THOMAS HARRIS HANNIBAL LECTER LE ORIGINI DEL MALE (Hannibal Rising, 2006) PROLOGO La porta del palazzo della memoria del...
65 downloads
899 Views
764KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
THOMAS HARRIS HANNIBAL LECTER LE ORIGINI DEL MALE (Hannibal Rising, 2006) PROLOGO La porta del palazzo della memoria del dottor Hannibal Lecter è immersa nel buio al centro della sua mente e ha una serratura che può essere trovata solo al tatto. Questo strano portale si apre su spazi immensi e ben illuminati, un po' barocchi, con corridoi e stanze che rivaleggiano per numero e varietà con quelle del museo Topkapi. Ci sono esposizioni ovunque, ben allestite e con le luci appropriate, ognuna collegata a ricordi che portano ad altri ricordi in una progressione geometrica. Gli spazi dedicati ai primi anni di Hannibal Lecter sono diversi dalle altre sale per la loro incompletezza. Vi sono scene statiche, frammentarie, come ceramiche attiche tenute insieme dallo stucco. Altre stanze racchiudono suoni e gesti, enormi serpenti che lottano e ondeggiano nell'oscurità, e si illuminano in lampi improvvisi. Suppliche e urla echeggiano in anfratti al pianterreno, dove lo stesso Hannibal non può andare. Ma nei corridoi non si odono grida, anzi, può esserci della musica. Il palazzo è una costruzione che ha avuto inizio presto, quando Hannibal era uno studente. Nei suoi anni d'isolamento lo ha reso più grande e più bello, e quei tesori lo hanno sostenuto per lunghi periodi, quando i guardiani gli negavano persino i suoi libri. Qui, nella calda oscurità della sua mente, cerchiamo insieme il chiavistello. Una volta che lo avremo trovato, seguiamo la musica nei corridoi e, senza guardare né a sinistra né a destra, andiamo alla Saia dell'Inizio, dove le esposizioni sono più frammentarie. Vi aggiungeremo quello che abbiamo appreso altrove, negli archivi di guerra e della polizia, dagli interrogatori e dalle indagini, dalle mute posture dei morti. Le lettere di Robert Lecter, scoperte di recente, ci possono aiutare a stabilire i dati significativi della vita di Hannibal, che alterò a piacimento le date per confondere le autorità e i suoi cronisti. Grazie ai nostri sforzi potremo vedere come la bestia che è dentro abbandoni il seno materno e, lavorando per emergere, appaia nel mondo.
Prima parte Questa è la prima cosa che ho capito: il tempo è l'eco di un'accetta nel legno. PHILIP LARKIN 1 Hannibal il Sanguinario (1365-1428) costruì il castello Lecter in cinque anni, utilizzando come operai i soldati che aveva catturato nella battaglia di Žalgiris. Il primo giorno che il suo stendardo sventolò dalle torri riunì i prigionieri nel cortile e, salendo sul patibolo per rivolgersi a loro, lasciò gli uomini liberi di tornarsene a casa, come aveva promesso. Molti di loro scelsero di rimanere al suo servizio, data la qualità del trattamento. Cinque secoli più tardi Hannibal Lecter, che aveva otto anni ed era l'ottavo della stirpe, se ne stava nell'orto con la sorellina Mischa e gettava pezzetti di pane ai cigni neri nell'acqua scura del fossato. Mischa si teneva aggrappata con una mano a quella di Hannibal e mancò il fossato per parecchi lanci. Grosse carpe guizzavano tra le ninfee e facevano volare via le libellule. Il cigno a capo dello stormo uscì dall'acqua, avanzando verso i bambini sulle sue corte zampe, lanciando sibili con tono di sfida. Conosceva Hannibal da sempre e tuttavia gli si mosse contro dispiegando le sue ali nere. «Oh, Anniba!» gemette Mischa nascondendosi dietro la sua gamba. Hannibal allargò le braccia all'altezza delle spalle come gli aveva insegnato suo padre, con un gesto reso più ampio dai rami di salice che teneva in mano. Il cigno si fermò a considerare la vasta apertura alare di Hannibal e si ritirò in acqua a cibarsi. «Ogni giorno è lo stesso» disse Hannibal all'uccello. Ma quello non era un giorno qualunque e lui si chiese dove i cigni potessero sparire. Nella sua eccitazione Mischa fece cadere il pane sul terreno bagnato. Quando Hannibal si fermò per aiutarla, lei si divertì a impiastricciargli il naso di fango con la sua manina. A sua volta lui le sporcò la punta del naso ed entrambi risero nel vedere i propri visi riflessi nell'acqua del fossato. I bimbi udirono tre colpi sordi nel terreno e l'acqua ebbe un fremito, confondendo l'immagine dei loro volti. Il rumore di esplosioni lontane arrivò dai campi intorno. Hannibal afferrò sua sorella e corse verso il castello. Il carro era in cortile, attaccato a Cesar, il grosso cavallo da tiro. Berndt
con il suo grembiule da stalliere e Lothar, il maggiordomo, misero tre piccoli bauli sul carro. Il cuoco portò fuori alcune provviste. «Padrone, la signora vi vuole in camera sua» disse. Hannibal affidò Mischa alla tata e corse su per le vecchie scale. Amava la stanza di sua madre, con tutti i profumi, i ritratti intagliati nella boiserie, i soffitti affrescati. La signora Lecter era per metà una Sforza e per metà una Visconti, e si era portata dietro quella camera da Milano. Era eccitata e i suoi vividi occhi scuri riflettevano la luce in mille scintille rossastre. Hannibal sorresse lo scrigno mentre lei premeva le labbra di un cherubino nella modanatura e apriva uno scomparto nascosto. Mise i gioielli nello scrigno e vi aggiunse alcune lettere legate in un fascio; non c'era posto per tutte. Hannibal pensò che sua madre assomigliava al ritratto della nonna nel cammeo che era finito nello scrigno. Nuvole dipinte sul soffitto. Quando era in fasce apriva gli occhi e vedeva il petto di sua madre circondato dalle nuvole. La sensazione dei lembi della sua camicetta contro il viso. Anche la nutrice... la sua croce d'oro splendeva come il sole tra fantastiche nuvole e premeva contro la sua guancia quando lo teneva in braccio, poi lei gli sfregava la pelle per togliervi il segno della croce prima che la signora potesse vederlo. Ma suo padre adesso era sulla porta, e teneva dei registri in mano. «Simonetta, dobbiamo andare.» La biancheria della bambina era impacchettata nella piccola vasca da bagno di rame di Mischa e la signora vi pose in mezzo lo scrigno. Si guardò intorno nella stanza, prese un piccolo dipinto di Venezia dal suo supporto sulla credenza, ci pensò un attimo e lo diede a Hannibal. «Portalo al cuoco reggendolo per la cornice» disse sorridendogli. «E senza sporcare il retro.» Lothar portò la vasca da bagno fuori, al carro in cortile, dove Mischa si agitava, a disagio per il subbuglio che sentiva intorno. Hannibal sollevò la sorellina all'altezza del muso di Cesar e lei diede qualche pizzicotto al muso del cavallo per vedere se avrebbe nitrito. Hannibal prese in mano dei chicchi e li usò per disegnare una "M" sul terreno dei cortile. I piccioni vi volarono sopra, formando a loro volta una "M" vivente. Hannibal tracciò la lettera sul palmo di Mischa: aveva quasi tre anni e lui disperava che avrebbe mai imparare a leggere. «"M" per Mischa!» disse. Lei corse ridendo in mezzo agli uccelli ed essi le volarono intorno, facendo cerchi tra le torri, fino al campanile.
