MANDELA LAVELLI
INTERSOGGEITIVITÀ ORIGINI E PRIMI SVILUPPI
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MANDELA LAVELLI
INTERSOGGEITIVITÀ ORIGINI E PRIMI SVILUPPI
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~ Rajfàello Cortina Editore
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www.raffaellocortina.it
ISBN 978-88-6030-113-0 © 2007 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2007
Indice
Prefazione (Dario Varin)
XIII
Introduzione
XVII
Parte prima Prospettive teoriche sulle origini e i primi sviluppi dell' intersoggettività
Capitolo 1 Lo studio dell'intersoggettività nell'ambito dell'infant research 1.1 La teoria dell'intersoggettività innata: Colwyn Trevarthen 1.2 L'esperienza dd!' imitazione all'origine dell'intersoggettività: Andrew Meltzoff 1.3 Co-regolazione e processi di cambiamento nella rdazione madre-lattante: Alan Fogel 1.4 Mutua regolazione ed espansione diadica degli stati di coscienza: Edward Tronick 1.5 Il modello dell'equilibrio tra autoregolazione e regolazione interattiva: Beatrice Beebe 1.6 La sintonizzazione degli affetti: Daniel Stern l. 7 La condivisione di significati: Kenneth Kaye
3 5 11
15
21 27 36
42
Capitolo2 Un confronto tra le diverse teorie sulle prime forme di intersoggettività
47
2 .l Il focus sulle capacità e il vissuto del lattante vs. sul processo dia dico di mutua regolazione 2.2 La natura e le condizioni di comparsa dell'intersoggettività 2.3 Il rapporto tra intersoggettività e sviluppo del Sé
51 58
VII
47
INDICE
Parte seconda I processi di sviluppo dell'esperienza intersoggettiva nel primo anno di vita Capitolo3 Il periodo neonatale: gli indicatori del "preadattamento" all'interazione sociale
65
3.l Continuità p re- e post -natale nelle capacità percettive, motorie e di apprendimento 3.2 Il sistema di segnalazione e l'organizzazione temporale del neonato 3.3 L'attenzione selettiva e le risposte preferenziali verso gli stimoli sociali: voce e volto umano 3 .4 Il riconoscimento e la preferenza per la voce, il volto e l'odore della madre Metodi e strumenti l I paradigmi sperimentali per lo studio delle precoci capacità di discriminazione di stimoli 3 .5 L'imitazione neon atale 3.6 Forme rudimentali di differenziazione tra sé e gli altri 3.7 Pattern di interazione differenziati con le persone e con gli oggetti
77 80 83 84
Capitolo4 La transizione-chiave del secondo mese: le origini dell'intersoggettività
87
4.1 I cambiamenti nella regolazione degli stati comportamentali e della motricità 4.2 Lo sviluppo delle abilità visuomotorie: nuove opportunità per la comunicazione faccia-a-faccia 4.3 La comparsa del sorriso sociale 4.4 La comparsa del cooing e dei movimenti labiali di "prelinguaggio" 4.5 Gli effetti dei cambiamenti del lattante sul comportamento degli adulti 4.6 Le origini dell'intersoggettività nell'esperienza di comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto Metodi e strumenti 2 Il paradigma osservativo per lo studio della comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante
Capitolo5 Dai 2 ai 6 mesi: intersoggettività come compartecipazione affettiva nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto 5 .l Mutua regolazione di attenzione e affetti nella comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto 5.2 Le competenze del lattante nella comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto
VIII
66 69 72 75
88 91 95 98 100 103
109
111 113 119
INDICE
Metodi e strumenti 3 I paradigmi sperimentali per lo studio della comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante 5J Il ruolo del rispecchiamento affettivo materno nello sviluppo delle aspettative e del comportamento sociale 5.4 Lo sviluppo di un primo senso di Sé come agente 5.5 Le competenze del lattante nelle situazioni triadiche Metodi e strumenti 4 I paradigmi sperimentali per lo studio delle competenze del lattante nelle situazioni triadiche 5 _6 La prima organizzazione dell'esperienza intersoggettiva e le origini dell'attaccamento nei pattern di interazione con la madre 5.7 La transizione dalla comunicazione faccia-a-faccia alla comunicazione focalizzata sugli oggetti
129
132 135 13 8
141 143 148
Capitolo 6 Dai 6 ai 9 mesi: intersoggettività come prima condivisione di attenzione ed emozioni nelle azioni di gioco 6.1 L'attenzione coordinata nel gioco con gli oggetti Metodi e strumenti 5 Il paradigma sperimentale per lo studio dell'attenzione visiva condivisa 6.2 La comprensione della direzionalità delle azioni 6J La comprensione della direzionalità degli affetti 6.4 L'incremento della capacità di indirizzare e discriminare le espressioni emozionali 6.5 L'esperienza intersoggettiva nei primi "formati" di gioco sociale 6.6 La differenziazione delle risposte sociali
Capitolo 7 Dai 9 ai 12 mesi: una svolta nell'esperienza intersoggettiva, owero, intersoggettività come condivisione di attenzione, stati affettivi e intenzioni
153 155 157 158 161 163 166 169
173 175 182
7.l Fattori determinanti nello sviluppo dell"'intersoggettività secondaria" 7.2 La condivisione degli stati affettivi in relazione agli oggetti Metodi e strumenti 6 Il paradigma sperimentale per lo studio del riferimento sociale 7J La capacità di seguire la direzione dell'attenzione dell'adulto 7.4 La comprensione delle intenzioni dell'adulto 7.5 Lo sviluppo della comunicazione intenzionale: la capacità di influenzare l'attenzione, gli stati affettivi e le azioni dell'adulto 7.6 I "formati" di attenzione condivisa e i primi sviluppi della comunicazione gestuale e linguistica
206
Bibliografia
211
IX
186 188 192 197
l Lo studio dell'intersoggettività nell'ambito dell'infant research
Nell'ultimo decennio, nell'ambito della psicologia dello sviluppoin particolare dell'infant research -,insieme all'interesse per lo studio d~lfa mente dei neonati e per lo sviluppo delle teorie infantili sul funzionamento della mente degli altri, è esploso anche l'interesse per coil bambino piccolo arriva a condividere la sua esperienza soggettiva (stati affettivi, prospettiva e focus d'attenzione su oggetti del mondo esterno, intenzioni) con quella di un'altra persona. Al riguardo, vi è stata una ripresa del termine "intersoggettività", introdotto a fine annf Settanta da Trevarthen per spiegare quella particolare sincronia tra le espressioni facciali, vocali e gestuali di lattanti di soli 2-3 mesi e le espressioni delle loro madri durante la comunicazione faccia-a-faccia, che la microanalisi dei filmati aveva permesso di scoprire. Nello specifico, Trevarthen aveva definito "intersoggettività" la capacità "di adattare il controllo soggettivo (del proprio comportamento) alla sogge!tività dell'altro, per poter comunicare" (Trevarthen, 1979, p. 322). Bruner è tra i principali promotori dell'incremento di attenzione verso quest'area di studi. Circa 10 anni fa, nel capitolo conclusivo di un suo famoso libro identifica la ricerca sull"'intersoggettività", cioè sul "processo per cui si giunge a sapere cosa hanno in mente gli altri e ci si adatta di conseguenza" (Bruner, 1996a, p. 176), come tema essenziale su cui è necessario che la psicologia si concentri per poter fare dei passi avanti nella comprensione della mente umana e della svolta culturale avvenuta nell'evoluzione umana. Secondo Bruner, lo studio dell'intersoggettività è fondamentale perché è attraverso l'esperienza intersoggettiva che il bambino inizia ad attribuire significati agli eventi del mondo. La "modalità intersoggettiva" costituisce cioè la prima
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3
PROSPEITIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E I PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGEITIVITA
gelle modalità primitive di costruire significati (Bruner, 1996b), che appartengono anche al bambino molto piccolo; una modalità che consiste nel situare espressioni, azioni ed eventi nello "spazio simbolico" condiviso con l'adulto con cui il piccolo interagisce. Allivello più semplice, l'intersoggettività è mediata dalla capacità di riconoscere che è possibile condividere la propria esperienza interna: inizialmente attraverso la reciprocità degli sguardi, dei gesti e altre forme di contatto percettivo tra il lattante e la madre; poco dopo, a un livello più elaborato, attraverso la condivisione dell'attenzione verso un oggetto/evento esterno (Bruner, 1995). Nel capitolo citato, Bruner evidenzia come la ricerca sull'intersoggettività rappresenti un territorio in cui la psicologia biologica e la psicologia culturale - tradizionalmente separate - si possono proficuamente integrare. La psicologia con forti radici biologiche, di orientamento individuale-sperimentale, è infatti essenziale per lo studio della predisposizione biologica del neonato a rispondere alla voce, al volto e ai gesti umani; una predisposizione che favorisce il rapido sviluppo di uno scambio comunicativo reciproco tra la madre e il lattante, nell'ambito del quale il piccolo imparerà presto ad anticipare e a sviluppare aspettative nei confronti del comportamento del partner. La psicologia culturale è invece indispensabile per lo studio dei processi di comunicazione e negoziazione che si sviluppano nel contesto dell'interazione, dove la condivisione di attenzione e azioni tra il piccolo e la madre (o altro adulto significativo) f~yorisce la costruzione di significati condivisi. Nel contesto dell'interazione ~-inizialmente l'adulto che segue e si coinvolge ri~petto al focus di attenzione del bambino; l'attività di sostegno dell'adulto promuove nel piccolo la capacità di seguire, a sua volta, la direzione dell'attenzione dell'adulto, di comprendere che l'altro ha un suo punto di vista sulla realtà esterna, e che le proprie espressioni e azioni hanno un potere di comunicazione che può essere usato per influenzare l'attenzione e il comportamento del partner. In tal senso, Bruner evidenzia come l'incontro con la mente dell'altro non derivi dalla maturazione di t.ma capacità individ4.ale, quanto, piuttosto, dalla natura dell'interazione sociale in cui gli esseri umani sanno coinvolgersi fin dai primi mesi di vita. Questo libro intende esplorare l'emergere dell'intersoggettività nel primo anno di vita. Le teorie presentate di seguito rappresentano posizioni diverse nell'interpretazione delle prime forme di intersoggettività presenti nell'esperienza infantile. 4
LO STUDIO DELL'INTERSOGGETTIVITA NELL'AMBITO DELL'INFANT RESEARCH
1.1 La teoria dell'intersoggettività innata: Colwyn Trevarthen Secondo Trevarthen, gli esseri umani nascono con una specifita motivazione e una sensibilità innata a entrare in contatto con gli interessi e le emozioni espressi dalle altre persone, e a condividere con gli altri la_propria esperienza soggettiva. Si tratta di un bisogno di comunicazione interpersonale che va oltre ogni bisogno di sostegno fisico, cura e protezione. Senza porre in discussione il fatto che lo sviluppo umano implica apprendimento e che i lattanti dipendono comunque dalle cure degli adulti, la sua "teoria dell'intersoggettività innata" sostiene che "il bambino nasce con le motivazioni e le capacità di comprendere e usare gli intenti delle altre persone in negoziazioni 'conversazionali' di intenzioni, emozioni, esperienze e significato" (Trevarthen, 1998, p. 16). Questa "dotazione", specifica della specie umana, viene spiegata come funzionale alla ricerca di compagnia (companionship) e sostegno nella scoperta di nuove esperienze; inoltre, con lo sviluppo del bambino, come funzionale all'apprendimento culturale, cioè alla preparazione di una vita mentale cooperativa in una società organizzata in base ai significati culturali condivisi (Trevarthen, 2003, 2005).
I dati empirici alla base della teoria Trevarthen sviluppa la sua teoria a partire da dettagliate descrizioni microanalitiche del comportamento di neonati e lattanti di pochi mesi di vita in interazione spontanea con le loro madri, condotte fin dagli anni Settanta. Queste descrizioni evidenziano che, già nel periodo neonatale, nel contesto di un'interazione affettuosa un lattante può rispondere in modo differenziato alle diverse espressioni manifestate nei movimenti materni, mostrando segni di "monitoraggio" o, perlomeno, sensibilità ai cambiamenti d'espressione del partner. Che a 2 mesi, se coinvolto con sensibilità e gentilezza in un'interazione facciaa-faccia con la madre o un altro adulto attento e affettuoso, può rispondere in modo affettivamente e temporalmente contingente alle vocalizzazioni e alle espressioni della faccia e delle mani del partner, e alternarsi nei turni "protoconversazionali" (vedi paragrafo 4.6) con quest'ultimo (Trevarthen, 1979; Trevarthen, Kokkinaki, Fiamenghi, 1999). Inoltre, che verso la fine del primo anno, il bambino diviene capace di percepire le intenzioni del partner in riferimento a un oggetto esterno, e coordinare le proprie azioni e intenzioni con quelle dell'al5
PROSPETIIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETIIVITA
tro (Trevarthen, Hubley, 1978). Il fondamento di tutte queste sensibilità del bambino per la mente delle altre persone consiste, secondo Trevarthen, "in un rispecchiamento intuitivo degli intenti e dei vissuti affettivi manifestati nei movimenti del corpo delle altre persone" (2001, p. 101).
Il "rispecchiamento intuitivo" nell'imitazione neonata/e
Il rispecchiamento è "intuitivo" e "immediato", ossia non mediato d~ alcuna elaborazione cognitiva o simbolica. L'imitazione neonatale
(vedi paragrafi 1.2 e 3.5) costituisce, per Trevarthen, la prova più convincente di questa capacità di "rispecchiamento", ossia l'evidenza empirica più impressionante della capacità dei neonati di comunicazione intersoggettiva. A questo riguardo, cita il lavoro di diversi autori (per esempio, Kugiumutzakis, 1998; Maratos, 1982; Meltzoff, Moore, 1977) che hanno mostrato che i neonati, inclusi quelli nati prematuramente, possono imitare attivamente alcune azioni di un adulto che, dopo aver attratto affettuosamente l'attenzione del neonato, produce in modo ripetuto azioni interessanti (per esempio, apertura della bocca, protrusione della lingua) e contingenti con i segni di attenzione del piccolo. Trevarthen sottolinea che le osservazioni di Kugiumutzakis sulle condizioni che favoriscono le risposte imitative, e sui tentativi mostrati dal neonato prima di riprodurre l'azione, confermano l'interpretazione che i neonati imitano in diretta risposta all'intenzione dell' adulto, percepita nelle sue espressioni. In particolare, sottolinea che ancora più rimarchevole è la dimostrazione di Nagy e Molnar (1994) che neonati di poche ore non solo possono imitare la protrusione della lingua e delle labbra, l'apertura della bocca, il sorriso, l'espressione di sorpresa e vari movimenti della testa e delle dita, ma che se l'adulto attende pazientemente guardando il neonato dopo aver stimolato la protrusione della lingua, dopo 2-3 minuti, i piccoli tendono ad allungare deliberatamente la lingua, come volessero "provocare" un'altra risposta dall'adulto attento. Gli autori hanno ulteriormente dimostrato che, mentre le imitazioni sono accompagnate da accelerazione del battito cardiaco dei piccoli, le "provocazioni" da decelerazione, caratteristica di uno stato di anticipazione. Questo prova, secondo Trevarthen, che nel contesto di un'interazione affettuosa con l'adulto i neonati sono capaci di comportamento reciproco non solo relativamente alle azioni, ma anche alle intenzioni, del partner.
6
LO STUDIO DELL'INTERSOGGETTIVITANELL'AMBITO DELL'INFANT RESEARCH
I meccanismi basilari di coordinazione intersoggettiva Per Trevarthen, il processo di "accoppiamento" (matching) di movimenti, o azioni comunicative, che ha luogo durante l'imitazione da parte del neonato rappresenta il più semplice meccanismo di coordinazione intersoggettiva. Secondo Trevarthen questo processo dipende da "un qualche tipo di aggiustamento dell"immagine' del movimento che deve essere prodotto dal neonato rispetto a quella del movimento visto (prodotto dall'adulto), che deve aver luogo nel cervello" (1998, p. 28). L'autore ipotizza quindi la presenza, nel cervello del neonato, di un'immagine neurale- una sorta di "mappa"- del proprio corpo, i~ grado di riflettere anche la forma e l'attività del corpo di un'altra persona. In particolare, afferma che: "Per poter imitare, il neonato deve avere una rappresentazione cerebrale delle persone", una rappresentazione che è sostanzialmente "un'immagine motoria, sensibile sia alla forma del corpo in movimento, sia alle caratteristiche temporali d~I movimento imitato" (1998, p. 29). Nella formulazione di quest'ipotesi Trevarthen appare influenzato dalla teoria dell"' altro virtuale" di Braten (1988, 1998a), a cui lui stesso fa riferimento. Si tratta di una teoria piuttosto astratta, secondo cui la mente del neonato sarebbe fin dalla nascita organizzata in forma dialogica: la percezione del sé corporeo sarebbe operativamente accoppiata a quella di un "altro virtuale"; questa costante complementarietà, nei momenti in cui il piccolo si trova a interagire con un'altra persona reale, lo renderebbe capace di una percezione partecipante dei movimenti dell'altro e, quindi, di coordinazione intersoggettiva. Tuttavia, più recentemente, è la scoperta dei "neuroni specchio" che Trevarthen (2001, 2005) porta a sostegno della sua teoria del "rispecchiamento empatico", in particolare dell'idea di una rappresentazione cerebrale delle espressioni e delle azioni intenzionali dell'altro fondata su un'immagine motoria. Verso la fine degli anni Novanta un gruppo di neurofisiologi che stava studiando il funzionamento della corteccia premotoria nelle scimmie, ha trovato che un tipo di neuroni visuo-motori, che sono attivi quando una scimmia produce un'azione mirata a un .Qbiettivo (quale l'allungamento del braccio per afferrare un oggetto), si attivano anche quando la scimmia semplicemente osserva la stessa azione prodotta da qualcun altro (lo sperimentatore) (Rizzolatti, Arbib, 1998). I ricercatori hanno suggerito che questi "neuroni specchio" -individuati successivamente anche nel cervello umano in un'area omologa (Rizzolatti, Fogassi, Gallese, 2001, 2004;
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PROSPEITIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E I PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGEITIVITÀ
per una rassegna, Rizzolatti, Craighero, 2004)- forniscono un meccani_§mo di "riconoscimento dell'azione": le azioni dell'agente sonoriprodotte nelfa corteccia premotoria dell'osservatore. Questo meccanismo, coinvolto anche nei processi di imitazione (Rizzolatti et al., 2004), permetterebbe di "sentire" un aspetto fondamentale, costitutivo dell'esperienza di intersoggettività, cioè la "certezza implicita" (Gallese, 2005) di essere come l'altro, o che l'altro è "come me". In tal senso, il sistema dei neuroni specchio accrescerebbe la capacità dell'osservatore di riconoscere l'esperienza intersoggettiva connessa all'azione dell'altro; in altre parole, di comprendere l'intenzione dell'altro attraverso la comprensione di quella che sarebbe la propria intenzione se stesse facendo ciò che l'altro sta facendo (Pally, 2000, 2005; Wolf, Gales, Shane, Shane, 2001). Sebbene al riguardo non siano state ancora condotte ricerche rilevanti sui lattanti, Trevarthen (2001; Trevarthen, Aitken, 2001) ipotizza la presenza di meccanismi di rispecchiamento sensibili agli intenti del movimento o dell'azione espressiva umana che opererebbero anche a livelli subcorticali e, quindi, permetterebbero di spiegare le abilità imitative e conversazionali di neonati e lattanti di pochi mesi, in cui la corteccia prefrontale è ancora molto immatura. Questi meccanismi includerebbero il riconoscimento sensoriale multimodale, o transmodale, dell'azione del partner, e la riproduzione dell'azione in un'"immagine motoria" che ne specifica le dimensioni di forma e di tempo, cioè quelle dimensioni di base attraverso le quali, secondo Trevarthen, si realizza la coordinazione intersoggettiva.
Il ruolo dell'adulto Il fatto che nel contesto di scambi comunicativi affettuosi con la madre, già nei primi mesi di vita, un lattante tenda a produrre movimenti espressivi delle mani e delle braccia coordinati con il ritmo del linguaggio materno, è spesso portato da Trevarthen come esempio di contatto "simpatetico", tipicamente cross-modale, tra il lattante e l'adulto. La madre (o chi più si prende cura del piccolo) gig_ca comunque un ruolo fondamentale nel favorire il coinvolgimento del lattante nello scambio comunicativo, identificandosi empaticamente con i suoi stati d'animo e le sue "motivazioni", e offrendogli modalità comunicative adattate a una sensibilità percettiva multimodale. Al riguardo, Trevarthen descrive nei dettagli come il comportamento espressivo della madre si manifesti tipicamente attraverso 8
LO STUDIO DEL!:INTERSOGGETTIVITA NEL!: AMBITO DELL'INFANT RESEARCH
caratteristiche dinamiche individuabili contemporaneamente dalla maggior parte delle modalità sensoriali: il ritmo fondamentale del movimento che si ripete, le brevi esplosioni espressive, la ripetizione di gruppi di movimenti ritmici, le forme d'espressione esagerata, la modulazione dell'intensità dell'espressione in un range da moderata a debole. (1993a, p. 160)
Le emozioni regolatrici del contatto mentale Le variazioni ritmiche e prosodiche costituiscono canali privilegiati di trasmissione delle emozioni, ed è proprio il passaggio di espressioni emotive dalla madre allattante e dal lattante alla madre che instaura e regola quello che Trevarthen definisce "uno stretto contatto ;nentale" tra i partner. Trevarthen evidenzia la valenza essenzialmente intersoggettiva delle emozioni, sottolineando che ogni emozione espressa da uno dei due partner influisce direttamente e immediatamente sulle emozioni e le motivazioni dell'altro: "Le emozioni risuonano tra i soggetti, accoppiando i loro motivi e le loro coscienze e animandoli reciprocamente" (1993b, p. 113). Utilizzando l'analogia con ciò che accade tra due musicisti che improvvisano un unico brano armonizzandolo in modo coerente e piacevole, l'autore spiega come "le emozioni che generano le espressioni nei cervelli separati della madre e del bambino possano giungere a unirsi in una confluenza di affetti che sviluppa un'organizzazione autonoma" (1993b, p. 134), e come un'evidenza empirica di tale confluenza sia !'"agganciarsi" reciproco di movimenti e vocalizzazioni che hanno la stessa frequenza. Al contrario, i disturbi emotivi di uno dei due partner quali, per esempio, la depressione materna, possono indebolire o bloccare la possibilità di successo dell'esperienza intersoggettiva, con possibili conseguenze negative sullo sviluppo cerebrale e la crescita psicologica del bambino (Trevarthen, Aitken, 2001). Anche l'assenza di un regolare sviluppo dell'intersoggettività nelle sue fasi fondamentali può rappresentare un serio ostacolo a uno sviluppo psicologico sano.
Le /asi di sviluppo dell'intersoggettività Trevarthen concettualizza uno sviluppo dell'intersoggettività infantile dalla sua forma primitiva, innata, attraverso diverse fasi - o livelli di complessità diversa- che si susseguono fino al secondo anno di vita. Determinanti delle transizioni tra una fase e l'altra sono essenzial~ente le principali riorganizzazioni del sistema nervoso del bambino 9
PROSPETIIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E I PRIMI SVILUPPI DELI:INTERSOGGETIIVITÀ
e i relativi cambiamenti nel suo rapporto col mondo, sebbene anche il sostegno degli adulti e il modo in cui si sviluppano le.reJ!.l~io.ni__l!_dultobambino possano giocare un ruolo fondamentale. Considerando i tre poli su cui convergono le emozioni e le motivazioni intrinseche di ogni soggetto: il sé, le altre persone e gli oggetti del mondo fisico, il modello teorico di Trevarthen (Trevarthen, Aitken, 2001) evidenzia come diverse coordinazioni di motivi rivolti al sé, all'altro e all'oggetto generano diversi domini di vita soggettiva e intersoggettiva. In particolare, relativamente allo sviluppo dell'intersoggettività, la prima fase, definita come "intersoggettività primaria" (Trevarthen, 1979), si riferisce alla coordinazione tra sé e l'altro attraverso il "rispecchiamento empatico" o accoppiamento di espressioni comunicative in base alla forma e alle caratteristiche temporali delle stesse. Include essenzialmente l'imitazione neonatale e le protoconversazioni faccia-afaccia che si sviluppano dal secondo mese di vita. Verso i 4 mesi, alle protoconversazioni tendono a subentrare giochi interpersonali basati sullo sviluppo di aspettative reciproche in cui il lattante manifesta un significativo progresso nella coordinazione delle azioni intersoggettive. Il lattante sviluppa anche un nuovo interesse per gli oggetti ma, non riuscendo ancora a coordinare l'interesse per l'oggetto con l'interesse per l'altra persona, la coordinazione con l'altro è alternata alla concentrazione sull'oggetto. Successivamente, verso i 7-8 mesi, l'altra persona inizia a essere inclusa nel gioco con gli oggetti (Trevarthen, 2005); inoltre, nel coinvolgimento intersoggettivo del bambino compaiono nuovi comportamenti, quali l'attrarre e il mantenere l' attenzione dell'altro su di sé con piccole esibizioni di gesti appresi (per esempio, battere le mani) e, verso i 9 mesi, il condividere l'attenzione con l'altro (ossia dirigere l'attenzione sull'oggetto di attenzione dell'altro). Un passaggio critico nello sviluppo dell'intersoggettività avviene attorno ai 9-10 mes1 quando il bambino inizia a integrare le motivazioni ad agire sugli qggetti e a comunicare con le persone in una nuova forma di intersoggettività "cooperativa" (Trevarthen, 2005; Trevarthen, Aitken, 2001), riferita cioè alla coordinazione tra sé, l'altro e l'oggetto attraverso lo scambio di gesti comunicativi e l'imitazione dei modi di usare gli oggetti. Questa nuova forma di intersoggettività, definita anche come "intersoggettività secondaria" (Trevarthen, Hubley, 1978), continua il suo sviluppo nel secondo anno di vita, quando la consapevolezza della condivisione di intenzioni rispetto a particolari oggetti si arricchisce progressivamente della consapevolezza della condivisione di significati, che è alla base dell'apprendimento culturale. 10
LO STUDIO DELL:INTERSOGGETTIVITA NEL!.: AMBITO DELL:INFANT RESEARCH
1.2 !:esperienza dell'imitazione all'origine
dell'intersoggettività: Andrew Meltzoff Secondo Meltzoff (2004), i neonati possiedono una predisposizione innata a percepire corrispondenze cross-modali tra le azioni che vedono prodotte dai loro partner e le azioni che loro stessi possono prs>durre e sentire propriocettivamente. Quest'ipotesi è alla base di un modello teorico che l'autore ha sviluppato per spiegare la capacità di imitazione facciale neonatale (vedi anche paragrafo 3.5) messa in luce dai suoi famosi esperimenti e, peraltro, confermata da diversi altri studi. Sostanzialmente, l'imitazione attuata dal neonato è concettualizzata come un processo attivo di" progressivo "accoppiamento" (matching) all'azione dell'altro, reso possibile da un dispositivo neurale che permette al piccolo di porre in corrispondenza - in una rappresentazione sovramodale- ciò che sente propriocettivamente con la propria faccia e ciò che vede, o ha visto, nella faccia dell'altro (Meltzoff, Decety, 2003; Meltzoff, Moore, 1997). Secondo Meltzoff (Meltzoff, Moore, 1998), proprio questo processo- cioè non l'imitazione in quanto tale, ma l'esperienza che il neonato vive nell'imitazione- ha implicazioni profonde per lo sviluppo dell'esperienza intersoggettiva, perché fornisce al neonato un primo senso di connessione tra sé e l'altro; inoltre, è anche funzionale alla differenziazione dell'ampia classe degli "altri" in specifici individui.
I dati empirici sull'imitazione neonata/e Gli esperimenti di Meltzoff e Moore (1977, 1989) hanno mostrato che neonati di pochi giorni e persino di poche ore- il più giovane aveva 42 minuti di vita! -sono in grado di imitare diversi movimenti facci!lli, quali la protrusione della lingua, l'apertura della bocca, la protrusione delle labbra, che un adulto in posizione faccia-a-faccia ripete più volte dopo aver ottenuto la loro attenzione. Dai risultati gli autori concludono che la capacità di imitazione facciale è, almeno apparentemente, innata, e che l'imitazione neonatale è ben lontana dall'essere un semplice riflesso. Infatti, nella loro situazione sperimentale, nella bocca del neonato veniva inizialmente messo un succhiotto, così che non potesse imitare durante la presentazione dello stimolo; solo quando l'adulto finiva la sua dimostrazione e assumeva una faccia neutra, al piccolo veniva tolto il succhiotto. Nei 2 minuti e mezzo successivi, il neonato produceva spontaneamente una serie di risposte 11
PROSPETTIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELI:INTERSOGGETTIVITA
imitative che si avvicinavano progressivamente all'azione mostrata dall'adulto, mentre guardava la faccia neutra di quest'ultimo. In un altro esperimento condotto con lattanti di 6 settimane (Meltzoff, Moore, 1994) l'imitazione veniva prodotta persino a un giorno di distanza dalla presentazione dello stimolo, quando il lattante veniva di nuovo posto di fronte all'adulto, che manteneva però un'espressione neutra. n fatto che i lattanti scegliessero di produrre un'azione facciale che avevano in memoria, piuttosto che nel proprio campo percettivo, è sottolineato dagli autori come evidenza della natura volitiva degli atti imitativi dei piccoli. L'evidenza empirica più forte portata da Meltzoff e. Moore a testimonianza dell'intenzionalità dell'imitazione dei lattanti riguarda però i risultati di uno studio (Meltzoff, Moore, 1997) in cui a soggetti di 6 settimane veniva mostrata l'azione insolita di protendere la lingua lateralmente. La microanalisi dei comportamenti dei piccoli ha mostrato che i loro primi tentativi di imitazione venivano progressivamente corretti fino a raggiungere un accoppiamento più fedele alla particolare azione d eli' adulto. Inoltre, che alcuni lattanti protendevano la lingua e al tempo stesso voltavano la testa lateralmente, creando una nuova versione della lingua laterale. Questo "errore creativo" segnala, secondo gli autori, che "sebbene i movimenti fossero diversi, l'azione dei lattanti era mirata a un obiettivo (cioè a una configurazione finale) simile a quello dell'azione dell'adulto". In tal senso, gli errori creativi, come la progressiva correzione dell'azione imitativa, suggeriscono che "la risposta imitativa non è prefissata e semplicemente rilasciata, ma costruita attivamente dallattante"(Meltzoff, Moore, 1999, p. 20).
Il modello della "mappa tura intermodale attiva" Il modello teorico che Meltzoff e Moore (1997) hanno costruito per spiegare il meccanismo sottostante l'imitazione facciale da parte dei neonati e dei lattanti parte dall'ipotesi che anche l'imitazione prodotta dai neonati sia un "processo di accoppiamento a un target" (cioè a un obiettivo comportamentale rappresentato da una particolare azione facciale del partner). In base all'azione facciale dell'altro, percepita visivamente, il neonato/lattante produce movimenti imitativi che gli forniscono un feedback propriocettivo. Questo feedback gli permette di confrontare le proprie azioni con quella del partner, specificata visivamente, perché - secondo questo modello - sia le azioni percepite che quelle prodotte dal lattante sono codificate entro uno stesso for12
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mato di rappresentazione sovramodale. Il confronto consente al piccolo di correggere i propri errori di imitazione, in un progressivo "accoppiamento" all'azione dell'altro. Secondo questo modello, la percezione di corrispondenze crossmodali permetterebbe al neonato di connettere stimoli sociali (azioni ed espressioni degli altri esseri umani) e stati interni (di attivazione e "consapevolezza" propriocettiva) fin dall'inizio della sua vita.
Il significato intersoggettivo dell'imitazione Nel processo di "accoppiamento" imitativo, in cui il lattante "mappa" attivamente ciò che vede nella faccia dell'altro su ciò che sente nella propria faccia, l'altro diviene accessibile al sé attraverso la percezione di corrispondenze cross-modali. Quest'esperienza crea un senso di connessione tra sé e l'altro; in tal senso, secondo Meltzoff (1990), è collocabile alle origini dell'intersoggettività. In particolare, Meltzoff sostiene che il meccanismo di rappresentazione sovramodale ipotizzato nel suo modello ha implicazioni profonde per la fondazione dell'esperienza intersoggettiva, perché significa che i lattanti possiedono un codice per interpretare che l'altro è "come me" fìn dalla prima fase del loro sviluppo. Sé e altro possono essere connessi perché le azioni del loro corpo possono essere confrontate in termini commensurabili: "Io posso agire come l'altro, e l'altro può agire come me". Un primo esempio di intersoggettività può consistere nello "stato d'essere" che il neonato sperimenta mentre imita intenzionalmente. (Meltzoff, Moore, 1998, p. 58)
Questo "stato", secondo Meltzoff, comprenderebbe un primo senso di sé (la consapevolezza propriocettiva di sé e il tono affettivo provato nello sforzo dell'imitazione), dell'altro (la sensazione/comprensione delle azioni dell'altro attraverso le proprie), e della relazione (la sensazione di essere in connessione con l'altra persona). Tuttavia, secondo Meltzoff e Moore (1998), il ruolo dell'imitazione come fondamento dell'intersoggettività non si esaurisce nell'essere esperienza di connessione con un "altro" indifferenziato. Una seconda funzione dell'imitazione osservata nei lattanti sarebbe quella di differenziare l'ampia classe degli "altri" in specifici individui, poiché, secondo gli autori, i risultati di alcuni loro esperimenti suggeriscono che l'imitazione è utilizzata dai piccoli anche per verificare l'identità degli individui. Considerando che l'intersoggettività richiede non solo co13
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m unione, ma anche differenziazione di sé e dell'altro, cioè una relazione con l'altro considerato come specifico individuo, l'imitazione viene interpretata come funzionale al suo sviluppo anche in questo secondo senso. Nello specifico, Meltzoff e Moore (1992) hanno posto lattanti di 6 settimane nella situazione in cui due persone diverse arrivavano di fronte al bambino, interagivano brevemente, e poi se ne andavano: la madre compariva e proponeva un "gioco" (per esempio, l'apertura della bocca) allattante; poi se ne andava, e al suo posto arrivava un estraneo che proponeva un gioco diverso (per esempio, la protrusione della lingua). Quando i lattanti seguivano visivamente tutti questi cambiamenti, cioè l'arrivo e l'allontanamento di ciascuno dei due partner, riuscivano a cambiare gioco secondo il partner, imitando l'apertura della bocca con uno e la protrusione della lingua con l'altro. Quando invece non seguivano tutti i movimenti, di fronte al secondo adulto esitavano perplessi, scrutando la nuova persona, e poi riproponevano l'azione del partner precedente. Secondo Meltzoff e Moore, l'uso dell'imitazione differita potrebbe essere interpretato come una sorta di "test comportamentale" adottato dal lattante per verificare se il nuovo partner fosse la persona precedente o una diversa. In tal senso, i risultati metterebbero in luce che, oltre all'informazione spaziotemporale, i lattanti usano le modalità d'interazione (specifiche azioni del corpo ed espressioni) con cui le persone si propongono, cioè proprietà funzionali che possono essere stimolate attraverso l'interazione, come marcatori di identità dei diversi partner.
Lo sviluppo dell'intersoggettività Secondo Meltzoff, se il primo "incontro con l'altro" è garantito da una predisposizione innata del neonato, si trasforma e si arricchisce però molto presto attraverso l'interazione interpersonale. E ancora i giochi di imitazione reciproca, che si sviluppano nel contesto naturale dell'interazione genitore-lattante, contribuiscono in modo determinante allo sviluppo dell'intersoggettività (Meltzoff, Moore, 1998). Il gioco di imitazione è un'esperienza bidirezionale attraverso cui illattante può esplorare le relazioni tra sé e l'altro in un'atmosfera di "connessione" che ha un forte significato motivazionale: entrambi i partner gioiscono di questi momenti, e i genitori spendono ore e ore con i loro bambini in questo tipo di giochi. In particolare, l'esperienza di essere imitato pare particolarmente apprezzata dal lattante, che già a 6 settimane di vita tende a incrementare le azioni imitate dall'adulto. 14
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Questo è stato mostrato da uno studio sperimentale (Meltzoff, 1990) in cui lattanti e bambini tra le 6 settimane e i 14 mesi erano posti di fronte a due adulti. Il primo adulto aveva il compito di imitare le azioni del lattante osservato, trasmesse da uno di due monitor collocati dietro il piccolo; il secondo adulto, le azioni del lattante precedente, ritrasmesse dal secondo monitor. Tutti i piccoli, anche i giovanissimi, hanno guardato più a lungo e sorriso maggiormente all'adulto che li stava imitando. Lo stesso studio, analizzando soggetti di così diverse età, ha anche evidenziato come l"' altro", da entità con cui condividere azioni, diventi presto per il bambino una persona con cui condividere obiettivi e intenzioni. A partire dai 9 mesi d'età, nelle risposte dei piccoli all'essere imitati è stato infatti osservato un nuovo comportamento: mentre fissavano l'adulto che li stava imitando, i bambini modulavano le loro azioni con movimenti improvvisi e inattesi, come se volessero verificare se l'adulto avrebbe continuato a imitarli. Questo comportamento, secondo Meltzoff, mette in luce l'intenzione dei piccoli di verificare l'intenzionalità dell'imitazione dell'altro, la loro comprensione del fat~he nel gioco dell'imitazione "le singole azioni non contano, perché l'invaria· ; del gioco è l"accoppiamento' delle azioni"; in altre parol~ che "il gioco dell'imitazionl oltre la superficie dei comportamenti, è un gioco di atti intenzionali" Meltzotf, Moore, 1998, pp. 61-62).
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1.3 Co-regolazione e processi di cambiamento nella relazione madre-lattante: Alan Fogel Fogel ha raramente usato il termine "intersoggettività". In un suo scritto sul sé relazionale prelinguistico ha persino preso le distanze dall'uso di questo termine in quanto, a suo avviso, evocatore di "una nozione reificata di separatezza individuale" (Fogel, 1995, p. 117), lontana dall'idea- invece basilare per la sua prospettiva teorica- che le persone esistono e si sviluppano solo in relazione agli altri e ai loro ambienti. Tuttavia, le -sue ricerche empiriche e la sua teoria sullo sviluppo delle relazioni interpersonali rappresentano un importante contributo proprio allo studio dei primi processi di comunicazione imerpersonale e dello sviluppo del sé dalle prime esperienze di intersoggettività.
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I; esperienza intersoggettiva come processo dinamico co-regolato
Fin dall'inizio della sua attività di ricerca, negli anni Settanta, Fogel concentra il suo interesse sulla dinamica del processo di comunicazione intcrpersonale, a partire dalle prime forme di comunicazione che il lattante è in grado di vivere nel contesto dell'interazione con la madre. L'utilizzo di disegni microgenetici di ricerca (Lavelli, Pantoja, Hsu, Messinger, Fogel, 2005)1 gli permette di mettere a fuoco che fin dai primi mesi di vita, nel contesto della comunicazione madre-lattante, sono presenti due aspetti che Fogel evidenzia come elementi-chiave della dinamica di sviluppo della relazione. Il primo riguarda l'adattamento continuo al comportamento dell'altro non solo da parte della madre, ma anche da parte del lattante. Si tratta di un adattamento fatto di aggiustamenti posturali, modulazioni della direzione dello sguardo, piccole variazioni nei gesti e nelle azioni facciali e vocali che esprimono una regolazione di emozioni e azioni in relazione a quelle del partner. Il secondo aspetto riguarda la "creatività" di questo processo di "co-regolazione" (Fogel, 1993a, 1993b), cioè il fatto che la co-regolazione delle espressioni emozionali e dei comportamenti tende a creare emozioni condivise e sequenze di azioni condivise che possono facilmente ripetersi~ stabilizzarsi come pattern di comunicazione nell'ambito della diade. · In particolare, Fogel documenta che il processo di co-regolazione madre-lattante è osservabile già verso la fine del secondo mese di vita, quando la transizione dal controllo endogeno al controllo esogeno (vedi capitolo 4) e l'acquisizione di un senso di coerenza del sé (Fogel, 2001), cioè di un primitivo senso del sé come entità differenziata dalle altre persone, dischiudono allattante la possibilità di esperienza intersoggettiva. L'esempio seguente, riportato da Fogel, illustra il processo di co-regolazione delle emozioni e delle azioni tra una bambina di soli 2 mesi e una settimana, e sua madre. Susan è sdraiata in posizione supina sul pavimento e guarda la madre. La madre le parla in tono pacato, melodico, mentre scuote delicatamente un sonal. I disegni microgenetici, funzionali a un'analisi dettagliata dei processi di cambiamento che hanno luogo nell'interazione, sono definiti dalle seguenti caratteristiche: (l) gli individui, e le relazioni tra individui, sono osservati nel loro cambiamento; (2) le osservazioni sono condotte prima, durante e dopo (piuttosto che soltanto prima e dopo) un periodo di rapido cambiamen· to in un dominio dello sviluppo; (3) la frequenza delle osservazioni è particolarmente elevata, le osservazioni sono cioè condotte a intervalli di tempo considerevolmente più brevi dell'intervallo temporale in cui il cambiamento ha solitamente luogo; (4) i comportamenti osservati sono analizzati sia quantitativamente che qualitativamente, con l'obiettivo di far luce sui processi associati al cambiamento.
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glia sopra di lei. [ ... ] Susan allunga la mano sinistra verso il sonaglio e con la destra si tocca il torace. Guarda la madre e accenna un sorriso. La madre si china per awicinarsi di più a Susan e, sorridendo, le dice: "Mi stai dando un sorriso?". Susan sorride apertamente e allunga un braccio verso la madre, guardandola con un senso di soddisfazione. La madre le fa un solletico affettuoso sul torace e, alzando l'intonazione della sua voce, commenta: "Brava bambina, brava bambina". (Fogel, de Koeyer, Bellagamba, Beli, 2002, pp. 196-197)
La narrazione mostra la reciprocità della "regolazione" e l'espressione, in crescendo, di un senso di connessione affettiva tra la madre e la piccola. L'esperienza di connessione affettiva appare visualizzata, oltre che dalla reciprocità e dal rispecchiamento delle azioni facciali, vocali e gestuali dei partner, anche dal loro progressivo avvicinamento fisico.
La madre come amplificatore dell'esperienza del lattante L'esempio precedente illustra chiaramente anche il ruolo fondamentale della madre, che Fogel (Fogel et al., 2002) individua nell'amplificazione delle emozioni e dell'esperienza vissuta dal lattante: quando Susan guarda la madre con un accenno di espressione positiva, quest'ultima amplifica l'emozione della piccola facendosi più vicina a lei e riflettendone e incoraggiandone l'accenno di sorriso; Susan risponde con un sorriso aperto e l'estensione di un braccio che riduce ulteriormente la distanza fisica dalla madre; quest'emozione di piacere nell'esperienza di connessione affettiva e anche l'espressione fisica di vicinanza alla madre vengono amplificate dalla madre attraverso la modulazione dell'intonazione vocale e il solletico affettuoso sul torace della piccola. Il ruolo di rispecchiamento e amplificazione delle espressioni positive del lattante giocato dalle espressioni materne è anche stato recentemente documentato dai risultati di un'analisi sequenziale delle espressioni del lattante e della madre durante la comunicazione facciaa-faccia nei primi mesi di vita (Lavelli, Fogel, 2005). In particolare, è stato mostrato che nel secondo e nel terzo mese di vita i sorrisi e i movimenti labiali di vocalizzazione del lattante sono legati sequenzialmente ai sorrisi della madre e al suo parlare affettuoso al bambino. I legami sequenziali vanno in entrambe le direzioni, così che i primi accenni di sorriso e di tentativi di vocalizzazione del lattante - a loro volta stimolati dalla presenza di espressioni di affetto positivo della madre- vengono amplificati dai sorrisi e dal linguaggio materno in sequenze circolari di feedback positivo tra le espressioni dei dueinterlocutori. 17
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Co-regolazione e "/raming"
L'approccio teorico di Fogel si fonda in buona parte sull'applicazione dei principi della teoria dei sistemi dinamici allo studio dei primi processi di sviluppo umano (Fogel, Thclen, 1987; van Geert, 1994). Nell'ambito di questo /ramework concettuale, la comunicazione madre-lattante è concettualizzata come un processo dinamico di "co-regolazione" che può generare stabilità oppure cambiamento. Fogel sottolinea che la presenza di un continuo adattamento reciproco da parte della madre e del lattante è indipendente dal fatto che nell'interazione siano in gioco emozioni positive o negative (Fogel, 1993b); in altre parole, che la co-regolazione dei comportamenti è osservabile durante le "protoconversazioni" che generano emozioni positive condivise, così come nelle situazioni di conflitto o disaccordo (si pensi, per esempio, agli aggiustamenti reciproci continui quando il lattante, pur coinvolto nella comunicazione faccia-a-faccia con la madre, è tenuto in braccio in una posizione che gli è sgradita). Un concetto-chiave della teoria di Fogel (1993a, 1995; Fogel, Lyra, 1997) è che il processo di co-regolazione diadica crea pattern di azione condivisa che regolano l'interazione e la vicinanza emotiva dei partnt:t., Questi pattern tendono a ricorrere nell'interazione di ogni diade madre-lattante, a divenire cioè relativamente stabili e, in quanto tali, contesti in cui le azioni acquistano un "significato" che è condiviso dai partner. In tal senso, Fogel denomina tali pattern come /rames, cioè cornici di significato dell'esperienza intersoggettiva. 1/rames sono definiti dalla direzione dell'attenzione di ciascuno dei due partner, dal luogo in cui avviene l'interazione e dalla distanza vs. contatto fisico fra i partner, dall'orientamento posturale reciproco, e dal tema dell'attività congiunta (Fogel, 1993a; Kendon, 1985). Esempi di/rames comunemente messi in atto dalla madre e dal lattante durante la comunicazione faccia-a-faccia sono il richiamo dell'attenzione del lattante, il conforto di quest'ultimo, le "protoconversazioni" faccia-a-faccia, il gioco del solletico, quello del "cucù" e altri pattern di gioco condiviso creati nell'ambito dell'esperienza intersoggettiva di ogni singola diade madre-lattante. "Co-regolazione" e/raming sono "processi complementari. Il primo rappresenta l'aspetto dinamico e creativo della comunicazione, che genera novità e significato. Il secondo la stabilizzazione di routine co-regolate" (Fogel, 1995, p. 120). Dopo che un/rame si è stabilizzato, può essere elaborato dai partecipanti in modi diversi. Per esempio, nel gioco del cucù, il bambino che ha sempre assi18
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stito al nascondimento e alla ricomparsa improvvisa della faccia della madre può assumere il ruolo attivo di chi nasconde e fa riapparire; la faccia può essere coperta con un panno piuttosto che con le proprie mani; il tempo delle fasi del gioco può essere variato.
Qualità dell'esperienza intersoggettiva e sviluppo della relazione madre-lattante Secondo Fogel (1995), la qualità dell'esperienza intersoggettiva che si sviluppa tra il lattante e la madre è in buona parte rivelata dalla tipologia e dalla capacità dinamica dei /ram es che regolano la comunicazione dia dica. In particolare, la flessibilità dei /ram es ad adattarsi a nuove situazioni, così come la flessibilità del sistema comunicativo madrelattante a spostarsi da un frame all'altro nel corso di un'interazione, è indicativa della qualità dell'esperienza intersoggettiva perché favorisce processi di cambiamento e, quindi, opportunità di sviluppo della relazione madre-lattante. Al contrario, la rigidità deiframes e la scarsa capacità di variare i/rames di comunicazione o, in altre parole, di creare possibilità di sviluppo di nuovi/rames, limitano le opportunità di crescita della relazione e del lattante stesso nell'ambito della relazione. I concetti di flessibilità e rigidità dei/rames possono essere chiaramente compresi nell'ambito della spiegazione dei processi di cambiamento e di stabilizzazione (o stagnazione, nella sua forma deteriore) offerta dalla prospettiva dei sistemi dinamici. Secondo il modello qualitativo dell'informazione sviluppato nell'ambito di questa prospettiva, i microcambiamenti costantemente presenti nei pattern di comunicazione (/rames) creano le condizioni per l'emergenza di nuovi patj:ern. Nello specifico, la transizione a un nuovo /rame ha luogo quando viene generata nuova informazione; cioè, quando la differenza ge!lerata da un microcambiamento nel comportamento di un partner è percepita come significativa, o come "differenza che fa la differenza" (Oyama, 1985), dall'altro partner. Per esempio, se nel contesto del/rame "comunicazione faccia-a-faccia" il lattante distoglie il suo sguardo dalla faccia della madre, rivolgendolo verso un giocattolo, e la madre percepisce questo microcambiamento come un momentaneo distoglimento dell'attenzione, ella può allora provare a riottenere l'attenzione del piccolo usando quelle azioni familiari che hanno precedentemente avuto successo a tal fine, contribuendo al mantenimento del medesimo /rame. Se, invece, la madre percepisce il piccolo cambiamento nello sguardo del lattante come indice di un nuovo interesse (cioè, co19
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me differenza significativa), ella può allora seguire lo sguardo del piccolo per identificare con certezza il nuovo oggetto di attenzione, prendere il giocattolo, e mostrarne le proprietà allattante. In tal modo, questi significativi microcambiamenti danno origine a un nuovo pattern di comunicazione diadica identificato come "gioco guidato con gli oggetti" (Fogel, Garvey, Hsu, West-Stroming, 2006), un/rame che, estendendo l'attenzione dei partner verso nuovi foci di interesse da condividere, contribuisce allo sviluppo della relazione madre-lattante.
Intersoggettività e sviluppo del sé Attraverso le sue ricerche, Fogel dimostra come la qualità dell'esperienza intersoggettiva nel contesto delle prime forme di comunicazione con la madre (o altri adulti significativi) sia fondamentale non solo per lo sviluppo della relazione madre-lattante, ma anche per lo sviluppo del senso di sé che emerge dalla relazione interpersonale. A 2 mesi, la comparsa di un primo senso di sé come sé relazionale (Fogel, 1995) è favorita essenzialmente dal rispecchiamento delle emozioni del lattante da parte della madre, rispecchiamento che - come abbiamo visto - contribuisce in modo determinante a creare un senso di connessione affettiva tra i partner. A 9 mesi, invece, l'esperienza di intersoggettività si caratterizza come senso di differenziazione dall'altro, indispensabile allo sviluppo del sé, e, al tempo stesso, come scoperta di somiglianza con l'altro e possibilità di condividere esperienze soggettive. Questo è ben illustrato nell'esempio seguente di comunicazione tra Susan, all'età di 9 mesi e l settimana, e sua madre, che Fogel riporta come esemplificazione di/rame che crea innovazione e, perciò, opportunità di sviluppo del sé e della relazione interpersonale. Susan è seduta nel seggiolone, di fronte alla madre. Non appena la madre inizia a battere le sue mani sul piano del seggiolone (ripetendo un'azione che la bambina stessa aveva compiuto nelle settimane precedenti), Susan si gira a guardare le mani della madre. La madre le dice: "Fai vedere alla mamma come sai battere!". Susan guarda dritta gli occhi della madre. Quest'ultima ripete la stessa frase in una modalità ritmica, come se stesse battendo. Susan inizia allora a battere sul piano del seggiolone con un accenno di sorriso. La madre esclama: "Sìì!! Che brava bambina!" e inizia a sorridere e a battere anche lei. Susan inizia ad alternare il suo sguardo tra la sua mano che batte e la mano della madre che batte. Inizia poi a colpire il piano sempre più vigorosamente mentre fissa intensamente la propria mano che batte. Di nuovo, alterna lo sguardo tra la mano della madre che batte e la propria mano che batte. Quindi, afferra la mano della madre e la guarda avvicinandola a sé: ne fìs20
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sa il palmo, la gira, la mette a palmo in giù sul piano e la rigira a palmo in su. Poi la lascia cadere. Distende e alza entrambe le braccia, e le batte con forza sul piano esclamando: "Ah!". La madre sorride mentre ripete con tono sommesso l'" Ah" della bambina. Susan riposa le sue manine e la sua testa sul lato della sedia. (Fogel et al., 2002, p. 198)
La narrazione mostra come Susan riesca a prendere le distanze dalla propria esperienza diretta confrontando la sua esperienza con quella della madre. Alternando lo sguardo tra la sua mano che batte e la mano della madre che compie la stessa azione sembra notare che la sua esperienza soggettiva e quella della madre sono simili ma, al tempo stesso, differenziate. Fogel sottolinea come da questo la piccola possa apprendere di essere diversa da ciò che è l'altro, ma anche simile, e di poter condividere esperienze.
1.4 Mutua regolazione ed espansione diadica degli stati di coscienza: Edward Tronick Secondo Tronick, l'esperienza intersoggettiva infantile coincide essenzialmente con stati di connessione affettiva che il lattante è in grado di sperimentare durante la comunicazione faccia-a-faccia con la madre (o altro adulto significativo) fin dal terzo mese di vita, grazie alle elaborate competenze comunicative di cui dispone. Nello specifico, l'intersoggettività si sviluppa come mutua regolazione degli stati affettivi dei partner coinvolti in un processo di comunicazione; mutua regelazione che, secondo Tronick ( 1998, 2005), può generare- o, al contrario, fallire nel generare- "stati diadici di coscienza" che contribuiscono a espandere a livelli di maggiore complessità l'organizzazione degli stati mentali del lattante. In tal senso, buona parte del lavoro di Tronick si concentra sull'importanza fondamentale dell'esperienza intersoggettiva e sugli effetti drammatici del fallimento dell'intersoggettività sullo sviluppo mentale del bambino.
l requisiti dell'intersoggettività nella comunicazione /accia-a-/accia madre-lattante Fin dall'inizio degli anni Ottanta, Tronick si pone la questione dei requisiti necessari perché la comunicazione faccia-a-faccia che si sviluppa tra l'adulto e il lattante fin dai primi mesi di vita si possa considerare esperienza di intersoggettività. L'autore evidenzia che, data l' as21
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senza di linguaggio e di contenuti di discorso, i messaggi scambiati nell'ambito della comunicazione tra il lattante e l'adulto sono essenzialmente regolatori, cioè si riferiscono primariamente allo stato dell'interazione in corso. In tal senso, perché la comunicazione sia effettivamente esperienza di intersoggettività- o, in altre parole, un processo regolato congiuntamente -, oltre al requisito del possesso di un sistema espressivo ben organizzato da parte del lattante, è necessario che entrambi i partner condividano il significato dei comportamenti espressivi manifestati, che condividano una sintassi che governa i loro scambi di messaggi e, infine, condividano l'intenzione di coinvolgersi nello scambio reciproco. (Tronick, Als, Brazelton, 1980, p. 262)
Per esaminare la presenza di queste competenze comunicative, Tronick si è concentrato sullo studio microanalitico della comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante. La procedura utilizzata prevede la combinazione delle molteplici modalità espressive di ciascuno dei due partner in un numero limitato di stati (dalla Protesta e dall'Evitamento al coinvolgimento attivo nel Gioco) e, quindi, la caratterizzazione dello scambio diadico secondo le tipologie di stati congiunti espressi dalla madre e dal lattante in ogni secondo dell'interazione- stati che possono coincidere (Match), essere relativamente vicini (Conjoint) o, al contrario, lontani (Disjoint)- (Tronick et al., 1980). I risultati hanno mostrato che entro i 3 mesi il lattante è in possesso di modalità espressive ben organizzate in unità comportamentali che, veicolando chiare richieste di interruzione, cambiamento o continuazione dell'attività in corso, sono utilizzate dal piccolo per regolare lo stato dell'interazione. Inoltre, che le transizioni tra diversi tipi di stati congiunti riflettono un elevato grado di organizzazione e coordinazione tra la madre e il lattante: il passaggio tra stati opposti (Match e Disjoint) avviene regolarmente attraverso uno stato intermedio (Conjoint), cioè quasi mai in modo diretto; nessuno dei due partner si muove casualmente tra diversi stati, piuttosto, i cambiamenti nelle espressioni e nei comportamenti dell'uno sono facilmente prevedibili dall'altro; infine,.nelle transizioni di riparazione (Adjust) da uno stato di mancata coordinazione (Disjoint) a uno stato di sintonia (Match) entrambi i partner tendono a cambiare comportamento simultaneamente, testimoniando la condivisione non solo del significato dei comportamenti e di una "sintassi" che guida lo scambio comunicativo, ma anche dell'intenzione di coinvolgersi con l'obiettivo di raggiungere stati di sintonia.
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Un'ulteriore conferma di quest'ultimo dato è fornita dal fatto che, quando questo obiettivo condiviso è perturbato sperimentalmente, come nel caso del paradigma della Still-Face (Tronick, Als, Adamson, Wise, Brazelton, 1978; vedi capitolo 5, Metodi e strumenti 3), il lattante tenta ripetutamente di ristabilire l'obiettivo condiviso.
Intersoggettività come mutua regolazione Secondo Tronick, il processo intersoggettivo osservabile nell'ambito della comunicazione faccia-a-faccia tra il lattante e l'adulto a partire, a suo avviso, dal terzo mese di vita è concettualizzabile come processo di mutua regolazione degli stati affettivi (Gianino, Tronick, 1988; Tronick, 1998; Tronick, Weinberg, 1997). Nello specifico, il concetto di "mutua regolazione" considera lattante e caregiver come parte di un sistema di comunicazione affettiva in cui le reazioni emotive e l' esperienza affettiva del lattante sono determinate dall'espressione affettiva del caregiver e dalla comprensione implicita di tale espressione da parte del lattante, e viceversa, l'esperienza emotiva e il comportamento del caregiver sono determinati dalla comunicazione affettiva del lattante. Per illustrare questo processo regolatorio diadico, Tronick riporta la seguente sequenza interattiva di mancata coordinazione e conseguente riparazione: Un lattante di 6 mesi e sua madre stanno giocando e la madre si china per strofinare la sua faccia contro quella del piccolo. Il lattante afferra i capelli della madre e quando lei cerca di liberarsi dalla presa non la lascia andare. Per il dolore, la madre risponde con un'espressione facciale e una vocalizzazione di rabbia. Il lattante immediatamente si arresta, si fa serio e porta la mano alla faccia, in un movimento difensivo. La madre si ritrae, attende un attimo e poi, lentamente, si rivolge di nuovo allattante. Quest'ultimo scopre allora la faccia e riprende lo scambio con la madre. (Tronick, 1998, p. 293) La sequenza mostra come il lattante comprenda l'espressione negativa della madre reagendo in modo appropriato al significato implicito dell'espressione, e come sappia comunicare alla madre la sua valutazione dello stato dell'interazione come stato di minaccia attraverso una configurazione espressiva di gesto, pastura, sguardo, espressione facciale (Weinberg, Tronick, 1994) che ben esprime una reazione di difesa. La madre, a sua volta, risponde alla comunicazione affettiva del lattante modificando il proprio comportamento per riparare l' errore interattivo, e il piccolo sostiene l'azione materna riprendendo a
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t'KU,t't !TI VE TEORICHE SULLE ORIGINI E I PRIMI SVILUPPI DELI:INTERSOGGETTIVITA
guardare la madre, così che entrambi riescono a raggiungere l'obiettivo condiviso di un nuovo stato di connessione o, usando un' espressione di Tronick più recente, di un nuovo "stato diadico di coscienza".
Il modello degli "stati diadici di coscienza" Secondo Tronick (1998, 2003a, 2005), il processo di mutua regolazione e il raggiungimento di stati di connessione affettiva che si realizzano nell'ambito della comunicazione madre-lattante rivestono un'importanza fondamentale nello sviluppo del bambino, perché possiedono il potenziale per espandere ciò che egli chiama "stati di coscienza" del soggetto a un livello di maggiore complessità. Questa concettualizzazione è ben illustrata nel modello degli "stati diadici di coscienza" che Tronick (2005) ha recentemente proposto facendo esplicito riferimento alle teorie dei sistemi complessi, a Bruner, sulla costruzione di significato, e ad altri autori (tra cui Freeman, Brazelton, Hofer, Trevarthen, Fogel), e al suo lavoro con Sander (vedi paragrafo 1.5) e il Gruppo di Boston sul Processo di Cambiamento nell'azione terapeutica. 2 Il modello assume che gli esseri umani, come sistemi psicobiologici aperti e complessi, devono incorporare energia (informazioni significative) dall'ambiente per mantenere e incrementare il loro livello di organizzazione e complessità, in altre parole, per ridurre la loro entropia. Al vertice della gerarchia dei sottosistemi psicobiologici che esprimono l'organizzazione degli esseri umani vi sono gli "stati di coscienza", il cui contenuto coincide con il senso implicito o esplicito del mondo che un individuo può possedere in base alla sua età e alla sua relazione col mondo. Per esempio, gli stati di coscienza dei neonati e dei lattanti sono integrazioni psicobiologiche di affetti, azioni ed esperienza (comunque dipendente dai livelli di sviluppo fisiologico e neurologico dei piccoli). In particolare, lo stato di coscienza di un neonato in stato di veglia vigile potrebbe essere qualcosa come "ci sono co2. Il gruppo di ricercatori e psicoterapeuti denominato "Process of Change Study Group", di cui fanno parte anche Stern, Sander, Lyons-Ruth, condividendo il riferimento al modello sistemico di Sander, ritiene che lo studio dei processi di mutua regolazione che si realizzano nel sistema di comunicazione madre-bambino fin dai primi mesi di vita possa far luce anche sui processi di regolazione affettiva che si sviluppano a un livello implicito, di comunicazione non verbale, nella relazione terapeuta-paziente e sulle dinamiche che, in particolare, possono provocare un cambiamento terapeutico. Per maggiori informazioni sugli assunti e il lavoro Jd Gruppo si consigliano Stern, Sander, Nahum, Harrison, Lyons-Ruth, Morgan, Bruschweiler-Stern, Tronick, 1998, e il numero monografico della rivista Infant Menta! Health Journal, vol. 19(3 ), 1998, curato da Tronick.
