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NANCY KILPATRICK LA GUERRA DEI VAMPIRI (Near Death, 1994) RINGRAZIAMENTI Un grazie a tutte le persone speciali che mi hanno generosamente offerto il loro aiuto tecnico, emotivo e spirituale, inclusi: (il defunto) Edwin Alexander, Naomi Bennet, Rob Brautigam, Charles L. Grant, Bob Hadji, Eileen James, Eric Kauppinen, Steve Kavalles, Claire Lang, Helen Lightbown, Robyn MacGarva, Ricia Mainhardt, Elizabeth Norton, Peter Reid, Giles Schnierle, Karl Schroeder, Caro Soles, Gary Soles, Jack Vecchio, John Went, Jeannie Youngson e un ringraziamento speciale a Mike "killer" Kilpatrick e Rebecca Todd. OSCURO NEONATO Riesci a sentire il mio sangue? Si rimescola, bolle. Immaginalo come uno sciroppo dolce e scuro che vuole essere versato sulla carne. Vieni a me ombra, demone oscuro, scuoia la pelle dalle ossa, prosciuga la mia anima del nettare. Nella tua oscurità, sono una nera farfalla che vola delicata sulla tua rosa. Vieni a me ombra, mio demone, stacca le piume dalle mie ali, tienimi per sempre stretta al tuo cuore. Nella tua oscurità io fiorisco. Fabrice Dulac PARTE PRIMA
«Il folle, l'amante e il poeta solo di immaginazione son fatti...» William Shakespeare CAPITOLO 1 La Vauxhall Nova presa a nolo sbandò mentre oltrepassava il cancello arrugginito in ferro battuto. Percorse a gran velocità le poche centinaia di metri della strada a una corsia che conduceva al vialetto circolare e girò a destra: la direzione sbagliata per voltare in Inghilterra. Al volante una bionda nervosa masticava una gomma americana e fissava con occhi spalancati quella casa imponente. Era abbastanza distante dalla città di Manchester perché gli abbaglianti della sua piccola vettura proiettassero un fascio di luce sotto quel cielo al tramonto. Riusciva a vedere che la casa era enorme: due piani di pietra si elevavano sopra un giardino incolto, simile a un parco. Dietro quattro colonne bianche c'era un impressionante ingresso con due porte. Di fianco, sulla destra e sulla sinistra, c'erano delle finestre; in ognuna contò sedici piccoli pannelli di vetro. Quello era il suo primo viaggio attraverso l'Atlantico, soltanto la terza escursione fuori New York e, eccezion fatta per la villa del governatore, dove era stata accompagnata per una festa privata ad Albany insieme ad altre quaranta ragazze, Zero non aveva mai visto nulla di lontanamente simile a quel posto. Spense il motore e abbassò la lampo della giacchetta in pelle. Sotto il sedile anteriore c'era uno zaino nero in pelle di vitello, e lei lo tirò fuori. Dentro trovò un fazzoletto da uomo, un batuffolo di cotone, un cucchiaino da tè, un accendino e una siringa di plastica trasparente con l'ago già inserito. In una tasca laterale c'era un sacchetto arrotolato con della polvere marrone chiaro, grosso quanto un sigaro. Dopo aver versato qualche granello di polvere sul cucchiaino e aver aggiunto Coca-Cola dalla lattina dalla quale stava bevendo, Zero si servì dell'accendino. In pochi secondi la combinazione di calore e Coca-Cola sciolse la polvere. Utilizzò il cotone e introdusse la punta dell'ago nel liquido, poi tirò indietro rapidamente lo stantuffo, risucchiando l'eroina. Una volta legato il braccio con il fazzoletto, esaminò l'interno del gomito. All'inizio non riuscì a trovare la vena, ma dopo pochi istanti una riluttante protuberanza blu si affacciò sulla pelle. Con dei movimenti esperti, l'ago penetrò la vena. Un fuoco liquido si riversò ruggendo nel suo corpo.
Come sempre, la fiamma per prima cosa le incendiò il cuore, poi la testa. Si accasciò sul sedile sospirando, in attesa che le fiamme si propagassero agli arti. Il tempo passò lentamente, poi quel gradito intorpidimento finì per anestetizzarle l'anima. I suoi occhi si spalancarono di colpo nell'oscurità dell'abitacolo. Aveva sentito le gomme che scoppiettavano sulla ghiaia. E in seguito il motore che veniva spento. C'era una sola persona, almeno nell'area che riusciva a percepire. Cosa strana, ci vollero quasi trenta minuti prima che lo sportello dell'auto si aprisse e si richiudesse. Quando radunò energia a sufficienza per passare all'azione, Zero tolse il fazzoletto dal braccio. Spinse con decisione quel sacchetto giù nel corpetto di pelle nera che indossava come top, infilò la borsa dentro lo zaino, e gettò la roba nel compartimento per i guanti. Adesso era pronta. Scese dalla macchina e sistemò la fibbia della grossa cinta in pelle che portava ai fianchi, retta da una lucertola d'argento che si divorava la coda, con dei gioielli al posto degli occhi. Mentre afferrava lo zaino dallo sportello aperto, controllò il suo orologio di Beaver. La lancetta più piccola era puntata sul cuore, mentre quella più grande gli divideva le palle. Cinque ore di differenza, aveva detto la hostess. Il che significava, quanto?, pensò lei. Le 19,30 a Manchester? Non si era preoccupata di regolare l'ora: non si sarebbe trattenuta a lungo. Sbirciò da una delle luride finestre sul davanti. L'interno era buio: non riusciva a distinguere molto. Tanto per essere sicura, usò il batacchio arrugginito a forma di rosa con tanto di gambo e spinse per picchiare su quella porta massiccia. Non avendo ottenuto risposta, fece il giro sul retro ed entrò da un capanno di attrezzi che aveva il lucchetto rotto. All'interno della cucina tastò il muro finché non ebbe trovato un interruttore, e lo premette. Niente. «Grandioso!», mormorò, cercando dentro lo zaino e scovando infine la torcia e un foglio di carta. Usò la luce per leggere di nuovo la nota. L'istruzione numero 7 diceva: Cerca in tutta la casa, in ogni stanza, non importa quanto piccola, cominciando dalla cantina fino all'attico. Ogni porta chiusa, compresi gli armadi: prova i passe-partout. Se non funzionano, usa il piede di porco. Ricorda: devi arrivare ben dopo il tramonto.
Era troppo fatta per provare qualcosa di più che un leggero fremito di nervosismo. "E poi", pensò tra sé, "se non mi avessero fatto fare questa cosa, sicuro come l'inferno non sarei in questo stupido posto". Trovò la porta che conduceva in cantina. Benché il sole fosse tramontato, tecnicamente non era ancora buio, ma lei non avrebbe atteso. Un invasore, i suoi aromi pungenti: sangue dolce e scuro; la pelle bagnata da una paura acre. E poi? Un profumo amaro che non riusciva a distinguere. Ovviamente, non aveva paura. Era semplicemente curioso. Non aveva senso. Di certo dovevano essercene degli altri. C'erano sempre degli altri. Ma, sintonizzando i sensi, riuscì a percepire soltanto questa donna, che si faceva strada con decisione, anche se lentamente, verso di lui. La sua curiosità già si mescolava al pregustare quello che sarebbe accaduto. E sapeva che sarebbe stato pericoloso. Per lei. Le scale per lo scantinato erano vecchie e cigolanti, e i piedi di Zero scivolarono sul legno marcio del terzo gradino. «Maledizione!», gridò, e la luce vagò in quell'ambiente lugubre mentre lei perdeva l'equilibrio. Esaminò con la torcia gli strati di ragnatele e i cumuli di polvere e sporcizia. L'aria era viziata, stantia. Tutto a un tratto il suo braccio si fermò in quel movimento, e il suo cuore prese a battere forte. In mezzo alla stanza c'era una grossa bara in pietra. «A me una dose!», sussurrò, andando automaticamente a cercare l'eroina. Ma l'idea di trovarsi là da sola, senza nessuno che potesse aiutarla in caso di overdose, era spaventosa. E non ne aveva davvero voglia. Una volta portato a termine ciò per cui era venuta, se la sarebbe goduta. "Un solo assaggio è uno spreco di questa roba buona", pensò tra sé, spargendo una piccola quantità di stupefacente sul pugno. Mentre annusava quella polvere finissima, la torcia le cadde di mano e rimbalzò giù per i gradini. C'era già così tanta eroina a viaggiarle nel sangue che non sentì la botta, però in pochi secondi si era già convinta di essere più tranquilla. Quando giunse alla fine della scala, raccolse la torcia e si avvicinò alla bara. Fece correre il fascio di luce su una estremità. Incise nella pietra c'erano le parole:
DAVID LYLE HARDWICK 1863-1893 POSSA DIO AVER PIETÀ DELL'ANIMA DEI POETI Zero si costrinse ad avvicinarsi al feretro e vi depose sopra tutto quello che stava trasportando, lasciando la stanza illuminata in modo inquietante. Puntando i piedi, spinse il coperchio con tutte le sue forze, cercando di spostare da una parte la dura lastra di pietra. Era pesante e si muoveva lentamente. Ben presto si ritrovò a sudare. Quando il coperchio fu scostato a sufficienza, prese la torcia e sbirciò dentro. «Oh Dio! Che cosa macabra!», sussurrò. Il corpo di un uomo vestito con abiti di vecchia foggia giaceva sul raso ammuffito. Capelli biondi ondulati oltre le spalle incorniciavano un volto cinereo, scolpito. Delle mani pallide e delicate erano piegate sul suo petto nella classica posa dei morti. Non pareva respirare, ma la nota diceva che questo non significava nulla. Con le mani tremanti, Zero cercò nella sacca e tirò fuori un martello e un paletto di legno. «Cavolo, non posso farlo», si lamentò. Nello stordimento dell'eroina, la paura che percepì nella propria voce quasi la raggiunse: c'era andata molto vicino. Decise che un'altra pompatina al morale non avrebbe fatto alcun male, e fece due tirate veloci, offuscando il terrore prima che potesse opprimerla ulteriormente. Alla fine sistemò la punta aguzza del paletto dove riteneva avrebbe dovuto trovarsi il cuore, sollevò il martello e vibrò il colpo. Una mano gelida scattò fuori dalla bara e l'afferrò alla gola. Mentre gli attrezzi finivano sul pavimento di cemento, lei fu costretta a indietreggiare, annaspando per respirare. La mano fu seguita fuori dalla bara dal resto del corpo. In un debole lampo della torcia intravide quegli occhi scintillanti e un volto snaturato dalla rabbia, come qualcosa che tornava alla vita da un incubo. "Un sogno. Devo aver sognato", pensò lui. "È tornata". Ma in pochi secondi la dura realtà davanti ai suoi occhi si concretizzò. Dopotutto, non si trattava di Ariel. Però, quella ragazza era graziosa come Ariel. Una moderna Afrodite, nonostante il trucco pesante, pensò David. Piccola, delicata, proprio come Ariel, probabilmente con una silhouette adorabile sotto tutta quella pelle. Di certo i colori, quei capelli biondo seta,
e quegli occhi azzurri, non erano gli stessi. La facevano sembrare delicata e femminile. Ma in lei c'era anche un'aura non tanto dolce, un contorno dozzinale che non riusciva a ricordare, qualcosa oltre al fatto che aveva appena cercato di conficcargli un grosso pezzo di legno nel cuore. Gli sovvennero le parole beffarde di Lord Byron: Era perfetta, ma come lo è la perfezione insipida in questo nostro mondo capriccioso... La scaraventò dall'altra parte della stanza. Lei andò a sbattere dritto contro il muro di pietra, di faccia, poi si girò come un topo chiuso nell'angolo per fronteggiarlo. «Bastardo!». Mentre lui si avvicinava, lei parve assolutamente atterrita, anche se la sua voce riusciva a mascherarlo. «Dovresti stare più attento, tu! Ehi, senti, vacci piano, d'accordo? Ho della droga. Possiamo festeggiare, divertirci, capisci? Posso farti star bene». Era questo che aveva percepito lui. Era dura, calcolatrice. E ciò la rendeva imprevedibile, anche se non si trattava di un vero e proprio pericolo per lui. Le afferrò un braccio. La sua voce sembrò rauca alle sue stesse orecchie; era trascorso molto tempo da quando aveva parlato l'ultima volta. «Chi sei?», le chiese. Lei lo fissò come se stesse guardando un mostro in un film dell'orrore. La strattonò leggermente per ricondurla alla realtà. «Mi chiamo Zero. Ehi, senti!». Mise una mano in mezzo ai seni e ne tirò fuori un sacchetto di plastica che agitò davanti al viso di lui. «Eroina. Quasi pura». Fece un sorriso seducente, così palesemente falso da risultare patetico. L'uomo quasi provò pena per lei. «Sei un tipo carino», disse la donna. «Sì, posso farti stare davvero bene». David le strappò di mano il sacchetto e lo gettò in un angolo buio. «Ehi!», gridò lei. «Sei pazzo? Quelli sono tre grammi... valgono millecinquecento dollari! Sai quanto ho dovuto lavorare per quella merda?». Lo colpì al volto, graffiandogli la pelle con le sue unghie appuntite come lame: sarebbe sgorgato del sangue se ce ne fosse stato da sprecare. Lui la sbatté contro la pietra, sforzandosi di tenere a bada un bisogno a-
nimalesco. «Perché hai tentato di uccidermi?». Lo guardò furiosa, scuotendo leggermente la testa da una parte all'altra. All'improvviso piegò la gamba. Il ginocchio gli mancò di poco l'inguine. Senza pensarci, David, che non aveva mai colpito un essere umano nonostante avesse compiuto azioni indicibili, scioccò se stesso. Sentì il suono di carne contro carne riecheggiare in quello scantinato vuoto, e si rese conto che il suo palmo aveva colpito la guancia di lei. Non parve sconvolta, ma lui si era innervosito per quello che aveva appena fatto. «Hai un volto grazioso», sibilò lui, sforzandosi di mantenere il controllo sulle proprie emozioni. «Ancora un po' di questo trattamento e non credo che sarai più tanto attraente». Sperò che sarebbe stato sufficiente a intimidirla. Ma non smetteva di pensare: "È una masochista, vuole portarmi a essere sadico. E io la sto ricambiando. Ariel mi faceva alterare in questo modo?". «Perdonami», le disse. Gli occhi di lei si riempirono di disprezzo, e questo lo rese di nuovo furioso. «Siete tutti uguali voi coglioni. Be', non c'è nulla che puoi darmi che io non possa prendermi. E allora vaffanculo!». Questa volta gli assestò un pugno pieno nel plesso solare. Lui le bloccò i polsi dietro la schiena e la strattonò all'indietro per la stanza, temendo che potesse non dispiacerle essere maltrattata. E conosceva abbastanza la propria natura da sapere che anche lui avrebbe potuto soddisfare tranquillamente simili oscure fantasie. Ma, nonostante tutto quello che poteva essere, David non era mai stato un bruto, e non aveva nessuna intenzione di diventarlo. Avrebbe trovato un altro modo per trattare con lei. Uscendo dallo scantinato, raccolse lo zaino. Mentre veniva trascinata all'indietro, Zero notò che tutta la casa era piena di polvere, disabitata. "Che posto da brivido", pensò tra sé, "sembra una casa infestata". Sapeva che avrebbe dovuto aver paura, ma la paura non riusciva a scavalcare la solida barriera creata dalla droga. E di questo era contenta. Però quel muro non avrebbe retto a lungo. E, una volta caduto quello, si sarebbe trovata in guai peggiori. La stanza del secondo piano nella quale la portò, sembrava essere rima-
sta disabitata per mezzo secolo. L'impronta dei loro passi li seguì sul pavimento. La gettò su un grande letto a quattro piazze. Una nuvola di polvere si levò in aria dalla trapunta sporca. Mentre lo guardava chiudere a chiave la porta e accendere una mezza dozzina di candele, Zero si toccò la guancia, riflettendo su che razza di bastardo fosse. Quel pensiero svanì mentre si guardava intorno. C'erano vecchie sedie vicino al camino in pietra con ricami anneriti sugli schienali e sui braccioli. Parecchi tavoli di legno, di tutte le forme e dimensioni, alcuni con pieghettature ingiallite di pizzo intorno alle gambe, erano sparsi qua e là. Dei ritratti in cornici ovali pendevano dalla sporca tappezzeria a fiori. Il pavimento di legno era per buona parte ricoperto da un grande tappeto intrecciato: la lana di cui era composto era troppo sudicia per poterne stabilire il colore. "Che porcile", pensò. Mentre lui esaminava il contenuto dello zaino, lei esaminava lui. Era in disordine, ma di aspetto nobile, come qualcuno di un'altra epoca intrappolato in una deformazione temporale. "Ma è un vero psicopatico", pensò. "Crede di essere Dracula". La sua pelle era bianca come un lenzuolo. I suoi abiti gli pendevano addosso come fosse anoressico. Sembrava troppo pensieroso... apprensivo. Avrebbe scommesso che aveva quell'aria sin da bambino. Una volta che ebbe finito di controllarla, la analizzò con sorprendenti occhi nocciola. «La tua carta d'identità dice che ti chiami Kathleen Stevens». «Mi chiamano tutti Zero», disse lei in tono ostile. «Sei di New York». Lesse dalla patente di guida, con voce stranamente gentile. «Venticinque anni. Single». Lasciò cadere il portafogli dentro la borsa. «E assassina». Zero rise. «Ce ne vuole uno per riconoscerne un altro, giusto? E tu cosa sei? Un vampiro vegetariano?» «Questa nota, con queste istruzioni. Chi te l'ha data?». Inspirò profondamente e trattenne l'aria. Non glielo avrebbe mai detto, qualunque cosa le avesse fatto. "Mi sarebbe piaciuto farmi quell'eroina", pensò, mentre lui si avvicinava al letto. S'irrigidì, pronta per essere colpita di nuovo. «Zero, hai un problema serio». Stava cercando di sembrare brutale, ma
non ci riusciva molto. «Sei talmente fatta da non renderti conto di dove ti trovi? Ti sei buttata in quest'impresa senza riflettere. Chiunque tu stia proteggendo, difficilmente vale quello che può succederti». Lei protese in avanti il mento, cercando di sembrare ostinata. "Gli uomini sono sempre più violenti se mostri loro di aver paura", pensò tra sé. «Chi ti ha mandato?». David sentiva di avere le mani legate. Sapeva di sembrare un gangster dei vecchi film. Ma era poco preparato a una simile resistenza da parte di un mortale. Ariel l'aveva lasciato impreparato a molte cose. Questa ragazza era troppo drogata per poter essere ipnotizzata. Non aveva idea di come scoprire cosa significasse tutto ciò - chi l'aveva mandata se non bastonandola, e di certo non aveva intenzione di ricorrere a quello. Erano già stati causati abbastanza danni. "È molto carina", pensò, "molto simile a una piccola, timida creatura della foresta". All'improvviso rise del proprio romanticismo. "Piccola e timida! Un ragno velenoso", realizzò. Aveva cercato di ignorare il profumo del suo sangue, ma adesso minacciava di sopraffarlo. Era trascorsa una settimana da quando si era nutrito l'ultima volta. Incapace di trattenersi, la mise in ginocchio. Intorno alla gola indossava una collana nera con attaccata la testa di una volpe d'argento. Gli occhi di perle nere della volpe richiamavano gli occhi delle lucertole. Strappò via la collana e portò i denti alla giugulare prima che lei si rendesse conto di quello che stava succedendo. Voleva perforare la pelle. La calda, dolce semplicità di quello che vi scorreva sotto era un richiamo per lui. Quel calore avrebbe riempito la sua bocca e gli sarebbe scivolato giù nella gola rendendolo forte, ravvivando la fiamma della vita. Era una sensazione che non aveva mai dimenticato, una di quelle che sperava potessero durare per sempre. Il sangue era la promessa che lo faceva andare avanti. Un pensiero gli attraversò la mente: "Potrebbe essere talmente fatta da non ricordare quello che sto per farle". Ma quel sangue era contaminato dagli stupefacenti. Adesso ne riconosceva l'odore; ovviamente la droga spiegava quel comportamento singolare. Il suo corpo efficiente avrebbe potuto selezionare gli elementi nutrienti espellendo il veleno, ma l'eroina l'avrebbe temporaneamente disorientato, e in quel momento lui non poteva permettersi di perdere il controllo. Quel sangue non sarebbe stato piacevo-
le. Cosa ancora più importante, rifiutava di tradire tutto ciò in cui credeva. Sottometterla alla sua ossessione era abbastanza degradante. Se doveva nutrirsi, e sapeva di non avere scelta, sarebbe stato quando, come e su chi avesse deciso lui. Tremando, si ritrasse. I denti gli dolevano fino alle gengive, e la sua mascella fu presa dagli spasmi. Lei vide quei denti e uno sguardo di totale incredulità le riempì il viso, uno sguardo che lui aveva visto su molti altri volti. «Chi ti ha mandato?», le domandò, facendole ben vedere quei denti, sperando che lo shock l'avrebbe spinta a dire la verità. Lei si mise una mano sul collo, poi la tolse. Le dita asciutte non la rassicurarono. Lo fissava in preda all'orrore. «Dimmi Kathleen. Perché vuoi soffrire?». Si sentiva più sicuro della sua decisione. I muscoli facciali cominciarono a rilassarsi, e l'appetito che lo dilaniava scemò leggermente. "È adorabile", concluse lui. "I suoi colori sono delicati ed eterei come quelli di un dipinto di Reynolds. Ipnotici. Come un cobra", ricordò a se stesso. All'improvviso, i tratti di lei cambiarono di nuovo, come se quello che aveva appena visto fosse stato cancellato dalla sua memoria. Gli sorrise in maniera seducente; lui notò qualcos'altro oltre l'inganno, ma non aveva idea di cosa potesse essere. Kathleen giocherellò con i bottoni della camicia, poi gli strofinò i fianchi addosso, fissandolo negli occhi. I suoi erano lucidi. Prima che se ne rendesse conto, calde labbra aperte erano premute sulle sue. La lingua di lei s'insinuò in profondità nella sua bocca, scioccandolo. Si chiese se non fosse pazza. Lei si tolse il giacchetto e abbassò la zip della maglia. I suoi seni erano pieni e rotondi, i capezzoli eretti come perle di carne. Prese le mani di lui conducendovele e il calore, la morbidezza della sua pelle e la pulsazione sotto la superficie stimolarono diversi dei suoi appetiti. Sentiva l'inguine pesante e la gola secca. "Se le mostro benevolenza, se la incoraggio a fidarsi di me, magari torna in sé", pensò lui, in parte cosciente di voler razionalizzare una reazione del tutto inappropriata come quella di lei. La donna sgusciò fuori dai pantaloni in pelle e dagli anfibi, poi si distese e spalancò le gambe. Sembrava nello stesso tempo indifesa e invulnerabile.
"Ovviamente è abituata a farlo", si rese conto lui. "Ricorda: è un'assassina, una drogata", rammentò severamente a se stesso. "Vuole distruggermi". Ma, un istante dopo, lei lo stava attirando a sé, e faceva scorrere le mani sotto la sua camicia, gli sbottonava i pantaloni. «Faresti meglio a dirmi quello che voglio sapere», le disse con voce vellutata, che rivelava poca determinazione. «Forse lo farò». Rise. La guardò in viso, sperando di intravedere qualche segnale di vulnerabilità. Ma l'immagine che gli sovvenne fu quella di una spugna, e si rese conto che lei stava succhiando degli stimoli senza in realtà rendersi davvero conto di ciò che accadeva. Ma sembrava silenziosamente implorare dell'altro. Ed ebbe l'impressione fastidiosa che nella sua testa lo stesse criticando per il fatto di non essere sicuro di sé. David si scostò sdraiandosi sul letto di fianco a lei, confuso, sentendo di essere manipolato: intanto la studiava. "Sembra che abbia appena assaggiato qualcosa che potrebbe piacerle, ma che di sicuro non la appagherà appieno", pensò lui. «Torniamo in cantina a prendere la roba», disse lei con voce allegra, cominciando ad alzarsi. «Andiamo! Mi sto davvero annoiando. Non sai proprio come spassartela. Se questo è tutto quello che riesci a fare in una scopata, hai davvero bisogno di una dose peggiore della mia». Lui la spinse per le spalle verso il basso, meravigliato da una simile mancanza di emozione. «Ragazzo, posso usare un poco di eroina». Tremò, ma lui sospettò che non fosse perché aveva paura di lui. «Chi ti manda?». Il suo tono si fece più cupo. Lei gli rise in faccia. «Tesoro, sei così serio. E da me non otterrai nulla, non importa che cosa tu mi faccia. Perché allora non ce ne torniamo giù e proviamo a rilassarci? Hai delle siringhe qua in giro?». Lui si succhiò il labbro superiore e la guardò. Era come una creatura venuta fuori da un racconto di Burroughs, rifletté. Ma alla fine disse: «Se ti do la droga, me lo dirai?» «Certo», rispose lei semplicemente. Provò a toccargli l'inguine, ma lui le allontanò la mano.
«Cielo, siete tutti così tesi voi vampiri? Ehi, come ci si sente a essere morti? Dev'essere grandioso, no? Niente più problemi. Lo farai anche a me?» «Vieni con me». La sollevò e la trascinò fuori dalla porta. Trovarono la bustina con la polvere: lui la osservò mentre ne metteva una piccola quantità sul pugno e sniffava con mani tremanti. Le sue pupille, piccole nonostante la debole luce della torcia, si contrassero ancora di più fino a diventare due punte di spillo. «Ne vuoi un po'?», offrì lei. «Chi ti manda? E dove sono gli altri?». Lei allungò una mano, muovendosi lentamente. «Vieni qui, tesoro. Lasciami fare», lo invitò. Afferrò la borsa, tenendola fuori portata, anche se lei non era comunque abbastanza veloce per raggiungerla. «Non c'è altro che sembra spaventarti, ma forse questo funzionerà. Giocherò a fare lo spacciatore, e vedremo quanto tempo potrai stare senza». Lei parve spaventata. "Alla fine", pensò lui, "una reazione appropriata". Era una emozione che avrebbe visto intensificarsi. CAPITOLO 2 «Figlio di puttana! Bastardo! Testa di cazzo!». Mentre David entrava nella stanza, una sequela di oscuri insulti giungeva dal letto dove aveva lasciato Kathleen, legata per i polsi alle colonne. «Mezza sega!», gli urlò ringhiando. Tutto il corpo della donna era fradicio di sudore. Da quando era tramontato il sole, aveva passato ore intere a osservare il suo disperato bisogno di eroina crescere minuto dopo minuto. Quel desiderio tormentoso gli aveva ricordato molto il suo. Quando non era più riuscito a sopportare quell'agonia, aveva guidato fino a Manchester per vedere che cosa riusciva a scovare. Per nutrirsi. Era stato fortunato. Aveva trovato una ragazza seduta a gambe incrociate sopra una lapide del cimitero. Sola. Indossava un abito nero stretto, con un alto colletto merlettato e grossi scarponi sullo stile di quelli indossati nei cantieri dagli operai. Il New Goth era attualmente in voga, lo sapeva: un desiderio disperato della gioventù di rivivere il romanticismo in un mondo
freddo, senza passione. Sfortunatamente, molti di quei neoromantici mostravano una predilezione per la morte. Quella non era la prima ragazza che aveva trovato nel cimitero. Sembrava depressa. «Posso unirmi a te?», chiese lui. «Mettiti comodo, amico». Il tono era spento, l'accento marcato e borghese. Delle Midlands, sospettò lui. Forse lavorava come babysitter. Lei si girò, scoprendo che la stava fissando. I suoi occhi erano delle orbite scure con del trucco nero a contornarli. Mostrò un minimo accenno d'interesse, ma fu sufficiente perché lui potesse immediatamente aggrapparvisi. Stava morendo di fame. In pochi istanti la ragazza era caduta nel suo incantesimo ipnotico. La distese sulla pietra e le slacciò i bottoni di perle nere che correvano giù lungo il merletto come una barriera che proteggeva la gola. Il collo era lungo e sottile, la vena costretta a mostrarsi dato che lui le teneva la testa inclinata. Si piegò su quel corpo esile respirandone il dolce profumo. Le sue stesse vene parvero avvizzirsi, le ossa ridotte a uno scheletro di ghiaccio per tenere insieme una sagoma di cartapesta. Il suo corpo famelico, pregustando, continuava a tremare. Tutto intorno a lui scomparve, persino la ragazza stessa. La pulsazione blu divenne più definita. Si diresse verso quella come risucchiato da un vortice potente, irresistibile. E, quando i suoi denti perforarono quella carne e il fiume caldo della vita si riversò sulla sua lingua, i pensieri svanirono e divenne soltanto carne. Le sue vene raggrinzite si gonfiarono di fluido vitale. Il suo scheletro si riscaldò e un calore crescente gli si irradiò nei muscoli trasformando la pelle in tessuto vivente. Rinfrancato, le riabbottonò il vestito e la lasciò ai suoi sogni. Sapeva che lei l'avrebbe ricordato in quel modo. Un misterioso straniero - a patto che fosse stato reale - che l'aveva portata al culmine dell'estasi, interrompendo un'esistenza altrimenti dolorosamente piatta. Una volta in città, aveva scoperto che la Vauxhall Nova era stata noleggiata telefonicamente due sere prima, per ventiquattro ore soltanto, da una donna che si era identificata come la signora Stevens, di New York. La vettura era stata ritirata all'ufficio dell'aeroporto. Il giorno precedente era arrivata per posta una busta contenente denaro, più che sufficiente per pagare noleggio, assicurazione e benzina. Insieme ai soldi c'era una sola frase battuta a macchina: «Noleggio di ventiquattro
ore della vettura per Kathleen Stevens». Senza firma. All'ufficio della Hertz dell'aeroporto di Manchester, l'impiegato di turno quando erano state prese le chiavi si ricordava di Kathleen. Non era successo nulla di strano. Il computer dell'American Airlines aveva potuto solamente confermare che Kathleen Stevens era arrivata con il volo 503 il pomeriggio precedente e aveva un biglietto di ritorno per l'aeroporto Kennedy da utilizzare entro sette giorni. O aveva architettato tutto da sola, cosa che sembrava inverosimile, oppure chiunque vi fosse dietro si trovava a Manchester o l'aiutava dall'Inghilterra. Chiaramente erano ben organizzati. «Sei pronta a rivelarmi chi ti ha mandato?», le chiese, sedendosi sul bordo del letto a due piazze. «Vai a farti fottere!». I suoi occhi erano spalancati, isterici, sciupati, anche se non sembrava piangere. «Kathleen, presto comincerai a sentirti male. Posso evitarti questa miseria. Dimmi semplicemente quello che voglio sapere». «Stronzo! Non te lo dirò mai». «Me lo dirai. E posso aspettare. Sono terribilmente paziente, e ho più tempo di quanto tu riesca a immaginare». Sull'angolo sinistro della sua bocca si era formata della piccola schiuma bianca. Lui si allungò per pulirla e lei cercò di mordergli il dito. «Sei una strega, non è così?» «E tu sei un finocchio, se ne ho mai visto uno!». Lui rise mentre si alzava per andarsi a sistemare vicino al fuoco. Strada facendo prese un volume dei poemi di Byron da uno scaffale, soffiando via la polvere dall'esterno. «Ti va di ascoltare un po' di poesia?» «Va' all'inferno!». Per vent'anni non aveva letto altro che il titolo di un quotidiano. Quel particolare libro di Byron, uno dei suoi preferiti, non l'aveva più aperto dal suo ritorno in Inghilterra. La morbida pelle rossa era consumata in diversi punti; i segni seguivano la forma della sua mano. Aprì nel punto del segnalibro e cominciò a leggere in silenzio. È stato il tuo stesso genio che ha sferrato il colpo finale, e ha aiutato a piantare quella ferita che ti fa giacere in terra. Così l'aquila colpita, abbattuta sopra la pianura,
non potrà più librarsi tra nubi erranti. Ha visto la sua stessa piuma sul dardo fatale, e ha guidato la freccia che pulsa nel suo cuore. «Ti prego, me ne dai un poco? Solo un pochino. Sii buono». David prese una lettera che era arrivata da poco, poi diede un'occhiata al mittente, imprimendoselo nella memoria. Mentre tamburellava sul tavolo con l'estremità della busta, guardò Kathleen. I suoi occhi erano docili, angosciati, come quelli di un cerbiatto ferito. Ma le labbra erano arricciate in una brutta smorfia. Tornò al suo libro. Qual è il peggiore dei giuramenti che attende nel tempo? Quale segna la ruga più profonda sul sopracciglio? Vedere ogni persona amata cancellata dalla pagina della vita, ed essere soli in Terra, come sono io adesso. Quando giunse l'alba, lei stava grufolando. «Ti prego. Farò qualunque cosa. Tutto quello che vuoi. Lo prometto. Posso scopare fino a farti impazzire. Tutto. Dammene un poco». Lui depose il libro. «Dimmi chi ti ha mandato». Il volto e le labbra di lei erano pallidi. Sembrava ancora più fragile, vulnerabile. La sua voce si era fatta più giovane, come quella di una ragazzina. «Ti prego. Non chiedermelo. Non posso dirtelo. Lo farei se potessi». «E io ti darei l'eroina se potessi». «Ti sto supplicando!». Cominciò a piangere, sempre senza fare rumore. All'inizio quelle lacrime silenziose l'avevano quasi commosso. Ma erano sempre seguite da insulti e maledizioni. Attese. «Se me ne dai un poco, ti dirò tutto quello che vuoi sapere. Non mi serve una dose intera. Basta un assaggio». Grosse lacrime le scesero giù per le tempie sul cuscino, già pieno di sudore e vomito. «Prima rispondi». Kathleen serrò la mascella e cominciò a dimenarsi. Produsse un suono simile a un ruggito poi gridò: «Culorotto! Ti detesto, schifoso cazzo moscio!».
David rimise a posto il libro e si diresse alla porta. «Sentiti libera di fare tutto il rumore che vuoi. Siamo ben isolati e non disturberai il mio sonno. Tornerò da te domani sera... tra circa dodici ore». «Non lasciarmi!», gridò lei disperatamente mentre lui apriva la porta. «Ti prego! Ne ho bisogno! Parlerò!». Si fermò. Lo stomaco di lei si muoveva dentro e fuori, concavo e convesso, con tutta l'intensità del dolore, e lui ne ebbe pietà. «Allora?», disse infine. «È stato un altro vampiro». «Uomo o donna?» «Uomo. Donna. Entrambi! Tutti e due». «Perché ti hanno mandata?» «Forse credevano che avrei avuto maggiori possibilità di ucciderti di quante ne avessero loro». «E perché, visto che la mia razza è molto più forte della tua?» «Perché? Come faccio a saperlo? Non me l'hanno detto». «Ma ti hanno dato istruzioni di venire qui ben dopo il tramonto. E tu sei arrivata prima che il cielo si fosse oscurato completamente...». «Sì. Ero in anticipo. Posso avere un poco di roba adesso? Ti ho detto tutto quello che so. Sto morendo». «Perché ti avrebbero detto di venire con il buio quando è risaputo, specie per quanto riguarda quelli come me, che i vampiri, come ci chiamate voi, si svegliano di notte e dormono di giorno?» «Eh?». Sembrava confusa, isterica, il petto pesante, il corpo scosso da un tremito. «Che stupidaggini!». Lui rise. «Non ti consiglierei certo di fare teatro. Hai davvero poca immaginazione». Lei lo fissò come se stesse parlando in greco. Al tramonto entrò nella stanza pallido e teso, ma a Zero non importava. Per Dio solo sa quanto tempo le sue gambe erano state bloccate in posizione fetale nel tentativo di ridurre al minimo la scomodità. Riusciva a fare piccoli respiri poco profondi. Il corpo le doleva in maniera indicibile e cominciava a vedere cose, delle forme aliene e spaventose che sbucavano dalla tappezzeria, cose che lei sapeva non essere là, o almeno così sperava. Quel giorno era stato una pura e semplice agonia, ma quel nodo di dolore nel suo intestino, il panico che aveva nella testa, e quella sensazione come di una griglia ruvida che le raschiava il sistema nervoso erano soltan-
to cresciuti. Lui disse qualcosa, ma inizialmente lei non riuscì a capirlo. Alla fine riuscì a decifrare le parole: «...Altrimenti saranno per te un'altra lunga notte e un lungo giorno». «Posso avere... dell'acqua?». Lui abbandonò la stanza e tornò con un bicchiere d'acqua. Le sollevò delicatamente la testa in modo che potesse bere. Le sue mani erano gelide. Le riuscì difficile inghiottire; la sua lingua era gonfia e ingombrante, e gran parte del liquido le si riversò fuori dalla bocca. «Sei pronta a rispondere alle mie domande, Kathleen?». Zero sapeva di non poter continuare così. Riusciva a parlare a stento. Annuì, facendogli capire che aveva mollato. Lui sedette sul letto, in attesa. «Un tizio. È venuto da me in un bar». «Dove?» «Alphabet City». «E dove si trova?» «Nel Lower East Side. Vicino a East Houston». «Il suo nome?» «Dennis. Ho sentito qualcuno chiamarlo Dennis». Un altro dolore straziante la percorse. Zero portò le ginocchia ancora più vicino al petto, piangendo in silenzio, mugugnando e tremando finché il freddo dito della morte smise di accarezzarle la spina dorsale. «Per favore. Dammene soltanto un poco», lo implorò a bassa voce. «Prima parla». Lei gemette e sentì le labbra tremare. Ma alla fine disse: «Mi ha detto che dovevo venire qui. Mi ha dato il biglietto aereo, i soldi e le istruzioni, dicendo che ci sarebbe stata un'auto ad attendermi. Lo zaino era dentro». «Perché l'ha fatto, Kathleen?» «Non lo so». Lui fece per alzarsi. «Ti prego! Non sto mentendo». Non riusciva a capire se lui le credeva oppure no. «E poi?» «Sono venuta qui. Il resto lo sai». «Che cos'altro ti ha dato?» All'improvviso tutto il suo corpo fu sconvolto dagli spasmi. Stavolta le
venne anche la diarrea. Quella breve contrazione muscolare la lasciò boccheggiante. "Comincia a sembrarmi divertente, spaventoso, come qualcosa che non dovrebbe essere di questo mondo", pensò lei. E quel pensiero la scaraventò ancor più nel panico. Tremò violentemente. «Cos'altro ti ha dato, Kathleen?» «Cos'altro? Nulla». «Non ti ha dato l'eroina?» «Sì. Quella». «E chi è Dennis?» «L'ho visto in giro, ma non l'ho mai conosciuto. È semplicemente venuto da me. Sapeva il mio nome». Mentre guardava David, si rese conto che era pallido e affamato e, per la prima volta, l'idea che potesse davvero essere quello che diceva, la spaventò più delle allucinazioni. «Posso avere dell'altra acqua?». Lui le diede dell'altra acqua, quindi disse: «Hai risposto adeguatamente tranne sul perché vuole eliminarmi». «Senti, io non so il perché. Non me l'ha detto». «Ma tu sai perché hai fatto quello che lui ti ha detto». Zero pregò semplicemente che il soffitto sprofondasse e la uccidesse finendole addosso. Ma aveva desiderato morire più di una volta durante quel lungo giorno, e sapeva per l'esperienza di una vita intera di non essere il tipo di persona che avrebbe ricevuto un miracolo. «Ti prego. Solo una botta. Solo una. Non ce la faccio più». Le lacrime scivolarono inutilmente dai suoi occhi; non era sorpresa del fatto che non lo smuovessero. «C'è ben più che la droga. Avresti potuto semplicemente tenertela. Come ha fatto a persuaderti a venire qui? A uccidere?» «Sei tosto», disse lei amaramente. «Sembri uno sciocco, ma hai le palle di un camionista». Lui accennò un sorriso. «Una similitudine gradevole. Dopotutto, forse potresti essere una poetessa». Il corpo di lei fu scosso nuovamente, e lui attese che finisse. Ma, non appena la convulsione ebbe termine, chiese: «Come ti sta ricattando?» «Oh, Dio!», si lamentò lei. Zampillarono lacrime dai suoi occhi.
«Ti prego! Ha detto che mi avrebbe uccisa se l'avessi raccontato. Non farmelo dire!». Ma alla fine una strana calma dettata dallo spirito di autoconservazione s'impossessò di Zero e lei sentì senza più dubbi che gli avrebbe detto tutto; non avrebbe resistito un'altra ora. "E forse non ha più importanza", pensò, cercando di giustificare il tradimento. «Ha mio fratello minore. Ha detto che, se non fossi venuta qui a infilarti quel paletto, Bobby sarebbe morto. Tutto qui. È tutto quello che so. Ti prego! Dammi dell'eroina». David vide nei suoi occhi che aveva detto la verità, tutta la verità che si sarebbe potuto aspettare dalla mente stravolta di una drogata disperata. Camminò su e giù per la stanza. Semplicemente non aveva senso. Chi voleva ucciderlo? Quelli della sua razza sapevano che era impossibile, almeno nel modo in cui la cosa era stata organizzata. E perché mandare una donna mortale? Un'inaffidabile drogata? E le istruzioni dopo il tramonto? Quelli che sapevano che si trattava della sua casa erano amici; non riusciva a credere che uno di loro avrebbe cercato di fargli del male. Chi era questo Dennis, che sapeva cos'era, dove trovarlo, ed era comunque tanto inetto? «Dov'è la droga? Me l'hai promessa!», disse lei lamentandosi. "È troppo carina per essere una drogata", concluse lui. «Ti farò un favore tremendo. Sono pronto ad aiutarti a smettere con questa tua abitudine, se il mio ricordo della terminologia è esatto». Gli occhi di lei si fecero grandi e rotondi. I capillari del volto si riempirono, arrossando la pelle poco prima che urlasse. Le parole si accalcarono le une sulle altre senza senso. Dimenò le gambe mentre una schiuma bianca le spuntava tra i denti. Lui si diresse al letto e, per confortarla, mise una mano su quel corpo agitato, contorto, e l'altra sulla fronte. Un'infiammazione le tempestò lo stomaco e il petto per i dieci minuti che durò la convulsione. E, quando fu abbastanza calma da parlare, disse gridando: «Stronzo! Bugiardo, stronzo succhiacazzi! Avevi promesso!». «No, Kathleen, non ho mai promesso di darti la droga. Ho promesso che avrei posto fine alla tua miseria. Ci sono solo due modi per farlo. Posso prosciugarti del sangue e morirai, oppure posso aiutarti a liberarti da questa cosa. Ti aiuterò perché ti porterò a New York con me a trovare questo Dennis, e voglio che tu abbia la mente lucida. E anche perché sono una
persona umanitaria. Almeno così ero prima di essere costretto a diventare un predatore». Dei capelli bagnati s'incollarono alla fronte di lei. I suoi occhi vitrei sembravano impazziti. Il sudore sul suo corpo era allo stesso tempo liscio e arenoso. Era pallida, debole, vulnerabile; patetica. Sembrava quasi morta. A David vennero in mente le parole dolorose di Byron: E se rido di qualche cosa mortale, si tratta di qualcosa di cui non posso piangere. Ma, nonostante la sua fragilità, riuscì a ricomporsi a sufficienza per esclamare un robusto: «Non illuderti di essere umano, amico! Tu sei il maledetto figlio di qualche meschina divinità puttana!». CAPITOLO 3 Due notti più tardi, dopo terribili allucinazioni da incubo, tremori febbrili, crisi isteriche e sofferenze tali da farle pensare che difficilmente sarebbe sopravvissuta, quando il sole esausto fu collassato dietro l'orizzonte, David la fece infine alzare dal letto. Le lenzuola erano incrostate di tutte le sostanze che fino a poco prima si trovavano dentro di lei. «Ho messo in bagno due secchi d'acqua del pozzo», lo sentì dire Zero. «Se ti va, puoi accendere il fuoco e riscaldarla. L'impianto idrico è stato disattivato una decina d'anni fa». Le girava la testa. Barcollò in giro per la stanza, ma finì a terra prima di raggiungere la porta del bagno. Lui la prese per la vita quasi fosse leggera come zucchero filato e la fece sedere sul bordo della vasca. Il vomito rappreso, l'urina e le feci le incrostavano la pelle. La donna si chiese come facesse lui a sopportare l'odore quando lei ci riusciva a stento. Le mise un panno in una mano che lei dondolò mollemente sul fianco. Aveva le spalle incurvate e la testa le penzolava bassa. Si sentiva senza ossa, una bambola di pezza a grandezza naturale, e sapeva di averne anche l'aspetto. Dopo alcuni minuti sospirò e si protese in avanti, trovando l'energia sufficiente per affondare il panno nell'acqua gelida. Il freddo la scosse e fu costretta ad inspirare bruscamente. Si premette il panno sul viso e sul collo, ripetendo più volte la procedura, e in poco tempo fu il più pulita possi-
bile, date le circostanze. Quindi si sciacquò la bocca e spremette dell'acqua sopra la testa, e si sentì leggermente più viva anche se non necessariamente meglio. Sollevò lo sguardo. Lui era in piedi sulla soglia, immobile. Ebbe un tremito. «Per favore, vestiti». Così dicendo, le porse un asciugamano. Quando fu asciutta, indossò nuovamente i suoi vestiti e lasciò che lui in parte la conducesse, in parte la trascinasse alla macchina. Le sistemò la cintura di sicurezza come fosse stata una bambina, e lei rimase seduta, intontita, mentre lui guidava verso Manchester. A Zero la notte sembrava piatta e nera, il cielo una parete di cartone scuro chiazzato da puntini bianchi e da una sagoma circolare non colorata del tutto. Appena fuori città, lui deviò per una strada sterrata ben appartata. Dopo averla legata e imbavagliata, la chiuse nel bagagliaio della macchina. Zero non sentì nulla. Giaceva stordita nell'oscurità, in uno stato vegetativo, al di fuori del tempo. I suoi pensieri erano frammenti legati insieme, apparentemente privi di senso. Le immagini si sovrapponevano l'una all'altra: Bobby, suo padre, un John senza cognome che le era venuto in mente, David. Ogni immagine aveva la fisionomia di un sogno, e lei, la sognatrice, era all'oscuro di qualsiasi connessione tra quelle immagini. Non aveva idea di quanto tempo fosse stato assente - un minuto o un giorno - ma quando fu di ritorno, il suo volto era pieno e non sembrava più così scarno. Era una cosa rassicurante. Lo erano meno le macchie rosse sul davanti della sua camicia. Si sforzò di non pensare a quello che ovviamente era sangue, perché l'idea che lui fosse veramente un vampiro non le andava proprio. «Comportati bene. Non mi va di farti del male», le disse lui dieci minuti più tardi mentre entravano nell'ufficio del noleggio auto. Era troppo debole, depressa e sfinita per creare problemi. Sedette tranquilla mentre lui restituiva le chiavi della macchina e pagava per i giorni extra. Si domandò che cosa sarebbe successo una volta arrivati a New York, se avessero trovato Dennis. Pensò a Bobby, e provò una profonda tristezza. Poi pensò a come avrebbe potuto rimediare dell'eroina. In fretta. In un'agenzia di viaggi lungo la strada, David acquistò un biglietto di sola andata per sé e confermò il posto di lei per l'aeroporto Kennedy. «L'aereo parte tra due ore. Abbiamo tempo per fare acquisti e per farti mangiare», disse lui. «Non ho fame».
«Mangerai comunque. Hai mandato giù soltanto acqua negli ultimi quattro giorni. Forse anche per più tempo». Si fermarono in un McDonald dove le prese un Big Mac, un'insalata e due bibite. Era disidratata, e tracannò il contenuto di un bicchiere immediatamente, ma non aprì neppure l'hamburger o la confezione dell'insalata. Lui le indicò il cibo. «Non lo voglio». «Allora andiamo», disse, come se stesse ammonendo un bambino testardo. «C'è un cimitero lungo la strada che è sempre deserto, almeno per quanto riguarda i vivi. Ti nutrirò con le mie mani, anche se mangiare in mezzo ai morti forse potrebbe non sembrarti gradevole. Almeno nessuno sentirà le tue lamentele». Si alzò in piedi. «No, aspetta! Mangerò. Dammi solo tempo». Si mise di nuovo a sedere. Mentre mandava giù un boccone di hamburger e il suo stomaco prendeva una decisione cruciale nell'accettarlo, Zero lo osservò. Si guardava intorno nel ristorante come se non avesse mai visto l'interno di un McDonald prima di quel momento. Indossava la stessa camicia, un modello ampio a colletto alto, non troppo pulita, specialmente con quelle recenti macchie cremisi, dei pantaloni affusolati di lana blu, una maglia, e scarpe con lacci di foggia antiquata. La giacca a doppiopetto con il colletto di velluto a scialle sarebbe stata troppo appariscente, e lei fu contenta del fatto che non l'aveva portata. I suoi bei capelli erano lavati e pettinati con cura dietro le orecchie, ma cadevano ben oltre le sue ampie spalle. Sembrava ancora una persona uscita da una vecchia fotografia, pensò lei. Pesante. «Perché credi di essere un vampiro?». Lui tornò a guardarla, in maniera così diretta e con occhi talmente pieni di emozione che si sentì a disagio. Era lei quella che solitamente lanciava delle occhiate dirette. «La maggior parte delle persone organizza la realtà durante il primo decennio di vita. Accettare qualsiasi cosa al di fuori di una nozione preconcetta risulta difficile, se non impossibile». «Che cosa significa?» «Vuol dire che sono quello che sono, e che esisto». Fece una pausa, come stesse cercando le parole giuste affinché lei capisse.
«Ovviamente non sono morto nel senso comune del termine. Le croci e l'aglio non mi danno fastidio. Vedo il mio riflesso nello specchio. Ma la mia pelle e i miei occhi sono sensibili alla luce e ho bisogno di liquidi sangue - per sopravvivere. Le storie di Dracula e i miti riguardo gli altri vampiri sono in gran parte stupidaggini. La linea che divide la fantasia dalla realtà è spesso molto sottile. Sarebbe meglio pensare a me come all'esemplare di una specie simile all'Homo sapiens». «Sei in vita dal 1860 o giù di lì?», chiese lei, mentre sorseggiava la seconda bibita, in parte cercando di dare un senso a quelle informazioni, in parte cercando di assecondarlo per poterlo incastrare e fuggire. Ma lo osservava con attenzione. Aveva già incontrato degli svitati prima di allora. I suoi occhi nocciola dai riflessi dorati si fecero più dolci. Con una mascella meno pronunciata avrebbe potuto essere una ragazza. A dire il vero, sembrava alquanto sensibile. Ma sentiva che, qualunque cosa lui fosse o pensasse di essere, poteva diventare un duro. «Sono nato nel 1863. I primi trent'anni della mia vita hanno seguito, per uno della mia condizione sociale, un corso relativamente normale. E prevedibile. Mi laureai a Cambridge con il massimo dei voti. I miei genitori sembravano ragionevolmente soddisfatti del loro unico figlio. Aspiravo a diventare un poeta, e pubblicai uno strano sonetto, anche se ritengo che un posto sicuro, la cattedra della facoltà di una nota università, sarebbe stato il mio futuro. Ma il destino, crudele come solo lui può essere, si mise in mezzo». «Come sei diventato, voglio dire, quello che sei?». Si alterò solo leggermente, ma lei se ne accorse. «Una sera, a Londra, mentre tornavo al mio hotel dopo una bevuta con un vecchio compagno di scuola, finii nella strada sbagliata nel momento sbagliato. Venni aggredito. Quella creatura - con le zanne, spaventosa, dotata di una forza disumana - mi bloccò sull'acciottolato. Mi prese gran parte del sangue prima che riuscissi a emettere un grido d'aiuto. Il suo viso era avvolto nell'ombra, ma non potrò mai dimenticarlo. La violenza. Quei tratti segnati dalla pazzia. Avrebbe potuto uccidermi, avrebbe dovuto in realtà, ma qualcosa di perverso nella sua indole lo portò a costringermi a consumare il suo sangue. Il motivo devo ancora scoprirlo. Ovviamente, fui sopraffatto dalla paura e da una rabbia impotente. Non potevo fare altro che sottomettermi. Quando mi risvegliai la notte seguente, ero solo e agonizzante». "È proprio andato", pensò lei, ma chiese:
«Conoscevi quel tizio?» «Non l'avevo mai visto prima e non l'ho mai più visto dopo. Sono così dal 1893». «Gli abiti sono dell'epoca?». Si guardò la camicia e sorrise. Lei ebbe la sensazione che fosse sollevato di poter cambiare discorso. «Questo è il tipo di abbigliamento che avrebbe scelto Lord Byron più o meno ai primi dell'Ottocento. Ma l'ho comprato vent'anni fa a una vendita di beneficenza. Era un costume di scena, ma andava bene negli anni Sessanta, proprio come va bene a me». «E perché continui a indossarlo? Sei una specie di ex hippie?». Si sforzò di ingoiare tre bocconi di hamburger, ma non toccò l'insalata. Lasciò quello che restava del Big Mac e lo mise da una parte sul tavolo. «Mangiane almeno metà o ceneremo sulla tomba di un pittore del diciannovesimo secolo». Prese l'hamburger e lo esaminò. Il pensiero di mangiare ancora, le fece venir voglia di vomitare, ma la paura di mangiare in un cimitero eliminò quel bisogno. Sospirò prima di dare un piccolo morso, masticando poi fino a farne poltiglia. «E allora perché ti vesti così?» «Non mi sono più avventurato molto fuori», disse lui. «Non negli ultimi decenni. Mi piace dormire in una bara e recitare la parte di Nosferatu. Ho un'indole molto romantica». «Sembra perverso», disse lei, prendendo un altro piccolo boccone. Lui rise. «Forse». Lei intravide due denti aguzzi e sbatté le ciglia, incredula. "Ho ancora le allucinazioni", pensò tra sé. Quando lui giudicò sufficiente quello che aveva mangiato, uscirono e presero un taxi. «Ho bisogno del tuo aiuto», le disse. «Come ho già detto, sono stato parecchio scollegato dal mondo. Ho bisogno di apparire al passo coi tempi. Forse potresti consigliarmi quali abiti sono alla moda». Si recarono in diversi negozi e lei lo aiutò nella scelta di due paia di pantaloni di pelle neri, diverse magliette nere, scarponi neri, e una giacca di pelle nera. Lui esaminò tutto come se avesse fatto shopping molto raramente. «Hai soldi per tutta questa roba?», chiese lei. «Ho un mucchio di soldi». «Sì? Tipo?» «Cinquantamila sterline con me».
«Non in contanti?» «Sì». «Non hai mai sentito parlare di bancomat? Potrebbero aggredirti». Lui rise, sistemandosi la corta giacca. "È decisamente strano", decise Kathleen. "Davvero strano". Non aveva mai incontrato qualcuno come lui. Ma non aveva neppure mai incontrato un vampiro prima di allora. Ovviamente non credeva che fosse un vampiro: aveva conosciuto un mucchio di persone che dicevano di essere qualcosa che non erano. Cielo, aveva persino incontrato uno al Village che diceva di trasformarsi in un lupo mannaro ogni luna piena; be', era abbastanza peloso! Inoltre, David stava respirando, quindi era vivo, soltanto un poco pallido e all'antica. Ma i nuovi abiti aiutavano. Si rese conto che non aveva più paura di lui. A dire il vero, si sentiva esaltata. Tutta quella faccenda stava prendendo la piega di un'avventura. "Comincia a sembrare a posto", decise, "persino carino". «Non hai mai indossato della pelle prima d'ora?», chiese, toccando un cappello con la visiera in cuoio e una catena d'argento sul bordo. «Tieni!». Gli lanciò il cappello. Lui lo prese e se lo sistemò con cura in testa. Poi si guardò nello specchio. Kathleen non aveva problemi nel vedere il suo riflesso. «Questo è simile al mio vestito degli anni Sessanta, quando avevo una Harley Davidson ed esploravo l'America del Nord». «Tu avevi una Harley? Non ci credo». Arricciò le labbra in una smorfia tipo Elvis Presley e lei sghignazzò. «C'è qualcuno che veste di pelle nera a New York adesso?» «Tutti quelli che conosco. Dovresti raderti il cranio o farti un taglio a punte. Se vuoi trovare Dennis, deve sembrare che tu appartenga a un certo gruppo. Devi sembrare un duro. Vuoi mescolarti, no? Ma non ti preoccupare. Per quando avrò finito, sarai perfetto. Prendi anche questi». Gli porse degli occhiali a specchio e ne scelse un paio per sé. Lo convinse a tagliarsi i capelli, e fece in modo che il barbiere dell'aeroporto radesse i lati lasciando delle basette appuntite. Dietro tagliò a metà del collo, e davanti in modo che con il gel fossero leggermente a punta. "Sembra più un ragazzo adesso", pensò lei. "Più tosto". Mentre aspettavano il volo notturno nella sala d'imbarco, Kathleen domandò: «Cosa vuoi fare con Dennis?»
«Questo dipende da quanto è disposto a collaborare. E dal perché vuole distruggermi». Kathleen si guardò le mani. «E dove tiene mio fratello. Dovresti vedere Bobby. Aspetta! Ho delle foto». Tirò fuori dal portafogli due istantanee in bianco e nero che maneggiò con cura: una era l'immagine sfocata di un ragazzino, e l'altra ritraeva una Kathy più giovane mentre abbracciava un bambino. David girò la seconda. Sul retro c'era scritto: Io e Bobby, e una data di diversi anni prima. «Non si vede da qui», disse allegramente, «ma ha capelli castani e occhi come i miei. Adora l'acqua. Lo porto sempre a passeggiare vicino al fiume. Ed è anche intelligente! Ha solo otto anni, ma fa già la quinta: l'hanno fatto passare avanti». David passò il dorso dell'indice sulla calda, levigata guancia di Kathleen. Sentì il sangue caldo scorrere sotto la sua pelle, e si sforzò di ignorarlo. "Si sta comportando bene, considerando tutto quello che ha passato", pensò lui. "E ne ha passate tante". C'erano stati dei momenti, diversi momenti, in cui era stato sul punto di darle la droga, solo perché era davvero terribile vederla soffrire. Ma sapeva che alla lunga sarebbe stato meglio per lei essere pulita. E gli sarebbe servito il suo aiuto per trovare Dennis. Una volta ridotti i sintomi della crisi d'astinenza, non solo aveva un aspetto migliore, ma gli sembrava anche interessante: né irritabile né fragile, più equilibrata. Lei lo fissò, con quei grandi occhi blu spalancati, il riflesso di un'innocenza che gli toccò il cuore. «Questo tizio, Dennis. Non lo conosco, ma l'ho visto in giro», disse lei. «È un tipo tosto. Proverà a farti del male». «Non ti preoccupare. Posso proteggere sia me che te». «È robusto. Molto muscoloso». «Il mio corpo è strutturato in maniera differente da quello di un mortale. Sono molto più forte di quanto non sembri. E abbastanza intelligente». «Sembri intelligente. Avrei voluto esserlo io», disse lei, con uno sguardo triste. «Ho provato a finire la scuola, ma poi le cose sono andate male. Non potevo. Ho lavorato per un po'... parecchi lavori, sai? Cameriera, commessa da Bloomingdale, segretaria. Ma adesso mi sono abituata a sopportare. Spesso mi buco». I suoi occhi mostrarono che era abituata all'emarginazione e se la aspettava anche da lui.
«Ti eri abituata», la corresse lui. «Sì, sicuro». Si girò dall'altra parte. Si udì l'avviso e s'imbarcarono. «Non farmi sedere vicino al finestrino», lo supplicò. Lui la spinse comunque sul posto più esterno. «Ti prego! Ho paura degli aerei». Lui si sporse e abbassò la tendina in modo che non potesse vedere fuori. «Non serve. Fammi sedere sul posto nel corridoio. O almeno al centro. Non proverò a fare scherzi, lo prometto». «Girati verso di me», disse lui. «Guardami negli occhi». «Perché? Vuoi ipnotizzarmi o cosa? Non funzionerà. Ci ha provato un tale in uno show. Voleva farmi abbaiare come un cane, ma io non l'ho fatto». "Ha passato abbastanza traumi", pensò lui. "Perché farla confrontare con un'altra paura?". Usando il potere della suggestione, con le parole alimentò quei pensieri distensivi che l'avrebbero aiutata ad affrontare il decollo e l'atterraggio. Dopo trenta secondi notò che aveva le spalle rilassate e respirava lentamente. Venne servito un pasto con del vino, che David rifiutò. Anche lei cercò di rifiutare il suo, ma lui insistette affinché accettasse il vassoio. Mentre la ragazza mangiava, David pensò a tutti i cambiamenti che avevano avuto luogo dall'ultima volta che aveva volato. Gli aerei erano più grandi, più veloci e di gran lunga più confortevoli. I pasti sembravano appetitosi, benché non ne avesse mai assaggiato uno. Si chiese come sarebbe stata New York adesso. Era forse il 1963, pensò, quando se n'era andato via? David ricordava bene quegli anni insieme ad André e Karl. I suoi amici l'avevano messo in comunicazione con il mondo moderno, costringendolo a scendere a patti col ventesimo secolo. E con la sua condizione. Loro tre erano stati veramente uniti. Di ere e culture differenti, insieme al fatto che avevano subito tutti il cambiamento: tutte cose che avrebbero dovuto allontanarli. Ma ciascuno aveva una predilezione per la bellezza, per l'arte e, sorprendentemente, era stata l'estetica a tenerli uniti. Quello, oltre all'essere custodi della verità. Avevano un gusto affine per molte delle cose che reputavano importanti. E per un certo periodo avevano anche condiviso Ariel.
André era quello più fisico. Amava gli sport, era portato per il movimento. Sapeva anche come ottenere il massimo piacere dal sangue. E da una donna. Era stato David a dargli il nomignolo di La Corps. Karl invece era stato nominato Der Verstand, perché pensava in maniera lucida e aveva una vera passione per il ragionamento analitico. Parte di quella inclinazione per la logica era passata a David, per il quale il ragionamento era sempre stato dettato maggiormente dall'intuito. E loro l'avevano chiamato affettuosamente Soul, perché leggeva e scriveva poesie e perché, lui lo sapeva, trasudava emozioni forti, spesso tristi. Ma non era detestato per la sua natura sensibile. Loro lo amavano. E lui amava loro. Era una parola che non implicava sessualità, una parola che soltanto uomini di un'altra epoca sembravano in grado di comprendere. "Ma noi tutti cambiamo", pensò David, "e non necessariamente in meglio. I nostri punti di forza diventavano le nostre più grandi debolezze". André soffriva la solitudine in un modo fisico che lo torturava fino al punto di alienarlo e di renderlo brutale. L'intelletto di Karl lo costringeva a tornare a casa in Germania, alle sue radici. Quest'ultimo, come André, bramava un altro tipo di intimità, però, nel caso di Karl, gli serviva per dominare una mente estremamente rapida nel soffocare in lui ogni altra cosa. "E io?", si domandò David. Come sempre, fu Byron ad avere le parole più appropriate per descrivere i suoi sentimenti: Non vivo in me stesso, ma divento parte di ciò che mi è intorno: e per me le alte montagne sono sentimenti, ma il brusio delle città è una tortura... Non ho amato il mondo, né il mondo ha amato me; non ho lusingato il suo respiro triviale, né ho offerto un ginocchio paziente per inchinarmi alle sue idolatrie... ...sono rimasto in piedi tra loro, ma non uno di loro, in una coltre di pensieri che non erano i loro pensieri... Kathleen interruppe i suoi ricordi fumosi. Sollevò il bracciolo che li separava e si raggomitolò, con la testa sul suo grembo. Lui si spostò sul sedile più esterno in modo che avesse più spazio per distendersi. La hostess le
aveva dato una coperta che la ragazza aveva usato per coprirsi il petto e la testa. In pochi secondi sentì i suoi pantaloni che venivano sbottonati e delle dita calde che frugavano all'interno. David si guardò intorno. La vecchia coppia con l'accento di Blackpool dall'altra parte del corridoio stava dormendo, come le persone davanti e dietro di loro. Delle labbra umide scivolarono sopra di lui e ben presto tutta la sua attenzione fu catturata da quello che succedeva sotto la coperta. La donna usò la bocca in un modo che fece capire che l'aveva fatto parecchie volte prima. In un minuto l'aveva stimolato al punto da costringerlo ad agire. Mise una mano dentro i pantaloni e la spinse indietro, tirando su la lampo. Lei lo guardò con quegli occhi grandi, interrogativi. «Vieni con me», disse, mettendola in piedi, con voce decisamente più profonda. L'afferrò per una mano, conducendola lungo il corridoio, fila dopo fila di dozzine di viaggiatori. Nessuno stava aspettando fuori, e la portò nella toilette, chiudendo a chiave la porta alle loro spalle. Con un sorriso che andava da un orecchio all'altro, lei gli slacciò i pantaloni abbassandoli sulle cosce. «Togliti i vestiti», le disse. «Non c'è abbastanza spazio». Invece di continuare a parlare, le aprì e sbottonò i pantaloni per poi abbassarli. Mentre sgusciava dai vestiti e dagli anfibi, strillò: «Pensavo che i vampiri non potessero farlo! Finiremo nel Club del Sesso Ad Alta Quota». David si puntellò per contrastare il rollio dell'aereo e la sollevò, con gli avambracci sotto il suo sedere. Ma lo sguardo confuso, persino spaventato sul volto di lei, lo costrinse a metterla giù di nuovo. «Baciami», disse lui. Lei lo baciò come una bambina obbediente, con la bocca calda e umida, ma senza passione. Le succhiò i capezzoli e la toccò delicatamente con le dita, cercando di stimolarla, ma era terribilmente stretta e asciutta. Nulla di quello che fece parve eccitarla. Si domandò perché avesse iniziato. Ma si era data da fare con le mani e lui stava oltrepassando il punto in cui preoccuparsi di quei messaggi ambigui. Gli sussurrò delle cose all'orecchio, cose volgari e incoraggianti. La tenne stretta, spingendosi contro lo stomaco di lei, con l'energia concentrata nell'elettricità vigorosa che scorreva nei suoi genitali. Poi sentì di perdere il controllo.
La liberazione lo pervase e con essa il familiare svuotamento. La sensazione di vuoto. La disperazione. Il bisogno del sangue che tutto consuma. Lei cadde tra le sue braccia, aggrappandosi a lui come una bambina, piangendo silenziosamente. Spaventato, la strinse senza rendersi conto di quello che stava succedendo. Era impossibile consolarla, e lui lo trovò preoccupante. Ma l'intuito lo rassicurò del fatto che aveva appena imparato qualcosa di lei, qualcosa d'importante. "Sempre che", rifletté, "riesca a capire questa ragazza". CAPITOLO 4 «Siete in luna di miele ragazzi?», chiese il tassista. Uno sbuffo di fumo di sigaretta annebbiò per un momento il parabrezza per poi svanire, Benché uno spesso strato di plexiglas dividesse i sedili anteriori da quelli posteriori, l'odore acre del tabacco bruciato filtrò dietro. David si domandò come potesse qualcuno scambiare per sposi novelli lui e Kathleen, entrambi coperti dalla testa ai piedi di sinistra pelle nera. «Qualcosa del genere», disse Kathleen all'autista. Scivolò più vicino a David. Nella luce grigiastra sorrise, con quegli occhi così rotondi, di una sfumatura blu acqua e sinceri, che gli venne in mente una descrizione di Venezia: Sembra una Cibele sul mare, fresca dall'oceano... dominatrice delle acque e dei loro poteri. «Prima portaci a Times Square, d'accordo?», disse Kathleen. «Voglio farla vedere al mio uomo». David osservò incredulo la metropoli che tempo addietro, per poco, aveva chiamato casa. Dinamica e vibrante come una pulsazione vitale, New York era diventata sproporzionata, una città più alta, più densa e frenetica di quanto avrebbe ritenuto possibile. La serata estiva particolarmente fresca per la stagione aveva attirato in strada una quantità di individui agli estremi, cosa che lo stupì: uomini e donne facoltosi camminavano allegramente in mezzo a un numero apparentemente incalcolabile di esseri umani avvolti in stracci e coperte sporche, sparsi su quei marciapiedi da fiaba lastricati d'oro. "Dickens che torna a vivere, proprio qui", pensò lui torvo, Times Square era cambiata ed era rimasta la stessa. Negozi a profusione continuavano a vendere sesso in tutte le salse, ma ora regnavano i soldi pu-
liti. Ristoranti costosi accondiscendevano a dividere il marciapiede con vecchie rosticcerie. Alti hotel in vetro e acciaio, spalla a spalla con caseggiati cadenti e miserabili che temporaneamente ospitavano turisti spiantati e perdenti locali. David ebbe la spiacevole sensazione che Crono, il dio del tempo, avesse inghiottito questa figlia, Manhattan, e l'avesse rigurgitata. Sembrava quasi la stessa, ma chiaramente diverse cose erano state cambiate, forse irrimediabilmente, dall'esperienza. Alla fine l'autista si fermò di fronte all'Alexander, un cadente hotel del Lower East Side in Delancey Street. «È qui che vivi?», chiese David. «In questo periodo sto in diversi posti». Si era assicurata che cambiasse parecchi soldi e, con l'aiuto di lei, David pagò la corsa facendo scivolare il danaro nel tassametro. «Troppo!». Recuperò la banconota da venti dollari. Il tassista la guardò accigliato attraverso lo specchietto retrovisore. «Ti farai una brutta reputazione». Pagò la corsa con un biglietto da dieci. Il marciapiede di fronte all'ingresso dell'albergo era affollato da una mezza dozzina di ragazzi poco più che adolescenti, un miscuglio di diverse razze. Una musica intermittente accompagnata da parole fastidiose strombettava da un'enorme radio portatile coperta di pelliccia, rovinando la quiete antecedente l'alba. «Ehi, Zero, piccola! Che si dice? Eh?», gridò un ragazzo grasso dai capelli rossi. Indossava un cappello da baseball degli Yankees con la tesa girata dietro. Gli altri risero. Lei afferrò il braccio di David per condurlo in mezzo a quel gruppetto che lui immaginò essere composto dai membri della gang locale, per via dei fazzoletti rossi e blu che avevano legati intorno alla testa come segno distintivo. Era già così quando lui viveva in città: i ragazzi delle classi sociali più povere, i senza voto, senza futuro, ma con troppo tempo nel presente, devoti ai soldi, al sesso e forse anche ai tafferugli. E alle droghe. «Zero ha un nuovo pupazzo. Allora, chi è quel bel fanciullo?», domandò un ragazzo dall'aspetto robusto sui diciotto anni con capelli castani ricci e schiacciati e una pelle olivastra. Aveva sul viso un ampio sorriso di autocompiacimento. Quando si girò
un poco, David vide che dietro la testa i capelli erano rasati a formare la lettera F". Gli occhi del ragazzo erano vitrei. «Un segreto. Che ne dici?». Kathleen aveva parlato con durezza, cercando di passare oltre, ma il ragazzo le bloccò il passaggio. «Un segreto mica coi soldi contati. Un cazzone da ventiquattro carati». Smosse leggermente il colletto della giacca di David. «Bella roba. Roba nuova. Il prezzo aumenta, cocco: è tempo di un prestito bancario». «Dacci un taglio, Frankie. Lasciaci andare. Devo vivere, lo sai», disse Kathleen. «Vieni qui, piccola», disse il ragazzo grasso con i capelli rossi. «Ho un quarto di dollaro. Facciamo un giro». Gli altri ragazzi risero. «Red, il tuo sperma schifoso non lo prenderei neanche per mille dollari». Kathleen si bloccò, con i pugni sui fianchi, e David la guardò stupito. Era nuovamente dura, proprio come sotto l'effetto della droga. Letale, pensò. «Forza, Frankie, levati dal cazzo», ordinò a quello che ovviamente era il capo. «Devo occuparmi di affari». «Con un finocchio?», gridò Red. Gli altri risero di nuovo. «Non è frocio». Si mise tra Frankie e David, cercando di togliere di mezzo Frankie con una gomitata. «Potrebbe squarciarti la gola», disse lei. «È un...». David le strattonò il braccio per impedirle di tradirlo. Ma lei disse la parola «poeta», come se quella avrebbe spiegato tutto. Servì solo a farli ululare. Una delle ragazze gridò: «Ehi, stai attento Frankie. Potrebbe colpirti con un paio di parole grosse». David, tanto era affascinato da quello spaccato di vita di strada, quanto cominciava ad irritarsi. Spostò Kathleen da una parte. «Togliti di mezzo, per favore». «Uau!» Frankie dondolò i fianchi, piegò il polso e disse balbettando: «Togliti di mezzo, peeer-favooore!» «Ehi Frankie, faresti meglio ad aver paura». Il ragazzo dai capelli rossi rise. «Perché non chiami la Squadra Leccaculo», disse una ragazza di colore con delle venature fucsia tra i capelli.