Il cuoco, un omone in tenuta bianca da cucina, era uscito nel cortile con altre provviste. Il cavallo girò un occhio verso di lui e seguì con l'orecchio i suoi movimenti: quando Cesar era un puledro, il cuoco lo aveva buttato fuori più di una volta dall'orto bestemmiando e dandogli gran colpi di scopa sulla groppa. «Rimango qui ad aiutarti a sistemare la cucina» disse il signor Jakov al cuoco. «Va' con il ragazzo» ribatté lui. Il conte Lecter fece salire Mischa sul carro e Hannibal la circondò con le braccia. Il conte prese il viso del figlio tra le mani. Sorpreso dal loro tremore, Hannibal guardò dritto negli occhi di suo padre. «Tre aeroplani hanno bombardato la ferrovia. Il colonnello Timka dice che passerà almeno una settimana, ammesso che arrivino, e poi vi saranno combattimenti lungo le strade principali. Al casino di caccia saremo al sicuro.» Era il secondo giorno dell'Operazione Barbarossa, il grande attacco attraverso l'Europa orientale per l'invasione dell'Unione Sovietica. 2 Berndt camminava davanti al carro lungo il sentiero nella foresta, attento al muso del cavallo, e si apriva un varco tra i rami con una roncola. Il signor Jakov seguiva su una giumenta, con le bisacce piene di libri. Non era abituato a stare in sella e si teneva aggrappato al collo del cavallo mentre passava sotto le fronde. Talvolta, quando il sentiero si faceva ripido, smontava per spingere il carro insieme a Lothar, a Berndt e allo stesso conte Lecter. I rami si richiudevano al loro passaggio nascondendo nuovamente il sentiero. Hannibal sentiva l'odore del fogliame schiacciato dalle ruote e il profumo caldo dei capelli di Mischa sotto il mento mentre lei gli stava seduta in grembo. Guardò i bombardieri tedeschi passare alti sopra le loro teste. Le scie di fumo degli aerei sembravano formare uno spartito e Hannibal canticchiò a bocca chiusa alla sorella le note che gli sbuffi neri della contraerea disegnavano nel cielo. Non era una musica piacevole. «No» disse Mischa. «Anniba, canta Das Männlein!» E insieme intonarono la storia del misterioso ometto dei boschi, mentre la tata si univa a loro sul carro traballante e il signor Jakov cantava stando in sella, per quanto preferisse non farlo in tedesco.
Ein Männlein steht im Walde ganz still und stumm, Es hat von lauter Purpur ein Mäntlein um. Sagt, wer mag das Männlein sein Das da steht im Walde allein Mit dem purporroten Mäntelein? Nel bosco c'è un ometto gentile e bel, di rosso ha il giubbetto ed il mantel. Chi lo sa chi sia l'ometto che nel bosco sta solo soletto con quel grazioso mantelletto? Due lunghe ore di viaggio li condussero a una radura in mezzo alla fitta vegetazione. In oltre trecento anni il casino di caccia si era trasformato da un mero rifugio a un confortevole alloggio nella foresta, in legno e muratura, con il tetto spiovente per far cadere la neve. C'era una piccola stalla con due box e una baracca annessa, e sul retro una latrina vittoriana elaboratamente intarsiata, il cui tetto era appena visibile al di sopra della siepe. Nelle fondamenta dell'edificio si potevano ancora vedere le pietre di un altare edificato nel Medioevo da una popolazione che venerava la biscia. E in quel momento Hannibal vide proprio una biscia strisciare via da quel posto antico, mentre Lothar tagliava alcuni tralci di vite in modo che la tata potesse aprire le finestre. Il conte Lecter passò le mani sulla groppa del cavallo mentre l'animale beveva i suoi sei litri d'acqua dal secchio del pozzo. «Il cuoco avrà finito di impacchettare la roba in cucina per quando sarai tornato indietro, Berndt. Cesar può riposare qui, per questa notte, mentre tu e il cuoco vi rimetterete in cammino non oltre le prime luci. Voglio che sgombriate il castello entro la mattinata.» Vladis Grutas entrò nel cortile del castello Lecter con la sua espressione migliore, controllando le finestre mentre arrivava. Fece un saluto con la mano dicendo: «Salve!». Grutas era snello, vestito in abiti civili, con i capelli di un biondo slavato e gli occhi di un azzurro così pallido che sembravano dischi di un cielo vuoto. Chiamò: «Ehi, di casa!». Non ottenendo risposta entrò in cucina,
dove trovò casse di viveri impacchettate sul pavimento. Infilò furtivamente del caffè e dello zucchero nello zaino. La porta della cantina era aperta. Guardò giù dalle scale e vide una luce. Violare la tana di un'altra creatura è il più antico tabù. Sotto certi aspetti, introdurvisi provoca una strana sensazione d'eccitamento, come stava succedendo a lui adesso. Grutas scese le scale nell'aria fresca dei sotterranei con il soffitto a volta del castello. Scrutò attraverso un'arcata e si accorse che la grata di ferro a protezione della cantina era aperta. Un fruscio. Grutas vide scaffali pieni di bottiglie di vino etichettate, alti fino al soffitto, e la grande ombra scura del cuoco che si muoveva nella stanza alla luce di due lanterne. Appoggiati sul tavolo da degustazione al centro della stanza c'erano degli involti di forma squadrata, insieme a un unico piccolo dipinto in una cornice elaborata. Grutas digrignò i denti quando quel gran bastardo del cuoco gli apparve alla vista, l'ampia schiena rivolta verso la porta mentre lavorava chino sul tavolo. Si sentiva il fruscio della carta. Grutas si appiattì contro il muro all'ombra degli scalini. Il cuoco avvolse il quadro e lo legò con dello spago, facendo un pacco simile agli altri. Con una lanterna in una mano allungò il braccio e tirò un lampadario di ferro che pendeva sopra il tavolo. Si udì un clic e in fondo alla cantina l'estremità di uno scaffale oscillò scostandosi di qualche centimetro dalla parete. Il cuoco spostò ulteriormente lo scaffale dal muro con un cigolio di cardini. Dietro c'era una porta. Entrò nella stanza che si nascondeva al di là e vi appese una delle lanterne. Poi iniziò a portare i pacchi all'interno. Mentre riaccostava lo scaffale per richiudere, sempre con la schiena rivolta alla porta, Grutas cominciò a risalire gli scalini. In quel momento udì uno sparo all'esterno e subito dopo la voce del cuoco sotto di lui: «Chi è là?». L'uomo gli arrivò dietro per le scale, velocemente per uno della sua stazza. «Fermo! Non avresti mai dovuto venire qui.» Grutas attraversò di corsa la cucina e il cortile, facendo cenni con le mani e fischiando. Il cuoco afferrò un bastone da un angolo e corse attraverso la cucina in direzione del cortile, quando vide sulla porta una sagoma dall'inconfondibile elmetto e tre paracadutisti tedeschi armati di mitra irruppero nella
stanza. Grutas era dietro di loro. «Ciao, vecchio mio» disse al cuoco. Prese un prosciutto salato da una cassa sul pavimento. «Mettilo giù» disse il caporale tedesco, puntando la sua arma contro Grutas come aveva fatto con il cuoco. «Fuori, con la pattuglia.» La via del ritorno verso il castello era più agevole; Berndt viaggiava comodo con il carro vuoto e avvolse le redini intorno ai braccio mentre accendeva la pipa. Avvicinandosi al margine della foresta pensò di vedere una grossa cicogna che se ne volava via dalla cima di un albero. Quando fu più vicino si rese conto che quel biancore svolazzante era il tessuto di un paracadute impigliato nei rami, con le corde tagliate. Berndt si fermò. Posò la pipa e scese dal carro. Mise la mano sul muso di Cesar e gli parlò dolcemente nell'orecchio. Poi continuò a piedi, cauto. Appeso a un ramo più basso c'era un uomo in modesti abiti civili, impiccato da poco con un cappio di metallo che gli aveva quasi fagliato il collo. La sua faccia era livida, gli stivali infangati pendevano a circa venti centimetri da terra. Berndt ritornò in fretta al carro, cercando un posto per fare marcia indietro lungo il sentiero, mentre i suoi stessi stivali gli apparivano strani vedendoli procedere sul terreno sconnesso. In quel momento balzarono fuori dagli alberi tre soldati tedeschi al comando di un sergente e sei uomini in abiti civili. Il sergente si fermò un attimo a pensare e armò il mitra. Berndt riconobbe uno dei civili. «Grutas» mormorò. «Berndt. Il buon Berndt, che ha sempre fatto il bravo» disse Grutas. Andò verso di lui con un sorriso apparentemente amichevole. «Può mettersi alla guida del carro» propose al sergente tedesco. «Forse è un tuo amico» ribatté lui. «Forse no» disse Grutas, e sputò in faccia a Berndt. «Ho impiccato l'altro, no? Conoscevo anche lui. Perché dovremmo andare a piedi?» E aggiunse piano: «Gli sparo al castello, se mi ridate la pistola». 3 Il Blitzkrieg, la guerra lampo di Hitler, fu più veloce di quanto chiunque avesse potuto immaginare. Al castello, Berndt trovò una compagnia della divisione Totenkopf, delle Waffen-SS. Due carri armati Panzer erano parcheggiati vicino al fossato con un cannone anticarro e alcuni mezzi cingo-