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se da guardare", cioè un'integrazione dei ritmi circadiani degli stati di sonno e di veglia, del processo cerebrale di elaborazione dell'input visivo e dell'attività percettiva di esplorazione visiva del mondo, che permette di incorporare informazioni significative. Tuttavia, la possibilità di mantenere questo stato in base alle capacità di auto-organizzazione del neonato è particolarmente limitata (data, per esempio, l'assenza di controllo motorio) e tende facilmente a "slittare" in uno stato di tensione da affaticamento o di pianto. In tal senso, Tronick (2005) afferma che, sebbene gli stati di coscienza siano "negli individui" e gli individui possiedano capacità di auto-organi~zazione che permettono loro di creare significato, queste capacità sono limitate rispetto a quelle che emergono da processi regolati diadicamente. Negli esseri umani, allora, diversamente da quanto avviene negli altri sistemi biologici, gli stati di coscienza sono creati da un sistema regolatorio diadico che permette di creare significato sia negli individui che tra gli individui. Quando la regolazione ha successo conduce all'emergenza di stati di signifìq1to prodotti mutualmente, in altre parole, di stati diadici di coscienza. [. .. ] Come conseguenza, la coerenza e la complessità del senso del mondo di ogni individuo si accresce, avviene cioè un'espansione diadica degli stati di coscienza. (Tronick, 2005, p. 294)
Nel caso di un lattante in interazione con la madre, il lattante, come ogni sistema capace di auto-organizzazione, in base alle informazioni che incorpora - input percettivi, output motori, intenzioni d'azione, informazioni di ritorno rispetto ai suoi obiettivi - è in grado di organizzarsi uno stato affettivo coerente e di manifestare questo stato attraverso una configurazione espressiva che include azioni facciali, vocali, sguardo e movimenti del corpo. I limiti del suo sviluppo neurologico (per esempio, velocità di elaborazione delle informazioni, capacità di controllo motorio ecc.) pongono un vincolo alla complessità dello stato che il lattante può generare a livello endogeno. Tuttavia, questa complessità può essere espansa da input regolatori di sostegno affettivo forniti dalla madre che, leggendo l'espressione affettiva del lattante, adatta il proprio comportamento cercando di facilitare il raggiungimento .dell'obiettivo del piccolo. Come, per esempio, nel caso in cui avvicina in posizione raggiungibile dal lattante un oggetto che quest'ultimo tentava di afferrare senza riuscirei, manifestandorabbiaecomportamenti autoconsolatori; oppure, nello stesso ca~, fqrnisce i;in supporto alla pastura del piccolo, così che questi possa_ allungare liberaine.nte le brac-
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eia per afferrare l'oggetto e coinvolgersi in un'azione più complessa di quanto sarebbe stato in grado di compiere da solo. Il nuovo stato diadico che si viene a creare non appena il lattante afferra l'oggetto e sorride alla madre espande lo stato di coscienza di entrambi i partner, poiché ciascuno di essi incorpora elementi dello stato dell'altro (Tronick, 1998). Nel caso citato, l'espansione coincide con la trasformazione del fallimento del lattante in successo, trasformazione che è al tempo stesso cambiamento di segno delle sue emozioni e arricchimento, sia della possibilità di esplorare l'oggetto d'interesse sia, soprattutto, di un nuovo stato di connessione affettiva con la madre. Quando, invece, gli individui falliscono ripetutamente, in modo cronico, nel creare stati di coscienza diadici, si crea dissipazione, perdita di coerenza e complessità dei loro stati di coscienza, con gravi conseguenze sul loro sviluppo psicologico. Intersoggettività e salute mentale del lattante
Attraverso numerosi studi fondati sul paradigma della Stili-Pace (in cui la madre, durante la comunicazione faccia-a-faccia con il lattante, assume improvvisamente un volto privo di espressione mantenendo lo sguardo rivolto al bambino; vedi capitolo 5, Metodi e strumenti 3), Tronick ha mostrato come l'interruzione sperimentale di uno "stato diadico di coscienza" provochi effetti drammatici sul comportamento del lattante. Quest'ultimo, infatti, già a soli 3 mesi, dopo alcuni tentativi di ricoinvolgere la madre, inizia a manifestare una perdita di controllo posturale, il distoglimento dello sguardo con un'espressione facciale di tristezza e una serie di comportamenti regolatori autodiretti quali il portare le mani alla bocca e il concentrarsi su parti del proprio corpo, nel tentativo di mantenere coerenza e complessità, di evitare, cioè, la dissipazione del suo stato di coscienza (Tronick, 2005). Queste manifestazioni tendono a persistere per alcuni minuti anche quando la madre riprende a comportarsi nel modo usuale, testimoniando come l'interruzione di uno stato intersoggettivo positivo possa essere in qualche modo rappresentata nella mente del piccolo e produrre un effetto che tende a perdurare nel tempo. Tronick ha quindi cercato di approfondire che cosa accade quando l'esperienza di intersoggettività, con la creazione di stati diadici di coscienza, è negata o distorta cronicamente, come nel caso dell'interazione di un lattante con una madre depressa (Tronick, Weinberg, 1997; Weinberg, Tronick, 1998). A questo riguardo, ciò che l'autore sottoli-
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nea è che, se la prospettiva della mutua regolazione mette in luce come la depressione materna impedisca la creazione di un sistema di comunicazione affettiva diadica e la normale esperienza di riparazione emotiva che ha luogo tra la madre e il lattante, l'ipotesi degli stati diadici di coscienza suggerisce invece, più che un'assenza, un'elaborazione distorta e contrassegnata da affetti negativi, di tali stati. In quest'ottica, la tendenza degli esseri umani a espandere la complessità della propria organizzazione mentale fa sì che anche il lattante con una madre depressa incorpori elementi degli stati mentali della madre - in questo caso, elementi essenzialmente negativi quali tristezza, ostilità, ritiro, indifferenza - che gli permettono però di instaurare stati diadici di coscienza con la propria madre e il suo stato di depressione; in altre parole, di vivere con quest'ultima un'esperienza di intersoggettività fondata su un nucleo affettivo negativo. E ciò, non senza pesanti conseguenze sullo sviluppo mentale del piccolo, perché quando il lattante di una madre depressa inizia a instaurare relazioni con altre persone, il solo modo che conosce per espandere la complessità e la coerenza dei propri stati mentali è quello di costruire stati diadici di coscienza attorno a quelle caratteristiche depressive che aveva inizialmente elaborato nell'esperienza di intersoggettività con la madre. (Tronick, 1998, p. 297) In sintesi, allora, Tronick sottolinea come il processo di mutua regolazione e la generazione di stati diadici di coscienza nell'ambito dell'interazione madre-lattante sia determinante per lo sviluppo emotivo, sociale e rappresentazionale di quest'ultimo. Quando la regolazione affettiva delle interazioni funziona, lo sviluppo procede velocemente; quando, invece, si verificano fallimenti lo sviluppo tende a deragliare e la complessità dell'organizzazione mentale del bambino appare limitata o persino ridotta (nel senso di possibili regressioni), con la possibilità che fallimenti continui conducano a forme patologiche di disordini affettivi. (Ibidem, p. 297)
1.5 Il modello dell'equilibrio tra autoregolazioo.~
e regolazione interattiva: Beatrice Beebe Beebe è specificamente interessata allo studio delle forme "implicite" (Beebe, Knoblauch, Rustin, Sorter, 2005) di intersoggettività che si sviluppano nell'interazione faccia-a-faccia madre-lattante nel primo se-
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mestre di vita, sia come ricercatrice nell'ambito dell'infant research, per esplorare "l'origine diadica e dialogica della mente" (Beebe, Knoblauch et al., 2005), sia come clinica. In questo secondo senso, partendo dalla considerazione dell'esistenza di molteplici forme di intersoggettività, ritiene che lo studio delle forme "implicite" di intersoggettività, che si sviluppano attraverso la dimensione non verbale della comunicazione a un livello di conoscenza procedurale-affettiva, al di fuori del livello di consapevolezza, integrato allo studio più diffuso delle forme "esplicite" /verbali di intersoggettività, può aiutare a comprendere più profondamente il processo d'interazione in psicoanalisi. Nell'ambito della teoria sviluppata da Beebe, l'intersoggettività è concettualizzata come processo dinamico che emerge dall'integrazione tra regolazione interattiva e autoregolazione durante l'interazione tra due soggetti (quali, per esempio, la madre e il lattante). In quest'ottica, l'autoregolazione diviene parte integrante dell'esperienza di incontro con l'altro perché, secondo l'autrice, il processo di mutua regolazione che ha luogo nell'interazione diadica è inscindibile dal processo di regolazione dei propri stati interni (livello di attivazione e affetti) da parte di ciascuno dei partner. Il modello teorico che Beebe pone a fondamento della sua concettualizzazione è il modello sistemico sviluppato da Sander (1975, 1977, 1987) per spiegare la dinamica del reciproco adattamento che si realizza nell'interazione madre-lattante fin dal periodo neonatale. I; interazione madre-lattante nel modello sistemico di San der
Alla base del modello di Sander- considerato a pieno titolo il genitore dell'infant research -si individuano i suoi studi pionieristici condotti fin dagli anni Cinquanta-Sessanta (in particolare, lo studio longitudinale di osservazione naturalistica dell'interazione madre-bambino dalla nascita al trentaseiesimo mese di vita), la teoria dei sistemi che si stava allora diffondendo, e la sua innovativa capacità di integrare conoscenze sviluppate in ambiti molto diversi tra loro, quali la psicoanalisi e la biologia. La prospettiva sistemica, sottolineando come lo sviluppo individuale sia legato a uno scambio continuo tra individuo e contesto di riferimento, permette a Sander di porre l'accento sull'impossibilità di separare i processi interni agli individui (quali, per esempio, i processi di autoregolazione e auto-organizzazione) e i processi interattivi, e sulla necessità, piuttosto, di evidenziarne la loro co-costruzione.
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LO STUDIO DELL'INTERSOGGETTIVITÀ NELL'AMBITO DELL'INFANT RESEARCH
Dalla cellula in su, gli organismi viventi hanno sistemi attivi di autoregolazione e, nel contempo, sono in continuo scambio intimo con fattori di supporto essenziali derivanti dal contesto. In questa concezione è implicita una polarità: non si può porre attenzione a un elemento a scapito dell'altro. (Sander, 1975, p. 107)
Secondo Sander, la soluzione di questa polarità è individuabile nell'adattamento reciproco che viene costantemente negoziato tra le componenti auto-organizzate (per esempio, tra la madre e il bambino), coerentemente con le condizioni di esistenza di ciascuno. Nel caso dell'interazione madre-lattante nel corso del primo anno di vita, i rapidi cambiamenti nello sviluppo del lattante comportano anche un rapido ampliamento delle sue capacità di autoregolazione che, peraltro, accrescono la consapevolezza della sua esperienza interiore e organizzano il suo senso di "agentività". La frequente comparsa di nuovi comportamenti e nuove capacità di autoregolazione del lattante provoca altrettante perturbazioni nelle strategie di autoregolazione e regolazione del processo interattivo messe in atto dalla madre e precedentemente coordinate con il lattante, così da rendere necessario un continuo adattamento reciproco per raggiungere nuovi livelli di connessione tra i partner. Il modello di Sander mette comunque bene in evidenza che, se da un lato, le variazioni nel processo di autoregolazione di ciascuno dei partner influenzano il processo interattivo, dall'altro, il processo di autoregolazione del lattante può organi~zare il suo senso di sé come agente solo nella misura in cui la regolazione interattiva favorisce questa esperienza. In altre parole, solo se il sistema di interazione madre-lattante e, complessivamente, il sistema di accudimento del bambino rende possibile al bambino esercitare I'agency (cioè essere agente attivo, protagonista) nella propria regolazione degli stati. [ ... ] La misura in cui un bambino può essere agente della propria autoregolazione differenzia fin dall'inizio un sistema bambino-caregiver. (Sander, 1987, p. 177)
In tal senso, in un sistema madre-lattante che sa essere "competente" "l'autoregolazione diventa un'abilità interpersonale attiva" (Sander, 1987, p. 178). Quest'idea è spiegata da Sander attraverso il concetto di "spazio aperto" (1977, 1987, 1997), che esprime una sorta di "disimpegno" .. tra la madre e il lattante di durata abbastanza lunga da permettere al piccolo di agire in base a motivazioni che emergono endogenamente
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-in altre parole, di agire da protagonista la propria esperienza interna -, pur mantenendo, sullo sfondo, un senso di connessione con la madre. Secondo Sander (1997), i segmenti di "spazio aperto" sono individuabili nei periodi di veglia del lattante già verso la fine del primo mese di vita, come, per esempio, quando la madre mette il piccolo nel suo seggiolino dopo averlo allattato e aver interagito con lui, e si mantiene vicina al bambino pur dedicandosi a un'altra attività; il piccolo può allora dedicarsi ad afferrarsi le dita, osservare la madre, o esplorare gli stimoli che gli sono vicini, in una situazione che a Sander richiama quella descritta da Winnicott (1965) relativamente all"'esperienza di essere soli in presenza di una persona" come base della capacità di stare da soli. Questo concetto rappresenta quindi un'integrazione tra la tendenza all'intersoggettività e la tendenza alla differenziazione (all' auto-organizzazione) che alimentano il sistema formato dal lattante e dal suo caregiver (Sander, 1997).
Regolazione interattiva e autoregolazione nel modello sistemico dell'interazione madre-lattante Raccogliendo l'invito di Sander (1985) a considerare !"'organizzazione" del bambino e dell'adulto non tanto come una proprietà del.l'individuo quanto, piuttosto, "come una proprietà sistemica costruita reciprocamente dal bambino e da chi si prende cura di lui" (Beebe, Lachmann, 2002, p. 30), Beebe fonda la sua spiegazione della dinamica intersoggettiva su un modello sistemico derivato da Sander e coerente con i concetti di "co-regolazione" di Fogel (1993a, 1993b, vedi paragrafo 1.3) e "mutua regolazione" di Tronick (1998, vedi paragrafo 1.4). Il modello (Beebe, Jaffe, Lachmann, 1992; Beebe, Lachmann, 2002) ~appresenta l'interazione madre-lattante come sistema diadicq nel quale i processi di autoregolazione e regolazione interattiv~·si influenzano reciprocamente, enfatizzando ciò che Beebe e Lachmann (1998) hanno chiamato "co-costruzione di processi interni e relazionali". Il processo di regolazione interattiva è concettualizzato come processo bidirezionale nel quale il comportamento di ogni persona è contingente, o influenzato da quello del partner, cioè "può essere statisticamente previsto dal comportamento del partner" (Beebe, Knoblauch et al., 2005, p. 10), sebbene ciò non implichi un rapporto di tipo causale. Beebe preferisce utilizzare il termine "bidirezionale", piuttosto che "mutuo", per evitare qualsiasi richiamo alla positività della mutualità, considerando che la regolazione diadica occorre in ugual 30
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misura sia in interazioni aversive che in interazioni positive. Il processo di autoregolazione è concettualizzato come capacità- propria di ogni sistema vivente- di auto-organizzarsi controllando il livello di attivazione e l'espressività emozionale. Il distoglimento dello sguardo, l'inibizione dell'espressività facciale, il succhiarsi la manina o il toccarsi parti del corpo sono esempi di strategie autoregolatorie che il lattante è in grado di mettere in atto per abbassare il proprio livello. di attivazione fin dai primi mesi di vita. Le capacità e le modalità attraverso le quali ciascuno dei due partner si autoregola influenzano costantemente il modo in cui procede la regolazione interattiva, ma ne sono anche costantemente influenzate. Per esplicitare questo processo, Beebe.. (Beebe, Lachmann, 2002) segnala l'esempio di come un lattante facilmen~e irritabile oppure difficilmente stimolabile possa condizionare la regolazione interattiva in cui è coinvolto; ma anche, viceversa, l'esempio di come partner diversi possano stimolare in uno stesso lattante modalità di autoregolazione diverse e, quindi, generare con lo stesso bambino tipi di interazione completamente diversi. A questo riguardo, riporta l'analisi del filmato di Elliott, un lattante di sole 5 settimane in interazione con tre partner diverse (la madre, una dottoranda di ricerca, e lei stessa) in successione. Con la madre che, con volto inespressivo, si limitava a dondolare rapidamente il piccolo, Elliott mostrava agitazione e assenza di contatto visivo; con la dottoranda che, diversamente dalla madre, ·sorrideva vivacemente cercando di coinvolgere il lattante senza però riuscire a sintonizzarsi con la sua espressione corrucciata, il piccolo, dopo un breve momento di contatto visivo, ha iniziato a piangere; infine, con Beebe, che aveva iniziato a riprodurre vocalmente lo S!esso ritmo del pianto del lattante e poi, gradualmente, aveva rallentato il ritmo e abbassato la voce, Elliott si è progressivamente calmato (in sintonia con questo rallentamento) e ha iniziato a guardare attentamente il volto della partner, mostrando capacità di autoregolazione e coordinazione con l'interlocutore a poco più di un mese di vita.
La percezione della contingenza interpersonale all'origine dell' intersoggettività L'esempio citato illustra come la percezione della contingenza interpersonale, ossia dell'influenza del proprio stato/comportamento su quello del partner da parte del lattante, in congiunzione con uh partner adulto capace di contingenza a un livello ottimale, stimola nel 31
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piccolo un effetto reciproco. A questo riguardo Beebe, riferendosi alla letteratura che ha mostrato la capacità del lattante di individuare conseguenze prevedibili delle proprie azioni fin dal periodo neonatale (DeCasper, Carstens, 1981; Gergely, Watson, 1999), sostiene che proprio la percezione della contingenza Ìnterpersonale gioca un ruolo fondamentale tra i processi all'origine dell'intersoggettività, non meno importante della percezione di corrispondenze cross-modali tra le proprie azioni e quelle del partner (Beebe, Rustin, Sorter, Knoblauch, 2005). In tal senso, la percezione di contingenze è considerata alla base dello sviluppo dell'aspettativa che le proprie azioni possono influenzare quelle del partner, ossia dell'esperienza di agentività, così come di una prima forma di conoscenza relazionale implicita costituita dai pattern di azione procedurale vissuti nell'interazione con l'adulto, indipendentemente dalla qualità dell'interazione (Beebe, Rustin et al., 2005).
Forme funzionali e disturbate di intersoggettività nel primo semestre di vita Utilizzando una definizione neutra di "intersoggettività" come "ciò che accade tra due menti" (Beebe, Rustin et al., 2005), cioè una definizione che va oltre l'accezione di "mutualità" connotata positivamente, Beebe include nell'esperienza di intersoggettività tutte le forme di regolazione interattiva che possono aver luogo tra la madre/adulto e il lattante fin dai primi mesi di vita, comprese le diverse forme di "accoppiamento" di stati affettivi negativi, e le forme di interazione conflittuale e disturbata. N eli' esplicitare la varietà rilevata già nelle prime esperienze di intersoggettività, l'autrice mostra come le forme di coordinazione funzionali osservabili nell'interazione madre-lattante includano sia forme di "similitudine", sia forme di "compensazione", ossia di complementarità dei comportamenti. Per esempio, quando la coordinazione ritmica vocale tra la madre e il lattante (Jaffe, Beebe, Feldstein, Crown, Jasnow, 2001) è di segno positivo, quando uno dei due partner incrementa la durata di una pausa nell'alternanza dei turni, anche l'altro l'incrementa. Quando invece è di segno negativo, quando un partner fa più serrato il grado di coordinazione, l'altro lo allenta, e viceversa, in una sorta di "bilanciamento" omeostatico che permette il mantenimento di un più costante livello di attivazione nell'interazione. Inoltre, mostra come }"'accoppiamento" di espressioni affettive da parte 32
LO STUDIO DELL'INTERSOGGETTIVITA NELL'AMBITO DELI:INFANT RESEARCH
della madre e del lattante si verifichi per stati di affetto non solo prevalentemente positivo, ma anche negativo, come nel caso delle interazioni tra diadi in cui le madri sono depresse, o delle interazioni caratterizzate dal pattern che Beebe (2000) identifica come "escalation di iperattivazione reciproca". In quest'ultimo caso di interazione disturbata, non appena il lattante manifesta distress attraverso azioni facciali o vocali o del corpo, la madre- invece di cercare di calmarlo- ne incrementa il livello di attivazione e stimolazione, così che lo stato di distress cresce a spirale per entrambi finché il piccolo "esplode" in episodi di disorganizzazione, con possibilità di vomito (a 4 mesi) e urla (a 12 mesi). Tuttavia, Beebe sottolinea come !"'accoppiamento" di stati negativi del lattante da parte della madre possa anche essere funzionale alla regolazione dello sconforto del lattante, come quando la madre si sincronizza sul ritmo (ma non sul volume!) del pianto del piccolo e, attraverso questa sincronizzazione, riesce poi gradualmente a rallentarlo e calmarlo, come nell'interazione citata tra Beebe ed Elliott. Nel caso, invece, del fallimento del riconoscimento dello stato affettivo del lattante da parte della madre, Beebe sostiene che non si tratta di fallimento dell'intersoggettività, perché quest'esperienza implica, più che la sola dimensione di mutuo riconoscimento, un processo dinamico di continuo adattamento tra i partner, fatto di tentativi di sintonizzazione andati a segno e mancati, e di riparazione degli errori dell'interazione. Con ciò, condivide l'idea di Tronick (1989, 2003b) che la "riparazione interattiva" contribuisce in misura determinante all'organizzazione e allo sviluppo dell'esperienza intersoggettiva. Infine, anche nel caso in cui il fallimento del riconoscimento dello stato affettivo del lattante non viene trasformato in tentativo di riparazione quanto, piuttosto, stabilizzato in un pattern di disturbo dell'autoregolazione del lattante da parte della madre, Beebe evidenzia la pre~~nza di regolazione bidirezionale che, in quanto tale, caratterizza lo s~ambio intersoggettivo, sebbene si tratti di una forma di intersoggettività disturbata. Ne è un tipico esempio il pattern "caccia e fuga", descritto inizialmente da Beebe e Stern (1977), in cui più la madre si avvicina allattante, più il lattante si ritrae, in una sequenza nella quale i movimenti della testa e della parte superiore del corpo della madre verso il lattante predicono i movimenti di allontanamento della testa e dello sguardo da parte del lattante e, reciprocamente, imovimenti di allontanamento del lattante predicono i movimenti di avvicinamento della madre. (Beebe, Rustin et al., 2005, p. 73)
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PROSPETTIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'JNTERSOGGETTIVITÀ
Questo pattern, piuttosto comune tra le diadi con lattanti prematuri e in alcune dia di con madri depresse o in cui l'attaccamento del bambino sarà successivamente classificato come insicuro, tende a disturbare l'utilizzo del distoglimento dello sguardo come forma di autoregolazione del livello di attivazione, perché la madre avvia un'escalation di attivazione non appena il lattante inizia a regolarla. Altri esempi di intersoggettività disturbata sono stati trovati da Beebe nelle interazioni in cui la madre interferisce sistematicamente con le azioni di autoregolazione del lattante (per esempio, togliendo dalla bocca del piccolo la manina che ha appena iniziato a succhiare), oppure nel caso estremo di interazioni in cui il lattante manifesta un grado di distress particolarmente elevato e la madre si comporta come se il piccolo stesse bene, negando lo stato di disagio acuto del bambino. Sulla base dei suoi studi empirici, Beebe ipotizza che a quest'ultimo esempio di "intersoggettività disgiuntiva" osservato a 4 mesi durante l'interazione madre-lattante, possa essere associato lo sviluppo di una forma di attaccamento disorganizzato, rilevabile a 12 mesi attraverso la procedura della Strange Situation (Beebe, Rustin et al., 2005).
Intersoggettività e attaccamento La questione della relazione tra la qualità dell'esperienza intersoggettiva vissuta dal lattante fin dai primi mesi di vita e lo sviluppo dell' attaccamento è stata affrontata da Beebe in collaborazione con Jaffe e colleghi. In particolare, in uno studio (Jaffe et al., 2001) in cui hanno esaminato la coordinazione ritmica vocale nel contesto dell'interazione faccia-a-faccia madre-lattante ed estranea-lattante con bambini di 4 mesi, i ricercatori hanno trovato che non è tanto la presenza di coordinazione bidirezionale a indicare un'esperienza intersoggettiva ben funzionante, ma il grado di coordinazione dei partner, definito come la possibilità di predire il comportamento di un partner dal comportamento dell'altro. Più specificamente, un grado medio di coordinazione ritmica vocale tra la madre e il lattante, così come tra l'estranea e il lattante, è risultato indicativo della qualità dell'interazione e predittivo di un attaccamento sicuro rilevato poi a 12 mesi attraverso la Strange Situation (ss). Al contrario, un elevato grado di coordinazione, ossia un eccessivo monitoraggio del comportamento del partner che non lascia spazio all'incertezza, all'iniziativa personale e alla flessibilità nell'esperienza di contingenza con l'altro, osservato sia nell'interazione madre-lattante che nell'interazione estranea-lattante, è risultato pre34
LO STUDIO DELL'INTERSOGGETTIVITA NELL'AMBITO DELL'INFANT RESEARCH
dittivo di un attaccamento di tipo insicuro-ambivalente; mentre osservato solo nell'interazione madre-lattante, predittivo di un attaccamento disorganizzato. Infine, un basso grado di coordinazione del lattante con l'estranea, indicativo di un ritiro su di sé con massiccio ricorso a forme di autoregolazione da parte del lattante, a spese della capacità di contingenza diadica, è risultato predire un attaccamento di tipo insicuro-evitante. Questi risultati suggeriscono che un elevato grado di coordinazione nell'interazione potrebbe essere considerato un segnale di eccessiva intrusività materna che limita lo sviluppo della capacità di autoregolazione da parte del lattante, e proprio questa limitazione permetterebbe di spiegare la particolare difficoltà a regolare le proprie emozioni negative mostrata tipicamente dai bambini con attaccamento insicuro-ambivalente al ricongiungimento con la madre dopo la separazione da quest'ultima, prevista dalla procedura della ss. Per contro, un basso grado di coordinazione nell'interazione potrebbe essere ~onsiderato indice di scarsa disponibilità emotiva e responsività da p@rte della madre a cui il lattante reagisce con comportamenti di autor~olazione in dosi massicce, quegli stessi comportamenti mostrati tipicamente dai bambini con attaccamento insicuro-evitante al ricongiungimento con la madre dopo la separazione nell'ambito della ss.
La qualità dell'intersoggettività nell'equilibrio tra autoregolazione e regolazione interattiva Sulla base di questi risultati e del modello sistemico dell'interazione madre-lattante, Beebe concettualizza un "modello di equilibrio tra ~ljtoregolazione e regolazione interattiva" (Beebe, Lachmann, 2002, pp. 97-98; Beebe, Rustin et al., 2005, pp. 85-88) ipotizzando che la qpalità dell'intersoggettività risiede nell'equilibrio tra autoregolazione e regolazione interattiva, ossia in un grado medio di regolazione inte_iattiva, così come di autoregolazione, che consente flessibilità di movimento tra i due processi. Questa flessibilità dovrebbe facilitare errori di coordinazione e conseguenti processi di riparazione e favorire il raggiungimento di livelli relativamente ottimali di attenzione, affetti e attivazione del lattante durante l'interazione. Al contrario, un eccessivo monito raggio da parte della madre a spese dell'autoregolazione del lattante e, viceversa, un'eccessiva preoccupazione per l' autoregolazione da parte del lattante (osservata nei piccoli con madri depresse) a scapito della sua sensibilità interattiva, rappresenterebbero i poli opposti dello squilibrio. 35
PROSPETIIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E I PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETIIVITA
1.6 La sintonizzazione degli affetti: Daniel Stern Secondo Stern, l'intersoggettività è un bisogno e, al tempo stesso, una condizione umana fondamentale. La nostra mente, "per sua natura, è costantemente in cerca di altre persone con cui entrare in risonanza e condividere esperienze" (Stern, 2004, p. 63 ). Il nostro cervello e la nostra mente sono organizzati in modo tale che, fin dal primo anno di vita, possiamo percepire le intenzioni degli altri vedendone le azioni dirette a uno scopo, pur senza conoscerne lo scopo, e possiamo "sentire" gli stati affettivi degli altri leggendone le costellazioni di comportamenti. Fin dal periodo neonatale, cresciamo entro una "matrice intersoggettiva" e sviluppiamo una forma primitiva di intersoggettività che Stern (2005) definisce "nucleare", sebbene creda che l'esperienza d'interazione con l'altro non possa essere considerata esperienza di intersoggettività in senso stretto prima dei 7-9 mesi, cioè prima di quando il bambino inizia a rendersi conto che ogni persona possiede stati interni, o stati mentali, potenzialmente condivisibili con gli altri. Gli stati interni che più interessano Stern sono quelli affettivi. Proprio in tal senso, il suo contributo più originale allo studio dei primi sviluppi dell'intersoggettività è espresso nel concetto di "sintonizzazione degli affetti", relativo al modo in cui madre e bambino, n d secondo semestre di vita, riescono a leggere reciprocamente e a condividere i loro stati affettivi.
Lo sviluppo della vita mentale dalla ({matrice intersoggettiva" Stern ha recentemente introdotto il concetto di "matrice intersoggettiva" (2004) per indicare come ogni persona, fin dai primi mesi di vita, cresca circondata dalle intenzioni, dagli stati affettivi, dai desideri e dai pensieri degli altri che interagiscono costantemente con i propri, in un dialogo incessante (reale o virtuale) da cui si sviluppa la vita mentale soggettiva. A conferma dell'esistenza di tale "matrice", l'autore riporta evidenze empiriche scoperte sia nell'ambito delle ricerche neurobiologiche che in quello delle ricerche evolutive. In particolare, nell'ambito delle neuroscienze, si riferisce alla scoperta dei "neuroni specchio", indicati come possibili meccanismi neurobiologici alla base delle più precoci forme di intersoggettività (Gallese, 2005; Rizzolatti et al., 2001; vedi paragrafo 1.1). Il fatto che i neuroni specchio si attivino quando un soggetto osserva un'altra persona che compie un'azione, e che produ36
LO STUDIO DELL'INTERSOGGETTIVITA NELL'AMBITO DELL'INFANT RESEARCH
cano nell'osservatore un pattern di attivazione identico a quello che egli stesso avrebbe avuto se avesse compiuto l'azione, permette di partecipare direttamente alle azioni di un altro senza doverle imitare, di sperimentart: l'altro come se stessimo eseguendo la stessa azione o provando la stessa emozione. Questa "partecipazione" alla vita mentale di un altro crea un senso di condivisione e di comprensione degli altri, in particolare, delle loro intenzioni e dei loro sentimenti. (Stern, 2005, p. 127) Un ulteriore correlato neurale della "matrice intersoggettiva" è offerto, secondo Stern (2004), dalla scoperta degli "oscillatori adattivi" (Varela, Lachaux, Rodriguez, Martinerie, 2001), cioè di quei meccanismi biologici che, registrando in tempo reale le proprietà dei segnali in ingresso (per esempio, il movimento di una persona che porge un piatto) e sincronizzando il tasso di attivazione neurale con il periodo di questo input, permettono la coordinazione temporale con i movimenti, e le intenzioni, di un'altra persona. Sebbene non siano ancora disponibili ricerche sui neuroni specchio e gli oscillatori adattivi riferite ai primi mesi di vita, Stern ritiene che tali meccanismi, o meccanismi analoghi, siano già presenti a quest'età precoce, perché i risultati delle ricerche evolutive condotte da numerosi autori incluso se stesso (si riferisce, per esempio, a Braten, 1998b; Jaffe et al., 2001; Kugiumutzak.is, 1998; Gergely, Watson, 1999; Meltzoff, Moore, 1999; Stern, 1977, 1985; Trevarthen, 1979, 1993a; Tronick, 1989) concordano nel ritenere che i bambini nascano con un apparato psichico sintonizzato, in modo speciale, sulla mente e il comportamento degli altri esseri umani. Questo processo si compie principalmente attraverso la ricerca di corrispondenze intermodali nell'intensità, nella forma e nel ritmo degli stimoli e dei comportamenti. Così, fin dalla nascita, è possibile parlare di una psicologia di menti mutualmente sensibili. (Stern, 2004, p. 71) Stern evidenzia come la partecipazione del piccolo a una matrice intersoggettiva fin dal periodo neonatale sia confermata dalle diverse ricerche a cui fa riferimento, che documentano la presenza di forme primitive, precocissime, di intersoggettività. A suo avviso, la portata e la complessità della matrice intersoggettiva si estendono poi rapidamente, già nel corso del primo anno di vita, grazie allo sviluppo di nuove abilità cognitive e alla disponibilità di nuove esperienze d'interazione che permettono al bambino di vivere a pieno titolo l'esperienza in37
PROSPETfiVE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGErnVITÀ
tersoggettiva. L'intersoggettività è cioè concepita come un sistema motivazionale primario che, come il sistema di attaccamento, possiede una propria ontogenesi; pur essendo ben distinti, intersoggettività e attaccamento si sostengono a vicenda (l'intersoggettività crea le condizioni necessarie all'attaccamento, ma la vicinanza a persone significative favorisce lo sviluppo dell'intersoggettività) tanto che, secondo Stern, è difficile stabilire quale dei due sistemi emerga per primo.
Le caratteristiche dell'ambiente intersoggettivo de/lattante Tra le caratteristiche peculiari dell'ambiente intersoggettivo del lattante, Stern (1995a) sottolinea il fatto che, perlomeno nel primo semestre di vita, le persone che interagiscono affettivamente con il piccolo rappresentano per quest'ultimo il più affascinante ed eccitante tra tutti gli stimoli di cui ha esperienza, tanto che l'interazione con un partner umano provoca le più significative e rapide modificazioni nel livello di attivazione e nello stato affettivo del lattante. Queste modificazioni contribuiscono alla differenziazione del sé e alla percezione del senso di sé rispetto all'altro, che costituisce una condizione basilare dell'esperienza intersoggettiva. Un'altra peculiarità che, secondo Stern, favorisce l'apertura del lattante all'intersoggettività è la capacità, riscontrata nel lattante già a pochi mesi di vita, di percepire direttamente le intenzioni dalle costellazioni di comportamenti (cioè dai pattern organizzati di comportamenti che si manifestano attraverso diversi canali comunicativi) che governano lo scambio socioaffettivo con l'altro. In particolare, Stern sostiene che le microregolazioni di cui sono costituiti gli scambi socioaffettivi che si sviluppano tra la madre e il lattante consistono di una serie di intenzioni fondamentali, ciascuna manifestata da una specifica costellazione comportamentale. Queste, nel gioco faccia-a-faccia spontaneo, sono per esempio la disponibilità a interagire, l'invito a interagire, l'intenzione di aumentare- o diminuire- il livello di attivazione nell'interazione, il ritiro dall'interazione, la protesta attiva per modificare l'andamento dell'interazione ecc. Il lattante sarebbe dunque in grado di percepire direttamente le intenzioni sottostanti le unità di comportamento interpersonale sotto forma di "involucro protonarrativo" (Stern, 1995b), facilitato dal fatto che le unità di comportamento si manifestano sempre come modificazioni nell'attivazione, nell'affetto o nel livello di motivazione nell'interazione che si susseguono nei tempo, descrivendo un profilo temporale dell'intenzione agita che
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Stern denomina come "forma temporale delle sensazioni" (1995a) o "contorno vitale" (1999). Tale "forma temporale" sarebbe di volta in volta espressa al meglio da termini come "crescendo", "dissolvenza", "esplosione", "attenuazione" ecc., e percepita nel momento in cui viene messa in atto sia dal lattante stesso che dal partner. Infine, una terza caratteristica identificata da Stern come peculiare dell'ambiente intersoggettivo del lattante è il fatto che quest'ultimo sviluppa il suo repertorio di intenzioni e motivazioni socioaffettive sulla base delle intenzioni e delle motivazioni socioaffettive della madre (o dell'adulto di riferimento), che costituiscono elementi stabili dell' ambiente intersoggettivo del bambino e, in quanto tali, finiscono con l'essere attese dal bambino stesso. In tal senso, Stern sottolinea come le caratteristiche specifiche di chi si prende cura del piccolo assumano un ruolo fondamentale nella formazione del senso di sé, dell'altro, e delle aspettative sociali. La comparsa dell'intersoggettività {{vera e propria" tra i 7 e i 9 mesi
Nello sviluppo del senso di sé e dell'altro una tappa che Stern ritiene fondamentale per la costruzione di una relazione intersoggettiva è l'acquisizione di una "nuova prospettiva soggettiva organizzante" (1985, p. 135) da parte del bambino, ossia dell'interesse per gli stati soggettivi, o interni, dell'esperienza, e della capacità di mettersi in relazione con tali stati, oltre che con i comportamenti manifesti e le sensazioni dirette: Tale prospettiva poggia sullo sviluppo di due consapevolezze che tendono a emergere gradualmente tra i 7 e i 9 mesi, consapevolezze che, secondo Stern, costituiscono le condizioni necessarie all'esperienza di intersoggettività nel senso più completo del termine. La prima è la consapevolezza di possedere una mente- cioè degli stati soggettivi interni come, per esempio, uno stato affettivo, un'intenzione di agire, un orientamento dell'attenzione verso un oggetto piuttosto che un altro - completata dal constatare che ogni persona possiede una mente, cioè stati soggettivi separati da quelli degli altri. La seconda, la consapevolezza che le esperienze soggettive interne possono essere condivise con gli altri. In altre parole, secondo Stern non è sufficiente lo sviluppo di un senso di sé differenziato fisicamente e percettivamente dagli altri, osservabile peraltro già nei primi mesi di vita, affinché il lattante possa vivere l'esperienza di intersoggettività nel senso pieno del termine. Questo perché, nell'ottica di Stern che separa il comportamento dal39
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l'esperienza interiore, l'intersoggettività si colloca oltre la condivisione delle espressioni affettive e delle azioni - oltre, cioè, il piano dei comportamenti manifesti- per coinvolgere gli stati mentali, l'esperienza interna dei soggetti. A questo riguardo, l'autore documenta come gli stati mentali che i bambini appaiono in grado di condividere a partire, circa, dai 9 mesi d'età siano l'attenzione, le intenzioni e gli stati affettivi, ma è su questi ultimi che concentra il suo interesse e la maggior parte dei suoi studi.
La focalizzazione sull'intersoggettività come "sintonizzazione degli affetti" Secondo Stern, l"'interaffettività", o condivisione degli stati affetti-
vi, costituisce la più importante e diffusa forma di partecipazione delle esperienze soggettive che si sviluppa negli scambi comunicativi tra il bambino e la madre nel corso del primo anno di vita. I processi principali attraverso i quali si realizza lo scambio interpersonale degli affetti (Stern, 1993) sono individuati nell'evocazione dell'affetto (per esempio, quando la madre sorride al piccolo vedendo un accenno di sorriso sul suo volto), nella sua condivisione (per esempio, quando il piccolo, al sorriso della madre, risponde con un sorriso reciproco) e nella sua regolazione per mezzo del partner (per esempio, quando la madre, enfatizzando il sorriso e animandolo con una componente vocale, stimola la crescita del livello di attivazione e piacere nel bambino; oppure, al contrario, abbassando il tono della voce e moderando l'espressività facciale, ne indebolisce l'attivazione). Tuttavia, secondo Stern (1985), lo scambio affettivo non si può considerare scambio intersoggettivo nel senso proprio del termine se non è garantito dalla presenza di tre condizioni: innanzitutto, la capacità della madre di leggere lo stato affettivo del bambino nel suo comportamento manifesto; quindi, la manifestazione di un comportamento materno che non sia l'esatta riproduzione del comportamento del piccolo, ma esprima in qualche modo risonanza con il suo stato affettivo; infine, la capacità del bambino di capire che la risposta materna è connessa a ciò che egli stesso sta provando. In tal senso, Stern sottolinea che la semplice imitazione di un'azione facciale o di un gesto del bambino da parte della madre, particolarmente frequente nell'interazione nel corso del primo semestre di vita, non garantisce uno scambio intersoggettivo degli affetti, perché tende a mantenere l'attenzione sul comportamento manifesto, e la condivisione allivello dell'azione. In 40
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~q·e parole, nel caso della semplice imitazione il piccolo può comprendere che la madre è partecipe della sua azione, ma non necessariamente che è anche partecipe del suo stato d'animo. Diversamente, nel caso del comportamento che Stern (1985) identifica come "sintonizzazione degli affetti", con cui la madre non riproduce il comportamento manifesto del piccolo ma un qualche aspetto di esso (per esempio, l'intensità, il ritmo) che ne riflette lo stato d'animo, il bambino può facilmente comprendere la partecipazione materna alla sua esperienza interiore e vivere con la madre una condivisione di stati affettivi. La "sintonizzazione degli affetti" appare con una certa frequenza neli'interazione madre-bambino soprattutto dagli 8-9 mesi di vita, come se- commenta Stern -le madri intuissero che a quell'età il bambino ha sviluppato una nuova prospettiva soggettiva che gli permette di essere un potenziale partner intersoggettivo. Ciò che caratterizza la "sintonizzazione" è l'espressione transmodale della qualità dello stato affettivo percepito nel bambino da parte della madre. Stern riporta molteplici esempi. Tra questi:
Un bambino di 8 mesi e mezzo protende silenziosamente le braccia e le dita per cercare di afferrare un giocattolo che si trova appena al di fuori della sua portata. Mentre si spinge avanti al massimo anche con tutto il corpo in direzione del giocattolo, la madre esclama: "Uuuuh! Uuuuuuh!" in un crescendo di sforzo vocale e respiratorio che accompagna il crescendo dello sforzo fisico del bambino. (1985, p. 149) Nell'esempio, la madre utilizza il canale vocale per esprimere la sua sintonizzazione con l'esperienza interiore di sforzo del bambino, manifestata dalla tensione dei movimenti del suo corpo; in particolare, il profilo dell'intensità e la durata della vocalizzazione materna corrispondono al profilo in crescendo dello sforzo di movimento del bambino. Questo illustra chiaramente come la madre non si limiti a riflettere l'affetto manifestato dal piccolo (in questo caso, l'interesse in forma di sforzo), ma ne rifletta, piuttosto, il "contorno vitale", cioè il "pattern di flusso dell'affetto, relativo al cambiamento dell'intensità del- l'affetto nel tempo" (Stern, 1999, p. 71). Nella concettualizzazione di ·stern, i "contorni vitali" dell'esperienza affettiva rappresentano un elemento ideale di "sintonizzazione" intersoggettiva, perché comprendono le qualità amodali di intensità e di tempo e, in quanto tali, sono applicabili a tutte le azioni (gesti, movimenti del corpo, espressioni 41
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facciali e vocali) che hanno un caratteristico corso di intensità nel tempo - accelerazione, crescita, affievolimento, raggiungimento di un punto culminante ecc. - che dà uno specifico significato all' esperienza affettiva, agita o percepita. Tuttavia, accertare che le sintonizzazioni affettive materne siano effettivamente vissute dal bambino come esperienza di intersoggettività nella condivisione affettiva non è semplice perché, come constata lo stesso Stern, in molti casi in cui, durante l'interazione, la madre effettua sintonizzazioni affettive, il bambino si comporta come se niente fosse successo. Per affrontare questo problema, in una prima ricerca focalizzata sulla sintonizzazione affettiva Stern e colleghi (Stern, Hofer, Haft, Dore, 1984) hanno testato sperimentalmente il disturbo di specifici episodi di sintonizzazione nell'interazione madre-bambino, per esaminare le reazioni di quest'ultimo. Le madri venivano istruite a comportarsi come se il bambino fosse meno eccitato di quanto in realtà appariva, oppure, al contrario, come se fosse più eccitato: in entrambi i casi, e in tutte le ripetizioni della procedura, i bambini di 9 mesi interrompevano il gioco e rivolgevano uno sguardo interrogativo alla madre come per chiederle: "Cosa sta succedendo?", mostrando una specifica sensibilità alla condivisione degli stati affettivi.
1. 7 La condivisione di significati: Kenneth Kàye Ormai più di 20 anni fa, in reazione ai primi scritti di Trevarthen sull'intersoggettività innata e la reciprocità della comunicazione madre-lattante fin dai primi mesi di vita, Kaye ha assunto una posizione specifica sul tema dell'intersoggettività infantile, negandone la presenza - anche nelle forme più rudimentali - fino a quando, nel corso del secondo semestre di vita, il bambino inizia a sviluppare la capacità di condividere significati con l'adulto. Al riguardo, le tesi di Kaye sono essenzialmente due. La prima sostiene che non esiste comunque vera intersoggettività, né vera comunicazione, finché il bambino non diviene capace d'interagire con l'altro utilizzando simboli, cioè finché non diviene capace di assumere che il significato che un segnale comunicativo ha per lui è identico al significato che ha per l'altro. La seconda sostiene che "l'intersoggettività non si realizza alla stregua di un'acquisizione discr~ta" (Kaye, 1982, p. 139), ma solo attraverso una specifica sequenza di tappe graduali.
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Intersoggettività come condivisione di significati Kaye identifica l'intersoggettività con la condivisione di significati tra "due persone che hanno approssimativamente la stessa rappresentazione di un dato oggetto, evento, o simbolo" (1982, p. 136). Come condivisione di significati, l'intersoggettività implica quindi un accesso alle rappresentazioni dell'altro da parte del bambino, ed è definita da Kaye secondo due criteri: l'intenzionalità di chi (incluso il bambino) nel corso di un'interazione rivolge all'altro una determinata espressione o gesto comunicativo, e la convenzionalità dei segnali comunicativi usati da entrambi i partner nell'interazione. In particolare, per spiegare come le espressioni infantili nei primi mesi di vita lungi dall'essere gesti comunicativi intenzionali siano invece facilmente interpretate come tali, Kaye (1982, p. 150) distingue tre differenti significati della frase: "L'espressione X mostra che la persona A (per esempio, il bambino) prova Q": nel primo senso, "X è la manifestazione dello stato affettivo Q di A", è cioè un indice accurato dello stato interno di A; nel secondo senso, "dall'espressione X il partner (per esempio, la madre) inferisce che A prova Q", cioè interpreta X come indice di uno stato interno; nel terzo senso, "A vuole che il partner comprenda che sta provando Q", X è cioè un'espressione intenzionale. L'autore sottolinea come il terzo senso aggiunga al secondo una condizione indispensabile perché nell'interazione tra i partner ci sia intersoggettività. Tuttavia, sottolinea anche come l'espressione o il gesto intenzionale debba essere un gesto appreso o comunque visto frequentemente esprimere dal partner nell'interazione, ossia possedere il carattere di convenzionalità (anche soltanto all'interno del contesto diadico dell'interazione), perché il significato possa essere condiviso nel senso implicato dall'intersoggettività. In altre parole, sottolinea come il gesto intenzionale espresso dal bambino debba essere "simbolo" - cioè, quando usato dalla madre produrre nel piccolo il medesimo effetto che questi si attende produca nella madre quando è egli stesso a usarlo - perché si possa parlare di intersoggettività.
Le tappe di sviluppo dell'intersoggettività Il "problema" di come, e quando, i bambini piccoli arrivino a condividere significati con altre persone, che nella concettualizzazione di Kaye equivale a come arrivino a vivere l'esperienza di intersoggettività, o a essere partner a pieno titolo in uno scambio comunicativo, è oggetto di speciale interesse da parte dell'autore.
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Secondo Kaye (1982), prima dei 6 mesi di vita, l'intersoggettività esiste soltanto nella mente del genitore, che nell'interazione faccia-afaccia con il lattante interpreta la direzione dello sguardo e le espressioni del piccolo come fossero atti intenzionali, piuttosto che semplici indici di stati interni che possono essere effettivamente elicitati dalla stimolazione dell'adulto, ma non intenzionalmente rivolti a quest'ultimo. Rifiutando- come anche Genta (2000) sottolinea -l'ipotesi di una comunicazione presimbolica, Kaye sostiene che la reciprocità della comunicazione non si verifica mai nel primo semestre di vita. Tuttavia, per Kaye, il fatto che i genitori proiettino la propria soggettività dentro il comportamento del lattante interpretando le intenzioni del piccolo, completandole, e anticipando le sue risposte fa sì che nell'interazione diadica si creino routine regolari attraverso le quali il bambino imparerà gradualmente a comprendere i segnali dell'adulto e a rispondervi appropriatamente. Gli inizi del processo di apprendimento di significati sono collocati da Kaye nel secondo semestre di vita, denominato come "periodo della memoria condivisa", in cui il bambino inizia a usare espressioni e gesti comunicativi in modo più sistematico e coerente con le diverse situazioni interattive. Questo facilita l'interpretazione materna delle sue intenzioni, e l'assunzione che il piccolo ricordi la funzione o il significato dato a espressioni, oggetti, eventi in interazioni precedenti. Con la creazione dei primi significati condivisi 'nell'ambito dell'interazione diadica madre-bambino compare anche ciò che Kaye chiama "rudimenti" dell'intersoggettività e del dialogo, o "primo livello" di intersoggettività, caratterizzato dal fatto che il comportamento del bambino non soddisfa ancora in modo costante il criterio di intenzionalità e, anche quando appare intenzionale, non ci sono prove per affermare che il piccolo anticipa l'effetto del suo comportamento sull'adulto. In questo periodo, il ruolo del bambino nel sistema diadico che, secondo Kaye, si sta gradualmente formando è identificato come quello di "apprendista": il genitore, di fatto, guida il sistema e offre ancora la maggior parte delle iniziative e della memoria di cui il sistema si alimenta; il bambino, oltre a comprendere i segnali del genitore, inizia anche a produrli per imitazione; entrambi, bambino e genitore, sviluppano aspettative sui ruoli reciproci e gli scambi comunicativi che avvengono nel contesto dell'interazione. L'uso ripetuto dei gesti strumentali utilizzati dal genitore nell'imerazione, e imitati dal bambino, fa sì che tali gesti divengano convenzionali, dapprima nell'ambito dell'esperienza diadica condivisa, e in
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seguito, con l'introduzione di simboli propri della comunità linguistica da parte del genitore, nell'ambito più esteso dell'interazione con persone diverse. Soltanto quando il bambino impara a utilizzare simboli per comunicare, cioè quando "i segnali che il bambino impara a produrre sono gli stessi segnali che egli comprende quando sono prodotti da altre persone" (Kaye, 1982, p. 159), diviene- secondo l'autore - capace di intersoggettività "vera", perché l'equivalenza tra il segnale prodotto e il segnale compreso gli garantisce la possibilità di anticipare come i propri segnali comunicativi potranno essere interpretati dagli altri. In tal senso, l'intersoggettività "a pieno titolo" viene definita da Kaye come "uso reciproco di segni equivalenti" che è possibile osservare soltanto dal termine del primo anno di vita, quando inizia il periodo del "linguaggio condiviso".
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2 Un confronto tra le diverse teorie sulle prime forme di intersoggettività
Fra le teorie illustrate nel primo capitolo sono individuabili diversi punti di convergenza - o, perlomeno, elementi che accomunano alcune di esse - ma, al tempo stesso, anche posizioni radicalmente diverse nel modo di concepire le origini e lo sviluppo delle prime forme di intersoggettività presenti nell'esperienza infantile. L'obiettivo di questo capitolo è quello di offrire un confronto critico delle teorie presentate mettendo a fuoco le questioni nodali attorno alle quali convergono o più si differenziano le posizioni dei diversi autori. Le riflessioni espliciteranno anche la posizione di chi scrive, che sarà ripresa brevemente a fine capitolo per introdurre la struttura della seconda parte del libro.
2.1 Il focus sulle capacità e il vissuto del lattante vs.
sul processo diadico di mutua regolazione Un primo elemento di differenziazione- in questo caso della teoria di Meltzoff da tutte le altre presentate- è l'accento posto da Meltzoff sull'esperienza di intersoggettività come "stato d'essere" che il lattante sperimenta durante l'imitazione di un'azione del partner, cioè come capacità e vissuto individuale, piuttosto che come prodotto di un processo diadico di comunicazione che ha luogo tra il lattante e l'adulto. In particolare, Meltzoff focalizza la sua attenzione sui processi mentali del neonato/lattante in interazione faccia-a-faccia con un adulto nel momento in cui, dopo aver visto quest'ultimo ripetere uno specifico movimento facciale (quale, per esempio, l'apertura della bocca), prova spontaneamente a imitarlo, come documentano i suoi famosi
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PROSPETTIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETTIVITA
esperimenti. Al riguardo, i suoi studi lo conducono a ipotizzare una predisposizione innata a percepire corrispondenze cross-modali tra azioni viste (quelle del partner) e azioni sentite p_~gpriqç~tjivamente (quelle autoprodotte), che permette al neonato di "accoppiare" attiv~ mente le proprie azioni a quelle del partner; in altri termini, di connettere al comportamento del partner alcuni stati interni (attivazione e "consapevolezza" propriocettiva), fin dalle prime settimane di vita. "_Sentire" le azioni dell'altro attraverso le proprie consentirebbe al piccolo di sperimentare un primo senso di connessione tra sé e l'altro che è per Meltzoff alle origini dell' e~perienza intersoggettiva. Nella teoria di Meltzoffl'emergere dell'esperienza di intersoggettività è quindi essenzialmente attribuito a una predisposizione innata del neonato, e l'esperienza stessa di intersoggettività nella sua forma più primitiva al vissuto individuale che "l'altro è come me". Al contrario, in tutte le altre teorie presentate, l'emergere dell'esperienza di intersoggettività è attribuito alla disponibilità di contesti d'interazione e comunicazione affettiva, quindi anche- se non soprattutto, come nelle teorie di Stern e di Kaye - alla capacità dell'adulto di sintonizzarsi con gli stati interni del bambino e di rifletterli, così che il piccolo possa percepire un senso di compartecipazione affettiva. Nella stessa teoria dell'intersoggettività innata di Trevarthen che, come quella di Meltzoff, considera l'imitazione neonatale come il più semplice meccanismo di coordinazione intersoggettiva, la madre gioca comunque un ruolo fondamentale nel favorire lo scambio intersoggettivo di emozioni con il lattante. Al riguardo, Trevarthen spiega, per esempio, come la madre sappia adattare le proprie modalità comunicative alla sensibilità percettiva multimodale del lattante utilizzando elementi dinamici amodali (che possono cioè essere espressi e percepiti attraverso diverse modalità sensoriali) quali il ritmo, l' esagerazione delle espressioni, la modulazione dell'intensità delle espressioni. Un ulteriore elemento che differenzia l'approccio di Meltzoff dagli altri approcci considerati è il fatto che negli studi sperimentali di Meltzoff l"' altro" è rappresentato dallo sperimentatore, piuttosto che da un adulto familiare col quale il piccolo interagisce quotidianamente, e l'unità di osservazione costituita dal singolo neonato (o lattante), piuttosto che dalla diade adulto-lattante. Questo particolare fa sì che, sebbene Meltzoff offra un importante contributo allo studio dei meccanismi che stanno a fondamento dell'esperienza intersoggettiva, i suoi esperimenti non gli permettano di cogliere l'essenza diadica e la dinamica dell'intersoggettività che si esprime nel processo di influenza re48
UN CONFRONTO TRA LE DIVERSE TEORIE SULLE PRIME FORME DI INTERSOGGETTIVITA
ciproca tra i partner in interazione. In altre parole, la struttura stessa dei suoi esperimenti, focalizzata sull'effetto dei comportamenti dell'adulto/sperimentatore sul lattante, non gli permette di cogliere l'influenza che anche i comportamenti del lattante esercitano sull'adulto in un contesto naturale di interazione, cioè la natura bidirezionale dell'adattamento dei partner nello scambio comunicativo. In contrasto con tale prospettiva, gli altri approcci si focalizzano sulla diade adulto-lattante come unità di osservazione, utilizzando la tecnica microanalitica di codifica e analisi dei comportamenti del lattante e dell'adulto (vedi capitolo 4, Metodi e strumenti 2), videoregistrati durante la comunicazione faccia-a-faccia o il gioco con gli oggetti. Comunque, se gli approcci di Trevarthen, Fogel, Tronick e Beebe appaiono focalizzati sulla dinamica della comunicazione tra i partner e il processo che definiscono come "coordinazione intersoggettiva" Ò'revarthen), "co-regolazione" (Fogel), o "mutua regolazione" (Tronick e Beebe), quelli di Stern e Kaye, pur focalizzandosi sull'interazione, appaiono più "sbilanciati" sull'analisi dell'influenza che i comportamenti del lattante esercitano sull'adulto e, quindi, dei comportamenti di "sintonizzazione affettiva" (Stern), o "guida" (Kaye), dell'adulto nei confronti del piccolo. Tutte le teorie focalizzate sul processo diadico di regolazione dello scambio intersoggettivo, così come la teoria di Stern, evidenziano come le emozioni e gli stati affettivi costituiscano il principale elemento di condivisione tra il lattante e l'adulto di riferimento o, perlomeno, l'elemento in base al quale, nel corso dell'interazione, si può creare un senso di connessione o "compartecipazione" tra i partner, soprattutto nei primi mesi di vita. Tuttavia, il processo di scambio intersoggettivo è caratterizzato in modo diverso secondo i diversi autori. Per Trevarthen è essenzialmente il passaggio di emozioni dalla madre allattante e dal lattante alla madre- emozioni veicolate dalle variazioni ritmiche e prosodiche delle vocalizzazioni e dei movimenti facciali e corporei- e il "rispecchiamento empatico" delle emozioni da parte di entrambi i partner a instaurarne e regolarne il "contatto mentale". Per Fogel, invece, i continui micro-adattamenti alle espressioni emozionali e ai comportamenti dell'altro messi in atto non solo dalla madre, ma anche dal lattante fin dai primi mesi di vita, tendono a creare pattern di azione condivisa che regolano la comunicazione e la vicinanza emotiva dei partner (i cosiddetti /ram es) e divengono parte integrante della storia relazionale della diade. La flessibilità dei/rames ad adattarsi a nuove situazioni costituisce però una variabile fondamentale per la qualità 49
t'J\U~t'r.Tl!VJ:: TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETIIVITA
dell'esperienza intersoggettiva, perché favorendo i processi di cambiamento favorisce anche lo sviluppo della relazione madre-lattante. La qualità dell'esperienza intersoggettiva è oggetto di particolare attenzione anche nelle teorie di Tronick e Beebe, accomunate da un approccio clinico e dalla considerazione del processo di mutua regolazione degli stati affettivi che si sviluppa nell'interazione adulto-lattante come inscindibile da quello di autoregolazione dei propri stati interni da parte di ciascuno dei partner. In particolare, secondo entrambi gli autori la qualità dell'esperienza intersoggettiva include anche sintonizzazioni su stati negativi del lattante, se funzionali alla regolazione degli stessi, così come processi di riparazione conseguenti a tentativi di sintonizzazione mancati, peraltro non infrequenti nella dinamica di mutua regolazione che ha luogo tra la madre e il lattante; se invece i fallimenti del riconoscimento dello stato affettivo del lattante tendono a stabilizzarsi in pattern di disturbo dell'autoregolazione di quest'ultimo, possono dare origine a forme distorte di intersoggettività, con conseguenze negative per l'organizzazione mentale del bambino. Stern condivide con i diversi autori citati una focalizzazione sullo studio della condivisione degli stati affettivi, che considera la più importante forma di partecipazione delle esperienze soggettive. Al riguardo, la sua concettualizzazione del processo di scambio intersoggettivo come "sintonizzazione affettiva" si fonda, come per Trevarthen, sull'individuazione di corrispondenze nelle caratteristiche temporali, nella forma e nell'intensità dei comportamenti dell'adulto e del bambino coinvolti nell'interazione, sebbene per Stern queste corrispondenze, o somiglianze, debbano essere necessariamente cross-modali- andare cioè oltre la semplice imitazione dei comportamenti- per indicare una compartecipazione di stati mentali. Inoltre, come già accennato, tutti gli esempi di "sintonizzazione affettiva" portati da Stern appaiono centrati sulla sintonizzazione dell'adulto, della madre in particolare, con lo stato affettivo del bambino; il ruolo del piccolo appare più passivo, limitato alla percezione/comprensione dell'intenzione della madre di condividere, o non condividere, il suo stato affettivo. Il "peso" dell'adulto di riferimento nell'esperienza intersoggettiva del bambino è sottolineato da Stern anche attraverso la considerazione che le intenzioni e le motivazioni socioaffettive della madre, come elementi costanti dell'ambiente sociale del lattante, divengono presto la base su cui si sviluppano le aspettative del piccolo nell'interazione con gli altri. Il ruolo determinante dell'adulto nello sviluppo delle prime forme di intersoggettività è evidenziato particolarmente anche da Kaye, se-
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condo cui nel primo semestre di vita non esisterebbe alcun sistema diadico di comunicazione tra il lattante e l'adulto. L'esperienza di int~rsoggettività esisterebbe soltanto nell'immaginazione del genitore, che tende a comportarsi "come se" le espressioni del lattante fossero quelle di un reale interlocutore in uno scambio comunicativo; ma proprio questo processo di sovrainterpretazione dei comportamenti del piccolo permetterebbe di creare quelle routine d'interazione entro le quali il bambino imparerà gradualmente a decodificare i segnali dell' adulto e a rispondervi condividendo significati. Questa concezione sottende un modo di pensare l'intersoggettività, anche nelle sue origini, che si differenzia significativamente dagli altri presentati e rimanda alla questione relativa alla definizione stessa dell'esperienza intersoggettiva nelle sue prime forme.
2.2 La natura e le condizioni di comparsa dell'intersoggettività La questione centrale sulla quale si differenziano le diverse teorie presentate riguarda la natura delle pri01e forme di intersoggettività e, quindi, le condizioni, o i requisiti minimi, per la comparsa dell' esperienza intersoggettiva. Rispetto a questi temi, ai quali si lega naturalmente anche la questione dell'età in cui un essere umano può iniziare a sentire, e a mostrare, un senso di esperienza condivisa con un altro, si individuano essenzialmente tre diverse J?Osizioni teoriche. La prima, individuabile nelle teorie di1Trevarthen e Meltzoff,' sostiene una natura innata dell'intersoggettività fondata sul bisogno; caratteristico della specie umana, di entrare in contatto con altre persone per condividere le proprie esperienze, e una predisposizione innata a orientarsi in tal senso. Colloca quindi le origini dell'intersoggettività già nei primi giorni e nelle prime settimane di vita, individuando nell'imitazione neonatale la prima forma di esperienza intersoggettiva di cui l'essere umano dispone. Sia Trevarthen che Meltzoff sottolineano che l'imitazione di azioni facciali da parte del neonato, ben lontana dall'essere un semplice riflesso, rappresenta un processo intenzionale di progressivo "accoppiamento" all'azione dell'altro reso possibile dalla particolare organizzazione mentale del neonato, sebbene le teorie che questi autori sviluppano rappresentino un contributo di dimensioni molto div~rse all'interpretazione dei primi sviluppi dell'intersoggettività.
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PROSPETTIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E I PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETTIVITÀ
La teoria di Meltzoff è sostanzialmente una teoria dell'imitazione, focalizzata sulla spiegazione del meccanismo sottostante la capacità di imitazione del neonato, che offre interessanti riflessioni sulle implicazioni che l'ipotizzato meccanismo di rappresentazione sovramodale avrebbe per la fondazione dell'esperienza intersoggettiva, e alcune considerazioni sul ruolo dei giochi di imitazione reciproca tra adulto e lattante nello sviluppo dell'intersoggettività. Diversamente, quella di Trevarthen è una teoria dell'intersoggettività che offre specifiche ipotesi sul carattere innato e lo sviluppo dell' esperienza intersoggettiva nel primo anno di vita. Trevarthen insiste sull'idea che i neonati, già alla nascita, possiedono dei "motivi" per comunicare con le altre persone, cioè una sorta di motivazioni innate.. all'orientamento verso gli altri esseri umani, e la capacità di comprendere gli intenti degli altri attraverso i loro movimenti e le loro aziooi espressive; quest'abilità dipenderebbe da un'organizzazione cerebrale che permette un "rispecchiamento empatico" intuitivo, che non necessita cioè di alcuna mediazione cognitiva. A questo riguardo, se l'ipotesi dell"'altro virtuale" accoppiato al sé corporeo nella mente del neonato appare piuttosto debole, quella di un meccanismo di rispecchiamento sensibile alle azioni umane, che opererebbe anche a livello subcorticale, potrebbe effettivamente trovare un fondamento biologico negli sviluppi della scoperta dei "neuroni specchio". La seconda posizione teorica, che condivido, colloca le origini dell'intersoggettività nelle prime esperienze di comunicazione faccia-afaccia che si sviluppano tra il lattante e l'adulto fin dal termine del secondo mese o dal terzo mese di vita. In tal senso, considera come requisiti necessari all'emergere delle prime forme di intersoggettività il possesso di un primitivo senso di sé e un'organizzazione comportamentale regolata dall' interazione con l'ambiente esterno, quindi il possesso di competenze che permettono la percezione della contingenza interpersonale, oltre che di un sistema comunicativo ben organizzato, da parte del lattante. Entro questa prospettiva si possono collocare le teorie di Fogel, Tronick, Beebe, e le considerazioni sulla presenza di forme primitive di intersoggettività fin dai primi mesi di vita prodotte recentemente da Stern (2004). In particolare, secondo Fogel (comunicazione personale) ciò che manca ai neonati per poter vivere l'esperienza di intersoggettività non è tanto la capacità di provare stati emozionali diversi, né di rispondere selettivamente agli stimoli sociali, ma è essenzialmente un senso di coerenza, cioè un senso integrato di se stessi come entità fisica dotata
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UN CONFRONTO TRA LE DIVERSE TEORIE SULLE PRIME FORME DI INTERSOGGETTIVITÀ
di coesione e di confini, e un senso di continuità dell'esperienza che, per i neonati, resta piuttosto frammentata. Diversamente, dopo i primi 2 mesi di vita, l'acquisizione di un controllo comportamentale di tipo esogeno, cioè sempre più regolato dal rapporto con l'ambiente so
PROSPETTIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETI1VITÀ
simbolico e le dimensioni essenzialmente procedurali e affettive/emozionali che, non richiedendo un coinvolgimento coscientemente intenzionale, consentono allattante di vivere precocemente l'esperienza intersoggettiva. Al riguardo, le argomentazioni di Beebe evidenziano che l'incontro e lo scambio affettivo che si sviluppa nell'interazione facciaa-faccia madre-lattante attraverso le espressioni facciali, i gesti, il ritmo e l'intonazione vocale prodotti dagli interlocutori richiede percezioni e memorie emozionali di tipo primitivo che, implicando prevalentemente l'attivazione dell'amigdala e del sistema limbico, possono realizzarsi al di fuori del livello di consapevolezza. Sottolineano inoltre che la pratica ripetuta di determinate sequenze di azioni nel contesto dell'interazione madre-lattante fa sì che queste sequenze siano codificate dal piccolo in un formato presimbolico, procedurale, di rappresentazione dell'interazione che, combinato con la percezione della contingenza imerpersonale che il lattante mostra di possedere precocemente, influenza lo sviluppo di aspettative e l'organizzazione del suo comportamento nel coinvolgimento intersoggettivo. In tal senso, la percezione della contingenza interpersonale, che organizza l'aspettativa del lattante di influenzare, ed essere influenzato, dal partner, unita alla disponibilità di un ambiente sociale capace di buona contingenza, è identificata da Beebe come fondamento dell'esperienza intersoggettiva. La terza posizione teorica individuata - condivisa da Stern, perlomeno nella sua prima teorizzazione (1985), e da Kaye- a differenza delle precedenti ipotizza una mediazione cognitiva dell'esperien2:a di condivisione con l'altro. Più specificamente, considera come condizione necessaria affinché il bambino possa vivere l'esperienza di imersoggettività la comprensione di sé e delle altre persone come posl>.e.ssori di stati mentali che possono essere condivisi. In altre parole, identifica l'interazione del bambino con l'adulto come esperienza intersoggettiva se da parte di entrambi i partner vi sono le capacità di comprendere lo stato interno dell'altro dal suo comportamento manifesto, e di mostrare l'intenzione di influenzare, o condividere, tale stato. In tal senso, ipotizzando la necessità di un elaborato livello di funzionamento cognitivo per la condivisione di stati mentali e significati, c.Q]loca la comparsa dell'intersoggettività soltanto verso i 9 mesi (Stern), o anche successivamente, al termine del primo anno di vita (Kaye). Nello specifico, nella sua prima teorizzazione sull'intersoggettività Stern (1985), separando il comportamento dall'esperienza interiore, esclude la condivisione di comportamenti manifesti (per esempio, l'imitazione di espressioni affettive e azioni del partner) dall'esperi~nza 54
UN CONFRONTO TRA LE DIVERSE TEORIE SULLE PRIME FORME DI INTERSOGGETTIVITÀ
di intersoggettività perché, a suo awiso, non garantisce la compartecipazione di stati interni. Infatti, tra le condizioni che identificano lo scamhiq intersoggettivo tra la madre e il bambino pone un comportamento materno che non riproduca il comportamento manifesto del piccolo q!:Janto, piuttosto, aspetti quali l'intensità e il ritmo delle sue azioni, che ne riflettono lo stato affettivo interno; ciò, perché il bambino possa..capire (e questa è per Stern un'altra condizione di intersoggettività) che la madre è partecipe di quello che egli stesso sta provando. Un punto di forza della teoria di Stern, che consente di arricchire l'analisi delle prime forme di scambio intersoggettivo rispetto, per esempio, alle teorie che hanno messo a fuoco l'imitazione, è la concettualizzazione della dimensione dinamica dell'esperienza di condivisione affettiva in termini funzionali a un'analisi dettagliata della stessa. In p!jrticqlare, il concetto di "contorno vitale" consente di cogliere e rappresentare l'andamento di intensità nel tempo (per esempio, di crescita, affievolimento, esplosione) dell'esperienza affettiva condivisa, cioè -di cogliere i micro-cambiamenti che si susseguono nel livello di attivazione dell'esperienza affettiva, co-regolato da adulto e bambino nel corso dell'interazione. Tuttavia, una critica che si può rivolgere alla posizione teorica assunta da Stern (1985) sulla comparsa della relazione intersoggettiva riguarda la sua separazione dell'esperienza interna dal comportamento, in un'ottica che richiama la visione dualista, di matrice cartesiana, che separa la mente dal corpo, e che gli fa considerare gli stati mentali (emozioni, affetti, attenzione, intenzioni) come stati interni che possono essere solo inferiti, piuttosto che percepiti direttamente, dal comportamento dell'altro. In tal senso, secondo Stern, la possibilità di entrare in contatto con gli stati mentali dell'altro durante un'interazione ~çessita di una mediazione cognitiva, e non può quindi emergere pri~- çlel secondo semestre di vita. A questo riguardo, segnalo la possibilità di assumere un'ottica diversa, che, superando una visione dualista, considera la mente non come un'entità separata dall'azione, che guida l'azione, ma, al contrario, inscindibile dall'azione e visibile come modalità con cui le azioni sono condotte; in altre parole, un'ottica che considera la mente "dentro" l'azione piuttosto che "dietro" l'azione (Reddy, 2001a) e, quindi, permette di credere che stati mentali quali le emozioni e le intenzioni possono anche essere semplicemente percepiti, piuttosto che inferiti, dal lattante durante la comunicazione affettiva con il genitore. Relativamente alle emozioni, Trevarthen (1993b), in base ai risultati delle sue
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PROSPETI!VE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETIIVITA
ricerche microanalitiche, sostiene esplicitamente che possono essere percepite dal lattante di pochi mesi direttamente dall'espressione della madre durante un'interazione affettiva; allo stesso modo, Hobson (2002) sostiene che attraverso la percezione di un'azione facciale quale, per esempio, il sorriso un lattante di 3 mesi può percepire qualcosa dello stato emozionale dell'altro; Beebe e colleghi (Beebe, Knoblauch et al., 2005) sostengono che il precoce coinvolgimento del lattante nello scambio affettivo che si sviluppa nell'interazione faccia-a-faccia con la madre si fonda su percezioni e memorie emozionali di tipo primitivo che si attivano al di fuori del livello di coscienza, senza coinvolgere elaborati processi cognitivi. Queste convinzioni, condivise dai ricercatori che collocano le origini dell'intersoggettività nei primi mesi di vita, appaiono supportate da una letteratura che, nell'ambito dello studio delle emozioni, sostiene l'indipendenza di alcune reazioni emozionali da processi di valutazione cognitiva (per esempio, Pally, 1998, 2005; Zajonc, 1980) e documenta la possibilità di risposte emozionali a espressioni facciali di emozioni, prodotte interamente al di fuori del livello di coscienza (Dimberg, 1990; Dimberg, Thunberg, Elmehed, 2000; Dimberg, Thunberg, Grunedal, 2002). Per quanto riguarda invece le intenzioni espresse in un'interazione, se si pensano effettivamente nell'ottica suggerita, cioè come elementi inscindibili dal comportamento di ogni persona, visibili nell'orientamento, e nel controllo, dell'azione verso un oggetto (persona od oggetto materiale) e anche nella forza (o intensità) dell'azione, non è difficile accettare che anche un lattante di pochi mesi, durante l'interazione con l'adulto di riferimento, sia in grado di esprimere intenzioni - pur in assenza di un comportamento coscientemente intenzionalee percepirle nel comportamento del partner. In particolare, Vedeler (1991, 1993, 1994), che ha focalizzato i suoi studi sulla questione dell'intenzionalità infantile in relazione ai primi sviluppi dell'intersoggettività, suggerisce che una definizione dell'intenzionalità come "direzionalità del comportamento verso un oggetto" -elaborata utilizzando il concetto di intenzionalità di Merleau-Ponty (1942) 1 e le argomentazioni e i dati di Trevarthen (1978) e von Hofsten (1982) sui comporl. Il filosofo francese ha proposto un'elaborazione del concetto fenomenologico di intenzionalità nel suo aspetto di "direzionalità" in relazione a un oggetto, sganciando l'oggetto di intenzione dall'universo della sola rappresentazione mentale per includere in questo concetto anche gli oggetti del mondo esterno; sottolineando, cioè, la dimensione comportamentale dell'intenzionalità come movimento, azione proiettata nel mondo (per esempio, l'azione della mano resa verso un oggetto, che in se stessa contiene un riferimento all'oggetto senza implicarne una rappresentazione), ed estendendo l'intenzionalità oltre gli atti coscienti.
