presto. È troppo debole per un'operazione simile, ma non vedo molte possibilità che riprenda forza. Quindi mi dico che devo agire in fretta. So anche che difficilmente sopravvivrà all'operazione. Se lui muore, moriremo anche mio padre e io. È il patto che ho stretto con il pirata.» Fece una pausa, poi proseguì: «La mia morte non è la conseguenza peggiore. La peggiore è che tu dovresti andare avanti da sola, schiava di questi pirati.» Il ragazzo non la guardò. Continuò a fissare il moto costante delle onde e aggiunse: «Ora capisci perché sono venuto da te? La questione ti tocca da vicino. Quando mi sono accordato con Kennit non ho considerato tutte le conseguenze. Scommettendo la mia vita e quella di mio padre ho scommesso senza volere anche la tua. Non ne avevo il diritto. Credo che tu abbia molto più da perdere di me.» Vivacia annuì, ma il suo ragionamento scivolò oltre quello di Wintrow, su un sentiero tutto suo. «Non è come mi immaginavo un pirata. Il capitano Kennit, voglio dire.» Pensierosa aggiunse: «Una schiava, hai detto. Non penso che mi consideri sua schiava.» «Kennit non corrisponde neanche alla mia idea di pirata. Ma nonostante il suo fascino e la sua intelligenza, dobbiamo ricordare che è davvero un pirata. E se fallisco non sarà lui a comandarti. Lui sarà morto. Impossibile dire a chi apparterrai. Forse a Sorcor, il primo ufficiale. Oppure a Etta, la donna di Kennit. O forse Sa'Adar tenterà ancora una volta di pretenderti per sé e per gli schiavi liberati.» Wintrow scosse la testa. «Non posso vincere. Se l'operazione ha successo, dovrò stare a guardare mentre Kennit ti porta via da me. Già ti lusinga e ti incanta con le sue parole, ed è il suo equipaggio a manovrarti. Ormai ho poca voce in capitolo, qualsiasi cosa succeda a bordo. Che Kennit viva o muoia, presto non avrò alcun potere di proteggerti.» Vivacia scrollò una spalla di legno magico. «E prima ne avevi?» chiese, piuttosto fredda. «Suppongo di no» rispose il ragazzo in tono di scusa. «Eppure avevo un'idea di cosa aspettarmi. Sono accadute troppe cose, troppo in fretta, a me e a te. Ci sono state troppe morti, e troppi cambiamenti. Non ho avuto il tempo di piangere o di riflettere. Quasi non so più chi o cosa sono.» Entrambi rimasero in silenzio, meditabondi. Wintrow si sentiva andare alla deriva nel tempo. La vita, la sua vera vita,
era lontana, nel suo tranquillo monastero in una calda valle ricca di campi e frutteti. Se avesse potuto attraversare il tempo e la distanza che lo separavano da quel luogo, se avesse potuto svegliarsi nel suo lettuccio nella cella fresca, era sicuro che avrebbe saputo raccogliere di nuovo i fili di quella vita. Non era cambiato, ripeté a sé stesso. Non in modo concreto. Gli mancava un dito. Aveva imparato ad accettarlo. E il tatuaggio da schiavo sul viso non andava oltre la pelle. Non era mai stato davvero uno schiavo; il tatuaggio era solo la vendetta crudele di suo padre per il tentativo di fuga. Era ancora Wintrow. In pochi giorni tranquilli avrebbe potuto riscoprire in sé il placido sacerdote. Ma non lì. Il rapido avvicendarsi dei recenti fatti nella sua vita lo aveva lasciato con così tante emozioni forti che quasi non sentiva nulla. I sentimenti di Vivacia erano confusi come i suoi, poiché le sue esperienze erano state altrettanto brutali. Kyle Haven aveva costretto il giovane veliero vivente a servire come nave schiavista, preda di tutte le oscure emozioni del suo infelice carico. Wintrow, membro per sangue della famiglia che aveva costruito il veliero, non era stato capace di confortarla. Il fatto che il giovane fosse costretto a stare sulla nave aveva inacidito quello che avrebbe dovuto essere un naturale legame tra loro. La sua alienazione dalla nave aveva solo aumentato il disagio di Vivacia. Eppure erano andati avanti, trascinandosi come schiavi incatenati insieme. In una notte di tempesta e sangue la rivolta degli schiavi aveva liberato Vivacia dal capitano Kyle Haven e dal suo ruolo di nave schiavista. Wintrow e suo padre erano i soli superstiti dell'equipaggio originale. Mentre l'alba illuminava il cielo, la nave storpiata era stata raggiunta dai pirati. Il capitano Kennit e il suo equipaggio si erano impadroniti di Vivacia senza colpo ferire. Era stato allora che Wintrow si era accordato con Kennit: avrebbe tentato di salvare la vita del pirata se questi avesse permesso a lui e a suo padre di vivere. Sa'Adar, un sacerdote fra gli schiavi che aveva guidato la rivolta, aveva altre ambizioni. Non solo voleva sottoporre a giudizio il padre di Wintrow, Kyle, ma pretendeva anche che Kennit consegnasse la Vivacia agli schiavi come loro legittimo premio. Chiunque avesse prevalso, il futuro di Wintrow e della nave era incerto. Eppure il veliero già sembrava preferire il pirata. Davanti a loro la Marietta tagliava un sentiero pulito fra le onde crestate di pizzo. Vivacia la seguiva con impazienza. Erano diretti a qualche roccaforte di pirati; Wintrow non sapeva altro. A ovest l'orizzonte scompariva nella costa caliginosa delle Rive Maledette. I rapidi fiumi bollenti della
regione scaricavano in quel canale acque calde e limacciose, provocando nebbie e foschie quasi permanenti che ammantavano una costa di banchi di sabbia e secche in continuo mutamento. I temporali improvvisi e violenti erano comuni nei mesi d'inverno, e non insoliti neppure nei giorni più dolci d'estate. Le isole dei pirati non erano sulle carte. Che senso aveva mappare una costa che cambiava quasi ogni giorno? La saggia decisione comune era tenersi a distanza e passare oltre in tutta fretta. Eppure la Marietta avanzava con fiducia e Vivacia la seguiva. Evidentemente i pirati erano molto familiari con quei canali e quelle isole. Wintrow girò la testa e guardò la Vivacia. Nel sartiame sopra di lui l'equipaggio pirata si muoveva con competente alacrità, eseguendo gli ordini tuonati da Brig. Il ragazzo doveva ammettere che non aveva mai visto la Vivacia manovrata con tale abilità. Potevano essere pirati, ma erano marinai eccellenti: si muovevano con disciplina e coordinazione, agili come parti viventi della nave risvegliata. Ma altre presenze sulla tolda guastavano il quadro. Il grosso degli schiavi era sopravvissuto alla ribellione. Liberati dalle catene, non avevano ancora ripreso del tutto l'aspetto di esseri umani. Recavano ancora sulla carne i marchi delle manette, e i tatuaggi da schiavi sul viso. Attraverso gli squarci delle vesti lacere apparivano corpi pallidi e ossuti. Erano troppi per le dimensioni di Vivacia. Anche se ora occupavano i ponti aperti oltre alle stive, tendevano ancora ad accalcarsi come bestiame. Indugiavano in piccoli gruppi sui ponti frenetici, muovendosi solo quando l'equipaggio li allontanava a gesti. Alcuni dei più sani lavoravano fiaccamente con stracci e secchi, ripulendo i ponti e le stive di Vivacia. L'insoddisfazione era chiara su molti visi, e Wintrow si chiese a disagio se li avrebbe spinti a qualche azione violenta. Non sapeva cosa provare per gli schiavi. Prima della rivolta si era preso cura di loro nelle stive, e il loro dolore era echeggiato nel suo cuore suscitando pietà. Vero, aveva potuto offrire poco conforto: il dubbio sollievo dell'acqua salata e di uno straccio per lavarsi ora sembrava falsa misericordia. Aveva tentato di compiere per loro i doveri di un sacerdote, ma erano in troppi. Ora, ogni volta che li guardava, invece di richiamare la compassione per loro ricordava le urla e il sangue mentre sterminavano i suoi compagni di bordo. Non riusciva a dare un nome all'emozione che lo invadeva quando considerava gli ex schiavi. Era composta di paura e rabbia, disgusto e comprensione, e la vergogna di provarla gli tormentava l'anima. Non era un'emozione degna di un sacerdote di Sa. Quindi sceglieva l'altra
opzione: non provare niente. Alcuni dei marinai, forse, avevano meritato la loro morte violenta, almeno secondo il giudizio umano. Ma che dire di Mild, che era diventato suo amico, e Findow e il suo violino, e l'allegro Comfrey e gli altri bravi compagni? Di certo avrebbero dovuto avere una fine più misericordiosa. La Vivacia non era ancora una nave schiavista quando erano stati ingaggiati. Erano rimasti a bordo quando Kyle aveva deciso di usarla come tale. Sa'Adar, il sacerdote schiavo liberato durante la ribellione, riteneva che tutti avessero meritato il loro destino. Proclamava che lavorando su una nave schiavista erano diventati nemici di tutti i giusti. Wintrow si sentiva profondamente diviso. Si aggrappava all'idea confortante che Sa non gli chiedeva di giudicare gli altri. Si diceva che Sa si riservava ogni giudizio, poiché solo il creatore aveva la saggezza per essere giudice. Gli schiavi a bordo non condividevano l'opinione di Wintrow. Alcuni lo guardavano e sembravano ricordare una voce gentile nel buio, e mani che tendevano un fresco straccio umido. Altri lo consideravano un ciarlatano, il figlio del capitano che giocava a fare la carità senza sforzarsi di liberarli, finché non avevano preso in mano la situazione. Tutti lo evitavano. Non poteva biasimarli. Anche lui li evitava, scegliendo di trascorrere la maggior parte del tempo sul ponte di prua vicino a Vivacia. I pirati ci andavano solo quando era necessario per manovrare la nave. Altrimenti si tenevano lontani, superstiziosi quanto gli schiavi. La polena viva e parlante li spaventava. Vivacia non appariva infastidita dalla loro apprensione, e Wintrow era contento che ci fosse ancora un posto a bordo dove stare relativamente solo. Appoggiò la testa contro la murata e cercò un pensiero che non fosse doloroso. A casa doveva essere quasi primavera. Le gemme sbocciavano nei frutteti del monastero. Si chiese come andavano gli studi di Berandol, se il suo maestro sentiva la sua mancanza. Si chiese con rammarico profondo che cosa avrebbe studiato in quel momento se fosse stato là. Si guardò le mani. Un tempo avevano trascritto manoscritti e creato finestre di vetro colorato. Erano state le mani di un ragazzo, agili ma ancora tenere. Ora i calli gli rivestivano i palmi, e mancava un dito. Erano le mani rozze di un marinaio. Il suo dito non avrebbe mai portato l'anello di un sacerdote. La primavera in mare era diversa. La vela schioccava nella brezza gelida. Stormi di uccelli migratori volavano alti con strida malinconiche. Le isole su ciascun lato del canale erano divenute ancor più lussureggianti, verdi e vive di uccelli che si disputavano lo spazio per fare il nido.
Qualcosa richiamò la sua attenzione. «Tuo padre ti chiama» disse piano Vivacia. Certo. Lo aveva avvertito attraverso di lei. Il viaggio nell'uragano aveva affermato e fortificato il legame di mente e spirito tra lui e la nave. Non ne era infastidito come un tempo e sentiva che Vivacia non lo aveva caro come allora. Forse almeno in questo i loro sentimenti si incontravano a metà strada. Dopo la tempesta era stata gentile con lui, ma nulla di più. Come un genitore preoccupato con un bambino esigente, pensò. «In un certo modo ci siamo scambiati i ruoli da quando il nostro viaggio è cominciato» osservò Vivacia ad alta voce. Wintrow annuì, senza lo spirito o l'energia per negare la verità. Drizzò le spalle, si passò una mano fra i capelli e strinse più fermamente le mascelle. Non avrebbe lasciato capire a suo padre quanto si sentiva insicuro. A testa alta si aprì la strada attraverso la tolda, evitando i gruppi di schiavi e i marinai che lavoravano. Nessuno incontrò i suoi occhi, nessuno lo sfidò. Era sciocco credere che tutti lo guardassero passare. Avevano vinto. Perché preoccuparsi delle azioni di un marinaio sopravvissuto? Almeno ne era uscito fisicamente illeso. Vivacia portava le cicatrici della rivolta degli schiavi. C'erano ancora macchie di sangue sui ponti, marchi che non avevano ceduto alle pietre pomici e non se ne sarebbero andati. Il veliero vivente puzzava ancora come una nave schiavista, malgrado il lavare e sfregare quasi continuo ordinato da Brig. La burrasca aveva lasciato il segno anche sulle vele; i rappezzi frettolosi dei pirati spiccavano con chiarezza. Le porte del castello di poppa erano state forzate quando gli schiavi avevano attaccato gli ufficiali. Il lucido rivestimento di legno era scheggiato e deformato. Vivacia non era più il piccolo vascello ordinato su cui Wintrow si era imbarcato a Borgomago. All'improvviso il ragazzo provò vergogna alla vista della nave di famiglia ridotta così, come se avesse visto sua sorella vendersi in una taverna. Provò compassione per lei, e si chiese come sarebbe stato salire su quella nave di sua spontanea volontà, magari come mozzo, per servire agli ordini di suo nonno. Accantonò tutti quei pensieri. Giunse a una porta malridotta protetta da due arcigni faccia-di-mappa. Superò gli ex schiavi come se non li avesse visti e bussò alla porta della cabina di Gantry. O almeno, era appartenuta al primo ufficiale mentre era in vita. Ora, spogliata e saccheggiata, era la prigione di suo padre. Wintrow non aspettò una risposta ed entrò. Suo padre sedeva sull'orlo della cuccetta spoglia. Alzò sul viso di Win-
trow uno sguardo quasi orbo. Il sangue venava il bianco di un occhio nel viso gonfio e livido. La posa di Kyle Haven suggeriva dolore e disperazione, ma nel suo saluto c'era solo acido sarcasmo. «Gentile da parte tua ricordarti di me. Pensavo che fossi troppo occupato a strisciare ai piedi dei tuoi nuovi padroni.» Wintrow trattenne un sospiro. «Sono venuto prima, ma stavi dormendo. Sapevo che il riposo ti avrebbe guarito più di qualsiasi cosa possa offrirti io. Come vanno le costole?» «In fiamme. La testa mi pulsa con ogni battito del cuore. Ho fame e sete.» Fece un lieve cenno con il mento verso la porta. «Quei due non mi permettono neanche di uscire a prendere aria.» «Prima ho lasciato cibo e acqua per te. Non li hai...?» «Sì, li ho trovati. Un quarto di pinta d'acqua e due pezzi di pane secco.» La voce di suo padre era colma di furia repressa. «È tutto quello che ho trovato per te. Cibo e acqua fresca scarseggiano. Durante la burrasca gran parte del cibo è stata guastata dall'acqua di mare...» «Divorata dagli schiavi, vuoi dire.» Kyle scosse la testa per il disgusto e poi trasalì. «Non hanno neanche avuto il buon senso di capire che dovevano razionare il cibo. Uccidono gli unici che possono manovrare la nave nel mezzo di un temporale, e poi mangiano o distruggono metà delle razioni di bordo. Sono incapaci di aver cura di sé stessi come un branco di polli. Spero che tu sia soddisfatto della libertà che hai dispensato. È probabile che la loro salvezza sarà la loro morte.» «Si sono liberati da soli, padre» disse Wintrow caparbio. «Ma tu non hai fatto niente per fermarli.» «Proprio come non ho fatto niente per impedirti di portarli a bordo in catene.» Wintrow prese fiato per proseguire, poi si fermò. Comunque tentasse di giustificare le sue azioni, suo padre non avrebbe mai accettato le sue ragioni. Le parole di Kyle urtarono i lividi sulla coscienza di Wintrow. Forse la morte dei compagni era colpa sua, perché non aveva agito? Se era così, era anche responsabile della morte degli schiavi prima della rivolta? Il pensiero era troppo doloroso per prenderlo in considerazione. In tono alterato proseguì: «Vuoi che mi prenda cura delle tue ferite o che tenti di trovarti del cibo?» «Hai trovato la cassa delle medicine?» Wintrow scosse la testa. «Ancora no. Nessuno ha ammesso di averla presa. Forse è finita fuori bordo durante il temporale.»
«Ebbene, senza la cassa non puoi fare molto» commentò suo padre, cinico. «Il cibo andrebbe bene, comunque.» Wintrow rifiutò di irritarsi. «Farò del mio meglio» disse piano. «Non ne dubito» rispose suo padre sarcastico. Abbassando all'improvviso la voce chiese: «E che farai per il pirata?» «Non lo so» ammise onestamente Wintrow. Guardò suo padre dritto negli occhi e aggiunse: «Sono preoccupato. So che devo tentare di guarirlo. Ma non so cosa sia peggio, la prospettiva che sopravviva e che noi continuiamo a essere suoi prigionieri... o che muoia, e noi con lui, e che la nave debba andare avanti da sola.» Suo padre sputò per terra: quell'azione così insolita per lui sconvolse Wintrow come un pugno. I suoi occhi brillavano come gemme di ghiaccio. «Ti disprezzo» ringhiò. «Tua madre ha giaciuto con un serpente per produrre una cosa come te. Mi vergogno che ti chiamino mio figlio. Guardati. I pirati si sono impadroniti della tua nave di famiglia, sostentamento di tua madre, di tua sorella e del tuo fratellino. La loro sopravvivenza dipende da te! Ma tu non pensi neanche a riprenderti la nave. No. Ti chiedi solo se ucciderai o guarirai il pirata che ti tiene lo stivale sul collo. Non hai neanche pensato a trovare armi per noi, o a persuadere la nave a sfidarlo come ha fatto con me. Con tutto il tempo che hai sprecato facendo la balia a quegli schiavi quando erano in catene, adesso tenti di convincerne qualcuno ad aiutarti? No. Strisci come un topo e aiuti quel maledetto pirata a tenersi la nave che ci ha rubato.» Wintrow scosse la testa, per la meraviglia come per il dolore. «Non sei razionale. Cosa ti aspetti da me, padre? Dovrei riprendere questa nave a Kennit e al suo equipaggio, costringere gli schiavi a ridiventare carico e portarli a Chalced, tutto da solo?» «Tu e questa nave diabolica siete riusciti a rovesciare me e il mio equipaggio! Perché non istighi la nave anche contro di lui? Perché non puoi, per una volta, agire nell'interesse della tua famiglia?» Suo padre si alzò a pugni chiusi come se volesse attaccarlo. Poi si strinse all'improvviso le costole, ansando di dolore. Passò dal rossore della rabbia al bianco del trauma e barcollò. Wintrow si fece avanti per sorreggerlo. «Non toccarmi!» ringhiò minaccioso Kyle, trascinandosi fino all'orlo della cuccetta. Sedette di nuovo con cautela e rimase a fissare in cagnesco suo figlio. Cosa vede quando mi guarda? Wintrow doveva essere una delusione per l'alto uomo dai capelli biondi. Piccolo, scuro ed esile come sua madre, non
avrebbe mai avuto la taglia o la forza di suo padre. A quattordici anni era fisicamente ancora più ragazzo che uomo. Ma non era solo per questo che deludeva le ambizioni di suo padre. Il suo spirito non sarebbe mai stato pari a quello del suo genitore. Parlò in un sommesso tono formale. «Non ho mai istigato la nave contro di voi, signore. Ci avete pensato da solo, con il vostro modo di trattarla. A questo punto non ho modo di recuperarla del tutto. Posso solo sperare di tenerci in vita.» Kyle Haven spostò lo sguardo alla parete e la fissò rigidamente. «Vai a prendermi del cibo.» Abbaiò l'ordine come se avesse ancora comandato la nave. «Tenterò» disse freddo Wintrow. Si girò e lasciò la stanza. Mentre tirava la porta danneggiata dietro di sé, uno dei due faccia-dimappa gli parlò. I marchi tatuati di molti padroni strisciavano sul viso della corpulenta sentinella: «Perché glielo lasci fare?» «Fare cosa?» chiese Wintrow sorpreso. «Ti tratta come un cane.» «È mio padre.» Wintrow tentò di non apparire costernato. Avevano ascoltato la conversazione. Quanto avevano udito? «È un lurido maiale» osservò l'altra guardia con freddezza. Rivolse uno sguardo di sfida a Wintrow. «Quindi tu sei il figlio di un lurido maiale.» «Taci!» ringhiò la prima guardia. «Il ragazzo non è cattivo. Se tu non ricordi chi è stato gentile con te quando eri incatenato, io sì.» I suoi occhi scuri ritornarono a Wintrow. Accennò con il capo alla porta chiusa. «Basta che tu lo dica, ragazzo. Lo farò strisciare per te.» «No.» Wintrow parlò con voce chiara. «Non voglio. Non voglio che nessuno strisci per me.» Sentì che doveva renderglielo assolutamente chiaro. «Per favore. Non fare del male a mio padre.» Il faccia-di-mappa alzò le spalle. «Come ti pare. Parlo per esperienza, ragazzo. È l'unico modo di trattare con un uomo come quello. O lui striscia per te, o tu strisci per lui. È tutto quello che capisce.» «Forse» concesse Wintrow controvoglia. Cominciò ad allontanarsi, poi si fermò. «Non conosco il tuo nome.» «Villia. Tu sei Wintrow, giusto?» «Sì. Sono Wintrow. Lieto di conoscerti, Villia.» Il giovane guardò l'altra guardia, in attesa. L'uomo aggrottò le ciglia e parve a disagio. «Deccan» disse infine. «Deccan» ripeté Wintrow, fissandoselo nella mente. Incontrò con fer-
mezza gli occhi dell'uomo e gli rivolse un cenno del capo prima di girarsi e andarsene. Avvertì la divertita approvazione di Villia. Un modo così insignificante di farsi valere, eppure lo fece sentire bene. Emerse sulla tolda, battendo le palpebre nella brillante luce del sole di primavera, e Sa'Adar gli si parò di fronte. Il massiccio sacerdote sembrava ancora logorato dalla schiavitù. Il bacio rosso dei ceppi gli aveva sfregiato polsi e caviglie. «Ti stavo cercando» annunciò. Altri due faccia-di-mappa affiancavano il sacerdote come mastini al guinzaglio. «Davvero?» Wintrow decise di continuare come se nulla fosse. Raddrizzò le spalle e incontrò gli occhi dell'uomo più anziano. «Hai messo tu quei due uomini fuori dalla cabina di mio padre?» Il sacerdote errante rimase impassibile. «Sì. Deve rimanere confinato finché non potrà essere giudicato, finché giustizia non sarà fatta.» Guardò Wintrow dall'alto della sua stazza e della sua età. «Hai obiezioni?» «Io?» Wintrow parve riflettere sulla domanda. «Perché ti importa? Non dovresti preoccuparti di quello che pensa Wintrow Vestrit. Dovresti preoccuparti di quello che il capitano Kennit può pensare di te se ti arroghi tanta autorità.» «Kennit sta morendo» disse con audacia Sa'Adar. «È Brig che comanda qui. Sembra accettare la mia autorità sugli schiavi. Dà ordini attraverso di me. Non mi ha impedito di assegnare due guardie al capitano Haven.» «Gli schiavi? Credevo che ora fossero tutti liberi.» Wintrow parlò sorridendo, e finse di non notare quanto i faccia-di-mappa seguissero da vicino la conversazione. Anche gli altri ex schiavi che si attardavano sulla tolda stavano origliando. Alcuni si fecero più vicini. «Sai cosa intendo!» esclamò Sa'Adar seccato. «In genere, un uomo dice ciò che pensa...» Wintrow lasciò l'osservazione sospesa per un momento, poi aggiunse con disinvoltura: «Hai detto che mi cercavi?» «Sì. Oggi sei stato a vedere Kennit?» «Perché me lo chiedi?» ribatté il ragazzo con calma. «Perché mi piacerebbe conoscere chiaramente le sue intenzioni.» Il sacerdote aveva una voce addestrata e ora la fece risuonare sulla tolda. Più di un volto tatuato si volse verso di lui. «A Città di Jamaillia si racconta che quando il capitano Kennit cattura una nave schiavista, uccide l'equipaggio e dona la nave agli schiavi che sono a bordo, in modo che anche loro possano diventare pirati e continuare la sua campagna contro la schiavitù. Co-
sì credevamo quando abbiamo accettato il suo aiuto nel governare la nave che avevamo conquistato. Ci aspettavamo di tenerla. Speravamo che fosse uno strumento per il nuovo inizio che attende ognuno di noi. Ora il capitano Kennit parla come se la volesse per sé. Con tutto quello che abbiamo sentito di lui, non crediamo che sia tipo da sottrarci l'unica cosa di valore che abbiamo. Perciò vogliamo chiedergli, con chiarezza e onestà: a chi crede che appartenga questa nave?» Wintrow lo guardò con calma. «Se desideri porre quella domanda al capitano Kennit, ti incoraggio a farlo. Solo lui può darti la sua personale risposta. Se lo chiedi a me, sentirai non la mia opinione ma la verità.» Di proposito parlò più piano di Sa'Adar, così quelli che desideravano ascoltare dovettero avvicinarsi. Molti lo fecero, inclusi alcuni pirati. Avevano un aspetto pericoloso. Il sacerdote sorrise sardonico. «La tua verità è che la nave appartiene a te, suppongo.» Wintrow scosse la testa, e restituì il sorriso. «La nave appartiene a sé stessa. Vivacia è una creatura libera, con il diritto di determinare la propria vita. O forse tu, che hai portato le pesanti catene della schiavitù, vorresti fare a un altro quello che è stato fatto così crudelmente a te?» All'apparenza si era rivolto a Sa'Adar. Non si guardò attorno per vedere come la domanda avesse toccato gli altri. Rimase in silenzio, attendendo una risposta. Dopo un momento Sa'Adar emise una mezza risata sdegnosa. «Non dice sul serio» dichiarò alla folla. «Per qualche magia, la polena può parlare. È un interessante trucchetto di Borgomago. Ma una nave è una nave, una cosa e non una persona. E questa nave è nostra di diritto!» Alcuni schiavi mormorarono il loro assenso, ma subito un pirata lo affrontò. «Parli di ammutinamento?» domandò l'ingrigito lupo di mare. «Perché se è così finirai fuori bordo prima di trarre un altro respiro.» Sorrise con evidente ostilità, scoprendo i varchi nella chiostra dei denti. Alla sua sinistra un altro pirata alto emise una risata gutturale. Scosse le spalle come per stiracchiarsi, una sottile dimostrazione di forza per i faccia-dimappa di Sa'Adar. Entrambi gli uomini tatuati si raddrizzarono, socchiudendo gli occhi. Il sacerdote parve colpito. Evidentemente non se lo aspettava. Drizzò la schiena e cominciò indignato: «Perché dovrebbe riguardarti?» Il pirata tarchiato puntò l'indice sul torace del sacerdote. «Kennit è il nostro capitano. Si fa come dice lui. Giusto?» Quando il sacerdote non rispose, l'uomo sogghignò. Sa'Adar si sottrasse alla pressione del dito. Mentre si
girava per allontanarsi, il pirata osservò: «Faresti meglio a non criticare quello che fa Kennit. Se non ti piace qualcosa, dillo direttamente a lui. È un uomo duro, ma equo. Non parlare alle sue spalle. Se causi disordine su questa nave, te ne pentirai.» Senza volgere neanche uno sguardo indietro i pirati si rimisero al lavoro. L'attenzione degli schiavi si spostò su Sa'Adar. Il sacerdote non mascherò il bagliore adirato negli occhi, ma la sua voce parve sottile e infantile: «Stai certo che lo dirò a Kennit. Stanne certo!» Wintrow abbassò lo sguardo al ponte. Forse suo padre aveva ragione. Forse c'era un modo per sottrarre a schiavi e pirati la nave di famiglia. In ogni conflitto c'è un'opportunità per qualcuno. Si allontanò, con il cuore che batteva stranamente più veloce, e si chiese da dove venissero quei pensieri. Vivacia era impensierita. I suoi occhi fissavano la poppa della Marietta oltre le onde, ma la sua vera attenzione era rivolta al proprio interno. Il timoniere aveva una mano salda; gli uomini che correvano sul sartiame erano tutti veri marinai. L'equipaggio stava ripulendo la lordura dai ponti e dalle stive, riparando infissi e lucidando le parti metalliche. Per la prima volta in molti mesi Vivacia non aveva dubbi riguardo l'abilità del suo capitano. Fiduciosa del fatto che l'equipaggio sapeva fare il suo mestiere, poteva concentrarsi pienamente sulle sue preoccupazioni. Un veliero vivente risvegliato poteva essere consapevole di tutto ciò che accadeva a bordo attraverso la sua ossatura di legno magico. Per lo più erano eventi banali, appena degni di attenzione. Una cima da aggiustare, una cipolla da affettare in cambusa, cose che non la riguardavano. Non influenzavano la sua rotta nella vita. Kennit sì. Nei quartieri del capitano quell'uomo enigmatico dormiva un sonno inquieto. Vivacia non lo vedeva, ma era consapevole di lui in un modo per cui gli umani non avevano parole. La febbre stava salendo di nuovo. La donna che si occupava di lui era in ansia. Si affaccendava con acqua fresca e un panno. Vivacia cercò di scorgere i dettagli, ma non aveva un legame con loro. Non li conosceva ancora abbastanza bene. Kennit le era molto più accessibile di Etta. I suoi sogni di febbre erompevano incontrollati da lui, rovesciandosi in Vivacia come il sangue versato sui suoi ponti. Lei li assorbiva, ma non riusciva a capirli. Un ragazzino tormentato, lacerato tra la lealtà a un padre che lo amava ma non sapeva come proteggerlo e un uomo che lo proteggeva ma non aveva amore nel
cuore. Più e più volte un serpente saliva dagli abissi dei suoi sogni per troncargli la gamba. Il morso delle mascelle era ghiaccio acido. Dal fondo della sua anima Kennit si tendeva verso di lei, verso una condivisione intima che il pirata ricordava solo come un ricordo informe di un'infanzia perduta. «Ehilà, salve, cosa c'è qui? O chi c'è, dovrei forse dire.» La voce, la voce di Kennit, la raggiunse in un minuscolo bisbiglio nella mente. Vivacia scrollò la testa, scuotendo i capelli nel vento. Il pirata non parlava con lei. Perfino nei momenti in cui l'unione con Althea e Wintrow era stata più forte, i loro pensieri non erano entrati con tanta chiarezza nella sua mente. «Non è Kennit» mormorò fra sé. Ne era sicura. Eppure era di certo la sua voce. Nella sua cabina il capitano pirata trasse un profondo respiro ed esalò mormorando dinieghi. All'improvviso gemette. «No, non sono Kennit» confermò la vocina divertita. «E tu non sei una Vestrit come credi di essere. Chi sei?» Era sconcertante sentire una mente che cercava di afferrare la sua reazione. D'istinto Vivacia si ritrasse dal contatto. Lei era molto più forte. Si allontanò, e l'altro non riuscì a seguirla. Così facendo, Vivacia troncò anche il legame provvisorio con Kennit. La frustrazione e l'agitazione la sommersero. Strinse i pugni contro i fianchi e prese male l'onda successiva, schiantandocisi sopra invece di attraversarla. Il timoniere imprecò fra sé e applicò una minuscola correzione. Vivacia si leccò gli spruzzi salati dalle labbra e scosse via i capelli dal viso. Chi o cosa era stato a parlarle? Mantenne immobili i pensieri dentro di sé e tentò di decidere se era più spaventata o incuriosita. Provava uno strano senso di vicinanza con l'essere che le aveva parlato. Aveva deviato facilmente il suo aggressivo sondaggio, ma non le piaceva che qualcuno avesse anche solo tentato di invaderle la mente. Decise che non lo avrebbe tollerato. Chiunque fosse l'intruso, lo avrebbe smascherato e affrontato. Tenendo alte le proprie difese si tese incerta verso la cabina dove Kennit si agitava nel sonno. Trovò facilmente il pirata. Lottava ancora fra i suoi sogni di febbre, nascosto in un armadio mentre un incubo gli dava la caccia, chiamandolo per nome in tono falsamente dolce. La donna gli depose un panno fresco sulla fronte e ne drappeggiò un altro sul moncone gonfio della gamba. Vivacia quasi sentì l'improvviso sollievo che gli portò. La nave si tese di nuovo, più arditamente, ma non trovò nessun altro. «Dove sei?» chiese all'improvviso, irritata. Kennit trasalì con un grido
mentre nel sogno il suo inseguitore pronunciava le stesse parole della nave. Etta si chinò su di lui, mormorando parole suadenti. La domanda di Vivacia rimase senza risposta. Kennit riemerse, riprendendo conoscenza con un ansito. Gli ci volle un momento per ricordare dov'era. Poi un lieve sorriso di beatitudine gli tese le labbra riarse dalla febbre. Il veliero vivente. Era a bordo del suo veliero vivente, nei ben forniti quartieri del capitano. Un fine lenzuolo di lino copriva il suo corpo sudato. Ottone e legno lucido brillavano ovunque nella comoda cabina raffinata. Udiva l'acqua che passava gorgogliando mentre Vivacia percorreva il canale. Poteva quasi avvertire la consapevolezza della nave attorno a lui, che lo proteggeva. Una seconda pelle che lo schermava dal mondo. Sospirò di soddisfazione, e poi tossì per il muco nella gola asciutta. «Etta!» gracchiò alla prostituta. «Acqua.» «È qui» rispose lei in tono rassicurante. Era vero. Per quanto sorprendente, Etta gli stava accanto, con una tazza d'acqua pronta. Lo aiutò a sollevarsi per bere, lunghe dita fresche sulla nuca. Poi girò con destrezza il cuscino prima di fargli abbassare di nuovo la testa. Con un panno fresco gli tamponò il sudore dal viso e gli passò una pezza umida sulle mani. Kennit giacque immobile e silenzioso sotto il suo tocco, mollemente grato per il conforto che gli dava. Conobbe un momento di pace assoluta. Non durò. La consapevolezza della gamba gonfia si trasformò rapidamente in dolore. Kennit tentò di ignorarlo. Divenne un calore pulsante che cresceva in intensità con ogni respiro. La prostituta sedeva accanto al letto e cuciva. Gli occhi di Kennit si mossero apatici su di lei. Sembrava più vecchia di come la ricordava. Linee più profonde intorno alla bocca e sulla fronte. Il volto sembrava assottigliato sotto la zazzera dei corti capelli neri. Faceva sembrare i suoi occhi scuri ancor più immensi. «Hai un aspetto orribile» la rimproverò. Immediatamente Etta accantonò il cucito e sorrise come se avesse ricevuto un complimento. «Vederti così mi agita. Quando sei malato... Non riesco a dormire, non riesco a mangiare...» Donna egoista. Aveva dato la gamba di Kennit a un serpente marino, e ora tentava di farlo sembrare come se fosse il suo problema. Doveva forse compiangerla? Accantonò il pensiero. «Dove è quel ragazzo, Wintrow?» Etta si alzò subito. «Lo vuoi?»
Domanda stupida. «Certo che lo voglio. Deve curare la mia gamba. Perché non lo ha ancora fatto?» Lei si chinò sul letto e gli sorrise teneramente. Kennit voleva spingerla via, ma non ne aveva la forza. «Penso che voglia aspettare fino a quando non sbarcheremo a Gola del Toro. Vuole avere diverse cose sottomano prima di... curarti.» All'improvviso si distolse dal suo letto di ammalato, ma non prima che Kennit vedesse le lacrime brillare nei suoi occhi. Le sue ampie spalle erano piegate e non si reggeva più alta e orgogliosa. Non si aspettava che lui sopravvivesse. Quella improvvisa intuizione lo spaventò e lo irritò. Era come se Etta gli avesse augurato di morire. «Vai a cercare quel ragazzo!» le ordinò brusco, più che altro per allontanarla dalla sua vista. «Ricordaglielo. Ricordagli bene che se muoio, moriranno anche lui e suo padre. Diglielo!» «Manderò qualcuno» disse Etta con voce scossa, e si volse alla porta. «No. Vacci tu, adesso, e trovalo. Subito.» Etta si girò di nuovo verso di lui e lo infastidì sfiorandogli il viso. «Se è ciò che vuoi» disse rassicurante. «Vado subito.» Kennit non la guardò allontanarsi. Ascoltò il suono dei suoi stivali. Etta si affrettò, e quando uscì chiuse piano ma completamente la porta. Kennit la sentì alzare la voce con qualcuno, irritata. «No. Vattene. Non assillarlo con queste cose.» Poi, a voce più bassa, minacciosa: «Tocca la porta e ti ammazzo.» Chiunque fosse le obbedì, perché nessuno bussò. Kennit socchiuse gli occhi e andò alla deriva sulla marea del suo dolore. La febbre tagliava il suo mondo in orli affilati e colori sgargianti. La comoda cabina parve chiudersi attorno a lui, minacciando di precipitargli addosso. Kennit allontanò il lenzuolo e cercò un respiro di aria più fresca. «E allora, Kennit. Cosa farai del tuo 'simpatico birichino' quando arriva?» Il pirata strinse forte gli occhi. Tentò di ignorare la voce. «Divertente. Credi che io non possa vederti se chiudi gli occhi?» L'amuleto era implacabile. «Taci. Lasciami in pace. Vorrei non averti mai commissionato.» «Oh, ora hai ferito i miei sentimenti! Che parole, dopo tutto quello che abbiamo sopportato insieme.» Kennit aprì gli occhi. Alzò il polso e fissò il braccialetto. Il minuscolo amuleto di legno magico, intagliato a somiglianza del suo viso saturnino, lo guardò con un sorriso amichevole. Strisce di cuoio lo assicuravano fermamente all'interno del polso, dove scorreva il sangue. La febbre fece ap-
parire la faccina più vicina. Kennit chiuse gli occhi. «Credi davvero che il ragazzo possa guarirti? No. Non puoi essere così sciocco. Certo, sei abbastanza disperato da insistere che ci provi. Sai cosa mi stupisce? Temi così tanto la morte che sarai abbastanza coraggioso da affrontare il bisturi del chirurgo. Pensa a quella carne gonfia, così dolente che a malapena sopporta che il lenzuolo la sfiori. Gli permetterai di accostare un coltello, una brillante lama affilata, argentea, prima che il sangue la tinga di scarlatto...» «Amuleto...» Kennit aprì gli occhi in due fenditure. «Perché mi tormenti?» L'amuleto gli fece una boccaccia. «Perché io posso. Probabilmente sono l'unico al mondo che possa tormentare il grande capitano Kennit. Il Liberatore. L'aspirante Re delle Isole dei Pirati.» La faccia ridacchiò e aggiunse con sarcasmo: «O coraggiosa esca per serpenti del Passaggio Interno. Dimmi. Cosa vuoi dal piccolo sacerdote? Lo desideri? Nei tuoi sogni febbricitanti suscita ricordi di quello che eri. Faresti ciò che fu fatto a te?» «No. Non ho mai...» «Ah no?» L'amuleto di legno magico ridacchiò crudelmente. «Credi davvero di potermi mentire, così legato a me? So tutto di te. Tutto.» «Sei stato fabbricato per aiutarmi, non per tormentarmi! Perché ti rivolti contro di me?» «Perché odio ciò che sei» rispose con rabbia l'amuleto. «Odio sapere che aiutandoti divento parte di te.» Kennit trasse un respiro sfinito. «Cosa vuoi da me?» Un grido di resa, un'invocazione di misericordia o pietà. «Ecco una domanda a cui non avevi mai pensato. Cosa voglio da te?» L'amuleto pronunciò con gusto le parole, assaporandole. «Forse voglio che tu soffra. Forse è un piacere tormentarti. Forse...» Passi fuori della porta. Gli stivali di Etta e un lieve fruscio di piedi. «Sii gentile con Etta» intimò in fretta l'amuleto. «E forse io ti...» Quando la porta si aprì la faccina tacque. Era di nuovo immobile e silenziosa, un grano di legno su un braccialetto al polso di un uomo ammalato. Wintrow entrò, seguito dalla prostituta. «Eccolo, Kennit» annunciò Etta chiudendo la porta dietro di loro. «Bene. Lasciaci soli.» Se il maledetto amuleto pensava di poterlo costringere a qualcosa, si sbagliava. Etta parve angosciata. «Kennit... pensi che sia saggio?» «No. Penso che sia stupido. Per questo ti ho detto di farlo, perché la stu-
pidità mi piace.» Le scagliò contro quelle parole in un sussurro. Guardò la faccina al suo polso, aspettando una reazione. Era immobile, ma i piccoli occhi brillarono. Probabilmente meditava vendetta. A Kennit non importava. Finché aveva respiro non avrebbe tremato davanti a un pezzo di legno. «Fuori» ripeté. «Lascia qui il ragazzo.» Etta uscì con la schiena molto diritta. Chiuse con fermezza la porta dietro di sé, senza esattamente sbatterla. Non appena fu scomparsa, Kennit si tirò seduto. «Vieni qui.» Quando Wintrow si avvicinò al letto, lui afferrò l'angolo del lenzuolo e lo allontanò di scatto. Mise in mostra la gamba monca in tutta la sua gloria putrescente. «Eccola» disse disgustato. «Cosa puoi fare per me?» Il ragazzo sbiancò a quella vista. Kennit capì che dovette farsi forza per avvicinarsi al letto e guardare da vicino la gamba. Wintrow arricciò il naso per la puzza. Poi alzò gli occhi scuri a incontrare quelli di Kennit e parlò con semplice franchezza. «Non lo so. È conciata molto male.» Lo sguardo corse di nuovo alla gamba, poi tornò ai suoi occhi. «Mettiamola così. Se non tentiamo di tagliarvi un altro pezzo di gamba, morirete. Cosa abbiamo da perdere?» Il pirata si costrinse a un ghigno rigido. «Io? Ben poco, pare. Ma la tua vita e quella di tuo padre sono ancora sul piatto della bilancia.» Wintrow emise una breve risata malinconica. «So bene che la mia vita è perduta se morirete, qualsiasi cosa io faccia.» Fece un lieve cenno del capo verso la porta. «Lei non mi permetterebbe mai di sopravvivervi.» «Temi la donna, vero?» Kennit permise al ghigno di allargarsi. «Fai bene. Allora. Cosa proponi?» Tentò di nutrire la sua baldanza con parole disinvolte. Il ragazzo guardò di nuovo la gamba. Aggrottò la fronte e rifletté. L'intensità della sua concentrazione riusciva solo a mettere in risalto la sua gioventù. Kennit gettò ancora uno sguardo al moncone in disfacimento. Poi preferì guardare il viso di Wintrow. Trasalì involontariamente quando il ragazzo tese le mani verso la gamba. «Non la tocco» promise Wintrow. La voce era quasi un sussurro. «Ma ho bisogno di scoprire dove si ferma la carne sana e comincia il marciume.» Mise le mani a coppa, come per catturare qualcosa sotto di loro. Partendo dalla ferita le mosse con lentezza verso la coscia. I suoi occhi erano ridotti a fessure, la testa piegata come per ascoltare attentamente. Kennit guardò le sue mani in movimento. Cosa sentiva? Calore, o qualcosa di più sottile, come il lento lavorio di un veleno? Le mani
del ragazzo erano incallite dal duro lavoro, ma mantenevano la grazia languida di un artigiano. «Hai solo nove dita» osservò Kennit. «Cos'è successo all'indice?» «Un incidente» gli disse Wintrow distratto, poi gli ordinò: «Zitto.» Kennit aggrottò le ciglia, ma fece ciò che gli veniva chiesto. Divenne consapevole delle mani che si muovevano sulla sua carne. Quella pressione fantasma lo ridestò al ritmo pulsante del dolore. Strinse i denti, ingoiò a vuoto e riuscì ancora una volta ad allontanarlo dalla mente. A metà della coscia le mani di Wintrow si arrestarono e rimasero sospese. Le linee sulla fronte si fecero più profonde. La respirazione rallentò e si stabilizzò e gli occhi si chiusero del tutto. Sembrava dormire in piedi. Kennit studiò il suo volto. Le lunghe ciglia scure si arricciavano contro le guance. Il contorno del viso aveva perso la maggior parte delle rotondità infantili, ma non mostrava ancora l'inizio lanuginoso di una barba. Accanto al naso, un piccolo emblema verde denotava che un tempo era appartenuto al Satrapo. Vicino c'era un tatuaggio più grande, una rozza immagine che Kennit riconobbe come la polena della Vivacia. La sua prima reazione fu di fastidio perché qualcuno aveva rovinato la bellezza del ragazzo. Poi percepì che proprio la crudezza del tatuaggio contrastava con la sua innocenza. Etta era stata così quando l'aveva scoperta, una puledrina nel salone di un bordello... «Capitano Kennit? Signore?» Kennit aprì gli occhi. Quando li aveva chiusi? Wintrow annuiva piano fra sé. «Qui» disse non appena il pirata lo guardò. «Se tagliamo qui, penso che troveremo carne sana.» Le mani del ragazzo indicarono un punto spaventosamente in alto sulla coscia. Kennit trasse un respiro. «Carne sana, dici? Non dovresti tagliare sotto quella sana?» «No. Dobbiamo tagliare un po' nella parte ancora sana, perché la carne sana guarisce più in fretta di quella avvelenata.» Wintrow fece una pausa e con entrambe le mani si spinse via dal viso i capelli in disordine. «Non posso dire che ci sia una parte della gamba del tutto priva di veleno. Ma penso che tagliare in quel punto sia la nostra migliore opportunità.» Si fece pensieroso. «Prima dovrò dissanguare la parte inferiore della gamba, per drenare parte del gonfiore e del marciume. Alcuni guaritori al monastero lo facevano con le lame, e altri con le sanguisughe. Naturalmente c'è un tempo e un luogo per ciascuno di questi metodi, ma credo che il sangue addensato dall'infezione sia assorbito meglio dalle sanguisughe.»
Kennit lottò per mantenere la compostezza. Il volto del ragazzo era intenso. Gli fece venire in mente Sorcor quando meditava una strategia. «Poi mettiamo un laccio qui, abbastanza alto, per rallentare il flusso del sangue. Deve legare la carne senza comprimerla. Taglierò sotto al laccio. Tenterò di preservare una falda di pelle per chiudere la ferita. Mi serviranno un coltello affilato e una sega dai denti fini per l'osso. La lama del coltello deve essere lunga abbastanza per tagliare di netto, senza andare avanti e indietro.» Le dita del ragazzo misurarono la lunghezza. «Per cucire, alcuni userebbero filo di intestino di pesce, ma al mio monastero si diceva che i migliori punti vengono fatti con i capelli del ferito, perché il corpo riconosce sé stesso. Voi, signore, avete capelli molto lunghi e fini. I vostri ricci sono abbastanza lenti da poter essere lisciati. Andranno benissimo.» Kennit si chiese se il ragazzo cercava di spaventarlo, o se aveva dimenticato che stava parlando della sua carne e delle sue ossa. «E per il dolore?» chiese con falsa esuberanza. «Dovrà bastare il vostro coraggio, signore.» Gli occhi scuri del giovane incontrarono con franchezza i suoi. «Non farò in fretta, ma starò attento. Brandy o rum, prima di cominciare. Se non fosse così raro e costoso, direi che dovremmo procurarci l'essenza della scorza di un frutto kwazi. Intorpidisce una ferita a meraviglia. Certo, funziona solo con il sangue fresco. Sarebbe efficace solo dopo il taglio.» Scosse la testa, pensieroso. «Forse dovreste decidere quali marinai vi terranno fermo. Dovranno essere grandi e forti, in grado di potervi ignorare se ordinate di lasciarvi o li minacciate.» La riluttanza travolse Kennit come un'ondata. Rifiutò di considerare l'umiliazione e l'affronto che avrebbe dovuto subire. Allontanò l'idea che fosse inevitabile. Ci doveva essere un altro modo, un'alternativa a quell'immenso e impotente dolore. Come poteva sceglierli, sapendo che perfino sopportando tutto ciò sarebbe probabilmente morto comunque? Che figura da sciocco! «...e ognuno deve essere tirato un poco, e chiuso con un punto o due.» Wintrow fece una pausa, come aspettando il suo consenso. «Non l'ho mai fatto da solo» ammise all'improvviso. «Voglio che lo sappiate. L'ho visto fare due volte. Una volta vidi amputare una gamba infetta. Un'altra volta si trattava di un piede e una caviglia fracassati senza speranza. In entrambe le occasioni ero lì per aiutare il guaritore, passare gli strumenti e tenere il secchio...» La sua voce si spense. Si leccò le labbra e fissò Kennit, con occhi sempre più larghi. «Che c'è?» domandò il pirata.
«Avrò la vostra vita nelle mie mani» rifletté Wintrow ad alta voce. «E io avrò in mano la tua» commentò il pirata. «E quella di tuo padre.» «Non voglio dire questo» rispose Wintrow. La sua voce suonò come quella di un uomo in un sogno. «Voi siete senza dubbio abituato a un tale potere. Io non l'ho mai neppure desiderato.» 3 Il Gallo Incoronato I passi di Jani Khuprus echeggiavano vuoti nel corridoio cavernoso. La donna camminava in fretta sfiorando con le dita la lunga striscia di jidzin incastonata nel muro. La fioca luce suscitata dal suo tocco si muoveva con lei lungo il passaggio buio che la portava nelle viscere del labirintico palazzo degli Antichi. Due volte dovette aggirare scure pozzanghere sul pavimento di pietra. Si fissò in mente la loro posizione senza pensarci. A ogni ritorno delle piogge di primavera c'era lo stesso problema. Lo spesso strato superiore di terra e le radici che cercavano un varco insinuandosi attraverso di esso cominciavano a vincere la lunga battaglia con l'antica struttura sepolta. Il quieto gocciolio ritmico dell'acqua accompagnava i suoi passi veloci. La notte prima c'era stato un terremoto, non ingente secondo i criteri delle Giungle della Pioggia, ma più forte e più lungo del normale tremito sommesso del terreno. Jani decise di non pensarci mentre si affrettava nell'oscurità. La struttura aveva resistito al colossale disastro che aveva raso al suolo la maggior parte della città antica; certamente si poteva contare che resistesse ancora un poco. Giunse a un'arcata chiusa da una massiccia porta di metallo. La sfiorò con le mani e il Gallo Incoronato in rilievo sulla superficie prese vita scintillando. Non mancava mai di emozionarla. Capiva bene il suo antenato che scoprendo quel luogo aveva immediatamente fatto del Gallo Incoronato il proprio stemma. Il pennuto sulla porta levava ostile una zampa irta di speroni, le ali mezze alzate in una minaccia. Ogni piuma sul collo teso splendeva. Una gemma nera brillava incastonata nell'occhio. Eleganza e arroganza. Jani mise con fermezza una mano sul petto del gallo e spinse la porta. L'oscurità si spalancò davanti a lei. Solo la familiarità la guidò giù per i bassi gradini che portavano nella stanza immensa. Immergendosi nell'oscurità più vasta della Camera del Gallo Incoronato aggrottò le ciglia in un rimprovero a sé stessa. Reyn non
c'era, dopo tutto. Era corsa a cercare suo figlio per niente. In fondo ai gradini fece una pausa vicino alla parete, guardandosi attorno senza vedere. Trasalì quando lui le parlò dal buio. «Hai mai cercato di immaginare come doveva apparire questa camera quando era nuova? Pensaci, madre. In un giorno come questo il sole di primavera splendeva attraverso la cupola di cristallo per risvegliare tutti i colori degli affreschi. Cosa facevano qui? Dai solchi profondi sul pavimento e l'ordine casuale dei tavoli, non penso che i tronchi di legno magico fossero normalmente immagazzinati qui. No. Penso che vi furono portati in fretta, per proteggerli dal disastro che stava seppellendo la città, quale che fosse. Quindi... Prima di allora, qual era lo scopo di questa stanza enorme con la sua cupola di cristallo e le pareti decorate? Dagli antichi vasi di terra possiamo congetturare che ci coltivassero le piante. Era solo una serra, dove passeggiare al sicuro perfino nella peggiore tempesta? O era...» «Reyn, basta» esclamò sua madre seccata. Le sue dita cercarono e trovarono la striscia di jidzin sulla parete. La premette con fermezza e diversi pannelli decorativi si accesero di luce fioca. Aggrottò le ciglia. Nella sua fanciullezza erano stati molto più luminosi; ogni petalo di ogni fiore splendeva. Ormai erano ogni giorno più offuscati. Allontanò la costernazione al pensiero che si spegnessero del tutto. Con mite irritazione nella voce chiese: «Cosa fai quaggiù al buio? Perché non sei nel corridoio ovest, a sovrintendere ai lavori? Hanno trovato un altro portale, nascosto in un muro della settima camera. Hanno bisogno della tua intuizione per capire come aprirlo.» «Come distruggerlo, vuoi dire» la corresse lui. «Oh, Reyn» lo rimproverò fiaccamente Jani. Era così stanca di queste discussioni con il figlio minore. Qualche volta sembrava che lui, il più dotato nello scoprire i segreti delle dimore degli Antichi, fosse anche il più riluttante a usare le sue abilità. «Cosa vorresti che facessimo? Che lasciassimo tutto sepolto e dimenticato come lo abbiamo trovato? Abbandonando le Giungle della Pioggia e ritirandoci a Borgomago per vivere con i nostri parenti? Sarebbe un breve rifugio.» Sentì il lieve fruscio dei passi di Reyn che aggirava l'ultimo grande tronco di legno magico rimasto nella Camera del Gallo Incoronato. Lo intravide passare accanto a un'estremità muovendosi come un sonnambulo. Il cuore di Jani affondò notando come camminava, con le dita che sfioravano il tronco massiccio. Vestiva un mantello con cappuccio per difendersi dall'umidità e dal freddo della camera. «No» disse piano. «Amo le Giungle
della Pioggia come le ami tu. Non ho desiderio di andare altrove. Ma non penso che la mia gente dovrebbe continuare a vivere nascosta nella segretezza. Né dovremmo continuare a depredare e distruggere le terre degli Antichi solo per pagare per la nostra sicurezza. Credo che invece dovremmo ripristinare e celebrare tutto ciò che abbiamo scoperto qui. Dovremmo rimuovere la terra e la cenere che nascondono la città e rivelarla ancora una volta alla luce del sole e al chiaro di luna. Dovremmo rifiutare la sudditanza del Satrapo di Jamaillia come quella di un tiranno, respingere le sue tasse e restrizioni e commerciare liberamente dove vogliamo.» La sua voce si abbassò sotto lo sguardo minaccioso della madre, ma non tacque. «Mostriamo chi siamo senza vergogna, e affermiamo che viviamo in questo luogo e in questo modo non per infamia ma per scelta. È questo che penso.» Jani Khuprus sospirò. «Sei molto giovane, Reyn» disse semplicemente. «Se intendi stupido, di' stupido» suggerì lui senza malevolenza. «Non lo penso» rispose con dolcezza sua madre. «Ho detto giovane, e giovane intendevo. Il fardello delle Rive Maledette non pesa su te e me come sugli altri Mercanti delle Giungle della Pioggia. In un certo modo questo rende il nostro destino più duro, non più facile. Visitiamo Borgomago e da dietro i nostri veli ci guardiamo attorno e diciamo: 'Ma non siamo poi molto diversi dal popolo che vive qui. Con il tempo ci accetterebbero, e potremmo muoverci liberamente fra loro.' Forse dimentichi quanto sarebbe difficile per Kys o Tillamon affrontare occhi ignoranti senza un velo.» Alla menzione delle sue sorelle Reyn abbassò gli occhi. Nessuno sapeva dire perché la deformità che era il normale destino dei bambini delle Giungle della Pioggia avesse colpito così gravemente loro e così poco lui. Lì, insieme alla loro gente, non era un fardello così pesante. Perché impallidire alla vista di un vicino di casa che mostrava la stessa pelle bitorzoluta o le stesse escrescenze penzolanti? Invece il pensiero della sorellastra minore Kys priva di velo, perfino su una strada di Borgomago, era scoraggiante. Jani osservò i pensieri avvicendarsi sul viso di suo figlio, evidenti come parole su una pergamena. La fronte del ragazzo si aggrottò per l'ingiustizia della loro condizione. L'amarezza gli torse la bocca quando parlò. «Siamo un popolo ricco. Non sono così giovane o così stupido da non sapere che potremmo pagare per essere accettati. Saremmo fra i più ricchi del mondo, se non avessimo il piede del Satrapo sul collo e le sue mani nella borsa. Ascoltami bene,
madre. Se solo potessimo sbarazzarci del carico delle tasse e delle limitazioni sul libero scambio, non avremmo bisogno di distruggere le scoperte che ci arricchiscono. Potremmo restaurare questa città e riportarla alla luce, invece di strapparle i suoi tesori per venderli altrove. La gente verrebbe qui, pagando le nostre navi per viaggiare sul fiume, e ne sarebbe felice. Ci guarderebbero e non distoglierebbero lo sguardo, perché si può giungere ad amare chiunque possieda la ricchezza. Allora avremmo l'agio di trovare le vere chiavi per aprire i segreti che ora martelliamo e tagliamo a pezzi. Se davvero fossimo un popolo libero, potremmo disseppellire tutte le meraviglie di questa città. La luce del sole invaderebbe questa camera come una volta, e la Regina che giace intrappolata qui...» «Reyn» disse sua madre a bassa voce. «Togli la mano da quel tronco di legno magico.» «Non è un tronco» ribatté Reyn nello stesso tono. «Non è un tronco e lo sappiamo tutti e due.» «E tutti e due sappiamo che le parole che ora pronunci non sono solo tue, Reyn. Importa poco come lo chiamiamo. Quello che entrambi sappiamo è che hai trascorso troppo tempo con quella cosa, studiando gli affreschi e contemplando gli ideogrammi sui pilastri. Influenza i tuoi pensieri e ti fa sua.» «No!» negò bruscamente Reyn. «Non è vero, madre. Sì, ho trascorso molto tempo in questa camera, e ho studiato le tracce lasciate dagli Antichi. Ho anche studiato ciò che gettammo fuori dagli altri 'tronchi' che una volta si trovavano all'interno della camera.» Scosse la testa e il suo sguardo ramato lampeggiò nell'oscurità. «Bare. Quando ero piccolo mi dicesti che erano bare. Ma non lo sono. Sarebbe meglio chiamarle culle. Inoltre, se sapendo quello che so ora desidero svegliare e liberare l'ultima rimasta, non significa che sono caduto sotto la sua influenza. Significa solo che ho capito ciò che sarebbe giusto fare.» «Ciò che è giusto è rimanere fedeli alla propria gente» ribatté sua madre, adirata. «Reyn, te lo dico chiaramente. Hai trascorso così tanto tempo in compagnia di questo tronco di legno magico che non sai dove finiscono i tuoi pensieri e dove cominciano i suoi scaltri suggerimenti. Nel tuo desiderio c'è la rettitudine, ma c'è anche una testarda curiosità da bambino. Guarda le tue azioni di oggi. Sai dove c'è bisogno di te. E invece dove sei?» «Qui. Con una creatura che più di tutti ha bisogno di me, perché non ha altro difensore!» «Molto probabilmente è morta» disse con voce piatta sua madre. «Reyn,
stai alimentando la tua fantasia con storie da bambini. Per quanto tempo quel tronco è rimasto lì, anche prima che scoprissimo questo luogo? Qualsiasi cosa contenesse è perita tempo fa, e ha lasciato solo l'eco del suo desiderio di luce e aria. Conosci le proprietà del legno magico. Un tronco privato del contenuto diviene libero di assumere i ricordi e i pensieri di coloro con cui è in contatto quotidiano. Non vuol dire che sia vivo. Quando lo tocchi ascolti i ricordi intrappolati di una creatura morta in un'altra epoca. Tutto qui.» «Se ne sei così sicura, perché non mettiamo alla prova la tua teoria? Esponiamo il tronco alla luce e all'aria. Se nessuna regina dei draghi dorme al suo interno, ammetterò che avevo torto. Non mi opporrò a lasciarlo tagliare per costruire una grande nave per la famiglia Khuprus.» Jani Khuprus trasse un pesante sospiro. Poi parlò con voce sommessa. «Non fa nessuna differenza, Reyn che tu ti opponga o no. Sei il mio figlio minore, non il maggiore. Quando verrà il momento non sarai tu a decidere cosa fare dell'ultimo tronco di legno magico.» Vedendo il viso sconfortato di suo figlio sentì che poteva aver parlato troppo duramente. Caparbio com'era, Reyn era anche stranamente sensibile. Somiglia a suo padre, pensò, ed ebbe paura. Tentò di fargli capire il suo ragionamento. «Ciò che proponi sottrarrebbe tempo e operai dai lavori che vanno svolti se vogliamo che i soldi continuino a entrare in famiglia. Il tronco è troppo grande. L'ingresso che usarono per portarlo qui è crollato tempo fa. È troppo lungo per farlo uscire attraverso i corridoi. L'unica alternativa sarebbe che gli operai tagliassero la foresta sopra di noi e poi scavassero nella terra. Dovremmo rompere la cupola di cristallo e tirar fuori il tronco con treppiedi e pulegge. Sarebbe un lavoro monumentale.» «Se ho ragione, ne varrebbe la pena.» «Davvero? Facciamo finta che tu abbia ragione: esponiamo il tronco alla luce e ne esce qualcosa. E dopo? Come sai che una tale creatura sarà ben disposta verso di noi, o anche solo che ci prenderà in considerazione? Hai letto più rotoli e tavolette degli Antichi di qualsiasi uomo vivente. Tu stesso dici che i draghi che dividevano le città con loro erano creature arroganti e aggressive, inclini a prendersi qualsiasi cosa desiderassero. Lasceresti un tale essere libero fra noi? Peggio, se provasse rancore verso di noi, o addirittura ci odiasse per quello che abbiamo fatto senza saperlo alla sua specie negli altri tronchi? Guarda quanto è grande, Reyn. Potresti scatenare sulla tua gente un nemico formidabile, semplicemente per soddisfare la tua curiosità.»
«Curiosità!» farfugliò Reyn offeso. «Non è solo curiosità, madre. Provo pietà per quella creatura intrappolata. Sì, e mi sento in colpa per le altre che abbiamo distrutto con tanta avventatezza negli anni. Rimorso e pentimento possono essere una spinta forte quanto la curiosità.» Jani strinse i pugni. «Reyn, non ne discuterò ulteriormente con te. Se vuoi parlarmene di nuovo, dovrai farlo nel mio soggiorno, non in questa caverna umida con quella... cosa che svia ogni tuo pensiero. È la mia ultima parola.» Reyn sì raddrizzò con lentezza e incrociò le braccia sul petto. Jani non riusciva a scorgere il suo viso; non ne aveva bisogno. Sapeva che stringeva le labbra, le mascelle contratte. Ragazzo cocciuto. Perché doveva essere così testardo? Gli fece la sua offerta di pace senza guardarlo. «Figlio, dopo che avrai aiutato gli operai nel corridoio ovest, dovremo metterci a progettare il viaggio a Borgomago. Anche se ho promesso ai Vestrit che non farai girare la testa di Malta con i tuoi regali, è bene che tu porti doni per sua madre e sua nonna. Andranno scelti, così come i tuoi indumenti per il viaggio. Non abbiamo ancora discusso come ti presenterai. Vesti sempre in modo così sobrio. Eppure un uomo che corteggia una fanciulla dovrebbe sfoggiare il piumaggio di un pavone. Certo, dovrai indossare il velo. Ma lascio decidere a te quanto sarà pesante.» La manovra riuscì. La posizione di Reyn si ammorbidì; Jani avvertì il suo sorriso. «Un velo impenetrabile, ma non per le ragioni che credi. Credo che Malta sia una donna che ama il mistero e l'intrigo. Penso che sia la prima cosa che mi ha attratto in lei.» Jani cominciò a camminare con lentezza verso l'ingresso della camera. Come aveva sperato, Reyn la seguì. «Sua madre e sua nonna sembrano considerarla ancora bambina, ma tu ne parli come di una donna.» «È di certo una donna» il tono di Reyn non lasciò spazio al dubbio. Era orgoglioso della sua dichiarazione. Jani era meravigliata dal cambiamento in suo figlio. Non aveva mai espresso tanto interesse per una donna, anche se molte avevano gareggiato per richiamare la sua attenzione. Fra le Famiglie delle Giungle della Pioggia qualsiasi giovane Khuprus sarebbe stato una buona preda. Solo una volta avevano tentato di combinare un matrimonio per lui. Il suo rifiuto adamantino era stato socialmente imbarazzante. C'erano state anche alcune offerte da parte di famiglie di Mercanti di Borgomago, ma Reyn le aveva sdegnate. No, 'sdegnate' era una parola troppo forte: non le aveva neanche notate. Forse Malta Vestrit poteva sal-
vare suo figlio da quella ossessione. Sorrise girandosi verso Reyn mentre lo conduceva fuori dalla stanza. «Lo confesso, questa donna-bambina mi affascina. La famiglia parla di lei in un modo e tu in un altro, completamente diverso... Non vedo l'ora di incontrarla.» «Spero che accadrà presto. Intendo invitare lei e la sua famiglia a visitarci, madre. Se ti fa piacere, certo.» «Sai che non ho obiezioni. La famiglia Vestrit è stimata fra i Mercanti delle Giungle della Pioggia, nonostante la loro decisione di astenersi dal commercio con noi. Con l'alleanza delle nostre famiglie nel matrimonio, ciò avrà senza dubbio fine. Hanno il veliero vivente necessario per viaggiare sul Fiume delle Giungle della Pioggia... e Vivacia apparterrà a loro, priva di oneri, una volta celebrato il matrimonio. Tu e Malta avete di fronte una prospettiva di ricchezza.» «Ricchezza.» Reyn pronunciò la parola con una sfumatura di divertimento. «Malta e io abbiamo prospettive molto migliori della semplice ricchezza. Questo, madre, te lo assicuro.» Arrivarono a un bivio. Jani fece una pausa. «Andrai al corridoio ovest e aprirai la nuova porta.» Non era esattamente una domanda. «D'accordo» rispose Reyn, quasi assente. «Bene. Quando hai finito, vieni da me nel mio studio. Ti preparerò una selezione di regali appropriati da cui potrai scegliere. Devo far venire i sarti con le stoffe più nuove?» «Sì. Certo.» Reyn aggrottò le sopracciglia in un pensiero distratto. «Madre, hai promesso che non avrei fatto girare la testa di Malta con regali costosi. Mi è permesso portare semplici pensieri che qualsiasi giovane può offrire a una fanciulla? Frutta e fiori e dolci?» «Non vedo come potrebbero obiettare.» «Bene.» Reyn annuì fra sé. «Potresti farmi preparare un cesto per ogni giorno della mia visita?» Sorrise assente. «I canestri potrebbero essere decorati con nastri e morbide sciarpe a brillanti colori. E una bottiglia o due di vino eccellente in ognuno... Non penso che sarebbe eccessivo.» Sua madre sorrise ironica. «Meglio procedere con cautela, figlio mio. Ronica Vestrit ti dirà chiaramente se oltrepassi i confini che ha stabilito. Non penso che dovresti impegnarti per contrastarla.» Reyn si stava già allontanando. Gettò uno sguardo indietro, un rapido bagliore di rame. «Non mi impegnerò per contrastarla, madre. Né mi impegnerò per evitarlo.» Continuò ad allontanarsi mentre parlava. «Sposerò
Malta. Prima si abituano a me, più facile sarà per tutti.» Dietro di lui, nel buio, Jani incrociò le braccia. Si vedeva che non aveva mai incontrato Ronica Vestrit. Un bagliore di divertimento le accese gli occhi. Forse il suo testardo figlio avrebbe trovato una sua pari nella Mercante di Borgomago. Reyn si fermò. «Hai mandato un piccione per dire a Sterb del mio corteggiamento?» Jani annuì, lieta che lo avesse chiesto. Reyn non andava sempre d'accordo con il suo patrigno. «Ti fa gli auguri. La piccola Kys riferisce che non devi sposarti fino all'inverno, quando loro torneranno a Trehaug. E Mando dice che gli devi una bottiglia del brandy di Durja. Una qualche scommessa che hai fatto tempo fa, dicendo che i tuoi fratelli si sarebbero sposati prima di te.» Reyn si stava già avviando a lunghi passi. «Una scommessa che sarò lieto di perdere» esclamò girando la testa. Jani sorrise. 4 Legami Le mani di Brig posavano sui raggi del timone di Vivacia con fluida competenza. Il pirata aveva l'espressione distante di un uomo che sentiva la nave come una proiezione ingigantita del proprio corpo. Wintrow si fermò un momento a valutarlo prima di avvicinarsi. Era giovane, non aveva più di venticinque anni. I capelli castani erano stretti sotto un fazzoletto giallo contrassegnato con l'insegna del Corvo. Aveva gli occhi grigi, e al vecchio tatuaggio da schiavo sul viso era stato sovrapposto punto per punto un corvo blu scuro che lo nascondeva quasi del tutto. Nonostante la giovane età, Brig aveva un'aria decisa che faceva scattare ai suoi ordini anche gli uomini più anziani. Kennit aveva scelto bene affidandogli la Vivacia fino alla sua guarigione. Wintrow trasse un profondo respiro. Gli si avvicinò con rispetto ma anche dignità. Aveva bisogno che Brig lo accettasse come un uomo adulto. Attese finché gli occhi del pirata non si rivolsero ai suoi. Brig lo guardò in silenzio. Wintrow parlò con voce sommessa ma limpida. «Ho bisogno di farti alcune domande.» «Ah sì?» lo sfidò Brig. I suoi occhi guizzarono verso la vedetta in coffa. «Sì» rispose Wintrow con fermezza. «La gamba del tuo capitano non
migliora. Quanto manca a Gola del Toro?» «Un giorno e mezzo» rispose Brig dopo una breve riflessione. «Forse due.» La sua espressione non parve mutare. Wintrow annuì fra sé. «Penso che possiamo aspettare. Vorrei procurarmi attrezzature adatte prima di tentare l'operazione. Spero che le troveremo là. Nel frattempo potrei mantenerlo più in forze se avessi scorte migliori. Quando gli schiavi si sono ribellati hanno saccheggiato gran parte della nave. La cassa delle medicine manca da allora. Adesso mi sarebbe molto utile.» «Nessuno ha confessato di averla presa?» Wintrow diede una piccola alzata di spalle. «Ho chiesto, ma nessuno ha risposto. Molti degli schiavi liberati sono riluttanti a parlarmi. Penso che Sa'Adar li stia aizzando contro di me.» Esitò. Sembrava autocommiserazione. Non avrebbe guadagnato il rispetto di Brig con le lamentele. Più prudentemente proseguì: «Forse non si rendono conto di quello che hanno. O magari nella confusione dell'uragano e della rivolta qualcuno l'ha presa e poi accantonata, ed è finita fuori bordo.» Wintrow trasse un respiro e tornò al suo intento. «Il contenuto potrebbe aiutare il capitano.» Brig gli lanciò un rapido sguardo. Parve indifferente, poi tuonò all'improvviso: «Caj!» Wintrow si preparò a essere afferrato e cacciato via. Invece, quando apparve l'altro pirata, Brig gli ordinò: «Perquisisci ogni uomo a bordo. La cassa delle medicine non si trova. Se ce l'ha qualcuno, voglio che salti fuori. Come minimo voglio sapere chi l'ha toccata per ultimo. Vai.» «Sissignore» rispose Caj, e corse via. Quando Wintrow non se ne andò, Brig sospirò attraverso il naso. «C'è altro?» «Mio padre è...» «Nave in vista!» gridò all'improvviso la vedetta. Un istante più tardi chiamò: «Galea di Chalced, ma innalza la bandiera della Pattuglia del Satrapo. Si avvicinano in fretta con remi e vele. Dovevano essere in agguato in quell'insenatura.» «Maledizione» sputò Brig. «Lo ha fatto! Quel figlio di puttana ha chiamato i mercenari di Chalced. Liberate i ponti!» ruggì all'improvviso. «Solo l'equipaggio di manovra! Tutti gli altri sotto coperta, fuori dai piedi. Issate più vela!» Wintrow scattò di corsa verso la polena. Scansò agilmente i marinai. La tolda divenne frenetica come un formicaio disturbato. Davanti a loro la
Marietta stava virando in una direzione mentre Vivacia si inclinava nell'altra. Wintrow guadagnò il ponte di prua e si aggrappò alla murata. Dietro di sé udì grida lontane. La nave di Chalced li chiamava. Brig non si curò di rispondere. «Non capisco!» gli gridò Vivacia. «Perché le navi da guerra di Chalced innalzano i colori del Satrapo?» «L'ho sentito dire a Jamaillia. Il Satrapo Cosgo ha ingaggiato gente di Chalced per pattugliare il Passaggio Interno. Dovrebbero spazzar via i pirati, ma questo non spiega perché ci inseguono. Un momento!» Spiccò un balzo verso il sartiame, arrampicandosi fino a vedere meglio cosa stava succedendo. La nave di Chalced che li inseguiva era costruita per la guerra, non per il commercio. Oltre alla vela, due banchi di schiavi manovravano i remi. Era lunga e snella e i ponti brulicavano di soldati. La luce del sole primaverile brillava su elmi e spade. La bandiera del Satrapo con le bianche guglie di Jamaillia in campo azzurro sembrava incongrua sopra la vela rosso sangue della galea. «Invia le loro navi da guerra nelle nostre acque?» Vivacia era incredula. «È pazzo? La gente di Chalced non ha onore. È come mettere un ladro a proteggere una bottega.» Gettò indietro uno sguardo timoroso. «Ci inseguono?» «Sì» disse laconico Wintrow. Il cuore gli rimbombava in petto. Cosa sperare? Che le due navi se la cavassero senza colpo ferire, o che la nave pattuglia di Chalced li catturasse? I pirati non avrebbero ceduto la Vivacia senza lottare. Ci sarebbe stato un altro spargimento di sangue. Se la nave di Chalced aveva la meglio, avrebbero restituito Vivacia ai suoi legittimi proprietari? Forse. Wintrow sospettava che avrebbero portato la nave a Jamaillia in attesa della decisione del Satrapo. Gli schiavi accalcati sotto coperta sarebbero stati di nuovo schiavi, e lo sapevano. Avrebbero lottato. Superavano in numero i soldati che potevano essere a bordo della nave di Chalced, ma erano disarmati e inesperti. Wintrow decise che sarebbe stata una strage. Quindi... Doveva esortare Vivacia a fuggire o a indugiare? Prima che potesse anche solo esprimere la sua incertezza, la decisione gli fu tolta dalle mani. Il vascello più piccolo e slanciato, spinto dai rematori oltre che dal vento, guadagnava terreno. Per la prima volta Wintrow notò il crudele ariete da guerra a prua della galea. Un nugolo di frecce si levò dalla sua tolda. Il ragazzo gridò un avvertimento senza parole a Vivacia. Alcune frecce che
volarono verso la nave erano in fiamme. La prima scarica non raggiunse il veliero, ma fece capire le intenzioni dell'altro vascello. In uno sfoggio di audacia e arte marinara la Marietta sbandò all'improvviso, cambiando rotta in un arco che l'avrebbe portata dietro a Vivacia e proprio davanti alla prua della nave di Chalced. Wintrow pensò di scorgere il pirata Sorcor sulla tolda, che esortava i suoi uomini ad aumentare gli sforzi. La bandiera del Corvo sbocciò all'improvviso, una provocazione per la gente di Chalced. Per un momento Wintrow dovette riflettere. Che genere di capitano era quel pirata Kennit, per saper suscitare una tale lealtà nei suoi uomini? L'evidente intenzione di Sorcor era di attirare gli inseguitori su di sé, distogliendoli dal capitano. Dalla sua posizione elevata, Wintrow vide la Marietta ondeggiare all'improvviso mentre le catapulte sulla tolda scagliavano una raffica di zavorra verso la nave pattuglia. Alcuni lanci furono corti, alzando bianchi spruzzi d'acqua dalle onde, ma una quantità apprezzabile di pietre piombò sui ponti della galea. Seminò il caos fra i rematori. Il costante battere dei remi parve all'improvviso l'annaspare frenetico di un millepiedi. La distanza tra la nave pattuglia e Vivacia aumentò con rapida costanza. La Marietta non sembrava cercare lo scontro. Avendo fatto il danno, ora stava aumentando le vele per fuggire. Quando la galea ritrovò il ritmo dei remi si gettò all'inseguimento. Wintrow si sporse per guardare, ma il timoniere stava portando Vivacia al riparo di un'isola. La vista era bloccata. All'improvviso il ragazzo capì il trucco. La Vivacia sarebbe sparita in fretta mentre la Marietta allontanava l'inseguitore. Scese e balzò con leggerezza sul ponte. «Bene, è stato interessante» commentò ironico a Vivacia. Ma la nave era distratta. «Kennit» rispose. «Kennit cosa?» «Ragazzo!» La voce brusca della donna venne da dietro di lui. Wintrow si girò e vide Etta che lo folgorava con lo sguardo. «Il capitano ti vuole. Ora.» Il tono era perentorio, ma non guardava lui. Il suo sguardo catturò quello di Vivacia. Il viso della polena si fece all'improvviso impassibile. «Wintrow, aspetta» gli ordinò in un sussurro. Poi alzò la voce per parlare alla donna pirata. «Si chiama Wintrow Vestrit» fece notare a Etta con disdegno aristocratico. «Non chiamarlo 'ragazzo'.» Poi spostò gli occhi su Wintrow. Gli sorrise benigna e osservò cortesemente: «Sento che il capitano Kennit ti manda a chiamare. Vuoi per favore andare da lui, Wintrow?»
«Subito» le promise lui. Mentre si allontanava, si chiese che cosa avesse voluto dimostrare Vivacia. Non commise l'errore di pensare che lo difendesse da Etta. No. Quello scambio riguardava la lotta per la supremazia tra le due donne. A suo modo Vivacia aveva affermato che Wintrow era il suo territorio, e che si aspettava che Etta lo rispettasse. Allo stesso tempo si era divertita a rivelare alla donna di essere consapevole di quello che succedeva nella cabina del capitano. Dal fremito di rabbia sul volto di Etta, Wintrow dedusse che lei non si era divertita affatto. Gettò di nuovo uno sguardo indietro verso le due donne. Etta non si era mossa. Wintrow non udiva nulla, ma forse parlavano sottovoce. Fu di nuovo colpito dall'aspetto singolare della donna pirata. Era alta, con lunghe membra scarne. Portava con disinvoltura la camicia di seta e il corpetto e i pantaloni di broccato, come semplici indumenti di cotone. I lucenti capelli neri erano tagliati corti: non giungevano neppure alle spalle. Non offriva né rotondità né morbidezza che suggerissero la femminilità. Gli occhi scuri erano pericolosi e ferini. Da quello che Wintrow aveva visto di lei, era selvaggiamente temprata, inesorabile come un gatto. In lei non aveva visto un solo segno di tenerezza. Eppure tutti quei tratti si contraddicevano, combinandosi per renderla poderosamente femminile. Wintrow non aveva mai avvertito un tale potere in una donna. Si chiese se Vivacia avrebbe vinto il suo scontro di volontà con Etta. Kennit lo stava chiamando davvero, non ad alta voce ma con un'intensità senza fiato. Wintrow entrò subito senza bussare. Il pirata alto e magro era disteso sul letto, ma non c'era niente di riposante nel suo atteggiamento. Le mani afferravano le lenzuola con le nocche sbiancate, come una donna in travaglio. La testa era gettata indietro sui cuscini scomposti. I muscoli scoperti del torace erano contratti e in rilievo. La bocca aperta ingoiava spasmodicamente l'aria; il torace si sollevava e si abbassava per lo sforzo. I capelli scuri e la camicia aperta erano fradici. L'odore aspro del sudore riempiva la cabina. «Wintrow?» ansimò di nuovo Kennit, mentre il ragazzo si avvicinava al letto. «Sono qui.» D'istinto, afferrò la mano callosa del pirata. Kennit strinse la sua in una presa così violenta che il ragazzo si trattenne appena dal gridare. Invece strinse a sua volta, pizzicando forte di proposito la carne tra il pollice e l'indice del pirata. Con l'altra mano prese il polso di Kennit. Cercò le pulsazioni, ma il braccialetto dell'uomo lo intralciava. Si accontentò di spostare la mano all'avambraccio. Cominciò a stringere e allentare la presa
in un ritmo lento e tranquillizzante, continuando a pizzicare la mano di Kennit in un modo che doveva diminuire il dolore. Osò sedersi sul bordo del letto, piegandosi sul pirata fino a incontrare gli occhi dell'uomo tormentato. «Guardatemi» gli disse. «Respirate con me. Così.» Trasse un lento respiro corroborante, lo trattenne per qualche momento e poi lo rilasciò con lentezza. Kennit fece un debole sforzo per imitarlo. Il suo respiro era ancora troppo lieve e rapido, ma Wintrow lo incoraggiò con un cenno del capo. «Proprio così. Va bene. Prendete il controllo del vostro corpo. Il dolore è solo uno strumento del corpo. Potete dominarlo.» Fissò lo sguardo in quello del pirata. Con ogni respiro esalò fiducia e sicurezza rassicurante, affinché Kennit potesse assorbirle. Si concentrò all'interno di sé stesso, trovando un centro che toccava il suo cuore ed entrambi i polmoni. Lasciò che la vista si sfuocasse, attirando lo sguardo di Kennit più a fondo nel proprio per condividere la sua calma con lui. Tentò di assorbire il dolore del capitano con lo sguardo e disperderlo nell'aria tra loro. I semplici esercizi riportarono la sua mente al monastero. Tentò di assorbire la pace da quei ricordi, di aggiungere la loro forza a quello che stava tentando di compiere. Invece si sentì all'improvviso un ciarlatano. Cosa ci faceva lì? Imitava quello che aveva visto fare al vecchio Sa'Parte con i malati sofferenti? Cercava di far credere a Kennit che davvero era un sacerdote-guaritore, invece di un adepto in vesti brune? Non aveva l'addestramento completo per alleviare semplicemente il dolore, figurarsi per rimuovere una gamba malata. Tentò di dirsi che stava solo facendo del suo meglio per aiutare Kennit. Si chiese se era onesto con sé stesso; forse stava solo cercando di salvarsi la pelle. La presa di Kennit sulla sua mano si allentò a poco a poco. Parte della tensione abbandonò il collo del pirata, e la testa ricadde di nuovo sui cuscini umidi. Il respiro si fece più lento: il respiro faticoso di un uomo che combatte con lo sfinimento. Wintrow continuò a tenergli la mano. Sa'Parte aveva parlato di una tecnica per dare forza al sofferente, ma la conoscenza di Wintrow non arrivava fin lì. Si era aspettato di essere un artista per Sa, non un guaritore. Eppure, mentre stringeva la mano sudata di Kennit fra le sue, aprì il cuore a Sa e implorò che il padre di tutti intervenisse. Pregò che la sua misericordia fornisse quello che mancava alla conoscenza di Wintrow. «Non posso andare avanti così.» Pronunciate da un altro uomo, quelle parole sarebbero sembrate pateti-
che o imploranti. Kennit le disse come la semplice constatazione di un fatto. Il dolore stava calando, o forse la sua abilità di reagire era esaurita. Chiuse gli occhi scuri e Wintrow si sentì all'improvviso isolato. Kennit parlò con sommessa limpidezza. «Devi tagliare. Oggi. Al più presto. Adesso.» Wintrow scosse la testa, poi espresse ad alta voce il suo rifiuto. «Non posso. Non ho neanche la metà di quello che mi serve. Brig dice che Gola del Toro dista solo un giorno o due. Dovremmo aspettare.» Gli occhi di Kennit si aprirono di scatto. «Io so che non posso aspettare» disse brusco. «Se è solo il dolore, forse un poco di rum...» cominciò Wintrow. Le parole di Kennit si sovrapposero alle sue. «Il dolore è brutto, sì. Ma adesso la mia nave e il mio comando soffrono di più. Hanno mandato un mozzo a dirmi della nave pattuglia. Mi sono alzato... Sono caduto. Sono crollato proprio davanti al ragazzo. Dovevo essere sulla tolda non appena la vedetta ha scorto quella vela. Dovevamo virare e tagliare la gola a ogni maiale di Chalced a bordo di quella galea. Invece siamo fuggiti. Ho lasciato Brig al comando, e siamo fuggiti. Sorcor ha dovuto combattere la mia battaglia. In più, tutti a bordo lo sanno. Ogni schiavo a bordo di questa nave ha la lingua. Non importa dove li sbarco, ciascuno spargerà la notizia che il capitano Kennit è scappato davanti alla nave pattuglia del Satrapo. Non posso permetterlo.» Con voce meditabonda osservò: «Potrei affogarli tutti.» Wintrow ascoltò in silenzio. Quello non era il pirata affabile che aveva corteggiato la nave con parole enfatiche, né il controllato capitano. Quello era l'uomo dietro la facciata, esposto dal dolore e dallo sfinimento. Wintrow si rese conto della propria vulnerabilità. Kennit non avrebbe permesso a nessuno di vederlo come era davvero e sopravvivere. Ora sembrava inconsapevole di quanto stesse rivelando. Il ragazzo si sentì come il topo inchiodato dallo sguardo del serpente. Finché non si muoveva aveva una possibilità di rimanere inosservato. La mano del pirata divenne molle nella sua stretta. Kennit girò la testa sul cuscino e i suoi occhi cominciarono a chiudersi. Proprio quando Wintrow iniziava a sperare che avrebbe potuto fuggire, la porta della cabina si aprì. Etta entrò e si guardò intorno. «Cosa gli hai fatto?» chiese portandosi al lato del letto di Kennit. «Perché è così immobile?» Wintrow si mise un dito sulle labbra. Etta aggrottò le sopracciglia, ma
annuì. Con uno scatto del capo indicò l'angolo più lontano della stanza. Sebbene avvertisse la disapprovazione della donna, Wintrow obbedì con calma, appoggiando con gentilezza la mano del pirata sulla trapunta e scivolando lentamente dal letto in modo che nessun movimento disturbasse Kennit. Tutto inutile. Quando Wintrow si allontanò, il pirata disse: «Mi taglierai la gamba oggi.» Etta emise un ansito inorridito. Wintrow si girò di nuovo con lentezza. Kennit non aveva aperto gli occhi, ma alzò una mano dalle lunghe dita e lo indicò senza fallo. «Raduna quello che hai, attrezzi e il resto, e mettiti al lavoro. Faremo a meno di quello che non abbiamo. Voglio farla finita. In un modo o nell'altro.» «Sì, signore» concordò Wintrow. Cambiò rotta, affrettandosi verso la porta. Altrettanto rapida, Etta si mosse per intercettarlo. Il ragazzo si trovò a guardare in occhi scuri e spietati come quelli di un falco. Raddrizzò le spalle per uno scontro. Invece scorse una specie di sollievo sul viso di lei. «Fammi sapere come posso aiutarti» disse Etta semplicemente. Wintrow annuì in fretta, troppo sconvolto per rispondere, e scivolò accanto a lei e fuori dalla porta. Dopo alcuni passi sulla scaletta si arrestò. Si appoggiò all'improvviso contro il muro e permise al tremito di impadronirsi del suo corpo. L'audacia del patto che aveva stretto con il pirata lo sopraffece. Le sue parole spavalde si erano trasformate in un compito sanguinoso. Aveva promesso di affondare un coltello nel corpo di Kennit, di tagliare la sua carne e segare l'osso e staccare il pezzo di gamba. Scosse la testa prima che l'enormità della situazione lo atterrisse. «Si può solo andare avanti» si consigliò, e corse a cercare Brig, pregando che la cassa delle medicine fosse stata ritrovata. Il capitano Finney mise giù il boccale, si leccò le labbra e sogghignò a Brashen. «Sei bravo. Lo sai?» «Suppongo di sì.» Brashen accettò il complimento con riluttanza. Il contrabbandiere emise una risata gutturale. «Ma non vuoi essere bravo in questo lavoro, vero?» Brashen scrollò di nuovo le spalle. Il capitano Finney imitò il suo gesto e scoppiò in una risata rauca. Era un uomo muscoloso dalla faccia pelosa. Gli occhi erano brillanti come quelli di un furetto sopra il naso venato di rosso. Con le sue manacce fece girare il boccale sulla tavola macchiata di anelli d'umidità, poi evidentemente decise che quel pomeriggio aveva be-
vuto abbastanza birra. Allontanando il boccale tese la mano verso il contenitore di cindin. Svitò il tappo di vetro filigranato dalla scatola di legno scuro. La girò su un lato e la scrollò. Diversi grassi bastoncini di droga apparvero alla vista. Finney ne ruppe un generoso pezzo e poi tese il vaso a Brashen. Questi scosse la testa in silenzio, poi si batté significativamente il dito sul labbro inferiore dove una piccola presa di cindin bruciava ancora piacevolmente. Ricca, nera e catramosa, emanava una sottile sensazione di benessere in tutte le sue ossa. Brashen era ancora abbastanza lucido da sapere che nessuno corrompeva e adulava se non voleva qualcosa. Si chiese confusamente se avrebbe avuto abbastanza forza di volontà per opporsi a Finney, se necessario. «Sicuro che non ne vuoi un pezzo fresco?» «No. Grazie.» «No, non vuoi essere bravo in questo mestiere» proseguì Finney come se non si fosse mai interrotto. Si inclinò pesantemente sulla sedia e trasse un lungo respiro attraverso la bocca aperta per accelerare l'effetto del cindin, poi lo emise con lentezza. Per un momento tutto fu silenzioso tranne l'urto delle onde contro lo scafo della Vigilia di Primavera. L'equipaggio era a terra, per riempire barili d'acqua a una fonte indicata da Finney. Brashen sapeva che come primo ufficiale avrebbe dovuto sorvegliare l'operazione, ma il capitano lo aveva invitato nella sua cabina. Brashen aveva temuto che Finney avesse da criticarlo. Invece ne era venuta fuori una bevuta con contorno di cindin, a mezzogiorno, e durante il suo turno. Vergognati, Brashen Trell, pensò, e sorrise amaramente. Cosa direbbe adesso di te il capitano Vestrit? Alzò di nuovo il boccale. «Vuoi tornare a Borgomago, vero?» Finney inclinò la testa e puntò un dito verso Brashen. «Se potessi, è quello che faresti. Per riprendere dove hai interrotto. Là eri qualcuno. Cerchi di negarlo, ma ce l'hai scritto in faccia. Non sei nato in un porto.» «Non credo che importi dove sono nato. Ora sono qui.» Brashen rise. Il cindin si stava impadronendo di lui. Sogghignò, imitando il sorriso sulla faccia di Finney. Il capitano aveva scoperto che veniva da Borgomago; avrebbe dovuto preoccuparsi, ma pensava di poter gestire la situazione. «Proprio quello che stavo per dirti. Lo vedi? Lo vedi? Sei sveglio. Molti non accettano dove finiscono. Continuano a piangere sul passato, o a delirare del futuro. Ma quelli come noi...» Colpì rumorosamente la tavola.
«Quelli come noi sanno afferrare quello che gli viene offerto e trasformarlo in un'occasione.» «Dunque state per offrirmi qualcosa?» azzardò Brashen, fingendosi scaltro. «Non proprio. Si tratta di quello che possiamo offrirci a vicenda. Guardaci. Guarda quello che facciamo. Io faccio navigare la Vigilia di Primavera su e giù per questa costa, dentro e fuori da un sacco di paesini. Compro, vendo e non faccio troppe domande. Porto un carico di eccellenti merci di scambio, così faccio affari. Trovo roba di ottima qualità. Sai che è vero.» «È vero» riconobbe Brashen facilmente. Non era il momento di far notare le origini dei beni in cui trafficavano. La Vigilia di Primavera e Finney commerciavano in tutte le isole dei pirati, comprando il meglio della refurtiva dei pirati e rivendendolo a un intermediario in Candelaia. Di là le merci venivano trasferite come beni legittimi in altri porti. Brashen non ne sapeva molto di più e in effetti non se ne curava. Era primo ufficiale sulla Vigilia di Primavera. In cambio, e per agire ogni tanto da guardia del corpo, aveva una stanza, un letto, qualche soldo e cindin di ottima qualità. Un uomo non aveva bisogno di molto altro. «La roba migliore» insisté Finney. «Roba dannatamente buona. E corriamo tutti i rischi per trovarla. Noi. Tu e io. Poi la riportiamo a Candelaia, e là cosa troviamo?» «I soldi?» «Un'inezia. Portiamo un maiale grasso e loro ci gettano le ossa. Ma insieme, Brashen, tu e io potremmo fare di meglio.» «E come?» Brashen cominciava a innervosirsi. Finney aveva interessi nella Vigilia di Primavera, ma non era il proprietario. Brashen non voleva avere niente a che fare con la vera pirateria. Aveva già fatto la sua parte in gioventù. Se ne era riempito la pancia. No. Quel commercio in beni rubati era già abbastanza vicino alla pirateria. Forse non era più il rispettabile primo ufficiale del veliero vivente Vivacia; non era neanche più l'operoso secondo ufficiale di una nave da macello come la Mietitrice, ma non era caduto così in basso da ridursi alla pirateria. «Hai la faccia giusta, come ho detto. Sei di una famiglia di Mercanti, vero? Probabilmente un figlio cadetto o qualcosa di simile, ma avresti agganci a Borgomago, se volessi usarli. Portiamo lassù un buon carico, tu ci metti in contatto, e scambiamo merce di primissima qualità per un po' di quella roba magica dei Mercanti. Campane che cantano e gemme profumate e tutto il resto.»
«No.» Brashen udì troppo tardi quanto era brusca la replica. La ammorbidì in fretta. «È una buona idea, un'idea brillante, tranne una cosa. Non ho nessun contatto.» In uno slancio di generosità probabilmente causato dal cindin, regalò a Finney la verità. «Avete ragione, vengo da una famiglia di Mercanti. Ma ho rovinato tutto molto tempo fa, e la mia famiglia ha tagliato i ponti. Non otterrei un bicchier d'acqua se implorassi alla porta del mio pa', non parliamo di procurarvi un accordo. Per quello che mio padre pensa di me, non mi piscerebbe addosso se andassi a fuoco.» Finney sghignazzò e Brashen gli rispose con un sorriso storto. Si chiese perché ne avesse parlato, e addirittura perché ci avesse scherzato sopra. Meglio di una sbronza triste, suppose. Guardò Finney ricomporsi, ridere di nuovo e bere un altro sorso di birra. Si chiese se l'uomo più anziano avesse ancora un padre da qualche parte. Forse aveva perfino moglie e figli. Brashen non sapeva quasi nulla di lui. Meglio così. Se avesse avuto un'oncia di buonsenso si sarebbe alzato, avrebbe detto che doveva controllare l'equipaggio e se ne sarebbe andato prima di rivelare a Finney altre cose su sé stesso. Invece sputò i resti bagnati del cindin nel secchio sotto il tavolo e tese la mano verso il contenitore. Finney sogghignò mentre Brashen staccava un'altra presa dallo stecco. «Non deve essere per forza tuo padre. Un uomo come te ha amici, vecchi amici, eh? O magari conosci qualcuno con un'attitudine per questo genere di affari, hai sentito dicerie su di lui. In ogni città ci sono alcuni che non avrebbero problemi ad aggiungere qualche soldo alla borsa, zitti zitti. Potremmo andare là un paio di volte all'anno con il nostro miglior carico, invece di portarlo ai soliti acquirenti. Non molto, ma della qualità più eccellente. E chiederemmo in cambio la stessa cosa. Con discrezione. Lo sapremmo solo io e te.» Brashen annuì a sé stesso, più che a Finney. Sì. L'uomo progettava di aggirare il suo compare, fare qualche soldo in più per sé. Alla faccia dell'onore fra i ladri. Stava offrendogli silenziosamente una fetta dell'affare, se Brashen lo aiutava a trovare le fonti. Era un colpo basso. Come poteva Finney guardarlo e credere che fosse quel genere di uomo? Per quanto tempo avrebbe potuto fingere che non lo era? A che serviva, ormai? «Ci penserò» gli disse Brashen. «Pensaci» ghignò Finney. Nel tardo pomeriggio Wintrow si accovacciò sul ponte di prua accanto a
Kennit. «Sollevatelo piano dalla coperta» ordinò agli uomini che lo avevano portato lì. «Voglio che sia disteso sul tavolato del ponte, con il meno possibile fra lui e il legno magico.» Etta era poco lontano, a braccia conserte, in apparenza impassibile. Non guardava Vivacia. Wintrow tentò di non fissarla. Si chiese se qualcun altro notava i pugni stretti e la mascella contratta della donna. Si era opposta alla sua decisione di eseguire l'operazione lì sulla tolda. Avrebbe voluto la riservatezza di una cabina attorno a quella triste e sporca necessità. Wintrow l'aveva condotta a prua e le aveva mostrato la propria impronta insanguinata sul ponte. Le aveva promesso che Vivacia poteva aiutare Kennit a sopportare il dolore, come aveva fatto con lui quando gli avevano tagliato il dito. Etta finalmente si era arresa. Né lui né Vivacia erano sicuri di quanto la nave potesse contribuire, ma poiché erano ancora privi della cassa delle medicine, qualsiasi cosa sarebbe stata utile. La nave era ancorata in una piccola baia anonima di un'isola non segnata sulle carte geografiche. Wintrow era andato da Brig a chiedere ancora una volta dov'era la cassa delle medicine e quanto mancava a Gola del Toro. Entrambe le risposte lo avevano deluso. Le scorte mediche non erano state trovate, e senza la Marietta a guidarlo Brig non sapeva come tornare a Gola del Toro. La risposta aveva scoraggiato Wintrow ma non lo aveva sconvolto. Il comando temporaneo della Vivacia era un passo da gigante per Brig. Solo alcuni giorni prima era stato un comune marinaio. Non sapeva orientarsi o leggere le mappe. Intendeva trovare un luogo sicuro per gettare l'ancora, e aspettare che la Marietta li raggiungesse o Kennit stesse abbastanza bene da guidarlo. Quando Wintrow aveva chiesto incredulo se si erano del tutto persi, Brig aveva risposto che un uomo poteva sapere dov'era, ma non conoscere una rotta sicura verso un altro posto. La rabbia crepitante nella voce del giovane marinaio aveva avvertito il ragazzo di stare zitto. Non aveva senso far sapere agli ex schiavi della situazione. Era un'opportunità troppo grande per Sa'Adar. Anche ora il sacerdote errante indugiava ai margini del gruppo. Non aveva offerto aiuto e Wintrow non glielo aveva chiesto. In genere i sacerdoti erranti erano giudici e diplomatici piuttosto che guaritori o studiosi. Wintrow aveva sempre rispettato la cultura e perfino la saggezza di quell'ordine, ma il diritto di un uomo di giudicare un altro lo aveva sempre inquietato. Adesso sentirsi lui stesso sotto esame non lo aiutava. Ogni volta che avvertiva lo sguardo di Sa'Adar, sentiva la gelida consapevolezza
che l'uomo lo trovava indegno. A braccia conserte, affiancato da due faccia-di-mappa, il sacerdote parlava quietamente. Wintrow lo lasciò perdere. Se Sa'Adar non lo aiutava, lui non si sarebbe lasciato distrarre. Si alzò e camminò fino alla prua della nave. Vivacia girò la testa e lo guardò con ansia. «Farò del mio meglio» disse prima che Wintrow potesse chiedere. «Ma ricorda, non abbiamo un legame di sangue con lui; non è della nostra famiglia. Né è stato a bordo abbastanza a lungo perché potessi familiarizzare con lui.» Abbassò gli occhi. «Non sarò di grande aiuto.» Wintrow si piegò verso di lei per toccarle un palmo. «Dammi la tua forza, allora, e servirà a molto» la confortò. Le mani si incontrarono, confermando e aumentando lo strano legame fra loro. Wintrow trasse davvero forza da lei. Mentre se ne accorgeva, vide un sorriso albeggiare in risposta sul volto di Vivacia. Non era un'espressione di felicità, neanche un segnale che ora tutto andava bene tra loro, ma un segno di determinazione condivisa. Qualsiasi altra cosa li avesse minacciati, qualsiasi dubbio reciproco nutrissero, avrebbero affrontato insieme quella crisi. Wintrow alzò il viso al vento marino e pregò che Sa li guidasse. Si rivolse di nuovo al suo compito. Mentre traeva un respiro profondo, sentì che Vivacia era con lui. Kennit giaceva abbandonato sulla tolda. Anche a distanza Wintrow sentiva l'odore del brandy. Etta si era seduta accanto al pirata e con pazienza lo aveva convinto a bere ben oltre il suo desiderio. L'uomo reggeva bene l'alcol. Era ubriaco, ma non insensibile. Etta aveva anche scelto chi lo avrebbe immobilizzato. Con grande sorpresa di Wintrow, tre di loro erano ex schiavi. Uno era perfino un faccia-di-mappa non più giovane. Sembravano a disagio ma decisi, in piedi fra gli spettatori a bocca aperta. Quella era la prima cosa di cui Wintrow doveva occuparsi. Parlò con calma ma chiaramente. «Solo quelli che sono stati chiamati dovrebbero essere qui. Voialtri, andatevene e lasciatemi spazio.» Non aspettò di vedere se gli obbedivano. Guardarli mentre ignoravano il comando sarebbe stata solo un'ulteriore umiliazione. Era sicuro che in tal caso Etta sarebbe intervenuta. Si inginocchiò accanto a Kennit. Era difficile lavorare con lui disteso sul ponte, ma Wintrow sentiva che con l'aiuto di Vivacia ne sarebbe valsa la pena. Guardò la manciata di strumenti che aveva radunato, disposti in fila ordinata su un pezzo di vela pulita accanto al suo paziente. Era un vasto assortimento di attrezzatura improvvisata. I coltelli, appena affilati, venivano
dalle scorte del cuoco. C'erano due seghe dalla cassa del falegname. C'erano aghi per le vele, grandi e rozzi, e altri da cucito che appartenevano a Etta. Lei aveva fornito bende accuratamente strappate, di lino e seta. Era ridicolo che non fosse riuscito a procurarsi strumenti migliori. Quasi ogni marinaio a bordo aveva avuto aghi e attrezzi personali. Tutte le proprietà dei marinai massacrati erano scomparse. Era sicuro che gli schiavi le avessero prese quando avevano catturato la nave. Il fatto che nessuno di loro le avesse consegnate dimostrava il loro risentimento verso Kennit che si era impadronito della nave. Wintrow capiva i loro sentimenti, ma questo non aiutava la sua situazione. Mentre guardava i rozzi attrezzi seppe di essere condannato a fallire. Era poco meglio che troncare la gamba dell'uomo con un'ascia. Alzò gli occhi e cercò Etta. «Mi servono attrezzi migliori» dichiarò con calma. «Non oso cominciare senza.» Etta era meditabonda, lo sguardo e i pensieri lontani. «Vorrei che avessimo l'attrezzatura della Marietta» rispose con tristezza. In quel momento incontrollato sembrò quasi giovane. Tese la mano per torcere uno dei riccioli neri di Kennit fra le dita. La tenerezza improvvisa sul suo volto mentre guardava l'uomo assopito era sorprendente. «Io vorrei che avessimo la cassa delle medicine di Vivacia» rispose Wintrow, altrettanto austero. «Era nella cabina del primo ufficiale, prima di tutto questo. Conteneva molto materiale che sarebbe stato utile, medicine e strumenti. Avrebbe potuto rendere tutto molto più facile per lui. Nessuno sembra sapere dove sia finita.» Lo sguardo di Etta si incupì e il suo volto si fece più duro. «Nessuno?» chiese fredda. «C'è sempre chi sa qualcosa. Basta chiedere nel modo giusto.» Si alzò all'improvviso. Mentre attraversava la tolda estrasse il coltello dal fodero che portava al fianco. Subito Wintrow riconobbe il suo obiettivo. Sa'Adar e le sue due guardie si erano fatti indietro ma non avevano lasciato il ponte di prua. Il sacerdote errante si girò troppo tardi per accorgersi del sopraggiungere di Etta. Il suo sguardo di disdegno si dilatò per lo sgomento quando la donna con prontezza gli passò il bordo affilato della lama sul petto. Sa'Adar inciampò all'indietro con un grido, poi guardò il davanti aperto della camicia logora. Una linea sottile lungo il torace peloso divenne rossa e si allargò mentre il sangue cominciava a colare. Le due guardie corpulente guardarono il coltello di Etta, basso e pronto. Brig e un altro pirata l'avevano già affiancata. Per un istante nessuno parlò o si mos-
se. Wintrow poteva quasi udire Sa'Adar che soppesava le sue scelte. La ferita era un solco poco profondo sulla pelle, molto doloroso ma non letale. Etta avrebbe potuto sbudellarlo sul posto. Quindi, cosa voleva? Sa'Adar scelse un atteggiamento di rettitudine offesa. «Perché?» chiese teatralmente. Spalancò le braccia e mise in mostra il taglio lungo il torace. Si girò per rivolgersi agli schiavi ancora raggruppati al centro della nave, così come a Etta. «Perché mi attacchi personalmente? Cosa ho fatto, se non offrire il mio aiuto?» «Voglio la cassa delle medicine della nave» rispose lei. «La voglio subito.» «Non ce l'ho!» esclamò Sa'Adar con rabbia. La donna si mosse più veloce del graffio di un gatto. Il coltello balenò e una seconda linea di sangue incrociò la prima. Sa'Adar strinse i denti e non gridò né indietreggiò, ma Wintrow vide lo sforzo che gli costava. «Trovala» suggerì Etta. «Ti sei vantato di aver organizzato la rivolta che ha rovesciato il capitano. Ti muovi fra gli schiavi, ricordando loro che sei tu il capo e che dovrebbero seguirti. Se è vero, dovresti sapere quale dei tuoi uomini ha depredato la cabina del primo ufficiale. Hanno preso la cassa. La voglio. Ora.» Il tempo di un respiro più lungo, il quadro rimase immobile. Era passato un qualche segnale, uno sguardo impercettibile tra Sa'Adar e i suoi uomini? Wintrow non ne era sicuro. Sa'Adar cominciò a parlare, ma a Wintrow le sue parole parvero stranamente teatrali. «Avresti potuto semplicemente chiedermelo, sai. Sono un uomo umile, un sacerdote di Sa. Non cerco niente per me, solo il bene più grande dell'umanità. Questa cassa... che aspetto aveva?» I suoi occhi interrogativi caddero su Wintrow e la bocca si tese in un sorriso falso. Wintrow si costrinse a mantenere un'espressione neutrale. «Una cassa di legno. Grande più o meno così.» La misurò a gesti. «Chiusa a chiave. Recava stampata a fuoco l'immagine di Vivacia. All'interno c'erano medicine, strumenti, aghi, bende. Chiunque l'abbia aperta avrebbe capito subito cos'era.» Sa'Adar si rivolse agli uomini radunati al centro della nave. «Sentito, figli miei? Qualcuno sa di questa cassa? In tal caso, per favore, la tiri fuori subito. Non per me, certo, ma per il nostro benefattore, il capitano Kennit. Mostriamogli quanto sappiamo essere gentili con coloro che sono gentili con noi.» Era così evidente: Wintrow pensò che Etta lo avrebbe trafitto dove stava.
Invece una strana espressione paziente apparve sul viso della donna. Vicino al ginocchio di Wintrow, sul ponte, Kennit parlò molto piano. «Sa che può aspettare. Le piace uccidere con calma, e lo fa in privato.» Gli occhi di Wintrow scattarono al pirata, ma questi sembrava quasi privo di sensi. Le ciglia lunghe posavano sulle guance; il viso era rilassato. Un sorriso errante gli contrasse le labbra. Wintrow gli mise due dita lievi alla gola. Là il cuore batteva ancora saldo e forte, ma la pelle scottava di febbre. «Capitano Kennit?» Wintrow chiese piano. «È questa?» risuonò la voce di una donna. Gli schiavi liberati si fecero in disparte, e lei avanzò fra loro. Wintrow si alzò. La donna portava la cassa delle medicine. Il coperchio era stato fracassato, ma il ragazzo riconobbe il legno logoro. Non si mosse; lasciò che la donna la portasse a Etta. Che sia la sua battaglia con Sa'Adar, pensò. Lui si era già fatto abbastanza cattivo sangue con lui. Etta abbassò gli occhi e osservò la cassa aperta deposta ai suoi piedi. Non si chinò neppure per frugare nel contenuto in disordine. Alzò di nuovo gli occhi al viso di Sa'Adar ed emise un lieve suono di disprezzo. «Non mi piacciono i giochi» disse molto piano. «Ma se sono costretta a giocare, mi accerto sempre di vincere.» Il suo sguardo incontrò quello del sacerdote. Nessuno abbassò gli occhi. I piani delle guance di Etta si contrassero, mettendo in mostra i denti in un sorriso ringhioso. «Ora porta via la tua gentaglia da questa tolda. Andate sotto coperta e chiudete i portelli. Non voglio vederti né sentirti e nemmeno annusarti mentre lo operiamo. Se sei davvero saggio non attirerai mai più la mia attenzione. Capito?» Wintrow guardò Sa'Adar commettere un errore molto serio. Il sacerdote si drizzò in tutta la sua altezza, che non raggiungeva quella di Etta. La sua voce era fredda e divertita. «Devo dedurre che qui hai il comando tu, e non Brig?» Sarebbe stata una mossa abile, se ci fosse davvero stata una rivalità tra i due da sfruttare. Brig gettò indietro la testa in una gran risata sguaiata e il coltello di Etta danzò di nuovo, aggiungendo un'altra striscia al torace di Sa'Adar. Questa volta l'uomo gridò e barcollò indietro di un passo. Etta aveva morso più a fondo. Mentre il sacerdote errante si afferrava il torace viscido di sangue, lei sorrise cupamente. «Ho il comando su di te. Penso che questo sia chiaro.» Un faccia-di-mappa si fece avanti, il viso scuro di furia. Il coltello di Etta colpì, e l'uomo cadde, stringendosi il ventre. Vivacia emise un grido soffocato per il nuovo spargimento di sangue sulla sua tolda, echeggiando
le grida e gli ansiti degli schiavi liberati che assistevano alla scena. Wintrow condivise il brivido profondo di orrore che attraversò la nave per quella nuova violenza, ma non poté staccare gli occhi. Sa'Adar si riparò dietro l'altra guardia del corpo, ma anche l'ex schiavo corpulento stava ritraendosi dalla donna con il coltello. Nessuno degli altri si fece avanti a difendere il sacerdote, anzi si allontanarono da lui con un movimento quasi impercettibile. «E sia chiaro!» La voce di Etta risuonò come un martello su un'incudine. Alzò il coltello insanguinato e descrisse un arco che includeva la nave intera e ogni faccia in vista, tatuata o no. «Non ammetterò che qualcuno minacci il benessere e il conforto del capitano Kennit. Se volete evitare la mia collera non fate niente per infastidirlo.» La voce si fece più sommessa. «È davvero molto semplice. Ora via da questi ponti.» Questa volta la gente che gremiva la tolda scomparve come un risucchio d'acqua giù per uno scarico. In pochi istanti in coperta rimasero solo i pirati e i pochi schiavi scelti da Etta per trattenere Kennit. Questi la contemplavano con uno misto di rispetto e orrore. Wintrow sospettava che adesso, trasferita su di lei la loro fedeltà, l'avrebbero seguita ovunque. Rimaneva da vedere quanto sarebbe stato formidabile il nemico che si era creata in Sa'Adar. Quando Etta si avvicinò a Wintrow, i loro occhi si incontrarono. La dimostrazione con il sacerdote era stata anche a beneficio del ragazzo. Se Kennit fosse morto sotto le sue mani, la vendetta di Etta sarebbe stata furiosa, anche se non rapida. Wintrow trasse un respiro profondo mentre la donna si avvicinava con la cassa delle medicine fra le mani. La prese senza dir nulla, la depose sul ponte ed esaminò in fretta il contenuto. Qualcosa era stato rubato, ma il grosso c'era ancora. Con un gran sospiro di sollievo trovò la scorza di kwazi conservata nel brandy. Una bottiglia minuscola. Rifletté amaramente che suo padre non aveva ritenuto necessario servirsene per alleviare il suo dolore quando gli avevano amputato il dito; poi gli venne in mente che, se l'avessero usata, ora lui non ne avrebbe avuta per Kennit. Scrollò le spalle davanti ai capricci del fato e cominciò a tirar fuori gli attrezzi uno per uno. Accantonò la collezione di coltelli da cucina, sostituendoli con le lame più affilate della cassa. Selezionò una sega per ossa con l'impugnatura intagliata come un arco. Infilò in tre aghi i capelli di Kennit. Quando li dispose sulla tela i capelli neri si torsero in un riccio lento. C'era una striscia di cuoio con due anelli alle estremità, da stringere sull'arto prima di tagliare.
Era tutto. Guardò ancora per un attimo la fila di attrezzi. Poi gettò uno sguardo a Etta. «Vorrei pregare. Qualche momento di meditazione potrebbe prepararci tutti meglio.» «Mettiti al lavoro» gli ordinò lei brusca. La linea della sua bocca era piatta, e gli zigomi alti erano rigidi. «Tenetelo» rispose Wintrow. Anche la sua voce uscì con durezza. Si chiese se era pallido come lei. Il disdegno di Etta suscitò in lui una scintilla di rabbia. Tentò di riaccenderla sotto forma di determinazione. Etta si inginocchiò alla testa di Kennit ma non lo toccò. Due uomini presero la gamba buona e la bloccarono contro il ponte. C'era un altro uomo su ciascun braccio. Brig tentò di tenere la testa di Kennit, ma il capitano si contorse liberandosi dalla sua presa incerta. Alzò la testa per fissare Wintrow con occhi sbarrati. «È ora?» chiese, con voce querula e rabbiosa. «È ora?» «È ora» gli disse Wintrow. «State fermo.» A Brig ordinò: «Tienigli la testa, con forza. Mettigli i palmi sulla fronte e bloccalo sul ponte con il tuo peso. Meno si dibatte, meglio è.» Spontaneamente Kennit appoggiò la testa e chiuse gli occhi. Wintrow alzò la coperta che nascondeva il moncone. Nelle poche ore da quando lo aveva visto per l'ultima volta era peggiorato. Il gonfiore tendeva la pelle rendendola lucida. La carne aveva una tinta blu-grigiastra. Doveva cominciare subito, mentre ne aveva ancora il coraggio. Tentò di non pensare che la sua vita dipendeva dalla riuscita dell'intervento. Mentre faceva passare con cautela il laccio sotto il moncone, rifiutò di pensare al dolore di Kennit. Doveva concentrarsi sulla rapidità e su un taglio netto. Il resto era irrilevante. L'ultima volta che Wintrow aveva visto tagliare un arto, la stanza era stata calda e confortante. Candele e incenso bruciavano mentre Sa'Parte si preparava al compito con preghiere e inni. Lì l'unica preghiera era quella silenziosa di Wintrow. Fluiva dentro e fuori di lui con il respiro. Sa, abbi misericordia, dammi la tua forza. Inspirò. Misericordia. Espirò. Forza. Calmò il suo cuore rimbombante. La mente era all'improvviso più chiara, la vista più acuta. Gli ci volle un momento per comprendere che Vivacia era con lui, più intimamente che mai. Percepiva la confusa presenza di Kennit attraverso di lei. Incuriosito, esplorò quel debole legame. Gli sembrava che la nave parlasse al capitano da una grande distanza, esortandolo al coraggio e alla forza, promettendo che lo avrebbe aiutato. Wintrow provò un istante di gelosia. Perse la concentrazione.
Misericordia, forza, lo incoraggiò la nave. Misericordia, forza, rispose Wintrow in un respiro. Infilò la striscia di cuoio attraverso gli anelli e la strinse con fermezza sulla coscia di Kennit. Questi ruggì il suo tormento. Sebbene gli uomini lo tenessero, inarcò la schiena sul ponte. Si dibatté come un pesce all'amo. Le piaghe incrostate sul moncone schizzarono fluido sulle assi. Il fetore avvelenò la brezza. Etta si gettò sul petto di Kennit con un grido e cercò di tenerlo giù. Cadde un silenzio terribile quando il pirata rimase senza fiato. «Taglia, maledetto!» Etta gridò a Wintrow. «Falla finita! Adesso!» Il ragazzo rimase raggelato in ginocchio, paralizzato dal tormento di Kennit. Lo allagava come un'onda ghiacciata, traumatizzandolo, immergendolo nella sua intensità. La forza dell'esperienza dell'uomo si riversò in lui attraverso il tenue collegamento con la nave. Wintrow vi smarrì la sua identità. Riusciva solo a fissare muto la prostituta, chiedendosi perché gli stava facendo questo. Kennit trasse un respiro rauco e lo espulse in un grido. Wintrow si infranse come un vetro freddo riempito d'acqua bollente. Non era nessuno, non era nulla, e poi era Vivacia e all'improvviso di nuovo sé stesso. Cadde in avanti, i palmi piatti sul ponte, assorbendo la sua identità dal legno. Un Vestrit, era un Vestrit, non solo, era Wintrow Vestrit, il ragazzo che sarebbe dovuto essere un sacerdote... Con un brivido, Kennit giacque all'improvviso privo di sensi. Nella calma che seguì, Wintrow afferrò il suo senso di identità, vi si avvolse. In qualche luogo la preghiera continuava: Misericordia. Forza. Misericordia. Forza. Era Vivacia, che gli dava il ritmo del respiro. Wintrow riprese il controllo di sé. Etta piangeva e imprecava allo stesso tempo. Distesa sul torace di Kennit, lo tratteneva e lo abbracciava. Wintrow la ignorò. «Tenetelo» disse teso. Scelse a caso un coltello. Capì all'improvviso cosa doveva fare. Velocità. La velocità era essenziale. Un dolore come quello poteva uccidere. Se era fortunato avrebbe finito di tagliare prima che Kennit riprendesse conoscenza. Appoggiò la lama brillante sulla carne gonfia e la trasse orizzontalmente e verso il basso. Nulla lo aveva preparato per quella sensazione. Aveva aiutato con gli animali nel periodo della macellazione al monastero. Non era un compito piacevole, ma andava fatto. Era stata carne fredda e immobile, solida e irrigidita dopo essere rimasta appesa un giorno. La carne di Kennit era viva. La mollezza febbricitante cedette sotto l'orlo affilato della lama e si richiuse sopra di essa. Il sangue sgorgò nascondendo il lavoro.
Wintrow dovette afferrare la gamba di Kennit sotto il punto dove tagliava. Lì la carne era calda e le sue dita affondarono troppo facilmente. Tentò di tagliare in fretta. La carne sotto il coltello si mosse, i muscoli sussultavano e si ritiravano mentre li recideva. Il sangue sgorgava in una continua inondazione scarlatta. In un istante il manico del coltello era appiccicoso e allo stesso tempo viscido. Il sangue si accumulò sul ponte sotto la gamba di Kennit, poi si allargò inzuppando la veste di Wintrow. Il ragazzo scorse i tendini, brillanti nastri bianchi che svanivano quando il coltello li tagliava. Parve un'eternità prima che la lama incontrasse l'osso e ne fosse sconfitta. Wintrow gettò il coltello, si asciugò le mani sulla camicia e gridò: «Sega!» Qualcuno gliela cacciò in mano e lui l'afferrò. Inserirla nella ferita lo disgustava, ma lo fece. La passò sull'osso; un suono terribile, bagnato, di qualcosa che veniva macinato. Kennit riprese vita, guaendo come un cane. Picchiò la testa sul ponte e il torace sussultò malgrado il peso di quelli che lo tenevano. Wintrow si fece forza, aspettandosi di essere sopraffatto dal dolore del pirata, ma Vivacia lo trattenne. Non ebbe il tempo di chiedersi cosa le costasse assumerlo su di sé. Non ebbe neanche il tempo di esserle grato. Spinse la sega verso il basso, lavorando con rapida violenza. Il sangue schizzò sul ponte, sulle sue mani, sul petto. Ne sentì il sapore. L'osso cedette all'improvviso, e prima che Wintrow potesse fermarsi stava rozzamente segando la carne. Estrasse la sega dalla ferita appiccicosa e la gettò da parte, poi brancolò in cerca di un coltello. In qualche luogo Kennit abbaiò «Uh, uh, uh!» Un suono che andava oltre le urla. Seguì un rumore di schizzi sul pavimento. Wintrow annusò l'acidità del vomito nell'aria salmastra. «Non lasciatelo soffocare!» disse all'improvviso, ma non era Kennit che aveva vomitato, era uno degli uomini che lo tenevano fermo. Non c'era tempo. «Tienilo, maledetto!» il ragazzo si sentì imprecare. Afferrò il coltello e tagliò, fermandosi appena prima di troncare del tutto la gamba. Girò la lama ad angolo, tagliando un lembo di pelle dal moncone per poi troncare l'ultimo brandello e spingere via i resti marci dell'articolazione. Abbassò lo sguardo, nauseato dalla sua opera. Non era un pezzo di carne affettato con cura come un arrosto della festa. Era carne viva. Non più ancorati, i fasci di muscoli si afflosciavano e si contraevano irregolarmente. L'osso brillava verso di lui come un occhio accusatore. Il sangue si allargava ovunque. Wintrow seppe con assoluta certezza che aveva ucciso Kennit.
Non pensarci, lo avvertì Vivacia. Poi, quasi implorante: Non costringerlo a crederci. In questo momento, unito a noi, crede quello che pensiamo. Non ha alternativa. Con le mani imbrattate di sangue, Wintrow trovò la bottiglietta che conteneva la scorza di kwazi. Aveva sentito della sua potenza, ma gli sembrava una quantità patetica per fermare un dolore così enorme. Tolse il tappo. Tentò di versarne poca, di risparmiarla per il dolore dell'indomani. I pezzi di scorza conservata intasavano il collo della bottiglia. La scosse, e il liquido verde pallido schizzò fuori in modo irregolare. Dove cadde sulla carne di Kennit portò l'improvviso silenzio del dolore. Wintrow lo avvertì attraverso Vivacia. Nella bottiglia insanguinata rimaneva meno di metà del succo quando rimise il tappo. Strinse i denti e toccò l'estremità del moncone, tamponando il denso liquido per diffonderlo uniformemente. La cessazione del dolore era così improvvisa, come essere gettato sulla sabbia da un'onda che si ritira. Non aveva compreso quanta sofferenza percuotesse lo scudo di Vivacia, fino a quando non la sentì finire. Avvertì anche il sollievo improvviso della nave. Tentò di ricordare tutto quello che aveva visto fare a Sa'Parte. Aveva fermato le estremità di alcune arterie sanguinanti, ripiegandole e cucendole. Wintrow ci provò. All'improvviso era stanco e confuso; non rammentava quante ne avesse cucite il sacerdote guaritore. Voleva solo allontanarsi dalla confusione sanguinosa che aveva creato. Voleva fuggire, rannicchiarsi da qualche parte e negare tutto. Si costrinse a continuare. Piegò il lembo di pelle sull'estremità cruda del moncone. Dovette chiedere a Etta di staccare altri capelli dal pirata e infilare gli aghi fini. Ora Kennit giaceva del tutto immobile, respirando con affanno. Quando gli uomini fecero per allentare la presa, Wintrow li rimproverò. «Tenetelo ancora. Se si muove mentre sto cucendo, può fare a pezzi tutto il mio lavoro.» La falda non si adattava perfettamente. Wintrow fece del suo meglio, tirando la pelle dove necessario. Avvolse il moncone nella garza e lo legò con bende di seta. Man mano che lo nascondeva il sangue continuava a filtrare, imbrattandogli le mani appiccicose, trasudando attraverso la stoffa. Wintrow perse il conto degli strati di bende. Quando finalmente ebbe finito si asciugò di nuovo le mani sul davanti della veste e prese il laccio. Lo allentò e la fasciatura pulita si arrossò quasi immediatamente. Wintrow voleva urlare di orrore e frustrazione. Come poteva esserci tanto sangue in un uomo? Come poteva sgorgarne così tanto, eppure lasciarlo aggrappato a
un filo di vita? Con il cuore martellante di paura bendò di nuovo il moncone. Sostenendolo con le mani, disse con voce atona: «Ho finito. Ora possiamo spostarlo.» Etta alzò la testa dal torace di Kennit, bianca in volto. Il suo sguardo cadde sul pezzo di gamba accantonata. Il dolore le contorse la bocca per un istante. Con un sforzo visibile gli accarezzò il viso. I suoi occhi brillavano ancora di lacrime traboccanti mentre ordinava agli uomini con voce rauca: «Prendete la sua lettiga.» Fu un tragitto difficile. Kennit dovette essere manovrato giù per la scaletta fino al ponte principale. Una volta attraversato il ponte c'erano i corridoi stretti degli alloggi degli ufficiali. Ogni volta che i manici di legno della lettiga urtavano una parete e scuotevano Kennit, Etta ringhiava. Mentre lo trasportavano dalla lettiga al letto il pirata aprì gli occhi per un attimo e balbettò senza controllo. «Per favore, per favore, sarò buono, lo prometto. Ascolterò e obbedirò, sì, sì.» Etta aggrottò le sopracciglia così cupamente che ogni uomo abbassò gli occhi, di fronte a lei. Wintrow era sicuro che nessuno avrebbe mai chiesto ragione al capitano delle sue parole. Una volta sul letto, Kennit chiuse gli occhi e rimase immobile come prima. Gli altri lasciarono la cabina in tutta fretta. Il ragazzo si attardò più a lungo. Toccò prima il polso di Kennit e poi la gola, mentre Etta lo guardava torvo. Il battito del cuore era leggero e incostante. Wintrow si chinò su di lui, tentando di infondergli fiducia con il respiro. Mise le mani appiccicose sul viso di Kennit, toccando le tempie con le punte delle dita, e pregò ad alta voce Sa che gli concedesse forza e salute. Etta piegò un panno pulito e lo infilò abilmente sotto il moncone bendato, ignorandolo. «E adesso?» chiese con voce spenta quando Wintrow ebbe finito. «E adesso aspettiamo e preghiamo» rispose il ragazzo. «È tutto quello che possiamo fare.» Etta emise un lieve suono sprezzante e indicò la porta. Wintrow se ne andò. La tolda era un macello. Il sangue che la inzuppava era una macchia oppressiva. Vivacia teneva gli occhi semichiusi contro la luminosità del sole calante. Sentiva Kennit respirare nella cabina del capitano, e sapeva che stava lentamente perdendo sangue. Il dolore soffocato dalla medicina rimaneva per lei una lontana minaccia palpitante. Ogni battito lo portava più vicino di un
passo minuscolo. Anche se non poteva ancora avvertire il suo tormento, ne sentiva l'immensità e ne temeva il ritorno. Wintrow si muoveva sul ponte di prua, mettendo in ordine. Inumidì nel secchio d'acqua un pezzo di benda avanzato. Lo usò per strofinare ogni coltello, e pulì con attenzione gli aghi e la sega. Mise tutto nella cassa delle medicine, riportandola metodicamente all'ordine. Si era lavato le mani e gli avambracci e aveva asciugato il sangue dal viso, ma il davanti della veste era irrigidito e fradicio di sangue. Ripulì l'esterno della bottiglia di kwazi e valutò quanto ne restava. «Non molto» mormorò a Vivacia. «Ebbene, non ha molta importanza. Dubito che Kennit vivrà abbastanza a lungo per volerne di più. Guarda quanto sangue.» Rimise la bottiglia nella cassa e poi osservò il pezzo di gamba. Stringendo i denti, raccolse la cosa. Carne troncata alle estremità e un ginocchio nel mezzo: sembrava stranamente leggera fra le sue mani. La portò sul lato della nave. «Non mi sembra giusto» disse ad alta voce a Vivacia, ma la gettò fuori bordo comunque. Indietreggiò vacillando con un grido soffocato quando la testa del serpente bianco schizzò fuori dall'acqua per afferrare l'articolazione a mezz'aria prima ancora che piombasse in mare. In fretta come era apparsa, la bestia scomparve, e la gamba con essa. Wintrow corse di nuovo alla murata. Rimase aggrappato a fissare le profondità verdi, cercando un qualche pallido bagliore della creatura. «Come lo sapeva?» chiese rauco. «Stava aspettando, ha afferrato la gamba prima che toccasse l'acqua. Come faceva a saperlo?» Prima che Vivacia potesse rispondere, aggiunse: «Credevo che quel serpente se ne fosse andato, che l'avessimo cacciato via. Cosa vuole, perché ci segue?» «Sente noi due.» La voce di Vivacia era bassa, in modo che la udisse solo Wintrow. La nave si vergognava. Gli schiavi avevano cominciato a uscire dai portelli, tornando in coperta, ma nessuno si avventurava vicino al ponte di prua. Il serpente era andato e venuto così in fretta e in silenzio che nessun altro sembrava averlo visto. «Non so come, e non credo che comprenda del tutto quello che pensiamo, ma capisce abbastanza. Quanto a quello che vuole, ecco, vuole proprio ciò che gli hai appena dato. Vuole essere nutrito, nient'altro.» «Forse dovrei gettarmi nelle sue fauci. Risparmierei a Etta la fatica di farlo più tardi.» Wintrow parlò con scherno, ma Vivacia sentì la disperazione nelle sue parole. «Questo è il pensiero del serpente, non il tuo. Lui ti cerca, chiedendo cibo a gran voce. Crede che glielo dobbiamo. Non ha scrupoli a suggerire
che la tua carne potrebbe soddisfarlo. Non ascoltare.» «Come sai quello che pensa e che vuole?» Wintrow abbandonò i suoi compiti e si avvicinò alla murata, chinandosi per parlare alla polena. Vivacia girò la testa a guardarlo. La stanchezza sul suo viso la invecchiava. Si chiese quanto dirgli, poi decise che era inutile proteggerlo. Prima o poi doveva sapere. «È una cosa di famiglia» disse semplicemente. All'occhiata sbalordita di Wintrow, scrollò una spalla nuda. «È così che mi sembra. Sento di avere un legame con quel serpente. Non forte come è adesso fra me e te, ma innegabile.» «Non ha senso.» Vivacia alzò di nuovo le spalle, e poi cambiò argomento all'improvviso. «Devi smettere di credere che Kennit morirà sicuramente.» «Perché? Stai per dirmi che anche lui è di famiglia e che può sentire i miei pensieri?» C'era una vena di amarezza nella sua voce. Gelosia? Vivacia tentò di non esserne compiaciuta, ma non resistette a punzecchiarlo ancora. «I tuoi pensieri? No. Non può sentire i tuoi pensieri. È me che sente. Si protende verso di me e io verso di lui. Siamo consapevoli l'una dell'altro. È un legame tenue, certo. Non l'ho conosciuto abbastanza a lungo da renderlo più forte. Il sangue che filtra nei miei ponti sigilla il legame in un modo che non so spiegare. Il sangue è memoria. Come i tuoi pensieri toccano i miei, così influenzano anche quelli di Kennit. Tento di impedire alle tue paure di invaderlo, ma è uno sforzo.» «Sei legata a lui?» chiese Wintrow con lentezza. «Tu mi hai chiesto di aiutarlo. Mi hai chiesto di dargli forza. Pensavi che potessi farlo senza legarmi a lui?» Vivacia era indignata dalla sua disapprovazione. «Suppongo di non aver pensato a questo aspetto» riconobbe Wintrow, riluttante. «Adesso lo senti?» Vivacia ci pensò. Si trovò a sorridere con dolcezza. «Sì. Lo sento. E più chiaramente di prima.» Il sorriso si affievolì. «Forse si sta indebolendo. Penso che non abbia più la forza di tenersi separato da me.» Riportò in fretta l'attenzione su Wintrow. «La tua convinzione che morirà è come una maledizione su di lui. In qualche modo devi cambiare idea e pensare solo che viva. Il suo corpo ascolta profondamente la sua mente. Dagli la tua forza.» «Tenterò» disse Wintrow controvoglia. «Ma non posso certo convin-
cermi di qualcosa che so essere una bugia.» «Wintrow» lo rimproverò Vivacia. «Molto bene.» Il ragazzo appoggiò entrambe le mani sulla murata di prua. Alzò gli occhi e li fissò sull'orizzonte. Quel giorno di primavera stava sciogliendosi nel crepuscolo. Il cielo blu si offuscava, cambiando colore a poco a poco per fondersi con il blu più scuro del mare. In breve fu difficile dire dove l'acqua finiva e cominciava il cielo. Con lentezza Wintrow si ritirò in sé stesso, richiamando la vista da quel punto lontano finché i suoi occhi non si chiusero da soli. Il suo respiro era profondo e regolare, quasi pacifico. Curiosa, Vivacia cercò il legame che condividevano, tentando di leggere i suoi pensieri e i suoi sentimenti senza essere invadente. Non funzionò. Wintrow fu subito consapevole di lei. Eppure, invece di risentirsi per l'invasione, la accolse volentieri. Dentro di lui Vivacia avvertì il costante fluire dei suoi pensieri. «Sa è in ogni vita, ogni vita è in Sa.» Era una semplice affermazione, e la nave comprese subito che Wintrow aveva scelto parole in cui credeva completamente. Non si concentrava più sulla salute del corpo di Kennit. Affermava che mentre Kennit viveva la vita dentro di lui era di Sa e condivideva l'eternità di Sa. Nessuna fine, le promisero le sue parole. La vita non finiva. Dopo aver riflettuto, Vivacia scoprì che condivideva le sue convinzioni. Nessun buio finale da temere, nessun arresto improvviso dell'essere. Cambiamenti e mutazioni, sì, ma quelle cose avvenivano con ogni respiro. Il cambiamento era l'essenza della vita; non bisognava temerlo. Vivacia si aprì a Kennit, dividendo quell'intuizione con lui. La vita continuava. La perdita di una gamba non era una fine, solo una correzione di rotta. Mentre la vita pulsava nel cuore di un uomo, esistevano tutte le possibilità. Kennit non doveva temere. Poteva rilassarsi. Tutto sarebbe andato bene. Ora doveva riposare. Solo riposare. Vivacia sentì il calore della sua gratitudine che si espandeva. I muscoli tesi del viso e della schiena si rilassarono. Kennit trasse un respiro profondo e lo emise con lentezza. Non ne prese un altro. 5 Ophelia, veliero vivente Il turno di Althea era finito; adesso il tempo apparteneva solo a lei. Era stanca, ma la sensazione era piacevole. Quel pomeriggio di primavera era stato quasi tiepido. Di rado la stagione era così mite, e Althea l'aveva ap-
prezzato. La stessa Ophelia era stata di umore espansivo tutto il giorno. Il veliero vivente aveva reso facili i compiti dei marinai, muovendosi di buon grado verso nord, verso casa. Era una vecchia caravella poderosa, ora pesante di merci ricavate in un viaggio commerciale ben riuscito. Il primo vento della sera era gentile piuttosto che vivace, ma le vele di Ophelia ne coglievano ogni soffio. Scivolava disinvolta attraverso le onde. Althea si appoggiò alla murata di prua, ammirando i primi segni del tramonto sulla sinistra. Mancavano solo pochi giorni a casa. «Sentimenti contrastanti?» le chiese Ophelia con una risatina di gola. La formosa polena le diede uno sguardo astuto da sopra la spalla nuda. «Hai ragione, e lo sai» concesse Althea. «Hai ragione su tutto. Nella mia vita non c'è più nulla di coerente.» Cominciò a elencare i motivi di confusione sulle dita. «Eccomi qui, nella carica di primo ufficiale su un veliero vivente mercantile, il posto più alto cui un marinaio possa aspirare. Il capitano Tenira mi ha promesso di ricompensarmi con la credenziale della nave. È l'unica prova che mi serva per dimostrare che sono un marinaio competente. Con quella posso andare a casa e costringere Kyle a mantenere la parola e restituirmi la mia nave. Eppure, stranamente, mi sento colpevole. Tu lo hai reso così facile. Lavoravo tre volte più duro quando servivo come mozzo sulla Mietitrice. Non mi sembra giusto.» «Se vuoi ti complico la vita» si offrì Ophelia in tono canzonatorio. «Potrei cominciare a sbandare, o imbarcare acqua, o...» «Non lo faresti mai» le disse Althea con certezza. «Sei troppo orgogliosa di come navighi bene. No. Non voglio che i miei compiti siano più duri. Né rimpiango i mesi a bordo della Mietitrice. Se non altro ho dimostrato a me stessa di sapermi arrangiare. Servire a bordo di quella carcassa mi ha reso un buon marinaio, e mi ha mostrato un lato della navigazione che non avevo mai visto. Non è stato tempo perso. Ma è stato tempo senza la Vivacia; quello è il problema. Tempo perduto per sempre.» La voce di Althea si spense. «Oh, mia cara, è così tragico» commentò Ophelia con sollecitudine. Un momento dopo proseguì con sarcasmo: «L'unica cosa che lo renderebbe peggiore sarebbe perdere altro tempo a piangerci sopra. Althea, non è da te. Guarda avanti, non indietro. Correggi la rotta e continua. Non puoi disfare il viaggio già fatto.» «Lo so» disse Althea con una risata triste. «So di fare la cosa giusta. Sembra solo strano che sia così facile e piacevole. Una bella nave, un equipaggio attivo, un buon capitano...»
«Un primo ufficiale molto carino» intercalò Ophelia. «È vero» ammise di buon grado Althea. «E apprezzo tutto quello che Grag ha fatto per me. Dice che si sta godendo l'opportunità di leggere e rilassarsi, lo so, ma dev'essere noioso fingersi malato in modo che io possa avere la sua posizione. Ho molte ragioni di essergli grata.» «Strano. Non gli hai mostrato molta gratitudine.» Per la prima volta, un tocco di gelo si insinuò nella voce della nave. «Ophelia» gemette Althea. «Per favore, non ricominciamo. Non vuoi che io finga per Grag sentimenti che semplicemente non provo, vero?» «E io semplicemente non capisco perché non provi quei sentimenti, ecco tutto. Sei sicura che non stai imbrogliando te stessa? Guarda il mio Grag. È bello, affascinante, spiritoso, gentile, un vero gentiluomo. Per non dire che viene da una famiglia di Mercanti di Borgomago ed erediterà una notevole fortuna. Una fortuna che include un magnifico veliero vivente, potrei aggiungere. Cos'altro vorresti in un uomo?» «È tutte queste cose, e anche più. L'ho ammesso giorni fa. Non trovo difetti in Grag Tenira. O nel magnifico veliero vivente.» Althea sorrise alla nave. «Allora il problema sei tu» annunciò Ophelia inesorabile. «Perché non sei attratta da lui?» Althea si morse la lingua per un momento. Quando parlò, la sua voce era ragionevole. «Lo sono, Ophelia. In un certo modo. Ci sono tuttavia così tante altre cose nella mia vita che non posso permettermi... Non ho tempo per pensarci. Sai cosa mi aspetta quando arriveremo a Borgomago. Ho bisogno di riappacificarmi con mia madre, se è possibile. E c'è un altro 'magnifico veliero vivente' che occupa i miei pensieri. Devo convincere mia madre a sostenermi quando tenterò di riprendere la Vivacia a Kyle. Lei lo ha sentito giurare di fronte a Sa che se solo mi fossi dimostrata un buon marinaio mi avrebbe dato la nave. Sarà stata una promessa avventata, ma intendo fargliela mantenere. So che costringerlo a cedermi Vivacia sarà una brutta lotta. Ho bisogno di concentrarmi su quello.» «Non pensi che Grag potrebbe essere un alleato potente?» «Ti sembrerebbe onorevole da parte mia incoraggiare la sua corte e usarlo come strumento per riavere la mia nave?» Ora la voce di Althea era fredda. Ophelia emise una bassa risata. «Ah. Ti ha fatto la corte, dunque. Quel ragazzo cominciava a preoccuparmi. Allora, raccontami tutto.» Inarcò un sopracciglio verso la giovane.
«Nave!» l'ammoni Althea, ma non riuscì a evitare di unirsi alla risata. «Non fare finta di non sapere già tutto quello che succede a bordo.» «Umm» meditò Ophelia. «Forse percepisco la maggior parte di quello che accade nelle cabine e sotto coperta. Ma non tutto.» Fece una pausa, poi indagò: «Ieri c'è stato un silenzio molto lungo nei suoi alloggi. Ha tentato di baciarti?» Althea sospirò. «No. Certo che no. Grag è troppo ben educato.» «Lo so. Peccato.» Ophelia scosse la testa. Come se avesse dimenticato con chi stava parlando, aggiunse: «Il ragazzo ha bisogno di più ardore. Va bene essere gentile, ma c'è un momento in cui un uomo dovrebbe essere un poco più mascalzone per ottenere quello che vuole.» Inclinò la testa verso Althea. «Come Brashen Trell, per esempio.» Althea gemette. La nave le aveva estorto quel nome una settimana prima, e da allora non le dava pace. Quando non esigeva di sapere cosa non andava in Grag, e perché non piaceva ad Althea, la perseguitava per conoscere i sordidi dettagli della breve relazione con Brashen. Althea non voleva pensare a lui. I suoi sentimenti in proposito erano troppo confusi. Più decideva di aver chiuso con quell'uomo, più lui irrompeva nei suoi pensieri. Continuava a pensare a tutte le arguzie che avrebbe dovuto dire quando si erano separati per l'ultima volta. Brashen era stato così maleducato, solo perché lei non si era presentata a un appuntamento che riteneva poco saggio. Era stato troppo sicuro di sé, troppo presto. Non meritava un solo fuggevole pensiero, tanto meno questo indugiare su di lui. Ma malgrado il disdegno che Althea provava per lui da sveglia, Brashen si intrometteva nei suoi sogni. Nei sogni l'intensità della sua forza gentile sembrava un porto sicuro degno di essere cercato. Nei sogni, si ricordò Althea stringendo i denti. Da sveglia sapeva che non era un porto sicuro, ma un vortice di impulsi sciocchi che l'avrebbe rovinata. Era rimasta in silenzio troppo a lungo; Ophelia la guardava con aria saccente. All'improvviso Althea si alzò e si dipinse un piccolo sorriso in volto. «Penso che andrò a trovare Grag prima di dormire. Ho bisogno di alcune risposte.» «Mmm.» Ophelia fece le fusa, felice. «Prenditi il tuo tempo per chiedergliele, mia cara. I Tenira pensano profondamente prima di agire, ma quando agiscono...» Alzò entrambe le sopracciglia verso Althea. «Dopo potresti non ricordarti neanche il nome di Trell» suggerì. «Credimi. Sto già facendo del mio meglio per dimenticarlo.»
Althea fu sollevata di allontanarsi da Ophelia. Qualche volta era meraviglioso passare parte della sera seduta a parlare con la nave. La polena di legno magico incorporava molte generazioni di uomini Tenira, ma le donne avevano formato le sue prime e più profonde impressioni. Ophelia manteneva una prospettiva femminile sulla vita. Non la fragile impotenza che passava per femminilità in quei giorni a Borgomago, ma l'indipendenza determinata che aveva contraddistinto le prime Mercanti. I consigli che offriva ad Althea spesso la sorprendevano, eppure di frequente rafforzavano opinioni che lei nutriva in privato da anni. Althea non aveva avuto molte amiche. Le storie che Ophelia divideva con lei le avevano fatto capire che i suoi dilemmi non erano unici come aveva creduto. Allo stesso tempo le sue audaci discussioni dei problemi più intimi di Althea la divertivano e insieme la facevano inorridire. La nave sembrava accettare l'indipendenza della ragazza. Incoraggiava Althea a seguire il suo cuore, ma la considerava anche responsabile delle sue decisioni. Avere un'amica come lei era travolgente. Esitò fuori dalla cabina di Grag. Fece una pausa per sistemarsi i vestiti e i capelli. Abbandonare il travestimento da ragazzo che aveva indossato a bordo della Mietitrice era stato un sollievo. Sull'Ophelia l'equipaggio conosceva il suo nome, e Althea Vestrit doveva difendere l'onore della famiglia. Quindi, sebbene indossasse pratici abiti di cotone pesante, i calzoni erano più simili a una gonna pantalone. Aveva legato di nuovo i capelli dietro la nuca, ma non li aveva incatramati in un codino. La camicia chiusa da lacci che aveva infilato con attenzione nei pantaloni aveva perfino un tocco di ricamo. Provava una gradevole trepidazione al pensiero di vedere Grag. Le piaceva parlare con lui. C'era fra loro una lieve e gratificante tensione di consapevolezza. Grag la trovava attraente e non era disturbato dalla sua competenza; anzi ne sembrava colpito. Per Althea era un'esperienza nuova e lusinghiera. Avrebbe voluto essere sicura che fosse tutto ciò che provava. Malgrado l'avventura con Brashen, e pur avendo vissuto su una nave in mezzo ai marinai per un anno, in certi campi era molto inesperta. Non era sicura se era attratta da Grag in sé stesso, o semplicemente perché sembrava affascinato da lei. Certamente era solo un innocuo amoreggiamento. Cosa poteva esserci di più tra due estranei scagliati insieme dal caso? Trasse un respiro e bussò. «Avanti.» La voce di Grag era smorzata. Lo trovò seduto sulla cuccetta, la faccia avvolta nelle bende. Nell'aria
c'era un forte profumo di chiodi di garofano. Alla vista di Althea un bagliore di benvenuto apparve nei suoi occhi blu. Quando la ragazza chiuse la porta dietro di sé, Grag si tolse gli impacchi dalla mascella e li lasciò cadere con gratitudine. La finzione delle bende gli aveva lasciato i capelli in disordine come quelli di un ragazzo. Althea gli sorrise. «Allora. Come va il mal di denti?» «A meraviglia.» Grag si stiracchiò, sciogliendo le larghe spalle, poi si gettò sulla cuccetta con finta sofferenza. «Non ricordo l'ultima volta che ho avuto tanto tempo per me.» Sollevò le gambe sulla cuccetta e incrociò le caviglie. «Non ti annoi?» «No. Per qualsiasi marinaio il tempo libero è un lusso. Troviamo sempre il modo di riempirlo.» Cercò attorno alla cuccetta e tirò su una manciata di spago lavorato. La aprì in grembo rivelando una stuoia elegantemente annodata. L'intrico aveva creato quasi un merletto da una robusta cordicella. Difficile credere che un disegno così delicato venisse dalle sue dita incallite dal lavoro. Althea sfiorò l'orlo della stuoia. «Bello.» Seguì lo schema della cordicella annodata. «Mio padre sapeva prendere una bottiglia di vino vuota e un poco di spago e creare un meraviglioso disegno di nodi sul vetro. Sembravano fiori, o fiocchi di neve... Mi prometteva sempre che mi avrebbe insegnato, ma non trovammo mai il tempo.» L'abissale senso di perdita che credeva di aver dominato la ingoiò di nuovo. Si girò all'improvviso e fissò il muro. Grag rimase in silenzio per un momento. Poi propose quietamente: «Potrei insegnarti, se vuoi.» «Grazie, ma non sarebbe lo stesso.» Althea fu sorpresa dalla durezza nella propria voce. Scosse la testa, imbarazzata dalle lacrime improvvise che le colmavano gli occhi. Sperò che Grag non le avesse viste. La rendevano vulnerabile. Grag e suo padre avevano già fatto tanto per lei. Non voleva che la vedessero debole e bisognosa: voleva essere una persona forte che traeva il meglio dalle sue opportunità. Prese un lungo respiro e raddrizzò le spalle. «Adesso sto bene» disse in risposta alla domanda inespressa. «A volte mi manca tanto. Una parte di me non sa accettare che è morto, che non lo vedrò mai più.» «Althea... So che forse questa è una domanda crudele, ma mi sono chiesto: perché?» «Perché prese la nave su cui lavoravo da tanti anni e la diede a mia so-
rella?» Gettò uno sguardo a Grag per cogliere il suo rapido cenno di assenso. Scrollò le spalle. «Non me lo disse mai. La cosa più vicina a una spiegazione che mi diede era che bisognava provvedere a mia sorella e ai suoi figli. Nei giorni buoni mi dico che sapeva che sarei stata capace di provvedere a me stessa, e non aveva paura per me. Nei giorni cattivi mi chiedo se pensava che fossi egoista, se temeva che mi sarei presa Vivacia e non mi sarei preoccupata di loro.» Alzò di nuovo le spalle. Scorse il proprio riflesso nello specchietto di Grag. Per un momento inquietante fu suo padre a restituirle lo sguardo. Althea aveva gli stessi capelli neri e crespi e gli occhi scuri, ma non la statura. Era piccola, come sua madre. Tuttavia la somiglianza con suo padre era forte, nel disegno della mascella e nel modo in cui aggrottava le sopracciglia quando era agitata. «Mia madre disse che era stata lei a convincerlo. Riteneva che le proprietà dovessero rimanere intatte e che il veliero vivente andasse ereditato insieme alla terra, in modo che il reddito di uno continuasse a sostenere l'altro finché tutti i debiti non fossero stati pagati.» Si strofinò la fronte. «Suppongo che non abbia senso. Quando papà decise che non avremmo più commerciato sul Fiume delle Giungle della Pioggia ci condannò a un reddito molto inferiore. Le merci che riportava dalle terre del Sud erano esotiche, ma mai come gli oggetti magici delle Giungle della Pioggia. Le nostre proprietà terriere rendevano bene, ma non potevamo competere con il grano e la frutta di Chalced, coltivati dagli schiavi. Quindi il nostro debito per la nave è ancora sostanziale. Inoltre è assicurato con le proprietà terriere. Se non riusciamo a mantenere la promessa di rimborsarlo potremmo perdere sia la nave che le terre di famiglia.» «E anche tu sei ostaggio di quel debito.» Grag enfatizzò quietamente quel fatto. Come membro di una famiglia di Mercanti di Borgomago che possedeva un veliero vivente, era ben consapevole dei normali termini di un simile accordo. I velieri viventi erano rari e costosi. Proprio come ci volevano tre generazioni perché un veliero vivente si risvegliasse e diventasse senziente, così ci volevano più generazioni per pagarne uno. Solo i Mercanti delle Giungle della Pioggia conoscevano l'origine dei tronchi di legno magico da cui ricavavano gli scafi e le polene dei velieri viventi. Solo in una nave di legno magico si poteva navigare con sicurezza il Fiume delle Giungle della Pioggia e commerciare nei loro beni quasi magici. Il loro valore era tale che le famiglie impegnavano intere fortune per averli. «Sangue o oro, il debito è dovuto» aggiunse con calma Grag. Se la fa-
miglia Vestrit non poteva pagare la nave in denaro, allora avrebbe dovuto cedere una figlia o un figlio. Althea annuì con lentezza. Strano. Conosceva i termini dell'accordo fin da quando era abbastanza grande da essere considerata una donna, ma in qualche modo non li aveva mai applicati a sé stessa. Suo padre era stato un bravissimo mercante; aveva sempre fatto in modo che la famiglia potesse pagare i suoi legittimi debiti. Ora che suo cognato Kyle era responsabile del veliero vivente e delle finanze di famiglia, chi poteva dire come sarebbero andate le cose? Althea non era mai piaciuta al marito di sua sorella. L'ultima volta che erano stati nella stessa stanza, durante quell'ultimo, spettacolare litigio in famiglia, Kyle le aveva detto che era suo dovere fare un buon matrimonio e smettere di essere un fardello per la famiglia. Forse aveva voluto suggerire proprio quello: se fosse andata in sposa spontaneamente a un uomo delle Giungle della Pioggia, la famiglia avrebbe ottenuto una riduzione del debito. Sin da piccolissima le erano stati inculcati i suoi doveri verso l'onore della famiglia. Un Mercante di Borgomago pagava i debiti e manteneva la parola. Non importa quali fossero i loro disaccordi personali; quando erano minacciati dall'esterno i Mercanti serravano le fila e resistevano. Quei legami di parentela e di dovere includevano i Mercanti che avevano scelto di rimanere nelle Giungle della Pioggia e di insediarsi là. La distanza e gli anni potevano averli separati, ma erano pur sempre parenti dei Mercanti di Borgomago. I contratti con loro venivano onorati, e i doveri di famiglia rispettati. Althea sentì qualcosa dentro di sé irrigidirsi in una gelida determinazione. Se Kyle non riusciva a rispettare le obbligazioni della famiglia Vestrit, era suo dovere offrirsi. La fecondità era l'unico tesoro che mancava alla gente delle Giungle della Pioggia. Avrebbe dovuto andare da loro, prendere marito e dargli figli. Era quello che avevano promesso i suoi antenati, tanto tempo prima. Non farlo sarebbe stato impensabile. Eppure esservi costretta dalla malevolenza o dall'inettitudine di Kyle era intollerabile. «Althea? Va tutto bene?» La voce di Grag irruppe nei suoi pensieri e la riportò in sé stessa. Comprese che stava fissando con rabbia una paratia. Si scosse in modo impercettibile e si girò ad affrontarlo. «Sono venuta a chiedere il tuo consiglio, in effetti. Ho qualche problema con uno dei marinai. Non so decidere se prenderla come una questione personale o no.» L'espressione preoccupata di Grag si accentuò. «Quale?»
«Feff.» Althea scosse la testa enfatizzando la frustrazione. «Un momento mi ascolta e scatta quando do un ordine. Un momento dopo mi guarda in faccia e rimane lì con un ghigno sciocco. Non so se mi prende in giro o...» «Ah!» Grag sorrise. «Feff è sordo. Dall'orecchio sinistro. Oh, non lo ammette con nessuno. Accadde quando precipitò dall'albero circa due anni fa. Colpì duramente la tolda, e per un giorno o due pensammo che non se la sarebbe cavata. Alla fine ci riuscì. In certe cose è un po' più lento di prima, e io non lo mando nel sartiame se non è urgente. Non sembra avere più l'equilibrio di una volta. Non sempre sente quello che dici, soprattutto se sta alla tua destra. Qualche volta, se il vento soffia forte, non sente affatto. Non vuole essere insubordinato... è per quello che sorride così. Per il resto è un brav'uomo, ed è a bordo da molto tempo. Non sarebbe corretto punirlo per questo.» «Ah.» Althea annuì fra sé. «Vorrei che qualcuno me lo avesse detto prima» aggiunse con una certa irritazione. «È una di quelle cose cui papà e io non pensiamo neanche più. È così che va la nave. Nessuno voleva renderti più difficile il lavoro.» «No, non intendevo questo» rispose Althea in fretta. «Tutti si sono sforzati di rendere i miei compiti più facili. Lo so. È meraviglioso essere di nuovo a bordo di un veliero vivente, e ancor più meraviglioso scoprire che davvero so fare questo lavoro. Il testamento di mio padre, la mia disputa con Kyle e le preoccupazioni di Brashen mi avevano spinta a chiedermi se ero davvero competente.» «Le preoccupazioni di Brashen?» chiese Grag con voce pacatamente indagatrice. Perché lo aveva detto? Dove aveva il cervello? «Brashen Trell era il primo ufficiale di mio padre sulla Vivacia. Dopo che firmai a bordo della Mietitrice scoprii che anche lui era parte dell'equipaggio. Quando venne a sapere che ero a bordo come mozzo... Ebbene, mi aveva già fatto capire a Borgomago che non credeva che potessi farcela da sola.» «E allora? Cosa fece? Lo disse al capitano?» chiese Grag quando il silenzio si protrasse. «No. Niente del genere. Divenne solo... vigile. Questa è la parola, suppongo. Me la passai male su quella nave. Sapere che Brashen mi guardava faticare per tenermi in pari mi faceva sentire... umiliata.» «Non ne aveva nessun diritto» osservò Grag a voce bassa. Due scintille di rabbia bruciavano nel fondo dei suoi occhi. «Tuo padre lo assunse
quando nessun altro lo avrebbe fatto. È in debito con la tua famiglia. Il minimo che poteva fare era proteggerti, piuttosto che deridere i tuoi sforzi.» «No. Non era così, niente affatto.» All'improvviso stava difendendo Brashen. «Non mi derideva. Per lo più mi ignorava.» Quando l'espressione di Grag si fece anche più indignata, chiarì in fretta: «A me andava bene così. Non volevo un trattamento speciale. Volevo farcela da sola. E ce l'ho fatta, alla fine. Quello che mi infastidiva era che sapesse quanta fatica mi ci era voluta... Non so perché stiamo parlando di questo.» Grag scrollò le spalle. «Hai cominciato tu, non io. Molti si chiesero perché tuo padre assunse Brashen Trell quando la sua famiglia lo rinnegò. Per anni aveva combinato tanti guai che quando suo padre lo cacciò nessuno ne fu davvero sorpreso.» «Che genere di guai?» Althea sentì l'avidità nella domanda, e la smorzò. «Ero solo una ragazzina quando accadde, e mi interessavo poco dei pettegolezzi di Borgomago. Anni dopo, quando Brashen fu assunto a bordo della Vivacia, mio padre non ne parlò. Diceva che un uomo merita di essere giudicato per chi è, non per chi era.» Grag annuiva fra sé. «Non fu uno scandalo chiassoso. Io lo so soprattutto perché andavamo a scuola insieme. Cominciò in modi banali. Birichinate e stupidaggini. Mentre crescevamo, lui era sempre quello che scivolava via quando il maestro girava le spalle. Dapprima era solo per evitare le lezioni, o per andare al mercato a comprare dolci. Più tardi Brashen sembrava saperne più degli altri di ragazze e cindin e dadi. Mio padre dice tuttora che fu colpa del vecchio Trell se suo figlio finì male. Brashen aveva sempre troppi soldi da spendere e troppo tempo libero per divertirsi. Nessuno gli dava un limite. Si cacciava nei pasticci, giocandosi più soldi di quelli che aveva, o ubriacandosi in un luogo pubblico di pomeriggio, e suo padre lo trascinava a casa e lo minacciava.» Grag scosse la testa. «Non metteva mai in pratica le minacce. Qualche giorno dopo Brashen era a piede libero, a comportarsi come prima. Trell diceva sempre che gli avrebbe tagliato i fondi, lo avrebbe fustigato o lo avrebbe fatto lavorare per pagare i debiti. Ma non lo faceva mai. Si diceva che sua moglie piangesse e svenisse ogni volta che tentava di castigarlo. Brashen se la cavava sempre. Finché un giorno tornò a casa e trovò la porta sbarrata. E basta. Tutti, incluso Brashen, pensarono che fosse una finta. Ci aspettavamo che il temporale si sfogasse in un giorno o due. Non fu così. Alcuni giorni più tardi il vecchio Trell fece sapere che aveva ricono-
sciuto ufficialmente il figlio minore come erede e aveva diseredato Brashen. L'unica cosa sorprendente in tutta la faccenda fu che alla fine Trell aveva tirato una linea ed era rimasto fermo. «Per qualche tempo Brashen andò in giro per la città, dormendo dove poteva, ma presto divenne indesiderabile e finì i soldi. Si fece la pessima reputazione di attirare i ragazzi più giovani nei guai e nelle cattive abitudini.» Grag fece un sorriso d'intesa. «A me e al mio fratellino era vietato avere a che fare con lui. Presto non lo volle vedere più nessuno. Allora scomparve. Nessuno sa dove finì.» Grag fece una faccia sardonica. «Non che a qualcuno importasse. Lasciò molti debiti dietro di sé. Ormai la gente sapeva che non aveva intenzione di pagarli. Così se ne andò. I più ritennero che Borgomago fosse un luogo migliore senza di lui.» Grag distolse lo sguardo. «Dopo che se ne andò, si disse che una ragazza delle Tre Navi fosse incinta di lui. Il bambino nacque morto; una misericordia, suppongo. Tuttavia la ragazza fu rovinata.» Althea si sentì vagamente nauseata. Odiava ascoltare che Grag sviliva Brashen a quel modo. Voleva negare, ma Grag evidentemente parlava da testimone diretto. Brashen non era stato un giovane maltrattato e mal giudicato. Era stato un figlio maggiore viziato, senza disciplina o morale. Suo padre lo aveva assunto anni dopo e, sotto il suo controllo, Brashen era diventato un uomo perbene. Senza suo padre, era regredito. Althea doveva ammetterlo. L'ubriachezza, il cindin. I bordelli, aggiunse duramente fra sé. Senza pietà strappò dalla verità gli sciocchi ricami con cui l'aveva decorata. Aveva finto che Brashen fosse infatuato di lei quando l'aveva portata a letto. La verità era che si era comportata da donnaccia e aveva trovato il compagno che meritava. Per provarlo a sé stessa le bastava pensare a come si erano separati. Nel momento in cui Brashen si era reso conto che Althea era tornata in sé e che non gli avrebbe più ceduto il suo corpo, si era rivoltato contro di lei. La vergogna la invase. Come aveva potuto essere così stupida e incosciente? Se mai Brashen fosse tornato a Borgomago e avesse parlato di quello che avevano fatto, sarebbe stata rovinata, proprio come la ragazza delle Tre Navi che si era lasciato indietro. Grag non si era accorto della sua angoscia. Si era piegato accanto a un baule ai piedi del letto e stava frugando all'interno. «Muoio di fame. A causa del mio falso mal di denti, il cuoco mi porta solo zuppa e pane. Vuoi della frutta secca? Albicocche o datteri di Jamaillia?» «Non ho appetito. Grazie.» Grag smise di frugare e si girò a guardarla con un sorriso.
«È la prima volta che ti sento parlare come l'irreprensibile figlia di un Mercante di Borgomago da quando sei a bordo. Non so se mi sento sollevato o deluso.» Althea non era sicura se sentirsi lusingata o insultata. «Cosa intendi dire?» «Oh. Ebbene...» Grag estrasse il fagotto di frutta e sedette sulla cuccetta. Batté la mano accanto a sé e Althea sedette. «Ecco, lo vedi» esclamò trionfante. «Non soltanto siamo soli e senza una dama di compagnia dietro una porta chiusa, ma ti siedi impavida sul mio letto accanto a me. Quando ti ho detto che Brashen ha messo incinta una donna, non sei impallidita e non mi hai rimproverato per aver parlato di tali cose. Sei solo apparsa pensierosa.» Scosse la testa, perplesso. «In coperta porti i capelli legati in modo pratico, ti ho vista asciugarti le mani sulla camicia e andare a piedi nudi e in pantaloni per tutto il tempo che fingevi di essere un mozzo. Eppure ricordo ancora una donna molto femminile fra le mie braccia, profumata di violette, che ballava con grazia come... ecco, come ti arrampichi con grazia sul sartiame. Come fai, Althea?» Appoggiò la schiena alla paratia, ma il suo modo di guardarla sembrava attirarla a sé. «Come riesci a muoverti così facilmente in entrambi i mondi? Qual è davvero il tuo posto?» «Perché deve essere uno o l'altro?» obiettò Althea. «Tu sei un marinaio capace, e anche il figlio di un Mercante di Borgomago. Perché io non potrei essere entrambe le cose?» Grag gettò indietro la testa e rise. «Ecco. Non è la risposta che ci si aspetta dalla figlia di un Mercante. Almeno, non da una della nostra generazione. Una ragazza come si deve accoglierebbe con un sorriso idiota il mio complimento sul ballo, e non si vanterebbe di essere un buon marinaio. Mi ricordi le storie che racconta Ophelia. Secondo lei c'è stato un tempo in cui le donne lavoravano insieme agli uomini in ogni campo, e qualche volta li superavano.» «Chiunque conosca la storia di Borgomago sa che quando i nostri antenati arrivarono alle Rive Maledette ciascuno doveva lottare per vivere. Lo sai quanto me.» Si sentì un po' infastidita. Non la considerava come si deve? «Io lo so» ammise Grag con calma. «Ma molte donne a Borgomago non vorrebbero ammetterlo.» «Soprattutto perché non è più di moda. Soprattutto perché i loro padri o fratelli si vergognerebbero.»
«Vero. Comunque, guardandoti, sono giunto a capire che loro sono infedeli, non solo alla storia ma alla vita. Althea, ultimamente i miei genitori mi esortano a cercare moglie. Sono nato tardi; vorrebbero avere nipotini prima di essere troppo vecchi per apprezzarli.» Althea ascoltò in silenzio sbalordito. Le sue improvvise parole la sconvolsero. Non stava portando la conversazione in quella direzione, vero? «Quando sono a Borgomago mia madre invita le figlie dei Mercanti e le loro madri a interminabili tè. Ho frequentato obbedientemente le riunioni e i balli. Ho danzato con alcune donne.» Le sorrise con calore. «Molte sembravano interessate a me. Tuttavia ogni corteggiamento è finito con una delusione. Sempre lo stesso problema. Mio padre guarda la donna che sto frequentando, e mi chiede: 'Sarà capace di prendersi cura di sé stessa e della casa e dei bambini, mentre sei in viaggio?' Allora rifletto su di lei pensando a questo, e non importa quanto sia bella o arguta o affascinante, non sembra mai forte abbastanza.» «Forse non dai alle donne un'opportunità di mettersi alla prova» azzardò Althea. Grag scosse la testa con rimpianto. «Non è così. A due l'ho chiesto direttamente. Ho ricordato loro che mi aspetto di essere un giorno il capitano del veliero vivente Ophelia. Ho chiesto come si sarebbero sentite a dividermi con una nave. Una nave esigente e a volte possessiva, ho aggiunto, per essere onesto. Ho ricordato che, sarei rimasto lontano per mesi interi. Che avrei potuto non essere a casa quando nascevano i miei figli, o quando c'era una perdita nel tetto o arrivava la stagione del raccolto.» Scrollò le spalle con eloquenza. «Tutte mi hanno detto che certamente avrei potuto fare in modo di essere a casa più spesso dopo il matrimonio. Quando ho detto che non potevo hanno rifiutato la mia corte. Genver è arrivata fino a venire a bordo dell'Ophelia, e ha suggerito che avrebbe potuto navigare con me dopo le nozze, se avessi triplicato le dimensioni della cabina del capitano. Ma solo prima della nascita dei bambini. Dopo avrei dovuto in qualche modo organizzare la mia vita in modo da essere più spesso a casa che in mare.» «Non hai corteggiato nessuna ragazza che provenisse dalla famiglia di un veliero vivente? Che capisse ciò che la nave significa per te?» «Una volta ho ballato con una ragazza così» disse piano Grag. Silenzio. Se si aspettava che lei dicesse qualcosa, Althea non sapeva cosa. Grag si mosse con grande cautela, come timoroso di spaventarla. Con un dito le toccò la mano appoggiata sul letto. Un tocco lieve, ma le mandò
un brivido su per il braccio, colmandola di costernazione. Grag le piaceva, lo trovava attraente, ma per loro non era il momento di seguire quell'istinto. Aveva provocato lei la situazione? Come si doveva comportare? Stava per tentare di baciarla? Se lo avesse fatto, lei glielo avrebbe permesso? Sospettava di sì. Grag non venne più vicino. La sua voce si fece più profonda e dolce. Gli occhi azzurri erano gentili e fiduciosi. «In te vedo una donna forte. Una che saprebbe navigare con me, o gestire con perizia le cose in mia assenza. Vedo qualcuno che non è geloso di Ophelia.» Fece una pausa e sorrise malinconico. «Se mai, io sono un po' geloso per come si è affezionata in fretta a te. Althea, non posso immaginare una moglie migliore di te.» Anche se Althea se le aspettava, le sue parole la assordarono. «Ma...» cominciò. Grag alzò un dito ammonitore. «Ascoltami fino in fondo. Ci ho pensato molto, e vedo vantaggi anche per te. Non è certo un segreto che le fortune dei Vestrit ultimamente non siano prospere. La Vivacia non è ancora pagata del tutto; questo ti lascia in ostaggio del debito della famiglia. Si sa anche che i Mercanti delle Giungle della Pioggia non prenderebbero una donna già sposata o fidanzata. Semplicemente considerando la mia offerta potresti metterti fuori dalla loro portata.» Guardò con attenzione il suo volto. «Siamo una famiglia ricca. Il mio dono di matrimonio a tua madre sarebbe abbastanza per assicurarle una vecchiaia tranquilla. Tu non credi che Kyle si prenderà cura di lei, è chiaro.» Althea faticava a rispondere. «Non so che dire. Abbiamo parlato da amici, e sì, abbiamo amoreggiato un po', ma non immaginavo che i tuoi sentimenti fossero così profondi da proporre il matrimonio.» Grag alzò lievemente le spalle. «Sono un uomo cauto, Althea. Non vedo la ragione di lasciare che i sentimenti mi sfuggano di mano. A questo punto della nostra relazione ritengo che dobbiamo condividere per prima cosa la pianificazione, piuttosto che la passione. Dovremmo parlare onestamente, vedere se abbiamo le stesse ambizioni e ideali.» La guardava in viso con solerzia. Come per smentire quelle parole le toccò di nuovo la mano con la punta di un dito. «Non pensare che non provi attrazione per te. Lo sai bene. Tuttavia non sono il genere di un uomo che lascia correre il suo cuore dove la testa non è ancora arrivata.» Era così serio. Althea cercò di sorridere. «E io che temevo che avresti tentato di baciarmi.» Grag le restituì il sorriso, scuotendo la testa. «Non sono un ragazzo im-
pulsivo, né un rozzo marinaio. Non bacerei una donna che non me ne ha ancora dato il permesso. Inoltre non ha senso tormentarmi per quello che ancora non mi appartiene.» Distolse lo sguardo dalla sua espressione sbalordita. «Spero di non aver parlato troppo crudamente. Malgrado tu conosca la rozza vita di bordo, sei una signora, e la figlia di un Mercante.» Althea non poteva confessare il pensiero che le era balenato all'improvviso. Sapeva con completa certezza che non avrebbe mai voluto essere baciata da un uomo che prima chiedeva il suo permesso. 'Permesso di salire a bordo' bisbigliò una parte birichina della sua mente, e Althea lottò per trattenere un sorriso. Forse, pensò all'improvviso, Brashen l'aveva già rovinata, ma non nel senso sociale. Dopo le concrete dichiarazioni del suo desiderio, il corteggiamento discreto e gentile di Grag sembrava quasi sciocco. Le piaceva, davvero. Eppure le sue scrupolose contrattazioni la lasciavano indifferente. All'improvviso la situazione era impossibile. E come se Sa avesse capito che Althea non aveva modo di liberarsi, il destino intervenne all'improvviso. «Tutti i marinai in coperta!» ruggì una voce mista di indignazione e paura. Althea non esitò a precipitarsi fuori dalla cabina, e Grag non si fermò neanche a bendarsi il viso per il mal di denti. Tutti significava tutti. L'equipaggio dell'Ophelia era allineato sulla murata di prua. Quando raggiunse gli altri, Althea rimase incredula. Una galea da guerra di Chalced, che innalzava i colori del Satrapo, bloccava il passaggio di Ophelia. La disparità tra le dimensioni delle due navi sarebbe stata ridicola, se la nave da guerra non fosse stata irta di soldati e armamenti. Più piccola e agile, era molto più maneggevole della caravella. Inoltre un simile vascello era spesso più rapido di una nave a vela. Nella brezza leggera della sera Ophelia non poteva evitarla e superarla nella corsa. La galea l'aveva accostata sul lato sopravvento, approfittando della brezza che avvicinava le due navi. Ora non avevano alternativa; dovevano trattare con la galea. Immobile e sgomenta, con le braccia incrociate caparbiamente sul petto, la polena del veliero vivente guardava giù verso la nave di Chalced dalla prua a testa di cavallo. Althea alzò gli occhi per frugare l'orizzonte. La nave di Chalced sembrava operare da sola. Il capitano Tenira gridò: «Per quale motivo ci sbarrate la strada?» «Gettate una cima. Nel nome del vostro Satrapo, stiamo per abbordarvi!» dichiarò un uomo barbuto in piedi sulla prua della galea. I capelli biondi erano legati in una coda lungo la schiena, e il davanti del panciotto
in cuoio era decorato da trofei di battaglia: ossa delle dita legate da ciocche di capelli. Nel suo ghigno minaccioso mancavano diversi denti. «Con che diritto?» chiese Althea a chi le stava attorno. Tenira non perse tempo con le domande. La sua voce era calma e forte. «No. Non lo farete. Non avete autorità su di noi. Lasciateci passare.» Il Mercante capitano guardò la galea con fermezza. «Nel nome del Satrapo, gettate una cima e fatevi abbordare.» L'uomo di Chalced sorrise, più denti che affabilità. «Non costringeteci a prendervi con la forza.» «Provateci» suggerì torvo il capitano Tenira. Il capitano della galea prese una manciata di documenti dal suo primo ufficiale. Sventolò verso Tenira il rotolo di pergamene, legate da un nastro rosso appesantito da un massiccio sigillo di metallo stampato. «Ne abbiamo l'autorità. È scritto qui. Porteremo i nostri documenti a bordo per provarlo. Se siete una nave onesta non avete nulla da temere. Il Satrapo si è alleato con Chalced per sconfiggere la pirateria nel Passaggio Interno. Ci ha autorizzati a fermare qualsiasi nave sospetta e a cercare merci rubate e altri segnali di attività corsara.» Mentre il capitano parlava, diversi dei suoi uomini erano avanzati con rotoli di cima e rampini da abbordaggio. «Sono un onesto Mercante di Borgomago. Non avete il diritto di fermarmi, e non mi sottoporrò a una perquisizione. Levatevi dai piedi!» I rampini stavano già roteando; non appena il capitano Tenira finì di parlare, tre furono lanciati verso l'Ophelia. Uno cadde in acqua quando il veliero vivente si inclinò su un lato. Un altro atterrò bene sulla tolda ma fu subito afferrato e gettato indietro dall'equipaggio dell'Ophelia prima di poter affondare nel suo legno. Ophelia stessa ghermì il terzo. In un moto improvviso lo prese a mezz'aria mentre sibilava sopra di lei. Con un grido di rabbia afferrò la cima sotto al rampino e diede uno strattone. L'uomo che lo aveva gettato prese il volo, scalciando e imprecando per la sorpresa. Con disdegno Ophelia gettò rampino, cima e marinaio in acqua. Si mise i pugni dove sarebbero stati i fianchi di una donna. «Non riprovateci!» li avvertì furibonda. «Sparite, o vi colo a picco!» Dalla galea salirono grida di stupore e paura. Molti avevano senza dubbio sentito parlare dei velieri viventi di Borgomago, ma pochi marinai di Chalced ne avevano mai visto uno, tanto meno uno arrabbiato. I velieri viventi frequentavano di rado i porti di Chalced; le loro rotte commerciali erano al Sud. Dalla galea fu gettata una cima al marinaio che si dibatteva
in acqua. A bordo dell'Ophelia il capitano Tenira tuonò: «Ophelia, lascia che me ne occupi io!» mentre sulla tolda della galea sotto di loro il capitano di Chalced ordinava rabbiosamente di preparare gli orci incendiari. Ophelia non diede retta al capitano. Alla menzione degli orci incendiari ansimò, poi strillò la sua furia senza parole quando vide i vasi di pece fumante portati in coperta. Per essere pronti così in fretta, il capitano della galea doveva averli preparati dall'inizio. «In nome di Sa, no!» gridò Althea quando vide i vasi preparati per il lancio. Infilarono la punta delle frecce nelle piccole pentole tondeggianti da cui pendevano micce di lino bruciato. Sarebbero state accese prima di scagliare le frecce, aspettando il tempo necessario per dar fuoco al grasso e alla pece. Avrebbero colpito Ophelia, e nell'impatto le fiamme si sarebbero sprigionate. Ophelia non poteva evitarle tutte, e ogni veliero vivente era vulnerabile al fuoco. Althea non temeva solo per l'attrezzatura e i ponti, ma per la nave stessa. Gli unici velieri viventi che mai fossero morti erano periti in un incendio. L'Ophelia era una caravella mercantile, non costruita per le battaglie. I pirati minacciavano di rado i velieri viventi. Si sapeva bene che un veliero vivente poteva battere in manovrabilità e velatura qualsiasi nave normale della sua classe. Althea dubitava che qualcuno avesse mai sfidato Ophelia per avere la precedenza, tanto meno avesse preteso di abbordarla. Non c'erano armi a bordo; i suoi marinai non avevano esperienza nel respingere una tale minaccia. Tenira gridò gli ordini di far virare Ophelia e gli uomini si affrettarono a obbedire. «Non basterà» disse Althea in tono sommesso a Grag, al suo fianco. «Ci daranno fuoco.» «Prendi l'olio sotto coperta. Getteremo anche noi i nostri orci!» ordinò Grag con rabbia. «E tirate su acqua per combattere gli incendi!» gridò Althea. «Grag, un pennone di ricambio, un remo, qualsiasi cosa, dallo a Ophelia per lottare contro di loro! Guardala. Non cederà.» Mentre i suoi ponti fervevano di attività frenetica, Ophelia prese di nuovo la questione nelle sue mani. Malgrado l'uomo al timone, si inclinò verso la galea, non in senso opposto per sfuggirle. Tese le braccia, e mentre gli orci di Chalced venivano accesi e gli archi tesi, schiaffeggiò selvaggiamente la galea come una scolaretta infuriata, gridando insulti per tutto il tempo. «Maiali di Chalced! Pensate di poterci fermare nelle nostre acque? Bugiardi rampolli di prostitute! Siete voi i veri pirati, parassiti trafficanti di
schiavi!» Una delle sberle andò a segno. La grande mano di legno colpì il cavallo dipinto che era la polena della galea. Subito le dita si chiusero su di esso. Lo schiacciò con violenza verso il basso, un movimento selvaggio che inclinò i ponti delle due navi. I marinai da entrambe le parti furono scagliati a terra fra le urla. La galea, più piccola, soffrì di più. Ophelia rilasciò all'improvviso la prua, e la nave oscillò come un cavallo a dondolo impazzito. Gli archi tesi sprigionarono un volo incontrollato di pentole di pece. Una si fracassò sulla tolda della galea e appiccò il fuoco; due sorvolarono Ophelia per spegnersi nell'acqua in una nuvola di fumo nero e vapore. Un orcio la colpì a dritta di prua. Senza esitazione la nave schiaffeggiò la chiazza in fiamme. Tolse la mano e il fasciame cosparso di pece divampò di nuovo. Ophelia urlò mentre le sue dita prendevano fuoco all'improvviso. «Soffoca le fiamme!» le gridò Althea mentre i membri dell'equipaggio versavano acqua lungo lo scafo nello sforzo di spegnere il fuoco sulla prua. Ophelia era troppo sconvolta per ascoltarla. All'improvviso si girò verso la galea, sfidando il timone con la pura e semplice volontà, e afferrò la barca più piccola con le mani fiammeggianti. La scosse come un giocattolo, poi la scagliò di lato con disprezzo, attaccandole la maggior parte del residuo ardente. Dopo averla lasciata andare si strofinò le grandi mani. Strinse selvaggiamente i denti e le serrò a pugno, spremendo via le fiamme che l'avevano scottata. Poi, come una signora offesa che solleva l'orlo delle gonne ed esce dalla stanza in furia, rispose all'improvviso al timone e alle vele. Si distolse dalla galea danneggiata, allargando il varco fra loro. Gettò indietro la testa mentre la superava a vele spiegate. Le fiamme ruggirono, e il fumo nero si levò insieme alle grida dei marinai intrappolati sulla nave che bruciava. Un paio ebbero il fiato e la volontà per gridare minacce al passaggio di Ophelia, ma il rumore del fuoco trasformò le parole in grida incomprensibili. L'Ophelia si allontanò. 6 Il Satrapo Cosgo «Mi annoio e mi fa male la testa. Distraimi dal mio dolore. Divertimi.» La voce proveniva dal divano dietro di lei. Serilla non abbassò neanche la penna. «Magnadon Satrapo, non è il mio compito» disse quietamente. «Mi hai convocata per consigliarti sulla que-
stione di Borgomago.» Accennò alle pergamene e ai libri aperti sul tavolo. «Come puoi vedere, mi sono preparata.» «Ebbene, non puoi certo aspettarti che ascolti i tuoi consigli mentre la testa mi pulsa così. Quasi non ci vedo dal dolore.» Serilla accantonò i testi che stava consultando. Rivolse l'attenzione al giovane disteso scompostamente a faccia in giù sul divano, quasi sommerso da cuscini di seta, e tentò di reprimere l'irritazione nella voce. «Non posso promettere che i miei consigli ti divertiranno. Comunque, se vuoi raggiungermi qui al tavolo, potrei illuminarti sui fatti della disputa dei Mercanti di Borgomago.» Il Satrapo gemette. «Serilla, a te piace farmi venire mal di testa. Se non puoi essere più comprensiva, vattene e mandami Veri. O quella nuova Compagna dall'Isola di Giada. Come si chiama? Mi ricorda una spezia. Moscata. Mandami Moscata.» «Ti obbedirò volentieri, Magnadon Cosgo.» Serilla non si curò di nascondere l'indignazione mentre allontanava i testi e si alzava dalla tavola. Il Satrapo si rotolò nei cuscini, poi tese una mano pallida verso di lei. «No. Ho cambiato idea. So che devo dar retta alla tua saggezza su Borgomago. Tutti i miei consulenti mi hanno detto che la situazione è cruciale. Ma come faccio a pensare, quando questo dolore mi tormenta? Per favore. Massaggiami la testa, Serilla. Solo per un poco.» La donna si alzò dal tavolo e si dipinse in volto un'espressione forzatamente piacevole. Si rammentò che il problema di Borgomago andava risolto. Poteva perfino essere risolto a suo vantaggio personale. «Magnadon Cosgo, non volevo irritarti. Hai mal di testa? Permettimi di massaggiarti. Poi parleremo di Borgomago. Come dici, il la situazione è cruciale. E a mio avviso l'attuale posizione del Satrapo nei confronti dei mercanti è indifendibile.» Attraversò la camera e spinse diversi cuscini sul pavimento. Sedette all'estremità del divano. Cosgo strisciò subito fino a lei e le mise la testa in grembo. Chiuse gli occhi e le strofinò una guancia contro la coscia come un agnello in cerca di latte. Serilla strinse i denti. «È una maledizione. I mal di testa, gli intestini sciolti, la flatulenza. Qualche strega mi ha lanciato una maledizione. Perché altrimenti dovrei essere vittima di tanto dolore?» Il Satrapo si lamentò sommessamente e le appoggiò una mano sulla coscia. Serilla gli mise le dita alla base del cranio e cominciò a percorrere i punti di tensione con i polpastrelli. Sembrava esserci davvero del dolore. «Forse l'aria fresca ti farebbe bene. L'esercizio fisico è molto efficace per i
problemi di intestino. I giardini sul lato meridionale del tempio sono meravigliosi. La fragranza delle aiuole di timo potrebbe alleviare il tuo dolore.» «Sarebbe più semplice che un servitore portasse qui un mazzo di timo. Non amo le giornate luminose come questa. La luce mi fa male agli occhi. Come puoi anche solo suggerire che io cammini fin là quando soffro tanto?» Quasi pigramente le alzò l'orlo della veste. Le dita esplorarono la pelle liscia al di sotto. «E l'ultima volta che sono stato nei giardini del tempio sono inciampato in una pietra irregolare del pavimento. Sono caduto in ginocchio come uno schiavo. Ho messo le mani nello sporco. Sai come detesto la sporcizia» continuò petulante. Serilla mise mano ai muscoli tra collo e spalle e li manipolò in profondità, facendolo trasalire. «Eri ubriaco, Magnadon» gli ricordò. «Ecco perché sei caduto. Lo sporco era il tuo vomito.» Il Satrapo girò all'improvviso la testa per fissarla. «E allora sarebbe colpa mia, suppongo?» chiese sarcastico. «Pensavo che il lastricato servisse appunto a rendere il pavimento uniforme e sicuro per camminarci sopra. Il mio povero intestino fu gravemente sconvolto da quella caduta. Non c'è da meravigliarsi che non potessi tenere giù il cibo. Tre guaritori concordarono con me. Ma sono sicuro che la mia coltissima Compagna sa molto di più del Magnadon Satrapo Cosgo o dei suoi guaritori.» Serilla si alzò all'improvviso, non preoccupandosi di sbilanciarlo. Prese il polso della mano esploratrice e lo spinse verso l'inguine del Satrapo con disdegno. «Me ne vado. Sono la Compagna del vostro Cuore. Nulla mi obbliga a tollerare la tua licenziosità.» Cosgo si tirò seduto. Strinse le mani sulle ginocchia. «Dimentichi il tuo ruolo! Nessuno si allontana dal Magnadon Satrapo Cosgo. Torna qui. Ti dirò io quando puoi andare.» Serilla si drizzò in tutta la sua altezza. Superava con tutta la testa quel giovane pallido e debosciato. Lo guardò da capo a piedi con occhi verdi lampeggianti. «No. Tu dimentichi il tuo ruolo, Cosgo. Non sei un cosiddetto nobile di Chalced, con un harem di prostitute che corrono a baciarti e accarezzarti a tuo capriccio. Sei il Satrapo di Jamaillia. Io sono una Compagna del Cuore, non uno strumento oliato e profumato per il tuo corpo. Tu dici quando posso andarmene, è vero. Ciò non significa che sia costretta a restare se ti trovo disgustoso.» Parlò da sopra la spalla mentre camminava verso la porta. «Fammi sapere quando vuoi scoprire i problemi che puoi aspettarti da Borgomago. Quella è la mia area di competenza. Trova qualcun altro per l'area che hai fra le gambe.»
«Serilla!» protestò freneticamente il Satrapo. «Non puoi lasciarmi in preda a queste sofferenze! Sai che è il dolore che mi fa comportare così. Non puoi ritenermi responsabile.» Serilla si arrestò sulla porta. Increspò la fronte, guardandolo accigliata. «Certo che posso. E lo faccio. Tuo padre in vecchiaia soffriva di un dolore terribile alle giunture, ma non mi ha mai trattato scortesemente. Né mi ha mai toccato senza permesso.» «Mio padre, mio padre» uggiolò Cosgo. «Non mi sai dire altro. Che non valgo quanto lui. Mi disgusta pensare a quel vecchio avvizzito che ti toccava. Come hanno potuto i tuoi genitori dare una ragazza così giovane a un tale vecchiaccio? È disgustoso.» Serilla mosse diversi passi verso di lui, con le mani strette a pugno. «Tu sei disgustoso quando immagini tali cose! I miei genitori non mi 'diedero' a tuo padre. Venni a Città di Jamaillia da sola, decisa a seguire i miei studi. Lui fu colpito dalla mia cultura quando mi udì per caso ripetere una lezione per il mio maestro nella Biblioteca delle Terre del Nord. Mi invitò a essere una Compagna del suo Cuore, per consigliarlo su quelle terre. Ci pensai bene, per tre giorni, prima di acconsentire e accettare il suo anello. Feci voto di rimanere al fianco del Satrapo e consigliarlo. Non aveva nulla a che vedere con il suo divano. Era un uomo eccellente. Mi permise di studiare, e mi ascoltò sempre con attenzione. Quando non eravamo d'accordo non si parava dietro al mal di testa.» Abbassò la voce. «Lo piango ancora.» Aprì la porta e lasciò la stanza. Fuori, due guardie dal volto di pietra finsero di non aver udito la lite. Serilla avanzò tra loro. Non aveva fatto più di una dozzina di passi nel corridoio quando sentì la porta spalancarsi. «Serilla! Torna qui!» Ignorò il comando imperioso. «Per favore!» stridette la voce del Satrapo. Continuò a camminare, i sandali che sussurravano sul pavimento marmoreo. «Il Magnadon Satrapo Cosgo richiede cortesemente che la Compagna Serilla ritorni ai suoi alloggi a consigliarlo sulla questione di Borgomago.» Queste parole furono urlate dietro di lei nel corridoio. Serilla si fermò, poi si girò. L'espressione sul suo viso era studiatamente gentile. Questo rientrava nella sua promessa. Se il Satrapo chiedeva consiglio nella sua area di competenza, Serilla non poteva rifiutargli la sua compagnia. Il suo consiglio ragionato era tutto ciò che aveva giurato di dargli.
«Ne sarei onorata, Magnadon.» Serilla ripercorse i suoi passi. Il Satrapo era appoggiato allo stipite della porta, con due macchie rosse sulle guance normalmente pallide. I capelli scuri ricadevano in disordine sugli occhi iniettati di sangue. Serilla dovette ammirare l'imperturbabilità delle guardie. Rientrò e non sobbalzò quando il Satrapo sbatté la porta dietro di lei. Attraversò la stanza e aprì le pesanti tende. La luce del sole pomeridiano si riversò nella stanza. Poi la donna andò al tavolo, sedette e si chinò a spegnere con un soffio la lampada. Con le tende aperte, la luce del pomeriggio era sufficiente. Cosgo la raggiunse di malavoglia. Serilla tenne di proposito i gomiti discosti dal corpo per mantenerlo a distanza. Il giovane sedette il più vicino possibile senza davvero toccarla. I suoi occhi scuri erano colmi di rimprovero. Serilla indicò i testi sul tavolo. «Qui abbiamo una copia dello statuto di Borgomago. Questo è l'elenco delle proteste che ci hanno sottoposto. Queste sono copie di nuove concessioni terriere che hai accordato nella zona di Borgomago.» Si girò a guardarlo in faccia. «Consideriamo il loro primo punto: trovo che abbiamo senza dubbio violato lo statuto originale. Con tutte le nuove concessioni. Non avevate nessuna autorità di distribuire le terre di Borgomago senza consultare prima i Mercanti, come era chiaramente previsto dallo statuto.» Il Satrapo aggrottò le sopracciglia ma non disse niente. Serilla seguì la pergamena con la punta del dito. «Protestano anche per le nuove tariffe che sono state imposte, e per gli aumenti delle vecchie. Penso che quelle possiamo giustificarle, anche se faremmo meglio a essere più moderati nelle percentuali.» Lesse con attenzione l'elenco dei reclami dei Mercanti. «Si lamentano anche dei Nuovi Mercanti che trafficano in schiavi e li usano sulle loro proprietà. E c'è un'ultima protesta sul finanziamento di navi pattuglia di Chalced e la loro presenza nel Porto di Borgomago. Queste sono aree in cui penso che possiamo negoziare compromessi.» «Compromessi» mormorò Cosgo disgustato. «Sono o non sono il Satrapo? Perché devo fare compromessi?» Serilla appoggiò il mento nella mano e fissò pensosa i giardini fuori dalla finestra. «Perché hai violato la parola del tuo antenato. I Mercanti di Borgomago sono provinciali in molti modi. E conservatori. Seguono spesso le vecchie tradizioni. Onorano alla lettera i contratti scritti; la parola di un uomo non muore con lui, mantenerla è responsabilità dei suoi eredi. Si aspettano che altri facciano lo stesso. I membri della delegazione sono arrivati con molta rabbia in corpo. Avevano avuto un lungo viaggio in cui
compiangersi a vicenda. Si sono incoraggiati l'un l'altro fino a convincersi che la loro posizione era inattaccabile. E naturalmente solo quelli più irritati dalle nostre recenti azioni si sono presi il disturbo di venire fin qui ad affrontarci. Erano decisamente nostri avversari. Eppure si sarebbero ammorbiditi su alcune posizioni se tu avessi accettato di incontrarli di persona.» Si girò di nuovo a guardare il Satrapo. Cosgo appariva tetro e imbronciato. «Quella settimana ero malato. Sono riuscito solo a vedermi con la delegazione dei mercanti di Chalced. Forse ricorderai che ho dovuto presenziare anche a un'investitura di sacerdoti.» «Hai passato la maggior parte della settimana stordito dalle nuove droghe di piacere che la gente di Chalced ti ha portato. Due volte mi hai promesso che avresti incontrato la delegazione di Borgomago. Ogni volta li hai fatti aspettare per ore prima di far sapere che eri indisposto. Mi hai lasciata in una posizione molto scomoda. Se ne sono andati sentendosi disprezzati e ignorati, convinti più che mai di avere ragione.» Non aggiunse che era d'accordo con loro. Aveva il dovere di presentargli i fatti, non i suoi sentimenti. Almeno, quello era il suo compito attuale. Sperava presto di assumerne altri, se i suoi piani davano frutto. «Figli testardi di esuli e banditi» sogghignò il Satrapo. «Dovrei fare come mi ha consigliato il mio amico duca Yadfin. Nominarlo mio governatore a Borgomago. Sciogliere il loro sciocco, litigioso Consiglio. Vecchi Mercanti, Nuovi Mercanti... chi riesce a stargli dietro? Un poco di disciplina di Chalced farebbe bene a quella marmaglia.» Serilla non poté trattenersi. Lo guardò a bocca aperta. Il Satrapo si grattò il naso con noncuranza. «Non puoi dire sul serio» commentò infine la donna. Era perfino pronta a fingere divertimento alla sua battuta di cattivo gusto. Mettere un nobile di Chalced al comando di Borgomago? «Perché no? Chalced è un buon alleato. Le vili calunnie di Borgomago si sono dimostrate infondate. Borgomago è più vicina a Chalced che a Jamaillia. Un governatore da Chalced potrebbe guidare meglio il popolo, e finché continuo a ricevere le mie percentuali e le mie tariffe, quale danno...» «Tutta Borgomago insorgerebbe contro di te. Si è già parlato di rivolta. Romperebbero ogni legame con Jamaillia e si governerebbero da soli prima di tollerare un uomo di Chalced al comando.» «Rompere con Jamaillia? Loro non sono nulla senza di noi. Borgomago è un arretrato nucleo commerciale, un insediamento di frontiera senza futu-
ro se non il commercio con la mia città. Non oserebbero rompere con Jamaillia.» «Temo che tu abbia giudicato assai male il temperamento di quella gente. Per troppo tempo li hai lasciati a difendersi da soli. Cominciano a chiedersi perché dovrebbero essere tassati per aiuti e migliorie che non vedono da cinque anni.» «Oh, capisco. Dalla morte di mio padre, vuoi dire. Accusi me dello scontento di quella plebaglia, vero?» «No. Non del tutto.» Serilla controllò la voce. «Prima che tuo padre morisse, la sua mente aveva cominciato a vagare. Non era più attento al dettaglio come era stato da giovane. Anche lui aveva cominciato a trascurare Borgomago. Tu hai semplicemente lasciato degenerare ulteriormente la situazione.» «A maggior ragione dobbiamo mettere un governatore a Borgomago. Vedi? In base alla tua stessa logica, la mia è una buona idea.» Sedette di nuovo, sventolandosi soddisfatto. Serilla rimase in silenzio finché non fu in grado di parlare senza gridare. «Non è la tua idea, Magnadon. È il piano del duca Yadfin: farti il pelo mentre sorridi e fumi le tue erbe di piacere. Giuridicamente non puoi nominare un governatore per Borgomago, tanto meno uno di Chalced. Non è previsto dallo statuto della loro fondazione.» «E allora liberiamoci di questo stupido statuto!» ruggì il Satrapo. «Perché devo loro qualcosa? Sono solo esuli, criminali e giovani signori ribelli, fuggiti sulle Rive Maledette. Da anni vivono come pare a loro, godendo di tutti i benefici della cittadinanza di Jamaillia senza assumersene i fardelli...» «Ti cedono il cinquanta per cento dei loro profitti, Magnadon. È una percentuale più alta di quella pagata da qualsiasi altra classe di cittadini. Obiettano, e giustamente, di ricevere pochi benefici, che hanno pagato per tutti i miglioramenti ai porti e che la pirateria nel Passaggio Interno è più presente che mai da quando...» «Eppure resistono ai miei sforzi di controllare i pirati. Come posso proteggerli se non permettono alle mie navi pattuglia di ripararsi nel loro porto?» Serilla voltò in fretta le pagine. «Ecco. Propongono di usare quelle tasse per finanziare le proprie navi pattuglia, invece dei tuoi mercenari di Chalced. Il loro argomento è che sono familiari con le maree e i canali, quindi possono sorvegliare con maggior efficacia la zona. Le cifre indicano che
potrebbero riuscirci con minori spese.» «Ma farebbero un buon lavoro?» chiese Cosgo. Serilla sospirò. «Fare un buon lavoro è nel loro migliore interesse.» Cercò fra altri fogli di carta spessa. «Penso che sia una proposta che avresti potuto accettare facilmente, guadagnando molto appoggio.» «Oh, molto bene.» Il Satrapo allontanò con disgusto le sue carte ordinate. «Li incontrerò e accetterò questa proposta. Ma devono...» «Magnadon Cosgo, è troppo tardi» fece notare Serilla con impazienza. «La delegazione è ripartita settimane fa. Sono tornati a Borgomago.» «E allora perché ce ne preoccupiamo?» Si alzò. «Vieni. Accompagnami alle piscine bollenti. Penso che farebbe bene al mio mal di testa.» Serilla non si mosse. «Hai promesso che avresti preso in considerazione le lagnanze e avresti risposto a ciascuna. Hai promesso che presto avresti reso nota la tua decisione.» Valutò le sue opportunità, decise di rischiare tutto. «Gradirei scrivere le tue decisioni e portarle per nave a Borgomago. Più presto sarà, più presto la crisi verrà risolta.» Riorganizzò di nuovo le carte, allineandole con ordine ossessivo. «Ho steso un editto che mi autorizza a negoziare per tuo conto. Se lo desideri, puoi semplicemente firmarlo. Potrei partire domani, e tu non saresti più infastidito da questa discussione.» Lottò per non far trapelare la speranza in viso e nella voce. Il Satrapo si chinò sul tavolo a guardare il documento steso nella calligrafia ordinata di Serilla. Il cuore della donna accelerò. Avrebbe voluto spingere penna e inchiostro verso di lui, ma resistette. Sarebbe stato troppo ovvio. «Qui c'è scritto che ti do il mio beneplacito per prendere tutte le decisioni per mio conto riguardo la controversia dello statuto di Borgomago.» Sembrava indignato. «Non concedo un potere del genere a nessuno!» Il cuore di Serilla sprofondò. Non sarebbe stato facile come aveva sperato, ma non era pronta ad arrendersi. «È vero, in passato non lo hai mai fatto. Eppure solo un momento fa parlavi di nominare un governatore di Chalced. Significherebbe cedere molto più potere di così. Questa è solo una misura provvisoria.» Trasse un respiro profondo e tentò di infondere preoccupazione nella voce. «Un tempo la tua salute era più robusta. So come ti logorano questi negoziati. Non vedo perché l'intera Satrapia dovrebbe sopportare che tu rischi così. Borgomago è la mia area di competenza. Sarei molto felice di servirti a riguardo. Sento che è mio dovere.» «Tuo dovere? Chissà. Non la tua occasione?» Era sempre stato più astuto di quanto sembrasse. Serilla tentò di sembra-
re confusa dalle sue parole. «Magnadon, ho sempre ritenuto che la più grande occasione della mia vita fosse il mio dovere verso la Satrapia. Come puoi vedere ho lasciato molto spazio in fondo dove possiamo aggiungere qualche clausola. Un termine di scadenza sembra necessario, per esempio.» Scrollò le spalle. «Mi è solo sembrato il modo più rapido e più facile di risolvere la faccenda.» «Andresti a Borgomago? Da sola? Le Compagne del Cuore non lasciano il palazzo. Mai.» La libertà si allontanava. Il viso della donna non tradì nulla. «Come ho detto, ho cercato il modo più rapido e più facile di risolvere la faccenda senza logorare la tua salute. Sono perfettamente informata sui precedenti di questa situazione. Ho pensato che mi avresti riferito i tuoi desideri, e a mia volta io li avrei trasmessi ai Mercanti di Borgomago. Onorandoli con la visita di una delle tue Compagne del Cuore, li convincerai della tua sincerità e della tua considerazione per loro. Inoltre io avrei l'opportunità di vedere di persona una città che è al cuore dei miei studi da molti anni.» La favolosa Borgomago. Città di frontiera, di magia e occasioni. L'unico insediamento a essere sopravvissuto alle Rive Maledette, addirittura prosperando. Quanto desiderava vedere con i suoi occhi. Non disse niente dei Mercanti delle Giungle della Pioggia, e delle loro favoleggiate città lontane, sul Fiume. Non erano altro che una leggenda elusiva. Implicare l'esistenza di un tesoro di cui il Satrapo non sospettava neanche avrebbe solo suscitato la sua avidità. Serilla tentò di rimettere a fuoco i pensieri. «Prima che morisse, tuo padre mi promise che un giorno o l'altro avrei visto Borgomago. Avrai un'opportunità di mantenere quella promessa.» Appena pronunciò le parole seppe di aver commesso un errore. «Ha detto che ti avrebbe permesso di andare a Borgomago? Assurdo! Perché fare una cosa simile?» I suoi occhi si restrinsero con sospetto improvviso. «O è quello che hai chiesto in cambio dei tuoi favori? Mio padre è mai giaciuto con te?» Un anno prima, quando il Satrapo aveva osato farle quella domanda per la prima volta, Serilla era rimasta in un silenzio sconvolto. Da allora glielo aveva chiesto così spesso che il silenzio era diventato un riflesso. Era l'unico vero potere che aveva su di lui. Il Satrapo non sapeva. Non sapeva se suo padre avesse avuto quello che a lui era rifiutato, e il dubbio lo divorava. Serilla ricordò la prima volta che aveva visto Cosgo. Lui aveva quindici anni, e lei diciannove. Era molto giovane per essere una Compagna del
Cuore. Era sorprendente che un Satrapo così anziano avesse preso una nuova Compagna. Quando era stata presentata a Cosgo come la nuova consigliera di suo padre, il giovane aveva guardato da lei a lui e poi di nuovo a lei. Il suo sguardo aveva espresso con chiarezza i suoi pensieri. Serilla era arrossita, e il Satrapo aveva schiaffeggiato suo figlio per quello sguardo insolente. Il giovane Cosgo ne aveva concluso che i suoi sordidi sospetti erano veri. Alla morte di suo padre, Cosgo aveva congedato tutte le sue Compagne del Cuore. Ignorando ogni tradizione, le aveva spedite via senza la misericordia di un ricovero e del sostentamento per i loro anni declinanti. Per la maggior parte erano anziane. Aveva tenuto solo Serilla. Lei se ne sarebbe andata, se avesse potuto. Finché portava l'anello di un Satrapo era legata. Ora Cosgo era Satrapo. I voti di Serilla richiedevano che rimanesse a consigliarlo finché lui lo desiderava. I suoi consigli erano tutto ciò che poteva richiederle. Dall'inizio Cosgo aveva reso chiaro che voleva di più. Come altre Compagne del Cuore aveva scelto donne più istruite nella carne che nella diplomazia. Nessuna di loro lo aveva rifiutato. Secondo la tradizione le Compagne del Cuore non erano un harem. Dovevano essere donne senza altre lealtà se non alla Satrapia. Dovevano essere come Serilla: coraggiose, schiette ed eticamente intransigenti. Erano la coscienza del Satrapo. Dovevano essere esigenti, non rassicuranti. Qualche volta Serilla si chiedeva se fosse l'unica Compagna che lo ricordava. Sospettava che se mai lo avesse accolto nel suo letto avrebbe perso ogni potere su di lui. Finché rappresentava una proprietà di suo padre che non poteva possedere, l'avrebbe desiderata. Avrebbe finto di ascoltarla, e di quando in quando avrebbe davvero seguito i suoi consigli nel tentativo di farle piacere. Era l'ultimo residuo di potere che le rimanesse. Sperò di poterlo usare come leva per guadagnare la libertà. Così lo contemplò in freddo silenzio. Attese. «Oh, molto bene!» esclamò all'improvviso il Satrapo, disgustato. «Ti porterò a Borgomago, dunque, se significa tanto per te.» Serilla vacillò tra esaltazione e costernazione. «Mi permetti di andare, allora?» chiese senza fiato. Un minuscolo cipiglio gli increspò la fronte. Poi le sorrise. Aveva un sottile paio di baffi che fremevano come le vibrisse di un gatto. «No. Non è quello che ho detto. Ho detto che ti porterò là. Potrai accompagnarmi.» «Ma tu sei il Satrapo!» balbettò Serilla. «Per due generazioni, nessun Satrapo in carica ha lasciato Città di Jamaillia!»
«È così. Questo li convincerà della mia sincerità nei negoziati. Inoltre è sulla strada per Chalced. Mi hanno invitato numerose volte. Già avevo deciso di andare. Mi accompagnerai là, dopo che avremo sistemato gli straccioni ribelli di Borgomago.» Il sorriso si allargò. «C'è molto che puoi imparare a Chalced. Penso che sarà utile per entrambi.» 7 La figlia di un Mercante di Borgomago «Stai seduta, ferma.» «Fa male» protestò Malta. Alzò una mano per toccarsi i capelli che sua madre stava intrecciando in spire lucenti. Keffria le allontanò la mano. «L'essere donna è, per molti aspetti, doloroso» le disse pragmatica. «È quello che hai voluto. Abituati.» Tirò i pesanti, lucidi capelli neri, poi abilmente rimise a posto alcune ciocche ribelli. «Per favore, non riempirle la testa di simili sciocchezze» disse irritabile Ronica. «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è vederla vagare per casa come una martire semplicemente perché è donna.» La nonna di Malta depose la manciata di nastri che stava mettendo in ordine e passeggiò nervosa per la stanza. «Non mi piace» disse all'improvviso. «Cosa? Preparare Malta a incontrare il suo primo corteggiatore?» C'era un perplesso calore materno nella voce di Keffria. Malta aggrottò la fronte. Sua madre aveva sempre rifiutato di trattarla come una donna. Solo poche settimane prima aveva detto che era troppo giovane per essere corteggiata. E ora approvava l'idea? Spostò gli occhi per tentare di scorgere il visto di sua madre nello specchio, ma la testa di Keffria era china sulla sua acconciatura. La camera era illuminata e ariosa, profumata da giacinti in piccoli vasi di vetro. La luce del sole entrava a fiotti dalle finestre alte. Era un bel pomeriggio d'inizio primavera, un giorno che avrebbe dovuto traboccare di promesse. Invece Malta si sentiva oppressa dall'apatia delle due donne. La stavano preparando a incontrare il suo primo pretendente senza pettegolezzi e senza allegria. La casa sembrava immersa nel lutto, come se la morte di suo nonno la primavera scorsa avesse lasciato su di loro una desolazione permanente. Sulla tavola di fronte a Malta c'erano vasetti di trucchi e creme e profumi. Nessuno era nuovo. Erano avanzi di sua madre. Malta odiava il fatto
che non la ritenessero degna di niente di meglio. La maggior parte di quei prodotti non veniva neanche dal bazar. Erano stati fatti in cucina con bacche, fiori, panna e sego, sciolti come una zuppa in un pentolino. Sua madre e sua nonna erano così disastrosamente all'antica in quelle cose. Come potevano aspettarsi che la società di Borgomago le rispettasse, se vivevano alla stregua dei poveracci? Parlavano sopra la sua testa come se fosse stata una bambina incapace di capirli. «No, a quello mi sono rassegnata.» Sua nonna sembrava più che altro irritata. «Non mi piace che non ci siano notizie di Kyle e della Vivacia. È quello che mi preoccupa.» La voce di Keffria diventava accortamente neutrale quando parlava di suo marito e della nave di famiglia. «I venti di primavera possono essere incostanti. Senza dubbio Kyle sarà a casa in pochi giorni... se sceglie di fermarsi a Borgomago. Potrebbe superarci e andare dritto a Chalced a vendere il carico mentre è ancora in buone condizioni.» «Vuoi dire mentre gli schiavi sono ancora vivi e commerciabili» osservò Ronica implacabile. Si era sempre opposta all'uso del veliero vivente di famiglia come nave schiavista. Sosteneva di opporsi a quel traffico per principio, ma questo non le impediva di tenere una schiava in casa. Aveva detto che essere usata per il trasporto di schiavi era dannoso per la nave, che un veliero vivente non poteva affrontare le lugubri sensazioni di un simile carico. Vivacia si era risvegliata solo poco prima di partire. Tutti dicevano che i velieri viventi erano molto sensibili ai sentimenti di coloro che vivevano a bordo, soprattutto le giovani navi. Malta aveva i suoi dubbi. Pensava che tutta la storia dei velieri viventi fosse una sciocchezza. Per quel che poteva vedere, possedere un veliero vivente aveva portato solo debiti e guai alla famiglia. Bastava guardare la sua situazione. Aveva implorato per mesi di vestirsi e socializzare come una giovane donna invece che una ragazzina, e adesso la famiglia finalmente stava cedendo. E perché? Non perché avessero visto che la richiesta era ragionevole. No. Perché un qualche stupido contratto diceva che se sua nonna non poteva continuare a pagare i debiti del veliero vivente di famiglia, uno dei giovani della famiglia doveva essere offerto alle Giungle della Pioggia al posto dell'oro. L'ingiustizia della faccenda parve soffocarla. Eccola lì, giovane, bella e fresca. Chi sarebbe stato il suo primo corteggiatore? Un giovane Mercante attraente come Cerwin Trell, un malinconico poeta come Krion Trentor?
No. Non per Malta Vestrit. No, si era ritrovata un verrucoso Mercante delle Giungle della Pioggia, un uomo così orrendamente deforme che doveva portare un velo se desiderava venire a Borgomago. Forse sua madre e sua nonna se ne preoccupavano? Si erano mai fermate a pensare che cosa poteva significare per lei vedersi affibbiare un uomo simile? Oh, no, non loro. Troppo occupate ad angosciarsi per la nave, o per quello che stava accadendo al suo prezioso fratello Wintrow, o per la zia Althea. Malta non contava niente. Eccole lì, ad aiutarla a vestirsi, acconciandole i capelli senza darle retta. In quello che sarebbe stato il più importante pomeriggio della sua vita, discutevano della schiavitù! «...il meglio che può per la famiglia.» Sua madre parlava con voce bassa e piana. «Questo devi ammetterlo. Kyle può essere insensibile. Lo riconosco. Ha ferito i miei sentimenti più di una volta. Tuttavia non è cattivo, né egoista. Non l'ho mai visto fare qualcosa che non ritenesse giusta per tutti noi.» Malta fu un poco sorpresa nel sentire sua madre difendere suo padre. Avevano litigato molto prima che lui partisse, e da allora sua madre aveva parlato poco di lui. Forse, nel suo modo trasandato, casalingo, ancora teneva al marito. Malta aveva sempre compatito suo padre; era uno spreco vergognoso che un capitano così bello e avventuroso avesse sposato una donnetta timida senza interessi nella società o nella moda. Meritava una moglie che si vestisse bene, che organizzasse riunioni sociali a casa sua e attirasse pretendenti appropriati per la figlia. Malta sentì che anche lei meritava una madre come quella. Un nuovo pensiero la riempì di allarme improvviso. «Cosa intendi metterti oggi?» chiese a sua madre. «Quello che ho addosso» rispose Keffria laconica. All'improvviso aggiunse: «Non voglio più sentirne parlare. Reyn viene a trovare te, non me.» In tono più basso aggiunse, quasi con riluttanza: «I tuoi capelli luccicano come la notte stessa. Dubito che vedrà chiunque al di fuori di te.» Malta non permise a quell'inaspettato complimento di distrarla. La semplice veste di lana blu che sua madre indossava aveva almeno tre anni. Era conservata bene e non sembrava usata: solo placida e noiosa. «Almeno ti sistemerai i capelli e metterai i tuoi gioielli?» implorò. Quasi disperata, aggiunse: «A me chiedete sempre di vestirmi bene e comportarmi in modo appropriato quando vi accompagno in faccende da Mercanti. Non dovreste fare lo stesso per me, tu e la nonna?» Girò le spalle allo specchio per affrontarle. Entrambe parvero sorprese.