lati. Il giardiniere Ernst giaceva a faccia in giù nel cortile davanti alla cucina con dei mosconi sulla testa. Berndt lo vide dal carro, sul quale viaggiavano solo i tedeschi, mentre Grutas e gli altri dovevano camminare dietro. Erano soltanto Hilfswillige o, più brevemente, Hiwis, gente del luogo che collaborava con i nazisti invasori. Berndt vide due soldati su una torre del castello amainare il vessillo dei Lecter con il cinghiale e issare al suo posto un'antenna radio e una bandiera con la svastica. Un maggiore, che indossava la divisa nera delle SS con il teschio della divisione Totenkopf sulle mostrine, uscì dal castello per esaminare Cesar. «Bello, ma è troppo grosso da montare» disse con rammarico: aveva portato pantaloni da equitazione e speroni per farsi qualche cavalcata. L'altro cavallo sarebbe andato bene. Dietro di lui uscirono dalla casa due soldati, trascinando a forza il cuoco. «Dov'è la famiglia?» «A Londra, signore» disse Berndt. «Posso coprire il corpo di Ernst?» Il maggiore fece segno al sergente, che puntò il suo Schmeisser sotto il mento di Berndt. «E chi coprirà il tuo? Senti l'odore della canna. Fuma ancora. Può far saltare anche il tuo stupido cervello» disse il maggiore. «Dov'è la famiglia?» Berndt deglutì. «Fuggita a Londra, signore.» «Sei ebreo?» «No.» «Zingaro?» «No, signore.» L'ufficiale tedesco indirizzò lo sguardo verso un fascio di lettere su una scrivania. «C'è posta per un certo Jakov. Sei tu l'ebreo Jakov?» «È un precettore, signore, se n'è andato via già da tempo.» Il maggiore esaminò i lobi delle orecchie di Berndt per controllare se erano forati. «Mostra il cazzo al sergente.» Poi aggiunse: «Devo ucciderti o collaborerai?». «Signore, questa gente si conosce tutta» disse il sergente. «Davvero? Forse si piacciono tutti.» Si girò verso Grutas. «Forse la tua passione per questi contadini è maggiore di quella che provi per noi, vero, Hiwis?» Il maggiore si girò verso il sergente. «Pensi che abbiamo davvero
bisogno di loro?» Il sergente puntò l'arma contro Grutas e i suoi uomini. «Il cuoco è un ebreo» disse Grutas. «Ecco un'informazione utile: fatelo cucinare per voi e sarete morti entro un'ora per un veleno ebreo.» Spinse avanti uno dei suoi uomini. «Guardapentola, qui, può cucinare, cercare da mangiare e fare anche il soldato.» Grutas andò verso il centro del cortile, muovendosi piano, il mitra del sergente sempre puntato contro di lui. «Maggiore, lei porta l'anello e le cicatrici di Heidelberg. Qui si è fatta la storia, del genere che piace a lei. Questa è la Ravenstone di Hannibal il Sanguinario, vi sono caduti alcuni dei più valorosi Cavalieri Teutonici. Non è ora di lavare questa pietra con del sangue ebreo?» L'ufficiale alzò le sopracciglia. «Se vuoi diventare un'SS, dimostraci di meritarlo.» Fece segno al sergente, che estrasse la pistola dalla fondina. Tolse tutti i proiettili tranne uno e la porse a Grutas. Due soldati trascinarono il cuoco alla Ravenstone. Il maggiore sembrava più interessato a esaminare il cavallo. Grutas puntò la pistola alla testa del cuoco e attese, volendo che il maggiore lo guardasse. Il cuoco gli sputò addosso. Allo sparo, le rondini si alzarono in volo dalla torre. Berndt fu messo a spostare mobili per l'alloggio degli ufficiali al piano di sopra. Controllò di non essersi pisciato addosso. Poteva sentire l'operatore radio in una stanzetta sotto la grondaia, ma la trasmissione era disturbata. L'operatore corse giù per le scale con un blocco in mano e tornò un attimo dopo per smontare il suo equipaggiamento. Si stavano muovendo verso est. Da una finestra Berndt vide l'unità delle SS passare una radio portatile dal Panzer alla piccola guarnigione che si stava lasciando alle spalle. Grutas e il suo squallido gruppetto di civili, riforniti di armi tedesche, portarono fuori ogni cosa dalla cucina e impilarono i viveri sul pianale di un camion semicingolato con del personale di supporto. Le truppe montarono sui loro veicoli. Grutas corse dal castello per raggiungerli. L'unità si mosse verso la Russia, portando Grutas e gli altri Hiwis. A quanto pareva, si erano dimenticati di Berndt. Una squadra di Panzergrenadier, con una mitragliatrice e la radio, venne lasciata al castello. Berndt aspettò nella latrina della vecchia torre fino a quando si fece buio. La piccola guarnigione tedesca al completo mangiava in cucina, con una sentinella appostata nel cortile. Avevano anche trovato
dei superalcolici in un ripostiglio. Berndt uscì dalla latrina della torre, ringraziando che i pavimenti di pietra non scricchiolassero. Guardò nella stanza della signora. La radio stava sulla scrivania, le bottigliette di profumo erano state buttate sul pavimento. Berndt fissò l'apparecchiatura, pensando a Ernst morto nel cortile davanti alla cucina e al cuoco che sputava contro Grutas nel suo gesto estremo. Scivolando nella stanza sentì di doversi scusare con la signora per l'intrusione. Scese scalzo lungo le scale di servizio portando gli stivali e la radio con il generatore e sgusciò fuori da un'uscita nascosta. La radio e il generatore pesavano parecchio, più di venti chili. Berndt li portò sulle spalle nei boschi e li nascose. Si dispiacque di non aver potuto prendere con sé il cavallo. Il crepuscolo e la luce del caminetto riverberavano sul legno dipinto del casino di caccia, luccicando negli occhi impolverati degli animali da trofeo mentre la famiglia era riunita intorno al camino. Le teste degli animali erano vecchie e spelacchiate a furia di essere toccate da generazioni di bambini che le raggiungevano dalla ringhiera del pianerottolo superiore. La tata aveva messo la vasca da bagno di rame di Mischa in un angolo del focolare. Aggiunse dell'acqua da una pentola per aggiustare la temperatura, fece la schiuma con il sapone e vi infilò dentro Mischa. La bimba batté felice le mani giocando con la schiuma, mentre la tata prendeva degli asciugamani per scaldarli davanti al fuoco. Hannibal tolse il braccialetto dal polso della sorella, lo immerse nella schiuma e, soffiandoci dentro, fece delle bolle di sapone per lei. Le bolle, nel loro breve volo, riflettevano ogni volto prima di rompersi sopra il fuoco. A Mischa piaceva afferrarle, ma voleva indietro il suo braccialetto e non fu contenta finché non lo riebbe. La madre di Hannibal suonava un contrappunto barocco a un piccolo pianoforte. Una musica sottile, le finestre coperte da tendaggi al calar della notte e le nere ali della foresta chiuse intorno a loro. Berndt arrivò, esausto, e la musica si fermò. Le lacrime rigarono il volto del conte Lecter mentre ascoltava il racconto dello stalliere. La madre di Hannibal prese la mano di Berndt e la strinse tra le sue. I tedeschi cominciarono subito a chiamare la Lituania "Ostland", i Territori orientali, una colonia minore che nei tempo avrebbe potuto essere ripopolata dagli ariani dopo aver liquidato le razze inferiori slave. Le truppe