David mise la mano sul petto di Frankie. «Toglimi di dosso le tue fottute dita da manager». David premette con forza sufficiente da spingere Frankie oltre il bordo del marciapiede. Un palo impedì al ragazzo di finire nella fogna. «Che diavolo significa?», gridò Kathleen. «Non posso portare qualcuno nel mio quartiere senza che voi teppisti vi comportiate da encefalitici?». Afferrò David e lo strattonò attraverso la porta d'ingresso. Mentre questa veniva richiusa, sentì Frankie minacciarlo: «Figlio di puttana, quando uscirai sarò qui ad aspettarti. Sei morto. Credici!». «Ehi, Zero, da quanto tempo!», disse il tizio alla reception. «Già. Come ti butta, Louie?». Quello rise. «Come sempre. La moglie dice che va male. La fidanzata bene». «C'è una stanza per me e il mio amico?» «Mezz'ora?». Louie prese una chiave dallo scaffale dietro di sé. «Tutta la notte». «Ti costa cinquanta», disse a David. David tirò fuori alcune banconote ma Kathleen gli impedì di dargliene altre. «Venti», disse al commesso. «Per te, Zero, facciamo quaranta». «Per te, Louie, facciamo venticinque». «Devo guadagnarci qualcosa». «Bello, oltre a nutrire le pulci, il resto è tutto guadagno». «Trentacinque. E basta». Kathleen prese a David tre banconote da dieci e le mise sul bancone. Prima che Louie potesse rifiutarle, gli strappò le chiavi di mano. La loro stanza era al secondo piano sul davanti dell'hotel: sporca, con una vecchia tappezzeria ingiallita, mobili rovinati e impiallacciati, un letto traballante e persino uno scarafaggio sul muro. «Pittoresco», disse David. Controllò l'armadio per vedere se era abbastanza grande; doveva dormire nell'oscurità più completa. Kathleen lanciò le chiavi sul cassettone. Adesso sembrava fiacca, come se quegli incontri le avessero tolto tutta la carica. E lui si rese conto di essere ancora debole.
«Hai fame?», le chiese. Lei fece una smorfia. «Basta cibo! Ho mangiato a sufficienza per un anno». «Sei ancora troppo magra». La esaminò. "Sembra una senzatetto", pensò tra sé. "Una fiammiferaia che assomiglia ai fiammiferi che vende". «Mi vuoi grassa?» «Non grassa. Un poco più piena, forse». «A casa a rammendare i calzini, giusto? Siete tutti uguali». David andò in bagno. C'era della sporcizia sul bordo della vasca che sembrava incrostata. Il rubinetto dell'acqua calda nel lavandino rifiutava di restare chiuso. Sotto il flusso costante, lo smalto si era consumato, lasciando una scia color ruggine. Si lavò la faccia e si asciugò con un canovaccio ridotto a un cencio. Era rimasto scioccato da tutto quello che aveva visto sin dal loro arrivo. Quella non era affatto la New York del dopoguerra che lui, André e Karl avevano condiviso, e neppure la New York che aveva abbandonato negli anni Sessanta per esplorare il Nord America. E Kathleen, nonostante il suo aspetto vulnerabile, era come un cucciolo di leone; sembrava carina e adorabile, ma in realtà era un animale pericoloso e imprevedibile, in gran parte perché era stata profondamente segnata da quella giungla che chiamava casa. La brutalità lo faceva innervosire, ma era sempre stato così. Una delle cose che disturbava maggiormente David da quando si era sottoposto al cambiamento era l'esser stato ancor più impressionato dalla maniera insensibile di comportarsi delle persone e dal modo in cui si torturavano. "Ma anch'io mi torturo", pensò. "Loro sanguinano e io provo dolore". «I negozi sono aperti a quest'ora?», chiese quando rientrò nella stanza. Lei stava oziando prona sul letto, con le ginocchia piegate, i piedi per aria come una teenager che si toglie lo smalto dalle unghie. «Parecchi. Che cosa vuoi comprare? Scarpe di gomma?». Rise appena e poi, notando lo smarrimento di lui, spiegò: «Sai, i gommini. Profilattici». «Voglio fare diversi acquisti. E comunque», disse, chiudendo la porta alle loro spalle, «ho molti soldi. Non c'è bisogno di contrattare per ogni cosa». «Abitudine». Lo prese per il braccio e lo tirò verso destra invece che a sinistra. «Scenderemo usando la scala antincendio. Da questa parte non saremo costretti a incontrare Frankie-e-la-melma». «Credi davvero che non sappia difendermi, non è così?»
«Be', mi sembri un poco, non saprei...». «Debole?», suggerì lui. «Nah. Solo delicato, o qualcosa del genere. Qui tutti sono dei duri. Devi sopravvivere. Sembri il tipo di persona che se gli fanno una smorfia distoglie lo sguardo». Lui scosse la testa e rise. «Sono una persona sensibile, Kathleen. Forse anche troppo. Ma non sono debole. Non ho paura di combattere, anche da solo, quelli che sono forti come me, pur pensando che, per risolvere le dispute, ci sono modi di gran lunga migliori della violenza. Avevi paura per me o per te stessa?». Lei lo guardò e i suoi occhi azzurri brillarono. «So prendermi cura di me. L'ho sempre fatto». Trovarono un drugstore economico aperto nella caotica Delancey Street, e David comprò, tra le altre cose, un rasoio, del sapone, spazzola e pettine, un asciugacapelli, due spazzolini - cosa che stupì Zero al punto di farle dire: «I vampiri si lavano i denti?» -, diversi lucchetti e un cacciavite, un filo per la biancheria, e un polveroso libro di poesie che era probabilmente rimasto per vent'anni nascosto sullo scaffale. Il conto fu di quasi ottanta dollari. «Amico, se continui a versare soldi come acqua, per la fine della settimana sarai rimasto a secco», lo rassicurò Zero. Prese una delle buste di plastica e lui afferrò le altre due. Mentre si avvicinavano all'hotel, lei vide Frankie appoggiato ad una macchina che baciava la ragazza con le venature fucsia tra i capelli. «Sbrigati», disse a David. «Devo fare pipì». Lui la guardò. «Non ho paura di lui, Kathleen». «Be', dovresti. Ha un coltello». David rise e lei scosse la testa. "Questo qui è pazzo", pensò. "Troppo scemo per capire quanto sia stupido, ma che cosa puoi aspettarti da uno che si crede Gary Oldman?". Entrarono nell'hotel senza problemi e arrivarono fino alla stanza. Mentre lui tirava fuori la roba, lei tolse le coperte dal letto. Tutte quelle prove di resistenza, la paura per Bobby, il volo, tutto quanto stava avendo la meglio. Più di ogni altra cosa aveva bisogno di bucarsi. Ma sapeva che lui non glielo avrebbe mai permesso, e che non sarebbe riuscita ad allontanarsi quella notte... magari dopo che si era addormentato.
"Il riposo è tutto quello che desidero", pensò Kathleen. Lo guardò mentre applicava due lucchetti alla porta della stanza e uno all'armadio. Quando ebbe finito, chiuse le tende sulla finestra. «Perché lo fai?», gli chiese. «Per bloccare la luce del neon?» «Per bloccare il sole, che tra un'ora spunterà all'orizzonte». Si avvicinò al letto e la guardò. Qualcosa nei suoi occhi la rese nervosa. Forse era uno psicopatico. Era stata insieme a un paio di persone che avevano oltrepassato di parecchio il limite. Ma non aveva la sensazione che lui fosse un violento: era solo troppo maledettamente diretto, penetrante. Non voleva che la guardasse così da vicino, e non voleva guardarlo lei stessa a quel modo. Quando si sedette al suo fianco, fu assalita dal panico. "Farei meglio a fare qualcosa prima che mostri un interesse sessuale", pensò lei. Lo spinse indietro e si sedette sopra di lui a cavalcioni. Lui sorrise con quel lieve sorriso triste di chi è costantemente tormentato. Gli tolse i pantaloni e usò la bocca, come aveva fatto con tanti altri uomini. Il suo corpo era quasi del tutto privo di peluria, la sua pelle levigata e fresca. Tempo addietro aveva imparato a pensare ad altre cose mentre si dava da fare. Anche lui cercò di svestirla, però lei oppose resistenza. Ma era talmente determinato che alla fine lei sbottò. «Ehi, lascia fare a me. Non sono dell'umore giusto, d'accordo? Ho le mie cose e ho i crampi». Sperò che il riferimento al sangue non lo riportasse di nuovo a quella storia del vampiro. «Non siamo costretti a fare l'amore», disse lui. Non sapeva il perché, ma qualcosa nella sua gentilezza la faceva irritare. Era uno di quei frangenti. Lui si distese e la lasciò fare. Ma, appena prima di venire, la scansò, con una forza tale da farla finire sul pavimento. «Perché l'hai fatto?», disse, e tornò nuovamente a letto. Del liquido di un colore rossastro gli macchiava lo stomaco. Non riusciva a credere ai propri occhi. «Mi dispiace. Non avevo intenzione di spingerti così forte». «Lascia perdere». Si buttò di fianco a lui, snervata. Qualsiasi cosa fosse uscita dal suo corpo, non era normale. Forse era malato, o qualcos'altro. «Ehi, non sarai mica un malato terminale, vero? Voglio dire, posso prendermi la tua malattia?», gli chiese.
«Se ingerisci uno dei miei liquidi, diventerai come me. Stavo cercando di proteggerti». Troppe cose non avevano senso. Il sangue sulla sua camicia. I suoi denti. La sua forza innaturale. E adesso quello. Forse era veramente Dracula. Ma prima che quel pensiero potesse germogliare trasformandosi in paura e avvinghiarsi saldamente a lei, la attirò a sé. Adesso che osservava con attenzione il suo volto, sembrava simile a qualsiasi altro ragazzo, anche se la pelle era fredda. Era sensuale, e a lei piaceva baciarlo, benché rifiutasse di lasciarsi eccitare. Non era abituata a prendere in considerazione degli amanti, e trovava David troppo gentile, anche se l'aveva appena scaraventata attraverso la stanza. Non sapeva come comportarsi con lui. Mentre David era in bagno, lei si svestì. Infilando i gioielli dentro la borsetta, notò le foto di Bobby e le tirò fuori. Le mise sotto la lampada del letto vicino al volto, come se lo studiare quelle istantanee sbiadite avesse potuto rivelare qualche segreto su dove si trovava. Era divertente il fatto che, ogniqualvolta pensava a Bobby, era quella l'immagine che le veniva in mente. E una sensazione di calore. Ma appena dietro quella, dolore. Per distrarsi, si diresse all'armadio e cercò tra le cose che David aveva comprato, tirando fuori infine il libro intitolato: Grandi della Poesia, Volume II: da Byron a Eliot. Sbadigliò. Quando lui fu di nuovo nella stanza, Kathleen disse: «Ehi, se ne hai voglia, puoi leggermi questo». Si stava strofinando l'occhio con il pugno chiuso, come avrebbe fatto una bambina. David lo trovò un gesto tenero. «Tutto il libro?» «Una parte». «Allora vieni qui». Sedette sul letto contro la testiera e lei strisciò tra le sue gambe. La sistemò in modo tale da tenerla come una neonata. "È morbida e adorabile, una gattina", pensò lui, mentre la abbracciava. «Quale poesia ti andrebbe di ascoltare?», le chiese. Lei guardò l'indice e puntò il dito. «Questa. Non so nemmeno pronunciare il titolo, quindi si tratta di qualcosa di profondo, vero?» Lui rise e la baciò sulla fronte. «Mia Eliza Doolittle». «Non è questa! Parla d'amore. Sono capace di leggere, sai?» «Eliza Doolittle è un'allusione. Al personaggio di una rappresentazione».
«L'avevo capito». Mentre lei si rannicchiava tra le sue braccia, con la testa appoggiata al suo petto, David sfogliò le pagine fino alla Canzone d'amore di J. Alfred Prufrock di Eliot. L'ultima volta che aveva letto quella poesia, era stato proprio a New York, nel 1957. Lo ricordava bene. Era inverno; c'era una tempesta di neve. Ariel se n'era andata l'autunno precedente. La primavera successiva se ne sarebbe andato Karl. Il respiro di Kathleen divenne lento e stabile. Si stava addormentando. Ma lui lesse comunque per lei. E, mentre leggeva, ricordò: E allora andiamo, tu ed io. Quando la sera s'allarga nel cielo come un malato anestetizzato disteso su un tavolo... CAPITOLO 5 ...Ho sentito le sirene cantare, l'una all'una. Non credo che canteranno per me. Le ho viste in mare aperto cavalcare le onde mentre pettinavano i bianchi capelli della risacca quando il vento soffia sull'acqua bianca e nera. Abbiamo indugiato nelle cavità del mare con le sue figlie inghirlandate di alghe rosse e brune finché delle voci umane ci destano, e anneghiamo. David richiuse il libro. Il silenzio nella stanza riusciva ad essere denso e vuoto allo stesso tempo. André giaceva disteso davanti al caminetto, con le mani dietro la testa, le lunghe gambe piegate all'altezza delle ginocchia e gli occhi grigi chiusi. Il suo corpo, quello di un uomo di trentasette anni, in perfette condizioni, mascherava poco più di cento anni di vita. Karl, nato nel 1820, il più vecchio dei tre, sembrava il più giovane, dimostrando al massimo venticinque anni. Sedeva immobile, proprio di fronte a David, su una sedia con poggiatesta, i taglienti tratti teutonici devastati. C'era un accenno di lacrime al
bordo dei suoi occhi castani. "È qualcosa che ci è connaturato", pensò David. "Dolore che non porta ad altro se non al dolore". Improvvisamente André cambiò umore. Guardò prima Karl e poi David. «Perde con la traduzione», affermò. «Traduzione?», domandò David. «Da mortale ad immortale». «Non per me». Karl tirò fuori un fazzoletto bianco. «Sto annegando». «Si tratta di Ariel, non è vero?», chiese David, forse un poco bruscamente, pentendosi immediatamente del proprio tono. «Non essere ridicolo!», gli disse André. «No, ha ragione. In un certo senso». Karl rimise il fazzoletto in tasca e accavallò le gambe. «Non tanto Ariel quanto ciò che rappresenta». «Cosa? Una fica che ti controlla?». André si mise a sedere bruscamente. «Siete entrambi fortunati ad essere sopravvissuti, tutti interi». David sentì la propria schiena irrigidirsi. Lo sguardo di André era di sfida. "Sa come mi sento", pensò David, "ma non può far cenno alla morte di lei senza sarcasmo". «Non era soltanto quello», disse Karl delicatamente. «Non per me. Ma ho bisogno di una donna». «Merde!». André rise con amarezza. «Be', allora prenditela. E anche tu!». Il suo cinismo irradiava lampi di nera energia per tutta la stanza in penombra. «Siete entrambi dei sognatori, persi nelle vostre idee, e soggiogati dalla fantasia». Si alzò in piedi. «Accettatelo. Siamo soli, e questo è il nostro destino. Mot je le sais!». Aprì il parafuoco e lanciò un altro ciocco tra le fiamme. Fuori, il vento ululava lamentoso. Lo scoppio fu smorzato e le fiamme lo fecero sibilare. C'era troppo fumo. David si mise sulla difensiva. «Forse siamo dei sognatori, ma per Karl e me è diverso. Non desideravamo questa vita come te. La nostra sorte non ci ha resi più forti». «Allora incatenati là fuori alla luce del sole, se vivere ti è così maledettamente doloroso. O forse la tua forza è soltanto nell'autocommiserazione?». Mentre parlava, la voce di André ebbe un sussulto e David lo notò. Sapeva dei fallimenti che aveva sopportato André, le sue paure per la debolezza che credeva di aver ereditato. L'essere a conoscenza di tutto ciò, evo-
cò la simpatia di David, di cui André aveva bisogno, pur tollerandola a malapena. "Però ha ragione", pensò David. «Sono debole», disse gentilmente. «È la mia natura. È stato così che Ariel mi ha preso». Ma persino mentre pronunciava quelle parole, non provava amarezza, solo un desiderio intenso che lo terrorizzava. «Il tempo mi deprime». André passò le mani tra i capelli all'altezza delle tempie, dove il nero era striato d'argento, e tornò a sedere sul pavimento. La stanza si riempì di un suono, simile al sospiro del vento. «È solo che desiderare l'impossibile significa farsi del male. Che senso ha, a meno che non ti piaccia il dolore?» «Non mi piace il dolore», disse David. «Semplicemente non riesco a cancellarla dalla mia memoria». André lo fissò con occhi dello stesso colore del fumo nel camino. Si addolcirono condividendo quella pena. «Ho pensato di andarmene», annunciò Karl all'improvviso. «Presto. Non c'è nulla qui per me. Torno in Germania. Non mi aspetto di trovare nulla, nessuno, in quel posto, ma non posso rimanere. Ho bisogno di stare da solo». André non replicò. Per David, non c'era nulla da dire. Sapeva come si sentiva Karl e non era sorpreso. E sapeva che anche André comprendeva, pur essendo incapace di ammetterlo. Erano stati fortunati a trovarsi, ma nulla rimane immutato per sempre. Adesso nel loro rapporto c'erano segni di animosità. "Sono cambiato", pensò David. "Dentro mi sento a pezzi. Riusciranno mai a ricomporsi i pezzi? E, se succederà, io chi diventerò? Adesso, sono un guscio vuoto. Tutti noi siamo soltanto dei gusci vuoti". Karl, che sentiva un'affinità con Eliot, disse: «Leggine un'altra». Si girò verso la finestra a guardare la bianca alba gelata farsi strada a forza. La sua postura eretta, il modo in cui teneva dritte le spalle, la testa sollevata a quel modo, tutto in lui mostrava il ritratto di una quieta solitudine che sembrava impenetrabile. Mentre David studiava Karl, e poi André, distaccato, lontano, ipnotizzato dalle fiamme del caminetto, citò Eliot a memoria. Siamo gli uomini vuoti, siamo gli uomini impagliati,
che appoggiano l'uno all'altro la testa piena di paglia. Ahimè! Le nostre voci secche quando sussurriamo insieme, sono quiete e vuote come vento nell'erba rinsecchita, o zampe di topo sopra vetri rotti, nella nostra arida cella. CAPITOLO 6 Zero era talmente esausta per gli eventi della settimana precedente, che dormì tutto il giorno, fino al tardo pomeriggio. Quando si svegliò, si ritrovò nel letto da sola, imbavagliata e legata a dovere alla testiera. Qualunque cosa tentasse, non riusciva a liberarsi. Con un mucchio di tempo davanti a sé e la mente lucida, fu costretta a riflettere su diverse cose. Su Bobby, per esempio: se l'avrebbe mai ritrovato. E se stava bene. Una sensazione di tristezza la pervase: non riusciva a liberarsi da un crescente senso di presagio. E poi c'era David. Non sapeva cosa pensare. Si sforzò di non arrivare alla conclusione verso la quale si stava precipitando: forse era quello che diceva di essere. Tutte quelle sensazioni le misero paura. Cercava disperatamente qualcosa che avrebbe smorzato quel terrore crescente. Dopo che il sole fu tramontato, David venne fuori dall'armadio: non era certo troppo presto, dal punto di vista di Kathleen. Era magro, pallido e affamato. Le sue ossa parevano premere sulla pelle. Le liberò soltanto la bocca e lei domandò: «Ehi! Che idea è stata questa di legarmi?» «Semplicemente per essere sicuro che non te ne andassi». Lo sentì fare una doccia. Quando tornò, la slegò. Anche lei fece una doccia, si asciugò i capelli, si lavò i denti, poi si rifece il trucco e si vestì. Fu sorpresa da come si sentiva bene. "Specialmente rispetto all'inferno che ho passato ultimamente", pensò. Quando fu pronta per andare, lui le disse: «Prima mangi qualcosa, poi andremo a cercare Dennis». «Non ho fame». A dire il vero, il cibo era l'ultima cosa che aveva in mente. Prima c'era l'aspetto cadaverico di David. Bobby veniva ancora prima. L'eroina era in cima a tutto.
La portò fuori, dall'ingresso principale. Né Frankie né gli altri stavano aspettando, e lei si sentì sollevata. «C'è un ristorante che ti piace nelle vicinanze?», chiese lui. «Le Bontà di Mae. È Mae a dirigerlo. È una mia amica». Quando entrarono nella piccola tavola calda, una donna anziana dai capelli bianco sale con macchie nero pepe si precipitò da loro. «Kathy! Dove sei stata? Avevo paura ti avessero arrestata di nuovo». Zero abbracciò la donna le cui braccia grassottelle intorno a lei erano sempre così confortanti. Quel giorno lo erano ancora di più: la riportarono nel regno degli esseri umani. «Sono stata fuori città, ma adesso sono tornata. Mae, questo è David». Mae lo guardò. «Felice di conoscerti», disse, ma Zero sapeva che stava evitando di fare commenti. «Viene dall'Inghilterra». «Dove vi siete conosciuti?», chiese Mae, con voce venata di sospetto. David rispose: «Kathleen ed io ci siamo conosciuti da poco, mentre era a Manchester». «Sei stata in Inghilterra?». Il volto di Mae manifestò il suo stupore. «Avevo alcuni affari là», disse Zero con naturalezza. Si diresse verso uno dei separé sul retro solo per evitare le domande di Mae. Le voleva davvero molto bene, e sapeva che anche Mae le era affezionata, come a una figlia. Ma Mae poteva essere una maledetta impicciona. Quando lei e David si furono seduti, con Mae che si sporgeva al bordo del tavolo, Zero prese il menù dal contenitore. Immediatamente Mae glielo tolse di mano risistemandolo nelle fredde dita di metallo. «Viene qui da quando aveva cinque anni», disse Mae a David, scuotendo la testa. Poi aggiunse, rivolta verso Zero: «Se non sai ancora che cosa servo qui, non lo saprai mai». «Ehi, Mae! Me lo riempi? Andiamo!», gridò un cliente. «Datti una calmata, Al». Mae si girò verso Zero e David. «Allora come sei finita in Inghilterra?». Zero abbassò lo sguardo sul copritavolo plastificato. Prese il contenitore dello zucchero davanti a sé e lo fece scivolare rapidamente tra le dita, avanti e indietro. «Uno che conosco aveva un biglietto che non poteva più usare e così l'ha dato a me. Sono rimasta soltanto un paio di giorni. È stato molto bello». «Davvero? E chi ti ha dato il biglietto?». Zero sollevò lo sguardo.
«Mae, sto morendo di fame! Posso avere un po' di chili? E un toast? Senza la crosta». Mae le lanciò un'occhiata. «Tu che muori di fame? Sarà un gran giorno quello!». Ma poi aggiunse: «Arrivo subito». Quindi si girò verso David. «Prendi qualcosa?». Lui scosse la testa. «Sembra che tu non abbia messo nulla nello stomaco da un mese a questa parte. Un hamburger?» «No. Grazie». «Caffè?» «D'accordo», disse lui. «Voi due sembrate degli attaccapanni. Siete scheletrici!», mugugnò Mae mentre si dirigeva in cucina. Quando se ne fu andata, Zero notò che David la stava fissando. «Ti viene naturale mentire», osservò. All'improvviso, se la prese con lui. Aveva passato tutti i limiti, di sicuro, pensò lei. «Pensi di essere questo grand'uomo, vero? Hai i soldi, l'educazione, nessun vero problema. Sembra che tu non abbia lavorato un solo giorno in tutta la tua vita, per tutti e cento gli anni». «Centotrentadue. E non ti sto insultando, Kathleen. Era soltanto un'osservazione». «Giusto! Sei una bugiarda, ma non prenderla come un fatto personale». Guardò fuori dalla finestra. Stava piovigginando, e la gente che usciva dal mercato si affrettava, alcuni con il giornale o delle buste di plastica sopra la testa. Un tizio anziano si era appisolato sopra una cassa in un ingresso dall'altra parte della strada, dimentico dei fitti edifici e dell'immondizia che lo circondavano, con in grembo un ukulele rovinato. "È sempre lo stesso qui", pensò lei. "Tutta la mia vita. Quel tipo morirà su quell'uscio e a nessuno importerà un accidente". David fece scivolare le sue mani sopra quelle di lei. Kathleen aveva dimenticato per un momento che era là. I suoi occhi erano lucenti. Troppo lucenti. Sembrava ancora spaventoso, così esangue e affamato. Tremò, e fu un sollievo quando Mae depose il cibo davanti a lei, anche se Zero non lo voleva. Ma ne mangiò un poco, tanto per far felici entrambi. Non appena ebbero lasciato Mae, portò David da Crack, il bar dove Dennis l'aveva trovata e messa in quel casino. Da Delancey camminarono in direzione nord, attraverso East Houston. La pioggia per il momento era cessata, ma le strade erano bagnate.
«È qui?», volle sapere David non appena varcarono la soglia. C'erano soltanto una dozzina di clienti, in gran parte portoricani. Zero riconobbe alcuni volti, fece cenno a uno, ma non vide Dennis. «Niente da fare. È presto. Potrebbe passare più tardi». Rimasero seduti al bar per un'ora. Zero bevve una Coca e David lasciò una Budweiser davanti a sé senza toccarla, come aveva già fatto prima con il caffè. Lei chiacchierò con il barista, un tizio magro con dei baffi neri e l'accento spagnolo. David non disse nulla, ma lei notò che si guardava intorno, proprio come un gatto attento a tutto quello che succede. Intorno alla mezzanotte, una bionda platino con dei lustrini rossi tra i capelli e un vestitino rosso leopardato con una sola spallina, si avvicinò a loro. «Ehi, fidanzatina! Come stai? Chi è il tuo amico?» «Ciao, Laser. Questo è David». «Felice di conoscerti». Laser sorrise in maniera seducente a David. Poi si girò verso Zero e ammiccò. «Molto carino». «Ascolta, sto cercando un tizio», disse Zero. «Che c'è che non va?» «Nulla. Ma ho bisogno di trovarlo. Si chiama Dennis. È un elegantone di colore, ha le treccine rasta, un mucchio di orecchini, indossa una giacca con le frange e ha gli anelli ai capezzoli. Lo conosci?» «Sì. Fa l'intermediario, principalmente di crack. Anche eroina. Gestisce il giro delle bambine». «Non vorrai mica dire minorenni?» chiese David, con lo stupore stampato sul viso. «Proprio così. Ha una scuola. Dice che gli piace prenderle quando sono giovani, così resteranno clienti a vita. Malato, eh? Allora, perché lo state cercando? Volete regolare una faccenda?» «L'hai visto stasera?», chiese David. Laser fece schioccare la gomma e gli indirizzò un sorriso a trentadue denti. Zero notò che con un ginocchio sfiorava la coscia di lui. «Forse? Quanto ci guadagno?» «Chi è in debito con chi?», le ricordò Zero. «Ricordi quella retata? Lo scorso Natale? Chi ti ha avvertita?». Laser sospirò. «Sì. Credo di dovertene una. Dennis era qui. L'ho sentito dire che doveva andare da Jersey: ci sono ragazze importanti che arrivavano in volo, e lui doveva portarle all'ospedale. Tornerà domani perché è sempre qui prima delle dodici. Quando gli si scioglie il ghiaccio nel cervello».
David parve confuso e Zero tradusse: «Le ragazze sono la cocaina, i ragazzi l'eroina. La sta portando in un posto sicuro». Afferrò il suo braccio e si alzarono. «Grazie Laser. E non parlare in giro di quello che ti ho chiesto, d'accordo?» «Nessun problema. Ehi! È una festa privata o ti va un triangolo?» «A due», disse Zero, guidando David fuori dalla porta. Mentre tornavano a piedi all'hotel, si chiese se lui fosse attratto da Laser. «È carina, no?» «La ragazza che hai chiamato Laser?» «Sì». «Sì. Molto carina». Zero si morse il labbro inferiore. Benché sapesse che non era importante, si sentì ferita. «È anche simpatica». «Sembra di sì». «Vuoi che venga? Possiamo tornare indietro a prenderla». David la guardò e sorrise. Lasciò la sua mano per metterle un braccio intorno alle spalle. Il freddo di quel braccio penetrò attraverso la pelle del giacchetto. «Credo di no». Per qualche motivo inspiegabile, si sentì sollevata. Gli fece scivolare la mano intorno alla vita, camminando al suo passo verso l'Alexander. Quando arrivarono, alcuni dei ragazzi erano là davanti, ma non Frankie. «Stenditi», le disse non appena furono nella stanza. Zero cominciò a sentirsi nuovamente nervosa, ma non riusciva a capire il perché. Il sesso l'annoiava parecchio, anche se l'aveva fatto spesso, principalmente per denaro. Alcuni dei clienti erano stati in mezzo al lavoro sporco, e allora perché la spaventasse David, uno zuccherino, non lo sapeva. Forse perché l'eroina era venuta fuori quasi tutta dal suo corpo, e la realtà aveva cominciato ad affacciarsi. Si stava rendendo conto che c'era qualcosa in lui impossibile da ignorare. Non sembrava normale, e non sembrava come i vampiri dei film. Non sapeva cosa credere. E non voleva neppure pensarci troppo perché la spaventava proprio, e lei aveva troppe cose da fare. Doveva pensare a Bobby. Si distese sul letto ma, prima che potesse dire o fare qualcosa, lui le legò insieme i polsi e li fissò alla spalliera del letto. «Perché mi leghi adesso? Ti piace il bondage?» «Devo uscire un attimo», disse lui, intrecciando il filo per la biancheria in modo tale che lei non potesse scioglierlo. «Tornerò più o meno tra un'o-
ra». «Divertiti da morire!», disse amaramente lei, appena prima che la imbavagliasse. "Trova un poco di eroina e portamela", pensò tra sé. David si diresse rapidamente verso ovest lungo Delancey Street che diventava Kenmare, poi a sud, attraverso Chinatown, Chatman Square, oltre la Bowery Savings Bank, fino ad arrivare alla City Hall. Poi andò verso Broadway, oltre il cimitero della Trinity Church, dove le strade deserte si restringevano fino a diventare vicoli, e gli edifici rasentavano il cielo, impedendo al vento di creare dei vortici. Lungo la strada incontrò poche persone: tipi strani, tre tossicomani in varie fasi d'intossicazione, depressione e sonnambulismo. Evitò di guardarli troppo da vicino, perché gli risultava doloroso fissare in viso quell'umanità ferita. Alla fine arrivò a Battery Park. Il parco era come un cimitero, ma lui era ben sintonizzato su ogni suono e ogni odore. L'aria putrida fu come una pugnalata. Una mescolanza di profumi diversi, ma un odore carico di ferro emerse dalla notte fino a soffocargli i sensi. Col cuore palpitante, concentrò la sua attenzione. Il donatore era disteso su una panchina sotto alcune buste per l'immondizia verdi. Lercio, sfinito, sotto certi punti di vista era già morto per il mondo. David s'inginocchiò. Aveva la gola secca, le membra gelide. Sotto la carne sozza del collo di quell'uomo pulsava debolmente una vena. Pulsava. Pulsava. Quel suono martellava nel cervello di David. Una calamita lo risucchiò verso il basso finché i suoi denti si fissarono su quella carne. Lacerò la pelle sporca, puzzolente. Ribollì un fuoco caldo. La sua lingua leccò il liquido cremisi. Salato. Un ricordo. Della carne rossa. Inghiottì avidamente. Gemette tutta la sua estasi e l'uomo gemette insieme a lui mentre tremavano insieme. David era lontano da questo mondo. Quando ebbe finito con quella sorgente, osservò quel patetico rifiuto dinanzi a sé. L'uomo non era morto, ma non era del tutto vivo. La vena, come altre del suo corpo, era collassata. David non aveva preso più di quanto avesse bisogno, ma si rese conto che quell'essere decrepito non poteva sopportare l'attacco. Giurò che la volta successiva avrebbe cercato un corpo in salute capace di sostenere quella perdita. Ma il sangue faceva miracoli, come sempre, e non poteva non sentirsi energico. La notte era scoppiettante. La brezza dell'Atlantico faceva frusciare le foglie, generando una nota naturale prodotta dal vento. Un gatto sbadigliò, un cucciolo guaì in modo stridulo. Pezzi di metallo di una scul-
tura battevano una melodia sincopata. Il ronzio del traffico onnipresente vibrava nell'erba fresca sotto i suoi piedi, unendosi al mormorio del suo corpo. Un vago odore di pesce, allettante per la sua intensità, giunse turbinando dal fiume per unirsi al potente, dolce e pastoso profumo del pane appena cotto. "Mi trovo sul crocevia della vita", pensò, "dove tutto si collega: il paradiso, l'inferno, tutto quello che riesco a immaginare. Dove tutto è possibile". Mentre tornava indietro, notò un uomo e una donna dentro una macchina che si stavano baciando, e pensò a Kathleen. Gli occhi come lampi di fuoco. Le labbra piene di vita, una condizione in cui ogni emozione deve venire allo scoperto. Era catturato dal modo femminile in cui lei piegava la testa, con i capelli simili a raggi di sole che accarezzavano una spalla, un invito. Ma qualcosa di più della sua bellezza fisica lo attraeva. I suoi commenti diretti e le domande ingenue, più di una volta l'avevano colto di sorpresa. "Siamo differenti in tutto e per tutto", pensò: "cultura, classe, persino la razza". Tuttavia quelle differenze sembravano insignificanti. E, cosa ancor più sorprendente data la natura di lui, Kathleen non sembrava trovarlo repellente. Irradiava vitalità con tutta la determinazione che ne derivava, e David sentì riaccendersi il proprio desiderio di sopravvivere. Era affascinato; non aveva mai incontrato nessuna persona neanche lontanamente come lei, almeno nessun mortale. Quando arrivò all'Alexander, Frankie, la ragazza di colore e un altro giovane facevano gruppetto. Lo fissarono senza dire nulla, cosa che trovò strana. Si limitarono a ridere e bisbigliare tra loro in un linguaggio codificato che sembrava uno stufato di parole gergali spagnole e inglesi e che David non aveva alcun interesse a decifrare. Appena ebbe raggiunto il secondo piano si fermò, in ascolto. Kathleen stava parlando con qualcuno. «Forza, Red. Tornerà da un momento all'altro». «Ci siamo. Manca poco». «Prima dammi la roba. Sto morendo». «Prima ti fotto e poi te la sparo». «Be', sbrigati. Facciamola finita». La porta era stata scassinata, e David la spinse con facilità verso l'interno, scardinando il telaio. Red, il ragazzo grasso, si stava posizionando tra le gambe di Kathleen. La sua testa scattò verso l'alto. L'erezione che spuntava dai pantaloni si sgonfiò come un pallone bucato. Il suo volto si riempì di uno sguardo sor-
preso e imbarazzato. Sul tavolo di fianco al letto c'erano un cucchiaio, un bicchiere d'acqua, dei fiammiferi e una siringa con l'ago già conficcato. David afferrò il ragazzo e lo scaraventò nell'armadio. Red urlò, dicendo poi: «Ehi, amico: cazzo, mi hai rotto il polso!». Teneva davanti a sé l'articolazione dolente come un bimbo che chiede alla mamma un cerotto. L'unica differenza era il terrore profondo stampato sul suo volto. «Manda quassù Frankie all'istante o ti rompo altro che il polso», lo minacciò David. Red tirò su goffamente la zip con la mano buona mentre si precipitava fuori dalla porta, fissando David come se si aspettasse di essere colpito. «Non è come pensi», disse Kathleen in tutta fretta. Era ancora legata al letto, ma adesso quasi nuda, senza pantaloni, con la maglietta alzata sopra la testa e piegata intorno ai gomiti. Sembrava spaventata. Frankie doveva essere già per strada perché fu nella stanza in pochi secondi. Guardò prima l'intelaiatura della porta frantumata, quindi il letto e rise. «Bizzarro!». Il ragazzo si girò verso David con un'espressione di disprezzo. «Ho sentito che vuoi vedermi». «No, non voglio vederti. E neppure i tuoi amici. Se pesco qualcuno di voi dentro questa stanza di nuovo o mentre cerca di dare la droga a Kathleen, tu personalmente ti pentirai di queste azioni. Sono stato chiaro?» «Uh-huh, pollo. Vuoi rompermi il collo?». Frankie rise. Tirò qualcosa fuori dalla tasca. Si senti un breve scatto e una lama d'argento schioccò nell'aria. David afferrò l'avambraccio di Frankie e strappò via la lama prima che il ragazzo potesse reagire. Frankie alzò le mani e si fece indietro. «Ehi amico, calmati!». David lo spintonò ancora più indietro. Piegò l'astuccio del coltello finché le due estremità si toccarono, facendo saltare il meccanismo a molla. Frankie fissò la sua arma. «Come hai fatto?» «Lascia perdere la tecnica. Sappi solo che non sei alla mia portata, né tu, né tutta la tua combriccola. In quanto capo, gli altri faranno come dici. Se vuoi continuare a mantenere il tuo predominio intatto, tienili tutti in riga. Adesso, fuori di qui!».
Frankie abbandonò la stanza scioccato. David era proprio dietro di lui, e con calma, metodicamente, raddrizzava il coltello a scatto. Assicurò la porta al telaio rotto, sentendo il proprio cuore martellare all'impazzata, finché non sentì aumentare il battito nel petto, come un motore che passa da una marcia bassa a una più alta. E, durante quel cambio, qualcosa di brutto e pericoloso si sgrovigliò e venne allo scoperto. Sapeva che era inutile fermare quello che stava per succedere. Era sopra di lei, con il coltello sospeso sopra il suo petto. «Cosa sarà, Kathleen? Che cosa riempirà questo enorme vuoto esistenziale che ti tormenta? Tu vuoi l'ago, ma io mi rifiuto di dartelo. E non vuoi mangiare. Che cos'altro farai? Il coltello? Posso penetrarti con questo, dritto al cuore, proprio quello che tu avevi in mente per me. Oppure vuoi i miei denti sulla tua gola? Potrebbe essere un poco come un ago, non sei d'accordo? Un prelievo invece che un deposito. Oppure è il mio pene che desideri pazzamente? Dai un nome al tuo veleno! Come possiamo riempire questo enorme vuoto dentro di te?» «Ti prego! Non è come pensi». «Vuoi il coltello? Dillo semplicemente». «No. Ti prego». Incastrò la lama sul fianco del comodino. «Allora i denti. Devo squarciarti la pelle? A molti mortali piace. Sei una di quelli?» «David, mi dispiace». «Allora è il mio cazzo. Mi hai desiderato così pazzamente da riempirti in quel modo». «No. Sì. Se è quello che vuoi». «No, si tratta di quello che vuoi tu, Kathleen. Sei tu quella con il senso di vuoto». «Sì. Sì. Ficcamelo dentro». «Ma in quale orifizio? La bocca?» «No. Non lì. Voglio dire, va bene». «L'ano?» «Sì, lì». «E la tua fica?». Rimase in silenzio. «Quale sarà, Kathleen? Sbrigati. Non ho tutta la notte. Presto sorgerà il sole e tu ti sentirai vuota un altro giorno». «Ogni cosa. Tutto quello che vuoi».
«No! Che cosa vuoi tu?». Era spaventata ma disse: «Sesso ordinario. Ma da dietro». La girò rozzamente di schiena. Si eccitò a sufficienza e poi, senza fare alcuno sforzo per stimolarla, si spinse dentro a forza. «Oh, Dio!», si lamentò lei. Lui vide se stesso da lontano, incapace di intervenire. Come scollegato, si sentiva svuotato di qualsiasi emozione avrebbe potuto porre fine a quella pazzia. "Sono impazzito del tutto", pensò. Voleva farle del male, farla a pezzi, sentire le sue grida. I pugni di lei afferrarono la corda. Le comparve del sudore sui pori della schiena. Le afferrò i capelli, strattonandole la testa all'indietro quasi fosse un cavallo e non un essere umano. «Dopotutto è questo che volevi, no?», sussurrò lui amaramente. «Più forte!», grugnì lei. La violenza ebbe il sopravvento su David. Fu solo quando sentì il suo sangue che si rese conto di ciò che stava facendo. In seguito sedette di fianco a lei sul letto, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, tenendosi la testa con le mani. Lei piangeva senza fare alcun rumore. Odiava se stesso. Riusciva a malapena a guardarla. Ci volle molto tempo prima che si spingesse fino a toccarla, passandole una mano tremante sulla testa e dietro, facendole delle carezze, cercando di alleviare la ferita che le aveva inflitto. «Mi dispiace», disse Kathleen, facendolo sentire ancor più miserabile. "È talmente abituata alla brutalità da non riuscire neppure più a distinguerla", pensò lui, e quel pensiero gli causò una disperazione così profonda da rendergli difficile respirare. «Piango sempre dopo aver fatto sesso. Mi sento sporca e colpevole. So che è una cosa stupida, ma è così». Lo guardò, e lui non riuscì a sostenere il suo sguardo. "Sono io il colpevole", pensò, "e non so neppure come spiegarglielo". Così le accarezzò i capelli, con la mano che tremava, fuori controllo. «Il mio vecchio cominciò a scoparmi quando avevo undici anni», disse dal nulla, girando la testa dall'altra parte, con voce quasi piatta. «Penso che non glielo avrei dovuto permettere, ma ero così giovane. E non ero ben consapevole di quello che succedeva: capisci cosa voglio dire?
Mia madre era morta l'anno prima. Lui beveva continuamente. E mi picchiava sempre. Anche lei. Ma le cose peggiorarono. Rientrava nel cuore della notte e mi svegliava, sbraitando e farneticando su quanto ero cattiva e di come lui doveva punirmi per il mio stesso bene o mi sarei davvero corrotta, come lei. Poteva trattarsi di qualcosa che avevo fatto, come rompere un bicchiere, o qualcosa che non avevo fatto. Ad ogni modo, si toglieva quella grossa cinta in pelle che indossava sempre e mi faceva distendere a pancia giù in modo da potermi frustare il culo e la parte posteriore delle cosce, a volte fino a che non uscivano dei bozzi. Se piangevo, era peggio, così imparai a prenderle senza fare rumore. E cielo se me ne dava. Spesso rimanevo contusa per giorni e non potevo neppure sedermi a scuola. Dopo avermi picchiata si metteva a letto con me e cercava di essere carino, e... e... hai capito». David si sentì nauseato. L'idea di aver fatto quello che aveva fatto suo padre, prima punirla e poi calmarla, lo disgustò. Non aveva mai superato il limite prima di quel momento. Si era sempre sentito una vittima, qualche volta un salvatore. "Adesso sono diventato un tiranno", pensò amaramente. «Mi ha scopata fino a quattordici anni, poi l'ho fatto smettere. Un assistente sociale mi ha detto che dovevo finirla. Diceva che quello che facevo si chiama "rimuovere", ecco perché non sento nulla dentro. E piango sempre dopo. Non riesco a venire». Voleva cullarla tra le sue braccia. Ma si sentiva basso e meschino, un predatore codardo che si approfitta dei deboli e degli indifesi. "E sono un debole anch'io", pensò. "Ho permesso che mi trascinasse in questa fogna che le è tanto familiare". Da quando era arrivata a Manchester per ucciderlo, David si sentiva sempre più senza controllo, preso in un vortice frenetico, giù sempre più giù, e quella sembrava solo la punta di un oscuro e pericoloso iceberg, le cui profondità aveva paura di esaminare. «Se ne andò quando avevo quindici anni. Bobby era appena nato e io lo allevai da sola; è stato parecchio difficile. Ecco perché ho lasciato la scuola. Dalla città mi mandarono ogni genere di consulente e assistente sociale e ho avuto un mucchio di strizzacervelli che mi facevano domande e scrivevano tutto quello che dicevo, ma nessuno di loro mi è stato veramente d'aiuto. Credo di essere una specie di caso disperato. Comunque, un paio d'anni fa ho cominciato a prendere l'eroina e ci sono andata sotto di brutto, e adesso... vorrei soltanto che Bobby fosse qui».
«Allora come fa Bobby ad essere tuo fratello?» «Huh?» «Se tuo padre è andato via e tua madre è morta, come fa Bobby a essere tuo fratello?». Kathleen cambiò umore. Si girò per guardarlo in faccia. I suoi occhi erano pieni di lacrime. «Il mio vecchio aveva messo incinta una puttana qualsiasi. Lei non voleva il bambino, così l'ho preso io. È tutto quello che ho». Lo guardò dritto negli occhi. «Posso dormire con te?». Lui tolse la mano; non riusciva a sopportare l'idea di averla vicina. «Non stanotte. Ho bisogno di stare da solo». Scaricò nel water l'eroina e la siringa, la avvolse nelle coperte e spense la luce. «Kathleen», disse lui nell'oscurità. «Sono davvero dispiaciuto per averti ferita. Ho sbagliato a fare quello che ho fatto. Hai tutto il diritto di non perdonarmi». «Ehi, non preoccuparti. Non è nulla. Sono stata trattata molto peggio. Sopravviverò», disse lei, ma a David la sua voce parve sommessa. Si distese sul rivestimento dell'armadio e chiuse l'anta, lasciando fuori il mondo. Il cuore gli batteva dolorosamente nel petto, accusatore, mentre calde lacrime bruciavano scendendogli dagli occhi. Byron lo perseguitò: ...E ti renda nella lebbra della tua mente disgustoso tanto per te stesso quanto per il genere umano! Fu soltanto nel buio completo e nel totale isolamento che tutto l'orrore di ciò che era lo investì, rendendosi conto che non era affatto meglio di Ariel. CAPITOLO 7 «Ciao!», disse Zero. David aveva dormito fino a tardi, e lei pensò che avesse una brutta cera. Sembrava teso. Andò dritto in bagno, senza neppure guardare nella sua direzione. Sentì i tubi sferragliare e l'acqua scorrere. Quando rientrò nella stanza, era completamente nudo tranne per un asciugamano bianco che teneva intorno alla vita come una toga. Si diresse al letto e la slegò. «Preparati». La sua voce era piatta. «Torniamo in quel pub a cercare
Dennis». Si precipitò in bagno e usò immediatamente lo sciacquone. Dopo aprì l'acqua della doccia e gironzolò per la stanza. Scelse dall'armadio alcuni abiti da portare via, poi si diresse verso la sedia di fronte alla finestra dove sedeva David. Aveva aperto le tende; il bagliore tremolante del neon rosso si rifletteva sulla sua pelle chiara. Quella pelle era un elemento che le ricordava continuamente il suo essere diverso da lei, ma Zero non riusciva a trovarla una cosa raccapricciante. Persino dopo quella notte. Si era comportato veramente da stronzo. Ciononostante, il più delle volte era meglio di chiunque altro conoscesse. Si inginocchiò di fianco a lui e gli toccò il braccio. Era freddo. Non la guardò. «Senti. Ci ho riflettuto. Sono davvero felice del fatto che siamo insieme, capisci che voglio dire? Mi piaci». S'interruppe. «Sei... sei diverso da tutti gli altri. Sei gentile. Non sto dicendo che tu sia un debole o altro, semplicemente, lo sai, sei gentile. Stavo pensando che, una volta trovato Bobby e scoperto chi ti sta sorvegliando, magari potremmo stare insieme e...». «Il solo motivo per cui noi stiamo insieme è per trovare tuo fratello e scoprire chi ti ha mandato ad uccidermi. Una volta eseguiti questi due compiti, tornerò in Inghilterra... da solo». Ritrasse la mano come se avesse toccato un fornello rovente e si alzò. «Sì. Certo. Non darmi retta. Ho la brutta abitudine di parlare troppo. Mae me lo dice sempre». Si diresse lentamente verso il bagno, sentendosi come la vittima di un incidente, stordita, leggermente scioccata. Buttò quello che teneva in mano nel cestino del bagno, scostò la tendina della doccia senza rendersi bene conto di ciò che stava facendo e si mise sotto quel getto violento, richiudendo meccanicamente la tendina. L'acqua era calda ma Zero non se ne rese conto. Prese il piccolo pezzo di sapone e cominciò ad insaponarsi le mani. Si sentiva ubriaca, non in modo piacevole, ma con lo stesso vuoto mentale, la stessa assenza di dolore. Il vapore fluiva tutt'intorno a lei, si innalzava oltre il bordo della tendina, riempiendo la stanza. Ascoltò il suono dell'acqua sullo smalto. Il sapone le scivolò dalle dita ma non si preoccupò di raccoglierlo. Qualunque sensazione stesse provando per quell'acqua sulla schiena, si era attenuata; il suo corpo era intorpidito come la sua anima. Ad un certo punto Zero sentì di essere esausta. Appoggiò le braccia contro le piastrelle fredde e la testa alle braccia. Poi pianse come faceva da ragazza quando suo padre la picchiava: lacrime silenziose, singhiozzi senza gemiti, mentre
il suo corpo si fletteva. All'improvviso la tendina fu scostata e lui l'afferrò, tirandola fuori dalla doccia, tenendola stretta, coprendo il suo viso bagnato di baci. Un lungo lamento simile al suono di un animale desolato preso in una tagliola squarciò l'aria, e Kathleen rimase sorpresa nello scoprire che proveniva proprio da lei. La portò a letto, sussurrando: «Oh, Kathleen. Mia Kathy. Io ci tengo davvero a te». Avvertì un dolore violento venire alla luce sotto forma di violenti singhiozzi, un dolore che era peggiore dell'astinenza che aveva patito, peggiore di qualsiasi colpo avesse sopportato. E più piangeva, più lui la baciava, e più erano i baci, più le lacrime. «Amami! Ti prego, amami!». Le accarezzò i capelli, il viso, i seni, dandole più di quanto lei credesse possibile ricevere. Presto cominciò a sentirsi calda e bramosa: lo desiderava più vicino, lo attirava a sé. E, quando la penetrò, si aprì a lui con la naturalezza con cui qualsiasi fiore si apre al sole. «Sì, sì», gridò, incapace di capire come tutto potesse essere tanto bello. L'uomo la prese lentamente, con passione. Non riusciva ad averne abbastanza di lui, ridendo e piangendo allo stesso tempo, intrappolata in un abisso tra il piacere e la sofferenza. «Resta dentro di me. Per sempre», sussurrò. Quando David cominciò a muoversi più veloce e più a fondo, per Zero quel momento divenne dolce e amaro. Braccia e gambe erano avvinghiati al suo corpo quasi per assicurarsi che non si sarebbe tirato indietro all'ultimo istante. Alla fine giacquero insieme senza fiato. Lui continuava a tenerla stretta, i loro corpi erano intrecciati. «Riesco a sentirti», disse lei. «Dentro». Sentì la sua stessa voce, piena di sorpresa e meraviglia, e fu sul punto di rifiutare di credere a quell'esperienza. «Non mi è mai successo. Davvero, non mi è mai successo». Mentre varcavano l'ingresso del Crack, dell'assordante musica rock prorompeva dall'enorme altoparlante posto sopra la porta. David detestava quelle moderne sonorità dissonanti. Erano abrasive per la sua anima e dolorose per i suoi timpani estremamente sensibili. Kathleen cominciò a camminare per il locale, ma lui la trattenne in modo che entrambi rimanessero nascosti alla vista. Le girò la testa, e lei sollevò
il viso in cerca di un bacio. «Stai molto attenta. Al minimo problema, fammi un cenno, e io arrivo subito». Prese uno sgabello nell'angolo buio del bar da dove poteva guardare l'intero ambiente, e Kathleen attraversò il locale. Mentre mangiava da Mae, avevano organizzato un piano. Si sarebbe avvicinata a Dennis da sola, avrebbe ripreso Bobby, poi sarebbe subentrato David. La osservò mentre camminava con quei pantaloni in pelle attillati, i fianchi che oscillavano in modo naturale, il suo corpo che catturava gli sguardi come il canto delle sirene aveva adescato i marinai stregati. Si fermò a parlare con Laser, che doveva aver domandato di David. Zero fece un cenno verso il bar. Poi proseguì, girovagando per il locale, quindi si diresse ad un tavolo in un angolo dove un ragazzo dalla pelle scura con muscoli da palestra sedeva circondato da altri giovani. I suoi capelli erano lunghi e legati stretti, stile rastafariano, e gli ricadevano sulle spalle. Indossava una maglietta blu da lavoro con le maniche strappate, sbottonata, simile a quelle che andavano di moda negli anni Sessanta, jeans firmati, stivali marrone chiaro e un gilè di pelle marrone scuro con frange lunghe mezzo metro. Parlava e gesticolava in modo molto animato, facendo continuamente risuonare la mezza dozzina di anelli e orecchini che adornavano l'estremità di entrambe le orecchie. Dalla sua postazione, David riusciva a vedere un grosso cerchio d'oro che pendeva da un capezzolo. David lo guardò bagnarsi la punta delle dita, afferrare qualcosa dalla tasca del gilè e strofinarla, qualunque cosa fosse, sulle gengive. «Cerchi compagnia?». Laser era già seduta sullo sgabello di fianco a David. Era attraente, ma non come Kathleen. La sua era una bellezza più rozza, come quella di Athena. Se Kathleen pensava di essere la posta più alta in mezzo a quella giungla, lui era certo che Laser lo era davvero. «Offri un drink alla ragazza?» «Che cosa ti va?» «Rye. Doppio». Quando le misero davanti il suo whisky, Laser disse: «Zero sta molto bene. Pulita. Non la vedo così felice da... cavolo, non so. Devi essere una specie di dinamite, tu». David cambiò umore, a disagio. «Vi conoscete da molto tu e Kathleen?», chiese. Con il bicchiere alle labbra, era sul punto di bere una sorsata di Rye.
«Kathleen? Tu e Mae siete le uniche due persone che la chiamano ancora così. Sì, un paio d'anni». Laser ingoiò una profonda sorsata e depose il bicchiere su un sottobicchiere di carta. «Ha avuto molti ragazzi?» «Chi, Zero? Stai scherzando? Sei il primo col quale la vedo per due sere di fila, neppure per gioco. Non ha mai avuto un magnaccia. Non pensavo le piacessero i ragazzi». David si guardò intorno nel locale. Kathy stava immobile al tavolo e Dennis era in piedi, con uno sguardo spaventato. «Ehi, sei incollato a lei o che?» «Qualcosa del genere», disse David. «Che fortuna». Parlava per lo più Kathleen. Dennis le afferrò il braccio e si girarono verso la porta. Passarono oltre il bar; lei non lo guardò mentre uscivano. Si alzò immediatamente e lasciò dei soldi per le consumazioni. «Ehi, dove te ne vai?», chiese Laser. «Ora devo andare. Mi dispiace». «Proprio quando cominciavamo a conoscerci». Lo prese per un braccio, tirandolo talmente vicino che parve gli stesse leccando l'orecchio, quando invece sussurrò: «È un tipo losco. Un vero e proprio figlio di puttana. Ha fatto a fette più d'una persona. Nasconde un coltello nella scarpa. La sinistra». «Grazie, Laser. Lo apprezzo». Lei sollevò il bicchiere. «Se tu e Zero divorziate, sai dove trovarmi». Si girò dall'altra parte. All'esterno, David sentì il profumo di Kathleen. Adesso che aveva bevuto da lei, il sangue sarebbe sempre stato un ricordo persistente, un richiamo magnetico dal quale lui avrebbe potuto attingere ogni volta l'avesse voluto. Riusciva a distinguere quel profumo e a seguirlo come un cane riesce a trovare un osso sepolto. Entro una distanza ragionevole. Girò in un vicolo che conduceva dietro il bar. I suoi passi divennero furtivi, da predatore. Alla fine del vicolo, una luce fioca illuminava un'altra svolta e lui si fermò. Riusciva a sentire il calore del sangue di due esseri umani. Costeggiò l'angolo, mescolandosi all'ombra. Si trattava di un vicolo cieco. Kathy sedeva sopra un cassonetto dell'immondizia chiuso sotto il riflettore che illuminava la porta sul retro del bar.
Si appoggiava ai mattoni del muro, una striscia di tessuto sbrindellato legata stretta intorno alla parte superiore del braccio. La sua attenzione era concentrata su Dennis, che dava le spalle a David. Dal punto in cui si trovava, David vide che Dennis aveva un cucchiaio. Lo vide mentre ci sputava dentro per poi passarci sotto la fiamma di un accendino. «David!», gridò Kathy quando lo vide. Dennis si girò. Il suo volto si corrugò; un'espressione sorpresa, ma cattiva. «Chi cazzo è lui?» «Un mio amico». «Ah sì?», disse Dennis, come se non le avesse creduto, ma tornò a preparare la droga. «Vuoi farti un giro, amico? Verdoni in cambio di un poco di marrone. Puro e semplice. Lasciami sistemare questa troia e sono da te». David uscì dall'ombra. Colpì il braccio di Dennis. Il cucchiaio volò per aria e risuonò sul cemento. Negli occhi di Dennis si mescolarono paura e rabbia. Si toccò il lobo sinistro e disse: «Che cazzo stai facendo? Senti, ho pagato Furguson. Non mi rompere, o ti spacco la testa». David si fece avanti, invadendo lo spazio di Dennis. «Perché hai mandato Kathleen in Inghilterra ad uccidermi?» «Sei tu quello? Mi ha detto che ti ha freddato». Si girò verso Kathleen. «Puttana bugiarda!». «Perché stai cercando di uccidermi?», domandò David. «Ehi, amico. Non io». Dennis sollevò le mani in gesto di protesta. Sembrava spiazzato, come se non capisse con chi aveva a che fare. «Dovevo un favore a un tale. Mi dice prendi Zero. Mi dà un passaporto, dei contanti e un biglietto aereo. Non so altro, amico». «Sai a chi hai fatto il favore». Dennis non rispose. David lo guardò negli occhi. Preferiva usare l'ipnosi, ma le droghe annebbiavano la coscienza. Non c'era abbastanza su cui lavorare. Ma Dennis aveva visto qualcosa. Come un animale minacciato, divenne cauto. Cercò di mettere il braccio intorno alle spalle di David. «Amico, tu e io, adesso andiamo a sederci e discutiamo della situazione. Vieni dentro. Ci prendiamo un paio di birre e...». «Non prenderlo in giro Dennis», lo avverti Kathleen. «Non sembra cattivo, ma l'ho visto affrontare sei persone tutte insieme».
Dennis ci rifletté su. David non credeva che lo spacciatore l'avrebbe presa sul serio, e fu sorpreso di sentirlo parlare. «Merda amico, mi fai perdere tempo. Il Sacerdote dei Serpenti, è lui il tizio col quale devi chiacchierare. Dirige un cazzo di locale sulla Quarantaduesima». «È un grande pianeta. La Quarantaduesima cosa?» «Intende dire in centro: la Quarantaduesima», disse Kathleen. Balzò giù dal cassonetto e si slegò il braccio. «Tutti conoscono il Sacerdote dei Serpenti. Possiamo trovarlo. E per quanto riguarda Bobby?» «Pazza puttana». Dennis scosse la testa. «Non so nulla di nessun cazzo di Bobby, solo quello che ho detto. Mi è stata girata questa situazione di merda e di certo non ne vale la pena. Il Sacerdote dei Serpenti mi ha detto di non aspettarmi che tu tornassi». «Perché ti ha detto questo?», chiese David. «E io che diavolo ne so? Il Sacerdote dei Serpenti, di certo non viene a raccontarmi i suoi fottuti affari più di quanto io non venga a raccontarti i miei. Stavo solo, diciamo, facendo un favore a quel tale per pareggiare un conto, capisci?» «Non sa nient'altro», disse Kathy. «Andiamo». David lasciò andare Dennis e afferrò il braccio di lei. Si girarono. Lui intuì un movimento e si voltò appena in tempo per vedere Dennis estrarre un coltello a farfalla dalla scarpa sinistra. Automaticamente David assunse una posizione di guardia a pugni alti che aveva imparato a Cambridge cento anni prima. Dennis piegò la testa indietro e rise. Fece scattare il coltello, tranquillo. «Sarai cibo per gatti, coglione bianco», mormorò. La lama scintillò. Prima che Dennis potesse fare un altro commento intelligente, David sferrò un pugno alla tempia dello spacciatore, facendolo finire contro dei bidoni di metallo. Dennis si rimise in piedi. Sembrava micidiale. Il coltello fendette l'aria all'altezza dello stomaco. David piantò la scarpa nel ginocchio sinistro di Dennis e sentì la giuntura spezzarsi. Dennis finì a gambe all'aria urlando. Il coltello cadde rumorosamente al suolo e Zero lo allontanò con un calcio. David lo strattonò per quelle lunghe trecce. Colpì ripetutamente Dennis al volto, incapace di fermarsi, preso dalla furia: agitava le braccia, colpendolo con i pugni. Si sentiva lo schiocco della carne che viene pestata. L'o-
dore di sangue gli salì su per le narici. L'energia divampò per tutto il suo corpo. Una foschia, un filtro rosso; esisteva solo il sangue di Dennis. Anche quando non vi fu più resistenza, David continuò a colpire. Sangue rappreso, metallico, spruzzava sul suo volto, sulle sue mani. Lo leccava con la lingua. Voleva sguazzare in quel liquido cremisi. Kathleen afferrò il suo braccio. La sua voce penetrò nella sua realtà facendolo fermare. «David! Lo ucciderai», esclamò. Il pugno si bloccò a mezz'aria. Il giovane davanti a lui non aveva più un volto riconoscibile. La stretta di David si allentò e il corpo bagnato crollò al suolo. Si girò verso Kathleen. Dopo averlo visto, i suoi occhi si riempirono di orrore e gridò. «Lascia perdere», disse Zero. Erano tornati all'Alexander. Lei teneva la sua mano in grembo. «Sei stato costretto a farlo», lo consolò. Gli sollevò la mano destra. Era stata danneggiata gravemente nel combattimento, e lei rimase scioccata nel vedere che stava già guarendo. Era quasi tornato in sé, ma lei non avrebbe mai dimenticato il suo volto. Era affamato da morire. I suoi occhi sembravano due furiose luci demoniache. I denti erano simili a punte di ghiaccio. Zero ebbe un tremito e costrinse per un momento quei pensieri da parte. «Senti, quel tipo è una sanguisuga. Campa vendendo la roba ai ragazzini dell'età di Bobby». «Ma Kathy, è soltanto un essere umano. Io non sono Dio, anche se quelli della mia razza sono conosciuti per essersi comportati come dèi». Sembrava amareggiato. «Non è stato uno scontro leale. Stavo per ucciderlo». David rotolò su di un fianco. Uno sguardo tormentato gli alterò i tratti. «Cavolo, qual è il tuo problema? Ci avrebbe fatti fuori entrambi, te con un coltello e me con un'overdose. Voglio dire, andiamo! Non sei Madre Teresa! Sei un killer, ricordi?» «Ma è proprio questo il punto, Kathy. Non ho mai ucciso. Prendo solo quello di cui ho bisogno per sostentarmi. È già abbastanza che i mortali si uccidano tra loro; mi rifiuto di contribuire a quella pazzia. Sono orgoglioso di me stesso per essermi sempre astenuto da una violenza non necessaria. E adesso ho quasi ucciso un uomo senza neppure la scusa di prendere il suo sangue. Non ci sono scuse. Sto degenerando, e non c'è modo di fermare questo processo». «Ascolta, se tu avessi ucciso quella nullità, ti avrebbero dato un premio come cittadino modello. Quanti ragazzini pensi siano morti a causa sua?».
Gli accarezzò i capelli. «David, ti stavi semplicemente difendendo. E stavi difendendo me. Il cervello di Dennis era ormai cotto da anni e anni di cocaina. Ti avrebbe ucciso senza pensarci su. Hai fatto un favore a lui e al mondo togliendolo di mezzo, almeno per un po'». Non riusciva a capire se quello che stava dicendo sortiva qualche effetto, ma sentì che stava perdendo la pazienza. «Sai? Mi hai davvero stufato». Lui la guardò, sorpreso. «Sì, voglio dire, guardati. Ti comporti come una specie di santone predicatore. La vita non è quella: guarda me. Alcune persone non sono buone. A volte devi essere cattivo. Pensi che il marciume non abbia niente a che fare con te, come se tu provenissi da una specie di bianco pianeta candido o qualcosa del genere. Be', non è così. Non so se sei quello che dici di essere ma, qualunque cosa tu sia, non sei poi tanto diverso da me. Fai quello che devi fare per sopravvivere. Come tutti. E a volte succede che a rimetterci o sei tu, o è l'altro. E, se sei una pappamolla, resti là per terra mentre lui se ne va». «Ma Kathy, non volevo fargli tutto il male che gli ho fatto». «David, io ero là, ricordi? Ti ho visto mentre prendevi a pugni Dennis. Tu non volevi fargli del male, volevi ucciderlo. Ma è una cosa che non vuoi accettare». CAPITOLO 8 «Ehi amico, gira la voce che Dennis l'hai conciato male. Sanno chi è stato, ed è un problema colossale. I fratelli della zona a nord di Houston pensano che tu sia un bravo ragazzo. Dicono che salterà qualche testa e che agli altri faranno il mazzo». David guardò Frankie. Kathleen aveva detto che la madre di Frankie era portoricana e suo padre, che veniva in aereo una volta l'anno da Miami in occasione dello Jom Kippur, era ebreo. Questo spiegava i suoi tratti particolari. Quel ragazzo alto aveva una posa arrogante e masticava gomme con indolenza. Ma stava in guardia, come se si aspettasse il peggio. «Le notizie viaggiano veloci dalle vostre parti», disse David. «Già, fresche di stampa. Mica si tira a indovinare: "riviste, cose mai viste". Noi abbiamo il meglio». «E quindi? Cosa vuoi dirmi?». Frankie piegò la testa e sputò la gomma nella fogna.
«Sto dicendo che Dennis è un figlio di puttana. Ha fatto diventare la mia sorellina una drogata. L'avrei sistemato io, ma pare che tu sia arrivato prima». David sorrise. «Non c'è di che». Fece scivolare un braccio intorno alle spalle di Kathleen. «E il resto della banda?» «Gente maledetta. Sono degenerati in fretta. Scommetti su Frankie, bello. Gli flippo a tutti il cervello». Frankie schioccò le dita e la bella ragazza di colore con le striature fucsia, i cui capelli erano legati sopra la testa in un cono d'argento, si sistemò di fianco a lui. Lasciò cadere un braccio intorno alle spalle di lei, come volesse imitarlo. David cercò di non ridere. «Se ti serve una mano, Frankie non è mai lontano». Il ragazzo mise in bocca una nuova Juicy Fruit, offrendo dal pacchetto. David scosse la testa stupito. «A dire il vero mi serve un favore. Sto cercando un uomo, lo chiamano il Sacerdote dei Serpenti. È un pappa del centro, e non posso chiedere informazioni alla polizia». Kathleen lo guardò come se stesse dando segni di squilibrio mentale. La bocca di Frankie si spalancò, e un grosso sorriso si diffuse sul suo volto. «Grande! Dove hai imparato a fare le rime?» «È una forma d'arte. Più vecchia di quanto immagini». «Non ci credo!». «È vero. Te ne parlerò una volta o l'altra. Allora, hai sentito parlare del Sacerdote dei Serpenti?» «E chi non lo conosce?» «Sai dove possiamo trovarlo?» «I suoi lavorano nella Quarantaduesima. Posso sentire in giro, scoprire dove mangia, e dove alloggia il suo branco». «Grazie. Lo apprezzo molto». «Ora basta parole: lo faccio di cuore». Frankie schiaffeggiò il palmo di David contro il suo diverse volte in una serie di movimenti complicati, come fossero fratelli di sangue. «Ci si becca, testa secca». Mentre David la portava via, Kathy lo fissava stupefatta. «Sei davvero un incantatore. Non ho mai visto Frankie tanto educato». David rise. «Mano a mano». «Che cosa significa?» «Da uomo a uomo. Già parla usando distici in rima. Presto gli farò studiare i verseggiatori. I poeti».
Kathleen scoppiò a ridere. «Sarà un gran giorno. Prima però faresti meglio a insegnargli a leggere». Andarono da Mae, e David lasciò che si sedesse da sola in un separè. Mentre usciva, chiamò da parte Mae. «Torno tra poco. Appena mi è possibile. Puoi prenderti cura di lei fino a quel momento?» Mae lo guardò come fosse appena fuggito dall'ospedale di Bellevue. «Non è minorenne. Come vuoi che mi occupi di lei?» «Tienila qui. Puoi farlo?» Mae si grattò i capelli quasi completamente bianchi. «Sì, credo di sì. Però sbrigati. Sai, non posso mica incatenarla al tavolino». Mentre David era via, Zero si sedette con Mae, che la guardava divorare un sandwich riscaldato. «Piccola, non ti ho mai vista mangiare così tanto. Quel tizio ti fa davvero bene». Zero sollevò lo sguardo e sorrise. «È così, Mae. È davvero diverso dai tipi di queste parti. Gli piaccio. È sensibile». Mae le sorrise e le accarezzò la mano. «Sono contenta per te, tesoro. Ti meriti qualcosa di buono dalla vita. Dio solo sa se non hai avuto poco». Mentre Zero mangiava, pensò alla notte precedente. David era diverso, ma non la spaventava più. Se aveva bisogno di sangue per vivere, be', evidentemente era fatto così; poteva accettarlo. Vampiro forse era la parola più adatta per descriverlo, e non era proprio calzante, ma adesso tutto ciò non aveva importanza. Depose l'ultimo triangolo del sandwich a tre strati e guardò con aria seria oltre il tavolo. «Mae, mi legge delle poesie, e la sua voce è talmente bella che penso di essere morta e finita in paradiso dove gli angeli suonano l'arpa soltanto per me. Parla in modo intelligente e sa tutto di cose che io non ho mai sentito nominare. E pensa che io sia intelligente. Dice che ho una conoscenza naturale, del tipo che non si può imparare dai libri. Dice che semplicemente non ne ho mai avuto la possibilità». Rimase pensierosa per un momento. «Come fai a sapere quando sei innamorata?» «Cos'è, la posta del cuore?». Ma nella voce di Mae non c'era del vero sarcasmo. Il suo volto s'ingentilì. «Mi ricordo di quando Willie e io stavamo insieme. Lui era il ragazzo più gentile che avessi mai incontrato. Era solito portarmi dei fiori ogni domenica dopo la messa, perfettamente puntuale. Ci avresti potuto regolare l'orologio. Ovviamente, questo accadeva negli anni Quaranta, quando la gente ancora andava in chiesa. C'era la
guerra, e Willie stava per partire. Rimasi seduta alla finestra ad aspettare. Mia madre mi strillava che ero la peggior sgualdrina di New York, per aver fatto sapere a un ragazzo che mi piaceva, e tutto il resto. Allora non si faceva. Ma non le ho mai dato ascolto». «Sentivi di voler restare sempre con lui?» «Proprio così. Willie attraversava il fiume da Fort Dix, dove era stato assegnato. Quasi tutti i fine settimana aveva dei permessi per vedermi. Era molto bello nella sua uniforme. Ti dico che più di una ragazza gli aveva messo gli occhi addosso». «Quando eri vicina a lui, ti sentivi confusa, come quando hai un ghiacciolo che si scioglie più velocemente di quanto tu riesca a mangiare?». Mae rise. «Qualcosa del genere». All'improvviso il volto della donna più anziana si corrugò per la tristezza, e Zero si rese conto che tutti quegli anni senza Willie avevano avuto un peso. «Oh, Mae! Mi dispiace. Non avrei dovuto dire tutto questo». Gli occhi di Mae scintillarono, ma accarezzò nuovamente la mano di Zero. «Lascia perdere. Non siamo stati molto tempo insieme prima che gli sparassero, ma quello che abbiamo trascorso è stato il periodo più bello della mia vita. Ho sofferto. Questi sono solo ricordi. Sono tutto quello che mi resta e me li tengo cari». Tirò fuori dal contenitore un fazzoletto, e si asciugò gli occhi. «Ehi, Mae. Dammi del caffè e un toast», disse ad alta voce un cliente che era appena entrato. «Aspetta un attimo che arrivo. Non stai morendo di fame». Tornò a guardare Zero. «Lo dicono tutti perché è vero. L'amore è la cosa più preziosa di questa vita, Kathy. Se trovi qualcuno da amare e che ti ama, be', allora non conta nient'altro». Mae si alzò in piedi. Zero la guardò per un solo istante e poi saltò in piedi. L'esile bionda e la vecchia, voluminosa signora dai capelli quasi completamente bianchi, si avvinghiarono l'una all'altra per un lasso di tempo che parve eterno. «Mae! Che ne dici di servirmi? Vuoi che cominci ad andare negli altri locali lungo la strada?» «Cavolo, Al, sei peggio di un bambino». Così dicendo, Mae si girò verso il suo cliente impaziente. Poi guardò Zero e scosse la testa. «Uomini. Non puoi vivere con loro, ma chi diavolo vorrebbe vivere sen-
za?» Quando David tornò da Mae, trovò Kathleen seduta dietro un piatto vuoto mentre sorseggiava una tazza di caffè. Non lo vide arrivare: così inosservato, ebbe l'opportunità di guardarla per qualche istante. Teneva la testa piegata, e i capelli biondo chiaro formavano dei ricci su una spalla scoperta. La sua pelle era liscia e del colore intenso dell'avorio, le guance leggermente rosse, gli occhi blu grandi e pensierosi, le labbra piene e prominenti. «Un quadro vivente», sussurrò lui. Sembrava assorta nei suoi pensieri. Ma, quando si accorse di lui, abbassò la tazza e i suoi occhi, come quelli di un daino, divennero dolci e liquidi. Le sue labbra si schiusero in un sorriso che sapeva essere indirizzato soltanto a lui. Gli vennero in mente le parole più delicate di Byron: Ella passa radiosa, come la notte di climi tersi e di cieli stellati; tutto il meglio del buio e del fulgore s'incontra nel suo sguardo e nei suoi occhi... «Ciao», disse lei, e i suoi occhi s'incollarono a quelli di David. Nonostante più di un secolo di autocontrollo inglese, David non riuscì a trattenersi dal piegarsi per baciarla in pubblico. Lei gli gettò le braccia intorno al collo e lui inalò il suo profumo, dolce, in un certo senso quasi verginale. Poi fu tra le sue braccia. Passò le dita tra i capelli di lei e la baciò con passione sulle labbra. «Adesso gestisci un hotel?», mugugnò l'uomo in fondo al bancone. «Stai diventando arido, Al, se non riesci a ricordare l'amore», disse Mae. Mentre abbandonavano il locale, David ripensò agli eventi della notte precedente. Si sentiva sorprendentemente bene. Senza Kathy sapeva che sarebbe sprofondato nella depressione per quello che aveva fatto a Dennis. Ma lei pareva capace di arginare la sua oscurità. La sua natura cupa non la spaventava come era successo con molte altre donne. Il fatto che loro appartenessero a due specie differenti aveva sempre meno peso. «Sei stato via un mucchio di tempo», disse Kathleen, interrompendo i suoi pensieri. «Hai avuto problemi a trovare il sangue? Ti ho detto che puoi prendere il mio. Ne ho un sacco». Le dita di lui sfiorarono la gola dove erano rimasti i segni delle punture.