«Reyn Khuprus sarà anche un figlio cadetto, ma è sempre un membro di una delle famiglie più ricche e influenti di Mercanti delle Giungle della Pioggia. Me lo avete detto voi. Non dovremmo vestire come se ricevessimo un ospite onorato, anche se in cuor vostro sperate che mi trovi poco attraente e se ne vada?» A voce più bassa aggiunse: «Certamente dobbiamo a noi stesse almeno questo amor proprio.» «Oh, Malta» sospirò sua madre. «Credo che la bambina abbia ragione» disse all'improvviso sua nonna. La piccola donna scura, oppressa dai suoi abiti vedovili, drizzò all'improvviso la schiena. «No. So che ha ragione. Entrambe siamo state miopi. Accogliere o meno il corteggiamento di Reyn - non è questo il problema. Abbiamo dato il nostro permesso. La famiglia Khuprus ora possiede l'ipoteca sulla Vivacia. Il nostro accordo ora è con loro. Non solo dovremmo trattarli con la stessa cortesia che usavamo con i Festrew, ma dobbiamo anche presentare lo stesso aspetto.» Ronica camminò in fretta per la stanza. Elencò le sue preoccupazioni sulle dita. «Abbiamo preparato una tavola eccellente, e le stanze sono state rinfrescate di recente per la primavera. Rache può servire in tavola; lo sa fare bene. Vorrei che Nana fosse ancora con noi, ma ha avuto un'occasione troppo buona per chiederle di rinunciare. Pensi che dovrei mandare Rache da Davad Restart, per chiedere in prestito altri domestici?» «Potremmo...» cominciò esitando Keffria. «Oh, per favore, no!» si intromise Malta. «I servitori di Davad sono orridi, maleducati e impertinenti. Stiamo molto meglio senza. Penso che dovremmo mostrare la nostra famiglia come davvero è, piuttosto che presentare una falsa facciata con servitori male addestrati. Cosa riterreste più distinto? Una famiglia dai mezzi limitati che sceglie il meglio permesso dalle sue risorse, o una che prende in prestito aiutanti svogliati?» Malta fu contenta di vedere sua madre e sua nonna sorprese. Keffria sorrise con orgoglio: «La ragazza ha buon senso. Malta, sono sicura che hai visto il cuore del problema. Mi piace sentirti parlare così.» L'approvazione di sua nonna fu più cauta. Strinse le labbra e annuì appena. Malta si guardò allo specchio, girando la testa per vedere come sua madre era riuscita ad acconciarle i capelli. Poteva andare. Ancora una volta gettò uno sguardo al riflesso di sua nonna. La vecchia stava ancora studiandola con attenzione. Malta decise che era difficile per Ronica Vestrit accettare che chiunque altro fosse intelligente. Era così. Sua nonna era gelosa che Malta potesse pensare chiaramente come lei. Anzi, di più. Co-
munque sua madre era stata orgogliosa di lei. Sua madre poteva essere conquistata con l'astuzia. Malta non ci aveva mai pensato. Le venne un'ispirazione improvvisa. «Grazie, mamma. Mi piace quello che hai fatto con i miei capelli. Ora permettimi di acconciare i tuoi. Vieni. Siediti.» Si alzò con grazia e trasse la madre sbalordita al suo posto di fronte allo specchio. Tolse le lunghe spille dai capelli scuri di Keffria, che scesero a cascata sulle sue spalle. «Porti i capelli come una vecchia sciatta» disse con naturalezza. Non ebbe bisogno di far notare che sua nonna li portava allo stesso modo. Si chinò per mettere una guancia accanto a quella di sua madre, e incontrò i suoi occhi nello specchio. «Lascia che te li acconci con dei fiori, risalteranno anche di più con i tuoi spilloni di perla. È primavera, sai, tempo di celebrare lo sbocciare della vita.» Malta prese la spazzola dal manico d'argento e la passò attraverso i capelli di sua madre. Alzò la testa per sorridere al suo riflesso nello specchio. «Se non possiamo permetterci vestiti nuovi prima che papà ritorni, forse potremmo ravvivare alcuni dei più vecchi con nuovi ricami. Sono certa che sarebbe contento. Inoltre è ora che io impari il tuo punto a bocciolo di rosa. Forse, dopo la visita di Reyn, potresti insegnarmelo.» Ronica Vestrit diffidava della dolcezza improvvisa della nipote. Il proprio pessimismo non le faceva onore, eppure non riusciva ad accantonarlo. Maledette le circostanze che avevano messo la reputazione e le finanze della famiglia nelle mani goffe di quella ragazzina avventata. Cosa ancor più spaventosa, quelle mani erano avide e bramose, e la stupidità di Malta poteva farne dimenticare l'astuzia. Se solo la ragazza avesse applicato la sua mente acuta a ciò che era davvero meglio per la famiglia e sé stessa, avrebbe reso orgogliosi i Vestrit. Per come stavano le cose, era un fattore di pericolo. Mentre lasciava in silenzio la stanza dove Malta stava intrecciando i capelli di sua madre, Ronica rifletté acidamente che, se la fortuna la favoriva, forse Reyn Khuprus l'avrebbe tolta dalle loro mani. Sarebbe stato riposante sbarazzarsi della piccola cospiratrice; poi Ronica immaginò Malta come nuora di Jani Khuprus, e fremette. No. Malta era un problema dei Vestrit. Meglio tenerla a casa finché non imparava a comportarsi come si addiceva al suo nome. A volte Ronica pensava che l'unico modo fosse una frusta. Cercò la relativa pace delle sue stanze. Con l'arrivo della primavera aveva fatto pulire e rinfrescare la camera come faceva ogni anno. Non era
servito. Il ricordo dell'odore di malattia indugiava. La luce del sole che si riversava dalle alte finestre sembrava falsa. Le lenzuola pulite sul letto sembravano glacialmente bianche e fredde, non fresche e invitanti. Andò alla sua toeletta e si sedette. Si guardò allo specchio. Malta aveva ragione: era diventata una vecchia sciatta. Non si era mai ritenuta bella, ma quando Ephron era vivo si era tenuta in ordine. Dopo la sua morte, Ronica aveva dimenticato. Aveva smesso di essere una donna. Le rughe sul viso si erano approfondite; la pelle della gola era flaccida. I pochi vasetti di cosmetici sul tavolino erano impolverati. Quando aprì il portagioielli, il contenuto le parve familiare e insieme estraneo. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si era presa cura del suo aspetto? Da quando ci aveva anche solo pensato? Trasse un respiro profondo. «Ephron.» Fu tutto ciò che disse, pronunciando semplicemente il suo nome. In parte un'invocazione, in parte una parola di scusa, in parte un addio. Poi alzò le mani per sciogliersi i capelli. Li liberò sulle spalle, aggrottando la fronte alla vista di come si erano diradati. Si portò le mani al viso, tastando l'aridità cartacea della pelle e tentando di lisciare le linee che le incorniciavano la bocca. Scosse la testa e poi si chinò per soffiare via la polvere dai vasetti di cosmetici. Aprì il primo. Stava finendo di applicarsi il profumo quando udì alla porta il bussare esitante di Rache. «Avanti» disse distrattamente. Da quando Nana se n'era andata, Rache era l'unica domestica rimasta nella casa un tempo frenetica. Quando la schiava entrò, Ronica seppe subito perché era lì. Solo una visita di Davad Restart accendeva quell'odio represso negli occhi della donna. Rache lo incolpava ancora della morte di suo figlio a bordo della nave schiavista che la portava da lui. Bastava menzionare il Mercante per suscitare quell'espressione; era l'unico momento in cui la giovane sembrava davvero viva. Ronica sospirò e implorò: «Per favore, no» ma sapeva che l'uomo era già in sala da pranzo. «Mi dispiace, signora» disse Rache con voce quasi inespressiva. «È il Mercante Restart. Insiste che deve vedervi.» «Va bene» rispose Ronica con un sospiro più profondo. Si alzò dalla toeletta. «Scenderò appena sarò vestita. No. Non andarglielo a dire. Se non può prendersi la briga di mandare un messaggero prima di una visita di cortesia, può aspettare finché non sarò pronta. Aiutami con il vestito, per favore.» Tentò di fare una battuta su Davad, ma la bocca di Rache rimase una li-
nea piatta. Quell'uomo aveva scaricato Rache alla famiglia Vestrit quando Ephron stava morendo, in apparenza per aiutarli. Ronica sospettava che avesse voluto liberarsi di Rache e del suo sguardo assassino. Supponeva che tecnicamente la donna appartenesse ancora a lui, una schiava secondo la legge di Jamaillia. Borgomago non riconosceva la schiavitù. Lì Rache veniva educatamene definita come una serva a contratto. A Borgomago negli ultimi tempi c'erano parecchi 'servi a contratto'. Ronica la trattava come una qualsiasi domestica retribuita. Scelse con calma, decidendo infine per un vestito di lino verde pallido. Era passato tanto tempo da quando aveva indossato qualcosa che non fosse un'informe veste da casa. L'abito la fece sentire stranamente nuda, anche quando le gonne furono fissate alla vita con una fascia e la camicia allacciata sulla schiena. Fece una pausa per guardarsi di nuovo allo specchio. Ebbene... Non era bella. Non era giovane. Tuttavia era di nuovo la matriarca di una Famiglia di Borgomago. Appariva curata e dignitosa. Andò al cofanetto dei gioielli, per avvolgersi ampiamente la gola di perle e appenderne altre alle orecchie. Ecco. La piccola sfacciata insinuasse pure che era una vecchia sciatta, adesso. Girò le spalle allo specchio per trovare Rache che la guardava con occhi sbarrati. Ronica si sentì quasi lusingata dalla sorpresa della domestica. «Ora vedrò Davad. Porteresti caffè e qualche dolcetto dalla cucina, per favore? Nulla di elaborato. Non desidero incoraggiarlo ad attardarsi.» «Sì, signora.» Rache fece un inchino e uscì in silenzio. Le gonne di Ronica bisbigliavano mentre camminava per il corridoio verso la sala da pranzo. Le perle erano fresche contro la pelle. Strano come un cambio di indumenti e un po' di cura per l'aspetto la facesse sentire così diversa. Il lutto profondo per Ephron c'era ancora, come la rabbia per tutto ciò che era successo con la sua morte. Per tutto l'inverno aveva fatto del suo meglio per affrontare i colpi, uno per uno. Scoprire che la fiducia in suo genero era stata mal riposta l'aveva sconvolta. L'avidità di Kyle aveva cacciato via Althea, e il suo bisogno di controllo spietato aveva pressoché paralizzato Keffria. La scoperta che sua figlia Malta sembrava decisa a crescere come lui era angosciante. Da alcuni mesi Keffria aveva promesso di occuparsi di Malta e cambiarla. Ronica sbuffò. Fino a quel momento la sola differenza era che la ragazzina diventava ogni giorno più intrigante. All'ingresso della sala da pranzo Ronica si fermò e scacciò quei pensieri. Con uno sforzo di volontà spianò la fronte e si stampò un'espressione piacevole sul viso. Drizzò la schiena e le spalle, poi aprì la porta e avanzò
nella stanza con un «Buongiorno, Davad. Che sorpresa, una visita così inaspettata.» Lui era girato di spalle. Aveva preso un libro dalla mensola e lo sfogliava con attenzione accanto alla finestra. Con la schiena rotonda e larga incassata in una tesa giacca blu scura ricordava a Ronica un coleottero. Chiuse il libro e parlò voltandosi. «Non mi sorprende. Sono stato maleducato. Anche un pasticcione socialmente inetto come me sa che avrei dovuto chiedere se avevi tempo di vedermi. Ma sapevo che avresti detto di no, e dovevo... Ronica! Hai un aspetto stupendo!» I suoi occhi la percorsero dalla testa ai piedi in maniera alquanto sfacciata, accendendo un rossore inaspettato sul viso di lei. Un sorriso tornò ad aprirsi sulla tonda faccia accaldata di Davad. «Mi ero abituato a vederti in abiti così cupi, avevo dimenticato il tuo vero aspetto. Ricordo quel vestito. È piuttosto vecchio, vero? Non lo portavi a uno dei ricevimenti che desti per annunciare il matrimonio di Keffria e Kyle? Ti ringiovanisce di anni e anni. Devi essere piuttosto orgogliosa di riuscire ancora a entrarci.» Ronica scosse la testa. «Davad Restart, solo tu puoi rovinare tanti complimenti in un discorso così breve.» L'uomo la fissò, confuso. Come spesso accadeva, era del tutto inconsapevole di quanto fosse indiscreto. Ronica andò a un divano e sedette. «Vieni qui accanto a me» lo invitò. «Ho chiesto a Rache di portare caffè e dolci, ma ti avverto, ho solo qualche momento da dedicarti. Questo pomeriggio riceveremo Reyn Khuprus. Viene a trovare Malta per la prima volta, e c'è ancora molto da preparare.» «Lo so» ammise disinvolto Davad. «I pettegoli di Borgomago non parlano d'altro. È un po' insolito, vero, permettere a un uomo di corteggiarla prima ancora che si sia presentata come adulta? Non che lei non ritenga di essere pronta, ne sono sicuro. Dopo la sua birichinata al ballo l'inverno scorso... Ebbene, non ti biasimo se tenti di sposarla in fretta. Prima quella ragazza si sistema, più sicura sarà tutta Borgomago.» Fece una pausa e si schiarì la gola. Per la prima volta sembrò un poco a disagio. «In effetti, Ronica, è per questo che sono qui. Per implorare da te un grosso favore, temo.» «Desideri chiedermi un favore che in qualche modo è connesso alla visita di Reyn?» Ronica era perplessa e inquieta. «Sì. È semplice. Invita anche me. Ti prego.» Ronica riuscì a non fissarlo a bocca aperta. L'entrata di Rache con il vassoio del caffè la salvò dal rispondere subito. Congedò in fretta la ragazza; non aveva senso costringerla a servire il caffè a un uomo che odiava. Con-
centrandosi sul piccolo rituale, Ronica ebbe il tempo di pensare. Davad irruppe nei suoi pensieri prima che potesse cominciare a esprimere un educato rifiuto. «So che non è corretto, ma ho pensato a un espediente.» Ronica decise di essere schietta. «Davad, non voglio che tu trovi un espediente. La famiglia Khuprus è socialmente potente. Di questi tempi non posso permettermi di offendere nessuno a Borgomago, tanto meno un rampollo dei Khuprus. Non mi hai detto perché desideri essere qui quando lo riceveremo. Per tradizione solo la famiglia della ragazza è presente quando il giovane viene a trovarla per la prima volta. Per metterlo a suo agio, sai.» «Lo so, lo so. Ma dato che Ephron è morto e il padre di Malta è per mare, ho pensato che potresti presentarmi come un vecchio amico che fa le loro veci... una specie di protettore in assenza degli altri uomini di famiglia...» La voce di Davad si spense davanti all'espressione di Ronica. La donna parlò con sommesso autocontrollo: «Davad, sai bene che non ho mai avuto bisogno di un uomo per proteggermi. Quando le ragazze erano piccole ed Ephron era spesso per mare, non ho mai chiesto ai suoi amici di compiere operazioni commerciali per me, o di trattare con realtà sgradevoli in sua assenza. Mi sono arrangiata. Tutta Borgomago lo sa. È quello che sono. Ora che sono davvero sola, dovrò forse tremare e svenire e nascondermi dietro di te? Non credo proprio. Oggi Reyn Khuprus verrà a incontrare la famiglia della ragazza che desidera sposare. Ci vedrà per come siamo davvero.» Mentre Ronica prendeva fiato dopo quell'assalto, Davad parlò in fretta. «È per me. A mio beneficio, voglio dire. Sarò onesto con te. Tu non ne guadagni niente, sono pronto ad ammetterlo, anzi è probabile che la mia presenza ti provocherà anche imbarazzo. Sa mi è testimone, molte famiglie a Borgomago non mi ricevono più. Sono ben consapevole di essere inadatto agli eventi mondani. Ebbene, non sono stato mai bravo nelle faccende sociali. Dorili sì. Era sempre lei a occuparsene. Dopo la sua morte molti a Borgomago mi trattavano ancora con cortesia, in sua memoria, penso. Ma anno dopo anno il numero di Mercanti che mi salutavano come un amico è calato. Suppongo di offendere senza accorgermene. Ormai, di tutti i Mercanti di Borgomago, sei l'unica che oso chiamare 'amica'.» Fece una pausa ed emise un pesante sospiro. «Non ho nessun altro a cui rivolgermi nel mio isolamento. So che devo ricostituire le mie alleanze. Se
potessi formare dei legami commerciali con i Mercanti delle Giungle della Pioggia, lo farei. So che molti a Borgomago non approvano la mia politica. Dicono che striscio ai piedi dei Nuovi Mercanti, che i miei affarucci con gli schiavi sono disonorevoli, che ho tradito le vecchie famiglie di Borgomago negoziando per i Nuovi Mercanti. Ma tu sai che lo faccio solo per sopravvivere. Che altro mi resta? Guardami! Non ho nessuno cui affidarmi, ho solo la mia intelligenza. Non ho una moglie che mi conforti, un figlio che erediti le mie terre. Cerco solo di mantenere proprietà e redditi sufficienti a vivere una buona vecchiaia. Dopo, tutto avrà fine.» Fece una pausa drammatica e concluse con voce fioca: «La mia famiglia finisce con me.» Ronica aveva chiuso gli occhi a metà della recita. Quando l'uomo sospirò di nuovo, li aprì. «Davad,» disse in tono ammonitore «dovresti vergognarti a tentare certi trucchi con me. Rifiuto di compatirti, come non compatisco me stessa. Ci siamo scavati la fossa con le nostre mani. Conosci le radici dei tuoi problemi; me le hai appena elencate. Se vuoi riguadagnare il rispetto dei Mercanti di Borgomago, smetti di intrallazzare con i Nuovi Mercanti. Cessa i tuoi 'affarucci' nella vendita di esseri umani. Se ridiventi quello che eri, i tuoi amici torneranno. Non subito, perché hai bellamente pestato i piedi di molti. Ma torneranno. Sei un Vecchio Mercante. Non appena te ne ricorderai, lo ricorderanno anche i nostri concittadini.» «E intanto dovrei signorilmente morire di fame?» sbottò Davad. Come per scongiurare un tale fato atroce diede un poderoso morso al dolcetto speziato che teneva in mano. «Non morirai di fame» dichiarò Ronica implacabile. «Come hai detto, hai solo te stesso da sostentare. Potresti vivere delle tue proprietà se scegliessi di applicarti, anche se non trattassi mai un altro affare in vita tua. Oso dire che se riducessi i tuoi servitori potresti procurarti gran parte delle tue necessità da un orto, qualche pollo e un po' di bestiame. Potresti ritornare alla semplicità, come Keffria e io siamo state costrette a fare. Quanto a essere solo al mondo, se ricordo bene, hai una nipote. Riconciliati con lei, se vuoi un erede. Potresti ricomporre i dissidi con quel ramo della famiglia.» «Oh, lei mi odia.» Davad spazzò via l'idea insieme alle briciole che gli erano cadute in grembo. «Colpa di qualche commento innocente che ho fatto con suo marito mentre la corteggiava. Mi tratta come se avessi la peste. È al di là della riconciliazione.» Bevve un sorso di caffè. «Inoltre, come puoi criticare i miei 'affarucci' con gli schiavi? Non è vero che Kyle e
la Vivacia sono in viaggio per commerciare esseri umani?» Il viso di Ronica si incupì, e Davad cambiò tattica all'improvviso. «Per favore, Ronica. Non mi attarderò. Permettimi solo di poter essere qui quando arriva, presentami semplicemente come amico di famiglia. È tutto ciò che chiedo. Aiutami a stabilire una conoscenza superficiale. Io farò il resto.» La guardò implorante. L'olio profumato sui capelli gli aveva lasciato la fronte lucida. Era patetico. Era un vecchio amico. Trafficava in schiavi. Lui e Dorili si erano sposati una settimana dopo Ephron e Ronica; avevano ballato ai rispettivi matrimoni. Di certo avrebbe detto qualcosa di inopportuno a Reyn. Era venuto da lei come ultima speranza. Era un disastro imminente. Ronica lo fissava ancora ammutolita quando Keffria entrò nella stanza. «Davad!» esclamò. Sorrise rigidamente, stralunata dall'orrore. «Che sorpresa! Non sapevo che tu fossi qui.» Davad si alzò in fretta, quasi rovesciando la tazza di caffè. Piombò su Keffria, le prese la mano ed esclamò radioso: «Ecco, so che non è del tutto corretto, ma non potevo resistere. Con Kyle assente, ho pensato che fosse solo giusto che ci fosse un uomo in famiglia per valutare questo giovincello che viene a corteggiare la nostra Malta!» «In effetti...» disse debolmente Keffria. Rivolse a sua madre uno sguardo accusatore. Ronica si costrinse a dire la verità. Parlò con voce quieta. «Ho detto a Davad che è del tutto inappropriato. Più tardi nel corteggiamento, se entrambi i ragazzi scelgono di continuarlo, offriremo un tè e inviteremo gli amici. Sarebbe il momento più adatto per incontrare Reyn e la sua famiglia.» «Suppongo di sì» disse pensoso Davad. «Se è il meglio che puoi offrire al tuo più vecchio e sincero amico, Ronica Vestrit. Ritornerò quando sarò invitato, dunque.» «Troppo tardi» disse Keffria con voce fioca. «Ecco perché venivo a cercare la mamma. Reyn e la sua famiglia sono già qui.» Ronica si alzò in fretta. «La sua famiglia? Qui?» «In soggiorno. Lo so: non li aspettavo neppure io. Non aspettavo Reyn fino al tardo pomeriggio; la nave aveva il vento in poppa. Tuttavia Jani Khuprus è qui con lui, e anche un fratello maggiore... Bendir. Fuori aspetta un corteo di servitori con cesti di regali e... Madre, ho bisogno del tuo aiuto. Con il nostro personale ridotto, come possiamo...» «È molto semplice» si intromise Davad. All'improvviso tutto il suo at-
teggiamento era cambiato da postulante a dominatore. «Avete ancora un ragazzo per il giardino e la stalla. Mandatelo da me. Scriverò una nota: può portarla a casa mia, e in un attimo il mio personale arriverà qui. Con discrezione, certo. Darò istruzioni molto specifiche che dovranno comportarsi come se fossero i vostri domestici e che questo è il loro normale posto di lavoro e...» «E quando il pettegolezzo si spargerà per Borgomago, come ogni volta che c'entrano i domestici, saremo oggetto di grande scherno. No, Davad.» Fu Ronica a sospirare. «Accettiamo la tua offerta. Non abbiamo alternativa. Comunque, se dobbiamo prendere domestici in prestito, non esiterò ad ammettere che è così. Né la tua gentilezza in proposito va nascosta nell'interesse del nostro orgoglio.» Rendendosi tardivamente conto che l'opinione di sua figlia poteva essere diversa, Ronica si rivolse a Keffria. «Sei d'accordo?» le chiese brusca. Keffria scosse la testa, abbattuta. «Suppongo che sia necessario. A Malta non piacerà per niente.» Aggiunse l'ultima frase quasi a sé stessa. «Non lasciare che quella bella testolina si preoccupi troppo.» Davad ora era radioso. Ronica avrebbe voluto bastonarlo. «Sono sicuro che in ogni modo sarà troppo interessata al suo pretendente per dare retta a un vecchio amico di famiglia. Dunque, dov'è la carta, Ronica? Butterò giù una nota e potrai affidarla al ragazzo.» Malgrado le apprensioni di Ronica, tutto avvenne in fretta, e facilmente. Keffria tornò dagli ospiti, assicurandoli che sua madre sarebbe apparsa a breve. Il messaggio fu spedito. Davad insisté per darsi un'ultima occhiata allo specchio. Non sapendo se fosse motivata da pietà per lui o per sé stessa, Ronica lo persuase ad asciugarsi l'unto dai capelli e dalla fronte e a pettinarsi in uno stile più dignitoso. Le calze si afflosciavano sulle ginocchia ma non ci si poteva fare niente, le disse Davad, tutte le sue calze facevano così, e quanto alla giacca, era nuova, e il taglio era considerato piuttosto elegante. Ronica si morse la lingua e non gli fece notare la differenza fra elegante e confacente. Poi, con grande trepidazione, entrò in soggiorno al braccio di Davad. Aveva sentito dire che il corteggiamento di un uomo delle Giungle della Pioggia era meno contenuto di quello praticato a Borgomago. Prima che Keffria concedesse a Reyn di corteggiare sua figlia si erano fatte promettere che il giovane non avrebbe offerto regali costosi che potevano far girare la testa a una ragazzina. Ronica si aspettava che Reyn portasse a Malta un mazzolino di fiori e forse dei dolci. Era pronta a essere presentata a un
giovane timido, forse accompagnato dal suo tutore o da suo zio. Il soggiorno si era trasformato. Le semplici composizioni di fiori primaverili che lei e Keffria avevano colto in giardino erano quasi scomparse. Cesti, ciotole e vasi di fiori esotici delle Giungle della Pioggia erano sbocciati a profusione in tutta la stanza. L'inebriante fragranza floreale era spessa come fumo. Piatti e ciotole di frutta, bottiglie di vino e vassoi di dolci e pasticcini si erano aggiunti al pasto disposto con attenzione sulla tavola. Uccelli dai colori brillanti cinguettavano in una gabbia d'ottone appesa a un albero artificiale in bronzo e legno di ciliegio. Un piccolo gatto da caccia chiazzato, poco più che un micetto, vagava speranzoso sotto la gabbia. I domestici, sia velati che a volto scoperto, si muovevano con silenziosa alacrità per la stanza, completando la trasformazione. Quando Ronica entrò, un giovane il cui viso velato lo proclamava come un Mercante delle Giungle della Pioggia iniziò una melodia lamentosa su una piccola arpa. Come portata dalla musica, Jani Khuprus si alzò con solennità per salutarla. Il velo sul suo viso era merletto bianco luccicante di perle. L'ampio cappuccio che le copriva i capelli era decorato in trecce e spire di fiocchi serici in molte sfumature di blu. Portava una camicia ornata da una dovizia di nastri, e pantaloni ampi, strettì alle caviglie da altri nastri. I fantastici ricami quasi oscuravano il lino bianco. Ronica non aveva mai visto una donna in tale abbigliamento, ma seppe subito che sarebbe diventata la nuova moda di Borgomago. Quando Jani la salutò nella stanza trasformata, Ronica si sentì trasportare magicamente nelle Giungle della Pioggia, ospite a casa dei Khuprus. La voce di Jani era calda, e solo un rapido moto perplesso tradì la sua curiosità su Davad. «Sono così contenta che siate scesa a raggiungerci.» Con imbarazzante familiarità prese entrambe le mani di Ronica fra le sue. Si chinò più vicina per confidare: «Dovete essere molto orgogliosa di vostra figlia Keffria. Ci ha salutati con tale calore, tale grazia! Fa onore alla sua educazione. E Malta! Oh, capisco perché mio figlio è stato colpito così in fretta, e fino in fondo al cuore. È una fanciulla, come mi avete avvertito, ma è già un fiore che sboccia. Qualsiasi giovane cadrebbe preda di quegli occhi. Non c'è da stupirsi che Reyn abbia scelto con tanta cura i regali. Quando i fiori sono così ammassati confesso che sembrano un poco opprimenti, ma certamente perdonerete l'impetuosità di un giovane.» «Soprattutto dato che è troppo tardi per rimediare!» replicò Davad mentre Ronica ancora stava componendo una risposta. Avanzò per mettere la
mano su quelle unite di Jani e Ronica. «Benvenuta a casa Vestrit. Sono Davad Restart, un vecchio amico di famiglia. Siamo così entusiasti di avervi qui, e profondamente onorati che Reyn corteggi la nostra Malta. Non sono splendidi insieme?» Le sue parole erano così diverse da qualsiasi cosa Ronica avrebbe scelto di dire che quasi perse il controllo di sé. Jani guardò dal viso di Davad a Ronica prima di spostare con dolcezza ma senza lasciare dubbi le mani dalla sua presa. «Vi ricordo bene, Mercante Restart.» Il tono della voce era freddo; evidentemente il ricordo non era positivo. La sottigliezza andò persa per Davad. «Ne sono così contento e onorato» esclamò gioviale. Irradiò un sorriso su Jani Khuprus. Evidentemente credeva che le cose andassero a meraviglia. Ronica sapeva di dover dire qualcosa, ma non riusciva a trovare parole significative. Si rifugiò nella banalità. «Fiori così belli. Solo la le Giungle della Pioggia producono colori e profumi così meravigliosi.» Jani si spostò impercettibilmente: bastò per guardare in volto Ronica, mentre la spalla girata verso Davad lo escludeva. «Sono così contenta che vi piacciano. Temevo che mi avreste rimproverata per aver permesso a Reyn di indulgere in tale abbondanza. So che eravamo d'accordo di rimanere su regali semplici.» Invero Ronica sentiva che Jani aveva oltrepassato i confini dell'accordo. Prima di trovare un modo delicato di lasciar capire che Reyn non doveva farlo mai più, Davad intervenne per lei. «Semplici? Che c'entra la semplicità con la passione di un giovane? Se fossi di nuovo un ragazzo e corteggiassi una fanciulla come Malta, anch'io tenterei di sommergerla di regali.» Ronica finalmente trovò la lingua. «Ma io sono sicura che un giovane come Reyn vorrà essere apprezzato per quello che è, non per i suoi regali. Un tale sfoggio è degno del loro primo incontro, ma sono sicura che in futuro il suo corteggiamento sarà più contenuto.» Rivolgendosi a Davad piuttosto che a Jani, Ronica aveva sperato di evitare di offendere, facendo tuttavia capire la propria posizione. «Sciocchezze!» insisté Davad. «Guardali. Ti sembra che lei voglia permettergli di contenersi?» Malta sembrava accomodata in un trono di fiori. Sedeva su una poltrona con un enorme mazzo di fiori in grembo. Attorno a lei era disposto ogni genere di vasi di fiori e piante. Un solo fiore rosso era fissato alla spalla del suo austero vestito bianco. Un altro era assicurato nei capelli raccolti. Si armonizzavano con i toni caldi della pelle, e facevano sembrare i capelli
neri ancor più lucenti. Con gli occhi bassi parlava sommessamente al giovane che stava in piedi accanto a lei con premura. Ogni tanto gli gettava uno sguardo attraverso le ciglia. Quando lo faceva, la bocca si curvava in un minuscolo sorriso felino. Reyn Khuprus vestiva tutto d'azzurro. Un mantello turchese era drappeggiato su una sedia accanto a lui. Il suo abbigliamento tradizionale delle Giungle della Pioggia, pantaloni larghi e una camicia dalle maniche lunghe, camuffava efficacemente qualsiasi deformità a uno sguardo distratto. Aveva fasciato con orgoglio la vita magra con una larga cintura di seta, più scura degli altri abiti. Gli stivali neri spuntavano dagli orli sciolti dei pantaloni. Il dorso dei fini guanti neri era borchiato di gemme di fiamma blu in una manifestazione di noncurante ricchezza da togliere il fiato. Il cappuccio era semplice, della stessa seta della fascia. Il velo sul viso era merletto nero che oscurava con efficacia i suoi lineamenti. Eppure l'inclinazione della testa tradiva la sua attenzione rapita. «Malta è molto giovane.» Ronica parlò in fretta, prima che chiunque altro potesse intervenire. «Non ha la saggezza per sapere quando procedere con cautela. Tocca a sua madre e a me esercitare cautela. Jani e io siamo d'accordo che, per il loro bene, non dobbiamo permettere a questi giovani di essere troppo impulsivi.» «Ebbene, non capisco perché» la contraddisse Davad, gioviale. «Ne può venire solo del bene. Prima o poi Malta dovrà sposarsi. Perché ostacolare un giovane amore? Pensa a quello che ne può derivare: nipotini per Jani, bisnipoti per te, Ronica. E accordi commerciali proficui per tutti, senza dubbio.» Ronica soffriva sentendo Davad trascinare così laboriosamente la conversazione dove voleva che andasse. Nel corso degli anni era giunta a conoscerlo troppo bene. Era quella la vera ragione per cui si trovava lì. Era un vecchio amico; la sua preoccupazione per Malta e il suo futuro era sincera. Ma la maggior parte del suo cuore era stata donata tempo prima al commercio e ai profitti. Nel bene o nel male, così funzionava la mente di Davad. Non aveva mai esitato a usare le sue amicizie per gli affari, anche se di rado metteva a rischio un profitto nell'interesse dell'amicizia. Tutto questo passò attraverso la mente di Ronica in una frazione di secondo. Vide Davad con chiarezza, come aveva sempre saputo che era. Non aveva mai valutato che cosa significasse avere un amico come lui. Le divergenze politiche non l'avevano persuasa ad abbandonarlo, anche quando molti altri Mercanti avevano smesso di trattare con lui. Non era davvero
cattivo; solo non si curava molto di quello che faceva. Andava dove i profitti lo attiravano: la tratta degli schiavi, le pratiche discutibili dei Nuovi Mercanti, perfino il vantaggio che poteva essere ricavato dal corteggiamento non richiesto di Malta. Non intendeva fare del male; non pensava affatto al bene o al male. Quello non lo rendeva innocuo: non in termini di quello che poteva fare inavvertitamente alla famiglia Vestrit se avesse offeso proprio ora Jani Khuprus. La famiglia Khuprus possedeva l'ipoteca sul veliero vivente Vivacia. Ronica aveva accettato con riluttanza che Reyn corteggiasse Malta, sicura che presto il giovane si sarebbe reso conto di quanto la fanciulla fosse immatura e inadatta. Se Reyn avesse cominciato il corteggiamento per poi infrangerlo, Ronica ne avrebbe ricavato un bizzarro vantaggio sociale. La famiglia Vestrit sarebbe stata vista come la vittima; la famiglia Khuprus avrebbe dovuto essere più che civile nei loro rapporti commerciali. Ma se la famiglia Khuprus avesse infranto il corteggiamento perché la famiglia Vestrit aveva connessioni politiche indesiderabili, forse l'atteggiamento degli altri Mercanti sarebbe stato sostanzialmente diverso. Ronica aveva già subito pressioni sociali per tagliare i ponti con Davad Restart. Se fossero diventate anche commerciali, si sarebbe trovata in una palude finanziaria. La cosa più saggia era scaricare Davad Restart. La lealtà glielo impediva. E l'orgoglio. Se i Vestrit si fossero lasciati governare da ciò che gli altri percepivano come corretto, avrebbero perso ogni controllo del destino. Non che ne rimanesse molto nelle loro mani. Il silenzio si era fatto imbarazzante. Ronica era come rassegnata, preda di un misto di fascino e orrore. Quale nuova cosa terribile avrebbe detto Davad? Del tutto ignaro della propria goffaggine, il Mercante sorrise brillantemente e cominciò: «Parlando di alleanze commerciali...» La salvezza venne da una direzione inaspettata. Keffria avanzò verso di loro. Un sottilissimo velo di sudore sulla fronte era l'unico segnale visibile dell'agitazione che di certo provava vedendo Davad così a lungo vicino a Jani Khuprus. Gli sfiorò il braccio e gli chiese piano se poteva assisterla in cucina, solo per un momento. I servitori avevano difficoltà ad aprire alcuni dei vecchi vini che aveva scelto; poteva venire a sovrintendere? Keffria aveva avuto un'idea geniale. Il vino e l'arte di servirlo correttamente erano una delle ossessioni preferite di Davad. Il Mercante si affrettò verso la cucina con Keffria che lo seguiva annuendo, mentre lui parlava dottamente del modo corretto di stappare una bottiglia per agitarla il meno
possibile. Ronica sospirò di sollievo. «Strano che tu tolleri la sua presenza» osservò Jani con calma. Ora che Davad era sparito, si portò al fianco di Ronica. Le parlò in confidenza, riparata dalla musica e dalla conversazione nella stanza. «L'altro giorno l'ho sentito ribattezzare il Mercante Mentitore. Lui nega, ma tutti sanno che è stato l'intermediario dei Nuovi Mercanti in molti dei loro affari più discutibili. Si dice anche che sia dietro a quelli che fanno offerte assurde nella speranza di comprare Paragon.» «Offerte scandalosamente assurde» concordò Ronica a voce bassa. «Trovo riprovevole che la famiglia LaSuerte le prenda anche solo in considerazione.» Dividendo quel pensiero con Jani, arrischiò un piccolo sorriso. Per non essere fraintesa aggiunse il vecchio adagio dei Mercanti: «Dopo tutto, in ogni affare bisogna essere in due.» «Proprio così» riconobbe pacata Jani. «Ma Davad non è crudele a tentare i LaSuerte con simili proposte? Sa quanto sia difficile la loro situazione.» «Oggi molti Mercanti di Borgomago sono alle strette. Compresi i Vestrit. Quindi formiamo fra noi alleanze che ad altri possono sembrare strane. Per esempio oggi Davad mi ha offerto l'uso dei suoi servitori, perché era consapevole che avevamo ridotto il nostro personale al minimo.» Ecco. Adesso era alla luce del sole. Se il corteggiamento di Reyn era erroneamente basato su una ricchezza presunta che la famiglia Vestrit non possedeva più, sarebbe cessato presto. Quando Jani Khuprus rispose, Ronica scoprì di aver mal giudicato la profondità della sua cortesia. «Anch'io ero consapevole delle vostre preoccupazioni finanziarie. Mi piace vedere Reyn corteggiare una giovane che capisce la necessità di vivere entro i limiti dei propri mezzi. Parsimonia e disciplina sono sempre virtù, non importa la ricchezza. I servitori che abbiamo portato con noi non erano intesi per mettervi in imbarazzo, ma per fare in modo che questo fosse per tutti un momento libero da preoccupazioni.» La sincerità risuonava nella sua voce. «Davad può essere un amico difficile» rispose Ronica. «Potrei abbandonarlo. Non mi è mai sembrato onorevole. Non rispetto coloro che allontanano i figli o i parenti che li hanno scontentati. Ho sempre creduto che una famiglia abbia il dovere di continuare a tentare di correggere, non importa quanto sia doloroso. Perché dovrebbe essere diverso con i vecchi amici? Soprattutto quando, in molti modi, noi siamo divenuti la famiglia di Davad. Ha perso sua moglie e i figli nella Peste di Sangue, come forse sapre-
te.» La risposta di Jani colse Ronica di sorpresa. «Allora non avete scacciato Althea per il suo comportamento improprio?» Ronica era sgomenta. Erano quelle le voci di Borgomago? Erano arrivate fino alle Giungle della Pioggia? Fu grata per il domestico che all'improvviso presentò un vassoio di dolci delicati. Era stato solo la notte scorsa che lei e Keffria li avevano cotti al forno? Ne prese uno, e subito si trovò davanti un altro domestico che le offrì un calice a stelo pieno di un liquore delle Giungle della Pioggia. Ronica ringraziò e bevve un sorso. «È buonissimo» disse a Jani con autentico piacere. «Anche i dolci.» Jani girò la testa, indugiando con lo sguardo su Reyn e Malta. Qualunque cosa la fanciulla avesse appena detto, aveva fatto ridere il giovane. L'inclinazione della testa di Jani suggerì che anche lei sorrideva. Ronica considerò la possibilità di lasciar cadere l'argomento, ma poi si fece forza. Meglio soffocare le dicerie non appena si facevano sentire. Solo Sa poteva sapere da quanto tempo circolavano, probabilmente fin dall'estate scorsa. «Non ho chiesto ad Althea di lasciare la nostra casa. Anzi, se n'è andata contro la mia volontà. La divisione dell'eredità di suo padre l'ha angosciata molto. Si aspettava di ottenere la Vivacia. Ha sofferto quando non è stato così, e ha contestato il modo in cui Kyle gestiva la nave. C'è stato un litigio e lei se n'è andata.» Era faticoso, ma Ronica fissò il velo di Jani e aggiunse: «Non so dove sia ora, o cosa stia facendo. Se arrivasse alla porta in questo momento, l'accoglierei con tutto il cuore.» Jani parve restituirle lo sguardo. «Forse è stata una domanda imbarazzante. Parlare onestamente è il mio stile. Non intendo offendere. Mi è sempre sembrato che le parole oneste lascino poco spazio alle incomprensioni.» «Sono d'accordo.» Gli occhi di Ronica seguirono lo sguardo di Jani, che si girò a osservare Reyn e Malta. La ragazza aveva abbassato il viso. Le guance erano accese di rosa, ma gli occhi erano allegri. L'inclinazione della testa di Reyn indicava che condivideva il suo divertimento mentre cercava di guardarla in faccia. «In famiglia non c'è spazio per i segreti» aggiunse Jani. Era meraviglioso, molto più di quanto Malta avesse mai immaginato. Finalmente era trattata come meritava. La sua anima lo bramava da una
vita, e ora poteva saziarsi di dolci sensazioni. I fiori profumavano l'aria tutto attorno a lei, le era stato offerto ogni tipo di cibo ghiotto e fini bevande, e Reyn stesso non poteva essere più premuroso. Non sapeva immaginare cosa avrebbe potuto migliorare la giornata, a meno che le sue amiche avessero potuto essere presenti, invidiose e impressionate. Si concesse di figurarsi la scena. Delo e Gattina e Carissa e Polia sarebbero state sedute là; ogni vassoio di cibo o bibita sarebbe stato offerto prima a Malta, e dopo aver scelto il meglio lei avrebbe mandato il resto alle sue amiche. Più tardi si sarebbe scusata vivamente per aver avuto così poco tempo per loro. Che peccato che Reyn avesse insistito per monopolizzarla! Ma, ecco, sapevano com'erano gli uomini! Avrebbe sorriso con aria esperta. Poi avrebbe raccontato alcuni dei complimenti con cui Reyn l'aveva ricoperta, o avrebbe ripetuto alcune delle sue arguzie... «Posso chiedere che cosa ti fa sorridere così?» chiese Reyn con dolcezza. Non aveva accettato la sua offerta di sedersi. Rimaneva a rispettosa distanza dalla sedia, ma con solerzia. Malta alzò gli occhi al suo viso velato. Il suo bel sogno a occhi aperti si era incrinato. Chi sapeva che genere di viso sorridesse sotto quel velo? Un lieve brivido si rigirò senza riposo nel suo ventre. Non mostrò il disagio, anzi rispose con voce piacevolmente modulata: «Ecco, pensavo solo come sarebbe bello se le mie amiche fossero qui per condividere tutto questo.» Fece un cenno aggraziato verso la stanza parata a festa. «E io stavo pensando il contrario.» Reyn aveva una voce piacevole, colta e riccamente maschile. Il velo fremette lievemente al vento del suo respiro. «Il contrario?» si chiese ad alta voce Malta, sollevando un sopracciglio alle sue parole. Reyn non si mosse, ma abbassò la voce in un tono più intimo. «Stavo pensando come sarà piacevole quando sarò abbastanza in confidenza con te da vederti più in privato.» La sua posa e la sua voce dovevano bastarle. Non c'era un sopracciglio alzato o un sorriso timido ad accompagnare le parole di Reyn. Malta aveva parlato con altri uomini, aveva perfino civettato quando sua madre o sua nonna non erano presenti, ma nessuno era mai stato così franco con lei. Era inebriante e insieme scoraggiante. Mentre esitava seppe che Reyn studiava il suo viso scoperto. Per quanto tentasse, non poteva reprimere ogni espressione. Com'era possibile civettare e sorridere senza sapere se un uomo o un grottesco sbaglio di natura rispondevano a quel sorriso? Il pensiero infuse un lievissimo gelo nelle sue parole. «Di certo dobbiamo prima
decidere se questo corteggiamento dovrà cominciare. Non è a questo che serve il nostro primo incontro? A vedere se siamo adatti l'una all'altro?» Reyn emise un piccolo sbuffo di divertimento. «Mia signora Malta, lasciamo questo gioco alle nostre madri. È il loro ruolo. Non vedi come, anche adesso, si girano attorno come lottatrici, attendendo un'apertura, un piccolo squilibrio? Stringeranno l'accordo che ci congiunge, e non dubito che entrambe le famiglie ne trarranno profitto.» Con un cenno quasi impercettibile della testa incappucciata indicò Jani Khuprus e Ronica Vestrit. I loro atteggiamenti erano studiatamente cordiali, ma una certa controllata tensione in loro suggeriva che era in corso uno scontro verbale. «Quella è mia nonna, non mia madre» fece notare Malta. «E non capisco perché parli di questo incontro come di un gioco. Certamente è un momento serio. Almeno, lo è per me. Tu lo trovi banale?» «Non troverò mai banale alcun momento trascorso in tua presenza. Di questo puoi essere sicura.» Fece una pausa, poi non si trattenne. «Dal momento in cui hai aperto la scatola dei sogni e ci siamo avventurati insieme nella tua fantasia, ho saputo che nulla poteva distogliermi da questo corteggiamento. La famiglia ha cercato di smorzare le mie speranze con la nozione che eri più bambina che donna. L'ho trovato risibile. È quello il gioco di cui ho parlato, il gioco a cui tutte le famiglie giocano quando i loro rampolli desiderano sposarsi. Vengono inventati ostacoli, solo per dissolversi quando la bilancia è abbastanza carica di doni e vantaggi commerciali... Ma questo discorso è troppo brutale per noi. Parla alla tasca e non al cuore. Non tiene conto di tutta la mia brama per te.» Le sue parole si susseguivano incontrollate. «Malta, il mio cuore duole per te. Bramo di possederti, di dividere ogni segreto del mio cuore con te. Prima mia madre si arrenderà a ogni richiesta della tua famiglia, meglio sarà. Dillo a tua nonna. Dille che può chiedere qualsiasi cosa desideri e farò in modo che i Vestrit lo ottengano, purché io possa averti presto fra le mie braccia.» Malta si ritrasse inspirando bruscamente. Lo sgomento non era una finzione, ma Reyn ne confuse la fonte. Fece un passo indietro e inclinò la testa seriamente. «Perdonami, ti prego.» Abbassò la voce. «Sono maledetto da una lingua che pronuncia le parole del mio cuore prima che la mia testa possa intervenire. Come devo sembrarti rozzo, come un animale che ti segue ansimando. Te lo giuro, non è così. Da quando ti ho vista quella sera fuori dalla Sala dei Mercanti, ho capito che avevo un'anima così come una mente. Prima ero poco più di un attrezzo intelligente, e servivo la mia famiglia come potevo per migliorarne le fortune. Quando mio fratello o le
mie sorelle parlavano di passione e attrazione non capivo cosa volessero dire.» Fece una pausa per prendere fiato, ed emise una specie di risata. «Se conosci qualcosa del Popolo delle Giungle della Pioggia, saprai che di solito ascoltiamo i nostri cuori quando siamo giovani e ci sposiamo presto. Per i costumi del mio popolo sono sempre stato una pecora nera. Alcuni dicevano che ero infatuato del mio lavoro, e non avrei mai conosciuto vero amore per un essere umano.» Un sbuffo sdegnato tradì il suo disgusto. Scosse la testa, poi proseguì: «Alcuni bisbigliavano che fossi un eunuco, incapace delle passioni di un uomo. Le loro parole non mi toccavano. Sapevo di avere un cuore, ma dormiva dentro di me, e non vedevo il bisogno di svegliarlo. Nelle rune che tracciavo e decifravo, negli strani meccanismi che smantellavo, pensavo di avere abbastanza da occupare tutti i miei pensieri. Fui seccato quando mia madre insisté perché l'accompagnassi a Borgomago per quella riunione. Seccato! Tutto fu spazzato via nel momento in cui osai parlarti. Come il jidzin si risveglia alla luce con un tocco, così la tua voce svegliò il mio cuore al desiderio. Una folle, fanciullesca speranza mi spinse a lasciarti la scatola dei sogni. Ero sicuro che non l'avresti aperta, sicuro che una come te avrebbe gettato via il mio sogno prima ancora che io potessi rivelartelo. Ma non lo hai fatto. Hai aperto la mia anima e hai condiviso con me una visione di tale magia... Hai camminato per la mia città e la tua presenza l'ha risvegliata alla vita! Avevo sempre creduto che quella città fredda e silenziosa fosse il mio cuore. Puoi capire che cosa abbia significato per me?» Malta ascoltò le sue parole appassionate con attenzione divisa. I suoi pensieri e il suo cuore erano colmi di quello che Reyn aveva detto prima. Il giovane avrebbe fatto in modo che la sua famiglia le concedesse qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa! La mente di Malta sfrecciò qua e là come un pesce irrequieto. Non doveva chiedere troppo e sembrare avida. Rischiava che lui si pentisse della sua passione per lei. Né doveva chiedere così poco da apparire sciocca, o sottovalutata dalla sua famiglia. No. Doveva percorrere un confine attento. Subito decise la rotta che riteneva più saggia in una contrattazione. Oh, se solo suo padre fosse stato lì, avrebbe fatto in modo che Malta usasse la passione di Reyn a suo massimo beneficio. In un istante comprese che doveva rimandare i negoziati fino al ritorno di suo padre. «Sei silenziosa» osservò Reyn con voce contrita. «Ti ho offesa.» Malta si mosse per approfittare del vantaggio. Doveva fare in modo che lui ritenesse la propria posizione incerta, ma non senza speranza. Tentò di dipingersi un sorriso timoroso sul viso. «Non sono abituata... voglio dire,
nessuno mi ha mai parlato di tali...» Lasciò che la voce si spegnesse, dubbiosa. Trasse un respiro come per calmarsi. «Il mio cuore batte così forte... Qualche volta, quando sono spaventata, divento proprio... Pensi che potresti portarmi un bicchiere di vino?» Alzò le mani e si schiaffeggiò leggermente le guance, come sforzandosi di ricomporsi. Dopo il sogno che avevano diviso, poteva fargli credere che il suo spirito fosse così delicato da turbarsi per un tale discorso schietto? Certo che poteva. C'era un panico represso nella posizione delle spalle di Reyn quando si girò in fretta. Afferrò un bicchiere dalla credenza e versò il vino con tanta precipitazione che minacciò di schizzare fuori. Quando glielo portò, Malta si trasse di nuovo indietro leggermente, come temendo di prenderlo dalla sua mano. Reyn emise un piccolo suono costernato, e Malta forzò un sorriso tremulo. Come facendosi forza, prese il bicchiere e se lo portò alle labbra per centellinarlo delicatamente. Era un'annata eccellente. Abbassò il bicchiere e sospirò piano. «Così va meglio. Ti ringrazio tanto.» «Come può ringraziarmi, quando sono io che ti ho provocato tanta angoscia?» Malta sbarrò gli occhi e lo guardò. «Oh, sono sicura che la colpa è mia» disse subdola. «Come devo apparirti sciocca, se comincio a tremare di fronte a semplici parole. Mia madre mi ha avvertito che sono ancora così ignara di quello che significa essere una donna. Questo, suppongo, ne fa parte.» Fece un piccolo cenno verso la stanza. «Come vedi, qui viviamo una vita tranquilla. Suppongo di essere stata più protetta di quanto pensassi. Capisco bene il bisogno della mia famiglia di vivere nella semplicità con quello che possiamo permetterci. Tuttavia sono rimasta lontana da molte esperienze.» Con una piccola alzata di spalle, confessò: «So così poco di come si comportano gli uomini giovani.» Piegò le mani in grembo e le guardò, aggiungendo mitemente: «Devo chiederti di essere paziente mentre imparo, temo.» Un'ultima occhiata verso di lui attraverso le ciglia abbassate. «Spero che non mi riterrai stupida e noiosa, e non ti stancherai del bisogno di insegnarmi. Spero che non mi liquiderai come una scioccherella senza speranza. Vorrei quasi aver avuto altri pretendenti, per sapere qualcosa del comportamento di uomini e donne.» Diede un'altra minuscola scrollata di spalle e un sospiro, abbassando di nuovo lo sguardo. Trattenne il respiro per un momento, sperando che lo sforzo le arrossasse le guance come di confusione. Bisbigliò senza fiato: «Lo confesso, quasi non comprendevo il mio sogno, quella notte che aprii la scatola.» Non alzò lo sguardo mentre implorava con grazia: «Potrai aiutarmi a capire?»
Non ebbe bisogno di vederlo in faccia. Non dovette neppure guardare la sua posizione. Seppe che lo aveva conquistato del tutto nel momento in cui Reyn rispose: «Nulla mi piacerebbe di più che essere la tua guida.» 8 Immersioni Si è fermato! Vivacia era attonita. «No!» gridò Wintrow, con la voce acuta di un ragazzo. Si voltò dalla murata e scattò dal ponte di prua verso quello principale. Lo attraversò di corsa, poi sfrecciò giù per la scaletta. La paura della morte era tutto ciò che aveva tenuto il pirata attaccato alla vita. Quando Wintrow e Vivacia lo avevano persuaso a non temerla, Kennit si era lasciato andare. Sulla porta degli alloggi del capitano, il giovane non bussò né attese. Etta alzò uno sguardo di rabbioso stupore al suo ingresso trafelato. Stava piegando bende di garza. Quando Wintrow corse al letto di Kennit, le lasciò cadere e tentò di intercettarlo. «Non svegliarlo!» lo ammonì. «Finalmente riposa.» «Sta cercando di morire!» la contraddisse Wintrow, spingendola via con la spalla. Giunto al letto prese la mano del pirata e lo chiamò. Nessuna risposta. Batté le dita su una guancia di Kennit, poi lo schiaffeggiò quasi bruscamente. Gli pizzicò la guancia, prima piano, poi più forte, tentando di suscitare una reazione. Nulla. Kennit non respirava. Era morto. Kennit si abbandonò nel buio, sprofondando con dolcezza come una foglia che cade sul terreno della foresta. Si sentiva al caldo e al sicuro. Un sottile filo argenteo di dolore lo ancorava alla vita. Mentre cadeva si fece sempre più sottile. Presto sarebbe svanito, e allora lui sarebbe stato libero dal suo corpo. Non sembrava degno della sua attenzione. Nulla lo era. Si lasciò andare e sentì la coscienza espandersi. Non aveva mai compreso quanto fossero angusti i pensieri di un uomo quando era confinato in un semplice corpo. Tante preoccupazioni e idee discordi si confondevano come le cianfrusaglie nella sacca di un marinaio. Ora potevano spargersi e disconnettersi. Ognuna poteva assumere la propria importanza. All'improvviso sentì uno strattone. Un'insistenza irresistibile lo trasse in sé stesso. Con riluttanza Kennit cedette, ma una volta che l'entità lo ebbe afferrato parve non saper che farsene di lui. Kennit si mescolò confusa-
mente con essa. Era come essere immerso in un pentolone di zuppa di pesce che sobbolliva. Ora questa ora quella sensazione saliva alla superficie, solo per allontanarsi subito dopo. Kennit era una donna, che si pettinava i lunghi capelli fissando pensierosa oltre il mare. Era Ephron Vestrit, e per Sa, avrebbe portato a casa il carico intatto e in tempo, temporale o no! Era una nave, l'acqua fredda vibrava oltre la prua, i pesciolini d'argento scintillavano sotto di lui e le stelle brillavano sopra la sua testa. Più profonda, più alta e più vasta di tutte, includendole tutte, ma sottile come uno strato di lacca, un'altra consapevolezza spiegava le ali e si levava in un cielo d'estate. Lo attrasse più forte di tutte le altre sensazioni, e quando si allontanò Kennit tentò di seguirla. No, lo trattenne qualcuno, con ferma dolcezza. No. Io non la seguo, e neanche tu. Qualcosa lo trasse indietro e lo mantenne integro. Si sentiva come un bambino fra le braccia di una madre, protetto e curato. Lei lo amava. Kennit si rilassò nel suo abbraccio. Era la nave, la bella nave intelligente da lui conquistata. Il fremito di quel ricordo fu come un soffio sul tizzone del suo essere. Kennit bruciò più brillante e quasi divenne consapevole di chi era stato. Non era ciò che desiderava. Si girò e affondò in lei, fondendosi con lei, divenendo lei. Bella, bella nave, scafo sorretto nel palmo del mare, vele accarezzate dal vento, io sono te e tu sei me. Quando sono te, sono meraviglioso e saggio. Sentì il divertimento per quella adulazione, ma non era adulazione. In te potrei essere perfetto. Cercò di disperdersi, ma lei lo mantenne integro. La nave parlò di nuovo, parole intese per qualcuno altro. Ce l'ho io. È qui. Devi prenderlo e rimetterlo al suo posto. Non so come. Rispose la voce di un ragazzo, incerta e sottile come fumo, da una grande distanza. La paura lo faceva balbettare. Non so cosa vuoi dire. Come puoi averlo tu, come faccio a prenderlo? A rimetterlo al suo posto? Rimetterlo dove? La disperazione implorante nella giovane voce fece risuonare qualcosa dentro di lui. Risvegliò l'eco della voce di un altro fanciullo, altrettanto disperato, altrettanto implorante. Per favore. Non posso farlo. Non so come, non voglio, per favore, signore, per favore. Era la voce nascosta, la voce segreta, la voce che non doveva mai essere riconosciuta. Nessun altro doveva udirla, nessuno. Kennit si gettò sulla voce, si avvolse attorno a essa e la fece tacere. La assorbì per nasconderla. La divergenza che era la chiave del suo essere era ripristinata. Un brivido di rabbia lo percorse: lo avevano costretto a essere di nuovo sé stesso. Così, disse all'improvviso la nave all'altro. Così. Trova i suoi pezzi e ri-
mettili insieme. Più piano, aggiunse, ci sono luoghi dove siete quasi uguali. Comincia da quelli. Cosa intendi con quasi uguali? Come può essere uguale a me? Voglio dire solo che in certe cose vi somigliate. Avete più in comune di quanto non crediate. Non aver paura di lui. Prendilo. Rimettilo a posto. Kennit si aggrappò con forza all'essenza della nave. Non si sarebbe lasciato separare da lei. Freneticamente cercò di intessersi in lei, intrecciando la propria coscienza alla sua come i trefoli di una cima. La nave non lo respinse, ma neppure lo accolse. Kennit si sentì raccogliere e offrire a un'entità che le apparteneva e insieme era distinta da lei. Ecco. Prendilo. Rimettilo al suo posto. Il vincolo tra i due era straordinariamente complesso. Si amavano, eppure lottavano per non fondersi. Attimi di risentimento ardevano come isolati falò di stoppie nel panorama del loro legame. Kennit non riusciva a discernere dove una si fermava e cominciava l'altro, eppure ciascuno affermava con chiarezza di possedere una grandezza d'animo che non poteva essere inclusa in una sola creatura. Le ali aperte di un essere antico li proteggevano e insieme incombevano su di loro, eppure non se ne accorgevano. Piccole buffe creature cieche, disperse nel mezzo di un amore che temevano di ammettere. Per vincere dovevano solo arrendersi, ma non se ne rendevano conto. La bellezza di ciò che i due avrebbero potuto essere insieme addolorava Kennit. Era un amore che aveva cercato per tutta la vita, capace di riscattarlo e renderlo perfetto. Loro temevano ed evitavano ciò che lui desiderava maggiormente. Ritorna. Per favore. Era la voce del ragazzo, implorante. Kennit. Per favore, scegli di vivere. Il suo nome era una magia che lo circoscriveva e lo definiva. Il ragazzo se ne accorse. Kennit, ripeté incoraggiante. Kennit, per favore. Kennit. Vivi. A ogni tocco di quella parola, Kennit diventava più solido. I ricordi si coagulavano attorno al nome, cicatrizzandosi sulla vecchia ferita della sua vita e sigillandolo dentro di essa. Per favore, implorò. Cercò alla cieca il nome del suo tormentatore. Wintrow. Ti prego, lasciami andare. Wintrow. Tentò di vincolare il ragazzo come lui era stato vincolato, usando il suo nome. Invece di piegare Wintrow alla sua volontà, il nome lo costrinse a essere consapevole del giovane. Kennit, lo accolse Wintrow con ansia. Kennit. Aiutami. Ritorna in te, ridiventa te stesso. Rientra nella vita.
Allora accadde un fatto curioso. Nell'urgente benvenuto dato da Wintrow alla sua consapevolezza di sé, e nella consapevolezza del ragazzo da parte di Kennit, i due si mescolarono. I ricordi ribollirono e si rovesciarono fuori dai loro proprietari. Un ragazzo piangeva in silenzio la notte prima di essere spedito dalla famiglia in un monastero. Un ragazzo urlava di terrore guardando suo padre che veniva picchiato fino a perdere i sensi mentre un uomo lo teneva fermo e rideva. Un ragazzo lottava e gemeva di dolore mentre una stella a sette punte gli veniva tatuata sul fianco. Un ragazzo meditava, e vedeva forme di draghi nelle nuvole e immagini di serpenti nei vortici dell'acqua. Un ragazzo si dibatteva contro il tormentatore che lo stringeva alla gola obbligandolo all'acquiescenza. Un ragazzo sedeva a lungo immobile, assorto in un libro. Un ragazzo soffocava e ansimava, resistendo al tatuaggio sul viso. Un ragazzo si allenava per ore a tracciare lettere accurate. Un ragazzo premeva la mano sul ponte e rifiutava di gridare mentre gli tagliavano il dito infettato. Un ragazzo sogghignava e sudava, felice, mentre un tatuaggio gli veniva bruciato via dal fianco. La nave aveva ragione. C'erano molti punti in comune, molti luoghi dove si somigliavano. La congruenza era innegabile. Si sovrapposero, si fusero, e poi si separarono ancora. Kennit era di nuovo sé stesso. Wintrow si ritrasse con orrore dalla crudezza dei primi anni del pirata. Poi un'ondata di pietà e compassione sommerse Kennit. Veniva dal ragazzo. Wintrow si tese verso di lui. Inconsapevole, cercò di riparare i pezzi che Kennit aveva staccato di proposito da sé. Questo eri tu. Dovresti tenerlo, continuò a insistere. Non puoi semplicemente scartare parti di te perché sono dolorose. Riconoscile e vai avanti. Il ragazzo non aveva idea di cosa stava suggerendo. Quella cosa storpiata e piagnucolante non avrebbe mai potuto essere una parte di Kennit il Pirata. Kennit se ne difese come aveva sempre fatto. Con rabbia e disprezzo respinse Wintrow, troncando quel breve collegamento di empatia. Un attimo prima che si dividessero fu consapevole del dolore improvviso che così facendo aveva inflitto al ragazzo. Per la prima volta in molti anni si sentì ardere dal rimorso. Prima che potesse davvero pensarci sentì come da una grande distanza la voce di una donna che lo chiamava. «Kennit. Oh, il mio Kennit. Per favore, per favore, per favore, non andartene. Kennit!» Un dolore ineluttabile tracciava i confini del suo corpo. Sentiva un peso sul torace, e la gamba finiva in una sensazione innaturale. Trasse un respi-
ro profondo attraverso la gola aspra di alcol e bile. Si costrinse ad aprire le palpebre: era come tirare su un'ancora a mani nude. La luce gli bruciò il cervello. La prostituta gli stringeva la mano, bagnandola di pianto. Il volto umido e i capelli spettinati, le grida stridule... Era davvero troppo angosciante da sopportare. Kennit cercò di strappare la mano dalla sua presa, ma era troppo debole. «Etta. Smettila. Per favore.» Le parole uscirono in un rauco gracchiare. «Oh, Kennit!» gridò lei con gioia improvvisa. «Non sei morto. Oh, amore mio.» «Acqua» le disse, per sbarazzarsi di lei quanto della sete. Etta corse a prendere la caraffa sulla credenza dall'altra parte della stanza. Kennit deglutì, sentendosi la gola arida, poi spinse distrattamente il peso sul suo torace. Capelli. Capelli crespi sotto la mano, e un viso sudato. Kennit riuscì a sollevare un poco la testa per guardare. Era Wintrow. Da una sedia accanto al letto, il ragazzo era crollato in avanti su di lui. Gli occhi erano chiusi, il viso aveva un terribile colore livido e le guance erano rigate di lacrime. Wintrow piangeva per lui. Un improvviso fiotto di sentimenti confuse Kennit. La testa del ragazzo gli poggiava sul petto, rendendogli la respirazione ancor più difficile. Voleva spingerlo via, ma il calore dei suoi capelli e della pelle sotto la mano risvegliò anche una nostalgia straniera. Era come se si fosse reincarnato in quel ragazzo. Poteva proteggerlo come lui stesso non era stato protetto. Aveva il potere di allontanare le forze distruttive che un tempo avevano lacerato la sua vita. Dopo tutto, non erano così diversi. Lo aveva detto la nave. Proteggere Wintrow era come salvare sé stesso. Quel potere era una sensazione curiosa. Prometteva di saziare una fame profonda che viveva in lui senza nome da quando era ragazzo. Prima che il pirata potesse rifletterci, gli occhi di Wintrow si aprirono. Lo sguardo del ragazzo era scuro e privo di difese. Guardò Kennit con un'espressione di dolore smisurato che si fece all'improvviso meraviglia. La sua mano salì a toccare la guancia del pirata. «Sei vivo» disse in un sussurro di timore reverenziale. La voce vacillava come se avesse avuto la febbre, ma la gioia cominciò ad accendersi nei suoi occhi. «Eri in mille pezzi. Come una finestra di vetro colorato, in mille pezzi. Tante parti in un uomo. Ero sbalordito. Eppure sei tornato.» I suoi occhi si chiusero pesantemente su un sospiro. «Grazie. Grazie. Non volevo morire.» Wintrow batté le palpebre e parve all'improvviso più in sé. Alzò la testa
dal torace di Kennit e si guardò attorno intontito. «Credo di essere svenuto» disse con voce sottile. «Ero in una trance così profonda... non mi era mai successo, ma Berandol mi aveva avvertito... Sono stato fortunato a ritrovare la strada del ritorno.» All'improvviso appoggiò la schiena alla spalliera della sedia su cui era appollaiato. «Suppongo che siamo entrambi fortunati» disse disorientato. «La mia gamba ha qualcosa che non va» lo informò Kennit. Senza la testa del ragazzo sul petto era più facile respirare e parlare. Ora era libero di concentrarsi del tutto sulla strana sensazione del suo corpo troncato. «È insensibile. L'ho trattata con scorza di kwazi per allontanare il dolore. Dovresti dormire finché puoi. Il dolore ritornerà. La scorza è quasi finita.» «Sei d'impiccio» disse acida Etta. Wintrow trasalì, sentendosi colpevole. La donna stava in piedi accanto a lui con una tazza d'acqua. Il ragazzo non era davvero d'impiccio; lei avrebbe potuto passare semplicemente dall'altro lato del letto. Wintrow comprese il vero significato delle sue parole. «Chiedo scusa» disse in fretta, e si alzò. Mosse due passi barcollanti verso la porta e poi si afflosciò come uno straccio. Giacque dove era svenuto. Etta emise un'esclamazione seccata. «Chiamerò un marinaio per portarlo via.» La vista del ragazzo privo di conoscenza sul pavimento angosciò il pirata finché lei non gli offrì la tazza traboccante. La mano dalle lunghe dita di Etta era fresca sulla nuca di Kennit mentre gli sorreggeva la testa. La sete all'improvviso lo consumava. Era acqua di bordo, né fredda né fresca: sapeva del barile dove era conservata. Nettare. Kennit bevve. «Ancora» gracchiò quando Etta portò via la tazza. «Subito» gli promise la donna. Gli occhi di Kennit la seguirono mentre tornava alla brocca dell'acqua. Notò il ragazzo abbandonato sul pavimento. Un momento prima aveva pensato qualcosa riguardo a lui, qualcosa di urgente che voleva far fare a Etta. Era importante, ma ora non riusciva a ricordare. Stava cominciando a fluttuare, sollevandosi dal letto. L'esperienza era inquietante e piacevole. La tazza d'acqua ritornò. La bevve tutta. «Sto volando» dichiarò alla donna. «Ora che il dolore è andato, posso volare. Il dolore mi ancorava a terra.» Etta gli sorrise con affetto. «Sei stordito. E forse ancora un po' ubriaco.» Kennit annuì. Non riuscì a trattenere un sorriso sciocco. Un'ondata di gratitudine lo pervase. Aveva vissuto con il dolore così a lungo e ora era
scomparso. Era meraviglioso. La sua gratitudine si gonfiò a sommergere il mondo intero. Era stato il ragazzo. Guardò Wintrow ancora disteso sul pavimento. «È tanto un bravo figliolo» disse con affetto. «Gli vogliamo tanto bene, la nave e io.» Gli stava venendo un gran sonno, ma riuscì a riportare gli occhi al viso della donna. La mano di lei gli toccava la guancia. Kennit tese con lentezza la propria e riuscì a catturarla. «Ti prenderai cura di lui per me, vero?» Le percorse il viso con lo sguardo, dalla bocca agli occhi. Era difficile riuscire a vederlo tutto intero. Troppo faticoso rimettere a fuoco la vista. «Posso contare su di te, vero?» «È questo che vuoi?» gli chiese Etta controvoglia. «Più di qualsiasi altra cosa» dichiarò Kennit con passione. «Sii gentile con lui.» «Se è questo che vuoi, lo farò» disse la donna, quasi con riluttanza. «Bene. Bene.» Il pirata le strinse con dolcezza le dita. «Sapevo che lo avresti fatto. Ora posso dormire.» Chiuse gli occhi. Quando Wintrow riaprì gli occhi aveva un cuscino sotto la testa e una coperta addosso. Giaceva sul pavimento della cabina del capitano. Cercò il suo posto nel tempo. Ricordava il sogno frammentario di una finestra di vetro colorato. Dietro si nascondeva un ragazzo spaventato. La finestra si era rotta. In qualche modo Wintrow l'aveva aggiustata. Il ragazzo gli era stato grato. No. No, nel sogno, era Wintrow il ragazzo... No, Wintrow aveva rimesso insieme l'uomo, mentre Berandol e Vivacia lo consigliavano da dietro un velo d'acqua. C'erano anche un serpente e un drago. Una stella a sette punte che faceva un male atroce. Poi si era svegliato, ed Etta si era irritata con lui, e poi... Non funzionava. Non riusciva a metterlo insieme. Il lungo giorno era frantumato in pezzi che non poteva riconciliare. Alcune parti, lo sapeva, venivano dai suoi sogni. Altre sembravano implacabilmente vere. Quel pomeriggio aveva davvero tagliato la gamba di un uomo? Sembrava il ricordo più improbabile di tutti. Chiuse gli occhi e brancolò verso Vivacia. Era consapevole della nave, come sempre ogni volta che si protendeva verso di lei. Tra loro c'era una continua comunione senza parole. Quella riusciva a sentirla, ma Vivacia sembrava distratta. Non disinteressata a lui, quanto affascinata da qualcos'altro. Forse era disorientata quanto lui. Ebbene, restare lì sdraiato non serviva.
Wintrow girò la testa e guardò su verso la cuccetta di Kennit. Il petto del pirata saliva e scendeva rassicurante sotto le lenzuola. Aveva un colorito terribile, ma era vivo. Almeno quella parte del sogno di Wintrow si era avverata. Il ragazzo respirò a fondo e si puntellò sulle braccia. Si alzò cautamente, lottando attraverso un muro di vertigine. La trance di lavoro non lo aveva mai indebolito a quel punto. Non era ancora sicuro di cosa avesse fatto, se davvero aveva fatto qualcosa. Nelle sue trance di lavoro al monastero aveva imparato a concentrarsi del tutto sulla sua arte. Immergendovisi, i vari compiti della creazione diventavano un atto unico. Gli sembrava di aver applicato in qualche modo quel concetto alla guarigione di Kennit, ma non capiva come. Non ricordava di essersi preparato a una trance di lavoro. Una volta in piedi si mosse con attenzione verso il letto. Era così l'ubriachezza? Un vacillare confuso fra colori troppo brillanti e contorni troppo nitidi? Impossibile. Non era piacevole. Nessuno avrebbe cercato di proposito simili sensazioni. Si arrestò accanto al letto. Temeva di controllare le bende sulla gamba di Kennit, ma doveva farlo. Forse sanguinava ancora. In tal caso, Wintrow non aveva idea di cosa fare. Disperato, si decise. Tese cautamente la mano verso l'orlo della coperta. «Non svegliarlo, per favore.» La voce di Etta era così dolce che quasi non la riconobbe. Wintrow dovette voltarsi per guardarla. La donna sedeva su una sedia nell'angolo della stanza. C'erano ombre sotto i suoi occhi che il ragazzo non aveva mai notato. Si affaccendava con l'ago su una stoffa blu scura. Lo guardò, staccò un filo con un morso, girò il lavoro e ricominciò a cucire. «Devo vedere se sanguina ancora.» Le parole parvero spesse e deformi alle orecchie di Wintrow. «Non sembra. Comunque, se smuovi le bende per controllare la ferita, potresti ricominciare a far uscire il sangue. Meglio lasciarlo in pace.» «Si è svegliato?» La mente di Wintrow cominciava a schiarirsi. «Brevemente. Subito dopo che tu lo hai... riportato indietro. Gli ho dato acqua, molta acqua. Poi si è assopito di nuovo. Dorme da allora.» Wintrow si strofinò gli occhi. «Quanto tempo?» «Quasi tutta la notte» gli disse Etta placidamente. «Presto sarà l'alba.» Il ragazzo non riusciva a spiegarsi la gentilezza della donna verso di lui. Non lo guardava con calore, non gli sorrideva. Piuttosto qualcosa era scomparso dalla sua voce, una vena di gelosia o diffidenza che era sempre stata lì. Wintrow era contento che almeno in apparenza non lo odiasse più,
ma non era del tutto sicuro di come interpretare quell'atteggiamento. «Bene» disse vago. «Suppongo che dovrei tornare a dormire per un poco.» «Dormi lì dove sei» suggerì Etta. «È pulito e caldo. Sarai vicino a Kennit se avesse bisogno di te.» «Grazie.» Wintrow era in imbarazzo. Non era sicuro di voler restare sul pavimento. Dovunque si trovasse sulla nave, il suo letto era il ponte, ma il pensiero di dormire sotto gli occhi di una sconosciuta lo inquietava. Quello che accadde dopo fu ancor più strano. Etta scrollò il lavoro che aveva in grembo e lo sollevò, guardando da Wintrow al cucito e di nuovo a lui. Era un paio di pantaloni, ed evidentemente Etta stava osservando il ragazzo per vedere se gli andavano bene. Wintrow sentì che doveva dire qualcosa, ma non sapeva cosa. La donna se li piegò di nuovo in grembo senza commenti. Infilò ancora l'ago e riprese il lavoro. Wintrow ritornò alla coperta sul pavimento, un poco come un cane che ritorna al suo angolo. Sedette ma non riuscì a convincersi a distendersi. Si avvolse la coperta sulle spalle. Guardò Etta finché lei non gli restituì lo sguardo. «Come sei diventata un pirata?» le chiese all'improvviso. Non aveva compreso che stava per parlare finché le parole non uscirono. Etta trasse un respiro, poi parlò con voce pensierosa. Non c'era traccia di rimpianto. «Ero una puttana in un bordello di Borgo Baratto. Kennit mi prese in simpatia. Un giorno lo aiutai a uccidere alcuni uomini che lo avevano attaccato. Lui mi prese dal bordello e mi portò sulla Marietta. Dapprima non capivo bene perché, cosa si aspettasse da me. Tuttavia dopo qualche tempo compresi. Potevo essere molto più di una puttana, se volevo. Mi stava dando un'occasione.» Wintrow la fissò. Le sue parole lo avevano scioccato. Non l'ammissione che aveva ucciso per Kennit; quello se lo aspettava, da una donna pirata. Aveva detto di essere una puttana. Era la parola di un uomo, una parola di vergogna scagliata addosso a una donna. Ma Etta non sembrava vergognarsi. Maneggiava la parola come una spada, troncando tutti i preconcetti di Wintrow su di lei. Si era guadagnata da vivere con il suo sesso, e non sembrava pentita. Suscitò uno strano fremito di interesse in lui. Sembrava all'improvviso una creatura più potente. «Cos'eri prima di essere una puttana?» Poco avvezzo a pronunciare la parola, vi mise troppa enfasi. Non avrebbe voluto che suonasse così, non avrebbe voluto fare affatto quella domanda. Forse l'aveva spinto Vivacia? Etta aggrottò le ciglia, pensando che fosse un rimprovero. I suoi occhi erano diretti e impassibili. «La figlia di una puttana.» Una nota di sfida
strisciò nella voce: «E tu cos'eri, prima che tuo padre ti rendesse schiavo sulla sua nave?» «Ero un sacerdote di Sa. Almeno, mi stavo addestrando.» Etta alzò un sopracciglio. «Davvero? Preferirei essere una puttana.» Le sue parole posero una fine irrevocabile alla conversazione. Wintrow non aveva nulla da replicare. Non si sentiva offeso. Il modo in cui Etta. aveva indicato il golfo enorme tra loro negava che potessero comunicare, tanto meno offendersi a vicenda. Tornò al cucito, la testa china sul lavoro. Il suo viso era scrupolosamente inespressivo. Wintrow sentì di aver perso un'occasione. Un attimo prima gli era parso che Etta gli avesse aperto una porta. Ora la barriera era tornata, solida come non mai. Si chiese perché avrebbe dovuto importargli, perché fosse sorpreso dalla profondità della sua delusione. Perché Etta era una via traversa per influenzare Kennit, perché forse un giorno o l'altro avrebbe avuto bisogno della sua benevolenza, suggerì la parte astuta di lui. Wintrow allontanò il pensiero. Perché anche lei è una creatura di Sa, si disse con fermezza. Dovrei tentare di fare amicizia con lei per quello che è, non per l'influenza che ha su Kennit. Né perché è diversa da qualsiasi donna che io abbia mai conosciuto e non so resistere al suo enigma. Chiuse gli occhi per un momento e tentò di accantonare ogni artificio sociale. Quando riprese, le sue parole erano sincere. «Per favore, possiamo tentare di nuovo? Vorrei che fossimo amici.» Etta alzò lo sguardo, sorpresa. Poi la sua espressione mutò in un sorriso senza divertimento. «Nel caso in cui io possa salvarti la vita più tardi? Intercedendo con Kennit?» «No!» protestò Wintrow. «Bene. Perché non ho questo genere di influenza su di lui.» La voce si abbassò. «Quello che c'è tra Kennit e me, non lo userei mai così.» Wintrow percepì un'apertura. «Non te lo chiederei. Solo... Sarebbe bello parlare con qualcuno. Parlare, tutto qui. Mi sono successe tante cose. I miei amici sono tutti morti, mio padre mi disprezza, gli schiavi che ho aiutato non sembrano ricordare quello che ho fatto per loro, sospetto che Sa'Adar vorrebbe farmi fuori...» La voce si spense: sembrava autocommiserazione. Trasse un respiro, ma quello che uscì poi parve ancor più piagnucoloso. «Non mi sono mai sentito così solo. E non so cosa sarà di me.» «Chi è che lo sa?» chiese Etta spietata. «Io un tempo lo sapevo» disse piano Wintrow. Si concentrò sui suoi pensieri più intimi. «In monastero la vita sembrava allungarsi di fronte a
me come una strada splendente. Avrei continuato i miei studi. Eccellevo nel lavoro che mi ero scelto. Amavo sinceramente la mia vita. Non avevo alcun desiderio di cambiarla. Poi fui richiamato a casa, mio nonno morì, e mio padre mi costrinse a servire a bordo della nave. Da allora non ho più avuto voce in capitolo nella mia vita. Ogni volta che ho tentato di prenderla in mano, l'ho solo piegata in una direzione più strana.» Etta staccò il filo con un morso. «A me sembra normale.» Wintrow scosse la testa, malinconico. «Non lo so. Forse lo è, per altre persone. Io so solo che non era ciò a cui ero abituato, né quello che mi aspettavo. Continuo a cercare un modo di tornare dov'ero e riportare la mia vita a quello che doveva essere, ma...» «Non puoi tornare indietro» gli disse Etta brusca. La voce non era cortese né scortese. «Quella parte della tua vita è finita. Accantonala come qualcosa che hai terminato. Completa o no, è conclusa. Nessuno può decidere quello che la sua vita 'dovrebbe essere'.» Alzò gli occhi e il suo sguardo trapassò Wintrow. «Sii un uomo. Scopri dove sei adesso, e vai avanti da qui, facendo del tuo meglio con quello che hai. Accetta la tua vita, e forse sopravvivrai. Se te ne tieni in disparte, insistendo che non è la tua, non è dove dovevi essere, ti passerà accanto. Forse non morirai per tanta stupidità, ma non sarà molto diverso, per quel che servirà la tua vita a te o a chiunque altro.» Wintrow era sbalordito. Parole crudeli, eppure colme di saggezza. Quasi di riflesso il ragazzo affondò nella respirazione meditativa, come se avesse ricevuto un insegnamento diretto dalle pergamene di Sa. Esplorò l'idea, seguendola fino alle sue conclusioni logiche. Sì, quei pensieri erano di Sa, e degni. Accettare. Ricominciare. Ritrovare l'umiltà. Stava giudicando prematuramente la sua vita. Il suo più grande difetto, Berandol l'aveva avvertito. Qui c'era l'occasione di fare del bene, se solo la afferrava. Perché era stato così deciso a tornare al monastero, come se Sa potesse essere incontrato solo là? Cosa aveva appena detto a Etta? Più tentava di prendere il controllo della sua vita, più la distorceva. Non c'era da stupirsene. Stava opponendosi alla volontà di Sa per lui. Comprese all'improvviso come dovevano essersi sentiti gli schiavi quando i ceppi erano caduti da caviglie e polsi. Le parole di Etta lo avevano liberato. Poteva abbandonare le mete che si era imposto. Avrebbe alzato gli occhi per guardarsi attorno e avrebbe visto dove la via di Sa lo attirava più chiaramente.
«Smettila di fissarmi così.» Nella voce di Etta c'era autorità e un acuto disagio. Wintrow subito abbassò gli occhi. «Non stavo... voglio dire, non intendevo fissarti. È solo che le tue parole hanno risvegliato in me tali pensieri... Etta. Dove te lo hanno insegnato?» «Insegnato cosa?» Ora c'era un deciso sospetto nella voce della donna. «Ad accettare la vita e trarne il meglio...» Detto ad alta voce, sembrava così semplice. Un attimo prima quelle parole avevano risuonato per lui come grandi campane di verità. Quello che dicevano era corretto: l'illuminazione era solo la verità al momento giusto. «In un bordello.» Perfino quella rivelazione aprì la mente di Wintrow alla luce. «Allora Sa abita davvero anche in quel luogo, in tutta la sua saggezza e gloria.» Etta sorrise, un sorriso che quasi raggiunse i suoi occhi. «Direi proprio di sì, a giudicare dal numero di uomini che grugniscono il suo nome quando godono.» Wintrow distolse lo sguardo. L'immagine era spiacevolmente vivida. «Deve essere un brutto modo di guadagnarsi da vivere» disse d'istinto. «Lo pensi davvero?» Etta rise ad alta voce, un suono fragile. «Sentirtelo dire è una sorpresa per me. Ma sei ancora un ragazzo. La maggior parte degli uomini ci dicono che anche loro vorrebbero potersi guadagnare il pane distesi sulla schiena. Pensano che per noi sia facile occuparci di 'piacere' ogni giorno.» Wintrow rifletté per un momento. «Penso che sarebbe molto difficile essere così intima e vulnerabile con uno per cui non si provano veri sentimenti.» Solo per un istante gli occhi di Etta si fecero malinconici e scuri. «Dopo un po' tutti i sentimenti se ne vanno» disse con voce quasi infantile. «È un sollievo. Le cose diventano molto più facili. Allora non è peggio di qualsiasi altro lavoro sporco. A meno che non trovi un uomo che ti fa del male. D'altra parte ci si può far male lavorando dovunque: i contadini vengono sventrati dai buoi, gli operai nel frutteto precipitano dagli alberi, i pescatori perdono le dita o affogano...» La sua voce si spense. Riportò lo sguardo al cucito. Wintrow rimase in silenzio. Dopo un poco un pallido sorriso sfiorò le labbra di Etta. «Kennit mi restituì i sentimenti. L'ho odiato per questo. Fu la prima cosa che mi insegnò a sentire di nuovo: l'odio. Sapevo che era pericoloso. È pericoloso per una prostituta avere sentimenti. Sapere che mi aveva di nuovo fatto provare emozioni mi spingeva a odiarlo ancora di più.»
Perché? Wintrow si chiese, ma non lo disse ad alta voce. Non ne ebbe bisogno. «Un giorno venne al bordello e si guardò attorno.» La voce di Etta era persa nel ricordo. «Era molto elegante, e molto pulito. Una giacca di fine cotone verde scuro con bottoni d'avorio, e uno spruzzo di merletto bianco sul petto e ai polsi... Non era mai entrato nel bordello di Bettel, ma sapevo chi era. Perfino allora, la maggior parte di Borgo Baratto sapeva chi era Kennit. Non arrivò come fanno i più, con un amico o due, o l'intero equipaggio. Non arrivò da ubriaco spaccone. Arrivò da solo, sobrio e deciso. Ci guardò tutte, ci guardò davvero, e poi scelse me. 'Lei va bene' disse a Bettel. Poi ordinò la stanza e la cena. Pagò Bettel, proprio lì, davanti a tutti. Poi si avvicinò come se fossimo già soli. Si chinò verso di me. Pensai che stesse per baciarmi. Alcuni lo fanno. Invece annusò l'aria vicino a me. Poi mi ordinò di andare a lavarmi. Oh, ero umiliata. Non diresti che una prostituta possa provare umiliazione, ma è così. Tuttavia feci come mi fu detto. Poi andai di sopra, e di nuovo feci come mi fu detto, ma nulla più. Ero furiosa, e fui fredda come il ghiaccio con lui. Mi aspettavo che mi schiaffeggiasse, mi rifiutasse o si lamentasse con Bettel. Invece il mio contegno parve di suo gradimento.» Etta fece una pausa. Per qualche istante il silenzio risuonò nelle orecchie di Wintrow. Sapeva di non voler sentire altro, ma sperava avidamente che la donna andasse avanti. Era perversità pura e semplice, curiosità acuta di sapere nei dettagli quello che avviene tra un uomo e una donna. Wintrow conosceva i meccanismi fisici; non gli erano mai stati celati. Ma sapere come si fa non porta una vera conoscenza di come accade. Aspettò, guardando il pavimento vicino ai piedi di Etta. Non osava alzare gli occhi per vederla in viso. «Da allora ogni volta fu lo stesso. Arrivava, mi sceglieva, mi diceva di lavarmi, e mi usava. Era così freddo. Gli altri uomini che venivano al bordello provavano a fingere. Civettavano e ridevano con le ragazze. Raccontavano storie e guardavano chi ascoltava meglio. Si comportavano come se avessimo avuto qualcosa da dire. Ci facevano competere per loro. Alcuni addirittura ballavano con le prostitute, o portavano piccoli regali, dolci o profumi per le loro favorite. Non Kennit. Anche quando cominciò a chiedere di me chiamandomi per nome, era sempre una semplice transazione d'affari.» Scrollò i pantaloni, li rigirò dal diritto e ricominciò a cucire. Trasse un respiro, come per continuare. Poi scosse lievemente il capo e continuò il
suo lavoro. Wintrow non sapeva cosa dire. Pur affascinato dal racconto, era all'improvviso orrendamente stanco. Avrebbe voluto rimettersi a dormire, ma sapeva che anche sdraiato sul pavimento il sonno non sarebbe venuto. Fuori la notte impallidiva. Mancava poco all'alba. Provò un breve fremito di trionfo. Ieri aveva tagliato la gamba di Kennit, e oggi il pirata era ancora vivo. Ce l'aveva fatta. Gli aveva salvato la vita. Poi si rimproverò bruscamente. Se il pirata viveva ancora era solo perché la sua volontà aveva coinciso con quella di Sa. Credere qualsiasi altra cosa era falso orgoglio. Guardò di nuovo il suo paziente. Il petto ancora si alzava e si abbassava; ma Wintrow aveva saputo che Kennit era vivo prima di guardare. Vivacia lo sapeva, e attraverso di lei lo sapeva anche il ragazzo. Non volle pensare a quel collegamento, né meravigliarsi per come era forte. Era già abbastanza brutto essere tanto vincolato alla nave. Non voleva condividere un simile legame con il pirata. Etta emise un suono lieve, un'inalazione. Wintrow riportò l'attenzione su di lei. Non lo guardava: era concentrata sul cucito. Eppure emanava un quieto bagliore di orgoglio. Chiaramente c'era qualcosa su cui aveva riflettuto bene e che aveva deciso di dirgli. Quando parlò, Wintrow ascoltò in silenzio. «Smisi di odiare Kennit quando mi resi conto di quello che ogni volta mi dava. Onestà. Mi preferiva, e non temeva di mostrarlo. Di fronte a tutti, mi sceglieva, ogni volta. Non mi costringeva a sorridere affettatamente e civettare. Ero quello che voleva, ed ero in vendita, quindi mi comprava. Mi mostrò che finché ero una prostituta era tutto ciò che avremmo mai potuto condividere. Una transazione onesta.» Uno strano sorrisetto le corse sul viso. «A volte Bettel gli offriva altre donne. Ne aveva molte. Alcune erano più raffinate, molto più belle di me, altre conoscevano modi esotici di soddisfare un uomo. Bettel cercò di conquistare il suo favore così. Lo faceva con i migliori clienti, per tenerseli fedeli. Offriva la varietà, e li tentava ad... acquisire nuove preferenze. Sapevo che non le piaceva vedere Kennit sempre con me. La faceva sentire meno importante, suppongo. Una volta, davanti a tutti, gli chiese: 'Perché Etta? Così allampanata, così bruttina. Così comune. Ho cortigiane addestrate nelle migliori case di Chalced. O, se preferisci l'innocenza, ho dolci contadinelle virginali. In casa mia potresti permetterti il meglio. Perché preferisci la mia prostituta meno pregiata?'» Il piccolo sorriso raggiunse gli occhi di Etta. «Credo che volesse umiliarlo davanti agli altri clienti. Come se a Kennit fosse mai importato di quello che pensavano. Lui disse: 'Non
confondo mai il costo di qualcosa con il suo valore. Etta, vai a lavarti. Ti raggiungo di sopra.' Da allora tutte le altre mi chiamarono 'la puttana di Kennit'. Tentavano di farlo suonare come un insulto. Ma non mi ha mai dato fastidio.» Evidentemente Kennit era più profondo di quanto Wintrow immaginasse. La maggior parte dei marinai non guardava oltre il viso e il corpo di una prostituta. Kennit evidentemente sì. D'altra parte, forse la donna si illudeva. Il ragazzo gettò uno sguardo al viso di Etta e poi guardò altrove. Il disagio lo percorse. Da dove veniva quel pensiero? Per un istante aveva provato la puntura della gelosia. Veniva dalla nave? Sentì il bisogno improvviso di parlare con Vivacia. Si alzò, facendo scrocchiare le ginocchia. Si sentiva la schiena rigida, le spalle indolenzite. Quando era stata l'ultima volta che aveva dormito in un vero letto, dormito fino a svegliarsi naturalmente? Prima o poi doveva badare alle necessità del suo corpo, o il suo corpo avrebbe fatto rispettare le sue richieste di riposo e cibo. Presto, si promise. Non appena si sentiva al sicuro, avrebbe badato a sé stesso. «È l'alba» disse a disagio. «Dovrei controllare la nave e mio padre. Devo anche dormire un po'. Mi manderai a chiamare se Kennit si sveglia?» «Se avrà bisogno di te» rispose Etta con calma. Forse era stato quello il punto dell'intera conversazione: chiarire a Wintrow che Kennit era suo. Lo considerava in qualche modo una minaccia? Wintrow decise che non conosceva abbastanza le donne. Etta si portò alla bocca i calzoni che stava cucendo e staccò un filo con i denti. Poi anche lei si alzò, scuotendo l'indumento finito. «Per te» disse all'improvviso, e gli tese i pantaloni. Wintrow avanzò per prendere il regalo dalle sue mani, ma Etta lo lanciò, costringendolo ad afferrarlo con impaccio. Una gamba dei pantaloni lo colpì leggermente in viso. «Grazie» disse incerto. Etta non lo guardò, né diede cenno di averlo sentito. Aprì una cassa di vestiti e frugò all'interno. Riemerse con una camicia. «Ecco. Questa ti andrà bene. È una vecchia camicia delle sue.» Toccò la stoffa per un momento. «È una tessitura molto buona. Lui conosce la qualità.» «Ne sono sicuro» rispose Wintrow. «Ha scelto te, come mi hai detto.» Era il suo primo tentativo di galanteria. In qualche modo non suonò del tutto giusto. Il commento rimase sospeso tra loro. Etta lo fissò, esaminando le parole per vedere se contenevano un insulto. Un caldo rossore salì alle guance di Wintrow; cosa gli era venuto in men-
te? Poi Etta gli lanciò la camicia che si spalancò come un uccello bianco in volo. Gli cadde sulle mani, stoffa pesante, forte eppure morbida. Era una camicia molto buona, troppo fine per sbarazzarsene con tanta disinvoltura. Era forse un messaggio, di cui Etta non era del tutto cosciente? Wintrow si drappeggiò gli indumenti sul braccio. «Grazie per i vestiti» disse di nuovo, deciso a essere gentile. Etta lo guardò dritto negli occhi. «Kennit vuole che tu li abbia, ne sono sicura.» Proprio mentre Wintrow cominciava a sentirsi grato, la donna lo stroncò. «Dovrai occuparti di lui. Esige la pulizia da chi gli sta attorno. Oggi dovresti trovare il tempo di lavarti, anche i capelli.» «Non sono...» cominciò Wintrow, e poi si interruppe. Era lurido. La riflessione di un momento gli fece comprendere che puzzava. Si era pulito le mani dopo aver tagliato la gamba di Kennit, ma erano giorni che non si lavava da capo a piedi. «Lo farò» corresse umilmente. Portando i vestiti, lasciò la cabina del capitano. Ormai la confusione e l'affollamento sulla nave catturata sembravano quasi normali. Gli occhi di Wintrow non si soffermavano più su ogni stipite scheggiato. Riusciva a non guardare le macchie di sangue sui ponti e sulle pareti. Emergendo in coperta premette la schiena al muro per fare spazio a una coppia che scendeva. Erano entrambi faccia-di-mappa. L'uomo era un po' lento, ricordò Wintrow. Si chiamava Dedge. Era uno dei faccia-di-mappa che Etta aveva scelto per trattenere Kennit. Appariva sempre insieme a Saylah, più giovane e sveglia. Notarono appena Wintrow mentre lo sfioravano, concentrati l'uno sull'altra. Anche quello aveva cominciato ad accadere. Doveva aspettarselo. Dopo un disastro, quello era sempre il primo segnale del ritorno della speranza. Uomini e donne formavano coppie e si univano. Il ragazzo li seguì con lo sguardo, curiosamente, chiedendosi dove avrebbero trovato intimità. Distrattamente si domandò se erano schiavi da molto, se l'intimità significava ancora qualcosa per loro. Comprese che li stava fissando. Con un fremito di fastidio verso sé stesso, riportò alla mente le sue commissioni. Conferire con Vivacia. Controllare suo padre. Mangiare. Lavarsi. Dormire. Controllare Kennit. La sua vita aveva assunto all'improvviso una forma, con un programma per il suo tempo e uno scopo per le sue azioni. Si diresse a prua. La Vivacia si dondolava all'ancora nella piccola baia. Era davvero passata solo una notte da quando avevano trovato quel riparo? La foschia si disperdeva alla luce del mattino. Presto il sole sarebbe stato abbastanza forte da scaldare il giorno. La polena fissava l'ampio canale, come di vedetta.
Forse lo era. «Temo che l'altra nave non ci troverà mai.» Parlò ad alta voce in risposta al pensiero silenzioso di Wintrow. «Come sapranno dove guardare?» «Ho la sensazione che Kennit e Sorcor abbiano navigato insieme per molto tempo. Uomini come loro hanno un certo modo di fare, e lo trasmettono all'equipaggio. Inoltre Kennit è ancora vivo. Fra non molto potrebbe stare abbastanza bene da guidarci a Gola del Toro.» Wintrow parlò in tono rassicurante, tentando di confortare la nave. «Forse» concesse Vivacia con riluttanza. «Ma mi sentirei meglio se fossimo già partiti. Ha passato la notte, è vero. Ma è ben lontano dall'essere forte, o guarito. Ieri è morto quando ha smesso di lottare per vivere. Oggi lotta per aggrapparsi alla vita. Non mi piace come i suoi sogni si contorcono e vacillano. Mi sentirei meglio se fosse nelle mani di un vero guaritore.» Le sue parole punsero un poco. Wintrow sapeva di non essere un guaritore addestrato, ma Vivacia avrebbe potuto dirgli qualche parola di ammirazione per come si era comportato fino a quel momento. Gettò uno sguardo al ponte dove aveva effettuato la rozza operazione. Il sangue di Kennit aveva seguito i contorni del suo corpo supino. La macchia scura formava la sagoma inquietante della gamba danneggiata e del fianco. Non era lontano dall'impronta insanguinata di Wintrow. Quel marchio non si era mai cancellato dal ponte. Anche l'ombra di Kennit sarebbe rimasta? A disagio, Wintrow la sfiorò con il piede nudo. Fu come percorrere con le dita uno strumento a corda, salvo che la vibrazione suscitata non era suono. La vita di Kennit cantò all'improvviso con la sua. Wintrow vacillò per la forza del legame, poi crollò a sedere sul ponte. Dopo un momento tentò di descrivere la sensazione a sé stesso. Non erano stati i ricordi di Kennit, né i suoi pensieri o sogni. Era stata un'intensa consapevolezza del pirata. Il paragone più vicino che Wintrow sapeva immaginare era il modo in cui un profumo o un odore potevano all'improvviso richiamare ricordi dettagliati; tuttavia cento volte più forte. Il suo senso di Kennit lo aveva quasi spinto fuori da sé stesso. «Ora scorgi com'è per me» disse la nave quietamente. Poi aggiunse: «Non pensavo che potesse colpirti così.» «Ma che cos'era?» «Il potere del sangue. Il sangue ricorda. Il sangue non rammenta giorni e notti ed eventi. Il sangue rammenta l'identità.» In silenzio Wintrow tentò di capire tutte le implicazioni di ciò che Viva-
cia stava dicendo. Tese una mano verso l'ombra di Kennit che si allungava sul ponte. Poi tirò indietro le dita. Nessuna curiosità poteva spingerlo a ripetere quell'esperienza. La sua potenza gli aveva stordito l'anima e quasi lo aveva scacciato da sé stesso. «E questo è ciò che hai provato tu» aggiunse la nave al suo pensiero. «Tu, che hai il tuo sangue. Almeno possiedi il tuo corpo, i tuoi ricordi e la tua identità. Puoi rifiutare Kennit e dire: 'Non sono io'. Io no. Non sono altro che legno, impregnato dei ricordi della tua famiglia. L'identità che chiami Vivacia è una che mi sono creata da sola, pezzo per pezzo. Quando il sangue di Kennit è filtrato in me, non ho potuto rifiutarlo. Proprio come la notte della rivolta degli schiavi, quando un uomo dopo l'altro colava dentro di me, e io non potevo impedirlo. «La notte in cui tutto quel sangue fu versato... Immagina di essere inzuppato di altre identità, non una volta o due, ma dozzine di volte. Crollavano sui miei ponti e morivano, e mentre il loro sangue penetrava in me mi rendevano il serbatoio di ciò che erano stati. Schiavo o membro dell'equipaggio, non faceva differenza. Sono venuti da me. Tutto ciò che erano, lo hanno aggiunto a me. A volte, Wintrow, è troppo. Percorro i sentieri a spirali del sangue, e so chi erano, in dettaglio. Non posso liberarmi da quei fantasmi. La sola influenza più potente è la tua, perché tu mi possiedi doppiamente: con il tuo sangue filtrato nel mio fasciame e la tua mente legata alla mia.» «Non so cosa dire» ammise Wintrow debolmente. «Pensi che già non lo sappia?» rispose Vivacia con amarezza. Un lungo silenzio cadde tra loro. Per Wintrow era come se le assi del ponte emanassero gelo verso di lui. Si allontanò in silenzio con i vestiti nuovi in un fagotto sotto il braccio, ma portò con sé la conoscenza che non poteva andare da nessuna parte per liberarla dalla sua presenza. Accettare la vita come viene. Glielo aveva detto Etta solo poco tempo prima. Allora era parso brillante. Provò a immaginare di accettare un eterno legame con Vivacia. Scosse la testa. «Se questa è la tua volontà, o Sa, non so come sopportarla volentieri» disse piano. Lo addolorò sentire echeggiare lo stesso pensiero da Vivacia. Erano passate ore e il sole era alto quando la Marietta li trovò. Recava una lunga bruciatura sulla murata di dritta. I marinai erano già al lavoro per ripararla. Un segno ancor più chiaro del suo incontro e del trionfo era la sequenza di teste troncate che penzolavano dal bompresso. Il grido della
vedetta fece uscire Wintrow in coperta. Ora fissava con fascino perverso la nave che si avvicinava. Aveva conosciuto la strage nella notte in cui gli schiavi erano insorti e avevano preso la Vivacia. Quei trofei andavano oltre la strage: parlavano di una crudeltà organizzata che il ragazzo non riusciva ad afferrare del tutto. Gli uomini e le donne alla murata attorno a lui levarono un grido di trionfo alla vista dei trofei insanguinati. Per loro le teste non rappresentavano solo il Satrapo che aveva giustificato la loro schiavitù, ma anche Chalced, il mercato più avido per l'umanità asservita. Mentre la Marietta si avvicinava, Wintrow scorse altri segnali della battaglia con la galea di pattuglia. Molti pirati portavano rozze fasciature che non impedivano loro di sogghignare e agitare le braccia verso i compatrioti a bordo di Vivacia. Qualcuno tirò la manica di Wintrow. «La donna dice che devi andare a occuparti del capitano» gli comunicò Dedge brusco. Wintrow lo guardò con attenzione, imprimendosi il viso e il nome dell'uomo nella memoria. Tentò di guardare oltre il retaggio della sua schiavitù e di scorgere la persona sotto i tatuaggi intricati. I suoi occhi erano grigi come il mare, i capelli solo una frangia sopra le orecchie. Malgrado i suoi anni, i muscoli apparivano attraverso le vesti lacere. Etta lo aveva già marcato come proprio; portava una fascia di seta attorno alla vita. L'aveva chiamata 'la donna', come un titolo onorifico, come se fosse stata l'unica donna a bordo della nave. Wintrow suppose che in un certo senso lo era. «Vengo subito.» La Marietta stava calando l'ancora. Presto una scialuppa avrebbe portato a bordo Sorcor per fare rapporto a Kennit. Wintrow non sapeva perché il capitano lo avesse chiamato, ma forse gli avrebbe permesso di restare mentre Sorcor riferiva. Quel giorno, quando aveva visitato suo padre, Kyle aveva insistito che Wintrow raccogliesse tutte le informazioni possibili dai pirati. Wintrow tentò di allontanare la memoria di quell'ora dolorosa. Reso più tirannico che mai dalla prigionia e dalla sofferenza, Kyle sembrava credere che Wintrow fosse il suo ultimo suddito rimasto. In verità il ragazzo non sentiva quasi nessuna lealtà verso di lui, se non per un residuo di dovere. Suo padre insisteva perché continuasse a spiare e tramare per riprendere il controllo della nave. A Wintrow sembrava ridicolo. Ma non aveva riso; lo aveva lasciato concionare mentre gli curava le ferite e lo convinceva a mangiare il pane secco e l'acqua vecchia, le uniche razioni che gli permettevano. Era più facile lasciare che le sue parole gli passassero accanto. Aveva annuito, ma aveva risposto poco. Tentare di spiegare la vera situazione a bordo della Vivacia avrebbe solo irritato Kyle. Wintrow
gli aveva lasciato il sogno improbabile di riprendere in qualche modo il controllo della nave. Sembrava la cosa più facile. Presto sarebbero arrivati a Gola del Toro, e allora entrambi avrebbero dovuto affrontare l'accaduto. Wintrow non aveva bisogno di lottare contro suo padre per fargli riconoscere la realtà; la realtà lo avrebbe fatto da sola. Bussò alla porta, poi entrò alla risposta sommessa di Etta. Kennit era sveglio sulla cuccetta. Girò la testa per salutarlo con un: «Non mi aiuta a sedermi.» «Ha ragione. Non dovreste, non ancora» rispose Wintrow. «Dovreste restare sdraiato immobile e riposare completamente. Come vi sentite?» Mise la mano sulla fronte del pirata. Kennit si sottrasse al contatto. «Uno schifo. Oh, non chiedermi come mi sento. Sono vivo; che ti importa di come mi sento? Sorcor sta arrivando, fresco di trionfo, e io giaccio qui, lacero e puzzolente come un cadavere. Non mi vedrà così. Aiutami almeno a sedermi.» «Non dovete» lo avvertì Wintrow. «Adesso il vostro sangue è quiescente. Restate sdraiato e lasciate che rimanga così. Sedervi sposterebbe i serbatoi dei vostri organi, e potrebbe spargere sangue che dovrà poi uscire attraverso la ferita. L'ho imparato in monastero.» «E io ho imparato sulla tolda che un capitano pirata incapace di guidare attivamente il suo equipaggio diventa prestò cibo per pesci. Sorcor mi troverà seduto.» «Anche se questo dovesse uccidervi?» chiese pacato Wintrow. «Stai sfidando la mia volontà?» sbottò Kennit. «No. Non la vostra volontà. Il vostro buon senso. Perché scegliete di morire qui, nel vostro letto, solo per impressionare un uomo che mi sembra infallibilmente leale verso di voi? Penso che giudichiate male il vostro equipaggio. Non si ribelleranno contro di voi solo perché avete bisogno di riposare.» «Sei un cucciolo» dichiarò Kennit con disprezzo. Distolse il viso dal ragazzo, scegliendo di guardare il muro. «Che ne sai della lealtà, o di come funziona una nave? Te lo ripeto, non mi farò vedere così.» Wintrow riconobbe all'improvviso la durezza nella sua voce. «Perché non mi avete detto che il dolore è tornato? L'essenza di kwazi può attutirlo. Penserete con maggior chiarezza senza il tormento che vi distrae. E potrete riposare.» «Vuoi dire che sarò più trattabile se mi droghi» ringhiò Kennit. «Cerchi solo di impormi la tua volontà.» Alzò una mano tremante alla fronte. «La
mia testa pulsa di dolore; come può essere dovuto alla gamba? Non è più probabile che sia il risultato di qualche veleno?» Anche nella stanchezza, il pirata riuscì a richiamare un'occhiata di astuto divertimento. Chiaramente pensava di aver sorpreso Wintrow in una congiura. Sgomento, il giovane rimase in silenzio per un attimo. Come trattare con tanta sospettosa sfiducia? Con voce fredda e rigida si sentì dire: «Non vi costringerò a prendere medicine, signore. Se il dolore diviene tale che desiderate esserne liberato, chiamatemi e applicherò la scorza di kwazi. Fino ad allora non vi disturberò.» Parlò girando la testa mentre se ne andava. «Se vi sedete per vedere Sorcor, il flusso di sangue porrà fine alla vostra vita e alla mia. Ma non posso discutere con la vostra cocciutaggine.» «Smettetela» sibilò Etta. «C'è una semplice soluzione che può accomodarci tutti. Mi permettete di suggerirla?» Kennit girò di nuovo la testa per fissarla con occhi opachi. «E sarebbe?» la esortò. «Non ricevere Sorcor. Dagli solo l'ordine di navigare verso Gola del Toro, e noi lo seguiremo. Non ha bisogno di sapere quanto sei debole. Quando arriveremo a Gola del Toro potresti essere più forte.» Una scintilla di astuzia si accese negli occhi di Kennit. «Gola del Toro è troppo vicina» dichiarò. «Digli di riportarci a Borgo Baratto. Avrò più tempo per riprendermi.» Fece una pausa. «Ma Sorcor si chiederà di certo perché non desidero ascoltare il suo rapporto. Sospetterà qualcosa.» Etta incrociò le braccia sul petto. «Digli che sei occupato. Con me.» Gli rivolse un piccolo sorriso. «Manda il ragazzo a dirlo a Brig, perché lo riferisca a Sorcor. Lo accetterà.» «Potrebbe funzionare» assentì Kennit flemmatico. Agitò una mano lentamente verso Wintrow. «Ora vai, subito. Di' a Brig che sono con Etta e non desidero essere disturbato. Trasmettigli i miei ordini di dirigersi a Borgo Baratto.» Gli occhi di Kennit si strinsero, ma Wintrow non sapeva se era sagacia o stanchezza. «Suggerisci che potrei giudicare l'arte marinaresca di Brig da come manovra la nave fino a Borgo Baratto. Lascia capire che è una prova della sua abilità, non una mancanza da parte mia.» Le palpebre si abbassarono ulteriormente. «Aspetta finché non saremo in mare aperto. Poi torna qui. Ti giudicherò da come svolgi questo compito. Convinci Brig e Sorcor, e forse ti permetterò di anestetizzare la mia gamba.» Gli occhi di Kennit si chiusero del tutto. Con voce più debole aggiunse: «Forse ti lascerò vivere.»
9 Borgomago Nelle viscere di Paragon, Ambra si girava e rigirava come un biscotto mal digerito nell'intestino di un marinaio. Un sogno ignoto alla nave tormentava il sonno della donna, lacerando il riposo in una lotta con sé stessa sotto le coperte. A volte Paragon era tentato di sondare i suoi pensieri e dividere la sua angoscia, ma la maggior parte delle notti era solo grato che il tormento di Ambra non fosse il suo. Era venuta a vivere a bordo, a dormire di notte dentro di lui per proteggerlo da quelli che potevano venire per rimorchiarlo via e distruggerlo. A modo suo aveva anche accondisceso alla sua richiesta. Aveva riempito molte delle stive; non con cumuli di detriti e olio di lampada da poco prezzo, ma con i legni duri e gli oli fissanti del suo mestiere. La finzione tra loro era che li conservava lì per poter sedere sotto la sua prua di sera e intagliare. Entrambi sapevano che bastava un momento per accendere il legno asciutto con l'olio e riempire lo scafo di fiamme. Ambra non avrebbe lasciato che fosse preso vivo. A volte quasi gli spiaceva per lei. Non era facile vivere sul pavimento inclinato nella stanza del capitano. Borbottando ad alta voce, Ambra aveva ripulito le camere degli oggetti che Brashen aveva abbandonato. Paragon aveva notato che le aveva valutate pensierosamente prima di riporle con attenzione sotto coperta. Ora occupava quegli alloggi e di notte dormiva nell'amaca di Brashen. Cucinava sulla spiaggia quando la sera era tiepida, altrimenti mangiava cibo freddo. Ogni giorno partiva per la sua bottega allo spuntar del sole, portando con sé un secchio. Ogni sera tornava con il secchio colmo d'acqua e quello che aveva comprato al mercato per cena. Poi trafficava dentro di lui, canticchiando filastrocche senza senso. Se era una bella serata accendeva un fuoco per cucinare e preparava una cena semplice parlando con lui. In un certo qual modo era piacevole avere compagnia tutti i giorni, ma d'altro canto lo infastidiva. Si era abituato alla solitudine. Perfino nel mezzo di una chiacchierata amichevole sapeva che la sistemazione era provvisoria. Tutto ciò che gli esseri umani facevano era provvisorio. Come altrimenti poteva essere, con creature che morivano? Anche se Ambra fosse rimasta con lui per tutta la vita, alla fine se ne sarebbe andata. Una volta afferrato quel pensiero, Paragon non riusciva a sbarazzarsene. Sapere che i suoi giorni con Ambra sarebbero prima o poi finiti gli dava una sensazione di attesa. Odiava l'attesa. Meglio farla finita
subito e mandarla via, piuttosto che aspettare di continuo il giorno in cui lo avrebbe lasciato. Spesso questo lo rendeva irritato e laconico. Ma quella era stata una serata allegra. Ambra aveva insistito per insegnargli una filastrocca, e poi l'avevano cantata insieme, prima come un duetto e poi a voci alterne. Paragon aveva scoperto che gli piaceva cantare. Ambra gli aveva insegnato anche altre cose. Non a intrecciare un'amaca: quello lo aveva imparato da Brashen. La nave non pensava che lei conoscesse simili arti marinare. Però gli aveva dato legno dolce e una lama enorme per provare a intagliare. A volte faceva un altro gioco con lui, un gioco un po' inquietante. Cercava di dagli un colpetto con un lungo palo leggero. Il gioco era che Paragon doveva allontanare il palo. Ambra lo lodava soprattutto quando riusciva a deviare la punta prima che lo toccasse. Stava diventando bravo. Se si concentrava, poteva quasi sentire il palo dal lieve spostamento d'aria che causava. Un'altra finzione tra loro era che si trattava solo di un gioco. Paragon lo riconosceva per quello che era: un addestramento in abilità che potevano aiutarlo a proteggersi, se si arrivava a un attacco diretto. Per quanto tempo avrebbe potuto difendersi? Sorrise tetro nell'oscurità. Abbastanza per permettere ad Ambra di accendere i fuochi dentro di lui. Si chiese se era quello che le dava brutti sogni. Forse sognava che gli aveva dato fuoco e non aveva avuto tempo di scappare. Forse sognava di bruciare dentro il suo scafo, la carne che si increspava staccandosi dalle ossa mentre urlava. No. Era più un gemere e supplicare nel sonno, non un urlo che poteva svegliarla. A volte, quando gli incubi la assalivano, le ci voleva molto per svegliarsi. Allora, con addosso il sudore acre della paura, usciva in coperta per prendere grandi boccate di fresca aria notturna. A volte, quando sedeva sulla tolda inclinata con la schiena alla cabina, Paragon avvertiva il tremito del suo corpo snello. Quel pensiero lo spinse a gridare. «Ambra? Ambra, svegliati! È solo un sogno.» La sentì muoversi inquieta e udì una risposta incoerente. Sembrava chiamarlo da una distanza enorme. «Ambra!» le rispose. La donna si dibatté con violenza, più come un pesce in una rete che una persona addormentata in un'amaca, poi rimase all'improvviso immobile. Tre respiri più tardi, Paragon sentì i piedi nudi colpire il pavimento. Ambra camminò verso i ganci dove teneva i vestiti. Un momento più tardi stava attraversando il ponte inclinato. Leggera come un uccello, si lasciò cadere
dalla murata, atterrando nella sabbia. Un momento più tardi si appoggiò al fasciame. La voce era rauca. «Ti ringrazio per avermi svegliata. Credo.» «Volevi rimanere nel tuo incubo?» Paragon era confuso. «Pensavo che tali esperienze fossero sgradevoli, come vivere nella realtà.» «Sì. Estremamente sgradevoli. Ma a volte, quando un sogno come quello si ripete, è perché devo farne esperienza e tenerne conto. Dopo qualche tempo simili sogni possono giungere ad avere un senso. A volte.» «Cosa hai sognato?» chiese Paragon con riluttanza. Ambra rise incerta. «Il solito. Serpenti e draghi. Il giovane schiavo dalle nove dita. Inoltre sento la tua voce che grida avvertimenti e minacce. Ma tu non sei tu. Sei... qualcun altro. E c'è qualcosa... Non lo so. Tutto si lacera come ragnatele nel vento. Più cerco di afferrarlo, più si dissolve fra le mie dita.» «Serpenti e draghi.» Paragon ripeté a malincuore le parole temute. Tentò di ridere con scetticismo. «Ai miei tempi ne ho visti tanti, di serpenti. Non ho una grande opinione di loro. Ma i draghi non esistono. Penso che sia solo un brutto sogno, Ambra. Lascialo perdere e raccontami una storia. Per liberarci la mente.» «Direi di no» rispose Ambra, esitando. Il sogno l'aveva scossa più di quanto Paragon avesse pensato. «Se stasera tentassi di raccontare storie, ti direi dei draghi che ho visto volare sopra di me nel cielo azzurro. Non è stato tanti anni fa, e non molto più a nord di qui. Ti dirò questo, Paragon. Se tu attraccassi in un porto dei Sei Ducati e dicessi agli abitanti che i draghi non esistono, ti deriderebbero per le tue sciocche credenze.» Appoggiò la nuca contro di lui e aggiunse: «Prima, però, dovrebbero abituarsi all'idea che esistono davvero cose come i velieri viventi. Finché non ne ho visto uno e non l'ho sentito parlare, credevo che i velieri viventi fossero solo una folle storia inventata per far crescere la reputazione dei Mercanti di Borgomago.» «Ci trovi davvero tanto strani?» chiese Paragon. La sentì girare la testa per guardare in su verso di lui. «Una delle cose più strane di te, mio caro, è che non hai idea di quanto tu sia meraviglioso.» «Davvero?» La nave cercò altri complimenti. «Sei meraviglioso quanto i draghi che ho visto.» Si aspettava che il raffronto gli piacesse, comprese Paragon. Invece lo mise a disagio. Ambra era in cerca di segreti? Da lui non ne avrebbe ottenuti.
La donna sembrava inconsapevole del suo malumore. «Penso che nel cuore di un uomo ci sia un luogo creato per la meraviglia. Dorme in fondo al cuore, attendendo di essere colmato. Per tutta la vita raduniamo tesori per riempirlo. A volte sono minuscoli gioielli che brillano: un fiore che sboccia al riparo di un albero caduto, l'arco della fronte di una bambina combinato con la curva della guancia. A volte, tuttavia, un tesoro ti cade fra le mani tutto in una volta, come il forziere di un pirata avido che si rovescia davanti a un osservatore ignaro. Così erano i draghi in volo. Erano del colore di ogni gemma che conosco, e di ogni forma che si possa immaginare. Alcuni erano come li conoscevo dalle storie per bambini, ma altri avevano forme capricciose e altri ancora erano spaventosi nella loro stranezza. C'erano draghi veri e propri, alcuni con lunghe code serpentine, alcuni a quattro zampe e altri a due, rossi e verdi e dorati e neri. Fra loro volavano cervi, un formidabile cinghiale che dimenava le zanne da una parte all'altra mentre volava, e un grande serpente alato e perfino un enorme gatto, con ali a strisce...» La sua voce si spense in un timore reverenziale. «Non erano veri draghi, allora» osservò Paragon sarcastico. «Ti dico che li ho visti» insisté Ambra. «Hai visto qualcosa. Oppure hai visto esseri che avevano rubato le forme dei draghi, ma non erano veri draghi. È come dire che hai visto cavalli verdi, azzurri e viola, alcuni dei quali avevano sei gambe e altri erano a forma di gatto. Non sarebbero affatto cavalli. Qualunque cosa tu abbia visto, non erano draghi.» «Ebbene... però...» Gli piacque sentirla annaspare in cerca delle parole, lei che di solito era così loquace. Non la aiutò. «Alcuni erano draghi» si difese finalmente Ambra. «Alcuni avevano proprio la forma e il colore dei draghi che ho visto nelle pergamene e sugli arazzi antichi.» «Alcune delle tue cose volanti avevano forma di draghi e altre di gatti. È come dire che i gatti volanti esistono, e a volte hanno forma di drago.» Ambra rimase in silenzio per molto tempo. Quando parlò, Paragon seppe che aveva riflettuto, e che la catena di pensieri l'aveva riportata alla storia personale della nave. «Perché» gli chiese in tono ingannevolmente cortese, «è così essenziale per la tua felicità che i draghi non esistano? Perché ci tieni tanto a sopprimere la meraviglia che ho provato alla vista di quelle creature in volo?»
«Non è essenziale. Non ci tengo. Credo solo che uno dovrebbe dire quello che intende dire. Non metto in dubbio la tua meraviglia. Ma penso che non dovresti chiamarli draghi.» «Perché? Se i draghi non esistono, che importa come chiamo le creature che ho visto? Perché non dovrei chiamarle draghi, se quel nome mi piace?» «Perché...» dichiarò Paragon, all'improvviso irritato oltre ogni ragionevolezza «perché se esistessero ancora cose come i draghi, li svilirebbe essere classificati insieme a simili mostruosità.» All'improvviso Ambra sedette diritta. Paragon la sentì spostarsi da lui. Poteva quasi percepire il suo sguardo indagatore che tentava di forare l'oscurità e vedere ciò che l'accetta aveva lasciato del suo viso. «Tu sai qualcosa» lo accusò. «Sai qualcosa dei draghi, e sai qualcosa del mio sogno e di cosa significa. Vero?» «Non so neppure che cosa hai sognato» affermò Paragon. La sua voce voleva essere ragionevole, ma si fece troppo alta e si spezzò. Sempre nel momento meno opportuno. «E non ho mai visto un drago.» «Neanche nei tuoi sogni?» Una domanda sommessa, insidiosa come una foschia fluttuante. «Non toccarmi» Paragon l'avverti all'improvviso. «Non ne ho intenzione» disse Ambra, ma Paragon non le credette. Se lo toccava, pelle a legno, e si protendeva abbastanza, avrebbe capito che stava mentendo. Non era giusto. Lui non poteva farle la stessa cosa. «Ti capita mai di sognare draghi?» gli chiese Ambra. Era una domanda diretta, posta con voce disinvolta. Paragon non ci cascò. «No» rispose laconico. «Ne sei sicuro? Mi pareva che una volta mi avessi parlato di sogni simili...» Paragon scrollò le spalle, un'elaborata messinscena. «Ecco, forse sì. Non ricordo. Forse ho fatto un sogno del genere, ma non era importante per me. Non tutti i sogni sono importanti, sai. Anzi, mi chiedo se esistono sogni importanti o significativi.» «I miei sì» disse Ambra, sconfitta. «So che lo sono. Ecco perché è così angosciante quando non capisco cosa vogliono dire. Oh, Paragon, temo di aver fatto un errore. Prego che non sia troppo grave.» Paragon sorrise nell'oscurità. «Ebbene, quanto può essere grave l'errore di un'intagliatrice di perline? Sono sicuro che ti agiti per niente. Draghi e serpenti di mare, invero. Creature così fantastiche, cosa hanno a che fare
con te e con me?» «Serpenti di mare!» esclamò Ambra all'improvviso. «Ah!» Rimase in silenzio per molto tempo. Poi Paragon sentì quasi il calore del suo sorriso infrangersi contro di lui. «Serpenti di mare» ripeté piano fra sé. «Grazie, Paragon. Grazie almeno per questo.» «Non è il tuo turno.» Ophelia parlò quietamente. «Lo so quanto te. Non riesco a dormire.» Althea guardò fuori oltre la polena. Le onde erano lievi rigonfiamenti. Il vento dolce di primavera le spingeva il mantello leggero contro il corpo. «Lo so quanto te» le fece il verso Ophelia. «Sono due ore che ti rigiri nella cuccetta. Perché? Sei emozionata perché domani attraccheremo a Borgomago?» «Sì. Ma non per la gioia. Temo tutto ciò che dovrò affrontare domani. Mia sorella, mia madre. Forse Kyle, se Vivacia è là. Oh, Ophelia, temo perfino di affrontare la mia nave. Come posso guardarla e spiegare come e perché l'ho lasciata andare?» «Sai che non dovrai farlo. Metti solo la mano sul suo fasciame e lei capirà tutto, come faccio io.» Althea passò le mani con affetto lungo la murata lucida. «È così meravigliosa per me, questa comprensione che si è sviluppata tra noi. È un'altra ragione per cui temo l'arrivo a Borgomago. Mi sento così al sicuro a bordo. Odio l'idea di lasciarti.» Un rumore leggero di piedi nudi sul ponte dietro di lei la fece voltare. Era Grag. Attraversava la tolda sotto la luna con addosso solo i pantaloni, spettinato come un ragazzo. Evidentemente si era appena svegliato, ma c'era una grazia felina nel suo portamento. Un sorriso lento si insinuò sul viso di Althea. Molto piano, Ophelia rispose al suo pensiero. «Gli uomini non hanno alcun concetto della propria bellezza.» Grag si avvicinò sorridendo. «Ho bussato alla tua porta. Quando non ti ho trovata, ho capito subito dove cercarti.» «Oh?» intervenne maliziosa Ophelia. «È tua abitudine bussare alla porta di Althea a quest'ora? Senza camicia?» «Solo quando mio padre mi sveglia e me lo chiede» rispose Grag disinvolto. «Ha detto che voleva fare una chiacchierata tranquilla con noi due.» «E io non sono inclusa in questa 'chiacchierata tranquilla'?» chiese Ophelia, già offesa. «Suppongo di sì, dato che mi ha chiesto di svegliare Althea e chiederle
di venire qui. Pensavo addirittura che fosse una tua idea.» «No. È un'idea mia.» Il capitano Tenira avanzò senza rumore nel loro cerchio. Un bagliore rosso bruciava nel fornello della corta pipa, e il fumo profumato lo seguiva. «Datemi del vecchio apprensivo, se volete, ma prima di attraccare a Borgomago gradirei prendere alcune precauzioni. E riguardano Althea.» Il suo tono serio spense il loro buon umore. «Cosa avete in mente?» chiese Althea. «Stavo pensando al nostro incontro con quella galea di Chalced. Innalzava la bandiera del Satrapo. Negli ultimi anni le cose sono cambiate a Borgomago. Non so quanto favore o influenza possa avere laggiù il capitano della galea, o se ha mandato una protesta per la nostra reazione.» Il capitano Tenira emise uno sbuffo disgustato. «Quando è riuscito a ripartire, potrebbe essersi addirittura rifugiato là. Quindi, in base a quanta influenza ha a Borgomago... e a quanto il Satrapo striscia ai piedi di Chalced... potremmo avere un benvenuto sgradevole.» Un breve silenzio calò sul gruppo. Era ovvio per Althea che Grag non ci aveva pensato, proprio come lei. Non che avesse accantonato l'incidente come banale: mai! Le belle mani slanciate di Ophelia erano ustionate. Non importa quante volte la polena le avesse assicurato che non provava dolore, almeno non come gli esseri umani, Althea ancora fremeva ogni volta che guardava le sue mani annerite. Non vedeva l'ora di giungere a Borgomago, e si aspettava che gli altri Vecchi Mercanti avrebbero condiviso la sua profonda, furiosa indignazione. Non aveva considerato che forse per altri a Borgomago l'offesa era stata ricevuta dalla galea di Chalced e dal suo equipaggio. Il capitano Tenira diede loro il tempo di riflettere prima di parlare di nuovo. «Come ho detto, potrei essere solo un vecchio apprensivo. Mi sono chiesto: cos'è il peggio che possono farmi? Ebbene potrebbero confiscare la mia nave quando attracco al molo della dogana. Potrebbero anche arrestarmi insieme al mio primo ufficiale. Allora chi andrebbe dalla mia famiglia a dire cosa è successo? Chi testimonierebbe davanti al Concilio dei Mercanti di Borgomago per chiedere aiuto? Ho molti buoni marinai e ciascuno è un brav'uomo, ma...» Scosse la testa. «Non sono oratori, né Mercanti di Borgomago.» Althea capì subito. «Volete che vada io?» «Se vuoi.» «Certo. Senza esitazione. Non c'era neanche bisogno di chiederlo.» «Non ne avevo dubbi. Ma c'è di più, temo» disse quietamente il capitano
Tenira. «Più penso a quello che può essere cambiato a Borgomago, meno ho fiducia in un benvenuto. Per sicurezza, sarebbe meglio se tu riprendessi le sembianze di ragazzo. Così potrai allontanarti più facilmente dalla nave. Se sarà necessario.» «Credi davvero che si giungerà a questo?» chiese incredulo Grag. Il capitano Tenira sospirò. «Figlio mio, abbiamo un albero di ricambio sotto coperta. Perché? Non perché è probabile che ci serva, ma perché un giorno o l'altro potrebbe servire. Preferisco vederla in questo modo.» «Mi sembrerebbe di mandarla ad affrontare il pericolo da sola» obiettò Grag all'improvviso. Suo padre lo guardò con calma. «Se si giunge a questo, significherebbe anche aiutarla a sfuggire al pericolo prima che la trappola si chiuda anche su di lei. Per loro sarebbe più vantaggioso avere ostaggi di due famiglie di Mercanti di Borgomago, non solo una.» «Loro? Chi sono 'loro'?» chiese all'improvviso Ophelia. «E perché un Mercante di Borgomago dovrebbe temere qualcuno a Borgomago, se non un altro Mercante? Borgomago è la nostra città. Il Satrapo Esclepius ce l'ha concessa molti anni fa.» «E il Satrapo Cosgo sta facendo a pezzi quello statuto da quando ha ereditato il Manto della Rettitudine.» Il capitano Tenira chiuse all'improvviso la bocca, come per trattenere parole amare. Con voce più mite proseguì: «Altri sono giunti al potere a Borgomago. Dapprima prestammo poca attenzione agli esattori delle tasse. Anche quando richiesero una dogana portuale dove ogni nave doveva attraccare per prima cosa, lo ritenemmo sensato. Quando pretesero di ispezionare i carichi di persona piuttosto che accettare la parola del capitano, ridemmo e fummo d'accordo. Era la nostra città. I sospetti erano offensivi, ma solo come possono esserlo i gesti dei bambini maleducati. Non pensavamo che l'ondata di cosiddetti Nuovi Mercanti si sarebbe alleata con gli esattori del Satrapo per guadagnare il potere. E nessuno di noi ha mai creduto che qualsiasi Satrapo avrebbe stretto la mano lurida di Chalced in amicizia, tanto meno che avrebbe lasciato entrare le galee di Chalced nelle nostre acque sotto la sembianza di legge e protezione.» Scosse la testa. «Ecco su cosa sto rimuginando stasera, ed ecco perché ho deciso di esagerare con la cautela.» «Sembra saggio...» cominciò Althea, ma Ophelia la interruppe: «Hai detto che potrebbero prendermi. Non lo permetterò. Non ho permesso a quei porci di Chalced di abbordarmi, e non permetterò...» «Invece sì.» La voce grave del capitano Tenira raggelò la sua provoca-
zione. «Proprio come Grag e io ci lasceremmo arrestare, se ci provano. Ci ho pensato molto, mia cara, fino alle conclusioni più spiacevoli. È ora che Borgomago si svegli. Stiamo dormendo e abbiamo lasciato che altri consumassero e rosicchiassero ciò che è nostro. Alcuni giorni fa siamo stati attaccati da pirati di Chalced travestiti da pattuglia del Satrapo. Fra qualche giorno potremmo essere trattenuti da briganti e rapitori travestiti da esattori delle tasse. Ci lasceremo catturare e imprigionare. Non perché riconosciamo loro il diritto di farlo, né perché non possiamo sfidarli, ma solo per mostrare al resto di Borgomago quanto potere abbiano guadagnato questi miserabili arricchiti. Il pericolo deve essere riconosciuto finché è ancora facile da distruggere. Perciò, ti prego, se tentano di catturarti, o perfino di mettere guardie armate a bordo, penso che dovremmo permetterlo. Non possono trattenerci a lungo, una volta che Borgomago sarà insorta. Ophelia diventerà un simbolo per l'orgoglio dei Mercanti di Borgomago.» La nave lasciò che il silenzio si prolungasse. «Suppongo che lo permetterò» concesse infine. «Solo perché me lo chiedi tu.» «Brava ragazza» Tenira la lodò vivamente. «Non temere. Grag e io ti difenderemo da ogni danno.» Ophelia sciolse le spalle. «Anch'io vi difenderò da ogni danno» minacciò. Il capitano fece un pallido sorriso. «Bene. È certamente un grande sollievo.» Il suo sguardo andò da Grag ad Althea e poi alla notte illuminata dalla luna sopra di loro. «All'improvviso sono stanco» annunciò. Guardò solo Althea. «Vuoi fare la guardia al mio posto? Sembri ben sveglia.» «Ne sarò lieta, signore. Mi avete dato molto su cui riflettere.» «Grazie. Procedi, Althea. Buona notte, Grag.» «Buona notte, signore» rispose suo figlio. Un attimo prima che il capitano fosse fuori portata, Ophelia osservò: «Che caro! Ha trovato il modo di lasciarvi soli al chiaro di luna in pace.» «Peccato che tu non possa fare lo stesso» rispose amichevolmente Grag. «Dovresti vergognarti anche solo per averlo suggerito.» Grag non fece commenti, ma andò ad appoggiarsi alla murata di sinistra. Con una strizzata d'occhio e un cenno della grande testa, Ophelia esortò Althea a raggiungerlo. La ragazza sospirò malinconicamente, poi seguì il suggerimento della nave. «Non mi hai detto molto, in questi ultimi giorni» commentò Grag a voce bassa, rivolto al mare notturno. «Il mio lavoro mi ha tenuta occupata. Quando tuo padre mi darà la cre-
denziale della nave, voglio essermela davvero guadagnata.» «L'hai già guadagnata. Nessuno a bordo di questo vascello metterebbe in dubbio la tua abilità. Comunque non penso che tu sia stata poi molto occupata. Penso piuttosto che la nostra ultima conversazione ti abbia messa a disagio.» Althea non lo negò. «Sei molto schietto, vero? Questo mi piace.» «Le domande semplici di solito ottengono risposte semplici. A un uomo piace sapere come stanno le cose.» «È ragionevole. E una donna ha bisogno di tempo per pensare.» Althea tentò di mantenere un tono leggero ma non frivolo. Grag non incontrò i suoi occhi. «Molte donne non hanno bisogno di tempo per pensare se amano qualcuno o no.» C'era una traccia di dolore nella sua voce? «Non mi pareva che tu mi avessi chiesto questo» rispose Althea onestamente. «Credevo che il punto in questione fosse un possibile matrimonio. Se ti chiedi se potrei giungere a volerti bene, penso che la risposta sia un facile 'sì'. Sei premuroso, cortese e gentile.» Gettò uno sguardo verso Ophelia. La polena era del tutto immobile e fissava l'acqua. Althea alzò lievemente la voce. «Per non dire che sei molto attraente e che potrai ereditare una bella nave.» Come sperava, entrambi risero, e l'atmosfera si alleggerì. Poi Grag tese la mano a coprire la sua. Althea non si sottrasse ma aggiunse con voce più sommessa: «Il matrimonio non è solo questione di amore. Soprattutto non tra due famiglie di Mercanti di Borgomago. Perché infatti sarebbe questo, non una semplice unione fra te e me, ma un'alleanza delle nostre famiglie. Devo pensare a molte cose. Se io ti sposassi e andassi per mare con te, che ne sarebbe della mia nave? Tutto ciò che ho fatto nell'ultimo anno, Grag, l'ho fatto con l'intenzione di recuperarla. Sposarti vorrebbe dire rinunciare a Vivacia?» Si girò verso di lui, e Grag la guardò con occhi adombrati. «Rinunceresti all'Ophelia per sposarmi e vivere con me a bordo della Vivacia, sotto il mio comando?» Lo sgomento sul viso di Grag rese evidente che non aveva mai pensato a quel problema. «Ed è solo la prima delle mie considerazioni. Devo chiedermi cosa porterei alla nostra unione, a parte i debiti della mia famiglia. Non ho ereditato nulla da mio padre, Grag. Nulla se non l'arte marinara che mi ha trasmesso. Di certo la mia famiglia mi darebbe una specie di dote in nome della rispettabilità. Ma non quella che di solito accompagna la figlia di un Mer-
cante.» Althea scosse la testa. «Otterresti di più sposando una ragazza delle Tre Navi. Pagherebbero profumatamente per un legame con la tua famiglia.» Grag tolse la mano dalla sua. Con voce quasi gelida chiese: «Pensi che ti abbia fatto la mia proposta solo per questo? Per sapere che offerta farebbe la tua famiglia?» «No. Tuttavia devo tenere da conto certe cose, se non altro per orgoglio. Sei tu che hai suggerito che forse la pianificazione deve venire prima della passione. Quindi sto considerando la situazione da più punti di vista. Guardala con freddezza, Grag. Per sposarti non solo dovrei abbandonare la mia nave, ma anche vederla nelle mani di un uomo che disprezzo. Per sposarti, tu dovresti rinunciare a compagne che potrebbero creare alleanze lucrose per la tua famiglia. Se consideri questi aspetti, la situazione non sembra molto promettente.» Grag trasse un respiro lento. «Suppongo che tu abbia ragione e...» «Baciala, grosso idiota!» sibilò rumorosamente Ophelia. Althea scoppiò in una risata, interrotta dalla bocca di Grag sulla sua. Il bacio la sorprese, ma la reazione del suo corpo la sconvolse. Percorsa da un fiotto di calore si girò verso di lui, alzando una mano alla sua spalla. Si aspettava che la stringesse e continuasse il bacio. Prima che potesse chiedersi fino a che punto gli avrebbe permesso di arrivare, Grag alzò la bocca dalla sua e si trasse di nuovo indietro. Non lo avrebbe fatto. Questo era Grag, non Brashen, si rammentò Althea. Era governato dalla testa, non dalle passioni. La ragazza rifiutò di provare delusione per quel raffronto. Nel momento in cui si staccò da lei, Althea si convinse che, se non avesse interrotto lui il bacio, lo avrebbe fatto lei. Grag Tenira andava preso seriamente. Non era un'avventura anonima in un lontano porto di mare. Il modo in cui Althea si comportava con lui avrebbe influenzato il resto della sua vita a Borgomago. La cautela era la rotta migliore. Trasse un respiro. «Bene!» disse, in un tono inteso per manifestare sorpresa senza affronto. «Scusa» mormorò Grag, e distolse lo sguardo con un mezzo sorriso che non sembrava affatto pentito. «Ophelia mi dà ordini da quando avevo otto anni.» «Sembrava proprio un ordine diretto» concordò Althea mitemente. Si girò di nuovo a guardare oltre le onde. Dopo un momento, la mano di Grag coprì la sua sulla murata. «Ci sarebbero difficoltà da sormontare» disse con prudenza. «È così in
qualsiasi impresa. Althea, ti chiedo solo di considerare la mia offerta. Non potrei certo chiederti una risposta adesso. Non lo hai discusso con la tua famiglia; io non ne ho accennato ai miei genitori. Non sappiamo neppure che genere di tempesta incontreremo a Borgomago. Mi piacerebbe solo che tu considerassi la mia offerta. Tutto qui.» «Lo farò» rispose Althea. La notte era dolce attorno a loro, e la presa della sua mano callosa era calda. Althea non sapeva cosa avessero detto all'equipaggio il capitano Tenira o Grag, ma nessuno dimostrò sorpresa quando apparve sulla tolda vestita da mozzo. Ophelia entrò nel porto di Borgomago su una brezza fresca che costringeva i marinai a lavorare sodo. Se qualcuno dell'equipaggio riconobbe Althea in Athel da Candelaia, nessuno fu sciocco abbastanza da ammetterlo. Accettarono il suo lavoro al loro fianco solo con qualche benevola presa in giro. Ophelia navigava decisa. L'esperta nave conosceva il suo mestiere e collaborava con l'equipaggio, gridando suggerimenti al timoniere. Non si trattava di manovrare un congegno di assi e tela e cime in un molo, ma di guidare a casa una creatura senziente. Le scialuppe dell'Ophelia furono calate per aiutarla a raggiungere il suo posto al molo della dogana. Althea si mise a un remo; il capitano Tenira aveva deciso che era il modo migliore per allontanarla dalla nave e darle l'opportunità di eclissarsi se necessario. Dopo tante precauzioni era quasi una delusione vedere che il traffico era tranquillo. Nessuno sembrava curarsi troppo dell'Ophelia. Mentre i suoi occhi vagavano sull'attivo porto mercantile, Althea provò un improvviso slancio di emozione, più forte di qualsiasi nostalgia. Era stata in viaggi più lunghi con suo padre, e andando più lontano che in quell'ultimo periodo. Eppure le sembrava di rivedere Borgomago per la prima volta dopo anni. Borgomago giaceva in un'azzurra baia scintillante, una vivace città commerciale addossata a dolci colline nel verde brillante di primavera. Ancor prima che attraccassero, Althea sentì l'odore di fumo e cucine e bestiame. Le grida stridule dei venditori ambulanti al mercato si propagavano sull'acqua. Le strade fremevano di traffico, e le acque del porto non erano meno gremite. Diverse scialuppe andavano avanti e indietro tra la spiaggia e le navi all'ancora. Le barchette da pesca si insinuavano tra gli alti mercantili per andare a vendere la loro pesca al mercato. Era una sinfonia di spettacoli e suoni e odori, e il tema era Borgomago. Un nota discordante disturbò l'armonia quando la partenza di una nave
svelò con lentezza una galea di Chalced attraccata al molo della dogana. La bandiera del Satrapo pendeva flaccida dall'unico albero. Althea vide al primo sguardo che non era la stessa galea che li aveva abbordati; recava il muso di un gatto zannuto sulla polena, e non mostrava tracce di bruciature. Il cipiglio della ragazza si approfondì. Quante galee c'erano nelle acque di Borgomago? Perché aveva avuto il permesso di entrare in porto? Tenne per sé quei pensieri e fece la sua parte del lavoro di ormeggio come un umile mozzo. Quando il capitano Tenira le abbaiò di andare a prendere la sacca e seguirlo di corsa non si stupì dell'ordine insolito. Capì che voleva farla assistere alla riunione con l'esattore delle tasse del Satrapo. Si mise in spalla la piccola sacca di tela e lo seguì mitemente. Grag, come primo ufficiale, rimase a bordo a sovrintendere alla nave. Tenira avanzò deciso nell'ufficio dell'esattore. Un impiegato li salutò e richiese brusco la nota di carico della nave. Althea tenne gli occhi bassi, anche quando Tenira sbatté il pugno sul banco e chiese di parlare con l'esattore. L'impiegato squittì spaventato, poi ritrovò il controllo del viso e della voce. «Oggi sono io il responsabile qui, signore. La nota, per favore.» Con estremo disdegno Tenira lanciò sul banco i documenti legati in un fascio. «Ecco. Cacciaci il naso, ragazzo, e calcola quello che devo. Ma trovami qualcuno che non si occupi solo di soldi e carico. Ho una protesta da fare.» La porta di una stanza interna si aprì e ne emerse un uomo robusto in una lunga veste ricamata lungo le maniche, il petto e gli orli. Teneva le mani pallide strette davanti a sé. La testa rasata e la piccola crocchia proclamavano il suo status di esattore del Satrapo. «Perché maltrattate il mio assistente?» «Perché c'è una galea di guerra di Chalced ormeggiata a un molo di Borgomago? Perché un'altra galea ha abbordato la mia nave, apparentemente in nome del Satrapo? Da quando i nemici di Jamaillia hanno il permesso di trovare rifugio in Borgomago?» Tenira sottolineò ogni domanda con un pugno sul banco. Il funzionario rimase impassibile. «I corsari di Chalced sono agenti del Satrapo. Hanno il permesso di ormeggiare qui da quando il Satrapo li ha nominati guardiani del Passaggio Interno. Entrambe le galee hanno fatto rapporto qui formalmente, presentando le loro patenti da corsa. Il loro unico scopo è di controllare la pirateria. Attaccheranno i pirati sulle loro navi e nei loro insediamenti illegali. Combatteranno anche il contrabbando che
li arricchisce; se quei manigoldi non avessero un mercato per la loro refurtiva, il loro mestiere cesserebbe presto.» Fece una pausa per raddrizzare una piega della manica. In tono annoiato riprese: «È vero, alcuni residenti di Borgomago hanno protestato per la presenza di Chalced, ma il molo della dogana è proprietà del Satrapo. Solo lui può impedire alla gente di Chalced di ormeggiare qui. E ha dato loro esplicito permesso.» Emise un piccolo sbuffo di disprezzo. «Non penso che il capitano di un mercantile possa annullare la parola del Satrapo.» «Questo molo potrà appartenere al Satrapo, ma le acque che lo circondano sono il porto di Borgomago, concesso ai Mercanti di Borgomago secondo il loro statuto. Per tradizione e per legge non accettiamo galee di Chalced nelle nostre acque.» Il funzionario guardò oltre Tenira. Con voce annoiata rispose: «Le tradizioni cambiano, e anche le leggi. Borgomago non è più un'arretrata cittadina di provincia, capitano Tenira. È un centro di commerci in rapida crescita. È per il bene di Borgomago che il Satrapo combatte i pirati che infestano le vie d'acqua. Borgomago dovrebbe normalizzare il commercio con Chalced. Jamaillia non vede ragione di considerare Chalced un nemico. Perché Borgomago sì?» «Jamaillia non divide un confine conteso con Chalced. Le fattorie e gli insediamenti di Jamaillia non sono state depredate e bruciate. L'ostilità di Borgomago verso Chalced è fondata sulla storia, non sul sospetto. Quelle navi non hanno diritto di trovarsi nel nostro porto. Mi chiedo perché il Concilio dei Mercanti di Borgomago non si sia opposto.» «Non è né il luogo né il momento di discutere la politica interna di Borgomago» dichiarò il funzionario all'improvviso. «Il mio compito qui è servire il Satrapo raccogliendo le sue giuste tasse. Corum! Non hai ancora finito con quei conti? Quando ho accettato di assumerti, tuo zio mi ha fatto capire che eri rapido con i numeri. Qual è il motivo del ritardo?» Ad Althea quasi dispiacque per l'impiegato, che tuttavia doveva essere abituato a subire lo scontento del funzionario, perché sorrise ossequioso e fece ticchettare più in fretta i bastoncini dei conti. «Sette e due» mormorò, evidentemente per il beneficio degli astanti. «Tassa di attracco e tassa di sicurezza... E la tassa di pattuglia... E il sovrapprezzo sui tessuti non provenienti da Jamaillia.» Scribacchiò un numero sulla tavoletta, ma prima che Althea potesse decifrarlo, il ministro glielo strappò di mano. Lo percorse con un'unghia lunghissima e un cipiglio di disapprovazione. «Questo non è corretto!» sibilò.
«Direi proprio di no!» concordò con impeto il capitano Tenira. Era più alto del funzionario e gli guardò facilmente da sopra la spalla. «È il doppio di quello che ho pagato in 'tariffe' l'ultima volta, e la percentuale sul tessuto non proveniente da Jamaillia è...» «Le tariffe sono salite» lo interruppe il funzionario. «C'è anche un nuovo sovrapprezzo sui metalli lavorati non provenienti da Jamaillia. Credo che le vostre pentole di stagno rientrino in quella categoria. Riconta subito, e non sbagliare!» Sbatté la tavoletta davanti all'impiegato, che chinò la testa e annuì freneticamente. «Stagneria è una città di Jamaillia!» dichiarò Tomie Tenira indignato. «Stagneria, come Borgomago, riconosce il governo di Jamaillia, ma non è in Jamaillia, e perciò non è una città di Jamaillia. Pagherete il sovrapprezzo.» «Neanche per sogno!» esclamò Tenira. Althea represse un piccolo ansito. Si era aspettata che Tenira contrattasse sulle tariffe dovute. Le contrattazioni erano la base della società di Borgomago. Nessuno mai pagava il primo prezzo chiesto. Tenira avrebbe dovuto proporre un dono generoso al ministro nella forma di un lauto pranzo in un vicino ristorante, o una selezione dalle merci di prima qualità a bordo dell'Ophelia. Althea non aveva mai sentito di un Mercante di Borgomago che semplicemente rifiutava di pagare. Il funzionario guardò Tenira con occhi ridotti a fessure. Poi alzò sdegnosamente le spalle. «Come volete, signore. Per me è lo stesso. La nave rimarrà ormeggiata a questo molo con il carico a bordo finché le tariffe corrette non saranno pagate.» Alzò all'improvviso la voce. «Guardie! Entrate, per favore! Potrei aver bisogno della vostra assistenza!» Tenira non guardò neanche i due uomini corpulenti che entrarono nella stanza. La sua attenzione era concentrata sul ministro. «Non c'è nulla di corretto in queste tasse.» Batté il dito sulla tavoletta che lo scrivano ancora stava tentando di completare. «Che vuol dire questo, 'pattuglia', e questo, 'sicurezza'?» Il funzionario emise un sospiro rassegnato. «Come vi aspettate che il Satrapo rimborsi coloro che ha ingaggiato per proteggervi?» Althea aveva sospettato che l'indignazione di Tenira fosse una finta per mercanteggiare. Il capitano si imporporò al punto che la ragazza non dubitò più della sincerità della sua rabbia. «Volete dire quella feccia di Chalced, vero? Che Sa mi chiuda le orecchie prima di udire una tale idiozia! Non pagherò per permettere a quei pirati di gettare l'ancora nel porto di
Borgomago.» All'improvviso le guardie erano accanto ai gomiti di Tomie Tenira. Nel suo ruolo di mozzo, Althea si sforzò di apparire dura e seguire l'esempio del suo il capitano. Se Tenira sferrava un pugno, lei avrebbe dovuto intervenire. Qualsiasi mozzo degno di questo nome lo avrebbe fatto, ma era una prospettiva scoraggiante. Non si era mai trovata in una vera rissa, a parte quell'unico breve scontro insieme a Brashen. Strinse i denti e scelse il più giovane dei due uomini come bersaglio. Non si giunse alla rissa. Tenira abbassò all'improvviso la voce in un ringhio: «Ne parlerò al Concilio dei Mercanti.» «Come meglio credete, signore, ne sono sicuro» tubò il ministro. Althea lo ritenne uno sciocco. Un uomo più saggio avrebbe evitato di provocare Tomie Tenira. Quasi si aspettava che il capitano lo colpisse. Invece gli rivolse un sorriso molto teso. «Come meglio credo» rispose con noncuranza. Con un gesto secco ad Althea, lasciò l'ufficio delle tasse. Non le rivolse una parola finché non furono a bordo della nave. Poi le ordinò: «Vai a chiamare il primo ufficiale, e fa' in fretta. Digli di venire nella mia cabina.» Althea obbedì prontamente. Quando furono chiusi nella cabina del capitano, Tenira stesso versò tre bicchierini di rum. Non si fermò a rispettare l'etichetta, e anche Althea lo trangugiò senza pensarci. La scena nell'ufficio delle tasse l'aveva raggelata più di una notte fredda sulla tolda. «Va male» fu il saluto di Tenira a suo figlio. «Peggio di quanto temessi. Non solo la galea di Chalced è ormeggiata qui, ma il Concilio dei Mercanti non si è opposto. E il maledetto Satrapo ha appiccicato altri doveri e tasse sul nostro commercio per retribuire la loro presenza!» «Non avrai pagato?» chiese Grag incredulo. «Certo che no!» sbuffò Tenira. «Qualcuno qui deve cominciare a reagire a queste sciocchezze. Sarà un po' dura per il primo, ma scommetto che una volta dato l'esempio altri seguiranno. Il ministro dice che ci tratterrà. Bene. Mentre siamo qui, occupiamo spazio sul molo. Un altro paio di Mercanti come noi, e lui non potrà più occuparsi di navi o tariffe. Grag, di' due parole a Ophelia. Avremo bisogno dell'aiuto di Sa, ma voglio darle libertà d'azione. Dovrà essere sgradevole e antipatica come solo lei sa fare. Gli scaricatori e i passanti se la vedranno con lei.» Althea si trovò a sogghignare. La piccola stanza era carica come se stesse per scoppiare un temporale. Era davvero un temporale, si disse, uno che
suo padre aveva visto addensarsi per anni. Eppure era umiliante guardare un vecchio capitano come Tenira mentre annunciava che avrebbe attirato su di sé il primo fulmine. «Cosa volete che faccia?» gli chiese. «Vai a casa. Racconta a tua madre tutto quello che hai visto e sentito. Non ho notato la Vivacia in porto, ma se c'è, ti chiedo di mettere da parte le divergenze con tuo cognato e tentare di fargli capire perché dobbiamo essere tutti uniti nella nostra sfida. Anch'io tornerò a casa fra poco. Grag, ti affido la nave. Al primo segno di guai, mandami Calco con un messaggio. Althea?» Lei soppesò le sue parole, poi annuì con lentezza. Odiava l'idea di una tregua con Kyle, ma il capitano Tenira aveva ragione. Non era il momento che i Mercanti di Borgomago fossero divisi. L'espressione sul viso dei Tenira ne valeva la pena. «Non ero certo di poter contare su di te, ragazza» disse con affetto il capitano. Grag le rivolse un largo sorriso. «E io ne ero sicuro.» 10 Ritorno a casa La dimora dei Vestrit, come le case degli altri Mercanti di Borgomago, era situata fra le fresche colline boscose che circondavano la città. Dal porto ci si arrivava con un breve tratto in carrozza, o una passeggiata tranquilla in una bella giornata. Lungo la strada si scorgevano le altre case lussuose dei Mercanti, ben lontane dalla via principale. Althea superò siepi fiorite e vialetti fiancheggiati da alberi verdeggianti di boccioli primaverili. L'edera copriva il muro di pietra degli Oswell come un mantello. Fresche giunchiglie gialle mostravano i primi fiori in macchie accanto al cancello. Il giorno di primavera era ricco di canti di uccelli, e dell'ombra screziata di nuove foglie, e dei primi fiori profumati. Non era mai sembrata una camminata così lunga. Althea marciava come per andare incontro alla morte. Indossava ancora l'abbigliamento da mozzo; a tutti era parso più saggio che mantenesse il travestimento mentre lasciava il porto. Si chiese come avrebbero reagito sua madre e sua sorella. Kyle non era a casa. Il sollievo per la sua assenza quasi bilanciava la delusione che Vivacia non fosse in porto. Almeno non doveva preoccuparsi del suo estremo disgusto. Non era passato neppure un anno da quando aveva litigato con suo cognato e se n'era andata infuriata dalla casa natale. Da allora aveva imparato così tanto che sembravano tra-
scorsi dieci anni. Voleva che la sua famiglia ammettesse che era cresciuta. Invece temeva che avrebbero visto solo i suoi vestiti e la treccia oliata, e l'avrebbero giudicata una mascherata infantile di sfida. Sua madre aveva sempre detto che era caparbia; per anni sua sorella Keffria l'aveva creduta capace solo di disonorare il nome della famiglia per il suo piacere. Come poteva tornare da loro, vestita così, e far credere di essere maturata e degna di pretendere il comando del veliero vivente di famiglia? Come avrebbero accolto il suo ritorno? Con rabbia o freddo disdegno? Scosse con furia la testa per allontanare quei pensieri e imboccò il lungo viale verso casa. Notò con fastidio che i rododendri accanto al cancello non erano stati potati. La lunga crescita smilza dell'ultima primavera ora sfoggiava le gemme dell'attuale primavera. Una volta potati come si deve avrebbero perso un anno intero di fiori. Sentì un fremito di preoccupazione. Il giardiniere era sempre stato molto pignolo con quei cespugli. Gli era accaduto qualcosa? L'intera camminata lungo il viale le parlò della trascuratezza del giardino. Le bordure decorative in disordine traboccavano dalle aiuole. Brillanti gemme verdi si schiudevano su cespugli di rose che ancora portavano i rami della crescita dell'ultimo anno, anneriti dall'inverno. Una pianta di glicine era caduta dal suo graticcio e ora apriva coraggiosamente le foglie dove era rimasta distesa. I venti invernali avevano sparso ovunque le foglie dell'ultimo autunno; i rami spezzati dai temporali giacevano ancora al suolo. Althea si aspettava quasi di trovare la casa abbandonata, per armonizzarsi al giardino trascurato. Invece le finestre erano spalancate sul giorno di primavera e una musica allegra di arpa e flauto si riversava fuori a salutarla. Alcuni calessi parcheggiati davanti alla porta principale le dissero che era in corso una riunione. Si stavano divertendo, a giudicare dal trillo improvviso di risate che si mescolò per un momento con la musica. Althea deviò verso l'ingresso posteriore, sempre più perplessa a ogni passo. La famiglia non aveva dato ricevimenti da quando suo padre si era ammalato. Questa festa significava che sua madre aveva già concluso il periodo di lutto? Non era da lei. E Althea non riusciva a immaginare che Ronica trascurasse il giardino per spendere in divertimenti. Non aveva senso. I presentimenti la rodevano. La porta di cucina era aperta e il profumo allettante di pane appena cotto e carne saporita ne usciva per mescolarsi al sole di primavera. Lo stomaco di Althea borbottò con gratitudine al pensiero di cibo di terraferma: pane
lievitato e carne fresca e verdura. Bruscamente decise che era contenta di essere a casa, non importa quale accoglienza avrebbe ricevuto. Entrò in cucina e si guardò attorno. Non riconobbe la donna che arrotolava la pasta sul tavolo, né il ragazzo che girava lo spiedo. Non era insolito. Nella famiglia Vestrit i servitori andavano e venivano. Regolarmente le famiglie dei Mercanti si «rubavano» a vicenda i migliori cuochi, balie e maggiordomi, blandendoli con offerte di paga migliore e alloggi più grandi. Una domestica entrò in cucina con un vassoio vuoto. Lo mise giù rumoreggiando e si girò verso Althea. «Cosa vuoi?» La voce era fredda e annoiata. Per una volta la mente di Althea fu più veloce della sua bocca. Abbozzò un inchino. «Ho un messaggio dal capitano Tenira del veliero vivente Ophelia per la Mercante Ronica Vestrit. È importante. Mi ha chiesto di consegnarglielo in privato.» Ecco. Così avrebbe potuto restare sola con sua madre. Se c'era gente in casa non voleva farsi vedere vestita da ragazzo. La domestica parve turbata. «In questo momento ha ospiti, ospiti molto importanti. È una festa d'addio. Sarebbe imbarazzante chiamarla.» Si morse il labbro inferiore. «Il messaggio non può aspettare un po'? Magari mentre mangi qualcosa?» La ragazza offrì quella piccola corruzione con un sorriso. Althea si trovò ad annuire. L'odore del cibo appena cucinato le faceva venire l'acquolina in bocca. Perché non mangiare lì in cucina, e affrontare sua madre e sua sorella a stomaco pieno? «Suppongo di sì. Ti dispiace se prima mi lavo le mani?» Althea accennò alla pompa della cucina. «Ci sono una pompa e un trogolo in cortile» indicò la cuoca, un brusco promemoria della presunta condizione di Althea. La ragazza nascose un sorriso e andò fuori a lavarsi. Quando tornò era pronto un piatto per lei. Non le avevano dato cibo di prima qualità; era l'esterno bruciacchiato dell'arrosto di carne di maiale, e le estremità del pane appena sfornato. C'era una fetta di formaggio giallo, una noce di burro appena fatto per il pane e una cucchiaiata di conserva di ciliegie. Althea fu servita su un piatto sbreccato con un tovagliolo macchiato. Raffinatezze come i coltelli si supponevano ignote a un mozzo, così si arrangiò con le dita, appollaiata su uno sgabello alto nell'angolo della cucina. Dapprima mangiò come un lupo, senza pensare a nulla che non fosse il cibo davanti a lei. La crosta dell'arrosto sembrava molto più saporita del miglior taglio che avesse mai mangiato. Il grasso abbrustolito scricchiola-
va fra i denti. Il burro fresco si scioglieva sul pane ancora caldo. Con pezzi di pane imburrato raccolse l'acre conserva di ciliegie. Saziata la fame, divenne più consapevole della confusione in cucina attorno a lei. Guardò con occhi nuovi la stanza un tempo familiare. Da bambina le era sembrata immensa e affascinante, un luogo che non le era permesso esplorare liberamente. Era andata per mare con suo padre prima di superare quella curiosità, quindi la cucina aveva mantenuto sempre un'aura di proibito per lei. Ora la vide per quello che era, una grande, frenetica area di lavoro dove i domestici andavano e venivano alacremente mentre una cuoca regnava suprema. Ogni servitore che entrava dava invariabilmente un breve rapporto sulla riunione. Parlavano della gente che servivano, con familiarità e a volte disprezzo. «Avrò bisogno di un altro vassoio di involtini di salsiccia. Il Mercante Sgargiante sembra pensare che li abbiamo cotti solo per lui.» «Meglio lui della piccola Orpel. Guardate questo piatto. Carico di cibo su cui abbiamo lavorato tutta la mattina, e lei ha mangiucchiato e poi lo ha messo da parte. Suppongo speri che un uomo si accorga del suo appetito delicato e pensi che sia facile mantenerla.» «Come va il numero due dell'imperatrice?» chiese incuriosita la cuoca. Un domestico mimò il gesto di bere. «Oh, affoga i suoi guai, guarda male il suo concorrente e contempla la piccola. Poi ricomincia da capo. Tutto con grande distinzione, certo. Dovrebbe fare l'attore.» «No, no, è lei che dovrebbe essere su un palcoscenico. Un momento sorride affettatamente al velo di Reyn, ma quando balla con lui guarda oltre la sua spalla e sbatte le ciglia al giovane Trell.» La domestica che osservò questo aggiunse con uno sbuffo di disgusto: «Li fa ballare tutti e due alla sua musica, ma scommetto che non le importa di loro, quanto dei passi che eseguono per lei.» Per qualche istante Althea ascoltò divertita. Poi le orecchie e le guance cominciarono a bruciare quando comprese che i servitori avevano sempre parlato così della sua famiglia. Chinò la testa, tenne gli occhi sul piatto e cominciò a poco a poco a ricomporre i pettegolezzi in un'immagine bizzarra dell'attuale situazione della famiglia Vestrit. Sua madre stava intrattenendo ospiti delle Giungle della Pioggia. Era abbastanza insolito, dato che suo padre aveva troncato anni prima le relazioni commerciali con loro. Un uomo delle Giungle della Pioggia stava corteggiando una donna dei Mercanti. I domestici non avevano molta stima di lei. «Gli sorriderebbe di più se al posto del velo ci fosse uno spec-
chio» ridacchiò sarcastico uno. Un altro aggiunse: «Non so chi sarà più sorpreso la prima notte di nozze: lei quando lui si toglierà il velo e mostrerà le verruche, o lui quando scoprirà la natura di serpente dietro quel bel faccino.» Althea aggrottò le sopracciglia, chiedendosi quale donna fosse abbastanza vicina alla famiglia Vestrit da spingere sua madre a dare un ricevimento in suo onore. Forse un'amica di Keffria aveva una figlia in età da marito. Una sguattera le prese il piatto vuoto dalle mani molli e le offrì una ciotola con due dolcetti di zucchero. «Ecco. Prendi pure; ne abbiamo fatti troppi. Rimangono tre vassoi e gli ospiti cominciano ad andarsene. Non ha senso che un giovane come te rimanga a stomaco vuoto in questa casa.» Sorrise con calore e Althea distolse lo sguardo, sperando che fosse una manifestazione convincente della timidezza di un ragazzo. «Potrò portare presto il mio messaggio a Ronica Vestrit?» chiese. «Oh, penso di sì.» I dolcetti appiccicaticci erano difficili da mangiare ma deliziosi. Althea li finì, restituì la ciotola e con la scusa delle mani sporche tornò alla pompa in cortile. Una vigna proteggeva il cortile dall'ingresso principale, ma le foglie nuove erano ancora minuscole. Althea poteva osservare le carrozze in partenza attraverso i rami ritorti. Riconobbe Cerwin Trell e la sorellina che se ne andavano. Era venuta anche la famiglia Shuyev. C'erano molte altre famiglie di Mercanti che Althea riconobbe più dallo stemma che dalle facce. Ciò le fece comprendere quanto tempo era passato da quando era appartenuta davvero alla loro cerchia. Gradualmente il numero di carrozze diminuì. Davad Restart fu uno degli ultimi a partire. Poco dopo arrivò una coppia di cavalli bianchi con una carrozza delle Giungle della Pioggia. I finestrini erano coperti da tende pesanti e lo stemma sullo sportello non le era familiare. Sembrava un pollo con un cappello. Un carro aperto la seguiva e una schiera di servitori cominciò a trasportare bagagli e bauli dalla casa al carro. Dunque i Mercanti delle Giungle della Pioggia erano stati ospiti a casa Vestrit. Sempre più misterioso, pensò Althea. Per quanto storcesse il collo riuscì solo a intravedere la famiglia in partenza. Di giorno la gente delle Giungle della Pioggia era sempre velata, e quel gruppo non faceva eccezione. Althea non aveva idea di chi fossero o perché si fossero fermati a casa Vestrit. Si sentì a disagio. Dunque Kyle aveva scelto di rinnovare le relazioni commerciali con loro? Sua madre e sua sorella l'avevano sostenuto? Kyle aveva portato Vivacia sul Fiume della Pioggia?
Strinse i pugni all'idea. Quando la sguattera le tirò la manica si girò di scatto, spaventando la povera ragazza. «Mi dispiace» si scusò subito. La domestica le diede un'occhiata strana. «Ora la signora Vestrit potrà vederti.» Althea sopportò di essere accompagnata in casa sua e lungo il corridoio familiare fino allo studio. Dappertutto c'erano festosi segnali della presenza di ospiti e compagnia vivace. I vasi di fiori riempivano ogni angolo e il profumo indugiava nell'aria. Quando Althea era partita la casa era stata in lutto e piena di contese familiari. Ora la famiglia sembrava aver dimenticato quei giorni difficili, e anche lei. Non sembrava giusto che mentre lei si affaticava sua sorella e sua madre indulgessero in celebrazioni sociali. Quando raggiunsero lo studio, Althea dovette impedire che la confusione ribollente nella sua anima erompesse in rabbia. La domestica bussò alla porta della stanza. Quando sentì l'assenso mormorato di Ronica si fece da parte, sussurrando ad Althea: «Entra.» Lei si inchinò, poi entrò. Chiuse piano la porta dietro di sé. Sua madre sedeva su un divano imbottito. Accanto aveva un tavolino basso con un bicchiere di vino. Indossava una semplice veste da giorno di lino color crema. I capelli erano arricciati e profumati, e una catena di argento le ornava la gola, ma il viso che alzò a incontrare lo sguardo di Althea era teso dalla stanchezza. Lei si costrinse a fissare gli occhi sempre più grandi di sua madre. «Sono tornata a casa» disse quietamente. «Althea» ansimò sua madre. Alzò una mano al cuore, e poi si mise entrambe le mani sulla bocca e inspirò attraverso di esse. Era diventata così pallida che le rughe del viso risaltavano come un'incisione. Trasse un respiro tremante. «Sai per quante notti mi sono chiesta come eri morta? Se il tuo corpo giaceva in una tomba decente o se i mangiatori di carogne ti beccavano la carne?» Quel fiume di parole rabbiose colse Althea di sorpresa. «Ho tentato di avvertirti.» Udì la menzogna, come una bambina colta in flagrante. Sua madre aveva trovato la forza di alzarsi e ora avanzava verso Althea, l'indice puntato come una picca. «No, non lo hai fatto!» la contraddisse amaramente. «Non ti è mai neppure venuto in mente.» Si fermò all'improvviso. Scosse la testa. «Proprio come tuo padre, posso perfino sentirlo mentire con la tua voce. Oh, Althea. Oh, piccola mia.» Poi sua madre l'abbracciò all'improvviso, come non aveva fatto per anni. Lei rimase immobile nel cerchio delle braccia che la imprigionavano, del tutto sconcertata. Un attimo dopo inorridì quando un singhiozzo scosse il corpo di sua ma-
dre. Ronica si aggrappò a lei e pianse disperatamente contro la sua spalla. «Mi dispiace» disse a disagio Althea. Poi aggiunse: «Adesso andrà tutto bene.» Qualche istante più tardi tentò: «Cosa c'è che non va?» Per un poco sua madre non rispose. Poi trasse un respiro profondo, scosso. Si staccò da sua figlia e si strofinò una manica sugli occhi come una bambina. Rovinò il trucco accurato delle ciglia e delle palpebre, macchiando la stoffa, ma non se ne accorse. Camminò vacillando fino al divano e sedette. Prese un lungo sorso di vino, poi rimise il bicchiere sul tavolo e tentò di sorridere. Il trucco imbrattato sul viso lo rendeva orribile. «Tutto» disse piano. «Tutto quello che poteva non andare. Tranne una cosa. Sei a casa, sei viva.» Il puro sollievo sul volto di sua madre era più ardente della sua collera. Fu difficile attraversare la stanza e sedersi all'estremità del divano. Più difficile ancora dire con calma e razionalità: «Raccontami tutto.» Per tanti mesi Althea era stata ansiosa di tornare a casa, di raccontare la sua storia, di costringere la famiglia, finalmente, finalmente, ad ascoltare il suo punto di vista. Ora era lì; e sapeva, con la certezza infallibile di una rivelazione di Sa, che il dovere le chiedeva prima di ascoltare tutto quello che sua madre avrebbe detto. Per un momento Ronica si limitò a guardarla. Poi le parole cominciarono a riversarsi fuori. Una storia disordinata di disastri su disastri. La Vivacia era in ritardo. Ormai avrebbe dovuto essere tornata. Forse Kyle l'aveva portata direttamente a Chalced per vendere gli schiavi, ma di certo lo avrebbe fatto sapere tramite un'altra nave se ne avesse avuto intenzione. Vero? Sapeva quanto fossero povere le finanze di famiglia; di certo avrebbe mandato notizie in modo che Keffria avesse qualcosa da dire ai creditori. Malta aveva combinato un guaio dopo l'altro: Ronica non sapeva neanche dove cominciare, ma la conclusione era che un Mercante delle Giungle della Pioggia ora la stava corteggiando. Dato che la sua famiglia possedeva l'ipoteca sulla Vivacia, cortesia e politica richiedevano che i Vestrit prendessero almeno in considerazione il suo corteggiamento, anche se Malta non era davvero una donna, grande abbastanza per essere corteggiata, Sa ne era testimone! Inoltre Davad Restart si era tuffato in mezzo al groviglio e aveva fatto una gaffe dopo l'altra per tutta la settimana nella sua determinazione di trarre profitto dal corteggiamento. Il fatto che l'uomo fosse totalmente privo di tatto non significava che non avesse armi. Ci era voluta tutta l'ingegnosità di Ronica per distrarlo e impedirgli di offendere la famiglia di
Reyn. Keffria insisteva a tentare di gestire gli affari di famiglia. Era suo diritto, certo, ma non usava l'attenzione necessaria. Era tutta presa dai fiori e dai gingilli di quel corteggiamento, e non importava che i campi di grano fossero arati solo a metà e la luna buona per seminare distasse solo una settimana. Una gelata tardiva si era portata via almeno metà dei germogli dai giardini di mele. Il soffitto nella seconda camera da letto nell'ala est aveva cominciato a perdere, e non c'erano soldi per aggiustarlo subito, ma se non fosse stato riparato presto il soffitto intero avrebbe ceduto e... «Mamma» disse con dolcezza Althea, e poi: «Mamma! Un momento! Mi gira la testa!» «Anche la mia, e da molto più tempo» fece notare stancamente sua madre. «Non capisco.» Althea tentò di parlare in tono calmo, anche se avrebbe voluto gridare; Kyle sta usando Vivacia come nave schiavista? E Malta è stata praticamente venduta ai Mercanti delle Giungle della Pioggia per pagare i debiti di famiglia? Come può Keffria permetterlo, come puoi permetterlo tu? Anche se la Vivacia non è ancora tornata, perché le nostre finanze vanno così male? Le proprietà lungo il mare non si pagavano da sole? Sua madre fece piccoli cenni tranquillizzanti verso di lei. «Calmati. Suppongo che sia un colpo per te. Io ho visto il crollo graduale, ma tu ritorni e ci trovi al fondo delle nostre fortune.» Sua madre si premette le mani alle tempie per un momento. Guardò assente Althea. «Come facciamo a toglierti quegli stracci e vestirti come si deve senza che i domestici facciano domande?» borbottò fra sé. Poi trasse un respiro. «Solo spiegarti tutto mi stanca così tanto. È come raccontare in dettaglio la morte lenta di una persona amata. Lascerò perdere i particolari, e ti dirò solo questo: l'uso di schiavi per i campi e i frutteti a Chalced e perfino nelle terre di Borgomago ha abbassato i prezzi. Noi abbiamo sempre assunto lavoratori che da anni arano, piantano e raccolgono per noi, sempre gli stessi. Cosa gli diciamo, adesso? Sarebbe più proficuo lasciare i campi a maggese o pascolarci le capre, ma come possiamo far questo ai nostri contadini? Quindi continuiamo a lottare. O piuttosto, su mia richiesta, Keffria continua a lottare. Ascolta un poco i miei consigli. Kyle, come sai, controlla la nave. È stato il mio errore; non posso sopportare di guardarti in faccia quando ci penso. Ma Sa mi aiuti, Althea! Temo che abbia ragione lui. Se la Vivacia ha successo come nave schiavista, può ancora salvarci tutti. Gli schiavi, sembra, sono l'unico modo di prosperare. Schiavi come carico, schiavi nei
campi di grano...» Althea guardò incredula sua madre. «Non riesco a credere di sentirti parlare così.» «So che è sbagliato, Althea. Lo so. Ma quali alternative abbiamo? Lasciare che la piccola Malta si faccia invischiare inconsapevolmente in un matrimonio per cui non è pronta, solo nell'interesse del patrimonio di famiglia? Restituire Vivacia alla Giungle della Pioggia in pagamento del debito, e vivere in povertà? O forse potremmo fuggire dai creditori, lasciare Borgomago, e andare dove ci porta Sa...» «Davvero hai considerato queste possibilità?» Althea chiese a voce bassa. «Sì» rispose stancamente sua madre. «Althea, se non agiamo da soli, altri decideranno il nostro destino. I nostri creditori ci strapperanno tutto ciò che possediamo, e noi ci guarderemo indietro e diremo: bene, se avessimo permesso a Malta di sposare Reyn, almeno lei non vivrebbe in povertà. Almeno la nave sarebbe nostra.» «La nave sarebbe nostra? Come?» «Te l'ho detto. La famiglia Khuprus ha rilevato l'ipoteca su Vivacia. Hanno praticamente detto che annullerebbero il debito come dono di matrimonio alla nostra famiglia.» «È pazzesco» disse brutalmente Althea. «Nessuno fa regali di nozze come quello. Neppure i Mercanti delle Giungle della Pioggia.» Ronica Vestrit trasse un respiro profondo. Cambiando argomento annunciò: «Dobbiamo portarti su in camera tua di nascosto e trovarti vestiti appropriati. Anche se sei magra come uno stecco. Mi chiedo se qualcosa di quello che hai lasciato ti va ancora bene.» «Non posso ancora tornare a essere Althea Vestrit. Porto un messaggio per te dal capitano Tenira del veliero vivente Ophelia.» «È la verità? Pensavo che fosse solo un artificio per vedermi.» «È la verità. Ho servito a bordo dell'Ophelia. Quando avremo più tempo ti racconterò tutto. Ma per ora voglio darti il suo messaggio e poi portargli la tua risposta. Mamma, l'Ophelia è stata bloccata al molo della dogana. Il capitano Tenira ha rifiutato di pagare le tasse spropositate che hanno richiesto, soprattutto tutte quelle che hanno aggiunto per sostenere quei maiali di Chalced ormeggiati in porto.» «Maiali di Chalced in porto?» Sua madre parve confusa. «Sai cosa intendo. Il Satrapo ha autorizzato le galee di Chalced a pattugliare tutto il Passaggio Interno. Una ha addirittura tentato di fermarci e
abbordarci mentre eravamo diretti qui. Non sono altro che pirati, e peggiori di quelli che dovrebbero controllare. Non capisco perché siano tollerati nel porto di Borgomago, tanto meno perché qui sopportiate le tasse addizionali che ci richiedono!» «Oh. Le galee. C'è stato un certo trambusto in proposito, ma penso che Tenira sia il primo a rifiutare le tasse. Eque o no, i Mercanti le pagano. L'alternativa è non poter commerciare, come sta scoprendo Tenira.» «Mamma, è ridicolo! Questa è la nostra città. Perché non ci opponiamo al Satrapo e ai suoi lacchè? Il Satrapo non rispetta più la promessa che ci ha fatto; perché dovremmo continuare a lasciargli risucchiare i nostri profitti onesti?» «Althea... Non ho più energia per pensarci. Non dubito che tu abbia ragione, ma cosa posso fare? Ho la mia famiglia da difendere. Borgomago dovrà badare a sé stessa.» «Mamma, non possiamo comportarci così! Grag e io ne abbiamo discusso parecchio. Borgomago deve rimanere unita davanti ai Nuovi Mercanti e al Satrapo e a tutta Jamaillia, se necessario. Più concediamo, più si prendono. Gli schiavi che i Nuovi Mercanti hanno portato sono la base dei problemi della nostra famiglia. Dobbiamo costringerli a osservare la nostra vecchia legge che proibisce la schiavitù. Dobbiamo dire ai Nuovi Mercanti che non riconosceremo i nuovi statuti. Dobbiamo dire al Satrapo che non pagheremo altre tasse finché non rispetterà il nostro statuto originale alla lettera. No. Dobbiamo andare oltre. Dobbiamo dirgli che una tassa del cinquanta per cento sulle nostre merci e i suoi limiti su dove possiamo commerciare sono cose del passato. Gli abbiamo lasciato fare i suoi comodi troppo a lungo. Ora abbiamo bisogno di essere uniti e farlo smettere.» «Alcuni Mercanti parlano come te» disse con lentezza sua madre. «E io rispondo come rispondo a te: la mia famiglia per prima cosa. Inoltre, che posso fare?» «Dire che sosterrai i Mercanti che rifiutano le tariffe. È tutto quello che chiedo.» «Allora devi chiedere a tua sorella. Ha lei il voto adesso, non io. Alla morte di tuo padre, l'ha ereditato. Adesso è lei la Mercante di Borgomago, e il voto in concilio è suo.» «Cosa pensi che dirà?» chiese Althea dopo un lungo silenzio. Le ci era voluto un poco per capire il pieno significato di quello che aveva detto sua madre. «Non lo so. Non va a molte riunioni dei Mercanti. Dice che è troppo oc-
cupata e che non vuole votare su cose che non ha avuto tempo di studiare.» «Le hai parlato? Le hai detto quanto possono essere cruciali quei voti?» «È solo un voto» disse Ronica quasi caparbia. Althea pensò di sentire una traccia di senso di colpa nella voce di sua madre. Insisté. «Permettimi di tornare dal Mercante Tenira e dire almeno questo. Che parlerai a Keffria e le consiglierai di presenziare alla prossima riunione dei Mercanti e di votare in sostegno di Tenira. Lui sarà là e richiederà che il Concilio si schieri ufficialmente con lui.» «Posso farlo, suppongo. Althea, non devi portargli la risposta di persona. Se Tenira sfida apertamente l'ufficio delle tasse, potrebbe innescare qualche genere di... di azione giù al porto. Lascia che Rache mandi un corriere con il tuo messaggio. Non c'è bisogno che tu ti faccia coinvolgere.» «Mamma, io voglio farmi coinvolgere. Voglio anche che sappiano che sono saldamente al loro fianco. Sento che devo andare.» «Ma non ora! Althea, sei appena tornata. Di certo puoi fermarti a mangiare e lavarti e indossare vestiti appropriati.» Sua madre sembrava atterrita. «Non posso. Al porto sono più sicura con questi abiti. Le guardie al molo della dogana non batteranno ciglio se un mozzo va avanti e indietro. Per adesso lasciami andare, e... C'è un'altra persona che devo vedere. Ma subito dopo tornerò. Ti prometto che da domani mattina sarò in salvo sotto il tuo tetto e vestirò come conviene alla figlia di un Mercante.» «Starai fuori tutta notte? Da sola?» «Preferiresti che fossi con qualcuno?» chiese maliziosamente Althea. Disarmò le parole con un rapido sorriso. «Mamma, sono stata 'fuori tutta notte' per quasi un anno, ormai. Non mi è successo niente. Almeno, nulla di permanente... ma prometto che ti dirò tutto quando torno.» «Vedo che non posso fermarti» disse Ronica, rassegnata. «Ebbene, nell'interesse del nome di tuo padre, per favore non farti riconoscere! Le fortune di famiglia sono abbastanza vacillanti. Sii discreta, qualsiasi cosa tu debba fare. E chiedi anche al capitano Tenira di essere discreto. Hai servito a bordo della sua nave, hai detto?» «Sì. Ho detto anche che ti racconterò tutto quando torno. Più presto vado via, più presto ritorno.» Althea si girò verso la porta. Poi si fermò. «Vuoi dire per favore a mia sorella che sono tornata? E che desidero parlarle di cose serie?» «Lo farò. E tu tenterai, ecco, non dico di fare ammenda o scusarti, ma di accettare una tregua con lei e Kyle?»
Althea strinse forte gli occhi e poi li riaprì. Parlò quietamente. «Mamma, intendo riavere la mia nave. Tenterò di farvi capire che sono pronta e che non solo ne ho maggior diritto, ma che con lei posso fare il meglio per la famiglia. Ma per ora non voglio aggiungere altro, a te o a Keffria. Per favore, non dirglielo. Riferiscile solo che desidero parlarle di cose serie, se vuoi.» «Cose molto serie.» Sua madre scosse la testa. Le rughe sulla fronte e attorno alla bocca parvero approfondirsi. Bevve altro vino, senza gusto o piacere. «Sii cauta, Althea, e torna presto. Non so se il tuo ritorno ci porta la salvezza o il disastro. So solo che sono contenta di saperti ancora viva.» Althea annuì brusca e scivolò in silenzio fuori dalla stanza. Non ritornò da dove era venuta, ma uscì dalla porta d'ingresso. Accennò un saluto a un domestico che spazzava sparsi petali di fiori dai gradini. I giacinti ammassati vicino alla scaletta emanavano una marea crescente di profumo. Mentre si affrettava lungo il viale verso Borgomago, quasi desiderò essere solo Athel, il mozzo. Era un bel giorno primaverile, il primo giorno a terra nel suo porto di casa in quasi un anno. Avrebbe voluto trarne un po' di semplice contentezza. Percorrendo di nuovo le strade serpeggianti verso il centro di Borgomago, cominciò a notare che la proprietà dei Vestrit non era la sola a mostrare segni di rovina. Molte altre ville rivelavano la trascuratezza dovuta a borsellini vuoti. Gli alberi non erano potati e i danni del vento invernale non erano stati riparati. Quando passò attraverso le strade più frequentate del quartiere del mercato le parve di vedere molti visi sconosciuti. Non era solo che non riconosceva le facce, perché era stata via così spesso da Borgomago negli ultimi dieci anni che non si aspettava più di conoscere molti amici e vicini di casa. Ma quegli estranei parlavano con l'accento di Jamaillia e vestivano come se fossero di Chalced. Gli uomini sembravano tutti giovani, fra i venti e i trent'anni o poco più. Portavano spade a lama larga in foderi filigranati, e le borse appese alle cinture come per vantarsi della loro ricchezza. Le ricche gonne delle signore che li seguivano erano tagliate per rivelare sottogonne velate. I trucchi dai colori vividi oscuravano i visi invece di metterli in evidenza. Gli uomini tendevano a parlare più forte del necessario, come per attrarre tutta l'attenzione possibile. Spesso il tono delle parole era arrogante e presuntuoso. Le donne si muovevano come puledre nervose, gettando indietro la testa e gesticolando vistosamente quando parlavano. I profumi erano forti, gli orecchini ad anelli enormi. Al confronto del loro pavoneggiarsi, le cortigiane di Borgomago sembravano
piccioni smorti. Per strada c'era una seconda classe di gente poco familiare. Portavano i tatuaggi della schiavitù accanto al naso. Il loro comportamento furtivo diceva che volevano solo passare inosservati. Il numero di servitori usati per i lavori umili a Borgomago si era moltiplicato. Portavano pacchi e tenevano i cavalli. Un giovane seguiva due ragazze poco più grandi, sforzandosi di schermare entrambe dal gentile sole di primavera con un parasole. Quando la minore gli diede una sberla, rimproverandolo bruscamente perché non teneva fermo il parasole, Althea represse l'istinto di schiaffeggiarla. Il ragazzo era troppo giovane per strisciare con tanta deferenza. Camminava a piedi nudi sui ciottoli freddi. «Roba da spezzare il cuore, se lo permetti. Ma quelle due sono addestrate a non avere cuore.» Althea sobbalzò alla voce bassa così vicina al suo orecchio. Si girò e trovò Ambra un passo dietro a lei. I loro occhi si incontrarono e Ambra sollevò un sopracciglio perspicace. In tono altezzoso propose: «Ti do una monetina di rame, mozzo, se porti questo legno per me.» «Lieto di servirvi.» Althea chinò la testa nell'inchino di un marinaio. Prese il grosso pezzo di legno rossiccio dalle braccia di Ambra, e subito lo trovò molto più pesante di quanto avesse pensato. Mentre lo sollevava in una presa più sicura, scorse l'allegria negli occhi color topazio della sua amica. Si avviò con deferenza due passi dietro ad Ambra, e la seguì attraverso il Mercato fino alla Strada delle Giungle della Pioggia. Le cose erano cambiate anche lì. Alcune botteghe avevano sempre mantenuto guardie notturne, e una o due assumevano sorveglianti anche di giorno. Ora quasi ogni negozio sfoggiava un custode arcigno con al fianco una spada corta o un coltello lungo. Le porte non erano aperte in modo invitante, né la merce era esposta su scaffali e tavole fuori dai negozi. I bizzarri beni quasi magici importati dalla Giungle della Pioggia ora erano visibili solo attraverso le finestre sbarrate. Althea sentiva la mancanza dei profumi e del tintinnio di campane a vento e del sapore di spezie rare nella brezza. Le botteghe e la strada erano frequentate come sempre, ma commercianti e acquirenti si muovevano con una cautela guardinga molto sgradevole a vedersi. Anche il negozio di Ambra aveva una guardia fuori dalla porta chiusa con il chiavistello: una giovane donna con un farsetto di cuoio che faceva giochi di destrezza con due bastoni e un manganello mentre aspettava che la sua padrona aprisse. Aveva lunghi capelli biondi legati in un codino. Rivolse ad Althea un sorriso tutto denti. Entrando, lei
la superò a disagio. Sembrava un grosso gatto che valutava un paffuto roditore. «Aspetta fuori, Jek. Non sono ancora pronta ad aprire il negozio» le disse Ambra, stringata. «Come desideri, padrona.» La lingua di Jek diede una bizzarra torsione straniera alle parole. Gettando ad Althea uno sguardo speculativo, indietreggiò con attenzione dalla porta e se la chiuse alle spalle. «Dove l'hai trovata?» chiese Althea, incredula. «È una vecchia amica. Le dispiacerà scoprire che sei una donna. E lo scoprirà. Nulla sfugge a Jek. Ma non c'è alcun pericolo che tradisca il tuo segreto. È discreta come nessun altro. Vede tutto, non dice niente. L'aiutante perfetta.» «Strano. Non avrei mai immaginato che tu avessi servitori di alcun genere.» «Non mi piace, ma temo che una guardia per la bottega sia diventata necessaria. Ho deciso di vivere altrove, e con l'aumento dei furti con scasso a Borgomago ho dovuto assumere qualcuno per custodire di notte il mio negozio. Jek aveva bisogno di un luogo dove vivere; la sistemazione funziona meravigliosamente.» Le prese il pezzo di legno e lo mise da parte. Con sorpresa di Althea, l'afferrò per le spalle e la tenne a distanza delle braccia. «Sembri proprio un bel ragazzo. Jek ha ragione a guardare.» Le diede un caldo abbraccio. Quando la lasciò aggiunse: «Sono così contenta di rivederti sana e salva. Ho pensato spesso a te, chiedendomi come stavi. Vieni nel retro. Farò il tè e potremo discutere.» Ambra la accompagnò mentre parlava. La stanza sul retro era l'antro caotico che Althea ricordava. C'erano banchi da lavoro con attrezzi sparsi e perline in parte finite, vestiti appesi a ganci o accuratamente piegati in bauli. Un letto in un angolo e un pagliericcio disfatto in un altro. Un fuocherello ardeva nel camino. «Il tè mi piacerebbe, ma ora non ho proprio tempo. Almeno, non ancora. Prima ho un messaggio da consegnare. Poi ritornerò subito qui. Intendevo farlo anche prima che tu mi incontrassi per strada.» «È molto importante per me che tu ritorni» rispose Ambra, così seriamente che Althea la fissò. In risposta a quell'occhiata, la donna aggiunse: «Non posso spiegare in fretta.» La curiosità di Althea era stimolata, ma le sue preoccupazioni la allontanarono. «Anch'io ho bisogno di parlarti in privato. È una questione delicata. Forse non ho il diritto di interferire, ma lei è...» Esitò. «Forse ora è dav-
vero il momento migliore, anche se non ne ho parlato ancora al capitano Tenira.» Althea fece una pausa, poi si buttò. «Sto servendo sul veliero vivente Ophelia. È ferita, e spero che tu possa aiutarla. Una galea di Chalced ci ha sfidato mentre venivamo verso Borgomago. Ophelia si è scottata le mani allontanandoli. Dice di non provare dolore, ma sembra sempre tenere le mani giunte o nascoste alla vista. Non so quanto sia grave il danno, o se una intagliatrice come te potrebbe fare qualcosa per riparare il legno bruciato, ma...» «Sfidata da una galea? Attaccata?» Ambra inorridì. «Nelle acque del Passaggio Interno?» Esalò un rapido respiro. Fissò oltre Althea, come guardando in un tempo e un luogo diversi. La sua voce si fece strana. «Il fato cala su di noi! Il tempo si trascina e i giorni avanzano lenti, spingendoci a pensare che il destino che temiamo sarà sempre lontano. Poi, all'improvviso, i giorni bui che tutti abbiamo predetto ci sono addosso, e il momento in cui potevano allontanare questo fato atroce è passato. Quanto ancora devo crescere prima di imparare? Non c'è tempo; non c'è mai tempo. Il domani può non venire mai, ma gli oggi sono legati inesorabilmente in una catena, e ora è sempre l'unico momento che abbiamo per evitare il disastro.» Althea si sentì improvvisamente compresa. Era la reazione che aveva sperato di ottenere da sua madre. Strano che fosse una nuova venuta, non una Mercante di Borgomago, a capire subito il pieno significato delle sue notizie. Ambra aveva dimenticato del tutto l'offerta del tè. Spalancò un baule nell'angolo della stanza e cominciò a tirar fuori indumenti con foga. «Solo un momento e sarò pronta ad accompagnarti. Comunque, non sprechiamo un istante. Comincia a raccontare dal giorno in cui sei partita. Dimmi tutto dei tuoi viaggi, anche i dettagli che consideri senza importanza.» Si voltò verso un tavolino e aprì una scatola. Controllò in fretta il contenuto di vasetti e pennelli, poi se la cacciò sotto il braccio. Althea dovette ridere. «Ambra, ci vorrebbero ore - no, giorni.» «È per questo che dobbiamo iniziare adesso. Forza. Comincia, mentre mi cambio.» Ambra raccolse una bracciata di stoffa e scomparve dietro un paravento di legno nell'angolo. Althea si lanciò in un resoconto delle sue esperienze a bordo della Mietitrice. Aveva appena superato i primi miseri mesi e il momento in cui Brashen l'aveva scoperta, quando Ambra emerse. Ma non era Ambra. Era una schiavetta dalla faccia sporca. Un tatuaggio si allargava attraverso una guancia arrossata dal vento. Una crosta dolorante le copriva metà del labbro superiore e la narice sinistra. I capelli sporchi
stavano sciogliendosi da una treccia approssimativa. La camicia era di cotone grezzo e i piedi nudi spuntavano da sotto le gonne rappezzate. Una benda sporca era avvolta attorno a una caviglia. Guanti di lavoro di tela grezza avevano sostituito quelli di pizzo che Ambra portava abitualmente. Stese una sacca di tela sporca sulla tavola e cominciò a caricarla di attrezzi di falegnameria. «Sbalorditivo. Come hai imparato?» chiese Althea con un sorriso. «Te l'ho detto. Ho avuto molti ruoli in vita mia. Negli ultimi tempi questo travestimento si è rivelato molto utile. Gli schiavi sono invisibili. In questa sembianza posso andare quasi dovunque e vengo ignorata. Anche gli uomini che non esiterebbero a usare violenza a una schiava vengono scoraggiati da un po' di sporco e alcune croste strategiche.» «Le strade di Borgomago sono diventate così pericolose per una donna sola?» Ambra le lanciò un'occhiata quasi di pietà. «Vedi quello che accade, eppure non capisci. Gli schiavi non sono né donne né uomini, Althea. Sono merce, beni e proprietà. Oggetti. Perché un proprietario di schiavi dovrebbe preoccuparsi se una delle sue merci viene stuprata? Se partorisce un bambino, lui avrà un altro schiavo. Se no, bene, dov'è il danno? Quel ragazzo che stavi fissando oggi... Non costa nulla al suo padrone se si addormenta piangendo ogni notte. Le botte che prende non costano nulla al suo proprietario. Se diviene torvo e ingestibile per le percosse, sarà solo venduto a qualcuno che lo tratterà anche peggio. I gradini più bassi della scala diventano molto sdrucciolevoli, una volta accettata la schiavitù. Se una vita umana si può misurare in denaro sonante, allora quel valore può essere diminuito, una moneta di rame per volta, finché non rimane più nulla. Quando una vecchia vale meno del cibo che mangia... mi capisci.» Ambra sospirò all'improvviso. Altrettanto bruscamente drizzò la schiena. «Non c'è tempo per questo.» Chinò la testa per guardarsi in uno specchio sulla tavola, poi afferrò una sciarpa logora e se la legò sulla testa e le orecchie, piegando gli orecchini per nasconderli. La borsa degli attrezzi era mimetizzata in un cesto della spesa. «Ecco. Andiamo. Scivoleremo fuori dal retro. In strada prendimi il braccio e chinati a guardarmi come un marinaio vizioso. Così puoi parlare mentre camminiamo.» Althea fu stupita dal successo del trucco. Quelli che le notavano giravano la testa disgustati. La ragazza continuò la storia del suo viaggio. Un paio di volte Ambra parve sul punto di interrompere, ma quando Althea si
fermava insisteva: «No, continua. Quando hai finito sarà il tempo delle domande.» Nessuno l'aveva mai ascoltata così intensamente, assorbendo le sue parole come una spugna nell'acqua. Quando si avvicinarono ai moli della dogana, Ambra prese in disparte Althea per un momento. «Come mi presenterai alla nave?» «Mi seguirai a bordo. Non ne ho ancora discusso con il capitano Tenira.» Althea aggrottò le ciglia comprendendo all'improvviso quanto potesse essere imbarazzante. «Dovrai incontrare il capitano e Grag prima che io ti porti a prua da Ophelia. Non so onestamente quanto accetteranno te o l'idea di una straniera che lavora sulla loro nave.» «Fidati, penso io a loro. Quando è necessario so essere affascinante. Andiamo.» Nessuno ostacolò Althea alla passerella della nave. Si diede un'occhiata furtiva attorno e poi vistosamente fece cenno ad Ambra di salire. Le due guardie del molo della dogana la scorsero subito. Una fece una smorfia di disgusto mentre l'altra ragliò una risata maliziosa. Nessuno interferì con il mozzo della nave che portava a bordo di nascosto la sua sgualdrinella. Il marinaio di guardia sull'Ophelia sollevò un sopracciglio incredulo, ma a un cenno di Althea si morse la lingua. Li scortò alla porta della cabina del capitano Tenira e rimase lì mentre Althea bussava. «Avanti» chiamò Tenira. Althea fece un brusco cenno ad Ambra e questa la seguì nella cabina. Il capitano era occupato con penna e pergamena al tavolo, e Grag guardava fuori dalle finestre. «Che succede?» chiese incredulo Tenira, mentre la bocca di Grag si torceva per il disgusto. «Non sono quello che sembro, signore» rispose Ambra prima che Althea potesse dire una parola. La voce era modulata così nobilmente, l'accento così puro che nessuno avrebbe potuto dubitare di lei. «Vi prego, scusatemi se sono qui travestita. Mi è sembrato prudente. Sono amica di Althea da diverso tempo. Lei sa di potersi fidare di me. Mi ha detto del vostro incontro lungo la rotta per Borgomago. Non sono qui solo per appoggiare la vostra sfida contro le tariffe, ma anche per vedere se posso riparare il danno alle mani di Ophelia.» In un solo respiro aveva affermato agevolmente tutto quello che Althea avrebbe espresso incespicando. Rimase con le mani strette con contegno davanti a sé, la schiena diritta, incontrando i loro occhi senza vergogna. I due uomini si scambiarono uno sguardo. Le prime parole che uscirono dalla bocca del capitano Tenira commossero Althea. «Pensate davvero di poter fare qualcosa per le mani di Ophelia? Mi ad-
dolora vederla vergognarsi del suo aspetto.» La profonda emozione nella sua voce toccò l'anima della ragazza. «Non lo so» rispose Ambra con sincerità. «Conosco poco il legno magico. Secondo la mia scarsa esperienza, la grana è esageratamente fine. Questa densità può averla preservata da danni profondi. Ma lo saprò solo quando vedrò le sue mani, e forse neanche allora.» «Allora andiamo a prua» dichiarò subito Tenira. Diede un'occhiata quasi di scusa ad Althea. «So che porti notizie per me da tua madre. Non pensare che le sottovaluti. Ma Ophelia è la mia nave.» «Lei viene prima» concordò Althea. «Lo pensavo anch'io, quando ho chiesto alla mia amica Ambra di accompagnarmi.» «È così tipico di te» osservò Grag con affetto. Fu tanto audace da toccare la mano di Althea. Accennò un inchino verso Ambra. «Sono onorato di conoscere qualsiasi amica di Althea. È l'unica credenziale che vi serve con me.» «Mio figlio mi ricorda le buone maniere. Perdonatemi, signora. Sono il capitano e Mercante di Borgomago Tomie Tenira, del veliero vivente Ophelia. Questo è mio figlio, Grag Tenira.» Althea comprese bruscamente che non conosceva il cognome di Ambra. Ma prima che potesse tentare una goffa presentazione, la donna parlò. «Sono Ambra la creatrice di perline, artigiana della Strada delle Giungle della Pioggia. Non vedo l'ora di incontrare la vostra nave.» Senza altre esitazioni, il capitano Tenira aprì la strada. Evidentemente Ophelia ribolliva di curiosità. Guardò Ambra dalla testa ai piedi con un ritegno scandalizzato che suscitò un sorriso involontario sul viso di Althea. Appena la presenza di Ambra fu spiegata, la nave non esitò a offrirle le mani ustionate. «Pensi di poter fare qualcosa per me?» chiese con serietà. Era la prima volta che Althea vedeva il danno da vicino. Il catrame infuocato si era attaccato alle dita di Ophelia. Il fuoco era risalito all'interno del polso sinistro. Le sue mani patrizie sembravano quelle di una sguattera. Ambra prese una delle grandi mani fra le sue. Fece scorrere lievemente i polpastrelli guantati sulla superficie bruciata, poi strofinò con maggior fermezza. «Dimmi se ti faccio male» aggiunse tardivamente. La fronte era solcata dalla concentrazione. «Un legno molto particolare» aggiunse fra sé. Aprì la sacca di attrezzi e ne selezionò uno. Raschiò piano la punta annerita di un dito. Ophelia inspirò bruscamente. «Fa male?» chiese subito Ambra.
«Non come agli esseri umani. Sembra... sbagliato. Dannoso.» «Penso che ci sia legno solido appena sotto la superficie bruciata. Lavorando con i miei attrezzi potrei rimuovere la parte annerita. Forse dovrò rimodellare un poco le tue mani; finiresti con dita più snelle di adesso. Potrei mantenere buone proporzioni, credo, a meno che il danno non vada molto più in profondità di quanto sembri. Comunque dovresti sopportare quella sensazione spiacevole, senza muoverti, mentre lavoro. Non so quanto tempo ci vorrà.» «Cosa ne pensi, Tomie?» chiese la nave al suo capitano. «Penso che abbiamo poco da perdere» disse Tenira con dolcezza. «Se la sensazione diviene insopportabile, allora la signora Ambra si fermerà, ne sono sicuro.» Ophelia sorrise nervosamente. Poi uno sguardo meditabondo si accese nei suoi occhi. «Se il tuo lavoro sulle mie mani ha successo, forse si potrebbe fare qualcosa anche sui miei capelli.» Alzò una mano a toccare i ricci sciolti e lunghi. «Questo stile è così datato. Spesso penso che se potessi avere boccoli attorno al viso e...» «Oh, Ophelia» gemette Tomie mentre gli altri ridevano. Ambra stringeva ancora una delle mani di Ophelia. La testa era china a esaminare il danno. «Potrei trovare grande difficoltà a riprodurre la colorazione. Non ho mai visto una tinta che imiti così bene il colore della carne senza coprire la grana del legno. Qualcuno mi ha detto che un veliero vivente crea i suoi colori mentre si risveglia.» Incontrò gli occhi di Ophelia senza imbarazzo e chiese: «Accadrà di nuovo, se devo piallare così a fondo da scoprire il legno non colorato?» «Non lo so» rispose con calma Ophelia. «Non sarà il lavoro di un pomeriggio» disse Ambra con sicurezza. «Capitano, dovrete dare alle vostre vedette il permesso di lasciarmi andare e venire. Manterrò questo aspetto. È accettabile?» «Suppongo di sì» concesse il capitano con riluttanza. «Anche se potrebbe essere difficile spiegare agli altri Mercanti perché un lavoro così delicato sia affidato a una schiava, o perché mi servo di una schiava. Mi oppongo a ogni tipo di schiavitù, sapete.» «Anch'io» rispose seria Ambra. «E molte, molte persone in questa città.» «Davvero?» replicò Tomie, amareggiato. «Se c'è stata una grande protesta pubblica, non me ne sono accorto.» Ambra si sfiorò il tatuaggio fasullo. «Se indossaste stracci e uno di questi e andaste per Borgomago, sentireste le voci di quelli che si oppongono
più strenuamente alla schiavitù. Nei vostri sforzi di far tornare in sé Borgomago, non ignorate quella riserva di alleati.» Selezionò una piccola pialla dalla sacca di attrezzi e cominciò a regolare la lama. «Se uno fosse interessato al funzionamento interno della casa dell'esattore delle tasse, per esempio, si potrebbero trovare facilmente spie disponibili fra gli schiavi. Credo che anche lo scrivano che stende la corrispondenza per il Satrapo sia uno schiavo.» Un piccolo brivido percorse la spina dorsale di Althea. Come faceva Ambra a saperlo, e perché si era presa la briga di scoprirlo? «Parlate come se foste ben informata» commentò il capitano Tenira, pensieroso. «Oh, ho conosciuto la mia parte di intrighi e complotti. Li trovo disgustosi. E necessari. Proprio come il dolore è a volte necessario.» Mise la pialla sul palmo di Ophelia. «Stai ferma» l'avverti a voce bassa. «Toglierò il peggio del danno.» Ci fu un breve silenzio seguito da un terribile rumore raschiante. Si levò una nuvola di legno carbonizzato. L'odore ricordò ad Althea i capelli bruciati. Ophelia emise un piccolo gemito, poi alzò gli occhi per fissare l'orizzonte a denti stretti. Il viso del capitano Tenira era quasi inespressivo mentre guardava il lavoro di Ambra. Come per sapere che tempo faceva, chiese ad Althea: «Hai consegnato il mio messaggio a tua madre?» «Sì.» Althea allontanò un'emozione vicina alla vergogna. «Mi dispiace. Non porto notizie molto confortanti. Mia madre ha detto che parlerà a mia sorella Keffria. Giuridicamente ora è lei la Mercante della famiglia. Mia madre la esorterà a presenziare alla prossima riunione del Concilio, e a votare in vostro sostegno.» «Capisco.» La voce di Tenira era diplomaticamente inespressiva. «Vorrei che mio padre fosse ancora vivo» aggiunse Althea con tristezza. «E io vorrei che fossi tu la Mercante per i Vestrit. Davvero, avresti dovuto ereditare la nave della tua famiglia.» Althea rivelò la ferita più profonda. «Non so se Keffria prenderà le vostre parti.» Un silenzio sbalordito seguì le sue parole. La ragazza mantenne la voce piana: «Non so come possa appoggiare voi e insieme sostenere suo marito. Le tariffe sono aumentate perché il Satrapo protegge il commercio dai pirati, ma tutti sappiamo che gli importa soprattutto del traffico degli schiavi. Non si è mai curato dei pirati finché non hanno cominciato ad attaccare le navi schiaviste. Quindi, se tutto si riduce alla schiavitù, e mia
sorella deve prendere una posizione... lei... Kyle commercia in schiavi. Usa Vivacia come nave schiavista. Non penso che Keffria si opporrebbe a suo marito. Anche se non è d'accordo con lui, non ha mai avuto la volontà di contrastarlo.» «No-o-o!» ansimò Ophelia. «Oh, come hanno potuto! Vivacia è così giovane. Come può sopportarlo? Cosa è venuto in mente a tua madre? Come hanno potuto fare una cosa simile alla nave di famiglia?» Grag e il capitano Tenira tacevano. Un'espressione rocciosa di condanna calò sulla faccia del capitano, mentre Grag sembrava sconvolto. La domanda rimase sospesa nell'aria, un'accusa. «Non lo so» rispose tristemente Althea. «Non lo so.» 11 Giudizio «Dove sarà? Cosa starà facendo?» si preoccupò Keffria. «Non lo so» rispose brusca sua madre. Keffria guardò nella tazza di tè che aveva in mano e si costrinse a tacere. Aveva quasi chiesto a sua madre se era sicura di aver visto Althea. L'ultima settimana era stata così estenuante che avrebbe potuto perdonarla se si fosse immaginata tutto. Era più facile perdonare lei della sua sorella minore che riappariva e poi spariva di nuovo. Il fatto che sua madre sembrasse semplicemente accettare il comportamento scandaloso di Althea non leniva l'irritazione di Keffria. Ronica si arrese: «Mi ha detto che tornerà prima del mattino. Il sole è appena calato.» «Non ti sembra strano che una giovane donna non sposata di buona famiglia sia in giro da sola di notte, soprattutto la prima notte a casa dopo essere stata assente per quasi un anno?» «Senza dubbio è così. Comunque mi sembra tipico di Althea. Sono giunta ad accettare che non posso cambiarla.» «A me non è permessa tanta libertà d'azione!» intervenne Malta con trasporto. «Quasi non posso camminare per Borgomago di giorno da sola.» «È vero» riconobbe Ronica Vestrit in tono cordiale. I suoi ferri da lana ticchettavano. Ignorò il rumoroso sbuffo frustrato di Malta. Avevano cenato presto e ora sedevano insieme nello studio. Nessuno aveva detto che vegliavano in attesa del ritorno di Althea. Non ce n'era bisogno. Ronica lavorava a maglia come se fosse stata una gara. Keffria
non aveva tanta concentrazione. Affondò cocciutamente l'ago nel ricamo e diede un altro punto. Non si sarebbe lasciata sconvolgere da sua sorella; non si sarebbe lasciata sottrarre la piccola pace che aveva trovato. Malta non fingeva neanche di fare qualcosa di costruttivo. Aveva giocherellato di malumore con il semplice pasto e aveva commentato che già le mancavano i servitori di Davad. Ora vagava per la stanza, sfiorando con le dita il piano della scrivania, raccogliendo i più piccoli ricordi dei viaggi per mare di suo nonno, rigirandoli fra le mani e rimettendoli giù. La sua agitazione graffiava i nervi scoperti di Keffria. Era lieta che Selden fosse a letto, sfinito dopo la lunga settimana di impegni sociali. Malta se l'era goduta. Da quando l'ultima carrozza si era avviata per il viale la ragazza aveva un che di desolato. A Keffria ricordava una creatura marina arenata dalla marea che si ritira. «Mi sto annoiando» annunciò Malta, echeggiando il pensiero di sua madre. «Vorrei che i Mercanti delle Giungle della Pioggia fossero ancora qui. Di sera loro non si siedono a fare lavori tranquilli.» «Quando sono a casa sì, ne sono certa» ribatté Keffria con fermezza. «Nessuno fa feste e giochi e musica ogni sera, Malta. Non lasciare che sia questa la base della tua relazione con Reyn.» «Bene, se mi sposa e avremo una casa tutta nostra, non sarà noiosa ogni sera, ve lo assicuro. Inviteremo gli amici e chiameremo i musicanti. O andremo fuori a trovare altri amici. Delo e io abbiamo deciso che quando saremo sposate e libere di fare come ci pare, avremo spesso...» «Se sposi Reyn vivrai nella Giungle della Pioggia, non a Borgomago» le fece notare pacatamente Ronica. «Dovrai fare nuove amicizie là, e imparare a vivere come loro.» «Perché devi sempre essere così scoraggiante?» chiese brusca Malta. «Non importa quello che dico, tu devi sempre negarlo. Vuoi che io sia infelice per sempre!» «La colpa non è in quello che dico, ma nelle tue sciocche velleità...» «Mamma, per favore. Se voi due cominciate a bisticciare e beccarvi anche stasera, impazzirò.» Seguì un silenzio pesante. «Mi dispiace» disse Ronica. «Non desidero che Malta sia infelice. Voglio che si svegli e veda che deve scegliere di essere felice all'interno della struttura della sua vita. Queste pazze fantasie di feste senza fine e divertimento non sono...» «Ci credo che la zia Althea è scappata!» Il grido di Malta interruppe le parole di sua nonna. «Tutto quello che vedi nel futuro di chiunque è solo
noia e fatica. La mia vita non sarà così! Reyn mi ha detto molte cose eccitanti sulle Giungle della Pioggia. Quando andremo a visitare la sua famiglia mi mostrerà la vecchia città degli Antichi, dove si trovano i gioielli di fiamma, e il jidzin e altre cose meravigliose. Mi ha detto che si possono visitare luoghi dove è possibile illuminare le camere con un tocco della mano, come un tempo. Dice che a volte ha perfino scorto i fantasmi degli Antichi andare e venire. Non tutti ci riescono, solo i più percettivi, ma lui sostiene che forse io ho quell'abilità perché sono molto sensibile. Talvolta i più dotati riescono a sentire l'eco della loro musica. Mi vestirà come conviene a una donna della famiglia Khuprus. Non dovrò spolverare mobili o lustrare argenteria o cucinare; ci saranno i servitori. Reyn dice... Mamma, perché sorridi così? Ti fai beffe di me?» chiese Malta indignata. «No. Niente affatto. Stavo pensando che questo giovane ti piace moltissimo, mi sembra.» Keffria scosse lievemente la testa. «Ricordo tutti i magnifici piani che tuo padre e io facevamo per la nostra vita insieme. Quei sogni non sempre si avverano, ma sognare è molto dolce.» «A me sembra che le piaccia la prospettiva di tutto ciò che lui le porterà» corresse piano Ronica. Con maggior gentilezza aggiunse: «Ma non c'è niente di sbagliato in questo. I giovani che dividono gli stessi sogni spesso vanno molto d'accordo.» Malta frugò nel fuoco del camino con l'attizzatoio. «Non parlare come se fossimo d'accordo su tutto, perché non è così» si lamentò. «Ci sono molte cose che non mi piacciono in lui. Per prima cosa il velo e i guanti; chi può immaginare quale sia il suo vero aspetto? E poi parla troppo di politica. Sta discorrendo di feste e amici, poi all'improvviso salta fuori con la guerra contro Jamaillia e dice che dobbiamo essere saldi, non importa quanto diventerà difficile la nostra vita. Parla come se fosse tutta una grande avventura! Inoltre dice che la schiavitù è sbagliata, anche se gli ho detto che secondo papà potrebbe essere utile per Borgomago, e che papà sta ricostruendo il nostro patrimonio con il commercio degli schiavi. Ha osato dire che papà dovrebbe cambiare idea e capire che la schiavitù è sbagliata e negativa per la nostra economia, e commerciare invece sul Fiume delle Giungle della Pioggia! «E parla di avere bambini come se dovessi averne uno il giorno dopo il matrimonio! Quando ho detto che dobbiamo avere anche una casa a Borgomago oltre che nelle Giungle della Pioggia, così potremo venirci spesso e incontrare i miei amici, ha riso! Ha detto che quando avrò visto le meraviglie della sua città dimenticherò tutto di Borgomago, e che non avremo
una casa nostra, ma solo un'ala nella grande dimora della famiglia Khuprus. Quindi non sono del tutto sicura che sceglierò Reyn.» «Sembra che abbiate discusso molto del vostro futuro insieme» azzardò Ronica. «Lui parla come se fosse tutto già deciso! Quando gli dico che non è così, sorride e chiede perché amo torturarlo. Gli uomini sono tutti così ottusi?» «Tutti quelli che ho conosciuto» l'assicurò Ronica placida. Più seriamente aggiunse: «Ma se hai deciso di rifiutarlo, allora devi dircelo. Prima viene interrotto il corteggiamento, meno disagio avranno entrambe le famiglie.» «Oh... Non ho deciso. Non proprio. Mi ci vorrà un po' di tempo.» La stanza divenne silenziosa mentre Malta considerava le sue prospettive, e le due donne contemplavano in silenzio quello che le sue scelte potevano significare per loro. «Vorrei sapere dov'è Althea» Keffria si udì dire di nuovo. Sua madre sospirò. Althea mise giù il boccale. Rimaneva molto poco del volatile arrosto sulla tavola. Di fronte a lei Ambra depose coltello e forchetta sul piatto con attenzione. Jek si inclinò indietro sulla sedia e cercò qualcosa incastrato fra i denti. Sorprese Althea che la guardava e ghignò. «Non hai fratelli maggiori a casa, vero?» la stuzzicò. «Occhi come i tuoi sono sprecati per una donna.» «Jek» la rimproverò Ambra, divertita. «Stai mettendo Althea a disagio. Perché non vai a fare un giro per Borgomago? Dobbiamo discutere di cose serie.» Jek si alzò da tavola con un grugnito. Sciolse le spalle e Althea sentì schioccare i muscoli. «Seguite il mio consiglio e fatevi una seria bevuta, invece. Parlare di cose serie non è un buon modo per passare la prima sera a casa.» Quando sorrise i suoi denti erano bianchi come quelli di un carnivoro. «Chi lo sa? Magari si arriverà anche a quello» concesse Ambra, affabile. Guardò Jek infilarsi gli stivali e poi prendere un mantello leggero. Appena la porta si chiuse dietro di lei, Ambra si chinò in avanti sui gomiti. Puntò un lungo dito verso Althea. «Riprendi da dove ti sei interrotta. E questa volta non trascurare le parti dove ti sembra di esserti comportata male. Non te lo chiedo per giudicarti.»
«Allora perché me lo chiedi?» Come poteva permettere tanta confidenza ad Ambra? La conosceva relativamente poco. Perché le offriva un resoconto dettagliato dei suoi viaggi ed esperienze dall'ultima volta che l'aveva vista? «Ah. Ebbene, suppongo che sia giusto dirtelo, considerando tutto ciò che ti ho chiesto.» Ambra trasse un respiro come per mettere in ordine le parole. «Non posso lasciare Borgomago: qui ho alcuni impegni. Ma questi impegni dipendono da eventi che stanno accadendo altrove. A Jamaillia e nel Passaggio Interno, per esempio. Quindi ti chiedo di dirmi quali cambiamenti hai visto in quei luoghi.» «Questo non mi spiega nulla» commentò Althea quietamente. «Suppongo di no. Allora lasciami essere schietta. Mi occupo di far avvenire certi cambiamenti. Desidero vedere la fine della schiavitù, non solo a Borgomago, ma in tutta Jamaillia e anche a Chalced. Desidero vedere Borgomago libera dal dominio di Jamaillia. E desidero, più di ogni altra cosa, risolvere l'indovinello del drago e del serpente.» Sorrise ad Althea con trasporto. Si toccò l'orecchino a forma di drago che portava all'orecchio sinistro e poi il serpente che dondolava dal destro. Sollevò un sopracciglio verso la ragazza e attese con ansia la sua risposta. «Il drago e il serpente?» chiese Althea, confusa. Il viso di Ambra cambiò. Un terribile timore lo percorse, seguito da un'espressione stanca. Si appoggiò indietro sulla sedia. Parlò con voce sommessa. «Avresti dovuto balzare in piedi e apparire colpita da questa rivelazione. O forse esclamare 'Aha!' o scuotere la testa per la meraviglia e poi spiegarmi tutto. L'ultima cosa che immaginavo era di vederti seduta lì, educatamente confusa.» Althea scrollò le spalle. «Mi dispiace.» «Queste parole non hanno significato per te? Il drago e il serpente?» C'era una nota disperata nella voce di Ambra. La ragazza alzò di nuovo le spalle. «Pensaci bene» implorò Ambra. «Per favore. Ero così sicura che si trattasse di te. A volte certi sogni hanno scosso quella convinzione, ma quando ti ho rivista per strada sono stata ancora una volta sicura. Sei tu. Devi saperlo. Pensaci. Il drago e il serpente.» Si chinò in avanti sulla tavola e fissò Althea con sguardo implorante. Althea trasse un respiro profondo. «Drago e serpente. Va bene. Su una delle Isole Spoglie ho visto una formazione di roccia che chiamano il Drago. E la nostra nave fu attaccata da un serpente marino mentre tornavamo a
casa.» «Non mi hai detto di un drago quando mi hai raccontato delle Spoglie!» «Non sembrava importante.» «Dimmelo ora.» Gli occhi di Ambra bruciavano di intensità felina. Althea si piegò verso la tavola e riempì il boccale di birra dalla brocca di terracotta. «Non c'è molto da dire. Ci accampammo al riparo di quella roccia mentre macellavamo gli animali. E sol una grande pietra che sporge dalla terra. Quando la luce la colpisce nel modo giusto sembra un drago morto. Uno dei vecchi marinai ha raccontato che era davvero un drago morto e che se mi arrampicavo avrei trovato ancora una freccia nel suo petto.» «Lo hai fatto?» Althea sorrise imbarazzata. «Ero curiosa. Una sera mi arrampicai. Reller aveva detto la verità. Le zampe anteriori stringevano una freccia conficcata nel petto.» «Allora non era solo una formazione accidentale di roccia? Aveva davvero le zampe?» Althea fece una smorfia. «O forse qualche marinaio con un po' di tempo da perdere lo ha 'migliorato' un po'. Per me è così. Reller diceva che quella cosa era rimasta sdraiata lì per secoli e secoli. Ma l'asta della freccia non sembrava rovinata o scheggiata. Era il più bel pezzo di legno magico che avessi mai visto. L'unica cosa sorprendente è che nessuno lo abbia mai portato via. Ma i marinai sono superstiziosi, e il legno magico ha una reputazione pericolosa.» Ambra sedeva come paralizzata. «Il serpente...» cominciò Althea. «Shhh!» le ordinò Ambra. «Ho bisogno di pensare un momento. Una freccia di legno magico. È questo il nocciolo della questione? Una freccia di legno magico? Lanciata da chi, e quando? Perché?» Althea non aveva risposte. Alzò il boccale e bevve un lungo sorso. Quando lo depose, Ambra le sorrideva. «Ritorna alla tua storia, e finiscila per me. Mettici il serpente quando ci arrivi, e dimmi tutto quello che puoi di lui. Prometto di essere una buona ascoltatrice.» Versò una piccola misura di brandy dorato nel suo bicchiere e si inclinò di nuovo all'indietro con aspettativa. Jek aveva ragione. Prima che la storia finisse la brocca di birra era stata svuotata due volte e la bottiglia di brandy di Ambra era stata notevolmente alleggerita. Ambra ripercorse diverse volte il resoconto del serpente che
aveva attaccato la nave. Sembrava interessata al suo sputo che consumava stoffa e carne, e annuì all'asserzione di Brashen che non era solo l'attacco di un predatore, ma una creatura pensante in cerca di vendetta. Tuttavia Althea sentì che nulla in quella parte della storia risvegliava l'interesse di Ambra come la freccia di legno magico. Finalmente perfino le sue domande parvero esaurirsi. Le fiamme nel camino erano basse. Quando Althea ritornò da un viaggio alla latrina trovò Ambra che versava l'avanzo del brandy in due bicchierini. Sostegni di legno intagliato, evidentemente opera delle sue mani, intrecciavano foglie d'edera attorno ai bicchieri. «Beviamo» propose Ambra. «A tutto quello che va bene nel mondo. All'amicizia, e al buon brandy.» Althea alzò il bicchiere ma non seppe pensare a qualcosa da aggiungere al brindisi. «Alla Vivacia?» suggerì Ambra. «Le auguro ogni bene, ma finché non sarò di nuovo sulla sua tolda è legata a doppio filo con tutto quello che va male nel mio mondo.» «A Grag Tenira?» propose Ambra scherzosa. «Anche quello è complicato.» Ambra fece un sorrisone. «A Brashen Trell!» Althea gemette e scosse la testa, ma Ambra sollevò lo stesso il bicchiere. «Agli uomini irresponsabili che cedono alle passioni.» Scolò il brandy. «Così le donne possono dire che non sono state loro.» Disse l'ultima frase mentre Althea si arrendeva e buttava giù il brandy. La ragazza si strozzò e sputacchiò. «Ambra, non è giusto. Ha approfittato di me.» «Davvero?» «Te l'ho detto» rispose Althea ostinata. In realtà aveva detto ad Ambra molto poco, a parte ammettere con un'alzata di spalle che era accaduto. Ambra l'aveva lasciato passare alzando un sopracciglio. Ora incontrò lo sguardo torvo di Althea con occhi tranquilli e un piccolo sorriso malizioso. La ragazza trasse un respiro. «Avevo bevuto, ed era pure birra drogata, e avevo preso un gran colpo in testa. Poi lui mi ha dato il suo cindin. E avevo freddo ed ero fradicia e sfinita.» «Tutto questo valeva anche per Brashen. Non sto cercando colpe, Althea. Non penso che uno di voi debba scusarsi per quello che è successo. Penso che abbiate diviso ciò di cui avevate più bisogno. Calore. Amicizia. Sollievo. Riconoscimento.» «Riconoscimento?»
«Ah, quindi accetti le prime tre cose senza discutere?» Althea non rispose. «Parlare con te è come camminare su una corda» si lagnò. «Riconoscimento di cosa?» «Di chi sei. Quello che sei.» La voce di Ambra era sommessa, quasi dolce. «Così anche tu mi ritieni una donnaccia.» Lo sforzo di scherzare non ebbe successo. Ambra la studiò per un momento. Inclinò indietro la sedia, bilanciandola su due gambe. «Penso che tu sappia cosa sei. Non hai bisogno della mia opinione. Tutto ciò che devi fare è guardare i tuoi sogni a occhi aperti. Non ti sei mai vista sistemata, moglie e madre? Non ti sei mai chiesta come sarà portare un bambino dentro di te? Sogni di occuparti dei tuoi cuccioli mentre attendi il ritorno di tuo marito dal mare?» «Solo nei miei incubi peggiori» sbottò Althea con una risata. «E allora, se non ti aspetti davvero di essere una moglie posata, vorresti vivere tutta la vita senza sapere niente degli uomini?» «Non ci ho mai pensato molto.» Avvicinò il suo boccale di birra. Ambra emise un suono ironico. «C'è una parte di te che pensa a poco altro, se solo tu lo ammettessi. Semplicemente non vuoi accettare la responsabilità. Vorresti far finta che è solo qualcosa che ti succede, qualcosa che un uomo ti ha convinto a fare con l'imbroglio.» Riportò le quattro gambe della sedia sul pavimento con un tonfo. «Vieni» la invitò. «La marea sta salendo e ho un appuntamento.» Emise un lieve rutto. «Cammina con me.» Althea si alzò. Non riusciva a decidere se le parole di Ambra l'avevano offesa o divertita. «Dove andiamo?» chiese accettando un cappotto logoro. «In spiaggia. Voglio presentarti un amico. Paragon.» «Paragon? La nave? Lo conosco bene!» Ambra sorrise. «Lo so. Una notte mi ha parlato di te. Gli è sfuggito, e io ho fatto finta di non riconoscere il tuo nome. Comunque, anche se non lo avesse detto, lo avrei capito. Hai lasciato tracce del tuo soggiorno a bordo. Erano mescolate con le cose di Brashen.» «Per esempio?» chiese Althea con sospetto. «Un pettinino che ti avevo visto addosso la prima volta che ti ho notata. Era appoggiato sull'intelaiatura di un boccaporto, come se ti fossi fermata lì a sistemarti i capelli e poi lo avessi dimenticato.» «Ah. Ma tu cosa c'entri con Paragon?» Ambra misurò la sua reazione: «Te l'ho detto. È un amico.» Più cautamente aggiunse: «Sono in trattative per comprarlo.»
«Non puoi!» dichiarò Althea, indignata. «I LaSuerte non possono vendere il loro veliero vivente, non importa se è disonorato!» «C'è una legge che lo impedisce?» Era una domanda, nulla di più. «No. Non c'è mai stato bisogno di una legge. È la tradizione di Borgomago.» «Molte delle tradizioni più venerate di Borgomago stanno cedendo sotto l'assalto dei Nuovi Mercanti. Non se ne parla in pubblico, ma chiunque si preoccupi di tali cose a Borgomago sa che Paragon è in vendita. E che le offerte dei Nuovi Mercanti vengono valutate.» Althea rimase silenziosa per qualche tempo. Ambra indossò un mantello e sollevò il cappuccio a nascondere i capelli pallidi. Quando la ragazza parlò la sua voce era sommessa. «Se la famiglia LaSuerte è costretta a vendere Paragon, lo cederanno ad altri Vecchi Mercanti. Non a una nuova venuta come te.» «Mi chiedevo se lo avresti fatto notare» rispose Ambra con voce tranquilla. Alzò la sbarra della porta posteriore e l'apri. «Vieni?» «Non lo so.» Althea la precedette fuori la porta, poi rimase nel vicolo scuro mentre Ambra chiudeva. Gli ultimi minuti di conversazione avevano preso una piega decisamente inquietante. La cosa più sconvolgente era la sensazione che Ambra avesse organizzato di proposito quel piccolo confronto. Stava mettendo alla prova la loro amicizia? O c'era un piano più vasto dietro le sue provocazioni? Scelse con attenzione le parole. «Non penso che tu non valga quanto me solo perché io sono nata in una famiglia di Mercanti e tu no. Alcune cose sono prerogativa dei Mercanti di Borgomago, e le proteggiamo gelosamente. I nostri velieri viventi sono molto speciali. Sentiamo il bisogno di proteggerli. Sarebbe difficile far capire a uno straniero tutto ciò che significano per noi.» «È sempre difficile spiegare ciò che non si capisce» ribatté Ambra quietamente. «Althea, questa idea deve fare breccia, non solo per te ma per tutti i Mercanti di Borgomago. Per sopravvivere dovete cambiare. Dovete decidere quali cose sono più importanti per voi, e conservarle. Dovete accettare gli alleati che condividono quei valori, e non essere così diffidenti. Soprattutto dovete abbandonare le vostre pretese su cose che non vi appartengono. Cose che non appartengono neanche ai Mercanti delle Giungle della Pioggia, ma che sono legittima eredità di tutti.» «Cosa sai dei Mercanti delle Giungle della Pioggia?» Althea scrutò Ambra nell'oscurità del vicolo. «Molto poco, grazie alle vostre tradizioni di riservatezza. Sospetto che
depredino di tesori le città degli Antichi, e che rivendichino quell'antica magia come propria. Borgomago e i Mercanti agiscono come uno scudo per nascondere un popolo ignoto al resto del mondo. Quel popolo scava nelle profondità di segreti che non può afferrare. Loro smantellano la conoscenza duramente conquistata di un altro popolo e di un altro tempo, e la vendono come gingilli e curiosità. Sospetto che distruggano tanto quanto rubano. Vieni.» Althea trasse un respiro profondo per rispondere, poi strinse con fermezza le mascelle. La seguì. Calò un breve silenzio mentre camminavano. Poi Ambra rise. «Ecco. Non mi dici neanche se le mie deduzioni sono corrette.» «Sono affari dei Mercanti di Borgomago. Non si discutono con gli stranieri.» Althea sentì la freddezza nella propria voce ma non seppe pentirsene. Per qualche momento camminarono in apparente armonia. La gioiosa baldoria del Mercato Notturno le raggiunse da lontano come il ricordo di tempi migliori. Il vento che veniva dall'acqua era freddo. In quelle ore prima dell'alba la primavera era dimenticata. Il mondo ritornava al buio e al freddo dell'inverno. Althea toccò il fondo della disperazione. Non aveva compreso quanto tenesse all'amicizia di Ambra finché non era stata minacciata. La donna le prese all'improvviso il braccio. Il contatto rese più trascinante l'intensità della sua voce. «Borgomago non può resistere da sola» disse. «Jamaillia è corrotta. Il Satrapo vi cederà a Chalced, o vi venderà ai Nuovi Mercanti senza pensarci due volte. Non gli importa, Althea. Né del suo onore, né della promessa del suo antenato alla gente di Borgomago. Non gli importa neanche dei cittadini di Jamaillia. È così assorbito da sé stesso, non sa percepire nulla che non riguardi lui.» Ambra scosse la testa, e Althea credette di avvertire una tristezza profonda. «Ha ottenuto il potere quando era troppo giovane, e ignorante. Era una grande promessa, un vero talento. Suo padre era felice del suo potenziale, e Cosgo incantò i suoi insegnanti. Nessuno desiderava sgomentare quello spirito indagatore; gli fu permessa la libertà completa di esplorare. Nessuna disciplina gli fu imposta. Per qualche tempo fu come guardare un fiore bizzarro che sbocciava.» Ambra fece una pausa, come ricordando un passato di favola. Proseguì con un sospiro. «Ma nulla prospera senza limiti. Dapprima la corte fu divertita quando Cosgo scoprì i piaceri della carne e ci si immerse. Come era suo solito, si dedicò a esplorarli tutti. Si pensò che fosse solo uno stadio
della sua crescita. Non era così. Era la fine della sua crescita. Invischiato nel piacere, perso di tutto tranne di ciò che titilla i sensi, divenne sempre più egocentrico. Gli ambiziosi videro in questo una via al favore del futuro Satrapo; cominciarono a rifornire il suo desiderio. I cortigiani privi di scrupoli vi scorsero una via al potere. Gli insegnarono piaceri nuovi ed esotici, che solo loro potevano fornire. Quando suo padre morì all'improvviso e lui fu catapultato al potere, le corde erano già legate al burattino. Da allora sono solo divenute più limitanti.» Ambra emise una risata malinconica. «È amaro. Il giovane che non fu mai confinato dalle pareti della disciplina ora viene strangolato dal guinzaglio delle sue dipendenze. I suoi nemici deruberanno il suo popolo e asserviranno le sue terre, e lui sorriderà mentre le erbe di sogno bruciano nelle sue stanze.» «Sembri conoscere bene questa storia.» «È così.» L'asprezza della risposta troncò la successiva domanda di Althea. La ragazza ne trovò un'altra. «Perché mi dici tutto questo?» chiese a voce bassa. «Per svegliarti. Fare appello all'onore del Satrapo e ricordargli le antiche promesse non servirà a nulla. Le malattie del potere lo hanno corroso troppo in profondità, insieme alle famiglie influenti di Jamaillia. Sono troppo occupati a salvare sé stessi e a raccogliere tutti gli scarti di potere che possono per interessarsi al problema di Borgomago. Se Borgomago desidera continuare come sempre, deve trovare i suoi alleati. Non solo quelli fra i nuovi venuti che dividono gli ideali di Borgomago, ma gli schiavi portati qui contro la loro volontà, e... chiunque altro sia nemico dei nemici di Borgomago. Anche i Mercanti delle Giungle della Pioggia devono uscire dall'ombra, non solo per affermare i loro diritti ma anche per prendersi le loro responsabilità.» Althea si arrestò all'improvviso nella strada. Ambra fece un altro passo, poi si fermò a guardarla. «Devo andare a casa, dalla mia famiglia» disse piano la ragazza. «Tutto quello che mi dici mi parla non solo di Borgomago ma del problema dei Vestrit.» Ambra le lasciò il braccio. «Se ti ho mostrato che le due cose sono legate, questa sera non ho sprecato il mio tempo. Mi accompagnerai da Paragon un'altra volta. E mi aiuterai a convincerlo che deve sostenere i miei sforzi di comprarlo.» «Dovrò prima convincere me stessa» la avvertì Althea. Provava soddisfazione nel sapere che Paragon aveva avuto il buon senso di resistere agli
sforzi di Ambra. Per quanto la donna le piacesse, doveva esserci un migliore acquirente per il Paragon. Althea aggiunse anche quello al suo elenco di preoccupazioni. Doveva discuterne con Grag e suo padre la prossima volta che li vedeva. «Ti convincerai, se aprirai occhi e orecchie. Stai attenta, Althea, e torna a casa sana e salva. Vieni a trovarmi quando puoi. Fino ad allora, stai all'erta. Pensa a tutto ciò che tormenta Borgomago. Osserva tutto ciò che ti sembra sbagliato, anche se in apparenza non ti riguarda. Giungerai alle mie stesse conclusioni.» Althea annuì. Non parlò. Si salvò dal dover dire che avrebbe raggiunto conclusioni sue. Quello che era meglio per la sua famiglia doveva venire prima. «Rimarremo in piedi tutta notte?» chiese Malta. La risposta di Keffria fu sorprendentemente mite. «Io rimarrò alzata finché Althea non torna a casa. So che devi essere stanca, cara. È stata una settimana intensa per te. Puoi andare a letto, se vuoi.» «Mi hai detto che la nonna avrebbe cominciato a trattarmi da adulta se mi fossi comportata come tale.» La ragazza tenne d'occhio Ronica mentre lo diceva, e vide il piccolo lampo nei suoi occhi. La frecciata aveva colpito. Era ora che la vecchia comprendesse che lei e sua madre si parlavano. «Penso che se tutte e due restate sveglie per vedere la zia Althea quando torna, resterò anch'io.» «Come desideri» disse stancamente sua madre. Raccolse il cucito che aveva accantonato e lo guardò. Malta si mise comoda nella poltrona. Si era accovacciata con le gambe piegate e i piedi sotto di sé. Le faceva male la schiena e la testa pulsava. Eppure sorrise. Era stata davvero una settimana intensa. Alzò le mani e cominciò a sciogliersi i capelli. Mentre toglieva gli spilloni e lasciava che la chioma scendesse in una cascata scura sulle spalle, si chiese cosa avrebbe pensato Reyn se avesse potuto vederla così. Lo immaginò seduto di fronte a lei che guardava i suoi capelli scendere con lentezza. Avrebbe inclinato la testa e il velo si sarebbe mosso leggermente per il suo sospiro. Avrebbe giocherellato con le punte dei guanti. Le aveva confidato che li trovava più irritanti del velo. «Toccare qualcosa, pelle su superficie, può rivelare così tanto. Un tocco condiviso, pelle a pelle, può pronunciare le parole che le nostre bocche non sono libere di dire.» Aveva teso la mano, come invitandola a toccare le sue dita guantate, ma
Malta non si era mossa. «Potresti toglierti i guanti» gli aveva detto. «Non avrei paura.» La lieve risata di Reyn aveva agitato il velo. «Penso che non ci sia molto che ti fa paura, mia gattina cacciatrice. Ma non sarebbe corretto. Ho promesso a mia madre che questo corteggiamento sarà corretto.» «Davvero?» Malta si era chinata verso di lui, abbassando la voce in un bisbiglio sensuale. «Me lo dici per farmi sentire al sicuro? O per scoraggiarmi dal tentare azioni scorrette?» Aveva lasciato che un minuscolo sorriso le arricciasse la bocca e aveva alzato un sopracciglio. Era un'espressione che aveva praticato spesso allo specchio. Un lieve movimento del merletto sul viso di Reyn le aveva rivelato di aver colpito nel segno. La rapida inspirazione le diceva che era scandalizzato e divertito dalla sua audacia. Ma ancor meglio, dietro la sua spalla, aveva scorto il cipiglio scuro di Cerwin Trell. Aveva emesso un piccolo trillo di risata in gola, riuscendo a far apparire tutta la sua attenzione focalizzata su Reyn mentre studiava la reazione di Cerwin. Cerwin aveva afferrato una bottiglia di vino dal vassoio di un servitore di passaggio e si era riempito di nuovo il bicchiere. Era troppo ben educato per sbattere la bottiglia sul tavolo, ma aveva prodotto un tonfo udibile. Delo si era chinata per rimproverarlo, ma il giovane aveva ignorato il commento di sua sorella. Cosa aveva pensato? Che era stato troppo timido nel suo corteggiamento? Che aveva perso l'opportunità di contemplare il sorriso di una creatura rara come Malta Haven? Lei certamente sperava che fosse così. Pensò alla tensione che ribolliva tra i due, e un brivido la percorse. Era così contenta di essere riuscita a convincere sua madre a dare una festa di addio prima che Reyn se ne andasse. Aveva implorato un'opportunità di presentargli le sue amiche, dicendo che aveva bisogno di vedere se avrebbero accettato il suo corteggiatore delle Giungle della Pioggia. Aveva avuto più successo di quanto avesse osato sognare. Vedendola così coccolata, tutte le ragazze erano state divorate dalla gelosia. Aveva trovato un momento per scivolare via con Delo e mostrarle tutte le 'cosucce' che Reyn era riuscito a infilare fra i regali approvati. La libellula appollaiata immobile sui fiori mandati nella sua camera da letto era stata foggiata abilmente da metalli preziosi e minuscole gemme. Una piccola, perfetta gemma di fiamma di un blu profondo era nascosta in una bottiglia di profumo. Un piccolo cesto di violette candite era bordato con quello che a prima vista sembrava un fazzoletto. Aperta, la fine stoffa tra-
sparente era grande abbastanza da coprire il letto. Un messaggio non firmato fra le pieghe diceva che le donne delle Giungle della Pioggia usavano quella stoffa per cucire le camicie da notte per il corredo. Una mela in un cesto di frutta si era rivelata un'astuta contraffazione: a un tocco si era aperta rivelando una collana di opali d'acqua e un piccolo pacchetto di polvere grigio-argento. La nota che la accompagnava le indicava di mettere la polvere nella scatola dei sogni dieci giorni dopo la partenza di Reyn. Quando Delo aveva chiesto come funzionava la scatola dei sogni, Malta le aveva detto che creava sogni che lei e Reyn potevano condividere. Che genere di sogni? Malta aveva distolto il viso ed era riuscita ad arrossire. «Non sarebbe corretto parlarne» aveva sussurrato in un respiro. Non appena erano tornate ai festeggiamenti, Delo si era allontanata. Poco dopo Malta l'aveva vista immersa in una conversazione eccitata con Gattina. Il pettegolezzo si era sparso in fretta come una marea crescente. Malta lo aveva visto sommergere Cerwin. Aveva rifiutato di incontrare gli occhi del giovane, salvo un'occhiata. Cerwin non aveva esitato a mostrarle il suo cuore spezzato. Lei gli aveva mandato un appello angosciato. Poi aveva finto di ignorarlo. Rapita dalla conversazione di Reyn, aveva incaricato sua madre di salutare per lei gli ospiti in partenza. Era così delizioso chiedersi cosa avrebbe fatto Cerwin. Le sue meditazioni furono interrotte dal lieve rumore della porta di cucina. Sua madre e sua nonna si scambiarono uno sguardo. «L'ho lasciata senza chiavistello per lei» disse quietamente nonna Vestrit. Entrambe si alzarono, ma prima che potessero muoversi, un uomo entrò nella stanza. Keffria ansimò e indietreggiò con orrore. «Sono a casa» annunciò Althea. Si tolse il cappotto logoro e sorrise a tutti. I suoi capelli erano disgustosi, schiacciati sulla testa e dondolanti sulla schiena in una treccia da ragazzo. La pelle del viso era rossa e screpolata dal vento. Avanzò nella stanza e tese le mani verso il fuoco come se si sentisse perfettamente a suo agio. Puzzava di catrame, stoppa e birra. «Dio dei pesci!» disse Keffria, facendole trasalire tutte con la rozza imprecazione. Scosse la testa fissando costernata sua sorella. «Althea, come puoi farci questo? Come puoi fare questo a te stessa? Non hai nessun orgoglio, nessuna cura per il buon nome della famiglia?» Sedette pesantemente sulla sedia. «Non preoccuparti, nessuno mi ha riconosciuto» ribatté Althea. Si mosse per la stanza come un randagio che annusa. «Avete spostato la scrivania di papà» disse in tono accusatorio.
«La luce è migliore vicino alla finestra» rispose mitemente la nonna. «Più divento vecchia, più è difficile vedere la scrittura fine. Ormai mi ci vogliono quattro o cinque tentativi per infilare un ago.» Althea cominciò a parlare, poi si fermò. La sua espressione mutò leggermente. «Mi dispiace» disse con sincerità. Scosse il capo. «Deve essere duro perdere le cose che si erano sempre date per scontate.» Malta tentava di guardarle tutte e tre insieme. Vide sua madre stringere le labbra e indovinò che era irritata perché la sua protesta era stata ignorata. Al contrario la nonna guardava gli occhi di Althea senza rabbia, solo una pesante tristezza. Malta arrischiò una mossa. «Non puoi essere certa che nessuno ti ha riconosciuta. Sai solo che nessuno ha mostrato di riconoscerti. Forse si vergognavano troppo per reagire.» Per un istante Althea parve sbalordita che Malta avesse parlato. Socchiuse gli occhi. «Penso che dovresti ricordare le buone maniere quando parli ai più grandi, Malta. Quando avevo la tua età non ero incoraggiata a parlare senza permesso mentre gli adulti conversavano.» Fu come una scintilla a un'esca ben disposta. La madre di Malta balzò in piedi e avanzò tra loro. «Quando avevi l'età di Malta, ricordo bene che eri un ragazzaccio a piedi nudi che si arrampicava nel sartiame della nave e conversava liberamente con ogni genere di persone. E a volte non si limitava a conversare.» Althea impallidì, facendo risaltare ancor di più lo sporco. Malta sentì puzza di segreti. Sua madre sapeva qualcosa della zia Althea, qualcosa di indecente. I segreti erano potere. «Basta.» La nonna parlò a voce bassa. «Non vi vedete da quasi un anno, e la prima volta che siete insieme nella stessa stanza cominciate a soffiare come gatti. Non sono rimasta sveglia tutta la notte per sentirvi litigare. Sedetevi, tutte quante, e state zitte per un momento. Voglio che mi ascoltiate.» Sua madre ritornò con lentezza alla sedia e la nonna si sedette con un sospiro. Come per ripicca a sua sorella, Althea si accomodò sulle pietre del focolare. Incrociò le gambe come un sarto; per una donna in pantaloni, sedere in quel modo appariva osceno a Malta. Althea sorprese Malta a fissarla e le sorrise. Malta colse lo sguardo di sua madre e scrollò lievemente la testa. Keffria emise un piccolo sospiro. La nonna le ignorò tutte e tre. «Invece di criticarci a vicenda, abbiamo bisogno di guardare la situazione della nostra famiglia e fare quello che possiamo per migliorarla» cominciò la nonna.