tedesche dilagavano nelle strade, i treni tedeschi correvano lungo i binari per trasportare l'artiglieria verso est. I cacciabombardieri sovietici attaccavano a volo radente. I grandi bombardieri Ilyušin colpivano le colonne cercando di evitare il fuoco dei pesanti cannoni antiaerei montati sui treni. I cigni neri volarono più in alto che poterono: erano quattro, in formazione, con i colli allungati, in rotta verso sud, il rombo degli aerei sopra di loro all'alba. Uno scoppio d'artiglieria e il cigno a capo dello stormo ebbe un sussulto e cominciò a precipitare, con gli altri uccelli che volteggiavano in discesa, perdendo quota in grandi cerchi. Il cigno ferito si abbatté pesantemente in un campo aperto e non si mosse. La sua compagna gli atterrò accanto, lo colpì con il becco, gli girò intorno con grandi strida. Ma non si mosse. Una raffica di colpi echeggiò nel campo e si vide la fanteria russa muoversi tra gli alberi al limitare del prato. Un Panzer tedesco oltrepassò un fosso e si avvicinò attraverso il prato, puntando il cannone tra gli alberi. Il cigno aprì le ali e rimase sul terreno sopra il compagno, anche se il carro armato era più largo delle sue ali distese e benché il motore facesse più rumore del suo cuore che batteva all'impazzata. Rimase sul compagno sibilando, colpendo fino all'ultimo il carro con il battere delle sue ali, finché il Panzer passò sopra di loro, indifferente, trascinandosi dietro una poltiglia di carne e piume. 4 La famiglia Lecter sopravvisse nei boschi per tutti i terribili tre armi e mezzo della campagna orientale di Hitler. Il lungo sentiero nella foresta che portava al casino di caccia era coperto di neve in inverno e di erbacce in primavera, e i terreni paludosi d'estate erano troppo insidiosi per i carri armati. Il casino di caccia era ben rifornito di farina e zucchero per sopravvivere durante il primo inverno, ma soprattutto disponeva di sale in abbondanza. Nel secondo inverno incapparono in un cavallo morto e congelato. Riuscirono a squartarlo con le asce e a salarne le carni. Misero sotto sale anche delle trote e delle pernici. Talvolta uomini in abiti civili uscivano dalla foresta nella notte, quieti come ombre. Il conte Lecter e Berndt parlavano con loro in lituano e una
volta portarono un ferito con la camicia inzuppata di sangue, che morì su un pagliericcio nell'angolo mentre la tata gli asciugava la faccia con uno straccio. Ogni giorno, quando c'era troppa neve per andare in cerca di cibo, il signor Jakov faceva lezione. Insegnava inglese e un pessimo francese, storia romana con particolare attenzione all'assedio di Gerusalemme, e tutti assistevano. Era in grado di trarre incredibili racconti dai fatti storici e dalle pagine del Vecchio Testamento, arricchendoli talvolta per il suo pubblico al di là dei rigidi confini dell'insegnamento scolastico. Diede separatamente a Hannibal lezioni di matematica, dato che le sue cognizioni avevano raggiunto un livello inaccessibile per gli altri. Tra i libri del signor Jakov c'era una copia rilegata in pelle del Trattato sulla luce di Christiaan Huygens. Hannibal ne era affascinato, seguiva il percorso mentale di Huygens come se lo sentisse tendersi verso la scoperta. Associava il Trattato con il riverbero della neve e i riflessi iridati sui vecchi vetri delle finestre. L'eleganza del pensiero di Huygens era come la nitidezza dei paesaggi invernali, o la struttura delle foglie. Una scatola che si apre con un clic e, dentro, ecco un principio che funziona in tutti i casi. Era ogni volta un'emozione palpitante, e lui l'aveva provata fin da quando aveva cominciato a leggere. Hannibal Lecter leggeva in continuazione, o almeno così sembrava alla tata. Lei aveva letto per lui per un breve periodo quando aveva due armi, spesso da un libro dei fratelli Grimm illustrato con delle incisioni, su cui tutti avevano lasciato le impronte. Hannibal ascoltava, con la festa inclinata verso di lei mentre guardava le parole sulla pagina; finché lei lo aveva scoperto a leggere per conto suo: premeva la fronte sul libro e poi la spostava alla giusta distanza, per leggere a voce alta con l'accento della tata. Il padre di Hannibal aveva una qualità peculiare: la curiosità. Questa caratteristica lo spìnse a chiedere al maggiordomo di tirare giù dalla biblioteca del castello i pesanti dizionari per il figlio. Erano quelli di inglese e tedesco, oltre ai ventitré volumi del dizionario lituano; da allora Hannibal passò tutto il tempo con i libri. Quando ebbe sei anni, gli accaddero tre cose importanti. Dapprima scoprì gli Elementi di Euclide, in una vecchia edizione con illustrazioni fatte a mano. Poteva seguirle con il dito e appoggiarci la fronte sopra. Quell'autunno gli nacque una sorellina, Mischa. Assomigliava a uno scoiattolino grinzoso, e Hannibal rifletté che era un peccato che non avesse
ereditato la bellezza di sua madre. Usurpato su tutti i fronti, pensò come sarebbe stato bello se l'aquila che talvolta volava alta sul castello avesse potuto ghermire la sorella e portarla in qualche paese felice in una regione lontana, dove tutti gli abitanti sembravano scoiattoli e lei si sarebbe sentita a suo agio. Nel contempo scoprì che non riusciva a fare a meno di amarla, e quando lei raggiunse l'età in cui poteva avvertire il senso della meraviglia, volle mostrarle delle cose e farle provare l'emozione della scoperta. Quando Hannibal aveva sei anni, il conte Lecter trovò il figlio intento a calcolare l'altezza delle torri del castello in base alla lunghezza della loro ombra, seguendo istruzioni che diceva di aver imparato da Euclide stesso. Il conte Lecter allora volle migliorare il livello dei suoi precettori... ed ecco che nel giro di sei settimane arrivò il signor Jakov, uno studente squattrinato di Lipsia. Il conte Lecter presentò il signor Jakov al suo alunno nella biblioteca e li lasciò soli. Nella bella stagione la stanza conservava un odore di fumo freddo che era parte integrante della pietra del castello. «Mio padre dice che lei m'insegnerà molte cose.» «Se vuoi imparare molte cose, ti posso aiutare.» «Dice che lei è un grande studioso.» «Sono uno studente.» «Mio padre ha detto a mia madre che lei è stato espulso dall'università.» «Sì.» «Perché?» «Perché sono un ebreo. Un ebreo askenazita, per la precisione.» «Capisco. È infelice?» «Di essere ebreo? No, sono felice.» «Intendo dire se si sente infelice di essere fuori dalla scuola.» «Sono contento di essere qui.» «Si chiede se valgo il suo tempo?» «Ogni individuo vale il tuo tempo, Hannibal. Anche se di primo acchito una persona sembra stupida, guarda meglio, guardale dentro.» «L'hanno messa in una stanza con una grata di ferro sulla porta?» «Sì.» «Non chiude più.» «L'ho notato con piacere.» «È dove tenevano lo zio Elgar» disse Hannibal, allineando le sue penne in fila di fronte a sé. «Era nel 1880, tanto tempo fa. Guardi la finestra nella
sua stanza: c'è una data che è stata incisa con un diamante sul vetro. Questi sono i suoi libri.» Una fila di giganteschi volumi in pelle occupava un intero scaffale. L'ultimo era carbonizzato. «La stanza avrà odore di bruciato, quando piove. I muri erano stati protetti con balle di fieno per attutire i suoi sfoghi» «Hai detto sfoghi?» «Avevano a che fare con la religione, ma... sa cosa significa osceno oppure oscenità?» «Sì.» «Non sono sicuro di averlo ben chiaro, ma credo significhi un genere di cose da non dire davanti a mia madre.» «È quello che intendo anch'io» concordò il signor Jakov. «Se guarda la data sul vetro, è esattamente il giorno in cui la luce del sole raggiunge direttamente la finestra ogni anno.» «Aspettava il sole.» «Si, ed è il giorno in cui è bruciato quassù. Appena arrivò la luce, diede fuoco alla paglia utilizzando il monocolo che portava quando scriveva questi libri.» Hannibal più tardi fece conoscere il castello Lecter al suo precettore con un giro dei sotterranei. Passarono attraverso il cortile, con il suo grosso blocco in pietra. Un anello di metallo era incastonato nella pietra e sopra la cima piatta c'era il segno di un'ascia. «Tuo padre mi ha detto che hai misurato l'altezza delle torri.» «Sì.» «Quanto sono alte?» «Quaranta metri quella a sud, mentre l'altra è mezzo metro più bassa.» «Che cosa hai utilizzato come gnomone?» «La pietra. Misurando l'altezza della pietra e la sua ombra e misurando l'ombra del castello alla stessa ora.» «Il lato della pietra non è perfettamente verticale.» «Ho usato il mio yo-yo come filo a piombo.» «Hai effettuato le due misurazioni nello stesso momento?» «No, signor Jakov.» «Quale margine di errore ci può essere per il tempo intercorso fra le due misurazioni?» «Un grado ogni quattro minuti, dato che la terra gira. È chiamata Ravenstone, la tata la chiama Rabenstein. Le è stato proibito di farmici sedere