«Nessun problema. E non mi prenderò di nuovo il tuo. Sono stato via parecchio perché ho incontrato Frankie. Ha scoperto che il Sacerdote dei Serpenti frequenta un locale SM a Chelsea». Rise. «Ho dovuto chiedere a Frankie di spiegarmi le lettere. Non riusciva a credere che non lo sapessi. Ad ogni modo, ha detto che per domani saprà qual è. Ho noleggiato una macchina e mi sono recato là per farmi un'idea della zona». «Senza di me?». Sembrava scioccata. «Pensavo che la stessimo affrontando in due questa storia». «Ed è così. Ma, dopo la notte scorsa, non sono sicuro di volerti coinvolgere come ti è successo. Potrebbe accaderti qualcosa». «Anche a te». «I mortali non sanno come farmi del male. In ogni caso, ho chiesto un poco in giro e mi hanno confermato che la Quarantaduesima Strada è il suo territorio. Ho scoperto anche che è protetto come un conto in banca svizzero. Potrebbe essere impossibile beccarlo da solo». Kathleen si bloccò. I suoi occhi mandavano fiamme. «David, non voglio che tu faccia questo senza di me. Prima di tutto, è una cosa stupida. So muovermi qua intorno molto meglio di te. Secondo: anche se non vengo, il Sacerdote dei Serpenti sa già di me e può trovarmi facilmente, quindi sono più al sicuro insieme a te. E voglio riprendermi Bobby: sono pronta. Inoltre, ho un idea di come possiamo arrivare a lui». «Be', non possiamo fare molto stasera. Non credo che sia saggio passare da un locale all'altro sperando di incontrarlo. Preferisco aspettare finché non arriva Frankie con un posto certo dove potrebbe trovarsi». Fece una pausa. «Va bene per te?». Ci vollero alcuni secondi perché il fuoco blu nei suoi occhi si smorzasse, ma alla fine lei sorrise. «D'accordo. Aspetteremo. Hai ragione riguardo al Sacerdote dei Serpenti. Ho sentito dire delle cose. Dobbiamo scoprire tutto quello che possiamo. Che cosa facciamo stanotte?». Erano vicini all'Alexander. David tolse la mano dalla vita di lei e le prese il braccio. Si fermò davanti a una Chevrolet marrone chiaro e aprì lo sportello del passeggero. «Per prima cosa ci facciamo un giro», disse. «Quando è stata l'ultima volta che hai guidato lungo il fiume di notte?». Lei sollevò le spalle. «Che ne pensi di un giro dell'Hudson al chiaro di luna?» «Mai fatto». «O un viaggio in carrozza attraverso Central Park?».
I suoi occhi blu simili a cristalli risplendettero. «Non ho mai fatto nessuna di queste cose, e ho vissuto qui tutta la vita». «Mia cara, permettimi di mostrarti il volto più gradevole di New York». David guidò lungo l'East River percorrendo la Franklin Delano Roosevelt. Era una serata piacevole, e lasciarono i finestrini aperti. Kathy era avvinghiata a lui. Erano passati decenni da quando aveva guidato per New York; una delle ultime volte era stato quando André aveva deciso di fare rientro in Francia nel 1960 e David l'aveva portato all'aeroporto. Dopo un po' David fece un'inversione e tornò a Battery Park. Là si imbarcarono sul battello che faceva il giro intorno a Manhattan. Kathleen si appoggiò al parapetto. La brezza notturna soffiava tra i suoi lunghi capelli facendola sembrare a David simile alla Venere del Botticelli. Lui la strinse da dietro; le sue braccia sembravano incastrarsi alla perfezione intorno a lei. Non sarebbe stato in grado di indicare il momento preciso in cui aveva ceduto a quei sentimenti romantici a lungo sopiti e che in qualche modo adesso erano stati riaccesi. «Cielo, è bellissimo!», disse lei sospirando. «Tu sei di gran lunga più bella», le sussurrò all'orecchio. All'una del mattino si accucciarono insieme sul sedile posteriore dell'imitazione di una carrozza vittoriana, con braccia e gambe intrecciati, sotto una coperta. L'odore pungente dei cavalli, il rumore dei ferri di cavallo sul cemento, il ronzio onnipresente del traffico invisibile ma sempre vicino, la debole illuminazione dei vecchi lampioni di strada a Central Park, tutto cospirava a lanciare un incantesimo. Kathleen fece correre le mani sotto la sua maglietta, lungo la sua schiena nuda. La sua pelle era abbastanza sensibile da distinguere i rilievi ovali su ciascuna delle sue dita. Sentì che tutto il suo corpo reagiva come terra arida che si nutre dell'umidità. «Recitami una poesia», disse lei. Il mio sangue è al culmine; se non lo fosse, non avrei lasciato il mio paese, né dovrei, a dispetto di torture, esser mai dimenticato, nuovamente uno schiavo dell'amore, o almeno di te. Parve incantata dalle parole di Byron, i suoi grandi occhi invitavano David a farsi più vicino. E David sapeva al di là di ogni dubbio che quelle parole erano vere; a di-
spetto delle sue paure e dei suoi dubbi, si stava innamorando di lei. Tornarono all'Alexander intorno alle quattro del mattino. Mentre entravano, David lanciò le chiavi della macchina a Frankie. «Il serbatoio è pieno e il libretto è nel vano portaoggetti. Fammela avere di nuovo qui per le sei di domani sera». Il ragazzo parve stupito per un istante, ma si riebbe in fretta. Prese la sua ragazza mentre un'altra coppia saliva dietro, e i quattro se ne andarono mormorando nella notte. All'interno Kathleen chiese: «Vuoi stare ancora da solo?». Lui rispose conducendola dove dormiva. L'armadio era di foggia antica a abbastanza grande per ospitarli confortevolmente entrambi sul pavimento oltre a bloccare la luce del giorno. Lui depose una coperta sopra il tappeto. Nell'oscurità esplorò il corpo di lei. Caldo e umido in alcuni punti, freddo in altri, e morbido. Aveva la pelle d'oca. «Sei spaventata?», le chiese. «Un poco». «Di cosa? Non di me, spero». «Ho solo paura del sesso. Lo desidero, ma ne sono anche spaventata». Lui baciò le sue labbra poi si dedicò ai suoi capezzoli. Il corpo di lei ebbe un tremito. «Abbiamo molto tempo». Zero non sapeva se sarebbe stata in grado di godersela di nuovo. Il loro ultimo approccio sembrava essere stato un colpo di fortuna. Desiderava tanto offrirsi a lui ma, più ci provava, meno ne era capace. «Rilassati», disse lui ancora una volta, mordendo con le labbra quelle di lei, sintonizzando le sue dita sensibili sulla sua pelle. Anni di piacere procurato agli uomini le avevano lasciato l'idea che, a meno che non avesse recitato la parte, non avrebbe fatto il suo lavoro. Ma le piacevano i suoi baci e le sue carezze, che le facevano capire come lui era attento non solo alla sua carne. Alla fine si distese lasciando che lui le facesse quelle cose. Poi accadde qualcosa di strano. Riusciva a vederlo nell'oscurità. Oltre il buio dell'armadio e l'oscurità degli occhi chiusi, lo stava guardando: un'ombra cupa che si stagliava contro il nero. Sapeva quando lui sollevava il braccio o girava la testa, o se si alzava o abbassava sopra di lei. Divenne come un'entità in uno spazio infinito, che puntava, si faceva più vicina. Sentiva la sua energia, la sensazione che lui
la stesse quasi affilando, finché si sentì sussultare quando la sua oscurità penetrò la luce dentro di lei, riempiendola per la prima volta. CAPITOLO 9 La notte seguente Frankie sapeva il nome del locale: Cutting Edge. David lasciò Kathleen da Mae. Lei chiese dei soldi per fare acquisti, e lui glieli diede. Poi andò a cercare un po' del suo cibo. Le strade erano piene di energia cinetica, la sensazione che qualcosa stesse per accadere. Questo aveva una certa influenza su di lui: sentiva di nutrire delle aspettative. Ma non era pronto per lo shock che ricevette quando fece ritorno alla loro stanza all'Alexander. «Allora?», domandò Kathy. Lui la osservò. I capelli sulla testa di lei che rilucevano di arancione e viola, gli occhi verdi, dei tacchi da dodici centimetri, una gonna davvero mini in pelle bianca, un corpetto dal décolleté talmente basso che i suoi seni sembravano ancora più gonfi, e un mucchio di gioielli a forma di catena e lucchetto che le pendevano dai polsi, dalla vita e dal collo. «Come hai fatto a cambiare il colore dei tuoi occhi?». Lei rise. «Facile. Ci sono queste lenti a contatto davvero morbide - si possono persino piegare a metà - che sono colorate. Mi sono tinta i capelli. La tinta verrà via lavandoli». «E perché tutto questo?» «Be', ho immaginato che il Sacerdote dei Serpenti conoscesse il mio aspetto perciò, se credeva che non sarei tornata, potrebbe insospettirsi vedendomi passeggiare nel locale. E tu non arriveresti neppure a un miglio di distanza da lui. Ha delle guardie del corpo, dei tizi grossi che sembrano dei pugili. So che sei forte e tutto il resto, ma non penso che tu possa affrontarne così tanti tutti in una volta». David si sedette. Non gli piaceva dove stava andando a parare quella faccenda. «Che cosa pensi, Kathleen? Che andrai là dentro da sola e lo trascinerai fuori?» «Sì. Farò in modo che mi porti a casa sua. Tu potrai seguirci. Poi lo prendiamo da solo e gli potrai chiedere tutto quello che vuoi». «E in che modo hai intenzione di persuaderlo a portarti a casa sua?» «A quel tizio piace il sadomaso. Lo sanno tutti che è un sado. Io sarò
maso. Ecco a cosa serve tutto questo abbigliamento. Le sue guardie del corpo saranno fuori o almeno non insieme a me e al Sacerdote dei Serpenti. Credo che tu possa liquidarli facilmente uno alla volta. Lascerò la porta aperta». «E cosa sai esattamente delle pratiche sadiche del Sacerdote dei Serpenti?». Lei cambiò umore: guardò prima il pavimento e poi David. «È un peso leggero: per lo più si tratta di umiliazioni verbali. Nulla di troppo fisico». Lui stava per dire qualcosa, ma lei tagliò corto. «Ad ogni modo, tutta quella roba è come recitare. Nessuno si fa male. Tu dici loro fin dove vuoi spingerti, e loro rispetteranno i tuoi limiti. L'ho fatto con un mucchio di ragazzi. È l'unico modo, se riesco a entrare dentro». «Assolutamente no! Pensi davvero che ti lascerei vicina a una persona del genere?» Kathleen tolse la propria mano da quella di lui. «David, non c'è altro modo». «Dovrà esserci perché tu non farai questa cosa». Lo guardò leggermente demoralizzata. Poi si alzò e cominciò a camminare per la stanza. «Andrà tutto ok. Sarai proprio dietro di me. Non accadrà nulla». Si sedette nuovamente al suo fianco. «So che funzionerà perché conoscevo una ragazza, Kelly, che è andata con lui. Mi ha raccontato tutto. Ha detto che è stata l'unica volta che l'ha visto senza le sue guardie. Andiamo, David. Muoviamoci e facciamola finita». Lo baciò sulle labbra, e il bacio era familiare, anche se il volto non lo era più. «Ti prego. È il modo più veloce per trovare Bobby e scoprire chi ti dà la caccia». Fu perseverante con lui, riuscendo a indebolire la sua riluttanza. Nonostante dei seri dubbi, David si lasciò convincere dal suo piano. Ma, nel viaggio attraverso la città, si sentiva a disagio, e non riusciva ad allontanare la sensazione di un disastro imminente. L'ingresso del Cutting Edge era una porta senza pretese o targhe sulla Ventunesima Ovest, con delle fabbriche su entrambi i lati. Mentre David aspettava per strada dentro la macchina, Zero bussò alla porta dello scantinato. Qualcuno doveva aver sbirciato dallo spioncino, perché la porta si aprì.
Il portiere le diede una bella occhiata mentre gli passava accanto. All'interno l'ambiente era scarsamente illuminato e pieno di fumo: all'inizio ebbe difficoltà persino a trovare il bar. Ma alla fine i suoi occhi si abituarono, e procedette furtivamente verso una struttura che somigliava alla cella di una prigione, dove i drink venivano serviti attraverso le sbarre. Una donna dall'aspetto esotico e la pelle scura, vestita con pantaloni di pelle argento aderenti e con un corto frustino che spuntava dalla tasca posteriore, stava alla sinistra di Zero. La donna la esaminò dalla testa ai piedi, ma Zero si girò poiché non voleva incoraggiarla. Alla sua destra c'era un'altra donna con una gonna di pelle e i tacchi a spillo. Questa aveva una carnagione molto chiara, quasi come quella di David quando era affamato. In ginocchio davanti a lei c'era un uomo calvo chino sulle piastrelle del pavimento. Aveva un collare con le borchie intorno al collo, e la donna lo tratteneva vicino a sé con un corto guinzaglio fluorescente. Mentre lui le leccava i polpacci sotto l'orlo della gonna, lei lo ignorava. A Zero venne in mente che forse non si trattava del posto giusto. Si chiese anche se i locali si erano specializzati al punto che quello era uno solo per donne sado e uomini maso. Poi vide diverse altre scene, come quella di un uomo che conduceva una donna con le mani legate dietro la schiena, che confermarono anche la tendenza contraria. Il barista le porse un rye e ginger che lei pagò cinque dollari. Ne bevve un sorso, anche se normalmente non beveva liquori. Ma era nervosa. C'erano alcune cose che sapeva del Sacerdote dei Serpenti che non aveva raccontato a David, sicura del fatto che lui, se avesse saputo, non l'avrebbe lasciata agire. Come il fatto che il Sacerdote dei Serpenti era un grosso spacciatore tanto di Cocaina quanto di eroina. E che la parola "Sacerdote" stava per "Sacerdote del Dolore", mentre "Serpenti" si riferiva alla sua collezione. Si diceva che avesse ammazzato di botte un paio di ragazze, una delle quali era Kelly, sospettava Zero, quando aveva cercato di abbandonare il suo stabile. E Zero era preoccupata. Ma non riusciva a pensare a un altro modo di arrivare a lui. Voleva disperatamente trovare Bobby. All'improvviso lo vide, e capì che si trattava di lui. Era un uomo grosso, ma grosso in maniera differente da Dennis; non così muscoloso, alto e massiccio. Non sembrava affatto un sacerdote. Come molti dei clienti, era vestito di pelle animale, ma nel suo caso si trattava della pelle di un serpente nero, tanto i pantaloni quanto una camicia con uno spacco aperto in vita. La sua mascella era veramente quadrata, i suoi occhi piccoli e perforanti, e il suo volto, anche da quella distanza, di un colorito che faceva
pensare o che si fosse drogato o che avesse la pressione alta. Zero pensò che sembrava un tipo astuto: con un completo sarebbe potuto passare per il presidente di una società. Certe donne avrebbero potuto trovarlo stranamente attraente. I suoi occhi da roditore sfrecciavano per la stanza come fosse in cerca di cibo. Forse non era stata una buona idea, pensò lei, sentendo il cuore che martellava dalla paura. Ma David era proprio lì fuori, rammentò a se stessa. Il Sacerdote dei Serpenti era circondato da uomini dall'aria rude che Zero immaginò essere le sue guardie. Era ben protetto. Aveva anche una donna con sé. Non sarebbe stato facile, pensò Kathleen, ma decise di provarci. Magari avrebbe semplicemente preparato il terreno per un'altra occasione. Prese una bella sorsata del suo drink e gironzolò con disinvoltura per il locale, non in linea retta, collezionando parecchi sguardi mentre procedeva. Il tavolino del Sacerdote dei Serpenti era vicino a un juke-box degli anni Cinquanta. Mentre si avvicinava, camminò dritta verso di lui. Quello sollevò lo sguardo. All'ultimo istante lei girò a destra e si fermò di fronte alla musica. Girò leggermente la testa. La stava guardando. Spostò il peso sulla gamba sinistra, facendo sporgere il fianco nella sua direzione, e guardò la lista dei titoli delle canzoni. «Ehi, bel bocconcino», giunse una voce vellutata da dietro, lo stesso tono che Zero aveva sentito dentro un confessionale. Girò appena la testa. Il Sacerdote dei Serpenti le respirava sul collo. Lei gli fece un sorriso d'intesa. «Ti va di sniffare?» «Certo», disse lei. L'uomo tirò fuori dalla tasca due minuscole boccettine marroni e ne premette una nel palmo di Kathleen. Sulle dita di entrambe le mani indossava grossi anelli, tutti con simboli religiosi o serpenti. «Una per dopo, tesoro, e una adesso», disse lui, la voce confortante come invece il viso non riusciva a essere. Con gesti solenni vuotò il contenuto della seconda boccetta sulla superficie di vetro del juke-box, usando una American Express platinum per sistemarlo in righe diritte, poi tirò fuori una banconota da cento dollari che offrì a Zero, dopo averla arrotolata. Lei cercò di afferrarla, ma lui la tenne stretta. I suoi occhi vagarono sul suo corpo in un modo che la fece sentire male.
«Stai cercando un poco di amore rude?» «Forse», disse svogliatamente. Lasciò cadere la borsetta e si piegò a raccoglierla, assicurandosi che il suo fondoschiena fosse proprio davanti a lui. L'uomo fece correre il dorso della mano su per l'interno coscia; gli anelli erano freddi contro la pelle. Mentre si rialzava, lui le porse la banconota arrotolata e ghignò. Una cicatrice simile a un serpente, bianca, che partiva dalla metà del labbro superiore per arrivare fino all'orecchio destro, si arricciò in maniera grottesca quando sorrise. I suoi denti erano talmente uniformi che pensò fossero falsi: l'incisivo di sinistra aveva un rubino incastonato. Su un petto chiaro quasi del tutto privo di peli riposava un disco d'oro attaccato a una catena, con un ologramma all'interno. Raffigurava una crocifissione, il corpo nello spasmo inchiodato alla croce formata da una donna. Dopo essersi sparati quelle strisce, il Sacerdote dei Serpenti la condusse al suo tavolo. Le guardie del corpo fecero spazio, ma la donna le indirizzò contro delle pugnalate d'odio: era una brunetta che da bambina doveva aver tenuto il broncio un sacco di volte. Adesso, avvicinandosi ai trenta, il suo labbro inferiore pendeva all'infuori, pronto per il passo disastroso dalla dolce petulanza all'amara delusione. Il Sacerdote dei Serpenti prese un drink per Zero e sniffarono dell'altra coca. Lui sedeva con un braccio piantato intorno al collo di lei, con la mano dentro il corpetto, strizzandole forte il capezzolo, sussurrandole all'orecchio cose che la spaventarono, promesse di un dolore che avrebbe dato vita ad un piacere intenso. Era stata con molti uomini, ma nessuno così privo di anima come quello. A un certo punto notò i segni sul braccio di lei. «Te la fai a caldo o a freddo?» «Basta che sia eroina», disse lei. La coca aveva investito il suo sistema nervoso come un tornado che spazza una cittadina tranquilla, ghiacciandole il naso e gran parte del viso. Sentiva il cervello in fiamme e, allo stesso tempo, vuoto. Aveva avuto grandi difficoltà a riflettere, persino a ricordare perché fosse là, e che David la stava aspettando. «Ne ho un po' a casa mia. E ho altre cose che piacciono alle ragazze cattive». La fece alzare. Immediatamente si alzarono anche i sei uomini. Lo stesso fece l'altra donna, ma il Sacerdote dei Serpenti la spinse contro una delle
guardie, un grosso nero con i capelli schiariti, come fosse stata un sandwich che aveva finito. All'esterno, attesero mentre uno degli uomini prendeva la macchina, una lunga limousine color mirtillo, e tutti si ammassarono. Zero guardò rapidamente per strada ma non riuscì a vedere David. Questo non la fece preoccupare; la coca la rendeva impavida. Si diressero a nord, verso il lato ovest di Central Park, fermandosi di fronte a un complesso di alti edifici in acciaio e vetro. Il Sacerdote dei Serpenti scese, tirò fuori Zero dietro di sé, e il resto seguì in quello che sembrava un iter prestabilito: l'autista parcheggiò all'angolo dell'isolato e rimase dentro la limousine; un uomo rimase nell'ingresso con la guardia di sicurezza; uno prese la scala; gli altri due accompagnarono il gruppo di quattro persone in totale con l'ascensore su fino all'attico. Là, uno si diresse alla scala e l'altro controllò l'appartamento poi, una volta fatto ciò, attese fuori nel corridoio. Il Sacerdote dei Serpenti condusse Zero e gli altri due oltre una porta che aveva chiuso a dovere con una serie di catene e chiavistelli. Non c'era modo per lei di aprirli. Forse, se riusciva a distrarlo, pensò. L'uomo nero portò l'altra donna a sinistra, e il Sacerdote dei Serpenti condusse Zero nella direzione opposta. Accese una luce, e la stanza nella quale erano entrati fu inondata di rosso. I muri e la porta erano insonorizzati, eccetto una porta a vetri che dava sul terrazzo e che era stata oscurata. Lei ebbe la sensazione che qualunque cosa succedesse là dentro non sarebbe stata udita dal mondo di fuori. Strumenti di tortura d'ogni genere si contendevano lo spazio: dozzine di fruste, cinghie, canne di bambù, pale di legno, di tutte le forme e dimensioni, erano state affisse ai muri in file ordinate, con cura. La pelle sembrava ben oliata, il legno ben levigato e meticolosamente laccato. Sbarre, catene argento e nero pendevano dal soffitto, e un lungo tavolo con legacci in pelle e manette riempiva un angolo della stanza, ma un grosso letto simile a un altare era il centro. Di fianco a questo c'era una gigantesca vasca per serpenti sopra la quale pendeva un crocifisso d'argento. Zero aveva una brutta sensazione al riguardo. Decise che era meglio andarsene finché era ancora in grado. «Senti, ho dimenticato una cosa al bar. Devo tornare a prenderla». «Spogliati, troia!». Lei si girò, sul punto di dirgli che aveva cambiato idea, ma ancor prima di trovarsi faccia a faccia con lui, fu colpita al volto. Cadde all'indietro
contro la vasca di serpenti, stordita, avvertendo sulle labbra il sapore del sangue. Dei sibili prolungati la fecero strisciar via immediatamente, di nuovo verso il Sacerdote dei Serpenti. «Mi sembra che tu abbia bisogno di una penitenza molto rigorosa, ragazza mia. Quando avrò finito, implorerai il Sacerdote dei Serpenti di darti l'assoluzione. Ho detto togliti quei vestiti. Ora! Fallo!». Il suo corpo cominciò a tremare, ma cercò di farsi coraggio: "Non può essere peggio del mio vecchio", pensò. Quando fu nuda, lui le legò i polsi con dei nastri di pelle che avevano ganci di metallo per tenerli uniti. «Posso avere un poco di eroina?», chiese lei, sorpresa da quanto fosse spaventata la sua voce. Uno sguardo cattivo attraversò il volto del Sacerdote dei Serpenti, agitando la cicatrice al punto che parve fremere. Ma la sua voce era calma, vellutata, quasi rassicurante. «Avrai tutta l'eroina che ti serve. Dopo che avrò estratto il sangue». Agganciò i suoi legacci a una catena che pendeva dal soffitto poi la issò dal pavimento. Mentre il suo corpo dondolava da una parte all'altra, lo guardò scegliere una frusta dalla sua collezione, una lunga striscia di cuoio color cannella, collegata a un manico di pelle di serpente attorcigliata. Accese un lettore CD; della musica sacra proruppe ruggendo dagli altoparlanti. Quando si avvicinò a lei, i suoi occhi erano di fuoco, e a Zero sembrò posseduto. Le sfregò i capezzoli con il manico nodoso di pelle di serpente. «Adesso comportati da brava ragazza e fammi sentire delle sincere suppliche di perdono. Non disturberai nessuno, quindi faresti meglio a provare a pregarmi. Fallo bene e ad alta voce, e il Sacerdote dei Serpenti ti darà una striscia per smorzare il dolore». Afferrò una manciata dei suoi capelli, tirandole indietro la testa fino a che fissò il soffitto a specchio. Lui sollevò lo sguardo. «Perché, se non sono soddisfatto, te ne andrai via di qui senza la pelle. Mi hai capito, troia?» «Sì». Zero fu costretta a dimenticare tutto quello che aveva insegnato a se stessa circa il reprimere i gemiti. Ma David aveva ragione, era adatta a vivere in quella giungla di città. Ben presto la sua gola si fece secca. David osservò la guardia del corpo nell'ingresso ritornare fuori. L'uomo camminò lungo la strada e si fermò accanto alla limousine per piegarsi verso il finestrino e parlare con l'autista. David fece la sua mossa.
Una guardia di sicurezza più anziana aprì la porta, ma non lo invitò a entrare. «Buonasera», disse David in modo garbato. «Buonasera signore», l'uomo con l'uniforme della sicurezza fece un cenno. «Cosa posso fare per lei?» «Sono qui per affari». L'uomo più anziano lo squadrò con tutto il sospetto che una professione simile generava. «Appartamento numero?», chiese. Quando David esitò, la guardia cominciò a chiudere la porta. Il vecchio aveva le cataratte. Riusciva a malapena a vedere, e non abbastanza da incontrare gli occhi di David. «Sono con la festa che è appena arrivata. Un poco in ritardo. Ovviamente, mi stanno aspettando». «Dovrò telefonare di sopra». «Non ho tempo per questo. Dica loro che dovranno riorganizzare l'incontro, e che non tornerò negli Stati Uniti a breve. Sono sicuro che si arrabbieranno molto, dato il valore del contratto che stanno perdendo, ma io sono troppo occupato per aspettare»; David si girò. L'idea di incorrere nella disapprovazione del Sacerdote dei Serpenti fece effetto sulla guardia, che divenne ossequiosa. «Forse dovrebbe salire su direttamente. Risparmierebbe tempo». «Idea eccellente». I due ascensori erano uno di fronte all'altro. I pannelli illuminati mostravano che uno era in attesa di aprirsi al piano terra mentre l'altro si era fermato all'Attico Nord, ovviamente dove il Sacerdote dei Serpenti aveva portato Kathy. David spinse il bottone per quell'ascensore. Quando arrivò, lo portò fino al trentanovesimo piano, uno sotto l'attico. Camminò fino alla porta con su scritto "scale" e l'aprì con circospezione. Un grosso asiatico, che lui riconobbe come uno degli uomini del Sacerdote dei Serpenti, immediatamente si affacciò dal piano di sopra. David guardò su. Si incontrarono sul pianerottolo. «Mi scusi», disse David educatamente, sorridendo, aggiungendo un tono condiscendente al suo accento d'alto ceto, cercando di incontrare gli occhi dell'uomo. «Sono un poco confuso. Sto cercando l'Attico Sud». «Ascensore sbagliato, amico. Torna nella sala d'aspetto e prendi l'altro». «Desolato», disse David. Persone come quella, dagli occhi sfuggenti, ra-
ramente incontravano il suo sguardo. Ma lui mantenne la sua posizione, costringendo quell'uomo enorme a sfidarlo. Il sollevatore di pesi reagì come ogni animale costretto a difendere il proprio territorio. Cercò di farlo desistere con un'occhiata. «Ho detto che è di sotto!». Il tono dell'uomo era minaccioso, ma ormai David si era fissato su quelle orbite del colore del fango, concentrandosi sui punti neri al centro. Si dilatavano e si contraevano mentre aveva luogo una battaglia di intenti. David si sforzò affinché il proprio volere penetrasse quello opposto; avvertì la depravazione dentro quel mortale dedito alla distruzione. Quell'essenza era talmente malata, putrida, che quasi puzzava. David lo identificò immediatamente: un assassino. "La luce che è in me", pensò lui. "Focalizzala". Avvertì il bagliore, l'essenza di ogni essere vivente, vibrare dentro di sé e farsi strada attraverso gli occhi. Quella luce produsse un'energia che sfrecciò da lui e colpì il nucleo di quell'essere mortale. La guardia sembrava stordita. Le sue pupille si erano dilatate ed erano rimaste larghe, come se fosse stato vittima di un incantesimo. Le sue ciglia tremolavano, e cadde all'indietro contro il muro. David lo afferrò, accompagnandolo in posizione seduta. Sentì la presenza di un'altra guardia di sotto, probabilmente più vicina al piano terra. Se ne sarebbe occupato soltanto se ce ne fosse stato bisogno. Concentrare la sua energia in quel modo lo esauriva, e aveva bisogno di tempo per caricarsi nuovamente. Arrivò in cima alla scala al piano dell'attico e si affacciò furtivamente nel corridoio. Un'altra guardia era seduta di fianco a una porta, davanti all'ascensore, intenta a leggere le corse dei cavalli. David si mosse silenziosamente, e l'uomo si destò solo quando era ormai vicino. «Ma chi caz...». Un colpo preciso dietro al collo e l'uomo perse i sensi. David trascinò il suo corpo sul pianerottolo delle scale e lo lasciò cadere di fianco all'altra guardia del corpo. Tornò indietro e cercò di aprire la porta. Nonostante tutta la sua forza, non accadde nulla. Si rese subito conto che doveva trattarsi di una speciale porta antincendio, di metallo spesso, ben sbarrata dall'interno. Notò una finestra in fondo al corridoio. Aveva due pannelli, ed era chiusa ermeticamente, di un tipo che era quasi impossibile da frantumare. Facendo leva, David appiattì il palmo delle mani contro il vetro in punti strategici e spinse. La lastra intera saltò fuori dall'intelaiatura e finì giù di fian-
co all'edificio, atterrando in mezzo alla strada sottostante. Si affacciò sul muro esterno. Un bordo di due piedi correva intorno a entrambi gli angoli del palazzo. Dei balconcini in ferro battuto costellavano la parete esterna, disegnati per imitare le staccionate di un giardino. Ciascun balcone circondava porte di vetro che davano sul patio. Il balcone sulla sinistra era a circa due metri e mezzo di distanza. David guardò il terreno in basso, quaranta piani sotto. La facciata dell'edificio dava su Central Park. Da quel punto era una foto aerea, una massa di verde con linee ondeggianti che la striavano e dei minuscoli punti di luce. Il rumore del traffico era attutito. Il vento era forte a quell'altezza. Aveva sentito storie, racconti orribili di ferite riportate da altri come lui, ferite che non li avevano uccisi, ma menomati in maniera pesante. Cosa sarebbe accaduto se fosse precipitato da quell'altezza? Come minimo, tutte le ossa del suo corpo si sarebbero frantumate. Il suo cuore o il suo cervello avrebbero potuto essere trafitti, o la sua spina dorsale spezzata: in quei casi sarebbe morto rapidamente. Altrimenti, se fosse stato portato in un ospedale... "Una volta tanto, mi piacerebbe potermi trasformare in un pipistrello", pensò. Sapeva che doveva darsi da fare in fretta. Kathy era in pericolo; lo sentiva. Tornò alla rampa di scale e tolse la cinta alle due guardie. Silenziosamente per quanto gli fu possibile, discese gli scalini. La guardia al terzo piano fu poco più veloce delle altre due. Riuscì ad impugnare l'arma. David la mise fuori combattimento prima che potesse usarla. Tornò di corsa su per le scale, tre gradini alla volta, legando insieme le tre cinture in modo che non si separassero. Poi attaccò la sua, facendone un laccio. Tornato alla finestra del quarantesimo piano, si mise su quel cornicione risicato e guardò giù. Lo colse una sensazione di vertigine. Si addossò all'edificio, ma non c'era nient'altro che la base della finestra per aggrapparsi. Alla fine riuscì a schiarire la mente, e il suo battito rallentò ad un ritmo accettabile. Lanciò quella catena di cinte, a mo' di laccio, cercando di agganciare l'occhiello sopra una delle aste del balcone. Dopo una dozzina di tentativi, ci riuscì. Avvolse l'altra estremità della catena di pelle ben stretta intorno al polso. Gradualmente fece scivolare prima il destro poi il piede sinistro lungo il cornicione, esitando. I suoni del traffico salivano verso l'alto, e lui
era ben attento al suono prodotto dalle sue scarpe man mano che trascinava i piedi. Il cornicione era sdrucciolevole, e il suo piede quasi scivolò via. Si tenne stretto, ma la facciata d'acciaio non offriva alcun appoggio, e tra sé dubitò del fatto che quel legaccio l'avrebbe retto se fosse caduto. I suoi movimenti divennero insopportabilmente prudenti. Alla fine raggiunse il primo balcone e, con le mani viscide, si arrampicò. Quando si affacciò dalla porta a vetri, rimase deluso. All'interno, la guardia di colore e la ragazza erano entrambi spaparanzati sul divano. I loro corpi erano molli e fissavano il vuoto. Tra loro c'erano un ago e quella che sembrava essere una quantità sufficiente di eroina per tenerli occupati per un po'. Quando girò l'angolo vide altri cinque balconi, ciascuno a due metri e mezzo dall'altro. Sentì che c'erano soltanto altre due persone nell'appartamento; una di loro era Kathy, e le vibrazioni che captava non erano buone. Giunse al secondo balcone nello stesso modo dolorosamente lento come era arrivato al primo, infastidito da quel contrattempo, preoccupato dal pericolo che stava affrontando Kathy. Dentro il secondo gruppo di finestre vide una cucina, nel terzo un salotto. Quella dopo era una camera da letto... vuota. Quando ebbe raggiunto la quinta, dal suo corpo gocciolava del sudore freddo. Inghiottiva aria in quantità, i suoi muscoli tremavano, e i nervi erano logori. Le ultime porte finestre erano oscurate. Sentì che Kathleen era all'interno e che qualcosa stava andando per il verso sbagliato. Istintivamente calciò il vetro, facendo schizzare i frammenti all'interno. Lei giaceva sul letto come un uccello con le ali spiegate. La sua schiena era un mare rosso e gemeva. Il Sacerdote dei Serpenti era inginocchiato dietro di lei, sul punto di infilare dentro la sua vagina un serpente che si contorceva. Il pappone si volse al suono del vetro in frantumi, ma prima che avesse il tempo di reagire, David attraversò la stanza ad una velocità disumana. Colpì con un rovescio la bocca del Sacerdote dei Serpenti, facendolo finire a gambe all'aria nella stanza. L'udito finissimo di David gli permetteva di intercettare anche il minimo rumore, anche attraverso l'insonorizzazione. Gli altri dentro l'appartamento o non avevano sentito, o erano incapaci di reagire oppure, come temeva, quei rumori poco si discostavano da quelli che avevano udito fino a quel momento. La stanza puzzava di sangue e sudore. Prese Kathy tra le braccia e le girò la testa. Il suo viso era stato percosso così duramente che gli occhi erano
già gonfi e senza colore. «Oh, Kathy, no!». La sua voce si riempì del dolore e del senso di colpa che provava. Se fosse arrivato prima... No, non avrebbe dovuto permettere affatto che lei andasse là. La strinse a sé mentre gemeva. Di fianco al letto notò la polvere bianca, la siringa. Controllò l'interno del suo braccio e vide un rivoletto di sangue, stavolta grato del fatto che non fosse pienamente cosciente. Riusciva a malapena a capirla mentre mormorava attraverso quelle labbra gonfie: «David, sono davvero una stupida». «Shhh. Non parlare. Andrà tutto bene. Mi occuperò io di te. Sono io lo stupido, Kathy. Non avrei mai dovuto lasciarti venire qui». «Sei più di un maledetto stupido», giunse una voce vellutata da dietro. Per tutta quella preoccupazione, David non aveva sentito il Sacerdote dei Serpenti che si rimetteva faticosamente in piedi. Il magnaccia percorse la stanza e si fermò davanti al balcone, a distanza di sicurezza. Teneva in mano quello che sembrava essere un mitragliatore. «Allora, imbecille, puoi cominciare col dirmi chi ti manda, poi ti farò saltare in aria quel tuo cervello del cazzo. E dopo il tuo, quello della tua troia, se ne ha davvero». David si mise in modo da fare scudo a Kathy. Alle sue spalle, lei mugugnava qualcosa, cercando di sedersi. A differenza delle guardie, il Sacerdote dei Serpenti non sembrava aver problemi a guardare David negli occhi. L'oscura malvagità che emanava da quell'uomo riempiva la stanza come gas velenoso, distruggendo tutto sul suo cammino. «Non mi manda nessuno», disse David. «Sono qui per scoprire perché hai cercato di farmi uccidere. E dove tieni suo fratello». «Ma che razza di stronzo...». Il Sacerdote dei Serpenti parve perplesso finché tutto gli fu chiaro e annuì. «Oh, sì. La puttana. E quel figlio di buona donna inglese che pensa di essere un maledetto vampiro». Ghignò e una nuova linea di sangue gocciolò dal suo labbro tagliato giù per la mascella. Il sangue fu un richiamo per David. Ne aveva bisogno. Tutto il suo corpo supplicava di essere nuovamente rifornito. Si sforzò di mantenere sotto controllo la sua ossessione. Kathy dipendeva da lui. «Perché l'hai mandata ad ammazzarmi?» «Sono io che faccio le domande, figlio di puttana. Fai venire qui quella troia, adesso!».
Kathleen era riuscita a mettersi in piedi e, benché barcollante, si appoggiò a David per sostenersi. Cominciò a muoversi verso il Sacerdote dei Serpenti, borbottando: «Ti prego, non fargli del male», ma David la spintonò sul pavimento dietro di sé. Risuonarono delle raffiche di mitragliatore. Una finì nella sua spalla destra, un'altra gli squarciò lo stomaco, facendolo cadere all'indietro. David si piegò in avanti e nello stesso tempo si costrinse ad avanzare. Il Sacerdote dei Serpenti fece nuovamente fuoco. Altri proiettili perforarono le cosce di David. Ma, dato che ancora non andava giù, lo stupore corrugò il volto del pappone appena prima che David lo afferrasse. La rabbia ribolliva in superficie. David sbatté la testa del Sacerdote dei Serpenti contro il pavimento. Ancora. E ancora. Le ferite causate dai proiettili lo indebolivano, e allo stesso tempo gli facevano quasi perdere il controllo. I suoi denti squarciarono un'arteria. Prima ancora che si rendesse conto di quello che stava facendo, il sangue sgorgò all'esterno e poi dentro la gola di David: un geyser cremisi. La quantità della sua violenza quasi rimpiazzava la qualità, e si controllò bloccando la ferita. Aveva bisogno di quell'uomo vivo. «Perché l'hai mandata? E dov'è suo fratello? Nessuna delle tue guardie può aiutarti. Dimmelo, o sei morto». Il Sacerdote dei Serpenti sputò sangue sul volto di David, ma i suoi occhi mostravano lo shock. «Che cosa cazzo sei?», ghignò come un folle. Due dei suoi denti erano andati in frantumi. «Vuoi il suo maledetto fratello? Vai nella fottuta banca». Cercò di ridere, ma l'effetto fu quello di una smorfia muta, come di un cadavere, che si diffuse sui suoi tratti alterati. «Che cosa significa?» Indicò verso il serpentario. «Chiavi», disse, mentre i suoi occhi roteavano all'indietro. David si avvicinò alla vasca dei rettili e guardò dentro. Almeno due dozzine di vipere stavano dentro sei metri di vetro. Il suo stomaco si contrasse e gli si rizzarono i capelli sul collo. Sentì che il respiro gli si faceva corto. "Controllati! ", ordinò a se stesso. Non era un esperto, ma riusciva ad identificare le vipere dalle loro code, e non avrebbe mai dimenticato le strisce rosse, gialle e nere del serpente corallo. Afferrò un bastone di bambù dal muro e smosse i serpenti. Alla fine vide il mazzo; era tenuto da un anello portachiavi attaccato al
fondo della vasca. Una rapida occhiata per la stanza lo informò che non c'erano guanti speciali o altro equipaggiamento a portata di mano. Se si fosse sporto all'interno per afferrarle, sarebbe stato morso. E avvelenato. Una volta da ragazzo era stato morso nei boschi di una tenuta. E di nuovo, stavolta nel Texas, da un corallo mortale. Era stata solo la sua immortalità che l'aveva tenuto in vita l'ultima volta. Adesso il terrore di entrambi i ricordi lo invase. Il suo corpo ricordava incontrollabili spasmi di morte e allucinazioni agghiaccianti. "Niente da fare!", pensò. Afferrò i lati della vasca e la strattonò dal pavimento. Quando l'ebbe trascinata al centro della stanza, la capovolse e riversò fuori i serpenti. Alcuni strisciavano rapidamente, altri si muovevano appena, ma quando il serpentario fu vuoto, David prese le chiavi. Il Sacerdote dei Serpenti giaceva vicino alle porte del balcone, come crocifisso. Uno dei coralli si stava dirigendo verso di lui. David avvolse Kathleen nel lenzuolo di seta. Mentre la sollevava, lei gemette. All'improvviso udì un suono basso e gorgogliante, una risata spettrale. Quando si girò, rimase a bocca aperta nel vedere che il Sacerdote dei Serpenti si era rimesso in piedi come un cadavere che rifiutava di rimanere morto. Il suo volto battuto era divenuto una macabra maschera. Aveva di nuovo l'arma in mano: la sollevò e stavolta David comprese che non avrebbe esitato. «La puttana se ne va per prima». Così dicendo, mirò a Kathy. David non aveva tempo di riflettere, né di pensare a come avrebbe potuto proteggere entrambi: aveva soltanto una frazione di secondo per reagire. Balzò, spingendo il Sacerdote dei Serpenti con la sua forza sovrannaturale. L'uomo volò all'indietro attraverso le porte del balcone e scavalcò il basso parapetto. Oomph! L'impatto mentre David lo colpiva. Gli assordanti colpi dell'arma. La stanza si riempì di silenzio tranne il debole frastuono del traffico di sotto e il tintinnio incessante dei serpenti. David non era in grado di muoversi, incapace di respirare. Quella calma terribile lo innervosiva. Il suo udito acuto aveva catturato il tonfo del Sacerdote dei Serpenti contro il marciapiede. Era morto senza fare alcun rumore. Questo, David lo sapeva, l'avrebbe perseguitato per sempre.
Lasciò l'appartamento e prese l'ascensore, con Kathy tra le braccia. Quando arrivarono al piano terra, la guardia di sicurezza era ancora sola. Il vecchio si girò, sorpreso, pieno di sospetto, ma David avvicinò il suo volto, incontrando i suoi occhi indeboliti, costringendo l'uomo a sedersi per poi cancellare la sua memoria. Fuori, nella strada rumorosa, il conducente della limousine e l'ultima guardia stavano ancora parlando. David fece salire Kathleen in macchina e se ne andò senza essere visto. All'Alexander, David lanciò a Frankie le chiavi. Aveva perso molto sangue e la sua forza stava scemando. Si sentiva senza equilibrio né fisico né mentale. «Puoi far sparire questa macchina?», chiese. «Intendi per sempre? Vendere il motore, buttar via il cofano?» «Sì». «Facile». «Fallo per favore. Tieniti i soldi». David prese Kathy tra le braccia. «Sta bene?», chiese Frankie, poi evidentemente notò i fori di proiettile che crivellavano il corpo di David. «Amico, tu stai bene?» «Risposta negativa a entrambe le domande». CAPITOLO 10 David mandò Frankie al drugstore a prendere medicine e bende per le ferite di Kathy. Nelle sue condizioni fare affidamento su un mortale era rischioso, ma non aveva molta scelta. Il suo corpo aveva già avviato il processo di espulsione dei proiettili, e quel processo gli causava un dolore atroce. Lavò Kathy, medicò le sue ferite, e la imbottì di aspirine. Più tardi, quando l'effetto dell'eroina parve scemare, le somministrò delle pillole per dormire. Usò tutte le parole delicate che gli vennero in mente, incerto sul fatto che lei ne riuscisse a capire qualcuna. Giaceva stordita, in parte per le droghe, in parte per lo shock. Verso mattina cominciò a tornare in sé, ma la forza di David ormai era esaurita, e tutto quello che poté fare fu nascondersi dal sole. La legò al letto per assicurarsi che il desiderio per la droga non sopraffacesse l'istinto di tornare in salute. David aveva bisogno di riposo. Come qualsiasi creatura ferita, il suo
corpo implorava quiete, oscurità e tempo per guarire. Ma non era sicuro del fatto che la sua mente si sarebbe mai ripresa. Moralmente era sprofondato nella terra di Ulru, come l'aveva definita William Blake, sguazzando insieme alle masse incoscienti nella colpa e nella vendetta, incapace di sollevarsi al di sopra di tutto ciò. Sentiva che, qualsiasi controllo avesse mai avuto, o avesse immaginato di avere, durante la notte era stato fatto a pezzi a una velocità allucinante, restando vittima delle oscure passioni che si era sforzato di tenere a bada nel corso delle sua esistenza immortale. Doveva affrontare la realtà di aver ucciso, senza dare alla cosa alcun peso. Se anche il Sacerdote dei Serpenti meritasse di morire più e più volte, non era quello il punto. Poteva soltanto domandarsi cosa fosse diventato. Mentre giaceva nell'oscurità cercando di respirare in maniera regolare, sentì le ferite richiudersi da dentro, spingendo fuori il metallo attraverso i muscoli, oltre i tessuti e su fino alla pelle. Le chiavi che aveva recuperato a caro prezzo erano marchiate "Citibank". Probabilmente erano di una cassetta di sicurezza dell'agenzia più vicina. David si addormentò chiedendosi cosa avrebbe trovato in quella cassetta. E se ne sarebbe valsa la pena. Per il tramonto del giorno successivo i proiettili erano stati espulsi e David li trovò in terra sul pavimento di fianco a sé. Era dolorante, ma quasi guarito. Non appena fosse riuscito a nutrirsi, il dolore fisico sarebbe scomparso, ma Kathleen gemeva e urlava, e lui sapeva che il suo tormento mentale era appena iniziato. «David, è tutta colpa mia. Ho rovinato tutto», disse lei non appena fu uscito dall'armadio. «Per l'amor del cielo, Kathy, smettila. È colpa mia. Non avrei mai dovuto lasciarti andare con lui. Non so che cosa mi sia passato per la testa». «No, la colpa è mia. C'erano delle cose sul Sacerdote dei Serpenti che non ti avevo detto. Sapevo che era violento. Pensavo che sarei riuscita a gestirlo. Ma dobbiamo andarcene di qui prima che ci trovi. Ci troverà di sicuro». «Non può inseguirci». Lei lo guardò. «È finito fuori dal balcone. L'ho spinto io». «Bene». Smise subito di piangere, ma poi ricominciò. «Mi fa male tutto da morire. E sono di nuovo in astinenza. È già iniziata». Lui le accarezzò i capelli e le baciò la fronte, l'unico punto dove non era contusa. Sembrava che l'avesse investita la metropolitana.
«Ti resterò vicino. Ti rimetterai. E, quando starai bene, ti porterò via da tutta questa immondizia». «Ma Bobby? E il tuo cacciatore?» «Ci sono delle informazioni in una cassetta di sicurezza. Farò in modo che Frankie lo scopra in fretta. Forse presto sapremo qualcosa». "O almeno lo spero", pensò. Lei singhiozzò. «Sto per sentirmi male». Lui la slegò e l'aiutò ad andare in bagno. Per tutta la notte aveva avuto attacchi di vomito e diarrea, simili a quelli che aveva visto a Manchester. Ma stavolta lei era reale per David, qualcuno di cui si preoccupava, che forse addirittura amava, e che sentiva emotivamente vicino, soffrendo come soffriva lei. Uscì il tempo necessario per portarle del cibo e un registratore a cassetta. Non mangiò la zuppa, ma si sforzò di bere un po' di succo di frutta. David rimase con lei, accarezzandola, parlando del loro futuro. Registrò i poemi d'amore che Elizabeth Barrett Browning aveva scritto per suo marito in modo che Kathy potesse ascoltarli durante il giorno. E, quando giunse il mattino e lei sudava e aveva i crampi, non ebbe altra scelta che legarla al letto di nuovo; sistemò il registratore in modo che potesse premere i pulsanti. «Non mi hai chiesto l'eroina», disse lui. «Sapevo che non me ne avresti data». Una settimana più tardi David la fece alzare, la lavò, e poi la portò fuori da Mae. Sedettero uno di fianco all'altra in una saletta, con Mae di fronte a loro che voleva sapere: «Cosa ti è successo, Kathy?» «Mae, ti prego», disse Zero. Indossava grossi occhiali scuri che nascondevano gran parte della distruzione intorno ai suoi occhi. Le sue guance presentavano dei lividi e il labbro inferiore aveva un brutto taglio che sanguinava quando cercava di mangiare. David le somministrava la zuppa con il cucchiaio. Lei ne sorseggiò un poco, ma era troppo giù per mangiare. Era imbottita di antidolorifici e si sentiva sonnolenta e rintontita. Mae era furibonda. «Chi è stato a farti questo?». Così dicendo guardò David.
«Non direttamente». «Cosa diavolo significa?» «Non è stato lui, Mae», disse Zero. «È colpa mia. Ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non fare domande, d'accordo?». Sospirò e lasciò cadere la testa indietro contro il braccio di David. Si sentiva assolutamente e completamente esausta. David era stato così gentile con lei, più gentile di chiunque avesse mai conosciuto, persino di Mae. E sapeva che sarebbe guarita. Inoltre aveva superato la fase peggiore dell'astinenza. Ma, nonostante quei pensieri, Zero era più spaventata di quanto non fosse stata prima. In più, il pensiero che avrebbe potuto non rivedere mai più Bobby, la terrorizzava. Ogni mattina, quando David la lasciava sola, non pensava che sarebbe riuscita a superare la giornata. Solo la sua voce riusciva a farla restare lucida, impedendole di precipitare tra le braccia della pazzia che l'attanagliava. Sentiva che quelle braccia si sarebbero strette per sempre intorno a lei e l'avrebbero trascinata verso la morte. «Tienimi stretta», disse. Lui la cullò, premendola contro il petto, baciandola sulla testa. Era scossa dalla paura. Una volta chiusi gli occhi, riusciva ancora a vedere la stanza, il rosso, quelle fruste che la fissavano in volto mentre una le squarciava la pelle. Durante il giorno, quando era sola, ricordava distintamente lo schiocco e sentiva quel dolore tagliente, lacerante, la vista del pugno del Sacerdote dei Serpenti che la colpiva. E, mescolata a tutte quelle immagini, c'era la faccia di suo padre. Il suo corpo fu scosso da un tremito incontrollabile. «Voglio tornare nella stanza». David le disse: «Va tutto bene. Sono qui insieme a te. Sei al sicuro. Anche Mae è qui. Non aver paura, Kathy. Ce ne andiamo subito». Quando tornarono all'Alexander, Frankie era fuori. «Ehi, hai un bell'aspetto, Zero». Si rannicchiò contro David mentre questi la spingeva dentro. «Sei stato in banca oggi?», chiese David al ragazzo. «Il posto è giusto, ma non ho potuto combinare molto. Non è affittata al Signor Sacerdote, è questo è stato un colpo. Ma ho trovato una ragazza che lavora dentro, e mi ha fornito i dati per un bacio dato con sentimento. È presa a nome di qualcuno di nome Audrey Hariman». Porse le chiavi a David. «Certe volte lo fanno questi ricconi: firmare col nome di una donna, in modo che la roba non possa essere rintracciata, capisci che intendo?»
«Grazie Frankie. Sei stato di grande aiuto». David si accinse a cercare nella tasca qualche banconota, ma il ragazzo gli fece un cenno e si allontanò. «No, amico. A questo servono i fratelli, te lo dico. Siamo pari. Mi hai pagato per bene con quella Chevy». Quando furono nella stanza, Zero disse: «Andrò domani». Lui scosse la testa. «Troverò qualcun altro. Una delle ragazze. Oppure Mae. Tu non vai». «Mae non c'entra nulla. E quelle ragazze non potranno entrare. Sono troppo giovani e sciocche. Il principale chiamerà la polizia. Non riesco a credere che non abbia arrestato Frankie». David sedette sul letto. «No, Kathy. Sei ancora debole. Inoltre, penso che tu sia ancora troppo spaventata per uscirtene là fuori da sola». «Credi che prenderò dell'eroina, non è vero?» «È una possibilità». «Vorrei poterti dire con sicurezza che non lo farò, ma so di non volerlo fare. Se mi ritroverò di nuovo in questa storia dell'astinenza, il mio cuore impazzirà». Sedette di fianco a David. Lui l'abbracciò, e lei si sentì grata di quel conforto costante. «Ti amo», disse all'improvviso Kathleen. «Non l'ho mai detto a nessuno oltre che a Bobby. Ma io ti amo, David». La baciò delicatamente sulle labbra. «Quando sarà finita, resterai con me per sempre, se è quello che desideri». «Non ho mai desiderato nulla di più». «Kathleen, devi sapere la verità riguardo alla mia esistenza. Devi prenderti del tempo per decidere. Ci sono degli aspetti poco piacevoli e non sono di poco conto. Non posso darti dei figli. E, benché l'immaginazione umana sembri volerlo, quelli della mia razza non sono immortali nel senso stretto del termine. Il fuoco, la decapitazione, una seria ferita al cuore o una frattura della spina dorsale, l'esposizione al sole, queste cose ti distruggeranno. Durante le ore del giorno sarai immobile e vulnerabile. Spesso ti sentirai sola». «Diavolo, io mi sento comunque molto meglio la notte». Rise, anche se cominciava a sentirsi a disagio senza sapere il perché. «C'è dell'altro. I nostri usi sono insoliti per i mortali e, alla fine, loro so-
no le nostre prede. Per questo e altri motivi, dobbiamo spostarci frequentemente. Vedrai delle persone intorno a te, persone delle quali ti preoccupi, invecchiare, soffrire, morire, mentre tu rimarrai sempre la stessa. È davvero doloroso. Ti sentirai estranea agli uomini e arriverai a vederli come alieni, proprio come loro ti chiameranno mostro, se dovessero scoprire che cosa sei. I loro giochi saranno talmente ovvii per te, il loro dolore troppo reale». «Non ci sono degli altri vampiri?» «Sì. Ma i nostri rapporti sono diversi dai rapporti umani. Rappresentiamo l'uno una minaccia per l'altro, e questo ci tiene lontani. Non posso spiegartelo, ma se ti sottoporrai alla mutazione, comprenderai esattamente che cosa voglio dire». Forse era il suo tono serio che stava rendendo Zero nervosa. Non voleva sapere quelle cose, ma lui sembrava deciso a dirgliele. «E, cosa più importante di tutte, dovrai prendere il sangue dalle creature, dagli esseri umani, per sopravvivere. Riesci ad accettarlo?». Lei sapeva che David beveva sangue. Aveva preso il suo. Ma in un certo senso la cosa non aveva avuto un impatto forte come il sentirselo dire così direttamente. Il pensiero di bere del sangue le fece rivoltare lo stomaco. Non riuscì a rispondergli. «Se rimani senza sangue per molto tempo, ti sentirai molto peggio di quanto tu non stia per l'astinenza dalla droga. Ti sentirai come se stessi morendo di fame: ogni singola cellula del tuo corpo avvizzisce, muore, ed è proprio quello che succede. Sarai spinta a fare cose al di là della tua immaginazione. Molti di noi arrivano all'omicidio». «Ma tu hai detto di non aver mai ucciso nessuno per sangue. Non può essere una cosa tanto malvagia». «Io sono l'unico della mia razza che conosca che non sia arrivato a uccidere per la brama del sangue». Sentiva la sua pelle innaturalmente fredda contro la propria, il fatto che non aveva un odore corporeo che lei potesse distinguere, e che il centro oscuro dei suoi occhi a volte si restringeva al punto da farlo sembrare qualcosa che non apparteneva a questa terra... Il corpo di Zero cominciò a sussultare. Aveva paura di guardarlo, paura di riuscire a vedere qualcosa che non voleva vedere, terrorizzata del fatto che lui capisse cosa provava: avrebbe potuto ucciderla. In un istante. Stritolarla con la sua forza sovrannaturale. Succhiare il sangue vitale dal suo corpo fino a prosciugarla. Ma dov'era stata negli ultimi tempi? Era talmen-
te drogata o depressa da non riuscire a comprendere tutto fino a quel momento. Il cuore le si frantumò contro il petto per la preoccupazione, e non riuscì a respirare normalmente. Era sul punto di inghiottire quando, come se le stesse leggendo nel pensiero, lui disse: «Kathy, non ti prenderei mai contro la tua volontà. Per me significhi addirittura più del sangue. E, se rifiuti la mia offerta, non ti abbandonerò, ma non ti costringerò a sottometterti al mio volere». Il demone dal quale pochi istanti prima voleva fuggire, evaporò davanti ai suoi occhi nell'uomo che la amava più di quanto avesse fatto chiunque altro, o di quanto chiunque altro avrebbe potuto amarla. «Voglio stare con te, David. E con Bobby. E voglio essere come te. Voglio potermi proteggere quando la gente cerca di farmi del male. Per tutta la vita la gente ha cercato di farmi del male. Voglio che finisca». Parlarono ancora di tutto quello che lei avrebbe dovuto abbandonare e a come sarebbe stato. Discussero anche della cassetta di sicurezza. Alla fine lei lo convinse che non c'era nessun altro che potesse andare, anche se sapeva che l'idea non gli piaceva. Anche lei non ne andava pazza, ma voleva che tutto finisse in modo che loro tre potessero stare insieme. Le fece promettere di farlo nel pomeriggio il più tardi possibile, di andare e tornare in taxi e, se avesse avuto paura, di telefonare a Mae. La notte seguente, quando David si svegliò, la stanza era vuota. Si precipitò fuori e chiese ai ragazzi se avevano visto Kathy. «Non da quando è uscita», disse la ragazza di Frankie. Si diresse immediatamente alla banca, ma naturalmente era chiusa e lei se n'era andata, anche se da poco, quindi sperò di raggiungerla. David si nascose in un vicolo dove avrebbe potuto rimanere da solo. Si concentrò, cercando dentro se stesso per trovare quella parte nelle sue cellule contagiata dal sangue di lei, la parte contagiata da tutte le persone la cui linfa vitale era stata consumata durante l'esistenza di David. Si concentrò sul profumo del suo sangue, sulla sua essenza. E, quando si fu ben sintonizzato su quella fonte, fu in grado di seguire la traccia del suo profumo. La trovò su una banchina mezza distrutta, seduta sopra un pezzo di legno, con una busta di cartone per la spesa di fianco a sé. Le spalle curve, la testa piegata. Lacrime annerite dal mascara striavano le sue guance ferite.
Nel pugno stringeva un foglio di carta spiegazzato. CAPITOLO 11 «Portavo Bobby qui in estate. Adorava guardare le grandi imbarcazioni andare e venire. Voleva navigare su una di quelle. Gli dicevo che un giorno ce l'avrei portato». La voce di Kathleen era piatta. Le lacrime, come una pioggia implacabile su un parabrezza, le scivolavano giù dagli occhi. David prese il pezzo sgualcito di carta dalle sue mani e lo distese. Era la fotocopia di una fotografia a grana grossa, non molto definita, l'immagine di un ragazzo che giaceva in una piscina poco profonda, scura. Sul molo, di fianco a Kathleen, c'era una grossa busta della spesa. Dentro vi trovò una busta bianca da lettera piena di soldi. Scarabocchiato sopra c'era un nome, e un altro nell'angolo superiore sinistro. «Kathy, non sai se questo è Bobby». «È lui». Fissava con aria assente quelle acque sporche. Un gabbiano atterrò sul bordo della banchina, stridette pateticamente, poi si alzò in volo in fretta, quasi ansioso di andarsene via. «Sono gli abiti che indossava l'ultima volta che l'ho visto». David guardò nuovamente l'immagine. Non riusciva a distinguere chiaramente il volto del ragazzo e nemmeno i vestiti, e si chiese come potesse lei essere sicura. Lo sfondo era scuro; tutto quello che si vedeva nell'immagine era il corpo. E la macchia scura nella quale giaceva il suo torso. L'afferrò dietro al braccio. «Torniamo indietro». La riportò all'hotel e la mise a letto. Lei rimase distesa a fissare il soffitto. Ogni tanto delle lacrime silenziose le riempivano gli occhi e rotolavano giù lungo il viso. Si sedette con lei, tenendole la mani, lisciandole indietro i capelli, asciugandole gli occhi. Ma aveva poche parole per confortarla. David aveva visto la fine di molti esseri umani. La morte era inevitabile per loro, una realtà che aveva imparato a tollerare, ma con la quale non si era mai riconciliato. La parte più sognatrice di lui pensava: "Se soltanto potessi aiutare tutti i mortali nel processo di trasformazione...". Desiderava liberare quelle anime condannate così come lui era stato liberato dal terrore della propria fine e dal dolore di perdere le persone ama-
te. Conosceva intimamente quei sentimenti, anche se, come si era rivelato, la morte per lui non era stata altro che un portale per un'esistenza inattesa. Forse, aveva riflettuto spesso, la morte era simile per tutte le creature, anche se normalmente l'uscita conduceva a un aereo diverso. Ma persino lui non era così perso nelle sue visioni da non scorgere chiaramente le falle del suo ragionamento. Se non ci fossero stati più esseri umani, non ci sarebbe più stato sangue umano, e la sua razza non sarebbe sopravvissuta facilmente. Il sangue degli animali lo sostentava, ma non riusciva a soddisfarlo. E, oltre a questo, c'era un'altra dura realtà. Per quanto provasse compassione e simpatia per quei fragili esseri umani temporali - ed era stato uno di loro fino a non molto tempo prima, tanto da sentire ancora la loro sofferenza - si rendeva altresì conto che per natura molti di loro erano vili. Gli sarebbe piaciuto camminare sulla terra al fianco di esseri simili a lui quali Dennis o il Sacerdote dei Serpenti? Nella loro condizione di mortali si distruggevano l'un l'altro: cosa avrebbero fatto con i poteri di cui godevano quelli della sua razza? "Persino molti di noi non sono in grado di gestire tali poteri", pensò con amarezza. Tutto quello che poteva offrirle erano vuote banalità: "Il dolore passerà, il tempo guarisce tutte le ferite". Quando Kathleen scivolò nel dormiveglia, lui sistemò la busta della spesa sulla sedia vicino alla finestra e si sedette. I soldi, tutti da venti, ammontavano a quattromila dollari. Il nome del Sacerdote dei Serpenti era stato scritto sul davanti della busta. Nell'angolo superiore di sinistra c'era un nome: Donald Reesone. «Frankie, ho bisogno di qualcuno che resti con Kathleen. Può farlo una delle ragazze?» «Nessun problema. Linette!». La sua fidanzata, una graziosa teenager con la pelle castana levigata e tratti sensuali - e quelle strisce fucsia tra i capelli che affascinavano David - si avvicinò. «Il mio amico Dave ha bisogno di qualcuno che faccia da babysitter a Zero. Sali di sopra». «Ma non lo sai? La schiavitù è finita!». Il tono era imbronciato, ma si girò verso l'ingresso. David ebbe l'idea che segretamente fosse lusingata del fatto di essere stata scelta. «Non permettere che si allontani, e non darle droghe qualunque cosa succeda», l'avvertì David, porgendo alla ragazza la chiave della stanza. «Hai capito?».
La ragazza prese la chiave e annuì mentre se ne andava. «Tornerò appena possibile. Frankie, non riesco ad esprimere quanto apprezzo tutto l'aiuto che mi hai dato», disse David. «Non so che cosa avrei fatto senza di te». «Nulla amico, roba da nulla. Averti nel quartiere è da paura. Da quando sei arrivato è pazzia pura. Quaggiù non succede mai niente tranne un sacco di casino. C'è stato un bel movimento da quando ci sei tu». «Sai Frankie, sei bravo con le parole. Forse stai sprecando il tuo tempo qui». «Ehi, amico, non vorrai mica rifilarmi il vecchio torna a scuola e prendi il diploma, no?» «Certo che no. Sospetto che la scuola ti sopporti poco quanto tu sopporti lei. Mi stavo solo chiedendo se c'è qualcos'altro che ti piace fare oltre a bighellonare fuori dall'Alexander». «Bello, sono il classico ragazzo soddisfatto. Mi piace sballare, ascoltare la mia musica e scopare la mia donna». «Un uomo del Rinascimento», disse David ridendo. «Nient'altro?». Frankie ci pensò su un istante. «Sì. Mi piaceva darmi da fare con la mia macchina, prima che me la rubassero e saccheggiassero». Sorrise. «Ovviamente questo succede in continuazione a New York: giusto, fratello?» «Hai mai pensato di diventare un meccanico? So che è un lavoro ben pagato». «Al vecchio era venuto in mente, ma io sono un poco riluttante. Devo prendermi una Classe A». «È una cosa da tenere in considerazione». Frankie strascicò i piedi, a disagio. «Comunque», disse David, vedendo che era il caso di cambiare argomento, «Hai mai sentito parlare di un certo Donald Reesone?» «Negativo. Ma spargerò la voce in città». David si recò prima verso ovest poi a nord in cerca di cibo. Le ferite l'avevano esaurito, e nell'ultima settimana si era nutrito tre volte ogni sera. Una volta trovato di che sostentarsi, si era fermato in un negozio di Greenwich Village con in vetrina degli animali imbottiti. Un piccolo orsetto bianco con scritto il nome Kathy, stampato sopra un cuore sul petto, catturò la sua attenzione. Poi si recò da Mae per comprare qualcosa da mangiare a Kathy. «Sta ancora male?», domandò Mae. David si guardò intorno. Il ristorante era quasi vuoto.