«Non intendi chiederle dove è stata per tutto questo tempo e cosa ha fatto? Eravamo preoccupate a morte per lei! Ed eccola entrare strascicando i piedi, sporca e vestita come un uomo, e...» «Invece mia nipote è vestita come una donna, ed evidentemente viene usata come specchietto per le allodole per attirare denaro delle Giungle della Pioggia» ribatté acida Althea. «Perché non parliamo prima dell'orgoglio di famiglia e della moralità di questa situazione?» La nonna si alzò e si frappose tra loro. «Ho detto che era il mio turno. Sto tentando di parlare di quello che è più importante, prima che ci impantaniamo nei bisticci. Abbiamo tutte domande da fare. Ma dovranno aspettare finché non avremo stabilito se siamo in grado di comportarci come una famiglia. Se non ci riusciamo, non ha senso fare le domande.» «Se Althea fosse stata qui, come era suo dovere, saprebbe quello che stiamo affrontando» intervenne Keffria con calma. «Ma mi dispiace di interrompere. Ti ascolterò, mamma.» «Grazie. Sarò breve. In parte, Althea, te ne ho parlato quando sei arrivata, ma non in dettaglio. Penso che dobbiamo considerare la situazione della famiglia, piuttosto che le nostre preoccupazioni individuali. Dobbiamo mettere da parte le nostre differenze. O almeno nasconderle. Dobbiamo decidere qual è la posizione di questa famiglia, e mostrare quell'immagine a Borgomago. Non possiamo rivelare alcuna traccia di dissenso. Il minimo scandalo ci schiaccerebbe.» La nonna si girò leggermente, indirizzando le sue parole soprattutto alla zia Althea. «Vedi, siamo assediati dai creditori. La nostra reputazione è l'unica cosa che li tiene a bada. Credono ancora che alla fine li pagheremo, interessi e tutto. Keffria e io - e Malta, dovrei aggiungere - abbiamo dovuto fare molti sacrifici per mantenere un'immagine di stabilità. Stiamo vivendo in modo molto semplice. Ho congedato i domestici, tranne Rache. Ci stiamo arrangiando. Non siamo gli unici Mercanti di Borgomago che hanno dovuto fare questo compromesso, sebbene pochi siano in cattive acque come noi. In un certo modo questo peggiora la nostra situazione. Molti dei nostri creditori sono in difficoltà; alcuni che sarebbero comprensivi non possono permetterselo, nell'interesse delle proprie famiglie.» La nonna proseguì. Era una litania troppo familiare, e Malta doveva lottare per tenere gli occhi aperti. L'unica cosa interessante era guardare la zia Althea. La colpa e la vergogna si inseguivano sul suo viso. Strano. La nonna non le stava dicendo che parte di questo era colpa sua, che se fosse stata a casa come una donna perbene avrebbe potuto aiutare la famiglia,
ma Althea reagiva come se le accuse fossero state pronunciate. Quando la nonna parlò di come la famiglia Khuprus aveva comprato l'ipoteca sulla Vivacia e le disse che non c'era modo onorevole per la piccola Malta di rifiutare il corteggiamento, Althea le lanciò addirittura un'occhiata di comprensione. Malta si mostrò adeguatamente martirizzata. La nonna terminò. «Sono sicura che hai notato i cambiamenti in casa e in giardino e ne hai capito i motivi. Ora sai che sono sacrifici necessari, non trascuratezza. Althea, ecco ciò che ti chiedo: stai a casa. Vestiti come si deve, comportati da donna posata. Se Keffria è d'accordo, potresti aiutare a gestire alcune delle proprietà che richiedono una sorveglianza più attiva. O, se senti di aver bisogno di maggior... libertà, potresti prendere la piccola fattoria della mia dote. Ingleby è un luogo quieto ma confortevole. Se qualcuno se ne occupa potrebbe migliorare. Forse troverai soddisfazione nel fare un progetto e vedere quello che puoi...» «Mamma, non è per questo che sono tornata a casa.» Althea sembrò quasi triste. «Non voglio un giocattolo o un progetto. E non voglio recare vergogna alla mia famiglia. Sono tornata per aiutare, ma aiuterò con quello che faccio meglio.» Althea guardò oltre la nonna e incrociò lo sguardo di sua sorella. «Keffria, lo sai che la Vivacia doveva essere mia. Lo hai sempre saputo. Torno a casa per rivendicarla, per liberarla dall'abuso di essere usata come nave schiavista e per risollevare la famiglia grazie a lei.» Malta balzò in piedi. «Mio padre possiede quella nave. Non ti permetterà mai di portargliela via.» Althea trattenne il respiro. La rabbia arse nei suoi occhi. Per un istante strinse le mascelle. Poi ignorò Malta per rivolgersi solo a Keffria. Parlò con voce calma. «Sorella mia, sei tu che 'possiedi' la nave. Quello che ne diviene dipende solo da te. Borgomago non è Chalced, dove si può rubare la ricchezza di una donna e darla a suo marito. Inoltre, tutti avete sentito Kyle giurare davanti a Sa che mi avrebbe dato la nave se potevo mostrargli la credenziale di una nave e dimostrare che sono un degno marinaio. Ho quella credenziale, marchiata con le fattezze del veliero vivente Ophelia. Il suo capitano e il primo ufficiale testimonieranno della mia abilità nel comandare. Sono stata lontana quasi un anno. Per tutto il tempo il mio unico pensiero è stato questo. Non per la vergogna della mia famiglia, ma per dimostrarmi degna di quello che doveva essere mio, senza controversie.» La voce di Althea assunse una nota implorante. «Keffria, non vedi? Te l'ho reso facile. Dammi la nave. Kyle manterrebbe il suo giuramento davanti a Sa; tu faresti ciò che sai essere giusto. Ti do la mia parola, ma lo metterò
anche per iscritto, se lo desideri: i profitti di ogni viaggio andranno nella tua proprietà, tranne il necessario per raddobbare la nave e salpare di nuovo.» Malta era disgustata dall'espressione di sua madre. Le parole di Althea la stavano fuorviando. Ma prima che lei potesse intervenire, la zia si rovinò da sola. «Dov'è il problema?» la incoraggiò retoricamente. «Kyle può obiettare, ma devi solo opporti a lui. Avresti dovuto farlo molto tempo fa. Sono affari di famiglia, affari dei Vestrit, affari dei Mercanti di Borgomago. Non hanno niente a che fare con lui.» «È mio marito!» gridò Keffria, indignata. «Ha le sue colpe, e a volte mi fa arrabbiare. Ma non è un animale domestico, né un mobile. È parte della mia famiglia. È parte di questa famiglia. Nel bene o nel male, quel legame esiste, Althea. Non sopporto che tu e la mamma lo sminuiate. È mio marito e il padre dei miei figli, e crede davvero di fare quello che è corretto. Se non potete rispettare lui, non potreste almeno rispettare i miei sentimenti?» «Come lui ha rispettato i miei?» chiese Althea sarcastica. «Basta» intervenne la nonna con voce sommessa. «Questo è ciò che temo, più di qualsiasi cosa. Che non possiamo accantonare le nostre differenze abbastanza a lungo da preservare il patrimonio di famiglia.» Le due figlie si guardarono in cagnesco ancora per un istante. Malta si morse la lingua. Voleva saltar su e dire che Althea doveva solo andarsene. Cos'era, in ogni modo? Una donna senza marito e senza figli, un ramo morto sull'albero della famiglia. Non aveva interesse nelle fortune della famiglia, se non per le ricchezze che potevano portarle. Malta e Selden erano quelli colpiti più duramente dalla confusione causata dalla cattiva amministrazione dei nonni. Le sembrava così logico: perché non lo capivano? Suo padre era l'unico uomo forte rimasto in famiglia. I suoi figli avrebbero tratto maggior profitto o patito di più per come il patrimonio veniva gestito. Doveva essere lui a prendere tutte le decisioni. Oh, se solo fosse stato lì. Ma non c'era. Malta poteva solo essere i suoi occhi e le sue orecchie. Al suo ritorno avrebbe saputo tutto. Lei non lo avrebbe lasciato esposto alla slealtà di quelle donne ambiziose. Sua nonna si era alzata. Si interpose tra le figlie che litigavano. Con silenziosa lentezza tese una mano a ciascuna. Nessuna delle due ne fu entusiasta, ma ognuna la prese con riluttanza. «È ciò che vi chiedo» disse piano. «Per ora. Lasciamo le nostre dispute all'interno delle pareti domestiche. All'esterno comportiamoci come una cosa sola. Althea, Keffria, non si può
far niente per la Vivacia finché non ritorna in porto. Fino ad allora facciamo quello che non abbiamo fatto da anni. Cerchiamo di vivere come una famiglia in una casa, dirigendo tutti i nostri sforzi verso il bene reciproco.» Guardò da una figlia all'altra. «Non siete così diverse come credete. Penso che quando vedrete quello che può fare l'unione delle vostre forze non avrete più alcun desiderio di contrastarvi. Avete assunto posizioni opposte, ma ci sono molti possibili compromessi. Quando vi conoscerete di nuovo potreste essere più aperte.» Il potere che sua nonna esercitava sulle figlie era quasi palpabile. Il silenzio riempì la stanza. Malta poteva quasi sentirle lottare per rifiutare. Non si guardavano e non guardavano la loro madre. Tuttavia, mentre il silenzio si prolungava, prima Althea e poi Keffria alzarono lo sguardo. Malta strinse i pugni mentre i loro occhi si incontravano e qualcosa passava tra loro. Che cosa? Il ricordo di un'antica concordia? Un riconoscimento del dovere verso la famiglia? Qualunque cosa fosse, superò il golfo tra loro. Non ci furono sorrisi, ma la caparbietà svanì dai loro visi. Keffria allungò una mano in segno di pace verso sua sorella. Althea si arrese e la strinse. La nonna emise un enorme sospiro di sollievo. Chiusero il cerchio di famiglia. Nessuno tranne Malta notò che lei ne era esclusa. Un senso di gelo la invase mentre Ronica prometteva: «Non rimpiangerete di aver tentato. Ve lo prometto.» Malta mostrò il suo sorriso amaro solo al fuoco morente. Aveva anche lei le sue promesse da mantenere. 12 Ritratto di Vivacia Brashen si appoggiava contro la parete nell'alloggio del capitano, tentando di apparire insieme minaccioso e noncurante. Non era facile mettere in evidenza allo stesso modo il sorriso affabile e il pesante bastone. D'altra parte ben poco in quel lavoro si era rivelato semplice e lineare come si era aspettato. La cabina era attraversata da un fiume di servitori che portavano merci. Stavano trasformando in fretta il dominio disordinato di Finney in una vetrina per i beni del commerciante. Il tavolo di carteggio era già sparso di una lunghezza di lussuoso velluto color blu notte. Contro quel fondale c'era un assortimento di orecchini, collane, braccialetti e pendagli, saldamente
cuciti per evitare furti, in una varietà che indicava le molte fonti. Il vistoso gareggiava con il sofisticato. Sembrava esservi rappresentato ogni tipo di pietra preziosa o metallo. Finney sedeva a suo agio, contemplando il tesoro. Le dita spesse stringevano il gambo delicatamente affusolato di un bicchiere di vino. Il commerciante, un uomo di Durja chiamato sincure Faldin, stava rispettoso dietro di lui e richiamava la sua attenzione su ogni pezzo di gioielleria. Mentre indicava una semplice ma elegante collana di perle con orecchini abbinati, affermò: «Questi, ecco, questi appartenevano alla figlia di un nobile. Notate la torsione delle maglie d'oro tra ogni perla, così come la loro calda luminescenza. Si sa che le perle fioriscono meglio su coloro che hanno natura appassionata, e questa donna... Ah, cosa dire di lei, se non che una volta visti i suoi catturatori non ebbe nessun desiderio di essere riscattata dalla sua ricca famiglia. Tali perle, si dice, date a una donna fredda permetteranno alle sue passioni ignote di affiorare, mentre se un uomo le regala a una donna passionale, ebbene, lo fa al rischio del suo esaurimento completo.» Inarcò le sopracciglia e fece un largo sorriso. Finney rise ad alta voce, divertito. Il commerciante aveva un dono per i racconti. A sentire lui, ogni pezzo sulla tavola aveva una storia romantica e affascinante. Brashen non aveva mai visto beni rubati esposti in modo così elaborato. Risolutamente vigile, il primo ufficiale distolse l'attenzione dagli abiti sgargianti di sincure Faldin per tenere d'occhio i suoi figli che ancora stavano portando a bordo le altre merci e mettendole in mostra. La famiglia intera sembrava condividere il talento del genitore per lo spettacolo. Ognuno dei tre ragazzi era vestito riccamente come il padre, con indumenti realizzati dalle stesse stoffe che uno dei tre ora stava sistemando in un arcobaleno di strisce da pingui rotoli. Un figlio più grande aveva aperto le porte di uno stipo dagli intagli elaborati, per mostrare diversi ripiani di bottigliette tappate. Brashen non sapeva se fossero esemplari di liquori e vino oppure oli e profumi. Il terzo figlio aveva disteso una stoffa bianca sulla cuccetta del capitano Finney e stava disponendo una confusione di armi, posate, libri, rotoli di pergamena e altri articoli. Anche quella esposizione non era casuale. I coltelli erano sistemati in un ventaglio di lame ed else, le pergamene e i libri aperti sulle illustrazioni, e ogni altro articolo mostrato in modo da invitare l'occhio e affascinare l'acquirente. Il terzo ragazzo era quello che Brashen osservava più da vicino. Proba-
bilmente erano solo commercianti diligenti ed entusiasti, ma lui aveva deciso di essere più diffidente fin dallo sfortunato incidente di dieci giorni prima. Il mozzo aveva impiegato quasi una giornata a togliere con la pietra pomice la macchia del sangue di quel furfante dalla tolda della Vigilia di Primavera. Brashen non sapeva ancora decidere come si sentiva per quello che aveva fatto. L'uomo lo aveva costretto ad agire; non poteva stare a guardare mentre quello derubava la nave, no? Eppure Brashen non riusciva a sbarazzarsi della scomoda idea che non avrebbe mai dovuto accettare quell'ingaggio. Se non fosse stato lì non avrebbe dovuto versare sangue. Dove sarebbe stato? Non aveva immaginato dove quel lavoro lo avrebbe condotto. Nominalmente era stato assunto solo come primo ufficiale. La Vigilia di Primavera era una piccola nave scattante, di poco pescaggio e difficile nei venti forti, ma meravigliosa per le vie d'accesso alle città lagunari e agli insediamenti fluviali. Nominalmente era una carretta mercantile che trattava ogni tipo di beni. La realtà era più dura. Brashen era tutto quello che il capitano Finney gli diceva di essere: ufficiale, guardia del corpo, traduttore o scaricatore. Quanto a Finney stesso, Brashen ancora non riusciva a capirlo. Non era sicuro se il capitano aveva deciso di avere fiducia in lui, o se lo stava mettendo alla prova. La franchezza disarmante dell'uomo era una mascherata per gabbare i commercianti quasi sempre loschi che trattavano con lui. Quell'uomo tarchiato non avrebbe potuto sopravvivere per tanti anni in quel mestiere se fosse stato davvero così fiducioso e aperto come appariva. Era un uomo competente a bordo della nave, e abile nell'affascinare le persone. Comunque Brashen sospettava che fosse capace quasi di tutto per sopravvivere. Un coltello gli aveva lasciato un lungo marchio attraverso il ventre; la cicatrice increspata contrastava con la sua natura apparentemente affabile. Da quando Brashen l'aveva vista si era trovato a tener d'occhio il capitano come faceva con quelli che venivano a commerciare a bordo. Ora guardò Finney chinarsi con disinvoltura e battere il dito in rapida successione su dodici pezzi diversi di gioielleria. «Desidero includere questi nel nostro affare. Portate via gli altri. Non ho interesse nelle merci da ambulanti.» Il capitano non aveva perso il facile sorriso, ma il suo dito veloce aveva infallibilmente scelto quelli che anche Brashen considerava i pezzi migliori nella collezione di Faldin. Il commerciante gli sorrise di nuovo, ma gli occhi di Brashen colsero un lampo di disagio sul suo viso. L'espressione di Brashen rimase neutrale. Finney lo faceva sempre. Poteva essere morbido e placido come un grasso gatto che fa le fusa, ma quando si
trattava di mercanteggiare... questo Faldin era fortunato se ripartiva con la camicia ancora addosso. Brashen non vedeva il vantaggio in tale tattica. Quando lavorava per Ephron Vestrit, il capitano gli aveva detto: «Lascia sempre qualche soldo in tasca all'altro, in modo che anche lui sia soddisfatto. Altrimenti presto nessuno farà affari con te.» Ma d'altra parte il capitano Vestrit non trattava con pirati e ricettatori. Le regole erano per forza diverse. Da quando avevano lasciato Candelaia, la Vigilia di Primavera aveva navigato tranquilla lungo le Rive Maledette. Il piccolo vascello si era infilato in fiumi indolenti e aveva ormeggiato in lagune non indicate su nessuna carta che Brashen avesse mai visto. L'intera sezione di 'costa' nota come le Isole dei Pirati era in continuo movimento. Alcuni affermavano che la moltitudine di fiumi e torrentelli che si gettavano nel Passaggio Interno attorno alle Isole dei Pirati fosse in realtà un unico grande corso d'acqua, in eterno spostamento nel suo letto dai molti canali. Brashen non si curava molto se le correnti fumanti che si scaricavano nel Passaggio Interno attorno alle Isole dei Pirati venivano da un fiume o da molti. L'acqua calda rendeva mite il clima della Isole dei Pirati; però puzzava, rovinava il fondo delle imbarcazioni a ritmo prodigioso, indeboliva le cime e le sartie e creava nebbie impenetrabili in ogni periodo dell'anno. Le altre navi non vi si attardavano volentieri. L'aria era umida, e l'acqua 'fresca' che tiravano a bordo diventava verde quasi in una notte. Se la Vigilia di Primavera gettava l'ancora vicino alla riva, gli insetti sciamavano a divorare l'equipaggio. Strane luci danzavano su quelle acque e il suono viaggiava ingannevolmente. Isole e canali si spostavano e scomparivano; i fiumi erranti scaricavano limo e sabbia, e magari un temporale, un'alluvione o la marea ingoiavano in una sola notte il deposito di un mese. Brashen aveva solo vaghi ricordi di quella zona, dai giorni in cui aveva navigato malvolentieri come pirata. Come mozzo era stato poco più di uno schiavo. Donnola, lo chiamavano a bordo della Speranza. Aveva badato solo a correre per evitare le sferzate. Ricordava i villaggi come minuscoli grappoli di capanne in disfacimento. Gli unici residenti erano disgraziati che non avevano altro posto dove andare. Non pirati fanfaroni ma poco più che naufraghi che vivevano di qualsiasi commercio i veri pirati portassero ai loro minuscoli insediamenti. Brashen trasalì a quei ricordi. Ora aveva chiuso il cerchio e poteva solo meravigliarsi: a quanto pareva quegli sparsi insediamenti di banditi erano diventati una rete di città. Da ufficiale sulla Vivacia, Brashen aveva ascol-
tato con scetticismo le storie di villaggi permanenti di pirati costruiti su palafitte, o lungo i fiumi e le lagune salmastre. Da quando aveva cominciato a navigare sulla Vigilia di Primavera si era gradualmente formato un quadro diverso di quelle isole vaganti e dei popolosi insediamenti aggrappati alle loro rive infide. Certi erano ancora poco più che approdi dove due navi potevano fermarsi a scambiare merci, ma altri sfoggiavano case di legno dipinto e piccole botteghe lungo le strade fangose. Il commercio degli schiavi aveva gonfiato la popolazione e ne aveva ampliato la varietà. Artigiani e schiavi colti fuggiti dai proprietari di Jamaillia vivevano fianco a fianco con criminali scappati dalla giustizia del Satrapo. Alcuni residenti avevano famiglia. Donne e bambini ora formavano una parte minore della popolazione. Evidentemente molti schiavi fuggiaschi stavano tentando di ricrearsi la vita che si erano visti sottrarre. Aggiungevano una nota di civiltà disperata alle città ribelli. Il capitano Finney sembrava contare solo sulla sua memoria per navigare i canali, le maree e le correnti infide che li portavano a ogni villaggetto. Guidava senza fallo la Vigilia di Primavera di paese in paese. Brashen sospettava che possedesse mappe private, ma fino a quel momento non aveva ritenuto di doverle mostrare al suo primo ufficiale. Tutta quella mancanza di fiducia, rifletté Brashen, guardando i figli del commerciante attraverso occhi socchiusi, quasi richiedeva in cambio altrettanta slealtà. O quantomeno sospettava che Finney avrebbe considerato sleali gli scarti di tela sotto la sua cuccetta su cui Brashen si era accuratamente appuntato con l'inchiostro coste e profondità. Buona parte del valore di Finney come capitano dipendeva dalla sua arcana conoscenza delle Isole dei Pirati. Avrebbe visto il dotto tesoro di Brashen come un furto della sua sapienza duramente guadagnata. Brashen lo considerava l'unico beneficio a lungo termine che poteva ricavare da quel viaggio. Soldi e cindin erano una bella cosa, ma finivano troppo in fretta. Se la sfortuna lo costringeva a quel mestiere, non avrebbe navigato come ufficiale per sempre. «Ehi, Brash. Vieni qui. Che ne pensi?» Brashen distolse lo sguardo dai ragazzi per osservare la nuova selezione di merci che Finney stava valutando. Il capitano teneva sollevata una pergamena illustrata. Brashen la riconobbe come una copia delle Contraddizioni di Sa. La qualità della pergamena gli fece sospettare che fosse un bell'oggetto. Una conoscenza troppo familiare di tali cose poteva indicare a Finney che non era un analfabeta. Alzò le spalle. «Tanti bei colori e uccelli esotici.»
«Quanto pensi che valga?» Brashen scrollò le spalle. «Per chi?» Finney socchiuse gli occhi. «In un negozio di Borgomago, diciamo.» «Ne ho viste altre, là. Non ne ho mai voluto comprare una.» Sincure Faldin alzò gli occhi al cielo per l'ignoranza del marinaio. «Forse la prendo.» Finney cominciò a frugare nel resto delle merci. «Mettetela da parte, per ora. Cos'è questo?» C'era una traccia di divertito fastidio nella sua voce. «È rotto. Sapete che commercio solo nella merce più eccellente. Portatelo via.» «Solo la cornice è danneggiata, senza dubbio nella fretta di, ehm, recuperarlo. La tela è intatta e piuttosto pregiata, mi dicono. Sembra essere il lavoro di un celebre artista di Borgomago. Ma non e l'unica cosa che lo rende molto prezioso.» La voce suggeriva un grande segreto da condividere. Finney finse indifferenza. «Oh, molto bene, vediamo. Una nave. Originale. Una nave a vele spiegate in una bella giornata. Portatelo via, sincure Faldin.» Il commerciante continuò a tenere con orgoglio il dipinto. «Penso che se ve lo lasciate sfuggire lo rimpiangerete, capitano Finney. È stato dipinto da Pappas. Mi dicono che accetta poche commissioni, e che tutte le sue tele sono costosissime. Comunque, come ho detto, questo è anche più unico. È il ritratto di un veliero vivente. È stato preso da un veliero vivente.» Brashen sentì un lieve sussulto nel ventre. Althea aveva commissionato a Pappas un ritratto di Vivacia. Non voleva guardare. Doveva farlo. Era sciocco aver paura, non poteva essere quello che temeva. Nessun vascello pirata poteva raggiungere la Vivacia. Era proprio lei. Brashen fissò sconvolto il familiare dipinto. Althea Vestrit lo teneva appeso nella sua cabina sulla Vivacia. La bella cornice in palissandro era scheggiata dove qualcuno l'aveva strappata in fretta dalla parete invece di togliere i chiodi. Il soggetto era Vivacia prima che si risvegliasse. Nel dipinto i tratti della polena erano ancora immobili, i capelli gialli. Lo scafo aggraziato tagliava le onde dipinte. L'abilità dell'artista era tale che Brashen poteva quasi vedere le nubi correre attraverso il cielo. L'ultima volta che lo aveva visto, quel dipinto era stato ancora assicurato saldamente a una paratia. Althea lo aveva lasciato lì quando aveva abbandonato la nave? I pirati lo avevano preso dalla nave, o in qualche modo era stato rubato da casa Vestrit? La seconda ipotesi non aveva senso. Nessun ladro avrebbe
rubato un oggetto come quello a Borgomago per poi andare a venderlo alle Isole dei Pirati. I migliori prezzi per gli oggetti d'arte si ottenevano a Chalced e Jamaillia. La logica gli diceva che il dipinto era stato preso dalla Vivacia. Eppure non poteva credere che i pirati avessero potuto raggiungere il piccolo e agile veliero vivente. Anche prima del risveglio della nave, Ephron Vestrit era capace di mostrare le terga a chiunque anche solo considerasse l'ipotesi di inseguirla. Una volta risvegliata, e disposta alla collaborazione, nulla doveva essere in grado di prenderla. «Conosci la nave, Brash?» chiese Finney con voce quieta, amichevole. Il capitano lo aveva sorpreso a fissare il dipinto. Tentò di trasformare la costernazione in perplessità. Aggrottò ulteriormente le sopracciglia. «Pappas. Pensavo al nome, mi sembrava di conoscerlo. Pappas, Pappas... Nah. Pappay. Ecco come si chiamava. Tremendo baro a carte, ma buon marinaio nel sartiame.» Rivolse a Finney un'alzata di spalle e un ghigno storto. Chissà se lo aveva convinto. «È un veliero vivente di Borgomago. Di certo la conosci. I velieri viventi non sono così comuni» insisté Finney. Brashen si avvicinò, scrutò il dipinto, poi scrollò le spalle. «Non sono comuni, è vero. Ma attraccano a un molo diverso dalle altre navi. Stanno per conto loro, e i curiosi non sono accolti troppo bene. I Mercanti sanno essere altezzosi.» «Credevo che tu venissi da una famiglia di Mercanti.» Ora entrambi lo guardavano. Brashen sputò fuori una risata. «Anche i Mercanti hanno parenti poveri. Il vero Mercante è il mio terzo cugino. Io vengo da un ramo collaterale, e la famiglia non mi ama molto. Spiacente. Cosa dice la targhetta?» «Vivacia» lesse Finney. «Pensavo che tu avessi servito su quella nave. Non lo hai detto all'agente a Candelaia?» Brashen maledisse i suoi ricordi di quell'incontro annebbiati dal cindin. Scosse pensieroso la testa. «No. Gli ho detto che ero stato primo ufficiale sulla Viverna. Veniva da un porto dei Sei Ducati, non da Borgomago. Non era un brutto vascello, per chi ama vivere con un gruppo di barbari che pensa che la zuppa di teste di pesce è una leccornia Io no.» Finney e Faidin ridacchiarono doverosamente. Non era una gran battuta ma bastò a cambiare argomento. Faidin sventolò il dipinto ancora una volta; Finney lo liquidò scuotendo il capo. Il commerciante incartò il quadro con gesti teatrali, come per enfatizzare la ricchezza che Finney si perdeva. Il capitano stava già frugando nel resto delle pergamene. Brashen tentò di
riprendere l'aria attenta, ma si sentiva male. La cornice scheggiata indicava che il quadro era stato preso in fretta. Forse la nave stava affondando mentre il quadro veniva strappato dal muro? Uno dei ragazzi di Faldin gli passò vicino e gli lanciò uno sguardo timoroso. Brashen comprese che stava aggrottando la fronte, e rilassò il viso. Alcuni degli uomini con cui aveva lavorato a bordo della Vivacia erano stati suoi compagni per anni. I loro visi gli tornarono alla mente: Grig, che sapeva impiombare una cima più in fretta che dire una bugia, e Comfrey il burlone, e una mezza dozzina di altri con cui aveva diviso il castello di prua. Il mozzo, Mild, aveva la stoffa di un marinaio fuoriclasse, se il suo amore per gli scherzi non lo avesse ucciso prima. Sperò che al momento di scegliere avessero avuto il buon senso di diventare pirati. In lui bruciava il bisogno di chiedere al commerciante cosa sapeva della Vivacia. C'era un modo di indagare senza tradirsi? All'improvviso non gli importava. «Dove avete trovato il ritratto del veliero vivente, in ogni modo?» chiese. Gli altri due si girarono a fissarlo. «Perché ti interessa?» chiese il capitano Finney. Non aveva parlato con indifferenza. Sincure Faldin intervenne. Sperava ancora di sbarazzarsi del dipinto. «Viene dalla nave stessa. Di rado un veliero vivente viene catturato: questo autentico ricordo di un tale evento è fra i più rari dei rari.» Mentre vantava di nuovo la desiderabilità del dipinto, lo aveva afferrato e ancora una volta stava liberandolo dal suo sudario. Brashen spostò la piccola presa di cindin nel labbro. «Allora non credeteci» disse burbero. Incontrò gli occhi di Finney. «È quello che mi disturbava. Se un uomo ha il ritratto di una nave a bordo, è probabilmente un ritratto della sua nave. Ma i velieri viventi non vengono catturati. Lo sanno tutti. Quindi è un falso.» Spostò lo sguardo, come per caso, sul commerciante. «Oh, non sto dandovi del bugiardo» aggiunse in fretta, di fronte all'indignazione di Faldin. «Dico solo che chiunque ve lo ha venduto probabilmente vi ha imbrogliato.» Gli sorrise. Insinuare che un uomo non sapesse di cosa stava parlando era il miglior modo per spingerlo a raccontare tutto. Funzionò. Lo sdegno del commerciante svanì in un'occhiata freddamente soddisfatta. «Non credo. Posso capire perché pensiate così. La cattura di un veliero vivente non è un'impresa ordinaria. Non è stata compiuta da un uomo ordinario. È stato il capitano Kennit. Se conoscete il nome, non ne
sarete sorpresi.» Il capitano Finney diede uno sbuffo di disprezzo. «Quell'idiota? È ancora vivo? Avrei scommesso oro sonante che qualcuno ormai lo aveva sbudellato. Non sta ancora delirando di diventare il Re dei Pirati, vero?» Per la prima volta Brashen sospettò che l'indignazione di sincure Faldin fosse autentica. Il corpulento commerciante drizzò la schiena e gonfiò i polmoni. La camicia sgargiante si riempì come una vela con il vento in poppa. «Parlate di un uomo che è pressoché fidanzato con mia figlia. Ho la più alta stima del capitano Kennit, e sono onorato che mi accordi il diritto esclusivo di vendere la sua merce. Non ammetto che si parli male di lui.» Finney roteò gli occhi verso Brashen. «E allora non si può dire nulla di lui. È pazzo, sincure. È un capitano sopraffino, e tiene bene la sua nave, questo glielo riconosco. Ma l'anno scorso ci furono quelle folli storie... diceva di essere destinato di diventare Re delle Isole dei Pirati. Si raccontava che fosse andato all'Isola degli Altri, e un oracolo gli aveva detto così. Bene, sapete quanto tutti noi vogliamo un re. Figuriamoci! Poi sento che abborda le navi schiaviste solo per liberare il carico. Non è che non mi preoccupo di quei poveracci incatenati nelle stive di Chalced. Ma mi preoccupo anche per me, perché quel dannato Kennit ha sollevato abbastanza polvere che il Satrapo ha pensato di mandare pattuglie in cerca dei pirati. Il ragazzo non ha neanche il buon senso di mantenerlo un problema di Jamaillia, no; invita corsari di Chalced, con l'idea di scacciarci di qui. Ma quelli non fanno altro che prendersi i carichi migliori dando la colpa a noi.» Finney scosse la testa. «Re delle Isole dei Pirati. Sicuro. È proprio quello che ci aspettavamo da un re. Altro sterco sulle nostre teste.» Sincure Faldin incrociò le braccia, ostinato. «No, no, mio caro amico. Lungi da me non essere d'accordo con un cliente, ma voi non vedete il quadro completo. Kennit ha fatto del bene a tutti. Gli schiavi che ha liberato ci hanno raggiunti, fornendo alle nostre città artigiani e operai, per non dire donne fertili. Una volta chi si rifugiava fra noi? Assassini e stupratori, ladri e tagliagole. I pochi uomini onesti che capitavano qui dovevano fare come voi e io abbiamo fatto: trovare un modo onesto di guadagnarsi la vita nel mezzo del caos. Kennit ha cambiato tutto. Gonfia le nostre città di gente che chiede solo un'opportunità di vivere di nuovo libera. Farà di noi una nazione, non più un'accozzaglia di avamposti rivali pieni di ribelli e profughi. È vero, ha suscitato la collera del Satrapo. Quelli fra noi così ciechi da pensare di dovere ancora lealtà a un ragazzo stordito dalle droghe e dominato dalle sue donne e consiglieri ora lo vedono per quello che è davvero.
Le sue azioni hanno infranto quel legame sentimentale. Tutti stiamo comprendendo che non dobbiamo alcuna lealtà a Jamaillia, che dovremmo preoccuparci solo di noi stessi.» Un riluttante consenso si diffuse sul viso di Finney. «Non dico che Kennit sia del tutto cattivo. Ma non abbiamo bisogno di un re. Abbiamo fatto ottime cose da soli.» Brashen ripescò un frammento di pettegolezzo mezzo dimenticato. «Kennit... Non è quello che uccide tutti a bordo di una nave quando la cattura?» «Non sempre!» obiettò Faldin. «Solo sulle navi schiaviste. Ma si dice che abbia risparmiato qualcuno dell'equipaggio del veliero vivente, anche se era una nave schiavista. La nave è stata felice di essere liberata. Adesso adora il capitano Kennit.» «Un veliero vivente usato come nave schiavista, che abbandona la lealtà alla famiglia quando viene catturato?» Brashen scosse la testa con divertito disprezzo. Parlò al suo capitano. «Non conoscerò questa nave in particolare, ma ne so abbastanza dei velieri viventi da dirvi che queste due cose non possono essere vere.» «Ma lo sono!» Faldin guardò dall'uno all'altro. «Non siete obbligati a credermi» aggiunse con voce altezzosa. «Siete solo a qualche giorno da Borgo Baratto. Andate là, se dubitate di me. Il veliero vivente è là da quasi un mese, per riparazioni. Chiedete agli schiavi, ora liberi, strappati da Kennit alle sue stive. Non ho parlato con la nave, ma quelli abbastanza coraggiosi da farlo dicono che copre di lodi il suo nuovo capitano.» Il cuore di Brashen gli rimbombava nel petto. Gli sembrava di non avere abbastanza aria. Non poteva essere vero. Non per tutto quello che sapeva di Vivacia e dei velieri viventi. Eppure ogni frammento di prova offerta da sincure Faldin lo confermava. Riuscì ad alzare le spalle e poi tossì nel tentativo di alleviare la strettezza nella gola. «Sta al capitano» disse a fatica. Si rotolò il cindin in bocca, teatralmente. Parlò attorno alla cicca. «È lui che decide. Io?» Spostò il bastone fra le mani. «Io faccio altre cose.» Sogghignò a entrambi, stringendo i denti. «Se venite a Borgo Baratto, potrei mostrarvi una maggior scelta di merci.» Sincure Faldin era tornato all'improvviso a essere un commerciante. Il sorriso riapparve mentre sciorinava la sua tiritera. «Il mio magazzino è là. Il più recente viaggio di Kennit lo ha riempito bene, sebbene ci sia poco altro che viene davvero dal veliero vivente. Gli schiavi erano il carico principale. Quelli li ha liberati. Ha scelto di lasciare intatte le decorazioni
degli alloggi degli ufficiali, e per il resto riparare la nave. Non si sente ancora abbastanza bene per accogliere i visitatori, ma si dice che gli alloggi del capitano siano molto belli, tutto legno levigato e ottone brillante.» Finney emise un rumore indefinito. Brashen rimase immobile. Il bagliore dell'interesse si era acceso negli occhi del suo capitano. C'era la prospettiva di vedere un veliero vivente catturato, forse anche parlarle. Dato quel genere di prova, e l'assicurazione di Faldin che il dipinto era l'unico trofeo della sua cattura, probabilmente avrebbe comprato il ritratto. La rarità portava sempre denaro. Finney si schiarì la gola. «Bene. Mettete da parte il dipinto. Ho da riempire un po' di spazio nella stiva e si direbbe che Borgo Baratto sia il posto giusto. Se vedo questo veliero vivente e la storia si dimostra vera, comprerò il ritratto. Ora, torniamo agli affari. Avete arazzi come quelli che mi avete venduto l'anno scorso?» I martelli risuonavano sopra un grattare di seghe. L'odore di segatura e vernice fresca riempiva le scalette della nave. Gli schiavi che avevano gremito i ponti e le stive della Vivacia erano stati sostituiti da squadre di falegnami e carpentieri. Wintrow girò attorno a un uomo che verniciava lo stipite riparato di una porta, poi scansò un apprendista che portava blocchi di cera vergine. La Vivacia veniva riparata con rapidità sorprendente. I danni che aveva subito nella rivolta degli schiavi erano quasi stati cancellati. Le stive erano pulite, non solo lavate ma rinfrescate da accurati suffumigi di erbe aromatiche. Presto solo le macchie di sangue sarebbero rimaste sui suoi ponti. Potevano sfregarle, passarci la sabbia, inzupparle; il legno magico rifiutava di dimenticare. Sorcor era molto in evidenza: camminava con energia per la nave sovrintendendo a tutto. La sua voce si diffondeva bene e gli uomini scattavano ai suoi ordini. Etta era meno visibile ma non meno autoritaria. Non annunciava la sua presenza tuonando un ordine, ma i suoi commenti sommessi avevano altrettanto effetto. I marinai si illuminavano a una sua parola di lode. Wintrow l'aveva osservata di nascosto. Si aspettava che fosse bisbetica nel comando, brusca e sarcastica. Aveva sperimentato l'orlo affilato della sua lingua così spesso che si era convinto che fosse il suo comportamento abituale. Invece scoprì che la donna era capace di sfoderare fascino e persuasione. Scoprì anche il confine attento che la donna percorreva per far eseguire i compiti come desiderava senza interferire con l'autorità di Sorcor. Quando il primo ufficiale e la donna del capitano erano vicini mostravano sia cameratismo che rivalità. Wintrow era affascinato e
confuso. Il loro legame e il loro motivo di contrasto era Kennit. Come poteva un uomo suscitare tanta lealtà in persone tanto diverse? Al monastero si ripeteva spesso un vecchio detto: 'La mano di Sa si adatta a qualsiasi attrezzo.' Di solito veniva pronunciato quando il talento di un novizio poco dotato sbocciava all'improvviso. Dopo tutto, Sa aveva uno scopo per ogni cosa. Era un limite dell'umanità se le sue ragioni non potevano sempre essere percepite. Forse Kennit era davvero uno strumento di Sa, ed era consapevole del suo destino. Wintrow supponeva che fossero accadute cose più strane. Semplicemente non ne ricordava neanche una. Bussò una volta a una porta appena restaurata, poi sollevò il saliscendi ed entrò. Malgrado la luce del sole che entrava in diagonale dall'oblò, la camera sembrava scura e angusta. «Dovresti aprire la finestra e lasciar entrare aria fresca» osservò ad alta voce. Depose il vassoio che teneva fra le mani. «Chiudi la porta» rispose brusco suo padre. Allungò le gambe, si stiracchiò e si alzò. Il letto sfatto dietro di lui mantenne l'impronta del suo corpo. «Cosa mi hai portato questa volta? Torta di segatura ripiena di curculioni?» Fulminò la porta ancora aperta. Con un lungo passo adirato attraversò la piccola stanza e la sbatté. «Zuppa di rape e cipolla e focacce di frumento» rispose con calma Wintrow. «Lo stesso cibo che oggi mangiano tutti.» Kyle Haven rispose con un grugnito. Alzò la ciotola di zuppa, ci mise un dito. «È fredda» protestò, e poi la bevve stando in piedi. La gola irsuta si mosse mentre ingoiava. Wintrow si chiese quando si era rasato l'ultima volta. Kyle abbassò la ciotola, si asciugò la bocca con il dorso della mano e sorprese suo figlio a fissarlo. Lo guardò torvo. «Ebbene? Che genere di maniere ti aspetti da un uomo tenuto come un botolo in un canile?» «Non ci sono più guardie alla porta. Giorni fa ho chiesto se potevi uscire in coperta. Kennit ha detto di sì, purché ci sia io con te e mi prenda la responsabilità. È tua la decisione di rimanere in questa stanza come se fosse una cella.» «Vorrei avere uno specchio per vedere se sembro così stupido come mi ritieni» ribatté acido suo padre. Afferrò una focaccina e la usò per ripulire la ciotola prima di azzannarla. «Ti piacerebbe, vero?» mormorò con il boccone in bocca. «Potresti trottare accanto a me sulla tolda, ed essere tutto sorpreso e sconvolto quando qualche vile bastardo mi pianta un coltello nelle costole. Ti saresti sbarazzato di me una volta per tutte. Non credere che non sappia ciò che vuoi. È sempre stato questo. Non che tu abbia il
fegato per farlo. Oh, no, non il ragazzo in sottana. Prega Sa, rotea gli occhioni castani e chiede agli altri di fare il suo lavoro sporco. Questo cos'è?» «Infuso di erbe. E se volessi proprio sbarazzarmi di te, lo avrei avvelenato.» Wintrow sentì con sgomento il sarcasmo crudele nella propria voce. Suo padre si arrestò con il boccale a mezz'aria. Emise un abbaiare rauco di risata. «No, non lo faresti. Non tu. Troveresti qualcun altro per avvelenarlo e poi me lo daresti, così potresti fingere che non sia opera tua. Non è stata colpa mia, potresti frignare. Strisceresti di nuovo da tua madre, e lei ti crederebbe e ti permetterebbe di tornare al tuo monastero.» Wintrow si morse le labbra. Sto vivendo con un pazzo, si rammentò. Conversare con lui non lo farà rinsavire. La sua mente è sconvolta. Solo l'onnipotente Sa può guarirlo, e solo quando lo riterrà giusto. Trovò un minimo di pazienza in sé. Attraversò la piccola stanza e aprì la finestra, tentando di convincersi che non era una manifestazione di sfida. «Chiudila» ringhiò suo padre. «Pensi che voglia sentire la puzza di quel miserabile paesotto là fuori?» «Non è peggio della puzza del tuo corpo che riempie questa stanza» ribatté Wintrow. Si allontanò di due passi dalla finestra aperta. Ai suoi piedi c'era il pagliericcio in cui dormiva di rado, e il piccolo fagotto di vestiti che chiamava suoi. Nominalmente divideva la stanzetta con suo padre. In realtà dormiva quasi sempre sul ponte di prua vicino a Vivacia. La prossimità lo rendeva sgradevolmente consapevole dei pensieri della nave e, attraverso di lei, dei sogni di Kennit. Tuttavia era preferibile alla compagnia irascibile e critica di suo padre. «Chiederà un riscatto?» chiese all'improvviso Kyle Haven. «Potrebbe ricavare un buon prezzo da noi. Tua madre probabilmente riuscirebbe a radunare qualcosa, e i Mercanti di Borgomago contribuirebbero per riavere il veliero vivente. Lo sa? Sa che potrebbe ricavare un buon prezzo? Dovresti dirglielo. Ha mandato una richiesta di riscatto?» Wintrow sospirò. Non questa conversazione di nuovo. Andò al sodo, sperando in una fine misericordiosa e rapida. «Non vuole un riscatto per la nave, padre. Intende tenerla. Questo significa che devo stare con lei. Non so cosa voglia fare di te. Gliel'ho chiesto, ma non risponde. Non voglio farlo arrabbiare.» «Perché? Non hai mai temuto di far arrabbiare me!» Wintrow sospirò di nuovo. «Perché è un uomo imprevedibile. Se lo provoco, può compiere... azioni avventate. Per dimostrare il suo potere. Penso
che sia più saggio aspettare che si accorga di non aver niente da guadagnare trattenendoti. Man mano che guarisce sembra più ragionevole. Con il tempo...» «Con il tempo sarò poco più di un cadavere vivente, chiuso qui, deriso e beffeggiato e disprezzato da tutti su questa nave. Cerca di spezzarmi con il buio e il cibo scadente e nessuna compagnia se non mio figlio l'idiota!» Suo padre aveva finito di mangiare. Senza una parola Wintrow raccolse il vassoio e si girò per andare. «Bravo, scappa! Nasconditi dalla verità.» Wintrow aprì la porta senza rispondere, e suo padre gli gridò dietro: «Porta via il vaso da notte e vuotalo! Puzza.» «Fallo da solo.» La voce di Wintrow uscì piatta e sgradevole. «Nessuno te lo impedirà.» Si chiuse la porta alle spalle. Serrava così forte il vassoio che le nocche erano bianche. I molari gli facevano male per aver stretto i denti. «Perché?» chiese ad alta voce. Più piano, aggiunse: «Come può essere mio padre? Non sento alcun legame con lui.» Sentì un debole fremito di comprensione dalla nave. Poco prima della porta della cambusa, Sa'Adar lo fermò. Quando aveva lasciato la stanza di suo padre, Wintrow si era accorto che lo stava seguendo, ma aveva sperato di eluderlo. Il sacerdote diventava ogni giorno più temibile. Dopo che Etta lo aveva marchiato con il coltello era quasi scomparso per qualche tempo. Si era nascosto nel fondo delle stive come un parassita, spargendo in silenzio il suo veleno fra gli ex schiavi. C'era meno scontento con il passare dei giorni. Kennit e i suoi uomini li trattavano onestamente: li nutrivano come qualsiasi membro dell'equipaggio, e si aspettavano da loro lo stesso sforzo nell'occuparsi della nave. A Borgo Baratto avevano annunciato agli ex schiavi che chi desiderava sbarcare era libero di andarsene. Il capitano Kennit augurava loro ogni bene e sperava che si sarebbero goduti le loro nuove vite. Quelli che lo desideravano potevano chiedere di restare a bordo come equipaggio, ma avrebbero dovuto dimostrarsi marinai degni e fedeli a Kennit. Wintrow vedeva la saggezza di quella scelta; Kennit aveva a tutti gli effetti strappato i denti a Sa'Adar. Qualsiasi schiavo che davvero desiderasse una vita di pirateria e avesse l'abilità di competere poteva provarci. Gli altri avevano la loro libertà. Non molti avevano scelto la pirateria. Più alto e più vecchio di lui, Sa'Adar aggirò Wintrow all'improvviso. Gli si parò di fronte, bloccandogli il passaggio. Lui gettò uno sguardo alle
spalle del sacerdote. Sa'Adar era solo. Il ragazzo si chiese se le sue guardie faccia-di-mappa lo avessero abbandonato per rifarsi una vita. Alzò gli occhi su Sa'Adar. Nel viso dell'uomo erano incisi malcontento e fanatismo. I capelli arruffati ricadevano sulla fronte; i vestiti non venivano lavati da giorni. I suoi occhi bruciavano mentre lo accusava: «Ti ho visto lasciare la stanza di tuo padre.» Wintrow parlò civilmente e ignorò la domanda. «Sono sorpreso che tu sia ancora a bordo. Sono sicuro che c'è molto lavoro per un sacerdote di Sa in un luogo come Borgo Baratto. Gli schiavi liberati apprezzerebbero certamente la tua assistenza nel ricominciare una nuova vita.» Sa'Adar guardò Wintrow socchiudendo gli occhi scuri. «Mi deridi. Deridi il mio sacerdozio, e nel fare così deridi Sa.» La mano scattò come una serpe ad afferrare la spalla di Wintrow. Il ragazzo reggeva ancora il vassoio della colazione di suo padre. Lo strinse forte per non spargere le stoviglie sul ponte, ma resistette. «Con quello che fai qui rinneghi Sa e il tuo sacerdozio» proseguì Sa'Adar. «Questa è una nave fatta di morte, che parla una lingua di morte. Un seguace del Dio della Vita non dovrebbe servirla. Ma non è troppo tardi, ragazzo. Ricorda chi sei. Abbraccia di nuovo la vita e la giustizia. Sai che questa nave appartiene di diritto a coloro che l'hanno catturata. Questo vascello di crudeltà e prigionia potrebbe diventare una nave di libertà e rettitudine.» «Lasciami andare» disse quietamente Wintrow. Tentò di sottrarsi alla presa del pazzo. «Questo è il mio ultimo avvertimento.» Sa'Adar venne molto vicino, il fiato caldo e rancido sul viso di Wintrow. «È la tua ultima opportunità di riscattarti dai tuoi errori passati e imboccare la vera via verso la gloria. Tuo padre deve essere consegnato al giudizio. Se ne sarai lo strumento, la tua parte nelle sue trasgressioni può essere perdonata. Io stesso dichiarerò che è così. Poi questa nave dovrà essere consegnata a coloro che giustamente la rivendicano. Fallo capire a Kennit. È malato. Non può resisterci. Ci siamo sollevati e abbiamo rovesciato un despota. Credi che non potremmo farlo di nuovo?» «Credo che se gli dicessi così saresti morto. E anch'io. Sa'Adar, sii contento di quello che ti ha dato: una nuova occasione di vita. Afferrala e vai avanti.» Wintrow tentò di sfuggirgli contorcendosi, ma l'uomo strinse la presa. Scoprì i denti in un ringhio. Il ragazzo sentì il suo autocontrollo cedere. «Ora toglimi le mani di dosso.» All'improvviso, vividamente, ricordò quell'uomo nella stiva della Vivacia. Liberato dalle catene, come suo primo
atto aveva ucciso Gantry. Gantry era stato un brav'uomo, a modo suo. Un uomo migliore di quanto Sa'Adar si fosse mai mostrato con Wintrow. «Ti avverto...» cominciò l'antico sacerdote di Sa, ma il dolore represso e la rabbia che covava sotto la cenere sommersero Wintrow all'improvviso. Spinse con forza il vassoio di legno nel ventre dell'uomo. Colto di sorpresa, Sa'Adar indietreggiò barcollando e ansimando. Una parte di Wintrow sapeva che era abbastanza. Avrebbe potuto allontanarsi. Fu sconvolto quando lasciò cadere il vassoio per affondare altri due colpi nel petto dell'uomo. Distaccato, vide il pugno destro e poi il sinistro trovare un bersaglio. Colpi solidi che andarono a segno con suoni vigorosi e soddisfacenti. Eppure Wintrow fu stupito vedendo l'uomo più alto indietreggiare, inciampare e afflosciarsi lungo il muro. Scoprire la sua forza fisica lo sgomentò. Peggio, gli era piaciuto abbatterlo. Strinse i denti, resistendo all'impulso di prenderlo a calci. «Lasciami in pace» avvertì Sa'Adar in un ringhio basso. «Non parlarmi mai più, o ti ucciderò.» Scosso, l'uomo tossì mentre si rimetteva in piedi appoggiandosi al muro. Ansando, puntò un dito contro Wintrow. «Vedi quello che sei diventato? È la voce di questa nave innaturale, che ti usa come strumento! Liberati, ragazzo, prima di essere dannato per sempre!» Wintrow si girò e se ne andò, lasciando il vassoio e le stoviglie dove erano caduti. Per la prima volta in vita sua fuggiva dalla verità. Kennit si mosse nel letto. Era maledettamente stanco di essere confinato alla cuccetta, ma Wintrow ed Etta lo avevano convinto che doveva sopportare un poco più a lungo. Aggrottò le sopracciglia guardandosi allo specchio accanto al letto, e mise da parte il rasoio. I baffi e la barba appena accorciati miglioravano il suo aspetto, ma la tinta scura della pelle era diventata giallastra e la carne si era sciolta dalle guance. Provò il suo sguardo duro allo specchio. «Sembro un cadavere» disse ad alta voce alla stanza vuota. Anche la voce suonava vuota. Mise da parte lo specchio con un rumore secco. L'azione concentrò la sua attenzione sulle mani. Vene e tendini in forte rilievo sul dorso. Quando le girò, i palmi sembravano molli come sego. Strinse il pugno e sbuffò con disprezzo per il risultato. Sembrava un nodo su un pezzo di vecchia corda. Il talismano di legno magico, un tempo saldamente fissato sul punto dove pulsava il sangue, ora dondolava intorno al polso. Il legno argenteo era diventato grigio e screpolato come se anch'esso patisse la mancanza della sua vitalità. Le labbra di Kennit si
strinsero in un nudo sorriso. Ebbene, l'amuleto avrebbe dovuto portargli fortuna, e invece lo aveva servito così. Che dividesse il suo fato. Vi batté l'unghia. «Nulla da dire?» lo derise. L'amuleto rimase impassibile. Kennit afferrò di nuovo lo specchio e si guardò. La gamba stava guarendo; tutti dicevano che sarebbe vissuto. A che serviva se non poteva più esigere il rispetto del suo equipaggio? Era diventato uno spaventapasseri avvizzito. Il riflesso sparuto gli ricordava un mendicante da strada a Borgo Baratto. Sbatté di nuovo lo specchio sulla tavola accanto al letto, quasi sfidandosi a romperlo. La cornice riccamente ornata e il vetro pesante lo sconfissero. Scagliò le coperte indietro dalle gambe e squadrò con odio il moncone. Giaceva sul lino color crema come una salsiccia male imbottita, leggermente avvizzita all'estremità. Kennit lo urtò rabbiosamente con un dito. Il dolore era notevolmente calato, lasciando una sensazione disgustosa a metà fra un formicolio e un prurito. Lo sollevò dal letto. Sembrava ridicolo, la pinna di una foca, non la gamba di un uomo. Una totale disperazione lo travolse. Immaginò di aspirare fredda acqua salata dalla bocca e dal naso, inalando una morte ghiacciata, rifiutando di tossire o sputacchiare. Sarebbe stato rapido. La passione della disperazione si ritirò all'improvviso, abbandonandolo impotente. Non aveva neanche l'occorrente per togliersi la vita. Molto prima che riuscisse a trascinarsi alla murata, Etta lo avrebbe afferrato, uggiolando e implorando e trascinandolo di nuovo a quel letto. Forse era sempre stata quella la sua ragione per mutilarlo. Sì. Gli aveva tagliato la gamba e l'aveva gettata al serpente marino per poterlo finalmente dominare. Voleva tenerlo lì come un animaletto domestico mentre minava in segreto il suo comando e diventava il vero il capitano della nave. A denti stretti e pugni chiusi, la rabbia che lo percorreva era inebriante nella sua forza. Tentò di nutrirsene, immaginando in dettaglio il modo in cui Etta doveva averlo progettato da mesi. La meta finale era tenersi il veliero vivente, certo. Anche Sorcor era probabilmente coinvolto. Kennit doveva stare molto attento a non lasciar capire che sospettava. Se avessero saputo... Ridicolo. Era ridicolo e sciocco, un prodotto della lunga convalescenza. Quei pensieri erano indegni di lui. Se doveva mettere tale intensità di sentimento in qualcosa, allora meglio concentrarsi sul ritorno alla salute. Forse Etta mancava di molte cose, incluse le buone maniere e la cortesia, ma di certo non complottava contro di lui. Se era stanco del suo letto, doveva dirlo. Era una bella giornata di primavera. Poteva farsi accompagnare al
ponte di prua. Lei sarebbe stata contenta di rivederlo. Era passato tanto tempo da quando avevano parlato. Kennit aveva fiochi ricordi rancorosi delle mani gentili di sua madre che aprivano con cautela le sue dita paffute da qualche oggetto proibito che era riuscito a possedere. Così gli aveva parlato con dolce ragionevolezza mentre gli portava via il legno luccicante e il brillante metallo del coltello. Ricordò che non aveva ceduto alla gentilezza ma aveva urlato il suo scontento. Ora provava lo stesso senso di sfida. Non voleva essere ragionevole, non voleva essere consolato con qualcos'altro. Voleva che la sua furia fosse giustificata e dimostrata. Ma Vivacia era dentro di lui, tessuta attraverso il suo essere. Prese i suoi furiosi sospetti e glieli portò via, e Kennit fu troppo debole per resisterle. Gli rimase una vana insoddisfazione che gli faceva dolere la testa. Allontanò dagli occhi il bruciore delle lacrime. Piagnucoloso come una donna, si disse con scherno. Qualcuno bussò alla porta. Kennit si tolse le mani dal viso. Ricoprì con le coperte i resti delle gambe. Un momento per ricomporsi. Si schiarì la gola. «Avanti.» Si aspettava Etta. Invece era il ragazzo. Rimase incerto sulla porta, sagomato contro la scaletta buia, con la luce delle finestre di poppa sul viso. Il tatuaggio era in ombra. Il suo volto era intatto e sincero. «Capitano Kennit?» chiese a voce bassa. «Vi ho svegliato?» «Niente affatto. Entra.» Non sapeva perché la vista di Wintrow fosse un balsamo per il suo spirito. Forse aveva a che fare con i sentimenti della nave. Il pirata sorrise al ragazzo mentre si avvicinava al letto, ed ebbe il piacere di vederlo restituire timidamente il sorriso. Il suo aspetto era migliorato da quando era affidato a Kennit. I crespi capelli neri erano allontanati dal viso, lisciati e legati nel tradizionale codino di un marinaio. L'abbigliamento che Etta aveva cucito andava bene. La camicia bianca e sciolta, solo un po' grande per lui, era infilata nei pantaloni blu scuri. Era piccolo per la sua età, un giovane magro e agile. Il vento e il sole gli avevano segnato il viso. Il caldo colore della pelle, i denti bianchi e gli occhi scuri, i pantaloni scuri fusi con il corridoio buio dietro di lui: una composizione fortuita di perfetta luce e ombra. Anche l'esitante espressione interrogativa era perfetta mentre emergeva dall'oscurità nella luce fioca della camera. Un altro passo portò Wintrow all'interno della stanza. Il tatuaggio era all'improvviso non solo visibile; era un difetto indelebile, una macchia
sull'innocenza del ragazzo. Il pirata scorse il tormento nei suoi occhi, e avvertì la tristezza in lui. Conobbe un momento d'ira. «Perché?» chiese all'improvviso. «Perché sei stato marchiato così? Che scusa aveva per farlo?» La mano del ragazzo volò alla guancia. Un tremolio di emozioni gli percorse il viso: vergogna, rabbia, confusione e poi impassibilità. La voce era calma e bassa. «Ha pensato di insegnarmi qualcosa, suppongo. Forse si è vendicato perché non sono il figlio che desiderava. Forse era il suo modo di rimediare. Ha fatto di me uno schiavo invece di un figlio. O forse... è stato qualcos'altro. Era geloso del mio legame con la nave, credo. Quando ha marchiato il mio viso con quello di Vivacia, era il suo modo di dire che potevamo arrangiarci fra noi, dato che lo avevamo rifiutato. Forse.» Era illuminante guardare Wintrow mentre parlava. Le parole precise non potevano nascondere del tutto il dolore. I vacillanti tentativi di spiegare rivelavano che era una domanda su cui si era tormentato spesso. Kennit sospettava che nessuna delle possibili risposte fosse soddisfacente. Era ovvio che suo padre non si era mai curato di spiegarsi. Wintrow avanzò fino al letto. «Devo dare un'occhiata al moncone.» Schietto, il ragazzo. Non lo chiamava gamba, o ferita. Era un moncone, e lo chiamava così. Non cercava di difendere i sentimenti di Kennit. Quell'integrità era stranamente confortante. Il ragazzo non gli avrebbe mentito. «Dici che hai rifiutato tuo padre. Ti senti ancora così verso di lui?» Kennit non sapeva dire perché la risposta del ragazzo fosse così importante. Un'ombra attraversò il viso di Wintrow. Per un momento Kennit pensò che gli avrebbe mentito. Ma nella voce del ragazzo c'era la disperazione della verità. «È mio padre.» Le parole erano quasi un grido di protesta. «Gli devo l'obbedienza di un figlio. Sa ci ordina di rispettare i nostri genitori ed esultare della bontà che troviamo in loro. Ma in verità io vorrei...» La voce si abbassò, come se si vergognasse a esprimere quel pensiero. «Vorrei che fosse fuori dalla mia vita. Non morto, no, non voglio questo» aggiunse in fretta, incontrando lo sguardo intenso di Kennit. «Vorrei solo che fosse da qualche altra parte. In un luogo sicuro, ma...» la voce vacillò colpevolmente «...dove non devo più avere a che fare con lui» terminò quasi in un sussurro. «Dove non devo sentirmi sminuito ogni volta che mi guarda.» «Posso pensarci io» gli rispose Kennit disinvolto. A giudicare dal suo sgomento, il ragazzo si chiedeva quale desiderio gli fosse stato appena
accordato. Cominciò a parlare, poi evidentemente decise che tacere era più sicuro. «Il tatuaggio ti infastidisce?» chiese Kennit d'istinto mente Wintrow allontanava le coperte. Il ragazzo-sacerdote si curvò sulla gamba, le mani sospese sopra il moncone. Il pirata poteva quasi sentire il solletico di un tocco fantasma sulla carne. «Un momento» chiese piano Wintrow. «Lasciatemi provare con questo.» Kennit attese con ansia che facesse qualcosa. Invece il giovane rimase del tutto immobile. Tenne le mani appena sopra il moncone, così vicine che il pirata sentiva il calore dei palmi. Lo sguardo del ragazzo era concentrato sul dorso delle mani. La punta della lingua fuoriusciva dalle labbra, e Wintrow la morse nella concentrazione. Il respiro entrava e usciva così in silenzio, come se non respirasse affatto. Le pupille degli occhi si fecero immense, quasi annullando il colore. Le mani tremavano leggermente come in uno sforzo enorme. Dopo alcuni momenti il ragazzo trasse un brusco respiro. Rivolse a Kennit uno sguardo stordito e scrollò le spalle, deluso. Sospirò. «Suppongo di averlo fatto nel modo sbagliato. Dovevate sentire qualcosa.» Aggrottò le ciglia, poi ricordò la domanda di Kennit sul tatuaggio. Rispose come se stessero discutendo del tempo che faceva. «Quando ci penso, vorrei che non ci fosse. Ma c'è, e ci sarà per il resto della mia vita. Prima lo accetto come parte del mio viso, più sarò saggio.» «Più saggio come?» lo esortò Kennit. Wintrow sorrise, prima un sorriso sottile, che mentre parlava divenne più genuino. «Al mio monastero si diceva spesso: 'il saggio prende la via più breve per la pace con sé stesso.' L'accettazione di ciò che è, ecco la via più breve.» Mentre pronunciava le ultime parole, le sue mani si fermarono sul moncone di Kennit in una presa leggera ma ferma. «Questo fa male?» Il calore partiva dalle mani del ragazzo e di lì si irradiava. Una scossa bollente risalì la spina dorsale di Kennit. Il pirata ammutolì. Le parole di Wintrow sembravano echeggiare attraverso le sue ossa. Accettazione di ciò che è. La via più breve per la pace con sé stesso. Questa è la saggezza. Fa male? La saggezza fa male? La pace fa male? L'accettazione fa male? La sua pelle si tese e formicolò su tutto il suo corpo. Kennit rimase senza fiato. Non poteva rispondere. Era soffuso dalla semplice fede del ragazzo che lo percorreva, calda e rassicurante. Certo, aveva ragione. Accettazione. Non poteva dubitare o negarlo. Cosa aveva pensato? Da dove veniva la
debolezza che lo aveva spinto a esitare? I pensieri di affogarsi erano all'improvviso detestabili, il piagnucolio di autocommiserazione di un debole. Doveva andare avanti, era destinato ad andare avanti. La sua buona sorte non lo aveva abbandonato quando il serpente si era preso la gamba. La sua buona sorte lo aveva sostenuto; la gamba era tutto ciò che aveva preso. Wintrow tolse le mani. «State bene?» chiese preoccupato. Le parole sembravano innaturalmente forti ai sensi rinnovati di Kennit. «Mi hai guarito» disse in un bisbiglio rauco. «Sono guarito.» Si trascinò in posizione seduta. Guardò la gamba, quasi aspettandosi di trovarla ripristinata. Non lo era, era un moncone, e vedendolo provava ancora una fitta di dolore per la perdita. Ma quello era tutto. La forma del suo corpo era già cambiato in passato. Una volta era stato giovane e senza barba, ora non più. Una volta aveva camminato su due gambe; ora avrebbe imparato a usarne una sola. Tutto qui. Un cambiamento. Da accettare. Rapido come un gatto, afferrò il ragazzo per le spalle e lo trasse vicino. Wintrow gettò un'esclamazione e puntò le mani sulla cuccetta per non cadere. Kennit catturò la testa del ragazzo tra le mani. Per un istante Wintrow si dibatté. Poi i suoi occhi affondarono in quelli del pirata. Lo fissò, lo sguardo sempre più largo. Kennit gli sorrise. Passò un pollice sul tatuaggio del ragazzo. «Cancellalo» gli ordinò. «Sul tuo viso non va oltre la tua pelle. Non hai bisogno di sopportarlo sulla tua anima.» Lo trattenne per cinque respiri, finché non vide una specie di meraviglia sul viso di Wintrow. Allora lo baciò sulla fronte, poi lo lasciò andare. Mentre il ragazzo si raddrizzava, Kennit si mise a sedere diritto. Gettò la gamba giù dal letto. «Sono stanco di giacere qui. Devo alzarmi e darmi da fare. Guardami. Sono l'ombra di me stesso. Ho bisogno di sentire il vento sul viso, e di mangiare e bere in abbondanza. Devo comandare di nuovo sulla mia tolda. Soprattutto devo scoprire quello che posso e non posso fare. Sorcor mi aveva fabbricato una gruccia. È ancora in giro?» Wintrow si era allontanato dal letto, barcollando. Sembrava colpito dal cambiamento nell'uomo. «Io... credo di sì» balbettò. «Bene. Mettimi fuori qualche vestito e aiutami. No. Mettimi fuori gli abiti e lasciami vestire, intanto vai in cambusa. Portami un pasto decente. Se Etta è in giro, mandamela con l'acqua per lavarmi. Sbrigati, ora. Il giorno è già mezzo passato.» Gli diede grande soddisfazione vedere Wintrow affrettarsi a obbedire. Il ragazzo sapeva come reagire a un ordine; un tratto utile in un bel giovanot-
to, senza dubbio. Non sapeva dov'erano le cose di Kennit. Etta era più brava ad abbinare i suoi vestiti, ma quello che Wintrow tirò fuori poteva andare. Ci sarebbe stato tempo per educare il suo occhio allo stile. Dopo che Wintrow fu uscito con un inchino, Kennit si dedicò alla propria vestizione. La camicia non fu troppo difficile, ma gli dispiacque vedere come erano dimagriti il torace e le braccia. Rifiutò di pensarci. I pantaloni erano una sfida più seria. Perfino in piedi sulla gamba e appoggiato al letto fu faticoso. La stoffa pendeva sul moncone e sfregava spiacevolmente contro la pelle nuova. Si disse che presto avrebbe sviluppato un callo. La gamba vuota del pantalone sbatteva in modo spettrale; Etta avrebbe dovuto metterci degli spilli, o meglio ancora cucirla. La gamba non c'era più. Non aveva senso fingere che non fosse così. Con un sogghigno ironico lottò contro la calza e lo stivale. Perché metà del lavoro doveva richiedere il doppio del tempo? Il suo corpo continuava a sbilanciarsi e a vacillare sull'orlo del letto. Stava finendo quando Etta entrò nella stanza. Trasalì vedendolo elegantemente seduto. Lo guardò con rimprovero. «Potevo aiutarti io.» Depose una bacinella e una brocca di acqua calda sul comodino. La sua camicia scarlatta richiamava il rosso delle labbra. Le gonne di seta nera si spostavano con il movimento dei fianchi, frusciando in modo invitante quando camminava. «Non avevo bisogno di aiuto» ribatté Kennit. «Se non con questa gamba dei pantaloni. Avresti dovuto cucirla. Oggi intendo alzarmi. Sai dov'è la mia gruccia?» «Penso che tu sia troppo frettoloso» protestò Etta. Aggrottò le sopracciglia. «Solo l'altra notte avevi ancora un po' di febbre. Non dubito che ti senti meglio, Kennit, ma non sei affatto guarito. Il letto è il tuo posto, ancora per qualche tempo.» Si avvicinò e cominciò a sprimacciare i cuscini, come per farlo stendere di nuovo. Come osava? Aveva dimenticato del tutto chi era Kennit e quello che era lei? «Il letto è il mio posto?» La mano le bloccò il polso in un lampo. Prima che Etta potesse reagire, Kennit la attirò a sé con uno strattone, afferrandole la mascella con l'altra mano. Le girò la faccia per incontrare i suoi occhi. «Non mi dire mai cosa posso fare!» le ricordò severamente. La sua vicinanza, il respiro rapido sul viso e i suoi occhi spalancati lo fecero fremere all'improvviso. Etta trasse un rapido respiro spaventato e il trionfo percorse Kennit. Così andava meglio. Prima di riprendere il comando sulla sua tolda, doveva riprenderlo nella sua camera. Quella donna non doveva credere di farla da padrona. Le circondò la vita con un braccio e l'attirò vicina. Con
la mano libera afferrò il davanti della gonna e la sollevò. Etta ansimò quando Kennit la tirò contro di sé. «Il letto è il tuo posto, ragazza» le disse con voce all'improvviso roca. «Se lo dici tu» mormorò sottomessa Etta. I suoi occhi erano neri ed enormi, il respiro molto veloce. Kennit poteva quasi sentire il battito veloce del suo cuore. Non c'era più alcuna resistenza in lei mentre la sollevava sulla cuccetta e la spingeva sui cuscini. Il sole stava calando proprio mentre la Vigilia di Primavera entrava nel cosiddetto porto di Borgo Baratto. Brashen osservò con stupore il vasto e disordinato insediamento. Quando lo aveva visto l'ultima volta, anni prima, c'erano alcune capanne, un molo e qualche baracca che passava per taverna. Ora la luce delle candele brillava da dozzine di finestre, e il porticciolo di acqua salmastra vantava una piccola foresta di alberi. Perfino gli odori fetidi nell'aria erano più densi. Se tutti gli sparsi insediamenti di pirati che aveva visto fossero stati raggruppati in un luogo solo, avrebbero uguagliato o forse superato la popolazione di Borgomago. Stavano crescendo, anche. Se si fossero riuniti sotto un capo, sarebbero stati una forza da non sottovalutare. Brashen si chiese se anche questo Kennit, aspirante Re dei Pirati, vedeva lo stesso potenziale. Se avesse guadagnato quel potere, che cosa ne avrebbe fatto? Il capitano Finney sembrava considerarlo soprattutto un millantatore; Brashen sperò con fervore che fosse così. Mentre rasentavano lentamente la lunga fila di navi ormeggiate, Brashen scorse un profilo familiare contro il sole al tramonto. Il cuore gli balzò nel petto e poi sprofondò. La Vivacia si cullava all'ancora. In cima all'albero maestro la bandiera del Corvo ondeggiava incostante nella brezza serale. Brashen tentò di convincersi che era solo una nave attrezzata allo stesso modo e con una polena simile. All'improvviso Vivacia scrollò la testa, poi si passò le mani fra i capelli. Era un veliero vivente, ed era senza dubbio Vivacia. Questo Kennit l'aveva catturata. Se le dicerie erano vere, significava che ognuno dei suoi marinai era stato massacrato. Fissò la sagoma della nave, tentando di scorgere maggiori dettagli. Un equipaggio ridotto si muoveva con calma sui suoi ponti. Brashen non vide bene nessuno; avrebbe potuto riconoscerli, in quella luce, a quella distanza? Non lo sapeva. Poi scorse una piccola figura snella che saliva sul ponte di prua. La polena si girò per salutarla. Brashen aggrottò la fronte. Il modo di muoversi del marinaio sembrava familiare. Althea! No, si disse. Non poteva essere. Aveva visto la ragazza per l'ultima volta a Candelaia. Lei
aveva dichiarato che avrebbe cercato lavoro su una nave diretta a Borgomago. Vivacia non era stata in porto. Althea non poteva essere su quella nave. Era impossibile. Ma Brashen era familiare con gli strani capricci di venti, maree e navi, e le rotte più improbabili sembravano sempre incrociarsi nei modi più strani. Guardò la figura snella avvicinarsi alla murata di prua e appoggiarsi. La fissò, sperando in un gesto, un segnale che gli avrebbe fatto capire se era o non era Althea. Non ne vide. Eppure, più la guardava e più si convinceva che fosse lei. Althea inclinava la testa proprio così quando ascoltava la nave. Così alzava il viso al vento. Chi altro poteva conversare con tanta familiarità con la polena? Brashen non sapeva per quale caso, ma la figura sul ponte di prua era Althea. Le sue emozioni ribollirono. Che fare? Era solo. Non aveva modo di rivelare la sua presenza ad Althea o alla nave. Qualsiasi cosa avesse tentato, si sarebbe fatto uccidere, e nessuno a Borgomago avrebbe mai saputo cosa era stato di loro. Affondò le unghie tonde nei palmi callosi. Strinse le palpebre e tentò di capire se c'era qualcosa da fare. Il capitano Finney parlò sommessamente dietro di lui. «Sicuro di non conoscerla?» Brashen riuscì a scrollare le spalle. La sua voce era troppo tesa. «L'avrò già vista da qualche parte... Non so. Ero solo stupito. Un veliero vivente, preso da un pirata. È la prima volta.» «No che non lo è.» Finney sputò in mare. «La leggenda dice che Igrot l'Audace prese un veliero vivente e lo usò per anni. Fu così che riuscì a catturare la nave del tesoro del Satrapo: per quanto agile, non poteva superare nella corsa un veliero vivente. Dopo di ciò, Igrot visse come un gentiluomo. Il meglio di tutto per sé, donne, vino, servitori, vestiti. Viveva in maniera molto elegante, dicono. Aveva una proprietà a Chalced e un palazzo nelle Isole di Giada. Si dice che quando Igrot seppe che stava morendo nascose il tesoro e affondò il veliero vivente. Se non poteva portarsi dietro quell'aggeggio maledetto, voleva essere sicuro che nessun altro lo trovasse.» «Non l'avevo mai sentito.» «Probabilmente no. Non è una storia che si racconta di frequente. Dicono che dipingesse la polena della sua nave e la costringesse a rimanere immobile, così nessuno avrebbe capito che aveva un veliero vivente.» Brashen scrollò rigidamente le spalle. «Io direi che aveva una nave normale, ma mentiva per far credere che fosse un veliero vivente. Forse» ag-
giunse in tono più conciliante. Gettò uno sguardo sulla tolda per essere sicuro che fossero soli, poi cambiò bruscamente argomento. «Capitano, ricordate quello di cui parlammo mesi fa? Che vi piacerebbe fare un viaggetto a Borgomago, se io conoscessi qualcuno che può farvi un buon prezzo su qualche merce di prima qualità?» Finney annuì brevemente, guardingo. «Be', ci ho pensato. Se compraste quel ritratto da Faldin, ecco, il posto ideale per venderlo è Borgomago. Lì la gente saprebbe di che si tratta e quanto vale.» Incrociò le braccia e si appoggiò di nuovo contro la murata. Tentò di sembrare un uomo compiaciuto di sé stesso. «Ed è anche il posto ideale dove cacciarsi nei guai vendendo un pezzo simile» commentò Finney sospettoso. Brashen manifestò un'indifferenza che non sentiva. «Non se si conosce la gente giusta e lo si presenta nel modo giusto. Se venite in città, e io vi presento l'intermediario giusto, ecco, potrebbe sembrare che fate una buona azione. Riportate il ritratto a casa sua, con la triste storia di ciò che conoscete della Vivacia. L'intermediario si accerterebbe che un capitano mercantile di buon cuore meritasse una ricompensa sostanziosa.» Finney spostò una cicca di cindin nel labbro. «Forse. Ma non vale la pena di fare il viaggio solo per vendere un pezzo.» «Certo che no! Ma scommetto che sarebbe solo il pezzo forte dell'affare. Potrebbe procurarvi molto più denaro di quanto immaginate.» «Forse anche molti più guai.» Finney aggrottò le sopracciglia nel tramonto. Dopo qualche tempo chiese: «Che altro potrei vendere là, secondo te?» Brashen scrollò le spalle. «Tutto quello che Borgomago non può fabbricare per sé o ottenere dal Nord. Spezie, tè... Liquori e vini di Jamaillia. Roba esotica dalle terre del Sud, o buoni pezzi d'antiquariato di Jamaillia. Quel genere di merci.» «Conosci qualcuno che potrebbe agire da intermediario?» Brashen inclinò la testa. «Ho pensato a un candidato probabile.» Ridacchiò. «Se tutto il resto fallisce, suppongo che potrei provare a farlo io.» Finney tese la mano in silenzio. Brashen la prese e sigillò l'affare. Provò un profondo senso di sollievo. Ora poteva far giungere le notizie a Borgomago. Di certo Ronica Vestrit aveva l'occorrente per liberare sua figlia e la sua nave da quei pirati. Gettò uno sguardo di scusa alla Vivacia e ad Althea. Quel fragile piano era il miglior tentativo di soccorso che poteva offrire. Pregò che Althea e la nave stessero bene fino ad allora.
All'improvviso imprecò con energia. «Che succede?» chiese Finney. «Nulla. Una scheggia sotto un'unghia. Domani metterò i ragazzi a sabbiare questa murata.» Girò le spalle al capitano, fingendo di guardarsi la mano. In lontananza la figura magra orinava dal lato della Vivacia. Estate 13 Interludio Non era un vero groviglio, rifletté Shreever. Un vero groviglio si riuniva per seguire un capo rispettato. Questi erano serpenti sbandati, raccolti uno o due per volta mentre il dispensatore di cibo si muoveva verso nord e loro lo seguivano. I serpenti che ora nuotavano con loro non avevano alcun legame con il groviglio di Maulkin. Stavano solo seguendo la stessa fonte di cibo. Eppure c'era un certo conforto nella compagnia di altri serpenti. A volte alcuni sembravano quasi lucidi. Altri, nel loro silenzio e nello sguardo vuoto, erano simili a fantasmi. I peggiori erano poco più che animali, pronti a sputare veleno o a mordere chiunque si avvicinasse troppo al loro cibo. Shreever, Maulkin e Sessurea avevano imparato a ignorare quelli che erano regrediti a un livello così bestiale. In verità la loro non era la presenza più dura da sopportare. I più dolorosi erano quelli pateticamente vicini a ricordare chi erano e cosa erano stati. I tre serpenti originari del groviglio di Maulkin erano diventati quasi silenziosi come i nuovi venuti. Era difficile trovare temi che non li precipitassero tutti nella più profonda disperazione. Shreever ricordava fiocamente tempi più remoti di fame fisica. Un digiuno troppo lungo poteva disperdere i pensieri confusi. Lei aveva i suoi piccoli rituali per rimanere sana di mente. Ogni giorno si rammentava il loro scopo. Erano venuti a nord quando Maulkin aveva saputo che il momento era giunto. Colei Che Ricorda avrebbe dovuto accoglierli. Avrebbe dovuto rinnovare tutti i loro ricordi, e condurli al passo successivo. «Ma quale passo successivo?» mormorò piano fra sé. «Eh?» chiese Sessurea, insonnolito. I tre erano ancorati insieme in mezzo a una selva di serpenti addormentati. Ce n'erano una dozzina, e solo di notte sembravano ricordare tracce di
usanze civilizzate, avviluppandosi fra loro nel sonno come un vero groviglio. Shreever strinse forte quel pensiero. «Quando avremo trovato Uno Che Ricorda, e le nostre memorie saranno ripristinate, cosa succederà?» Sessurea emesse un sospiro assonnato. «Se io conoscessi la risposta, forse non avremmo bisogno di trovare un custode dei ricordi.» Tra loro, Maulkin non si mosse neppure. Il profeta sembrava indebolirsi ogni giorno. Shreever e Sessurea erano divenuti più aggressivi nel reclamare il cibo distribuito dal dispensatore. Maulkin rifiutava di abbandonare le antiche usanze. Perfino dopo aver afferrato un corpo flaccido che cadeva attraverso l'Abbondanza, lo abbandonava se uno dei senza anima lo afferrava. Rinunciava alla sua legittima rivendicazione piuttosto che lottare come un animale per il cibo. I falsi occhi un tempo brillanti che percorrevano tutto il suo corpo ora erano poco più che chiazze. A volte permetteva a Shreever di portargli da mangiare, ma altrettanto spesso lo rifiutava. Shreever non aveva il coraggio di chiedergli se anche lui era vicino ad abbandonare la cerca. Ci fu un cambiamento improvviso nella foresta di serpenti assopiti. Lento come in un sogno, uno snello serpente verde brillante si contorse liberandosi del groviglio dormiente e salì languido fino alla Mancanza. Shreever e Sessurea si scambiarono uno sguardo perplesso ma troppo stanco per la curiosità. Le azioni dei senza anima non avevano senso; cercare di capire era inutile. Shreever abbassò le palpebre. Poi dall'alto scesero le note curiosamente pure di una voce che cantava. Per qualche momento Shreever ascoltò in un timore riverenziale. Ogni nota era intonata, ogni parola enunciata alla perfezione. Non erano i lamenti e ruggiti casuali a cui si abbandonavano i serpenti privi di una mente, ma l'esultanza gloriosa di uno chiamato a cantare. Shreever aprì gli occhi. «Canzone della Semplicità» respirò rauco Maulkin. Gli occhi di Sessurea rotearono lenti, assentendo. Con dolcezza i tre si sciolsero per ondulare fino alla sommità dell'Abbondanza e spuntare fuori nella Mancanza. Là, sotto la luce di una tonda luna piena, il serpente verde gettava indietro la testa e cantava. La criniera pesante pendeva molle attorno alla gola. Le fauci si spalancavano in una voce piena e risonante. Le parole emergevano limpide e dolci da uno che era stato muto. Verso dopo verso cantava le parole eleganti dell'antica canzone degli inizi. In altri tempi gli ascoltatori si sarebbero uniti al ritornello, per celebrare insieme i giorni della più calda Abbondanza e delle migrazioni dei pesci. Ora erano senza voce: a-
scoltavano la benedizione, ma tacevano per non interromperla. Il cantante era bellissimo nella sua intensità e concentrazione. La testa ondeggiava con lentezza mentre cantava, la gola dilatata e poi tesa mentre pompava le note ricche e profonde. Shreever non lo guardò negli occhi. Erano grandi e vuoti di intenzione perfino mentre dava voce alla più sacra fra le canzoni. Accanto a lei, Maulkin chinò la testa. L'emozione fremeva in lui, accendendo i falsi occhi di un breve bagliore. Con grande lentezza la criniera cominciò a sollevarsi attorno alla gola. Il veleno, un tempo così abbondante e tossico, ora appariva appena sulle punte. Una sola goccia cadde per pungere estaticamente la pelle di Shreever. Per un lungo momento la notte fu limpida, brillante e calda di promesse. «Risparmia le forze» lo consigliò Sessurea, malinconico. «La musica è bella, ma dentro non c'è cuore. Non possiamo rianimarlo. Tentare ti indebolirebbe e basta.» «La mia forza non serve a essere conservata» osservò Maulkin. Più acido, aggiunse: «A volte temo che non ci sia nulla per cui conservarla.» Malgrado le sue parole, non si mosse verso il serpente verde. I tre rimasero dov'erano, condividendo la canzone rapita, ma stranamente alieni da essa. Era come se le parole li raggiungessero da un lontano passato, un tempo cui non avrebbero mai più potuto tornare. Lo sguardo fisso sulla luna, la testa che ondeggiava con grazia seguendo la canzone, il serpente verde ripeté il ritornello finale per le tre volte prescritte. Mentre reggeva un'ultima nota pura, Shreever si accorse che alcuni degli altri serpenti li avevano raggiunti. La maggior parte si guardava attorno senza scopo, come aspettando una fonte di cibo. Il dispensatore aveva proseguito nella notte, come sempre. La sua massa non distorceva l'orizzonte. L'indomani avrebbero tutti seguito il suo profumo attraverso l'Abbondanza. Era facile raggiungerlo. Senza il dispensatore di cibo su cui concentrarsi, i loro occhi si rivolsero al serpente verde. Rimaneva immobile, lo sguardo fisso sulla luna. L'ultimo fiato fluì dalla gola in quell'unica nota sostenuta. Poi si spense. Un silenzio che sembrava l'unico giusto seguito della canzone li sommerse tutti. In quel momento Shreever notò una lievissima differenza nel gruppo. Alcuni serpenti sembravano confusi, come lottando per ricordare qualcosa. Tutti erano immobili e silenziosi. Tutti tranne Maulkin. Con una repentinità che smentiva la livrea sbiadita e la magrezza, il grande serpente raggiunse in un lampo quello verde. I falsi occhi affievoliti brillarono brevemente d'oro e gli occhi rotearono di
rame mentre si avvolgeva attorno all'altro serpente. Lo cosparse con le poche tossine che era riuscito a produrre, poi lo trascinò a fondo nel suo abbraccio. Shreever udì il grido indignato della creatura. Non c'era alcuna intelligenza in quel verso: era lo sfogo furibondo di un animale in trappola. Lei e Sessurea si tuffarono, seguendo fino al fondale fangoso i due serpenti in lotta. Mentre si dibattevano il limo offuscò e poi intorpidì l'Abbondanza. «Soffocherà!» gridò Shreever allarmata. «Se quello verde non lo fa a brandelli prima» rispose tetro Sessurea. Le loro criniere cominciarono a gonfiarsi di tossine mentre scendevano come frecce. Dietro di loro, Shreever era vagamente consapevole degli altri serpenti che si attorcigliavano e si ingarbugliavano confusi. Le azioni di Maulkin li avevano allarmati; impossibile dire come avrebbero reagito. Forse, pensò con freddezza Shreever, si sarebbero rivoltati su loro tre. In quel caso il groviglio di Maulkin aveva poche speranze di sopravvivere. Affiancò Sessurea che si immergeva nell'oscurità densa di limo. Quasi subito si sentì soffocare. Era una sensazione orribile. Ogni suo istinto la spingeva a fuggire in acque più pulite. Ma lei non era un animale controllato dai suoi istinti. Si costrinse a scendere più a fondo finché non percepì la vibrazione della lotta e riuscì ad avvolgere i combattenti. Era tanto soffocata da non saper distinguere i due dall'odore. Due volte chiuse gli occhi per difenderli dal limo arenoso. Rilasciò la piccola nube di tossine che riuscì a produrre; sperò di non stordire o indebolire Sessurea. Poi avvolse una spira intorno ai corpi in lotta e impegnò tutta la sua forza per trascinarli in acque limpide dove tutti potevano respirare. Le pareva di nuotare attraverso un branco di pesciolini luccicanti. Macchie e strisce di colori le confondevano la vista. Qualcun altro aveva emesso veleno che la scottava e la disseccava, imprimendo visioni nella sua mente. Era come sollevare il pavimento dell'Abbondanza stessa. Voleva abbandonare il suo carico e sfrecciare su dove poteva respirare. Continuò a lottare con accanimento. All'improvviso le sue branchie spalancate avvertirono acqua più pulita. Aprì gli occhi con cautela. Spalancò le fauci, svuotando le branchie. Ciò la rese più suscettibile ai veleni mescolati nell'acqua. Assaggiò l'eco debole delle tossine un tempo potenti di Maulkin, e gli acidi meno disciplinati di Sessurea. Anche il serpente verde aveva sprigionato veleni densi e forti, ma intesi soprattutto per stordire i pesci. Per quanto sgradevoli, non la confusero. Il suo sguardo incontrò gli occhi turbinanti di Sessurea, che scrollò
un'ultima volta la criniera. Il serpente verde cessò di lottare debolmente e si afflosciò. Maulkin riuscì a sollevare la testa. «Piano, piano» li avvertì. «Mentre lottavamo, mi ha parlato. Dapprima erano solo imprecazioni, ma poi mi ha chiesto con quale diritto lo attaccavo. Penso che possa ancora essere svegliato.» Shreever non aveva la forza per rispondere. Le ci voleva tutta la sua volontà per mantenere la presa sugli altri due mentre lei e Sessurea si sforzavano di attraversare il fondo intorbidato. Sessurea scorse una colonna di pietra. Fu difficile manovrarli fin lì e più duro ancora trovare prese sicure per ancorarli tutti. Maulkin non era più utile di uno spesso nastro di alghe. Il serpente verde era ancora privo di sensi. Una volta assestati, Shreever non sapeva pensare ad altro che al riposo. Eppure non osava rilassarsi. Cullavano fra loro un estraneo, che poteva svegliarsi con violenza. Inoltre diversi altri serpenti li avevano seguiti. Rimanevano a distanza, occhieggiandoli con curiosità. O forse con appetito. Con un brivido di repulsione Shreever si chiese se era quello che li interessava. Se avessero visto il groviglio di Maulkin divorare il serpente verde, si sarebbero messi in mezzo per rubare una porzione? Shreever lo temeva. Li guardò con circospezione. Maulkin era sfinito. Si vedeva dal terribile bruno grigiastro della sua pelle. Ma non si arrese. Massaggiò il serpente verde con le spire, ungendolo con le goccioline di veleno che riusciva a sprigionare. «Chi sei?» continuava a chiedere al molle serpente. «Un tempo eri un menestrello, ed eri bravo. Un tempo avevi una memoria che poteva contenere migliaia di melodie e le parole di ogni canzone. Cercala. Dimmi il tuo nome. Solo il tuo nome.» Shreever voleva raccomandargli di risparmiare le forze, ma non riusciva a radunare l'energia. Era così palesemente futile. Le sembrava che il serpente verde non fosse neppure cosciente. Si chiese per quanto tempo Maulkin avrebbe insistito. Avevano le riserve per raggiungere il dispensatore l'indomani? Forse le azioni di Maulkin sarebbero costate la loro ultima opportunità di sopravvivere. «Tellur» mormorò il serpente verde. Le branchie tremolarono. «Il mio nome è Tellur.» Un brivido fremette per tutto il suo corpo. All'improvviso si avvolse attorno a Maulkin e lo tenne stretto come se una corrente forte minacciasse di spazzarlo via. «Tellur!» gridò. «Tellur. Tellur. Sono Tellur.» Chiuse i suoi occhi e chinò la testa. «Tellur» mormorò piano. Era sfinito. Shreever tentò di avvertire un qualche senso di trionfo. Maulkin lo
aveva risvegliato. Ma per quanto tempo? Li avrebbe aiutati nella cerca, o sarebbe solo diventato un ulteriore peso per le loro risorse? L'anello di serpenti che li osservavano era più vicino. Shreever sentì Sessurea spostarsi stancamente e capì che si preparava alla battaglia. Alzò la testa e tentò di allargare la criniera. Ben poco veleno le rispose. Tentò di folgorare con lo sguardo i serpenti che li accerchiavano. Non li impressionò. Un massiccio serpente color cobalto, il più grande degli altri, si fece vicino. Era ben più lungo di Sessurea, due volte più robusto. Spalancò le fauci, assaggiando le tossine nell'acqua. All'improvviso gettò indietro la testa e drizzò tutta la criniera. «Kelaro!» tuonò. «Io sono Kelaro!» Le mandibole si muovevano fameliche, ingoiando le tossine diluite e pompandole nelle branchie. «Mi ricordo» proclamò. «Sono Kelaro!» Al suo barrito, alcuni serpenti si ritirarono come pesci spaventati. Altri ignorarono la sua esplosione di attività. Kelaro girò la testa per osservare un serpente rosso coperto di cicatrici. «E tu sei Sylic. Il mio amico Sylic. Una volta eravamo parte del groviglio di Xecres. Xecres. Che ne è stato di Xecres? Dov'è il resto del nostro groviglio?» Avanzò quasi con furia sul malandato serpente scarlatto che continuava a fissarlo con grandi occhi vuoti. «Sylic, dov'è Xecres?» Lo sguardo inespressivo di Sylic suscitò la sua furia. Il grande serpente blu avvolse all'improvviso il compagno, stritolandolo come fosse una balena da affogare e divorare. La gorgiera era aperta e velenosa. Le tossine si allargavano in una nube attorno a loro mentre lottavano. «Dov'è Xecres, Sylic?» Quando il serpente scarlatto si limitò a dibattersi con maggior violenza, Kelaro lo strinse più forte. «Sylic! Di' il tuo nome. Di' Io sono Sylic! Dillo subito!» «Lo ucciderà» li avvertì Sessurea con voce bassa e inorridita. «Non interferire» brontolò Maulkin. «Lascia che accada, Sessurea. Se Sylic non può svegliarsi, allora è meglio che muoia. Tutti noi è meglio che moriamo.» La rassegnazione nella sua voce era raggelante. Shreever girò la testa per guardarlo, ma Maulkin evitò il suo sguardo. Guardò invece il serpente verde che dormiva nel mezzo del groviglio. Shreever sentì una voce nuova dietro di sé, acuta e senza fiato. «Sylic» ammise la voce. «Il mio nome è Sylic.» Il serpente rosso lottava debolmente. Kelaro allentò le spire ma non lo liberò. «Che ne è stato di Xecres?»
«Non lo so.» Le parole di Sylic erano confuse, come se parlare fosse uno sforzo. I concetti erano lenti: sembrava lottare per collegare le parole ai pensieri. «Ha dimenticato sé stesso. Una mattina ci siamo svegliati e non c'era più. Ha abbandonato il groviglio. Poco dopo anche gli altri hanno cominciato a dimenticare.» Scosse con rabbia la testa, e una nube di tossine si sprigionò dalla criniera frastagliata. «Io sono Sylic!» ripeté amaramente. «Sylic senza amici. Sylic senza groviglio.» «Sylic del groviglio di Maulkin. Kelaro del groviglio di Maulkin. Se lo desiderate.» La voce di Maulkin aveva riguadagnato un poco del timbro perduto. I falsi occhi emisero un bagliore d'oro. I due serpenti lo osservarono brevemente, in silenzio. Poi Kelaro avanzò su di loro, tenendo ancora Sylic avvolto distrattamente nelle sue spire. I suoi occhi erano enormi e minacciosi. Roteavano neri con schegge di argento in profondità mentre contemplava il groviglio malridotto in cui era stato invitato. Poi chinò solennemente la grande testa crinita. «Maulkin» riconobbe. Avvolse una spira sulla pietra cui erano ancorati e attrasse l'amico vicino a loro. Con attenzione, per non offendere, si attorcigliò con Sessurea, Shreever e Maulkin. «Kelaro del groviglio di Maulkin vi saluta tutti.» «Sylic del groviglio di Maulkin» fece eco il malconcio serpente scarlatto. Mentre si assestavano stancamente per riposare, Sessurea osservò: «Non possiamo dormire troppo a lungo se vogliamo raggiungere il dispensatore di cibo.» «Possiamo dormire finché non saremo pronti a viaggiare» lo corresse Maulkin. «Basta con i dispensatori di cibo. D'ora in poi cacceremo come serpenti. Un groviglio forte non dipende dalla munificenza di nessuno. Quando non cercheremo il cibo, cercheremo Uno Che Ricorda. Ci è stata data un'ultima occasione. Non sprechiamola.» 14 La scelta di Serilla La camera riccamente decorata era angusta e soffocante di fumo. La testa di Serilla vacillava e lo stomaco protestava per l'oscillazione continua del ponte. Il moto senza fine faceva dolere ogni giuntura del suo corpo. Non era mai stata un buon marinaio, neppure da ragazza. Gli anni trascorsi
nel palazzo del Satrapo non avevano migliorato la sua inclinazione per i viaggi. Se solo avessero preso un vascello più piccolo, più idoneo a navigare. Il Satrapo aveva insistito per viaggiare con il suo seguito su una nave immensa dalla pancia larga. Metà del ritardo nella partenza era stato dovuto al raddobbo dell'interno per quegli alloggi spaziosi. Serilla aveva udito alcune discussioni fra i carpentieri sulla zavorra e la stabilità. Non aveva capito la base delle loro preoccupazioni, ma ora sospettava che l'andatura goffa della nave fosse il risultato dell'insistenza di Cosgo. Si rammentò di nuovo che ogni irritante sussulto la portava più vicina di un'onda a Borgomago. Era difficile ricordare che per giorni aveva atteso con ansia quel viaggio. Aveva ripetutamente fatto e disfatto i bagagli, scegliendo indumenti e scartandoli e tirandoli fuori di nuovo. Non voleva sembrare né sciatta né seducente, né giovane né vecchia. Si era tormentata per decidere quale abbigliamento l'avrebbe fatta apparire dotta ma attraente. Aveva scelto vesti semplici, dal taglio modesto ma fittamente ricamate da lei stessa. Non portava gioielli. Per tradizione una Compagna del Cuore possedeva e indossava solo i gioielli che il Satrapo le donava. Il vecchio Satrapo le aveva sempre regalato libri e pergamene invece che ornamenti. Cosgo non le aveva mai dato nulla, sebbene ricoprisse di gioielli le Compagne del Cuore da lui scelte, come torte spruzzate di zucchero scintillante. Serilla cercò di non preoccuparsi se appariva disadorna ai Mercanti di Borgomago. Non andava a Borgomago per impressionarli con l'ostentazione. Andava a vedere finalmente la terra e il popolo che aveva studiato per più di metà della sua vita. Non conosceva tanta anticipazione da quando il vecchio Satrapo l'aveva notata e l'aveva invitata a diventare la sua Compagna. Pregò che quella visita a Borgomago fosse un simile inizio. Al momento era difficile aggrapparsi a quei sogni. La vita non le era mai sembrata così sordida e dozzinale. A Jamaillia era sempre riuscita a isolarsi dalle pratiche più corrotte della corte del Satrapo. Quando il giovane Cosgo aveva cominciato a lasciar degenerare le sue feste in celebrazioni di ghiottoneria e dissolutezza, Serrila aveva smesso di frequentarle. A bordo della nave non c'era luogo dove sfuggire ai suoi eccessi. Se desiderava mangiare doveva mangiare con il Satrapo. Lasciare la camera e camminare all'aria fresca in coperta significava invitare l'attenzione brutale dell'equipaggio di Chalced. Non avrebbe trovato sollievo, anche se Cosgo le avesse dato il permesso di andarsene. Il Satrapo e la Compagna Kekki erano sdraiati scompostamente sul
grande divano, entrambi quasi insensibili per le erbe di piacere e il fumo. Kekki aveva uggiolato che erano l'unico modo per dimenticare la nausea, e si era lamentata rumorosamente di non aver mai avuto tanto mal di mare. Serrila era stata troppo diplomatica per chiedere se era incinta. Non era molto raro che un Satrapo impregnasse una Compagna del Cuore, ma era ancora considerato volgare. I bambini nati da simili unioni venivano consegnati appena nati ai servitori di Sa, per essere allevati come sacerdoti. Non scoprivano mai le loro origini. Il Satrapo poteva concepire un erede solo con la sposa legittima. Cosgo non aveva ancora preso moglie. Serrila dubitava che lo avrebbe fatto finché i suoi nobili non lo avessero costretto. Se fosse vissuto tanto a lungo. Serrila lo guardò, mezzo sdraiato su Kekki con il respiro rauco. Un'altra Compagna, anche lei ottenebrata, giaceva ai suoi piedi con la testa gettata indietro, i capelli scuri sparsi sui cuscini. Gli occhi socchiusi mostravano mezzelune bianche. Le dita sussultavano ritmicamente. Serrila era disgustata. Tutto il viaggio non era stato altro che una serie di feste e divertimenti, seguiti dai lunghi periodi di nausea e stordimento procurati a Cosgo da troppo vino e troppi sonniferi. Allora chiamava i guaritori per curarlo e drogarlo in una direzione diversa, finché non si sentiva abbastanza bene da prescriversi di nuovo i suoi piaceri. Gli altri nobili a bordo erano altrettanto viziosi, salvo alcuni che spesso accampavano il mal di mare come scusa per rimanere nei loro alloggi. Molti nobili di Chalced si stavano recando a nord con lui. Le loro imbarcazioni viaggiavano insieme alla nave ammiraglia del Satrapo. Spesso lo raggiungevano per cena. Le donne che avevano con sé erano animaletti pericolosi che si disputavano l'attenzione di coloro che ritenevano più potenti. Serilla era inorridita. L'unico aspetto più spaventoso di quelle cene erano le discussioni politiche che seguivano. I nobili di Chalced esortavano Cosgo a fare un esempio di Borgomago, a non tollerare i discorsi di ribellione dei Mercanti, a schiacciarli con mano ferma. Stavano alimentando nel Satrapo un senso di rabbia e ipocrita indignazione che Serilla riteneva ingiustificato. Non tentava più di far sentire la propria voce. La gente di Chalced la azzittiva con grida e risate, o la scherniva. La sera prima Cosgo le aveva ordinato di tacere come le si addiceva. Il pensiero dell'insulto pubblico attizzava ancora fiamme di rabbia nel suo cuore. Il capitano di Chalced accettava i vini rari che il Satrapo Cosgo gli offriva, ma disdegnava la compagnia del giovane signore. Accampava come scusa la responsabilità del comando, ma Serilla scorgeva il disprezzo vela-
to nei suoi occhi. Più Cosgo tentava di impressionarlo, più il capitano lo ignorava. I suoi tentativi di imitare la vanteria e l'aggressività della gente di Chalced erano umilianti. Serilla soffriva a vedere le Compagne come Kekki che lo incoraggiavano, come se la sua prepotenza infantile fosse un segno di virilità. Cosgo ora si adontava per tutto quello che non era precisamente come lo aveva ordinato. A Serilla sembrava un bambino viziato. Nulla gli andava bene. Si era portato giullari e musicisti, ma i loro spettacoli erano diventati tediosi. Il Satrapo era sempre più irritabile per la noia. Le più lievi sfide alla sua volontà lo spingevano a imprecare e pestare i piedi. Serilla sospirò. Vagò per la stanza, poi si fermò a giocherellare con l'orlo infiocchettato della tovaglia ricamata. Stancamente spostò qualche piatto unto. Sedette al tavolo e aspettò. Desiderava tornare al ripostiglio che era la sua camera, ma dato che Cosgo l'aveva chiamata con il pretesto di chiederle consiglio, non poteva andarsene finché lui non la congedava. Se lo avesse svegliato per chiedere il suo permesso, lui lo avrebbe di certo rifiutato. Aveva tentato di dissuaderlo dal viaggio. Il Satrapo l'aveva sospettata di voler viaggiare da sola. Era vero; Serilla avrebbe preferito andare sola a Borgomago, con il potere di prendere decisioni per una terra che conosceva molto meglio di lui. Ma Cosgo era troppo geloso del proprio ruolo. Lui, il Satrapo regnante, sarebbe calato su Borgomago in tutto il suo potere e la sua gloria e li avrebbe atterriti con la sua potenza. I Mercanti di Borgomago sarebbero stati riportati all'ordine, e avrebbero ricordato che lui li dominava tutti per grazia di Sa. Non avevano alcun diritto di metterlo in dubbio. Serilla era stata fiduciosa che il Concilio di Nobili lo avrebbe dissuaso, ed era rimasta sconvolta quando avevano sostenuto il viaggio. Anche i suoi alleati di Chalced lo avevano incoraggiato. Aveva bevuto con loro per molte notti prima che cominciassero le preparazioni. Serilla aveva sentito delle loro vanterie e promesse. Lo avrebbero appoggiato. Doveva mostrare a quegli arricchiti di Borgomago chi comandava a Jamaillia. I suoi amici di Chalced sarebbero stati al suo fianco. Non doveva temere quei putridi ribelli. Se osavano alzare una mano contro i loro legittimi signori, il duca Yadfin e i suoi mercenari avrebbero dato loro nuove ragioni per chiamare la loro terra Rive Maledette. Serilla scosse la testa. Perché Cosgo non vedeva che lo stavano usando come esca in una trappola? Se la gente di Chalced avesse provocato i Vecchi Mercanti a ucciderlo, avrebbero avuto licenza completa per depredare e distruggere tutta Bor-
gomago. Oltre al Satrapo, la sguazzante nave madre portava una selezione delle sue Compagne, una squadra completa di servitori e sei nobili cui aveva ordinato di assisterlo, ciascuno con il suo seguito minore. La accompagnava un vascello più piccolo, pieno di ambiziosi cadetti di famiglie nobili. Il Satrapo li aveva adescati nell'avventura con la prospettiva che, se le loro famiglie investivano nella spedizione, forse i figli avrebbero ottenuto concessioni di terra a Borgomago. Invano Serilla aveva protestato. Arrivare con quegli aspiranti coloni sarebbe stato un insulto per i Mercanti. Era un chiaro segnale che il Satrapo non aveva preso mai sul serio le lagnanze sui Nuovi Mercanti. Lui l'aveva ignorata. A peggiorare le cose, sette grandi galee cariche di mercenari di Chalced ben armati precedevano e affiancavano i due velieri. Ufficialmente scortavano il vascello del Satrapo attraverso le acque infestate di pirati del Passaggio Interno. Solo quando furono partiti Serilla scoprì che lungo la strada avrebbero offerto un'ulteriore prova della potenza del Satrapo. Intendevano attaccare e saccheggiare tutti gli insediamenti di pirati scoperti durante il viaggio verso nord. Le ricchezze e gli schiavi ottenuti in quelle incursioni sarebbero stati trasportati a Chalced sulla nave dei giovani nobili, per aiutare a compensare il costo della missione diplomatica. I figli cadetti avrebbero partecipato alle incursioni, per dimostrarsi degni di favore. Il Satrapo era stato particolarmente orgoglioso di questo aspetto della contabilità. Serilla aveva dovuto ascoltarlo enumerare ripetutamente i vantaggi. «Uno, Borgomago sarà costretta ad ammettere che le mie navi pattuglia hanno scoraggiato i pirati. Gli schiavi che prendiamo ne saranno la prova. Due, Borgomago sarà impressionata dalla forza dei miei alleati, e quindi meno incline a opporsi alla mia volontà. Tre, rimborseremo alla tesoreria il costo di questa piccola spedizione. Quattro, diventerò una leggenda vivente. Quale Satrapo si è mai fatto avanti a prendere in mano la situazione per raddrizzarla? Quale Satrapo è mai stato così audace?» Serilla non riusciva a decidere quale pericolo fosse più grande: che la gente di Chalced lo portasse a Chalced, lo tenesse ostaggio e ne facesse un governante fantoccio, o che la nobiltà di Jamaillia afferrasse ogni frammento di potere mentre il ragazzo Satrapo era lontano. Probabilmente entrambi, decise amara. C'erano momenti, come quella sera, in cui si chiedeva se avrebbe mai visto davvero Borgomago. Erano nelle mani dei mercenari di Chalced che governavano le navi. Nulla impediva loro di portare Cosgo a Chalced. Serilla sperava che credessero di ottenere un vantaggio
portandolo prima a Borgomago. Giurò che in tal caso sarebbe fuggita. In qualche modo. Solo due dei vecchi consiglieri del Satrapo Cosgo avevano tentato di dissuaderlo dal viaggio. Gli altri avevano annuito affabilmente, riconoscendo che era un viaggio inaudito per un Satrapo regnante, ma incoraggiandolo a fare come pensava meglio. Nessuno si era offerto di accompagnarlo. Lo avevano caricato di regali per il viaggio e lo avevano quasi spinto sulla nave con le loro mani. Quelli che avevano avuto l'ordine di accompagnarlo erano andati con riluttanza. Eppure Cosgo non era stato capace di vedere i segnali di una congiura per sbarazzarsi di lui. Due giorni prima Serilla aveva osato parlargli delle sue preoccupazioni. Il Satrapo l'aveva derisa, e poi si era arrabbiato. «Giochi sulle mie paure! Sai bene che ho i nervi fragili! Cerchi di sconvolgermi, di rovinarmi la salute e la digestione con le tue folli parole. Taci! Torna nella tua cabina e restaci finché non ti chiamerò.» Le sue guance bruciavano quando ricordava come era stata costretta a obbedirgli. Due marinai di Chalced l'avevano scortata in cabina sogghignando. Non l'avevano toccata, ma avevano commentato liberamente il suo corpo, con parole e gesti. Appena entrata, lei aveva messo il chiavistello e spinto il baule dei vestiti contro la fragile porta. Il Satrapo aveva lasciato passare un giorno intero prima di chiamarla, e quando l'aveva riconvocata al suo fianco le aveva chiesto per prima cosa se aveva imparato la lezione. Aveva atteso la sua risposta con i pugni sui fianchi, sogghignando. Non avrebbe mai osato parlarle così se fossero stati ancora a Jamaillia. Serilla era rimasta davanti a lui con occhi bassi, e aveva mormorato il suo assenso. Le era sembrata l'azione più saggia, ma dentro ribolliva. Sì, aveva imparato la lezione. Aveva imparato che il Satrapo si era lasciato alle spalle la civiltà. Prima si era trastullato con la dissipazione. Ora abbracciava la degenerazione. Serilla decise di fuggire alla prima occasione. Non doveva nulla a quel porco. Solo la sua lealtà alla Satrapia le tormentava la coscienza. L'aveva messa a tacere convincendosi che una donna sola poteva fare ben poco per fermare il decadimento. Sin da allora il Satrapo l'aveva guardata come un gatto, aspettando che Serilla lo sfidasse. Lei era stata ben attenta a trattenersi, ma non voleva neanche apparire troppo passiva. Aveva stretto i denti ed era stata deferente e cortese, cercando di evitarlo il più possibile. Quando era stata convocata quella sera aveva temuto uno scontro di volontà. Aveva benedetto la gelosia rabbiosa di Kekki. Nel momento in cui Serilla era stata ammessa
nella camera del Satrapo, l'altra Compagna aveva fatto tutto quello che poteva per monopolizzarlo. Ci era riuscita molto bene. Cosgo era privo di sensi. Kekki non aveva vergogna. Era diventata Compagna grazie alla sua conoscenza della lingua e delle usanze di Chalced. Ora era chiaro a Serilla che aveva anche abbracciato la loro cultura. A Chalced una donna godeva del potere solo attraverso qualsiasi uomo riuscisse a incantare. Quella sera Kekki aveva mostrato di non avere scrupoli pur di ottenere l'attenzione di Cosgo. Peccato, pensò Serilla, che quello fosse anche il modo più rapido per perderla. Sarebbe stata scartata presto. Serilla sperò solo che le lusinghe di Kekki potessero intrattenerlo fino a Borgomago. Li stava ancora fissando quando il Satrapo aprì un occhio arrossato dalla droga. Serilla non distolse lo sguardo. Dubitava che fosse consapevole della sua presenza. Errore. «Vieni qui» le ordinò il Satrapo. Serilla attraversò il fitto tappeto, girando attorno a indumenti abbandonati e piatti sporchi. Rimase a distanza di un braccio dal divano. «Mi hai chiamato per chiedermi consigli, Magnadon?» chiese formalmente. «Vieni qui!» ripeté petulante il Satrapo. Con l'indice colpì un punto vicino al divano. Serilla non poteva compiere quegli ultimi passi. Il suo orgoglio non glielo permetteva. «Perché?» «Perché sono il Satrapo e te lo ordino!» sputò Cosgo. All'improvviso era furioso. «Non hai bisogno di altre ragioni.» Si tirò a sedere bruscamente, spingendo via Kekki che emise un lamento patetico ma rotolò via da lui. «Non sono una serva» fece notare Serilla. «Sono una Compagna del Cuore.» Drizzò la schiena e recitò a memoria. «'Affinché non sia stordito dall'adulazione delle donne, affinché la sua vanità non sia nutrita da chi cerca solo di guadagnare, il Satrapo scelga Compagne che siedano accanto a lui. Non saranno al di sopra di lui, non saranno al di sotto di lui, ma pronunceranno apertamente la loro saggezza, consigliando il Satrapo solo nella specifica area di competenza di ognuna. Egli non avrà favorite fra loro. Non le sceglierà per la loro bellezza o amabilità. La sua Compagna non lo loderà, non cederà alla sua opinione, non avrà timore di non essere d'accordo con lui, perché tutte queste cose possono compromettere l'onestà del suo consiglio. La sua Compagna...'» «Dovrà stare zitta!» gridò Cosgo e poi rise rumorosamente del proprio
spirito. Serilla tacque, ma non per il suo ordine. Non si mosse da dove stava. Per un momento lui la osservò in silenzio. Una strana scintilla di divertimento accese i suoi occhi. «Donna sciocca. Sei così piena di te stessa, così certa che una manciata di parole possa proteggerti. Compagna del mio Cuore.» Pronunciò le parole con scherno. «Un titolo per una donna che teme di essere una donna.» Si appoggiò di nuovo al corpo di Kekki come un cuscino. «Potrei guarirti da questo timore. Potrei darti ai marinai. Ci hai pensato? Il capitano è di Chalced. Non batterebbe ciglio se io scartassi una donna che mi ha scontentato.» Fece una pausa. «Forse ti userebbe lui, prima di passarti agli altri.» La bocca di Serilla si seccò. La lingua le si attaccò al palato. Poteva farlo, comprese stordita. Ne era diventato capace. Sarebbero trascorsi mesi prima del suo ritorno a Jamaillia. A chi avrebbe dovuto render conto di ciò che era stato di lei? A nessuno. Nessuno dei nobili a bordo si sarebbe opposto. Se ne avessero avuto la forza di volontà, non sarebbero stati su quella nave. Qualcuno poteva perfino pensare che Serilla se lo fosse cercato. Non aveva alternative. Se cedeva, il Satrapo l'avrebbe sottoposta a umiliazioni senza limiti. Se mostrava di temere quella minaccia, lui avrebbe continuato a servirsene. All'improvviso Serilla lo seppe con certezza. La sua unica speranza era sfidarlo. «Fatelo» disse fredda. Si drizzò in tutta la sua altezza e incrociò le braccia sul petto. Sentiva il cuore che rimbombava. Il Satrapo ne era capace. Poteva farlo. In quel caso, lei non sarebbe sopravvissuta. I marinai erano robusti e violenti. Alcune delle domestiche erano già apparse con il volto tumefatto e il passo vacillante. Nessuna diceria era giunta al suo orecchio, ma non ne aveva bisogno. La gente di Chalced considerava le donne come poco più che bestiame. Pregò che il Satrapo cedesse. «Lo farò.» Cosgo si mise in piedi barcollando. Mosse due passi instabili verso la porta. Le gambe traditrici di Serilla cominciavano a traballare. Strinse i denti per non permettere alle labbra di tremare. Aveva fatto la sua mossa e aveva perso la partita. Sa, aiutami, pregò. Voleva urlare dal terrore. Temeva di svenire. Batté le palpebre in fretta, tentando di allontanare le ombre agli angoli del campo visivo. Era una finta. Si sarebbe fermato. Non avrebbe osato andare fino in fondo. Il Satrapo si arrestò. Vacillò, ma Serilla non sapeva se fosse indecisione o instabilità. «Sei sicura che è questo che vuoi?» C'era una provocazione
perversa nelle sue parole. Inclinò la testa. «Preferisci andare da loro che tentare di compiacermi? Ti darò un momento per decidere.» Serilla si sentiva stordita e nauseata. Era la cosa più crudele che avrebbe potuto fare, offrirle quell'ultima opportunità. Sentì la forza abbandonarla. Voleva gettarsi ai suoi piedi e implorare misericordia. Solo la sua convinzione che il Satrapo non aveva alcun concetto di misericordia la tenne in piedi. Deglutì. Non poteva rispondere. Si aggrappò al suo silenzio e sperò che passasse per un rifiuto. «Molto bene. Ricorda, Serilla, lo hai scelto tu. Avresti potuto avere me.» Aprì la porta. Fuori c'era un marinaio. C'era sempre un marinaio. Serilla sospettava che fosse tanto carceriere quanto sentinella. Cosgo si appoggiò allo stipite e toccò affabilmente l'uomo sulla spalla. «Manda un messaggio al tuo capitano, amico mio. Digli che gli offro una delle mie donne. Quella dagli occhi verdi.» Si girò malfermo per guardarla viziosamente. «Avvertilo che è irritabile e maldisposta. Digli che comunque l'ho trovata una gradevole puledra.» I suoi occhi la percorsero dalla testa ai piedi. Un sorriso crudele gli curvò la bocca. «Digli di mandare qualcuno a prenderla.» 15 Notizie Althea emise un brusco sospiro. Si spinse via dalla tavola, e la penna di Malta lasciò uno scarabocchio sulla carta. Si alzò e si strofinò gli occhi. Malta guardò sua zia allontanarsi dalle carte sparse e dai bastoncini da conto. «Devo uscire» annunciò. Ronica Vestrit era appena entrata nella stanza con un cesto di fiori tagliati e una brocca di acqua nella mano libera. «So cosa vuoi dire» concesse, deponendoli su un tavolino. Riempì d'acqua un vaso e cominciò a disporvi i fiori. Aveva un mazzolino di margheritine, saponaria, rose e fronde di felce. Aggrottò le ciglia, come se fosse tutta colpa dei fiori. «La contabilità dei nostri debiti non è un lavoro allegro. Perfino io ho bisogno di allontanarmi dopo alcune ore.» Fece una pausa, poi aggiunse speranzosa: «Le aiuole vicino alla porta d'ingresso hanno bisogno di attenzione, se hai voglia di lavorare all'aperto.» Althea scosse con impazienza la testa. «No.» Ammorbidì il tono e aggiunse: «Andrò giù in città per un po'. Per sgranchirmi le gambe, vedere amici. Torno prima di cena.» Con uno sguardo fugace al cipiglio di sua madre, aggiunse: «Mi occuperò del vialetto quando torno. Promesso.»
Ronica piegò le labbra ma non disse altro. Malta lasciò che Althea arrivasse quasi alla porta prima di chiedere con curiosità: «Vai di nuovo a trovare quella creatrice di perline?» Si strofinò teatralmente gli occhi, accantonando la penna. «Forse» disse Althea con calma. Malta sentì il fastidio trattenuto nella voce. Ronica emise un lieve suono come per decidere se parlare. La zia Althea si rivolse stancamente verso di lei. «Cosa?» Ronica diede una piccola alzata di spalle, le mani ancora occupate con i fiori. «Nulla. Vorrei solo che non passassi tanto tempo con lei, così apertamente. Non è di Borgomago, lo sai. E alcuni dicono che non sia migliore dei Nuovi Mercanti.» «È mia amica» disse fredda Althea. «Si dice in città che viva nel veliero vivente dei LaSuerte. Quel povero vascello non è mai stato sano di mente, e lei lo ha sconvolto così tanto che, quando i LaSuerte hanno mandato qualcuno ad allontanare la donna dalla loro proprietà, la nave ha dato in escandescenze. Ha detto che avrebbe strappato le braccia a chiunque tentasse di salire a bordo. Puoi immaginare quanto sia stato doloroso per la Mercante LaSuerte. Amis tenta da anni di difendere dagli scandali il nome della famiglia. Ora ricominciano i pettegolezzi, e tutte le vecchie storie di come Paragon impazzì e uccise tutto l'equipaggio. È tutta colpa di quella donna. Non dovrebbe immischiarsi negli affari dei Mercanti.» «Mamma...» La pazienza di Althea sembrava messa a dura prova. «C'è molto di più in quella storia. Se desideri, ti dirò tutto quello che so. Ma più tardi. Quando saremo fra adulti.» Malta seppe che la frecciatina era intesa per lei. Colse l'occasione come uno squalo sale verso un pezzo di carne. «La creatrice di perline ha una strana reputazione in città. Oh, tutti dicono che è un'artista meravigliosa. Tuttavia si sa che gli artisti possono essere strani. Vive con una donna che si veste e si comporta come un uomo. Lo sapevate?» «Jek è dei Sei Ducati o un'altra di quelle terre barbare. È così che le donne si comportano lassù. Cresci, Malta, e smettila di ascoltare i pettegolezzi sconvenienti» suggerì brusca Althea. Malta si drizzò in tutta la sua altezza. «Di solito li ignoro. Finché non sento che riguardano il nostro nome. So che non è da signora discutere tali cose, ma dovresti saperlo. Alcuni dicono che tu visiti la creatrice di perline per la stessa ragione. Per dormire con lei.»
Durante il silenzio sgomento che seguì, Malta aggiunse una cucchiaiata di miele al tè. Il suono del cucchiaio mentre mescolava sembrò quasi allegro. «Se intendi fottere, di' fottere» suggerì Althea. Pronunciò di proposito la volgarità. La voce era fredda di rabbia. «Se devi essere scurrile, perché trattenere la lingua?» «Althea!» Ronica finalmente emerse dal suo scandalizzato silenzio. «Non dire tali cose in casa nostra!» «Non l'ho detto io. Io ho solo chiarito il concetto.» Althea disse ogni parola come un morso, guardando male Malta. «Non puoi biasimare la gente» proseguì questa dopo aver centellinato il tè. Parlò con voce distrattamente amichevole. «Dopo tutto, stai lontana quasi un anno e poi torni vestita da ragazzo. Hai ampiamente passato l'età da marito, ma non mostri interesse per gli uomini. Ti pavoneggi in città agendo tu stessa come un uomo. Per forza la gente immagina che tu sia... strana.» «Malta, questo è scortese e falso» disse con fermezza Ronica. C'erano due macchie di colore in cima alle guance. «Althea non è troppo vecchia per il matrimonio. Sai molto bene che negli ultimi tempi Grag Tenira ha espresso più che un interesse passeggero per lei.» «Oh, lui. Sappiamo tutti molto bene che i Tenira hanno espresso un interesse anche maggiore nella possibilità che i Vestrit influenzino il Concilio di Borgomago. Sin da quando hanno cominciato quella futile manifestazione di sfida al molo della dogana del Satrapo, stanno tentando di arruolare altri...» «Non è futile. Il principio dell'autorità di Borgomago è in pericolo, anche se non mi aspetto che tu capisca. I Tenira sfidano le tariffe del Satrapo perché sono illegali e ingiuste. Comunque dubito che tu abbia l'intelligenza per comprenderlo, e io non ho intenzione di passare la giornata ad ascoltare bambini che balbettano di questioni più grandi di loro. Mamma, buon pomeriggio.» A testa alta, il volto teso dalla rabbia, Althea se ne andò. Malta ascoltò i suoi passi svanire nel corridoio. Giocherellò sconsolata con le carte sulla scrivania, rompendo il silenzio nella stanza. «Perché lo hai fatto?» le chiese con calma sua nonna. Non c'era vera rabbia nella voce, piuttosto una piatta curiosità. «Non ho fatto niente» protestò Malta. Prima che Ronica potesse obiettare, chiese: «Perché Althea può dichiarare all'improvviso che è stanca del nostro lavoro e andarsene in città? Se ci provassi io...»
«Althea è più grande di te. E più matura. È abituata a prendere le sue decisioni. Ha rispettato la sua parte dell'accordo. Ha vissuto quietamente e in modo rispettoso, non ha...» «E allora perché le dicerie?» «Io non ne ho sentita nessuna.» Sua nonna raccolse il cesto ora vuoto e la brocca. Mise il vaso di fiori freschi al centro della tavola. «Per adesso ne ho abbastanza di te, penso» dichiarò. «Buon pomeriggio, Malta.» Come prima, non c'era rabbia nella sua voce, solo una strana indifferenza, e una specie di disperazione. Sul viso aveva un'espressione di disgusto. Si girò e si allontanò dalla ragazzina senza un'altra parola. Quando sua nonna fu dietro l'angolo ma non del tutto fuori portata, Malta parlò ad alta voce. «Mi odia. Quella vecchia mi odia. Oh, spero che papà torni presto. Lui metterà tutto a posto in fretta.» I passi di Ronica Vestrit non esitarono neppure. Malta si afflosciò sulla sedia. Spinse via il tè troppo dolce. Tutto era così noioso da quando Reyn era partito. Non riusciva neanche a far litigare le sue parenti. La noia la faceva impazzire. Ultimamente si era trovata a provocare chi le stava attorno solo per vedere la reazione. Le mancava l'entusiasmo e l'importanza della visita di Reyn. I fiori erano da tempo appassiti, i dolci erano stati mangiati. A parte il segreto patrimonio di gingilli che Reyn le aveva fatto avere di nascosto, era come se non fosse mai venuto a trovarla. A che serviva un corteggiatore che abitava lontano? Sentì di essere precipitata di nuovo in un pozzo di banalità. Ogni giorno era pieno di lavoro e commissioni. Sua nonna la tormentava di continuo perché fosse all'altezza delle aspettative di famiglia, mentre la zia Althea poteva fare qualunque cosa. Il punto era sempre quello. Fare ciò che sua madre e sua nonna volevano. Essere un burattino attaccato ai loro fili. Anche Reyn voleva da lei la stessa cosa. Forse non se n'era accorto, ma lei sì. Non era attratto da lei solo per la sua bellezza e il suo fascino, ma perché era giovane. Pensava di poter controllare tutte le sue azioni e i suoi pensieri. Avrebbe scoperto che si sbagliava. Tutti avrebbero scoperto che si sbagliavano. Si alzò dalla tavola dove stava cercando di far quadrare i conti e vagò verso la finestra. Guardò i giardini disordinati e inselvatichiti. Althea e sua nonna trafficavano qua e là, ma ci voleva un vero giardiniere e almeno una dozzina di assistenti per tenerli bene. Alla fine dell'estate sarebbero stati del tutto incolti se le cose continuavano così. Non sarebbe successo, certo. Suo padre sarebbe tornato molto prima, con le tasche piene di soldi. A-
vrebbe messo a posto tutto. Ci sarebbero stati di nuovo servitori, e buon cibo e vino. Sarebbe tornato da un giorno all'altro, ne era sicura. Strinse i denti ripensando alla conversazione udita a tavola la sera prima. La mamma aveva espresso ad alta voce la sua preoccupazione per il fatto che la nave fosse in ritardo. La zia Althea aveva aggiunto che al porto non c'erano notizie di Vivacia. Nessuna delle navi arrivate a Borgomago l'aveva vista. La mamma aveva detto che forse Kyle aveva scelto di aggirare Borgomago e portare il carico direttamente a Chalced. «Neppure le navi provenienti da Chalced l'hanno vista» aveva riferito cupa Althea. «Mi chiedo se avesse intenzione di tornare a Borgomago. Forse da Jamaillia è andato dritto a sud.» Aveva parlato con prudenza, fingendo di non voler offendere nessuno. La mamma, tranquilla ma decisa, aveva detto: «Kyle non lo farebbe.» Dopo di ciò la zia Althea era rimasta in silenzio. Aveva ucciso la conversazione. Malta cercava disperatamente una distrazione. Forse quella sera avrebbe usato la scatola dei sogni. L'eccitazione del sogno proibito condiviso la allettava. Nell'ultimo sogno si erano baciati. Un altro sogno si sarebbe fermato a un bacio? Lei voleva che andasse oltre? Rabbrividì. Reyn le aveva detto di aspettare dieci giorni dopo la sua partenza e poi usarla. Ormai doveva essere tornato a casa. Malta non aveva eseguito. Il suo corteggiatore era stato troppo convinto che lo avrebbe fatto. La ragazza desiderava usare la scatola, ma non poteva. Reyn doveva aspettare e chiedersi perché non si faceva sentire. Doveva scoprire che lei non era il suo burattino. Era una lezione che Cerwin aveva imparato bene. Malta sorrise lievemente. Nel polsino della manica aveva l'ultimo messaggio di Cerwin che la implorava di incontrarlo quando e dove poteva. Prometteva che le sue intenzioni erano puramente onorevoli. Avrebbe portato con sé sua sorella Delo, così la reputazione di Malta non sarebbe stata compromessa. Il pensiero che fosse data a quell'uomo delle Giungle della Pioggia lo faceva impazzire. Da sempre sapeva che lei doveva essere sua. Per favore, per favore, per favore, se nutriva un qualche sentimento per lui, doveva incontrarlo e discutere cosa fare per prevenire quella tragedia. Malta aveva imparato a memoria il messaggio. Era una bella composizione di neri tratti di penna su carta cremosa e spessa. Delo l'aveva consegnata il giorno prima quando era venuta a trovarla. Il sigillo di cera, stampato con il salice dei Trell, era intatto. Tuttavia gli occhi spalancati di Delo e le maniere furtive avevano rivelato che era a conoscenza del contenuto.
Rimasta sola con lei, Delo aveva confidato che non aveva mai visto suo fratello così turbato. Da quando aveva guardato Malta ballare fra le braccia di Reyn, non riusciva a dormire. Piluccava il cibo. Aveva rinunciato anche a giocare d'azzardo con gli amici. Trascorreva lunghe sere fino alle prime ore del mattino seduto da solo accanto al fuoco dello studio. Suo padre stava diventando molto impaziente con lui. Lo aveva accusato di essere pigro, e aveva dichiarato che non aveva diseredato il figlio maggiore affinché il più giovane diventasse un nullafacente come il primo. Delo non ce la faceva più. Di certo Malta poteva dare a suo fratello un po' di speranza. Malta ripeté la scena nella mente. Aveva guardato in lontananza. Una minuscola lacrima era apparsa nel suo occhio ed era corsa lungo la guancia. Aveva detto a Delo che temeva che non ci fosse molto da fare. Ci aveva pensato sua nonna. Ora non era altro che un gingillo luccicante da vendere al miglior offerente. Faceva del suo meglio per prendere tempo finché suo padre non tornava a casa. Era sicura che lui avrebbe preferito vederla fra le braccia di un uomo che amava, non uno che era semplicemente il più ricco. Poi aveva dato a Delo un messaggio per Cerwin. Non osava metterlo per iscritto: doveva affidarsi all'onore della sua migliore amica. Lo avrebbe incontrato da solo a mezzanotte al chiosco dopo la quercia coperta di edera, in fondo al giardino di rose. Era per quella sera. Malta non aveva ancora deciso se si sarebbe presentata all'appuntamento. Una notte d'estate passata sotto una quercia non avrebbe fatto male a Cerwin. Né a Delo. Più tardi poteva sempre spergiurare che non era riuscita a sfuggire alle sue guardiane. Forse avrebbe aumentato il senso di urgenza di Cerwin. «La parte peggiore è che ha spirito, e intelligenza. La guardo e penso: se non fosse stato per mio padre, sarei così anch'io. Se non mi avesse portato per mare, se fossi stata costretta a stare a casa ed essere soffocata da quello che è 'appropriato e corretto per una ragazza', forse mi sarei ribellata allo stesso modo. Penso che mia madre e mia sorella sbaglino nel permetterle di vestire e comportarsi come una donna cresciuta, ma non è di certo una bambina. Ha deciso di andare contro tutti, e non apre gli occhi per vedere che siamo una famiglia e dobbiamo agire insieme. È così occupata a difendere l'ideale perfetto di suo padre che non si accorge neppure dei nostri altri problemi. Quanto a Selden, è quasi scomparso. Vaga per casa come un topolino e non fa altro che bisbigliare, tranne quando fa i capricci. Allora gli danno dolci e gli dicono di correre a giocare perché sono occupate.
Malta dovrebbe aiutarlo con le lezioni, ma lo fa sempre piangere. Io non ho tempo per lui, neanche se sapessi di cosa ha bisogno un ragazzo della sua età.» Althea scosse la testa, esasperata, ed emise un sospiro sibilante. Alzò gli occhi dal tè che mescolava metodicamente e incontrò lo sguardo di Grag. Il giovane le sorrise. Erano seduti a un tavolino fuori da una panetteria di Borgomago. Lì, in vista di tutti, non avevano bisogno di temere i pettegolezzi che sarebbero altrimenti sorti se si fossero incontrati da soli. Althea aveva trovato Grag per strada mentre andava alla bottega di Ambra. Lui l'aveva convinta a prendere un rinfresco. Quando le aveva chiesto cosa l'avesse sconvolta tanto da uscire di casa senza cappellino, Althea lo aveva sommerso con gli eventi della mattina. Ora si vergognava un poco. «Mi dispiace. Mi inviti a prendere il tè e tutto quello che faccio è lagnarmi di mia nipote. Non può essere un discorso piacevole. Né dovrei parlare così della mia famiglia. Ma quella Malta! So che entra in camera mia quando non sono a casa. So che fruga nelle mie cose. Ma...» Tardivamente, Althea frenò la lingua. «Non dovrei lasciarmi agitare tanto da quella piccola sfacciata. Ora capisco perché mia madre e mia sorella hanno accettato questo corteggiamento così presto. Potrebbe essere la nostra unica opportunità di sbarazzarci di lei.» «Althea!» Grag la rimproverò con un sorriso. «Sono sicuro che non lo farebbero.» «No. In realtà hanno in mente i migliori interessi di tutti. Mia madre mi ha detto chiaramente che si aspetta che Reyn rinunci al corteggiamento quando conoscerà meglio Malta.» Althea emise un sospiro. «Se fosse per me, mi sbrigherei a farli sposare prima che lui capisca.» Grag alzò un dito dal tavolo e le toccò audacemente il dorso della mano. «No, non lo faresti» assicurò. «Non sei così meschina.» «Ne sei sicuro?» lo stuzzicò lei con dolcezza. Grag sgranò gli occhi azzurri in finto orrore. «Oh, parliamo di qualcos'altro» decise Althea. «Qualsiasi cosa sarebbe più piacevole. Dimmi come va la vostra battaglia. Il Concilio ha accettato di ascoltarvi?» «Il Concilio di Borgomago è stato un oppositore più caparbio degli ufficiali del Satrapo. Ma sì, finalmente li abbiamo convinti. Ci ascolteranno domani sera.» «Ci sarò» promise Althea. «Vi sosterrò come posso. E farò del mio meglio per portare anche mia madre e mia sorella.»
«Non sono sicuro che servirà, ma sarò contento di farmi ascoltare. Non so cosa deciderà di fare mio padre.» Grag scosse la testa. «Finora ha rifiutato tutti i compromessi. Non pagherà e non vuole promettere di pagare più tardi. Stiamo fermi lì, a pieno carico, i commercianti lo aspettano, la dogana non ci lascia andare, mio padre non paga, e nessun altro Mercante di Borgomago ci appoggia. Ci sta danneggiando, Althea, e molto. Se questa situazione va avanti a lungo, potrebbe spezzarci.» Si interruppe all'improvviso, scuotendo la testa. «Non hai bisogno di altre preoccupazioni e cattive notizie. Ne hai già abbastanza. Ma qualche buona notizia c'è, lo sai. La tua amica Ambra ha finito con le mani di Ophelia, e i risultati sono magnifici. È stata dura per Ophelia. Anche se dice di non sentire il dolore come noi, io avverto disagio e perdita quando...» La voce di Grag si spense. Althea non insisté. Rivelare ciò che Grag divideva con il veliero vivente poteva essere troppo intimo. Il dolore sordo che provava per la separazione da Vivacia si acutizzò in una fitta improvvisa di isolamento. Strinse le mani in grembo per un momento, allontanando l'ansia con risolutezza. Non poteva far niente finché Kyle non riportava a casa Vivacia. Se la riportava a casa. Keffria diceva che non avrebbe mai abbandonato lei e i bambini; Althea non la vedeva così. Quell'uomo aveva in mano una nave senza prezzo, un vascello che non aveva diritto a possedere. Se la portava a sud poteva agire come il suo legittimo padrone. Poteva arricchirsi senza responsabilità se non verso sé stesso. «Althea?» La ragazza trasalì, sentendosi colpevole. «Scusa.» Grag sorrise comprensivo. «Nella tua posizione sono sicuro che sarei in pensiero anch'io. Continuo a chiedere notizie a ogni nave che entra in porto. Temo che sia tutto quello che posso fare, per ora. Il mese prossimo, quando navigheremo di nuovo verso Jamaillia, chiederò notizie alle imbarcazioni che incontro.» «Grazie» gli disse Althea con calore. Poi, quando lo sguardo di Grag divenne troppo tenero, lo distrasse. «Ophelia mi manca. Se non avessi promesso alla mamma di comportarmi in modo più tradizionalista, sarei venuta a trovarla. L'unica volta che mi sono avventurata laggiù, le guardie delle tariffe del Satrapo mi hanno fermata. Per amore del decoro non ho fatto scene.» Sospirò, poi cambiò tono. «Così Ambra è stata capace di riparare le mani di Ophelia...» Grag appoggiò la schiena alla spalliera della sedia. Socchiuse gli occhi
nella luce del sole di pomeriggio. «Ha fatto ben di più. Ha dovuto rimodellarle per mantenere in proporzione le dita più sottili. Quando Ophelia ha espresso preoccupazione per i pezzi di legno magico rimossi, Ambra ha cominciato a mettere da parte ogni scarto in una scatola speciale. Non hanno mai lasciato il ponte di prua. La perdita di quei frammenti sembrava molto inquietante per Ophelia; sono rimasto sorpreso che qualcuno non di Borgomago potesse essere così sensibile all'angoscia della nave. Ambra è andata anche oltre. Dopo essersi consultata con Ophelia, ha ottenuto da mio padre il permesso di rimodellare i pezzi più grossi in un braccialetto per la nave. Li taglierà in fini verghe e sbarre e poi li fisserà insieme. 'Nessun altro veliero vivente in porto possiede gioielli simili, non solo fatti da una grande artista ma intagliati nel suo stesso legno magico.' Ophelia è in estasi.» Althea sorrise ma era ancora lievemente incredula. «Tuo padre permette ad Ambra di lavorare il legno magico? Pensavo che fosse proibito.» «È diverso» spiegò in fretta Grag. «Fa parte delle riparazioni. Ambra sta restituendo a Ophelia quanto più legno magico può. La mia famiglia ne ha discusso intensamente prima che mio padre desse il permesso. L'integrità di Ambra ha pesato molto nella nostra decisione. Non ha cercato di tenersi neanche uno scarto. L'abbiamo sorvegliata, sai, perché il legno magico è così raro e anche il più piccolo pezzo ha valore. È stata onorevole. Inoltre è stata straordinariamente disponibile nel completare tutto il lavoro a bordo della nave. Anche il braccialetto sarà intagliato là piuttosto che nella bottega di Ambra. Ha dovuto portare avanti e indietro un gran numero di attrezzi, il tutto travestita da schiava-prostituta.» Grag diede un altro morso al pasticcino e masticò pensierosamente. Ambra non aveva detto nulla ad Althea. La ragazza non fu sorpresa. Nella creatrice di perline c'erano abissi di riservatezza che lei non si aspettava mai di sondare. «È una persona straordinaria» osservò, rivolgendosi a sé stessa come a Grag. «Mia madre ha detto la stessa cosa» concordò Grag. «Incredibile. Mia madre e Ophelia sono sempre state molto vicine, sai. Erano amiche anche prima che lei sposasse mio padre. Quando ha saputo che Ophelia era stata ferita era disperata. Aveva molte riserve su una sconosciuta che veniva a lavorare sulle mani di Ophelia, ed era piuttosto irritata con mio padre per aver accettato senza prima consultare lei.» Althea sorrise con aria di intesa. Grag aveva minimizzato con noncuranza il leggendario temperamento di Naria Tenira. L'ufficiale le restituì un
bel sorriso. Per un istante lei scorse un marinaio spensierato piuttosto che il tradizionale Mercante di Borgomago che era il suo altro volto. A Borgomago, Grag era molto più consapevole della reputazione della sua famiglia e dell'etichetta della città. I suoi abiti da marinaio erano stati sostituiti da una giacca e pantaloni scuri e una camicia bianca. Le ricordavano il vestito formale di suo padre quando era a Borgomago. Lo faceva sembrare più vecchio, più serio e posato. Il cuore di Althea ebbe un piccolo soprassalto di interesse all'idea che un sorriso malizioso potesse ancora illuminargli il viso. Il mercante era un uomo interessante e rispettabile; il marinaio era affascinante. «Mia madre ha insistito per essere presente mentre Ambra lavorava sulle mani di Ophelia. La donna non ha obiettato, ma credo che fosse un po' offesa. Nessuno ama la diffidenza. È finita che lei e la mamma hanno parlato per ore mentre lei lavorava, di ogni tipo di argomento. Ophelia è intervenuta, naturalmente. Sai bene che non si può parlare da nessuna parte sul ponte di prua senza che dica la sua. Il risultato è stato sorprendente. Adesso la mamma osteggia violentemente la schiavitù. L'altro giorno ha fermato un uomo per strada. Una bambina dal volto tatuato gli portava i pacchetti. La mamma ha gettato per terra i pacchetti e gli ha detto che doveva vergognarsi a tenere una bambina così piccola lontana da sua madre. Poi l'ha portata a casa.» Grag apparve lievemente sconcertato. «Non so cosa ne faremo. È troppo spaventata per dire più di qualche parola di seguito, ma mia madre dice che non ha parenti a Borgomago. È stata strappata dalla famiglia e venduta, come un vitello.» La voce di Grag si intorbidì di emozione repressa. Un lato nuovo in lui. «Quell'uomo ha accettato che tua madre prendesse la bambina?» Grag ghignò di nuovo, ma c'era una venatura feroce. Un bagliore accese i suoi occhi. «Non con grazia. Comunque Lennel, il nostro cuoco, era con la mamma. Non è tipo da accettare che qualcuno interferisca con la signora. Lo schiavista è rimasto in mezzo alla strada a gridare minacce, ma non molto di più. Quelli che hanno assistito alla scena hanno riso o lo hanno schernito. Cosa farà? Andrà al Concilio della città a protestare che qualcuno ha rapito la bambina che lui aveva asservito illegalmente?» «No. Più probabilmente andrà al Concilio della città e appoggerà coloro che vogliono legalizzare a Borgomago una schiavitù che già esiste di fatto.» «Mia madre ha già dichiarato che quando il Concilio di Borgomago ascolterà le nostre lamentele contro i servitori del Satrapo, lei solleverà an-
che la questione della schiavitù. Intende chiedere che le nostre leggi contro la schiavitù siano rafforzate.» «Come?» chiese Althea amaramente. Grag la guardò. Con voce quieta disse: «Non lo so. Ma almeno dovremmo tentare. Abbiamo chiuso gli occhi troppo a lungo. Se gli schiavi credessero davvero che sosterremmo la loro libertà, così dice Ambra, non avrebbero tanta paura di ammettere che sono schiavi. I padroni li spingono a credere che saranno torturati a morte se sfidano il loro volere e pretendono la libertà, e che nessuno interferirà.» Althea sentì una freddezza terribile crescere in lei, Pensò alla bambina che Naria aveva salvato. Temeva ancora tortura e morte? Cosa si diventava crescendo sotto una tale ombra? «Ambra ritiene che se li sostenessimo davvero insorgerebbero e si affrancherebbero dalla schiavitù. In numero superano di molto i padroni. Dice anche che se Borgomago non agisce presto per ripristinare la giusta libertà ci sarà una sanguinosa ribellione che rovinerà la città intera.» «O li aiutiamo a riavere presto la libertà, quindi, o saremo tutti distrutti quando se la prenderanno.» «Più o meno.» Grag alzò il boccale di birra e la sorseggiò pensierosamente. Dopo un lungo momento, Althea emise un sospiro. Bevve un altro sorso di tè e guardò lontano. «Althea, non essere così infelice. Stiamo facendo tutto il possibile. Ci presenteremo al Concilio domani sera. Forse potremo farli ragionare sia sulle tariffe del Satrapo che sulla schiavitù a Borgomago.» «Forse hai ragione» concordò cupa Althea. Non gli disse che non stava pensando alla schiavitù o alle tariffe. Stava guardando il bel giovane di buon cuore seduto di fronte a lei, e aspettava. Aspettava invano. Provava solo amicizia affettuosa. Sospirò, chiedendosi perché un uomo decoroso e rispettabile come Grag Tenira non le facesse fremere il cuore e i sensi come Brashen Trell. Brashen quasi si presentò alla porta posteriore. Poi un residuo di antico orgoglio lo fece andare all'ingresso principale e suonare la campanella. Rifiutò di guardarsi mentre aspettava. Non era lacero, né sporco. La camicia di seta gialla era della qualità più eccellente, come la sciarpa alla gola. I pantaloni blu scuri e la giacchetta corta avevano visto tempi migliori, ma il lavoro del proprio ago non portava mai vergogna a un buon marinaio. Se la
stoffa e il taglio erano più adatti ai pirati delle isole che al figlio di un Mercante di Borgomago, ebbene... in quei giorni Brashen Trell era probabilmente più l'uno che l'altro. C'era una piccola bruciatura di cindin all'angolo della bocca: si era addormentato mentre ne faceva uso, ma i baffi che portava adesso ne nascondevano la maggior parte. Un sorrisetto apparve e scomparve sul suo viso. Se Althea si avvicinava abbastanza da scorgerlo, dubitava che avrebbe pensato a quello. Le sue orecchie acute udirono il leggero fruscio dei piedi di una domestica nel corridoio. Si tolse il berretto. Una giovane donna ben messa gli aprì la porta. Lo guardò dalla testa ai piedi, disapprovando palesemente i suoi abiti vistosi, e ricambiò il suo sorriso allegro con uno sguardo indignato. «Desiderate qualcosa?» chiese altezzosa. Brashen le strizzò l'occhio. «Potrei desiderare un saluto più cortese, ma dubito che lo otterrei. Sono qui per vedere Althea Vestrit. Se non è disponibile, gradirei incontrare Ronica Vestrit. Ho notizie che non possono aspettare.» «Davvero? Bene, temo che dovranno aspettare, perché nessuna delle due è in casa. Buona giornata.» Il tono della voce disse chiaramente che non gli augurava affatto una buona giornata. Brashen avanzò in fretta per afferrare l'orlo della porta prima che si chiudesse. «Ma Althea è tornata?» insisté. Aveva bisogno di sentirselo dire. «È a casa da settimane. Lascia andare la porta!» sputò la ragazza. Il cuore di Brashen ebbe un soprassalto di sollievo. Althea era a casa, al sicuro. La domestica stava ancora trascinando la porta cui era aggrappato. Decise che non era più il momento della diplomazia. «Non me ne vado. Non posso. Ho notizie importanti. Non mi lascio scoraggiare dai capricci di una domestica. Fammi entrare subito, o le tue padrone saranno molto seccate con te.» La piccola domestica indietreggiò di un passo, senza fiato. Brashen colse l'opportunità di avanzare nell'ingresso. Gettò uno sguardo attorno, aggrottando le sopracciglia per quello che vide. Quell'ingresso era sempre stato l'orgoglio del capitano. Era ancora bello pulito, ma il legno e l'ottone non luccicavano più. Gli mancavano i caldi profumi di cera vergine e olio. Scorse addirittura filamenti di una ragnatela lassù in un angolo. Non ebbe tempo di vedere altro. La ragazza batté indignata il piedino. «Non sono una domestica, razza di
spazzatura da porto. Sono Malta Haven, figlia di questa famiglia. Porta il tuo puzzo fuori da casa mia, di grazia.» «Non finché non avrò visto Althea. Aspetterò quanto è necessario. Mettimi dove vuoi, starò seduto buono e baderò alle mie maniere.» Guardò più da vicino la ragazza. «Sei proprio Malta! Chiedo scusa, non ti avevo riconosciuta. L'ultima volta che ti ho vista portavi una veste da bambina.» Tentò di fare ammenda per la cantonata. Le sorrise. «Mamma mia, oggi hai un aspetto splendido! Stai giocando a prendere il tè con le tue amiche?» Il tentativo di cordialità disarmante fu un disastro. La ragazza sbarrò gli occhi e sollevò il labbro superiore in un ghigno di disprezzo. «Chi sei, marinaio, per osare parlarmi con tanta familiarità in casa di mio padre?» «Brashen Trell. Un tempo primo ufficiale del capitano Vestrit. Chiedo scusa per non averlo detto subito. Porto notizie del veliero vivente Vivacia. Ho bisogno di vedere subito tua zia o tua nonna. O tua madre. È in casa?» «No. Lei e la nonna sono andate in città, per discutere la semina di primavera. Torneranno più tardi. Althea è fuori a fare qualunque cosa attualmente la diverta. Solo Sa può dire quando le verrà in mente di tornare. Comunque, puoi riferire a me. Perché la nave è così in ritardo? Mancherà ancora molto?» Brashen maledisse la propria stupidità. La prospettiva di vedere Althea gli aveva fatto dimenticare in parte la gravità delle notizie. Guardò la ragazza davanti a lui. Veniva a riferire che la nave di famiglia era stata presa dai pirati. Non sapeva dirle se suo padre era ancora vivo. Non erano notizie da rivelare a una bambina a casa da sola. Desiderò ardentemente che avesse mandato un domestico ad aprirgli la porta. Desiderò ancor di più di aver avuto il buon senso di frenare la lingua finché non poteva parlare con un adulto. Si morse il labbro, poi fremette quando tirò con i denti la piaga del cindin. «Penso che faresti meglio a mandare un ragazzo in città, per chiedere a tua nonna di tornare subito a casa. Sono notizie che dovrebbe ricevere lei per prima.» «Perché? Qualcosa non va?» Per la prima volta la ragazza parlò con la propria voce, non nella parodia di un adulto. Stranamente sembrò più matura. La paura improvvisa nella voce e nello sguardo andò dritta al cuore di Brashen. Il giovane rimase senza parole. Non voleva mentirle. Non voleva opprimerla con la verità quando sua madre o sua nonna non erano presenti per aiutarla ad assorbire il colpo. Si rigirò il berretto fra le mani. «Penso che faremmo meglio ad aspettare che ci sia un adulto» suggerì con fermezza. «Credi di poter man-
dare un ragazzo a cercare la mamma o la nonna o la zia?» La bocca della ragazza si torse, e Brashen vide la sua paura diventare quasi rabbia. I suoi occhi lampeggiarono di furia mentre rispondeva secca: «Manderò Rache. Aspetta qui.» Con quell'ordine si allontanò a passi decisi e lo lasciò sulla soglia. Brashen si chiese perché non avesse semplicemente chiamato un servitore per portare il messaggio. Aveva anche aperto la porta di persona. Mosse alcuni passi nella stanza un tempo familiare e gettò uno sguardo nel corridoio. I suoi occhi attenti colsero anche lì piccoli segni di negligenza. Ripensò al viale che aveva percorso, sparso di rami rotti e foglie secche. I gradini non erano spazzati. La famiglia Vestrit era in cattive acque, o era solo che Kyle era avaro? Aspettò inquieto. Forse le cattive notizie che portava erano molto più gravi di quanto pensasse. Forse la cattura del vascello di famiglia sarebbe stata la loro rovina. Althea, pensò con forza, come se avesse potuto evocarla con la sua volontà. La Vigilia di Primavera era ancorata nel porto di Borgomago. Erano arrivati quel giorno stesso. Appena ormeggiata la nave, Finney aveva spedito a riva Brashen, supponendo che andasse a contattare un acquirente per il meglio del bottino. Invece lui era andato diritto a casa Vestrit. Il ritratto della Vivacia era a bordo della Vigilia di Primavera, muta prova che le notizie erano vere. Dubitava che avrebbero chiesto di vederlo, sebbene Althea avrebbe di certo voluto riaverlo. Brashen non sapeva quali fossero al momento i sentimenti della ragazza per lui, ma avrebbe saputo che non era un bugiardo. Tentò di allontanare il pensiero di Althea, ma la mente rifiutò di abbandonare l'argomento. Cosa pensava di lui? Perché la sua opinione era così importante? Perché sì. Perché Brashen voleva che pensasse bene di lui. Non si erano lasciati da amici, e se ne era pentito fin da subito. Non credeva che Althea gli avrebbe rinfacciato la sua rozza battuta d'addio. Lei non era così; non era una femmina spocchiosa che si offendeva a morte per uno stupido scherzo. Chiuse gli occhi per un momento e quasi pregò di avere ragione. Lui pensava più che bene di Althea. Si cacciò le mani in tasca e passeggiò per l'atrio. Nella bottega di Ambra, Althea faceva scorrere distrattamente le mani in un cesto di perline. Ne pescò una a caso e la guardò. Una mela. Poi una pera, e un gatto, con la coda avvolta attorno al corpo. Sulla porta Ambra salutò il suo cliente, promettendo che per l'indomani a quell'ora avrebbe
infilato in una collana le perline da lui scelte. Mentre la porta si chiudeva dietro l'uomo, Ambra fece risuonare una manciata di perline in un cestello e poi cominciò a rimettere sulle mensole le merci rifiutate. Althea andò ad aiutarla, e Ambra riprese la loro conversazione. «Dunque Naria Tenira affronterà il Concilio di Borgomago sulla schiavitù? È questo che sei venuta a dirmi?» «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sapere quanto ti ha trovato persuasiva.» Ambra sorrise, lieta. «Lo sapevo già, naturalmente. Naria me lo ha detto. L'ho scandalizzata dicendo che vorrei poter partecipare.» «Le riunioni sono solo per i Mercanti» protestò Althea. «Lei ha detto la stessa cosa» rispose affabile Ambra. «È questo che ti ha portata qui così in fretta?» Althea alzò le spalle. «È parecchio che non ti vedo. E non ce la facevo a tornare ai conti o a Malta. Un giorno o l'altro, Ambra, scrollerò quella ragazza fino a farle battere i denti. È così insopportabile.» «In realtà sembra molto simile a te.» Allo sguardo oltraggiato di Althea, Ambra corresse: «A te come saresti stata se tuo padre non ti avesse portata per mare.» Althea osservò con riluttanza: «A volte mi chiedo se mi ha davvero fatto un favore.» Toccò ad Ambra essere sorpresa. «Vorresti che fosse andata diversamente?» chiese piano. «Non lo so.» Althea si passò le mani fra i capelli, turbata. La donna la guardò divertita. «Non interpreti più il ruolo di un ragazzo. Meglio rimettere in ordine la confusione che hai appena fatto.» Althea gemette e si ravviò i capelli. «No. Ora interpreto il ruolo di una donna di Borgomago. È ugualmente falso per me. Ecco. Va bene, adesso?» Ambra si sporse attraverso il banco e le rimise a posto una ciocca di capelli. «Ecco. Così va meglio. Falso come?» Althea si morse il labbro per un momento. Poi scosse la testa. «Falso in tutti i sensi. Mi sento intrappolata in questi vestiti; devo camminare in un certo modo, sedermi in un certo modo. Riesco a malapena a toccarmi la testa senza sentire le maniche che tirano. Gli spilloni nei capelli mi fanno venire mal di testa. Devo parlare secondo il protocollo corretto. Anche stare qui, chiacchierare in confidenza nel tuo negozio, è potenzialmente scandaloso. Ma la cosa peggiore è fingere di volere cose che in realtà non voglio.» Fece una breve pausa. «A volte quasi mi convinco che le voglio»
aggiunse confusa. «Se potessi volerle, la vita sarebbe più facile.» La creatrice di perline non rispose subito. Raccolse i cestini. Althea la seguì fino a una nicchia nel retro del negozio. Ambra lasciò cadere una tenda ticchettante di perline intagliate per schermarle da sguardi vaganti. Sedette su uno sgabello alto a un tavolo da lavoro. Althea prese una sedia. I braccioli recavano le tracce degli intagli distratti di Ambra. «Cos'è che non vuoi?» chiese gentilmente la più anziana mentre cominciava a disporre le perline sulla tavola davanti a sé. «Non voglio tutte le cose che vorrebbe una vera donna. Me lo hai fatto capire tu. Non sogno bambini e una bella casa. Non voglio una dimora fissa, e una famiglia che cresce. Non sono neanche sicura di volere un marito. Oggi Malta mi ha accusato di essere strana. Mi ha fatto più male di tutti i suoi altri insulti. Perché è vero. Suppongo di essere strana. Non voglio le cose che una donna dovrebbe volere.» Si strofinò le tempie. «Dovrei volere Grag. Voglio dire... io voglio Grag. Mi piace. Apprezzo la sua compagnia.» Fissò la porta aggiungendo più onestamente: «Quando mi tocca la mano, mi scalda. Ma quando considero di sposarlo e tutto ciò che ne seguirebbe...» Scosse la testa. «Non è quello che voglio. Mi costerebbe troppo. Anche se forse sarebbe saggio.» Ambra non disse niente. Stava tirando fuori pezzi di metallo e distanziatori di legno. Misurò molte lunghezze di lucente filo serico, e poi cominciò ad annodarle insieme in una corda. «Non lo ami» suggerì. «Potrei amarlo. Non me lo concedo. È come volere qualcosa che non ci si può permettere di comprare. Non c'è ragione di non amarlo, ma c'è così tanto... legato a lui. La sua famiglia. La sua eredità. La sua nave, la sua posizione nella comunità.» Althea sospirò di nuovo e apparve infelice. «Lui è meraviglioso. Ma non posso spingermi a rinunciare a tanto per amarlo.» «Ah» disse Ambra. Infilò una perlina nella cordicella tessuta e la annodò. Althea seguì un vecchio intaglio sul bracciolo della sedia. «Lui ha le sue aspettative. Non includono me al comando del mio veliero vivente. Vorrebbe che mi sistemassi e gestissi i suoi affari. Gli preparerei una casa a cui tornare, alleverei i nostri bambini e terrei la famiglia in ordine.» Aggrottò la fronte sugli occhi scuri. «Farei il necessario perché potesse navigare preoccupandosi solo della nave.» L'amarezza entrò nella sua voce. «Farei tutto ciò che gli permetterebbe di vivere la vita che vuole.» Disse le successive parole con tristezza. «Se decido di amare Grag, di sposarlo, mi
costerebbe tutto ciò che ho mai voluto fare della mia vita. Dovrei abbandonare tutto per amarlo.» «E non è quello che vuoi fare della tua vita?» chiese Ambra. Un sorriso amaro torse la bocca di Althea. «No. Non voglio essere il vento nelle sue vele. Voglio che qualcun altro lo sia per me.» All'improvviso sedette diritta. «Quello è... Non suonava giusto. Non mi sto esprimendo molto bene.» Ambra alzò lo sguardo dal suo lavoro per sorriderle. «Al contrario, penso che tu sia a disagio solo perché lo hai affermato così chiaramente. Vuoi un compagno che segua il tuo sogno. Non vuoi abbandonare le tue ambizioni per rendere possibile la vita di qualcun altro.» «Suppongo che sia vero» ammise Althea con riluttanza. Un istante più tardi chiese: «Perché è così sbagliato?» «Non lo è» le assicurò Ambra. Un attimo dopo aggiunse perfidamente: «Purché tu sia un maschio.» Althea si appoggiò indietro sulla sedia e incrociò le braccia, ostinata. «Non posso farci nulla. È quello che voglio.» Quando Ambra non aggiunse niente, lei disse, quasi con rabbia: «Non tentare di dirmi che è questo l'amore, rinunciare a tutto per qualcun altro!» «Ma per alcuni lo è» indicò Ambra inesorabile. Legò un'altra perlina nella collana, poi la sollevò per guardarla criticamente. «Altri sono come due cavalli aggiogati, che tirano insieme verso una meta.» «Suppongo che quello non sarebbe così male» concesse Althea. La fronte aggrottata diceva che non lo credeva del tutto. «Perché le persone non possono amarsi e rimanere libere?» chiese all'improvviso. Ambra fece una pausa per strofinarsi gli occhi, poi si tirò pensierosamente un orecchino. «Si può» concesse con rimpianto. «Ma il prezzo di quel genere di amore può essere il più alto di tutti.» Infilò le parole con la stessa attenzione che usava per le perline. «Per amare così, devi riconoscere che la vita dell'altro è importante quanto la tua. Ancora più difficile, devi riconoscere a te stessa che forse lui ha necessità che tu non puoi soddisfare, e che tu hai compiti che ti porteranno lontano da lui. Costa solitudine, e desiderio insoddisfatto, e dubbio e...» «Perché amare deve avere un prezzo? Perché il bisogno deve essere mescolato all'amore? Perché le persone non possono essere come le farfalle, che si uniscono nella brillante luce del sole e si separano mentre il giorno è ancora brillante?» «Perché sono persone, non farfalle. Fingere di potersi unire, amarsi e poi
separarsi senza dolore o conseguenze è più falso che fingere di essere l'irreprensibile figlia di un Mercante.» Mise giù le perline e incontrò lo sguardo di Althea. Parlò schiettamente. «Per favore, non convincerti di poter andare a letto con Grag Tenira e poi allontanarti da lui senza sminuire entrambi. Un momento fa hai parlato di amore senza bisogno. Saziare il bisogno senza amore è furto. Se è questo che vuoi, paga qualcuno. Ma non rubarlo a Grag sotto la pretesa che siete liberi. Adesso conosco Grag Tenira. Non può darti questo, non così.» Althea incrociò le braccia. «Non ci stavo pensando.» «Invece sì» asserì Ambra, ora guardando le perline. «Tutti ci pensiamo. Questo non lo rende giusto.» Girò il lavoro e cominciò un nuovo schema di nodi. Nel silenzio aggiunse: «Quando vai a letto con qualcuno c'è sempre un impegno. A volte l'impegno è solo di fingere entrambi che non ha importanza.» I suoi occhi dallo strano colore trattennero quelli di Althea per un momento. «A volte l'impegno è solo verso te stessa. L'altra parte non lo sa o non lo accetta.» Brashen. Althea si spostò a disagio sulla sedia. Perché doveva sempre pensarci in momenti così inopportuni? Ogni volta che credeva di averlo estirpato dalla memoria, quell'interludio rispuntava. La fece ancora adirare, ma non era più sicura di essere arrabbiata con Brashen. Spinse via quei pensieri. Ormai era fatta, una parte conclusa della sua vita. Poteva lasciarsela alle spalle Poteva coprirla con altre cose. «Amare non è solo sentirsi sicura dell'altra persona, sapendo quello che abbandonerebbe per te. E sapere con certezza quello che tu sei disposta ad abbandonare per lui. Non fraintendermi; ognuno dei due rinuncia a qualcosa. I sogni individuali vengono accantonati per un sogno condiviso. In alcuni matrimoni uno dei due rinuncia a quasi tutto ciò che pensava di volere. Ma non è sempre la donna che fa così. Tale sacrificio non è disonorevole. È amore. Se credi che l'altro ne valga la pena, funziona.» Rimase seduta per qualche momento, riflettendo. Poi Althea si inclinò in avanti all'improvviso per chiederle: «Pensi che se sposassi Grag cambierei idea?» «Ecco, qualcuno di certo dovrebbe farlo» rispose Ambra, filosofica. Brashen azzardò un altro sguardo nel corridoio. Dov'era la ragazza? Lo avrebbe lasciato lì finché il messaggero non tornava con sua madre? Aspettare era sempre duro per lui. Sorrise fra sé, e la prospettiva di vedere Althea gli alleggerì il cuore malgrado la gravità delle notizie che portava.
Avrebbe voluto anche solo un minuscolo pezzo di stecca di cindin per sostenerlo, ma l'aveva lasciata risolutamente sulla Vigilia di Primavera. Sapeva che Althea disapprovava il suo vizietto. Non voleva sembrarle il genere di uomo che doveva sempre portare la droga con sé: già la disprezzava abbastanza. Be', lui conosceva già tutti i difetti di Althea. La vicinanza lo aveva costretto a tollerarli per anni. Non importava. Era giunto a volerle bene, ed era più di una sola notte insieme. Quella notte lo aveva solo spinto ad ammettere quello che già provava. Per anni l'aveva vista quasi ogni giorno. Avevano spartito una birra o un pasto in molti porti, giocato d'azzardo insieme, riparato le vele insieme. Althea non lo trattava come il figlio in disgrazia di un Mercante di Borgomago. Lo trattava come un ufficiale prezioso, lo rispettava per la sua competenza e la sua capacità di comando. Era una donna, ma lui poteva parlarle, non solo per farle i complimenti sul vestito o paragonare i suoi occhi alle stelle. Non era una cosa rara? Vagò di nuovo a una finestra, guardò il viale. Un leggero rumore di piedi lo fece voltare. Era di nuovo Malta. Un po' viziata, se le storie di Althea erano vere. Lo guardò negli occhi e sorrise compita. Il suo comportamento era cambiato di nuovo. «Ho mandato un messaggero, come avete suggerito. Se volete seguirmi, posso offrirvi una tazza di caffè e una fetta di torta di questa mattina.» La voce modulata e aristocratica era quella di una giovane signora beneducata che lo accoglieva in casa sua. Gli ricordò le sue maniere. «Grazie. Lo apprezzerei molto.» Malta gli indicò il corridoio e lo sorprese prendendogli il braccio. Gli arrivava appena alla spalla. Ora Brashen notava il suo profumo, un olio floreale, forse violette. Saliva dai suoi capelli. La ragazza gli gettò uno sguardo attraverso le ciglia mentre la accompagnava lungo il corridoio. L'occhiata lo spinse a ricalcolare la prima impressione. Per il respiro di Sa, i bambini crescono in fretta. Non era stata compagna di giochi della piccola Delo? L'ultima volta che Brashen aveva visto la sua sorellina, era stata in disgrazia per aver infangato il vestitino. Non la vedeva da anni. Un peculiare senso di perdita lo assalì. Aveva perso ben più che casa e patrimonio quando suo padre lo aveva diseredato. Malta lo condusse in soggiorno. Un servizio da caffè e un piatto di pane della mattina erano già disposti su un tavolino affiancato da due comode sedie. La finestra aperta dava sul giardino. «Spero che qui starete comodo. Ho fatto il caffè. Spero che non sia troppo forte.» «Sono sicuro che andrà bene» disse Brashen, incerto. Provò una doppia
vergogna. Ecco che cosa aveva trattenuto Malta, e la famiglia Vestrit era davvero in cattive acque se una figlia della casa faceva il caffè e tagliava il pane per i visitatori. «Conosci mia sorella, vero?» sbottò all'improvviso. «Delo?» «Certo. Cara, dolce Delo. È la mia amica più intima.» Di nuovo quel sorriso. Malta gli indicò di prendere posto, e sedette di fronte a lui al tavolino che aveva preparato. Versò il caffè e gli servì il pane dolce coperto di semi. «Non la vedo da anni» si trovò ad ammettere Brashen. «No? Che peccato. È molto cresciuta, sapete.» Il sorriso mutò lievemente: «Conosco anche vostro fratello.» Brashen aggrottò la fronte al suo tono d'intesa. «Cerwin. Sta bene, spero.» «Suppongo di sì. Stava bene l'ultima volta che l'ho visto.» Emise un piccolo sospiro e distolse lo sguardo. «Non lo incontro spesso.» Era infatuata del giovane Cerwin? Brashen calcolò in fretta le età del fratello e della sorella in base alla sua. Bene. Probabilmente Cerwin aveva l'età per corteggiare le fanciulle. Eppure, se Delo e Malta erano coetanee, la ragazza sembrava piuttosto giovane per essere corteggiata. Cominciò a sentirsi un po' a disagio. Quell'ammaliatrice era bambina o donna? Malta mescolò il caffè, e in qualche modo fece in modo di fargli notare l'eleganza delle sue mani. Poi si tese verso il tavolino e si offrì di aromatizzare il suo caffè. Di certo non aveva inteso esporre tanta scollatura. Brashen distolse lo sguardo, ma il profumo lo raggiungeva ancora. Malta si riassestò sulla sedia. Prese il caffè, lo sorseggiò e poi allontanò una ciocca vagante di capelli dalla fronte liscia. «Conoscete mia zia Althea, credo.» «Sì. Abbiamo servito insieme... Sulla Vivacia, per molti anni.» «Certo.» «Così è tornata sana e salva a Borgomago?» «Oh, sì. È tornata con l'Ophelia. Il veliero vivente della famiglia Tenira, sapete.» I suoi occhi fissarono quelli di Brashen: «Grag Tenira è molto innamorato di lei. Borgomago è tutta un pettegolezzo. Non pochi sono sbalorditi all'idea della mia caparbia zia che all'improvviso dona il suo cuore a un giovane così tranquillo. Mia nonna, naturalmente, è entusiasta. Lo siamo tutti. Quasi avevamo rinunciato alla speranza di vederle fare un buon matrimonio e sistemarsi. Sono sicura che sapete cosa intendo.» Emise una risatina confidenziale, come se fossero parole che non avrebbe divi-
so con chiunque. Lo guardò da vicino, quasi per vedere meglio gli uncini delle sue parole che si conficcavano nel suo cuore e lo laceravano. «Un buon matrimonio» ripeté Brashen, stordito. Si trovò ad annuire come un pupazzo. «Tenira. Grag Tenira. Eh già. Sarebbe un buon matrimonio, voglio dire. E anche un buon marinaio.» Questo lo disse più a sé stesso. Era forse l'unica cosa che poteva attirare Althea. Ebbene, era bello, anche. Brashen lo aveva sentito chiamare bello. Inoltre non era diseredato e non aveva un'inclinazione per il cindin. Il pensiero gli fece bruscamente desiderare la droga, per distrarlo da quella sensazione nuova e sporca. Forse aveva il fondo di una stecca nella tasca della giacca, ma non poteva certo indulgere in un vizio da marinaio davanti a quella bambina di buona famiglia. «...altro pane, Brashen?» Colse solo le sue ultime parole. Gettò uno sguardo al piatto intatto. «No. No, grazie mille. È molto buono, però.» Diede un rapido morso al pane. Nella bocca asciutta la mollica piena di semi era come segatura. La mandò giù con un sorso di caffè, poi comprese che stava mangiando come un marinaio in cambusa. Malta si piegò attraverso il tavolino per sfiorargli il dorso di una mano con le dita affusolate. «Sembrate piuttosto stanco. Ero così sconvolta quando vi ho fatto entrare... Non vi ho ringraziato per essere venuto fin qui a portarci notizie della nave di mio padre. Arrivate da lontano, vero?» «Abbastanza» ammise Brashen. Si ritrasse e si strofinò le mani in grembo, come per cancellare il formicolio del suo tocco. Malta sorrise compiaciuta e distolse il viso. Il rossore le salì alle guance. Allora era consapevole di civettare, non era il tocco distratto di una bambina. Brashen si sentì assediato e confuso. C'erano troppe cose da tenere in considerazione. Gli venne l'acquolina al pensiero di un pezzo anche piccolo di cindin per schiarirsi la mente. Si costrinse invece a dare un altro morso al pane. «Sapete, vi guardo e mi chiedo come starebbe vostro fratello se si facesse crescere i baffi. I vostri mettono ben in evidenza la mascella e le labbra.» Brashen alzò una mano al viso per lisciarsi i baffi, imbarazzato. Le parole di Malta non erano appropriate, e neanche il modo in cui i suoi occhi seguirono quasi avidamente il movimento delle dita. Il giovane si alzò. «Forse dovrei ritornare più tardi questo pomeriggio. Per favore, di' loro di aspettarmi. Probabilmente avrei dovuto avvertire prima.» «Niente affatto.» La ragazza rimase seduta. Non si alzò per accompa-
gnarlo alla porta, non riconobbe il suo desiderio di andarsene. «Ho già mandato il messaggero. Sono sicura che torneranno presto. Vorranno avere subito notizie di mio padre e della nave.» «Ne sono sicuro» concordò rigido Brashen. Non riusciva a capire quella giovane donna che lo guardava con candore. Forse le sue parole erano state l'errore ingenuo di una bambina. Forse era stato troppo a lungo per mare. Si sedette con la schiena inflessibilmente diritta e tenne il berretto in grembo. «Allora le aspetterò. Sono sicuro di aver interrotto la tua giornata. Per favore, non sentirti in obbligo di farmi compagnia. Posso aspettare qui da solo.» Alle sue parole goffe, Malta emise una briosa risata. «Oh, no. Vi ho messo a disagio. Sono molto spiacente. Vi ho trattato con troppa confidenza. È che siete stato il primo ufficiale del caro nonno così a lungo, e vi considero quasi un parente. Inoltre, conoscendo Cerwin e Delo, naturalmente ho desiderato accogliere con calore il loro fratello.» La sua voce si abbassò drammaticamente. «È così tragico che non siate più benvenuto a casa vostra. Non ho mai capito precisamente cosa accadde tra voi e vostro padre...» Lasciò che le parole si spegnessero, invitando le sue confidenze. Vuotare il sacco sulla disputa di famiglia era l'ultima cosa che Brashen desiderasse fare. Non ricordava di essersi mai trovato in un situazione così imbarazzante. Un momento Malta era una bambina innocente che faceva del suo meglio per accogliere un'ospite in assenza dei grandi. Un attimo dopo era una tentatrice che giocherellava con lui. Le notizie di Brashen erano urgenti, e desiderava vedere Althea, ma più rimaneva e più si sentiva a disagio. Stava comprendendo con ritardo che forse tutta la situazione sarebbe sembrata sconveniente. All'apparenza era da solo con una giovane di buona famiglia. Conosceva padri e fratelli che avevano preteso un duello per offese minori. Si alzò di nuovo. «Devo andare, temo. Ho altri impegni. Ritornerò nel tardo pomeriggio. Per favore, porgi alla tua famiglia i miei saluti.» Malta non fece alcun tentativo di alzarsi. Brashen non aspettò. «È stato molto piacevole rivederti.» Si inchinò e si girò per andarsene. «Vostro fratello Cerwin non mi considera una bambina.» C'era una sfida in quelle parole. Con riluttanza Brashen si girò di nuovo. Malta non si era alzata, ma aveva gettato indietro la testa contro la sedia, scoprendo la colonna bianca della gola. Qualche ciocca di capelli si era sciolta, e lei la torceva attraverso le dita. Sorrise pigramente. «È dolce, come un gattino domestico. So-
spetto che voi siate più simile a una tigre.» Si mise la punta di un dito in bocca e la mordicchiò pensierosa. «Gli animali domestici possono essere creature così noiose» osservò. Brashen si scoprì all'improvviso il cuore di un probo figlio di Mercanti di Borgomago che gli batteva in petto sotto la casacca da pirata. Era scandalizzato fino in fondo all'anima. Non ci poteva essere errore nell'intonazione di Malta. La nipote del capitano Vestrit, nella sua casa, stava dirigendo su di lui le sue arti di seduzione. Era indecente. «Dovresti vergognarti» disse con onesta indignazione. Incurante dell'ansito sgomento di Malta, Brashen procedette per il corridoio fino alla porta principale. La aprì per uscire e si trovò a guardare le facce costernate di Ronica Vestrit e Keffria Haven. «Oh, grazie a Sa siete qui» esclamò, mentre Keffria chiedeva: «Chi siete e cosa fate in casa nostra?» Si guardò attorno freneticamente come per chiamare i domestici e cacciarlo via. «Brashen Trell» le disse in fretta il giovane, con un profondo inchino. «Porto notizie della Vivacia. Notizie urgenti e sgradevoli.» Le sue parole sconvolgenti afferrarono subito la loro attenzione. «Cosa c'è che non va?» chiese subito Keffria. «È successo qualcosa a Kyle? Avete notizie di mio figlio, di Wintrow?» «No» comandò Ronica Vestrit. «Non qui, entrate e sedetevi. Vieni, Keffria. Nello studio.» Brashen si fece da parte per permettere loro di precederlo. Parlò mentre le seguiva. «Vostra nipote Malta mi ha fatto entrare. Pensavo che il suo messaggero vi avesse preparato alle notizie.» Voleva chiedere se sarebbe arrivata anche Althea, ma trattenne la lingua. «Non abbiamo incontrato nessun messaggero» lo informò succintamente Ronica Vestrit. «Ma temevo che prima o poi qualcuno avrebbe bussato alla nostra porta e le notizie non sarebbero state buone.» Fece entrare Brashen e Keffria nello studio e chiuse con fermezza la porta. «Prendete una sedia, Trell. Cosa sapete? Non eravate sulla Vivacia; so che Kyle vi ha sostituito con un uomo scelto da lui. Quindi, perché venite a portarci questo messaggio?» Quanta verità le doveva? Se fosse stata Althea, seduta quietamente con lui davanti a un paio di birre, le avrebbe detto tutto, e le avrebbe permesso di giudicarlo come meglio credeva. Trafficare con i pirati era un crimine degno della forca, ed era proprio quello che faceva Brashen. Non avrebbe mentito; semplicemente non lo avrebbe detto.
«Vivacia è stata presa dai pirati.» Lasciò cadere le parole come un'ancora senza catene. Prima che le due donne potessero riprendersi abbastanza da tempestarlo di domande, aggiunse: «So poco più di questo. È stata vista nel porto di un insediamento di pirati, all'ancora. Non so che ne sia stato del capitano o dell'equipaggio. Mi dispiace dirvelo, e mi dispiace ancor di più dirvi che il pirata che l'ha presa è un certo capitano Kennit. Non so perché abbia attaccato la Vivacia. Ha la reputazione di un ambizioso giustiziere. Sogna di unire le Isole dei Pirati in un regno tutto suo. A questo scopo attacca le navi schiaviste. Si dice che uccida tutto l'equipaggio e liberi gli schiavi, per guadagnare il loro favore e quello di altri pirati che odiano la schiavitù come lui.» Non aveva più fiato. Mentre parlava, Keffria era sembrata divenire senza ossa, afflosciandosi sempre più nella poltrona come se le parole di Brashen avessero sottratto ogni vita dal suo corpo. Aveva alzato entrambe le mani a coprirsi la bocca, trattenendo un gemito di orrore. In contrasto, Ronica Vestrit, in piedi, sembrava diventata di legno. Il suo viso era raggelato in una smorfia di disperazione. Le vecchie mani afferravano lo schienale di una sedia come un pesce tra le grinfie di un uccello. Dopo un lungo momento trasse un respiro. Parlò in un bisbiglio che parve svuotarla. «Portate una richiesta di riscatto?» Brashen si vergognò. La vecchia era perspicace. Aveva visto il taglio dei suoi vestiti, e indovinava dove si era guadagnato da vivere. Pensava che fosse l'intermediario di Kennit. La vergogna lo bruciò, ma non poteva biasimarla. «No» disse solo. «So poco più di ciò che ho detto, e la metà sono dicerie e pettegolezzi.» Sospirò. «Non penso che ci sarà una richiesta di riscatto. Questo capitano Kennit sembra molto contento della sua preda. Sospetto che si terrà almeno la nave. Non so niente degli uomini che erano a bordo. Mi spiace.» Il silenzio che sgorgò sembrava gelato. Le notizie di Brashen avevano cambiato il corso delle loro vite. Con una ventina di parole aveva ucciso le. loro speranze. La nave non era solo in ritardo. Il capitano non sarebbe tornato a casa con i soldi per ripristinare le loro fortune. Anzi, tutto quello che rimaneva alla famiglia doveva essere sacrificato per un riscatto, se fossero stati abbastanza fortunati da ricevere una richiesta in tal senso. Le sue parole avevano rovinato la famiglia Vestrit. Avrebbero odiato il latore di quelle notizie. Aspettò che il temporale scoppiasse. Nessuna delle due pianse. Nessuna urlò, né lo accusò di mentire. Keffria seppellì il volto fra le mani. «Wintrow» disse molto piano. «Il mio bambi-
no.» Ronica invecchiò davanti ai suoi occhi: le spalle ricaddero, le linee si incisero più profondamente nel suo viso. Cercò a tentoni la sedia e vi si accasciò, con lo sguardo fisso. Un peso orribile di responsabilità calò su Brashen. Cosa si era aspettato? Brancolò in cerca di fantasie che andavano svanendo, in cui Althea, con occhi infuocati di rabbia, si rivolgeva a lui come a un amico per aiutarla a liberare la nave. Questa era la realtà. Aveva dato il colpo finale e devastante a una famiglia che un tempo lo aveva aiutato. Un improvviso schiamazzo, un rumore sordo, e poi la porta si spalancò. Althea entrò, spingendo una scarmigliata Malta che si dibatteva. «Keffria! Questa marmocchia stava origliando di nuovo. Sono stanca di vederla spiare e tramare. Non è degno di nessuno in questo famiglia... Brashen? Che ci fai qui? Che c'è, che succede?» Althea lasciò andare Malta così all'improvviso che la ragazza sedette con un tonfo sul pavimento. Althea lo fissò con occhi selvaggi, la bocca aperta come se lui le avesse dato un pugno nello stomaco togliendole il fiato. Brashen si alzò e fece un passo verso di lei. La storia venne tutta fuori. «La Vivacia è stata catturata dai pirati. L'ho vista all'ancora in una fortezza di pirati, con la bandiera del Corvo all'albero maestro. È Kennit. Sono sicuro che conosci la sua reputazione. Si dice che uccida tutti su ogni nave schiavista che cattura. Non conosco il fato dell'equipaggio.» Un urlo lacerante di Malta spazzò via ogni altra risposta. Trasse un secondo respiro e si rimise in piedi. Caricò Brashen, roteando selvaggiamente i pugni. «No. È una bugia, è una bugia! Papà ha detto che sarebbe tornato a casa, che avrebbe rimesso tutto a posto! Tornerà a casa e ci farà di nuovo ricchi e butterà fuori Althea e costringerà tutti a trattarmi bene! Stai mentendo, maiale. Non è vero, non è vero. Mio padre non può essere morto, non può!» Brashen l'afferrò per un polso e poi per l'altro dopo che lo aveva colpito due volte. Si aspettava che si arrendesse. Invece Malta gli diede due bruschi calci negli stinchi. «Malta! Fermati!» ordinò Ronica bruscamente mentre Keffria gridava: «Fermati, fermati. Non risolverai nulla.» Althea fu più diretta. Avanzò, afferrò Malta per i capelli sulla nuca e la tirò bruscamente indietro. La ragazza gridò di dolore. Brashen le lasciò subito i polsi. Poi Althea lo sconvolse afferrando Malta in un brusco abbraccio. «Fermati, ora fermati» sussurrò con voce rauca alla ragazza che ancora lottava. «Non serve a niente. Risparmia le forze e la tua intelligenza. Non possiamo sprecarle litigando fra noi. Ora abbiamo un nemico co-
mune. Dobbiamo usare tutto quello che abbiamo per liberarli. Malta. Malta. So che è terribile, ma dobbiamo affrontarlo, non dibatterci nell'isterismo.» La ragazza si calmò all'improvviso. Poi la spinse via con brutalità e si allontanò da lei barcollando prima di girarsi ad accusarla. «Sei felice di quello che è successo. È così! Non ti importa di mio padre, non te n'è mai importato. Tutto ciò che vuoi è quella nave. Speri che sia morto, lo so! Mi odi. Non fingere di essere mia amica.» Strinse i denti e folgorò Althea con lo sguardo. Un momento di silenzio assoluto riempì la stanza. La voce di Althea era di pietra. «No. Non sono tua amica.» Si allontanò dal viso i capelli in disordine. «La maggior parte del tempo non mi piaci affatto. Ma sono tua zia. Il fato ci ha rese una famiglia, e ora ci ha rese anche alleate. Malta, metti da parte le tue arie, le smorfie e i bronci. Poni la mente al problema. È quello che dobbiamo fare tutti. Dobbiamo riavere la nave di famiglia e salvare chiunque sia ancora vivo. Adesso è l'unico problema su cui possiamo concentrare le nostre energie.» Malta la guardò dalla testa ai piedi con sospetto. «Cerchi di imbrogliarmi. Vuoi ancora la nave per te.» «Voglio ancora comandare la nave di famiglia» concordò Althea. «È vero. Ma quella disputa dovrà aspettare finché Vivacia non tornerà sana e salva a Borgomago. Adesso è questo che vogliamo tutti. È raro che le donne di questa famiglia siano d'accordo su qualcosa. Quindi, finché è così, smetti di comportarti da ragazza isterica con il cervello di una gallina.» Lo sguardo di Althea incluse sua madre e sua sorella. «Adesso nessuna di noi può permettersi di dare sfogo alle proprie emozioni. Riesco a vedere un solo corso d'azione. Dobbiamo raccogliere soldi per un riscatto. Un ricco riscatto. Francamente è la nostra migliore opportunità di riavere nave ed equipaggio incolumi.» Scosse la testa. «Odio dover ricomprare quello che è nostro, ma è il modo più pratico per riaverlo. Se siamo fortunati, il pirata prenderà i nostri soldi e restituirà il bottino. Brashen ha ragione, comunque. Ho sentito parlare di questo capitano Kennit. Se ha inseguito la Vivacia è perché vuole tenersela. Se è così, possiamo solo pregare Sa che sia stato saggio abbastanza da tenere in vita i membri della sua famiglia per mantenerla sana di mente. Quindi, vedi, Malta, ho le mie ragioni per sperare che tuo padre e tuo fratello siano vivi e stiano bene.» Althea pronunciò quel commento ironico con un sorriso che era una contrazione addolorata. A voce più bassa proseguì: «Il Concilio dei Mercanti di Borgomago si
riunisce domani sera. Dovranno ascoltare la famiglia Tenira a proposito delle tariffe del Satrapo, la presenza delle così dette 'navi pattuglia' di Chalced e gli schiavi a Borgomago. Ho promesso a Grag che sosterrò suo padre. Mamma, Keffria, dovreste venire anche voi. Radunate tutti quelli che potete. È ora che i Mercanti di Borgomago si accorgano di cosa sta succedendo. I pirati sempre più diffusi e la loro sfrontatezza crescente sono un'altra conseguenza della confusione creata dal Satrapo. Quando sarà il momento dovremo menzionare la situazione della Vivacia e chiedere appoggio almeno alle altre famiglie che possiedono velieri viventi, se non possiamo convincere tutti i Mercanti ad aiutarci. È qualcosa che ci colpisce tutti. Con il rischio di provocare di nuovo Malta, aggiungo che è legato direttamente al problema della schiavitù. Se Kyle non avesse usato Vivacia come nave schiavista, questo non sarebbe successo. È ben noto che Kennit colpisce le navi schiaviste. È anche noto» aggiunse con voce leggermente più alta quando Malta prese fiato per interrompere «che le attività dei pirati sono la ragione per cui lasciamo che questi corsari di Chalced ormeggino nel nostro porto. Se Borgomago prende posizione contro i pirati, forse mostreremo al Satrapo che non abbiamo bisogno delle sue navi pattuglia e non intendiamo pagarle.» Si girò e guardò il pomeriggio calante fuori dalla finestra. «E se riusciamo in tutto questo, forse possiamo far capire a tutta Borgomago che non abbiamo bisogno di Jamaillia o del Satrapo. Che ora possiamo prenderci cura di noi stessi.» Quelle parole furono pronunciate molto piano ma risuonarono chiare nella stanza quieta. Althea emise un brusco, profondo sospiro e le sue spalle si abbassarono. «Ho fame. Non è stupido? Brashen mi porta le notizie peggiori che potevo immaginare, e in qualche modo mi viene ancora fame all'ora di cena.» «Non importa quello che succede, il corpo tenta di continuare a vivere.» Ronica pronunciò le parole pesanti con l'esperienza di una superstite. Si mosse rigidamente per attraversare la stanza fino a sua nipote. Le tese la mano. «Malta, Althea ha ragione. Ora dobbiamo essere unite, accantonando ogni disputa.» Alzò gli occhi e rivolse a tutti loro un severo sorriso. «Per il respiro di Sa, guarda cosa ci vuole per farci ricordare che siamo una famiglia. Me ne vergogno.» Riportò lo sguardo alla nipote. La mano vuota attendeva a mezz'aria. Con lentezza Malta tese la propria. Ronica la prese. Guardò nel fondo degli occhi furibondi della ragazza. All'improvviso le diede un fragile abbraccio. Malta lo restituì cautamente. «Malta e papà non sono più cattivi?» chiese una giovane voce. Tutte le teste si rivolsero al ragazzo sulla porta.
«Oh, Selden!» esclamò Keffria con stanca costernazione. Si tirò su dalla sedia e andò dal figlioletto. Tentò di abbracciarlo ma lui si liberò rigidamente. «Mamma, non sono un bambino!» gridò seccato. I suoi occhi andarono da sua madre a Brashen. Lo studiò seriamente. Inclinò la testa. «Sembri un pirata» decise. «È proprio così, vero?» Brashen si accosciò per essere al livello del ragazzino. Sorrise e tese la mano. «Ma non lo sono. Sono solo un onesto marinaio di Borgomago, un po' in cattive acque.» Per un momento ci credette. Poteva quasi dimenticare l'estremità di una stecca di cindin che le sue dita capricciose avevano trovato in un angolo della tasca. 16 Al comando Althea lo guardò andar via. Non lo aveva accompagnato alla porta con sua madre. Era fuggita nella camera di una domestica al piano superiore. Aveva lasciato al buio la stanza polverosa, e non si era neanche avvicinata troppo alla finestra, perché Brashen non si girasse e la vedesse. Il chiaro di luna lavava via il colore vivace dai vestiti del giovane. Camminava con lentezza, senza voltarsi, l'andatura dondolante come se avanzasse su una tolda invece che sul viale delle carrozze. Era stata una fortuna che Althea stesse lottando con Malta quando era entrata nello studio quella sera. Nessuno aveva commentato le sue guance rosse o il fiato corto. Credeva che neppure Brashen si fosse reso conto del suo momento di panico nel vederlo. Le espressioni sconvolte di Keffria e di sua madre le avevano quasi fermato il cuore. Per un istante orribile aveva immaginato che il giovane fosse venuto da sua madre a confessare tutto e offrire di riscattare la vergogna di Althea sposandola. Perfino sconvolta dalla gravità delle vere notizie di Brashen, aveva provato un segreto sollievo di non dover ammettere pubblicamente quello che aveva fatto. Quello che lei aveva fatto. Ora lo accettava. Settimane prima le parole di Ambra l'avevano costretta ad affrontare sé stessa. Ora quasi si vergognava per aver tentato di nascondersi dietro delle scuse. Quello che avevano fatto, lo avevano fatto insieme. Se voleva rispettarsi come donna e come adulta, non poteva negarlo. Decise sinceramente che lo aveva negato solo perché non aveva voluto essere incolpata di quell'atto irresponsabile. Se davvero Brashen l'avesse imbrogliata o costretta a dormire con lui, Althea avrebbe potuto giustificare il dolore che provava da allora. Avrebbe potuto
essere la donna offesa, l'innocente sedotta e abbandonata da un marinaio crudele. Ma ruoli del genere li insultavano entrambi. Quella sera non era stata capace di incontrare i suoi occhi, né di smettere di guardarlo. Le era mancato. Gli anni del cameratismo di bordo, si disse, superavano l'asprezza con cui si erano separati. Aveva continuato a gettargli occhiate, stivando la sua immagine nella mente come per saziare una specie di fame. Le notizie disastrose che Brashen aveva portato le laceravano ancora il cuore, ma i suoi occhi traditori avevano studiato solo i brillanti occhi scuri del giovane, e le spalle muscolose che si muovevano sotto la camicia di seta. Aveva notato la piaga da cindin all'angolo della bocca; usava ancora la droga. Il suo abbigliamento da filibustiere l'aveva sgomentata. Era ferita e delusa che fosse diventato un pirata. Eppure quei vestiti gli stavano molto meglio dell'abito sobrio del figlio di un Mercante di Borgomago. Althea disapprovava ogni cosa di lui, eppure la sua vista le aveva fatto accelerare il cuore. «Brashen» disse disperatamente all'oscurità. Scosse la testa guardando la figura che si allontanava. Erano rimpianti, si disse. Nient'altro. Rimpiangeva di aver distrutto la loro tranquilla amicizia andando a letto con lui. Rimpiangeva di aver commesso un atto così inappropriato con una persona così inappropriata. Rimpiangeva che Brashen avesse rinunciato e non fosse diventato l'uomo in cui suo padre aveva creduto. Rimpiangeva la scarsa capacità di giudizio del giovane, il suo carattere debole. Era tutto ciò che provava. Rimpianti. Si chiese cosa lo avesse riportato a Borgomago. Non avrebbe fatto tanta strada solo per riferire che Vivacia era stata catturata. Al pensiero della nave, il dolore nel cuore di Althea si fece più lacerante. Lasciarla nelle mani di Kyle era stato abbastanza difficile; ora era nelle mani di un pirata capace di assassinio. Ne sarebbe rimasta segnata. Non c'era modo di evitarlo. Se mai Althea avesse recuperato Vivacia, sarebbe stata molto diversa dalla vivace ed energica nave che aveva lasciato Borgomago un anno prima. «Come io sono diversa da chi ero allora» disse ad alta voce alla notte. «Come lui è diverso.» Guardò Brashen finché l'oscurità non lo ingoiò. Mezzanotte era venuta e andata prima che Malta riuscisse a scivolare fuori. La famiglia aveva mangiato in cucina, come domestici, facendo un tardo pasto con quello che c'era. Avevano incluso Brashen nella compagnia. Quando Rache era rientrata più tardi dal suo giorno libero in città, la
famiglia e Brashen si erano trasferiti nello studio del nonno e avevano continuato la discussione. Anche Selden era stato incluso, con grande irritazione di Malta. Faceva solo domande stupide, il che non sarebbe stato così brutto, ma tutti tentavano di rispondere in modi che il bambino poteva capire, insistendo che non doveva spaventarsi. Finalmente Selden si era addormentato accanto al focolare. Brashen si era offerto di portarlo su in camera sua e sua madre glielo aveva permesso, invece di svegliare il piccolo scarafaggio. Malta si chiuse il mantello attorno al corpo. Era una bella notte estiva, ma il mantello scuro aiutava a camuffarla e la proteggeva dalla rugiada. Le pantofole e l'orlo del vestito erano già zuppi. Fuori era molto più buio di quanto si aspettasse. Il vialetto di ghiaia bianca che portava alla quercia e al chiosco rifletteva il chiaro di luna e guidava i suoi passi. In alcuni punti l'erba aveva invaso il sentiero. Umide foglie marroni, non raccolte dall'autunno, si attaccavano alle suole delle pantofole. Tentò di non pensare a lumache e vermi che poteva pestare sotto i piedi. Sentì un fruscio nei cespugli e si fermò con un ansito. Qualcosa corse via attraverso il sottobosco, ma Malta rimase immobile, in ascolto. Ogni tanto erano stati scorti puma vicino a Borgomago. Si diceva che portassero via animali da cortile, perfino bambini. Malta voleva tornare in casa, ma si rammentò che doveva essere coraggiosa. Non era una birichinata o una prova di volontà. Lo faceva per suo padre. Di certo lui avrebbe capito. Le sembrava molto ironico che la zia Althea l'avesse implorata di unirsi alla famiglia per riavere la nave e suo padre. Anche sua nonna aveva fatto una gran scena con quell'abbraccio mieloso. In verità nessuno di loro pensava che Malta potesse aiutare in qualche modo, se non tenendosi fuori dai guai. Lei sapeva che era vero il contrario. Mentre la mamma piangeva in camera da letto e offriva vino bollito a Sa, e la zia Althea e la nonna giacevano sveglie pensando a cosa vendere per radunare i soldi del riscatto, solo Malta avrebbe agito. Solo Malta capiva che era lei quella che poteva ottenere aiuto. La sua determinazione si rafforzò. Avrebbe fatto tutto il necessario per riportare a casa suo padre sano e salvo. Poi avrebbe fatto in modo che lui sapesse chi davvero si era sacrificato per lui. Chi diceva che le donne non potevano essere coraggiose e audaci per coloro che amavano? Fortificata da quel pensiero, proseguì lungo il sentiero con cautela. Uno strano bagliore attraverso il pergolato di rose le mandò un brivido su per la spina dorsale. Una tenue luce gialla palpitò e ondeggiò. Per un
secondo la assalirono tutte le storie di fantasmi che avesse mai sentito sulle Giungle della Pioggia. Reyn aveva forse messo qualcosa a sorvegliarla? Quella cosa avrebbe pensato che lo stava tradendo? Malta tornò quasi indietro, poi una lieve brezza le portò l'odore di cera ardente e il profumo di gelsomino che ultimamente Delo preferiva. Strisciò verso la quercia. Dall'ombra più profonda dell'albero scorse la fonte del bagliore. Una luce gialla brillava dolcemente attraverso le assicelle del vecchio chiosco, delineando le fronde dell'edera che avvolgeva la struttura. Sembrava un luogo magico, romantico e misterioso. Cerwin la attendeva là. Aveva acceso una candela per guidarla. Il cuore di Malta diede un balzo e cominciò a correre. Era perfetto, la storia romantica di un menestrello. Lei era l'eroina, la fanciulla offesa dal fato e dalla famiglia: bella, giovane e affranta per la prigionia di suo padre. Malgrado tutto ciò che la famiglia insensibile le aveva fatto, sarebbe stata lei a compiere l'estremo sacrificio che li avrebbe salvati tutti. Cerwin era venuto a soccorrerla perché il suo giovane cuore virile rimbombava d'amore per lei. Non poteva fare altrimenti. Malta rimase immobile nel chiaro di luna incostante, assaporando il dramma. Poi si avvicinò in punta di piedi fino a sbirciare dalla porta frondosa. Due figure aspettavano all'interno. Delo era raggomitolata in un angolo nel suo mantello, ma Cerwin camminava avanti e indietro. Era il suo movimento che faceva vacillare la luce della candela. Era a mani vuote. Malta aggrottò le ciglia. Non le sembrava corretto. Reyn le avrebbe portato almeno un mazzo di fiori. Ebbene, forse Cerwin aveva per lei un regalo più piccolo. Forse ce l'aveva in tasca. Malta rifiutò che quel dettaglio rovinasse il momento. Esitò solo per spingere indietro il cappuccio, scrollare i capelli e spargerli con cura sulle spalle. Si raschiò le labbra con i denti per arrossarle, poi entrò nella luce dal gazebo. Si mosse con passo dignitoso e volto solenne. Cerwin la vide subito. Malta si fermò dove poteva essere mezza in ombra. Rivolse la guancia alla carezza della luce di candela e spalancò gli occhi. «Malta!» bisbigliò Cerwin con voce soffocata dall'emozione repressa. Uscì dal chiosco e venne verso di lei. L'avrebbe presa fra le braccia. La ragazza si preparò - e invece Cerwin si fermò e poi cadde su un ginocchio davanti a lei. Chinava la testa e Malta vedeva solo i riccioli scuri. Con voce tesa le disse: «Grazie per essere venuta. Quando mezzanotte è passata e tu non eri qui, temevo...» Inspirò in un ansito, quasi un singhiozzo. «Temevo di non avere alcuna speranza.»
«Oh, Cerwin» mormorò dolorosamente Malta. Con la coda dell'occhio, notò che Delo si era avvicinata in punta di piedi alla porta del chiosco e guardava fuori verso di loro. Per un momento ne fu infastidita. La presenza della sorellina di Cerwin rovinava l'atmosfera. Accantonò il pensiero. Doveva ignorarla. Non aveva importanza. Delo non poteva dire nulla senza cacciarsi lei stessa in grossi guai. Malta fece un passo verso Cerwin. Gli mise le mani pallide sulla testa scura e fece scorrere le dita attraverso i riccioli. Il giovane trattenne il respiro al suo tocco. Malta gli sollevò il viso. «Come potevi pensarlo?» chiese con dolcezza. Emise un sospiro sommesso. «Non importa quali dolori mi tormentano, non importa quali pericoli corro... dovevi sapere che sarei venuta.» «Osavo sperare» ammise Cerwin. Quando lo guardò, Malta rimase sgomenta. Il giovane assomigliava moltissimo a Brashen, eppure perdeva nel confronto. Malta aveva considerato Cerwin virile e maturo. Ora, dopo aver osservato Brashen per una sera, suo fratello le sembrava un ragazzino inesperto. Il paragone la infastidì. Rendeva meno trionfale la sua conquista. Cerwin le prese le mani, poi osò baciarle i palmi prima di lasciarli. «Non devi» mormorò Malta. «Sai che sono promessa a un altro.» «Non gli permetterò mai di averti» giurò Cerwin. Malta scosse la testa. «È troppo tardi. Le notizie portate stasera da tuo fratello me lo hanno fatto capire.» Distolse lo sguardo e fissò la foresta notturna con occhi sbarrati. «Non ho alternative se non adempiere al mio destino. È in gioco la vita di mio padre.» Cerwin balzò in piedi. «Cosa stai dicendo?» La sua voce era un grido basso. «Quali notizie... cosa ha detto mio fratello? La vita di tuo padre... Non capisco.» Per un istante la gola di Malta si strinse con vere lacrime. «I pirati hanno catturato la nostra nave di famiglia. Brashen è stato così gentile da farcelo sapere. Temiamo che mio padre e mio fratello siano già morti, ma se non lo sono, se rimane qualche speranza... Oh, Cerwin, dobbiamo trovare in qualche modo i soldi per riscattarli. Eppure, come possiamo? È umiliante, ma so che sei consapevole delle nostre difficoltà finanziarie. Quando si saprà che la nostra nave è stata presa, i nostri creditori ci attaccheranno come squali.» Alzò le mani al viso. «Non so come faremo a mangiare, tanto meno a trovare i soldi per riscattare mio padre. Temo che mi faranno sposare subito l'uomo delle Giungle della Pioggia. Per quanto l'idea mi sconvolga, so che devo farlo. Reyn è generoso. Ci aiuterà a riavere mio padre. Se per questo dovrò sposarlo... non mi importa... non tanto.» La sua
voce si spezzò sulle ultime parole. Vacillò, sinceramente sopraffatta dal suo fato crudele. Cerwin la prese fra le braccia. «Povera bambina coraggiosa. Pensi che ti abbandonerei a un matrimonio senza amore, perfino per tuo padre?» Malta sussurrò contro il suo petto. «Non sta a noi scegliere, Cerwin. Mi offrirò a Reyn. Ha la ricchezza e il potere per aiutarmi. Penserò a questo quando... verrà il momento che... dovrò compiacerlo.» Nascose il viso contro la sua camicia, come vergognosa di parlarne. Cerwin le strinse più forte le spalle. «Mai» le promise. «Quel momento non verrà mai.» Trasse un respiro. «Non dico di essere ricco come un uomo delle Giungle della Pioggia. Ma tutto quello che ho, e che mai avrò, lo metto al tuo servizio.» La scostò per guardarla in viso. «Pensi che avrei potuto fare di meno?» Malta scrollò le spalle, indifesa. «Non credevo che ne fossi in grado» ammise. «Tuo padre è ancora il Mercante della famiglia. Il povero Brashen è la prova che vi governa con mano ferma. So quello che il cuore ti chiede di fare, ma in realtà...» scosse la testa malinconicamente «...credo che tu abbia davvero poco a tua disposizione.» «Il povero Brashen!» Cerwin sbuffò con sdegno, distratto dal vero problema di Malta. «Mio fratello si è tirato addosso le sue disgrazie. Non compatirlo. Il resto è vero, e non lo nego. Non posso mettere l'intero patrimonio dei Trell ai tuoi piedi, ma...» «Come se chiedessi quello! Oh, Cerwin, cosa devi pensare di me? Che vengo di notte a trovarti, a rischio della mia reputazione, per chiedere soldi?» Si distolse da lui facendo turbinare il mantello e rivelando brevemente la camicia da notte di cotone bianco. Sentì Delo trattenere il respiro. La ragazza corse fuori dal chiosco e si fermò accanto a Malta. «Sei praticamente nuda!» la sgridò. «Malta, come hai potuto!» Ecco. Se Cerwin era troppo tonto per accorgersene, ora lo sapeva. Malta drizzò la schiena con dignità. «Non avevo alternativa. Avevo una sola opportunità di scivolare fuori di casa e venire da voi, e l'ho colta. Non me ne pento. Cerwin è stato abbastanza gentiluomo da ignorarlo e non portarmi vergogna. Non ho scelto di venire così da lui. Non capisci che è in gioco la vita di mio padre, Delo? Non è un momento normale, e le regole normali non valgono.» Si mise le mani sul cuore, implorante. Osservò la reazione di Cerwin con la coda dell'occhio. Il giovane la fissava con ammirazione inorridita. I suoi occhi le percorsero il corpo come
se potesse vedere attraverso il mantello. «Delo,» disse brusco «non ha importanza. Sei così infantile a preoccupartene. Per favore. Lasciami parlare in privato con Malta.» «Cerwin!» protestò lei, indignata. L'aveva fatta arrabbiare, chiamandola infantile. Così non andava bene. Una Delo arrabbiata poteva spettegolare troppo. Malta protese una mano languida verso di lei. «So che tenti solo di proteggermi. Ti voglio bene per questo. Tuttavia sono sicura che tuo fratello non mi farebbe mai del male.» Incontrò gli occhi di Delo. «Vedi, conosco il tuo cuore, e questo mi dice molto del suo. Siete persone onorevoli. Non temo di restare sola con lui.» Con occhi luccicanti, Delo si allontanò da loro. «Oh, Malta. Sei così intuitiva.» Chiaramente commossa, si ritirò ancora una volta nel chiosco. Malta guardò di nuovo Cerwin. Si raccolse il mantello addosso per coprirsi, ben consapevole che così facendo accentuava la vita sottile e la pienezza dei fianchi. Poi lo guardò con un sorriso timido. «Cerwin.» Pronunciò il suo nome, poi emise un sospiro. «Mi vergogno a parlare così chiaramente, ma il mio bisogno mi costringe. Non chiedo tutto ciò che hai e che potresti mai avere. Qualunque cosa tu possa offrirmi, discretamente e comodamente, lo accetterò con gratitudine. Ma più importante per me sarebbe che la tua famiglia unisse le sue forze con la mia. Domani sera si terrà la riunione del Concilio dei Mercanti. Io ci sarò. Per favore, vieni anche tu. Se puoi convincere tuo padre a partecipare e parlare in nostro favore, ci aiuterebbe molto. La sorte della nostra nave e di mio padre non è solo una perdita per la mia famiglia. Colpisce tutti i Mercanti di Borgomago. Se questi crudeli pirati non temono di catturare un veliero vivente, cosa non prenderanno? Se non temono di tenere prigioniero un Mercante di Borgomago e suo figlio, chi è al sicuro?» La voce di Malta divenne virtuosamente appassionata. Afferrò le mani di Cerwin. «Se la tua famiglia potesse unirsi alla mia in questo...» abbassò la voce «...forse mia nonna riconsidererebbe il corteggiamento di Reyn. Forse vedrebbe che ci sono... partiti migliori.» Allentò la presa, il cuore più rapido. Uno strano calore le percorse il corpo. Ora Cerwin l'avrebbe presa fra le braccia e l'avrebbe baciata, come alla fine della canzone di un menestrello. Attese il tocco delle sue labbra che l'avrebbero sollevata come una foglia al vento. Socchiuse gli occhi. Invece Cerwin cadde di nuovo in ginocchio davanti a lei. «Verrò al Concilio dei Mercanti domani sera. Parlerò a mio padre e lo convincerò che i Trell dovrebbero appoggiare la tua famiglia.» La guardò adorante. «Ve-
drai. Dimostrerò a te e alla tua famiglia che sono degno di te.» Le ci volle qualche momento per trovare una risposta adatta. Era stata così sicura che Cerwin l'avrebbe baciata. Dove aveva sbagliato? «Non ho mai dubitato che lo fossi» balbettò infine. Poteva quasi sentire il sapore della delusione. Cerwin si rialzò con lentezza. La guardò con occhi lucenti. «Premierò la tua fiducia» le promise. Malta attese, pensando che forse all'improvviso l'avrebbe abbracciata e baciata con ardore. La sua pelle formicolava tutta in attesa del tocco. Osò guardarlo diritto in faccia, con occhi brucianti di passione. Si leccò le labbra e le schiuse in modo invitante, alzando il mento verso di lui. «A domani, Malta Haven» disse Cerwin con fervore. «Vedrai che manterrò la mia parola.» Poi, come salutandola dopo un tè del pomeriggio, si inchinò formalmente. Si rivolse a sua sorella. «Vieni, Delo. Farò meglio a portarti a casa.» Si avvolse nel mantello scuro e poi si girò e si allontanò nella notte. «Addio, Malta» sospirò Delo. Agitò le dita verso l'amica. «Chiederò a mia madre se posso venire anch'io al Concilio dei Mercanti. Forse potremo sedere insieme. Ci vediamo là.» Si girò all'improvviso e corse via. «Cerwin! Aspettami!» Per qualche istante Malta rimase lì sbalordita. Dove aveva sbagliato? Niente pegno dell'affetto di Cerwin, niente bacio appassionato... Non aveva neppure implorato di poterla scortare per un tratto verso casa. Li guardò corrucciata. Poi in un istante si rese conto dell'errore. La colpa non era sua, ma di Cerwin. Scosse la testa. Non era abbastanza uomo per le sue aspettative. Si girò e si avviò con prudenza verso casa nell'oscurità. Aggrottò la fronte pensierosa, poi la spianò con decisione. Non voleva di certo ritrovarsi con una fronte rugosa come sua madre. Anche Brashen le aveva fatto aggrottare la fronte. All'inizio era stato così maleducato con lei, ma poi, quando stava offrendogli il caffè e civettando un po', aveva decisamente reagito al suo fascino. Malta era pronta a scommettere che se avesse incontrato lui quella sera nel chiosco sarebbe stata baciata come si deve. Un brivido improvviso le corse per la schiena. Non che Brashen le piacesse. Sembrava troppo rozzo nelle sue vesti di seta da pirata e baffi lunghi. Puzzava ancora della nave, e le sue mani erano coperte di cicatrici e ruvide di calli. No. Non provava attrazione per lui. Ma i suoi sguardi obliqui verso la zia Althea erano interessanti. Il marinaio l'aveva guardata muoversi come
un gatto affamato che si avvicina furtivamente a un uccellino. Althea non lo aveva mai guardato negli occhi. Anche quando gli parlava era riuscita a guardare fuori dalla finestra, o mescolare una tazza di tè o tormentarsi le unghie. Aveva evitato il suo sguardo, e Brashen ne era stato angosciato. Aveva continuato a rivolgere direttamente a lei i suoi commenti. A un certo punto Althea era andata addirittura a sedersi sul pavimento accanto a Selden, prendendogli la mano come se suo nipote avesse potuto schermarla dagli occhi avidi di Brashen. Malta non pensava che sua madre o sua nonna se ne fossero accorte, ma lei sì. Intendeva fermamente capire cosa c'era tra loro. Avrebbe scoperto il segreto di Althea che portava un uomo a guardarla così. Cosa doveva dire per spingere Cerwin a fissarla con tanto calore? Scosse la testa. No. Non Cerwin. Il paragone con il fratello maggiore le aveva aperto gli occhi. Era ancora un ragazzo, senza calore nello sguardo, senza un suo potere. Era un pesce piccolo, da ributtare in mare. Perfino Reyn aveva un tocco più caldo. E le portava sempre regali. Malta andò alla porta di cucina e l'apri. Forse, dopo tutto, quella sera avrebbe usato la scatola dei sogni. Brashen si alzò dal tavolo. La birra che aveva ordinato era ancora intatta. Mentre si girava e lasciava la taverna vide il movimento furtivo di qualcuno che prendeva il suo boccale. Sorrise amaramente. Aveva scelto un bel posto per bere; perfettamente adatto a un uomo che non sapeva tenersi nulla. Fuori dalla taverna stava dipanandosi un'altra notte di Borgomago. Si trovava nella zona più brutale della città, davanti a una delle bettole del porto che dividevano la strada con magazzini, bordelli e locande da quattro soldi. Sapeva di dover tornare alla Vigilia di Primavera. Finney lo stava aspettando. Ma Brashen non aveva niente da dirgli, e all'improvviso comprese che probabilmente non sarebbe tornato. Mai più. Difficile che il capitano venisse a cercarlo a Borgomago. Era il momento di abbandonare quell'operazione. Certo, significava che il cindin che aveva in tasca era l'ultimo che gli rimaneva. Si fermò e lo cercò brancolando con le dita. Quando lo trovò, era più corto di quanto ricordasse. Ne aveva già usato una parte? Forse. Senza rammarico si infilò l'ultimo pezzo sotto il labbro. Riprese a camminare per la strada buia. Solo un anno prima lui e Althea avevano percorso insieme le vie notturne di Borgomago. Meglio lasciar perdere. Era improbabile che succedesse di nuovo. Ora Althea passeggiava con Grag Tenira.
E allora, se non tornava alla Vigilia di Primavera, dove stava andando? I suoi piedi sapevano già la risposta. Lo stavano portando fuori città, lontano dalle luci, imboccando la lunga spiaggia vuota dove il relitto del Paragon giaceva sulla sabbia. Un ghigno sarcastico apparve sul volto di Brashen. Certe cose non cambiavano mai. Era di nuovo a Borgomago, quasi senza un soldo, e una nave abbandonata era la cosa più vicina a un amico che avesse. Lui e il veliero vivente avevano molto in comune. Erano entrambi reietti. Tutto era pacifico sotto le stelle d'estate. Le onde mormoravano e si azzittivano a vicenda lungo la spiaggia. C'era una brezza appena sufficiente per impedirgli di sudare mentre avanzava sulla sabbia asciutta. Sarebbe stata una bella serata, se avesse avuto motivo di sentirsi bene. Per come stavano le cose, il vento soffiava nel vuoto dentro di lui e la luce delle stelle era fredda. Il cindin lo aveva stimolato, ma senza scopo. Gli aveva solo dato molte ore di veglia in cui essere confuso. Malta, per esempio. A che gioco aveva giocato con lui, per la barba di Sa? Non sapeva se sentirsi molestato, deriso o adulato dalla sua attenzione. Ancora non capiva come considerarla, bambina o donna. Quando sua madre era ritornata, Malta era divenuta una giovane signora contegnosa, a parte l'occasionale commento pungente, pronunciato con tanta innocenza da sembrare casuale. Malgrado l'apparente decoro dopo l'arrivo delle parenti più grandi, quella sera Brashen aveva sentito i suoi occhi su di sé più di una volta. Aveva visto il suo sguardo meditativo andare da lui ad Althea, e non era stato uno sguardo gentile. Tentò di fingere che fosse quella la ragione per cui Althea non aveva incontrato i suoi occhi: non voleva che la giovane nipote indovinasse quello che c'era tra loro. Ci credette per tre passi. Poi ammise tetro che Althea non gli aveva dato il minimo segnale di calore o interesse. Era stata cortese con lui, proprio come Keffria. Nulla di più, nulla di meno. Come si addiceva a una figlia di Ephron Vestrit, era stata amabile e accogliente con l'ospite, anche se portava cattive notizie alla famiglia. La cortesia di Althea aveva vacillato solo quando Ronica gli aveva offerto di dormire a casa Vestrit. Keffria lo aveva esortato ad accettare, dicendo che era tardi e che appariva tanto stanco. Althea era rimasta in silenzio. Quello lo aveva aiutato a decidere. Se n'era andato. Althea era splendida. Oh, non attraente come sua sorella, né seducente come Malta. La bellezza di queste due era costruita con cura. Un tocco di colore, il rosso sulle guance, i capelli scrupolosamente acconciati e i vestiti
scelti con cura si combinavano per mettere in evidenza le loro migliori caratteristiche. Althea era entrata dalla strada, con i sandali polverosi, i capelli incollati dal sudore in ciocche sottili sulla fronte e sulla nuca. Aveva il calore dell'estate sulle guance, e la vivacità del mercato di Borgomago splendeva nei suoi occhi. La gonna e la camicia erano semplici, scelte per lasciarla libera nei movimenti piuttosto che per la finezza della tessitura. Perfino nella battaglia con Malta quando era entrata nella stanza lo aveva entusiasmato per la sua vitalità. Non era più il mozzo della Mietitrice, né la figlia del capitano di Vivacia. Il soggiorno a Borgomago le aveva fatto bene ai capelli e alla pelle. Il suo abbigliamento era più gentile e un po' meno pragmatico. Era la figlia di un Mercante. Quindi irraggiungibile. Cento possibilità perdute gli passarono per la mente. Se fosse stato ancora erede del patrimonio dei Trell e della condizione di Mercante. Se avesse ascoltato il capitano Vestrit e avesse messo da parte qualche soldo. Se Althea avesse ereditato la nave e lo avesse tenuto a bordo come primo ufficiale. Così tanti 'se', ma non aveva maggiori speranze di conquistarla che di essere perdonato da suo padre. Quindi, meglio lasciar perdere, come con i suoi altri futuri scartati. Meglio camminare nella notte vuota. Sputò fuori l'amarezza con i resti fibrosi della stecca di cindin. La carcassa scura del Paragon incombeva in lontananza contro la brillante cupola del cielo stellato. Brashen colse un vago odore di fumo di legna. Mentre si avvicinava cominciò a fischiare forte. Sapeva che a Paragon non piaceva essere sorpreso. Avvicinandosi chiamò amichevolmente: «Paragon! Non ti hanno ancora usato come legna da ardere?» «Chi va là?» Una voce fredda dalle ombre lo fermò. «Paragon?» chiese Brashen, confuso. «No. Io sono Paragon. Se non mi sbaglio, tu sei Brashen» scherzò la nave. Aggiunse più piano: «Non è un pericolo per me, Ambra. Metti via il bastone.» Brashen scrutò l'oscurità. Una sagoma snella si parava tra lui e la nave, tesa. Si mosse, e Brashen udì l'acciottolio di legno su pietra mentre appoggiava il bastone a una roccia. Ambra? La creatrice di perline? La donna sedette su qualcosa, una panca o un mucchio di pietre. Brashen si avventurò più vicino. «Ciao?» «Ciao.» La voce di Ambra era cautamente amichevole. «Brashen, ti presento la mia amica Ambra. Ambra, questo è Brashen Trell. Sai già qualcosa di lui. Hai messo via la sua roba quando ti sei tra-
sferita.» C'era un entusiasmo senza fiato nella voce da ragazzo di Paragon. Evidentemente si stava godendo quell'incontro. Stuzzicò Brashen con un tocco di vanteria da adolescente nella voce. «Trasferita?» chiese lui. «Oh, sì. Ambra ora vive a bordo.» Un'esitazione. «Oh. Probabilmente venivi da me in cerca di un luogo per dormire, vero? Ebbene, c'è spazio in abbondanza, lo sai. Si è impadronita solo degli alloggi del capitano, e ha ritirato alcune cose nella mia stiva. Ambra, non ti dispiace, vero? Brashen viene sempre a dormire qui quando non ha nessun altro luogo dove andare e ha finito i soldi.» La pausa fu appena più lunga di quanto fosse educato. Brashen sentì un tocco di disagio nella voce di Ambra: «Tu appartieni a te stesso, Paragon. Non dipende da me chi accogli a bordo.» «È così, vero? Ebbene, se appartengo a me stesso, perché hai tanta intenzione di comprarmi?» Ora la stuzzicava, ridacchiando come un ragazzo per il proprio scherzo. Brashen non ci trovava niente di umoristico. Che c'entrava quella donna con la nave? «Nessuno può comprare un veliero vivente, Paragon» lo corresse gentilmente. «Un veliero vivente fa parte della famiglia di un Mercante. Non potresti navigare senza un membro di famiglia a bordo.» Con voce più sommessa aggiunse: «Non ti fa bene restare qui da solo tanto a lungo.» «Non sono da solo, non più» protestò la polena. «Ambra viene quasi ogni sera a dormire a bordo. E ogni dieci giorni prende una vacanza e passa tutto il pomeriggio con me. Se mi compra, non mi farà navigare. Mi farà raddrizzare, nient'altro, e laggiù creerà giardini di roccia, e...» «Paragon!» Brashen lo rimproverò quasi severamente. «Tu appartieni ai LaSuerte. Non possono venderti e Ambra non può comprarti. E non sei un grosso vaso da fiori da decorare con rampicanti. Solo una persona crudele ti parlerebbe così.» Guardò con disapprovazione la figura snella che sedeva in silenzio fra le ombre. Ambra si alzò in un movimento fluido. Avanzò su di lui con le spalle squadrate, come un uomo pronto a sfidarlo. La voce era tesa ma calma. «Se quello che affermi è vero, allora la crudeltà nasce con i LaSuerte. Lo hanno lasciato qui a meditare e marcire, per tutti questi anni. Adesso che i tempi cambiano e sembra che tutta Borgomago possa essere comprata, valutano le offerte dei Nuovi Mercanti. Quelli non trasformerebbero Paragon in un 'grosso vaso da fiori.' No. Lo farebbero a pezzi e lo venderebbero
sotto forma di ninnoli e curiosità.» Brashen era ammutolito dall'orrore. D'istinto tese una mano allo scafo argenteo della nave in un gesto tranquillizzante. «Non succederà» garantì con voce roca. «Tutti i Mercanti insorgerebbero.» Ambra scosse la testa. «Sei stato lontano molto a lungo da Borgomago, Brashen Trell.» Si girò e diede un calcio alla sabbia. Le scintille si levarono dai carboni morenti di un fuoco da bivacco. Si chinò, e un attimo dopo sbocciarono minuscole fiamme. Brashen la guardò in silenzio mentre risvegliava il fuoco con bastoncini e poi rami più robusti. «Siediti» lo invitò con voce stanca. In tono conciliatore aggiunse: «Abbiamo cominciato male. In realtà non vedevo l'ora che tu tornassi a Borgomago. Speravo che tu e Althea mi aiutaste. Lei ha accettato con riluttanza che forse acquistare Paragon è la cosa migliore per la nave. Se unisci la tua voce alla sua, potremmo andare tutti dai LaSuerte e spingerli a ragionare.» Alzò gli occhi verso il suo sguardo di disapprovazione. «Gradiresti una tazza di tè?» Brashen si appollaiò rigidamente su un tronco portato dal mare. Tentò di mantenere la voce calma come in una conversazione. «Mi è difficile credere che Althea sosterrebbe la vendita di un veliero vivente.» «Le ho solo spiegato i fatti, e lei è stata d'accordo con me.» Nella luce del fuoco Ambra girò gli occhi verso Paragon. Il lieve scatto della testa indicò con chiarezza che non voleva discutere i dettagli davanti alla nave. Brashen ardeva di curiosità, ma riconobbe che era saggio. Quella sera Paragon era di umore allegro. Non aveva senso risvegliare il suo lato litigioso. Per il momento la cosa migliore era assecondarli entrambi e raccogliere le informazioni che poteva. «E allora,» proseguì Ambra con voce naturale «so che Paragon è felice di vederti, e vorrà sapere tutto delle tue avventure. Quando sei tornato in Borgomago?» «Abbiamo attraccato oggi.» Rimase in silenzio. La stranezza della situazione lo sopraffece. Ambra conduceva la conversazione come una matrona di Borgomago che ha organizzato un tè. «E ti fermi molto?» indagò. «Non lo so. Sono tornato per dire ad Althea che ho visto Vivacia. I pirati l'hanno catturata. Non so se Kyle e Wintrow sono vivi. Non so se qualcuno dell'equipaggio è vivo.» Le parole gli sfuggirono prima che potesse valutare la saggezza di rivelare quelle informazioni. C'era vera preoccupazione nella voce di Ambra: «Althea lo sa? Come ha reagito?» «È sconvolta, puoi immaginarlo. Domani va al Concilio di Borgomago a
cercare aiuto per recuperare la nave. La parte peggiore è che probabilmente questo Kennit non vuole un riscatto. Vuole tenersi la nave. Se Wintrow e Kyle sono ancora vivi, dovrà tenere anche loro per mantenere la nave sana di mente...» «I pirati.» La voce di Paragon era quasi trasognata, ma venata di terrore. «Conosco i pirati. Uccidono e uccidono e uccidono sui tuoi ponti. Il sangue filtra sempre più in profondità, finché il legno non è così pieno di vite che non trovi più la tua. Poi ti massacrano la faccia e aprono le valvole e tu affondi. La parte peggiore è che ti lasciano in vita.» La voce si spezzò nel tremito acuto di un ragazzo prima di spegnersi vibrando nel silenzio. Gli occhi di Brashen incontrarono quelli di Ambra, luccicanti di orrore innominabile. Si alzarono insieme, entrambi tendendo la mano verso la nave. La voce di Paragon li fermò. «Non toccatemi!» Ora la sua voce era profonda e rauca, l'ordine frenetico di un uomo. «Allontanatevi da me, parassiti traditori! Incapaci ratti di fogna! Non avete anima! Nessuna creatura con un'anima può sopportare di fare ciò che avete fatto a me!» Girò la faccia da un lato all'altro, ciecamente. Roteò i pugni enormi per difendersi. «Portate via i vostri ricordi. Non voglio le vostre vite. Mi state affogando! State tentando di farmi dimenticare chi sono... chi ero. Non dimenticherò!» Ruggì le ultime parole come una sfida. Poi la sua voce si abbassò in una risata selvaggia, seguita da una fila di oscenità beffarde. «Non parla con noi» assicurò Ambra in tono basso, ma Brashen non ne era così certo. Non tentò di toccare la nave. Non lo fece neanche Ambra, che invece gli prese il braccio, lo allontanò da lì e lo accompagnò lungo la spiaggia nell'oscurità. I suoni rabbiosi delle maledizioni e imprecazioni di Paragon li seguirono. Quando la luce del fuoco non toccava più i loro visi, la donna si arrestò e si rivolse a Brashen, ancora con voce smorzata. «Il suo udito è insolitamente acuto.» Gettò uno sguardo alla nave. «In questi casi è meglio lasciarlo solo. Se cerchi di riportarlo alla razionalità parlando, peggiora e basta.» Scrollò le spalle, impotente. «Deve ritornare da solo.» «Lo so.» «Lo so che lo sai. Penso tu capisca che non può sopportare molto di più. In ogni istante teme che vengano a prenderlo. Non può neppure dormire per sfuggire al tormento. Ormai quasi ogni giorno si ritira nella sua pazzia. Tento di fare in modo che niente lo agiti, ma lui non è stupido. Sa che la sua sopravvivenza è minacciata e che può fare molto poco per difendersi.» Anche nel buio Brashen sentiva la forza del suo sguardo. «Devi aiutarci.»