sopra.» «Capisco» disse il signor Jakov. «Ha un'ombra più lunga di quanto pensassi.» Presero l'abitudine di discutere mentre camminavano, e Hannibal, muovendosi al suo fianco, guardava il precettore che si sforzava per parlare con qualcuno più basso di lui. Spesso il signor Jakov girava la testa di lato e parlava all'aria, come dimentico del fatto che si stava rivolgendo a un bambino. Hannibal si chiese se gli mancava passeggiare e chiacchierare con una persona della sua età. Hannibal era interessato a vedere come si comportava il signor Jakov con Lothar, il maggiordomo, e con Berndt, lo stalliere. Erano uomini spicci e piuttosto astuti, bravi nei rispettivi lavori, ma il loro era un diverso ordine mentale. Hannibal notò che il signor Jakov non si sforzava di nascondere il proprio ingegno né di metterlo in mostra, ma non ne approfittava mai con nessuno. Nel suo tempo libero insegnava loro a fare rilevamenti con un telescopio improvvisato. Mangiava con il cuoco, al quale riuscì a estorcere un po' di yiddish, con gran sorpresa della famiglia. I pezzi di un'antica catapulta usata da Hannibal il Sanguinario contro i Cavalieri Teutonici erano stati sistemati in un granaio della proprietà, e per il compleanno di Hannibal il signor Jakov, Lothar e Berndt rimontarono la catapulta, sostituendo il braccio armato con un pezzo di legno nuovo. Con essa lanciarono un barilotto d'acqua più in alto del castello, mandandolo a cadere sulla riva lontana del fossato con una fantastica esplosione che fece volar via i trampolieri. Quella settimana, Hannibal provò il più grande piacere della sua infanzia. Per festeggiare il suo compleanno, il signor Jakov gli fece una dimostrazione non matematica del teorema di Pitagora, usando delle piastrelle e la loro impronta su un letto di sabbia. Hannibal osservò, vi camminò intorno. Il signor Jakov tolse una delle piastrelle e alzò le sopracciglia, chiedendo a Hannibal se volesse vedere di nuovo la dimostrazione. E Hannibal capì. Ci arrivò con un impeto tale che sembrava fosse stato lanciato dalla catapulta. Il signor Jakov introduceva di rado un libro di testo nelle loro discussioni, e di rado vi si riferiva. All'età di otto armi, Hannibal gli chiese perché. «Vorresti ricordare tutto?» disse il signor Jakov. «Sì.» «Ricordare non è sempre una benedizione.»
«Vorrei ricordare tutto.» «Allora avrai bisogno di un palazzo della memoria, per metterci dentro ogni cosa. Un palazzo nella tua mente.» «Deve proprio essere un palazzo?» «Crescerà fino a diventare enorme come un palazzo» disse il signor Jakov. «Così, dovrà anche essere bello. Qual è la stanza più bella che conosci, un posto che conosci molto bene?» «La stanza di mia madre» rispose Hannibal. «Allora, cominceremo da lì» disse il signor Jakov. Due volte Hannibal e il signor Jakov osservarono il sole toccare le finestre di zio Elgar in primavera, ma il terzo anno si stavano nascondendo nei boschi. 5 Inverno 1944-45 Quando il fronte orientale crollò, l'Armata Rossa dilagò come lava attraverso l'Europa, lasciandosi dietro un paesaggio di ceneri e fumo, carestia e morte. Dall'Est e dal Sud i russi arrivarono su fino al mar Baltico dal terzo e dal secondo fronte bielorusso, preceduti dalle unità in ritirata delle Waffen-SS che tentavano di raggiungere la costa nella speranza di essere evacuate in Danimarca. Era la fine delle ambizioni degli Hiwis. Dopo aver fedelmente servito i loro padroni nazisti saccheggiando e sparando a ebrei e zingari, nessuno di loro era riuscito a entrare a far parte delle SS. Venivano chiamati. Osttruppen, "Truppe orientali", ed erano a malapena considerati soldati. A migliaia vennero inquadrati in battaglioni di sussistenza e costretti a lavori talmente duri da morirne. Ma alcuni disertarono e si misero in proprio... Una bella fattoria lituana vicino al confine polacco, aperta come una casa di bambola su un lato, dove un colpo d'artiglieria aveva fatto crollare il muro. La famiglia, precipitata insieme al pavimento con il primo scoppio e uccisa dal secondo, era morta nella cucina del pianterreno. Corpi di soldati tedeschi e russi giacevano nel giardino. Un veicolo tedesco era rovesciato su un fianco, sventrato da una granata. Un maggiore delle SS era adagiato su un divano di fronte al caminetto
del soggiorno, con dei sangue rappreso sui pantaloni. Il suo sergente prese una coperta da un letto e gliela mise sopra, poi accese il fuoco, ma la stanza aveva per tetto il cielo. Tolse gli stivali al maggiore e le dita dei piedi erano nere. Quando udì un rumore all'esterno, il sergente prese il fucile e andò alla finestra. Un'ambulanza semicingolata, un veicolo di fabbricazione russa tipo ZiS 44 ma con il simbolo della Croce Rossa Internazionale, avanzava rumorosamente sulla ghiaia del viale. Grutas ne uscì per primo, in divisa bianca. «Siamo svizzeri. Avete dei feriti? Quanti siete?» Il sergente guardò al di sopra della spalla. «Medici, maggiore. Volete andare con loro, signore?» L'ufficiale annuì. Grutas e Dortlich, più alto di una spanna, tirarono fuori una barella dal semicingolato. Il sergente uscì per parlare con loro. «Fate piano con lui, è stato colpito alle gambe. Ha i piedi congelati, forse è in cancrena. Avete un ospedale da campo?» «Sì, certo, ma posso operare qui» rispose Grutas, e gli sparò due colpi al petto, facendo volare via la polvere dall'uniforme. Le gambe dell'uomo si afflosciarono, Grutas gli passò sopra varcando la porta d'ingresso e sparò al maggiore attraverso la coperta. Milko, Kolnas e Grentz si ammassarono fuori dal semicingolato. Indossavano un misto di uniformi della polizia e dei sanitari lituani, del corpo medico estone, della Croce Rossa, e tutti portavano il distintivo medico su una fascia ai braccio. Bisogna chinarsi spesso per spogliare i morti: quegli sciacalli si lamentarono per lo sforzo, mentre saccheggiavano i portafogli. Il maggiore era ancora vivo e alzò la mano verso Milko, che gli sfilò l'orologio dal polso e se lo infilò in tasca. Grutas e Dortlich portarono fuori dalla casa un tappeto arrotolato e lo buttarono dentro il loro semicingolato. Misero la barella di tela per terra e vi ammassarono sopra orologi, occhiali d'oro, anelli. Un carro armato uscì dai bosco: era un T-34 russo con mimetizzazione invernale. Aveva il cannone puntato verso il campo e il comandante era in piedi nella torretta. Un uomo che era nascosto in un capanno dietro la fattoria uscì dal nascondiglio e corse attraverso il campo verso gli alberi, portando fra le braccia una pendola di bronzo dorato e saltando sopra i corpi. La mitra-
gliatrice del carro sparò una raffica e il ladro cadde ruzzolando in avanti, il viso devastato così come la pendola. Il suo cuore e l'orologio batterono ancora un colpo e si fermarono. «Prendi un corpo!» ordinò Grutas. Gettarono un cadavere in cima al bottino sulla barella. La torretta del carro armato ruotò verso di loro. Grutas sventolò la bandiera bianca e indicò il simbolo della Croce Rossa sul semicingolato. Il carro armato si allontanò. Un ultimo sguardo alla casa. Il maggiore era ancora vivo. Si aggrappò alla gamba di Grutas mentre passava, e non voleva più lasciarla. Grutas si chinò su di lui e gli afferrò le mostrine sul colletto. «Avremmo dovuto ottenere questi teschi» disse. «Magari i vermi ne tireranno fuori uno nella tua faccia.» Sparò al maggiore nel petto. L'ufficiale mollò la presa e lanciò un ultimo sguardo al suo polso nudo, come se fosse stato curioso di leggervi l'ora della propria morte. Il camion sobbalzò nel campo, con i cingoli che maciullavano corpi, e quando raggiunse il bosco la barella dondolò fuori dal retro e Grentz buttò via il corpo. Dall'alto, un bombardiere in picchiata Stuka si lanciò all'attacco del carro armato russo, con i cannoncini sotto le ali che sparavano a raffica. Sotto il manto di vegetazione della foresta, ammutolito, l'equipaggio udì una bomba scoppiare in mezzo agli alberi e una pioggia di schegge si abbatté sul mezzo blindato. 6 «Sa che giorno è oggi?» domandò Hannibal durante la colazione nel casino di caccia. «È il giorno in cui il sole raggiunge la finestra di zio Elgar.» «A che ora apparirà?» domandò il signor Jakov, come se non lo sapesse. «Farà capolino dalla torre alle dieci e trenta» rispose Hannibal. «Questo succedeva nel 1941» disse il signor Jakov. «Intendi dire che l'ora del suo apparire sarà la stessa?» «Sì.» «Però l'anno è più lungo di trecentosessantacinque giorni.» «Ma, signor Jakov, questo è l'anno dopo quello bisestile. Ed era così anche nel 1941, l'ultima volta che abbiamo verificato.» «Significa che il calendario rimane comunque valido sulla base di larghe approssimazioni?»