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UN CONFRONTO TRA LE DIVERSE TEORIE SULLE PRIME FORME DI INTERSOGGETTIVITA
tamenti intenzionati di neonati e lattanti - può permettere di studiare
il coinvolgimento psicologico del lattante di pochi mesi nell'interazione con l'adulto anche come esperienza di incontro di intenzioni. A questo riguardo, lo stesso Stern ha recentemente modificato la sua posizione sostenendo la presenza di forme primitive, precodssidT intersoggettività (Stern, 2004) grazie al fatto che i lattant!, fin g~i pdmi mesi di vita, sono in grado di percepire le intenzioni dell'interloc!,ltOre direttamente dai pattern di comportamento che governan~lo scambio affettivo; questo perché, secondo Stern (1995a), le intenzioni tendono sempre a manifestarsi come modificazioni del livello di attivazione o dell'affetto espresso nell'interazione, che acquistano una precisa forma temporale (una determinata intensità, un ritmo) nell'azione. Kaye, invece, identificando l'intersoggettività con la condivisione di significati, considera un requisito necessario all'esperienza di intersoggettività e alla stessa possibilità di comunicazione la capacità del bambino di usare espressioni e gesti convenzionali; in altre parole, il raggiungimento del livello simbolico di funzionamento cognitivo da parte del piccolo, che colloca al termine del primo anno di vita. Comunque, la sua posizione di rifiuto dell'ipotesi di una comunicazione presimbolica che si sviluppa nell'interazione tra il lattante e la madre - ~)fiuto, cioè, del riconoscimento di una dimensione di reciprocità ne!J.a comunicazione del lattante con l'adulto per tutto il primo semestre di vita - appare oggi confutata dai risultati di numerose ricerche (v~di capitolo 5); tra queste, quelle di diversi autori citati, quali Trevarthen, Fogel, Tronick, Beebe, che documentano le precoci competenze comunicative del lattante e la bidirezionalità dell'influenza dei cQ_mportamenti dell'adulto e del lattante nel contesto della comunicazione che si sviluppa tra loro fin dai primi mesi di vita. A uno sguardo complessivo che immagina di collocare le teorie discusse lungo un continuum, la teoria di Kaye, particolarmente avara nel riconoscere competenze sociali allattante, appare al polo opposto a quella dell'intersoggettività innata di Trevarthen. Ne è una prova anche il fatto che Kaye, come Stern nella sua prima teorizzazione, riconosce come intersoggettività ciò che per Trevarthen rappresenta la tappa più matura di un percorso di sviluppo dell'esperienza intersoggettiva nel corso del primo anno di vita. Riconosce infatti come intersoggettività soltanto la condivisione con l'altro di esperienze soggettive e,.soprattutto, significati relativi a eventi e oggetti del mondo esterno; in altre parole, una condivisione che richiede una coordinazione
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r.v~rr.1 11 vt:. 1 1>UK1CHJ:: SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGETIIVITA
triadica tra sé, l'altro e l'oggetto, e che Trevarthen definisce "intersoggettività sèCondaria" p~r distinguerla ~alla coordinazillne diadica tra sé e l'altro ("intersoggettività primaria") che si sviluppa nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia tra adulto e lattante già nei primi mesi di vita.
2.3 Il rapporto tra intersoggettività e sviluppo del Sé Strettamente connessa alla questione delle condizioni necessarie alla comparsa dell'intersoggettività è la questione del rapporto tra lo sviluppo dell'intersoggettività e lo sviluppo del senso di sé, sintetizzabile nelle domande relative a se, e quanto, il Sé del lattante debba esser~ ben differenziato e costituito come nucleo originario perché il piccolo possa vivere l'esperienza di contatto mentale con l'altro, oppure, al contrario, venga generato e si sviluppi nell'esperienza di rapporto con l'altro. Anche rispetto a tali interrogativi le diverse teorie presentate si differenziano sensibilmente, sebbene soltanto alcuni autori abbiano esplicitamente affrontato il tema del rapporto tra esperienza intersoggettiva e sviluppo del Sé. - Stern, per esempio, ha elaborato una specifica teoria sullo sviluppo del senso del Sé a cui intreccia lo sviluppo dell'esperienza intersoggettiva del bambino. Nella sua teoria il senso del Sé rappresenta un elemento centrale, determinante nello sviluppo mentale e sociale del bambino perché, secondo Stern, il modo in cui il piccolo sperimenta se stesso nel rappòrto con gli altri gli fornisce una "prospettiva primaria" attraverso la quale organizza la sua esperienza sociale. I principali cambiamenti nello sviluppo dell'esperienza sociale del bambino vengono quindi attribuiti all'acquisizione di nuovi sensi del Sé da parte del bambino. Stern concepisce infatti quattro diversi sensi del Sé che si sviluppano in tempi diversi nell'arco dei primi 18 mesi di vita, e lega la comparsa dell'intersoggettività nel senso pieno del termine allo sviluppo del senso di un Sé che definisce come "soggettivo", perché connesso alla maturazione della consapevolezza di possedere un~ propria esperienza soggettiva fatta di -stati interni, e di poterla condividere con gli altri che, pure, possiedorw stati interni. In particolare, il senso di un "Sé soggettivo" si svilupperebbe tra il settimo e il nono mese, o comunque entro i 9 mesi di vita, come espansione del senso di un "Sé nucleare"- ossia di un Sé come entità fisica capace di p~Qvare sensazioni/emozioni e di agire (e produrre effetti) neU~interazione con gli
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UN CONFRONTO TRA LE DIVERSE TEORIE SULLE PRIME FORME DI INTERSOGGETTIVITA
altri- fino a includere gli stati interni dell'esperienza. Questa espan~one dell'esperienza del Sé del bambino, che da percettiva ~ motoria aivienè-~nche esperienza mentale, interna, nell'interazione con l'altro si tradurrebbe in uno spostamento dello scambio comunicativo dal piano delle azioni manifeste a quello degli stati interni, e proprio questo, secondo Stern, permetterebbe lo sviluppo dell'intersoggettività. Se per Stern, come abbiamo visto, lo sviluppo di un elaborato senso di sé costituisce un requisito per lo sviluppo della relazione intersoggettiva, per Fogel è invece attraverso l'esperienza di intersoggettività che un senso di sé molto primitivo inizia a consolidarsi e ad arricchirsi e svilupparsi in forma più elaborata; questo perché l'esperienza di comunicazione co-regolata con l'adulto, anche nelle sue forme più precoci, costituisce una fonte particolarmente ricca di informazioni su di sé in relazione all'altro. La posizione di Fogel, cQndivisa da chi scrive, si basa sulla considerazione che durante la cormmicazione co-regolata con l'adulto il lattante-riceve continue informazioni sulle proprie azioni in relazione al partner: basti pensare al riscontro dell'effetto che le proprie azioni producono sul partner (percepito nella contingenza delle azioni di quest'ultimo), che contribuisce allo sviluppo di un senso di sé come agente, e co-agente; ma anche alle informazioni sul proprio corpo e le proprie sensazioni in relazione alle azioni del partner (per esempio, le diverse sensazioni tattili prodotte dalle carezze, oppure dal solletico durante il gioco sociale), e sull'esperienza emozionale provata durante la comunicazione faccia-a-faccia, che si ripete in specifiche situaziol).i (per esempio, un senso di piacere e di benessere quando la madre sorride e parla dolcemente, di interesse quando la madre produce nuovi suoni ecc.). In particolare, il rispecchiamento e l'amplificazione delle emozioni del lattante da parte della madre - quindi anche la qualità dell'esperienza intersoggettiva vissuta nelle prime forme di comunicazione con l'altro- giocherebbero un ruolo fondamentale nello sviluppo del senso di sé come "Sé relazionale". Nella prospettiva di Fogel, comunque, anche il più primitivo senso di sé- come, per esempio, il senso di sé come entità fisica coesa necessario perché il lattante possa vivere l'es perienza stessa di "dialogo" con l'altro- è sempre relazionale, perché emerge sempre in relazione all'ambiente, fisico o sociale. Al riguardo, Fogel condivide con diversi altri autori (Butterworth, 1995; Neisser, 1993; Rochat, 1997; Rochat, Striano, 2000) l'idea che il primo senso di sé emerga dalla percezione dei movimenti del proprio corpo in relazione all'ambiente fisico e so59
PROSPEITIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E I PRIMI SVILUPPI DELL'INTERSOGGElTIVITÀ
ciale e si sviluppi nel corso dei primissimi mesi di vita come "Sé ecologico", cioè come senso d'essere situato in un ambiente, ma al tempo stesso differenziato e agente in relazione all'ambiente. A differenza degli altri autori, p~rò, enfatizza l'idea della relazione e accentua il ruolo dell'ambiente sociale, in particolare il ruolo di amplificatore dell'esperienza del lattante da parte del genitore, anche quando il lattante è coinvolto ancora passivamente nell'interazione. - Trevarthen, come Fogel, sostiene che il Sé è "generato nell'intersoggettività", ma assume una posizione ancor più radicale sostenendo che una sorta di "consapevolezza immediata di essere-con-l'altro" (1993a, p. 144) costituisce la condizione primaria della coscienza umana, presente già nel periodo neonatale. Secondo Trevarthen, questa "consapevolezza" è strettamente connessa alla motivazione innata, propria dell'essere umano, a entrare in contatto con le intenzioni e le emozioni di un altro essere umano e a ricercare una potenzialità di azione e comunicazione con l'altro, motivazione che, con l'aiuto speciale di un "altro" quale la madre, determina lo sviluppo dell'esperienza precoce di un "Sé interpersonale". In tal senso, nella teoria di Trevarthen viene esplicitamente sottolineato che il "Sé interpersonale" che si sviluppa nell'esperienza di intersoggettività organizza lo sviluppo cognitivo del lattante prima ancora che questi abbia acquisito il controllo dell'azione sugli oggetti o della locomozione, e costituisce il fondamento dello sviluppo mentale del bambino e della sua disponibilità all'apprendimento culturale. Infine, una posizione ancora diversa si scorge nella teoria di Meltzoff che, individuando possibili fondamenti dell'esperienzl! intersog: gettiva nella percezione che "l'altro è come me" vissuta dal neonato nell'imitazione, sembra considerare la presenza di un "me" -come primo senso di sé percepito propriocettivamente- prima dell'incontro con l'altro o, comunque, come percezione parallela alla percezione dell'altro e di un senso di connessione con l'altro. Complessivamente, il confronto tra le diverse posizioni teoriche presentate ha messo in luce come, pur nell'ambito dell'infant research, le diverse idee di intersoggettività nelle sue prime manifestazioni portano a collocare le origini di questa esperienza in differenti periodi dello sviluppo del bambino nel corso del primo anno di vita. Personalmente, penso valga la pena di considerare che l'intersoggettività riferita ai primi processi di sviluppo si manifesta in forme di complessità molto diverse, secondo i diversi livelli di sviluppo del
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bambino, ma anche secondo la disponibilità e le caratteristiche dei contesti sociali in cui il piccolo viene coinvolto. In particolare, attraverso diversi anni di ricerche sui processi di sviluppo comunicativo ed emozionale nel primo trimestre di vita, ho maturato la convinzione che le origini dell'intersoggettività siano individuabili nell'esperienza di compartecipazione affettiva osservabile durante la comunicazione faccia-a-faccia tra l'adulto e il lattante già verso la fine del secondo mese di vita, grazie ai profondi cambiamenti che proprio in questo periodo si realizzano nell'organizzazione comportamentale del lattante (acquisizione del controllo esogeno segnata dalla comparsa del sorriso sociale), e agli effetti di tali cambiamenti sul comportamento degli adulti. Credo anche che la precoce esperienza di compartecipazione affettiva giochi un ruolo centrale, di fondamento, nello sviluppo della dinamica intersoggettiva. Lo scambio di emozioni e affetti costituisce il principale contenuto dei primi scambi comunicativi e, al tempo stesso, il principale mezzo attraverso cui si realizzano tali scambi e le prime forme di compartecipazione di esperienza tra il lattante e la madre. Se consideriamo che la percezione dei propri stati affettivi costituisce una delle prime forme di esperienza interna del lattante (Hobson, 2002; Legerstee, 2005), nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia la capacità dell'adulto di riflettere gli stati affettivi del lattante aiuta il piccolo a connettere la propria esperienza affettiva a quella del partner, così che la percezione delle espressioni affettive del partner costituisce anche il primo modo di entrare in contatto con l'esperienza interna dell'altro. Inoltre, la risonanza affettiva tende ad amplificare l'informazione percettiva (Demos, 1992) e amotivare (Barrett, Campos, 1987) il lattante, così come l'adulto, ad agire con modalità adattive, affettivamente contingenti alle espressioni del partner e, in tal modo, favorire lo sviluppo dell'esperienza di intersoggettività. Ciò vale naturalmente non solo per gli affetti positivi, ma anche per quelli negativi. L'esperienza di compartecipazione affettiva che nasce e si sviluppa nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia si estende poi, con il crescente interesse del lattante per il mondo degli oggetti, a includere dapprima un'alternanza e in seguito una coordinazione di focus sugli oggett( e il partner dell'interazione. Infine, grazie a un'interazione tra i profondi cambiamenti che si realizzano nello sviluppo mentale del bambino nel periodo tra i 9 e i 12 mesi e la qualità dello scambio intersoggettivo vissuto nei mesi precedenti, l'esperienza di intersoggettività si estende ulteriormente fino a trasformarsi in una forma più 61
PROSPETTIVE TEORICHE SULLE ORIGINI E l PRIMI SVILUPPI DELI.:INTERSOGGETTIVITA
complessa di condivisione con l'esperienza interna dell'altro che include attenzione, stati affettivi e intenzioni in relazione al mondo esterno (vedi figura p. XXIII). La sottolineatura di due snodi nello sviluppo dell'intersoggettività nel primo anno di vita, coincidenti con due periodi di profonde trasformazioni che investono anche altri domini dello sviluppo del bambino (rispettivamente attorno ai 2 e ai 9-12 mesi), non vuole tuttavia caratterizzare questo sviluppo in termini di discontinuità più che continuità. Infatti, i cambiamenti che verso la fine del primo anno di vita segnano l'acquisizione della capacità del bambino di coordinare le proprie intenzioni con quelle dell'adulto in relazione al mondo degli oggetti non appaiono concentrati in un periodo limitato (per esempio, attorno ai 9 mesi) che identificherebbe un "salto di livello" ben localizzabile ma, piuttosto, distribuiti in un arco di tempo che si estende almeno tra gli 8 e i 12 mesi. Inoltre, questa forma più complessa di i11.:; tersoggettività appare anticipata da alcune semplici forme di attenzione condivisa e comprensione della direzionalità delle azioni del partner che possono comparire già dai 6 mesi. Allo stesso modo, la comparsa delle prime forme di intersoggettività con la transizione-chiave dei 2 mesi, sebbene circoscritta al periodo tra la sesta e la decima settimana di vita, appare comunque "preparata" dalla presenza di alcuni "requisiti" nel periodo neonatale: le predisposizioni del f}~nato a orientarsi e rispondere selettivamente alla voce e al volto umano, le sue capacità di imitare le azioni umane e comportarsi in modo differenziato con le persone e gli oggetti, ma anche l'effettiva possibilità di esposizione adeguata a voci e volti umani, e l'effettiva disponibilità di contesti d'interazione con l'adulto. I processi di sviluppo e, in particolare, gli snodi dell'esperienza intersoggettiva nel corso del primo anno di vita sono illustrati e documentati- in base alle evidenze empiriche di cui disponiamo oggi -nella seconda parte del libro.
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Parte seconda I processi di sviluppo dell'esperienza intersoggettiva nel primo anno di vita
3 Il periodo neonatale: gli indicatori del "preadattamento" all'interazione sociale
Se fino a circa 30 anni fa il neonato umano poteva essere ancora desgitto _come un organismo in uno stato di scarsa differenziazione dall~madre, bisognoso di protezione da qualsiasi tipo di stimolo esterno (Mahler, Pine, Bergman, 1975), lo sviluppo di nuove tecniche di indag!n_e eJ'"esplosione" di studi sulle capacità percettive e comunicative nçonatali awenuta negli ultimi decenni hanno invece permesso di mett~e in luce unaspeciale s'ensibilità del neonato agli stimoli sociali. Attualmente, i numerosi ricercatori che si occupano dei primi processi di sviluppo, indipendentemente dalle diverse prospettive teoriche, concordano nel descrivere un neonato adattato fin dalla nascita a un ambiente di contatti interpersonali, equipaggiato per interagire selettivamente con gli altri esseri umani. Questa particolare predisposizione, definita come "preadattamento" all'in te razione sociale (Schaffer, 1984), emerge sia n eU' ambito delle capacità espressive e dell'organizzazione comportamentale del neonato, che in quello delle sue capacità percettive: da un lato, infatti, il neonato appare dotato di un elaborato sistema di segnalazione dei suoi bisogni e dei suoi stati affettivi che agisce come potente richiamo dell'attenzione dell'adulto, così come di un'organizzazione comportamentale caratterizzata da regolarità temporali che, rendendo prevedibile il comportamento del piccolo, facilitano l'instaurarsi di scambi precoci con gli adulti che se ne prendono cura. Dall'altro lato, il neonato appare dotato di un apparato percettivo adatto a discriminare e a orientarsi selettivamente verso i diversi tipi di stimolazioni provenienti dagli altri esseri umani: le voci e i volti, in particolare, rappresentano speciali fonti di attrazione della sua attenzione. Ulteriori, rile65
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA JNTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
vanti, testimonianze della predisposizione del neonato a interagire con i conspecifici (Astington, 2001; Emde, 1998; Legerstee, 2005) sonaTe sue capacità di imitare diverse azioni facciali mostrate ripetutamente da un partner adulto durante un'interazione affettiva col piccolo, e di comportarsi in modo differenziato con le persone e con gli oggetti, già a poche settimane di vita. Questa predisposizione può favorire l'instaurarsi delle prime forme di attenzione del neonato durante l'interazione con la madre o altri adulti significativi, grazie al contributo fondamentale del partner adulto che, "intuitivamente" (Papousek, Papousek, 1987), tende ad adattare il proprio comportamento, in particolare a marcare le proprie azioni espressive (per esempio, accentuando i contorni prosodici delle frasi rivolte al piccolo), in modo tale da favorire le specifiche capacità recettive del neonato. Quest'ultimo, a sua volta, mostra di riconoscere, preferire e ricercare attivamente stimoli sociali di cui ha avuto precedente esperienza (Adamson, 1995); in tal senso, di riconoscere e preferire l'odore, il volto e, soprattutto, la voce della propria madre. Al riguardo, è stata formulata l'ipotesi di un apprendimento prenatale (DeCasper, Spence, 1986; Fifer, 2002), poiché già dalla venticinquesima settimana di gestazione il feto risponde a stimolazioni di tipo uditivo modificando la propria attività motoria e cardiaca (Giovanelli, 1997); inoltre la voce materna, giungendo al feto attraverso i tessuti del corpo della madre, è percepita molto meglio di qualsiasi altro stimolo acustico esterno. Infine, è stato dimostrato da diversi studi (vedi paragrafo 3.1) che nelle ultime settimane di gestazione il feto è capace di apprendere come il neonato, e presenta un'organizzazione comportamentale e capacità di coordinazione percettivo-motoria e discriminazione percettiva che testimoniano una sostanziale continuità nello sviluppo p re- e post -natale. In tal senso, un importante precursore della possibilità ,di scambio intersoggettivo, come la sensibilità a particolari caratteristiche della voce umana, è individuabile fin dalle ultime settimane dello sviluppo prenatale.
3.1 Continuità pre- e post-natale nelle capacità
percettive, motorie e di apprendimento Gli elementi indicativi di continuità nel comportamento pre- e postnatale (Hopkins, Scott, 2005; Prechtl, 1988) sono documentati in molteplici ambiti dello sviluppo. Se la sensibilità alla stimolazione tattile è 66
IL PERIODO NEONATALE: GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALL'INTEKAZIONE SOCIALE
attiva fin dall'inizio della vita fetale, dalle 24-28 settimane il feto p1J..Ò reagire a odori, sapori, suoni, luminosità (Hepper, 2002), ed entro l'ottavo mese manifestare un repertorio di stati comportamentali, movimenti e capacità di coordinazione senso-motoria simile a quella del neonato: può piangere, aprire gli occhi, sbadigliare, emettere suoni ~egetativi, succhiarsi il pollice, mostrare movimenti di aggiustamento posturale e di prensione, riflessi e pattern ritmici di attività che persistono nel periodo neonatale. In particolare, si tratta di pattern ciclici di attività motoria spontanea (in cicli da l a 4 minuti, Robertson, Cohen, Mayer-Kress, 1993 ), pattern di suzione-pausa che caratterizzano il riflesso di suzione (con una frequenza media di circa 2 succhiate al secondo, Wolff, 1968), pattern di alternanza regolare di stati di sonno e veglia (ogni 40 minuti circa, Robertson, 1987), che compaiono già dal sesto-settimo mese di vita fetale come alternanza di riposo e attività, ed entro le 32 settimane si organizzano negli stati comportam-entali che caratterizzano la vita neonatale. La più forte evidenza di continuità pre- e post-natale è stata comunque individuata nei processi di apprendimento e di memoria che, nell'ambito dell'esperienza uditiva e olfattiva, appaiono attivi già a livello fetale e sembrano influenzare le successive risposte comportamentali del neonato. Relativamente alla percezione uditiva degli stimoli sociali, attraverso la tecnica della misurazione del battito cardiaco è stato mostrato che il feto riconosce la voce materna, poiché a tale stimolo reagisce con una significativa decelerazione della frequenza cardiaca, come accade al neonato in presenza di stimoli interessanti o nuovi (Fifer, Moon, 1995). Inoltre, il feto di 36-39 settimane, dopo essere stato abituato (vedi Il paradigma dell'abituazione in Metodi e strumenti 1) allo stimolo di una voce femminile, reagisce con un'intensa decelerazione della frequenza cardiaca quando gli viene presentata una voce maschile (o, viceversa, femminile se gli era stata presentata una voce maschile), mostrando di saper distinguere la voce femminile da quella maschile (Lecanuet, Granier-Deferre, Jacquet, Capponi, Ledru, 1993 ). Un risultato analogo è stato trovato nei nati pretermine di 34 settimane, che appaiono in grado di discriminare la voce maschile da quella femminile e da un brano musicale (Giovanelli, Callegati, F arneti, 1993). Gli studi che documentano come le preferenze dei neonati siano legate alle loro esperienze prenatali sono ancor più numerosi. Utilizzando la tecnica della suzione non nutritiva (vedi Metodi e strumenti l) è stato mostrato che il neonato di soli 2-4 giorni, di fronte alla possibi67
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETIIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
lità di udire la voce della madre o quella di un'altra donna sconosciuta succhiando in modi differenti una tettarella, impara rapidamente come succhiare per riprodurre la voce materna e la riproduce più frequentemente dell'altra voce (DeCasper, Fifer, 1980). Tuttavia, preferisce la voce materna filtrata nelle sue componenti a bassa frequenza, cioè come la sentiva in utero, piuttosto che con le sue caratteristiche normali (Fifer, Moon, 1995 ), e non sembra esprimere alcuna preferenza quando la voce materna e quella di un'altra donna sono filtrate ad alta frequenza (Spence, Freeman, 1996). Inoltre, preferisce una storia letta quotidianamente dalla madre nell'ultimo mese di gravidanza, enfatizzandone i contorni prosodici, a un'altra storia letta pur sempre dalla madre (DeCasper, Spence, 1986), così come preferisce la lingua materna a un'altra lingua sconosciuta (Mehler, Jusczyk, Lambertz, Halsted, Bertoncini, Amiel-Tison, 1988). Infine, un'ulteriore conferma dell'ipotesi che il modo in cui il neonato elabora gli stimoli vocali e linguistici dipende dall'esposizione prenatale alla voce e alla lingua materna proviene da un interessante studio (Mastropieri, Turkewitz, 1999) che ha indagato la capacità del neonato di decodificare indizi emozionali trasmessi dalla voce umana, cioè una capacità particolarmente preziosa per entrare in contatto con le emozioni e gli stati affettivi degli altri. A neonati americani di madrelingua spagnola o inglese sono stati sottoposti stimoli linguistici con contorni prosodici che riflettevano emozioni di felicità, tristezza, rabbia, oppure neutri, in ciascuna delle due lingue, filtrati a bassa frequenza perché assomigliassero agli stimoli sonori dell'esperienza prenatale. I neonati hanno reagito ampliando l'apertura degli occhi in risposta agli stimoli che riflettevano felicità, ma solo quando erano esposti a voci nella loro lingua materna. Questo suggerisce che la sensibilità del neonato agli indici prosadici di un linguaggio familiare affonda le sue radici neU:esperienza uditiva prenatale (Soussignan, Schaal, 2005). L'influenza dell'apprendimento prenatale sulle risposte comportamentali del neonato è stata dimostrata anche nell'ambito della percezione olfattiva. In particolare, è stato documentato che il neonato di 4 giorni, allattato artificialmente, si orienta preferenzialmente (vedi Il paradigma della preferenza in Metodi e strumenti 1) verso l'odore del liquido amniotico materno piuttosto che verso quello del latte in formula (Marlier, Schaal, Soussignan, 1998a). Inoltre, che il neonato, attraverso l'espressività facciale, manifesta risposte edoniche positive agli odori introdotti in utero attraverso la dieta materna nelle due ultime settimane di gr_avidanza: a un odore particolarmente forte quale quel68
IL PERIODO NEONATALE: GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALL'INTERAZIONE SOCIALE
lo dell'anice sono state rilevate risposte di protrusione delle labbra e della lingua da parte di neonati di madri consumatrici di anice, ma, al contrario, ri~>poste di disgusto ed evitamento da parte di neonati di madri non consumatrici di tale sapore (Schaal, Marlier, Soussignan, 2000). L'abilità di apprendimento prenatale potrebbe allora essere letta come funzionale ali' adattamento post -natale del neonato attraverso l'orientamento selettivo verso gli odori, i sapori e i suoni dell'ambiente sociale di riferimento.
3.2 Il sistema di segnalazione e l'organizzazione temporale del neonato La predisposizione del neonato all'interazione sociale precoce si manifesta in primo luogo attraverso un elaborato sistema di segnalazione dei suoi stati interni, a partire da quel potente strumento di richiamo dell'attenzione dell'adulto che è il pianto. Già nell'immediato periodo dopo la nascita il neonato manifesta diversi tipi di pianto associati a diversi tipi di disagio (fame, stanchezza, dolore), distinguibili in base alle caratteristiche acustiche e alla lunghezza delle singole fasi che compongono qualsiasi pattern di pianto, ossia la fase espiratoria (in cui viene prodotto il tipico suono di pianto), seguita da una fase di riposo, una fase inspiratoria, e un'altra fase di riposo. Il pianto n~onatale di dolore, per esempio, è contraddistinto da una fase espiratoria particolarmente lunga, così come il pianto di irritazione suscitato dall'interruzione improwisa della suzione ma, a differenza di quesfultimo tipo di pianto, anche da una conseguente fase di riposo talmente prolungata da dare spesso a chi ascolta la sensazione che il neo_nato abbia cessato di respirare (Fogel, 2001). Inoltre, l'intensità del dolore cambia anche le espressioni del corpo del neonato che accompagnano tipicamente il pianto (Lock, 2001): l'espressione facciale di sconforto, i movimenti degli arti, l'alterazione del tono muscolare e del colorito cutaneo. Dagli studi sugli effetti del pianto dei neonati sugli adulti sappiamo che le donne adulte, indipendentemente dal fatto che siano madri o no, possono percepire le differenze tra i pianti di dolore e gli altri tipi di pianto (Gustafson, Harris, 1990), e proprio questa capacità di discriminazione acustica potrebbe giocare un ruolo fondamentale nell'accudimento dei piccoli in situazioni di disagio; è stato infatti trovato che, dalle sole espressioni facciali dei neonati, stati marcatamente
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li'KUCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETIIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
negativi quali la fame e il dolore tendono a essere facilmente confusi anche da adulti che sono madri e padri (Lavelli, Galati, Cascina, 2004; Lavelli, Montaspro, 2002). Verso la fine del primo mese di vita, ai diversi tipi di pianto che segnalano bisogni di tipo fisiologico o sensoriale si aggiunge un pianto con caratteristiche acustiche e di durata di fasi ancora differenti, che esprime un bisogno di attenzione (Barr, 1990), cioè un nuovo stato interno, di tipo relazionale, del piccolo. Oltre alle vocalizzazioni di pianto, per gli adulti assume un potente valore di segnalazione degli stati interni del neonato anche il ricco repertorio di espressioni facciali mostrate fin dalle prime settimane di vita; un repertorio che include espressioni che accompagnano stati di attenzione vigile e modulazioni di espressioni di affetto positivo e negativo che svolgono importanti funzioni adattive. In particolare, fin dalle prime ore di vita sono state osservate risposte facciali differenziate alla somministrazione di sapori amari, acidi e salati, così come alla somministrazione di sapori dolci e non dolci (Rosenstein, Oster, 1988): azioni quali l'arricciamento del naso e il sollevamento del labbro superiore- caratteristiche dell'espressione di disgusto negli adulti- in risposta a tutte le soluzioni non dolci, accompagnate da protrusione delle labbra in risposta alla soluzione acida, e apertura della bocca in risposta a quella amara. Sempre nell'ambito delle espressioni di affetto negativo, oltre alla tipica faccia di pianto caratterizzata dallo spalancamento della bocca in forma quasi quadrata (Darwin, 1872), viene frequentemente osservata l'espressione di broncio (sollevamento del mento che spinge all'infuori il labbro inferiore), soprattutto nelle pause di emissione delle vocalizzazioni di pianto che precedono la fine del pianto stesso, come segnalasse uno sforzo- non necessariamente consapevole - di arrestare il flusso del pianto una volta che è iniziato (Oster, 2005). ' Un'espressione che è invece univocamente interpretata come segnalazione di uno stato di benessere del neonato è il sorriso end2.St!.no, identificato dal sollevamento obliquo degli angoli della bocca a fabbra chiuse o solo parzialmente aperte, che compare tipicamente durante il sonno attivo o lo stato di transizione dalla veglia al sonno .dopo il pasto (Wolff, 1987). Infine, per quanto riguarda le espressioni che tendono a essere percepite come edonicamente neutre (Oster, 2005), il neonato mostra una varietà di azioni facciali associate all'attenzione vigile durante lo stato di veglia tranquilla- in particolare, all'attenzione al volto e alla voce 70
IL PERIODO NEONATALE: GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALL'INTERAZIONE SOCIALE
d~ll'adulto durante un'interazione sociale- quali il sollevamento e il corrugamento delle sopracciglia, l'apertura pronunciata degli occhi, la parziale apertura della bocca e il rilassamento complessivo del volto che esprimono concentrazione dell'attenzione (La velli, Fogel, 2005) e sforzo di esplorazione dello stimolo (Dondi, 1999; Oster, 1978). Queste specifiche azioni facciali, unite all'orientamento dello sguardo e della posizione del neonato verso l'interlocutore e alla relativa immobilità del suo corpo, agiscono come segnali di disponibilità e interesse all'interazione con l'adulto che gli è vicino. Complessivamente, la letteratura documenta che le risposte emozionali del neonato non costituiscono semplici reazioni a determinati stimoli quanto, piuttosto, espressioni adattate al suo stato motivazionale e al contesto in cui si trova. Ciò significa che il neonato può anche reagire negativamente a una stimolazione che non è intrinsecamente negativa, secondo il suo stato motivazionale: per esempio, esprimere azioni facciali di disgusto all'odore del latte quando è in uno stato di sazietà dopo il pasto (Soussignan, Schaal, Marlier, 1999), così come secondo il contesto: per esempio, mostrare espressioni di affetto negativo alla discrepanza tra un'informazione familiare e uno stimolo quando una musica vocale che era stato abituato a produrre attraverso la suzione non nutritiva compare in modo non contingente (DeCasper, Carstens, 1981).
I:organizzazione temporale che facilita l'instaurarsi di pattern di interazione con l'adulto La predisposizione del neonato a interagire con gli altri esseri umani appare anche dalle regolarità temporali che ne caratterizzano gli stati e l'attività: si pensi, per esempio, ai cicli sonno-veglia e all'alterhanza suzione-pausa durante l'allattamento. Tali regolarità, rendendo prevedibile il comportamento del neonato, facilitano l'instaurarsi di pattern di interazione con l'adulto. A questo proposito, una famosa ricerca di Kaye (1977) sull'interazione madre-neonato durante l'allattamento ha mostrato che le madri tendono a stimolare il neonato alla suzione oppure a parlargli quando il piccolo è in pausa tra una sequenza di succhiate e la successiva, e che la stimolazione materna- catturando l'attenzione del neonato- tende a prolungare le pause; quando, tuttavia, la stimolazione materna si arresta rapidamente, il neonato riprende a succhiare in più breve tempo che senza stimolazione o con stimolazione prolungata. È stato allora osservato che lo schema com71
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
portamentale che si sviluppa tra il neonato e la madre - suzione-pausa, stimolazione-arresto, suzione-pausa, stimolazione-arresto, e così via- assomiglia a una sorta di dialogo caratterizzato da un'alternanza di turni: neonato, madre, neonato, madre ... , che costituisce il precursore di forme successive di conversazione. Naturalmente, a questo livello l'alternanza dei turni dipende unicamente dalla capacità della madre di inserirsi con discrezione negli spazi di pausa lasciati dal neonato, ma è ugualmente importante per l'esperienza del piccolo che presto, già durante o verso la fine del secondo mese (ma sempre secondo le esperienze d'interazione vissute), sarà in grado di coinvolgersi più attivamente in altre forme di "conversazione" faccia-a-faccia. L'importanza fondamentale del ruolo materno e l'influenza reciproca esercitata dal neonato e dalla madre nell'organizzazione dei pattern di interazione durante l'allattamento sono state ulteriormente sottolineate dai risultati di un recente studio (Hernandez-Reif, Field, Diego, 2004) che ha mostrato che i neonati di madri depresse tendono a succhiare il doppio di quelli di madri non depresse, suggerendo una mancata regolazione dello stato di attivazione dei neonati in presenza di alterazione del tono dell'umore materno. Inoltre, è stato dimostrato che come la stimolazione alla suzione tende a prolungare le pause di suzione, così anche la faccia animata della madre, o altro caregiver, che parla e sorride al neonato tende a prolungare i periodi di veglia tranquilla in cui il piccolo si mostra interessato all'interazione con l'ambiente sociale circostante (Wolff, 1987).
3.3 l'attenzione selettiva e le risposte preferenziali
verso gli stimoli sociali: voce e volto umano La predisposizione dei neonati a interagire con gli altri esseri umani si manifesta anche e soprattutto nel fatto che i neonati appaiono dotati di un apparato percettivo adatto a rispondere selettivamente- attraverso l'orientamento del capo e/o dello sguardo- ai diversi tipi di stimoli provenienti da esseri umani: voci, volti, odori. Questa considerazione è oggi supportata da numerosi studi che hanno rilevato risposte preferenziali per stimoli umani, rispetto a stimoli non-umani, già poco dopo la nascita. Tali capacità di discriminazione e preferenze percettive sono evidenti nelle diverse modalità sensoriali: il suono della voce umana è preferito ai suoni non-umani che presentano tono e intensità simili (Eisenberg, 1975; Kuhl, 1993 ); i volti animati delle per72
IL PERIODO NEONATALEo GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALL'INTERAZIONE SOCIALE
sane sono preferiti a oggetti inanimati Gohnson, Dziurawiec, Ellis, Morton, 1991), così come le rappresentazioni schematiche del volto sono preferite a rappresentazioni che contengono gli stessi elementi .:... occhi, naso, bocca, sopracciglia- disposti in modo innaturale (Goren, Sarty, Wu, 1975; Johnson et al., 1991); l'odore del latte di qualsiasi donna-madre è preferito ad altri tipi di odori, perlomeno dai neonati allattati al seno (Porter, Makin, Davis, Christensen, 1992). Per quanto riguarda le capacità di discriminazione acustica relative alla voce umana, attraverso l'utilizzo del paradigma dell'abituazione e della tecnica della suzione non nutritiva (vedi Metodi e strumenti 1) è stato dimostrato che i neonati di soli 2-4 giorni riescono a discriminare lingue diverse (aumentano la frequenza di suzione di una tettarella collegata a un amplificatore ogniqualvolta viene fatta loro sentire una nuova lingua) purché le frasi-stimolo non siano riprodotte all'indietro (Ramus, Hauser, Miller, Morris, Mehler, 2000), e a preferire la propria lingua ad altre lingue straniere (Mehler et al., 1988; Moon, Cooper, Fifer, 1993 ); riescono inoltre a discriminare parole plurisillabiche differentemente accentate (Sansavini, Bertoncini, Giovanelli, 1997) e a categorizzare e preferire i suoni vocalici entro una sequenza di stimoli sonori (Aldridge, Stillman, Bower, 2001). L'insieme di queste abilità suggerisce l'interazione di una speciale sensibilità per il ritmo, l'intonazione e le componenti fonetiche della lingua parlata, presumibilmente innata, con l'esperienza fetale di esposizione alla lingua materna. Se la percezione del linguaggio costituisce una base fondamentale dell'interazione sociale, tuttavia l'individuazione del parlante, in particolare l'individuazione del volto di chi sta parlando e la possibilità di leggerne l'espressione, risulta decisiva per comprendere la comunicazione dell'altro. Il volto umano rappresenta lo stimolo più complesso e attraente che il neonato incontra nella sua esperienza: è uno stimolo tridimensionale, possiede contorni marcati e nitidi (per esempio, il confine tra la fronte e i capelli) ed elementi interni di contrasto (gli occhi e la bocca in particolare), si muove (oltre ai movimenti interni degli occhi e della bocca cambia posizione e orientamento nello spazio), ed è simmetrico; possiede, cioè, tutte le caratteristiche che gli studi sperimentali sulla percezione visiva del neonato hanno evidenziato come non solo discriminabili, ma anche preferite da quest'ulti(Slater, Butterworth, 1997). Al riguardo, è stata formulata l'ipotesi che la preferenza del neonato per il volto umano dipenda semplicemente dal fatto che le proprietà psicofisiche del volto - in particolare }"'energia" dello stimolo, cioè il prodotto dell'interazione tra il con-
mo
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l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEL l'RIMO ANNO DJ VITA
trasto e la frequenza spaziale presenti nello stimolo - coincidono con quelle a cui i canali sensoriali del neonato sono particolarmente sensibili (Kleiner, 1987). Un'ipotesi alternativa a quella sensoriale è stata sviluppata daJohnson e Morton (1991) soprattutto dopo la replica, a opera degli stessi autori, di un famoso esperimento (Goren et al., 1975) in cui è stato mostrato che soltanto 9 minuti dopo la nascita i neonati orientano la testa e gli occhi significativamente più a lungo per seguire uno stimolo bidimensionale con le caratteristiche schematiche di un volto, piuttosto che uno stimolo contenente le medesime caratteristiche (occhi, bocca, naso, sopracciglia) disposte in modo innaturale. Secondo Johnson e Morton questi risultati dimostrerebbero che il volto rappresenta uno stimolo speciale per i neonati, perché questi ultimi possiederebbero un dispositivo innato di discriminazione del volto (/ace-detection) funzionante a livello subcorticale e contenente le informazioni relative alla disposizione spaziale degli elementi che costituiscono lo schema del volto dei conspecifici (disposizione a triangolo di occhi e bocca), che ne orienta l'attenzione verso i volti. Le strutture sottocorticali coinvolte sarebbero le stesse che negli adulti modulano le risposte di certe aree corticali ai volti e ad altri stimoli sociali Uohnson, 2005). Nel corso dell'ultimo decennio diversi esperimenti hanno mostrato il ruolo fondamentale delle caratteristiche strutturali di uno stimolo visivo simile a un volto nel produrre una risposta preferenziale da parte dei neonati (per esempio, Mondloch, Lewis, Budreau, Maurer, Dannemiller, Stephens, Kleiner-Gathercoal, 1999; Valenza, Simion, Macchi Cassia, Umiltà, 1996), sebbene i risultati di alcuni esperimenti abbiano suggerito che nel determinare la preferenza dei neonati pel' i volti sembra cruciale non tanto la struttura specifica del volto (cioè la relazione spaziale tra i suoi elementi interni) quanto, piuttosto, una proprietà strutturale che i volti condividono con altri stimoli visivi, quale l'asimmetria tra la parte superiore e inferiore, cioè la presenza di un maggior numero di elementi nella parte superiore dello stimolo (Turati, Simion, Milani, Umiltà, 2002). In tal senso, è stato ipotizzato che i volti possano essere preferiti già alla nascita semplicemente perché possiedono proprietà strutturali generali capaci di indurre risposte preferenziali nei neonati (Simion, Macchi Cassia, Turati, Valenza, 2003). Infine, recentemente è stato fatto un ulteriore passo avanti nella scoperta di indicatori del preadattamento all'interazione sociale. Nello specifico, è stato trovato che i neonati guardano più a lungo e più
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IL PERIODO NEONATALE, GLI INDICATORl DEL "PREADATTAMENTO" ALL'INTERAZIONE SOCIALE
volte la fotografia di un volto con gli occhi aperti piuttosto che quella di un volto con gli occhi chiusi (Batki, Baron-Cohen, Wheelwright, Connellan, Ahluwalia, 2000), così come la fotografia di un volto che sembra guardarli direttamente piuttosto che quella di un volto che sembra guardare altrove (Farroni, Csibra, Simion, Johnson, 2002), purché il volto non sia capovolto e la testa sia dritta (Farroni, Menon, Johnson, 2006). Questi risultati suggeriscono che i neonati appaiono pronti a cercare non solo volti umani ma, in particolare, volti di persone che comunichino con loro.
3.4 Il riconoscimento e la preferenza per la voce, il volto e l'odore della madre La prontezza del neonato a orientarsi selettivamente verso la voce e il volto umano, e a ricercare attivamente tali stimoli, si rivela particolarmente con la madre, cioè l'adulto di cui ha avuto maggiore esperienza nel periodo prenatale e anche dopo la nascita. Nell'introduzione a questo capitolo e, soprattutto, nel paragrafo 3 .l ·abbiamo visto come il neonato di anche soli 2 giorni mostra di discriminare e preferire la voce materna a quella di un'altra donna sconosciuta. Al riguardo, l'ipotesi di un apprendimento prenatale formulata dagli autori considerando che la voce materna è l'unico stimolo sonoro che giunge al feto attraverso un canale interno al corpo della madre, oltre che esterno, è stata supportata da diverse dimostrazioni che i neonati preferiscono voci femminili e il battito del cuore della madre avoci maschili, mentre non sembrano preferire la voce paterna a quella di altri uomini. Inoltre, non sembrano esprimere alcuna prefe,enza per la voce materna quando è udita in modo differente da come veniva sentita in utero (Spence, Freeman, 1996, vedi paragrafo 3.1). Una precoce capacità di riconoscimento è stata comunque documentata anche in relazione al volto materno. In particolare, Field e colleghi (Field, Cohen, Garcia, Greenberg, 1984) hanno riportato una rapida capacità di discriminazione e una preferenza significativa per il volto materno, rispetto a quello di un'altra donna sconosciuta, da parte di neonati con una media di 45 ore di vita. Il risultato è stato replicato da Bushnell, Sai e Mullin (1989; Bushnell, 2001), che hanno avuto cura di accoppiare le madri e le donne estranee per colore e forma dei capelli, e aspetto complessivo. Inoltre, Walton, Bower e Bower (1992), utilizzando la tecnica della suzione non nutritiva, hanno rile75
l PRCX:ESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
vato che in neonati fra le 12 e le 36 ore di vita il tempo di suzione è significativamente più lungo quando è finalizzato a vedere l'immagine videoregistrata del volto della propria madre, piuttosto che quello di una donna sconosciuta. Tuttavia, la preferenza per il volto materno sembra scomparire quando i volti vengono presentati con una lieve angolazione verso la posizione di profilo (Sai, 1990) e quando la linea dell'attaccatura dei capelli e il contorno esterno della testa della madre sono coperti da un foulard (Pascalis, de Schonen, Morton, Deruelle, Fabre-Grenet, 1995). Complessivamente, questi risultati sembrano su p portare l'ipotesi dell'apprendimento di caratteristiche specifiche del volto della madre entro un limitato numero di ore dalla nascita. Infatti, anche gli esperimenti che non hanno mostrato alcuna preferenza appaiono interpretabili considerando la possibilità che nei primissimi giorni di vita i piccoli non siano esposti sufficientemente alla posizione quasi di profilo del volto materno, né alla vista della madre con i capelli completamente coperti. L'ipotesi di un precoce apprendimento appare inoltre supportata dai risultati di uno studio (Bushnell, 2003) che ha trovato un'associazione tra l'incremento dell' opportunità di vedere il volto della madre e l'incremento della preferenza visiva del neonato per tale volto. L'apprendimento di caratteristiche del volto materno e, quindi, il riconoscimento di tale volto a poche ore dalla nascita sembra particolarmente favorito dall'esperienza del neonato di vedere il volto della madre accoppiato alla voce di quest'ultima, come evidenziato da una serie di esperimenti condotti recentemente (Sai, 2005). Nello specifico, utilizzando il paradigma della preferenza visiva (vedi Metodi e strumenti 1) è stato dimostrato che neonati di sole 3 ore di vita si orièntano significativamente di più verso il volto della madre che verso quello di un'altra donna sconosciuta, mostrando di preferire il volto materno, ma solo nel caso in cui dalla nascita a 5-15 minuti prima del test abbiano avuto l'esperienza dell'esposizione alla combinazione vocevolto della madre. Ciò suggerisce che la precoce preferenza per il volto materno è probabilmente determinata dalla capacità di percezione intermodale caratteristica dei neonati, e connessa all'apprendimento prenatale della voce materna. Oltre che alla voce e al volto, il neonato appare particolarmente sensibile agli odori della madre. Attraverso il paradigma della preferenza - in questo caso, olfattiva - è stato infatti mostrato che i neonati allattati al seno riconoscono e preferiscono l'odore ascell~r~_lJla~r no (Cernoch, Porter, 1985), così come il profumo della propria madre 76
IL PERIODO NEONATALE: GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALl:INTERAZIONE SOCIALE
(Porter et al., 1992) a quello di altre donne sconosciute. Le differenze evidenziate da questi studi tra le capacità di riconoscimento olfattivo dei piccoli allattati al seno e quelle dei piccoli allattati artificialmente sembrano probabilmente dovute al fatto che i primi trascorrono periodi più lunghi a diretto contatto con la pelle della madre. Tuttavia, più recentemente è stato rilevato che anche i neonati allattati artificialmente mostrano capacità di riconoscimento degli odori della madre, orientandosi preferenzialmente verso l'odore del liquido amniotico materno, piuttosto che verso quello del liquido amniotico di altre donne (Marlier, Schaal, Soussignan, 1998b). Sembra comunque che nella diade madre-neonato la particolare sensibilità agli stimoli sensoriali provenienti dal partner sia reciproca: le madri- indipendentemente dall'aver avuto un parto spontaneo o cesareo - appaiono in grado di riconoscere il loro neonato dall'odore (Porter, Cernoch, Perry, 1983) e dal contatto tattile (Kaitz, Meirov, Landman, 1993). In particolare, nello studio di Kaitz e colleghi, in cui le madri venivano bendate e guidate a toccare le mani e il volto di tre neonati, tra cui il proprio, due terzi delle madri sono riuscite a identificare il figlio dalle mani, e la metà di esse dal volto. Complessivamente, gli studi citati mostrano che i neonati e le loro madri possiedono molteplici canali di comunicazione, alternativi e complementari, che assicurano gli inizi della formazione di un legame affettivo e una precoce possibilità di entrare in contatto con l'esperienza dell'altro. METODI E STRUMENTI 1
l paradigmi sperimentali per lo studio delle precoci capacità di discriminazione di stimoli
Il paradigma dell'abituazione Il paradigma dell'abituazione si basa sull'osservazione che la presentazioneçl_i uno stimolo percettivo (per esempio, acustico, oppure visivo, olfattivo) non familiare tende a produrre una risposta psicofisiologica (per • esempio, la decelerazione del battito cardiaco) e/o comportamentale (per esempio, la variazione della frequenza di suzione di un ciuccio, l'orientamento dello sguardo o del capo, la fissazione visiva) nel neonato, ma che con la presentazione ripetuta dello stesso stimolo l'iniziale rispo- . sta diminuisce progressivamente, testimoniando un processo di abituazione allo stimolo. Tale processo viene considerato come evidenza della capacità del neonato di formarsi una progressiva rappresentazione men. tale dello stimolo ripetutamente presentato: a ogni ripresentazione dello
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l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA !NTERSOGGETT!VA NEL PRIMO ANNO DI VITA
stimolo la rappresentazione interna dello stimolo e lo stimolo esterno verrebbero progressivamente a coincidere e questa crescente somiglianza (fino a una completa sovrapposizione) di stimoli provocherebbe un i decremento della risposta (Bornstein, 1985a; Cohen, 1973). L:evidenza empirica che il decremento della risposta del neonato non sia determinato dalla sua stanchezza ma, piuttosto, da un processo di elaboraziooe dell l'informazione dello stimolo è costituita dalla reazione del neonato alla presentazione di uno stimolo nuovo: in tale situazione il piccolo tende infatti a mostrare un significativo incremento della risposta. l . La procedura prevista dal paradigma dell'abituazione è quindi camposta da due fasi: la fase dell'abituazione e la fase test. Nella prima fase, dopo aver misurato il livello di risposta del neonato in assenza di stimolazione (per esempio, la frequenza di suzione di una tettarella collegata a un trasduttore di pressione e a un computer), uno stesso stimolo (per esempio, uno stimolo acustico) viene presentato ripetutamente al neonato; la presentazione dello stimolo awiene solitamente quando la risposta comportamentale d'interesse (per esempio, la suzione non nutritiva) è già in atto, in modo che sia il piccolo a controllare la durata della presentazione attraverso il suo comportamento (infant-contro/ procedure). Quando, dopo ripetute presentazioni, la diminuzione della risposta del piccolo raggiunge un criterio prefissato (per esempio, la frequenza di suzione non nutritiva che all'iniziale presentazione dello stimolo era aumentata, diminuisce del 20% rispetto al minuto precedente, Sansavini, 1995) si consi· dera conclusa la fase di abituazione e si passa alla fase test. Ciò significa che al gruppo sperimentale di neonati viene presentato uno stimolo che contiene proprietà nuove rispetto allo stimolo di abituazione, mentre al gruppo di controllo viene presentato di nuovo lo stimolo precedente. Se i neonati del gruppo di controllo continuano a mostrare la risposta di abituazione mentre, al contrario, quelli del gruppo sperimentale manifestano un significativo incremento della risposta (per esempio, un significativo aumento della suzione) rispetto a quella rilevata al termine della fase di abituazione, si assume che questi neonati siano riusciti a discriminare i due stimoli. Solitamente, gli studi sulla capacità di discriminazione del feto utilizzano la misurazione di una risposta di tipo psicofisiologico, quale la frequenza del battito cardiaco. Gli studi sulle capacità neonatali tendono invece a misurare risposte comportamentali (che possono comunque essere affiancate da misure psicofisiologiche); in particolare, la suzione non nutritiva viene comunemente usata nelle ricerche sulla discriminazione uditiva, l'orientamento dello sguardo e la durata di fissazione visiva dello stimolo nelle ricerche sulla discriminazione visiva.
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Il paradigma della preferenza
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Il paradigma della preferenza si basa sull'assunto che, a parità di condizioni di presentazione di due stimoli diversi, se il neonato orienta maggiormente lo sguardo o il capo verso uno dei due stimoli e fissa tale stimolo !
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per un tempo maggiore che per l'altro (oppure prolunga l'attività di suzio-~ ne non nutritiva quando, in corrispondenza di tale attività, viene presentato uno stimolo, piuttosto che l'altro), si può presumere che il piccolo abbia discriminato i due stimoli e, spontaneamente, ne abbia preferito uno. La procedura tende a variare secondo l'area di discriminazione percettiva oggetto d'indagine. Lo studio della preferenza visiva prevede solitamente la presentazione simultanea di due stimoli, posti nel campo visivo del neonato, rispettivamente a destra e a sinistra di un punto centrale di lissazione; per controllare la possibile tendenza del neonato a orientarsi in una direzione più che nell'altra indipendentemente dalla preferenza per lo stimolo, la presentazione degli stimoli viene ripetuta almeno due o più volte invertendo la posizione degli stimoli a ogni presentazione. La rilevazione si focalizza sui due processi evidenziati da Cohen ( 1972) come costitutivi dell'attenzione selettiva, ossia l'orientamento dello sguardo, misurato come numero di orientamenti visivi verso ciascuno dei due stimoli, e il mantenimento dell'attenzione, misurato come durata della fissazione visiva di ciascuno stimolo. Un limite della presentazione simultanea dei due stimoli consiste però nel fatto che, quando il neonato si limita a guardare soltanto uno dei due stimoli, non è di fatto possibile inferire nessuna discriminazione né preferenza. Lo studio della preferenza uditiva prevede invece che i due stimoli vengano presentati in successione alternata, solitamente - come per il . paradigma dell'abituazione - quando il neonato manifesta il comporta- · mento che si è scelto di rilevare; quest'ultimo può consistere nella suzione non nutritiva, ma anche nella rotazione della testa o, ancora, nella durata della fissazione visiva della fonte sonora. La rilevazione si prefigge di misurare rispetto a quale dei due stimoli il neonato manifesta più a lun- 1 go, o per un maggior numero di volte, il comportamento prescelto. Tuttavia, il caso in cui il neonato non esprima alcuna preferenza per uno dei due stimoli, non permette di inferire che il piccolo non è stato in grado di discriminare tra di essi; in tal senso, rappresenta il principale limite di questo paradigma di ricerca. Recentemente, questi paradigmi sperimentali fondati sull'osservazione del comportamento sono stati affiancati dall'utilizzo di tecniche che permettono di visualizzare l'attività cerebrale di un soggetto durante una determinata situazione quale, per esempio, la presentazione di stimoli. Queste tecniche, sviluppate nell'ambito delle neuroscienze, sono state prevalentemente utilizzate con soggetti adulti, ma iniziano a essere utilizzate anche per lo studio dei correlati neurali delle capacità percettive e cognitive neonatali perché, pur necessitando di laboratori appositamente attrezzati, non presentano problemi di invasività che ne escluderebbero l'uso con bambini nei primi periodi di vita. La più utilizzata è la tecnica dei potenziali evocati connessi all'evento, conosciuta come ERP (event-related potentials), che per mezzo dell'applicazione di elettrodi alla testa del bambino permette di rilevare l'attività elettrica di un'area del cervello in ri-
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sposta alla presentazione di un determinato stimolo e, quindi, di confrontare l'attivazione cerebrale in presenza di stimoli diversi. Per una spiegazione più dettagliata delle applicazioni di questa tecnica e di un'altra tecnica (quella della risonanza magnetico funzionalé, o fMRI) si consiglia l'articolo di de Haan e Thomas (2002) in un numero monografico di Developmental Science sull'argomento.
3.5 L'imitazione neonatale La prova più impressionante della predisposizione del neonato a interagire con gli altri esseri umani è il fatto che, quando la sua attenzione viene sollecitata da un adulto che, pastosi faccia-a-faccia rispetto al piccolo, produce in modo ripetuto particolari azioni facciali (o anche vocalizzazioni o movimenti delle mani e delle dita), il neonato tende a imitare attivamente tali azioni. Alle prime ricerche che hanno scoperto la capacità neonatale di imitare non solo azioni visibili, quali movimenti delle dita, ma anche difficilmente visibili all'atto della riproduzione, quali la protrusione della lingua (Maratos, 1973 ), sono segl,!.iti studi attentamente controllati sull'imitazione dell'apertura della bocca e della protrusione della lingua e delle labbra. Questi studi hanno mostrato la presenza di tale capacità in neonati di pochi giorni e persino poche ore di vita (Meltzoff, Moore, 1977). Nel corso degli ultimi vent'anni questi risultati hanno avuto diverse repliche e conferme (per esempio, Kugiumutzakis, 1999; Meltzoff, Moore, 1989; Reissland, 1988; Vinter, 1986). Inoltre, è stato trovato che a meno di 2 giorni di vita i neonati appaiono in grado di imitare espressioni facciali di emozioni quali la sorpresa (spalancando gli occhi e la bocca), la tristezza (corrugando le sopracciglia e protendendo le labbra) e la gioia (";ìllargando le labbra, Field, Woodson, Greenberg, Cohen, 1982); così come di imitare vocalizzazioni (limitatamente alla vocale /a/, Kugiumutzakis, 1993) e movimenti della bocca necessari all'emissione delle vocali e delle consonanti prodotte dal modello (Chen, Striano, Rakoczy, 2004). Più in particolare, quest'ultimo studio di Chen e colleghe ha dimostrato che dopo l'esposizione all'emissione ripetuta del suono /a/ da parte dell'adulto sperimentatore i neonati tendono a produrremovimenti di apertura della bocca in numero significativamente maggiore che dopo l'esposizione al suono /m/; al contrario, dopo l'esposizione al suono Imi tendono a stringere le labbra un numero di volte significativamente maggiore che dopo l'esposizione al suono /a/, mo80
IL PERIODO NEONATALEo GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALL'INTERAZIONE SOCIALE
strando di saper accoppiare ai suoni uditi (dato che alcuni piccoli avevano gli occhi chiusi!) i movimenti della bocca necessari per produrre tali suoni. Complessivamente, l'insieme di questi dati costituisce una prova particolarmente consistente della capacità dei neonati di adattarsi agli altri esseri umani, e rimanda alla questione, tuttora aperta, relativa ai meccanismi sottostanti questa capacità. A tale propo~ito, è interessante osservare che il tentativo di spiegare l'imitazione neonatale come comportamento riflesso sollecitato da alcuni aspetti critici dello stimolo è stato posto in seria discussione dall'evidenza dei dati empirici ottenuti. Innanzitutto, il risultato di uno studio di Legerstee (1991a) ha rivelato che i neonati imitano le azioni delle persone, ma non quelle prodotte da oggetti che simulano gli stessi gesti. Ciò suggerisce che l'imitazione neonatale, ben lontana dall'essere una risposta riflessa, rappresenta piuttosto un comportamento sociale che offre un canale privilegiato per le primissime forme di comunicazione con l'altro e di apprendimento relativo alle persone (Legerstee, 2005). Inoltre, diversi studi (Kugiumutzakis, 1993, 1999; Meltzoff, 1994; Meltzoff, Moore, 1977) hanno documentato che il neonato impiega spesso un certo tempo prima di produrre la risposta imitativa, tempo in cui pare "cercare" i movimenti necessari per la risposta, e tende a riprodurreTazione mostrata dall'adulto- soprattutto nei casi in cui si tratta della protrusione della lingua e dell'apertura della bocca- più volte, in successione, incrementando progressivamente la corrispondenza tra la propria azione e il modello. Questi dati, indicativi della presenza di un certo sforzo del neonato nell'atto imitativo (Kugiumutzakis, 1993; Meltzoff, 1994), appaiono congruenti con il modello teorico formulato da Meltzoff e Moore (1997, vedi paragrafo 1.2), che concettualizza l'imitazione neonatale come un processo attivo di progressivo "accoppiamento" all'azione dell'altro, reso possibile da un dispositivo innato di rappresentazione sovramodale che connette ciò che il piccolo vede, o sente, con ciò che sente propriocettivamente. Lo sforzo comunicativo prodotto dal neonato appare coerente con un altro interessante risultato, relativo al fatto che l'imitazione neonatale sembra emergere con facilità in situazioni in cui l'adulto che svolge il ruolo di modello sollecita delicatamente e affettuosamente l'attenzione del piccolo, ma non altrettanto facilmente in condizioni rigidamente controllate nelle quali il "modello" adulto offre sequenze ripetitive di espressioni programmate, senza supportare l'interesse del piccolo con un'interazione affettiva (Kugiumutzakis, 1993 ). In altre 81
I PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
·parole, all'infuori di un'interazione comunicativa regolata affettivamente appare molto più difficile stimolare l'imitazione da parte di un neonato. Questo dato sembra supportare l'ipotesi (Kugiumutzakis, 1993; Legerstee, 2005; Trevarthen, 1998) che alla base dell'imitazione neonatale ci sia un bisogno profondamente radicato di comunicare con gli altri esseri umani, e che l'imitazione precoce sia espressione di una predisposizione a entrare in contatto con gli altri e a percepire similarità tra le azioni degli altri e le proprie. In particolare, è stato ipotizzato che durante le procedure che si rivelano efficaci nel provocare l'imitazione neonatale il neonato legga il comportamento dell'adulto come un invito a partecipare a uno scambio comunicativo (Kugiumutzakis, 1999) e, conseguentemente, tenda ad attendersi che anche l'adulto sia responsivo, cioè risponda a sua volta all'imitazione, e l'interazione prosegua. Al riguardo, è stato recentemente mostrato che, dopo essere stati attentamente sollecitati dalla ripetizione del movimento di protrusione della lingua, neonati di meno di 2 giorni non solo riescono a imitare lo stesso movimento entro 2 minuti dalla dimostrazione, e a partecipare a un ciclo di imitazione reciproca con lo sperimentatore, ma tendono a ripetere lo stesso gesto anche successivamente, quando lo sperimentatore interrompe l'interazione limitandosi a guardare il neonato, come se si attendessero - e cercassero attivamente una risposta da parte dell'adulto che ha "iniziato il gioco" (Nagy, Molnar, 2004). Nel medesimo esperimento, la misurazione del battito cardiaco dei neonati ha permesso di rilevare che le risposte imitative dei neonati sono precedute e accompagnate da un'accelerazione della frequenza cardiaca mentre, al contrario, la successiv~ ripetizione degli stessi movimenti di fronte al volto non responsivo dell'adulto è anticipata da una decelerazione, considerata indice di attenzione e aspettative rispetto a uno stimolo. Questi risultati hanno condotto gli autori a interpretare la ripetizione degli atti imitativi dopo l'interruzione dell'interazione come "provocazione" o invito rivolto all'adulto a proseguire l'interazione, piuttosto che come atti di imitazione differita, e l'imitazione neonatale come comportamento fortemente motivato. Indipendentemente, comunque, dalle diverse interpretazioni, numerosi autori convergono nel ritenere che l'imitazione precoce, come esperienza di percezione e produzione di corrispondenze tra le proprie azioni e quelle di un'altra persona, permette al neonato di sperimentare un primo senso di connessione con l'altro che può essere considerato precursore dell'esperienza intersoggettiva. Un ulteriore su p-
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IL PERIODO NEON ATALE: GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALL'!NTERAZ!ONE SOCIALE
porto empirico a favore di quest'jdea è costituito dai risultati di uno studio che ha evidenziato che i neonati che imitano maggiormente nell'immediato periodo dopo la nascita sono anche quelli che a 3 mesi, durante l'interazione con la madre, distolgono significativamente m_eno lo sguardo da quest'ultima, suggerendo che l'imitazione neonatale riflette una capacità di ricettività sociale (Heimann, 1989).