«Non posso far niente. Non so cosa ti abbiano detto di me la nave o Althea Vestrit per farti pensare che ho qualche influenza, ma non è vero. È il contrario. Qualsiasi cosa io sostenga, la brava gente di Borgomago si opporrà virtuosamente. Sono un emarginato come questa nave. È più probabile che la vostra causa abbia successo senza me.» Scosse la testa. «Non che pensi che possa avere successo.» «E allora dovrei arrendermi?» chiese mitemente Ambra. «Permettergli di sprofondare nella pazzia finché i Nuovi Mercanti non verranno per portarlo via e farlo a pezzi? Cosa ci diremo dopo, Brashen? Che non c'era niente che potevamo fare, che non credevamo che sarebbe successo davvero? Ci renderà innocenti?» «Innocenti?» Il suggerimento che Brashen fosse in qualche modo responsabile per quel pasticcio lo fece infuriare. «Non ho fatto niente di male, non intendo fare niente di male. Io sono davvero innocente!» «Metà dei mali di questo mondo avvengono mentre le persone oneste stanno a guardare e non fanno niente di male. Non è abbastanza per difendersi dal male, Trell. Bisogna cercare di fare il bene, anche se si crede di non poter riuscire.» «Anche se è stupido tentare?» chiese Brashen con violento sarcasmo. «Soprattutto in quel caso» rispose allegramente Ambra. «È così che si fa, Trell. Ci si spezza il cuore contro questo mondo di rocce. Ci si scaglia contro di esso, dalla parte del bene, e non si bada al prezzo. È così che devi fare.» «Fare cosa?» chiese Brashen, ora davvero adirato. «Farmi uccidere? Per essere un eroe?» «Forse» concesse Ambra. «Forse sì. Ma è proprio così che ci si riscatta. Così si diventa eroi.» Alzò la testa e lo guardò, meditabonda. «Non dirmi che non hai mai voluto essere un eroe.» «Invece te lo dico» la sfidò Brashen. Paragon stava ancora lanciando le sue maledizioni provocatorie. Sembrava delirare come un ubriaco. Brashen girò la testa per fissarlo. Il bagliore giallo del fuoco danzava sul viso sfigurato. Cosa si aspettava da lui quella donna? Non poteva aiutare la nave, non poteva aiutare nessuno. «Ho sempre voluto vivere la mia vita, e basta. E non ci sto riuscendo affatto.» Ambra rise sommessamente. «Solo perché continui a starle lontano. Le giri le spalle. La eviti.» Scosse la testa. «Trell, Trell. Apri gli occhi. Questo pasticcio orribile è la tua vita. Non ha senso aspettare che migliori. Smetti di rimandare e vivila.» Rise di nuovo. I suoi occhi e la voce parvero farsi
distanti. «Tutti pensano che il coraggio voglia dire affrontare la morte senza battere ciglio. Ma quasi chiunque può farlo. Quasi chiunque può trattenere il respiro e non gridare per il tempo che serve a morire. Il vero coraggio sta nell'affrontare la vita senza batter ciglio. Non parlo delle volte in cui la strada giusta è difficile ma alla fine gloriosa. Parlo di sopportare la noia e la confusione, e il fastidio di fare quello che è giusto.» Inclinò la testa e lo esaminò. «Penso che tu possa riuscirci, Trell.» «Smettila di chiamarmi così» sibilò Brashen. Il suo cognome era come sale in una ferita. Ambra gli afferrò all'improvviso un polso. «No. Smettila tu. Smetti di considerarti il figlio che tuo padre ha disconosciuto. Non sei quello che lui si aspettava; ciò non significa che tu non sia qualcuno. Non sei perfetto. Smetti di usare ogni errore come una scusa per fallire del tutto.» Brashen strappò via il polso dalla sua presa. «Chi sei, per parlarmi così? Cosa sei, per conoscere queste cose?» Costernato, si rese conto finalmente dell'unica possibile fonte della sua conoscenza. Althea aveva parlato di lui. Quanto aveva detto ad Ambra? La guardò in viso e lo seppe. Althea le aveva detto tutto. Tutto. Si girò e si allontanò in fretta da lei. Desiderò che l'oscurità lo ingoiasse. «Brashen? Brashen!» sibilò Ambra. Lui continuò a camminare. «Dove andrai, Trell?» Un grido rauco nell'oscurità. «Dove riuscirai a fuggire da te stesso?» Non lo sapeva. Non poteva rispondere. Le pantofole si erano rovinate con l'umidità. Malta le scagliò in un angolo del suo armadio e prese una calda vestaglia. Malgrado la stagione mite, la passeggiata notturna l'aveva raffreddata. Prese dalla mensola la scatola dei sogni. Aveva nascosto il sacchetto di polvere grigia in una borsa di erbe per il mal di testa. Lo pescò fuori e ne scrollò i frammenti di erbe. Aprì i lacci dell'imboccatura con un brivido di eccitazione. Lo rovesciò nella scatola dei sogni e lo scosse con attenzione. Una fine nuvola brillante di polvere di sogno rimase sospesa nell'aria. Malta starnutì con violenza e chiuse in fretta il coperchio della scatola. Provava una strana sensazione sul fondo della gola, insensibile eppure calda. «Scuoti bene la scatola, aspetta e poi aprila accanto al letto» si rammentò. Attraversò la stanza fino al letto scuotendo la scatola. Tirò indietro le coperte, si infilò a letto e mise la scatola aperta sul comodino. Con un soffio spense la candela e posò la
testa sui cuscini. Chiuse gli occhi e attese. Attese. L'ansia la stava tradendo. Non riusciva a addormentarsi. Risoluta, tenne gli occhi chiusi. Tentò di pensare al sonno. Non servì, e si concentrò su Reyn. Lo trovava molto più attraente dopo l'esibizione deludente di Cerwin. Quando questi l'aveva presa fra le braccia era sembrato gracile a paragone del torace largo di Reyn durante quell'unico abbraccio rubato. Rifletté. Reyn non avrebbe perso di certo l'occasione di rubare un bacio. Il suo cuore batté più veloce. Reyn suscitava in lei una tempesta di emozioni contraddittorie. I suoi regali e la sua attenzione la facevano sentire importante. La sua ricchezza era allettante, soprattutto dopo un anno intero di penuria. A volte il suo viso velato e le mani guantate non la turbavano. Lo rendevano misterioso. Poteva guardarlo e immaginare un bel giovane. Quando la guidava con tale grazia attraverso intricati passi di danza, Malta sentiva la sua forza e la sua agilità nel tocco leggero sulla mano e sulla schiena. Solo ogni tanto si chiedeva se il velo nascondeva un viso verrucoso e tratti deformi. Quando erano separati i dubbi la assalivano. Ancora peggio era la comprensione delle sue amiche. Tutte erano sicure che dovesse essere un mostro. Metà delle volte Malta sospettava che fossero solo gelose dei regali e delle attenzioni che riversava su di lei. Forse volevano che fosse brutto, invidiose della sua fortuna. Oh, lei non sapeva cosa provare o cosa credere. E non riusciva a addormentarsi. Aveva sprecato la polvere della scatola dei sogni. Era andato tutto storto. Si rigirò nel letto, corpo e anima agitati da desideri che comprendeva appena. Avrebbe voluto che suo padre tornasse a casa per rimettere tutto a posto. «Voglio uscire. Perché non mi aiuti?» «Non posso. Per favore. Cerca di capirlo, e smetti di supplicarmi.» Il drago imprigionato era sprezzante. «Non vuoi. Potresti, ma non vuoi. Basterebbe la luce del sole. Apri le imposte e lascia entrare il sole. Io farò il resto.» «Te l'ho detto. La camera in cui ti trovi è sotto terra. Una volta, ne sono sicuro, c'erano grandi finestre e imposte da aprire e chiudere. Ma ora tutta la struttura è sepolta. La terra ti copre, e vi crescono gli alberi. Sei sotto un'intera collina boscosa.» «Se davvero tu fossi mio amico come affermi di essere, scaveresti e mi libereresti. Per favore. Ho bisogno di essere libera. Non solo per me, ma
per tutta la mia specie.» Reyn si girò nel letto, spiegazzando le coperte. Sentiva di non essere davvero addormentato, né stava sognando; eppure non era neanche sveglio. Ormai la visione del drago lo tormentava quasi ogni notte. Quando dormiva, il drago lo guardava, guardava dentro di lui, lo trapassava con gli occhi color rame grandi come ruote di carro. I suoi occhi roteavano, i colori giravano attorno alle grandi pupille ellittiche. Reyn non riusciva a distogliere lo sguardo, né poteva spezzare il sogno e svegliarsi. Lei era imprigionata nel suo bozzolo di legno magico, e lui era imprigionato in lei. «Non capisci» gemette nel sonno. «Le imposte sono sepolte, la cupola è sepolta. Il sole non splenderà mai più in quella camera.» «Allora apri le grandi porte e trascinami fuori. Se necessario metti rulli sotto di me, usa i cavalli. Trascinami fuori, non mi importa come. Ma portami alla luce del sole.» Non riusciva a farle capire. «Non posso. Sei troppo grande per un uomo solo, e nessuno mi aiuterebbe. E anche se avessi operai e cavalli, non servirebbe. Quella porta non si aprirà mai più. Nessuno sa come funzionava in origine. Inoltre è sepolta. Prima di aprirla decine di uomini dovrebbero lavorare per mesi per spostare la terra. Perfino allora non penso che si aprirebbe. La struttura è incrinata e indebolita. Se muovessimo la porta, penso che l'intera cupola cederebbe. Rimarresti sepolta ancor più in profondità.» «Non mi importa! Corri il rischio, apri la porta. Potrei aiutarti a scoprire come riuscirci.» La voce del drago divenne seducente. «Potrei donarti tutti i segreti della città. Dovresti solo promettere di aprire la porta.» Da qualche parte la testa di Reyn si mosse in un diniego contro il cuscino intriso di sudore. «No. Mi affogheresti nei ricordi. Non servirebbe a nessuno dei due. La mia specie così impazzisce. Non tentarmi neppure.» «Allora attacca la porta. Asce e martelli devono averne ragione. Lascia che mi cada addosso, se necessario. Anche se crolla e mi uccide, sarei più libera di cosi. Reyn, Reyn perché non mi liberi? Se davvero fossi mio amico, mi libereresti.» Reyn si contorse davanti alle sue parole ferite. «Sono tuo amico. Lo sono. Desidero liberarti, ma non posso farlo da solo. Prima devo convincere altri. Poi troveremo un modo. Sii paziente, ti prego. Sii paziente.» «La fame non conosce pazienza. La pazzia non conosce pazienza. Sono inesorabili. Reyn, Reyn. Perché non posso farti capire che cosa stai facendo con la tua crudeltà? Stai uccidendoci tutti, per sempre. Fammi uscire! Fammi uscire!»
«Non posso!» ruggì Reyn. Spalancò gli occhi sulla camera buia. Sedette nel letto, ansando come un lottatore. Le lenzuola sudate arrotolate intorno a lui lo legavano come un sudario. Sgusciò fuori e camminò nudo fino al centro della stanza. La finestra era aperta e l'aria notturna raffreddava il suo corpo surriscaldato. Si fece passare le mani fra i folti capelli ricci, sollevandoli per farli asciugare. Grattò la nuova crescita sul cuoio capelluto, poi risolutamente lasciò ricadere le mani. Andò alla finestra e guardò in alto. L'insediamento a Trehaug era sospeso fra gli alberi lungo le rive del Fiume delle Giungle della Pioggia. Da un lato della casa Reyn poteva contemplare il fiume veloce. Dall'altro poteva ammirare attraverso gli alberi la Vecchia Città. Lassù ardevano ancora alcune luci. Il lavoro di scavo ed esplorazione non cessava mai. Quando qualcuno era nelle camere più profonde, faceva poca differenza se fuori era giorno o notte. All'interno della collina c'era l'oscurità eterna. Proprio come dentro la bara di legno magico nella camera del Gallo Incoronato. Ancora una volta Reyn pensò di raccontare gli incubi a sua madre, ma sapeva come avrebbe reagito. Avrebbe ordinato che l'ultimo blocco di legno magico fosse spaccato. L'immenso corpo molle all'interno sarebbe caduto sul pavimento di pietra fredda, e il prezioso 'tronco' sarebbe stato ridotto in assi e travi per una nave. Era l'unica sostanza mai scoperta dai Mercanti delle Giungle della Pioggia che sembrasse impermeabile all'acqua acida del fiume. Perfino gli alberi e i cespugli lungo il fiume sopravvivevano solo finché la corteccia era intatta. Nel momento in cui qualcosa li intaccava, il fiume cominciava a divorarli. Reyn aveva perfino visto piaghe nodose sulle gambe dei trampolieri argentei che si nutrivano nelle secche. Solo il legno magico sembrava proteggere dall'acqua lattea del Fiume delle Giungle della Pioggia. E la famiglia Khuprus possedeva l'ultimo tronco, il più grande. Se Reyn avesse potuto, avrebbe trovato un modo per esporlo alla luce del sole e vedere cosa ne emergeva. Il tronco probabilmente sarebbe andato distrutto nel processo. Un vecchio arazzo marcito sembrava mostrare una nascita simile. Un essere bianco e flaccido drizzava la testa da un rottame fradicio di legno magico. Stringeva frammenti fra le fauci, come divorando i resti della sua prigione. I suoi occhi erano selvaggi, e le creature quasi umane che assistevano sembravano colpite da timore riverenziale o paura. A volte, quando Reyn lo guardava, sapeva che la sua idea era pazzesca. Perché correre il rischio di liberare una creatura così spaventosa?
Ma lei era l'ultima del suo genere. L'ultimo vero drago. Reyn tornò a letto. Si distese e cercò pensieri che gli permettessero di riposare ma non di dormire. Se dormiva, il sogno del drago lo avrebbe afferrato e trascinato ancora una volta negli abissi. Stancamente, pensò a Malta. A volte, quando pensava a lei, si colmava di gioia e trepidazione. Era così bella, così energica e fresca. Nella sua testardaggine Reyn vedeva una forza non realizzata. Sapeva cosa pensava di lei la sua famiglia, e non senza ragione. Era caparbia ed egoista e non poco viziata. Era quel genere di donna che si sarebbe difesa ferocemente. Qualunque cosa desiderasse, l'avrebbe cercata con dedizione assoluta. Se lui avesse potuto conquistare la sua lealtà, sarebbe stata perfetta. Come sua madre, avrebbe protetto e guidato i suoi figli, conservando la ricchezza e il potere per loro, molto tempo dopo la morte di Reyn. Alcuni avrebbero detto che sua moglie era spietata e amorale nella sua difesa della famiglia. Ma lo avrebbero detto con invidia. Se fosse riuscito a conquistarla. Quello era il problema. Aveva lasciato Borgomago sicuro della vittoria. Ma Malta non aveva usato la scatola dei sogni per contattarlo. Reyn aveva solo ricevuto un messaggio molto formale da quando l'aveva vista per l'ultima volta. Nient'altro. Si girò dall'altra parte, sconsolato, e chiuse gli occhi. Sprofondò nel sonno e in un sogno. «Reyn. Reyn, devi aiutarmi.» «Non posso» gemette. L'oscurità si aprì e Malta venne verso di lui. Una bellezza eterea. La camicia da notte bianca fluttuava in un vento ultraterreno. I capelli scuri fluivano con la notte, e il mistero della notte riempiva i suoi occhi. Camminava sola nel nero perfetto. Reyn sapeva che cosa significava. Era venuta a cercarlo. Non aveva stabilito uno scenario o composto una fantasia. Si era distesa per sognare, pensando solo a lui. «Reyn?» chiamò di nuovo. «Dove sei? Ho bisogno di te.» Lui si ricompose, poi entrò nel sogno. «Sono qui» disse piano, per non spaventarla. Malta si girò verso di lui e i suoi occhi percorsero la sua identità di sogno. «La volta scorsa non eri velato» protestò. Reyn sorrise fra sé. Aveva scelto una rappresentazione realistica di sé stesso, sobriamente vestito, con velo e guanti. Sospettava che la camicia da notte di Malta fosse quella che davvero indossava quella notte. Si costrinse a ricordare quanto era giovane. Non avrebbe approfittato di lei. Forse la
ragazza non capiva del tutto il potere della scatola dei sogni. «L'ultima volta hai portato molte idee nel nostro sogno. E anch'io. Le abbiamo mescolate e abbiamo vissuto quello che è seguito. Stanotte portiamo solo noi stessi. E qualsiasi altra cosa desideriamo.» Alzò un braccio e descrisse un arco nell'oscurità. Un panorama si aprì, preso da uno dei suoi arazzi antichi preferiti. Alberi spogli di un nero intenso offrivano globi di lucente frutta gialla. Un sentiero d'argento serpeggiava tra gli alberi, poi correva verso una fortezza in lontananza. Il terreno era coperto di spesso muschio. Una volpe con un coniglio fra le fauci li scrutò da un roveto. Un uomo e una donna, troppo alti per essere del tutto umani, lui con capelli di rame e lei dorati, si abbracciavano in primo piano. Il corpo di lui spingeva quello della donna contro il tronco nero di un albero. Reyn li aveva visualizzati immobili nel tempo, ma la donna all'improvviso sospirò e girò la testa per accettare più profondamente il bacio dell'uomo. Reyn sorrise fra sé. Imparava a giocare così in fretta, questa Malta. Ma era consapevole di averlo fatto? La ragazza staccò gli occhi dalla coppia appassionata. Si avvicinò e abbassò la voce come per timore di disturbare i fantasmi. «Reyn, ho bisogno del tuo aiuto.» Lui aveva pensato che quell'appello angosciato fosse un'ombra del sogno del drago. «Cosa succede?» Malta gettò uno sguardo alla coppia. La mano dell'uomo si mosse con lentezza verso il collo della veste della donna. Malta distolse lo sguardo. Reyn la sentì concentrarsi su di lui. «Tutto quello che poteva succedere è successo. I pirati hanno catturato la nostra nave di famiglia, e il loro capo ha fama di uccidere tutto l'equipaggio sulle navi che prende. Se mio padre è ancora vivo, speriamo di riscattarlo. Ma abbiamo pochi soldi. Se i nostri creditori scoprono che abbiamo perso il veliero vivente, non ce ne presteranno altri. Più probabilmente esigeranno più in fretta il rimborso di quello che già dobbiamo.» I suoi occhi vagarono con riluttanza verso l'uomo e la donna. Il gioco amoroso stava divenendo più intimo. Sembrava distrarla e agitarla. Congratulandosi per il proprio autocontrollo, Reyn prese la sua mano remissiva. Immaginò un altro percorso attraverso la foresta. Camminando con lentezza, Reyn la condusse via dai due amanti. «Cosa vuoi che faccia?» «Baciami.» Una voce di comando. Non era Malta. Avevano trovato un'altra coppia, sotto un altro albero. Il
giovane afferrava con autorità la donna per le spalle. Guardò il suo volto sollevato, orgoglioso. Lei gli rivolse un'occhiata di gelido disdegno, ma lui abbassò la bocca alla sua. Contro la sua volontà, il sangue di Reyn ribollì. La donna lottò brevemente, poi afferrò la nuca dell'uomo per premere la bocca contro la sua. Reyn distolse lo sguardo, turbato dalla forza della scena. Tirò la mano di Malta e proseguirono. «Cosa puoi fare?» chiese la ragazza. Reyn rifletté. Non gli sembrava il genere di argomento discusso di solito nei sogni condivisi. «Tua madre dovrebbe scrivere a mia madre. Sono loro che dovrebbero parlarne, non noi.» Si chiese quale sarebbe stata la reazione di sua madre. Venendo a chiedergli aiuto, Malta sembrava aver dimenticato che la famiglia Khuprus ora possedeva l'ipoteca sul veliero vivente. Non solo loro erano tra i creditori che Malta ora temeva, ma la nave rubata era stata la garanzia di quel debito. Era una situazione complicata. La magia del veliero vivente doveva essere protetta con attenzione, e l'acquirente prometteva che non cadesse mai in mani estranee. Quando aveva persuaso sua madre a rilevare l'ipoteca dei Vestrit sulla nave, l'intenzione a lungo termine di Jani era che la Vivacia sarebbe stata data come regalo di nozze alla famiglia Vestrit. Reyn si aspettava che alla fine i suoi figli l'avrebbero ereditata. La perdita completa della nave era un grave colpo finanziario per tutte le parti in causa. Era sicuro che sua madre sarebbe stata spinta all'azione, ma in che modo? Non si era mai interessato agli affari della famiglia. Se ne occupavano sua madre, il fratello maggiore e il patrigno. Lui era l'esploratore e lo studioso. Portava alla luce le scoperte che loro trasformavano in denaro. Cosa facessero di quel denaro non lo aveva mai riguardato. Ora si chiese se aveva il diritto di intervenire. Malta fu subito indignata. «Reyn, stiamo parlando di mio padre. Non posso aspettare che mia madre parli con tua madre. Se vogliamo che sia liberato, dobbiamo agire ora.» Reyn si sentì svigorito. «Malta, non ho alcun potere per aiutarti direttamente. Sono un figlio minore, con due fratelli maggiori.» Malta batté adirata un piede. «Non ti credo. Se tieni a me, mi aiuterai.» Parla come il drago, pensò Reyn, improvvisamente costernato. Era un pensiero pericoloso per una fantasia da scatola dei sogni. La terra tremò all'improvviso sotto i loro piedi. Un secondo fremito più violento seguì il primo. Malta si aggrappò a un albero per non precipitare. «Cos'era?»
«Un terremoto» rispose rassicurante Reyn. I terremoti erano abbastanza comuni a Trehaug. La città sospesa ondeggiava insieme agli alberi viventi che la sostenevano e non ne ricavava danni seri. Però spesso i tremori danneggiavano gravemente gli scavi. Reyn si chiese se era un vero terremoto che entrava nel sogno, o solo un'immaginazione. «So cos'è un terremoto.» Malta sembrava irritata con lui. «Tutte le Rive Maledette sono preda di terremoti. Volevo dire quel suono.» «Quale suono?» chiese Reyn a disagio. «Come un grattare e graffiare. Non lo senti?» Reyn lo sentiva sempre. Nel sonno e nella veglia, il suono degli artigli del drago che sfregavano debolmente le pareti della sua tomba lo tormentava. «Lo senti anche tu?» Era sbalordito. Aveva imparato a ignorare quello che era sempre stato liquidato come la sua immaginazione. Prima che Malta potesse rispondere, tutto cominciò a cambiare. I colori della foresta divennero all'improvviso nuovi e brillanti. C'era una fragranza forte di frutta matura sulla calda brezza. Il muschio sotto i piedi si fece più folto, mentre il sentiero brillava all'improvviso nella luce del sole. L'azzurro del cielo si fece più profondo. Non era più l'arazzo che ricordava Reyn. Qualcuno altro stava contribuendo alla visione della scatola dei sogni, e Reyn non pensava che fosse Malta. Quando nubi di tempesta cominciarono a ribollire lungo l'orizzonte, ne fu sicuro. Alzò uno sguardo timoroso mentre i venti crescenti facevano cadere la frutta matura dagli alberi. Uno si spiaccicò in semi e polpa proprio accanto ai piedi di Malta. L'odore intenso del nettare versato era inebriante. «Malta, ora dovremmo separarci. Di' a tua madre che...» Un lampo spaccò in due il cielo, seguito subito dal tuono. Reyn sentì i capelli drizzarsi e un odore peculiare corse nel vento. Malta si rannicchiò e indicò il cielo senza parole. I venti erratici sferzavano selvaggiamente i suoi capelli e le spingevano la camicia da notte contro il corpo. Un drago volteggiava sopra gli alberi. Era il battito potente delle sue ali a suscitare i venti. La luce del sole offuscata dalle nubi non poteva diminuirne la gloria. Era iridescente. I colori si inseguivano sul suo corpo e sulle ali d'argento. Gli occhi avevano una tinta ramata. «Io ho il potere» annunciò. La sua voce spaccò il cielo. Il ramo di un albero vicino si spezzò e precipitò rumorosamente a terra. «Liberatemi e vi aiuterò. Ve lo prometto.» Le ali la sollevarono in cielo dove descrisse un lento arco abbagliante. La lunga coda serpentina frustò il cielo dietro di lei.
La pioggia cominciò a cadere all'improvviso, un torrente che inzuppò gli esseri umani. Malta corse rabbrividendo al riparo delle braccia e del mantello di Reyn. Lui la circondò con un braccio. Perfino nell'ombra del drago sopra le loro teste era consapevole del calore della sua pelle attraverso la stoffa fradicia della camicia da notte. Da sotto il mantello, Malta fissò la bestia con occhi socchiusi. «Chi sei?» esclamò a voce alta. «Cosa vuoi?» Il drago gettò indietro la testa e ruggì una risata. Passò accanto a loro e risalì nel cielo. «Chi sono? Vi sembro così sciocca da rivelarvi il mio nome? No. Non mi controllerete. Quanto a ciò che voglio... Voglio uno scambio. La mia libertà in cambio della nave di cui parlate, e della vita di tuo padre, se è ancora a bordo. Che ne dici? Uno scambio facile, vero? Una vita per una vita?» Malta guardò Reyn. «È reale? Può aiutarci?» Reyn fissò il drago sopra di loro. Batteva poderosamente le ali levandosi nel cielo lacerato dal temporale. Saliva sempre più su, sempre più piccola. Brillava come una stella contro le tetre nubi grigie. «È reale. Ma non può aiutarci.» «Perché no? È immensa! Può volare! Non potrebbe raggiungere la nave e...» «E poi? Distruggerla per uccidere i pirati? Forse, se pensasse che è una buona idea. Forse, se davvero fosse libera e potesse volare. Ma non lo è. Si sta solo mostrando a noi in questo sogno per come immagina sé stessa.» «E in realtà com'è?» Reyn comprese all'improvviso che si era avvicinato a un tema molto pericoloso «È intrappolata sotto terra, dove nessuno può liberarla.» Prese il braccio di Malta e la spinse lungo il sentiero, fino a un piccolo capanno robusto che aveva fatto apparire con l'immaginazione. Aprì la porta e la fanciulla corse all'interno con gratitudine. Reyn la seguì, chiudendo la porta dietro di sé. Un fuocherello illuminava la semplice stanzetta. Malta si raccolse i capelli e li strizzò. Si voltò verso Reyn, gocce di pioggia ancora luccicanti sul viso. La luce del fuoco danzava nei suoi occhi. «Dove è intrappolata?» chiese. «Cosa dovremmo fare per liberarla?» Reyn decise di dirle abbastanza per essere onesto. «Molto tempo fa accadde qualcosa. Che cosa? Non ne siamo sicuri. In qualche modo una città intera fu seppellita sotto uno strato pesante di terra. Talmente tanto tempo fa che gli alberi crebbero da quella terra. Il drago si trova in una camera profonda all'interno della città sepolta. Non c'è modo di liberarla.» Lo disse nel tono più definitivo che conosceva. Malta sembrava caparbiamente
scettica. Reyn scosse la testa. «Questo non era il sogno che immaginavo di dividere con te.» «Non si può disseppellirla? Come può essere ancora viva, sotto tutta quella terra?» Malta alzò la testa e socchiuse gli occhi. «Come sai che è là? Reyn. C'è qualcosa che non mi stai dicendo» lo accusò. Lui raddrizzò la schiena e resistette. «Malta, ci sono molte cose che non posso dirti. Non ti chiederei di tradire i segreti dei Mercanti di Borgomago. Devi avere fiducia in me: ti ho detto tutto quello che potevo dirti onorevolmente.» Incrociò le braccia. Malta lo fissò per qualche istante. Poi abbassò gli occhi. Dopo un momento mormorò: «Per favore, non pensare male di me. Non mi sono resa conto di quello che ti chiedevo.» La sua voce si fece roca: «Aspetto con ansia il momento in cui non ci saranno più segreti tra noi.» Un colpo di vento urtò i muri della casetta. Reyn sospettò che fosse il drago che li sorvolava. «Liberatemi!» Il suo lungo grido selvaggio scivolò dal cielo fino a loro. «Liberatemi!» Al suono della voce del drago, gli occhi di Malta si dilatarono. Una seconda raffica colpì la casetta, sbattendo le imposte, e all'improvviso la ragazza si rifugiò nelle braccia di Reyn. Lui la tenne stretta e la sentì tremare. La sommità della sua testa gli arrivava al mento. Le accarezzò i capelli umidi. Quando alzò il volto al suo, Reyn precipitò nell'abisso senza fondo dei suoi occhi. «È solo un sogno» l'assicurò. «Nulla qui può farti male. Nulla qui è reale.» «Sembra molto reale» bisbigliò Malta. Il suo respiro era caldo sul volto di Reyn. «Davvero?» le chiese lui, meravigliato. «Davvero» garantì Malta. Cautamente Reyn abbassò la bocca alla sua. Malta non evitò il bacio. Lo strato sottile di velo tra le loro labbra era ruvido e quasi piacevole. Lo circondò con le braccia e lo strinse con goffa inesperienza. La dolcezza del bacio rimase addosso a Reyn mentre il potere della scatola dei sogni si affievoliva e lui sprofondava in un sonno normale. «Vieni da me.» Le sue parole lo raggiunsero fioche. «Vieni da me alla luna piena.» «Non posso!» gridò, cercando disperatamente di raggiungerla. «Malta, non posso!» Si svegliò ripetendo quelle parole nel cuscino. Malta lo aveva sentito? Chiuse gli occhi e tentò di tornare nel sonno e nel sogno condiviso.
«Malta? Non posso venire da te. Non posso.» «È quello che dici a tutte le femmine?» Da qualche parte una voce rise, malignamente divertita. Gli artigli si contorsero debolmente contro il legno magico duro come il ferro. «Non agitarti, Reyn. Non puoi andare da lei. Ma io sì.» 17 Abbandonati La luna brillava nel cielo e la marea era alta quando Kennit decise che era tempo di mantenere la promessa. Era stata necessaria una pianificazione accurata, ma tutto era pronto. Non aveva senso sprecare tempo. Spenzolò la gamba dalla cuccetta e si mise seduto, aggrottando le ciglia quando una sonnacchiosa Etta alzò la testa dai cuscini. Quella sera non voleva interferenze da nessuno. «Torna a dormire» le ordinò. «Se avrò bisogno te lo dirò.» Invece di apparire umile, lei gli rivolse un tenero sorriso assonnato, poi richiuse gli occhi. La sua placida accettazione dell'indipendenza di Kennit era quasi inquietante. Almeno stava giungendo ad accettare che lui non aveva bisogno del suo maledetto aiuto in ogni cosa. Nelle settimane della sua convalescenza era stata noiosamente premurosa. Molte volte Kennit aveva dovuto ruggire prima che Etta si arrendesse e gli permettesse di prendersi cura di sé stesso. Raggiunse la gamba di legno e infilò il moncone nella coppa all'estremità. L'imbracatura di cuoio che la assicurava al suo corpo sembrava goffa, ma Kennit si stava abituando. Infilare i pantaloni era un altro problema. Aggrottò le sopracciglia. La donna doveva trovare una soluzione migliore. L'indomani mattina glielo avrebbe detto. Ora alla cintura portava solo un lungo pugnale nel fodero. Una spada era una vanità inutile per un uomo che doveva bilanciarsi su una gamba sola. Infilò lo stivale, poi prese la gruccia appoggiata alla cuccetta. Attraversò la stanza producendo tonfi sordi. Vacillando precariamente, si abbottonò la camicia e poi indossò il panciotto, e infine una giacca di fine tessuto pettinato. Aggiunse un fazzoletto pulito e si mise in tasca i suoi soliti accessori. Raddrizzò il colletto e si assicurò che i polsini fossero pari. Strinse con fermezza la gruccia sotto il braccio e lasciò la cabina, chiudendo in silenzio la porta dietro di sé.
Sul vascello all'ancora tutto era tranquillo. Da quando aveva ridotto l'equipaggio a Borgo Baratto, la Vivacia era più ordinata e meglio organizzata. La maggior parte degli schiavi liberati erano stati contenti di lasciare la nave affollata. Alcuni avevano preferito rimanere. Li aveva selezionati rigorosamente. Alcuni non erano buoni marinai. Altri erano troppo difficili. Non tutti quelli con tatuaggi multipli sul viso erano spiriti liberi che non avevano voluto piegarsi alla schiavitù. Alcuni, semplicemente, erano troppo stupidi per imparare bene i loro compiti e farli volentieri. Non li voleva più di quanto li avessero voluti i loro proprietari. Una dozzina di ex schiavi, vittime dell'influenza di Sa'Adar, avevano insistito per rimanere a bordo. Kennit lo aveva generosamente permesso. Era stata la sua unica concessione alla loro pretesa di possedere la nave. Senza dubbio speravano ancora in qualcosa di più. Senza dubbio sarebbero rimasti delusi. Altri tre, infine, li aveva tenuti a bordo per le sue ragioni. Quella notte sarebbero serviti ai suoi scopi. Trovò Caviglia appoggiata alla murata di prua. Non lontano, Wintrow era disteso nel sonno profondo dello sfinimento. Kennit si permise un piccolo sorriso. Aveva richiesto che il ragazzo fosse tenuto molto occupato per alcuni giorni, e Brig lo aveva preso alla lettera. La ragazza si girò al rumore della gamba di legno sulla tolda. I grandi occhi scuri lo guardarono avvicinarsi con trepidazione. Non era spaventata come all'inizio. Alcuni giorni dopo che Kennit aveva catturato la nave, Etta aveva impedito agli schiavi liberati e all'equipaggio di usare Caviglia per il sesso. La ragazza stessa non sembrava obiettare, quindi Kennit non ci vedeva alcun problema, ma Etta aveva insistito: era troppo disorientata dagli abusi per sapere come resistere ai loro approcci. Più tardi Wintrow gli aveva detto ciò che sapeva di lei. Caviglia era impazzita nella stiva e si era storpiata cercando di togliersi i ceppi. Secondo il ragazzo, prima di essere chiusa sotto coperta era stata normale. Nessuno a bordo sembrava saperne altro, neppure il suo nome o la sua età. Era un peccato che la sua mente fosse andata, supponeva Kennit. Avrebbe sempre zoppicato. Era meno che inutile a bordo della nave, perché consumava cibo e occupava spazio che poteva essere dato a un uomo capace. L'avrebbe sbarcata a Borgo Baratto se Etta e Wintrow non avessero interceduto per lei. Quando anche Vivacia aveva parlato in suo favore, Kennit si era lasciato convincere. Tuttavia era tempo di liberarsi di lei. Era la scelta più pietosa. Una nave pirata non era un rifugio per anime ferite. Le fece cenno di avvicinarsi. Caviglia avanzò di un solo passo esitante.
«Che farai di lei?» disse piano Vivacia dalle ombre. «Non le farò del male. Ormai mi conosci abbastanza.» Gettò uno sguardo a Wintrow. «Ma non svegliamo il ragazzo» suggerì in tono gentile. La polena rimase in silenzio per qualche istante. «Credi di fare ciò che è meglio per lei, lo sento. Ma non capisco cosa sia.» Poi aggiunse: «Mi stai tenendo fuori. Ci sono parti del tuo cuore che non mi hai mai permesso di vedere. Hai dei segreti che mi tieni nascosti.» «Sì. Come fai tu con me. Questa volta devi fidarti di me. Ti fidi?» Trasformò la domanda in una piccola prova. La nave rimase in silenzio. Kennit superò Caviglia, che si ritrasse leggermente. Andò alla murata di prua e si sporse verso la nave. «Buona sera, dolce signora del mare» la salutò, come se fossero le prime parole che le rivolgeva, poco più di un bisbiglio nel vento. «Direi piuttosto buona notte, gentile signore» rispose Vivacia allo stesso modo. Kennit tese la mano verso di lei, e la polena si girò per toccarla con le grandi dita. «Spero che tu stia bene, mia signora.» Il pirata accennò al panorama di isole sparse. «Dimmi, cosa pensi delle mie isole, ora che ne hai vista una parte?» Vivacia emise un caldo suono in gola. «Possiedono una bellezza unica. Il calore dell'acqua, le nebbie fluttuanti che le velano e le scoprono... Qui anche gli uccelli sono diversi. Più colorati e più melodiosi della maggior parte degli uccelli marini. Non vedevo un tale piumaggio da quando il capitano Vestrit mi portò in un viaggio nelle lontane terre del Sud...» La voce si spense. «Ti manca ancora, vero? Sono sicuro che era un capitano eccellente, e che ti ha mostrato molti luoghi meravigliosi. Ma se hai fiducia in me, mia signora, tu e io vedremo luoghi ancor più esotici, e avremo avventure ancor più emozionanti.» C'era quasi una nota gelosa nella sua voce: «Lo ricordi bene? Pensavo che allora non ti fossi ancora risvegliata.» «Lo ricordo come si ricorda un bel sogno al mattino. Nulla di nitido: ma a volte un profumo, un orizzonte, il sapore di una corrente sembra familiare, e ne nasce un ricordo. Se Wintrow è con me, la sensazione è più acuta. Posso trasmettergli maggiori dettagli anche senza parlare.» «Capisco.» Kennit cambiò argomento. «Tuttavia non sei mai stata da queste parti, vero?» «No. Il capitano Vestrit evitava le Isole dei Pirati. Le oltrepassavamo, tenendoci il più possibile a est. Diceva sempre che è più facile evitare i
guai che affrontarli.» «Ah.» Kennit guardò oltre Vivacia, verso la Marietta, anch'essa all'ancora. A volte Sorcor gli mancava. Sarebbe stato utile averlo lì per il lavoro di quella notte. Tuttavia una persona sola mantiene meglio un segreto. Ricordò all'improvviso cosa era venuto a fare sul ponte. «Su questo, devo dargli ragione. Quindi, mia signora, se vuoi scusarmi, questa notte ho bisogno di evitare un guaio. Pensami, finché non ritorno.» «Ti penserò.» La voce di Vivacia era perplessa. Kennit si allontanò rumoreggiando, spingendosi attraverso il ponte nel bizzarro ritmo di gruccia e gamba di legno. Accennò a Caviglia di seguirlo. La ragazza si mosse con lentezza, zoppicando, ma si mosse. Quando arrivò alla scialuppa del capitano, Kennit le disse: «Rimani qui. Ti porto a fare un giro.» Parlò gesticolando, per essere sicuro di trasmettere con chiarezza l'ordine. Caviglia sembrò ansiosa, ma sedette obbediente sulla tolda. Kennit la lasciò lì nell'oscurità. Superò il marinaio di guardia all'ancora e gli fece un cenno del capo. Il marinaio chinò la testa ma non fece commenti. Il capitano aveva fatto sempre come voleva sulla nave. Ora che aveva ripreso i suoi giri imprevedibili, sentiva anche che l'equipaggio era più fiducioso. Se lui stava bene, loro erano rassicurati. Adesso, quando voleva, poteva muoversi quasi in fretta, con un passo e un'oscillazione sulla gruccia. Non era indolore. Wintrow sembrava pensare che con il passare del tempo avrebbe sviluppato un callo. Sperò che fosse vero. A volte la coppa di cuoio che conteneva il moncone sfregava tormentosamente, e alla fine della giornata l'ascella era indolenzita dall'impatto della gruccia. Muoversi in silenzio era più difficile che muoversi in fretta, ma Kennit ci riusciva. Aveva imparato dove Sa'Adar dormiva ogni notte, e vi si diresse senza fallo. Conosceva la strada anche nella luce capricciosa delle rare lanterne. Quando arrivò all'uomo disteso si fermò a guardarlo. Il sacerdote non dormiva, così Kennit non finse di svegliarlo. Con voce molto sommessa disse: «Se vuoi vedere far giustizia di Kyle Haven, alzati e seguimi subito. In silenzio.» Con apparente sicurezza diede le spalle all'uomo e si allontanò. Non si degnò di girarsi a guardare. Le sue orecchie acute colsero i passi sommessi del sacerdote che lo seguiva. Lo aveva giudicato bene. L'aria di mistero e la segretezza lo avevano spinto ad andare da solo, senza svegliare i suoi compagni. Kennit avanzò superando altri uomini distesi e addormentati finché non trovò i due scelti in precedenza. Dedge dormiva con un braccio
protettivo attorno a Saylah. La donna era rannicchiata a proteggersi il ventre. Kennit spinse due volte Dedge con la punta della gruccia. Indicò anche la compagna dell'uomo, e poi passò oltre. Obbediente come un buon cane, l'uomo svegliò la donna e lo seguirono in silenzio. Si mossero attraverso la nave quasi tutta addormentata. Chi si svegliava o apriva un occhio era abbastanza saggio da tenere per sé i propri pensieri. Tornato in coperta, Kennit li condusse al castello di poppa. Si fermò alla cabina dove era confinato Kyle Haven. Un cenno asciutto ai faccia-dimappa rivelò la sua volontà. Dedge aprì la porta senza cerimonie ed entrò. Kyle Haven si drizzò dalla cuccetta disordinata. I capelli incolti erano sparsi sulle spalle. Nella cabina c'era un fetore di carne sporca e orina. Gli ricordava le stive degli schiavi. Kennit arricciò il naso. Rimase sulla porta e suggerì con voce mite: «Dovreste venire con noi, capitano Haven.» Lo sguardo selvaggio di Haven percorse tutti. Sa'Adar sorrideva. «Mi ucciderete, vero?» chiese rauco. «No.» A Kennit non importava se l'uomo gli credeva o no. Si rivolse ai suoi faccia-di-mappa. «Fate in modo che ci segua in silenzio.» Alzò un sopracciglio verso Haven e aggiunse: «Non mi importa particolarmente di quello che faranno per assicurare il silenzio. La vostra collaborazione non è essenziale, ma sarebbe più facile per voi e per me.» Si voltò senza controllare chi obbediva e come. Sa'Adar lo infastidì affrettandosi a raggiungerlo. «Non svegliate gli altri? Perché possano assistere?» Kennit si arrestò a metà di un passo. Non si curò di guardarlo in faccia. «Mi pare di aver detto che volevo il silenzio» osservò. «Ma...» La mossa gli venne così naturale. Non dovette neanche pensarci. Mise il peso sulla gamba buona, puntò una spalla contro la parete e diede un colpo con la gruccia. Sa'Adar ricevette la sferzata contro le cosce e barcollò all'indietro. Si aggrappò alla parete, con la bocca spalancata per il dolore. Kennit gli diede le spalle. Se la scaletta fosse stata più larga, rifletté il pirata, il colpo sarebbe stato più efficace. Ci pensò mentre continuava con il suo passo ondeggiante verso la tolda. Forse doveva esercitarsi. Si fermò accanto alla scialuppa del capitano e aspettò che gli altri lo raggiungessero. Gli fece piacere che Haven fosse rimasto in silenzio senza essere imbavagliato o picchiato. Evidentemente credeva nel potere di Kennit. Forse comprendeva anche che chiunque fosse stato svegliato dalle sue grida non avrebbe avuto intenzione di aiutarlo. Quale che fosse il suo ra-
gionamento, la sua acquiescenza rendeva tutto molto più facile. Caviglia si alzò mentre gli altri si avvicinavano. Kennit guardò i suoi faccia-di-mappa. «Prendi la cassa. Sai quale. Poi preparati a calare la scialuppa.» L'uomo di nome Dedge obbedì immediatamente. Gli altri attesero in silenzio. Nessuno fu così stupido da fare domande. Kennit si sistemò a prua della scialuppa. Caviglia sedette a poppa, vicino alla cassa. I due faccia-di-mappa presero i remi su un lato, il sacerdote e il capitano Haven sull'altro. Kennit indicava la via. Di tanto in tanto ordinava quietamente un cambio di rotta. Li guidò tra due piccole isole e lungo il versante sottovento di una terza. Solo quando furono invisibili alle sue due navi indicò finalmente una quarta isola, la loro vera destinazione. Perfino allora non permise ai faccia-di-mappa di sbarcare sulla spiaggia di Isola Serratura. Li fece remare fino all'imbocco di una piccola baia. Kennit sapeva bene che era più di una baia. Quella che sembrava un'isola era in realtà poco più di una parete di rupi sormontate dalla foresta, a forma di ferro di cavallo quasi chiuso. La baia era il suo interno. Conteneva una grande isola e una più piccola. Il cielo buio cominciava a ingrigirsi mentre Kennit dirigeva senza parole i rematori verso la spiaggia dell'isola interna più grande. Dal mare sembrava un'isoletta qualsiasi. Aveva una costa insignificante, ed era coperta da alberi stentati e cespugli spinosi. Kennit sapeva che sull'altro lato c'era un buon ancoraggio profondo, ma per i suoi scopi di quella notte la spiaggia rocciosa era sufficiente. A un suo cenno i faccia-dimappa tirarono in secca la scialuppa. Kennit sedette come un re su una lettiga mentre tutti gli altri scendevano e afferravano le falchette per spingerla sulla spiaggia. Erano appena fuori dalle onde quando Haven prevedibilmente lasciò il lato della barca e si diede alla fuga. «Prendetelo» ordinò Kennit secco. Una pietra ben mirata da uno dei faccia-di-mappa lo abbatté. Il padre di Wintrow brancolò sulla spiaggia rocciosa, e prima che potesse rimettersi in piedi Sa'Adar gli fu addosso, lo afferrò alla gola e gli sbatté la testa per terra. Kennit fu contrariato. «Legate le mani del capitano dietro la schiena e portatelo qui» ordinò ai faccia-di-mappa. «Fate in modo che il sacerdote non lo danneggi.» A Caviglia disse: «Aiutami. Ma solo se ti dico che ne ho bisogno.» La ragazza lo guardò con occhi socchiusi ma parve capire. Lo seguì come un'ombra. Mentre i faccia-di-mappa separavano e trattenevano i due combattenti in mezzo alle imprecazioni, Kennit scese dalla scialuppa. La pietra e la sabbia
della spiaggia erano più difficili dei ponti lisci della Vivacia per la gamba di legno e la gruccia. I sassi si spostavano sotto il suo peso e la sabbia cedeva all'improvviso. Traversare la spiaggia stava per rivelarsi più difficile di quanto immaginasse. Strinse i denti e tentò di far sembrare il suo passo di lumaca misurato e deliberato piuttosto che faticoso. «E allora? Seguitemi!» scattò, quando rimasero a guardarlo camminare. «Portate la cassa.» Trovò il vecchio sentiero senza problemi. Era coperto da erbacce. Probabilmente ora i maiali e le capre erano le uniche creature che lo tenevano aperto. Pochi, a parte lui, erano sbarcati su quella spiaggia, ed erano passati anni da quando era passato di lì. Una viscida pila di sterco di maiale fresco confermò la sua teoria. Lo aggirò con attenzione. Caviglia era proprio dietro di lui. Li seguivano il sacerdote e Saylah, che portavano la cassa tra loro. In coda, Dedge strattonava Haven per fargli tenere il passo. Haven non taceva, ma a Kennit non importava più. Potevano fargli quello che desideravano, purché arrivasse intatto. Era sicuro che lo avevano capito. Per un poco il sentiero salì gradualmente. Poi scese e cominciò a serpeggiare verso l'interno dell'isola lievemente collinosa. Kennit si fermò per un momento sul bordo di quella valletta. Pascoli di ciuffi d'erba sostituivano la foresta. Una capra che brucava alzò la testa e li guardò con diffidenza. Poco era cambiato. A ovest Kennit vide un piccolo filo di fumo che si levava verso il cielo. Bene. Forse davvero non era cambiato niente. Il sentiero fece una curva, poi si diresse attraverso la foresta, verso il fumo. Kennit lo seguì. La gruccia maledetta gli stava aprendo un buco nell'ascella. C'era bisogno di più imbottitura. Anche nella coppa della gamba di legno. Kennit strinse i denti e rifiutò di mostrare disagio. Quando arrivarono alla radura il sudore gli gocciolava per la schiena. Ancora una volta si arrestò ai margini del terreno. Dedge imprecò meravigliato. La donna mormorò una preghiera. Kennit non badò a loro. Davanti a lui si apriva un orto ordinato, disposto in file precise e curate. Le galline chiocciavano e razzolavano in un recinto dietro un piccolo pollaio. Da qualche parte una vacca muggì in tono interrogativo. Al di là dell'orto c'erano sei casette, un tempo simili come piselli in un baccello. Ora cinque dei tetti di paglia erano pietosamente sprofondati. Il fumo del camino si levava dall'unica casupola che aveva ancora un tetto. A parte quella pallida striscia in movimento, tutto era immobile. Dietro le abitazioni si scorgeva il piano superiore e il tetto coperto di lastre di pietra di una casa più grande. Una volta quella era stata una piccola e fiorente pro-
prietà. Ora rimaneva solo quella manciata di case. C'erano voluti anni di pianificazione accurata. L'intero insediamento era stato progettato con precisione amorosa. Era stato un mondo ordinato e preciso, ideato soprattutto per lui. Prima che Igrot il Terribile ne scoprisse l'esistenza. Gli occhi del pirata percorsero metodicamente ogni dettaglio. Qualcosa fremette in lui, ma Kennit lo soffocò prima che l'emozione potesse tradirlo. Trasse un respiro lento, profondo. «Mamma!» chiamò. «Mamma, sono a casa!» Per altri due respiri non accadde nulla. Poi una porta si aprì piano. Una donna dai capelli grigi sbirciò fuori. Strizzò gli occhi nella prima luce del mattino, guardando nel cortile. Finalmente li scorse sul lato opposto dell'orto. Alzò una mano e si strinse la gola, sbarrando gli occhi. Fece un piccolo segno contro gli spiriti maligni. Kennit emise un sospiro esasperato. Cominciò ad attraversare con cautela l'orto, un lavoro difficile per la gruccia e la gamba di legno fra le file di terra morbida. «Sono io, mamma. Kennit. Tuo figlio.» Come sempre la prudenza della donna lo esasperò. Lui era già a metà strada attraverso l'orto prima che fosse uscita del tutto dalla porta. Era a piedi nudi, notò Kennit con disgusto, e vestiva una tunica di cotone e pantaloni come una contadina. I capelli puntati sulla testa erano del colore della cenere di legna. Non era mai stata una donna snella, ma si era ingrossata con gli anni. Sbarrò gli occhi quando finalmente lo riconobbe. Si affrettò verso di lui in un trotto inglorioso. Kennit dovette sopportare l'indegnità del suo flaccido abbraccio. La donna piangeva prima ancora di raggiungerlo. Continuò a indicare la gamba mancante, fra borbottii dolorosi e interrogativi. «Sì, sì, mamma, va tutto bene. Ora basta.» Lei lo stringeva, piangendo. Kennit le afferrò con fermezza le mani e le allontanò da sé. «Basta!» Anni prima le avevano tagliato la lingua. Kennit non aveva avuto niente a che fare con quell'incidente e lo aveva sinceramente deplorato, ma durante il corso degli anni era giunto a ritenerlo non del tutto sfortunato. Sua madre parlava ancora senza sosta, o ci provava, ma da allora Kennit poteva dirigere la conversazione come desiderava. Le diceva quando doveva essere d'accordo con lui, e quando una questione era sistemata. Come ora. «Non posso fermarmi molto, temo, ma ti ho portato qualcosa.» La fece girare con decisione e condusse il suo seguito sbalordito verso la casupola intatta. «Nella cassa c'è qualche regalo per te. Qualche seme di fiori che potrebbero piacerti, spezie per cucinare, stoffa, un arazzo. Un po' di tutto.»
Giunsero alla porta della casupola ed entrarono. L'interno era immacolato ma spoglio. Sul tavolo giacevano tavolette levigate di pino bianco. Accanto erano disposti pennelli e tinture. Dunque sua madre dipingeva ancora. Il lavoro del giorno prima era ancora sulla tavola, un fiore di campo dipinto in dettagli intricati e realistici. Un bollitore gorgogliava sul focolare. Attraverso la porta della seconda stanza Kennit scorse il letto accuratamente rifatto. Dovunque guardasse vedeva le tracce di una vita semplice e placida. A lei era sempre piaciuto così. Il padre di Kennit aveva amato l'opulenza e la varietà. Si erano completati bene. Ora sua madre era come una mezza persona. All'improvviso quel pensiero lo agitò in modo quasi incontrollabile. Passeggiò per la stanza, poi afferrò Caviglia per le spalle e la spinse avanti. «Ti ho pensato spesso, mamma. Vedi, questa è Caviglia. Ora è la tua domestica. Non è molto sveglia, ma sembra pulita e volonterosa. Se non lo fosse, la ucciderò quando torno.» Gli occhi di sua madre si dilatarono per l'orrore e la ragazza storpia cadde in ginocchio, implorando misericordia. «Quindi, per amor suo, tentate di andare d'accordo» aggiunse quasi con dolcezza. Desiderava già essere di nuovo sulla tolda della sua nave. Là era tutto molto più semplice. Accennò al suo prigioniero. «E questo è il capitano Haven. Digli ciao, e poi addio, per il momento. Rimarrà qui, ma non hai bisogno di preoccuparti troppo per lui. Lo metterò nella vecchia cantina sotto la casa grande. Caviglia, ti ricorderai di dargli cibo e acqua, vero? Almeno tanto spesso quanto ne ricevevate voi a bordo della nave, va bene? Sembra equo a tutti, vero?» Aspettò una risposta, ma tutti lo fissavano come se fosse impazzito. Tutti tranne sua madre, che gli afferrò il davanti della camicia e strinse la stoffa tra le mani. Sembrava angosciata. Kennit credette di capire il suo dilemma. «Ricorda, ho dato la mia parola che sarà tenuto al sicuro. Quindi insisto che tu lo faccia. Lo incatenerò bene, ma tu devi occuparti del cibo e dell'acqua. Capisci?» Sua madre borbottò frenetica. Kennit annuì con approvazione. «Sapevo che non sarebbe stato un problema. Ora. Cosa ho dimenticato?» Gettò uno sguardo agli altri. «Oh, sì. Guarda, mamma. Ti ho portato anche un sacerdote! So che ti piacciono i sacerdoti.» Il suo sguardo trapassò Sa'Adar. «Mia madre è molto devota. Prega per lei. O benedici qualcosa.» Sa'Adar sbarrò gli occhi. «Siete pazzo.» «No di certo. Perché la gente mi accusa sempre di essere pazzo quando sistemo le cose secondo il mio piacere invece del loro?» Ignorò il sacerdo-
te. «Questi due, mamma, saranno i tuoi vicini di casa. Hanno un bambino in arrivo, mi hanno detto. Sono sicuro che ti piacerà avere attorno un frugoletto, vero? Sono entrambi abili al lavoro pesante. Forse la prossima volta che ti vengo a trovare troverò le cose in condizioni migliori. Magari andrai di nuovo a vivere nella casa grande.» La vecchia scosse il capo con tanta violenza che i capelli grigi si sciolsero dalla crocchia. I suoi occhi si dilatarono con il ricordo di un antico dolore. Aprì la bocca in un grido tremante, rivelando il moncone della lingua. Kennit distolse lo sguardo disgustato. «Questa casetta sembra piuttosto comoda» si corresse. «Forse stai meglio qui. Ma non vuol dire che dovremmo lasciar cadere a pezzi la casa grande senza far nulla.» Gettò uno sguardo ai due faccia-di-mappa. «Voi due potete scegliere una delle casette per voi. Anche il sacerdote. Tenetelo ben lontano dal capitano. Ho promesso a Wintrow che suo padre sarebbe stato tenuto da qualche parte, intatto, dove il ragazzo non avrà più bisogno di preoccuparsi per lui o averci a che fare.» Per la prima volta Kyle Haven parlò. La mascella ricadde e la bocca rimase aperta per un momento. Gli si chiuse la gola, poi ruggì furibondo. «Questa è opera di Wintrow? Mio figlio mi ha fatto questo?» Gli occhi blu si spalancarono per il dolore e l'odio giustificato. «Lo sapevo. L'ho sempre saputo! Piccola vipera infida! Cane bastardo!» La madre di Kennit trasalì per la sua violenza. Senza farsi notare, Kennit colpì Haven con il dorso della mano attraverso la bocca. Perfino appoggiandosi sulla gruccia, usò tanta forza che il capitano barcollò all'indietro. «State agitando mia madre» dichiarò con calma. Emise un breve sospiro esasperato. «Suppongo che sia ora di portarvi via. Venite, dunque. Voi due, accompagnatelo.» L'ordine era diretto ai faccia-di-mappa. Rivolgendosi alla ragazza, le ordinò: «Prepara da mangiare. Mamma, mostrale dove sono le provviste. Sacerdote, stai qui. Prega, o qualcosa del genere. Fai tutto quello che mia madre ti chiede.» I faccia-di-mappa sospinsero il capitano Haven fuori dalla porta. Mentre Kennit li seguiva, Sa'Adar annunciò: «Non potete darmi ordini. Non potete rendermi vostro schiavo.» Kennit gli gettò uno sguardo. Gli rivolse un piccolo sorriso. «Forse no. Però posso renderti morto. Una scelta interessante, vero?» Si girò e uscì senza uno sguardo indietro. I faccia-di-mappa lo attesero fuori. Haven si afflosciava fra i due muscolosi ex schiavi. L'incredulità lottava con la disperazione sul suo viso. «Non
puoi farlo. Non puoi abbandonarmi qui.» Kennit si limitò a scuotere la testa. Era così stanco di sentirsi dire che non poteva fare ciò che evidentemente poteva. Non si curò di guardare i suoi seguaci mentre li conduceva alla casa grande. Il sentiero di ghiaia era invaso dalle erbacce: le aiuole erano da tempo andate in rovina. Lo fece notare ai faccia-di-mappa. «Mi piacerebbe che fosse rimesso in ordine. Se non sapete niente di giardinaggio, chiedete a mia madre. Lei è un'esperta.» Arrivarono davanti alla casa, e Kennit non guardò i resti delle altre strutture. Non aveva senso indugiare nel passato. Erba e rampicanti avevano da tempo sconfitto e coperto i resti bruciati. Dovevano rimanere così. Anche la grande casa era stata danneggiata tempo prima in quell'incursione. C'erano segni di bruciature superficiali sui muri di legno dove le fiamme delle strutture vicine avevano minacciato di appiccare il fuoco. Era stata una notte di fiamme e grida, quando i presunti alleati avevano rivelato le loro vere intenzioni. Un'orgia di crudeltà in cui Igrot aveva appagato i suoi istinti sensuali. L'odore di fumo e sangue erano mescolati per sempre nei suoi ricordi di quella notte. Salì i gradini. La porta d'ingresso non era chiusa a chiave. Non era mai stata chiusa. Suo padre non credeva nelle serrature. Kennit aprì la porta e avanzò all'interno. Per un istante la sua memoria diede un balzo e gli mostrò l'interno come era stato una volta. Da allora l'educazione e i viaggi avevano affinato i suoi gusti, ma da bambino l'accozzaglia di arazzi e tappeti e statue gli era sembrata ricca e lussuosa. Ora si sarebbe fatto beffe di tale mescolanza di spazzatura e tesori, ma allora suo padre la adorava, e il piccolo Kennit con lui. «Vivrai come un re, ragazzo» diceva suo padre. «No. Meglio ancora, sarai un re. Re Kennit di Isola Chiave! Non suona bene? Re Kennit, Re Kennit, Re Kennit!» Cantando quel ritornello suo padre lo prendeva in braccio e lo faceva girare sfrenatamente, saltellando ebbro per la stanza. Re Kennit. Il pirata batté le palpebre. Vide i muri spogliati e il pavimento nudo di quella che in realtà era poco più di una casa colonica, non la magione aristocratica che suo padre aveva finto che fosse. Kennit aveva pensato molte volte di rimettere a nuovo la casa. Nelle stanze di sopra erano immagazzinati oggetti d'arte e mobili più che sufficienti a eclissare l'antica gloria pacchiana della casa. Era la sua collezione raccolta con cura, il meglio dei suoi tesori, portato lì un poco alla volta in grande segretezza. Ma non era ciò che voleva. No. Avrebbe ripristinato la casa con quello che Igrot aveva rubato. Gli stessi dipinti, gli stessi arazzi e tappeti, sedie e candelieri. Un
giorno o l'altro, al momento giusto, avrebbe recuperato tutto, lo avrebbe riportato lì e sistemato esattamente dove stava. Avrebbe rimesso tutto a posto. Lo aveva promesso a sé stesso più volte di quanto desiderasse ricordare, e ora l'adempimento di quella promessa era alla sua portata. Ora tutto quello che Igrot avesse mai rubato era suo di diritto. Un piccolo sorriso duro si formò sulle sue labbra. Re Kennit, davvero. Sua madre non voleva sentirne parlare. Quando era più giovane, durante gli anni crudeli, Kennit le si sedeva in grembo, la stringeva forte e tentava di sussurrarle all'orecchio i suoi piani di vendetta. Lei lo azzittiva con disperato terrore. Non aveva neanche osato sognare la vendetta. Ora non voleva più sfoggiare lusso e ricchezza. No. Contava che la sua vita semplice la proteggesse. Kennit sapeva bene che si sbagliava. Nessuno può avere così poco che qualcun altro non trovi niente da invidiare. Povertà e semplicità non difendono dall'avidità altrui. Se non avevi più nulla da rubare, avrebbero preso il tuo corpo e lo avrebbero ridotto in schiavitù. Per quanto immerso nei suoi pensieri, Kennit non si fermò e non indugiò. Condusse energicamente il suo seguito attraverso la sala e poi in cucina. Aprì la porta pesante e la lasciò spalancata mentre li guidava giù per i gradini. La cantina era stata scavata con fatica nelle ossa rocciose dell'isola. Non c'erano finestre, ma Kennit non si preoccupò di accendere una torcia. Non intendeva rimanere laggiù molto a lungo. Era un luogo uniformemente fresco, in inverno e in estate. Era stata una buona cantina per il vino. Non rimaneva traccia di quell'uso. Le catene arrugginite sul pavimento e le strane macchie ricordavano che più tardi era stata usata come prigione sotterranea e camera di tortura per quelli che avevano scontentato Igrot. Ora poteva servire di nuovo a quello scopo. «Incatenatelo» ordinò ai faccia-di-mappa. «Assicuratevi che sia legato bene. Fissate le catene a uno di quegli anelli nel muro. Non voglio che tenti di infastidire la piccola Caviglia quando viene con il cibo e l'acqua. Se viene con il cibo e l'acqua.» «State tentando di spaventarmi.» Da qualche parte il capitano Haven aveva trovato un ultimo brandello di autocontrollo. «Non mi faccio spaventare facilmente. L'unico problema è che non ho idea di cosa vogliate da me. Perché non me lo dite?» Riuscì perfino a tenere la voce salda mentre il faccia-di-mappa lo conduceva giù per i gradini ripidi. La donna era andata avanti a cercare le catene mentre il suo docile e implacabile compagno si occupava di Haven. «Malgrado quello che vi ha detto mio figlio, non sono un uomo irragionevole. Tutto è negoziabile. Anche se tenete la nave e il
ragazzo, potrete ottenere un bel riscatto per me. Ci avete pensato? Valgo molto di più da vivo che da morto. Avanti. Non sono un uomo avaro. Se mi tenete qui non ne trae profitto nessuno.» Kennit sorrise sardonico. «Mio caro capitano, non tutto nella vita è profitto. A volte è convenienza. Tenervi qui mi conviene.» Kyle mantenne la calma. Lottò selvaggiamente ma in silenzio quando i ceppi arrugginiti scattarono alle caviglie. Non gli servì. Il tempo trascorso chiuso nella sua cabina lo aveva consumato. Ciascuno dei faccia-di-mappa avrebbe potuto sconfiggerlo da solo. Insieme lo manovrarono come un bambino di cinque anni recalcitrante. Il lucchetto delle catene era arrugginito, ma le vecchie chiavi appese al gancio accanto alla porta di cucina giravano ancora. Kennit pensò di scorgere il momento preciso in cui l'uomo si spezzò. Fu allo scatto sommesso del lucchetto. Fu allora che cominciò a imprecare. Giurò vendetta e invocò la collera di una dozzina di dèi mentre risalivano i gradini e lo lasciavano lì. Quando chiusero la porta, imprigionandolo nella buia umidità, Haven si mise a gridare. La porta della cantina era pesante e ben costruita. Chiudendosi bloccò le sue grida, proprio come Kennit ricordava. Appese di nuovo le chiavi al gancio. «Mostrate a Caviglia il modo per arrivare qui. Voglio che costui rimanga in vita. Capito?» La donna annuì. Osservandola, Dedge annuì a sua volta. Kennit sorrise, soddisfatto. Lì sarebbero stati bene. La vita su Isola Chiave offriva più dei loro sogni più folli. Avrebbero avuto la loro casetta, molto cibo, la pace e un luogo dove allevare il loro bambino. Aveva comprato le loro vite così semplicemente, rifletté. Strano come gli uomini resistessero selvaggiamente alla schiavitù, solo per vendersi per una semplice opportunità. Lo seguirono mentre tornava alla casetta. Kennit parlò girando la testa. «Mia madre può mostrarvi tutto ciò che avete bisogno di sapere dell'isola. I maiali selvatici abbondano. Ci sono anche capre. L'isola può fornire quasi tutto quello che vi serve. Potete prendere qualsiasi cosa, se è fuori dalla casa grande. In cambio vi chiedo solo di fare i lavori più pesanti per mia madre. Inoltre, accertatevi che il sacerdote non tenti di andarsene. Se lo fa, mettetelo nella cantina con il capitano. Incoraggiatelo a intrattenere mia madre.» Si fermò e si girò a guardarli quando giunsero alla porta della casetta. «Ho dimenticato qualcosa?» chiese loro. «C'è qualcosa che non capite?» «È tutto perfettamente chiaro» rispose in fretta la donna. «Rispetteremo la nostra parte dell'accordo, capitano Kennit. Non dubitate.» Si mise una
mano sul ventre, come per fare una promessa al bambino piuttosto che a lui. Quello, più di qualsiasi altra cosa, lo convinse di aver scelto bene. Annuì soddisfatto. Si era sbarazzato di Sa'Adar senza la malasorte associata all'uccisione di un sacerdote. Kyle Haven sarebbe stato dove né Wintrow né Kennit dovevano preoccuparsene, eppure era disponibile per essere riscattato più tardi se Kennit così decideva. Anche la soluzione per gli altri era stata conveniente. Avevano portato a riva la barca e fatto in modo che né il sacerdote né il capitano causassero problemi. Sì. Un piano ben riuscito. Entrò nella casetta e gettò uno sguardo attorno. Il sacerdote stava in piedi in un angolo, a braccia conserte. Non sembrava pregare. Sua madre era china sulla cassa aperta, lanciando esclamazioni sommesse per i contenuti. Aveva già indossato gli orecchini turchesi. Quando Kennit entrò nella stanza, Caviglia zoppicò dal focolare al tavolo con un vassoio di fresco pane non lievitato. Sul tavolo c'era una ciotola di conserva di more, e una fetta di burro giallo di primavera. Accanto al burro un infuso d'erbe fumava dal coperchio rotto di una teiera. Il tavolo era apparecchiato con stoviglie di ogni tipo. Non c'erano due tazze uguali. Kennit conobbe un momento di fastidio. Anche se coloro che aveva riunito lì non avrebbero mai lasciato l'isola, non gli piaceva che qualcuno vedesse sua madre vivere in tali condizioni. Un giorno sarebbe stato re, e simili storie non gli avrebbero fatto bene se fossero circolate. «La prossima volta che vengo a trovarti, mamma, ti porterò un servizio da tè completo» annunciò. «So che sei affezionata a questi vecchi pezzi, però...» Lasciò che le parole si spegnessero e prese un pezzo di pane caldo. Sua madre borbottava mentre gli versava una tazza di tè e gli offriva l'unica sedia al tavolo. Kennit sedette con gratitudine. La testa della gruccia cominciava a irritarlo dolorosamente. Spalmò il burro sul pane e vi versò la conserva. Al primo morso fu quasi travolto da un'onda di ricordi sensoriali. Quei cibi umili, ancora così deliziosi al suo palato, erano come fantasmi. Appartenevano al mondo di un bambino piccolo, coccolato e soddisfatto e sicuro al di là di ogni immaginazione. Tutto ciò era stato tradito quasi trentacinque anni prima. Strano che quel sapore dolce potesse richiamare tanta amarezza. Consumò il resto del pane e altri tre pezzi, preso tra apprezzamento e ricordi dolorosi. Sua madre invitò a gesti gli altri a rimanere in piedi attorno al tavolo e unirsi al pasto. Solo il sacerdote esitò. Il suo sguardo altezzoso incluse Kennit. Il pirata non se ne curò. Presto la fame lo avrebbe guarito dalla sua
arroganza. Per il momento era una riunione stranamente piacevole. Sua madre borbottava nel suo modo cantilenante. I faccia-di-mappa rispondevano ai suoi segni e parole tacite con cenni e sorrisi, ma parlando poco: il suo mutismo sembrava contagioso. Caviglia appariva quasi competente in quella situazione umile. Prese la spazzola e spazzò le ceneri nel focolare senza che le venisse chiesto. I suoi occhi avevano già perso parte dell'espressione ferita. Kennit la riconsiderò per un momento. Voleva una serva docile per sua madre; sperò che la ragazza non recuperasse troppo il suo spirito. Finì il tè e si alzò. «Bene. Devo andare. Ora, mamma, non cominciare. Sai che non posso restare.» Malgrado le sue parole, la donna gli afferrò la manica. L'occhiata implorante nei suoi occhi era eloquente, ma Kennit scelse di non capire. «Non dimenticherò le tazzine da tè, lo prometto. Le porterò la prossima volta che vengo. Sì, coperte di piccoli disegni graziosi, me lo ricorderò. So cosa ti piace.» Mentre toglieva con fermezza le sue mani dalla manica, parlò agli altri. «Occupati di lei come si deve, Caviglia. Mi aspetto di trovare un bel bambino grasso quando torno, Dedge. Senza dubbio ce ne sarà un altro in arrivo, eh?» Si sentiva molto patriarcale. Pensò che poteva scegliere altri per venire a vivere lì. Poteva diventare il regno segreto all'interno di un regno. Quando si staccò da sua madre lei si arrese, come faceva sempre. Crollò sulla sedia, chinò la testa fra le mani e pianse. Piangeva sempre. Non aveva senso per Kennit. Quante volte aveva visto che le lacrime non risolvevano niente? Eppure piangeva. Il pirata le batté cautamente la mano su una spalla e si diresse verso la porta. «Io non resto qui» dichiarò il sacerdote. Kennit si fermò per fissarlo. «No?» chiese piacevolmente. «No. Torno alla nave con voi.» Kennit rifletté. «Peccato. Sono certo che mia madre apprezzerebbe la tua presenza. Sei sicuro di non ripensarci?» La bonaria cortesia del pirata sembrò scuotere Sa'Adar, che girò attorno lo sguardo. La madre di Kennit piangeva ancora. Caviglia si era avvicinata e le accarezzava cautamente la spalla. Dedge e Saylah guardavano solo Kennit: la loro attesa vigile e ansiosa ricordò al pirata due cani da caccia ben addestrati. Fece un piccolo cenno con la mano; i due faccia-di-mappa si rilassarono leggermente ma rimasero all'erta. Il sacerdote guardò di nuovo Kennit. «No. Non rimango. Non c'è nulla
qui per me.» Kennit emise un lieve sospiro. «Ero così sicuro che saresti rimasto. Ne ero certo. Bene. Se non vuoi restare, almeno fai qualcosa per mia madre prima di partire. Benedici la casa o la vacca.» Sa'Adar gli rivolse un'occhiata sdegnosa. Era come se il pirata gli avesse dato un ordine più adatto a un cavallo o a un cane. Girò il viso e guardò la donna in lacrime. «Suppongo di poterlo fare.» «Lo pensavo. Prenditi il tempo che ti serve. Come hai notato, ultimamente non mi muovo in fretta. Ti aspetto alla spiaggia.» Kennit scrollò le spalle. «Potrai remare per me.» Vide il sacerdote riflettere. Sapeva che il pirata non poteva superarlo nella corsa. C'erano poche possibilità che potesse lanciare la scialuppa da solo. Sa'Adar annuì con riluttanza. «Arrivo subito. Benedirò la casa e il giardino.» «Molto gentile da parte tua» esclamò Kennit deliziato. «Ci vediamo sulla spiaggia, allora. Addio, mamma. Non dimenticherò le tue tazzine.» «Capitano?» osò chiedere Saylah a bassa voce. «Vi serve aiuto per lanciare la scialuppa?» Gettò uno sguardo obliquo al sacerdote con occhi socchiusi. La sua offerta era chiara. Kennit riuscì a sorridere. «No, grazie lo stesso. Sono sicuro che il sacerdote e io ce la caveremo. Tu resta qui e sistemati. Addio.» Si piazzò saldamente la gruccia sotto il braccio e cominciò il suo viaggio dondolante verso la scialuppa. La terra dell'orto era molle. Poi il sentiero lo costrinse a salire. Kennit non si era reso conto di essere tanto stanco. Tuttavia perseverò finché non fu invisibile dalla casupola, e allora si fermò. Si asciugò il sudore dal viso e rifletté. Decise che non aveva bisogno di temere la slealtà dal sacerdote. Non ancora, in ogni modo. Sa'Adar aveva bisogno di tornare alla nave. Non sarebbe stato accolto a bordo senza il capitano. Prese un ritmo più tranquillo. Una volta si fermò e ascoltò il frusciare di un maiale nel sottobosco. Non veniva dalla sua parte, quindi proseguì. Quasi si aspettava che il sacerdote lo raggiungesse prima di arrivare alla spiaggia, ma non fu così. Forse stava impartendo una benedizione molto lunga sulla casa. Sua madre sarebbe stata contenta. La sabbia della spiaggia era asciutta e mobile. La gamba di legno tracciava un solco. Era così stanco. Riusciva appena ad alzare la gamba a sufficienza per non rimanere bloccato. Giunse alla scialuppa e sedette sul bordo. La marea stava salendo. Presto avrebbe sollevato la barca; ma ci
voleva un lungo tragitto a remi per raggiungere la nave. Aveva sopravvalutato la propria forza? Il calore del giorno e la fatica dolorante del corpo agivano contro di lui. Voleva appisolarsi. Voleva rimanere seduto e galleggiare nel caldo pomeriggio. Invece si massaggiò l'ascella dolorante dove la gruccia lo aveva irritato. Si riscosse, chiedendosi se il sacerdote era in ritardo perché aveva voluto visitare il capitano Haven. No. Dedge non lo avrebbe permesso. A meno che non fossero in combutta. Se era così, presto sarebbero venuti a ucciderlo. Avrebbero già ucciso sua madre, naturalmente. Avrebbero trovato il tesoro, nascosto con cura nella casa grande. Sarebbero venuti a ucciderlo, perché era stato stupido. Poi cosa avrebbero fatto? Non potevano tornare alla nave. O sì? C'era in quel luogo un tesoro abbastanza grande per comprare Sorcor ed Etta, Wintrow e Brig? Forse. Il suo cuore si gelò di rabbia per la propria stupidità. Poi sorrise, un sorriso di lupo. Forse il tesoro bastava a comprare cuori umani. Ma non quello di Vivacia. La nave era già giunta ad amarlo. Kennit lo sapeva. Non si poteva comprare o rubare il cuore di un veliero vivente. Il cuore di un veliero vivente era fedele. Igrot lo aveva dimostrato, molti anni prima. Kennit sorrise, preparandosi ad aspettare. Finalmente il sacerdote arrivò a passo pesante, come un uomo furioso. E allora, pensò Kennit, hai davvero tentato di convincere Dedge. E hai fallito. Girando la testa per guardare Sa'Adar, Kennit fu certo della sua congettura. A giudicare dall'aspetto sgualcito, il sacerdote era sfuggito per un pelo a un brutto pestaggio. Il viso era troppo rosso per essere giustificato dalla camminata fino alla barca. Mentre si avvicinava, Kennit salì sulla scialuppa e sedette al posto del rematore. Non perse tempo in saluti. «Spingila in acqua.» Sa'Adar lo guardò torvo. «Sarebbe più facile se la scialuppa fosse vuota.» «È probabile» concordò Kennit, amichevolmente. Non si mosse. Il sacerdote non era fiacco, ma non era neanche un marinaio indurito. Prese la scialuppa e spinse. Non accadde nulla. «Aspetta un'onda» suggerì Kennit. Sa'Adar strinse i denti ma seguì il suggerimento. Il fondo della scialuppa grattò la sabbia e poi all'improvviso galleggiò libero. «Continua a spingere, o si insabbia di nuovo» lo avvertì Kennit mentre prendeva i remi. Presto Sa'Adar avanzava nell'acqua accanto alla scialuppa, tentando di tirarsi su. Kennit remava con ritmo regolare. Era passato diverso tempo da quando
aveva remato, ma il corpo lo ricordava abbastanza bene. Puntò la gamba di legno contro il fondo della barca per non scivolare. Anche così era difficile manovrare uniformemente i remi. Un'ondata di desolazione lo sommerse: nulla sarebbe mai stato davvero come prima. Aveva perso una parte del suo corpo, e per il resto della sua vita tutte le sue azioni avrebbero dovuto compensare quello che mancava. «Aspettate!» protestò Sa'Adar, affannandosi per salire a bordo. Kennit lo ignorò e continuò a remare. Sa'Adar era solo mezzo dentro quando l'onda successiva sollevò la scialuppa. Il sacerdote si arrampicò a bordo come un marinaio d'acqua dolce, ansando e rabbrividendo mentre il fresco vento marino investiva i suoi abiti fradici. Kennit tirò i remi in barca e si accinse a cambiare posto. Perfino con una gamba di legno e una gruccia, fu contento di scoprire che si muoveva con più grazia di Sa'Adar. Il sacerdote, tenendosi le braccia attorno al corpo, sogghignò. «Vi aspettate che io remi?» «Così ti scaldi» fece notare Kennit. Sedette a prua, reggendo la gruccia, e contemplò la fatica di Sa'Adar. Remare su una scialuppa, perfino in un giorno calmo, diventa presto un lavoro pesante. Il sacerdote doveva anche lottare con un vento crescente e un mare increspato. Manovrava i remi in modo asimmetrico, a volte facendoli rimbalzare e schizzare sulla superficie dell'acqua. Anche quando affondavano bene il progresso era lento. Kennit era indifferente. Nell'energia furiosa che Sa'Adar metteva nel suo compito scorgeva la sua impazienza di tornare a bordo della nave. Decise di impegnarlo anche in una conversazione. «E allora, sei soddisfatto della punizione inflitta al capitano Haven?» Sa'Adar aveva poco fiato da sprecare, ma non resistette alla tentazione di predicare. «Volevo vederlo prima di andare. Sputargli addosso ancora una volta e augurargli gioia dalle sue catene e dall'oscurità.» Prese fiato. «Dedge non me lo ha permesso. Lui e Saylah si sono rivoltati contro di me.» Un altro respiro. «Se non fosse stato per me, adesso sarebbero schiavi a Chalced. Non sarebbero più insieme, e il bambino di Saylah potrebbe festeggiare la sua nascita con un tatuaggio sulla faccia.» Ora stava ansimando. «Tieni la prua della scialuppa verso le onde. Vedi la punta di quell'isola? Dove ci sono due alberi separati dalla foresta? Tienici gli occhi sopra e rema in quella direzione.» Sa'Adar assunse un cipiglio esasperato. «Un uomo solo non può mano-
vrare questa barca! Dovreste sedere sulla panca accanto a me e aiutarmi. Ci sono voluti quattro rematori per portarci a riva.» «La barca era più pesante. Inoltre sono molto stanco per la nostra escursione. Ti ricordo che sono ancora convalescente da una grave ferita. Prima o poi forse prenderò i remi e ti permetterò di riposare.» Kennit rivolse il viso alla brezza e socchiuse gli occhi. Il sole brillante danzava sull'acqua in movimento. All'improvviso anche la stanchezza era piacevole. Quello che aveva fatto era necessario. Aveva intrapreso da solo un'azione indipendente e fisica. Aveva dimostrato di poter ancora piegare gli altri alla sua volontà con poco più delle parole. Il suo corpo era stato diminuito, ma bastava alla sua ambizione. Avrebbe trionfato. Re Kennit. Re Kennit delle Isole dei Pirati. Avrebbe davvero posseduto un giorno o l'altro un palazzo su Isola Chiave? Forse dopo la morte di sua madre poteva stabilirsi là. Come aveva previsto una volta suo padre, l'apertura della baia di Isola Serratura poteva essere fortificata facilmente. Sarebbe stata una fortezza meravigliosa. Kennit stava ancora costruendo le sue torri quando Sa'Adar parlò di nuovo. «Ormai dovremmo vedere le navi.» Il pirata annuì. «Se tu manovrassi i remi come un uomo, invece di schiaffeggiare o accarezzare l'acqua, avremmo giù superato la punta di quell'isola. Allora scorgeremmo le navi, anche se avremmo ancora un lungo tratto davanti a noi. Continua a remare.» «Stanotte il viaggio non sembrava così lungo.» «Le cose non sembrano mai altrettanto lunghe o difficili quando le fa qualcun altro. È come comandare una nave. Sembra facile quando non si è il capitano.» «Vi prendete gioco di me?» Sa'Adar riuscì a essere sprezzante perfino senza fiato. Kennit scosse la testa con mestizia. «Mi tratti ingiustamente. Dire a un uomo qualcosa che avrebbe dovuto imparare tempo fa significa forse prendersi gioco di lui?» «Quella nave... di diritto... è mia. L'avevamo... già catturata... quando siete arrivato.» Il respiro di Sa'Adar si faceva più affannoso. «Ecco, vedi? Se non fossi arrivato e non avessi messo a bordo un equipaggio di prima scelta, ora la Vivacia sarebbe in fondo al mare. Neanche un veliero vivente può navigare da solo.» «Ci saremmo... riusciti.» All'improvviso Sa'Adar gettò giù i remi. Uno cominciò a scivolare in acqua attraverso lo scalmo. Il sacerdote lo afferrò e
lo tirò quasi tutto in barca. «Dannazione, è il vostro turno!» ansimò. «Io valgo quanto voi. Non sarò più trattato come il vostro schiavo.» «Il mio schiavo? Non ti ho chiesto nulla che non avrei chiesto a qualsiasi marinaio.» «Non mi potete comandare. Non potrete mai! E non rinuncerò alla mia pretesa sulla nave. Dovunque andiamo, farò in modo che tutti sappiano della vostra ingiustizia e avidità. Non so come tanti possano adularvi! La vostra povera madre, abbandonata a un'amara vita di solitudine, per chissà quanto tempo! Tornate a visitarla meno di mezza giornata, lasciandole solo un baule di gingilli e una serva idiota. Come potete comportarvi così? Una madre va sempre riverita come il simbolo dell'aspetto femminile di Sa! E invece la trattate come fate con tutti. Come una schiava! Ha tentato di parlarmi, poverina. Non ho capito cosa la angosciasse tanto, ma non era la mancanza di tazzine!» Kennit non seppe trattenersi. Rise ad alta voce. Sa'Adar si infuriò al punto che il suo viso si fece ancor più rosso. «Bastardo!» sputò. «Bastardo senza cuore!» Il pirata gettò uno sguardo attorno. Ormai la punta dell'isola non era lontana. Poteva farcela. Una volta arrivato, se era troppo stanco, agitando il cappotto legato a un remo poteva richiamare qualcuno dalla Marietta o dalla Vivacia. A quel punto lo stavano cercando di certo. «Che linguaggio, per un sacerdote! Dimentichi chi sei. Ecco. Remerò per un po', mentre ti riprendi.» Quello calmò Sa'Adar. Si alzò dalla panca. Mezzo acquattato in una posa innaturale, si massaggiò la schiena dolorante aspettando che Kennit scambiasse di posto con lui. Il pirata tentò di alzarsi, ma sedette di nuovo pesantemente. Il piccolo vascello ondeggiò. Sa'Adar gridò e afferrò con violenza le falchette. Kennit fece una smorfia di imbarazzo. «Sono tutto rigido» grugnì. «Oggi mi sono sforzato più di quanto credessi.» Emise un faticoso sospiro. Socchiuse gli occhi all'occhiata sdegnosa sul viso del sacerdote. «Va bene. Ho detto che avrei remato e lo farò.» Raccolse la gruccia, la afferrò saldamente e poi tese la punta verso Sa'Adar. «Quando te lo dico, tirami su. Una volta in piedi scommetto che riuscirò a spostarmi.» Sa'Adar afferrò l'estremità della gruccia. «Ora» gli disse Kennit, e tentò di alzarsi. Crollò a sedere ancora una volta. Strinse i denti con severa determinazione. «Di nuovo» ordinò al sacerdote. «E questa volta, mettici un po' di energia.» L'uomo sfinito afferrò la gruccia a due mani. Kennit migliorò la presa.
«Ora!» ordinò. Mentre il sacerdote tirava, il pirata si gettò all'improvviso in avanti, spingendo con tutta la sua forza sulla gruccia. Colpito al petto, il sacerdote crollò all'indietro, agitando selvaggiamente le braccia. Kennit sperava che finisse subito fuori bordo. Invece l'uomo cadde di traverso sulla falchetta, quasi fuori della barca ma non del tutto. Rapido come una tigre, Kennit balzò in avanti. Tenne il baricentro basso, non come quel marinaio d'acqua dolce. Afferrò un piede di Sa'Adar e lo sollevò. Cadendo fuori bordo, l'uomo colpì duramente Kennit in faccia con il piede nudo. La testa del pirata scattò all'indietro; sentì il caldo flusso del sangue dal naso. Lo asciugò in fretta sulla manica, poi si precipitò alla panca del rematore e afferrò i remi. Li infilò bene negli scalmi e cominciò a remare con forza. Un istante più tardi la testa del sacerdote emerse nella scia della barca. «Maledetto!» gridò. «Sa ti maledica!» Kennit si aspettava che affondasse di nuovo. Invece Sa'Adar si mise a inseguire la scialuppa con lunghe bracciate potenti. Dunque era un nuotatore. Kennit non l'aveva calcolato. Peccato che il mare in quelle isole fosse più caldo. Non poteva sperare che il freddo lo uccidesse in fretta. Forse avrebbe dovuto farlo lui. Kennit non si sforzò. Stabilì un ritmo costante e lo mantenne. Non aveva mentito a Sa'Adar: era rigido, ma il movimento stava sciogliendogli i muscoli. Il sacerdote nuotava con le rapide bracciate frenetiche di un uomo disperato. Sa'Adar stava guadagnando sulla scialuppa; il suo corpo offriva molta meno resistenza alle onde rispetto alla barca alleggerita. Quando fu a una bracciata o due, Kennit tirò a bordo i remi con attenzione ed estrasse il pugnale dalla cintura. Si spostò a poppa e attese. Non puntava a un colpo mortale. Avrebbe dovuto estendersi troppo e rischiava di farsi trascinare in mare dal sacerdote. Invece, ogni volta che l'uomo mezzo annegato si protendeva verso la barca, Kennit gli lacerava le mani. Tagliò i palmi tesi, ferì le nocche quando Sa'Adar afferrò la poppa. Rimase silenzioso come la morte mentre il sacerdote lo malediceva, urlava e poi implorava pietà. Quando afferrò il fianco della barca e si aggrappò ostinatamente, il pirata arrischiò un taglio verso il viso dell'uomo, per accecarlo. Eppure Sa'Adar rimaneva attaccato, supplicando e implorando misericordia. Kennit si infuriò. «Ho tentato di lasciarti vivere!» ruggì. «Dovevi solo fare quello che volevo. Hai rifiutato! Ecco il risultato!» Azzardò una pugnalata, e la lama affondò nel lato della gola del sacerdote. In un istante le mani di Kennit erano calde e viscide di sangue più den-
so e salato del mare stesso. Sa'Adar si staccò dalla barca all'improvviso. Il pirata abbandonò il manico del pugnale e lo lasciò andare. Per un'onda, poi due, il corpo galleggiò a faccia in giù sull'acqua. Poi il mare lo ingoiò. Kennit sedette per qualche tempo, guardando l'acqua vuota dietro la barca. Poi si asciugò le mani sul davanti della giacca. Con lentezza si trasferì alla panca del rematore e prese i remi. Le mani cominciavano a produrre vesciche. Non gli importava. Avrebbero fatto male, ma non gli importava. Era finita, e sarebbe vissuto. Lo sapeva con certezza, come sapeva che la sua buona sorte lo seguiva ancora. Alzò gli occhi e frugò l'orizzonte. Ancora poco e sarebbe arrivato al punto dove le vedette delle navi potevano scorgerlo. Sorrise fra sé. «Scommetto che Vivacia mi vedrà per prima. Scommetto che in questo momento sa che sto tornando da lei. Cercami, mia signora! Gira intorno quei begli occhi!» «Forse dovrei aprirle io quei begli occhi» suggerì una vocina nelle vicinanze. Kennit quasi perse la presa sui remi. Guardò l'amuleto legato al suo polso, da tempo silenzioso. Il suo viso in miniatura, ora scarlatto di sangue, lo guardò battendo le palpebre. La piccola bocca si aprì, e una minuscola lingua emerse per leccare le labbra, come assetata. «Cosa penserebbe del suo eroico capitano, se ti conoscesse come ti conosco io?» Kennit sogghignò. «Credo che ti riterrebbe un bugiardo. È stata con me, e conosce gli abissi del mio cuore. Lei e il ragazzo. E mi amano ancora.» «Forse lo credono» concesse amaramente l'amuleto. «Ma solo una creatura ha visto il fondo del tuo cuore sporco e nero e tuttavia ha scelto di esserti leale.» «Ti riferisci a te stesso, presumo» azzardò Kennit. «Non hai molta scelta in proposito, amuleto. Sei legato a me.» «E tu sei legato a me altrettanto strettamente» rispose l'amuleto. Kennit scrollò le spalle. «Così siamo legati l'uno all'altro. E sia. Ti suggerisco di trarne il meglio, e compiere il dovere per cui sei stato creato. Forse così entrambi vivremo più a lungo.» «Non sono mai stato creato per alcun dovere verso di te» lo informò l'amuleto. «Né la mia vita dipende dalla tua. Ma nell'interesse di qualcun altro farò quello che posso per preservarla. Almeno per qualche tempo.» Il pirata non rispose. Le vesciche sul palmo destro si ruppero e bruciarono. Un'espressione in parte ghigno e in parte sorriso accese la faccia scura di Kennit. Un piccolo dolore non era nulla. La sua buona sorte resisteva. Un uomo poteva fare molto con la buona sorte.
18 Desideri realizzati «Che ne avete fatto di mio padre?» Kennit alzò lo sguardo dal vassoio di cibo che Wintrow gli aveva appena messo davanti. Il pirata era rivestito, lavato e pettinato. Quello sforzo finale lo aveva esaurito. Tutto quello che voleva adesso era il suo cibo. Gli erano bastati i piagnucolii smaniosi di Etta su quanto la sua lontananza l'avesse angosciata. Dopo che gli aveva tirato fuori i vestiti freschi, Kennit l'aveva bandita dalla stanza. Nulla irritava i suoi nervi più che avere fra i piedi qualcuno che si agitava. Non tollerava quell'atmosfera a cena. Ignorò il ragazzo. Raccolse un cucchiaio con la mano dolente e mescolò la zuppa. Pezzi di carota e pesce salirono in superficie. «Vi scongiuro. Devo sapere. Cosa avete fatto a mio padre?» Kennit guardò il ragazzo con una risposta salata sulla punta della lingua, poi rinunciò. Wintrow era pallido come poteva esserlo un giovanotto abbronzato e bruno di carnagione come lui. Stava in piedi molto diritto e immobile, quasi composto. Il respiro rapido e i denti stretti sul labbro inferiore lo tradivano. Gli occhi scuri erano tormentati. Il giovincello doveva sentirsi male, ma bisognava prendersi la responsabilità per le proprie scelte. «Ho solo fatto quello che mi hai chiesto. Ora tuo padre è in qualche altro posto. Non devi preoccuparti di lui, non devi vederlo, o litigare con lui.» Prima che Wintrow potesse chiedere, Kennit aggiunse: «È al sicuro. Quando mantengo una promessa, non faccio le cose a metà.» Wintrow si piegò leggermente in avanti, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. «Non era mia intenzione» disse in un bisbiglio rauco. «Non così, non farlo sparire mentre dormivo. Per favore, signore. Riportatelo indietro. Mi prenderò cura di lui e non mi lamenterò.» «Ho paura di non poterlo fare» replicò Kennit affabile. Rivolse a Wintrow un lieve sorriso per riassicurarlo, ma lo rimproverò con dolcezza: «La prossima volta, accertati di volere quello che chiedi. Ho fatto molta fatica per darti questo.» Prese una cucchiaiata di zuppa. Voleva mangiare in pace. Era ora di porre fine all'impertinenza di Wintrow. «Mi aspettavo che fossi grato, non dispiaciuto. Tu hai chiesto. Te l'ho accordato. È tutto. Versami il vino.» Wintrow si mosse rigidamente per obbedire. Poi indietreggiò dalla tavola e rimase in piedi come raggelato, gli occhi fissi sul muro. Bene. Kennit
si dedicò al cibo. L'esercizio fisico gli aveva messo un appetito meraviglioso. I muscoli dolevano e dopo il pasto intendeva riposare, ma a parte quello si sentiva avveduto e competente. Gli aveva fatto bene. Doveva farsi imbottire da Etta la gruccia e la coppa per il moncone, e poi avrebbe potuto uscire e muoversi di più. Tentò di decidere se poteva adattare il piolo della gamba di legno per poter scalare di nuovo il sartiame. Gli era piaciuto arrampicarsi, perfino in mezzo alle tempeste. Lassù il vento sembrava sempre più pulito, e le possibilità della vita ampie come l'orizzonte. «C'era sangue su tutta la vostra giacca. E sul lato della scialuppa.» Le parole ostinate di Wintrow irruppero nella sua fantasticheria e nella cena. Kennit sospirò e depose il cucchiaio. Wintrow fissava ancora il muro, ma la rigidità suggeriva che cercava di non tremare. «Il sangue non era di tuo padre. Se vuoi saperlo, era di Sa'Adar.» Il sarcasmo strisciò nella voce del pirata. «Per favore, non dirmi che hai rivisto anche i tuoi sentimenti verso di lui.» «Lo avete ucciso perché lo odiavo?» C'era un'incredulità spaventata nella voce di Wintrow. «No. L'ho ucciso perché non ha fatto come volevo. Non mi ha lasciato alternative. La sua morte non è una perdita per te. Nutriva solo disprezzo per te e per tuo padre.» Kennit alzò il bicchiere di vino e lo svuotò. Lo tese a Wintrow. Il ragazzo si mosse a scatti come un burattino mentre lo riempiva di nuovo. «E Caviglia?» osò chiedere con voce angosciata. Kennit batté il bicchiere sulla tavola. Uno schizzo di vino sporcò la tovaglia bianca. «Caviglia sta bene. Stanno tutti bene. Ho ucciso solo Sa'Adar, e l'ho ucciso perché sono stato costretto. Ti ho risparmiato la fatica di doverlo fare tu stesso più tardi. Sembro così sciocco da sprecare il mio tempo in azioni inutili? Non starò qui a farmi tormentare da un mozzo! Pulisci questo lerciume, versami altro vino e vattene.» L'occhiata che rivolse a Wintrow aveva già atterrito molti uomini più robusti. Con sorpresa del pirata, una scintilla di reazione si accese all'improvviso negli occhi del ragazzo. Wintrow raddrizzò la schiena. Kennit sentì di averlo spinto ad attraversare una specie di confine. Interessante. Il ragazzo andò alla tavola e rimosse il cibo e la tovaglia sporca con efficienza silenziosa e selvaggia. Mise una tovaglia pulita, versò con attenzione altro vino, poi parlò. Osò lasciar risuonare la rabbia nella sua voce. «Non deponete le vostre azioni alla mia porta. Io non uccido le persone che mi infastidiscono. Sa dona la vita, e ogni vita che forma ha un significato e uno scopo.
Nessun uomo ha l'abilità di capire pienamente lo scopo di Sa. Piuttosto deve imparare a tollerare quelle persone finché non hanno vissuto per adempiere allo scopo di Sa. Io sono parte del suo progetto per questo mondo, ma la mia parte non è più importante di quella di qualcun altro.» Kennit si era appoggiato allo schienale e aveva incrociato le braccia mentre Wintrow metteva in ordine e predicava. Ora sospirò attraverso il naso. «È perché non sei destinato a essere re.» Un pensiero gli sovvenne e non poté controllare un sorrisetto. «Medita su questo, sacerdote. Forse io sono uno di quelli che devi imparare a tollerare finché non adempirò allo scopo di Sa.» Quando lo sguardo torvo sulla faccia di Wintrow si scurì ancor di più a quella battuta, Kennit rise ad alta voce. Scosse la testa. «Ti prendi così seriamente. Ora vai. Vai a parlare alla nave. Scoprirai che in questo momento la sua rotta segue più da vicino la mia che la tua, penso. Davvero. Vai. E mandami Etta.» Kennit fece un cenno verso la porta. Rivolse di nuovo la sua attenzione al pasto interrotto. Il ragazzo se ne andò senza fretta e chiuse un poco rumorosamente la porta. Kennit scosse la testa. Si stava affezionando troppo a Wintrow, gli permetteva troppe libertà. Se Opal avesse usato quel tono con lui, lo avrebbe fatto frustare prima del tramonto. Scrollò le spalle per la propria clemenza. Era sempre stata uno dei suoi difetti. Era troppo buono per il suo stesso bene. Scosse la testa e lasciò che i suoi pensieri vagassero di nuovo verso Isola Chiave. «Perché non mi hai svegliato?» domandò Wintrow. La rabbia irresoluta verso Kennit ribolliva ancora in lui. «Te l'ho detto.» Vivacia reagì ostinatamente al suo tono. «Eri stanco e dormivi sodo. Non ho visto alcun male in quello che Kennit stava facendo. In ogni modo non avresti potuto fermarlo. Quindi svegliarti non aveva senso.» «Dev'essere venuto qui a prendere Caviglia. La ragazza era qui quando mi sono addormentato.» Un sospetto improvviso lo punse. «Ti ha detto lui di non svegliarmi?» «E anche se fosse?» chiese Vivacia, offesa. «Che differenza farebbe? Toccava comunque a me decidere.» Wintrow guardò a terra. La profondità del suo dolore lo sorprese. «Un tempo saresti stata più leale a me. Mi avresti svegliato, che ti sembrasse saggio o meno. Dovevi sapere che lo avrei preferito.» Vivacia girò la testa e guardò oltre l'acqua. «Non capisco dove vuoi arri-
vare.» «Parli perfino come lui» disse angosciato Wintrow. L'infelicità del ragazzo la spronò più della sua rabbia. «Cosa vuoi che dica? Che mi dispiace se Kyle Haven se n'è andato? Non è così. Non ho avuto un momento di pace da quando ha preso il comando. Sono contenta che se ne sia andato, Wintrow. Contenta. E dovresti esserlo anche tu.» Lo era. Ecco il problema. Un tempo Vivacia se ne sarebbe accorta, ma ormai era così presa dal pirata che considerava solo la prospettiva di Kennit. «Non hai più bisogno di me?» le chiese brusco. «Cosa?» Toccava a Vivacia essere sgomenta. «Perché me lo chiedi? Certo che ho bisogno...» «Perché ho pensato che se sei felice con Kennit forse mi lascerà andare. Voi due potreste semplicemente sbarcarmi sul continente. Potrei tornare al monastero e alla mia vita. Potrei lasciarmi tutto questo alle spalle, come qualcosa che tanto non potrei cambiare.» Fece una pausa. «Ti sbarazzeresti anche di me, come ti sei sbarazzata di mio padre.» «Sembri un bambino geloso» ribatté Vivacia. «Non hai risposto alla mia domanda.» La nave lo fece. Si aprì a lui, e il ragazzo avvertì il suo dolore per quelle parole dure. «Oh» mormorò Wintrow. Nient'altro. Il suo sguardo seguì quello della nave. La Marietta dondolava all'ancora, così vicina che Wintrow scorgeva il viso dell'uomo di guardia. Sorcor non era stato contento quando un preoccupato Brig aveva mandato a chiedere se aveva notizie del capitano. La nuova posizione della Marietta, più vicina alla Vivacia, rifletteva la vigilanza rinnovata del primo ufficiale. Vivacia andò al cuore della lite. «Perché sei geloso del mio affetto per Kennit? Tu ti libereresti del legame che c'è fra te e me, se potessi. Per lui è l'opposto. Si sforza così sinceramente di costruire un rapporto fra noi. Mi parla come nessun altro ha mai fatto. Viene qui, mentre tu svolgi i tuoi compiti, e mi racconta storie. Non solo storie della sua vita, ma leggende popolari, e racconti che ha sentito da altri. E mi ascolta quando parlo. Mi chiede cosa penso, e cosa vorrei fare. Mi rivela i suoi piani per il suo regno e i suoi sudditi. Quando suggerisco qualcosa, è contento. Hai idea di quanto sia bello avere qualcuno che ti parla e ti ascolta?» «Sì.» Wintrow pensava al suo monastero, ma non lo disse ad alta voce. Non ne aveva bisogno. «Non so perché non vuoi dargli un'opportunità» sbottò Vivacia. «Non
posso dire di conoscerlo come conosco te. Comunque entrambi abbiamo visto questo; nutre per te più affezione e benevolenza di quanto tuo padre abbia mai fatto. Lui pensa agli altri. Qualche volta chiedigli di mostrarti i suoi piani per Borgo Baratto. Ha pensato molto a come costruire una torre per avvertirli del pericolo, e dove mettere le fonti per avere acqua più pulita. Pensa a Traverso, anche. Ha disegnato una mappa del paese, con un frangiflutti per migliorare il porto, e nuovi moli. Se solo lo ascoltassero e vivessero come lui desidera, le cose sarebbero molto migliori. Vuole che tutto sia più ordinato e più bello. Inoltre vuole essere tuo amico, Wintrow. Forse quello che ha fatto a Kyle è stata una prepotenza, ma lo hai chiesto tu. Avrebbe potuto guadagnare il benvolere degli schiavi consegnando Kyle nelle loro mani. Lo spettacolo della sua tortura a morte a Borgo Baratto avrebbe portato a Kennit grande rinomanza. Di certo lo sai. Oppure avrebbe potuto chiedere un riscatto a tua madre, riducendo in miseria la famiglia Vestrit per arricchire sé stesso. Non lo ha fatto. Ha semplicemente allontanato quell'uomo crudele e meschino, lasciandolo in un luogo dove non può far male a te o ad altri.» Vivacia prese fiato, poi parve rimanere senza parole. Wintrow si sentiva sommerso da quello che aveva detto. Non immaginava che Kennit avesse tali sogni. Il ragionamento della nave sembrava valido, ma la difesa del pirata ancora lo pungeva. «È per questo che è un pirata, dunque. Per fare del bene.» La nave si sentì insultata. «Non fingo che sia altruista. Né che i suoi metodi siano impeccabili. Sì, ama il potere e ne desidera di più. E quando lo ottiene, lo usa per fare del bene. Libera gli schiavi. Preferiresti che predicasse insulsaggini sulla fratellanza? Che cos'è tutta la tua brama di tornare al tuo monastero, se non un desiderio di ritirarti da quello che è sbagliato nel mondo?» Wintrow rimase a bocca aperta, sbalordito. Un attimo dopo Vivacia confessò coraggiosamente: «Mi ha chiesto di darmi alla pirateria con lui. Lo sapevi?» Il ragazzo tentò di rimanere calmo. «No. Ma me l'aspettavo.» L'amarezza venò la sua voce. «E allora? Cosa c'è di così sbagliato?» chiese Vivacia, sulla difensiva. «Vedi il bene che fa. So che i suoi modi sono aspri. Lui stesso lo ha ammesso con me. Mi ha chiesto se sarei in grado di affrontare ciò che vedrei. Gli ho detto onestamente di quella notte orribile in cui gli schiavi si sono ribellati. Sai cosa ha detto?»
«No. Cosa ha detto?» Wintrow lottò per dominare le sue emozioni. Era così credulona, così ingenua. Non vedeva che il pirata la stava imbrogliando? «Che era stato come il taglio della sua gamba. Aveva sofferto a lungo, pensando che sarebbe migliorato se non faceva niente. Tu gli hai mostrato che doveva sopportare un dolore molto più grande prima che l'angoscia potesse finire. Ha creduto in te, e avevi ragione. Mi ha chiesto di ricordare tutto quello che ho condiviso del tormento degli schiavi, e poi di considerare che su altre navi quel tormento continua. La sua non è pirateria, è un'operazione chirurgica.» Wintrow stringeva forte le labbra. Le schiuse per dire: «Così Kennit d'ora in poi intende attaccare solo navi schiaviste?» «E coloro che traggono profitto dalla schiavitù. Non possiamo catturare ogni nave schiavista tra Jamaillia e Chalced. Ma se la giusta collera di Kennit si fa sentire su tutti coloro che trafficano nella schiavitù, e non solo quelli che governano navi schiaviste, presto tutti saranno costretti a pensare a quello che fanno. I commercianti buoni e onesti si opporranno alla schiavitù quando ne proveranno le conseguenze sulla pelle.» «Non pensi che il Satrapo rinnoverà le perlustrazioni in quest'area? Le sue navi pattuglia cacceranno e distruggeranno le colonie pirata nello sforzo di sbarazzarsi di Kennit.» «Forse, ma non credo che ci riuscirà. Kennit difende una causa santa, Wintrow. Proprio tu dovresti capirlo. Non possiamo lasciarci scoraggiare dalla prospettiva del dolore o del rischio. Se non perseveriamo in questa impresa, chi lo farà?» «Allora gli hai detto che ti darai alla pirateria per lui?» Wintrow era incredulo. «Non ancora» rispose Vivacia con calma. «Ma domani lo farò.» La veste da Mercante di Althea odorava di canfora e cedro. Sua madre l'aveva ritirata per proteggerla dalle tarme. Althea provava molta comprensione per le tarme. Il cedro sarebbe stato tollerabile, in una dose più lieve. La canfora le dava le vertigini. Era stata sorpresa di scoprire che la veste le andava ancora bene: erano trascorsi molti anni da quando l'aveva indossata. Attraversò la stanza e sedette davanti al suo specchio. Una giovane donna femminea le restituì lo sguardo. A volte i suoi giorni di mozzo a bordo della Mietitrice sembravano un sogno. Da quando era tornata a casa aveva
messo su peso. Grag aveva espresso approvazione per come la sua figura si era arrotondata. Mentre si spazzolava i capelli neri e lucenti e poi li puntava in una modesta crocchia, dovette ammettere che non era dispiaciuta del cambiamento. La semplice veste di Mercante non le donava particolarmente. Tanto meglio, si disse, girandosi con lentezza davanti allo specchio. Quella sera non voleva essere considerata una femmina ornamentale, ma la sobria e industriosa figlia di un Mercante. Voleva che le sue parole fossero prese sul serio. Nondimeno fece una pausa per aggiungere un po' di profumo alla gola, e un tocco di colore alle labbra. Gli orecchini di granato, un recente regalo di Grag, le dondolavano alle orecchie. Si intonavano alla veste color magenta. Era stata una giornata intensa. Era andata di persona a interpellare il Concilio di Borgomago. Avevano detto solo che avrebbero valutato la sua mozione. Non dovevano ascoltare lei. Era Keffria la Mercante della famiglia, non Althea, e Keffria aveva detto rigidamente a sua sorella che anche lei avrebbe parlato se l'opportunità si fosse presentata. Althea aveva scritto un messaggio per avvertire Grag della cattura della Vivacia, e aveva mandato Rache a consegnarlo. Poi era andata di persona da Davad Restart, sia per informarlo delle notizie che per chiedergli se poteva dare loro un passaggio al Concilio. Davad era debitamente inorridito, ma era anche riluttante a credere a qualsiasi notizia portata da 'quella canaglia di Trell'. Le assicurò che se la storia si fosse dimostrata vera sarebbe stato vicino a loro nella difficoltà. Althea notò che l'offerta non si estendeva al suo portafoglio. Conosceva Davad troppo bene per aspettarsi assistenza finanziaria da lui: il suo affetto e i suoi soldi erano ben separati. Poi era tornata a casa, aveva aiutato Rache a cuocere il pane della settimana, aveva messo i sostegni ai fagioli nell'orto e aveva legato le piante, e aveva diradato la frutta acerba sui susini e sui meli. Ci era voluto un buon bagno per rendersi di nuovo presentabile. Eppure tutta la sua attività frenetica non era bastata per impedire a Brashen Trell di fare irruzione nei suoi pensieri. La vita di Althea non era già complicata abbastanza senza che lui tornasse a Borgomago? Non che Brashen avesse qualcosa a che fare con la sua vita. Adesso la mente di Althea doveva essere occupata da Vivacia o dalla riunione del Concilio dei Mercanti. O da Grag. Invece Brashen stava lì, ai margini di ogni pensiero, aprendo un intero reame di altre possibilità. Contemplarle la metteva a disagio. Lo allontanava, ma le immagini continuavano a tornare: Brashen seduto al tavolo di cucina che beveva caffè e annuiva alle parole di sua ma-
dre; Brashen che si chinava sul piccolo Selden per prenderlo e portarlo a dormire; Brashen in piedi a gambe larghe come su una tolda, che guardava fuori nella notte dalla finestra dello studio di suo padre. O, si ricordò acidamente, Brashen che cercava di continuo nell'angolo della tasca della giacca il cindin che senza dubbio vi era nascosto. Quell'uomo era la vittima delle proprie decisioni sbagliate. Meglio lasciarlo perdere. Althea si affrettò all'ingresso. Quella sera non voleva essere in ritardo per la riunione. C'erano troppe cose importanti in programma. Con sua sorpresa, Malta stava già aspettando. Althea percorse con occhio critico la nipote, ma non trovò niente da correggere. Si era aspettata che Malta esagerasse in trucchi, profumi e gioielli, ma sembrava quasi posata come Althea. I fiori nei capelli erano il suo unico ornamento. Eppure, perfino abbigliata nella semplice veste di Mercante, la ragazza era splendida. Althea la guardava e non poteva biasimare i giovani che la ammiravano. Stava crescendo. Nell'ultimo giorno e mezzo aveva mostrato molta più maturità di quanta Althea pensava che possedesse. Peccato che ci fosse voluta una crisi in famiglia per rivelarlo. Tentò di accantonare il suo nervosismo e rassicurò sua nipote. «Stai molto bene, Malta.» «Grazie» rispose la ragazza distrattamente. Si rivolse ad Althea, accigliata. «Vorrei che non andassimo alla riunione con Davad Restart. Non penso che facciamo bella figura.» «Sono d'accordo.» Althea si sorprese che Malta ci avesse anche solo pensato. Lei era affezionata a Davad come a uno zio eccentrico e ogni tanto maleducato, quindi si sforzava di ignorare l'errore delle sue attuali inclinazioni politiche. Era d'accordo con sua madre: Davad Restart era stato un amico della famiglia troppo a lungo per lasciare che un disaccordo politico li separasse. Althea sperava solo che l'associazione con lui non indebolisse la sua petizione al Concilio. Doveva sembrare sincera e retta nel suo appoggio alla famiglia Tenira. Sarebbe stato irreparabilmente umiliante se fosse stata considerata una donna sciocca che si schierava in base all'opinione dell'uomo che le era più vicino. Voleva essere ascoltata come Althea Vestrit, non come una ragazzina infatuata di Grag Tenira. «Una carrozza e una coppia di cavalli costa così tanto?» proseguì Malta lamentosamente. «È in arrivo la stagione estiva di balli, tè e feste. Non possiamo dipendere sempre da Davad. Pensa alla figura che facciamo con le altre famiglie di Mercanti.» Althea aggrottò la fronte. «C'è la vecchia carrozza. Se vuoi aiutarmi, po-
tremmo pulirla e oliarla. È molto impolverata, ma è solida. Poi potremmo pensare a noleggiare una coppia di cavalli e un conducente.» Attraversò la stanza per guardar fuori dalla finestra. Poi si girò e rivolse a Malta un sorriso maligno. «O potrei guidare io. Quando avevo la tua età, Hakes, il nostro vetturino, mi lasciava guidare ogni tanto. A papà non dispiaceva, ma la mamma non ha mai approvato.» Sua nipote le diede un'occhiata fredda. «Penso che sarebbe più umiliante che viaggiare nella trappola di Restart.» Althea scrollò le spalle e guardò di nuovo fuori dalla finestra. Ogni volta che pensava di aver stabilito un qualche legame con Malta, la ragazza la rifiutava. Sua madre e Keffria entrarono nella stanza nel momento in cui la carrozza di Davad avanzava sul vialetto. «Non aspettiamo» suggerì Althea, e aprì la porta d'ingresso prima che Davad potesse lasciare la carrozza. «Se Davad entra, vorrà vino e biscotti prima di partire. Davvero non penso che ne abbiamo il tempo» aggiunse allo sguardo di disapprovazione di sua sorella. «Non voglio essere in ritardo» concesse sua madre. Tutti uscirono verso la carrozza. Prima che il vetturino sorpreso fosse del tutto sceso da cassetta, Althea aveva aperto lo sportello. Fece entrare le sue parenti prima di lei. Davad si schiacciò obbediente per fare spazio. Althea sedette accanto a lui. Il profumo al muschio di lui le dava le vertigini quasi quanto la canfora della propria veste. Ebbene, non sarebbe stato un viaggio lungo. Keffria, sua madre e Malta sedettero di fronte a loro. Davad fece un cenno al conducente e la carrozza si avviò con uno strattone. Lo stridore ritmico delle ruote parlava di trascuratezza, come la polvere nelle cuciture dei sedili imbottiti. Althea aggrottò le sopracciglia ma non fece commenti. Davad non era mai stato esperto nell'ottenere il meglio dai suoi servitori. «Guardate cosa ho portato per voi» annunciò l'uomo. Produsse una piccola scatola legata con un nastro. La aprì e offrì loro un assortimento di canditi appiccicosi di gelatina, di quelli che Althea adorava quando aveva sei anni. «So che sono i vostri preferiti» confidò mentre ne prendeva uno e poi passava la scatola alle donne. Althea ne scelse uno con cautela e se lo mise in bocca. Keffria accettò la scatola guardando brevemente negli occhi sua sorella. L'occhiata che si scambiarono parlava di affettuosa tolleranza per Davad. Keffria ne selezionò uno rosso. Davad irradiava soddisfazione. «Bene! Non siete tutte meravigliose? Sarò l'invidia di ogni uomo alla riunione dei Mercanti, arrivando con una
carrozza piena di tanta bellezza. Dovrò aprirmi la strada a bastonate solo per allontanare i giovanotti dallo sportello!» Althea e Keffria sorrisero doverosamente al complimento stravagante, come succedeva da quando erano bambine. Malta sembrava offesa, mentre Ronica commentò: «Davad, sei sempre pieno di adulazione. Pensi che ti crediamo, dopo tanti anni?» Aggrottò la fronte e aggiunse: «Althea, vuoi raddrizzare la sciarpa di Davad? Il nodo è quasi finito sotto l'orecchio.» Althea notò la vera preoccupazione di sua madre. C'era una macchia simile al sugo visibilissima sulla fine seta gialla. La sciarpa non era adatta alla sua veste da Mercante, ma Althea sapeva che era inutile tentare di persuadere Davad a toglierla. La sciolse e la legò di nuovo in modo che la macchia fosse appena visibile. «Grazie, mia cara» disse Davad con affetto, accarezzandole con gratitudine la mano. Althea gli sorrise e gettò uno sguardo a Malta, scoprendo che la fissava con ribrezzo. Sollevò un sopracciglio verso la giovane nipote, chiedendo comprensione. Poteva capire l'intensa antipatia di Malta per Davad. Quando rifletteva sulle recenti azioni del Mercante provava lo stesso disgusto. Si era abbassato alle vili pratiche dei Nuovi Mercanti, e poi li aveva superati aiutandoli contro la propria stessa classe. Ignorando la censura degli altri Mercanti, li difendeva sempre alle riunioni. Agiva da intermediario fra molte delle più disperate famiglie di Mercanti di Borgomago e i Nuovi Mercanti avidi di comprare le loro terre ancestrali. Si diceva che contrattasse abilmente per ottenere le condizioni migliori per i nuovi venuti, non per i Mercanti. Althea faticava a credere la metà di quello che aveva sentito su Davad. Era costretta ad accettare che ormai trafficava in schiavi, non si limitava a usarli sulla sua proprietà,. Era già abbastanza negativo, ma la diceria di gran lunga peggiore era che fosse coinvolto in qualche modo negli sforzi dei Nuovi Mercanti per comprare Paragon. Ora studiava quella specie di zio putativo accanto a lei e rifletteva. Fino a che punto la sua lealtà verso di lui poteva essere tesa prima di spezzarsi? Quella sera sarebbero arrivati al punto di rottura? Per distrarsi, fece conversazione. «Bene, Davad, tu conosci sempre i pettegolezzi più divertenti di Borgomago. Qual è la migliore storia che hai sentito oggi?» Non si aspettava nulla di più che qualcosa di moderatamente scandaloso. Davad era un tipo molto conservatore. L'uomo sorrise al suo complimento e si accarezzò compiaciuto lo stomaco. «La diceria più succosa che ho sentito oggi non è su Borgomago, mia cara; ma se è vera avrà di certo un effetto assai profondo su tutti noi.» Girò
lo sguardo su di loro, conquistando il suo pubblico. «L'ho saputo da un Nuovo Mercante. Uno dei suoi piccioni viaggiatori ha portato un messaggio da Città di Jamaillia.» Fece una pausa, battendosi l'indice contro le labbra sorridenti come se valutasse la saggezza di rivelare quelle notizie. Voleva essere blandito. Althea lo accontentò. «Vai avanti. Siamo sempre interessati agli avvenimenti di Jamaillia.» «Ebbene...» Davad si appoggiò indietro sullo schienale del sedile. «Di certo sapete tutte di quello sfortunato pasticcio l'inverno scorso. La famiglia Khuprus... perdonami, Malta so che il loro ragazzo è innamorato di te, ma parlo di politica, non d'amore... La famiglia Khuprus venne a Borgomago in nome dei Mercanti delle Giungle della Pioggia, per seminare zizzania tra noi e il Satrapo. Tentai di farli ragionare, ma ricorderai che tumulto di folla fu quell'incontro, Ronica. Già. In ogni modo, il risultato fu che una delegazione di Mercanti di Borgomago partì per Città di Jamaillia, portando il nostro statuto originale, con l'intenzione di costringere il Satrapo a rispettare quell'antico documento. Come potevano credere che tali accordi superati potessero essere distorti per applicarsi alla nostra età moderna? Tuttavia la delegazione partì. E furono ricevuti cortesemente, e venne detto loro con fermezza che il Satrapo avrebbe considerato la loro posizione. Non abbiamo più saputo nulla da lui.» Gettò uno sguardo attorno per vedere se gli prestavano attenzione. Erano notizie vecchie, ma Althea ascoltava con deferenza. Malta guardava fuori dal finestrino polveroso. Davad si chinò in avanti sulla pancia e abbassò la voce, come temendo che il conducente origliasse. «Avete tutte udito la diceria che il Satrapo ha promesso di mandare un inviato a Borgomago. Lo aspettiamo da un giorno all'altro. Ebbene, ho sentito che non ci sarà nessun inviato. No! Il Satrapo stesso, giovane magnanimo e avventuroso, ha deciso di venire di persona. Si dice che viaggerà mascherato, solo con poche Compagne scelte, ma ben scortato dalla sua guardia d'onore di Chalced. Si dice che spera di mostrare a Borgomago che ancora considera il nostro insediamento strettamente legato a Jamaillia e alla Satrapia, quanto alcune delle città a Jamaillia stessa. Quando la gente comprenderà ciò che ha sopportato in questo viaggio, e la sua preoccupazione che Borgomago gli rimanga fedele, ecco, non vedo come potranno rifiutare di essere più ragionevoli. Da quanti anni un Satrapo regnante non visita Borgomago? Mai nella nostra vita, eh, Ronica? Alcune famiglie di Nuovi Mercanti che lo hanno sentito dire già progetta-
no balli e feste come Borgomago non ha mai visto. Oh, sarà un momento meraviglioso per una bella fanciulla non impegnata, eh, Malta? Non aver troppa fretta di accettare la corte di quel ragazzo delle Giungle della Pioggia. Con le mie connessioni potrò forse organizzare un invito a un ballo dove attirerai lo sguardo del Satrapo stesso!» Le sue parole produssero l'effetto che sperava. Perfino Malta lo fissò con occhi sbarrati. «Il Satrapo? Qui?» chiese sua madre incredula. «Dovrebbe essere impazzito.» Althea comprese che aveva parlato ad alta voce solo perché Davad si girò a fissarla. «Voglio dire, intraprendere tanto impulsivamente un viaggio così lungo e rischioso!» «Eppure è in viaggio. Così si dice. Ora, non una parola di questo a chiunque, capito?» Non si aspettava davvero che l'ammonimento fosse rispettato. Lo aggiungeva sempre a ogni pettegolezzo che rivelava. Althea stava ancora riflettendo sulla storia quando il conducente frenò i cavalli. La carrozza si fermò, poi ricadde all'indietro con un ultimo scossone. «Chiedo scusa» disse Davad, e si chinò oltre Althea per raggiungere la maniglia. Mise la larga spalla contro lo sportello e spinse, proprio mentre il conducente tirava da fuori. La porta si spalancò e Althea afferrò la veste del corpulento Mercante per impedirgli di rotolare fuori. Il conducente offrì con riluttanza la mano a Davad. Il Mercante scese dalla carrozza, poi con orgoglio porse la mano a ciascuna Vestrit. Grag Tenira indugiava in cima ai gradini fuori della Sala dei Mercanti. Aveva fissato con una cintura la veste blu scura da Mercante nel vecchio stile marinaro, mostrando un sostanzioso ammontare di gambe muscolose e piedi calzati di sandali. In qualche modo riusciva ad apparire un marinaio audace e anche un serio Mercante. Althea ammise che era uno splendore. I suoi occhi che vagavano fra la folla le dissero che stava aspettando il suo arrivo. La ragazza gli aveva spedito all'alba un messaggio sulla cattura della Vivacia. La replica immediata le aveva comunicato tutto il fervido supporto che poteva desiderare. Sarebbe stato al suo fianco, e avrebbe fatto del suo meglio per accertarsi che potesse parlare alla riunione; inoltre aveva aggiunto che la sua famiglia e Ophelia condividevano la preoccupazione per Vivacia. Althea sorrise cogliendo il suo sguardo, e Grag le rispose con un candido sorriso che si gelò quando notò la scorta della ragazza. Althea si congedò quietamente da Davad e salì in fretta i gradini della Sala per incontrare Grag. Il giovane si chinò formalmente sulla sua mano tesa. Raddrizzandosi mormorò: «Avrei dovuto pensare a mandarti una carrozza. Lo farò la pros-
sima volta.» «Oh, Grag. È solo Davad. È un amico di famiglia da tanto tempo. Ci rimarrebbe molto male se rifiutassi di viaggiare con lui.» «Con amici come quello, non c'è da sorprendersi se le fortune dei Vestrit stanno affondando» osservò acido Grag. Per un istante il cuore di Althea divenne ghiaccio. Come poteva insinuare una cosa del genere? Ma le parole successive di Grag le ricordarono quanto anche lui fosse in una situazione angosciosa, e i suoi sentimenti si ammorbidirono. «Ophelia ha chiesto di te. Ha ordinato di offrire a Sa vino bollito per Vivacia. Voleva che tu lo sapessi.» Fece una pausa, poi sorrise con affetto. «Si sta annoiando a morte, ormeggiata al molo della dogana. Ora che il lavoro sulle sue mani è finito, non vede l'ora di navigare di nuovo. Ogni volta che le prometto che torneremo in mare appena possibile, tuttavia, mi implora di trovare un modo per portarti con noi. Le ho detto che me ne veniva in mente solo uno.» Le sorrise in modo accattivante. «E sarebbe?» chiese Althea incuriosita. Voleva offrirgli un lavoro sull'Ophelia? Il suo cuore accelerò. Amava la vecchia matriarca. Grag arrossì e abbassò lo sguardo, ma il suo sorriso indugiava ancora. «Un rapido matrimonio e un viaggio di nozze. L'ho suggerito scherzando, certo. Sarebbe scandaloso! Mi aspettavo che Ophelia mi sgridasse sonoramente. Invece le è sembrata un'idea meravigliosa.» Gettò uno sguardo obliquo ad Althea. «Incidentalmente, mio padre ha pensato lo stesso. Glielo ha detto lei, non io.» Tacque e la guardò con ansia, come se le avesse fatto una domanda. Ma non era così, non direttamente. Perfino se Althea fosse stata follemente innamorata di lui, non avrebbe certo potuto accettare l'offerta mentre il veliero vivente della sua famiglia era in pericolo. Grag non se ne rendeva conto? Althea non riuscì a nascondere la confusione. La sua angoscia si approfondì quando scorse Brashen Trell in fondo ai gradini della Sala. I loro occhi si incontrarono, e per un istante la ragazza non riuscì a distogliere lo sguardo. Grag fraintese la fonte della sua confusione. «Davvero non mi aspetto che tu lo prenda in considerazione» disse in fretta. Tentò di non apparire ferito. «Non qui, non ora. Tutti e due abbiamo troppe preoccupazioni. Stasera alcune potrebbero risolversi. Io lo spero.» «Anch'io» rispose Althea, ma era difficile mettere molto calore nella voce. Troppo stava accadendo dietro Grag. Brashen la guardava come se lo avesse pugnalato al cuore. Non si era cambiato da quando lo aveva visto:
l'ampia camicia gialla e i pantaloni scuri lo facevano sembrare uno straniero fra tutti i Mercanti in vesti lunghe. Grag seguì lo sguardo di Althea. «Lui che ci fa qui?» chiese, come se lei dovesse saperlo. Le prese il braccio. «Ci ha portato notizie della Vivacia» rispose con calma Althea, guardando Grag. Non voleva che Brashen pensasse che lo fissavano e parlavano di lui. Grag la guardò negli occhi con la fronte corrugata. «Lo hai invitato tu?» «No.» Althea scosse lievemente la testa. «Non so perché sia qui.» «Quella con lui è Ambra? Che ci fa qui? Perché sono insieme?» Althea fu costretta a guardare. «Non lo so» mormorò. Ambra indossava una semplice veste color marrone dorato, quasi della stessa tinta delle numerose treccioline che le ricadevano sulle spalle. Era comparsa dal nulla accanto a Brashen. Gli disse qualcosa sottovoce. La sua espressione non era piacevole, ma non guardava Brashen o Althea. Con occhi gialli come un gatto, fissava minacciosa Davad Restart. Un destino irritante aveva stabilito che quella sera tutte le sfaccettature della vita di Althea dovessero entrare in collisione. Davad Restart scorse Grag Tenira e cominciò ad affrettarsi verso di loro. Il Mercante stava già ansando sui gradini della Sala, ma Ronica riuscì a raggiungere Althea per prima. Keffria e Malta erano solo un passo dietro di lei. Ronica e Grag si scambiarono un saluto. Poi sua madre lo guardò negli occhi. «Mia figlia Althea può sedere con te, Grag se lo desideri. So che avete importanti questioni da discutere.» Grag si inchinò con deferenza. «Ronica Vestrit, voi onorate i Tenira con la vostra fiducia. Giuro che ne saremo degni.» «Anch'io ti ringrazio» rispose formalmente Althea a sua madre. Dovette ammirare la sua preveggenza. Ora poteva prendere il braccio di Grag e trascinarlo nell'ingresso prima che Davad arrivasse sbuffando. Almeno quel confronto sarebbe stato evitato. Althea sospinse Grag in modo quasi frettoloso. Tentò di non chiedersi che impressione avrebbe fatto a Brashen la sua partenza affrettata. Nella grande sala, Althea seguì Grag. Si accorse che molti notavano il loro passaggio. Sedersi con la famiglia di Grag durante una riunione come quella era il riconoscimento pubblico di un corteggiamento serio. Per un istante volle staccarsi da lui e raggiungere la sua famiglia. Ma così avrebbe dato l'idea che avessero avuto un disaccordo improvviso. Si dipinse un sorriso garbato sulla faccia e permise a Grag di farla sedere tra sua madre e
sua sorella. Sua madre aveva i capelli grigi, una Mercante solida e temibile. La sorella più giovane rivolse ad Althea il sorriso di un'amica cospiratrice. Si scambiarono saluti sommessi mentre la sala si riempiva di gente e di conversazione. La madre e la sorella di Grag discutevano piano, offrendo le loro condoglianze per la cattura della Vivacia, ma Althea non riusciva a far altro che annuire. Un improvviso nervosismo la afferrò. Pregò che il Concilio le permettesse di parlare. Ripassò freneticamente le sue idee. Doveva in qualche modo far capire agli altri Mercanti che liberare la Vivacia era una necessità per tutta Borgomago, non solo per la famiglia Vestrit. Il tramestio di passi e di voci parve andare avanti per sempre. Mezza dozzina di persone fecero in modo di passare per la panca dei Tenira a scambiare saluti. Althea mantenne il suo sorriso formale. Tutti sembravano aspettarsi che lei e Grag fossero pazzi di gioia per il corteggiamento, piuttosto che interessati alle questioni del momento. La sua irritazione calò quando la madre di Grag le strizzò l'occhio e bisbigliò: «È un bene averti qui. Ci prenderanno più seriamente se è chiaro che siamo uniti.» Sua sorella diede una breve stretta alla mano di Althea. Sebbene si sentisse riscaldare dalla loro considerazione, Althea provò un lieve disagio. Non era sicura di voler essere annessa così in fretta alla loro famiglia. La conversazione si spense quando i membri del Concilio dei Mercanti salirono sul palco. Le loro vesti bianche indicavano che avevano rinunciato temporaneamente alle alleanze di famiglia per essere fedeli solo al bene più grande di Borgomago. Diversi sorveglianti nerovestiti presero posto lungo i muri. Le Riunioni dei Mercanti rischiavano sempre di diventare troppo vivaci, e la loro funzione era di mantenere l'ordine tra il pubblico. Althea osservò i membri del Concilio mentre si salutavano e prendevano posto a una lunga tavola sul palco. Con vergogna si accorse di non conoscere quasi nessuno di loro. Suo padre avrebbe saputo chi erano i suoi alleati e i suoi oppositori; lei non aveva tale competenza. Si udirono i rintocchi che indicavano l'inizio della riunione. Le voci tacquero. Althea sussurrò una breve preghiera a Sa, che guidasse le sue parole. Avrebbe potuto pregare molto più a lungo. In un verboso discorso di apertura, il capo del Concilio dichiarò che c'erano molti temi da coprire, così riteneva giusto occuparsi prima delle dispute più semplici. Althea alzò un sopracciglio interrogativo verso Grag; aveva creduto che la riunione fosse stata espressamente richiesta per ascoltare le preoccupazioni della famiglia Tenira. Il giovane aggrottò la fronte e diede una piccola alzata di spalle.
Furono sottoposti a un'accalorata diatriba tra due famiglie di Mercanti per i diritti su un torrente che confinava con entrambe le loro proprietà. Uno dei due doveva abbeverare il bestiame; l'altro desiderava deviare l'acqua verso i suoi campi. Il lungo dibattito fu risolto dalla prevedibile decisione del Concilio: dovevano dividersi l'acqua. Fu nominato un gruppo di tre arbitri per aiutarli a decidere come. Appena la litigiosa coppia si fu scambiata un inchino ed ebbe ripreso posto, Althea drizzò la schiena con ansia. Era destinata a una delusione. La successiva disputa non fu risolta così facilmente. Il pluripremiato toro di un Mercante aveva impregnato l'armento di un Mercante vicino. Entrambi i Mercanti affermavano di essere la vittima. Uno esigeva un sostanziale compenso per la monta; l'altro ribatteva che avrebbe voluto usare un toro diverso, quindi i vitelli dell'anno non erano quelli che desiderava. Uno affermò che il servitore dell'altro aveva sabotato il recinto; il secondo dichiarò che il proprietario del toro era stato negligente nel tenere confinato l'animale. Il Concilio fu spiazzato e si ritirò in una stanza sul retro dove dibattere più liberamente. Durante l'interruzione gli astanti si agitarono inquieti o chiacchierarono con i vicini. Quando il Concilio ritornò, fu annunciato che i vitelli dovevano essere venduti appena svezzati, e i profitti divisi tra i due Mercanti. Il proprietario del toro avrebbe dovuto rinforzare il recinto. La decisione del Concilio non piacque a nessuno dei due Mercanti, ma era vincolante. Entrambe le famiglie si alzarono e se ne andarono furibonde. Diverse altre famiglie li seguirono, con costernazione di Althea. La ragazza aveva sperato di potersi rivolgere a tutti i Mercanti e non solo al Concilio. Il capo del Concilio dei Mercanti di Borgomago consultò una tavoletta. «La famiglia Tenira ha chiesto di rivolgersi al Concilio per discutere le tariffe del Satrapo imposte contro il veliero vivente Ophelia e la detenzione del detto veliero vivente ai moli della dogana in seguito al mancato pagamento delle tariffe.» Aveva appena smesso di parlare che un Mercante si alzò per rivolgersi al Concilio. Riconobbero il Mercante Daw, che pronunciò in fretta parole chiaramente studiate. «Non è una questione legittima per il Concilio dei Mercanti. La contesa del Mercante Tenira è con l'ufficio doganale del Satrapo, non con un altro Mercante. Dovrebbe rivolgersi a loro, e lasciare che il Concilio dedichi il suo tempo prezioso a questioni che ci riguardano tutti.» Con il cuore che sprofondava, Althea notò Davad Restart, seduto accan-
to a Daw, che annuiva con solennità. Tomie Tenira si alzò. Le spalle tese del vecchio capitano sforzavano le maniche della veste di Mercante. Stringeva i pugni contro i fianchi. Si sforzò di non far trapelare la rabbia dalla voce. «Da quando il Concilio dei Mercanti è ridotto a una bambinaia che reprime liti tra fratelli? Che cos'è il Concilio, se non la voce di Borgomago? La contesa non è tra il funzionario delle tasse e me. Riguarda una tassa ingiusta imposta a tutti gli armatori. Il nostro statuto originale prevedeva che il cinquanta per cento dei nostri profitti andasse nelle casse del Satrapo. È già esorbitante, ma i nostri antenati lo accettarono, e io mi attengo volentieri alla decisione. Ma lo statuto non menziona queste nuove tariffe. E nessun documento dice che dobbiamo tollerare mercenari ladri e assassini di Chalced nei nostri porti.» La voce di Tomie Tenira aveva cominciato a tremare di rabbia. La soffocò, tentando di riprendere il controllo. Davad Restart si alzò. Althea si sentiva male. «Membri del Concilio, tutti i commercianti di Jamaillia pagano tariffe al Satrapo. Perché dovremmo essere diversi? Il Satrapo non è forse il nostro signore buono e giusto? Non dobbiamo sostenere il suo regno, che fa del bene a tutti noi? Queste tariffe servono a mantenere i moli e le strutture di Città di Jamaillia, e a pagare coloro che pattugliano il Passaggio Interno contro la pirateria. Le stesse qualità che il Mercante Tenira disprezza nella gente di Chalced sono quelle che ne fanno difensori eccellenti contro i pirati. Se lui non gradisce i loro servizi, forse dovrebbe...» «Le 'navi pattuglia' di Chalced non sono meglio dei pirati! Fermano le navi in regola, senza altro intento che l'estorsione. Tutti qui sanno che il mio veliero vivente Ophelia è rimasta ferita difendendosi da una simile intrusione ingiustificata. Le navi di Borgomago non si sono mai lasciate abbordate dagli stranieri. Suggerite che adesso dobbiamo accettarlo? Le tariffe sono cominciate in sordina, come tasse ragionevoli. Ora sono così complicate da calcolare che dobbiamo accettare la parola di uno scrivano a pagamento per sapere quanto dobbiamo pagare. Le tariffe hanno solo uno scopo: impedirci di guadagnare dai commerci con altri luoghi che non siano Città di Jamaillia. Rubano i nostri profitti per legarci maggiormente alla loro borsa. Chiunque abbia attraccato di recente a Jamaillia può testimoniare che le tasse che paghiamo non vanno nella manutenzione dei loro moli. Dubito che qualcosa sia stato speso per quei moli negli ultimi tre anni.» Un brontolio generale di consenso, punteggiato di risate, seguì l'ultima
affermazione di Tenira. «Il mozzo della mia nave è quasi sprofondato attraverso un molo l'ultima volta che abbiamo ormeggiato a Jamaillia» esclamò qualcuno sul fondo della sala. Daw si rialzò in fretta, inserendosi nella pausa. «Membri del Concilio, suggerisco che vi aggiorniate per decidere se dovete anche solo dare ascolto alla questione, prima di accettare altre testimonianze.» Girò attorno lo sguardo. «Si fa notte. Forse dovremmo rimandare il dibattito a una riunione futura.» «Ascoltare la questione fa certamente parte delle nostre mansioni, credo» rispose il capo del Concilio, ma subito due membri minori scossero il capo in diniego. Questo costrinse il Concilio a ritirarsi di nuovo nella stanza sul retro. Questa volta la sala fu meno paziente e socievole in loro assenza. Molti si alzarono e vagarono fra le panche. Il Mercante Larfa del veliero vivente Seduttore si presentò davanti a Tenira e annunciò ad alta voce: «Conta su di me, Tomie. Non importa cosa deciderà il Concilio; se vuoi, basta dirlo. Io e i miei figli saremo con te, e andremo subito a liberare la tua nave da quel dannato molo della dogana.» Due giovani alti dietro di lui annuirono sobriamente all'offerta del loro padre. «Non sareste soli» dichiarò un altro che Althea non riconobbe. Come il Mercante Larfa, era affiancato dai suoi figli. «Speriamo che non si giunga a questo» disse con calma Tomie. «Vorrei che fosse un'azione di tutta Borgomago, non della sola famiglia Tenira.» In quel momento un litigio ad alta voce eruppe altrove nella stanza. Althea si alzò a metà e storse il collo. Vedeva poco, perché anche altri si erano alzati, ma il diverbio sembrava concentrato dove sedevano i Mercanti Daw e Restart. «Bugiardo!» accusò qualcuno. «Sei stato tu, e lo sai. Senza di te i dannati Nuovi Mercanti non si sarebbero mai insediati così profondamente tra noi.» Un'altra voce mormorò un blando rifiuto. I sorveglianti del Concilio stavano già muovendosi per calmare il trambusto. Althea si accorse che si stava conficcando le unghie nei palmi. La sala era sull'orlo della violenza, Mercante contro Mercante. «Questo non serve a nessuno!» commentò amaramente. Per caso, la sua voce risuonò in una pausa nel rumore. Varie teste si girarono verso di lei. Anche Grag e Tomie Tenira la guardavano stupiti. Trasse un respiro. Se aspettava, forse il Concilio si sarebbe aggiornato per la notte. Avrebbero perso tempo prezioso. Forse era la sua unica opportunità di parlare. «Guardateci! Litighiamo come bambini, Mercante contro Mercante. Chi
vincerà questa battaglia? Dobbiamo trovare un accordo. Dobbiamo parlare del problema più grande che ci sovrasta. Cosa sta diventando Borgomago? Ci piegheremo alle regole del Satrapo, accettando le sue tariffe e restrizioni, non importa quanto pesanti? Tollereremo che i suoi mercenari ormeggino qui? Pagheremo per nutrirli e attrezzarli, in modo che fermino le nostre navi e le spennino prima che arrivino in porto? Perché?» Ogni sguardo nella stanza era rivolto a lei. Alcuni stavano riprendendo posto, disposti ad ascoltarla. Althea gettò un'occhiata a Grag, seduto. Il giovane le rivolse un cenno di incoraggiamento. Sentì sua madre che le prendeva la mano. La strinse, prima di abbandonarla. Si sentiva ebbra di potere. «Due anni fa mio padre mi disse che saremmo giunti a questo. Io non sono il Mercante che era lui, ma non esito a ripetere le sue sagge parole. Verrà un giorno in cui Borgomago dovrà resistere da sola, e determinare il suo futuro. Così mi disse. Penso che quel giorno sia giunto.» Girò gli occhi sulla stanza. Keffria, mano sulla bocca, la fissava con orrore. Il viso di Davad era rosso come i bargigli di un tacchino. Alcune donne sembravano scandalizzate che una di loro parlasse così liberamente in pubblico. Ma altri Mercanti annuivano, o sembravano rapiti dalle sue parole. Althea trasse un altro respiro scosso. «Non possiamo più essere così tolleranti. Questi cosiddetti Nuovi Mercanti usurpano le nostre terre. Non sanno niente dei nostri antichi sacrifici, dei nostri legami di sangue con i Mercanti delle Giungle della Pioggia. Con i loro schiavi tatuati deridono le nostre leggi. Il Satrapo non si accontenta più di metà dei nostri profitti. Prenderà tutto quello che abbiamo acquistato con il sangue e lo venderà per denaro sonante ai suoi nuovi amici, che siano Nuovi Mercanti o corsari di Chalced!» «Parli di ribellione!» la accusò qualcuno sul fondo della stanza. Qualcosa in lei diede un balzo. Fatti avanti e ammettilo, si disse. «Sì, è così» affermò con calma. Non era preparata al chiasso che eruppe alle sue parole. Con la coda dell'occhio notò i sorveglianti che puntavano su di lei. Notò anche che facevano fatica a raggiungerla attraverso il pubblico. La gente non si spostava. Alcuni allungavano le gambe, o spingevano le panche davanti a loro. Tuttavia i sorveglianti l'avrebbero raggiunta presto, e l'avrebbero cacciata fuori. Aveva solo pochi istanti. «La nave di mio padre!» La sua voce risuonò sopra al rumore. La stanza si acquietò un poco. «La Vivacia, un veliero vivente fabbricato nelle Giungle della Pioggia, è stata catturata dai pirati. So che alcuni di voi hanno
sentito le dicerie. Vi confermo che è la verità. È accaduto l'impensabile. I pirati hanno preso un veliero vivente di Borgomago. Credete che i mercenari del Satrapo mi aiuteranno a recuperarla? Se per caso cade nelle loro mani, credete che rispetteranno il diritto di Borgomago a riaverla? Sarà portata a Città di Jamaillia, come bottino, e tenuta là. Pensate solo un momento al Fiume delle Giungle della Pioggia, e capirete cosa significherebbe! Ho bisogno del vostro aiuto. Borgomago, per favore, ti imploro, resisti con me. Ho bisogno di soldi e di una nave per andare a salvare la mia eredità.» Quell'ultima frase le era sfuggita. Sua madre le rivolse uno sguardo incredulo e sconvolto. Il suo pensiero era chiaro: Althea stava rivendicando pubblicamente la nave. Aveva voluto parlare per la sua famiglia, ma il suo cuore aveva scelto le parole. «La famiglia Vestrit se lo è voluto!» gridò qualcuno. «Hanno lasciato che la nave di famiglia navigasse con un capitano straniero. Vergogna! La ragazza parla con il vento in poppa, ma con chi è arrivata? Con Davad Restart, e, signori, tutti conosciamo la sua posizione. Questo folle discorso è una trappola dei Nuovi Mercanti. Se insorgiamo a sfidare il Satrapo, non possiamo aspettarci che sia equo con noi. Abbiamo bisogno di ragionare con lui, non di avversarlo.» Alcuni annuivano e mormoravano con approvazione. «Perché le dannate navi pattuglia di Chalced non vanno a salvare la Vivacia? Non è a quello che servono tutte le nuove tariffe, a pagarle per mettere in fuga i pirati? Perché non ci mostrano cosa hanno comprato i nostri soldi?» «Lei parla contro la gente di Chalced, ma sua sorella ne ha sposato uno!» ghignò qualcuno. «Kyle Haven non è responsabile del suo sangue. È un buon capitano!» lo difese qualcun altro. «Ephron Vestrit ha lasciato la nave nelle mani di quello straniero» aggiunse un altro. «E lui l'ha persa. È un problema dei Vestrit, non una crisi di Borgomago. Se rivogliono la nave, paghino il riscatto.» Althea si alzò in punta di piedi, storcendo il collo per identificare l'oratore. «Il Mercante Froe» le disse Grag in un basso sibilo. «Non si è mai impegnato per qualcosa in vita sua. Si tiene i soldi così stretti che ci lascia le impronte.» Come se lo avesse sentito, Froe asserì: «Io non le do neanche una moneta di rame. Hanno svergognato la loro nave, e Sa l'ha portata via. Ho senti-
to dire che era usata come nave schiavista... qualsiasi veliero vivente degno di questo nome preferirebbe darsi alla pirateria!» «Non potete dire sul serio!» Althea era indignata. «Non potete abbandonarla così. C'è un ragazzo su quella nave, mio nipote. Comunque consideriate suo padre, non potete negare che lui ha sangue di Mercante. La nave è di Borgomago...» Accanto a lei Grag bloccò un sorvegliante, ma un altro lo superò e afferrò il braccio di Althea. «Fuori!» le disse con fermezza. «Il Concilio è sospeso. Nessuno può parlare. Non avevate il permesso del Concilio neanche per cominciare. Costei non è la Mercante per la famiglia Vestrit!» aggiunse a voce più alta mentre altri protestavano per il trattamento di Althea. «Nell'interesse dell'ordine, deve andarsene!» Fu la scintilla nella stoppia. Una panca si rovesciò con uno schianto. «No!» gridò Althea con orrore, e incredibilmente la ascoltarono. «No.» disse più piano. Mise una mano leggera sul braccio di Grag, che allentò la presa sul sorvegliante che tratteneva. «Non sono qui per causare problemi. Sono qui per chiedere aiuto. L'ho chiesto. Sono qui anche per sostenere la famiglia Tenira. È sbagliato che Ophelia sia trattenuta al molo della dogana. Non hanno il diritto legale a nessuna parte del suo carico.» A voce più bassa aggiunse: «Se qualcuno di voi vuole aiutare i Mercanti Vestrit, sapete dove abitiamo. Sarete accolti e ascolterete tutta la nostra storia. Ma non sarò accusata di aver scatenato un'insurrezione nella Sala dei Mercanti. Me ne vado. Pacificamente.» A Grag mormorò: «Non seguirmi. Rimani qui, nel caso che il Concilio si riunisca di nuovo. Io aspetterò fuori.» A testa alta, senza scorta, si mosse attraverso la folla. Sapeva che quella sera non poteva fare di meglio. Altri sembravano condividere la sua opinione. Le famiglie di Mercanti che avevano portato i bambini piccoli stavano trascinandoli fuori, evidentemente per la loro sicurezza. In tutta la stanza l'ordine era stato infranto. I Mercanti erano riuniti in capannelli: alcuni parlavano con calma, altri discutevano con gesti bruschi e voci alterate. Althea passò attraverso di loro. Uno sguardo le mostrò che la sua famiglia era rimasta. Bene. Forse avrebbero avuto l'opportunità di parlare ufficialmente per liberare Vivacia. Fuori era una notte di estate ingannevolmente pacifica. I grilli cantavano. Le stelle più brillanti foravano una a una il cielo del crepuscolo. Dietro di lei la Sala dei Mercanti ronzava come un alveare disturbato. Alcune famiglie si allontanavano a piedi, altre entravano nelle carrozze. Suo malgrado, Althea si gettò uno sguardo attorno in cerca di Brashen, ma non
vide traccia di lui o di Ambra. Con riluttanza diresse i suoi passi verso la carrozza di Davad. Si sarebbe seduta ad aspettare l'aggiornamento generale della riunione. Quella di Davad era quasi alla fine della lunga fila di carrozze. Althea la raggiunse, poi si arrestò con orrore. Il conducente era svanito. I due cavalli, vecchi e placidi com'erano, sbuffavano e scalpitavano inquieti. Il sangue colava dalla porta della carrozza, denso e nero nel tramonto. Un maiale con la gola squarciata dondolava mezzo fuori dal finestrino. SPIA era scritto con il sangue sullo stemma dei Restart. Althea si sentì venir meno dal disgusto. Dietro di lei la riunione sembrava essersi conclusa. I Mercanti uscivano a frotte dalla Sala. Alcuni discutevano ad alta voce, furiosi. Altri bisbigliavano, girando lo sguardo attorno con sospetto nel timore che qualcuno origliasse. Sua madre fu la prima a raggiungerla. «Il Concilio si è aggiornato. Terranno una riunione privata per decidere se possono ascoltare...» Si interruppe alla vista del maiale. «Per il respiro di Sa» ansimò. «Povero Davad. Come hanno potuto fargli questo?» Gettò uno sguardo attorno come se i colpevoli fossero ancora nascosti nei paraggi. Grag apparve da qualche parte. Dopo un'occhiata inorridita, prese il braccio di Althea. «Vieni via» disse piano. «Farò in modo che tu e la tua famiglia torniate a casa sane e salve. Non devi farti coinvolgere.» «No» concordò duramente Althea. «Non devo. E neanche il Mercante Restart. Non lo abbandonerò qui, Grag. Non posso.» «Althea, pensaci! Questa non è la cattiveria impulsiva di qualcuno. È un piano ben preciso. Il maiale è stato portato qui, a questo scopo, prima che chiunque parlasse al Concilio. È una minaccia seria.» La tirò per il braccio. Althea si girò di scatto verso di lui. «Ecco perché non posso lasciare Davad ad affrontarla da solo. Grag, è un vecchio, senza una vera famiglia. Se i suoi amici lo abbandonano, è solo.» «Forse lo merita!» sibilò Grag. Continuava a gettare uno sguardo al nodo di curiosi che si stava formando attorno alla carrozza. Evidentemente non vedeva l'ora di allontanarsi. «Come puoi accettare il suo modo di pensare, Althea? Come puoi permettergli di trascinare la tua famiglia in questa vergogna?» «Non accetto il suo modo di pensare. Accetto chi è. È un vecchio sciocco dalle idee sbagliate, ma è stato come uno zio per me da quando riesco a ricordare. Qualsiasi cosa abbia fatto, non merita tanta crudeltà.» Guardò oltre Grag e vide Davad che si avvicinava alla carrozza. Il Mer-
cante Daw era al suo fianco e lo teneva sottobraccio. Sembravano congratularsi fra loro. Daw vide per primo il maiale e rimase a bocca aperta. Un istante più tardi sganciò il braccio da quello di Davad e si diede alla fuga senza una parola. Tra sé, Althea sperò che un maiale macellato aspettasse anche nella sua carrozza. «Cos'è questo? Non capisco. Perché? Chi è stato? Dov'è il mio conducente? Il codardo è scappato? Guardate il cuoio, è rovinato, è tutto rovinato.» Davad dimenava le braccia come un pollo agitato. Si avvicinò alla carrozza, gettò un'occhiata al maiale, poi indietreggiò. Rivolse un'occhiata sconcertata alla folla che si era radunata. Sul fondo qualcuno rise sguaiatamente. Altri lo fissavano. Nessuno espresse orrore o disgusto. Lo guardavano per vedere cosa avrebbe fatto. Gli occhi di Althea vagarono da un viso all'altro. Le parvero estranei, più stranieri dei Nuovi Mercanti di Jamaillia. Non riconosceva più Borgomago. «Per favore, Grag» bisbigliò. «Io resto con lui e lo porto a casa. Accompagneresti mia madre, mia sorella e mia nipote? Penso che Malta non dovrebbe affrontare questa scena.» «Io penso che nessuna di voi dovrebbe affrontarla» disse acido Grag, ma era troppo beneducato per rifiutare. Althea non aveva idea di cosa disse a sua madre e a Keffria per farle allontanare con tanto ordine. La giovane Malta sembrava solo esaltata alla prospettiva di andar via in una carrozza più bella di quella con cui era arrivata. Mentre loro se ne andavano, Althea prese il braccio di Davad. «Calmati» gli disse con gentilezza. «Non farti vedere turbato.» Senza badare al sangue aprì lo sportello della carrozza con uno strattone. La carcassa rimase ostinatamente incastrata nel finestrino. Era un maialetto misero; nessuno avrebbe sacrificato un buon animale per colpire Davad. Nella morte i suoi intestini si erano rilassati. Il puzzo di sterco si sparse attorno. Althea si rammentò che il sangue non le era sconosciuto. Aveva visto troppo macello nelle Isole Spoglie per lasciarsi sconvolgere da un po' di sangue di maiale. Afferrò audacemente le zampe posteriori dell'animale morto. Uno strappo deciso lo liberò dal finestrino. Lo lasciò cadere sulla strada. Gettò uno sguardo a Davad che la fissava con occhi dilatati. Il sangue e la lordura le avevano segnato il davanti della veste. Non ci badò. «Riesci a salire a cassetta?» gli chiese. Davad scosse la testa, ammutolito. «Allora dovrai sedere all'interno. L'altro posto è quasi pulito. Prendi il
mio fazzoletto. È profumato, ti aiuterà.» Davad non disse una parola. Accettò il fazzoletto e salì pesantemente in carrozza, emettendo piccoli suoni angosciati. Senza aspettare che sedesse, Althea sbatté lo sportello dietro di lui. Non guardò i curiosi. Girò attorno alla coppia di cavalli, disse loro qualche parola quieta e salì a cassetta. Prese le redini. Non guidava da anni, e non aveva mai comandato cavalli che non conosceva. Diede un calcio al freno e scosse speranzosa le redini. I cavalli si avviarono a passo incerto. «Da marinaio a conducente. Ecco la ragazza di Grag! Pensate ai soldi che risparmieranno sul vetturino!» gridò qualcuno nella folla. Qualcun altro fischiò in segno di rumoroso apprezzamento. Althea tenne lo sguardo avanti e il mento alzato. Schioccò le redini, e i cavalli cominciarono a trottare con uno scossone. Sperava che conoscessero la strada di casa, anche nell'oscurità crescente. Non era più sicura di saperla lei stessa. 19 Conseguenze «Sei a casa, Davad. Scendi.» Lo sportello era incastrato, e Davad non tentò di aprirlo. Nell'oscurità Althea scorgeva solo la forma pallida del suo viso. Era rannicchiato in un angolo del sedile, gli occhi serrati. Althea puntò un piede contro la carrozza e diede di nuovo uno strappo allo sportello. Si aprì di scatto e lei cadde quasi all'indietro. La sua veste non poteva peggiorare molto. Puzzava di sangue e sterco di maiale, e del suo sudore. Il viaggio era stato snervante. Si era aspettata di far finire la carrozza in un fosso o di essere avvicinata dai nemici di Davad. Ora erano alla porta principale, ma nessun maggiordomo o stalliere venne ad accoglierli. Le luci splendevano qua e là alle finestre, ma la casa poteva essere abbandonata, per tutti i saluti che il padrone ricevette. Una sola lanterna ardeva fioca dallo stipite. «Come si chiama il tuo stalliere?» chiese Althea irritata. Davad la guardò a bocca aperta. «Io... non lo so. Non gli parlo mai.» «Bene.» Althea gettò indietro la testa e tuonò nel suo miglior stile di primo ufficiale: «Ragazzo! Esci e occupati dei cavalli. Maggiordomo! Il tuo padrone è a casa!» Qualcuno sollevò l'angolo di una tendina e guardò fuori. Althea sentì passi in casa, e poi notò un movimento nel cortile ombreggiato. Si girò in
quella direzione. «Vieni a prendere questi cavalli.» La figura snella esitò. «Subito!» abbaiò Althea. Il ragazzo che emerse dalle ombre non aveva più di undici anni. Arrivò fino alle teste dei cavalli, poi si arrestò incerto. Althea sbuffò esasperata. «Oh, Davad, se non puoi imparare a gestire i tuoi domestici, dovresti assumere un maggiordomo capace di farlo.» Aveva dato fondo alla sua riserva di tatto. «Suppongo che tu abbia ragione» concordò umilmente Davad. Scese a fatica dalla carrozza. Althea lo fissò. Nel tragitto dalla Sala a casa sua, Davad era diventato un vecchio. Il suo volto era floscio, privo della boria che lo aveva sempre caratterizzato. Non era stato capace di evitare lo sterco e il sangue che ora gli imbrattavano i vestiti. Teneva le mani lontane dal corpo, disgustato e sconvolto. Althea alzò lo sguardo ai suoi occhi. Davad appariva imbarazzato e ferito. Scosse il capo con lentezza. «Non capisco. Chi potrebbe farmi una cosa simile? Perché?» Althea era troppo stanca per rispondere a una domanda così pesante. «Vai in casa, Davad. Fatti un bagno e vai a dormire. Penserai a tutto questo domattina.» Assurdamente comprese all'improvviso che aveva bisogno di essere trattato come un bambino. Sembrava così vulnerabile. «Grazie» disse piano Davad. «C'è molto di tuo padre in te, Althea. Non eravamo d'accordo su tutto, ma l'ho sempre ammirato. Non perdeva mai tempo a dare la colpa a qualcuno; come te, si dedicava solo a risolvere il problema.» Fece una pausa. «Dovrei farti scortare a casa. Ti faccio preparare un cavallo e un vetturino.» Non sembrava certo di riuscirci. Una donna venne alla porta e l'apri. Una fetta di luce piovve sui gradini. La donna guardò fuori, ma non disse niente. Althea perse la pazienza. «Manda un domestico a far entrare il tuo padrone. Fagli preparare un bagno caldo e mettigli fuori una veste pulita. Tè caldo e un pasto semplice. Nulla di speziato o grasso. Subito.» La donna corse di nuovo in casa, lasciando la porta aperta. Althea la sentì trasmettere gli ordini con voce stridula. «E adesso sembri anche tua madre. Hai fatto tanto per me. Non solo stasera, ma per anni, tu e la tua famiglia. Come potrò mai ricompensarti?» Era il momento sbagliato per quella domanda. Era arrivato lo stalliere. La lampada rivelò sul lato del naso un tatuaggio simile a un ragno. La tunica logora che portava era appena più lunga di una camicia. Si ritrasse dallo sguardo nero degli occhi di Althea. «Digli che non è più uno schiavo.» La voce era secca.
«Gli dico... chiedo scusa?» Davad scosse lievemente il capo, come se non l'avesse sentita bene. Althea si schiarì la gola. All'improvviso era difficile avere comprensione per l'ometto. «Di' a questo ragazzo che non è più uno schiavo. Dagli la libertà. Puoi ricompensarmi così.» «Ma io... Non puoi dire sul serio. Sai quanto vale un ragazzo sano come quello? Gli occhi azzurri e i capelli chiari sono favoriti a Chalced per i domestici. Se lo tengo per un anno e gli insegno a fare il valletto, sai quanto finirebbe per valere?» Althea lo guardò. «Molto più di quanto tu lo abbia pagato, Davad. Molto più di quanto sapresti ricavarne.» Crudelmente aggiunse: «Quanto valeva tuo figlio per te? Ho sentito dire che anche lui era biondo.» Davad sbiancò e indietreggiò barcollando. Si aggrappò alla carrozza, poi strappò via la mano dalla porta appiccicosa di sangue. «Perché mi dici questo?» gemette all'improvviso. «Perché tutti sono contro di me?» «Davad...» Althea scosse lentamente il capo. «Tu ti sei messo contro tutti noi, Davad Restart. Apri gli occhi. Pensa a ciò che stai facendo. Il bene e il male non sono il profitto e la perdita. Certe cose sono troppo malvagie per guadagnarci. Forse in questo momento stai speculando sul conflitto tra Vecchi e Nuovi Mercanti. Ma questo non durerà per sempre, e quando finirà sarà anche la tua fine. Una parte ti considererà un senza patria, l'altra un traditore. Chi saranno allora i tuoi amici?» Davad la fissava raggelato. Althea si chiese perché avesse sprecato il fiato. Non l'avrebbe ascoltata. Era un vecchio, irrigidito nelle sue abitudini. Uscì un domestico: stava masticando qualcosa e il mento splendeva di grasso. Venne a prendere il braccio di Davad, poi si ritrasse con un ansito. «Siete lurido!» esclamò disgustato. «E tu sei un fannullone!» ribatté Althea. «Porta dentro il tuo padrone e occupati delle sue necessità, invece di riempirti la pancia in sua assenza. Subito.» Il domestico reagì al suo tono di comando. Cautamente tese il braccio al padrone. Davad lo prese con lentezza. Mosse alcuni passi, poi si arrestò. Senza girarsi, disse: «Prendi un cavallo dalla mia stalla e torna a casa. Devo mandare un uomo con te?» «No. Grazie. Non ne ho bisogno.» Althea non voleva più nulla da lui. Davad annuì fra sé. Aggiunse qualche parola sommessa. «Chiedo scusa?» Davad si schiarì la gola. «Prendi il ragazzo. Stalliere, vai con la signo-
ra.» Trasse un respiro e parlò pesantemente. «Sei libero.» Entrò in casa senza voltarsi indietro. Keffria aveva un suo ritratto in miniatura. Lo aveva implorato di farsi ritrarre, poco dopo il matrimonio. Lui aveva detto che era un'idea sciocca, ma lei era la sua sposa, e così si era arreso. Aveva sopportato di posare con malgarbo. Pappas era un artista troppo onesto per dipingere Kyle Haven con occhi pazienti, o spianare la piccola piega seccata tra le sopracciglia. Così ora il suo ritratto guardava Keffria come lui sembrava aver sempre fatto, con fastidio e impazienza. Keffria tentò di incidere gli strati di dolore nel suo cuore per scoprire un nucleo di amore per lui. Era suo marito, il padre dei suoi figli. Era l'unico uomo che avesse mai conosciuto. Eppure non poteva dire onestamente di amarlo. Strano. Le mancava, desiderava ardentemente che tornasse. Non solo perché il suo ritorno avrebbe significato il ritorno della nave di famiglia e di suo figlio. Keffria voleva Kyle. A volte pensava che avere qualcuno più forte cui appoggiarsi era più importante che avere qualcuno da amare. Allo stesso tempo aveva bisogno di sistemare certe cose con lui. Nei mesi in cui era stato lontano aveva scoperto che doveva dirgli qualcosa. Aveva deciso di costringerlo a rispettarla, proprio come aveva imparato a esigere rispetto da sua madre e da sua sorella. Non voleva che svanisse dalla sua vita prima di avergli spremuto quel rispetto. Altrimenti si sarebbe sempre chiesta se ne fosse mai stata davvero degna. Chiuse la custodia della miniatura e la rimise sulla mensola. Aveva bisogno di dormire, ma non poteva finché Althea non era a casa sana e salva. I suoi sentimenti per la sorella assomigliavano molto a quelli per suo marito. Ogni volta che le sembrava di aver riguadagnato qualche brandello di vicinanza con Althea, la sorella rivelava di giocare sempre e solo per sé. Quella sera, alla riunione, aveva chiarito che teneva alla nave, non a Kyle né a Wintrow. Rivoleva la nave a Borgomago per disputare a Keffria l'eredità. Nient'altro. Keffria lasciò la camera da letto e vagò per casa come uno spettro. Curiosò in camera di Selden. Il bambino era profondamente addormentato, libero da tutti i problemi che tormentavano la sua famiglia. Quando arrivò alla porta chiusa di Malta, Keffria bussò piano. Non ci fu risposta. Anche Malta dormiva con la pace profonda che era il riposo dei bambini. Si era comportata così bene alla riunione. Tornando a casa non aveva menzionato l'insurrezione sfiorata, anzi aveva messo Grag Tenira a suo agio conver-
sando con disinvoltura. La ragazza stava crescendo. Keffria scese le scale. Sapeva che avrebbe trovato sua madre nello studio di suo padre. Anche Ronica Vestrit non avrebbe dormito fino al ritorno di Althea. Se dovevano restare sveglie, tanto valeva farlo insieme. Mentre attraversava la sala sentì un lieve rumore di passi nel portico d'ingresso. Doveva essere Althea. Udendo bussare, aggrottò le ciglia infastidita. Perché non passava dalla cucina, che era aperta? «Vado io» gridò a sua madre, e andò a togliere il chiavistello alla grande porta d'ingresso. Sul portico stavano Brashen Trell e quella commerciante di perline. Il marinaio indossava gli stessi vestiti dell'ultima volta che lo aveva visto. Aveva gli occhi arrossati. La donna sembrava composta. La sua espressione era amichevole ma non offriva alcuna scusa per l'ora tarda. Keffria li fissò entrambi. Il loro comportamento andava oltre i confini di ogni cortesia. Non solo Brashen era tanto maleducato da venire a visitarli così tardi e non annunciato, ma aveva portato anche una straniera. «Sì?» chiese a disagio. Il contegno di Keffria non parve infastidire il giovane. «Devo parlare con tutte voi» annunciò senza preamboli. «Di cosa?» Brashen spiegò in fretta. «Di come riavere la nave e vostro marito. Ambra e io pensiamo di aver escogitato un piano.» Accennò alla donna, e Keffria notò la lucentezza del sudore sul viso del marinaio. La notte era mite e piacevole. Il suo aspetto e il suo comportamento suggerivano una preoccupante febbre. «Keffria? Althea è entrata?» chiamò sua madre dalla sala. «No, mamma. È Brashen Trell e, ah, Ambra la creatrice di perline.» Questo richiamò subito sua madre sulla porta dello studio. Come Keffria, era in camicia da notte e vestaglia. Aveva i capelli sciolti. Le lunghe ciocche ingrigite attorno al viso la facevano sembrare vecchia e scarna. Anche Brashen ebbe la buon grazia di apparire imbarazzato. «So che è tardi» si scusò subito. «Ma... Ambra e io abbiamo formulato un piano che potrebbe aiutarci tutti. Aiutarci molto.» I suoi occhi scuri incontrarono quelli di Keffria. Parve volerci uno sforzo da parte sua. «Credo che sia la nostra unica opportunità di portare a casa vostro marito, vostro figlio e la nave.» «Non ricordo che aveste alcun affetto o rispetto per mio marito» disse rigidamente Keffria. Se Brashen Trell fosse stato da solo forse si sarebbe sentita più gentile nei suoi confronti, ma la sua bizzarra compagna le face-
va drizzare il pelo. Aveva udito troppe stranezze su di lei. Non sapeva cosa cercassero quei due, ma temeva che andasse solo a loro beneficio. «Affetto, no. Rispetto, sì. A suo modo, Kyle Haven era un capitano competente. Non era Ephron Vestrit, tutto qui.» Valutò il suo portamento rigido e gli occhi freddi. «Alla riunione, stasera, Althea ha chiesto aiuto. È quello che sono venuto a offrirle. È a casa?» La sua schiettezza era raccapricciante. «Forse in un momento più adatto...» cominciò Keffria. Sua madre la interruppe. «Falli entrare. Accompagnali nello studio. Keffria, non possiamo concederci il lusso di sottilizzare sui nostri alleati. Stasera sono disposta ad ascoltare qualsiasi piano per riunire la nostra famiglia. Non importa se è tardi.» «Come vuoi, mamma» disse rigida Keffria. Si scostò per lasciarli entrare. La straniera osò gettarle uno sguardo comprensivo. Passando accanto a Keffria emanava anche uno strano odore, per non parlare del suo colorito bizzarro. Keffria non aveva problemi con la maggior parte degli stranieri. Molti di loro erano gentili e affascinanti. Ma quella creatrice di perline la metteva a disagio. Forse era il modo in cui la donna presumeva di essere fra suoi pari, non importa dove fosse. Mentre Keffria li seguiva con riluttanza lungo il corridoio fino allo studio, tentò di non pensare alle sconce dicerie su quella donna e Althea. Sua madre non sembrava condividere quelle apprensioni. Malgrado il fatto che lei e Keffria erano entrambe in vestaglia, li accolse nello studio. Scampanellò perfino a Rache per chiederle di preparare il tè per i visitatori. «Althea non è ancora tornata» disse prima che Brashen potesse chiedere. «La sto aspettando.» Brashen sembrava preoccupato. «Hanno fatto davvero un brutto scherzo al Mercante Restart. Mi sono chiesto se a casa non lo aspettava qualcosa di peggio.» Si alzò all'improvviso. «Probabilmente non sapete il resto. Stasera ci sono stati tumulti a Borgomago. Forse farei meglio ad andare a cercare Althea. Mi prestate un cavallo?» «C'è solo il mio vecchio...» cominciò Ronica, ma in quel momento ci fu un rumore alla porta. Brashen uscì in corridoio per controllare l'entrata, con una prontezza che tradiva la sua preoccupazione. «È Althea, con un ragazzo» dichiarò, e andò a incontrarla come se fosse stato il padrone di casa con un'ospite. Keffria scambiò un'occhiata con sua madre. Ronica sembrava solo confusa, ma lei si sentiva sempre più offesa dal comportamento strano di Brashen. Quell'uomo aveva qualcosa che non
andava. Althea tentò di prendere la mano del ragazzo per condurlo alla porta, ma lui si ritrasse. Povero fanciullo. Quanto era stato maltrattato, per temere un semplice tocco? Aprì la porta e gli fece cenno di entrare. «È tutto a posto. Nessuno ti farà del male. Vieni dentro.» Parlò con rassicurante lentezza. Non era neanche sicura che la capisse. Non aveva detto una parola da quando avevano lasciato la casa di Davad. Era stata una lunga camminata stanca nel buio, e Althea era preda di pensieri cupi. Quella sera aveva fallito clamorosamente. Aveva parlato in modo sconveniente alla riunione del Concilio, e probabilmente ne aveva accelerato l'aggiornamento prematuro. Il Concilio non aveva neppure accettato formalmente di ascoltare le loro preoccupazioni. Era stata costretta ad affrontare ciò che Davad Restart era diventato, e temeva che molti altri Mercanti fossero scivolati così in basso. E la sua lingua imprudente l'aveva caricata di un ragazzino che non aveva i mezzi per curare. Era tutta colpa sua. Voleva soltanto un bagno e il suo letto, ma supponeva che le necessità del ragazzo venissero prima. Almeno quella sera non poteva andare molto peggio. Poi pensò che doveva affrontare Keffria e sua madre dopo tutto quello che aveva fatto al Concilio, e il suo umore precipitò. Il ragazzo aveva salito gli scalini ma non dava cenno di entrare. Althea spalancò la porta e avanzò. «Forza, entra» lo blandì. «Grazie a Sa, stai bene!» Althea sobbalzò e si girò di scatto al suono della profonda voce maschile alle sue spalle. Brashen stava dirigendosi verso di lei nel corridoio. Il sollievo gli illuminava il viso, subito sostituito da un cipiglio. Un attimo dopo la stava sgridando come avrebbe fatto con un marinaio incompetente. «Dannazione, sei fortunata che non vi abbiano teso un'imboscata. Quando ho sentito che avevi guidato la carrozza di Restart, non potevo crederci. Perché difendere un imbecille come lui, adesso che tutti ce l'hanno con... Oh. Cos'è quello?» Si fermò a un passo da lei, cambiando espressione. Si coprì il naso con una mano. «Son mica io!» squittì il ragazzo accanto a lei, indignato. L'accento nasale dei Sei Ducati deformava le parole. «Èllei. Ci ha cacca dappertutto.» Allo sguardo oltraggiato di Althea, scrollò le spalle in segno di scusa. «Vero, ci hai da farti un banio» aggiunse con voce sottile. Era il colpo finale. Era troppo. Althea trasferì l'occhiataccia a Brashen. «Che ci fai qui?» Le parole uscirono più brusche di quanto volesse.
Gli occhi di Brashen percorsero la sua veste lurida su e giù prima di tornare al viso. «Ero preoccupato per te. Come al solito, sembri essere sopravvissuta alla tua impulsività. Ma lasciamo perdere, ho qualcosa di molto importante da discutere con te. Riguarda il salvataggio di Vivacia. Ambra e io pensiamo di avere un piano. Forse lo riterrai stupido, probabilmente non ti piacerà, ma penso che possa funzionare.» Parlò in fretta, frasi troppo brusche, come sfidandola a disapprovare. «Se solo lo ascolti e ci pensi, capirai che è davvero l'unico modo di salvarla.» Incontrò di nuovo i suoi occhi. «Ma quello può aspettare. Il ragazzo ha ragione. Prima dovresti lavarti. C'è una certa puzza.» Sul suo volto apparve un sorriso appena accennato, che subito sparì. Era un'eco troppo precisa delle sue parole quando si erano separati a Candelaia. La stava prendendo in giro, ricordandoglielo qui e ora? Come osava parlarle così familiarmente, in casa sua? Lo guardò corrucciata. Brashen aprì la bocca come per dire qualcosa, ma fu interrotto. «La cacca de porco puzza propio tanto» concordò allegramente il ragazzo. «No'ffarti zozzare» consigliò a Brashen. «Quello sarà difficile» disse gelida Althea a entrambi. Incontrò gli occhi di Brashen. «Vattene.» Mentre gli passava accanto, lui la fissò a bocca aperta. Althea poteva perdonare il ragazzo; era solo un fanciullo, in un luogo sconosciuto e in una situazione insolita. Trell non aveva scuse. Lei aveva avuto una giornata troppo lunga per starlo a sentire. Era sfinita, lurida e, che Sa la proteggesse, affamata. Dallo studio di suo padre venivano luci e voci. Doveva affrontare anche sua madre e Keffria. Quando giunse alla porta dello studio era riuscita a ricostruire una facciata calma. Avanzò nella piacevole stanza, ben cosciente che l'odore di luridume la precedeva. Cercò di fare in fretta. «Sono a casa, sto bene. Ho portato con me un ragazzino. Davad lo usava come stalliere... Mamma, so che non possiamo accollarci altri fardelli proprio ora, ma ha un tatuaggio da schiavo e non potevo lasciarlo là.» Il viso di Keffria irradiava un orrore di classe. La spiegazione di Althea si bloccò quando incontrò gli occhi di Ambra. Anche lei qui? Il piccolo schiavo rimase sulla porta, sgranando gli occhi pallidi. Il suo sguardo balzava dall'uno all'altro. Non parlava. Quando Althea tentò di prendergli il braccio per trascinarlo nella stanza, si sottrasse. Althea emise una risata falsa. «Penso che sia il sangue e lo sterco. Non ha voluto cavalcare con me; per questo ci ho messo tanto. Quando non sono riuscita a convincerlo, abbiamo lasciato il cavallo e siamo tornati a casa a piedi.»
Girò attorno gli occhi in cerca di sostegno. Keffria fissava qualcosa dietro di lei. Althea gettò un'occhiata indietro. Brashen Trell stava appena dietro le sue spalle, le braccia conserte, l'espressione testarda. Incontrò il suo sguardo con fermezza e non mutò espressione. «Vieni, ragazzo. Nessuno ti farà del male. Come ti chiami?» Ronica sembrava stanca ma gentile. Il giovane rimase dov'era. Althea decise bruscamente di fuggire, almeno per ora. «Vado su a fare un bagno e a cambiarmi. Non ci vorrà molto.» «Non ci vorrà molto a dirti la nostra idea» ribatté Brashen con impudenza. I loro sguardi si incontrarono. Althea rifiutò di abbassare gli occhi. Brashen puzzava di fumo e cindin. Chi credeva di essere? Non gli avrebbe permesso di intimidirla nella casa di suo padre. «Temo di essere troppo stanca per volerti ascoltare ancora, Brashen Trell.» La voce percorreva una linea sottile fra correttezza e gelo. «Credo che sia troppo tardi per la conversazione.» Brashen strinse le labbra. Per un momento parve quasi ferito dal suo rifiuto. L'ingresso di Rache interruppe lo stallo. Portava un vassoio con una grande teiera e delle tazzine. C'era un piattino di dolcetti speziati, il minimo essenziale per la cortesia. Il ragazzo non si mosse da dove stava, ma dilatò le narici e annusò l'aria come un cane. «Althea.» Il tono di sua madre era più un promemoria che un rimprovero. «Da parte mia, io sono interessata alla proposta di Brashen. Penso che dobbiamo valutare ogni possibile soluzione. Se sei davvero stanca, naturalmente ti giustifichiamo. Ma preferirei che ritornassi.» Lo sguardo di sua madre andò alla domestica con un sorriso di scusa. «Rache, se non ti spiace, penso che avremo bisogno di più tazze. E qualcosa di più sostanzioso per il ragazzo, per favore.» La voce di Ronica era misurata e calma come se fosse stato un avvenimento di ogni giorno. La cortesia di sua madre punse la coscienza di Althea. Quella era ancora la casa di suo padre. Ammorbidì il tono. «Come desideri, mamma. Se volete scusarmi, ci metterò un istante.» Keffria versò il tè per i suoi bizzarri ospiti. Tentò di sostenere un'educata conversazione, ma sua madre fissava la grata fredda del camino mentre Brashen camminava per la stanza. Ambra scelse di sedere a gambe incrociate sul pavimento, non lontano dal ragazzo. Ignorò i tentativi di Keffria. Attirò il piccolo schiavo con pezzi di dolce, come un cucciolo timido, fin-
ché finalmente lui non le afferrò un dolce intero dalla mano. Non sembrava trovare strano o offensivo il comportamento del ragazzo. Sorrise con orgoglio quando lui si cacciò l'intero dolce in bocca. «Vedi,» gli disse piano «la gente qui è gentile. Adesso sei al sicuro.» Althea mantenne la parola. Riapparve quando Rache era appena tornata con altro tè, tazzine e un piatto di cibo riscaldato per il ragazzo. Keffria pensò che aveva dovuto lavarsi con acqua fredda per fare così in fretta. Indossava una semplice veste da casa. I capelli umidi erano intrecciati e fissati severamente. L'acqua fredda le aveva arrossato le guance. Riusciva ad apparire stanca e rinvigorita allo stesso tempo. Senza cerimonie si servì di tè e dolci. Gettò uno sguardo ad Ambra, poi la raggiunse sul pavimento. Il ragazzo sedeva dall'altro lato della donna, tutto assorto nel cibo. Althea rivolse le sue prime parole ad Ambra. «Brashen dice che avete un piano per salvare la Vivacia. Dice anche che non mi piacerà, ma che devo capire che è l'unico modo. Di che si tratta?» Ambra rivolse a Brashen uno sguardo obliquo. «Grazie per averla preparata così bene» disse con asciutto sarcasmo. Alzò le spalle e sospirò. «È tardi. Penso che dovrei affrettarmi a spiegare, e poi lasciarvi tutti a pensarci.» Si alzò in un moto fluido, come se uno spago legato alla sua testa l'avesse sollevata dal pavimento. Avanzò al centro della stanza e girò attorno lo sguardo per essere sicura dell'attenzione di tutti. Sorrise al ragazzo che stava sbranando il cibo sul vassoio, ignaro di tutto salvo il morso successivo. Eseguì un piccolo inchino e cominciò. A Keffria ricordava un attore sul palcoscenico. «Ecco la proposta. Per salvare un veliero vivente useremo un veliero vivente.» Il suo sguardo toccò ciascuno di loro a turno. «Paragon, per essere precisi. Lo compriamo, lo noleggiamo o lo rubiamo, mettiamo a bordo un equipaggio con Brashen al comando e inseguiamo la Vivacia.» Nel silenzio sconvolto che seguì, aggiunse: «Se sospettate dei miei motivi, siate certe che almeno per metà lo faccio per salvare Paragon dall'essere trasformato in legname. Penso che il vostro buon amico Davad Restart potrebbe essere determinante nel convincere i LaSuerte a separarsi dalla nave a un prezzo ragionevole. Sembra agire da intermediario per le scandalose offerte dei Nuovi Mercanti. Potrebbe essere disposto a cogliere l'occasione di salvare la faccia con i Vecchi Mercanti. Forse a maggior ragione dopo gli eventi di stanotte. Sono disposta a vendere tutto quello che possiedo come parte del pagamento. Allora. Che ne dite?» «No.» Althea parlò decisa.
«Perché no?» chiese Malta. Entrò dal corridoio. Portava una pesante vestaglia di lana azzurra sulla camicia da notte bianca. Le guance erano ancora rosate per il sonno. Gettò uno sguardo sulla stanza. «Ho avuto un incubo e quando mi sono svegliata ho udito le vostre voci, così sono scesa a vedere cosa stava succedendo» offrì come spiegazione. «Vi ho sentito dire che potremmo mandare una nave a cercare papà. Mamma, nonna, perché Althea dovrebbe impedircelo? A me sembra un piano assennato. Perché non andiamo a liberare papà?» Althea cominciò a enumerare le ragioni sulle dita. «Paragon è pazzo. Ha già ucciso equipaggi interi; potrebbe farlo di nuovo. È un veliero vivente che non dovrebbe essere manovrato da nessuno che non sia la sua famiglia. Non naviga da anni; non è neppure in acqua. Non penso che abbiamo i soldi per acquistarlo e restaurarlo. Inoltre, se lo facciamo, perché Brashen dovrebbe essere il capitano? Perché non io?» Brashen emise una breve risata. La sua voce era stranamente scossa. «In realtà è questa la sua obiezione principale!» osservò. Estrasse un fazzoletto e si asciugò il sudore dalla fronte. Nessun altro rise. C'era una nota febbricitante nel suo comportamento che perfino Althea parve notare. Guardò accigliata Ambra, ma la donna non si degnò di prestarle attenzione. Keffria decise che forse era il suo turno di essere schietta. «Perdonatemi se sembro scettica. Non vedo perché uno di voi due dovrebbe essere coinvolto in questa impresa. Perché una straniera dovrebbe giocarsi tutto il suo patrimonio per un veliero vivente impazzito? Cosa ottiene Brashen Trell rischiando la vita per un uomo che lo riteneva un marinaio mediocre? Potremmo mettere a repentaglio quello che rimane delle finanze dei Vestrit, solo per perdere tutto se non tornate.» Gli occhi di Brashen lampeggiarono. «Potrò essere diseredato, ma non significa che sono totalmente senza onore.» Fece una pausa e scosse la testa. «Stasera le parole semplici sono meglio per tutti. Keffria Vestrit, voi temete che prenderei Paragon e mi darei alla pirateria. Ne sarei capace. Non lo nego. Ma non posso. Qualsiasi contrasto possiamo aver avuto Althea e io, penso che lei garantirà ancora per la mia integrità. So che vostro padre lo avrebbe fatto.» «Per quanto riguarda me,» aggiunse Ambra con calma «ve l'ho già detto, desidero impedire che il Paragon venga smantellato. Io e lui siamo amici. Sono anche amica di vostra sorella Althea. Inoltre è qualcosa che sento di essere chiamata a fare. Non so spiegarmi meglio. Ho paura che dovrete
accettare la mia offerta sulla parola. Non posso fornirvi altre garanzie.» Il silenzio cadde nella stanza. Brashen incrociò con lentezza le braccia. La sua fronte era segnata da rughe profonde. Fissò lo sguardo su Althea in una sfida che non aveva pretesa di cortesia. Althea rifiutò di guardarlo. Osservò invece sua madre. Malta smaniava, girando lo sguardo da un adulto all'altro. «Tornerò domani sera» disse all'improvviso Brashen. Aspettò finché Althea non gli lanciò uno sguardo. «Pensaci, Althea. Stasera ho visto l'umore dei Mercanti mentre se ne andavano. Dubito che otterrete altre offerte di aiuto, tanto meno una migliore.» Si interruppe. Con voce più gentile si rivolse solo a lei: «Se vuoi parlarmi prima di allora, lascia un messaggio alla bottega di Ambra. Lei sa dove trovarmi.» «Vivi a bordo di Paragon?» Althea sembrava senza voce. «Di notte. A volte.» La voce di lui era evasiva. «E quanto cindin hai usato oggi?» chiese la ragazza all'improvviso. C'era una vena crudele nella domanda. «Neanche un po'.» Brashen si permise un sorriso amaro. «È quello il problema.» Rivolse uno sguardo ad Ambra. «Penso che ora farò meglio ad andarmene.» «Io credo di dover rimanere un poco più a lungo.» Ambra parve quasi scusarsi. «Come preferisci. Bene. Buona notte a tutti, allora.» Brashen accennò a un inchino. «Aspettate!» L'invocazione di Malta risuonò secca. «Per favore, voglio dire. Per favore, aspettate.» Keffria pensò che non aveva mai sentito tanta ansia nella voce di sua figlia. «Posso fare qualche domanda? Su Paragon?» Brashen concentrò la sua intera attenzione su di lei. «Se è a me che chiedi il permesso, certo.» Malta girò un'occhiata implorante attorno alla stanza. «Se Brashen ci lascerà qui a rifletterci sopra, allora... E come mi dici sempre, nonna. Non si possono contestare i numeri. Né prendere decisioni senza considerarli. Quindi, per valutare la proposta, prima abbiamo bisogno di conoscere i numeri.» Ronica Vestrit sembrava intrappolata tra sbalordimento e approvazione. «E vero.» Malta prese fiato. «Dunque. Mia zia Althea sembra pensare che il Paragon avrà bisogno di molte riparazioni prima di poter navigare. Ma ho sempre sentito dire che il legno magico non marcisce. Voi ritenete che abbia
bisogno di restauri?» Brashen annuì. «Non quanto una nave di legno ordinario, ma sì, c'è molto da fare. Il Paragon è una vecchia nave. Nella sua costruzione fu usato molto più legno magico che nei successivi velieri viventi. Quelle parti sono intatte. Gran parte del resto è in condizioni notevolmente buone. Penso che il legno magico allontani i tarli e parassiti come il cedro fa con le tarme. Ma avrebbe comunque bisogno di molto lavoro e materiale. Alberi nuovi, tela nuova, sartie nuove. Ancore, catena e una scialuppa, più l'equipaggiamento per la cucina, attrezzi da falegname, una cassa delle medicine... tutto quello che una nave deve avere a bordo per divenire il proprio piccolo mondo. Molte linee di giunzione dovrebbero essere stuccate di nuovo. Quasi tutte le parti metalliche vanno sostituite. Ambra ha restaurato gran parte del legno e dell'arredamento interno, ma c'è ancora molto da fare. «Ci sarebbe l'ulteriore spesa del cibo per approvvigionare la nave. Avremmo bisogno di un deposito segreto di denaro o merce, nella speranza di poter offrire un riscatto per la nave e gli uomini. Bisognerebbe comprare anche armi, nel caso che il capitano Kennit rifiuti di mercanteggiare, e, se possiamo permettercele, dovremmo installare alcune catapulte sulla tolda. E ci vorrebbe denaro in contanti per assumere marinai per il viaggio.» Althea ritrovò la voce. «Credi che troveresti marinai decenti disposti a lavorare a bordo del Paragon? Dimentichi la sua reputazione di assassino, credo. Perché un buon marinaio dovrebbe salpare su quel vascello, a meno che tu non sia disposto a pagare più dei migliori salari?» Keffria percepì che Althea cercava di mantenere la voce civile. Sospettava che l'interesse di sua sorella si fosse acceso, malgrado i suoi commenti sprezzanti sull'idea. «Quello è un problema» ammise Brashen. Estrasse di nuovo il fazzoletto e si asciugò il viso. Le mani tremavano molto leggermente mentre lo ripiegava con attenzione. «Forse alcuni firmerebbero solo per la sfida. Ci sono sempre marinai con più fegato che cervello. Comincerei con i vecchi uomini della Vivacia, quelli dell'equipaggio di tuo padre che Kyle ha congedato. Alcuni potrebbero partire per amore della nave, o in memoria di tuo padre. Per il resto...» Scrollò le spalle. «Ci ritroveremmo con la feccia e i piantagrane. Molto dipenderebbe da chi otteniamo come primo ufficiale. Un buon ufficiale può trasformare quasi qualsiasi cosa in un equipaggio funzionante, se ha mano libera.» «Cosa impedirebbe loro di rivoltarsi quando...»
«I numeri!» interruppe Malta, irritata. «Non ha senso preoccuparsi dei 'se' finché non sappiamo se è possibile dal punto di vista finanziario.» Andò alla vecchia scrivania di suo nonno. «Se vi do carta e inchiostro, Brashen, potete stendere una stima del costo?» «Non sono un esperto» cominciò lui. «Certe cose dovrebbero essere fatte da professionisti e...» «Supponendo che tu trovi qualche carpentiere disposto a lavorare sul Paragon» intervenne Althea sarcastica. «Ha una cattiva reputazione. E supponendo che i LaSuerte ti diano il permesso e...» Le mani di Malta si strinsero a pugno sulla carta che aveva preso dal cassetto. Keffria pensò che l'avrebbe accartocciata e gettata a terra. Invece la ragazza chiuse gli occhi per un momento e trasse un respiro profondo. «Supponendo tutto questo, dunque. Quanti soldi? E possiamo trovarli? Finché non rispondiamo a queste domande, non ha senso porne altre!» «Potremmo essere sconfitti dagli altri fattori come dalla mancanza di soldi!» sbuffò Althea esasperata. «Tutto quello che dico» fece Malta con voce rigidamente controllata «è che dovremmo considerare quei fattori nell'ordine in cui possono sconfiggerci. Non dobbiamo preoccuparci di chi vuole o non vuole navigare per noi, se non abbiamo soldi per ingaggiarli.» Althea fissò la ragazza. Keffria si tese. Sua sorella sapeva avere una lingua affilata. Se canzonava Malta in quel momento, mentre lei tentava con tanto impegno di essere pragmatica, Keffria non avrebbe neanche tentato di controllarla. «Hai ragione» disse brusca Althea. Guardò la loro madre. «Ci rimane qualche risorsa? Qualcosa che non sia inalienabile, qualcosa che possiamo vendere?» «C'è qualcosa» rifletté Ronica. Si rigirò l'anello sul dito, distrattamente. «Ma ricordate che presto dovremo pagare una rata, anche se non siamo in possesso del veliero vivente. La famiglia Khuprus si aspetterà...» «A quello non pensate» disse piano Malta. «Accetterò la corte di Reyn. Stabilirò una data per il nostro matrimonio, a condizione che mio padre sia a casa per partecipare. Penso che ci varrà una proroga del debito, e forse un aiuto finanziario per varare il Paragon.» Calò un silenzio profondo. A Keffria parve che la stanza si riempisse a poco a poco di immobilità come un secchio si colma di acqua limpida. Non era solo la quiete. Era un riconoscimento. Guardò sua figlia e all'improvviso vide qualcun altro in lei. La ragazza viziata e testarda che non si
fermava di fronte a nulla per ottenere quello che voleva era all'improvviso una giovane donna pronta a sacrificare qualsiasi cosa, anche sé stessa, per liberare suo padre. Quel fermo atto di volontà era sconvolgente. Keffria si morse la lingua per impedirsi di dirle che Kyle non ne valeva la pena. Lui non avrebbe mai capito che sua figlia era stata pronta a sacrificare non la parola coraggiosa di un momento ma la sua intera esistenza. Nessuno, pensò, può valere la vita intera di un altro, trascorsa nella sottomissione. Gettò uno sguardo al piccolo schiavo, che li guardava tutti in silenzio, ma si trovò a riflettere sul proprio matrimonio. Un sorriso amaro le torse la bocca. Una donna aveva già fatto quel sacrificio per Kyle Haven. «Malta, per favore, non prendere una simile decisione in queste circostanze.» Il potere nella propria voce sorprese Keffria. «La decisione sta a te, non c'è dubbio. Il fatto che tu sia disposta a prenderla è prova sufficiente che sei una donna. Chiedo solo che tu rimandi tale corso d'azione finché tutti gli altri non sono stati esplorati.» «Quali altri corsi d'azione?» chiese Malta, disperata. «In tutti i nostri problemi, nessuno è venuto ad aiutarci. Chi credi che ci aiuterà adesso?» «La famiglia Tenira potrebbe farlo» propose Althea con voce sommessa. «Altri proprietari di velieri viventi potrebbero farsi avanti e...» «Saranno troppo occupati con i loro problemi per qualche tempo» intervenne Brashen. «Mi spiace. Stasera faccio fatica a pensare con chiarezza. Continuo a dimenticare che probabilmente tu non sai che altro è successo. C'è stata un'insurrezione al molo della dogana. Tenira e alcuni degli altri ci sono andati in forze. Hanno portato Ophelia al centro del porto e un'intera flotta di barchette l'ha scaricata. Il carico è stato sparso per tutta Borgomago. Tenira lo ha dato via piuttosto che pagare le tariffe. Ma questo non ha impedito alla gente di Chalced di tentare di interferire.» «Dolce Sa misericordioso. Qualcuno si è fatto male?» chiese Ronica. Il sorriso di Brashen non era amichevole. «Il comandante del porto di Borgomago è piuttosto sconvolto per due galee affondate. Sfortunatamente sono colate a picco proprio accanto ai moli della dogana. Nessun veliero potrà ormeggiarvi per qualche tempo. Solo Sa può dire quando troveranno il modo di recuperarle...» «Hanno preso fuoco prima di affondare» aggiunse Ambra. Appariva rattristata e insieme soddisfatta. Aggiunse con indifferenza: «Anche parte del molo della dogana è andato a fuoco. Quando ce ne siamo andati, i magazzini del Satrapo stavano ancora bruciando.» Il tono di Brashen sfidò Althea: «Ammetterai che c'erano buone ragioni
per temere per la tua sicurezza, in una notte come questa.» «Eravate laggiù?» Althea guardo dall'uno all'altra. «Tutti quegli incendi... Troppi per essere un caso. Era premeditato, vero? Perché non lo sapevo?» «Ophelia e io siamo diventate buone amiche» rispose Ambra, evasiva. «Perché non me lo avete detto?» «Forse non era un luogo appropriato per la figlia di un Mercante.» Brashen scrollò le spalle. Più acidamente, aggiunse: «Forse Grag ti vuole troppo bene per rischiare di far arrestare anche te.» «Grag è stato arrestato?» «Per un po'. Hanno ritrovato le guardie di Chalced che dovevano sorvegliarlo, ma Grag stesso è scomparso.» Si permise un piccolo sorriso. «So che sta bene, comunque. Sono sicuro che avrai sue notizie in un giorno o due. Di certo non lascerebbe in ansia la sua amata.» «Come fai a sapere così tanto? Come mai eri laggiù?» La rabbia di Althea stava crescendo. Il suo volto era scarlatto. Keffria non capiva perché fosse così sconvolta. Avrebbe preferito trovarsi in mezzo a un'insurrezione, invece di portare a casa Davad? «Ho visto una banda di Mercanti scontenti formarsi e lasciare la riunione in anticipo, e li ho seguiti. Quando ho capito le loro vere intenzioni mi sono unito a loro. Come hanno fatto molti altri lungo la strada.» Fece una pausa. «Più tardi ho sentito quello che era stato fatto alla carrozza di Davad Restart. E quello che alcuni volevano fare a lui. Se fossi stato là, non ti avrei mai permesso di guidare quella carrozza da sola. Che è venuto in mente a Tenira? Io non...» «Te l'ho già detto, non ho bisogno che tu mi sorvegli!» Althea era all'improvviso fuori di sé dalla rabbia. «Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno.» Brashen incrociò le braccia. «Oh, questo è ovvio, adesso. Mi chiedo solo come mai ti sei alzata alla riunione dei Mercanti e hai chiesto l'aiuto che ora rifiuti.» «Non ho bisogno del tuo aiuto!» chiarì Althea ferocemente. «Io sì.» Keffria provò quasi soddisfazione per lo sgomento di sua sorella. Incontrò lo sguardo furioso di lei con un'occhiata calma. «Althea, sembri dimenticare che io, non tu, sono il Mercante per questa famiglia. Non sono così orgogliosa da rifiutare l'unico aiuto che potremmo ricevere.» Keffria guardò Brashen. «Di cosa abbiamo bisogno per partire? Dove cominciamo?»
Brashen inclinò la testa verso Malta. «La piccola ha ragione. Abbiamo bisogno di soldi.» Poi accennò a Ronica. «E la signora del capitano dovrà spingere Davad Restart a presentare la nostra offerta ai LaSuerte in modo favorevole. Qualsiasi altro proprietario di veliero vivente che comunicasse la sua approvazione ci aiuterebbe. Forse Althea potrebbe convincere il suo bello a mettere una buona parola. Conosco alcuni dei velieri viventi, e parlerò direttamente con loro. Forse vi sorprenderebbe sapere quanta pressione un veliero vivente può fare sulla sua famiglia.» Prese fiato e si strofinò brevemente le tempie. Mise via con lentezza il fazzoletto. «Althea ha ragione. Trovare l'equipaggio sarà un problema. Comincerò subito, spargerò nelle taverne la voce che sto ingaggiando un equipaggio di uomini audaci e dinamici. Quelli che verranno si aspetteranno quasi di darsi alla pirateria. Potrebbero cambiare idea sentendo il nome di Paragon, ma...» «Io ce vengo. Io navigo co'vvoi.» Il ragazzo arrossì un poco quando tutti lo fissarono, ma non abbassò gli occhi dal viso di Brashen. Il suo piatto sembrava pulito come se fosse stato lavato. Con il pasto il ragazzo sembrava avere assunto anche sostanza e spirito. «Un'offerta coraggiosa, giovanotto, ma sei ancora un po' piccolo.» Brashen non poté trattenere del tutto il divertimento. Il ragazzo sembrò indignato. «Pescavo co'mmio pa', prima che arrivavano i schiavisti. So stare sulle navi.» Scrollò le spalle sottili. «Meio che spalar cacca de caballi. Caballi puzzano.» «Ora sei libero. Puoi andare dove vuoi. Non vorresti tornare a casa dalla tua famiglia?» gli chiese Keffria con dolcezza. Il visetto magro rimase immobile. Per un istante parve che le parole di Keffria lo avessero di nuovo ammutolito. Poi scrollò le spalle. La voce era più dura e meno infantile. «Ce sta solo cenere e ossa, là. Vorrei tornare i'mmare. È mia la vita, eh? Sono libero, eh?» Si guardò attorno con sfida, come aspettandosi che ci ripensassero. «Sei libero» confermò Althea. «E allora vado co'llui.» Fece un cenno brusco a Brashen, che scosse la testa con lentezza. «C'è un'altra possibilità» intervenne Malta all'improvviso. «Comprare un equipaggio. Ho visto alcuni marinai dal viso tatuato a Borgomago. Perché non possiamo acquistarne qualcuno?» «Perché la schiavitù è sbagliata» replicò Ambra asciutta. «D'altra parte, conosco alcuni schiavi che rischierebbero la punizione per fuggire e unirsi
all'equipaggio. Furono portati via dalle loro case e famiglie nelle Isole dei Pirati. Forse sarebbero disposti a partecipare a un'impresa incerta, se avessero la promessa di poter tornare a casa. Forse alcuni conoscono quelle acque.» «Potremmo fidarci di marinai schiavi?» chiese Keffria esitando. «Sulla nave non sarebbero schiavi» fece notare Brashen. «Se devo scegliere tra un fuggiasco robusto e un ubriacone malridotto, assumerò il fuggiasco. Un po' di gratitudine da un uomo che riceve una seconda opportunità di vita può fare molto.» Parve all'improvviso pensieroso. «Chi ti ha incaricato degli ingaggi?» sbottò Althea. «Se lo facciamo, voglio l'ultima parola sul mio equipaggio.» «Althea, come puoi pensare di navigare con loro?» protestò Keffria. «Come puoi pensare che io resti qui? Se vanno a cercare la Vivacia, devo essere a bordo.» Althea fissò la sorella come se fosse impazzita. «È del tutto inopportuno!» Keffria era costernata. «Paragon sarà un veliero inattendibile, con un equipaggio raffazzonato, diretto in acque pericolose, forse verso la battaglia. Non puoi andare. Cosa direbbero dei Vestrit se te lo permettessimo?» Gli occhi di Althea si fecero di pietra. «Mi preoccupa di più ciò che direbbero se lasciassimo che fossero altri a rischiare per salvare la nostra nave di famiglia. Come possiamo presentarla come una missione vitale e chiedere aiuto ai nostri amici, e poi dire che non vale la pena che un membro della famiglia corra il rischio?» «Io penso che dovrebbe venire anche lei, in effetti.» Questa asserzione stupefacente di Brashen lasciò molte di loro a bocca aperta. Il giovane indirizzò i suoi commenti a Keffria, riconoscendole la decisione finale. «Se non fate capire che è un'impresa dei Vestrit, non troverete altri Mercanti a sostenervi. Sembrerà che affidiate un veliero vivente a un figlio di Mercanti diseredato e scapestrato e a una straniera. E se recuperiamo la Vivacia quando la recuperiamo, spero - la nave avrà bisogno di Althea. Moltissimo.» Le guardò negli occhi, circospetto: «Ma non penso che dovrebbe navigare come capitano, ufficiale o marinaio. Sarà un equipaggio difficile, da tenere in riga con pugni e muscoli, almeno all'inizio. Il tipo di uomini con cui ci ritroveremo non rispetterà nessuno che non sappia massacrarli se necessario. Tu non puoi, Althea. E se lavorerai con loro non ti rispetteranno. Metteranno le tue abilità alla prova in ogni occasione. Prima o poi ti farai male.» Gli occhi di lei si socchiusero. «Non ho bisogno che tu mi difenda, Bra-
shen Trell. Ricordi? Ho dimostrato le mie abilità, e non sono basate solo sulla forza fisica. Mio padre diceva sempre che un capitano che deve tenere in riga l'equipaggio a suon di pugni è un pessimo capitano.» «Forse perché sentiva che quello tocca al primo ufficiale» ribatté Brashen. Cambiò tono: «Tuo padre era un capitano eccellente con una nave meravigliosa, Althea. Avrebbe potuto pagare salari bassi e avrebbe ancora trovato bravi marinai disposti a lavorare per lui. Noi non avremo tanta scelta, temo.» Brashen sbadigliò all'improvviso, poi apparve imbarazzato. «Sono stanco» disse. «Ho bisogno di dormire prima che andiamo avanti. Penso che almeno abbiamo chiarito quali saranno le nostre difficoltà.» «C'è un altro problema che stasera non abbiamo affrontato» intervenne Ambra. Tutti la guardarono. «Non possiamo presumere che Paragon parteciperà volentieri. Ha molte paure. In un certo senso è un ragazzo spaventato. La faccia pericolosa della medaglia è che altrettanto spesso è un uomo arrabbiato. Ritengo essenziale che lo faccia di buon grado. Se tentiamo di costringerlo non avremo possibilità di successo.» «Pensate che sarà difficile convincerlo?» chiese Ronica. Ambra scrollò le spalle. «Non lo so. Paragon è del tutto imprevedibile. Anche se all'inizio fosse d'accordo, potrebbe cambiare idea dopo un giorno o una settimana. È qualcosa che dobbiamo prendere in considerazione.» «Attraverseremo quel ponte quando ci arriveremo. Prima dobbiamo spingere Davad Restart a convincere i LaSuerte ad accettare il nostro piano.» «Penso di poterlo fare.» C'era una vena di freddo acciaio nella voce di Ronica. Keffria provò un momento di pietà per Davad. «Credo che avrò la risposta domani per mezzogiorno. Non vedo ragione di rimandare.» Brashen sospirò pesantemente. «Allora siamo d'accordo. Tornerò domani pomeriggio. Buona notte, Ronica e Keffria. Buona notte, Althea.» Keffria notò un cambiamento molto sottile nel suo tono quando salutò sua sorella. «Buona notte, Brashen» Althea restituì il saluto in tono simile. Anche Ambra si congedò. Mentre Althea si preparava ad accompagnarli alla porta, il piccolo schiavo si alzò. Keffria provò un momento di esasperazione per il comportamento impulsivo di sua sorella. «Non dimenticare di trovargli un posto per dormire» disse ad Althea. Il ragazzo scosse la testa. «No, vado co'llui.» Fece un cenno brusco a Brashen. «No.» Brashen rese la parola definitiva.
«Sono libero, eh?» protestò il ragazzo, cocciuto. Alzò la testa e fissò Brashen. «No'ppuoi fermarmi.» «Non scommetterci» gli disse Brashen minacciosamente. Con voce più gentile aggiunse: «Ragazzo, non posso prendermi cura di te. Non ho una casa dove andare; sono solo.» «Anch'io» insisté il ragazzo con calma. «Penso che dovresti permettergli di venire con te, Brashen» suggerì Ambra. Aveva un'espressione stranamente meditativa. Con un sorriso storto, aggiunse: «Allontanare il tuo primo marinaio potrebbe portare sfortuna.» «Giusto» asserì fiero il ragazzo. «El non rispetta chi non osa» disse solenne. «Portami. No'tti pentirai.» Brashen strinse gli occhi e scosse la testa. Ma quando lasciò la stanza il ragazzo lo tallonò, e lui non fece alcun tentativo di scoraggiarlo. Ambra li seguì con un piccolo sorriso. «Pensate che potranno riportare a casa papà?» chiese Malta con voce sottile dopo che ebbero lasciato la stanza. Mentre Keffria tentava di decidere come rispondere, parlò sua madre. «Le nostre finanze stanno affondando, cara. Non c'è ragione di rifiutare questo rischio. Se hanno successo possono salvare le fortune di famiglia. Se falliscono, affonderemo un po' più velocemente. Ecco tutto.» A Keffria parve una cosa crudele da dire a una bambina, ma con sua sorpresa Malta annuì con lentezza. «Stavo pensando la stessa cosa» osservò. Era la prima volta da un anno che aveva parlato in tono del tutto civile a sua nonna. 20 Pirateria Con la preda in vista, tutti i dubbi di Vivacia evaporarono come nebbie mattutine in un giorno di sole. I rovelli interiori condivisi con Wintrow e tutte le ansie e la moralità strutturata del ragazzo le caddero di dosso come vernice che si stacca dal legno magico risvegliato. Udì il grido della vedetta quando la vela apparve alla vista, e qualcosa di antico fremette dentro di lei: il momento della caccia. Quando i pirati sulla tolda echeggiarono il grido feroce della vedetta, lei stessa urlò, come il ki-ii stridulo di un falco in picchiata. Prima la vela e poi la nave apparvero alla vista, in folle fuga
dalla Marietta. Il piccolo vascello di Sorcor inseguì la preda mentre Vivacia, nascosta dietro un promontorio, piombava fuori per unirsi all'azione. Il suo equipaggio la spinse come non era mai stata spinta, aggiungendo vele finché alberi e pennoni non faticavano a trattenere il respiro del vento. La tela si gonfiava, il fischio del vento lungo le guance risvegliava in lei ricordi che non erano nati in vite umane. Alzò le mani e inseguì la nave in fuga con le dita piegate come artigli. Un tuono selvaggio riempì il suo corpo senza cuore e senza sangue, animandola di frenesia. Si inclinò in avanti, lisciando il suo corpo di legno con una leggerezza che spinse l'equipaggio a gridare di entusiasmo. Tagliò le onde sollevando spuma bianca. «Lo vedi?» gridò Kennit trionfante, aggrappato alla murata di prua. «Ce l'hai nel sangue, mia signora! Lo sapevo! Fosti creata per questo, non per portare merci banali come una popolana con un secchio di acqua. Inseguili! Ah, ti vedono; ti vedono, guarda come si affannano! Ma non servirà a nulla.» Wintrow strinse le dita sulla murata accanto a Kennit. Le lacrime gli scorrevano dagli angoli degli occhi per il bacio aspro del vento salato. Non emetteva un suono. Stringeva le mascelle e allo stesso modo tratteneva con fermezza la disapprovazione. Ma il rimbombo violento del suo cuore lo tradiva. Il suo sangue cantava con quella caccia selvaggia. La sua anima intera vibrava nell'ansia della cattura. Poteva negare quell'entusiasmo a sé stesso, ma non poteva nasconderlo a lei. Kennit e Sorcor non avevano scelto a caso quella preda. La notizia della Bisbetica era giunta da settimane alle orecchie di Sorcor, e più di recente il primo ufficiale aveva condiviso le notizie con Kennit che continuava a riprendere le forze. Il capitano Avery della Bisbetica si era vantato, non solo a Città di Jamaillia ma in molti porti più piccoli, che nessun pirata, non importa quanto audace o virtuoso, lo avrebbe dissuaso dal commercio degli schiavi. Kennit aveva detto a Vivacia che era stata una vanteria sciocca. La reputazione di Avery era già ben nota. Prendeva a bordo solo il carico migliore, schiavi istruiti adatti a diventare insegnanti, maggiordomi e amministratori. Trasportava anche il meglio delle merci di Jamaillia: brandy pregiati e incensi, profumi e intricata filigrana d'argento. I suoi clienti a Chalced si aspettavano da lui stravagante eccellenza, e pagavano in proporzione. La nave rappresentava un obiettivo appetitoso, ma non era di quelli che Kennit avrebbe scelto normalmente. Perché sfidare una nave agile e bene armata, con un equipaggio disciplinato, quando c'erano prede più facili da
ghermire? Ma Avery aveva parlato una volta di troppo, e troppo temerariamente. Non si poteva tollerare tanta impudenza. E Kennit aveva una reputazione da difendere. Avery era stato sciocco a sfidarlo. Kennit aveva visitato la Marietta più di una volta per progettare la cattura con Sorcor. Vivacia sapeva che avevano discusso i luoghi migliori per l'imboscata, ma non molto di più. Le sue domande curiose avevano ricevuto solo risposte evasive. Mentre le due navi convergevano sulla preda, Vivacia rifletté su ciò che Wintrow le aveva detto la sera prima. Il ragazzo aveva condannato Kennit senza appello. «Dà la caccia a quella nave per la gloria, non per la giustizia» aveva dichiarato in tono accusatore. «Altre navi trasportano molti più schiavi, fra gravi disagi e privazioni. Invece ho sentito che Avery non incatena i suoi prigionieri ma permette loro di muoversi liberamente sotto coperta. È generoso con cibo e acqua, così la merce arriva in buone condizioni e viene venduta a buon prezzo. Kennit insegue la nave di Avery non per odio verso la schiavitù, ma per amore di ricchezza e fama.» Vivacia aveva ponderato le sue parole. «Non è questo che Kennit prova quando ci pensa.» Non aveva elaborato ulteriormente quel tema, perché non era del tutto sicura di cosa provasse Kennit. Sapeva che in lui c'erano abissi nascosti a tutti. Tentò un approccio diverso. «Non penso che quegli schiavi gli saranno meno grati di quelli richiusi nello squallore e nelle privazioni. Ritieni la schiavitù accettabile se lo schiavo è trattato come un purosangue o un segugio?» «Certo che no!» aveva reagito Wintrow. Poi Vivacia aveva manovrato la conversazione verso canali che sapeva percorrere più agilmente. Solo quel giorno la nave aveva finalmente dato un nome all'emozione che percorreva Kennit quando parlava della Bisbetica. Era la voluttà della caccia. La piccola nave che fuggiva così rapida davanti a loro era un elemento di bellezza, irresistibile per Kennit come una farfalla svolazzante per un gatto. Pragmatico com'era, non avrebbe scelto quella preda difficile; ma dopo la provocazione non aveva saputo resistere alla sfida. Mentre la distanza tra la Vivacia e il piccolo due-alberi Bisbetica si riduceva, Wintrow provò ansia e nausea. Continuava ad avvertire Kennit che non bisognava versare sangue sui ponti del veliero vivente. Aveva tentato di spiegare al pirata che la nave era costretta a conservare per sempre i ricordi degli uccisi, ma non riusciva a fargli capire quanto doloroso fosse quel fardello. Se Kennit non lo ascoltava - se permetteva che il combatti-
mento si estendesse a Vivacia, o peggio se sceglieva di giustiziare i prigionieri sui suoi ponti - Wintrow pensava che la nave non lo avrebbe sopportato. Lo aveva supplicato di non usare Vivacia per la pirateria; Kennit aveva ascoltato con aria annoiata, e poi aveva chiesto ironicamente perché pensava che avesse catturato il veliero vivente. Wintrow aveva scelto di alzare le spalle e tenere la bocca chiusa. Altre preghiere avrebbero solo spinto Kennit a dimostrare il suo dominio sulla nave e su di lui. I marinai della Bisbetica si erano arrampicati sul sartiame e manovravano disperatamente le vele. Se la Marietta l'avesse inseguita da sola, forse la Bisbetica l'avrebbe scampata. Invece il veliero vivente era più agile del due-alberi, ed era in una posizione per chiudere la via nel canale. Per un istante Wintrow pensò che la Bisbetica li avrebbe superati guadagnando il mare aperto. Poi sentì gridare un comando rabbioso, e vide la nave schiavista mettere le vele al lasco nello sforzo frenetico di non arenarsi. Pochi minuti più tardi la Marietta e Vivacia le chiusero lo spazio di manovra. I rampini volarono dalla Marietta e azzannarono i ponti della Bisbetica. L'equipaggio della nave schiavista rinunciò al tentativo di fuggire e cercò di organizzare una difesa. Erano ben preparati. Lanciarono orci infuocati, che si fracassarono schizzando fiamme sullo scafo e sulla tolda della Marietta. Gli uomini indossavano una leggera armatura di cuoio e impugnavano le spade con consumata competenza. Altri, con archi sulle spalle, stavano arrampicandosi in fretta sul sartiame. Sulla Marietta alcuni pirati difendevano il loro vascello soffocando le fiamme con tela bagnata, mentre altri manovravano le catapulte. Una continua pioggia di pietre cadeva sulla Bisbetica. Nel frattempo i rampini attiravano la sfortunata nave ancor più vicina alla Marietta, dove una squadra d'arrembaggio assetata di sangue si accalcava impaziente sulle murate. I combattenti a bordo della Marietta superavano notevolmente in numero l'equipaggio della Bisbetica. A bordo della Vivacia gli uomini erano allineati con invidia sulla murata. Fischiavano e gridavano consigli ai loro fratelli pirati. Anche sul veliero vivente gli arcieri salirono sul sartiame, e una pioggia di frecce cominciò a cadere a casaccio sull'equipaggio e sulla tolda della Bisbetica. Fu il loro unico contributo alla battaglia, ma fu letale. I combattenti che tentavano di difendere la Bisbetica dovettero ricordare che avevano un secondo nemico alle spalle. Le frecce sibilanti infilzavano chi lo scordava. Kennit trattenne la Vivacia ai margini dell'azione, la prua puntata verso il conflitto. In piedi sul ponte di prua, aggrappato alla murata, parlava a voce bassa, come istruendola. Ogni tanto una raffica di vento portava i suoi sussurri agli o-
recchi di Wintrow, ma erano chiaramente intesi per Vivacia. «Là, lo vedi, il primo a oltrepassare le murate e balzare sulla tolda nemica, con un fazzoletto rosso, quello è Sudge: eccellente canaglia, deve sempre essere il primo. Dietro di lui, ecco, quello è Rog. Sudge è il suo idolo, e questo potrebbe costare la vita al ragazzo, un giorno o l'altro...» La polena annuiva, assorbendo la scena con gli occhi, i pugni stretti al petto e le labbra socchiuse per l'entusiasmo. Quando Wintrow la sfiorò con la mente avvertì la sua esaltazione confusa. Le emozioni degli uomini a bordo, un misto di cupidigia, invidia ed eccitazione, la investivano come una marea crescente. L'orgoglio di Kennit per il suo equipaggio era una vena separata di emozione. Come un'orda di formiche, i pirati dalle vesti sgargianti si riversarono sulla tolda della Bisbetica e la battaglia cominciò ad allargarsi. Il vento e la striscia d'acqua tra le navi smorzavano le imprecazioni e le grida. Se Vivacia era consapevole che le frecce partite dal suo sartiame trapassavano carne umana, non lo mostrò. A quella distanza il massacro era uno spettacolo di movimento e colore. Conteneva grandiosità, dramma e apprensione. Un uomo precipitò dal sartiame della Bisbetica. Colpì un pennone, vi si aggrovigliò brevemente e poi crollò sulla tolda. Wintrow trasalì all'impatto, ma Vivacia non batté ciglio. La sua attenzione era concentrata sul ponte di prua, dove il capitano del vascello combatteva con Sorcor. La bella lama del capitano Avery brillava come un ago di argento mentre tempestava di colpi il massiccio pirata. Sorcor deviò la lama con una spada corta nella mano sinistra, e attaccò con la spada lunga nella destra. La morte danzava tra loro. Gli occhi di Vivacia scintillavano. Wintrow gettò uno sguardo obliquo a Kennit. A quella distanza Vivacia scorgeva l'entusiasmo e l'azione della battaglia, ma era isolata dall'orrore. Il sangue non schizzava sui suoi ponti, e il vento portava via il fumo e le urla dei feriti e dei morenti. Come un macchia sempre più larga, i pirati fluirono con sicura calma sulla tolda del vascello catturato. Vivacia vedeva tutto, ma ne rimaneva distaccata. Forse Kennit cercava di abituarla gradualmente alla violenza? Wintrow si schiarì la gola. «Là ci sono uomini che muoiono» le fece notare. «Vite che finiscono in doloroso terrore.» Vivacia gli gettò un rapido sguardo, poi tornò a contemplare la battaglia. Fu Kennit a rispondere. «Lo hanno voluto loro» commentò. «Lo hanno scelto, ben sapendo che potevano morire. Non parlo solo dei miei prodi che si gettano volentieri nella mischia. L'equipaggio della Bisbetica si aspettava un attacco. Lo hanno chiesto loro. Con le loro vanterie hanno di-
chiarato di essere pronti. Ricorda, erano ben equipaggiati con farsetti di cuoio, spade e archi. Li avrebbero avuti a bordo se non si fossero aspettati di combattere, se non avessero saputo che meritavano di essere sfidati?» Kennit emise una risata di gola. «No» rispose a sé stesso. «Laggiù non vedi un massacro. Vedi uno scontro di volontà. Si può addirittura dire che è solo una manifestazione fisica dell'eterno conflitto tra rettitudine e ingiustizia.» «C'è gente che muore» ripeté Wintrow caparbio. Tentò di infondere condanna nelle sue parole, ma la sua certezza svanì davanti alle parole persuasive del pirata. «C'è sempre gente che muore» concordò Kennit di buon grado. «Tu e io, qui su questa tolda, ci stiamo già affievolendo, appassendo come effimeri fiori d'estate. Vivacia sopravvivrà a tutti noi, Wintrow. La morte non è un male. Lei ha assorbito molte morti, non è vero, per potersi risvegliare? Guardala così, Wintrow. È alle nostre vite che lei assiste ogni giorno che passa, o alle nostre morti? Può essere l'uno o l'altro. Sì, il dolore e la violenza esistono. Sono parte di tutte le creature, e in sé non sono un male. La violenza di un'inondazione strappa un albero dall'argine, ma il ricco suolo e l'irrigazione che porta con sé sono più che una compensazione. Siamo guerrieri per la giustizia, la mia signora e io. Se dobbiamo spazzare via i malvagi, facciamolo in fretta, anche se comporta dolore.» La voce di Kennit era bassa e ricca come un tuono lontano, e altrettanto travolgente. Wintrow sapeva che in quella logica impeccabile c'erano fili sciolti. Se solo ne avesse trovato uno avrebbe potuto disfare tutto il ragionamento del pirata. Si rifugiò in una frase che aveva letto in un libro. «Una delle differenze tra bene e male è che il bene può sopportare l'esistenza del male e ancora prevalere. Invece il male viene sempre sconfitto dal bene, alla fine.» Kennit fece un brillante sorriso e scosse la testa. «Wintrow, Wintrow. Pensa a quello che hai detto. Che genere di bene oscuro può tollerare il male e permettere che esista? È un bene che teme per la sua comodità e sicurezza, e si trasforma da vero bene a cieco compiacimento. Dovremmo dare le spalle alla sofferenza nella stiva di quella nave, dicendo 'Ebbene, qui siamo tutti uomini liberi, è il meglio che possiamo fare, e loro dovranno arrangiarsi'? Di certo non è ciò che ti hanno insegnato al tuo monastero.» «Non intendevo questo!» reagì Wintrow indignato. «Il bene sopporta il male come una pietra sopporta la pioggia, non lo tollera! Infatti...»
«Credo che sia finita» intervenne Kennit blandamente. Dal lato della Bisbetica vennero gettati in acqua diversi corpi. Nessuno serpente salì a riceverli. Rapida e pulita, la nave non aveva mai attirato un seguito di quelle bestie. Il vessillo della Bisbetica fu strappato via e sostituto in fretta dalla bandiera rossa e nera del Corvo. I portelli furono aperti e gli schiavi cominciarono a emergere in coperta. Kennit si gettò uno sguardo dietro la spalla. «Etta, fai preparare la scialuppa. Voglio andare a ispezionare la nostra preda.» Si rivolse a Wintrow. «Vuoi venire anche tu, ragazzo? Potrebbe essere istruttivo assistere alla gratitudine di quelli che abbiamo salvato. Potrebbe farti cambiare idea sulla nostra attività.» Wintrow scosse con lentezza la testa. Kennit rise. Poi la sua voce cambiò. «Vieni lo stesso. Sbrigati, non indugiare. Ti istruirò, che tu lo voglia o no.» Wintrow sospettava in parte che in realtà il pirata volesse impedirgli di commentare in privato con Vivacia lo spettacolo cui avevano assistito. Kennit voleva che Vivacia riflettesse sulla cattura della Bisbetica riflettendo sulle sue parole. Wintrow strinse le mascelle, ma si girò per eseguire l'ordine del pirata. Poteva resistere. Fu sconcertato quando Kennit gli mise un braccio sulle spalle e si appoggiò a lui come per trovare sostegno. La voce del capitano era affabile: «Impara a saper perdere, Wintrow. Perché in realtà non stai perdendo. Stai guadagnando ciò che ho da insegnarti.» Il sorriso di Kennit si incurvò: «E ho molto da insegnarti.» Più tardi, mentre sedevano nella scialuppa della nave, diretti alla Bisbetica, Kennit si chinò per parlare all'orecchio di Wintrow. «Anche una pietra alla fine è logorata dalla pioggia, ragazzo mio. Non è vergognoso per la pietra.» Gli diede un colpetto amichevole alla spalla e poi sedette diritto al suo posto. Contemplò la sua preda attraverso l'acqua scintillante, irradiando soddisfazione. Le folate di vento portavano le note casuali di un flauto mentre Althea si affrettava attraverso i boschi dietro la casa, e poi su per le rupi. Aveva promesso di incontrare Brashen e Ambra a mezzogiorno alla nave arenata. Insieme gli avrebbero dato la notizia. L'ansia pesava come una pietra nel fondo del suo stomaco mentre si chiedeva come avrebbe reagito Paragon. Le note del flauto che le giungevano alle orecchie non erano del tutto musica; le sembravano un esperimento. Qualche bambino, probabilmente, che giocava sulla spiaggia. La profondità delle note avrebbe dovuto prepararla alla vista della pole-
na cieca che soffiava in un enorme flauto. La concentrazione gli trasformava il viso: la fronte era spianata e la posa delle spalle non era più così difensiva. Sembrava una creatura del tutto diversa dalla nave sinistra e diffidente che aveva aiutato così tanto tempo prima. Provò un breve momento di gelosia pensando che Ambra era stata capace di operare un cambiamento così grande in lui. L'enorme strumento era chiaramente un'altra opera di Ambra. Althea scosse la testa: all'improvviso si sentiva inadeguata. In tutti gli anni che aveva conosciuto Paragon non aveva mai pensato di fargli regali. Ambra sì. La creatrice di perline gli donava giocattoli e oggettini per occupargli le mani e la mente. Althea era sua amica da anni, ma lo aveva sempre visto come un veliero vivente fallito, nient'altro. Le piaceva, e lo considerava una persona, non una cosa; tuttavia l'immagine che aveva di lui non era mai cambiata. Aveva deluso la fiducia riposta in lui, un vascello pericoloso che non avrebbe mai più navigato. Ambra aveva liberato quella parte di lui che era un bambino vivace ma dalla crescita bloccata, incoraggiandola. Era stato quello a fare tanta differenza per lo spirito di Paragon. Avvicinandosi, Althea conobbe un momento di esitazione. La nave suonava, felicemente inconsapevole di lei. In origine la polena era stata intagliata come un guerriero barbuto dal volto marcato. Anni prima un'accetta o un'ascia gli aveva devastato gli occhi. Ora, malgrado la barba irsuta e i riccioli incolti, quello che rimaneva del suo viso sembrava stranamente fanciullesco. Althea veniva a sostenere Brashen e Ambra per convincerlo ad affrontare ancora una volta il compito in cui aveva fallito spettacolosamente. Veniva a portar via quel giorno di sole, quella creatura innocente che suonava il suo flauto. Voleva esigere da lui ciò che Paragon temeva di più. Cosa stava per fargli? Per la prima volta da quando Brashen aveva suggerito il piano, Althea si chiese davvero come avrebbe influenzato Paragon. Poi pensò a Vivacia e indurì il suo cuore. Paragon era un veliero vivente. Era stato creato per navigare, e se Althea riusciva a restituirgli la gioia di farlo sarebbe stato un dono più grande di qualsiasi ninnolo che Ambra gli avesse mai dato. Rifiutò di pensare a cosa sarebbe successo a tutti loro se Paragon avesse fallito di nuovo. Sentì l'odore di un fuocherello. Ora che il tempo d'estate si era riscaldato, Ambra il più delle volte cucinava sulla spiaggia. All'interno del Paragon aveva operato un cambiamento graduale. In parte Althea lo approvava; in parte ne era inorridita. I quartieri del capitano ora luccicavano di legno
levigato e oliato. Gli ottoni erano stati lucidati fino a risplendere. Gli armadi danneggiati e i cardini strappati erano stati tutti ripristinati amorosamente. La stanza profumava d'olio di semi di lino, trementina e cera vergine. Nelle sere in cui Ambra accendeva una lanterna nella cabina, tutto era miele e oro. Il dettaglio sconvolgente era la botola aperta nel pavimento che conduceva nella stiva. All'inizio Brashen e Althea si erano indignati. Ambra aveva tentato di spiegare che voleva un accesso più rapido alle stive per le sue provviste, ma nessuno dei due lo aveva accettato. Nessuna nave, spiegarono, aveva una botola nella cabina del capitano. Anche ermeticamente chiusa e coperta da un fine tappeto, era un'offesa per Althea. Ambra aveva restaurato altre parti della nave. La stufa della cambusa era stata pulita e lucidata. Anche se Ambra cucinava soprattutto sulla spiaggia, teneva in cambusa le sue pentole e le provviste. Althea non era sicura di come se la cavasse con l'inclinazione del ponte. Ambra diceva solo che restaurare quelle aree sembrava far sentire bene Paragon, e quindi lo aveva fatto. Aveva spazzato la sabbia dall'intera nave. Aveva fatto piazza pulita delle chiazze di muschio e delle alghe portate dal vento che erano riuscite ad aggrapparsi allo scafo. Aveva bruciato incensieri di erbe purificatrici in tutta la nave per allontanare l'umidità e gli insetti. Porte, oblò e portelli erano di nuovo a chiusura stagna. Aveva compiuto tutto questo prima ancora che si discutesse il nuovo varo di Paragon. Per un istante Althea ci rifletté, poi accantonò le sue considerazioni. «Paragon!» chiamò. La nave abbassò il flauto dalle labbra e sorrise nella sua direzione. «Althea! Sei venuta a trovarmi.» «Sì. Anche Brashen e Ambra sono qui?» «Dove vuoi che siano?» chiese giovialmente la nave. «Sono dentro. Per qualche ragione Brashen voleva dare un'occhiata agli ingranaggi del mio timone. Ambra è con lui. Usciranno fra poco.» «Che bello il tuo flauto. È nuovo?» Paragon sembrò confuso. «Non proprio. Ce l'ho da qualche giorno, ma non so ancora suonare niente. Ambra dice che non importa se non seguo un motivo. Dice che se i suoni mi piacciono, la musica è la mia. Ma voglio imparare a suonare.» «Penso che Ambra abbia ragione. I motivi arriveranno man mano che ti abitui.» Le strida irritate dei gabbiani fecero voltare Althea. Lontano sulla spiag-
gia due donne si stavano avvicinando alla nave. Un uomo corpulento avanzava pesantemente dietro di loro. Althea aggrottò le ciglia. Erano in anticipo. Non aveva ancora menzionato l'argomento a Paragon, e presto la nave avrebbe scoperto che tutto era stato deciso senza di lui. Doveva far uscire in fretta Brashen e Ambra, prima che arrivassero gli altri. «Che cosa ha disturbato i gabbiani?» chiese Paragon. «Solo qualcuno che passeggia sulla spiaggia. Vorrei, uh, una tazza di tè. Ti dispiace se salgo a bordo e chiedo ad Ambra di usare il suo bollitore?» «Vai pure, sono sicuro che non le dispiacerà. Benvenuta a bordo.» Althea si sentì una traditrice mentre Paragon si portava di nuovo il flauto alle labbra, senza preoccupazioni. In breve la sua intera vita sarebbe cambiata. Si arrampicò sulla scala di corda, il più recente contributo di Brashen alla dimora di Ambra, e attraversò la tolda inclinata fino al portello di poppa. Scendendo sotto coperta sentì le loro voci in fondo alla scala. «Sembra in buone condizioni» stava dicendo Brashen. «Ma è difficile dirlo con il timone incuneato nella sabbia. Una volta liberata la nave, dovremo controllare come si muove. Il grasso non farà male, comunque. Potremmo affidarlo a Clef.» Malgrado la preoccupazione, Althea dovette sorridere. Il piccolo schiavo era un'estrema seccatura per Brashen... secondo lui. Eppure in qualche modo sembrava già scivolato nel ruolo del mozzo. Brashen gli affidava tutti i piccoli compiti semplici che nessun altro aveva il tempo di fare. Il ragazzo aveva detto la verità: sapeva muoversi su un ponte. Sembrava del tutto a suo agio a bordo del relitto. Paragon pareva averlo accettato molto più in fretta di quanto il ragazzo si fosse abituato a lui. Clef era ancora molto timido nel rivolgersi direttamente alla polena vivente. Meno male, decise Althea, pensando al segreto che nascondevano alla nave da una settimana. Non era stato facile persuadere Davad Restart. All'inizio, parlando con Ronica, aveva negato qualsiasi conoscenza di affari riguardanti Paragon. Ronica era stata inesorabile nell'insistere che conosceva tutte le offerte e controproposte, e che solo lui poteva negoziare quel delicato contratto. Quando finalmente Davad aveva ammesso di sapere del mercanteggiamento per Paragon, Althea aveva lasciato la stanza, colma di disgusto. Davad era un Mercante di Borgomago, nato dalle stesse tradizioni che avevano plasmato lei. Come poteva far questo a un veliero vivente? Come poteva abbassarsi a tentare la famiglia LaSuerte con il denaro per spingerli ad accettare un atto tanto atroce? Era sleale, crudele e sbagliato. Per soldi e
per guadagnare influenza con i Nuovi Mercanti aveva tradito il suo retaggio. Sotto il disgusto ribolliva il dolore. Davad Restart, fonte di dolci e cavalcate sulla schiena quando era piccola, Davad che l'aveva vista crescere e le aveva mandato fiori per il suo sedicesimo compleanno. Davad il traditore. Ronica e Keffria avevano gestito quello che ora Althea vedeva come un riscatto. Lei non era stata capace di prendervi parte. Evitava Davad, perché non pensava di potergli parlare civilmente, eppure non osava offenderlo. Superò gli ultimi gradini con un balzo. Quando i suoi stivali urtarono il ponte annunciò: «Arrivano. La mamma è sulla spiaggia. Temo che il Mercante Restart abbia scelto di accompagnarla. Spero che abbia il buon senso di tenere la bocca chiusa, ma ne dubito. Avete parlato a Paragon?» Guardò Ambra. Era più facile così. Non c'era inimicizia tra Brashen e lei, ma neppure conforto. «Non ancora!» Ambra sembrò sgomenta. «Volevo che tu fossi qui. Non mi aspettavo che arrivassero così presto.» «Sono in anticipo. Potremmo mandare Clef lungo la spiaggia per chiedere di aspettare il nostro segnale.» Ambra ponderò un momento. «No. Prima è, meglio è. Paragon strepiterà e farà il broncio, temo, ma sospetto che dentro di sé ne sarà anche felice.» Emise un piccolo sospiro. «Andiamo.» Althea seguì Ambra su per la scala, tallonata da Brashen. Sulla spiaggia trovarono Clef seduto su un sasso davanti a Paragon. Scarlatto in viso, il ragazzo tentava di riprendere fiato. Paragon soffiò nel flauto, emettendo un suono improvviso come una scoreggia, ed entrambi si sganasciarono. La nave alzò la mano libera per soffocare le risatine, ma Clef sghignazzava ad alta voce. Althea si arrestò e li fissò. Dietro di lei, Brashen si unì alla risata. Il Paragon si girò ciecamente verso di loro e sorrise. «Eccovi qui.» «Siamo qui» riconobbe Ambra. «Tutti qui.» Si avvicinò alla polena, poi tese una mano guantata per toccargli il braccio. «Paragon, siamo tutti qui perché vogliamo parlarti di una cosa. Una cosa molto importante.» La risata svanì dal viso della polena, sostituita dall'incertezza. «Una cosa brutta?» «Una cosa bella» disse Ambra in tono tranquillizzante. «Almeno, tutti la pensiamo così.» Guardò gli altri e poi lanciò uno sguardo lungo la spiaggia. Althea seguì i suoi occhi. Sua madre e Amis LaSuerte li avrebbero raggiunti molto presto. «È un'opportunità di fare qualcosa di buono, con il tuo aiuto. Abbiamo bisogno di te.»