«Ha avuto uno shock. Riguardo suo fratello». «Bobby?» «Si, temo che ci siano tragiche novità... è morto». Mae gli indirizzò una strana occhiata ma poi disse: «Sì, lo so». «Come hai fatto a scoprirlo?» «Come?». Mae aggrottò le sopracciglia confusa. «Lo sanno tutti. È morto proprio fuori dalla mia vetrina. Era su tutti i giornali. Aspetta! Credo di averlo ancora». Mae tirò fuori una scatoletta di metallo da dietro il bancone e cercò tra il contenuto. Adesso fu David a mostrare un'espressione stupita. «Mae, non mi è chiaro quello che stai dicendo. Quando è successo?» «Ad oggi saranno più o meno due anni». Mae gli porse un ritaglio di giornale che sembrava esattamente uguale alla fotocopia tranne per il titolo. «Bobby è morto due anni fa!», esclamò David. Mae doveva aver compreso quanto fosse sconcertato, perché lo prese per un braccio e lo condusse in uno stanzino sul retro. «Forza. Siediti. Tu e io dobbiamo fare quattro chiacchiere. Vuoi del caffè?». David scosse la testa. «Mae, per caso Kathy ha più di un fratello?» «Non che io sappia. Bobby era l'unico. Un bravo ragazzo, sempre allegro. Una notte è stato investito da una macchina. L'unico aspetto positivo è che è morto sul colpo: non ha sofferto». «Quanti anni aveva?» «Otto. Era nato la stessa settimana in cui avevano buttato giù il cinema». David ebbe improvvisamente un flash della data sul retro di una delle foto che Kathy gli aveva mostrato all'aeroporto di Manchester. E, adesso che ci pensava, la data era di dieci anni prima; otto anni da vivo e due da morto. Mae interruppe i suoi pensieri. «Lascia che ti chieda una cosa. Kathy te ne ha parlato come se fosse ancora in vita?» «Sì. Ma adesso pensa che sia morto - assassinato - di recente». Mae serrò le labbra e scosse la testa tristemente. «Non l'ha mai accettato. Ha parlato di lui negli ultimi due anni come
fosse ancora vivo. «Adesso devo tornare a casa a preparare la cena per Bobby», diceva. Oppure: «Mae, hai visto mio fratello?». La maggior parte della gente si limitava a guardarla come fosse pazza o qualcosa del genere. Comunque, all'inizio ho provato a far sì che affrontasse la realtà, ma lei non voleva. Dopo un po' ho cominciato ad ignorarla o a risponderle come se Bobby fosse ancora vivo. Credo che le droghe l'abbiano confusa». David era sbigottito. Povera Kathleen, pensò. Bobby era tutto ciò che aveva. Probabilmente per questo aveva cominciato a prendere l'eroina. Tutta quella faccenda diventava più strana ogni minuto che passava. Qualcuno non solo sapeva della morte di suo fratello, ma sapeva anche che lei non riusciva ad affrontare la verità. Avevano sfruttato quella situazione per farla andare in Inghilterra. A meno che lei non facesse parte di quel piano fin dall'inizio. D'altra parte, lui non voleva crederlo, anche se il pensiero l'aveva sfiorato, ma non poteva eliminare la possibilità. «C'è qualcos'altro che devi sapere», disse Mae. «Te lo dico solo perché voglio bene a quella ragazza e penso che gliene voglia anche tu. Viene qui da quando ha imparato a camminare. Mi sono sempre sentita come una madre per lei. Non ho mai avuto figli e lei non ha mai avuto una vera madre; la sua è morta, e non era una brava persona comunque. Anche il suo vecchio era un vero bastardo. Ti ha parlato di loro?» «Non molto». «Be', quello che sto per dirti devi tenertelo per te». Lo guardò con aria solenne. «E non voglio che lo usi contro di lei». «Non lo farei, Mae». «Se lo pensassi, non te lo direi». Mae fissò fuori dalla finestra, il suo volto increspato, più vecchio, e David percepì quanto affetto e quanta cura nel corso degli anni avesse riversato su Kathleen. «Anch'io mi preoccupo per lei», disse. «Dubito che qualunque cosa tu possa dirmi cambierà le cose». Tornò a guardare David. «Bobby non è suo fratello». David attese. In un primo momento quelle parole non andarono giù. Alla fine Mae espirò profondamente, come avesse trattenuto il respiro un'eternità. «Suo padre la violentò». Quando alla fine quell'informazione fu assimilata, David sbottò dicendo: «Bobby era suo figlio!». «Il suo vecchio abusava di lei da quando era una bambina. Non era come adesso, con tutto questo parlare sull'incesto. All'epoca nessuno sapeva o voleva sapere. Io lo sospettavo. Certe cose le avverti. Comunque, quando
aveva tredici o quattordici anni, diventò veramente grassa. Tutti la prendevano continuamente in giro perché è così minuta. Poi se ne andò per un paio di mesi e, quando tornò, c'era Bobby con lei». «Ma tu non sapevi?» «Certo. Gran parte del vicinato sapeva. Ma lei disse che si trattava di suo fratello, che il suo vecchio aveva una certa fidanzata a Brooklyn che non voleva il piccolo e così l'aveva tenuto lei. L'anno seguente suo padre se ne andò. Credo che l'avere Bobby le avesse fatto capire quanto fosse depravato il suo vecchio. Aveva soltanto quattordici anni ma era davvero scontrosa. L'aveva sbattuto fuori... dicendogli che, se fosse tornato, l'avrebbe ucciso, e io credo che l'avrebbe fatto. Penso che le prestò fede perché da allora non è mai più tornato. Ad ogni modo, crebbe Bobby come fosse il suo fratellino, e noi tutti l'accettammo, be'...». Sembrava alterata, e David coprì le sue mani sfinite con le proprie. Adesso che tutto era stato detto, si rese conto che aveva sospettato qualcosa del genere da parecchio, ma non aveva voluto crederlo. «D'accordo, Mae. Sono felice che tu me l'abbia detto. Ha bisogno di aiuto». «È stata aiutata. Economicamente, fintanto che Bobby non è stato abbastanza grande perché lei potesse lavorare. La mandarono da ogni genere di dottore. Non era pazza: semplicemente non voleva affrontare la realtà. Non voleva lasciar morire il morto». «Potrebbe cominciare a farlo», disse David. «Pensa che Bobby sia stato assassinato. Almeno adesso crede che sia morto. È un modo di affrontarlo». Mae lo guardò negli occhi e i suoi ebbero un tremito, come se istintivamente avesse dedotto una verità su di lui oltre i propri limiti di comprensione, ma che aveva deciso di non sindacare. Tolse le mani da sotto quelle di David. «Se conoscessi soltanto te e non Kathy, ti direi di stare il più lontano possibile da lei. Ma conosco lei, non te. Ha bisogno d'amore. Non ne ha avuto da altri se non da me. E da Bobby. Tutto quello che ti chiedo è di non farle del male. Ne ha già avuto abbastanza». Quando David ritornò all'Alexander, Kathleen era seduta a letto, con le coperte tirate su fino al collo. I suoi occhi erano spalancati e pieni di paura. «Ciao!», gli disse. Lui si avvicinò al letto e la baciò. Linette si alzò in piedi e, mentre camminava verso la porta, David le
porse una banconota da venti dollari. La ragazza guardò prima quella, poi lui, con volto sorpreso. «Wow, grazie». Piegò la banconota e la mise in tasca mentre se ne andava. Kathy saltò su, gli gettò le braccia al collo e pianse, singhiozzando forte. «Avevo paura senza di te», si lamentò. «Ho sempre paura adesso quando te ne vai». Lui la tenne stretta, come una bambolina di porcellana in pezzi. Non aveva il cuore di confrontarsi con lei; i frammenti della sua anima sarebbero dovuti tornare a posto a modo loro, quando fosse stato il momento. Mentre la confortava, chiuse gli occhi. Un immagine di Ariel gli apparve innanzi come un lampo. Un immagine che lo tormentava, intrisa di dolore lancinante e furia cieca. Non aveva imparato nulla? Era ancora talmente ingenuo da impelagarsi con una femmina capace di tradirlo? No, era impossibile. Kathleen non era Ariel. Ma le parole di Mae lo tormentavano: «...Il più lontano possibile da lei». Quella creatura singhiozzante collassata tra le sue braccia riportò in vita tanto i suoi sentimenti più delicati quanto le sue paure più grandi. La tensione di quelle emozioni conflittuali trasformò il suo corpo in pietra. Si sentiva come una statua, incapace di avvicinare a sé Kathleen o di respingerla. Silenziosamente, pregò che, se fosse arrivato il momento cruciale, non avrebbe preso la decisione sbagliata. Di nuovo. CAPITOLO 12 «Ehi amico, guarda qua. Beccato il tizio: so dove sta». Frankie sbatté sotto il naso di David la pagina diciotto del «New York Daily News». David fece un cenno e Frankie prese l'unica sedia che c'era nella stanza dell'hotel. Zero sbirciò da dietro le spalle di David e lentamente lesse ad alta voce il sottotitolo della fotografia di un uomo alto e con i capelli grigi in giacca e cravatta, che parlava con un altro uomo più giovane e più piccolo in pantaloncini e polo Lacoste. Il regista italiano Mario Farmacotti, e la star di Il bacio della Morte, Donald Reesone, entrambi in città per il Cinefestival di New York.
L'articolo era un breve trafiletto sul regista. C'erano anche un paio di affermazioni di Reesone. Alla fine questi diceva che sabato sera sarebbe andato al party al consolato italiano per omaggiare Farmacotti e la sua opera. David domandò senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Come diavolo faccio a entrare al consolato italiano per questa festa?» «Facile», disse Frankie. «Ti farò avere un invito. Però potrebbe costare. Cinquanta, forse settantacinque, più qualcosa da sniffare». David gli consegnò una banconota da cento dollari. Zero comprese che si sentiva in colpa a pagare la droga. «Ma che fai, stampi i soldi?» «Assicurati che bastino per entrambi», disse lei. David si girò verso Kathleen. «Tu non vieni». «David, non è un bar. È solo...». «No!». Quella durezza la spaventò un poco, così rimase in silenzio. Frankie si alzò in piedi e si stiracchiò. «Vedo che avete delle cose da discutere. Vi rimedierò gli inviti. Forse all'ultimo momento, ma non vi preoccupate. Ci pensa Frankie. Sono l'uomo che cerchi, amico». Quindi, con passo marcato, varcò la soglia e se ne andò. «David...». «Tu non verrai Kathy. Non ho intenzione di discuterne». Si alzò e camminò per la stanza. Lei sapeva che era alterato, e decise di lasciar perdere per un po'. Ma non aveva intenzione di lasciarlo andare da solo, e non voleva neppure che lui restasse tutto quel tempo lontano da lei. C'era ancora tutta la notte per lavorarlo. Distese le gambe davanti a sé e sospirò. In un certo qual modo, nelle ultime quarantott'ore era riuscita ad accettare la morte di Bobby. La sua intera vita sembrava più chiara adesso. E questo la rendeva triste. In realtà, ben più che triste. Ma Zero era stupita del fatto di riuscire a convivere con il dolore. Aveva pianto molto, ma alla fine si era sentita come esaurita, e tutta la situazione aveva cominciato a sembrarle irreale. Era come se già sapesse di Bobby e questo avesse posto fine a tutto. Adesso voleva guardare avanti, lasciarsi il passato alle spalle. Desiderava che il futuro si dipanasse e sperò che fosse possibile. Venerdì sera, appena dopo il tramonto, Frankie portò gli inviti.
David girò tra le dita il tesserino avorio con incisioni d'oro. «Ecco qui davanti, un vero anello di diamanti», disse Frankie. «Come te lo sei procurato?», chiese Kathleen. Frankie fece un sorriso compiaciuto. «Contatti scelti. Mia cognata lavora in cucina. L'ha preso in prestito». Dopo che se ne fu andato, Kathleen si rivolse a lui. «David, ti prego: lasciami venire. Non voglio restare qui da sola. E sarà anche più facile per te. Saprai dove mi trovo, e la gente ti accetterà di più se sarai insieme a una ragazza. E non succederà nulla ad un ritrovo simile. Ti prego. Mi sento meglio. Non lasciarmi qui da sola». David ci rifletté su. A dire il vero ci stava pensando dalla sera prima. L'unico motivo per cui aveva valutato quella possibilità era che non voleva lasciarla sola tutte quelle ore, e pensava anche che uscire dalla stanza le avrebbe fatto bene. Si sarebbe trattato di gente diversa, una situazione più sicura. Infine, se restavano insieme, non poteva cacciarsi nei guai. «D'accordo», le disse, chiedendosi se stava facendo la cosa giusta. Gli occhi della donna si spalancarono. «Vieni con me. Dobbiamo comprare degli abiti adatti e affittare una macchina». Mentre giravano per i quartieri alti della città, David espose a Kathy il piano che aveva già architettato nella sua testa: lui si sarebbe presentato come David Newby, giornalista di un magazine di Londra; lei sarebbe stata sua moglie, Beverly. «Ho letto diverse riviste, ed ho fatto ricerche sui film. Sono a New York per intervistare Farmacotti e, quando incontrerò Reesone, suggerirò una storia anche a lui, in modo da poterlo prendere da solo». Kathleen lo abbracciò. «Mi piace la parte di essere sposati». "Lei è in assoluto la donna più dolce che ho conosciuto", pensò David. Semplice, quasi pura, nonostante avesse dei trascorsi che avrebbero logorato la maggior parte delle persone ben oltre la redenzione. Fecero rapidi acquisti al Bergdorf-Goodman, aperto fino a tardi quella sera; avevano bisogno di comprare diversi articoli. Lui acquistò per sé uno smoking di Armani e per Kathy un abito lungo elegante in lamé dorato con ampie maniche a sbuffo e collo alto, per nascondere le ferite. Quella tunica gli fece venire in mente la moda della sua adolescenza mortale. Con quel vestito sembrava uscita da un film, quasi un pezzo d'epoca. Comprarono anche delle scarpe, una borsetta per lei e, mentre uscivano, due anelli nu-
ziali d'oro da Van Cleef & Arpels. Sabato pomeriggio, Kathy uscì da sola per andare a farsi i capelli e il trucco. Dopo il tramonto, David prese la Bentley noleggiata e passò a prenderla da Bergdorf's. Gli tolse il fiato. Una visione in sfumature d'oro, i suoi capelli ocra incorniciavano la testa in riccioli che rievocavano le donne greche dell'antichità ritratte nelle opere d'arte. Il trucco era lieve, perfetto, copriva le chiazze sul viso, ed era ai suoi occhi di una bellezza radiosa, la principessa di una fiaba, una sposa vergine. Si sentì uno stupido a citare poesie sul marciapiede, ma le parole di Byron gli eruppero da dentro: E, oh! L'avvenenza che scorgiamo talvolta che si posa fugace, la delicata grazia, la Giovinezza, la Vitalità, la Bellezza... Non riusciva a tenere ferme le mani, e lei rise di quella sua risata gaia, gli occhi blu che scintillavano come stelle, dimenticando per un momento la tristezza e la crudeltà di tutto quello di cui era stata recentemente vittima. Al consolato italiano, circondato da una recinzione in pietra, David porse all'usciere l'invito. L'uomo lo guardò appena prima di accompagnarli, con una certa deferenza, lungo uffici simmetrici, quasi severi, ciascuno con la bandiera di circostanza rossa, bianca e verde. Salirono per una scala di legno ben lustra in una stanza al secondo piano. Poi entrarono in un mondo elegante, magico, di quelli che si narrano nelle favole. Una bassa colonna di marmo neoclassica con un vaso da fiori italiano pieno di gladioli dette loro il benvenuto. L'aria stessa era satura del profumo persistente di centinaia di fiori appena colti. David guardò gli occhi di Kathy spalancarsi e le labbra schiudersi. Per prima cosa esaminò il pavimento di piastrelle bianche e nere sotto i suoi piedi, poi le pareti color pesca con pannelli di legno bianco e infine sollevò lo sguardo, quasi ipnotizzata dal lampadario di cristallo che scintillava sopra di loro. Tenne la borsetta stretta davanti a sé come avrebbe fatto una bambina. Chiaramente non aveva mai visto nulla di così grandioso se non nei film. La prese per braccio e la condusse laddove c'era la fila per le presentazioni. «David Newby, signore». Porse la mano all'uomo che sapeva essere, dopo la sua breve ricerca, l'ambasciatore italiano a New York. «Sono un giornalista di "Fame and Wealth", a Londra. Le presento mia moglie, Be-
verly». «Ah sì, leggo sempre la vostra rivista», disse in maniera affabile l'ambasciatore, prima stringendo la mano di David e poi baciando quella di Kathy. Presentò quindi sua moglie, che commentò dicendo di adorare gli articoli di David. Lui la ringraziò. Kathy non disse nulla. Sembrava troppo spaventata per parlare. L'ambasciatore presentò David e Kathleen a Farmacotti, e David domandò se poteva intervistarlo. Il regista, un uomo gracile di almeno sessant'anni, prima si soffiò il naso poi indicò animosamente la sala principale dicendo: «Parli con il mio addetto stampa. È quello con la barba scompigliata, con un blazer blu». Dopo le presentazioni, David condusse Kathy nel locale principale davanti a una lunga tavolata di hors d'oeuvres. «Mangia qualcosa», le disse. «Non posso», sussurrò lei, con gli occhi che scintillavano come due tizzoni blu. «Mi sento il pancino tutto sottosopra». Allora lui la baciò. Si confusero tra la folla per circa un'ora, poi David si unì con Kathleen a un gruppo dove c'erano Farmacotti, Reesone e una donna. «Ah, il giornalista», disse Farmacotti. «Conosce Don?» «Non ci siamo ancora incontrati anche se sono un suo ammiratore da anni e desidero tanto intervistarlo. Forse potremmo organizzare qualcosa mentre mi trovo qui a New York». «Mia moglie». Il tono di Reesone era studiato mentre presentava una donna bruna estremamente sottile, vestita con un abito d'alta moda con le spalline imbottite che avrebbe potuto essere indossato da un giocatore di football. Lei atteggiò la bocca in quello che ovviamente voleva essere un sorriso e disse: «Mi chiami Ellen». Porse una mano scheletrica coperta di anelli d'oro incastonati di pietre preziose. «La leggo sempre. È così arguto». «Grazie», disse David. Reesone era muscoloso, sui cinquantacinque, con spessi capelli del colore dei chicchi di caffè tostato, e occhi castani ravvicinati che non incontravano quelli di David. Fumava sigarette nere dall'odore amaro. Nonostante portasse lo smoking, sembrava un mafioso, cosa adeguata, stando a quello che aveva letto David, ai ruoli che aveva impersonato. Ed era più levigato del farfallino di seta che indossava. «Chiami il mio agente. Leggiamo sempre i suoi articoli», disse con aria indifferente, poi si volse verso Kath-
leen, dicendo: «E chi è questa affascinante creatura?» «Mia moglie, Beverly». Kathy allungò una mano, e Reesone la portò alle labbra. «Salve», disse lei dolcemente. Era la prima parola che avesse detto a qualcuno che non fosse David, e tutte le tracce del suo pesante accento newyorkese erano svanite. David ne rimase sorpreso. «Lei è un uomo fortunato». Reesone fissò Kathy dritto negli occhi, che evidentemente non aveva problemi a incontrare, sempre tenendole la mano. «Sì, lo so». David le afferrò il braccio ed interruppe il contatto tra loro. Il gruppetto chiacchierò amabilmente per dieci minuti o giù di lì, per lo più di gossip legati al mondo del cinema, finché Farmacotti fu trascinato via e Ellen si scusò, lasciando soli Reesone, David e Kathleen. «Hai un volto familiare, Beverly. Dove ti ho vista? I giornali? La televisione? Hai lavorato come modella?». Reesone divenne affascinante e gentile, e David si scoprì irritato da quella maschera trasparente. Riconosceva un altro predatore quando ne vedeva uno. Kathy non rispose subito. Ma, quando lo fece, fu con quello stesso tono delicato e privo di accento. «Studio poesia». «Scommetto che sei attratta dai Romantici». David non si preoccupava del sorriso da squalo di Reesone. Si intromise per spostare l'argomento della conversazione. «Bev ha una mente molto portata per la letteratura. La sto incoraggiando a scrivere. Forse un giorno pubblicherà qualcosa. Mi sembra di aver capito che Il bacio della Morte è ancora in lavorazione». Gli occhi di Reesone s'indurirono, ma si sforzò comunque di evitare il contatto visivo con David mantenendo una facciata di cordialità. «Domani mattina partiamo in aereo per il Canada. Faremo delle riprese sull'isola di Vancouver in un piccolo centro che si chiama Revelstoke, poco distante dalla stessa Vancouver. C'è stata una frana lo scorso inverno, e adesso sembra un paesaggio lunare. Si tratta di un thriller di fantascienza, vagamente ispirato a un racconto di Bradbury. Io interpreto un gangster del futuro». «Interessante», disse David, «e conveniente. Bev e io visiteremo Vancouver e Victoria sull'isola. Dicono che c'è una gran fetta della popolazione che è originaria dell'Inghilterra. Siamo sposati da diversi mesi ma, capi-
sce, questa è la nostra prima occasione di stare via insieme. Una specie di luna di miele». «Delizioso», disse Ellen unendosi nuovamente al gruppo. Era leggermente brilla e il bicchiere di champagne che aveva in mano si inclinava troppo, spargendo vino frizzante sulle mattonelle. Non sembrava rendersene conto. «Sposi novelli. Che cosa romantica». David sorrise. Guardò Kathy, ma la sua attenzione era catturata da un gruppetto di persone dall'altra parte della stanza raccolte intorno a un tavolino da caffè in un angolo, isolate da tutto il resto da palmizi in vaso. Erano piegati sulla superficie a specchio, e di nascosto sniffavano una polverina bianca da tubicini d'oro. Il suo volto si fece pallido e il suo corpo fu scosso da un tremito. «Ti senti bene?», domandò Ellen. Kathleen diede le spalle al gruppo. I suoi occhi spaventati ricordarono a David quelli di un animale paralizzato dal bagliore dei fari. Perline di sudore si facevano strada attraverso il make-up sulla sua fronte. «Se volete scusarci», disse David. «Mia moglie non si sente bene». «Nulla di serio, spero», disse Reesone gentilmente. «No. Aspetta il nostro primo figlio. Ha soltanto bisogno di aria fresca». «Che cosa meravigliosa», esclamò Ellen. «Quando nascerà?» «Manca ancora un po'», rispose David per Kathleen, facendola girare verso la porta. «Felice di avervi conosciuti», disse Ellen. «Magari ci incontreremo in Canada», disse Reesone mentre David conduceva via Kathy. Una volta all'aperto, lei disse: «Mi dispiace David. Non so cosa mi sia successo. A guardare quelle persone che sniffavano, ne ho voluta anche io». Quando ebbero raggiunto la macchina, lui aprì lo sportello posteriore. «Entra dentro». «Perché dietro?» «Siediti sul pavimento», disse lui togliendosi il farfallino. Le piegò le ginocchia e le sistemò le braccia sotto le gambe, poi incrociò queste ultime e legò i polsi insieme. Usò il suo fazzoletto per fissare i polsi alla base metallica del sedile anteriore. «Perché mi stai facendo questo?» «Devo ottenere il suo numero in Canada. E voglio anche fargli qualche domanda. E osservarlo. Devo avere qualche sensazione. È troppo schivo.
C'è qualcosa di strano in lui». «Ma perché legarmi?». David si tolse la fascia di seta e la avvolse intorno alla sua bocca. «Mi dispiace Kathy, ma pare che tu sia sul punto di farti sopraffare dal tuo desiderio. Non voglio lasciarti da sola, ma non puoi stare là dentro. Stai cadendo a pezzi». La baciò sulla fronte poi si alzò in piedi e si abbottonò la giacca. «Non starò via molto». Gli occhi di lei mandavano fiamme. David tornò alla festa e nei venti minuti successivi osservò Reesone di nascosto. Quell'uomo era furbo, scivoloso come il ghiaccio. Ma sotto quell'apparenza c'era qualcosa di oscuro e pericoloso: era in attesa come uno scorpione sotto una roccia. Parlarono brevemente, la tensione tra i due era palpabile. David si domandò se Reesone conoscesse la sua identità o fosse sempre diffidente, prudente, nascosto dietro una maschera di motti arguti. Ad un certo punto David tentò l'ipnosi, ma Reesone non resse il contatto visivo. «Perché non facciamo l'intervista in Canada?», suggerì l'attore, scrivendo un numero di telefono su un tovagliolo di carta. «Noleggio un rifugio sull'isola durante le riprese, per lo più per i week-end. Mi chiami quando è a Vancouver». «Sì», disse Ellen. «Venite a cena. Prepareremo una meravigliosa soirée». «E mi raccomando di portare Beverly», aggiunse Reesone. Quando David tornò alla macchina, slegò Kathy. Lei si mise a sedere sul sedile anteriore senza dire una parola e tornarono all'Alexander in silenzio. «Merda, amico!». Frankie e gli altri rimasero a bocca aperta quando videro prima l'auto e poi la coppia. Kathy passò in mezzo a loro sfiorandoli, ed entrò nell'hotel come una regina che rifiuti di conoscere i suoi sudditi. «Puoi restituirla per me? Dev'essere consegnata per domani sera alle nove», disse David, mettendosi una mano in tasca. «Avrai bisogno di benzina». «Come no!». Frankie prese le chiavi e i soldi, con gli occhi lucidi come palle da biliardo. David raggiunse Kathleen fuori dalla loro camera. Le afferrò il braccio, facendole girare la faccia verso di sé.
«Cosa c'è che non va?», le chiese. Ma la principessa si era trasformata in una strega. «Che non va? Niente. Mi fa impazzire di rabbia essere legata». «L'ho fatto per il tuo bene. Stavi diventando preda delle tue pulsioni, ed io avevo paura a lasciarti sola. Ho pensato che saresti andata a cercarti la droga». «Grazie. Per tutta la vita ci sono stati uomini che hanno fatto delle cose per il mio bene. Prima mio padre, poi il Sacerdote dei Serpenti e adesso tu». Erano all'interno della stanza. David sbatté la porta. «Sei ingiusta. Non si tratta della stessa situazione. Stavi cominciando a tremare e a sudare. La moglie di Reesone aveva notato che qualcosa non quadrava». Lei scivolò fuori dal vestito dorato e si tolse le scarpe buttando tutto in un mucchio sul pavimento. Indossò la sua minigonna nera, gli anfibi e la maglietta. Mentre infilava la sua corta giacca di pelle nera disse acidamente: «Mi sarebbe passata. Avresti potuto semplicemente portarmi fuori un paio di minuti». «Come fai a sapere che ti sarebbe passata? Io non credo. Penso che sarebbe stata una buona scusa». «E legarmi!». La sua voce era tagliente. «Ascolta Kathy, senza dubbio sei ancora scossa per la morte di Bobby. E per tutto quello che ti è accaduto di recente. È una cosa naturale e io lo capisco. Ci vuole tempo per riprendersi da eventi traumatici». Lo guardò, poi afferrò una spazzola e cominciò a spazzolarsi i capelli con lunghe passate rapide. «Piantala di legarmi!». «Smetterò di legarti quando sarò certo di potermi fidare». Gli occhi di Kathy erano pieni d'odio: lo stesso sguardo che gli aveva rivolto a Manchester. Questo spaventò David che si mise sulla difensiva. «Vaffanculo!», gridò lei. «Chi cazzo sei tu per decidere quando ci si può fidare di me? Oltre alla droga, ed è una cosa fisica, sono stata meritevole di fiducia». «Col cavolo che lo sei stata!». «E questo cosa vorrebbe dire?». Gettò la spazzola sul comò. «Sei stata degna di fiducia come un serpente corallo: bello fuori e velenoso dentro».
Si pentì immediatamente di quell'affermazione. All'improvviso, tutto era finito fuori controllo. «Mi dispiace Kathy. Non volevo dire quello che ho detto». Si protese per cercarla, ma lei si tirò indietro. «Se non fosse stato per te, Bobby sarebbe ancora vivo. Se tu non fossi un maledetto vampiro, se tu non fossi esistito, se qualcuno non ti odiasse al punto da tentare di ucciderti...». «È ridicolo...». «È ridicolo un cazzo! Non ti sei mai preoccupato che trovassi Bobby. Tu volevi solo quello che ti stava alle calcagna». «Bobby è morto due anni fa». Venne fuori prima che si rendesse conto di ciò che aveva detto. E sapeva di aver parlato più per rabbia che non per affetto. Kathy si allontanò da lui di un altro passo. «È una bugia». La sua voce era veramente piatta, controllata. «No, Kathy. È la verità». Non voleva sembrare duro, ma fu così. «Bobby è morto in un incidente stradale fuori dal ristorante di Mae. Quella che avevi era la fotocopia di una fotografia su un giornale. Chiunque mi stia addosso ha usato te e il tuo rifiuto di accettare la morte di Bobby». Davanti ai suoi occhi il volto di lei cambiò, e i tratti mutarono finché cominciò a chiedersi se avesse mai visto quella donna prima. «Forse ero confusa, ma ora non lo sono più». La voce era sempre troppo calma, troppo controllata. Raccolse la borsa e s'incamminò verso la porta senza guardarlo. La sua mano era sulla maniglia quando lui disse: «Kathy, non te ne andare. Ti prego!». Lei si girò, i suoi occhi blu, come un oceano di ghiaccio, lo terrorizzarono. «Se te ne vai da me, non sarò più qui quando tornerai. E non provare a cercarmi». La tensione lo stava portando a dire cose che non voleva dire. Ma, ancora prima che potesse fare marcia indietro, lei aprì la porta. «Non trattenere il fiato. Questa è l'ultima volta che mi vedi da dietro!». Fece scivolare dal dito l'anello nuziale d'oro e glielo lanciò, poi richiuse sbattendo la porta dietro di sé e se ne andò via. David fissò la maniglia, aspettandosi di vederla girare da un momento all'altro, quasi incapace di credere che l'avesse lasciato.
«Ehi, Zero, che succede?», chiese qualcuno sotto... Non vi fu risposta. David si costrinse a camminare fino alla finestra e guardò fuori. Stava attraversando la strada, e i suoi scarponi sbattevano rabbiosamente sul duro asfalto. David si accasciò sulla sedia, mentre la guardava andarsene via in fretta, finché non scomparve dietro un angolo. La nota del suo profumo indugiò nell'aria, perseguitandolo per il resto della notte. Un dolore al petto, che si aspettava di non provare mai più, si fece più intenso come se la vecchia cicatrice si stesse lentamente aprendo di nuovo. Quando il dolore divenne insopportabile, gridò nell'immobilità della notte il lamento di Lord Byron: Questo cuore restar deve impassibile, da quando altri hanno interrotto il suo incedere: eppure, se non posso essere amato, ancor mi sia concesso amare! CAPITOLO 13 Zero attraversò in fretta Delancey diretta ad Allen Street, dove prese un taxi. «Portami a West Village», ordinò. Contò i suoi soldi - 855 dollari - quello che restava di quanto le era stato dato per recarsi in Inghilterra. Per un po' di tempo non avrebbe avuto problemi. Durante la corsa attraverso la città continuò a sentirsi furibonda. "È davvero un coglione", pensò. "Pensa di potermi prendere in giro. Be', per quanto mi importa, può andarsene al diavolo". Ma persino mentre lo dipingeva nelle sfumature più cupe che riusciva ad immaginare, un'altra voce dentro stava urlando: «Pericolo!». Mentre si avvicinavano all'Undicesima strada, intravide una sagoma familiare nel quartiere e gridò: «Ferma!». Il tassista affondò il pedale del freno e Zero gli consegnò dei soldi, poi saltò giù urlando: «Ehi, Laser!». «Zero! Che cosa ci fai qui? Hai sentito del Sacerdote dei Serpenti? Che brutta storia, eh?». Si guardò le unghie. «Dove te ne vai, Las?» «Gironzolo per la strada. E tu? Dov'è il tuo uomo?» «Che c'è? Non posso più uscire da sola?». Si sentiva a disagio per
quell'accenno a David. «Vi siete lasciati, non è vero?» «Avevo bisogno d'aria, d'accordo?» «Certo. Se lo dici tu. Senti tesoro, hai dei soldi? Sto andando da mia sorella. Il suo nuovo ragazzo gestisce un localino di prim'ordine. E poi lei ha della roba che è veramente dinamite. Quasi pura. Ne vuoi?». Zero ci pensò su un attimo. «Perché no?». Le due si diressero giù per la Prima strada poi a ovest dentro Alphabet City. Zero seguì Laser su per la mezza dozzina di gradini che si trovavano sulla facciata di un edificio di pietra arenaria, pulito ma indefinibile. Una guardia di sicurezza dall'aspetto cattivo, armato di una pistola, le fece entrare nel palazzo. La porta di un ufficio al primo piano fu aperta da un uomo che teneva in mano un'automatica non ben celata. Quel posto era un casino, ma non peggio di altri visti da Zero. Buste di fast food, pacchetti di sigarette, mozziconi e un assortimento di immondizia varia riempivano ogni superficie, già ingombra del necessario per trasformare la cocaina in economico, potente crack. Un odore metallico di etere riempiva l'aria, l'odore che rimane dopo il processo di purificazione. La sorella di Laser, Connie, che Zero aveva già incontrato, era una donna con il gel nei capelli e denti tutti grigi, di trent'anni appena, che sembrava averne quaranta. Invece di salutare, tirò fuori un barattolo di biscotti a forma di ippopotamo rosa con una cravatta blu e un unico dente bianco scintillante. Spostò da parte quello che già si trovava sul tavolino da caffè e rovesciò il contenuto. Dentro c'erano bustine sigillate da cinque per cinque centimetri di polvere marrone chiaro. «Quanto?», chiese Zero. «Una busta cinquanta. Tre centoquaranta. Ti servono gli attrezzi?» «Naa. Dammene tre. Quanto vuoi in prestito, Las?» «Hai cinquanta?». Zero le consegnò due banconote da venti e una da dieci, poi pagò Connie per tre bustine. Connie, assunto il ruolo della hostess, preparò uno speedball, una miscela di coca e eroina, e la iniettò in una vena dietro il ginocchio di sua sorella. Zero guardò il volto di Laser arrossire e il respiro accelerare, mentre i suoi occhi si giravano per un momento all'indietro. Infine un sorriso si diffuse sul volto dell'amica.
«Cavolo, questa è roba salutare!». Connie offrì l'ago a Zero. «Uh... uh. Sono in ritardo», disse lei, sorpresa di se stessa, essendo quella la prima volta in cui rifiutava una dose di qualcosa. Ma si sentiva agitata, ancora arrabbiata: doveva andarsene di là e rimanere da sola. Si diresse verso il bar all'angolo, pensando che avrebbe potuto fare un piccolo affare. "Non mi serve questa merda", pensò, riferendosi all'eroina. "E non mi serve David. Sono stata bene prima che arrivasse lui e posso ancora farlo. E poi non è neppure umano". Ma non era del tutto convinta di quei pensieri. Era un piccolo bar pulito, e lei si sedette su uno sgabello. Nell'arco di cinque minuti, un uomo magro di oltre quarant'anni, con uno stomaco prominente e delle bolle sul collo le si avvicinò. «Sono qui per affari». Biascicò leggermente le parole. «Non faccio S o M o B o D, Con cento dollari ti compri qualunque altra cosa da una sega ad una scopata completa, più quaranta per la stanza». Lui le diede un'occhiata. "Un piazzista", pensò lei. "Del Midwest. Senza famiglia. Probabilmente cerca di mercanteggiare con me". «Vai davvero veloce», disse lui. Si era accorta del suo nervosismo. «Cento dollari sono una bella cifra». «Non farmi perdere tempo». «D'accordo. Ci sto». Lo portò in un hotel a Bowery. Una volta nella stanza, fu Zero che cominciò a sentirsi nervosa. "E se è un balordo?", pensò tra sé. "Che cosa pazzesca. Questo è come pane, burro e marmellata. Ne hai scopati a centinaia come lui. Ti stanno saltando i nervi, ragazza". Il piazzista decise che voleva un pompino. Lei prese i soldi e lo fece sedere sul bordo del letto. Zero si mise in ginocchio davanti a lui. Nel giro di trenta secondi era tutto finito. Dopo, si sentì un po' male. "Cosa diavolo ci faccio con questo scemo?", si domandò. Lo sbatté fuori dalla stanza e chiuse la porta. Poi si sedette sul letto e pensò a David e alla roba nella sua borsetta. Non riusciva a ricordare perché era furiosa con lui. L'aveva legata, ma non era poi una cosa tanto grave. L'aveva fatto semplicemente perché era preoccupato per lei. Lo sapeva: allora perché era andata su tutte le furie con lui? Aprì la borsetta e guardò quella polvere bianca. "Si tratta di Bobby", pensò. "È quello che ha detto riguardo il fatto che
Bobby è già morto". No. Non voleva pensarci. Aprì una delle bustine e sniffò una piccola quantità di polvere. Una mazzata. Poi la calma si sprigionò in lei partendo dalle estremità del suo corpo. Quando scivolò sul suo petto, sentì il cuore rallentare quasi sul punto di fermarsi. Ben presto non sentì più nulla. Alla fine si alzò e abbandonò l'hotel. «Coca?», sussurrò qualcuno mentre lei gli passava vicino. Camminava senza meta mentre osservava la folla. C'erano molte persone che passeggiavano perché il tempo era davvero splendido. Quelli felici sembravano essere quelli accompagnati. Quelli tristi erano da soli. E lei si sentiva estranea a tutti, quasi fosse appena atterrata su un altro pianeta e non sapesse come comportarsi con quella civiltà. Ma, nascosta dietro quella sensazione, ce n'era un'altra: provava un senso di vuoto fin troppo familiare. La sensazione che lei era l'alieno e che avrebbe potuto anche non esistere. Tutto a un tratto fu travolta dal bisogno di vedere David, di parlargli, di toccarlo e di sentire che la toccava. Fece cenno ad un taxi. Tornata all'Alexander, Louie la fermò sulle scale. «Ehi, Zero. Dove stai andando?» «Nella stanza». «Lui se n'è andato». Zero pensò di non aver capito bene e disse di nuovo: «Se n'è andato?» «Già». «Louie, mi vuoi dare la chiave?» «Se la vuoi, devi pagare». «Lasciami soltanto entrare un momento. Ho dimenticato una cosa». «Cinquanta bigliettoni». Allungò la mano. Lei cercò dentro la borsetta e tirò fuori cinque pezzi da dieci, troppo sconvolta per preoccuparsi che la stava rapinando. L'uomo le lanciò la chiave. Corse su per le scale e aprì la porta. La stanza era vuota. Controllò nel bagno, l'armadio, persino sotto il letto. Il cassetto del comodino da notte e tutti i cassetti del comò. Fu solo perché le capitò di abbassare lo sguardo che vide la cassetta che David le aveva registrato sul fondo del cestino per i rifiuti. La raccolse e si sedette sul pavimento, tenendola stretta al cuore. E anche se la droga teneva ancora a bada la tristezza, sentì le lacrime, come gocce di gelida pioggia, bagnarle il volto. Mentre lasciava l'Alexander, Zero vide Frankie appoggiato a un lampione, che si sforzava di leggere un libro. Non ci fu bisogno che le dicessero
che si trattava del libro di poesie. «Ciao, Mae». Zero sedette pesantemente su uno sgabello nell'angolo più distante del bancone. «Kathy, tesoro, che cosa è successo? David è stato qui. Ha detto di darti questo». Mae le porse una grossa busta di cartoncino. Zero per aprirla la strappò e diede un'occhiata all'interno. C'erano delle grosse mazzette di banconote e nient'altro. Forse si trattava dei soldi della cassetta di sicurezza. Sollevò lo sguardo. «Non ha detto nulla?» «Soltanto che l'hai lasciato. Perché, Kathy?». Zero allungò le braccia sul bancone e appoggiò la guancia contro il freddo laminato. «Abbiamo litigato. Ha detto delle cose riguardo Bobby... che era morto due anni fa... io sono diventata furibonda e... non so che cosa è successo, Mae». «Ma tesoro, ti ricordi dell'incidente. Lo sai che Bobby è morto da due anni». Anche se si sentiva arrabbiata nel sentirlo dire da Mae, Zero sapeva che era la verità. Si rese conto in quel momento di averlo sempre saputo. Perché non era riuscita ad accettarlo quando era stato David a dirglielo? «Oh, Mae, stavolta ho davvero rovinato tutto». «Tesoro, se lo ami, non permettere che il tuo orgoglio si metta in mezzo». «Mi ha detto di non cercarlo». «Quello era semplicemente il suo orgoglio che parlava». Prese le mani di Zero nelle sue. «Sai dove è andato?» «Credo che abbia abbandonato gli Stati Uniti». «Che sia tornato in Inghilterra?» «Uh-uh. Da qualche parte in Canada. Van qualcosa. Non riesco a ricordare». «Vancouver», giunse una voce dall'altra parte del bancone. Zero guardò in quella direzione. «Già, penso sia quella». «Dove si trova, Al?», chiese Mae. «Nel Canada di nord-ovest. È la loro California». Al tornò al suo caffè. «Vai là, Kathy. Ti darò io i soldi. Prenditi un biglietto aereo e trova David». «I soldi li ho». «Tieni». Mae si protese, tirò fuori il telefono nero da sotto il bancone e
lo mise davanti a Zero. Ma Zero si limitò a fissarlo. «Forza, dai! Prendi un biglietto». «Non so come fare». «Cavolo, sembri una bambina», disse Mae mentre si piegava e tirava fuori anche le pagine gialle di Manhattan, ma c'era poca irritazione nella sua voce. «Cerca le agenzie di viaggio e chiamane una». Trovò per Zero la pagina giusta e resse il volume davanti a lei. Ma Zero continuava a esitare. Alla fine disse: «Non credo che mi riprenderà con sé». Mae le lanciò un'occhiata minacciosa. «Kathleen, smettila di sentirti in colpa per te stessa e smettila di fare i tuoi giochetti. Non ce ne sono molti come David, e sarà il più grande errore che tu abbia mai commesso se lo lascerai andare via». «Non è quello che pensi, Mae. Voglio dire, sì, è speciale. Ma ci sono delle cose su di lui che tu non sai. Non è come le persone normali». «Stai dicendo che ti ha fatto del male?» «No, nulla del genere. È buono con me». «Non è divertente, è così? Voglio dire, a letto?». Zero rise leggermente e scosse la testa. Mae si mise una mano sul fianco e rimase in silenzio alcuni secondi. Alla fine, come una madre che dà ordini, disse: «Kathy, anche se fosse Lucifero stesso, non ha importanza. Quello che conta è che ti ama e che tu ami lui, e non troverai più una cosa del genere tanto facilmente. Credimi, lo so. Adesso muoviti con quel dannato telefono prima che sia troppo tardi!». PARTE SECONDA «Chi può salvarmi dallo sprofondare in un mare di vergogna, se non il dio dell'amore che ci insegna come perdere i sensi?» Vallana (A.D. 900-1100) CAPITOLO 14 Il mattino seguente Zero s'imbarcò su un volo per Vancouver. A causa del fuso orario, arrivò alle otto di mattina, ora del Pacifico. Non era a suo
agio in aereo: si sentiva del tutto fuori dal proprio elemento. "Come ho fatto ad arrivare in Inghilterra da sola?", si chiese, poi si rese conto che era stata l'eroina a farle superare quella e molte altre paure. Ma adesso stava smettendo, anche se l'aveva portata con sé, nascosta negli slip, giusto in caso di bisogno. Prese un taxi fino in città e rimase sorpresa nello scoprire una metropoli civilizzata. Per qualche motivo, aveva l'immagine del Canada come avvolto nella neve, persino in estate. E per le strade non c'erano neppure le classiche guardie canadesi. Al posto di tutto ciò, trovò una città moderna e frenetica, fatta di edifici alti e bassi dalle tinte pastello ancor più accentuate dal sole brillante, limitata da una parte da una baia e dall'altra da montagne sormontate di neve. «Ehi, devo fare un mucchio di telefonate. C'è un posto dove posso andare?», chiese al tassista, un tizio giovane con i capelli a punta, dei tatuaggi sui bicipiti e occhi chiari, umidi. «Che te ne pare dell'ufficio principale della BC?», suggerì questi. «Bene. Andiamo». Il conducente fu felice di cambiare dieci dollari americani con venticinque della valuta corrente, dandole due manciate di monete. Alla Compagnia Telefonica si fermò alla prima cabina, ma le pagine gialle erano state portate via e così tentò quella adiacente. Alla fine trovò un elenco e aprì alla voce «Hotel», cominciando con l'A Budget Inn. Arrivata alla L, ebbe fortuna. «Si, il signor David Newby è registrato qui», le disse il receptionist del Lloyd Hotel. «Grazie», disse Zero, senza preoccuparsi di far loro telefonare in camera. Prese un altro taxi. Fu una corsa breve fino al piccolo hotel situato vicino alla English Bay. «Sono Beverly Newby», disse al giovane dietro il banco. «Mio marito, David, è qui». Lui le diede un'occhiata come se non le avesse creduto del tutto, ma era troppo educato per mostrarlo, poi controllò il libro delle registrazioni. «Il signor Newby è nella stanza 402». Si girò verso la griglia con le chiavi. «Dovrebbe essere ancora in camera». «Grazie», disse lei, quasi scappando verso l'ascensore. Ma, quando ebbe raggiunto la 402, Zero trovò la porta chiusa a chiave e si rese conto che, essendo giorno, David non poteva rispondere. Ridiscese le scale fino alla
sala d'aspetto, un ambiente molto inglese con arredamento blu e verde molto serio e composto, con una lieve nota di rosa. Sapeva che il suo abbigliamento di pelle nera doveva sembrare sinistro in quell'ambiente contegnoso. «Credo che non ci sia», disse al commesso. «Allora temo che abbia la chiave con sé», disse l'uomo, in tono poco espansivo, sul volto un'espressione che Zero interpretò come di disapprovazione. «Be', io devo entrare. Avete una seconda chiave?» «Temo di no, signora Newby». Si era resa conto che lui non credeva che lei fosse chi diceva di essere. Si sentì scoraggiata. Non erano ancora le dieci di mattina, e avrebbe dovuto attendere le otto o le nove perché David si svegliasse. «C'è una caffetteria?». L'uomo si dedicò al registro delle presenze indicando in maniera assente verso l'altra parte della stanza. «Grazie. Lei è davvero simpatico». Passeggiò noncurante su quel tappeto serioso, tra poltrone con un assortimento di ospiti ammutoliti dall'aria severa. Zero pensò che il movimento dei suoi fianchi era ben più eccitante di quanto quel posto potesse sopportare. Non aveva mangiato sull'aereo, ma decise che avrebbe potuto mangiare in quel momento, dato che non aveva niente di meglio da fare. Si immerse negli avanzi di due uova al tegamino, tre caffè, un toast e bacon canadese, che non le piacque, fino alle undici, mentre la cameriera le indirizzava delle occhiatacce perché aveva occupato un tavolo per tutto quel tempo. Per la prima volta nella sua vita era preoccupata. Fino al giorno precedente, non le era importato di rimanere sola. Ma adesso, per qualche motivo, era impressionata da quanto fosse in realtà sola. Non aveva una famiglia, non aveva dei veri amici. Mae era l'unica persona sulla quale potesse contare che si preoccupava per lei, e non ci sarebbe stata per sempre. Vide una donna che portava della biancheria, realizzò che in un posto di lusso come quello c'erano delle cameriere, e si sentì sollevata di poter fare qualcosa invece di restare seduta a preoccuparsi. Prese l'ascensore fino al quarto piano, ma non c'erano cameriere là. Allora salì di un piano, poi di un altro, per trovare infine al settimo una ragazza che trascinava per il corridoio un mucchio di coperte su un carrello. «Ehi, senti! Il mio uomo è uscito portandosi la chiave, e io devo andare assolutamente in bagno. Puoi farmi entrare in camera?».
La giovane ragazza, che sembrava essere la studentessa di un college con un lavoro estivo, guardò Zero come se qualcuno le stesse facendo uno scherzo. «Qual è la sua stanza?» «Quattro-zero-due». La ragazza sembrava scettica, ma la seguì all'ascensore. Al piano di sotto aprì la 402 e Zero le porse tre dollari in monete da un quarto. All'interno notò degli oggetti familiari sul comò: l'asciugacapelli, il necessario per radersi, lo spazzolino da denti, e gli abiti di David. Tutto questo la rese felice. Premette l'interruttore della luce nel bagno. Il suo pettine era di fianco al lavandino. Lo prese e lo tenne davanti a sé. Si sentiva veramente eccitata e voleva andare dritta da lui, raggomitolarsi addosso a lui, ma sapeva di non dover esporre alla luce l'armadio. Controllò l'orologio; erano solo le undici e cinquanta. Non sembrava esserci altro da fare se non dormire. E adesso che ci pensava, si rese conto che non dormiva da due giorni. Le tende dai ricami floreali erano già chiuse. Abbassò il copriletto e il lenzuolo superiore intonati, si tolse i vestiti, ripose l'eroina nella borsetta, quindi si mise a letto. Le lenzuola erano piacevolmente fresche e il materasso soffice. Pensò a David, a quanto era gentile, e lo stava già sognando prima ancora che l'orologio di una chiesa rintoccasse mezzogiorno. «Che cosa ci fai qui?». Fu strattonata giù dal letto e messa in piedi. Solo la luce del bagno era accesa, ma non aveva bisogno di vederlo per sapere che era arrabbiato. «Sono tornata». «Sì, lo vedo. Ti avevo detto di non seguirmi. Perché sei qui?». Fu irritata dalla sua rabbia. Immediatamente il suo pensiero corse all'eroina nella borsetta, ma allontanò dalla mente quell'idea. «Voglio stare con te». «Non è quello che volevi l'altra notte». Cercò di prendere i propri vestiti, sentendosi terribilmente nuda sotto lo sguardo duro di lui. «Ho commesso un errore. Ci ho riflettuto. Voglio stare qui». Lui le afferrò il braccio e la scosse leggermente. «E quello che voglio io, Kathy? Non ti è venuto in mente che non sei più la benvenuta?». Lei non disse nulla, sentendosi ferita dal suo rifiuto.
Non appena lei ebbe finito di vestirsi, David disse: «Vieni con me», conducendola fuori dalla porta. «Dove andiamo?». Invece di rispondere, la portò giù nella sala d'attesa, oltre la reception, poi all'esterno e dentro un taxi. «Stanley Park», ordinò al tassista. «L'ingresso di Georgia Street, per favore». Il suo corpo era teso, rigido, e lei si sentì leggermente spaventata. "È così arrabbiato con me", pensò. "Forse è troppo tardi". Al parco pagò il conducente e la trascinò tra i giardini di fiori e una foresta urbana di abeti, querce e cipressi. "Questo posto dev'essere grande come Central Park", pensò Kathleen. Alla fine giunsero a uno zoo. «Aspetta qui», disse lui, facendola fermare di fronte a una gabbia. «E non gironzolare! Mi hai capito?». Lei annuì e lo guardò mentre si affrettava per il viale. Era vestito in maniera differente: jeans, una maglietta rossa, e una giacca di pelle marrone scuro corta sfoderata. Le piaceva il modo in cui camminava, con quelle lunghe falcate, il modo in cui i suoi fianchi si muovevano proprio a causa di quella tensione. Le spalle erano ampie, e questo la fece eccitare. Svoltò dietro un angolo e fu fuori dalla sua visuale. Zero guardò attraverso la grata metallica verso quelli che, a prima vista, sembravano essere due grossi cani bianchi ringhianti intenti a girare in tondo. Una targhetta di fianco alla gabbia la informò che si trattava di lupi artici. «Cavolo», disse ad alta voce, «voi due sembrate persone. Mangiate, dormite, vi accoppiate per tutta la vita, e a volte dovete combattere per quello che volete». Pensò a quanto era arrabbiato David, sperando che gli sarebbe passata in fretta. Ma se non fosse stato così? Che cosa avrebbe fatto? L'istinto le suggerì che le cose erano in un certo quel modo cambiate, che lei era cambiata. Qualunque cosa fosse successa, la loro relazione non sarebbe più stata la stessa. Questo la spaventò, e pensò di farsi una piccola dose di eroina mentre lui era via. Solo un assaggio non le avrebbe fatto male: la dose sufficiente per rilassarsi. Ma decise di non farlo. Lui se ne sarebbe accorto. In qualche modo l'avrebbe capito. E l'avrebbe reso ancora più furioso. Il lupo maschio improvvisamente affondò i denti nella pelliccia sul collo della femmina e la montò. Zero guardò, ipnotizzata, mentre si accoppiavano proprio davanti ai suoi occhi. Il rapporto fu breve e, quando ebbe ter-
mine, la femmina si afflosciò sulle zampe. Si buttò di fianco, poi sulla schiena, rotolandosi e stirandosi per terra in modo lascivo, come in estasi. «Andiamo». David tutto a un tratto era di fianco a lei. Adesso sembrava più pieno, la sua pelle aveva ripreso leggermente colore; immaginò che fosse andato a procurarsi del sangue. Forse succedeva perché la sua mente era, una volta tanto, libera dall'eroina, ma l'idea di bere del sangue improvvisamente la colpì in tutta la sua stranezza. Si chiese delle sue vittime, se si sarebbero riprese o se sarebbero diventate dei vampiri anche loro. Si toccò il collo: i segni del morso erano quasi scomparsi. Le venne in mente che avrebbe potuto trasformarsi dato che lui l'aveva morsa, e cominciò a pensare a quando. All'uscita del parco attese sul bordo del marciapiede mentre lui cercava un taxi. «Dove andiamo adesso?» «Tu vai all'aeroporto. Te ne torni a New York». Fece due passi indietro. «No! Io voglio restare qui. Con te». «Tu non resterai. Non ti voglio qui». Si voltò, ma non abbastanza in fretta. Lei notò qualcosa oltre alla rabbia nei suoi occhi. «Ho fame», disse lei. «Normalmente servono cibo sulle tratte commerciali, no?» «Ti prego. Non metto niente nello stomaco da molto tempo». «Mangia all'aeroporto». «David, mi sento male. C'è un locale dall'altra parte della strada. Non possiamo prima andare là? Per favore». Lui esitò, poi disse: «Allora vieni con me», guidandola per il braccio verso il caffè all'aperto. Erano seduti in un angolo sotto un ombrellone Cinzano, e Zero ordinò un hamburger ben cotto, patatine e una Coca. Quando la cameriera se ne fu andata, si girò verso David. Il suo volto era duro, implacabile. «È carino qui», disse lei in tono grazioso. «C'è una spiaggia e tutto il resto vicino all'hotel». «Perché sei tornata?» «Te l'ho detto, voglio stare insieme a te». «E io ti ho detto di non cercarmi. Te ne sei andata. È un gioco che si
permettono i mortali, e io mi rifiuto di giocarci. Game over, come avrebbe detto Frankie». Lei si succhiò il labbro inferiore e abbassò lo sguardo. «Ho sbagliato a farlo. Sono tornata più tardi ma tu te n'eri già andato». Voleva vedere l'amore, ma negli occhi di David c'era solo diffidenza. «David, ti prego ascoltami. Ho rovinato tutto, lo so. Quando mi hai detto di Bobby, non so, sono impazzita. Ma è vero quello che hai detto. Allora non riuscivo a capirlo. Non è che io ti stessi mentendo, stavo mentendo a me stessa». Lui non disse nulla, ma questo non la scoraggiò. «Ci ho riflettuto in seguito e anche Mae l'ha detto. Bobby morì in un incidente d'auto. Mi dispiace di non averti creduto». Kathleen sentì che qualcosa dentro di sé stava cambiando, come se il terreno sotto i suoi piedi si fosse trasformato in una cavità e lei fosse stata risucchiata verso il basso. L'averlo detto, in qualche modo l'aveva reso reale. Non riusciva a ricordare di essersi mai sentita tanto vulnerabile. David la guardò, pieno di esitazione, con tutto il timore di fidarsi nuovamente di lei, e il timore di non farlo. «Io voglio rimanere. Ti amo. Ti prego, riprendimi con te», disse lei, con gli occhi tondi come lune gemelle, blu come il Mar Egeo. «Ascoltami, Kathleen, e ascolta attentamente, perché non intendo ripeterlo. Con te sono stato gentile, troppo gentile. Hai fatto continuamente ciò che volevi di me, e io ho permesso che succedesse». «David, io non volevo, io...». «Non parlare! Ascolta e basta». Lei chiuse la bocca e lo fissò, ma David non fu sicuro che lei stesse comprendendo quello che le diceva. «Non hai mai avuto un uomo che ti amasse», disse. «Tuo padre era un bruto, non un vero padre, e allora come fai a sapere come si tratta l'amore? Lo capisco. Per metà del tempo sei rozza come un camionista, e l'altra metà sei indifesa come un passero con un'ala spezzata, e vuoi che io mi occupi di te. Ma, quando lo faccio, te la prendi con me per averlo fatto. Non sono tuo padre e non posso rimediare al danno che hai subito. Tutto quello che posso essere è il tuo amante, il tuo amico, ma dubito che sia abbastanza. Il danno è troppo grande. Sei continuamente sull'orlo dell'autodistruzione». Sembrava disperata, spaventata. Le tremava il labbro inferiore. «Ma hai bisogno di una figura paterna, su questo non c'è dubbio. Io pos-
so assumere quel ruolo, ma non voglio farlo per sempre. Ti mostrerò che cosa significa, ma voglio che tu impari, prenda il comando e faccia da sola. Non sai come prenderti cura di te stessa, come darti dei limiti. Se desideri restare con me, ci saranno dei limiti che rispetterai e imparerai, o ci separeremo per sempre. Capisci quello che sto dicendo?». Lei annuì, con gli occhi così gonfi che David si aspettò che piangesse. «Hai provato ad uccidermi, sia nel corpo che nell'anima. Ho poche ragioni per fidarmi di te». Fece una pausa in modo che lei potesse mandar giù quelle parole. «Allora, ecco come sarà. Per cominciare, queste sono le cose che io voglio che cambino. Primo, smettila di conciarti come una puttana». «Ma David...». «Silenzio! Voglio che tu ti vesta come una persona adulta, e che ti metta meno trucco. Inoltre, basta con le droghe. Di nessun tipo. Se ti vedo che cerchi delle droghe, me ne vado, per usare una forma colloquiale. Farai almeno due pasti abbondanti al giorno e non voglio sentire scuse. Infine, insisto perché tu dica la verità. Basta bugie, basta omissioni. Se hai qualche informazione utile, per esempio, quello che sapevi del Sacerdote dei Serpenti e che non ti andava di dirmi, voglio che tu lo dica apertamente. Smettila di cercare di proteggermi, di imbrogliarmi e di manipolarmi. Non prenderai decisioni unilaterali, sono stato chiaro?». Lei si limitò a fissarlo, con le labbra leggermente aperte, uno sguardo scioccato sul volto. «Allora? Sono stato chiaro?» «Sì», disse lei alla fine. «Bene! Adesso, per favore vai nel bagno delle signore e lavati via dalla faccia il novantanove per cento di quel trucco». Lei non si mosse. «David, forse non ho capito bene. Mi sembra di capire che se indosso un vestito che non ti piace o metto troppo rossetto, mi lascerai». «Ti sto dicendo che se ti presenti in quel modo, richiami su di te, e di conseguenza su di me, un mucchio di attenzioni seccanti. Guardati intorno. Tutti in questo ristorante ti hanno guardata. Fai di tutto per essere allontanata tranne che da papponi, clienti e spacciatori». Kathleen si girò appena. Nessuno incontrò il suo sguardo, ma lui riusciva a notare alcune occhiate furtive. Quando si fu girata di nuovo; sembrava imbarazzata. «D'accordo», disse lei alzandosi in piedi.
«Un momento». Le tolse la borsetta e frugò all'interno, estraendone infine le due bustine rimaste di eroina. Le fece scivolare nella tasca della giacca. «Ce n'è dell'altra?» Lei scosse la testa e lui le restituì la borsetta. David la guardò camminare in mezzo al patio e sparire dietro la porta con su scritto "Femmes". Mentre era via ordinò sogliola fritta e un'insalata al posto dell'hamburger. "Cosa sto facendo?", chiese a se stesso. "È pura pazzia. Non è più meritevole di fiducia di quanto non fosse due sere fa. È una drogata, un relitto umano che non riesce ad affrontare la realtà della propria vita. Che cosa farà dell'eternità? Lo sai che ti abbandonerà di nuovo", ammonì se stesso. "Perché ti stai preparando affinché ti facciano del male? Non è stata sufficiente Ariel?". Mentre tornava al tavolo, David vide che osservava la gente guardarla e pareva a disagio. I suoi capelli erano spazzolati all'indietro, il viso ben lavato fino a essere quasi privo del trucco pesante che usava normalmente. I lividi in via di guarigione erano chiaramente visibili. Indossava il suo corpetto in pelle nera e la minigonna come una seconda pelle, esponendo gran parte della prima, e mentre il suo corpo ondeggiava sensuale lungo il patio, tutti gli occhi erano attratti da quel movimento, inclusi quelli di David. «Ehi! Cos'è questa roba?», chiese lei mentre si sedeva. «Mangialo. È più salutare dell'immondizia che hai ordinato. D'ora in poi, voglio che tu scelga del cibo migliore». Sollevò forchetta e coltello e cominciò a tagliare il pesce. Prese un piccolo boccone quindi mangiò una forchettata d'insalata, masticando lentamente. La guardò in silenzio mentre ne divorava la maggior parte. Quando se ne andarono, camminarono per Denman Street, e David fece entrare Kathy in un negozio specializzato in articoli di cotone d'importazione messicani. Prese una gonna lunga, del colore della parte interna di un melone bianco, un'ampia camicetta d'un bianco sporco e un paio di sandali. Quando venne fuori dal camerino, era un'altra persona. «Che hippie!», disse lui ridendo. Poi quasi si mise a piangere pensando: "Perché mi deve ricordare così tanto Ariel?". «Perché mi fissi in quel modo?» «Mi ricordi una persona. Qualcuno che conoscevo molto tempo fa». «Una fidanzata?» «Sì». «Come si chiamava?» «Ariel».