3.6 Forme rudimentali di differenziazione tra sé e gli altri Il fenomeno dell'imitazione neonatale suggerisce che i neonati possono in qualche modo distinguere i movimenti del proprio corpo dai movimenti di un'altra persona, e grazie alle sensazioni propriocettive percepite durante le proprie azioni sviluppare un primitivo senso del proprio corpo come entità differenziata da altre entità nell'ambiente (Rochat, 2004 ); in altre parole, sviluppare una sorta di consapevolezza propriocettiva di sé. Inoltre, se si considera il principio formulato da Gibson (1979) secondo cui la percezione dell'ambiente è sempre anche percezione di sé in relazione all'ambiente, non è difficile comprendere come il neonato possa iniziare ad acquisire informazioni su di sé attraverso il riconoscimento dei movimenti del proprio corpo anche in relazione all'ambiente fisico, così come attraverso le prime azioni orientate a obiettivi funzionali (quali, per esempio, succhiare per ricevere nutrimento, ruotare la testa per seguire uno stimolo) e le conseguenze percettive di tali azioni (Rochat, Striano, 2000). La percezione transmodale (Meltzoff, 1990; vedi paragrafo 1.2) rappresenta 1a fonte primaria dello sviluppo del rudimentale senso di sé percepito propriocettivamente. Così, per esempio, la semplice esperienza di muovere un braccio davanti a sé, nel proprio campo visivo, evidenzia il braccio come differenziato dagli altri oggetti dell'ambiente esterno, e permette al lattante di percepirlo come parte di sé perché il piccolo lo vede muoversi, ma al tempo stesso sente propriocettivamente il movimento prodotto, e attraverso la ripetizione vs. interruzione del movimento sperimenta l'effetto della propria azione. In particolare, uno studio di Rochat e Hespos (1997) ha mostrato che già nel loro primo giorno di vita i neonati riescono a discriminare la stimolazione tattile autoprodotta dalla stimolazione tattile prodotta da una fonte esterna. Confrontando le risposte di rotazione del capo manifestate da neonati a seguito della stimolazione tattile della pelle vi83
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cino alla bocca prodotta sia dal dito dello sperimentatore (fonte esterna) che dalla mano del neonato stesso (autostimolazione), gli autori hanno osservato che i piccoli tendono a ruotare la testa e a orientarsi significativamente più verso il dito dello sperimentatore che verso la propria manina. Secondo gli autori, queste risposte differenziate suggeriscono una capacità di discriminare le informazioni percettive che specificano il proprio corpo da quelle che specificano entità esterne. Un altro studio, condotto da Dondi, Simion e Caltran (1999), ha mostrato che quando neonati di 1-3 giorni di vita sono esposti al pianto registrato di un altro neonato manifestano espressioni facciali di distress significativamente più frequenti e prolungate di quando sono invece esposti al proprio pianto registrato; inoltre, solo all'udire il pianto di un altro neonato rallentano significativamente il ritmo di suzione non-nutritiva, dimostrando di saper discriminare il proprio pianto da quello di un altro neonato. A questo riguardo, l'ipotesi più plausibile è che le reazioni differenziate dipendano dalla discriminazione di uno stimolo familiare (il proprio pianto, già udito più volte) da uno stimolo nuovo (il pianto di un altro neonato) che, in quanto tale, provoca un significativo cambiamento del ritmo di suzione. Anche in questo caso, comunque, viene evidenziata una precoce familiarità con caratteristiche che specificano parti di sé (in questo caso, le caratteristiche acustiche delle proprie vocalizzazioni di pianto). E proprio quest'esperienza di familiarità, unita ai feedback propriocettivi generati dalle espressioni facciali e dai movimenti del proprio corpo, contribuisce a sviluppare quell'esperienza di sé o, in altre parole, quella rudimentale differenziazione tra sé e gli altri che costituisce un precursore necessario all'emergere delle prime forrhe di intersoggettività.
3. 7 Pattern di interazione differenziati con le persone e con gli oggetti , Un altro tipo di differenziazione che costituisce un requisito indispensabile all'esperienza intersoggettiva è quella tra persone e oggetti, che già nelle primissime settimane di vita il neonato mostra di "conascere " . Un primo, famoso, studio in cui Brazelton, Koslowski e Main (1974) hanno confrontato il comportamento del neonato di fronte alla madre e a un oggetto inanimato (una scimmia giocattolo), ha mostrato che già dalle 2-3 settimane di vita i piccoli manifestano due differenti pattern 84
IL PERIODO NEONATALE: GLI INDICATORI DEL "PREADATTAMENTO" ALI:INTERAZJONE SOCIALE
di attenzione- caratterizzati da un diverso grado di intensità e durata, così come da un diverso ritmo di distoglimento dello sguardo- in risposta alla madre e all'oggetto. Di fronte all'oggetto lo sguardo tende a essere fisso, statico, accompagnato soltanto da minime contrazioni dei muscoli facciali e, entro le 6 settimane, da occasionali irruzioni di vocalizzazioni verso l'oggetto; il corpo immobile, teso. Di fronte alla madre, invece, l'attenzione del neonato appare regolata da uno specifico ritmo d'interazione che alterna momenti di "attenzione affettiva" (Brazelton et al., 1974) alla faccia della madre, accompagnati da un progressivo incremento dello stato di attivazione: luminosità dello sguardo, lievi movimenti delle mani e degli arti, accenni di sorriso, smorfie e vocalizzazioni, a momenti di apparente distoglimento dell'attenzione in cui l'attività del neonato si riduce sensibilmente. Per esplorare l'ipotesi che le reazioni differenziate del neonato alle persone e agli oggetti possano essere dovute alle caratteristiche di animazione e movimento degli esseri umani rispetto agli oggetti inanimati, diversi studi successivi hanno confrontato il comportamento del neonato in interazione con persone e oggetti animati, smentendo l'ipotesi formulata. In particolare, in uno studio di Ronnqvist e von Hofsten (1994) numerosi neonati sono stati sottoposti a una situazione sociale (una persona di fronte a essi), una situazione non sociale con oggetto animato (una palla che si muoveva lentamente di fronte a essi) e una situazione di controllo. I risultati hanno evidenziato una frequenza di movimenti di flessione delle dita e delle mani significativamente più elevata nella situazione sociale che nelle altre due condizioni, e una maggiore estensione delle dita delle mani e delle braccia (come ad anticipare un movimento di reaching) nella situazione con l'oggetto, suggerendo che i neonati possiedono pattern motori già adattati a particolari tipi di situazioni sociali e non sociali. In uno studio di Legerstee e colleghi (Legerstee, Pomerlau, Malcuit, Feider, 1987) alcuni lattanti - a partire dalle 5 settimane di vita sono stati osservati nell'interazione con la madre, con una donna non familiare e con una bambola; ciascuno dei tre interlocutori era, alternatamente, attivo e immobile. I risultati hanno mostrato che già per i piccoli di 5 settimane la percentuale di tempo speso a guardare l'interlocutore, sorridergli, vocalizzare e muovere le braccia era significativamente superiore nell'interazione con le persone, piuttosto che con la bambola, anche nella condizione in cui quest'ultima si muoveva. Inoltre, che i piccoli manifestavano segni di agitazione quando le persone ·85
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- ma non la bambola - restavano immobili, come si attendessero che le persone agissero reciprocamente. In un altro studio di Legerstee (1991a), lattanti di 5 settimane sottoposti all'interazione con una persona che presentava movimenti di protrusione della lingua e apertura della bocca oppure, in alternativa, all'interazione con oggetti che simulavano gli stessi movimenti, hanno imitato queste azioni quando a proporle era una persona, ma non hanno reagito nello stesso modo di fronte agli oggetti simulatori; in quest'ultima condizione, si sono piuttosto limitati a produrre gesti incongruenti. L'insieme di questi studi mostra che già poche settimane dopo la nascita i neonati reagiscono diversamente alle persone e agli oggetti, suggerendo la presenza di una predisposizione non solo a interagire selettivamente con gli altri esseri umani, ma anche a riconoscere, come sottolinea Legerstee (2005), una somiglianza tra sé e gli altri esseri umani. Questo appare particolarmente importante per lo sviluppo della capacità di coinvolgersi nella comunicazione affettiva con l'altro e sperimentare le prime forme di intersoggettività in una primitiva condivisione di affetti, come vedremo nei prossimi capitoli.
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4 La transizione-chiave del secondo mese: le origini dell'intersoggettività
Nel capitolo precedente abbiamo visto numerosi elementi che testimoniano una sostanziale continuità tra lo sviluppo pre- e post-natale fino all'inizio del secondo mese. ~tro le 6-8 settimane, però, nel comportamento del lattante appaiono alcune radicàJì trasformazioni che rappresentano un cambiamento psicobiologico complessivo (Emde, Buchsbaum, 1989; Prechtl, 1986), cioè un cambiamento che si verifica in diversi domini dello sviluppo (neurologico, fisico, motorio, affettivo, cognitivo-sociale) e porta il lattante verso un nuovo livello di organizzazione comportamentale. Si_l!ssi~te infatti a una.. progressiva diminuzione dei ritmi endogeni che caratterizzavano il periodo neonatale a favore dell'acquisizione di controllo esogeno, cioè di un'organizzazione regolata dall'interazione con l'ambiente esterno. Il tempo trascorso in stato di sonno cala significativamente, la veglia aumenta e viene utilizzata in modo più attivo, compaiono nuove espressioni affettive (prima fra tutte il sorriso come risposta alla stimolazione sociale) che comportano un mutamento significativo nella vita sociale del lattante. I genitori riportano con emozione la scoperta "di una persona" nel loro piccolo (Emde, Gaensbauer, Harmon, 1976): i loro resoconti sottolineano che il lattante sembra rispondere più prontamente a ogni stimolazione che provenga da persone, sorride ai volti umani, che guarda con una nuova vivacità, e comunica in modo più simile agli adulti. Questa transizione si spiega considerando l'interazione tra i cambiamenti che awengono nello sviluppo neurologico nel secondo mese, in particolare la progressiva organizzazione corticale che sostituisce i meccanismi sottocorticali dominanti fino al primo mese di vita (Giovanelli, 1997; Johnson, Morton, 1991), e le stimolazioni ambientali di cui 87
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dispone il lattante. I soli cambiamenti neurologici non sembrana..sufficienti per spiegare questo cambiamento evolutivo: occorre cons_U;krare anche i fattori relativi allo specifico bambino (caratteristiche individUali dello sviluppo fisico e motorio) e al contesto sociale (quantità e qualità delle interazioni con i genitori o altri adulti significativi) e -fisico (caratteristiche dell'ambiente) in cui il piccolo cresce. Tra questi fattori, la disponibilità di contesti d'interazione faccia-a-faccia si rivela particolarmente nevralgica. QuestQ perché se le predisposizioni inpate del lattante (quali la preferenza per le facce e l'abilità di discriminazione linguistica) assicurano che le strutture corticali siano preferenzialmente esposte a stimoli socialmente rilevanti quali il volto umano e il linguaggio, è però solo l'effettiva, prolungata esposizione a tali stimoli che permette lo sviluppo della capacità di elaborarli. Come vedremo, i cambiamenti connessi alla transizione del secondo mese costituiscono i requisiti perché il lattante possa coinvolgersi attivamente nell'esperienza di comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto; in tal senso, aprono allattante la possibilità di vivere una prima esperienza di "incontro" e scambio affettivo con l'altro-da-sé, o "intersoggettività primaria" (Trevarthen, 1979), che coincide anche con l'emergenza di un primo senso di sé come agente (Rochat, 2004). L'analisi dei principali cambiamenti che appaiono nell'organizzazione comportamentale del lattante verso i 2 mesi ci permetterà di capire l'effetto che tali trasformazioni provocano sul comportamento dell'adulto e, quindi, l'esperienza di comunicazione faccia-a-faccia madre (o adulto significativo)-lattante come prima esperienza di intersoggettività.
4. l l cambiamenti nella regolazione degli stati comportamentali e della motricità Entro le 6-8 settimane il lattante mostra un cambiamento nella regolazione degli stati, con un incremento significativo nella quantità di tempo trascorso in stato di veglia vigile, che arriva a occupare il 5060% delle 24 ore giornaliere e tende a concentrarsi nelle ore diurne (Emde, Buchsbaum, 1989; Wolff, 1984). Tuttavia, Wolff (1987) si è accorto che lo schema descrittivo degli stati comportamentali neonatali (Prechtl, 1974) era insufficiente per descrivere un nuovo stato di veglia, che ha definito come "allerta attiva", che entro il terzo mese di vita sembra caratterizzare 1'80% delle ore di veglia dei lattanti, men88
LA TRANSIZIONE-CHIAVE DEL SECONDO MESE LE ORIGINI DELL'INTERSOCGETTIVITÀ
tre lo stato di veglia tranquilla decresce considerevolmente. Questo nuovo stato appare contraddistinto dal fatto che il lattante si mostra capace di coordinare movimenti diretti a uno scopo producendo anche due pattern motori contemporaneamente (per esempio, muovere ritmicamente le braccia e sorridere a una persona), di selezionare attivamente gli eventi nell'ambiente circostante, e di iniziare nuove azioni, oltre che reagire ad azioni che gli sono rivolte. Per sottolineare il cambiamento qualitativo nell'organizzazione dello stato di veglia, Wolff (1987) ha paragonato questo stato di veglia a una veglia "di scelta" per indicare una condizione di veglia non legata a bisogni fisiologici o a stati di disagio; una veglia che dipende, piuttosto, dalla maturazione della corteccia cerebrale e dal parallelo sviluppo dei processi sensomotori e mentali che permettono allattante di prendere parte attiva nell'ambiente fisico e, soprattutto, sociale che lo circonda. In tal senso, secondo Wolff, il graduale incremento nella durata e nella stabilità dell"'allerta attiva", che aumenta comunque in presenza di stimolazioni ambientali, può essere associato allo sviluppo del controllo posturale e motorio (vedi sotto) e all'acquisizione di nuovi pattern motori, potenzialmente interattivi. Durante questo periodo si verificano marcati cambiamenti anche negli stati del sonno (Salzarulo, 2003 ). Il sonno attivo si riduce a favore del sonno calmo, durante il quale scompare l'attività "ritmica" del cervello che lo caratterizzava prima del secondo mese, compaiono nuove frequenze di attività cerebrale importanti per i processi di regolazione del sonno, e si accentuano le differenze nella frequenza cardiaca - più bassa _:rispetto al sonno attivo. Nella fase di sonno attivo si osservano inoltre una diminuzione dell'attività motoria e un miglioramento nell'organizzazione dei rapidi movimenti oculari (rapid eye movements, da cui "sonno REM"), con salve di durata e intensità simili a quelle dell'adulto (Salzarulo, Fagioli, 1992). A questo proposito, se prima delle 6-8 settimane gli stati REM potevano verificarsi anche durante la suzione legata all'allattamento, l'agitazione o il sopore, ora è insolito che ciò avvenga (Emde, Buchsbaum, 1989). Sebbene la durata complessiva del sonno diminuisca, la capacità del lattante di dormire per lunghi periodi aumenta: il sonno tende a concentrarsi nelle ore della notte e il sonno notturno, dopo i 2 mesi, tende frequentemente ad assumere una forma bifasica con un periodo centrale di veglia di una certa durata (> 64 minuti) (Fagioli, Ficca, Salzarulo, 2002). Complessivamente, "la ristrutturazione del modo di funzionare del sistema nervoso che avviene durante il sonno fa apparire il secondo mese co89
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
me uno dei momenti di svolta del primo anno di vita, forse il più importante" (Salzarulo, 2003, p. 30). Infine, è interessante osservare che verso le 6 settimane si verifica un picco marcato nella durata del pianto (Barr, 1990; Hopkins, 2000; St. James-Roberts, Halil, 1991). Questo picco costituisce un altro indice di cambiamento nella regolazione degli stati comportamentali, e sembra indicare una trasformazione nella funzione comunicativa del pianto, che ora diviene più strumentale, modulato da fattori ambientali e sociali. Nonostante l'elevata variabilità interindividuale, il picco di pianto entro le 6 settimane post-natali, l'accresciuto stato di veglia vigile e la concomitante comparsa del sorriso in risposta allo stimolo sociale (vedi paragrafo 4.3) si ritrovano in modo significativo in culture anche molto diverse tra loro (Barr, Konner, Bakeman, Adamson, 1991).
Lo sviluppo del controllo pastura/e e motorio Verso la fine del secondo mese, anche i significativi cambiamenti che si realizzano nello sviluppo del controllo della pastura e della motricità permettono allattant(o} di vivere un rapporto più attivo con l' ambiente circostante. In particolare, in uno studio sullo sviluppo del controllo posturale della testa, che rappresenta una condizione nevralgica per il coinvolgimento del lattante nella comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto, il raggiungimento di tale controllo è stato osservato in tutti i soggetti del campione entro le 9 settimane di vita, sebbene in alcuni lattanti fosse presente fin dalle 6 settimane, con ampia variabilità individuale (v an Wulfften Palthe, Hopkins, 1993). Questo risultato appare coerente con la documentazione della comparsa del controllo posturale attivo, orientato spazialmente, verso la fine del secondo mese (Prechtl, 1989). Lo studio di van Wulfften Palthe e Hopkins: in cui i lattanti sono stati osservati nel contesto dell'interazione faccia-a-faccia spontanea con la madre (seduti di fronte a essa) dal primo al quinto mese di vita, ha anche mostrato che nella maggior parte dei lattanti considerati il raggiungimento del controllo posturale ha preceduto il picco della durata dell'attenzione alla faccia della madre. Verso la fine del secondo mese iniziano ad apparire anche movimenti degli arti più controllati (Giovanelli, 1997; Hopkins, Prechtl, 1984). In questi cambiamenti sembra giocare un ruolo fondamentale lo sviluppo di alcune aree cerebrali che si verifica in questo stesso periodo. L'utilizzo della tomografia a emissione di positroni (PET) -una tecnologia che permette di misurare il livello di metabolizzazione del 90
LA TRANSIZIONE-CHIAVE DEL SECONDO MESE, LE ORIGINI DELL'INTERSOGGE11'IVITA
glucosio nelle diverse aree cerebrali come indicatore di sviluppo delle stesse- ha infatti evidenziato che mentre nel periodo neonatale l'attiV;!,Zione del metabolismo del glucosio è prevalente nella corteccia senso-motoria, verso i 2 mesi inizia ad aumentare nella corteccia parieta1~, nella corteccia visiva primaria e negli emisferi del cervelletto: in al!re,parole, come evidenzia Giovanelli (1997), proprio in quelle strutture che sono importanti per l'integrazione visuo-spaziale e senso-motoria, sebbene rimanga ancora ridotta nelle aree associative visive. Strettamente connesso all'aumento dell'influenza corticale appare anche il significativo calo di frequenza delle risposte riflesse che erano invece prevalenti nel primo mese di vita (per esempio, il riflesso di Moro, il riflesso di rotazione del capo, il riflesso palmare di prensione ecc.) e che scompariranno gradualmente nel corso del terzo-quarto mese. Nella considerazione dei fattori associati allo sviluppo del controllo motorio non va tuttavia dimenticato che la maturazione corticale agisce in interazione con numerose altre variabili quali, per esempio, i cambiamenti nella struttura dei tessuti, lo sviluppo della forza muscolare che permette di contrastare la gravità, le stimolazioni ambientali e i cambiamenti dell'ambiente esterno che richiedono ai processi sensodali e motori capacità di anticipazione e adattamento funzionali all'interazione.
4.2 Lo sviluppo delle abilità visuomotorie:
nuove opportunità per la comunicazione faccia-a-faccia L'incremento della durata della veglia attiva nel corso del secondo mese non segna semplicemente un cambiamento nella regolazione degli stati comportamentali, ma anche un cambiamento cognitivo. I lattanti mostrano più attenzione al mondo sociale che li circonda e, soprattutto, mostrano un'attenzione visibilmente diversa (Rochat, Striano, 1999). Questo appare anche dovuto allo sviluppo di nuove abilità visuomotorie che numerosi studi sperimentali documentano emergere entro i 2 mesi e, complessivamente, ci mostrano che il lattante di quest'età, così come ha sviluppato un certo controllo posturale e matorio, ha sviluppato anche un parziale controllo visivo che gli/le permette la modulazione dello sguardo nell'interazione sociale. Le nuove abilità, che differenziano significativamente il comportamento visivo di un lattante di 2 mesi da quello di un neonato, si possono essenzialmente ricondurre a: 91
I PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
l. la capacità di mantenere l'attenzione visiva per un certo periodo di tempo, rispetto alla quale studi sperimentali basati sul paradigma dell'abituazione (Colombo, Mitchell, 1990; Hood, Murray, King, Hooper, 1996; Slater, Morison, 1991) e studi longitudinali basati sull'osservazione delle prime forme di comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante (Berger, Cunningham, 1981; Lavelli, Fogel, 2002) convergono nell'evidenziare un significativo incremento nella durata della fissazione visiva dalle 4 alle 8 settimane, con picco attorno ai 2 mesi; inoltre, una primitiva capacità di focalizzazione di entrambi gli occhi su un oggetto a media distanza (Aslin, 1987); 2.1a capacità di seguire uno stimolo in movimento in modo fluido, ossia attraverso movimenti oculari relativamente armonici, continui (Aslin, 1987; Nelson, Horowitz, 1987), molto diversi dai movimenti saccadici del neonato (Johnson, 1997); 3. l'accresciuta sensibilità agli stimoli collocati nel campo visivo nasale (cioè nella parte centrale del campo visivo), contrapposta all'orientamento preferenziale del neonato verso gli stimoli presenti nel campo visivo temporale (Johnson, 1997) e strettamente connessa allo sviluppo dell'abilità di esplorare sistematicamente le caratteristiche interne del volto umano (Acerra, de Schonen, Burnod, 1999; Haith, Bergman, Moore, 1977; Maurer, Salapatek, 1976). Questo sostanziale cambiamento è stato messo in luce da un famoso studio in cui Maurer e Salapatek (1976), utilizzando una specifica tecnica di registrazione dei movimenti oculari, hanno confrontato le modalità con cui i neonati e i lattanti di 2 mesi ispezionano visivamente una rappresentazione schematica bidimensionale di una faccia. Ciò che è stato trovato è che mentre i neonati ispezionano principalmente i contorni della faccia, i lattanti di 2 mesi ne esplorano con una certa cura gli elementi interni, sofferm~ndosi in modo rilevante sugli occhi. In particolare, Haith e colleghi (1977), utilizzando come stimolo il volto vivo di un adulto mentre è fermo, si muove, oppure parla, hanno documentato che dalla settima settimana compare una sistematica attività di esplorazione visiva della regione attorno agli occhi, e che tale esplorazione è intensificata quando "il volto" sta parlando.
Anche per i cambiamenti nell'abilità di seguire uno stimolo e di esplorarne le caratteristiche interne, soprattutto, i dati emersi dalle ricerche condotte nell'ambito delle neuroscienze evidenziano una stretta connessione con lo sviluppo delle strutture corticali che, verso i 2 mesi, iniziano a regolare quelle sottocorticali. In particolare, per quan92
LA TRANSIZIONE-CHIAVE DEL SECONDO MESE: LE ORIGINI DELL'INTERSCX;GETTIVIT À
to riguarda l'organizzazione dell'orientamento visivo, Johnson (1997, 200 l) ha ipotizzato una sequenza di sviluppo delle vie corticali che sottostanno al controllo oculo-motorio che, attorno ai 2 mesi di vita, vede l'attivazione della via magnocellulare (struttura corticale medio temporale) che permette di regolare l'attività del colli colo superiore. Per'quanto riguarda invece l'elaborazione delle informazioni provenienti dal volto umano, uno studio condotto da de Schonen e Mancini (1995, cit. inJohnson, 1997) con l'utilizzo della PET (vedi paragrafo 4.1) ha mostrato che verso i 2 mesi, nonostante un basso livello del funzionamento di base dell'attività metabolica nei lobi frontali, alla fissazione della fotografia di un volto di donna corrisponde un significativo incremento nell'attività della corteccia orbita-frontale sinistra e dell'area di Broca, indicativo di una connessione tra l'esplorazione delle caratteristiche interne del volto e lo sviluppo corticale. Tuttavia, relativamente al comportamento visivo del lattante di fronte al volto umano i risultati delle ormai numerose ricerche condotte appaiono piuttosto controversi. È stato infatti mostrato che già lJ 4 settimane di vita i lattanti tendono a fissare gli occhi (dunque un elemento interno alla faccia) se la faccia che hanno di fronte è quella di un adulto reale (Blass, 1997, 1999; Haith et al., 1977). Per esempio, gli studi sperimentali condotti da Blass e colleghi mostrano che, diversamente dal periodo neonatale, a 4 settimane l'assunzione di glucosio non è sufficiente a calmare lattanti in stato di agitazione e pianto se lo sguardo dello sperimentatore non è fisso sui loro occhi; in particolare, i ricercatori documentano come i piccoli tendano a ricercare il contatto oculare e come la possibilità di stabilire tale contatto sia l'elementochiave non solo per la tranquillizzazione, ma anche per brevi esplorazioni del volto umano. Il contatto oculare servirebbe cioè come base per incursioni nell'area circostante gli occhi e poi anche più all'esterno, verso il contorno del volto. Questi dati sull'orientamento preferenziale verso gli occhi e la presenza di contatto oculare a sole 4 settimane di vita appaiono coerenti con i risultati di alcuni studi condotti in contesto naturalistico e focalizzati sull'osservazione delle prime forme d'interazione adulto-neonato. In particolare, gli studi pionieristici di Wolff ( 1963, 1987) riportano che attorno alle 4 settimane si osserva un radicale cambiamento nell'attenzione dei neonati ai volti, in particolare nella loro nuova focalizzazione sugli occhi dell'interlocutore, che dà a quest'ultimo la sensazione di un "vero contatto oculare". Questo cambiamento è evidenziato anche da uno studio longitudinale condotto da Lavelli e Poli 93
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA JNTERSOGGElTJVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
(1998) per confrontare le modalità d'interazione durante l'allattamento al seno e artificiale nel corso del primo trimestre di vita; fra i risultati è infatti emerso un significativo incremento di contatto visivo madre-neonato, indipendentemente dalla modalità di allattamento, a l mese d'età. Infine, i resoconti microdescrittivi di Trevarthen (1979) riportano il fatto che neonati di 3-4 settimane reagiscono ali' approccio di un adulto orientando la testa con lo sguardo fisso sugli occhi o la bocca dell'interlocutore, espressioni di interesse o tiepida sorpresa, e sorriso, come esempio della presenza di meccanismi che regolano la comunicazione interpersonale presenti fin dal primo mese di vita. Secondo questo autore, l'emergere della capacità di mantenere il contatto oculare si verificherebbe però attorno alle 6 settimane, insieme alla comparsa di altri indicatori della transizione dal controllo endogeno a quello esogeno, quali un sorriso (come vedremo nel prossimo paragrafo) più "pronto" e aperto. Indipendentemente dalle parziali discrepanze dei risultati, spesso dovute alla diversità di metodi e disegni di ricerca adottati, ciò che complessivamente si evidenzia dagli studi considerati è che nel corso, o perlomeno verso la fine, del secondo mese di vita lo sviluppo di nuove abilità visuomotorie fornisce al lattante nuove opportunità di comunicazione con l'adulto. Il lattante di 6-8 settimane può infatti guardare direttamente gli occhi del partner e mantenere il contatto visivo che, se già in sé rappresenta un potentissimo organizzatore di comunicazione non verbale fra gli umani, riferito a un lattante di poche settimane acquista un potere speciale: oltre il contatto tattile, rappresenta infatti la prima forma di "incontro" e comunicazione con l'altro-dasé. Inoltre, il seppur primitivo controllo del proprio sguardo permette al lattante di quest'età di modularne la direzione così da guardare direttamente la faccia del partner, ma anche distoglierne lo sguardo a 90°, o monitorare il comportamento dell'interlocutore attraverso la visione periferica; in altre parole, così da poter instaurare, mantenere o interrompere la comunicazione faccia-a-faccia con un adulto. E ancora, la crescente capacità di focalizzazione a media distanza gli/le consente di coinvolgersi in scambi comunicativi che avvengono anche a una distanza conversazionale. Infine, in relazione alla percezione del volto, il nuovo focus di attenzione agli elementi interni (occhi, sopracciglia, bocca) e, soprattutto, ai movimenti di queste zone facciali, permette al lattante di raccogliere importanti indizi percettivi relativi agli altri esseri umani e alle loro espressioni e, quindi, di iniziare a poco a poco a riconoscerne le 94
LA TRANSIZIONE-CHIAVE DEL SECONDO MESE, LE ORIGINI DELL'INTERSOGGETTIVITA
emozioni e_gli stati affettivi. In tal senso, lo spostamento dell' attenzione del lattante sulle caratteristiche interne del volto umano è stata ipotizzata da Rochat e Striano (1999) come la variabile che controlla la comparsa e lo sviluppo dell'intersoggettività primaria, o di quel senso di esperienza condivisa che si sviluppa nel contesto diadico.
4.3 La comparsa del sorriso sociale La comparsa del sorriso sociale, cioè del sorriso suscitato da uno stimolo sociale quale il volto umano, entro la fine del secondo mese (Spitz, 1965; Wolff, 1963, 1987) rappresenta l'indicatore più chiaro e al tempo stesso più emozionante del passaggio dalla dominanza dei meccanismi adattivi endogeni a quella del controllo esogeno. Tuttavia, questa comparsa non è improwisa, non nasce da una completa assenza di sorriso esogeno (cioè di sorriso che emerge in risposta a una stimolazione esterna) contrapposta, come si potrebbe intuitivamente pensare, alla presenza del sorriso endogeno (vedi 3.2) che caratterizza particolarmente il periodo neonatale. Gli accurati studi sull'ontogenesi del sorriso condotti negli anni Cinquanta-Sessanta da Spitz, Wolff, e in seguito Emde, hanno minuziosamente documentato come fin dalla prima o dalla seconda settimana di vita, oltre al sorriso endogeno che emerge primariamente durante le fasi di sonno REM e di transizione dalla veglia al sonno, si possano manifestare forme precoci di sorriso esogeno. Queste forme di sorriso stimolato, chiamato anche "sorriso sociale precoce", compaiono in modo irregolare, in risposta a particolari stimolazioni di tipo tattile, uditivo, e visivo (specialmente in combinazione con stimolazione uditiva), con frequenza sempre maggiore nel corso delle prime 6-7 settimane di vita. In particolare, i primissimi sorrisi esogeni sembra possano essere suscitati da leggere stimolazioni tattili e cinestesiche (soffio sulla pelle, lieve dondolio del neonato) (Sroufe, 1995), mentre forme più frequenti di sorrisi stimolati compaiono entro la terza settimana di vita in risposta a stimoli uditivi sociali e non-sociali, ma specialmente alla voce umana che nella quarta settimana diviene la variabile critica per suscitare tali sorrisi, con un decremento della latenza fra l'anse! della stimolazione e il sorriso di risposta (Wolff, 1987). Entro le 5 settimane, però, non più la sola voce umana, ma la combinazione di voce e faccia (soprattutto se in semplice movimento, quale quello dell'annuire) appare lo stimolo più efficace per suscitare il sorriso nei piccoli. Sembrerebbe 95
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
dunque che via via che il sorriso endogeno, che è innato e organizzato biologicamente, viene inibito, questa seconda forma di sorriso irregolare e ancora aspecifico emerga come risposta biologica alla stimolazione (Emde, 1991 ). Sebbene i dettagliati resoconti di Wolff si fermino alla quinta settimana, lo stesso Wolff (1987) indica che a partire dalla sesta settimana di vita i sorrisi esogeni sembrano trasformarsi da semplici risposte a complessi comportamenti che sottendono una nuova capacità cognitiva. Così, per esempio, all'udire una voce umana senza vedere una faccia il lattante di 6-8 settimane orienta il capo e lo sguardo per cercare la fonte del suono e sorride soltanto dopo aver stabilito un contatto visivo con una faccia. Non è necessario che la voce e la faccia appartengano alla medesima persona (per esempio, la madre può parlare al piccolo dall'altro lato della stanza e il lattante stabilire un contatto visivo con la faccia di un'altra persona familiare che gli/le è più vicina): è il semplice contatto visivo con il volto umano a suscitare il sorriso. Questo è un esempio di sorriso sociale, definito come risposta specifica alla "gestalt complessiva" del volto umano, che tuttavia emerge più comunemente nel contesto delle interazioni faccia-a-faccia con la madre o altri adulti significativi. Infatti, la combinazione dell'esposizione al volto umano con una voce familiare può facilitare la comparsa del sorriso sociale, anche se attorno ai 2 mesi il semplice contatto visivo con un volto che, a sua volta, guarda quello del lattante può elicitare, da solo, tale sorriso. È interessante osservare che nel periodo immediatamente precedente la comparsa del sorriso sociale le manifestazioni di sorriso esogeno precoce, che peraltro divengono più frequenti dopo il primo mese di vita, si incrementano considerevolmente e acquisiscono una connessione sempre più stretta con gli stati di attivazione del lattante. Durante le prime 6-8 settimane di vita, ossia fino alla comparsa del sorriso sociale, il sorriso esogeno sembrerebbe dunque caratterizzato da una "spinta maturazionale" (Emde, 1991) che mette in luce il ruolo dei processi biologici nel determinare il periodo di comparsa e la forma di base del sorriso sociale. L'evidenza più forte della base innata del sorriso sociale, che mostra come il sorriso sociale non possa essere una risposta imitativa al sorriso dell'altro essere umano, viene dall'osservazione del comportamento dei lattanti ciechi congeniti, che a 2 mesi sorridono alla voce umana e alla stimolazione tattile (Fraiberg, 1971); circa a quest'età i bambini ciechi iniziano anche a sorridere selettivamente al suono della voce materna, così come gli altri bambini
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LA TRANSIZIONE-CHIAVE DEL SECONDO MESE: LE ORJGINI DELL'INTERSOGGETTIVITÀ
diverranno selettivi nei loro sorrisi (dapprima rivolti indifferenziatamente verso qualsiasi faccia, poi selettivamente indirizzati ai volti familiari). Un'altra evidenza del carattere innato del sorriso sociale si osserva nel fatto che i bambini prematuri mostrano questo tipo di sorriso anche sensibilmente più tardi dei coetanei (calcolando I' età dalla nastita) nati a termine, perché necessitano dello stesso tempo di maturazione (circa 45-47 settimane dopo il concepimento) di questi ultimi (Adamson, 1995). La componente innata del sorriso sociale non basta, tuttavia, a spiegame l'effettiva comparsa, che necessita di una sostanziale disponibilità di stimoli sociali rivolti allattante, in particolare, di un contesto interattivo che favorisca l'instaurarsi del contatto visivo col volto umano (Lavelli, Fogel, 2005; Messinger, Fogel, 2007); né basta a spiegare come questo sorriso, che è inizialmente poco caratterizzato e non legato a uno specifico setting, possa rapidamente diventare una potente espressione comunicativa che nell'interazione faccia-a-faccia con l'adulto favorisce lo sviluppo e la condivisione di un'esperienza affettiva positiva. È dunque la possibilità di interazione con l'adulto e, specificamente, il ruolo di rispecchiamento e amplificazione svolto dall'adulto (Lavelli, Barachetti, Fogel, 2006; Lavelli, Fogel, 2002) che ci permette di capire questa importante trasformazione. Come vedremo anche più avanti (vedi paragrafo 4.5), avviene infatti frequentemente che quando il lattante emette i suoi primi sorrisi sociali, anche se questi sono ancora poco definiti e non chiaramente rivolti all'adulto, quest'ultimo tende ad accoglierli con grande entusiasmo; in particolare, a percepire ciascuno di questi sorrisi come atto significativo e ad agire in modo da riflettere questo significato allattante che a sua volta, attraverso l'interazione, inizia a sperimentare l'effettività dei suoi comportamenti. Dal momento della loro comparsa i sorrisi sociali del lattante diventano gradualmente più chiari e più specifici, e in numerose diadi madre-lattante (le differenze interdiadiche sono però notevoli) divengono presto parte integrante delle sequenze di scambio affettivo e di gioco nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia. Soprattutto in questo particolare contesto, entro la fine del secondo mese, oltre al sorriso sociale il lattante appare in grado di produrre una ricca varietà di espressioni facciali e vocali (Lavelli, Fogel, 2005). Tra queste espressioni sono state particolarmente studiate le vocalizzazioni di affetto positivo, tra cui una specifica forma di suono simile al gorgheggio (il cooing, vedi 4.4 ), e i movimenti labiali di "prelinguaggio" (Trevarthen, 1979, 1993b). 97
l PR<X:ESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL l'RIMO ANNO DI VITA
4.4 La comparsa del cooing e dei movimenti labiali di "prelinguaggio" Nel dominio dello sviluppo vocale l'acquisizione del controllo esogeno connessa alla transizione del secondo mese viene a coincidere conuna prima acquisizione del controllo della respirazione (Papousek, Papousek, 1986) che, permettendo la modulazione dei suoni emessi, apre allattante nuove possibilità di espressione comunicativa. Verso le 7-9 settimane di vita in molti lattanti si iniziano infatti a osservare: l) l'incremento, e un relativo prolungamento, dei suoni vocali emessi in stato di veglia tranquilla o attiva, cioè non connessi a stati di pianto o agitazione; 2) la modulazione del tono dei suoni emessi (così come fra le abilità visuomotorie si può osservare la modulazione della direzione dello sguardo), che appare sia come modulazione melodica, sia, soprattutto, come imitazione del tono prodotto dalla madre nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con quest'ultima; 3) strettamente connessa alla modulazione tonale, la comparsa accanto ai suoni vocali - di gradevoli suoni che richiamano tonalità musicali, presentano cioè una maggiore risonanza e ampiezza dei contorni intonazionali e, complessivamente, sembrano esprimere piacere e affetto positivo; nei resoconti dei genitori dei lattanti questi nuovi suoni vengono descritti come cooing (Papousek, Papousek, 1986). Più in particolare, in relazione al cooing è interessante osservare che la caratteristica forma della bocca con cui viene emesso (bocca mediamente aperta col labbro superiore particolarmente sollevato e proteso in avanti) può essere prodotta senza emissione di suono anche alcune settimane prima che, attorno ai 2 mesi, questa particolare vocalizzazione compaia a livello sonoro e acquisti una certa frequenza. Sembra cioè che i movimenti della bocca siano organizzati nel pattern funzionale all'emissione del cooing prima che la coordinazione motoria degli organi vocali con l'apparato respiratorio sia sufficiente per produrre suoni controllati.
La distinzione fra i suoni vocali e il nuovo tipo di suoni emergente è espressa con chiarezza nella classificazione delle vocalizzazioni emesse nei primi mesi di vita secondo la qualità del loro suono segmentale (Bloom, 1989). Tale classificazione, adottata nella maggior parte delle ricerche sul primo sviluppo vocale, individua due tipi di vocalizzazioni: i suoni sillabici e i suoni vocalici, presenti entrambi fin dal secondo 98
LA TRANSIZIONE-CHIAVE DEL SECONDO MESE: LE ORIGINI DELL'INTERSO(;(;ETTIVITÀ
mese (Hsu, Fogel, Coopèr, 2000). I suoni sillabici sono caratterizzati da piena risonanza e modulazione di tono, si approssimano cioè maggiormente alle caratteristiche del linguaggio degli adulti, e sono percepiti come più rilassati; i suoni vocalici sono invece contraddistinti da risonanza nasale, tono basso, e sforzo percepito nella produzione del suono. Ci siamo soffermati su questa distinzione perché diverse ricerèhe, sia sperimentali che osservative, hanno mostrato che questi due tipi di vocalizzazioni provocano percezioni e reazioni differenziate negli adulti. In particolare, la qualità delle vocalizzazioni del lattante (quindi i suoni sillabici, rispetto ai suoni vocalici) sembra incrementare notevolmente la percezione del lattante come partner sociale (Beaumont, Bloom, 1993; Bloom, D'Odorico, Beaumont, 1993). D'altro canto, è stato anche dimostrato che il lattante produce significativamente più suoni sillabici, che di altro tipo, quando è mutualmente coinvolto in un contesto di comunicazione sociale. In par-ticolare, uno studio longitudinale di Legerstee ( 1991 b) condotto con lattanti dalle 3 alle 25 settimane di vita ha mostrato che dalle 7 settimane (cioè da quando è stata possibile la codifica dei suoni sillabici) i lattanti emettevano significativamente più suoni sillabici quando interagivano con persone (madre o donna non familiare) piuttosto che con oggetti inanimati, e quando l'interlocutore conversava attivamente, piuttosto che quando assumeva una posizione passiva; in quest'ultima condizione, al contrario, l'emissione di suoni vocalici era significativamente maggiore a quella degli altri suoni. L'associazione tra la reciprocità nel contesto interattivo e la qualità delle vocalizzazioni del lattante è stata evidenziata anche dai risultati di due altri studi longitudinali che hanno documentato lo sviluppo vocale nell'ambito del sistema di comunicazione con la madre (Hsu, Fogel, 2001), o con ciascuno dei due genitori (Keller, Scholmerich, 1987), nei primi mesi di vita. Infatti, il lavoro di Hsu e Fogel (2001) ha mostrato che la produzione divocalizzazioni sillabiche è associata positivamente con la comunicazione "simmetrica", cioè il mutuo coinvolgimento di madre e lattante nell'interazione; mentre quello di Keller e Scholmerich ( 1987) che le vocalizzazioni positive (suoni sillabici), ma non quelle "di sforzo" (suoni vocalici), sono significativamente più frequenti durante il contatto oculare fra il lattante e il genitore, e suscitano da parte dei genitori risposte verbali/vocali, diversamente dalle vocalizzazioni "di sforzo", 'negative, e fisiologiche che tendono invece a sollecitare più risposte _tattili e vestibolari. Tutti questi dati sottolineano come i sostanziali cambiamenti nello 99
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETIIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
sviluppo vocale aprano allattante la possibilità di coinvolgersi attivamente nella comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto. Entro questo contesto, il nuovo coinvolgimento del lattante si osserva anche nella comparsa, verso le 6-8 settimane, di movimenti delle labbra e della lingua prodotti in relazione sistematica ai segnali emessi dall'adulto, spesso senza emissione di suono. Questi movimenti sono stati definiti come movimenti di "prelinguaggio" (Trevarthen, 1979), perché sembrano esprimere una rudimentale intenzione di parlare con l'interlocutore, a volte manifestata da una sorta di sforzo articolatorio combinato con espressione concentrata e ripetuti tentativi di "approssimazione" ai movimenti labiali dell'adulto. Diversamente dall'espressione di cooing, che trasmette affetto positivo, questi movimenti non appaiono connessi a un particolare contenuto emozionale (la faccia appare relativamente libera da espressioni emozionali), a eccezione della concentrazione, o dello sforzo, a volte percepito. Ma proprio questa sorta di sforzo segnala un nuovo, elevato coinvolgimento percettivo/cognitivo, oltre che affettivo, nella comunicazione con l'altro; un coinvolgimento che appare parte integrante della nuova organizzazione comportamentale del lattante, ed emerge in modo analogo dai risultati di uno studio sull'imitazione condotto da Meltzoff e Moore (1994) con lattanti di 6 settimane (vedi paragrafo 1.2).
4.5 Gli effetti dei cambiamenti del lattante
sul comportamento degli adulti I profondi cambiamenti che si verificano nel comportamento del lattante di 6-8 settimane, specialmente gli inequivocabili segni di risposta sociale (mantenimento del contatto oculare, comparsa del sorriso sociale e del cooing), esercitano una grande influenza sul modo di relazionarsi al piccolo da parte dei genitori e degli altri adulti che gli sono vicino. Un commento diffuso, soprattutto da parte dei genitori di primogeniti, è che il bambino, ora, sembra un essere "più umano" con cui è possibile dialogare, non più solo un "esserino" da nutrire e proteggere (Emde, Buchsbaum, 1989). In particolare, i momenti d'interazione faccia-a-faccia, che nelle settimane precedenti tendevano a restare sullo sfondo di altri eventi quali il pasto o il cambio, divengono un'esperienza centrale di comunicazione fra il lattante e gli adulti che si prendono cura di lui. Soprattutto entro questo contesto, le nuove risposte del lattante agiscono come 100
LA TRANSIZIONE-CHIAVE DEL SECONIXJ MESE: LE ORIGINI DELL'INTERSCX;GETT!VITA
un feedback positivo per l'adulto (Fogel, 1993a), che inizia a rapportai-si al piccolo con una maggiore tonalità affettiva e un"'intuitiva" (Papousek, Papousek, 1995) sensibilità alle esigenze di quest'ultimo come interlocutore. Proprio questa particolare sensibilità, che per i suoi caratteri di universalità e non completa consapevolezza appare connes!Ja a processi psicobiologici (Papousek, Papousek, 1987), fa sì che il comportamento dell'adulto durante la comunicazione faccia-a-faccia con il lattante acquisti alcune caratteristiche particolari:
Esagerazione. La caratteristica più evidente a un osservatore esterno è l'esagerazione delle espressioni facciali e di particolari aspetti del linguaggio e dei movimenti corporei rivolti allattante. Un tipico esempio è l'espressione di finta sorpresa, in cui gli occhi dell'adulto sono spalancati, le sopracciglia sollevate, la bocca aperta ampiamente e la testa sollevata e rovesciata leggermente all'indietro mentre l'adulto, lentamente ma in crescendo, emette un'esclamazione quale "oooooh" o "aaaaah" in un modo che Stern (1977) descrive come la "caricatura di una risposta di orientamento o di sorpresa". Quest'espressione si osserva frequentemente quando il lattante volge lo sguardo verso la faccia dell'adulto, segnalando disponibilità e interesse all'interazione con quest'ultimo, e sembra marcare con affetto positivo il riconoscimento di questo interesse e, quindi, l'inizio della comunicazione. In relazione al linguaggio, l'esagerazione è riferita ai contorni prosodici: q~ando parla allattante l'adulto innalza infatti il tono della propria voce e produce escursioni tonali che sono considerevolmente più ampie di quando parla ad altri adulti. Queste caratteristiche sono state trovate nei genitori di entrambi i sessi (Papousek, Papousek, Bornstein, 1985) e in un ampio numero di culture molto diverse fra loro (Fernald, Kuhl, 1987), persino in linguaggi tonali- cioè linguaggi nei quali il significato è trasmesso dai toni delle sillabe - quali il cinese mandarino (M. Papousek, 1994). Ciò si può collegare al fatto che nel linguaggio diretto allattante, diversamente che in quello utilizzato fra adulti, i contorni prosodici appaiono indipendenti dal contenuto lessicale e, al contrario, legati al contesto dell'interazione e allo stato comportamentale e affettivo del lattante durante la comunicazione con l'adulto. Poiché, come abbiamo visto nel capitolo precedente (vedi paragrafo 3.3) per i neonati, anche i lattanti nei primi mesi di vita sono particolarmente sensibili ai contorni prosodici del linguaggio (Sansavini et al., 1997), proprio questa caratteristica del linguaggio emesso dall'adulto, combinata con espressioni facciali e gestuali, sembra giocare 101
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un ruolo fondamentale nella regolazione dell'attenzione e degli affetti durante le prime interazioni faccia-a-faccia. Rallentamento e semplificazione. Un'altra caratteristica del comportamento dell'adulto nella comunicazione con il lattante è la tendenza a rallentare ogni azione rivolta a quest'ultimo quale, per esempio, il sorridere o il muovere la testa dall'alto verso il basso in segno di approvazione, cioè a mantenere ogni azione (facciale, vocale, o gestuale), come pure ogni pausa fra le azioni (Fernald, Simon, 1984), per un tempo più lungo di quello usato nella comunicazione fra adulti. Nel caso del linguaggio, il prolungamento di alcune sillabe e il rallentamento del ritmo complessivo, uniti alle variazioni di tono, producono una caratteristica qualità musicale (Papousek, Papousek, 1987). Così come tende a ridurre la velocità, l'adulto che si rivolge allattante come interlocutore tende anche a ridurre la complessità del proprio linguaggio e comportamento, usando spesso singole parole o singole azioni ripetute (Fogel, 2001). Ripetizione. La ripetizione di una stessa parola o semplice frase con lo stesso contorno intonazionale e lo stesso ritmo diverse volte, con minime variazioni, così come la ripetizione di una stessa azione o espressione facciale esagerata combinata, per esempio, con una particolare vocalizzazione, costituisce un altro tratto caratteristico del comportamento dell'adulto durante la comunicazione faccia-a-faccia con il lattante. A questo riguardo, è interessante osservare che una determinata azione comunicativa prodotta dalla madre (o dall'adulto che si prende cura del lattante) nel corso della comunicazione con quest'ultimo tende a essere ripetuta a due diversi livelli: sia consecutivamente nel flusso della comunicazione, sia in uno specifico momento (per esempio, quando il lattante ha lo sguardo distolto dalla madre, oppure quando guarda la madre sorridendo) che può ricorrere più volte durante l'interazione, cioè con una specifica funzione (richiamare l'attenzione, scambiare affetto positivo, incoraggiare la partecipazione, approvare, calmare ecc.) che è affidata primariamente al contorno prosadico della vocalizzazione emessa. Per esempio, Stern, Spieker e MacKain (1982) hanno trovato che quando una madre cerca di richiamare l'attenzione del lattante tende a usare frasi e vocalizzazioni con un contorno intonazionale ascendente, mentre durante lo scambio di emozioni positive con il lattante (contatto oculare con sorrisi reciproci) tende a emettere frasi con un contorno sinusoidale a campana. Consideriamo ancora l'espressione di finta sorpresa che la madre tende a
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mostrare quando il lattante volge lo sguardo verso lei, e inizia quindi un periodo di sguardo reciproco: anche nel corso di un solo minuto quest'espressione può essere ripetuta tante volte quante il lattante rivolge lo sguardo alla madre dopo averlo distolto da lei. La ripetuta associazione tra l'espressione enfatizzata e l'inizio del contatto oculare segna con affetto positivo l'azione del lattante; in tal senso, può servire a incoraggiare l'interesse del piccolo per il contatto interpersonale. Se considerate esclusivamente in riferimento al linguaggio, le caratteristiche discusse, ossia esagerazione del tono e dei contorni prosodici, emissione lenta, semplificazione e ripetizione, costituiscono i tratti distintivi di ciò che viene chiamato "linguaggio diretto allattante" (infant-directed speech). In altre parole, un tipo di baby talk- cioè il linguaggio con cui gli adulti si rivolgono ai bambini piccoli (per una trattazione specifica vedi Longobardi, 2001)- con peculiarità prosodiche che, particolarmente efficaci nella comunicazione di emozioni e affetti, si adattano ai lattanti di pochi mesi più che ai neonati o ai bambini più grandi (Stern, Spieker, Barnett, MacKain, 1983). Le caratteristiche del "linguaggio diretto allattante" sono state trovate in molte lingue diverse; persino nel linguaggio dei segni usato dalle madri non udenti che, con i loro lattanti di pochi mesi, tendono a esagerare i comportamenti facciali (Koester, 1994) e, in particolare, i movimenti connessi a ogni segno, e producono segni significativamente più lenti e più ripetuti di quelli rivolti agli altri adulti (Masataka, 1992). Complessivamente, le modificazioni del comportamento degli adulti nella comunicazione faccia-a-faccia con il lattante si possono riassumere nell'accentuazione delle qualità affettive e temporali delle loro azioni comunicative, cioè in un'enfasi che awicina le azioni comunicative dell'adulto alle capacità di comprensione affettiva del lattante di 2 mesi. In tal senso, anche queste modificazioni possono favorire l'instaurarsi di una primitiva esperienza di contatto mentale con l'altro nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia.
4.6 Le origini dell'intersoggettività nell'esperienza di comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto Come già abbiamo accennato, la nuova attenzione del lattante per gli elementi interni del volto umano e le acquisite capacità di mantenere il contatto oculare e rispondere con sorrisi e vocalizzazioni alle 103
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
stimolazioni sociali, così come gli effetti di queste trasformazioni sul comportamento dell'adulto, producono un significativo cambiamento non solo nella durata, ma anche nella dinamica della comunicazione faccia- a-faccia genitore-lattante.' Questo cambiamento è stato documentato da uno studio microgenetico (Lavelli, Fogel, 2002) che ha analizzato il processo di sviluppo delle prime forme di comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante durante le prime 14 settimane di vita- cioè prima, durante e dopo la transizione del secondo mese discussa in questo capitolo - attraverso osservazioni intensive di 16 casi individuali. Le diadi madre-lattante sono state videoregistrate con frequenza settimanale durante la comunicazione spontanea faccia-a-faccia, nel contesto naturale delle loro case, quando il bambino era in stato di veglia tranquilla, attiva o inattiva (vedi Metodi e strumenti 2). I comportamenti della madre e del lattante sono stati codificati in termini di pattern di comunicazione identificati: Richiamo dell'attenzione del lattante, Comunicazione faccia-a-faccia con il lattante coinvolto passivamente (soltanto con lo sguardo orientato al volto materno), o attivamente (con azioni facciali di diverso tipo, sorrisi e vocalizzazioni di affetto positivo alla madre), Consolazione. Una particolare tecnica di analisi statistica ha permesso di modellare le traiettorie di sviluppo della comunicazione faccia-a-faccia diade per diade, oltre che considerando le diadi madrelattante come gruppo. I risultati hanno mostrato che la comunicazione faccia-a-faccia si sviluppa in modo non lineare, con un significativo incremento tra le 4 e le 9 settimane, secondo le singole diadi (nel senso che per alcune coppie madre-lattante l'incremento più forte si è sviluppato tra la quarta e la settima-ottava settimana, per altre tra la sesta e la nona), indipendentemente dalle ampie differenze individuali rilevate nella durata della comunicazione. Per tutte le diadi, inoltre, è stato messo in luce che il secondo mese segna anche l'inizio di un coinvolgimento attivo nella comunicazione da parte del lattante: la durata di tale coinvolgimento nel secondo e nel terzo mese è risultata significativamente maggiore che nel primo. In particolare, è stata osservata un'inversione delle percentuali di semplice sguardo rivolto alla faccia della madre (senza altri segni di coinvolgimento da parte del lattante) e di coinvolgimento attivo nella comunicazione (attraverso azioni facciali e vocali) attorno alle 7 settimane, con un forte incremento della l. Di seguito si parlerà più specificamente di comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante solo perché gli studi sulle prime interazioni sociali si sono quasi tutti focalizzati sulla comunicazione con la madre.
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partecipazione del piccolo fino alle 9-10 settimane, e una successiva stabilizzazione peraltro confermata dai risultati di uno studio (Lavelli, 2005) sui processi di co-regolazione madre-lattante. A livello qualitativa, è stato evidenziato come nella maggior parte delle diadi il cambiamento nel livello di coinvolgimento del bambino -nel passaggio, cioè, dal semplice sguardo rivolto alla faccia della madre, presente con una certa consistenza fin dalla quarta settimana, a un'attenzione più "viva", accompagnata da azioni facciali quali il sollevamento o il corrugamento delle sopracciglia, sorrisi, protrusione delle labbra in movimenti di "prelinguaggio", movimenti degli arti e orientamento posturale verso la madre- tenda a trasformare profondamente il processo di comunicazione faccia-a-faccia. Infatti, se già all'instaurarsi del contatto oculare molte madri iniziano a rapportarsi al lattante in modo più vivace, sorridendo e parlando con un'accentuata -tonalità di voce, all'emergere delle prime azioni facciali o vocali del lattante chiaramente orientate verso il volto materno- verso le 6-8 settimane, secondo le diadi -la maggior parte delle madri inizia a "marcare" queste azioni comunicative con ampi sorrisi e vocalizzazioni di affetto positivo e approvazione, spesso imitando o ripetendo con particolare enfasi l'espressione che il lattante ha appena accennato. Poi tace, guarda in modo invitante il piccolo che mantiene con interesse il contatto oculare, e aspetta con fiducia una risposta. Può ripetere questo anche due, tre volte. Il lattante può allora accennare un gorgheggio o un altro tipo di risposta, a cui la madre, di nuovo, fa prontamente da "eco" sottolineandola attraverso l'imitazione o una risposta affettivamente contingente; il lattante può però anche distogliere temporaneamente lo sguardo dal volto materno e la madre adattarsi al suo comportamento. Complessivamente, i risultati di questo studio mettono in luce come il secondo mese di vifa costituisca un periodo di .transizione tra i livelli quantitativamente e qualitativamente diversi di comunicazione faccia-a-faccia tra la madre e il lattante che si osservano nel primo e nel terzo mese. Sebbene la maggior parte degli studi longitudinali tenda a iniziare le osservazioni dell'interazione madre-lattante verso le 6-8 settimane, o anche più tardi, diversi autori hanno rilevato che, soprattutto dopo la comparsa dei primi sorrisi e delle prime vocalizzazioni, le madri tendono ad accentuare l'attenzione verso ogni minima azione/espressione del lattante e a imitarla, riproducendone perfettamente le caratteristiche, oppure a completarla attraverso una mimica enfatizzata (Reddy, Hay, Murray, Trevarthen, 1997). In particolare, Trevarthen 105
I PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA JNTERSOGGETIWA NEL PRIMO ANNO DI VITA
(1979) ha rilevato che le madri più attente e sensibili tendono a rispondere con rispecchiamento alle espressioni emozionali quali il sorriso e le vocalizzazioni di eccitazione così come alle espressioni di disagio o di malessere, e invece a guardare con ammirazione, quasi ritraendosi, i movimenti labiali e le vocalizzazioni di "prelinguaggio" emesse con elevata concentrazione dal lattante, e a rispondere attivamente a esse solo quando quest'ultimo ha finito. Questo adattamento della risposta della madre permette allattante di formare sequenze di azioni comunicative (per esempio, movimenti labiali emessi con o senza suono, associati a gesti delle mani e movimenti delle sopracciglia) che prendono la forma di "frasi" lunghe anche fino a 2-3 secondi (Trevarthen, 1993b), separate da pause nelle quali il lattante guarda la madre equest'ultima replica con sorrisi, espressioni di stupore ed esclamazioni del tipo "Oooh, daweroo?", "E poi?", come se il piccolo le stesse raccontando una storia interessante. I particolari di queste sequenze comunicative (vedi esempio p. XVII), tipicamente osservabili a partire dalle 8 settimane di vita, sono stati rivelati dalla microanalisi (vedi Metodi e strumenti 2) delle videoregistrazioni dell'interazione faccia-a-faccia madre-lattante che, utilizzata negli studi descrittivi fin dagli anni Settanta (Fogel, 1977; Stern, 1974; Trevarthen, 1977, 1979), grazie allo sviluppo delle tecnologie ha poi potuto accrescere la precisione e l'accuratezza delle osservazioni. Ciò che nel corso di questi anni è stato sostanzialmente scoperto è che entro queste sequenze di comunicazione diadica le azioni espressive del lattante non solo sono coordinate fra loro, ma lo sono anche con quelle materne. In particolare, per quanto riguarda la coordinazione fra le diverse azioni del lattante, è stato mostrato che nell'alternanza dei turni che sembra caratterizzare alcune tipiche sequenze di comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante le vocalizzazioni del lattante appaiono coordinate con i gesti delle sue mani, con sorrisi (nel caso dei gorgheggi) oppure azioni facciali quali il sollevamento o il corrugamento delle sopracciglia (nel caso dei movimenti labiali di "prelinguaggio"), con rotazioni della testa e anche brevi allontanamenti dello sguardo dalla madre (mentre invece lo sguardo rimane fisso sulla faccia della madre quando è quest'ultima a parlare), in analogia con numerose caratteristiche della dimensione paralinguistica della conversazione fra adulti (Bee be, Jaffe, Feldstein, Mays, Alson, 1985). Per questo motivo, così come per l'alternanza dei turni che pure richiama la conversazione fra adulti, queste prime sequenze di comunicazione faccia-a-faccia sono state definite come ''protoconversazioni" (Bateson, 1975). 106
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La tecnica microanalitica ha inoltre fornito diverse testimonianze del fatto che entro queste sequenze di comunicazione faccia-a-faccia le azioni e le espressioni del lattante sono coordinate, sebbene in forma primitiva,, con le azioni e le espressioni della madre; in altre parole, del fatto che sebbene la capacità della madre di adattarsi agli stati d'animo, alle azioni e ai ritmi del piccolo sia determinante nello sviluppo della comunicazione, anche il lattante di soli 2 mesi mostra di percepire le espressioni affettive della madre e di regolare le proprie in base a queste ultime. Le evidenze di questa nuova esperienza di "intersoggettività primaria", cioè di un primo contatto mentale con l'altro-da-sé che è contatto di affetti, senso di esperienza affettiva condivisa, sono diverse. A questo riguardo, rileggere l'esempio di comunicazione faccia-a-faccia tra Gaia e sua madre (p. XVII) ci aiuta a "visualizzare" le considerazioni seguenti. Una prima evidenza di "intersoggettività primaria" appare nel fatto che durante le sequenze di comunicazione faccia-a-faccia il lattante tende a emettere risposte vocali, associate ad azioni facciali e movimenti delle mani e delle braccia, che sono contingenti alle caratteristiche prosodiche (cioè alla tonalità affettiva) delle vocalizzazioni materne (Trevarthen, 1993 b). Queste risposte "affettivamente contingenti" possono essere facilitate dalla reciprocità del processo, cioè dal fatto che le stesse vocalizzazioni materne, in particolare nelle peculiarità prosodiche, tendono a riflettere o a rispondere in modo empatico alle espressioni del lattante. Una seconda evidenza è individuabile nella tendenza del lattante a esprimere affetto positivo quando la madre stessa, durante l'interazione faccia-a-faccia, lo esprime: è stato infatti trovato che il piccolo tende a sorridere maggiormente quando la madre sorride rispetto a quando quest'ultima non sorride (Kaye, Fogel, 1980; Messinger, Fogel, Dickson, 2001). Inoltre, tende spesso a "congiungersi" (o semplicemente a rispondere) alla madre nell'espressione di affetto positivo, come quando in un crescendo di piacevole eccitazione sovrappone i propri gorgheggi alle vocalizzazioni modulate su toni elevati della madre, creando un senso di emozione condivisa. A questo riguardo, è interessante osservare come, soprattutto durante le prime settimane di "protoconversazioni", anche la madre tenda spesso a sovrapporre le proprie vocalizzazioni ai gorgheggi del lattante, con la stessa creazione di un senso di esperienza emozionale condivisa (Ginsburg, Kilbourne, 1988). Infine, una terza evidenza di intersoggettività alle origini è chiaramente osservabile nei tentativi del lattante di imitare alcune espressio107
l PROCESSI))) SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
ni materne, sebbene sia la madre a imitare molto più spesso il piccolo. Uno studio sull'imitazione vocale nelle prime forme d'interazione madre-lattante osservate longitudinalmente, con frequenza quindicinale, da quando i lattanti avevano 2 settimane fino a 6 mesi (Kugiumutzakis, 1993), ha mostrato un 73% di imitazioni da parte delle madri contro un 27% di imitazioni da parte dei lattanti, con un interessante picco di frequenza fra le 6-10 settimane per le madri e fra le 8-12 settimane per i lattanti. Se, però, consideriamo non solo l'esatta riproduzione del suono materno da parte del lattante, ma anche i tentativi di imitazione identificabili dalla riproduzione dei movimenti labiali materni in contingenza temporale con la vocalizzazione della madre, la percentuale di azioni imitative agite dal lattante si innalza considerevolmente, così come l'età in cui si rilevano tali azioni si abbassa di qualche settimana. In particolare, i tentativi di imitazione da parte del lattante si osservano frequentemente durante i giochi faccia-a-faccia in cui la madre produce suoni particolari, quali quello dei bacini (emessi con grande enfasi nella protrusione delle labbra), o quello del cavallo (schiocco ritmato della lingua), e il lattante ripete con lo stesso ritmo la protrusione delle labbra o, nel caso del gioco del cavallo, apre e chiude la bocca muovendo la lingua in un chiaro tentativo di riprodurre il suono udito (Lavelli, Frieri, Fogel, 2003 ); oppure, si osservano nei movimenti delle labbra e della lingua prodotti con sforzo di emissione sonora e ripetuti tentativi di "approssimazione al modello" subito dopo, o in parziale sovrapposizione, a un periodo di attenzione concentrata sui movimenti della bocca della madre (Trevarthen, Kokkinaki, Fiamenghi, 1999). Le imitazioni del lattante che sembrano avere più successo e tendono a innescare sequenze di imitazione reciproca si osservano invece (solitamente però non prima delle 8-11 settimane) quando la madre, in tono di richiesta giocosa, rivolge allattante brevi vocalizzazioni particolarmente sonore, ripetute ritmicamente oppure prolungate; il lattante riesce infatti spesso a riprodurle nelle caratteristiche prosodiche e ritmiche, senza perdere il vivace contatto oculare con la madre. Soprattutto quando ciò avviene, la madre prontamente ripete la vocalizzazione con particolare enfasi e ampi sorrisi di riconoscimento che amplificano gli accenni di sorriso del lattante, in un crescendo di emozione positiva in cui il lattante può anche sovrapporre alla vocalizzazione materna una nuova vocalizzazione e sorrisi più aperti e divertiti. Ciò che si individua in tutti questi esempi di scambi comunicativi fra la madre e il lattante è una sorta di primitiva reciprocità associata 108
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11la regolazione degli affetti e delle emozioni dei due partner. In altre >arale, un processo di "co-regolazione" (Fogel, 1993a) degli affetti e lelle emoiioni dei due partner che sviluppa un senso di esperienza :ondivisa, cioè una forma primitiva di intersoggettività basata sulla :ompartecipazione affettiva. ' ·..· 'QJIJ
METODI E STRUMENTI 2
Il paradigma osservativo per lo studio della comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante Il paradigma di ricerca sulla comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante si afferma verso la metà degli anni Settanta, con la pubblicazione di alcuni testi (in particolare, Lewis, Rosenblum, 1974; Schaffer, 1977) che ne delineano le principali scelte teoriche e metodologiche, e divengono un punto di riferimento indispensabile per le numerose ricerche che si svilupperanno negli anni successivi. Fra i contributi determinanti vi sono capitoli scritti da Brazelton, Stern, Trevarthen, Kaye, Fogel, Ha nus e Mechthild Papousek. La metodologia adottata nell'ambito di queste ricerche è di tipo osservativo e si fonda sulla videoregistrazione e la successiva analisi delle sequenze di comunicazione spontanea che hanno luogo fra la madre e il lattante. Le osservazioni possono essere condotte in un laboratorio o nel contesto naturale delle abitazioni dei soggetti, secondo gli obiettivi specifici e il disegno di ogni ricerca. La madre e il piccolo vengono fatti sedere l'uno di fronte all'altro, nella posizione faccia-a-faccia che garantisce le condizioni ottimali per la possibilità di contatto visivo, ossia il fatto che la posizione degli occhi della madre sia all'incirca alla stessa altezza di quelli del piccolo o in un raggio facilmente raggiungibile dallo sguardo di quest'ultimo, e la distanza delle facce sia contenuta (circa 30 cm), così da permettere anche al lattante nei primi mesi di vita un minimo livello di focalizzazione. li lattante è solitamente posto in uno speciale seggiolino reclinabile (Trevarthen, 1977, ne ha disegnato un prototipo) che gli permette libertà di movimento degli arti, e al tempo stesso fornisce un sostegno se il controllo posturale e motorio del piccolo non è ancora sviluppato: per i neonati, per esempio, nella parte dello schienale dove poggia la testa sono inseriti due supporti laterali imbottiti, e il seggiolino viene reclinato di circa 25°, per impedire che il piccolo tenda a ripiegarsi su se stesso. Le osservazioni sono condotte soltanto quando il lattante è in uno sta- · todi veglia tranquilla (attiva o inattiva) e d'umore tendenzialmente positivo, ed entrambi, sia la madre che il lattante, appaiono disponibili per il gioco sociale. Alla madre viene chiesto di comportarsi come naturalmente fa con il piccolo. Nel caso delle riprese in laboratorio, un sistema di due telecamere, una focalizzata sul lattante, l'altra sulla faccia e il busto della
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permette di registrare sia le espressioni e i movimenti del lattan- i l temadre, che quelli della madre. Nel caso delle riprese in contesto naturale,_l'u- ' · tilizzo di uno specchio (di circa 50 x 70 cm) sistemato dietro la testa del ~ lattante, così da riflettere la faccia della madre, permette di evitare l'uso di ! due telecamere. Soprattutto in questo caso, il tempo (in minuti, secondi · e decimi, o centesimi, di secondo) è solitamente impresso sulle immagi. ni al momento della ripresa. l Le videoregistrazioni ottenute con due telecamere vengono successi: vamente passate attraverso un mixer che genera un unico video con im: magine a schermo diviso e timer (solitamente in centesimi di secondo) l sovraimpresso. · l comportamenti d'interesse (per esempio, la direzione dello sguardo, le espressioni vocali e facciali di ognuno dei due partner, ma anche i tipi d'interazione osservabili quali il gioco faccia-a-faccia, il richiamo dell'attenzione, la consolazione) sono codificati, cioè rilevati sotto forma di categorie che ne consentono poi un'analisi quantitativa, per mezzo dell'osservazione microanalitica delle videoregistrazioni effettuate. Per tecnica microanalitica si intende l'osservazione e l'analisi dei filmati a velocità rallentata, solitamente attraverso una moviola manuale che permette di rilevare ogni minimo cambiamento di comportamento (per esempio, in terminidi decimi di secondo impressi sul video), oppure fotogramma per fotogramma o a una velocità rallentata preimpostata (per esempio, 6 fotoi grammi al secondo), che permette di ottenere dettagliate informazioni su l "quali" comportamenti occorrono, "quando" e "per quanto tempo" nel · corso della sequenza d'interazione. Lanalisi spettrografica delle vocalizzazioni emesse dal lattante e dalla madre, cioè l'analisi delle caratteristiche acustiche dei suoni prodotti dai due partner, può affiancare la codifica dei comportamenti nel caso di studi focalizzati sullo sviluppo della comunicazione vocale. Tutti i dati raccolti vengono infine elaborati attraverso tecniche di analisi statistica sequenziali, che permettono di coglier~· la dinamica temporale dell'interazione, e/o non sequenziali, per valutare l'eventuale effetto significativo delle variabili considerate nel disegno di ricerca. Nel caso di disegni di ricerca microgenetici (Lavelli et al., 2005), cioè focalizzati sull'analisi dei processi di cambiamento, i dati raccolti sono elaborati anche attraverso specifiche tecniche statistiche che permettono di modellare le curve di sviluppo individuali (oltre che medie) delle variabili d'interesse. Lanalisi quantitativa può essere integrata con un'analisi qualitativa, quale l'analisi narrativa delle sequenze di comunicazione faccia-a-faccia, che consente di far luce sulla dinamica della comunicazione entro ogni diade.