«Non sono un bambino» disse la nave. «Parla chiaro.» La sua ansia stava crescendo. «Come possiamo fare qualcosa insieme? Una cosa bella in che senso?» Ambra si strofinò il viso con un gesto nervoso. Rivolse uno sguardo ad Althea e Brashen, poi si concentrò sulla nave. «Lo so che non sei un bambino. Oh, sto dicendo le cose sbagliate, perché ho tanta paura che non vorrai unirti a noi. Paragon, ecco di che si tratta. Sai già del veliero vivente della famiglia Vestrit, Vivacia. I pirati l'hanno catturata. Sai tutto. Ci hai sentiti parlare di lei, cercare di decidere cosa fare. Ebbene, Althea vuole andare a liberarla. Anche Brashen e io.» Trasse un respiro. «Vogliamo che ci porti tu. Cosa ne pensi?» «I pirati» disse Paragon senza fiato. Si grattò la barba con la mano libera. «Non lo so. Non lo so. Voi mi piacete. Mi piace stare con voi. Nessuna nave dovrebbe essere lasciata con i pirati. Sono creature terribili.» Althea ricominciò a respirare. Sarebbe andato tutto bene. «I LaSuerte hanno detto che mi porteranno a cercare Vivacia?» Brashen tossì nervosamente. Ambra gettò uno sguardo attorno, invitando gli altri due a parlare, ma nessuno si offrì. «I LaSuerte ti permetteranno di portarci là.» «Ma chi... Vuoi dire che non ci sarà a bordo un membro della mia famiglia?» Era incredulo. «Nessun veliero vivente naviga senza un membro della famiglia a bordo.» Brashen si schiarì la gola. «Ci sarò io, Paragon. Ci conosciamo da tanti anni, sei la cosa più vicina a una famiglia che ho. Andrei bene?» «No. No, Brashen.» La voce della nave salì nervosamente. «Mi piaci, davvero, ma non sei un LaSuerte, e io sì. Sei mio amico, ma non sei la mia famiglia. Non posso navigare senza un familiare a bordo.» Scosse la testa, enfatizzando il concetto. «I LaSuerte non lo permetterebbero. Sarebbe come dire che mi hanno abbandonato per sempre, che non farò più nulla di buono, mai più. No.» Afferrò il flauto con entrambe le mani, ma non riuscì a fermare il tremito che le agitava. «No.» La madre di Althea e Amis LaSuerte si erano fermate poco lontano. Amis fissava Paragon. Incrociò le braccia e strinse le labbra. Althea lesse nella sua posa diniego e ripulsa. Fu contenta che la nave fosse cieca. Davad sbuffava, sforzandosi di raggiungerle. «Paragon» lo chiamò Althea in tono rassicurante. «Per favore. Ascoltami. Sono passati anni da quando hai avuto un LaSuerte a bordo. Sei stato da solo, a parte noi. Tuttavia sei sopravvissuto. Credo che tu sia diverso
dalla maggior parte dei velieri viventi, che tu abbia un senso di te stesso separato dalla tua famiglia. Penso che tu abbia imparato a essere... indipendente.» «Sono sopravvissuto solo perché non potevo morire!» ruggì Paragon all'improvviso. Alzò il flauto come per colpirla. Poi, in una grande prova di autocontrollo, si mise la mano dietro la spalla per appoggiare il suo prezioso strumento sul ponte di prua inclinato. Si rivolse di nuovo alla ragazza, respirando velocemente attraverso il naso. «Vivo nel dolore, Althea. Vivo sull'orlo della pazzia! Pensi che non lo sappia? Ho imparato... Cosa ho imparato? Nulla. Solo che devo andare avanti, e quindi vado avanti. Un vuoto mi divora dal di dentro e non è mai sazio. Mangia i miei giorni, uno per uno, consumando ogni secondo, goccia a goccia, e ogni giorno diminuisco, ma non riesco mai a spegnermi.» Emise una risata improvvisa, selvaggia. «Dici che ho un'identità separata dalla mia famiglia? Oh, sì. Sì, ce l'ho, un'identità con artigli e denti, così piena di tormento e furia che farei a brandelli il mondo se solo servisse a far cessare tutto!» La voce era diventata un ruggito. All'improvviso allargò le braccia e gettò indietro la testa. Emise un urlo di forza inumana, di insopportabile tristezza. Althea si coprì le orecchie con le mani. Con la coda dell'occhio vide Amis LaSuerte girarsi e fuggire. Ronica la inseguì. Sotto gli occhi di Althea la raggiunse e le afferrò un braccio. La fermò e la costrinse a voltarsi. Althea sapeva che la stava rimproverando, ma non aveva idea di cosa le dicesse. Davad ora era accanto a loro, schioccando la lingua con fastidio e asciugandosi il sudore dal viso con un fazzoletto di seta. Althea lo sapeva: Amis LaSuerte aveva cambiato idea. La ragazza ne era sicura. Aveva perso la sua unica opportunità di salvare Vivacia. Non starebbe stato così disastroso se fosse stata una vittoria per Paragon, ma non poteva crederlo. I LaSuerte non lo avrebbero venduto, ma non lo avrebbero nemmeno fatto navigare. Sarebbe rimasto lì sulle spiagge di Borgomago, sempre più vecchio e più matto con ogni anno che passava. Althea si chiese se lei avrebbe fatto la stessa fine. Ambra si era avvicinata pericolosamente a Paragon. Con una mano sullo scafo gli parlava sommessamente. La nave non le prestava attenzione. Aveva lasciato cadere la testa irsuta fra le mani e piangeva, i singhiozzi gli scuotevano le spalle, un bambino dal cuore spezzato. Clef si era avvicinato e fissava con occhi sbarrati la nave sconvolta, mordendosi il labbro inferiore e stringendo i pugni lungo i fianchi. «Paragon!» Amis LaSuerte gridò il suo nome.
La nave sollevò di scatto il viso sfregiato e girò attorno gli occhi ciechi. «Chi è?» chiese freneticamente. Si strofinò le guance, come per asciugare lacrime che non aveva occhi per versare. La presenza di una sconosciuta che assisteva al suo dolore lo sconvolgeva. «Sono Amis LaSuerte.» La donna parve sulla difensiva. I capelli rigati di grigio si erano sciolti dal cappellino estivo, e lo scialle si agitava nel vento. Non disse altro, aspettando la reazione di Paragon. La nave sembrò sbalordita. Aprì e chiuse due volte la bocca prima di trovare le parole. «Perché sei venuta?» La voce e il tono erano sorprendentemente riservati, da uomo piuttosto che da ragazzo. Irradiava disperazione. Inspirò a fatica, si ricompose ancora un poco. «Perché, dopo tutti questi anni, sei venuta a parlarmi?» Amis apparve più scossa che se Paragon avesse gridato contro di lei. Cercò le parole. «Te lo hanno detto, vero?» domandò infine, incerta. «Detto cosa?» chiese Paragon senza pietà. Amis raddrizzò la schiena. «Ti ho venduto.» «Non puoi vendermi. Sono parte della tua famiglia. Potresti vendere tua figlia, tuo figlio?» Amis LaSuerte scosse la testa. «No.» bisbigliò. «No, non potrei. Perché li amo e loro mi amano.» Alzò lo sguardo a fissare la nave sfigurata. «Questo non vale per te.» La voce si fece all'improvviso stridula. «Da quando posso ricordare, sei stato il flagello della mia famiglia. Non ero ancora nata quando partisti per l'ultima volta, ma crebbi con il dolore di mia madre e mia nonna per i loro lutti. Sei scomparso portando con te gli uomini della nostra famiglia, per non tornare mai più. Perché? Per che cosa hai voluto punirci, se non del fatto che eravamo la tua famiglia? Sarebbe stato abbastanza brutto se tu non fossi mai tornato. Almeno avremmo potuto dubitare. Avremmo potuto immaginare che foste affondati tutti insieme, o che loro fossero rimasti da qualche parte, vivi ma incapaci di tornare da noi. Invece hai dovuto ricomparire, dimostrare che avevi ucciso ancora una volta. Avevi di nuovo ucciso gli uomini della famiglia che ti aveva creato, e avevi lasciato le donne a piangerli. «Sei stato qui per trent'anni! Un rimprovero continuo alla mia famiglia, un simbolo della nostra vergogna e della nostra colpa. Ogni nave che entra o esce dal porto ti vede. Tutti a Borgomago hanno un'opinione sul motivo del tuo fallimento. I più danno la colpa a noi. Siamo stati chiamati avidi, imprudenti, egoisti e insensibili. Alcuni dicono che abbiamo meritato la nostra malasorte. Finché sei qui non possiamo dimenticare, né perdonarci.
Sarebbe molto meglio se te ne andassi. Loro sono disposti a prenderti, e noi siamo più che disposti a sbarazzarci di te.» Li sommerse tutti con le sue parole velenose. Althea soffriva per Paragon al punto da non poter parlare. Gli occhi di Amis sporgevano come quelli di una pazza. Dopo tutto, forse, Paragon era davvero della stessa stoffa dei LaSuerte. «Eravamo una famiglia potente, prima di te! Saresti stato la nostra gloria, un Paragone di eccellenza. Invece ci siamo rovinati per pagarti, e non ci hai mai portato altro che dolore e disperazione. Ebbene? Non tenti neanche di negarlo? Parla, oh nave meravigliosa! Dopo tutti questi anni, dimmi perché! Perché ti sei rivoltato contro di loro, perché hai ucciso i nostri sogni, le nostre speranze, i nostri uomini?» Finalmente si fermò e rimase senza fiato per la forza delle sue emozioni. Accanto a lei, Ronica Vestrit sembrava nauseata. L'espressione sul viso di Davad Restart era la più interessante. Appariva angosciato, eppure una specie di integrità splendeva nei suoi occhi. «Il Fiume delle Giungle della Pioggia» disse piano. «Nulla di buono è mai uscito dalle Giungle della Pioggia. Magia avvelenata, malattie insidiose. È tutto ciò che è mai...» «Basta» sibilò Ambra. «Tacete e andatevene. Andatevene subito. Paragon lo sa. Ecco. Ecco, prendete, è vostro, è tutto vostro. Tutto quello che ho, in cambio di Paragon. Come ho promesso.» Si tolse dal collo una chiave legata a una cinghia di cuoio e la scagliò ai piedi di Davad. La chiave colpì una pietra e risuonò con una nota limpida prima di rimbalzare sulla sabbia. Davad si chinò con fatica per prenderla. Althea riconobbe la massiccia chiave del negozio sulla Strada delle Giungle della Pioggia. Il Mercante se la lasciò cadere in tasca. Amis LaSuerte rimase a guardare la nave. Alcune lacrime rigavano le sue guance avvizzite, ma ora non piangeva. Fissava Paragon con le labbra strette. Sopra di lei, la polena incrociò le sue braccia sul petto e alzò la testa. Se avesse avuto gli occhi starebbero stati puntati sul mare. Serrò le labbra, facendo risaltare i muscoli delle mascelle. Sembrava una normale polena di legno. Davad prese il braccio di Amis LaSuerte e lo tirò. «Vieni, Amis. Ti porto a casa. Poi andrò a rendere sicura la tua bottega. Penso che tu abbia tratto il meglio da un cattivo affare. Penso che sia così per tutti noi. Buona giornata, Ronica, Althea. Ricordate, questa operazione non è cominciata da me.» «Ce lo ricorderemo» ribatté secca Althea. Non li guardò andare. Fissava
la nave immobile e silenziosa. Il senso di colpa la rodeva. Perché mai aveva pensato che Amis LaSuerte potesse persuadere Paragon a seguirli di buon grado? Il rancore dei LaSuerte era leggendario a Borgomago. Perché non aveva immaginato che la donna lo avrebbe rivolto contro la sua nave abbandonata? All'improvviso tutto sembrava folle. Veleggiare su una nave impazzita, nella fioca speranza di ritrovare e recuperare il veliero vivente di famiglia... era una missione per un matto. Chi altro poteva credere nel successo di un'impresa simile? «Paragon?» disse quietamente Ambra. «Paragon, è andata via. Andrà tutto bene, vedrai. È per il meglio. Adesso starai con persone che ti vogliono bene. Di nuovo sul mare, dove deve stare una nave. Quando tornerai a Borgomago sarai un eroe. Tutti vedranno il tuo valore, anche i LaSuerte. Paragon?» Clef strisciò fuori da dietro Brashen. Si avvicinò con cautela alla nave e mise una mano timida sul fasciame. Guardò la polena immobile sopra di lui. «A volte» disse con enfasi «devi essere te la tua famiglia. Quando resti solo te.» Paragon non parlò. La Bisbetica era la preda più eccellente che avesse mai catturato. Una rara esaltazione sgorgò in Kennit mentre veniva issato sulla sua tolda. Etta lo aspettava per dargli la gruccia. C'era un duplice gusto in quella vittoria. Non solo era la sua prima cattura importante da quando era guarito, ma Wintrow era lì a vedere. Il pirata quasi sentiva la meraviglia nel ragazzo che lo seguiva. Bene, che guardasse a bocca aperta il piccolo vascello splendente, e ripensasse al suo giudizio sul capitano Kennit. E così il giovane Wintrow lo riteneva un furfante mutilato, buono solo a catturare fetide navi schiaviste? Che si guardasse attorno e capisse che Kennit era uno dei migliori filibustieri che mai avessero navigato il Passaggio Interno. La sua soddisfazione si espresse in magnanimità verso l'equipaggio e Sorcor in particolare. Quando il mascalzone si affrettò a fargli rapporto con le mani rosse di sangue, Kennit lo sgomentò con una pacca cordiale sulla spalla e un «Bene! Mai visto un bell'esempio di pirateria come questo! Ostaggi?» Sorcor sorrise, esaltato dalla lode. «Solo gli ufficiali, capitano. Era come avete detto voi; gli altri erano guerrieri oltre che marinai. Nessuno ha voluto deporre le armi e passare dalla nostra parte. L'ho chiesto due volte, proprio così. Arrendetevi, ho detto, vi permetteremo di firmare gli articoli
della nostra nave. Ma non hanno voluto. Un maledetto peccato. C'erano a bordo dei gran bravi combattenti, ma gli unici rimasti sono quelli che sono venuti qui con me.» Sorcor ghignò per la battuta. «Gli ufficiali, Sorcor?» «Chiusi sotto coperta. Il primo ufficiale ha preso un paio di brutti colpi in testa prima di cadere, ma se la caverà. C'è un bel po' di bottino. Gli schiavi stanno bene. Alcuni sono un po' scossi dal cambiamento improvviso, ma si riavranno.» «Perdite?» Kennit avanzò velocemente sulla gamba di legno. Il ghigno di Sorcor si affievolì. «Più pesanti di quanto ci aspettavamo, signore. Questi erano combattenti, e sono caduti con la spada in pugno. Ci abbiamo rimesso Clifto, Marl e Burry. Kemper ha perso un occhio. Alcuni degli altri hanno ferite meno gravi. Opal ha la faccia spaccata fino ai denti. È pazzo di dolore; l'ho già rispedito sulla Marietta. Urlava come un demonio.» «Opal.» Kennit rifletté un momento. «Fallo mandare su Vivacia. Wintrow farà quello che può per lui. Il ragazzo ha il dono del guaritore. Noto che non hai parlato di te, Sorcor.» Il robusto pirata sogghignò e indicò con un gesto di scusa la manica sinistra insanguinata. «Due lame contro una, ed è riuscito lo stesso a colpirmi. Che vergogna.» «Comunque ti rimetteremo a posto. Dov'è Etta? Etta! Occupati del braccio di Sorcor, da brava. Wintrow, vieni con me. Diamo un'occhiata a quello che abbiamo conquistato oggi.» Non fu solo un'occhiata. Kennit condusse di proposito il ragazzo in ogni stiva. Gli mostrò arazzi e tappeti arrotolati, avvolti in tela pesante per il viaggio. Gli mostrò barili di chicchi di caffè e casse di tè, spesse trecce di erbe di sogno che serpeggiavano in vasi di creta sigillati, e brillanti rocchetti di filo color oro, rosso e porpora. Tutto questo, gli spiegò, era il frutto della schiavitù. Per quanto belli, quegli oggetti erano stati comprati con il sangue. Forse Wintrow riteneva giusto che uomini come Avery e i suoi sostenitori potessero tenersi i loro sporchi guadagni? «Finché gli schiavi saranno proficui, gli uomini li venderanno. È l'avidità che ha portato tuo padre in questo gioco. È stata la sua caduta. Intendo fare in modo che sia la caduta di tutti coloro che trattano in carne umana.» Wintrow annuì con lentezza. Kennit non era sicuro di averlo convinto della sua sincerità. Forse non importava. Finché riusciva a citare ragioni virtuose per la pirateria e la battaglia, il ragazzo avrebbe dovuto essere
d'accordo con lui. Gli sarebbe stato più facile persuadere la nave. Mise un braccio attorno alle spalle di Wintrow e suggerì: «Torniamo da Vivacia. Volevo che vedessi questo, e sentissi da Sorcor stesso che abbiamo offerto un'opportunità di vivere a quei disgraziati. Cos'altro avremmo potuto fare, eh?» Era il finale perfetto. Kennit avrebbe dovuto sapere che era troppo bello per durare. Mentre emergeva in coperta con Wintrow, tre schiave corsero verso di lui. Prima che potessero raggiungerlo, Etta balzò davanti a loro, fermandole con la mano sull'elsa della sua lama. Le donne terrorizzate si ritrassero sotto il suo sguardo. Etta parlò a Kennit. «Qui c'è un problemino. Queste tre insistono che non vogliono essere liberate. Vogliono essere riscattate con il capitano e il primo ufficiale.» «E perché?» chiese Kennit, freddo ma cortese. Le percorse con lo sguardo. Erano tutte graziose, giovani e dalla pelle liscia. I tatuaggi da schiave erano piccoli e pallidi, appena visibili alla luce del sole. «Le stupide cagne preferiscono continuare a essere schiave piuttosto che rifarsi una vita a Borgo Baratto. Sono abituate a fare gli animaletti dei ricchi.» «Sono una poetessa, non una prostituta» intervenne una donna con rabbia. «Il capitano Avery mi ha comprata a Città di Jamaillia apposta per Sep Kordor. È un ricco nobile, famoso per essere un padrone equo. Se vado da lui, provvederà a me e mi permetterà di coltivare la mia arte. Se vengo con voi, cosa dovrò fare per sostentarmi? Anche se continuo a comporre, chi sarà il mio pubblico, a parte ladri e tagliagole in qualche arretrato villaggio paludoso?» «Forse preferisci cantare per i serpenti?» suggerì piacevolmente Etta. Estrasse la lama e appoggiò la punta al ventre della donna sopra l'ombelico. La poetessa rifiutò di trasalire. Scrollò la testa e fissò Kennit. «E voi due... anche voi poetesse?» Kennit chiese pigramente. Le donne scossero il capo. «Io tesso arazzi» rispose una con voce rauca. «Sono specializzata in massaggi e terapie per piccole guarigioni» disse l'altra quando Kennit la fissò. «E... lasciatemi indovinare... siete tutte per Sep comesichiama... il riccone con molti servitori?» Il tono gioviale di Kennit risvegliò uno scintillio negli occhi di Etta. Con indifferenza la donna mise più pressione sulla lama, spingendo la schiava di nuovo in linea. Le altre due annuirono. «Ecco, lo vedi.» Kennit diede loro le spalle, licenziandole con un'onda della mano. «Ecco cosa fa la schiavitù, Wintrow. Un ricco compra i loro
talenti per la sua gloria. Le compra per soldi, e loro non sanno neppure di essere prostitute. Nessuna ha abbastanza orgoglio per dire il proprio nome. Sono già diventate una parte del loro padrone.» «Cosa devo farne?» chiamò Etta mentre il pirata si allontanava zoppicando. Kennit emise un piccolo sospiro. «Desiderano essere schiave. Mettile con gli altri prigionieri da riscattare. Sep Kordor le ha comprate una volta: può comprarsele di nuovo.» Un'inspirazione colpì Kennit. «Divideremo il ricavato fra coloro che hanno scelto la libertà. Potranno permettersi un inizio migliore.» Etta annuì in lenta costernazione prima di spingere via le sue prigioniere. Kennit si rivolse a Wintrow. «Vedi, non costringo gli altri al mio modo di pensare. Non costringerò né te né Vivacia. Penso che tu stia già comprendendo che non sono il malvagio pirata che immaginavi.» Mentre si avviavano verso la sedia di corda che avrebbe riportato Kennit alla scialuppa della Vivacia, il pirata chiese a Wintrow: «Hai mai immaginato che effetto ti farebbe essere il capitano di una nave tua? Di un piccolo vascello grazioso come questo, magari?» Wintrow si guardò attorno prima di rispondere. «È una bella nave. Ma, no, il mio cuore non va in quella direzione. Se fossi libero ritornerei comunque al mio monastero.» «Libero? Wintrow! Il tatuaggio sul tuo viso non significa niente per me. Ti consideri ancora uno schiavo?» Kennit si finse sbalordito. «No, un tatuaggio non mi rende schiavo» concordò Wintrow. Serrò gli occhi per un momento. «Ma il mio sangue mi lega a Vivacia con lacci forti come catene. Il legame tra noi cresce ogni giorno. Penso che forse potrei ancora abbandonarla, e trovare completezza in una vita dedicata a Sa. Ma sarebbe un atto egoista, che la lascerebbe per sempre svuotata dalla mia assenza. Non penso che potrei trovare la serenità, sapendo di averla abbandonata.» Kennit alzò la testa. «E non credi che potrebbe accettare me al tuo posto? Voglio solo quello che farà felici voi due. Il monastero per te, se si può ottenere senza distruggere lo spirito della nave.» Wintrow scosse il capo con lentezza. «Dovrebbe essere qualcuno del mio sangue. Qualcuno che divide un legame di famiglia con la nave. Solo quello potrebbe impedirle di impazzire per l'abbandono.» «Capisco» disse malinconicamente Kennit. «Bene. È un bel problema, non ti pare?» Batté una mano confortante sulla spalla del ragazzo. «Forse riuscirò a escogitare qualcosa che ci farà tutti felici.»
L'acqua che si muoveva contro lo scafo era un suono piacevole. Vivacia era di nuovo in viaggio, affiancata alla Bisbetica insieme alla Marietta. Kennit voleva che tutte e tre le navi si allontanassero il più possibile dal luogo dell'imboscata. Aveva detto a Etta che il riscatto veniva pagato più in fretta quando era preceduto dall'incertezza. La Bisbetica sarebbe semplicemente sparita per qualche tempo. Kennit avrebbe prima portato la nave a Borgo Baratto, per sfoggiare la preda e i prigionieri. Dopo un mese o due avrebbe fatto sapere a Chalced che la nave e i superstiti potevano essere riscattati. Del carico si sarebbe sbarazzato lui. Etta si era già servita. Lisciò la stoffa che aveva in grembo, meravigliandosi ancora una volta della sua trama prima di infilare l'ago. Ora la notte era scura attorno alle navi. Kennit stesso era al timone. Etta cercò di non sentirsi infastidita. Dopo tutto il tempo che aveva già trascorso quel giorno parlando con la nave, sembrava che adesso non potesse riposare. Era stata una lunga giornata per tutti. Etta aveva ricucito il braccio di Sorcor. L'omone era rimasto seduto con i denti stretti in un ghigno di dolore mentre lei gli chiudeva il lungo taglio sul braccio. Quei lavori non le piacevano, ma almeno Sorcor non aveva urlato come il povero Opal. Lo avevano portato sulla Vivacia per curarlo. Mentre lo tenevano fermo sul ponte di prua si era dibattuto come se avessero voluto frustarlo. Un fendente gli aveva squarciato la guancia e il naso fino all'osso. La ferita andava ricucita, se voleva tornare a mangiare normalmente. La sera stava calando; avevano appeso una lanterna e la luce gli era caduta addosso in un cerchio. C'era un chirurgo fra gli schiavi della Bisbetica. Alla richiesta ansiosa di Wintrow, Kennit lo aveva mandato a chiamare. Opal non permetteva a nessuno di toccare la ferita. Quando Wintrow aveva tentato di tenere insieme la carne perché il chirurgo la ricucisse, il ragazzo aveva urlato e dimenato la testa così selvaggiamente che avevano rinunciato. Il chirurgo aveva deciso che dovevano fargli un salasso per attutire la forza del dolore, e così aveva fatto finché Opal non si era calmato. Etta era rimasta a guardare per qualche tempo mentre Kennit spiegava alla nave cosa stava succedendo. Il dolore sopportato dal ragazzo era necessario: altrimenti non poteva guarire. Kennit lo paragonò alle uccisioni necessarie nel suo sforzo di liberare quelle acque dagli schiavisti. Wintrow aveva aggrottato la fronte a quelle parole, ma il compito di raccogliere il sangue di Opal lo aveva tenuto occupato. Era stato molto coscienzioso, insistendo che bisognava disporre tela spessa sul ponte del veliero vivente per impedire
che anche una sola goccia lo macchiasse. Alla fine le rauche grida di dolore di Opal si erano smorzate in lievi sospiri, e gli uomini avevano preso gli aghi per rimettere insieme il viso del ragazzo. Non sarebbe mai più stato bello come prima, ma avrebbe potuto mangiare. Era la prima volta che prendeva parte a un abbordaggio. La malasorte lo aveva colpito, ecco tutto. Etta diede gli ultimi lunghi punti all'orlo. Staccò il filo con i denti, si alzò e si slegò la gonna che cadde sul pavimento attorno ai suoi piedi in una pozza scarlatta. Etta infilò la nuova creazione, la tirò su e la assicurò in vita. Non conosceva il nome corretto di quella stoffa. Aveva una trama liscia che si increspava deliziosamente sotto le mani quando la accarezzava. Era verde cedro, ma a ogni movimento coglieva la luce della lanterna come una filigrana, creando dolci onde di colore. La sensazione della stoffa era ciò che le piaceva di più. La percorse di nuovo con le mani, lisciandosela contro i fianchi. Emise un lieve crepitio. A Kennit sarebbe piaciuta. Apprezzava la sensualità, quando si permetteva di concentrarsi su di essa. Non che ultimamente fosse accaduto spesso quanto Etta sperava. Si guardò nello specchio della cabina e scosse la testa. Donna ingrata. Non era passato così tanto tempo da quando Kennit era stato costretto a letto, bruciante di febbre. Doveva essere grata che avesse anche solo recuperato i suoi appetiti virili. Aveva sentito che alcuni mutilati non si riprendevano più. Raccolse una spazzola e se la passò fra i folti capelli, lisciandoli. Li stava facendo crescere. Presto le sarebbero arrivati alle spalle. Pensò alle mani di Kennit fra i capelli e al suo peso su di lei, e si sentì rimescolare il sangue. Quando era stata una prostituta non aveva mai immaginato di giungere a questo. Desiderare il tocco di un uomo, piuttosto che sperare che facesse in fretta e se ne andasse. Ma d'altra parte non aveva mai immaginato che sarebbe stata gelosa di una nave. Che sciocchezze. Alzò il mento per profumarsi la gola. Annusò criticamente la boccetta. Era una fragranza nuova, presa dalla Bisbetica anche quella. Speziata e dolce. Decise che andava bene. Si risolse ad avere più fiducia in Kennit. Non aveva già abbastanza a cui pensare, senza che lei desse sfogo a sentimenti di gelosia? E gelosia sciocca, per giunta. Quella era una nave, non una donna. Vagò per la cabina, mettendo in ordine le cose di Kennit. Era sempre intento a disegnare o scrivere. A volte Etta lo osservava, quando lui glielo permetteva. Quella abilità la affascinava. La sua penna si muoveva così in fretta, tracciando segni precisi. Si fermò a guardare alcuni dei rotoli prima di avvolgerli e disporli sul tavolo di carteggio. Come faceva a ricordare
quello che significavano tutti quei segnetti? Doveva essere una cosa da uomo. Fuori in coperta udì Brig gridare un ordine. Poco dopo sentì l'ancora che veniva calata. Quindi si sarebbero fermati per la notte. Bene. Lasciò la cabina e andò a cercare Kennit. Si diresse al ponte di prua. Wintrow sedeva a gambe incrociate accanto a Opal, vegliandolo. Etta guardò il mozzo ferito. I punti avevano riunito gli orli del taglio: era tutto quello che si poteva dire del loro lavoro. Si accovacciò per toccargli la fronte. La sua gonna frusciò piacevolmente attorno a lei. «A me sembra che abbia freddo» osservò. Wintrow alzò un breve sguardo su di lei. Era più pallido di Opal. «Lo so.» Rimboccò una coperta attorno al suo paziente. Parlando più con sé stesso, aggiunse: «Sembra così debole. Sono sicuro che il chirurgo ha fatto la cosa migliore. Vorrei solo che la notte fosse più calda.» «Perché non lo porti di sotto, al riparo dal freddo notturno?» «Penso che gli faccia meglio stare qui.» Etta lo guardò inclinando il capo. «Credi che la tua nave abbia poteri di guarigione?» «Non sul corpo. Ma dà forza al suo spirito, e lo aiuta a guarire il corpo.» La donna si raddrizzò con lentezza, ma continuò a guardarlo. «Credevo che fosse il compito del tuo Sa» osservò. «Lo è» concordò Wintrow. Etta avrebbe potuto deriderlo, chiedendogli a che gli serviva un dio se aveva quella nave. Invece suggerì: «Vai a dormire. Sembri sfinito.» «Lo sono. Ma stanotte rimarrò con lui. Non mi sembra giusto lasciarlo solo.» «Dov'è andato il chirurgo?» «Sulla Marietta. Là ci sono altri feriti. Qui ha fatto tutto quello che poteva. Ora tocca a Opal.» «E alla tua nave» non si trattenne dall'aggiungere Etta. Girò gli occhi sul ponte di prua. «Hai visto Kennit?» Wintrow gettò uno sguardo verso la polena. Etta ci mise un momento per distinguere la sagoma del pirata, perché era un'ombra sola con Vivacia. «Oh» disse piano. Di solito non andava a cercarlo quando parlava con la nave. Ma avendo chiesto di lui ad alta voce, non poteva allontanarsi e basta. Tentando di apparire indifferente, lo raggiunse alla murata. Per qualche tempo Etta non parlò. Kennit aveva scelto per l'ancoraggio una piccola baia in una delle isole minori. La Bisbetica dondolava poco lontano, e la Marietta appena oltre. Mostravano poche luci, ma quelle po-
che zigzagavano in riflessi sull'acqua. Il vento era calato in una brezza insistente che produceva una lieve musica nel sartiame. Così vicino alla riva, l'odore degli alberi e delle piante era forte come l'acqua salmastra. Dopo un momento Etta osservò: «Oggi l'attacco è andato bene.» «Me lo dici perché pensi che io non lo sappia?» Kennit mise una punta di sarcasmo nelle sue parole. «Lo farai di nuovo? Userai il canale in quel modo?» «Forse.» La breve risposta gelò ogni sforzo di fare conversazione. Per fortuna la nave era silenziosa, ma Etta avvertiva la sua presenza come un'intrusione. Se solo fossero stati a bordo della Marietta. Là avrebbe trovato il modo di avvicinarsi e spingerlo ad accorgersi di lei. Vivacia era come una dama di compagnia invadente. Etta sentiva la sua presenza perfino nell'intimità della cabina. Si lisciò la gonna con una mano, traendo piacere dal crepitio frusciante della stoffa. «Prima che fossimo interrotti,» disse all'improvviso Vivacia «stavamo discutendo i piani per domani.» «È vero» concesse Kennit. «All'alba ci dirigeremo verso Borgo Baratto. Mi serve un buon posto dove nascondere la Bisbetica finché non sarà riscattata. E desidero sbarcare gli schiavi al più presto.» La stavano ignorando. Etta ribollì di gelosia, ma rifiutò di andarsene. «E se incontriamo altre navi?» continuò Vivacia. «Allora toccherà a te» disse quietamente Kennit. «Non sono sicura di essere pronta. Ancora non so... Tutto quel sangue. La sofferenza. Gli umani provano tanto dolore.» Kennit sospirò. «Suppongo che non avrei dovuto portare Opal a bordo. Ero preoccupato per lui e lo volevo vicino. Non pensavo che ti avrebbe infastidito.» «Certo che no» aggiunse in fretta Vivacia. Kennit continuò a parlare come se non l'avesse sentita. «Neanche a me piace assistere al suo dolore. Ma che uomo sarei se lo ignorassi? Potrei voltare le spalle a uno che è stato ferito per me? Da quattro anni la mia nave è l'unica casa che conosce. Oggi ha voluto partecipare all'abbordaggio - oh, come vorrei che Sorcor lo avesse fermato! So che lo ha fatto per impressionarmi.» La voce di Kennit si strozzò per l'emozione. «Povero ragazzo. Così giovane, e disposto a rischiare tutto per quello in cui è giunto a credere.» Le parole si fecero più tese: «Temo che sarò la sua morte. Se non avessi intrapreso questa campagna...» Etta non riuscì a trattenersi. Non aveva mai sentito Kennit parlare così.
Non immaginava che ci fosse un dolore tanto profondo in lui. Si avvicinò e gli prese la mano. «Oh, Kennit» disse piano. «Oh, mio caro, non puoi prenderlo tutto su di te. Non puoi.» Per un istante lui si irrigidì come indignato. La polena guardò la donna con astio. Poi il pirata si girò e sconvolse Etta appoggiandole la testa su una spalla. «E se non lo faccio?» chiese stancamente. «Oh, Etta, se non lo prendo su di me, chi lo farà?» Il cuore di lei si spezzò di tenerezza per l'uomo forte che all'improvviso le si appoggiava contro. Alzò una mano a sfiorargli la nuca. I capelli erano serici sotto il suo tocco mentre lo accarezzava. «Andrà tutto bene. Vedrai. Molti ti amano e ti seguiranno. Non devi prendere tutto sulle tue spalle.» «Cosa farei senza di loro? Non potrei andare avanti.» Le sue spalle ebbero un lieve tremito come per sopprimere un singhiozzo. Invece tossì. «Capitano Kennit,» disse Vivacia costernata «non volevo dire che non condivido i vostri ideali. Ho detto solo che non ero sicura di essere pronta a passare completamente...» «Va tutto bene. No, davvero, va tutto bene.» La risposta di Kennit interruppe la nave, e il tono accantonò le sue parole come pura cortesia. «Ci conosciamo da così poco. È troppo presto perché io ti chieda di unire il tuo destino al mio. Buona notte, Vivacia.» Trasse un lungo respiro, lo emise in un sospiro. «Etta, mia cara. Temo che stasera la gamba mi faccia male. Mi accompagneresti al nostro letto?» «Certo.» Etta fu commossa. «Il letto sarebbe più saggio. Ho preso un po' di olio profumato sulla Bisbetica: so che la gruccia ti fa dolere la schiena e la spalla. Lascia che lo scaldi e ti faccia un massaggio.» Kennit si appoggiò a lei mentre lo aiutava a staccarsi dalla murata. «La tua fiducia in me mi dà tanta forza, Etta» le confidò. Si fermò all'improvviso e la donna si arrestò accanto a lui, confusa. Con una strana determinazione, Kennit le prese il mento e le sollevò il viso. Si chinò e la baciò con lentezza. Etta fu trascinata dalle sensazioni, non solo la calda pressione delle labbra di Kennit sulle sue e le braccia forti attorno a lei, ma la franchezza di quella dimostrazione d'affetto. Il pirata la percorse con le mani, la stoffa della gonna crepitante al suo tocco mentre la stringeva a sé. L'aveva messa su un pinnacolo in modo che tutti vedessero i suoi sentimenti mentre la baciava. Si sentì glorificata. Finalmente Kennit interruppe il bacio, ma continuò a tenerla contro di sé. Etta tremò come una vergine. «Wintrow» chiamò piano Kennit. Etta girò la testa e scoprì il giovane seduto sul ponte che li guardava con occhi sbarrati. «Se accade qualcosa a
Opal durante la notte, verrai subito da me?» «Sì, signore» bisbigliò Wintrow. I suoi occhi li contemplarono entrambi con una soggezione simile alla fame. «Vieni, Etta. Al nostro letto. Ho bisogno del conforto della tua vicinanza. Ho bisogno di sentire la tua fede in me.» Udirlo parlare così, ad alta voce, la stordì. «Sono sempre accanto a te» lo rassicurò. Gli prese la gruccia per aiutarlo a scendere al ponte principale. «Kennit» lo chiamò Vivacia. «Io credo in te. Con il tempo, sarò pronta.» «Ma certo» disse cortesemente il pirata. «Buona notte, nave.» Ci volle un anno per attraversare il ponte e un altro anno prima che Etta riuscisse a chiudere la porta della cabina dietro di loro. «Lasciami scaldare l'olio» propose. Ma mentre lo teneva sulla lampada Kennit zoppicò verso di lei. Le prese l'olio intiepidito dalle mani e lo mise da parte. Per un istante la guardò torvo, le sopracciglia aggrottate come se lei presentasse un problema. Etta lo fissò interrogativa. Kennit si puntellò la gruccia sotto il braccio e le sfiorò la gola. Si strinse il labbro inferiore tra i denti mentre le sue grandi mani lottavano contro il fine nastro che chiudeva la camicia. Etta alzò le mani per aiutarlo, ma Kennit le allontanò con gentilezza sorprendente. «Lascia fare a me» disse piano. Etta rabbrividì mentre lui manovrava accuratamente i lacci e i bottoni dei suoi abiti. Tolse ogni capo di vestiario e lo lasciò cadere. Non aveva mai fatto una cosa del genere. Quando fu nuda davanti a lui, Kennit prese il piattino d'olio. Vi intinse le dita. «Così?» chiese incerto. Le dita la sfiorarono lasciando piste lucenti sui seni e sul ventre. Etta ansimò alla leggerezza del suo tocco mentre la ungeva come una cosa sacra. Kennit piegò la testa per baciarle il lato della gola. La sospinse con dolcezza verso il letto. Etta si lasciò condurre volentieri, sebbene confusa da quel comportamento strano. Kennit si distese accanto a lei e la toccò. Guardò il suo viso per tutto il tempo, prendendo nota di ogni reazione. Si chinò vicino a lei e le bisbigliò all'orecchio. «Dimmi cosa fare per soddisfarti.» L'ammissione la sgomentò. Kennit non aveva mai fatto una cosa del genere; era la prima donna cui tentava di dare piacere. La fece restare senza respiro. All'improvviso la sua incompetenza di ragazzo la stimolava in modo travolgente. Kennit non fece resistenza mentre Etta gli prendeva le mani e le guidava su di lei. Non le aveva mai offerto tanto potere; era inebriante. Kennit non era un alunno pronto. Il suo tocco era esitante, e dolce come nettare di caprifoglio. Etta non poté osservare a lungo il suo viso intento;
temeva di piangere, e lui non avrebbe capito. Invece si arrese a lui. Lo guardò imparare, guidato dall'improvviso mozzarsi del suo respiro e dagli altri piccoli suoni che lei non poteva controllare. Un sorriso compiaciuto cominciò a librarsi sulle labbra di Kennit e i suoi occhi si fecero più brillanti. Etta quasi lo guardava scoprire che saperle dare tanto piacere era una forma di dominio. Mentre questa comprensione cresceva in lui, il suo tocco si fece più sicuro, ma mai rozzo. Quando finalmente unì il corpo al suo, Etta trovò un'immediata liberazione. Poi giunsero le lacrime che non seppe più trattenere. Kennit le asciugò con i suoi baci e cominciò di nuovo. Etta perse la nozione del tempo. Quando il suo corpo intero fu così sazio e sensibile che il tocco di lui era quasi doloroso, parlò sommessamente. «Per favore, Kennit. Basta.» Un sorriso lento si aprì sul viso del pirata. Si scostò da lei, lasciando che l'aria più fresca li sfiorasse entrambi. All'improvviso si chinò su di lei e colpì leggermente il piccolo amuleto a forma di cranio sul ventre. Etta trasalì. L'anellino di legno magico che le forava l'ombelico la proteggeva da malattie e gravidanze. «Viene via?» chiese brusco Kennit. «Potrebbe» concesse Etta. «Ma io sto attenta. Non è mai...» «E allora potresti rimanere incinta.» Il respiro le si fermò in gola. «Potrei» ammise circospetta. «Bene.» Kennit si distese accanto a lei con un sospiro soddisfatto. «Potrei desiderare che tu abbia un bambino. Lo faresti per me, vero?» Etta si sentì stringere la gola, al punto che poteva appena parlare. «Oh, sì, sì» bisbigliò. La notte era profonda quando Kennit si svegliò udendo qualcuno che grattava alla porta. «Cosa c'è?» chiamò rauco. Accanto a lui la donna era immersa nel sonno. «Sono Wintrow. Capitano Kennit... signore, Opal è morto. Se n'è semplicemente... andato.» Questo era sbagliato. L'idea era che Opal sopportasse il dolore, e poi sopravvivesse. Il ragazzo doveva essere una lezione vivente per Vivacia. Kennit scosse la testa nell'oscurità. E adesso? Si poteva rimediare? «Capitano Kennit?» Wintrow sembrava disperato. Lui parlò in un timbro basso. «Non porti domande, Wintrow. Accettalo. Non possiamo fare altro. Dopo tutto siamo solo uomini.» Sospirò rumoro-
samente, poi infuse preoccupazione nella voce. «Vai a riposare, ragazzo. Affronteremo questo dolore domattina.» Fece una pausa. «So che hai tentato, Wintrow. Non pensare di avermi deluso.» «Sì, signore.» Dopo un momento Kennit sentì i passi sommessi del ragazzo che si allontanavano. Si distese di nuovo. Ebbene. Cosa avrebbe detto alla nave l'indomani? Avrebbe parlato di sacrificio, avrebbe fatto sembrare Opal nobile e ispiratore invece che solo morto. Le parole gli sarebbero venute in mente, se si rilassava e si affidava alla sua buona sorte. Si mise le braccia dietro la testa e si distese di nuovo sui cuscini. La schiena gli doleva in maniera abominevole. Non aveva idea che le donne avessero tanta resistenza. «Vivacia ribolle di gelosia. Ma era ciò che volevi, vero?» Kennit si girò leggermente verso l'amuleto al suo polso. «Se sai tutto, perché fai tante domande?» «Per sentirti ammettere che sei un mascalzone. Non provi niente per Etta? Non ti vergogni di quello che le fai?» Kennit era offeso. «Vergognarmi? Non le ho fatto nulla di male. Al contrario, le ho dato una notte che non dimenticherà mai.» Si stiracchiò, tentando di alleviare i muscoli doloranti. «E non senza fatica da parte mia» aggiunse con petulanza. «Bella recita» mormorò sarcastica la faccina di legno magico. «Temevi che la nave non lo avrebbe saputo, se Etta non gridava di piacere? Ti assicuro che Vivacia è acutamente consapevole di te in qualsiasi momento. Sono state le tue attenzioni verso Etta che l'hanno scottata, non il piacere di lei.» Kennit si girò su un fianco e parlò più piano. «Sentiamo. Quanto sei consapevole della nave?» «Si protegge contro di me» ammise l'amuleto con riluttanza. «Ma c'è molto che posso dire. Lei è così grande, e tutta attorno a me. Non può celarmi del tutto la sua coscienza.» «E Wintrow? Puoi sentirlo attraverso di lei? Cosa prova stanotte?» «Come? Non ti è bastata la sua voce quando è venuto a portarti la notizia? È sconvolto dalla morte di Opal.» «Lascia perdere la morte di Opal» disse con impazienza Kennit. «L'ho visto che ci guardava, quando ho baciato Etta davanti a Vivacia. Mi ha sorpreso. Prova sentimenti per la puttana?» «Non chiamarla così!» lo avvertì l'amuleto in un ringhio basso. «Se parli di nuovo di lei in quel modo, non ti dirò nulla.»
«Trova Etta attraente?» insisté Kennit, ostinato. L'amuleto cedette. «È ingenuo. La ammira. Dubito che oserebbe trovarla attraente.» La vocetta fece una pausa. «La tua piccola esibizione di stanotte lo ha fatto riflettere. La contrapporrà alla morte di Opal.» «Una coincidenza sfortunata» borbottò Kennit. Divenne silenzioso, considerando come poteva rendere Wintrow più consapevole di Etta. Decise che doveva farle indossare più gioielli. I ragazzi erano sempre attirati dalle cose luccicanti. L'avrebbe messa in mostra come una proprietà attraente. «Perché stanotte le hai chiesto di un bambino?» chiese l'amuleto all'improvviso. «Un pensiero passeggero. Un bambino potrebbe essere utile. Molto dipende da come Wintrow si sviluppa.» L'amuleto era confuso. «Non capisco cosa suggerisci. Sospetto che se capissi lo troverei ripugnante.» «Non vedo perché» rispose disinvolto Kennit. Si compose per dormire. «In che modo un bambino ti sarebbe utile?» chiese l'amuleto qualche attimo più tardi. «Non starò zitto finché non mi rispondi» aggiunse dopo un breve silenzio. Kennit trasse un respiro stanco e sospirò. «Un bambino accontenterebbe la nave. Se Wintrow diventa troppo intrattabile, se interferisce con il mio tentativo di persuadere la nave a rispettarmi, ebbene, potrebbe essere sostituito.» «Con un figlio tuo e di Etta?» chiese l'amuleto, incredulo. Kennit emise una risata sonnacchiosa. «No, certo che no. Ora sei ridicolo.» Si stiracchiò, girò la schiena a Etta, si accoccolò e chiuse gli occhi. «Il bambino dovrebbe essere di Wintrow. Così sarebbe della famiglia della nave.» Emise un profondo sospiro soddisfatto, poi aggrottò le sopracciglia. «Immagino che un bambino a bordo sarebbe un fastidio. Sarebbe più semplice se Wintrow imparasse ad accettare il suo fato. Il ragazzo ha grande potenziale. Sa pensare. Devo solo insegnargli a ragionare a modo mio. Magari lo porterò all'oracolo degli Altri. Forse potrebbero convincerlo che è il suo destino.» «Lascia che gli parli io» propose l'amuleto. «Forse potrei convincerlo a ucciderti.» Kennit ridacchiò indulgente e si abbandonò al sonno. 21 Recupero
Solo la brezza marina rendeva il lavoro sopportabile. Il sole estivo picchiava splendendo in un cielo senza nubi. Brashen guardò le onde, e la luce riflessa lo abbagliò. La luminosità gli conficcava punte di dolore nella fronte. L'unica cosa che lo rendeva ancor più accigliato erano gli operai che vagavano apatici, svolgendo i loro compiti senza energia o entusiasmo. Puntellandosi per stare dritto sul ponte inclinato del Paragon, Brashen chiuse gli occhi per un momento. Li riaprì e tentò di considerare la missione da un nuovo punto di vista. Il vascello era stato tirato in secca sulla spiaggia vent'anni prima. Abbandonato e negletto, era rimasto in balia degli elementi. Se non fosse stato costruito di legno magico si sarebbe ridotto a uno scheletro. Tempeste e marosi avevano contribuito a spingere il Paragon al limite estremo dell'alta marea. Nel corso degli anni la sabbia si era ammucchiata contro lo scafo. Ora giaceva con la chiglia verso l'acqua, sbandato sulla riva. Solo le maree più alte lo sfioravano. La soluzione era apparentemente facile. La sabbia andava spalata via. Bisognava spingere sotto lo scafo tronchi che fungessero da rulli. Un contrappeso in cima all'albero maestro fracassato lo avrebbe fatto inclinare ancora di più. Al culmine dell'alta marea, alla fine del mese, bisognava ancorare una chiatta al largo, e tendere un cavo dal Paragon al verricello di poppa della chiatta. Gli uomini sulla spiaggia lo avrebbero dovuto spingere lungo i tronchi con le leve facendolo scivolare sul fianco verso l'acqua, mentre quelli sulla chiatta azionavano il verricello. Il contrappeso sullo scafo lo avrebbe mantenuto inclinato e gli avrebbe permesso di stare a galla in acque più basse. Una volta trascinato al largo, lo avrebbero raddrizzato. Poi bisognava solo stare a vedere. Brashen sospirò. Si poteva descrivere l'intera operazione in un fiato, poi lavorare per una settimana intera e non avvicinarsi nemmeno alla soluzione. Tutto attorno alla nave gli uomini si davano da fare con pale e carriole. Tronchi pesanti erano stati trascinati a riva dall'alta marea del giorno prima. Attendevano sulla spiaggia, saldamente legati fra loro. Vicino c'era un'altra zattera di tronchi levigati. Se tutto andava bene, alla fine Paragon sarebbe stato trascinato per essere varato di nuovo. Se tutto andava bene. In certi giorni sembrava una vana speranza. La nuova squadra di operai si muoveva pigramente sotto il sole caldo. I martelli risuonavano nell'aria. La sabbia nascondeva uno strato di roccia.
In certi punti poteva essere scalpellato per infilare i tronchi sotto la nave. In altri gli operai stavano tentando di mettere leve sotto lo scafo. Poi ci sarebbe voluto un massiccio sforzo per sollevarlo, in modo da infilare altre leve ancor più a fondo. Ogni spostamento causava nuovi danni al vecchio vascello. Dopo tutti quegli anni disteso su un fianco, era inevitabile che ci fosse un certo spostamento di travi e fasciame. Da quello che Brashen poteva vedere, lo scafo non era troppo malridotto, ma bisognava sollevare la nave per esserne sicuri. Una volta diritto, libero di galleggiare - e Brashen pregò che Paragon fosse disposto a galleggiare libero - sarebbe cominciato il vero lavoro. L'intero scafo andava riallineato prima di essere calafatato. Poi bisognava montare un nuovo albero... Brashen fermò all'improvviso la catena di pensieri. Non poteva pensare così avanti, o avrebbe perso ogni coraggio. La sua testa dolente poteva affrontare solo un giorno per volta, un compito per volta. Distrattamente fece scorrere la lingua nel labbro inferiore, cercando un pezzo di cindin che non c'era. Anche le piaghe profonde causate dalla dipendenza dalla droga cominciavano a guarire. Il suo corpo sembrava capace di dimenticarla più in fretta del suo spirito. Desiderava il cindin con un'intensità implacabile come la sete. Due giorni prima aveva barattato il suo orecchino per una stecca, e se n'era pentito. Non solo la disintossicazione aveva fatto un passo indietro, ma era stato cindin di scarsa qualità, solo un fantasma di sollievo. Eppure, se avesse avuto anche solo una scheggia d'argento, non sarebbe stato in grado di resistere alla tentazione. L'unico denaro che possedeva era la borsa che Ronica Vestrit gli aveva affidato. La notte precedente si era svegliato fradicio di sudore freddo, la testa martellante. Era rimasto seduto fino all'alba, tentando di farsi passare i crampi massaggiandosi le mani e i piedi mentre fissava la borsa sempre più vuota. Si era chiesto quanto sarebbe stato sbagliato prendere qualche moneta per rimettersi in sesto. Il cindin lo avrebbe aiutato a rimanere vigile più a lungo e gli avrebbe dato maggiore energia per la missione. Verso l'alba aveva aperto la borsa e aveva contato le monete sul palmo della mano. Poi le aveva rimesse via ed era andato in cambusa a farsi l'ennesima camomilla. Lì aveva trovato Ambra seduta a lavorare il legno, che saggiamente non aveva detto nulla. Brashen era ancora stupito per come si era adattata facilmente alla sua presenza. Lo guardava andare e venire senza commenti. Occupava ancora la cabina del capitano. Ci sarebbe stato tutto il tempo di
installarsi quando Paragon galleggiava di nuovo. Per il momento Brashen appendeva l'amaca nello spazio fra i ponti. Vivere nella nave inclinata diventava più difficile man mano che aumentava l'inclinazione del ponte. «Paragon, no!» L'urlo incredulo di Ambra coincise con l'immenso schianto di un tronco. Altre grida allarmate. Brashen si arrampicò verso prua arrivando sul ponte appena in tempo per sentire un tronco colpire sonoramente una sporgenza rocciosa sulla spiaggia. Tutto attorno a Paragon gli operai indietreggiavano dalla nave, lanciando avvertimenti, indicando non solo il tronco ma la trincea che aveva scavato nella spiaggia. Senza una parola, senza espressione, la polena incrociò le braccia robuste sul torace muscoloso e fissò il mare con occhi ciechi. «Dannazione!» gridò Brashen furente. Volse uno sguardo minaccioso sugli operai. «Chi gli ha lasciato mettere le mani su quel tronco?» Rispose un vecchio, sbiancato in viso. «Stavamo incuneandolo al suo posto. Lui ha teso la mano e ce lo ha strappato via... In nome di Sa, come sapeva che era lì?» La sua voce era piena di terrore superstizioso. Brashen strinse i pugni. Se fosse stata la prima manifestazione di malumore della nave, forse sarebbe rimasto sorpreso. Ma ogni giorno, da quando avevano cominciato, Paragon aveva creato un ritardo dopo l'altro. I suoi sfoghi di rabbia e violenza rendevano difficile a Brashen tenersi gli operai. E per tutto il tempo Paragon non gli aveva rivolto una sola parola civile. Brashen si appoggiò alla murata. Con la coda dell'occhio scorse Althea che arrivava solo allora per cominciare una nuova giornata di lavoro. Guardò perplessa la scena immobile. «Tornate al lavoro!» tuonò Brashen agli uomini che si davano di gomito a bocca aperta. Indicò il tronco scagliato da Paragon. «Raccoglietelo e rimettetelo a posto.» «Non io!» dichiarò un operaio. Si asciugò il sudore dal viso, poi lanciò il mazzuolo sulla sabbia. «Un attimo fa poteva ammazzarmi. Non vede dove getta la roba, se anche gli importa. E non penso che gli importi. Ha già ucciso, lo sanno tutti. La mia vita vale più del salario che mi paghi per una giornata. Me ne vado. Voglio la mia paga.» «Anch'io.» «Lo stesso.» Brashen si arrampicò sulla murata e si lasciò cadere agilmente sulla spiaggia. Il suo viso non tradì il dolore che gli saettò fino alla sommità del cranio. Avanzò sugli uomini con atteggiamento aggressivo, pregando di non doverlo trasformare in azione. Arrivò naso a naso con il primo che
aveva parlato. «Se vuoi la paga, resti qui e finisci il lavoro della giornata. Se te ne vai adesso non avrai un soldo.» Rivolse agli altri uno sguardo corrucciato e sperò che la finta funzionasse. Se quelli se ne andavano, non sapeva dove trovarne altri. Erano la feccia delle taverne, gente che lavorava solo quel tanto che bastava per guadagnarsi la bevuta della sera. Per attirarli alla nave maledetta aveva dovuto offrir loro il migliore salario che potevano ottenere altrove. Mentre gli uomini attorno a lui borbottavano contrariati, abbaiò: «Prendere o lasciare. Non vi ho assunti per mezza giornata di lavoro, e non pago il lavoro di mezza giornata. Forza con quel tronco, ora.» «Lavorerò» concesse uno degli uomini. «Ma non qui, non dove può afferrarmi o schiacciarmi con un tronco. Questo no.» Brashen sputò per terra, disgustato. «E allora lavora sulla chiglia di poppa, cuor di leone. Ambra e io ci occuperemo della prua, se nessuno di voi ne ha il coraggio.» Un sorriso lento e cattivo si aprì sul viso di Paragon. «Alcuni preferiscono una morte rapida, altri una lenta. Alcuni non si curano se i figli nascono senza gambe e ciechi come la nave maledetta. Prendete il mazzuolo e lavorate. Che vi importa di quello che accadrà domani?» Con voce più bassa aggiunse: «Perché pensi di vivere tanto a lungo?» Brashen si girò di scatto ad affrontarlo. «Parli con me?» chiese. «Tanti giorni di silenzio, e adesso mi dici questo?» Per un istante il viso del Paragon cambiò. Brashen non seppe riconoscere quell'emozione, ma gli gelò l'anima e gli strinse il cuore. Un istante più tardi fu sostituita da un'espressione altezzosa. La polena trasse un respiro e tornò immobile. Brashen perse le staffe. La luminosità del giorno gli arse nel cranio, infiammando il dolore fino a renderlo insopportabile. Afferrò uno dei secchi d'acqua potabile che gli operai avevano lasciato vicino alla prua. Con ogni oncia di forza che aveva, scagliò l'acqua in faccia a Paragon. La nave intera rabbrividì e la polena emise un ruggito di rabbia. L'acqua gocciolò dalla barba e corse lungo il torace. Sotto di lui, sulla sabbia, Brashen lasciò cadere il secchio vuoto e gridò alla nave: «Non fingere di non sentirmi. Sono il capitano, dannazione, e non tollero l'insubordinazione, né da te né da nessun altro. Cacciatelo in quella testaccia di legno, Paragon. Tu navigherai. In un modo o nell'altro, ti trascinerò di nuovo in mare e isserò una vela sulle tue ossa. Ora hai una scelta, ma farai meglio a scegliere in fretta, perché ho esaurito la pazienza. Puoi salpare sbandando e
sguazzando, imbronciato come un marmocchio, e l'intera dannata flotta ti vedrà partire così. O puoi alzare la testa e far vela come se non te ne fregasse nulla di quello che è stato detto di te. Hai l'occasione di provare che si sbagliavano tutti. Puoi fargli ingoiare tutte le cattiverie. Puoi partire come un veliero vivente di Borgomago e andare a dare una bella lezione ai pirati. O puoi dimostrare che hanno sempre avuto ragione e che lo sciocco sono stato io. Te lo dico perché è l'unica cosa in cui hai una scelta. Non puoi decidere se salpare o no, perché sono io il capitano, e l'ho già deciso. Sei una nave, non un vaso da fiori. Sei nato per navigare, e navigherai. È chiaro?» La nave strinse le mascelle e incrociò le braccia. Brashen si girò e afferrò un secondo secchio. Con un grugnito di fatica glielo scagliò in faccia. Paragon trasalì con un'esclamazione sbalordita. «È chiaro?» ruggì Brashen. «Rispondi, bastardo!» Attorno, gli operai assistevano con sacro terrore, aspettando che Brashen morisse. Althea aveva afferrato il braccio di Ambra. Gli occhi dell'intagliatrice di perline ardevano di indignazione. Solo la presa della ragazza le impediva di gettarsi tra Brashen e la nave. Con un cenno Althea le intimò di tacere. Ambra strinse i pugni, ma trattenne la lingua. «È chiaro» rispose infine Paragon. Parole secche e impenitenti. Ma aveva risposto. Brashen si aggrappò a quel piccolo trionfo. «Bene» rispose con voce assolutamente calma. «Ti lascio a riflettere sulla tua scelta. Credo che tu possa rendermi orgoglioso. Devo tornare al lavoro. Quando salperai, voglio che tu risplenda come la prima volta che sei stato varato.» Fece una pausa. «Forse così si rimangeranno anche ogni insulto che hanno pronunciato contro di me.» Si rivolse di nuovo ad Ambra e Althea con un sogghigno. Le donne non lo ricambiarono, e dopo un momento Brashen tornò serio. Trasse un respiro e scosse la testa, rassegnato. A voce bassa, parlò solo a loro. «Sto facendo del mio meglio con lui, nell'unico modo che conosco. Salperò. Farò o dirò qualunque cosa per mettere in acqua questa nave.» Aggrottò la fronte al loro silenzio di disapprovazione. «Forse voi due dovete decidere quanto lo volete davvero. Ma mentre ci pensate, dobbiamo lavorare alla prua. Forse stasera riuscirò ad assumere nuovi operai che non hanno paura di lui, ma ora non posso perdere la luce del giorno.» Indicò il tronco scagliato da Paragon. «Rimettiamolo dov'era.» Con un fil di voce, aggiunse: «Se crederà che avete paura di lui... se penserà che può passarla liscia con
comportamenti del genere... siamo tutti perduti. A cominciare da lui.» Fu l'inizio di un lungo giorno di sudore. I tronchi piallati erano immensi. In un accesso di crudeltà, Brashen non risparmiò né le donne né sé stesso. Lavorò sotto il sole finché non sentì il cervello ribollire nel cranio. Spalarono la sabbia asciutta e la trascinarono via. Le pietre che incontravano erano sempre incuneate a strati, o appena troppo grandi per una persona sola. Brashen non aveva pietà per sé stesso: castigava il proprio corpo per il desiderio incessante del cindin. Se Althea o Ambra avessero chiesto una tregua, avrebbe potuto concederla. Ma Althea era caparbia come lui, e Ambra straordinariamente tenace. Mantenevano il ritmo stabilito da lui. Anzi, mentre lavoravano sotto il naso della polena, inclusero Paragon nella conversazione, ignorando il suo silenzio cocciuto. Gli sforzi di due semplici donne e la loro mancanza di paura sembrarono far vergognare gli operai. Prima uno e poi un altro li raggiunsero a prua. Quando Jek, l'amica di Ambra, arrivò dalla città per vedere cosa stavano facendo, contribuì con un paio d'ore della sua forte schiena. Clef andava e veniva, rivelandosi spesso d'intralcio. Brashen gli rivolgeva ringhi frequenti come le lodi, ma essere stato schiavo aveva dato al ragazzo una pelle dura. Lavorava sodo, ostacolato più dalla sua mole che dalla mancanza di abilità. Aveva la stoffa di un buon marinaio. Contro ogni buonsenso, Brashen pensò che lo avrebbe preso nell'equipaggio. Era sbagliato, ma aveva bisogno di lui. Gli altri operai li guardavano di nascosto. Forse si vergognavano a vedere le donne lavorare dove loro avevano rifiutato di andare. Aumentarono il ritmo. Brashen non si aspettava che quella miserabile massa di rifiuti di porto avesse un briciolo di orgoglio. Colse l'occasione per spingerli ancor più duramente. Il pomeriggio nel soggiorno era soffocante. Aprire le finestre non era servito; non c'era un alito di vento. Malta tirò il colletto del vestito, staccando la stoffa umida dalla pelle. «Ricordo quando bevevamo tè freddo in questa stanza. E il tuo cuoco faceva quei pasticcini al limone.» Le ristrettezze economiche della famiglia sembravano agitare Delo più di lei. Anzi Malta era alquanto irritata dall'acutezza con cui la sua amica osservava tutte le mancanze in casa sua. «I tempi sono cambiati» fece notare in tono stanco. Andò alla finestra aperta e si sporse a guardare il trascurato giardino di rose. I cespugli stavano fiorendo voluttuosamente e si allargavano in modo scomposto, allietan-
dosi dell'assenza di costrizioni. «Il ghiaccio costa.» «Ieri mio papà ne ha comprato due blocchi» disse Delo con indifferenza. Si fece aria con il ventaglio. «La cuoca farà il sorbetto per la cena di stasera.» «Oh. Che bello.» La voce di Malta era priva di espressione. Delo credeva che avrebbe sopportato ancora molto? Per prima cosa indossava un vestito nuovo con ventaglio e cappellino intonati. Il ventaglio era di carta speziata, ed emanava un profumo piacevole quando la ragazza lo agitava. Era l'ultima moda a Borgomago. Poi Delo non aveva neanche chiesto come andava la nave, o se avevano ricevuto una richiesta di riscatto. «Usciamo fuori all'ombra» suggerì Malta. «No, non ancora.» Delo si guardò intorno sospettosa come se ci fossero stati domestici in ascolto. Malta quasi sospirò. Non avevano più domestici che potessero origliare. Con esagerata furtività, Delo estrasse un sacchettino dalla cintura della gonna. A voce bassa confidò: «Te lo manda Cerwin, per aiutarti in questi momenti difficili.» Per un istante Malta riuscì quasi a condividere l'entusiasmo di Delo per quel momento drammatico. Poi le sfuggì fra le dita. Quando aveva saputo del rapimento di suo padre, tutto le era sembrato elettrizzante e carico di tragedia. Si era dedicata a sfruttare la situazione al limite delle sue possibilità teatrali. Ora i giorni erano passati, uno dopo l'altro, pieni d'ansia e di tensione. Non c'erano notizie. Borgomago non era corsa in loro aiuto. La gente aveva espresso comprensione, ma solo a titolo di cortesia. Alcuni avevano spedito fiori e messaggi di simpatia, come se suo padre fosse già morto. Malta aveva implorato Reyn di correre in suo aiuto, ma lui non era venuto. Non era venuto nessuno. I giorni opprimenti si erano avvicendati in una disperazione mortale, tediosa. La fanciulla aveva compreso a poco a poco che era vero, che poteva essere il rintocco funebre per la fortuna della famiglia. Il pensiero le impediva di dormire. Quando si addormentava, faceva sogni agitati. Qualcosa la perseguitava, con l'intenzione di piegarla alla sua volontà. I sogni che ricordava erano visioni crudeli mandate da qualcuno deciso a infrangere le sue speranze. Il giorno prima si era svegliata urlando da un incubo in cui il corpo martoriato di suo padre si arenava sulla spiaggia. Poteva essere morto, comprese all'improvviso. Poteva essere già morto, e tutti quegli sforzi erano inutili. Quel giorno aveva perso il coraggio, e da allora non era più riuscita a recuperare alcuna speranza o determinazione. Prese il sacchetto dalla mano di Delo e si sedette. A giudicare dall'e-
spressione abbattuta, l'amica si era aspettata una maggior partecipazione. Malta finse di esaminarla. Era una borsettina di stoffa, tutta ricamata e chiusa con cordicelle dorate. Probabilmente Cerwin l'aveva comprata apposta per quel dono. Malta tentò di trarne una qualche soddisfazione. Ma il pensiero di Cerwin non era emozionante come un tempo. Non l'aveva baciata. Ancora non si era ripresa dal disappunto. Ma il resto era stato anche peggio. Malta aveva creduto che gli uomini detenessero il potere. La prima volta che aveva chiesto a un uomo di usare quel potere per lei, lui l'aveva delusa. Cerwin Trell aveva promesso di aiutarla, ma che cosa aveva fatto? Alla riunione dei Mercanti l'aveva fissata con estrema sfrontatezza. Metà dei convenuti dovevano essersene accorti. Si era forse alzato a parlare quando Althea aveva chiesto aiuto ai Mercanti? Aveva esortato suo padre a intervenire? No. Non aveva fatto altro che guardarla con occhi da vitellino. Nessuno l'aveva aiutata. Nessuno l'avrebbe aiutata. «Liberami e ti aiuterò io. Te lo prometto.» Le parole del drago del sogno che aveva diviso con Reyn le echeggiarono all'improvviso nella testa. Sentì un dolore improvviso, come se una corda tirata tra le sue tempie fosse divenuta all'improvviso più tesa. Avrebbe solo voluto andare a distendersi per qualche momento. Delo si schiarì la gola, ricordando all'improvviso a Malta che era seduta lì, con il dono di Cerwin. Malta aprì la borsetta e sparse il contenuto in grembo. Monete, e alcuni anelli. «Cerwin finirà nei guai se papà scopre che te li ha dati» disse Delo in tono accusatorio. «Quello piccolo d'argento glielo ha regalato la mamma perché era bravo nello studio.» Incrociò le braccia e guardò Malta con disapprovazione. «Non lo scoprirà» rispose Malta, tetra. Delo era una bambina! Gli anelli non valevano neanche la pena di venderli. Senza dubbio Delo pensava che quella borsettina fosse un regalo magnifico, ma Malta sapeva la verità. Aveva passato tutta la mattina sui conti di famiglia, e sapeva che in quella borsa c'era denaro appena sufficiente per assumere due buoni operai per una settimana. Si chiese se Cerwin capisse poco di finanze come Delo. Malta odiava aiutare a tenere i conti, ma ora capiva di soldi molto di più. Ricordò la fitta di dispiacere quando aveva scoperto di aver speso scioccamente le monete che suo padre le aveva dato. Sarebbero bastate per una dozzina di vestiti. Quell'oro valeva molto più del contenuto della borsettina. Se solo lo avesse avuto ancora. Sarebbe servito a disincagliare quella
nave molto più di quello che Cerwin le aveva dato. Il ragazzo non capiva le dimensioni del suo problema. Era deludente come un bacio mancato. «Perché non ha detto niente alla riunione?» si chiese ad alta voce. «Sa cosa c'è in gioco. Sa cosa significa per me. Ma non ha fatto niente.» Delo si irritò. «Invece sì. Ha fatto tutto quello che poteva. Ha parlato con papà a casa. Papà ha detto che era una situazione molto complicata e che non potevamo farci coinvolgere.» «Cosa c'è di complicato?» chiese Malta. «Mio padre è stato rapito e dobbiamo andare a liberarlo. Ci serve aiuto!» Delo incrociò le braccia e alzò la testa. «È un problema dei Vestrit. La famiglia Trell non può risolverlo per voi. Dobbiamo difendere i nostri interessi commerciali. Se investiamo soldi nella ricerca di tuo padre, che ne ricaveremo?» «Delo!» Malta era sgomenta. Il dolore che provava era genuino. «Stiamo parlando della vita di mio padre... il solo che tenga veramente a quello che mi succede! Non si tratta di soldi e di profitto!» «Alla fine si tratta sempre di profitto» dichiarò Delo brusca. Poi la sua espressione si addolcì all'improvviso. «È quello che mio padre ha detto a Cerwin. Hanno litigato, Malta. Mi hanno spaventata. L'ultima volta che ricordo due uomini gridare era quando Brashen viveva a casa. Litigava con mio padre tutto il tempo... O almeno, stava là rigido come un bastone mentre mio padre gli urlava in faccia. Non ricordo molto. Ero piccola. Mi mandavano sempre fuori dalla stanza. Poi un giorno mio padre mi disse che da quel momento in poi Cerwin era il mio unico fratello. Che Brashen non sarebbe tornato a casa mai più.» La voce di Delo vacillò. «I litigi cessarono.» Deglutì. «Non è come la tua famiglia, Malta. Litigate e gridate e dite cose terribili, ma poi rimanete insieme. Nessuno viene cacciato via per sempre, nemmeno tua zia Althea. La mia famiglia non è così. Non c'è posto per questo.» Scosse la testa. «Se Cerwin avesse continuato a litigare, temo che adesso non avrei più neanche un fratello.» Guardò Malta in una supplica diretta. «Per favore. Non chiedere a mio fratello di aiutarti in questo. Ti prego.» L'appello scosse Malta. «Io... mi dispiace» disse impacciata. Non aveva mai pensato che i suoi esperimenti con Cerwin avrebbero avuto effetto anche su altri. Ultimamente tutto sembrava tanto più grande e lontano. Quando aveva saputo della cattura di suo padre, non le era sembrato reale. L'aveva usata come un'opportunità per appagare il suo senso del tragico. Aveva interpretato il ruolo di una figlia sconvolta, ma aveva davvero cre-
duto che suo padre sarebbe tornato a casa da un momento all'altro. I pirati non potevano aver davvero preso suo papà. Non Kyle Haven, bello e coraggioso. Eppure, gradualmente, era diventato vero. All'inizio aveva temuto che non sarebbe mai tornato a casa per migliorarle la vita. Solo ora comprendeva che forse non sarebbe tornato affatto. Raccolse di nuovo le monete e gli anelli dentro la borsetta. La tese a Delo. «Dovresti riportarla a Cerwin. Non voglio che finisca nei guai.» E poi non era abbastanza per essere utile, ma non lo avrebbe detto. Delo parve inorridire. «Non posso. Capirebbe che ti ho detto qualcosa. Sarebbe furioso con me. Per favore, Malta, tienila, così posso dirgli che te l'ho data. Mi ha detto anche che vuole una risposta o un pegno da te.» Malta la guardò. A volte, ultimamente, le sembrava di aver esaurito idee e piani. Sapeva che doveva alzarsi e fare un giro per la stanza. Sapeva di dover dire qualcosa come: «Mi rimangono così poche cose che posso chiamare mie... la maggior parte le ho vendute per racimolare soldi e salvare mio padre.» Un tempo sarebbe sembrato così bello e romantico. Quando aveva vuotato la scatola di gioielli sul tavolo, quel primo giorno, si era sentita come un'eroina in una leggenda. Aveva tirato fuori i suoi braccialetti e anelli e collane e poi li aveva divisi in mucchietti come facevano la nonna e la zia Althea e sua madre. Era sembrato un rituale per donne. Brevi commenti borbottati come preghiere. Questo è oro, questo è argento, questo è fuori moda ma le pietre sono buone. E tutte le piccole storie che si erano raccontate, storie che già conoscevano. «Ricordo quando papà me lo ha regalato, il primo anello che ho mai avuto, guarda, adesso non mi va bene neanche al mignolo.» O la nonna che diceva: «Queste hanno ancora un così buon profumo» e Althea che aggiungeva: «Ricordo il giorno che papà le scelse per te. Ricordo che gli chiesi perché comprava gemme profumate, quando non gli piacevano le merci delle Giungle della Pioggia, e lui disse che le desideravi tanto che non gli importava.» Avevano condiviso storie dividendo oro e gioielli che erano all'improvviso ricordi di tempi migliori. Ma nessuna aveva mostrato riluttanza, nessuna aveva trattenuto qualcosa, neppure le lacrime. Malta aveva perfino voluto tirar fuori tutti i doni di Reyn, ma le avevano detto che doveva tenerli, perché se alla fine avesse rifiutato il corteggiamento del giovane avrebbe dovuto restituirli tutti. Quella mattina era insieme triste e luminoso nella sua memoria. Strano. Quel giorno si era sentita più adulta che mai. Ma da allora c'era stata solo la realtà della scatola di gioielli vuota che la guardava aperta dalla sua toeletta. Le rimanevano i suoi ornamenti di bam-
bina, spilloni smaltati e ciondoli di madreperla, oltre ai doni di Reyn, ma in qualche modo non poteva portarli visto che le altre donne della famiglia andavano senza anelli e senza fronzoli. Si alzò e sedette alla piccola scrivania. Trovò una penna, inchiostro e un foglio di carta sottile. Scrisse in fretta. «Caro amico, grazie tante per la tua attenzione nel nostro momento del bisogno. Con grande sincerità.» Le parole le ricordarono gli educati biglietti di ringraziamento che aveva scritto per quelli che avevano mandato fiori. Firmò con le sue iniziali, poi piegò il foglio e lo sigillò con una goccia di cera. Lo porse a Delo, meravigliandosi di sé stessa. Solo una settimana prima avrebbe composto con attenzione qualsiasi lettera per Cerwin. L'avrebbe riempita di allusioni e parole che sembravano dire più di quanto non facessero. Riuscì a produrre un sorriso triste. «Le parole sono blande. Ciò che oso affidare alla carta è molto meno di ciò che sento.» Ecco. Così gli avrebbe lasciato qualche speranza. Era tutto ciò per cui aveva energia in quella giornata calda. Delo prese il messaggio e lo infilò nel polsino. Girò lo sguardo sulla stanza. «Bene» disse delusa. «Suppongo che dovrei andare a casa.» «Oggi non sono di molta compagnia» ammise Malta. «Ti accompagno.» Alla porta un vetturino e una piccola carrozza trainata da un pony attendevano Delo. Anche quella era una novità. Evidentemente la famiglia Trell si preparava a presentare Delo come giovane donna al ballo di mezza estate. Malta sarebbe stata presentata allo stesso ballo. Lei e sua madre stavano usando la stoffa di vestiti vecchi che avevano in casa per farle un vestito nuovo. Avrebbe avuto scarpette nuove, e anche un cappellino e un ventaglio. Almeno così sperava. Nulla era più sicuro. Suppose che si sarebbe recata al ballo nella vecchia carrozza del Mercante Restart. Un'altra umiliazione che non si sentiva di affrontare in quel momento. Sulla porta Delo la abbracciò e la baciò sulla guancia, come se fosse stato un trucco imparato di recente. Probabilmente lo era, rifletté amaramente Malta. Molte fanciulle delle migliori famiglie venivano istruite nelle raffinatezze dell'etichetta prima di essere presentate. Un'altra piccola cosa che Malta non avrebbe mai avuto. Chiuse la porta mentre Delo ancora la salutava agitando il ventaglio nuovo. Una meschina vendetta, ma la fece sentire meglio. Portò in camera sua la borsettina di monete e anelli. Li sparse sul letto. Non erano cresciuti. Li guardò e si chiese come aggiungere quel piccolo patrimonio al fondo per la nave senza spiegare da dove veniva. Aggrottò le
sopracciglia. Non riusciva a fare nulla di giusto? Raccolse le monete e i gingilli nella borsa e li nascose nel suo baule delle coperte. Poi si gettò sul letto a pensare. Il giorno era troppo caldo e c'era troppo da fare. Bisognava ripulire l'orto dalle erbacce, e raccogliere, legare e appendere le erbe aromatiche. Il suo vestito per il Ballo d'Estate era solo a metà. Non aveva il cuore di lavorarci, non dopo aver visto i bei vestiti nuovi di Delo. Di certo tutti avrebbero capito che il suo era fatto di abiti vecchi. Ricordò come aveva sognato il suo primo Ballo d'Estate. Si era immaginata di entrare al braccio di suo padre con un vestito sontuoso. Sorrise amaramente e chiuse gli occhi. Era quasi come essere vittima di una maledizione. Qualsiasi cosa dolce, meravigliosa e romantica che avesse mai immaginato, non l'avrebbe mai avuta. Contò assonnata le sue frustrazioni. Niente bel vestito e carrozza per il ballo. Niente audace capitano a scortarla. Cerwin l'aveva delusa; non sapeva neanche quando era il momento di baciare una ragazza. Reyn non era andato da lei. Malta odiava la sua vita. I problemi erano tutti troppo grandi. Era intrappolata in una vita che non poteva cambiare. Il giorno era troppo caldo. Stava soffocando nel suo abbraccio. Era così opprimente. Fece per girarsi su un fianco ma non c'era abbastanza spazio. Perplessa, tentò di mettersi a sedere. La testa urtò contro una barriera. Le mani sollevate incontrarono solo umido legno corroso. L'umidità, comprese all'improvviso, veniva dal suo respiro. Aprì gli occhi nel buio. Era intrappolata lì dentro, intrappolata, e nessuno se ne curava. Alzò le mani frenetiche per spingere ciò che la rinchiudeva. «Aiutatemi! Fatemi uscire di qui! Qualcuno mi aiuti!» Spinse contro i confini della sua prigione, premendo con le mani, i gomiti, le ginocchia e i piedi. Nulla cedette. Lo sforzo fece solo sembrare più piccola la sua gabbia. L'unica aria che poteva respirare era già calda e umida del suo respiro. Tentò di gridare, ma non c'era abbastanza aria neanche per quello. «È un sogno.» Si costrinse a rimanere immobile. «È solo un sogno. Sono al sicuro nel mio letto. Devo solo svegliarmi. Svegliarmi.» Roteò gli occhi e li strinse, tentando di aprirli. Non poteva. Non c'era neanche abbastanza spazio per portarsi le mani al viso. Cominciò ad ansimare convulsamente per il terrore. Le sfuggì un gemito. «Ora vedi perché lui deve liberarmi. Aiutami. Convincilo a liberarmi, e prometto che ti aiuterò. Ti riporterò tuo padre e la nave. Tutto ciò che devi fare è convincerlo a liberarmi.» Conosceva quella voce. L'aveva sentita echeggiare nei suoi sogni da
quando aveva diviso il sogno con Reyn. «Lasciami uscire» implorò. «Lascia che mi svegli.» «Lo convincerai ad aiutarmi?» «Dice che non può.» Malta aveva appena il fiato per parlare. «Penso che se potesse lo farebbe.» «Fa' che trovi un modo.» «Non posso.» Un secondo strato di oscurità si chiudeva su di lei mentre ansimava. Stava per svenire. Sarebbe soffocata in quel sogno. Si poteva svenire in un sogno? Poteva morire? «Lasciami uscire!» gridò debolmente. «Per favore. Non ho controllo su Reyn! Non posso fargli fare nulla.» Il drago ridacchiò, una risata ricca e profonda. «Non essere sciocca. È solo un maschio. E noi siamo regine. Siamo destinate a dominare i nostri maschi. È l'equilibrio corretto del mondo. Pensaci. Sai come ottenere quello che vuoi. Prendilo. Liberami.» Malta si sentì all'improvviso scagliare in alto nell'oscurità. La prigione attorno a lei era scomparsa. Cercò di afferrare qualcosa ma le mani tese non trovarono niente. Precipitò attraverso il buio mentre il vento urlava attorno a lei. Cadde pesantemente su una superficie morbida. Aprì gli occhi sulla sua camera da letto, su un caldo giorno di estate e la luce brillante che entrava dalla finestra aperta. «Ricorda.» Qualcuno pronunciò quella parola al suo orecchio. Lei la udì. Ma non c'era nessuno. Alla sera avevano fatto più che in due giorni consecutivi. Anche così, Brashen si chiese quanti operai sarebbero tornati l'indomani. Non poteva biasimarli. Non capiva più perché lui stesso rimanesse. Non si trattava della sua nave, né di suo nipote. Quando si chiedeva perché, tornava al concetto negativo che non aveva di meglio da fare. La Vigilia di Primavera era svanita dal porto la seconda notte dopo che l'aveva abbandonata. Senza dubbio Finney aveva subodorato la trappola, e aveva deciso di limitare le perdite e fuggire. Brashen non sarebbe tornato a quella vita. Di rado ammetteva a sé stesso che era l'unico modo per stare vicino ad Althea. L'orgoglio non glielo permetteva. La ragazza gli prestava meno attenzione che a Clef. Almeno al ragazzo sorrideva. Brashen le gettò uno sguardo. Aveva i capelli incollati alla testa dal sudore. Indossava larghi pantaloni bianchi e una camicia ampia della stessa stoffa. La sabbia si attaccava ai suoi indumenti e alla pelle umida. Brashen la guardò andare ai secchi d'acqua. Althea bevve a lungo, poi si spruzzò l'acqua sul viso e sul collo. Il desiderio di averla vicina lo soffocava. Si rammentò che era prati-
camente promessa a Grag Tenira. Tenira non era un cattivo marinaio. Un giorno sarebbe stato un uomo ricco. Brashen tentò di provare soddisfazione per lei. Avrebbe potuto fare di peggio. Avrebbe potuto accontentarsi del figlio diseredato di un Mercante. Scosse la testa e lanciò il mazzuolo sulla sabbia. «La giornata è finita!» gridò all'improvviso. Ormai la luce stava svanendo. Althea e Ambra si ritirarono in cambusa mentre Brashen pagava l'equipaggio. Si attardò con libro e penna dopo che l'ultimo operaio fu andato via, sommando le cifre e scuotendo la testa. Ronica Vestrit gli aveva dato carta bianca sui fondi per restaurare il Paragon. Althea aveva scoperto con sorpresa che come mastro d'ascia Brashen ne sapeva ben più di quello che si sarebbe aspettata da un primo ufficiale. Il giovane aveva tratto soddisfazione dalla sua sorpresa, ma questo non rendeva più facile il suo compito. Si tormentava sull'equilibrio tra la migliore qualità del materiale e i migliori operai. Spesso non riusciva comunque a ottenere quelli che preferiva. La reputazione del Paragon era ben nota, e il suo recente comportamento la confermava. La maggior parte dei carpentieri affermavano che loro non erano superstiziosi, ma che gli altri clienti avrebbero rifiutato un uomo che aveva lavorato su quella nave. A Brashen le loro scuse non importavano. Gli importava il ritardo. Il tempo era il loro più grande nemico. Ogni giorno che passava, il compito di localizzare Vivacia dopo che Brashen l'aveva vista per l'ultima volta a Borgo Baratto diventava più difficile. Inoltre bisognava regolare il lavoro sulla marea. Alla fine del mese era prevista una marea insolitamente alta; Brashen sperava che bastasse a far galleggiare il Paragon. La parte più frustrante era che molto del lavoro che potevano ragionevolmente svolgere da soli poteva essere fatto solo dopo che i compiti più pesanti erano stati completati. Ogni lavoro dipendeva da quello che lo precedeva. Quando Brashen andò a raggiungere le donne, non erano più in cambusa. Seguì le loro voci sommesse e le trovò sedute sulla poppa inclinata della nave. Fianco a fianco, gambe penzoloni, potevano essere due mozzi che oziavano furtivamente. Ambra aveva cominciato a legarsi di nuovo i capelli color miele in un codino. Il cambiamento non le donava; gli zigomi e il naso erano troppo affilati per essere femminili. In contrasto, anche con una macchia di catrame sulla guancia, il profilo di Althea gli faceva sobbalzare il cuore. Non era dolcemente femminile. Era femmina come una gatta, tanto minacciosa quanto attraente. E non lo sapeva. Brashen la guardò, e desiderò con fervore di non averla mai toccata. Non solo aveva rovi-
nato tutto, spingendola a non incontrare più il suo sguardo. Il peggio era che non poteva guardarla senza ricordare il sapore della sua pelle e l'onestà del suo corpo. Chiuse gli occhi per un momento. Poi li aprì e si diresse a poppa. Ambra e Althea tenevano in mano tazze di tè fumante; accanto a loro una panciuta teiera di ceramica e una tazza vuota. Brashen se la riempì. Considerò di sedersi tra loro, poi decise di stare in piedi. Ambra fissava il mare. Althea faceva scorrere la punta del dito lungo l'orlo della tazza e guardava le onde. La loro conversazione si era spenta al suo arrivo. Ambra avvertì l'imbarazzo. Alzò lo sguardo su di lui. «Domani si comincia di nuovo presto?» «No» disse laconico Brashen. Bevve un sorso di tè. «Non penso. Sospetto che passerò la mattina a cercare nuovi operai.» «Non di nuovo» gemette Althea. «Cosa mi è sfuggito?» Brashen trasse un respiro come per parlare, poi serrò le mascelle e scosse la testa. Althea si strofinò le tempie. «Almeno con te parla di nuovo?» chiese speranzosa ad Ambra. «Non con noi» rispose la donna, abbattuta. «Tuttavia ha avuto molto da dire agli operai. Soprattutto parole bisbigliate e crudeli, prima che cominciasse con i loro bambini che sarebbero nati ciechi e senza gambe, perché avevano lavorato vicino a una nave maledetta.» Con amara ammirazione, aggiunse: «È stato molto eloquente.» «Bene. Questo è creativo. Almeno non ha gettato altri tronchi dopo il primo.» «Forse li risparmia per domani» commentò Brashen. Divisero un silenzio sconfortato. Poi Ambra chiese triste: «Ebbene. Ci siamo arresi, dunque?» «Non ancora. Lasciatemi finire questa tazza di tè mentre considero quanto è tutto senza speranza» rispose Brashen. Aggrottò la fronte e si rivolse ad Althea. «Dov'eri questa mattina, comunque?» Althea non lo guardò. La sua voce era fredda. «Non sono affari tuoi, ma sono andata a trovare Grag.» «Credevo che Tenira fosse ancora alla macchia. Con la taglia sulla sua testa e tutto il resto.» La voce di Brashen era molto distaccata. Sorseggiò il tè e guardò l'acqua. «Lo è. Ha trovato il modo di mandarmi un messaggio.» Brashen alzò una spalla. «Bene, questo risolve un problema. Quando fi-
niamo i soldi possiamo sempre consegnarlo ai ministri del Satrapo e usare la taglia per ingaggiare un'altra squadra di operai.» Mostrò i denti in un ghigno. Althea ignorò il commento e disse ad Ambra: «Grag ha detto che vorrebbe aiutarmi, ma la sua situazione rende tutto più difficile. La famiglia ha ricavato una frazione di quello che valeva il carico dell'Ophelia. E hanno deciso di non commerciare a Borgomago o Jamaillia finché il Satrapo non cancella le tasse ingiuste.» «L'Ophelia non è partita qualche giorno fa?» chiese Brashen con decisione. Althea annuì. «Sì. Tomie ha pensato che era meglio condurla fuori dal porto di Borgomago prima che arrivassero altre galee. Gli esattori delle tasse del Satrapo hanno minacciato di confiscare la nave. Ora dicono che solo il Satrapo può decidere dove commerciano i velieri viventi, e che le merci delle Giungle della Pioggia possono essere vendute solo a Borgomago o a Città di Jamaillia. Dubito che possano applicare queste regole, ma Tomie non ha voluto aspettare guai. La famiglia Tenira continuerà a combatterli, ma lui non metterà Ophelia in pericolo.» «Se toccasse a me,» meditò Brashen «la porterei sul Fiume delle Giungle della Pioggia. Solo un altro veliero vivente potrebbe seguirla lassù.» Inclinò la testa. «È questo il piano, non è vero? Grag risalirà il fiume su un altro veliero vivente per raggiungerli là. Ho ragione?» Althea gli rivolse uno sguardo obliquo e un'alzata di spalle. Brashen sembrò offeso. «Non ti fidi di me?» «Ho promesso di non dirlo a nessuno.» La ragazza guardò l'acqua. «Pensi che lo racconterei in giro?» Brashen era indignato. Che genere di uomo credeva che fosse? Pensava davvero che avrebbe lasciato arrivare fino a quel punto la sua rivalità con Grag? «Brashen.» Althea sembrava aver esaurito la pazienza. «Non è che non ho fiducia in te. Gli ho dato la mia parola che avrei taciuto. Intendo mantenerla.» «Capisco.» Almeno finalmente gli parlava di persona. Una domanda bruciava in lui. Si maledisse, ma la fece lo stesso. «Ti ha chiesto di partire con lui?» Althea esitò. «Sa che devo stare qui. Capisce anche che devo salpare quando il Paragon salpa.» Si grattò il mento, poi raschiò il sudiciume sulla guancia. Irritata, aggiunse: «Vorrei farlo capire a Keffria. Strepita ancora con la mamma che non è corretto. Non approva che io sia qui ad aiutare.
Odia il mio modo di vestire quando vengo quaggiù a lavorare. Non so cosa potrebbe approvare. Forse dovrei stare seduta a casa e torcermi le mani per l'angoscia.» Brashen capì che cercava di cambiare argomento. Non riuscì a lasciarlo cadere. «Certo, Grag sa che devi trovare Vivacia. Ma ti ha chiesto lo stesso di andare con lui, vero? Voleva che tu lo seguissi. Probabilmente dovresti. Limita le perdite. Scommetti sul vincitore. Nessun Mercante si aspetta davvero che ci riusciremo. Ecco perché nessuno ci ha offerto aiuto. Pensano che sarebbe uno spreco di tempo e soldi. Scommetto che Grag aveva un sacco di buone ragioni per cui dovresti abbandonarci, incluso il fatto che non porteremo mai via questo relitto dalla spiaggia.» Brashen picchiò i talloni sullo scafo della nave in un improvviso, irrazionale impeto di rabbia. «Non chiamarlo relitto!» scattò Ambra. «E smettila di lagnarti» aggiunse Althea con cattiveria. Brashen la fissò, indignato. Poi alzò la voce in un grido. «Relitto! Pezzo di legno arenato! Mi senti, Paragon? Sto parlando di te.» Le sue parole echeggiarono dalle rupi dietro di loro. Paragon non replicò. Ambra gli lanciò un'occhiataccia, espirando bruscamente attraverso il naso. «Non serve a niente» lo rimproverò. «Invece di attaccar lite con tutti, perché non vai a mendicare del cindin?» gli chiese Althea, sarcastica. «Sappiamo tutti che è quello il tuo vero problema.» «Ah sì?» Brashen mise giù la tazza. «E io so qual è il tuo vero problema.» La voce di Althea divenne dolce e letale. «Lo sai? Bene, perché non ce lo dici chiaramente?» Brashen si chinò verso di lei. «Il vero problema è che l'inverno scorso hai finalmente scoperto chi sei, e da allora hai passato ogni giorno tentando di negarlo. Ti ha spaventato tanto che sei corsa a casa per dimenticarlo.» Althea rimase senza parole. Le sue parole erano così diverse da quello che si aspettava. Brashen quasi sorrise. A bocca aperta, la ragazza alzava lo sguardo su di lui in piedi sul ponte inclinato. «E tanto perché sia ben chiaro,» aggiunse Brashen con voce più dolce «non parlo di quel che è accaduto tra te e me. Parlo di quello che è accaduto tra te e te.» «Brashen Trell, non capisco di cosa stai parlando!» si affrettò a dire Althea.
«No?» A quel punto Brashen sorrise. «Bene, Ambra lo capisce, sicuro come Sa ha le palle e le tette. Conosce ogni cosa da quando sono tornato a Borgomago. Ce l'aveva scritto in faccia la prima volta che mi ha guardato. È buffo che tu ne parli a lei e non a me. Ma te l'ho detto, non è quello il problema. Sei partita e hai scoperto che non sei la figlia di un Mercante. Oh, sei la figlia di Ephron Vestrit, certo, non ci si può sbagliare. Ma non sei legata a questa maledetta città e alle sue tradizioni più di quanto lo fosse lui. Non gli piaceva commerciare sul Fiume delle Giungle della Pioggia, così, per Sa, smise. Partì e trovò altri contatti e altre merci. Tu sei come lui, fino all'osso. Se volevano fartela passare, è troppo tardi. Non puoi cambiare. Dovresti smettere di fingere. «Non puoi sistemarti ed essere la metà femminile di Grag Tenira. Spezzerai il cuore a tutti e due se ci provi. Non starai mai a casa a fare bambini mentre lui va per mare. Parli tanto di famiglia e dovere e tradizione, ma la ragione per cui vuoi inseguire la Vivacia è che vuoi la tua maledetta nave. E intendi andare a prendertela. Se solo riesci a trovare il fegato di lasciare di nuovo Borgomago, certo.» Era un fiume in piena. Si trovò senza fiato, quasi ansimante. Althea lo fissava. Brashen voleva tanto chinarsi e prenderla fra le braccia. L'avrebbe baciata. Probabilmente lei gli avrebbe fracassato la mascella. Infine Althea ritrovò la lingua. «Non potresti avere più torto» dichiarò, ma non c'era forza nelle parole. Accanto a lei, Ambra nascose un sorriso nella tazzina. Scrollò le spalle quando Althea la fissò con occhi accusatori. Un imbarazzo improvviso assalì Brashen. Sdegnando la scala di corda, scavalcò la murata e si lasciò cadere agilmente sulla sabbia. Senza aggiungere altro, senza girarsi a guardare, camminò a lunghi passi fino alla prua della nave. Clef aveva acceso un piccolo fuoco per cucinare. La cena era compito suo. Il lavoro sulla nave lo teneva occupato in molti modi. Era andato a prendere altra acqua da bere per gli operai dopo che Brashen aveva scagliato la loro razione in faccia a Paragon. Affilava gli attrezzi, faceva commissioni, e quando scendeva la sera andava a prendere provviste a casa Vestrit e preparava da mangiare. Ronica Vestrit aveva detto che erano benvenuti alla sua tavola, ma Ambra aveva rifiutato cortesemente, dicendo che non si sentiva di lasciare solo Paragon. Era stata un'ottima scusa per Brashen. Non c'era modo di celare la sua ansia; sedere a una tavola perbene gli sarebbe risultato intollerabile. Per Sa, desiderava anche solo un minuscolo frammento di cindin. Abba-
stanza per impedire che la pelle formicolasse di desiderio. «E allora, cosa c'è per cena?» chiese al ragazzo. Clef gli rivolse uno sguardo vitreo ma non rispose. «Non cominciare con me, ragazzo!» lo avvertì Brashen, di nuovo spazientito. «Suppa di pessie, signore.» Clef aggrottò la fronte, sbatacchiando il cucchiaio di legno nella pentola. Con lo sguardo fisso sulla zuppa, mormorò in tono di sfida: «Lui non è mica un relitto.» Dunque era quello che turbava il ragazzo. Brashen addolcì la voce. «No. Paragon non è un relitto. Quindi non dovrebbe comportarsi come un relitto.» Si girò a guardare la polena che incombeva silenziosa sopra di loro nell'oscurità crescente. Si rivolse a Paragon più che al ragazzo. «È un eccellente veliero. Prima che tutto questo sia finito, se ne ricorderà. Come chiunque altro a Borgomago.» Clef si strofinò il naso e poi rimestò la pentola. «Cià la malasorte?» «Ha la malasorte» lo corresse stancamente Brashen. «No. È stato solo sfortunato, fin dall'inizio. Quando sei sfortunato, e accumuli sulla sfortuna il mucchio dei tuoi errori, a volte ti sembra che non ne verrai mai fuori.» Rise senza umorismo. «Parlo per esperienza.» «Te ciai la malasorte?» Brashen aggrottò la fronte. «Parla bene, ragazzo. Se navigherai con me, dovrai essere capace di farti capire.» Clef sbuffò. «Dico, te hai la malasorte?» Brashen scrollò le spalle. «Sto meglio di alcuni, ma peggio di altri.» «Cambiati la camisia. Mio pa mi diceva: vuoi cambiare la tua fortuna, cambiati la camisia.» Brashen sorrise malgrado tutto. «È l'unica che ho, giovanotto. Mi chiedo che cosa c'entra questo con la mia fortuna.» Althea si alzò all'improvviso. Gettò il tè sulla spiaggia. «Vado a casa» annunciò. «Addio» rispose Ambra in tono neutro. Althea colpì la murata di poppa con la mano. «L'ho sempre saputo che un giorno me lo avrebbe buttato in faccia. L'ho sempre saputo. Era quello che ho sempre temuto.» Ambra era confusa. «Ributtato in faccia cosa?» Benché fosse sola sulla nave, Althea abbassò la voce. «Che sono andata a letto con lui. Sa che può rovinarmi. Tutto ciò che deve fare è vantarsene
con la persona giusta. O la persona sbagliata.» Un bagliore si accese negli occhi di Ambra. «Ho sentito la gente dire cose stupide quando è spaventata o ferita. Ma questa è fra le più stupide. Althea, non credo che quell'uomo lo consideri come un'arma. Non mi sembra un millantatore. E non penso che ti farebbe mai male di proposito.» Il silenzio inquieto proseguì. Poi Althea ammise: «So che ha ragione. A volte penso che voglio solo un motivo per essere arrabbiata con lui.» Incrociò le braccia. «Ma perché deve dire cose tanto stupide? Perché deve chiedermi cose come quella?» Ambra lasciò le domande sospese per un momento. Poi ne fece una lei. «Perché ti sconvolge tanto?» Althea scosse la testa. «Ogni volta che comincio a sentirmi bene con quello che stiamo facendo, lui... E oggi avevamo avuto una buona giornata, Ambra. Maledetto! Avevamo lavorato sodo, e avevamo lavorato bene insieme. Come ai vecchi tempi. So come lavora e come pensa; è come ballare con un bravo compagno. Poi, proprio quando comincio a pensare che saremo di nuovo a nostro agio, lui deve...» La voce di Althea si spense nel silenzio. «Deve cosa?» insisté Ambra. «Deve farmi una domanda. O dire qualcosa.» «Qualcosa di più di 'Vai sotto a quella trave!' o 'Passami il mazzuolo'?» chiese dolcemente Ambra. Althea sorrise mesta. «Esatto. Qualcosa che mi ricorda come parlavamo quando eravamo amici. Mi manca. Vorrei che potessimo tornare a quello.» «Perché non potete?» «Non sarebbe corretto.» Althea aggrottò la fronte. «Adesso c'è Grag, e...» «E cosa?» «E potrebbe condurre ad altro, suppongo. Anche se non succedesse, Grag non approverebbe.» «Grag non gradisce che tu abbia amici?» Althea aggrottò la fronte. «Sai cosa voglio dire. A Grag non piacerebbe che fossi amica di Brashen. Non intendo amica in senso formale. Voglio dire, come eravamo una volta. Tranquilli. Piedi sul tavolo e birra in mano.» Ambra rise piano. «Althea, fra poco partiremo tutti su questa nave. Ti aspetti di applicare l'etichetta con qualcuno con cui lavori ogni giorno?» «Una volta partiti, lui non sarà Brashen. Sarà il capitano. Me lo ha già
fatto presente. Nessuno diventa amico del capitano.» Ambra inclinò la testa e guardò Althea nell'oscurità. «E allora perché ti preoccupi? A me sembra che il tempo guarirà ogni cosa.» Althea parlò a voce molto bassa. «Forse non voglio che guarisca. Non così.» Si guardò le mani. «Forse ho bisogno dell'amicizia di Brash più che dell'approvazione di Grag.» Ambra scrollò una spalla. «Allora forse dovresti ricominciare a parlargli. E dire qualcosa più che 'Tieni il mazzuolo'.» 22 Il vento gira Vivacia ribolliva. A Wintrow pareva di essere in presenza di una pentola gorgogliante, sempre sul punto di traboccare e scottare tutti. Il peggio era che non poteva farci niente. Non solo Vivacia non si lasciava calmare; respingeva attivamente tutti i tentativi di ammansirla. Ormai andava avanti da quasi un mese. Wintrow avvertiva in lei la determinazione vendicativa di una bambina a cui è stato detto che è troppo piccola per qualcosa. Vivacia era decisa a dimostrare il suo valore, e non solo a Kennit. Il suo entusiasmo sprezzante includeva Wintrow. Da quando il mozzo Opal era morto sulla sua tolda, la sua risoluzione era cresciuta e irrobustita. Si sarebbe data alla pirateria. Ogni volta che Wintrow tentava di dissuaderla, si faceva più caparbia. La cosa più preoccupante era che si allontanava da lui ogni giorno di più. Si protendeva con tanta forza verso Kennit che aveva lasciato indietro Wintrow, da solo. Kennit avvertiva il tormento di Vivacia. Era ben consapevole dei sentimenti che aveva suscitato in lei. Non la ignorava. Le parlava con dolcezza e la trattava con ogni cortesia. Ma non la corteggiava più. Aveva rivolto il sole del suo viso su Etta, e alla sua luce la donna era sbocciata sontuosamente. Kennit l'aveva accesa come una scintilla con l'esca. Ora Etta vagava sulla tolda come una tigre in cerca di preda, e al suo passaggio tutte le teste si giravano a guardarla. C'erano a bordo altre donne; Kennit aveva permesso ad alcune delle schiave liberate di rimanere, ma a paragone di Etta quasi non sembravano femmine. La cosa sconcertante per Wintrow era che non riusciva a identificare un cambiamento specifico in lei. Vestiva come al solito. Sebbene Kennit le donasse molti gioielli, di rado portava più che un piccolo orecchino di rubino. Piuttosto era come se la cenere fosse stata spazzata via dalla brace per rivelare il fuoco che ardeva all'in-
terno. Non aveva smesso di lavorare sulla tolda; si arrampicava ancora sull'attrezzatura con una velocità fluida da pantera; ancora parlava e rideva con gli uomini mentre il suo ago da vela balenava al sole. La sua lingua era tagliente come sempre, il suo umorismo altrettanto pungente. Eppure, quando guardava Kennit, perfino da una parte all'altra della tolda, palpitava di vita. Il capitano Kennit, da parte sua, sembrava bearsi della gloria di Etta. Non poteva passarle accanto senza toccarla. Perfino il brusco Sorcor quasi arrossiva vedendoli insieme sul ponte. Wintrow poteva solo osservarli con stupore e invidia. Con sua inquietudine, ogni volta che Kennit lo sorprendeva a guardarli, sollevava un sopracciglio. O gli strizzava l'occhio. L'equipaggio intero reagiva a questo nuovo stimolo. Wintrow si sarebbe aspettato gelosia, o malumore per come il capitano vantava la sua signora. Invece erano orgogliosi di lui, come se la sua virilità e il suo possesso di quella donna desiderabile andassero a credito di tutti. L'umore sulla nave era balzato al livello più alto che Wintrow avesse conosciuto. I nuovi membri dell'equipaggio si mescolavano senza attriti con i vecchi. La scontentezza degli schiavi liberati era svanita. Perché insistere per possedere una nave quando potevano essere parte dell'equipaggio di Kennit sulla sua nave? Vivacia aveva assistito ad altri tre atti di pirateria da quando Opal era morto. Tre piccoli mercantili, non navi schiaviste. Wintrow ormai conosceva la tecnica. Il canale che Kennit e Sorcor avevano scelto era ammirevolmente adatto a quelle imboscate. Sorcor si appostava a sud. Sceglieva le navi e dava inizio alla caccia. Vivacia aspettava all'uscita del canale. Il suo compito era spingere il vascello inseguito contro le rocce. Una volta che la preda era arenata, i pirati della Marietta venivano a ripulirla del carico. I piccoli mercantili erano poco equipaggiati e mal difesi. Bisognava ammettere che Kennit non massacrava gli equipaggi. C'era poco spargimento di sangue: una volta che la nave era incagliata, la resistenza cessava. Kennit non li tratteneva neanche per chiedere un riscatto. Prendeva solo il meglio del carico, e li lasciava andare con il severo avvertimento di diffondere la voce che Kennit delle Isole dei Pirati non tollerava navi schiaviste nelle sue acque. Non si faceva chiamare re. Non ancora. Tutte e tre le navi erano uscite malridotte ma integre dall'incontro con lui. La voce si sarebbe sparsa in fretta. Vivacia era di cattivo umore e mordeva il freno. Come una bambina esclusa dalla conversazione degli adulti, non era più invitata a discutere di pirateria o politica con Kennit. Il pirata passava la maggior parte delle sue
sere a bordo della Marietta con Sorcor ed Etta. Là progettavano i loro attacchi e celebravano le loro vittorie. Quando il pirata e la sua signora rientravano a notte tarda, Etta era sempre adorna degli ultimi regali di Kennit. Allegri per il vino, si ritiravano subito nella loro cabina. Wintrow sospettava che fosse una manovra deliberata per suscitare curiosità e gelosia in Vivacia, ma non ne parlava con lei. Vivacia non tollerava di sentirne parlare. Tra un attacco e l'altro la vita dei pirati era quasi indolente. Kennit teneva l'equipaggio occupato, ma lo nutriva bene grazie alle prede conquistate, e dava loro il tempo per il gioco d'azzardo e la musica. Incluse Wintrow in questi divertimenti, chiamandolo spesso alla sua cabina. Non erano per Kennit le semplici partite a dadi o a carte. Sfidava Wintrow a giochi di strategia, non d'azzardo. Wintrow aveva la scomoda sensazione che il pirata lo stesse valutando. Spesso, prima che il lungo pomeriggio finisse, il gioco giaceva dimenticato tra loro mentre Kennit gli poneva domande sulla filosofia di Sa. La seconda nave che avevano abbordato portava un buon carico di libri. Kennit era un lettore vorace, e condivise il tesoro con Wintrow. Il ragazzo non poteva negare che quegli interludi fossero piacevoli. A volte Etta assisteva al gioco e alla discussione. Wintrow era giunto a rispettare la sua intelligenza vivace, pari almeno a quella di Kennit, sebbene Etta fosse meno istruita. Teneva dietro a entrambi finché parlavano in generale; solo quando discutevano le prospettive di particolari filosofi si faceva prima taciturna, e poi scontrosa. Un pomeriggio, nello sforzo deliberato di farla partecipare, Wintrow scoprì per caso la sua carenza. Tentò di passarle il libro su cui stavano discutendo. Etta non voleva prenderlo. «Non posso leggerlo, quindi lascia perdere» dichiarò con rabbia. Era appollaiata su una panca dietro a Kennit, massaggiandogli con dolcezza le spalle mentre parlavano. Si alzò all'improvviso e andò alla porta. La mano era sul chiavistello quando la voce di Kennit la costrinse a fermarsi. «Etta. Torna qui.» La donna si girò a fronteggiarlo. Per la prima volta da quando l'aveva incontrata, Wintrow vide un bagliore di sfida nei suoi occhi mentre guardava Kennit. «Perché?» lo sfidò. «Così posso vedere meglio la mia ignoranza?» Un fremito di rabbia passò sul viso di Kennit. Wintrow lo guardò spianare i lineamenti, poi tendere la mano alla donna. «Perché desidero che tu lo faccia» disse, quasi con dolcezza. Etta tornò da lui, ma fissò come un odiato rivale il libro che Kennit aveva raccolto. Il pirata glielo tese. «Do-
vresti leggerlo.» «Non posso.» «Desidero che tu lo faccia.» Etta strinse i denti. «Non sono capace!» esclamò. «Non ho mai avuto insegnanti o lezioni. A meno che tu non voglia contare gli uomini che mi hanno insegnato il mestiere prima ancora che fossi una donna! Non sono come te, Kennit, io...» «Basta!» abbaiò Kennit. Di nuovo le tese il libro. «Prendilo.» Era un ordine. Etta lo afferrò e lo tenne come un sacco di spazzatura. Kennit spostò la sua attenzione su Wintrow. Un lievissimo sorriso comparve sul suo volto. «Wintrow ti insegnerà a leggerlo. Oppure te lo leggerà lui.» Guardò di nuovo Etta. «Non svolgerà altri compiti a bordo finché non avrà completato questo. Non mi importa quanto ci vuole.» «L'equipaggio riderà di me» protestò Etta. Kennit socchiuse gli occhi. «Non per molto. È difficile ridere con la lingua tagliata.» Trasse un respiro, poi sorrise. «E se desideri mantenere private queste lezioni, così sia. Puoi usare questa camera. Farò in modo che tu abbia tempo sufficiente, in solitudine e tranquillità, per portare a termine il compito.» Accennò agli altri libri depredati, sparsi per la camera. «Qui c'è molto da imparare, Etta. Poesia e storia, non solo filosofia.» Kennit si chinò verso di lei. Afferrò la mano di Etta e la avvicinò a sé. Con la mano libera le allontanò i capelli dal viso. «Non essere testarda. Voglio che tu ti diverta.» Gettò a Wintrow uno strano sguardo guizzante, come per accertarsi che li stesse guardando. «Spero che porterà grande piacere e conoscenza a tutti e due.» Le sfiorò il viso con le labbra. Etta chiuse gli occhi al suo tocco. Ma gli occhi di Kennit erano spalancati, e guardavano Wintrow. Wintrow era visibilmente a disagio. In qualche modo innaturale si sentì incluso nell'abbraccio. «Dovete scusarmi» mormorò, alzandosi in fretta dal tavolo da gioco. La voce di Kennit lo fermò alla porta. «Non ti darà fastidio insegnare a Etta, vero, Wintrow?» Non era una vera domanda. Teneva la donna vicina e guardava Wintrow sopra la sua testa piegata. Wintrow si schiarì la gola. «Niente affatto.» «Bene. Vedi di cominciare presto. Anzi, oggi.» Mentre Wintrow annaspava in cerca di una risposta, udì il grido ormai familiare. «Vela in vista!» Provò un fremito di sollievo. Il rumore di passi frettolosi echeggiò per tutta la nave. «In coperta!» abbaiò Kennit, e Win-
trow si affrettò a obbedire con gratitudine. Si buttò fuori dalla porta e corse via mentre il pirata stava ancora tendendo la mano verso la gruccia. «Là! Eccola là!» gridava Vivacia quando Wintrow guadagnò il ponte di prua. Non aveva quasi bisogno di indicare. Anche a quella distanza il vento portava la puzza della nave schiavista. Apparve alla vista il più lurido e cadente vascello che Wintrow avesse mai visto. Lo scafo luccicava di viscidume dove lo sporco era traboccato. Sembrava sul punto di affondare, evidentemente sovraccarica. I fiocchi rappezzati irregolarmente si corrugavano nel vento. Uno zampillo sporadico d'acqua indicava che le pompe di sentina erano al lavoro, probabilmente azionate da schiavi. Wintrow rifletté che doveva essere uno sforzo continuo per tenere a galla la nave sciabordante. Nella scia erano visibili le V dei serpenti che la seguivano. Le disgustose creature parvero percepire il panico a bordo, perché alzarono la grande testa crinita e guardarono verso la Marietta. Ce n'erano almeno una dozzina, i corpi ricoperti di scaglie lucenti sotto il sole. Wintrow si sentì nauseato. Vivacia si sporse in avanti, il volto avido. La sua ansia era così forte che quasi sembrava tirare l'intera nave. «Guardateli, guardate come scappano!» Protese le braccia e le dita a uncino verso la nave. Mentre l'equipaggio balzava sulle vele per inseguirli, il vento mise la sua forza alle loro spalle. «È una nave schiavista, Kennit li ucciderà tutti» Wintrow la avvertì a voce bassa. «Se lo aiuti a catturare quella nave, tutto l'equipaggio morirà.» Vivacia gli gettò un solo sguardo. «E se non lo faccio, quanti schiavi moriranno ogni giorno del viaggio?» Di nuovo fissò la preda e la sua voce si indurì. «Non tutti gli esseri umani sono degni di vivere, Wintrow. Almeno in questo modo salviamo il maggior numero possibile di vite. Se continua a navigare così, sarà un miracolo se qualcuno a bordo sopravviverà.» Wintrow la udì appena. Guardava incredulo la nave schiavista che cominciava ad allontanarsi dalla Marietta. La distanza tra i due vascelli crebbe. La nave schiavista scorgeva la possibilità di fuga, ma anche la nuova minaccia rappresentata dalla Vivacia. Si diresse al centro del canale. La Marietta era troppo lontana dietro di lei. Senza la nave pirata a incalzarla, la manovra a tenaglia era impossibile. Incredibilmente la nave schiavista stava scappando. Kennit buttò la gruccia sul ponte di prua, poi si tirò su a forza di braccia. Una volta sul ponte si alzò in piedi e mise la gruccia sotto l'ascella. Etta
non era in vista. Con fatica Kennit li raggiunse alla murata. Scosse la testa deluso. «Povere anime. La nave schiavista sta scappando. Temo che siano condannati al loro destino.» Quel giorno non ci sarebbe stato spargimento di sangue. Wintrow provò un momento di sollievo. Poi Vivacia urlò, un grido di concupiscenza frustrata. In quell'istante la nave prese velocità. Ogni asse e vela all'improvviso si allineò con il massimo rendimento. Le grida e le esclamazioni dell'equipaggio divennero feroci mentre la distanza tra Vivacia e la nave schiavista cominciava a diminuire. La sua concentrazione catturò la consapevolezza di Wintrow come una farfalla nella tela di un ragno. «Mia signora!» esclamò Kennit con immensa approvazione. Era la sua benedizione, e Vivacia esultò. Wintrow ne fu confortato. Kennit stava abbaiando ordini. Dietro di lui udì risuonare le lame e le battute degli uomini che si preparavano a uccidere altri uomini, scambiando sfide e scommesse. La squadra di abbordaggio si preparò: portarono rampini e cime sul ponte, mentre gli arcieri dalle faretre piene raggiunsero in fretta le loro postazioni nel sartiame di Vivacia. Vivacia li ignorò tutti. Era la sua caccia, la sua preda. Non si curò affatto degli uomini che aveva a bordo. Wintrow era scarsamente consapevole del proprio corpo. Le sue mani erano puntate come artigli sulla murata di prua e il vento della corsa gli sferzava i capelli. Vivacia annegava la minuscola consapevolezza del ragazzo nella sua maggiore energia. Come in un sogno, Wintrow vide la nave schiavista farsi più grande davanti a lui. Il puzzo crebbe, e gli uomini che si affannavano sui suoi ponti avevano visi sconvolti dalla paura. Udì le grida eccitate dei pirati che gettavano i rampini e scagliavano le prime raffiche di frecce. Le grida degli uomini colpiti e il ruggito soffocato degli schiavi terrorizzati sotto coperta erano come i richiami di lontani uccelli marini. Wintrow fu acutamente consapevole che la Marietta li stava per raggiungere e superare. Minacciava di sottrarre la preda a Vivacia. La nave non lo avrebbe tollerato. Vivacia si chinò ad afferrare letteralmente l'altra nave mentre le cime dei rampini venivano tese. Le dita come artigli non raggiungevano niente, ma l'avidità sul suo volto terrorizzò l'equipaggio della nave schiavista. «Prendeteli! Prendeteli!» urlava come impazzita, incurante degli ordini che Kennit tentava di dare. La sua feroce brama di sangue era contagiosa. Nel momento in cui fu possibile superare d'un balzo il varco tra le navi, la squadra di abbordaggio sciamò sulla tolda della nave avversaria. «Ce l'ha fatta! La nostra bella signora ce l'ha fatta! Ah, Vivacia, non so-
spettavo che avessi in te tale velocità e tale abilità!» La lode di Kennit sembrava quasi religiosa. Un'ondata di pura adorazione per Kennit fluì attraverso Wintrow. L'emozione della nave travolse del tutto la paura di quello che sarebbe successo ora che la nave schiavista era stata catturata. La polena si girò per guardare Kennit negli occhi. L'ammirazione che passò tra loro era un riconoscimento fra predatori. «Cacceremo bene insieme, noi due» osservò Vivacia. «Così sarà» le promise Kennit. Wintrow si sentì andare alla deriva. Era collegato a loro, ma i due lo ignoravano. Era irrilevante rispetto a quello che avevano appena scoperto l'uno nell'altra. Li sentiva in contatto a un livello più profondo, superiore a quello da lui raggiunto. Si chiese confusamente che cosa riconoscessero. Qualunque cosa fosse, nulla rispose nel suo cuore. Al di là di due bracciate d'acqua c'era un'altra tolda, dove altri uomini lottavano per la vita. Là scorreva il sangue, ma ciò che scorreva a bordo di Vivacia, tra il veliero vivente e il pirata, era più denso del sangue. «Wintrow. Wintrow!» In una specie di stordimento, il ragazzo udì il proprio nome e si girò. Con un largo ghigno candido, Kennit indicò la nave catturata. «Con me, ragazzo!» Si trovò a seguire Kennit al di là della murata e su una tolda straniera dove gli uomini lottavano, imprecavano e urlavano. Etta li affiancò all'improvviso, la spada sguainata: avanzò, consapevole di tutto ciò che la circondava come una pantera. I capelli neri splendevano alla luce del sole. Kennit stesso impugnava un lungo coltello, ma Wintrow era disarmato e sbarrava gli occhi su quello strano mondo. La sua mente si schiarì un poco quando si lasciò alle spalle il legno magico di Vivacia, ma il caos in cui si immerse era quasi altrettanto soffocante. Kennit avanzò impavido. Etta lo affiancò a destra, dalla parte della gruccia. Si aprirono la strada attraverso la tolda lurida e puzzolente. Superarono uomini intenti a uccidersi e girarono attorno a un marinaio rannicchiato in una pozza di sangue. Una freccia lo aveva infilzato, ma la caduta dal sartiame aveva fatto più danni. Il suo viso era contorto in un'orrenda smorfia di dolore, gli occhi serrati come per l'allegria mentre il sangue gli gocciolava dall'orecchio nella barba incolta. Sorcor li raggiunse di corsa attraverso la tolda. Evidentemente la Marietta li aveva ripresi in fretta, una volta che si era decisa. Aveva abbordato la nave schiavista dall'altro lato. L'equipaggio assediato non aveva avuto al-
cuna speranza. La lama gocciolava in mano a Sorcor e il suo viso tatuato splendeva di soddisfazione selvaggia. «Qui abbiamo quasi finito, signore!» salutò affabilmente. «Solo alcuni ancora vivi su a poppa. Nessun vero combattente.» Un grido selvaggio sottolineò il commento, seguito da un frullo di schizzi. «Uno di meno» commentò Sorcor con allegria. «Alcuni dei miei uomini stanno aprendo le coperture dei boccaporti. Sottocoperta è un buco puzzolente. Penso che ci siano tanti corpi incatenati laggiù quanti uomini vivi. Dovremo portar via i superstiti in fretta. La nave fa acqua come un marinaio che piscia birra.» «Abbiamo spazio per tutti, Sorcor?» Il pirata tarchiato alzò le sopracciglia, scrollando le spalle. «Probabile. Affolleranno entrambe le nostre navi, ma ne potremo trasferire parecchi a bordo della Bisbetica quando la raggiungiamo. Ma direi che per ora siamo al completo.» «Eccellente.» Kennit annuì, quasi assorto. «Ci dirigeremo verso Borgo Baratto dopo aver recuperato la Bisbetica. Il tempo di spargere la voce su come siamo stati bravi.» «Direi proprio di sì» ghignò Sorcor. Un pirata macchiato di sangue raggiunse in fretta il gruppo. «Chiedo perdono, signori, ma il cuoco vuole arrendersi. È rintanato in cambusa.» «Uccidetelo» ordinò Kennit seccato. «Chiedo perdono, signore, ma dice che sa qualcosa e che varrebbe la pena di lasciarlo vivere. Dice che sa dove trovare un tesoro.» Kennit scosse la testa disgustato. «Se sapesse dove trovare un tesoro, perché non è andato a prenderlo invece di trasportare schiavi in questa tinozza?» chiese Etta sarcastica. «Non lo so, signora» si scusò il marinaio. «È un vecchio. È cieco da un occhio e senza una mano. Dice che navigava con Igrot l'Audace. È quello che ci ha fatto pensare. Tutti sanno che Igrot catturò la chiatta del tesoro del Satrapo e che non se ne seppe più niente. Forse conosce davvero...» «Me ne occupo io, capitano» dichiarò Sorcor seccato. «Dov'è?» chiese al marinaio. «Aspetta un momento, Sorcor. Magari farò due chiacchiere con questo cuoco.» Kennit sembrava interessato e diffidente allo stesso tempo. Il giovane pirata ora sembrava a disagio. «È barricato in cambusa, signore. Abbiamo quasi abbattuto la porta a calci, ma lì dentro ha un sacco di coltelli e asce. E anche abbastanza bravo a lanciarli, per essere un vecchio mezzo cieco.»
Wintrow vide il viso di Kennit cambiare espressione. «Gli parlerò. Da solo. Voi tirate fuori gli schiavi dalle stive. La nave comincia a sbandare.» Sorcor era abituato a obbedire. Senza esitare annuì e si girò, abbaiando ordini mentre si allontanava a grandi passi. Wintrow si accorse degli schiavi. Stavano sulla tolda in gruppi apatici, battendo le palpebre alla luce del sole. Coperti di sporcizia, tremanti per il trauma dell'aria fresca, sembravano sconcertati dal cambiamento improvviso. La puzza e le facce stordite lo riportarono d'un colpo alla notte in cui gli schiavi erano evasi dalla stiva di Vivacia. Un'ondata di pietà lo percorse. Alcuni erano così deboli che bisognava aiutarli a stare in piedi. Emergevano dalle stive, uno dopo l'altro. Wintrow li guardò, e conobbe la giustizia ineffabile di quello che Kennit aveva fatto. Eliminare quel tormento era corretto. Ma il metodo... «Wintrow!» C'era una vena di fastidio nella voce di Etta. Wintrow era rimasto a fissare gli schiavi mentre Kennit si muoveva con rapida determinazione attraverso il ponte. L'inclinazione della nave si faceva più percettibile ogni momento. Non c'era tempo da perdere. Il ragazzo li seguì in fretta. Mentre attraversava la tolda sentì il sibilo dei serpenti, seguito da un improvviso tonfo in acqua. Stavano gettando i cadaveri in mare. Mormorii e risate di apprezzamento si alzarono dai pirati mentre i serpenti si disputavano il cibo. Udì Sorcor gridare: «Lasciate perdere! Presto avranno tutti i morti che vogliono. Tirate fuori gli schiavi dalla stiva e portateli sulle altre navi. In fretta! Voglio abbandonare questo relitto appena possibile.» La cambusa era in una bassa costruzione sulla tolda. Un grappolo di pirati si accalcava con le lame sguainate, inconsapevole dell'avvicinamento di Kennit. Sotto lo sguardo di Wintrow, uno diede un calcio alla porta barricata. L'uomo bloccato all'interno rispose con una scarica di maledizioni, poi una lama apparve nella piccola apertura. «Colpirò il primo che tenta di passare. Portate qui il vostro capitano. Mi arrenderò a lui, e solo a lui.» I pirati beffardi si fecero più vicini, ricordando a Wintrow una muta di cani con un gatto su un albero. «Il capitano è qui» annunciò Kennit ad alta voce. Gli uomini smisero all'improvviso di ridere e sghignazzare. Indietreggiarono, facendogli spazio. «Al lavoro!» ordinò brusco il pirata. «Qui ci penso io.» Si dispersero in fretta, ma malvolentieri, lanciando occhiate alle loro spalle. La diceria di un tesoro era già abbastanza per suscitare l'interesse di chiunque, ma il tesoro di Igrot era leggendario. Chiaramente avrebbero
preferito restare a sentire cosa l'uomo avrebbe dato in cambio della sua vita. Kennit li ignorò. Alzò la gruccia e diede una botta alla porta. «Esci» ordinò al cuoco. «Il capitano?» «Sono io. Fatti vedere.» L'uomo si sporse appena, poi sparì di nuovo alla vista. «Ho qualcosa da scambiare. Se mi lasci vivere, ti dirò dove Igrot l'Audace nascose il suo bottino. Non solo il carico della chiatta del Satrapo, ma tutto quello che prese prima.» «Nessuno sa dove Igrot nascose il suo tesoro» dichiarò Kennit con sicurezza. «Lui e l'intero equipaggio andarono a fondo insieme. Nessuno sopravvisse. Altrimenti qualcuno si sarebbe preso il tesoro molto tempo fa.» Con furtività sorprendente, Kennit si avvicinò per fermarsi proprio accanto allo stipite. «Beh, io lo so. Ho aspettato per anni di poter tornare a riprenderlo. Ma non ero mai nella posizione giusta. Se avessi parlato, ne avrei ricavato solo un coltello nella schiena. E non poteva andarci chiunque. Ci voleva una nave speciale. Una nave come la tua, come quella che Igrot aveva una volta... Ci sono luoghi dove solo un veliero vivente può andare e nessun altro può seguirlo. Ma ora, ecco, ti ho detto abbastanza. Se mi lasci vivere, ti condurrò là. Ma devi lasciarmi vivere.» Kennit non rispose. Rimase perfettamente immobile, in agguato accanto alla porta. Wintrow gettò uno sguardo a Etta. Era silenziosa e immobile come Kennit. In attesa. «Ehi! Ehi, tu, capitano, che dici? Siamo d'accordo? C'è più ricchezza di quanta tu possa immaginare. A mucchi, e metà è roba magica dei Mercanti di Borgomago. Devi solo entrare a prenderla. Sarai l'uomo più ricco del mondo. Devi solo lasciarmi vivere.» Il cuoco sembrava giubilante. «È un accordo equo, non ti pare?» L'inclinazione della nave aveva cominciato ad aumentare marcatamente. Wintrow udiva Sorcor e i suoi che portavano fuori in fretta gli schiavi. La voce di un uomo esclamò all'improvviso: «È morto, donna. Non possiamo far nulla. Lascialo.» L'ululato d'angoscia di una donna si levò sul vento marino, ma tutt'intorno regnava il silenzio. Kennit non replicò. «Ehi? Ehi, Cap, sei ancora lì?» Gli occhi di Kennit si socchiusero pensierosamente. Qualcosa di simile a un sorriso apparve sulla sua bocca. Wintrow provò un brivido improvviso di nervosismo. Era ora di lasciar perdere e andarsene da quella nave. Stava
imbarcando acqua, e man mano che si appesantiva il mare guadagnava potere su di lei. Il ragazzo prese fiato per parlare, ma Etta gli diede una brusca gomitata. Tutto quello che seguì accadde simultaneamente. Wintrow rimase a guardare, tentando di comprendere. Il coltello di Kennit si era mosso per primo, o Kennit aveva scorto il moto dell'uomo che guardava fuori dalla porta? I due oggetti si unirono con rapida sincronia come due mani che applaudono. La lama di Kennit affondò nell'occhio buono dell'uomo e poi fu estratta. Il corpo dell'uomo cadde e sparì alla vista. «Non ci sono superstiti dell'equipaggio di Igrot» dichiarò Kennit. Trasse un respiro ineguale. Quando si guardò attorno, batté le palpebre come risvegliandosi da un sogno. «Basta perdere tempo, la nave affonda» esclamò infastidito. Con il coltello insanguinato ancora stretto in mano, si affrettò verso la Vivacia. Etta camminava quasi accanto a lui, indifferente a quello che era appena accaduto. Wintrow li seguì stordito. Come poteva la morte sopraggiungere tanto in fretta? Come poteva l'intera equazione di una vita essere azzerata così? L'azione di Kennit era un trauma immenso per il ragazzo. La mano del pirata si era tesa per un attimo, e la morte era sbocciata. Eppure il possessore del coltello non aveva provato nulla. Wintrow si sentì contaminato dalla sua associazione con quell'uomo. All'improvviso desiderò ardentemente la compagnia di Vivacia. Lei lo avrebbe aiutato a riflettere. Avrebbe detto che il suo senso di colpa non aveva fondamento. Lo stivale di Kennit aveva appena toccato il ponte della Vivacia che la nave lo chiamò. «Kennit! Capitano Kennit!» La sua voce rimbombò in un comando deciso, con una nota che Wintrow non aveva mai sentito. Kennit sorrise con feroce soddisfazione. «Sistemate gli schiavi e lasciate andare quella carcassa!» ordinò bruscamente. Gettò uno sguardo a Wintrow ed Etta. «Fate in modo che siano ripuliti il più possibile. Teneteli a poppa.» Si girò e si allontanò da loro, verso la polena. «Vuole restare solo con lei» affermò Etta, un nudo fatto. La gelosia fiammeggiò nei suoi occhi. Wintrow abbassò lo sguardo sul ponte per non permetterle di leggergli in faccia lo stesso pensiero. «Vivi con stile, per essere un esule» osservò Althea sorridendo. Grag sorrise compiaciuto. Si inclinò all'indietro sulla sedia, dondolandosi su due gambe. Tese la mano verso l'alto e diede un colpo distratto a una lanterna di stagno sagomato appesa al ramo sopra di lui. «Cos'è la vita sen-
za stile?» Risero ad alta voce, rilassati. La lanterna dondolante suscitò un carosello di luce attorno a loro. I disegni creati dalla candela danzarono nell'oscurità degli occhi di Grag. Indossava una camicia scura, aperta alla gola, e pantaloni bianchi e sciolti. Quando muoveva la testa, l'orecchino d'oro luccicava. Il sole d'estate lo aveva abbronzato; il suo colorito lo faceva sembrare una parte della sera nel bosco. Quando i denti balenarono in un sorriso candido sembrò il giovane marinaio tranquillo di Stagneria. Guardò la radura davanti alla casetta e sospirò pacificamente. «Non venivo quassù da anni. Quando ero ragazzo, prima di cominciare a navigare con papà, la mamma ci portava tutti qui per il periodo più caldo dell'estate.» Althea gettò uno sguardo sul giardinetto. La casa era poco più di una capanna, e la foresta dilagava fin quasi alla porta. «È più fresco d'estate?» «Un po'. Non molto. Ma sai quanto Borgomago può puzzare in estate. Eravamo qui l'anno che la Peste di Sangue colpì per la prima volta. Nessuno di noi la prese. La mamma pensò sempre che fu perché quell'estate evitammo gli umori cattivi della città. Da allora insisté per portarci qui ogni anno.» Rimasero silenziosi per qualche momento, in ascolto. Althea immaginò la casetta e il giardino come un luogo vivace, abitato da una donna con i suoi bambini. Non per la prima volta si chiese quanto sarebbe stata diversa la sua vita se i suoi fratelli fossero sopravvissuti alla Peste di Sangue. Suo padre l'avrebbe presa a bordo della nave? Sarebbe stata ormai sposata, con bambini suoi? «Cosa pensi?» le chiese Grag con dolcezza. Lasciò ricadere la sedia in avanti, poi appoggiò i gomiti sul tavolo. Mise le mani sotto il mento e la contemplò con affetto. Una bottiglia di vino, due bicchieri e i resti di una cena fredda ingombravano la tavola. Althea aveva portato il cibo con sé. La madre di Grag aveva mandato un messaggero a Casa Vestrit. Implorava il perdono di Ronica, poi chiedeva se Althea poteva fare una commissione discreta per la famiglia Tenira. Keffria aveva sollevato le sopracciglia, ma forse sua madre aveva deciso che Althea non aveva più una reputazione da proteggere e aveva risposto con un messaggio che le accordava il permesso. Un cavallo aveva aspettato Althea in una stalla di Borgomago. Era partita senza un'idea precisa della destinazione. Mentre superava una tavernetta alla periferia della città, un perdigiorno l'aveva salutata e le aveva cacciato
in mano un biglietto. Il biglietto l'aveva indirizzata a una locanda, dove quasi si aspettava di trovare Grag. Invece là le avevano offerto un cavallo fresco e un mantello da uomo con cappuccio. Il cavallo con le borse da sella cariche era accompagnato dall'ennesimo messaggio. Localizzare Grag aveva avuto un'aura di mistero e avventura, ma Althea non aveva dimenticato neanche per un attimo che la situazione era seria. Dopo che Ophelia aveva sfidato l'esattore delle tasse del Satrapo, si erano aperte altre spaccature fra la gente di Borgomago. La rapida partenza del veliero vivente dal porto era stata una decisione saggia, perché tre nuove navi di pattuglia di Chalced erano arrivate poco dopo. L'arrivo 'tempestivo' aveva suscitato sospetti che l'esattore delle tasse avesse legami più stretti con Chalced di quanto forse non sapesse neppure Jamaillia. Qualcuno aveva fatto irruzione nei suoi alloggi, e aveva massacrato i suoi piccioni viaggiatori. Da allora i magazzini della dogana scampati all'incendio la notte del Concilio erano stati dati alle fiamme due volte. Questo aveva portato i mercenari di Chalced a proteggere i quartieri dell'esattore di notte e a 'pattugliare', così dicevano, il porto e il tratto di mare circostante. Alcuni di quei Vecchi Mercanti che all'inizio erano stati più conservatori ora erano più comprensivi verso coloro che parlavano sottovoce dell'indipendenza da Jamaillia. Su Grag Tenira si erano concentrate le doglianze del ministro con la città. C'era una taglia cospicua sulla sua testa. Brashen aveva suggerito di venderlo per incassare la taglia e varare Paragon; era una battuta, ma non un'esagerazione. Se Grag non si metteva presto in salvo, anche quelli che gli erano fedeli sarebbero stati tentati dall'aumento dei prezzi. Così in quel momento, mentre sedeva nella brezza dolce della sera d'estate e lo guardava, Althea provò un senso di presagio. Grag doveva agire, e presto. Gliene aveva già parlato, e ora azzardò: «Ancora non capisco perché indugi nelle vicinanze di Borgomago. Di certo potresti lasciare la città in segreto su uno dei velieri viventi. Sono sbalordita che gli agenti del Satrapo non abbiano dedotto che sei qui. Si sa che la tua famiglia ha una casetta nella Foresta di Sanger.» «Si sa così bene che sono stati qui due volte e l'hanno perquisita. Possono tornare. Ma in tal caso la troveranno vuota e abbandonata come le altre volte.» «Come?» Althea era incuriosita. Grag rise, ma senza levità. «Il mio prozio non era il più irreprensibile degli uomini. In famiglia si dice che veniva qui a condurre le sue tresche.
Ecco perché c'è non solo una cantina celata dietro a un falso muro nel sottoscala, ma anche una piccola camera dietro di essa. E c'è una campana molto costosa, collegata a un'altra installata nel ponte che hai attraversato.» «Non ho sentito niente quando ho attraversato il ponte» protestò Althea. «Certo che no. È piccola, ma molto sensibile. Quando il tuo passaggio l'ha fatta suonare là, la sua compagna ha risposto quassù. Grazie a Sa per la magia delle Giungle della Pioggia.» Alzò il bicchiere in un brindisi ai fratelli delle Giungle della Pioggia, e Althea bevve con lui. Poi depose il bicchiere e riportò Grag all'argomento. «Allora intendi rimanere qui?» Grag scosse la testa. «No. Sarebbe solo questione di tempo prima che mi prendano. Bisogna portare su le provviste. La gente della zona sa che sono qui. Molti sono famiglie delle Tre Navi. Brava gente, ma non ricca. Prima o poi uno cederebbe alla tentazione. No, me ne andrò, e molto presto. Ecco perché ho implorato mia madre di organizzare questo incontro. Temevo che la tua famiglia lo avrebbe impedito; sapevo che non era corretto cercare di vederti da sola in queste circostanze. I tempi disperati richiedono misure disperate.» Sembrava scusarsi. Althea emise un lieve sbuffo divertito. «Non penso che la mamma se ne sia curata molto. Temo che la mia reputazione infantile di maschiaccio ribelle mi abbia seguito nell'età adulta. Quello che sarebbe scandaloso per mia sorella è normale per me.» Grag si protese verso di lei e mise la mano sulla sua. La premette con calore, poi l'afferrò. «È sbagliato dire che ne sono contento? Altrimenti non sarei mai giunto a conoscerti abbastanza bene da amarti.» La nuda ammissione la lasciò ammutolita. Tentò di muovere la bocca per dire che anche lei lo amava, ma la bugia non venne. Strano. Non sapeva che fosse una bugia, finché non aveva tentato di pronunciarla. Trasse un respiro per dire qualcosa di vero: che anche lei era giunta a volergli bene, o che era onorata dalle sue parole, ma scuotendo la testa, Grag la fermò. «Non parlare. Non dirlo, Althea. So che non mi ami, non ancora. In molti modi, il tuo cuore è perfino più cauto del mio. Lo sapevo fin dall'inizio. E anche se non lo avessi saputo, Ophelia si è affrettata a informarmi quando stava istruendomi su come corteggiarti.» Rise di sé stesso. «Non che io le abbia chiesto consigli. È come una seconda madre. Non aspetta che glieli chieda.» Althea sorrise con gratitudine. «Non trovo difetti in te, Grag. Non hai fatto nulla per allontanare i miei sentimenti. Negli ultimi tempi la vita non
mi ha lasciato il tempo di indugiare su speranze o sogni. I problemi della mia famiglia gravano su di me. Mancano uomini adulti in famiglia, e il dovere ricade tutto su di me. Nessun altro può andare a cercare la Vivacia.» «Così mi hai detto» ammise Grag, in una voce che non concedeva accordo completo. «Ho rinunciato alla speranza che tu possa essere con me adesso. Suppongo che perfino in tempi come questi sarebbe visto come un matrimonio troppo affrettato per essere decoroso.» Le girò la mano nella sua e le accarezzò il palmo con il pollice, mandandole un brivido di piacere su per il braccio. Guardò la mano mentre chiedeva: «Ma più tardi? Verranno tempi migliori...» Considerò le proprie parole e poi emise una risata amara. «O peggiori, forse. Vorrei poter dire a me stesso che un giorno sarai al mio fianco e diventerai parte della mia famiglia. Althea. Vuoi sposarmi?» Althea chiuse gli occhi e provò un momento di dolore. Era un brav'uomo, onesto e virtuoso, bello, desiderabile, perfino ricco. «Non lo so» disse piano. «Cerco di guardare avanti, e di immaginare un tempo in cui la mia vita sarà solo mia, da gestire come voglio, ma non riesco a vedere tanto lontano. Se tutto va bene, e ricuperiamo la Vivacia, dovrò ancora sfidare Kyle per il suo possesso. Se la conquisto, poi navigherò con lei.» Incontrò con franchezza gli occhi di Grag. «Ne abbiamo già parlato. So che tu non puoi lasciare Ophelia. Se riavrò Vivacia, non la lascerò. Cosa significa questo per noi?» Grag sorrise ironicamente. «Mi rendi difficile augurarti il successo, perché se ottieni tutto ciò che desideri, io ti perderò.» Vedendo il cipiglio di Althea, rise ad alta voce. «Ma sai che lo faccio. Tuttavia, se fallisci... ebbene, ti aspetterò. Con Ophelia.» Althea abbassò gli occhi e annuì, ma nel cuore sentì una punta di freddo. Cosa avrebbe significato fallire? Tutta una vita senza una nave sua. La Vivacia perduta per sempre. Moglie di Grag, a bordo della sua nave come una passeggera, badando che i piccoli non precipitassero fuori bordo. Vedendo i suoi figli crescere e partire con il padre mentre lei rimaneva a casa e gestiva la famiglia e faceva sposare le figlie. Il futuro sembrò all'improvviso una ragnatela sempre più stretta. Tentò di respirare, tentò di convincersi che la sua vita non sarebbe stata così. Grag la conosceva. Sapeva che il suo cuore era in mare, non a casa. Ma, come ora accettava il dovere di Althea verso la famiglia, una volta sposati si sarebbe aspettato che facesse il suo dovere verso di lui. Perché i marinai prendevano moglie, se non per
lasciare qualcuno a badare alla casa e allevare i bambini? «Non posso essere tua moglie.» Incredula, se lo sentì dire ad alta voce. Si costrinse a incontrare i suoi occhi. «È ciò che davvero mi impedisce di amarti, Grag. Sapere che quello sarebbe il prezzo. Potrei amarti facilmente, ma non potrei vivere nella tua ombra.» «Nella mia ombra?» chiese Grag, confuso. «Althea, non capisco. Saresti mia moglie, onorata dalla mia famiglia, madre dell'erede dei Tenira.» C'era un autentico dolore nella sua voce. Cercò le parole. «Non potrei offrirti di più. È tutto ciò che ho da offrire a qualsiasi donna sposerò. Oltre a me stesso.» La voce divenne un bisbiglio. «Speravo che fosse abbastanza per conquistarti.» Aprì le dita con lentezza, come per liberare un uccellino. Con riluttanza Althea ritirò la mano. «Grag. Nessun uomo potrebbe offrirmi di più, o di meglio.» «Neanche Brashen Trell?» chiese brusco il giovane con voce all'improvviso sorda. Un gelo terribile sgorgò in lei. Grag lo sapeva. Sapeva che era stata con Trell. Per fortuna era seduta. Tentò di controllare anche il viso mentre lottava contro il ruggito nelle orecchie. Per Sa, era sull'orlo di uno svenimento! Ridicolo. Non comprendeva il livello della sua reazione alle parole di Grag. Grag si alzò all'improvviso e si allontanò di qualche passo dalla tavola. Fissò la foresta nella notte. «Bene. Allora lo ami?» Le sue parole erano quasi accusatorie. Il senso di colpa e la vergogna le avevano inaridito la bocca. «Non lo so» riuscì a dire con voce rauca. Tentò di schiarirsi la gola. «Era solo qualcosa che è accaduto tra noi. Avevamo bevuto, e la birra era drogata e...» «Questo lo so.» Grag lo accantonò bruscamente. Ancora non la guardava. «Ophelia mi ha detto tutto, quando mi ha avvertito. Non volevo crederle.» Althea nascose il viso fra le mani. Avvertito. La perdita improvvisa e abissale parve sventrarla. Dubitò all'improvviso che Ophelia le avesse mai voluto bene. «Da quanto lo sai?» riuscì a chiedere. Grag emise un pesante sospiro. «La notte che mi esortò a baciarti, e io lo feci... me lo disse più tardi. Suppongo che si sentisse, oh, non lo so, colpevole. Temeva che soffrissi, se mi fossi innamorato troppo profondamente di te, e poi avessi scoperto che non eri quello che mi aspettavo.» «Perché non me lo hai detto prima?» Althea alzò la testa e scorse la sua scrollata di spalle asimmetrica.
«Pensavo che non sarebbe importato. Mi infastidiva, certo. Volevo uccidere quel bastardo. Di tutte le mascalzonate che poteva fare... ma poi Ophelia mi disse che forse provavi qualcosa per lui. Che magari eri anche un po' innamorata di lui?» Era una domanda incerta. «Non credo» rispose piano Althea. L'ambivalenza nella sua voce la sorprese. «E questo fa due» osservò amaro Grag. «Sai che non mi ami. Ma non sei sicura di amare lui.» «Lo conosco da tanto» disse fiocamente Althea. Voleva dire che non lo amava. Ma come si faceva a conoscere qualcuno tanto a lungo, essergli amica per tanto tempo, e non provare un qualche affetto per lui? Non era così diverso dal suo legame con Davad Restart. Disprezzava le azioni del Mercante, eppure ricordava uno zio gentile e maldestro. «Per anni Trell è stato un amico e un compagno di bordo. E ciò che è accaduto tra noi non cambia quegli anni. Io...» «Non capisco» disse piano Grag. Nella voce si udiva ancora la corrente sommersa di rabbia. «Ti ha disonorata, Althea. Ti ha compromessa. Quando l'ho scoperto ero furioso. Volevo affrontarlo. Ero sicuro che tu lo odiassi. Sapevo che meritava di morire. Pensavo che non avrebbe mai osato tornare a Borgomago dopo quello che aveva fatto. Quando è tornato, volevo ucciderlo. Solo due cose mi trattenevano. Non potevo farlo senza rivelare perché lo sfidavo. Non volevo recarti vergogna. Poi ho saputo che aveva fatto visita a casa tua. Ho pensato che forse intendeva comportarsi in modo onorevole. Se avesse fatto la proposta, e tu lo avessi rifiutato... È così? È di questo che si tratta, senti qualche genere di obbligo verso di lui?» C'era la disperazione nella sua voce. Ce la metteva tutta per capire. Althea si alzò da tavola e lo raggiunse. Al suo fianco, guardò la foresta buia insieme a lui. Ombre di ramoscelli e rami e tronchi si aggrovigliavano e si ostruivano a vicenda. «Non mi ha stuprata» disse. «È questo che devo confessarti. Ciò che accadde tra noi non fu saggio. Ma non fu violento, e fu colpa mia quanto di Brashen.» «Lui è un uomo.» Grag parlò senza lasciare spazio a compromessi. Incrociò le braccia. «La colpa è sua. Doveva proteggerti, non approfittare della tua debolezza. Un uomo dovrebbe controllare la sua lussuria. Doveva essere più forte.» Althea era senza parole. La vedeva davvero così? Come una creatura debole e indifesa, che andava protetta e guidata da qualsiasi uomo fosse
vicino a lei? Credeva onestamente che non avrebbe potuto fermare Brashen se avesse voluto? Sentì prima un abisso che si apriva fra loro, e poi una rabbia crescente. Voleva lacerarlo con le parole, costringerlo a vedere che lei controllava la propria vita. Poi, in fretta come era venuta, la rabbia se ne andò. Non c'erano speranze. Althea considerava la sua relazione con Brashen come un evento personale che aveva coinvolto solo loro due. Grag la vedeva come qualcosa che le era stato fatto, qualcosa che l'aveva cambiata per sempre. Un affronto al suo intero concetto di società. Per Althea la vergogna e il senso di colpa non venivano dall'idea di aver fatto qualcosa di male, ma dal timore che la scoperta potesse danneggiare la sua famiglia. I due punti di vista le sembravano radicalmente diversi. Con una certezza profonda e improvvisa, seppe che non avrebbero mai potuto costruire insieme qualcosa. Anche se lei avesse abbandonato i sogni di una nave propria, anche se avesse deciso che voleva una casa e bambini da amare, l'immagine che Grag aveva di lei, una donna debole e indifesa, l'avrebbe sempre umiliata. «Ora dovrei andar via» annunciò all'improvviso. «È buio» protestò Grag. «Non puoi andare adesso!» «Dopo aver attraversato il ponte la locanda non è lontana. Andrò piano. E il cavallo sembra molto affidabile.» Finalmente Grag si girò di nuovo a guardarla con occhi sbarrati, il viso vulnerabile mentre implorava: «Resta. Per favore. Resta qui, parliamone. Possiamo chiarire tutto.» «No, Grag. Non penso.» Un'ora prima gli avrebbe toccato la mano, avrebbe voluto almeno salutarlo con un bacio. Ora sapeva di non poter mai superare le barriere tra loro. «Sei un brav'uomo. Troverai una donna che va bene per te. Ti auguro tutto il meglio. E quando vedrai Ophelia, porta anche a lei i miei migliori auguri.» Grag la seguì mentre tornava nel cerchio danzante della luce delle lanterne di stagno sagomato. Althea prese il suo bicchiere di vino e bevve l'ultimo sorso. Si guardò attorno e comprese che non aveva altro da fare lì. Era pronta ad andarsene. «Althea .» Si girò al tono affranto della sua voce. Grag sembrò all'improvviso molto giovane e infantile. Incontrò coraggiosamente il suo sguardo e non tentò di nascondere il dolore. «L'offerta rimane. Aspetterò il tuo ritorno. Sii mia moglie. Non mi importa di quello che hai fatto. Ti amo.» Althea cercò parole sincere che poteva, dirgli. «Il tuo cuore è buono,
Grag Tenira» disse infine. «Addio.» 23 Conseguenze Serilla non aveva lasciato la cabina del capitano da quando vi era stata trascinata. Si passò le mani fra i capelli arruffati e tentò di decidere quanto tempo era trascorso. Si costrinse a riesaminare gli eventi nella sua mente, ma i suoi ricordi non rimanevano nell'ordine giusto. Sussultavano e traballavano, e i momenti di terrore e dolore balzavano su per esigere la sua attenzione perfino mentre rifiutava di pensarci. Aveva combattuto il marinaio che era stato mandato a prenderla. Voleva andarsene con dignità, ma non ci era riuscita. Aveva resistito finché non l'aveva trascinata. Lo aveva colpito, e lui l'aveva semplicemente sollevata e se l'era gettata su una spalla massiccia. Puzzava. I suoi sforzi di tempestarlo di calci e pugni avevano divertito non solo lui, ma anche gli altri membri dell'equipaggio che avevano assistito alla sua umiliazione. Le sue grida d'aiuto erano state ignorate. Quelli del seguito del Satrapo che erano stati testimoni del suo rapimento non avevano fatto niente. Quelli che l'avevano vista erano rimasti accuratamente impassibili, girando le spalle alla sua situazione o chiudendo le porte da cui avevano guardato fuori. Ma Serilla non poteva dimenticare l'espressione di Cosgo e Kekki mentre veniva portata via. Cosgo sorrideva trionfante e soddisfatto, mentre Kekki si era risvegliata dal suo stupore drogato per guardarla con affascinata eccitazione, con la mano che indugiava sulla coscia di Cosgo. Il marinaio l'aveva trasportata in una parte sconosciuta della nave. L'aveva spinta nella cabina buia del capitano, sbarrando la porta dietro di lei. Serilla non sapeva quanto tempo aveva aspettato. Sembravano ore, ma come misurare il tempo in tali circostanze? Era passata dalla rabbia alla disperazione al terrore. La paura era stata con lei di continuo. Quando l'uomo era arrivato davvero, Serilla era già sfinita a forza di gridare, piangere e picchiare sulla porta. Al suo primo tocco era crollata fisicamente, vicina allo svenimento. Nulla nella sua educazione dotta o nei suoi giorni a corte l'aveva preparata a una cosa simile. Lui aveva superato facilmente i suoi sforzi di spingerlo via. In mano sua era come un gattino sputacchiante. L'aveva stuprata, più volte, non selvaggiamente. La scoperta della sua verginità lo aveva fatto esclamare di sorpresa e imprecare nella sua lingua. Poi era andato avanti a prendersi il suo piacere.
Quanti giorni erano passati? Serilla non lo sapeva. Da allora non aveva lasciato la cabina. Il tempo era diviso fra i momenti in cui l'uomo era lì e quelli in cui non c'era. A volte la usava. Altre volte la ignorava. Era impersonale nella sua crudeltà. Non la notava in altro modo; non faceva alcun tentativo di conquistare il suo affetto. Le mostrava la stessa cortesia che offriva al pitale o alla sputacchiera. Non le parlava mai. Lei era lì da usare quando ne sentiva il bisogno. Se lo rendeva difficile, resistendo o supplicando, lui la colpiva. Le infliggeva colpi con la mano aperta, indifferente, con una mancanza di sforzo che la convinceva che la sua forza deliberata doveva essere molto superiore. Un ceffone le allentò due denti e le fece fischiare le orecchie per ore. La mancanza di malevolenza con cui la colpiva era molto più spaventosa delle percosse. Farle male non significava nulla per lui. Verso l'inizio della sua prigionia, Serilla aveva contemplato la vendetta. Aveva frugato per la stanza, cercando qualcosa che potesse servire come arma. L'uomo non era un'anima fiduciosa. I bauli e gli armadi a muro erano chiusi a chiave, e non cedettero ai suoi tentativi. Ma Serilla trovò sulla scrivania documenti che corroboravano i suoi sospetti. Riconobbe una pianta del porto di Borgomago, e una mappa dell'area attorno alla foce del Fiume delle Giungle della Pioggia. Come tutte le mappe di quel genere che aveva visto, recava grandi spazi vuoti. C'erano anche lettere, ma Serilla non leggeva la lingua di Chalced. Menzionavano denaro e i nomi di due nobili illustri di Jamaillia. Forse erano prove di corruzione; forse era una polizza di carico. Rimise tutto esattamente come lo aveva trovato. O non fece un buon lavoro, o le percosse di quella notte furono per un'offesa diversa. Estinsero i suoi ultimi pensieri di resistenza o vendetta. Non pensava neanche più a sopravvivere. La sua mente si ritirò, lasciando il corpo a funzionare da solo. Dopo qualche tempo aveva imparato a mangiare gli avanzi dei pasti del capitano. Lui non pranzava spesso in cabina, ma non le forniva altro cibo o bevande. Non le era rimasto alcun capo di vestiario intatto, così trascorreva la maggior parte del tempo rannicchiata nel letto. Non pensava più. Quando tentava di uscire brancolando dalla confusione trovava solo alternative orribili. Ogni pensiero era paura. Quel giorno, forse, l'avrebbe uccisa. Forse l'avrebbe data all'equipaggio. Forse l'avrebbe tenuta per sempre, per il resto della sua vita, in quella cabina. Peggio di tutto, poteva restituirla al Satrapo, un giocattolo rotto che non lo divertiva più. Prima o poi l'avrebbe messa incinta. E poi? Il presente che sopportava aveva distrutto irrepara-
bilmente ogni futuro possibile. Non voleva pensare. A volte fissava fuori dalla finestra. C'era poco da vedere. Acqua. Isole. Uccelli in volo. Le navi più piccole che li accompagnavano. A volte le navi più piccole scomparivano, per raggiungerli il giorno dopo. A volte mostravano segni di battaglia, legno bruciato o vele stracciate o uomini incatenati sul ponte. Razziavano i piccoli insediamenti di fuorilegge del Passaggio Interno quando li scoprivano, prendendo bottino e schiavi. Sembravano avere successo. Un giorno o l'altro sarebbero arrivati a Borgomago. Il pensiero era una fessura attraverso cui splendeva la luce. Se a Borgomago fosse scappata in qualche modo, se fosse arrivata a riva, poteva nascondere chi era stata e cosa le era successo. Era molto importante per lei. La sua mente rifuggiva dal continuare quella vita. Non doveva più essere Serilla. Serilla era una studiosa debole e viziata, allevata con affetto, una donna di corte di parole e pensieri. Lei disprezzava Serilla. Serilla era troppo debole per allontanare quell'uomo. Serilla era stata troppo scioccamente orgogliosa per accettare di andare a letto con il Satrapo invece che con l'uomo di Chalced. Serilla era troppo vile per progettare di uccidere il capitano, o perfino di togliersi la vita. Perfino sapendo che Borgomago era la sua ultima speranza al mondo, non riusciva a focalizzare la mente su un piano di fuga. Qualche parte vitale di lei era stata, se non distrutta, sospesa. Si staccò da Serilla, e condivise il disprezzo del mondo per lei. La fine della sua ordalia giunse improvvisa come era cominciata. Un giorno un marinaio aprì la porta e le fece cenno di seguirla. Serilla si strinse addosso la coperta, facendosi piccola sul letto del capitano. Preparandosi a essere colpita, osò chiedere: «Dove mi portate?» «Satrapo.» Fu la sua sola replica. O non sapeva altro della sua lingua, o lo considerava sufficiente. Fece scattare di nuovo la testa verso la porta. Sapeva che doveva obbedire. Quando si alzò e si avvolse nella coperta, il marinaio non tentò di strappargliela di dosso. La gratitudine che provò le fece venire le lacrime agli occhi. Il marinaio si accertò che lo seguisse, e aprì la strada. Serilla gli tenne dietro cautamente, come avventurandosi in un mondo nuovo. Emerse dalla cabina con la coperta stretta attorno a sé. Tenne gli occhi bassi e si affrettò. Tentò di andare alla sua vecchia cabina, ma un grido della sua guida la fece trasalire. Ancora una volta prese a seguirlo, e lui la portò agli alloggi del Satrapo. Serilla si aspettava che bussasse alla porta. Sperava di avere almeno quel tempo per prepararsi. Non lo fece. Spalancò la porta della cabina e le fece
un cenno impaziente di entrare. La donna avanzò in un flusso fastidioso di aria troppo calda. In quel clima torrido gli odori della nave ristagnarono con quelli della malattia e del sudore. Serilla si ritrasse, ma il marinaio era implacabile. Le afferrò la spalla e la spinse nella stanza. «Satrapo» disse, e poi chiuse con fermezza la porta. Serilla si avventurò nella stanza afosa. Era immobile e buia. Qualcuno l'aveva rassettata con indifferenza. Gli indumenti scartati erano drappeggiati sugli schienali delle sedie piuttosto che abbandonati sul pavimento. Gli incensieri per le erbe del Satrapo erano stati vuotati ma non puliti. L'odore di fumo vecchio soffocava la stanza. Piatti e bicchieri erano stati tolti dalla tavola, ma i cerchi appiccicosi lasciati dai fondi delle bottiglie rimanevano. Da dietro le tende pesanti della grande finestra veniva il suono di una sola mosca che picchiava decisa contro il vetro. La familiarità della stanza era un'accusa. Serilla batté le palpebre con lentezza. Era come svegliarsi da un brutto sogno. Come poteva quella stanza esistere ancora immutata nel suo disordine domestico dopo tutto quello che le era successo? Si guardò attorno, e lo stordimento si disperse gradualmente. Mentre lei era prigioniera, stuprata di continuo, a un solo ponte di distanza, la vita era proseguita per il Satrapo e il suo seguito. La sua assenza non aveva cambiato niente per loro. Avevano continuato a mangiare e bere, ad ascoltare musica e giocare d'azzardo. All'improvviso la sporcizia e la confusione delle loro vite sicure e ordinarie la fecero infuriare. Una forza terribile la pervase. Avrebbe potuto fracassare le sedie contro il tavolo, frantumare il pesante vetro colorato delle finestre e scagliare in mare i suoi dipinti e vasi e statue. Non lo fece. Rimase in piedi, assaporando la furia e contenendola finché non divenne parte di lei. Non era forza, ma sarebbe bastata. Aveva creduto che la stanza fosse abbandonata. Poi udì un gemito dal letto disfatto. Stringendosi addosso la coperta, si avvicinò cautamente. Il Satrapo era disteso scomposto in un groviglio di lenzuola. Era pallido, i capelli incollati alla fronte dal sudore. L'odore di malattia era denso attorno a lui. Una coperta gettata sul pavimento accanto al letto puzzava di vomito e bile. Mentre Serilla lo fissava, i suoi occhi si aprirono. Batté le palpebre appiccicose, poi sembrò concentrarsi su di lei. «Serilla» bisbigliò. «Sei tornata. Grazie a Sa! Sto morendo, temo.» «Io lo spero.» Pronunciò con chiarezza ogni parola, fissandolo. Il Satrapo distolse lo sguardo. I suoi occhi erano infossati e venati di sangue. Le
mani tremanti afferravano l'orlo della coperta. Era un'ironia troppo grande: aver vissuto nella paura per tanti giorni, e poi scoprire che L'uomo che l'aveva consegnata a quel trattamento era ammalato e logoro. Nella malattia il suo viso rovinato assomigliava finalmente a quello di suo padre. Quella breve somiglianza la trafisse e la fortificò. Non sarebbe stata quella che Cosgo aveva tentato di fare di lei. Era più forte. Bruscamente gettò via la coperta. Camminò nuda fino al guardaroba e spalancò le porte. Sentì gli occhi del Satrapo su di lei; non se ne curava più, e fu una specie di vendetta. Cominciò a estrarre i suoi indumenti per poi scartarli, cercando qualcosa di pulito. La maggior parte puzzava dei suoi fumi drogati o di profumo, ma finalmente Serilla trovò un paio di larghi pantaloni bianchi, e poi una camicia di seta rossa. I pantaloni erano troppo grandi per lei. Li strinse alla vita con una sciarpa di fine tessuto nero. Un panciotto ricamato le coprì più decorosamente i seni. Prese una delle spazzole del Satrapo, la ripulì dei suoi capelli e cominciò a rimettersi in ordine i riccioli sporchi. Si passò con violenza la spazzola attraverso i capelli castani come per cancellare il tocco dell'uomo di Chalced. Cosgo la guardava con ottusa costernazione. «Ti avevo mandata a chiamare» disse debolmente. «Quando Kekki si è ammalata. A quel punto non c'era più nessuno a prendersi cura di me. Ci stavamo divertendo tutti così tanto, prima che arrivasse la malattia. Tutti si sono ammalati così in fretta. Messer Durden morì subito dopo la nostra partita a carte, una sera. Poi gli altri cominciarono ad ammalarsi.» Abbassò la voce. «Sospetto il veleno. Nessuno dell'equipaggio si è ammalato. Solo quelli fedeli a me. E il capitano non sembra curarsene. Hanno mandato i servitori a occuparsi di me, ma molti sono ammalati e gli altri sono troppo stupidi. Ho provato tutte le mie medicine, ma nulla mi aiuta. Per favore, Serilla. Non lasciarmi morire. Non voglio essere buttato fuori bordo come messer Durden.» Serilla si intrecciò i capelli dietro la nuca. Si studiò nello specchio, girando la testa da un lato all'altro. Aveva la pelle giallastra. Su un lato del viso le contusioni stavano svanendo. C'era sangue coagulato in una narice. Raccolse dal pavimento una delle camicie del Satrapo e ci si pulì il naso. Poi incontrò lo sguardo della sua immagine nello specchio. Non si riconobbe. Era come se un animale spaventato e furioso fosse appostato dietro ai suoi occhi. Era diventata pericolosa, pensò. Ecco la differenza. Gli gettò uno sguardo. «Perché dovrebbe importarmi? Mi hai data a lui, come un osso gettato a un cane. Ora ti aspetti che mi preoccupi di te?» Si girò ad
affrontarlo e lo fissò negli occhi. «Spero che tu muoia.» Pronunciò con lentezza le parole, una per una, perché il Satrapo capisse completamente cosa intendeva dire. «Non puoi sperarlo!» gemette Cosgo. «Io sono il Satrapo. Se muoio senza eredi, tutta Jamaillia piomberà nel caos. Per diciassette generazioni il Trono di Perle non è mai stato vuoto.» «Ora lo è» fece notare dolcemente Serilla. «E i nobili si arrangiano, come si arrangeranno quando sarai morto. Forse non se ne accorgeranno neanche.» Attraversò la stanza fino ai portagioielli del Satrapo. I pezzi migliori dovevano essere negli scrigni più inespugnabili. Con indifferenza alzò sopra la testa un cofanetto finemente intagliato e lo scagliò sul pavimento. Lo spesso tappeto impedì che andasse in mille pezzi. Non si sarebbe umiliata tentando di nuovo. Si sarebbe accontentata di semplice oro e argento. Aprì a caso i compartimenti di un diverso cofanetto, scelse orecchini e un girogola. Lui l'aveva mandata via come una prostituta di sua proprietà. Poteva pagare bene per quello che le aveva fatto, in molti modi. Ciò che Serilla prendeva poteva essere la sua unica fonte di ricchezza quando lo avrebbe lasciato a Borgomago. Si adornò le dita di anelli e si allacciò una pesante catena d'oro alla caviglia. Non aveva mai indossato simili gioielli. Erano quasi come un'armatura, pensò. Ora portava la sua ricchezza all'esterno, invece che dentro di sé. Il pensiero alimentò la rabbia. «Cosa vuoi da me?» chiese imperiosamente il Satrapo. Tentò di sedersi, poi sprofondò di nuovo con un lamento. Piagnucolò senza più alcun tono di comando: «Perché mi tratti così male?» Sembrava talmente incredulo che Serilla fu spinta a rispondere. «Mi hai data a un uomo che mi ha stuprata di continuo. Mi ha picchiata. Lo hai fatto di proposito. Sapevi cosa stavo passando. Non sei intervenuto. Finché non hai avuto bisogno di me, non ti sei curato di quello che mi succedeva. Ti ha divertito!» «Non mi sembra che ti abbia fatto tanto male» dichiarò il Satrapo in tono difensivo. «Cammini e parli e sei crudele con me come sempre. Voi donne ne fate un affare di stato! Dopo tutto è ciò che gli uomini fanno alle donne per natura. È ciò per cui sei stata fatta, ma hai rifiutato di accordarmi!» Strappò con petulanza i pelucchi delle coperte e borbottò: «Lo stupro è solo un'idea creata dalle donne, per fingere che un uomo possa rubare ciò di cui avete una scorta infinita. Non ne hai ricavato un danno permanente. È stata una burla villana, lo ammetto, e mal considerata... ma non merito di
morire per questo.» Girò la testa verso la paratia. «Senza dubbio quando sarò morto ti capiterà di nuovo» commentò con soddisfazione infantile. Solo la verità dell'ultima asserzione impedì a Serilla di ucciderlo in quel momento. La profondità del suo disprezzo per lui era all'improvviso illimitata. Il Satrapo non aveva alcun concetto di ciò che le aveva fatto; peggio, sembrava incapace di comprenderlo. Inconcepibile che fosse il figlio del Satrapo saggio e gentile che aveva fatto di lei una Compagna. Serilla ponderò quello che doveva fare per assicurare la propria sopravvivenza. Il Satrapo le diede involontariamente la risposta. «Suppongo che dovrò farti regali e onorarti e pagarti prima che ti prenda cura di me.» Tirò su con il naso. «Esatto.» La voce di Serilla era fredda. Sarebbe stata la prostituta più costosa che il Satrapo avesse mai avuto. Andò a una scrivania assicurata alla paratia. Tolse i vestiti usati e un piatto dimenticato di squisitezze ammuffite. Trovò una pergamena, una penna e una boccetta di inchiostro. Le dispose sul tavolo, poi avvicinò una sedia. Il cambiamento nella sua postura le ricordò che le doleva tutto. Fece una pausa, aggrottando la fronte. Andò alla porta e l'apri di scatto. Il marinaio di turno la guardò interrogativo. Serilla parlò in tono imperioso. «Il Satrapo richiede un bagno. Fai portare la vasca, con asciugamani puliti e secchi di acqua calda. Molto in fretta.» Chiuse la porta prima che il marinaio potesse reagire. Tornò alla scrivania e prese la penna. «Oh, non voglio un bagno caldo. Sono già troppo stanco. Non puoi lavarmi dove mi trovo?» Forse gli avrebbe permesso di usare l'acqua dopo di lei. «Zitto. Sto tentando di ragionare.» Prese la penna e chiuse gli occhi per un momento, riordinando i pensieri. «Cosa fai?» chiese il Satrapo Cosgo. «Stendo un documento da farti firmare. Stai zitto!» Considerò le condizioni. Stava inventandosi una posizione come inviata permanente del Satrapo a Borgomago. Avrebbe avuto bisogno di un appannaggio adeguato per permettersi alloggi e servitori confacenti. Scrisse una cifra generosa ma non oltraggiosa. Mentre la penna tracciava i caratteri fluenti sulla pergamena si chiese quanto potere doveva assegnarsi. «Ho sete» bisbigliò rauco il Satrapo. «Quando avrò finito, e tu avrai firmato, ti troverò dell'acqua» gli disse con calma. In realtà non le sembrava molto malato. Sospettava che fosse
una combinazione di vera malattia, mal di mare, vino ed erbe di piacere. Aggiungiamo la mancanza di servitori e Compagne adoranti, e credeva di morire. Bene. Faceva al caso suo. La penna interruppe per un istante il suo volo e Serilla inclinò la testa, considerando. C'erano emetici e purghe fra le scorte mediche del Satrapo. Forse, mentre lo 'curava', poteva fare in modo che non si riprendesse troppo in fretta. Le serviva vivo, ma solo fino a Borgomago. Mise da parte la penna. «Forse dovrei pensare a prepararti un medicamento» concesse graziosamente. Piena estate 24 L'Anello d'Oro Il groviglio era cresciuto. Maulkin sembrava trarne orgoglio e piacere. I sentimenti di Shreever erano più contrastanti. Il numero superiore di serpenti che ora viaggiavano con loro assicurava maggior protezione contro i predatori, ma significava anche che bisognava dividere le scorte di cibo. Si sarebbe sentita meglio se avessero avuto più serpenti senzienti, ma molti di quelli che seguivano il groviglio erano creature ferine che si erano unite a loro solo per istinto. Mentre viaggiavano e cacciavano insieme, Maulkin osservava da vicino i serpenti selvatici. Chiunque mostrasse segnali promettenti veniva afferrato quando il groviglio si fermava a riposare. Di solito Kelaro e Sessurea sopraffacevano l'obiettivo prescelto, trascinandolo sul fondo e lasciandolo combattere contro il loro peso e la loro forza combinata finché non era senza fiato. Poi Maulkin li raggiungeva per scuotere le sue tossine e intrecciare il corpo nelle spire serpeggianti della danza del ricordo, mentre chiedevano che il nuovo venuto ricordasse il proprio nome. A volte funzionava, a volte no. Non tutti coloro che riuscivano a ricordare erano capaci di mantenere a lungo la loro identità. Alcuni rimanevano privi di senno, o ricadevano nei comportamenti animaleschi alla successiva marea. Ma alcuni si riprendevano e conservavano il raziocinio. C'erano perfino quelli che seguivano supinamente il groviglio per qualche giorno, e poi all'improvviso ricordavano nomi e maniere civilizzate. Il nucleo centrale contava ventitré serpenti, e almeno il doppio li seguivano come ombre. Era un groviglio consistente. Anche il dispensatore più generoso non poteva man-
tenerli rutti ben nutriti. In ogni periodo di riposo ponderavano il futuro. Le risposte di Maulkin li soddisfacevano di rado. Lui parlava il più chiaro possibile, eppure le sue parole li confondevano. Shreever percepiva la confusione di Maulkin stesso dietro alle sue profezie; i suoi cuori soffrivano per lui. A volte temeva che gli altri lo aggredissero per la frustrazione. Quasi rimpiangeva i giorni in cui erano stati solo lei e Sessurea e Maulkin, in cerca di risposte. Una sera lo disse sottovoce a Maulkin, e lui la rimproverò. «Il nostro popolo è diminuito. La confusione ci assale da ogni parte. Dobbiamo radunare tutti quelli che possiamo, se vogliamo che qualcuno di noi sopravviva. È la più semplice legge dell'Abbondanza. Deve nascere una moltitudine perché pochi perdurino.» «Nascere» ripeté Shreever, una domanda non detta. «Ricombinare vecchie vite in vite nuove. È la chiamata che tutti udiamo. Il nostro tempo di serpenti è finito. Dobbiamo trovare Colei Che Ricorda. Lei ci guiderà dove potremo cercare la rinascita come creature nuove.» Le sue parole la fecero rabbrividire tutta, ma non sapeva se era paura o anticipazione. Altri si erano avvicinati ad ascoltare le parole di Maulkin. Le domande sciamavano fitte come pesciolini in una corrente al chiaro di luna. «Che genere di creature nuove?» «Come possiamo rinascere?» «Perché il nostro tempo è finito?» «Chi ricorderà per noi?» I grandi occhi color rame di Maulkin roteavano con lentezza. Il colore fremeva lungo il suo corpo. Shreever capì che lottava con sé stesso, e si chiese se anche gli altri lo vedevano. Maulkin si sforzava di espandersi al di là di sé stesso, afferrando la conoscenza e portando indietro solo frammenti sconnessi. Lo sforzo lo sfiniva più di un giorno intero di viaggio. Shreever sentiva che era insoddisfatto quanto gli altri delle sue risposte frammentarie. «Saremo come una volta. I ricordi che non capite, i sogni che vi spaventano, vengono da allora. Quando vengono, non allontanateli. Ponderateli. Portateli alla luce e condivideteli.» Fece una pausa, poi riprese più lentamente, meno convinto. «Avremmo dovuto cambiare tempo fa, così tanto tempo fa che temo che qualcosa sia andato storto. Qualcuno ricorderà per noi. Altri verranno a proteggerci e a guidarci. Li riconosceremo. Loro riconosceranno noi.»
«La dispensatrice argentea» chiese quietamente Sessurea. «L'abbiamo seguita, ma lei non ci ha riconosciuti.» Sylic si intrecciò a disagio attraverso il cuore del groviglio a riposo. «Argento. Grigio argento» sibilò. «Ricordi, Kelaro? Xecres trovò un grande essere color grigio argento e ci chiamò per seguirlo.» «Non ricordo» rispose Kelaro in uno squillo sommesso. Aprì e chiuse gli enormi occhi argentei, turbinanti di colori mutevoli. «Tranne, forse, come un sogno. Un brutto sogno.» «Ci attaccò quando ci radunammo attorno a lui. Ci scagliò lunghi denti.» Sylic descrisse un nodo lento attraverso tutta la sua lunghezza, facendo una pausa quando giunse al solco profondo di una cicatrice. Le scaglie che l'avevano ricoperta erano spesse e disuguali. «Mi ha morso qui» bisbigliò rauco il serpente scarlatto. «Mi ha morso, ma non mi ha divorato.» Si girò per guardare nel fondo degli occhi di Kelaro, cercando conferma. «Tu hai strappato il suo dente dalla mia carne. Mi aveva trafitto e rimase in me, suppurando.» Kelaro velò il suo sguardo. «Non ricordo» rispose con rimpianto. Un'increspatura percorse tutto il corpo di Maulkin. I falsi occhi splendevano più brillanti che mai. «L'essere d'argento ti ha attaccato?» chiese incredulo. «Ti ha attaccato!» La rabbia era una corrente poderosa nella sua voce. «Come può uno che emana l'odore dei ricordi aggredire chi cerca il suo aiuto?» La grande testa scattò avanti e indietro, e la criniera si gonfiò di tossine. «Non capisco!» tuonò all'improvviso. «Non ho ricordi di questo, neanche il sapore di una memoria! Come possono accadere queste cose? Dov'è Colei Che Ricorda?» «Forse hanno dimenticato anche loro» disse Tellur con tetro umorismo. Il verde menestrello sottile non aveva guadagnato molta forza da quando aveva ricordato il proprio nome. Lo sforzo di mantenere la sua identità sembrava consumare tutta la sua energia. Nessuno poteva dire come fosse stato prima di dimenticare. Ora era una severa frusta dalla lingua tagliente. Anche se ricordava chi era stato, di rado si spingeva a cantare. Maulkin si girò di scatto per fronteggiarlo, criniera pienamente sollevata, colori in risalto. «Hanno dimenticato?» ruggì con sbalordita indignazione. «Lo hai visto in un ricordo o in sogno? Rammenti una canzone che parla di un tempo in cui tutti dimenticano?» Tellur si schiacciò la criniera sulla gola, facendosi più piccolo e insignificante. «Era una battuta, o grande. Una battuta cattiva da ' parte di un menestrello amareggiato. Chiedo perdono.»
«Una battuta che forse contiene un granello di verità. Molti di noi hanno dimenticato. Forse che quelli che ricordano, i custodi della memoria di noi tutti, hanno mancato nello stesso modo ai loro doveri?» Un silenzio abbattuto accolse la domanda. In tal caso erano abbandonati a loro stessi. Non avevano altro futuro se non vagare, e una alla volta le loro menti avrebbero ceduto e si sarebbero spente. I serpenti si strinsero fra loro, aggrappandosi al poco futuro che rimaneva. D'un tratto Maulkin si liberò dal groviglio. Percorse un cerchio immenso e poi cominciò una serie di lente curve a cappio. «Pensate con me!» li invitò. «Consideriamo se può essere vero. Spiegherebbe molto. Sessurea, Shreever e io vedemmo una creatura d'argento, con l'odore di Colei Che Ricorda. Lei ci ignorò. Kelaro e Sylic videro un essere grigio argento. Quando Xecres, il capo del groviglio, gli chiese i ricordi, l'essere li attaccò.» Si girò di scatto per fronteggiare gli altri. «È così diverso da come vi comportaste voi tutti, quando perdeste i vostri ricordi? Non vi ignoravate, senza rispondere alle mie domande? Non attaccavate addirittura i vostri compagni, disputandovi il cibo?» Si inarcò all'indietro, rivelando il ventre bianco mentre li superava in un lampo. «È così chiaro!» squillò. «Il menestrello ha visto giusto. Hanno dimenticato! Dobbiamo costringerli a ricordarci!» Il groviglio era silenzioso, sgomento. Anche i serpenti dissennati che si raggruppavano in grovigli casuali durante il riposo si erano sciolti per osservare la danza giubilante di Maulkin. La meraviglia splendente in tanti occhi fece vergognare Shreever, ma il dubbio era troppo forte. «Come? Come possiamo spingerli a ricordarci?» Maulkin si scagliò all'improvviso verso di lei. L'allacciò, l'avvolse e la trasse fuori dal groviglio per unirsi alla sua danza sensuale. Shreever assaggiò le sue tossine mentre si muoveva con lui. Erano inebriati di gioia, vertiginosamente liberi. «Proprio come abbiamo risvegliato gli altri. Ne cercheremo uno, lo affronteremo ed esigeremo che pronunci il suo nome.» Mentre Shreever danzava con lui, intrecciata e rapita, era stato così facile crederlo. Avrebbero cercato una delle creature d'argento che avevano l'odore dei ricordi, l'avrebbero costretta a rammentare il suo compito e a dividere i suoi ricordi con loro. E poi... poi sarebbero stati salvati. In qualche modo. Ora, mentre guardava su verso la forma che passava tra loro e la luce, dubitava. Per giorni avevano cercato un essere argenteo. Quando ne coglievano il profumo, Maulkin concedeva loro solo brevi pause per riposare. L'ostinata ricerca aveva quasi esaurito alcuni di loro. Lo snello Tellur
aveva perso colore e massa. Molti dei serpenti selvatici erano rimasti indietro mentre Maulkin continuava veloce. Forse li avrebbero raggiunti più tardi; forse non li avrebbero visti mai più. Per ora, Shreever pensava solo alla grande creatura che seguiva la sua rotta sopra di loro. Il groviglio procedeva in silenzio nella sua ombra. Ora che davvero lo avevano raggiunto, perfino Maulkin sembrava atterrito dal compito. La creatura d'argento era molto più massiccia di qualsiasi serpente. In lunghezza era pari perfino a Kelaro. «Ora cosa facciamo?» chiese bruscamente Tellur. «Non possiamo avvolgere una simile creatura e trascinarla a fondo. Sarebbe come lottare con una balena!» «Non è impossibile» osservò Kelaro con la fiducia della sua taglia. Levò aggressivamente la criniera. «Sarebbe una battaglia, ma siamo in molti. Vinceremmo.» «Non cominceremo con la forza» lo informò Maulkin. Shreever lo guardò radunare le energie. A volte le sembrava che la scintilla della sua vitalità bruciasse brillante come non mai, ma che la sua consistenza fisica ne fosse diminuita. Avrebbe voluto convincerlo a risparmiarsi, ma era meglio non cominciare quella discussione senza fine. Il profeta-veggente si estese in tutta la sua lunghezza. Un'increspatura rapida gli percorse tutto il corpo, risvegliando l'oro brillante dei falsi occhi. Con lentezza la criniera si aprì sulla gola, finché ogni spina fu rigida e stillante veleno. I grandi occhi di rame rotearono decisi. «Aspettate la mia chiamata» ordinò. Gli obbedirono mentre li lasciava e nuotava verso la grande forma d'argento. Non era un dispensatore. Non c'era sentore di vecchio sangue e sporcizia, il marchio dei giganti che donavano carne ai serpenti. La creatura si muoveva più in fretta, sebbene non avesse pinne visibili. Aveva una sola appendice simile a una pinna in fondo alla pancia rotonda, ma non sembrava usarla per muoversi. Scivolava senza sforzo attraverso l'Abbondanza, mentre la parte superiore del corpo si crogiolava nella Mancanza. Maulkin assunse la sua velocità. L'essere non sembrava avere branchie, occhi o criniera, ma il serpente lo chiamò. «Il groviglio di Maulkin ti saluta. Abbiamo viaggiato a lungo, in cerca di Uno Che Ricorda. Sei forse tu?» L'essere non diede cenno di averlo udito. La sua velocità rimase costante. Il suo profumo non cambiò. Sembrava del tutto inconsapevole del serpente. Per qualche tempo Maulkin mantenne il suo ritmo, aspettando con pazienza. Lo chiamò di nuovo, ma non ci fu risposta. Con uno scatto,
Maulkin aumentò velocità per superare l'essere argenteo. Poi, scosse la criniera vibrante e rilasciò una nube stordente di veleno. L'essere la attraversò senza neanche rallentare. Sembrava indifferente alle tossine. Solo dopo il suo passaggio Shreever avvertì qualcosa in lui; un vago tremito del corpo argenteo, un debole profumo di disagio. Una reazione così lieve che non si poteva dire una risposta, ma lei ne trasse coraggio. L'essere fingeva di ignorarli, ma era consapevole di loro. Maulkin aveva provato la stessa sensazione, perché scattò all'improvviso per portarsi davanti alla creatura, costringendola a fermarsi o colpirlo. «Sono Maulkin del groviglio di Maulkin! Esigo il tuo nome!» La creatura colpì Maulkin. Lo investì come un'alga. Ma Maulkin non era un'alga da spingere via. «Esigo il tuo nome!» tuonò. Si scagliò con tutta la sua lunghezza contro la creatura d'argento. Il groviglio lo seguì. Non potevano avvolgere l'essere d'argento, ma ci provarono. Potevano spingerlo e urtarlo. L'azzurro Kelaro addirittura lo speronò, un colpo che quasi stordì il serpente, mentre Sessurea picchiava sull'unica pinna della creatura. Ogni membro del groviglio rilasciò le sue tossine più potenti, così che passarono attraverso le nubi dei propri veleni. L'attacco rallentò e confuse la grande creatura, che esitò nel suo corso. Shreever sentì strida acute. Cantava nella Mancanza, addirittura alla luce del sole? Disorientata e senza fiato fra le selvagge scariche di tossine, salì ad alzare la testa fuori nella Mancanza. Là trovò il viso e le pinne dell'essere, diverse da qualsiasi cosa avesse mai visto. Non aveva criniera, ma apriva grandi ali bianche sopra di sé, come un gabbiano che scende a posarsi sulla superficie dell'Abbondanza. Era infestato di parassiti che saltavano e si aggrappavano alla parte superiore del suo corpo e alle ali, emettendo grida acute. Alla vista di Shreever la loro agitazione aumentò. Imbaldanzita, lei si sollevò dall'acqua per quanto poteva. Si gettò verso la faccia grigia. «Chi sei?» squillò. Scosse la piccola criniera, frustandolo con le sue cellule urticanti, schizzandolo con le sue tossine. «Di' il tuo nome! Shreever del groviglio di Maulkin chiede che tu lo ricordi per lei!» L'essere gridò quando le tossine lo colpirono. Alzò le pinne a toccarsi il viso. I parassiti corsero pazzamente sulla sua schiena, strepitando nelle loro minuscole voci. L'essere argenteo si inclinò all'improvviso. Shreever pensò che si sarebbe tuffato per sfuggirle; poi vide che non era per la sua volontà. Maulkin aveva unito gli sforzi del groviglio. Le loro forze combinate lo spingevano, facendolo inclinare fortemente da un lato. L'ala bianca sfiorò l'acqua. Uno dei parassiti cadde con un ronzio acuto nell'Abbondan-
za. Uno dei serpenti selvatici scattò in avanti per afferrarlo. Era bastato vederlo una volta. L'intero branco si precipitò sull'essere argenteo. Lo colpirono e lo scossero con una violenza che di certo Maulkin non intendeva. L'essere gridò selvaggiamente e agitò le pinne nello sforzo frenetico di colpire i suoi assalitori. Questo infiammò ulteriormente i serpenti selvatici. Aggiunsero le loro tossine indisciplinate a quelle che già intorbidavano l'Abbondanza. I sensi di Shreever erano colpiti da veleno per pesci e repellente per squali. Ora i serpenti selvatici facevano il grosso del lavoro, mentre Maulkin e il groviglio circondavano la creatura assediata, ripetendo la richiesta di conoscere il suo nome. Sempre più parassiti cadevano in acqua. Le grandi ali bianche della creatura si agitavano selvaggiamente immergendosi nell'Abbondanza, prima su un lato e poi sull'altro. Finalmente, quando la creatura fu inclinata quasi del tutto su un fianco, Kelaro si scagliò in tutta la sua lunghezza fuori dall'Abbondanza. Crollò sul fianco indifeso della creatura. In fretta lo raggiunsero altri serpenti, senzienti e selvatici. Alcuni balzarono per afferrare le membra rigide e le ali che si dibattevano. L'essere d'argento tentò di raddrizzarsi, ma erano troppi. Non poteva sconfiggerli. Il loro peso lo sommerse e lo trasse sott'acqua, distogliendolo dalla Mancanza e sprofondandolo nell'Abbondanza. I parassiti tentarono di saltare via, ma lo scatto delle mascelle li attendeva, uno per uno. «Il tuo nome!» insisté Maulkin mentre lo trascinavano sotto. «Dicci il tuo nome!» L'essere barrì e gesticolò selvaggiamente, ma non pronunciò parole. Maulkin lo aggredì, avvolgendo tutto il corpo attorno alla parte anteriore. Gli scrollò la criniera proprio in faccia, scaricando tossine in una fitta nube. «Parla!» ordinò. «Ricorda per noi. Dicci il tuo nome! Qual era il tuo nome?» L'essere lottava: la piccola testa e gli arti anteriori si agitavano nella presa di Maulkin mentre la massa sproporzionata del suo corpo rimaneva tesa e rigida. Alcune delle membra più piccole e fragili si spezzarono mentre le ali si appesantivano d'acqua. Eppure lottava ancora per risalire alla sommità dell'Abbondanza. Non potevano trascinarlo del tutto a fondo, sebbene il groviglio riuscisse a tenerlo sotto la Mancanza. «Parlaci!» ordinò Maulkin. «Solo una parola. Solo il tuo nome, e ti lasceremo andare. Cercalo, cerca nel passato. Lo conosci. Sappiamo che lo conosci. Sentiamo l'odore dei tuoi densi ricordi.» L'essere colpì selvaggiamente il profeta. La bocca si aprì e si tese emet-
tendo suoni, ma non ne usciva nulla di sensato. All'improvviso rimase immobile. Gli occhi piccoli e bruni si spalancarono. La bocca si aprì una, due volte. Poi l'essere si rilassò all'improvviso nella presa di Maulkin. Shreever velò gli occhi. La creatura grigio-argento era morta. L'avevano uccisa, senza ottenere niente. L'essere parlò all'improvviso. L'attenzione di Shreever si appuntò nuovamente su di lui. La voce era sottile, quasi senza corpo. I piccoli arti anteriori tentavano di circondare il corpo spesso di Maulkin in un abbraccio. «Ero Draquius. Non sono più. Sono una cosa morta, parlo con la bocca dei ricordi.» Il suo squillo era debole e stridulo, appena udibile. Il groviglio rimase in silenzio, assembrandosi più vicino in timore riverenziale. Draquius proseguì. «Era il tempo del cambiamento. Avevamo nuotato a lungo risalendo il fiume, dove il limo della memoria era fine e denso. Avevamo fabbricato i nostri bozzoli, racchiudendoci in filo tessuto di ricordi. I nostri genitori ci ricoprirono del limo dei ricordi, ci diedero i nostri nomi e i loro ricordi da dividere. Ci guardarono, i nostri vecchi amici. Celebrarono il nostro tempo del cambiamento sotto i cieli azzurri. Esultarono mentre galleggiavamo dal fiume alle rive assolate, perché la luce e il calore asciugassero i nostri involucri mentre ci trasformavamo. Strato su strato di ricordi e sabbia ci avvolsero. Era una stagione di gioia. I nostri genitori riempirono i cieli con i loro colori e le loro canzoni. Avremmo riposato attraverso il tempo del freddo, per svegliarci ed emergere quando i giorni diventavano caldi e lunghi.» Chiuse gli occhietti, come addolorato. Si aggrappò a Maulkin come se fosse stato parte del suo groviglio. «Poi il mondo intero andò in rovina. La terra tremò e si spaccò. Le montagne stesse si frantumarono e stillarono sangue rosso e bollente. Il sole si oscurò; perfino all'interno dei nostri involucri lo sentimmo affievolirsi. Venti caldi soffiarono su di noi, e sentimmo le grida dei nostri amici mentre il loro respiro veniva strappato dai polmoni. Eppure, perfino mentre cadevano, ansimanti, non ci abbandonarono. Ci trascinarono al riparo, molte vite fa. Non potevano salvare molti di noi, ma tentarono. Lo ammetto, tentarono. Solo per qualche tempo, promisero. Solo finché la polvere non smetteva di cadere, solo finché i cieli non splendevano di nuovo azzurri. Solo finché la terra non cessava di tremare. Ma non fu così. La terra tremava ogni giorno e le montagne prendevano fuoco. La foresta bruciò e la cenere cadde ovunque, soffocando tutto. Il fiume fluì più denso del sangue. La cenere intorbidava l'aria, e dovunque cadesse copriva ogni vita. Li chiamammo dai nostri bozzoli, ma dopo qualche tempo non risposero più.
Senza il sole non potevamo uscire dall'involucro. Giacemmo nell'oscurità profonda, avvolti nei nostri ricordi, e aspettammo.» Il groviglio e i suoi seguaci erano silenziosi. Rimasero drappeggiati sulle sue membra rigide e sulle ali, avvolti attorno al corpo massiccio. Maulkin gli soffiò una lieve nube di tossine sul viso. «Continua» gli ordinò con dolcezza. «Non capiamo, ma ascoltiamo.» «Non capite?» Una risata sottile. «Nemmeno io. Dopo molto tempo ne vennero altri. Erano simili e diversi da quelli che avevano cercato di salvarci. Li chiamammo con gioia, sicuri che finalmente fossero venuti a liberarci dall'oscurità. Ma non ci sentirono. Ignorarono le nostre voci sottili, liquidandoci come meno che sogni. Poi ci uccisero.» Shreever sentì la speranza farsi piccola dentro di lei. «Sentii le grida di Tereea. Non potevo capire quello che stava accadendo. Era con noi; poi non c'era più. Passò qualche tempo. Poi attaccarono me. Gli attrezzi morsero il mio bozzolo, spaccandolo mentre era ancora spesso e pesante, forte dei miei ricordi. Poi...» Ora era perplesso. «Gettarono la mia anima sulla pietra fredda, dove morì. Ma i ricordi rimasero intrappolati negli strati del bozzolo. Mi segarono in assi e crearono un nuovo corpo. Mi rimodellarono a loro immagine, raschiando fino a plasmare un viso e una testa e un corpo come i loro. E mi immersero nei loro ricordi, finché un giorno mi svegliai con un'altra identità. Anello d'Oro, mi chiamarono, e così divenni. Un veliero vivente. Uno schiavo.» Quando tacque, il silenzio li attanagliava. Aveva usato parole che Shreever non conosceva, aveva parlato di cose che non sapeva afferrare. Una terribile paura gelida la percorse. Sapeva che la storia di Draquius era monumentale, la storia della fine di tutta la sua specie, ma non sapeva perché. Era quasi contenta di non poter comprendere la tragedia. Maulkin, ancora avvolto attorno a Draquius, aveva gli occhi velati. I suoi colori si erano fatti pallidi e incerti. «Ti piangerò, Draquius. Il tuo nome evoca echi di ricordi nella mia anima. Un tempo, penso, ci conoscevamo. Ma ora dobbiamo separarci come estranei destinati a essere dimenticati. Ti lasceremo andare.» «No! Per favore!» Con occhi spalancati, Draquius cercò di aggrapparsi a Maulkin. «Non lasciarmi. Tu pronunci il mio nome, che risuona nel mio cuore come la voce squillante del Drago dell'Alba. Per tanto tempo ho dimenticato me stesso. Mi tenevano sempre con loro, senza mai permettermi di restare in solitudine, senza mai permettere ai miei vecchi ricordi di affiorare. Sparsero strato su strato delle loro piccole vite sulla mia, fino a
farmi credere che ero uno di loro. Se mi lasci andare, mi riprenderanno. Tutto ricomincerà, e forse non finirà mai.» «Non possiamo far niente per te» si scusò Maulkin addolorato. «Non possiamo far niente. Temo che tu ci abbia narrato la fine della nostra storia.» «Distruggetemi» implorò di Draquius con la sua vocina sottile. «Non sono altro che il ricordo di Draquius. Se fosse sopravvissuto, sarebbe stato una delle tue guide, per riportarti a casa. Ma non è stato così. Sono tutto ciò che rimane, questo povero guscio di vita. Sono solo ricordi. Nient'altro, Maulkin del groviglio di Maulkin. Sono una storia senza un narratore. Quindi prendete i miei ricordi. Se Draquius fosse sopravvissuto alla trasformazione, avrebbe divorato il suo guscio e avrebbe riassorbito tutti i suoi ricordi. Non è stato così. Prendeteli per voi. Preservate i ricordi di uno che morì prima di gridare il proprio nome attraverso il cielo. Ricordate Draquius.» Maulkin velò i grandi occhi color rame. «Sarà un misero tributo, Draquius. Non sappiamo quanto a lungo possiamo sostenere le nostre vite.» «Allora prendete la mia, e traetene forza e scopo.» Allentò la presa su Maulkin e piegò le zampe anteriori simili a stecchi sul torace magro. «Liberatemi.» Alla fine gli obbedirono. Lo schiacciarono e lo lacerarono, facendolo a pezzi. Scoprirono sconvolti che parte del suo corpo era solo strisce di piante morte. Ma tutto quello che era argento e odorava di ricordi, lo presero e lo divorarono. Maulkin mangiò la parte plasmata come una testa e un tronco. Shreever non pensò che soffrisse, perché non gridò. Maulkin insisté che tutti condividessero i ricordi di Draquius. Anche i serpenti selvatici furono discretamente esortati a partecipare. Il filo argenteo dei suoi ricordi si era asciugato, lungo e diritto e duro. Quando Shreever prese la sua parte fra le fauci fu sorpresa sentendo che si ammorbidiva e si scioglieva. Mentre lo assorbiva i ricordi albeggiarono brillanti nella sua mente. Era come nuotare dall'acqua torbida all'acqua limpida. Le vennero alla mente fievoli immagini di un altro tempo, brillanti di colori e dettagli. Shreever velò gli occhi nell'estasi e sognò il vento sotto le ali. 25 Il varo del Paragon
L'alta marea sarebbe arrivata solo dopo l'alba, così il lavoro finale fu completato freneticamente alla luce delle lanterne. Brashen trascorse la notte camminando e imprecando per il cantiere. Inclinato su un fianco, Paragon era stato spinto a poco a poco verso l'acqua, fin dove era possibile senza sottoporre il legno a uno sforzo eccessivo. Con martinetti e puntelli nello scafo la nave era stata quasi distesa su un fianco, fra molti scricchiolii. Era stato eseguito un calafataggio preliminare, ma senza eccedere. Brashen voleva che il fasciame fosse libero di assestarsi mentre l'acqua sollevava lo scafo. Una nave deve essere flessibile per resistere ai colpi delle onde e alla pressione dell'acqua. Lo scafo del Paragon doveva riabituarsi all'acqua. Ora l'intera lunghezza della chiglia era esposta. Brashen l'aveva battuta con un mazzuolo; sembrava solida. Doveva esserlo, era legno magico, grigio-argento, duro come pietra. Eppure Brashen non si fidava che tutto andasse come doveva. La sua esperienza con le navi gli diceva che proprio allora capitavano gli imprevisti. Aveva mille preoccupazioni sul varo della nave. Dava per scontato che Paragon avrebbe imbarcato acqua come un setaccio finché il fasciame non si sarebbe gonfiato di nuovo. Le vecchie assi e costole, rimaste nella stessa posizione per tanti anni, potevano saltare o spezzarsi al momento di sopportare di nuovo le tensioni di un vascello galleggiante. Poteva succedere di tutto. Brashen avrebbe tanto voluto disporre di più fondi e ingaggiare mastri carpentieri e operai per supervisionare quella fase del recupero. Invece stava usando l'esperienza guadagnata di persona negli anni, molta saggezza popolare e il lavoro di uomini che di solito a quell'ora smaltivano la sbronza dormendo. Non era rassicurante. Soprattutto, la sua ansia continuava a debordare per l'atteggiamento di Paragon. La nave aveva mostrato scarso miglioramento nel corso del lavoro. Adesso parlava con loro, ma subiva violenti sbalzi d'umore. Purtroppo lo spettro delle sue emozioni sembrava includere solo le più cupe. Era arrabbiato o lugubre, si lagnava miseramente o strepitava come un pazzo. Fra i due estremi affondava in un'autocommiserazione malinconica, e Brashen avrebbe desiderato che fosse davvero un ragazzo, solo per potergli dare una buona scrollata. Brashen sospettava che la nave non avesse mai imparato davvero disciplina e autocontrollo. Quella, spiegò ad Althea e Ambra, era la radice di tutti i problemi di Paragon. La mancanza di disciplina. Avrebbero dovuto applicarla loro finché Paragon non imparava a comportarsi bene. Ma come si faceva a disciplinare un vascello? I tre si erano posti quella domanda
davanti a un boccale di birra diverse notti prima dell'alta marea, seduti sui tronchi abbandonati sulla spiaggia. Era stata una sera afosa. Clef aveva portato la birra dalla città. Era birra da poco, e anche così costava troppo per i loro fondi. Ma il giorno era stato insolitamente lungo e caldo, e Paragon particolarmente difficile. Si erano riuniti all'ombra della sua poppa. Quel giorno Paragon era regredito al suo comportamento più infantile, che includeva insulti e manate di sabbia. Inclinata sulla spiaggia, la nave aveva a portata di mano un approvvigionamento quasi illimitato di proiettili. Brashen si sentiva pungere dalla sabbia rimasta nei capelli sudati e nel colletto. Grida e imprecazioni non erano servite. Alla fine Brashen aveva piegato la schiena e aveva svolto il lavoro necessario senza rispondere alle docce di sabbia di Paragon. «Che vuoi farci?» aveva chiesto Althea, alzando una spalla. Brashen scorgeva la sabbia nera e granulosa impiastrata lungo l'attaccatura dei capelli. «È troppo grosso per sculacciarlo. Non puoi mandarlo a letto, tanto meno senza cena. Non penso ci sia un modo di disciplinarlo. Credo che dovremo ricorrere agli allettamenti.» Ambra aveva messo giù il boccale di birra. «Tu parli di punizioni. Il problema è la disciplina.» Althea era rimasta pensierosa per un momento. «Suppongo che siano due cose diverse, ma non so come fai a separarle.» «Sono pronto a tutto per convincerlo a comportarsi bene. Immaginate la difficoltà di farlo navigare così com'è? Se non lo rendiamo più trattabile, e in fretta, tutto questo lavoro sarà stato inutile.» Brashen esprimeva la sua paura più profonda. «Potrebbe rivoltarsi contro di noi. In un temporale, o uno scontro con i pirati... potrebbe ucciderci tutti.» Con voce più bassa si era costretto ad aggiungere: «Lo ha già fatto in passato. Sappiamo che ne è capace.» Era l'unico argomento che non avevano mai discusso apertamente. Strano, pensava Brashen. La pazzia di Paragon era qualcosa con cui avevano a che fare ogni giorno. Avevano parlato dei suoi molti aspetti, ma non l'avevano mai considerata brutalmente nella sua interezza. Anche in quel momento il silenzio seguì le sue parole. «Che cosa vuole?» aveva chiesto Ambra. «La disciplina deve venire dall'interno. Deve desiderare di collaborare, e quel desiderio può solo essere basato su quello che vuole. Idealmente, possiamo sperare che sia qualcosa che possiamo dargli o negargli, in base al suo comportamento.» Turbata, aveva aggiunto: «Dovrà imparare che comportarsi male porta
conseguenze.» Brashen aveva sorriso con ironia. «Sarà quasi più difficile per te che per lui. So che non sopporti di vederlo infelice. Non importa quanto è bastardo, vai sempre da lui al calar della sera, per parlargli o raccontargli storie o suonare per lui.» Colpevole, Ambra aveva abbassato gli occhi, giocherellando con i pesanti guanti da lavoro. «Percepisco il suo dolore» confessò. «Lo hanno tormentato tanto. Troppo spesso è stato lasciato senza alternative. Ed è così confuso. Teme di sperare per il meglio, perché ogni volta che ha osato sperare, ogni gioia gli è stata strappata. Quindi ha deciso di credere, in partenza, che la mano di ogni uomo è contro di lui. Colpisce prima che possano colpire lui. È un muro spesso da abbattere.» «E allora cosa possiamo fare?» Ambra aveva serrato gli occhi, come in preda al dolore. Poi li aveva riaperti. «Ciò che è più difficile, e sperare anche che sia la cosa giusta.» Allora si era alzata e aveva camminato lungo tutta la nave in secca fino alla prua. La sua voce limpida era arrivata fino a loro. «Paragon. Oggi ti sei comportato male. Per questo, stasera non verrò a raccontarti una storia. Mi dispiace. Se domani ti comporti bene, la sera ti farò compagnia.» Il silenzio di Paragon era stato brevissimo. «Non mi importa. Tanto le tue storie sono stupide e noiose. Cosa ti fa pensare che voglia sentirle? Stattene lontana per sempre. Lasciami in pace. Non mi importa. Non mi è mai importato.» «Mi dispiace molto che tu dica questo.» «Non mi importa, stupida cagna! Non mi hai sentito? Non mi importa! Vi odio tutti!» Il passo di Ambra era lento e pesante mentre tornava verso di loro. Aveva ripreso il suo posto sul tronco senza una parola. «Ecco, non è andata male» aveva osservato Althea, asciutta. «Vedo che il suo comportamento migliorerà in un baleno.» Le parole di Althea tornarono a ossessionare Brashen quella notte mentre faceva l'ennesimo giro del cantiere. Tutto era pronto e in posizione. Non si poteva fare altro finché la marea non saliva. Un massiccio contrappeso legato a quello che rimaneva dell'albero di Paragon avrebbe fatto in modo che la nave non si raddrizzasse troppo in fretta. Brashen guardò verso la chiatta ancorata al largo. Aveva messo a bordo un bravo marinaio, uno dei pochi del suo nuovo equipaggio nel quale aveva davvero fiducia.
Haff aspettava il segnale di Brashen e sovrintendeva all'equipaggio dell'argano che doveva trascinare il Paragon verso l'acqua. Dentro al Paragon ci sarebbero stati altri uomini, pronti a manovrare di continuo le pompe di sentina. Brashen temeva soprattutto per la fiancata che era stata a contatto con l'abrasione e gli insetti della spiaggia per tanti anni. Aveva fatto quello che poteva dall'interno dello scafo. Aveva una tela appesantita da lasciar cadere lungo quella fiancata non appena la nave era in acqua e si raddrizzava. Se, come si aspettava, l'acqua fosse entrata dalle fessure tra le assi, il flusso avrebbe premuto la tela contro lo scafo, e la stoffa l'avrebbe almeno rallentato. Forse avrebbe dovuto arenare di nuovo il Paragon, con quel lato verso l'alto, per grossi lavori di stuccaggio e calafataggio su quel fasciame. Sperava di no, ma era rassegnato a fare qualunque cosa per rendere la nave idonea alla navigazione. Sentì un passo leggero sulla sabbia dietro di lui. Si girò e trovò Althea che scrutava la chiatta. La ragazza annuì quando vide l'uomo di guardia a bordo. Gli batté la mano sulla spalla, e Brashen trasalì. «Non essere così preoccupato, Brash. Andrà tutto bene.» «Oppure no» borbottò acido Brashen. Il tocco e le parole rassicuranti, il diminutivo, lo spaventavano. Negli ultimi tempi gli sembrava che stessero riprendendo la tranquilla familiarità di compagni di bordo. Almeno lo guardava negli occhi quando gli parlava. Aveva reso il lavoro più facile. Come lui, probabilmente Althea capiva che quel viaggio avrebbe richiesto la loro collaborazione. Era solo questo. Brashen soffocò con decisione la breve scintilla di speranza e mantenne la conversazione concentrata sulla nave. «Dove vuoi stare?» le chiese. Avevano deciso che Ambra sarebbe rimasta vicina a Paragon e gli avrebbe spiegato quello che facevano. Era lei che riusciva a essere più paziente con la nave. «Dove mi vuoi?» chiese umilmente Althea. Brashen esitò, poi si morse la lingua. «Vorrei che rimanessi sottocoperta. Sai riconoscere un guaio prima che diventi un disastro. So che preferiresti assistere da quassù, ma di sotto vorrei qualcuno di cui mi fido. Gli uomini che ho messo alle pompe sono forti e resistenti, ma non hanno molta esperienza. O intelligenza. Ho disposto un paio di marinai con magli e stoppa. Spostali come ti sembra opportuno quando comincia a imbarcare acqua. Sembrano conoscere il loro mestiere, ma tu sorvegliali e falli lavorare. Mi piacerebbe che ti muovessi laggiù: guarda e ascolta e fammi sapere come vanno le cose.»