Un ceppo scoppiettò nel fuoco. «Penso che siano questioni distinte.» Il signor Jakov sembrava compiaciuto, ma la sua risposta fu un'altra domanda: «Il 2000 sarà un anno bisestile?». «No... sì, sì, sarà bisestile.» «Ma è divisibile per cento» disse il signor Jakov. «E anche per quattrocento» aggiunse Hannibal. «Esatto» confermò il signor Jakov. «Sarà la prima volta che verrà applicata la regola gregoriana. Forse quel giorno, sopravvivendo a tutte le correzioni, ti ricorderai della nostra conversazione, in questo strano luogo.» Levò in alto la tazza. «L'anno prossimo al castello Lecter.» Lothar lo udì per primo mentre tirava su l'acqua, era il rumore di un motore a basso regime e di rami spezzati. Lasciò il secchio al pozzo e nella fretta entrò nel casino di caccia senza pulirsi i piedi. Un carro armato sovietico, un T-34 mimetizzato per l'inverno con neve e paglia, si stava facendo strada lungo il sentiero e apparve nella radura. Dipinte sulla torretta si leggevano le scritte: "Vendichiamo le nostre ragazze" e "Spazziamo via i vermi fascisti". Due soldati vestiti di bianco stavano sul retro, vicino alle griglie dei radiatori. La torretta girò per puntare il cannone verso la casa. Un portello si aprì e apparve il cannoniere con una calotta bianca. Il capocarro si sporse dall'altro portello con un megafono. Ripeté il suo messaggio in russo e in tedesco, urlando al di sopra del fracasso del motore diesel del carro armato. «Vogliamo dell'acqua. Non vi faremo del male né vi prenderemo del cibo a meno di reazioni ostili. Se ci sparate addosso morirete tutti. Ora venite fuori. Cannoniere, pronto a fare fuoco. Se non vedi nessuno dopo che avrò contato fino a dieci, spara.» Si udì il rumore secco della mitragliatrice che veniva armata. Il conte Lecter balzò fuori e si mise in piedi al sole, con le mani bene in vista. «Prendete l'acqua. Non abbiamo cattive intenzioni.» Il comandante del carro armato abbassò il megafono. «Venite tutti fuori dove possa vedervi.» Il conte e il capocarro si guardarono per un lungo momento. Il militare mostrò i palmi delle mani e il conte fece altrettanto, per poi girarsi verso casa. «Venite.» Quando il comandante vide la famiglia disse: «I bambini possono stare dentro al caldo». E rivolto al cannoniere e al resto dell'equipaggio aggiun-
se: «Tenete gli occhi aperti. Controllate le finestre di sopra. Fate partire la pompa. Potete fumare». Il cannoniere si alzò gli occhiali sulla testa e accese una sigaretta. Era solo un ragazzo, con la pelle del viso più pallida intorno agli occhi. Vide Mischa che sbirciava dalla porta e le sorrise. Tra i bidoni di benzina e d'acqua attaccati al carro armato c'era una piccola pompa con un motorino d'avviamento. Il pilota del carro armato fece scorrere un tubo con un filtro giù nel pozzo e dopo vari tentativi la pompa cigolò, stridette e infine si mise in moto. Il rumore coprì quello dello Stuka fin quando l'aereo fu quasi sopra di loro, con il cannoniere del T-34 in frenetica azione per far ruotare la torretta, alzare la sua arma e sparare mentre i primi colpi del bombardiere si abbattevano sul terreno. Alcuni fischiarono intorno al carro armato e il cannoniere, ferito, seguitò a fare fuoco con il braccio sano. Il parabrezza dello Stuka s'incrinò, gli occhiali del pilota si riempirono di sangue e il bombardiere in picchiata, che ancora portava una delle sue bombe, colpì la cima degli alberi, piombò sul giardino ed esplose, mentre i cannoncini sotto le ali continuavano a vomitare proiettili anche dopo l'impatto. Hannibal, al primo piano del casino di caccia, con Mischa accucciata sotto di lui, vide sua madre che giaceva in cortile, sanguinante e con gli abiti in fiamme. «Resta qui!» gridò alla sorella e corse verso la madre, mentre le munizioni dell'aeroplano via via scoppiavano nella neve e il fuoco lambiva la bomba rimasta sotto l'ala. Il pilota sedeva al suo posto, con la faccia bruciata fino alle ossa avvolta nella sciarpa in fiamme e con in testa l'elmetto di pelle; il mitragliere morto dietro di lui. Lothar era l'unico sopravvissuto nel cortile, e alzò un braccio ferito verso il ragazzo. Allora anche Mischa corse fuori verso la madre. Lothar cercò di raggiungerla per trattenerla, ma in quel momento un colpo di cannoncino partì dall'aereo in fiamme e lo colpì. Il sangue schizzò sulla bimba e lei alzò le braccia urlando verso il cielo. Hannibal ammucchiò della neve sul fuoco che bruciava i vestiti della madre, poi si alzò in piedi, corse da Mischa tra gli ultimi scoppi e la portò dentro, in cantina. I colpi fuori si diradarono fino a interrompersi quando i proiettili si fusero nelle culatte dei cannoncini. Il cielo si scurì e cadde ancora la neve, facendo sfrigolare il metallo rovente.