«La amavi?» «Sì». Kathleen parve fragile quando chiese: «Ancora?» «Non amore. Non adesso». Mentre se ne andavano, la commessa chiamo: «Ehi!». Mostrò gli scarponi neri fino alla caviglia di Kathleen, la sua minigonna, il corpetto, e la giacca di pelle nera. «Tienili», disse Kathy. Passeggiarono lungo la spiaggia di English Bay. La marea era bassa, e dapprima camminarono vicino alle deboli onde che si frangevano sulla riva, poi tornarono indietro sulla sabbia asciutta. La luna, signora volubile della notte, era soltanto una frazione più della metà. David sentì di essere caduto in disgrazia con quella signora celestiale quasi quarant'anni prima. Quella notte riusciva appena a delineare il suo volto antico, impassibile. Nonostante le luci di Vancouver, la spiaggia era buia e c'erano un mucchio di stelle, come frammenti di cristallo bianco, sparse nel cielo nero. Poche persone passeggiavano: alla fine trovarono una striscia di sabbia deserta. «Guarda!», gridò lei, raccogliendo una minuscola conchiglia a spirale, sentendola dato che era troppo buio per vederla bene, poi porgendola a lui, quindi appoggiandola al proprio orecchio, col volto pieno di meraviglia e delizia. "È come una bambina, che scopre tutto per la prima volta", pensò David. "Come una di noi, mutati, che vede il mondo come lo vedevamo noi". Sedette su un tronco di legno e la guardò camminare fino al limitare dell'acqua, con i fianchi che ondeggiavano leggermente. Una brezza leggera spingeva verso sinistra tanto la sua lunga gonna quanto i suoi capelli di seta del colore del grano. Distese lentamente le braccia dai fianchi fin sopra la testa: sembrava un'invocazione. Poi si girò. "Come Afrodite che si desta", pensò, e venne da lui. Si inginocchiò tra le sue gambe e appoggiò la testa sulla sua coscia vicino all'anca destra, cingendolo per la vita. David passò le mani tra i suoi capelli. Le sue dita sensibili ne esplorarono le sporgenze e i contorni del viso, seguendo le ossa sotto la pelle morbida, porosa. Il profumo di lei lo sopraffece. La sollevò verso di sé, le succhiò le labbra soffici, abbracciando la sua carne calda, amandola come se non si fossero mai separati. CAPITOLO 15
«Sì, Don. Mi fa piacere che tu abbia richiamato». David fece cenno a Zero di rimanere in silenzio. «Vancouver Island? Bene». Lo vide scrivere qualcosa sul primo foglio di un blocco con stampato in basso il nome dell'hotel. Strappò il foglio e lo mise nella tasca della camicia. «Venerdì sera alle dieci. No, Beverly non potrà unirsi a noi. Non si sente bene. Temo di no. Sta abbastanza male. È sotto antibiotici». Zero cominciò a protestare, ma lui le indirizzò un'occhiata severa che la zittì subito. «D'accordo. Ci vediamo venerdì». Non appena ebbe riattaccato il telefono, lei disse: «Vai senza di me?». Il volto di David si fece più scuro. «Sì. E stavolta intendo farlo. Voglio che tu rimanga qui, così saprò dove ti trovi e che sei al sicuro. E non voglio più discuterne». «Okay». Si lasciò cadere sul letto. Se desiderava questo, lei non avrebbe discusso. Era talmente felice di essere tornata con lui che non le importava di un mucchio di cose per le quali prima avrebbero litigato. Lui si sedette e Kathleen gli mise le braccia intorno al collo attirandolo a sé. Mentre si baciavano sentì che lui si stava rilassando. Le accarezzò i capelli e quegli occhi nocciola vagarono amorevolmente sul suo viso. Ma poi parve distante. «Mi stai di nuovo guardando in quel modo. Come se ti ricordassi la tua vecchia fidanzata». «Mi dispiace». Le tenne il mento nella mano. «Forse è per come sei vestita. Oppure il tuo viso senza trucco. A volte sembri un po' lei». Le pettinò i capelli all'indietro, dalla fronte. «Come adesso. Il modo in cui sorridi, come pieghi la testa». «Come vi siete incontrati? Com'è lei?». «Disse di chiamarsi Ariel. Ariel Moon, anche se non sono riuscito a scoprire se era il suo vero nome. «Incontrammo per la prima volta Ariel quando vivevo a Manhattan con Karl e André. Credo fosse il 1955. Era primavera, ma una sera fredda, umida e piovosa: il cielo era scuro. Mi ricordo del tempo perché eravamo stati ad una delle prime partite della stagione di baseball. Gli Yankee avevano battuto i Washington Senators con un sorprendente diciannove a uno, e noi facevamo parte del pubblico più esiguo nella settimana d'apertura di
tutta la storia dello stadio. Almeno questo è quanto ci assicurò André. È un grande fanatico dello sport, e quello fu il primo incontro al quale portò Karl e me. E anche l'ultimo. Noi tre eravamo affiatati; trascorrevamo insieme la gran parte delle ore notturne. Quando lasciammo lo Yankee Stadium, decidemmo di prendere la metropolitana per tornare al nostro appartamento. Avevamo attraversato un isolato appena, muovendoci in fretta a causa del freddo, e stavamo aspettando che diventasse verde un semaforo quando sopraggiunse una macchina nera. Fu Karl a notarla. Era splendente, di uno splendore estremamente bianco, come in fiamme con delle ondate di luce pulsante». «Che cosa vuoi dire?», chiese Kathleen. David si appoggiò alla testiera dietro di sé e fece scivolare il braccio intorno alle spalle di lei. «È una di noi. Come me. Una della nostra razza». Fece una pausa. «C'è una credenza in base alla quale al momento della morte lo spirito o l'anima abbandona il corpo. Molte culture ritengono che avvenga nell'arco di tre o quattro giorni. La mia razza, noi, abbiamo una teoria nostra. I nostri corpi spirituali cominciano ad abbandonare i nostri corpi fisici, ma a causa dei mutamenti cellulari, e anche di quelli spirituali, torniamo in vita. È un poco come il caso delle persone dichiarate morte che rivivono. Ma, nel nostro caso, l'anima è in parte dentro, in parte fuori; ecco perché vediamo la luce. Possiamo vederci l'anima l'un l'altro. Il sangue ci sostenta perché è vita ridotta alla sua essenza». Kathleen annuì, ma lui sapeva che non poteva comprendere esattamente quello che intendeva dire. E come avrebbe potuto? Il suo concetto dell'esistenza di David era basato su qualcosa che aveva visto in un film. E c'erano sufficienti similitudini per gettare ombra sulle differenze. «Ariel ci guardò e noi guardammo lei. Senza una parola aprì lo sportello del passeggero e noi salimmo, André ed io dietro, Karl davanti. Era davvero singolare. Quelli della nostra specie, generalmente, si evitano». «E perché?» «È complicato, Kathy. Mettiamola così. Per lo più si tratta di un sospetto innato. Lo vedi in certi animali. Un maschio e una femmina si uniscono occasionalmente per procreare, ma tutto finisce lì». «Ma tu avevi degli amici. Quei due». «Sì. Karl, André e io eravamo un'eccezione. Ci domandavamo in continuazione perché noi tre fossimo in grado di rimanere insieme. Forse aveva
a che fare con la persona che aveva creato Karl e me. Noi pensavamo si trattasse dello stesso predatore. L'aggressione era stata per entrambi rapida in maniera sconvolgente, un mordi e fuggi, e tutti e due non vedemmo mai più l'assalitore. Crediamo inoltre che fu lui a trasformare la zia di André. Sai, il collegamento». Kathleen annuì ma sembrava confusa. «Mentre procedevamo, restammo tutti e quattro in silenzio. Io sedevo dietro Karl e potevo osservare il profilo di Ariel. Era la creatura più squisita che avessi mai visto, e non riuscivo a staccare gli occhi da lei. Nessuno di noi ci riusciva. Ossa delicate, come te, i suoi capelli erano biondi ma di una sfumatura inusuale, il colore dello zafferano, e i suoi occhi... non so come descriverli. Erano di un blu talmente chiaro che a volte sembravano completamente bianchi. L'effetto era simile agli occhi blu di un husky... impressionanti, irreali. Sembrava una ventenne, ma Ariel aveva continuamente il sorriso su quelle labbra piene ed emanava un senso di sicurezza, pur essendo vecchia di secoli. E anche una certa malizia, o così pensai all'inizio. In seguito scoprii che si trattava di crudeltà. Ma anche quando era crudele, quel sorriso beatificante non l'abbandonava mai, e dato che tutto in lei era così ipnotico, era difficile comportarsi nei suoi confronti in maniera negativa. Ci portò con il suo piccolo cabinato fino alla Fire Island, dove aveva una casa. Era una bohémien, vestiva con sandali, una lunga gonna che la brezza dell'Atlantico faceva svolazzare e uno scialle da zingara che le accarezzava le spalle. All'epoca era un abbigliamento inusuale. Ma era l'essere più bello che avessi mai visto. A dire il vero, fatta eccezione per Ariel e la zia di André, non ho mai incontrato una femmina della nostra specie. E neppure Karl o André. C'è qualcosa in quelle della nostra razza che troviamo incredibilmente attraente, nonostante la diffidenza. I mortali non provano la stessa attrazione per noi. Con un mortale, il sangue è tutto e, a meno che il mortale non si trasformi, qualsiasi relazione è segnata». «È così che ti senti con me?» «Se non vuoi trasformarti, morirai. I miei due secoli sono stati brevi come per te potrebbe sembrarlo un anno». Parve che lei in quel momento non volesse pensarci. «Che cosa accadde poi?» «Quando entrammo nella casa, la prima cosa che notai furono le sue sculture. Quel posto era pieno dei suoi lavori, grosse forme di gesso, tutte nude, tutte maschili, appoggiate a piedistalli in mezzo a un miscuglio di
mobili. Buona parte della casa era adibita a studio, compresa la camera da letto. Lei accese un fuoco, noi ci sedemmo e la guardammo. Nessuno di noi osava distogliere lo sguardo. Lei toglieva il respiro, e ognuno dei suoi movimenti era così perfetto, così delicato, quasi magico, che il pensiero di non guardare era doloroso. Quando ebbe finito, si alzò e ci guardò uno per volta. "Io sono Ariel", disse con un accento che pensai essere irlandese, ma lei non confermò mai né quello, né altro. "Voglio fare l'amore", disse. Questo ci fece saltare tutti e tre. Ci fissammo l'un l'altro come scolaretti. Alla fine André pose la domanda che noi tutti stavamo pensando: "Con chi?". Ariel rise, e il suono era come quello di frammenti di cristallo cullati dalla carezza del vento. "Con voi tutti", disse lei. "Insieme". Era molto più libera di noi tre messi insieme. Doveva essersene accorta subito perché rise di nuovo e fece un cenno: "D'accordo. Tu per primo", disse rivolta ad André, e gli prese la mano, conducendolo in camera da letto. Karl e io restammo seduti vicino al fuoco, incapaci di parlare. Quei due rimasero chiusi là dentro per quelle che parvero ore. Udimmo delle risate. Gemiti. Le urla di lei. Quando tornarono, André si sedette e lei prese la mano di Karl. La sua luce era più brillante, la sua pelle più piena. E i suoi occhi! Era ancora più affascinante di prima. Quando André e io rimanemmo soli, lo esaminai. Era pallido. Volevo chiedergli se le aveva concesso il suo sangue, ma sul momento non ci riuscii. In seguito mi assicurò di non averlo fatto. Ma non fu soltanto il pallore che notai in lui. Sembrava arrabbiato. Ma André lo era spesso, specialmente con le donne mortali. Alla fine, Ariel e Karl tornarono. Anche Karl era pallido, ma mi resi conto che era più che altro stordito. Poi passai a osservare Ariel. Lei mi stava guardando divertita, con quelle adorabili labbra corrugate in un sorriso, credo, anche se in seguito mi sarei ricordato di quello sguardo e l'avrei definito di derisione. Ma quella sera ero estasiato. Protese verso di me le mani e io misi le mie nelle sue. Poi mi condusse al suo letto. La stanza era calda, e l'aria umida per il profumo dei corpi. "Tu sei il poeta". Sembrava sapere di me dagli altri. Sbottonò la cinta della tunica tinta corallo che indossava e lasciò che la seta le scivolasse lungo il corpo. La sua pelle era del colore dell'alabastro e le forme talmente perfette che mi ritrovai incapace di respirare. Ero totalmente paralizzato
dalla sua bellezza classica. Se tu potessi vedere come noi, Kathy, capiresti. I mortali ci trovano attraenti, non c'è dubbio in proposito. Ma è una percezione superficiale. Noi vediamo oltre la superficie, le sottili sfumature di colore, la delicata sinuosità delle curve, il pulsare della luce che emana dai nostri corpi. Ariel era come la statua di un'antica divinità che avesse preso vita. Aprì le sue braccia verso di me e disse: "Tu sei quello che mi amerà di più". Mi ritrovai ad abbracciarla e a essere abbracciato da lei, perso in un'estasi che dopo sarei riuscito a ricordare con difficoltà. Nei sogni ne ho colto alcuni frammenti. Il suo corpo così cedevole. E nello stesso tempo la forza dei suoi muscoli che mi serravano, mi trascinavano dentro, lasciandomi senz'aria. So soltanto che quella sensazione era una linea sottile tra il piacere e la tortura. Insieme ad Ariel giunsi così vicino alla perfezione così come mi aspettavo di provarla. E, oltre alla trasformazione stessa, quello che ho provato insieme a lei è stata la mia esperienza più intensa». Kathleen gli prese la mano. «Non la provi insieme a me?». Sembrava ferita, come se non potesse competere con una fantasia così divina. «Con te è diverso, Kath. E sarà ancora diverso quando ti sarai trasformata. So di aver fatto sembrare Ariel un sogno. E sotto molti punti di vista lo era. Ma è stato un sogno che si è trasformato in un incubo. Quella fu una strana sera. Non appena ritornammo dagli altri, senza dire una parola ci ricondusse tutti alla sua barca. Una volta attraversate le acque, salimmo sulla sua macchina e ci riportò in città. E poi scomparve, mentre noi tre stavamo sotto la pioggia fuori dall'edificio del nostro appartamento guardandoci a vicenda, quasi per sincerarci del fatto che quello che ci era successo fosse realmente accaduto. Cosa abbastanza strana, in quel periodo non ne discutemmo. Era come se ciascuno volesse serbare il ricordo di Ariel e, dividendolo con gli altri, quell'esperienza in qualche modo si sarebbe diluita. Ci vollero due mesi prima che la rivedessimo di nuovo. Una notte Karl la portò a casa. Era vestita come la volta precedente, una gonna svolazzante, una camicetta che lasciava le spalle scoperte, lunghi capelli color zafferano che fluivano all'indietro, minuscoli cerchi d'oro che le pendevano dalle orecchie, facendola sembrare proprio una zingara. E, proprio come la prima volta, dormì con ciascuno di noi, o almeno ci provò. André rifiutò. "Voi due dividetevi il bottino", disse a me e a Karl, e Ariel gli indirizzò una risata mentre se ne andava via furibondo. E proprio come la prima volta, fu un'esperienza talmente meravigliosa
che in seguito non riuscii a ricordarne molto. So soltanto che per me era come ritornare nel grembo materno, come morire, o unirmi alle stelle nel cielo. In quei brevi momenti ero come perso, e il dolore che porto con me ogni notte, la sofferenza che mi ha sempre segnato e che mi tiene lontano dai mortali e dagli immortali, era scomparsa. Dopo quella volta vedemmo spesso Ariel. O veniva lei nel nostro appartamento oppure andavamo io e Karl a casa sua. André rifiutava di unirsi a noi. Ci disse che non solo non gli piaceva Ariel ma anche che non si fidava di lei. "Non stupitevi se dovesse farvi giocare uno contro l'altro, mes amies", ci avvertì. Naturalmente, quel pensiero era venuto in mente a Karl e a me. E Ariel avrebbe potuto semplicemente provare a farlo. Ma ancora non ci sentivamo in competizione. Era una condizione molto particolare. Ma la situazione cambiò. Ariel perse interesse per Karl. Mesi dopo, lui mi confidò di aver sentito che avevano poco in comune, ma qualcosa l'aveva preso. Mi ricordo che lo descrisse come sentirsi "un pesce che è stato preso all'amo, ma l'amo è conficcato così in profondità che è quasi impossibile liberarsene. Sentivo che se mi fossi divincolato, mi sarei solo fatto a pezzi". E, quando lo disse, mi attraversò un brivido perché mi resi conto di essermi sentito nella stessa maniera. Ma fu Ariel a lasciarlo andare. Semplicemente sembrava essere sempre più stufa di Karl. Mi disse che tanto lui quanto André l'annoiavano. Ricordo mentre diceva ridendo: "Posso averli facilmente, sono così trasparenti. La loro sofferenza non scorre in profondità come la tua, caro David". Come per gran parte di quello che diceva, compresi solo molto tempo dopo. Una volta parlai con Karl, pensando fosse irritato. "Al contrario, mi sento sollevato", mi assicurò, anche se io non gli credevo e certo non compresi, se non in seguito, che cosa intendesse dire. E così Ariel dedicò tutta la sua attenzione a me. Non riuscii mai a comprendere perché avesse preferito me agli altri. Ciononostante ricordo di essermi sentito spaventato. C'era qualcosa in lei, come guardare dritto negli occhi della Medusa. Trascorrevo tutte le notti insieme a lei, e ben presto mi trasferii nella sua casa sull'isola. Non riuscivo a resisterle. Per me sarebbe stato impossibile comportarmi diversamente. La nostra vita insieme fu per me un'alternanza di paradiso e inferno. La caccia era sempre una faccenda dolorosa con Ariel. Aveva un modo di sedurre i mortali che mi faceva saltare i nervi. Sembrava che più li convinceva a fidarsi di lei, più provava piacere ad ucciderli. E lei uccideva - sempre - in modi spaventosi. Non l'ho mai vista risparmiare qualcuno, e questo mi
disturbava. Ma non riusciva a persuadermi a uccidere, e credimi, ci provava. La sua ovvia delusione mi causava un enorme senso d'angoscia. Non era la nostra sola differenza, ma probabilmente quella più evidente. A causa di ciò, finii in uno stato di costante insicurezza e agitazione. Oltre che a cercare cibo, trascorrevamo gran parte del tempo a letto. Ancora oggi il ricordo del sesso è vago, confuso, come immagino un paziente anestetizzato riesca a ricordare un'operazione. Mentre facevamo l'amore, spesso lei insisteva per bere da me, e io glielo permettevo. Ma non mi permetteva mai di bere da lei. Come posso descrivertela? Era sempre irrequieta. Il suo lavoro non la contentava mai. Neppure io riuscivo a soddisfarla: sembrava volere qualcosa da me, ma non sapevo che cosa. Credo che trovasse l'immortalità dolorosa, ma non potesse ammetterlo perché pensava fosse una debolezza. Di conseguenza era attratta e disgustata da me, per gli stessi motivi. La ricordo una volta in piedi alla finestra poco prima dell'alba. Diversamente da André, Karl e me, sembrava sopportare bene la luce del giorno ma non, per quanto ne so, al punto da poter uscire fuori. Io ero dall'altra parte della stanza, indolente, disteso nell'oscurità, in attesa che lei chiudesse le finestre e si unisse a me. Mentre stava in piedi nell'ombra, intenta a sbirciare attraverso le finestre alle prime luci dell'alba che si sollevavano all'orizzonte, la sentii dire con delicatezza: "Credo che darei qualsiasi cosa pur di essere libera". Fu il massimo del rammarico che sentii da lei. Quando non eravamo a letto, la guardavo mentre scolpiva. Ogni volta che facevamo l'amore, balzava su immediatamente dopo per cominciare a lavorare ad un modello di me a grandezza naturale. Doveva averne cominciati a centinaia, ma li lasciava tutti a metà, frantumandoli con una furia che scaturiva come un'improvvisa eruzione vulcanica. Le chiesi il perché di quella ossessione di riprodurmi quando poteva avermi in carne ed ossa. "Perché, amore mio, devo catturarti esattamente come sei adesso, al massimo della vulnerabilità, della debolezza, quando ti possiedo completamente". Piuttosto che farmi infuriare o spaventarmi, ero talmente stregato da lei che quelle parole mi solleticavano dentro un sussulto d'urgenza e dovevo fare di nuovo l'amore con lei. Ero un prigioniero che non provava neppure il desiderio di fuggire. Senza rendermene conto, notte dopo notte l'energia mi stava scivolando via. Karl e André cercavano di parlarmi, ma io pensavo fossero gelosi e non solo non stavo ad ascoltare, ma cominciavo ad evitarli. Smisi di scrivere poesie, smisi di leggere, non seguii più il teatro. Accontentare Ariel
divenne la mia sola raison d'être. Se lei mi dedicava uno dei suoi enigmatici sorrisi, sentivo che valeva la pena di esistere. Ma spesso si adirava con me, e quel cruccio appena accennato sul suo volto d'incanto mi faceva pensare che l'estinzione fosse la mia unica alternativa. Adesso rimango sorpreso al pensiero di quanta energia spendessi cercando di compiacerla. E, più ci provavo, meno sembravo riuscirci. Ma questo serviva solo a farmi provare con maggior determinazione. Spesso mi tormentava con storie dei suoi precedenti amanti, persino André e Karl. Ma ce n'era uno in particolare, quello che l'aveva trasformata. Lo paragonava a me e invariabilmente mi sentivo piccolo. Non solo Anthony era un amante migliore, ma era senza paura, geniale, spietato, non contaminato come me da un'indole sensibile. Come suo mentore, le aveva insegnato tutto, inclusa, credo, quell'insensibilità, anche se forse adesso sto adducendo delle scuse per lei. Tutte le volte che le domandai perché si fossero separati, Ariel non rispose, si limitò a quei suoi sorrisi sibillini. Perché sono arrivato fino a quel punto? Non lo so. Quello che so è che doveva soltanto desiderare qualcosa e, tranne uccidere, io l'avrei fatta. Se mi avesse chiesto di coricarmi al sole, certamente l'avrei fatto, senza dubbio. Il potere che esercitava su di me era talmente completo che ancora adesso non riesco a capacitarmene. Restammo insieme sei mesi. Era autunno; Fire Island era deserta perché aveva cominciato a fare freddo. Una notte, subito dopo aver fatto l'amore, mentre la guardavo forgiare il busto di un'altra mia effigie, ricordo di essermi sentito terribilmente esausto. Quasi in punto di morte. All'improvviso mi balenò nella testa l'immagine della Succube, la creatura mitologica che col sesso prosciuga gli uomini dell'energia. I miei pensieri dovevano esserle chiari, perché si girò e mi fissò con quegli occhi ultraterreni e misteriosi dicendo: "Questo è il mio ultimo modello di te, David. I nostri maschi sono molto più difficili di quelli dei mortali. Persino tu, piccolo mio, debole come sei". Non ho idea di cosa intendesse dire. Più tardi mi portò in città con la statua. All'alba ero delirante, ma immobile per la luce del giorno e non potevo fare nulla, sebbene non avessi pace. La notte seguente andai da Karl e André. Non li vedevo da due settimane. Capivo dal modo in cui mi fissavano, con i volti scioccati, che avevo un aspetto strano, che mi comportavo in maniera singolare. Ma ero talmente disperato da ignorare quegli sguardi. Quando mi dissero che non avevano visto Ariel, li accusai di mentire, di nasconderla, di essere gelosi, di tentare di separarci. In quelle prime setti-
mane senza di lei credo di essere impazzito. Se non fosse stato per i miei amici, dubito che sarei sopravvissuto. All'inizio cercarono di ragionare con me, ma io non ascoltavo. Mi aiutarono a cercare Ariel. E cercammo dappertutto. Ci volle un anno perché comprendessi che se n'era andata per sempre. "È il suo gioco", disse André. "Lo fa con i mortali, incantandoli, succhiando via lentamente la vita da loro, mantenendoli inermi finché non muoiono. E loro non hanno un briciolo di speranza. Noi siamo troppo forti per lei per esaurirci completamente". Naturalmente, ero furibondo con lui. Non volli credergli per molto tempo. Karl non era altrettanto duro, ma era comunque d'accordo. Alla fine mi resi conto di quanto fossi stato vittima del suo incantesimo. Mi resi altresì conto che si trattava del sangue. Di noi tre, io ero l'unico che glielo aveva dato; non ero stato abbastanza forte da resistere. Ma, quando compresi tutto questo, le cose erano cambiate nuovamente. Karl si sentiva disperatamente solo. Decise di tornare nella sua nativa Germania. André, che era sempre stato brutale quando si era trattato di donne, lo divenne ancora di più. Mi fu difficile stare con lui. Gli piaceva giocare con i mortali, specialmente le femmine. Le faceva innamorare di sé per poi abbandonarle o ucciderle. Penso che vedesse Ariel tanto chiaramente perché sotto quel punto di vista erano simili». Kathleen sollevò le spalle. «Non farai questo a me, non è vero?». David si rese conto di essersi perso a tal punto nei ricordi da dimenticarsi che lei era nella stanza. La tirò a sé. «Ti sto parlando di André. Io non sono cosi». «Ma questa ragazza, Ariel. Ti ha lasciato. Magari tu farai lo stesso a me. Per tornare con lei». «Io non ti lascerò, Kathy. A meno che tu non mi mandi via. E ti trasformerò se sarai d'accordo su ogni passo del processo». Le baciò la punta del naso. Si rannicchiò addosso a lui. «Finisce così la storia?». «Quasi. Dopo che Karl partì per la Germania, André e io restammo insieme per un poco, poi lui ritornò in Francia. Rimasi negli Stati Uniti altri cinque anni prima di tornare in Inghilterra nella casa che avevo sempre tenuto là. Ma era come fossi diventato qualcun altro. Ero sempre stato infelice, ma adesso ero inconsolabile. Ariel si era presa ben più del tempo che avevamo trascorso insieme. Aveva preso anche la mia volontà. L'esistenza per me era sempre stata dolorosa. Ma, dopo Ariel, sentivo un vuoto, una
piattezza che non riuscivo ad allontanare. Alla fine non mi importava più di nulla, persino del sangue. Smisi di uscire di casa, tranne quando sentivo il disperato bisogno di nutrirmi. Se tu non fossi venuta da me, sarei ancora là, steso in quella bara, cercando passivamente di morire, credo». Kathleen lo fissò, con occhi limpidi e onesti. «David, voglio essere come te. Rendimi come te in modo da poter restare per sempre insieme. Ti prego. Fallo adesso». Lui sospirò. «Non vuoi farlo?», chiese Kathleen, con voce esitante, temendo un rifiuto. «Sì, lo voglio. Ma non sono sicuro si tratti della cosa giusta. Non ho mai trasformato nessuno, ma conosco il processo. Spesso avviene con un solo incontro violento, ma c'è un altro modo, più difficile e doloroso, almeno per me, ma mi è stato detto che funziona, e io non sceglierò l'altro. Il cambiamento si può ottenere nell'arco di diverse notti. Tu bevi da me poi io prendo il tuo sangue. Ma qualche volta non funziona». «Funzionerà!», gridò lei, afferrandogli le mani. «Ti prego, fallo. Possiamo cominciare stanotte. Sono stanca di stare da sola. E tu sei solo. Voglio che noi due rimaniamo per sempre insieme». «C'è qualcosa che dobbiamo discutere prima. Qualcosa che ti riguarda». «Cosa?». Gli occhi di lei erano pieni di paura. David provò imbarazzo. «È importante che tu acceda a questa nuova vita... pura. Mi capisci?» «Uh-uh». Ebbe un'esitazione. Non si trattava di altruismo quanto di paura. "Una volta affrontati i suoi demoni, potrebbe non amarmi più", pensò. «Pura nel senso di non portare con te nessun peso inutile. Questa vita è abbastanza difficile. È meglio risolvere i tuoi problemi mortali e lasciarli alle spalle». Parve terribilmente spaventata, e lui sospirò. «Quello che sto dicendo, Kathy, è che se c'è qualcosa di doloroso che devi affrontare, qualsiasi cosa che tu debba riconsiderare, ogni emozione non risolta...». Ma non riusciva ad andare avanti. Sembrava troppo vulnerabile. Decise di aspettare fino a sabato notte perché lei si confrontasse con la verità, pur sapendo bene che, se l'avesse lasciata bere subito, probabilmente sarebbe stato troppo tardi perché potesse tornare indietro. Ragionò senza indugio: avrebbe visto Reesone, che David era convinto
sapesse tutto di quella storia. Una volta risolta quella faccenda, avrebbe parlato con lei di suo padre. E di suo figlio. La voleva libera dalla sofferenza. Voleva darle la possibilità che le era stata negata di liberarsi delle preoccupazioni mortali e di entrare in quella esistenza libera e pura. Ma più di ogni altra cosa la voleva con sé. La voleva quanto riusciva a desiderare un mortale per un motivo che non fosse il sangue. "E perché no?", pensò con amarezza. "Se lei smette di amarmi, posso sempre tornare a impersonare il ruolo del morto vivente. È un ruolo nel quale mi sono specializzato". Si morse il polso. Il sangue gocciolò lungo l'avambraccio: due rivoletti cremisi. "Sono un codardo", pensò. "Ho paura di aspettare, paura di perderla". Ma tutto quello che disse fu: «Hai paura?». Sembrava scioccata, ma scosse la testa. Le offri quella ferita bruciante, e lei portò il braccio tra le mani premendovi immediatamente le proprie labbra. Mentre succhiava il sangue dalle sue vene, lui pensò alle parole dolci e amare di Byron: E ti ho amata fino alla fine, con fervore come hai fatto tu, che non sei cambiata nel passato, e che non puoi cambiare adesso. L'amore sul quale la Morte ha posto il suo sigillo, né il tempo può gelare, né un rivale rubare, né la falsità rinnegare: e, cosa ancora peggiore, non puoi vedere in me un errore, un cambiamento, o uno sbaglio. CAPITOLO 16 La sera seguente, David lasciò la stretta striscia d'asfalto a due corsie, svoltando a venti chilometri a nord di Tofino, un paese di pescatori sulla costa del Pacifico dell'isola di Vancouver. Dopo pochi minuti si stava dirigendo verso una grande casa a due piani di cedro rosso, circondata da un fitto bosco di rigogliosa cicuta e abeti Douglas alti novanta metri. Davanti c'era parcheggiata una Lincoln nera. Non aveva un piano. Ma il fatto che la casa fosse isolata lo aiutava. Non voleva trascorrere molto tempo lì: giusto il necessario per scoprire cosa
fosse quello strano complotto e poi ritornare da Kathy. Lei stava bene, dopo aver bevuto senza paura il suo sangue nelle ultime due notti, ma sapeva che cominciava ad avvertire dei cambiamenti, limitati dato che erano ancora a quello stadio. Aveva in mente di portarla via dalla città, da qualche parte in campagna, o magari vicino all'oceano, in modo da poterla risvegliare in un ambiente gradevole. Voleva che la sua trasformazione fosse piacevole tanto quanto la sua era stata terribilmente violenta. Prima che raggiungesse la porta, questa si aprì. «David, benvenuto!», disse Reesone con la sua voce più amabile. «Qua, dammi la giacca». Dietro Reesone c'erano due grossi uomini che sembravano body builder. David sentì un campanello d'allarme accendersi da qualche parte dentro la sua testa. Ma varcò la soglia entrando nella stanza principale. «Harry. Bill». Il tono di Reesone era annoiato. Appese la giacca ad un piolo. «David Newby, giornalista di "Fame and Wealth", non è così?». Con sollievo di David, i due uomini fecero un cenno e si diressero su per le scale. Non che avesse pensato che gli avessero teso una trappola: erano solo mortali, dopotutto, e lui sapeva di poterli affrontare entrambi, compreso Reesone, anche se gli si fossero scagliati contro contemporaneamente, ma stava succedendo qualcosa, e lui voleva arrivare a comprendere cosa. Quel posto era un casino da caccia. C'era un camino di proporzioni considerevoli con sopra una testa d'alce torreggiante con tanto di corna. Una cassa in noce laccato e vetro piena di fucili occupava gran parte di una parete. L'edificio puzzava di marcio e sangue rancido, almeno per l'olfatto sensibile di David. «Interessante, non è vero?», disse Reesone, accendendosi una sigaretta nera, ed evitando di guardarlo direttamente. «Fanno battute di caccia qui, grandi battute. Un gioco impossibile. Mai stato a caccia, David?». Di profilo gli occhi dell'uomo quasi ardevano, e David si chiese se fosse sotto effetto di qualche droga, benché non riuscisse a sentire altro odore che quello del dopobarba, e del sangue. Ma, prima di poter continuare con quelle riflessioni, Reesone parlò. «Permettimi di farti dare un'occhiata in giro prima di cominciare. Magari puoi scrivere nel tuo pezzo di questo posto. C'è una stanza in particolare che credo troverai interessante». David decise di stare al gioco. C'erano solo quei tre: riusciva a sentirlo. E continuava ad avvertire una sensazione, ma non era in grado di venirne a
capo. Aveva bisogno di tempo per sentire le cose. Cominciarono dal seminterrato, una cantina per i vini che puzzava di muffa, si spostarono quindi nell'enorme cucina piena di pentole di rame con tre forni smisurati, per passare poi alla libreria, piena di libri non letti, poltrone di pelle verde scuro, trofei e altre teste di animali. C'erano anche tre camere da letto, e altre cinque al primo piano, dove Harry e Bill si unirono a loro. Mentre si avvicinavano all'ultima stanza, Reesone fece un gesto e David entrò dentro. Il pavimento di legno lucidato era spoglio, come le mura bianche sorprendentemente alte. In alto, il soffitto era un lucernario a cupola. Quella stanza sembrava essere una serra, ma c'era qualcosa che non andava. I muri erano troppo alti, il pavimento troppo lucido. Mentre David si girava per avere spiegazioni, la porta si chiuse sbattendo. Si precipitò, ma non c'erano maniglie all'interno della stanza. Sentì che veniva sprangata dall'altra parte con quelle che sembravano essere travi di ferro che scivolavano in posizione. Sferrò un colpo, ma la porta doveva essere spessa almeno un piede, come quella della cassaforte di una banca. Per quanto potesse spingere, non accadeva nulla. Ma anche attraverso quello spessore sentì Reesone ridere. «David Newby. Davvero! Avevo capito subito chi eri, tu e la tua puttanella... La morte del Sacerdote dei Serpenti non è apparsa sui giornali, ma la voce si è sparsa. Comunque, non avresti dovuto ucciderlo. Avrebbe dovuto portarti da me». David batté col pugno sulla porta. «Perché mi dai la caccia?» «Oh, nulla di personale», disse Reesone in tono gentile. «Non ti conosco neppure, anche se sono sicuro che devi essere un tipo affascinante. Un uomo che crede di essere un vampiro. Che si innamora di una puttana pazza. Come potresti non essere interessante? Dimmi, è una bella scopata come sembra? Non importa. Lo scoprirò da me». «Se non sei tu, allora perché stai facendo tutto questo?» David cercò di insinuare la punta delle dita tra la porta e il telaio, sperando di fare una leva sufficiente per spingerla verso l'interno. Ma la fessura era troppo stretta. «Diciamo che sto facendo un favore, e tu ci sei in mezzo. Nulla di personale, come ti ho detto. È tutta una catena di favori, ma questo tu lo sai, non è così?» «Chi?»
«Spiacente. Non posso dirlo». David si fece indietro e picchiò contro la porta di spalla. «È acciaio ricoperto di piombo da dodici pollici», disse Reesone. «Le mura sono rinforzate con acciaio. Mi dicono che sei davvero forte, anche se dalla tua corporatura è difficile crederlo. Ma mi è stato garantito che non l'avresti attraversato». «Chi c'è dietro tutto questo? E perché?». Ma non vi furono altre risposte. David passò delle ore nel tentativo di passare prima dalla porta, poi dalle mura. Ma anche con tutta la sua forza sovrannaturale, non riusciva a scalfire i pannelli. Il soffitto era a circa nove metri d'altezza, le assi del pavimento erano spesse e, quando riuscì a toglierle, scoprì al di sotto degli strati d'acciaio ancora più spessi. Era quasi come se quella stanza fosse stata progettata per uccidere quelli della sua specie. Quando non si dava da fare per trovare una via d'uscita, si rimproverava di essere stato tanto ingenuo. Ovviamente Reesone aveva saputo del Sacerdote dei Serpenti. E di Dennis. Non l'aveva guardato negli occhi, e quello avrebbe dovuto fargli capire qualcosa, pensò David. Semplicemente non era abbastanza forte mentalmente per quel tipo di inganno ma, comunque, non lo era mai stato. Ecco perché Ariel l'aveva preso. E anche chi lo aveva creato. Quello era il motivo per cui la sua vita mortale e quella immortale erano state tanto deprimenti. "Sono emotivamente debole", rimproverò a se stesso. "Lo sono sempre stato. E adesso sono la causa della mia stessa morte, in uno dei modi più dolorosi possibili". Il sole l'avrebbe ucciso, ma lentamente. Aveva sentito delle storie al riguardo da André, che sapeva. Durante il giorno l'avrebbe arroventato. E di notte, senza sangue, non sarebbe stato in grado di riprendersi, ma solo di soffrire. Se aveva fortuna, non ci sarebbe voluto molto tempo. E se non aveva fortuna... La cosa peggiore era il non sapere chi o cosa ci fosse dietro quel tormento. Non aveva senso. Tanto quanto era stato grossolano il tentativo di farlo fuori usando Kathy, così quest'ultima trappola era stata ben organizzata. Ed eseguita. Non riusciva a pensare a chi potesse odiarlo a tal punto. Perlomeno aveva insistito affinché Kathy rimanesse da parte. Quando pensava a lei, al non vederla più, i suoi occhi blu, i suoi capelli come seta, non abbracciarla più, sentirla parlare, fare l'amore con lei, sentire la sua risata che turbinava dentro la sua anima... Qualsiasi forma di autocontrollo
avesse, andò in pezzi. Reesone poteva trovarla, e David sapeva che l'avrebbe fatto. L'avrebbe uccisa. David pregava solamente che succedesse in fretta e in maniera definitiva e che lei non soffrisse. Mentre il cielo si illuminava e i suoi arti si facevano più pesanti, si rannicchiò nell'angolo più distante dal punto che avrebbe illuminato il sole del mattino quando fosse spuntato. Si tolse la camicia coprendosi la testa e tutto quello che gli riuscì della parte superiore del corpo. Ma non aveva importanza. Il potere del sole avrebbe penetrato la trama del tessuto bruciandolo comunque. Per il tramonto, sarebbe stato in fiamme. Zero camminava su e giù per la stanza. Controllò nuovamente l'orologio. Erano le undici del mattino, quattro ore dopo l'alba. David sarebbe dovuto essere tornato già da diverso tempo. "Sarei dovuta andare insieme a lui", pensò. Era in preda ad una forte tensione per la preoccupazione e l'indecisione. Ore prima, con la prima ondata di panico, aveva usato un pennarello per marcare il foglio sotto quello dove erano stati scritti l'indirizzo di Reesone e la strada per arrivarci. Adesso custodiva quelle informazioni in tasca. Quattro o cinque volte era stata sul punto di noleggiare una macchina per andare fin là, ma quello che l'aveva fermata era il sapere quanto si sarebbe infuriato David. Le aveva detto di restare lì, e così avrebbe fatto. Uscì fuori sul balcone. La pioggia si era fatta più sottile, ma il sole faceva capolino di tanto in tanto. Per qualche strano motivo la luce la infastidì e tornò dentro. "Forse sta tornando", pensò. Ma, con le ore che continuavano a passare e il sole che ormai era sorto, Zero avvertiva una brutta sensazione nello stomaco. Si mise la borsetta a tracolla. "Scendo giù per assicurarmi che non abbia telefonato", pensò. Almeno nella sala d'attesa poteva vedere l'ingresso principale. Era meglio che starsene seduta là da sola, spaventandosi a morte. All'improvviso sentì una chiave nella serratura. Immediatamente il suo cuore si placò. Era sul punto di correre da lui quando sentì due voci, entrambe maschili. Nessuna delle due sembrava quella di David. Un brivido gelido le corse su per la schiena. Istintivamente sfrecciò sul balcone, nonostante la pioggia, e rapidamente richiuse quasi completamente la porta finestra. Per il nervosismo si mise una mano davanti alla bocca, ma dopo pochi istanti bloccò la mano per un'altra ragione. I due uomini stavano parlando.
«Non è qui». «Dev'esserci. Reesone ha detto che l'avremmo trovata qui». «Controlla nell'armadio». Kathleen sentì aprirsi le ante dell'armadio. «E adesso?» «Io rimango, tu vai a dirglielo». «Tu vai a dirglielo! Non gli piacerà affatto. La vuole a casa per il tramonto». «Che vada a farsi fottere. Da quando ci paga abbastanza per due contratti?». Il cuore di Zero batteva all'impazzata. Sembrava talmente forte che non fu sicura di aver sentito chiudere la porta. Cercò di respirare in maniera più distesa. Era già zuppa, e la luce le faceva venire la nausea. Il balcone non era molto grande, ma si fece da parte il più possibile in modo tale che se l'uomo nella stanza avesse aperto la porta vetrata non sarebbe riuscito a scorgerla senza uscire fuori. Lo udì mentre ricontrollava il bagno, mentre faceva scorrere la tendina della doccia lungo l'asta, mentre l'armadio veniva nuovamente ispezionato e sembrava persino stesse cercando sotto il letto. Poi spalancò le tende. Lei trattenne il respiro. Fece scorrere la porta a vetri. Se avesse fatto un passo all'esterno, l'avrebbe vista subito. All'improvviso udì la porta della stanza aprirsi e l'altro che diceva: «Andiamo. Ci vuole sulla limousine. Dice che la prenderemo fuori». Zero sentì la porta della stanza richiudersi, ma attese diversi minuti finché fu certa che se ne fossero andati via. In fretta giunse alla porta e uscì fuori nel corridoio. Fece cinque rampe di scale fino al piano interrato, un livello sotto l'ingresso. C'era soltanto una porta là, chiusa, ma lei vi batté contro finché non fu aperta da un indiano dall'aspetto mingherlino. Con i capelli bagnati e i vestiti umidi attaccati al corpo, fu guardata in maniera strana. Forse l'uomo non era in grado di parlare inglese, perché indicò verso l'alto. Zero gli mise in mano una banconota da dieci dollari e disse ansimando: «Fuori? Come faccio a uscire fuori?». Lui indicò nuovamente verso l'alto, ma lei scosse la testa. «Da qui. Voglio passare da qui», disse, indicando la stanza alle spalle dell'uomo. Dopo che quest'ultimo ebbe nuovamente fatto un cenno verso l'alto, lei lo oltrepassò toccandolo appena. All'interno, una confusione di lavatrici industriali e asciugatoi riempiva l'ambiente di rumore e di un calore inten-
so. Passò di fianco alle macchine e a donne immigrate che caricavano e scaricavano le lenzuola dell'hotel, trovando infine una porta con il maniglione antipanico sulla quale c'era scritto: Uscita d'Emergenza - Allarme sonoro. Premette il maniglione e sbirciò fuori. Subito squillò un allarme ad alta frequenza. Salì di corsa i quattro gradini fino al livello di terra, poi corse lungo il marciapiede in un angolo. Una lucente Lincoln nera era parcheggiata davanti all'ingresso dell'hotel. Non aveva idea se fosse di Reesone, ma corse comunque intorno all'edificio nell'altra direzione per evitarla. Nell'arco di mezz'ora, Zero aveva noleggiato una vettura e aveva ricevuto le indicazioni per Tofino. Un'ora e mezzo di traghetto lungo lo Strait of Georgia e tre ore di guida irrequieta sotto un acquazzone in una strada desolata, con i nervi a fior di pelle e la vegetazione lussureggiante che premeva su entrambi i lati della strada, la condussero al villaggio di pescatori. Deviò a nord verso Clayoquot Sound in direzione del casino di caccia. Zero non aveva idea di che cosa avrebbe trovato, ma qualcosa le disse che non sarebbe stato nulla di buono. CAPITOLO 17 «David?», chiamò lei a bassa voce. Zero aveva trovato la porta principale non chiusa a chiave. Appesa a un gancio subito all'interno c'era la giacca di David. Sicura che lui fosse lì, ispezionò il posto, prima il piano terra, scrutando anche giù da una botola per lo scantinato, che non era altro che un buco nel terreno grande come un enorme freezer. Al primo piano controllò tutte le stanze da letto, persino gli armadi e le vasche da bagno, chiamando il suo nome. Quella casa era talmente tranquilla da sembrare soprannaturale. Quasi si aspettava che quelle teste d'animale prendessero vita. L'ultima porta del primo piano era pesantemente sprangata da sei travi di metallo. Lei spinse, ma non era abbastanza forte da spostarne neppure una. Accostò un orecchio alla fessura e ascoltò. Nulla. "Probabilmente non è neppure là", pensò. Ma, proprio mentre si girava per andarsene, notò un mozzicone sul pavimento: i resti di una sigaretta dalla carta nera. Reesone era stato là. Provò nuovamente a spostare le travi ma erano aldilà delle sue possibilità. Forse c'è un'uscita antincendio, pensò, e si recò fuori a guardare. Non ne trovò nessuna, ma nel punto in cui si trovava quella stanza sprangata
vide delle finestre murate, rinforzate con delle sbarre simili a quelle di una prigione. Quella cosa la colpì non poco. Il tetto sopra la stanza era una cupola di vetro. Per qualche motivo questo dettaglio la spaventò. "Se riesco a salire sul tetto forse posso vedere che cosa si trova all'interno", pensò tra sé. Tornò al secondo piano e scoprì un pannello removibile nel soffitto di una delle stanze da letto. Ma dovette cercare una scala, localizzandone infine una nel deposito per gli attrezzi dietro la casa. La pioggia che aveva trovato guidando fin là aveva appena bagnato il terreno in quella zona, e il sole del primo pomeriggio stava cominciando a sprofondare dietro gli alberi. Il calore le faceva formicolare leggermente la pelle, e il bagliore le infastidiva gli occhi. Zero aveva la sensazione che si sarebbe dovuta sbrigare, benché non sapesse per quale motivo. Con la scala riuscì ad arrivare fino all'attico, uno spazio nel quale si poteva a malapena camminare carponi. Trovò un'altra porta che conduceva più in alto, e alla fine si ritrovò a camminare sul tetto incatramato verso la cupola. All'inizio quasi non lo vide. Ma quando qualcosa catturò la sua attenzione, premette le mani sul vetro appoggiandovisi, in parte per vedere meglio e in parte per sorreggersi, dato che aveva le vertigini. Laggiù, in uno degli angoli della stanza, c'era quello che a prima vista era sembrato essere un mucchio di vestiti vecchi. Ma poi li riconobbe. Anche se stava cominciando a tremare, riprese il controllo di sé. "Falla finita", disse in maniera inflessibile a se stessa. "Devi entrare là dentro. È coperto. Forse sta bene". Rapidamente ripercorse la strada dall'attico fino al capanno degli attrezzi. Là prese un piede di porco, un attrezzo per tagliare il vetro, una corda e, mentre passava per la camera da letto, afferrò due coperte. Ci volle del tempo per incidere e frantumare lo spesso vetro doppio e poi legare la corda ad un comignolo. Per quando si fu calata giù nella stanza, il sole era dietro una nuvola e scendeva una pioggerellina leggera. Si avvicinò a lui con circospezione, timorosa di quello che avrebbe trovato. C'era un odore particolare nella stanza. «David?». Lui non si mosse. Prestando molta attenzione, sollevò la camicia che gli proteggeva la testa e sbirciò sotto. L'odore aspro di carne bruciata quasi la fece svenire. Ansimò di fronte a quel cranio bruciacchiato e alla pelle car-
bonizzata. Istintivamente lasciò cadere la camicia e distese le coperte sopra di lui. Poi cullò David tra le sue braccia, usando il proprio corpo per proteggerlo da ciò che restava della luce. «Oh, David! Ti prego, non morire. Ti amo così tanto». Rimase seduta in quel modo per quelle che parvero ore mentre la stanza si riempiva d'oscurità, ma non dava segni di vita. Non sentiva battito cardiaco, né respiro, non scorgeva alcun movimento. Ma si rifiutava di abbandonarlo. Non poteva. Alla fine le venne in mente un piano e si arrampicò nuovamente su per la corda fino al soffitto. Avrebbe usato la macchina per portarlo in cima e depositarlo a terra. Fu un lungo processo. Dovette trovare un'altra corda, legarla a quella che già c'era, fissarla alla macchina, scivolare nuovamente giù nella stanza e legarla a David, quindi arrampicarsi di nuovo. Trascorsero diverse ore ed era esausta. Mentre scendeva l'oscurità, cominciò a piovere forte. Le luci all'interno della casa e i fari della macchina erano appena sufficienti. Ma, peggio di ogni altra cosa, era lo sforzo di mantenere sotto controllo la paura e il dolore. Non avrebbe mollato. Si rifiutava di abbandonarlo. Era quasi mezzanotte quando alla fine depose David a terra sotto quell'acquazzone. Spostò la macchina lentamente a marcia indietro, lo stesso sistema che aveva utilizzato per issarlo fino al soffitto. Subito dopo lo stava trascinando lungo il vialetto di ghiaia per poi issarlo nel bagagliaio. Alla fine si sedette al volante, esausta, con il cuore a pezzi. Scrutò nel bosco; quell'oscurità minacciava di inghiottirli. La pioggia cadeva pesantemente sulla macchina come se chiedesse di entrare dentro. «Le lacrime di Dio», disse lei, ricordando il modo in cui le aveva parlato Mae quando era bambina. E poi aggiunse: «Perché nella vita di una persona possono esserci tutte queste disgrazie?». Fu sul punto di crollare, ma ancora una volta riprese il controllo. Non era il momento di lasciarsi andare. Inserì rapidamente la marcia e si allontanò. Era a tre miglia da Tofino quando apparve un altro veicolo. Mentre passava oltre, guardò nello specchio retrovisore. Era una Lincoln nera. «Oh mio Dio, David! Che cosa facciamo?». Affondò il piede sul pedale dell'acceleratore e accelerò fino a 160 chilometri orari. Ben presto fu sull'autostrada che conduceva ad est, grata del fatto che la strada scivolosa fino al traghetto avesse relativamente poche curve, sperando non vi fossero autovelox.
Prese la prima nave del mattino e, mentre si avvicinava a Vancouver, Zero notò un'altra Lincoln nera parcheggiata sulla banchina. Disse a se stessa che al mondo c'erano un mucchio di limousine nere, ma fu lo stesso presa dal panico ed evitò la città. Zero scelse la direzione sull'autostrada trans-canadese verso est. Non sapeva dove stesse andando, ma voleva allontanarsi da Reesone. Il giorno seguente zigzagò per la lussureggiante Fraser Valley, si arrampicò sulle montagne canadesi, precipitandosi poi nella città di Calgary, tutta cromo e lampade a olio. In seguito il paesaggio si appiattì notevolmente. Fu quando era nei pressi di Medicine Hat, nello stato di Alberta, alle quattro del mattino, che si rese conto di non poter continuare così. Un cartello di legno artigianale recava la scritta: "Cottage", e proseguì per sei chilometri sull'autostrada fino alla svolta. Alla fine di un sentiero pieno di buche e polvere nei pressi di un limpido laghetto, trovò un gruppetto di rozzi edifici in mattoni sparpagliati in mezzo a gruppi di piante sempreverdi. Si fermò in uno con la scritta "Ufficio". «Mi serve uno di questi cottage». «Solo per lei?», domandò un uomo esile e pacato, ben oltre l'età della pensione, con un viso segnato dalle intemperie e gentili occhi castani. Ebbe un'esitazione. «Sì». «Si ferma molto?» «La notte, penso». «Solo di passaggio, eh?» «Già». Le diede un foglio da compilare. Usò un nome falso. Quando lo restituì con quaranta dollari in banconote americane, disse: «Voglio un posto lontano dagli altri. Pagherò un extra». «Non ce n'è bisogno. Sono tutti uguali», le disse l'uomo, porgendole una chiave attaccata a un anello smisurato. «Un poco giù lungo la strada, oltrepassi le barche ed è arrivata. Il numero è sulla porta, eh? Stanza libera per le undici del mattino. Ho un ristorante che apre alle sei, e ce ne sono alcuni a Medicine Hat, oh, otto, dieci chilometri più indietro». Lei lo ringraziò e se ne andò al numero 22, sollevata nel vedere che nei dintorni non c'erano altri cottage. Dentro trovò un'unica stanza che puzzava di muffa con un angolo cottura e un minuscolo bagno. Due vecchie poltrone reclinabili, la tappezzeria consumata, accompagnate da un tavolino
da caffè laccato e pieno di graffi dello stesso colore dei comodini. Completavano l'arredamento un tavolino da cucina in laminato con due sedie - la plastica tagliata e l'imbottitura che veniva fuori - e un sofà in tweed marrone che lei comprese doveva nascondere un letto. Quattro ciocchi erano accatastati ordinatamente di fianco a un camino rustico. Lasciò cadere la borsa sul piccolo tavolo della cucina e rimase immobile per un momento. Si sentiva come se il proprio corpo come fosse ancora in movimento. Emotivamente era distrutta. Zero parcheggiò la macchina in modo che il bagagliaio fosse davanti alla porta. Si guardò intorno. Tutto era tranquillo. Con grande attenzione estrasse dal bagagliaio il corpo di David e, in parte sollevandolo, in parte trascinandolo, riuscì a portarlo dentro. C'era un armadio, l'anta sottile come una scatola di cartone. Non era abbastanza grande per lui, così si limitò a coprire le finestre con le lenzuola e a chiudere la porta del bagno. Poi aprì il letto e ci sistemò sopra David. Era esausta ma non stanca, vuota ma non affamata. All'esterno, udì l'ultimo dei grilli notturni, i primi uccelli del mattino e una rana solitaria gracidare. Tutto ciò la fece sentire sola. Lasciò la luce del bagno accesa, ma spense il resto, poi chiuse a chiave la porta del cottage. Con estrema cura tolse le coperte dal corpo di David, poi i vestiti, pezzi dei quali si erano mescolati alla pelle carbonizzata. Intorno alla vita portava una cintura in morbida pelle con un borsello per i soldi contenente migliaia di dollari, di sterline e la sua carta d'identità. Mise tutto dentro la borsetta. Poi si sedette limitandosi a fissarlo, o a fissare quello che ne era rimasto. La forma del viso era certamente la sua, ma i tratti erano irriconoscibili. La pelle annerita, le palpebre coperte di vesciche, le labbra tagliate, i capelli bruciati. Le dita delle mani e dei piedi erano arricciate, il corpo in posizione fetale, come se negli ultimi momenti avesse ricordato la sicurezza del ventre materno e fosse voluto tornare là. Nella luce debole, gelata dalla fredda e calma brezza della prateria, Zero scoppiò a piangere e si lamentò come una bambina. CAPITOLO 18 Nei tre giorni successivi Zero rimase nel cottage vicino al corpo di David. Tranne per brevi uscite per pagare l'affitto di un'altra notte, comprare del caffè e dei sandwich, e un paio di bottiglie di rye, non l'aveva mai lasciato. Sapeva che era morto, e nei momenti di maggiore lucidità si rende-
va conto che il non seppellire il suo corpo era una cosa strana, persino raccapricciante. Ma sentiva di non poterlo abbandonare, quasi come se un desiderio più grande di lei la forzasse a rimanere. Andava avanti giorno per giorno, incapace di prendere una decisione definitiva. Da una parte non riusciva a pensare che cosa dovesse fare, dall'altra era attanagliata dal dolore. E così manteneva la stanza nell'ombra e aspettava con tenacia, rifiutando di affrontare la situazione in modo concreto, per molti versi proprio nello stesso modo in cui non aveva creduto al fatto che Bobby fosse già morto. Parlava con David come se lui potesse sentirla, quasi attendendo una sua risposta. Ma, man mano che si alternavano i giorni e le notti, la speranza si affievoliva. Anche attraverso la percezione falsata dal liquore, la realtà era troppo dolorosa. Durante la quarta notte nel cottage, si sedette sul bordo del letto, fissando il fuoco nel caminetto, bevendo il quinto bicchierino di Canadian Club. «David? Ti ho mai detto come mi hanno dato questo nome?». Prese un altro sorso dalla bottiglia, desiderando avere dell'eroina. Il liquore fiammeggiante non le bruciava più la gola; ormai non lo sentiva più. «Quando ero ancora una ragazzina, giocavamo a una specie di campana nel cortile della scuola. I numeri delle caselle andavano da uno a dieci. Be', avevamo da poco imparato le addizioni, ed era di nuovo il mio turno quando qualcuno cominciò a sommare i miei punti. "Tu hai dieci". Perché avevo fatto sette e tre. Ma io dissi: "Io ho zero", perché sommando i numeri avevo dimenticato di riportare l'uno delle decine. Allora tutti cominciarono a bisticciare con me e alla fine Tony Alvarez disse: "No, lei è zero", perché lui la sapeva lunga. Dopo quella storia cominciarono tutti a chiamarmi Zero». Rise un po' e prese un altro sorso, versandosi del rye sul davanti della camicetta. Poi sospirò pesantemente. «Già, "Zero", dicevano tutti. Nulla. Avevano ragione». Improvvisamente si sentì assolutamente lucida. «Sai, David, non credo che dovremmo restare qui ancora per molto. Non è giusto. Vorrei soltanto sapere dove andare e cosa fare. Non voglio tornare a New York. Non so davvero». Si girò e lo guardò. Era sempre sul letto, dove l'aveva messo la prima notte. Ma l'aveva risistemato in modo che fosse appoggiato ad un cuscino. Sembrava guardarla. Improvvisamente Zero pensò di aver visto un movimento.
«David, ho paura! Credo di stare davvero impazzendo stavolta. So che sei morto, ma ti ho appena visto muovere. Mi sto spaventando». Ma ancora una volta l'indice della sua mano destra si contrasse. «Oh, Dio!», gridò lei, mettendosi le mani davanti alla bocca. «Se non sei morto, muoviti ancora in modo che non pensi di essere ubriaca o pazza». Il dito si mosse, lentamente, esitante, ma lei si rese conto che stavolta non aveva le allucinazioni. Risalì su per il letto strisciando lentamente verso di lui, temendo di aver nutrito invano la speranza. «Fallo di nuovo!». E, quando lui lo fece, Kathleen scoppiò a piangere e gli si gettò sopra singhiozzante, cullandolo tra le proprie braccia, premendo contro la guancia la sua mano bruciacchiata, ricoprendola di lacrime. Quando ebbe ripreso il controllo delle proprie emozioni, comprese che dovevano trovare un modo per comunicare. «Ascolta», disse con voce tremante, metà ridendo, metà piangendo. «Muovi il dito una volta per dire sì e due per dire no, va bene?». Attese e lui mosse il dito una volta. «Non sei morto, vero?», chiese lei, soltanto per controllare la sua risposta, e lui mosse il dito due volte. Scoppiò nuovamente a piangere. «David di cosa hai bisogno? Che cosa posso fare per te? Ti rimetterai?». Poi si rese conto che lui non poteva rispondere a tutte quelle domande e che avrebbe dovuto riflettere attentamente, formulando le domande in modo che lui potesse replicare sì o no. «Hai bisogno di qualcosa?». L'uomo mosse il dito una volta. «Ti fa male?». Ancora un movimento. «C'è troppa luce?». Un movimento. Immediatamente gettò acqua sul fuoco, spense la luce della veranda, e chiuse la porta del bagno lasciando uno spiraglio in modo da poterlo vedere. «Meglio?». David mosse il dito una volta. «Non so che cosa fare!». Si guardò intorno spersa, ma disse immediatamente: «Sono davvero una bambina. Mae ha ragione. Devo crescere». Sospirò. «David, devi aver bisogno di sangue, eh?», si rese conto infine.
Lui fece cenno che era così. Lei balzò in piedi e si recò nell'angolo cottura. Sul lavandino c'era un coltello affilato e lo afferrò. David stava già muovendo il dito furiosamente due volte, facendo una pausa, poi ancora due volte. Lei lo vide. «So che non vuoi prendere il mio, ma è un'emergenza. Solo per stanotte. Più tardi ti porterò dell'altro sangue. Ti prego, David. Devo fare qualcosa per te». Mosse il dito una sola volta. Con un sussulto appena percepibile, Zero si incise il pollice. La pelle squarciata si aprì e il sangue cominciò a sgorgare. Mise il dito tra le sue labbra carbonizzate e gli piegò la testa all'indietro. Non c'era movimento, nessun segno che stesse succhiando. Non lo vedeva neppure deglutire. Parte di quel sangue rosso fuoriuscì dalla bocca gocciolandogli sul mento, ma lei sapeva che in lui doveva esserci ancora saliva sufficiente a far lavorare gli anticoagulanti; riusciva a sentire la ferita gocciolare. La maggior parte del suo sangue gli stava scivolando in gola. Nel corso della notte gliene somministrò dell'altro, riaprendo la ferita che era rapidamente diventata rossa e infetta. A Zero non importava. Avrebbe fatto qualunque cosa per lui, persino tagliarsi una vena, offrendogli la sua vita se fosse stato necessario. E l'avrebbe fatto felicemente. Ma il sangue non sembrava avere alcun effetto. Lui continuava a restare immobile, tranne per il dito, e non poteva parlare. Le sue palpebre bruciate non sbattevano, le sue labbra secche neppure si aprivano. Ma lei gli parlò per tutta la notte. Gli disse cos'era successo, degli uomini nella stanza, di come l'aveva trovato e tirato fuori dal casino di caccia, la macchina che aveva incrociato mentre veniva via, e la sua decisione di dirigersi ad est fino al luogo dove si trovavano adesso. Continuò a ripetergli quanto l'amava, tra gli attacchi di pianto. Avrebbe voluto tenerlo stretto, ma prima gli aveva chiesto: «Ti fa male quando ti tocco?». Lui aveva risposto di sì. All'alba si sincerò che le finestre e le porte non lasciassero passare neppure un solo raggio di sole, poi si raggomitolò di fianco a lui nel letto, lasciando che il dito dell'uomo riposasse sopra il proprio palmo. «David, ero così preoccupata», gli disse nell'oscurità. «Ti amo più di ogni altra cosa. E tu mi ami, non è vero?». Il dito di lui tamburellò debolmente sulla sua pelle. Per la sera seguente Kathleen aveva architettato un sistema affinché lui
potesse comunicare con lei. Era come il gioco dell'impiccato al quale giocava così spesso con Bobby. Prima sistemava le vocali al loro posto, poi indovinava le consonanti. David con il dito faceva cenno di sì oppure di no. Era un processo lungo e tedioso persino per formare una frase. Seppe per prima cosa che aveva bisogno di una gran quantità di sangue e che sarebbero serviti degli animali. Inoltre, voleva la quasi piena oscurità, così comprò delle candele e le accese una per volta. Non aveva idea di come scovare degli animali per lui. All'inizio cercò di dare la caccia a quelli più piccoli dietro il cottage, ma non ebbe affatto fortuna. La seconda notte guidò fino a Medicine Hat e trovò un'associazione per gli animali domestici. Voleva prendere dei topi o dei porcellini d'India, ma avevano soltanto cani e gatti, e fu costretta a prendere due gatti, entrambi vecchi. Odiava farlo, ma la vita di David era più importante. Lui era tutto quello che contava per Kathleen. Piangendo, squarciò loro la gola, procurandosi diversi tagli mentre lo faceva. Con il primo fu ricoperta di sangue. Ma per il secondo aveva già raffinato un poco la tecnica e raccolto in una scodella gran parte di quel liquido rosso e appiccicoso. Riempì diverse volte il contagocce che aveva comprato e lo nutrì per tutta la notte. Prima del mattino domandò: «È abbastanza?». Lui tamburellò due volte. La notte seguente Zero raccolse quattro animali randagi, incitandoli a salire in macchina con del cibo. Il quarto giorno trovò un mattatoio e acquistò dei vasetti di sangue di mucca. «La mamma fa un mucchio di salsicce», disse all'uomo nerboruto con il camice bianco che le lanciò un'occhiata strana, ma che parve comunque ben contento di liberarsi della quantità in eccesso. Prese anche due topi bianchi in un negozio di animali domestici. Zero non riusciva ad abituarsi a uccidere. Ma ciò che era parimenti difficile, anche se non repellente, era l'eliminazione dei cadaveri. Alcuni li seppelliva, scavando tombe poco profonde con un grosso cucchiaio da cucina. Altri li lasciava nel bosco in luoghi che non davano nell'occhio, vicino ad alberi caduti, sotto cumuli di foglie, restituendo gli animali alle braccia di madre natura. L'ottava notte della loro permanenza nel cottage, David era in grado di muovere buona parte delle dita di mani e piedi, le palpebre e le labbra. Ma non riusciva comunque ad emettere alcun suono. Quella notte trascorse l'intera serata a decifrare questo messaggio:
Guida Montreal io ben coperto cambia macchina Winnipeg Toronto. Non aveva idea di dove fossero Montreal e Winnipeg Toronto. Con disinvoltura domandò all'uomo dell'ufficio. «Ehi, Will! Hai mai sentito questi posti?». Gli porse un pezzo di carta sul quale aveva scritto a chiare lettere Montreal e Winnipeg Toronto in stampatello. Questi lo prese dalle sue mani, lesse e si mise a ridere. «Voi Yankee siete forti. Se non si tratta degli Stati Uniti d'America, non sapete un bel niente. E noi canadesi vi abbiamo fornito aiuto più di una volta durante la seconda guerra mondiale. Be', prendi la Numero Uno verso est. Quella è la Trans-Canada. Arriverai prima a Winnipeg in, mah, due o tre giorni, anche meno se guidi senza soste. Poi procedi e incontrerai Toronto, anche se non capisco perché uno dovrebbe voler andare in un posto così affollato e rumoroso. Poi mezza giornata di viaggio e sei in terra francese». «Quanti giorni in tutto?» «Oh, sei, sette, a meno che non ci sia qualcuno a darti il cambio alla guida». «No, non c'è nessun altro. Non ancora». PARTE TERZA «Dal relitto del passato, che è morto, di tutto quello che alla fine posso ricordare, mi ha insegnato che ciò cui ero maggiormente legato meritava di essere la cosa più cara di tutte...» George Noel Gordon, Lord Byron, Stanze ad Augusta CAPITOLO 19 Mentre Kathleen guidava attraverso le province canadesi in aperta campagna, lungo gli sterminati campi di grano color miele del Saskatchewan e del Manitoba, così piatte che il cielo divenne una cupola, David non vide nulla di tutto ciò. Giaceva agonizzante. Lei aveva seguito le sue istruzioni e aveva montato una piccola tenda sul sedile posteriore prima che abbandonassero Medicine Hat. Di sua iniziativa, Kathy gli aveva detto di averla poi coperta con un telo
speciale fatto di un materiale progettato per respingere i raggi solari e riflettere il calore all'esterno in modo da mantenere David al fresco. I suoi sforzi erano stati quasi del tutto inutili; David soffriva maledettamente. Durante il giorno dormiva. Ma persino nel sonno era cosciente di quel dolore lancinante. Era come vivere un incubo. O essere all'inferno. Ogni notte, poco dopo che David si era svegliato in uno stato di semicoscienza, lei si fermava ad un motel. Era sempre famelico e lei sospettò che, se non fosse stato immobile, avrebbe ucciso per il sangue. Si rendeva anche conto del fatto che lei gli dava tutto quello che riusciva a trovare, ma non era mai abbastanza. Aveva bisogno di sangue per guarire. Inoltre era il sangue che stimolava quel dolore snervante. Senza quello, durante i primi giorni, era stato in una sorta di limbo causato dallo shock. Ma, da quando aveva cominciato a ricevere nutrimento, si sentiva più vitale, e più torturato. Non riusciva a vedere. Sentiva appena. La voce di lei gli giungeva come una eco, quasi attraverso un lungo tunnel cavo. Il suono lo manteneva lucido, e nello stesso tempo le vibrazioni gli facevano saltare i nervi. Tutta quella stimolazione era dolorosa. Ogni tanto lei si dimenticava e lo toccava, facendo correre delle scariche elettriche nel suo sistema nervoso. In quelle condizioni respirava appena, ma quando il dolore si intensificava, tratteneva tutto quanto dentro. Era strano. Non riusciva ad emettere alcun suono, ma lei sentiva chiaramente che dentro stava gridando. A Winnipeg le fece capire che doveva cambiare veicolo. Lei noleggiò un van dalla Avis, caricò David e l'equipaggiamento, quindi restituì la macchina alla Hertz. Voleva essere sicuro che né Reesone, né altri potessero seguire le loro tracce. Le aveva fatto coprire i finestrini con il materiale di quella coperta termica perché manteneva il suo corpo più fresco. Ma il movimento continuo era un altro tormento. Tutto era un tormento. «Presto saremo a Toronto», gli disse una notte. La sentì mentre muoveva della carta, probabilmente una mappa. «Vedo dei grossi edifici. Credo che possiamo andare oltre senza passarci in mezzo». La sua voce era più distinta; doveva aver svoltato. «Va bene?». Lui mosse il dito due volte. «Vuoi passare per la città?». Mosse il dito una volta. «Oh, sì. Il camioncino. Vuoi che lo cambi, giusto? Ma n'ero quasi dimenticata». Tamburellò una volta.
«Mi dispiace, David». Sapeva che tutta quella situazione era stressante e confusa per lei. E non poteva spiegare i suoi piani, perché ci sarebbe voluto troppo tempo. Ma doveva arrivare a Montreal in fretta per trovare André e Karl. Erano là, o almeno sperava fossero ancora là. Aveva ricevuto una lettera da André poco prima che Kathy arrivasse a Manchester. Questi desiderava che David si recasse da loro. Aveva detto che le cose erano diverse per lui e per Karl, e che David sarebbe dovuto andare subito. David si era segnato l'indirizzo, in parte perché era in Canada, e in parte perché, con la sua memoria fotografica, tendeva a ricordare tutto quello che vedeva scritto. Non era per il contenuto della lettera che doveva trovarli, ma loro avrebbero saputo che cosa fare. Kathy, con tutta la sua attenzione, poteva fare ben poco. Lui aveva bisogno di un tipo speciale di aiuto per rimettersi in salute. E doveva raccogliere informazioni per scoprire cos'era quella storia che andava oltre lo stesso David, e non si vergognava ad ammettere che era spaventato. Tranne quando era stato soggiogato al potere di Ariel, non riusciva a ricordare di essere stato tanto impaurito, specialmente da quando era stato trasformato. «Vuoi che prenda un altro van?», chiese lei. Lui mosse il dito una volta. «E penso anche che tu abbia fame». Fece cenno di sì. «Ascolta, ho un'idea. Non troveremo un posto dove comprare del sangue qui, specialmente adesso che è così tardi. Ma in una grande città come questa devono avere una banca del sangue. Potrei andarci e comportarmi come se dovessi donare il sangue per poi magari rubarne un poco mentre sto aspettando». Era arrabbiato. Tamburellò due volte con enfasi. «Pensi che mi farei prendere?». Disse di sì. Non poteva dirle il vero pericolo. Se il suo sangue fosse stato analizzato, il perito avrebbe notato subito che la struttura molecolare era strana. Lei aveva già cominciato la trasformazione. Le cellule della sua specie, incluse le cellule del sangue, contenevano parti umane, animali e di piante, tanto quanto altri elementi che nessuno scienziato mortale aveva mai visto. Persino le menti più orientate alla ricerca nella sua comunità dovevano ancora stabilire il perché, ma la spiegazione era chiara: allergia al sole, l'incapacità di digerire cibi solidi, una predilezione evidente per il sangue dei mammiferi, e un'aspettativa di vita più estesa, come quella delle
balene o degli elefanti. Ai vecchi tempi lui, André e Karl avevano fatto delle congetture. Sapevano di alcuni che erano sopravvissuti per cinque secoli. Non avevano idea di quanto tempo sarebbero vissuti, ma nessuno di loro pareva invecchiare. I danni del tessuto sembravano rigenerarsi a una velocità sorprendente. Erano forti e veloci, sorretti da un'intuizione straordinaria che permetteva loro di sentire gli altri della loro specie e di ipnotizzare i mortali... o almeno quelli che non erano troppo avveduti. E benché fino a quel momento le cellule di Kathy si fossero alterate poco, sarebbe stato comunque subito evidente a un occhio allenato che qualcosa non quadrava. «Devo andare di nuovo alla associazione per gli animali domestici?», volle sapere lei. David indicò di sì. Nell'arco di un'ora erano nel centro di Toronto. Il traffico era intenso, e tutto quell'accelerare e frenare lo portò al limite della sua capacità di resistenza. I clacson che rimbombavano, l'odore nauseante di benzina, frammenti di musica ad alto volume, voci, e la densità di corpi intorno a lui, erano strazianti. Tutti quegli stimoli, e il profumo di un oceano di sangue fresco e pulsante, alla fine lo condussero oltre il limite. Giaceva preda della bramosia più sfrenata. Solo il suo corpo quasi immobile lo trattenne dallo scattare nella notte a squarciare la carne per soddisfare quei desideri travolgenti. Come in precedenza, Kathy cambiò veicolo e, una volta fatto questo, si recò al rifugio per animali. Là scoprì che non era idonea a adottare un animale domestico perché non risiedeva in città. Girò per vicoli e stradine secondarie, ma gli animali randagi erano più paranoici di quelli dei piccoli centri, o forse avvertivano il suo fine nascosto; non riusciva a spingerne uno ad avvicinarsi al cibo che offriva. Quando tornò al veicolo, disse: «Non so cosa fare. Perché non bevi di nuovo da me? Saremo in quest'altro posto - non so come dirlo - domani notte». Lui tamburellò due volte. Poi lo fece tre volte, il loro segnale convenuto che voleva mandarle un messaggio. Lei aveva carta e penna. «Quante parole?». Mosse il dito una volta. «Vocali?». Due colpi.
«A?». Lui non rispose. «E...? I...? O...?». David tamburellò una volta. «Prima lettera?». Due colpi. «Seconda?». Un colpo. «Ok. Seconda vocale? A...? E...? I...? O...?». David batté una volta. «Primo posto? No? Terzo, allora?». Lui batté una volta. «Vuoto... O... O. Che razza di parola è?». Se avesse potuto esprimere il suo umore, avrebbe riso di quell'ironia. Lui, un allievo di Cambridge, un uomo di lettere. Che aveva letto molto. Un amante delle parole. Chiuso in un corpo quasi distrutto. E adesso alla mercé di una donna il cui vocabolario avrebbe riempito a malapena cinque pagine del dizionario. "Almeno sa che cos'è una vocale", pensò lui con sarcasmo. Dovette fare tutto l'alfabeto. Persino quando fu arrivata alla Z non fu certa del significato di quella parola. David provò una amara soddisfazione sapendo di essere costretto a restare in silenzio; non poteva urlare. "Se riusciamo a venirne fuori", promise a se stesso, "il mio primo scopo sarà quello di insegnare l'inglese a questa ragazza". Alla fine, come se una lampadina si fosse accesa nella sua testa, Kathleen gridò: «Zoo! Vuoi dire lo zoo, giusto?». Debolmente, lui fece cenno di sì con il dito. Quaranta minuti più tardi erano in periferia e si stavano fermando in corrispondenza di uno stop sulla strada che conduceva al parcheggio del giardino zoologico. «Probabilmente ci sono delle guardie. Devo provare a sgattaiolare dentro?». Lui rispose di sì, sperando che lei si ricordasse di portare l'equipaggiamento. Zero guidò lungo la desolata strada di periferia con cartelli bianchi e verdi che indicavano la direzione per la metro dello zoo di Toronto. Parcheggiò in uno dei lotti in un angolo buio e uscì silenziosamente dal camioncino. Un'alta recinzione di maglia metallica con del filo spinato sulla sommità teneva i visitatori alla larga, ma non aveva intenzione di passare
dai tornelli all'ingresso. Camminò lungo la recinzione non illuminata per quelli che parvero chilometri: quello zoo era enorme. Alla fine trovò un punto dove la maglia era stata staccata dal suolo, probabilmente da dei ragazzini, e si infilò sotto, sapendo di essere stata terribilmente fortunata a trovare quel punto. Zero procedette incespicando tra i cespugli bui e alla fine giunse ad un sentiero poco illuminato. Però proseguì nel bosco, di fianco al sentiero: non si sentiva al sicuro neanche sotto un'illuminazione così scarsa. Dopo aver camminato per un bel tratto senza trovare nessun animale, decise di attraversare il sentiero e l'erba ancora verde dall'altra parte, cosparsa delle prime foglie multicolori dell'autunno. "Questo non è come gli altri zoo che ho visto", pensò. Il concetto di gabbie aperte, l'idea di tenere gli animali in un ambiente il più simile possibile alla loro collocazione naturale, specialmente per quanto riguardava lo spazio, la sconcertava, pur piacendole. Ma significava camminare parecchio. Trovò un sentiero pavimentato, quasi buio, e si tenne al bordo di questo. C'erano fusti su entrambi i lati verso i quali poteva fuggire in fretta, se necessario. Alla sua destra vide le gabbie delle tigri, e poco più avanti un cammello che la osservava incuriosito, con gli occhi che scintillavano di uno strano rosso nell'illuminazione artificiale. Attraversò il sentiero una volta per provare la porta di un padiglione, ma era chiusa a chiave. Era un animale all'aperto quello che doveva trovare. Alla fine giunse ad un cartello con un'immagine contrassegnata dalla scritta "Bisonte". Nella debole luce della luna non riusciva a leggere le informazioni, così non era sicura di che tipo di animale fosse un bisonte, ma sembrava una mucca con la pelliccia. E abbastanza grande per poter donare un poco del suo sangue senza che ciò gli arrecasse alcun danno. Con attenzione si arrampicò sulla bassa barriera, poi tastò il sentiero in un fossato che impediva agli animali di scappare. Lontano dal sentiero era buio; non vedeva nulla, Una volta ritornata al livello di terra, Zero vagò per quella striscia d'erba sporca e spogliata dal pascolo costante. Temette di non trovare uno di quei bisonti; forse adesso erano all'interno. «Dio, che puzza!», disse ad alta voce. Una risposta giunse dalla sua sinistra. Uno sbuffo basso, quasi un respiro, poi il passo pesante di uno zoccolo. Aveva con sé un sacco contenente un ago voluminoso, una siringa, e diverse dozzine di grosse fiale per riempirle di sangue.
Da qualche parte fuori da Winnipeg aveva deciso che, se non poteva comprare sangue, allora avrebbe preferito prenderlo in questo modo, così sarebbe stato possibile agli animali restare vivi. Una notte aveva rubato l'equipaggiamento necessario in uno studio veterinario, ma fino a quel momento non era stata costretta ad utilizzarlo. Sarebbe stato un processo lento, ma non le importava. Inoltre, era un'esperta con l'ago, e non aveva problemi a trovare le vene. «Oops!», gridò, finendo contro un muro tozzo di pelliccia e carne. «Tu devi essere un bisonte», disse poi, toccandolo sui fianchi con i palmi. «Sei parecchio grosso». Non riusciva a arrivare molto in là su quella schiena curva, e sotto, dove lunghe strisce di pelliccia aggrovigliata pendevano fin quasi a terra. L'animale sbuffò nuovamente poi fece i suoi bisogni, schizzandole la gamba. «Ehi!». Kathleen fece un balzo indietro. «Cavolo, non potevi aspettare?». Con un sospiro, aprì la borsa e tirò fuori l'occorrente. Un contenitore era già assicurato all'ago. Passò nuovamente la mano sull'animale nella direzione dove aveva sentito sbuffare. Alla fine trovò quello che immaginò dovesse essere il collo e esplorò con dita esperte. La maggior parte della pelle era coperta da pelliccia, e laddove non ve n'era, la pelle era spessa e dura. «Bello, non mi rendi certo le cose facili», disse. Alla fine sentì una pulsazione e rapidamente inserì la punta dell'ago in quel punto. L'animale si mosse leggermente in avanti. «Ehi», disse Kathleen. Poi: «Stai fermo, bisonte. Non ci vorrà molto. Ed è per una buona causa. Ti ripagherò quando avrò finito, d'accordo?». Quindici minuti più tardi aveva due litri di sangue di bisonte nella borsa. «Resta qui», disse al suo donatore, che non sembrava particolarmente provato da quella donazione. «Torno subito». Scese giù dalla collinetta, dentro il canale, poi su dalla ringhiera. Il bosco era fitto. Molti alberi avevano ancora quelle che al tatto erano foglie soffici e piene di vita e lei se ne riempì le braccia, poi le trasportò fin dal bisonte. «Ecco qui», gli disse. Ma il bisonte non fece lo sforzo di assaggiare il fogliame. «Ehi, ho passato un sacco di guai per questo. Non fare così. Mangiane un poco, ok? David dice che devi mangiare la tua insalata o ti sentirai ma-
le». Il bisonte parve considerare quell'affermazione e poi sembrò prendere una decisione. Mordicchiò a titolo di prova. «C'è qualcuno là?», disse una voce maschile decisa ma spaventata. «Oh maledizione!», sussurrò Zero nell'orecchio dell'animale suo amico, lasciando cadere le foglie sul terreno sporco. «Devo scappare via di qui». Si allontanò ma tornò subito indietro. «Ehi! Grazie!», sussurrò. Se n'era andata da tempo quando la luce della torcia investì il bufalo da seicento chili che ruminava quel cumulo di succulente foglie. Solo il bisonte udì la guardia della sicurezza domandarsi: «Ma come diavolo...?». CAPITOLO 20 Zero guidò per Montreal sotto la pioggia battente. I tergicristalli facevano un suono secco, spazzando ritmicamente badilate d'acqua dal vetro anteriore, ma la guida fu tutt'altro che rilassata. Sul Boulevard Dècarie, una delle strade principali che portava in centro, si procedeva paraurti contro paraurti a causa degli ultimi strascichi del traffico dell'ora di punta. «Questa gente non sa guidare», disse rivolta a David che si trovava sul sedile posteriore, poi sterzò bruscamente per evitare una Datsun davanti a lei che aveva sbandato. Dovette veramente concentrarsi tanto per il maltempo quanto per il fatto che gli automobilisti di quella città non sembravano rispettare le corsie. A dire il vero, su quella strada non erano neppure segnate le linee bianche, E oltre alla normale difficoltà di trovarsi in un posto sconosciuto e di dover cercare la strada, tutti i cartelli stradali erano in francese. La maggior parte delle coloratissime abitazioni in mattone di tre, quattro o cinque piani che vide sui lati della strada, quando riuscì a dare un'occhiata, era interessante. Lunghe file di scale in ferro conducevano a deliziosi balconi pure in ferro. Finestre chiuse di tipo francese e tetti scoscesi tipo chateau. E c'erano croci dappertutto. C'è n'era addirittura una piantata sul cucuzzolo di una montagna. Si chiese se David temesse le croci, come i vampiri dei film, poi ricordò che aveva detto di no. «Faccio rifornimento». Si fermò a una stazione di servizio Petrocan. «Il pieno», disse al benzinaio. Il ragazzo, vestito con un impermeabile giallo munito di cappuccio chie-
se: «Plomb ou sans plomb?». Zero si limitò a fissarlo, con la bocca spalancata. Alla fine quello disse: «Con o senza piombo?» «Senza piombo». Scosse la testa. Poi urlò dal finestrino: «Perché non l'hai chiesto in inglese la prima volta?». Ma non vi fu risposta. Mentre il ragazzo riempiva il serbatoio, Zero parlò con David. «Troverò un posto dove fermarmi in modo che tu possa dirmi dove vuoi andare, d'accordo?». Immaginò che lui dovesse avere in mente un piano; dopotutto, era voluto venire fin lì. Accese la luce interna, sollevò la coperta termica e poi il lembo della tenda. Il suo dito indicò di sì. Non riusciva ancora a parlare, ma adesso poteva muovere le braccia, le gambe, la testa e persino aprire e chiudere palpebre e bocca, tutti segnali incoraggianti per lei, benché i suoi occhi fossero spenti e simili a quelli di un morto vivente, e la sua pelle fosse ancora nera. Aveva un aspetto orrendo, come quello di un animale che è stato arrostito su uno spiedo. «Vuoi che compri una carta stradale?», gli domandò. Lui disse che avrebbe dovuto. «Però non so come farò a leggerla. Qui tutti parlano una lingua straniera». Sentì un colpo di tosse alla sua sinistra e si girò. L'addetto della pompa di benzina se ne stava tranquillamente in piedi, con delle gocce di pioggia che gli scivolavano giù dalla punta del naso. La guardava in modo strano. «Mi piace parlare da sola. In questo modo evito le discussioni», gli disse, porgendogli un biglietto da venti dollari canadesi. «Lei viene dagli Stati Uniti», commentò lui, mentre contava il resto in banconote zuppe e colorate. «Sì! Come lo sai?» «Fortuna», disse il ragazzo e se ne andò via. Kathleen si fermò a lato della stazione di servizio, usò la toilette, comprò una carta stradale, poi parlò con David. «Allora, che direzione?». Lui batté col dito una parola e lei indovinò le lettere, componendo Redpath. Le ci volle un po' di tempo per trovarlo, ma alla fine segnò la strada sulla mappa con una penna. «Il tizio là dentro dice che siamo qui». Sollevò la mappa, indicò, ma poi si rese conto che lui non poteva vederla. «Non è distante. Devo andare
dritta di là?». Lui disse di sì. Quando furono arrivati a Redpath Crescent, una strada di grandi abitazioni di lusso in pietra grigia non lavorata e mattoni, sul versante ovest del Mont Royale, aveva smesso di piovere. «Vuoi che parcheggi?». Lui indicò di farlo. In retromarcia s'infilò in un parcheggio, tirò il freno a mano, spense il motore e passò sul sedile posteriore. Accese nuovamente la luce. «E ora?». Lui tamburellò quattro volte, il loro segnale per indicare che voleva scrivere qualcosa. Lei pose una penna tra le sue dita e gli mise davanti un block notes sul pavimento del van. Con una lentezza dolorosissima, David scribacchiò un messaggio. 777. André e Karl. André ha lasciato New York nel I960, Karl nel 1958. «Non capisco cosa vuoi dire. Vuoi che vada al 777 di questa strada?». Lui batté il dito una volta. «Poi vuoi che chieda di Karl e di questo altro tizio, non so come pronunciare il suo nome. An... der. Giusto?». David picchiettò due volte. «Be', non ho mai visto questo nome prima d'ora. Come faccio a pronunciarlo?» Lui chiese la carta con il loro segnale e ne scrisse la fonetica. «Ann-dré?», lesse lei. Lui fece cenno di sì. «E Karl?». Un colpo. «Cos'è questa storia dell'abbandonare New York?». Notò che gli tremava la mano e si sentì ancora più frustrata. Sapeva che faceva fatica a scrivere. Era così difficile capirlo. E non riusciva a comprendere il motivo per cui fossero là, benché sapesse che quei due erano amici di David. Questi scrisse un'altra nota. Chiedi ad André quando via da New York. Chiedi a Karl. Se giusto, portali da me. Lesse la nota ad alta voce, facendo cenno di aver compreso. «Ma che faccio se mi danno una risposta sbagliata?». Lui scrisse una sola parola: corri.