«Ci sarò» lo assicurò quietamente Althea. Si girò per andarsene. «Althea» Brashen si sentì dire ad alta voce. La ragazza si girò di scatto. «C'è qualcos'altro?» Brashen frugò nella mente in cerca di una frase astuta. Voleva solo chiederle se aveva cambiato idea su di lui. «Buona fortuna» sussurrò. «A tutti noi» rispose solenne Althea, e si allontanò. Un'onda si infranse sulla sabbia. La schiuma bianca lambì lo scafo. Brashen trasse un respiro profondo. Era il momento. Le prossime ore sarebbero state cruciali. «Tutti ai vostri posti!» abbaiò. Girò la testa e guardò la sommità delle rupi sopra la spiaggia. Clef annuì, all'erta. Teneva pronte due bandiere. «Dai ordine di cominciare a tendere la cima. Ma non troppo.» Fuori sulla chiatta, gli uomini al mulinello piegarono la schiena sul lavoro. Qualcuno cominciò una lenta canzone marinara. La rozza armonia delle voci profonde raggiunse Brashen sull'acqua. Malgrado tutte le sue riserve, un sorriso di sfida apparve sul suo volto. Respirò a fondo. «Torniamo in mare, Paragon. Ci siamo.» Le onde si facevano sempre più vicine. Paragon ne udiva lo sciabordio. Sentiva addirittura l'odore dell'acqua che saliva. Lo avevano spinto giù e lo avevano zavorrato e ora lo avrebbero lasciato ingoiare dalle onde. Oh, sapeva cosa dicevano, che stavano per rimetterlo in mare. Ma non ci credeva. Sapeva che era la sua punizione, alla fine. Lo avrebbero zavorrato e trascinato al largo e lo avrebbero lasciato sott'acqua per i serpenti. Dopo tutto era quello che meritava. I LaSuerte avevano atteso a lungo, ma quel giorno finalmente si sarebbero vendicati. Avrebbero mandato le sue ossa sul fondo, come lui aveva fatto con i loro parenti. «Morirai anche tu» disse con soddisfazione. Ambra era appollaiata come un gabbiano sulla murata sghemba. Gli aveva detto ripetutamente che sarebbe rimasta con lui per tutto il tempo. Che non lo avrebbe abbandonato, che tutto sarebbe andato bene. Se ne sarebbe accorta. Quando l'acqua finalmente li avrebbe sommersi trascinando sotto anche lei, avrebbe scoperto quanto si era sbagliata. «Hai detto qualcosa, Paragon?» gli chiese cortesemente Ambra. «No.» Incrociò di nuovo le braccia e le strinse forte contro il corpo. Ora sentiva l'acqua lungo tutta la lunghezza dello scafo. Le onde spingevano la sabbia sotto di lui come piccoli insetti che scavano. L'oceano infilava sotto di lui le dita avide. Ogni onda che lo sfiorava era un poco più alta. Sentì il
cavo tendersi dall'albero alla chiatta. Brashen gridò qualcosa, e la tensione si consolidò ma non aumentò. La canzone degli uomini si interruppe. Dentro di lui, Althea chiamò con voce chiara: «Fin qui tutto bene!» L'acqua strisciò sotto di lui. Paragon rabbrividì all'improvviso. Forse la prossima onda lo avrebbe sollevato. No. Venne e se ne andò e lui era ancora sulla sabbia. La prossima, allora. No. Bene, allora la prossima... Le onde andavano e venivano, una dopo l'altra. Paragon era torturato dall'attesa e dalla paura. Malgrado tutte le sue previsioni, quando sentì per la prima volta che si sollevava, lo scafo sfregare contro la sabbia mentre galleggiava per una frazione di secondo, gettò un grido di sorpresa. Sentì Ambra aggrapparsi convulsamente. «Paragon! Va tutto bene?» chiamò allarmata. All'improvviso Paragon non aveva tempo per le paure di Ambra. «Tieniti forte!» la avvertì giubilante. «Ecco che andiamo!» Ma le onde lo baciavano una dopo l'altra e Brashen non faceva niente. Paragon sentiva la sabbia spostarsi sotto di lui mentre il mare la divorava. Sentiva anche una grossa pietra rivelata dalla sabbia che si ritirava. «Brashen!» gridò seccato. «Muoviti, bello! Sono pronto! Tendi quel cavo! Di' agli uomini di darsi da fare!» Udì il suono di schizzi pesanti. Brashen corse verso di lui, attraverso onde insinuanti che ora dovevano arrivargli alle cosce. «Non ancora, Paragon. Non è ancora profondo abbastanza.» «Chiudi la bocca! Pensi che io sia così stupido da non capire quando galleggio? Sento che comincio a sollevarmi con ogni onda, e sotto di me c'è un dannato pietrone. Se non mi spostate lungo la spiaggia, presto le onde mi ci sbatteranno contro.» «Tranquillo, allora. Non agitarti, ti credo! Clef! Fai segno che devono partire. Piano e senza strappi, ora!» «Un corno! Di' loro di sbrigarsi!» Paragon annullò l'ordine di Brashen. «Mi senti, Clef?» tuonò quando nessuno rispose. Facevano bene ad ascoltarlo, pensò selvaggiamente. Era stanco di essere trattato come un bambino. Il cavo legato al troncone dell'albero si tese così bruscamente da strappargli un grugnito. «Issa!» gridò Brashen, e gli uomini buttarono tutto il loro peso sulle leve. Lo alzarono, ma non abbastanza. Ogni volta che cominciava a muoversi si appoggiava in avanti su un tronco infilato sotto lo scafo. Avrebbero
fatto meglio a tirarlo fuori. Ora agiva solo da cuneo. «ISSA!» gridò Brashen all'arrivo dell'onda successiva. All'improvviso Paragon sobbalzò in avanti, contro il tronco. «TESO QUEL CAVO!» Paragon sentì Brashen arrampicarsi a bordo. All'improvviso si muoveva, scivolava lungo la spiaggia, sempre più immerso nella marea montante. Era fredda, orribilmente gelida dopo tanti anni al sole, e Paragon rimase senza fiato. «Bravo. Così. Andrà tutto bene. Tranquillo. Ti raddrizzeranno appena l'acqua sarà abbastanza profonda. Resisti. Andrà tutto bene.» Sentì Althea chiamare da dentro: «Imbarchiamo acqua, ma penso che sia sotto controllo. Tu, vai a quella pompa! Non aspettare che si riempia, datti da fare!» Sentì il rumore sordo dei magli dentro di lui mentre comprimevano la stoppa in una linea di giunzione che si era aperta. Le grida di Althea indicavano che non lo facevano abbastanza in fretta per lei. Stava scivolando, scivolava sul fianco lungo la spiaggia, in acque sempre più profonde. Ora, con ogni onda che lo colpiva, galleggiava. La sua struttura e l'istinto lo spingevano a raddrizzarsi, ma il maledetto contrappeso sul suo albero lo tratteneva. «Tagliate il peso! Lasciatemi raddrizzare!» tuonò con rabbia. «Non ancora, amico. Non ancora. Resisti. Ho posizionato una boa, e non appena la superiamo saprò che la tua chiglia è libera. Piano ora, piano.» «Lasciatemi andare!» gridò Paragon, e questa volta non poté trattenere una nota di paura. «Fra poco. Fidati di me, amico. Solo un po' più avanti.» Nei suoi anni a riva si era quasi abituato alla cecità. Ma giacere immobile e non vedere niente era una cosa; era tutta un'altra faccenda trovarsi all'improvviso in movimento, ancora una volta fra le braccia imprevedibili del mare, e non avere idea di dove fosse o cosa avesse vicino. Un tronco poteva urtarlo, uno scoglio affiorante poteva provocare una falla, e non avrebbe avuto alcun preavviso. Perché non gli permettevano di raddrizzarsi? «Va bene, liberatelo!» gridò Brashen. La cima legata al contrappeso fu allentata. Pian piano Paragon cominciò a rimettersi dritto, e poi, all'improvviso, come un tappo di sughero, l'onda successiva lo raddrizzò del tutto. Ambra emise un grido di sorpresa, ma resistette. L'acqua fredda corse contro di lui e sotto di lui su entrambi i lati. Per la prima volta in più di trent'anni si ergeva alto e diritto. Aprì le braccia e gettò un ruggito di trion-
fo. Sentì Ambra fargli eco in una risata selvaggia proprio mentre sottocoperta Althea lanciava un grido d'allarme. «Forza con quelle pompe! Ora! Brashen, lascia andare la tela appena possibile!» Paragon sentì il tuono dei passi di corsa e le urla, ma non se ne curò. Non sarebbe affondato. Lo sentiva. Si stiracchiò le braccia, la schiena e le spalle. Mentre l'acqua lo sorreggeva, estese la sua consapevolezza in tutto il corpo. Poteva quasi sentire il modo in cui le assi e le travi dovevano essere disposte. Trasse un profondo respiro e tentò di allinearsi. Si piegò all'improvviso a dritta. Si udì un grido di sorpresa di Ambra e un ruggito adirato di Brashen. Paragon alzò le mani alle tempie e premette. La solita vecchia storia: qualcosa non andava in lui. Le sue parti non si incastravano bene. Si spostò di nuovo, ignorando i gemiti e le urla del suo legno mentre le assi sfregavano l'una contro l'altra. Con lentezza cominciò a stabilizzarsi. Era vagamente consapevole del lavoro frenetico dentro di lui. Gli uomini manovravano le pompe, tentando di tener dietro all'acqua che scrosciava nella stiva essendo saltate le linee di giunzione. Sentì la pressione improvvisa della tela contro il fasciame. Althea gridava agli uomini dentro di lui di fare in fretta, in fretta, di comprimere quella stoppa. Paragon sentiva il legno cominciare a gonfiarsi. All'improvviso urtò qualcosa, e Brashen che gridava «Gettate una cima, gettate una cima e legatela, idioti!» Brancolò verso l'ostacolo. La voce confortante di Ambra gli giunse alle orecchie. «È la chiatta, Paragon. Siamo accanto alla chiatta e ti stanno ormeggiando. Qui sarai al sicuro.» Paragon non ne era così certo. Imbarcava ancora acqua e si stava abbassando. «Quanto è profondo qui?» chiese nervosamente. La voce giubilante di Brashen risuonò come se fosse stato accanto ad Ambra. «Abbastanza per stare a galla. Non tanto da perderti se affondi. Ma non ti lasceremmo affondare. Forse dovremo arenarti di nuovo per lavorare sulla fiancata sinistra. Per ora non preoccuparti. È tutto sotto controllo.» La velocità con cui si allontanò parve smentire le sue parole. Per qualche tempo, Paragon ascoltò. Voci e passi frettolosi, piedi che correvano lungo il ponte. Sulla chiatta accanto a lui, l'equipaggio si congratulava per il lavoro e immaginava le riparazioni di cui avrebbe avuto bisogno. Comunque non erano quelle le cose che sentiva. Ascoltava piuttosto il tonfo delle onde contro lo scafo e il suono del legno che cigolava e
si stabilizzava, perfino i rumori dello scafo contro i parabordi della chiatta. Tutto era all'improvviso bizzarramente familiare eppure strano. Lì fuori gli odori sembravano più acuti, più forti le strida dei gabbiani. Saliva e scendeva con le onde. Il gentile cullare lo calmava, ma era anche la materia dei suoi incubi. «Bene» disse ad alta voce, ma con calma. «Galleggio di nuovo. Suppongo che questo faccia di me una nave e non un relitto.» «Suppongo anch'io» concordò Ambra, flemmatica. Era così immobile e silenziosa che Paragon se l'era quasi dimenticata. Diversamente da tutte le persone che avesse mai conosciuto, a volte diventava trasparente ai suoi sensi. Paragon sapeva, senza neppure sforzarsi, dov'erano Brashen e Althea. Gli bastava riflettere un momento per riuscire a localizzare qualsiasi operaio anonimo sul suo ponte o nella stiva. Ma Ambra era diversa. Sembrava, pensò Paragon, più contenuta e isolata di qualsiasi altro umano. A volte sospettava che fosse una sua scelta; che si mostrasse solo quando voleva, e solo di tanto in tanto. Un po' come me, rifletté, e poi aggrottò la fronte al pensiero. «Qualcosa non va?» chiese in fretta Ambra. «Non ancora» rispose Paragon, acido. Ambra rise piano, come se fosse stata una battuta. «E allora. Sei contento di essere di nuovo una nave?» «Contento o scontento, non fa molta differenza. Farete di me quello che vorrete, e i miei sentimenti in proposito non importeranno a nessuno.» Fece una pausa. «Lo ammetto, non vi credevo. Non pensavo che avrei galleggiato di nuovo. Non che ci tenessi particolarmente.» «Paragon, i tuoi sentimenti sono importanti. In qualche modo non credo che volessi davvero rimanere per sempre su quella spiaggia. Una volta mi dicesti, piuttosto irritato, che sei una nave, e una nave deve navigare. Sospetto che ti farà bene, anche se all'inizio non ti piacerà. Tutte le cose viventi hanno bisogno di crescere. Tu non crescevi, abbandonato là sulla spiaggia. Eri vicino a rinunciare e a ritenerti un fallimento.» La sua voce era affettuosa. All'improvviso Paragon non poteva sopportarlo. Pensavano di poterlo costringere a fare qualcosa, e poi fingere che fosse per il suo bene? Rise forte. «Al contrario. Sapevo di avere avuto successo. Li avevo uccisi tutti, tutti coloro che avevano tentato di opporsi a me. Voi siete quelli che rifiutano di considerarmi un successo. Se lo faceste, avreste il buon senso di temermi.» Un istante di silenzio inorridito seguì le sue parole. La sentì staccarsi
dalla murata e raddrizzare la schiena. «Paragon. Quando parli così, rifiuto di stare ad ascoltarti.» La sua voce non tradiva nulla di quello che pensava. «Oh. Capisco. Allora hai paura?» le chiese perfidamente. Ma Ambra si era girata e si era allontanata con risolutezza, senza una risposta. Non gli importava. Aveva ferito i suoi sentimenti. E allora? A nessuno importavano i sentimenti di Paragon. Nessuno mai gli chiedeva quello che voleva fare. «Perché fai così?» Sapeva che Clef era là. Il ragazzo aveva raggiunto la chiatta con l'equipaggio della spiaggia. Non trasalì. Per qualche istante non rispose neppure. «Perché fai così?» insisté il ragazzo. «Così come?» chiese finalmente Paragon, seccato. «Lo sai. Tutto rabbiato. O matto come un caballo. Dici cose cattive.» «Che altro ti aspetti da me?» ribatté Paragon. «Che sia felice di essere stato trascinato qui fuori? Contento di partire con loro per un'assurda missione di salvataggio?» Sentì l'alzata di spalle del ragazzo. «Perché no?» «Perché no?» Paragon sbuffò. «Gradirei sapere come.» «Facile. Decidi tu.» «Decidere di essere felice? Dovrei dimenticare tutto ciò che mi hanno fatto, ed essere felice? Trallallà? Così?» «Perché no?» Sentì il ragazzo che si grattava la testa. «Guarda me. Facile avercela con tutti. Ho deciso d'esser felice. Ho deciso che prendo quel che trovo. Mi prendo la mia vita.» Una pausa. «Mica ne avrò un'altra. Devo far andar bene questa.» «Non è così semplice» scattò Paragon. «Perché no?» insisté Clef. «Non più difficile che decidere d'avercela con noi.» Si allontanò con calma, strascicando i piedi nudi sul ponte. «Ma è molto più divertente» gridò dietro la spalla. L'acqua fluiva all'interno del fasciame. La tela aderiva al fianco della nave e il flusso stava rallentando. I calafati lavoravano con rapida efficienza, più abili di quanto Althea si fosse aspettata. Gli uomini alle pompe la preoccupavano. Si stavano stancando. Era andata a cercare Brashen, per chiedere se aveva qualche sostituto. Lo incontrò mentre scendeva una scaletta. Lo seguivano diversi marinai corpulenti dalla chiatta. Prima che Althea potesse parlare, Brashen fece un cenno del capo verso di loro. «L'e-
quipaggio della spiaggia è sulla chiatta. Devono sostituire i tuoi uomini alle pompe. Come andiamo?» «Resistiamo, anzi guadagniamo un poco. Il legno si gonfia in fretta, ma è solo perché è legno magico. Se fosse qualsiasi altro veliero vivente, direi che potrebbe applicarsi di più e chiudere metà delle falle. Ma con Paragon ho perfino paura di chiedere.» Fece un respiro profondo, aspettò che l'equipaggio delle pompe non potesse più sentirla, poi aggiunse molto piano: «Ho paura che faccia esattamente l'opposto. Come sta?» Brashen si grattò pensierosamente la barba. «Non lo so. Quando lo stavamo portando via dalla spiaggia, urlava suggerimenti e ordini come se fosse stato ansioso di galleggiare di nuovo. Ma come te, ho paura di presumere che sia così. A volte per fargli venire un attacco di rabbia basta supporre che è di buon umore.» «So cosa intendi.» Althea lo guardò negli occhi, comprensiva. «Brashen, in che guaio ci siamo cacciati questa volta? Mentre era sulla spiaggia, ed era la nostra unica speranza, sembrava un piano fattibile. Ma ora che siamo qui fuori... capisci che siamo del tutto in suo potere? Ha in mano le nostre vite.» Per un momento il marinaio sembrò molto stanco. Abbassò le spalle, scoraggiato. Poi trasse un respiro profondo. «Non smettere di credere in lui, Althea o siamo tutti perduti. Non mostrargli alcuna traccia di paura o dubbio. Paragon è più bambino che uomo. Quando do un ordine, non lo guardo per vedere se obbedirà. Non gli lascerei mai credere che ha più potere su di me di quanto ne abbia io su di lui. Ai ragazzi questo fa male. Continuano a cercare i limiti finché non li trovano. Si sentono sicuri solo quando sanno dove sono.» Althea tentò di sorridergli. «Parli per esperienza?» Brashen le restituì un sorriso tormentato. «Quando trovai i miei limiti, ero già caduto oltre l'orlo del mondo. Non lascerò che accada a Paragon.» Rimase immobile per un momento, e Althea pensò che forse le avrebbe detto qualcosa di più. Poi Brashen scrollò le spalle, si girò e seguì in fretta gli uomini delle pompe. Althea ricordò che anche lei aveva da lavorare. Si mosse in fretta attraverso la nave, controllando gli operai che stuccavano lo scafo. Più che altro stavano rinforzando e completando il lavoro eseguito mentre Paragon era sulla spiaggia. In alcuni punti stavano addirittura rimuovendo la stoppa per permettere alle assi di gonfiarsi. Come gran parte delle navi delle Giungle della Pioggia, Paragon era stato costruito bene: il fasciame era
progettato per resistere all'acqua ribollente del Fiume e alle incertezze delle onde dell'oceano, e aveva sopportato perfino trent'anni di abbandono. Le assi di grigio legno magico sembravano davvero ricordare come erano state montate. Althea osò sperare che forse Paragon stava collaborando, dopo tutto. Un veliero vivente poteva fare molto per la propria manutenzione, se così sceglieva. Sembrava strano muoversi sulla nave. Per la prima volta da quando lo conosceva i ponti di Paragon erano piani sotto i suoi piedi. Soddisfatta che la sua squadra fosse al lavoro, fece un rapido giro della nave. La cambusa era nel caos. La stufa si era staccata dal tubo ed era scivolata attraverso la stanzetta, seminando fuliggine. Probabilmente avrebbe dovuto essere riparata, se non sostituita. La cabina del capitano aveva sofferto allo stesso modo. I bauli di Ambra si erano rovesciati. Una fiala di profumo era caduta e si era rotta, impregnando la stanza di serenella. Guardandosi attorno, Althea ebbe una chiara visione del futuro. Ambra doveva portar fuori le sue cose e occupare un alloggio più modesto come si conveniva al carpentiere di bordo. Poi Brashen si sarebbe trasferito lì. Althea aveva accettato con riluttanza che fosse lui a comandare la nave. Non era d'accordo con nessuno delle sue argomentazioni. Le ragioni della ragazza erano più personali. Una volta recuperata Vivacia avrebbe dovuto poter scendere dalla tolda di Paragon e prendere il comando della sua nave. Se fosse stata il capitano del Paragon, avrebbe sconvolto una nave già bizzosa. Chiunque partiva come capitano di Paragon doveva stare con lui per il viaggio di ritorno. Doveva essere Brashen. Eppure Althea provò una fitta di rammarico quando chiuse la porta della cabina. Paragon era stato costruito nel vecchio stile. Gli alloggi del capitano erano di gran lunga i più belli sulla nave. Ambra aveva fatto molto per ripristinare gli armadietti elegantemente intagliati e le intelaiature delle finestre. Un tappeto copriva la malaugurata botola che Ambra aveva aperto tra la cabina e la stiva. Le finestre di vetro colorato erano piene di crepe e parte del vetro mancava, ma quello era un dettaglio. Bisognava prima pagare le riparazioni strutturali. Althea passò a considerare la cabina del primo ufficiale. Sarebbe stata la sua. Molto più piccola degli alloggi del capitano, era comunque un palazzo rispetto agli alloggi dell'equipaggio. Aveva una cuccetta fissa, una scrivania pieghevole e due stipi per le sue cose. Una terza cabina, non più grande di un capace ripostiglio, era destinata al secondo ufficiale. Gli alloggi
dell'equipaggio erano poco più che ganci nel castello di prua per appendere le amache. I velieri viventi più vecchi non avevano preso in considerazione la comodità dell'equipaggio. Lo spazio per il carico era stato il pensiero principale. Quando salì sulla tolda trovò Brashen che camminava su e giù, irrequieto e allo stesso tempo trionfante. Subito si girò verso di lei. «Resistiamo. L'acqua entra ancora, ma bastano due uomini alle pompe per rimediare. Penso che domani mattina si sarà stabilizzato. Abbiamo un po' di inclinazione, ma la zavorra giusta dovrebbe risolvere il problema.» C'era una luce sul suo viso che Althea non vedeva da quando Brashen aveva navigato su Vivacia al comando di suo padre. Il suo passo era scattante. «Nulla di rotto, nulla di saltato. Quasi impossibile credere alla nostra fortuna. Sapevo che i velieri viventi sono robusti, ma questo li batte tutti. Qualsiasi altra nave arenata da trent'anni sarebbe muffa e legna da ardere.» La sua esuberanza era contagiosa. Althea lo seguì mentre percorreva la nave a lunghi passi, fermandosi a scuotere una murata per vedere quanto cedeva, o ad aprire e chiudere un portello per controllare se era diritto. C'era ancora molto da fare sul Paragon, ma la maggior parte era raddobbo, piuttosto che ricostruzione. «Staremo con la chiatta per qualche tempo, lasciamo che il legno si gonfi. Poi lo porteremo al Molo Ovest per finire.» «Con gli altri velieri viventi?» chiese Althea a disagio. Brashen si girò di scatto, quasi con aria di sfida. «E dove, se no? È un veliero vivente.» Althea parlò altrettanto chiaro. «Temo quello che possono dirgli. Che un commento avventato possa scatenare una delle sue frenesie.» «Althea, prima affrontiamo quel problema, meglio è.» Si fece più vicino, e per un momento Althea pensò che l'avrebbe presa sottobraccio. Invece le fece cenno di accompagnarlo mentre avanzava verso la polena. «Penso che dovremmo immergerlo in una vita normale. Trattarlo come un normale veliero vivente, e vedere come reagisce. Più camminiamo sulle uova attorno a lui, più diverrà dispotico.» «Pensi davvero che sarà così semplice? Che si comporterà normalmente trattandolo normalmente?» Brashen le rivolse un rapido sogghigno. «No. Certo che no. Ma è da lì che cominceremo, sperando in bene.» Althea si trovò a sorridere con lui. Qualcosa in lei reagiva a Brashen a un livello che il suo intelletto non poteva raggiungere. Non poteva ragionare con l'attrazione che provava. Sapeva solo che era un piacere vederlo
muoversi e parlare come una volta. L'amaro e cinico mascalzone creato da Kyle Haven e Torg era scomparso. Quello era l'uomo che era stato il primo ufficiale di suo padre. Lo seguì mentre passeggiava fino alla murata di prua e vi si appoggiava. «Paragoni Ce l'abbiamo fatta, vecchio mio. Galleggi, e faremo in modo che se ne accorgano tutti.» La polena lo ignorò. Brashen diede una piccola alzata di spalle e inarcò un sopracciglio verso Althea. Neppure questo poteva scoraggiarlo. Chinandosi di nuovo sulla murata, Brashen fissò la foresta di alberi che erano il porto di Borgomago. Un'espressione distante apparve sul suo viso. «Mi odi per questo?» chiese d'un tratto. Per un istante, Althea pensò che si rivolgesse alla nave. Ma poi Brashen la guardò interrogativo. «Per cosa?» Brashen si girò a guardarla e parlò con l'onestà brusca che Althea ricordava bene. «Per essere qui, come non avrei mai creduto. Per essere sulla mia tolda come il capitano Brashen Trell del veliero vivente Paragon. Dove so che vorresti essere tu.» Malgrado si sforzasse di rimanere serio, un sorriso si aprì sul suo volto. Qualcosa in quel sorriso le fece venire le lacrime agli occhi. Si girò in fretta a guardare l'acqua, perché lui non vedesse. Quanto aveva bramato Brashen quel momento, e per quanto tempo? «Non ti odio per questo» disse piano. Era vero. Con sorpresa non trovò neanche una scheggia di gelosia nella sua anima. Anzi, provava una gioia crescente per il trionfo di Brashen. Afferrò la murata di Paragon. «Questo è il tuo posto. E anche il suo. Dopo tanti anni, è in buone mani. Come potrei essere gelosa?» Gli gettò un altro sguardo. Il vento gli scompigliava i capelli scuri. Il suo viso scolpito avrebbe potuto essere una polena. «Penso che mio padre ti avrebbe dato una pacca sulla schiena e si sarebbe congratulato con te. E ti avrebbe avvertito, come ora faccio io, che quando sarò di nuovo sulla mia Vivacia, non potrai neanche vederci da lontano.» Gli sorrise, senza riserve. Paragon li aveva sentiti avvicinarsi e aveva capito che parlavano di lui. Pettegoli pettegoli pettegoli. Facevano sempre così, tutti quanti. Preferivano parlare di lui che con lui. Pensavano che fosse stupido. Probabilmente credevano che non servisse parlargli. Quindi non si sentì per niente uno spione ad ascoltarli. Ora che c'era di nuovo acqua salata attorno a lui, li percepiva con maggior chiarezza. Non erano solo le loro parole che lo rag-
giungevano più nitide, ma i loro sentimenti. La sua irritazione si spense in un breve senso di timore reverenziale. Sì. Poteva sentirli molto più chiaramente. Quasi come avrebbe potuto sentire uno della sua famiglia. Si tese con grande cautela verso di loro. Non voleva che si accorgessero di lui. Non ancora. Le loro emozioni erano forti. Brashen era inebriato dal trionfo, e Althea lo condivideva. E c'era qualcosa di più. Qualcos'altro passò tra loro. Paragon non sapeva definirlo a parole. In un certo senso, era come l'acqua salata che inzuppava le assi di legno magico. Le cose stavano tornando al posto giusto. Le linee che erano state distorte si raddrizzavano. Sentì la stessa correzione tra Brashen e Althea. La tensione tra loro era accettata. Faceva da contrappeso alla loro amicizia. Paragon cercò una similitudine. Come vento nelle sue vele. Senza la forza contro la tela, non poteva muoversi. Non era una tensione da evitare, ma da corteggiare. Come facevano loro? Solo quando Brashen si appoggiò alla murata e gli parlò, Paragon comprese quanto si erano avvicinati. Era stato così consapevole di loro che non aveva notato la distanza fisica che si riduceva. Ebbene, non avrebbe certo risposto. Poi anche Althea si chinò sulla murata. I loro sentimenti fluirono attraverso Paragon. Da Brashen ad Althea, da Althea a Brashen, includendo lui. L'orgoglio nella voce di Brashen non era falso. «Capitano Brashen Trell, del veliero vivente Paragon.» Le parole pulsarono attraverso la nave. Brashen non parlava solo con orgoglio. Parlava con affetto. Senso di possesso. Brashen aveva voluto rivendicarlo. Non solo per questo salvataggio, non perché era disponibile e costava poco. Voleva essere il capitano del veliero vivente Paragon. Con meraviglia, sentì Althea ricambiare i suoi sentimenti. Entrambi sapevano davvero che quello era il suo posto. Qualcosa che a lungo era stato chiuso dentro Paragon cominciò a smuoversi. Una minuscola scintilla di rispetto per sé stesso bruciò all'improvviso nell'oscurità. «Non scommetterci, Vestrit» disse piano. Sogghignò quando li sentì sobbalzare e poi piegarsi sulla murata per tentare di vederlo in faccia. Teneva ancora le braccia conserte, ma affondò il mento barbuto sul petto, compiaciuto. «Pensa pure che tu e Vivacia ci darete filo da torcere. Ma Trell e io abbiamo molto da rivelare. Non avete ancora visto niente.» 26
Compromessi «Penso che sia perfetto.» Keffria non riusciva a celare la soddisfazione. «È delizioso» fece eco Rache. «Ma girati ancora una volta. Un po' più in fretta, così le gonne si sollevano leggermente. Voglio essere sicura che l'orlo sia diritto prima di dare gli ultimi punti.» Malta alzò con cura le braccia per evitare gli spilli e girò sui piedi scalzi. Sul pavimento attorno a lei erano sparsi gli avanzi del lavoro. I vestiti più vecchi erano stati derubati del merletto. I brillanti pannelli di stoffa inseriti nelle ricche maniche del vestito erano stati un tempo la gonna di un altro vestito. «Ah! Come una ninfea, quando la brezza estiva increspa l'acqua. Non potresti essere più bella.» Rache era trionfante. «Se solo sorridesse» indicò quietamente Selden. Sedeva sul pavimento in un angolo della stanza, i suoi cubetti sparsi sul pavimento davanti a lui. Malta lo guardò. Costruiva castelli invece di fare i compiti di aritmetica. Era troppo abbattuta per far notare il suo ozio alla madre. «Il tuo fratellino ha ragione, Malta. Il vestito non può illuminarti come un sorriso. Cosa c'è? Desideri ancora una sarta alla moda?» Certo che lo desiderava! Come poteva sua madre farle una simile domanda? Per anni lei e Delo avevano parlato del loro primo Ballo d'Estate da giovani signore. Avevano disegnato i loro vestiti elaborati, avevano discusso di bordure e sarte e scarpette. Gli occhi di Borgomago non sarebbero mai più caduti su di loro con la stessa attenzione. Tutti l'avrebbero vista con un vestito fatto in casa e scarpette recuperate. In ogni istante di quella estate aveva desiderato un miracolo. Inutile parlare di come si sentiva. Non voleva che sua madre piangesse di nuovo, o che sua nonna le dicesse che doveva essere orgogliosa di aver sacrificato tanto. Era il meglio che potevano fare per lei. A che serviva parlare della sua delusione? «È difficile sorridere in questi giorni, mamma.» Trasse un respiro. «Avevo sempre pensato che avrei fatto ingresso al Ballo d'Estate al braccio di mio padre.» «Come ho fatto io» rispose piano Keffria Vestrit. «Mi spezza il cuore che tu non possa, Malta. Ricordo ancora il mio primo Ballo d'Estate con un vestito da donna. Quando mi annunciarono, ero così nervosa che credevo di non riuscire a stare in piedi. Poi papà mi prese la mano e se la mise sul braccio. Ed entrammo insieme... era così orgoglioso di me.» La sua voce si strozzò all'improvviso. Batté le palpebre in fretta. «Dovunque sia tuo pa-
dre, cara, sono sicura che sta pensando a te come tu pensi a lui.» «A volte mi sembra sbagliato pensare alle feste d'estate dopo il grande ballo, preoccuparmi di vestiti e ventagli e cappellini mentre lui è prigioniero nelle Isole dei Pirati.» Malta fece una pausa. «Forse dovremmo rimandare all'anno prossimo. Forse per allora sarà a casa.» «È un po' tardi per questo» intervenne la nonna. Seduta nella luce dalla finestra, tentava di ricavare un ventaglio da un pezzo di stoffa avanzata. «Una volta sapevo come si faceva» borbottò irritata. «Le mie dita non sono più così agili.» «Temo che tua nonna abbia ragione, cara.» Sua madre trafficò con il pizzo ai polsini. «Ognuno si aspetta che ti presentiamo. Mancare al ballo renderebbe più difficile la nostra situazione con la famiglia Khuprus.» «Comunque non penso che Reyn mi piaccia più. Se fosse davvero interessato a me sarebbe venuto a trovarmi di nuovo.» Girò la testa per guardare Keffria proprio mentre Rache tentava di metterle a posto il cappellino. «Non avete più avuto notizie da sua madre?» Rache le afferrò il mento, le raddrizzò la testa e fissò il cappellino con una forcina. Keffria aggrottò la fronte. «È troppo grande. Le nasconde il viso. Dobbiamo farlo più delicato. Toglilo, riproveremo.» Mentre Rache lo staccava, Keffria chiese: «Che altro poteva scriverci? Commisera la nostra situazione. Prega che tuo padre torni sano e salvo. Reyn aspetta con impazienza il Ballo d'Estate.» Keffria sospirò e aggiunse: «E ha suggerito, molto educatamente, che due settimane dopo il ballo potremmo discutere il pagamento del nostro debito.» «Traduzione: vuole vedere come si comportano Malta e Reyn al ballo» intervenne acida la nonna. Diede un'occhiata al fine lavoro nelle sue mani. «Devono considerare le apparenze proprio come noi, Malta. Se Reyn ti venisse a trovare troppo spesso prima della tua presentazione ufficiale sarebbe considerata una cosa sconveniente. Inoltre è un lungo viaggio dalle Giungle della Pioggia a Borgomago, da non intraprendere a cuor leggero.» Malta emise un lieve sospiro. Se lo era ripetuto di continuo. Ma sembrava più probabile che Reyn avesse deciso che non valeva la pena di corteggiarla. Forse il drago c'entrava qualcosa. Da quella volta aveva spesso sognato il drago, e i sogni erano inquietanti o addirittura spaventosi. A volte il drago parlava di Reyn. Diceva che Malta era sciocca ad aspettarlo. Non sarebbe venuto ad aiutarla. La sua unica speranza era raggiungere in qualche modo la creatura e liberarla. Ogni volta Malta tentava di dirle che era impossibile. «Quando dici così,» l'aveva schernita il drago «in realtà dici
che è impossibile liberare tuo padre. È ciò che credi davvero?» La domanda la lasciava sempre ammutolita. Non significava che avesse rinunciato. Negli ultimi tempi aveva imparato molto sugli uomini. Sembrava che la abbandonassero ogni volta che aveva davvero bisogno della loro forza o del loro potere. Cerwin e Reyn erano svaniti quando aveva chiesto qualcosa di più sostanziale che gingilli o dolci. Con riluttanza riconobbe un secondo pensiero. Proprio quando aveva avuto bisogno della forza e del potere di suo padre, lui era uscito a vele spiegate dalla sua vita. Ed era scomparso. Non deliberatamente, Malta lo sapeva. Ma questo non cambiava ciò che aveva imparato. Non si poteva dipendere dagli uomini, perfino quelli potenti, perfino quando ti amavano davvero. Per salvare suo padre avrebbe dovuto ottenere potere per sé stessa, e usarlo. Poi se lo sarebbe tenuto. Le venne in mente un pensiero. «Mamma. Papà non sarà qui per scortarmi al Ballo d'Estate. Chi lo farà?» «Ecco.» Keffria parve a disagio. «Davad Restart si è offerto, è ovvio. Ne sarebbe onorato; sente che gli dobbiamo qualcosa per aver negoziato l'acquisto del Paragon, suppongo...» La sua voce si spense in un sussurro imbarazzato. Rache emise un piccolo sbuffo di disprezzo. Strappò le cuciture del cappellino come se fosse stato la faccia di Davad. «Non gli dobbiamo nulla» disse con fermezza Ronica Vestrit. Alzò gli occhi dal cucito per guardare sua nipote. «Non hai nessun obbligo verso di lui, Malta. Nessuno.» «Allora... se mio papà non potrà esserci... mi piacerebbe entrare da sola.» Keffria parve turbata. «Cara, non sono sicura che sarebbe corretto.» «Corretto o no, è confacente. Permettiglielo.» Malta guardò sbalordita sua nonna. Ronica restituì uno sguardo quasi di sfida. «Borgomago ci ha lasciati a resistere o crollare da soli. Che vedano resistere perfino la nostra figlia più giovane.» Fissò Malta negli occhi e una specie di comprensione passò tra loro. «Che lo sappiano anche le Giungle della Pioggia» aggiunse quietamente Ronica. Althea avanzò lungo i magazzini del Molo Ovest del porto. Ogni tre o quattro passi le gonne la intralciavano. Rallentava per un passo o due, poi si dimenticava e accelerava di nuovo. Sulla spiaggia si era abituata alla
comodità dei pantaloni. Ora che Paragon era ormeggiato in città al molo dei velieri viventi doveva fare uno sforzo maggiore per conformarsi, ma era un compromesso che non piaceva a nessuno. La gonna da lavoro di cotone grezzo scandalizzava Keffria ed era ancora troppo limitante per Althea. Voleva essere fuori in mare, dove giurò che si sarebbe vestita come le pareva. «Althea!» tuonò Kendry. La ragazza si fermò per rivolgere un sorriso al veliero vivente. «Buon giorno!» Guardò in su e agitò la mano. Adesso il vascello era alto sulla linea di galleggiamento, ma al tramonto sarebbe stato pesante di carico da portare su per il Fiume. Proprio in quel momento stavano portando a bordo carriole di meloni. C'era poco suolo arabile sul Fiume delle Giungle della Pioggia. La maggior parte dei generi alimentari dovevano essere importati. Era il tragitto regolare di Kendry. Trafficava quasi esclusivamente in approvvigionamenti di cibo e merci delle Giungle della Pioggia. «Buon giorno a te, signorina!» La polena mise i pugni sui lati della nave come se fossero stati i suoi fianchi. La guardò con finta disapprovazione. «Sembravi una donna delle pulizie, quasi non ti riconoscevo.» Althea sorrise alla sua benevola presa in giro. «Ebbene, sai come sei fatto, ci vuole più di una donna delle pulizie per tenere in ordine un veliero vivente. Prima che il giorno finisca sarò coperta di grasso e pece. Allora vedremo se mi riconoscerai più facilmente.» Il Kendry era stato intagliato con l'aspetto di un bel giovane. Il sorriso affabile e i grandi occhi azzurri facevano di lui un favorito sul molo dei velieri viventi. Althea era da tempo abituata alla disinvoltura con cui la trattava. «Ci vorrà una bella lavata per renderti presentabile prima del Ballo d'Estate» suggerì ironico. Quello era un argomento più serio. Dopo molte discussioni con sua madre e sua sorella, aveva vinto lei. «Non andrò al Ballo d'Estate, Kendry. Speriamo di prendere il largo prima. Inoltre, anche se ci andassi, chi ballerebbe con una donna delle pulizie?» Tentò di alleggerire le parole con un sorriso. Kendry gettò uno sguardo attorno e poi le strizzò un occhio con intenzione. «Conosco un marinaio che non ne sarebbe sgomentato.» Abbassò la voce. «Sarei lieto di portare un messaggio a Trehaug, se vuoi.» Dunque Grag Tenira era ancora nascosto nella città delle Giungle della Pioggia. Althea cominciò a scuotere la testa, poi riconsiderò. «Se non ti dispiace.»
«Sempre felice di fare un favore a un'amica.» Accennò con il capo verso l'estremità del molo. In tono più riservato chiese: «E come sta il nostro comune amico?» Althea represse il fastidio. «Come ci si può aspettare. Ha le sue difficoltà. È rimasto a lungo isolato e trascurato, sai. E gli abbiamo chiesto molto in un tempo molto breve. Nuovo sartiame, nuovo equipaggio, per non dire che non ha un vero membro della famiglia a bordo.» Kendry scrollò le larghe spalle nude. «Bene, se non ne avesse uccisi così tanti, potrebbe esserci in giro qualche LaSuerte in più.» Rise al cipiglio di Althea. «Dico solo quello che penso, ragazza. Non guardarmi male. Ogni nave in questo porto pensa che si sia procurato molti dei suoi guai. Non vuol dire che non gli auguriamo ogni bene. Mi piacerebbe molto vederlo rimettersi in piedi e riscattarsi. Ma,» l'ammoni con un indice alzato «non penso che valga la pena che una signora corra tanti rischi. Se le cose non ti sembrano giuste quando arriva il momento di partire, lascialo andare senza di te.» Appoggiò la schiena allo scafo come un ragazzo che si appoggia a un muro soleggiato. «Non preferiresti un viaggio sul fiume con me? Scommetto che potrei convincere il mio capitano a farti salire gratis.» «Ne sono certa, e ti ringrazio per l'offerta. Ma quando Paragon salpa, io sarò a bordo. Dopo tutto stiamo andando a cercare il mio veliero vivente. Inoltre credo che se la caverà bene.» Gettò uno sguardo al sole. «Devo correre, Kendry. Abbi cura di te stesso.» «Ebbene, piccola, anche tu. Ricorda quello che hai detto. Non metterci troppo con quel messaggio. Intendo essere lontano da questo molo per domani a mezzogiorno.» Althea si girò e gli rivolse un cenno spensierato mentre si allontanava. Si disse che lo facevano per lei, tutti quelli che le auguravano il successo e poi la mettevano in guardia da Paragon. Perfino Trell. A volte faticava a ricordarselo. Il lavoro era andato meglio di quanto chiunque si aspettasse. Il piccolo fondo finanziario era stato sostenuto dall'influenza misteriosa di Ambra. Nole Plate in persona era venuto a prestare volontariamente i suoi servizi nel preparare la tela per la nuova velatura. Althea non riusciva a immaginare cosa Ambra sapesse di Nole per convincere quel vecchio spilorcio a essere all'improvviso così generoso del suo tempo. Qualche sporco segretuccio, di sicuro. E il giorno prima una ventina di barili di gallette erano stati donati da un benefattore che aveva insistito per rimanere anonimo. Althea sospettava lo zampino di Ambra anche in quello.
Ma i più utili erano stati gli schiavi reclutati da Ambra che arrivavano in silenzio nel buio della notte dopo che Brashen aveva mandato a casa gli operai regolari, scivolavano a bordo di Paragon e sgobbavano fin quasi alle prime luci dell'alba. Poi si disperdevano in fretta come erano arrivati. Parlavano poco e lavoravano sodo. Ogni viso era tatuato. Althea odiava pensare ai rischi che correvano per allontanarsi dai padroni ogni sera. Sospettava che la maggior parte della squadra notturna si sarebbe trovata sotto coperta al momento di partire. Avrebbero completato come combattenti e marinai l'equipaggio ingaggiato da Brashen. Althea non voleva sapere come era successo. Un pomeriggio Brashen aveva tentato di raccontarglielo in confidenza. La ragazza si era tappata le orecchie. «Un segreto è meglio tenuto da uno solo» gli aveva ricordato. Brashen era sembrato contento. Quel pensiero fece sorridere Althea. Scosse la testa. Perché doveva importarle se Brashen era contento o no? Aveva fatto ben pochi sforzi di accontentarla con la sua decisione più recente. Avrebbe dovuto diventare una litigata monumentale, ma il maledetto Brashen aveva insistito nel ricordare i suoi privilegi di capitano. Almeno l'aveva chiamata negli alloggi del capitano per comunicarle la notizia. Nessuno l'avrebbe vista arrabbiata, ma la finestra senza vetro significava che chiunque passasse poteva udire un alterco. Brashen sedeva con disinvoltura al tavolo di carteggio restaurato di recente. Studiava una manciata di avanzi di tela che aveva preso da una borsa. «Era mio diritto. Ho assunto il mio primo ufficiale.» Aveva inclinato la testa con atteggiamento canzonatorio. «Tu non avresti fatto lo stesso nella mia posizione?» «Sì» aveva sibilato Althea. «Ma avrei assunto te, dannazione. Pensavo che fossimo d'accordo.» «No» aveva risposto rabbuiato Brashen. Mise un pezzo di tela sul tavolo, giocherellò meditabondo, poi sembrò decidere che lo schizzo che vi era tracciato era a rovescio. «Non su quello. Solo che avresti navigato con me... con il Paragon. Non abbiamo preso altri accordi. Come forse rammenti, qualche tempo fa avevo suggerito che tu non lavorassi con gli uomini, visto il tipo di marinai che dovevo ingaggiare.» Althea aveva emesso un piccolo suono di disgusto. Alcuni di loro meritavano appena il titolo di uomini. Prese fiato per parlare, ma Brashen alzò una mano. «Qualsiasi altra nave, qualsiasi altro equipaggio, e saresti stata il mio
primo ufficiale. Lo sai. Ma questo equipaggio avrà bisogno di un pugno di ferro. L'amorevole ragionevolezza non convincerà molti di costoro. La minaccia concreta di un po' di botte forse sì.» «Saprei cavarmela» mentì coraggiosamente Althea. Brashen scosse la testa. «Non sei grossa abbastanza. Ti rispetterebbero solo dopo averti sfidato e aver avuto la peggio. Anche se vincessi, non voglio rischiare alcuna violenza sul Paragon. Se perdessi...» Non considerò le conseguenze. «Così ho assunto un uomo abbastanza grosso e forte: la maggior parte dei marinai non vorranno sfidarlo, e quelli che ci provano perderanno di certo. Lavoy. È una bestia, e questa è una delle cose più gentili che possiamo dire di lui. È anche un gran bravo marinaio. Se non fosse per il carattere, sarebbe già capitano da anni. Gli ho detto che gli davo un'opportunità sul Paragon. Se mostra qui la sua stoffa, tutta Borgomago saprà che può essere primo ufficiale su qualsiasi nave. Brama questa opportunità, Althea. Ed è per questa opportunità che ha deciso di far parte del nostro equipaggio; la paga che potevo offrirgli non era migliore di quella che avrebbe ottenuto come ufficiale di riserva su un vascello più grande. Vuole dimostrare il suo valore, ma sospetto che non valga poi molto. Qui entri in gioco tu. Io sono il capitano. Lui è il primo ufficiale. Tu sarai il secondo ufficiale. Bilanceremo la sua autorità con la nostra. Non per minarla, ma per moderarla. Capisci cosa intendo?» «Suppongo di sì» rispose Althea con riluttanza. Vedeva la logica del ragionamento, ma ancora scalpitava. «Secondo ufficiale, dunque» concesse. «C'è qualcos'altro. Qualcosa che ti piacerà altrettanto poco.» «E sarebbe?» «Ambra ha comprato il diritto di essere a bordo. Ha messo più denaro e tempo nell'impresa di chiunque altro, compresi noi due. Non so che genere di marinaio sarà; mi ha detto che viaggiare per nave le piace poco. Si è dimostrata un carpentiere eccellente. Quindi quello sarà il suo ruolo a bordo. Dividerà la tua cabina.» Althea emise un gemito di protesta. «E anche Jek» aggiunse inesorabile Brashen. «Ha voluto aggregarsi. Ha fatto molta esperienza in mare nei Sei Ducati, ed era disposta a farsi pagare poco, 'per la sfida', così mi ha detto. L'hai vista sul sartiame quando lo abbiamo installato. È agile e senza paura. Sarei uno sciocco a rifiutare un marinaio così. Sarei anche uno sciocco ad alloggiarla con la feccia dei bassifondi che abbiamo assunto come equipaggio. Almeno uno è marchiato come stupratore, e a un altro neppure io volterei la schiena.» Scrollò le
spalle. «Jek dividerà la cabina con te e Ambra. Vi metterò in turni diversi, così non dovrete accalcarvi per dormire.» «Saremo accatastate come legna da ardere là dentro» protestò Althea. «Ambra è seccata quanto te. Dice che trascorrere qualche tempo da sola ogni giorno è essenziale per lei. Le ho detto che le darò accesso alla mia cabina quando non ci sono. Lo stesso vale per te.» «Questo farà parlare l'equipaggio.» Brashen aveva sogghignato acidamente. «Speriamo solo che sia la cosa più sconvolgente su cui spettegoleranno.» Althea era pienamente d'accordo. Anche ora, mentre percorreva il molo assolato verso la nave, pregava che fosse una giornata normale. Che Paragon non piangesse a dirotto con il viso fra le mani, o recitasse ripetutamente la stessa poesia sconcia. Certi giorni, quando Paragon le rivolgeva un piacevole buon giorno al suo arrivo, era come una benedizione di Sa in persona. Il giorno prima lo aveva trovato con una cernia morta che qualche buontempone di passaggio gli aveva dato. Per qualche ragione il pesce morto lo sconvolgeva, eppure non voleva consegnarlo a lei o metterlo giù. Finalmente Ambra glielo aveva portato via con le buone. A volte solo lei sapeva trattare con Paragon. L'equipaggio al completo era stato ingaggiato diversi giorni prima, e ingaggiato di nuovo parecchie volte da allora. Brashen trovava i marinai, li convinceva a firmare e li metteva al lavoro, solo per vederli andarsene il giorno dopo. Non erano solo le cose bizzarre che Paragon diceva o faceva. Come la puzza del sudore della paura, la sua pazzia permeava l'aria della nave. Quelli abbastanza sensibili da sentirla senza conoscerne la fonte soffrivano di incubi o di crisi di panico improvviso nella stiva. Brashen e Althea non tentavano di costringere nessuno a rimanere a bordo. Althea lo sapeva: meglio perderli subito che avere a bordo uomini innervositi o spaventati in mare aperto. Eppure stava diventando uno scherzo locale. A Borgomago si vociferava già abbastanza di quell'insolito equipaggio senza che i marinai abbandonassero la nave in porto e diffondessero dicerie degli strani avvenimenti a bordo del Paragon. Oggi Paragon sembrava abbastanza calmo. Almeno Althea non lo sentiva delirare. Quando raggiunse il suo ormeggio, il traffico lungo il molo sembrava normale. «Ehilà, Paragon» lo salutò superandolo mentre si dirigeva alla passerella. «Ehilà anche a te» rispose affabile Paragon. Ambra era seduta sulla murata di prua con le gambe penzoloni. I capelli sciolti fluivano nel vento.
Aveva adottato uno strano stile d'abbigliamento, pantaloni larghi e una camicia con panciotto. Come straniera a Borgomago poteva permetterselo. Althea la invidiava. «Notizie dell'Anello d'Oro?» chiese Paragon mentre Althea gli passava vicino. «Non che io sappia» rispose la ragazza. «Perché?» «Si dice che sia in ritardo. Le navi che dovevano incontrarlo non lo hanno visto.» Il cuore di Althea sprofondò. «Ebbene, molte cose possono rallentare una nave, anche se è un veliero vivente» commentò gioviale. «Certo» rispose Paragon. «Pirati. Serpenti. Temporali catastrofici.» «Venti sfavorevoli» ribatté Althea. «Ritardi nel carico.» Paragon emise uno sbuffo di disprezzo. Ambra scrollò le spalle ad Althea. Ebbene, almeno quel giorno era razionale. Althea si diresse verso la passerella e salì a bordo. Lavoy era al centro del ponte con i pugni sui fianchi e si guardava attorno con sguardo truce. Quella era la parte più difficile e fastidiosa. «A rapporto, signore» disse rigidamente Althea. L'ufficiale la fissò con occhi da pesce. La percorse con lo sguardo dalla testa ai piedi e fece una smorfia di disprezzo. «Lo vedo» disse dopo un momento. «Oggi carichiamo le provviste. Prendi sei uomini e vai di sotto. Stivate la merce man mano che la portano a bordo. Sai come si fa.» C'era solo il lievissimo accenno a una domanda nella sua voce. «Sì» disse Althea in tono piatto. Non gli avrebbe recitato le sue credenziali. Portava alla cintura la targhetta di cuoio dell'Ophelia. Sarebbe bastato per chiunque altro nel porto di Borgomago. Gettò uno sguardo sul ponte e scelse la sua squadra puntando il dito. «Haff e tu, laggiù. Jek. Cypros. Tu e Kert. Venite.» Stava ancora imparando i nomi. Il modo in cui i marinai andavano e venivano non lo rendeva più facile. Odiando l'idea di quel lavoro, li condusse nella stiva. Lavoy comandava la squadra sul molo che portava a bordo le provviste e le passava alla squadra di Althea. Toccava a lei caricarle e stiparle. Sospettava che Lavoy avrebbe spinto al massimo la sua squadra per vedere se Althea e i suoi tenevano il ritmo. Quel genere di provocazioni fra ufficiali erano normali su un vascello. A volte erano benevole. Non questa volta. Il Paragon si era rivelato una nave vivace in acqua. Brashen era stato molto pignolo con la zavorra, ma ancora rollava troppo per i gusti di Althea. La disposizione del carico sarebbe stata determinante, soprattutto a
piena velatura e con il vento forte. Althea era combattuta. Non voleva essere responsabile per la stabilità della nave; allo stesso tempo non si fidava di nessun altro, tranne forse di Brashen. Suo padre era sempre stato molto meticoloso con il carico. Forse lei aveva ereditato quella tendenza. Sotto coperta l'aria era calda e densa di odori di nave. Anche con i portelli aperti era immobile e stagnante. Althea era grata che fosse odore di catrame fresco e stoppa e vernice. Prima della fine del viaggio, acqua di sentina, sudore e cibo rancido si sarebbero aggiunti alla miscela. Per il momento Paragon odorava davvero come una nave nuova. Ma non lo era. Dovunque c'erano piccole tracce di logorio. Iniziali incise in una paratia, vecchi ganci dove era stata appesa un'amaca o una borsa da mare. Alcuni segni erano minacciosi. Impronte dove qualcuno aveva strisciato sanguinando copiosamente. Uno schizzo di sangue prodotto da un colpo violento. Il legno magico ricordava. Althea sospettava che ci fosse stato un massacro a bordo. Non quadrava con l'affermazione di Paragon di avere ucciso i suoi equipaggi, ma qualsiasi accenno a una domanda su simili argomenti lo mandava su tutte le furie. Althea suppose che non avrebbero mai conosciuto tutta la verità su quello che aveva sopportato. Non si sbagliava su Lavoy. Un flusso regolare di provviste minacciava di sommergere la sua squadra. Qualsiasi idiota sapeva caricare in fretta una cassa o un barile, si disse. Ci voleva qualcuno con spirito marinaro per sapere come stivare tutto correttamente. Althea lavorava insieme all'equipaggio. Come secondo ufficiale, le era richiesto. Sentiva che era parte del compromesso offerto da Brashen. Credeva ancora di poter guadagnare il rispetto dell'equipaggio come loro pari. Non c'era opportunità migliore di provarlo. Spinse Jek a lavorare duro come lei, e intanto valutava la donna per vedere se era capace come diceva di essere. Jek appariva più a suo agio a lavorare con gli uomini di quanto gli uomini fossero a loro agio con lei, ma quello era prevedibile. Era lo stile dei Sei Ducati. Se la cavava bene, e il suo umorismo benevolo alleviò il compito. Sarebbe stata una buona compagna di bordo. La sola preoccupazione di Althea era che fraternizzasse troppo con gli uomini. Non aveva fatto alcuno sforzo di celare i suoi robusti appetiti. Althea si chiese se avrebbe causato problemi a bordo. Con riluttanza concluse che doveva parlarne con Brashen. Lui era il capitano, dopo tutto. Che ci pensasse lui. La luce dai portelli aperti cadeva in riquadri nella stiva dalle travi massicce. Una volta che le casse, i barili e le botti erano a bordo, era solo lavo-
ro di muscoli e ossa. L'altezza ridotta di Althea le dava uno strano vantaggio nell'arrampicarsi e girare attorno al carico. Casse e bidoni venivano calati; l'equipaggio li afferrava a mano o li agganciava con ganci da carico. Un contenitore dopo l'altro veniva spinto al suo posto a forza di spalle, poi bloccato con cunei per impedire spostamenti. Mentre i barili calavano per essere stivati, Althea ricordò a sé stessa che fin troppo presto avrebbero tutti desiderato di aver faticato di più. L'equipaggio a bordo di Paragon era più numeroso del normale. Avevano bisogno di abbastanza uomini per combattere e manovrare la nave allo stesso tempo. Senza una destinazione precisa e pianificata, o un'opportunità di rifornirsi, avrebbero caricato la nave per quanto potevano permettersi. Molto meglio avere troppo che troppo poco. Mentre faticava con loro, Althea osservò la sua squadra, imparando in fretta chi lavorava e chi faceva il minimo indispensabile. Cypros e Kert se la cavavano, ma avevano bisogno di essere guidati. Jek era un gioiello, si impegnava a fondo e riusciva a prevedere le possibili difficoltà. Semoy, un uomo anziano con il naso arrossato dal bere, protestava già che gli faceva male la spalla. Se non poteva tenere il ritmo, meglio farlo sbarcare prima della partenza. Degli altri due, Haff era un giovincello chiassoso che non nascondeva il suo disprezzo per gli ordini di Althea, mentre Lop, un uomo magro di mezza età, era volonteroso ma stupido. Althea preferiva uno stupido a uno come Haff che rasentava l'insubordinazione. Sapeva che presto avrebbe dovuto affrontare Haff. Non ne era entusiasta. Haff era più grosso di lei, e muscoloso. Althea si disse che se stava attenta non sarebbe mai diventato un confronto fisico. Pregò Sa di avere ragione. Quella mattina Lavoy scese due volte a ispezionare il lavoro. Ogni volta protestò per piccolezze. Ogni volta Althea strinse i denti e spostò il carico per accomodarlo. Era il primo ufficiale, si ricordò. Se lo ignorava avrebbe minato la sua autorità con l'equipaggio. La quarta volta, Althea pensò che si sarebbe consumata i molari a forza di stringere i denti. Invece Lavoy si guardò attorno, e annuì con riluttanza. «Avanti così.» Fu tutto l'incoraggiamento che diede, ma ad Althea parve una vera lode. Dunque sentiva il bisogno di metterla alla prova. Non l'avrebbe trovata pigra o insubordinata. Lei lo aveva promesso a Brashen; avrebbe mantenuto la parola. Eppure fu una lunga giornata. Quando Althea emerse in coperta, a turno finito, il pomeriggio soleggiato sembrava aperto e fresco. Si staccò di dosso la camicia fradicia di sudore e sollevò la treccia dalla nuca. Andò a prua a cercare Ambra.
Trovò la carpentiera della nave che conversava con Brashen. Teneva fra le mani guantate le estremità di due spire di cima. Althea osservò in silenzio mentre Ambra le univa con un nodo bandiera doppio. Brashen scosse la testa, prese la cima, la sciolse e gliela lanciò di nuovo. «Ancora. Continua finché non saprai legarla a occhi chiusi. Se mai arriveremo al punto di doverti chiamare in coperta, ci sarà probabilmente cattivo tempo.» «Rassicurante» borbottò Ambra, ma fece come le veniva detto. Althea era meravigliata dalla sua adattabilità. Brashen stava quietamente affermando con tutti il suo nuovo ruolo di capitano. Althea era abituata a quel genere di cambiamento. Lo aveva già visto sulla Vivacia, quando un marinaio passava alla condizione di ufficiale e all'improvviso doveva modificare il suo rapporto con i compagni. Sapeva che a volte si giungeva al sangue, anche se non lo aveva mai visto accadere su Vivacia. Era disposta a riconoscere a Brashen la distanza e il rispetto di cui aveva bisogno in quanto capitano. Quella distanza poteva rendere tutto più facile per entrambi. Quindi si costrinse a un tono rispettoso. «Signore, ho una preoccupazione riguardo all'equipaggio.» Brashen le rivolse la sua completa attenzione. «E sarebbe?» Althea trasse un respiro, poi si buttò. «Jek è un po' troppo amichevole con gli altri marinai. Più avanti potremmo avere problemi. In porto è una cosa. In mare aperto può divenire tutt'altro.» Brashen annuì. «Lo so. Ci ho pensato. La maggior parte di questi uomini non ha mai navigato con una donna a bordo, salvo forse la moglie del capitano. Intendo radunare l'equipaggio e parlare chiaro, dare il messaggio che non saranno tollerate certe situazioni.» Ambra aveva seguito lo scambio con sopracciglia sollevate. Per la prima volta Paragon parlò. «Cosa non sarà tollerato?» chiese incuriosito. Althea riuscì a non sorridere. Brashen prese seriamente la domanda. «Non ammetterò relazioni tra marinai che influenzino il funzionamento di questo vascello.» Jek si era avvicinata mentre parlavano. Sollevò un sopracciglio, ma rimase in silenzio finché Brashen non riconobbe la sua presenza. «Jek. Qualche problema?» Jek non fece finta di non aver sentito. «No, signore. Non mi aspetto che ci siano problemi. Ho già navigato con equipaggi misti. Se posso permettermi, so come comportarmi in ambienti chiusi.»
Probabilmente solo Althea poté dire che Brashen lottava per trattenere un sorriso. «Non ne dubito, Jek. La mia preoccupazione è soprattutto per gli uomini che non sanno controllarsi.» Jek non sorrise. «Sono sicura che impareranno, signore.» Sorprendendoli tutti, Paragon aggiunse: «Speriamo che la lezione non sia troppo dolorosa per nessuno.» «Ha passato gli ultimi tre giorni a lavorarci. Dico solo che, se fosse qualcosa di valore, ormai dovrebbe saperlo. E se non lo è, ci sono altri luoghi dove vorrei metterlo a lavorare. Luoghi che, a mio parere, potrebbero riservare migliori sorprese che non quella piccola cella.» Bendir mise giù la pipa. «Dico solo questo» ripeté con sfida. Gettò un'occhiata esasperata al fratello minore. Reyn sedeva dall'altra parte del tavolo di legno levigato. Sembrava tormentato e pallido. La camicia era sgualcita come se ci avesse dormito dentro. «Hai detto la stessa cosa quando ho insistito che avevo bisogno di più tempo per capire i gioielli di fiamma» ribatté Reyn. «Se mi avessi ascoltato, ne avremmo danneggiati meno nel ricupero. Certe cose non accadono da un giorno con l'altro, Bendir.» «Che tu cresca, per esempio» borbottò Bendir. Esaminò il fornello della pipa. Si era spenta. La mise da parte. La camicia ricamata e i capelli accuratamente pettinati erano in netto contrasto con l'aspetto del fratello minore. «Bendir!» lo rimproverò subito Jani Khuprus. «Non è corretto. Reyn ci ha detto che fa fatica a concentrarsi su questo compito. Dovremmo capirlo, non condannarlo. Mi pare di ricordare che tu non eri particolarmente concentrato quando corteggiavi Rorela.» Sorrise con affetto al figlio minore. «Si distrarrebbe molto meno se scegliesse una donna assennata come Rorela, invece di una ragazza viziata di Borgomago che non sa neppure quello che vuole» ribatté Bendir. «Guardalo. Ha il colore di un fungo. C'è da meravigliarsi che non vada a sbattere contro i muri. Da quando ha cominciato a corteggiare questa Malta, lei non ha fatto altro che tormentarlo. Se non sa decidersi, allora...» Reyn balzò in piedi. «Zitto!» disse brusco a suo fratello. «Non sai niente di quello che le sta succedendo, quindi taci.» Prese dal tavolo le pergamene antiche senza curarsi della loro fragilità e si diresse verso la porta. Jani diede un'occhiata esasperata al figlio maggiore. Seguì in fretta Reyn e lo trattenne con una mano sul braccio.
«Per favore, figlio. Ritorna, siediti e parla con noi. So che sei molto teso. E apprezzo che tu condivida il dolore di Malta per il padre disperso.» «Per non dire del nostro veliero vivente disperso» aggiunse Bendir sotto voce. Sperava che Reyn sentisse il suo commento, e suo fratello abboccò. Si girò di scatto per affrontare la nuova provocazione. «Ti preoccupi solo di questo, vero?» lo accusò. «Un buon affare. Un contratto lucroso. Non ti importa di quello che provo per Malta. Non mi hai neanche concesso di lasciare la città e raggiungere Borgomago il mese scorso, quando ha ricevuto le cattive notizie. Sei sempre uguale, Bendir. Soldi, soldi, soldi. Ho trovato queste pergamene, e voglio avere il tempo di decifrarle. Non è facile. Abbiamo così pochi documenti degli Antichi. Quindi tradurre quello che troviamo è difficile. Voglio scoprire tutto quello che possono dirci. Spero che possano suggerirci perché ci sono così pochi documenti scritti. Erano evidentemente un popolo istruito; dovrebbe esserci un tesoro di libri e pergamene. Ma dove? Non ti importa di risolvere il grande mistero che può essere la chiave della città intera. Per te questi documenti rappresentano solo una cosa. Possiamo trarne profitto? No? Allora mettiamoli da parte e andiamo a scovare qualcos'altro.» Come per scimmiottare l'atteggiamento di Bendir, scagliò con indifferenza le pergamene sul tavolo. Jani trasalì. Non ci voleva molto a sbriciolarle. «Per favore» disse brusca. «Tutti e due. Sedetevi. Dobbiamo discutere.» Con riluttanza le obbedirono. Jani sedette a capotavola, prendendo di proposito la posizione di autorità. Ultimamente Bendir era divenuto un po' troppo zelante con il fratello minore. Era ora di rimetterlo al suo posto. Allo stesso tempo non voleva incoraggiare Reyn nella sua cupa malinconia. Sembrava diventato il suo unico stato d'animo. Lei ne aveva abbastanza. Non diede alcun preavviso prima di attaccare. Puntò un dito su Bendir. «Non hai scuse per essere geloso del corteggiamento di tuo fratello. Quando eri infatuato di Rorela, tutta la famiglia tollerava le tue follie. Trascorrevi ogni momento libero davanti alla sua porta. Mi sembra di ricordare che hai preteso di ridecorare un'ala intera della Sala del Gallo per lei, dipingendo tutto in sfumature di verde perché dicevi che era il suo colore preferito. E non mi hai permesso di consultarla per sapere se era davvero il suo desiderio. Ricordi come reagì alla tua 'sorpresa'?» Bendir aggrottò la fronte. Reyn sorrise divertito, un'espressione che Jani non vedeva da tempo sul suo viso. Avrebbe voluto lasciarla indugiare, ma
doveva battere il ferro finché era caldo. «E tu smettila di comportarti come un ragazzino innamorato, Reyn. Sei un uomo. Me lo sarei aspettato se ti fossi innamorato a quattordici anni, ma ne hai più di venti. Non devi sbandierare tanto i tuoi sentimenti. La tua richiesta di correre a Borgomago, non annunciato, quasi senza avvertirci, era semplicemente irragionevole. Il broncio che mostri da allora non ti si addice. Presto scenderai il fiume, e scorterai la tua signora al suo primo Ballo d'Estate. Cosa puoi chiedere di più?» Gli occhi di Reyn sprigionarono bagliori di rabbia. Bene. Se Jani riusciva a farli arrabbiare con lei, li avrebbe forse spinti a commiserarsi a vicenda. Quando erano ragazzi aveva sempre funzionato. «Che altro potrei chiedervi? Forse un po' di comprensione per quello che Malta sta passando! Volevo andare da lei, fornire a lei e alla sua famiglia tutto il supporto che potevo durante questa crisi. Invece cosa mi avete permesso? Niente. Avete spedito educati messaggi di partecipazione, e avete detto che permettermi di scriverle direttamente sarebbe stato precipitoso. Madre, intendo sposarla. Come può essere precipitoso chiedere alla mia famiglia di aiutare la sua?» «Le risorse della famiglia non sono tue e non sei libero di dispensarle, Reyn. Devi capirlo. Nel tuo ardore ci impegneresti tutti, troppo profondamente. So che suo padre e il veliero vivente di famiglia sono in pericolo. Il mio cuore sanguina per loro. Si tratta anche di un investimento considerevole da parte nostra, che può già essere perso irreparabilmente. Reyn, non possiamo gettare soldi buoni in un cattivo affare. No. Non scappare. Ascoltami. Ciò che ti sembra crudele è solo buonsenso. Dovrei permettere a te e a Malta di ridurvi in miseria per quella che può essere una causa persa? Abbiamo tutti sentito parlare di questo Kennit. Non ho una grande opinione di Kyle Haven, a parte il fatto che è il padre di Malta. Che resti fra noi: se l'è voluto. Non dico che se lo sia meritato, solo che ha messo a rischio sé stesso e la famiglia e la nave. «Né posso approvare il modo in cui i Vestrit hanno scelto di tentare il 'salvataggio'. Neppure i loro amici e vicini li sostengono. È tutto assai mal considerato: Althea è testarda come un mulo, hanno questo figlio diseredato di Mercanti al timone e una straniera che finanzia l'impresa. La nave che usano non avrebbe mai dovuto lasciare di nuovo la spiaggia. Paragon è un rimprovero a tutti noi. La nostra ignoranza è la nostra unica pretesa di innocenza. Non avrebbe mai dovuto essere costruito con assi miste, e i LaSuerte sono ancora più colpevoli. Lo caricarono troppo, con il carico sul
ponte, e poi misero troppa velatura per compensare. Si rovesciò perché era troppo pesante sopra la linea di galleggiamento. «La nostra avidità costruì quella nave troppo in fretta, e la loro lo fece impazzire. Fummo tutti colpevoli per ciò che divenne. Arenarlo fu la cosa più saggia; rimetterlo in mare è una follia.» «Che altra scelta rimaneva alla famiglia Vestrit?» chiese quietamente Reyn. «Le loro fortune zoppicano. Sono stati molto onesti in proposito. Quindi stanno facendo il possibile con le risorse che possono mendicare o prendere in prestito.» «Avrebbero potuto aspettare» dichiarò Jani. «Non è passato poi molto tempo. Si sa che Kennit fa aspettare alle sue vittime l'offerta di riscatto. Arriverà.» «Invece no. A quanto pare voleva un veliero vivente, e se lo è preso. Adesso si dice che anche l'Anello d'Oro è scomparso. Lo vedi quanto siamo vulnerabili, madre? I pirati potrebbero risalire il Fiume. Non siamo preparati a una simile emergenza. Non abbiamo niente per fermarli. Penso che i Vestrit abbiano compiuto l'azione più sensata. Quel veliero vivente va recuperato, a ogni costo. Stanno rischiando il loro sangue e la fortuna di famiglia. In ultima analisi lo fanno per proteggerci. E noi cosa facciamo? Li abbandoniamo.» «Cosa vorresti fare?» Bendir chiese stanco. Reyn colse la palla al balzo. «Cancelliamo il debito del veliero vivente. Aiutiamo a finanziare la spedizione, come minimo. Agiamo contro il Satrapo, che ha lasciato fiorire la pirateria e la schiavitù e in tal modo ha fatto precipitare l'intera situazione.» Bendir fu subito indignato. «Non solo propone di rischiare le nostre fortune insieme alle loro, ma di cacciarci in un uragano politico. Ne abbiamo discusso nel cerchio dei Mercanti delle Giungle della Pioggia. Finché Borgomago non promette di resistere con noi, è troppo presto per sfidare il Satrapo. Il suo stivale sul collo disgusta anche me, ma...» «Ma lo sopporterai finché qualcuno altro non sarà pronto a rischiare per primo!» terminò Reyn con rabbia. «Proprio come Borgomago è pronta a lasciare che i Vestrit si espongano sfidando i pirati, e Tenira si è opposto alle tasse da solo.» Jani non aveva previsto che la conversazione si spingesse fino a toccare argomenti del genere, ma ne approfittò. «In questo devo essere d'accordo con Reyn. La situazione non è migliorata dall'ultima volta che mi sono rivolta al Concilio dei Mercanti di Borgomago, ma penso che l'opinione
pubblica a Borgomago abbia fatto progressi. Dai rapporti che ho ricevuto sull'insurrezione contro le tasse, penso che se la famiglia Khuprus prendesse posizione, altri la seguirebbero. E penso che questa posizione debba essere per l'indipendenza completa.» Un silenzio profondo seguì le sue parole. Dopo un poco Reyn disse con voce fioca: «Meno male che sono io quello disposto a rischiare tutta la fortuna di famiglia.» «Rischiamo di più se non facciamo niente» dichiarò Jani. «È ora di allearsi con chi la pensa come noi, che siano delle Giungle o di Borgomago.» «Come Grag Tenira?» chiese Reyn. «Non penso che sia fuggito qui per caso. È ospite della famiglia Grove; hanno forti legami d'affari con la famiglia Tenira.» «E forte simpatia per chiunque desideri opporsi al Satrapo» aggiunse pensieroso Reyn. Bendir parve sorpreso. «Da quando il mio fratellino è così interessato alla politica? Mi sembra che abbiamo dovuto trascinarti a quella riunione a Borgomago.» «E avete fatto bene: mi ha aperto gli occhi su molte cose» ammise volentieri Reyn. A sua madre suggerì: «Dovremmo invitare Grag Tenira a cena. Con i Grove, certo.» «Penso che sarebbe saggio.» Jani guardò il figlio maggiore, e quando questi annuì, si sentì sollevata. Non sarebbe vissuta per sempre. Prima i suoi figli imparavano a lavorare insieme, meglio era. Si azzardò a cambiare argomento. «Allora, Reyn. Hai capito qualcosa di quelle vecchie carte?» Accennò alle antiche pergamene che il giovane aveva abbandonato sul tavolo. «In parte.» Reyn aggrottò la fronte, avvicinandola a sé. «Ci sono molte parole poco familiari. Quello che ho decifrato è entusiasmante e frustrante. Sembrano esserci riferimenti a un'altra città, molto più interna, lungo il fiume.» Si grattò una chiazza scagliosa sulla guancia. «Se capisco correttamente, è nel mezzo del nulla. Quasi vicino a quello che alcuni chiamano il Regno delle Montagne. Se quella città esistesse e potessimo localizzarla... Ecco, potrebbe rappresentare la più grande scoperta da quando Trehaug fu fondata.» «Un sogno di fumo» disse Bendir sprezzante. «Ci sono già state spedizioni su per il fiume. Non hanno trovato nulla. Se c'è un'altra città, è probabilmente seppellita più profondamente di Trehaug.» «Chi lo sa?» lo sfidò Reyn. «Ti dico, da quello che posso dedurre, che è
molto più a monte di noi. Forse è addirittura sfuggita alla distruzione.» Apparve pensieroso. «Per quel che ne sappiamo, la razza degli Antichi potrebbe sopravvivere in quel luogo. Pensate a quello che potrebbero insegnarci...» Lasciò che la voce si spegnesse, ignaro dello sguardo preoccupato che passò tra sua madre e suo fratello. «Credo che valga la pena di studiarla più a fondo. E credo che sottoporrò le mie domande al drago e vedrò quello che dice lei.» «No.» Bendir lo proibì bruscamente. «Reyn, credevo che ci fossimo chiariti. Devi stare fuori dalla Sala del Gallo Incoronato. Quel tronco ha fin troppo potere su di te.» «Non è un tronco. È un drago femmina. Dovrebbe essere liberata.» Jani e Bendir si scambiarono un'occhiata senza tentare di nasconderla. Bendir parlò quasi con rabbia. «Avrei dovuto tagliare molto tempo fa quella cosa maledetta, quando sospettai che ti stava influenzando. Ma non era il momento. È l'ultimo tronco di legno magico, il più grande. La nave che costruiremo con esso sarà l'ultimo veliero vivente... a meno che tu non abbia ragione su questa tua altra città. Forse là troveremmo altro legno magico.» «Non lo troverai senza me» indicò quietamente Reyn. «E io non ti aiuterò se uccidi il drago.» Bendir incrociò le braccia. Jani sapeva bene cosa indicasse quel gesto. Stava tentando di contenere la rabbia verso il fratello minore. Reyn il sognatore, Reyn lo studioso, così spesso innervosiva il pragmatico Bendir. Jani aveva sempre sperato che con il tempo i suoi ragazzi avrebbero imparato a completarsi a vicenda. Ora temette che sarebbero sempre stati in disaccordo. «Non c'è nessun drago» Bendir parlò con lentezza. «Qualunque cosa ci fosse lì dentro è morto tempo fa. Probabilmente è impazzito prima di morire. Non ne rimane altro che i suoi ricordi. Non è più vivo di quanto lo siano i velieri viventi. Le assi assorbono i ricordi, e li trattengono. Nient'altro. Se non fosse vero, non potremmo tagliare un tronco e permettere ai mercanti di Borgomago di immagazzinarvi ricordi freschi. Chiunque parli con un veliero vivente in realtà parla con sé stesso, insieme ai ricordi di famiglia immagazzinati nel legno. Tutto qui. Quando tu parli con quel tronco, senti i tuoi pensieri, interpretati dai folli ricordi della povera creatura morta molto tempo prima che scoprissimo questa città.» Quasi implorante, aggiunse: «Reyn. Non lasciare che la pazzia di un nato morto parli con la tua voce. Allontanala.»
L'incertezza balenò sul viso di Reyn. Poi si indurì in caparbietà. «A me sembra molto facile da dimostrare. Aiutatemi a portare il tronco alla luce e all'aria. Se non accade nulla, ammetterò di essere stato uno sciocco.» «Sarebbe davvero una follia!» esclamò Bendir disgustato. «Quel tronco è immenso. Dovremmo rimuovere l'intera cima della collina. O scavare l'area franata sull'ingresso originale, e rischiare di far crollare la camera. Il muro sopra la porta è incrinato. Anche se sapessimo come aprirlo, rischieremmo di compromettere tutto. Reyn, non dici sul serio.» «Lei è viva.» Provocatoriamente, Reyn aggiunse: «E dice che sarebbe disposta ad aiutare Malta e la sua famiglia. Pensateci. Pensate al potenziale di un tale alleato.» «Pensate al potenziale di un tale nemico!» ribatté Jani adirata. «Reyn, ne abbiamo parlato fino alla nausea. Anche se c'è una creatura viva in quel tronco, non possiamo portarlo fuori; e anche se potessimo, saremmo stupidi a lasciarla uscire. Ora facciamola finita. Basta. Mi capisci? Non ne parleremo più. Lo proibisco.» Reyn aprì la bocca. La mascella e il labbro inferiore vibrarono, come quando era un bambino piccolo e stava per mettersi a strillare, frustrato. Poi chiuse la bocca di scatto. Senza una parola si alzò e girò le spalle. «Non abbiamo finito!» lo avvertì Jani Khuprus. «Io sì.» «No. Torna a questo tavolo e dicci che cosa hai imparato finora dalle pergamene. Te lo ordino.» Reyn li guardò di nuovo. I suoi occhi erano diventati freddi e scuri. «Me lo ordini? Allora io ordino questo. Fa' che ne valga la pena. Se non mi darai il drago, allora dammi un po' dei tuoi preziosi soldi, madre. In un modo o nell'altro aiuterò la mia amata. Non andrò al Ballo di Borgomago per prenderle la mano, ballare con lei e lasciarla priva di speranza e denaro come prima del mio arrivo. Non lo farò.» Toccò a Bendir essere oltraggiato. «Quando hai smesso di essere un membro della famiglia? Dobbiamo corromperti per farti compiere il tuo dovere verso la famiglia? Dovremmo pagarti per farti restituire una misura di quello che hai preso? Prima sarò dannato!» «E allora che tu sia dannato!» rispose freddo Reyn. «Reyn.» Jani tentò di controllare il tono della voce. «Parla chiaro. Cosa ci chiedi? Cosa potremmo offrirti per farti abbandonare questo tuo sogno di un drago?» «Mamma, mi rifiuto...»
«Silenzio, Bendir. Ascolta le sue richieste, prima di dire no.» Pregò di non aver rivelato con troppa chiarezza il suo piano. Reyn doveva credere di esserci entrato di sua volontà. «Cosa chiedi, figlio?» Reyn si leccò le labbra asciutte. Sembrava furtivo e in trappola, ora che doveva finalmente parlare ad alta voce. Si schiarì la gola. «Per prima cosa: cancellate il debito dei Vestrit per il veliero vivente. Tanto ormai è solo una formalità. È apertamente riconosciuto che sarebbe stato il mio regalo di nozze a Malta. Offriteglielo ora, quando è necessario. Non lasciatele credere che continueremo a spremere la sua famiglia mentre sono così in crisi. Non lasciatela temere» e la sua voce si fece rauca, «non lasciatela temere che deve sposarmi per denaro, che lo voglia o no. Non la voglio così. Non voglio che tema l'accordo di sangue.» «Giungerebbe ad amarti con il tempo, Reyn. Non dubitarne. Molte spose venute alle Giungle della Pioggia con riluttanza hanno imparato presto ad amare...» «Non la voglio così» ripeté Reyn caparbio. «E allora non invocheremo quella parte del contratto» lo assicurò sua madre. «Va bene, siamo d'accordo, getteremo via il contratto» disse brusco Bendir, la voce infuriata. «E adesso, che cosa hai scoperto dalle pergamene?» «C'è dell'altro» disse implacabile Reyn. «Oh, che altro ci può essere? Vuoi diventare Satrapo delle Giungle della Pioggia?» chiese Bendir sarcastico. «No. Solo padrone della mia vita. Voglio poter andare a trovare Malta ogni volta che desidero, finché non saremo sposati e verrà a vivere qui. Voglio una rendita personale, soldi che posso spendere senza doverne rendere conto a nessuno. In breve, voglio essere trattato da uomo. Tu avevi una borsa di monete tutta tua quando eri più giovane di me.» «Solo perché avevo anche una moglie! Quando ti sposerai, avrai il tuo reddito. Adesso non ne hai bisogno. Non sono mai stato avaro con te. Nostra madre ti ha sempre concesso tutto, più che a tutti noi. Più ti diamo, più chiedi!» «Puoi avere anche quello» intervenne Jani, implacabile. Il viso di Bendir passò da incredulo a furioso. Alzò le mani. «Che ci faccio qui? Sembra che io non abbia voce in capitolo su niente!» «Sei qui per fare da testimone a tuo fratello mentre mi dà la sua parola. Reyn. Ecco ciò che ti chiediamo: rinuncia al sogno del drago, e non visita-
re più il tronco. Non cercherai più di intervenire nel destino del tronco. Farai il tuo dovere con la famiglia, usando le tue abilità come chiediamo. Non entrerai in città, se non con l'approvazione mia e di tuo fratello, e solo per lavori sanzionati da noi. In cambio annulleremo il contratto sul veliero vivente Vivacia, ti concederemo il reddito indipendente di un uomo e ti permetteremo di visitare la tua amata come desideri. Accetti?» Aveva espresso l'accordo in un linguaggio formale. Sotto il suo sguardo, Reyn considerò l'accordo come Jani gli aveva insegnato, esaminando ogni frase, imparando a memoria i termini. Spostò lo sguardo da sua madre a suo fratello. Il suo respiro si fece più rapido. Si strofinò le tempie, in preda a una battaglia con sé stesso. I termini del contratto erano duri, per entrambe le parti. Jani offriva molto per guadagnare molto. Reyn stava impiegando troppo a rispondere. Avrebbe rifiutato. Poi: «Sì. Sono d'accordo.» Parlò in fretta, come se le parole gli facessero male. Jani emise in silenzio il fiato trattenuto. Era fatta. La trappola si era chiusa dietro di lui, ignaro. Jani trasse un respiro profondo per reprimere il disgusto di aver fatto questo a suo figlio. Era necessario, si disse. Necessario, e perciò onorevole. Reyn avrebbe mantenuto la parola. Come era sempre stato in passato, come sarebbe stato in futuro. Cos'era un Mercante, se non era un uomo di parola? «Come Mercante per questa famiglia, accetto l'accordo. Bendir, ne sei testimone?» «Sì» concordò acido Bendir. Non la guardò negli occhi. Jani si chiese se sospettava quello che aveva fatto e ne era disgustato, o se era costernato dai termini. «Allora non parliamone più, per stanotte. Reyn, per favore, dedica un altro giorno alle pergamene, e poi dacci la migliore traduzione scritta che puoi. Per favore, documenta tutti i nuovi simboli che trovi, e annota il possibile significato. Ma non stasera. Stasera abbiamo tutti bisogno di dormire.» «Oh, io no» ribatté Reyn con amaro divertimento. «Niente sonno per me, temo. O piuttosto, temo che dormirò. Comincerò stasera, madre. Forse domattina avrò qualcosa per te.» «Non esagerare» suggerì Jani, ma Reyn stava già radunando le pergamene per andarsene. Jani aspettò che fosse fuori dalla porta e poi si parò in fretta davanti a Bendir mentre usciva. «Aspetta» gli ordinò. «Che cosa?» chiese Bendir in tono arcigno. «Che Reyn non ci possa sentire» gli disse brusca sua madre. Quello ot-
tenne la sua attenzione. Bendir la guardò, colpito. Jani lasciò passare alcuni lenti minuti. Poi trasse un respiro profondo. «Il drago-tronco, Bendir. Abbiamo bisogno di sbarazzarcene, e presto. Dobbiamo tagliarlo. Forse hai ragione; forse è ora che la famiglia Khuprus abbia una nave propria. O facciamolo segare in assi e mettiamole via. Liberiamoci della cosa all'interno. Altrimenti temo che perderemo tuo fratello. È il tronco, non Malta, la radice dei nostri problemi con lui. Gli sta divorando la mente.» Trasse un profondo respiro. «Temo che affogherà nei ricordi. Già percorre un sentiero angusto accanto a un precipizio. Penso che dovremmo tenerlo lontano dalla città per quanto possibile.» Bendir apparve preoccupato. Jani si sentì più serena. Non fingeva. Suo figlio si preoccupava davvero del fratello minore. La successiva domanda rivelò la profondità dei suoi sentimenti. «Adesso? Intendi tagliare il tronco prima che parta per il Ballo d'Estate a Borgomago? Non penso che sia saggio, madre. È vero che ha accettato di non avere più nulla da dire in proposito. Ma dovrebbe essere un momento felice della sua vita, non tormentato da recriminazioni.» «Hai ragione. No. Aspettiamo che sia partito. Suppongo che trascorrerà una settimana o più in Borgomago. Lo taglieremo allora. Tornando si troverà di fronte al fatto compiuto. Sarà la cosa migliore.» «Incolperà me, lo sai.» Un'ombra passò sul viso di Bendir. «Questo non renderà le cose più facili tra noi.» «No, incolperà me» lo assicurò sua madre. «Farò in modo che sia così.» La notte era calata sul porto. Paragon poteva sentirla. Il vento era cambiato. Ora gli portava alle narici gli odori della città. La polena si toccò il naso. Cautamente le dita salirono più in alto, esplorando la devastazione di schegge al posto degli occhi. «Ti fa male?» chiese piano Ambra. Paragon lasciò subito ricadere le mani. «Noi non proviamo dolore come gli esseri umani» assicurò. Un attimo dopo le chiese: «Dimmi della città. Cosa vedi?» «Oh. Ecco.» La sentì spostarsi sul ponte di prua. Era distesa sulla schiena, sonnecchiando o guardando le stelle. Ora si girò sulla pancia. Il suo corpo era caldo contro il tavolato. «Tutto attorno a noi c'è una foresta di alberi. Bastoni neri contro le stelle. Alcuni delle navi hanno piccole luci, ma rare. Ma in città le luci sono molte. Si riflettono nell'acqua e...» «Come vorrei vederle» disse in tono lamentoso Paragon. Ad alta voce,
protestò: «Vorrei vedere qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa! È tutto oscurità, Ambra. Essere cieco sulla spiaggia era triste, ma dopo un po' mi sono abituato. Ma qui, di nuovo in acqua... non so chi sta passando sul molo, o quali vascelli possono affiancarmi. Potrebbe scoppiare un incendio, e non lo saprei finché non è troppo tardi. È già abbastanza brutto; ma presto salperemo. Come potete aspettarvi che mi avventuri alla cieca in quella vastità? Voglio fare bene. Davvero. Ma temo di non riuscirci.» Avvertì l'impotenza nella voce di Ambra. «Dovrai aver fiducia in noi. Saremo i tuoi occhi, Paragon. Se ci troveremo in pericolo, giuro che sarò qui, accanto a te, e ti dirò tutto quello che affronteremo.» «Magra consolazione» rispose Paragon dopo qualche momento. «Lo so. È tutto quello che posso offrire.» Paragon ascoltò. Le onde urtavano lievemente lo scafo. Le sartie cigolavano. Un rumore di passi, qualcuno che li superava sul molo. I suoni della sera di Borgomago gli giunsero agli orecchi. Si chiese quanto la città fosse cambiata da quando l'aveva vista per l'ultima volta. Fissò davanti a sé un futuro di oscurità eterna. «Ambra» chiese quietamente. «È stato difficile riparare le mani di Ophelia? Erano molto danneggiate?» «Le bruciature non erano profonde, tranne che in alcuni punti. Il problema era più che altro mantenere le proporzioni delle dita rispetto alle mani. Non potevo semplicemente grattar via le parti danneggiate, dovevo trasformare entrambe le mani. Una buona porzione del legno che ho rimosso non era bruciata affatto. Penso sia stata dura per lei rimanere immobile, e per me concentrarmi sulla mia abilità quando temevo di procurarle dolore.» «Allora è stato doloroso?» «Chi lo sa? Ophelia dice di no. Mi ha detto le tue stesse parole: i velieri viventi non provano dolore come gli esseri umani. Tuttavia penso che abbia avvertito disagio. Mi ha detto che provava un senso di perdita per il legno che rifilavo; fu una delle ragioni per cui glielo restituii sotto forma di gioielli. Quando ebbi finito mi disse anche che le sue mani sembravano 'sbagliate'.» Ambra fece una pausa. «Quello mi sconvolse. Avevo fatto il miglior lavoro che potevo. Ma quando tornai a visitarla per l'ultima volta, prima che partisse, mi disse che si era abituata alle sue nuove mani e che ora andavano bene. Avrebbe voluto che intagliassi i suoi capelli, ma il capitano Tenira rifiutò perché non potevano restare in porto tanto a lungo. A dire la verità ne fui sollevata. Il legno magico è... legno difficile. Anche con i guanti, mi sembrava sempre che cercasse di attirarmi dentro di sé.»
Paragon udì appena le sue ultime parole. «Potresti tagliarmi la barba» esclamò all'improvviso. «Cosa?» Allarmata, Ambra balzò in piedi in un solo movimento fluido, come un uccello che si alza in volo. «Paragon, che stai dicendo?» «Potresti tagliarmi la barba, e modellarla, e applicarmela come una faccia nuova. Potrei vedere di nuovo.» «È un'idea pazzesca» disse drastica Ambra. «Certo, sono una nave impazzita. Funzionerebbe, Ambra. Guarda quanto legno c'è qui.» Afferrò due grandi manciate della barba folta. «Ce n'è abbastanza per fabbricarmi occhi nuovi. Potresti farlo.» «Non oserei» disse piatta Ambra. «Perché no?» «Cosa direbbero Althea e Brashen? Riparare le mani di Ophelia era una cosa. Riplasmarti una faccia nuova sarebbe tutta un'altra faccenda.» Paragon incrociò le braccia. «Che importa cosa dicono Althea o Brashen? Appartengo a loro? Sono uno schiavo?» «No, è solo che...» Paragon la ignorò. «Quando mi hai 'comprato', non hai insistito che era solo una formalità per gli altri? Hai detto che appartenevo a me stesso. Che era sempre stato così e lo sarebbe sempre stato. Quindi mi sembra che dovrebbe essere una mia scelta.» «Forse. Non significa che devo accettare.» «Perché vuoi rifiutare? Vuoi che io sia cieco?» Sentì la rabbia fremere in lui, tentando di trovare sfogo. La ingoiò come un fiotto di bile. La rabbia non funzionava con Ambra. Si sarebbe solo allontanata. «Certo che no. Ma non voglio neanche deluderti. Paragon, non capisco il legno magico. Le mani mi dicono che è una cosa, il cuore mi dice che è un'altra. Lavorare su Ophelia è stato... difficile per me. Diceva che le mie mani le sembravano strane. Quello che sentivo io era più sottile. Più vicino a un sacrilegio.» Pronunciò sommessamente l'ultima parola. Paragon poteva quasi percepire la sua confusione. «Lo hai fatto per Ophelia, ma non lo faresti per me?» «Paragon, c'è una differenza enorme. Su Ophelia ho rimosso legno danneggiato. Tu parli di fissare pezzi sul tuo viso per creare occhi nuovi. Come ho detto, non capisco la natura del legno magico. Le parti applicate diventerebbero vive come te? O rimarrebbero scarti di legno spurio?» «Allora fai come hai fatto per lei!» esplose Paragon dopo un silenzio esasperato. «Taglia via la mia vecchia faccia rovinata. Fammene una nuo-
va.» Ambra sussurrò alcune parole in una lingua diversa. Paragon non aveva idea se pregava o imprecava. Avvertì solo il suo orrore. «Sai quello che chiedi? Dovrei trasformare tutto il tuo viso... forse tutto il corpo, per conservare le proporzioni. Non ho mai affrontato un progetto di tale ampiezza. Intaglio il legno, Paragon, non lo scolpisco.» Emise un sospiro di disgusto. «Potrei rovinarti. Distruggere la tua bellezza per sempre. Non potrei sopportarlo.» Paragon si portò le mani al viso e artigliò gli occhi rovinati. Rise ad alta voce, una risata audace e amara. «Ambra, preferirei essere brutto piuttosto che cieco. Adesso sono brutto e cieco. Come puoi peggiorare la situazione?» «La risposta è precisamente quello che non voglio scoprire» rispose pronta Ambra. Controvoglia, aggiunse: «Ma so che ci penserò. Dammi il tempo di pensarci, Paragon. Datti il tempo per considerarlo bene.» «Il tempo è tutto ciò che possiedo» fece notare Paragon. «Tempo da buttar via.» 27 La fondazione di un regno Vivacia navigava pesante sull'acqua, la stiva colma delle prede di Kennit. Assonnata, pensò che così doveva sentirsi un umano dopo un lauto pasto. Si sentiva sazia e compiaciuta, anche se il carico doveva poco ai suoi sforzi. L'intelligenza di Kennit aveva guadagnato quel tesoro. No. La sua saggezza, si corresse. Qualsiasi pirata di minor calibro poteva vivere della sua intelligenza. Kennit andava oltre. Era un uomo di destino e visione. Vivacia era orgogliosa di essere la sua nave. L'ultimo periodo di navigazione non era stato così diverso dai suoi giorni mercantili con Ephron Vestrit. La prima fermata era stata Borgo Baratto, dove avevano sbarcato gli schiavi. Poi era avvenuto un misterioso incontro con una nave diretta a nord, e Kennit aveva fatto portare una richiesta di riscatto ai proprietari della Bisbetica e alla famiglia del capitano Avery. Poi il pirata aveva cominciato un giro sistematico delle navi della sua «compagnia» e dei loro porti. La Marietta li seguiva. A ogni scalo Kennit e Sorcor scendevano a riva. A volte Etta e Wintrow andavano con loro. A Vivacia piaceva quando Wintrow accompagnava Kennit. Quando il ragazzo tornava da lei e le raccontava delle sue esperienze, era quasi come esse-
re stata presente. Era molto diverso dai giorni in cui aveva temuto di essere divisa da Wintrow anche solo per alcune ore. Supponeva che il suo senso dell'identità fosse divenuto più solido, ora che era sveglia da più tempo. O forse la sua necessità di conoscere ogni dettaglio della vita di Kennit era divenuto più incalzante del bisogno della compagnia di Wintrow. Aveva implorato Kennit di condurre i suoi affari a bordo, in modo che lei ne fosse più consapevole, ma il pirata aveva rifiutato. «Tu mi appartieni» le aveva detto gelosamente. «Tutto il tuo mistero e la tua bellezza li riservo per me, mia signora del mare. Mi piace che ti guardino con sgomento e meraviglia. Lasciamo intatta quella mistica. Preferisco che ti invidino e ti ammirino da lontano: se venissero a bordo sarebbero vanamente tentati di conquistarti con il fascino o la violenza. Sei il mio castello e la mia fortezza, Vivacia. Non permetterò estranei a bordo.» Vivacia non ricordava solo le sue parole, ma ogni sua inflessione. Erano penetrate in lei come miele nel pane. Sorrise fra sé, riconoscendo i sintomi. Kennit l'aveva corteggiata e l'aveva conquistata. Vivacia non tentava neanche più di passare al setaccio le parole del pirata in cerca di imprecisioni, o di sondare il suo cuore in cerca di verità. Non importava più. Kennit non cercava e non enumerava i suoi difetti; perché Vivacia avrebbe dovuto inventariare quelli di Kennit? Adesso era ancorata in una patetica sembianza di un porto. Non poteva immaginare perché qualcuno potesse scegliere di stabilirsi lì. All'estremità del molo i resti scheletriti di una nave stavano sprofondando nel fango. Tentò di ricordare il nome del luogo. Traverso. Ecco. Ebbene, era adatto all'aspetto della città. Il molo incurvato, le capanne battute dal vento, tutto sembrava leggermente dissestato. C'erano recenti segnali di prosperità. I marciapiedi erano di fresco legno giallo. Le buone intenzioni e la vernice coprivano alcune delle case rachitiche. Qualcuno aveva piantato diversi filari di alberi come frangivento, e più oltre crescevano giovani piante da frutto. Un pastorello teneva un gregge di capre ben lontano dalla tenera corteccia degli alberi. Ormeggiata al molo, in un disordine di barchette, c'era una nave più grande. Ventura, proclamava con orgoglio la targa del nome. La bandiera del Corvo garriva intrepida all'albero maestro. Perfino da lontano i suoi ottoni luccicavano nel sole. La città intera, decise Vivacia, aveva l'aspetto di un luogo sul punto di divenire importante. La sua attenzione fu richiamata da un gruppo di uomini che stava lasciando l'edificio più grande del villaggio e si muoveva verso il molo. Kennit doveva essere fra loro. Presto lo scorse davanti a tutti, affiancato o
seguito dai suoi sostenitori, a seconda della loro condizione locale. Sorcor camminava accanto a lui. Etta, alta e sottile, lo tallonava con Wintrow al fianco. Per qualche momento fecero capannello sul molo. Poi, con molti svolazzi e inchini, dissero addio al suo capitano. Mentre lui e il suo gruppo scendevano la scaletta fino alla scialuppa ormeggiata al molo, i paesani gridarono i loro addii. Così era stato in ogni paese che avevano visitato durante quel giro. Tutti amavano il suo capitano. Vivacia guardò la scialuppa avvicinarsi attraverso l'acqua scintillante del porto placido. Kennit si era tirato a lucido per quella visita. Le piume nere sul cappello dondolavano nella brezza. Il pirata scorse Vivacia osservare il suo avvicinamento e alzò una mano per salutarla. I bottoni d'argento sul polsino della giacca brillarono al sole. Sembrava davvero un pirata prospero. Anzi, sedeva a prua con la solennità di un re. «Lo trattano già come un re» le aveva confidato Wintrow l'ultima volta che le aveva raccontato di una visita simile. «Gli offrono la sua parte di bottino senza un mormorio di scontentezza. Ma non è solo che gli riconoscono il diritto su una porzione dei loro profitti pirateschi. Gli sottopongono le loro doglianze. Kennit detta legge su tutto, dai ladri di polli ai casi di adulterio. Ha preparato piani per la difesa delle città, e decide cosa va costruito e cosa va distrutto.» «È un uomo assennato. Non mi stupisce che attendano le sue decisioni.» Wintrow sbuffò. «Assennato? Solo in ciò che favorisce la sua popolarità. Ero dietro di lui e ho ascoltato le loro rimostranze. Lui ascolta, aggrotta la fronte e fa domande. Ma in ogni situazione decide secondo il sentimento popolare, anche quando è chiaramente ingiusto. Non giudica, Vivacia. Convalida solo le loro opinioni e li fa sentire giustificati. Dopo aver dispensato questo genere di giustizia, fa una passeggiata per la città, guardando questo e quello. 'C'è bisogno di un pozzo per avere acqua migliore', dice. O 'Demolite quell'edificio prima che vada a fuoco e si porti via il resto della città. Riparate il porto. Quella vedova ha bisogno di un tetto nuovo. Fate in modo che lo abbia.' Inoltre getta monete per pagare i suoi suggerimenti, come se fosse generosità piuttosto che la restituzione di quello che gli hanno dato. Li ammalia. Loro lo adorano.» «Perché non dovrebbero? Sembra che faccia loro del bene.» «Sì» aveva ammesso Wintrow a disagio. «È vero. Dà loro i soldi perché si prendano cura dei poveri e dei vecchi. Li spinge ad alzare la testa e vedere quello che possono essere. Nell'ultima città ha ordinato che venisse creato un luogo dove i bambini potessero riunirsi e imparare. C'era un uo-
mo in città che sapeva leggere e far di conto. Kennit ha lasciato un fondo per un generoso stipendio, affinché insegni ai bambini.» «Ancora non capisco perché lo trovi così riprovevole.» «Non è ciò che fa. Quello è bello, anche nobile. Diffido del suo motivo. Vivacia, vuole essere re. Quindi li fa sentire bene. Con i soldi che gli danno, compra quello che avrebbero dovuto comprare da soli. Non perché sia la cosa giusta da fare, ma perché li spinge a pensare bene di lui e a sentirsi bene con sé stessi. Collegheranno quel sentimento di orgoglio con il suo arrivo.» Vivacia aveva scosso la testa. «Ancora non ci vedo nulla di male. Anzi, mi sembra una bella cosa. Wintrow, perché sospetti tanto di lui? Hai mai considerato che forse vuole essere re delle Isole dei Pirati solo perché così può fare del bene?» «Davvero?» A Wintrow, Vivacia doveva la verità. Ancora. «Non lo so» rispose onestamente. «Ma spero di sì. I risultati sono gli stessi, in ogni caso.» «Per ora» ammise Wintrow. «Ma non so quali saranno sulla lunga distanza» aveva aggiunto tetro. Vivacia rifletté sulle parole del ragazzo mentre guardava la barca avvicinarsi. Wintrow era troppo diffidente. Una parte meschina di lui non riusciva ad accettare Kennit come una forza del bene. Tutto qui. La scialuppa si affiancò e la scala di corda fu gettata verso di loro. Vivacia odiava quella parte. Negli ultimi tempi Kennit si ostinava a salire la scala per tornare a bordo della sua nave. Sembrava che la scalata durasse per sempre. A ogni passo Vivacia temeva che scivolasse e precipitasse, fracassandosi le ossa sulla scialuppa. O peggio, poteva cadere in acqua e svanire sotto le onde o essere afferrato dai serpenti. Quell'anno c'era una vera invasione di serpenti. La nave non ricordava un tempo in cui erano stati così numerosi o così audaci. Era inquietante. In breve la gamba di legno risuonò sui suoi ponti. Vivacia emise un sospiro di sollievo e lo attese con impazienza. Veniva sempre a vederla come prima cosa, ogni volta che risaliva a bordo. A volte Wintrow lo seguiva. All'inizio lo faceva anche Etta, ma negli ultimi tempi evitava il ponte di prua. Vivacia la riteneva una saggia decisione. Questa volta, mentre si girava per salutarlo, vide che era da solo. Il suo sorriso divenne più ampio e più caldo. Erano i momenti migliori, quando erano da soli e potevano parlare senza l'intralcio delle domande e delle occhiate scettiche di Wintrow. Kennit le restituì il sorriso con un ghigno
soddisfatto. «Ebbene, mia signora. Sei pronta ad accogliere altro carico? Ho ordinato di portarlo a bordo questo pomeriggio.» «Che genere di carico?» chiese Vivacia, sapendo bene che Kennit si dilettava nell'enumerare i suoi tesori. «Ebbene.» Kennit fece una pausa, assaporando quel piacere. «Brandy eccellente in piccole botti. Balle di tè. Lingotti d'argento. Tappeti di lana, in colori e disegni davvero sorprendenti. Una notevole collezione di libri, tutti ben rilegati. Poesia, storia, un libro di scienze naturali illustrato e molti diari di viaggio di grande valore. Quelli penso che li terrò per me, anche se permetterò a Wintrow ed Etta di leggerli, certo. Alimentari, sacchi di grano, barili di olio e rum. E parecchio denaro, in vari conii. Rufo se l'è cavata bene con la Ventura. Sono molto contento dei progressi di Traverso.» L'attenzione di Vivacia era stata catturata dalla menzione dei libri. «Quindi suppongo che Wintrow continuerà a trascorrere ogni momento libero con Etta» osservò acida. Kennit sorrise. Si inclinò sulla murata e le toccò i capelli, facendo scivolare un ricciolo pesante attraverso le dita. «Esatto. Continuerà a distrarre Etta, e lei lo terrà occupato. Così noi avremo tempo per parlare delle nostre ambizioni e interessi in privato.» Un brivido le percorse le spalle al suo tocco. Conobbe un momento di deliziosa confusione. «Allora li hai messi insieme di proposito, per avere più tempo per noi?» «E perché, se no?» Kennit raccolse un altro ricciolo e soppesò la spira spessamente intagliata. Vivacia gli gettò uno sguardo sopra la spalla. I pallidi occhi blu di Kennit erano ridotti a fenditure. Era un uomo straordinariamente bello, in un modo crudele. «Non ti dispiace, vero? Etta è così ignorante, poverina. La prostituzione lascia poche prospettive. Wintrow è un maestro più paziente di quanto io potrei essere. Le darà gli strumenti che le servono per migliorarsi, così quando lascerà la nave non avrà bisogno di ricominciare a vendersi.» «Etta se ne va?» chiese Vivacia senza fiato. «Certo. L'avevo portata a bordo della Marietta solo per proteggerla. Abbiamo davvero pochissimo in comune. È stata gentile, e anche utile mentre mi riprendevo dalla ferita. Tuttavia è difficile dimenticare che è stata lei a tagliarmi la gamba.» Le rivolse un sorriso teso. «Wintrow la istruirà, e quando lei tornerà a riva saprà fare più che giacere sulla schiena.» Un cipiglio pensieroso gli increspò la fronte. «Penso che sia mio dovere migliora-
re le persone, non ti pare?» «Quando se ne andrà?» Vivacia tentò di non far trapelare l'ansia dalla voce. «Vediamo. Il nostro prossimo scalo è Borgo Baratto. Era casa sua.» Kennit sorrise fra sé. «Ma non si può mai dire come si svilupperanno le cose. Non la costringerò a sbarcare, certo.» «Certo» mormorò Vivacia. Kennit giocherellava con i pesanti riccioli, e la punta le sfiorò la spalla nuda, facendole il solletico. Aveva un pacco piegato sotto il braccio, avvolto in una tela ruvida. «I tuoi capelli sono così belli» disse quietamente. «Ho pensato a te nel momento in cui l'ho visto.» Lo aprì a un'estremità, poi estrasse una manciata di materiale rosso. Lo scosse, srotolando metri di stoffa rossa, incredibilmente leggera e fine. Glielo offrì. «Ho pensato che potevi metterlo nei capelli.» Vivacia era turbata. «Non ho mai ricevuto un regalo simile» si meravigliò. «Sei sicuro che desideri darmelo? Il mare e il vento possono rovinarlo...» Eppure mentre parlava lo intrecciava fra le dita. Lo alzò per legarsi una banda attorno alla fronte. Kennit prese le estremità e lo allacciò per lei. «Allora dovrò solo portartene ancora.» Inclinò la testa, e sorrise con ammirazione. «Sei così bella!» disse quietamente. «La mia regina dei pirati.» Wintrow slacciò con attenzione la fibbia della copertina di legno intagliato. Aprì il libro con cautela, poi sospirò con reverenza. «Oh, è incredibile. Guarda che dettagli.» Portò il volume aperto alla finestra, dove la luce cadde sulla pagina abilmente miniata. «Squisito.» Etta lo affiancò con passo lento e guardò la pagina. «Che cos'è?» «È un erbario... un libro sulle erbe, con disegni e descrizioni e consigli su come vanno usate. Non ne ho mai visto uno così elaborato.» Con attenzione girò la pagina, per mettere in mostra altra bellezza. «Neanche nella biblioteca del nostro monastero avevamo qualcosa di così bello. È un libro incredibilmente prezioso.» Sfiorò la pagina, delineando il disegno di una foglia. «Vedi? Questa è menta piperita. Guarda le increspature e la fine peluria su ogni foglia. Che occhio aveva questo artista.» Si trovavano nella piccola cabina di rappresentanza che un tempo Wintrow aveva diviso con suo padre. Tutte le tracce di quel periodo erano state ripulite da tempo. Ora c'era solo la sua cuccetta accuratamente rifatta, il piccolo tavolo pieghevole e una cassa piena di manoscritti, rotoli e libri.
Wintrow aveva cominciato le lezioni di Etta negli alloggi del capitano, ma Kennit aveva presto deciso che facevano troppa confusione con i loro libri, carte e penne. Aveva vietato loro di usare la stanza di Wintrow a quel fine. Il ragazzo non se ne curava. Non aveva mai avuto accesso completo e libero a tanta sapienza. Di certo non aveva mai visto un libro simile a quello che ora teneva in mano. «Cosa dice?» chiese Etta con riluttanza. «Puoi leggerlo» la incoraggiò Wintrow. «Prova.» «Le lettere sono tutte storte» protestò Etta, ma accettò il libro che Wintrow trasferì con dolcezza nelle sue mani. Aggrottò le sopracciglia. «Non farti scoraggiare da quello. La sua calligrafia era molto decorativa, e alcuni dei caratteri sono elaborati. Guarda solo la forma di base delle lettere, e ignora gli svolazzi. Prova.» Il dito di Etta si mosse con lentezza attraverso la pagina, mettendo insieme le parole. Le decifrò muovendo le labbra. Wintrow strinse le mascelle per trattenersi dall'aiutarla. Dopo qualche istante, Etta trasse un respiro profondo e cominciò: «Di tutte le buone erbe che si conoscono, questa è la regina. Un infuso delle sue foglie appena colte è il miglior rimedio per un raffreddore di testa...» Si fermò all'improvviso e chiuse il libro con attenzione. Quando Wintrow, confuso, gettò uno sguardo al suo viso vide che anche lei aveva gli occhi chiusi. Mentre la guardava, le lacrime filtrarono da sotto le ciglia della donna. «Sai leggere» confermò. Rimase immobile, timoroso di dire di più. Era stato un viaggio molto arduo. Etta era un'allieva difficile. Era brillante, certo. Ma gli sforzi di Wintrow avevano rivelato in lei una rabbia profonda. Per qualche tempo Wintrow era stato sicuro che ce l'avesse con lui. Etta era umbratile: sdegnava il suo aiuto e poi lo accusava di non aiutarla per farla apparire stupida. Il suo caratteraccio non si limitava a scagliare un libro prezioso, o fare a pezzi carta costosa. Più di una volta aveva spinto via il ragazzo che si curvava sul suo lavoro per correggerla. In una sola occasione Wintrow aveva alzato la voce quando era stato costretto a spiegarle per la quinta volta che stava confondendo una lettera. Etta lo aveva colpito. Non un ceffone: un pugno in faccia che lo aveva fatto vacillare. Poi era uscita a grandi passi dalla cabina. Non si era mai scusata. Solo dopo aver lavorato con lei per giorni Wintrow aveva compreso che la rabbia non era diretta verso di lui. Era diretta verso la sua stessa ignoranza abissale. Etta si vergognava di non sapere. Si sentiva umiliata a
chiedere aiuto. Se Wintrow insisteva che provasse da sola, le sembrava che la provocasse per la sua stupidità. Data la sua inclinazione a sfogarsi con lui, non solo era un'allieva difficile ma lo intimidiva. Lodarla troppo era pericoloso quanto lasciarla faticare. Una volta Wintrow aveva tentato di scappare. Aveva chiesto a Kennit di essere sollevato dal suo compito. Si era aspettato che Kennit gli ordinasse di riprendere. Invece il pirata aveva alzato la testa e gli aveva chiesto con dolcezza se davvero credeva che non aiutare Etta fosse la volontà di Sa. Mentre Wintrow rimaneva in silenzio, stordito dalla domanda, il viso di Kennit era cambiato all'improvviso. «È perché era una puttana, vero?» aveva chiesto brusco. «Non pensi che valga abbastanza per trarre profitto dalle lezioni. Ti ripugna, vero?» La domanda era stata posta con viso così gentile e comprensivo eppure così addolorato che Wintrow si era sentito come se il ponte traballasse sotto di lui. Davvero trattava Etta con condiscendenza? Albergava una segreta convinzione di esserle superiore, una convinzione che avrebbe trovato riprovevole in chiunque altro? «N-no!» aveva balbettato, per poi esclamare: «Non la disprezzo. È una donna sorprendente. Temo solo...» «Credo di sapere cosa temi.» Kennit gli aveva rivolto un sorriso indulgente. «Sei a disagio perché la trovi attraente. Non farti angosciare, Wintrow. Qualsiasi ragazzo sano troverebbe difficile resistere a una donna sensuale come Etta. Non intende tentarti così. Poverina. È stata addestrata a farlo da quando era bambina. La seduzione le viene naturale come per un pesce nuotare. Ti avverto: fai molta attenzione a come la rifiuti. Potresti farle molto più male di quanto pensi.» «Non è quello! Non mi permetterei mai...» Wintrow balbettò e poi perse l'abilità di scegliere le parole. Non sarebbe stato così umiliante se fosse stato del tutto innocente. Etta lo affascinava davvero. Non aveva mai passato tanto tempo con una donna matura, meno che mai da solo. Etta invadeva tutti i suoi sensi. I suoi profumi indugiavano nella cabina dopo che era uscita. Wintrow era consapevole della sua voce roca e del sussurro delle ricche gonne. Quando girava la testa, la luce danzava all'improvviso sulla brillantezza dei suoi capelli. Wintrow era consapevole di lei, e a volte Etta turbava il suo sonno. Era pronto ad accettarlo come una reazione normale. Era meno preparato al sorriso indulgente di Kennit. «Va tutto bene, ragazzo. Se fosse così non potrei darti torto. Tuttavia cesserei di stimarti se tu lasciassi che questo interferisse con il tuo giusto dovere. Etta non può migliorarsi senza saper leggere e scrivere, Wintrow.
E lo sappiamo entrambi. Quindi fai del tuo meglio con lei e non scoraggiarti. Non vi permetterò di arrendervi quando siamo così vicini al successo.» Le successive lezioni erano diventate una tortura mai conosciuta. Le parole del capitano lo avevano reso ancor più consapevole della donna. Il tocco «fortuito» della mano di Etta contro la sua mano mentre tenevano lo stesso libro sembrava a volte deliberato. Perché portava tali profumi, se non per ammaliarlo? I suoi sguardi diretti erano intesi come una seduzione? A un certo punto la consapevolezza di Etta era divenuta inconfondibile attrazione. Wintrow non temeva più il tempo che passava con lei: viveva per quei momenti. Era sicuro di non essere ricambiato. Ebbene, quasi sicuro. Non aveva importanza; Etta apparteneva irrevocabilmente a Kennit. Tutte le ballate infelici e romantiche che avesse mai udito, tutte le storie di sfortunati amanti che un tempo gli erano parse così insipide e sentimentali, ormai suonavano vere nel suo cuore. Ora, guardando il viso di Etta mentre assaporava la vittoria, seppe all'improvviso che Kennit aveva ragione. Malgrado la tormentosa tentazione che aveva sopportato, ne era valsa la pena. Etta sapeva leggere. Wintrow non aveva mai saputo di avere il potere di dare tale gioia. L'esaltazione che ne trasse superava ogni carnalità. Le aveva dato un dono che in qualche modo completava lui stesso. Etta rimase con il libro stretto al petto come un figlio. Il suo viso con gli occhi chiusi era voltato verso il piccolo oblò nella cabina. La luce lo sfiorava indorando la pelle abbronzata e luccicando sulle guance bagnate di lacrime e sulla lucentezza dei suoi capelli. Wintrow pensò a un girasole rivolto verso la luce. L'aveva già vista allegra, quando rideva con Kennit o scherzava con gli altri pirati. Ora la vide trasfigurata di gioia. Non c'era confronto. Il petto della donna si sollevò e poi si abbassò in un lungo sospiro. Aprì gli occhi e gli sorrise. «Wintrow» mormorò. Scosse con lentezza la testa, e il sorriso si allargò. «Kennit è così saggio, vero? All'inizio non vedevo alcun valore in te. Poi ero gelosa dell'affetto che lui ti portava. Ti odiavo, sai. E ora, quello che provo per te...» Esitò. «Pensavo che solo Kennit potesse far fremere così il mio cuore» ammise con semplicità. Quelle semplici parole lo sbalordirono. Non gli aveva detto che lo amava, si disse severamente. Solo che lui le faceva fremere il cuore. Anche i suoi insegnanti al monastero avevano fatto fremere le sue emozioni. Etta intendeva solo quello. E se anche avesse voluto intendere di più, Wintrow
sarebbe stato uno sciocco a permettersi di corrisponderla. Uno sciocco. «Per favore» disse Etta quieta. Gli tese una mano. «Aiutami a scegliere un libro. Magari quello nuovo, che hai detto che era poesia. Poi lasciami esercitare con te. Stasera voglio leggere a Kennit.» Scosse la testa con affetto. «Quasi non riesco a credere di saper leggere. Lui è così... lo so, sei tu che mi hai insegnato. Ma lui lo ha reso possibile. Immagini come mi fa sentire? Cosa vede Kennit in me, Wintrow? Come posso essere degna di un uomo così? Ero una piccola prostituta nella casa di Bettel quando mi vide per la prima volta. Non mi ero mai considerata nulla di più. Come ha fatto?» Alzò la testa e gli occhi scuri guardarono nell'anima di Wintrow, cercando una risposta. Il ragazzo non poteva negargliela. «Tu risplendi» disse piano. «Perfino quando ti vidi per la prima volta. Perfino quando sapevo che mi odiavi. C'è qualcosa in te, Etta. Qualcosa che non può essere estinto dalle difficoltà o dai maltrattamenti. La tua anima luccica come argento sotto una patina di logorio. Kennit ha ragione ad amarti. Qualunque uomo ti amerebbe.» Gli occhi di Etta si dilatarono. Distolse il viso, e incredibilmente un rossore le sfiorò le guance scottate dal vento. «Io appartengo a Kennit» gli ricordò, con orgoglio. «Lo so» disse Wintrow. Molto piano, solo a sé stesso, aggiunse: «E lo invidio.» Era stata una lunga giornata, piena di soddisfazioni. Traverso era l'ultimo porto prima di tornare a Borgo Baratto. Kennit e Sorcor avevano visitato i porti di ogni nave che il pirata aveva equipaggiato con schiavi liberati. Alcune navi se l'erano cavata meglio di altre, ma in ogni città era stato accolto con acclamazioni. Perfino il brusco Sorcor era giunto a credere nel suo piano. Lo si leggeva nel suo passo tronfio. Il suo largo viso splendeva d'orgoglio mentre ascoltava il resoconto dei loro bottini accanto a Kennit. La Marietta e Vivacia erano pesanti di bottino. Caricare l'ultimo tesoro era stato una sfida piacevole. Il giovane Rufo aveva manovrato la Ventura con aggressività, catturando quasi ogni nave che inseguiva, se c'era da credere alle storie che si raccontavano. C'era denaro in abbondanza, e schiavi liberati per aumentare la popolazione. Con l'aiuto della donna a capo del villaggio, il giovane pirata aveva tenuto i conti. Mostrò i bastoncini da conto a Kennit con l'orgoglio di un sovrintendente. Kennit ascoltò il consuntivo di ogni soldo speso in legname o alberi da frutta o capre. Avevano anche assunto molti artigiani che venissero a vivere a Traverso. Rufo ave-
va messo da parte i tesori più esotici e rari per la percentuale di Kennit. Li cedevano a Kennit con la consapevolezza che ne sarebbe stato soddisfatto. Kennit lo percepì, e manifestò grande delizia. Ciò alimentò il loro desiderio di compiacerlo ulteriormente. Il pirata promise un'altra nave, la prima che avrebbe catturato. Bene, e perché no? La meritavano. Forse avrebbe dato loro la Bisbetica, se i suoi proprietari erano lenti a riscattarla. Ma perfino il piacere può essere faticoso. Il tipo di carico che avevano preso a bordo non andava trattato come casse di pesce sotto sale. Kennit era stato molto pignolo, insistendo per assistere alla stivatura. Il meglio della preda, gli oggetti più piccoli e preziosi, li aveva fatti portare nella sua cabina. Ora, aprendo la porta, temeva quasi il compito gioioso di sistemare i nuovi tesori per non stare allo stretto. Forse avrebbe dormito prima e lo avrebbe fatto la mattina, dopo che entrambe le navi avevano preso il largo per Borgo Baratto. Aprì la porta della cabina e si trovò immerso in un mare di luce dorata e spire di incenso. Non di nuovo. Gli appetiti di quella donna non avevano confini? Si aspettò di trovarla voluttuosamente distesa sul suo letto. Invece Etta sedeva accanto a una sedia vuota. La luce della lampada illuminava lei e il libro aperto che aveva in grembo. Indossava una camicia da notte, modesta piuttosto che seducente. Sembrava quasi la figlia di qualcuno. Con uno sguardo di fastidio, Kennit comprese che aveva già spostato i suoi tesori. La reazione iniziale fu una rapida indignazione. Come osava toccare le sue cose? Seguì un'ondata più blanda di rassegnazione e sollievo. Ebbene, almeno era stato messo tutto via. Nulla lo intralciava. Zoppicò fino al letto e sedette sul bordo. La coppa di cuoio attorno al moncone lo irritava orribilmente. Bisognava foderarla di nuovo. «Voglio mostrarti qualcosa che so fare» disse quieta Etta. Kennit emise un lieve sospiro di esasperazione. Quella donna non pensava ad altro che ai suoi piaceri? «Etta, ho avuto una giornata molto lunga. Aiutami con lo stivale.» Docile, Etta accantonò il libro e lo raggiunse. Gli tolse lo stivale, poi gli massaggiò con dolcezza il piede. Kennit chiuse gli occhi. «Prendimi una camicia da notte.» Etta obbedì subito. Non appena il pirata si toglieva un indumento, lei lo scuoteva, lo piegava e lo rimetteva nel suo baule dei vestiti. Mentre toglieva la coppa e la gamba di legno dal moncone, Kennit le indicò l'abrasione. «Non puoi imbottire questa cosa in modo che rimanga comoda?» Etta girò la tazza, esaminando la fodera. «Se tu fossi un uomo meno at-
tivo, forse sarebbe più facile. Questa volta proverò con la seta. È molto morbida, ma è un materiale resistente.» «Bene. Ne avrò bisogno domattina.» Si mise in piedi con un saltello, sollevò le coperte e sedette sulle lenzuola. Erano fresche e pulite quando si distese. Il cuscino odorava di lavanda. Chiuse gli occhi. La voce chiara e sommessa di Etta irruppe nella sua mente sempre più vuota: «Le nostre anime si sono amate mille volte. Per sentieri che non ricordiamo più, ci siamo avventurati in altre vite. Ti conosco troppo bene, ti amo troppo intensamente, perché sia solo il risultato del passare degli anni. Come un fiume scava un corso all'interno di una valle, così la tua anima ha segnato la mia con il suo passaggio. In altri corpi, abbiamo conosciuto la completezza, come mai...» Kennit interruppe stancamente la sua recitazione. «Non mi è mai piaciuta la scuola poetica syreniana. Parlano troppo chiaro. La poesia non dovrebbe essere così pedestre. Se devi imparare a memoria qualcosa, scegli una poesia di Eupille o Vergihe.» Si rannicchiò sotto le coperte, emise un ringhio basso di soddisfazione e si arrese al sonno. «Non l'ho imparata a memoria. Stavo leggendo. So leggere, Kennit. So leggere.» Etta si aspettava che fosse sorpreso. Il pirata era troppo stanco. «Bene. Sono contento che Wintrow sia stato capace di istruirti. Ora vedremo se saprà insegnarti ciò che vale la pena di leggere.» Etta accantonò il libro e spense la lampada, immergendo la stanza nell'oscurità. Kennit udì il fruscio sommesso dei suoi passi mentre si avvicinava al letto e si infilava accanto a lui. Doveva trovarle un altro posto per dormire. Forse poteva appendere un'amaca nell'angolo della stanza. «Wintrow dice che non ho più bisogno del suo aiuto. Ora che so leggere, dice che dovrei semplicemente esplorare ogni manoscritto o pergamena che mi viene sottomano. Solo l'esercizio mi farà leggere più in fretta, o scrivere con una calligrafia migliore. Questo posso farlo da sola.» Kennit aprì gli occhi a fatica. Così non andava. Con riluttanza si girò a guardarla. «Ma non vorresti. Di certo hai apprezzato le ore passate con lui. So che gli piace insegnarti. È stato molto onesto con me sul piacere che trae dalla tua compagnia.» Riuscì a produrre una calda risata sommessa. «Il ragazzo è infatuato di te, sai.» Etta lo sorprese. Non fece nessun tentativo di dissimulare. «Lo so. È un ragazzo dolce, di belle maniere. Ora capisco perché sei tanto affezionato a
lui. Mi ha dato un regalo che conserverò per sempre.» «Bene. Spero che lo abbia ringraziato come si deve.» Voleva solo dormire. Allo stesso tempo, non riusciva a resistere alla conversazione. Sembrava che il suo piano potesse dare frutto. Etta lo aveva definito dolce. Kennit aveva visto gli occhi di Wintrow che la seguivano quando era sul ponte. Forse i due avevano già agito secondo quell'istinto? Forse Etta portava già in grembo un erede per il veliero vivente? Kennit le fece scivolare le dita lungo il braccio come per accarezzarla, poi mise la mano piatta sul suo ventre. Il piccolo cranio sporgeva ancora dall'ombelico. Ci vuole pazienza, si disse, per reagire alla delusione. Certe cose richiedevano tempo. Se li si teneva rinchiusi insieme abbastanza a lungo, si sarebbero accoppiati. Funzionava sempre con i piccioni, le capre e i maiali di famiglia, quando era ragazzo. «In verità non so come ringraziarlo» esitò Etta. La risposta era ovvia per Kennit, ma si trattenne dal dirlo apertamente. «Penso che il ragazzo si senta solo. Mostragli che ti sei affezionata a lui e hai apprezzato la sua compagnia. Quello lo farà contento. Pensa a quale delle tue conoscenze potrebbe essergli di beneficio, e insegnagliela. Mi sembrerebbe uno scambio adatto.» Ecco. Era un suggerimento troppo smaccato? «So così poco» balbettò Etta dopo un momento. «Cosa potrebbe imparare da una come me?» Kennit sospirò e tentò di nuovo. Delicatamente, si ricordò. Delicatamente. «Oh, sono sicuro che tu conosci il mondo molto più di lui. Il ragazzo ha passato la maggior parte della sua vita in un monastero. Conoscerà le lettere e le arti, ma ignora tragicamente le abilità più mondane. La tua situazione, certo, è l'opposto. Quindi dividi con lui ciò che la vita ti ha insegnato. Insegnagli a essere un uomo. Non potrebbe avere migliore maestra.» Le accarezzò tutto il corpo. Etta era silenziosa. Kennit poteva quasi sentirla pensare. «Mi piacerebbe dargli... Kennit, ti dispiacerebbe molto se gli dessi qualcosa di tuo? Qualcosa dal nostro carico?» Non era esattamente ciò che Kennit aveva in mente, ma era un inizio. Chi poteva sapere quali altri doni gli avrebbe fatto? «Non esitare» la incoraggiò. «Come sai, sono molto affezionato al ragazzo. Non mi dispiace dividere con lui ciò che è mio.» Wintrow si svegliò all'aprirsi della porta. Qualcuno entrò in silenzio e la
richiuse furtivamente. Per un attimo la paura lo paralizzò. Dormiva meglio da quando Sa'Adar era morto, ma aveva continuato a temere che alcuni ex schiavi lo biasimassero per la fine del loro capo. Trasse un respiro e lo trattenne. Tentò di spostarsi in silenzio nel letto. Forse il primo attacco lo avrebbe mancato, dandogli un'opportunità di scappare. Chiunque fosse, andò alla piccola scrivania e vi depose qualcosa. «So che sei sveglio» disse calma Etta. «Ti ho sentito trattenere il respiro. Alzati e accendi una luce.» «Non è ancora mattina» protestò il ragazzo, confuso. «Che ci fai qui?» «L'ho notato» rispose ironica la donna. «Sono venuta a insegnarti qualcosa. Certe cose si imparano meglio in privato. La notte sembrava il momento migliore.» Wintrow cercò a tentoni una candela, e poi uscì per accenderla alla piccola lampada nel corridoio. La riportò in cabina, chiuse la porta e infilò la candela in un candeliere. Quando si girò a guardare Etta, gli fu difficile non trasalire. La donna indossava brache e un farsetto aderente. Wintrow non aveva mai visto un corpo femminile così esibito. Etta ignorò il suo sguardo. Fece un lento giro attorno a lui e lo guardò dalla testa ai piedi, valutandolo. La franchezza del suo sguardo gli riscaldò le guance. Etta emise un lieve sbuffo di fastidio. «Bene. È ovvio che hai lavorato sodo, ma non duramente. Tuttavia sei agile e veloce. Me ne sono accorta. E in questo gioco sono qualità più utili che muscoli o massa.» Wintrow batté le palpebre. «Ancora non capisco di cosa stai parlando.» «Lo ha suggerito Kennit. Gli ho detto che mi sentivo in debito con te perché mi hai insegnato a leggere. Lui ha suggerito di ricambiare allo stesso modo, insegnandoti qualcosa che conosco bene. Una delle mie abilità più mondane, come le ha definite. Per questo sono qui. Togliti la camicia.» Wintrow obbedì con lentezza. Rifiutò di pensare a cosa stava facendo, o quali fossero le intenzioni di Etta. La donna sorrise severa. «Sei tenero e liscio come una ragazzina. Non hai ancora un pelo sul petto. Preferirei un po' più di muscoli, ma te li farai.» Tornò al tavolo e girò la chiave della scatola piatta. Mentre la apriva ripeté: «Certe cose si imparano meglio in privato. Le abilità di un uomo sono fra queste. Se ci facessimo vedere, i marinai ti prenderebbero in giro. Invece così puoi fingere di averlo sempre saputo fare.» Quando si girò di nuovo a guardarlo, teneva un pugnale in ciascuna mano. «Questi sono per te. Kennit ha detto che posso darteli. Dovresti comin-
ciare a portarne uno alla cintura ogni volta che sbarchiamo in un porto. Dopo un po' comincia a portarlo sempre, e tienilo sotto il cuscino quando dormi. Ma prima devi imparare a usarlo.» All'improvviso gliene gettò uno. Era un lancio senza forza, l'elsa dell'arma verso di lui. Wintrow lo afferrò senza grazia. La lama lo ferì al pollice. Etta rise alla sua esclamazione. «Primo sangue a me!» Una luce minacciosa le si accese negli occhi. «Afferralo bene e preparati. Ti insegnerò a combattere.» «Non voglio imparare a combattere» protestò Wintrow, costernato. Indietreggiò. «Non voglio farti male.» Etta sorrise allegramente. «Sono sicura che non mi farai male. Non preoccuparti, in ogni caso.» Assunse una posizione di combattimento, la lama pronta. Ondeggiò con grazia, e trasferì il coltello da una mano all'altra quasi troppo in fretta perché Wintrow potesse seguirlo. All'improvviso venne verso di lui, minacciosa come una tigre, preceduta dalla lama. «Non lasciare che io ti faccia male. Concentrati solo su quello. È la prima regola.» 28 La partenza del Paragon «Vorrei che avessimo tempo per altre prove in mare.» Ambra diede ad Althea un'occhiata stanca. «Non c'è tempo. Non abbiamo soldi. E dopo ogni prova, altri due o tre marinai abbandonano la nave. Altre prove in mare, Althea, e non avremo più equipaggio.» Fece una pausa e inclinò la testa. «È la quinta volta che facciamo questa chiacchierata, o la sesta?» «La ventisettesima, secondo i miei calcoli» intervenne Brashen, avvicinandosi. Le due donne si spostarono per fargli spazio fra loro alla murata di poppa. Brashen contemplò con loro il mare aperto oltre l'imboccatura del porto di Borgomago e ridacchiò. «Abituati, Ambra. I marinai parlano sempre delle stesse cose. Temi principali: il cibo cattivo, il capitano stupido e il primo ufficiale ingiusto.» «Hai dimenticato il tempo schifoso e la nave indisciplinata» contribuì Althea. Ambra scrollò le spalle. «Devo abituarmi a molte cose. Sono passati anni dal mio ultimo lungo viaggio per mare. In gioventù ero un pessimo marinaio. Spero che vivendo a bordo qui in porto il mio stomaco si sia abituato a un ponte in movimento.»
Althea e Brashen sorrisero. «Fidati di me, non ancora» la avvertì Brashen. «Tenterò di non aspettarmi troppo da te nei primi giorni. Ma se avrò bisogno di te non ci sarà alternativa, e dovrai strisciare fuori e fare del tuo meglio tra un viaggio alla murata e l'altro.» «Sei davvero incoraggiante» lo ringraziò Ambra. Cadde il silenzio. Malgrado la conversazione frivola, tutti e tre avevano riserve su ciò che avrebbero affrontato quel giorno. La nave era carica, la maggior parte dell'equipaggio era a bordo. Nascosti sotto coperta, all'insaputa dell'equipaggio a pagamento, c'erano sette schiavi che avevano scelto di cogliere quell'opportunità di fuggire. Althea tentò di non pensarci. Non erano solo loro a correre il rischio. Se qualcun altro li avesse scoperti prima che fossero salpati, cosa sarebbe successo? E come avrebbe reagito l'equipaggio a pagamento con quei marinai addizionali? Althea sperò che fossero contenti di avere più schiene per sopportare il lavoro. Più probabilmente alcuni avrebbero fatto i difficili per la posizione e lo spazio per dormire, ma quello succedeva su qualsiasi nave. Trasse un respiro e si disse che sarebbe andato tutto bene. Eppure compativa gli uomini accalcati sotto coperta. La loro ansia doveva essere angosciante. Sarebbero partiti all'alba. Althea avrebbe quasi voluto partire subito. Ma far vela in silenzio, nel buio, sarebbe stato un triste congedo. Meglio aspettare e sopportare gli addii e gli auguri di quelli che venivano a salutarli. Meglio anche avere luce chiara e la brezza del mattino a spingerli a tutta velocità. «Come sta?» chiese quietamente Brashen, guardando lontano. «È ansioso. Ed emozionato. Non vede l'ora, ma è terrorizzato a morte. La sua cecità...» «Lo so» tagliò corto Brashen. «Ma l'ha sopportata per anni. È riuscito a tornare a Borgomago, cieco e capovolto. Non è il momento per un esperimento rischioso nell'intaglio del legno magico. Deve fidarsi di noi, Ambra. Ha fatto tanto per cambiare, e non voglio rischiare di spostare l'equilibrio. Se tu tentassi e fallissi, ecco...» Brashen scosse la testa. «Penso che sia meglio per noi che navighi così com'è. Si è ormai abituato a questo problema. Penso che possa affrontare meglio la cecità che ormai ha accettato, piuttosto che una grande delusione.» «Ma non l'ha mai accettata» cominciò Ambra con fervore. «Quarantadue» intervenne Althea. Sospirò, ma riuscì a sorridere. «Abbiamo fatto questa chiacchierata almeno quarantadue volte.» Ambra annuì umilmente. Cambiò argomento. «Lavoy.»
Brashen gemette, poi rise. «Gli ho concesso l'ultima notte in città. Sarà a bordo in tempo. Lo garantisco. Sarà senza dubbio ubriaco, e si sfogherà con i marinai. È tradizione, e se lo aspettano. Immagino che li farà lavorare duro, e loro lo detesteranno. Anche questo è tradizione. È il migliore che avremmo potuto ingaggiare per questo lavoro.» Althea si morse con fermezza la lingua. Aveva perso il conto delle volte che lei e Brashen avevano dibattuto su Lavoy. Inoltre, se ricominciavano, probabilmente Brashen l'avrebbe spinta ad ammettere che Lavoy non era poi così male. C'era in lui una vena di correttezza: era inattendibile, ma quando affiorava lui la seguiva. Sarebbe stato un tiranno. Althea lo sapeva. E anche Brashen. Finché non esagerava, un tiranno era precisamente ciò che serviva a quell'equipaggio. Le prove in mare avevano messo in evidenza le debolezze dell'equipaggio. Althea ora sapeva quali marinai non volevano darsi da fare, e quali ne sembravano incapaci. Alcuni erano pigri, altri stupidi e altri ancora astutamente determinati a fare il minimo indispensabile. Suo padre, ne era convinta, li avrebbe licenziati tutti. Aveva protestato con Brashen, e lui l'aveva autorizzata a sostituire tutti quelli che voleva con uomini migliori, a sua discrezione. Doveva solo trovarli e assumerli con il salario che Brashen poteva offrire. Quello aveva posto fine alla conversazione. «Vorrei che fossimo già là fuori» mormorò Brashen. «Anch'io» ammise Althea. Eppure lo temeva. Le prove in mare non avevano rivelato solo le debolezze dell'equipaggio. Ora Althea sapeva che Paragon era molto più fragile di quanto si aspettasse. Vero, era una nave robusta. Una volta che Brashen aveva sistemato la zavorra a suo piacere, aveva navigato bene, ma non come un veliero vivente. Althea era pronta ad accettarlo, purché non ostacolasse attivamente il lavoro dei marinai. Le era più difficile accettare l'evidente tormento di Paragon. Ogni volta che Brashen ordinava di cambiare rotta, la polena trasaliva. Le sue mani si scioglievano brevemente dalle braccia conserte e tremavano. Quasi subito incrociava di nuovo le braccia e le teneva strette contro il torace, serrando le mascelle; eppure la sua paura ribolliva in tutta la nave. Tutto attorno a lei, Althea vedeva l'equipaggio reagire. Si guardavano, guardavano il sartiame, l'acqua, cercando la fonte del loro disagio. Avendo scarsa familiarità con la nave, non comprendevano che erano contagiati dalla sua paura, e quello li rendeva più inclini al panico. Dir loro la causa avrebbe solo peggiorato le cose. Si sarebbero abituati, promise Althea. Con il tempo, si sa-
rebbero abituati. Il Mercante Restart aveva fatto riparare la carrozza. Anche i rivestimenti erano stati ripuliti del tutto. Ora le porte si aprivano e si chiudevano senza intoppi, le molle non stridettero pericolosamente quando Malta salì, e quando i cavalli partirono, la scossa non le fece battere i denti. Tutto sembrava pulito. Mentre la carrozza avanzava attraverso le affollate strade di Borgomago, una brezza entrò dal finestrino. Eppure la ragazza era convinta che puzzasse ancora di maiale morto. Si premette il fazzoletto profumato sul viso. «Tutto bene, cara?» le chiese sua madre per la decima volta. «Sto bene. La notte scorsa ho dormito poco.» Si girò e guardò fuori dal finestrino, aspettando la battuta successiva. «Ebbene, è naturale che tu sia emozionata. La nostra nave parte oggi, e il ballo è solo fra otto giorni.» «Del tutto naturale!» concordò Davad Restart con fervore. Sorrise a tutti con entusiasmo. «Vedrai, mia cara. Questo segnerà una svolta per le fortune di tutti noi.» «Ne sono sicura» confermò Ronica. A Malta parve piuttosto una preghiera. «Ed eccoci qui!» strepitò Davad con entusiasmo, come se nessun altro se ne fosse accorto. La carrozza si arrestò senza scosse. «No, stai seduta, stai seduta» disse il Mercante quando Keffria tese la mano verso la porta. «La aprirà il vetturino.» Infatti lo schiavo venne alla porta della carrozza, la aprì e li aiutò a scendere. Ronica e poi anche Keffria lo ringraziarono per la cortesia. L'uomo parve a disagio. Gettò uno sguardo a Davad, come aspettandosi di essere redarguito, ma il Mercante era troppo occupato a raddrizzarsi la giacca. Malta aggrottò per un attimo la fronte. O Davad ultimamente era divenuto più prospero, o aveva solo deciso di essere più generoso con i suoi soldi. Carrozza riparata, vetturino addestrato, vestiti nuovi... stava preparandosi a qualcosa. Prese nota mentalmente di prestare maggior attenzione al Vecchio Mercante. Davad era socialmente inetto, ma aveva il dono di saper scovare con astuzia il profitto. Forse c'era il modo di rivolgere a vantaggio della sua famiglia qualsiasi piano stesse elaborando. Davad tese il braccio a sua nonna. Ronica glielo permise. Tutti indossavano i loro migliori abiti estivi. La nonna aveva insistito. «Oggi non possiamo permetterci di sembrare poveri» aveva detto con decisione. Quindi
avevano recuperato la stoffa di vecchi abiti, lavandola, rigirandola e stirandola per cucire vestiti nuovi per tutti. Rache stava diventando una vera sarta. Malta doveva ammettere che aveva occhio per copiare i modelli all'ultima moda a Borgomago. Oggi erano quasi alla moda, a parte i parasoli dell'anno prima. Perfino Selden era vestito decorosamente, in pantaloni blu e camicia bianca. Stava di nuovo tirandosi il colletto. Corrucciata, Malta scosse la testa. «Un piccolo Mercante perbene non gioca con il colletto.» Selden lasciò cadere la mano, ma la guardò male. «Il piccolo Mercante perbene sta soffocando» ribatté con impertinenza. «Abituati» gli consigliò Malta, e gli prese la mano. Il giorno era caldo, la brezza fresca e il porto di Borgomago vivace come sempre. Sua madre seguì la nonna, e Malta la tallonò con Selden. Non poteva degnarsi di osservarli, ma era gratificante vedere le teste dei marinai girarsi al suo passaggio. Alcuni scambiarono commenti ammirati, anche se indecorosi. La ragazza tenne la testa alta e non rallentò il passo. All'improvviso desiderò acutamente di essere una ragazza delle Tre Navi. Avrebbe potuto fare l'occhiolino e civettare e nessuno avrebbe pensato che attirare un giovane marinaio robusto fosse un cattivo affare. Doveva vivere in economia come una ragazza di pescatori; perché non poteva essere altrettanto spensierata? La nonna rallentò il passo quando giunsero al Molo Ovest. Mentre procedevano lungo gli ormeggi, salutò per nome ogni veliero vivente. Ciascuno ricambiò il saluto, e aggiunse i suoi auguri per il viaggio del Paragon. Alcuni lo dissero come una formalità, ma Malta credette di sentire in altri calore genuino. Ronica Vestrit ringraziò ogni nave prima di proseguire. Quando finalmente giunsero al Paragon, Malta rimase sorpresa dall'impeto di emozione che provò. Eccola là, la nave cieca, la nave impazzita che la famiglia aveva rimesso in mare a qualsiasi costo. Galleggiava disinvolto accanto al molo. L'ottone luccicava, il legno splendeva. Sembrava una nave nuova. Teneva la testa alta, le braccia incrociate sul torace muscoloso. Sotto le schegge degli occhi la mascella era stretta con fermezza e il mento sporgeva. Non sembrava affatto il vecchio relitto marcito che aveva visto sulla spiaggia sotto le rupi. La manina di Selden strinse la sua. Sua nonna si fermò e guardò la polena. Alzò la voce. «Buon giorno, Paragon! Giornata eccellente per cominciare un viaggio.» «Buon giorno, Padrona Vestrit.» Un sorriso inaspettato gli aprì la barba. «Sono cieco, non sordo. Non avete bisogno di gridare.»
«Paragon!» lo rimproverò Brashen, apparso all'improvviso sul ponte di prua. Althea si affrettò lungo il molo verso di loro. «È tutto a posto, capitano Trell. La nave ha ragione.» Ronica Vestrit rifiutò di offendersi. «Ma ribadisco che è una bella giornata per cominciare un viaggio.» Seguì uno scambio di piacevolezze tra Brashen, la nave e sua nonna. Malta non ci badò molto. Era contenta che la nave non stesse piangendo o delirando. Aveva temuto che fosse in preda a uno dei suoi malumori, quando scagliava gli oggetti e gridava. Una volta lo aveva visto così, quando si era avventurata fino alla spiaggia per sapere come andavano le cose. L'aveva spaventata a tal punto che si era voltata ed era tornata a casa. La maggior parte della sua attenzione si spostava tra zia Althea e Brashen Trell. Ancora sospettava che ci fosse qualcosa tra loro, ma quel giorno non riusciva a scorgerne alcun segnale. Brashen era più che mai il capitano Trell. I vestiti puliti e ordinati, camicia bianca e pantaloni blu scuri stirati con cura. La giacca blu gli conferiva dignità. Erano di suo nonno, riadattati per la sua taglia. Malta si chiese se lo sapeva, se si sentiva strano a portare gli abiti smessi del vecchio capitano. L'abito di Althea era insolitamente sobrio: una camicia bianca e una gonna pantalone con un panciotto intonato. Aveva perfino le scarpe. Malta era pronta a scommettere che quei vestiti erano solo per bellezza. Anche se era il secondo ufficiale, sospettava che sarebbe tornata ai vestiti da ragazzo appena possibile. C'era qualcosa di decisamente bizzarro nella zia Althea. La sua amica Ambra sembrava aver deciso che se la gente doveva fissarla avrebbe dato loro un buon motivo. Quando apparve non indossava i vestiti di un normale marinaio: ogni bottone di pantaloni e camicia era una perlina intagliata a mano. L'abbigliamento non le donava; mostrava una figura molto asciutta, dal petto piatto e dai fianchi stetti. Portava un panciotto allacciato stretto, ricamato con farfalle fantastiche. L'unica parte di lei che sembrava attraente a Malta era il colorito. La pelle e i capelli erano come pallido legno-miele, e gli occhi quasi della stessa tinta. Si era intrecciata i lunghi capelli e li aveva puntati sopra la testa. Straniera era l'unica parola che la descriveva. Perfino i suoi orecchini erano diversi fra loro. «Benvenuti a bordo» disse Brashen. Gli altri stavano salendo la passerella. Il capitano era sceso a salutarli, e ora addirittura offrì il braccio a Malta mentre la invitava a salire a bordo. Non molto tempo prima la ragazza si sarebbe sentita inebriata e adulata. Era piuttosto bello, una sfida nella sua maniera libertina. Ma era come se le paure e i sogni che la tormentavano
avessero bruciato via quella parte di lei. Althea li guidò in un giro della nave, indicando le riparazioni e le migliorie. Malta non ne capiva molto, ma mantenne un'espressione cortesemente interessata. I marinai impegnati nei preparativi dell'ultimo minuto li lasciavano passare in fretta, ma la fissavano. I loro occhi erano troppo audaci e le loro maniere troppo rozze perché Malta si sentisse lusingata. Si chiese come avrebbe fatto la zia Althea a vivere fra loro nelle lunghe settimane che sarebbero seguite. Forse le piaceva, pensò costernata. Sentendosi distante da tutto, tenne dietro a sua madre e sua nonna in un lento giro del ponte superiore. Brashen era rimasto in cima alla passerella, dove gli altri simpatizzanti avevano cominciato a radunarsi. Era gratificante vedere i Mercanti di Borgomago mostrare almeno quel sostegno. I più venivano da famiglie di velieri viventi. Forse solo una famiglia di marinai poteva comprendere la loro situazione. Alcuni erano vestiti come se fosse un addio. Altri erano capitani o membri dell'equipaggio di velieri viventi che si trovavano in porto. Malta decise che era un notevole risultato. Alcuni addirittura si fermarono a parlare con Davad. Il Mercante si era collocato astutamente accanto a Brashen, e chiunque salisse a bordo doveva salutarlo. Malta comprese che facendo da intermediario in quell'impresa era riuscito a salvare almeno in parte la sua reputazione con gli altri Mercanti. Malgrado questo, i loro saluti furono formali e brevi. Davad era radioso, come se non se ne accorgesse. Al minimo pretesto cominciava un esteso e lungamente provato resoconto di tutto ciò che aveva fatto per rendere possibile quella giornata. Malta fece in modo di stare abbastanza lontana da non sentirlo, e di non incontrare i suoi occhi. Quell'uomo era un rospo. «Vieni, Malta?» chiese sua zia con un sorriso. Fece cenno che stavano per lasciare il ponte di prua e visitare il resto del vascello. Malta non aveva alcun desiderio di vedere la stiva o gli alloggi puzzolenti. «Penso che rimarrò qui» azzardò. «È una giornata troppo bella per andare sotto coperta.» «Bene, io ci vado» dichiarò audacemente Selden, e si staccò dalla sua mano. Althea apparve turbata per un istante. Il suo sguardo vagò verso i marinai nei paraggi. Chiaramente non pensava di poter lasciare sua nipote in quella compagnia. Poi annuì, sollevata. «Resta pure.» Malta gettò uno sguardo indietro. Ambra era in piedi alle sue spalle, appoggiata alla murata vicino alla polena. Una specie di segnale era passato
tra le due donne. Ora Althea sentiva che Malta sarebbe stata al sicuro. Interessante. Interessante anche rimanere in compagnia di una figura enigmatica e scandalosa come la strana creatrice di perline. «Comportati bene, Malta» l'avverti Keffria, preoccupata, ma permise ad Althea di condurla via con la nonna. Appena ebbero lasciato il ponte, Malta concentrò la sua attenzione su Ambra. Si stampò in faccia un sorriso di circostanza e tese la mano verso la donna. «Tanti auguri per il viaggio, signora Ambra.» La donna sembrò tranquillamente divertita. «Grazie, signorina Haven.» Inclinò solo la testa, ma fu elegante come un inchino. Sfiorò la mano di Malta con le punte delle dita guantate. Il braccio della ragazza fu percorso da un piccolo brivido. La donna era così strana. Ambra fissò il mare. Malta si chiese se era un tentativo di porre fine alla conversazione. Rifiutò di lasciarla morire. «Sembra che abbiate bel tempo per un felice inizio.» «Sì, sembra proprio.» La voce di Ambra era gentile. «E la nave si direbbe in condizioni eccellenti.» «Oserei essere d'accordo anche su questo.» «L'equipaggio appare pronto e vigoroso.» «Il capitano Trell li ha addestrati accuratamente, per quanto il tempo lo permettesse.» «Davvero, sembra che ogni cosa prometta bene per questo viaggio.» Malta si stancò all'improvviso del gioco. «Pensate di aver qualche possibilità di riuscire?» chiese brusca. Doveva sapere. Era tutto un esercizio fantastico, una finta preoccupazione della sua famiglia, o c'era davvero la possibilità che liberassero suo padre? «Può sempre accadere qualcosa» La voce di Ambra era all'improvviso seria. Si girò di nuovo ad affrontarla. L'intensità della sua comprensione bruciò in Malta. «E quando qualcuno agisce per farlo accadere, diventa più probabile. Molti hanno agito per salvare la nave della tua famiglia, tuo padre e tuo fratello, Malta.» Quando Ambra pronunciò il suo nome, la ragazza dovette incontrare i suoi occhi. Erano occhi strani, e non solo per il colore. In qualche modo non importava. Sentiva che le parole della donna la cercavano. «Non abbiamo altro scopo che liberarli. Non posso prometterti che riusciremo, ma tenteremo con tutta l'anima.» «Non so se le vostre parole mi fanno sentire meglio o peggio.»
«Voglio dirti che hai fatto tutto il possibile. Datti pace. Hai un giovane cuore selvaggio; adesso è come un uccello in gabbia che batte contro le sbarre. Lottare di più ti causerà solo altro dolore. Attendi. Sii paziente. Verrà il tempo di volare. E quando verrà dovrai essere forte, non sanguinante e sfinita.» Gli occhi di Ambra si dilatarono all'improvviso. «Guardati da uno che vorrebbe le tue ali per sé. Guardati da uno che ti farebbe dubitare della tua forza. La tua infelicità è basata sul tuo destino, Malta. Una vita mediocre non ti soddisferà mai.» Malta incrociò le braccia e fece un passo indietro scuotendo la testa. «Sembrate un'indovina.» La sua risata era fragile nell'aria d'estate. «Mi fate battere il cuore!» Tentò di ridere di nuovo, di accantonare il momento come l'indelicatezza di una straniera. «A volte lo sono» ammise Ambra. Toccò a lei distogliere lo sguardo. Sembrava a disagio. «A volte lo sono. Ma un'indovina non crea il futuro. Tutti noi creiamo la nostra fortuna.» «E come?» Malta credeva di aver preso in qualche modo il controllo della conversazione. Quando Ambra si girò di nuovo a incontrare i suoi occhi, quella sensazione svanì. «Guadagnati il tuo futuro, Malta Vestrit.» L'intagliatrice di perline inclinò la testa. «Cosa ti deve il domani?» «Il domani mi deve qualcosa?» ripeté Malta, confusa. «Il domani ti deve la somma dei tuoi ieri. Niente di più.» Ambra guardò di nuovo verso il mare. «E niente di meno. A volte vorremmo che il domani non ci ripagasse così completamente.» Malta all'improvviso sentì che doveva cambiare argomento. Andò alla murata e si chinò a guardare Paragon. «Oggi il nostro vascello sembra molto affascinante!» si complimentò, sprezzante del pericolo. «Sei splendido, Paragon. Chissà come sarai emozionato!» Rapida come un serpente, la polena girò la testa per fissarla. Quella fu la parte raggelante. Lo spazio distrutto tra la fronte e il naso la paralizzò con il suo sguardo devastato. Il colore del resto del viso era così naturale, ma la zona rovinata era solo schegge di legno argenteo. La lingua le si incollò al palato e Malta afferrò la murata per non precipitare. La bocca di Paragon si aprì in un sorriso largo, candido. Il rictus della pazzia. «Troppo tardi» bisbigliò. Malta non sapeva se parlava di lei o con lei. «Troppo tardi per lei. Grandi ali la coprono. Si acquatta come un topolino nell'ombra del gufo in picchiata. Il suo cuoricino batte fino a scoppiare. Guarda come trema. Ma è tardi. Troppo tardi. Lei l'ha vista. Conosce an-
che me!» Gettò indietro la testa e ruggì una risata. «Ero un re!» Era incredulo nel suo trionfo. «Ero signore dei tre domini. Ma voi avete fatto questo di me. Un guscio, un giocattolo uno schiavo!» Forse un lampo l'aveva colpita dall'immobile cielo blu. Malta precipitò in un ruggente golfo nero. Cadde in silenzio attraverso uno spazio buio e infinito. Poi dal nulla apparve un bagliore dorato. Una forma troppo grande per vederla tutta. In un istante incombeva su di lei. Grandi artigli l'afferrarono, avvolgendosi attorno al petto e alla vita, spremendole l'aria dai polmoni. Malta cercò di graffiarli, ma erano corazzati di scaglie simili al metallo. Non poteva allontanarli per respirare. E non voleva precipitare se la lasciavano andare. Scegli una morte, bisbigliò un drago. È tutto quello che ti resta, fanciullina. La scelta della tua morte. No! E' mia, mia! Lasciala andare! La preda appartiene a chi l'afferra per prima! Tu sei morto. Io ho ancora un'opportunità di vivere. Non me la farò portar via! Un lampo d'argento iridescente si scontrò all'improvviso con l'oro. Una collisione di montagne che lottavano per averla. Gli artigli si strinsero, tagliandola in due. La ucciderò prima di lasciartela! Malta non aveva fiato per gridare. Non era rimasto quasi niente di lei. Quei due esseri erano così immensi; non c'era spazio per lei nel loro mondo. Si sarebbe estinta come una scintilla morente. Qualcuno parlò per lei. «Malta è vera. Malta esiste. Malta è qui.» Gli strati che la costituivano furono gradualmente ripristinati, come fili che si avvolgevano in un gomitolo attorno a lei. Qualcuno la protesse contro il turbine di forze che tentavano di farla a brandelli. Era come essere tenuta fra mani calde. Si appallottolò su sé stessa, resistendo. Finalmente, parlò per sé. «Io sono Malta.» «Ma certo che sei Malta» disse Keffria confortante, tentando di stare calma malgrado il panico. Sua figlia era pallida come la morte. Le fenditure degli occhi mostravano solo il bianco. Avevano udito la confusione sul ponte e ed erano corsi in coperta, non sospettando che si trattasse di Malta. Era crollata, e giaceva quasi fra le braccia della donna delle perline, che le sosteneva la testa con una mano. La nave intera rollava. Era la polena, che piangeva con la testa fra le mani. «Mi dispiace, mi dispiace» singhiozzava senza posa.
«Stai zitto» Keffria sentì Ambra dirgli con irritazione. «Non hai fatto niente. Stai solo zitto.» Poi, mentre irrompevano attraverso il cerchio di marinai curiosi, Keffria vide Ambra alzare lo sguardo e parlare ad Althea. «Aiutami a portarla via dalla nave. Adesso.» Qualcosa nella voce della straniera non ammetteva discussioni. Althea si chinò e sollevò di peso sua nipote, ma poi fu Brashen a prenderla fra le braccia. Keffria intravide le mani sfigurate di Ambra prima che si rimettesse in fretta i guanti. La donna delle perline alzò gli occhi a incontrare lo sguardo di Keffria, e l'occhiata la raggelò fino all'osso. «Cosa è successo a mia figlia?» domandò Keffria. «Non lo so. Dovreste andare da lei.» La prima era evidentemente una bugia, la seconda una semplice verità. Keffria seguì in fretta sua figlia mentre Ambra si rivolgeva di nuovo alla polena e gli parlava con voce bassa e intensa. La nave si calmò all'improvviso e il dondolio si placò. Poi Selden cominciò a piangere. Aveva le lacrime in tasca. Non era giusto che un ragazzo fosse così sensibile, e come poteva Keffria pensare a una cosa simile in quel momento? «Zitto, Selden, vieni con me» scattò. Suo figlio la seguì, gemendo. Quando Keffria arrivò sul molo, trovò che Brashen aveva disteso il suo cappotto e vi aveva deposto Malta. Ronica prese in custodia Selden, accarezzandolo e cercando di calmarlo. Keffria cadde in ginocchio accanto alla figlia. Era terribile, un auspicio terribile per il varo della nave, e così sconveniente che Malta fosse distesa priva di sensi davanti a chiunque. Poi la ragazza si lamentò e cominciò a mormorare: «Io sono Malta, io sono Malta.» «Sì, sei Malta» la rassicurò Keffria. «Sei qui e sei al sicuro, Malta.» Come se quelle parole fossero un incantesimo, la ragazza aprì all'improvviso gli occhi. Si guardò attorno stordita, poi ansimò. «Oh, aiutami ad alzarmi!» implorò. «Riposati ancora un momento» consigliò Brashen, ma Malta già aveva afferrato il braccio di sua madre e stava mettendosi in piedi. Si massaggiò la nuca, trasalì, e poi si strofinò gli occhi. «Cos'è successo?» «Sei svenuta» le disse Ambra. Era apparsa all'improvviso ai margini del gruppo. Ora si spinse più vicina a Malta e la guardò negli occhi. «Tutto qui. Sospetto che la luce sull'acqua ti abbia abbagliata. Può succedere, sai, se fissi il mare troppo a lungo.» «Sono svenuta» concordò Malta. Alzò una mano per massaggiarsi nervosamente la gola ed emise una piccola risata confusa. «Che sciocca!» Parole e gesti così teatrali: Keffria non riusciva a credere che qualcuno
potesse accettarli. Ma Davad si fece avanti e aggiunse: «L'emozione della giornata, senza dubbio. E tutti sappiamo quanto Malta languisca per suo padre. Senza dubbio l'inizio della missione di salvataggio ha affaticato la povera bambina.» Malta gli gettò un'occhiataccia. «Senza dubbio» ripeté con una vocetta velenosa. Perfino l'inossidabile Davad parve sentire la frecciata. Si ritrasse e la guardò perplesso. «Sono svenuta» ripeté Malta. «Povera me. Spero di non aver ritardato la partenza.» «Non di molto. Ma hai ragione, dobbiamo metterci in viaggio.» Brashen le girò le spalle, ma prima che potesse gridare un ordine il Mercante Ashe si avvicinò. «Risparmia la schiena dei tuoi uomini. Ti farò rimorchiare fuori dalle scialuppe del Vagabondo del Mare.» «Lascia spazio per una del Seduttore» tuonò il Mercante Larfa. In un attimo mezza dozzina di proprietari di velieri viventi avevano offerto assistenza. Keffria si alzò, chiedendosi se era una tarda manifestazione di buona volontà, o solo un segnale di quanto erano ansiosi di vedere Paragon fuori dal porto. Si diceva che alcuni velieri viventi lo trovassero inquietante, ma nessuno era stato tanto scortese da mettere in dubbio il suo diritto a ormeggiare lì. «Signori, vi ringrazio» rispose Brashen, con voce asciutta. Keffria ne fu sicura: si chiedeva le stesse cose. Non risalirono sul vascello, ma si salutarono lì. Sua madre era più emozionata di quanto Keffria si aspettasse. Continuò a esortare Althea a stare attenta e tornare sana e salva a casa. Althea aggrottò la fronte quando Brashen promise che avrebbe fatto il possibile per tenerla d'occhio. Keffria abbracciò sua sorella e poté solo desiderare che le cose fossero state diverse tra loro. Il suo cuore era così pieno di emozioni contraddittorie che riuscì appena a dirle addio. Fu anche più sconvolgente girarsi e vedere Ambra che teneva una delle mani di Malta fra le sue dita guantate. «Abbi cura di te stessa» le diceva la straniera. Il suo sguardo era troppo intenso. «Lo farò» promise Malta. Parlavano quasi come se fosse stata Malta a dover partire per l'ignoto. Keffria guardò Ambra girare le spalle a sua figlia e risalire a bordo della nave. Un attimo dopo la donna delle perline riapparve sul ponte di prua, vicino alla polena. Si chinò e gli disse qualcosa. La figura scolpita lasciò ricadere le mani dal viso. Alzò la testa, trasse
un respiro che gli gonfiò il torace, e poi incrociò le braccia, serrandole. La mascella si tese con rigida determinazione. Le cime d'ormeggio furono gettate sul molo, furono scambiati gli ultimi auguri e addii. Gli equipaggi delle scialuppe si misero ai remi e cominciarono ad allontanare Paragon dal molo, verso le acque del porto. Althea e Brashen raggiunsero Ambra sul ponte di prua. Ciascuno a turno si chinò per parlare a Paragon, ma Keffria non vide se la polena rispondeva. Distolse lo sguardo dalla scena e trovò Malta che fissava rapita la nave. Non seppe decidere se l'espressione di sua figlia fosse di terrore o amore. Né, pensò preoccupata, riuscì a capire se fissava la polena o Ambra. Malta ansimò e Keffria guardò subito verso la nave. Le scialuppe stavano raccogliendo le cime gettate verso di loro. Brashen li ringraziò agitando un braccio mentre le vele cominciavano a sbocciare sull'alberatura della nave. Malgrado gli uomini che correvano freneticamente nel sartiame, era uno spettacolo davvero elegante. Mente Keffria osservava, la polena allargò all'improvviso le braccia come per comprendere l'orizzonte. Gettò un grido, e uno scherzo del vento le portò le sue parole. «Volo di nuovo!» Una trionfante sfida al mondo. Le vele di Paragon si gonfiarono di vento, e la nave cominciò a muoversi da sola. Dal ponte salirono deboli grida di trionfo. Le lacrime punsero gli occhi di Keffria. «Che Sa vi accompagni» bisbigliò Malta. Keffria sentì la voce di sua figlia incrinarsi. «Che Sa vi accompagni, e vi riporti in salvo a casa» disse ad alta voce. La brezza parve portar via la sua preghiera. 29 Convergenza a Borgomago La flotta che li accompagnava era cresciuta. Sarebbe stato molto interessante scoprire come era stato organizzato che le altre navi li raggiungessero durante il viaggio, pensò Serilla. Da quanto tempo era programmato? Qualcuno a Jamaillia sapeva di questa manifestazione di forza che accompagnava la calata del Satrapo su Borgomago? Ora era quasi sicura che il Satrapo sarebbe stato sacrificato per giustificare un attacco di Chalced su Borgomago. Strinse quel frammento di conoscenza come una pepita d'oro. Forse avvertire i Vecchi Mercanti era il modo più sicuro per comprare la loro fiducia. Se le rimaneva un briciolo di lealtà, ora apparteneva al luogo meraviglioso che aveva studiato per anni. Alzò gli occhi e fissò la notte.
All'orizzonte si scorgeva un fioco bagliore: le luci del Mercato Notturno si levavano nel cielo stellato. In mattinata sarebbero arrivati a Borgomago. Un marinaio si fermò accanto alla sua spalla. «Satrapo ti chiama. Vuole uscire anche lui.» Il suo accento straniero mozzava curiosamente le parole. «Non può. La sua salute è troppo delicata. Ma ora andrò da lui.» Voleva ignorare la convocazione, ma il capitano di Chalced avrebbe potuto venirlo a sapere. Malgrado la forza ritrovata, Serilla non osava ancora provocarlo. Lo aveva incontrato due volte da quando l'aveva restituita al Satrapo. Con sua vergogna non era stata capace di guardarlo. La prima volta che aveva girato un angolo nel corridoio e se lo era trovato davanti, quasi se l'era fatta addosso dal terrore. L'uomo aveva riso ad alta voce mentre Serilla si allontanava da lui in fretta. Era incomprensibile che potesse temere a tal punto un altro essere umano. A volte, quando era da sola, tentava di costruire rabbia o odio verso di lui. Inutile. Il capitano l'aveva immersa nel terrore. Non riusciva a provare altro per lui. Il pensiero di quell'uomo accelerò i suoi passi mentre tornava alla camera del Satrapo. Serilla ignorò la sentinella di Chalced alla porta. Entrò in una camera pulita e ordinata, spazzata dall'aria fresca dell'oceano che entrava dalla finestra aperta. Annuì soddisfatta. I servitori le avevano lasciato la cena in tavola e le avevano acceso i candelabri. C'era un vassoio di carne affettata, un budino di frutta al vapore e molti fogli di pane non lievitato. Una bottiglia di vino rosso e un solo calice la attendevano. Cibi semplici, pensò con soddisfazione, preparati su suo ordine. Non voleva correre rischi. Qualunque cosa avesse contagiato il resto della compagnia del Satrapo non aveva toccato il capitano di Chalced o il suo equipaggio. Non pensava che fosse veleno, solo perché non vedeva chi ne avrebbe tratto profitto. Diffidava di uno dei manicaretti più elaborati che il Satrapo aveva portato con sé. Forse le uova e noci sottaceto o i tortini di grassa carne di maiale erano andati a male. Su un vassoio più piccolo c'era il pasto del Satrapo. Una ciotola di pane a bagno in acqua calda, e un piattino di purea di cipolle bollite e rape. Come premio gli avrebbe concesso un po' di vino annacquato. Forse gli avrebbe anche tagliuzzato un po' di carne. Due giorni prima aveva smesso di condire il cibo del Satrapo con emetici. Non doveva essere troppo debole al suo arrivo a Borgomago. Serilla sorrise compiaciuta, e sedette a mangiare. Il Satrapo doveva riprendersi brevemente prima di morire. Mentre trasferiva una fetta di carne nel piatto, lo sentì muoversi nel letto. «Serilla?» bisbigliò. «Serilla, sei qui?»
Serilla aveva chiuso i drappi attorno al letto. Doveva rispondergli? Ora il Satrapo era così debole che sedersi e aprire le tende avrebbe richiesto uno sforzo sostanziale. La donna decise di essere gentile. «Sono qui, Magnadon. Sto preparando il tuo cibo.» «Oh. Bene.» Silenzio. Serilla mangiò con calma. Lo aveva addestrato a essere paziente. I servitori erano banditi dalla camera, salvo una volta al giorno quando entravano a fare ordine sotto la sua particolare sorveglianza. Non gli permetteva altri visitatori. La sua salute era troppo delicata, gli diceva. Non ci era voluto un grande sforzo per gonfiare la sua paura di morire fino a stordirlo. Buona parte del suo seguito era morto di quella malattia. Anche Serilla era sgomenta dal numero di vittime. Riteneva di essere del tutto al sicuro da qualunque cosa fosse stata. Ma aveva riempito la testa del Satrapo con l'idea che la malattia ancora infuriava a bordo. Non era stato difficile. Più gli limitava il cibo e lo drogava con sciroppo di papavero, più il Satrapo era trattabile. Nei momenti in cui aveva gli occhi sbarrati e vaganti, qualunque cosa gli dicesse Serilla diveniva la verità. Quando aveva cominciato a occuparsi di lui, gli altri erano stati troppo malati per visitarlo, tanto meno intervenire. Si erano ripresi, ma da allora Serilla era riuscita a negar loro l'accesso. Il Satrapo ordinava di non essere disturbato. Serilla aveva la camera spaziosa tutta per sé, tranne il letto del Satrapo. Era molto confortevole. Dopo aver finito il pranzo e un buon bicchiere di vino, portò il vassoio del Satrapo al suo letto. Aprì i drappi e lo contemplò criticamente. Forse, pensò, aveva esagerato. Il Satrapo era pallido, il viso quasi scheletrico. Le mani ossute appoggiate sul copriletto sussultavano di quando in quando. Nulla di nuovo; era cominciato anni prima, a causa della sua indulgenza nelle droghe di piacere. Solo la loro debolezza le faceva sembrare ragni agonizzanti, decise Serilla. Sedette con cautela sul bordo del letto e mise il vassoio su una tavola bassa. Sorrise, spingendogli via con dolcezza i capelli. «Hai un aspetto di gran lunga migliore.» Gli accarezzò rassicurante la mano. «Vogliamo provare a mangiare qualcosa?» «Per favore» disse il Satrapo. Le sorrise con affetto. Era convinto che Serilla fosse la sola che gli era rimasta accanto, la sola su cui poteva contare. Serilla fremette per il suo alito cattivo quando aprì la bocca per accogliere il cucchiaio. Il giorno prima aveva protestato che gli sembrava di dover perdere qualche dente. Ebbene, probabilmente si sarebbe ripreso in
fretta. O no. Doveva solo vivere abbastanza a lungo per farla scendere a Borgomago e farla entrare nelle grazie dei Mercanti. Serilla non voleva che fosse abbastanza forte da contraddire la sua versione. Avrebbe attribuito qualsiasi frase infelice alla sua mente erratica. Un po' di cibo gli gocciolò dalla bocca. Serilla gli mise un braccio attorno alle spalle e l'aiutò a mettersi seduto. «Non è buono?» tubò mentre prendeva un po' di pane bagnato con il cucchiaio. «E domani saremo a Borgomago. Non è fantastico?» Ronica Vestrit non ricordava l'ultima volta che la grande campana aveva suonato per convocare una riunione di emergenza dei Mercanti. L'alba ingrigiva appena nel cielo sopra alla Sala dei Mercanti. Ronica e la famiglia si affrettarono a scendere a piedi la collina, solo per essere raccolte dalla carrozza del Mercante Shuyev che andava a raggiungere gli altri. La gente si assembrava davanti alla sala, chiamandosi. Chi aveva suonato la campana? Perché erano stati chiamati? Alcuni Mercanti arrivavano con addosso vesti da casa e un mantello leggero gettato in fretta sulle spalle. Altri, con gli occhi arrossati dalla mancanza di sonno, portavano ancora il vestito da sera. Tutti si erano precipitati non appena la campana aveva rintoccato il suo terribile avvertimento. Molti impugnavano armi o portavano la spada al fianco. I bambini si aggrappavano ai genitori; i ragazzi tentavano disperatamente di sembrare coraggiosi, ma molti visi mostrarono tracce di lacrime spaventate. La varia folla preoccupata sembrava incongrua fra le fioriere piene di boccioli e gli archi inghirlandati e la scalinata della Sala ornata di nastri. Le decorazioni festose in preparazione per il Ballo d'Estate sembravano quasi una presa in giro. «È la Peste di Sangue» dichiarò qualcuno ai margini della folla. «La Peste di Sangue è tornata a Borgomago. Non può essere altro.» Ronica sentì che la voce veniva ripetuta e cresceva passando di bocca in bocca. I mormorii cominciarono a salire in un ruggito sgomento. Poi, dai gradini, un Mercante chiese la loro attenzione con un urlo. Era il proprietario del veliero vivente Seduttore, un uomo normalmente solido fin quasi all'ottusità. Quella mattina le sue guance ardevano di esaltazione. I capelli gli si drizzavano in testa a ciuffi selvaggi. «Ho suonato io la campana!» proclamò. «Ascoltatemi, tutti voi! Non c'è tempo per entrare nella sala e riunirsi come si deve. Ho già passato parola a ogni veliero vivente in porto, e loro sono andati fuori ad affrontarli. Invasori! Galee da guerra di Chalced. Mio figlio le ha viste all'alba ed è venuto a svegliarmi. L'ho mandato
al Molo Ovest per avvertire gli altri velieri viventi. Non so quante galee ci siano là fuori, ma sono più di dieci. Hanno intenzioni serie.» «Ne sei sicuro?» «Quante?» «Quanti velieri viventi sono usciti? Possono trattenerle?» Sotto la scarica di domande il Mercante scosse i pugni verso la folla, frustrato. «Non lo so. Vi ho detto tutto ciò che so. Una flotta di navi da guerra di Chalced sta entrando nel porto di Borgomago. Se avete una nave, prendetela e andate là fuori. Bisogna rallentarli. Tutti gli altri portino armi e secchi e scendano giù al porto. La gente di Chalced usa il fuoco. Se riescono a sbarcare, tenteranno di bruciare la città.» «E i nostri figli?» gridò una donna dal fondo della folla. «Se sono abbastanza grandi da reggere un secchio, portateli con voi. Lasciate qui i più piccoli con i vecchi e gli invalidi. Dovranno badare a sé stessi. Venite.» Il piccolo Selden era accanto a Ronica nella folla. Ronica lo guardò. Le lacrime gli correvano lungo le guance, gli occhi erano enormi. «Vai nella Sala, Selden» gli disse Keffria con falsa allegria. «Torniamo presto a prenderti.» «No!» dichiarò il ragazzo con una vocetta fragile. «Sono grande abbastanza per portare un secchio.» Soffocò un singhiozzo spaventato e incrociò le braccia in segno di sfida. «Malta resterà con te» propose Keffria disperatamente. «Può aiutare a prendersi cura dei bambini e dei vecchi.» «Preferirei portare un secchio» dichiarò acida Malta prendendo la mano di Selden. Per un momento aveva quasi l'aspetto e la voce di Althea. «Non resteremo nascosti a chiederci cosa sta succedendo. Vieni, Selden. Andiamo.» In cima ai gradini della Sala, il Mercante Larfa gridava ancora ordini. «Tu. Porfro. Informa le famiglie delle Tre Navi. Qualcuno vada ad avvertire il Concilio dei Nuovi Mercanti.» «Come se a loro importasse! Che badino a sé stessi!» gridò qualcuno con rabbia. «È colpa loro se abbiamo le navi di Chalced in porto» aggiunse qualcun altro. «Non c'è tempo per litigare, dobbiamo difendere la città!» obiettò Larfa. «È Borgomago che conta, non quando siamo arrivati qui!» «Borgomago!» gridò qualcuno. Altri ripresero il grido. «Borgomago! A
Borgomago!» Carri e carrozze già uscivano rumoreggiando dal cortile, dirette verso la città vera e propria. Ronica udì qualcuno organizzare corrieri per avvertire le fattorie e gli insediamenti esterni. Non c'era tempo di andare a casa e cambiarsi, di pensare alla colazione persa o a un paio di scarpe più pratiche. Vide una donna e la figlia adulta strapparsi senza esitare le gonne voluminose. Gettarono via la stoffa che le intralciava e seguirono gli uomini della famiglia in lunghi mutandoni di cotone. Ronica afferrò la mano di Keffria, contando che i ragazzi le seguissero. «C'è spazio per noi?» gridò a un carro che passava. Il conducente si fermò senza una parola. Salirono alla rinfusa, senza badare all'affollamento. Tre giovani balzarono a bordo dopo di loro. Uno portava al fianco una spada corrosa. Tutti e tre ghignavano come pazzi, con occhi brillanti e rapidi movimenti vigorosi come giovani tori pronti a sfidarsi. Rivolsero un largo sorriso a Malta, che gettò loro uno sguardo e distolse gli occhi. Il carro partì con uno scossone e Ronica afferrò la sponda. Cominciarono il viaggio verso Borgomago. A un certo punto della strada gli alberi si aprirono, e Ronica colse uno scorcio del porto. I velieri viventi erano radunati all'imboccatura. Gli uomini si affollavano brulicando sui ponti, puntando il dito. Al largo davanti a loro Ronica scorse l'alto albero di una nave. Le galee di Chalced irte di remi la circondavano come disgustose cimici striscianti. «Innalzavano lo stendardo di Jamaillia!» gridò un giovane nel carretto quando persero di vista il porto. «Non significa niente» ghignò un altro. «Quei bastardi vigliacchi vogliono avvicinarsi prima di attaccare. Non c'è altra ragione perché tante navi siano dirette nel nostro porto.» Ronica si trovava d'accordo. Vide un sorriso malato sbocciare sul viso bianco di Malta. Si chinò verso la ragazza. «Stai bene?» chiese mesta. Temeva che sua nipote stesse per svenire. Malta rise, un suono sottile, quasi isterico. «È così stupido. Per tutta la settimana ho cucito il mio vestito, pensando a Reyn e ai fiori e alle luci e alle danze. Ieri notte non ho dormito perché le mie scarpette non mi piacevano. E ora ho la sensazione che tutto questo non succederà mai.» Alzò la testa e gli occhi sbarrati percorsero il flusso di carri, carretti e gente a piedi o a cavallo. Parlò con quieto fatalismo. «Tutto quello che ero certa di fare un giorno nella mia vita mi è stato sempre strappato via quando era quasi a portata di mano. Forse accadrà di nuovo.» Il suo sguardo divenne distante.
«Forse domani saremo tutti morti e la nostra città sarà una rovina fumante. Forse la mia presentazione non avverrà mai.» «Non parlare così!» esclamò Keffria con orrore. Ronica non disse niente per qualche tempo. Poi mise la mano su quella di Malta che afferrava la sponda del carro. «Questo è oggi. E questa è la tua vita.» Erano parole sconsolate, e non era sicura da dove venissero. «E anche la mia vita» aggiunse, e guardò avanti, lontano, lungo la strada serpeggiante verso Borgomago. Sul ponte di poppa del Kendry, Reyn osservava la scia del grande veliero vivente allargarsi sul maestoso fiume. L'arrivo del mattino trasformava in argento l'acqua lattea, e il baldacchino eternamente gocciolante delle rive boscose era una brillante cascata di gioielli. La corrente rapida e le grandi vele li portavano verso l'estuario a velocità incredibile. Reyn trasse un profondo respiro per alleviare il peso che gli gravava sul cuore, senza riuscirci. Chinò la testa fra le mani. Infilando le dita sotto il velo si fregò gli occhi impastati. Il sonno profondo sembrava una favola della sua infanzia. Si chiese se avrebbe mai più dormito bene. «Sembri a pezzi anche tu» disse una voce quieta. Reyn trasalì e si girò. Nell'oscurità del primo mattino non aveva notato l'altro uomo. Grag Tenira arrotolò una minuscola pergamena e la infilò nella manica della camicia. «Ma non dovresti» continuò, corrugando la fronte. «Non devi scortare Malta Vestrit al Ballo d'Estate? Cos'hai da sospirare?» «Molto poco» ammise Reyn. Si stampò un sorriso in volto. «Condivido le sue preoccupazioni per suo padre e la loro nave dispersa. Nient'altro, ma è un grave fardello. Speravo che il ballo del suo debutto fosse un'occasione di pura felicità. Ma temo che questo lo oscurerà.» «Se ti può consolare, il Kendry mi ha detto che la spedizione di salvataggio ha già lasciato Borgomago.» «Ah. Avevo sentito il tuo nome legato ad Althea Vestrit. La notizia viene direttamente da lei, dunque?» Reyn accennò con la testa velata alla lettera che ancora spuntava dalla manica di Grag. Grag emise un breve sospiro. «Una lettera d'addio, prima che partisse. Ha grandi speranze per la spedizione, ma nessuna per noi due. È una lettera molto amichevole.» «Ah. A volte l'affabilità fa più male della freddezza.» «Esatto.» Grag si strofinò la fronte. «I Vestrit sono una banda di testardi. Le loro donne sono dannatamente indipendenti. È quello che hanno sem-
pre detto tutti di Ronica Vestrit. Ho scoperto a mie spese che vale lo stesso per Althea.» Rivolse a Reyn un ghigno amaro. «Spero che tu abbia maggior fortuna con la giovane generazione.» «Malta non sembra molto diversa» ammise Reyn afflitto. «Ma penso che se riuscirò a conquistarla ne sarà valsa la pena.» Grag scosse la testa e distolse lo sguardo. «Pensavo lo stesso di Althea. Lo penso ancora. In qualche modo dubito che avrò l'opportunità di scoprirlo.» «Ma ritorni a Borgomago?» «Non mi fermerò, temo. Una volta arrivati in città, resterò sotto coperta finché non saremo in alto mare.» «E poi?» chiese Reyn. Grag gli rivolse un sorriso amichevole ma scosse la testa. «Giusto» concordò Reyn. «Meno persone lo sanno, meglio è.» Riportò lo sguardo sul fiume. «Volevo trasmetterti di persona la gratitudine dei Tenira per l'appoggio che ci avete mostrato. Una cosa è impegnarsi a parole, un'altra è mettere a rischio la fortuna di famiglia.» Reyn scrollò le spalle. «In questo momento le Giungle della Pioggia e Borgomago devono restare unite, per non rinunciare alla propria identità.» Grag fissò la scia orlata di bianco della nave. «Pensi che resteremo uniti in numero sufficiente per riuscire? Per generazioni siamo stati una parte di Jamaillia. Tutto nella nostra vita è modellato il più possibile su Città di Jamaillia. Non è solo il linguaggio e la nostra ascendenza, ma tutti i nostri costumi: il cibo, la moda, anche i sogni per il futuro. Quando ce ne staccheremo e diremo 'Noi siamo Borgomago', cosa diremo davvero? Chi saremo?» Reyn nascose la sua impazienza. Che importava? Tentò di formulare una risposta più politica. «Penso che riconosceremo semplicemente la realtà delle ultime tre o quattro generazioni. Siamo, il popolo delle Rive Maledette. Siamo i discendenti di coloro che ebbero abbastanza coraggio da venire qui. Loro fecero sacrifici, e noi ereditammo i loro fardelli. Quello non mi pesa. Ma non dividerò il mio diritto di nascita con coloro che non prenderanno lo stesso impegno. Non cederò il mio posto a persone che non riconoscono quello che ci è costato.» Gettò uno sguardo a Grag, aspettandosi che concordasse. Invece l'altro giovane sembrava solo turbato. A voce bassa, come vergognandosi del pensiero, chiese: «Non hai mai pensato di lasciar perdere tutto e fuggire?»
Per un attimo Reyn lo fissò attraverso il velo. Poi osservò ironico: «A quanto pare hai dimenticato con chi stai parlando.» Grag alzò una spalla. «Ho sentito che potresti passare. Se volessi. Quanto a me... A volte, quando lascio la mia nave per qualche tempo, mi trovo a chiedermi: Cosa mi trattiene qui? Perché resto a Borgomago, perché devo essere il perfetto figlio di un Mercante? Altri hanno bruciato tutti i ponti. Brashen Trell, per esempio.» «Non credo di conoscerlo.» «No. Non puoi. E non lo conoscerai. La famiglia lo diseredò per il suo comportamento irresponsabile. Quando lo seppi mi aspettai quasi che ne morisse. Invece no. Va e viene come gli pare, vive dove vuole, naviga dove il vento lo porta. È libero.» «È felice?» «È con Althea.» Grag scosse la testa. «Per qualche motivo la famiglia lo ha scelto come capitano del Paragon. E gli hanno affidato Althea.» «Da quello che ho sentito di Althea, non ha bisogno della protezione di un uomo.» «Lei sarebbe d'accordo.» Grag sospirò. «Io no. Penso che Trell l'abbia ingannata in passato, e può farlo di nuovo... Il pensiero mi divora. Ma sono forse corso a cercarla e portarla indietro? Sono intervenuto dicendo 'Vengo io, sarò io il capitano della tua nave impazzita, pur di essere con te'? No. Io non ci sono andato, e Trell sì. E questa è un'altra differenza tra noi.» Reyn si grattò la nuca. Qualcosa stava crescendo in quel punto? «Penso che trasformi in una colpa ciò che in realtà è una virtù, Grag. Conosci il tuo dovere e lo fai. Non è colpa tua se Althea non sa apprezzarlo.» «Questo è il problema.» Grag estrasse la piccola lettera dalla manica, poi la nascose di nuovo. «Lei lo apprezza. Mi ha lodato e mi ha augurato ogni bene. Ha detto che mi ammira. È un meschino sostituto dell'amore.» Reyn non seppe inventarsi una risposta. Grag sospirò. «Bene. Adesso non ha senso pensarci. Se scoppia la guerra con il Satrapo, lo sapremo presto. O Althea tornerà da me, oppure no. Sembra che io possa fare ben poco per la mia vita; sono una foglia nella corrente.» Scosse la testa e sorrise, imbarazzato dalle parole malinconiche. «Vado a prua, a fare due chiacchiere con Kendry. Vieni anche tu?» «No.» Reyn comprese che era stato brusco e cercò di ammorbidire il tono. «Anch'io devo riflettere.» Attraverso una foschia di velo grigio guardò Grag raggiungere la polena. Si cacciò le mani in tasca. Anche con i guanti, non voleva correre il rischio
di appoggiarsi alla murata. La nave intera gli gridava chi era, e non era «Kendry» che gli parlava. Aveva già viaggiato a bordo di velieri viventi e non aveva mai avuto quel problema. Quella femmina di drago gli aveva fatto qualcosa. Non era sicuro di cosa, o come, ma lo spaventava. Reyn aveva infranto l'accordo con sua madre e suo fratello maggiore per visitarla un'ultima volta. Era sbagliato, ma non più che abbandonarla senza tentare di mostrarle che aveva fatto del suo meglio. L'aveva implorata di lasciarlo andare; ormai aveva visto quanto si era impegnato. Invece il drago aveva giurato che avrebbe divorato la sua anima. «Finché sono prigioniera qui, Reyn Khuprus, lo sarai anche tu.» Lo aveva maledetto. Si era contorta attraverso la sua mente come una vena nera nel marmo, mescolandosi con lui finché Reyn non era più sicuro di dove finiva lui e cominciava il drago. Era la cosa più spaventosa che gli avesse mai fatto. «Sei mio!» aveva dichiarato. Come per sottolineare le sue parole, il pavimento intero della sala aveva tremato. Era solo un terremoto, un avvenimento comune sulle Rive Maledette. Non era neanche molto forte per quelle parti, ma Reyn non si era mai trovato nella Sala del Gallo Incoronato durante un terremoto. La torcia gli mostrò le pareti affrescate che oscillavano come tende. Corse via per salvarsi, con la risata del drago che echeggiava nel suo cervello. Non poteva sfuggirle. Mentre correva aveva sentito il suono inconfondibile di corridoi che crollavano. La mortale fuoriuscita della terra umida seguiva l'acciottolio delle piastrelle che cadevano. Perfino quando arrivò fuori e rimase curvo con le mani sulle ginocchia, tentando di recuperare il respiro, non riusciva a smettere di tremare. L'indomani ci sarebbe stato da lavorare, per giorni e giorni. Le gallerie e i corridoi andavano rinforzati. Se la situazione era brutta, forse avrebbero dovuto abbandonare intere sezioni della città sepolta. Bisognava ispezionare tutto con attenzione prima di tentare nuove esplorazioni. Proprio il genere di lavoro che Reyn odiava. «Lavora pure» la voce del drago ribollì ridente nel suo cervello. «Forse riuscirai a sostenere i muri di questa città morta, Reyn Khuprus. Ma i muri della tua mente non resisteranno più contro di me o la mia specie.» Era sembrata una vuota minaccia. Come poteva fargli peggio di ciò che già aveva fatto? Ma da allora i sogni di Reyn erano stati tormentati da draghi. Ruggivano e combattevano fra loro, si stendevano al sole sui tetti, si accoppiavano sulle alte torri di una città esotica. Reyn assisteva a ogni cosa. Non era un incubo. No. Era un sogno di straordinario splendore e com-
plessità. I draghi trattavano con esseri quasi umani, ma sottilmente diversi. Erano alti, con occhi color lavanda o rame, e le sfumature della loro carne non somigliavano a nessuno popolo che avesse mai incontrato nella sua vera vita. La sua vera vita. Quello era il problema. I sogni erano molto più affascinanti delle sue ore da sveglio. Vedeva le città degli Antichi e giungeva tormentosamente vicino a comprenderne la storia. Capiva all'improvviso l'ampiezza delle strade e dei corridoi, i gradini larghi e bassi, l'altezza delle porte e le ampie finestre. Le vaste costruzioni dovevano accomodare i draghi che dividevano con loro la città. Voleva avventurarsi dentro gli edifici, indugiare vicino alle persone che passeggiavano nei mercati o si avventuravano sul fiume nelle loro barche a vivaci colori. Non poteva. Nel sogno era con i draghi e apparteneva ai draghi. Le creature contemplavano i loro vicini bipedi con affetto tollerante. Non li consideravano loro pari. La loro vita era troppo breve, le loro preoccupazioni troppo superficiali. Nel sogno Reyn condivideva quell'atteggiamento. Si immergeva nella cultura dei draghi, e i loro pensieri cominciavano a colorare i suoi, non solo nel sonno ma anche da sveglio. Le loro emozioni erano cento volte più forti di qualsiasi cosa Reyn avesse mai provato. La passione umana, per quanto intensa, era solo uno schiocco delle dita di fronte alla devozione durevole di un drago per la sua compagna. Si veneravano non solo attraverso gli anni ma attraverso vite intere. Reyn vedeva il mondo con occhi nuovi. I campi coltivati diventavano una coperta di pezze colorate gettata attraverso la terra. Fiumi, colline e deserti non erano più barriere. Un drago, per capriccio, andava dove un uomo poteva non avventurarsi in una vita intera. Ora Reyn capiva che il mondo era molto più grande, e molto più piccolo, di quanto avesse pensato. La maledizione di quei sogni si manifestò con gradualità. Si svegliava non riposato, come se non avesse dormito affatto. La potenza della sua altra vita lo attirava. Passava i suoi giorni umani in una nebbia di insoddisfazione e inquietudine. Considerava la sua esistenza con disdegno. Un duplice flagello di stanchezza lo perseguitava. Bramava il sonno, ma il sonno non gli dava alcun riposo. Eppure desiderava il sonno, non per riposare ma per lasciare la sua triste vita umana e ancora una volta immergersi in un mondo di draghi. La sua vita umana era divenuta una sequenza di giorni stanchi. Gli unici pensieri che ancora potevano far fremere il suo cuore erano pensieri di Malta. Anche in quelle fantasie non riusciva ad
allontanare la maledizione del drago, perché all'occhio della mente i capelli di Malta splendevano come le scaglie di un drago nero. Dietro a tutti i suoi pensieri e sogni, in parole quasi troppo sommesse per sentirle eppure mai silenziose, c'era il lutto della femmina di drago intrappolata nella Sala del Gallo Incoronato. «Nessuno, nessuno, nessuno. Sono tutti morti, tutti i grandi esseri splendenti. Ed è colpa tua, Reyn Khuprus. Li hai distrutti con la tua codardia e pigrizia. Avevi il potere di ricreare il loro mondo, e te ne sei allontanato.» Quello era il più acuto dei suoi tormenti. La creatura riteneva che Reyn avesse il potere di liberarla e riportare nel mondo i veri draghi. Poi era salito a bordo del Kendry, e il suo tormento aveva assunto una sfumatura ancor più crudele. Il Kendry era un veliero vivente; le ossa dello scafo erano legno magico. Generazioni prima, gli antenati di Reyn avevano martellato cunei in un grande tronco di legno magico all'interno della Sala del Gallo Incoronato. Avevano aperto il tronco immenso, e asse dopo asse lo avevano segato e scorticato. Un pezzo immenso era stato preso intero, per formare la polena. La molle creatura formata a metà che si trovava all'interno era stata gettata fuori sul freddo pavimento di pietra della camera. Reyn si sentiva lacerare ogni volta che ci pensava. Era costretto a chiedersi: si era contorta? Aveva emesso grida senz'aria di dolore e disperazione? O, come insistevano suo fratello e sua madre, era stata una cosa morta da tempo, una massa inerte di tessuto, nulla più? Se la famiglia Khuprus non aveva niente di cui vergognarsi, perché l'argomento era sempre passato sotto silenzio? Neppure gli altri Mercanti delle Giungle della Pioggia conoscevano il vero segreto dei tronchi di legno magico. Anche se la città sepolta apparteneva a tutti, le famiglie di Mercanti si erano da tempo spartite le zone al suo interno. La Sala del Gallo Incoronato e gli strani pezzi di legno al suo interno erano stati ceduti tempo prima alla famiglia Khuprus. Ironicamente, all'epoca i tronchi immensi erano stati considerati di scarso valore. Un caso ne aveva rivelato le proprietà uniche, o così era stato sempre detto a Reyn. Non era mai stato in grado di scoprire cosa fosse esattamente successo. Se esistevano ancora membri viventi della sua famiglia che conoscevano la storia, gliel'avevano nascosta. Ora il Kendry non gli nascondeva nulla. La polena aveva l'aspetto di un sorridente giovane affabile. Nessuno conosceva meglio di lui il Fiume delle Giungle della Pioggia. Durante altri viaggi Reyn aveva apprezzato molte
conversazioni piacevoli con lui. Da quando la maledizione del drago era calata su di lui, la polena non lo sopportava più. Il sorriso di Kendry si affievoliva, le parole morivano non dette sulle sue labbra quando Reyn si avvicinava. Il volto del giovane diveniva non ostile ma apprensivo alla vista del Mercante delle Giungle. Osservava Reyn con intensità, dimenticando ogni conversazione. L'equipaggio aveva notato il suo strano comportamento. Anche se nessuno aveva avuto il coraggio di fare commenti, Reyn sentiva il peso della loro attenzione. Evitava del tutto il ponte di prua. Eppure, se Kendry era inquieto alla vista di Reyn, le emozioni di Reyn erano più acute e intense. Sapeva che nel profondo delle fibre del veliero vivente, dietro al volto cordiale del bel giovane, era in agguato lo spirito di un drago furioso. Ogni volta che Reyn dormiva, anche solo sonnecchiando su una sedia, lo spirito sepolto lo attendeva. Selvaggiamente la creatura piangeva la morte di tutto ciò che era stato. Imprecava contro il fato che gli aveva strappato le ali e le aveva sostituite con tela incostante. Invece di artigli per afferrare la preda, aveva molli zampette con appendici simili a tuberi appassiti. Un tempo nobile signore di tre regni, ora era confinato alla superficie dell'acqua, spinto qua e là dal vento, oppresso dall'umanità come un coniglio morente è oppresso dai parassiti. Era intollerabile. E la nave lo sapeva, anche se la polena sorridente ne era ignara. Ora lo sapeva anche Reyn. Sapeva che lo spirito nascosto nelle ossa del Kendry aveva sete di vendetta. Temeva che la sua presenza a bordo del veliero vivente rafforzasse quei ricordi sepolti. Se fossero emersi, cosa avrebbe potuto fare Kendry? Su chi sarebbe calata più aspra la sua vendetta? Reyn era terrorizzato all'idea che il drago scoprisse chi era: il discendente di coloro che lo avevano rovesciato dalla culla, non ancora nato. Serilla stava sul ponte della nave, e accanto a lei due robusti marinai di Chalced reggevano il Satrapo, disteso su una lettiga improvvisata con remi e tela. Il vento gli aveva arrossato debolmente le guance. Serilla gli sorrise con affetto. «Permettimi di parlare per te, Magnadon. Devi conservare le forze. Inoltre, questi sono solo marinai. Risparmia le tue parole per il Concilio dei Mercanti.» Ignaro, il Satrapo annuì con gratitudine alle sue parole. «Ma di' loro» la istruì, «di' che voglio scendere da questa nave e andare a riva al più presto. Ho bisogno di una stanza calda con un buon letto e cibo fresco e...» «Shhh, ora. Non stancarti. Lascia che io compia il mio dovere per te.» Si
chinò a rimboccargli le coperte. «Non starò via molto, lo prometto.» Almeno quello era vero. Aveva intenzione di sbrigarsi. Sperava di persuadere la nave di Borgomago ad accompagnare in città solo lei e il Satrapo. Portarsi dietro il seguito del Satrapo non aveva senso. Le loro storie avrebbero solo confuso i Mercanti. Serilla voleva che la sua versione fosse la prima e la più convincente. Raddrizzò le spalle e si strinse addosso il mantello. Aveva scelto con cura il suo abbigliamento, e aveva anche insistito per avere il tempo di acconciarsi i capelli. Desiderava apparire imperiosa, eppure austera. Oltre ai gioielli discreti che indossava, le punte delle sue scarpette erano appesantite da diverse paia dei migliori orecchini del Satrapo. Qualunque cosa le fosse accaduto, non intendeva ricominciare in povertà. Ignorò il capitano di Chalced che aggrottava le ciglia. Andò alla murata. Guardò attraverso l'acqua che separava le navi e cercò di incontrare gli occhi del gruppo di uomini sull'altra nave. La polena intagliata la fissò con sguardo feroce. Quando alzò le braccia e le incrociò con sfida sul petto, Serilla emise un lieve ansito. Un veliero vivente. Un autentico veliero vivente. In tutti i suoi anni a Jamaillia, non ne aveva visto mai uno. Accanto a lei i marinai di Chalced borbottarono, e alcuni fecero i gesti che secondo loro li avrebbero difesi dalla magia. Il loro timore superstizioso la rese più forte. Lei non provava simili paure. Drizzandosi in tutta la sua altezza, trasse un respiro profondo e parlò con voce potente. «Sono Serilla, Compagna del Cuore del. Magnadon Satrapo Cosgo. La mia area di competenza è Borgomago e la sua storia. Il Satrapo mi ha scelto per accompagnarlo qui. Ora, indebolito dalla malattia e in dolorosa angoscia, mi ha scelto per venire a porgervi i suoi saluti. Volete mandare una scialuppa a prendermi?» «Ma certo!» dichiarò un uomo corpulento con un largo panciotto giallo. Un uomo barbuto scosse la testa. «Zitto, Restart! Sei qui solo per mia concessione. Voi! Compagna. Dite che verrete da noi. Da sola?» «Da sola. Per comunicarvi la volontà del Satrapo.» Allargò le braccia, aprendo il mantello. «Sono una donna, e disarmata. Mi permettete di raggiungervi per ascoltare le mie parole? C'è stato un grave malinteso.» Li guardò discutere. Era fiduciosa che l'avrebbero accolta. Il peggio che poteva succederle era che la prendessero in ostaggio. Almeno si sarebbe allontanata da quella nave infernale. Rimase in piedi alta e immobile, mentre il vento le spettinava sempre di più i capelli. Aspettò. L'uomo con la barba tornò alla murata. Era evidentemente il capitano del
veliero vivente. Indicò il capitano di Chalced. «Mandatecela con la vostra scialuppa! Due marinai ai remi, non di più.» Il capitano le gettò uno sguardo prima di guardare il Satrapo. Serilla provò un piccolo brivido di trionfo. Il suo stupratore finalmente comprendeva che si era presa una parte di potere? Si rammentò la discrezione e abbassò gli occhi. Per la prima volta il suo odio per lui era pari alla paura. Un giorno, forse, sarò abbastanza forte per ucciderti. Una volta deciso, tutto accadde in fretta. Serilla fu calata nella scialuppa come un fagotto. La barca sembrava terribilmente piccola e agitata. Le onde la alzavano e la lasciavano cadere, e una quantità smodata d'acqua schizzò dai lati mentre si dirigevano alla nave di Borgomago. Là un giovane marinaio scese a incontrarla. La parte più paurosa fu doversi alzare nella scialuppa. Mentre un'onda sollevava il piccolo vascello, il marinaio si chinò e la prese fra le braccia come un gatto che afferra un topo da sotto un armadio. Non disse una parola, e non le lasciò il tempo di sentirsi più sicura prima di affrettarsi su per la scaletta con lei. Arrivati sulla tolda, il marinaio la rimise in piedi. Per un momento il rimbombo nelle orecchie e il battito tempestoso del cuore quasi le impedirono di udire l'uomo barbuto abbaiare una presentazione. Quando cadde il silenzio e Serilla comprese che tutti la fissavano, trasse un respiro. All'improvviso era sgomenta, in mezzo a un gruppo di uomini bizzarri sul ponte di un veliero vivente. All'improvviso Jamaillia era così lontana che quasi non esisteva più. La riportò alla vita con le sue parole. «Sono Serilla, Compagna del Cuore del Magnadon Satrapo Cosgo. Egli ha compiuto un lungo viaggio per ascoltare le vostre lagnanze e risolverle.» Guardò i visi degli uomini. Tutti la ascoltavano intenti. «Durante il viaggio si è ammalato gravemente, insieme a molti del suo seguito. Quando ha compreso quanto era malato, ha fatto in modo di assicurare che la missione fosse completata con successo, non importa cosa avvenisse di lui.» Cercò nel fondo del mantello, nella tasca che aveva cucito proprio quella notte. Sfoderò la pergamena arrotolata e la tese all'uomo barbuto. «Con questo documento il Satrapo mi nomina sua Inviata Residente presso i Mercanti di Borgomago. Sono autorizzata a parlare per lui.» Diversi uomini sembravano increduli. Serilla decise di rischiare tutto piuttosto che non farsi prendere sul serio. Spalancò gli occhi e guardò implorante l'uomo barbuto. Abbassò la voce, come se temesse che la gente di Chalced la sentisse. «Per favore. Ritengo che la vita del Satrapo sia in pericolo, e anche lui lo crede. Pensateci. Mi avrebbe delegato tanto potere se
avesse pensato di arrivare vivo in città? Se possibile, dobbiamo portarlo via dalla nave di Chalced e metterlo al sicuro a Borgomago.» Gettò uno sguardo timoroso alla nave da cui era scesa. «Non dite altro» l'avverti il capitano. «Queste parole dovrebbero essere rivolte al Concilio dei Mercanti di Borgomago. Manderemo subito una scialuppa a prendere il Satrapo. Pensate che gli permetteranno di andarsene?» Serilla scrollò le spalle, impotente. «Vi chiedo solo di tentare.» Il capitano aggrottò la fronte. «Vi avverto, signora. Molti a Borgomago la considereranno solo una manovra per entrare nelle nostre grazie. Negli ultimi tempi i sentimenti verso la Satrapia si sono guastati, perché non avete...» «Per favore, Mercante Caern! Stai angosciando la nostra ospite. Mia signora Compagna, vi prego, permettetemi. Sarò orgoglioso di estendere al Satrapo l'ospitalità di Casa Restart. Anche se al momento noi Mercanti possiamo sembrare un poco divisi, sono sicuro che troverete l'ospitalità di Borgomago degna delle leggende. Per ora vi accompagneremo nella sala da pranzo del capitano, lontano da questo ponte ventoso. Venite. Non abbiate paura. Il Mercante Caern manderà una scialuppa a prendere il Satrapo. Voi potrete bere una tazza calda di tè e ci direte tutto delle vostre avventure.» Dal fare protettivo di quell'uomo robusto lei intuì che la vedeva come una donna indifesa e fiduciosa. Serilla gli mise la mano sul braccio e gli permise di scortarla. 30 Assestamenti «Se lascia ancora la borsa mezza fuori dalla cuccetta, la uccido.» Althea si girò su un fianco, poi si affacciò trascinandosi sui gomiti. La sua dannata cuccetta era così angusta che non riusciva neanche a girarsi del tutto. Guardò giù verso Ambra. Mani sui fianchi e denti stretti, la carpentiera fissava con odio la borsa di Jek, ansando come se fosse appena corsa in cima all'albero maestro. «Calmati» l'avverti Althea. «Respira. Pensa che non è poi così importante, è solo che siamo un po' stretti.» Sogghignò. «Poi prendila a calci con tutte le tue forze. Ti sentirai molto meglio.» Per un istante, Ambra la fissò con occhi piatti e duri come la sostanza da
cui prendeva il nome. Poi si girò senza parlare e calciò la borsa di tela grezza sotto la cuccetta. Con un sospiro si piegò sulla propria cuccetta, sotto quella di Althea. La ragazza la udì tentare di sistemarsi. «Odio tutto questo» mormorò selvaggiamente dopo alcuni momenti. «Ho visto bare più grandi di questo letto. Non posso neanche stare seduta diritta.» «Se troviamo brutto tempo, sarai contenta che sia così stretta: puoi puntellarti e riuscire lo stesso a dormire» le consigliò Althea. «Che pensiero confortante» borbottò Ambra. Althea sporse la testa dal bordo della cuccetta e la fissò incuriosita. «Dici sul serio? Davvero ti dà tanto fastidio?» Ambra non la guardò. Fissò la paratia davanti al suo naso. «Per tutta la vita ho sempre avuto un luogo dove poter stare da sola. La mancanza di solitudine è come il cibo senza sale.» «Brashen ti ha offerto l'uso della sua stanza, quando lui non c'è.» «Era la mia stanza» disse Ambra senza rancore. «Ora è sua, con le sue cose. È quella la differenza. Non posso stabilirmi lì. Mi sentirei un'intrusa. Né posso chiudere a chiave la porta contro il mondo.» Althea ritrasse di nuovo la testa e cercò di riflettere. «Non sarà gran che, ma potresti cucirti tende di tela per la tua cuccetta. Sarebbe un piccolo spazio, ma Jek e io lo rispetteremmo. O potresti imparare a scalare il sartiame. In cima all'albero maestro è tutto un altro mondo.» «Esposto alla vista di tutti» commentò Ambra sarcastica. Ma c'era una nota di interesse nella sua voce. «Lassù il cielo e l'oceano sono così grandi che il piccolo mondo sotto di te non ha importanza. In realtà, una volta in cima all'albero, sei quasi invisibile a chiunque si trovi sul ponte. Prova a guardare su, la prossima volta che sei in coperta.» «Forse ci proverò.» La voce di Ambra era di nuovo bassa, quasi remissiva. Althea decise che era meglio lasciarla in pace. Lo aveva già visto con i marinai nuovi: o si adattavano alla vita di bordo, o si spezzavano. In qualche modo Althea non riusciva a immaginare Ambra che andava a pezzi. La donna aveva un vantaggio su molti marinai inesperti: non aveva preso il mare in cerca di una vita nuova ed eccitante. Per gli avventurieri era peggio: si svegliavano il quinto giorno comprendendo che il cibo monotono, la vicinanza forzata e lo squallore generale degli alloggi dell'equipaggio erano la norma della loro nuova vita gloriosa. Erano quelli che non solo si spezzavano, ma spesso portavano altri con sé.
Althea chiuse gli occhi e tentò di dormire. Presto avrebbe dovuto tornare in coperta, e aveva problemi suoi da affrontare. Il tempo era stato bello e Paragon navigava bene, come una nave normale. Non era allegro, ma non era neanche precipitato in uno dei suoi umori cupi. Althea ringraziò Sa per quella benedizione. Però lei aveva problemi con l'equipaggio. In effetti aveva proprio i problemi che Brashen aveva anticipato, maledetto lui. E quindi non poteva andare a chiedergli consiglio. Era stata così presuntuosa, là sulla spiaggia. Era stata sicura di poter gestire sé stessa e gli uomini sotto il suo comando. Ora il suo equipaggio sembrava deciso a dimostrarle il contrario. Non tutti, si ricordò, per essere sincera. I più avrebbero obbedito abbastanza di buon grado, se non fosse stato per Haff. Il ragazzo si scontrava con lei a ogni occasione. Peggio, era carismatico. Gli altri imitavano volentieri il suo atteggiamento. Era bello, pulito e simpatico. Aveva sempre una parola allegra o una burla per i suoi compagni. Era pronto a intervenire quando un altro era nei guai. Era il marinaio ideale, e piaceva al resto dell'equipaggio. La sua naturale predisposizione al comando, decise stancamente Althea, era il motivo per cui era sempre in disaccordo con lei. Il resto del problema era che lei era una donna. Haff sembrava non avere problemi a prendere ordini da Brashen o da Lavoy. Un'altra ragione per cui non poteva protestare con loro. Doveva cavarsela da sola. Se il ragazzo fosse stato semplicemente insubordinato, Althea avrebbe potuto affrontare apertamente la situazione. Ma Haff la sfidava in modo sottile e la faceva apparire incompetente davanti al suo equipaggio. Althea immaginò di protestare con Brashen, e fremette. Haff era furbo. Se tirava una cima insieme a lei, tratteneva la propria forza, costringendola a lavorare ai limiti della sua. L'unica volta che Althea gli aveva detto di metterci impegno, Haff era sembrato sgomento dal rimprovero. Gli altri li avevano guardati con sorpresa. Insieme a chiunque altro, Haff faceva sempre più del necessario. La faceva apparire debole. Althea non era fisicamente forte come gli uomini con cui lavorava. Non poteva farci niente. Tuttavia, maledetto lui, Althea faceva la sua parte, e si sentiva umiliata quando il ragazzo dava l'idea che lei non riuscisse a tener dietro. Quando Althea gli affidava un compito, il ragazzo lo eseguiva in fretta e bene. Sapeva dare spettacolo con un'aria sbarazzina che trasformava il più semplice lavoro in un atto di valore. Il disprezzo per l'autorità di Althea e un certo amore per il rischio: a disagio, la ragazza ricordò un giovane marinaio chiamato Devon, e quanto lo aveva ammirato. Non c'era da stupirsi che suo padre si fosse liberato
di lui. L'altro trucco di Haff era di rispettarla come donna piuttosto che come ufficiale. Con astuzia si faceva notare a lasciarle il passo, o a offrirle una cima o un attrezzo come se fosse stato una tazza di tè. Questo suscitava risatine da parte degli altri uomini, e quel giorno Lop era stato abbastanza sciocco da imitarlo. Con goffa ovvietà aveva ossequiosamente chinato la testa davanti a lei. Approfittando della posizione, Althea gli aveva sferrato un bel calcio al fondoschiena che lo aveva spedito giù per la scaletta. C'era stata una risata generale di appoggio per lei, rovinata da qualche imbecille senza volto che aveva esclamato: «Non hai fortuna, Lop. Lei preferisce Haff.» Con la coda dell'occhio, Althea aveva visto Haff fare un largo sogghigno e agitare la lingua. Aveva fatto finta di non vederlo, solo perché non c'era un modo giusto di reagire. Pensava di essersela cavata, finché non aveva visto l'espressione di Clef. La delusione era scritta a chiare lettere sul viso del ragazzo. Le aveva girato le spalle, vergognandosi per la sua vergogna. Quello soprattutto l'aveva convinta che doveva agire quando Haff sarebbe di nuovo uscito dal seminato. Il problema era che ancora non sapeva cosa fare. La posizione di secondo ufficiale era difficile da mantenere. Althea era parte dell'equipaggio e insieme al di sopra di loro. Né ufficiale né semplice marinaio, doveva percorrere quella linea da sola. «Cosa vorresti fare di Haff?» chiese quietamente Ambra dalla cuccetta più bassa. «Mi spaventi quando fai così» protestò Althea. «Te l'ho già spiegato. È un trucco ovvio, usato in tutte le fiere che hai visitato. Ti agiti lassù come se la cuccetta fosse piena di formiche. Ho scelto solo la causa più probabile della tua preoccupazione.» «Giusto» rispose Althea, scettica. «Per rispondere alla tua domanda, vorrei dargli un calcio nelle palle.» «Proprio l'approccio sbagliato» le disse Ambra in tono altezzoso. «Tutti gli uomini presenti trasalirebbero e si immaginerebbero al posto di Haff. Sembrerebbe un trucco da prostituta, una donna che colpisce un uomo dove è più vulnerabile. Non puoi farti vedere così. Devi apparire come un ufficiale che rimette al suo posto un marinaio sfacciato.» «Suggerimenti?» chiese Althea, cauta. Era snervante che Ambra arrivasse così in fretta al cuore di un problema. «Dimostra di essere migliore di lui, di meritare il posto di secondo ufficiale. Quello è il vero problema, lo sai. Haff pensa che se tu ti facessi da
parte e diventassi un passeggero qualunque, lui prenderebbe il tuo posto.» «Ed è vero» concesse Althea. «È un marinaio competente e un capo nato. Sarebbe un buon secondo ufficiale, o anche un primo ufficiale.» «Ebbene, ecco l'altra possibilità. Fatti da parte e lascialo diventare secondo ufficiale.» «No, quello è il mio posto» ringhiò Althea. «Allora difendilo» suggerì Ambra. «Ma dato che sei già in cima, devi lottare con correttezza. Mostrati migliore di lui. Aspetta il tuo momento, stai pronta, poi afferralo. Deve essere autentico. Il resto dell'equipaggio non deve avere dubbi. Dimostra di essere un marinaio migliore di lui, di meritare ciò che hai.» Althea sentì Ambra muoversi nella cuccetta. La ragazza rimase immobile, ponderando un'idea preoccupante. Davvero era migliore di Haff? Meritava di essere ufficiale al suo posto? Perché la posizione non doveva toccare a lui? Chiuse gli occhi. Doveva dormirci sopra. Con un'imprecazione soffocata, Ambra diede un calcio alla sponda del letto, poi girò il cuscino. Si sistemò, solo per spostarsi di nuovo un istante più tardi. «Non ho il tuo dono. Perché non mi dici cosa ti infastidisce?» chiese Althea. «Non capiresti» protestò Ambra. «Nessuno può capire.» «Mettimi alla prova» la sfidò Althea. Ambra trasse un lungo respiro e sospirò. «Mi chiedo perché non sei un giovane schiavo con nove dita. Mi chiedo come può Paragon essere un ragazzo spaventato e insieme un uomo crudele. Mi chiedo se dovrei essere a bordo di questa nave, o se dovevo restare a Borgomago e proteggere Malta.» «Malta?» chiese Althea, incredula. «Che c'entra Malta?» «Questo» replicò Ambra con voce stanca, «è precisamente ciò che vorrei sapere.» «C'è qualcosa che non va, signore! A Borgo Baratto, voglio dire.» Gankis era contro la porta della cabina di Kennit. Il capitano non aveva mai visto il vecchio pirata così angosciato. Si era tolto il cappello e lo torceva fra le mani. Kennit sentì un soprassalto allo stomaco, una premonizione improvvisa. Non si permise di mostrarla. Sollevò un sopracciglio interrogativo. «Gankis, c'è molto che non va a Borgo Baratto. Cosa in particolare ti ha condotto alla mia porta?»
«Mi ha mandato Brig, signore, a dirvi che c'è cattivo odore. L'odore di Borgo Baratto, voglio dire. Beh, c'è sempre cattivo odore, entrando a Borgo Baratto, ma stavolta è cattivo sul serio. Come ceneri bagnate...» Ecco. Un dito ghiacciato nelle reni. Nel momento in cui il vecchio marinaio lo disse, Kennit ne fu consapevole. Era debole nella cabina chiusa, ma c'era. Era l'antico odore del disastro, che non sentiva da molto tempo. Strano, come un odore possa riportare alla vita i ricordi più di qualsiasi stimolo dei sensi. Urla nella notte, e sangue a fiumi, viscido e appiccicoso. Fiamme che salivano al cielo. Odore di case bruciate, mescolato alla morte. «Grazie, Gankis. Di' a Brig che salgo subito in coperta.» La porta si chiuse dietro al marinaio sconvolto. Borgo Baratto era quanto di più vicino a una casa avesse quell'equipaggio. Tutti sapevano cosa significava quell'odore, ma Gankis non ce l'aveva fatta a dirlo. Borgo Baratto era stata razziata, probabilmente da una nave schiavista. Non era un evento insolito per una città di pirati. Anni prima, con il vecchio Satrapo, intere flotte di navi avevano fatto scorrerie in quelle acque. Avevano localizzato e spazzato via gran parte delle vecchie fortezze pirata. Borgo Baratto aveva resistito, non scoperta. Durante gli anni del declino del vecchio Satrapo morente e il regno incompetente di Cosgo, le città pirata erano rimaste indisturbate. Avevano imparato l'imprudenza e la prosperità. Kennit aveva tentato di avvertirli, ma nessuno a Borgo Baratto lo aveva ascoltato. «Il cerchio si sta chiudendo.» Kennit gettò uno sguardo all'amuleto al suo polso. Ormai l'affare maledetto era più un fastidio che un portafortuna. Parlava solo quando gli andava, e anche allora non pronunciava altro che minacce, avvertimenti e oscure profezie. Magari non l'avesse mai fatto creare, ma non poteva liberarsene. C'era troppo di lui nell'amuleto per fidarsi a lasciarlo in mani altrui. O peggio, distruggere una scultura vivente del proprio viso poteva attirare la distruzione su di sé. Quindi continuava a tollerare il piccolo amuleto di legno magico. Forse un giorno si sarebbe reso utile. Forse. «Ho detto, il cerchio si chiude. Non mi hai capito? O stai diventando sordo?» «Ti sto ignorando» disse piacevolmente Kennit. Gettò uno sguardo fuori dalla finestra della cabina. Il porto di Borgo Baratto era ormai in vista. Dall'acqua spuntavano gli alberi di molte navi. Più in là, la città era bruciata. La giungla mostrava segni di incendi. I moli di Borgo Baratto erano sopravvissuti come banchine isolate che indicavano la spiaggia con travi carbonizzate. Kennit provò una fitta di rimpianto. Era tornato con il suo
bottino più ricco, supponendo che Sincure Faldin potesse toglierglielo dalle mani con un bel profitto. Senza dubbio avevano tagliato la gola al commerciante, e avevano trascinato via moglie e figlie in catene. Era tutto dannatamente seccante. «Il cerchio» proseguì inesorabile l'amuleto, «sembra composto di molti elementi. Un capitano pirata. Un veliero vivente catturato. Una città bruciata. Un ragazzo prigioniero della famiglia della nave. Quelli erano gli elementi del primo ciclo. E cosa abbiamo qui, ora? Un capitano pirata. Un veliero vivente catturato. Un ragazzo prigioniero della famiglia della nave. E una città bruciata.» «La tua analogia si rompe, amuleto. Gli elementi non sono in ordine.» Kennit andò allo specchio, poi si chinò sulla gruccia mentre dava un tocco finale alle punte arricciate dei baffi. «Eppure trovo che la coincidenza sia impressionante. Quali altri elementi potremmo aggiungere? Ah, forse un padre in catene?» Kennit girò il polso per guardare in faccia l'amuleto. «O una donna con la lingua tagliata? Potrei fare in modo di organizzarlo.» La faccina socchiuse gli occhi. «Tutto ritorna, o pazzo. Tutto ritorna. Una volta messa in moto la macina, pensi di sfuggire al tuo destino finale? Fu preparato per te anni fa, quando decidesti di seguire le orme di Igrot. Farai la fine di Igrot.» Kennit batté l'amuleto a faccia in giù sulla tavola. «Non voglio più sentirti pronunciare quel nome! Capito?» Guardò di nuovo l'amuleto, che gli sorrideva serenamente. Sul polso, il sangue si diffondeva sotto la pelle. Tirò il polsino della camicia per nascondere l'amuleto e la contusione con uno sbuffo di pizzo, poi lasciò la cabina. La puzza era molto più forte sul ponte. Il porto acquitrinoso di Borgo Baratto aveva sempre emanato un suo fetore. Ora al fetore si mescolava l'odore di case bruciate e di morte. Un silenzio insolito era calato sull'equipaggio. La Vivacia si muoveva come una nave fantasma, spinta con lentezza da un vento debole sull'acqua pigra. Niente richiami o mormorii o gemiti. Il silenzio terribile dell'accettazione gravava sulla nave. Anche la polena era silenziosa. Sulla loro scia, la Marietta avanzava nella stessa coltre di angoscia. Gli occhi di Kennit andarono a Wintrow, in piedi sul ponte di prua della Vivacia. Il pirata poteva quasi sentire lo stordimento dei due, nave e ragazzo. Accanto a lui Etta afferrava la murata e si chinava in avanti come se
fosse stata lei la polena, il viso raggelato in una strana smorfia di incredulità. La rovina era diseguale. Tre muri di un magazzino rimanevano intatti come mani a coppa attorno alla distruzione. Una sola parete del bordello elegante di Bettel era ancora in piedi. Qua e là, baracche isolate non avevano preso fuoco del tutto. La terra umida su cui era fondata la città aveva salvato quei pochi luoghi. «Non ha senso approdare qui» osservò Kennit rivolto a Brig. Il giovane primo ufficiale della Vivacia si era avvicinato senza parole. «Inverti la rotta e troviamo un altro porto.» «Aspettate, signore! Guardate! C'è qualcuno. Guardate là!» Gankis alzò coraggiosamente la voce. Il vecchietto ossuto aveva scalato il sartiame per vedere meglio la distruzione della città. «Non vedo niente» dichiarò Kennit, ma un istante più tardi li scorse. Venivano senza meta dalla giungla, uno o due alla volta. La porta di una baracca si spalancò. Un uomo stava sulla soglia, impugnando una spada con aria di sfida, la testa fasciata da una lurida benda marrone. Ormeggiarono ai pali scheletrici che costituivano i resti del molo principale. Kennit sedeva a prua della scialuppa che lo portava a riva. Sorcor gli teneva dietro nella scialuppa della Marietta. Etta e il ragazzo avevano insistito per accompagnarlo. Con riluttanza Kennit aveva concesso a tutto l'equipaggio una breve licenza di sbarco, purché una squadra essenziale rimanesse sempre sulla nave. Ognuno sembrava ansioso di scendere a terra, per accertarsi della distruzione. Kennit avrebbe solo voluto andarsene. La città bruciata lo sconvolgeva. Impossibile predire le reazioni dei superstiti disperati. I sopravvissuti di Borgo Baratto si erano radunati in una folla prima che le scialuppe toccassero terra. Come fantasmi cenciosi, muti, aspettavano che i pirati sbarcassero. Il silenzio parve minaccioso a Kennit, come la sensazione che ogni sguardo lo seguisse. All'improvviso la scialuppa si arenò leggermente nella costa fangosa. Kennit sedette immobile, stringendo la gruccia, mentre l'equipaggio saltava fuori e trascinava la barca all'asciutto. Non gli piaceva per niente. Il fango nero della spiaggia luccicava di un sottile strato oleoso di alghe verdastre. La gruccia e la gamba di legno sarebbero sprofondate. Sarebbe apparso molto impacciato. Peggio, sarebbe stato vulnerabile se la folla avesse deciso di attaccarlo. Rimase seduto, fissandoli e aspettando un segno chiaro del loro umore. Poi, dalla barca della Marietta, sentì Sorcor esclamare: «Alisso! Sei vi-
va!» Il robusto pirata era già saltato giù. Corse attraverso l'acqua e il fango fino alla folla in attesa che si aprì davanti alla sua carica. Afferrò una ragazza spaventata fra le braccia e la strinse al petto massiccio. A Kennit ci volle un momento per riconoscerla. La creatura malridotta era stata molto più attraente quando Sincure Faldin aveva presentato lei e la sorella Lilia come possibili spose per Kennit e Sorcor. Ricordò che Sorcor era parso infatuato della ragazza, ma non sospettava che avesse continuato il corteggiamento. Sorcor ora stringeva Alisso Faldin come un orso può abbracciare un vitello. La ragazza aveva gettato le braccia pallide al collo taurino del pirata e gli si aggrappava. Straordinario. Le lacrime le scorrevano lungo le guance, ma Kennit era disposto a supporre che fossero lacrime di gioia. Altrimenti si sarebbe anche messa a urlare. Quindi era contenta di vederlo. Kennit decise che scendere dalla barca era sicuro. «Dammi il braccio» disse a Wintrow. Il ragazzo sembrava pallido. Meglio dargli qualcosa da fare. «La città intera è andata» disse stupidamente Wintrow mentre scavalcava la murata e gli tendeva il braccio. «Alcuni potrebbero pensare che sia un miglioramento» osservò il capitano. Rimase in piedi nella barca, guardando l'acqua lurida con disgusto. Poi scavalcò, prima con la gamba di legno. Come temeva, sprofondò nel fango molle. Solo la spalla del ragazzo gli impedì di affondare fino al ginocchio, e anche così perse quasi l'equilibrio. Poi Etta era là, gli afferrò l'altro braccio e lo sostenne mentre avanzava. Procedettero a fatica sulla spiaggia fangosa finché non raggiunsero un terreno più fermo. Kennit scorse una pietra che sporgeva dal fango e la scelse per fermarsi. Vi piantò con fermezza la gamba di legno e si guardò attorno. La devastazione era completa. La ricrescita della giungla nelle zone bruciate gli disse che l'incursione era avvenuta probabilmente settimane prima, ma non c'era segno che qualcuno avesse tentato di ricostruire. Avevano ragione. Non aveva senso. Una volta che gli schiavisti scoprivano un insediamento, tornavano e tornavano fino a portar via ogni abitante. Borgo Baratto, uno dei più antichi insediamenti pirata, era morto. Kennit scosse la testa. «Non so quante volte ho detto che dovevano costruire due torri di guardia e qualche balista. Anche una torre con una sentinella avrebbe dato loro abbastanza preavviso per fuggire. Ma nessuno mi ha ascoltato. Si preoccupavano solo di chi avrebbe pagato.» Era una soddisfazione aver avuto ragione, e nessuno poteva dire che non li aveva avvertiti. Di solito i suoi suggerimenti venivano accolti con deri-
sione, o con l'accusa che cercava solo di aumentare il proprio potere. Eppure diversi superstiti lo guardarono con sguardo di rimprovero. Un uomo arrossì di rabbia improvvisa indicando Kennit: «Tu! Tu ne sei responsabile! Hai attirato su di noi la gente di Chalced!» «Io?» Kennit era indignato. «Ho appena detto che vi avevo avvertito. Se mi aveste ascoltato, ci sarebbero molti più superstiti. Chi lo sa? Forse avreste potuto sconfiggere i razziatori e catturare le loro navi!» Emise uno sbuffo di disprezzo. «Sono l'ultimo che potete accusare per quello che è accaduto qui. Se volete incolpare qualcuno, incolpate la vostra caparbietà testarda!» Era il tono sbagliato. Kennit lo capì quasi subito. Troppo tardi. La folla calò su di lui come una valanga di ghiaccio da un iceberg. Kennit pensò a un'onda inevitabile di distruzione. Etta, accidenti a lei, allentò la presa sul suo braccio. Sarebbe scappata? No. La sua mano era corsa al coltello. Non sarebbe servito a molto contro tanti aggressori, ma Kennit apprezzava l'intenzione. Sciolse le spalle con un rapido movimento e tolse la mano dalla spalla di Wintrow. Fece cenno al ragazzo di allontanarsi. Aveva il proprio coltello: avrebbe venduto cara la pelle. Richiamò il solito sorrisetto sul suo viso e li aspettò, la gamba di legno puntellata sulla pietra. Fu sconvolto indicibilmente quando anche il ragazzo estrasse un coltello, un coltello molto prezioso, e si parò davanti a lui. Al suo fianco, Etta rimase senza fiato, e poi emise un soffio divertito. Kennit le gettò uno sguardo e vide un sorriso orgoglioso e selvatico aprirsi sul suo viso, forse la cosa più spaventosa che avesse mai visto. Sapeva bene che le piaceva tagliuzzare gli uomini; ma almeno per questa volta era dalla sua parte. Udì schizzi e suoni acquosi di stivali che correvano nella melma mentre i suoi uomini prendevano posizione dietro di lui. Solo quattro erano scesi a riva con lui. Una parte della sua mente registrò che Vivacia stava gridando qualcosa; la nave vedeva quello che stava succedendo, ma non poteva far nulla per lui. Prima che mandasse fuori un'altra scialuppa e spedisse a terra altri uomini, sarebbe tutto finito. Kennit resistette e attese. La folla risalì fino a lui come un'onda, e poi fluì minacciosa attorno a lui. Gli uomini dietro a Kennit si girarono per rivolgersi all'esterno. La tensione ronzava nell'aria. Di fronte a un gruppo deciso di uomini armati, nessuno nella folla voleva essere il primo ad attaccare. Kennit ricordò l'uomo dal viso rosso che lo affrontava: era un taverniere di nome Boj. Batteva una clava contro la gamba con intenzione, ma rimaneva fuori portata del coltello del ragazzo. Gli altri aspettavano che fosse lui ad attaccare. Kennit
sospettò all'improvviso che Boj non fosse contento di essere a capo di quella folla. Un'occhiata laterale gli mostrò Sorcor che affiancava la folla con i suoi marinai dalla Marietta. La ragazza era svanita. Kennit non ebbe tempo di chiedersi dove. I due uomini si guardarono; Sorcor non aveva bisogno di segnali. Non avrebbe fatto niente finché non era inevitabile. Poi si sarebbe aperto un varco verso Kennit al più presto. Boj gettò uno sguardo cauto ai suoi seguaci dietro di lui, poi sorrise con fredda soddisfazione a quelli che avevano circondato il pirata. Sicuro di essere sostenuto, affrontò Kennit. Doveva guardare oltre la testa di Wintrow per fissarlo negli occhi. «È colpa tua, viscido bastardo. Sei stato tu a smuovere le acque, attaccando le navi schiaviste. Dovevi proprio farti notare, non potevi accontentarti di guadagnarti da vivere. Tu e i tuoi discorsi di diventare re. Una nave qui, una nave là, quel ragazzo con la corona a Jamaillia non se ne curava. Poi sei arrivato tu. Il Satrapo ci lasciava in pace, finché tu non hai rimescolato la pentola. Lo hai colpito nella borsa. Ora guarda cosa ci hai fatto. Non ci rimane nulla. Dovremo trovare un nuovo posto, e ricominciare da zero. Probabilmente non troveremo mai un buon nascondiglio come Borgo Baratto! Qui eravamo al sicuro, e tu lo hai distrutto. I razziatori sono venuti a cercare te.» All'improvviso batté significativamente la clava nel palmo della mano. «Secondo me, sei in debito con noi. Ci prenderemo qualunque cosa tu abbia su quella nave, per trovarci un nuovo nascondiglio. Ora decidi come lo prenderemo. Se non vuoi dividerlo volentieri, ebbene...» Roteò la clava con un sibilo. Kennit rifiutò di trasalire. Altri erano emersi dagli alberi. Chiaramente c'erano più superstiti di quanto Kennit avesse pensato all'inizio, ma l'intero scontro era sciocco. Anche se lo uccidevano sulla spiaggia e spazzavano via i suoi uomini, non potevano certo aspettarsi che entrambe le navi si arrendessero. Se ne sarebbero andate. Era stupido; le folle di solito erano stupide. E letali. Kennit lasciò che il sorriso si allargasse mentre componeva una risposta. «Un nascondiglio. È tutto ciò a cui sapete pensare?» La voce di Wintrow sbalordì Kennit. Risuonò limpida come quella di un bardo, carica di disprezzo, e abbastanza forte, comprese il pirata, da raggiungere non solo gli uomini davanti a lui ma anche quelli che arrivavano dalla giungla. Wintrow teneva ancora il coltello basso e pronto; dove lo aveva imparato? Ma il ragazzo non sembrava avere intenzione di lottare contro la folla. «Zitto, ragazzino. Non c'è tempo di parlare!» Boj soppesò minacciosa-
mente la clava. Guardò Kennit sopra la testa di Wintrow. «Ebbene, re Kennit? Vuoi che sia facile o...» «Certo che non hai tempo di parlare!» La voce di Wintrow risuonò chiara, sovrastando quella di Boj. «Parlare richiederebbe cervello, non muscoli. Nessuno qui ha mai tempo per parlare, neanche quando vi salverebbe. Kennit ha tentato di mostrarvelo. Non potete nascondervi da quello che succede fuori dal vostro miserabile paese. Il resto del mondo prima o poi vi raggiunge. Kennit ha tentato di avvertirvi. Vi ha detto di fortificare la città, ma non lo avete ascoltato. Ha portato qui gli schiavi e li ha liberati fra voi, ma non avete voluto vedere voi stessi in loro! No, avete preferito nascondervi qui nel fango come granchi mangiatori di immondizia, certi che il mondo non si sarebbe mai accorto di voi! Non è così che funziona. Se ora lo ascoltaste, scoprireste come essere di nuovo uomini. Ho visto i disegni nella sua cabina. Questo posto poteva essere fortificato. Borgo Baratto poteva farsi conoscere. Potevate dragare questo puzzolente truogolo che chiamate porto ed esigere di apparire sulle mappe dei commercianti. Dovevate solo alzarvi e dire: siamo persone, non una masnada di banditi ed esuli di Jamaillia. Scegliere un capo e difendervi. Ma no. Volete solo far schizzare altri cervelli, spargere altra morte e poi andare a nascondervi sotto un'altra pietra finché i razziatori del Satrapo non vi troveranno di nuovo!» Il ragazzo era senza fiato. Kennit sperò che non lo vedessero tremare. Tenne la voce bassa, come per rivolgersi al solo Wintrow, ma sapeva che anche gli altri lo avrebbero udito. «Lascia perdere, figliolo. Non hanno ascoltato me, non ascolteranno te. Questo è tutto quello che sanno. Combattere e nascondersi. Ho fatto il possibile per insegnare loro a essere uomini liberi.» Scrollò una spalla. «Faranno quello che faranno.» Alzò gli occhi e guardò la folla. Alcune delle facce tatuate erano vagamente familiari. Schiavi che aveva portato lì come uomini liberi, comprese, mentre uno dopo l'altro abbassavano gli occhi sotto il suo sguardo. Uno schiavo, più coraggioso degli altri, si distaccò all'improvviso dalla folla. «Io sono con Kennit» disse semplicemente, e attraversò il piccolo spazio per unirsi ai marinai di Sorcor. Un'altra mezza dozzina lo seguì senza parole. La folla cominciò a spostarsi inquieta, sempre più esigua. Alcuni di quelli che erano venuti dalla giungla rimasero isolati, chiaramente riluttanti a prendere posizione. Nulla sembrava chiaro come lo era stato pochi attimi prima. La voce di una donna si levò all'improvviso. «Carum! Jerod! Vergogna-
tevi! Sapete che quello che Kennit dice è vero! Lo sapete!» Era Alisso, in piedi nella scialuppa della Marietta. Doveva avercela messa Sorcor. Indicò i giovani con fare accusatorio. «Vahor. Kolp. Deridevate Lilia e me, dicendo che papà aveva offerto la sua mano a un pazzo e la mia al suo primo ufficiale. E mia madre cosa vi disse? Che erano uomini che vedevano un futuro possibile! Uomini che tentavano di aiutarci a essere qualcosa di più che un villaggio sull'orlo del nulla. E ora lei è morta! Morta! Non l'ha uccisa Kennit, ma la nostra stupidità! Non lo abbiamo ascoltato. Avevamo bisogno di un re per proteggerci, ma abbiamo deriso la sua offerta!» Il sudore incollava la camicia alla schiena di Kennit. Ormai la Marietta e la Vivacia dovevano aver calato altre scialuppe. Se riusciva a impedire alla folla di attaccarlo ancora per qualche momento, presto avrebbe avuto abbastanza uomini alle spalle per spostare le probabilità in suo favore. Probabilmente sarebbe morto lo stesso. Il ragazzo davanti a lui e la donna al suo fianco potevano al massimo rallentarne uno o due. Poi sarebbe morto, perché lo avrebbero spinto e avrebbe dovuto spostarsi dalla pietra che sosteneva la sua gamba di legno. Sarebbe morto. Alcuni in fondo alla folla apparivano più rilassati. Si erano staccati leggermente dai loro compagni, e sembravano più curiosi che minacciosi. Ma non Boj. Lui e i cinque o sei più vicini tenevano la testa incassata fra le spalle e i gomiti in fuori, stringendo forte le armi. La resistenza degli altri superstiti sembrò solo infiammare la rabbia di Boj. Il giovane al suo fianco era molto probabilmente suo figlio. Boj aveva il respiro affannoso, e muoveva la bocca come se non avesse saputo trovare parole abbastanza taglienti. «Ti sbagli!» ruggì all'improvviso. «È colpa sua! Colpa sua! Ce li ha spinti addosso!» La sua voce salì in un urlo, e poi balzò in avanti, roteando la clava. La folla dietro a lui si mise in movimento, fluendo in avanti come un'onda. La clava di Boj spazzò il luogo dove era stato il cranio di Wintrow. Il ragazzo aveva chinato la testa, ma non abbastanza. Kennit vide il colpo di striscio fargli scattare la testa da un lato. Si aspettò che cadesse. Piantò saldamente la gruccia e alzò il coltello per difendersi. Un giovinastro aveva impegnato la lama di Etta. Lei non avrebbe potuto aiutarlo. Mentre Kennit sollevava la lama, Wintrow all'improvviso balzò di nuovo tra lui e Boj, rimettendosi in posizione come un alberello piegato dal vento ma non spezzato. Il viso di Boj mostrò chiara sorpresa, ma lo sciocco aveva già tirato indietro la clava, con l'intenzione di uccidere Kennit. Il torace era libero; senza dubbio il taverniere era abituato ad avere un banco
tra sé e la vittima. Il coltello di Wintrow trafisse con violenza lo stomaco duro attraverso la camicia e il panciotto. Wintrow urlò, un grido di orrore e odio. Boj ruggì, ferito, ma niente affatto morto. Il combattimento si stringeva da tutti i lati. Kennit udiva Sorcor tuonare imprecazioni per incoraggiare i suoi uomini mentre fendevano la folla per raggiungere il loro capitano. Udiva le urla delle donne, e seppe che alcuni avevano abbandonato la lotta. Tutto stava accadendo allo stesso tempo, eppure a Kennit sembrava di trovarsi in un'isola di calma. Etta era caduta nel fango con il suo avversario, urlando, colpendo e lottando. Kennit era vagamente consapevole del combattimento attorno a lui. Udì urla dall'acqua, probabilmente gli uomini delle altre scialuppe che gridavano la loro frustrazione per non essere ancora sbarcati. Dietro di lui due uomini lottavano nel fango. Uno colpì l'estremità della gruccia con un calcio, facendolo barcollare di mezzo passo nel fango. La clava di Boj crollò sulla spalla di Wintrow mentre il ragazzo estraeva il coltello e lo affondava di nuovo nell'uomo. Kennit udì un rumore sordo e il grido di dolore di Wintrow, poi cadde su di loro. Afferrò Boj e usò il proprio coltello. La gruccia era andata; la gamba di legno affondò nel fango, gettandolo di lato. Il colpo morente di Boj lo mancò per un pelo. Kennit precipitò sopra Wintrow, e poi Boj crollò su entrambi come un albero abbattuto. Il peso del taverniere schiacciò Kennit nel fango lucente. Proprio la situazione indecorosa spronò Kennit più della rabbia. Con un ruggito spinse via l'uomo più pesante. Gli tagliò la gola per sicurezza. Si drizzò sul ginocchio buono, e vide Etta con la schiena nel fango che afferrava a due mani il polso di un uomo robusto che tentava di trafiggerla con un coltello mentre la strangolava con l'altra mano. Kennit gli cacciò il coltello appena a destra della spina dorsale all'altezza delle reni. L'uomo gridò e trasalì per il dolore. Etta sfruttò il momento per affondargli il suo stesso coltello nell'intestino. Proseguendo il movimento rotolò sotto di lui e balzò in piedi, gridando «Kennit, Kennit!» Era lurida. Corse attraverso il fango e si fermò accanto a lui proteggendolo con il coltello. Era troppo umiliante. Kennit lottò per rialzarsi. In fretta come era cominciata, la lotta finì. I suoi pirati erano ancora in piedi. Chiunque dei paesani avesse voluto davvero lottare era a terra. Il resto si era ritirato a distanza di sicurezza. In qualche modo Sorcor era riuscito a fendere la folla, come al solito. Mentre Kennit perdeva l'equilibrio e sedeva di nuovo nel fango, Sorcor spacciò con indifferenza un ferito di Borgo Baratto e lo raggiunse, tendendo una larga mano gocciolante fan-
go e sangue. Prima che Kennit potesse obiettare, Sorcor lo afferrò per il davanti della giacca e lo rimise in piedi. Etta trovò la gruccia e gliela porse. Anch'essa era incrostata di fango. Kennit accettò quella cosa lurida e tentò di apparire noncurante mentre se la infilava sotto il braccio. Ai suoi piedi, Wintrow era riuscito a tirarsi in ginocchio. Reggeva il braccio sinistro con il destro, ma stringeva ancora il coltello. Etta lo notò ed emise una risata d'orgoglio. Incurante del suo lamento, lo afferrò per la schiena della camicia e lo tirò su. Con sorpresa di Kennit, diede al ragazzo un rude abbraccio. «Non te la sei cavata male, per essere la prima volta. La prossima piegati di più.» «Penso di avere un braccio rotto» ansimò Wintrow in risposta. «Fammi vedere.» Etta gli afferrò il braccio sinistro e lo percorse con le mani. Wintrow emise un grido involontario e tentò di sottrarsi, ma la donna lo tenne fermo. «Non è rotto. Se fosse rotto saresti svenuto quando ti ho toccato. Tuttavia potrebbe essere incrinato. Ti passerà.» «Aiutami a raggiungere un terreno più solido» disse Kennit, ma fu Sorcor a prendergli il braccio per aiutarlo. Etta e Wintrow lo seguirono insieme. Per un istante Kennit ne fu indignato. Poi si rammentò che era sua intenzione metterli insieme. Superarono la manciata di cadaveri, e un uomo che sedeva con la testa china sul ventre lacerato. Il resto della gente di Borgo Baratto si era di nuovo allontanata a distanza di sicurezza. Uno dei suoi marinai aveva un taglio sulla gamba, ma i più erano incolumi. Il risultato non sorprese Kennit. Avevano il vantaggio di pance piene e armi decenti, esperti combattenti contro attaccabrighe di città. Solo i numeri erano stati contro di lui, ed erano bastati alcuni morti per cambiare in fretta la situazione. Arrivato dove poteva stare in piedi da solo, Kennit si asciugò con fermezza le mani sul davanti dei pantaloni irrimediabilmente rovinati. Gettò uno sguardo oltre i marinai che lo circondavano protettivi, verso le rovine della città. Nessun posto per fare un bagno, farsi una bevuta in pace, vendere il bottino. Non rimaneva nulla di Borgo Baratto. Non c'era ragione di restare. «Andiamocene» disse a Sorcor. «C'è un uomo a Gola del Toro con un contatto a Candelaia. L'ultima volta che siamo sbarcati là si è vantato di poterci trovare prezzi migliori per il nostro malloppo. Forse tenteremo un po' con lui.» «Sissignore» concordò Sorcor. Poi chinò la testa, studiando la sabbia tra i suoi grossi stivali. «Signore, mi porto via Alisso.» «Se proprio devi» replicò Kennit con un certo fastidio. Quando l'omone
alzò la testa, c'erano bagliori di rabbia nel profondo dei suoi occhi. «E naturalmente devi» corresse in fretta Kennit, scuotendo il capo malinconicamente. «Cosa rimane qui alla povera ragazza? Sei l'unico protettore che le resta, Sorcor. Lo considero tuo dovere. Devi farlo.» Sorcor annuì serio. «Proprio come pensavo, signore.» Kennit guardò con disgusto il fango calpestato che doveva attraversare per tornare alla barca. Doveva fare in modo che non sembrasse più difficile per lui che per chiunque altro. Afferrò più saldamente la gruccia viscida. «Andiamo, allora. Qui non rimane nulla per noi.» Gettò uno sguardo cauto alla gente ancora accalcata a grappoli che li fissava. Nessuno sembrava intenzionato ad attaccare, ma non si poteva mai sapere. Mentre li guardava, uno uscì deciso e si fermò davanti agli altri. «Ci lasciate qui, così?» Era incredulo. «Come dovrei lasciarvi?» chiese Kennit. Di nuovo, Wintrow lo sorprese. «Avete fatto capire molto chiaramente che qui non è benvenuto. Perché dovrebbe sprecare il suo tempo con voi?» Il ragazzo sembrava sinceramente sprezzante. «Siamo mica stati noi a saltargli addosso!» gridò l'uomo, indignato. «Erano quegli altri attaccabrighe, e ora sono tutti morti. Perché punire noi per quello che hanno fatto loro?» «Non siete neanche intervenuti per salvarlo» scattò Wintrow. «Questo mostra che non avete imparato nulla. Nulla! Credete ancora che il male di un altro non significhi nulla per voi. Lasciate che un altro sia schiavizzato, lasciate che un'altra città sia devastata, lasciate che qualcun altro sia scannato sulla spiaggia proprio davanti a voi. Non vi importa finché non vi tagliano la gola, e non abbiamo tempo per aspettare che accada. Le altre città sono contente di ascoltare quello che dice Kennit, di trarre profitto dal suo comando. Borgo Baratto è morta. Non è mai stata su una mappa, e non lo sarà mai. Perché i suoi abitanti erano già morti.» C'era un potere nella voce del ragazzo. Gli stessi che stava ingiuriando si fecero più vicini, come pesci presi all'amo. Alcuni aggrottavano la fronte, altri apparivano vergognosi. Altri ancora avevano l'aspetto stordito di chi è scampato fisicamente a un disastro molto esteso mentre la sua mente è fuggita. Vennero verso il ragazzo. Ancora più strano, gli uomini dell'equipaggio fecero ala per permettere a Wintrow di fronteggiare il suo pubblico senza ostacoli. Quando il ragazzo tacque, la quiete che seguì le sue parole fece eco alla sua accusa. «Altre città?» qualcuno finalmente chiese dalla folla.