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5 Dai 2 ai 6 mesi: intersoggettività come compartecipazione affettiva nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto
Dopo i 2 mesi, lo sviluppo del controllo visuomotorio e posturale fa sì che durante la comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto il lattante riesca a modulare la direzione del proprio sguardo con maggiore padronanza; inoltre, l'acquisita familiarità con quel pattern complesso di stimolazione che è il volto umano che parla e si muove con enfasi mentre si rivolge al piccolo permette a quest'ultimo di interagire con un minore sforzo di "assimilazione" e mostrare più segni di reciprocità nel leggere l'espressione facciale e vocale dell'altro. Così, se nel secondo mese la comunicazione faccia-a-faccia adulto-lattante era caratterizzata da una certa aurea di serietà data dalla prevalenza dell'attenzione concentrata (spesso indicata dal corrugamento delle sopracciglia del lattante) al volto dell'adulto, interrotta da sorrisi e gorgheggi di risposta ma anche da sforzi di vocalizzazione, nel terzo mese l'espressione di attenzione concentrata sfocia più frequentemente in ampi sorrisi e vocalizzazioni di affetto positivo rivolti all'adulto, gli stessi sorrisi del lattante appaiono più aperti, e la comunicazione faccia-a-faccia si fa più rilassata e giocosa (Lavelli, Fogel, 2005). L'obiettivo implicito dell'imerazione faccia-a-faccia, che era inizialmente quello di instaurare una prima forma di scambio comunicativo con il lattante che andasse oltre quello dell'allattamento e delle routine di cura quotidiane, diviene - perlomeno per molte diadi genitore-lattante -la creazione di piacevoli e divertenti esperienze condivise. I segnali di maggiore reciprocità nella comunicazione da parte del lattante sembrano infatti attivare in molti genitori una nuova attenzione alla sintonizzazione affettiva con il piccolo, sintonizzazione che spesso cercano di verificare riproponendo quelle espressioni e quei giochi che in precedenti momenti dell'intera111
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
l madre, permette di registrare sia le espressioni e i movimenti del lattante che quelli della madre. Nel caso delle riprese in contesto naturale, l'ul tilizzo di uno specchio (di circa 50 x 70 cm) sistemato dietro la testa del · lattante, così da riflettere la faccia della madre, permette di evitare l'uso di due telecamere. Soprattutto in questo caso, il tempo (in minuti, secondi : e decimi, o centesimi, di secondo) è solitamente impresso sulle immagini al momento della ripresa. Le videoregistrazioni ottenute con due telecamere vengono successii vamente passate attraverso un mixer che genera un unico video con im. magi~e a schermo diviso e timer (solitamente in centesimi di secondo) sovra1mpresso. l comportamenti d'interesse (per esempio, la direzione dello sguardo, le espressioni vocali e facciali di ognuno dei due partner, ma anche i tipi d'interazione osservabili quali il gioco faccia-a-faccia, il richiamo dell'attenzione, la consolazione) sono codificati, cioè rilevati sotto forma di categorie che ne consentono poi un'analisi quantitativa, per mezzo dell'osservazione microanalitica delle videoregistrazioni effettuate. Per tecnica microanalitica si intende l'osservazione e l'analisi dei filmati a velocità rallentata, solitamente attraverso una moviola manuale che permette di rileva·~ re ogni minimo cambiamento di comportamento (per esempio, in termi. nidi decimi di secondo impressi sul video), oppure fotogramma per fo. togramma o a una velocità rallentata preimpostata (per esempio, 6 fotogrammi al secondo), che permette di ottenere dettagliate informazioni su "quali" comportamenti occorrono, "quando" e "per quanto tempo" nel corso della sequenza d'interazione. Lanalisi spettrografica delle vocalizzazioni emesse dal lattante e dalla madre, cioè l'analisi delle caratteristiche acustiche dei suoni prodotti dai due partner, può affiancare la codifica dei comportamenti nel caso di studi focalizzati sullo sviluppo della comunicazione vocale. Tutti i dati raccolti vengono infine elaborati attraverso tecniche di analisi statistica sequenziali, che permettono di cogliere, la dinamica temporale dell'interazione, e/o non sequenziali, per valutare l'eventuale effetto significativo delle variabili considerate nel disegno di ricerca. Nel caso di disegni di ricerca microgenetici (Lavelli et al., 2005), cioè focalizzati sull'analisi dei processi di cambiamento, i dati raccolti sono elaborati anche attraverso specifiche tecniche statistiche che permettono di modellare le ; curve di sviluppo individuali (oltre che medie) delle variabili d'interesse. \ ~anal!s! quantitativa può essere inte.grata co~ un'analisi q~alitativa: quale · l analisi narrat1va delle sequenze d1 comun1caz1one fawa-a-fawa, che i consente di far luce sulla dinamica della comunicazione entro ogni diade.
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5 Dai 2 ai 6 mesi: intersoggettività come compartecipazione affettiva nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto
Dopo i 2 mesi, lo sviluppo del controllo visuomotorio e posturale fa sì che durante la comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto il lattante riesca a modulare la direzione del proprio sguardo con maggiore padronanza; inoltre, l'acquisita familiarità con quel pattern complesso di stimolazione che è il volto umano che parla e si muove con enfasi mentre si rivolge al piccolo permette a quest'ultimo di interagire con un minore sforzo di "assimilazione" e mostrare più segni di reciprocità nel leggere l'espressione facciale e vocale dell'altro. Così, se nel secondo mese la comunicazione faccia-a-faccia adulto-lattante era caratterizzata da una certa aurea di serietà data dalla prevalenza dell'attenzione concentrata (spesso indicata dal corrugamento delle sopracciglia del lattante) al volto dell'adulto, interrotta da sorrisi e gorgheggi di risposta ma anche da sforzi di vocalizzazione, nel terzo mese l'espressione di attenzione concentrata sfocia più frequentemente in ampi sorrisi e vocalizzazioni di affetto positivo rivolti all'adulto, gli stessi sorrisi della ttante appaiono più aperti, e la comunicazione faccia-a-faccia si fa più rilassata e giocosa (Lavelli, Fogel, 2005). L'obiettivo implicito dell'imerazione faccia-a-faccia, che era inizialmente quello di instaurare una prima forma di scambio comunicativo con il lattante che andasse oltre quello dell'allattamento e delle routine di cura quotidiane, diviene - perlomeno per molte diadi genitore-lattante -la creazione di piacevoli e divertenti esperienze condivise. I segnali di maggiore reciprocità nella comunicazione da parte del lattante sembrano infatti attivare in molti genitori una nuova attenzione alla sintonizzazione affettiva con il piccolo, sintonizzazione che spesso cercano di verificare riproponendo quelle espressioni e quei giochi che in precedenti momenti dell'intera111
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
zione faccia-a-faccia avevano suscitato il sorriso e altre manifestazioni di affetto positivo o, comunque, il coinvolgimento attivo del lattante (Rochat, Striano, 1999). In ogni diade madre (o padre)-lattante l'esperienza di intersoggettività primaria si sviluppa allora come mutua regolazione di attenzione e affetti che tende a creare pattern di comunicazione relativamente ricorrenti (Fogel, 1993a). La comunicazione faccia-a-faccia resta la modalità privilegiata d'interazione fra il lattante e l'adulto finché, a partire dal quarto mese, il crescente interesse del lattante sia verso parti del proprio corpo e di quello dell'interlocutore (soprattutto le mani), sia verso il mondo degli oggetti inizia a spostare il focus dell'interazione dal gioco faccia-afaccia al gioco interpersonale più complesso e al gioco con gli oggetti (Fogel et al., 2006; Trevarthen, 1998). Tuttavia, come vedremo, poiché la direzione dell'attenzione del lattante risulta influenzata dall'interazione di numerose variabili, questo spostamento di focus non appare un passaggio evolutivo lineare (Fogel, Messinger, Dickson, Hsu, 1999), e la comunicazione faccia-a-faccia sembra decrescere definitivamente solo verso i 5-6 mesi. L'analisi dello sviluppo dell'esperienza di intersoggettività primaria nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto ci permetterà di vedere come l'iniziale sensibilità del lattante di soli 2 mesi alla qualità e alla contingenza affettiva della comunicazione dell'adulto, dimostrata dai paradigmi sperimentali di perturbazione della comunicazione faccia-a-faccia, verso i 4 mesi tenda a estendersi anche alla contingenza spazio-temporale e alla struttura narrativa dell'interazione, e a trasformarsi in sensibilità al particolare livello di contingenza sociale di cui il lattante ha esperienza nell'interazione con la madre. In particolare, nella prima parte di questo capitolo analizzeremo i processi di mutua regolazione di attenzioni e affetti che hanno luogo nell'interazione faccia-a-faccia fin dai 2 mesi di vita, soffermandoci sul ruolo dell'orientamento dello sguardo del lattante nel regolare lo scambio comunicativo e, in relazione alla questione della reciprocità dello scambio, sulle capacità del lattante di manifestare espressioni affettivamente contingenti a quelle del partner e comprendere la qualità affettiva delle espressioni del partner, dimostrate dalle alterazioni sperimentali della comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante. Pur nella considerazione delle ampie differenze individuali in queste prime esperienze di comunicazione diadica vedremo, inoltre, come l'esperienza di reciprocità vissuta dal lattante contribuisca in modo determinante allo sviluppo di un primo senso di sé come agente. 112
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Successivamente, prenderemo in considerazione quelle ricerche che nell'interazione adulto-lattante hanno considerato un terzo polo di attenzione (un oggetto verso cui si sposta lo sguardo dell'adulto, oppure un secondo adulto) e hanno mostrato che lattanti di soli 4 mesi, in determinate condizioni sperimentali, manifestano forme primitive di attenzione visiva condivisa e triangolazione di attenzione e affetti; in altre parole, manifestano precursori di quella forma più complessa di intersoggettività che richiede la condivisione dell'attenzione rispetto a un terzo elemento, che si svilupperà nella seconda metà del primo anno. Continuando l'analisi dello sviluppo dell'esperienza di comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto in funzione dell'età del lattante, esamineremo come la ricorrenza e la relativa stabilità dei pattern di imerazione con la madre nel corso dei primi mesi di vita permetta alla ttante di riconoscere e ricordare - attraverso una rudimentale capacità di rappresentazione- tali pattern e, in base a essi, iniziare a organizzare la propria esperienza intersoggettiva e a sviluppare aspettative in proposito. In questa parte del capitolo vedremo come l'esperienza di intersoggettività con la madre attorno ai 4 mesi risulti predittiva della sicurezza vs. insicurezza dell'attaccamento rilevata poi a l anno di vita del bambino. Infine, discuteremo una transizione osservabile nell'esperienza intersoggettiva del lattante attorno al quinto-sesto mese di vita: la transizione, cioè, dalla dominanza del gioco sociale faccia-a-faccia a quella del gioco con gli oggetti sostenuto dall'adulto, alla luce della relazione tra il decremento dell'attenzione al volto dell'adulto durante la comunicazione faccia-a-faccia, l'incremento della postura eretta e l'acquisizione della capacità di afferrare gli oggetti.
5.1 Mutua regolazione di attenzione e affetti nella comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto L'esperienza di comunicazione faccia-a-faccia in cui il lattante di 23 mesi può vivere una prima forma di intersoggettività è essenzialmente concettualizzata come processo di mutua regolazione di attenzione e affetti (Beebe, Lachmann, 2002; Gianino, Tronick, 1988; Reddy et al., 1997; van Egeren, Barratt, Roach, 2001), o regolazione "bidirezionale" (Beebe et al., 2005; Cohn, Tronick, 1988), per sottolineare che il comportamento di ciascun partner è contingente, o influenzato da
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quello dell'altro. Come Beebe e Lachmann (2002) sottolineano, questi termini non implicano "simmetria", perché ciascun partner può influenzare l'altro in modi diversi e in misura diversa; né implicano relazioni causali, perché la regolazione è definita dalle probabilità che il comportamento di un partner possa essere previsto da quello dell'altro; né implicano necessariamente la positività dell'interazione, in quanto anche gli scambi comunicativi di tipo aversivo (in cui, per esempio, il distoglimento dello sguardo da parte del lattante a seguito di un'iperstimolazione materna non fa che rinforzare quest'ultima) si sviluppano attraverso un processo di mutua regolazione. Ciò che è invece implicato in questi termini è che entrambi i partner contribuiscono a strutturare lo scambio comunicativo, sebbene il contributo e le modalità prevalenti di regolazione dello scambio da parte di ciascuno di essi siano profondamente diversi. Le modalità prevalenti di regolazione da parte dell'adulto, in particolare della madre, consistono nell'adattare le sue espressioni (facciali, vocali, gestuali, tattili) alle espressioni, alle azioni e al ritmo scandito dall'orientamento dello sguardo del lattante, mantenendo l'attenzione pressoché costante sul piccolo (Fogel, 1977). Diversamente, le modalità prevalenti di regolazione da parte del lattante consistono nella modulazione dell'orientamento del suo sguardo e della sua attenzione, momento per momento, verso il volto della madre o lontano da quest'ultimo, così da regolare gli input percettivi e mantenere un livello ottimale di attivazione e intensità degli affetti (Stern, 197 4; Trevarthen, 1993b); questo, sebbene tutte le espressioni del lattante, soprattutto le vocalizzazioni di affetto positivo, abbiano un effetto regola torio sui comportamenti materni (Hsu, Fogel, 2003), e il lattante stesso mostri di saper produrre espressioni affettivamente contingenti a quelle dell'adulto. In particolare, l'adattamento delle espressioni di un adulto sensibile e responsivo alle espressioni del lattante tende frequentemente a concretizzarsi nel rispecchiamento affettivo (Beebe, Gerstman, 1980; Beebe, Lachmann, 2002; Gergely, Watson, 1999; Winnicott, 1967), cioè nella ripetizione enfatizzata che sottolinea, dà voce all'espressione del lattante quasi in sincronia con quest'ultima, o nell'imitazione, che include la riproduzione di suoni vocali, toni, ritmi, espressioni facciali e movimenti del corpo del lattante (Trevarthen et al., 1999; Moran, Krupka, Tutton, Symons, 1987; Papousek, Papousek, 1987), o la riproduzione con "variazioni sul tema" (Uzgiris, 1984), che fa comunque da eco alle espressioni del piccolo. Un'altra modalità di adatta114
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mento dell'adulto nello scambio comunicativo con il lattante, sebbene meno frequente delle precedenti- ma non assente (Fogel, 2001)- nei primi 6 mesi di vita, è la sintonizzazione degli affetti (Stern, 1985 ); la "sintonizzazione" trascende la semplice imitazione, perché consiste nella messa in atto di un comportamento che esprime la qualità di un'emozione condivisa senza tuttavia imitarne l'esatta espressione comportamentale. Per esempio, l'adulto può emettere una vocalizzazione della stessa durata e della stessa intensità dell'espressione facciale di gioia del lattante; oppure, se quest'ultimo muove su e giù un braccino con una certa modalità ritmica che esprime eccitazione, l'adulto può rispondere con una vocalizzazione quale "op-op-op-op" che riproduce esattamente lo stesso ritmo e il tono ascendente-discendente dei movimenti del braccio del lattante. Per quanto riguarda invece il comportamento del lattante nella regolazione della comunicazione faccia-a-faccia, l'orientamento del suo sguardo verso la faccia dell'adulto, in particolare la possibilità di instaurare e mantenere il contatto visivo con l'adulto, costituisce la condizione fondamentale per lo scambio di emozioni con quest'ultimo. Ed è proprio lo scambio di emozioni, cioè il passaggio delle espressioni di emozioni dal lattante all'adulto significativo e, viceversa, dall'adulto significativo allattante, che durante queste prime esperienze di comunicazione faccia-a-faccia instaura e regola un contatto mentale tra i due partner (Trevarthen, 1993b, 1998); in altre parole, permette l'esperienza di "intersoggettività primaria".
La modulazione dello sguardo de/lattante come sfondo di rego/azione dello scambio comunicativo Se consideriamo che il sistema visuomotorio raggiunge la maturità funzionale prima degli altri sistemi motori, e che la possibilità di comunicazione vocale del lattante di 2-3 mesi è comunque piuttosto limitata, il ruolo svolto dallo sguardo del piccolo nell'instaurare, mantenere o interrompere la comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto risulta fondamentale. Così, se fin dagli anni Sessanta è stata enfatizzata l'importanza dell'orientamento dello sguardo e del contatto visivo madre-lattante nella formazione del legame di attaccamento (Robson, 1967), nei decenni successivi, con lo sviluppo degli studi sulle prime interazioni sociali faccia-a-faccia, sono state evidenziate le diverse funzioni fondamentali che la modulazione dello sguardo del lattante riveste in queste interazioni: 115
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEl. PRIMO ANNO DI VITA
Segnalazione. Innanzitutto, una funzione dì segnalazione. Fin dal periodo neo natale, quando il neonato ha gli occhi aperti ed è in stato di veglia tranquilla, l'orientamento dello sguardo verso il volto della madre è considerato da quest'ultima un segnale di "prontezza" e disponibilità all'interazione (Adamson, 1995). In modo simile, l' allontanamento dello sguardo del piccolo è considerato un segnale di in'terruzione o riduzione dell'intensità dello scambio comunicativo, ed è stato paragonato ai comportamenti di cut-off sociale che si rilevano in altre specie animali. A questo proposito, numerosi studi sulla comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante hanno considerato l'intensità, la frequenza e la sequenza di comportamenti d'interazione quali le vocalizzazioni, i sorrisi, e il contatto tattile reciproco come funzione della direzione dello sguardo del lattante. Da tempo è stato per esempio rilevato che, nonostante le ampie differenze individuali, quando i bambini hanno lo sguardo distolto dal volto materno, le madri tendono ad avere più successo nell'attrarre l'attenzione dei piccoli se mantengono un livello di espressività relativamente basso, ma una volta attratto lo sguardo dei lattanti ne riescono a mantenere l'attenzione incrementando ed enfatizzando la propria espressività facciale e vocale (Fogel, 1977). Regolazione degli input percettivi. Un'altra funzione fondamentale dell'orientamento dello sguardo del lattante nella comunicazione faccia-a-faccia è quella di regolare gli input percettivi provenienti dall'interlocutore. Sia nell'ambito degli studi sulle prime interazioni sociali che in quello degli studi sperimentali sullo sviluppo dei processi percettivi e attentivi, la durata dello sguardo del lattante rivolto a uno stimolo (per esempio, alla faccia della madre), ossia la durata della fissazione visiva, è infatti tipicamente considerata una misura dell'attenzione visiva ed è ritenuta riflettere processi cognitivi di elaborazione delle informazioni (Bornstein, 1990; Colombo, Mitchell, 1990; Frick, 1998; Ruff, Rothbart, 1996). Regolazione dello stato fisiologico interno (livello di attivazione e intensità degli affetti). Il ruolo dello sguardo del lattante nel regolare gli input percettivi non può però essere separato dal suo ruolo nel regolare lo stato fisiologico interno, in particolare il livello di attivazione e di intensità degli affetti (Beebe, Lachmann, 2002; Reddy et al., 1997; Stern, 197 4). Il lattante può infatti ridurre il suo stato di attivazione distogliendo lo sguardo da uno stimolo che è troppo intenso, troppo complicato, oppure troppo discrepante dagli schemi posseduti. Allo stesso modo, il piccolo può distogliere lo sguardo da uno stimolo ri116
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dondante e noioso per cercare un nuovo stimolo più interessante, e incrementare quindi il suo stato di attivazione. Se si considera lo stimolo sociale fornito dal volto della madre (o del padre) durante la comunicazione faccia-a-faccia, il frequente allontanamento dello sguardo dal volto della madre verso un campo visivo privo di oggetti interessanti - per esempio, dopo aver stimolato un sorriso di riconoscimento o un'emissione verbale da parte della madre- può allora essere interpretato come tentativo di ridurre l'intensità della comunicazione, riposarsi dall'eccitamento che questa comunicazione ha generato, e assimilare le informazioni apprese durante lo scambio comunicativo o il semplice periodo di attenzione alla faccia della madre. Alcune descrizioni riportate in letteratura relative agli improvvisi allontanamenti dello sguardo del lattante dalla madre, allontanamenti effettuati "con una rapida ma non completa rotazione della testa, che mantiene la faccia della madre in una visione periferica mentre il livello di eccitamento declina" (Stern, 1974), sembrano sopportare chiaramente questa interpretazione. In relazione all'evitamento dello sguardo di tipo positivo, Reddy (et al., 1997) ha segnalato anche il comportamento di sorriso intenso e breve distoglimento della testa e dello sguardo in seguito a un'iniziativa d'interazione quale un saluto con sorriso da parte di una persona familiare, osservato a partire dalle 10 settimane di vita. Questo comportamento che, come ha sottolineato la ricercatrice, sembra in qualche modo ricordare una reazione di timidezza o ritrosia di fronte ai complimenti, avrebbe invece la funzione di controllare l'intensità dell' affetto positivo generato nel lattante dal sorriso e dal contatto visivo all'inizio di un'interazione con un'altra persona familiare. Sempre nell'ambito della regolazione dello stato di attivazione, il comportamento di evitamento dello sguardo durante la comunicazione faccia-a-faccia può avere però anche una tonalità affettiva di tipo negativo, cioè testimoniare il disagio del lattante di fronte a una stimolazione eccessiva o a una richiesta di interazione troppo pressante o intrusiva da parte del partner. È stato infatti mostrato come il distoglimento dello sguardo del lattante dal volto dell'interlocutore, distoglimento che nelle situazioni di disagio porta a una riduzione della frequenza del battito cardiaco (Tronick, 1989), svolga un ruolo importante anche nelle più precoci operazioni che rappresentano precursori di manovre difensive e di coping (Riva Crugnola, 2002; Stern, 197 4). In particolare, gli studi in cui Stern e colleghi (Stern, 1971; Beebe e Stern, 1977) hanno evidenziato come l'allontanamento estremo dello sguardo
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e della testa da parte del lattante possa contrastare attivamente o anche porre termine a un comportamento materno intrusivo hanno costituito un importante punto di riferimento per la ricerca in quest'area.
Acquisizione di cognizione sociale. Considerando la relativa immaturità motoria e verbale del lattante di 2-3 mesi, un'altra funzione svolta dalla modulazione dell'attenzione visiva al volto dell'adulto durante la comunicazione faccia-a-faccia è quella d'essere mezzo fondamentale attraverso cui il piccolo acquisisce conoscenza del mondo sociale. In questo specifico contesto, il volto (oltre alla voce) dell'interlocutore diviene infatti luogo di segnali affettivi ai quali il lattante fa riferimento non solo per rispondervi emozionalmente, ma anche per iniziare progressivamente a "monitorare" il comportamento dell'interlocutore e formarsi delle aspettative al suo riguardo (Rochat, Striano, 1999). Strutturazione "dialogica" della comunicazione /accia-a-faccia. Infine, alcune tra le iniziali ricerche sulla comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante (Brazelton et al., 1974; Lester, Hoffman, Brazelton, 1985) hanno evidenziato come ulteriore funzione della modulazione dell'attenzione visiva del lattante, alternata verso il volto della madre e lontano da quest'ultimo, quella di dare all'esperienza d'interazione una forma di scambio "dialogico", cioè una strutturazione temporale della comunicazione faccia-a-faccia. Tuttavia, l'enfasi sulla struttura temporale della comunicazione in cicli periodici di attenzione è stata messa in discussione da diversi studi che hanno mostrato come nel corso della comunicazione i comportamenti dei partner presentino sovrapposizioni e "sfasature" (Cohn, Tronick, 1988; Messer, Vietze, 1988) più frequentemente di una precisa alternanza dei turni e, soprattutto, un continuo "aggiustamento" reciproco (Fogel, 1993b), sia nel senso della contingenza temporale che, soprattutto, della contingenza affettiva. In particolare, è stato evidenziato che soltanto il 30% circa dei momenti di scambio affettivo tra il genitore e il bambino sono perfettamente corrisposti (Tronick, 2003b), e che l'interazione tende a muoversi da stati mutualmente coordinati e affettivamente positivi a stati scoordinati, di segno negativo, per poi tornare a un discreto livello di coordinazione (Tronick, 1989; Tronick, Cohn, 1989); in altre parole, che adulto e lattante si trovano spesso a dover "riparare" un mancato coordinamento per ripristinare un livello di attivazione e affetto funzionale alla comunicazione e che, anche in tale processo, il lattante mostra di possedere precoci competenze comunicative.
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5.2 Le competenze del lattante nella comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto Come abbiamo accennato precedentemente, i risultati di ormai numerose ricerche - sia sperimentali che condotte in contesto naturale documentano che durante la comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto già a partire dalle 6-10 settimane di vita, e in modo più consolidato successivamente, il lattante mostra pattern organizzati di espressioni facciali, vocali e gestuali affettivamente contingenti a quelle del partner e agli eventi che si succedono nell'ambito dell'interazione, così come capacità di discriminazione e comprensione della qualità affettiva e della contingenza delle espressioni del partner (Murray, 1998), e aspettative sulle espressioni facciali e la responsività di quest'ultimo (Nadel, Tremblay-Leveau, 1999). Queste precoci capacità testimoniano tutte la possibilità del lattante di coinvolgersi nell' esperienza intersoggettiva di compartecipazione di affetti.
5.2.1 La contingenza affettiva e la crescente complessità delle espressioni del lattante Dopo la transizione del secondo mese, le espressioni emozionali dei lattanti divengono più complesse, animate, e meglio coordinate con gli eventi dell'ambiente circostante (Sroufe, 1995): a questo proposito, alcuni studi mostrano chiaramente che queste espressioni sono influenzate dai cambiamenti del contesto in cui si trova il lattante (Fogel, 2001; Weinberg, Tronick, 1994). Nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto si sviluppano primariamente espressioni più complesse e differenziate di attenzione e piacere. Un recente studio microgenetico sul rapporto fra attenzione ed espressioni affettive del lattante durante la comunicazione faccia-a-faccia con la madre nel corso delle prime 14 settimane di vita (Lavelli, Fogel, 2005) ha mostrato che l'attenzione del lattante al volto materno, a sua volta rivolto verso quello del piccolo con espressioni di affetto positivo, tende a co-occorrere significativamente con specifiche configurazioni espressive 1 identificate come "Attenziol. Le configurazioni espressive mostrate dai lattanti sono state identificate attraverso una procedura microanalitica di selezione e codifica delle azioni facciali mostrate ripetutamente da tutti i lattanti, da parte di due osservatori indipendenti allenati nell'applicazione del Facial Action Coding Systcm ai lattanti (Oster, Rosenstein, in corso di stampa), c una successiva analisi delle co-occorrenze di tali azioni tra loro e con il livello di attivazione motoria dd lattante.
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ne Concentrata" (corrugamento delle sopracciglia con quiete motoria), "Attenzione Eccitata" (sollevamento delle sopracciglia con eccitazione motoria), "Sorriso Attento" (sollevamento degli angoli delle labbra con la bocca solo parzialmente aperta), "Sorriso Aperto" (sollevamento degli angoli delle labbra con la bocca totalmente aperta), "Espressione di Cooing" (sollevamento e protrusione del labbro superiore e/o movimenti delle labbra e della lingua, con o senza emissione sonora). Al contrario, espressioni di affetto negativo o di assenza di specifiche emozioni da parte del lattante tendono a co-occorrere significativamente con lo sguardo distolto dal volto della madre. Questi dati appaiono coerenti con la rilevazione che durante la comunicazione faccia-a-faccia entro i 6 mesi di vita, quando i lattanti guardano il volto della madre, e quest'ultima sorride, tendono a produrre vocalizzazioni di affetto positivo significativamente più di quando il loro sguardo è distolto dal volto materno (van Beek, Hopkins, Hoeksma, Samsom, 1994; Weinberg, Tronick, 1994). La dinamica della contingenza affettiva tra le espressioni del lattante e quelle della madre è stata documentata dai risultati dell'analisi sequenziale dello studio di Lavelli e Fogel (2005), che hanno evidenziato come sia il "Sorriso" (Attento o Aperto) sia !"'Espressione di Cooing" del lattante siano legati sequenzialmente al "Parlare e Sorridere" da parte della madre. I legami sequenziali sono significativi in entrambe le direzioni, così che il "Parlare e Sorridere" della madre e il "Sorriso" e !"'Espressione di Cooing" del lattante tendono a costituire pattern ciclici che, nei termini della prospettiva dei sistemi dinamici (Fogel, Thelen, 1987; Thelen, Smith, 1994 ), suggeriscono l'esistenza di un "attrattore" di affetto positivo. A 2 mesi, questo "attrattore" viene principalmente attivato dall"' Attenzione Semplice" e dall"'Attenzione Concentrata" del lattante al volto della madre, che influenzano significativamente l'occorrenza di "Parla e Sorride" da parte della madre. Entro i 3 mesi, invece, pattern recettivi quali !"'Attenzione Semplice" e l"' Attenzione Concentrata" del lattante non sembrano più sufficienti a innescare l'attrattore, e un pattern che esprime un maggiore coinvolgimento positivo del lattante, quale !"'Attenzione Eccitata", appare svolgere questa funzione. I risultati dell'analisi longitudinale (Lavelli, Fogel, 2005) hanno inoltre evidenziato un incremento di complessità nella relazione fra attenzione ed espressioni affettive del lattante secondo l'età di quest'ultimo, dalla dominanza di "Attenzione Semplice" (senza alcun segno di coinvolgimento emotivo) al volto materno- con un pattern ci120
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dico di alternanza tra Attenzione Semplice al volto della madre e sguardo rivolto altrove con espressione neutra, osservato fin dalle prime settimane di vita-, alla dominanza di pattern di attenzione più attiva e combinata con espressioni di affetto positivo, con transizioni ripetute fra Attenzione Concentrata ed Eccitata verso il volto della madre, Sorrisi Aperti, ed Espressioni di approccio accompagnate da Cooing e altre vocalizzazioni inserite in sequenze di mutua amplificazione con le espressioni materne, durante il terzo mese. Questa crescente complessità dei pattern espressivi del lattante è stata evidenziata anche da una serie di studi sullo sviluppo del sorriso nel contesto dell'interazione faccia-a-faccia con la madre nei primi 6 mesi di vita. Tali studi hanno documentato che a partire dal terzo mese i lattanti mostrano diversi tipi di sorriso che tendono a comunicare differenti tipi di esperienza emozionale positiva, connessi a specifici eventi nel corso dell'interazione. Oltre al sorriso "semplice", indicato esclusivamente dal sollevamento degli angoli delle labbra e rilevato in associazione allo sguardo del lattante verso il volto della madre (Messinger et al., 2001), un secondo tipo di sorriso che include il sollevamento degli zigomi (sorriso Duchenne), osservabile soprattutto quando il lattante è tenuto in posizione eretta ed è in grado di vedere la madre che sorride e parla, è stato trovato significativamente co-occorrente con i sorrisi della madre (Fogel, Dickson, Hsu, Messinger, NelsonGoens, Nwokah, 1997; Messinger et al., 2001). Infine, un terzo tipo di sorriso...emesso con la bocca particolarmente aperta e la mascella rilasciata (sorriso di gioco) è stato osservato soprattutto quando il lattante è stretto al corpo della madre, baciato, o coinvolto in giochi di contatto tattile quali quello del solletico (Fogel, Nelson-Goens, Hsu, Shapiro, 2000; Messinger, Fogel, Dickson, 1999). I sorrisi Duchenne sembrano quindi connessi a eventi piacevoli di tipo visivo e cognitivo, mentre i sorrisi di gioco appaiono maggiormente legati a eventi di attivazione tattile e fisico-motoria. In termini più globali, una connessione sistematica tra le espressioni affettive del lattante e gli eventi che possono succedersi nel contesto dell'interazione con la madre è stata messa in luce anche da uno studio di Weinberg e Tronick (1994). Gli autori hanno analizzato le espressioni facciali, vocali, gestuali e i comportamenti di autoregolazione mostrati da lattanti di 6 mesi durante l'alterazione sperimentale della comunicazione faccia-a-faccia con la madre per mezzo della StillFace (o procedura del "volto immobile", in cui la madre assume improvvisamente un volto privo di espressione, mantenendo lo sguardo 121
I PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETIIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
rivolto allattante; vedi Metodi e strumenti 3). Ciò ha permesso loro di individuare quattro diverse configurazioni espressive distribuite in modo significativamente diverso fra i diversi episodi d'interazione previsti da questa procedura. In particolare, il "Coinvolgimento Sociale" (sguardo rivolto al volto della madre con espressione facciale di gioia, vocalizzazioni di affetto positivo, possibili parti del proprio corpo alla bocca} durante l'iniziale interazione faccia-a-faccia e, soprattutto, la ripresa dell'interazione dopo l'interruzione; il "Coinvolgimento con gli Oggetti" (sguardo rivolto a oggetti, possibile espressione facciale di interesse ma non di affetto positivo, oggetti/parti dei propri vestiti alla bocca) soprattutto durante l'episodio del volto immobile da parte della madre; la "Protesta Attiva" (espressione facciale di rabbia, vocalizzazioni di affetto negativo, pianto, gesti di richiesta d'essere preso in braccio, movimenti di fuga) e il "Ritiro Passivo" (espressione facciale di tristezza, vocalizzazioni di affetto negativo ma non di pianto, scarsa attività motoria) soprattutto durante l'episodio del volto immobile, ma anche durante la successiva ripresa dell'interazione, a testimonianza di una parziale persistenza del disagio vissuto dal lattante.
5.2.2 La sensibilità alla qualità affettiva e alla contingenza della comunicazione dell'adulto Nello studio di quella forma primaria di intersoggettività che si sviluppa nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto già nei primi mesi di vita una questione particolarmente controversa riguarda il riconoscimento della capacità del lattante di comprendere la qualità affettiva delle espressioni dell'interlocutore. L'ormai riconosciuta capacità del lattante di soli 2-3 mesi di discriminare le espressioni facciali e vocali del partner potrebbe infatti indicare l'abilità di discriminare una faccia sorridente da una faccia arrabbiata sulla base delle caratteristiche percettive, o di prestare attenzione selettiva verso un discorso con contorni prosodici enfatizzati piuttosto che verso un discorso monotono (Cooper, Abraham, Berman, Staska, 1997), pur senza comprendere la qualità affettiva contenuta nelle espressioni del partner. Tuttavia, i risultati di alcune ricerche documentano che i lattanti di poco più di 2 mesi mostrano non solo la capacità di notare i cambiamenti nell'espressività facciale e vocale del partner, e imitarne alcune espressioni, ma anche una primitiva consapevolezza del significato affettivo di tali espressioni, testimoniata dalla produzione di risposte af122
DAl 2 Al6 MEST: INTERSOGGETIIVITA COME COMPARTECIPAZIONE AFFElTTVA ...
fettivamente contingenti a quelle dell'interlocutore, e dall'agire in modo adattivo di fronte a espressioni inattese nel corso dell'interazione. In particolare, una ricerca di Haviland e Lelwica (1987) ha mostrato che lattanti di lO settimane, di fronte alle espressioni di gioia, rabbia e tristezza espresse visivamente e vocalmente dalle loro madri, non solo hanno discriminato queste espressioni, ma hanno anche prodotto risposte affettivamente contingenti a ciascuna delle specifiche espressioni emozionali, manifestando interesse o eccitazione di fronte all'espressione materna di gioia, agitazione o raggelamento di fronte all'espressione di rabbia, e comportamenti auto-consolatori quali, per esempio, l'aumento dei movimenti della lingua, di fronte all'espressione di tristezza. Le autrici, così come Walker-Andrews (1988, 1997), estendendo la teoria ecologica della percezione all'ambiente sociale, hanno suggerito che i lattanti già a quest'età sono in grado di comprendere le a//ordances (Gibson, 1979) delle espressioni emozionali, cioè di percepire direttamente ciò che queste espressioni "offrono" all'interlocutore. A questo riguardo, alcuni studi hanno mostrato che la familiarità della persona (Kahana-Kalman, Walker-Andrews, 2001) e il suo grado di coinvolgimento nella cura e nell'interazione quotidiana con il lattante (Montague, Walker-Andrews, 2002) giocano un ruolo determinante per il riconoscimento delle diverse espressioni emozionali da parte del piccolo. Infatti, attraverso la procedura di preferenza intermodale è stato mostrato che lattanti di 3 mesi e mezzo guardano preferenzialmente le espressioni di emozioni (gioia, rabbia, tristezza) in cui le azioni facciali e vocali sono accoppiate coerentemente quando tali emozioni sono espresse dalla madre, ma non dal padre o da adulti (sia donne che uomini) non familiari. Nel corso degli ultimi decenni, la sensibilità del lattante alla qualità affettiva e alla contingenza della comunicazione che gli rivolge in particolare la madre è stata indagata in modo fruttuoso attraverso diversi paradigmi sperimentali fondati sull'interruzione o la perturbazione del comportamento della madre durante la comunicazione faccia-afaccia con il piccolo. Il confronto delle reazioni di lattanti di sole 6-12 settimane a diverse forme di perturbazione di tale comunicazione, condotto da Murray e Trevarthen (1985), ha evidenziato che questa precoce sensibilità non sembra riducibile alla semplice discriminazione di cambiamenti nel comportamento materno (Murray, 1998), data la specificità delle risposte dei lattanti alle diverse forme di perturbazione. Infatti, nella situazione di perturbazione naturale (in cui la ma123
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dre interrompe la comunicazione e distoglie lo sguardo dal piccolo per parlare con un ricercatore entrato nella stanza) i lattanti hanno manifestato un quieto interesse, mantenendo un'espressione rilassata; nella situazione della Stili-Pace (vedi Metodi e strumenti 3) hanno invece mostrato iniziali segni di protesta, seguiti da distress e conseguente ritiro dall'interazione; infine, nella situazione di interazione live-replay attraverso un doppio sistema di televisori a circuito chiuso (in cui allattante viene mostrato il replay della madre durante la comunicazione faccia-a-faccia precedentemente filmata; vedi Metodi e strumenti 3) i piccoli hanno espresso segni di disorientamento e confusione, piuttosto che di protesta, mostrandosi più distaccati che di fronte al volto materno inespressivo. Questa differenziazione delle risposte suggerisce una precoce sensibilità alle caratteristiche del comportamento comunicativo dell'adulto (direzione dello sguardo, espressione facciale, ritmo dei movimenti e delle vocalizzazioni) e alle semplici regole della comunicazione interpersonale quali la reciprocità e la contingenza. Tuttavia, i risultati ottenuti nell'interazione live-replay non sono sempre stati replicati dai numerosi studi condotti successivamente. Il primo paradigma sperimentale che ha testata l'ipotesi della sensibilità del lattante alla violazione della reciprocità nella comunicazione faccia-a-faccia o, in altri termini, le aspettative del lattante circa il comportamento comunicativo dell'interlocutore, è comunque quello della Still-Face (Adamson, Frick, 2003; Tronick et al., 1978), tuttora proficuamente condiviso dalla comunità scientifica internazionale (Frick, Adamson, 2003).
I risultati degli studi che hanno utilizzato la Still-Face Numerosi esperimenti condotti con il paradigma della Still-Face (SF) confermano che i lattanti, già a partire dai 2 mesi (Field, VegaLahr, Goldstein, Scafi di, 1986; Lamb, Morrison, Malkin, 1987; Muir, Hains, 1993; Tronick et al., 1978), di fronte alla madre che nel corso della comunicazione faccia-a-faccia diviene inaspettatamente non responsiva, riducono significativamente i sorrisi e l'attenzione al volto materno, e mostrano indici di crescente sconforto e ritiro dall'interazione. Inoltre, quando la madre riprende l'interazione normale, molti dei lattanti che non avevano già pianto di fronte al volto immobile, iniziano a piangere, testimoniando uno stato di distress (Cohn, Elmore, 1988; Toda, Fogel, 1993 ). Gli stessi effetti sono stati osservati in culture diverse (Kisilevsky, Hains, Lee, Muir, Xu, Fu, Zhao, Yang, 1998) e 124
DAl 2 Al6 MESI: INTERSOGGETIIVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AFFETfiVA ...
sia con le madri che con i padri (Braumgart-Rieker, Garwood, Powers, Notaro, 1998; Kisilevsky et al., 1998). La persistenza di alcune perturbazioni del comportamento dei lattanti anche dopo il periodo di immobilità del volto materno indica che i cambiamenti nel comportamento dei lattanti non possono essere spiegati dall'ipotesi della mancanza di stimolazione, formulata inizialmente da alcuni autori. Anche l'ipotesi dell"'effetto stanchezza" che potrebbe spiegare l'incremento di manifestazioni negative da parte dei piccoli è stata smentita da un esperimento in cui Gusella, Muir e Tronick ( 1988) hanno aggiunto un gruppo di controllo all'iniziale procedura. I lattanti di questo gruppo, diversamente da quelli del gruppo sperimentale, hanno infatti mantenuto lo sguardo rivolto alla madre in modo costante nel corso di tutto l'esperimento; il loro sorriso è invece calato progressivamente, mentre quello dei lattanti sottoposti alla SF ha mostrato una tipica curva a u, indicativa di un calo significativo durante la SF, seguito però da una ripresa nella fase successiva. Infine, una terza ipotesi, relativa alla possibilità che i lattanti siano meno coinvolti nell'interazione durante la SF perché maggiormente attratti dagli stimoli in movimento, è stata esclusa da un esperimento in cui i lattanti sono stati sottoposti alla procedura della SF sia con le loro madri che con bambole come interlocutori (Ellsworth, Muir, Hains, 1993 ). I risultati mostrano che durante la fase di SF i piccoli hanno inizialmente sorriso solo per riattrarre l'attenzione delle madri reali, e non delle bambole, indicando che la risposta al volto immobile è consistente, ma anche selettiva, riservata cioè all'interazione con gli esseri umani. Complessivamente, quindi, gli esiti dell'utilizzo del paradigma della Still-Face evidenziano la presenza di primitive aspettative del lattante circa la comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto, relative alla responsività e alla contingenza affettiva del partner (Muir, Hains, 1993; Rochat, Striano, 1999). In una variante del paradigma SF, finalizzata a esaminare l'influenza del mantenimento del contatto tattile sulla risposta del lattante alla Still-Face, alle madri era permesso di toccare i loro lattanti mentre mantenevano il volto immobile. In questo caso, l'effetto della Stili-Face sui lattanti era significativamente ridotto: i piccoli continuavano infatti a sorridere e il loro sguardo, distolto dal volto della madre, era comunque mantenuto sulle mani di quest'ultima nell'atto di accarezzarli (Stack, Arnold, 1998; Stack, Muir, 1990). Lo stesso effetto è stato rilevato anche nella situazione in cui i lattanti non potevano vedere le mani della madre, ma solo nel caso in cui il contatto tattile era di ti125
l PROCESSI DI SVILUPPO DEI.I:ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
po attivo, non passivo (Stack, Muir, 1992). Ciò suggerisce che la comunicazione tattile materna può compensare la vista di una madre altrimenti non responsiva, e appare peraltro ampiamente confermato dagli studi sull'interazione di lattanti con madri depresse, sia in situazione di Still-Face (Pelaez-Nogueras, Field, Hossain, Pickens, 1996), che in situazioni quotidiane (Field, 1998; Leitch, 1999). Questi studi hanno infatti mostrato che l'utilizzo di contatto tattile sensibile nella comunicazione con il lattante può aiutare una madre depressa sia a dirigere l'attenzione sul piccolo, sia a compensare i propri comportamenti facciali e vocali, tipicamente inespressivi, e, in tal modo, alleviare parzialmente gli effetti della scarsa responsività sullo sviluppo del bambino. L'utilizzo della Still-Face ha permesso di rilevare non solo la reazione del lattante alla violazione di aspettative relative alla comunicazione diadica faccia-a-faccia, ma anche la condotta di regolazione emotiva che il piccolo è precocemente in grado di mettere in atto in situazione di stress. Una variante del paradigma SF basata sulla simulazione di depressione materna (Cohn, Tronick, 1983 ), ossia di assenza di disponibilità emotiva, scarsa responsività verso i segnali del lattante ed espressioni emozionali di segno negativo, ha evidenziato come lattanti di soli 3 mesi reagissero con espressioni negative (circospezione, protesta), ma al tempo stesso anche con forme di autoregolazione quali l'evitamento del contatto visivo e il decremento del livello di attivazione - peraltro simili a quelle dei bambini di madri vulnerabili alla depressione (Kaminer, 1999, cit. in Beebe, Lachmann, 2002) -,così come il contatto tattile con parti del proprio corpo, volte a ottenere autoconforto. Le strategie di regolazione emotiva sembrano farsi più attive verso i 6 mesi: rispetto ai più piccoli, nella situazione di sr i lattanti di quest'età appaiono infatti maggiormente impegnati nell'esplorazione visiva e tattile degli oggetti circostanti (Toda, Fogel, 1993). Le differenze individuali nelle capacità di autoregolazione e "recupero" sembrano però dipendere in modo determinante dalla qualità della coordinazione madre-lattante durante l'interazione e dal tipo di disponibilità emotiva della madre che il lattante ha interiorizzato nei primi mesi d'interazione con quest'ultima. In particolare, è stato mostrato che la regolazione fisiologica del distress durante l'episodio del volto immobile, attuata attraverso la soppressione del tono vagale, è associata a un buon livello di sintonia tra gli stati affettivi del lattante e della madre durante l'interazione spontanea (Moore, Calkins, 2004 ). Inoltre, è stato mostrato che i lattanti capaci di rientrare in contatto 126
DAI2 Al6 MESI: INTERSOGGETTJVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AI'I'ETfiVA ...
con la madre dopo l'episodio della SF sono anche quelli che interagiscono con madri emotivamente disponibili e non intrusive durante il gioco spontaneo faccia-a-faccia che precede l'episodio della SF (Kogan, Carter, 1996). Ciò suggerisce che i lattanti che hanno intcriorizzato una buona disponibilità emotiva da parte della madre, di fronte al volto materno immobile si attenderanno che questa disponibilità ritorni, e mostreranno dunque strategie attive di ricoinvolgimento della madre. Infine, in una variazione della SF progettata per esaminare l'ipotesi che i lattanti possano reagire principalmente all'assenza di qualità affettiva mostrata dal volto immobile e inespressivo del partner, piuttosto che all'improvvisa assenza di contingenza nella comunicazione (D'Entremont, Muir, 1997), alle madri è stato chiesto di assumere un'espressione felice, triste, o neutra in una successione di episodi di volto immobile intercalata a periodi di normale comunicazione faccia-a-faccia. Durante tutti gli episodi di SF i lattanti hanno manifestato un significativo decremento di attenzione e affetto positivo e un aumento di espressioni di disagio, indipendentemente dall'espressione statica di fronte a cui si trovavano; tuttavia, sembrano aver differenziato tra le espressioni, poiché hanno sorriso scarsamente, ma significativamente di più, al volto immobile con l'espressione felice. Ciò suggerisce che l'espressione positiva del volto immobile modera la reazione dei lattanti. In successive versioni dell'esperimento in cui i lattanti hanno interagito con una ricercatrice, piuttosto che con la madre, è emerso che l'espressione felice del volto non responsivo ha ridotto significativamente l'effetto SF per i lattanti di 2 mesi, ma non per quelli di 3 (Striano, Liszkd\vski, 2005) e 4 o più mesi (Rochat, Striano, Blatt, 2002). Questi risultati indicano che la sensibilità dei piccoli di soli 2 mesi è rivolta essenzialmente alla qualità affettiva espressa dall'interlocutore, o a una contingenza di tipo affettivo (per esempio, nel senso del rispecchiamento della propria espressione positiva orientata al partner). Già dai 3-4 mesi, invece, questa sensibilità sembra estendersi alle componenti spazio-temporali della contingenza nella comunicazione imerpersonale, sebbene il paradigma della Still-Face non permetta di individuare con precisione a quali violazioni delle regole d'interazione sociale i lattanti così piccoli siano sensibili. Questo limite intrinseco al paradigma della SF (Nadel, TremblayLeveau, 1999) è stato affrontato attraverso la predisposizione di altre modalità di manipolazione del comportamento dell'adulto nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con il lattante. Tra queste, il paradigma dell'interazione live-replay (Murray, Trevarthen, 1985; vedi 127
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETflVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
Metodi e strumenti 3) si concentra sull'analisi della reazione del lattante alla violazione della contingenza sequenziale (o temporale) nel corso della comunicazione faccia-a-faccia.
I risultati degli studi che hanno utilizzato l'interazione "live-replay" I risultati del primo esperimento condotto con il paradigma dell'interazione live-replay, replicati ancora con lattanti anche di soli 2 mesi (N adel, Carchon, Kervella, Marcelli, Reserbat- Plantey, 1999; Stormark, Braarud, 2004; Soussignan, Nadel, Canet, Gerardin, 2006), o 3 e più mesi (Bigelow, MacLean, MacDonald, 1996; Hains, Muir, 1996; Striano, Henning, Stahl, 2005), documentano che i piccoli, di fronte al replay della precedente registrazione della madre, mostrano un significativo decremento dello sguardo rivolto alla madre e, nonostante qualche sforzo per imporsi all'attenzione di una madre non reattiva, un incremento di indici di confusione e disagio- quali il corrugamento delle sopracciglia, la produzione di smorfie, lo stropicciarsi del volto, il distoglimento dello sguardo -, rivelando una precoce sensibilità alla violazione della contingenza nella comunicazione interpersonale. La qualità affettiva positiva delle espressioni materne, pur presente nella fase replay dell'interazione, non sembra dunque bastare per mantenere il coinvolgimento nella comunicazione, se viene a mancare la contingenza sequenziale di tali espressioni con quelle dei lattanti. L'interpretazione dei risultati nel senso di una precoce sensibilità alla contingenza della comunicazione interpersonale è stata messa in discussione da diverse ipotesi alternative. In particolare, è stato ipotizzato che le reazioni negative dei lattanti di fronte al replay della madre (o altro adulto interlocutore) potrebbero essere dovute a semplice inquietudine da stanchezza che si incrementa col trascorrere del tempo, come spesso si osserva nell'interazione adulto-lattante, oppure a perdita d'interesse nel rivedere e risentire le stesse espressioni dell'interlocutore (Bigelow, 1999; Hains, Muir, 1996). Tuttavia, quest'ultima ipotesi è stata smentita da un esperimento che non ha trovato alcuna differenza significativa nelle reazioni negative dei lattanti di fronte al replay dell' adulto nella precedente interazione con loro e al replay dello stesso adulto in interazione con un altro bambino (Hains, Muir, 1996). Anche per quanto riguarda la prima ipotesi, però, una variante del paradigma in cui il lattante era seduto di fronte a due video in simultanea - uno con un adulto estraneo che gli rispondeva contingentemente e uno con il replay dello stesso adulto in interazione con un al128
DA12 A16 MESI: INTERSOGGETTIVITA COME COMPARTECIPAZIONE AFFETTIVA ...
tro bambino- e poteva quindi vivere simultaneamente (piuttosto che in successione) l'esperienza dell'interazione contingente vs. non contingente, ha invece confermato che i lattanti preferiscono l'interazione contingente a quella non contingente (Bigelow, 1996; Muir, Hains, Cao, D'Entremont, 1996). L'ipotesi di una precoce sensibilità alla contingenza della comunicazione è stata inoltre recentemente supportata dai risultati di uno studio (Soussignan et al., 2006) in cui i lattanti che nella prima fase della procedura sperimentale - cioè durante l'interazione faccia-a-faccia contingente- hanno sorriso al volto della madre, hanno anche reagito più negativamente dei coetanei durante la fase di non contingenza. Il fatto che a distogliere maggiormente lo sguardo e a mostrare più espressioni interrogative/negative (smorfie) di fronte al replay della madre siano stati i soggetti che hanno iniziato l'interazione in condizioni ottimali suggerisce che la sensibilità alla contingenza della comunicazione interpersonale può spiegare meglio della stanchezza, o della perdita d'interesse per la comunicazione con la madre, il cambiamento rilevato nel comportamento dei piccoli. Complessivamente, resta comunque qualche studio che, adottando il paradigma dell'interazione live-replay, ha condotto a risultati parzialmente controversi. Per esempio, il confronto dell'esperimento condotto sia con un adulto non familiare, sia con la madre, ha mostrato che a 5 mesi i lattanti manifestano una forte reazione negativa al replay dell'adulto estraneo, ma non reagiscono negativamente al replay della madre (Hains, Muir, 1996). Ciò è stato attribuito a un effetto dell'età, nel senso che a 5 mesi un breve periodo di perturbazione dell'interazione se è con la madre non rappresenta una violazione della relazione già ben stabilita con quest'ultima, ma se è con un estraneo rappresenta invece una violazione dell'aspettativa di proseguire la comunicazione appena avviata (Muir, Nadel, 1998). METODI E STRUMENTI l
l paradigmi sperimentali per lo studio della comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante Il paradigma de/la Stili-Foce Il paradigma della Stiii-Face, o "volto immobile", viene creato da Tronick e colleghi verso la fine degli anni Settanta (Tronick et al., 1978), per esplorare l'ipotesi che il lattante fin dai primi mesi di vita possegga aspettative di reciprocità nella comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto, e quindi
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l PIUX:ESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
: possa prov~re a camb_iare il co~portam~nto dì un partner che viola que: ste aspettative, e reag1re negativamente 1n caso d1 1nsuccesso. Si basa sulla manipolazione sistematica del comportamento dell'adulto durante la comunicazione faccia-a-faccia con il lattante, dunque a partire dalla situazione utilizzata per l'osservazione dell'interazione faccia-afaccia (vedi Metodi e strumenti 2). Alla madre (o a un altro adulto) viene chiesto di interagire con il lattante come fa di solito, per circa 3 minuti, o comunque finché non viene raggiunto un coinvolgimento attivo nella comunicazione anche da parte del piccolo; poi le viene chiesto di cessare improwisamente di parlare al lattante e immobilizzare il volto in un'espressione neutra, vuota, pur continuando a mantenere lo sguardo rivol· to verso il bambino; infine, dopo circa un minuto, di riprendere la norma! le interazione. il significativo cambiamento del comportamento dellattante di fronte al volto immobile e inespressivo della madre dimostrerebbe la sensibilità del piccolo alla violazione della reciprocità nella comunicazio ne faccia-a-faccia con l'adulto. Le numerose varianti di questo paradigma di ricerca, e i risultati a cui l sono pervenuti gli studi che hanno utilizzato la Stiii-Face nel corso degli i ultimi decenni, sono descritti in questo capitolo (paragrafo 5.2.2). Inoltre, ' un'interessante rassegna sulla storia di questo paradigma sperimentale (Adamson, Frick, 2003), così come articoli di Tronick, Cohn, Muir, Lee su ' importanti questioni teoriche e metodologiche connesse al suo utilizzo, sono stati pubblicati nel volume 4( 4), 2003, della rivista lnfancy. 1
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Il paradigma dell'interazione live-replay Dopo l'apertura di un nuovo approccio metodologico nella ricerca sui primi sviluppi della percezione sociale effettuata dall'introduzione del para, digma della Stiii-Face, il paradigma dell'interazione live-replay viene pro! gettato da Murray agli inizi degli anni Ottanta (Murray, 1980; Murray, Trevarthen, 1985) per approfondire l'esplorazione della sensibilità dellattante alla_ violazione dell? conti_ngenza nel cors_o della comunicazio~e fa~cia: a-fama con l'adulto; 1n particolare, per analizzare l'effetto della v1olaz1one l della contingenza sequenziale, o temporale, separatamente da quello di l altre possibili violazioni di responsività da parte dell'adulto. . Questo paradigma sperimentale prevede che la madre (o un altro ; adulto) e il lattante, seduti in due piccole stanze adiacenti, comunichino ' attraverso un doppio sistema di televisori a circuito chiuso che, con il supporto di specchi unidirezionali, permette loro di vedersi reciprocamente a pieno schermo, a grandezza naturale. Dopo aver accertato che il lattante, anche di soli 2 mesi, sia in grado di interagire positivamente con l'immagine della madre che gli parla in tempo reale - solitamente in modo giocoso e incoraggiante - dallo schermo televisivo, madre e lattante vengono videoregistrati durante un minuto di comunicazione faccia-a-faccia attraverso il doppio video (fase live 1); poi, dopo circa 30 secondi, allattante viene fatta rivedere la videoregistrazione della comunicazione imme, diatamente precedente della madre (fase replay). In questa situazione di 1
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' replay, i comportamenti della madre sono i medesimi, perciò il lattante
vede e sente espressioni positive, ma non contingenti con quanto il piccolo sta facendo. Infine, il lattante può riprendere la comunicazione con la madre in tempo reale (fase live2). Il significativo decremento dello sguardo rivolto alla madre e la comparsa di segni di disorientamento e disagio del lattante di fronte al replay della madre dimostrerebbero una l precoce sensibilità del piccolo alla violazione della contingenza nella col municazione interpersonale. Nonostante il dispositivo del doppio video presenti il vantaggio di permettere poi all'osservatore di prendere la posizione della madre, o quella del lattante, e quindi "sentire" il contatto oculare e le emozioni che vengono trasmesse dal partner nello scambio comunicativo, è stato recentemente criticato per carenza di validità ecologica. Le variazioni sperimentate e i risultati a cui sono pervenuti gli studi che hanno utilizzato questo pa- ' radigma di ricerca sono descritti in questo capitolo (paragrafo 5.2.2).
Sulla scia dei risultati prodotti dall'utilizzo dei due paradigmi sperimentali descritti, partendo dalla questione ancora relativamente aperta circa le informazioni specifiche alle quali i lattanti di diverse età sono sensibili nella comunicazione con l'adulto, Rochat, Querido e Striano (1999) hanno investigato fino a che punto, e a quale età, i la ttanti sono sensibili alla distribuzione temporale e alla struttura narrativa di un "formato" (Bruner, 1983) tipico dell'interazione adulto-lattante quale quello del gioco del cucù, o "bubu settete". Poiché, tipicamente, questo "formato" di gioco sociale è caratterizzato da un "contorno vitale" (Stern, 1999) fatto di un crescendo emotivo, di un picco, e di un decremento di tensione, il comportamento di lattanti di 2, 4 e 6 mesi è stato osservato nel contesto sia di una sequenza organizzata (successione di crescendo, picco e decremento) che di una sequenza disorganizzata (violazione dell'ordine nelle tre fasi) di gioco con l'adulto. I risultati mostrano che, mentre i lattanti di 2 mesi tendono a mantenere il contatto visivo con l'adulto e a sorridergli indipendentemente dalla sequenza organizzata o disorganizzata del gioco, i lattanti di 4 e 6 mesi manifestano un decremento di sorrisi e un significativo incremento nella durata dell'attenzione rivolta all'adulto durante la sequenza di gioco disorganizzata rispetto a quella organizzata. Questi dati suggeriscono che da una diffusa sensibilità alla presenza di un partner sociale e da una capacità di reciprocità che attorno ai 2 mesi appare controllata prevalentemente dallo scambio affettivo, entro i 4 mesi i lattanti sviluppano una nuova sensibilità al formato narrativo provvisto dall'adulto nell'interazione; cioè una sensibilità che va oltre
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l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
la sintonia affettiva con un partner sociale e testimonia, piuttosto, una nuova capacità di discriminazione tra scambi diadici più o meno prevedibili, ossia più o meno significativi. Questa nuova sensibilità appare allora fondamentale per lo sviluppo di aspettative rispetto alle quali sarà possibile differenziare i diversi partner sociali, e sviluppare relazioni privilegiate.