Venne il buio e nevicava ancora. Hannibal stava tra i cadaveri, non sapendo neppure lui quanto tempo era passato, con la neve che ormai aveva imbiancato le ciglia e i capelli di sua madre. Era l'unico cadavere non annerito né carbonizzato. Hannibal la strattonò, ma il suo corpo era congelato nel terreno. Premette il suo viso contro di lei, sentì il petto ghiacciato, il cuore silente. Le mise un tovagliolo sul viso e ammonticchiò della neve su di lei. Delle ombre scure si muovevano al limitare del bosco e la luce della torcia si rifletteva negli occhi dei lupi. Hannibal urlò contro di loro agitando una pala. Mischa voleva a tutti i costi andare da sua madre, e lui fu costretto a scegliere. Riportò Mischa dentro e lasciò i morti nel buio. Il libro del signor Jakov era rimasto intatto accanto alla sua mano annerita, finché un lupo mangiò la copertina in pelle e tra le pagine sparse del Trattato sulla luce di Huygens leccò il cervello del signor Jakov sparso sulla neve. Hannibal e Mischa udirono annusare e ringhiare all'esterno. Hannibal accese il fuoco e per coprire i rumori cercò di far cantare Mischa e cantò per lei, che gli si aggrappò alla giacca. «Ein Männlein...» I fiocchi di neve si accumulavano sulla finestra. Nell'angolo di un vetro apparve un cerchio scuro, tracciato da un dito guantato. E nel cerchio un pallido occhio azzurro. 7 La porta si spalancò e Grutas entrò con Milko e Dortlich. Hannibal afferrò una picca da cinghiale dal muro e Grutas d'istinto puntò il fucile contro la bambina. «Lascialo o le sparo. Hai capito?» Gli sciacalli circondarono i bambini. Una volta che furono in casa, Grentz fece segno fuori al camion semicingolato di avvicinarsi con le sue luci che si riflettevano negli occhi dei lupi al limitare della radura, mentre uno di loro trascinava qualcosa. Gli uomini si riunirono intorno a Hannibal e Mischa davanti al fuoco, mentre le fiamme scaldavano i loro vestiti facendo esalare l'odore dolciastro delle settimane passate nei campi e del sangue raggrumato sotto le suole dei loro stivali. Si strinsero di più. Guardapentola prese un insetto che era emerso dai suoi abiti e gli fece saltare via la testa con l'unghia del pollice. Tossirono sui bambini. Il fiato da predatore - l'acidosi causata dalla loro
dieta perlopiù a base di carne, in parte grattata via dai cingoli del loro camion - indusse Mischa ad affondare il viso nella giacca di Hannibal. Lui la strinse di più a sé e sentì il suo cuore battere forte. Dortlich prese la ciotola di Mischa e divorò il porridge, aiutandosi con le sue dita palmate e piene di tagli. Kolnas tese la sua ciotola, ma Dortlich non gli diede nulla. Kolnas era tarchiato e gli brillarono gli occhi quando il suo sguardo cadde su un oggetto prezioso. Sfilò il braccialetto dal polso di Mischa e se lo mise in tasca. Hannibal gli afferrò la mano, ma Grentz lo pizzicò sul lato del collo e il braccio gli ricadde privo di forza. In lontananza si udiva il crepitare dell'artiglieria. Grutas disse: «Se arriva una pattuglia, una qualsiasi, noi siamo qui per installare un ospedale da campo. Abbiamo salvato questi due bambini e stiamo custodendo gli averi della loro famiglia nel camion. Prendete una croce rossa e appendetela sulla porta. Subito». «Gli altri due congeleranno, se li lasci nel camion» disse Guardapentola. «Ci hanno permesso di cavarcela con la pattuglia, potrebbero servirci ancora.» «Metteteli nella baracca» rispose Grutas. «E chiudeteli dentro.» «Dove vuoi che vadano?» disse Grentz. «E con chi vuoi che parlino?» «Ti possono parlare della loro vita di merda in albanese, Grentz. Porta fuori il culo da qui e datti da fare.» In mezzo alla neve, Grentz fece scendere due esili figure dal camion e le spinse verso la baracca della stalla. 8 Grutas aveva una catena sottile, che risultò fredda sulla pelle quando la mise intorno al collo dei bambini. Kolnas la chiuse con un pesante lucchetto, poi Grutas e Dortlich li incatenarono alla ringhiera del pianerottolo superiore delle scale, dov'erano fuori portata ma visibili. Quello chiamato Guardapentola portò loro un vaso da notte e una coperta da una camera da letto. Dalle sbarre della ringhiera, Hannibal li vide gettare nel fuoco lo sgabello del pianoforte. Infilò il colletto di Mischa sotto le maglie di metallo della catena in modo da proteggerle il collo. La neve si depositava sempre più alta contro il casino di caccia, solo la parte superiore dei vetri delle finestre lasciava filtrare una luce grigiastra. Con la neve che cadeva di lato e il vento che soffiava, l'edificio assomi-
gliava a un grande treno in movimento. Hannibal si avvolse con la sorella nella coperta e nel tappetino del pianerottolo. I colpi di tosse di Mischa arrivavano smorzati, mentre la fronte era calda contro la guancia di lui. Da sotto la giacca lui prese una crosta di pane secco e se la mise in bocca. Quando fu morbida abbastanza, la diede a lei. Ogni qualche ora Grutas guidava uno degli uomini all'esterno per spalare l'ingresso e mantenere un sentiero verso il pozzo. E una volta Guardapentola portò una padella di avanzi nella stalla. Con tutta quella neve, il tempo passava dolorosamente lento. Non c'era cibo, anche se in realtà ce n'era. Kolnas e Milko portarono la tinozza di Mischa sulla stufa, coperta da una tavola di legno, che si bruciò nella parte che sporgeva. Guardapentola alimentava il fuoco con libri e ciotole di legno. Con un occhio alla stufa aggiornò il suo diario e i suoi conti. Accumulò piccole parti del bottino sul tavolo per inventariarle. Con una grafia sottile scrisse il nome di ognuno in cima alla pagina: Vladis Grutas Zigmas Milko Bronys Grentz Enrikas Dortlich Petras Kolnas E alla fine scrisse il proprio: Kazys Porvik. Sotto i nomi fece la lista dei tesori di ognuno: occhiali con la montatura d'oro, orologi, anelli e orecchini, denti d'oro che misurò in una coppa d'argento. Grutas e Grentz cercarono ovunque come ossessi, frugando nei cassetti e squarciando la parte posteriore delle scrivanie. Dopo cinque giorni il tempo sì schiarì. Si misero tutti le racchette da neve e portarono Hannibal e Mischa nella stalla. Hannibal vide un filo di fumo salire dal camino della baracca. Guardò il ferro da cavallo di Cesar che era stato appeso come portafortuna sopra la porta e si domandò se l'animale fosse ancora vivo. Grutas e Dortlich spinsero dentro i bambini e chiusero la porta. Dalle fessure Hannibal li vide sparpagliarsi nei boschi. Nella stalla faceva molto freddo. Pezzi di vestiti da bambino erano sparsi in mezzo alla paglia. La porta che immetteva nella baracca era chiusa, ma non a chiave. Hannibal la spinse per aprire. Avvolto nelle coperte, e il più
vicino possibile alla stufa, c'era un ragazzino di circa otto anni, con la faccia scura intorno agli occhi scavati. Indossava una mescolanza di vestiti, a strati, e alcuni erano da femmina. Hannibal mise Mischa accanto alla stufa e il bambino si ritrasse per farle posto. Hannibal disse "Ciao", in lituano, tedesco, inglese e polacco. Il ragazzino non rispose. Aveva geloni rossi e gonfi sulle orecchie e sulle dita. Nel corso della lunga e fredda giornata cercò di spiegare che veniva dall'Albania e parlava soltanto quella lingua. Si chiamava Agon. Hannibal gli lasciò tastare le sue tasche in cerca, di cibo, ma non gli permise di toccare Mischa. Quando gli fece capire che lui e la sorella volevano metà delle coperte non oppose resistenza. Il ragazzino albanese sobbalzava a ogni rumore, girando gli occhi verso la porta, e mimò con le mani il gesto di chi taglia con un'accetta. Gli sciacalli tornarono appena dopo il tramonto. Hannibal li udì e sbirciò attraverso le fessure nella porta della stalla. Avevano portato un capriolo mezzo morto di fame, ancora vivo e barcollante, con della refurtiva proveniente da qualche saccheggio legata con un cappio intorno al collo e una freccia conficcata nel corpo. Milko prese un'ascia. «Non sprecare il sangue» disse Guardapentola con l'autorità del cuoco. Kolnas arrivò di corsa con la sua ciotola, gli occhi che brillavano. Un grido dal cortile e Hannibal coprì le orecchie di Mischa per non farle udire il suono dell'ascia. Il bambino albanese urlò e rese grazie. Più tardi, quando gli altri si furono nutriti, Guardapentola portò ai bambini un osso con qualche pezzetto di carne e tendini. Hannibal ne mangiò un poco e masticò un boccone per darlo a Mischa. Per non far cadere il sugo prendendolo con le dita, glielo passò da bocca a bocca. Gli uomini riportarono Hannibal e Mischa nel casino di caccia e li incatenarono alla ringhiera del pianerottolo, lasciando il bambino albanese da solo nella stalla. Mischa bruciava per la febbre e Hannibal la tenne stretta sotto il tappetino polveroso. L'influenza li colpì tutti quanti. Gli uomini stavano il più vicino possibile al fuoco che languiva, tossendo uno sull'altro, con Milko che, trovato il pettine di Kolnas, si mise a succhiarne il grasso. Il cranio del capriolo poggiava nella vasca da bagno, non era rimasto nemmeno un avanzo di bollito. Poi ci fu ancora della carne e gli uomini mangiarono con versi simili a grugniti, senza guardarsi. Guardapentola diede un po' di cartilagine e brodo a Hannibal e Mischa, ma non portò nulla nella baracca.