«Altre città» confermò Wintrow. «Città come Traverso. Hanno preso la nave data loro da Kennit e l'hanno usata. Con la ricchezza che ne hanno ricavata, hanno migliorato il destino di tutti. Non si nascondono più, si avventurano fuori e dichiarano al mondo che ci sono e sono liberi. Commerciano apertamente, e sfidano le navi schiaviste che cercano di passare. Diversamente da voi, hanno messo in pratica le parole di Kennit. Fortificano il porto e vivono liberi.» «Non funzionerà per noi» obiettò una donna. «Non possiamo stare qui! I razziatori sanno dov'è la nostra città. Torneranno. Dovete portarci con voi. Dovete! La nostra unica speranza è fuggire. Che altro dobbiamo fare?» «Che altro?» considerò Wintrow. Si alzò in punta di piedi. Guardò il porto squallido, come paragonandolo mentalmente a qualcosa. «Là!» Indicò una bassa scogliera. «Ecco da dove potete cominciare. Ricostruite, ma cominciate con una torre in quel punto. Non deve essere molto alta per dominare la laguna. Con un uomo di guardiano, perfino un bambino poteva avvertirvi tutti in tempo per fuggire o combattere. Sareste sopravvissuti all'ultima incursione.» «Stai suggerendo di ricostruire Borgo Baratto?» chiese scettico un uomo. La mano descrisse un arco per indicare i resti degli edifici. «Con cosa?» «Oh, capisco. Avete migliori prospettive altrove?» chiese Wintrow asciutto. Vedendo che l'uomo non replicava, il ragazzo proseguì. «Ricostruite con quello che avete. Parte del legname è recuperabile. Tagliate adesso gli alberi e metteteli ad asciugare per avere altro legname più tardi. Riportate a galla le navi nel porto. Se non navigheranno di nuovo, usate le assi altrove.» Wintrow scosse la testa, come se non riuscisse a concepire la loro stupidità. «Devo farvi un disegno? Resistete qui. Non era casa vostra? Perché permettete loro di scacciarvi? Ricostruite, ma questa volta nel modo giusto, pensando alla difesa, al commercio, all'acqua pulita. Non dovevate costruire il porto qui! I moli dovevano cominciare là. Avete usato la terra migliore per i magazzini. Metteteci invece le case e le botteghe, e costruite i magazzini su pontili laggiù, dove una nave può arrivare fin sulla porta. Era tutto nei piani di Kennit; lui lo aveva visto chiaramente. Non riesco a credere che non lo abbiate visto voi stessi.» Poche cose piacciono tanto al cuore di un uomo come un nuovo inizio. Kennit li osservò guardarsi attorno con occhi nuovi e poi scambiarsi occhiate. Quasi altrettanto in fretta vide un'espressione astuta insinuarsi su
molti visi. Lì c'erano opportunità, l'occasione di migliorare ciò che avevano perso. I nuovi venuti o i poveri erano all'improvviso pari a tutti gli altri. Kennit era pronto a scommettere che i proprietari delle navi erano stati trascinati via in catene. Qualcuno sarebbe stato abbastanza in gamba da reclamare ciò che rimaneva. Wintrow elevò la voce come un profeta. «Kennit è un uomo buono, che si è sempre preoccupato di voi, perfino quando disprezzavate le sue offerte di aiuto. Non siete mai stati lontani dal suo cuore. Io stesso all'inizio dubitavo dei suoi motivi. Lo temevo. Ma ora posso dirvi questo. Ho visto nel suo cuore, e ora credo quello che crede lui. Il suo destino è tracciato da Sa. Kennit sarà Re delle Isole dei Pirati. Sarete una delle sue città, o svanirete?» Le orecchie di Kennit ronzavano. Per un istante non riuscì a credere ciò che stava sentendo. Poi il suo cuore afferrò il concetto. Il ragazzo era il suo profeta. Sa gli aveva spedito Wintrow, un sacerdote tutto suo, per aprire gli occhi degli altri al suo destino. Era quello che aveva provato vedendo per la prima volta il ragazzo. Il legame fra re e indovino li aveva uniti. Non era, come lo aveva accusato l'amuleto, un'animalesca spinta a ripetere il passato. Wintrow era il suo profeta. L'incarnazione della sua buona sorte. Eventi ancora più bizzarri si verificarono mentre il miracolo aveva luogo. Un uomo avanzò, dichiarando: «Io resterò qui. Ricostruirò. Quando fuggii dal mio padrone a Città di Jamaillia e mi rifugiai qui, pensai di essere un uomo libero. Ma ora so che non lo ero. Il ragazzo ha ragione. Non sarò libero finché non smetterò di scappare e nascondermi.» Uno degli schiavi liberati lo affiancò. «Io sono qui. Non ho altro luogo, nulla a mio nome. Ricomincio da qui.» Uno dei suoi compagni lo raggiunse in silenzio. Con lentezza la folla intera si avvicinò. Kennit mise una mano infangata sulla spalla di Wintrow. Il ragazzo girò la testa per guardarlo e l'ammirazione nei suoi occhi quasi accecò il pirata. Per un istante provò davvero qualcosa, la fitta di un'emozione così acuta da non saper dire se fosse dolore o amore. Gli si chiuse la gola. Quando parlò, le parole uscirono sommesse, e la gente si fece ancora più vicina per ascoltarlo. Si sentiva un santo. No. Un re saggio e adorato. Sorrise alla sua gente. «Dovete farlo insieme. Non può essere ognuno per sé. Cominciate con la torre, sì, ma ai sui piedi elevate un ricovero che tutti possano dividere finché le case non saranno ricostruite. Scavate un pozzo per l'acqua invece di prenderla dalla palude.» Girò lo sguardo sui visi del popolo in ascolto. Venivano a lui come bambini smarriti e laceri; finalmente erano pronti ad
ascoltarlo. Poteva raddrizzare il corso della loro vita. Gli avrebbero permesso di mostrare loro come dovevano vivere. Il suo cuore si gonfiò di trionfo. Si rivolse a Etta al suo fianco. «Etta. Ritorna alla Vivacia, alla mia cabina. Prendi i piani dalla mia scrivania; sono chiaramente identificati. Sai quali intendo?» «Posso trovarli, so leggere» gli ricordò Etta con dolcezza. Gli sfiorò il braccio con un caldo sorriso, poi si girò per ordinare a due uomini di remare per lei. Kennit le gridò: «Di' all'equipaggio di preparare la nave per l'ormeggio. Rimarremo qui per qualche tempo, aiutando Borgo Baratto a ricostruire. La Marietta ha a bordo sacchi di grano. Comincia a farli portare a riva. Questa gente ha fame.» Un mormorio attraversò la folla. Una giovane donna si fece avanti. «Signore. Non dovete rimanere qui fuori. Casa mia è ancora in piedi, e ho un tavolo. Posso anche prendere acqua per lavarvi.» Fece un gesto imbarazzato. «È un alloggio povero, ma sarei onorata.» Kennit le sorrise, poi guardò tutti i suoi fedeli sudditi. «Sarebbe molto gradito.» 31 La quiete «Malta, hai messo troppa cipria, sei pallida come un fantasma» la rimproverò Keffria. «Non ne ho messa affatto» rispose la ragazza, apatica. Sedeva in camiciola davanti allo specchio, fissandolo. Aveva le spalle curve, i capelli spazzolati solo a metà. Sembrava più una domestica stanca alla fine di una giornata di lavoro che la figlia di un Mercante la sera della sua presentazione al Ballo d'Estate. Keffria soffriva per lei. Era entrata nella stanza, aspettandosi di trovare sua figlia che faceva gli ultimi ritocchi irradiando entusiasmo. Invece la ragazza sembrava stordita. L'estate era stata troppo dura con lei. Keffria avrebbe voluto in qualche modo risparmiare a Malta tanto lavoro faticoso e tanta frugalità. Soprattutto avrebbe desiderato che quel ballo fosse come entrambe l'avevano immaginato. Malta non era la sola che lo attendeva con ansia da anni. Anche Keffria aveva sognato il momento in cui la sua unica figlia sarebbe entrata nella Sala dei Mercanti al braccio di suo padre, fermandosi all'ingresso per essere annunciata ai Vecchi Mercanti lì riuniti.
Aveva sognato per lei un vestito sontuoso, un dono di splendidi gioielli per commemorare l'occasione. Invece presto avrebbe allacciato Malta in un abito messo insieme da vestiti vecchi. I soli gioielli sarebbero stati i regali di Reyn, piuttosto che la ricchezza di una donna, datale da suo padre. Non era né adatto né corretto, ma che altro potevano fare? Era doloroso. Scorse il proprio cipiglio nello specchio dietro la spalla di Malta. Imbarazzata, spianò il volto. «So che non hai dormito bene la notte scorsa, ma pensavo che questo pomeriggio avresti riposato. Non sei andata a distenderti?» «Sì. Non sono riuscita a dormire.» Malta si chinò più vicina allo specchio, pizzicandosi le guance per tentare di darsi colore. Dopo un istante parve presa dal proprio riflesso. «Mamma,» chiese quietamente «non ti capita mai di guardarti e chiederti se c'è qualcun altro dentro di te?» «Cosa?» Keffria prese la spazzola. Con la scusa di pettinare Malta, le toccò la pelle. Non aveva la febbre. Se mai, la sua pelle sembrava troppo fredda. Sollevò la pesante cascata dei capelli della figlia. Mentre cominciava ad acconciarli, le ricordò: «Devi lavarti la nuca. O è un livido?» Si chinò più vicina per guardare la pallida macchia azzurra. La sfiorò, e Malta trasalì. «Fa male?» «Non proprio. Sembra vibrare quando lo tocchi. Cos'è?» Malta girò la testa per tentare di vederlo nello specchio, ma non ci riuscì. «È solo una macchia grigio-azzurra, grande come la punta di un dito. Sembra una contusione. Hai picchiato la testa quando sei svenuta sulla nave?» Malta aggrottò la fronte, inquieta. «Forse. Si vede molto? Dovrei metterci qualcosa?» Keffria aveva già immerso le dita nel talco. La sfiorò, e la macchia scomparve. «Ecco, nessun altro se ne accorgerà» disse confortante. Ma Malta aveva già ricominciato a fissarsi allo specchio. «A volte non so più chi sono.» Parlò piano, ma la voce era tesa piuttosto che trasognata. «Non sono la ragazzina sciocca che ero l'estate scorsa, con tanta fretta di crescere.» Si morse il labbro inferiore e scosse la testa. «Ho tentato di essere responsabile e di imparare tutto quello che avete tentato di insegnarmi. Una parte di me sa che sono importanti. Ma, in tutta onestà, odio pasticciare con i numeri e destreggiarmi tra un debito e l'altro. Non sono neanche questo. A volte penso a Reyn o a un altro giovane, e il mio cuore palpita, e penso che potrei essere così felice se solo avessi lui. Ma dopo un istante sembra tutta una finzione, come se fossi una bambina che
gioca a fare la mamma con le bambole. O peggio, sembra che io voglia qualcuno perché è colui che vorrei che fosse... non so se ha senso. Quando tento di pensare a chi sono davvero, mi sento solo stanca e quasi triste, in un modo che non ha lacrime. E quando tento di dormire e sogno, i sogni sembrano stranieri e distorti. E quando mi sveglio sembrano seguirmi, e mi trovo a pensare i pensieri di qualcun altro. Quasi. A te è mai successo?» Keffria era senza parole. Malta non aveva mai parlato così. Si dipinse un sorriso falsamente brillante sul volto. «Mia cara, sei solo nervosa, ed è per questo che hai tutti questi pensieri strani. Una volta arrivati al ballo, il tuo umore migliorerà. Sarà un grande ballo, come Borgomago non ha mai visto.» Scosse la testa. «Tutti i nostri problemi mi sembrano così piccoli quando penso a quello che sta accadendo a Borgomago. Eccoci qui, intrappolati nel nostro porto dalle galee di Chalced che dicono di essere la pattuglia del Satrapo. Il Satrapo stesso, con la maggior parte del suo seguito, alloggia da Davad Restart. Il Satrapo verrà al ballo stasera, con alcune sue Compagne. Già questo passerà alla storia di Borgomago. Anche i più fervidi oppositori di Jamaillia tenteranno di parlargli. Alcuni dicono che siamo sull'orlo della guerra, ma io preferisco credere che il Satrapo intenda correggere il male che ci ha fatto. Altrimenti perché sarebbe venuto fin qui?» «Portando tante belle galee e mercenari di Chalced?» aggiunse Malta con un sorriso storto. «Ho sentito che era per proteggersi dai pirati durante il viaggio» le disse Keffria. Malta sembrava fin troppo disillusa per i suoi anni. Erano state loro? La loro disciplina, le lezioni e il lavoro domestico avevano distrutto la ragazza capricciosa ed egoista e l'avevano sostituita con quella stanca e cinica giovane donna? L'idea le spezzava il cuore. «Hanno lasciato entrare l'altra nave? Quella con i nobili a bordo? Ho sentito che i Nuovi Mercanti erano molto seccati di vederli rimandare indietro. Molti affermano di avere parenti a bordo.» «Non la nave, no, ma hanno permesso ai nobili di scendere a terra nelle scialuppe. Alcuni erano malati, altri sono rimasti feriti nei molti scontri con i pirati. Era solo un atto di misericordia permettere loro di sbarcare. Inoltre, come dici, hanno parenti qui, fra i Nuovi Mercanti. Non sono mercenari di Chalced. Che danno possono fare?» Malta scosse la testa. «Non più di quanto abbiano già fatto i loro parenti, suppongo. Dopo il grande panico quando tutte quelle navi sono entrate in porto, mi aspettavo che saremmo stati più cauti. Abbiamo trascorso quasi
tutta la giornata in Borgomago, riempiendo d'acqua secchi e barili. Per non dire delle ore passate in piedi senza sapere cosa stava succedendo là fuori sulle navi durante il confronto.» Keffria scosse la testa, esasperata dal ricordo. «È perché là fuori non stava accadendo nulla. Le nostre navi hanno formato una linea attraverso l'imboccatura del porto, e le galee di Chalced si sono schierate davanti a loro. Sono contenta che entrambe le parti siano state ragionevoli e che non ci sia stato spargimento di sangue.» «Mamma, da allora non c'è più commercio. Il commercio è la linfa vitale di Borgomago. Non c'è spargimento di sangue neanche quando qualcuno viene strangolato, ma è un assassinio lo stesso.» «La gente di Chalced ha lasciato entrare il Kendry in porto» indicò Keffria. «Con il tuo giovanotto a bordo.» «E hanno richiuso il blocco dietro di loro. Se fossi stato il capitano del Kendry non lo avrei portato dentro. Sospetto che abbiano solo voluto intrappolare un altro veliero vivente nel porto. Lo sai che temono i nostri velieri viventi da quando Ophelia ha resistito alle loro galee.» Una luce senza gioia si accese negli occhi di Malta. Keffria tentò di nuovo. «Davad Restart ci ha promesso che farà in modo che tu venga presentata di persona al Satrapo e alle sue Compagne. È un grande onore, sai. Molte matrone in Borgomago ti invidieranno. Eppure suppongo che non avrai occhi per il Satrapo, quando Reyn sarà arrivato. Si sa che l'eleganza della famiglia Khuprus si distingue sempre. Scommetto che il tuo giovanotto sarà splendente. Sarai l'invidia di ogni ragazza al ballo. La maggior parte delle giovani passano la serata ballando con padri, zii e cugini, o rimanendo meste in piedi accanto a madri e zie. Io certamente ho fatto così.» Butterei via Reyn e il Satrapo, se potessi ballare un solo ballo con mio padre, osservò Malta fra sé. Vorrei fare qualcosa per portarlo a casa. Qualcosa a parte questa attesa eterna. Sedette per qualche tempo in totale immobilità, guardandosi allo specchio. All'improvviso si raddrizzò e fissò intensamente il suo volto riflesso. «Ho un aspetto terribile. Non dormo bene da settimane; e quando dormo i miei sogni non mi permettono di riposare. Non andrò alla mia presentazione così; è un'opportunità troppo importante. Posso prendere in prestito il tuo rosso per le guance, mamma? E qualcosa per far sembrare i miei occhi più brillanti?» «Certo.» Keffria provò un sollievo così intenso che si sentì la testa leggera. Riconosceva quella Malta. «Te lo porto subito, mentre finisci di ac-
conciarti i capelli. Dobbiamo prepararci tutte e due. Davad non può mandarci la sua carrozza, certo; sarà troppo occupato a portare al ballo i suoi importanti visitatori. Ma tra tua nonna e me, abbiamo messo insieme abbastanza per noleggiare una carrozza. Arriverà presto, e faremo meglio a essere pronte.» «Sarò pronta» rispose Malta con decisione, ma non sembrava parlare di belletti e vestiti. I piani di Serilla erano andati a monte. Non solo i nobili cadetti della seconda nave erano riusciti a convincere la gente di Borgomago a lasciarli sbarcare, ma avevano portato con loro il resto del seguito del Satrapo dalla nave principale. L'unico aspetto positivo, per quel che riguardava Serilla, era che anche i suoi vestiti e i suoi bagagli erano stati portati a riva. Nei giorni seguenti non solo il suo controllo sul Satrapo era svanito, ma Cosgo aveva anche recuperato le forze con rapidità sorprendente. Un guaritore aveva dichiarato che il Satrapo stava guarendo bene e ne aveva riconosciuto il merito a Serilla. Cosgo ancora credeva che la donna gli avesse salvato la vita, ma ora che aveva di nuovo Kekki e le sue droghe di piacere, la sua dipendenza da lei andava affievolendosi. Il loro padrone di casa sembrava deciso a nutrirlo con ogni ricco cibo immaginabile e a viziarlo con divertimenti continui. La vitalità rinnovata di Cosgo aveva mandato a monte i piani di Serilla. La donna aveva dovuto affrettarsi a modificare la sua posizione. La pergamena firmata da Cosgo era stata celata nella manica annodata di uno dei suoi vestiti. Serilla non ne aveva più parlato da quando l'aveva mostrata sulla nave. Quando un Mercante le aveva chiesto del rotolo, aveva sorriso e gli aveva assicurato che, siccome Cosgo aveva riguadagnato la salute, non sarebbe stato più necessario. Cosgo stesso non sembrava ricordarne l'esistenza. Era stata organizzata una riunione speciale del Concilio dei Mercanti di Borgomago. Serilla sperò che prima o poi avrebbe avuto l'opportunità di spostare ancora una volta l'equilibrio del potere in suo favore. Per ora doveva tener duro. Guardò fuori dalla finestra della camera che il Mercante Restart le aveva offerto. Erano proprio le province, rifletté. I giardini sotto di lei avevano un testardo aspetto di giungla. La camera stessa, sebbene grande, era antiquata e ammuffita dal disuso. Il letto odorava di cedro ed erbe per profumare gli armadi, e le tende erano di uno stile che sua nonna avrebbe riconosciuto. Il letto era faticosamente alto; Serilla sospettò che fosse progetta-
to per proteggere il dormiente da ratti e topi. Il vaso da notte era proprio sotto il letto invece che in un'alcova separata. Le domestiche le portavano acqua tiepida per lavarsi solo due volte al giorno, e non c'erano fiori freschi nella stanza. Restart aveva fornito alle Compagne una sola domestica personale, e Kekki aveva tenuto impegnata la povera ragazza. Serilla aveva dovuto badare alle proprie necessità. Le andava bene, per il momento. Non aveva intenzione di permettere a qualche sconosciuta l'accesso agli oggetti nascosti nella sua stanza. Ma non erano le raffinatezze che l'avevano affascinata quando aveva scelto Borgomago come sua area di competenza. Quella città di pionieri era riuscita a sopravvivere. Tutti gli altri tentativi di colonizzare le Rive Maledette erano falliti. In tutto quello che aveva letto o sentito di Borgomago, non aveva trovato una spiegazione plausibile. Perché la città era sopravvissuta, addirittura prosperando? Cosa la distingueva da tutti gli altri tragici sforzi? Le persone, l'ubicazione, o la semplice fortuna? Lì c'era un mistero da indagare. Borgomago era l'insediamento principale sulle Rive Maledette. Era circondata da una rete di villaggi e fattorie, eppure in tanti anni non era cresciuta quanto ci si sarebbe aspettato. La popolazione rimaneva stabile. Anche l'afflusso degli Immigranti delle Tre Navi aveva segnato solo un aumento provvisorio. Le famiglie erano piccole, di rado più di quattro figli sopravvivevano. L'onda di Nuovi Mercanti minacciava di soppiantare i Vecchi Mercanti di Borgomago in forza del numero, per non parlare degli schiavi che avevano portato con loro. La crescita non era benvenuta. Borgomago resisteva all'idea di espandersi nella campagna circostante. La ragione ufficiale era che gran parte del terreno era troppo acquitrinoso, e che coltivare ciò che sembrava un pascolo selvatico di solito lo trasformava in una palude la primavera successiva. Buone ragioni. Ma Serilla aveva sempre sospettato che ci fosse qualcos'altro. Per esempio, i cosiddetti Mercanti delle Giungle della Pioggia. Chi erano, precisamente? Non erano menzionati, almeno con quel nome, in alcun documento emesso da un Satrapo. Erano un gruppo di Mercanti di Borgomago che si erano resi indipendenti? Un popolo nativo imparentatosi con la gente di Borgomago tramite matrimoni? Perché non erano mai discussi apertamente? Nessuna parlava di una città sul Fiume delle Giungle della Pioggia; eppure doveva esserci. Tutti i beni più affascinanti di Borgomago erano vantati come provenienti dalle Giungle della Pioggia. Non se ne sapeva
molto di più. Serilla era convinta che i due segreti fossero collegati. In tanti anni di ricerche non era mai arrivata al fondo di quel mistero. Ora era lì, a Borgomago. O almeno, alla periferia di Borgomago. Attraverso gli alberi poteva solo scorgere le luci della città. Avrebbe tanto voluto andare a esplorarla. Da quando era arrivata, il loro ospite aveva insistito che rimanessero in casa sua a riposare. Serilla sospettava che quella tattica avvantaggiasse più il Mercante Restart che loro. Mentre il Satrapo e le sue Compagne alloggiavano con lui, c'era un flusso continuo di visitatori alla sua porta. Serilla sospettava, dallo stato di abbandono della camera, che da molti anni il Mercante Restart non godesse di un tale momento di popolarità. Tuttavia era ben disposta a sorridere e salutare i Mercanti, Vecchi e Nuovi, che venivano in visita. Ogni alleanza che riusciva a formare, ogni donna che abbagliava con racconti distratti della vita di palazzo a Jamaillia era un altro aggancio nella sua nuova casa. Perché aveva ancora intenzione che fosse così. Forse la sua opportunità di conquistare il potere era scivolata via, ma sperava ancora di fare di Borgomago la sua casa. Mentre si appoggiava alla ringhiera del balconcino, la casa intera tremò lievemente. Di nuovo. Si raddrizzò e indietreggiò, rientrando nella stanza. Dal suo arrivo la terra rabbrividiva quasi ogni giorno, ma la gente del posto non sembrava badarci. La prima volta Serilla era balzata in piedi con un'esclamazione di sorpresa. Il Mercante Restart aveva solo scrollato le spalle rotonde. «Solo un piccolo terremoto, Compagna Serilla. Nulla di cui preoccuparsi.» Il Satrapo era già ubriaco fradicio per accorgersene. Come sempre, il tremore passò. Nulla era caduto, nessun muro si era spaccato. Serilla emise un lieve sospiro. Era parte delle Rive Maledette; l'inquietudine della terra sotto i suoi piedi. Se intendeva vivere lì faceva meglio ad abituarsi. Squadrò con fermezza le spalle e rivolse la mente agli affari del momento. Quella sera il suo sogno si sarebbe avverato. Avrebbe visto Borgomago. Chiuse l'alta finestra e andò al guardaroba a scegliere il suo abbigliamento. Sarebbe stata ospite di una certa festa d'estate dei Mercanti. Per loro doveva essere una faccenda importante. Era limitata ai Mercanti di Borgomago: gli altri venivano ammessi solo se erano imparentati con loro. Le giovani donne maggiorenni sarebbero state presentate in società, e Serilla aveva sentito voci di offerte di amicizia scambiate tra i Mercanti di Borgomago e i Mercanti delle Giungle della Pioggia. Un'affascinante distinzione interna, si disse, di cui non si parlava a Jamaillia. Perché si scambiavano offerte? Un gruppo aveva soggiogato l'altro? Domande, domande.
Serilla scrutò corrucciata i suoi gioielli. Non poteva certo indossare quelli che aveva rubato dalle casse del Satrapo. Kekki o qualche altro cortigiano poteva riconoscerli e fare commenti. Era sicura che, trascorrendo abbastanza tempo con il Satrapo da solo, poteva fargli «ricordare» di averglieli donati, ma non voleva che la situazione emergesse in pubblico. Con un lieve sospiro rimise i gioielli nel loro nascondiglio in una pantofola. Doveva presentarsi disadorna. Il giorno prima una delle visitatrici di Davad Restart aveva cercato di farsi bella con il pettegolezzo che Reyn Khuprus dei Mercanti delle Giungle della Pioggia stava già corteggiando una ragazza che doveva essere presentata quella sera. Gli altri Vecchi Mercanti l'avevano zittita severamente. Allora la donna, tale Reft Faddon, era stata tanto audace da sfidarli, indicando che di certo il Satrapo e le sue Compagne sarebbero stati presentati al giovane Khuprus al ballo. Che senso aveva nascondere l'identità del giovane? Davad Restart stesso era intervenuto. Era stato accomodante in modo quasi insopportabile, ma a quel punto esercitò il suo potere. «Ma non si può discutere il giovane Khuprus senza menzionare la famiglia Vestrit e la signorina in questione. In assenza di suo padre, mi considero responsabile della sua reputazione. Non tollero pettegolezzi su di lei. Ma farò in modo che la incontriate di persona dopo la presentazione. È una giovane affascinante. E ora, altri dolcetti?» Aveva efficacemente posto fine alla conversazione. Alcuni Mercanti di Borgomago lo avevano guardato con approvazione, ma altri avevano alzato gli occhi al cielo per i suoi modi circospetti. Interessante. Serilla sentiva le spinte e le tensioni del potere all'opera. Questo Davad Restart sembrava una specie di ponte tra Vecchi e Nuovi Mercanti. Il caso sembrava averli messi in una posizione ideale, perché entrambe le fazioni della società divisa sembravano moderatamente a loro agio nel far visita a Davad. I Nuovi Mercanti portavano al Satrapo ricchi regali e inviti alle loro dimore, e i Mercanti di Borgomago portavano isolo dignità e potere. A Serilla non sembrava che il Satrapo avesse fatto un'impressione particolarmente buona sui Vecchi Mercanti, né loro su di lui. Sarebbe stato interessante vedere come procedevano le cose. Stava accadendo così tanto; Borgomago era molto più vivace della corte posata e stagnante di Jamaillia. Se una donna aveva coraggio, poteva costruirsi una posizione. Serilla prese un vestito dal guardaroba e se lo appoggiò contro il corpo. Poteva andar bene, decise. Semplice ma di buona fattura; di certo era adatto per una sera fra quei pro-
vinciali. Per cambiarsi fu costretta a scoprirsi. Serilla rivolse risolutamente la schiena allo specchio mentre si vestiva. Il giorno prima un'occhiata accidentale le aveva rivelato che le contusioni profonde sulla schiena e le cosce si erano affievolite in ombre di verde, marrone e giallo. Eppure quel breve sguardo traditore l'aveva all'improvviso trascinata di nuovo nell'orrore e nell'impotenza. Era rimasta a guardarsi, paralizzata. All'improvviso l'aveva presa un brivido profondo, più simile a una convulsione che a un tremito. Si era seduta bruscamente sul bordo del letto, traendo grandi respiri per non farsi squassare da profondi singhiozzi. Le lacrime sarebbero state un sollievo. Perfino dopo essere riuscita a vestirsi, non era stata capace di costringersi a uscire per far colazione. Lo avrebbero capito. Lo avrebbero capito tutti. Come potevano guardarla e non sapere quanto male le era stato fatto? Le ci era voluto fino a mezzogiorno per reprimere i suoi sentimenti e dominarli di nuovo. Passato il panico, era riuscita a raggiungere la compagnia, accampando come scusa un mal di testa mattiniero. Da allora si era chiesta se era forza o una specie di pazzia che le permetteva di fingere di essere normale. Ancora una volta risolse di creare per sé un luogo dove nessun uomo avrebbe avuto autorità su di lei. Alzò il mento mentre si profumava la gola. Quella sera, si disse. L'opportunità poteva venire quella sera. In tal caso sarebbe stata pronta. «Come fai a sopportare il velo?» chiese Grag Tenira. «Nella carrozza mentre venivamo qui pensavo di morire soffocato.» Reyn scrollò le spalle. «Ci si abitua. Ne ho di più leggeri di quello che ti ho prestato, ma temevo che saresti stato riconosciuto se non eri pesantemente velato.» Sedevano in una stanza degli ospiti in casa Tenira. Un tavolino era stato allestito in fretta, carico di pane, frutta, piatti, bicchieri e una bottiglia di vino. Dal corridoio venivano i passi pesanti dei domestici che portavano i bagagli di Reyn su per le scale. L'abbigliamento da Giungle della Pioggia di Grag era gettato sul letto. Il giovane si spettinò i capelli sudati per rinfrescarsi, e poi venne al tavolo. «Vino?» «Molto volentieri, cuginetta» rispose beffardo Reyn. Grag emise una risata che era un mezzo gemito. «Non so come ringraziarti. Non intendevo scendere a Borgomago. E invece eccomi qui, non solo a terra ma in casa della mia famiglia, anche se per poco. Se tu non
fossi stato disposto ad aiutarmi, temo che sarei ancora nascosto nella stiva del Kendry.» Reyn accettò il bicchiere di vino, lo infilò abilmente sotto il velo e bevve. Emise un sospiro soddisfatto. «Ebbene,» ribatté «se tu non mi avessi offerto l'ospitalità di casa tua, sarei fuori dalla locanda con i miei bagagli. La città brulica di Nuovi Mercanti e scagnozzi del Satrapo. Le mie stanze sono state date via tempo fa.» Reyn fece una pausa inquieta. «Con il porto bloccato e le locande piene, non so per quanto tempo dovrò implorare la tua ospitalità.» «Siamo più che felici di accogliervi entrambi.» Era Naria Tenira, che entrò spingendo la porta con una zuppiera fumante fra le mani. Chiuse la porta con un calcio e guardò Grag con cipiglio, mettendo la zuppa in tavola. «È un sollievo avere Grag a casa, e sapere che è al sicuro. Mangia qualcosa di caldo, Reyn.» Poi si girò verso suo figlio: «Rimettiti quel velo, Grag. E guanti e cappuccio. E se io fossi stata una domestica? Te l'ho detto, non fidarti di nessuno. Finché sei a casa dobbiamo mantenere la finzione che sei un Khuprus delle Giungle della Pioggia, nostro ospite. Altrimenti metti in pericolo la tua vita. Da quando ti abbiamo fatto uscire dalla città, la taglia sulla tua testa è salita. Metà dei vandalismi contro le imprese dei Nuovi Mercanti e gli uffici del Satrapo avvenuti in tua assenza sono attribuiti a te.» Girò le spalle a suo figlio e cominciò a servire la zuppa per Reyn, continuando: «Per alcuni dei giovani in città sei quasi un eroe. Temo che tutto stia sfuggendo di mano, e che il ministro del Satrapo ti stia usando come capro espiatorio. I figli dei Mercanti si sfidano a vicenda ad applicare il 'Trattamento Tenira' a qualche magazzino, e tutti sanno cosa intendono.» Scosse la testa mettendo il cibo davanti a Reyn. «Le tue sorelle e io viviamo con discrezione, ma la gente ancora si gira e bisbiglia quando andiamo in città. Qui non sei al sicuro, figlio. Vorrei che tuo padre fosse qui. Lo giuro, non so più come proteggerti.» Indicò con decisione il velo scartato. «Sono un po' vecchio per nascondermi dietro le tue gonne, mamma» protestò Grag raccogliendo il velo con disgusto. «Me lo metterò dopo aver mangiato.» «Sono un po' vecchia per sperare di avere un altro figlio se ti uccidono» fece notare sua madre con voce sommessa. Raccolse i guanti e glieli diede. «Mettiteli, e abituati» lo implorò. «Questo travestimento è la tua unica speranza. Solo Sa può dire quando il Kendry o un'altra nave uscirà da Borgomago. Devi continuare a interpretare la parte di un Mercante delle
Giungle, e in modo convincente.» Guardò implorante Reyn. «Lo aiuterai?» «Certo.» «Ho detto ai domestici che siete due giovani estremamente riservati. Non devono entrare senza bussare. Ho detto loro che per onorarvi le sorelle di Grag metteranno in ordine la stanza ogni giorno.» Rivolse uno sguardo severo a suo figlio. «Non esagerare, Grag, per quanto ti sembri spiritoso.» Grag stava già ridacchiando. Sua madre lo ignorò e si rivolse a Reyn. «Perdonami per averti chiesto di dividere i tuoi indumenti con mio figlio. Sembra il modo migliore di preservare la finzione.» Reyn rise con autoironia. «Vi assicuro che nel mio nervosismo per il ballo probabilmente ho portato indumenti per vestire mezza dozzina di giovani.» «E io sono ansioso di sfoggiare l'eleganza e il mistero di un vero figlio delle Giungle della Pioggia al Ballo d'Estate di Borgomago» aggiunse Grag. Sollevò il velo e gettò un'occhiata a sua madre. Naria era costernata. «Sii serio, Grag. Resta a casa, al sicuro. Reyn naturalmente deve andarci, come le tue sorelle e io. Ma...» «Sembrerebbe strano se io fossi venuto fin dalle Giungle della Pioggia e poi non andassi al ballo» commentò Grag. «Soprattutto dato che lo abbiamo presentato come mio cugino» concordò Reyn. «Non possiamo dire che si è ammalato?» implorò Naria Tenira. «In tal caso ci si aspetterebbe che qualcuno rimanesse qui con me. No, mamma, penso che attirerò meno l'attenzione se continuo a ricoprire il mio ruolo. Inoltre, pensi che potrei resistere alla tentazione di vedere il Satrapo faccia a faccia?» «Grag, ti prego, stasera lascia perdere le tue pazzie. Vai, se sei così deciso. Ma ti imploro, non farti tentare a richiamare l'attenzione.» Lo fissò con severità. «Ricorda, i guai che attiri su di te possono ricadere anche su altri. Le tue sorelle, per esempio.» «Mi comporterò da vero gentiluomo delle Giungle della Pioggia, mamma. Te lo prometto. Ma se non vogliamo essere in ritardo dobbiamo affrettarci.» «Le tue sorelle sono pronte da tempo» ammise stanca Naria. «Aspettano solo me, non che una vecchia come me impieghi molto a vestirsi. Non presto tanta attenzione all'acconciatura e alla cipria come loro.»
Grag si inclinò di nuovo sulla sedia con uno sbuffo sommesso di incredulità. «Questo significa che abbiamo tempo in abbondanza per mangiare, lavarci e vestirci, Reyn. Nessuna donna nella mia famiglia può essere pronta a fare qualsiasi cosa in meno di mezzo turno.» «Vedremo» gli disse piacevolmente Reyn. «Potresti scoprire che vestirti come un uomo delle Giungle della Pioggia richiede più tempo di quanto tu creda. Di rado usiamo valletti o domestici. Non è la nostra usanza. E devi allenarti, almeno un poco, a centellinare un bicchiere di vino attraverso un velo. Mettitelo. Ti faccio vedere, così questa sera mio 'cugino' non farà brutta figura al ballo.» L'interno della carrozza a noleggio puzzava di vino vecchio. Sua madre aveva insistito per ispezionare i posti prima di permettere a Malta di sedersi. Sua nonna aveva insistito per ispezionare il vetturino prima di permettergli di guidare. Malta si era spazientita con entrambe. L'entusiasmo della presentazione l'aveva finalmente raggiunta. Malgrado la carrozza a noleggio e il vestito recuperato, il suo cuore batteva più in fretta del frastuono degli zoccoli. La Sala dei Mercanti era stata trasformata. Nella sera di fine estate decine di minuscole lanterne appese nei giardini e nei prati sembravano riflettere le stelle nel cielo limpido. Gli archi eretti sui sentieri erano inghirlandati di verzura. Vasi di fiori notturni dal dolce profumo, importati dalle Giungle della Pioggia, aggiungevano i loro boccioli bizzarramente luminosi ai colori dei sentieri. Malta scorse tutto questo dal finestrino. Era così difficile resistere all'impulso di sporgersi come una bambina. La carrozza a noleggio si unì a una fila di cocchi e calessi. Ciascuno raggiungeva i gradini dell'ingresso principale e si fermava, e i lacchè aprivano le porte e facevano scendere le signore. Malta si rivolse a sua madre. «Sto bene?» chiese con ansia. Prima che Keffria potesse rispondere, la nonna di Malta rispose quietamente: «Sei la fanciulla più graziosa che abbia onorato questa riunione da quando fu presentata tua madre.» La cosa più sconvolgente non era la sincerità con cui l'aveva detto. Quello che sbalordì Malta fu che, in quell'istante, ci credette. Tenne la testa un poco più alta e aspettò il turno della sua carrozza. Quando il lacchè finalmente aprì lo sportello, scese prima la nonna, seguita da sua madre. Si fermarono ai lati della scaletta, come se già stessero presentandola, mentre il lacchè la aiutava a scendere dalla carrozza. Malta
rimase tra loro, e poi il piccolo Selden, tirato a lucido, uscì per offrire il braccio a sua nonna. Lei lo prese con un sorriso. La notte era all'improvviso un luogo mistico e magico. La scala che portava all'ingresso della sala era bordata di candele in coppette di vetro a colori vivaci. Nella sala stavano entrando altre famiglie nei loro abiti migliori, recando le offerte simboliche ai Mercanti delle Giungle della Pioggia. Keffria, come Mercante per la famiglia Vestrit, avrebbe fatto la loro offerta: un semplice vassoio di legno intagliato, che il nonno aveva portato tempo prima dalle Isole delle Spezie, con sei vasetti di conserve casalinghe. Malta sapeva che i doni erano soprattutto simbolici, un gesto per celebrare i legami e la parentela fra loro. Eppure ricordava la volta in cui il regalo era stato costituito da rotoli di seta dei colori dell'arcobaleno, così pesanti che suo padre aveva dovuto aiutare il nonno a portarle. Non importa, si disse con decisione. Come avvertendo la sua incertezza, sua nonna bisbigliò: «Stasera i doni saranno ricevuti dalla nostra vecchia amica Caolwn Festrew. Le sono sempre piaciute le nostre conserve di ciliege dolci. Saprà che abbiamo pensato soprattutto a lei preparando questo regalo. Andrà tutto bene.» Andrà tutto bene. Malta alzò gli occhi verso la sommità della scalinata. Un autentico sorriso apparve sul suo volto. Tutto sarebbe andato bene. Come Rache le aveva mostrato, come si era allenata sui gradini di casa, posò le mani sulle gonne e le sollevò appena per sfiorare il terreno. Tenne il mento alzato e gli occhi sulla destinazione, come se non avesse mai neanche considerato di poter inciampare. Precedendo sua madre e sua nonna, salì la scalinata ed entrò nel brillante ingresso della Sala dei Mercanti. All'interno Malta stentò a riconoscere la grande sala splendente di luci e colori, e ne fu abbagliata. Erano fra i primi ad arrivare. I musici suonavano sommessamente, ma per il momento non ballava ancora nessuno. La gente conversava in capannelli. In fondo alla sala c'erano le lunghe tavolate preparate con tovaglie candide e servizi lucenti per il pasto comune, simbolo culminante della loro parentela. Malta notò che la pedana riservata al rappresentante delle Giungle della Pioggia e ai membri del Concilio di Borgomago era stata allargata. Senza dubbio il Satrapo e forse le sue Compagne avrebbero diviso la tavola alta. Per un istante Malta si chiese se fosse pura scenografia o un modo per onorarlo. Gettò di nuovo uno sguardo al resto della famiglia. Erano già assorbiti dal rituale sociale di riconoscere e salutare gli amici. Malta ebbe alcuni istanti per guardarsi attorno. Sorrise fra sé: tecnicamente erano i suoi ulti-
mi momenti di bambina, libera di andare in giro senza limitazioni sociali. Dopo la presentazione sarebbe stata vincolata da tutte le regole non scritte di Borgomago. Avrebbe fatto un ultimo giro per la Sala senza accompagnatori. La sua attenzione fu subito attirata da una figura familiare e insieme sconosciuta. Delo Trell avanzò su di lei in un'onda di profumo e stoffa frusciante. Scintillanti gemme blu splendevano alla gola e ai polsi e sulle fini catenelle d'argento che assicuravano i capelli raccolti. Gli occhi e la bocca erano truccati con abilità. Il suo portamento era scrupolosamente eretto, e l'espressione educata sul viso era immobile come il sorriso dipinto di una bambola. Malta batté le palpebre, intimidita da quella donna adulta che la contemplava con calma. Eppure, comprese all'improvviso, era sempre Delo Trell. Malta si trovò a fare un largo sorriso alla vecchia amica. Le afferrò entrambe le mani, le strinse con calore e si sentì dire: «Eccoci qui! Credevi davvero che ci saremmo arrivate?» L'espressione di piacevole interesse dipinta sul viso di Delo rimase immobile. Per un istante il cuore di Malta vacillò. Se Delo la ignorava... Poi il sorriso di Delo si allargò impercettibilmente. Attirò Malta più vicina e bisbigliò: «Sono stata così nervosa tutto il giorno che avevo paura di mangiare per timore che mi venisse la diarrea. Ora che sono qui, ho tanta fame che il mio stomaco ringhia come un orso. Malta, cosa farò se sto ballando o sto parlando con qualcuno e si sente il rumore?» «Guarda qualcun altro con rimprovero» scherzò Malta. Delo quasi ridacchiò, poi ricordò la sua nuova dignità. Alzò in fretta il ventaglio a coprirsi il volto. «Cammina con me» la implorò. «E dimmi tutto quello che sai degli eventi di Borgomago! Ogni volta che entro nella stanza, papà e Cerwin smettono di parlare. Dicono che non vogliono spaventarmi con cose che non posso capire. Mamma parla solo di non tenere i gomiti in fuori, o cosa fare se lascio cadere qualcosa a tavola. Mi fanno impazzire. Siamo davvero sull'orlo della guerra? Gattina Shuyev ha sentito che si dice in giro che stasera, mentre siamo tutti al ballo, la gente di Chalced potrebbe invaderci e bruciare l'intera città e ucciderci tutti!» Fece una pausa drammatica, poi si chinò più vicina per bisbigliare dietro al ventaglio: «Puoi immaginare cosa ha detto che faranno a noi!» Malta accarezzò confortante la mano dell'amica. «Non penso che tenterebbero una cosa simile mentre il Satrapo, con cui dovrebbero essere alleati, è insieme a noi. Ai Mercanti basterebbe prenderlo in ostaggio. Dato che
è sceso a terra con il primo gruppo, senza guardie di Chalced, possiamo credere che sia davvero venuto a mediare e negoziare. Inoltre stasera non siamo tutti al ballo. I velieri viventi fanno la guardia in porto, e ho sentito che anche molte famiglie delle Tre Navi sono di pattuglia con le loro barche. Penso che sia sicuro rilassarci e divertirci.» Delo scosse la testa con stupore. «Come ci riesci? Capisci tutto così bene. A volte parli quasi come un uomo.» Sconcertata per un attimo, Malta decise che era inteso come un complimento. Quasi scrollò le spalle, poi si ricordò di dover agire da signora. Alzò un sopracciglio. «Ebbene, come sai, negli ultimi tempi le donne della mia famiglia hanno dovuto prendersi cura di sé stesse. Mia madre e mia nonna credono che non sapere queste cose sia più pericoloso per me.» Abbassò la voce. «Hai sentito che le galee di Chalced hanno lasciato passare il Kendry attraverso il blocco? È arrivato tardi, quindi non ho notizie, ma oso sperare che Reyn fosse a bordo.» Invece di apparire lieta per lei, Delo sembrò agitata. «Cerwin non sarà contento. Aveva sperato di chiederti un ballo o due stasera... e forse di più, se il tuo accompagnatore non fosse stato qui.» Malta non seppe resistere. «Di certo stasera ho il permesso di ballare con chi voglio! Non ho ancora dato la mia parola a Reyn.» Un fremito dell'antica ebbrezza la percorse. «Terrò sicuramente un ballo per Cerwin. E forse anche per qualcun altro» aggiunse misteriosa. Come se si fosse appena concessa un'indiscrezione, i suoi occhi percorsero la folla, attardandosi sui giovanotti alla stregua di un vassoio di bocconcini prelibati. «E tu, con chi pensi che sarà il tuo primo ballo?» chiese a Delo. «Il quarto, vorrai dire. Ho un padre, un fratello e uno zio che pretenderanno di ballare con me dopo che sarò stata presentata.» I suoi occhi castani si spalancarono all'improvviso. «La notte scorsa ho fatto un sogno terribile. Ho sognato che al momento di essere presentata, mentre facevo l'inchino, i punti del vestito si scucivano e mi cadeva la gonna! Mi sono svegliata urlando. Riesci a immaginare un incubo peggiore?» Un brivido gelido risalì la spina dorsale di Malta. Per un momento la luminosità del ballo si attenuò, e la musica parve affievolirsi. Strinse i denti e allontanò l'oscurità. «In effetti sì. Ma guarda, i domestici sono pronti alla tavola dei rinfreschi. Andiamo a prendere qualcosa per calmare l'orso nel tuo stomaco.» Davad Restart si asciugò i palmi sudati sulle ginocchia dei pantaloni.
Chi l'avrebbe mai creduto? Stava andando al Ballo d'Estate come aveva fatto per tanti anni, ma questa volta non da solo, oh no. Non quest'anno. Di fronte a lui nella carrozza sedeva il Satrapo di tutta Jamaillia, e accanto la graziosa Compagna Kekki in un vestito stupefacente di piume e merletto. Dall'altro lato, al fianco del Satrapo, meno vistosa ma pur sempre importante, la Compagna Serilla nel suo contegnoso abito color crema. Quella sera li avrebbe scortati al ballo, si sarebbe seduto a tavola con loro e li avrebbe presentati a tutta la società di Borgomago. Sì. Avrebbero visto tutti di che cosa era capace. Come avrebbe voluto che la sua adorata moglie fosse sopravvissuta per vedere quel trionfo. Il pensiero di Dorill gettò una breve ombra sulla sua vittoria. Lei e i ragazzi se n'erano andati anni prima, quando i Mercanti delle Giungle della Pioggia avevano portato la Peste di Sangue lungo il fiume. Tanti erano morti da allora, così tanti. L'epidemia lo aveva risparmiato più crudelmente, lo aveva lasciato a vivere da solo, parlando ai ricordi della sua famiglia, sempre immaginando quello che avrebbero detto, quello che avrebbero pensato di tutto ciò che faceva ogni giorno. Trasse un respiro e tentò di ritrovare la soddisfazione di quel momento. Dorill ne sarebbe stata lieta e orgogliosa. Ne era sicuro. E gli altri Mercanti di Borgomago avrebbero riconosciuto che era un mercante accorto e previdente come nessun altro. Quella sera sarebbe stato lui a mettere insieme tutti i pezzi. Il Satrapo stesso avrebbe cenato con loro, e i Mercanti avrebbero ricordato tutto ciò che Jamaillia e la società elegante significavano per Borgomago. Nelle settimane successive Davad sarebbe stato al fianco del Satrapo mentre lui e le sue Compagne sanavano la spaccatura tra Vecchi e Nuovi Mercanti. Non riusciva neanche a immaginare i benefici commerciali che ne avrebbe ricavato. Per non dire che finalmente avrebbe ritrovato la sua posizione fra i Mercanti di Borgomago. Avrebbero dovuto riaccoglierlo fra loro e ammettere che nel corso degli anni era stato più previdente di loro. Davad sorrise fra sé, considerando la chiave di volta dei suoi piani per la serata. Per quanto Kekki e Serilla fossero graziose, sbiadivano a paragone di Malta Vestrit. Andavano bene come Compagne, consigliere e intellettuali. Ma quella sera Davad aveva intenzione di presentare al Satrapo la sua futura consorte. Era così sicuro che il giovane sarebbe rimasto affascinato da Malta che già poteva quasi immaginare le festività per il loro matrimonio. Avrebbero dovuto esserci due cerimonie, una in Borgomago e
una seconda, più solenne, a Jamaillia. Di certo Davad avrebbe presenziato a entrambe. L'evento avrebbe salvato la fortuna dei Vestrit e avrebbe riscattato Davad agli occhi di Ronica. Avrebbe unito Borgomago e Jamaillia per sempre. Davad Restart sarebbe stato ricordato come l'uomo che aveva riconciliato le città. Negli anni a venire, i bambini del Satrapo lo avrebbero chiamato zio Davad. Ridacchiò fra sé con calore, trasportato dalla marea gloriosa del suo futuro. Comprese che la Compagna Serilla stava guardandolo incerta. All'improvviso provò compassione per la donna. Senza dubbio il Satrapo non avrebbe più avuto bisogno di lei, una volta sposato a una donna nata e cresciuta a Borgomago. Si piegò verso di lei e le diede una pacca amichevole sul ginocchio. «Non preoccupatevi per il vestito» le sussurrò. «Sono sicuro che tutta Borgomago vi onorerà per la vostra posizione, non importa quello che indossate.» Per un istante la poverina lo fissò con occhi sbarrati. Poi sorrise. «Oh, Mercante Restart. Come siete gentile a tentare di confortarmi!» «Non è niente, non è niente. Desidero solo mettervi a vostro agio» la assicurò, e di nuovo prese posto nella carrozza. Sarebbe stata una serata cruciale nella sua vita. Ne era sicuro. 32 La tempesta «Malta! Delo! Non dovreste andare in giro da sole. È quasi il momento della presentazione.» Keffria aggiunse, esasperata e divertita: «Delo, ho visto tua madre qualche istante fa, ti cercava vicino alla fontana. Malta, vieni con me!» Le due ragazze avevano trovato rifugio dietro a una colonna accanto all'ingresso, e spiavano gli ultimi arrivati al ballo. Concordarono che Gattina aveva il vestito più bello; peccato che non avesse la figura adatta alla scollatura che aveva scelto. Tritta Redof aveva un cappellino troppo grande, ma il ventaglio era squisito. Krion Trentor era ingrassato da quando aveva cominciato a corteggiare Riell Krell, e aveva perso il suo viso malinconico da poeta. Come potevano averlo considerato bello? Roed Caern era scuro e pericoloso come al solito. Delo cadde quasi in deliquio alla sua vista, ma stranamente Malta si sorprese a pensare che non aveva le spalle
larghe come quelle di Reyn. La gente delle Giungle della Pioggia, velata e incappucciata, cominciò ad arrivare per mescolarsi con le loro controparti di Borgomago. Malta cercava invano Reyn. «Come lo riconoscerai quando arriva? Sembrano tutti uguali, così imbacuccati» protestò Delo. Malta sospirò una battuta degna della ragazza che era stata l'anno prima: «Oh, lo saprò, non temere. Il mio cuore sobbalza alla sua vista.» Per un momento Delo l'aveva fissata con occhi sbarrati, e poi entrambe erano esplose in risatine soffocate. Mentre bisbigliavano e spiavano, tutto l'imbarazzo che c'era stato tra loro in primavera fu dimenticato. Delo aveva assicurato Malta che la stoffa del suo vestito era molto più ricca di qualsiasi cosa potesse essere comprato in quei giorni, e che il taglio donava alla sua vita sottile, mentre Malta aveva giurato che Delo non aveva le caviglie grosse, e che in ogni caso quella sera nessuno poteva vederle. Da tempo non si sentiva così lieta e fanciullesca. Mentre seguiva obbedientemente sua madre, si chiese perché mai avesse voluto lasciarsi indietro quei piccoli divertimenti per diventare una donna. Un paravento intrecciato di fiori rampicanti offriva uno spazio privato per le giovani donne che dovevano essere presentate quella sera. I padri che dovevano presentarle e poi scortarle nella Sala per il primo ballo vagavano inquieti all'esterno, mentre dentro le mamme ansiose facevano ritocchi dell'ultimo minuto ad acconciature e orli. Le ragazze erano state estratte a sorte, e sembrava un segno del destino che Malta dovesse essere presentata per ultima. Furono condotte fuori, una dopo l'altra. A Malta sembrava di non riuscire a respirare. Mentre Keffria le fissava alcune ciocche vagabonde, le disse a bassa voce: «Reyn non è ancora arrivato. Suppongo che sia perché il Kendry è arrivato così tardi. Vuoi che dica a Davad di ballare il primo ballo con te?» Malta guardò sua madre con orrore, poi Keffria la sbalordì con un sorriso malizioso. «Volevo solo ricordarti che c'è di peggio che rimanere in piedi da sola durante il primo ballo della tua presentazione formale.» «Aspetterò e penserò a papà» la rassicurò Malta. Gli occhi di sua madre brillarono all'improvviso di lacrime, e poi Keffria le stava tirando il colletto del vestito, dicendo: «Ora stai calma, testa alta, attènta alle gonne, e oh, tocca a te!» Le ultime parole furono un mezzo singhiozzo. Anche Malta all'improvviso dovette battere le palpebre per allontanare le lacrime. Mezza accecata, avanzò da dietro il paravento per prendere posto nel cerchio di luce di torce in cima ai gradini.
«Malta Vestrit, figlia di Kyle Haven e Keffria Vestrit, viene presentata ai Mercanti di Borgomago e ai Mercanti delle Giungle della Pioggia. Malta Vestrit.» Per un momento Malta fu irritata perché l'avevano chiamata con il suo nome di Mercante. Non pensavano che suo padre valesse abbastanza per loro? Poi lo accettò come una tradizione di Borgomago. Lo avrebbe reso orgoglioso. Forse non era lì per tenderle il braccio e scendere i gradini con lei, ma Malta avrebbe camminato come sua figlia. Testa alta e occhi bassi, si piegò in un inchino lento alla gente riunita. Raddrizzandosi, alzò gli occhi. Per un momento, le persone parvero troppo numerose, i gradini troppi e troppo ripidi. Pensò che sarebbe svenuta e sarebbe rotolata giù per le scale. Poi trasse un respiro più profondo e cominciò la lenta discesa. Sotto di lei, sulla pista da ballo, le altre ragazze e i loro padri la aspettavano in un semicerchio. Era la sua ora, il suo grande momento. Voleva che durasse per sempre, eppure, quando giunse in fondo alla scalinata, ne fu lieta. Mentre si univa alla fila di giovani donne con i loro padri, alzò gli occhi per guardare la stanza. La gente di Borgomago e delle Giungle della Pioggia si metteva in mostra con i vestiti migliori. Molti non erano stati così prosperi negli ultimi anni, e si vedeva. Eppure tutti si muovevano con orgoglio, e sorridevano a quell'ultimo raccolto di giovani donne nubili. Malta non vide Reyn. Presto la musica sarebbe cominciata, e le giovani sarebbero state trascinate nel ballo. Lei sarebbe rimasta da sola. Era così confacente a tutto il resto della sua vita, pensò amaramente. Poi accadde l'impossibile. Le cose peggiorarono. Sulla pedana dall'altra parte della stanza, incuneato su una sedia tra un giovane pallido e il capo del Concilio di Borgomago, sedeva Davad Restart. O piuttosto, Malta avrebbe tanto desiderato che fosse seduto. Si era alzato a metà, chinandosi attraverso la tavola e agitando freneticamente le dita verso di lei. In un'agonia di umiliazione, Malta alzò appena la mano e gli fece un cenno. Davad non si fermò. Anzi, ormai sicuro che la ragazza lo avesse visto, le fece gesti frenetici di attraversare la sala da ballo vuota e raggiungerlo sulla pedana. Malta si sentì morire. Avrebbe voluto svenire, ma non poteva. Il capo dei musici, che aspettava il segnale dal podio per cominciare a suonare, sembrava perplesso. Alla fine Malta comprese che non aveva scelta. Quel momento d'incubo sarebbe finito solo se avesse lasciato la sicurezza delle altre giovani donne con i loro padri e avesse attraversato da sola la distesa enorme del pavimento vuoto, presentandosi a
Davad per ricevere le sue congratulazioni. E sia. Malta trasse un respiro profondo, gettò uno sguardo al viso bianco e sconvolto di sua nonna, e poi cominciò la lenta traversata della sala da ballo. Non si sarebbe affrettata: quello sarebbe stato ancor più indecente. A testa alta, sollevò le gonne dal pavimento lucido. Tentò di sorridere come se fosse qualcosa che si aspettava, una fase del tutto normale della presentazione. Fissò Davad e ricordò il maiale morto incastrato nel finestrino della sua carrozza. Riuscì a mantenere il sorriso, malgrado il rombo nelle orecchie. Poi si trovò in piedi davanti alla pedana. In quel momento comprese che il giovane pallido seduto accanto a Davad doveva essere il Satrapo di tutta Jamaillia. Era appena stata umiliata davanti al Satrapo e a due delle sue Compagne. Le eleganti donne di corte la guardavano con tollerante condiscendenza. Era convinta di svenire. Invece una specie di istinto prese il sopravvento. Fece una profonda riverenza davanti alla pedana. Attraverso il sangue che le pulsava nelle orecchie sentì Davad dire con entusiasmo: «Questa è la giovane di cui vi ho parlato. Malta Vestrit dei Mercanti di Borgomago. Non è il più bel bocciolo che abbiate mai visto?» Malta non poteva raddrizzarsi. Altrimenti avrebbe dovuto guardarli in faccia. Rimase piegata nel suo vestito di recupero e le sue scarpette ridecorate e... «Non avete affatto esagerato, Mercante Restart. Ma perché questo fiorellino non è accompagnato?» Accento di Jamaillia, tono languido. Il Satrapo in persona parlava di lei. Il capo del Concilio di Borgomago ebbe pietà di lei e fece un cenno ai musici. Le incerte note di apertura della musica fluirono attraverso la sala. Dietro di lei, i padri orgogliosi scortarono le figlie sulla pista da ballo. Quel pensiero fu all'improvviso rabbia invece che dolore. Malta drizzò la schiena e alzò gli occhi per incontrare lo sguardo indulgente del Satrapo, rispondendo con chiarezza alla sua domanda. «Sono sola, Magnadon Satrapo, perché mio padre è stato catturato dai pirati. Pirati che le vostre navi pattuglia di Chalced non hanno fatto niente per fermare.» Gli altri ospiti sulla pedana rimasero senza fiato. Il Satrapo osò sorriderle. «Vedo che la piccola ha una scintilla di spirito ad accompagnare la bellezza» osservò. Mentre un caldo rossore colorava le guance di Malta, aggiunse: «E finalmente ho incontrato una Mercante di Borgomago che am-
mette che le galee di Chalced sono solo le mie navi pattuglia.» Una delle Compagne emise una risata di gola a quell'arguzia, ma il Concilio di Borgomago non sembrò divertito. Il caratterino di Malta ebbe il sopravvento. «Lo concedo, signore, se voi concederete che sono inefficaci. Hanno permesso che la mia famiglia fosse privata della nostra nave e di mio padre.» Il Satrapo di tutta Jamaillia si alzò. Ora avrebbe ordinato di trascinarla via e giustiziarla, decise Malta. Dietro di lei i musici suonavano e le coppie turbinavano. Attese che chiamasse le guardie. Invece il Satrapo annunciò: «Bene, dato che mi accusate dell'assenza di vostro padre, c'è un solo modo in cui posso rimediare.» Malta non riusciva a credere alle sue orecchie. Poteva essere davvero così semplice? Chiedere, e ottenere? Senza fiato sussurrò: «Ordinerete alle vostre navi di liberarlo?» La risata del Satrapo risuonò attraverso la musica. «Certo. È il loro scopo, sapete. Ma non in questo momento. Per ora farò del mio meglio per correggere questa tragica situazione prendendo il posto di vostro padre sulla pista da ballo con voi.» Si alzò dal suo scranno sulla pedana. Una delle Compagne apparve sgomenta, l'altra inorridita. Malta rivolse gli occhi a Davad Restart, ma non ricevette aiuto. Il Mercante irradiava affetto e orgoglio. Quando incontrò lo sguardo di Malta le rivolse un rapido cenno di incoraggiamento. Le facce dei membri del Concilio di Borgomago erano accuratamente inespressive. Cosa doveva fare? Il Satrapo stava lasciando il suo posto, e ora scendeva i gradini verso la pista da ballo. Era più alto di lei e molto magro, la pelle così aristocraticamente bianca da essere quasi incorporea. Vestiva in modo diverso da qualsiasi altro uomo che Malta avesse mai visto: abiti soffici e fluenti in colori pastello. I pantaloni azzurri erano stretti alle caviglie sopra le morbide scarpe basse. Le pieghe sciolte della camicia color zafferano erano drappeggiate intorno alla gola e sulle spalle. Mentre si avvicinava, Malta sentiva il suo odore, effluvi stranieri, un profumo strano, una fumosità indugiante nell'alito. Poi l'uomo più potente nel mondo si inchinò e le porse la mano. Malta era paralizzata. «Va tutto bene, Malta, puoi ballare con lui» annunciò benigno Davad Restart. Ridacchiò con gli altri ospiti sulla pedana. «È così timida e ingenua. Non osa neanche toccargli la mano.»
Le sue parole le diedero la forza di muoversi. Provò una sensazione fredda eppure formicolante quando mise la mano nella sua. Le dita del Satrapo si chiusero attorno alle sue molto dolcemente. Malta rimase sbalordita quando le mise l'altra mano sulle reni e la trasse più vicina a sé. «È così che balliamo questo ritmo a Jamaillia» le disse. Il suo respiro era caldo sul viso di Malta. Cera così poco spazio tra loro che la ragazza temette che sentisse il suo cuore battere. Il Satrapo la condusse nel ballo. Per cinque passi Malta fu goffa, sbilanciata, in ritardo sul tempo. Poi all'improvviso la musica la prese, e fu facile come tenere le mani di Rache e muoversi per il soggiorno mentre lei contava. Gli altri ballerini, le luci della stanza, perfino la musica si affievolì attorno a loro. Esisteva solo quell'uomo e il movimento mentre i loro corpi tenevano lo stesso ritmo. Malta doveva alzare gli occhi per guardarlo. Il Satrapo le sorrise. «Siete così piccola, come una bambina. O una deliziosa bambola. I vostri capelli odorano di fiori.» Malta non riuscì a pensare a una risposta, neppure a un ringraziamento. Ogni civetteria era stata cancellata dalla sua mente. Tentò di parlare, ma riuscì solo a chiedere: «Manderete davvero le vostre navi a liberare mio padre?» Il Satrapo sollevò un sopracciglio sottile. «Certo. Perché non dovrei?» Malta abbassò gli occhi, poi li chiuse. La musica e il corpo dell'uomo che conduceva il suo erano tutto ciò di cui aveva bisogno. «Sembra troppo facile.» Scosse la testa, un lieve movimento. «Dopo tutto quello che abbiamo sopportato...» Il Satrapo emise una breve risata, acuta come quella di una donna. «Dimmi, passerotto. Hai vissuto per tutta la vita a Borgomago?» «Certo.» «Bene. Dimmelo tu. Cosa puoi sapere davvero di come va il mondo?» All'improvviso la trasse addirittura più vicina, così che i suoi seni quasi gli sfiorarono il torace. Malta ansimò e si allontanò da lui, inciampando e perdendo il ritmo della musica. Il Satrapo seguì con facilità il suo passo e la mantenne in movimento. «Sei un passerotto timido?» chiese allegramente, ma la mano strinse quasi crudelmente la sua. La musica era finita. Il Satrapo le lasciò la mano. Quando Malta gettò uno sguardo attorno, sentì il mormorio dei pettegolezzi che correvano veloci. Tutti gli occhi erano su di lei, anche se nessuno osava davvero fissarla. Il Satrapo le rivolse un solenne inchino aggraziato. Mentre Malta sprofondava in una riverenza, l'uomo sussurrò: «Forse dovremmo parlare più
tardi del salvataggio di tuo padre. Forse mi farai capire meglio quanto sia importante per te.» Malta non riusciva a rialzarsi. Era una minaccia? Dato che si era sottratta al suo tocco, lui non avrebbe mandato le navi a liberare suo padre? Voleva gridargli di aspettare, aspettare. Ma il Satrapo le aveva già girato le spalle. Una matrona di Borgomago con la figlia aveva attirato la sua attenzione. Dietro di lei la musica stava ricominciando. Finalmente riuscì a raddrizzarsi. Le sembrava di non avere più fiato. Doveva andarsene dalla pista da ballo. Camminò alla cieca tra le coppie. Intravide Cerwin Trell; sembrava venire verso di lei, ma Malta non poteva sopportare un simile incontro proprio in quel momento. Si affrettò, cercando fra la folla sua madre, sua nonna, perfino il suo fratellino. Voleva solo un rifugio sicuro per qualche istante, mentre si riprendeva. Aveva appena distrutto l'opportunità di una liberazione rapida per suo padre? Si era resa ridicola davanti a tutta Borgomago? Un tocco sul braccio la fece trasalire. Balzò indietro, girandosi per vedere chi era. L'uomo era velato, incappucciato e guantato come qualsiasi mercante delle Giungle della Pioggia, ma Malta seppe che era Reyn. Solo lui poteva portare con tanta eleganza l'abbigliamento discreto delle Giungle. Il velo era di merletto nero, ma occhi di gatto d'oro e d'argento delineavano la zona dove sarebbero stati gli occhi. Il cappuccio che gli copriva i capelli e la nuca era assicurato da una larga cravatta elaboratamente annodata, di scintillante seta bianca. Così come il velo e il cappuccio nascondevano i suoi lineamenti, la camicia bianca e morbida e i pantaloni neri rivelavano il suo fisico. La larghezza delle spalle e la robustezza del torace erano accentuate dalla vita magra e dai fianchi stretti. I leggeri stivali da ballo erano filigranati d'argento e oro per abbinarsi al velo. Le tendeva un bicchiere di vino. Sotto voce disse: «Sei pallida come la neve. Hai bisogno di bere qualcosa?» «Voglio mia madre» disse stupidamente Malta. Per peggiorare la situazione, lo ripeté in tono più disperato. «Voglio mia madre.» Tutto il portamento di Reyn si irrigidì. «Cosa ti ha detto? Ti ha fatto del male?» «No. No. Solo... voglio mia madre. Adesso.» «Certo.» Come se fosse un comportamento normalissimo, Reyn batté la mano sulla spalla di un Mercante di passaggio e gli diede il bicchiere. Poi si rivolse di nuovo a Malta. «Da questa parte.» Non le offrì il braccio e non
tentò di toccarla in alcun modo. Forse sentiva che in quel momento non lo avrebbe tollerato? Invece fece un cenno armonioso con la mano guantata, e poi camminò un poco davanti a lei, fendendo la folla. La gente li fissava con curiosità. Keffria traversò in fretta la folla, come se stesse cercandola. «Oh, Malta» esclamò a voce bassa, e Malta si preparò all'inevitabile rimprovero. Invece sua madre proseguì: «Ero così preoccupata, ma te la sei cavata benissimo. Che cosa è venuto in mente a Davad? Cercavo di raggiungerti dopo il tuo ballo, e lui ha osato prendermi per il braccio e consigliarmi di dirti di andare da lui, perché poteva fare in modo di procurarti un altro ballo con il Satrapo.» Malta tremava tutta. «Mamma. Ha detto che manderà le sue navi a salvare papà. Ma poi...» Esitò, e desiderò all'improvviso di non aver detto niente. Perché dirlo a sua madre? La decisione doveva essere sua. Quanto era importante per lei che suo padre fosse salvato? Malta sapeva esattamente cosa aveva insinuato il Satrapo. Era chiaro. La scelta toccava a lei. Se era lei a dover pagare il prezzo, la decisione non apparteneva a lei sola? «E tu gli hai creduto?» intervenne Reyn, sbalordito. «Malta, stava prendendoti in giro. Come ha potuto fare una simile offerta, come se fosse un semplice complimento? Quell'uomo non ha vergogna, nessuna morale. Sei poco più di una bambina, e ti tormenta così... Dovrei ucciderlo.» «Non sono una bambina» asserì Malta, gelida. Le bambine non dovevano affrontare decisioni come quella. «Se credi che io sia una bambina, dov'è la tua morale quando mi corteggi?» Quasi non sapeva cosa stava dicendo. Aveva bisogno di rimanere da sola, pensare all'offerta del Satrapo, e al prezzo a cui aveva alluso. La lingua scattò senza che la mente la seguisse. «O è così che cerchi di affermare il tuo diritto esclusivo, la prima volta che un altro uomo mostra interesse per me?» Sua madre trattenne bruscamente il respiro. I suoi occhi corsero da Reyn a Malta. «Permesso» mormorò, e abbandonò la loro disputa da innamorati. Malta quasi non se ne accorse. Un momento fa aveva avuto tanto bisogno di lei. Ora sapeva che sua madre non poteva aiutarla in questo. Reyn fece addirittura un passo indietro. Il silenzio vibrò tra loro come una corda d'arco. Bruscamente il giovane si inchinò. «Ti chiedo perdono, Malta Vestrit.» Lo sentì ingoiare a vuoto. «Sei una donna, non una bambina. Ma sei una donna appena ammessa in società, con poca esperienza di farabutti. Pensavo solo di proteggerti.» Girò la faccia velata per guardare i
ballerini che si muovevano attraverso i passi formali di una danza di società. Abbassò la voce e aggiunse: «So che salvare tuo padre è il primo dei tuoi pensieri. In questo momento ti rende vulnerabile. È stato crudele a offrirsi di aiutarti.» «Strano. Credevo che tu fossi stato crudele a rifiutare quando ho implorato il tuo aiuto. Ora vedo che intendevi essere gentile.» Sentì il gelido disprezzo nella voce e lo riconobbe. È così che mio padre litiga con mia madre, pensò, rivoltandole contro le sue stesse parole. Qualcosa in lei voleva fermare gli eventi, ma non sapeva come. Aveva bisogno di pensare, aveva bisogno di tempo, e invece tutto continuava ad accadere. L'unico ballo di presentazione a cui avrebbe mai partecipato turbinava attorno a lei, avrebbe potuto convincere il Satrapo a salvare suo padre, e invece di fare invidia a tutte le altre ragazze ballando con il suo raffinato pretendente, stava facendo una stupida litigata con lui. Non era giusto! «Non volevo essere gentile» disse quietamente Reyn. «Volevo essere sincero.» La musica era cessata. I ballerini stavano lasciando la pista o cercando nuovi compagni. Le parole di Reyn caddero nel silenzio, e pur essendo sommesse fecero girare molte teste. Malta sentì che l'attenzione lo metteva a disagio quanto lei. Tentò di dipingersi un sorrisino in faccia, come se Reyn avesse fatto una specie di battuta, ma le sue guance erano calde e irrigidite. Qualcuno si schiarì la gola dietro di lei. Malta girò la testa. Cerwin Trell fece un profondo inchino. «Mi concedete il prossimo ballo?» C'era una piccola sfida nella sua voce, quasi come se le parole fossero dirette a Reyn piuttosto che a lei. Reyn accettò la sfida. «Malta Vestrit e io stavamo parlando» fece notare con voce pericolosamente amichevole. «Capisco» ribatté Cerwin, altrettanto controllato. «Ho pensato che potesse farle più piacere ballare con me.» Le prime note della musica si diffusero nella sala. La gente li fissava. Senza chiedere il permesso, Reyn le prese la mano. «Stavamo appunto per ballare» comunicò a Cerwin. La prese alla vita con l'altra mano, e con facilità, come sollevando una bambina, la proiettò all'improvviso nel ballo. Era un motivo animato, e Malta scoprì che poteva solo ballare o seguirlo inciampando goffamente. Scelse di ballare. Afferrò in fretta le gonne fra le dita per mettere in mostra i piedi veloci, e poi arricchì di proposito l'allegra danza. Reyn accettò la sfida senza perdere una battuta, e all'improvviso Malta ebbe bisogno di tutta la sua concentrazione per seguirlo. Per un at-
timo fu consapevole dello sforzo, e poi si mossero come una cosa sola. Le coppie che li guardavano furtivamente si spostarono all'improvviso per lasciar spazio sulla pista da ballo. Mentre Reyn la faceva volteggiare, Malta scorse sua nonna. La vecchia le sorrideva con fervore. Malta si trovò con sorpresa a ricambiare il sorriso con autentico piacere. Le gonne fluttuavano mentre Reyn la conduceva attraverso i passi elaborati. Il suo tocco alla vita era sicuro e forte. Malta divenne consapevole del suo profumo, senza ben capire se fosse davvero un profumo o l'odore della sua pelle. Non le era sgradito. Era quasi consapevole degli sguardi ammirati degli spettatori, ma Reyn era al centro dei suoi pensieri. Quasi involontariamente chiuse con fermezza le dita sulle sue, e la presa sulla sua mano si accentuò in risposta. Il suo cuore ebbe un sussulto. «Malta.» Reyn pronunciò solo il suo nome. Non per scusarsi, ma per affermare tutto ciò che provava per lei. Un'ondata di sentimenti la percorse in risposta. Percepì all'improvviso che l'incidente con il Satrapo non aveva niente a che vedere con quello che c'era tra lei e Reyn. Era stato un errore menzionarlo in sua presenza. Non aveva niente a che fare con lui o con la loro relazione. Avrebbe dovuto sapere che lo avrebbe solo turbato. Per il momento dovevano solo pensare a ciò che erano insieme. Era il linguaggio di quel ballo. In quel momento preciso si muovevano insieme in armonia, e si capivano. Malta voleva assaporare solo quello. «Reyn» concesse, e gli sorrise. La disputa fu spazzata via dai loro piedi in movimento, fu calpestata e dimenticata. Troppo presto la musica stava finendo e Reyn la fece girare con grazia attraverso l'ultima figura, poi la prese brevemente fra le braccia per fermare il movimento. Fermò anche il suo respiro. «Quando ci muoviamo insieme, come adesso,» bisbigliò timidamente «sento quasi che siamo destinati a muoverci così per sempre.» La trattenne fra le braccia un momento di più di quanto fosse strettamente corretto, facendole galoppare il cuore. Malta non poteva vederlo negli occhi, ma seppe che la guardava. Reyn parlò sommessamente. «Mia cara, devi solo fidarti di me, e io ti condurrò nei tuoi passi» le disse con indulgenza. Il suo paternalismo fece scoppiare la bolla che Reyn aveva creato attorno a loro. Malta si liberò dal suo abbraccio, rivolgendogli un inchino molto formale. «Vi ringrazio per il piacere del ballo, signore» gli disse con calma. «Ora vogliate scusarmi.» Mentre si raddrizzava gli rivolse un cenno di saluto. Si girò e si allontanò come se sapesse dove andare. Con la coda dell'occhio lo vide che cominciava a seguirla, ma un altro uomo delle
Giungle della Pioggia lo raggiunse in fretta e lo prese per un braccio. Qualsiasi cosa volesse, sembrava più importante di lei. Reyn si fermò e si girò verso di lui. Bene. Malta continuò a camminare. L'agitazione nel suo cuore non le permetteva di restare immobile. Perché Reyn aveva dovuto rovinare tutto in quel modo? Perché aveva dovuto dirle parole così condiscendenti? Non scorgeva nessun volto familiare. Non sua madre o sua nonna, non un'amica, neppure Davad Restart. Vide il Satrapo, circondato da un cerchio di matrone dell'alta società di Borgomago. Non poteva certo inserirsi in quel gruppo. I musici avevano iniziato un altro motivo. Malta si mosse verso una tavola carica di bicchieri di vino. Sarebbe stato più corretto che un giovane le portasse da bere. All'improvviso era così imbarazzante essere da sola. Immaginò di avere tutti gli occhi puntati addosso. Era quasi arrivata alla tavola quando Cerwin si parò davanti a lei. Malta dovette fermarsi per non urtarlo. «Forse ora possiamo ballare?» chiese il giovane con gentilezza. Malta esitò. Avrebbe irritato Reyn, o forse lo avrebbe ingelosito. Ma quei giochi non le interessavano più. La vita era già abbastanza complicata. Come se avesse udito le sue riserve, Cerwin annuì tetro verso la pista da ballo. «Non ha impiegato molto a scegliere una nuova compagna.» Incredula, Malta si girò, e il cuore le si fermò nel petto. Reyn si muoveva con grazia attraverso languidi passi di danza con una delle Compagne del Satrapo fra le braccia. Non era neanche quella bella. Era la donna disadorna nel vestito color crema, quella che teneva così stretta e ascoltava con tanta attenzione. «No» bisbigliò Cerwin. «Non fissarlo. Alza la testa e guarda me. Sorridi. Andiamo.» Con un sorrisetto raggelato, Malta mise la mano nella sua. Cerwin la strinse a sé, e si mossero sulla pista da ballo con tutta la grazia di due cani che si girano attorno. Il passo di Cerwin le sembrava corto dopo essersi adeguata a quello di Reyn. Era come procedere a strattoni. Cerwin sembrava felicemente inconsapevole di tanta goffaggine. Le sorrise. «Finalmente fra le mie braccia» disse piano. «Pensavo che i miei sogni non si sarebbero mai avverati. Invece eccoti qui, presentata come una donna! E quell'idiota delle Giungle della Pioggia ti ha messa da parte per una che non può sperare di possedere. Ah, mia Malta. I tuoi capelli luccicano tanto da abbagliarmi. La loro fragranza mi inebria. Non potrei mai sognare di possedere un tesoro più prezioso della tua manina nella mia.»
Malta strinse i denti in un sorriso e sopportò i complimenti che le scrosciavano addosso. Tentò di non guardare Reyn che ballava con l'altra donna. Il velo rendeva difficile capirlo, ma lei sembrava aver catturato interamente la sua attenzione. La testa di Reyn non si girò mai in direzione di Malta. Lo aveva perso. Così semplicemente, così in fretta. Una parola acida di troppo, e se n'era andato. Malta si sentiva come se le avessero strappato il cuore dal petto, lasciando solo uno spazio vuoto. Sciocchezze. Non aveva neanche deciso se lo amava. Quindi non poteva essere quello. No. Ma Reyn aveva detto di amarla, e lei, da sciocca, ci aveva creduto. Evidentemente le aveva mentito. Si trattava solo di orgoglio ferito, ne era certa. Era furiosa perché Reyn l'aveva resa ridicola. Perché preoccuparsene? Malta stava ballando fra le braccia di un altro uomo, un uomo molto bello che era chiaramente pazzo di lei. Non aveva bisogno di Reyn. Non lo aveva mai neanche visto in faccia; come poteva amarlo? Fu colta da vertigini quando scorse Reyn che chinava il capo per parlare più in privato alla Compagna. La donna gli diede una lunga risposta intensa. Malta quasi inciampò, e Cerwin la strinse. Stava pronunciando assurdità sulle sue labbra rosee. Che risposta si aspettava a tali scempiaggini, in nome di Sa? Malta doveva elogiare i suoi denti, o il taglio della camicia? Si sentì addirittura dire: «Stanotte sei molto bello, Cerwin. La tua famiglia deve essere orgogliosa di te.» Cerwin sorrise come se Malta gli avesse rivolto una lode sperticata. «Queste parole significano tanto per me.» La musica finì. Cerwin la lasciò con riluttanza e Malta fece un passo indietro. I suoi occhi traditori cercarono Reyn. Il giovane si chinò sulla mano della Compagna, poi accennò verso le porte che conducevano al giardino e ai sentieri illuminati di lanterne. Malta cercò una qualche durezza o determinazione a cui aggrapparsi, ma trovò solo la desolazione della sua anima. «Posso portarti un bicchiere di vino?» le chiese Cerwin. «Grazie. Mi farebbe piacere sedermi un momento.» «Ma certo.» Il giovane le offrì il braccio. Quando Grag afferrò il braccio di Reyn, questi si girò di scatto e quasi lo colpì. «Non ora! Lasciami andare!» protestò. Malta stava allontanandosi da lui. Il giovane Trell, palliduccio come il latte, stava attraversando in fretta la folla per raggiungerla. Non era il momento per scambiare una parola amichevole con il 'cugino' sulla pista da ballo.
Ma Grag strinse più forte e parlò con voce bassa e urgente. «Una delle Compagne del Satrapo ha appena ballato con me.» «Fantastico. Spero che fosse quella bella. Ora lasciami andare.» Torse il collo tentando di seguire Malta attraverso la folla. «No. Devi chiederle il prossimo ballo. Voglio che tu senta quello che ha detto a me. Poi venite a cercarmi nei giardini, vicino alla quercia sul sentiero orientale. Dobbiamo decidere chi altro informare, e cosa fare.» La voce di Grag era tesa dall'apprensione. Reyn non sapeva che farsene, non in quel momento. Tentò di scherzare. «Prima devo parlare con Malta. Poi discuteremo di magazzini da dare alle fiamme.» Grag non lo lasciò andare. «Non è uno scherzo, Reyn. Non può aspettare. Potrebbe essere già tardi, temo. C'è una congiura contro il Satrapo.» «Vai ad aiutarli, allora» gli consigliò Reyn, seccato. Come poteva pensare proprio ora alla politica? Malta era ferita. Poteva quasi avvertire l'intensità del suo dolore. Le aveva fatto male, e ora la fanciulla vagava fra la folla come una gattina smarrita. Doveva parlarle. Era così vulnerabile. «Gli uomini di Chalced e alcuni nobili della corte progettano di ucciderlo. La colpa ricadrà su Borgomago. Ci raderanno al suolo, con la benedizione di tutta Jamaillia. Per favore, Reyn. Dobbiamo agire subito. Invitala a ballare. Io devo trovare mia madre e le mie sorelle e organizzare di incontrare fuori alcuni Mercanti. Vai da lei. È quella nel semplice vestito color crema, vicino alla pedana. Per favore.» Malta era svanita. Reyn gettò a Grag un'occhiata che si poteva sentire attraverso il velo. Il figlio del Mercante gli lasciò il braccio; scrollò le spalle, scosse la testa con rabbia, poi se ne andò in fretta. Con lentezza, il cuore pesante, Reyn si girò e si diresse verso la Compagna del Satrapo. Lei lo stava guardando. Mentre il giovane si avvicinava, rivolse un commento arguto alla donna con cui stava conversando, annuì e cominciò ad allontanarsi. Reyn la intercettò e si inchinò brevemente. «Mi fareste l'onore di un ballo, Compagna?» «Certo, sarebbe per me un grande piacere» rispose formalmente la donna. Alzò la mano e Reyn la prese nella sua mano guantata. Le prime note della musica cominciarono. Era una melodia lenta, tradizionalmente un ballo da innamorati. Coppie vecchie e giovani avevano la scusa per abbracciarsi e muoversi con lentezza al ritmo di una musica sognante. In quel momento avrebbe potuto prendere Malta fra le braccia, calmando il suo dolore e il proprio. Invece si trovava a far coppia con una donna di Jamaillia alta quasi quanto lui. Era una compagna eccellente, aggraziata e agile.
In qualche modo questo non faceva che peggiorare la situazione. Reyn attese che parlasse. «Vostro cugino vi ha riferito il mio avvertimento?» chiese finalmente la donna. La sua franchezza lo sgomentò. Si sforzò di restare calmo. «Non proprio. Mi ha solo riferito che gli avete detto qualcosa di interessante, qualcosa che dovevo sentire di persona.» Una preoccupazione interrogativa nella voce, nulla di più. La donna emise uno sbuffo impaziente. «Temo che non abbiamo tempo per queste cerimonie. Mentre venivamo qui stasera mi è venuto in mente che questo sarebbe il momento ideale per mettere in pratica il loro piano. Siete qui, tutti riuniti, Mercanti di Borgomago e Mercanti delle Giungle della Pioggia, con il Satrapo. Tutti sanno quanto sia forte l'opposizione ai Nuovi Mercanti e alla politica del Satrapo su Borgomago. Quale momento migliore per scatenare un'insurrezione? Nella confusione, il Satrapo e le sue Compagne saranno uccisi. Allora Chalced potrà intervenire con giusta rabbia per punirvi tutti.» «Un quadro sgradevole. Ma chi ne trae profitto? Perché?» La voce di Reyn diceva che gli sembrava improbabile. «Ne traggono profitto quelli che si sono uniti per escogitare il piano. I nobili di Jamaillia sono stanchi di un ragazzo viziato che non sa niente del governo se non come scialacquare il tesoro reale. Chalced guadagna Borgomago come provincia, da depredare a suo piacimento. Da tempo affermano che questo territorio delle Rive Maledette appartiene di diritto a loro.» «Per Jamaillia sarebbe sciocco cedere Borgomago a Chalced. Quali altre province rendono un raccolto così ricco alla Satrapia?» «Forse credono che sia meglio cedere Borgomago come parte di un contratto, piuttosto che perderla in una guerra. Chalced è sempre più forte e più bellicosa. I conflitti interni e i razziatori del nord hanno paralizzato i Sei Ducati per anni. Quel regno teneva Chalced occupata. Negli anni seguiti alle Guerre delle Navi Rosse, i Sei Ducati sono stati impegnati nella ricostruzione. Chalced è divenuta una nazione potente, ricca di schiavi e di ambizione. Si spingono al nord, in scaramucce di confine. Ma guardano anche a sud. A Borgomago e al suo ricco commercio. E alle terre del Fiume delle Giungle della Pioggia.» «Terre?» Reyn emise uno sbuffo di disprezzo. «C'è così poco...» Si interruppe all'improvviso, ricordando con chi parlava. «Stupidaggini» disse
brusco. «Sulla nave, venendo qui...» Per un attimo la donna parve avere difficoltà a parlare, come se non potesse prendere fiato. «Fui tenuta prigioniera per qualche tempo negli alloggi del capitano.» Reyn attese, poi si chinò più vicino per cogliere le sue parole sommesse. «C'erano alcune mappe nella sua stanza. Il porto di Borgomago. L'estuario del Fiume delle Giungle della Pioggia. Perché avrebbe dovuto averle, se non per servirsene?» «Il Fiume delle Giungle della Pioggia protegge i suoi figli» dichiarò Reyn audacemente. «Non abbiamo nulla da temere. Le vie segrete del fiume sono note solo a noi.» «Ma stanotte ci sono qui molti di voi. Rappresentanti di molte famiglie delle Giungle della Pioggia, mi dicono. Se fossero presi in ostaggio durante il sacco di Borgomago, siete sicuro che nessuno di loro rivelerebbe i segreti delle Giungle?» La sua logica era implacabile. All'improvviso molte piccole discrepanze avevano senso. Perché lasciare entrare il Kendry in porto attraverso il blocco? «Qui troverebbero alleati fra i Nuovi Mercanti» disse quasi ad alta voce, pensando anche a tutti quelli che erano appena scesi a terra. «Gente legata alla tratta degli schiavi di Chalced almeno quanto a Jamaillia. Gente vissuta fra noi, che ci conosce abbastanza da sapere che i Mercanti di Borgomago e i Mercanti delle Giungle della Pioggia si sarebbero riuniti qui stasera.» «Se fossi in voi, non escluderei che ci sia gente simile anche fra i Vecchi Mercanti di Borgomago» indicò quietamente la donna. Un gelido sospetto corse per la schiena di Reyn. Davad Restart. Ma certo. «Se sapevate di questa congiura, perché siete venuta a Borgomago?» «Evidentemente, se lo avessi saputo, non sarei venuta» ribatté la donna. «Solo questa sera ho radunato abbastanza pezzi per cogliere il quadro completo. Non ve lo dico solo perché non desidero morire, ma perché non desidero vedere la caduta di Borgomago. Per tutta la mia vita, Borgomago è stata il centro dei miei studi. Ho sempre voluto visitarla: è la città dei miei sogni. Quindi ho sedotto e ho implorato il Satrapo affinché mi permettesse di venire. Ora che sono qui, non voglio essere testimone della sua agonia, come non voglio morire qui prima di comprendere pienamente le sue meraviglie.» «Cosa suggerite?» «Agite prima di loro. Prendete il Satrapo e le Compagne in ostaggio, sì, ma teneteci al sicuro. Vivo, lui è merce di scambio. Morto, è la scintilla
della guerra. Non tutti i nobili di Jamaillia sono coinvolti. Mandate in qualche modo un messaggio, per avvertire quelli che sono fedeli alla Satrapia. Dite cosa sta succedendo qui. Si impegneranno per aiutarvi, se promettete di restituire Cosgo incolume. Ci sarà la guerra con Chalced, ma alla fine, c'è sempre la guerra con Chalced. Sfruttate il tempo che vi ho concesso con questo avvertimento, e preparatevi a difendere la città come meglio potete. Radunate provviste; nascondete bambini e famiglie. Informate il popolo sul Fiume delle Giungle della Pioggia.» Reyn era incredulo. «Ma dite che probabilmente agiranno stasera. Non c'è tempo per tutto questo!» «State sprecando tempo ballando con me proprio ora» commentò acida la donna. «Dovreste diffondere subito il messaggio. Sospetto che stasera ci saranno incidenti nelle strade. Incendi, risse, qualunque cosa serva a scatenare disordini in città. Si diffonderanno alle navi in porto. Qualcuno, di proposito o per caso, darà a Chalced una scusa per attaccare. Forse riceveranno semplicemente la notizia che il Satrapo è stato ucciso.» Guardò dritto nei suoi occhi velati. «Prima dell'alba, Borgomago brucerà.» La musica stava finendo. Mentre Reyn e la Compagna rallentavano e si fermavano, sembrò un presagio. Reyn rimase ancora un momento in silenzio, la mano della donna nella sua. Poi indietreggiò con un inchino. «Gli altri stanno radunandosi fuori, nei giardini. Dovremmo raggiungerli.» Indicò la porta. Poi, come se qualcuno avesse letteralmente dato uno strappone alla sua anima, si girò e guardò attraverso la stanza. Malta. Si allontanava con la mano sul braccio di Cerwin Trell. Reyn non poteva lasciare il ballo così, non senza una parola. Si girò di nuovo verso la Compagna Serilla. «Appena fuori c'è un sentiero che porta a est. Non è lontano, e stasera le lanterne saranno tutte accese. Non avrete problemi a camminare da sola? Vi raggiungerò appena posso.» L'occhiata della donna gli disse che era un'imperdonabile villania. Tuttavia rispose: «Sono sicura che starò bene. Credete che ci metterete molto?» «Spero di no» la assicurò Reyn. Non attese di vedere quello che la donna pensava di quella vaga risposta. Si inchinò di nuovo e la lasciò sulla porta. La musica stava ricominciando, ma Reyn attraversò in fretta la pista da ballo, evitando con attenzione le coppie che volteggiavano. Trovò Malta che sedeva da sola. Quando si fermò davanti a lei, la fanciulla alzò subito lo sguardo. La luce improvvisa di speranza nei suoi occhi non poteva estinguere la paura. «Reyn...» cominciò, ma lui la fermò prima che potesse
scusarsi. «Devo andare. È molto importante. Non posso ritornare questa sera. Devi capirmi.» «Non puoi ritornare... dove? Dove vai? Cosa è molto importante?» «Non posso dirtelo. Questa volta dovrai avere fiducia in me.» Fece una pausa. «Mi piacerebbe che tu andassi a casa al più presto. Lo faresti per me?» «Andare a casa? Lasciare il ballo della mia presentazione e andare a casa mentre tu vai a fare 'qualcosa di più importante?' Reyn, è impossibile. Non abbiamo diviso il cibo, i doni in onore della nostra parentela non sono stati offerti... Reyn, abbiamo ballato una sola volta! Come puoi farmi questo? Ho atteso questo momento per tutta la vita, e ora tu mi dici che devo tornare a casa in fretta, perché hai trovato qualcosa di più importante da fare?» «Malta, per favore, cerca di capire! Non è una mia scelta. Il fato non rispetta i nostri desideri. Ora... devo andare. Mi spiace, ma devo andare.» Avrebbe tanto voluto dirglielo. Non era mancanza di fiducia in lei. Era il collegamento della famiglia a Davad Restart che lo preoccupava. Se Davad era un traditore, era importante che credesse che il loro complotto era ancora segreto. Malta non poteva rivelare accidentalmente ciò che non sapeva. Malta lo guardò e gli occhi balenarono di un lampo scuro. «Penso di sapere precisamente cosa ti importi più di me. Ti auguro di trarne gioia.» Distolse lo sguardo. «Buona serata, Reyn Khuprus.» Stava congedandolo come un domestico recalcitrante. Reyn dubitò che avrebbe ascoltato il suo consiglio. Rimase immobile in un tormento di indecisione. «Scusate.» La spinta era intenzionale. Reyn si girò. Cerwin Trell lo guardava in cagnesco. Teneva due bicchieri di vino. Per un momento, il controllo di Reyn vacillò. Poi una specie di disperazione gli afferrò il cuore. Non c'era tempo. Poteva rimanere e litigare, ma non poteva risolvere la situazione. Se rimaneva, entro il mattino potevano essere tutti morti. La parte più dura di girarsi e allontanarsi fu sapere che entro il mattino potevano essere tutti morti in ogni caso, qualunque cosa avesse fatto. Non si voltò indietro. Se Malta fosse sembrata sgomenta, avrebbe dovuto tornare da lei. Se stava sorridendo affettatamente a Trell, avrebbe dovuto uccidere il ragazzo. Non c'era tempo. Non c'era mai tempo di vivere la sua vita. Lasciò la Sala dei Mercanti e si immerse nell'oscurità squarciata dalle tor-
ce. Malta danzò altre tre volte con Cerwin. Il giovane sembrava allegramente inconsapevole di come la ragazza trascinava i piedi. Dopo la naturale scioltezza nelle braccia di Reyn, ballare con Cerwin sembrava uno sgraziato sforzo fisico. Non riusciva a seguire del tutto il suo passo o il tempo della musica. I complimenti adoranti che Cerwin le riversava addosso le urtavano i nervi come chicchi di grandine. Non sopportava di guardare il suo viso di ragazzo entusiasta. Tutta la vita e la bellezza avevano lasciato il ballo. L'intera celebrazione sembrata diminuita dalla partenza di Reyn. All'improvviso pareva che ci fossero meno coppie sulla pista da ballo, meno risate e chiacchiere nella stanza. La malinconia sgorgò dal fondo della sua anima, sommergendola di nuovo. Ricordava che quel giorno era stata brevemente felice, ma il ricordo sembrava vuoto e falso. Mentre la musica si affievoliva fu un sollievo vedere sua madre ai margini della pista da ballo, che le faceva discretamente segno di avvicinarsi. «Mia madre mi chiama. Devo andare, temo.» Cerwin si staccò da lei, ma le prese entrambe le mani nelle sue. «Allora ti lascerò andare, ma solo perché devo, e ti prego, solo per un breve tempo.» Si inchinò con solennità. «Cerwin Trell» lo salutò Malta, poi si girò e lo lasciò. Il viso di Keffria era solenne mentre sua figlia si avvicinava. La preoccupazione nei suoi occhi non cambiò, ma riuscì a sorridere. «Ti sei divertita, Malta?» Come rispondere? «Non è stato quello che mi aspettavo» disse sinceramente la fanciulla. «Penso che nessun ballo di presentazione sia proprio come ci si aspetta.» Keffria le prese la mano. «Odio chiedertelo, ma credo che dovremmo andarcene subito.» «Andarcene?» chiese Malta confusa. «Ma perché? C'è ancora il banchetto, la presentazione dei regali...» «Shhh» ordinò Keffria. «Malta, guardati attorno. Dimmi cosa vedi.» Malta guardò in fretta, poi scrutò con maggior attenzione la stanza. A voce bassa chiese: «Dove sono tutti i Mercanti delle Giungle della Pioggia?» «Non lo so. Anche un buon numero di Mercanti di Borgomago è svanito, senza spiegazioni o saluti. Tua nonna e io temiamo che ci siano pro-
blemi. Sono uscita per una boccata d'aria, e ho sentito odore di fumo. Il blocco del porto ha aumentato la tensione in città. Temiamo un'insurrezione, o disordini di qualche genere.» Keffria contemplò con calma la stanza. Mantenne un sorriso calmo, come se stesse discutendo il ballo con Malta. «Crediamo che saremo tutti più al sicuro a casa.» «Ma» cominciò Malta, e poi tacque. Non c'era speranza. La serata aveva già perso ogni gioia e luce. Rimanere avrebbe solo allungato l'agonia del suo sogno. «Farò come ritieni meglio» concesse all'improvviso. «Suppongo che dovrei salutare Delo.» «Penso che sua madre l'abbia già portata a casa. Ho visto un momento fa il Mercante Trell che parlava con suo figlio, e ora non vedo più neanche Cerwin. Capiranno.» «Bene, io non capisco» ribatté Malta acidamente. Sua madre scosse la testa. «Mi dispiace. È triste vederti diventare adulta in tempi così turbolenti. Mi sembra che ti vengano sottratte tutte le cose che sognavi. Ma non posso farci niente.» «Conosco la sensazione» disse Malta, più a sé stessa che a sua madre. «A volte mi sento del tutto indifesa. Come se io non potessi far niente per cambiare le brutte cose. Altre volte temo solo di essere troppo vile.» Keffria sorrise, un sorriso autentico. «Vile è l'ultima parola che userei per descriverti» disse con affetto. «Come torneremo a casa? La carrozza a noleggio non ritornerà ancora per ore.» «La nonna sta parlando con Davad Restart. Chiederà se la sua carrozza può portarci a casa. Non ci impiegherebbe molto. Ritornerebbe prima della fine prevista del ballo.» La nonna le raggiunse in fretta. «Davad è riluttante a vederci andar via, ma accetta di prestarci la carrozza.» Aggrottò la fronte all'improvviso. «Ma a una condizione. Chiede che Malta venga a salutare il Satrapo prima di andarsene. Gli ho detto che mi sembrava sconveniente e indiscreto da parte di Malta, ma Davad insiste. Temo che non abbiamo tempo per discutere. Prima siamo a casa, prima saremo al sicuro. Ora, dov'è finito Selden?» «Un momento fa era con i figli di Daw. Vado a prenderlo.» Keffria sembrò farsi stanca e infastidita. «Malta, ti dispiace? La nonna rimarrà con te, così non dovrai avere paura.» Malta si chiese quanto avessero dedotto del suo primo incontro con il Satrapo. «Non ho paura» ribatté. «Vi vedremo fuori?» «Va bene. Vado a cercare Selden.»
Mentre Malta e sua nonna attraversavano la sala, Ronica Vestrit parlò. «Penso che potremo offrire un tè fra dieci giorni. Le donne presentate quest'anno non sono molte. Credi che dobbiamo invitarle tutte?» Malta era sbalordita. «Un tè? A casa nostra?» «In giardino, direi. Dovremmo riuscire a sistemarlo come si deve. Ora che i frutti di bosco stanno maturando, potremmo preparare dei pasticcini. Ai miei tempi queste festicciole avevano spesso un tema.» La nonna sorrise tra sé. «Mia madre ne diede una per me in cui tutto era color lavanda o violetta. Mangiammo minuscole violette candite, e dolcetti di zucchero tinti di viola con succo di mirtillo, e il tè era al gusto di lavanda. Per me aveva un sapore terribile, ma l'idea era così bella che non ci badai.» Ridacchiò ad alta voce. La nonna stava tentando di farla sentire meglio. «Quest'anno la nostra lavanda sta fiorendo molto bene» si sforzò di commentare Malta. «Scegliamo un tema vecchio stile, e nessuno ci criticherà se usiamo le vecchie tovaglie e i centrini di merletto. E il vecchio servizio di porcellana, magari.» Cercò di sorridere. «Oh, Malta, tutto questo è stato così ingiusto per te» cominciò la nonna. Poi: «Su la testa, sorridi. Ecco Davad.» Davad puntò su di loro come un grosso papero in un recinto di pollame. «Ebbene, mi sembra tragico, davvero tragico, portare a casa di corsa questa dolce fanciulla. Il mal di testa è davvero così brutto?» «Atroce» rispose Malta in fretta. Quindi era stato quello l'artificio di sua nonna. «Non sono abituata a fare tanto tardi, sapete» aggiunse piacevolmente. «Ho detto alla nonna che volevo solo darvi la buona notte e ringraziarvi per la gentile offerta della carrozza. Poi ce ne andremo.» «Oh, la mia povera cucciolotta! Almeno vorrai dire buonanotte al Satrapo. Gli ho già detto che devi andare, e sono venuto a scortarti mentre lo saluti.» Quello segnò il suo destino. Non c'era via d'uscita onorevole. «Posso farcela, suppongo» disse debolmente Malta. Mise la mano sul braccio di Davad, e lui la trascinò in fretta attraverso la stanza fino alla pedana, con Ronica Vestrit che si affrettava a seguirli. «Eccola qui, Magnadon Satrapo» annunciò Davad solennemente prima che Malta avesse ripreso fiato. Non parve notare che aveva interrotto una conversazione del Mercante Daw con il Satrapo. Il Satrapo girò uno sguardo languido su Malta. «Vedo» disse lentamente. I suoi occhi la percorsero con indifferenza. «Che peccato che dobbiate
andarvene così presto. Abbiamo avuto solo una conversazione brevissima, e su un tema così importante.» Malta non sapeva cosa dire. Aveva fatto un lungo inchino nel momento in cui il Satrapo si era degnato di notarla. Ora Davad le prese piuttosto sgraziatamente il braccio e la rimise in piedi. Quel gesto la fece apparire goffa; sentì il sangue salirle al viso. «Non vuoi dirgli buona notte?» la incitò Davad come se fosse stata una bambina disobbediente. «Vi auguro una buona serata, Magnadon Satrapo. Vi ringrazio per avermi fatto l'onore di ballare con me.» Ecco. Deferente e cortese. Poi, prima che potesse impedirsi la speranza, aggiunse: «E vi prego di mettere presto in pratica la vostra offerta di andare a salvare mio padre.» «Temo che non sarà possibile, mia dolce bambina. Il Mercante Daw mi diceva che stasera c'è agitazione in porto. Di certo le mie navi pattuglia devono restare a Borgomago finché la città non sarà sicura.» Prima che Malta potesse decidere se si aspettava una risposta, il Satrapo si rivolse a Davad. «Mercante Restart, fareste chiamare la carrozza? Il Mercante Daw ritiene che sia più sicuro per me lasciare il ballo presto. Certo, sono spiacente di non assistere a tutta la vostra pittoresca festa, ma vedo che non sono il solo a preferire la cautela al divertimento.» Il suo gesto languido percorse la sala da ballo. Malta si guardò attorno d'istinto. La folla si era assai diradata, e molti di quelli rimasti erano radunati a parlare in piccoli gruppi ansiosi. Solo alcune giovani coppie si muovevano ancora attraverso la pista da ballo in ignoranza apparentemente felice. Davad parve a disagio. «Vi chiedo perdono, Magnadon Satrapo. Avevo appena promesso alla Mercante Vestrit e alla sua famiglia l'uso della mia carrozza per portarli in salvo a casa. Ma tornerà in fretta, ve lo prometto.» Il Satrapo si alzò, stiracchiandosi come un gatto. «Non ce ne sarà bisogno, Mercante Restart. Di certo, non volete mandar via queste donne da sole! Le accompagnerò a casa loro, per accertarmi che arrivino sane e salve. Forse Malta e io avremo l'opportunità di continuare la conversazione interrotta.» Le rivolse un sorriso pigro. Sua nonna piombò su di loro in un fruscio di vestiti. Fece una profonda riverenza, quasi esigendo che il Satrapo riconoscesse la sua presenza. Dopo un momento, lui annuì irritato. «Signora» concesse con voce piatta. Ronica si rialzò. «Magnadon Satrapo, sono la nonna di Malta, Ronica Vestrit. Naturalmente saremmo onorati di una vostra visita, ma temo che la nostra casa sia molto umile. Non potremmo accomodarvi; almeno, non nella maniera in cui senza dubbio siete abituato a essere accolto. Natural-
mente potremmo...» «Mia cara signora, lo scopo intero di un viaggio è sperimentare ciò a cui non si è abituati. Sono sicuro che la vostra casa mi andrà benissimo. Davad, stanotte farai in modo di spedire da loro i miei servitori personali, vero? E i miei bauli e il mio bagaglio.» Per come lo disse, non era una proposta. Davad annuì condiscendente. «Certo, mio signore Magnadon. E...» «Ormai la tua carrozza sarà qui fuori. Ci congederemo. Mercante Daw, portate la stola della Compagna Kekki e il mio mantello.» Davad Restart fece un ultimo tentativo coraggioso. «Magnadon Satrapo, temo che staremo molto stretti...» «Non se tu viaggi a cassetta con il conducente. La Compagna Serilla sembra svanita. Mal gliene incolga. Se non si occupa di me come deve, ne subirà le conseguenze. Ora andiamo.» Così dicendo si alzò dal suo posto sulla pedana, scese sulla pista da ballo e si avviò verso la porta principale. Davad lo seguì in fretta come una foglia presa nella scia di una nave. Malta scambiò un'occhiata con sua nonna e poi entrambe si accodarono. «Cosa dobbiamo fare?» le bisbigliò Malta, preoccupata. «Saremo cortesi» l'assicurò sua nonna. «E nulla più» aggiunse con voce bassa e pericolosa. Fuori la notte era mite e piacevole, a parte un distinto odore di fumo nella brezza. La Sala non dava sulla città di Borgomago. Non c'era modo di dire cosa bruciava, o dove, ma il solo odore fece venire i brividi lungo la schiena a Malta. Mantelli e stole furono portati in fretta e la carrozza si avvicinò. Ignorando la sua Compagna, il Satrapo prese il braccio di Malta e la aiutò a salire per prima. La seguì e si accomodò accanto a lei sull'ampio sedile. Diede un'occhiata a Davad. «Sembra che dovrete viaggiare a cassetta con il conducente, Mercante Restart. Altrimenti sarebbe una calca imperdonabile. Ah sì, Kekki siederà qui, accanto a me.» Il sedile di fronte rimaneva per sua nonna, sua madre e Selden. Malta era incuneata nell'angolo, perché il Satrapo sedeva spiacevolmente vicino a lei, quasi sfiorandola con la coscia. Tentò di non sembrare allarmata, ma piegò modestamente le mani in grembo e guardò fisso fuori dalla finestra. All'improvviso era sfinita. Non voleva altro che rimanere da sola. La carrozza traballò mentre Davad saliva sgraziatamente per sedersi accanto al vetturino. Ci volle qualche momento perché si sistemasse, poi il conducente parlò ai cavalli. La carrozza si mosse senza scossoni, lasciandosi indie-
tro le luci e la musica. Mentre l'oscurità si chiudeva attorno a loro e il suono del ballo svaniva, il conducente tenne i cavalli a un ritmo calmo. Nessuno parlò. La carrozza sembrò riempirsi di notte. Sovraccarica, cigolava pacificamente mentre le ruote brontolavano sull'acciottolato. Non c'era pace in Malta, piuttosto stordimento. Tutta l'allegria e la vita erano state lasciate lontano alle loro spalle. Temeva di appisolarsi. La Compagna Kekki ruppe il silenzio. «Questa celebrazione d'estate è stata molto interessante per me. Sono così contenta di aver assistito.» Le sue parole insipide rimasero sospese nell'aria, poi Ronica esclamò: «Respiro di Sa! Guardate il porto!» C'era un varco fra gli alberi che fiancheggiavano la strada. In cima alla carrozza, Davad e il vetturino imprecarono increduli. Malta rimase a guardare. Sembrava che il porto intero fosse in fiamme, perché l'incendio si rifletteva nell'acqua, raddoppiato. Non era solo un magazzino o due; il lungomare intero sembrava bruciare, insieme a molte navi. Malta osservò con orrore, udendo appena le esclamazioni e le congetture degli altri. Sapeva bene che solo il fuoco poteva uccidere un veliero vivente. Lo sapeva anche la gente di Chalced? Le navi che combattevano le fiamme vicino all'imboccatura del porto erano velieri viventi, o erano le navi e le galee con cui erano arrivati il Satrapo e il suo seguito? Ma avevano colto solo quella breve occhiata e la distanza era troppa per essere sicuri di quello che avevano visto. «Forse dovremmo andare laggiù» suggerì con audacia il Satrapo. Alzò la voce. «Vetturino! Andiamo al porto!» «Siete impazzito?» esclamò Ronica, non curandosi di chi era. «Non è un posto per Selden o Malta. Prima portateci a casa, poi fate come volete!» Prima che il Satrapo potesse rispondere, la carrozza traballò mentre il vetturino frustava i cavalli. Mentre il buio ancora una volta si chiudeva attorno a loro, Ronica esclamò: «Che gli prende a Davad, viaggiare a un tale ritmo nell'oscurità? Davad? Davad, cosa stiamo facendo?» Non ci fu una risposta esplicita, solo grida soffocate in cima alla carrozza. Poi Malta pensò di udire un'altra voce. Afferrò il davanzale e si sporse fuori. Dietro di loro, nell'oscurità, credette di scorgere qualcosa. «Penso che alcuni cavalieri ci stiano raggiungendo in fretta. Forse Davad sta solo tentando di lasciargli strada.» «Devono essere ubriachi per far galoppare di notte i cavalli su questa strada» esclamò Keffria disgustata. Selden stava arrampicandosi sul sedile, tentando di arrivare al finestrino per guardare fuori. «Siediti, piccolo! Mi
stai calpestando il vestito» esclamò seccata. All'improvviso Selden fu scagliato sul pavimento quando il vetturino fece schioccare la frusta e i cavalli scattarono in avanti contro i finimenti. Ora la carrozza traballava pesantemente, spostandoli avanti e indietro, l'uno contro l'altro. Se non fossero stati pigiati così stretti, sarebbero rotolati per tutta la carrozza. «Non appoggiatevi agli sportelli!» ordinò sua madre spaventata, mentre Ronica gridava: «Davad! Fagli rallentare i cavalli! Davad!» Mentre Malta si aggrappava disperatamente al davanzale per non farsi sbatacchiare, scorse all'esterno un movimento improvviso. Un cavaliere li aveva affiancati. «Arrendetevi!» gridò. «Fermatevi e arrendetevi, e nessuno si farà male!» «Banditi!» esclamò Kekki con orrore. «A Borgomago?» ribatté Ronica. «Mai!» Ora c'era un altro cavaliere sull'altro lato della carrozza. Malta lo scorse, poi sentì il conducente gridare qualcosa. Una ruota urtò violentemente un ostacolo, e la ragazza fu gettata contro la fiancata mentre la carrozza si inclinava su un lato. Per un istante sembrò recuperare. Tutto sarebbe andato bene, si disse Malta, e poi il lato opposto della carrozza sprofondò con un improvviso scossone. Fu scagliata violentemente contro il Satrapo, riverso sulla Compagna Kekki. Incredibilmente stavano precipitando di lato, e poi il tetto della carrozza era quasi sotto di lei. Uno sportello si spalancò accanto a lei. Udì un urlo, un urlo terribile, e vide un grande bagliore improvviso di luce bianca. «Davad è morto.» Ronica Vestrit lo disse con tanta calma da non riuscire a credere che fosse la sua voce. Aveva trovato il suo corpo nell'oscurità, cercando di risalire il ripido pendio irregolare verso la strada. Seppe che era Davad dal fitto ricamo sulla giacca. Fu contenta che fosse troppo buio per vedere il corpo. La calda immobilità pesante e la viscosità del sangue erano abbastanza sconvolgenti. Non trovò alcun battito alla gola, solo sangue. Neanche un sussurro di respiro. Dal sangue che infradiciava la schiena della giacca ritenne che avesse il cranio fracassato, ma non poté spingersi a toccarlo ulteriormente. Strisciò via, allontanandosi da lui. «Keffria! Malta! Selden!» chiamò disperata, ma senza forza. Nulla aveva senso. Sopra di lei scorgeva la massa della carrozza davanti alla luce incerta delle torce. C'erano voci, e persone che si muovevano nell'oscurità. Forse i suoi bambini erano lassù.
Il pendio era ripido e cespuglioso. Non riusciva a ricordare chiaramente come fosse uscita dalla carrozza. Non capiva come potesse essere così lontana. Era stata gettata fuori? Poi alle sue orecchie giunse la voce di Keffria. Gemeva: «Mamma, mamma!» come era solita chiamare quando da bambina la tormentavano gli incubi. «Arrivo!» esclamò Ronica. I cespugli pungenti l'afferrarono, e cadde di nuovo. L'intera metà sinistra del corpo bruciava come se si fosse scorticata. Ma quello poteva essere aggiustato, poteva essere ignorato, perdonato e dimenticato, se solo riusciva a trovare i bambini. Cadde di nuovo. Le parve di impiegare un'eternità a rialzarsi. Era svenuta? Ora non vedeva niente, né la carrozza, né la luce tremolante. C'erano state davvero persone in movimento, o lo aveva solo immaginato? Ascoltò con attenzione. Ecco. Un suono, uno squittio o un pianto. Strisciò verso di esso. Nell'oscurità trovò Keffria a tentoni. Lo squittio erano i suoi singhiozzi. La donna gridò quando Ronica la toccò, poi l'afferrò senza parole. Aveva il piccolo Selden in grembo, raggomitolato stretto. Dalla tensione dei muscoli, Ronica capì che era vivo. «È ferito?» furono le prime parole che disse a sua figlia. «Non lo so. Non parla. Non trovo sangue.» «Selden, vieni qui. Vieni dalla nonna.» Il bambino non fece resistenza ma non si mosse di sua volontà per avvicinarsi. Ronica lo tastò. Niente sangue, e non gridò al suo tocco. Rimase solo rannicchiato, rabbrividendo. Ronica lo diede di nuovo a Keffria. Per un miracolo, nessuno di loro sembrava seriamente ferito. Keffria aveva qualche dito rotto, ma più di quello non sapeva dire, né Ronica poteva vedere altro. Gli alberi erano troppo fitti. Né chiaro di luna né luce di stelle li raggiungevano per aiutarli a cercare. «Malta?» chiese Ronica finalmente. Non voleva menzionare Davad davanti a Selden. «Non l'ho ancora trovata. Ho sentito gli altri, dapprima. Poi ho chiamato... pensavo di averti sentita, ma non sei venuta. Malta non ha risposto.» «Vieni. Torniamo sulla strada. Forse è là.» Nel buio sentì Keffria annuire, più che vederla. «Aiutami con Selden.» Ronica indurì la voce. «Selden. Mamma e io non possiamo portarti. Sei un ragazzo troppo grande. Ricordi come hai aiutato con i secchi, il giorno che sono arrivate le navi? Sei stato coraggioso. Ora devi essere di nuovo coraggioso. Vieni. Prendi la mia mano. Alzati.»
Dapprima Selden non reagì. Nondimeno, Ronica gli afferrò la mano e lo strattonò. «Vieni, Selden. Alzati. Prendi la mano sana di tua madre. Sei forte. Puoi aiutarci entrambe a risalire questo pendio.» Con grande lentezza il bambino si raddrizzò. Ciascuna gli prese una mano, e tra tutte e due lo trascinarono su per la collina. Keffria teneva la mano ferita piegata sul petto. Nessuno disse molto, se non parole di incoraggiamento al ragazzo inframmezzate con il nome di Malta. Nessuno rispose. Il rumore fece tacere gli uccelli notturni. Gli unici suoni erano prodotti da loro. La carrozza giaceva sul fianco. Lì, più vicino alla strada, gli alberi erano più radi e la luce delle stelle arrivava fino a terra, mostrando a Ronica la fine del suo mondo in sfumature di bianco e nero. Un cavallo morto era ancora aggrovigliato nelle briglie. Tra la carrozza e la strada sopra di essa gli alberelli erano piegati e spezzati. Perlustrarono tutto attorno alla carrozza. Nessuno parlò di quello che davvero stavano facendo. Cercavano il corpo di Malta sul terreno, a tastoni nel buio. Dopo qualche momento Keffria disse: «Forse è rimasta intrappolata all'interno.» La carrozza giaceva su un fianco sul pendio ripido, con il tetto rivolto verso il piede della collina. Da sotto spuntavano gli stivali del vetturino. Ronica e Keffria li notarono entrambe, ma non li indicarono. Quella notte Selden aveva visto abbastanza. Non aveva bisogno di vedere anche quello. Non aveva bisogno di chiedersi, come loro, se là ci fosse anche il corpo di Malta. Ronica indovinò che la carrozza era rotolata almeno due volte prima di fermarsi. Non sembrava ancora stabile. «Stai attenta» avvertì sua figlia a voce bassa. «Può scivolare ancora.» «Starò attenta» promise Keffria, vanamente. Poi si arrampicò con lentezza sul telaio della carrozza. Ansimò una volta quando la mano ferita scivolò. Giacque sul lato del veicolo, guardando nel finestrino. «Non vedo nulla» gridò. «Dovrò calarmi all'interno.» Ronica la sentì lottare con la porta. Keffria riuscì ad aprirla. Poi sedette sull'orlo per un momento, prima di calarsi. Ronica udì la sua esclamazione acuta di orrore. «L'ho calpestata» gemette Keffria. «Oh, la mia bambina, la mia bambina.» Il silenzio si allungò fino alle stelle e tornò indietro. Poi Keffria cominciò a singhiozzare. «Oh, mamma, respira! È viva, Malta è viva!» 33
Prove Era quasi l'alba quando Etta rientrò silenziosamente nella cabina di Kennit. Senza dubbio pensava che fosse addormentato. Kennit non dormiva. Quando erano tornati alla nave, Etta lo aveva aiutato a fare un bagno caldo e a indossare vestiti puliti. Poi Kennit l'aveva spedita fuori dalla cabina e aveva sparso i suoi piani per Borgo Baratto sul tavolo di carteggio. Aveva tirato fuori squadra, compasso e penne, e aveva considerato con cipiglio il suo lavoro precedente, una mappa tracciata a memoria. Quel giorno, percorrendo ogni angolo della zona sulla gamba di legno, aveva visto subito che alcune delle sue idee non erano applicabili. Aveva estratto un nuovo foglio di pergamena e aveva ricominciato da capo. Aveva sempre amato quel tipo di lavoro. Era come creare il proprio mondo, un mondo preciso e ordinato dove le cose avevano senso ed erano organizzate nel modo migliore. Lo riportava ai giorni della primissima infanzia, quando giocava sul pavimento accanto alla scrivania di suo padre. Il pavimento era la terra in quella prima casa che ricordava. Quando suo padre era sobrio lavorava ai suoi piani per Isola Chiave. Non aveva disegnato solo la sua grande dimora nobiliare. Aveva tracciato a inchiostro una fila di casette per i domestici, progettando per ciascuna le dimensioni dell'orto e calcolando lo spazio necessario per ogni raccolto. Aveva disegnato la stalla e il granaio, e gli ovili per le pecore, sistemandoli in modo che i mucchi di concime fossero vicini agli orti. Aveva progettato un alloggio per i membri dell'equipaggio della nave se avessero voluto dormire a riva. Aveva disposto ogni struttura in modo che le strade fossero diritte e lastricate. Era il suo piano di un piccolo mondo perfetto su un'isola ignota. Spesso aveva preso in grembo il piccolo Kennit per mostrargli il suo sogno. Gli aveva raccontato che in quel luogo tutti sarebbero stati felici. Tutto era stato disposto così bene. Per un breve tempo il sogno aveva prosperato. Poi era arrivato Igrot. Kennit allontanò quel pensiero, lo cacciò in fondo alla memoria mentre lavorava. Stava progettando il rifugio alla base della torre di guardia quando l'amuleto parlò all'improvviso. «Qual è lo scopo di tutto questo?» Kennit fissò con disappunto lo scarabocchio di inchiostro fatto per disattenzione. Lo asciugò con cura. Rimase lo stesso un segno. Avrebbe dovuto raschiare la pergamena. Aggrottò la fronte, chinandosi di nuovo sul lavoro.
«Lo scopo del progetto» disse, più a sé stesso che all'amuleto insolente, «è che questa struttura può funzionare come rifugio sicuro in caso di attacco, e come alloggio finché le case non vengono ricostruite. Se mettono un pozzo qui, all'interno, e poi fortificano la struttura esterna, allora...» «Allora potranno morire di fame invece di essere portati via come schiavi» osservò brillantemente l'amuleto. «Di solito le navi che fanno scorrerie non hanno tanta pazienza. Cercano bottino e schiavi per una cattura rapida e facile. Non vogliono assediare una città fortificata.» «Ma qual è lo scopo di questi piani? Perché ti interessa tanto creare una città migliore per gente che disprezzi?» Per un momento la domanda lo lasciò perplesso. Kennit contemplò i suoi piani. La gente di Borgo Baratto non era davvero degna di vivere in quel luogo ben organizzato. Scoprì che non importava. «Sarà migliore» disse caparbio. «Sarà più ordinato.» «Controllo» lo corresse l'amuleto. «Avrai lasciato il tuo marchio sulle loro vite. Ho deciso che è il tema della tua vita, Kennit. Il controllo. Cosa credi, pirata? Che se ottieni abbastanza controllo potrai tornare indietro e controllare il passato? Annullarlo? Rimettere in funzione il piano accurato di tuo padre, riportare in vita il suo piccolo paradiso? Il sangue sarà sempre là, Kennit. Come una macchia di inchiostro su un disegno perfetto, il sangue penetra e lascia un'impronta. Qualsiasi cosa tu faccia, quando entri in quella casa sentirai sempre l'odore del sangue e udrai le grida.» Kennit gettò giù la penna con rabbia. Disgustato, vide che aveva lasciato un serpente di sangue attraverso i suoi piani. No, non sangue, si disse furioso. Inchiostro, inchiostro nero, nient'altro. L'inchiostro poteva essere asciugato e sbiancato. Anche il sangue. Prima o poi. Era andato a letto. Era rimasto sveglio nell'oscurità, aspettando che Etta arrivasse. Ma quando la donna entrò, si infilò come un gatto dopo una notte di caccia. Kennit sapeva dove era stata. La ascoltò svestirsi nell'oscurità. Etta si avvicinò in punta di piedi al lato del letto dove dormiva e tentò di scivolare sotto le coperte. «Allora. Com'è andata con il ragazzo?» chiese Kennit con voce cordiale. Etta trasalì per la sorpresa. Il pirata la vide mettersi la mano sul cuore. «Mi hai spaventato, Kennit. Pensavo che dormissi.» «Evidentemente» osservò sarcastico. Era arrabbiato, decise, ma non perché Etta aveva dormito con il ragazzo. Era sempre stato nei suoi piani,
certo. Lo infastidiva il pensiero che lei potesse tenerglielo nascosto. Voleva dire che lo riteneva uno stupido. Era il momento di toglierle quell'idea. «Ti fa male?» gli chiese Etta. La sua preoccupazione sembrava sincera. «Perché me lo chiedi?» «Pensavo che fosse quello a tenerti sveglio. Temo che Wintrow sia ferito più gravemente di quanto pensassimo. Questo pomeriggio non si è lamentato, ma stanotte il braccio era così gonfio che quasi non riusciva a togliersi la camicia.» «Così lo hai aiutato» decise piacevolmente Kennit. «Sì. Gli ho preparato un cataplasma. Quello ha tolto il gonfiore. Poi gli ho fatto qualche domanda su un libro che sto tentando di leggere. Mi sembra un libro sciocco, perché parla solo di come decidere cosa è vero nella propria vita e cosa è frutto di come si considera la vita. Filosofia, la chiama lui. Uno spreco di tempo, gli ho detto io. A che serve chiedersi come si fa a sapere che un tavolo è un tavolo? Lui ha detto che ci fa pensare a come pensiamo. Mi sembra ancora sciocco, ma lui insiste che dovrei leggerlo. Non mi ero accorta che avevamo passato tanto tempo in dibattiti finché non ho lasciato la stanza.» «Dibattiti?» «Non ostili. Avrei dovuto chiamarli conversazioni.» Alzò le coperte e scivolò nel letto accanto a lui. «Mi sono lavata» aggiunse in fretta quando Kennit scrollò via il suo tocco. «Nella stanza di Wintrow?» chiese il pirata con cattiveria. «No. In cambusa, dove l'acqua rimane calda più a lungo.» Si assestò contro di lui e sospirò. Un attimo dopo chiese, quasi brusca: «Kennit, perché me lo chiedi? Sospetti di me? Ti sono fedele.» «Fedele!» La parola lo sconvolse. Etta si tirò a sedere all'improvviso sul letto, strappandogli involontariamente le coperte. «Certo, fedele! Fedele per sempre. Cosa pensavi?» Quella poteva essere una barriera a tutti i suoi piani. Diede uno strappo alla coperta ed Etta si distese di nuovo accanto a lui. Kennit formulò le parole con attenzione. «Io pensavo che saresti stata con me solo per qualche tempo. Finché un altro non ti avesse attratta.» Scrollò leggermente le spalle, più turbato di quanto volesse ammettere. Perché era così difficile riconoscerlo? Era una puttana. Le puttane non erano fedeli. «Un altro? Come Wintrow, vuoi dire?» Etta rise, una risata gutturale. «Wintrow?» «È più vicino alla tua età. Il suo corpo è dolce e giovane, a malapena
scalfito, e dotato, potrei aggiungere, di due gambe. Perché non dovresti trovarlo più desiderabile?» «Sei geloso!» Etta lo disse come se Kennit le avesse appena offerto un diamante. «Oh, Kennit. Che sciocco. Wintrow? Ho cominciato a essere gentile con lui solo perché me lo hai chiesto tu. Ora scorgo il suo valore. Vedo quello che volevi mostrarmi in lui. Mi ha insegnato molto, e ne sono grata. Ma perché dovrei barattare un uomo per un giovane inesperto?» «È intero» fece notare Kennit. «Oggi ha combattuto come un uomo. Ha ucciso.» «Oggi ha combattuto, sì. Ma questo non ne fa certo un uomo adulto. Ha combattuto per la prima volta, con una lama che gli abbiamo dato noi e le abilità che gli ho insegnato io. Ha ucciso, e stanotte quell'atto lo consuma e lo tormenta. Ha parlato molto del male di togliere a un uomo quello che solo Sa poteva dargli.» Abbassò la voce. «Ha pianto.» Kennit si sforzò di seguirla. «E quello ti ha spinto a disprezzarlo come meno che uomo.» «No. Mi ha spinto a compatirlo, anche se volevo scuoterlo. È un giovane lacerato tra la sua naturale gentilezza di spirito e il bisogno di seguirti. Lo sa. Stanotte me ne ha parlato. Molto tempo fa, quando per la prima volta ci ritrovammo insieme, gli parlai. Parole di buonsenso, di trovare la sua vita in quello che è, invece di desiderare quello che poteva essere. Lui le ha accolte nel cuore così seriamente, Kennit.» Abbassò la voce. «Ora crede che Sa lo abbia condotto da te. Tutto quello che gli accadde da quando lasciò il monastero, così dice, lo ha portato da te. Crede che Sa lo abbia gettato in catene per fargli comprendere meglio il tuo odio per la schiavitù. Ha lottato tanto a lungo. Dice che resisteva perché era geloso di come la nave si era affezionata in fretta a te. Quella gelosia lo accecava e lo spingeva a cercare le tue colpe. Ma nelle ultime settimane è giunto a vedere che è la volontà di Sa. Crede di essere destinato a stare al tuo fianco, a parlare per te e a combattere per te. Eppure, teme di combattere. È qualcosa che lo lacera.» «Povero ragazzo» disse Kennit ad alta voce. Era difficile suonare comprensivo mentre il trionfo sgorgava nel suo cuore. Ci provò. Era un risultato apprezzabile quasi come se Etta avesse dormito con il ragazzo. Etta gli appoggiò le mani sulle spalle, massaggiandolo con dolcezza. Erano fresche, piacevoli. «Ho tentato di confortarlo. Ho tentato di dirgli che forse è il caso, non il destino, che lo ha messo qui. Sai cosa ha risposto?» «Che non esiste il caso, solo il destino.»
Le mani di Etta rimasero immobili. «Come lo sai?» «È una delle pietre miliari degli insegnamenti di Sa. Che il destino non è riservato a pochi eletti. Ognuno ha un destino. Riconoscerlo e adempierlo è lo scopo della vita di un uomo.» «A me sembra un insegnamento gravoso.» Kennit scosse la testa contro il cuscino. «Se un uomo lo crede, sa di essere importante come chiunque altro. Sa anche di non essere più importante di chiunque altro. Questo crea un'immensa eguaglianza.» «E l'uomo che ha ucciso oggi?» chiese Etta. Kennit sbuffò sommessamente. «È quello il dilemma di Wintrow, vero? Accettare che qualcuno è destinato a morire per mano sua, e che lui è destinato a impugnare il coltello. Con il tempo vedrà che non è stato lui a uccidere quell'uomo. Sa li ha fatti incontrare, per adempiere ai loro destini.» Etta parlò esitando. «Allora anche tu credi in Sa e nel suo insegnamento?» «Quando si accorda con il mio destino» le disse Kennit altero, e poi rise. All'improvviso si sentiva inspiegabilmente bene. «Ecco cosa faremo per il ragazzo. Avvieremo la ricostruzione di Borgo Baratto, e poi porteremo Wintrow all'Isola degli Altri. Lo farò camminare lungo la spiaggia, e chiederò a un Altro di predire il suo futuro in base a quello che trova.» Sorrise nell'oscurità. «Poi io gli dirò cosa significa.» Si girò e rotolò fra le braccia tese di Etta. Almeno un barile della loro carne di maiale salata era andato a male. I barili che contenevano grassi pezzi di carne immersa in acqua salata avrebbero dovuto essere impermeabili. L'odore significava che il barile si era rotto, durante il caricamento o a causa dello spostamento di altri barili. La perdita di acqua salata e carne marcia non solo puzzava, ma avrebbe contaminato qualunque altro cibo con cui fosse venuta in contatto. La puzza veniva da una stiva a prua, con poco spazio per stare in piedi. Le scorte di cibo in barilotti, barili e casse la riempivano fino all'orlo. Bisognava spostare il carico, eliminare il barile incriminato e ripulire o scartare qualsiasi cosa fosse entrata in contatto con la perdita. Brashen aveva scoperto la puzza in uno dei suoi giri per la nave. Aveva dato il compito a Lavoy, che lo aveva passato a lei. Althea aveva messo all'opera due uomini all'inizio del suo turno. Mentre l'alba sfiorava il volto del mare, scese a vedere come andavano.
La vista la fece infuriare. Solo metà del carico era stato spostato. La puzza era forte come non mai; non c'era alcun segnale che il barile fosse stato scoperto, o che fosse stata fatta pulizia. I due ganci da carico che andavano usati per spostare barilotti e casse erano affondati in una trave del soffitto. Lop sedeva su un barile, la figura alta e ossuta curva su una cassa davanti a lui, i pallidi occhi azzurri fissi su tre gusci di noce. Davanti a lui stava Artu, le dita sporche che guizzavano e danzavano sui gusci. «Dov'è, dov'è» canticchiava, l'inno di ogni vecchio imbroglione, mentre spostava abilmente i gusci. La cicatrice liscia del vecchio marchio sulla guancia rifletteva la luce morente della lanterna. Quello era lo stupratore segnalato da Brashen. Lop era solo stupido e ozioso, ma Althea odiava Artu. Non gli si avvicinava mai, se poteva evitarlo. L'uomo aveva occhietti luccicanti, scuri come una tana di ratto, e una bocca corrugata, sempre umida. Era così intento a depredare Lop dei suoi soldi che non si era accorto di lei. Fermò i gusci con uno svolazzo, e la lingua veloce bagnò di nuovo le labbra. «E dov'è il fagiolo?» chiese, sollevando le sopracciglia. Althea avanzò e diede un calciò alla cassa, facendo saltare tutti i gusci. «Dov'è il barile con la carne marcia?» ruggì. Lop girò gli occhi sbalorditi su di lei. Poi indicò i gusci rovesciati. «Non c'è nessun fagiolo!» esclamò. Althea lo afferrò per il colletto della camicia sulla nuca e lo scrollò. «Non c'è mai!» Lo spinse di lato. Lop la fissò a bocca aperta. La donna si voltò verso Artu. «Perché non avete trovato quel barile e non lo avete ripulito?» Artu si mise in piedi, leccandosi nervosamente le labbra. Era piccoletto, con le gambe storte, più rapido che forte. «Perché non c'è. Io e Lop abbiamo spostato tutto il carico nella stiva, lo abbiamo controllato tutto e non abbiamo trovato niente. Giusto, Lop?» Lop la guardò, i grandi occhi pallidi spalancati. «Non lo abbiamo trovato, signora.» «Non avete spostato tutto il carico. Sento l'odore! Voi no?» «Solo puzza di nave, tutto qui. Tutte le navi puzzano così.» Artu scrollò lentamente le spalle. «Quando sarai stata su tante navi come me...» cominciò in tono condiscendente, ma Althea lo interruppe. «Questa nave non puzza così. E non puzzerà mai finché sarò ufficiale. Ora spostate quel carico, trovate la carne marcia e ripulite.» Artu si grattò una bolla sul collo. «Il nostro turno è quasi finito, signora. Forse lo troverà il prossimo turno.» Annuì soddisfatto e diede a Lop una
spintarella allusiva. Il marinaio allampanato imitò il sogghigno di Artu. «Ho notizie per te, Artu. Tu e Lop siete di turno quaggiù finché non lo trovate e ripulite. Chiaro? Ora cominciate a spostare il carico.» «Non è giusto!» gridò Artu alzandosi. «Abbiamo lavorato durante il nostro turno! Ehi, torna qui! Non è giusto!» Le sue dita luride le afferrarono la manica. Althea tentò di liberarsi, ma la presa era straordinariamente forte. Rimase raggelata. Con quell'uomo non voleva rischiare una lotta che poteva non vincere, né una camicia lacerata. Incontrò il suo sguardo con occhi socchiusi. «Mollami» disse piatta. Lop la fissava, occhi sbarrati come un ragazzo, mordendosi il labbro inferiore. «Artu, è il secondo ufficiale» bisbigliò nervosamente. «Ti caccerai in un grosso guaio.» «Ufficiale» ridacchiò Artu in disgusto. Rapido come il salto di una pulce, spostò la presa dalla manica al braccio. Le dita sporche le morsero la carne. «Non è un ufficiale, è una donna. E lo vuole, Lop. Lo vuole proprio.» «Lo vuole?» chiese Lop con voce fioca. Guardò Althea, costernato. «Non urla» fece notare Artu. «Sta qui, e aspetta. Penso che sia stanca di prenderselo dal capitano.» «Lo andrà a raccontare» si lagnò Lop, confuso. Ci voleva così poco a confonderlo. «Nah. Griderà e si dibatterà un po', ma la lasceremo con un sorriso. Vedrai.» Artu la guardò con lussuria. Si leccò la piccola bocca grinzosa. «Giusto, ufficialetta?» la provocò. Sogghignò, mostrando denti bordati di marrone. Althea lo fissò dritto negli occhi. Non poteva farsi vedere spaventata. La sua mente correva. Anche se avesse gridato, laggiù nessuno l'avrebbe sentita. Forse la nave era consapevole di lei, ma non poteva contare su Paragon. Negli ultimi tempi era così sinistro, immaginava serpenti e tronchi galleggianti e gridava avvertimenti improvvisi, e probabilmente nessuno gli avrebbe dato retta. Althea non avrebbe gridato. Artu la fissava con occhietti scintillanti. Gli sarebbe piaciuto sentirla urlare, comprese Althea. Entrambi sapevano che una volta finito con lei l'avrebbe uccisa. Avrebbe tentato di farlo sembrare un incidente, una cassa caduta o simili. Lop avrebbe detto tutto quello che voleva Artu, ma Brashen non si sarebbe lasciato ingannare. Probabilmente li avrebbe eliminati entrambi, ma Althea non sarebbe stata lì a vederlo. Quei pensieri le precipitarono attraverso la mente in meno di un respiro.
Era sola. Aveva giurato a Brashen che poteva gestire quell'equipaggio. Era davvero così? «Lasciami andare, Artu. Ultima possibilità» gli disse con calma. Riuscì a tenere la voce ferma. Artu le diede uno schiaffo con il dorso della mano libera, un colpo così rapido che Althea non lo vide arrivare. Le fece scattare indietro la testa. Rimase assordata per un istante, appena consapevole di Lop che pregava angosciato «Non colpirla» e Artu: «Nah, è così che le piace. Violento.» Le mani del marinaio si arrampicarono sul suo corpo, tirandole la camicia fuori dai pantaloni. La repulsione al tocco la rianimò. Lo colpì con tutta la sua forza, pugni che Artu non sembrava sentire. Il suo corpo era duro come legno. Rise dei suoi sforzi, e Althea conobbe un istante di disperazione. Non riusciva a fargli male. Doveva fuggire, ma la presa sulle sue braccia era più stretta di una morsa, e la confusione del carico rendeva impossibile una fuga rapida. Artu la spinse contro una cassa. Le lasciò un braccio per afferrare il colletto della camicia. Tentò di lacerarlo, ma il cotone robusto resistette. Con la mano libera, Althea lo colpì duramente verso l'alto alla base delle costole. Pensò di sentirlo trasalire. Questa volta vide arrivare il colpo. Gettò la testa di lato e il pugno colpì la cassa dietro di lei invece del suo viso. Udì il legno spaccarsi per la forza del colpo, e il grido rauco di Artu. Sperò che si fosse rotto la mano. Tentò di cavargli gli occhi, ma lui scattò mordendole a sangue il polso. Persero l'equilibrio e caddero. Althea si contorse disperatamente, tentando di non finire sotto di lui. Crollarono sui fianchi fra casse e scatole. C'era poco spazio. Althea ritrasse il braccio e assestò due rapidi colpi duri nel ventre di Artu. Intravide Lop torreggiare su di loro. Il grosso stupido si batteva il petto per l'angoscia, gemendo a bocca spalancata. Non c'era tempo di pensare. Althea afferrò una manciata dei capelli di Artu e gli sbatté la testa contro il barilotto dietro di lui. Per un istante la sua presa diminuì. La donna lo rifece. Artu le diede una ginocchiata nello stomaco, togliendole il respiro. Le rotolò sopra e la schiacciò a terra. Con un ginocchio tentò di aprirle le gambe. Althea gridò di rabbia, ma non riusciva a tirare indietro le braccia per scaricare un pugno decente. Tentò di sollevare le gambe per dargli un calcio, ma era inchiodata. Artu rise, alitandole in faccia il fiato fetido. Althea l'aveva visto picchiare. Sapeva che avrebbe fatto male. Gettò indietro la testa il più lontano possibile, poi tentò di colpire quella di Artu. Lo mancò e sbatté la fronte contro i suoi denti che si spezzarono, ferendo-
la. Artu gettò un urlo stridulo e si scostò da lei, portandosi le mani alla bocca insanguinata. Althea seguì il suo movimento, colpendolo con tutte le sue forze, non curandosi di dove atterravano i pugni. Sentì una nocca slogarsi con un lampo di dolore, ma continuò a colpire mentre riusciva a tirarsi su. Una volta in piedi nello spazio confinato tra le gabbie, cominciò a prenderlo a calci. Quando Artu fu disteso su un fianco, rannicchiato e gemente, Althea si fermò. Si liberò la fronte dai capelli insanguinati e sciolti e si guardò attorno. Sembrava fossero passate ore, ma la lanterna guizzava ancora e Lop continuava a guardarli attonito. Althea non si era accorta di quanto fosse ebete. Si mordeva le nocche e quando incontrò gli occhi di Althea le gridò: «Sono nei guai, lo so, sono nei guai.» I suoi occhi contenevano sfida e paura. «Trova quel barilotto di carne rancida e gettalo fuori bordo.» Althea si fermò per trarre un altro respiro. «Ripulisci tutto. Poi il tuo turno è finito.» Si curvò all'improvviso, mani sulle ginocchia, e trasse diversi respiri profondi. Le girava la testa. Pensò che avrebbe vomitato, ma riuscì a trattenersi. Artu cominciava a raddrizzarsi. Althea gli diede un altro calcio, duro. Poi alzò la mano verso uno dei due ganci da carico. Afferrò l'uncino per il manico e con una rotazione lo staccò dalla trave. Artu girò la testa e la fissò con un occhio incrostato di sangue. «Sar, no!» imprecò. Si coprì la testa con le mani. «Non ti ho fatto niente!» Il dolore dei denti rotti sembrava averlo paralizzato. Aspettò che arrivasse il colpo. Lop emise un grido di orrore senza parole. Cominciò freneticamente a spostare casse e barilotti, cercando la carne guasta. In risposta, Althea afferrò la camicia di Artu e la trafisse con il gancio da carico. Poi si diresse verso la scala, trascinandoselo dietro con decisione. Artu scalciava e urlava e tentava di rimettersi in piedi. Althea si fermò e diede una torsione al manico del gancio. La tela della camicia si avvolse su sé stessa, bloccandogli le braccia contro il corpo. La donna lo trascinò su, quasi un peso morto dietro di lei. Sostenne con la rabbia la poca forza residua. Udiva Paragon gridare, ma non riusciva a distinguere le parole. A quel punto varie teste erano apparse al portello e guardavano dentro con curiosità. Erano del turno di Lavoy. Voleva dire che il primo ufficiale era probabilmente sul ponte. Althea non li guardò mentre si arrampicava su per i gradini, trascinandosi dietro Artu che si dibatteva. Mise tutta la sua determinazione nel raggiungere il ponte. Quando finalmente emerse, sentì i commenti sommessi dei marinai che
si chiedevano cosa stava succedendo. Quelli attorno al portello indietreggiarono. Mentre tirava su Artu, le esclamazioni divennero imprecazioni ammirate. Althea intravide Haff che la fissava con occhi sbarrati. Si diresse verso la murata di sinistra, trascinandosi dietro Artu. L'uomo gemeva e si lamentava: «Non le ho fatto niente, non le ho fatto niente!» Le sue lagnanze erano soffocate dalle mani che proteggevano i denti rotti e la bocca insanguinata. Lavoy li guardò con indifferenza dal suo posto alla murata di dritta. Brashen apparve all'improvviso sul ponte, camicia aperta e piedi nudi, i capelli slegati. Clef lo seguiva parlando freneticamente. Il capitano afferrò la situazione con uno sguardo e fissò inorridito il volto insanguinato e l'abbigliamento disordinato di Althea, ma solo per un istante. Poi cercò il primo ufficiale con lo sguardo. «Lavoy! Cosa succede qui?» ruggì. «Perché non sei intervenuto?» «Signore?» Lavoy parve confuso. Gettò uno sguardo ad Althea e Artu come se li avesse visti solo in quel momento. «Non era il mio turno, signore. Si direbbe che il secondo ufficiale abbia la situazione sotto controllo.» Indurì la voce in un tono autoritario: «Ho ragione? Puoi occuparti del tuo compito, Althea?» Althea si fermò e lo guardò. «Sto buttando fuori bordo la carne marcia, come avete ordinato. Signore.» Diede un altro mezzo giro al gancio. Per un momento tutti rimasero immobili. Lavoy trasferì lo sguardo interrogativo su Brashen. Il capitano scrollò le spalle. «Procedete.» Cominciò ad allacciarsi la camicia come se non fosse affar suo. Alzò gli occhi per guardare l'acqua e vedere quale tempo li attendeva. Artu ululò come un cane preso a calci e cominciò a lottare. Althea lo trascinò più vicino alla murata, chiedendosi se lo avrebbe fatto davvero. All'improvviso Lop apparve sul ponte. Portava due secchi; l'odore le disse cosa contenevano. «Ho trovato la carne cattiva, l'ho trovata» ruggì, superando Althea di corsa verso la murata. «Il barile era fracassato. Laggiù è pieno di schifezza, ma lo puliremo, vero, Artu? Lo puliremo.» Gettò una secchiata fuori bordo. Mentre sollevava il secondo secchio, la testa di un serpente emerse in superficie. Lop indietreggiò barcollando e urlando, e la creatura addentò la carne marcia prima che colpisse l'acqua. «Serpente! Serpente!» Paragon aggiunse il suo ruggito alla confusione improvvisa. Althea lasciò il gancio di carico. Artu si trascinò via dalla murata, tiran-
dosi dietro il manico del gancio rumoreggiante contro il ponte. Per un lungo istante Althea e il serpente si fissarono, occhi negli occhi. Le sue scaglie erano verdi come le foglie nuove di primavera, e gli occhi immensi, gialli come fiori di tarassaco. Ogni scaglia ne copriva altre due in un disegno preciso che costringeva lo sguardo a seguirlo. Le scaglie più grandi sulla schiena erano più larghe della sua mano, mentre attorno agli occhi erano più minute di chicchi di grano. Per un momento la bellezza dell'immenso animale la paralizzò. Poi il serpente spalancò fauci che avrebbero potuto ingoiare con facilità un uomo intero. Althea fissò una bocca spaventosamente rossa, bordata da file di denti. L'animale scosse il capo avanti e indietro con un ruggito interrogativo. La donna rimase immobile. Il serpente chiuse la bocca e la fissò. Althea colse un movimento con la coda dell'occhio. Un uomo accorreva con un arpione. Nello stesso istante Brashen gridò un avvertimento: «Non irritatelo! Lasciatelo in pace!» Althea si girò e si gettò su Haff. Il marinaio brandiva il lungo arpione come un'arma, gridando: «Io non ho paura!» Il suo pallore raccontava una storia diversa. Althea gli afferrò il braccio e tentò di fermarlo. «Vuole solo cibo. Lascialo in pace. Forse se ne andrà. Haff. Lascialo in pace!» Haff la scosse via con impazienza. Le mani ferite di Althea erano all'improvviso troppo dolenti per afferrarlo. Fu spinta via e lo guardò con orrore agitare l'uncino. «No!» ruggì Brashen, ma l'arpione era già in moto. Colpì l'animale sul muso, strisciando senza danno sulle scaglie sovrapposte finché l'uncino non giunse a una narice. Più che altro per caso, rimase agganciato e affondò nella carne. Con orrore Althea guardò la creatura gettare indietro la testa. L'arpione la seguì e Haff rimase attaccato con il coraggio insensato di un cane da combattimento. In un istante il serpente parve raddoppiare di dimensioni. Il collo si gonfiò, e una gorgiera immensa di punte velenose si drizzò all'improvviso attorno al muso e alla gola. Ruggì di nuovo, e questa volta dalle fauci si sprigionò un fine spruzzo di saliva. Dove colpì il ponte, il legno cominciò a fumare. Althea udì il grido d'angoscia di Paragon. La nuvola le punse la pelle come una scottatura. Haff urlò, sommerso in una nebbia di veleno. Lasciò l'arpione e si abbatté senza forza sul ponte, svenuto o morto. Il serpente inclinò all'improvviso la testa, occhieggiando l'uomo disteso. Poi la testa piombò verso Haff.
Althea era l'unica abbastanza vicina per agire. Anche se l'unica cosa che poteva fare era stupida, non poteva restare a guardare il serpente che divorava Haff. Spiccò un balzo e si aggrappò al manico di legno dell'arpione. Era corroso e scheggiato sotto le sue mani, per il respiro del serpente. Althea lo strinse e vi gettò il suo peso per allontanare la testa della creatura. Da qualche parte era apparso Lop. Scagliò un secchio di legno vuoto verso la testa del serpente e nel contempo afferrò le caviglie di Haff e lo trascinò indietro. Althea rimaneva l'unico obiettivo del serpente. Strinse la presa sull'arpione e spinse con tutta la sua forza. Si aspettava che il manico di legno cedesse in qualsiasi momento. Per un attimo la spinta e il dolore alla testa distolsero da lei la creatura. Emise un altro soffio che bucherellò il ponte di Paragon. Il veliero vivente gridò di nuovo. Dietro di lei altre voci si alzarono, Lavoy che ordinava di aumentare la velatura, gli uomini che urlavano di rabbia o terrore, ma soprattutto il grido stupito e furioso della nave. «Ti conosco!» ruggì Paragon. «Ti conosco!» Ambra gridò una domanda ma Althea non riuscì a capirla. Strinse disperatamente l'arpione. Il manico stava consumandosi fra le sue mani, ma era l'unica arma che aveva. Non seppe che Brashen l'aveva raggiunta finché il capitano non colpì il serpente con un remo. Era un'arma patetica contro quella creatura, ma era tutto quello che c'era nelle vicinanze. All'improvviso l'arpione si staccò dalla narice della creatura. Libero, il serpente scosse il capo crestato, schizzando veleno fumante sulla tolda. Mentre la testa calava verso di lei, Althea puntò l'arpione come una picca e caricò. Mirava al grande occhio, ma lo mancò quando il serpente girò la testa verso Brashen. La punta colpì solo una macchia di colore dietro all'articolazione della mandibola. Sbalordita, Althea la vide immergersi con facilità nella carne, come se avesse pugnalato un melone maturo. Con tutta la sua forza la spinse a fondo fin dove poteva. Il manico seguì la punta. Con una torsione, Althea lo incastrò nella carne. In preda al tormento, il serpente scagliò indietro la testa. «Vattene!» gridò Althea a Brashen, un avvertimento superfluo. Il capitano si era già chinato per rotolare via. Althea diede un ultimo strappo all'arpione. Il ferro lacerò la carne, e il veleno caldo e fumante corse giù lungo il collo del serpente. La creatura gridò, eruttando veleno e sangue dalle fauci spalancate. Scosse selvaggiamente la testa, strappandole l'arpione dalle mani insensibili. Althea cadde seduta sulla tolda e fissò impotente la creatura che si dibatteva. Parte del veleno cadde inoffensivo in mare, ma parte schizzò il
ponte e la fiancata di Paragon. La nave emise un urlo senza parole e un tremore attraversò il corpo di legno. Mentre il serpente ricadeva e affondava sotto le onde, Brashen già gridava di portare secchi, acqua di mare e spazzole. «Ripulite il ponte! Subito!» ruggì da dove si trovava. Aveva il viso scarlatto per la scottatura del veleno. Si piegava in avanti e indietro come se non riuscisse ad alzarsi. Althea temette che fosse rimasto accecato. Poi dalla prua venne un grido selvaggio che gelò il sangue di Althea. «Io ti conoscevo!» tuonò il Paragon. «E tu conoscevi me. Dai tuoi veleni, riconosco me stesso!» La sua risata feroce salì nel vento. «Il sangue è memoria!» Quanto può cambiare il mondo in una notte?, si chiese Ronica Vestrit. In piedi su una sedia nella vecchia stanza di Althea, guardando fuori dalla finestra, si scorgeva una vista parziale di Borgomago e del porto sopra alle cime degli alberi. Quel giorno, per quanto scrutasse, Ronica vedeva solo fumo. La città stava bruciando. Ronica scese rigidamente dalla sedia e raccolse le lenzuola dal letto di Althea. Intendeva fabbricare fagotti da portare con sé mentre fuggivano. Ricordava fin troppo della lunga camminata nel buio verso casa. Malta barcollava tra loro come un vitello azzoppato. Dopo qualche tempo, Selden era uscito dal suo stordimento e aveva cominciato a piangere. Gemeva senza posa, chiedendo di essere preso in braccio, come non faceva da anni. Nessuna di loro poteva portarlo. Ronica gli aveva afferrato la mano e lo aveva accompagnato, con l'altro braccio attorno alla vita di Malta. Keffria aveva afferrato l'omero della ragazza, aiutandola a camminare mentre teneva la mano ferita piegata sul petto. Era stato un viaggio eterno. Due volte erano stati superati da cavalieri, ma malgrado le loro grida di aiuto i cavalli erano scomparsi in un rimbombo di zoccoli. L'alba venne tardi, perché l'aria fumosa estendeva il dominio della notte sulla terra. Il buio era stato più misericordioso. La luce del giorno rivelò i vestiti stracciati e la carne scorticata. Keffria era a piedi nudi, le scarpe perse nell'incidente. Malta camminava a fatica nelle scarpette logore. La camicia lacera di Selden gli si appiccicava alla schiena spellata; sembrava che fosse stato trascinato da un cavallo. Malta aveva picchiato la fronte: il sangue si era asciugato in macabre strisce sul viso. Aveva gli occhi lividi e chiusi a fenditure. Ronica guardò gli altri e poteva immaginare il proprio aspetto.
Quasi non parlavano. A un certo punto Keffria osservò: «Mi sono dimenticata di loro. Il Satrapo e la Compagna, voglio dire.» A voce più bassa chiese: «Li avete visti?» Ronica scosse con lentezza la testa. «Mi chiedo che ne è stato.» In verità non se lo chiedeva. Non si preoccupava di nessuno in quel momento, se non della sua famiglia. Malta parlò a fatica, con le labbra gonfie. «I cavalieri li hanno portati via. Cercavano l'altra Compagna, e quando hanno scoperto che non ero io, mi hanno lasciata lì. Uno ha detto che comunque ero quasi morta.» Rimase di nuovo in silenzio, un silenzio che durò per il resto del cammino verso casa. Come una fila di mendicanti malridotti avanzarono zoppicando sul vialetto incolto verso Casa Vestrit, solo per trovare la porta sbarrata. Allora Keffria era scoppiata in lacrime, picchiando debolmente sulla porta in singhiozzi. Rache andò finalmente ad aprire, portando un ciocco di legna da ardere come arma improvvisata. In qualche modo da allora era passata mezza mattina. Le ferite erano state medicate e fasciate. I loro bei vestiti da ballo insanguinati erano ammucchiati nell'atrio. Entrambi i ragazzi erano a letto e dormivano profondamente. Ronica e Keffria si erano lavate e cambiate con l'aiuto di Rache, ma ancora non c'era riposo per loro. Le dita di Keffria si erano gonfiate dolorosamente. Solo Ronica e Rache erano in grado di radunare provviste e vestiti di ricambio per tutti. Ronica non era sicura di cosa stesse accadendo giù a Borgomago, ma quella notte cavalieri armati avevano portato via il Satrapo e la Compagna dalla carrozza e avevano lasciato loro a morire. La città bruciava. La foschia era troppo densa per vedere cosa accadeva nel porto. Ronica non aveva intenzione di aspettare che il caos venisse a bussare alla porta. Avevano la vecchia cavalla da sella e il pony grasso di Selden. Non potevano prendere molto, ma rimaneva ben poco di valore, rifletté amaramente Ronica. Avrebbero continuato a vivere. La Fattoria Ingleby era stata parte della sua dote. Ci sarebbero voluti almeno due giorni per arrivarci. Ronica si chiese cosa avrebbe pensato di lei la vecchia Terna, la custode. Non la vedeva da anni. Tentò di fingere che fosse un pensiero incoraggiante. Quando qualcuno picchiò alla porta, Ronica lasciò cadere le lenzuola in terra, nell'atrio. Voleva fuggire. Non poteva. Era sola fra qualunque cosa ci fosse fuori e i suoi bambini. Vide Rache giungere dalla cucina, brandendo il ciocco. Ronica corse nello studio. Il capitano Vestrit aveva avuto il vez-
zo di tenere una caviglia per impiombare sull'angolo della scrivania. C'era ancora. Ronica la afferrò. Poi andò alla porta e chiese: «Chi è là?» «Reyn Khuprus! Per favore. Fatemi entrare!» Ronica annuì a Rache, ma non depose la caviglia. La domestica tolse il chiavistello. Mentre la porta si spalancava, Reyn trasalì con orrore alla vista della vecchia malandata. «Sul mio onore, ho pregato che non fosse vero!» esclamò. «E Malta?» Ronica fissò il giovane delle Giungle della Pioggia. Indossava ancora l'elegante vestito da sera, ma puzzava di polvere e di fumo. Era stato in mezzo alla distruzione. «È viva» disse con voce inespressiva. «Davad Restart è morto. Anche il vetturino.» Reyn non sembrò ascoltarla. «Lo giuro, non lo sapevo. È arrivata al ballo in una carrozza a noleggio, me lo hanno detto tutti, una carrozza a noleggio. Pensavo che se ne andasse allo stesso modo. Per favore, per favore. Sta bene?» Ronica comprese. Il gelo l'avvolse. «I tuoi uomini l'hanno lasciata a morire. Anzi, le hanno detto che stava morendo. Questo dovrebbe farti capire le sue condizioni. Buona giornata, Reyn Khuprus.» Fece segno a Rache, che cominciò a chiudere. Reyn si scagliò di peso contro la porta. Rache non poteva resistergli. Il giovane entrò nella sala incespicando, poi si raddrizzò e le affrontò. «Per favore, per favore. C'è così poco tempo. Abbiamo allontanato le galee dall'imboccatura del porto. Sono venuto a prendere Malta, a prendervi tutti. Ora posso farvi uscire e portarvi sul Fiume. Lassù sarete al sicuro. Ma non c'è molto tempo. Il Kendry partirà presto, con o senza di voi. Le galee potrebbero tornare e chiudere il porto in qualsiasi momento. Dobbiamo andare subito.» «No» disse secca Ronica. «Penso che ci prenderemo cura di noi stessi, Reyn Khuprus.» Reyn scattò via da lei all'improvviso. «Malta!» gridò. Corse lungo il corridoio verso l'ala delle camere da letto. Ronica fece per inseguirlo, solo per aggrapparsi d'un tratto alla parete, con la testa che girava. Il suo corpo l'avrebbe tradita? Rache le prese il braccio e l'aiutò a seguire Reyn. Il giovane delle Giungle della Pioggia era impazzito. Ruggiva il nome di Malta precipitandosi per il corridoio, spalancando tutte le porte. Arrivò alla stanza di Malta nel momento in cui Keffria correva fuori dalla sua in fondo al corridoio. Reyn guardò dentro, emise un grido di angoscia e scomparve nella stanza.
«Non toccarla!» gridò Keffria, correndo verso la porta. Ma Reyn riapparve con Malta fra le braccia, avvolta in una coperta. Era bianca come le bende che le fasciavano la testa, gli occhi chiusi, la testa pesante contro di lui. «La porto via» disse Reyn con sfida. «Dovreste venire anche voi. Ma questa decisione sta a voi. Non posso costringervi a venire con me, ma non lascerò qui Malta.» «Non ne hai il diritto!» gridò Keffria. «È questo il nuovo stile del tuo popolo, rapire le proprie spose?» Reyn emise un'improvvisa risata selvaggia. «Per Sa, il suo sogno era premonitore! Sì! La porto via. Ne ho il diritto. 'Sangue o oro, il debito è dovuto.' La pretendo.» Balbettò le parole come un folle. La guardò in viso. «È mia.» «Non puoi! Il pagamento sarà dovuto solo...» «Presto, e non potrete certamente radunare il denaro necessario. La porto via, finché è ancora viva. Se è l'unico modo, lo farò. Venite con me, vi prego. Non lasciate che lei viva così questo momento.» Si girò ad affrontare Keffria. «Avrà bisogno di voi. E Selden non è al sicuro qui, se Chalced conquista la città. Volete vedere vostro figlio con un tatuaggio di schiavo sulla faccia?» Le mani di Keffria volarono a coprire la bocca con orrore. Guardò Ronica. «Mamma?» chiese. Ronica decise per tutti. «Prendete il ragazzo. Andate in fretta, non portate niente, andate e basta.» Dal portico Ronica li guardò andar via. Reyn reggeva Malta come un fagotto davanti a sé sul cavallo. Keffria cavalcava la vecchia cavalla, e uno stoico Selden sedeva sul vecchio pony grasso. «Mamma?» chiese Keffria un'ultima volta. «La cavalla può portare due di noi. Non è così lontano per lei.» «Andate. Andate subito» ribatté Ronica, come già aveva detto e ripetuto. «Io resto. Devo restare.» «Non posso lasciarti così!» gemette Keffria. «Devi. È il tuo dovere verso la famiglia. Ora vai. Vai! Reyn, portali via prima che l'unica opportunità scompaia.» Sottovoce aggiunse: «Se Borgomago deve finire nel sangue e nel fuoco, io sarò con lei. E devo pensare a seppellire Davad.» Rache rimase al suo fianco sotto il portico. Li guardarono finché non fu-
rono scomparsi. Poi Ronica sospirò pesantemente. Tutto era all'improvviso così semplice. Reyn li avrebbe fatti uscire dal porto, al sicuro. Ora doveva solo preoccuparsi di sé stessa, e da molto tempo aveva smesso di curarsi di quello che poteva succederle. Sentì un fievole sorriso salirle al viso graffiato. Si rivolse all'ex schiava accanto a lei e le prese la mano. «Bene. Finalmente un attimo tranquillo. Che ne dici di una tazza di tè?» chiese all'amica. Qualcuno bussò sonoramente alla porta della cabina. Althea gemette. Aprì un occhio. «Che c'è?» chiese dalla cuccetta. «Capitano vuole vederti. Ora.» La voce fanciullesca di Clef le arrivò attraverso la porta, resa solenne dall'ordine. «Ci mancava solo questo» borbottò Althea fra sé. Ad alta voce annunciò: «Arrivo.» Scese rigidamente dalla cuccetta. Era pomeriggio, ma le sembrava mezzanotte. Avrebbe dovuto dormire. Girò gli occhi impastati sulla stanzetta. Jek era di turno, e probabilmente Ambra era rimasta con Paragon. Althea lo aveva lasciato perdere, almeno per il momento. Dopo l'incidente con il serpente, la nave aveva delirato per qualche tempo, frasi che tormentavano Althea perché avevano quasi senso. «Il sangue è memoria» aveva proclamato. «Puoi spargerlo, puoi divorarlo, ma non puoi annullare ciò che contiene. Il sangue è memoria.» Lo aveva ripetuto finché Althea aveva creduto di impazzire, non per le parole ma per la sua incapacità di afferrarne il significato. Andava appena al di là della sua comprensione. Raccolse la camicia. In alcuni punti era intrisa del suo sangue, in altri era corrosa dal veleno del serpente. Il pensiero di rivestire di cotone grezzo il corpo indolenzito e coperto di vesciche le dava i brividi. Con un gemito si accovacciò per estrarre la sua borsa da sotto la cuccetta di Ambra. C'era una camicia di cotone leggero, una camicia 'da città'. La tirò fuori e la infilò sulla carne dolente. Alla fine Paragon si era assestato in un mormorio confuso. Poi era rimasto in silenzio, quel silenzio ostile e terribile che era la sua ritirata dal mondo. Ad Althea pareva quasi che ci fosse un sorriso sulle sue labbra, ma Ambra era in preda a una preoccupazione frenetica. Quando Althea l'aveva lasciata, la creatrice di perline sedeva sul bompresso e suonava il flauto. Filastrocche per bambini, le chiamava, ma Althea non le aveva mai sentite. Poi la ragazza era passata accanto alle squadre che lavavano il veleno e il sangue dai ponti bucherellati di Paragon. Si era fermata a meravigliarsi del
danno così rapido che aveva scavato solchi e avvallamenti in quel legno duro come il ferro. Poi era tornata in cabina ed era strisciata nella cuccetta. Quanto tempo prima? Non abbastanza. E ora Brashen aveva mandato Clef a svegliarla. Probabilmente voleva dirle come avrebbe dovuto affrontare la situazione. Ebbene, era prerogativa del capitano. Sperava solo che facesse in fretta, o gli si sarebbe addormentata davanti. Strinse la cintura dei pantaloni e andò ad affrontare il suo destino. Sulla porta della cabina di Brashen si scostò i capelli dal viso e infilò la camicia nei pantaloni. Desiderò invano di essersi lavata dopo la lotta, prima di andare a letto. Allora era sembrato troppo faticoso. Ormai era troppo tardi. Bussò forte e aspettò che Brashen le dicesse «Entra.» Chiuse la porta dietro di sé e poi lo fissò. Dimenticando sé stessa, esclamò: «Oh, Brashen!» Gli occhi scuri di Brashen risaltavano violentemente nel viso scarlatto. Enormi vesciche acquose campeggiavano sulle guance e sulla fronte come le verruche di un uomo delle Giungle della Pioggia. I resti laceri della camicia erano appesi a una sedia. Portava la camicia pulita aperta, come se non potesse sopportarne il contatto con la pelle. Mostrò i denti in una smorfia che voleva essere un sorriso. «Tu non hai un aspetto molto migliore» commentò. Accennò alla bacinella. «Ti ho lasciato dell'acqua calda nella brocca.» «Grazie» disse impacciata Althea, accettando la cortesia. Brashen le girò la schiena. La donna trattenne il respiro immergendo le mani ferite nell'acqua; poi, mentre il bruciore diminuiva, pensò di non aver mai provato una sensazione più bella. «Haff starà bene. A lui è andata peggio che a noi. Ho detto al cuoco di lavarlo con acqua dolce. Quasi non riusciva a sopportarlo, povero bastardo. È tutto pieno di vesciche sanguinose. Il veleno gli ha divorato i vestiti fino alla pelle, e gli ha fatto tutti quei danni. Gli rimarrà qualche cicatrice sulla sua bella faccia, sospetto.» Tacque, poi commentò: «Ha disubbidito ai tuoi ordini e ai miei.» Althea si mise il panno caldo sul viso. Brashen aveva uno specchio fissato al muro, ma lei non aveva ancora osato guardarsi. «Dubito che adesso se ne ricordi.» «Forse non adesso. Ma appena sarà fuori dal letto, se ne ricorderà. Se avesse lasciato il maledetto serpente in pace, forse sarebbe andato via. Le sue azioni hanno messo in pericolo la nave e l'equipaggio. Pensa di saperne di più di un ufficiale o del capitano. Disprezza la tua esperienza e la
mia. Ha bisogno di una lezione.» «Ma è un buon marinaio» fece notare Althea con riluttanza. Brashen non ebbe esitazioni. «Quando avrò finito con lui sarà un marinaio migliore. Un marinaio che sa obbedire.» Althea credette di sentire un lieve rimprovero nelle sue parole, perché non lo aveva insegnato lei a Haff. Si morse la lingua e si guardò allo specchio. Il viso sembrava scottato. Lo tastò leggermente con le dita; era rigido di piccole vesciche come ghiaia. Come le scaglie del serpente, pensò, e si perse per un momento nel ricordo della sua bellezza. «Tolgo Artu dal tuo turno e lo metto in quello di Lavoy» proseguì Brashen. Althea si irrigidì. Gli occhi di suo padre, neri di rabbia, la fissarono dallo specchio. Mantenne la voce fredda. «Non mi sembra giusto. Signore.» Ringhiò l'ultima parola tra i denti. «Neanche a me» concordò volentieri Brashen. «Ma ha implorato Lavoy in ginocchio, e lui finalmente ha ceduto, pur di sbarazzarsene. Lavoy gli ha promesso ogni lavoro sporco che poteva trovare sulla nave, e Artu ha pianto lacrime di gratitudine. Che accidenti gli hai fatto?» Althea si chinò sulla bacinella e si gettò una doppia manciata di acqua in faccia. Si strofinò con dolcezza. L'acqua gocciolò tinta di rosso. Althea esaminò il taglio all'attaccatura dei capelli; se lo era procurato andando a finire contro Artu. Parlò a denti stretti mentre lo lavava più accuratamente. «Il capitano non dovrebbe mai interessarsi troppo a queste cose.» Brashen emise una risata sommessa. «È buffo. Clef è venuto di corsa a cercarmi, e io sono salito con il cuore in gola. Paragon gridava che ti stavano ammazzando, così mi ha detto Clef. Poi sono arrivato, ed eccoti lì che trascinavi Artu con un gancio da carico. Mentre ti guardavo ho pensato: 'Respiro di Sa, cosa mi direbbe il capitano Vestrit se ora potesse vederla?'» Althea scorgeva la nuca di Brashen nello specchio. Aggrottò la fronte. Sarebbe mai riuscita a fargli capire che sapeva prendersi cura di sé stessa? Ricordò che Artu le aveva morso il braccio. Arrotolò la manica e imprecò in silenzio alla vista della fila disuguale di segni dei denti. Immerse le dita nel sapone di Brashen e la strofinò. Bruciava. Avrebbe preferito che l'avesse morsa un ratto. Brashen proseguì con voce più sommessa. «Riuscivo solo a pensare alla voce di Ephron Vestrit: 'Quando se ne occupa l'ufficiale, il capitano non dovrebbe neanche saperlo.' Aveva ragione. Lui non interferiva mai con me
quando sistemavo certe questioni a bordo della Vivacia. Anche Lavoy lo sa. Non avrei dovuto dire una parola.» Sembrava quasi che stesse scusandosi. «Lavoy non è così male» osservò Althea. «Sta migliorando» concordò saggiamente Brashen. All'improvviso incrociò le braccia «Me ne vado, se desideri lavarti più a fondo.» «No, grazie. Ho soprattutto bisogno di sonno. Apprezzo l'offerta. Non puzzo poi tanto, vero?» L'infelice commento le uscì dalle labbra prima che Althea ricordasse quanto Brashen avrebbe potuto prenderlo male. Un breve silenzio si levò come un muro. Althea aveva oltrepassato il limite. «Non puzzi mai» ammise quietamente Brashen. «Quella volta ero solo arrabbiato. E ferito.» Le dava ancora la schiena, ma lei lo vide alzare le spalle nello specchio. «Avevo pensato che ci fosse qualcosa tra noi. Qualcosa che...» «Stiamo meglio così» lo interruppe Althea in fretta. «Senza dubbio» ribatté Brashen, asciutto. Il silenzio proseguì. Althea si guardò le mani doloranti. Ogni nocca era gonfia. Quando piegò le dita della destra, fu come avere sabbia nelle giunture. Eppure si muovevano. Più per rompere il silenzio che per informarsi, chiese: «Se le dita si muovono vuol dire che non c'è una frattura, vero?» «Vuol dire che non c'è una frattura grave» la corresse Brashen. «Lasciami vedere.» Sapendo che era un errore, Althea si girò e gli porse le mani. Brashen si avvicinò e gliele prese fra le sue. Le mosse le dita e tastò le ossa. Scosse la testa toccando le nocche, e fremette quando vide i segni dei denti sul polso. Le lasciò una mano e le alzò il mento, guardandola criticamente. Althea si trovò a sua volta a esaminargli il viso. Brashen aveva vesciche perfino sulle palpebre, ma gli occhi scuri erano limpidi. Era un miracolo che non avesse perso la vista. Il colletto aperto della camicia mostrava le bolle sul torace. «Starai bene» le disse. Inclinò la testa e annuì fra sé. «Sei una dura.» «Probabilmente mi hai salvato la vita quando hai distratto quella cosa con il remo» ricordò all'improvviso Althea. «Sì. Sono pericolosissimo con un remo.» Le teneva ancora la mano. Senza preavviso la trasse più vicina. Quando si chinò a baciarla, Althea non si tirò indietro. Sollevò il viso. La bocca di Brashen era gentile. Althea chiuse gli occhi e rifiutò di essere saggia. Rifiutò di pensare.
Brashen interruppe il bacio. La tenne più vicina ma non l'abbracciò. Per un istante appoggiò il mento sulla sua testa. Parlò con voce profonda. «Hai ragione. So che hai ragione. Stiamo meglio così.» Sospirò pesantemente. «Questo non me lo rende più facile.» Le lasciò la mano. Althea non seppe pensare a una risposta. Non era facile neanche per lei, ma dirglielo lo avrebbe solo reso ancor più difficile, per entrambi. Brashen aveva affermato che era una dura. Lo dimostrò andando alla porta. «Grazie» disse piano, sulla soglia. Brashen non rispose e lei uscì. Superò Clef nel corridoio. Il ragazzo calciava un tallone nudo contro il muro e si morsicava il labbro inferiore. Althea aggrottò la fronte. «Guardare dal buco della serratura non è corretto» gli disse severamente. «Neanche basiare il capitano» rispose insolente il ragazzo. Scomparve con un ghigno in un lampo di piedi sporchi. 34 Oracolo «Non mi piace.» Vivacia parlò sommessamente, ma le parole pulsarono dentro Wintrow. Il ragazzo era disteso a pancia in giù sul ponte di prua, sfiorato dal primo sole. Aveva gettato via la coperta durante la notte afosa, ma teneva la camicia avvolta attorno alla testa. Il calore del sole calmava il dolore al braccio, ma la luce risvegliò il suo mal di testa. Ormai si era rassegnato. Doveva svegliarsi presto in ogni modo. Avrebbe solo voluto restare disteso. Tutti gli altri sembravano essersi ripresi da tempo dalle ferite subite a Borgo Baratto. Si sentiva un debole per patire ancora le conseguenze di un paio di colpi di bastone. Allontanò l'idea che i danni facessero più male perché aveva ucciso l'uomo che glieli aveva inflitti. Era una sciocca superstizione. Rotolò sulla schiena. La luce danzava sui suoi occhi perfino attraverso la camicia e le palpebre. A volte gli sembrava di scorgere figure nei disegni di luce e ombra. Strinse le palpebre, e verdi lampi serpeggiarono attraverso la sua visione come rapidi serpenti. Rilassò gli occhi, e il colore divenne più pallido e prese la forma di astri fiammeggianti. I giorni della tarda estate andavano calando, precipitando via uno dopo l'altro mentre l'anno li conduceva inesorabilmente verso l'autunno. Era successo così tanto in una manciata di mesi. Quando avevano lasciato Borgo Baratto, mezza dozzina di strutture variegate erano già sorte dalle
ceneri, costruite in legno vecchio e nuovo. Una torre di legno alta come l'albero di una nave era già munita di una squadra, mentre attorno prendeva lentamente forma una torre di pietra. Il popolo chiamava Kennit re. Era un modo affettuoso, non solo un titolo. «Chiedete al re» si consigliavano a vicenda, e accennavano all'uomo alto con una gamba di legno e il rotolo di carte sempre sotto il braccio. L'ultima cosa che avevano visto di Borgo Baratto era stata la bandiera del Corvo che sventolava audacemente dal pennone sulla torre. Il motto «Qui Per Restare» era ricamato sotto l'ala distesa e il becco rapace dell'uccello. Vivacia ora era ancorata a prua e a poppa nella piccola Baia dell'Inganno di fronte all'Isola degli Altri. La marea si gonfiava attorno a loro. Kennit aveva detto che era l'unico ancoraggio sicuro dell'isola. Quando la marea era al culmine lui e Wintrow intendevano lasciare la nave e remare fino alla spiaggia. Erano lì per cercare l'oracolo. Kennit aveva insistito che Wintrow percorresse la Spiaggia del Tesoro. Più lontano lungo la costa, la sagoma della Marietta era appena visibile in un banco di nebbia fluttuante. Li avrebbe sorvegliati a distanza, avvicinandosi solo se sembravano in difficoltà. Lo strano clima agitava tutti. Guardare il mare era come scrutare da lontano un mondo diverso. La Marietta entrava e usciva dalla nebbia come un fantasma; lì nella piccola baia tutto era calda luce del sole senza vento. Il silenzio chiudeva le orecchie di Wintrow e lo rendeva assonnato. «Non mi piace stare qui» insisté la nave. Wintrow sospirò. «Neanche a me. Ho sempre temuto auspici e portenti, anche se certi li trovano emozionanti. Al monastero alcuni degli accoliti giocavano con cristalli e semi, gettandoli e leggendo il futuro. I sacerdoti lo tolleravano, più o meno. Alcuni erano divertiti, dicevano che avremmo capito meglio crescendo. Almeno uno disse che era più sicuro giocare con coltelli. L'istinto mi portava a essere d'accordo con lui. Tutti noi stiamo sull'orlo del futuro; perché avventurarsi nel precipizio? Credo che esistano veri oracoli in grado di guardare avanti e vedere dove uno è destinato ad andare. Ma penso anche che ci sia un pericolo in...» «Non è quello» lo interruppe la nave, brusca. «Di oracoli non so niente. Ricordo questo luogo.» Una nota di disperazione serpeggiò nella sua voce. «Ricordo questo luogo, ma so che non sono mai stata qui. Wintrow. È un tuo ricordo? Sei già stato qui?» Wintrow pose le mani sulla tolda, aprendosi a lei. Cercò di essere confortante. «Io no, ma Kennit sì. Ti sei avvicinata a lui. Forse sono i suoi
ricordi che ora si mescolano ai tuoi.» «Il sangue è memoria. Il suo sangue è filtrato in me, e conosco il suo ricordo di trovarsi qui. È il ricordo di un uomo. Ma l'ultima volta che sono stata in queste acque, scivolavo rapida e lucente. Ero nuova e giovane. Ho cominciato qui, Wintrow. Ho cominciato qui, non una ma molte volte.» Era turbata. Wintrow si tese verso di lei, e avvertì le ombre rapide di ricordi così antichi che non poteva capirli. Gli sfuggirono, sfumati ed elusivi come i disegni del sole sotto le palpebre. Quelli che intravedeva lo agitavano. Li conosceva anche lui. Ali contro il sole. Sagome che scivolavano nell'acqua profonda, incorniciate di luce verde. Erano le immagini dei suoi sonni più profondi, forme febbrili troppo brillanti e dure per uscire allo scoperto. Tentò di mascherare il disagio. «Come puoi aver cominciato molte volte?» le chiese con dolcezza. Vivacia si spinse i lucenti capelli neri via dal viso e si premette le tempie come per calmare un dolore. «È tutto un cerchio. Un cerchio che gira. Nulla si ferma, nulla è perso, e tutto procede a spirale. Come il filo su un rocchetto, Wintrow. Gira e gira, in cerchi concentrici, eppure è sempre lo stesso pezzo di filo.» Rabbrividì all'improvviso nel sole, circondandosi con le braccia. «Questo non è un buon posto per noi.» «Non resteremo a lungo. Non più di un ciclo di marea. Sarà...» «Wintrow! È ora di andare!» La voce di Etta lo interruppe. Il ragazzo accarezzò il legno magico che rivestiva la tolda. «Andrà tutto bene» l'assicurò. Balzò in piedi e corse a raggiungere gli altri, svolgendo la camicia dalla testa. La infilò e la cacciò nei pantaloni. Malgrado le sue riserve, il cuore gli batteva più veloce alla prospettiva di sbarcare sull'Isola degli Altri. Kennit osservò il viso di Wintrow mentre vogava. Le tracce del suo dolore erano visibili - un tocco di pallore attorno alla bocca, un velo lucente di sudore sulla fronte - ma il ragazzo non si lamentava. Bene. Etta sedeva sulla panca accanto a Wintrow e anche lei manovrava un remo. Tenevano il ritmo degli altri due rematori. Kennit sedeva a prua, dando le spalle alla spiaggia. Gettò uno sguardo alla Vivacia. La sicurezza della nave era in mano a lei stessa, tanto quanto all'uomo che Kennit aveva lasciato al comando. Jola era il nuovo primo ufficiale. Aveva l'ordine diretto di rimettersi alla saggezza della nave in caso di disaccordo. Era un ordine bizzarro, ma Kennit aveva ignorato la perplessità sul viso dell'uomo. Con il tempo, se Jola dimostrava il suo valore, forse Kennit avrebbe avuto più fiducia in
lui. Gli era dispiaciuto lasciar andare Brig, ma questi si era guadagnata una nave sua. Kennit gli aveva dato la nave che erano riusciti a risollevare dal porto di Borgo Baratto, insieme a una buona somma di denaro. L'ordine era di procurarsi legname e assumere alcuni tagliapietre per la torre, poi fermare qualche nave schiavista e rimpinguare la popolazione di Borgo Baratto. La maggior parte del nuovo equipaggio di Brig veniva da Borgo Baratto; Kennit aveva scelto uomini e donne che avevano famiglia in paese, per essere sicuro che la nave non fosse tentata di abbandonare la missione. Annuì, lieto di come aveva organizzato tutto. L'unico fattore inaspettato erano i nuovi legami di Sorcor con Borgo Baratto. Quando avevano lasciato il paese, Alisso era ormai incinta. Sorcor voleva già tornare non appena finita la missione all'Isola degli Altri. Kennit aveva dovuto ricordargli severamente che come uomo di famiglia doveva guadagnarsi da vivere. Non poteva ritornare da Alisso con le tasche vuote, vero? Soprattutto poiché Sincure Faldin era stato fuori città quando la nave schiavista aveva colpito. Lui e i suoi figli potevano tornare in qualsiasi momento. Sorcor doveva essere pronto a mostrare al padre di Alisso che sapeva provvedere bene a sua figlia. Quella considerazione aveva riacceso il fervore dell'uomo per la pirateria con una fierezza che neanche Kennit si era aspettato. In Sorcor c'era davvero più di quanto il capitano sospettasse. La prua della scialuppa grattò contro la sabbia nera della spiaggia, riportando Kennit al presente. Il pirata contemplò la piccola baia scura mentre i rematori saltavano giù e trascinavano la barca sulla spiaggia. Pareti di roccia e sempreverdi circondavano la spiaggetta. Poco era cambiato dall'ultima visita. Le ossa di un grande animale incrostate di melma verde erano incastrate fra gli scogli. Le radici di un albero sulla rupe avevano ceduto; ora lo scuro sempreverde penzolava con la punta nella sabbia, i rami morenti aggrovigliati di alghe. Un sentiero stretto scalava la rupe attraverso una fessura nel muro nero di pietra. Kennit si calò sulla spiaggia. Viscide alghe rigonfie, mitili blu e cirripedi bianchi sui lucenti scogli neri erano un appoggio infido per la gruccia. Kennit gettò un braccio sulle spalle di Etta in un finto gesto di affetto. «Etta e Wintrow verranno con me. Voi due, «spettateci qui.» I rematori mormorarono a disagio il loro assenso mentre Kennit osservava il sentiero ripido senza entusiasmo. Aveva di fronte una lunga escursione su una pista pietrosa. Per un attimo dubitò della saggezza della deci-
sione. Poi incrociò lo sguardo di Wintrow. Il ragazzo era nervoso, ma l'anticipazione danzava nei suoi occhi. In una breve fitta, Kennit provò di nuovo quel senso di collegamento. Da ragazzo era stato così simile a Wintrow. A volte aveva avvertito quella stessa corrente di entusiasmo, di solito quando avvistavano una nave particolarmente ricca. Poi il lieve sorriso del pirata si trasformò in una smorfia di disgusto. Rifiutò quel ricordo. No. Non aveva mai davvero diviso nulla con Igrot. Dopo tutto quello che l'uomo gli aveva fatto, non provava niente per la sua memoria se non sdegno. «Andiamo» disse brusco, facendo trasalire leggermente Wintrow. Si avviò sullo stretto sentiero, appoggiandosi a Etta. Quando raggiunsero la cresta della prima collina, Kennit aveva la camicia incollata al petto per il sudore. Dovette fermarsi a riposare. Era il giorno, si disse. Era più caldo dell'altra volta. Sotto gli alberi il calore divenne più opprimente malgrado l'ombra. Il sentiero sassoso che conduceva attraverso il dominio degli Altri era curato con la solita precisione. L'ultima volta che era passato, l'amuleto al suo polso gli aveva detto che un incantesimo sul sentiero impediva ai viaggiatori di deviare. Ora, mentre gettava uno sguardo nelle ombre verdi della foresta lussureggiante, pensò che fossero sciocchezze. Chi avrebbe voluto deviare da un sentiero diritto e piano per avventurarsi in quel labirinto frondoso? Prese il fazzoletto e si asciugò il viso e il collo. Quando si guardò attorno, si accorse che gli altri due lo aspettavano. Li guardò torvo. «Ebbene? Siete pronti? Andiamo avanti.» La ghiaia del sentiero si spostava imprevedibilmente sotto la gruccia e la gamba di legno. La piccola lotta incessante per correggere l'equilibrio moltiplicava per lui la distanza mentre il sentiero scendeva a tornanti da quella collina e risaliva la successiva. Sulla cima della seconda altura, quando si fermò a prendere fiato, giunse d'un tratto a una conclusione. «Non mi vogliono qui» disse ad alta voce. Gli alberi parvero echeggiare le sue parole, concordando. «Gli Altri me lo rendono difficile, tentano di allontanarmi. Ma io non mi arrendo. Wintrow avrà il suo oracolo.» Quando alzò di nuovo il fazzoletto scorse l'amuleto legato al polso, fisso in un sorriso buffonesco, bocca spalancata e lingua fuori. Lo derideva. Di proposito gli grattò la fronte con l'unghia del pollice, ma come sempre il legno duro come ferro lo sfidò. Il viso dell'amuleto non batté ciglio. Kennit alzò lo sguardo sugli altri due, che lo fissavano costernati. Passò il pollice sull'amuleto con indifferenza, come per spolverarlo.
Prese una decisione difficile. «Wintrow. Vai avanti. Penso che sia meglio per te percorrere la Spiaggia del Tesoro da solo, senza la distrazione della mia presenza. Potrei inavvertitamente spingerti a raccogliere qualcosa che non eri destinato a scoprire. Non voglio influenzare la profezia. Vai, ora. Etta e io saremo là per il pronunciamento dell'Altro. È tutto quello che importa davvero. Ora vai.» Wintrow sembrava incerto. Scambiò uno sguardo con Etta, che diede una piccola alzata di spalle. Kennit sentì crescere la furia. «Metti in dubbio il mio ordine? Vai!» Il ruggito spedì il ragazzo di corsa sul sentiero. «Bene» Kennit disse con soddisfazione. Scosse la testa. «Wintrow deve imparare due cose da me: obbedire, ed essere capace di agire da solo.» Ancora una volta si infilò la gruccia sotto l'ascella. «Seguimi. Non troppo in fretta, perché intendo lasciare a Wintrow tempo sufficiente sulla spiaggia da solo. Queste cose non vanno fatte in fretta.» «Direi proprio di no» concordò Etta. Gettò uno sguardo sulla foresta. «Questo è un luogo strano. Di rado ho visto tanta bellezza. Eppure si chiude di fronte a me.» In preda a una specie di brusco timore, si mosse per prendergli il braccio libero. Kennit scosse la testa. Donne irresolute. Si chiese perché l'amuleto lo avesse spinto a portarla con sé. Non che avesse consultato l'amuleto su quell'azzardo; la maledetta cosa si era ostinata a offrire la sua opinione, non una volta ma di continuo. «Porta Etta, devi portare Etta con te» lo aveva esortato. E ora eccola lì. Avrebbe dovuto prendersi cura di lei, suppose. «Vieni con me» le disse con fermezza. «Se stai sul sentiero, nulla ti farà del male.» Wintrow fuggì. Non da Etta e Kennit; si sentiva un mezzo codardo per averli abbandonati là. Fuggiva dalla foresta stessa, che lo teneva prigioniero come un topo in trappola. Fuggiva dalla bellezza opprimente e bizzarra dei fiori minacciosi e delle fragranze acute che lo tentavano e lo respingevano. Fuggì anche dal bisbigliare delle foglie che il respiro caldo del vento spingeva a spettegolare della sua morte. Corse con il cuore che pulsava nel petto più per la paura che per la fatica. Corse finché il sentiero non si aprì su un largo pianoro. Davanti a lui c'era all'improvviso l'arco blu del cielo sul mare aperto. Una spiaggia a mezzaluna si apriva incorniciata alle estremità da rupi frastagliate. Wintrow si arrestò, ansimando, chiedendosi
cosa dovesse fare. Kennit gli aveva detto ben poco. «È semplice. Cammina lungo la spiaggia, raccogli qualunque cosa ti interessi, e alla fine della spiaggia un Altro ti saluterà. Ti chiederà il pezzo d'oro. Daglielo; basta metterglielo sulla lingua. Poi ti dirà cosa prevede per te.» Kennit aveva abbassato la voce confidando in tono scettico: «Alcuni affermano che c'è un Oracolo sull'isola. Una sacerdotessa, dicono certi, una dea prigioniera, dicono altri. Secondo la leggenda conosce tutto il passato, tutto quello che è stato. Sapendo tutto ciò che è stato prima, può predire il futuro. Dubito che sia vero. Non ho visto niente del genere quando sono stato là. L'Altro ci dirà ciò che abbiamo bisogno di sapere.» Quando Wintrow aveva tentato di chiedere ulteriori dettagli, Kennit era divenuto impaziente. «Wintrow, smetti di tentennare. Quando viene il momento saprai cosa fare. Se potessi dirti tutto quello che troverai e farai sull'isola, non avremmo bisogno di andarci. Non puoi sempre dipendere dagli altri perché vivano e pensino per te.» Wintrow aveva chinato la testa e aveva accettato umilmente il rimprovero. Kennit gli parlava così sempre più spesso. A volte Wintrow sentiva che l'uomo lo addestrava per qualcosa, ma non sapeva bene cosa. Dopo Borgo Baratto aveva accettato che in Kennit c'era molto più di quanto avesse mai sospettato. Aveva tallonato Kennit per tutto un lungo pomeriggio, trascinando una borsa di pioli e un mazzuolo. Kennit misurava le distanze con i passi, e faceva un buco con la gamba di legno dove voleva che ogni piolo fosse conficcato. Alcuni delimitavano i bordi di una strada, altri gli angoli delle case. Alla fine, quando si erano voltati indietro, Kennit era rimasto come paralizzato. Accanto a lui, Wintrow aveva tentato di scorgere quello che vedeva. Kennit aveva rotto il silenzio. «Qualsiasi idiota può bruciare una città. Dicono che Igrot l'Audace ne abbia bruciata una ventina.» Uno sbuffo di disprezzo. «Io ne fonderò cento. Non sarò ricordato da cumuli di cenere.» Allora Wintrow lo aveva accettato come un uomo con una visione. E anche di più. Era uno strumento di Sa. Il ragazzo esaminò la scena. Kennit gli aveva detto di camminare lungo la spiaggia. Da dove cominciare? Aveva importanza? Con un'alzata di spalle, rivolse il viso al vento e cominciò a camminare. La marea stava ancora calando. Una volta giunto all'estremità della mezzaluna si sarebbe girato e avrebbe cominciato la ricerca. Avrebbe percorso l'intera spiaggia
in cerca del suo destino. Il sole brillante gli picchiava in testa. Era stato stupido a non portare un fazzoletto, borbottò. Tenne gli occhi sulla spiaggia mentre camminava, ma non vide nulla fuori dell'ordinario. Grovigli di alghe nere e sottili, gusci di granchio vuoti, penne bagnate e pezzi di legno indicavano i limiti della portata della marea. Se oggetti come quelli dovevano predire il suo futuro, dubitava che le profezie sarebbero state rivoluzionarie. Verso la punta della spiaggia a mezzaluna, la sabbia lasciava il posto a formazioni di pietra nera. L'altopiano dietro di lui raggiungeva l'altezza dell'albero di una nave e mostrava le sue fondamenta di ardesia e scisto. La marea si era ritirata del tutto, scoprendo le distese di roccia nera della spiaggia. Le superfici incrinate e bucherellate ospitavano minuscole pozze piene di vita. Wintrow era sempre stato affascinato da quei piccoli mondi. Gettò uno sguardo indietro verso il sentiero che usciva dalla foresta. Ancora nessuna traccia di Kennit ed Etta. Aveva tempo. Si avventurò sugli scogli, avanzando con attenzione. Le alghe sotto i piedi erano lisce e traditrici, e una caduta lo avrebbe fatto piombare in mezzo a cirripedi, mitili blu e telline. Gli stagni isolati ospitavano anemoni e stelle marine. Minuscoli granchi fuggivano da un'oasi all'altra. Un gabbiano lo raggiunse nella sua ispezione. Wintrow si inginocchiò brevemente vicino a una pozza. Anemoni rossi e bianchi fiorivano nelle acque basse. Un tocco del suo dito mosse la superficie dell'acqua immobile. In un lampo, i petali delicati della creatura si ritirarono. Wintrow sorrise, si alzò e proseguì. Il sole caldo sulla schiena alleviava il dolore alla spalla. Non c'era suono tranne il vento, l'acqua e i gabbiani. Aveva quasi dimenticato il semplice piacere di camminare su una spiaggia isolata in una bella giornata. Non si accorse di aver oltrepassato il promontorio finché non gettò uno sguardo indietro. Non vedeva più la spiaggia. Un esame delle rupi sopra di lui gli mostrò che rimanere intrappolato lì dalla marea al flusso sarebbe stata morte certa. Si levavano nere e lisce. Tranne... Fece un passo indietro dalla rupe e alzò lo sguardo. C'era una fessura, o forse qualcosa di più. Un sentiero stretto e ripido risaliva lungo la parete di roccia. Non era molto alto, non più dell'altezza di due uomini. Prima di aver considerato davvero se era saggio, lo aveva imboccato. Se era davvero un sentiero e non un caso di natura, qualsiasi cosa lo avesse creato era più agile di lui. Non era largo abbastanza per camminarci comodamente; Wintrow doveva rivolgersi verso la pietra e procedere di
lato. Saliva ripido lungo la parete di roccia. Splendeva sotto i piedi con limo luccicante come la pista essiccata di una lumaca. Un momento sembrava sdrucciolevole, poi appiccicoso. All'improvviso sembrava più alto di quanto fosse apparso dalla spiaggia; se Wintrow fosse precipitato si sarebbe schiantato fra pietre e cirripedi. Eppure era arrivato fin lì, e avrebbe soddisfatto la sua curiosità. Trovò una rientranza improvvisa nella pietra, l'imboccatura di un camino. Vi entrò e trovò la via bloccata da sbarre di metallo. Si avvicinò per guardare dentro. Lo stretto camino nella roccia arrivava fino alla sommità della rupe, e la luce del sole scendeva timidamente dall'apertura. Qualcuno aveva scalpellato e scavato una caverna all'interno, non più grande di una carrozza. Il pavimento di pietra scendeva bruscamente. L'acqua di un'alta marea era intrappolata in uno stagno buio e immobile. Wintrow scorgeva la luce riflessa sulla superficie. Qual era lo scopo delle sbarre? Tenere la gente fuori, o tenere qualcosa dentro? Wintrow ne afferrò una e tentò di scuoterla. Non si spostò, ma poteva girarla. La sbarra grattò contro la pietra, e all'improvviso la superficie dello stagno eruttò. Wintrow balzò indietro così in fretta che quasi cadde di sotto. La piscina era più profonda di quanto sembrasse, per contenere quella creatura. Mentre lo guardava con immensi occhi dorati, Wintrow si fece abbastanza coraggio per avventurarsi di nuovo alle sbarre. Le afferrò e fissò la creatura. Il serpente marino confinato nella caverna era striminzito, limitato dalle pareti. La testa era delle dimensioni di un pony. Il corpo era così aggrovigliato che Wintrow non poteva indovinarne la lunghezza. Era di un pallido giallo-verde, come un fungo fosforescente. Diversamente dai serpenti marini scagliosi che aveva scorto dal ponte della Vivacia, questo sembrava grassoccio e molle come un lombrico. Il corpo mostrava spessi strati di callosità dove sfregava contro le pareti rocciose della sua prigione. Wintrow comprese all'improvviso che la creatura doveva essere cresciuta fino a riempire la polla. Era stata catturata e confinata da piccola. Era l'unico mondo che avesse mai conosciuto. Il ragazzo gettò uno sguardo attorno. Sì. Un'alta marea poteva appena giungere al bordo della fessura, lasciando entrare nuova acqua salata. E cibo? Probabilmente no. Qualcuno doveva portarle da mangiare. La creatura si torceva entro i confini dello stagno, non più di un movimento della coda da un lato all'altro. Lo sforzo avvolgeva il corpo su sé stesso. Wintrow la guardò con pietà mentre muoveva ogni sezione del cor-
po serpentino, tentando di alleviare la torsione. Non ci riusciva, non del tutto. Lo fissò con aspettativa. «Così hai l'abitudine di farti nutrire» osservò Wintrow. «Ma perché ti tengono qui? Sei un animale domestico? Una curiosità?» La creatura inclinò la testa, come incuriosita dalle sue parole. Poi tuffò di nuovo l'immensa fronte nello stagno per bagnarla. Il movimento era uno sforzo nello spazio angusto. Quando tentò di alzare il muso, il corpo intero si annodò e si legò. Wintrow la guardò lottare, mentre il lungo corpo sporgeva dall'acqua e raschiava la pietra lisciata da molte simili occasioni. Emise un grido come il gracchio acuto di un corvo, poi all'improvviso liberò di nuovo la testa. Wintrow provò nausea. Un graffio fresco sul lato del muso stillava un denso icore verdastro. Il ragazzo mise di nuovo le mani alle sbarre. Poteva girarle, ma ciascuna era affondata nella pietra in alto e in basso. Non poteva spostarle. Si inginocchiò per vedere come erano state inserite. Trovò la risposta sotto i piedi. Spazzò via sabbia e detriti marini, scoprendo le fini linee di giunzione della pietra lavorata. Sopra di lui le cavità per le sbarre erano state faticosamente trivellate nella pietra. Una lieve alterazione del colore all'orlo di un foro suggerì che forse era stata una fessura tagliata nella pietra, in seguito riempita per bloccare la sbarra. Visualizzò il processo. Le lunghe sbarre erano state portate sul posto, inserite ad angolo acuto nei fori profondi in alto e spinte in posizione. Poi erano state sistemate le pietre che le assicuravano alla base. Un esame delle linee di giunzione dimostrò che aveva ragione. Provò a sollevare una sbarra dopo l'altra. Ognuna aveva un certo gioco, alcune più di altre. Sì. Ora che sapeva come il lavoro era stato fatto, poteva disfarlo? Dimentico della Spiaggia del Tesoro e di Kennit, si inginocchiò sul pavimento della cavità e spazzò via sabbia e detriti con le mani, poi si tolse la camicia e ripulì il pavimento fino alla pietra. Il bel coltello che Etta gli aveva dato divenne un attrezzo per grattare la sabbia e l'antica calcina dalle fini fessure di giunzione fra le pietre. Mentre lavorava con impegno, la creatura lo guardava. A giudicare dal suo interesse sembrava quasi sapere che era in gioco la sua libertà. Wintrow valutò le sue dimensioni a paragone dello spazio fra le sbarre. Bisognava toglierne almeno tre, rifletté, forse quattro. La calcina era vecchia e friabile. Se fosse stata il suo unico nemico, avrebbe vinto con facilità. Ma i blocchi erano stati tagliati e incastrati con la precisione di un maestro. Wintrow lavorò finché le sue mani callose non
formarono nuove vesciche. Inginocchiato sulla pietra com'era, gli dolevano le ginocchia. Si chinò vicino alla linea di giunzione e soffiò via sabbia e calcina. Tentò di inserire le dita nella fessura. Scivolavano appena all'interno. Se riusciva a far presa, avrebbe avuto la forza di alzare la pietra? Tirò con tutte le sue forze, e pensò di sentire il blocco scivolare impercettibilmente. Riprese il coltello e si rimise al lavoro mentre il serpente lo guardava con roteanti occhi dorati. La spalla ferita cominciò a dolere. Quando arrivarono alla spiaggia Etta era già fradicia di sudore. Prendendogli il braccio, riusciva ad aiutare Kennit a camminare senza pesare troppo. A volte guardava ciò che il destino gli aveva fatto e voleva urlare per la rabbia. E per la perdita. L'alto corpo forte che un tempo l'aveva intimidita stava assumendo la torsione di uno zoppo mentre i muscoli su un lato compensavano la perdita della gamba. Etta vedeva come Kennit progettava quello che poteva o non poteva fare, con l'intenzione di non procurarsi vergogna manifestando debolezza. Il suo spirito di tigre non era diminuito; e neanche le sue ambizioni. Etta temeva solo che il calore del fuoco che lo spingeva consumasse il corpo indebolito. «Dov'è?» chiese il pirata. «Non vedo Wintrow.» Etta si fece ombra agli occhi e guardò su e giù per la spiaggia. «Non lo vedo neanch'io» disse a disagio. La costa ricurva era sabbia nera e pietra lungo la pianura. Non c'era niente che fosse grande abbastanza per nasconderlo. Dove poteva essere? Etta batté le palpebre per il bagliore del sole sull'acqua. «Potrebbe aver già percorso la spiaggia? Forse gli Altri lo hanno incontrato e portato in qualche luogo?» «Non lo so» ringhiò Kennit. Alzò il braccio e indicò l'estremità della spiaggia, dove un dito isolato di terra si separava dalla costa. «Laggiù c'è la rupe delle nicchie, dove tutti i tesori sono messi in mostra. Se ha percorso la spiaggia e ha incontrato un Altro, forse lo ha portato là, a depositare quello che ha trovato. Dannazione! Avrei dovuto essere qui con lui. Volevo sentire quello che gli diceva la creatura.» Etta pensò che avrebbe dato la colpa a lei, accusandola di aver perso tempo sul sentiero o di averlo ritardato in altri modi. Invece Kennit si ficcò la gruccia sotto il braccio e indicò la rupe delle nicchie. «Aiutami ad arrivare laggiù.» Etta osservò la sabbia asciutta e smossa e le distese di roccia nera e irregolare che costituivano la spiaggia, e il suo cuore sprofondò. La marea era
al minimo. Presto avrebbe ricominciato a coprire la spiaggia. Gli uomini sulla barca aspettavano il loro ritorno per l'alta marea. Aveva più senso che lei corresse avanti a vedere se Wintrow era là, invece di costringere Kennit a barcollare per tutta la spiaggia. Quasi lo disse. Poi drizzò la schiena e prese il braccio di Kennit. Lo sapeva anche lui. Le aveva detto di aiutarlo ad arrivare là. Etta avrebbe obbedito. Il dorso delle mani di Wintrow era graffiato a sangue e il braccio pulsava quando sollevò il primo blocco dalla sua sede. Pesava più di quanto si aspettasse, ma la precisione dell'incastro era stato l'ostacolo più grande. Sedette accanto al blocco puntando le mani contro il pavimento, e poi usò entrambi i piedi per spingerlo via. La base di una sbarra era esposta. Wintrow si alzò, inarcò la schiena dolorante e afferrò la sbarra. La sollevò. Grattò contro la pietra mentre la alzava, e il serpente nella cavità frustò all'improvviso la coda per l'entusiasmo. «Non contarci troppo» grugnì Wintrow. La sbarra di metallo era più pesante di quanto pensasse. Più la sollevava, più sembrava lunga. Ci appoggiò la spalla, l'afferrò più saldamente e la sollevò di nuovo. All'improvviso scorse l'estremità. La tirò ad angolo, e fu ricompensato da una pioggia di vecchi calcinacci. Perse la presa sulla sbarra, ma essa non scivolò di nuovo nel buco. Precipitò con un tonfo pesante sulla pietra. Wintrow riprese fiato, afferrò di nuovo l'asta e trascinò l'estremità libera verso l'ingresso della caverna. Si mosse con lentezza, stridendo mentre il metallo raschiava e strisciava contro la pietra. Quando la cima finalmente fu libera, lo sbilanciò. Wintrow perse l'equilibrio e cadde, mentre la lunga sbarra di metallo rimbalzava sulla pietra e il tintinnio di un martello su un'incudine echeggiava nella piccola caverna. Wintrow si alzò. «Bene. Questa è una» disse al serpente. Palpebre trasparenti coprirono brevemente i grandi occhi d'oro. La creatura alzò la testa dall'acqua e la scosse. Una stella carnosa fiorì all'improvviso attorno alla gola. La creatura si torse nell'acqua, e Wintrow vide che un debole disegno percorreva tutto il suo corpo. Le sfumature di colore gli ricordarono gli occhi sulla coda di un pavone. Si chiese all'improvviso se significava che era arrabbiata. Forse si sentiva minacciata dalle sue azioni. La povera creatura era probabilmente stata confinata lì per tutta la vita. Forse pensava che Wintrow minacciasse la sua tana. «La prossima volta che sale la marea, sarai libera. Se vuoi.» Parlava ad alta voce, sapendo che per la creatura erano solo rumori. Probabilmente
non poteva neanche interpretare il tono rassicurante della voce. Si inginocchiò e si mise al lavoro sul blocco successivo. Quello andò molto più veloce. La calcina si era indebolita da tempo in grumi di sabbia. Il vuoto lasciato dall'altro blocco gli lasciava spazio per smuovere quello. Rinfoderò il coltello e afferrò il blocco. Non dovette neanche toglierlo dal buco. Bastò spingerlo di lato, poi si dedicò alla sbarra. La seconda era più sciolta della prima, e adesso Wintrow aveva capito come si faceva. Mentre il metallo gridava contro la pietra e la calcina pioveva di nuovo, il ragazzo pensò che forse qualcuno si sarebbe arrabbiato per quello che aveva fatto. Forse tutto quel rumore avrebbe attirato la loro attenzione. Mentre la sbarra cadeva rumorosamente sulla pietra, Wintrow balzò via per evitarla. Poi andò alla bocca della fessura e guardò fuori. Non c'era nessuno in vista. Ma un'altra minaccia fu subito visibile. La marea era girata e stava ricoprendo lentamente le pietre. C'erano nubi di temporale all'orizzonte. Il vento sembrava aiutare la marea con la sua forza. Le lunghe alghe che giacevano piatte sulla roccia ora ondeggiavano con l'acqua entrante. La marea poteva intrappolarlo lì. E c'erano altre questioni da considerare: la Spiaggia del Tesoro, l'Oracolo e la scialuppa che li aspettava prima dell'alta marea. Kennit probabilmente era furioso con lui. Si alzò, cullando il braccio dolente, e guardò la marea che risaliva il pendio della spiaggia. Stava salendo in fretta. Wintrow non aveva alcun controllo su quel fattore. Se avesse indugiato sarebbe rimasto intrappolato. Se se ne andava subito si sarebbe infradiciato passando a guado attorno al promontorio. Doveva andarsene. Aveva fatto tutto il possibile. Udì un suono all'interno della caverna, una sbarra di metallo che rotolava sulla pietra. Corrucciato, rientrò, e rimase senza fiato. La creatura si era sollevata fuori dallo stagno e si scagliava contro i muri della sua prigione. La testa, girata di lato, era incuneata nell'apertura creata da Wintrow. Il corpo rimpicciolito e contorto, eppure ancora potente, frustava e spingeva i confini dello stagno. «No, torna indietro!» gridò invano il ragazzo. «È troppo piccola! Non c'è ancora acqua!» La creatura non poteva capirlo. Si gettò di nuovo contro le sbarre, ma riuscì solo a incunearsi più ermeticamente. Urlò la sua frustrazione, la stella attorno al collo si sollevò mentre infuriava. Tentò di tirare indietro la testa dalle sbarre, ma non poteva. Era incastrata.
Sgomento, Wintrow comprese che era in trappola anche lui. Non poteva lasciarla così. Le sue branchie pompavano freneticamente insieme alle fauci ansimanti. Il ragazzo non sapeva per quanto tempo potesse sopravvivere con la testa fuori dall'acqua. C'era già un'aria di disperazione nella coda sferzante. Se Wintrow riusciva ad allentare ancora una sbarra, forse la creatura avrebbe potuto scivolare di nuovo nello stagno. Non sarebbe stata libera, ma non sarebbe morta. Se si affrettava, forse anche lui sarebbe vissuto. Si avvicinò cauto per vedere quale sbarra era più facile da estrarre. La lotta della creatura incastrata aveva addirittura allentato uno dei blocchi. Lo aveva anche rivestito di viscidume. Quello non gli avrebbe reso più facile il lavoro. Afferrò una delle sbarre che aveva liberato. Era orrendamente lunga, ma almeno non avrebbe dovuto toccare il blocco. Qualsiasi animale in trappola poteva mordere, e se uno di quelle dimensioni mordeva, non sarebbe rimasto molto di lui. Spinse la sbarra tra due delle rimanenti e la usò come leva. Sfortunatamente questo significava avvicinarsi alla creatura, che ruggì, ma sorprendentemente non lo attaccò. Il blocco di pietra che assicurava la sbarra alla base raschiò contro gli altri mentre si spostava. Wintrow subito riposizionò la leva nella fessura allargata tra i blocchi. La sbarra era maledettamente lunga. Si bloccò contro le pareti della fessura. Ma finalmente, spingendo un poco la pietra, funzionò. Ora toccava alla terza sbarra. «Non farmi del male!» disse Wintrow alla creatura mentre le si avvicinava, e incredibilmente quella parve capire la sua intenzione, se non le parole. Rimase immobile, con le branchie che pompavano faticosamente. O forse stava solo morendo. Il ragazzo non poteva pensare a quello, né al tempo che passava. Afferrò la sbarra e la sollevò. Poi urlò. Le mani scottate rimasero aggrappate al metallo rivestito di viscidume. Ma il tormento della pelle non era nulla paragonato al tormento della conoscenza. Conobbe il suo dolore, capì all'improvviso l'angoscia di una creatura senziente imprigionata per un tempo che non riusciva neppure a immaginare. Con lei, respirò l'aria bollente. La pelle tenera si spaccò e bruciò nell'atmosfera arida. Comprese con terrore che presto sarebbe stato troppo tardi. La creatura doveva scappare subito, o sarebbe stata la fine per tutta la sua specie. Wintrow indietreggiò freneticamente dalla sbarra. La forza del suo rifiuto del dolore lo scagliò sul pavimento della prigione. Giacque ansimando.
Nulla in vita sua l'aveva mai preparato a quell'esplosione di vicinanza. Anche il legame che aveva con il veliero vivente era un ponte fragile e insensibile, paragonato a quell'unione. Per un breve momento non era stato capace di distinguere tra sé e la creatura. No. Non la creatura, a meno che anche lui fosse considerato una creatura. Lei non era meno di Wintrow; considerando tutto quello che il ragazzo aveva sperimentato, si chiese se non fosse addirittura più grande di lui. Un istante più tardi era in piedi. Si strappò la camicia, l'avvolse sulle mani e si avvicinò di nuovo alla sbarra. Questa volta dovette riconoscere l'intelligenza che stava affievolendosi nei grandi occhi d'oro. Afferrò la sbarra nella presa goffa e alzò. Era difficile, perché qualunque cosa rivestisse la sbarra la rendeva sdrucciolevole. La sollevò due volte prima di riuscire ad alzarla dal suo letto scavato nella pietra. Nel momento in cui uscì dal bordo del blocco, il serpente marino si scagliò contro di essa. La sua massa più grande la spinse da parte come una pagliuzza, e Wintrow insieme alla sbarra, non solo scagliato via con violenza al suo passaggio, ma anche sfiorato dal viscido rivestimento della sua pelle scagliosa. Lo ustionò dove toccò la carne. Il ragazzo urlò vedendo anche i pantaloni di tela pesante sfilacciarsi come ceneri sgretolate. Conobbe la sua determinazione e ne fu sgomentato. «Non c'è acqua là sotto!» Trasmise le informazioni con la voce e il pensiero, con tutta la sua forza. «Rocce. Solo rocce. Morirai.» Meglio morire. Il serpente lo superò ondeggiando, le spire del suo corpo si riversarono fuori dalla prigione come il filo di un rocchetto. Mentre passava, Wintrow fu consapevole dello sforzo tremendo per spostare il suo corpo compresso e distorto. Era un atto di disperazione. Non era sicura se fuggiva verso la libertà o la morte; ma sapeva che si lasciava alle spalle la prigionia. Sì. Scusami se ti ho ucciso. «Va tutto bene» mormorò Wintrow. Non era neanche sicuro di essere morto. Era fuori da sé stesso. No. Era più grande di sé. Era come le trance al monastero, quando lavorava il vetro colorato, ma più grande, molto più grande. Il dolore della sua carne scottata non era più significativo di una scheggia irritante nel tallone. Ah, sospirò. Ora ti vedo con chiarezza. Sei sempre stata lì. I serpenti e i draghi nelle mie finestre, in tutta la mia arte. Come sapevi che sarei venuto da te? Come sapevi di dover venire da me? chiese lei.
Senza aspettare una risposta, si gettò dalla fessura. Wintrow si irrigidì, temendo di udire l'impatto del suo corpo pesante sulle rocce sottostanti. Ma le sue immense dimensioni la salvarono. La sua lunghezza andava dal pavimento della caverna alla spiaggia. Calò la sezione anteriore finché non incontrò la spiaggia, e poi trasse giù il resto del corpo ondulando come un bruco. Strano. Wintrow non la toccava più, ma era ancora consapevole di lei. Il sole caldo splendeva su di lei. La sabbia le si attaccava. Rotolò indifesa sulle pietre rivestite di cirripedi. Aveva speso le sue ultime forze. Aveva bisogno che l'acqua sollevasse il suo peso; doveva inumidire le branchie. La marea entrante le sfiorava appena il ventre. Non bastava. Tanti sforzi, solo per morire sulla spiaggia. Una battaglia così dura, solo per divenire cibo per granchi e gabbiani. Qualcosa stava accadendo a Wintrow. Il suo corpo intero reagiva. Gli occhi si gonfiavano, quasi chiusi, mentre il respiro sibilava nella gola stretta. Gli occhi e il naso gocciolavano, la pelle sembrava scorticata. Eppure era in piedi, e barcollava verso l'orlo della fessura. La camicia stracciata e inutile gli avvolgeva ancora una mano. Scorgeva il corpo verde-oro del serpente sulla spiaggia sotto di lui. La sentiva cuocere nel calore. Doveva andare da lei. Lo stretto sentiero sulla parete di roccia fu una sfida. Al terzo passo laterale, cadde dalla rupe all'indietro. Il corpo morbido del serpente interruppe la sua caduta, ma fu confortevole come precipitare in un tegame sfrigolante. Wintrow urlò di dolore. Troppo, conosceva troppo di lei, e qualunque cosa rivestisse la sua pelle stava divorando quella del ragazzo. Rotolò via, piombando su pietre incrostate di cirripedi. Un'onda risalì, gli leccò lievemente il viso e corse via. L'acqua fresca era una grazia, il sale una maledizione pungente contro la carne spellata. L'Abbondanza. Tutto il desiderio di un cuore immortale era contenuto in quella parola. La camicia era ancora avvolta attorno al braccio teso di Wintrow. La stoffa sbrindellata era zuppa di acqua di mare. Se la raccolse al petto e strisciò da lei. Il mondo era così buio, eppure il sole del pomeriggio batteva ancora caldo su di lui. O era caldo su di lei? Wintrow riuscì ad aprire i resti della camicia bagnata. La scagliò su una branchia. Copriva così poco. Tuttavia mi è di conforto. Tutti noi ti ringraziamo. «Noi?» Wintrow mosse le labbra, ma non pensò che lei esprimesse il suo pensiero a parole. La mia specie. Sono l'ultima che può salvarli. Sono Colei Che Ricorda.
Potrebbe già essere troppo tardi. Ma se non è troppo tardi, e riesco a salvarli, ti ricorderemo. Sempre. Potrai trarne conforto, creatura di pochi respiri. «Wintrow. Il mio nome è Wintrow.» L'onda successiva li raggiunse, arrivando impercettibilmente più in alto. Lei si dibatté debolmente e riuscì a trascinarsi un poco più vicina all'acqua. Non bastava. Egoisticamente Wintrow si chiese se poteva allontanarsi abbastanza da lei per smettere di condividere il suo dolore. Quello che provava lui era sufficiente. Poi tutto sembrò fin troppo faticoso. Rimase disteso e attese che l'onda successiva lo sollevasse, per potersi allontanare a nuoto e raggiungere i suoi simili. Al primo urlo, Kennit si fermò. «Che cos'è?» Una strana eco. «Non lo so» rispose Etta a disagio. Si guardò attorno con occhi sbarrati. Si sentiva all'improvviso molto piccola ed esposta. Il sentiero e la protezione della foresta erano lontani dietro di loro. Lì c'era solo sabbia aperta e roccia, sole abbagliante e acqua senza fine. All'orizzonte scorse nubi nere. Il vento soffiava più forte, portando una promessa di pioggia. Non sapeva bene cosa temesse, ma sapeva che non c'era riparo. Non vedeva niente di minaccioso; l'urlo sembrava non avere fonte. Un silenzio funesto lo seguì. «Cosa dovremmo fare?» Gli occhi pallidi di Kennit percorsero la spiaggia in tutte le direzioni, poi si levarono all'altipiano dietro di loro. Anche lui non vide niente. «Continuiamo fino alla rupe delle nicchie» cominciò, e poi si arrestò. Etta seguì il suo sguardo. Vide una creatura che un attimo prima non c'era. Ne era sicura. Non c'era nessun possibile nascondiglio, eppure all'improvviso era lì. La parte eretta era alta come Kennit, e un corpo più pesante simile a una lumaca la seguiva strisciando. Mentre Etta la fissava, estroflesse membra elastiche dalla parte superiore del corpo. Assurdamente aggraziate, si aprirono senza ossa, con mani dalle lunghe dita palmate. Il corpo grigioverde luccicava umido dove non era coperto da un mantello giallo pallido. Gli occhi piatti sfolgorarono ostili. «Tornate indietro!» li avvertì. «Andate via! Lei è nostra!» La voce sibilante e palpitante era densa di minaccia. Anche l'odore della creatura era spaventoso, sebbene Etta non capisse perché. Sapeva solo che voleva allontanarsi il più possibile. L'essere era troppo alieno. Troppo Altro. La donna afferrò il braccio di Kennit. «Andiamo via» lo implorò.
Era come trascinare una statua. Kennit indurì i muscoli e resistette. «No. Resta immobile, Etta. Ascoltami. È una magia, un incantesimo che ha gettato su di noi. Ti suggerisce la paura. Non arrenderti. Non è così spaventoso.» Con un piccolo sorriso altezzoso, toccò l'amuleto al suo polso. «Io sono impervio. Abbi fiducia in me.» Etta tentò di ascoltarlo, ma non poteva. Il vento le portò la puzza della creatura, una puzza che riconobbe d'istinto. Umano morto e imputridito. La disgustò, come la pressione di quello sguardo piatto. Voleva ripararsi, nascondersi da quegli occhi. «Per favore» implorò, ma il pirata fissava l'Altro negli occhi. Scosse via la mano di Etta con una forza che la sorprese. L'aveva dimenticata. Etta poteva fuggire, se voleva. Non seppe dove trovò la forza per rimanere immobile a guardare. Kennit provocava l'Altro con un coraggio che per lei era impensabile. Gruccia sotto l'ascella, avanzò verso di esso. L'Altro si drizzò in tutta la sua altezza, aprendo le membra prive di ossa. Etta scorgeva le membrane tra le lunghe dita. «Torna indietro!» disse la creatura a Kennit. Kennit si limitò a sorridere e scrollò le spalle. «Da questa parte» disse a Etta, e la condusse verso l'imboccatura del sentiero nella foresta. Il sollievo riempì Etta. Stavano andando via. Mentre Kennit camminava a fatica verso il sentiero attraverso la sabbia mutevole, lei sgattaiolò al suo fianco. Il pirata continuava a gettare occhiate alla creatura che era dietro di lui. Etta non poteva biasimarlo, ma non sopportava di guardarla. Gli afferrò l'orlo della manica e lui le permise di aggrapparsi mentre avanzava sulla gruccia. D'un tratto il pirata si arrestò e si rivolse a Etta con un sorriso. «Ecco. Ora lo sappiamo. Arriveremo prima dell'Altro.» Etta gettò indietro uno sguardo timoroso. La creatura ondulava in fretta sulla sabbia, ma per tutto il suo sforzo sembrava muoversi con lentezza. Di nuovo l'onda di terrore la scosse mentre l'odore della creatura la sommergeva. Non riusciva a smettere di tremare. «Non avere paura» le ordinò Kennit, invano. «Guarda come si affretta lungo la spiaggia, non appena ha creduto di vederci fuggire. Qualunque cosa cerchi di proteggere è laggiù. Vieni. Aiutami.» Etta chiuse gli occhi in un'agonia di terrore. «Kennit, per favore. Ci ucciderà.» «Etta!» Kennit le afferrò l'omero in una morsa e la scosse. «Fa' come dico. Ti proteggerò. Ora vieni.» Ancora una volta si posizionò la gruccia sotto il braccio e poi si diresse verso la spiaggia. Si muoveva come una creatura dalle lunghe gambe,
dondolando sulla gruccia, quasi correndo. Pietra e sabbia si spostavano sotto di lui, ma Kennit compensava. Dietro di loro giunse il grido indignato dell'Altro. Qualcosa lo echeggiò, ed Etta gettò indietro uno sguardo spaventato. L'Altro non era più solo. Le creature sembravano emergere dalla terra stessa o filtrare dalla sabbia. Etta corse come il vento dietro a Kennit. Inciampò, sfregando le mani su pietre e sabbia. Si rimise in piedi, con le palme doloranti e gli stivali pieni di ghiaietto. Corse verso di lui. Raggiunse Kennit nel momento in cui udirono il secondo urlo. Kennit sbiancò all'improvviso. «Quello è Wintrow!» ansimò. «So che è lui. Wintrow! Arriviamo, ragazzo, arriviamo.» Incredibilmente aumentò il ritmo. Etta galoppava al suo fianco. Gli Altri li seguivano, avanzando come trichechi. Alcuni impugnavano corti tridenti. Etta aveva la bocca asciutta e il cuore in tumulto quando giunsero alla fine della spiaggia. Non c'era niente da vedere, tranne il promontorio roccioso che sorgeva davanti a loro. Kennit guardò da destra a sinistra, cercando un sentiero, una traccia qualsiasi. Gettò indietro la testa e trasse un profondo respiro. «Wintrow!» tuonò. Non ci fu risposta. Guardò di nuovo l'ondata di creature che veniva verso di loro. Il vento dall'acqua era aumentato, e le prime calde gocce di pioggia schizzarono sulla sabbia. «Kennit» ansimò disperatamente Etta. «La marea sta salendo. La barca ci aspetta. Wintrow forse è tornato là.» Poi udirono un urlo di dolore. Etta raggelò, ma Kennit non esitò. Il pirata avanzò sguazzando nella marea crescente, gruccia e tutto il resto. La donna non era neanche sicura che il suono provenisse da quella direzione. Nel vento crescente era difficile capire. Eppure lo seguì. L'acqua salata si mescolò a sassi e sabbia nei suoi stivali. Gettò indietro uno sguardo timoroso. Gli Altri continuavano a seguirli. La vista la paralizzò di paura. Poi, con un ululato improvviso, vento e pioggia la colpirono. La luminosità del giorno svanì. Tutto era fioco e grigio mentre inciampava attraverso le onde seguendo Kennit. Gli afferrò la manica, per proprio conforto come per aiutarlo a resistere alle onde. «Dove stiamo andando?» gridò attraverso la tempesta estiva. «Non lo so. Aggiriamo il promontorio!» La pioggia a fiumi aveva infradiciato i capelli neri di Kennit fino alle spalle, incollandoli al cranio. I lunghi baffi gocciolavano. Vacillava con ogni onda che lo superava. «Perché?» Kennit non le rispose. Proseguì deciso ed Etta lo seguì, aggrappata alla sua manica. La pioggia cominciava a perdere il calore del giorno d'estate e
le onde erano fredde. La donna tentò di pensare solo a quello che facevano, senza preoccuparsi della scialuppa sull'altro lato dell'isola. Non li avrebbero lasciati lì. Non potevano. Kennit puntò il dito con un grido improvviso. «Là! È là!» Dietro al promontorio c'era una piccola spiaggia rocciosa appoggiata a rupi di ardesia nera. Il corpo di Wintrow saliva e scendeva con le onde. Accanto a lui c'era un'immensa cosa color giallo-verdastro. Da come sguazzava avanti e indietro nell'acqua, era viva. All'improvviso alzò una testa enorme, e gli occhi di Etta distinsero la forma contorta. Era un serpente marino arenato. Immensi occhi d'oro la guardarono turbinando. Un'altra onda li superò, quasi sollevando il serpente, che chinò brevemente la testa sotto l'acqua di mare. Poi con lentezza drizzò la testa più in alto e la scosse. All'improvviso una grande criniera carnosa si allargò attorno alla gola. Il serpente aprì una bocca rossa ed enorme bordata di lunghi denti bianchi e ruggì contro il vento e la pioggia. «Wintrow!» tuonò di nuovo Kennit. «È morto» gli gridò Etta. «È morto, amore mio, ucciso dal serpente. È inutile. Andiamocene finché possiamo.» «Non è morto. Si è mosso.» C'era tanta frustrazione nella voce di Kennit che sembrava quasi addolorato. «Uno scherzo delle onde.» Etta lo afferrò con dolcezza. «Dobbiamo andare. La nave.» «Wintrow!» Questa volta si vide chiaramente il ragazzo sollevare la testa. I suoi lineamenti erano appena riconoscibili, tanto era malconcio. La bocca gonfia si mosse. «Kennit» gemette. Etta pensò che fosse un grido di aiuto. Poi il ragazzo inspirò e gridò: «Dietro di te. Gli Abomini!» Una mano molle e palmata si avvolse attorno alla coscia di Etta. La donna urlò. Si girò ad affrontare l'essere con cuore martellante e un ruggito nelle orecchie. Piatti occhi da pesce la fissavano dalla sommità di una tozza testa calva. L'essere aprì la bocca, lasciando ricadere la mandibola, spalancandola abbastanza per ingoiare una testa umana. Etta non vide Kennit estrarre la lama. Vide solo il coltello tagliare la carne elastica. L'arto si tese prima di dividersi. L'Altro eruttò un ruggito di protesta, stringendo il moncone. Kennit si chinò in fretta e staccò la mano ancora stretta sulla sua coscia. La scagliò all'Altro. «Non lasciare che ti spaventino a morte!» le gridò. «Estrai il coltello, donna! Hai dimenticato
chi sei?» Le girò le spalle sdegnato per affrontare il successivo Altro. La domanda fece scattare qualcosa in Etta, o forse fu la sensazione del coltello in mano. Lo estrasse dal fodero e alzò la testa per urlare la sua sfida alle creature che tentavano di stregarla. Colpì un Altro, sfregiando la carne gommosa. L'essere la ignorò, fluendo attraverso l'acqua con una grazia che gli mancava sulla terra. Kennit aveva ucciso quello che l'aveva afferrata, ma nessun altro lo attaccò. Evitandoli, gli esseri circondarono il serpente arenato e Wintrow. «È nostra!» «È la nostra dea!» «Non potete rubare il nostro Oracolo!» «Ciò che si trova sulla Spiaggia del Tesoro deve rimanere qui!» Le parole degli Altri erano come il gracchiare di rane. Circondarono il serpente. Alcuni alzarono minacciosamente le corte lance. Cosa pensavano di fare? Uccidere il serpente? Spingerlo da qualche parte? Quale che fosse la loro intenzione, Wintrow era deciso a fermarli. Si era trascinato in piedi, ma Etta non capiva come ci riuscisse. Il suo corpo era dilatato come un cadavere rigettato dal mare. Gli occhi erano fenditure sotto la fronte gonfia e pendente. Ma si oppose alle onde, trascinandosi per girare attorno al serpente e porsi tra lei e i suoi tormentatori. Alzò la voce. «Abomini! Indietro. Lasciate che Colei Che Ricorda vada libera, per adempiere al suo destino.» Suonò strano, come parole pronunciate a memoria in una lingua che non conosceva. Un'onda quasi lo abbatté, e sollevò la massa del serpente. La coda sinuosa trovò un appiglio. Scivolò un poco verso il mare. Ancora qualche onda, e sarebbe stata libera di andarsene. Anche gli Altri parvero rendersene conto. Avanzarono, spingendola verso riva con i tridenti. Uno raggiunse anche Wintrow. La mano gonfia del ragazzo prese vita brancolando e trovò il coltello. Wintrow lo sfoderò e tentò di acquattarsi in posizione di combattimento. Quel semplice atto insegnatogli da Etta la ferì al cuore. La donna aveva il coltello nudo in mano, e sarebbe rimasta oziosa mentre Wintrow moriva? Mai. Balzò in avanti con un urlo improvviso. Corse frenetica attraverso l'acqua, e quando fu vicina immerse il coltello nella schiena di lumaca della creatura. La lama rimbalzò sulla carne squamosa. L'Altro non aveva arma, ma non esitò ad attaccare. Wintrow riuscì a colpirlo prima che gli afferrasse il polso. Il ragazzo rimase all'improvviso immobile. Etta poteva indovinare il terrore che gli trafiggeva il cuore a quel tocco.