5.3 Il ruolo del rispecchiamento affettivo materno nello sviluppo delle aspettative e del comportamento sociale Utilizzando il paradigma dell'interazione live-replay, Legerstee e Varghese (2001) hanno analizzato il rapporto tra la capacità di rispecchiamento affettivo materno e la manifestazione di aspettative di reciprocità e contingenza durante la comunicazione faccia-a-faccia da parte di lattanti di 3 mesi. Il rispecchiamento affettivo materno è stato misurato secondo il livello di mantenimento dell'attenzione sul lattante, il calore e la contingenza affettiva, e la responsività. I risultati hanno mostrato che i lattanti delle madri con elevato rispecchiamento affettivo hanno differenziato la condizione d'interazione live dalla replay manifestando più sorrisi, vocalizzazioni e attenzione al volto materno durante l'interazione in tempo reale, e un incremento di segnali di disorientamento di fronte al replay della madre; diversamente, i coetanei con esperienza di basso rispecchiamento affettivo non hanno espresso alcuna differenziazione di comportamento oltre la durata dello sguardo rivolto alla madre. Questi dati sono stati confermati da un recente studio (Markova, Legerstee, 2006) che ha mostrato come già a 5 settimane solo i lattanti con madri che interagivano con un elevato grado di sintonizzazione nella condizione naturale di interazione si siano coinvolti con sorrisi e vocalizzazioni di affetto positivo in misura significativamente maggiore che nella condizione perturbata di interazione; questi stessi lattanti, nella condizione di replay del comportamento materno, hanno invece incrementato le vocalizzazioni di affetto negativo. Sempre recentemente, uno studio focalizzato sulla relazione tra il comportamento materno e il comportamento del lattante durante la comunicazione faccia-a-faccia, sia in tempo reale, che nell'arco del primo trimestre di vita (Lavelli, Barachetti, Fogel, 2006), ha documentato che, sebbene i comportamenti materni cambino significativamente in corrispondenza dei cambiamenti evolutivi che si manife132
DAI 2 AI 6 MESI: JNTERSOGGETTIVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AFFE'ITIVA ...
stano nel comportamento del lattante, essi mantengono comunque un'elevata stabilità individuale. La stabilità è emersa particolarmente per i comportamenti codificati come "Parlare affettuoso", "Rispecchiamento affettivo", "Stimolazione", "Richiesta insistente". Inoltre, lo studio ha individuato specifiche associazioni tra il comportamento della madre e quello del lattante: fin dal primo mese la presenza di attenzione al volto materno da parte del lattante influenza significativamente l'occorrenza del Parlare affettuoso da parte della madre che, a sua volta, contribuisce a mantenere l'attenzione del piccolo in un pattern ciclico risultato significativo per la grande maggioranza delle diadi; sempre dal primo mese lo sguardo del lattante distolto dal volto materno influenza l'occorrenza della Stimolazione materna ma questa, a sua volta, contribuisce a mantenere il distoglimento dello sguardo del lattante in numerose diadi. Dal secondo mese, invece, la comparsa del sorriso e dei tentativi di vocalizzazione di affetto positivo da parte del lattante influenza l'occorrenza del rispecchiamento materno, che a sua volta favorisce la ripetizione delle espressioni rispecchiare, da parte del lattante, dando origine a sequenze di feedback positivo tra rispecchiamento materno e sorrisi e vocalizzazioni del piccolo, che amplificano queste espressioni di affetto positivo e continuano a crescere significativamente durante il terzo mese. Questo suggerisce che la qualità del comportamento materno - indicata dalla presenza di rispecchiamento affettivo, piuttosto che di richieste insistenti o di iperstimolazione- contribuisce a sviluppare il comportamento sociale del lattante, amplificando e organizzando i pattern di attenzione ed espressione affettiva del piccolo in sequenze di comunicazione diadica relativamente stabili. Complessivamente, i risultati di questi studi indicano che il rispecchiamento affettivo materno sembra giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo dell'esperienza intersoggettiva del lattante, in particolare nello sviluppo del comportamento sociale e delle aspettative del lattante verso il comportamento comunicativo dell'interlocutore. Ciò è testimoniato anche da numerosi studi che hanno analizzato i processi di comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante in condizioni di depressione materna che, tipicamente, si manifesta attraverso assenza di risonanza affettiva e attenzione rivolta a sé. Nello specifico, è stato rilevato che nell'interazione con i propri lattanti sotto i 6 mesi le madri depresse non manifestano quelle espressioni emozionali esagerate che le altre madri utilizzano comunemente per "marcare" le espressioni dei propri piccoli (Campbell, Cohn, 133
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL:ESPERIENZA INTERSOGGEITIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
Meyers, 1995; Kaplan, Bachorowski, Zarlengo-Strouse, 1999), tendono a mostrare forme piuttosto rudi di contatto tattile (Malphurs, Raag, Field, Pickens, Pelaez-Nogueras, 1996), a essere scarsamente responsive verso i segnali del lattante (Donovan, Leavitt, Walsh, 1998), e a valutare il comportamento dei loro bambini più negativamente di quanto facciano le madri non depresse (Field, Grizzle, Scafidi, Schanberg, 1996). I lattanti di queste madri, in modo complementare, tendono a mostrare bassi livelli di attivazione e coinvolgimento nell'interazione (Field, 1995); al contrario, posti di fronte a uno specchio tendono a vocalizzare molto più dei coetanei di madri non depresse, probabilmente perché a questi lattanti l'immagine riflessa può apparire più responsiva della loro madre (Field, Hernandez-Reif, Vera, Gil, Diego, Sanders, 2005). Già relativamente all'interazione dei lattanti di 2 mesi con le loro madri depresse, è stato trovato che i piccoli manifestano espressioni positive in misura significativamente ridotta rispetto ai coetanei con madri non depresse, sebbene l'influenza negativa del mancato rispecchiamento affettivo da parte della madre possa variare secondo il perdurare o meno della condizione di depressione materna e la presenza di altri fattori di rischio (Cohn, Campbell, Matias, Hopkins, 1990). Già a soli 2 mesi, comunque, i bambini di madri depresse appaiono meno sensibili dei coetanei con madri non depresse alla mancata contingenza dei comportamenti materni (Nadel, Soussignan, Canet, Libert, Gerardin, 2005): sottoposti alla perturbazione dell'interazione con le loro madri nella situazione sperimentale live-replay, hanno mostrato meno espressioni negative dei coetanei al replay della madre. Inoltre, a differenza dei lattanti di madri depresse che nelle tre fasi dell'interazione (/ive-replay-live) hanno manifestato una tipica curva a u del sorriso (cioè una reazione forte ma a breve termine), i piccoli di madri depresse hanno mostrato un decremento progressivo del sorriso attraverso le tre fasi; in altre parole, un cambiamento dello stato emozionale più tiepido e ritardato, ma anche più persistente, che potrebbe riflettere una precoce strategia di evitamento passivo degli eventi stressanti (Nadel et al., 2005). Sempre all'età di 2 mesi, tuttavia, non sono state riscontrate correlazioni tra il comportamento dei piccoli nell'interazione con la madre e con un adulto estraneo (Murray, 1998). Quest'ultimo dato sembra interpretabile alla luce del fatto che a 2 mesi il repertorio dei comportamenti di coinvolgimento sociale dei lattanti può essere adattato ancora abbastanza flessibilmente al partner della comunicazione (Reddy et al., 134
OAI2 Al6 MESI: INTERSOGGETTIVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AFFETTIVA ...
1997), mentre già nei mesi successivi sembra che la flessibilità nella responsività sociale dei lattanti con madri depresse mostri una progressiva diminuzione, tanto che nei comportamenti di lattanti di 3-6 mesi in interazione con le loro madri depresse c con un adulto estraneo non depresso non sono state trovate differenze significative (Field, Healy, Goldstein, Perry, Bendell, Schanberg, Zimmerman, Kuhn, 1988). Questi dati suggeriscono che lo stile d'interazione a basso livello di attivazione e scarsa affettività positiva che caratterizza la comunicazione dei lattanti con le loro madri depresse, già dopo i 3 mesi di vita tende a essere generalizzato alle interazioni con altri adulti non depressi. Tuttavia, la questione delle conseguenze della depressione materna sul lattante è piuttosto controversa, poiché è stato anche evidenziato che quando i lattanti con madri depresse interagiscono con persone familiari non depresse quali, per esempio, il padre o, in seguito, le educatrici del Nido, manifestano un coinvolgimento più attivo che con la madre (Hossain, Field, Gonzales, Malphurs, Del Valle, 1994; PelaezNogueras, Field, Cigales, Gonzales, Clasky, 1994). Nel caso, invece, in cui la depressione materna persista per molti mesi e i lattanti abbiano scarse opportunità di interagire regolarmente con adulti non depressi, l'esperienza di un contesto intersoggettivo ostile, in cui la comunicazione e le iniziative del piccolo sono criticate, piuttosto che incoraggiate, può produrre conseguenze a lungo termine sia sullo sviluppo cognitivo che sull'organizzazione della propria esperienza personale e lo sviluppo di un senso di Sé come agente (Murray, 1998).
5.4 lo sviluppo di un primo senso di Sé come agente La prima conoscenza di Sé che il lattante acquisisce emerge dalla percezione della contingenza tra le proprie azioni e le risposte del mondo esterno (Neisser, 1993 ). In tal senso, le prime interazioni sociali e, in particolare, l'esperienza di comunicazione faccia-a-faccia con l'adulto che si sviluppa dal secondo mese di vita forniscono un contesto privilegiato nel quale il lattante può facilmente percepire gli effetti delle proprie azioni/espressioni sull'interlocutore. Abbiamo visto precedentemente come già nel periodo neonatale il lattante inizi ad acquisire informazioni su di sé attraverso il riconoscimento dei movimenti del proprio corpo in relazione all'ambiente fisico e sociale, così come attraverso le proprie azioni funzionali e le conseguenze percettive delle stesse, che inizia però a esplorare attivamen135
l I'HOCESSI DI SVILUPPO DELJ:ESPERIENZA JNTERSOGGEITIVA NELl'RIMO ANNO DI VITA
te nei primi mesi di vita. A questo riguardo, Rochat e Striano (1999) hanno sottoposto lattanti di 2 mesi a un esperimento - basato sulla tecnica della suzione non nutritiva - in cui avevano la possibilità di sperimentare diverse conseguenze uditive della propria attività di suzione. Il succhiotto era collegato a un traduttore di pressione dell'aria così che ogni volta che un lattante succhiava oltre una certa soglia di pressione poteva udire un suono analogo (prima condizione) o nonanalogo (seconda condizione) al picco di variazione. I lattanti di soli 2 mesi hanno mostrato chiari segni di modulazione della propria attività di suzione nella condizione in cui il feedback uditivo era coerente con il loro sforzo, confermando ciò che già Piaget (1936) aveva indicato come tendenza a esplorare sistematicamente le conseguenze percettive delle proprie azioni. Proprio questa tendenza, che si rivela fondamentale per la formazione di un primo senso di Sé come agente nell'ambiente fisico, si sviluppa parallelamente al coinvolgimento del lattante negli scambi comunicativi con l'adulto e all'esperienza di reciprocità che gli permette di sperimentare un primo senso di Sé come agente e co-agente nel mondo sociale. Nel contesto della comunicazione faccia-a-faccia con la madre o altri adulti significativi che rispondono in modo contingente ai comportamenti del lattante, quest'ultimo può infatti percepire chiaramente gli effetti delle proprie azioni sull'interlocutore. Ciò awiene soprattutto quando le azioni della madre rispecchiano le azioni prodotte dal lattante attraverso imitazioni facciali enfatizzate e vocalizzazioni responsive che "marcano" le espressioni facciali, i gesti, le vocalizzazioni del piccolo percepite come comunicative di contenuto affettivo (Gergely, Watson, 1996, 1999). Così, quando la madre risponde prontamente al sorriso del lattante con un sorriso particolarmente aperto e un commento del tipo "Stai sorridendo, ora", la percezione transmodale permette allattante di percepire la corrispondenza fra ciò che vede nel volto materno e ciò che sente propriocettivamente nella propria faccia e come stato emozionale interno, e vivere così un senso di connessione affettiva con l'altro. Ciò spiega il fenomeno del rispecchiamento facciale reciproco, che si osserva frequentemente nel corso della comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante. A volte il rispecchiamento affettivo materno non si traduce nei termini di un'esatta imitazione dell'espressione del lattante, ma si sintonizza comunque sull' affetto, l'intensità e il ritmo prodotti da quest'ultimo. Nelle sequenze di interazione diadica, l'esperienza di co-regolazio136
DA12 Al6 MESL JNTERSOGGETIIVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AI'FETIJVA ...
ne permette poi allattante di sentire la parte dell'interazione che viene da se stesso rispetto alla parte prodotta dal partner. Ciò può avvenire anche durante un movimento continuo; per esempio, quando la madre prende le braccia del lattante che è in posizione semireclinata per sollevarlo in posizione seduta, il piccolo può spingersi nella direzione in cui lo sta tirando la madre oppure, al contrario, tirare nella direzione opposta creando una sorta di "gioco di equilibrio". In ogni caso, sentire l'effetto della propria azione in relazione a quella materna gli permette di sentire se stesso come agente nell'interazione. Infine, il senso di efficacia delle proprie azioni, che è alla base dello sviluppo di un senso di Sé come agente, può essere facilmente avvertito dal lattante di 3-4 mesi anche durante la co-costruzione di giochi sociali facciaa-faccia, quando il piccolo prende l'iniziativa di proporre un suono, o un gesto, nuovo e la madre prontamente lo ripete con entusiasmo. In questi casi, sul volto del lattante si osserva frequentemente un'espressione di pronunciato piacere per il successo dell'iniziativa. Questi esempi documentano come lo sviluppo di un primo senso di Sé come agente nel mondo sociale sia strettamente connesso allo sviluppo di un Sé affettivo (Stern, 1985), cioè di un senso di Sé come possessore di affetti e stati emozionali interni che in modo ricorrente accompagnano specifiche esperienze relazionali quali, per esempio, la gioia durante il gioco faccia-a-faccia con la mamma, o la tristezza di quando quest'ultima si allontana. Questo senso del Sé affettivo si costituirebbe precocemente grazie al fatto che ogni stato emozionale è accompagnato dall'effetto di feedback propriocettivo indotto dalle azioni facciali e vocali, e da sensazioni interne di attivazione che restano costanti per quello specifico stato emozionale. Lo sviluppo di un primo senso di Sé come agente implica che il lattante si senta capace di generare azioni che avranno delle conseguenze, cioè di sviluppare aspettative sulle proprie azioni; poiché, però, queste aspettative possono verificarsi con certezza quando le azioni sono prodotte su di sé (per esempio, chiudere gli occhi ha sempre come conseguenza il senso di buio), ma non necessariamente quando sono rivolte a un'altra persona (per esempio, vocalizzare a un interlocutore può avere, ma anche non avere, come conseguenza una risposta di rispecchiamento), è necessario che il lattante sviluppi anche un senso di continuità della propria esperienza intersoggettiva come parte integrante del suo pur primitivo senso di Sé. Questo senso di continuità, che dopo i primi mesi di vita il lattante può iniziare a formarsi sulla base dell'esperienza ripetuta vissuta nell'interazione con la ma137
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
dre (o altro adulto significativo), risulta determinante per lo sviluppo di aspettative nei confronti dell'adulto e, al tempo stesso, testimonia come il senso di Sé come agente sia profondamente radicato nei processi di co-regolazione (Fogel, 1993b), o "regolazione interattiva" (Beebe, Lachmann, 2002), vissuti con l'adulto significativo. A questo riguardo, uno studio che ha confrontato l'interazione di madri più vs. meno vulnerabili all'esperienza della depressione con i loro lattanti di 4 mesi, ha mostrato che le madri meno vulnerabili alla depressione tendono a "marcare" le azioni dei lattanti soprattutto mentre questi le stanno guardando- quando, cioè, sono in comunicazione faccia-a-faccia con loro- con commenti del tipo: "Che faccia concentrata!", "Stai ridendo, adesso", "Oh ... ti stai agitando"; al contrario, le madri più vulnerabili alla depressione tendono a fare commenti sulle azioni dei piccoli quando questi hanno lo sguardo distolto dal loro volto, con commenti del tipo: "Cosa stai guardando?", "Non mi stai guardando" (Kaminer, 1999, cit. in Beebe, Lachmann, 2002). Sulla base di questi dati è allora stata suggerita l'ipotesi che, nel primo caso, i lattanti possano imparare che la loro capacità di essere agenti è legata all'esperienza intersoggettiva di contatto con l'altro-da-sé; nel secondo caso, invece, possano interiorizzare che la loro "agentività" può manifestarsi solo quando sono separati dalla madre.
5.5 Le competenze del lattante nelle situazioni triadiche Se fin verso la metà degli anni Novanta le origini dell'intersoggettività e della cognizione e competenza sociale sono state studiate quasi esclusivamente in contesti di interazione diadica, con particolare focalizzazione sulla comunicazione faccia-a-faccia madre-lattante, più recentemente, grazie anche alla creazione di nuovi paradigmi di ricerca triadici (vedi Metodi e strumenti 4), alcuni studi hanno esplorato tali origini anche in contesti triadici di vario tipo, costituiti da situazioni naturali e sperimentali d'interazione diadica e triadica tra il lattante e i suoi due genitori, oppure il lattante, la madre e un adulto non familiare, o due adulti non familiari; o ancora, da situazioni in cui il terzo polo, oltre la diade adulto-lattante, è rappresentato da un oggetto d'attenzione verso cui si sposta lo sguardo dell'adulto. Tutti questi studi, indipendentemente dalle diverse finalità e caratterizzazioni. convergono nell'evidenziare come già a soli 3-4 mesi, in determinate condizioni, i lattanti manifestino precoci competenze triadiche, quali 138
DAI2 Al6 MESI: INTERSOGGEffiVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AFFEHIVA ...
la capacità di seguire lo sguardo del partner in relazione a un terzo polo d'interesse (persona o oggetto) e la capacità di triangolazione di attenzione e affetti.
La capacità di seguire la direzione dello sguardo del partner D'Entremont, Hains e Muir (1997) hanno dimostrato che, in determinate condizioni sperimentali, lattanti con una media di soli 4 mesi possono seguire lo sguardo di un adulto che, mentre sta interagendo con loro, si volge verso un oggetto esterno d'attenzione. La prima condizione richiede che l'oggetto sia situato entro il campo visivo dei piccoli; la seconda, che l'adulto ruoti chiaramente la testa (e non solo lo sguardo) verso il nuovo oggetto di attenzione, e che il suo voltare la testa sia parte integrante dell'interazione in corso. Nella situazione sperimentale l'adulto interagiva faccia-a-faccia con il lattante fino a raggiungere un elevato grado di coinvolgimento del piccolo, poi si voltava verso una delle due marionette che aveva vicino (una a destra e una a sinistra, a soli 30° di distanza dal centro del campo visivo del lattante), continuando a parlare a quest'ultima; dopo circa 10 secondi sirigirava verso il lattante ricoinvolgendolo nell'interazione; ripeteva quest'interruzione per almeno 4 volte durante i 4 minuti d'interazione. Il fatto che i lattanti seguissero la direzione dello sguardo dell'adulto verso la marionetta coinvolta nell'interazione in quel momento e poi guardassero di nuovo l'adulto mostra che già a partire dai 3-4 mesi i lattanti appaiono consapevoli del fatto che il partner adulto stia mantenendo o meno il contatto oculare con loro durante l'interazione contingente, e hanno una qualche comprensione di dove l'adulto guarda quando distoglie lo sguardo da loro (Muir, Hains, 1999). Questi dati sono coerenti con i risultati di altre ricerche che mostrano come lattanti di 4 mesi tendano a guardare in una particolare direzione sulla base dell'orientamento degli occhi di una faccia presentata su uno schermo di fronte a loro (Hood, Willens, Driver, 1998), e, a livello neurale, a processare le informazioni relative all'oggetto verso cui è diretto lo sguardo della faccia che hanno di fronte (Reid, Striano, 2005). Inoltre, anche con i risultati di uno studio che documenta la sensibilità di lattanti di 5 mesi a piccole deviazioni nella direzione dello sguardo del partner durante l'interazione (Symons, Hains, Muir, 1999). Quando il terzo polo della situazione triadica è costituito da un'altra persona, piuttosto che da un oggetto, la capacità del lattante di se139
I PRCX:ESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
guire e monitorare l'attenzione dell'interlocutore sembra apparire ancor più precocemente. Questa situazione è stata recentemente esplorata con l'utilizzo del paradigma dell'Esclusione (Tremblay-Leveau, Nadel, 1995; Nadel, Tremblay-Leveau, 1999; vedi Metodi e strumenti 4), ossia di un paradigma sperimentale di interazione triadica creato per osservare il comportamento del bambino piccolo, o anche del lattante, in una situazione di momentanea esclusione dall'interazione (l'adulto rivolge la sua attenzione a una terza persona presente, bambino o adulto, e inizia a conversare con quest'ultima finché il piccolo non richiede attenzione). In particolare, lattanti di 3 e 6 mesi (Tremblay-Leveau, 1999) sono stati posti di fronte a due adulti che alternatamente interagivano con il piccolo, fino a raggiungere un livello di coinvolgimento attivo e positivo di quest'ultimo, poi iniziavano a conversare fra loro. Sia a 3 che a 6 mesi i lattanti, durante ogni periodo di interazione diadica, mentre guardavano l' adulto-interlocutore lanciavano anche qualche occhiata all'altro adulto presente; durante il periodo di "esclusione", invece, seguivano la direzione dello sguardo dell'adulto con cui avevano interagito mentre si girava verso l'altro adulto, guardavano il secondo adulto, e rigiravano lo sguardo verso il primo adulto come controllassero di condividere lo stesso target visivo; poi ripetevano più volte questi movimenti dello sguardo avanti-indietro, indirizzando segnali comunicativi positivi (sorrisi, vocalizzazioni) a entrambi i partner. Questi risultati, che sembrano indicare la presenza di un precoce meccanismo di attenzione condivisa (Nadel, Tremblay-Leveau, 1999), precursore di quella forma più complessa di intersoggettività che richiede di coordinare l'attenzione all'altro e a un terzo elemento, necessitano comunque di ulteriori conferme e approfondimenti. La capacità di triangolazione di attenzione e affetti
Ulteriori evidenze della presenza della capacità di interazione triangolare, cioè di interazione coordinata con due interlocutori, in lattanti di soli 3-4 mesi provengono dai risultati degli studi di Fivaz-Depeursinge e colleghi (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999; FivazDepeursinge, Favez, Lavanchy, de Noni, Frascarolo, 2005) che, coniugando la pratica clinica con la ricerca osservativa, hanno sviluppato un paradigma di ricerca sulla formazione delle relazioni primarie (identificato come Gioco Triadico di Losanna; vedi Metodi e strumenti 4), basato sull'osservazione della triade genitori-bambino come unità. 140
Dt\12 t\16 MESI: INTERSOGGETTIVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AFFElTIVA ...
L'osservazione microanalitica delle sequenze d'interazione del bambino con i genitori ha permesso di evidenziare che già a 3 mesi diversi lattanti spostano l'orientamento dello sguardo tra i due genitori in modo sufficientemente rapido da suggerire che l'orientamento dell'attenzione è coordinato, piuttosto che giustapposto, tra i due interlocutori. Inoltre, che a volte, durante le transizioni dello sguardo da un genitore all'altro, già a 3-4 mesi diversi lattanti "trasferiscono" un segnale affettivo- per esempio, un sorriso con una vocalizzazione di affetto positivo- scambiato con un genitore all'altro genitore. Per esplorare l'effettiva presenza di una precoce capacità di triangolazione, il gruppo di ricercatori ha integrato la procedura del Gioco Triadico con quella della Still-Face (Fivaz-Depeursinge et al., 2005), cioè con un episodio "2 + l" (vedi Metodi e strumenti 4) in cui il genitore coinvolto nell'interazione con il lattante assumeva improvvisamente un volto immobile e inespressivo. Questo, per verificare l'eventuale ricorso del piccolo all'altro genitore, sia durante la SF, per un aiuto a comprendere la situazione e regolare il disagio, sia durante la successiva situazione d'interazione a 3 insieme, per un aiuto a riconciliarsi con il genitore che prima teneva il volto immobile. I risultati dimostrano che nella situazione di SF i lattanti di 4 mesi tendono a "trasferire" segnali espressivi di disagio e perplessità fra i genitori, così come nella situazione di riconciliazione tendono a "trasferire" segnali di piacere ritrovato. Questo suggerisce una precoce capacità di coordinazione triangolare dell'attenzione e degli affetti che prefigura le strategie referenziali osservabili a 9 mesi. METODI E STRUMENTI 4
l paradigmi sperimentali per lo studio delle competenze del lattante nelle situazioni triadiche
Il paradigma dell'Esclusione Il paradigma dell'Esclusione (Tremblay-Leveau, Nadel, 1995; Nadel, Tremblay-Leveau, 1999) viene sviluppato da Nadel e Tremblay-Leveau negli i anni Novanta, al fine di studiare le competenze d'interazione del bambino anche molto piccolo nelle situazioni triadiche; in particolare, la capacità del piccolo di monitorare e influenzare l'attenzione e l'intenzione dell'interlocutore temporaneamente rivolte verso una terza persona presente. La denominazione del paradigma deriva dalla considerazione che in una situazione d'interazione triadica ogni partecipante può temporaneamente sperimentare !"'esclusione" dalla comunicazione più diretta che
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ha luogo tra gli altri due partner. L.:assunto è che la momentanea esclusione dalla comunicazione in corso attivi la capacità del lattante e del bam, bino piccolo di seguire la direzione dell'attenzione dell'interlocutore, e di ; cercare di riottenere quest'attenzione, monitorando la risposta dell'altro in • relazione a sé. La situazione sperimentale originale prevedeva che l'adulto sperimen, tatore interagisse con due bambini piccoli (entro i loro primi 12, 18 mesi di vita) coetanei, seguendo il protocollo di focalizzare la comunicazio' ne soltanto su uno dei due bambini finché l'altro non avesse richiesto la ; sua attenzione (Tremblay-Leveau, Nadel, 1995, 1996). Sulla base dei ri: sultati che hanno mostrato un'elevata capacità di monitorare il comportal mento degli altri e interagire in situazione triadica in bambini di soli l l i mesi, le autrici hanno ipotizzato che le informazioni sugli stati di attenzione degli altri dovevano essere state acquisite precedentemente, probabilmente dall'esperienza delle situazioni quotidiane in cui il lattante si trova ad assistere a interazioni in corso tra altre persone. Successivamente, hanno quindi sviluppato una variante del dispositivo sperimentale per espiorare le origini di tali competenze in lattanti di pochi mesi. In questa seconda versione del paradigma dell'Esclusione il lattante è in presenza di due adulti che inizialmente si alternano nell'interazione con il piccolo finché quest'ultimo raggiunge un livello di coinvolgimento attivo e positivo, poi iniziano a conversare tra loro. Gli interessanti risultati della sperimentazione di questa situazione con lattanti di 3 e 6 mesi (Tremblay-Leveau, 1999) sono descritti nel paragrafo S.S. Un vantaggio di questo paradigma è quello di replicare la situazione ecologica del bambino di fronte alla madre che sta interagendo con il fral tello (Kendrick, Dunn, 1980), oppure con una propria amica. l Il parodigma del Gioco Triadico di Losanna Il paradigma del Gioco Triadico di Losanna (LTP, Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999) viene creato da Fivaz-Depeursinge e colleghi presso il Centro di studi familiari dell'Università di Losanna, negli anni Ottanta, per studiare la formazione e lo sviluppo delle relazioni nella triade familiare genitori-bambino. Questa procedura semistandardizzata di ricerca, applicabile fin dai primi mesi di vita del bambino, prevede che il lattante sia seduto su un seggiolino reclinabile e ruotabile verso ciascuno dei genitori - seduti in modo da formare un triangolo equilatero con il piccolo - per assicurare la posizione faccia-a-faccia con la madre e con il padre. Ai genitori viene chiesto di interagire con il lattante e tra loro in 4 episodi che rappresentano le 1 4 possibili configurazioni che l'interazione può assumere fra i tre partner: : nel primo episodio uno dei genitori, per esempio la madre, inizia a intera' gire con il lattante mentre il padre resta in posizione periferica ("2 + l"); . nel secondo episodio i genitori si scambiano i ruoli: è il padre a interagire con il lattante, mentre la madre resta in posizione di terzo ("2 + l"); nel i terzo episodio madre, padre e bambino interagiscono insieme ("3 insie-
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DAI2 Al6 MESI: INTERSOGGETIIVITÀ COME COMPARTECIPAZIONE AITETIIVA ...
l me".. il se~gi~lino del lattante~ orientato verso il centro ?el triangol?, così
che 1gen1ton possano interag1re simultaneamente con Il p1ccolo); 1nf1ne, nel quarto episodio i genitori interagiscono tra loro e il lattante resta in posizione periferica (di nuovo "2 + l"). Tutta la seduta è videoregistrata attraverso uno specchio unidirezionale. Lanalisi dei dati è effettuata a diversi livelli: ai livelli di lettura strutturale e di processo delle interazioni familiari l'analisi, di tipo microanalitico, si concentra sulla pastura, lo sguardo, le espressioni facciali, così come sulle vocalizzazioni e verbalizzazioni dei partner, sia entro ciascuno dei 4 episodi sia, soprattutto, durante le transizioni tra questi; l'attenzione è concentrata sulla dinamica della co-regolazione, cioè sulla capacità di coordinazione e di "riparazione" delle coordinazioni mancate fra i 3 membri del sistema. La domanda di fondo che si pongono le ricercatrici-terapeute è se c'è cooperazione, e di che tipo, fra i 3 protagonisti o, al contrario, se vi è un'alleanza di tipo disfunzionale. A questo riguardo, i risultati delle analisi hanno evidenziato quattro funzioni gerarchicamente implicate nel gioco triadico: la partecipazione dei protagonisti, l'organizzazione (mantenimento dei ruoli previsti), l'attenzione focale (presenza di attenzione congiunta) e il contatto affettivo tra i partner. Lanalisi delle interazioni familiari relativamente a queste quattro funzioni ha permesso di individuare diversi tipi di alleanze familiari caratterizzate da specifiche modalità e gradi di coordinazione tra i partner. Allivello di lettura funzionale e clinica, l'analisi è effettuata attraverso la narrazione delle storie di casi clinici. Infine, allivello di lettura evolutiva, l'analisi è condotta attraverso il confranto delle osservazioni longitudinali delle interazioni di ogni famiglia realizzate a 2 e 3 mesi di vita del lattante, e poi trimestralmente nel corso del primo anno, per far luce sul cambiamento nelle modalità del bambino di gestire le interazioni triadiche.
5.6 La prima organizzazione dell'esperienza intersoggettiva e le origini dell'attaccamento nei pattern di interazione con la madre Lo sviluppo dell'esperienza intersoggettiva del lattante nel corso dei primi mesi di vita permette a quest'ultimo di sviluppare la capacità di differenziare gli altri in base alle modalità con cui interagiscono con il piccolo stesso, e una particolare sensibilità allivello di contingenza sociale di cui il lattante ha esperienza nell'interazione quotidiana con la madre. In alcuni studi in cui Bigelow ha confrontato il livello di coinvolgimento di lattanti di 4-5 mesi (Bigelow, 1999) e anche di soli 2 mesi (Bigelow, Rochat, 2006) nella comunicazione faccia-a-faccia con la madre e con un adulto estraneo, i piccoli hanno mostrato meno re143
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sponsività verso l'estraneo che verso la madre quando il livello di responsività dell'estraneo era più contingente, oppure meno contingente, di quello materno. Questo suggerisce che già nei primi mesi di vita la sensibilità dei lattanti allivello di contingenza presente nell'interazione con la madre influenza la loro responsività verso le altre persone. Inoltre, come abbiamo visto, è stato rilevato che i lattanti di madri depresse a 6 mesi tendono ad avere un comportamento "depresso" anche nell'interazione con donne adulte non depresse che interagiscono con loro in modo sensibile e affettivamente vivace (Field et al., 1988). Questi risultati sono interpretabili alla luce del fatto che le prime forme di intersoggettività tra il lattante e la madre si sviluppano attraverso un numero relativamente limitato di pattern di comunicazione, cioè modalità d'interazione caratteristiche con cui madre e lattante si influenzano reciprocamente, che ricorrono e divengono relativamente stabili nel corso dei primi mesi di vita. Grazie alla ricorrenza dei pattern d'interazione e alla precoce capacità del lattante di formarsi degli schemi rappresentazionali sulla base delle caratteristiche percettivamente salienti degli eventi (Bornstein, 1985b), così come di astrarre le regolarità e le caratteristiche comuni da eventi che si ripetono nel tempo (Nelson, 1999), già a partire dai primi mesi il lattante inizia a formarsi delle primitive rappresentazioni dell'interazione (Bretherton, Munholland, 1999). In altre parole, inizia a riconoscere, ricordare, attendersi le modalità ricorrenti attraverso le quali "ha imparato" a interagire con la madre: il contatto vs. distoglimento del contatto visivo; i movimenti di approccio reciproco vs. approccio-evitamento; la responsività della madre e l'espressione di emozioni positive vs. negative o, al contrario, la scarsa responsività della madre e il mantenimento di un basso livello di attivazione; la contingenza affettiva della madre e il senso di connessione con le espressioni facciali e vocali materne o, viceversa, le insistenti richieste della madre e la resistenza alle stesse; l'alternanza dei turni nelle "conversazioni" e nei giochi facciaa-faccia, o la difficoltà di coordinazione ecc. Queste forme di rappresentazione procedurale dell'interazione, che Stern (1985, 1995b) ha definito come "rappresentazioni dell'interazione generalizzate", rappresentano una prima organizzazione dell' esperienza intersoggettiva del lattante che influenza in modo determinante il comportamento del piccolo durante l'interazione, così come lo sviluppo di aspettative nell'interazione, ossia di anticipazioni del comportamento del partner in relazione al proprio, anche con altri adulti che il piccolo non conosce. In tal senso, i risultati dello stu144
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dio sopra citato sui lattanti con madri depresse (Field et al., 1988) testimoniano come i lattanti che hanno interiorizzato scarsa disponibilità emotiva e scarsa responsività da parte della madre, tendano a non aspettarsi responsività neanche da un adulto estraneo e a mostrare, piuttosto, comportamenti di autoregolazione quali il frequente distoglimento del contatto visivo e il mantenimento di un basso livello di attivazione. Come prima forma di organizzazione dell'esperienza intersoggettiva del lattante, queste primitive rappresentazioni dell'interazione giocano un ruolo fondamentale anche nello sviluppo di un attaccamento sicuro vs. insicuro alla madre. Secondo i teorici dell'attaccamento, la qualità della relazione di attaccamento - ossia la sicurezza vs. insicurezza dell'attaccamento- del bambino alla madre rappresenta il risultato cumulativo dell'esperienza del bambino nell'interazione con la madre nel corso del primo anno di vita (Ainsworth, Bell, Stayton, 1971, 1974; Bowlby, 1969). Come sappiamo, la conferma empirica di quest'ipotesi è stata fornita dal famoso studio di Baltimora condotto da Mary Ainsworth e colleghi, il primo che ha esaminato la relazione tra il comportamento materno nell'interazione spontanea con il bambino, nel corso del primo anno di vita, e la sicurezza dell'attaccamento. I risultati hanno mostrato che la sensitive responsiveness, ossia la responsività sensibile ai segnali e alle comunicazioni del bambino (Ainsworth et al., 1974; Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978) è fortemente associata alla sicurezza dell'attaccamento del bambino rilevata a l anno nella Strange Situation. Nel corso degli ultimi trent'anni numerosissimi studi hanno affrontato la questione degli antecedenti della qualità della relazione di attaccamento, con risultati non completamente coerenti. Sebbene diversi autori abbiano confermato che una responsività sensibile da parte della madre costituisce il principale fattore associato alla sicurezza dell'attaccamento (Bretherton, 1985; Isabella, 1993; Pederson, Moran, Sitko, Campbell, Ghesquire, Acton, 1990; Sroufe, 1988), altri hanno sottolineato la mancanza di chiarezza sugli specifici comportamenti materni che possono essere considerati predittivi di tale sicurezza (Lamb, Thompson, Gardner, Charnov, 1985). Inoltre, conseguentemente alla scoperta di una correlazione tra il modello mentale dell'attaccamento della madre rilevato anche prima della nascita del figlio (Fonagy, Steele, Steele, 1991) e il tipo di attaccamento del bambino valutato a 12 mesi, l'ipotesi della responsività materna - perlomeno di una responsività misurata in termini comportamentali - come 145
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principale fattore di trasmissione dell'attaccamento è stata messa in dubbio da alcuni studi (Raval, Goldberg, Atkinson, Benoit, Myhal, Poulton, Zwiers, 2001; van Ijzendoorn, 1995; van Ijzendoorn, Juffer, Duyvesteyn, 1995). Lo stesso concetto di sensitive responsiveness materna è stato riconsiderato sia in termini di capacità di sintonizzazione affettiva con le emozioni del bambino (Riva Crugnola, 1999), cioè di disponibilità emotiva ad accettare ed entrare in contatto anche con le emozioni negative del figlio (De Oliveira, Moran, Pederson, 2005; Grossman, Grossman, 1991; Haft, Slade, 1989), sia in termini di "funzione riflessiva del Sé" (Fonagy, Steele, Steele, Moran, Higgitt, 1991; Fonagy, Target, 1997) che permette alla madre di comprendere il bambino come possessore di stati mentali (emozioni, desideri, intenzioni) fin dai suoi primi mesi di vita, come importanti fattori associati alla sicurezza dell'attaccamento. Infine, uno studio meta-analitico sugli antecedenti della qualità dell'attaccamento legati alle competenze e al comportamento del genitore, ha mostrato che la responsività sensibile della madre rappresenta una condizione importante, ma non esclusiva, per lo sviluppo di un attaccamento sicuro, e che altre dimensioni del comportamento materno quali, per esempio, la reciprocità e il supporto emotivo agiscono in interazione con il contesto sociale e l'eventuale appartenenza della famiglia a una popolazione clinica nell'influenzare tale sviluppo (de Wolff, van Ijzendoorn, 1997). Complessivamente, gli studi convergono sulla necessità di considerare un approccio multidimensionale, focalizzato cioè sull'interazione di altri fattori che includono le caratteristiche del bambino, dell'imerazione diadica e del contesto familiare e sociale con la responsività materna, nella spiegazione delle differenze individuali nelle relazioni di attaccamento. L'attenzione si allarga cioè alla considerazione dell'influenza del temperamento del bambino (Seifer, Schiller, Sameroff, Resnick, Riordan, 1996; van de Boom, 1997) e delle sue capacità di comunicare i propri bisogni e le proprie emozioni (Belsky, 1997), così come di eventuali condizioni di stress quali la malattia del bambino (Cassibba, 2005), sulla responsività materna e lo sviluppo dell'esperienza intersoggettiva con la madre; in altre parole, sulla reciproca influenza che madre e lattante esercitano nell'interazione fin dai primi mesi di vita, sui pattern di coordinazione e riparazione di mancate coordinazioni nello scambio di attenzione e affetti messi in atto dai due partner nell'interazione. A questo riguardo, diversi studi convergono sulla considerazione che, in relazione allo sviluppo di un attaccamento sicuro, nell'espe146
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rienza intersoggettiva tra il lattante e la madre "più" non è "meglio", in quanto la sicurezza dell'attaccamento alla madre risulta associata a un grado medio di intensità e di coordinazione dei comportamenti di madre e lattante durante l'interazione nel corso dei primi mesi di vita. Al contrario, gli attaccamenti insicuri appaiono associati a iperstimolazione e intrusività materna, oppure ipostimolazione, scarsi coinvolgimento e responsività, e incoerenza da parte della madre durante l'interazione, così come a elevati o bassi livelli di responsività da parte del lattante (Isabella, Belsky, 1991; Lewis, Feiring, 1989; Malatesta, Culver, Tesman, Shepard, 1989; Tobias, 1995). In particolare, lo studio di Jaffe e colleghi Uaffe et al., 2001) presentato nel primo capitolo (paragrafo 1.5) ha mostrato che un grado medio di coordinazione ritmica vocale tra la madre e il lattante durante la comunicazione faccia-a-faccia a 4 mesi è indicativo della qualità dell'interazione e predittivo di un attaccamento sicuro (rilevato poi a 12 mesi attraverso la Strange Situation); diversamente, un eccessivo grado di coordinazione può predire un attaccamento insicuro-ambivalente, mentre un forte ricorso a forme di autoregolazione da parte del lattante, un attaccamento insicuro-evitante. Nell'ambito degli studi sugli antecedenti della qualità dell'attaccamento è stato inoltre mostrato come anche il solo comportamento dei lattanti di 4 mesi nell'interazione faccia-a-faccia con la madre possa differenziare i bambini che manifesteranno un attaccamento sicuro da quelli che mostreranno invece un attaccamento insicuro-evitante. In uno studio microanalitico di Koulomzin e colleghi (Koulomzin, Beebe, Anderson,Jaffe, Feldstein, Crown, 2002) i lattanti successivamente classificati come "insicuri-evitanti" hanno trascorso meno tempo dei coetanei con attenzione focalizzata sul volto materno, se si esclude l'attenzione accompagnata da comportamenti di autoconsolazione quali il tenere la mano alla bocca, e mostrato espressioni facciali meno varie (ossia meno "segnalanti" per le madri), con durate maggiori di espressione neutra associata al distoglimento dello sguardo dal volto materno e a un'ampia varietà di comportamenti tattili di autoregolazione. Questi dati, indicativi del fatto che già a 4 mesi i lattanti che manifesteranno un attaccamento insicuro-evitante partecipano all'interazione con la madre in modo profondamente diverso da quello dei coetanei, evidenziano come l'espressività emozionale e la quantità dei comportamenti di autoregolazione dei piccoli possano costituire degli indicatori della qualità dell'attaccamento che stanno iniziando a formare nei confronti della madre. 147
II'R< lCESSI DI SVILlJPI'O DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
A risultati analoghi sono pervenuti anche gli studi che si sono focalizzati sulla relazione tra le risposte dei lattanti alla Still-Face entro i primi 6 mesi di vita e la sicurezza vs. insicurezza dell'attaccamento manifestata dagli stessi a l anno. In particolare, nell'ambito di un lavoro volto a esaminare il ruolo giocato dalla sensibilità dei genitori, come pure dall'espressione e dalla regolazione affettiva del lattante, nel predire la qualità dell'attaccamento alla madre e al padre (Braumgart-Rieker, Garwood, Powers, Wang, 2001), è stato rilevato che la sensibilità materna nell'interazione con il lattante di 4 mesi interagisce con la capacità di regolazione affettiva di quest'ultimo (misurata come capacità di regolare il disagio generato dalla situazione della Still-Face) nel predire la qualità dell'attaccamento alla madre. Relativamente alla qualità dell'attaccamento al padre non è invece stata evidenziata alcuna associazione. Infine, è stato mostrato che entro i 6 mesi lo stile di coping espresso dal lattante durante la Still-Face sembra stabilizzarsi e acquisire un ruolo ancora maggiore in relazione allo sviluppo della relazione di attaccamento, divenendo un indice predittivo della sicurezza vs. insicurezza dell'attaccamento che il bambino manifesterà a l anno (Cohn, Campbell, Ross, 1991). Nello specifico, l'utilizzo di comportamenti positivi, quali sorrisi e cooing, per sollecitare una qualche forma di risposta dalla madre non responsiva è risultato predire un attaccamento sicuro; viceversa, l'assenza di tali comportamenti positivi di sollecitazione è risultata predire un attaccamento ansioso. Le reazioni del lattante alla Still-Face possono allora essere considerate un buon indicatore della sua esperienza di intersoggettività con la madre, e la stessa situazione di stress creata dalla SF un modo efficace per analizzare ciò che il lattante si attende possa "funzionare" per ricoinvolgere la madre nell'interazione.
5.7 La transizione dalla comunicazione faccia-a-faccia alla comunicazione focalizzata sugli oggetti Tra il quarto e il sesto mese di vita nello sviluppo del lattante compaiono nuove abilità motorie, percettive e cognitive che gli permettono di interagire in modo più attivo anche con l'ambiente fisico circostante, favorendo lo spostamento della sua attenzione dal volto umano ad altri oggetti presenti nel suo campo visivo. Questi "oggetti", inizialmente coincidono con parti del suo corpo da poco scoperte- tipi148
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camente le estremità - e parti del corpo della madre, in particolare le mani, che la stessa utilizza più frequentemente nei nuovi giochi ritmati con il piccolo; presto, però, divengono gli oggetti veri e propri presenti nel contesto, che il lattante inizia anche a cercare di raggiungere e toccare. In particolare, due importanti cambiamenti: un considerevole incremento nella capacità di mantenere la pastura eretta (posizione seduta sebbene supportata da un appoggio), e l'acquisizione della capacità di afferrare gli oggetti, sono stati messi in relazione con il significativo decremento riscontrato nell'attenzione del lattante verso la faccia della madre e la transizione dalla dominanza della comunicazione faccia-a-faccia a quella della comunicazione focalizzata sugli oggetti, osservabile in questo stesso periodo. In uno studio sperimentale condotto con lattanti dai 3 ai 6 mesi (Fogel, Dedo, McEwen, 1992), grazie all'utilizzo di un seggiolino reclinabile che permetteva di variare sistematicamente la pastura del lattante nell'interazione faccia-a-faccia con la madre- da una posizione supina a una posizione reclinata, fino a una posizione eretta - è stato mostrato che, quando sono seduti, i lattanti tendono a guardare la madre significativamente meno di quando sono in posizione supina o reclinata; forse perché, soprattutto per i lattanti più grandi, la pastura eretta coincide con un arricchimento di oggetti nel proprio campo visivo. Questi risultati sono stati replicati da uno studio naturalistico (Fogel, Messinger, Dickson, Hsu, 1999) che ha specificamente esaminato la relazione tra i cambiamenti nello sviluppo della comunicazione spontanea tra il lattante e la madre- osservata settimanalmente da l a 6 mesi -, lo sviluppo della postura eretta e la comparsa del reaching, cioè della capacità di raggiungere e afferrare gli oggetti autonomamente da parte del lattante. Sebbene in un ampio range di differenze individuali che segnala un significativo calo della comunicazione faccia-a-faccia tra le 12 e le 22 settimane, secondo le diadi, il decremento dell'attenzione alla faccia della madre è risultato sincronizzato con l'incremento della postura eretta, ma non con l'acquisizione del reaching che, nella maggior parte dei casi, è comparso successivamente allo spostamento d'interesse del lattante. Ciò appare in linea con i risultati di diverse ricerche che testimoniano come lo sviluppo delle abilità di agire sugli oggetti non costituisca un fattore determinante per la transizione dall'esperienza di compartecipazione con l'altro attraverso la comunicazione faccia-a-faccia all'esperienza di compartecipazione focalizzata sugli oggetti; al contra149
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rio, proprio lo sviluppo delle abilità di agire sugli oggetti sembra favorito dai nuovi "formati" di comunicazione centrati sugli oggetti che la maggior parte delle madri e degli adulti che si prendono cura del lattante, cogliendo il suo nuovo interesse, organizzano nell'interazione con quest'ultimo. Tipicamente, quando durante l'interazione con l'adulto l'attenzione del lattante si sposta su un oggetto che il piccolo non è ancora capace di afferrare, l'adulto prende quell'oggetto, lo mostra allattante muovendolo nel suo campo visivo, e dimostra le proprietà dell'oggetto (per esempio, lo scuote, se si tratta di un sonaglio, Lyra, RossettiFerreira, 1995; Zukow-Goldring, 1997); oppure, mette l'oggetto direttamente nelle mani del lattante, così che questi possa afferrarlo, esplorarlo manualmente o portarlo alla bocca. Quando il lattante inizia a sviluppare le prime capacità di raggiungere e afferrare gli oggetti, l'adulto supporta la comparsa di quest'abilità mantenendo l'oggetto d'interesse del piccolo fermo e a una distanza facilmente raggiungibile da quest'ultimo. Infine, quando il lattante mostra una consolidata capacità di afferrare gli oggetti autonomamente, l'adulto inizia a "sfidare" il lattante proponendogli oggetti più complessi (Fogel, 1990). Le strategie di comunicazione che l'adulto utilizza con il lattante nell'interazione focalizzata sugli oggetti sono simili a quelle usate precedentemente nella comunicazione faccia-a-faccia (Zukow-Goldring, 1997), ossia l'enfasi, la ripetizione, l'uso del ritmo di cui ora l'adulto si serve nelle azioni che compie su un oggetto per dimostrarne allattante le proprietà (per esempio, schiaccia con enfasi, ripetendo quest'azione con ritmi diversi, un giocattolo di gomma che produce suono), oppure per rendere un giocattolo attraente agli occhi del piccolo (per esempio, riproduce in modo enfatizzato i suoni del miagolio mentre muove un gatto giocattolo, awicinandolo al bambino). Queste strategie sono particolarmente importanti perché attraggono l'attenzione del lattante sull'oggetto e, al tempo stesso, anche sulle azioni e le vocalizzazioni dell'adulto sull'oggetto, favorendo lo sviluppo dell'abilità di coordinare l'attenzione alle persone in relazione agli oggetti o, in altre parole, lo sviluppo dell'attenzione condivisa. Infatti, più i genitori sono attenti e "animati" nella comunicazione con i propri lattanti in relazione agli oggetti d'interesse di questi ultimi, più i lattanti riescono a co-regolare con loro l'attenzione sugli oggetti (Brighi, 1997) e porre così le basi per lo sviluppo di una forma di intersoggettività fondata sulla condivisione di attenzione e interesse per gli oggetti. Tuttavia, sebbene nel corso del quinto e sesto mese di vita il gioco 150
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con gli oggetti divenga l'esperienza principale d'interazione con l'adulto, sarebbe scorretto pensare che sostituisca completamente la comunicazione diadica faccia-a-faccia, o che il passaggio dal gioco faccia-a-faccia al gioco con gli oggetti, pur nel contesto dell'esperienza intersoggettiva, sia di tipo lineare. Va infatti considerato che la comunicazione faccia-a-faccia sembra decrescere definitivamente soltanto verso i 6 mesi (Kaye, Fogel, 1980) ma, soprattutto, che già verso la fine del quarto mese l'esperienza di intersoggettività del lattante si arricchisce di nuovi pattern di comunicazione diadica (cioè non ancora mediata da un terzo polo di attenzione) che si affiancano alla comunicazione faccia-a-faccia, quali i pattern di gioco tattile basati sulla formazione di aspettative e intense emozioni (per esempio, il gioco del solletico anticipato), e di gioco fisico-motorio, in cui l'adulto muove ritmicamente gli arti del lattante e l'attenzione reciproca è concentrata, piuttosto che sui volti, sulle parti del corpo coinvolte nel gioco. Questi tipi di giochi fisici si incrementano sensibilmente nel corso del quinto e sesto mese di vita (Sansavini, 2003 ), proprio quando si affermano i nuovi pattern di comunicazione focalizzata sugli oggetti. A questo riguardo, è stata documentata la compresenza di diversi /rames, o pattern di comunicazione ricorrenti e relativamente stabili (Fogel et al., 2006): un pattern di "gioco misto" in cui l'oggetto è utilizzato dall'adulto in funzione sociale (per esempio, per picchiettare ritmicamente il pancino del lattante), che mostra un picco attorno alle 21-23 settimane ma poi decresce rapidamente, interpretato da Fogel e colleghi come pattern "ponte", funzionale alla transizione dalla comunicazione faccia-a-faccia alla comunicazione mediata dall'oggetto; un pattern di "gioco guidato con gli oggetti" in cui l'adulto avvicina il lattante a suoi oggetti d'interesse mostrandone le proprietà, che nel quinto e sesto mese appare in percentuali significativamente maggiori degli altri pattern di comunicazione; infine, un pattern di "gioco autonomo con gli oggetti" in cui è il bambino a guidare il gioco condiviso con l'oggetto- oppure è protagonista del gioco in presenza della madre che partecipa all'interazione commentando le azioni del piccolo-, che si afferma solo a partire dal sesto mese ma continuerà a crescere nei mesi successivi. La dominanza del "gioco guidato con l'oggetto" tra i 4 e i 6 mesi sembra supportare l'ipotesi che la conoscenza degli oggetti nei primi mesi di vita avvenga prevalentemente nel contesto intersoggettivo delle sequenze di comunicazione tra la madre (o altro adulto significativo) e il lattante. 151
6 Dai 6 ai 9 mesi: intersoggettività come prima condivisione di attenzione ed emozioni nelle azioni di gioco
Dopo la metà del primo anno di vita, l'affermarsi del gioco con gli oggetti come contesto ricorrente d'interazione con l'adulto consolida la presenza di un terzo elemento esterno alla diade adulto-lattante attorno al quale si focalizzano l'attenzione e la comunicazione dei partner. L'esperienza di intersoggettività, che nei mesi precedenti si era sviluppata come compartecipazione di affetti ed emozioni nello scambio comunicativo faccia-a-faccia, si arricchisce ora di una prima forma di condivisione dell'attenzione sull'oggetto. Si tratta di una forma molto semplice di condivisione, identificata come "attenzione coordinata" (Legerstee, 2005; Striano, Bertin, 2005) in quanto talvolta, durante il gioco, si osserva che il lattante alterna spontaneamente il suo sguardo tra l'oggetto (per esempio, un giocattolo), il volto dell'adulto e, immediatamente dopo, ancora l'oggetto di gioco, mostrando di monitorare l'attenzione dell'altro per l'oggetto e, in qualche modo, "incorporare" l'attenzione dell'altro nel suo coinvolgimento con l'oggetto. Parallelame~te, il gioco con gli oggetti contribuisce a sviluppare quel senso di "agentività" che il lattante aveva iniziato a sperimentare nell'interazione faccia-a-faccia con l'adulto; in altre parole, a sviluppare la percezione che le proprie azioni possono produrre degli effetti sulle persone o sugli oggetti. E proprio questo consolidamento del senso di "agentività", unito all'esperienza di focus condiviso su certi oggetti, sembra favorire la comparsa di una primitiva consapevolezza della relazione tra l'azione delle persone e gli oggetti, ossia, di un importante precursore della capacità di comprendere I' altro come agente che ha delle intenzioni rispetto agli oggetti e alle persone, che se153
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGC;EITIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
gnerà una svolta radicale nell'esperienza intersoggettiva del bambino (Tomasello, 1995, 1999). Come vedremo, alcuni studi documentano infatti che già dopo i 6 mesi i lattanti mostrano di comprendere che i comportamenti delle persone -le azioni, le espressioni di attenzione e di affetto, la comunicazione- sono sempre diretti verso un oggetto (una persona o un oggetto inanimato), e che certe azioni- quali il parlare, per esempiosono specificamente dirette verso le persone, altre, invece, verso gli oggetti inanimati. Anche nell'ambito più specifico dell'esperienza di scambio affettivo con l'altro, la comparsa di reazioni di intensa emozionalità negativa in situazioni sperimentali in cui alla madre è chiesto di rivolgere attenzione e affetto verso un altro lattante, testimonia una comprensione della direzionalità e del significato delle espressioni affettive, oltre a una probabile, precoce manifestazione della qualità della relazione di attaccamento alla madre. Tra i 6 e i 9 mesi, la relazione tra azioni e destinatari delle azioni appare comunque non solo compresa, ma anche ben espressa dal lattante. Al riguardo, vedremo come l'accresciuta capacità del lattante di esprimere un'ampia gamma di emozioni presenti anche un nuovo livello di organizzazione che non si esaurisce nel coinvolgimento di un maggior numero di azioni facciali e vocali ben coordinate con i movimenti del corpo, ma appare, piuttosto, "mirata" al destinatario dell'espressione emozionale - cioè diretta al volto e allo sguardo dell'altro anche quando il contesto della comunicazione non è faccia-a-faccia attraverso un primo monitoraggio dell'attenzione dell'interlocutore da parte del piccolo. Questa nuova capacità, così come l'incremento della sensibilità all'attenzione, alle espressioni e alle azioni del partner, tende a emergere già verso i 7-8 mesi, quando il lattante inizia a coinvolgersi attivamente nei nuovi "formati" (Bruner, 1983) di gioco sociale con l'adulto, che si sviluppano parallelamente al gioco spontaneo con gli oggetti. L'analisi di questi nuovi "formati" d'interazione Iudica, caratterizzati da una struttura regolare e ripetitiva che facilita lo sviluppo di aspettative del piccolo (e, eventualmente, da una semplice differenziazione dei ruoli dei partecipanti), ci permetterà di capire come l'esperienza intersoggettiva del lattante possa svilupparsi anche nella condivisione di azioni di gioco sociale e nella compartecipazione emotiva alle stesse che, tuttavia, attorno agli 8-9 mesi il piccolo tende a limitare all'interazione con persone familiari (o non familiari in presenza della madre). Nell'ultima parte del capitolo vedremo infatti come la ere154
DAI 6 AI 9 MESL INTERSOGGETTIVITA COME PRIMA CONDIVISIONE DI A'ITENZIC lNl·: ED EMOZIONI ...
sceme selettività e differenziazione delle risposte sociali - che culmina attorno agli 8-9 mesi con la comparsa di reazioni differenziate allo stesso comportamento messo in atto dalla madre e da altre persone, e di circospezione o paura di fronte a un estraneo - contribuisca a selezionare l'identità dell'altro nell'esperienza intersoggettiva.
6.1 L'attenzione coordinata nel gioco con gli oggetti Nel capitolo precedente (paragrafo 5.5) abbiamo visto come nell'interazione del lattante con l'adulto, già nel quarto-quinto mese di vita, alcuni studi abbiano rilevato una primitiva capacità del lattante di seguire la direzione dell'orientamento della testa e dello sguardo del partner se questo si sposta su un oggetto situato nel campo visivo del piccolo. Questa stessa capacità, identificabile come una prima forma di attenzione visiva condivisa - definita operazionalmente come la capacità di "guardare dove il partner sta guardando" (Butterworth, 2001)- all'età di 6 mesi è stata mostrata da un numero più consistente di studi. Il paradigma di ricerca utilizzato è quello per lo studio dell'attenzione visiva condivisa (durante l' interazione faccia-a-faccia l'adulto interrompe più volte il contatto oculare con il lattante volgendo la testa e lo sguardo verso una direzione predefinita; vedi Metodi e strumenti 5), con l'introduzione di elementi di semplificazione del compito del lattante. In particolare, Butterworth e Jarrett (1991) hanno previsto che lo sguardo dell'adulto si ponesse, di volta in volta, su uno tra alcuni attraenti stimoli visivi (pupazzi) collocati nel campo visivo del lattante, e che a ogni rotazione della testa l'adulto ruotasse anche il tronco, mantenendo la nuova postura per circa 5 secondi. In questa situazione, i lattanti di 6 mesi hanno mostrato di saper seguire la direzione della testa e degli occhi dell'adulto nei suoi cambiamenti, orientandosi di volta in volta verso il lato della stanza dov'era situato il focus di attenzione del partner. Gli studi sperimentali di D'Entremont (2000) e Morales e colleghi (Morales, Mundy, Rojas, 1998) hanno condotto a risultati simili, sebbene nel primo studio le risposte dei lattanti siano risultate corrette quando gli stimoli verso cui si dirigeva l'attenzione dell'adulto erano vicini all'asse centrale del campo visivo dei piccoli. Nel secondo studio, invece, l'adulto era rappresentato dalla madre e quest'ultima, dopo ogni cambiamento di direzione dell'attenzione, chiamava il lattante per nome per tre volte; la capacità dei lattanti di 155
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seguire la direzione dello sguardo della madre era cioè facilitata dal richiamo acustico della voce materna. L'analisi dello sviluppo dell'abilità del lattante di coordinare la propria direzione dell'attenzione con quella dell'interlocutore, nella seconda metà del primo anno di vita, è stata condotta anche attraverso studi longitudinali dell'interazione madre-lattante durante il gioco con gli oggetti. Al riguardo, uno studio di Saxon, Frick e Colombo (1997) ha rilevato che a 6, ma anche a 8 mesi di vita, se gli episodi di vera e propria attenzione condivisa sono ancora piuttosto infrequenti, alcuni pattern di interazione in cui le madri, tipicamente, seguono l'attenzione del lattante per un oggetto che diviene focus di attenzione comune o, viceversa, invitano il piccolo a spostare il focus di attenzione su un nuovo oggetto, compaiono invece frequentemente nel contesto di gioco. Le madri sembrano quindi sostenere e favorire lo sviluppo dell'interazione su un oggetto d'attenzione comune, stimolando la necessità del lattante di coordinare l'attenzione all'oggetto e al partner. La funzione di "impalcatura" (sca/folding, Bruner, 1983; Kaye, 1982) per lo sviluppo dell'attenzione coordinata del lattante svolta dalla madre è stata ben evidenziata anche da uno studio in cui Bakeman e Adamson (1984) hanno posto a confronto l'interazione del bambino con la madre e con un pari nel contesto del gioco con gli oggetti, tra i 6 e i 18 mesi di vita. A tutte le età, il coordinamento dell'attenzione tra l'oggetto e l'interlocutore - espresso da episodi di spostamento dello sguardo del lattante dall'oggetto di gioco al volto del partner e, subito dopo, ancora all'oggetto- è emerso in forma consistente nell'interazione con la madre, ma non con il pari, e in un crescendo significativo in funzione dell'età del bambino; in particolare, la presenza di un coordinamento attivo dell'attenzione tra l'oggetto e la madre è stato osservato in circa un terzo dei lattanti tra i 6 e i 9 mesi. Studi più recenti hanno rilevato una presenza ancora più estesa di episodi di attenzione coordinata nell'interazione dei lattanti di quest'età, indicandola nella maggioranza (Striano, Bertin, 2005) o nella totalità (Legerstee, 2005) dei soggetti osservati a 7.5-8 mesi. Con lo sviluppo dell'interazione con l'adulto nel contesto del gioco spontaneo con gli oggetti, l'esperienza di intersoggettività assume quindi la forma di una prima condivisione di attenzione su un oggetto esterno alla diade. Questa pur semplice forma di condivisione o, perlomeno, compartecipazione, di attenzione appare testimoniata dal fatto che, in un tipico episodio di "attenzione coordinata", il lattante -coinvolto nel gioco con un oggetto su cui è focalizzata anche l'atten156
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zione dell'adulto- sposta improvvisamente il suo sguardo dall'oggetto al volto dell'adulto in assenza di alcun richiamo (per esempio, lavoce o un movimento dell'adulto che potrebbero attrarre la sua attenzione) e poi, immediatamente dopo, ancora all'oggetto di attenzione, senza dirigere lo sguardo su altri oggetti. Certamente, il lattante di 8-9 mesi potrebbe rivolgere lo sguardo verso la madre per verificarne semplicemente la presenza, come descritto dalla letteratura sull'attaccamento, ma il fatto che il piccolo non si limiti a una semplice alternanza di focus tra l'oggetto e la figura dell'adulto ma guardi dritto il volto, gli occhi, dell'adulto e, subito dopo, l'oggetto di attenzione comune, suggerisce una consapevolezza del focus di attenzione dell'adulto o, comunque, una sensibilità alla direzione dell'attenzione dell'altro (una sorta di "monitoraggio" dell'attenzione dell'altro per l'oggetto) e l'inclusione dell'attenzione dell'altro nel suo interesse per l'oggetto. METODI E STRUMENTI 5
Il paradigma sperimentale per lo studio dell'attenzione visiva condivisa La situazione sperimentale divenuta un primo punto di riferimento per lo : studio dell'attenzione visiva condivisa viene creata da Scaife e Bruner ( 1975) con l'obiettivo di esplorare l'abilità del lattante di seguire i cambiamenti nella direzione dello sguardo dell'adulto-interlocutore, e lo sviluppo di tale abilità nel corso del primo anno di vita. Il lattante è seduto di fronte all'adulto sperimentatore in una piccola stanza scarsamente arredata, cioè priva di stimoli visivi che possono attrarre l'attenzione del piccolo. Dopo aver stabilito un contatto oculare con il lattante, l'adulto, in silenzio, sposta la direzione del suo sguardo ruotando la testa verso un piccolo segnale sulla parete (invisibile allattante) che fissa per 7 secondi; poi ruota di nuovo la testa verso il volto del lattante, per riprendere l'interazione. La prova viene ripetuta almeno due volte. Lintera situazione viene videoregistrata e la codifica dei comportamenti del piccolo effettuata dal video. Nello studio originale il 30% dei lattanti già a soli 2-4 mesi ha mostrato di seguire la direzione dello sguardo dell'adulto almeno una volta, ma il risultato è stato considerato particolarmente fragile, poiché trattandosi di un campo visivo vuoto (privo di oggetti che potevano costituire, di volta in volta, il focus di attenzione) bastava che il lattante orientasse lo sguardo verso sinistra o destra - cioè con elevata probabilità di risposta positi- ' va casuale - perché sembrasse seguire la direzione dello sguardo del partner. La maggior parte degli studi successivi ha quindi introdotto nella situazione sperimentale la presenza di stimoli visivi su cui, di volta in volta, si poneva l'attenzione dell'adulto. In particolare, Butterworth -che ha condotto una sistematica serie di studi sullo sviluppo dell'attenzione condivisa - ha predisposto una situazione in cui alcuni stimoli visivi identici
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l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETI'IVA NEL I'RIMl l ANNO DI VITA
(pupazzi) sono collocati in modo simmetrico, alla stessa altezza dell'adulto e del lattante (seduti l'uno di fronte all'altro) e relativamente vicino a loro (min 1 m a 60°, max 2.60 m a 30° di distanza dalla linea mediana del campo visivo del lattante; ButteiWorth, Jarrett, 1991 ). Gli stimoli sono comunque nascosti da alcune tende chiare che creano uno sfondo neutro omogeneo, privo di attrattive visive. Durante l'interazione con il lattante, ogni volta che l'adulto sposta la sua attenzione su uno degli stimoli (scoperto per l'occasione), ri-orienta anche la posizione della testa e del tronco, mantenendo la nuova pastura per circa 5 secondi. Come abbiamo visto (paragrafo 6.1 ), con questa procedura è stato trovato che i lattanti di 6 mesi riescono a seguire la direzione della testa e dello sguardo dell'adulto nei suoi cambiamenti, mostrando chiare capacità di attenzione triadica. Tuttavia, soprattutto a partire dallo studio di Carpenter, Nagell e Tomasello ( 1998), che ha messo in luce come l'abilità di attenzione condivisa si manifesti e si sviluppi attraverso diversi comportamenti quali il coordinare l'attenzione su un oggetto d'interesse condiviso con l'adulto durante il gioco con gli oggetti, seguire la direzione dello sguardo (la rotazione della testa e l'eventuale orientamento del corpo) dell'altro, seguire il gesto di indicazione prodotto dall'altro, lo sviluppo dell'attenzione condivisa già dalla metà del primo anno di vita viene oggi studiato attraverso diversi compiti sperimentali che ne analizzano i differenti aspetti (per esempio, Legerstee, 2005; Striano, Bertin, 2005).