Mentre saliva i gradini di fianco alla casa a tre piani al numero 777, Zero stava ancora mugugnando: «Ann... drè. Ann... drè, 1960. Karl, 1958», sperando di ricordarlo. Bussò alla porta in noce e attese. Dopo dieci secondi le aprì una donna attraente sui trent'anni. I suoi occhi erano color zaffiro chiaro, i suoi capelli lunghi e ondulati, la pelle chiara. «Bon jour», disse. Poi: «Oui?». Dietro la donna apparve un uomo. Era di bell'aspetto e ben strutturato, come un atleta, con occhi grigi e capelli neri striati d'argento. Diede un'occhiata a Zero e disse: «Mon Dieu!». Entrambe le donne lo guardarono. Zero disse con voce stridula: «Voi parlate inglese? Perché io non parlo francese». La donna si girò nuovamente verso di lei. «Sì, parliamo inglese». «Magnifico! Sto cercando due persone: una si chiama Karl e l'altra...». Dannazione! Non riusciva a ricordarlo. Guardò il pezzo di carta che teneva in mano. «Ann... dré». Pronunciò le parole lentamente, compiaciuta di se stessa, poi tornò a osservarli. «Io sono André», disse l'uomo. «Tu chi sei?» «Devo vedere te e quel tizio, Karl. È qui anche lui?» «Ho chiesto chi sei tu!». La donna gli accarezzò la guancia. Lui fece scivolare un braccio intorno alla sua vita e parve rilassarsi un poco. Poi la donna si voltò nuovamente verso Zero. «Entra dentro». Li seguì nel salotto. Un uomo più o meno della sua età con folti capelli e occhi castani era seduto su uno dei due divani di fianco a una vivace ragazza slanciata dai capelli color mogano. Come gli altri, anche questi avevano abiti informali. L'uomo balzò immediatamente in piedi, la sua pelle chiara si fece ancor più pallida, e la bocca si aprì, mentre sul suo volto si stampava la sorpresa. La sua reazione fece sì che si alzasse anche la donna dai capelli rossi. «Was ist es?», domandò quest'ultima. «Ich sehe ein Geist!». L'uomo fissò Zero. «Siediti».
La donna che aveva aperto la porta indicò lo stesso divano. Zero capiva che c'era qualcosa di strano in quei quattro. Avevano la pelle come quella di David, o almeno com'era stata un tempo, chiara, luminosa. I loro occhi erano molto intensi. La facevano sentire a disagio. Era come guardare delle statue di cera che avessero preso vita. Scelse una sedia vicino alla porta, ma loro rimasero in piedi. Si sentiva nervosa e si sforzò di restare calma. David contava su di lei. Pensò anche al modo più rapido per fuggire, semmai ve ne fosse stato bisogno. Decise che avrebbe lanciato la sedia dietro di sé per bloccarli mentre correva verso la porta, sperando di venirne fuori prima che potessero rendersi conto di cosa succedeva. «Sentite, devo farvi alcune domande». André fece un passo verso di lei. «Il tuo nome?», chiese. «Zero. Per favore, ho soltanto due domande, poi potrò raccontarvi tutto». «Che cosa vuoi sapere?», domandò Karl. «Tu sei Karl, giusto?». Lui annuì. «Devo sapere in che anno hai lasciato New York». Parve sorpreso. «Tutto qui?» «Già». «Me ne andai nel 1958. In autunno». «Sei mai tornato da allora?» «Be', no...». Zero si girò verso André. Lo trovava intimidatorio. Aveva la sensazione che si stesse trattenendo soltanto per l'influenza della donna che era con lui. «Tu quando te ne sei andato?» «Perché lo vuoi sapere?» «Perché non glielo dici?», disse dolcemente la donna di fianco a lui. «Sembra abbastanza inoffensiva». André guardò la donna, e Zero vide la sua rabbia bollente raffreddarsi. "Lei è come la valvola di sicurezza su una pentola a pressione", pensò Zero. "Se non fosse stata qui, questo tizio sarebbe esploso". Alla fine disse: «Nel 1960». Zero rilasciò un profondo respiro, sentendosi improvvisamente esausta
per il sollievo. «Cielo, sono felice che siate proprio voi». «Voglio sapere cos'è tutta questa storia. Adesso!», disse André. «Siete amici di David, non è così?» «David? Sì», disse Karl. «Ma tu chi sei?» «Sono la sua ragazza. Ha bisogno d'aiuto. Ecco perché sono qui». «Che genere di aiuto?», chiese Karl. E André volle sapere: «Dov'è lui?» «Qui fuori. In un van. Dovete aiutarlo. È ferito. Gravemente». André e Karl si guardarono l'un l'altro, poi André disse a Zero: «Meglio per te che non sia uno scherzo perché, se è così, non vorrei essere nei tuoi panni». «Non è uno scherzo». Zero si alzò, all'improvviso euforica. Tutto si sarebbe sistemato. Non era più sola. «Andiamo. Vi faccio vedere». Le due donne attesero all'interno mentre gli uomini la seguivano giù in strada. Quando giunsero al furgoncino, lei aprì le porte posteriori. André balzò su e Karl rimase fuori, come di guardia. «Sacrement!...», disse André a bassa voce. Poi: «Karl, porta quest'affare fin davanti all'ingresso. E poi dentro». Zero salì al posto del passeggero e Karl percorse il breve isolato fino alla casa. Le due donne stavano aspettando appena oltre il cancello. André disse con voce concitata a quella con gli occhi blu: «Carol, prendi le lenzuola di seta e prepara il nostro letto. Svelta». La donna dai capelli rossi rise. «Disperato bisogno d'amore?». André si girò verso di lei. «Non è il momento di fare dello spirito, Gerlinde. Ci servirà del ghiaccio, e parecchio. Comprane almeno venti confezioni». «Sicuro», disse lei, afferrando una giacca e dirigendosi verso il garage. Zero rimase in disparte mentre gli uomini sollevavano con cura David sulla coperta termica e lo trasportavano dentro. Girarono a destra, attraversarono la cucina moderna e poi discesero delle scale. Lei li seguì, sentendosi all'improvviso tanto ignorata quanto inutile. Oltrepassarono una cantina pulita, rifinita e sgombra, quindi attraversarono la porta di una camera da letto dai colori nero, argento e grigio. Carol stava sistemando un lenzuolo di seta argento sopra un materasso formato gigante. «Oh mio Dio!», disse quando vide David. «Spegni le luci», suggerì André, e immediatamente la donna spense
quella sopra la testa poi quella rettangolare da lettura posta sopra il letto, lasciandoli nell'oscurità tranne per una striscia d'illuminazione proveniente dall'altro locale dello scantinato. «Che cosa gli è successo?», chiese Carol gentilmente. «Non ne sono sicuro», disse André. «Sembra che sia stato molto tempo esposto alla luce del sole. È gravemente ustionato. David, puoi parlare?» «Non può ancora parlare», disse Zero. «Quando è successo?», volle sapere Karl. «Circa una settimana fa. Forse poco di più. A Vancouver». «Hai guidato fin qui tutta sola?», chiese Carol. «Già». David venne adagiato sul letto. «Abbiamo bisogno di un setup IV», disse Karl. «Gerlinde mi aiuterà quando sarà tornata». «Forse dovrei telefonare a Chloe», propose Carol. «Probabilmente adesso è da Jeanette. Avranno entrambe qualche suggerimento da dare. E Julien conosce di sicuro il modo migliore per affrontare la situazione». «Buona idea», disse André. «Io comincio a scongelare il plasma». In mezzo al ronzio generale di attività, Zero non sapeva che cosa dovesse fare. André lasciò la stanza, e così fece Carol. Poi anche Karl si accinse ad uscire, fermandosi brevemente per dire a Zero: «Non toccarlo. Gli faresti male». «Lo so», disse lei, sentendosi risentita. "È merito mio se David è vivo", pensò tra sé. "E adesso vengo tagliata fuori come se non c'entrassi nulla". Quando furono rimasti soli, si sedette all'estremità di quel grande letto e fece scivolare la mano sotto quella di David. Come sempre, lui rimase perfettamente immobile. «Sei felice di essere qui?». Lui tamburellò una volta sul palmo. «Ti riprenderai, non è così? Adesso che sei insieme ai tuoi amici?». Di nuovo batté una volta. Poi disegnò qualcosa con la punta del dito sulla pelle di lei. «È un cuore?». Indicò di sì. «Anch'io ti amo», disse lei. Ma si sentiva sola, e avrebbe voluto più di ogni altra cosa potersi insinuare nel riparo delle sue braccia.
CAPITOLO 21 Zero trascorse diverse settimane vivendo in una casa piena di vampiri usare quella parola rendeva le cose più facili per lei, ma le due volte che se l'era lasciata scappare, li aveva infastiditi parecchio. Oltre ai quattro che aveva incontrato, c'era un ragazzino sui dieci anni, l'età che avrebbe avuto Bobby. E, sebbene non assomigliasse affatto a Bobby, Zero se ne innamorò. Il sentimento era reciproco. Il suo nome era Michel, cosa che le era riuscita molto difficile credere perché aveva sentito soltanto le ragazze chiamarlo a quel modo. Quando scoprì che si traduceva in Michael, si limitò a chiamarlo Mikey, il che sembrava piacergli. Era un ragazzo grazioso e intelligente, con i capelli neri e gli occhi azzurri. Carol era sua madre e André suo padre. Sapeva dai racconti di David che André era un vampiro da molto tempo, così all'inizio non riuscì a comprendere come potesse essere il padre di Mikey. Ed esitava a domandarlo. Alla fine si convinse che Carol doveva aver avuto il bambino prima della trasformazione, e André probabilmente era il suo patrigno. E, benché Mikey dormisse di giorno, proprio come il resto di loro, c'era qualcosa in lui di completamente umano. E molto speciale. Era come loro, ma differente. Nelle ore notturne, trascorreva molto tempo insieme a Mikey mentre David si rimetteva in solitudine nell'oscurità totale sotto terra. Le impedivano di vederlo, dicendo che aveva bisogno di riposo e sangue e che più diventava forte, maggiore era la quantità di sangue richiesta. Lei avrebbe solo intralciato il processo di guarigione. Zero lo accettò, perché non le offrirono alternativa, ma non le piaceva il modo in cui la trattavano. Durante il giorno la chiudevano in una grande stanza al terzo piano che sembrava essere lo studio di un pittore. Tutti dormivano dall'alba fino al tramonto, ma lei non riusciva a dormire per tutte quelle ore, così il tempo scorreva lentamente. Ma di notte, quando era con Mikey, il tempo volava. Facevano dei giochi, cantavano canzoni, guardavano insieme i video. Si sentiva una ragazzina. Quando non era con Mikey era insieme a uno degli altri; di notte non la lasciavano mai da sola, neanche per andare in bagno. Le donne non erano tanto male, e Karl sembrava aver perso parte di quel suo sospetto iniziale. Ma André continuava a farla sentire a disagio. Lui e Karl la interrogavano ogni notte su quanto era successo, le stesse domande in continuazione. Era intimidita dall'ostilità di André, e si sentiva
molto meglio quando Carol era nei paraggi. «Dicci ancora di quell'uomo, Reesone», chiese Karl. Era seduta su un divano verde a due posti. Mikey, ai suoi piedi, faceva un puzzle Sandman. Karl, Gerlinde, Carol e André, in quell'ordine, sedevano su un lungo divano dall'altra parte del tavolino da caffè. Gerlinde le stava facendo un ritratto a carboncino mentre gli altri la osservavano silenziosamente con la stessa fissità abbagliante. «Era sui giornali, ecco come abbiamo scoperto chi fosse. È un attore o qualcosa del genere. Sembra italiano. Quando l'abbiamo visto la prima volta ha parlato soltanto David. Io non stavo prestando molta attenzione». Si sentì imbarazzata dal fatto di non avere molti altri dettagli da offrire. Primo, si era sentita talmente intimorita nell'ambasciata italiana e, secondo, l'aveva assalita il bisogno della droga, e da quel momento non si era neppure più resa conto di che cosa stesse succedendo intorno a lei. La faceva sentire incapace di parlare, e non era stata di grande aiuto per David. «Descrivilo nuovamente», disse André. Lei lo guardò. Il modo in cui la fissava, era come se la odiasse. "Ma non è possibile", pensò tra sé. "Non mi conosce neppure". Sospirò. «È piccolo. Ha i capelli come i tuoi», disse, indicando Karl. «Il colore, intendo. E fuma quelle sigarette nere. Scommetto che potete trovare uno dei suoi film a noleggio». «L'ho già preso», disse André, sempre guardandola. «Allora perché me lo chiedi, se sai già che aspetto ha?» «Perché non crediamo ad alcune delle cose che ci stai dicendo». Zero cambiò umore. Aveva detto loro la verità, tranne per un paio di cose. Una riguardava il fatto che Bobby fosse già morto. Un'altra era il fatto che era stata lei a provare ad uccidere David a Manchester. Aveva semplicemente saltato quella parte, aveva raccontato di averlo incontrato là, e che qualcun altro aveva cercato di ucciderlo. Erano tornati a New York insieme riuscendo a rintracciare Dennis. Sapeva che non avrebbe dovuto mentire, ma non aveva idea di come raccontare quelle cose senza passare per stupida. Inoltre, aveva temuto che non le avrebbero creduto se avessero scoperto che tutta quella storia partiva da lei. Ma adesso sembrava che non le credessero comunque. «Ascolta», disse lei. «David si sente meglio, no?» «Si sta riprendendo», disse Karl. «Be', perché non lo chiedete a lui, se non mi credete?» «È quello che intendo fare».
André la guardò freddamente. Lei guardò Mikey. Quel ragazzo era un angelo. Riusciva a vedere che cosa aveva preso da Carol, ma non riusciva proprio a capire cos'avesse di quell'uomo benché, comunque, André si comportasse bene con Mikey, e con tutti gli altri. Era soltanto Zero che sembrava non apprezzare, e lei non riusciva a capire il perché. «Non posso vedere David stanotte? Per favore». Nessuno parlò per alcuni secondi, ma poi Karl si alzò. «Scendo giù a cambiare la sacca del plasma. Gli chiederò se vuole vederti. Sta soffrendo molto. Non vuole vedere nessuno». Mentre lui abbandonava la stanza, Mikey disse con voce stridula: «Zero, aiutami». Immediatamente lei scivolò sul pavimento e cominciò a provare i tasselli del puzzle negli spazi rimasti. Si impegnò in quello per diversi minuti fino a che Carol domandò: «Qual è la tua relazione con David? Siete amanti?». Lei sollevò lo sguardo e sorrise. «Già. Siamo amanti». André si alzò in piedi. Non riusciva a credere a quanta rabbia promanasse da lui. Camminò verso la finestra, scostò le tende e guardò fuori. «Stai pensando di diventare come noi?», chiese Carol. «Sì. Ho già iniziato». André si girò dalla finestra per guardarla in faccia. Zero abbassò lo sguardo. «Apri la bocca piccola. Devo controllare una cosa», disse Gerlinde, guizzando sul pavimento. Zero aprì la bocca, e la rossa vampira sbirciò dentro, come un veterinario che esamina i denti di un cavallo. «Ormai è prossima, tutto a posto. Vedo dei piccoli artigli da qualche parte». André attraversò rapido la stanza, scuotendo la testa. «Non ha senso. Perché mai l'avrebbe fatto David? Ha perso la testa?». Zero balzò in piedi, con le mani sui fianchi, mentre sulla difensiva dava sfogo a una carica di energia impetuosa. «Perché mi ama. È così difficile da immaginare? E io lo amo, anche se tu non credi che sia abbastanza valida per lui. Lui è ricco e intelligente mentre io sono povera e stupida, giusto? Be', ci sono altre cose tra le persone oltre a quella roba, per cui puoi andartene al diavolo, perché non me ne importa niente di quello che pensi!».
Tutti rimasero immobili, persino Michel, che teneva in mano un tassello del puzzle, con la mano sollevata a mezz'aria. André incrociò le braccia sul petto. Con una voce carica di un riserbo pericoloso disse: «Che tu vada bene per David è una cosa tra voi due. Ti ha accennato di Ariel?» «La sua vecchia ragazza? Certo». «Allora quello che voglio sapere è...». «David vuole vederti», lo interruppe Karl dall'uscio. Zero corse via dalla stanza, si affrettò giù per i gradini della cucina e volò attraverso lo scantinato. La stanza era buia e fredda. Tremò; era come camminare in un congelatore. «David?», chiamò lei piano. Una voce bassa e roca disse: «Da questa parte». Lei camminò nella direzione di quel suono, sbattendo ben presto contro il lato del letto. Due mani si protesero per sorreggerla. Istintivamente le sue braccia corsero intorno a lui, mentre le batteva forte il cuore per l'eccitazione. Le sue dita accarezzarono la schiena nuda e sentì delle vaste porzioni di pelle secca, increspata che si staccavano. «No!», disse lui, e lei sobbalzò a quel suono. «Non mi toccare. Lascia che sia io a toccarti». Kathleen lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Le mani di lui si mossero esitanti giù lungo le spalle fino alla punta delle dita, poi di nuovo su. Sentì il suo viso, il collo, i seni, poi le sbottonò la camicetta. «Ho bisogno di te, Kathy. Ho davvero bisogno di te». Quelle parole fecero correre un brivido di eccitazione sul suo corpo, e dovette costringere se stessa a non toccarlo. Le dita di David divennero frenetiche mentre spingeva la gonna e le mutandine giù lungo i fianchi. Tutti e due respiravano pesantemente. Lei calciò via le scarpe, poi le mani sensibili di lui, che adesso sembravano più forti, la trascinarono sul letto. «Stenditi di schiena», disse, baciandole le labbra. Le sue erano fredde, e lei ebbe un tremito per quelle e per il freddo all'interno della stanza. Lui rimase sospeso sopra Kathleen nell'oscurità, senza appoggiare il suo corpo a quello di lei, solo accarezzandola con le mani e la bocca. «È così difficile non abbracciarti», disse lei. «Lo so». Le labbra di David si spostarono in basso sul capezzolo destro e là indu-
giarono. Poi le leccò lo stomaco e le cosce. Il corpo di lei era sconvolto dalle sensazioni. Non aveva bisogno di essere stimolata a lungo. David si spostò all'estremità del letto. Lo sentì inginocchiarsi. Le fece piegare le ginocchia spingendole le gambe verso l'alto, tenendole i polpacci, tirandola verso di sé. Sollevò la parte inferiore del suo corpo leggermente dal lenzuolo e la penetrò. Lei fu sconvolta da uno spasmo di piacevole dolore e gridò; l'agonia che aveva patito durante le ultime settimane e l'intensità del desiderio causato dal volerlo così tanto, si scontrarono. «Ho bisogno di te, Kathy», disse di nuovo lui, con la disperazione in quella voce acuta. Tenne le gambe di lei lontano da sé in modo che il loro contatto pelle contro pelle fosse minimo. La sensazione per lei era strana; non poteva vederlo, non poteva toccarlo. Ma lo udiva e sentiva, e quello che sentiva era vagamente spaventoso. Da parte sua c'era una sorta di aggressione. Si mosse velocemente e spinse forte; le cosce di lei erano chiuse, ed era una penetrazione molto aderente, la stimolazione intensa. Doveva essersi accorto della sua paura. «Sono sempre io, Kathy. Ti prego! Non tirarti indietro. Ho così bisogno di te». E il suo bisogno la toccò, dissipando la paura con un'ondata di passione. Il calore mandò in fiamme il corpo di lei. Si aggrappò alla testiera per sostenersi. Lui spingeva così veloce che tutto quello che Kathleen poteva fare era indietreggiare e lasciare che la prendesse. Poi si sentì scivolare in basso, sempre più in basso, mentre ondate di piacere bollente le squassavano il corpo. Dopo, si sedette di fianco a lei, baciandola, toccandola, mentre Kathleen giaceva tranquilla. Le permise di tenere la sua mano, l'unico punto in cui il suo tocco era piacevole. «Ti amo», disse lei delicatamente. «Quando mi renderai come te?» «Presto. Quando sarò più forte». Nella fredda oscurità rimasero in silenzio finché all'improvviso lei disse: «Sei diverso». Sapeva che era vero. I suoi appetiti erano intensi. La desiderava di nuovo. E il suo desiderio di sangue sconfinava nella depravazione. Se avesse permesso che il piacere lo sopraffacesse, quella notte avrebbe perforato la
sua arteria, devastandola in un modo ancor più violento di come lui era stato martoriato quando era stato rubato il suo sangue. Ma David era cosciente anche di un nuovo appetito, generato dal dolore, nutrito dall'odio. Era cresciuto come un fungo, diffondendosi dentro di lui, annientando quasi completamente ogni altra cosa e sbocciando in un'ossessione. Per la prima volta nella sua esistenza, bramava vendetta. CAPITOLO 22 «Ehi Zero, ti va di giocare alla rockstar?», disse Michel dall'ingresso del salotto. David guardò il ragazzo. «Il suo nome è Kathleen. Kathy». Michel corse nella stanza premendosi tra André e Carol che sedevano su uno dei divani. Karl era su una sedia vicina con un alto schienale. Gerlinde, a gambe incrociate sul pavimento ai suoi piedi, lasciava pendere un braccio dal ginocchio di lui, mentre faceva asciugare le unghie. «Hai detto che il tuo nome è Zero». Il ragazzo guardò Kathy con aria accusatoria; il suo volto, agli occhi di David, era una versione più giovane di quello di André. David sollevò un braccio, quello con l'ago infilato dentro. Il tubo attaccato all'ago arrivava a una sacca in plastica mezza piena di quel plasma verdognolo che gocciolava costantemente nelle sue vene. Prese il mento di Kathleen in mano e fece in modo che lei lo guardasse. «Non chiamarti mai più Zero. Mi hai capito?». Lei lo fissò con quei grandi occhi tondi. Riusciva a sentire il sangue ribollire sotto la pelle calda. Voleva essere dentro di lei, in diversi modi. «Tu mi hai salvato Kathy. Tutti voi mi avete salvato. Sarei davvero morto senza il vostro aiuto». Guardò i suoi amici nella stanza, poi però tornò a osservare Kathy. «Ma specialmente senza il tuo. Quelle mura bianche e il vetro rendevano la luce del sole terribilmente intensa. Mi avrebbe distrutto molto prima di una normale esposizione alla luce del giorno. Se fossi rimasto ancora un poco in quella stanza, non sarei più riuscito a riprendermi». «Ragazzo, avresti dovuto guardarti quando sei arrivato», disse Gerlinde. «Non avrei scommesso due pipistrelli che saresti tornato in piedi. Comunque, se fossi in te, non mi farei vedere alle cene di gala per un po' di tempo».
David si era visto in uno specchio. Era tutto escoriato. Gran parte della sua pelle annerita e piena di croste si era staccata, lasciando un nuovo strato sensibile, segnato da cicatrici, forse permanenti. Sotto gli indumenti leggerissimi che gli aveva prestato Karl, il suo corpo ferito era rinfrescato e alleviato da una mistura di ingredienti naturali che Chloe aveva suggerito al telefono: tagete inglese, calendula e camomilla. Le luci erano state abbassate, permettendogli quella notte di salire per la prima volta di sopra. Guardò Gerlinde passare lo smalto sulle unghie della mano destra. Aveva già applicato due strati di smalto trasparente su ogni unghia con cura meticolosa. Adesso stava tingendo di bianco le estremità con i movimenti esperti di un'artista. Era una rossa vivace con scintillanti occhi color cioccolato, non il tipo che avrebbe scelto per Karl. Quei due erano talmente diversi. Ciononostante riusciva a vedere la loro attrazione reciproca; l'intelletto di Karl bilanciato dallo humour di lei, la calma di lui dalla luminosità e chiassosità di Gerlinde. Ancor più sorprendente era quell'altra donna, Carol, e il fatto che André avesse una relazione con lei. Sembrava in gamba. E dicevano che il bambino era il loro. «Dimmi di Michel», chiese David. Mentre André parlava, David comprese quanto si fosse addolcito il suo amico. I suoi capelli, un tempo bianchi soltanto sulle tempie, adesso erano neri striati d'argento; la maturità. "Tutti siamo differenti", pensò, "André, Karl e io. Loro si sono ingentiliti, io mi sono indurito". «Dieci anni fa», cominciò André, «Carol e io ci incontrammo a Bordeaux. Ci fu una... relazione. Non funzionò. Fu colpa mia». Carol gli accarezzò la guancia. «Fu colpa di entrambi», disse. Immediatamente passò il braccio intorno alle spalle di lei. «No, mia». André si sporse sopra Michel per baciarle le labbra. «Non dargli retta», disse Gerlinde. «Sono ancora in luna di miele: sai, i primi cento anni». André tornò nuovamente a David. «Non capiamo perché sia successo, ma riuscii a mettere incinta Carol. La leggenda dice che un figlio nato da una tale unione può essere tanto mortale quanto immortale. Si tratta davvero di una scelta. Adesso Michel ha quell'età, l'età della decisione. Ma, ad ogni modo, si tratta di un ragazzo
eccezionale. Un figlio divino, con poteri straordinari. Abbiamo già visto dei segni in lui». «Tu eri un vampiro e lei no?», lo interruppe Kathy, eccitata. «Sì». Si girò verso David. «Forse possiamo farlo». «È una circostanza rara, Kathy», le disse David. «Estremamente», aggiunse Karl. «Prima di Michel c'erano soltanto leggende di una simile prole. A nessuno nella nostra comunità era mai capitato di avere un figlio così». «Carol e io ci separammo», continuò André. «Per colpa mia». Carol gli prese la mano. «Ma lei era determinata. Dio solo sa come, riuscì a trovarci l'anno scorso quando ci trasferimmo qui. Miracolosamente, fui in grado di trasformarla. Non avrei potuto farlo senza essere aiutato», aggiunse poi, indicando Karl e Gerlinde. «Anche Chloe era qui, e una persona che tu non hai ancora incontrato, Morianna», disse Karl. «E Julien. Adesso lui ha moglie e figli. Non per nascita». David rimase sorpreso da tutti quei cambiamenti all'interno della sua comunità. Mentre lui allentava i rapporti, evitando il contatto, abbandonandosi alla disperazione, erano successe diverse cose. Le sue idee sul mondo, in retrospettiva, sembravano una realtà rigida e distorta come quella che aveva sempre rinfacciato agli altri. «Siete entrambi felici», osservò. «Sì». Karl passò le dita dietro i capelli fiammeggianti di Gerlinde. David guardò André, Carol e Michel. André annuì. «E tu?», chiese Karl. «Con Kathy, sì». Poi David sentì un odio bruciante divampare dentro. Il suo tono s'indurì, e notò sguardi scioccati sul volto dei suoi amici quando disse: «Voglio Reesone. E chiunque ci sia dietro di lui». Tutti rimasero in silenzio finché Michel improvvisamente chiese: «Papà, perché è ridotto così?» «È stato bruciato dal sole. Lo sai questo Michel», disse André. «Ma perché?» «Qualcuno ha cercato di fargli del male». «Dev'essere stato un mortale».
«Sì». Michel parve spaventato, e David cercò di rassicurarlo. «Questo non sarebbe mai accaduto se non fossi stato tanto cieco. Mi sono cacciato in una situazione pericolosa. Sapevo che era rischioso, ma non ho preso le dovute precauzioni. A dire il vero, posso incolpare soltanto me stesso». Ma Michel sembrava sempre turbato. «Hai paura che qualcuno cercherà di farti del male?», chiese Carol. Michel fece spallucce e scosse la testa troppo rapidamente. «Non permetteremo mai a nessuno di farti del male», disse lei. André aggiunse: «Tutti noi ti proteggeremo, Michel. Ti ho insegnato come difenderti. E, quando crescerai, imparerai dell'altro. Nessun mortale ti farà del male. Mai». Un'espressione di sollievo si diffuse sul viso del ragazzo. Saltò in piedi. «Possiamo andare al parco?», chiese. «Più tardi», disse André. «Vogliamo parlare con David ancora per un poco». «Ma c'è un gruppo che sta suonando. Possiamo andarci adesso, per favore?» «Lo porto io», si offrì Kathy. André e Carol si guardarono l'un l'altra. Alla fine Carol disse: «Va bene. Che parco è, Michel?» «Mont Royale». «Non è lontano», disse a Kathy. «Michel, non mangiare troppe schifezze. Lo sai che troppo cibo solido ti fa star male. Un dolcetto, una Coca, e basta, capito?». Il ragazzo fece cenno di sì. Poi disse rivolta a Kathy: «Il suo organismo non lo tollera». Michel afferrò il braccio di Kathy e la trascinò verso la porta. «Non gli farò mangiare schifezze», promise Kathy appena prima che la porta si chiudesse. Non appena Carol si fu seduta, Karl disse: «Ho una teoria. Penso che dietro tutto questo ci sia qualcuno della nostra specie». «L'ho pensato anche io», disse André. «Perché?», chiese David. «Sono stati dei mortali finora che hanno tentato di uccidermi. Prima Kathy, poi Dennis, il Sacerdote dei Serpenti, Reesone...». «Che vuoi dire, prima Kathy?», chiese Karl.
«Pensavo che vi avesse raccontato l'intera storia, da quando venne a Manchester per uccidermi». Tutti cambiarono umore imbarazzati. Alla fine Karl disse: «Ci ha detto che Dennis aveva provato ad ucciderti a Manchester. Ti aveva incontrato là una notte e ti aveva aiutato a rintracciarlo a New York». David non sapeva che cosa fare. «Farò meglio a raccontarvi ogni cosa», disse, e cominciò dall'inizio. A metà della storia, Carol si alzò in piedi. «Io vado al parco». André le prese la mano. «Aspetta. È presto: sono solo le nove e mezza. Diamole ancora mezz'ora». Lei si sedette nuovamente. Dopo un'altra mezz'ora, la storia di David era completa. «Mon ami, avrei voluto sentire tutto ciò dall'inizio», disse André. Carol si alzò bruscamente. Era nervosa. «Voglio andare là. Michel probabilmente ha fatto comprare a Kathy tutto quello che ha visto». André l'accompagnò fino alla porta. Nel frattempo Gerlinde disse a David: «Dio! Voi due avete davvero passato l'inferno». «Kathy non ci ha raccontato di essere stata una drogata», disse Karl. «E ha mentito anche riguardo altre cose. Riguardo a suo fratello morto in un incidente con un'auto». David era preoccupato. Pensava che lei l'avesse accettato, e adesso lo stava rinnegando di nuovo. E stava forse negando anche il fatto di aver cercato di ucciderlo? Sembrava lucida. Così lucida che lui aveva intenzione di parlarle del fatto che Bobby era in realtà suo figlio. Pensava che adesso fosse abbastanza forte per affrontarlo. E voleva che lo facesse prima che lui la trasformasse. «Ascolta, la teoria regge lo stesso», disse Karl. «Tutto ciò è troppo ben organizzato, compresa quella stanza che sembra progettata per uccidere la nostra specie. Credo che solo uno di noi potrebbe architettare tutto questo». «Ma allora perché servirsi di mortali?», chiese André mentre si sedeva. «Perché è troppo difficile per noi ucciderci l'un l'altro», disse Karl. «Chiunque di noi avrebbe potuto spingere David dentro quella stanza», disse Gerlinde. «Voglio dire che abbiamo la forza fisica, non che l'avrem-
mo fatto». «Sì, ma dato che avvertiamo l'uno la presenza dell'altro, David sarebbe stato più vigile. Con i mortali non pensi mai che possano farti del male, quindi non presti molta attenzione». Gerlinde annuì. «Ma è tutto così confuso», disse David. «Il biglietto con su scritto di arrivare dopo il tramonto...». «Quello è un esempio», lo interruppe Karl. «Tutti i mortali hanno visto Dracula. I vampiri si uccidono prima che faccia buio. Chiunque l'abbia scritto sapeva che ti saresti svegliato e che saresti stato in grado di difenderti». «Ma perché allora mandare Kathy?», chiese Gerlinde. «Perché era una drogata», spiegò Karl, «talmente succube della droga e confusa riguardo a suo fratello da non poter pensare in maniera lucida. E l'hanno scelta perché sapevano che l'avresti fermata. E lasciata vivere. Chiunque ci sia dietro, ti conosce molto bene». «C'è un altro motivo per il quale sapevano che non l'avresti uccisa». André fece una pausa. «Assomiglia ad Ariel». David sentì come uno schiaffo in faccia. «Forse un po'. Ho notato dei tratti affini, a volte, qualche volta i suoi modi...». «David, potrebbero essere gemelle», disse André. David scosse la testa. «È vero», aggiunse Karl. «André e io l'abbiamo notato subito». «Ma i suoi capelli, i suoi occhi...». «Colori differenti, tutto qui». Si passò una mano sopra la testa. I vecchi capelli erano stati bruciacchiati, quelli nuovi fino a quel momento erano cresciuti più o meno di un pollice. «Forse ho dimenticato che aspetto ha Ariel». Si guardò intorno impotente. André si avvicinò e si sedette di fianco a lui. «Chiunque l'abbia mandata sapeva di te e Ariel». «Chi altri oltre a voi due? E Chloe». All'improvviso la porta si aprì sbattendo e Carol si precipitò dentro la stanza. Il suo volto era una maschera di terrore. «André! Hanno preso Michel!». «Di che cosa stai parlando?».
Le afferrò le braccia, scrutando il suo viso. «Michel è stato rapito. Lui e Kathy sono saliti su un furgone». «Cosa è successo?». Gerlinde era già in piedi, tutti loro lo erano. La voce di Carol tremò: le mancava il fiato per la corsa. «Erano nel parco. Un vecchio li ha visti. Non è voluto venire con me ma questo è il suo numero di telefono». Con le mani tremanti, porse ad André un pezzo di carta. «È francese. Non conosceva bene l'inglese e parlava troppo in fretta perché io potessi capirlo». Mentre André componeva il numero, gli altri circondarono Carol. André parlò per poco. Quando tornò dal gruppo, pareva spaventato. E arrabbiato. «Dice che si è fermato un van blu. Una donna è scesa dal posto del passeggero. Ha parlato con Kathy e poi i tre sono saliti su. Michel e Kathy sono saliti di loro spontanea volontà. Il van era guidato da un uomo. Il vecchio non è riuscito a vederlo, ma il conducente ha gettato dal finestrino una sigaretta nera. La donna...». Si girò verso David. «È Ariel». CAPITOLO 23 «Avevo una brutta sensazione», si lamentò Carol. «Se non l'avessi lasciato andare con Kathy, questo non sarebbe successo». André la tenne stretta. «No. Tu volevi andare al parco già prima. Io ti ho fermata». «Non è colpa di nessuno di voi due. Mi sarei dovuto rendere conto che ci avevano seguito». David si sedette accigliato. Si sentiva più che colpevole. Dei pensieri orribili lo tormentavano. Kathy era andata di sua spontanea volontà. Aveva mentito quando aveva raccontato ad André, Karl e gli altri ciò che era successo. E qualcos'altro gli venne in mente. Quando aveva confessato a Manchester che dietro tutta quella storia c'era qualcuno della sua specie, lui non ci aveva creduto, pensando fosse una storia architettata per ottenere la droga. E adesso non era tanto sicuro del fatto che lei non conoscesse da tempo la verità. «Sentite, voi tutti, smettetela di rimproverarvi», disse Karl in tono impaziente, passandosi una mano tra i capelli per l'esasperazione. «Dobbiamo andare là fuori a cercarla». «Certo, hai ragione», fu d'accordo André. Teneva sempre stretta Carol
ma si voltò per guardare gli altri. «Torneremo al parco e scopriremo se qualcun altro ha notato qualcosa. Il van è di colore blu scuro. Il vecchio ha detto che era grosso. Probabilmente si tratta di un modello americano. Con finestrini circolari anneriti sulle fiancate. «Voi due farete il giro della montagna? Sapete cosa cercare». «Certo», disse Gerlinde. «Karl, tu prendi la Volvo. Io prenderò la Fiat». André si girò e David riusciva a malapena a sopportare lo sguardo di sofferenza e accusa negli occhi dell'amico. «Aspetterai qui? Non sei in condizione di andare in giro. E ci serve che resti qualcuno a cui poter telefonare». David annuì. Fece un passo verso l'amico. «André. Non so che cosa dire». «Non ti rimprovero. È colpa di Ariel. E di Kathy». «Non Kathy. Sono sicuro che sono stati portati via contro la loro volontà». «Lei è proprio come Ariel». «No. Dev'esserci una spiegazione». «Le bugie», disse Karl. «È andata volontariamente. E loro sono davvero simili». «Lei non c'entra. Ne sono certo». «Sei stato già ingannato, mon ami», disse André. E prima che David potesse replicare aggiunse: «Faremmo meglio a muoverci». I quattro lasciarono David vicino al telefono. Karl aveva suggerito di chiamare in Austria, e di raccontare a Chloe e Julien cos'era successo. Mentre David attendeva di prendere la linea, si appoggiò allo schienale riflettendo. Era troppo strano. Tutto doveva essere stato organizzato in modo da poter fare uno scambio: Kathy e Michel per lui. Ma perché? Avrebbero potuto rapire Kathy prima di quel momento. E Michel. Inoltre, avrebbero potuto sincerarsi che morisse a Vancouver fermando Kathy. Era ovvio che non volevano Kathy. Oppure sì? Ma le menzogne che lei aveva raccontato, pensò David. E, come continuavano a sottolineare Karl e André, era così simile ad Ariel. Con la stessa Ariel implicata, le motivazioni avrebbero potuto essere davvero contorte. La testa prese a dolergli mentre cercava di valutare il tutto. Julien, uno della sua razza che David aveva incontrato a New York subito dopo la seconda guerra mondiale, rispose al telefono. David racconto brevemente ciò che gli era successo, poi disse a Julien del rapimento.
«Sì, è davvero strano», fu d'accordo Julien, con tracce di un classico accento francese nel suo inglese. «Forse dovresti venire qui». «Forse. Chloe vorrà sicuramente tornare a Montreal, anche se credo sia meglio che il resto di noi rimanga, finché non ne sappiamo di più. Ariel potrebbe essere dovunque. Dimmi di lei, David. Ariel e io ci siamo incontrati, ma il nostro contatto è stato breve. È successo davvero molti anni fa. Ben presto si accorse che non poteva ottenere il controllo su di me, e io mi stancai dei suoi sforzi per ribaltare la situazione». David ebbe un sussulto. «Sì, lei preferisce i maschi che può controllare. È riservata. A me sembra irlandese. Sono certo che è europea, e credo sia vecchia di diverse centinaia d'anni». «Il nostro incontro è stato alla fine del diciottesimo secolo. A Venezia. Allora aveva un'aura antica», ricordò Julien, con un riso soffocato. «Anche se non ancien régime, come me». «Mi disse una volta di preferire l'Europa al nord America», dichiarò David, «e che se non le avesse dato fastidio volare sarebbe tornata più spesso in seguito. Fece cenno anche a qualcuno con cui era stata prima di me». David rimase sorpreso da una pugnalata di dolore e rabbia che lo investì mentre ricordava come Ariel aveva rievocato il suo precedente amante solo per tormentarlo. «È uno di noi. Disse che si chiamava Anthony». «Anthony? Italiano?» «Non ne sono certo». «Non conosco il nome, ma ovviamente per noi i nomi significano poco. Dimmi, David, nella vostra relazione, hai mai bevuto da lei? Puoi rintracciarla per mezzo del sangue?». Provò vergogna. «No. Lei ha preso il mio però. Può rintracciarmi». «Quindi ha sempre saputo dov'eri, ed è una cosa da tenere in considerazione. Forse non l'hai ancora scoperto, ma prendere il sangue da uno di noi è totalmente differente dal bere da un mortale, dove la connessione è diretta. Tra di noi il sangue dev'essere sempre secondario. Lei può rintracciarti, ma non velocemente e sicuramente come tu puoi rintracciare Kathy». «Stai dicendo che posso scoprire dove si trova Kathy adesso, anche se è stata portata via contro la sua volontà? Com'è possibile? Il raggio d'azione nel quale riesco a percepire i mortali è basato sui loro pensieri, sentimenti, e ricordi, estratti dal sangue che ho ingerito».
«Il processo è identico. Quando tu catturi la sua intima essenza, ti concentri più sul futuro che non sul presente o il passato. Il sangue ti guiderà». Quando David riagganciò il telefono, cercò dentro di sé, meditando su Kathy, il nucleo del suo essere. Il sapore e l'odore del suo sangue divennero un ologramma sensorio. La stanza ancora conservava tracce di lei, e lui permise che quelle immagini orali e olfattive procedessero sincronizzate, come un film tridimensionale, muovendosi insieme ad esse, come se vivesse dentro la sua pelle e fosse diventato parte di lei. Era insieme a Michel, al parco, saliva sul van, si allontanava, si fermava, camminava, parlava. Guardandosi intorno. In attesa. Scollegò il plasma, scongelò due pinte di sangue nel forno a microonde e le bevve. Allacciò la cintura con il borsello che, oltre ai soldi, conteneva anche il suo passaporto e quello di Kathy. Poi lasciò un appunto per gli altri. David scese rapidamente dalla montagna verso la strada principale alla velocità che i suoi muscoli indolenziti gli permettevano di sostenere. Prese quindi un taxi per la stazione ferroviaria. Corse attraverso la Gare Centrale, precipitandosi al secondo binario dove sarebbe arrivato il treno da ovest, diretto ad Halifax più a est. Mentre correva, osservava attentamente la banchina e i passeggeri sul marciapiede opposto, che attendevano il treno diretto a Toronto. Guardò rapidamente su e giù ma non vide nessuno della sua specie. In quel posto la sensazione di gente della sua specie, e di Kathy nelle vicinanze, era intensa; l'aria crepitava. All'improvviso, alla fine della banchina di fronte, notò un lampo di luce che sfrecciava dentro una sala d'attesa chiusa. Mentre raggiungeva l'estremità del proprio marciapiede, Ariel apparve da dietro la porta della sala d'attesa. Afferrò con forza Michel per la parte superiore del braccio. Il ragazzo sembrava spaventato. Vederla di nuovo, dopo tutto quel tempo, fece perdere l'equilibrio a David. Lei sorrise attraverso lo spazio che li separava, parlando in modo seducente, a voce molto bassa, in modo che nessun mortale potesse udire: «Sapevo che saresti venuto. L'ho sentito. Sei incredibile. Così affidabile». Dietro Ariel c'era Reesone, adesso una sagoma di luce lui stesso: lei l'aveva trasformato. Reesone era venuto fuori trascinando Kathy dietro di sé.
«David!», gridò lei. Fu scioccato nel vedere Kathy e Ariel fianco a fianco. Aveva già pensato alla somiglianza prima, ma fino a quel momento non aveva realizzato appieno, e si chiese come avesse potuto non fare quel collegamento così lampante, evidente sia per André che per Karl. "È quasi come se avessi ipnotizzato me stesso", pensò. Reesone strinse un braccio intorno alla gola di Kathy. «Fai un altro rumore e spezzo questo collo piccolo e delicato». Dietro di loro c'erano altri sei della sua specie, nessuno che lui avesse visto prima, e così erano otto, troppi per attaccarli anche se fosse stato al massimo delle sue forze. Ariel parve comprendere la sua frustrazione e rise. «Ce ne sono molti altri di noi, David. Un vero esercito». «Perché?». La sua voce risuonò carica d'impotenza, e Reesone fece un ampio sorriso. Ariel sorrise in maniera enigmatica all'attore. Quindi si rivolse a David. «Perché cosa, amore mio? Tu che sei stato sempre così curioso». «Perché hai preso Kathy? E Michel?» «Molto tempo fa la tua piccola signora e io ci siamo assaggiate l'un l'altra. È davvero molto più facile rintracciare un mortale. Sei sempre stata in mio potere, non è così, tesoro mio?». Accarezzò i capelli di Kathy e questa si ritrasse, gridando: «David, non darle retta. Io ti amo davvero!». «Affascinante!», rise Ariel. «Una romantica. Pensa a te come a Romeo e si sente Giulietta. Tragico, ma bellissimo». «Non capisco questa storia». Lui prese tempo, cercando di riflettere sul da farsi. Sentì un fischio sulle rotaie. Come stesse chiamando un compagno, un altro risuonò nella direzione opposta. Presto ci sarebbero stati due treni tra loro. «Ho mandato questa incantevole ragazza a stregarti, mio caro. E poi guardala. Come poteva fallire? Quando abbiamo saputo del ragazzo», accarezzò la testa di Michel, e anche questo si ritrasse, «sapevamo di doverlo prendere. È unico. La loro casa a Bordeaux era vuota. Nessuna traccia di André. Sai quanto possiamo essere meticolosi. L'unico modo per scoprire il ragazzo era attraverso André, e l'unico modo di localizzare André era grazie a te. Non potevo semplicemente venire a chiederti l'indirizzo. Tu l'avresti messo in allarme, e lui è sospettoso di natura. Avevo pensato di
usare la forza, ma sotto molti punti di vista tu sei incredibilmente ostinato, una caratteristica affascinante ma molto fastidiosa. E poi David, lo sai quanto ti calzino a pennello i panni del martire! Avresti mai abbandonato la tua confortevole cripta senza un buon motivo? Be', lei si è dimostrata un ottimo catalizzatore per il cambiamento, non è così? Siamo lontane parenti, separate da secoli. E il sangue è più denso. Dicono che mi assomiglia. Tu che ne pensi?». Ariel rise. I treni si fecero più vicini e dentro la propria testa David gridò: "Rifletti! Come faccio a prenderli?". Sentiva il bisogno di gettarsi sul binario, ma anche se fosse riuscito ad evitare di essere schiacciato da una potente locomotiva, sarebbe stato immediatamente fatto a pezzi dalle otto guardie di Ariel, poi Kathy e Michel sarebbero stati perduti. «Hai fatto tutto questo per avere Michel?», chiese, incredulo. «Naturalmente. Non avevo intenzione di distruggerti. Che spreco sarebbe stato. Sei troppo attraente, o almeno lo eri». Il suo sorriso divenne civettuolo. «L'avrei mandata nel rifugio al tramonto, ma lei prese l'iniziativa. Sfortunatamente l'atrium era necessario. Una delle idee di Donald». Si girò leggermente, e Reesone parve compiaciuto di se stesso. «O almeno un'idea che ha funzionato», aggiunse e l'espressione di Reesone cambiò. «Sei un tale solitario, David», proseguì Ariel. «Abbiamo dovuto costringerti a portarci dai tuoi amici. Tu non avevi idea di quanto fosse speciale il ragazzo. Un ibrido che cambierà il futuro della nostra razza. Ho intenzione di allevarlo e cominciare lo sviluppo di una nuova forma di vita, una squisita mescolanza di mortalità e immortalità. Pensa alle possibilità: una razza sottomessa che cammina alla luce del giorno, senza problemi. Saranno in grado di sostentarsi non solo col sangue, ma vivranno comunque in eterno. L'ultima frontiera dell'ingegneria genetica». «Ma tutto questo non ha senso». Il frastuono dei motori quasi annullò la voce di Ariel. «È così semplice. Ma David, tu non sei mai riuscito a vedere le cose più ovvie. Questa nuova razza, sarà assai fragile. Vulnerabile. Avranno bisogno di una guida. E chi meglio di me per aiutarli? Lo nutrirò, e alla fine il suo sangue mi trasformerà». David non riusciva a pensare con lucidità, il rumore, la confusione, tutto stava prendendo il sopravvento, ma lui sapeva di dover tenere duro. «Sei pazza!», le gridò.
Ariel rise. «Non pazza, geniale. Una volta trasformata, potrò godermi la luce del sole, proprio come le forme di vita più vili, ma comunque essere immortale. Tanto il mondo della luce quanto quello dell'oscurità saranno miei. Sarò libera». Lo sguardo nei suoi occhi era di pura pazzia, ma la sua voce divenne nuovamente seducente. «Dovresti riflettere sull'unirti a me, David». Adesso il treno sulle rotaie di fianco a lei si stava fermando in stazione, il motore brontolava rumorosamente, e le vibrazioni facevano tremare il cemento sotto i piedi sensibili di David. All'improvviso, Michel morse il polso di Ariel. Lei gemette. Le sue labbra si aprirono schioccando per la furia, mostrando dei denti aguzzi. Lo spinse via da sé con un gesto spontaneo. In quell'istante Michel balzò di fronte al treno diretto a ovest ed evitò per poco di morire schiacciato. Poi si ritrovò in mezzo al binario verso est. Rimbombarono i fischi. «Sbrigati, Michel», gridò David. Si protese e afferrò il ragazzo, issandolo sulla banchina a pochi centimetri dalla locomotiva diretta ad Halifax. David e Michel attraversarono di corsa la piattaforma affollata, uscirono dalla stazione e salirono su un taxi. Dal lunotto David guardò tre del gruppo di Ariel saltare su un furgoncino blu. «Pago il doppio della corsa se semina il furgone che ci sta seguendo», disse ansimando David. «Quello blu». Il conducente fissò il volto sfregiato di David con un misto di pietà e repulsione, poi individuò il van nello specchietto retrovisore. Disse con un accento marcatamente inglese: «Non sono della polizia?». David toccò Michel sul ginocchio facendogli cenno di stare buono. «È un rapimento. La madre del ragazzo lo rivuole. E anch'io». «Entendu!». Il tassista fece un cenno col capo, aumentando la velocità. Dopo una dozzina di isolati il van non era più in vista. «Fermi qua!». Mentre il tassista si voltava per prendere i soldi, David incontrò i suoi occhi. «Ha carta e penna?». Come ipnotizzato, l'uomo allungò entrambi sul sedile posteriore. David sostenne il suo sguardo un istante di troppo, poi scrisse due frasi sul foglio: «Tu hai Kathy, io ho Michel. Pensaci». Piegò la carta, scrisse Ariel sull'esterno, poi consegnò questa insieme a cento dollari all'autista. «Guida fino all'aeroporto più lontano dalla città. Quando ti verrà chiesto di noi, dì che ci hai lasciato là. Io ti ho detto di dare questo biglietto a chi-
unque te l'avesse chiesto. Non ricorderai nulla di quello che è successo prima». Non appena furono sul marciapiede, il tassista si allontanò. «Perché gli hai detto quelle cose?», volle sapere Michel. «Perché Ariel può rintracciarmi attraverso il sangue, ma ci vuole del tempo. Ben presto sapranno che non siamo andati all'aeroporto, ma forse il conducente si può salvare. Gli uomini di Ariel sono ancora poco abituati a questa nuova vita per andare aldilà delle cose che ho insinuato nel suo subconscio, ma potrebbero ucciderlo comunque. Il biglietto serve affinché non faccia ancora del male a Kathy. Vieni con me». Condusse Michel in un ufficio di noleggio automobili dall'altra parte della strada. «Qual è la strada più veloce per arrivare a New York?», chiese, mentre firmava il modulo per il noleggio e consegnava un cospicuo deposito, aspettando poi che venissero ultimate le pratiche. «Pensavo foste diretti a Chicago», disse l'impiegato, ricontrollando il modulo. Alzò lo sguardo. «Voglio andarci passando per New York». David guardò distrattamente una mappa sul muro. «Be', potete attraversare Quay Richelieu: finirete più a est, oppure a sud da La Colle, fino a Champlain, New York. Ci sono passaggi a Hemmingford, Trout River... Potete sgattaiolare dentro in mille punti». L'uomo rise. David tornò a guardarlo. «Fatto?» «Ecco qua. Ci sono stradine d'ogni tipo tra i punti di controllo sul confine. Naturalmente gli americani hanno la loro parte recintata e ci sono poliziotti che pattugliano le strade, a causa di tutti gli immigrati che visitano il Canada e poi cercano di entrare negli Stati Uniti. E per il traffico di droga». David sorrise. «È sorprendente quello che farebbe la gente». «Altroché». L'impiegato sorrise, porgendo le chiavi e i fogli. «Se fossi in voi, guiderei verso Toronto, poi Windsor e infine attraverso Detroit. La benzina è più economica negli Stati Uniti, ma il limite di velocità è più alto qui. Risparmierete tempo». «Sembra perfetto. Credo che faremo così», disse David, conducendo fuori Michel. Salirono sulla macchina, e David guidò per una mezza dozzina di isolati.
Si fermò a una cabina telefonica. Non appena Michel ebbe composto per David il numero di telefono di casa sua, André rispose. Sembrava delirante. «André, ascoltami. Siete tutti e quattro là?» «Sì. Perché non sei rimasto qui, David? Hai saputo nulla di Michel?» «Ascolta e basta. Non c'è tempo. Porta immediatamente tutti fuori dalla casa. Siete in pericolo, tutti voi. Scrivi questo numero». Gli dettò il numero della cabina telefonica. «Chiamami da una cabina tra tre minuti». Quindi riagganciò. David si guardò intorno. «Tieni gli occhi spalancati, Michel. Sei in grado di riconoscere quelli della nostra specie?» «Certo», disse il ragazzo, controllando le quattro strade. Dopo tre lunghi minuti il telefono squillò e David rispose. «Che sta succedendo, David? Dove sei?» «Ho Michel con me». Vi fu un enorme sospiro di sollievo attraverso la cornetta. «Fammi parlare con lui». «D'accordo, ma per favore sii rapido». «Papà? Sì. Sto bene. Sì. Siamo...». Ma David coprì il microfono con la mano. Il ragazzo sollevò lo sguardo verso di lui con una nuova paura negli occhi, poi disse: «Stiamo bene tutti e due. Ciao mamma». Mentre Michel parlava, David organizzò un piano. Riprese l'apparecchio. «André?» «Solo un minuto». Carol porse il telefono ad André. «Dove sei, David? Veniamo subito là». «Non è sicuro». «Perché? Cos'è successo?» «Ariel è sulle mie tracce, e non posso lasciarti trovare Michel. Non è sola. Ci sono almeno otto di loro, e lei ha detto anche altri. Hanno ancora Kathy. Credo che da un momento all'altro verranno a casa tua». «Aspetta un secondo». Quando André tornò al telefono, sembrava scioccato. «Gerlinde era tornata a casa per prendere dei soldi che aveva lasciato in
una cassaforte a muro. Ha visto cinque di loro ed è rimasta indietro. Hanno appiccato il fuoco alla casa». Poi vi fu una pausa. Alla fine David disse: «André, sei in pericolo. Siamo tutti in pericolo. Penso che dovreste allontanarvi dalla città: lasciarla a gruppi di due, andare da Julien, e prendere una strada secondaria». «Ma Michel?» «Continuerò a spostarmi finché posso nasconderlo in posti sicuri, poi te lo riporterò. Come ti ho detto, mi stanno rintracciando, anche adesso». «Ma perché non facciamo in modo di portare via Michel?» «André, è Michel quello che vogliono. Hanno sempre dato la caccia a lui usandomi come collegamento». Alla fine David disse: «Fidati di me». «Non c'è neppure bisogno di dirlo, mon ami. È di Ariel che non mi sono mai fidato». Quando ebbero concordato i dettagli, David fece salire rapidamente Michel in macchina. Mentre si allontanavano dal ciglio della strada, sentì nell'aria le scariche elettriche farsi più intense proprio mentre il ragazzo urlava: «Ecco il furgoncino!». CAPITOLO 24 Le gomme stridettero mentre la macchina slittava in curva. David percorse a tutto gas una stretta strada laterale, ignorando un cartello di stop e svoltando di nuovo. Nessun segno del van. «Potrebbero non averci visto», disse a Michel. «Ma ci troveranno. Presto». «Dove andiamo?». Il ragazzo era terrorizzato e David si allungò per arruffargli i capelli, pensando: "È incredibile. Così simile ad André". Fu travolto da una sensazione di felicità che lo sorprese davvero, specialmente date le circostanze attuali. «Michel, prima che io arrivassi, tuo padre ti ha mai parlato di me?» «Certo. Un sacco. Posso accendere la radio?» «Fai pure». Mentre Michel giocherellava con il quadrante, David disse: «Allora capisci che siamo molto amici. Io non farei mai nulla per recare danno ad André o a te». «Lo so», disse Michel, senza guardarlo, sintonizzando una canzone rock.
«Michel, Ariel ha per caso preso il tuo sangue?». Il ragazzo scosse il capo. «Dovrai fidarti di me». Michel non rispose, si limitò a guardare fuori dal finestrino, poi disse improvvisamente: «Quella Ariel. Aveva intenzione di bruciarmi come ha fatto con te?». David imboccò l'autostrada che portava a sud. Controllò l'orologio e il tachimetro. Sarebbero arrivati al confine più o meno in un'ora. «Temo che abbia qualcos'altro in mente. Ma non permetterò che ti prenda. Ti porterò in un posto dove sarai al sicuro. Poi cercherò di recuperare Kathy». «Come farai a prenderla?». David si chiese la stessa cosa. «Posso rintracciarla», disse. Ma non era quello il problema. Il problema era che loro erano davvero tanti. E avrebbero potuto ucciderla per impedirgli di trovarla. "A meno che lei non fosse stata con loro sin dall'inizio". Quell'idea si affacciò nella sua mente e lui la respinse. Avrebbe scommesso sul fatto che Ariel la tenesse in vita, credendo che lui avrebbe scambiato Kathy per Michel. Mentre guidavano attraverso il Quebec meridionale, la zona divenne meno popolata, con diverse fattorie e piccoli centri. Gli edifici erano in legno o in pietra grigia, pittorescamente francesi, molto provinciali. Alberi d'acero si spogliavano di foglie rosse, arancioni e gialle a una velocità allarmante. David vide quell'effluvio di colori grazie alla sua visione notturna, ma era troppo preoccupato per godersi lo spettacolo. Provava dolore fisico, e ben presto avrebbe avuto bisogno di sangue. E parecchio. Attraversarono Saint-Jean-sur-Richelieu, l'ultima città e, dopo quella, piccoli paesi: Saint-Blaise, Saint-Paul-de-I'lle-aux-Noix, poi si diressero a ovest, verso Hemmingford. Mentre proseguivano, David domandò: «Che cosa è accaduto al parco?» «Ariel è andata da Kathy dicendole che tu eri ferito e che saremmo dovuti andare insieme a lei. Poi Ariel ha detto che anche mio padre era ferito. A casa c'era stato un incendio, e saremmo dovuti tornare in fretta perché tu potevi non farcela». «Kathy conosceva Ariel?» «Non lo so». Ariel poteva aver mentito sul fatto di aver preso il sangue di Kathy, ma lui non lo credeva. Era più probabile che l'avesse fatto, ma Kathy non se
n'era resa conto. O almeno sperava che il coinvolgimento di quest'ultima fosse avvenuto contro la sua volontà. «Poi cos'è successo?» «Quando siamo saliti sul camioncino, Kathy ha cominciato a dire qualcosa. Penso che conoscesse il tizio che guidava. C'erano degli altri dietro, e uno di loro l'ha colpita e lei è caduta, ma stava bene. Poi non ha più detto nulla finché non ti abbiamo visto». Michel era davvero spaventato, e David disse: «Perché non ti siedi qui?». Il ragazzo si fece più vicino e David gli mise un braccio intorno alle esili spalle. «Presto saremo negli Stati Uniti». «Andiamo a Chicago?» «No. Volevo che il tale all'ufficio della Hertz lo pensasse e riferisse quell'informazione. Ariel ci rintraccerà comunque, ma potrebbe confonderla un poco». Dopo Hemmingford svoltarono nuovamente verso sud, su una strada bianca. In mezz'ora avevano raggiunto una zona coperta di cespugli e David provò diverse stradine che conducevano a sud. Si trattava per lo più di strade chiuse. Alla fine ne trovò una che si fermava vicino ad una recinzione metallica ben celata da fogliame denso. Sulla cima c'era legato del filo spinato. «Perché strisciamo dentro?», chiese Michel. «Perché tu non hai una carta d'identità. E la mia faccia è tutta deturpata, cosa che renderà sospettosi i mortali. Inoltre, penso che Ariel controllerà gli aeroporti di Montreal e probabilmente i principali punti di attraversamento del confine». Lungo la strada David si era fermato a comprare un paio di cose che pensava gli sarebbero servite. Prese in mano la taglierina e il grosso coltello per affettare. Per prima cosa tagliò i fitti cespugli. Poi tagliò le maglie metalliche quanto bastava per spingere indietro la recinzione e passare con la macchina. Dopo pochi secondi che fu entrato nel settore americano, sopraggiunse una Jeep verde chiaro cabinata, con sullo sportello un simbolo del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti, Polizia di Confine. Come aveva immaginato, i sensori radar erano la vera protezione del confine. Scesero due ufficiali in uniforme verde scuro, uno con indosso un berretto verde in tinta e l'altro un cappello Smokey the Bear. Un riflettore brillante inondò la scena di piena luce. «Tenete le mani bene in aria», disse in modo duro quello più piccolo con il cappello, con l'arma già sguainata.
«Fai come ha detto», disse David a Michel, che sollevò le braccia sulla testa. L'ufficiale alto e corpulento con il berretto aprì il retro della Jeep e ne balzò fuori un grosso pastore tedesco. Fissò un guinzaglio al collare del cane e lo portò fino alla vettura. Quando aprì lo sportello dal lato guida, il cane balzò dentro la macchina, annusando tutto sul sedile anteriore. Quello più basso, più magro, prese dalla cinta un paio di manette. «Qual è la storia? Sei clandestino o cerchi di rapire il ragazzo o c'è qualcos'altro nella macchina?». David incontrò il suo sguardo e si concentrò. «Se mette da parte l'arma, ufficiale, sono certo di poterle fornire una spiegazione soddisfacente». L'uomo esile, con gli occhi incollati a quelli di David, abbassò il revolver. «Non sembra trattarsi di droga», disse il poliziotto più alto, sbattendo il cofano bagagli dell'auto di David. Lui e il cane si girarono verso il compagno. «Billy? Stai bene?» «Ufficiale?», disse David con calma. «Posso avere un momento la sua attenzione?». Il cane ringhiò e il poliziotto assunse la posizione di fuoco e puntò l'arma. Ben presto David ebbe entrambi calmi, rilassati, la pistola nuovamente nella fondina, il cane disteso per terra. Diede istruzioni a quello di nome Bill di contattare via radio il quartier generale e riferire che sembrava che un grosso animale avesse divelto la recinzione venendo poi in qualche modo rilevato dallo scanner. L'area era tranquilla e non avevano bisogno di rinforzi. Prima di andar via, David prese il sangue da ciascuno di loro, compreso il cane. Gliene serviva ancora molto, ma quello non era né il luogo, né il momento. Lasciarono gli ufficiali nella Jeep ad ascoltare musica, con il pastore tedesco che sonnecchiava dietro. In quindici minuti avrebbero ripreso conoscenza e se ne sarebbero andati via, dimenticando persino che aveva avuto luogo quell'incontro. Tornati sulla strada, David osservò il cielo, benché non ne avesse bisogno. Era quasi l'alba, e lui sentiva il calore di quel fuoco esattamente come sentiva il battito del proprio cuore. Semmai, adesso era più sensibile di
prima. «Dobbiamo trovare immediatamente un posto dove dormire. Se vedi un motel o anche solo un cartello, avvertimi». Alla fine giunsero allo Sheltering Pines, un piccolo motel sul fianco dell'autostrada. Lui affittò una camera per due notti in modo che potessero dormire durante il giorno, e pretese che non fossero fatte pulizie una volta preso possesso della stanza. La loro camera si trovava in mezzo ad altre sette, tutte comprese in un'unica lunga struttura ad assicelle rosa e verdi che gli fece venire in mente le vecchie baracche dell'esercito. L'interno era scialbo, dipinto in sfumature di verde pastello e giallo. Scene di natura morta in nodose cornici di pino cercavano di nascondere le crepe nel muro. L'armadio non era grande neppure per tenere Michel. David chiuse le tende e sistemò una coperta sulla finestra. Appese fuori il cartellino di NON DISTURBARE, chiuse a chiave la porta, quindi creò una barricata intorno al doppio letto usando il materasso, il comò e il comodino, entrambi girati di fianco. Una seconda coperta proteggeva l'ultimo lato aperto. Strisciarono sotto la rete del letto. «Non ci troveranno, vero?», chiese Michel una volta che si furono sistemati. «Qui dovremmo essere al sicuro». Ma non poteva esserne certo. Ormai non era davvero più sicuro di nulla, tranne del fatto che voleva Kathy. E, per un motivo completamente differente, voleva Ariel. CAPITOLO 25 La notte seguente, appena dopo il tramonto, David prese nutrimento dalla coppia di mezz'età che gestiva il motel. Il loro sangue era vecchio, pieno di impurità e malesseri in corso, ma ne avrebbe preso di più se non avesse temuto di ucciderli. Una pinta da ciascuno gli fornì il sostentamento. Temporaneamente. Per tornare veramente in forma, aveva bisogno di un'infusione costante. E la fame, adesso inestricabilmente legata alla vendetta, infuriava. Si sarebbe nutrito ancora, se non addirittura due volte, prima dell'alba. Guidarono per cinquanta miglia e accostarono sull'autostrada in un ristorante della catena Howard Johnson. Mentre Michel divorava una bistecca cosa rara - e uova, David fece una telefonata in Austria e parlò con Julien. «Hai saputo da André?», domandò.
«Sì. Tutti e quattro stanno venendo qui. Arriveranno a breve. Porterai Michel da noi?» «Non subito. È troppo pericoloso. Penso che siano a pochi minuti da me, e non posso rischiare di imbarcarlo su un aereo diretto in Europa. Credo che lei abbia previsto quella possibilità». «Sono d'accordo. Ma quello è un posto sicuro per il ragazzo?» «Lo spero. Volerò in diverse città, tanto per rendere più complicato per Ariel rintracciarci, dato che lei è l'unica in grado di farlo. Detesta volare, quindi dovrà essere costantemente in contatto con gli altri, dando loro istruzioni su dove andare. Dovrebbe essere sufficiente per farla ritardare. La prima cosa che farò sarà lasciare Michel alle cure di un amico. È la cosa migliore che mi viene in mente». «Comprendo il tuo piano. Quando sarà al sicuro Michel? Non puoi evitarli per sempre». «Andrò a prendere Kathy». Julien fece una pausa. «David, loro sono troppi. La potrebbero uccidere per evitare che tu possa rintracciarli, servendoti di lei». «Non penso. Sto lasciando dei messaggi ad Ariel lungo la strada dicendo che scambierò Michel con Kathy. Finché Michel non lascia il paese, crederanno che sia con me, e uno scambio è sempre possibile. Dovrebbero mantenere Kathy in vita». "O almeno lo spero", pensò David, chiedendosi se avrebbe funzionato, se fosse possibile prendere in giro una persona infida come Ariel. «David, devi renderti conto del fatto che Kathy potrebbe aver aiutato Ariel fin dall'inizio. Ovviamente è sotto il suo potere». «Ci ho pensato», disse David, senza preoccuparsi di mostrare quanti dubbi avessero affollato i meandri della sua coscienza, incluso il sapere che quelle due erano parenti. «Ma non credo». Julien disse: «Siamo otto, te compreso». Lui ebbe un'esitazione. L'offerta era una formalità; non potevano realmente aiutarlo, e Julien lo sapeva bene quanto David. «Finora hanno trovato molti di noi, e io non so ancora quanti siano. Posso muovermi più in fretta da solo. Penso sia la cosa migliore, per il momento». Ebbe un'esitazione. «Devo farlo da solo». Julien fece un'altra pausa. «Sì. Capisco. Ma se dovesse accaderti qualcosa...». Non terminò la frase.