Il secondo colpo di Etta andò a fondo. La donna afferrò l'elsa con entrambe le mani e tirò la lama verso l'alto, squarciando il ventre dell'essere. L'Altro non sanguinò. Non era neanche sicura che sentisse qualcosa. Lo pugnalò di nuovo, più in alto. D'un tratto Kennit era al suo fianco e cercava di tagliare la mano che afferrava Wintrow. L'Altro si allontanò da loro come un gambero, trascinando Wintrow con sé. Poi la testa del serpente si inarcò sopra di loro. Le fauci afferrarono l'Altro, avvolgendo la testa e le spalle ricurve. Sollevò la creatura dall'acqua e poi la scagliò via sdegnosamente. Wintrow barcollò, perdendo l'equilibrio. Kennit subito gli afferrò il braccio. «L'ho preso. Andiamo!» «Lei deve fuggire. Non lasciate che la prendano. Colei Che Ricorda deve tornare dalla sua specie!» «Se parli del serpente, farà quello che le pare, senza bisogno del nostro aiuto. Vieni, ragazzo. La marea sta salendo.» Etta prese l'altro braccio di Wintrow. Il ragazzo era quasi cieco per il gonfiore, il viso violaceo. Come un bruco storpio, i tre barcollarono verso il promontorio nella pioggia battente. Le onde ora avevano guadagnato forza, e l'acqua non arrivava mai più in basso delle ginocchia. La forza del mare faceva rotolare i sassi e risucchiava la sabbia sotto i loro piedi mentre procedevano a fatica. Etta non sapeva come facesse Kennit a restare in piedi: si aggrappava a Wintrow e alla gruccia, avanzando arditamente. Il promontorio sporgeva dalla spiaggia. Dovevano andare in acque ancora più profonde se volevano girare attorno e tornare alla spiaggia. Etta rifiutò di pensare alla lunga camminata attraverso l'isola, verso una barca che poteva non esserci più. Gettò un unico sguardo indietro. Ora il serpente era libero, ma non era fuggito. Uno per uno, afferrava gli Altri fra le mascelle. Alcuni li gettava via, interi ma morti, altri cadevano dalle sue fauci tagliati in metà. Accanto a Etta, Wintrow ripeteva di continuo una sola parola con odio ossessivo. «Abominio! Abominio!» Un'onda più grande li colpì. Etta perse la sabbia sotto i piedi per un istante, poi si trovò a inciampare mentre l'onda passava. Si aggrappò a Wintrow, tentando di non cadere. Proprio mentre recuperava l'equilibrio, un'altra onda li colpì. Etta udì il grido di Kennit, poi si aggrappò frenetica al braccio di Wintrow mentre andava sotto. L'acqua che le invase il naso e la bocca era densa di sabbia. Riemerse ansimando, non riusciva a toccare. Batté le palpebre per allontanare l'acqua sabbiosa dagli occhi. Vide la gruccia di Kennit galleggiare vicino a lei. D'istinto l'afferrò. Kennit era
all'altra estremità. Si avvicinò a lei afferrando la gruccia, e poi le strinse con forza il braccio. «Vai verso la riva!» le ordinò, ma Etta era disorientata. Girò la testa convulsamente, ma vedeva solo le rupi nere a picco, la schiuma alla base e alcuni brandelli galleggianti di Altro. Il serpente era sparito, la spiaggia era sparita. Sarebbero stati scagliati contro le rocce, o trascinati al largo e affogati. Si aggrappò disperatamente a Kennit. Wintrow lottava debolmente nell'acqua, poco più di un peso morto da trascinare. «Vivacia» disse Kennit accanto a lei. Un'onda li sollevò. Etta vide la spiaggia a mezzaluna. Come erano finiti così lontano, così in fretta? «Là!» gridò. Si sentiva intrappolata tra gli altri due. Si piegò verso la spiaggia e scalciò freneticamente, ma le onde li allontanavano senza pietà. «Non ce la faremo mai!» gridò frustrata. Un'onda la colpì in viso, e per un momento le mancò l'aria. Quando riuscì a vedere di nuovo, era diretta verso la spiaggia. «Là, Kennit! Là! Ecco la spiaggia!» «No» la corresse Kennit con una gioia incredula sul viso. «Là. La nave è là. Vivacia! Qui! Siamo qui!» Stancamente Etta girò la testa. Il veliero vivente veniva verso di loro attraverso la pioggia torrenziale. Scorgeva già i marinai sul ponte che cercavano di mettere in mare una scialuppa. «Non ci raggiungeranno mai» disperò Etta. «Fidati della buona sorte, mia cara. Fidati della buona sorte!» la rimproverò Kennit. Con la mano libera, cominciò a nuotare deciso verso la nave. Non era pienamente consapevole di essere stato liberato. Era tremendamente seccato. Era così vivo, così pieno di memorie e ricordi sensoriali, che voleva soltanto restare immobile e assorbire il tutto. Invece continuavano ad afferrarlo. La donna lo scuoteva e urlava di stare sveglio, stare sveglio. Udiva la voce di un uomo. Continuava a gridare alla donna di tenergli su la testa, tenergli il viso fuori dall'acqua, stava affogando, non se ne rendeva conto? Wintrow avrebbe voluto che stessero zitti e lo lasciassero in pace. Ricordava così tanto. Ricordava il suo destino, e richiamava tutte le vite che aveva condotto prima di quella. All'improvviso era tutto così chiaro. Era uscito dall'uovo per essere il ricettacolo di tutti i ricordi per tutti i serpenti. Li avrebbe conservati finché ognuno non fosse stato pronto a venire a lui, e con un tocco avrebbe rinnovato il loro legittimo retaggio. Sarebbe stato lui a guidarli fino a casa, al luogo lontano su per il fiume dove avreb-
bero trovato sicurezza e il terreno speciale dove creare i loro bozzoli. Sul fiume avrebbero trovato le guide per proteggerli nel viaggio e sorvegliarli mentre attendevano la metamorfosi. Era passato tanto tempo, ma ora era libero, e tutto sarebbe andato bene. «Fate salire prima Wintrow. È svenuto.» Era la voce dell'uomo, sfinita ma ancora autorevole. Una voce nuova gridò: «Respiro di Sa! Un serpente! Proprio sotto di loro, tirateli a bordo, in fretta, in fretta!» «Lo ha sfiorato. Portate su il ragazzo, sbrigatevi!» Movimenti disordinati, e poi il dolore. Il suo corpo aveva dimenticato come piegarsi; era troppo gonfio. Lo piegarono comunque, afferrando saldamente le membra mentre lo sollevavano dall'Abbondanza nella Mancanza. Lo lasciarono cadere su qualcosa di duro e irregolare. Giacque ansimando, sperando che le sue branchie non si asciugassero prima di poter scappare. «Cos'è quello schifo che ha addosso? Mi ha irritato le mani!» «Lavatelo, toglietegli quella roba» qualcun altro consigliò. «Prima portiamolo sulla nave.» «Non penso che durerà tanto a lungo. Almeno ripulitegli il viso.» Qualcuno gli sfregò il viso. Faceva male. Aprì le fauci e tentò di ruggire. Voleva emettere tossine, ma la criniera non si sollevava. Faceva troppo male. Scivolò via da quella vita, nella precedente. Spalancò le ali e si levò. Ali scarlatte, cielo azzurro. Sotto, campi verdi, bianche pecore grasse. In lontananza luccicavano le torri splendenti di una città. Poteva cacciare, o raggiungere la città e farsi nutrire. Sopra la città girava un vortice di draghi come pesci brillanti in un gorgo. Poteva raggiungerli. Gli abitanti sarebbero usciti a salutarlo, cantando, felici che li onorasse con una visita. Creature così semplici, che vivevano poco più di qualche respiro. Quale piacere lo tentava di più? Non sapeva decidere. Si sollevò, prendendo il vento sotto le ali e guizzando su nel cielo. «Wintrow. Wintrow. Wintrow.» La voce di un uomo urtò il suo sogno e lo mandò in mille pezzi. Si mosse con riluttanza. «Wintrow. Ci sente, si è mosso. Wintrow!» La voce della donna si sovrappose a quella dell'uomo. La più antica delle magie, legare un uomo con l'uso del suo nome. Lui era Wintrow Vestrit, un semplice umano, e stava male, stava tanto male. Qualcuno lo toccò, il dolore si fece più acuto. Ora non poteva sfuggire.
«Mi senti, ragazzo? Siamo quasi alla nave. Presto potremo alleviare il tuo dolore. Rimani sveglio. Non arrenderti.» La nave. Vivacia. Wintrow balzò indietro con orrore improvviso. Se gli Altri erano Abomini, lei cos'era? Trasse un respiro. Era difficile inspirare, e ancor più difficile emettere l'aria sotto forma di parole. «No» gemette. «No.» «Saremo presto a bordo di Vivacia. Lei ti aiuterà.» Non riusciva a parlare. La lingua era troppo gonfia. Non poteva implorarli di non riportarlo alla nave. Una parte di lui l'amava ancora, pur sapendo quello che era. Come poteva sopportarlo? Poteva nasconderglielo? Per tanto tempo Vivacia aveva creduto di essere davvero viva. Wintrow non doveva farle sapere che era morta. Il mare non era stato mai così ostile. Etta era rannicchiata a poppa con il corpo fradicio di Wintrow fra le braccia. I quattro marinai ai remi lottavano contro le onde, mostrando il bianco degli occhi. Sembrava che Vivacia dovesse lottare contro una corrente, e un'altra afferrava la piccola barca e la trascinava come un cane trascina un osso. La pioggia li sferzava e il vento aggiungeva la sua spinta alla corrente. Kennit era rannicchiato a prua. Aveva perso la gruccia quando lo avevano tirato di peso fuori dall'acqua. Etta lo scorgeva appena per i torrenti di pioggia che scrosciavano tra loro. I capelli di Kennit erano lisciati contro il cranio e i baffi si erano appiattiti del tutto. In un'angosciosa interruzione nella pioggia, Etta credette di scorgere la Marietta, lontano al largo. Le vele pendevano dai pennoni e il sole brillava sui ponti. Poi Etta batté le palpebre, allontanando la pioggia dalle ciglia. Si disse che quello che aveva visto era impossibile. Wintrow era un peso morto sulle sue gambe. Se Etta avvicinava il capo al suo viso, udiva il sibilo del respiro. «Wintrow. Wintrow, continua a respirare. Continua a respirare.» Se avesse trovato il suo corpo da qualunque altra parte, non lo avrebbe riconosciuto. Le labbra gonfie e informi si mossero lievemente, ma non ci fu alcun suono. Etta alzò gli occhi. Non sopportava di guardarlo. Kennit era entrato nella sua vita e le aveva insegnato a essere amata. Le aveva dato Wintrow, ed Etta aveva imparato a essere un'amica. Il maledetto serpente ora stava per portarglielo via, proprio quando lo aveva appena scoperto. Le sue lacrime salate si mescolarono con la pioggia che le scorreva sul viso. Non poteva sopportarlo. Aveva imparato a sentire di nuovo, solo per sentire questo? Qualsiasi quantità di amore valeva il dolore di perderlo? Non poteva nean-
che stringerlo mentre moriva, perché il viscidume che aveva ancora addosso le divorava i vestiti, e il suo stesso tocco gli strappava la pelle. Lo cullò quasi senza toccarlo, mentre la scialuppa della nave rollava e beccheggiava senza controllo e non sembrava avvicinarsi alla Vivacia. Etta alzò il viso e guardò attraverso il temporale. Trovò Kennit che la fissava. «Non lasciarlo morire!» le ordinò ad alta voce. La donna si sentiva impotente e indifesa, e non poteva neanche dirglielo. Vide Kennit piegarsi e pensò che l'avrebbe raggiunta strisciando per aiutarla in qualche modo. Invece si alzò all'improvviso, gamba di legno e piede ben saldi. Girò la schiena a lei e ai rematori e affrontò il temporale. Gettò indietro la testa. Il vento agitava le maniche bianche della camicia contro le braccia e i capelli nerissimi fluivano dietro di lui. «NO!» ruggì nell'uragano. «Non ora! Non quando sono così vicino! Non puoi avere me e non puoi avere la mia nave! Per Sa, per El, per Eda, per il Dio dei Pesci, per ogni dio con o senza un nome, giuro che non avrai né me né la mia gente!» Tese le mani, le dita ad artigli, come per afferrare il vento che li sfidava. «KENNIT!» La voce di Vivacia ruggì attraverso il temporale. Si tese verso di loro con braccia di legno, chinandosi verso il piccolo vascello come per strapparsi dalla nave e raggiungerlo. I capelli le volavano via dal viso. Un'onda la colpì, e lei vi si immerse così profondamente che l'acqua verde spazzò il ponte. Ma Vivacia risalì, riemerse dall'avvallamento con le mani ancora tese. Il temporale minacciava di trascinarla via, eppure la nave si tendeva verso di lui, incurante della propria sicurezza. «Vivrò!» tuonò Kennit all'improvviso nel temporale. «Lo pretendo.» La sua mano afferrò il polso mentre indicava il temporale. «LO ORDINO!» ruggì. Il re operò il primo miracolo. Dalle profondità del mare stesso che gli si opponeva, la creatura salì al suo comando. Il serpente emerse dietro la poppa del vascello. Spalancò le mascelle e aggiunse il ruggito a quello di Kennit. Da insignificante creatura sciocca quale era, Etta si fece piccola, stringendo Wintrow al seno. Brancolò in cerca di un coltello da tempo smarrito, gemendo in un terrore senza speranza. Poi il serpente marino, per quanto fosse una bestia enorme, curvò la testa alla volontà di Kennit. Rivolse un inchino profondo al pirata in piedi a prua che sfidava il temporale. Kennit si girò verso di lei alle voci dei mari-
nai. Con viso bianco e teso, la indicò senza parole. Aveva la bocca aperta, ma non disse niente alla creatura, o il vento portò via le sue parole. Più tardi i rematori avrebbero detto al resto dell'equipaggio che l'ordine che le aveva dato non era per orecchie umane. La creatura mise la larga fronte di serpente alla poppa della scialuppa e spinse. All'improvviso la barchetta tagliava l'acqua verso la Vivacia. Kennit, sfinito da questa manifestazione di potere, crollò al suo posto a prua. Etta non osava guardarlo. Il viso del pirata splendeva di qualcosa, un'emozione che forse solo coloro che erano toccati dagli dèi potevano sentire. Dietro di lei, la poppa della barchetta emise un fumo fetido nel punto in cui l'umore della creatura la toccava. Etta sarebbe stata sleale a temerla, perché agiva su comando di Kennit. Si chinò sul corpo di Wintrow, tenendolo con tutta la dolcezza che poteva mentre la creatura li spingeva attraverso le onde. Non aveva misericordia del piccolo vascello, ma lo costrinse a superare i marosi avversi. I rematori abbandonarono i remi e si rannicchiarono sul fondo della barca, muti di terrore e timore reverenziale. La Vivacia proseguiva spedita verso di loro. Ci fu un attimo in cui due oceani parvero collidere in tumulto. Onde e venti non avevano più un disegno. Il respiro del mondo li sferzò, minacciando di strappar via vestiti e capelli. Etta era assordata dall'assalto furioso degli elementi, ma il serpente spingeva inesorabilmente la minuscola barca. Poi all'improvviso erano nello stesso vento e nella stessa corrente di Vivacia. Con gioia il mare e l'aria li presero e cospirarono con il serpente per riunirli. Il vento e la corrente a cui Vivacia si opponeva spazzarono la barchetta verso le sue braccia tese. Vivacia si tuffò in un'onda. I marinai che aspettavano a prua, pronti a gettare le cime, si aggrapparono freneticamente alle murate temendo di essere travolti dall'acqua verde. Ma quando Vivacia riemerse dall'ondata che l'aveva sommersa per un attimo, le sue grandi braccia avvolsero e ressero la barca indifesa. Risalì alla superficie stringendola a sé. Etta non era mai stata così vicina alla polena. Mentre Vivacia li sollevava dagli abissi, la sua voce rimbombò su di loro. «Grazie, grazie! Mille benedizioni su di te, sorella del mare. Grazie!» Lacrime argentee di gioia corsero sul volto scolpito del veliero vivente e caddero in acqua come gioielli. Mentre i marinai spaventati si precipitavano verso i loro compagni sul ponte, Kennit sedette, ruggendo una risata gioiosa nella prua della barca. L'eco di pazzia nella sua allegria era la cosa meno terribile in lui. Mentre i suoi marinai si chinavano per afferrarlo e tirarlo a bordo, il grande serpente
verde e oro si alzò dalle profondità tempestose e lo guardò fisso. Etta si sentì afferrare da quello sguardo d'oro turbinante. Fissò nel profondo degli occhi della creatura e quasi comprese... qualcosa. Poi la creatura ruggì un'ultima volta e affondò di nuovo negli abissi improvvisamente calmi. La scialuppa stava andando a pezzi attorno a loro, le assi si separavano mentre la poppa cedeva. Etta si sentì cullare fra le mani della nave insieme a Wintrow mentre Vivacia lasciava cadere i pezzi inutili di legno. La nave li sollevò fin dove altre mani ansiose li afferrarono e li tirarono a bordo. «Piano, piano!» gridò mentre prendevano Wintrow dalle sue braccia. «Portate acqua dolce. Tagliategli i vestiti e versate acqua e vino su di lui. Poi... poi...» Vivacia gettò all'improvviso un'esclamazione di meraviglia. Strinse le mani fumanti come in preghiera. «Ti conosco!» gridò. «Ti conosco!» Kennit si piegò su Etta che strisciava sul ponte. La mano dalle lunghe dita le accarezzò la guancia. «Me ne occupo io, mia cara.» La stessa mano che aveva comandato mare e serpente le toccò la pelle. Etta crollò sulla tolda e non seppe più nulla. Kennit aveva seguito il consiglio di Etta, in mancanza di uno migliore. Il ragazzo, avvolto in un lenzuolo di lino, ora dormiva nel letto del pirata. Il suo respiro era un sibilo. Aveva un aspetto orribile. Il corpo intero era così gonfio da essere quasi informe. La pelle aveva prodotto vesciche e bolle, staccandosi dal corpo. Il viscidume aveva divorato i vestiti, e poi aveva fuso insieme pelle e stoffa. Nel lavarlo, grandi pezzi di pelle si erano staccati, lasciando zone di carne rosse e spellate. Era un bene che fosse svenuto, rifletté Kennit. Altrimenti il dolore sarebbe stato terribile. Kennit si alzò rigidamente dai piedi del letto. Ora che il temporale era finito, aveva tempo per pensare. Ma non poteva. Certe cose non andavano considerate con troppa attenzione. Non avrebbe chiesto a Vivacia come aveva saputo di dover abbandonare il suo posto nella Baia dell'Inganno e andarlo a cercare. Non metteva in dubbio quello che aveva fatto il serpente. Non avrebbe tentato di cambiare l'umile deferenza che l'equipaggio gli mostrava. Bussò leggermente alla porta ed entrò Etta. I suoi occhi andarono a Wintrow e poi di nuovo a Kennit. «Ho un bagno che ti aspetta» disse, e poi si interruppe. Lo guardò come se non sapesse come chiamarlo. Kennit dovette sorridere.
«Bene. Rimani qui a sorvegliarlo. Fai ciò che ti sembra saggio per confortarlo. Continua a dargli acqua ogni volta che si risveglia. Tornerò presto. Posso fare il bagno da solo.» «Ti ho messo fuori vestiti asciutti» riuscì a dire Etta. «E cibo caldo. Sorcor è qui, chiede di vederti. Non sapevo cosa dirgli. La sentinella sulla Marietta ha visto tutto. Sorcor stava per farlo frustare come bugiardo. Gli ho detto che il marinaio non mentiva...» Le parole si esaurirono. Kennit la guardò. Aveva indossato una veste di lana. I capelli umidi, schiacciati sul cranio, gli ricordavano la testa di una foca. Etta lo fissò. Teneva le mani scottate strette davanti a lei, il respiro breve e rapido. «Che altro?» lo esortò Kennit con dolcezza. Etta si inumidì le labbra e tese la mano. «Questo era nel mio stivale. Quando mi sono cambiata. Penso... che venga dall'Isola degli Altri.» Gli tese le mani a coppa. In esse, non più grande dell'uovo di una quaglia, c'era un bambino, rannicchiato nel sonno, occhi chiusi, ciglia sulle guance, piccole ginocchia rotonde raccolte al petto. In qualunque cosa fosse intagliato, imitava perfettamente il fresco rosa della carne giovane. Una piccola coda serpentina avvolgeva il corpo. «Cosa vuol dire?» chiese Etta, con voce tremante. Kennit lo toccò con la punta del dito. La sua pelle abbronzata era scura contro di esso. «Penso che lo sappiamo entrambi, non è vero?» chiese con solennità. 35 Trehaug «Mi piace qui. È come vivere in una città di case sugli alberi.» Selden sedeva in fondo al divano dove giaceva Malta, ballonzolando assorto mentre parlava. Dove trovava tutta quell'energia? Malta desiderò che sua madre entrasse a cacciarlo via. «Ho sempre pensato che il tuo posto fosse su un albero» lo stuzzicò stancamente. «Perché non vai a giocare da qualche parte?» Il ragazzo la fissò come un gufo, poi sorrise con scaltrezza. Guardò il soggiorno, poi si fece più vicino a lei sul divano. Le si sedette su un piede, e Malta trasalì e lo tirò via. Le faceva ancora tutto male. Selden si avvicinò troppo e le bisbigliò in faccia: «Malta? Mi prometti una cosa?» Malta si allontanò da lui. Suo fratello aveva mangiato carne speziata.
«Cosa?» Il ragazzo si guardò di nuovo attorno. «Quando tu e Reyn vi sposate, posso vivere qui con voi a Trehaug?» Malta non gli disse quanto era improbabile che sposasse Reyn. «Perché?» Selden sedette diritto, dondolando i piedi. «Mi piace, qui. Ci sono altri ragazzi con cui giocare, e seguo le mie lezioni con alcuni figli dei Khuprus. Adoro i ponti sospesi. La mamma ha sempre paura che cada, ma la maggior parte hanno reti di protezione. Mi piace osservare gli uccelli di fuoco che tubano nelle secche del fiume.» Fece una pausa, poi aggiunse audacemente: «Mi piace che qui non sono tutti preoccupati tutto il tempo.» Si piegò ancor più vicino: «E mi piace la città vecchia. La notte scorsa mi ci sono intrufolato con Wilee, dopo che tutti erano addormentati. È così sinistra. La adoro.» «Eri nella città durante il terremoto della notte scorsa?» «Quella è stata la parte migliore!» Gli occhi del ragazzo erano ancora accesi di avventura. «Bene, non farlo di nuovo. E non dirlo alla mamma» lo avvertì automaticamente Malta. «Ti sembro stupido?» le chiese Selden con superiorità. «Sì» confermò la sorella. Selden sorrise. «Vado a trovare Wilee. Ha promesso di portarmi in una delle barche spesse, se riusciamo a sgraffignarla.» «Fai attenzione, o il fiume la mangerà sotto di voi.» Selden le rivolse un'occhiata di sufficienza. «Quella è una favola. Oh, se ci fosse un terremoto e il fiume diventasse bianco, allora potrebbe divorarla in fretta. Ma Wilee dice che una barca spessa dura dieci giorni, a volte di più se il fiume è regolare. Durano anche di più se le tiri in secca di notte, le capovolgi e ci pisci sopra.» «Che schifo. Probabilmente è un'altra falsa credenza che ti hanno raccontato per farti sembrare sciocco quando la ripeti.» «No. Due notti fa Wilee e io abbiamo visto gli uomini che pisciavano sulle barche.» «Vai via, sporcaccione.» Malta gli strappò via il copriletto. Selden si alzò. «Allora, posso vivere con te, dopo che avrai sposato Reyn? Non voglio tornare mai più a Borgomago.» «Vedremo» disse Malta con fermezza. Tornare a Borgomago? Si chiese se Borgomago esisteva ancora. Da quando erano arrivati non avevano avu-
to notizie dalla nonna, ed era improbabile che ce ne fossero. Le uniche comunicazioni che i piccioni viaggiatori portavano avanti e indietro parlavano della guerra. Il Kendry che li aveva portati sul fiume era l'unico veliero vivente che faceva quella rotta. Gli altri erano tutti in perlustrazione vicino all'estuario del fiume e attorno al porto di Borgomago, tentando di allontanare non solo le galee di Chalced ma anche i serpenti di mare. Ultimamente le acque vicino all'estuario del fiume ne erano infestate. Come un uccello che prende il volo, Selden saltò giù dal divano e lasciò la camera. Malta scosse la testa, seguendolo con lo sguardo. Il ragazzo si era ripreso in un batter d'occhio. Più che ripreso; era diventato all'improvviso una persona. Era quello che intendevano i genitori quando dicevano che i bambini crescevano così in fretta? Si sentì quasi sentimentale verso il suo seccante fratellino. Si chiese, ironica, se significava che anche lei stava crescendo. Si distese sul divano e chiuse gli occhi. Le finestre della camera erano aperte e l'aria del fiume entrava dall'una e usciva dall'altra. Si era quasi abituata all'odore. Qualcuno grattò leggermente alla porta, poi entrò. «Bene. Oggi hai un aspetto migliore.» La guaritrice era un'ottimista inveterata. «Grazie.» Malta non aprì gli occhi. La donna non portava il velo. Il suo viso aveva la consistenza di una focaccina rugosa. La pelle delle mani era ruvida come i polpastrelli di un cane. La faceva rabbrividire quando la toccava. «Sono sicura che ho solo bisogno di riposo» aggiunse Malta nella speranza di essere lasciata in pace. «Restare sdraiata adesso è la cosa peggiore per te. Mi hai detto che la vista è tornata normale. Non ci vedi più doppio?» «La mia vista sembra a posto» l'assicurò Malta. «Mangi bene, e il cibo ti piace?» «Sì.» «I capogiri sono scomparsi?» «Li ho solo se mi muovo all'improvviso.» «Allora dovresti muoverti.» La donna si schiarì la gola, un suono umido. Malta tentò di non trasalire. La guaritrice sbuffò rumorosamente, come se avesse trattenuto il respiro, poi proseguì: «Non abbiamo trovato ossa rotte. Devi alzarti e muoverti, ricordare alle tue membra come funzionano. Se rimani immobile troppo a lungo, il corpo dimentica. Potresti rimanere storpia.» Una risposta acida avrebbe solo reso la donna più insistente. «Forse me
la sentirò questo pomeriggio.» «Prima. Manderò qualcuno a passeggiare con te. È ciò che ti serve per guarire. Io ho fatto la mia parte. Ora tu devi fare la tua.» «Grazie» disse Malta distrattamente. La donna era singolarmente insensibile, per essere una guaritrice. Malta si sarebbe fatta trovare addormentata all'arrivo della sua assistente. Dubitava che chiunque l'avrebbe disturbata. Era l'unico beneficio della sua ferita; da allora dormiva libera dai sogni. Il sonno era di nuovo una via di fuga. Nel sonno poteva dimenticare la diffidenza di Reyn verso di lei, la prigionia o la morte di suo padre, perfino Borgomago che bruciava. Poteva dimenticare che lei e la famiglia ora erano indigenti, lei stessa ceduta per saldare un debito contratto prima che nascesse. Poteva nascondersi dai suoi fallimenti. Ascoltò il fruscio dei piedi della guaritrice che si allontanava. Tentò di assopirsi, ma la sua pace era stata interrotta. Prima sua madre, gravata da dolore e affanni, che si comportava come se Malta fosse stata la sua unica preoccupazione. Poi Selden e poi la guaritrice. Il sonno era fuggito. Si arrese e aprì gli occhi, fissando il soffitto a cupola. La struttura di vimini le ricordava un cesto. Trehaug non era di certo quello che si era aspettata. Aveva immaginato che la famiglia Khuprus vivesse in una grande dimora di marmo, in una città di edifici eleganti e ampie strade; stanze riccamente ornate, decorate con legno scuro e pietra, sontuose sale da ballo e lunghe gallerie. Invece era proprio come aveva detto Selden: una città di case sugli alberi. Le stanzette ariose tra gli alti rami dei grandi alberi lungo il fiume, collegate da ponti vacillanti. Tutto sulla sommità assolata degli alberi era leggerissimo. Alcune delle stanze più piccole erano poco più che grandi cesti di vimini che dondolavano come gabbiette di canarini quando il vento soffiava. I bambini dormivano in amache e sedevano in altalene. Tutto ciò che poteva essere intrecciato di erba o canniccio lo era. Erano dimore inconsistenti, un fantasma dell'antica città che avevano depredato. Scendendo nelle profondità di Trehaug quell'immagine cambiava. O così diceva Selden. Malta non si era avventurata fuori dalla sua stanza da quando si era svegliata lì. Le camere soleggiate come la sua erano in alto fra le cime degli alberi, mentre ai livelli inferiori esistevano officine, taverne, magazzini e botteghe in un eterno crepuscolo ombroso. In mezzo c'erano le stanze più importanti delle case dei Mercanti, sale da pranzo, cucine e sale di riunione, costruite di assi e travi. Keffria le aveva detto che erano lussuose, alcune non limitate a un solo albero, e belle come qualsiasi solenne dimora di Borgomago. Lì la ricchezza dei Mercanti delle Giungle della
Pioggia veniva messa in mostra, non solo nei tesori della città vecchia ma in tutti i lussi che la vendita delle loro merci esotiche aveva potuto consentire. Keffria aveva tentato di allontanare Malta dal letto raccontandole dell'arte e della bellezza che si poteva visitare. Malta non era stata tentata. Avendo perso tutto, non aveva nessun desiderio di ammirare la ricchezza altrui. Trehaug dondolava sulle rive del Fiume delle Giungle della Pioggia, adiacente al canale aperto. Ma il fiume non aveva vere rive. Paludi, fango e acquitrini incostanti si estendevano dal fiume aperto fin sotto gli alberi. Le acque corrosive dominavano il mondo, e fluivano dove desideravano. Un tratto di terra solido per una settimana poteva cominciare all'improvviso a formare bolle e poi affondare nel fango. Nessuno si fidava del terreno sotto i piedi. I pali che vi piantavano venivano divorati o cadevano lentamente. Solo le vaste radici degli alberi sembravano capaci di trovare stabilità. Malta non aveva mai visto o immaginato alberi simili. L'unica volta che si era avventurata alla finestra e aveva guardato giù, non era riuscita a scorgere il terreno. Fogliame e ponti ostruivano la vista. La sua camera era incastrata nel ramo forcuto di un albero. Una passerella sul ramo proteggeva la corteccia. Il ramo era largo abbastanza perché due uomini vi camminassero fianco a fianco, e conduceva a una scala a chiocciola attorno al tronco. La scala ricordava a Malta una strada popolata; c'erano perfino venditori ambulanti sui pianerottoli. Di notte le pattuglie di sorveglianti tenevano rifornite e accese le lanterne sulle scale e sui ponti. La notte portava un'aria di festa: la città fioriva di collane luminose. Il popolo delle Giungle della Pioggia usava a mo' di vasi amache e truogoli di terra sospesi fra gli alberi. Gli addetti alla raccolta del cibo avevano i loro sentieri attraverso gli alberi e sopra le regioni paludose. Raccoglievano frutta esotica, fiori e selvaggina delle Giungle della Pioggia. L'acqua veniva dal vasto sistema di grondaie, perché nessuno poteva dissetarsi al fiume e sperare di vivere. Le barche spesse, scavate da tronchi verdi, venivano estratte dal fiume ogni sera e appese agli alberi. Erano il trasporto provvisorio fra le «case», insieme ai ponti oscillanti e ai carrelli a puleggia che collegavano gli alberi. I grandi alberi sostenevano la città intera. Un terremoto in grado di formare bolle e spaccature nella terra bagnata li faceva semplicemente oscillare con dolcezza. Là sotto, sul terreno vero e proprio, c'era la città vecchia, certo, ma dalla descrizione di Selden era poco più che un grumo nella regione paludosa. Il piccolo pezzo di terra che la circondava era destinato alle officine per il
restauro e l'esplorazione della città. Nessuno vi viveva. Quando Malta aveva chiesto a Selden il motivo, il ragazzo aveva scrollato le spalle. «Uno impazzisce se trascorre troppo tempo in città.» Poi aveva alzato la testa e aveva aggiunto: «Wilee dice che forse Reyn è già pazzo. Prima che cominciasse a farti la corte, passava più tempo laggiù di quanto chiunque altro abbia mai fatto. Ha quasi preso la malattia fantasma.» Selden aveva gettato uno sguardo attorno. «Quella che ha ucciso suo padre, sai» aveva aggiunto in un bisbiglio rauco. «Cos'è la malattia fantasma?» aveva chiesto Malta, incuriosita suo malgrado. «Non so. Non esattamente. Si annega nei ricordi. È quello che ha detto Wilee. Cosa significa?» «Non lo so.» La recente abilità di fare domande era quasi peggio dei precedenti lunghi silenzi di Selden. Malta si stiracchiò sul divano, poi si rannicchiò di nuovo nel copriletto. La malattia fantasma. Annegare nei ricordi. Scosse la testa e chiuse gli occhi. Un altro grattare alla porta. Malta non rispose. Rimase immobile e rese la sua respirazione profonda e lenta. Sentì la porta aprirsi strisciando sul pavimento. Qualcuno entrò nella stanza. Qualcuno si avvicinò al letto e la fissò. Rimase semplicemente immobile a guardarla fingere il sonno. Malta mantenne la finzione e aspettò che l'intruso se ne andasse. Invece una mano guantata le toccò il viso. Malta spalancò gli occhi. Un uomo velato le stava vicino. Era tutto vestito di nero. «Chi siete? Cosa volete?» Si ritrasse dal suo tocco, afferrando il copriletto. «Sono io. Reyn. Dovevo vederti.» Osò sedersi sul bordo del divano. Malta spostò i piedi per evitare ogni contatto con lui. «Sai che non voglio vederti.» «Lo so» ammise Reyn con riluttanza. «Ma non sempre otteniamo ciò che vogliamo, vero?» «Tu sì» rispose Malta amaramente. Reyn si alzò con un sospiro. «Te l'ho detto. E te l'ho scritto, in tutte le lettere che mi hai rimandato indietro. Quel giorno fu la mia disperazione a parlare. Avrei detto qualsiasi cosa per convincerti a venir via con me. Tuttavia non intendo applicare il contratto sul veliero vivente tra le nostre famiglie. Non ti pretenderò come pagamento per un debito, Malta Haven. Non ti voglio contro la tua volontà.»
«Eppure eccomi qui» indicò Malta acida. «Viva» aggiunse Reyn. «Non certo grazie agli uomini che avete mandato a catturare il Satrapo» commentò sarcastica la ragazza. «Mi hanno lasciata a morire.» «Non sapevo che fossi nella carrozza» si scusò Reyn con voce soffocata. «Se ti fossi fidato abbastanza da dirmi la verità al ballo, non ci sarei stata. Neanche mia madre, mia nonna o mio fratello. La tua diffidenza ci ha fatto rischiare di morire. Ha ucciso Davad Restart, colpevole solo di essere avido e stupido. Se fossi morta, tu saresti colpevole. Forse mi hai salvato la vita, ma solo dopo avermela quasi tolta. Perché non ti sei fidato di me.» Erano le parole che aveva voluto gridargli da quando aveva ricostruito gli avvenimenti di quella sera. La conoscenza aveva trasformato la sua anima in pietra. Aveva immaginato di dirgli quelle parole così spesso, eppure non aveva mai davvero capito quanto fosse profondo il suo dolore finché non le pronunciò ad alta voce. Riuscì a malapena a farle uscire dal groppo che aveva in gola. In silenzio, Reyn stava ancora in piedi accanto a lei. Malta guardò quel volto impassibile che aveva davanti a sé e si chiese se provava qualcosa. Lo udì inspirare. Silenzio. Di nuovo quel respiro difficoltoso. Reyn cadde in ginocchio con lentezza. Senza capire, Malta lo guardò, inginocchiato sul pavimento accanto al letto. La voce del giovane era così strozzata da essere quasi incomprensibile. Le parole si riversarono fuori da lui. «So che è colpa mia. L'ho saputo per tutte le notti in cui giacevi qui, senza muoverti. Mi divorava come l'acqua di fiume consuma un albero morente. Ti ho quasi uccisa. Pensare a te, lì distesa, sanguinante e sola... Darei qualsiasi cosa per cambiare ciò che è successo. Sono stato stupido e ho avuto torto. Non ho il diritto di chiederlo, ma ti imploro. Ti prego, perdonami. Per favore.» La sua voce si spezzò in singhiozzi. Strinse i pugni contro il velo. Malta si coprì la bocca con le mani. Sconvolta, guardò le spalle di Reyn che tremavano. Stava piangendo. La ragazza pronunciò ad alta voce il suo pensiero sbalordito. «Non ho mai sentito un uomo dire parole come queste. Non pensavo che fosse possibile.» In un attimo devastante, il suo concetto di base degli uomini fu riarrangiato. Non doveva percuoterlo con le parole o spezzarlo con accuse inflessibili. Reyn sapeva ammettere di avere torto. Non come mio padre, bisbigliò il pensiero traditore. Malta rifiutò di seguirlo. «Malta?» La voce di Reyn era densa di lacrime. Era ancora inginocchiato davanti a lei.
«Oh, Reyn. Per favore, alzati.» Era troppo sconvolgente vederlo così. «Ma...» Malta si stupì di sé stessa. «Ti perdono. È stato un errore.» Non aveva mai saputo che quelle parole potessero essere così facili. Non doveva trattenerle. Poteva sfogarsi. Non doveva conservare la colpa di Reyn per usarla più tardi contro di lui quando voleva qualcosa. Forse fra loro non sarebbe mai stato così. Forse non si sarebbe mai trattato di chi aveva ragione o torto, o chi controllava l'altro. E allora, di che cosa si sarebbe trattato, tra loro? Reyn si rialzò vacillando. Le girò le spalle, si alzò il velo e si passò la manica sugli occhi come un bambino, prima di trovare il fazzoletto. Si asciugò gli occhi. Malta lo sentì trarre un respiro profondo. Quietamente, mise alla prova quella nuova idea. «Se oggi scegliessi di ritornare a Borgomago, me lo impediresti?» Reyn scrollò le spalle, continuando a non guardarla. «Non sarebbe necessario. Il Kendry non salpa fino a domani sera.» Il suo tentativo di scherzare andò a vuoto. Infelicemente aggiunse, voltandosi verso di lei: «Potrai partire allora, se insisti. È l'unico modo per tornare a Borgomago, o a quello che ne resta.» Malta si raddrizzò con lentezza. La domanda le sfuggì dalle labbra. «Hai notizie di Borgomago? Di casa mia e di mia nonna?» Reyn scosse la testa, sedendosi accanto a lei. «Mi spiace. No. Non ci sono molti piccioni viaggiatori, e vengono tutti usati per avere notizie della guerra.» Con riluttanza, aggiunse: «Molti raccontano di saccheggi. I Nuovi Mercanti si sono ribellati. Alcuni dei loro schiavi lottano accanto a loro. Altri si sono schierati con i Mercanti di Borgomago. A Borgomago i vicini combattono i vicini, il più brutto tipo di guerra, perché conoscono meglio le reciproche debolezze. In queste battaglie ci sono sempre quelli che non scelgono una parte, ma saccheggiano e depredano i più deboli. Tua madre spera che tua nonna sia fuggita alla sua piccola fattoria, come intendeva fare. Là sarebbe più al sicuro. I terreni dei Vecchi Mercanti sono...» «Basta. Non voglio ascoltare, non voglio pensarci.» Malta si premette le mani sulle orecchie e si rannicchiò, gli occhi serrati. La sua casa doveva esistere. Da qualche parte doveva esserci un luogo con pareti solide e una sicura normalità. Il suo respiro era rapido e faticoso. Ricordava poco della fuga da Borgomago. Le faceva male tutto, e quando tentava di vedere, le immagini erano doppie e triple. Il cavallo aveva un'andatura brusca, e Reyn la teneva davanti a sé. Avevano cavalcato troppo in fretta, troppo
duramente. Il fumo denso nell'aria, e le urla e le grida lontane. Alcune strade erano bloccate dalle macerie degli edifici bruciati. Tutti i moli in porto erano rottami anneriti e fumanti. Reyn aveva trovato una barca fallata. Selden aveva tenuto Malta in piedi per non farla cadere nella sentina sporca mentre sua madre e Reyn manovravano i remi tarlati per portarli fuori al Kendry... Malta si trovò tra le braccia di Reyn, ancora rannicchiata su sé stessa. Il giovane sedeva sul letto, stringendola e cullandola mentre le accarezzava la schiena con lentezza, appoggiandole il mento alla sommità della testa. «Shhh, shhh, adesso è tutto finito, è tutto finito» continuava a ripetere. Le sue braccia erano forti attorno a lei. La sua casa era scomparsa. Quello era l'unico luogo sicuro che le rimaneva, ma le parole di Reyn erano troppo vere per essere confortanti. Tutto andato, tutto finito, tutto rovinato. Troppo tardi per tentare di più, troppo tardi per piangerci sopra. Troppo tardi per tutto. Si raggomitolò ancor più contro di lui e lo circondò con le braccia, tenendolo stretto. «Non voglio più pensare. Non voglio più parlare.» «Neanch'io.» Con la testa sul petto di Reyn, Malta sentì le parole risuonare dentro di lui. Tirò su con il naso, poi sospirò pesantemente. Quasi si asciugò gli occhi sulla manica, poi si ricordò di sé stessa. Brancolò in cerca del fazzoletto. Invece Reyn le mise fra le mani il suo, umido delle sue lacrime. Malta si asciugò gli occhi. «Dov'è mia madre?» chiese stanca. «Con la mia. E alcuni del nostro Concilio. Stanno parlando di quello che va fatto.» «Mia madre?» «La Mercante Vestrit dei Mercanti di Borgomago ha il diritto di parlare come qualsiasi altro Mercante. E ha idee brillanti. Ha suggerito di raccogliere l'acqua del Fiume in robusti secchi di legno verde come arma contro le galee, da caricare sulle catapulte in modo che si rompano sui ponti. Forse il danno non sarà immediato, ma con il tempo le navi comincerebbero a indebolirsi e sfasciarsi, e i rematori a rimanere scottati.» «A meno che non sappiano di dover pisciare sui ponti» mormorò Malta. Reyn fece una risata involontaria. La strinse a sé. «Malta Vestrit, le cose che sai mi stupiscono. Come hai scoperto questo segreto?» «Me lo ha detto Selden. I bambini spiano qualsiasi cosa.» «Vero» rispose pensieroso Reyn. «I bambini e i domestici sono praticamente invisibili. Molte delle nostre informazioni prima delle sommosse
venivano dalla rete di schiavi di Ambra.» Malta gli mise la testa sulla spalla. Reyn la circondò con le braccia e la tenne stretta. Non era romantico. Non c'era più nulla di romantico. Era solo stanca. «Ambra? La creatrice di perline?» chiese. «Cosa c'entrava con gli schiavi?» «Parlava con loro. Molto. A quanto pare si disegnava falsi tatuaggi sul viso e si camuffava da schiava al pozzo e ai lavatoi e in tutti i luoghi dove gli schiavi si riuniscono per lavorare. Dapprima raccoglieva notizie dai loro pettegolezzi, ma alla fine ha arruolato alcuni schiavi per aiutarla. Ha aperto quella rete alla famiglia Tenira. Grag e suo padre ne hanno fatto buon uso.» «Che genere di notizie?» chiese abbattuta Malta. Non sapeva perché se ne preoccupasse. Tutto si riduceva a una cosa sola. Guerra. Persone che si ammazzavano e distruggevano. «Gli ultimi pettegolezzi da Jamaillia. Quali nobili sono alleati fra loro, quali hanno interessi sostanziali a Chalced. Tutte informazioni che ci servivano per farci valere a Jamaillia. Non siamo una provincia ribelle, non proprio. Ciò che facciamo è nell'interesse della Satrapia. C'è un gruppo di nobili di Jamaillia che vorrebbe rovesciare il Satrapo e prendere il potere. Lo hanno incoraggiato ad andare a Borgomago, sperando proprio in quello che è successo. Disordini. Attentati alla sua vita.» Quasi con riluttanza, ammise: «Il Mercante Restart non era un traditore. Anzi, la sua invadenza quando è arrivata la flotta di Chalced ha mandato a monte i piani dei traditori, perché il Satrapo è finito in casa sua invece che nelle loro mani. Non fosse stato per lui, l'assalto di Borgomago sarebbe cominciato molto prima.» «Perché tutto questo è importante?» chiese depressa Malta. «È una situazione complicata. Essenzialmente è la guerra civile di Jamaillia, non la nostra. Hanno solo deciso di combatterla nei nostri territori. Alcuni dei nobili di Jamaillia sono disposti a consegnare Borgomago a Chalced, in cambio di trattati commerciali favorevoli, un pezzo di quello che il Satrapo ha sempre voluto per sé e più potere per loro a Jamaillia. Hanno fatto di tutto per far riconoscere le loro famiglie e le loro rivendicazioni a Borgomago. Ora hanno dato l'impressione che i Mercanti di Borgomago si siano ribellati contro la Satrapia. Ma è tutta una copertura per i loro piani di rovesciare un Satrapo incompetente e prendere il potere. Capisci?» «No. E non mi importa. Reyn, voglio solo riavere mio padre. Voglio an-
dare a casa. Voglio che tutto torni come prima.» Reyn lasciò cadere il capo in avanti, appoggiandole la fronte sulla spalla. «Un giorno» disse con voce soffocata, «vorrai qualcosa che posso darti. Prego Sa che sia così.» Sedettero insieme in silenzio per qualche momento. Qualcuno grattò alla porta. Reyn sobbalzò, ma non poteva certo scaricare Malta sul pavimento. La porta si aprì e una donna delle Giungle della Pioggia apparve sulla soglia, del tutto scandalizzata, addirittura a bocca aperta. Riprese fiato e sbottò: «Sono venuta ad assistere Malta Vestrit. La guaritrice consiglia che si alzi e vada a fare una passeggiata.» «Ci penso io» annunciò Reyn rassicurante, come se fosse perfettamente suo diritto trovarsi solo con Malta fra le braccia, nella sua camera. Malta si guardò le mani strette in grembo. Non riuscì a controllare il rossore che le riscaldò le guance. «Io... questo è...» «Puoi dire alla guaritrice che me ne sono occupato io» le ordinò Reyn con fermezza. Mentre la donna fuggiva, lasciando la porta spalancata, aggiunse a bassa voce: «E a mia madre. E a mio fratello. E a chiunque altro incontrerai per strada che voglia spettegolare su di me.» Scosse la testa e la stoffa del velo sussurrò contro i capelli di Malta. «Mi sentirò le mie. Per ore.» La strinse brevemente, poi la lasciò. «Vieni. Almeno non fare di me un bugiardo oltre che un mascalzone. Alzati e passeggia con me.» La sollevò dal suo grembo. Malta si alzò e gli tese il copriletto. Indossava una vestaglia, un indumento non provocante, ma non era l'abbigliamento adatto a una giovane in presenza di estranei alla famiglia. Si portò la mano ai capelli. Mentre se li allontanava dalla fronte, le sue dita sfiorarono la cicatrice. Trasalì. «Fa ancora male?» chiese subito Reyn. «Non molto. Eppure mi sorprende che ci sia ancora. Devo avere un aspetto orribile. Oggi non mi sono pettinata... Reyn, non vogliono darmi uno specchio. È molto brutta?» Reyn inclinò la testa per guardarla. «Tu diresti di sì. Io dico di no. Ora è livida e gonfia, ma il tempo la farà svanire.» Scosse il capo velato. «Ma non svanirà mai dalla mia memoria il pensiero che sia stato io a causarla...» «Reyn, no» lo pregò Malta. Il giovane trasse un respiro. «Non hai un aspetto orribile. Sembri una gattina arruffata.» La mano guantata asciugò un'ultima lacrima dal viso
della fanciulla. Malta camminò rigidamente fino a un tavolino dove c'erano i suoi articoli da toeletta. La spazzola non le era familiare. Senza dubbio l'aveva offerta la famiglia di Reyn, come la stanza e il cibo e i vestiti. La sua famiglia aveva lasciato Borgomago senza niente. Niente. Da quando erano arrivati avevano vissuto di carità. «Lascia fare a me» le chiese Reyn. Le prese di mano la spazzola. Malta guardò fuori dalla finestra mentre Reyn la pettinava dolcemente. «Sono così folti. Come fili di seta pesante, e così neri. Come riesci a tenerli in ordine? Mia madre si lagnava sempre dei miei capelli quando ero ragazzo, eppure penso che lunghi capelli lisci sarebbero più difficili dei ricci.» «Hai i capelli ricci?» gli chiese Malta distrattamente. «Come nodi sfilacciati, mi dice la mia sorella maggiore. Da piccolo, quando Tillamon doveva pettinarmi, giuro che me ne strappava metà.» Malta si rivolse all'improvviso verso di lui. «Voglio vederti.» Reyn cadde su un ginocchio davanti a lei, spazzola in mano. «Malta Vestrit, vuoi sposarmi?» Malta era sgomenta. «Ho scelta?» «Certo.» Reyn non si mosse. La ragazza trasse un respiro. «Non posso, Reyn. Non ancora.» Reyn si alzò con scioltezza. Prendendola per le spalle, le fece girare la schiena. Ricominciò a pettinarla gentilmente. Se l'aveva ferito, la sua voce non lo lasciava intendere. «Allora non puoi vedermi in viso.» «È un'usanza delle Giungle della Pioggia?» «No. È l'usanza di Reyn Khuprus riguardo a Malta Vestrit. Potrai vedermi quando dirai che mi sposerai.» «È ridicolo» protestò Malta. «No. È pazzesco. Chiedi a mia madre o a mio fratello. Ti diranno che sono pazzo.» «Troppo tardi. Il mio fratellino mi ha raccontato anche quello. Reyn Khuprus è pazzo perché passa troppo tempo nella città. È annegato nei ricordi.» Aveva parlato con leggerezza, come se fosse stata una battuta. Sotto i suoi occhi sgomenti Reyn lasciò cadere la spazzola e rimase immobile. Dopo un momento chiese con voce sommessa e inorridita: «Lo dicono davvero?» «Reyn, scherzavo.» Si girò per guardarlo, ma il giovane si allontanò in fretta e andò a guardar fuori dalla finestra.
«Annegato nei ricordi. Non puoi averlo inventato, Malta Vestrit. È una frase delle Giungle della Pioggia. Lo dicono di me, vero?» «Un ragazzino che parla con un altro... lo sai, i bambini si raccontano storie per fare colpo, esagerano...» «Ripetono quello che hanno sentito dagli adulti» concluse stordito Reyn. «Pensavo che fosse solo un... È davvero così grave? Annegare nei ricordi?» «Sì» disse Reyn, abbattuto. «Sì, lo è. Quando uno diventa pericoloso, gli danno un veleno molto dolce. Si muore nel sonno. Se si riesce ancora a dormire. Io ci riesco ancora. Non spesso, e non a lungo, ma rende il vero sonno ancora più dolce.» «Il drago» confermò piano Malta. Reyn trasalì come se fosse stato pugnalato e si girò a fissarla. «Quello del nostro sogno» proseguì la fanciulla. Sembrava passato tanto tempo. «Ha minacciato che ti avrebbe cercata, ma pensavo che fosse una vuota vanteria.» Reyn sembrava nauseato. «Lei ha...» Malta stava per dire come il drago l'aveva tormentata. Poi si fermò. «Non mi ha infastidita da quando mi sono fatta male. Se n'è andata.» Reyn rimase in silenzio per qualche momento. «Quando sei svenuta lei ha perso il contatto con te, suppongo.» «Può succedere?» «Non lo so. So molto poco di lei. Tranne che nessun altro crede in lei. Tutti pensano che io sia pazzo.» Emise una risata tremula. Malta gli tese la mano. «Andiamo a passeggiare. Mi hai promesso di mostrarmi la tua città.» Reyn scosse con lentezza la testa. «Non posso più andarci. A meno che mio fratello o mia madre non lo ritengano necessario. L'ho promesso.» C'era un senso di perdita profonda nella sua voce. «Perché? Perché lo hai fatto?» Il giovane soffocò una breve risata. «Per te, mia cara. Ho barattato la mia città per te. Mi hanno promesso che se me ne fossi tenuto lontano, a meno che non me lo avessero consentito, se avessi abbandonato ogni speranza di liberare il drago, avrebbero cancellato il debito del veliero vivente, mi avrebbero assegnato una rendita da adulto da spendere come desideravo, e mi avrebbero permesso di visitarti ogni volta che desideravo.» Se Malta non avesse diviso i suoi sogni con lui, non avrebbe capito quel-
lo che aveva abbandonato per lei. Invece lo sapeva. La città era il suo cuore. Sondare i suoi segreti, percorrere le sue strade sussurranti, convincere i suoi misteri ad aprirsi era lo scopo della sua vita. Aveva rinunciato a sé stesso, per lei. Reyn continuò quietamente. «Così, vedi, il contratto è già sistemato. Non devi sposarmi per onorarlo.» Le sue mani guantate si aggrovigliarono disperatamente. «E il drago?» chiese Malta, senza fiato. «Ora mi odia. Suppongo che se potrà affogarmi nei suoi ricordi, lo farà. Tenta di spingermi ad andare da lei. Ma io resisto.» «Come?» Reyn sospirò. Con una vena di umorismo, confessò: «Quando diventa davvero brutto, mi ubriaco al punto che non riesco neanche a strisciare. Poi svengo.» «Oh, Reyn.» Malta scosse la testa, comprendendo. E allora è tutto per lei, congetturò. Da tormentare come desidera, nel suo mondo, senza via di fuga. Trasse un respiro. «E se ti sposassi come parte del contratto? Se dicessi che preferisco pagarlo così, piuttosto che farlo cancellare alla tua famiglia? Saresti libero dal tuo accordo?» Reyn scosse con lentezza la testa. «No.» Inclinò la testa. «Lo faresti davvero?» Malta non lo sapeva. Non poteva decidere. Reyn aveva accettato un accordo così terribile, solo per stare con lei. Ma la ragazza non poteva ancora dire, con certezza, che desiderava sposarlo. Lo conosceva così poco. Come poteva aver dubitato di lei, eppure rinunciare alla sua città per lei? Non aveva senso. Gli uomini non erano affatto quello che aveva creduto. Gli tese la mano. «Portami a fare una passeggiata.» Senza una parola, Reyn la prese. La condusse fuori dalla stanzetta, fino alla passerella che saliva a spirale sul tronco dell'albero immenso. Malta gli tenne la mano e non guardò giù, né si voltò indietro. «Non riesco a capire che cosa ne ricaviamo a tenerlo. Così sembra che lo abbiamo rapito.» Il magro Mercante delle Giungle della Pioggia si lasciò ricadere contro lo schienale della sedia, irritato. «Mercante Polsk, il tuo cervello è troppo lento. Il vantaggio è ovvio. Se abbiamo il Satrapo, lui stesso può parlare per noi. Può dire che non lo abbiamo rapito, lo abbiamo salvato dal complotto dei Nuovi Mercanti.» La Mercante Freye, che criticava così duramente il Mercante Polsk, sedeva
accanto a lui. Keffria decise che dovevano essere amici o parenti. «Lo abbiamo davvero convinto che è questa la verità? L'ultima volta che l'ho sentito, sembrava credere di essere stato strappato a un cortese padrone di casa e fatto sparire. Non ha usato la parola 'rapito', ma credo che l'avesse sulla punta della lingua» rispose il Mercante Polsk. «Dovremmo metterlo in un alloggio diverso. Dove si trova ora non può fare a meno di sentirsi un prigioniero.» Questo era il Mercante Kewin, dal velo decorato così fittamente di perle che ticchettava con ogni parola. «È più al sicuro dove si trova. Eravamo tutti d'accordo, ore fa. Per favore, Mercanti, non ripercorriamo il terreno che abbiamo già plasmato in mattoni. Lasciamo perdere la ragione per cui lo tratteniamo, o il luogo, e pensiamo a cosa fare di lui.» Jani Khuprus sembrava stanca e irritata. Keffria poteva capirla. C'erano momenti in cui Keffria si guardava attorno e si chiedeva dov'era finita la sua vita. Eccola seduta su un robusto seggio a una tavola imponente, affiancata dai Mercanti più potenti delle Giungle della Pioggia. I piani che discutevano equivalevano al tradimento contro la Satrapia di Jamaillia. Eppure ciò che la circondava non era strano come ciò che mancava. Tutto. Marito, figlio, madre, ricchezza e casa erano tutti svaniti dalla sua vita. Girò lo sguardo sui visi leggermente velati e si chiese perché tolleravano la sua presenza. Cosa poteva offrire al loro Concilio? E tuttavia, parlò. «La Mercante Khuprus ha ragione. Prima agiamo, più vite salveremo. Dobbiamo far sapere a Jamaillia che è vivo e sta bene. Dobbiamo fargli capire chiaramente che non intendiamo fargli del male, e che lo tratteniamo solo per la sua sicurezza. Inoltre penso che dobbiamo distinguere questo messaggio da qualsiasi altro negoziato. Se menzioniamo concessioni di terra o la schiavitù o le tariffe nella stessa lettera, penseranno che vogliamo barattare la vita del Satrapo con quello che desideriamo.» «E perché non dovremmo?» La Mercante Lorek parlò all'improvviso. Era una donna muscolosa. Colpì il tavolo con un pugno massiccio. «Rispondete a questo, per prima cosa. Perché tratteniamo quell'adolescente viziato in una bella camera che usa come un porcile, e gli serviamo i nostri migliori cibi e vini, quando ci ha trattati come repellenti creature senza onore? Io dico di portarlo qui e costringerlo a guardarci. Un paio di tuffi nel Fiume delle Giungle della Pioggia, e un mese di lavoro duro, e vedremo se non guadagna un po' di rispetto per le nostre usanze. Poi scambiamo la sua vita per quello che vogliamo.» Lo sfogo fu seguito dal silenzio. Poi il Mercante Kewin rispose ai com-
menti di Keffria. La donna notò che la maggior parte del Concilio sembrava ignorare le esternazioni della Mercante Lorek. «A chi spediamo il messaggio? La Compagna Serilla sospetta che la congiura si estenda in molte nobili casate di Jamaillia. Magari sono furiosi perché gli abbiamo salvato la vita. Prima di vantarci di aver sventato il piano, forse dovremmo scoprire i responsabili.» Il Mercante Polsk inclinò indietro la sedia. «Lasciate che ve lo spieghi un vecchio dal cervello lento. Rimandiamo il ragazzo da dove è venuto. Lasciamo che se ne occupino loro. Che lo uccidano là, se sono così decisi a farlo. Che si uccidano l'un l'altro, per quel che me ne importa. Legategli al collo una nota per informarli che ne abbiamo abbastanza di lui e di Jamaillia, e che ora faremo a modo nostro. Già che ci siamo, ripuliamo i nostri porti e le nostre idrovie dalla gente di Chalced, e questa volta facciamo in modo che sia definitivo.» Molti Mercanti accennarono di sì, ma Jani Khuprus sospirò. «Mercante Polsk, sei andato al cuore del problema. Molti di noi vorrebbero che fosse così semplice. Ma non lo è. Non possiamo rischiare la guerra con Chalced e Jamaillia allo stesso tempo. Se dobbiamo placare una delle due, che sia Jamaillia.» Il Mercante Kewin scosse con violenza la testa. «Non alleiamoci con nessuno finché non sappiamo chi sostiene chi. Dobbiamo sapere cosa sta succedendo a Jamaillia. Temo che dovremo trattare il Satrapo con tutti i riguardi e tenercelo, e intanto mandare una nave di delegati a Jamaillia, sotto bandiera bianca, per scoprire com'è la situazione.» «Rispetterebbero una bandiera bianca?» chiese uno, mentre un altro Mercante intervenne: «Superando pirati e mercenari di Chalced, e ritorno? Sapete quanto tempo ci vorrebbe? Per allora potrebbe non rimanere nulla di Borgomago.» Forse fu la menzione della sua casa, ma all'improvviso le cose parvero gelidamente chiare a Keffria. Sapeva quale doveva essere il suo contributo a quella riunione. La stessa cosa che avevano portato i suoi antenati quando erano venuti alle Rive Maledette per costruirsi case su un territorio ostile. Aveva sé stessa: il suo coraggio, e la sua intelligenza. Era tutto quello che le restava da offrire. «Non abbiamo bisogno di andare fino a Jamaillia per scoprirlo» disse quietamente. Tutti i visi velati intorno al tavolo si rivolsero all'improvviso verso di lei. «Le risposte che ci servono sono a Borgomago. Là ci sono traditori che erano disposti a lasciar uccidere un ragazzo per agguantare altre nostre terre e rifarle a immagine di Chalced.
Mercanti, non dobbiamo andare a Jamaillia per scoprire chi sono i nostri amici. Basta arrivare a Borgomago per sapere chi sono i nostri nemici, là e a Jamaillia.» La Mercante Lorek colpì di nuovo il tavolo. «E come, Mercante Vestrit? Chiedendoglielo con garbo? O suggerite di prendere qualche prigioniero ed estorcergli le informazioni?» «Né l'uno né l'altro» disse piano Keffria. Guardò le facce velate attorno al tavolo. A giudicare dal silenzio rapito, sembravano ascoltarla. Trasse un respiro. «Potrei rifugiarmi da loro e affidarmi alla loro comprensione.» Un altro respiro. «Guardatemi. I pirati hanno preso mio marito, originario di Chalced. Scacciata dalla mia casa, i miei figli 'uccisi' nel rapimento del Satrapo, per non parlare del mio vecchio amico Davad Restart. Potrei persuaderli che sono dalla loro parte. E in qualche modo potrei comunicarvi quello che scopro.» «Troppo pericoloso.» Polsk condannò in fretta l'idea. «Non avete abbastanza da offrire» disse con calma la Mercante Freye. «Avete bisogno di maggior potere di contrattazione. Informazioni su di noi o sul fiume. Qualcosa di concreto.» Keffria pensò per un momento. «Un messaggio dal Satrapo, di suo pugno, che dice è vivo e implora l'aiuto dei suoi nobili. Potrei offrire di tradirlo.» «Non basta.» Freye scosse la testa. Keffria comprese all'improvviso. «Il mio veliero vivente» disse piano. «Potrei offrire uno scambio. Chiedere di recuperare la mia nave di famiglia e mio marito. In cambio, userei la Vivacia per portarli sul fiume, così potrebbero attaccarvi e riprendere il Satrapo.» «Quello funzionerebbe» concordò Jani Khuprus con riluttanza. «Se offriste solo un tradimento, sospetterebbero di voi. Ma se chiedete un favore o cercate un accordo, accetteranno i vostri motivi.» Polsk sbuffò. «Troppo difficile. E se qualcuno avesse parlato con vostra madre? Come avreste ottenuto il messaggio del Satrapo? Tutti sanno che Malta era promessa a Reyn. Non crederebbero alla vostra animosità improvvisa.» «Penso che mia madre abbia abbandonato la città lo stesso giorno che me ne sono andata io. E non ho parlato a nessuno dopo il ballo; siamo solo svaniti. Potrei dire che siamo stati rapiti insieme al Satrapo e che i miei figli sono morti per le ferite riportate, e io sono stata tenuta prigioniera con lui. Ho guadagnato la sua fiducia, lui ha scritto il messaggio, io sono fuggi-
ta, ma ho deciso di tradirlo perché lo giudico colpevole.» Keffria fece una pausa. La sua inventiva si esaurì. Che le era venuto in mente? Era una trama troppo fragile; qualunque sciocco poteva rendersene conto. Gli altri Mercanti lo avrebbero capito, e l'avrebbero dissuasa. Lei stessa sapeva che non poteva farlo. Sua sorella Althea, perfino sua figlia Malta ne avevano lo spirito e il coraggio. Ma lei era solo una donna silenziosa come un topolino, protetta e ingenua. Bastava guardarla in faccia. Non glielo avrebbero mai permesso. All'improvviso si sentì sciocca per aver anche solo suggerito quel piano ridicolo. Il Mercante Polsk congiunse le dita magre sul tavolo. «Molto bene. Avete ragione. Nondimeno, insisto che la Mercante Vestrit ci pensi per una notte prima di decidere. Ha affrontato una grande prova. Qui i suoi figli sarebbero al sicuro, ma manderemmo lei verso un grande pericolo, con poche risorse.» «Il Kendry parte domani. Potrebbe essere pronta per allora?» insisté la Mercante Lorek. «Siamo ancora in contatto con alcuni schiavi in famiglie di Nuovi Mercanti. Potrebbero passarci informazioni. Vi troverò un elenco di nomi da imparare a memoria» propose la Mercante Freye. Guardò tutti i presenti riuniti intorno al tavolo. «Tutti accettiamo, è ovvio, che questo piano non deve lasciare la stanza.» «Certo che no. Ne parlerò solo al capitano del Kendry, per suggerire che potrebbe esserci una clandestina sulla sua nave. Una che non va scoperta. Il capitano potrà tenere l'equipaggio lontano da lei.» «Avrete bisogno di provviste, ma non possiamo darvi un bagaglio troppo fornito, o la storia non sembrerà vera» si preoccupò Jani ad alta voce. «Dovremmo prepararle un braccialetto. D'oro, dipinto per sembrare smalto scadente. Se viene minacciata, può usarlo per comprare la sua vita» aggiunse Freye. Keffria ascoltò mentre il piano che aveva suggerito prendeva forma attorno a lei. Si chiese se era il pesce preso nella rete, o il pescatore che l'aveva gettata. Il timore che provava era una sensazione familiare; non lo era l'esaltazione inebriante che lo accompagnava, invece. Cosa stava diventando? «Insisto, dobbiamo lasciarle almeno una notte per pensarci bene» ripeté Polsk. «Partirò con il Kendry» asserì quietamente Keffria. «Vi affido i miei figli. Dirò loro che torno a Borgomago per persuadere la loro nonna a rag-
giungerci qui. Vi imploro, non lasciate che sappiano la verità.» Le teste velate attorno al tavolo annuirono. Jani Khuprus parlò sommessamente. «Prego solo che il porto di Borgomago sia ancora in mano nostra quando arriverete. Altrimenti tutto questo piano sarà stato inutile.» Era una notte di nero e argento. Malta supponeva che fosse bella, a suo modo, ma non aveva tempo per considerare la bellezza nella sua vita. Non più. La luna luccicante sopra di lei, il fruscio del fiume mortale al di sotto, e in mezzo la nebbia vagante e una brezza leggera: tutte cose da ignorare mentre si concentrava sulla lieve oscillazione del ponte sotto i suoi piedi. Le dava la nausea. C'era un corrimano di corda, ma era lenta e proprio sull'orlo della passerella. Malta preferiva rimanere in mezzo, camminando con attenzione. Appoggiava con prudenza ciascun passo, per non far ondeggiare ulteriormente il ponte. Teneva le braccia sul petto, stringendosi. Le lanterne sul corrimano raddoppiavano e triplicavano la sua ombra, riportandole alla mente le visioni confuse di quando era ferita. Le venne da vomitare. Sentì un brusco rumore di piedi e Selden la raggiunse di corsa. Malta cadde sulle mani e sulle ginocchia, e afferrò le assi del ponte. «Cosa fai?» chiese il ragazzo. «Vieni, Malta, sbrigati o non ci arriveremo mai. Mancano solo tre ponti, e un carrello.» «Un carrello?» chiese Malta debolmente. «Ti siedi in una scatola e avanzi tirando una specie di puleggia. È divertente. Puoi andare davvero veloce.» «Puoi anche andare davvero piano?» «Non lo so. Non ci ho mai provato.» «Ci proveremo stasera» disse Malta con fermezza. Trasse un respiro tremante e si mise in piedi. «Selden. Non sono ancora abituata ai ponti. Puoi andare più piano e non farli dondolare tanto?» «Perché?» «Così tua sorella non ti stacca la testa.» «Non dici sul serio» dichiarò Selden. «Inoltre non mi raggiungeresti mai. Ecco. Prendi la mia mano e non pensarci tanto. Vieni.» La mano di Selden sembrava sporca e umida nella sua. Malta la tenne stretta e lo seguì, il cuore in gola. «Perché vuoi andare alla città, comunque?» chiese il ragazzo. «Sono curiosa. Vorrei vederla.» «Perché Reyn non ti ha portata?»
«Oggi non aveva tempo.» «Non può trovare il tempo di portarti domani?» «Non possiamo camminare e basta, senza parlare?» «Se vuoi.» Rimase zitto un momento. «Non vuoi che si sappia cosa stai facendo, vero?» Malta lo seguì in fretta, tentando di ignorare l'ondeggiamento nauseante del ponte. Selden sembrava avere il dono di regolare il suo passo su di esso. La ragazza sentiva che se avesse inciampato sarebbe potuto finire giù dal ponte. «Selden,» chiese quietamente «vuoi che la mamma venga a sapere di te e delle barche spesse?» Selden non rispose. Quell'accordo non aveva bisogno di essere formalizzato. L'unica cosa peggiore dei ponti fu il carrello. La scatola consisteva in un cesto. Selden stava in piedi per manovrarlo mentre Malta sedeva sul fondo concavo e si chiedeva se stava per cedere da un momento all'altro. Afferrò forte l'orlo e tentò di non pensare a quello che sarebbe successo se la corda si fosse rotta. La corda finiva fra i rami di un grande albero. Una passerella scendeva a spirale attorno al tronco. Quando giunsero sul terreno solido le gambe di Malta erano gelatina, non solo per il nervosismo ma per la fatica a cui non era abituata. Si guardò attorno nell'oscurità, confusa. «È questa la città?» «Non proprio. La maggior parte sono edifici che la gente delle Giungle ha costruito per lavorare. Siamo sopra alla vecchia città. Vieni. Seguimi. Ti mostrerò uno dei modi per entrare.» Gli edifici di tronchi erano disposti fianco a fianco. Selden la condusse attraverso di essi come se fosse stato un labirinto di siepi. A un certo punto attraversarono una strada più larga bordata di torce. Malta concluse che dovevano esistere modi meno rocamboleschi di arrivare alla città sepolta. Loro avevano seguito il sentiero usato dai bambini. Davanti a lei, Selden le gettò uno sguardo. Malta colse il bagliore elettrizzato nei suoi occhi. Alla fine arrivarono a una pesante botola di tronchi. «Aiutami» sibilò Selden. Malta scosse la testa. «È chiusa con una catena.» «Sembra. Gli adulti non usano più questo ingresso, perché parte della galleria è crollata. Ma c'è spazio per chi non è troppo grosso. Come noi.» Malta si accovacciò accanto a lui. La porta era viscida di muffa. Le sue unghie scivolarono, riempiendosi di sporcizia. Ma la botola si aprì, rivelando un riquadro di notte più profonda. Con poca speranza, Malta chiese a Selden: «Laggiù ci sono torce, o candele?»
«No. Non ce n'è bisogno. Guarda. Se tocchi questa roba si accende un pochino, ma solo mentre la tocchi. Non è molto, ma è abbastanza.» Selden si calò nell'oscurità. Un istante più tardi Malta vide un bagliore fioco attorno alle sue dita. Era abbastanza per delineare la sua mano sul muro. «Vieni. Sbrigati.» Non le disse di chiudere la porta, e Malta fu contenta di non farlo. Scese a tentoni nell'oscurità. Si sentiva puzza di umido e acqua stagnante. Cosa stava facendo? Che le era venuto in mente? Strinse i denti e mise la mano accanto a quella di Selden. Il risultato fu sbalorditivo. Un'improvvisa striscia di luce si accese sotto le sue dita. Percorse tutta la lunghezza del tunnel davanti a lei, passando sopra vie d'accesso laterali prima di svanire dietro una curva. In alcuni punti splendeva di rune. Malta era paralizzata dallo stupore. Per qualche tempo Selden rimase in silenzio. Poi disse dubbioso: «È Reyn che ti ha mostrato come fare, vero?» «No. L'ho solo toccata. È jidzin.» Piegò la testa. Sentiva accenni di musica lontano in fondo al corridoio. Strano. Non riusciva a identificare gli strumenti, ma erano familiari. Selden aveva gli occhi sbarrati. «Wilee mi ha detto che Reyn sa farlo, a volte. Non gli credevo.» «Forse capita solo qualche volta.» «Forse» ripeté incerto il ragazzo. «Cos'è questo motivo? Lo conosci?» Selden aggrottò la fronte. «Quale motivo?» «Questa musica. Molto lontana. Non la senti?» Il ragazzo tacque a lungo. «No. Sento solo acqua che gocciola.» Dopo un momento, Malta chiese: «Andiamo?» «Certo» disse esitante Selden. Ora camminava più piano, trascinando le dita lungo la striscia di jidzin. Malta lo seguì, imitandolo. «Dove volevi andare?» le chiese il ragazzo dopo un minuto. «Voglio andare dove è sepolto il drago. Sai dov'è?» Selden si girò e la guardò con la fronte aggrottata. «Un drago sepolto?» «Così mi hanno detto. Sai dov'è?» «No.» Il ragazzo si grattò la guancia con dita sporche, lasciando strisce marroni. «Mai sentito.» Si guardò i piedi. «In realtà non sono andato molto oltre la parte crollata.» «Allora portami là.» Ora si muovevano in silenzio. Alcune delle porte che superavano erano
state sfondate. Malta guardò dentro speranzosa mentre passavano. La maggior parte conduceva solo a camere crollate piene di terra e radici. Due erano state ripulite dalle macerie, ma non contenevano niente di interessante. Le finestre di vetro spesso davano su pareti di terra. Proseguirono. A volte la musica sembrava più chiara, a volte si affievoliva. Scherzi delle gallerie, decise Malta. Raggiunsero un punto dove il soffitto e una parete avevano ceduto. La terra si era rovesciata attraverso il pavimento di pietra. Con la mano libera Selden indicò il mucchio di macerie verso il soffitto. «Devi arrampicarti lassù e infilarti dentro» bisbigliò. «Wilee ha detto che è stretto per un poco, e poi si allarga di nuovo.» Malta guardò dubbiosa il cunicolo. «Tu ci sei passato?» Selden abbassò gli occhi e scosse la testa. «Non mi piacciono i luoghi stretti. Non mi piace neanche stare qui. I ponti e le teleferiche sono più divertenti. L'ultima volta che siamo stati qui c'è stato quel terremoto. Wilee e tutti noi siamo scappati come conigli.» Sembrava vergognarsi di ammetterlo. «Sarei scappata anch'io» gli disse Malta. «Ora torniamo indietro.» «Io vado un po' più avanti, solo per vedere se ci riesco. Mi aspetti qui?» «Suppongo di sì.» «Puoi aspettarmi alla botola, se vuoi. Farai la guardia?» «Suppongo di sì. Sai, Malta, se ci trovano quaggiù, da soli, così... ecco sembra un po' maleducato. Diverso da quando mi porta qui Wilee. Come se stessimo spiando i nostri padroni di casa.» «So quello che faccio» garantì Malta. «Non starò via molto.» «Lo spero» borbottò Selden mentre la sorella lo lasciava. La prima parte non fu così brutta. Malta avanzò attraverso la terra umida, tenendo la mano sulla striscia di luce. Presto dovette chinarsi. Poi il livello delle macerie coprì il jidzin. Con riluttanza Malta se ne staccò. La luce si oscurò dietro di lei. Strinse i denti e avanzò carponi. Continuava a inciampare nelle sottane, finché non capì come fare. Quando batté la testa sul soffitto si fermò. Aveva le mani fredde e la stoffa della gonna pesava, incrostata di fango. Come lo avrebbe spiegato? Accantonò la preoccupazione, tanto era troppo tardi per pensarci. Un poco più avanti, si disse. Si abbassò ancora di più e continuò a strisciare. Presto avanzava sui gomiti, spingendosi con le ginocchia. Udiva solo il proprio respiro e un lontano gocciolio. Si fermò per riprendere fiato. L'oscurità le premeva sugli occhi.
All'improvviso il peso dell'intera collina parve gravare su di lei. Ridicolo. Doveva tornare indietro. Tentò di indietreggiare. La gonna cominciò a risalire e avvolgersi attorno alla vita, e le ginocchia nude incontrarono la terra fredda. Le sembrava di sguazzare nel fango. Si arrestò. «Selden?» Non ci fu risposta. Probabilmente era tornato alla botola non appena lei era sparita. Appoggiò la testa sulle braccia e chiuse gli occhi. Il capogiro la fece traballare per un istante. Non avrebbe dovuto provarci. Era tutta un'idea stupida. Cosa le aveva fatto pensare di poter riuscire dove Reyn aveva fallito? 36 Drago e Satrapo Malta aveva freddo. Il suolo umido sotto di lei, più fango che terra, le aveva inzuppato gli abiti. Più rimaneva immobile, più il suo corpo doleva. Doveva fare qualcosa, proseguire o tornare indietro. Entrambe le scelte sembravano troppo faticose. Forse poteva rimanere lì distesa finché qualcuno altro non prendeva l'iniziativa. Man mano che il suo respiro si calmava, la musica lontana cresceva di volume. Quando Malta fece attenzione le parve più nitida. Conosceva quel motivo. Di certo lo aveva ballato, molto tempo prima. Si sorprese a seguirlo canticchiando piano. Aprì gli occhi e alzò la testa. C'era luce più avanti, o era uno scherzo della mente? Luci dai colori pastello, che si spostavano quando muoveva gli occhi. Avanzò strisciando, verso la luce e la musica. Con una repentinità che la sorprese, si trovò a scendere. Alzò la testa e scoprì che c'era spazio sopra di lei. Cercò di alzarsi sulle mani e sulle ginocchia, e all'improvviso scivolò. Scese il pendio fangoso sulla pancia, come una lontra. Gridò e cercò di proteggersi il viso con le mani. Le ricordava troppo la folle caduta della carrozza. Invece slittò fino a fermarsi senza colpire ostacoli. Le mani protese in avanti trovarono fango poco profondo, e poi pietra fredda. Il pavimento del corridoio. Aveva superato la frana. Malta aveva ancora paura ad alzarsi. Strisciò a tentoni finché non trovò il muro. Vi si appoggiò con le mani, si mise in ginocchio e si alzò. All'improvviso le dita infangate incontrarono la striscia di jidzin. La toccò, e il corridoio si accese di luce. Malta serrò gli occhi, poi li riaprì con lentezza. Fissò il corridoio, meravigliata.
Vicino all'ingresso aveva visto pareti deteriorate, fregi sbiaditi e consumati. Lì la luce emanava non solo dalla striscia ma anche da ghirigori decorativi sulla parete. Il pavimento splendeva di brillanti piastrelle nere. La musica era più forte, e Malta udì la risata improvvisa di una donna. Abbassò gli occhi sugli abiti infangati e fradici. Non si aspettava una cosa simile. Aveva pensato che la città fosse abbandonata. Se incontrava qualcuno nelle sue condizioni miserande, cosa doveva fare? Sorrise scioccamente; poteva sempre accampare la scusa della ferita alla testa e fingersi confusa. Considerando le sue azioni di quella sera, forse lo era davvero. Camminò in punta di piedi nel corridoio, intralciata dalle gonne bagnate. Dovette superare diverse porte, ma la maggior parte erano chiuse, per fortuna. Le poche aperte rivelavano stanze opulente, con tappeti spessi e decorazioni straordinarie alle pareti. Non aveva mai visto mobili come quelli: divani drappeggiati di ricche stoffe e ornati di nappine, sedie in cui avrebbe potuto rannicchiarsi e dormire, tavoli più simili a piedistalli. Doveva essere la leggendaria ricchezza delle Giungle della Pioggia. Eppure le avevano detto che la città era disabitata. Scrollò le spalle. Forse voleva dire che lì non mangiavano o dormivano. Proseguì. A un certo punto decise che non sarebbe tornata da dove era venuta, qualunque cosa fosse successa. Non poteva costringersi a ripercorrere quel tunnel bagnato e fangoso. Avrebbe trovato un'altra uscita. La musica morì per un momento, poi turbinò di nuovo. Era un'altra melodia, ma Malta conosceva anche quella. L'accompagnò a bocca chiusa, poi un brivido improvviso le gelò la schiena. Ricordava dove aveva già sentito quella musica: nel primo sogno che aveva diviso con Reyn. Nel sogno aveva camminato con lui in una città silenziosa. Poi Reyn l'aveva portata in un luogo dove c'era musica, e luce, e persone che parlavano. La musica era la stessa; ecco perché la conosceva. Eppure sembrava strano conoscerla così bene. Sentì un lontano stridore sotto i piedi, e poi il pavimento si spostò di lato. Malta si aggrappò disperatamente al muro. Tremava sotto la sua mano. Il terremoto sarebbe continuato? La città intera le sarebbe crollata addosso? Il cuore martellava, e le girava la testa. L'atrio era all'improvviso pieno di persone. Alte donne eleganti con pelle dorata e capelli inverosimili la superarono, chiacchierando spensierate in una lingua che un tempo Malta conosceva. Non le rivolsero neanche uno sguardo. Le gonne lucenti sfioravano il pavimento, eppure gli spacchi arrivavano fino alla vita. Le gambe dorate balenavano scandalosamente a ogni passo. Il loro intenso profumo era dolcissimo.
Malta vacillò, batté le palpebre e si ritrovò cieca. Aveva perso la parete. Gettò un urlo soffocato per il buio improvviso, l'odore di muffa e umido e il silenzio. In lontananza, un rumore di sassolini che scivolavano. La ragazza barcollò verso il muro, lo trovò e la luce si riaccese all'improvviso. Il corridoio era vuoto in entrambe le direzioni. Aveva immaginato tutto. Si portò la mano libera alla fronte e toccò la ferita. Non avrebbe dovuto provarci. Era troppo per lei. Meglio trovare un'uscita e tornare alla sua camera e al letto. Se incontrava qualcuno non avrebbe dovuto fingere che la sua mente vagava. Ora temeva seriamente che fosse vero. Avanzò risoluta, sfiorando la striscia con le dita. Non esitava più agli angoli, non guardava nelle stanze. Si affrettò attraverso il labirinto di corridoi, imboccando quelli che sembravano più ampi e più frequentati. A un certo punto la musica crebbe, ma poi una svolta sbagliata la allontanò. Giunse infine a un corridoio largo, ben illuminato. Le pareti erano coperte da una strana decorazione che suggeriva creature alate in volo. Il largo corridoio terminava in un'alta arcata con una porta in metallo a sbalzo. Malta si arrestò e la fissò. Riconobbe l'emblema: era uguale a quello sullo sportello della carrozza dei Khuprus. Un grande volatile incoronato, dall'aspetto bellicoso. Un'immagine sciocca, eppure appariva superbo e minaccioso. Malta quasi lo ammirò. Da dentro giungevano i suoni di una festa, chiacchiere e risate, musica allegra e i piedi dei ballerini che urtavano vivacemente contro la porta. Ancora una volta Malta si guardò il vestito. Ebbene, non c'era niente da fare. Voleva solo uscire di lì e tornare alla sua stanza. Ormai doveva essersi abituata alle umiliazioni. Si mise una mano sulla fronte, come sul punto di svenire. Appoggiò l'altra mano sulla grande porta e spinse. Immersa nel buio improvviso, avanzò incespicando mentre la grande porta cedeva con facilità al suo tocco. Il freddo e l'umidità si levarono attorno a lei. Avanzò in una pozza profonda di acqua fredda. «Aiuto!» gridò scioccamente. Ma la musica e le voci erano cessate. La stanza puzzava come un acquitrino. O era cieca, o l'oscurità era assoluta. «Salve?» Avanzò cautamente, con le mani tese. Ma c'erano gradini che scendevano, e prima di potersi trattenere cadde in avanti. Sentì che i gradini erano larghi e bassi. Non precipitò di molto. Invece di rialzarsi, scese strisciando e tastando i gradini. In fondo strisciò ancora per qualche metro. Poi si alzò e avanzò con lentezza ancora maggiore, mani tese nel buio. «Salve?» chiamò di nuovo. La sua voce echeggiò nella stanza. Doveva essere immensa.
Le sue mani brancolanti incontrarono all'improvviso una grezza barriera di legno. «Salve, Malta Vestrit» le disse il drago. «Finalmente ci incontriamo. Sapevo che saresti venuta da me.» «Non parlare così di tuo fratello!» scattò Jani Khuprus, sbattendo il ricamo sul tavolo accanto a lei. Bendir sospirò. «Ripeto solo quello che si dice in giro. Non quello che dico io. Se qualcuno sparge veleno su di lui, non sarò io.» Tentò un sorriso. Jani si afferrò il petto. «Non è affatto divertente. Oh, Sa, perché non abbiamo tagliato quel tronco prima che tornasse?» «Intendeva restare a Borgomago per settimane, non una sola notte. Pensavo che avessimo tempo. Quel tronco è più grande e più duro di qualsiasi altro pezzo di legno magico che abbiamo mai tagliato. Quando i piccioni ci hanno portato le notizie di Borgomago, ho capito che avevamo altre cose di cui preoccuparci.» «Lo so, lo so.» Sua madre accantonò tutte le sue scuse con un cenno della mano. «Dov'è, ora?» «Dov'è ogni notte. In camera sua, a bere da solo. E a parlare da solo. Parole folli su draghi e Malta. E parla di uccidersi.» «Cosa?» Jani lo fissò. Le parole di Bendir distrussero la piccola oasi di pace serale nel salotto. «È quello che Geni ha sentito attraverso la porta; per questo è corsa ad avvertirmi. Continua a dire che lei lo spingerà a uccidersi. E anche Malta morirà» aggiunse a disagio. «Malta? È arrabbiato con Malta? Ma pensavo che oggi avessero fatto la pace. Ho sentito dire...» La voce di Jani vacillò con riluttanza. Bendir proseguì per lei. «Lo abbiamo sentito tutti. Reyn era nella camera da letto di Malta, la teneva in grembo e l'accarezzava. A paragone del resto, uno scandalo comune come la semplice concupiscenza è quasi un sollievo.» «Ne hanno passate tante. Reyn pensava che sarebbe morta, e incolpava sé stesso. È naturale che ora si aggrappi a lei.» Era una scusa debole e Jani lo sapeva. Si chiese se Keffria fosse già al corrente. Avrebbe cambiato i suoi piani? Perché Reyn doveva comportarsi così stranamente proprio ora, quando c'erano tante altre crisi da affrontare? «Ebbene, di certo vorrei che adesso stesse 'aggrappandosi' a lei, invece
di delirare nella sua stanza» osservò Bendir, freddo. Jani Khuprus si alzò all'improvviso. «Questo non fa bene a nessuno. Stasera non posso fargli un discorso sensato, se è ubriaco, ma porteremo via il brandy e insisteremo che dorma. Domani esigerò che si comporti meglio. Dovresti trovargli da lavorare.» Gli occhi di Bendir si accesero. «Vorrei spedirlo di nuovo nella città. Rewo ha trovato un tumulo, più all'interno della palude. Pensa che possa essere il piano superiore di un altro edificio. Gradirei mettere Reyn al lavoro lì.» «Non mi sembra saggio. Non penso che dovrebbe avvicinarsi alla città.» «È l'unica cosa che sa fare» cominciò Bendir, poi serrò le labbra all'occhiataccia di sua madre. Aprì la strada e Jani lo seguì nella notte. Erano ancora a due passerelle dalla camera di Reyn quando cominciarono a sentire la sua voce impastata. Un altro livello, e ogni parola del suo delirio ubriaco fu chiara. Era peggio di quanto Jani temesse. Il suo cuore sprofondò. Non poteva andarsene come suo padre, parlando solo a sé stesso. Per favore, Sa, madre di tutti, non essere così ingiusta. La voce di Reyn salì in un grido improvviso. Bendir prese a correre. Jani lo seguì in fretta. La porta della camera di Reyn si spalancò di botto. La luce dorata delle lanterne allagò la notte. Suo figlio apparve barcollando, poi si arrestò, aggrappandosi allo stipite. Era ovvio che non riusciva a stare in piedi da solo. «Malta!» tuonò nella notte. «NO! Malta, no!» Uscì vacillando, agitando scompostamente le braccia. Cercò di afferrare un corrimano e lo mancò. Bendir diede una spallata nel petto di Reyn. Costrinse con la forza suo fratello a rientrare nella stanza e lo gettò sul pavimento. Reyn sembrava incapace di opporre una vera resistenza. Si dibatté ma crollò sulla schiena con un forte gemito mentre tutta l'aria gli usciva dai polmoni. Poi chiuse gli occhi e rimase immobile. Era svenuto. Jani chiuse in fretta la porta dietro di sé. «Mettiamolo sul letto» disse con stanco sollievo. Poi Reyn girò la testa da un lato. Aprì gli occhi e le lacrime gli corsero sulle guance. «No!» gemette. «Lasciatemi. Devo andare da Malta. È dal drago. La prenderà. Devo liberare Malta.» «Non essere ridicolo» scattò Jani. «È notte tarda, e tu non sei in condizioni di vedere qualcuno, o essere visto. Bendir ti metterà a letto, e quello è l'unico posto dove andrai.» Il fratello maggiore si avvicinò a lui, poi si chinò e gli afferrò il davanti
della camicia. Lo sollevò quasi dal pavimento, fece due passi verso il letto e ve lo scaricò per traverso. Si raddrizzò e si ripulì le mani. «Fatto» ansimò. «Prendiamo il brandy e spegniamo la lanterna. Reyn, stai qui e dormi. Basta schiamazzi.» La sua voce non ammetteva repliche sciocche. «Malta» strascicò Reyn, disperato. «Sei ubriaco» ribatté Bendir. «Non così ubriaco.» Reyn tentò di mettersi seduto, ma Bendir lo spinse giù. Il giovane strinse i pugni, poi si rivolse a sua madre. «Il drago ha preso Malta. È andata là per me. Lei la porterà via.» «Malta porterà via il drago?» Jani aggrottò la fronte. «No!» ruggì Reyn, frustrato. Tentò di alzarsi, ma Bendir gli diede un'altra spinta, più brutale. Reyn cercò di colpire il fratello, che sfuggì con facilità al pugno maldiretto e lo avvertì ferocemente: «Non provarci. O ti riempio di botte.» «Mamma!» Il gemito suonò ridicolo, venendo da un uomo adulto. «Malta è andata dal drago.» Reyn trasse un respiro profondo, poi parlò con lentezza e attenzione. «Il drago ora ha Malta.» Alzò le mani si toccò la testa. «Se n'è andata. Non la sento più. Malta l'ha spinta a lasciarmi in pace.» «È una buona cosa, Reyn.» Jani cercò di confortarlo. «Il drago se n'è andato. È tutto finito. Vai a dormire. Domattina voglio che tu mi racconti tutto. Anch'io ho qualcosa da dirti.» Ignorò lo sbuffo disgustato del figlio maggiore. Reyn trasse un enorme respiro, e lo emise in un sospiro. «Non mi stai ascoltando. Non capisci. Sono così stanco. Vorrei solo dormire. Ma devo andare da lei. Devo riprendermi il drago e liberare Malta. Morirà, ed è tutta colpa mia.» «Reyn.» Jani sedette sull'orlo del letto di suo figlio. Gli stese sopra una coperta. «Sei ubriaco e stanco, e non ragioni. Non c'è nessun drago. Solo un vecchio tronco. Malta non è in pericolo. La sua ferita è stata un incidente, non ne sei davvero responsabile. Si fa più forte ogni giorno. Presto sarà di nuovo in piedi. Ora dormi.» «Mai tentare di ragionare con un ubriaco» suggerì Bendir, fra sé. Reyn gemette. «Mamma.» Trasse un respiro profondo, come per parlare. Invece sospirò. «Sono così stanco. Non ho dormito per tanto tempo. Ma ascoltami. Ascoltami. Malta si è recata alla città, alla Sala del Gallo Incoronato. Andate a prenderla. È tutto. Per favore. Per favore, andate.» «Certo. Ora dormi. Ci penseremo Bendir e io.» Gli accarezzò la mano e spinse via i riccioli dalla fronte ricoperta di minute scaglie.
Bendir fece un verso di disgusto. «Lo tratti come un bambino!» Raccolse le bottiglie dalla tavola e andò alla porta. Una per una le gettò nella palude. Jani ignorò il suo sfogo di rabbia. Sedette accanto a Reyn, guardando le palpebre abbassarsi con lentezza e poi chiudersi. Annegato nei ricordi. No. Non lui, non suo figlio. Era solo il delirio di un ubriaco. Era ancora sé stesso. Vedeva lei, vedeva suo fratello. Non parlava con i fantasmi. Era innamorato di una ragazza viva e vera. Non era annegato, non sarebbe annegato. Bendir tornò in camera. Prese la lanterna dalla tavola. «Vieni?» Jani annuì e seguì il figlio maggiore. Mentre chiudeva la porta, il respiro di Reyn era profondo e regolare. «E lo lascerai per sempre in pace» gli ingiunse Malta coraggiosamente. Il drago rise. «Una volta libera, piccola mia, perché dovrei interessarmi alle vostre brevi vite insignificanti? Volerò via a cercare la mia gente. Certo, lo lascerò in pace. Ora lascia che ti mostri.» Malta era in piedi nella camera buia. Le mani e la fronte dolorante poggiavano contro il blocco di legno. Trasse un respiro. «E andrai a salvare mio padre.» «Certo.» Il drago fece le fusa. «Te l'ho già detto. Ora liberami.» «Ma come saprò che manterrai la parola?» gridò Malta, disperata. Più decisa, aggiunse: «Devi darmi qualcosa, una specie di segno.» «Ti do la mia parola.» Il drago stava diventando impaziente. «Qualcosa di più.» Malta rifletté. Se solo fosse riuscita a ricordare... Poi le venne in mente. «Dimmi il tuo nome.» «No.» Il drago era irremovibile. «Ma quando sarò libera ti porterò un tesoro che non hai mai sognato. Diamanti grandi come uova di piccione. Volerò a sud e ti porterò i fiori che non appassiscono mai, i boccioli che guariscono la tua specie da qualsiasi malattia, basta respirarne il profumo. Volerò al nord e ti porterò il ghiaccio più duro di qualsiasi metallo, che non si scioglie mai. Ti mostrerò come farne lame che tagliano anche la pietra. Volerò all'est e ti porterò...» «Poche storie!» protestò Malta. «Niente tesori. Ti chiedo solo di lasciare in pace Reyn, e di salvare mio padre. Il nome della nave è Vivacia. Devi ricordarlo. Devi trovare la nave, uccidere i pirati e liberarlo.» «Sì, sì. Solo...» «No. Giuralo sul tuo nome. Di' che giuri sul tuo nome di salvare Kyle Haven e lasciare Reyn Khuprus in pace. Dillo, e io farò come vuoi.»
Sentì l'urto della rabbia del drago come uno schiaffo contro tutto il corpo. «Osi dettarmi le tue condizioni? Ora sei mia, miserabile insetto. Rifiuta, e dominerò la tua anima fino alla fine dei tuoi giorni. Ti governerò. Ti dirò di strapparti le unghie, e tu lo farai. Ti chiederò di soffocare i tuoi bambini, e tu obbedirai. Farò di te un mostro che perfino il tuo popolo...» Un piccolo tremore fece rabbrividire la camera, interrompendo le minacce del drago. Malta strinse le labbra per non gridare. «Lo vedi, le tue pretese irritano gli dèi! Fai come ti dico, o faranno precipitare l'intera collina su di te.» «E anche su di te» commentò Malta, implacabile. «Non mi importano le tue minacce. Se tu potessi metterle in pratica, avresti costretto Reyn a obbedirti tempo fa. Di' il tuo nome! Di' il tuo nome o non farò niente per te. Niente!» Il drago rimase in silenzio. Malta attese. Aveva un freddo terribile. Era al di là dei brividi: era percorsa da un tremito che le scuoteva le ossa, le faceva pulsare la testa e dolere la spina dorsale. Aveva i piedi intirizziti. Probabilmente era in piedi in una pozza d'acqua fangosa, ma non ne era più sicura. Era venuta alla città, aveva trovato il drago, eppure stava per fallire. Non poteva salvare nessuno, né suo padre, né il giovane che aveva rinunciato alla sua città per lei. Era solo questo, una donna indifesa senza alcun potere al mondo. Lasciò ricadere le mani dal legno e girò le spalle. Cominciò ad avanzare a tentoni attraverso la stanza, sperando di andare nella direzione giusta. La voce del drago risuonò all'improvviso nel silenzio. «Tintaglia. Il mio nome è Tintaglia.» «E?» Malta si arrestò dove stava, senza fiato per la speranza. «E se mi liberi, prometto che lascerò in pace Reyn Khuprus e salverò tuo padre, Kyle Haven.» Malta trasse un respiro profondo. Tese le mani e camminò coraggiosamente attraverso la camera. Quando incontrò il legno, chinò la testa. Ogni resistenza se ne andò in un sospiro. «Dimmi come liberarti.» Il drago parlò in fretta, con impazienza. «C'è una grande porta nel muro meridionale. Gli Antichi creavano la loro arte qui, in questa stanza. Plasmarono sculture viventi della mia specie, nella pietra di memoria. I vecchi le scolpivano qui, al riparo dal vento e dalle intemperie. Poi morivano nelle sculture, ed esse assumevano le loro vite. La porta si apriva, i simulacri emergevano alla luce del sole e volavano sulla città. Vivevano per breve tempo, poi i ricordi e la falsa vita svanivano. C'era un cimitero per
loro, nelle montagne. Gli Antichi la consideravano arte. A noi sembrava divertente vederci copiati nella pietra. Quindi lo tollerammo.» «Questo non significa nulla per me» la rimproverò Malta. Il gelo le risaliva le gambe, facendole dolere le ginocchia. Era stanca di parlare. Voleva fare quello che doveva, e farla finita. «Dietro a due pannelli nel muro ci sono le leve e le manovelle che aprono la grande porta. Trovale, e usale. Quando domani il sole sorgerà e toccherà la mia culla, sarò libera.» Malta aggrottò la fronte. «Se è così facile, perché non ti ha liberata Reyn?» «Voleva, ma aveva paura. I maschi sono creature timorose, al meglio. Pensano solo a mangiare e accoppiarsi. Ma tu e io, giovane regina, sappiamo che c'è di più. Le donne devono essere spietate, per proteggere i piccoli e continuare la razza. Bisogna correre rischi. I maschi tremano nell'ombra, temendo la propria morte. Noi sappiamo che l'unica cosa da temere è la fine della razza.» Le parole risuonarono bizzarramente nell'anima di Malta. Quasi vero, sussurrò a sé stessa. Ma non poteva distinguere la parte falsa. «Dove sono i pannelli?» chiese stancamente. «Sbrighiamoci.» «Non lo so» ammise il drago. «Non ero mai stata in questa camera. Quello che so, lo so dalle vite di altri. Devi trovarli.» «Come?» «Devi imparare da coloro che sapevano. Vieni da me e abbassa le tue difese, Malta Vestrit. Lascia che io ti schiuda i ricordi della città, e saprai tutto.» «I ricordi della città?» «Era la loro presunzione, immagazzinare i loro ricordi nelle ossa della loro città. Quei ricordi sfiorano la tua specie, ma non sapete dominarli. Posso aiutarti a trovarli. Permettimelo.» Tutti i pezzi andarono a posto. Malta capì all'improvviso quale doveva essere la sua parte dell'accordo. Trasse un respiro profondo. Poi si appoggiò al legno, premendolo con le mani, le braccia, il seno, la guancia. Un altro respiro, come per prepararsi a un tuffo. Si impedì di temere o resistere. Parlò con la bocca arida. «Annegami nei ricordi.» Il drago non attese di udire altro. La camera prese vita. Malta Vestrit svanì all'improvviso. Cento altre vite fiorirono attorno a lei. Persone alte, con occhi color rame e viola e pelle
come miele, riempirono la stanza. Ballavano, parlavano, bevevano, mentre le stelle splendevano su di loro attraverso una cupola dalla trasparenza irreale. Poi, in un battito di ciglia, fu l'alba. La prima luce entrò strisciando, splendendo sulle piante esotiche che fiorivano ovunque nelle vasche. In un angolo della stanza immensa zampillava una fontana a gradini, e i pesci guizzavano nell'acqua. Era mezzogiorno e le porte si aprirono per permettere alla brezza di rinfrescare la camera. Poi era sera, e le porte erano chiuse e gli Antichi si radunavano di nuovo per parlare e ridere e ballare con la musica. Un altro battito di ciglia e il sole ritornò. Una porta si aprì, e un blocco immenso di pietra nera venata d'argento fu trascinato nella stanza su rulli. I giorni passarono come i petali che cadono dai fiori del melo. Un gruppo di vecchi si mosse attorno alla pietra con martelli e ceselli. Un drago emerse. I vecchi si appoggiarono su di esso e svanirono. Le porte si aprirono. Il drago si riscosse e poi avanzò fra le grida esultanti e le lacrime dei festeggianti. Spiccò il volo e si allontanò. La gente si radunò per bere e ballare e parlare. Un altro blocco di pietra fu trascinato all'interno. I giorni e le notti gocciolavano via come perline bianche e nere che si sgranavano. Malta era radicata nel tempo, e i giorni fluivano attorno a lei. Osservava e aspettava, e presto non si accorse più di farlo. I ricordi riempirono con lentezza la camera, come denso miele. Malta li assorbì e capì tutto, molto più di quanto la sua mente potesse contenere. I ricordi erano stati immagazzinati in quel luogo, perché quello era stato un piacere coltivato dagli Antichi, assaggiare i rispettivi ricordi. Ma non così, gemette Malta, non in un'inondazione che non risparmiava alcun dettaglio, che non trascurava alcuna emozione. Era troppo, troppo. Lei non era né Antica né drago. Non era fatta per contenere così tanto. Non poteva contenere così tanto. I ricordi stillarono da lei come sangue; Malta dimenticò tutto. Cercò di afferrare l'unico dettaglio importante che doveva trovare e conservare. I pannelli. Le leve e le ruote. Quello era l'unico ricordo che contava. Abbandonò tutto il resto. Il suo corpo era disteso nella pozza fredda. Il gelo saliva nella carne fino alle ossa, ma i mesi e gli anni giravano attorno a lei, imprimendo ogni rapido secondo sulla sua memoria ardente. Sapeva abbastanza, e poi seppe di più. I giorni scorrevano davanti e dietro di lei, il tempo si muoveva in entrambe le direzioni. Malta vide i blocchi infilati nelle pareti, e gli operai frenetici che trascinavano al riparo le culle dei draghi. Le tiravano con corde, facendole rotolare su rulli, perché fuori il cielo si era annerito e la terra tremava e la cenere pioveva dal cielo, rapida e densa come una nevicata
nera. All'improvviso tutto si fermò. Aveva raggiunto la posa del primo mattone in una direzione, e nell'altra la gente era fuggita o giaceva morente. Sapeva tutto, e non sapeva nulla. Malta. Svegliati. Chi era lei? Perché doveva essere più importante degli altri? Tutti erano, alla fine, intercambiabili. O no? Malta Vestrit. Ricordi? Ricordi come aprire la porta? Muoversi. Sedersi. Un corpo così tozzo, privo di grazia. Una vita così breve. Che sciocca. Battere le palpebre. La camera era buia, ma era così facile richiamarla com'era una volta, piena di luce. Il sole splendente scendeva in un arcobaleno attraverso i pannelli di cristallo. Là. Ecco. Al lavoro. Le porte. La stanza aveva due ingressi. Malta era entrata da quello settentrionale, troppo piccolo per il passaggio del drago. La culla era stata trascinata all'interno attraverso la porta meridionale. Malta rammentava ben poco di chi era o perché era lì, ma ricordava l'apertura della porta. Normalmente ci volevano quattro uomini forti. Avrebbe dovuto farlo da sola. Andò al primo pannello accanto alla porta meridionale e trovò il fermo. Le unghie si piegarono e lo sportello decorato non si aprì. Non aveva attrezzi. Lo percosse con un pugno. Un lieve rumore all'interno. Tirò di nuovo il fermo. Questa volta il pannello si aprì con riluttanza. Con uno schianto ruppe i cardini antichi e cadde sul pavimento. Non importava. Di nuovo il ricordo della stanza e il tatto erano in contrasto. La manovella ben lubrificata che doveva essere lì era avvolta di ragnatele e corrosa dall'umidità. Malta trovò la maniglia e si sforzò di girarla. Non si mosse. Oh. La leva. Tira la leva, prima. La ragazza la cercò a tentoni e la trovò. Il manico di legno levigato era andato. La sua presa incontrò il nudo metallo. Malta lo afferrò con entrambe le mani e tirò. Non si mosse. Quando finalmente puntò i piedi contro il muro e ci si appoggiò con tutto il suo peso, la leva cedette. Si mosse impercettibilmente, poi all'improvviso si arrese al suo peso. Ci fu un terribile suono lacerante all'interno del muro mentre Malta crollava sul pavimento di pietra. Per un momento rimase mezza intontita. Un cigolio dietro al pannello, come un brivido. Malta si rimise in piedi. Ora. La manovella. No, no, non funzionerebbe. L'altra leva, prima. La porta doveva essere aperta su entrambi i lati prima che le manovelle potessero alzarla. Malta non si curava più delle unghie lacerate e delle mani sanguinanti. Aprì il secondo pannello con uno strattone. Dal compartimento cadde nella
stanza terra umida. Lì il muro era danneggiato. Non importava. Con le mani scavò attorno alla leva finché non riuscì a prenderla. L'afferrò e tirò con violenza. Si spostò di poco, poi si fermò. Questa volta Malta si arrampicò sulle scritte decorative del muro, per stare in piedi sulla leva. Con un saltello, la spostò di un'altra tacca. In alto sopra di lei qualcosa gemette. Malta si puntò con tutto il corpo e spinse con i piedi. La leva cedette, poi all'improvviso si spezzò sotto di lei. Cadde anche lei, lacerandosi le gonne sul metallo frastagliato. Il ginocchio urtò bruscamente il pavimento di pietra, e per qualche istante Malta conobbe solo dolore. Malta. Alzati. «Lo so. Adesso mi alzo.» La sua voce le sembrava sottile e strana. Si rimise in piedi e tornò zoppicando al pannello. La manovella era montata su una ruota dentata metallica, grande come quella di una carrozza. La terra umida era solidamente compressa tutto attorno. Malta scavò per un'eternità. La terra era fredda e bagnata e abrasiva. Si infilava sotto le unghie e si incrostava nella pelle. Provaci. Obbediente, Malta mise entrambe le mani sul manico. La memoria le disse che due uomini dovevano operare quella manovella e due l'altra, girandole in sincrono. Ma lì c'era solo lei. Mise il suo peso sul manico e spinse verso il basso. Miracolosamente la ruota girò, ma non di molto. In alto sul muro qualcosa si spostò. Malta lasciò la manovella e andò all'altra. Almeno quella era libera dalla terra. Afferrò il manico e lo girò. La ruota si mosse più agevolmente della sua compagna, ma non andò molto più lontano. Malta tornò alla prima manovella. La girò di una tacca. Andò all'altra manovella e girò anche quella. Udì qualcosa muoversi nel muro. Un minuscolo spostamento. La porta si mosse quasi impercettibilmente. Malta si appoggiò sulla manovella, che si mosse di nuovo. Strani suoni bisbigliarono attraverso il muro e la porta. Catene antiche su pulegge, bisbigliarono i suoi ricordi. I contrappesi cominciarono la discesa. Era come lei lo aveva progettato, non ricordava? Ricorda. Ricorda com'era progettato. Ricorda il progetto dell'intera cupola. All'improvviso vide in modo diverso il muro intero e la porta e i meccanismi. Il ricordo di come avrebbe dovuto essere contrastava troppo con quello che le suggeriva il tatto. Tastò la polvere e la terra bagnata, chiudendo gli occhi per allontanare l'antico ricordo. La sua mano percorse tutta la porta, sentendo le protuberanze, le fessure che la attraversavano. Si girò
all'improvviso. «Questo intero lato della struttura cederà se la porta si muove. Solo il caso lo ha mantenuto tanto a lungo.» «Cederà, la terra precipiterà, e la luce tornerà a splendere» predisse il drago. «Continua.» «Se ti sbagli rimarrai sepolta qui, e anch'io.» «Lo preferisco, piuttosto che continuare come sono. Gira le manovelle, Malta. Hai promesso.» Il suono di un nome può essere così potente. Malta tornò in sé, una ragazza in abiti fangosi nell'oscurità. La giovane progettista orgogliosa era scomparsa, più effimera di un ricordo, come i sogni si dissolvono quando si cerca di afferrarli da svegli. Malta prese la manovella e la girò di un'altra tacca. Fu l'ultimo movimento delle manovelle. Malta andò dall'una all'altra, avanti e indietro, tirando e imprecando. L'antico meccanismo arrivava solo fin lì. Il muro borbottava pericolosamente, ma la porta non si muoveva. «Si è bloccato. Non ce la faccio. Ho provato. Mi dispiace.» Per un lungo istante il drago rimase in silenzio. Poi ordinò: «Vai a cercare aiuto. Tuo fratello... lo vedo. Lo domini con facilità. Vallo a prendere, e porta due sbarre da usare come leve. Ora vai. Ora.» C'erano ottime ragioni per resistere a quell'ordine, ma Malta non le ricordava. Ricordava appena questo fratello di cui parlava il drago. La porta e i mezzi per aprirla erano tutto ciò che conosceva con chiarezza. Le sbarre erano una buon idea. Spingendole attraverso i raggi della ruota poteva usarle come leve per costringere le manovelle a girare. Camminò in una luce ricordata da un altro tempo. Trascinò i passi stanchi su per i larghi gradini e attraverso la porta settentrionale. Mentre camminava, le dita trovarono la striscia di jidzin e la seguirono. Il corridoio si illuminò per guidarla. Un battito dei suoi occhi stanchi, e si affollò di vita. I nobili le passavano accanto, seguiti dai paggi dinoccolati. Una sarta e le sue due giovani apprendiste si inchinarono indietreggiando in una porta, con ricche stoffe drappeggiate sulle braccia. Una balia che reggeva un bambino in lacrime dalle ginocchia paffute si affrettò verso di lei e l'attraversò. La balia rivolse un saluto allegro a un giovane con un berretto coperto di nastri, e lui le rispose con un fischio. Lì era Malta il fantasma invisibile, non loro. La città apparteneva a loro. Malta inciampò all'improvviso su una pietra caduta. Perse il contatto con il muro e ancora una volta rimase immersa nell'oscurità. Quello era il suo tempo, la sua vita, ed era scura e umida e piena di corridoi crollati e porte
bloccate. Le mani brancolanti le dissero che quella frana rendeva del tutto impraticabile il corridoio. Non poteva passare di lì. Toccò il muro per orientarsi e subito conobbe una via migliore che conduceva a un'uscita più vicina. Si diresse in fretta da quella parte. Non ascoltava più le lagnanze del suo corpo sfinito. Viveva in mille momenti diversi; perché concentrarsi su quello dove provava dolore? Andò a passo veloce, con le gonne malridotte che si incollavano alle gambe o le schiaffeggiavano. D'un tratto fu scagliata sul pavimento. «Un terremoto» disse stordita ad alta voce, dopo che fu passato. Giacque immobile sulla pietra per qualche tempo, aspettando la seconda scossa che spesso faceva eco. Non accadde nulla. Suoni di spostamenti e stridii. Non sembravano vicini. Malta si alzò con cautela e toccò la striscia. Si accese di luce, ma fioca. Malta dovette sforzarsi di ricordare come doveva essere il corridoio, prima di proseguire. Grida in lontananza. Le ignorò, come ignorò le chiacchiere delle coppie che passeggiavano e l'abbaiare di un cagnolino che le correva accanto, impercettibile. Fantasmi e ricordi. Lei aveva una porta da aprire. Imboccò un corridoio laterale che l'avrebbe condotta fuori. Le urla erano vicine. La voce di una donna gridò: «Per favore, per favore, la porta è incastrata. Tirateci fuori di qui. Tirateci fuori o moriremo!» Sfiorando la porta con le mani, Malta sentì vibrare i colpi della donna. Più per curiosità che in risposta alla dichiarazione, mise la spalla alla porta. «Tirate!» gridò, spingendo. La porta incastrata si spalancò all'improvviso. Una donna corse fuori e urtò Malta ed entrambe finirono sul pavimento. Un uomo pallido era dietro di lei. Autentica luce gialla di lanterna si riversò fuori dalla stanza, quasi accecando Malta. La donna si rimise in piedi calpestandola. «Alzati!» urlò. «Portaci fuori di qui. Il muro ha una crepa e il fango sta entrando!» Malta si tirò a sedere e guardò la stanza, ben arredata. Un'onda lenta di fango stava sommergendo il pavimento coperto di tappeti. Una fessura nel muro ne era la fonte. Proprio mentre Malta la fissava, un rivolo d'acqua formò bolle improvvise nella fessura. Il fango cominciò a fluire più veloce, diluito dall'acqua, divorando il muro. «L'intera parete crollerà presto» osservò Malta con certezza. Il giovane pallido gettò uno sguardo nella camera. «Probabilmente hai ragione.» Guardò Malta. «I tuoi padroni ci hanno assicurato che qui saremmo stati al sicuro. Che nulla e nessuno poteva trovarmi. A che serve nascondermi dagli assassini, solo per affogare nel fango puzzolente?» Mal-
ta batté le palpebre. I fantasmi degli Antichi si affievolirono. Il Satrapo di Jamaillia la fissava corrucciato. «Ebbene, non startene lì seduta. Alzati e portaci dai tuoi padroni. Conosceranno la mia collera.» La Compagna Kekki era tornata in camera ad afferrare una lanterna. «Costei è inutile» dichiarò al Satrapo. «Seguitemi. Penso di conoscere la strada.» Malta rimase sul pavimento, guardandoli mentre si allontanavano. Molto significativo, si disse, stordita. Il Satrapo di Jamaillia era stato portato a Trehaug, per la sua sicurezza. Lei non lo sapeva. Qualcuno avrebbe dovuto dirglielo. Reyn non si fidava di lei? Chiuse gli occhi per pensare con maggior chiarezza. Avrebbe voluto dormire. Il pavimento sobbalzò sotto di lei, schiaffeggiandole la guancia. In fondo al corridoio, Kekki e il Satrapo urlarono. Il suono stridulo non spaventò Malta quanto il brontolio profondo dalla camera che avevano lasciato. Si rimise in piedi mentre il pavimento tremava ancora. Afferrò la porta e la spinse, raschiando il pavimento, fino a chiuderla. Una porta poteva contenere il crollo di una collina? All'improvviso si prese la testa fra le mani. Prendi il controllo. Scelse il momento che le serviva e lo ricreò attorno a sé. Il caos le turbinava attorno. Forse li avrebbe salvati. Si girò e corse. Davanti a sé vide la lanterna sobbalzante della Compagna. Raggiunse il Satrapo e la donna. «State andando dalla parte sbagliata» li informò, secca. «Seguitemi.» Strappò la lanterna dalle mani di Kekki. «Da questa parte» ordinò, e si mise a correre. I due la seguirono. Attorno a loro i fantasmi scappavano emettendo urla sottili. Malta seguì la fuga degli Antichi. Se erano sfuggiti al loro cataclisma finale, forse ci sarebbe riuscita anche lei. 37 Morte della città Il terremoto nelle ore precedenti all'alba estiva non risvegliò Keffria. Non era riuscita affatto a dormire. Durante la notte c'era stato un piccolo sussulto, e lei lo aveva ignorato. Questo era diverso. Era cominciato come una scossa acuta, ma fu il lungo tremito che seguì a farla balzare piedi. I suoi ospiti delle Giungle della Pioggia l'avevano avvertita che il moto degli alberi esagerava gli spostamenti della terra. Tuttavia si tenne attaccata alla colonnina del letto mentre si vestiva in fretta. Selden lo avrebbe trovato
molto divertente, ma Malta poteva essere allarmata. Doveva andare subito da lei. E poi si sarebbe costretta a rivelare a Malta che stava tornando a Borgomago. Temeva quel momento. La sera prima era andata a vedere Malta, ma l'aveva trovata addormentata. Non aveva avuto il cuore di disturbarla. La ferita alla testa era meno gonfia, ma gli occhi erano ancora molto lividi. Sapendo che il sonno era la miglior medicina, Keffria si era allontanata in punta di piedi. La guaritrice aveva insistito che Malta venisse alloggiata in una camera esposta al sole, più in alto sull'albero rispetto alla stanza di Keffria. Per raggiungerla bisognava superare diversi ponti e poi una scala a chiocciola. Keffria non era ancora abituata a quei sentieri che ondeggiavano con dolcezza. Selden correva avanti e indietro tutto il giorno, ma lei era ancora nervosa. Avrebbe desiderato che ci fosse più luce, ma ci voleva tempo perché il sole penetrasse il fogliame tutto attorno a lei. Incrociò le braccia sul petto e si mantenne nel mezzo del sentiero. Non pensò a come il ponte, avrebbe oscillato se ci fosse stato un altro terremoto mentre lo attraversava. Allontanò quelle considerazioni. Si accorse di camminare a piccoli passi affrettati e tentò di normalizzare il ritmo. Fu felice di arrivare alla scala serpeggiante che risaliva il tronco dell'albero. Cercò un buon modo di dire a Malta che stava per lasciarla lì. Non sarebbe stato facile. Dopo la sua partenza Malta sarebbe rimasta molto sola, a parte Selden. Aveva rifiutato di vedere Reyn. Lo riteneva ancora colpevole. Keffria lo aveva perdonato sul Kendry mentre risalivano il fiume, comprendendo che gli uomini che avevano attaccato la carrozza erano andati ben oltre gli ordini di catturare il Satrapo. Il senso di colpa e il rimorso del giovane delle Giungle della Pioggia che vegliava fuori dalla cabina di Malta avevano convinto Keffria che non aveva voluto fare del male alla sua adorata. Forse nel tempo lo avrebbe capito anche Malta, ma intanto Keffria stava lasciando i suoi figli a dipendere solo l'uno dall'altra. I dubbi che l'avevano assalita per tutta la notte ritornarono. Si avventurò sul ramo che conduceva alla stanza di Malta. Annuì brevemente a una donna che usciva dalla porta di una camera vicina. La pelle del suo viso era coperta di piccoli bozzi. Le crescite simili a bargigli le coprivano la gola e il mento. Era Tillamon, la sorella maggiore di Reyn, che le rivolse un brillante sorriso. «Abbiamo avuto una bella scossa» osservò Keffria scioccamente. «Spero che tutti stiano bene. Il mese scorso abbiamo perso due ponti in un terremoto come quello» osservò allegramente Tillamon.
«Oh, cielo» Keffria si udì replicare. Si affrettò. Bussò alla porta e attese. Nessuna risposta. «Malta, cara, sono io» annunciò, ed entrò. Il sollievo che provò a scendere dalla passerella evaporò davanti al letto vuoto. «Malta?» Stupidamente andò a spostare le coperte vuote come se potessero celare in qualche modo sua figlia. Tornò alla porta e si sporse. «Malta?» chiamò interrogativa. La sorella di Reyn era ancora sulla soglia della sua camera. «La guaritrice ha portato Malta da qualche parte?» chiese Keffria. Tillamon scosse la testa. Keffria cercò di non spaventarsi. «È così strano. È sparita. È troppo malata per essere già in piedi. E non si alza mai presto, anche quando si sente bene.» Non guardò i corrimano della passerella. Non si chiese se una ragazza confusa e ammalata poteva alzarsi dal letto e... La donna inclinò la testa. «Ieri è uscita a passeggio con Reynie» rivelò. Un piccolo sorriso apparve sul suo viso e svanì. «Ho sentito che hanno fatto pace» disse in tono di scusa. «Ma questo non spiega perché non è nel suo letto... oh.» Keffria la fissò. «Oh, no. Non intendevo questo. Reynie non farebbe mai... non è il tipo.» Stava incespicando sulle parole. «Farei meglio a chiamare mia madre» propose goffamente. Stava succedendo qualcosa, decise Keffria. Qualcosa che avrebbe dovuto sapere. «Penso che farò meglio a venire anch'io» rispose con cuore pesante. Ci volle parecchio per svegliare Jani Khuprus. Venne alla porta in vestaglia, con occhi stanchi e ansiosi. Per un istante Keffria quasi la compatì. Ma Malta era in pericolo. La guardò dritta negli occhi: «Malta non è nel suo letto. Sapete forse dov'è?» La paura che attraversò il viso della donna disse tutto a Keffria. Jani guardò sua figlia. «Tillamon. Torna in camera. Questo riguarda solo Keffria e me.» «Ma mamma» cominciò Tillamon. Si interruppe all'occhiata che sua madre le indirizzò. Scosse la testa, ma si girò e andò via. Gli occhi di Jani tornarono a Keffria. Le linee sottili sul viso della donna delle Giungle erano all'improvviso più nitide. Sembrava sofferente. Trasse un respiro profondo. «È possibile che sia da qualche parte con Reyn. Stanotte, a tarda ora, lui era... molto preoccupato per Malta. Forse è andato da lei... Non è da Reyn, ma ultimamente è cambiato.» Sospirò. «Venite con me.» Jani aprì in fretta la strada. Non si era fermata per vestirsi o velarsi. Per-
fino animata da rabbia e paura, Keffria riusciva a malapena a seguirla. Mentre si avvicinavano alla camera di Reyn, l'apprensione assalì Keffria. Se Malta e Reyn avevano risolto le loro differenze, potevano... All'improvviso volle fermarsi e considerare la situazione. «Jani» cominciò quando l'altra donna alzò la mano per bussare. Ma Jani non bussò. Spinse la porta della stanza di Reyn. Un odore pesante di brandy e sudore era nell'aria. Jani guardò dentro, poi si fece da parte per permettere a Keffria di vedere. Reyn era scompostamente disteso a faccia in giù sul letto. Il braccio pendeva dal lato, il dorso della mano contro il pavimento. Il respiro era rauco e pesante. Dormiva come un uomo sfinito, e dormiva solo. Con le dita sulle labbra, Jani chiuse la porta. Keffria trattenne le scuse finché non furono ben lontane dalla camera. «Jani, sono così...» cominciò, ma l'altra donna si rivolse in fretta verso di lei con un sorriso storto. «Entrambe sappiamo bene che abbiamo ragione di preoccuparci con questi due. Reyn ha scoperto questa passione tardi nella sua vita. Malta lo ha tenuto a distanza da quando è arrivata, eppure non credo che il suo cuore sia freddo verso di lui. Prima si mettono d'accordo, più facile sarà per tutti.» Keffria annuì stanca, grata per la comprensione. «Ma dove può essere? È troppo malata per essere in giro da sola.» «Condivido la vostra preoccupazione. Permettetemi di mandare alcuni messaggeri a chiedere se qualcuno l'ha vista. Avrebbe potuto andare via con Selden, forse?» «Forse. Le ultime settimane li hanno avvicinati. So che lui voleva mostrarle la città.» Keffria alzò la mano steccata alla fronte. «Questo comportamento mi spinge a chiedermi se sono saggia a lasciarli qui. Pensavo che Malta stesse maturando, ma sparire così, senza una parola...» Jani si arrestò sulla stretta passerella e prese il braccio di Keffria. Gli occhi, ancora scoperti nella fretta della mattina, la guardarono dritta in faccia. «Prometto che mi preoccuperò di loro come dei miei figli. Non c'è bisogno di affidare Selden a qualcun altro. A Reyn farà bene prendersi cura di un ragazzo, prima di avere figli suoi.» Jani sorrise e la speranza sul suo viso portò via molta della stranezza delle Giungle. Poi comparve un'espressione quasi implorante. «Quello che avete offerto ieri è incredibilmente coraggioso. Mi sento egoista a esortarvi. Eppure, siete l'unica così unicamente adatta a spiare per noi.»
«Spiare.» La parola aveva uno strano sapore. «Suppongo...» Keffria fu interrotta dai rintocchi bronzei di una grande campana. «Cos'è?» chiese, ma Jani fissava la città antica, colpita. «Vuole dire che c'è stato un crollo, e qualcuno può essere intrappolato. È l'unico caso in cui la campana suona. Tutti coloro che possono lavorare devono presentarsi. Devo andare, Keffria.» Senza dire altro, la Mercante delle Giungle della Pioggia si girò e corse via, lasciando Keffria a guardarla a bocca aperta. Con riluttanza Keffria diresse gli occhi verso la città sepolta. Non poteva vedere molto attraverso gli alberi, ma il panorama di Trehaug si apriva su vari livelli davanti a lei. La gente si lanciava richiami, gli uomini si infilavano la camicia mentre attraversavano le passerelle, e le donne li seguivano portando attrezzi e brocche d'acqua. Keffria decise di trovare Malta e Selden. Sarebbero andati insieme ad aiutare dovunque potevano, se Malta se la sentiva. Forse sarebbe stata l'occasione per rivelare che intendeva tornare a Borgomago non appena il Kendry partiva. Malta aveva perso il conto dei vicoli ciechi. Era esasperante guardare gli abitanti fantasma della città morta svanire nelle gallerie crollate. Le apparizioni scomparivano nelle cascate di terra e pietra. Ogni volta che la ragazza si fermava davanti a una barriera di terra umida, il Satrapo e la Compagna si facevano più angosciati. «Hai detto che conoscevi la strada!» l'accusò il giovane. «Conosco la strada. Conosco tutte le strade. Dobbiamo solo scoprirne una che non sia bloccata.» Malta aveva concluso che il Satrapo non l'aveva riconosciuta come la ragazza dal ballo e del viaggio in carrozza. La trattava come una domestica alquanto stupida. Non poteva dargli torto. Anche lei faceva fatica a restare attaccata a quella Malta. I ricordi del ballo e dell'incidente erano più foschi e distanti dei ricordi della città. La sua vita come Malta sembrava la storia di una ragazza frivola e viziata. Fuggire e sopravvivere era meno importante del bisogno di trovare suo fratello, ritornare con le sbarre e liberare il drago. Doveva trovare un'uscita. Aiutare il Satrapo era incidentale. Superò l'ingresso del teatro, poi si girò all'improvviso sulla soglia di quella sala enorme. La porta si apriva nera nel muro. Malta alzò la lanterna oscillante per vedere come aveva resistito al terremoto. La camera un tempo magnifica era parzialmente crollata. Qualcuno aveva tentato di rimuovere la terra, ma i grandi blocchi di pietra che un tempo sostenevano l'alto
soffitto avevano ostacolato gli sterratori. Guardò dentro speranzosa e decise che valeva la pena di tentare. «Da questa parte» disse ai due che la seguivano. Kekki gemette. «Oh, che sciocchezza. È già quasi crollata. Dobbiamo trovare un'uscita, non perderci fra le rovine.» Più facile spiegare che discutere. «Ogni teatro deve avere un passaggio per far entrare e uscire gli attori. Gli Antichi preferivano che rimanessero invisibili, per preservare meglio l'illusione del dramma. Il palcoscenico è ancora in piedi, e dietro ci sono camere e una via d'uscita. L'ho usata spesso. Venite. Seguitemi con fiducia, e potete ancora essere salvati.» Kekki parve offesa. «Non darti arie con me, piccola sguattera. Stai dimenticando chi sei.» Malta rimase in silenzio per un momento. «Più di quanto crediate» concordò con una voce che non era la sua. Di chi erano state quelle parole, quella dizione? Non lo sapeva, e non c'era tempo di inseguire un singolo ricordo. Li condusse al palcoscenico, li spinse a salire e ad attraversarlo per poi passare dietro le quinte. Alcune macerie bloccavano la porta segreta, ma la maggior parte erano legno piuttosto che pietra. Nessuno passava di lì da molto, molto tempo. Forse il popolo delle Giungle della Pioggia non aveva mai scoperto quella porta. Mise a terra la lanterna e cominciò a lavorare per liberarla mentre il Satrapo e la Compagna stavano a guardare. Manovrò il chiavistello tracciando il segno della gilda degli attori sul pannello leggero. Quando non funzionò, diede un calcio alla porta che si aprì con lentezza nell'oscurità. L'architrave gemette minacciosamente, ma resistette. Malta pregò che il corridoio fosse libero. Mise la mano sulla striscia di luce nel muro, e lo stretto corridoio prese vita all'improvviso. Si stendeva davanti a loro libero e diritto, chiamandoli verso la libertà. «Di qui» annunciò Malta. Kekki raccolse la lanterna, ma ora la ragazza era pronta a fidarsi della striscia di jidzin. La sfiorò mentre camminava. Gli echi dell'entusiasmo di qualcun'altro sussurravano nel suo cuore. Quella porta conduceva al guardaroba, e alle camere dove i ballerini potevano cambiarsi e sciogliere i muscoli. Era stato un grande teatro, il più bello di tutte le città degli Antichi. La porta posteriore, ricordò, si apriva su una veranda meravigliosa e una rimessa per le barche sul fiume. Alcuni attori e cantanti vi tenevano le loro barchette, per gli incontri romantici al chiaro di luna. Scuotendo la testa, Malta la liberò dai sogni. Una porta per uscire, si disse. Era tutto ciò che cercava, una porta per uscire dalla città sepolta.
Il corridoio proseguiva, oltre ai camerini e alle piccole botteghe che sostenevano gli artisti del teatro. Quello era stato il negozio di un costumista, e questa porta conduceva a una piccola e discreta fumeria di droghe. Ecco il creatore di parrucche, e la bottega del truccatore. Andati, tutti andati, immobili e morti. Era stato il cuore pulsante della città, perché quale arte è più grande dell'arte che imita la vita stessa? Malta si affrettò, ma nel suo cuore i ricordi di cento artisti piansero la propria fine. Quando vide la luce del giorno, era così pallida e grigia da sembrare un miraggio. L'ultimo tratto del corridoio era danneggiato. La striscia di jidzin era andata, e la lanterna stava spegnendosi. Ora dovevano fare in fretta. I blocchi di pietra delle pareti avevano perso l'intonaco e gli affreschi. Si imbarcavano, luccicanti di un velo d'acqua. Le macchie sul muro mostrarono a Malta che quel corridoio era stato allagato, e più di una volta. Ogni volta che il fiume veniva gonfiato dalle piogge, probabilmente riempiva quelle gallerie. Era una fortuna che la via fosse libera. Anche così, passarono a guado attraverso fango molle. Malta aveva rinunciato da tempo a curarsi dei suoi vestiti, ma il Satrapo e la Compagna emettevano lamenti costernati sguazzando dietro di lei. La veranda e la rimessa che erano stati un tempo lo sbocco del corridoio ora erano un mucchio di macerie. Non c'era un passaggio definito. Malta ignorò le proteste degli altri e cominciò ad attraversare, muovendosi sempre verso la grigia luce del giorno. Le piogge avevano trascinato terriccio e foglie in quello che rimaneva del corridoio. Un antico terremoto aveva spaccato la terra e le pareti. «Siamo fuori!» gridò Malta agli altri due. Si arrampicò sui resti di barche accatastate, si contorse attraverso una fenditura fangosa e all'improvviso uscì incespicando nella luce del primo mattino. Trasse profondi respiri d'aria fresca, nel semplice piacere dello spazio aperto attorno a lei. Non aveva compreso quanto il buio e la terra che la circondavano avessero oppresso il suo spirito finché non fu libera. Libera anche da tutti gli spiriti sussurranti. Era come destarsi da un sogno lungo e contorto. Fece per strofinarsi il viso, poi si fermò. Aveva le mani imbrattate e terrose. Le unghie erano incrostate di fango. I vestiti le pendevano di dosso in stracci fangosi. Scoprì che aveva una scarpa sola. Dove era stata, chi era stata? Stava ancora battendo le palpebre quando emersero il Satrapo e la Compagna. Erano un po' infangati, ma meno laceri di lei. Malta si girò sorridendo, aspettandosi di essere ringraziata. Invece il Magnadon Satrapo Cosgo domandò: «Dov'è la città? A che serve portarci fuori dalle macerie in
questa zona desolata?» Malta si guardò attorno. Alberi. Pigra acqua grigia attorno alle radici. Si trovavano su una gobba di terra coperta di ciuffi d'erba in mezzo a una palude. Sottoterra aveva perso tutti i suoi riferimenti. Si orientò con il sorgere del sole e cercò Trehaug. La foresta le ostruiva la vista. Scrollò le spalle. «Siamo a monte o a valle della città» azzardò. «Dato che sembriamo trovarci su una minuscola isola, potrebbe essere un'ipotesi fondata» ironizzò il Satrapo. Malta salì più in alto per vedere meglio, ma riuscì solo a confermare l'acida ipotesi del giovane. Non era tanto un'isola quanto una collinetta in una palude. Malta non poteva essere sicura di dove fosse il canale del fiume. Le colonne grigie e immense degli alberi si estendevano a perdita d'occhio in ogni direzione. «Dovremmo tornare indietro» concluse, scoraggiata. Sarebbe riuscita ad affrontare di nuovo quelle file di fantasmi? «No!» Una parola come uno strillo, poi Kekki sedette per terra. Cominciò a singhiozzare disperatamente. «Non posso. Non ritornerò nel buio. Non voglio.» «Evidentemente non è necessario» osservò il Satrapo con impazienza. «Uscendo abbiamo scavalcato diverse barchette. Ragazza, torna indietro e trova la migliore. Trascinala qui e riportaci in città.» Si guardò attorno disgustato, poi sfoderò un fazzoletto dalla tasca e lo stese per terra. Ci si sedette sopra. «Rimarrò qui.» Scosse la testa. «Che modo di trattare il loro legittimo signore. Questi Mercanti si pentiranno di avermi maltrattato con tanta indifferenza.» «Forse. Ma mai quanto ci pentiamo di avervi permesso di maltrattare noi» si sentì dire Malta. All'improvviso perse le staffe con quegli ingrati. Aveva faticato tutta la notte per portarli fuori dalle gallerie, e la ringraziavano così? Ordinandole di recuperare una barca e portarli a Trehaug? Scosse le gonne logore e rivolse un inchino beffardo al Satrapo. «Malta Vestrit, dei Mercanti di Borgomago, si congeda dal Magnadon Satrapo Cosgo e dalla Compagna Kekki. Non sono la vostra serva. Né mi considero più vostra suddita. Addio.» Si allontanò i capelli dal viso e si girò verso la fessura fangosa nella terra. Trasse un respiro profondo. Poteva farlo. Doveva farlo. Tornata a Trehaug, potevano mandare una squadra di soccorso dal Satrapo. Forse restare seduto su quel desolato mucchio di terra gli avrebbe insegnato un poco di umiltà.
«Aspetta!» ordinò il Satrapo. «Malta Vestrit? La ragazza del Ballo d'Estate?» Malta gettò un'occhiata indietro e annuì. «Se mi lasci qui, non ti aspetterai che mandi le mie navi a salvare tuo padre!» la informò il Satrapo. «Le tue navi?» Malta rise, un poco isterica. «Quali navi? Non hai mai avuto intenzione di aiutarmi. Sono sorpresa che ti ricordi di averlo detto.» «Recupera la barca e portaci in salvo. Poi vedrai come un Satrapo di Jamaillia mantiene le sue promesse.» «Probabilmente allo stesso modo in cui onora gli statuti dei suoi antenati» lo derise Malta. Gli girò le spalle e ricominciò a scendere nel buio. Lontano, nel corridoio, sentiva il rumore di applausi distanti ma fragorosi. La paura sorse in lei. Annegare nei ricordi. Ora sapeva cosa significava. Poteva traversare di nuovo la città e rimanere sé stessa? Si costrinse a continuare. Ancora una volta scavalcò le barche, notando che non erano fracassate come aveva pensato. Agli scafi erano state applicate lastre di metallo battuto. Mentre si arrampicava, le sue mani rimasero macchiate di polvere bianca dove aveva toccato le barche. Dal fondo del corridoio venne un altro scroscio di applausi. Camminò con lentezza in quella direzione, ma all'improvviso una nube di polvere le soffiò in viso. Tossì e soffocò per un momento. Quando batté le palpebre per schiarirsi gli occhi e guardò il corridoio, scorse una nebbia di polvere sospesa nell'aria. Rimase a guardare un momento di più, rifiutando di riconoscere quello che sapeva d'istinto. Il corridoio era crollato. Non si poteva tornare indietro da quella parte. Vacillò per la stanchezza, poi irrigidì la schiena e si raddrizzò. Una volta finito tutto avrebbe potuto riposare. Camminò di nuovo con lentezza verso le scialuppe accatastate. Le osservò dubbiosa. La prima aveva i sedili rotti. Malta raccolse una scheggia, poi riconobbe il legno. Cedro. Suo padre lo chiamava legno dell'eternità. Cominciò a spostare la barca, per vedere se quella sotto era migliore. «Reyn? Reyn, caro, abbiamo bisogno di te. Devi svegliarti.» Reyn rotolò via dalla voce gentile e dalle mani che lo scuotevano. «Vai via» riuscì a dire, e si coprì la testa con il cuscino. Confusamente si chiese perché dormiva con i vestiti e le scarpe. Bendir era sempre stato più diretto. Afferrò le caviglie del fratello minore. Reyn si svegliò del tutto quando precipitò sul pavimento, e perse subito le staffe.
«Bendir!» lo rimproverò sua madre, ma suo fratello era impenitente. «Non c'è tempo per la gentilezza. Avrebbe dovuto venire al primo rintocco della campana. Non mi importa quanto sia innamorato, o stordito dal bere.» Le parole penetrarono la rabbia e la sonnolenza. «La campana? C'è stato un crollo?» «Metà della dannata città è crollata» spiegò secco Bendir. «Stanotte, mentre tu eri abbastanza ubriaco da camminare sulle labbra, abbiamo avuto due terremoti. Scosse violente. Ci sono squadre che scavano e puntellano le gallerie, ma ci vuole molto. Tu conosci la struttura della città meglio di chiunque altro. Abbiamo bisogno di te.» «Malta? Malta sta bene?» chiese Reyn con ansia. Era stata nella camera del drago. L'avevano portata fuori in tempo? «Dimenticati di Malta!» gli ordinò suo fratello rudemente. «Se vuoi preoccuparti di qualcuno, il Satrapo e la sua donna sono bloccati laggiù, a meno che non siano già morti. Sarebbe un bel paradosso, portarlo qui per proteggerlo, solo per vederlo morire nella città.» Reyn si mise in piedi. Era già vestito, fino agli stivali. Allontanò i ricci indisciplinati dal viso. «Andiamo. La notte scorsa avete portato fuori Malta senza problemi?» La domanda era solo una formalità. Suo fratello e sua madre non sarebbero stati così calmi se Malta fosse rimasta intrappolata laggiù. «Era solo un tuo sogno» disse brusco Bendir. Reyn si arrestò. «No» disse piatto. «Non era un sogno. È andata nella città vecchia, alla Sala del Gallo Incoronato. Ve l'ho detto. So che ve l'ho detto. Vi ho detto che dovevate portarla fuori. Non lo avete fatto?» «È a letto, ammalata» esclamò Bendir seccato. Sua madre era impallidita. Mise la mano allo stipite e lo afferrò. Senza fiato disse: «Keffria è venuta da me all'alba. Malta non era nel suo letto. Pensava...» Scosse la testa. «Pensava che sua figlia fosse con te. Siamo venuti qui, e naturalmente non c'era. Poi è suonata la campana, e...» La sua voce si spense. Con maggior decisione aggiunse: «Ma come avrebbe fatto ad arrivare alla città, o addirittura entrarci? Da quando è qui ha a malapena lasciato il letto. Non saprebbe come arrivarci, figuriamoci giungere alla Sala del Gallo Incoronato da sola.» «Selden» disse duro Reyn. «Il suo fratellino. È andato in giro per tutta Trehaug con Wilee Crane. Io stesso, Sa mi è testimone, ho cacciato Wilee fuori dalla città non so quante volte. Suo fratello ormai sa come entrare, se
ha giocato con Wilee. Dov'è Selden?» «Non lo so» ammise sua madre con orrore. Bendir li interruppe senza scusarsi. «Ci sono persone che sono davvero sepolte nella città, Reyn. Il Satrapo e la Compagna, per non dire la squadra di sterratori della famiglia Vintagli. Avevano appena cominciato a scavare in una camera vicino a dove hanno trovato gli affreschi con le farfalle. Almeno altre due famiglie avevano squadre notturne al lavoro. Non abbiamo tempo per preoccuparci di quelli che potrebbero essere laggiù. Dobbiamo concentrarci su quelli che ci sono di certo.» «So che Malta è laggiù» disse amaro Reyn. «E so anche dove. La Sala del Gallo Incoronato. Ve l'ho detto la notte scorsa. Vado a cercare prima lei.» «Non puoi!» abbaiò Bendir, ma Jani lo interruppe. «Non discutere. Reyn, vieni e scava. La galleria principale conduce verso la Sala del Gallo Incoronato e anche verso gli appartamenti che abbiamo assegnato al Satrapo. Lavorate insieme, e raggiungerete entrambi.» Reyn rivolse un'occhiata a suo fratello. «Se solo ieri notte mi avessi ascoltato» disse in tono accusatorio. «Se solo tu fossi stato sobrio» ribatté Bendir. Girò sui tacchi e lasciò la stanza. Jani e Reyn si affrettarono a seguirlo. Spostare le barche per trovare quelle in buone condizioni fu un compito difficile nello spazio ristretto della rimessa crollata. Dopo aver scelto la migliore, portarla fuori si rivelò ancor più arduo. Kekki non era di nessuna utilità. Il suo pianto si placò solo quando si fu addormentata. Il Satrapo fece uno sforzo, ma era come essere aiutata da un bambinone. Non aveva alcun concetto della fatica fisica. Malta tentò di non arrabbiarsi, ricordandosi che l'anno prima anche lei era stata così ignorante. Il Satrapo aveva paura di lavorare. Non afferrava il legno, tanto meno usava i muscoli per trascinare la barca. Con uno sforzo, Malta tenne a freno la lingua. Quando riuscirono a portare la barca fuori dalla fenditura e sul terreno coperto di foglie, era del tutto sfinita. Il Satrapo si ripulì le mani e osservò con orgoglio la barca come se fosse tutta opera sua. «Bene» dichiarò con soddisfazione. «Questo è fatto. Prendi un paio di remi e partiamo.» Malta era crollata al suolo, appoggiata contro un albero. «Non pensi» chiese, lottando per trattenere il sarcasmo, «che prima dovremmo vedere se sta ancora a galla?»
«Perché non dovrebbe?» Il Satrapo mise un piede sulla prua della barca. «A me sembra a posto.» «Il legno fuori dall'acqua si restringe. Dovremmo metterla in acque poco profonde, lasciare che il legno si gonfi e vedere quanta acqua imbarca. Se non lo sapevi, te lo dico adesso. L'acqua del Fiume delle Giungle della Pioggia divora il legno. E la carne. Se la barca non galleggia bene, dovremo mettere qualcosa sul fondo per appoggiarci i piedi. Inoltre sono troppo sfinita per remare, e non sappiamo bene dove siamo. Se aspettiamo fino al crepuscolo potremmo scorgere le luci di Trehaug attraverso gli alberi. Quello ci risparmierebbe molto tempo e sforzo.» Il Satrapo la guardò dall'alto, a metà tra sdegno e costernazione. «Rifiuti di obbedirmi?» Malta incontrò inflessibile il suo sguardo. «Vuoi morire sul fiume?» Il giovane si inalberò. «Non osare parlarmi come se fossi una Compagna!» «Che il cielo ce ne scampi» concordò Malta. Si chiese se qualcuno avesse mai osato dargli torto. Con un gemito si rimise in piedi. «Aiutami.» Cominciò a spingere la barca verso la palude. L'aiuto del Satrapo consistette nel togliere il piede dalla prua. Malta lo ignorò. Mise la barca nell'acqua bassa e ferma. Non avevano una cima per ormeggiarla, ma non c'era corrente che potesse portarla via. Sperò che rimanesse lì, e all'improvviso era troppo stanca per preoccuparsene. Guardò il Satrapo che ancora la folgorava con lo sguardo. «Se vuoi stare sveglio, forse potresti trovare un paio di remi. E forse potresti controllare che la barca non si allontani. È la migliore del mucchio, sebbene non sia un granché.» Il suo tono la stupì; poi, mentre si sdraiava per terra e chiudeva gli occhi, lo identificò. Era così che sua nonna le aveva sempre parlato. Ora capiva perché. Le faceva male tutto, e la terra era dura. Dormì. Reyn non li aveva convinti; era semplicemente andato avanti. Se avesse aspettato che loro liberassero e puntellassero il passaggio principale, Malta sarebbe di certo morta prima del suo arrivo. Aveva superato strisciando due crolli che bloccavano il corridoio e finalmente era giunto a una porzione del passaggio principale ancora intatta, quando la cordicella che stava srotolando finì. Fermò l'estremità con un grosso pezzo di pietra caduta. Aveva già tracciato il suo segno sul muro con gesso di stelle. Sarebbe risaltato anche nella luce più debole. Avrebbero capito che era stato là e aveva proseguito. Aveva marcato il suo passaggio attraverso i crolli, indi-
cando i punti migliori dove cominciare a scavare. Aveva un istinto per certe cose. La scena con la madre di Malta era stata terribile. Reyn l'aveva trovata che aiutava a portar fuori carriole di terriccio dalla galleria. Le bende sulla mano ferita erano sporche di terra. Reyn le aveva chiesto se aveva visto Malta, e la preoccupazione repressa si era manifestata sul viso di Keffria. «No» aveva risposto con voce rauca. «Neanche Selden. Ma di certo non potevano essere laggiù.» «Certo che no» aveva mentito Reyn, angosciato. «Sono sicuro che arriveranno. Probabilmente sono andati a passeggio insieme a Trehaug. Senza dubbio stanno chiedendosi dove sono tutti gli altri.» Aveva tentato di mettere un poco di convinzione nelle sue parole, ma senza risultato. Keffria aveva letto l'orrore nei suoi occhi e un singhiozzo le si era fermato in gola. Reyn non aveva potuto affrontarla. Era sceso nella città sepolta. Non le aveva promesso di restituirle i suoi figli. Le aveva già mentito una volta. Malgrado i crolli recenti, si era mosso con sicurezza attraverso la città. Ne conosceva le forze e i punti deboli come conosceva il proprio corpo. Deviò gli sterratori da un tunnel che di certo era perduto, e li indirizzò a un altro crollo che liberarono in fretta. Bendir voleva che andasse da uno scavo all'altro, con una lanterna e una mappa, dispensando consigli. Reyn aveva rifiutato con decisione. «Sto aiutando quelli che scavano verso la Sala del Gallo Incoronato. Quando saremo arrivati e avremo liberato Malta, lavorerò dovunque vorrai. Ma quella è la mia priorità.» C'era stato quasi uno scontro, ma la loro madre aveva di nuovo ricordato a Bendir che anche il Satrapo intrappolato e la Compagna si trovavano da quella parte. Bendir aveva annuito con riluttanza. Reyn aveva raccolto gli arnesi e si era avviato. Portava acqua, gesso, corda, candele e un acciarino ed esche in una borsa sulla spalla. Attrezzi per scavare e scassinare sferragliavano alla cintura. Non perse tempo con una lanterna. Forse gli altri avevano bisogno di luce per lavorare, ma non lui. Si affrettò lungo il passaggio, trascinando il gesso lungo il muro appena sopra al jidzin fuori uso. Davvero la città stava morendo, se non riusciva neanche a suscitare un bagliore. Forse la striscia era rotta in troppi pezzi. Reyn si chiese mestamente se avesse perso per sempre l'opportunità di capire come funzionava. Giunse alla camera dove era rinchiuso il Satrapo. Era stata una delle più belle camere che mai avessero scoperto, ma il Satrapo e la Compagna l'avevano ridotta a un porcile. Davvero Cosgo non sembrava avere idea di
come prendersi cura di sé stesso. Reyn capiva il bisogno di aiutanti: la sua famiglia aveva domestici stipendiati che cucinavano, lavavano e rammendavano i vestiti. Ma un servitore per mettergli le scarpe ai piedi? Un servitore per pettinarlo? Che genere di uomo aveva bisogno di un altro uomo per questo? L'acqua filtrava con lentezza da sotto la porta. Reyn tentò di aprirla, ma qualcosa di pesante premeva dall'altro lato. Probabilmente un muro di terra e fango, rifletté severamente. Picchiò sulla porta e gridò, ma non ebbe risposta. Ascoltò il silenzio. Tentò di provare dispiacere per la loro fine, ma ricordava solo l'espressione sul viso dell'uomo mentre guardava Malta fra le sue braccia. Il solo ricordo gli irrigidì i muscoli delle spalle. Fango e terra avevano dato al Satrapo una morte più rapida di quella che gli avrebbe inflitto Reyn, se mai avesse di nuovo guardato Malta in quel modo. Fece un segno sulla porta per indicare agli sterratori che la considerava senza speranza. Meglio salvare i vivi nei prossimi giorni. Recuperare i corpi poteva aspettare. Appoggiò il gesso al muro e continuò. Una dozzina di passi più oltre inciampò in un corpo. Cadde imprecando, poi subito tornò indietro a tentoni. Un corpo minuto, ancora caldo. Vivo. «Malta?» Osò sperare. «No, Selden» rispose una vocetta infelice. Reyn raccolse il ragazzo tremante vicino a sé. Era raggelato. Reyn sedette sul pavimento e lo prese in grembo. Gli sfregò le braccia e le gambe. «Dov'è Malta? È vicina?» «Non lo so.» Il ragazzo batteva i denti, scosso da ondate di brividi. «È entrata. Avevo paura. Poi c'è stato il terremoto. Quando non è uscita mi sono costretto a seguirla.» Guardò Reyn nell'oscurità. «Sei Reyn?» Poco per volta, Reyn conobbe la sua storia. Diede da bere al ragazzo e accese una candela per fargli coraggio. Nella luce tremolante, Selden sembrava un piccolo vecchietto ingrigito. Il viso era imbrattato, i vestiti pesanti di terra. Aveva i capelli incrostati al cranio. Non sapeva dire a Reyn dove avesse vagato nella sua ricerca. Solo che aveva chiamato e chiamato Malta, e, non trovandola, era andato avanti. In cuor suo Reyn maledisse Wilee, che aveva mostrato a Selden come intrufolarsi nella città, e sé stesso, che non aveva sbarrato i tunnel abbandonati contro i ragazzini avventurosi. Due parti del racconto di Selden suscitarono in Reyn una paura innominabile. Malta era scesa laggiù, cercando di proposito il drago. Perché? Ma sebbene quello fosse inquietante, quando Selden menzionò la musica che Malta aveva sentito, Reyn si morse il labbro. Come poteva averla sen-
tita? Era nata a Borgomago. Pochi perfino tra i nativi delle Giungle riuscivano a udire quelle note elusive. Quelli che ci riuscivano venivano tenuti fuori dalle gallerie. Ecco perché Reyn non aveva mai detto a sua madre o a suo fratello che lui la sentiva. Quelli che sentivano la musica alla fine annegavano nei ricordi. Così dicevano tutti coloro che lavoravano in città. Anche suo padre. Suo padre aveva sentito la musica e aveva lavorato in città comunque, fino al giorno in cui lo trovarono seduto nel buio, circondato da piccoli cubi di pietra nera. Era annegato nei ricordi della città, perdendo ogni ricordo della propria vita. Quando lo trovarono sedeva nell'oscurità, accatastando blocchi come un grosso bambino. «Selden» mormorò Reyn. «Devo andare avanti. So come raggiungere la sala dove è sepolto il drago. Penso che Malta possa aver scoperto come arrivarci. Ora.» Trasse un respiro. «Devi decidere. Puoi aspettare qui gli sterratori. Forse Malta e io torneremo prima che arrivino. O puoi venire con me a cercare Malta. Capisci perché non posso portarti adesso in superficie?» Il ragazzo si grattò la sporcizia incrostata sul viso. «Perché potrebbe essere morta prima che tu torni da lei.» Emise un pesante sospiro. «È per quello che non sono tornato fuori a cercare aiuto, quando ancora sapevo come uscire. Temevo che l'aiuto sarebbe arrivato tardi.» «Hai un cuore coraggioso, Selden. Non avresti dovuto permettergli di condurti qui, ma hai un cuore coraggioso.» Reyn rimise in piedi il ragazzo, poi si alzò. Prese la mano di Selden. «Vieni. Andiamo a cercare tua sorella.» Il ragazzo afferrò la candela come se ne andasse della sua vita. Era risoluto ma sfinito. Per un tratto Reyn rallentò il ritmo per adattarlo al ragazzo. Poi, malgrado le obiezioni di Selden, se lo caricò sulla schiena. Selden tenne in alto la candela e Reyn trascinò il gesso lungo il muro. Andarono avanti contro l'oscurità. La luce vacillante della candela non aveva misericordia. Mostrava a Reyn tutto ciò che aveva evitato di sapere. La città stava arrendendosi. I terremoti della notte l'avevano spinta oltre ogni sopportazione. Avrebbe resistito per qualche tempo come frammenti di sé stessa - ali sconnesse e camere isolate - ma alla fine tutto sarebbe andato in frantumi. La terra l'aveva ingoiata anni prima. Ora l'avrebbe digerita. Il sogno di vedere l'intero immenso complesso dissotterrato e di nuovo illuminato dalla luce del giorno era un sogno senza futuro. Reyn avanzò risoluto, canticchiando a bocca chiusa. Il ragazzo sulle sue
spalle era silenzioso. Se non avesse tenuto così saldamente la candela, Reyn lo avrebbe creduto addormentato. Il suo canticchiare mascherava gli altri suoni che non voleva sentire. Gemiti distanti di travi troppo forzate, acqua che sgocciolava e ruscellava, e la debole, pallida eco di voci antiche che parlavano e ridevano in un giorno passato. Reyn aveva imparato tempo prima a impedirsi di essere troppo consapevole di loro. Quel giorno, mentre piangeva la fine della città, i suoi ricordi lo opprimevano, cercando di imprimersi a fuoco nella sua mente. «Ricordaci, ricordaci» sembravano supplicare. Se non avesse avuto da pensare a Malta, avrebbe ceduto a loro. Prima di Malta, la città era stata la sua vita. Non sarebbe riuscito a contemplare di sopravviverle. Ma aveva Malta, pensò ferocemente. Aveva Malta, e non l'avrebbe ceduta, né alla città né al drago. Se tutto il resto che amava doveva perire, avrebbe difeso lei. La porta della Sala del Gallo Incoronato era spalancata. No. Un'occhiata più da vicino rivelò che era stata spinta fuori dai cardini. Reyn contemplò brevemente il galletto colorato che era divenuto il simbolo della sua famiglia. Fece scendere Selden dalla schiena. «Aspetta qui. Questa stanza è pericolosa.» Gli occhi di Selden si allargarono. Era la prima volta che Reyn parlava ad alta voce di pericolo. «Ti cadrà in testa?» chiese con ansia. «Mi ha schiacciato molto tempo fa» ammise Reyn. «Stai qui. Tieni la candela.» Se Malta era viva e consapevole, avrebbe sentito le loro voci. Avrebbe chiamato. Dunque Reyn doveva cercare il suo corpo, e sperare che respirasse ancora. Sapeva che era venuta lì. Senza illusioni colpì il jidzin accanto all'ingresso. Un debole bagliore gocciolò via come sciroppo lento dalla sua mano. Si costrinse ad attendere pazientemente che circondasse la stanza. Il danno era immenso. Il soffitto a cupola aveva ceduto in due punti, scaricando cumuli di terra bagnata sul pavimento. Le radici dondolavano accanto a frammenti penzolanti di lastre di cristallo. Nessuna traccia di Malta. Con la mano sulla striscia di luce, Reyn fece un lento giro della stanza. Quando raggiunse il primo pannello caduto con i suoi ingranaggi all'interno, credette di sentirsi male. Sapeva che quel meccanismo doveva esistere. Lo aveva cercato così a lungo, e invece era stata la violenza casuale del terremoto a rivelarlo. Quando giunse al secondo pannello aggrottò la fronte. Accese un'altra candela per confermare quello che già sapeva. Mani umane avevano tolto la terra compatta dai meccanismi. Alcune piccole
impronte fangose erano visibili con chiarezza nel bagliore della candela. Malta era stata lì. «Malta!» chiamò Reyn, ma non ci fu risposta. Al centro della stanza, l'immenso tronco di legno magico era un silenzio contenuto. Reyn voleva sapere quello che sapeva il drago, ma toccando il legno si sarebbe consegnato di nuovo a lei. Aveva spezzato il guinzaglio. Presto la terra sarebbe crollata sulla femmina di drago, seppellendola, e Reyn sarebbe stato libero per sempre. Il drago non poteva afferrarlo se lui non toccava il legno. Era stata solo capace di giungere alla mente di Malta attraverso la sua. «Malta!» chiamò di nuovo, molto più forte. La voce che un tempo avrebbe echeggiato nella sala fu ingoiata e smorzata dalla terra umida. «L'hai trovata?» chiamò Selden con ansia dalla porta. «Non ancora. Ma la troverò.» Il ragazzo chiamò con timore nella voce: «Arriva dell'acqua. Da sotto il muro. Presto scenderà i gradini.» La terra poteva schiacciare, ma l'acqua divorava. Con un ruggito adirato, Reyn aggredì il tronco di legno silenzioso. Vi batté le mani aperte. «Dov'è?» chiese. «Dov'è?» Il drago rise. La sua risata rimbombò nella mente di Reyn, colpendolo con dolore familiare. Era tornata, era di nuovo nella sua testa. Reyn era disgustato da quello che aveva fatto, ma sapeva di non avere alternativa. «Dov'è Malta?» «Non qui.» Presunzione insopportabile. «Lo so, dannazione. Dov'è? So che sei in contatto con lei, so che lo sai.» Il drago gli mandò un debole soffio di Malta, come un pezzo di carne spenzolato davanti al naso di un cane. Reyn la sentì attraverso il drago. Avvertì il suo sfinimento, e conobbe la dolente pesantezza del suo sonno. «Questa città non può resistere molto più a lungo. Crollerà. Se non mi aiuti a trovarla e a portarla fuori, morirà.» «Quale ansia! Eppure non sei mai sembrato infastidito che quello potesse essere il mio destino.» «Non è vero. Dannazione, drago, sai che non è vero. Mi sono tormentato sul tuo destino; ho implorato e supplicato la mia gente di aiutarti. Negli anni della mia gioventù, quasi ti adoravo. Non c'è stato un giorno in cui non sia venuto da te. Non ho tentato di sfuggirti finché non ti sei rivoltata contro di me.» «Eppure non sei mai stato disposto ad arrenderti a me. Peccato. Avresti
potuto imparare tutti i segreti della città in una sola notte. Come ha fatto Malta.» Il cuore di Reyn si fermò. «L'hai annegata» disse piatto. «L'hai annegata nei ricordi della città.» «Si è tuffata, molto volentieri. Dal momento in cui è entrata nella città, era molto più ben disposta di chiunque io abbia mai incontrato. Si è tuffata e ha nuotato. E ha tentato di salvarmi. Per te e per suo padre. Tu eri il prezzo che dovevo pagare, Reyn. Lei mi avrebbe liberata e in cambio io dovevo lasciarti in pace per sempre. Peccato per te che non ci sia riuscita.» «L'acqua sta venendo più veloce, Reyn!» La voce acuta del ragazzo irruppe nel dialogo mentale. Reyn si girò a guardare. La candela illuminava il faccino grigio di Selden. Era sui gradini, appena dentro la porta. Un ventaglio d'acqua fluiva attorno ai suoi piedi e scendeva in silenzio i gradini bassi e larghi. Rifletteva la luce della candela del ragazzo con una bellezza misteriosa. La morte luccicava nell'oscurità. Reyn rivolse al ragazzo un sorriso malsano. «Andrà tutto bene» mentì senza pietà. «Vieni, Selden. Abbiamo un'ultima cosa da fare, tu e io. Poi qui avremo finito.» Prese la mano sporca del ragazzo. Dovunque Malta dormisse nella città, dormiva l'ultimo sonno. Quel ventaglio d'acqua gli diceva tutto. Sarebbe tutto finito più in fretta di quanto avesse mai temuto. Girò le spalle al tronco di legno magico. Condusse Selden al primo pannello sul muro. Fissò la candela al muro con un po' di cera, poi sorrise al ragazzo nell'oscurità. «Qui c'è una grande porta. Tutto quello che dobbiamo fare, tu e io, è aprirla. Verrà giù molta sporcizia mentre si apre. Non aver paura. Una volta che riusciamo a muovere queste manovelle, dobbiamo solo continuare a girarle. A tutti i costi. Puoi farlo?» «Penso di sì» rispose il ragazzo, dubbioso. Non sembrava riuscire a staccare gli occhi dall'acqua. «Fammi provare prima questa. Ti lascerò la più facile da girare.» Reyn mise le mani alla manovella. Ci si appoggiò con tutto il suo peso. La manovella non si mosse. Inesorabile, Reyn prese un attrezzo ad artiglio dalla cintura. Colpì molte volte l'asta principale del meccanismo a manovella, poi provò di nuovo con la forza. La ruota resistette per un momento, poi girò con lentezza, superando con uno stridore qualche incrostazione nei meccanismi. Girava, ma sarebbe stato un lavoro duro per il ragazzo. Reyn prese un piede di porco dalla cintura e lo spinse attraverso i denti della
ruota. «Devi fare così. Infilalo in un dente, puntalo qui e poi spingi verso il basso. Prova.» Selden riuscì a spostare la ruota di una tacca. Reyn sentì il tonfo del contrappeso nel muro. Sorrise soddisfatto. «Bene. Ora sposta la sbarra al dente successivo e fai presa di nuovo. Così.» Quando fu sicuro che il ragazzo avesse capito, lo lasciò lì e si mosse all'altro pannello. Lavorò in fretta per ripulire altra terra dagli ingranaggi. Rifiutò di pensare al risultato di quello che stava facendo. Si concentrò su come riuscirci. «Cosa fai?» La voce del drago era dolce nella sua mente. Reyn rise ad alta voce. «Lo sai» mormorò. «Conosci ogni mio pensiero. Non dubitare di me adesso.» «Non conosco tutto di te, Reyn Khuprus. Non ho mai previsto che tu facessi questo. Perché?» Questa volta Reyn esplose in una risata. Gli dispiaceva per Selden. Il povero ragazzo lo fissava con meraviglia, ma temeva di chiedere cosa succedeva o con chi parlava. «Ti amo. Amo la città, e per me tu sei sempre stata il cuore della città. Ti amo e così mi sforzo di salvare quello che posso. Quello che potrebbe sopravvivere.» «Credi che morirai se giri la manovella. Tu e il ragazzo.» Reyn annuì fra sé. «Sì. Ma sarà più rapido che lasciare che l'acqua divori le pareti e le faccia crollare su di noi.» «Non potete ritornare da dove siete venuti?» «Cerchi di dissuadermi da quello che mi hai implorato di fare per anni?» chiese Reyn divertito. Poi rispose. «Non c'è ritorno. La camera del Satrapo stava trasudando acqua. Quella porta era solo di legno. Non poteva resistere. Sospetto che sia la fonte dell'acqua che sta entrando ora. Sono finito, drago, e il ragazzo con me. Comunque, se facciamo crollare il soffitto, potrebbe entrare la luce. In tal caso potresti sopravviverci. Altrimenti saremo tutti seppelliti insieme.» Aspettò invano una reazione. Quando venne, lo sorprese. Lei lo aveva lasciato. Nessun segno di gratitudine, neanche un addio. Era andata. Colpì bruscamente l'asta con l'attrezzo ad artiglio. Mise mano alla manovella. Sospettava che mettendo in moto i contrappesi nel muro l'inerzia avrebbe fatto il resto. O forse la ruota non avrebbe girato più di un paio di tacche. Non voleva pensarci. Era capace di affrontare una morte lenta da solo. Una morte lenta con un ragazzo al suo fianco sarebbe stata una tortura eterna. Spinse l'attrezzo nei denti della ruota e lo fissò. Guardò Selden.
Gli occhi atterriti del ragazzo brillavano alla luce della candela. «Ora!» Si appoggiarono sulle sbarre. Le ruote girarono con riluttanza, ma girarono. La porta gemette minacciosamente. Spostare la barra su di un dente, appoggiarsi. Spostare la barra su di un dente, appoggiarsi di nuovo. Reyn sentì i contrappesi che si spostavano nel muro. Di certo ormai qualcosa stava per mettersi in moto. Si chiese quante carriolate di terra fossero pigiate contro la porta. Era solidamente assestata da anni; quanti, nessuno lo sapeva. Come poteva immaginare di aprirla, tanto meno che la terra si schiudesse e il sole splendesse? Ridicolo. Spostare la barra su di un dente. Appoggiarsi. Crudelmente, la striscia di luce riprese vita all'improvviso, illuminando la distruzione finale della città. Rischiarò le fessure sempre più larghe negli affreschi e l'acqua che luccicava sul pavimento. Per la prima e ultima volta nella sua vita, Reyn colse uno sguardo fugace della vera bellezza della stanza. Alzò lo sguardo con timore reverenziale. Mentre guardava, qualcosa si ruppe bruscamente, non nella porta, ma su in alto. Cocci di cristallo da una delle grandi finestre della cupola precipitarono come enormi ghiaccioli, polverizzandosi sul pavimento della camera. Uno spruzzo di terra li seguì. Nient'altro. «Continua, ragazzo» lo incoraggiò Reyn. All'unisono alzarono le sbarre e si appoggiarono. Un altro spostamento stridente. All'improvviso, sul lato della porta verso Reyn, ci fu una serie tremenda di schiocchi. L'istinto lo spinse a gettarsi verso Selden mentre la porta usciva asimmetricamente dai cardini. L'orlo della porta si curvò verso l'interno, una grande fessura verticale che andava dal pavimento alla sommità. All'improvviso l'incurvamento e le crepe si diffusero di lì. Come il guscio di un uovo lasciato cadere, le fessure si allargarono su tutta la cupola. I pannelli di cristallo e gli affreschi caddero come frutta marcia da alberi battuti dal vento. Non c'era nessun luogo per sfuggire al bombardamento mentre il soffitto cedeva sotto il peso della terra. Reyn afferrò Selden e sì piegò su di lui come se il suo misero corpo potesse salvarlo dalle forze della terra. Il ragazzo gli si aggrappò, troppo spaventato per gridare. Un grande pannello intatto del soffitto precipitò con uno schianto. Cadde contro il tronco di legno magico e rimase inclinato. Selden si contorse e sfuggì alla presa di Reyn. «Là sotto. Dobbiamo arrivare là sotto!» Prima che Reyn potesse afferrarlo, il ragazzo stava correndo attraverso la camera, scansando pezzi cadenti di soffitto e mucchi di macerie sul pavimento. Si infilò sotto la lastra di cristallo precipitata.
«Affogheremo!» ruggì Reyn. Poi stava seguendo la corsa a zigzag del ragazzo, per infilarsi nel dubbio riparo del pannello inclinato. La striscia di luce si spense. Rimasero immersi nell'oscurità mentre il soffitto crollava con un rombo. Malta si svegliò con qualcuno che la spingeva nella schiena. «Non è divertente, Selden! Fa male!» scattò. Si girò, intenzionata a dargli una bella scrollata. All'improvviso il calore e la sicurezza della sua camera da letto a casa svanirono. Era rigida e raggelata, la guancia appoggiata su foglie gualcite. Il Satrapo la urtò di nuovo con il piede. «Svegliati!» ordinò. «Vedo delle luci attraverso gli alberi.» «Prendimi di nuovo a calci, e vedrai le luci anche con gli occhi chiusi!» Il Satrapo addirittura fece un passo indietro. Era sera. Non era buio abbastanza per scorgere le stelle, ma il barlume giallo delle lanterne si vedeva bene. Sollievo e delusione l'aggredirono. Ora sapevano dove andare, ma sembrava molto lontano. Malta si alzò con lentezza, rimettendosi cautamente in piedi. Le faceva male tutto. «Hai trovato i remi?» chiese al Satrapo. «Non sono un servitore» indicò freddo il giovane. Malta incrociò le braccia. «Neanch'io.» Aggrottò la fronte. La rimessa in rovina doveva essere ormai buia come una tomba. Come poteva il Satrapo, legittimo signore di tutta Jamaillia essere un uomo così inutile e stupido? I suoi occhi vaganti si fermarono su Kekki. La Compagna sedeva nella barca, speranzosa, come un cane che si aspetta una gita. L'acqua era così poco profonda che la barca si era appoggiata sul fondo sotto il suo peso. Malta represse a malapena una voglia terribile di ridere. Guardò di nuovo il Satrapo che la fissava severo. Poi rise. «Immagino che l'unico modo per sbarazzarmi di voi sia riportarvi a Trehaug.» «Dove ti farò punire come meriti per la tua mancanza di rispetto» annunciò imperiosamente il Satrapo. Malta inclinò la testa. «Questo dovrebbe rendermi ansiosa di portarti indietro?» Il Satrapo rimase in silenzio per un momento. Poi drizzò la schiena. «Se ora mi obbedisci in fretta, lo prenderò in considerazione nel giudicarti.» «Davvero?» chiese Malta, ironica. All'improvviso si stancò del gioco. Si allontanò, tornando nella buia e cavernosa apertura dove i resti dell'edificio sporgevano dalla terra. Non c'era parte del corpo che non le facesse male. Si chinò per rientrare nelle rovine con i piedi feriti e dolenti, le ginocchia e
la schiena indolenzite. Cercò nel buio, al tatto. Non aveva modo di riaccendere la lanterna. Non trovò remi, ma riuscì a liberare alcuni pezzi di legno. Come le barche, erano di cedro. Non potevano adattarsi negli scalmi, ma Malta pensava di usarli come pertiche. Finché rimaneva nelle secche sarebbero andati bene. Sarebbe stato un lavoro duro, ma potevano tornare a Trehaug. Una volta là avrebbe dovuto confessare la sciocchezza che aveva combinato. Non voleva pensarci, non ancora. Aggrottò brevemente la fronte mentre strisciava fuori dalle rovine, trascinando le sue assi. Aveva avuto intenzione di fare qualcosa. Qualcosa che c'entrava con la città, con assi come quelle. Aveva lasciato la città con uno scopo ben preciso, determinato. Cercò di afferrarlo, ma riuscì solo a richiamare un sogno che aveva fatto quel pomeriggio. Un sogno di volare attraverso l'oscurità. Scosse la testa. Davvero bizzarro. Non si trattava di non riuscire a ricordare; ricordava tanto da non poter distinguere le parti che appartenevano a lei. Da quando era entrata nella città sepolta, poche delle sue azioni sembravano qualcosa che lei avrebbe fatto. Quando tornò indietro trovò sia il Satrapo che la Compagna seduti nella barca. «Dovete scendere» li istruì pazientemente. «Dobbiamo spingere la barca in acque più profonde prima che possiate salire a bordo. Altrimenti non starà a galla.» «Non puoi semplicemente portarci in acque più profonde a remi?» chiese lamentosamente Kekki. «No. Non posso. La barca deve stare a galla prima di poter remare.» Mentre aspettava che sbarcassero, Malta rifletté di non essersi mai fermata a pensare quanto sapeva semplicemente in virtù della sua educazione. Valeva qualcosa, in fondo, essere la figlia di un Mercante. Ci volle tempo per trovare nel crepuscolo un luogo appropriato al varo. Kekki e il Satrapo sembravano estremamente a disagio per il dondolio del piccolo vascello mentre si calavano da una radice. Malta mandò ciascuno a una estremità e si mise al centro. Doveva stare in piedi per far avanzare la barca. Da piccola aveva avuto una barchetta che manovrava con una pertica nello stagno ornamentale. Adesso era molto diverso. Ne sarebbe stata capace? Poi alzò gli occhi alle luci baluginanti di Trehaug. Ce l'avrebbe fatta. Lo sapeva. Afferrò un'estremità della sua asse e spinse via la barca dalla riva. 38 Il capitano del Paragon
Dopo due giorni dallo scontro con il serpente, la nave era quasi rientrata nella routine. Haff aveva tentato di tornare ai suoi doveri, ma dopo un'ora al sole era svenuto ed era quasi precipitato dal sartiame. Il suo atteggiamento verso Althea era marcatamente più rispettoso. Il resto dell'equipaggio sembrava seguire il suo esempio. Haff non l'aveva ringraziata per avergli salvato la vita, ma Althea si disse che da lui non se lo aspettava. Dopo tutto faceva parte dei suoi doveri. Si sarebbe accontentata che il ragazzo accettasse che c'erano aree in cui lei era più esperta. Si chiese distrattamente quale atto avesse davvero guadagnato il rispetto degli uomini: minacciare di gettare fuori bordo Artu o affrontare il serpente. Le faceva ancora male tutto, ma se finalmente si era assicurata la posizione di secondo ufficiale, ne era valsa la pena. Brashen aveva ancora un aspetto terribile. Le vesciche sul suo viso erano scoppiate e la pelle stava staccandosi, facendolo sembrare rugoso e vecchio e stanco. O forse si sentiva davvero così. Li aveva convocati nella sua cabina. Althea gettò uno sguardo da Lavoy ad Ambra a Brashen, e si chiese perché. Con sguardo solenne Brashen annunciò: «L'equipaggio sembra finalmente aver imparato i suoi doveri. La nave viene governata con competenza, anche se si può ancora migliorare. Sfortunatamente, nelle acque che solcheremo, l'arte marinara potrebbe essere meno importante della nostra abilità nel combattere. Dobbiamo stabilire cosa ci aspettiamo dall'equipaggio quando incontreremo pirati e serpenti.» Aggrottò la fronte e appoggiò le spalle allo schienale. Poi annuì al tavolo e alle sedie. In un angolo c'era una manciata di ritagli di tela. C'era anche una bottiglia di brandy e quattro bicchieri. «Prego. Sedetevi.» Mentre prendevano posto, versò un dito di brandy in ogni bicchiere. Quando tutti si furono accomodati propose un brindisi. «Al successo che abbiamo avuto. E al successo futuro.» Bevvero insieme. Brashen si piegò in avanti e appoggiò le braccia al tavolo. «Ecco come la vedo io. Gli uomini sanno cavarsela in una rissa. Potete non crederci, ma è una delle cose che ho considerato nell'ingaggiarli. Ma ora hanno bisogno di imparare a combattere. Come una forza unica, voglio dire, che ascolta gli ordini anche in mezzo al pericolo. Devono sapere come difendere Paragon, e come attaccare con intelligenza un'altra nave. Non possono agire autonomamente. Devono fidarsi del giudizio degli ufficiali. Haff ha imparato a sue spese che gli ufficiali hanno le loro ragioni quando danno gli ordini. Voglio cominciare ad addestrare gli uo-
mini mentre la lezione è ancora fresca.» Gli occhi di Brashen vagarono attorno alla tavola e si fermarono su Lavoy. «Ne abbiamo discusso quando ti ho assunto. È ora di cominciare ad addestrarli. Voglio che facciano pratica ogni giorno. Il tempo è stato buono, la nave naviga quasi da sola. Impariamo finché ne abbiamo il tempo. Voglio anche vedere più coesione nell'equipaggio. Alcuni ancora trattano da inferiori gli ex schiavi. Questo deve cambiare. Non ci dovrebbe essere alcun senso di differenza. Sono tutti marinai, né più né meno.» Lavoy annuiva. «Li mescolerò di più. Finora ho permesso loro di lavorare con chi volevano. Comincerò ad assegnare gruppi di lavoro. All'inizio faranno resistenza. Ci sarà qualche testa rotta prima che tutto si assesti.» Brashen sospirò. «Lo so. Ma vedi di non lasciare che si ammazzino a vicenda mentre fanno conoscenza.» Lavoy emise una risata senza allegria. «Intendevo che le teste dovrei romperle io. Ma ci siamo capiti. Comincerò a farli esercitare con le armi. Di legno, per cominciare.» «Informali che i migliori combattenti avranno le armi migliori. Forse questo li spingerà a impegnarsi di più.» Brashen spostò all'improvviso la sua attenzione su Ambra. «A proposito. Voglio che tu armi la polena. Sai escogitare un'arma con cui Paragon possa allontanare i serpenti? Una lancia di qualche genere? E pensi che si potrebbe insegnargli anche a usarla contro un'altra nave?» «Suppongo di sì.» Ambra sembrò sorpresa. «Allora procedi. E crea un supporto, in modo che possa afferrarla da solo in fretta.» Brashen parve preoccupato. «Temo che ci saranno altre difficoltà con quelle creature, man mano che ci addentriamo nelle acque dei pirati. La prossima volta voglio essere pronto.» Ambra lo guardò con disapprovazione. «Allora suggerisco che, come dice Althea, l'equipaggio si convinca che i serpenti non reagiscono come animali. Gli uomini devono avere l'ordine di ignorarli e non provocarli finché non attaccano davvero. Non fuggiranno da un colpo di lancia. Cercheranno vendetta.» Incrociò le braccia quando Brashen aggrottò la fronte, e continuò: «Sai che è vero. E quindi, è saggio armare Paragon? Non è solo cieco. Il suo giudizio non è sempre... assennato. Potrebbe attaccare un serpente che è solo curioso, o addirittura ben disposto verso di noi. Suggerisco che abbia un'arma, ma che non possa afferrarla d'istinto. I serpenti lo influenzano stranamente. Da quello che dice, sospetto che sia reciproco. Dice che il serpente che abbiamo ucciso ci seguiva da giorni, tentando di
parlargli. Propongo di tenerci lontani dai serpenti il più possibile. Quando li incontriamo, penso che dovremmo evitare di provocarli.» Scosse la testa. «La morte dell'ultimo serpente lo ha colpito in modo strano. Sembra quasi in lutto.» Lavoy emise un piccolo suono sprezzante. «Provocare i serpenti? Serpenti che parlano a Paragon? Sembri pazza come la nave. I serpenti sono animali. Non pensano, non pianificano; non hanno sentimenti. Se li massacriamo, se ne uccidiamo abbastanza, ci eviteranno. Sono con il capitano. Armiamo la nave.» Scrollò le spalle allo sguardo freddo di Ambra. Inclinò la testa con sguardo di sfida. «Solo un matto la penserebbe diversamente.» Ambra era imperturbabile. «Io la penso diversamente.» Rivolse a Lavoy un sorriso freddo e malinconico. «Non è la prima volta che mi hanno dato della matta, e probabilmente non sarà l'ultima. Eppure ti dirò questo. A mio parere, gli uomini negano che gli animali abbiano sentimenti e pensieri per una ragione fondamentale: così non si sentono colpevoli per come li trattano. Ma nel tuo caso, penso che sia per averne meno paura.» Lavoy scosse la testa indignato. «Non sono un codardo. E non mi sentirò in colpa per quello che faccio a un serpente. Se non sarò abbastanza stupido da essere la sua cena.» Strascicò i piedi e rivolse l'attenzione a Brashen. «Signore. Se siete soddisfatto, vorrei tornare sul ponte. Se restiamo chiusi qui dentro l'equipaggio si innervosisce.» Brashen annuì. Si inclinò in avanti sulla sedia per scrivere una nota nel giornale di bordo. «Comincia l'addestramento con le armi. Ma enfatizza l'obbedienza pronta quanto l'abilità. Assicurati che capiscano di non agire finché non ricevono un ordine, soprattutto se il nemico è un serpente. Usa al meglio gli uomini che abbiamo. Due degli ex schiavi hanno notevole esperienza nelle armi. Mettili a capo di qualche esercitazione. Anche Jek. È rapida e sa come affrontare una lama. Voglio abbattere tutte le barriere che non permetterebbero all'equipaggio di lottare come una cosa sola.» Brashen aggrottò la fronte per un momento. «Ambra creerà un'arma per Paragon, e lo addestrerà.» Incontrò gli occhi della carpentiera. «Deciderà lei quando dovrà essere armato, a meno che io non dia un ordine contrario. Credo che le sue osservazioni sui serpenti e sul loro effetto sulla nave abbiano valore. La nostra tattica con i serpenti sarà per prima cosa di evitarli e ignorarli. Combattiamoli solo se siamo attaccati.» Fece una pausa per lasciare che Lavoy assorbisse le sue parole. Con voce ferma aggiunse: «Penso che sia tutto. Puoi andare.» Un'espressione minacciosa passò sul viso di Lavoy. Ambra lo guardò
dritto negli occhi. Brashen aveva in pratica riformulato i suggerimenti della donna come un ordine. Forse un altro avrebbe accettato, ma chiaramente Lavoy si era offeso. Althea lo guardò rivolgere un brusco inchino a Brashen e andare alla porta, mascherando a malapena il risentimento. Lei e Ambra si alzarono per seguirlo, ma un cenno secco di Brashen le fermò. «Ho altri compiti da studiare con voi. Sedetevi.» Lavoy si arrestò. Nei suoi occhi danzarono bagliori di rabbia. «Sono compiti di cui dovrei essere al corrente, signore?» Brashen lo guardò freddo. «In tal caso ti avrei ordinato di rimanere. Hai i tuoi ordini. Eseguili.» Althea trasse un respiro silenzioso e lo trattenne. Pensò che Lavoy avrebbe sfidato Brashen. I due uomini si scambiarono uno sguardo tagliente. Lavoy mosse la bocca come per parlare, invece annuì asciutto. Si girò. Uscendo non sbatté la porta, ma la chiuse con energia. «È stato saggio?» osò chiedere Ambra nel silenzio che seguì. Brashen le diede l'occhiata fredda di un capitano. «Non saggio, forse, ma necessario.» Sospirò, appoggiandosi comodo nella sedia. Si versò un altro dito di brandy. Si rivolse ad Ambra, spiegando: «È il primo ufficiale. Non posso permettergli di pensare che è la mia voce, o che contano solo la sua opinione e la mia. Ho chiesto il vostro parere. Non è accettabile che lui lo sminuisca.» Si permise un sorrisetto teso. «Ma ricordate che questo rientrerebbe del tutto nella mia autorità.» Ambra aggrottò la fronte, ma Althea capì subito la posizione di Brashen. Lo guardò all'improvviso con occhi nuovi. Sì. Quale che fosse quella qualità indefinibile che rendeva un uomo capace di comandare una nave, Brashen ce l'aveva. C'erano nuove linee sulla sua fronte e agli angoli degli occhi. Ma aveva anche tracciato quella linea fredda e dura che separa il comandante dal suo equipaggio. Si chiese se si sentiva solo. Poi seppe che non importava. Brashen era ciò che doveva essere. Non poteva essere diverso e comandare con efficienza. Provò una sensazione dolorosa di perdita, perché quella linea lo separava anche da lei. Ma l'impeto d'orgoglio che sentì per lui superava ogni rimpianto egoista. Era quello che suo padre aveva visto in lui. Aveva giustificato tutta la fiducia di Ephron Vestrit. Per un istante Brashen la guardò in silenzio, come se avesse percepito i suoi pensieri. Poi accennò ai ritagli di tela sul tavolo. «Althea. Hai sempre avuto una calligrafia migliore della mia. Vorrei che copiassi in bella questi schizzi. Sono tutti i miei appunti sui porti di pirati che ho visitato con la Vigilia di Primavera. Per prima cosa cercheremo Vivacia a Borgo Baratto,
ma dubito che saremo abbastanza fortunati da trovarla laggiù. Questi frammenti di mappe possono venire utili. Se hai domande, li guarderemo insieme. Quando avremo finito dovremo mostrarli anche a Lavoy. Non sa leggere, ma ha buona memoria. È importante condividere questa conoscenza.» Le parole che lasciò non dette la raggelarono. Stava considerando quello che era meglio per la nave e l'equipaggio in caso della sua morte. Althea aveva evitato di pensarci. Lui no. Anche quello era parte del comando. Brashen spinse gli scarti di tela verso di lei e Althea cominciò a sfogliarli. Poi le parole di Brashen ad Ambra richiamarono la sua attenzione. «Ambra. La notte scorsa eri fuori dalla murata. Paragon ti stava sorreggendo. Ho sentito le vostre voci.» «È vero» confermò Ambra con calma. «Cosa stavi facendo?» La carpentiera parve estremamente a disagio. «Esperimenti.» Brashen emise il fiato attraverso il naso. «Non tollero questo atteggiamento da Lavoy. Cosa ti fa pensare che lo accetto da te?» Con più garbo, aggiunse: «Se succede sulla nave, e io ritengo che sia affar mio, lo devo sapere. Quindi dimmelo.» Ambra si guardò le mani guantate. «Ne abbiamo discusso tutti prima di lasciare Borgomago. Paragon sa del lavoro che ho fatto su Ophelia. Pensa che se sono riuscita a restaurare le mani di Ophelia potrei restituirgli la vista.» Si inumidì le labbra. «Io ho i miei dubbi.» Il tono di Brashen era pericoloso. «Anch'io. Come ben sai. Prima di salpare ti ho detto che non è il momento di esperimenti rischiosi nell'intaglio del legno magico. Se rimanesse deluso da un fallimento potrebbe metterci tutti in pericolo.» La rabbia guizzò sul volto di Ambra. «So cosa pensi» le disse Brashen. «Ma non è una cosa tra voi. Ci coinvolge tutti.» Ambra trasse un respiro. «Non ho toccato i suoi occhi, signore. Né gli ho detto che lo avrei fatto.» «Allora cosa stavi facendo?» «Stavo cancellando la cicatrice dal suo petto. La stella a sette punte.» Brashen sembrò incuriosito. «Ti ha detto cosa significa?» Ambra scosse la testa. «Non lo so. So solo che per lui contiene ricordi assai sgradevoli. È stato una specie di compromesso. L'incontro con il serpente lo ha turbato. Profondamente. Da allora quasi non pensa ad altro.
Sento che sta riconsiderando tutto quello che è. È come un adolescente. Ha deciso che nulla è come credeva che fosse, e sta ricostruendo la sua visione intera del mondo.» Trasse un respiro profondo come per dire qualcosa di importante. Sembrò ripensarci, e disse invece: «È un periodo molto intenso per lui. Quello che fa non è per forza cattivo, ma è profondamente introspettivo. Per Paragon questo significa ripercorrere ricordi molto brutti. Ho cercato di distrarlo.» «Prima avresti dovuto chiedere a me. E non dovresti stare fuori dalla murata senza qualcuno che ti controlla.» «Paragon mi controllava» indicò Ambra. «E mi reggeva mentre lavoravo.» «Comunque.» Brashen trasformò la parola in un secco avvertimento. «Quando sei oltre la murata, voglio saperlo.» Più gentilmente chiese: «Come procede il lavoro?» Ambra trattenne l'irritazione. «Con lentezza. Il legno è molto duro. Non voglio semplicemente piallarlo e lasciare un genere diverso di cicatrice. Sto oscurandolo, più che cancellandolo.» «Capisco.» Brashen si alzò e fece un giro per la camera. «Pensi che sia possibile restituirgli la vista?» Ambra scosse la testa con rimpianto. «Dovrei trasformare l'intera faccia. Il legno non c'è più. Anche se scolpissi un paio di occhi, non c'è nessuna garanzia che potrebbero vedere. Non ho idea di come funzioni la magia del suo legno. E neanche lui. Correrei un grande rischio, e forse lo danneggerei di più.» «Capisco.» Brashen considerò ancora un momento. «Continua con la cicatrice, ma voglio che tu prenda le precauzioni che mi aspetto da qualsiasi marinaio. Questo significa che devi avere un compagno di qualche genere quando sei fuori bordo. Oltre a Paragon.» Rimase in silenzio per un istante, poi annuì. «È tutto. Potete andare.» Althea sospettava che non fosse facile per Ambra accettare l'autorità di Brashen. La donna si alzò al suo ordine, non risentita come Lavoy, ma rigida, come se obbedirgli offendesse il suo senso di identità. Althea fece per seguirla, ma la voce di Brashen la fermò sulla porta. «Ancora una parola con te, Althea.» Althea si rivolse di nuovo verso di lui. Brashen gettò uno sguardo alla porta spalancata. Lei la chiuse in silenzio. Brashen trasse un respiro profondo. «Fammi un favore. Ho messo Ambra in una cattiva posizione con Lavoy. Tienila d'occhio - no, non è quello
che intendo. Lei è pericolosa quanto lui. Solo che Lavoy non lo sa ancora. Osserva la situazione. Se ti sembra che stiano per scontrarsi, avvertimi. È ovvio che Lavoy nutra risentimento, ma non gli permetterò di andare troppo oltre.» Althea annuì, poi disse le parole fatidiche. «Sì, signore.» «Un'altra cosa.» Brashen esitò. «Stai bene? Le tue mani, voglio dire.» «Penso di sì.» Althea gli fece vedere come piegava le dita. Aspettò. Ci volle tempo prima che Brashen parlasse. «Voglio che tu sappia...» La sua voce si spense. «Volevo uccidere Artu. Lo voglio ancora. Lo sai.» Althea gli rivolse un sorriso storto. «Anch'io. Ci ho provato.» Rifletté un istante. «Ma è stato meglio così. L'ho battuto. Lui lo sa. L'equipaggio lo sa. Se tu fossi intervenuto, starei ancora tentando di dimostrare chi sono. E adesso sarebbe peggio.» All'improvviso seppe cosa doveva dirgli. «Avete fatto la cosa giusta, capitano Trell.» L'autentico sorriso di Brashen apparve brevemente. «Vero?» C'era una genuina soddisfazione nella sua voce. Althea incrociò le braccia e le tenne strette contro il torace per impedirsi di andare da lui. «L'equipaggio rispetta il tuo comando. E anch'io.» Brashen sedette un poco più diritto. Non la ringraziò. Non sarebbe stato appropriato. Althea uscì in silenzio dalla stanza. Non lo guardò mentre chiudeva piano la porta tra loro. Mentre Althea usciva, Brashen chiuse gli occhi. Aveva preso la decisione giusta. Tutti e due avevano preso la decisione giusta. Lo sapevano entrambi. Avevano concordato che era meglio così. Meglio. Si chiese quando sarebbe diventato più facile. Poi si chiese se sarebbe mai diventato più facile. «Siamo in due.» Paragon le rivelò il segreto mentre la teneva fra le mani. Pesava così poco. Come una bambola imbottita di miglio. «È vero» concordò Ambra. «Tu e io.» La raspa si muoveva con attenzione sul suo petto. Gli ricordava la lingua di un gatto. No, si corresse. Avrebbe ricordato a Kerr LaSuerte la lingua di un gatto. A quel ragazzo morto da tempo erano piaciuti gatti e gattini. Paragon non ne aveva mai avuto uno. Paragon. Proprio un bel nome per lui. Se solo avessero saputo. Il suo segreto gli sfuggì di nuovo. «Non tu e io. Io e io. Ci sono due di noi.» «A volte mi sento così anch'io» rispose Ambra con disinvoltura. Mentre
lavorava le capitava di sentire che Paragon era in qualche altro posto. «Chi è il tuo altro?» le chiese Paragon. «Oh. Ecco. Un amico che avevo una volta. Parlavamo molto. A volte mi sorprendo ancora a parlargli, e so come risponderebbe.» «Io non sono così. Ci sono sempre stati due di me.» Ambra rimise la raspa nella borsa degli attrezzi. Paragon la sentì muoversi, e sentì lo spostamento del suo peso mentre cercava qualcos'altro. «Ora userò la carta vetrata. Sei pronto?» «Sì.» Ambra proseguì come se non avesse interrotto la conversazione. «Se ci sono due di te, mi piacciono entrambi. Ora stai fermo.» La carta vetrata andava avanti e indietro sul suo petto. L'attrito generava calore. Paragon sorrise alle sue parole perché erano vere, anche se lei non lo sapeva. «Ambra? Hai sempre saputo chi eri?» chiese incuriosito. La carta vetrata si fermò. Con voce guardinga, Ambra rispose: «Non sempre. Ma l'ho sempre sospettato.» Poi aggiunse nella sua solita voce: «Una domanda molto strana.» «Tu sei una persona molto strana» la stuzzicò Paragon, e sorrise. La carta vetrata si mosse con lentezza contro di lui. «Tu sei una nave inquietante» disse piano Ambra. «Non ho sempre saputo chi ero» ammise Paragon. «Ma adesso lo so, e questo rende tutto più facile.» Ambra accantonò la carta vetrata. Paragon udì il tintinnio degli attrezzi mentre cercava qualcos'altro. «Non so cosa intendi, ma sono felice per te.» Era di nuovo distratta. «Questo è un olio ricavato da semi. Sul legno ordinario gonfia le fibre e può cancellare un graffio. Non so cosa farà sul legno magico. Proviamo su un angolino?» «Perché no?» «Un momento.» Ambra si piegò indietro nelle sue braccia, con i piedi puntati contro il ventre di Paragon. Aveva un'imbracatura di sicurezza, ma Paragon sapeva che si fidava maggiormente di lui. «Althea?» chiamò Ambra verso il ponte. «Hai mai usato l'olio sul legno magico? Per la manutenzione?» Paragon sentì Althea alzarsi. Era distesa sulla pancia, a disegnare qualcosa. Venne alla murata e si sporse. «Certo. Ma non su superfici dipinte come la polena.» «Ma non è davvero dipinta. Il colore è... lì. In tutto lo spessore del legno.»
«Allora perché la parte tagliata della faccia è grigia?» «Non lo so. Paragon, tu sai perché?» «Perché sì.» Strano. Quando tentava di raccontare qualcosa di sé, non lo ascoltavano. Poi cacciavano il naso in cose che non erano affari loro. Tentò di nuovo. «Althea. Ci sono due di me.» «Usa pure l'olio. Non può far male. O penetra e gonfia il legno, o rimarrà in superficie e potremo pulirlo.» «E se lascia macchie?» «Non dovrebbe. Fai una prova con poche gocce.» «Non sono quello che i LaSuerte hanno fatto di me!» sbottò all'improvviso Paragon. «C'è un io che ero prima, che è altrettanto parte di me. Non devo essere come mi hanno fatto. Posso essere chi ero. Prima.» Un silenzio sconvolto accolse le sue parole. Ambra era ancora fra le sue mani. Lo scombussolò quando tese le mani guantate e gli prese il viso. «Paragon» disse piano. «Forse la cosa più grande che una persona può scoprire è che può decidere chi è. Non devi essere ciò che i LaSuerte hanno fatto di te. Non devi neanche essere quello che eri prima. Puoi scegliere. Siamo tutti creature di nostra fattura.» Le sue mani gli percorsero gli zigomi alti. Quando arrivarono dove cominciava la barba, la tirarono allegramente. Non poteva essere una testimonianza più forte degli elementi umani nella sua composizione. Eppure era come aveva detto Ambra. «Non devo essere neanche quello che voi volete che sia» ricordò alle due donne. Le sue mani si chiusero attorno ad Ambra. Un giocattolo trascurabile, una creatura fatta soprattutto di acqua in una sacca di pelle sottile. Se gli esseri umani avessero davvero afferrato quanto erano fragili, non sarebbero stati così presuntuosi. Con una mano spezzò con indifferenza l'imbracatura di sicurezza. «Ora voglio restare solo» le disse. «Devo riflettere.» La sollevò sopra la testa e la sentì irrigidirsi. La sua comprensione improvvisa che poteva scagliarla in acqua gli portò un sorriso alle labbra. Ora Ambra sapeva quello che finalmente Paragon aveva scoperto. «Devo considerare le mie scelte.» La fece passare sopra la testa e la tenne salda finché non afferrò la murata. Quando seppe che era al sicuro, la lasciò andare. Althea era là, afferrò Ambra e la tirò sul ponte. Paragon udì la sua domanda sommessa: «Va tutto bene?» «Sto bene» disse piano Ambra. «Più che bene. E penso che anche Paragon starà bene.»
39 L'alba del drago Alba e luce del giorno erano sempre due cose diverse nelle Giungle della Pioggia. Il sorgere del sole non significava molto finché non era abbastanza alto per superare il lussureggiante baldacchino della foresta. Reyn Khuprus osservò il primo sottile gocciolio di luce attraverso un'apertura tra fango e cristallo. Il ceppo di legno magico alle sue spalle, la spessa sezione della cupola di cristallo che li aveva protetti e il fango che li circondava ora delimitavano il suo mondo. Era mezzo accovacciato e appoggiato contro il ceppo. L'arco precipitato li aveva protetti dalla caduta dei frammenti, ma il fango e l'acqua crescente li avevano raggiunti. La sezione caduta si era comportata come una parziale diga. Nel suo riparo, il fango spesso lo aveva coperto solo fino alla coscia, con uno strato di acqua gelida alla superficie. Teneva Selden fra le braccia, dividendo il suo scarso calore corporeo. Malgrado tutto, il ragazzo era addormentato. Lo sfinimento e la disperazione avevano avuto la meglio su di lui. Reyn non lo svegliò. La luce pallida era una falsa speranza. Veniva da una piccola fessura lassù in alto. Gran parte della cupola e del soffitto era precipitata, ma lo spesso strato di radici intrecciate attraverso il suolo sostenevano ancora la terra sopra di loro. Solo una piccola crepa bordata di radici lasciava entrare la luce del giorno. Anche se fosse riuscito a liberarsi a mani nude del fango e delle macerie che li circondavano, non avrebbero mai potuto raggiungere quel pertugio per scappare. Mentre osservava la luce guadagnare forza, Reyn seppe con disperazione che ci avrebbero provato. Il ragazzo fra le sue braccia si sarebbe svegliato. Avrebbero scavato fino alla sommità del tronco di legno magico e avrebbero chiamato aiuto. Ma nessuno li avrebbe sentiti. Sarebbero morti lì, e non sarebbe stata una fine rapida. Sperò che la fine di Malta fosse stata più veloce. Selden si riscosse, alzando la testa dalla spalla di Reyn. Lo spostarsi del suo peso risvegliò nuovo dolore nella schiena di Reyn. Selden emise un suono interrogativo. Poi rimise la testa sulla spalla di Reyn, scosso da singhiozzi incontenibili, silenziosi. Reyn lo accarezzò con una mano fangosa e disse le inutili, inevitabili parole. «Bene. Suppongo che dovremmo tentare di uscire di qui.» «Come?» chiese Selden. «Dovremo allargare l'apertura. Ti spingerò fuori e tu salirai in cima al
tronco.» Scrollò le spalle. «Da lì dovremo decidere cosa fare. Chiamare aiuto, suppongo.» «E tu? Sei parecchio invischiato.» Reyn tentò di spostare i piedi. Il ragazzo aveva ragione. Il fango liquido che aveva allagato la camera durante la notte stava rapprendendosi. Dalle cosce in giù era immerso in una spessa zuppa di terra e acqua che gli stringeva pesantemente le gambe. «Una volta che ti avrò messo lassù, sarò capace di tirarmi fuori. Poi ti raggiungerò sul tronco.» Gli venne facile mentire. Selden scosse la testa. «Non funzionerà. Non per noi. Guarda. Si sta sciogliendo.» Staccò una mano sporca dalla presa attorno al collo di Reyn e indicò. La sottile lama di sole scendeva attraverso la camera fioca. I moscerini danzavano alla luce come polvere. Ma quei moscerini giravano e volteggiavano in una strana corrente verticale di vapore. C'era un forte odore sgradevole nell'aria. «Puzza come le mani dopo aver giocato con le bisce d'acqua» osservò Selden. «Ma è più schifoso.» «Tieniti stretto a me» rispose Reyn. «Ho bisogno di entrambe le mani libere.» Non era la speranza di fuga che lo spingeva a scavare come un cane. Voleva solo vedere cosa stava succedendo. Il cristallo spesso del frammento di cupola che li proteggeva lasciava entrare la luce, ma era troppo sporco per vedere attraverso. Reyn voleva guardare bene. Troppo spesso si era chiesto come sarebbe stato, per non cogliere quell'ultima occasione. Quindi spalò manciate di fango nel loro riparo, incurante di seppellirsi più profondamente. Allargò impercettibilmente l'apertura da cui riuscivano a vedere, e poi rimase a bocca aperta. La luce del sole posava sull'angolo superiore più vicino del tronco di legno magico. Il legno formava bolle umide e poi si scioglieva, come spuma marina lasciata sulla spiaggia da una marea al riflusso. Non aveva senso. La luce del sole non aveva mai influenzato le assi di legno magico che avevano tirato fuori dalla città. I velieri viventi non si squagliavano al sole. «Perché i velieri viventi sono morti» bisbigliò una voce nella sua mente. «Ma io no. Io sono viva.» Non era un processo rapido. Mentre il sole saliva la lama di luce si spostava sul legno magico, lasciando sulla sua scia un ribollio di fanghiglia. Quando il sole fu sopra di loro, più forte, la reazione accelerò. Il legno gorgogliò come semolino bollente. Il puzzo di rettile si fece più forte.
Il ragazzo si stava annoiando. Aveva fame e sete, era stanco e infreddolito. Era lo stesso per Reyn, ma il suo disagio in qualche modo non importava. La morte di Malta aveva raggelato il suo istinto di conservazione. Vedeva poche speranze di sopravvivenza. Fu difficile spingersi ad agire, ma lo sciogliersi del legno magico finalmente lo costrinse. Mentre il tronco immenso ribolliva e crollava su sé stesso, la pesante sezione di cristallo che li proteggeva cominciò ad abbassarsi. Reyn e Selden dovevano spostarsi o affrontare un annegamento immediato. Reyn sollevò il ragazzo più in alto e Selden si girò fra le sue braccia, in modo da trovarsi sulla schiena mentre Reyn lo spingeva fuori dall'apertura che andava chiudendosi. Tendendo le braccia, Selden afferrò il bordo del pezzo di soffitto. Si trascinò fuori da sotto di esso. Girandosi sulla pancia, sguazzò attraverso il fango e finalmente si arrampicò sulla sezione di cristallo. Ora toccava a Reyn. Doveva muoversi in fretta, perché il peso del ragazzo sul pezzo di soffitto lo spingeva più a fondo nella melma. Scavò con le mani e le braccia nel fango, come una tartaruga di mare che scava un nido nella sabbia. Sentì i piedi uscire dagli stivali. Cacciò le mani nel fango per slacciare la cintura di attrezzi e scrollarsela di dosso. Dimenandosi e sguazzando, strisciò di lato da sotto l'orlo ricurvo della sezione di cristallo. Dovette immergere la faccia nel fango per uscire, ma ci riuscì. Una volta emerso, dovette girarsi e tornare annaspando verso il cristallo. Sguazzando per rimanere in cima al fango, lottò per issarsi sulla superficie curva e liscia del cristallo. Selden lo aiutò per quanto era capace, afferrandogli i polsi e tirando con forza. Con un ultimo scatto, Reyn si gettò sul frammento di soffitto. Per un momento giacque a pancia in giù, ansimando. Poi la sezione di soffitto sussultò e cominciò ad affondare sotto di loro. Sperò che la bolla d'aria intrappolata all'interno rallentasse il processo. Aprì gli occhi e alzò la testa. Selden, senza parole per la meraviglia, gli si aggrappò. Accanto a loro, il tronco di legno magico in disfacimento non gocciolava via nel fango. Si liquefaceva e veniva assorbito, rivelando la scarna forma rannicchiata di un drago incastrato nel legno. Sciogliendosi, il legno magico fluiva verso di lei. La lama di luce illuminava un miracolo. La pelle assorbiva il liquido, e il corpo si irrobustiva. Cambiò da nero ad azzurro profondo. Le ossa e i muscoli e la pelle avvizzita si gonfiarono di vita, ricoprendosi di carne. Il drago fremette debolmente nei resti semidistrutti della sua crisalide. Si contorse, e Reyn colse il primo sguardo delle sue ali. Erano piegate strettamente contro la schiena. Sembravano stecchi e carta
bagnata. Il drago si sforzò di spiegarne una. Era inconsistente, una falda sottile di pelle trasparente tirata su ossa sottili o cartilagini bianche. Alzò il muso, sbuffò, e poi all'improvviso aprì l'ala. Era immensa. Urtò i resti semifusi del legno magico e il fango circostante. Goffamente il drago rotolò da un lato all'altro, tentando di tirarsi in piedi. Si appoggiò alle ali inesperte come a grucce, colpendo il fango mentre lottava per raddrizzarsi. Distese un lungo collo, alzando ciecamente la testa verso la luce del sole, e aprì la bocca come se avesse potuto bere la luce. Bianche palpebre spesse le coprivano gli occhi. La testa vacillava sul collo mentre cercava la luce. Si spostò di nuovo, rivelando una lunga coda avvolta sotto di lei. I resti del legno magico stavano svanendo in fretta. Il fango pesante già saliva a sostituirlo. Reyn osservò impotente. Sarebbe stata sommersa prima ancora di volare. Poi, con un suono come una vela bagnata che si apre, il drago spiegò le ali. Erano imbrattate di fango. Le batté goffamente, e un pesante odore di rettile investì Reyn e il ragazzo. Le vene pulsanti si delinearono brevemente nella membrana tesa delle ali. Poi, come vernice versata nell'acqua, il colore fluì attraverso di esse. Andarono da trasparente a traslucido a un ricco azzurro scintillante. Mentre le agitava in un moto lento e incerto, Reyn vedeva la forza che si costruiva in esse. Il drago sollevò all'improvviso le palpebre; gli occhi brillavano argentei. Si guardò. «Azzurro. Non argento, come ho sognato. Azzurro.» «Sei bellissima» respirò Reyn. Il drago trasalì alla sua voce. Torse il collo per fissare intensamente Reyn e Selden. Il ragazzo si rifugiò al riparo del corpo di Reyn. «Ci mangerà!» gemette. «Non penso» sussurrò Reyn. «Ma resta dove sei. Non muoverti.» Il ragazzo rimase incollato al suo fianco. Reyn mise con lentezza un braccio attorno a Selden per rassicurarlo. Tenne gli occhi sul drago. La coda si dipanò, aprendo un sentiero sulla superficie del fango invasore. All'improvviso il drago gettò indietro la testa e lanciò un grido squillante che risuonò negli orecchi come nella mente di Reyn, colmo di trionfo e sfida, e si infranse contro i confini della camera. D'un tratto il drago si impennò sulle zampe posteriori, bilanciandosi con la spessa coda serpentina. Reyn la vide acquattarsi, e strinse più forte Selden. Con le ali mezze aperte, il drago saltò all'improvviso verso la fessura nel soffitto. Urtò i resti della cupola con la testa e precipitò di nuovo. Ma le zampe anteriori avevano artigliato e graffiato brevemente la fessura so-
pra di loro. Un blocco informe di terra e radici cadde con lei. Il vento delle sue ali e la terra colpirono Reyn e Selden. Il drago piombò nel fango, e la loro isola si inclinò verso di lei. Reyn si aggrappò freneticamente alla superficie liscia che minacciava di rovesciarli nel fango e farli calpestare dalle grandi zampe. Il drago si raccolse per un altro tentativo. Reyn afferrò Selden e tentò di mantenersi in cima alle macerie. Lei spiccò il balzo. Questa volta la testa si infilò nell'apertura. Gli artigli anteriori afferrarono l'orlo. Il corpo enorme penzolò per un momento. Le zampe posteriori scalciarono e un colpo di coda li sfiorò, mancandoli ma non di molto. Le ali si schiacciarono contro il soffitto e la trattennero mentre tentava di strisciare fuori. Con un suono lacerante, un'altra parte di soffitto cedette. Il drago precipitò in una valanga di rottami e terra. Parte della collina franò verso l'interno, incluso un intero albero che si fermò inclinato come un ubriaco contro l'apertura. Il drago atterrò pesantemente sul fianco nel fango. Selden lottò contro la presa di Reyn. «Se riusciamo ad arrivare a quell'albero, possiamo arrampicarci e uscire!» gridò. Indicò il tronco inclinato e i rami che costituivano un ponte verso la superficie. «Non mentre lei si dibatte qui attorno. Saremo calpestati nel fango.» «Se stiamo qui, ci calpesterà in ogni modo» gridò Selden. «Dobbiamo tentare!» «Stai giù!» ordinò Reyn, e gli si buttò addosso. Il ragazzo si lamentò sotto il suo petto mentre il cristallo si inclinava di più. Il drago balzò di nuovo. Allontanò l'albero con gli artigli e guadagnò l'ingresso del varco, bloccando ogni luce mentre rimaneva aggrappata, scalciando e graffiando. La punta della coda sfiorò Reyn, strappando la stoffa robusta dei suoi pantaloni e lacerando la pelle del polpaccio. Il giovane ruggì di dolore, ma mantenne la presa su Selden. Zolle di terra, frammenti di radice e pezzi di soffitto piovvero attorno a loro mentre il drago incuneato lottava per emergere dalla sua tomba. Uno spiraglio di luce li raggiunse. Delineò il corpo del drago in lotta sopra di loro. La coda spazzò di nuovo, e questa volta li schiaffeggiò solidamente entrambi. Reyn e Selden furono scagliati dalla loro isola di cristallo nella melma. Piombarono nello strato sottile d'acqua e poi sentirono il rapido risucchio del fango. «Cerca di stare a galla!» ordinò Reyn al ragazzo. Allargò gambe e braccia sulla melma, sperando di stare a galla un poco più a lungo. «Sta per precipitare e schiacciarci» gemette Selden. Afferrò Reyn e tentò d'istinto di salirgli sopra. Reyn lo allontanò con il braccio rigido. «Resta
disteso come me, e prega!» gridò. Caddero altri pezzi di cupola, macerie mescolate alla terra, alberelli e ruvide felci ed erbe. «Ce la fa» ruggì Reyn mentre il drago riusciva a far passare la gabbia toracica oltre il bordo. Sentì il suo squillo trionfante. L'impeto di gioia nel suo cuore lo sorprese. Un'ultima doccia di terra e frammenti. Poi la luce del sole allagò la camera in rovina. La lunga coda salì sferzando e svanì. Reyn la udì ruggire di nuovo, e sentì il vento delle sue ali che battevano freneticamente. Non la vide levarsi con gli occhi, ma la sentì nel suo cuore. La calma rifluì con il suo passaggio. Era andata. Le lacrime gli scorrevano sul viso. Reyn fissò la piccola finestra di azzurro cielo d'estate. Forse era l'ultima della sua specie, ma almeno avrebbe volato prima di morire. «Reyn. Reyn!» La voce di Selden era seccata. Reyn rivolse il viso verso il suono e poi batté gli occhi per metterli a fuoco. Il ragazzo si era issato su una grossa zolla erbosa che era caduta diritta sul fango. Si alzò e indicò una rete penzolante di radici che pendevano dal soffitto. «Penso che possiamo accatastare abbastanza roba per permettermi di afferrare quelle radici. Potrei arrampicarmi, uscire e andare a chiamare aiuto.» I suoi occhi guizzarono speranzosi per la stanza. Insieme ad altri pezzi di cristallo, il fango era sparso di pezzi di vecchio legname e parti di alberi. Incurante di fango e acqua, Reyn si girò sulla schiena e considerò. Le radici non erano grosse, ma il ragazzo non pesava molto. «Penso che tu abbia ragione» ammise. «Forse ne usciremo vivi, dopo tutto.» Rotolò di nuovo sulla pancia e cominciò ad annaspare verso il ragazzo. Mentre afferrava l'erba dura e si tirava fuori dal fango e sulla terra solida, Selden gli chiese: «Pensi che anche Malta sia uscita?» «Forse» disse Reyn. Credeva di mentire, ma mentre parlava un sobbalzo improvviso nel cuore gli disse che non solo lo sperava, ma lo credeva possibile. Con il volo del drago tutto sembrava possibile. Come in risposta al suo pensiero udì l'eco lontana del grido squillante del drago. Scorse un lampo di azzurro più brillante contro il cielo. «Se mia madre o mio fratello la vedono o la sentono, sapranno da dove arriva. Ci cercheranno e manderanno aiuto. Ci salveremo.» Selden incontrò gli occhi del giovane. «Fino ad allora, tentiamo di tirarci fuori» propose. «Dopo tutto quello che abbiamo passato, non voglio essere liberato da qualcuno altro. Voglio farlo da solo.» Reyn sogghignò e annuì.
Tintaglia planò sull'ampia vallata del Fiume delle Giungle della Pioggia. Assaggiò l'aria d'estate, ricca di tutti gli odori della vita. Era libera, libera. Batté vigorosamente le ali, agitandole più del necessario, per la semplice gioia di sperimentare la propria forza. Salì attraverso l'azzurro giorno d'estate, volando fin dove l'aria era sottile e fredda. Il fiume divenne un filo d'argento scintillante nell'arazzo verde sotto di lei. Conservava nella memoria le esperienze di tutti i suoi antenati a cui attingere, ma assaporò per la prima volta il suo volo. Ora era libera, libera di creare i propri ricordi e la propria vita. Scese in cerchi pigri, considerando tutto quello che si stendeva davanti a lei. Aveva un compito, ed era rimasta sola a compierlo. Doveva trovare i giovani, e proteggerli e guidarli nella loro migrazione su per il fiume. Sperò che ne rimanesse qualcuno vivo. Altrimenti era davvero l'ultima della sua specie. Tentò di allontanare gli umani dalla mente. Non erano Antichi, che conoscevano le usanze della sua specie e accordavano ai draghi il dovuto rispetto. Erano umani. Non si poteva dovere qualcosa a esseri simili. Creature di pochi respiri, che si affannavano a mangiare e a riprodursi prima che i loro brevi giorni fossero finiti. Cosa poteva dovere una della sua specie a qualcosa che moriva e si decomponeva più in fretta di un albero? Si poteva essere in debito con una farfalla o un filo d'erba? Li sfiorò con la mente, un'ultima volta. Non avevano molto da vivere. La femmina lottava come un coleottero in una pozza, galleggiando e dimenandosi contro l'acqua in movimento. Reyn Khuprus era dove lo aveva lasciato, a contorcersi come un verme impantanato nel fango. Lottava nella stessa camera dove lei aveva languito per tanti anni. La brevità delle loro vite la commosse all'improvviso. Nello scintillio momentaneo della loro esistenza, ciascuno dei due aveva tentato di aiutarla. Ciascuno aveva tolto tempo alla sua ricerca di un compagno per cercare di liberarla. Poveri piccoli insetti. A lei costavano poco, quei momenti dell'enorme provvista di anni a venire. Descrisse una pigra curva nell'aria dolce d'estate. Poi con forti, solidi battiti d'ali, si portò di nuovo verso la città sepolta. «Arrivo!» gridò a entrambi. «Non temete. Vi salverò.» Epilogo La memoria delle ali
«Sappiamo dove stiamo andando, e perché. Perché dobbiamo forzarci così tanto, nuotando così in fretta e per tanta parte del giorno?» Lo snello cantore verde era abbandonato nella presa del groviglio. Gli mancava perfino la forza di restituire la stretta degli altri serpenti. Contava che lo tenessero mentre ondeggiava nel moto della corrente come un'alga. Shreever lo compativa. Avvolse un'altra spira attorno al suo corpo fragile e lo tenne più saldo. «Io penso» squillò sommessamente, «che Maulkin ci spinga tanto perché teme che i nostri ricordi possano affievolirsi di nuovo. Dobbiamo giungere alla meta prima di smarrire il nostro scopo. Prima di dimenticare dove andiamo, e perché.» «C'è di più» aggiunse Sessurea. Anche lui sembrava stanco. Ma c'era una cadenza di piacere nella voce. Era così confortante conoscere la risposta. «Le stagioni stanno girando. Siamo più vicini alla fine dell'estate che all'inizio. Avremmo dovuto essere già arrivati.» «In questo momento dovremmo essere avvolti da limo e memorie, lasciando che il sole cuocia i nostri ricordi dentro di noi mentre mutiamo» aggiunse Kelaro. «I nostri gusci devono essere duri e forti prima delle piogge del freddo invernale. Altrimenti potremmo perire prima di aver completato la trasformazione» ricordò a tutti lo scarlatto Sylic. Gli altri serpenti nel groviglio aggiunsero le loro voci sommesse. «L'acqua deve essere ancora calda perché le fibre si formino meglio.» «La luce del sole e il calore sono necessari per indurire il guscio.» «Deve essere ben cotto, solido e fermo, prima che il mutamento possa cominciare.» Maulkin aprì i grandi occhi. Gli occhi falsi brillarono d'oro per il piacere. «Dormite e riposate, piccoli» disse gentilmente, ignorando il fatto che diversi serpenti erano molto più grandi di lui, e molti erano suoi pari. «Sognate bene e traete conforto da tutto ciò che sappiamo. Parlatene fra voi. Dividere i ricordi che Draquius ci diede ci aiuterà a preservarli.» Concordarono in squilli sommessi mentre si avvolgevano e si assicuravano a vicenda. Il groviglio era cresciuto. In seguito al sacrificio di Draquius, molti dei serpenti ferini avevano mostrato segnali di ritrovare la memoria. Alcuni ancora non parlavano. Tuttavia di quando in quando l'intelligenza balenava brevemente nei loro occhi, e si comportavano come una vera parte del groviglio, perfino unendosi agli altri nel riposo. C'era un conforto nel numero superiore. Ora, quando incontravano altri serpenti,
questi evitavano il groviglio di Maulkin o lo seguivano e gradualmente ne diventavano parte. Maulkin aveva confidato loro la speranza che dopo aver raggiunto il fiume e migrato nei campi di bozzoli, anche i più bestiali potevano avvertire il fremito dei ricordi. Shreever chiuse gli occhi e affondò per sognare. Quello era un altro piacere recuperato. Nei suoi sogni volava di nuovo, e ora ricordava che i suoi antenati avevano fatto così. Nei suoi sogni si era già trasformata in un bel drago, con la libertà dei tre reami. «Ma non fidatevi troppo di questi ricordi» aggiunse Maulkin all'improvviso. Non lo proclamò ad alta voce. Solo Shreever, Sessurea e alcuni più vicini a lui aprirono gli occhi alla sua voce. «Cosa intendi dire?» chiese Shreever, spaventata. Non avevano sofferto abbastanza? Ora ricordavano. Cosa li fermava dal giungere alla meta? «Le cose non sono esattamente giuste» disse piano Maulkin. «Nulla è com'era, nulla è proprio come dovrebbe essere. Dobbiamo nuotare veloci e agili, per permetterci il tempo di superare ostacoli lungo la strada. State certi, ci saranno ostacoli.» «Cosa intendi dire?» chiese lamentoso Sessurea, ma Shreever pensò di saperlo già. Rimase in silenzio e ascoltò la risposta del profeta. «Guardatevi attorno» li invitò Maulkin. «Cosa vedete?» Sessurea parlò per tutti. «Vedo l'Abbondanza. Vedo i resti di antiche strutture cadute sul fondo marino. Vedo l'Arco di Rythos in lontananza...» «E l'Arco di Rythos non è, in tutti i tuoi ricordi, un luogo piacevole dove posarsi dopo un pomeriggio di volo attraverso la Mancanza? Non si ergeva alto e orgoglioso davanti all'ingresso del porto di Rythos? Perché giace in rovina, ingoiato dall'Abbondanza?» Nessuno parlò. Tutti aspettarono la risposta. «Non lo so neanch'io» brontolò Maulkin sotto voce quando il silenzio fu cresciuto. «Comunque sospetto che sia questo che ci confonde da tempo. Per questo le cose erano quasi familiari, e riuscivamo quasi a ricordare la via, eppure non potevamo.» «È solo colpa nostra?» domandò Tellur. Shreever pensava che il verde cantore snello fosse addormentato. La voce stanca aveva un timbro indignato. «I ricordi che Draquius ci ha trasmesso dicono che dovremmo cercare serpenti che ricordano, le cui memorie sono rimaste limpide e forti. Non solo loro, ma anche le guide che dovrebbero assisterci. Dove sono i draghi adulti che dovrebbero custodire gli estuari dei fiumi, proteggendoci mentre migriamo? Perché non abbiamo visto nulla della generazione che ci
ha preceduti?» La voce di Maulkin si fece sommessa, colma di pietà. «Non hai capito, Tellur? Draquius ci disse quello che fu di loro. Alcuni perirono nella pioggia di fumo e cenere. I pochi che ebbero l'opportunità di sopravvivere furono uccisi e i loro ricordi rubati. Sono le creature d'argento che abbiamo incontrato. Hanno l'odore di Quelli Che Ricordano, perché una volta lo erano. Tutto ciò che rimane sono i loro ricordi rubati.» Per un momento tutto fu silenzio. Con lentezza l'orribile comprensione penetrò in Shreever. Quel groviglio era tutto ciò che rimaneva. Dovevano sopravvivere da soli, se volevano che la specie continuasse. Dovevano scoprire da soli quale fiume conduceva ai campi dei bozzoli. Dovevano sfidare i predatori per migrare su per il fiume. In qualche modo, dovevano creare i loro gusci, senza l'aiuto amorevole di draghi adulti. E una volta racchiusi nei bozzoli e indifesi, dovevano affidarsi alla fortuna per sopravvivere all'inverno. Non ci sarebbero stati altri draghi a custodirli. Lo sguardo di Shreever vagò da serpente a serpente. Quanti di quelli aggrovigliati lì avrebbero aperto ali di drago la primavera successiva? Ci sarebbero stati abbastanza superstiti per selezionare compagni adatti al momento giusto? Quanti sarebbero sopravvissuti per proteggere i nidi fino all'apertura delle uova? I giovani serpenti sarebbero scesi snodandosi dalla spiaggia al mare, per cominciare il loro primo ciclo di migrazione e nutrimento, ma non ci sarebbero stati serpenti adulti per insegnar loro i modi del mare. Le probabilità contro la sopravvivenza della sua stirpe sembravano all'improvviso insormontabili. Se sopravviveva per divenire un drago, rischiava di dover affrontare una lunga, lunga vita guardando draghi e serpenti di mare svanire dai tre reami. Come poteva sopportarlo? «Ci appartenevano» dichiarò brusco Tellur. «Cosa?» chiese Shreever confusa. Il futuro, pensò. Il domani ci apparteneva. Ora non più. «I ricordi. I ricordi conservati nelle creature d'argento. Sono nostri, e averli ci rende più forti.» Si staccò all'improvviso dal groviglio con una sferzata della coda. «Dovremmo riprenderceli!» «Tellur.» Maulkin si districò con dolcezza dagli altri. Si mosse per affiancare il serpente più piccolo senza sfidarlo. «Non abbiamo tempo di vendicarci.» «Non parlo di vendetta! Parlo di prendere ciò che è nostro di diritto, ciò che per noi è un sostentamento più grande del cibo che mangiamo. I ricordi sono stati divisi fra noi. Quello che uno avrebbe dovuto possedere è
stato diviso fra molti; tuttavia siamo diventati più saggi, e ognuno ha diviso quello che fu imparato. Quanto più trarremmo profitto da una porzione più grande di quei ricordi? Dovremmo cercarli e riprendere ciò che è nostro.» Più rapido di un branco di aringhe che cambia direzione, Maulkin lo avvolse. Si era avvicinato al piccolo menestrello con tanta calma e disinvoltura che Tellur non lo aveva visto. Gli occhi dorati di Maulkin si avvolsero attorno alla livrea verde di Tellur, e la grande testa fronteggiò quella più piccola del cantore. Maulkin spalancò le mascelle e gli soffiò sul muso una fine nebbia di tossine. Dominato, il serpente più piccolo divenne inerte nelle sue spire. I suoi occhi rotearono in sogni pigri. «Non abbiamo tempo per questo» asserì quietamente Maulkin mentre riportava il compagno infiacchito al groviglio. «Se si presenta l'occasione di prendere un'altra creatura d'argento, la coglieremo. Ve lo prometto. Ma non possiamo rimandare la nostra migrazione per cercarle. Riposate bene, groviglio di Maulkin, perché domani continuiamo.» Domani, pensò Shreever mentre il groviglio si torceva, si avvolgeva e si ancorava di nuovo. C'è ancora un domani che è nostro. Chiuse gli occhi per difendersi dal limo e si permise di sognare ali. Era storpiata. Non avrebbe mai nuotato con la facilità di un drago che risale una corrente ascensionale. Era stata confinata troppo a lungo e nutrita troppo poco. Non riusciva a distendere il corpo alla piena lunghezza, sebbene striminzito. Era pesante e tozza dove avrebbe dovuto essere snella e muscolosa. Forse era permanente, forse era senza speranza. Ma senza dubbio era libera. E senza dubbio o rimpianto aveva ucciso gli Abomini che l'avevano imprigionata. Non avrebbero più tormentato un altro giovane serpente come avevano tormentato lei. Desiderò di poterli uccidere più e più volte, senza fine, e trarre per sempre soddisfazione da quell'atto. Perfino mentre lo desiderava, lo riconobbe come un'altra delle deformità che avevano inflitto su di lei. Tentò di allontanarla da sé. Aveva visto i piccoli due-gambe caricati su una barchetta, e poi li aveva seguiti, protettiva, finché la barchetta non era stata tratta a bordo da un vascello più grande. Il profumo della nave la inquietava. Odorava come un serpente, eppure non lo era. Inoltre odorava come Una Che Ricorda, eppure era una cosa senza lingua che non le aveva risposto. Non voleva considerare cosa fosse successo. Le risposte potevano essere nascoste nella co-
noscenza del ragazzo che aveva diviso così brevemente. Considerò di prendersi il tempo per seguire la nave e capire. Ma un'urgenza più forte la chiamava. Dopo tante stagioni di prigionia, il fato l'aveva liberata. Era destinata a essere una guida della sua specie, eppure era ancora lì, ancora vicina alla spiaggia dove era uscita dall'uovo. Non era migrata con loro; non si era alimentata e non era cresciuta, come avrebbe dovuto. Eppure, per quanto contorta e stentata, conteneva molto che era essenziale per loro. Nelle sue ghiandole e tossine risiedeva la conoscenza antica della sua razza. Andava divisa con loro, prima che migrassero su per il fiume per cominciare il mutamento. Mentre avanzava attraverso l'acqua piegandosi e contorcendosi, dubitò di poter compiere lei stessa quell'arduo viaggio. Eppure avrebbe cercato gli altri e avrebbe diviso con loro i ricordi che conservava. Emerse brevemente nella Mancanza, assaggiando il vento libero e salato. Sul ponte del vascello d'argento gli uomini gridarono alla sua vista. Si rituffò in fretta e prese la sua decisione. La nave d'argento era diretta di nuovo verso le isole. Oltre le isole c'era il continente, e nel continente la bocca del fiume che portava ai campi dei bozzoli. Quella era la sua destinazione. Sarebbe rimasta con il vascello d'argento finché le loro rotte portavano nella stessa direzione. Forse lì c'era qualcosa da imparare. Inoltre era affascinata dai piccoli animali pensanti sulla nave. Li avrebbe studiati. Una volta raggiunto finalmente quello che rimaneva della sua specie, avrebbe anche avuto ricordi suoi da condividere. Dopo la sua vita confinata, avrebbe potuto offrire almeno quello. Colei Che Ricorda si immerse negli abissi e provò a tendere i muscoli contratti. Mentre tornava alla superficie, trovò la posizione in cui la scia della nave la trascinava dietro di sé. Si assestò, e continuò verso il destino. FINE