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6.2 la comprensione della direzionalità delle azioni Il gioco con gli oggetti e l'interazione con l'adulto in relazione agli oggetti - in particolare, in relazione alla condivisione di attenzione e di azioni su alcuni giocattoli - costituisce un contesto privilegiato di sperimentazione degli effetti delle proprie azioni e di quelle dell'adulto sugli oggetti o sul partner. Questo consolida quel senso di "agentività" che il lattante aveva iniziato a sperimentare nell'interazione faccia-a-faccia con l'adulto, e aiuta lo sviluppo di una prima consapevolezza della relazione tra persone e oggetti, cioè del fatto che l' attenzione, le azioni e le espressioni di una persona sono sempre dirette a un oggetto o a un'altra persona. La presenza di questa consapevolezza è stata rilevata in lattanti di soli 6 mesi da uno studio in cui Legerstee e colleghi (Legerstee, Barna, DiAdamo, 2000) hanno sottoposto piccoli di quest'età a una situazione sperimentale di possibile violazione di aspettativa. I lattanti di un primo gruppo venivano abituati (vedi capitolo 3, Metodi e strumenti 158
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l) a una persona che parlava rivolta a "qualcosa" nascosto dietro una tenda, e i lattanti di un secondo gruppo alla medesima persona che afferrava qualcosa nascosto dietro la tenda e lo muoveva come spazzasse il pavimento; negli eventi-test la tenda era spostata in modo da nascondere la persona-agente e mostrare ai piccoli in modo alternato, per più volte, i due elementi che erano dietro la tenda, cioè sia una persona che un oggetto (scopa). I risultati hanno mostrato che i lattanti che erano stati abituati all'agente che parlava in direzione della tenda guardavano significativamente più a lungo l'oggetto, mostrando di considerarlo qualcosa di inatteso; con la stessa reazione alla violazione di aspettativa, quelli che erano stati abituati all'agente che afferrava e muoveva qualcosa dietro la tenda guardavano invece significativamente più a lungo la persona. Questi dati suggeriscono che i lattanti di 6 mesi capiscono che le azioni delle persone sono dirette verso qualcosa, non coincidono, cioè, con semplici movimenti, ma sono in qualche modo connesse ad altre persone o a oggetti; inoltre, suggeriscono che i lattanti sono in grado di sviluppare aspettative sull'oggetto (persona o oggetto inanimato) verso cui l'azione di una persona è diretta, sulla base dell'azione osservata. In tal senso, non è difficile immaginare che sia l'esperienza personale di comunicazione con le persone e manipolazione degli oggetti sia l'esperienza di seguire con lo sguardo le azioni degli adulti familiari, permettono ai piccoli di attendersi che certe azioni- quali il parlare- siano indirizzate alle persone, altre- quali l'afferrare e il muovere energicamente - agli oggetti. L'aspettativa dei lattanti in termini di connessione tra le azioni di una persona e i destinatari di quelle azioni appare un importante precursore della comprensione delle azioni delle persone come dirette a uno scopo, connesse, cioè, a determinate intenzioni delle persone che le compiono. La presenza di questa forma di comprensione, che rappresenta un "salto di qualità" nell'esperienza intersoggettiva del bambino perché gli permette di ricercare le "intenzioni" dell'altro, fino a qualche anno fa era stata documentata a partire dai 9 mesi di vita. Tuttavia, poiché gli studi condotti (Carpenter et al., 1998; Phillips, Baron-Cohen, Rutter, 1992) avevano considerato bambini di età non inferiore ai 9 mesi, la sua età di comparsa è stata recentemente esplorata (Legerstee, 2005; Striano, Bertin, 2005; Striano, Vaish, 2006; dopo lo studio pionieristico di Striano, Rochat, 1999) sottoponendo lattanti con una media di 7.5 mesi alle stesse situazioni di "ostacolo sociale" (Phillips et al., 1992)
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utilizzate dagli studi precedenti. Si tratta di due situazioni in cui l'adulto che interagisce con il lattante produce un'azione ambigua: nella prima dà allattante un giocattolo e, quando quest'ultimo inizia a giocare, blocca la sua azione ponendo le mani sopra quelle del piccolo; nella seconda porge allattante un giocattolo e, quando quest'ultimo sta per afferrarlo, ritira la sua offerta mantenendo l'oggetto a distanza dal piccolo; in entrambe le situazioni l'adulto mantiene l'azione ambigua per 5 secondi, guardando il bambino con un'espressione neutra. Il comportamento del lattante in queste situazioni è stato confrontato con il suo comportamento in una situazione priva di ambiguità, in cui l'adulto porge al piccolo un giocattolo e guarda il lattante con un'espressione neutra per i successivi 5 secondi, mentre quest'ultimo inizia a manipolare l'oggetto. I risultati mostrano che una considerevole percentuale di lattanti- il30% negli studi Striano, il 50% in quelli di Legerstee- durante le situazioni ambigue ha rivolto lo sguardo al volto dell'adulto, fissandolo significativamente di più che durante la situazione non ambigua; in altre parole, si è rivolta all'agente dell'azione fissandone l'espressione facciale soltanto quando si trattava di un'azione insolita. Questo comportamento può suggerire che già a 7-8 mesi alcuni lattanti, di fronte a un'azione ambigua dell' adulto-interlocutore, fissano spontaneamente il volto (lo sguardo, l'espressione facciale) dell'adulto per interpretarne l'azione, capire, cioè, lo scopo dell'azione dell'altro. Tuttavia, questo comportamento potrebbe anche indicare che i piccoli guardano il volto dell'adulto semplicemente perché, una volta coperto o ritirato il giocattolo, non c'è più nulla di interessante da guardare. A questo riguardo, è stato condotto un ulteriore esperimento (Striano, Vaish, 2006) che ha confrontato le reazioni di lattanti della stessa età alla situazione di "beffa" (ritiro del giocattolo offerto) prodotta con espressione sorridente/giocosa vs. neutra dell'adulto. Il fatto che la maggioranza dei lattanti abbia sempre rivolto lo sguardo al volto dell'adulto, ma l'abbia distolto vedendolo sorridere apertamente, ossia, abbia fissato significativamente più a lungo l'espressione n eutra dell'adulto, sembra suggerire che i piccoli abbiano guardato il volto del partner effettivamente per interpretare la sua azione ambigua, e quando hanno ricevuto l'informazione che si trattava di un gioco {indicato dal sorriso) hanno distolto lo sguardo. Sebbene questi dati necessitino di ulteriori conferme, sembrano indicare che già attorno ai 7-8 mesi alcuni lattanti iniziano a rapportarsi all'altro mostrando una prima capacità di monitorare la direzione del160
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lo sguardo e le espressioni facciali dell'altro per capire il significato delle sue azioni, in altre parole, una prima forma di sensibilità alle intenzioni dell'altro.
6.3 La comprensione della direzionalità degli affetti Nel caso delle azioni umane finalizzate alla comunicazione di affetto, la consapevolezza del lattante anche di soli 6 mesi sembra andare oltre la comprensione di una connessione tra tali azioni e gli "oggetti" verso cui sono dirette, cioè oltre la comprensione del fatto che tali azioni sono specificamente indirizzate alle persone e non agli oggetti, per avvicinarsi, piuttosto, al significato dell'azione affettiva; e ciò, anche in situazioni triadiche in cui l'affetto non è rivolto al piccolo ma, essendo espresso da una figura di attaccamento (o, perlomeno, con la quale il piccolo sta costruendo un legame di attaccamento), suscita in quest'ultimo reazioni emotive. Sebbene già Piaget (1932) avesse riportato che i lattanti di 8 mesi possono essere gelosi dell'affetto della loro madre verso altri, nuove evidenze empiriche provengono dagli studi sperimentali che hanno sottoposto i lattanti in situazioni triadiche di temporanea esclusione dagli affetti -in particolare, in situazioni di perdita temporanea dell'attenzione e dell'affetto esclusivo della madre- rilevando la presenza di reazioni di affetto negativo simili a quelle di gelosia manifestate dai bambini più grandi già in piccoli di 6 mesi. La percentuale di lattanti che hanno espresso tali reazioni varia tuttavia secondo gli studi: il 20% a 6 mesi nello studio longitudinale di Masciuch e Kienapple (1993 ); il 50% a soli 5 mesi nello studio di Draghi-Lorenz (1998), che rileva come invece soltanto il10% dei piccoli mostrasse le stesse reazioni quando la madre dirigeva la sua attenzione verso un adulto sconosciuto piuttosto che un altro lattante; l'intero campione negli studi condotti da Hart e colleghi con lattanti di 6 mesi (Hart, Carrington, 2002; Hart, Carrington, Tronick, Carroll, 2004). In particolare, nel primo studio di Hart e Carrington (2002) le reazioni dei lattanti in un episodio in cui la madre volgeva attenzione e affetto positivo a una bambola che per dimensioni, sembianze e caratteristiche (emissione di cooing) sembrava un vero lattante sono state confrontate con le reazioni degli stessi durante altri tre episodi: un episodio in cui la madre concentrava la sua attenzione positiva nella lettura di un libro per bambini, e i due episodi descritti (dell'attenzione, ri161
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spettivamente, alla bambola-lattante e allibro) interpretati da una donna sconosciuta invece che dalla madre. Ciò che è emerso è che, nonostante i lattanti fossero ignorati in tutte e quattro le condizioni, manifestavano affetto negativo in misura significativamente maggiore quando l'attenzione materna- ma non quella della donna sconosciuta- era diretta alloro simile, piuttosto che all'oggetto inanimato. Questo risultato testimonia sia una chiara differenziazione della reazione al comportamento materno rispetto a quella mostrata di fronte al comportamento di un adulto sconosciuto, sia una precoce sensibilità agli "oggetti" verso cui sono dirette l'attenzione e le espressioni affettive della madre. Anche in questa situazione, come nelle situazioni triadiche di interazione con l'adulto e gli oggetti, l'esperienza intersoggettiva del lattante si realizza attraverso l'attenzione a uno stato dell'altro (espresso dalla direzione dell'attenzione e dall'espressione affettiva dell'altro) in relazione a un terzo elemento. Nel secondo studio (Hart et al., 2004) le reazioni dei lattanti alla situazione sperimentale di evocazione di gelosia sono state confrontate con un episodio di gioco spontaneo faccia-a-faccia tra il lattante e la madre, e un episodio di Still-Face (vedi capitolo 5, Metodi e strumenti 3), cioè di interruzione dell'espressione di affetto della madre verso il lattante senza che, però, tale espressione sia diretta verso un'altra persona. Il confronto ha evidenziato che, sebbene in entrambe le situazioni perturbate i lattanti abbiano mostrato un significativo incremento di emozionalità negativa con espressioni di rabbia, nella situazione di evocazione di gelosia hanno manifestato soprattutto tristezza, cioè proprio quell'espressione che più di altre possiede l'effetto potenziale di sollecitare il comportamento di cura da parte delle figure di attaccamento (Barr-Zisowitz, 2000). In tal senso, secondo Hart e colleghi, l'espressione di tristezza del lattante di fronte alla madre che rivolge la sua attenzione e il suo affetto positivo a un altro "bambino" avrebbe la funzione di richiamare le cure del caregiver e, quindi, riparare la perdita di esclusività della relazione con la figura di attaccamento. Quest'interpretazione sembra supportata dal fatto che nell'episodio di evocazione di gelosia i lattanti, nonostante le espressioni negative, hanno mostrato un comportamento di approccio verso la madre (sguardo rivolto verso la madre, accenni d'interesse), in chiaro contrasto con il comportamento di allontanamento (distoglimento dello sguardo, evitamento) assunto invece di fronte al volto immobile della madre. Infine, le significative correlazioni emerse tra le espressioni di affetto negativo mostrate dai lattanti durante la situazione di 162
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evocazione di gelosia e, rispettivamente, la sensibilità materna e l'alternanza dei turni madre-lattante nelle vocalizzazioni durante il gioco faccia-a-faccia, suggeriscono che la precoce comparsa di reazioni giudicate dagli osservatori come reazioni di gelosia verso la madre dipende probabilmente dall'esperienza intersoggettiva con quest'ultima, cioè dal fatto che tale esperienza abbia facilitato, o meno, lo sviluppo dell'aspettativa di ricevere in modo preferenziale attenzione e affetto dalla madre.
6.4 l'incremento della capacità di indirizzare e discriminare le espressioni emozionali Dai 6 ai 9 mesi- come abbiamo iniziato a vedere nel paragrafo precedente - le capacità di comprensione e manifestazione delle espressioni emozionali si accrescono sensibilmente e i lattanti appaiono in grado di esprimere un ampio range di emozioni ben differenziate. Complessivamente, le espressioni emozionali dei lattanti presentano una maggiore organizzazione non solo tra le diverse azioni facciali e tra le azioni facciali e vocali (un buon grado di coordinamento fra tali azioni è riscontrabile già attorno ai 4 mesi), ma tra l'espressione dell'emozione e il destinatario dell'emozione (che ne è a volte anche lo stimolo), cioè la persona o l'evento dell'ambiente circostante verso cui è diretta l'espressione del piccolo (Whiterington, Campos, Hertenstein, 2001). In altre parole, adottando la prospettiva funzionalista secondo cui le emozioni sono processi relazionali tra la persona e l'ambiente circostante, cioè "processi attraverso i quali una persona, in un particolare momento, cerca di stabilire, cambiare o mantenere la sua relazione con l'ambiente su questioni di particolare importanza per la persona stessa" (Whiterington et al., 2001, p. 429), potremmo dire che le espressioni emozionali dei lattanti dalla seconda metà del primo anno di vita divengono più "mirate" e, quindi, più efficaci nella loro funzione di segnalazione sociale. A questo riguardo, uno studio di Stenberg e Campos (1990) sullo sviluppo dei pattern espressivi di rabbia suscitata dalla costrizione dei movimenti delle braccia in lattanti di l, 4 e 7 mesi ha mostrato significative differenze nell'organizzazione di tali pattern secondo l'età dei piccoli. In particolare, a l mese l'espressione dei lattanti ha incluso diverse azioni facciali associate all'espressione prototipica di rabbia (per esempio, l'abbassamento e l'avvicinamento delle sopracciglia), ma an-
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che due azioni indicative di un'incompleta organizzazione dei movimenti facciali: la chiusura degli occhi, piuttosto che lo stringerli a fessura che ci si aspetterebbe in un'espressione di rabbia, e la tensione della lingua, piuttosto che il ritrarre gli angoli della bocca; inoltre, sebbene i lattanti di l mese vocalizzassero affetto negativo, la loro espressione non era diretta verso nessun punto specifico dell'ambiente poiché il loro sguardo vagava in modo diffuso per la stanza. Entro i 4 mesi, invece, le azioni facciali dei lattanti erano tutte organizzate secondo l'espressione prototipica della rabbia, e l'espressione facciale e vocale dei piccoli diretta verso l'ostacolo concreto che impediva loro di muoversi liberamente, cioè le mani dello sperimentatore che bloccavano le loro braccia, o, perlomeno, verso il "luogo" della frustrazione. A 7 mesi, infine, è emersa una riorganizzazione dell'espressione emozionale in relazione al destinatario di tale espressione: le azioni facciali e vocali di rabbia, ben coordinate, sono state rivolte dai lattanti non più al "luogo" della frustrazione o all'azione concreta che bloccava i loro movimenti, ma direttamente all'agente di tale azione, cioè allo sperimentatore (al suo volto), come pure alla madre che assisteva all'episodio; le vocalizzazioni di rabbia dei lattanti erano emesse solo quando gli stessi fissavano lo sperimentatore o la madre. Questi risultati sembrano documentare una prima forma di comportamento diretto a uno scopo. Nel periodo dal settimo al nono mese, l'incremento della capacità del lattante di esprimere emozioni emerge inoltre chiaramente sia dall' ampliamento delle modalità che il piccolo può ora utilizzare per esprimere la medesima emozione - per esempio, la rabbia può essere espressa attraverso le azioni facciali che tipicamente esprimono "rabbia", le vocalizzazioni negative acute, ma anche lo scaldare, il mordere, l'agitarsi fortemente (Barrett, Campos, 1987) -,sia dalla manifestazione di una nuova gamma di emozioni con le quali il piccolo regola la sua relazione con l'ambiente sociale circostante. Attorno agli 8 mesi, per esempio, di fronte a una persona o situazione sconosciuta il lattante può inizialmente mostrare un'espressione enigmatica- o puzzled /ace (Waters, Matas, Sroufe, 1975) -, la stessa che qualche tempo dopo, sempre di fronte a una situazione sconosciuta o ambigua, rivolgerà tipicamente alla madre nell'ambito di quel comportamento definito come "riferimento sociale" (vedi paragrafo 7.2.1); oppure, sempre di fronte a un estraneo (vedi paragrafo 6.6) può facilmente esprimere diffidenza, o altre molteplici emozioni - secondo le caratteristiche del contesto e anche individuali- in una gamma di sfumature che si estende dalla circospezione alla tensione, fino alla vera e propria paura. 164
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Per quanto riguarda le espressioni emozionali positive, la seconda metà del primo anno appare caratterizzata dall'affermazione del riso che, sebbene già presente dal quarto-quinto mese soprattutto in risposta a giochi di stimolazione tattile, diviene ora parte integrante dell'esperienza del bambino nell'interazione con l'adulto. In particolare, il riso del lattante compare frequentemente nella condivisione di divertimento e agentività durante le routine di gioco sociale (paragrafo 6.5): in questo contesto è spesso il riso del piccolo a innestare quello dell'adulto, e proprio la soddisfazione per l'effetto suscitato stimola il bambino a mantenere il riso o a ripetere una risata monitorando il comportamento del partner. Grazie allo sviluppo di nuove capacità cognitive che permettono allattante di comprendere quando una situazione o un comportamento è insolito e paradossale, il riso inizia a comparire spesso anche come apprezzamento degli scherzi proposti dall'adulto nell'interazione: per esempio, quando il lattante vede l'adulto succhiare latte da un biberon e poi prova a togliergli il biberon dalla bocca (Fogel, Nwokah, Karns, 1993 ). L'accresciuta capacità di differenziare gli stimoli sociali si ritrova anche nello sviluppo di un'iniziale capacità di riconoscere e discriminare emozioni diverse nelle espressioni facciali e vocali delle altre persone. Dalla letteratura sappiamo che a 7 mesi è possibile rilevare quest' abilità se le espressioni facciali di emozioni sono presentate ai piccoli in modalità simili a quelle attraverso cui le percepiscono nel contesto reale, ossia in movimento (immagini videoregistrate) piuttosto che in forma statica (fotografie), e accoppiate a espressioni vocali (Phillips, Wagner, Fells, Lynch, 1990). In particolare, in uno studio in cui Soken e Pick ( 1999) hanno utilizzato il paradigma della preferenza visiva (capitolo 3, Metodi e strumenti l) per indagare la capacità di discriminare specifiche espressioni di emozioni positive (gioia, interesse) e negative (rabbia, tristezza), a lattanti di 7 mesi sono state sottoposte, di volta in volta, due espressioni facciali di emozioni videoregistrate, accompagnate dall' espressione vocale di una delle due emozioni rappresentate. I lattanti hanno guardato significativamente più a lungo le espressioni facciali che concordavano affettivamente con quelle vocali, eccetto che nelle condizioni in cui erano presentate le espressioni di gioia/tristezza e interesse/tristezza, in cui hanno dimostrato di preferire le espressioni positive, indipendentemente dalla loro concordanza o meno con l' espressione vocale. Secondo i ricercatori, questo specifico dato evidenzia il possibile ruolo della familiarità nello sviluppo della capacità di discri165
l PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERJENZA INTERSOGGETIWA N l'L PRIMO ANNO DI VITA
minare specifiche espressioni di emozioni, che nei lattanti di 7 mesi, dai risultati complessivi, appare comunque piuttosto consistente. Attraverso una procedura metodologica simile a quella sopra descritta, sono state anche documentate l'abilità dei lattanti di 7 mesi di combinare facce videoregistrate e voci di persone sconosciute in base alla loro età (bambini vs. adulti), e la preferenza dei piccoli per le espressioni dei bambini (Bahrick, Netto, Hernandez-Reif, 1998).
6.5 ~esperienza intersoggettiva nei primi 11formati"
di gioco sociale Nella seconda metà del primo anno, l'incremento della capacità del lattante di discriminare le espressioni facciali e vocali del partner, incluso l'input linguistico che l'adulto gli offre attraverso la "marcatura" delle azioni di gioco condivise, appare particolarmente evidente nella partecipazione del piccolo ai nuovi formati di gioco sociale che si sviluppano parallelamente al gioco con gli oggetti. L'esperienza intersoggettiva del lattante, che da un'iniziale centratura sulla condivisione degli affetti nello scambio comunicativo facciaa-faccia si è arricchita di prime forme di condivisione dell'attenzione sull'oggetto, si estende anche alla condivisione delle azioni di gioco e della partecipazione emozionale alla messa in atto dei nuovi giochi sociali che il piccolo è in grado di intraprendere con l'adulto. I giochi sociali si fanno infatti più frequenti e animati da entusiasmo e divertimento condiviso che il lattante manifesta spesso attraverso il riso evocalizzazioni e movimenti di eccitazione. Queste espressioni sottolineano una partecipazione attiva da parte del piccolo, favorita dalla struttura ritmica in fasi, cioè dall'andamento regolare fatto di cambiamenti prevedibili, che caratterizza i nuovi giochi condivisi, così come dalla frequente ripetizione degli stessi che li trasforma in vere e proprie routine di gioco sociale. Tipicamente, nell'ambito delle culture occidentali, indipendentemente dalle specifiche culture dei Paesi di appartenenza (Fernald, O'Neill, 1993 ), dopo i primi 6 mesi di vita si osserva lo sviluppo di giochi strutturati in due semplici fasi complementari scandite da azioni contrarie quali la scomparsa e la ricomparsa (nelle molteplici varianti del gioco del cucù), l'avvicinamento e l'allontanamento (nel gioco d eli"' Adesso ti prendo"), il ricevere e il lasciare andare (nel gioco con la palla) e, successivamente, verso la fine del primo anno (Gustaf166
DAI 6 Al 9 MFSL !NTERSOC;GETTIVITÀ COME PRIMA CONDIVISIONE DI ATTENZIONE ED EMOZIONI. ..
son, Green, West, 1979), il dare e il prendere (nel gioco di dare e prendere gli oggetti), il costruire e l'abbattere (nel gioco della torre), tutte separate da una lunga pausa e accompagnate da specifiche verbalizzazioni o esclamazioni verbali dell'adulto che ne sottolineano il significato. Il crescendo di tensione emotiva che caratterizza il passaggio tra le fasi di alcuni di questi giochi (per esempio, tra la scomparsa e ricomparsa nel gioco del cucù) e, soprattutto, la regolarità e la ripetitività delle azioni di gioco facilitano lo sviluppo di aspettative da parte del lattante che, già verso gli 8-9 mesi, può iniziare ad anticipare l'azione dell'adulto con vocalizzazioni, o a prendere l'iniziativa sostituendosi all'adulto nel ruolo di agente quando quest'ultimo esita intenzionalmente nell'azione di gioco. Per esempio, durante il gioco del cucù, se l'adulto che si è nascosto il volto sotto un panno dopo aver richiamato l'attenzione del piccolo sulla sua scomparsa, sospende temporaneamente la fase della ricomparsa, ossia non si scopre il volto né esclama alcunché nei tempi della routine di gioco alla quale il lattante è abituato, quest'ultimo cerca di afferrare il panno e toglierlo dalla testa del partner. In una particolare versione del gioco del cucù osservata minuziosamente da Bruner ( 1983) nell'interazione di una delle diadi madrebambino coinvolte in un suo famoso studio longitudinale sullo sviluppo del linguaggio, a scomparire e riapparire era un clown giocattolo montato su un bastoncino coperto da un cono di stoffa; il clown poteva essere mosso così da scomparire dentro il cono di stoffa e riapparire da esso. Bruner documenta che quando la madre propose per la prima volta questo gioco, il piccolo, che aveva 5 mesi, era poco più di uno spettatore che sorrideva indifferenziatamente alla scomparsa e ricomparsa del clown e tentava, piuttosto, di afferrare il giocattolo. Anche nel corso del sesto e settimo mese il lattante continuava a cercare di afferrare il clown, accompagnando i suoi tentativi con vocalizzazioni poco differenziate tra le due fasi del gioco, ma a 7 mesi reagiva invece secondo il ritmo del gioco, stabilendo un contatto visivo con la madre dopo la scomparsa del clown, e condividendo con la madre sorrisi e vocalizzazioni quando lei faceva riapparire il giocattolo. Ali' età di 8 mesi iniziava ad assumere un ruolo più simile all' agente, cercando di estrarre lui stesso il clown dal cono di stoffa dopo che la madre I' aveva fatto scomparire, e così nelle settimane seguenti, quando cominciò anche a vocalizzare insieme alla madre che "marcava" con esclamazioni le due fasi di gioco (''Via!" alla scomparsa, e "Bu!" alla ricomparsa). 167
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Da questo e dai precedenti esempi è possibile comprendere come l'esperienza intersoggettiva del lattante possa svilupparsi anche attraverso questi "formati" di gioco sociale. Innanzitutto, in continuità con l'esperienza intersoggettiva di compartecipazione di affetti ed emozioni, la condivisione di questo particolare tipo di azioni ludiche offre la possibilità di sperimentare un senso di connessione con l'altro nella compartecipazione emotiva che accompagna le azioni di gioco (per esempio, nelle fasi di crescendo, e successivo scioglimento, di tensione); al tempo stesso, però, offre la possibilità di sperimentare un senso di connessione con l'altro anche nella compartecipazione dell' attenzione sull'azione in corso. Inoltre, arricchisce l'esperienza intersoggettiva del piccolo con la possibilità di sperimentare una prima differenziazione di ruolo dal partner nell'essere protagonista di un'azione complementare a quella di quest'ultimo (per esempio, nel recuperare il clown che la madre aveva fatto scomparire). Altre tipologie di gioco sociale che si incrementano nella seconda metà del primo anno di vita sono i giochi di vocalizzazione e co-costruzione di pattern prosodici di vocalizzazioni, così come le canzoncine e le filastrocche cantate dai genitori (Reddy et al., 1997) che illattantetende ad accompagnare con eccitazione e movimenti sintonizzati sui toni musicali, manifestando una particolare sensibilità alle caratteristiche melodiche del linguaggio e alla musica (Trehub, Trainor, Unyk, 1993). Tuttavia, anche di fronte alla proposta di un gioco particolarmente interessante, col crescere dell'età la responsività del piccolo si fa via via più selettiva secondo il grado di familiarità dell'adulto con cui entra in interazione, finché entro gli 8-9 mesi le sue risposte arrivano a esprimere circospezione o anche esplicito rifiuto se l'adulto è una persona non familiare (vedi paragrafo 6.6). Questi comportamenti riflettono alcuni degli importanti cambiamenti qualitativi avvenuti nello sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino- in questo caso la capacità di discriminare le diverse persone e, quindi, differenziare i propri comportamenti rivolti verso di esse-, che costituiscono requisiti indispensabili per la caratterizzazione dell'altro nell'esperienza imersoggettiva e, più in particolare, per lo sviluppo della relazione di attaccamento.
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6.6 la differenziazione delle risposte sociali Già dopo i 6 mesi, ma in forma più consistente verso i 7-8 mesi, il lattante inizia a manifestare reazioni differenziate ai comportamenti della madre e a comportamenti simili messi in atto da altre persone. Per esempio, quando è in una stanza con la madre e altre persone familiari che stanno interagendo con lei, tende a orientarsi verso la madre; quando è preso in braccio dalla madre tende ad "arrampicarsi" sul suo corpo e a giocare con il suo viso e i suoi capelli o i suoi vestiti, ma ciò non accade così frequentemente con altre persone pur conosciute; quando rivede una persona familiare tende a salutarla con un sorriso, ma quando rivede la madre dopo una breve assenza tende a salutarla con particolare entusiasmo: sorrisi, vocalizzazioni, spesso un eccitamento del corpo che include il sollevamento delle braccia e l'orientamento verso di lei. Abbiamo anche visto come a soli 6 mesi, in situazioni d'interazione in cui l'adulto rivolge temporaneamente attenzione e affetto a un altro lattante, reagisce con espressioni di affetto negativo se l'interazione è con la madre, ma non si comporta nello stesso modo se l'interazione è con una donna sconosciuta (Hart, Carrington, 2002, vedi paragrafo 6.3). Inoltre, in un classico studio di Sroufe e Wunsch (1972) è stato mostrato che lattanti di 8 mesi, di fronte a una persona (madre vs. estraneo) che indossa una maschera spaventosa e si awicina progressivamente a loro, quando la maschera è indossata da un estraneo scoppiano a piangere, quando invece è indossata dalla madre, non appena la riconoscono, scoppiano a ridere. Dopo gli 8 mesi, la differenziazione dei comportamenti sociali culmina nella comparsa di segnali di protesta e angoscia quando il piccolo viene separato dalla madre (Stayton, Ainsworth, Main, 1973, o da un'eventuale altra figura di attaccamento) e affidato a persone diverse dagli altri suoi caregiver. Si tratta di segnali inequivocabili, quali il pianto non facilmente consolabile, la ricerca attiva con lo sguardo, l'orientamento del corpo e lo spostamento carponi nella direzione in cui si è allontanata la madre. Il rifiuto dei tentativi di consolazione e distrazione da parte di altre persone indica che, per il bambino di quest'età, i caregiver non sono più intercambiabili come prima e i comportamenti di attaccamento sono rivolti solo a specifiche persone. Il fatto che sia stata riscontrata la stessa età di comparsa dell'angoscia da separazione in culture diverse, che adottano modalità educative fortemente differenziate (Konner, 1982), sembrerebbe indicare una relativa indipendenza del fenomeno dall'esperienza, e una pro169
l PROCESSI DI SVILUPPO DELJ.:ESPERIENZA INTERSCX;GETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
babile associazione con il raggiungimento di un certo livello di maturazione nello sviluppo mentale. Infatti, la ricerca attiva di una specifica persona che non è fisicamente presente implica la presenza di determinati requisiti cognitivi: primo fra tutti la consapevolezza che una persona continua a esistere anche quando non può essere vista, che si sviluppa parallelamente all'acquisizione della permanenza dell' oggetto, documentata da Piaget (193 7) proprio attorno agli 8 mesi di vita. La sofferenza per l'assenza di una persona implica a sua volta la capacità cognitiva di rappresentarsi l'oggetto assente; in altre parole, l' attivazione della memoria di rievocazione che permette di recuperare spontaneamente una rappresentazione della madre assente, cioè l'attivazione di una capacità più complessa della semplice memoria di riconoscimento (peraltro presente in forma primitiva fin dal periodo neonatale) che permette al piccolo di discriminare la figura materna dalle altre persone. Tuttavia, proprio il potenziamento della memoria di riconoscimento che ha luogo nella seconda metà del primo anno di vita consente al bambino di discriminare non solo le figure più significative, ma tutte le persone con cui entra in contatto, e reagire al fallimento del riconoscimento di chi è sconosciuto (Sroufe, 1995) con espressioni di circospezione e diffidenza. Questa differenziazione delle risposte verso gli estranei, presente dai 7-8 mesi di vita (Bowlby, 1969), è ampiamente documentata in letteratura. La reazione iniziale include tipicamente l'interruzione dell' attività da parte del bambino per osservare attentamente l'estraneo, e un'espressione di circospezione- indicata specialmente dal sollevamento e dal corrugamento delle sopracciglia mentre la bocca resta relativamente rilassata (Fogel, 2001) -che manifesta un'incapacità di dare significato all'evento inatteso (Sroufe, 1995); ciò, finché il comportamento dell'estraneo contribuirà a determinare un rilassamento o, al contrario, una reazione di vera e propria paura, con espressione di avversione, pianto e movimenti di allontanamento da parte del piccolo. Nei mesi immediatamente successivi alla comparsa della reazione all'estraneo, la risposta di paura diviene solitamente più evidente, sebbene con ampie variazioni individuali (Bowlby, 1969) secondo i tratti temperamentali del bambino, soprattutto per quanto riguarda la dimensione dell'inibizione di fronte alla novità, e le differenze nello sviluppo cognitivo, poiché la paura rappresenta essenzialmente una reazione emozionale negativa che emerge dall'identificazione di un potenziale pericolo nell'estraneo. A questo proposito Sroufe ( 1995) 170
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sottolinea come la risposta di paura, a differenza di quella di circospezione, non derivi da un fallimento di riconoscimento dello sconosciuto quanto, piuttosto, dall'attribuzione di un significato minaccioso all'awicinarsi dell'estraneo, coerentemente con le risposte di paura (reazioni comportamentali awersive, accelerazione della frequenza cardiaca) mostrate tra gli 8 e i 9 mesi verso qualsiasi stimolo in movimento che si profili improwisamente e inaspettatamente di fronte al piccolo (Yonas, 1981). Tuttavia, l'ampia variabilità con cui la reazione all'estraneo si manifesta sembra dipendere soprattutto dal comportamento dell'estraneo, dal suo aspetto, e dalle circostanze in cui l'incontro si realizza. In particolare, è stato mostrato che se l'estraneo approccia il bambino in modo brusco e si profila improwisamente di fronte a lui, senza lasciargli alcun tempo di familiarizzazione, o viola lo spazio personale del piccolo interferendo con la sua attività (per esempio cercando di sollevarlo), numerosi bambini- alcuni già a 8 mesi, molti invece a 910 mesi- manifestano reazioni di paura all'intrusione (Emde et al., 1976; Waters et al., 1975). Al contrario, se l'estraneo approccia il piccolo lentamente (Kaltenbach, Weinraub, Fullard, 1980), mostrandosi sensibile ai segnali del bambino -lasciando cioè che l'approccio sia regolato dal bambino stesso (Mangelsdorf, 1992), oppure mediando il proprio awicinamento con l'offerta di un giocattolo-, e si mantiene a un'appropriata distanza (Ricard, Decarie, 1993), i piccoli mostrano reazioni più positive. Inoltre, i bambini appaiono meno impauriti se la madre (o il caregiver di riferimento) è presente e, soprattutto, se si trovano sulle sue ginocchia piuttosto che distanti da lei; se non sono in condizioni di vulnerabilità (stanchezza, cattivo umore); se l'estraneo è incontrato in luoghi insoliti, perché i piccoli sembrano attendersi di avere incontri insoliti in luoghi insoliti, e appaiono invece disturbati se un estraneo si introduce in un ambiente familiare e prevedibile quale quello domestico (Skarin, 1977); infine, se l'estraneo è un bambino o una persona bassa (Bigelow, MacLean, Wood, Smith, 1990), cioè un proprio simile o una persona percepita come non minacciante, e se il volto dell'estraneo adulto è attraente, piuttosto che non attraente (Langlois, Roggman, Rieser-Danner, 1990). Questa differenziazione delle risposte sociali secondo non solo la familiarità dell'interlocutore, ma anche le sue caratteristiche individuali, testimonia un'accresciuta sensibilità del bambino all'identità dell'altro (al suo modo di comportarsi, al suo aspetto) e una nuova ca-
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ratterizzazione della sua esperienza intersoggettiva all'insegna della "selettività". Ciò significa che nell'esperienza intersoggettiva del bambino di 8-9 mesi anche "l'altro" che non coincide con la madre, il padre o un'altra figura di riferimento, acquista identità, viene cioè "selezionato" dal bambino in base alla familiarità o a caratteristiche che, in qualche modo, contribuiscono a sciogliere la sua diffidenza a coinvolgersi in uno scambio comunicativo.
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7 Dai 9 ai 12 mesi: una svolta nell'esperienza intersoggettiva, ovvero, intersoggettività come condivisione di attenzione, stati affettivi e intenzioni
Nel periodo tra i 9 e i 12 mesi lo sviluppo dell'esperienza intersoggettiva presenta una svolta radicale, testimoniata dall'affermarsi della capacità del bambino di coordinare il proprio focus di attenzione sugli oggetti/eventi con quello dell'interlocutore (Carpenter et al., 1998; Rochat, Striano, 1999), e dalla comparsa di una serie di nuovi comportamenti sociali indicativi dell'inclusione della prospettiva dell'altro nel proprio modo di rapportarsi al mondo circostante. A quest'età, il bambino inizia a seguire flessibilmente la direzione dell'attenzione dell'adulto anche quando il focus di attenzione di quest'ultimo non gli è vicino (Butterworth, 2001); a usare l'espressione facciale dell'adulto come fonte di informazioni in una situazione ambigua o sconosciuta (Campos, Stenberg, 1981); a osservare e a imitare le azioni dell'adulto su un oggetto di attenzione condivisa (Carpenter et al., 1998). Nello stesso tempo, inizia a "negoziare" con l'adulto il processo di importazione di oggetti ed eventi nella sfera della comunicazione interpersonale (Adamson, 1995) attraverso atti quali mostrare, porgere, richiedere oggetti all'adulto, e a condividere interesse e altre emozioni in riferimento alle nuove esperienze con gli oggetti; infine, inizia a produrre e a utilizzare intenzionalmente altri gesti comunicativi quali l'indicare per dirigere l'attenzione dell'adulto su eventi che suscitano il suo interesse (Tomasello, 1999). Questi nuovi comportamenti implicano tutti il possesso di competenze sociali triadiche che permettono al bambino di incorporare un terzo elemento (un oggetto o un evento) nell'interazione diadica con l'altro-da-sé; in altre parole, sono accomunati dal condividere con l'interlocutore attenzione e stati affettivi in relazione a un terzo polo ester-
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no alla diade adulto-bambino o, comunque, alla comunicazione diadica faccia-a-faccia. In tal senso, lo scambio intersoggettivo che ne deriva è stato definito come "intersoggettività secondaria" (Trevarthen, Hubley, 1978) per sottolinearne la differenza qualitativa rispetto alla precedente esperienza di "intersoggettività primaria". Se, come abbiamo visto, la prima esperienza di intersoggettività era caratterizzata dalla compartecipazione affettiva funzionale allo sviluppo delle relazioni interpersonali, l'esperienza di "intersoggettività secondaria" incorpora la compartecipazione affettiva in una più complessa forma di coordinazione e condivisione che diviene funzionale allo sviluppo della cooperazione del bambino con le altre persone in relazione al mondo esterno. La transizione dall"'intersoggettività primaria" all"'intersoggettività secondaria" implica un'importante svolta qualitativa, perché sottende il riferimento all'esperienza interna dell'altro, cioè la comprensione dell' altro come possessore di stati di attenzione, stati affettivi, emozioni e intenzioni che possono essere seguiti, influenzati, condivisi. Questa svolta è certamente facilitata dagli importanti cambiamenti che si realizzano nello sviluppo cognitivo del bambino negli ultimi mesi del primo anno di vita, sebbene soltanto l'interazione tra tali cambiamenti, la sensibilità degli adulti di riferimento e la qualità dell'esperienza intersoggettiva precedente possa spiegare le profonde differenze individuali che si manifestano nella comparsa di questo nuovo livello di partecipazione intersoggettiva. Tra i comportamenti indicatori di intersoggettività secondaria, nel contesto del gioco con gli oggetti appaiono facilmente osservabili la condivisione di stati affettivi e di attenzione in relazione agli oggetti, in particolare lo sviluppo dell'attenzione coordinata, già rilevata saltuariamente - in forma di episodi di alternanza spontanea dello sguardo del lattante tra l'oggetto di gioco, il volto del partner e, subito dopo, ancora l'oggetto - attorno ai 7.5-8 mesi (vedi paragrafo 6.1). Inoltre, di fronte a situazioni inattese o ambigue nel corso dell'interazione, così come di fronte a oggetti sconosciuti, tra i 10 e i 12 mesi il riferimento al volto dell'adulto come fonte di informazioni per interpretare l'evento poco chiaro diviene un atto sistematico che testimonia una ricerca intenzionale del commento affettivo del partner. L'uso dell'espressione facciale, così come della direzione dello sguardo e dei gesti del partner, come indizi per comprendere la prospettiva dell'altro e anche predirne le azioni, testimoniano che nell'esperienza intersoggettiva che si sviluppa entro la fine del primo anno di vita l'altro è compreso e trattato co174
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me un agente che ha delle intenzioni verso il mondo esterno. Al riguardo, vedremo come una presenza di questa comprensione sia stata recentemente rilevata anche in bambini di soli 9 mesi (Behne, Carpenter, Call, Tomasello, 2005; Barna, Legerstee, 2005). Una prima comprensione dell'intenzionalità delle azioni proprie e altrui appare inoltre connessa alla comparsa della comunicazione intenzionale, mirata a richiamare l'attenzione dell'adulto-interlocutore su di sé e sulle proprie azioni, per ricevere approvazione o condividere stati affettivi in contesti di gioco e di scherzo; oppure, a richiedere l'aiuto dell'adulto per ottenere un oggetto o compiere un'azione; o, ancora, a dirigere l'attenzione dell'adulto su un evento esterno, per condividerne l'interesse. Dopo aver discusso le intenzioni che il bambino è in grado di realizzare attraverso i gesti comunicativi, nell'ultima parte del capitolo vedremo come i "formati" di attenzione condivisa, che si arricchiscono grazie all'utilizzo dei gesti comunicativi e si consolidano come contesto prevalente di esperienza intersoggettiva, possano favorire lo sviluppo della comunicazione referenziale e della condivisione di significati, che costituirà il fulcro dell'esperienza intersoggettiva nel secondo anno di vita.
7.1 Fattori determinanti nello sviluppo dell'"intersoggettività secondaria" L'importante svolta qualitativa che si realizza nell'esperienza imersoggettiva nell'ultimo trimestre del primo anno di vita è stata, ed è tuttora, oggetto di numerose interpretazioni relative ai principali processi e fattori sottostanti a questo cambiamento. Al riguardo, va considerato che il periodo attorno ai 9 mesi rappresenta un importante periodo di transizione che interessa diversi domini dello sviluppo del bambino (motorio, cognitivo, emotivo, della comunicazione), così che i cambiamenti nel modo in cui il piccolo si rapporta alle altre persone emergono in coincidenza con altri fondamentali cambiamenti che interessano il modo in cui esplora l'ambiente circostante e gli oggetti che ne fanno parte. Tuttavia, le spiegazioni che situano la fonte del cambiamento dell'esperienza intersoggettiva nei processi di sviluppo - in particolare, di maturazione cognitiva - del bambino, sembrano non considerare che lo sviluppo del bambino si realizza sempre entro, e grazie a, un determinato contesto sociale. In tal senso, pare opportuno prendere in considerazione un più ampio
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sistema di influenze; considerare, cioè, l'affermazione dell"'intersoggettività secondaria" come prodotto dell'interazione di diversi fattori che includono importanti cambiamenti nello sviluppo, soprattutto cognitivo, del bambino, ma anche il supporto fornito dagli adulti di riferimento e l'esperienza di "intersoggettività primaria" vissuta nei mesi precedenti.
I cambiamenti nello sviluppo motorio e cognitivo Attorno ai 9 mesi, l'acquisizione di una prima capacità di spostarsi carponi permette al bambino di rapportarsi all'ambiente e alle persone che lo circondano in modo nuovo: il piccolo inizia a esplorare attivamente l'ambiente in cui si muove, a cercare di raggiungere gli oggetti che lo interessano, a seguire con curiosità e attenzione i movimenti e i gesti delle persone in relazione agli oggetti. Inoltre, nell'ambito dell'interazione con gli adulti di riferimento, la comparsa della locomozione autonoma del bambino apre la possibilità di una comunicazione che non è più necessariamente legata a una stretta vicinanza fisica e a una posizione frontale degli interlocutori, ma inizia a utilizzare la direzione degli sguardi, l'orientamento posturale e i gesti referenziali che l'adulto introduce nello scambio intersoggettivo e il piccolo è pronto ad apprendere. Al riguardo, è stato mostrato che i bambini che "gattonano", rispetto ai coetanei che non hanno ancora acquisito questa abilità, sono anche quelli che riescono maggiormente a distogliere la loro attenzione dal volto dell'interlocutore per seguirne gli sguardi e i gesti di indicazione (Campos, Kermoian, Witherington, Chen, Dong, 1997); ciò suggerisce che l'acquisizione di una prima capacità di locomozione autonoma media lo sviluppo della capacità di attenzione condivisa, in particolare della capacità di seguire la direzione dell'attenzione dell'altro (Campos et al., 1997), sebbene per tale sviluppo appaiano necessarie diverse altre condizioni. Nell'ambito dello sviluppo cognitivo, l'incremento della focalizzazione dell'attenzione sugli oggetti mostrato dai bambini di 9 mesi- rispetto a quelli di 7 -durante il gioco spontaneo (Ruff, Saltarelli, 1993), così come la bassa distraibilità dei bambini di lO mesi quando la loro attenzione è focalizzata su giocattoli nuovi (Ruff, Capozzoli, Saltarelli, 1996), sembrano segnare l'inizio di un più elevato livello di organizzazione nel sistema dell'attenzione (Ruff, Rothbart, 1996). L'incremento della capacità di controllo dell'attenzione potrebbe facilitare lo sviluppo della capacità del bambino di coordinare e condividere con l'adul176
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to-interlocutore il proprio focus attentivo e le proprie azioni in relazione a oggetti o eventi dell'ambiente circostante. Tuttavia, l'acquisizione cognitiva che appare maggiormente associata allo sviluppo dell'intenzionalità delle proprie azioni e al riconoscimento che anche le azioni delle altre persone sono guidate da intenzioni- cioè a una consapevolezza che caratterizza lo sviluppo dell"'intersoggettività secondaria"- consiste nella differenziazione dei mezzi dai fini, che Piaget (1936) identifica con ciò che definisce la comparsa dell'intelligenza sensomotoria, dopo gli 8 mesi di vita. Nella teorizzazione piagetiana, tra i 4 e gli 8 mesi il lattante comprende che le proprie azioni producono un determinato effetto sugli oggetti/l' ambiente circostante, ed è in grado di riprodurre un effetto trovato interessante per un numero potenzialmente infinito di volte se il contesto resta relativamente costante; a partire dagli 8-9 mesi inizia invece ad applicare i propri schemi d'azione in situazioni nuove, cioè indipendentemente dal contesto in cui sono sorti, e a combinare diversi schemi d'azione come mezzi per raggiungere un determinato fine. Per esempio, se l'adulto interpone la sua mano tra il bambino e un oggetto che il piccolo sta tentando di afferrare, quest'ultimo riesce a combinare loschema d'azione di allungare il braccio con quelli del colpire e spingere via la mano dell'adulto, per poi afferrare l'oggetto desiderato; appare cioè in grado di realizzare una "coordinazione di schemi secondari", in cui alcuni servono come mezzi e uno rappresenta il fine da raggiungere. Inoltre, a partire dagli 8-9 mesi il bambino inizia anche a utilizzare "intermediari" (incluso il partner con cui sta interagendo) per raggiungere un determinato fine (per esempio, a spingere il braccio dell'adulto verso un giocattolo animato che vorrebbe vedere in azione), mostrando di distinguere chiaramente il fine che sta perseguendo dai mezzi che sta utilizzando per raggiungerlo e, quindi, sperimentare l'intenzionalità della propria azione. In altre parole, la realizzazione di azioni strumentali al raggiungimento di un determinato fine permetterebbe al bambino di vivere l'esperienza di uno stato mentale (un'intenzione) che rappresenta qualcosa di diverso dalle singole azioni attuate. E proprio l'esperienza dell'intenzionalità delle proprie azioni, unita all'esperienza di percepire che gli altri sono "come me"- vissuta fin dal periodo neonatale attraverso l'imitazione (Meltzoff, Moore, 1998) -, è stata ipotizzata come fondamento della comprensione che anche gli altri agiscono intenzionalmente (Carpenter et al., 1998; Tomasello, 1995, 1999). Al riguardo, comunque, lo stesso Tomasello (1995) precisa che quest'ipotesi non
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implica che una comprensione concettuale dell'intenzionalità del proprio comportamento preceda la comprensione concettuale dell'intenzionalità del comportamento altrui quanto, piuttosto, che è probabile che l'esperienza di avere un'intenzione e perseguirla per mezzo di diverse azioni favorisca la comprensione che anche le azioni degli altri sono guidate da intenzioni. Riguardo al rapporto tra lo sviluppo di capacità cognitive relative al mondo degli oggetti e lo sviluppo di capacità socio-cognitive d'interazione triadica, la possibilità che queste ultime possano essere connesse all'acquisizione di un certo livello cognitivo complessivo (in termini piagetiani, la coordinazione degli schemi secondari) è stata smentita dai risultati delle ricerche, che non hanno trovato alcuna relazione tra capacità d'interazione triadica e capacità cognitive richieste da compiti di permanenza dell'oggetto e relazioni spaziali (Bates, Benigni, Bretherton, Camaioni, Volterra, 1979; Carpenter et al., 1998). È stata invece evidenziata una correlazione tra lo sviluppo della comunicazione intenzionale, in particolare la comparsa di gesti comunicativi tra i 9 e i 13 mesi, e lo sviluppo di abilità cognitive in domini specifici quali l'utilizzo intenzionale di strumenti per raggiungere fini, e l'imitazione di azioni sugli oggetti (Bates et al., 1979). Lo sviluppo di queste stesse abilità si realizza comunque nell'ambito dell'interazione del bambino con gli adulti di riferimento, cioè di un'interazione che gli permette di costruire esperienza in un particolare contesto di supporto. Inoltre, l'acquisizione di nuove capacità cognitive, più che determinare la comparsa di nuovi comportamenti, apre nuove possibilità di relazione con le persone e con gli oggetti; queste possibilità vengono elaborate attraverso le interazioni del bambino in diversi contesti (Fisher, Silvern, 1985, cit. in Carpenter et al., 1998) in cui il supporto dell'adulto gioca un ruolo fondamentale.
Il contributo dell'adulto Nell'ambito delle culture occidentali, gli adulti con cui il bambino interagisce più frequentemente contribuiscono in modo essenziale allo sviluppo delle capacità del bambino di coordinare la propria prospettiva sugli oggetti/eventi dell'ambiente circostante con quella dell'interlocutore; in altre parole, allo sviluppo di quelle capacità che segnano il passaggio all'esperienza di "intersoggettività secondaria". Come abbiamo visto nel capitolo precedente (paragrafo 6.1), già dal periodo tra i 6 e i 9 mesi, nel contesto del gioco con gli oggetti, duran178
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te gli episodi che Adamson (1995) definisce come "coinvolgimento condiviso supportato", le azioni della madre (o di un altro adulto di riferimento) agiscono da sca//olding (Bruner, 1983; Kaye, 1982) per lo sviluppo dell'attenzione coordinata e della comunicazione sugli oggetti che divengono focus d'attenzione condivisa. Tipicamente, la madre tende a seguire la direzione dell'attenzione del lattante e a spostare prontamente la propria attenzione sull'oggetto d'interesse del piccolo indicando a quest'ultimo qualche caratteristica dell'oggetto, oppure mostrandone il funzionamento attraverso semplici azioni ripetute, porgendo poi l'oggetto al piccolo in attesa di un suo coinvolgimento da condividere; oppure, ancora, commentando verbalmente l'azione del lattante sull'oggetto nel caso in cui il piccolo lo stia già manipolando, manifestando espressioni facciali e vocalizzazioni che riflettono l' esperienza emozionale del lattante nei tentativi di esplorare l'oggetto. Verso i 9 mesi, più le azioni del bambino sugli oggetti si fanno coordinate tra loro e alternate a sguardi che coinvolgono nel gioco l'adulto-interlocutore, più i commenti vocali e verbali della madre, o del padre, così come i gesti che li accompagnano, tendono a "marcare" le azioni del bambino interpretandone il significato, testimoniando come i genitori tendano a considerare come segnali significativi, o atti intenzionali, la maggior parte delle azioni del bambino (Adamson, 1995; Kaye, 1982). Questo è stato esplicitamente mostrato anche da uno studio sperimentale (Adamson, Bakeman, Smith, Walters, 1987) in cui ad adulti genitori e non genitori sono state sottoposte videoregistrazioni dell'interazione di bambini tra i 9 e i 21 mesi con le loro madri durante il gioco con gli oggetti, chiedendo loro di indicare (attraverso la pressione di un bottone) le azioni del bambino che ritenevano significative dal punto di vista della comunicazione. Gli adulti genitori hanno percepito un numero di atti comunicativi del bambino significativamente superiore a quello percepito dagli adulti non genitori, anche quando si trattava di bambini di soli 9 mesi. Questi risultati suggerìscono che l'esperienza con i piccoli può averli sensibilizzati a interpretarne il comportamento non verbale. Ciò che qui interessa, comunque, è considerare come l'interpretazione del genitore possa sottolineare le intenzioni del bambino, renderle, cioè, più chiare al piccolo stesso, oltre a offrire un'esperienza di condivisione di attenzione e interesse per un oggetto/evento. E proprio come il rispecchiamento materno che "marca" le espressioni emozionali del lattante di 2-3 mesi facilita lo sviluppo dell'intersoggettività primaria, perché facilita la condivisione di uno stato affettivo 179
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e la produzione di risposte affettivamente contingenti da parte del lattante, così la "marcatura" di certe azioni del bambino come atti intenzionali e/o di comunicazione intenzionale anche quando non lo sono esplicitamente, facilita lo sviluppo della comunicazione intenzionale e della condivisione di prospettiva (attenzione, emozioni, intenzioni) sugli oggetti. Naturalmente, questo contributo varia secondo la sensibilità dell'adulto, la sua capacità di sintonizzarsi sulle motivazioni e gli stati affettivi del bambino, già fondamentale per la qualità dell'esperienza di intersoggettività primaria vissuta dal piccolo nei mesi precedenti; un'esperienza che appare "fondante", e quindi di fondamentale importanza, per lo sviluppo di questa nuova forma di intersoggettività.
L:esperienza di "intersoggettività primaria" Nel capitolo 5 abbiamo visto come l'esperienza di "intersoggettività primaria", che si sviluppa come compartecipazione affettiva nel contesto dell'interazione faccia-a-faccia con l'adulto fin dai primi mesi di vita, permetta allattante di sviluppare precocemente una particolare sensibilità per la direzione dello sguardo, l'espressione facciale, la tonalità affettiva e il ritmo delle vocalizzazioni e dei movimenti dell'altro. Ora, proprio questa sensibilità per le caratteristiche del comportamento comunicativo dell'interlocutore appare fondamentale per lo sviluppo delle capacità di coordinare il proprio focus d'attenzione con quello dell'altro, di far riferimento all'espressione facciale dell'altro per muoversi in una situazione ambigua, di utilizzare la direzione dell'attenzione e le azioni facciali dell'altro per comprenderne le intenzioni; in altre parole, delle capacità che caratterizzano l'esperienza intersoggettiva del bambino verso la fine del primo anno. Nello stesso capitolo abbiamo anche visto che nell'esperienza di "intersoggettività primaria" il processo di co-regolazione di attenzione e affetti, che ogni diade madre-lattante sviluppa secondo le proprie caratteristiche, tende a creare specifici pattern di interazione che si mantengono relativamente stabili nel tempo e si rivelano fondamentali per il successivo sviluppo dell'esperienza intersoggettiva del bambino (oltre che per la formazione del legame di attaccamento). È infatti in base a questi pattern che il piccolo inizia a organizzare la sua esperienza di rapporto con gli altri - per esempio, a coinvolgersi più o meno attivamente nello scambio comunicativo, a provare piacere o, viceversa, non provare particolare piacere nell'esperienza intersoggettiva180
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e a sviluppare aspettative verso gli adulti-interlocutori (per esempio, abbiamo visto come i lattanti di madri depresse non sviluppino aspettative di responsività non solo nei confronti della madre, ma anche degli altri adulti). Alla luce di questi dati non è difficile ipotizzare un legame evolutivo tra l'esperienza di intersoggettività che si sviluppa precocemente nel contesto diadico della comunicazione faccia-a-faccia e l'esperienza di intersoggettività che si sviluppa nel contesto triadico della comunicazione in relazione a oggetti/eventi del mondo esterno. Quest'ipotesi è stata confermata da alcuni studi. In particolare, uno studio di Striano e Rochat (1999) ha confrontato le risposte di bambini di 7 e 10 mesi alla situazione di Still-Face (vedi Metodi e strumenti 3) nel contesto diadico della comunicazione faccia-a-faccia, con le risposte fornite dagli stessi in situazioni triadiche volte a sollecitare il monitoraggio dell'attenzione e dell'espressione affettiva del partner. A entrambe le età, è emersa una correlazione tra i comportamenti dei bambini nel contesto diadico e triadico; nello specifico, i bambini che hanno mostrato tentativi di ricoinvolgere lo sperimentatore durante l'episodio della Still-Face sono anche quelli che hanno mostrato le più avanzate competenze triadiche in termini di condivisione dell' attenzione, capacità di seguire lo sguardo e il gesto di indicazione del partner, capacità di fare riferimento all'espressione del partner in situazioni ambigue (di "ostacolo sociale", vedi paragrafo 6.2). In uno studio di Legerstee e colleghi (Legerstee, Fisher, Markova, 2005), volto a esaminare l'influenza della capacità di sintonizzazione affettiva materna e della qualità dell'interazione diadica madre-lattante sullo sviluppo dell'attenzione coordinata, i lattanti sono stati osservati longitudinalmente a 3, 5, 7 e 10 mesi durante il gioco spontaneo, sia con la madre che con un'estranea. In base allivello di sintonizzazione affettiva materna- rilevata come capacità di seguire il focus d' attenzione del lattante esprimendo partecipazione affettiva e responsività, e risultata stabile per l'intero arco d'età considerato -le diadi madre-lattante sono state divise in due gruppi (elevata vs. scarsa sintonizzazione). A 3 mesi, i lattanti delle madri con elevata capacità di sintonizzazione si sono coinvolti nell'interazione con maggiore attenzione ed espressioni di affetto positivo dei coetanei. Nei mesi successivi, gli stessi bambini, diversamente dai coetanei delle diadi con scarsa sintonizzazione, hanno mostrato un significativo incremento della capacità di coordinare l'attenzione con quella dell'interlocutore; inoltre, hanno mostrato una frequenza di episodi di attenzione coordinata superiore 181
I PROCESSI DI SVILUPPO DELL'ESPERIENZA INTERSOGGETTIVA NEL PRIMO ANNO DI VITA
a quella degli altri bambini non solo con le loro madri, ma anche con l'estranea, sebbene quest'ultima fosse addestrata a mantenere un elevato livello di sintonizzazione con i bambini di entrambi i gruppi. Quest'interessante risultato suggerisce che, più che la sintonizzazione affettiva dell'adulto nell'interazione in tempo reale, è la qualità dell'esperienza intersoggettiva vissuta con continuità nei mesi precedenti a influenzare in modo determinante lo sviluppo della capacità del bambino di coordinare la propria prospettiva con quella dell'altro in relazione agli oggetti. Infine, uno studio sperimentale di Barna e Legerstee (2005) ha investigato se bambini di 9-12 mesi che hanno madri capaci di elevata sintonizzazione affettiva- quindi, presumibilmente, con un'esperienze ottimale di intersoggettività primaria -, sono più abili dei coetanei "meno fortunati" ad attribuire intenzionalità alle azioni delle persone. Ciò che è emerso è che, a 9 mesi, soltanto i bambini che hanno alle spalle un'esperienza di intersoggettività ottimale appaiono capaci di utilizzare la direzione dello sguardo e l'espressione facciale dell'adulto per predirne le azioni (vedi paragrafo 7.4 per maggiori dettagli sull' esperimento).
7.2 La condivisione degli stati affettivi
in relazione agli oggetti In continuità con l'esperienza di compartecipazione affettiva sviluppata nei mesi precedenti, una delle prime, e più diffuse, forme di compartecipazione delle esperienze soggettive che emerge nel contesto triadico dell' interazione con l'adulto in relazione al mondo esterno è la condivisione degli stati affettivi riguardo un oggetto (per esempio, un giocattolo), o una situazione che il bambino si trova a vivere o, ancora, un evento che accade nell'ambiente circostante. Se precedentemente, nel contesto del gioco con gli oggetti, era l'adulto a cercare di sintonizzarsi con l'esperienza emozionale del lattante, spesso senza che quest'ultimo riuscisse a integrare questa partecipazione affettiva nel suo coinvolgimento con l'oggetto, tra i 9 e i 12 mesi si osservano invece frequenti episodi di condivisione affettiva attivati dal bambino stesso. Uno studio (Venezia, Messinger, Thorp, Mundy, 2004) che ha analizzato la comunicazione di affetto positivo in relazione all'esperienza con gli oggetti a 8, l O e 12 mesi, ha rilevato che la probabilità che il bambino sorrida guardando un oggetto e, mantenendo il sorri182
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so, rivolga subito lo sguardo al volto dell'adulto tende ad aumentare significativamente tra gli 8 e i 10 mesi, quindi a rimanere stabile. Tipicamente, in questo periodo d'età, quando nell'azione sugli oggetti il bambino prova una particolare emozione - che esprime con l'espressione facciale, vocale, e i movimenti del corpo- tende a comunicarla all'adulto di riferimento per condividerla e avere conferma della propria esperienza affettiva. L'adulto, solitamente, risponde con una "sintonizzazione affettiva" (Stern, 1985, vedi paragrafo 1.6). Stern (1985, tr. it. p. 149) riporta l'esempio di una bambina di 9 mesi: La bambina è molto eccitata dalla vista di un giocattolo e cerca di impadronirsene. Quando ci riesce esclama con forza "aaah! " e guarda la madre. La madre ricambia lo sguardo ed effettua un vigoroso movimento con la parte superiore del corpo, della durata esatta dell'" aaah! "della bambina e con lo stesso carattere di eccitazione, gioia e intensità. La condivisione di eccitazione e affetto positivo avviene piuttosto frequentemente quando il bambino ottiene un successo nel raggiungimento di un obiettivo, come nel caso illustrato o nel caso in cui, dopo diversi tentativi, riesce a inserire nell'esatta posizione un pezzo di un gioco e guarda l'adulto con un'espressione di grande soddisfazione, in attesa del suo commento affettivo. Un'altra situazione che, verso la fìne del primo anno, diviene spesso fonte di condivisione di affetto positivo è quella in cui il piccolo fa interessanti scoperte (per esempio, il suono di un giocattolo con una determinata pressione, il modo in cui un coperchio si adatta a un pentolino), quindi sorride apertamente e volge lo sguardo al volto dell'adulto; quest'ultimo tende a restituirgli un'espressione di affetto positivo accompagnata da un commento verbale sull'azione/oggetto. Sebbene meno frequentemente, anche le espressioni affettive di tono negativo, in particolare il pianto del bambino accoppiato a sguardi rivolti all'adulto, divengono commento di un'esperienza negativa (per esempio, il timore di fronte a un evento sconosciuto, o la frustrazione di non riuscire a ottenere un determinato effetto nel gioco con gli oggetti) da condividere con l'adulto per coinvolgerlo anche sul piano dell'azione. È stato infatti osservato che, verso la fìne del primo anno, oltre ai pianti semplici il bambino inizia a produrre dei "pianti elaborati" (Gustafson, Green, 1991), accompagnati da sguardi rivolti all'adulto e gesti diretti a un oggetto, o all'adulto stesso (quali l'allungare le braccia verso quest'ultimo), che assolvono chiaramente una funzione comunicativa di richiesta (vedi paragrafo 7 .5.2). 183
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Infine, verso i 10 mesi, o comunque entro la fine del primo anno, l'esperienza di condivisione di stati affettivi in relazione al mondo esterno si arricchisce della comparsa di un nuovo comportamento del bambino, identificato come "riferimento sociale" (Campos, Stenberg, 1981).
7.2. l Il riferimento sociale Il "riferimento sociale" esprime la ricerca attiva del commento affettivo dell'adulto in una situazione di incertezza. Nello specifico, di fronte a una situazione poco chiara o a un evento inatteso e sconosciuto (per esempio, un nuovo giocattolo rumoroso e imprevedibile, un animale non familiare, una persona estranea), il bambino di l 0-11 mesi, invece di esprimere un'immediata reazione emotiva come avrebbe potuto fare nei mesi precedenti, inizia a rivolgere lo sguardo al volto dell'adulto che gli è vicino, a guardarne attentamente l'espressione facciale e ad ascoltare i suoi commenti prima di decidere come rapportarsi al nuovo evento; in altre parole, a utilizzare l'espressione dell'altro come fonte di informazioni per capire se l'evento dev'essere accolto con piacere o circospezione. Se l'adulto esprime diffidenza o paura, il bambino tende a ritrarsi e a farsi invece più vicino all'adulto stesso; se invece mostra un'espressione sorridente e incoraggiante, il piccolo tende ad avvicinarsi e ad approcciare il nuovo oggetto/evento; infine, se mantiene un'espressione neutra, anche il piccolo tende a mantenere una distanza intermedia. Questi comportamenti sono stati inizialmente documentati da uno studio di Klinnert (1984), che ha anche introdotto il paradigma di ricerca per l'analisi del riferimento sociale (vedi Metodi e strumenti 6). Numerosi studi successivi hanno sostanzialmente confermato i primi risultati, sebbene sia stato mostrato che le espressioni negative dell'adulto tendono ad avere un effetto più potente e immediato delle espressioni di affetto positivo sulla regolazione del comportamento del bambino (Hornik, Risenhoover, Gunnar, 1987). Inoltre, è stato trovato che il temperamento (relativamente alla dimensione della paura) e il genere del bambino tendono a mediare l'effetto dei messaggi affettivi espressi dall'adulto sulle risposte comportamentali del piccolo (Blackford, Walden, 1998; Rosen, Adamson, Bakeman, 1992). In particolare, sembra che, nonostante tutti i bambini di 10-12 mesi in situazione di incertezza si volgano a guardare l'espressione dell'adulto, siano poi i bambini poco paurosi e le femmine, più dei maschi, a utilizzare il messaggio affettivo per regolare il proprio comportamento. 184
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Infine, è stato anche dimostrato che l'effetto del messaggio affettivo dell'adulto tende a essere limitato a un tempo relativamente breve per i bambini più piccoli, ma tende a persistere per i bambini oltre l'anno d'età (Hertenstein, Campos, 2004). La comparsa del "riferimento sociale" rappresenta un evento particolarmente importante nello sviluppo dell'intersoggettività, perché testimonia una ricerca intenzionale del commento affettivo dell'altro e l'utilizzo della prospettiva dell'altro per decidere cosa fare in una situazione di incertezza. Al riguardo, è interessante considerare che il bambino manifesta questo comportamento con qualsiasi adulto- con cui abbia minimamente familiarizzato- si trovi vicino nella situazione di incertezza; cioè non solo con la madre (per esempio, Klinnert, 1984; Sorce, Emde, Campos, Klinnert, 1985; Rosen et al., 1992) e con il padre (Hirshberg, Svejda, 1990), ma anche con estranei amichevoli (Klinnert, Emde, Butterfield, Campos, 1986), oppure estranei in presenza della madre (Striano, Rochat, 2000). In termini di intersoggettività, questo significa che entro la fine del primo anno il bambino manifesta una prima consapevolezza che ogni persona, in relazione a un evento, possiede un'esperienza interna (emozioni, sentimenti, intenzioni) che può essere compresa dal suo comportamento; inoltre, che quest'esperienza può essere diversa dalla propria, e condivisa. In sintesi, questa consapevolezza viene indicata da diversi autori come possesso di una rudimentale "teoria della mente" (Bretherton, 1992; Legerstee, 2005; Tomasello, 1995; Wellman, 1993). i.a considerazione dell'altro come possessore di una prospettiva e di intenzioni verso il mondo esterno, manifestata attraverso il "riferimento sociale", è stata confermata da uno studio di Striano e Rochat (2000). A lattanti di 7 e 10 mesi veniva presentato un evento inatteso e sconosciuto (un cane giocattolo che abbaiava a intermittenza), in due diverse condizioni sperimentali. Nella prima l'adulto presente (un'estranea che aveva familiarizzato con il bambino) guardava il bambino, nella seconda era invece concentrato nella lettura di un libro. Tutti i bambini hanno guardato l'adulto dopo che il cane meccanico ha iniziato ad abbaiare, più che prima dell'evento sconosciuto; ma solo quelli di 10 mesi si sono rivolti all'adulto che li guardava significativamente più che all'altro adulto, differenziando il potenziale interlocutore secondo la direzione del suo sguardo. Questo suggerisce che a partire dai 10 mesi il "riferimento sociale" del bambino è selettivo, cioè rivolto preferenzialmente a un adulto che guarda in direzione del 185
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bambino; in altre parole, indicativo della capàcità del bambino di considerare la direzione dello sguardo dell'adulto come indice dell'intenzione di comunicare vs. non comunicare con il piccolo. Un'ulteriore prova della selettività dell'orientamento dello sguardo del bambino in situazione di incertezza è stata fornita dai risultati di uno studio (Striano, Henning, Vaish, 2006) che ha sottoposto un evento nuovo a bambini di 12 mesi, in presenza di un adulto che poco prima aveva interagita con loro in modo contingente vs. non contingente, secondo la situazione sperimentale. Di fronte all'evento sconosciuto, i bambini si sono rivolti in misura significativamente maggiore all'adulto che aveva interagito in modo contingente, mostrando di rivolgersi a un interlocutore con cui avevano comunicato facilmente, o del quale avevano compreso la disponibilità a comunicare con loro.