«Il mio amico riceverà istruzioni di telefonare entro una settimana per dirvi dove si trova Michel. Se non ho trovato Kathy per allora, significa probabilmente o che non la troverò, o che è morta, o che sono morto io». Entrambi rimasero in silenzio. «D'accordo», disse alla fine Julien. «Informerò gli altri. Chiama quando ne hai la possibilità. Ma David, non essere testardo o avventato, caratteristiche che dopo la trasformazione sembrano acuirsi. Ti aiuteremo per quanto ci sarà possibile, date le nostre limitazioni. Devi soltanto chiedere». «Grazie». David avvertì una pressione al petto. Si chiese perché, in tutti quegli anni, tranne che per André e Karl, si era sentito così solo. Adesso gli era chiaro che erano possibili più contatti di quanti lui non avesse consentito a se stesso. Ma che modo doloroso per scoprirlo, pensò. Si diressero ad ovest verso Syracuse. «Penseranno che siamo diretti a Chicago», spiegò David a Michel. Là restituirono la macchina e presero un taxi per l'aeroporto. David acquistò dei biglietti per New York. Il loro volo partì dopo un'ora e nell'ora successiva arrivarono al Kennedy. Una rapida occhiata informò David che non c'erano luci innaturali che fluttuavano in mezzo a quella folla di viaggiatori mortali. Fece una telefonata da una cabina. «Qui Mae piatti prelibati», disse una voce familiare. «Mae, sono David». «David! Come te la passi? Kathy è con te?». Il dolore lo pugnalò. «Non adesso, ma sì, siamo insieme. Mae, ho bisogno di un favore». «Dimmi tutto». «Conosci Frankie? Bazzica nei dintorni dell'Alexander». «Sì». La sua voce si smorzò e riuscì ad immaginare una smorfia che le attraversava i tratti del viso. «Che vuoi da lui?» «È fondamentale che io mi metta immediatamente in contatto con lui. È una questione di vita o di morte, e non sto esagerando. Puoi farmi chiamare a questo numero?» «Penso di sì. Quel ragazzo non è esattamente uno di cui ci si può fidare, lo sai. Prende della droga, non lavora...». «Mae, per favore. Fallo chiamare il prima possibile. È un telefono a pagamento, e sarò nei pressi solo per la prossima mezz'ora. E non dire a nes-
suno tranne a Frankie che ho chiamato». «Parola di mamma». David e Michel rimasero in disparte in un angolo, parzialmente nascosti da un cartellone pubblicitario. Ma il telefono veniva utilizzato di continuo, costringendo David a fare nuovamente la fila. Quando fu il suo turno, sollevò il ricevitore e con discrezione abbassò il pulsante, fingendo di parlare con qualcuno. Non passò neppure un minuto prima che dei grugniti si sollevassero dietro di lui. Fece un sorriso mite rivolto alla fila. «Maledizione!», disse l'uomo che aspettava dietro di lui. Il telefono squillò e David rilasciò il bottone. «Ehi Dave, amico, finalmente. Qui è Frankie, che gioco hai in mente?» «Frankie, grazie per aver chiamato. Ho bisogno d'aiuto. Un grande aiuto». «Un favore succulento, un sapore che è un portento, eh?» «Qualcosa del genere. Ascolta, puoi prendere un taxi per l'aeroporto Kennedy? Ci vediamo fuori dall'ingresso del terminal per le partenze della TWA e ti pago la corsa. Vieni da solo e non dire a nessuno dove vai o che hai parlato con me, intesi? Non dirlo a nessuno!». «Un mistero, davvero. Un taxi e arrivo, tempestivo!». Non appena David riagganciò il telefono si girò, giusto in tempo per vedere una sagoma di luce abbagliante fluttuare in quell'ambiente. Potevano sentirsi l'un l'altro. Entrambi si voltarono. David non aveva idea se si trattasse di uno del gruppo di Ariel o semplicemente di un solitario della sua razza che prendeva un volo per chissà dove. Spinse Michel dietro di sé finché non fu nascosto alla vista, anche se la cosa avrebbe fatto ben poca differenza. Presto la luce svanì attraverso il controllo del check-in e David rilasciò un sospiro di sollievo. Controllò l'orologio, sapendo che probabilmente Frankie non sarebbe arrivato prima delle undici. Alle 10,45 condusse Michel all'ingresso principale della TWA. Gli porse un mucchietto di soldi e nascose il ragazzo tra due contenitori di giornali con le spalle al muro. Poteva essere visto solo di fronte. «Ascolta attentamente, Michel. Dovrai ricordarti il numero di Julien». «Lo conosco già». «Sai come fare una chiamata intercontinentale?» «Sì». «Bene. Una cosa in meno di cui preoccuparsi. Michel, io vado ad aspettare fuori sul marciapiede che arrivi Frankie. Ha più o meno diciotto anni,
pelle scura, alto, ha una bandana in testa, rossa e blu. Se mi succede qualcosa, sali sul taxi con Frankie e digli di portarti da Mae più in fretta che può. Quando sei là, telefona subito a Julien, a carico del destinatario. Lui ti dirà cosa fare». «Cosa ti succederà?». Michel parve spaventato. «Nulla, spero. Ma c'è qualche pericolo. Se qualcosa va male, se vedi qualcuno della nostra razza avvicinarsi a me, resta in disparte. Quando tutto è tranquillo, prendi il taxi con Frankie e digli di andare. Immediatamente. È tutto chiaro?» Il ragazzo fece cenno di sì. «Perché non vado da mamma e papà?» «È troppo pericoloso farti volare da solo via da New York e non posso venire insieme a te per proteggerti perché aumenterei il pericolo... Ariel mi sta rintracciando persino adesso che parliamo. E non so se c'è un aeroporto sicuro. Non può rintracciare te, perciò fintanto che non stiamo insieme, dovresti essere al sicuro». Quello che non disse al ragazzo fu che rappresentava la sua polizza d'assicurazione. Se avesse mandato Michel a Vienna, anche se fosse riuscito ad arrivare là in sicurezza - cosa che sembrava un'impresa rischiosa - Ariel probabilmente teneva sotto controllo gli aeroporti. Non appena avesse scoperto di aver perduto Michel, Kathy sarebbe stata uccisa. David attese nervosamente sul marciapiede, guardando senza sosta in tutte le direzioni. Alle 12,40 un taxi giallo si fermò, e Frankie balzò giù. Il conducente gridò dal finestrino: «Ehi, ragazzo, dove credi di andare? Prima paghi la corsa, poi spicchi il volo nell'azzurro del cielo sconfinato». «Aspetti, prego», gli disse David. «Sarà pagato». Il tassista scosse la testa e tirò fuori una Lucky Strike dal pacchetto. «Ehi, amico mio, non hai un bell'aspetto». Frankie arruffò i corti capelli di David con una mano e i suoi occhi percorsero quel nuovo fragile strato di pelle facciale. David gli afferrò la parte superiore del braccio. «Frankie, perché hai impiegato tutto questo tempo? Ti ho detto che mi serviva aiuto!». «Avevo degli affari da sbrigare. Comunque, rilassati. Adesso sono qui pronto a dare una mano. Allora, dimmi: cosa devo fare?». David lo portò lontano dalle orecchie del tassista. «Ho bisogno che tu tenga nascosto un bambino, un ragazzo, per una settimana, forse anche meno». «Sì», sorrise Frankie. «Perché?»
«Non posso dirtelo perché non voglio metterti in pericolo. Ci sono delle persone che lo cercano. Gente importante. Molto più potenti del Sacerdote dei Serpenti, e due volte più pericolosi». Frankie mise in bocca una gomma e sorrise. «Sto tremando. Tutto qui quello che ti serve?» «Il ragazzo deve rimanere in un posto sicuro. Nessuno tranne te deve sapere dove si trova, e intendo dire nessuno. Dev'essere completamente buio, senza luce del sole. Non deve uscire mai di lì, e solo tu puoi entrare. Gli servirà un bagno. Portagli due pasti ogni giorno. Delle grosse bistecche, non cotte, al sangue. Lascia dentro il sangue: dagliele direttamente dentro la carta insieme ad abbondante acqua fresca». Frankie sollevò un sopracciglio. «Mi prendi per il culo, vero?» «Sono assolutamente serio. Lo farai? Ho cercato di organizzare tutto in modo che non ci sia pericolo per te, ma non posso garantirti nulla. Questo è il motivo per cui non vengo in città. Possono rintracciarmi». «Be', non possono rintracciarti anche qui, amico?» «Sì, ma non sanno nulla di te. Se vado all'Alexander, si faranno vedere da quelle parti». David sapeva che senza una spiegazione dettagliata tutto ciò non avrebbe avuto senso per Frankie che disse: «Non ti starà mica venendo la paranoia, vacca boia?» «Fidati di me». Frankie parve scettico ma non ebbe alcun sussulto. «Certo, amico. Quello che vuoi, ti dico. Allora, dov'è questo ragazzo?» «Te lo porto subito qui. Prima prendi questi». David gli porse cinquemila dollari. «Ehi Jack, questo sì che ti dà la carica». «Ti serviranno soldi per il taxi, per il cibo e la stanza. E voglio che compri un passaporto falso per il ragazzo stanotte, se possibile. Dagli il passaporto. Risparmia il resto dei soldi, almeno per sette giorni. Se non ritorno a prenderlo, una settimana da stanotte lascia che faccia una telefonata in Austria. Lui conosce il numero. E un'altra cosa. Se c'è qualche pericolo apparente, se dovessi sentire qualcuno strano che gira intorno, voglio che mi prometti che lascerai la città in fretta. Dai solo a Michel cibo e acqua per una settimana, accesso a un telefono, e vai. Lo farai?» «Sei serio?» «Terribilmente serio. E Frankie, conto su di te». Frankie spostò il peso sull'altra gamba poi sospirò. All'improvviso
schiaffeggiò il palmo di David. «D'accordo». David si guardò intorno. Sembrava tutto tranquillo. Fece cenno a Michel, che corse fuori dal suo nascondiglio tra i contenitori. «Sali sul taxi e resta giù», disse al ragazzo. «Ricordati, Michel, qualsiasi problema, telefona immediatamente a Julien. E dai il numero a Frankie. Tutto chiaro?». Il ragazzo annuì. Frankie salì di fianco a lui e David richiuse lo sportello. «State attenti», disse loro. «Anche tu, bello», disse sporgendosi dal finestrino Frankie, mentre il taxi si allontanava. Non appena se ne furono andati, David acquistò due biglietti, uno per un adulto e uno per un bambino, sul volo notturno per Los Angeles. Dopo L.A., fece in modo di evitare il più possibile le grandi città, almeno per un primo periodo, essendo quelli i posti che Ariel avrebbe controllato per primi. Ma modificava l'itinerario in continuazione. Non potevano essercene così tanti dalla sua parte. Però, se aveva cominciato a trasformare tutti indiscriminatamente, come Reesone... Appena prima di imbarcarsi sul volo, acquistò una scatola di articoli per cancelleria. Annotò un breve appunto, lo infilò in una busta poi scrisse all'esterno Ariel Moon. La nota diceva: «Hai ancora Kathy? Altrimenti non vedrai mai più Michel». La lasciò al banco informazioni dando istruzioni di chiamare Ariel per tutta la notte. Alla fine uno di loro avrebbe preso il messaggio. Prima di decollare, fece una passeggiata su e giù per l'abitacolo. Non c'erano luci scintillanti a bordo. Si mise comodo, rilasciando un sospiro di sollievo, il primo nelle ultime due notti. Ma il sollievo non durò a lungo. Dubbi e preoccupazioni lo attanagliarono. Per quanto tempo avrebbe potuto seminare Ariel? E se Frankie non ce l'avesse fatta? O se Michel fosse stato scoperto? Inoltre, la cosa che temeva di più: Kathy faceva parte di quel sinistro complotto dall'inizio? Mentre l'aereo volava a trentamila piedi da terra attraverso l'oscuro e silenzioso cielo notturno, chiuse gli occhi alla solitudine e si ritrovò le parole di Lord Byron che gli scivolavano nella mente: Un uccello adorabile, con ali azzurre, una canzone che ha detto mille cose,
e sembrava dirle tutte a me! Non l'ho mai visto così prima, né vedrò mai più tale somiglianza: sembrava come me desiderare un compagno, ma non era neppure la metà desolato, ed era venuto per amarmi quando nessuno viveva per amarmi ancora così, e incitandomi dal limitar della mia prigione, mi aveva riportato a sentire e pensare. Non so se alla fine fu libero, o avesse rotto la sua cella per appollaiarsi sulla mia, ma conoscendo bene la cattività, dolce uccello! Non potrei desiderare la tua! CAPITOLO 26 «Bastardo!», strillò Ariel. Zero vide gli occhi chiari della vampira, con quel pallido sguardo d'un altro mondo, brillare come bianche scintille. Le sue labbra piene si schiusero ritraendosi in un ringhio, scoprendo grandi zanne, umide e splendenti, simili a stalattiti di ghiaccio. Con un gesto di rabbia gettò dietro le spalle i capelli color zafferano. Reesone e gli altri due maschi all'interno della stanza rimasero assolutamente in silenzio. Zero si rannicchiò nell'angolo dove sedeva sul pavimento, sperando che nessuno si accorgesse di lei. Ariel strappò il biglietto. Era il secondo, dall'aeroporto Kennedy. Un sorriso enigmatico si diffuse sui suoi tratti seducenti, spaventando ancor di più Zero. «È più furbo di quanto pensassi. Glielo concedo. Ma non tanto intelligente quanto crede di essere». Poi Ariel cominciò a ridere; una risata bassa, affatto divertita alle orecchie di Zero. «Ma David sa quanto a me piaccia il gioco, specialmente quello che ho intenzione di vincere». Abbassò lo sguardo e Zero cercò di impedire al proprio corpo di tremare. «La terrò in vita. Per ora». Si girò e si diresse alla portafinestra. La sua gonna in pelle svasata lunga fino ai polpacci aderiva in maniera provocante ai suoi fianchi mentre camminava. Zero guardò i maschi. I loro occhi erano bloccati sul corpo di
Ariel. «Perché non la uccidiamo e basta?», disse Reesone. «Non farai comunque nessun tipo di affare con lui». L'attore fendette l'aria con una tale rapidità che Zero quasi non notò il movimento. Afferrò la farfalla bianca che stava svolazzando per la stanza, intrappolata in un locale chiuso al termine del suo ciclo vitale. Reesone serrò il pugno quindi schioccò via con l'indice la creatura distrutta. Zero si sentì quasi sollevata che fosse stato Reesone a suggerire quella cosa. Aveva notato nelle ultime due notti che qualunque cosa aveva proposto, Ariel l'aveva vietata. La vampira si girò verso di lui. «Donald, tu mi sorprendi». La voce di Ariel era leggera, vivace, come fosse sul punto di fare un complimento, e Reesone sorrise di soddisfazione. «Hai la reputazione di essere un uomo intelligente, un uomo che comprende i ruoli più complessi, e ciononostante le tue soluzioni sembrano così... come dire...». Agitò una mano nell'aria. «Semplicistiche?». Gli altri due maschi risero e Reesone parve un ragazzino che era stato punito davanti ai suoi amici. Ariel camminò fino all'angolo dove Zero si raggomitolava come un animale intrappolato. Non si erano preoccupati di legarla; non poteva fuggire. Ariel la fissava, con quegli strani occhi pallidi che turbinavano come trombe d'aria prive di colore, come spirali vorticanti. Zero distolse lo sguardo finché le fu possibile, pensando: "Adesso so come è stato soggiogato David". Nello stesso tempo, un altro pensiero, ancora peggiore le sovvenne. "Forse è stata lei a farmi innamorare di David". «Naturalmente», disse Ariel, «avendo a disposizione una che a malapena può competere con la mia bellezza, ma che di certo non rappresenta una minaccia per la mia personalità o il mio intelletto, be', visti i legami parentali, non è la mia prima opzione. Comunque, Donald», e si girò, «David non è neppure lontanamente ingenuo come pensi. Esiste da centinaia di anni, il che dovrebbe dirti qualcosa. Dovrebbe dirti che è forte. Un sopravvissuto». «È uno stupido. Guarda con che facilità si è lasciato intrappolare. E allora io ero ancora un mortale». La voce di Reesone ebbe una lieve esitazione, ma Zero la notò. Aveva l'impressione che non si fosse sottoposto volontariamente alla trasformazione e che forse si era trattato di una sorpresa per lui. «Sì, Donald, tu eri mortale», disse ridendo Ariel. «E David era uno stupido. E lo è ancora, senza alcun dubbio. Ho il sospetto che l'idea di uno scambio da parte sua sia semplicemente un bluff, anche se non posso es-
serne sicura. E sono curiosa. Lui può rintracciarla, ma sicuramente vorrà parlarle, o vederla se possibile, per assicurarsi che stia bene. Stai bene, mia cara, non è così?». Ariel la guardò nuovamente, e Zero non poté fare a meno di vomitare un «vai al diavolo!». Reesone attraversò di corsa la stanza e colpì violentemente Zero al volto. La sua testa si piegò per la forza di quel colpo. Ariel le spinse il capo all'indietro, ridendo. «Sei così cavalleresco, Donald. Difendi il mio onore». Si aprì la porta ed entrò un uomo minuto che sembrava avere una quarantina d'anni, con i capelli neri e lisci. La sua pelle era ruvida, segnata dal tempo, come quella di un marinaio che ha trascorso gran parte della sua vita in mare; un aspetto mascolino e rozzo, ma stranamente pallido, simile a carta di riso. Zero sentì trasudare un'energia che non era solo potenza, ma autorevolezza. Dominava la stanza. E, mentre lo guardava, ebbe la sensazione di un deja-vu, chiedendosi dove l'avesse già visto. L'uomo camminò verso Ariel, e Zero rimase sorpresa dallo sguardo di adorazione che gli indirizzò la sensuale vampira. Come se fosse sempre stato lì, Ariel domandò: «Tu che ne pensi, Tony?». L'uomo di nome Tony si girò e guardò con disgusto i tre maschi. Ariel rise scioccamente. «Io penso», disse Tony, «che lei resta in vita, per adesso. Finora il tuo piano secondario funziona abbastanza bene, amore mio. Voi tre! Portatela nella casa sulla West Coast. Assumete due guardie del corpo e sprangate i locali durante il giorno. Gli altri adesso sono a Vienna, David è solo, con il ragazzo. O pensate che tre di voi non bastino per fermarlo?». Sul suo viso si stampò un ghigno beffardo. Ariel rise di nuovo. Attraversò la stanza e palpeggiò la guancia di uno dei maschi. Sembrava un cane al quale la padrona avesse infine prestato un po' d'attenzione. «Penso che lo faranno», disse. Zero si sentiva abbattuta, ma nutriva ancora della speranza. Non l'avrebbero uccisa per il momento. E David l'aveva già trovata in passato; l'avrebbe trovata di nuovo. Almeno la stava cercando, credeva ancora che lei lo amasse. Era soltanto preoccupata che potessero coglierlo di sorpresa. «E tu?», chiese Reesone ad Ariel. La sua voce era chiaramente satura di desiderio. Ariel si mosse lentamente verso di lui, facendo oscillare il suo corpo lussurioso. Reesone parve ipnotizzato. Fece scivolare una mano dietro il collo di lui, avvicinandolo a sé come volesse baciarlo. All'improvvi-
so, con violenza, fissò le labbra alla sua gola. Uno sguardo di dolorosa estasi s'impresse sui lineamenti di Reesone. Ma nell'istante in cui tentò di abbracciarla, lei si allontanò. Il volto di lui era devastato, il suo collo striato di sangue rosso. «Partite in volo stanotte». Ariel gli dette le spalle. Si leccò le labbra, con la lingua che schioccava come quella di un serpente, mentre si gettava tra le braccia di Tony. Tony la baciò, succhiando avidamente il sangue appiccicoso dalle labbra di lei. Poi la tenne a un metro davanti a sé, guardandola negli occhi, mentre dava disposizioni agli altri riguardo a Zero: «Scopatela, naturalmente. E prendetele un poco di sangue. È vostro diritto. Ma la voglio viva, mi avete capito?». I suoi occhi abbandonarono per un poco quelli di Ariel e si fissarono in quelli dei tre maschi, uno per volta. Ciascuno parve terrorizzato, e fu come se Zero riuscisse a vedere ritrarsi qualcosa dentro di loro. Tutti annuirono mostrando d'aver capito. Lei vide l'obbedienza rimpiazzare il terrore nel loro sguardo, e la violenza in quello di Tony mentre la guardava. I suoi occhi, due pozze di terra morta e scura, le succhiavano la volontà. Si sentì circondata, soffocata, come stesse scivolando dentro una tomba fangosa. «Sì», disse Tony. «Prendetela, in ogni senso». Rise, e alle orecchie di Zero fu lo schiamazzo di un demone che aveva appena scagliato un potente, irrevocabile incantesimo. Si sentì spogliata del suo futuro, vittima di un destino perverso. Uno dei maschi la strattonò con violenza per rimetterla in piedi. L'ultima cosa che vide prima di essere trascinata fuori dalla stanza fu Ariel intrappolata dalle potenti braccia di Tony. Le immobilizzò i polsi dietro la schiena e fissò i denti alla sua gola. Il volto di Ariel rifletté un'espressione di desiderio doloroso e allo stesso tempo al colmo di un orgasmo, simile a quello che lei aveva causato a Reesone. David lasciò messaggi in tutti gli aeroporti nei quali fece scalo nelle tre notti seguenti; St Louis, Savannah, Milwaukee, Phoenix, Wilmington, Green Bay, Lexington, e una mezza dozzina di altri posti. Aveva visto alcuni della sua razza anche se, avendo preso delle precauzioni, loro non l'avevano né visto né sentito; aveva contato altri otto strani volti. Si stagliavano nella folla di semplici mortali come lucciole nella campagna in una notte senza luna. Questo gli fece capire che Ariel aveva
creato le sue reclute in punti strategici, e fu costretto a comprare biglietti extra e a perdere dei voli da una parte all'altra del Paese. Due volte aveva preso dei treni, da Minneapolis a Boulder e da Portland a Seattle, rendendo più difficile localizzarlo. Faceva degli appelli all'interfono di diversi banchi informazioni degli aeroporti; Ariel aveva ricevuto i suoi messaggi. Le sue note cambiarono. Era tempo di fissare un appuntamento. Subito dopo essere atterrato a El Paso, telefonò al banco informazioni dell'aeroporto di Seattle. «Mi chiamo David Hardwick. Ci sono messaggi per me?» «Attenda», disse una giovane ragazza. Tornò immediatamente al telefono. «Sì, signor Hardwick. C'è un messaggio». «Me lo legga, per favore». Sentì il suono del foglio di carta che veniva strappato dal blocchetto, poi una voce imbarazzata lesse: Un rendez-vous? Sei sempre così romantico. Domani a mezzanotte, Gare Centrale. Ti rendi conto che mi aspetto ci sia il bambino. E tu, amore mio? Potresti aspettarti Zero. Non appena David riagganciò, fece un'altra telefonata. A Vienna rispose André. «Sta bene Michel?» «Sì. Mi stanno ancora seguendo. Non immaginano che l'abbia lasciato. Lo manderò presto da te». Vi fu un sospirò di sollievo. «E tu stai bene?» «Sono stanco», ammise David. «Ogni notte bevo diverse volte. È appena sufficiente». «Ti stai ancora riprendendo». «Suppongo di sì. André, chiamami Julien, ma raduna Karl e gli altri e restate vicino al telefono. Ho bisogno di informazioni e suggerimenti». Quando Julien fu al telefono, David spiegò il suo piano. «Ho rintracciato Kathy. Nelle ultime tre notti è stata nella casa a Vancouver Island. Vado a prenderla». «A meno che non sia una di loro, la staranno sorvegliando», disse Julien. «Lo so. Se tutto va bene, puoi fornirmi delle informazioni vitali. Quando ero con Ariel, lei sembrava riuscire a sopportare la luce violenta dell'alba.
Se non proprio la luce, almeno la penombra. Quanta luce può sopportare?» «Io sono in grado di rimanere sveglio dopo l'alba, ma non sto bene e, ovviamente, solo in ambienti chiusi; lei avrà poteri ancor più limitati. La mia forza è di gran lunga diminuita durante le ore del giorno. E finora non sono ancora riuscito a sostentarmi. «Può rintracciarmi durante il giorno?» «Io non posso. Dato che sono più vecchio di lei, credo che non abbia questa capacità». «Bene. Ho fatto in modo di incontrare Ariel domani sera a Montreal. So che ci sarà. Se riesco a viaggiare domani, di giorno, posso arrivare a Vancouver Island prima del tramonto. Saprà dove mi trovo dopo che avrà fatto buio, ma non potrà essere là, o mandare qualcuno immediatamente. Quel lasso di tempo potrebbe essere sufficiente. Mi assicurerò di tagliare le linee del telefono». «Sembra un piano eccellente, David, anche se sono curioso di sapere come farai a viaggiare di giorno». «Quello è il motivo principale di questa telefonata. Avete mai sentito tu o uno degli altri di qualcuno della nostra razza che sia stato fuori alla luce del giorno?». Julien lasciò il telefono per trenta secondi. Mentre aspettava, gli occhi di David corsero per il corridoio deserto. Il telefono si trovava nell'angolo chiuso e lui si sentì intrappolato. Aveva i nervi a fior di pelle. «Nessuno di noi sa di una cosa simile», disse Julien quando tornò. «O alla fine svilupperai una specie di tolleranza alle pressioni delle ore di luce, come ho fatto io, oppure no. Ma andare in giro di giorno...». Fece una pausa. «Non so se è una cosa possibile. Ho creduto per molto tempo che siano i raggi ultravioletti a danneggiarci, tanto quanto la gravità terrestre, che aumenta di giorno, a indebolirci e a sfinirci. Non riesco a pensare ad altro modo tranne che a nasconderti e a farti spedire fin là, ma quello, senza dubbio, richiederà del tempo. Però devi attraversare un confine, ed è probabile che tu venga controllato». «Sì», convenne David, ed entrambi rimasero in silenzio. Alla fine Julien disse: «David, potrebbe esserci un modo che comporterebbe comunque dei rischi, vista la tua condizione così debole. Chloe l'ha sperimentato. Vorrebbe parlarti». La zia di André rispose al telefono. Nella sua mente David riusciva ancora a figurarsela: una donna amabile ma determinata, sui sessant'anni, con capelli bianchi e penetranti occhi blu del colore dei lapislazzuli. La sua vo-
ce era delicata, femminile, con un accento francese appena percettibile. E, come tutte le femmine della sua specie, era assolutamente ipnotica. «David, sono stata così preoccupata per te. Stai bene?» «Sì, Chloe. Grazie per il tuo interessamento». Sospirò, rendendosi nuovamente conto di quanto gli fosse mancato il contatto con quelli della sua specie. «Chloe, ti ha detto Julien di cosa ho bisogno?» «Certamente», disse lei. Poi aggiunse: «Ho sviluppato un rimedio naturale per la nostra forma di allergia. È simile alla crema solare protettiva che usano i mortali, più simile all'ossido di zinco, ma adeguato alle nostre proprietà chimiche. Finora sono l'unica che l'abbia testato, e solo prima del tramonto e dopo l'alba». David appuntò gli ingredienti da lei elencati e il modo di mescolarli. «Una volta miscelati», continuò Chloe, «Applicane uno spesso strato sulla pelle. Devi ricoprire ogni singolo centimetro e mantenere la copertura spessa, cioè dovrai produrne una gran quantità in modo da poterla applicare nuovamente a brevi intervalli. E dev'essere tenuta in fresco perché gli ingredienti siano attivi. Essendo un prodotto naturale, la tua pelle sarà in grado di respirare. Anche l'aloe servirà per rinfrescare, e per guarire le bruciature che già si sono formate. Suggerisco di indossare abiti leggeri, colori chiari. Niente poliestere. Quel materiale non è poroso, e l'aria non penetra. Ed è troppo caldo, come indossare una busta dell'immondizia. Metti fibre naturali, o quasi al cento per cento, anche se c'è il pericolo che riesca a passare troppa luce attraverso la trama. Ma David, devi testare tutto alla piena luce del giorno, a patto che tu riesca a restare sveglio. Anche nel nostro stato mortale, ciascuno di noi ha un tipo differente di pelle e una diversa resistenza ai raggi UV. E la tua pelle è stata gravemente danneggiata. Pensa a cosa accadrebbe se tu fossi intrappolato e tutto questo non funzionasse». Karl prese il telefono, dicendo: «Non sono sicuro che servirà, ma c'è un tessuto del quale ho letto. È stato progettato come componente per gli esperimenti usati durante i voli spaziali. L'hanno disegnato per viaggiare su pianeti freddi, ma funziona come isolante, tanto per il caldo quanto per il freddo, come un thermos. Ho pensato spesso che, essendo i nostri corpi più freddi durante il giorno, se noi avessimo degli abiti fatti con quel materiale e indossassimo occhiali da sole avvolgenti per bloccare i raggi ultravioletti e le radiazioni infrarosse... Ma ovviamente non so se funzionerà. E non so come potresti proteggerti il viso e il collo. Avresti un aspetto davvero bizzarro, indossando un vestito di lamina. Aspetta un momento».
Carol prese il telefono. «David, se ti riesce di farlo, magari persino usarlo come una benda nella quale avvolgerti, potresti comprare una maschera di lattice per il viso e il collo in un negozio di forniture teatrali. L'ho usata per lavorare in teatro. Se metti la crema di Chloe sotto e del trucco sopra la plastica, puoi essere passabile. Vale la pena provare». «Grazie, Carol. Passami Karl, per favore». «Il vero problema è il volume», disse immediatamente Karl, «anche se comprendo che il materiale diventa sottile come una lamina d'oro». «Dove posso comprarlo?» «Ecco il punto», disse Karl sospirando. «Al di fuori della NASA, non so dove puoi trovarne di così sottile. Avresti bisogno di tempo per individuare una fonte, e probabilmente dovresti comunque rubarla, dato che è ancora a livello sperimentale. È un vero peccato perché si trova già in commercio, ma è troppo spesso e fa un rumore simile a un cigolio quando viene mosso». «Come si chiama?» «Coperta termica. Puoi comprarla nei negozi dove ci sono articoli da campeggio. È quella che avevi nel van». David quasi rise. Naturale. Quella che aveva usato Kathy per proteggerlo dal sole. Kathy e il suo istinto di sopravvivenza. Lei non poteva far parte di quel complotto, adesso se ne rendeva conto. Un amore improvviso per lei scoppiò dentro David. Stava ricacciando dentro di sé quelle emozioni mentre diceva: «Potrebbe funzionare. Devo provarci». «E se non funziona?» «Allora proverò qualcos'altro». «David, ne sei sicuro? Stai rischiando la tua vita. Se un mortale ti prende durante il giorno e ti porta in un ospedale...». Karl fece una pausa. Poi disse: «Lei ti ha preso in giro. Ti ha mentito. Perché...?» «Devo raggiungerla!». Sentì Karl sospirare. «Ancora un'altra cosa», disse David. «Ne ho visti altri otto, il che porta a sedici compresa Ariel, per ora. Senza dubbio ce ne saranno altri». «Ha veramente un esercito!». «Credo che faresti meglio a restare in contatto con tutti gli altri che conosciamo. Qualcosa mi dice che non importa cosa accada a Vancouver Island: potresti aver bisogno di un gruppo numeroso. Sento che si sta trasformando in una guerra».
CAPITOLO 27 David si fermò a El Paso per prepararsi. Ormai Ariel doveva essersi resa conto che era quasi impossibile prevedere i suoi piani; gli altri, che arrivavano sempre a fatto compiuto, erano sempre in ritardo. L'avrebbe intrappolato lei stessa a Montreal. Era più nel suo stile. David trascorse la prima parte della serata a nutrirsi, poi a mettere insieme le provviste di cui aveva bisogno. Trovò con facilità le coperte termiche e una sarta che preparò calzini, guanti e un abito alquanto grezzo pantaloni e camicia con polsini e risvolti elasticizzati. Comprò anche due completi di diverse taglie più grandi. La fortuna era dalla sua parte; trovò un negozio di forniture teatrali aperto. Per quanto riguardava la mistura di Chloe, alcuni degli ingredienti furono facili da reperire: olio di cocco, burro di cacao, e olio di semi di sesamo. Acquistò anche trenta grandi piante di aloe vera e, appena prima di mescolare gli ingredienti, recise le dure foglie per grattar via la gelatina trasparente simile a mucosa all'interno. Per il resto degli ingredienti dovette recarsi nella zona messicana della città, raccogliendo olio di jojoba, radici di osha e ingredienti con strani nomi di cui non aveva mai sentito parlare. Una volta messo insieme il tutto, prese in affitto una stanza d'albergo e preparò la formula in un miscelatore, come aveva detto Chloe, un poco per volta, aggiungendo alcune gocce di olio di camomilla per smorzare l'odore pungente. Mise la crema dentro vasetti di vetro, in una valigia a parte che avrebbe portato sull'aereo. Un'ora prima dell'alba si cosparse da testa a piedi di quella crema verdastra fresca e lenitiva. Poi sistemò la maschera che aveva preparato in precedenza. Si trasformò in una versione priva di tratti, priva di vita del suo stesso volto. Applicò al lattice un trucco che lo rendesse più naturale, poi aggiunse una parrucca bionda, sopracciglia false, barba e fitti baffi, creando un effetto meno artificiale. Quella peluria fornì anche protezione per il naso e la bocca. Nonostante le istruzioni di Chloe, aveva comprato completi in poliestere e ne indossò uno, insieme a stivali alti di plastica e guanti di vinile, un cappello e speciali occhiali da sole avvolgenti rosso opaco. La sua pelle forse non era in grado di "respirare", ma non credeva che un tessuto poroso l'avrebbe schermato dal sole. Non sapeva se il poliestere avrebbe funzionato, e sperava di non aver commesso un errore fatale: aveva delle visioni di se stesso che moriva soffocato.
Prese la busta termica e il sacchetto di plastica che contenevano l'altro vestito in poliestere e si girò per esaminarsi in uno specchio a figura intera. L'immagine era strana: un tipo eccentrico, grosso, dalla pelle liscia e levigata in modo innaturale, che sembrava nascondere qualcosa. Ma non c'era altro che potesse fare, quindi all'ultimo istante possibile si diresse all'aeroporto per il volo delle otto diretto a Seattle, pregando di non contorcersi dal dolore in un luogo pubblico nel momento in cui il sole avesse colpito. Per raggiungere la sala d'imbarco dovette passare attraverso un metal detector. Chiuse le palpebre cosparse di crema e tolse gli occhiali. Sistemò il sacchetto e la busta sul nastro a raggi X di controllo del bagaglio a mano. Fortunatamente non scattò nessun allarme, anche se sarebbe stato abbastanza semplice tirar fuori il vestito metallico e mostrarlo alle guardie. Quando fu al sicuro nella sala d'imbarco, sparì nel bagno e si nascose in un gabinetto. Applicò dell'altra crema, infilò i calzini, i guanti freschi e lo scintillante completo argenteo poi, sopra, quello bianco di poliestere. Mentre attendeva al sicuro, riusciva a sentire la pressione della luce mattutina schiacciarlo. La pura e semplice forza di volontà lo tenne sveglio quando in condizioni normali a quel punto avrebbe ceduto al richiamo del sonno. All'ultima chiamata per l'imbarco, uscì all'aperto nella sala d'aspetto. E rimase paralizzato sui suoi passi. Attraverso le lenti la luce fiammeggiava tutto intorno a lui, una luce che pulsava di un'energia bianca e bollente. Quella era la prima luce del giorno che vedeva da un centinaio d'anni; non aveva tenuto conto di quella stanza a Vancouver Island. Aveva dimenticato l'immediatezza di quel potere brillante che contrastava in maniera così evidente con il chiaro di luna, così gentile e filtrato. Persino attraverso quegli occhiali scuri non riusciva a tenere gli occhi aperti. Il calore, la pressione sul suo corpo, la penetrazione che avvertì, lo terrorizzarono. Quella non era la luce di cui aveva serbato il ricordo nella memoria, e non la trovava più piacevole, anche se una punta di meraviglia, quasi dimenticata, lo stuzzicò. Quella meraviglia fu annullata da un senso opprimente di fastidio. E terrore. Si sentì come se stesse facendo un sogno tormentato. Un incubo. E, nonostante tutte le precauzioni, quei raggi brucianti attraversavano il poliestere, superavano le fibre di metallo, si mescolavano alla crema danzando sulla sua pelle sensibile, facendola pizzicare. Si recò di nuovo al bagno degli uomini, si denudò un poco per volta, e applicò un altro strato di mistura, resistendo agli impulsi contrastanti di assopirsi e di urlare.
Tanto quanto il formicolio era fastidioso e la paura che lo attanagliava quasi insopprimibile, così anche la stanchezza rappresentava un problema. Si sentiva schiacciato da altri cinquecento chili extra e affondava, come se il pavimento sotto i suoi piedi fosse formato da sabbie mobili che lo trascinavano dentro la terra. Fu necessario un grande sforzo per restare sveglio e lucido, per non parlare del muoversi. Dal modo in cui la gente lo fissava ed evitava di avvicinarsi a lui si rese conto di assomigliare al cadavere di una rock star e di camminare come uno zombie. Nonostante ciò, riuscì a imbarcarsi. Trascorse più tempo possibile nella toilette, dove aprì il vestito per far passare aria e dove spense la luce in modo da restare nella totale oscurità. Quando arrivò a Seattle, il sole era alto in cielo. Non osava affrontarlo direttamente, e si diresse verso il bagno degli uomini con tutta la velocità che il suo corpo pigro gli permise per applicare un altro strato di gel. Il suo volo per Vancouver partì all'una, e da Vancouver riuscì a noleggiare un elicottero che lo condusse fino a Tofino, pagando il pilota affinché attendesse ventiquattr'ore. Di tutte le esperienze della giornata, quella in elicottero fu la peggiore. Nei brevi istanti in cui riusciva a schiarire la mente dal dolore, David poteva soltanto ringraziare qualunque compassionevole dio avesse voluto che il cielo fosse nuvoloso. A Tofino noleggiò una macchina con i vetri scuri e percorse un breve tratto a nord verso Clayquot Sound lungo l'Oceano Pacifico, vagamente consapevole di quello che stava facendo. Poco dopo le 15,30, attraversò una strada bianca e tagliò per un'altra, neppure un chilometro oltre quest'ultima. Quindi percorse rapidamente la fitta foresta pluviale sul litorale, con il vestito esterno che ben presto venne lacerato dai rami taglienti dei cipressi e dagli aghi di pino. La salla simile a cespugli e le ortiche pungenti gli lacerarono i piedi facendolo inciampare, ma alla fine giunse al casino di caccia. Due uomini seduti nella veranda su delle sedie da giardino giocavano a carte: erano i due che stavano insieme a Reesone e che avevano intrappolato David in quella stanza sottoposta alla luce del sole. Nel vialetto erano parcheggiate due macchine. I suoi sensi non erano neppure un decimo di come sarebbero stati di notte, e non era sicuro se c'erano degli altri mortali nei paraggi. Sapeva che quelli della sua razza stavano dormendo. Aveva la vaga sensazione che Kathy fosse all'interno. Sapeva anche che la sua forza era diminuita tanto quanto la sua velocità.
Adesso persino uno di quei due mortali sarebbe stato più forte di lui, ma ebbe un'idea. Lanciò dei sassolini in un cespuglio a pochi passi di distanza, vicino al limitare della radura. Evidentemente fu abbastanza rumoroso; uno degli uomini si alzò per controllare. Aveva una pistola, ma la tenne nella fondina. David era consapevole che nel suo stato di debolezza non poteva prendersi una pallottola e reagire. Si nascose dietro un abete Douglas largo dieci piedi. Quando la guardia fu alla sua portata, David colpì l'uomo dietro la testa con una grossa pietra finché non cadde. Resosi conto del fatto di muoversi troppo rigidamente per avvicinarsi senza essere notato, attese che giungesse il secondo uomo, con la pistola estratta, a cercare il primo. David mise fuori combattimento anche quello. Trovò della corda nel garage per legarli e imbavagliarli entrambi; doveva mantenerli in vita perché quelli all'interno, anche se erano nuovi al mondo della notte, avrebbero potuto sentire se un mortale era vivo oppure no. Ma David mantenne in vita gli uomini per un'altra ragione; al tramonto, quando fosse stato nuovamente in grado di bere, avrebbe avuto bisogno del loro sangue... e molto. E il tempo sarebbe stato essenziale. Dopo aver tagliato le linee telefoniche, si nascose in una baracca per la legna abbandonata lungo la strada, vicino al punto in cui aveva parcheggiato, dormendo per un paio d'ore in quella struttura non abbastanza buia. Per il tramonto si sentiva quasi rinfrescato, la pelle leggermente rovinata, ma stava morendo di fame. Prima di poter fare qualsiasi altra cosa aveva bisogno di sangue. Si avvicinò con circospezione alla casa, fermandosi solo il tempo necessario per bere. Il primo mortale servì unicamente a stimolare il suo appetito. Il secondo lo saziò a metà. Era meno di quello di cui aveva bisogno, abbastanza perché loro lo sopportassero senza danni seri per le loro funzioni vitali. Il sangue gli rischiarò i sensi. All'interno, c'erano tre della sua specie insieme a Kathy. Lei irradiava ondate di paura: le poteva sentire nell'aria come la puzza di muffa di cui sono intrisi abiti da tempo zuppi d'acqua. Trovò una scure nel deposito degli attrezzi e si mosse rapidamente sapendo che probabilmente anche loro l'avevano sentito. Fece il giro di fianco all'edificio ed entrò dalla porta posteriore. Erano proprio sopra, la loro energia era evidente. Non erano deboli. Il suo obiettivo era sorprenderli con la guardia abbassata. Salì le scale, silenziosamente ma in fretta, tre gradini per volta.
Adesso si erano sicuramente sintonizzati su di lui. Riusciva a sentirli, alla fine del corridoio, nella stanza esposta al sole, ed ebbe un'esitazione. Fu preso dal terrore, non dalla paura del combattimento, ma dall'orrore causato da quella stanza e dall'indicibile agonia che aveva sofferto là. Ma Kathy gemette, e quel suono lo scosse dal panico. Quando si affacciò dalla porta, rimase scioccato da ciò che vide; quella era la spiegazione per cui non erano andati a cercarlo. Non l'avevano sentito perché erano assorti in altro. Lei era a quattro zampe e piangeva, il suo piccolo corpo segnato da escoriazioni e morsi, alcuni ancora gocciolanti sangue. Uno dei maschi la montava, la prendeva analmente, mentre un altro oralmente. E Reesone era disteso sotto di lei, con il pene dentro la sua vagina, i denti serrati su uno dei seni. Mentre lei si muoveva, come un robot, meccanicamente, all'indietro su Reesone, quell'altro da dietro si spingeva dentro di lei, e beveva sangue da una ferita sulla schiena. Quando si muoveva in avanti, quello davanti la penetrava in bocca, chinandosi per bere dalla ferita da cui l'altro si era appena nutrito. Quel ritmo orribile, disarticolato, per un momento ipnotizzò David, finché qualcosa nel suo cervello sembrò scattare, come una porta d'acciaio che si richiudeva sbattendo. Cominciò a vedere attraverso un filtro rosso, quasi scollegandosi dalle proprie azioni. Sentì di muoversi come al rallentatore. Un suono proruppe violentemente dalle sue budella, il grido di un guerriero impazzito. Vibrò la scure in aria. La testa di quello dietro Kathy volò descrivendo un arco nella stanza. Poi quello davanti fu decapitato prima di poter reagire. Ma Reesone fu più rapido, si tolse da sotto di lei in pochi secondi, afferrandola alla gola. «Una mossa ed è morta», disse, mentre le piegava la testa con un angolo che pareva straziante. Il volto di lei era devastato dal dolore e dalla paura. Sembrava completamente fuori di sé, come se non vedesse David. Dalla bocca di Reesone gocciolava del sangue e la vista di quest'ultimo fece infuriare David. «Mettila giù e fai un passo indietro», ordinò Reesone. David posò l'ascia. Reesone sorrise. «Ariel aveva torto riguardo a te. Sei soltanto un povero stupido». Indietreggiò verso la porta trascinando Kathy con sé e, mentre passava, afferrò l'ascia. "No!", gridò una voce dentro David. Il terrore crebbe come un fiume che straripa quando la diga è colma. Il dolore lo pugnalò nei ricordi. Sapeva aldilà di ogni dubbio che stavolta sarebbe morto in quella stanza. Quel ter-
rore lo fece scattare. «Ancora un passo ed è morta». «Hai paura di combattere, Reesone? È questo l'unico modo in cui riesci ad uccidere? Passivamente?». Reesone si fermò, ma poi sorrise. «Spiacente. Il vecchio trucco non attacca». Indietreggiò allontanandosi ancora di più. «Ariel ne ha avuti a centinaia come te», disse David in modo canzonatorio. «Dei ragazzini senza palle e con poco cervello, pronti a saltare non appena lei tira i fili». «Non funziona, babbeo». Ma David vedeva che l'esca aveva agganciato qualcosa. «Ti ha forse ordinato di non combattere con me? Ti ha detto che mi voleva per sé?». Reesone rimase in silenzio. «Lei non si fida di te, Donald. Non pensa che tu possa battermi. Sei debole, e lei lo sa. Sembra proprio che abbia ragione». Reesone rimase calmo, e David disse dolcemente, facendo cenno con le dita: «Combatti con me, Donald. Se non lo fai, non meriti Ariel. Tutti e tre lo sappiamo». Reesone sbatté Kathy da una parte. Questa atterrò sul pavimento con un tonfo e giacque immobile. Lui assunse una posa da vincitore, tenendo le mani serrate a pugno - un attore che impersona il ruolo di un combattente e David rise. «Non sei più mortale. Non sarà un combattimento leale». «Ma sarà all'ultimo sangue!», disse Reesone con fare drammatico. Le unghie di David si trasformarono in artigli assassini. I muscoli si tesero. Con i denti aguzzi scoperti, pronto a fare a pezzi la sua vittima. La forza crebbe mentre il sangue offuscato si anneriva. Reesone parve sorpreso dalla trasformazione, ma solo per un momento, perché David gli fu subito alla gola. Strappò via un grosso pezzo di carne, ben attento a non recidere il midollo spinale o a tagliare l'esofago. La sua vittima gridò e indietreggiò. David gli si avventò nuovamente addosso. Ma Reesone era tornato in sé e aveva raccolto l'ascia. Mentre David si avvicinava, Reesone, con uno scatto della spalla, sollevò la scure e lo colpì al volto strappandogli la pelle e i muscoli, mostrando la giuntura della mascella. Ma Reesone non ebbe tempo di ammirare il proprio lavoro. David lo
morse al petto, scavò la tenera carne dello stomaco, e nello stesso tempo, gli piegò un braccio per lussargli la spalla. L'ascia cadde sul pavimento e Reesone ululò per il dolore, ma David non riusciva a sentirlo. Le sue ghiandole surrenali pompavano in eccesso, trasmettendo ondate di energia e forza che gli permettevano di continuare ad attaccare, quasi incurante, furioso di vendetta. Ma persino in quella pazzia sanguinaria prestò attenzione a che l'attore rimanesse in vita. Aveva in mente altri piani per il signor Reesone. Quando la furia di David fu esaurita, si fece indietro tremando, respirando a fatica. Il corpo davanti a lui era a brandelli e sanguinante. Non provava la più piccola traccia di rimorso, pur essendo abbastanza lucido da rendersi conto che si trattava di una cosa strana per lui. Ma non gli importava più. Reesone aveva il fiato corto. Era vivo. Lasciato in quelle condizioni, sarebbe potuto guarire nel corso della notte, e poteva sentire. David raccolse l'ascia e tagliò le braccia dell'attore all'altezza dei gomiti, poi le gambe alle ginocchia. Il sangue schizzò dalle ferite con le arterie che pompavano energicamente. Un rumore sordo fuoriuscì dal fondo della gola di Reesone. «Non ho esperienza diretta», disse David senza fiato, «ma si dice che possiamo rigenerare gli arti, forse persino una mano tagliata o il midollo spinale spezzato, col tempo. Ma tu non avrai il lusso del tempo». Sparpagliò le parti macchiate di sangue del corpo di Reesone e i resti degli altri due per la stanza, distanziandoli abbastanza per essere sicuro che rimanessero separati. Poi cercò nella casa tutto quello di cui Kathy poteva avere bisogno. La vestì con pantaloni da uomo, scarpe da ginnastica, e una giacchetta da caccia che aveva trovato, poi la prese tra le braccia. Lei era calda, troppo calda. Le labbra bianche, gli occhi chiusi; sembrava non accorgersi di lui. La sua febbre era pericolosamente alta. «Che tu ci creda o no, Reesone, mi dispiace davvero per te». Non vi fu risposta. «Ti sei davvero illuso che ad Ariel importasse di te. E adesso probabilmente ti aspetti persino che venga qui a salvarti. Non verrà. E se verrà, sarà solo per lasciarti qui, un topo preso nella trappola. Lei disprezza la debolezza, tanto quanto ne è attratta». David rise con amarezza. «Sei giovane a questa vita, e questo significa che sei fortunato. Ti spegnerai in un giorno. A me sarebbe servito molto di più. Ciononostante, la
sofferenza tende a far dimenticare il tempo. Dovrei saperlo». Quella sagoma priva di arti sul pavimento ebbe una leggera contrazione ma non replicò. David portò Kathy fuori dalla stanza. Fece scivolare in posizione le sei pesanti barre, non che Reesone potesse comunque arrivare alla porta. Fuori si fermò brevemente per prosciugare le due guardie; era veramente indebolito e aveva bisogno di sangue. Da Tofino volarono in elicottero fino all'aeroporto di Vancouver, con Kathy per tutto il tempo in stato comatoso. La sua pelle era bollente, il corpo ferito e sanguinante. Prima del volo la ripulì, ma non riusciva comunque a ottenere una risposta da lei. Non c'erano voli diretti per New York fino al mattino, e lui non voleva aspettare così a lungo. Prenotò per entrambi l'ultimo volo per Seattle. Kathy si riebbe a sufficienza per salire sull'aereo, cosa di cui lui le fu grato. A Seattle non era disponibile nessun volo privato, e furono costretti a riposare fino al mattino seguente. Ormai qualcuno avrebbe controllato la casa per conto di Ariel. "All'alba saprà dove ci troviamo", pensò lui, "ma lei è l'unica che può arrivare qui durante il giorno", e non ritenne che l'avrebbe fatto. Nonostante il rischio, decise di trascorrere la notte e parte del giorno in una stanza d'hotel vicino all'aeroporto di Seattle. Tanto lui quanto Kathy avevano bisogno di riposo. Per il resto della notte fece una dozzina di telefonate a Frankie al numero che gli era stato dato. Una donna irascibile rispose in spagnolo e continuò a buttargli giù il telefono. David era preoccupato. E se Frankie era sotto effetto di droghe? O se era stato seguito fin dall'aeroporto? O aveva abbandonato Michel? E se Michel era stato trovato? Alla fine, alle nove di mattina ora di New York, Frankie rispose. «Va tutto bene?», chiese David. «Va tutto a meraviglia, ma al tempo che gli piglia? Cazzo, qui continua a pisciare dal cielo». La voce familiare aveva una nota di ragionevolezza alle orecchie di David e, per la prima volta da una settimana a quella parte, lo ricondusse alla realtà. «Frankie, spero che tu abbia il passaporto. Contavo su di te». «Roba sicura! E passa la paura. Timore che ti deludessi, bello? Non sei il primo». David si vergognò del fatto che quel pensiero gli fosse passato per la te-
sta. Disse a Frankie: «Telefona alla compagnia e prenota tre biglietti per Vienna dall'aeroporto Kennedy. Li pagherò quando andrò a ritirarli». «Dove?» «Vienna. In Austria. Per David Hardwick, Kathleen Stevens e il nome sul passaporto di Michel. Kathleen e io arriveremo in aereo più o meno alle otto di stasera, ora locale. Ci vediamo all'aeroporto, stesso posto, nascondi Michel nello stesso modo. E Frankie, stai attento». «Come sempre». David infilò Kathy a letto appena prima dell'alba. Se lui era in cattive condizioni, lei stava certamente peggio. Per tutta la notte era scivolata in continuazione dalla lucidità all'incoscienza. «Kathy?». Le pulì il viso con un fazzoletto fresco. Lei aprì gli occhi, il blu adesso ridotto a una sfumatura spenta e opaca, quindi li richiuse per poi aprirli di nuovo. «David!», sussurrò. «Sapevo che saresti venuto». Ai suoi occhi era così pallida e debole. «Hanno preso il tuo sangue?», disse lui, accarezzandole i capelli, ormai ridotti a un groviglio unto e vischioso. Lei fece cenno di sì. «E tu hai preso il loro?» «Sì. Reesone. E quegli altri due. E Ariel. Loro mi hanno trasformata». La sua voce si affievolì. Sapeva che non si trattava soltanto della tortura alla quale l'avevano sottoposta, ma erano anche quei molteplici scambi di sangue che stavano facendo pagare il prezzo al suo organismo. Ma con quei due morti e Reesone imprigionato, erano rimasti solo lui e Ariel a influenzarla, a combattere per il predominio. Se Kathy fosse morta adesso si sarebbe trasformata. E sarebbe rimasta legata a entrambi. Poco prima delle otto di sera atterrarono all'aeroporto Kennedy. La prima cosa che vide furono tre sagome di luce in movimento, e riconobbe i volti. Erano alla stazione insieme ad Ariel. CAPITOLO 28 David trovò Frankie fuori dal terminal nel punto prestabilito per l'incontro e lo prese da parte. «Là! Quei tre. Dobbiamo evitarli».
Rimase in disparte insieme a Kathy e Michel mentre indicava delle figure attraverso il vetro. Frankie sorrise. Aprì una delle scatole di cartone e prese una delle pubblicità all'interno. «Aspettate qui», disse. David lo guardò avvicinarsi a una graziosa commessa al banco informazioni. Dopo pochi secondi quest'ultima stava ridendo mentre gli porgeva una penna e due pezzi di nastro adesivo. Il ragazzo scrisse qualcosa sul cartone e scomparve. Quando tornò, condusse David, Kathy e Michel in un gabinetto per uomini non lontano dall'ingresso. Un cartello con scritto "fuori servizio" era stato attaccato alla porta. «Sistematevi qui comodamente e vi avvertirò quando quella gente se ne andrà», disse Frankie. David riusciva a sentire quei tre e senza alcun dubbio anche loro avvertivano la sua presenza. Avrebbero percepito che era da qualche parte nel terminal, ma non esattamente in che punto, dato che le loro capacità non erano ancora affinate. Il sole era appena tramontato quando giunse il volo da Seattle, e lui sospettò che molto probabilmente avessero dormito nei pressi dell'aeroporto. Sperò che non si fossero ancora nutriti; il sangue avrebbe acuito la loro capacità percettiva. Se fosse riuscito a tenerli a bada finché non fosse partito il volo per Vienna... Circa venti minuti più tardi Frankie fece capolino con la testa. «Sono scomparsi, bello. Così». Fece schioccare le dita. David controllò; non riusciva a vederli da nessuna parte nel terminal, ma la sensazione che avvertiva era ancora forte. «Devo lasciare qui dentro Michel e Kathy mentre faccio i biglietti. Puoi controllare la porta?». Frankie annuì. «Michel, mi serve il tuo passaporto». Si fece strada in mezzo a quella densa folla fino alla biglietteria. Pagò in fretta i titoli di viaggio e ritornò. Aveva appena raggiunto il gabinetto, quando vide quelle tre sagome di luce dietro un angolo. Anche Frankie le notò. «Stai calmo, amico mio. Non possono vederti in faccia da qui». «Non devo preoccuparmi del fatto che mi vedano in faccia». «Sì, me ne sono accorto», disse Frankie, osservando quegli strani oc-
chiali e la maschera di plastica. Mentre David controllava l'orologio, sentì l'avviso d'imbarco. «Andiamo campione», disse Frankie. «Vi porterò là. Sono solo in tre. E questo posto è troppo stretto per me». David esitò. «Non posso rischiare. Non posso spiegarti tutto adesso, ma loro riescono a vedermi sotto questo travestimento, persino dal lato più distante del terminal, proprio come io posso vedere loro. Insieme sono forti come una dozzina di uomini. Devi credermi». Frankie lo guardò con calma alcuni istanti. «Bello, sei un tipo strano. Ma credo di sapere cosa sta succedendo». David non disse nulla. «Sì, amico, ho capito. Tu, così esile e bravo a fare a botte. Non ti ho mai visto di giorno, solo di notte. E il ragazzo, che mangia carne cruda e tutto il resto. Alla fine ho capito. A momenti questo vecchio cervello saltava in aria per lo sforzo». David fissò il ragazzo. «Sei un alieno, non è vero? Marte, Plutone, quel genere di stronzate. Tipo che sei sbucato in una fatale notte buia». Sotto quella maschera la pelle di David si atteggiò ad un sorriso che fu bloccato dalla plastica ancor prima di nascere. «E anche quei tipi vengono dalle stelle. Un'altra razza, altra pelle?» «È una lunga storia, Frankie. Proverò a parlartene un giorno, se sarai ancora interessato». «Sono tutt'orecchi». Fece un ghigno, facendo qualche passo nella stanza, mentre guardava una bella ragazza in minigonna che gli passava davanti. «Frankie, ho pensato a qualcosa che potrebbe funzionare, se mi aiuterai». «Sputa il rospo». «Mi permetti di ipnotizzarti? Non ci vorrà molto e non ti farà alcun male». Frankie parve scettico e un sorriso furbesco si diffuse sui suoi tratti. «Sì, prosciugami il cervello. Lo ammetto, sono davvero matto. Non lo posso mascherare». Dentro il gabinetto David lo fece rilassare, gli fornì informazioni, quindi si nutrì di una piccola quantità del sangue del ragazzo; Frankie non ne avrebbe sentito la mancanza. David e Michel abbandonarono l'edificio in modo che i tre avrebbero percepito il cambio d'energia, e avrebbero guar-
dato attraverso il vetro. Frankie si diresse al bancone del check-in nelle vicinanze verso il quale si stava dirigendo uno dei tre. Quando arrivò lì, disse ad alta voce: «Ehi piccola, ho un paio di biglietti da dare alle piante. Mi serve cambiarli con un po' di contante». Stava attirando l'attenzione, compresa quella della sagoma lucente lì vicino. «Mi dispiace signore», disse la donna, squadrandolo. «Dovrà rivolgersi al nostro ufficio. Qui non rimborsiamo». «Sentimi bene», disse Frankie sporgendosi oltre il banco verso di lei, abbassando la voce solo di un decibel, ed esercitando tutto il fascino di cui era capace. Parlava sempre con un tono tale da farsi sentire. «Un amico mi ha dato questi tre biglietti, dice che non può usarli». Abbassò lo sguardo e lesse: «David Hardwick. Sì. Comunque, ha detto di farli cambiare. Col gruzzolo che mi danno ci pago la festa di compleanno, comprende?». La luce si mosse verso di lui, facendo cenno agli altri due, e David trattenne il fiato. «Senta, mi dispiace...». Ma l'impiegata non poté finire. «Chi ti ha dato i biglietti?». Quello più vicino afferrò la parte superiore del braccio di Frankie e fece girare il ragazzo. «Ma che vuoi, dico? Non mi sembra di conoscerti, amico». «Ti ho chiesto chi ti ha dato quei biglietti, ragazzo». Strinse il braccio e Frankie urlò. Mentre gli altri due si avvicinavano, uno di loro prese il comando. Spinse indietro quello aggressivo perché stavano richiamando una piccola folla. «Dicci solo dove possiamo trovare l'uomo che ti ha dato i biglietti. Non ti faremo del male». «Del male? Io non so cosa fare. Un tizio me li ha appena messi in mano dicendo: "Incassali"». «Dove si trova?» «Non lo so, amico. Ho visto lui, la sua donna e il bambino saltare su un taxi. Segui quella pista. Ho sentito che diceva Newark al tassista». Quello che aveva fatto le domande, e sembrava più affamato degli altri, guardò negli occhi di Frankie. Il volto del ragazzo si fece più rilassato, sognante. Se avessero cercato di portarlo via con loro, David sarebbe stato costretto a intervenire.
«Sta dicendo la verità», disse agli altri. «Andiamo». «Forse uno di noi dovrebbe restare qui, nel caso si trattasse di uno scherzo». «Non è uno scherzo. Ci ha visto ed è uscito in fretta. Non è nell'edificio, riesco a sentirlo. Possiamo arrivare là prima di lui». Lasciarono Frankie con un sorriso beato in volto. David li vide dirigersi all'uscita opposta rispetto a quella dove si trovava lui. Nell'istante in cui uscirono, entrò nel terminal insieme a Michel. Mandò quest'ultimo nella toilette, quindi si diresse verso Frankie, riportando il ragazzo alla realtà. «Bello, dovresti imbottigliarla, farci della roba. Ci sballeremmo più che con la coca». Ritornato nella toilette degli uomini, Michel sembrava spaventato. Kathy si era afflosciata sul pavimento e David le versò dell'acqua fredda sul viso per farla rinvenire a sufficienza affinché potesse imbarcarsi. Udì l'ultima chiamata del loro volo. «Frankie, non saprai mai quanto ti sono grato. Hai salvato tutti noi da un destino terribile». Frankie sorrise come un soldato al quale fosse stata appena consegnata una medaglia al valor militare: un poco di umiltà e molto orgoglio. «Sì, bello, credo sia vero. Ma adesso è roba passata. Ti farai sentire?» «Sicuro. Tornerò quando sarà tutto finito», disse lui, desiderando abbracciare il ragazzo ma temendo che quel gesto venisse frainteso. Si limitò a stringergli le spalle. «Prendi un taxi e vattene di qui il prima possibile. E rimani lontano dall'aeroporto per un po' di tempo, d'accordo? Se dovessi vedere uno di quegli uomini per strada, corri. In mezzo a una folla». «Sì, mi piacciono da matti le folle. La confusione della città». «Un'altra cosa. Michel ti ha dato un numero di telefono in Austria. Chiama da una cabina del centro, a carico del destinatario. Chiedi di Julien e digli che arriveremo alle due del mattino, ora locale. Hai ancora soldi?» «Un mucchio». «Bene. Questo potrebbe essere il momento giusto per una vacanza. E, se dovessi aver bisogno di aiuto, Frankie, puoi raggiungermi grazie a quel numero. Intesi?» «È già sull'hard disk», disse lui, picchiettandosi la sommità del capo con le nocche. «Conto su di te come su un amico», disse David. Frankie annuì e rispose: «Lo stesso per me, amico. Lo stesso».
David fece salire Kathy e Michel sull'aereo. Non c'era nessuno della sua razza a bordo. Non appena si spense il segnale delle cinture di sicurezza, si recò al bagno e, con grande sollievo, tolse tutti i parafernali. Era affamato, allo stremo, e riusciva a stento a tollerare il profumo di carne viva e di sangue che lo circondava. A Vienna, mentre si avvicinavano alla dogana, vide cinque forme di luce che aspettavano dall'altra parte della barriera. Non erano volti amichevoli. I cinque lo guardarono e si fecero da parte, prendendo tempo. In pochi secondi si materializzarono altre forme di luce, André, Karl, Julien, Gerlinde, Carol, Chloe e diversi altri che non conosceva. I cinque li videro e, rendendosi conto di essere in rapporto di uno a due, si eclissarono. Quando David, Kathy e Michel varcarono l'uscita, furono circondati. «Fortunatamente avevo valutato la necessità di venire in molti», disse Julien. Carol e André afferrarono Michel, abbracciandolo e baciandolo. Gerlinde, Chloe e una donna alta ed elegante, con capelli biondo platino e occhi del color del Mar dei Caraibi, si presero cura di Kathy. David si appoggiò a Karl, improvvisamente esausto, cosciente delle proprie ferite, le vecchie scottature e quelle nuove, i morsi, i tagli e le lacerazioni sulla sua carne. Come tutte le ferite emotive. Julien disse: «Il nostro aereo privato ci attende. C'è nutrimento per te». Diede un'occhiata a Kathy che era crollata e veniva sostenuta dalle forti braccia delle donne. Julien rimase in silenzio, e David si domandò cosa stesse pensando. Ma, quando Julien si voltò, i suoi penetranti occhi neri divennero talmente rassicuranti che riportarono David sul limite dell'incoscienza. André e Karl lo afferrarono per un braccio ciascuno, e Julien disse: «Vieni, amico mio. Hai bisogno di riposo». PARTE QUARTA «Tutto va, tutto ritorna; l'eternità gira la ruota dell'essere... Tortuoso è il sentiero dell'eternità.» Friedrich W. Nietzsche CAPITOLO 29
«Kathy sta morendo», disse Chloe. «Forse la cosa più giusta da fare è prenderla». David guardò la zia di André, una donna dai capelli bianchi con occhi blu forti e gentili. Sapeva che aveva ragione. «Ma è collegata sia ad Ariel che a me», esclamò. «L'ultimo che prende il suo sangue dovrebbe garantire il legame», disse Karl. «Mi serve tempo per assicurarmi che sia cambiato l'equilibrio, per essere certo che la mia sia l'influenza predominante». «Potresti non avere tutto quel tempo, mon ami», disse André con gentilezza. David si guardò intorno nella stanza. C'erano quasi due dozzine di persone, inclusi Michel, i due figli di Julien, e un altro ragazzo che sembrava avere l'età di Michel ma che chiaramente era in vita da almeno un secolo. Quel ragazzo era insieme a una coppia indiana. Kathy giaceva prona su un divanetto vittoriano in un angolo. La moglie di Julien, Jeanette, la donna alta che aveva incontrato all'aeroporto, di una bellezza squisita con quegli occhi verde menta, rinfrescava la testa di Kathy con delle pezze umide. Michel era stato l'unico vero e proprio miracolo. Tutti i restanti, compresi gli altri ragazzi, erano stati alterati da umani a qualsiasi altra cosa fossero diventati. E, David lo sapeva, gran parte delle persone nella stanza era stata trasformata proprio come lui, contro la propria volontà. Non voleva infliggere la stessa pena a Kathy. La donna giaceva immobile. La febbre non si era abbassata. Semmai, era sul punto di salire ancora. Dal suo arrivo a Vienna, aveva avuto momenti sempre più sporadici di coscienza. David si passò una mano tra i capelli. Sapeva che tutti provavano solidarietà per la sua situazione, ma questo non gli era d'aiuto. «Dannata Ariel!», disse, ma era troppo tardi per amareggiarsi. Si diresse nell'angolo. La pelle di Kathy era di un colore malaticcio, le labbra asciutte e terree. La fronte avrebbe dovuto essere imperlata di sudore, ma così non era. Sollevò una delle sue mani; era bollente e inerte. Le cosce pelle e ossa. «C'è un posto sicuro nei dintorni?», chiese debolmente. Julien gli pose una mano sulla spalla. «Dietro, ci sono dei boschi. Nessuno ti disturberà».
Raccolse Kathy e la portò fuori. Quella tenuta era incolta. Il castello medievale di progetto spagnolo conficcato nel fianco della montagna sormontata di neve esisteva già molto tempo prima che orde di esseri umani in guerra combattessero per quel suolo per poi, avendo trovato la nuova landa inospitale, lasciarlo nuovamente deserto. S'insinuò tra cespugli e arbusti d'un verde smorto, quindi in mezzo agli alberi denudati dall'inverno che subentrava rapidamente, facendosi strada più in alto su per la salita, finché giunse ad un altopiano roccioso che serviva anche come radura nel fitto sottobosco inesplorato. Là si sedette addosso a una sporgenza di roccia grigia sotto il chiaro cielo notturno, sistemando Kathy tra le proprie gambe. La tenne appoggiata contro una delle sue ginocchia. Il volto della giovane era sfinito, invecchiato. Il dolore gli trafisse il cuore. Lei aveva sofferto, e lui non era stato in grado di evitarle quel destino. Aveva voluto renderle la trasformazione piacevole. Aveva avuto in mente per prima cosa di discutere di suo padre e di Bobby, di fare ordine in tutto ciò. Aveva desiderato che lei sperimentasse le stelle e l'oceano, che si sentisse circondata dal suo amore in quel momento cruciale della sua esistenza. Ma non era riuscito a fare nulla di tutto questo. «Kathy. Riesci a sentirmi?». Lei si agitò, ma non aprì gli occhi. «Adesso resterai con me», le disse, lisciandole all'indietro i capelli secchi. Ma l'unica risposta fu un leggero sospiro, e lui non riuscì neppure a essere sicuro che non si fosse trattato del vento. La notte era fredda, e allora l'avvicino a sé, aprendo il colletto del giubbotto da caccia che lei indossava; esponendo la gola e il debole battito. Nonostante il suo amore per lei e il suo desiderio di accompagnarla dolcemente e con compassione, il suo corpo reagì a quel pulsare. L'animale famelico che lui costantemente avversava fece battere in ritirata la parte più incivilita dentro di lui. Le sue labbra trovarono l'arteria, ma una sensazione orrenda lo sopraffece; non poteva sopportare l'idea di prenderla così in fretta. Si concentrò dunque sulla vena. La penetrò lentamente, nel modo meno doloroso possibile. Gocce cremisi di quel fluido vitale gli bagnarono le labbra. Fu come se fosse stato acceso un interruttore. Si sentì rianimato, pieno d'energia. Affamato. Gli occhi di lei erano fessure di dolore febbricitante mescolato a paura.
«Ariel», mormorò lei. La rabbia crebbe. Immediatamente premette forte due dita contro la ferita e Kathy gemette. «Sono io. David. Non avere paura, piccolina». La vista di lei gli strappò un gemito. Quelle gocce di sangue bollente avevano gonfiato lui tanto quanto avevano prosciugato lei. Fissò il suo volto emaciato, baciò le sue labbra asciutte, pallide. Come poteva farle questo? Aveva giurato a se stesso che non l'avrebbe presa senza che fosse cosciente e consenziente. Non importava quanto la sua condizione potesse giustificare quell'azione: in cuor suo sapeva che succhiarle la vita dal corpo quando era incosciente non era amore, ma violenza. Le sopracciglia di Kathleen si abbassarono e lui dovette appoggiarle l'orecchio sulle labbra per sentirla sussurrare: «Quanto ti amo...». «Ti amo con tutta la profondità, la vastità e l'altezza che la mia anima può toccare...», disse lui immediatamente. La luna d'argento squarciò il cielo d'ebano, e il cielo si fece d'ardesia e poi di fumo, costringendo la luna a svanire, mentre lui continuava a combattere il demone interiore. Tenne stretto a sé il pesante corpo di lei, cullandola, baciando le sue labbra roventi, lasciando che le lacrime tinte di sangue che si erano formate su di lui bagnassero quel volto pallido. Se era destino che morisse, che così fosse. Che lui l'avesse presa o meno faceva poca differenza sotto un certo punto di vista: si sarebbe trasformata lo stesso. Non vi era modo di sapere se la sua fedeltà sarebbe stata egualmente divisa tra lui e Ariel o se uno di loro avrebbe avuto il sopravvento. Non poteva controllarlo in quel momento. Poteva controllare veramente poche cose. Ma una decisione che poteva prendere avrebbe potuto legarlo alle ultime vestigia dell'umanità che ancora disperatamente si aggrappava alla sua anima. Avrebbe mantenuto le promesse che le aveva fatto, e che aveva fatto a se stesso. Perché, se non riusciva a farlo, quello che era diventato era ben meno che umano, meno di un microrganismo. Le particelle più minuscole dell'universo erano contagiate da altre particelle e, contrariamente a gran parte di ciò che aveva visto e sperimentato da quando si era trasmutato in quella condizione unica, non avrebbe creduto che lui e quelli come lui fossero scollegati dal complesso tessuto della vita su quel pianeta. Il sangue si era rappreso da tempo sotto le sue dita. Le ferite erano così vulnerabili da potersi riaprire. Ma non sarebbe stato per causa sua.
Quando fu in grado di parlare, la tenne stretta a sé e giurò come Elizabeth Barrett Browning aveva giurato a suo marito molto tempo prima: «...e, se così Dio vuole, ti amerò ancor di più dopo la morte». CAPITOLO 30 «Sono già morta?», chiese Kathy. Gerlinde rise. «Non ancora, ragazzina, ma stavi imbucando la lettera». Kathy si sentiva debole in una maniera incredibile. Il solo girare la testa richiedeva uno sforzo eroico. «Da quanto...?». Carol, seduta dall'altra parte del letto, si protese verso di lei e le passò un panno fresco e inumidito sul viso. «Sei stata incosciente per tutta la settimana che sei rimasta qui. Non eravamo certi che la febbre ti sarebbe passata. Hai sete?» «Sì». La sollevarono leggermente in modo tale che potesse sorseggiare da un bicchiere d'acqua, la bevanda migliore che ricordasse di aver mai bevuto. Ma anche quel movimento era faticoso, come se l'energia fosse stata prosciugata da ogni singolo muscolo del suo corpo, che era in seguito crollato. «Dov'è David?» «Sono qui». Guardò nell'angolo dal quale era giunta la sua voce, e si sentì sollevata. Una donna dai capelli bianchi in piedi di fianco a lui disse: «Hai fatto bene a seguire il tuo istinto». Lui si mosse verso il letto e un senso di gratitudine riempì Kathy. Era viva. Era al sicuro. E insieme a David. Lui premette le labbra decise, deliziose, sulle sue. La tenne tra le braccia come se non avessero dovuto mai più separarsi. Trascorsero alcuni giorni nei quali lei riprese le forze, ma quando David pensò che si fosse riavuta a sufficienza, la condusse a incontrare gli altri in una grande stanza che un tempo era ovviamente servita da sala per i banchetti in quell'immenso castello. Residui del passato adornavano solidi scaffali di legno. Stendardi e arazzi in pelle stampata riempivano il soffitto a volta. Una tappezzeria dal disegno intricato e intessuto che descriveva la storia di Vulcano adornava due pareti.