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Il paradigma sperimentale per lo studio del riferimento sociale Il paradigma per studiare sperimentalmente il"riferimento sociale" è stato introdotto negli anni Ottanta da Mary Klinnert ( 1984; Klinnert, Campos, Sorce, Emde, Svejda, 1983), con l'obiettivo di esplorare l'età in cui il bambino inizia a utilizzare sistematicamente l'informazione comunicata dall'espressione facciale dell'adulto per regolare il proprio comportamento strumentale. La procedura consiste in tre fasi: la presentazione al bambino di un l. evento o una situazione finalizzata a sollecitare incertezza; l'attesa che il bambino volga lo sguardo al volto dell'adulto e, a quel punto, l'espressione di un messaggio con un significato affettivo chiaro, predefinito, da parte di quest'ultimo; l'osservazione del comportamento del bambino conseguente alla comprensione del messaggio affettivo. Nello studio originale (Kiinnert, 1984), a bambini di 12 mesi in presenza della madre venivano presentati tre giocattoli insoliti, appositamente creati per sollecitare incertezza, in tre prove consecutive; le madri venivano precedentemente istruite a mostrare, rispettivamente, un sorriso, o un'espressione facciale di paura, o un'espressione neutra non appena il bambino, alla vista dell'evento sconosciuto, avrebbe rivolto lo sguardo verso il loro volto. l bambini hanno mostrato di utilizzare l'informazione affettiva fornita dalla madre per regolare il proprio comportamento, perché si awicinavano alla madre quando quest'ultima esprimeva paura; si allontanavano da lei, per awicinarsi al giocattolo, quando esprimeva gioia; manI tenevano una distanza intermedia tra la madre e l'oggetto sconosciuto ~ quando il volto materno manteneva un'espressione neutra. In tutti i ca' si, cioè indipendentemente dal messaggio affettivo materno, l'effetto di l tale messaggio sul comportamento del bambino diventava più pronun-
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ciato alla terza prova, suggerendo un incremento nell'utilizzo delle informazioni cercate. l numerosi studi che hanno applicato questo paradigma, pur mantenendo la struttura della procedura, hanno introdotto variazioni relative alla tipologia dell'evento sconosciuto, del partner adulto, della consegna data all'adulto, dei canali utilizzati dall'adulto per esprimere il messaggio affettivo. Per esempio, come evento sconosciuto sono stati utilizzati elementi molto diversi tra loro: una persona estranea (Feinman, Lewis, 1983), un animale sconosciuto quale un coniglio in una gabbia (Hornik, Gunnar, 1988), robot di grandi dimensioni (Walden, Ogan, 1988), giocattoli meccanici (Rosen et al., 1992), e anche una situazione ambigua come quella di porre il bambino al margine di un moderato precipizio visivo che doveva essere attraversato se il piccolo voleva raggiungere la madre (Sorce et al., 1985). In quest'ultimo caso, gli autori hanno sfruttato il famoso dispositivo ideato da Gibson e Walk ( 1960), 1 ma ridotto l'altezza dell'apparente precipizio per sollecitare una situazione di incertezza, piuttosto che di paura, cioè una situazione che avrebbe richiesto il riferimento all'espressione emotiva della madre, piuttosto che provocare un chiaro evitamento da parte del bambino. La madre era istruita a mostrare un'espressione facciale di gioia, oppure di paura, o di interesse, rabbia, o tristezza. Tutti i bambini di 12 mesi hanno cercato e utilizzato l'espressione materna per interpretare la situazione. La maggior parte dei bambini delle madri che hanno espresso gioia o interesse ha attraversato il precipizio visivo, mentre soltanto pochi bambini delle madri che hanno espresso paura o rabbia l'hanno fatto. Inoltre, in assenza di apparente precipizio, soltanto pochi soggetti hanno mostrato di rivolgersi alla madre, ma quando quest'ultima ha espresso paura, pur con esitazione, hanno ugualmente attraversato la superficie. Questo risultato ha suggerito come entro l'anno di vita il piccolo utilizzi le espressioni emotive dell'adulto per decidere come muoversi soltanto nei contesti che gli sono poco chiari. Infine, come abbiamo accennato, se nel paradigma di ricerca "classico" veniva esaminato soltanto il canale comunicativo dell'espressione facciale, l'uso estensivo del paradigma ha incluso la trasmissione dei messaggi affettivi attraverso molteplici canali di comunicazione (per esempio, Hirshberg, Svejda, 1990; Hornik et al., 1987). Questo ha sollevato il problema del controllo di quale canale comunicativo (facciale vs. vocale vs. misto) utilizzato dall'adulto sia più efficace nell'influenzare il comportamento del bambino. Al riguardo, è stato trovato che i bambini di 12 me-
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l. Si tratta di un grande tavolo trasparente sotto al quale è collocato un rivestimento a scacchiera che fino a metà tavolo aderisce al vetro della superficie e poi, invece, "precipita" verticalmente a una distanza di quasi mezzo metro dalla superficie e si estende a quest'altezza più bassa fino all'altra estremità del tavolo, dando l'impressione di un improwiso precipizio, o vuoto sottostante. Questa, perlomeno, è la percezione che i lattanti dopo i 6 me- 1 si (cioè in grado di spostarsi autonomamente carponi) mostrano di avere quando, posti sul- 1 la parte "sicura" del piano e invitati dalla madre (all'altra estremità del tavolo) ad attraversa- : re il "precipizio", appaiono restii a farlo. l
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si di fronte a un giocattolo sconosciuto, in assenza di informazione visiva espressa dall'adulto, regolano il proprio comportamento in base alla tonalità affettiva della voce di quest'ultimo, perlomeno quando esprime paura (Mumme, Fernald, Herrera, 1996). Più recentemente, però, l' efficacia degli indizi vocali in assenza di indizi facciali nella regolazione del comportamento del piccolo è stata dimostrata anche quando il messaggio affettivo trasmesso dall'adulto è connotato positivamente, e in una situazione non solo ambigua, ma anche apparentemente pericolosa come quella del precipizio visivo (Vaish, Striano, 2004). La situazione sperimentale prevedeva che bambini di 12 mesi, in tale situazione, ricevessero dalla madre segnali solo facciali, o solo vocali, o sia facciali che vocali, tutti di tipo positivo. Ciò che è emerso - ossia che quando i piccoli potevano utilizzare indizi multimodali o anche solo vocali attraversavano il "precipizio" più velocemente di quando ricevevano indizi soltanto dall'espressione facciale della madre - suggerisce che i segnali vocali possono costituire un canale di comunicazione emozionale anche più potente di quello visivo quando si tratta di trasmettere al bambino informazioni che non si limitano a un commento affettivo in relazione a un nuovo evento, ma si caratterizzano in senso strumentale, esplicitamente mirato al "cosa fare".
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7.3 la capacità di seguire la direzione dell'attenzione dell'adulto Verso la fine del primo anno di vita, lo sviluppo della capacità del bambino di monitorare il comportamento delle altre persone si manifesta nella ricerca intenzionale delle espressioni affettive del partner (vedi paragrafo 7.2), ma anche nell'atto di seguire spontaneamente lo sguardo e l'orientamento del corpo e dei movimenti dell'altro, osservabile sia nei contesti naturali dell'interazione con l'adulto che nei contesti sperimentali di studio dell'attenzione condivisa. Questo comportamento testimonia un nuovo interesse del bambino per l'attenzione del partner in relazione al mondo circostante e, al tempo stesso, la comprensione della referenzialità dello sguardo e di alcuni gesti delle persone, testimoniata anche dal parallelo sviluppo dell'abilità di seguire il gesto di indicazione dell'interlocutore.
Seguire lo sguardo Se all'età di 6 mesi il bambino inizia a manifestare una primitiva capacità di seguire la direzione dell'attenzione dell'interlocutore quando quest'ultimo si volta verso un oggetto collocato nel suo campo visivo (vedi paragrafo 6.1), tra i 10 e i 12 mesi mostra invece una capa188
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cità già relativamente elaborata di monitorare l'attenzione delle persone con cui interagisce. In primo luogo, appare in grado di seguire spontaneamente la direzione dello sguardo del partner anche in assenza di target visibili e di richiami della sua attenzione. In uno dei primi studi sistematici sullo sviluppo dell'attenzione visiva condivisa, Butterworth e Cochran ( 1980), utilizzando la procedura di orientamento dell'adulto entro un campo visivo vuoto (Scaife, Bruner, 1975, vedi Metodi e strumenti 5), hanno trovato che a 12 mesi i bambini seguono spontaneamente l'orientamento della testa e dello sguardo dell'adulto anche quando questo non è rivolto a uno stimolo visibile. In particolare, gli autori riportano che, seguendo l'orientamento dell'adulto, i piccoli hanno "cercato" con lo sguardo fino a 40° dall'asse centrale del loro campo visivo, poi hanno rinunciato alla ricerca. Questo interessante risultato suggerisce che i bambini di 12 mesi seguono lo sguardo dell'adulto con l'aspettativa di trovare un oggetto potenziale che "dev'essere" da qualche parte entro lo spazio visivo condiviso. In tal senso, questo risultato prova che l'affermarsi della condivisione di attenzione nell'ambito dell'esperienza intersoggettiva marca una transizione da una comunicazione diretta tra due interlocutori, cioè contenuta nell'ambito diadico della relazione interpersonale, a una comunicazione "triadica" che incorpora gli oggetti nell'interazione. L'età in cui i piccoli iniziano a seguire spontaneamente l'orientamento della testa e dello sguardo dell'interlocutore è stata ulteriormente esplorata in uno studio in cui Corkum e Moore ( 1998) hanno coinvolto bambini dai 6 agli 11 mesi. La situazione sperimentale prevedeva che, inizialmente, l'adulto che era di fronte al bambino si orientasse quattro volte (due a destra e due a sinistra) verso uno stimolo- un giocattolo telecomandato - che non poteva attrarre l'attenzione del piccolo perché non ancora attivato e alla periferia del suo campo visivo; in una seconda fase, a ogni orientamento dell'adulto verso lo stimolo (ancora due volte per lato), il giocattolo veniva attivato brevemente; infine, per un numero consistente di orientamenti dell'adulto, il giocattolo veniva attivato solo se il bambino riusciva a localizzarlo. Mentre i bambini di 8-9 mesi hanno iniziato a seguire lo sguardo dell'adulto dopo aver visto che "portava" a un interessante spettacolo, molti tra quelli di 10 e 11 mesi hanno seguito spontaneamente lo sguardo dell'adulto già nella fase iniziale, quando lo stimolo visivo non era ancora attivato. L'età dei 9 mesi è stata quindi individuata (Moore, 1999) come punto di transizione tra una risposta stimolata e una risposta spontanea a un cambiamento di orientamento dell'attenzione da parte dell'interlocutore. 189
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Attorno ai 12 mesi, con l'affermarsi dell'esperienza di condivisione dell'attenzione, l'oggetto verso cui si dirige lo sguardo del partner viene localizzato correttamente dal bambino anche quando si trova oltre uno stimolo visivo che potrebbe attrarre la sua attenzione (Butterworth,Jarrett, 1991). Lo stesso dato è riscontrabile già in piccoli di 9 mesi se l'adulto mette in atto esplicite azioni tese a ridirigere l' attenzione del bambino (per esempio, unendo all'orientamento dello sguardo il gesto di indicazione e una verbalizzazione, Flom, Deak, Phill, Pick, 2004). Questi risultati indicano che per il bambino di quest'età, nell'ambito di un'interazione focalizzata sulla condivisione dell'attenzione, le proprietà degli oggetti che fino a poco tempo prima catturavano facilmente la sua attenzione passano in secondo piano rispetto all'interesse per il focus di attenzione dell'altro. Tuttavia, il bambino di 12 mesi non riesce ancora a seguire lo sguardo dell'adulto quando quest'ultimo fissa un punto nello spazio alle spalle del piccolo, cioè fuori del suo campo visivo (vi riuscirà solo a 18 mesi, Butterworth,Jarrett, 1991). Questo, però, non significa necessariamente che i confini dello spazio visivo del bambino costituiscano anche i limiti della sua esperienza di attenzione condivisa, perché se si pone una barriera che limita la vista del bambino e l' adulto-interlocutore guarda oltre questa barriera, il piccolo tende a spostarsi fino a raggiungere una visuale che gli permette di seguire lo sguardo del partner oltre l'ostacolo (Moli, Tomasello, 2004). Infine, una questione che diversi studi hanno cercato di affrontare riguarda gli indizi che i bambini utilizzano per seguire la direzione dell'attenzione dell'interlocutore. In particolare, era stato ipotizzato che i bambini fino a un anno di vita seguono l'orientamento della testa dell' adulto, e non quello degli occhi, perché utilizzando una procedura di orientamento entro un campo visivo vuoto era stato trovato che i bambini di 12 mesi tendono a seguire l'orientamento dell'adulto in ugual misura quando quest'ultimo si limita a ruotare la testa verso un punto prefissato, continuando a guardare il bambino, e quando, invece, ruota congiuntamente testa e occhi (Corkum, Moore, 1995). Più recentemente, però, quest'ipotesi è stata messa in discussione dai risultati di studi di Brooks e Meltzoff. In un primo esperimento (Brooks, Meltzoff, 2002), che ha coinvolto bambini di 12 mesi e oltre, l'adulto si voltava verso uno stimolo visivo sia con gli occhi aperti che con gli occhi chiusi; quando l'adulto aveva gli occhi aperti tutti i bambini hanno guardato lo stimolo visivo individuato dal suo orientamento più che nella condizione in cui ave190
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va gli occhi chiusi. Quando la stessa situazione sperimentale è stata sottoposta a bambini di 9, 10 e 11 mesi (Brooks, Meltzoff, 2005), i bambini di 10 e 11 mesi si sono comportati come quelli di 12 e oltre; hanno cioè seguito la direzione dell'attenzione dell'adulto in misura significativamente maggiore nella condizione in cui l'adulto aveva gli occhi aperti, mentre i piccoli di 9 mesi non hanno mostrato di differenziare le due condizioni. Questi risultati suggeriscono un cambiamento evolutivo dalla comprensione dell'attenzione dell'altro in base all'orientamento della sua testa, mostrata dai piccoli di 9 mesi, alla comprensione di uno specifico legame tra la condizione (di apertura vs. chiusura) e l'orientamento degli occhi delle persone, e gli oggetti del mondo esterno, che spiegherebbe il riferimento agli occhi mostrato dai bambini di l 0-11 mesi.
Seguire il gesto di indicare Un altro segnale comunicativo che il bambino, verso la fine del primo anno, inizia a comprendere nella sua referenzialità e a seguire per individuare l'oggetto di attenzione che l'interlocutore vuole condividere è il gesto di indicare. Rispetto alla direzione dello sguardo, questo gesto può rivelarsi anche di più semplice e immediata comprensione per localizzare l'oggetto di interesse. La capacità del bambino di seguire l'indicazione sembra infatti emergere poco prima della sua capacità di seguire lo sguardo dell'altro (Butterworth, Grover, 1990; Carpenter et al., 1998; Morissette, Ricard, Gouin-Décarie, 1995), sebbene le differenze indi viduali riscontrate sia nei tempi che nell'ordine di comparsa delle diverse abilità connesse alla condivisione di attenzione siano particolarmente ampie. Per esempio, uno studio (Thoermer, Sodian, 2001) che ha analizzato la comprensione dei gesti referenziali in un gruppo di bambini a 9-1 O mesi, e poi ancora 2 mesi dopo, ha mostrato che a 9-1 Omesi i bambini che riuscivano a localizzare correttamente l'oggetto di attenzione dell'interlocutore in base al gesto di indicazione e alla direzione dello sguardo erano, rispettivamente, il 30% e il14% dei soggetti considerati, ma diventavano 1'81% e il 70% entro i 12 mesi. Verso la fine del primo anno, comunque, tutti i bambini sembrano rispondere più facilmente a un cambiamento nella direzione dello sguardo del partner se è accompagnato dal gesto di indicare, piuttosto che limitato al semplice orientamento della testa e degli occhi; così come sembrano identificare più facilmente un oggetto alla periferia del 191
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loro campo visivo se è indicato dalla direzione dello sguardo e dal gesto della mano del partner, piuttosto che dalla sola direzione del suo sguardo. Al riguardo, Butterworth e Itakura (2000) hanno analizzato l'accuratezza con cui bambini di 6, 12 e 15 mesi riuscivano a localizzare uno stimolo visivo, tra più stimoli identici, seguendo la sola direzione dello sguardo della madre (rotazione della testa e degli occhi) o la direzione dello sguardo accompagnata dal gesto di indicazione. La madre e il bambino erano seduti faccia-a-faccia e uno stimolo (il primo che il piccolo poteva incontrare nel seguire la direzione dell'attenzione materna) era collocato a soli 10° dall'asse centrale del campo visivo; gli stimoli che venivano segnalati erano invece più periferici. A partire dai 12 mesi, la possibilità di seguire il gesto di indicazione ha accresciuto significativamente l'accuratezza delle risposte relative agli stimoli più periferici. Riguardo, invece, alla comprensione del solo gesto di indicare, sappiamo che compare verso gli 11 mesi (Butterworth, 2001; Carpenter et al., 1998), ma è osservabile anche prima se l'indicazione è riferita a oggetti relativamente vicini (Morissette et al., 1995). In ogni caso, non è mai stata rilevata prima dei 9 mesi, perché fino a quest'età i piccoli tendono a fissare il dito della persona che indica tanto quanto l'oggetto indicato (Butterworth, Grover, 1990), mostrando di essere ancora molto lontani dalla comprensione del significato del gesto. Un altro dato interessante, infine, riguarda il fatto che l'indicare riferito a oggetti alla destra del bambino può essere compreso anche due mesi prima dell'indicazione di oggetti situati nella parte sinistra del suo campo visivo (Butterworth, Itakura, 2000; Carpenter et al., 1998); questo dato, che dimostra una lateralizzazione precoce, richiederebbe però ulteriori ricerche che potrebbero far luce su una possibile connessione tra lo sviluppo dell'attenzione riferita all'indicare e lo sviluppo linguistico.
7.4 La comprensione delle intenzioni dell'adulto L'uso della direzione dello sguardo e del gesto di indicare del partner per comprenderne il focus di attenzione, così come il riferimento alla sua espressione facciale per comprenderne le reazioni emotive da fare proprie in una situazione di incertezza, suggeriscono che nell'esperienza intersoggettiva che si sviluppa verso la fine del primo anno di vita il bambino comprende che l'altro possiede delle intenzioni ver192
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so il mondo esterno. Numerosi studi sperimentali hanno cercato di esplorare, approfondire e verificare in diversi modi queste ipotesi. Per esempio, è stato mostrato che entro i 12 mesi i bambini comprendono il gesto di indicare come un'azione diretta a un oggetto (Woodward, Guajardo, 2002). Utilizzando il paradigma dell'abituazione, bambini di 9 e 12 mesi sono stati abituati a vedere un attore che indicava uno di due giocattoli che aveva davanti a sé; nella fase test, in cui l'attore indicava l'altro giocattolo, oppure lo stesso giocattolo ma con una direzione del movimento del braccio differente, i bambini di 12 mesi hanno guardato più a lungo l'evento in cui il gesto di indicare non era più riferito allo stesso giocattolo, mostrando di avere "codificato" una relazione tra la persona e l'oggetto che questa indicava. Più in particolare, è stato mostrato che a 12 mesi, ma non ancora a 8, i bambini utilizzano le informazioni fornite dalla direzione dello sguardo e dall'espressione emozionale di una persona per predirne l'azione (Phillips, Wellman, Spelke, 2002). La procedura di abituazione prevedeva che i bambini- di 8, 12 e 14 mesi- vedessero una persona che guardava con espressione di piacere e di desiderio uno dei due oggetti simili che aveva davanti a sé, ma non l'altro, e, dopo pochi secondi, afferrasse l'oggetto che stava guardando. Nella fase test, i piccoli assistevano a due eventi: in uno la persona guardava e sorrideva a un nuovo oggetto che, dopo pochi secondi, afferrava (evento coerente); nell'altro guardava e sorrideva all'oggetto che nella fase precedente aveva guardato con affetto positivo, ma afferrava poi l'altro oggetto (evento incoerente). I bambini di 12 e più mesi hanno guardato con sorpresa e più a lungo l'evento incoerente, dimostrando di attendersi che una persona che guarda con piacere un oggetto cerchi poi di prendere quell'oggetto, proprio come quando loro stessi vedono un giocattolo attraente e cercano di afferrarlo, o come quando la mamma li guarda sorridendo affettuosamente prima di prenderli in braccio. L'età in cui i piccoli iniziano a connettere l'espressione affettiva delle persone alle azioni delle stesse o, in altre parole, a capire che le azioni delle persone sono legate alle loro emozioni e ai loro desideri, è stata ulteriormente esplorata da uno studio (Barna, Legerstee, 2005) che ha coinvolto bambini dai 9 ai 12 mesi in una situazione sperimentale basata sulla violazione di aspettativa, simile alla precedente. In una prima fase ai bambini venivano mostrate, in alternanza, sia una persona che guardava con espressione felice un oggetto sconosciuto al bambino, esclamando che le piacciono gli oggetti, sia una persona - simile nell'apparenza alla prima- che guardava invece con espres193
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sione infelice lo stesso oggetto, dicendo che non le piaceva. Subito dopo, nella fase di abituazione, i piccoli vedevano una delle due persone, ma con il volto coperto da una tenda scura (quindi irriconoscibile), che teneva in mano l'oggetto; infine, nella fase test, rivedevano con l'oggetto tra le mani- in successione alternata- sia la persona con l'espressione felice (evento coerente), sia la persona con l'espressione infelice (evento incoerente). I bambini del gruppo di controllo vedevano le stesse "attrici", ma senza alcun oggetto nella fase iniziale e in quella di abituazione. Il confronto tra i soggetti del gruppo sperimentale e quello di controllo ha evidenziato che i piccoli del primo gruppo hanno guardato significativamente più a lungo degli altri la persona con l'espressione infelice (ossia l'evento incoerente). Questo risultato sembrerebbe suggerire che fin dai 9 mesi i bambini appaiono capaci di interpretare l'espressione emozionale di una persona verso un oggetto come intenzione di una successiva azione in relazione a quell'oggetto. Altri recenti studi mirati a esplorare se i bambini tra i 9 e i 12 mesi comprendono che le azioni delle persone sono guidate da intenzioni sono accomunati dal coinvolgere il bambino in azioni non concluse (fallite o interrotte per cause diverse) da parte dell'adulto, così che il piccolo debba inferire l'intenzione che le guida per rispondervi appropriatamente. Il fatto che in un'azione non conclusa l'azione non coincide, o solo talvolta coincide, con l'intenzione della persona che ha cercato di realizzarla - in altre parole, il risultato non coincide con l'obiettivo-, dovrebbe permettere di vedere se il bambino si relaziona all'azione in sé o a ciò che mostra di comprendere sia l'intenzione dell'azione dell'altro. In particolare, uno studio di Behne e colleghi (Behne et al., 2005) ha coinvolto bambini di diverse fasce d'età- 6, 9, 12 e 18 mesi- in una situazione sperimentale basata sul gioco di mostrare e passare al bambino oggetti-giocattolo. Dopo aver acquisito familiarità con il nuovo ambiente e la sperimentatrice, il bambino veniva invitato ad accostarsi a un tavolo, seduto in braccio alla madre; all'altro lato del tavolo, la sperimentatrice iniziava il gioco del "passare i giocattoli": mostrava al bambino un nuovo giocattolo richiamando la sua attenzione, poi glielo allungava, il bambino lo prendeva e lo lasciava cadere su uno scivolo (che gli era stato mostrato precedentemente e aveva la funzione di allontanare i diversi giocattoli dalla vista del piccolo, una volta che erano stati oggetto della sua attenzione), oppure vi giocava un po', e quando non mostrava più interesse per l'oggetto la sperimentatrice gli mo194
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strava e porgeva un nuovo giocattolo. La situazione prevedeva che nel corso di quest'interazione alcuni giocattoli fossero mostrati al piccolo ma poi, per motivi differenti - non volontà, goffaggine o distrazione accidentale della sperimentatrice- quest'ultimo non riuscisse a riceverli. Per esempio, in una prova la sperimentatrice allungava una palla al bambino, ma quando questo stava per prenderla, la ritraeva sorridendo con espressione beffarda; in un'altra tratteneva il giocattolo tra le sue mani mostrando riluttanza a cederlo al bambino; in un'altra prova, invece, nel porgere una palla al bambino, la lasciava "accidentalmente" cadere e guardava il piccolo con espressione dispiaciuta; in un'altra ancora (per la serie "azione fallita per goffaggine"), mostrava un piccolo giocattolo sul fondo di un contenitore trasparente alto e stretto, ma quando cercava di prenderlo per darlo al bambino, mostrando ogni sforzo possibile, non riusciva a raggiungerlo con la mano. Infine, in un altro tipo di prova, quando la sperimentatrice stava per dare il giocattolo al bambino, veniva distratta da una causa accidentale, come una chiamata telefonica. Diversamente dai piccoli di 6 mesi, i bambini di 9, 12 e 18 mesi, di fronte al risultato di non ricevere il giocattolo, hanno reagito in modo diverso secondo le diverse intenzioni espresse dall'adulto: con particolare impazienza- cercando di afferrare il giocattolo, battendo sul piano del tavolo, distogliendo Io sguardo dalla sperimentatrice - quando quest'ultima non voleva dar loro il giocattolo; con pazienza, mantenendo lo sguardo su di lei, quando invece cercava di farlo ma non vi riusciva o era interrotta nell'intento. Questi risultati suggeriscono che già a partire dai 9 mesi i bambini appaiono capaci di interpretare le azioni dell'adulto in funzione dei suoi obiettivi (in questo caso, dare o non dare il giocattolo), cioè di comprendere le intenzioni sottostanti le azioni dell'adulto, e di adattarvi il proprio comportamento. La comprensione delle intenzioni dell'altro da parte del bambino è stata indagata anche utilizzando un paradigma sperimentale basato sul gioco imitativo (Meltzoff, 1995). L'idea di fondo è che la comprensione delle intenzioni di un'altra persona possa essere misurata come capacità del bambino di riprodurre alcune azioni intenzionali dello sperimentatore (per esempio, staccare due cubi inseriti alle estremità di un cilindro) dopo aver visto dei tentativi falliti di realizzare tali azioni; in altre parole, come capacità di riprodurre non ciò che lo sperimentatore ha realmente fatto, ma ciò che intendeva fare. Tuttavia, l'idea che questo paradigma rilevi effettivamente la comprensione delle intenzioni dell'altro è stata messa in discussione da uno studio di Assa195
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nelli e D'Odorico (2004). Le autrici hanno dimostrato che, se a bambini di 12 mesi viene concesso più tempo di quello previsto dall'esperimento originale, anche i soggetti del gruppo di controllo- cioè bambini che non hanno mai visto nessun tentativo di azione con gli oggetti a disposizione- riescono a scoprire e a produrre, o perlomeno tentare di produrre, le azioni corrette. Sembrerebbe dunque che la produzione delle azioni complete sia suggerita dalle caratteristiche salienti degli oggetti, indipendentemente dalla capacità dei piccoli di comprendere o meno le intenzioni dello sperimentatore. Il bambino di 12 mesi presenta peraltro una certa esperienza sia nella manipolazione di oggetti che nel completamento di azioni iniziate dall'adulto. Basti pensare che i genitori, proprio negli ultimi mesi del primo anno, iniziano a rivolgergli richieste che tendono ad accompagnare con una dimostrazione incompleta dell'azione che si attendono sia portata a termine. Per esempio, possono allungare al piccolo un contenitore vuoto mostrandogli il gesto di raccogliere e awicinare al bordo del contenitore uno dei tanti mattoncini sparsi sul pavimento (senza, cioè, completare l'azione di lasciar cadere l'oggetto nel contenitore), invitando il piccolo a raccogliere i mattoncini; oppure cullare la bambola dicendo che è ora che faccia la nanna, attendendo che il bambino la riponga nella culla; o, ancora, porgere la mano con il palmo aperto durante il gioco con gli oggetti. E il bambino impara a rispondere appropriatamente a queste richieste grazie alla sua esperienza di azione con gli oggetti, alla ricorrenza dei pattern di comunicazione e gioco condiviso in cui è coinvolto, e alla sua nuova comprensione dei gesti comunicativi. Più che dai comportamenti di accondiscendenza cooperativa, la comprensione delle intenzioni dell'adulto nei contesti delle routine quotidiane appare però suggerita dalla comparsa di nuovi comportamenti "provocatori" del bambino, quali azioni di effettivo contrasto al raggiungimento dell'obiettivo che l'adulto sta perseguendo, o "rifiuti provocatori" (Reddy, 2001a) di accondiscendere alle richieste o anche soltanto ai desideri espressi velatamente dall'adulto. Un esempio di azione di contrasto può essere quella di una bambina di 11-12 mesi che, non appena vede la madre iniziare a riordinare, rovescia il cesto dei giocattoli e guarda il volto della madre con espressione di sfida divertita. Un esempio, invece, di un primo "rifiuto provocatorio" appare ben illustrato dalla narrazione di una breve sequenza di interazione tra una bambina di 37 settimane e sua madre: 196
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Susan sta battendo con le mani sul piano del seggiolone, mentre la madre vocalizza "Bang! Bang!" con lo stesso ritmo e la stessa intonazione ascendente e discendente dei movimenti della bambina. Entrambe sorridono reciprocamente. Poi Susan batte con più forza, alternando la mano sinistra e la mano destra. La madre inizia a muovere la testa da sinistra a destra, continuando a vocalizzare ritmicamente. Non appena la piccola nota i movimenti della testa della madre smette di battere e fissa quest'ultima negli occhi. Poi entrambe scoppiano in un sorriso aperto. (Fogel, de Koeyer, 2007, in corso di stampa)
L'esempio ci mostra come in quest'esperienza di intersoggettività che si realizza nella sintonizzazione affettiva la bambina "senta" l comprenda la partecipazione affettiva della madre e il suo desiderio di creare un duetto sonoro, e scelga di comportarsi diversamente, come volesse creare un effetto sorpresa per vedere la reazione della madre (la sintonizzazione affettiva viene infatti mantenuta). In altre parole, la piccola sembra comprendere l'intenzione dell'altro e, al tempo stesso, anche la propria possibilità di mettere in atto intenzioni diverse, cioè di scegliere se accettare o rifiutare la sua partecipazione a questo duetto. La sua intenzione comunicativa è testimoniata dal fatto che appena interrompe l'azione fissa la madre negli occhi.
7.5 Lo sviluppo della comunicazione intenzionale: la capacità di influenzare l'attenzione, gli stati affettivi e le azioni dell'adulto Nell'ultimo trimestre del primo anno di vita, la comparsa della comunicazione intenzionale (e in particolare, come vedremo, dei gesti dichiarativi) testimonia la consapevolezza del bambino che le altre persone possiedono stati affettivi e stati di attenzione che possono essere non solo condivisi o monitorati per predirne le azioni, ma anche influenzati; per esempio, la consapevolezza che l'attenzione dell'adulto può essere richiamata su di sé e sulle proprie azioni, o che può essere diretta su un oggetto o un evento esterno, attraverso specifici comportamenti. Se, infatti, fino a poco tempo prima il bambino comunicava senza la consapevolezza che le sue espressioni agissero come un segnale per l'adulto, verso i 9-11 mesi inizia invece a comprendere di poter produrre comportamenti che hanno la funzione di segnale comunicativo (che possono cioè influenzare l'attenzione e il comportamento dell'adulto), e a utilizzarli per raggiungere i propri obiettivi. Prima ancora che con la produzione di effettivi gesti comunicativi 197
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in riferimento a oggetti dell'ambiente circostante, il bambino inizia a manifestare l'intenzione di dirigere l'attenzione dell'adulto quando, in situazioni di interazione sociale, inizia a "esibirsi" in azioni buffe o nella ripetizione di azioni convenzionali che vengono solitamente accolte con calore (per esempio, battere le mani, fare "ciao" con la manina), per richiamare l'attenzione degli adulti sulle proprie azioni ericevere approvazione. Sebbene queste azioni non rappresentino veri segnali comunicativi (per esempio, anche i gesti referenziali sono usati in modo non referenziale), la loro intenzionalità comunicativa è chiaramente indicata dalla direzione dello sguardo del bambino al volto dell'adulto durante e/o subito dopo l'atto, e dalla persistenza dell'atto - attraverso la ripetizione e l'eventuale crescendo dell'espressione- fìno al raggiungimento dell'obiettivo. L'efficacia delle azioni del bambino nel dirigere l'attenzione e il comportamento dell'adulto si accresce considerevolmente quando, verso i l 0-11 mesi, inizia a produrre gesti quali mostrare, offrire, dare, indicare con il dito, allungare il braccio con la mano aperta per chiedere all'adulto un oggetto o un aiuto in un'azione che non riesce a portare a termine da solo. Come vedremo, oltre che con un intento di richiesta, il bambino inizia a usare alcuni degli stessi gesti con un chiaro intento di condivisione di esperienza soggettiva: tipicamente, a usare il gesto di indicare per dirigere l'attenzione dell'adulto su un oggetto da poco scoperto o un evento esterno, per condividerne attenzione e interesse.
7.5. l l comportamenti di esibizione Uno studio longitudinale basato su dettagliati resoconti di genitori di bambini tra gli 8 e i 14 mesi (Reddy, Williams, in preparazione, cit. in Reddy, 2005) ha rilevato che già a soli 8 mesi diversi bambini intraprendono qualche semplice forma di comportamento di esibizione per attrarre su di sé l'attenzione dell'adulto, sebbene le "esibizioni" che implicano una selezione di azioni sulla base dell'effetto prodotto sugli adulti in precedenza compaiano in modo consistente soltanto verso la fine del primo anno. I comportamenti di esibizione appaiono differenziabili in base agli obiettivi che i piccoli mostrano di perseguire, secondo i contesti d'interazione sociale (vs. non interazione) in cui si trovano (Reddy, 2005 ). In particolare, i bambini possono produrre azioni insolite e bizzarre per richiamare l'attenzione dell'adulto di riferimento (per esempio, 198
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lanciare improvvisamente uno strillo acuto guardando l'adulto, o mettersi un golfino in testa e fissare la madre che sta scrivendo finché quest'ultima risolleva lo sguardo); oppure, possono esibire un intero repertorio di azioni convenzionali che suscitano solitamente grande favore (per esempio, salutare con la mano, dare bacini ecc.) per mantenere l'attenzione degli adulti quando si trovano già al centro di una serie di attenzioni positive. Infine, possono ripetere azioni "di abilità" che erano state accolte con lodi ed esclamazioni di affetto positivo da parte degli adulti, per ricevere approvazione: per esempio, possono sollevarsi in piedi e subito dopo cercare lo sguardo dell'adulto con espressione di eccitazione e di orgoglio, oppure aprire una scatola, o prendere un mattoncino in ogni mano, e guardare subito verso l'adulto con chiari segni di emozione positiva anticipatoria della risposta dell'altro. In quest'ultimo caso di esibizione di abilità, la capacità dei piccoli di selezionare accuratamente le azioni da ripetere suggerisce che, già verso la fine del primo anno di vita, il bambino possiede una grande sensibilità per i comportamenti delle persone in relazione a sé. Questa sensibilità si riflette anche in un'altra forma di comportamento di esibizione che emerge nello stesso periodo, identificabile come "fare il pagliaccio" (Reddy, 2001b), che esprime la voglia di attrarre l'attenzione su di sé e, al tempo stesso, i tentativi del bambino di provocare un effetto divertente come il riso dell'adulto. Anche in questo caso, il bambino tende a ripetere quelle azioni buffe o particolari (per esempio, facce con smorfie e naso arricciato, posture strane, vocalizzazioni artificiosamente severe) con cui ha già fatto ridere qualche persona, per ottenere nuovamente l'effetto e il piacere di condividere il riso. L'intento del bambino di provocare un effetto emozionale nell'altro, o da condividere con l'altro, che allivello più semplice emerge nell'interruzione improvvisa del flusso dell'interazione (come nell'esempio di Susan, paragrafo 7.4) e a livelli più complessi coinvolge la ripetizione di atti che avevano suscitato una particolare reazione nell' adulto, dai 12 mesi in avanti si può ritrovare nei primi scherzi rivolti all'interlocutore durante l'interazione. Per esempio, nel corso del gioco del dare e prendere gli oggetti, il bambino può offrire all'adulto un oggetto e, quando quest'ultimo sta per prenderlo, ritirare la mano con l'offerta, guardando il partner; in questa situazione l'adulto può scoppiare in una risata, guardando il piccolo con espressione compiaciuta (ed eventualmente rivolgendogli un breve commento positivo). La condivisione di divertimento e complicità che si realizza tra il bambi199
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no e l'adulto in una situazione scherzosa come questa mostra abbastanza chiaramente come l'esperienza di intersoggettività attorno alla fine del primo anno di vita del bambino possa realizzarsi anche su un nuovo piano di condivisione di significati.
7.5.2 l gesti comunicativi Anche nel contesto triadico dell'interazione con l'adulto in relazione agli oggetti, tra i 9 e i 12 mesi il bambino inizia a dirigere attivamente l'attenzione e le azioni dell'adulto verso gli oggetti/eventi dell'ambiente esterno ai quali è interessato, attraverso l'utilizzo di gesti comunicativi che inizia a scoprire (si pensi, per esempio, alla comprensione del gesto di indicare, vedi paragrafo 7.3) e a produrre. Si tratta essenzialmente di gesti deittici, cioè di gesti che esprimono un'intenzione comunicativa riferita a un oggetto/evento che è ricavabile esclusivamente dal contesto in cui si trovano gli interlocutori. Gli intenti comunicativi con cui il bambino produce questi gesti possono essere di due tipi (Bates, Camaioni, Volterra, 1975): chiedere all'adulto un oggetto desiderato o un aiuto in un'azione che non riesce a compiere da solo (come nel caso in cui porge all'adulto una scatola che non riesce ad aprire); oppure, condividere con l'adulto l'attenzione e l'interesse per un oggetto o un evento esterno (come nel caso in cui indica all'adulto il treno che passa). Nel primo caso (quello dei gesti di richiesta), il bambino è interessato a un'azione dell'adulto; nel secondo caso (in cui non vi è richiesta, ma dichiarazione), è invece interessato all'attenzione e al commento dell'adulto.
I gesti di richiesta Fra i gesti di richiesta che il bambino inizia a produrre vi sono gesti ritualizzati come, per esempio, allungare le braccia in alto per essere sollevato, estendere un braccio con la mano aperta, o aprire e chiudere una mano come in un gesto di prensione a vuoto, per ottenere un oggetto che non riesce ad afferrare; oppure l'indicare con il dito un oggetto, con lo stesso scopo; o anche il porgere o il dare all'adulto un oggetto che sta manipolando, per chiederne l'aiuto in un'azione che non è in grado di compiere autonomamente (per esempio, far funzionare un giocattolo). Tutti questi gesti sono solitamente accompagnati da vocalizzazioni di tono lamentoso rivolte con lo sguardo al volto dell'adulto. Oltre alla direzione dello sguardo, l'altro criterio che permet200
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te di definire l'intenzionalità comunicativa del gesto è la persistenza con cui il bambino lo produce, finché non ha raggiunto il suo scopo; se l'adulto, inizialmente, si limita a dare attenzione e a commentare elo nominare 1' oggetto (come nella situazione sperimentale di Perucchini, 1997) oppure, come può effettivamente accadere, non capisce la richiesta del bambino, quest'ultimo continua finché l'adulto non interviene a risolvere il suo problema. Numerosi studi {Bates et al., 1975; Bruner, Roy, Ratner, 1982; Butterworth, Morissette, 1996; Carpenter et al., 1998; Perucchini, Camaioni, 1999) concordano nel collocare la comparsa dei gesti di richiesta entro gli 11 mesi circa. Se attorno ai 9 mesi è già osservabile un uso strumentale dell'adulto per raggiungere un obiettivo (Mosier, Rogoff, 1994; Rogoff, Mistry, Radziszewska, Germond, 1992), l'intenzionalità e l'oggetto della richiesta del bambino spesso non sono ancora identificabili con chiarezza. Nel periodo tra i 9 e gli 11-12 mesi, invece, la direzione dello sguardo del bambino al volto dell'adulto, piuttosto che in direzione dell'adulto, diviene più nitida; i gesti prodotti divengono più "stilizzati" (Bruner, 1983) e in tal senso consentono all'adulto di identificare in modo più immediato gli oggetti delle richieste; inoltre, sia la frequenza che la ritualizzazione degli atti richiestivi si accrescono rapidamente (Bates et al., 1979). Entro la fine del primo anno, l'utilizzo dei gesti di richiesta consente perciò al bambino di regolare intenzionalmente le azioni del partner in relazione a specifici oggetti/eventi del contesto condiviso.
I gesti dichiarativi I gesti dichiarativi, quali mostrare un oggetto tenendolo con la mano rialzata, o indicare con il dito un oggetto o un evento esterno alternando lo sguardo tra l'oggetto e il volto dell'adulto, sono prodotti dal bambino per influenzare non tanto l'azione (come nel caso dei gesti di richiesta), quanto l'attenzione e il coinvolgimento emotivo dell' adulto. Entro i 12 mesi questi gesti appaiono frequentemente accompagnati da vocalizzazioni di tono positivo, che tendono a essere "personali" (Adamson, 1995) come le protoparole; in altri termini, molti bambini tendono a produrre una propria vocalizzazione (per esempio, "da" o "um") che coordinano con il gesto dichiarativo, soprattutto l'indicare, nell'atto di segnalare all'adulto che c'è qualcosa di interessante (per esempio, un altro bambino in passeggino, o un cane che sta abbaiando) su cui spostare l'attenzione. 201
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L'intento comunicativo del bambino è testimoniato dall'alternanza del suo sguardo tra l'oggetto/evento indicato e il volto dell'adulto, considerata indice della verifica (Butterworth, 2001), da parte del piccolo, che il partner stia effettivamente seguendo il suo segnale comunicativo o, in altre parole, stia condividendo il suo focus di attenzione. Inoltre, è indicato dalla tendenza del bambino a ripetere il gesto se l'adulto non esprime un commento di qualche tipo (per esempio un'esclamazione d'interesse o un breve "dialogo" sull'evento) che manifesti una sua condivisione dell'esperienza. Questa tendenza è stata rilevata anche sperimentalmente, in relazione al gesto di indicare prodotto da bambini di 12 mesi (Liszkowski, Carpenter, Henning, Striano, Tomasello, 2004). La situazione sperimentale, predisposta per stimolare la produzione del gesto di indicare dichiarativo, prevedeva che, dopo un'iniziale fase di familiarizzazione con la sperimentatrice, il bambino potesse vedere un evento interessante (un pupazzo che si muoveva) che sbucava da un tendone; la prova veniva presentata diverse volte con eventi diversi; la sperimentatrice, seduta vicino al bambino in una posizione tale da non poter vedere subito l'evento, reagiva a ogni gesto di indicare prodotto dal bambino in quattro modi diversi, secondo la condizione sperimentale a cui era stato assegnato il piccolo: l) condividendo attenzione e partecipazione emotiva, 2) guardando e parlando affettuosamente al bambino ma ignorando l'evento, 3) guardando l'evento senza mai rivolgersi al bambino né fare alcun commento, 4) ignorando sia il bambino che l'evento. I risultati hanno mostrato che i bambini hanno prodotto il gesto di indicare con durate significativamente maggiori quando l'adulto condivideva con loro attenzione e interesse per l'evento, probabilmente per prolungare la piacevole condivisione dell'esperienza; tuttavia, alla presentazione di ogni evento, hanno ripetuto il gesto più di una volta sia quando l'adulto comunicava con loro ma non ne condivideva il focus di attenzione, sia quando guardava l'evento ma non esprimeva alcun commento. Soprattutto quest'ultimo dato, relativo alla ripetizione del gesto di indicare anche quando l'adulto aveva già diretto la sua attenzione sull'oggetto indicato, ma non aveva espresso alcuna forma di condivisione dell'interesse con il bambino, suggerisce che l'obiettivo sotteso al gesto di indicare da parte dei piccoli non è semplicemente quello di dirigere l'attenzione dell'altro su un evento ritenuto interessante (se fosse così i bambini sarebbero dovuti essere soddisfatti dell'attenzione dell'adulto all'evento), ma, piuttosto, quello di condividere con l'altro un'esperienza di attenzione e interesse, o 202
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anche altre emozioni, verso un evento esterno: i bambini si attendevano dall'adulto un commento di qualche tipo, che testimoniasse la sua partecipazione emotiva e la sua prospettiva sull'evento, per condividere l'esperienza. Se la produzione del gesto di indicare dichiarativo, spesso riferito a oggetti/eventi a una certa distanza dal bambino, è osservabile nella maggioranza dei piccoli entro i 12 mesi, quella di altri gesti dichiarativi prossimali, quali mostrare e offrire oggetti che il bambino sta manipolando, è invece già evidente diverse settimane prima (Bakeman, Adamson, 1986; Bates et al., I979). In particolare, Carpenter e colleghi (1998) hanno individuato un'età media di 10.3 mesi per la comparsa del gesto di mostrare un oggetto, e invece un'età non inferiore ai I2 mesi per quella del gesto di indicare. Diversi altri studi tendono a collocare un'età media di comparsa dell'indicare- che rappresenta il 60% di tutti i gesti prodotti dal bambino entro l'anno di vita (Locke, Young, Service, Chandler, I990)- un po' prima, attorno agli 11 mesi; tutti, comunque, concordano sulla presenza di ampie differenze individuali sia nella comparsa che nella rapidità di sviluppo di questo gesto. Per esempio, i dati raccolti su un ampio campione di bambini italiani attraverso la somministrazione di un questionario ai genitori (Perucchini, Camaioni, I999) indicano un range di comparsa del gesto di indicare (sebbene senza distinzione tra l'intenzione richiestiva e dichiarativa) tra i 7 e i I5 mesi, sebbene per la maggioranza dei bambini si riduca al periodo tra i IO e i I2 mesi, con un'età media di comparsa significativamente inferiore per le femmine (10.7 mesi) rispetto ai maschi (11.2 mesi) (Camaioni, Perucchini, Bellagamba, Colonnesi, 2004). Attorno ai IO mesi, in diversi campioni di bambini è stato invece tr_pvato (Bates et al., I975; Franco, Butterworth, 1996) che talvolta, quando i piccoli indicano un oggetto e poi si voltano verso la madre, come volessero verificare dove stia guardando, indicano anche la madre (!);questo interessante fenomeno transizionale mette in luce come per i bambini di quest'età possa essere ancora piuttosto difficile coordinare il gesto manuale di indicare un evento con l'orientamento dello sguardo verso il volto dell'adulto, soprattutto se l'evento è distante dal partner. Questa difficoltà potrebbe costituire una delle ragioni della comparsa più tardiva del gesto di indicare dichiarativo rispetto a quello dell'indicare richiestivo (solitamente rivolto a oggetti vicini), confermata anche recentemente (Camaioni et al., 2004). Una ragione fondamentale di questa differenza sembra però attribuibile alle differenti 203
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capacità sociali e cognitive che appaiono sottese all'utilizzo del gesto di indicare per richiedere un'azione e all'utilizzo dello stesso gesto per condividere attenzione e interesse (Tomasello, Camaioni, 1997). Nel primo caso sembra necessario soltanto che il bambino comprenda l'altro come agente causale, che può far accadere certe cose (per esempio, prendere un oggetto, far funzionare un giocattolo ecc.); nel secondo caso, invece, sembra necessario che il bambino comprenda l'altro come agente intenzionale, che possiede stati psicologici in relazione al mondo esterno (per esempio, una certa direzione dell'attenzione, un'emozione per un evento). Una prima conferma empirica di questa differenza nelle capacità sottese all'indicare richiestivo e dichiarativo è stata fornita dagli studi sperimentali che hanno analizzato la produzione e la comprensione del gesto di indicare in bambini autistici (per esempio, Baron-Cohen, 1989; Perucchini, Muratori, Parrini, 2005), cioè in bambini rispetto ai quali è stata documentata un'incapacità di comprendere gli altri come possessori di stati psicologici. Nello specifico, è stato rilevato che nei bambini con autismo (a esclusione di quelli con una lieve sintomatologia) la produzione del gesto di indicare con intento dichiarativo è assente o presenta difficoltà molto severe, mentre quella dell'indicare per richiedere non appare particolarmente compromessa. Comunque, anche alcuni studi sperimentali condotti con bambini con sviluppo tipico hanno mostrato una relazione tra l'utilizzo del gesto di indicare dichiarativo e la comprensione dell'altro come possessore di stati psicologici (attenzione, emozioni, intenzioni) che possono essere influenzati e condivisi. In particolare, è stato mostrato che circa la metà di un campione di bambini di 12 mesi, alla comparsa di un evento particolarmente interessante (un cane-giocattolo animato), utilizza il gesto di indicare, coordinato con vocalizzazioni e alternanza dello sguardo al volto dell'interlocutore, per ridirigerne l'attenzione in misura significativamente maggiore quando l'altro sta guardando un oggetto meno interessante (un cane-giocattolo non animato) e lo sta commentando con affetto positivo, rispetto a quando è coinvolto sullo stesso focus di attenzione del piccolo (Legerstee, Barillas, 2003 ). Questo appare indicativo della consapevolezza dello stato di attenzione (e di interesse) del partner mostrata da bambini di 12 mesi, e dei tentativi di ridirigere l'attenzione dell'altro su un evento percepito come più interessante. La sensibilità dei bambini di 12 mesi al focus di attenzione del partner, ma anche al suo coinvolgimento emotivo e alla sua condivisione 204
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vs. non condivisione dell'esperienza di attenzione/interesse verso un evento esterno, è stata messa in luce anche dallo studio che abbiamo esaminato più sopra (Liszkowski et al., 2004). Il risultato, relativo alla capacità dei bambini di differenziare le modalità con cui producono il gesto di indicare secondo la reazione dell'adulto al gesto stesso, evidenzia che i bambini di 12 mesi comprendono la possibilità di influenzare gli stati di attenzione e di interesse dell'altro e manifestano una forte motivazione alla condivisione dell'esperienza soggettiva in relazione agli oggetti/eventi esterni. Il legame tra la capacità di utilizzare il gesto di indicare dichiarativo e, in particolare, la comprensione delle intenzioni dell'altro è stata indagata in uno studio (Camaioni et al., 2004) che ha affiancato alla situazione sperimentale di stimolazione del gesto di indicare, un altro compito di comprensione delle intenzioni dell'interlocutore. La comprensione delle intenzioni è stata misurata utilizzando il paradigma di Meltzoff (1995) (vedi paragrafo 7.4), cioè come capacità del bambino di riprodurre azioni intenzionali dell'altro dopo aver visto tentativi falliti di realizzare tali azioni. I risultati hanno documentato che i bambini di 12 mesi che manifestano un'elevata capacità di completare le azioni dell'altro (dunque, compatibilmente con le critiche rivolte al paradigma di Meltzoff, di comprendere le intenzioni dell'altro) sono anche quelli che utilizzano maggiormente il gesto di indicare per dirigere l'a ttenzione del partner su un evento di interesse, da poter condividere. Infine, il legame tra l'utilizzo del gesto di indicare e la comprensione dell'esperienza soggettiva dell'altro rispetto alle situazioni che si creano nell'ambiente condiviso è stato ulteriormente suggerito da un recente studio (Liszkowski, Carpenter, Striano, Tomasello, 2006) condotto con bambini di 12 e 18 mesi. La situazione prevedeva che in ognuna delle prove consecutive la sperimentatrice, dopo aver mostrato al bambino, più volte, un'azione con un oggetto, lo spostasse accidentalmente (o che un'altra persona glielo spostasse) su un tavolo alle sue spalle, cioè non più nel suo campo visivo ma sempre ben visibile al bambino; sulla scena era presente anche un altro oggetto, con funzione distraente; la sperimentatrice simulava quindi la ricerca dell'oggetto "scomparso" iniziando a mormorare tra sé, poi a chiedersi avoce alta "Dov'è?" senza nominare l'oggetto, e infine a chiedere al bambino dove fosse. Il fatto che tutti i bambini abbiano indicato dov'era l'oggetto almeno una volta, senza significative differenze secondo l'età, e che 1'89% di essi abbia indicato spontaneamente prima che la sperimentatrice lo chiedesse verbalmente, documenta che il bambino di 12 ?(l "i
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mesi può usare il gesto di indicare non solo per chiedere o per condividere attenzione e interesse, ma anche per fornire all'altro un'informazione di cui ha bisogno. Questo suggerisce che già a un anno di vita il bambino può comprendere un'intenzione dell'altro in uno stato di bisogno- in questo caso, il fatto che all'altro manca un'informazione specifica per raggiungere il suo obiettivo - ed essere motivato ad aiutarlo. Complessivamente, l'uso dei gesti dichiarativi testimonia come, verso la fine del primo anno, il bambino sia motivato a condividere con l'altro attenzione e interesse in relazione a eventi del mondo esterno, e ricerchi attivamente l'esperienza intersoggettiva di confrontarsi con le emozioni e la prospettiva dell'altro verso tali eventi. Inoltre, testimonia come il bambino sia anche orientato a cooperare con l'altro in situazioni di piccole difficoltà.
7.6 !"formati" di attenzione condivisa e i primi sviluppi della comunicazione gestuale e linguistica Nel corso di questo capitolo abbiamo visto come verso la fine del primo anno l'esperienza intersoggettiva del bambino si realizzi principalmente nella condivisione dell'attenzione e della comunicazione con l'adulto su oggetti/eventi del mondo esterno. In questo periodo, la forte motivazione del bambino a condividere le sue esperienze di scoperta e di interesse per ciò che osserva e vive in rapporto all'ambiente circostante moltiplica le possibilità di attenzione condivisa non solo nell'ambito del gioco con gli oggetti e del gioco sociale strutturato (paragrafo 6.5), ma anche in quello delle routine giornaliere (come, per esempio, quella del pasto) e di diversi altri momenti di vita quotidiana. Inoltre, lo sviluppo della comunicazione intenzionale, in particolare dei gesti comunicativi, e della capacità di seguire lo sguardo e i gesti dell'altro arricchisce i "formati" (Bruner, 1983) di attenzione condivisa di nuove possibilità. Per esempio, nel contesto del gioco con gli oggetti, la comparsa del gesto di mostrare un oggetto all'adulto tenendolo con la mano rialzata, vocalizzando e guardando l'adulto negli occhi, stimola quest'ultimo a produrre un breve commento sull'oggetto o a dirne il nome; la comparsa dei gesti di offrire e dare facilita lo sviluppo del gioco del "dare e prendere" in cui, tipicamente, quando il bambino dà all'adulto un oggetto quest'ultimo scandisce la parola "Grazie", fa un'eventuale os206
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servazione che contiene il nome dell'oggetto e poi lo ridà al piccolo, che ripete l'atto nuovamente, in attesa della risposta ritualizzata e del commento dell'adulto, per un numero di turni che rivela un'instancabile motivazione a coinvolgersi in questo tipo di scambio. Infine, la comparsa del gesto di indicare rende effettiva la realizzazione del gioco del "Dov'è?", nel quale l'adulto chiede con una particolare enfasi espressiva "Dov'è ... ?" una persona o un animale/oggetto (per esempio, il papà, il micio) e il bambino deve indicare nella direzione corretta, oppure domanda "Dov'è ... ?" (seguito dal nome di uno dei familiari presenti) e il piccolo deve di volta in volta indicare o guardare la persona nominata. Questi nuovi "formati" di attenzione condivisa in cui la ritualizzazione e la ripetizione degli atti facilita l'espressione e la comprensione delle intenzioni comunicative rappresentano tutti anche preziose occasioni di apprendimento linguistico per il bambino. Complessivamente, il processo intersoggettivo di attenzione condivisa gioca un ruolo fondamentale per l'iniziale comprensione- e anche produzione- di atti di referenza linguistica (Baldwin, 1995; Bruner, 1983, 1999), perché il mantenimento di un focus di attenzione comune o, comunque, la possibilità del bambino di percepire prontamente qual è il focus di attenzione dell'adulto facilita sensibilmente la sua comprensione della referenza, cioè l'individuazione dell'oggetto al quale si riferisce la parola usata dall'adulto. Questo legame tra le interazioni focalizzate sull'attenzione condivisa tra bambino e adulto e lo sviluppo del linguaggio del bambino è stato dimostrato empiricamente da alcuni studi. In particolare, è stato mostrato che una consistente presenza di attenzione condivisa già nell'interazione spontanea con la madre a 6 e a 8 mesi tende ad associarsi a un più elevato livello di sviluppo linguistico del bambino a 24 mesi (Saxon, Colombo, Robinson, Frick, 2000); che la capacità del bambino di seguire la direzione dell'attenzione della madre o di un altro interlocutore nella seconda metà del primo anno può predire la sua comprensione di parole a 12 mesi (Silvén, 2001) e il successivo sviluppo del linguaggio a 18 mesi (Brooks, Meltzoff, 2005); che la quantità di tempo trascorsa in "formati" di attenzione condivisa con la madre tra gli 11 e i 13 mesi tende a correlarsi positivamente alla comprensione di parole tra gli 11 e i 15 mesi (Carpenter et al., 1998), così come il tempo di attenzione condivisa nel periodo tra i 12 e i 18 mesi a correlarsi con la dimensione del vocabolario del bambino a 18 mesi (Tomasello, Todd, 1983 ). Naturalmente, nel processo di sviluppo della comunicazione referenziale appare fondamentale il modo in cui l'adulto introduce nuove 207
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parole o nuovi segmenti di linguaggio nei "formati" di attenzione condivisa, perché può renderne effettivamente più facile, o più difficile, l'acquisizione da parte del bambino. Nello specifico, è stato trovato che la sensibilità- contrapposta all'intrusività- verbale della madre (Baumwell, Tamis-LeMonda, Bornstein, 1997), la capacità di offrire commenti contingenti al comportamento del piccolo (Rollins, 2003) anche quando quest'ultimo non mostra consapevolezza della partecipazione dell'adulto al suo focus di attenzione (Trautman, Rollins, 2006), e la capacità di sintonizzarsi con gli stati affettivi del bambino (Nicely, Tamis-LeMonda, Bornstein, 1999) nell'interazione con quest'ultimo a 9 mesi possono predirne la comprensione del linguaggio nel corso del secondo anno. In particolare, la capacità della madre di commentare verbalmente il focus di attenzione del bambino nell'ambito dei "formati" di attenzione condivisa che si sviluppano tra i 9 e i 12 mesi è stata evidenziata come elemento fondamentale per la comprensione del linguaggio a partire dagli ultimi mesi del primo anno (Carpenter et al., 1998), la produzione linguistica nei mesi successivi (Carpenter et al., 1998) e l'ampiezza del vocabolario a 18 mesi (Tornasello, Todd, 1983). Questa capacità di responsività verbale sugli oggetti che costituiscono il focus di attenzione del bambino - in altre parole, la capacità di parlare al piccolo di ciò che in quel momento gli interessa- rappresenta un elemento di qualità che segna le differenze individuali nel modo in cui le diadi madre-bambino instaurano e mantengono le in terazioni focalizzate sulla condivisione dell'attenzione (per esempio, le madri depresse tendono a coinvolgersi meno delle madri non depresse su un focus d'attenzione del bambino, Goldsmith, Rogoff, 1997; Raver, Leadbeater, 1995). Per il bambino è infatti particolarmente importante che l'adulto partecipi affettivamente, anche con commenti verbali, alle sue nuove esperienze di scoperta di oggetti/eventi dell' ambiente circostante. Abbiamo visto che nell'esperienza intersoggettiva che si sviluppa verso la fine del primo anno il bambino ricerca attivamente, attraverso l'uso dei gesti comunicativi, il punto di vista dell' altro sugli oggetti/eventi che attraggono la sua attenzione, e mostra grande soddisfazione quando l'adulto condivide la sua esperienza traducendo in parole ciò che egli vede e vive in relazione al mondo esterno. La sintonizzazione affettiva dell'adulto e la sua vcrbalizzazione dell'esperienza del bambino comunicano a quest'ultimo che l'adulto ha compreso ciò che sta provando, e vi partecipa con affetto; inoltre, consentono di commentare un evento che il piccolo non è in grado di 208
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commentare da solo, e condividere significati che sono anche alla base dell'apprendimento linguistico del bambino (quest'ultimo può, per esempio, apprendere la parola che identifica l'oggetto d'interesse o l'azione vissuta). La condivisione di significati diviene spesso co-costruzione di significati nelle routine quotidiane e nei "formati" di gioco sociale che vedono protagonisti bambino e adulto (vedi paragrafo 6.5). Un bell'esempio di co-costruzione di significato nell'evoluzione del gioco del cucù ci è offerto dalle osservazioni di Bruner (1983) relative agli sviluppi del gioco della scomparsa-ricomparsa del clown di stoffa (vedi paragrafo 6.5) in una delle diadi madre-bambino da lui seguite. Bruner documenta che verso la fine del nono mese emerse una variante del gioco: la madre nascondeva dietro di sé un animale giocattolo e poi, durante l'interazione con il bambino, lo sorprendeva con un'improvvisa comparsa del giocattolo, segnata da un "Bu! ", a cui il piccolo rispondeva per la prima volta con un enunciato proprio, che manteneva costante nel significato di esprimere sorpresa eccitata per la comparsa. Dopo un altro mese, la madre iniziava a nascondere se stessa dietro una sedia, continuando a "marcare" le fasi della comparsa e della ricomparsa, rispettivamente, con un "Andato via!" e un "Bu! "; il bambino stava ad attendere divertito la sua ricomparsa, che salutava con il suo enunciato e gridolini di eccitazione, prima di distogliere lo sguardo. Dopo gli 11 mesi il bambino iniziò ad assumere il ruolo dell'agente nascondendo se stesso dietro la sedia, e a marcare la sua ricomparsa con un enunciato (un "Uuh!") molto simile al modello materno. Infine, prima di compiere i 12 mesi, quando uno dei ricercatori presenti si unì al gioco e poi scomparve, il piccolo gridò "Gone!" (''Andato via!"), testimoniando di aver imparato a condividere il significato dell'evento nella sua forma linguistica convenzionale. Questo esempio illustra come negli ultimi mesi del primo anno, nell'ambito di un "formato" di attenzione e azione condivisa, il bambino possa apprendere non solo un linguaggio deittico, ma anche forme linguistiche che divengono parte integrante del suo primo lessico, e modi convenzionali di procedere in un gioco, cioè convenzioni proprie della cultura di riferimento. Nello stesso periodo, una prima acquisizione di comportamenti culturali emerge con chiarezza anche dall'esperienza intersoggettiva che si sviluppa nelle routine giornaliere, quali quella del pasto, in cui il bambino condivide con l'adulto attenzione e intenzioni rispetto a oggetti e azioni proprie della cultura di riferimento, e impara a usare tali 209
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oggetti imitando le azioni del partner. Per esempio, un bambino di 12 mesi, dopo esser stato imboccato durante i pasti per alcune settimane, è in grado di usare il cucchiaio correttamente per prendere il cibo in autonomia. Al riguardo, è però interessante osservare che, quando la madre permette al bambino di tenere il cucchiaio con la sua manina, quest'ultimo tende a ricambiare il gesto materno dell'imboccare allungando il cucchiaio con il cibo verso la bocca della madre e aprendo la sua bocca proprio come la madre, inconsapevolmente, tende ad aprire la propria bocca quando allunga il cucchiaio con il cibo al bambino. Questo fenomeno di reciprocità, evidenziato da uno studio microanalitico di Bniten (1998b), suggerisce che anche l'apprendimento dell'uso degli oggetti si realizza nell'ambito di un processo circolare in cui la percezione partecipatoria (Bn1ten, 1998b) all'azione dell'altro invita a contraccambiare l'azione; in altre parole, nell'ambito della dinamica intersoggettiva di partecipazione all'esperienza dell'altro. In conclusione, negli ultimi mesi del primo anno di vita lo sviluppo cognitivo e la motivazione del bambino a partecipare all'esperienza dell' altro e a ricercare attivamente l'attenzione, le emozioni e i commenti dell'altro per condividere e arricchire la scoperta di oggetti/eventi del mondo esterno favoriscono l'affermarsi di una svolta "triadica" nello sviluppo dell'intersoggettività; una svolta, cioè, che include la prospettiva dell'altro nella relazione del bambino con l'ambiente circostante. E proprio quest'inclusione apre la possibilità di cooperare con l'altro nella creazione di un mondo di significati condivisi che è alla base dell' apprendimento culturale e linguistico del bambino.
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