Un'armatura parve a David databile ai tempi delle crociate. Al centro della stanza trovava posto un tavolo scuro e massiccio lungo quindici piedi, fatto di pesante legno esotico con un motivo a vitigno intagliato a mano sulle spesse gambe rotonde. Il piano scavato doveva essere stato utilizzato per innumerevoli banchetti nel corso dei secoli. Quella stanza dava l'idea di una macchina del tempo. Kathy rimase davvero impressionata. Vagava con lo sguardo incredula, indicando il legno laccato e i ricami logori a piccole punte sul piano dell'enorme sedia sulla quale sedeva. La sua innocenza continuava a deliziarlo fin nel profondo. «Desidero che voi tutti sappiate che vi sono grato per il vostro aiuto», disse David agli altri nella stanza. «E anche noi siamo grati a te», gli rispose André. «Ariel è tenace. Voleva Michel, e alla fine l'avrebbe trovato. Adesso che sappiamo, possiamo proteggerlo». André si piegò su suo figlio, il quale sedeva sul pavimento a giocare a scacchi con una ragazzina, e gli arruffò i capelli. «Voglio lasciare Kathy qui, dove sarà al sicuro», disse David. La testa di lei si piegò nella sua direzione. «Vado a cercare Ariel». «No!». Kathy balzò in piedi. «Ti ucciderà. Non voglio perderti». Lui le si avvicinò e le baciò i capelli, ma poi guardò sopra la sua testa versò gli altri. «Conosco Ariel come, suppongo, chiunque di voi. Non si arrenderà. Proverà ancora a rapire Michel. E può rintracciare tanto Kathy quanto me. Se non qualcos'altro, sarà la vendetta a guidarla». Guardò Kathy. «E tu sei collegata a lei, così come sei collegata a me». Lei scosse la testa. «Non è vero, David. Sei tu quello che amo...». «Conosco i tuoi sentimenti per me», la interruppe lui. «Ma Ariel è potente e influente quanto me. È la natura dello scambio di sangue. Può manipolare entrambi, e l'ha fatto. Io non posso esistere in questo modo Kathy, e prima che tu lo chieda, non ti trasformerò finché non sarai libera da lei». Gli occhi della giovane si riempirono di orrore. Prima ancora che potesse continuare a protestare, lui disse: «Se dovesse accadermi qualcosa, la casa di Manchester è tua. Ci sono dei soldi. Li troverai. André? Karl?». Guardò i suoi amici. «Voglio che mi assicuriate che vi prenderete cura di lei». Entrambi annuirono. Kathy si scostò da lui. «No! Non puoi fare questo. È pazzesco. Lei ha
molti aiuti e ti ucciderà. Non voglio che tu vada. Se mi ami, non lo farai». «È proprio per i miei profondi sentimenti per te che devo farlo». «Ma come riuscirai a trovarla? Non sai neppure dove si trova». David ebbe un'esitazione. Questa era la parte che non aveva ancora considerato. «Forse tu puoi rintracciarla, perché avete condiviso il sangue». Non fu sorpreso quando Julien lo interruppe. «Kathleen non sarà in grado di rintracciarla fino alla trasformazione, e anche allora i suoi poteri non saranno affidabili». David sapeva che era vero. Si rese anche conto del fatto che Julien stava suggerendo che lei non sarebbe stata affidabile per un altro motivo oltre al suo noviziato. «Allora comincerò da Montreal». «Lei non si trova là», disse una voce giovanile. «Se n'è andata». Tutti guardarono Michel. «Come fai a saperlo, Michel?», chiese André. «Perché l'ho morsa, ho inghiottito un po' di sangue e lo so». «Lui la può rintracciare!», disse David, stupefatto. «Michel, mi aiuterai? Se ti insegniamo come rintracciare, mi dirai dove si trova Ariel? E puoi prendere anche un poco del mio sangue, così rintraccerai tutti e due». «Certo», disse il ragazzo, poi sorrise e gridò alla sua avversaria: «Scacco!». David si girò verso André, il quale a sua volta guardò Carol. Si fissarono per un momento, comunicando telepaticamente. «Va bene», disse André. Poi aggiunse: «Verrò con te, almeno fino a un certo punto, se lo desideri». Karl aggiunse: «Anch'io». «Vengo anch'io!», disse Kathy. «No», rispose David, sapendo quanto era duro per Karl e André fare quell'offerta. «Vi sono grato, ma questa è una cosa tra me e Ariel. Adesso mi rendo conto che è sempre stato così». «David, sono preoccupata per te», disse Chloe. «Anch'io», aggiunse Morianna, una donna alta e dall'aspetto regale dai tratti eurasiatici, che David aveva appena conosciuto. Sulla fronte, in mezzo alla punta formata dai capelli bianco quarzo, c'era una larga striatura nera. I suoi violacei occhi orientali erano vecchi, molto vecchi, e la sua voce penetrante. «Lo apprezzo molto», disse alle donne. «Ma il mio corpo è guarito. Posso badare a me». «Non è il tuo corpo a preoccuparci», disse Morianna. Si mosse verso di
lui. La sua figura regale lo ridusse al silenzio. «È la tua anima». Lui scosse la testa confuso. «L'odio», aggiunse Chloe. «Pensate che non abbia motivo di disprezzarla? Dopo quello che ha fatto a me, a Kathy, e quello che ha cercato di fare a Michel e agli altri?». Si sentiva indignato. Morianna si mise un dito davanti alle labbra, poi disse con calma: «Non sta a me oppure agli altri giudicare. Io sono semplicemente preoccupata del fatto che l'odio possa accecarti. Uccidere un altro della nostra specie... be', è una cosa seria». «Pensi che non lo sappia? Ne ho eliminati tre a Vancouver Island. Ma ti aspetti che viva nel terrore?» «Fidati di lei, mon ami», disse André. David lo guardò. «Faites-la attention! Elle est la sorcière». «David», proseguì Morianna, «la tua anima è grande e il tuo cuore puro, questo è chiaro. Ma un verme oscuro da poco si è insinuato là, e sospetto che un tempo è stato una larva che tu hai nutrito». Qualcosa in quelle parole o forse il modo in cui furono pronunciate lo colpì. «Uccidere non è nulla. Noi tutti lo capiamo», proseguì lei. «Ma distruggere una dei nostri, specialmente una molto antica, be', avrà effetto su tutta la catena». Lui sospirò profondamente, frustrato e adirato, ma Morianna continuò semplicemente a studiarlo, con volto enigmatico. Riusciva a capire gran parte di quelli della sua specie. Ma gli anziani erano strati di granito, impenetrabili. Morianna tirò fuori qualcosa dalla tasca: due pezzi di ottone a forma di disco, ciascuno dal diametro di due pollici, attaccati da un filo d'oro. «Posso?», domandò. Non aveva idea di cosa la donna volesse, ma annuì. Lei fece un cenno. Lasciò Kathy e fece un passo verso quella strana donna. Il dito di Morianna sfiorò le sue palpebre, che si chiusero automaticamente, come fosse sprofondato nel sonno. Una corrente passò tra lui e quell'essere antico; l'impeto di un sogno. Respirò, esausto. La stanza rimase silenziosa e parvero passare dei minuti. All'improvviso, vicino al suo petto si produsse un suono. Era una campana, ma diversa da qualunque altra avesse mai udito. Il riverbero gli penetrò il cuore per poi rimbombare all'esterno, attraverso il petto e nella stanza. Ma quel mormo-
rio parve proseguire per sempre, dilatandosi all'infinito, e si ritrovò prima a sorridere e poi a ridere: quelle vibrazioni stimolavano una tale gioia che non riusciva a trattenere la felicità. Quando aprì gli occhi, Morianna era sempre davanti a lui. Teneva il filo sopra ciascuno dei pezzi d'ottone, e lui comprese che aveva fatto toccare i due dischi. Gli occhi di lei scintillarono mentre diceva: «È sempre meglio uccidere con gioia, specialmente la Medusa, i cui occhi, se l'eroe dovesse incontrare pieno di odio, lo tramuterebbero in pietra; rifletterebbero semplicemente il suo stesso cuore. Il soffio mortale più dolce è quello che non ha esitazione. Una lama dentellata infligge dolore. Una mano sicura e sincera taglia in modo pulito. Questo è importante tanto per il vincitore quanto per lo sconfitto». Notò il maschio asiatico in un angolo, che gli era stato presentato come Wing, annuire. Era piccolo, quasi calvo e, anche lui, vecchio. Gli altri si radunarono intorno a David, offrendogli suggerimenti e consigli. «Devi ricordare che la tua realtà è differente dalla sua», gli disse Chloe. «Tu comprendi il linguaggio della poesia, della metafora, il cibo dell'anima». «E Ariel?», domandò lui. «Anche lei usa la metafora», rispose Julien. «Ma velenosa. Stai in guardia e non farti incantare da parole affascinanti». «Non incontrare il suo sguardo», suggerì Kaellie, una donna indiana. «È il modo più rapido per perderti». Quando l'eccitazione iniziale scemò, David si ritrovò da solo in un angolo a parlare con la moglie di Julien. Da vicino Jeanette era ancora più elegante, i suoi capelli simili a oro bianco ricadevano con grazia sul viso mentre quegli occhi grandi, indagatori, di quarzo, brillavano caldi su di lui. Emanava il fascino sensuale delle femmine della sua specie, e David combatté per non essere ipnotizzato dalla sua bellezza. Intorno alla gola indossava una minuscola sacca sorretta da una catenina d'argento. All'interno c'era una pietra rosa sulla quale era stato intagliato un simbolo. Mentre parlavano, lei estrasse la pietra dalla sacca e la mise in una bustina di velluto color magenta con un elastico. Scosse la bustina e il contenuto risuonò. Poi disse a David: «Perché non scegli tre pezzi, uno per volta? Lascia che loro trovino la tua mano».
Toccò all'interno della bustina e sentì dei freddi rettangoli di argilla. Ne scelse uno. Il grezzo manufatto aveva un marchio inciso da una parte. La donna gli fece cenno di appoggiarlo faccia in giù su un piccolo fazzoletto d'oro che aveva sistemato al bordo del tavolo. Ne scelse altri due e, come da lei indicato, li depose sulla sinistra, poi di nuovo a sinistra, in un angolo. «Che cosa sono?», chiese. «Sono chiamate rune, che significa "mistero". Gli sciamani le hanno utilizzate come oggetti divinatori da prima che venisse scritto il Nuovo Testamento. L'ultimo uso su vasta scala è stato probabilmente quello fatto dai Vichinghi in Islanda durante il Medioevo». Girò quello sulla destra. Un simbolo era inciso nella porosa argilla rosa. Nella mente di David, la connessione più immediata che riusciva a fare era la lettera greca "sigma". Ma in realtà non era quella. Era diversa da qualsiasi lettera di un linguaggio scritto che avesse mai visto. «Questo intaglio è Perth, e riguarda la tua situazione». «Che cosa significa?» «Parla dell'iniziazione, dell'assoggettarci al destino, ciò che si trova oltre il nostro fragile potere di manipolare le cose. È la Fenice, l'uccello mistico consumato dal fuoco che risorge dalle proprie ceneri. L'aquila che si solleva sopra il declino senza fine e sul flusso del tempo ordinario e dello spazio per compiere qualcosa di straordinario». Si sentì confuso e Jeanette doveva averlo notato. «La scrittura runica è antica. Ogni intaglio possiede un nome dal significato profondo tanto quanto un suono significante. Non è mai stata una lingua formale o scritta, ma piuttosto una specie di poesia del suono». Questo aveva senso per lui. Lei girò la seconda runa. Sul rettangolo c'era una linea dritta. «Questo è Isa, il tuo cambiamento, ciò che può fermarti. Parla di restare fermo, attendere, evitare la profondità delle emozioni e di conseguenza perdere il contatto con le correnti naturali. Un vento freddo che ti raggiunge sopra i banchi di ghiaccio di vecchi, antiquati costumi. Il segreto è nel lasciarsi andare». Girò la terza, una freccia che puntava in basso. David notò un lampo di contrarietà sul volto di lei. «Che cos'è? Il risultato?». Lei annuì. «Tiewaz simboleggia il guerriero». «Dev'essere una cosa positiva».
«Normalmente, sì. Ma questa è al contrario. La freccia dovrebbe puntare in alto». Rimasero entrambi in silenzio, fissando i tre strani simboli. Poi Jeanette disse: «Il guerriero è il sole, l'energia maschile. Esprime il desiderio attraverso l'azione diretta. Taglia via ciò che è estraneo, oppure morto». «E quando è al contrario?», chiese David, sentendo la paura impossessarsi di lui. «Quando è al contrario significa pericolo. L'energia è stata succhiata via. Fiducia e sicurezza di sé sono i problemi». Lui esitò. «Sta predicendo che fallirò?» «Non necessariamente. Significa che devi esaminare le tue motivazioni. Qual è il tuo legame con l'esito della ricerca, e il processo attraverso il quale ti stai dirigendo verso quella fine? Inconsciamente forse vuoi dominare o punire, e quello non è il tuo compito. Troverai la via dentro di te». Jeanette cercò nella tasca del vestito e gli mise qualcosa nel palmo della mano. Era un teschio di cristallo chiaro, grande quanto una goccia, ma perfetto in ogni dettaglio. «Porta questo con te», disse lei. «Ti trascinerà fino alla base della tua esistenza, conducendoti fino ai tuoi bisogni più profondi e alle tue risorse più recondite». Per tutta quella lunga notte, Kathy era rimasta seduta sulla grande sedia, guardando e ascoltando, confusa e ferita. Prima dell'alba David cedette a Michel un poco del proprio sangue, poi lui, Julien e André, diedero istruzioni al ragazzo sull'arte del rintracciare. Quando ebbero finito, David condusse Kathy in una piccola stanza lì vicino, piena di mobili lavorati di vecchio avorio. La avvicinò a sé. La sensazione della pelle di lei che scivolava contro la sua, quasi un'elettricità liquida, fece passare la carica nel suo corpo. Giocarono come cuccioli, pizzicandosi e graffiandosi l'un l'altra, ridendo, finendo sul grande letto e facendo la lotta finché lui la premette in basso, bloccandola con la sua forza. Lei inarcò la schiena mentre lui le baciava la cavità della gola, e David sapeva trattarsi di uno dei punti che lei stava scoprendo erotici. Il loro accoppiamento divenne selvaggio e appassionato, feroce, l'unione di creature selvatiche. Lei era calda dentro quando lui la penetrò, rendendo caldo anche lui. Ogni spinta era come un fiammifero sfregato sulla selce, ogni colpo arroventava le due superfici creando scintille bollenti e gialle. Lei gli
afferrò la schiena, conficcandosi in lui. David si puntellò su di un braccio e la strinse addosso a sé, con l'altro braccio intorno alla vita. E, mentre si spingeva dentro, la tensione proruppe sibilando. All'improvviso la scintilla si accese, causando una reazione, come dinamite in una esplosione a catena. Lei gridò direttamente dall'anima, e alle orecchie di David fu il suono della loro unione che veniva spedita nell'universo. Mentre giacevano insieme bagnati e esausti, lei disse: «Vengo con te!». La sua voce era dolce ma ostinata. Lui scosse la testa. «Sì! Ogni volta che siamo lontani succedono cose terribili. Quando siamo insieme è meglio». «È troppo pericoloso». «Ma adesso sono più forte». «Neanche lontanamente forte come Ariel». «Allora è troppo pericoloso anche per te». Lui le si avvicinò, colto con la guardia abbassata dalla sua bellezza prorompente. I suoi capelli scintillavano come oro antico, i suoi occhi riflettevano il blu di un arcobaleno. Inalava profumi, la dolce fragranza del bagno al latte di rose che lei aveva usato, l'odore muschiato che sorgeva dal basso, dei succhi - una mistura dei due - l'odore pungente della paura e della preoccupazione. I minerali dolci e salati nel suo sangue. Sentì che la sua energia stava tornando. «Ne parleremo domani notte, va bene?». Lei lo guardò alcuni secondi, poi annuì. David vedeva che era stanca e che il sonno l'avrebbe presa presto, ma si sforzava di restare insieme a lui. Tutto il suo essere la cercò nuovamente, e lei mise da parte le sue paure. Proprio mentre scivolava nel sonno, Kathy disse: «Ne parleremo domani, promesso?» «Sì. Te lo prometto». Era la prima volta che le mentiva. CAPITOLO 31 «David?» Kathy sentì il vuoto. Guardò nel letto, e notò il bigliettino. Kathy, mio cuore, mia anima, mio eterno sogno,
Credimi quando ti dico che hai dato un senso alla mia esistenza. Sono andato in cerca di Ariel perché devo. Il mio amore per te non mi lascia alternativa. Ricorda sempre che per me sei il mistero dell'universo, tanto è grande il mio amore per te. Ci sono soldi, come ti ho detto, e la casa. André, Karl e gli altri si occuperanno di te. Se non potrò farlo io, voglio che tu aiuti Frankie. Non voglio farti pensare che non tornerò, ma nulla è certo; la natura è insensibile tanto ai desideri dei mortali quanto a quelli degli immortali. Kathy, dolce Kathy, ragazzina innocente, femmina appassionata, creatura di un fuoco azzurro, come un diamante blu con infinite sfaccettature. Hai vissuto una vita tormentata. Non sono stato in grado di tenere il dolore lontano da te, e desidero farlo. Ma penso di poterti lasciare un testamento di libertà. Se smetterò di esistere, porterò Ariel con me. Sarai libera dal suo incantesimo. Non potrà più rintracciarti e farti del male. Sarai al sicuro. Questo è ciò che desidero per te, e forse tutto quello che sono in grado di offrire. Con amore, David. Scoppiò a piangere e corse fuori dalla stanza, per il lungo corridoio e giù dai tre piani di scale di marmo. Spalancò la porta della sala banchetti. Gli altri si voltarono mentre si precipitava all'interno. «Dov'è David?», gridò, con gli occhi grondanti di lacrime, il corpo tremante. Gerlinde si tolse la giacca e la avvolse intorno al corpo nudo di Kathy. «Stai calma, ragazzina». «Dov'è?» «Se n'è andato due ore fa», disse la donna dai capelli rossi. Lei scosse la testa. «No! Aveva detto che ne avremmo parlato! Dov'è andato?». Nessuno rispose. «Ditemelo!». «Ci ha chiesto di non dirtelo», disse André. «Temeva che lo seguissi». «Certo che lo seguo. Non può farcela da solo. Lei lo ingannerà».
Karl disse: «Kathy, il sangue di Ariel scorre in te e il tuo in lei. Ha un influenza forte come quella di David. È così che è riuscita a farti fare cose che non avresti fatto. Se lo segui, potresti essergli d'intralcio. Non perché tu lo voglia, ma a causa del potere di Ariel». «Non lo farei mai. Non farei mai nulla per fargli del male». «Hai cercato di ucciderlo», le ricordò André. «E hai mentito». Lei cominciò a piangere. «Era la droga. E ho mentito perché volevo che voi vi fidaste di me. Per favore, lasciatemi andare. Se David muore, io non voglio vivere». Gerlinde e Carol la sostennero. Qualcuno le porse un bicchiere di acqua minerale che lei bevve, ma non servì a nulla per alleviare il suo dolore. Si girò verso Gerlinde, cercando qualcosa nei suoi occhi. «Se si fosse trattato di Karl, tu saresti andata?». Gerlinde ci pensò soltanto un istante. Il suo tono a cuor leggero mascherava l'emozione nei suoi occhi, che divennero come terra compatta. «Un branco di lupi mannari non riuscirebbe a tenermi a bada». Kathy si girò verso Carol. «E se fosse stato André?» «Sì. È ovvio». Attraversò la stanza diretta verso la moglie di Julien, Jeanette. «E se fosse stato Julien?». Jeanette annuì senza alcuna esitazione. Kathy raggiunse Kaellie, che era seduta di fianco a Gertig. Gli occhi della donna indiana, nocciole scure e seducenti, trattennero Kathy più di quanto desiderasse essere trattenuta. «Nulla mi ostacolerebbe», fu quanto le disse. Si era confrontata con quelle che sembravano essere più simili a lei, o almeno in qualche modo meno cementate in quella condizione innaturale. Quindi si rivolse agli altri nella stanza. «Per favore, lasciatemi andare. Io devo aiutarlo». Vi fu silenzio per alcuni secondi finché Gerlinde parlò. «Io dico di lasciarla andare. Dopotutto, come può nuocergli?» «Sono d'accordo», aggiunse Carol. Kaellie rimase in silenzio, come Jeanette. «Non siate ridicole». André incrociò le braccia sul petto. «Noi dobbiamo rispettare il volere di David». «E il volere di Kathy?», chiese Carol. «Si metterà in mezzo. E probabilmente aiuterà Ariel». «Qualcuno di noi può accompagnarla per assicurarsi che questo non ac-
cada», disse Gerlinde. «Non hai sentito André», fu in disaccordo Karl. «David non vuole aiuto. Ha bisogno di affrontare questo drago da solo». «È ossessionato! Non riuscirà neppure ad arrivare da Ariel. Lei ha troppe guardie». «David non è debole». «Karl, riusciresti ad affrontare una dozzina di succhiasangue, anche se stessero ancora mettendo i denti?», domandò Gerlinde. «Suvvia, ha bisogno di aiuto». «Farà meglio da solo», disse André. «Questa per lui è sia una questione d'onore, quanto un antico codice di etica con il quale nessuno di noi osa interferire. Non potremmo aiutarlo neppure se volessimo, e voi tutti lo sapete». «Quale codice?», chiese Kathy. Carol cercò di spiegare. «Vi sono certe regole, se vogliamo metterla così, alle quali dobbiamo obbedire. Sono impresse nel nostro corredo genetico. Non possiamo interferire l'uno con l'altro». Kathy incrociò le braccia sul petto. «Voi non potete ricevere aiuto, ma Ariel sì. Giusto!». «Ariel infrange tutte le regole», disse André. «Al diavolo le regole. Se lei può infrangerle, allora potete farlo anche voi!». Gerlinde scosse la testa. «Ragazza, tu non sai neppure la metà delle cose. L'unico motivo per cui lei può far sì che quei novellini la aiutino è perché sono talmente freschi a questa vita da essere facili da controllare. Non possono nutrirsi con facilità, così dipendono da lei tanto per il cibo quanto un neonato per la madre umana. O si mettono in riga o muoiono di fame. Non so come fartelo capire, ma non è nella nostra natura cooperare». «Ma tu e Karl andate d'accordo. E anche tu e André», disse Kathy a Carol, evitando di incontrare lo sguardo di André. I maschi, in generale, erano più pericolosi per lei. Le riusciva più facile parlare con le donne, come se avessero il controllo delle loro necessità. Ma comunque, Kathy sentiva la pressione di quelle necessità diretta verso di sé: era l'unico essere all'interno di quella stanza con del sangue caldo che scorreva nelle vene. «E non è semplice», stava dicendo Carol. «In parte ha a che fare con l'intimità che si sviluppa tra quello che guida e quello che è guidato. André e io condividiamo il sangue, e quel sacrificio contribuisce molto a stabilire
un legame. Ma non ha sempre quell'effetto». Gerlinde cercò di aiutarla a capire. «La nostra propensione naturale è l'una contro l'altro e viceversa. Siamo predatori, in competizione per lo stesso cibo. Non pensare a noi come a cani o gatti, o persino lupi. Forse siamo più simili ai ragni. È nelle nostre cellule restare isolati, e dobbiamo lavorarci su, affinché succeda qualcosa di più». Kathy scosse la testa. «Non me la bevo. Credo che voi siate dei codardi. Avete paura di Ariel». «Niente affatto». La voce di André era minacciosa. Quando Kathy lo guardò, il suo volto era cambiato. Non possedeva più la meravigliosa qualità penetrante che emanava da tutti quei vampiri; adesso assomigliava ad una bestia feroce, che avrebbe potuto essere idrofoba. I capelli neri striati di grigio sulla sua testa sembravano più gonfi, increspati, i suoi occhi erano intensi e selvaggi. Il volto si era fatto più scavato e la pelle sembrava semitrasparente, la tonalità era più chiara. Vide le labbra di lui ritrarsi e il grosso dente del giudizio brillare; il suo cuore sobbalzò. «Ascolta». Gerlinde le afferrò le spalle con dita gelide, costringendo Kathy a distogliere lo sguardo da quella vista orrenda. «Nessuno qui ha paura di un confronto uno contro uno con Ariel». «Ci piacerebbe aiutare David», aggiunse Karl, «ma la verità è che, anche se riuscissimo ad arrivare fin là, potremmo non essere spinti ad agire». Kathy, ancora esausta per la febbre, cadde sulla stessa sedia sulla quale era sprofondata la notte in cui era tornata dal punto di morte e aveva incontrato per la prima volta molte di quelle creature. E così pensava a loro in quel momento. Quelli all'interno della stanza avevano molto più in comune con Ariel di quanto non avessero con lei. Non erano affatto delle persone. Erano diversi da qualunque cosa conoscesse o capisse. All'improvviso le venne in mente che era sul punto di diventare una di loro. Il terrore strisciò dal basso verso su, dietro le sue gambe. Una volta morta, sarebbe diventata come loro. Era chiarissimo. Per la prima volta si domandò che cosa fossero, e cosa sarebbe stata lei. Scoppiarono delle discussioni su David e Ariel, e Kathy ascoltò. Si sentiva lontana, isolata, spaventata ... per sé e per David. Non era come loro, non ancora, ma una parte di lei era già cambiata a sufficienza perché non potesse biasimarli del tutto. Era come se capisse da dove venivano. «Io dico che se qualcuno di noi sente il desiderio di aiutare David, lavoreremmo abbastanza bene», disse Carol. André serrò le labbra. Sembrava arrabbiato. «Non ti sembra strano che
soltanto tu e Gerlinde la pensiate in questo modo? Il perché è ovvio». «No, per me non lo è». André scosse la testa. «Fatta eccezione per Jeanette, voi due siete quelle che sono state trasformate più di recente. Sentite ancora dei legami con la morale umana». Carol guardò Jeanette. «Ti senti come mi sento io?» «Sono interdetta», disse Jeanette. Da un altro angolo della stanza Kathy intese una diversa discussione. «Ariel è eccezionale», disse Karl. «Perché?», volle sapere Gerlinde. «Perché è vecchia?» «Lei è forte», disse Chloe. «Credo che sia perché è femmina», aggiunse Kaellie. «Non si dà fastidio alla femmina di molte specie». Gerlinde grugnì. «Non posso credere alle mie orecchie. Ma che cos'è, una specie di essere sovrannaturale? La reincarnazione di Erzsébet Báthory?». Fece una pausa. «Voglio dire, noi tutti siamo esseri soprannaturali per i mortali, quindi, di cosa stiamo discutendo?». La stanza era un tumulto generale. Kathy non sapeva come far placare le acque. Stavano sprecando tempo prezioso. «André, ti sbagli!». Kaellie, seccata, si era intromessa nell'altra discussione. «La nostra specie è nota per essersi unita per mutua difesa. Abbiamo combattuto fianco a fianco al tempo in cui veniva costruita la piramide di Cheope, quando i mortali disturbavano il nostro sonno e cercavano di estinguerci, scavando per disseppellirci dai luoghi dove riposavamo, portandoci alla luce del sole, e il paletto...». «Sì, anch'io ho sentito le leggende, ed è successo millenni fa!», la interruppe lui. «Se abbiamo dovuto unirci per combattere i mortali, bene. Questo ha senso. Sono certo che riusciremmo a farlo. Ma quelli della nostra razza? Qual è il motivo di rivoltarci contro di loro? E non dimenticare che sono molto più forti dei mortali. Voi tutti lo sapete. Potremmo essere sovrastati nel numero». «Anche David verrà sovrastato. Motivo in più per cui dovremmo aiutarlo», disse Gerlinde. «La banda delle zanne di Ariel è fresca fresca. Noi abbiamo già un vantaggio. Io vado». «Allora costringi anche me ad andare», disse Karl, ovviamente molto frustrato da ciò. «Il pensiero di qualcuno di loro che ti attacca...», disse a Gerlinde. «Finiremo probabilmente entrambi feriti, se non peggio!». «La situazione ci sta sfuggendo di mano», li interruppe André. «David
vuole fare da solo. Mi rifiuto di agire contro la sua volontà». «Io vado», disse Carol. André rimase senza fiato. Tutti nella stanza percepirono il cambiamento e smisero di parlare. André e Carol si fissarono l'un l'altra. Kathy sentì una pressione vulcanica crescere tra di loro, che minacciava di eruttare, e aveva la sensazione che non sarebbe stata una cosa positiva per lei. «C'è una cosa che avete dimenticato tutti quanti», disse in quel silenzio carico di tensione. «Non si tratta soltanto di una cosa tra David e Ariel. Lei ha intenzione di prendere Mikey. E sta cercando di impossessarsi del mondo. E può anche riuscirci. E se pensate che ci sarà spazio per qualcuno di voi quando lei avrà il potere, siete davvero pazzi». André sospirò, al colmo dell'irritazione, ma iniziando a calmarsi dopo il picco emotivo che aveva raggiunto. «Credo che dobbiamo metterla ai voti. Stiamo andando contro una lunga tradizione qui», si girò verso Kaellie, «almeno contro la tradizione che è propria della nostra esperienza. Per non parlare degli istinti che non si possono programmare a piacimento. I ragazzi, compresi quelli di Julien, non voteranno. Quelli favorevoli ad aiutare David, alzino la mano». Carol e Gerlinde sollevarono la mano. «Contrari?». André e Karl sollevarono la mano. «Mi astengo», disse Kaellie, come fece la maggior parte del resto del gruppo. Julien, Morianna e Wing furono gli unici a non partecipare. André sollevò le braccia. «Be', non so che cosa dire. Julien, Morianna, Wing, voi tre siete i più anziani. Nessuno di voi ha detto una parola. Non avete votato. Non vi siete neppure astenuti dal voto». Julien, alto e slanciato, si alzò. Agli occhi di Kathy era un padre forte e che incuteva timore, un patriarca, un uomo la cui sola presenza esigeva rispetto e attenzione. Si guardò intorno nella stanza. I suoi occhi erano della sfumatura di nero più scura che avesse mai visto. Le fecero venire in mente gli occhi di un insetto, soprannaturali. Il suo viso era teso, le labbra rivolte verso il basso, come se la sua esistenza fosse stata particolarmente dura. E lunga. Ma c'era qualcosa in lui che si contrapponeva a tutto ciò, e lei non riusciva ad identificarlo. Quello che sapeva istintivamente era che quell'uomo teneva nelle sue mani la vita di David e, per estensione, anche la sua. E quella consapevolezza la fece correre da lui senza vergogna, eludendo tutte le regole di un gioco pulito.
«Per favore! Ti imploro. Amo David al punto da stare male. Se hai mai amato qualcuno così tanto, mi capirai. Avrebbe rischiato la sua vita per te se tu fossi stato dov'è lui adesso, io lo so. E questa è una cosa più grande. È tutto. Ti prego, riflettici». Uno sguardo di sorpreso divertimento brillò in quegli occhi del color della pece prima che tornassero ad essere nuovamente imperscrutabili. Le accarezzò la testa, come fosse una bambina, o un pupazzo, e una scarica ad alto voltaggio la investì. Julien fissò i suoi occhi prima in quelli di Morianna, che annuì, poi in quelli di Wing, che piegò il capo: entrambi gli segnalarono il permesso di parlare agli altri per loro conto. Julien cominciò: «Comprendo bene l'isolamento che ciascuno di voi ha sofferto. L'agonia e l'orrore di essere separati da ciò che era stato, la furia e la gelosia che mi hanno tenuto segregato da quelli come me ai quali ero allo stesso tempo inestricabilmente legato. Voi tutti sapete che non mi sono allineato con nessuno se non recentemente, e questo legame non è stato diretto contro nessun mortale o qualcuno della mia stessa specie». Si guardò intorno. «Siamo stati tutti trasformati attraverso la morte in un modo che gli esseri umani non possono comprendere. Il meglio che possiamo fare è null'altro che accettare la nostra condizione e provare a considerarla come un dono piuttosto che una maledizione. Ma quella morte rappresentava soltanto l'inizio; ciascuno di voi ha sperimentato molte "piccole morti" da allora. Io stesso ho provato l'inimmaginabile nei miei cinquecento anni di esistenza. Vedo dei cambiamenti nella nostra specie. Molti si sono accoppiati, un'unione sconosciuta agli anziani». Kathy guardò Morianna annuire leggermente, ma non riusciva a leggere nessuna emozione in quegli occhi color ametista. «Voi tutti siete talmente giovani paragonati a noi tre, che non potete vedere con i nostri occhi, non potete sapere che cosa significhi questo cambiamento. Potete tollerarvi l'un l'altro, vivere sotto uno stesso tetto. Quello che è stato difficile per voi, ha rappresentato l'impossibile per quelli che sono vissuti per diversi secoli. E comunque anche noi ci siamo sforzati. Non l'avrei creduto possibile, ma anch'io sono diverso». Si girò verso sua moglie e tese una mano. Lei lo raggiunse. Era alta quasi quanto lui, cosicché non poté baciarle la sommità del capo, ma le baciò il collo e la cinse intorno alla vita. Kathy fantasticò sulla loro relazione, come si comportavano quando erano soli, insieme, nei loro momenti più
intimi. Non riusciva ad immaginarselo. «Voi non siete mortali e meno che mai deboli. Fisicamente non siete pavidi e, ovviamente, quella sensazione non dovrebbe preoccupare nessuno. Ma come la forza, persino in battaglia, non è sempre fisica, così anche la paura assume una miriade di forme. Uccidere quelli della nostra specie recide un cordone vitale. Voi lo temete a livello cellulare. A livello spirituale. Ma tra noi, come per i mortali, l'evoluzione si è fatta più rapida, io ritengo per necessità. Il villaggio globale del quale parlano gli umani deve essere riferito anche a noi. Siamo chiamati al cambiamento: cooperare o perire. Se non avessi alterato me stesso, non sarebbe stato possibile vincere collettivamente quei terrori primari che attengono alla nostra più vera essenza». Fece una pausa per guardare Kathy. «Anche io ritengo che David abbia bisogno di aiuto. Lui percepisce i nostri limiti e le nostre forze esattamente come chiunque altro in questa stanza. Non può chiedere aiuto in questo modo in parte a causa del suo codice d'onore, che qui tutti comprendiamo, ma soprattutto perché sa che potremmo non essere in grado di rispondere. Ma tu, con il tuo essere umana, hai ragione a ricordarci una cosa: Ariel non sarà fermata facilmente. Se sconfigge David, e senza il nostro aiuto non vedo altro esito possibile, cercherà di prenderci uno alla volta, per vendetta, se non oggi, domani. O fra un centinaio di anni da adesso. La nostra catena verrà spezzata ancora e ancora. Lei è anziana. Comprendo fin troppo bene il suo modo di ragionare; conosco i tempi barbari che l'hanno generata. Non potrà essere dissuasa, e combatterà fino alla morte». Guardò Kathy. «Non posso dire se il tuo cuore è più con Ariel o con David, ma se tu sei contro di lui, è meglio saperlo adesso. Io ti libero». Fece correre lo sguardo per la stanza. «Non è sicuro per nessuno rimanere indietro. Quelli che avvertono il bisogno di andarsene possono farlo senza perdere la faccia. Quanto agli altri, dobbiamo formare un esercito se dobbiamo dare battaglia». André sospirò e si passò una mano tra i capelli. Guardò Julien in silenzio per diversi istanti, con gli occhi quasi supplichevoli. Alla fine si girò verso sua moglie. Lei tese una mano. Lui la prese e la portò alle labbra ma non sembrava felice. «Spero che stiamo facendo la cosa giusta». «Tutti noi», disse Julien, «condividiamo la tua speranza». Il gruppo si recò a Londra con un aereo privato. Da là presero un volo a
notte tarda su un Concorde diretto a New York. Michel aveva usato una sfera per rintracciare Ariel, e poteva seguire anche i movimenti di David. Quando ebbero noleggiato una barca e raggiunto Fire Island, erano le quattro del mattino. L'isola, dato che l'alta stagione era finita da tempo, era quasi deserta. Una densa aura di tensione gravava nell'aria, rendendola pesante sulla pelle. Gerlinde spiegò a Kathy che, essendo ormai prossima alla trasformazione, era in grado di cogliere le vibrazioni di quelli della loro specie. Il gruppo sbarcò, si mosse silenziosamente oltre le dune, in mezzo a piante secche che spuntavano da pozze di acqua stagnante vicino alla spiaggia, verso le terre ad est dove c'erano agrifogli, sassafrassi, querce, alberi di acero rosso e poi i pini. Era come se le creature inferiori sentissero quello che sentiva Kathy. Procioni e toporagni correvano tra gli alberi, frenetici nel cercare riparo. In cielo, dei pipistrelli bloccavano a intermittenza il bagliore della luna. Kathy era preoccupata, e allo stesso tempo non poteva fare a meno di meravigliarsi della bellezza di tutto quanto era intorno a lei. Aveva scoperto che, quando voleva, riusciva persino a vedere i microscopici organismi affollarsi nell'aria. Ma, mentre emergevano da quella selva di alberi, tutta la sua attenzione fu risucchiata in una direzione. Vicino all'acqua, in una radura più avanti, l'ambiente era illuminato come un parco giochi: c'erano parecchie forme fosforescenti rischiarate da un grande fuoco. «Ah», sospirò leggermente Julien, mentre il suono di un vento spettrale frusciava tra le canne. «Vorrei che fossimo di più». CAPITOLO 32 David aveva noleggiato un'imbarcazione ed era arrivato a Fire Island appena dopo la mezzanotte. La densità dell'aria e il profumo delle correnti, l'energia, lo spostamento caotico di ioni negativi, tutto lo convinse che non era affatto solo. Sapeva che lei l'aveva rintracciato, quindi nascondersi non aveva alcun senso; si sarebbe semplicemente avvicinato a sufficienza, poi avrebbe fatto quello che era venuto a fare. Ancor prima che raggiungesse la casa, cinque di loro si avvicinarono. Lo divertì il fatto che lei lo ritenesse talmente pericoloso da mandarne così tanti. Sembravano spaventati; dovevano aver trovato Reesone. Senza toccarlo, scortarono David ancora più verso est attraverso gli albe-
ri, poi verso nord. Dall'altra parte delle acque poteva vedere Long Island. Ariel attendeva in una radura. La fresca brezza autunnale le gonfiava l'ampio vestito intorno al corpo. Stava in piedi con le mani sui fianchi, mentre l'oceano ondeggiava alle sue spalle. Alla sua destra c'era l'ultima statua raffigurante David che aveva scolpito decenni prima, l'unica che aveva portato a termine. Gli sorrise, e lui si fermò a un metro da lei, mentre i cinque si tenevano a distanza ragguardevole da lui. «David!», disse dolcemente. Poi, con un cambio di tono, come una madre che rimprovera il figlio: «Sei uno stupido. Te ne saresti potuto rimanere al sicuro in Austria con la piccola signora che ti ho offerto, fino a farle scoppiare il cervello, cosa che non avrebbe richiesto molto tempo. E invece, eccoti qua. Non riuscirò mai a capirti». «Non avevo neppure notato il fatto che ci avessi provato». Dietro di lui, sentì altri che si univano a quelli che l'avevano portato fin lì. Ariel abbozzò un sorriso su parte del viso e lasciò cadere una mano lungo la coscia, poi fece alcuni passi verso di lui, muovendosi in modo sensuale, con i fianchi che dondolavano da una parte, i seni dall'altra. Si allungò per accarezzare la sua guancia sfregiata, ma lui si tirò indietro. «Sono venuto qui per ucciderti, Ariel». Lei rise. «Come sono drammatici i poeti. Ovvio che sei venuto per questo. Ma la notte è ancora giovane, o almeno non così vecchia. C'è un mucchio di tempo per decidere chi deve uccidere chi. Siediti. Rilassati». Si chinò nella sabbia e incrociò le gambe. Granchi fantasma corsero via. Immediatamente fu circondato. Guardò i maschi rapidamente. Ce n'erano troppi e avrebbe dovuto attendere un'opportunità migliore; sentiva che avrebbe avuto una sola possibilità. Si sedette e loro indietreggiarono leggermente. «Dov'è Reesone?». Lei sorrise. «Tu e io siamo molto simili, David. Non siamo i tipici predatori. Non abbiamo interesse a prendere i deboli, soltanto i più forti. La sfida». «L'hai trovato, non è così? E l'hai lasciato là». Lei sollevò le spalle. «Sei sempre stato troppo sensibile. È la sopravvivenza del più adatto, nel nostro mondo e in qualunque altro. Tu eri più adatto di Donald, meritavi di sopravvivere. Lui no». «Una filosofia molto chiara, questa che hai sviluppato. Libera da lealtà,
gentilezza, compassione o comicità. Dev'essere una parola semplice per te, usare i mortali e gli immortali per soddisfare i tuoi capricci. Non ci si sente mai soli?». Lei sistemò una piega della gonna, piegandosi leggermente in avanti in modo che il gonfiore dei suoi seni pieni e levigati fosse visibile. Poi sollevò lo sguardo verso di lui sotto quelle ciglia pallide, ancor più chiare dei suoi occhi chiari, privi di colore come il quarzo. «Sì, mi sento sola», disse sospirando leggermente, piegando la testa in maniera seducente, con quei capelli zafferano che si arricciavano e scintillavano su una spalla come quelli di Kathy, e David ne rimase sorpreso. «Mi sei mancato», disse, con una voce simile alla melodia del vento. Adesso toccò a David ridere. «Come può mancarti quello che non hai mai avuto?». Lei scattò di rabbia. Ma poi sorrise all'improvviso. «Te la ricordi questa?». Indicò la scultura in gesso. Lui esaminò la figura, scioccato nel realizzare che mancavano i genitali. Era sempre stato così? Tutte le statue che aveva fatto di lui erano prive di genitali? «Molte culture primitive ritengono che una immagine rubi l'anima. Gli antichi greci pensavano che, quando viene realizzata una scultura, l'essenza del modello viene imprigionata all'interno. Che ne pensi?» «Sei sempre stata così, Ariel? Ero forse cieco?» «Non cieco, David: innamorato. Ricordi il nostro amore? Io ti amo ancora». Lui scosse la testa. «Quando dici amore, intendi potere». «Potere e amore sono collegati. Guardati intorno. Questi e molti altri, tutti leali verso di me, tutti innamorati di me, come la tua piccola signora. Non l'hai ancora portata, vero? Avevi paura... che potesse amarti tanto quanto ama me. Io posso darti più di quello di cui è capace lei. E so che tu mi desideri ancora. Siamo come lupi dell'Artide, legati per l'eternità. È questo il vero motivo per cui sei qui, non è vero?» David era furibondo. "Lupi dell'Artide? Diciamo piuttosto una vedova nera che divora il suo compagno". Be', era stanco di essere divorato da Ariel. Non aveva più voglia di stare ai suoi giochetti. Dentro la sua scarpa c'era lo stocco d'argento che gli aveva dato Julien; sarebbe sfrecciato alle sue spalle mentre lo estraeva. Ma ancor prima di potersi mettere in piedi, come se leggesse i suoi pen-
sieri, Ariel gridò: «Prendetelo!». Fu una lotta breve: era ben conscio del fatto di essere sovrastato dal numero. Benché fossero dei novizi, ben presto lo distesero sulla schiena, bloccandolo a terra. Un istante prima stava fissando il cielo limpido punteggiato di stelle e quello successivo il volto di Ariel fluttuava nell'aria sopra di lui. Sorrise, in quel suo modo imperscrutabile. «Tenetegli la testa ferma», ordinò. «Apritegli la bocca. Chiudetegli il naso». David si divincolò ancora, ma in pochi secondi lei si era aperta il polso. Del sangue freddo gli gocciolò dentro la bocca. Tossì, sforzandosi di non inghiottire. Ma dovette farlo, o sarebbe soffocato. E, come sempre, il sangue fu la sua ricompensa. «Fatto», disse lei qualche istante dopo, accarezzandogli il viso come una madre che nutre il figlio. «L'hai sempre desiderato, non è vero, piccolo mio?». Agli occhi di David sembrava una pazza, e si domandò perché non se ne fosse accorto prima. «L'ultimo passo. Adesso noi tre siamo legati l'uno all'altro. Ma abbiamo ancora del tempo prima che lei arrivi». Lei? Sperò che non si stesse riferendo a Kathy. Ma persino mentre se lo chiedeva, si sintonizzò e sentì che non era più in Austria. Ariel spogliò prima lui, poi si spogliò, lentamente, in modo sensuale. Lui chiuse gli occhi ma questo non la fermò dal toccarlo. Il tocco era un ricordo lontano che diventava sempre più attuale. Il suo corpo reagì contro la sua volontà, e odiò se stesso per quella reazione. Lei usò la bocca su di lui, e quando fu eretto, gli scivolò sopra, tirando, premendo, tendendo i muscoli intorno a lui finché non cominciò ad ansimare. «Tu ami me, David, me soltanto», continuò a ripetere lei. Il suono divenne simile ad acqua che si riversa sulle rocce nel flusso del fiume, per unirsi al mare. Ed era terrorizzato, mentre si domandava che razza di mostro fosse diventata. Sembrava strappare i fluidi dal corpo di lui, costringendolo a gridare. E, nel preciso istante in cui lui era ancora più vulnerabile, quando il suo odio per lei fiammeggiava, commise un errore irreparabile. Guardò negli occhi di Ariel. Bianche raffiche di neve turbinarono dentro, trascinandolo fuori da se stesso. Risucchiandolo in un mare di cadaveri congelati, un mare glaciale, senza colore.
«David!», urlò Kathy. Cominciò a correre verso di lui, ma Julien le afferrò il braccio. «Aspetta», le disse. Agli altri parlò in fretta, come un capo militare che dà ordini alle truppe. «Wing, Morianna, André, Karl, Gertig, Kaellie, bloccate i più forti. Due ciascuno. Quando sono in posizione», disse agli altri, «bloccate il resto». Sedici del gruppo di Ariel avevano formato un cerchio e Kathy osservò i sei che Julien aveva spedito muoversi all'interno, posizionandosi in modo tale da essere disposti a ore due, quattro, sei, otto, dieci e dodici. Poi Gerlinde, Carol, Jeanette e Chloe entrarono nel cerchio per mettersi davanti ai restanti quattro. Benché fossero di meno, Kathy poté vedere che la strategia di Julien in parte riusciva a pareggiare il conto. «Stammi vicina e porta i ragazzi», ordinò Julien a sua figlia. Immediatamente la ragazza, che sembrava spaventata, e il figlio di Julien, afferrarono i due ragazzi e li condussero nel cerchio dietro Julien. Kathy li seguì. Ariel era in piedi al centro con le braccia conserte sul petto, immobile come la statua al suo fianco. David sedeva in terra, nudo, con la testa china in un gesto di sottomissione. Tra loro bruciava un falò; del fumo nero si torceva nell'aria notturna come un fantasma oscuro. Kathy fissava David. Sembrava fosse stato completamente privato del respiro. Pareva floscio, raggrinzito. «David!», gridò di nuovo Kathy, e stavolta Julien la lasciò andare. Lei cadde in ginocchio davanti a lui, afferrandogli le spalle con le mani. Il suo viso era pallido, gli occhi assenti. Non sembrava riconoscerla. «Che cosa gli hai fatto?», domandò, ma Ariel rise. «Nulla che non gli sia davvero piaciuto, credimi». La vampira guardò Julien, come se gli leggesse nella mente. «Non più una catena, ma due... il bene e il male? Mi domando quale dimostrerà di avere gli anelli più resistenti. Chi otterrà il potere e chi lo perderà?» «Sei tu che hai scelto questo gioco di potere», replicò Julien. «Ad ogni modo, le regole sono una nostra prerogativa, e noi scegliamo di non giocare con le tue». Lei rise. «Ma lo state facendo, voi tutti!». Ariel girò in tondo, con le braccia distese come una ragazza che mostra un vestito nuovo. Si bloccò bruscamente e abbassò lo sguardo verso David e Kathy. «Siete patetici». «E tu sei una puttana!». Kathy si scagliò addosso ad Ariel, ma la vampi-
ra fu più rapida. E più furba. Kathy si fermò all'improvviso a un passo da Ariel. Era come se fosse finita addosso ad un muro di pietra. Una voce fredda nella sua testa la ridusse al silenzio. Poi il suo corpo crollò stramazzando al suolo. Batté la testa contro una grossa pietra, quasi perdendo conoscenza. Ariel si girò nuovamente verso Julien. «Tra lui e me. Uno vince, uno perde. Una catena si rinforza, l'altra s'indebolisce». Guardò Michel, che sedeva insieme agli altri bambini. «E al vincitore il bottino. O forse sei senza guerrieri?». Sia André che Carol, dalle loro posizioni all'interno del cerchio, si girarono in maniera repentina. I loro volti mostravano paura. Julien fece un cenno e loro si voltarono. Poi guardò a lungo David. Kathy aveva paura di sentire ciò che avrebbe detto Julien. David aveva un aspetto terribile. Non sembrava rendersi conto di quello che stava accadendo. Mentre lei avanzava lentamente verso quest'ultimo, sentì Julien rispondere: «Come desideri». Ariel rise nuovamente: sembrava il suono di vetri in frantumi. Kathy prese tra le mani il volto di David, cercando nei suoi occhi, ma lui era talmente distante, troppo distante perché potesse raggiungerlo. Diede un'occhiata intorno a sé nella direzione delle sagome luminose, delle luci bianche con mescolati al loro interno frammenti dei colori primari, posizionati come le pietre di un antico monumento religioso. Michel, l'altro ragazzino, e i due più grandi sedevano sorvegliati, con Julien a proteggerli. Adesso solo loro quattro si trovavano al centro: Ariel, Kathy, David, e quell'effigie asessuata. All'improvviso, comparve una forte luce dagli alberi. Kathy la guardò entrare solennemente nel cerchio, dirigendosi fino a Julien. Era quel vampiro di nome Tony, che a Montreal stava insieme ad Ariel. C'era qualcosa in lui; risplendeva brillante e serio come Julien, ma Kathy sentì che oltre a essere potente e anziano era anche molto malvagio. L'equilibrio era mutato, e si sentì in preda alla disperazione. In qualche modo, il fatto che Tony fosse là, le faceva sentire che avrebbero perduto. «David!», chiamò dolcemente Ariel. Lui sollevò lo sguardo per osservarla come un animaletto domestico risponde alla voce del suo padrone. «Hai un'arma. Mostracela». Meccanicamente, lui cercò sotto la gamba e tirò fuori la spada corta e sottile. Il metallo affilato scintillava nella luce delle fiamme. Gliela porse con entrambe le mani, come si trattasse di un'offerta.
Ariel si sistemò alle sue spalle, in modo che Kathy guardasse entrambi. «Adesso puoi dirglielo», disse Ariel. Kathy si domandò: "Dirgli cosa?". Ma gli occhi di Ariel erano diventati dei bianchi dischi turbinanti che parevano latori di messaggi importanti, e Kathy si ritrovò improvvisamente a sghignazzare come una pazza. «Sì, ho cercato di ucciderti: te lo ricordi, David? Mi stavo divertendo un mucchio con te, a perdere tempo in stronzate, a farmi di droghe pesanti. Ma tu semplicemente non potevi crederlo, vero, perché tu pensi di sapere tutto. Lo sapevi che ho scopato il mio vecchio? E che lui era una scopata migliore di quanto tu non sia mai stato? E che Bobby era mio figlio?». Il suo corpo sobbalzò. Rimase sbigottita da quello che aveva detto, e si domandò cosa l'avesse portata a dire cose simili. Ma c'era una dura realtà in quelle parole che lei sentì fin dentro le ossa. Se Ariel controllava le sue parole, forse poteva controllare persino quello che stava pensando. Kathy sapeva che così non poteva essere, altrimenti non si sarebbe chiesta in che modo Ariel controllasse David. "Ma dev'esserci qualcosa che sta facendo", pensò Kathy. "Siamo della stessa famiglia, quindi dovrei essere in grado di scoprirlo. Forse...". Ma non terminò mai quel pensiero. David la fissava, pareva ferito, e lei aprì la bocca, sforzandosi di dire: "È pazzesco. Mi sta facendo dire queste cose". Ma quello che venne fuori fu: «Ho mentito, David. Fin dall'inizio. Non ti ho mai amato. È Ariel quella che amo. Ti odio. Voglio soltanto che tu muoia». Lui parve sconvolto. Lei cercò in quegli spenti occhi nocciola, implorando silenziosamente che lui capisse, che comprendesse la verità. Ma anche mentre lo faceva, sentì che stava lei stessa cercando il pugnale. La mano di David si strinse sull'impugnatura. Poi qualcosa scivolò nell'aria, un suono ossessionante come il verso di una gavia solitaria in una notte buia. Le fece formicolare i peli sul collo. «Daaa-vid. Uccc-cidilaaa!». Kathy guardò con orrore mentre lui sollevava il pugnale. Il suo volto era una maschera, segnato dalla confusione e da una furia impotente. Prima ancora che riuscisse a muoversi per difendersi, lui l'afferrò per i capelli e Ariel si sistemò dietro di lei, immobilizzandole le braccia. La gola era sottile e bianca, così esposta. Lui teneva quell'argento scintillante, magico, in linea con la cavità, un punto che ricordava vagamente di aver accarezzato con le labbra. Adesso desiderava solamente distruggerne ogni traccia. Tranne che per il sangue.
«Uccidila», ululò il vento. Una voce nella sua testa prese a gridare, ma il suo corpo non pareva più ubbidirgli. "Sono perduto", pensò lui. "Confuso per qualcosa. Dovrei aspettare, finché non sarò sicuro". Ma lo stocco si mosse in avanti, la punta destinata a quella pelle lucente. Poteva vedere l'arteria che pulsava. La puzza putrida del terrore gli raggiunse le narici, ma era come se la sua mente fosse bloccata da qualcosa di spesso, simile a delle sabbie mobili, e i pensieri che si sforzavano di uscire non si traducevano mai in azione. Solo il suono, un comando dagli elementi, filtrava, un collegamento diretto che non aveva speranza di raggirare. Il viso davanti a lui era tormentato. Riusciva a vederlo, a sentirlo, ma non riusciva a collegarlo emotivamente. Dietro c'era un altro volto, e lui fu scioccato dalla somiglianza: erano due divinità gemelle, una benigna, l'altra straziante, senza possibilità di distinguerle. Sentì sgorgare l'isteria, e tutta la sua forza fu assorbita nel tentativo di ricacciarla giù. Quella dietro scintillò: era il volto di una vincitrice che irradiava sicurezza e forza. E l'altro? Sì, pensò lui, li paragonerò. Ma, nonostante quel pensiero avesse raggiunto la sua coscienza, fu distratto, ipnotizzato dai colori. Una aveva occhi blu, ma erano del blu di un cielo d'estate o di un oceano senza fondo in cui stava annegando. E gli occhi dell'altra erano bianchi, leggeri, come nuvole, sogni. O come una tempesta di neve che lo seppelliva in una tomba fredda e silenziosa. I loro occhi non significavano nulla per lui, benché sapesse di dover ricordare quale colore appartenesse all'una o all'altra. Ma... Sentì un suono e si guardò intorno nel cerchio. Il suo sguardo corse a Michel, che lo guardò di rimando, fiducioso ma spaventato. Tutti i suoi amici si trovavano là. Avevano cercato di aiutarlo, ma come poteva essere? In un certo senso contavano su di lui, e se lui avesse fallito, avrebbe riguardato anche loro. Avrebbe riguardato tutti. Ma non aveva idea di cosa ci si aspettasse da lui. Julien era l'unico volto sul quale David riusciva a indugiare. I tratti dell'anziano erano forti, tesi, immobili. Poi David vide il suo oppositore. Un'energia maligna. Il demone che aveva causato in lui con la forza la trasformazione. L'aveva violentato in un vicolo e lasciato lì a tentare di sopravvivere. David tremò nel ricordare la sua spietatezza, la brutalità. "Non può essere vero", pensò tra sé. "Tutti noi qui? Forse sto sognando". «Ho detto, uccidila!». La sua attenzione tornò precipitosamente alle due donne. La voce, e a-
desso si rendeva conto che era una voce, lo fece tornare in sé. Con orrore guardò la propria mano avanzare, la lama che lacerava la pelle. Una sottile linea di fuoco rosso gocciolò dal bianco alabastro e lui volle gridare. Invece, affascinato, guardò quel colore mentre veniva assorbito dal tessuto del vestito nero. Il profumo di rame e miele gli vorticò su per le narici, riempiendolo di desiderio. L'idea di trattenersi non lo sfiorò neppure. L'afferrò alla gola strattonandola verso di sé. La ferita di lei si spalancò per le sue labbra. Mentre succhiava il fuoco, gli anticoagulanti nella sua saliva continuavano a far scorrere il sangue caldo. Ingoiò ciò che a buon diritto gli apparteneva. Lei era calda, tremante: il suo sapore salato lo rendeva sempre più bramoso, e succhiava più forte, sforzandosi di aspirare il liquido più velocemente. Ma la pulsazione ben presto si fece più debole e il flusso insopportabilmente lento. Solo un'arteria gli avrebbe dato l'intensità che agognava. Riluttante, si distaccò per risistemarla. Notò un movimento. Le labbra di lei erano aperte ma non veniva fuori alcun suono. Dove l'aveva già visto? Ma stava succedendo qualcos'altro. Del liquido caldo spruzzò da quelle pozze blu. Un ricordo ancestrale si affacciò; quelle lacrime silenziose già una volta l'avevano toccato. Le gocce finirono sul suo braccio, una, due, facendogli bruciare la pelle, incendiando i muscoli sotto. Sentì quell'umidità penetrare fin dentro le ossa. La fragilità di un tale dolore lo rese sgomento, strappando via parte della spessa barriera tra predatore e preda. «Tagliale la testa, o lo farò io!». La voce produsse un suono irritante, facendolo innervosire. Sembrava lo stridio di un avvoltoio. Il lamento dell'impotenza. Sentì di doverla zittire. La lama oltrepassò una gola. Osservò la lama affondare verso quella dell'altra. Per un istante lei parve scioccata. Le mani si strinsero intorno al suo pugno per impedirgli di scivolare lungo l'esofago e reciderle la spina dorsale. Spinse da parte quella davanti a sé e afferrò per i capelli quella che stava dietro. Un gemito primitivo parve sorgere dalla terra stessa. La paura lo denudò fino alle ossa, la paura dell'isolamento. Della separazione. Gli occhi chiari si spalancarono, delle palle rotonde e bianche di neve cristallina. «Non puoi farlo, David. Tu mi ami. Me soltanto». Gli liberò il braccio per accarezzarlo in viso. «Moriresti senza di me». Ebbe un'esitazione. Quelle dita mandavano forti promesse di un legame che lui non poteva ignorare.
Ariel parve capire l'effetto paralizzante che stava avendo su di lui e rise. «Non hai le palle, amore mio. Non le hai mai avute». Si sentì nuovamente scivolare via. Aveva lottato per aggrapparsi a una realtà fragile che si sarebbe disintegrata in fretta. All'improvviso vi fu un crollo. Qualcosa urtò la sabbia compatta. Sentì un grido. Le parole rimbombavano dentro di lui. «Sì che le ha!». Guardò alla sua destra e vide Kathy, con i vestiti macchiati di sangue, colpire l'effigie con una pietra. La sua carne era di un bianco spettrale; quasi morta, ma ancora in qualche modo era riuscita a staccare la testa e adesso stava cercando di dividere la statua a metà. Ad ogni singolo colpo sentiva la propria volontà vibrare. Ariel le balzò addosso. Kathy si girò, mentre il terrore le increspava il viso pallido. Ariel affondò i denti in profondità, strappando via della carne, succhiando con forza. Lui vide le convulsioni sul petto di Kathy: il suo cuore indebolito non riusciva più a pompare sangue. Gli occhi senza colore, senza vita di Ariel, turbinavano verso l'infinito. Alla fine comprese. E, insieme alla consapevolezza, giunse la determinazione ad agire. Mentre Ariel afferrava la testa di Kathy con una mano e la spalla con l'altra, sul punto di strapparle via la testa dal corpo, David scattò. Il suo viso era il riflesso di un orrore raggelante: la pietà e l'amore che, in quei momenti, aveva provato per lei. Un amore abbastanza forte da liberare tutti loro. Strattonò indietro la testa di Ariel e trascinò la lama lungo la sua gola, tagliando la trachea. Lei si contorse, si dimenò, come un uccello preso in un gorgo, ansimando senz'aria. I suoi occhi erano selvaggi. Poi una lacrima simile a neve rosa apparve all'angolo di un occhio, impedendogli di portare a termine quello che sapeva di dover fare. Ipnotizzato, guardò la goccia scivolare giù per la sua dolce guancia, e segretamente pregò che il Destino potesse essere modificato per alterare quel sentiero. La goccia finì sulla sua pelle, vicino al punto in cui le altre l'avevano toccato. Ma Ariel gli offrì ghiaccio secco e questo lo raggelò fino al midollo. Con un movimento rapido, deciso, David tagliò di netto, decapitandola. Un gridò lacerò l'aria, facendolo rabbrividire: proveniva dalle sue stesse labbra. Era il suono di una parte del suo cuore che gli veniva strappata via per sempre.
CAPITOLO 33 Gli istanti successivi furono confusi. Molti di quelli che erano stati fedeli ad Ariel si diedero alla fuga. Ne rimasero sei, sconfitti ma sollevati da una responsabilità. David prese il pesante corpo di Kathy tra le braccia. Nello stesso momento fu dilaniato dalla perdita di Ariel e pianse senza controllo. André e Karl giunsero da lui per primi. «Finiscila, mon ami. Devi farlo adesso!». David si piegò sulla gola di Kathy. La sua ferita aveva il sapore di Ariel e lui singhiozzò. «Fallo o la perderai», disse Karl. David sapeva che era la verità. Se fosse stata Ariel l'ultima a bere, il suo collegamento con Kathy sarebbe stato contaminato per sempre. Affondò ancora una volta nella ferita e succhiò tutto il sangue rimasto. Sentì la vita che cominciava ad abbandonare il suo corpo e si fermò, come se avesse incontrato un muro di resistenza. Tenne stretto il suo corpo inerte, cullandola. Il sapere che sarebbe tornata in vita fu in quel momento tutto ciò che li teneva uniti. Era sorta una discussione. Wing e Morianna si erano uniti a Julien. Erano di fronte al vampiro che aveva creato David, Karl, Chloe e forse anche altri. Forse persino Ariel. «Che cosa dice?», domandò Carol ad André. «Non ne sono sicuro. È francese arcaico, medievale, o precedente. Chloe, faresti meglio a tradurre da quell'epoca. Julien lo conosce. L'ha chiamato Antoine». «Tony!», disse David. Guardò Karl e Chloe. Entrambi avevano espressioni scioccate. «Dice che Ariel merita di morire», suggerì Chloe. «Perché era debole. Adesso ci sta insultando. Ci chiama i suoi figli bastardi, timidi, deformi. Sta sbraitando, afferma di aver commesso un errore dandoci l'onore della trasformazione. Avrebbe dovuto distruggerci subito. Nessuno merita di vivere». «Deve aver amato Ariel», commentò David. Fissò quell'essere responsabile della sua esistenza. La notte in cui era stato preso, David l'aveva visto come incredibilmente forte, feroce, invincibile. Adesso pareva vecchio, consumato e pazzo. E gravato da una soli-
tudine potentissima che David comprese, per comparazione, di aver assaggiato solo per poco tempo. «Vuole il suo corpo», continuò Chloe. «Crede che siamo degli stupidi?». David depose Kathy con cura al suolo e afferrò lo stocco. Con tagli energici cominciò ad affettare il cadavere di Ariel. Karl e André gettarono gli arti nel fuoco, poi il busto. Una orrenda puzza di carne bruciata riempì l'aria, ma non smisero fino a che ogni parte di lei fu in fiamme. Antoine, circondato dai tre, anziani e forti come lui, non poté fare nulla. Sembrava bloccato in una furia impotente. Ma all'improvviso puntò il gruppo vicino al fuoco. Il suo volto era deformato come un minaccioso Gargoyle. Gridò qualcosa, quindi scomparve nella notte, unendosi alle ombre fluttuanti. «Che cosa ha detto?», chiese David. «È una vecchia maledizione francese», disse Chloe, con mani tremanti. «Il significato è: attenti alla vostra ombra. Sta minacciando noi tutti. Non è finita». Julien, Morianna e Wing raggiunsero gli altri, e all'improvviso tutti rimasero in silenzio. «È un momento importante», disse Morianna a bassa voce. «La morte di un membro così anziano dev'essere avvertita da tutti». David si ritrovò sopraffatto dal dolore e nello stesso tempo libero, come se gli fosse stato tolto un peso dalle spalle, come se un verme letale fosse stato estirpato dal suo cuore. Mentre le fiamme riducevano quel corpo in cenere, riusciva quasi a sentire lo spirito di Ariel sospirare, allontanarsi, mentre la sua stessa anima tornava alla terra e metteva nuovamente radici nel suo corpo. Strinse Kathy, sentendola vicina a sé sotto molti punti di vista. Sapeva che, se non fosse stato per Ariel, lui e Kathy non si sarebbero mai incontrati. E non si sarebbe ricongiunto ai suoi amici. Ma c'era dell'altro. Dentro di sé sentiva che l'oscurità e la luce si fondevano. Improvvisamente capì che sia lui che Kathy dovevano qualcosa ad Ariel. Nei mistici istanti appena prima dell'alba, quando tutte le cose viventi fanno ricorso ai loro istinti primordiali e si sottomettono davanti al potere spaventoso dell'ignoto, lasciò parlare Byron: Lei era perduta... e ancora respiravo, ma non l'alito della vita umana:
un serpente era stretto intorno al mio cuore, e morsicava ogni mio singolo pensiero per reagire. L'amai, padre! Non solo, l'adorai... Ma queste sono parole che tutti possono usare... L'ho mostrato più con le azioni che con le parole; c'è sangue su quella spada dentellata, una macchia non abbandonerà mai il suo acciaio: In verità l'amore è luce dal paradiso; una scintilla di quel fuoco immortale condiviso dagli angeli, donato da Alla, per innalzare da terra il nostro basso desiderio... CAPITOLO 34 Epilogo «Oh mio Dio!», gridò Kathy. Il suo corpo si piegò in due e vomitò nuovamente. Gerlinde la sostenne da un fianco e Carol dall'altro. «Credevo che i vampiri non si sentissero mai male», disse ansimando. Gerlinde rise. «Già! Be', questa è la parte che non scrivono sul manuale». David fece capolino nel bagno. «Come sta andando?» «Non male», disse Carol. «È quasi alla fine». Kathy lo guardò attraverso le lacrime che sgorgavano ai lati degli occhi. Lui era una luce scintillante, indistinta. Tentò un sorriso, ma non ci riuscì del tutto. «Sto bene», si sforzò di dire. Carol le porse un bicchiere d'acqua perché si sciacquasse la bocca, e Gerlinde aprì il getto della doccia, regolando le manopole e ricontrollando finché non fu soddisfatta della temperatura. «Salta dentro, ragazza. Ti sentirai meglio». Lei si mise sotto il getto di vapore caldo e tirò la tendina. Per i suoi sensi intensificati, l'acqua era il fragore di una cascata, un milione di minuscoli aghi smussati che si conficcavano nei pori. Chiuse gli occhi e distese la testa all'indietro, lasciando che l'acqua scivolasse lungo ogni ciocca di capelli, sentendo ogni molecola liquida calmarla e rinfrescarla. Inalò metallo e
terra. Era come se riuscisse a vedere attraverso le palpebre. Due ore prima David l'aveva risvegliata a una nuova vita. Si era sentita disorientata, confusa, impaurita. Ma ben presto il dolore si era intromesso, stringendosi al suo corpo fino a farle pensare che stesse morendo di nuovo. Lui la rassicurò, come avevano fatto gli altri, che sarebbe passato. Ma lei non ne era stata convinta. Finché non aveva smesso di vomitare. Ora, alla fine, stava venendo fuori dall'altra parte: era stato peggio della droga tagliata male. E non si sentiva morta... tutt'altro. Fino a quel moménto i cambiamenti più significativi erano le sensazioni acuite e gli incisivi più lunghi. Poteva sopportarlo. Dopo la doccia, le donne l'aiutarono a indossare un vestito di Gerlinde, nero stile new wave con spruzzate asimmetriche di rosso brillante, giallo e blu, che formavano un motivo indistinto. Le porsero una coppa d'argento. All'interno, brillava un liquido rosso vivo. Lei sollevò lo sguardo. «Non sarà mica sangue?» «Zero positivo», scherzò la ragazza con i capelli rossi. Almeno Kathy sperò si trattasse di uno scherzo. «È di un animale?», chiese ancora speranzosa. «Non preoccuparti piccola. Ho portato uno spuntino da casa. Possediamo un laboratorio farmaceutico e compriamo roba dalle banche del sangue, apparentemente per la ricerca. Facciamo affari una volta ogni tanto, quando alcune banche decidono di disfarsi di quantità contaminate, tipo sangue infetto da HIV o epatite». Kathy fissò la coppa. «Intendi dire che questa roba ha dentro dei germi e volete che io la beva?». Ma persino mentre diceva quelle parole, facendo una smorfia per enfatizzare il suo disgusto, il ricco profumo minerale creò una scia nell'aria, su per le sue narici e giù nella sua gola; il suo stomaco si contrasse violentemente, ma stavolta per la fame. «Siamo immuni tanto alle infezioni batteriche quanto alle invasioni virali», le disse Carol. Non fu tanto l'informazione, quanto una brama quasi incontrollabile a convincerla a sorseggiare quel contenuto denso, leggermente salato. Rimase sorpresa dal sapore così ricco. Fino a quella notte, la carne doveva essere quasi bruciata perché lei la toccasse. Adesso voleva soltanto il sangue. Quel nutrimento cremisi passò soavemente sulla sua lingua e giù per la gola placando un bisogno del quale era inconsapevole. E, mentre la sua fame veniva soddisfatta, la forza cresceva.
Oltre a Carol e Gerlinde, e David appena fuori dalla porta, poteva vedere André, Karl, e la persona di nome Julien nella stanza adiacente, tutti quelli che fino a poco tempo prima avrebbe chiamato vampiri. Ciascuno ardeva di luce scintillante come una sagoma animata, quasi traslucida, benché solida, cosicché tutti loro avevano una forma e un colore vivido. I loro occhi erano talmente accesi, come entità di un movimento danzante. Ogni gesto che notava la faceva sussultare; le fecero venire in mente un balletto che aveva visto in televisione, ma migliore, squisito e da togliere il respiro, pieno di grazia. Magico. David si girò per parlare con Chloe, i cui capelli bianchi erano accecanti. Kathy trattenne il respiro nel guardarli. Tutto ciò che amava di David prese una forma precisa. Era l'essere più sorprendente che avesse mai visto, come uno stallone selvaggio di un reame mitico, un angelo con un'aura dorata. Quando si voltò nuovamente dirigendosi verso il bagno, ancor prima che la raggiungesse si precipitò tra le sue braccia, sentendo le sue labbra decise ma soffici premute, quasi mescolate alle sue. Le sue braccia forti l'avvilupparono di calore, amore e luce, e lei sospirò, e continuò a sospirare. «Benvenuta». David sorrise, e quel sorriso quasi la fece soffocare per la sua gioia e la brillantezza. La condusse in una piccola stanza nelle vicinanze. Era la casa di Ariel. Come faceva a saperlo, non poteva esserne certa. Ma, quando concentrò la sua attenzione, si rese conto che ogni cosa in quel luogo era come David l'aveva descritta. Nulla era cambiato nel corso dei decenni. E adesso, essendosene andata Ariel, sarebbe rimasto così per sempre. «La senti ancora dentro, non è vero?», disse lui. «In parte. Non molto». «Vieni qui». Aprì le braccia. Giacquero avvinghiati sul letto dove lui e Ariel un tempo avevano dormito e amato, e guardarono attraverso le piccole fessure delle persiane mentre il cielo notturno cedeva il posto all'alba conquistatrice. Lei sbarrò gli occhi a quella luce grigia. Sentì il corpo pesante ed esausto, la pelle fastidiosamente calda e sensibile. Si domandò quanto tempo sarebbe stato necessario per abituarsi a tutto questo. «Non ci si abitua a questo», disse lui, come se leggesse i suoi pensieri. «Ma il tempo aiuta». «Puoi leggermi nel pensiero?»
«Sento quello che senti tu». Lei distese la testa sulla sua spalla, terrorizzata, mentre una letargia simile alla morte sprofondava nei suoi pori schiacciandola a terra. Era una morte che sapeva avrebbe provato ogni mattina. Ma lui sarebbe stato là. Con lei. Ogni notte. Quando il sole tramontava. «Sì», disse lui. «Sarò con te». Ma Ariel non ci sarebbe stata. Sospirò e pensò a Bobby. Se fosse riuscita a lasciarlo andare, avrebbe potuto lasciare andare Ariel, ma sarebbe stato difficile. Odiava Ariel tanto quanto amava David. Ma questo rendeva entrambi parte di lei, come se le vivessero dentro. Erano emozioni talmente profonde da non poter essere ignorate ma, alla fine, non aveva più bisogno di ignorare le cose dolorose. Si rannicchiò più vicino a David e lasciò che quella piccola morte la stringesse nel suo freddo, oscuro abbraccio. FINE