Il cielo era di nuovo basso e grigio, si udivano nel bosco suoni sommessi, intervaiiati a qualche schianto di rami rinsecchiti dal gelo. Il cibo era finito da giorni quando il cielo si rasserenò. La tosse sembrava ancora più forte nella luce del pomeriggio, dopo che il vento si fu calmato. Grutas e Milko barcollarono fuori con le racchette da neve. Dopo un lungo sogno febbrile, Hannibal li udì tornare, poi discutere a voce alta, litigando. Attraverso le sbarre della ringhiera vide Grutas rosicchiare la pelle di un uccellino sanguinante e gettarla agli altri, che vi si lanciarono sopra come cani. La faccia di Grutas era sporca di sangue e piume. Girò il viso imbrattato verso i bambini e disse: «Dobbiamo mangiare o moriremo». Questo fu l'ultimo ricordo del casino di caccia di cui Hannibal Lecter fu consapevole. Per la scarsità di gomma, il carro armato russo si muoveva sulle ruote d'acciaio, che mandavano una forte vibrazione alla corazza confondendo la visuale dal periscopio. Era un grosso KV-1 che procedeva pesantemente nell'aria gelida lungo un sentiero nella foresta, mentre il fronte si spostava di chilometri a ovest, seguendo la continua ritirata dei tedeschi. Due soldati di fanteria con la mimetica invernale stavano nella parte posteriore del carro armato, rannicchiati vicino ai radiatori, attenti a individuare qualche fanatico tedesco lasciato indietro con un lanciarazzi Panzerfaust per tentare di distruggere un carro armato. Videro movimenti nella boscaglia. Il comandante del carro armato udì i soldati e girò il carro verso l'obiettivo per portare in linea il suo cannone coassiale. L'oculare gli mostrò un bambino che veniva fuori dalla boscaglia, con i proiettili che colpivano la neve intorno a lui mentre i soldati sparavano dal carro in movimento, il comandante uscì dal portello e fece cessare il fuoco. Avevano già ucciso alcuni bambini per errore - cose che capitano - e sarebbero stati contenti di non ammazzare questo. I soldati videro un bambino esile e pallido, con il collo stretto da una catena alla cui estremità pendeva un anello vuoto. Quando lo sistemarono vicino ai radiatori e gli tagliarono la catena, brandelli della sua pelle rimasero attaccati agli anelli. Portava un bel binocolo in una borsa che teneva stretta al petto. Cercarono di scuoterlo, gli fecero delle domande in russo, polacco e in un lituano approssimativo, finché realizzarono che non parlava proprio. I soldati non ebbero il coraggio di prendergli il binocolo, gli diedero mezza mela e lo lasciarono stare dietro la torretta al caldo dei ra-
diatori finché raggiunsero un villaggio. 9 Un'unità motorizzata sovietica con un cannone anticarro e un lanciamissili si era riparata per la notte nel vecchio castello Lecter abbandonato. Se ne stavano andando prima dell'alba, lasciando nel cortile chiazze di fanghiglia e macchie d'olio. Un camion leggero stazionava all'ingresso del castello con il motore acceso. Grutas e i suoi quattro compagni sopravvissuti, con indosso le loro uniformi da sanitari, guardavano dai boschi. Erano passati quattro anni da quando Grutas aveva sparato ai cuoco nel cortile del castello, quattordici ore da quando avevano abbandonato il casino di caccia in fiamme, lasciandosi dietro i loro morti. Bombe cadevano in lontananza e all'orizzonte i traccianti della contraerea descrivevano grandi archi nel cielo. L'ultimo soldato uscì dalla porta, srotolando una miccia da un rocchetto. «All'inferno» disse Milko. «Sta per diluviare.» «Dobbiamo entrare comunque» ribatté Grutas. I] soldato finì di srotolare la miccia in fondo alle scale, la tagliò e si accovacciò. «Il deposito è già stato saccheggiato» commentò Grentz. «C'est foutu.» «Tu débandes?» disse Dortlich. «Va t'faire enculer!» rispose Grentz. Avevano adottato il francese quando le Totenkopfs avevano riparato vicino a Marsiglia, e amavano insultarsi così nei momenti più tesi prima dell'azione. Quelle imprecazioni ricordavano loro i bei tempi passati in Francia. Il soldato sovietico sui gradini tagliò a metà gli ultimi dieci centimetri della miccia e piazzò la capocchia di un fiammifero proprio nel taglio. «Di che colore è la miccia?» domandò Milko. Grutas aveva il binocolo. «Scuro, direi.» Dal bosco potevano vedere il chiarore di un secondo fiammifero sul viso del soldato quando accese la miccia. «È arancio o verde?» chiese Milko. «Ha delle righe?» Grutas non rispose. Il soldato andò verso il camion, indugiando e ridendo quando i suoi compagni gli gridarono di fare in fretta, mentre la miccia mandava scintille dietro di lui sulla neve. Milko stava contando sottovoce.
Come il camion dei soldati russi sparì dalla vista, Grutas e Milko corsero alla miccia. La fiamma stava arrivando alla soglia proprio quando la raggiunsero e non poterono vedere le righe finché non vi furono vicini. Brucia a dueminutialmetro, dueminutialmetro, dueminutialmetro... Grutas la tagliò con il suo coltello a serramanico. Milko mugugnò: «'fanculo la fattoria» e si lanciò su per i gradini fin dentro il castello seguendo la miccia, cercando come un disperato se ce ne fossero altre. Attraversò la grande sala verso la torre, sempre seguendo la miccia, e trovò quello che cercava: l'innesco collegato a un grande anello di cavo detonante. Tornò nella sala e gridò: «Ha un primario ad anello ed è l'unico detonatore. Ce l'hai fatta». Alcune cariche erano collocate alla base della torre, tutte connesse allo stesso cavo di detonazione. Le truppe sovietiche non si erano preoccupate di chiudere la porta principale e il loro focolare bruciava ancora a terra nel grande salone. Dei graffiti segnavano le mura nude e il pavimento vicino al fuoco era pieno d'escrementi e rifiuti della loro permanenza nel castello. Milko, Grentz e Kolnas perlustrarono i piani superiori. Grutas fece segno a Dortlich di seguirlo e scese le scale fino al sotterraneo. La grata della cantina era aperta e il lucchetto era rotto. Il raggio di luce giallastra della loro torcia si rifletteva sui cocci di vetro. La cantina era piena di bottiglie vuote di vini d'annata, i colli rotti da bevitori rozzi e frettolosi. Il tavolo da degustazione, buttato a terra dai saccheggiatori durante una rissa, era addossato contro il muro nero. «Merda» imprecò Dortlich «non hanno lasciato neanche un sorso.» «Aiutami» lo incalzò Grutas. Insieme spinsero via il tavolo dal muro, pestando cocci di bottiglia. Trovarono la candela da decantazione sotto il tavolo e l'accesero, «Ora tira il lampadario» disse Grutas a Dortlich. «Dai solo uno strattone in giù.» Lo scaffale del vino si scostò dalla parete posteriore. Dortlich portò la mano alla pistola quando si mosse. Grutas andò nella stanza dietro la cantina e Dortlich io seguì. «Buon Dio!» esclamò. «Vai a prendere il camion» ordinò Grutas. 10 Lituania, 1946
Hannibal Lecter, tredicenne, se ne stava in piedi da solo sulle macerie dietro la riva del fossato davanti a quello che un tempo era il castello Lecter, e gettava croste di pane nell'acqua scura. L'orto, con le sue siepi cresciute a dismisura, ora apparteneva anch'esso alla cooperativa dell'orfanotrofio, e per lo più produceva rape. Il fossato era importante, per lui. Era come una presenza costante: sulla sua superficie scura le nuvole riflesse oltrepassavano le torri merlate del castello come avevano sempre fatto. Sull'uniforme dell'orfanotrofio, Hannibal indossava la camicia di punizione con la scritta "Proibito il gioco". Pur essendogli vietato partecipare alla partita di calcio degli orfani sul campo fuori dalle mura, non soffriva per la privazione. La partita s'interruppe quando il cavallo da tiro Cesar e il conducente russo attraversarono il campo con un carico di legna da ardere. Cesar era felice di vedere Hannibal quando lui poteva andare a trovarlo nella stalla, ma non si curava delle rape. Hannibal guardò i cigni che attraversavano il fossato, un paio di esemplari neri sopravvissuti alla guerra. Erano accompagnati da due piccoli ancora lanuginosi, uno a cavalcioni della madre, l'altro che le nuotava dietro. Tre bambini più grandi sul terrapieno soprastante fecero capolino tra i rami di una siepe per osservare Hannibal e gli uccelli. Il cigno maschio si arrampicò sulla riva per sfidare Hannibal. Un bambino biondo di nome Fedor sussurrò agli altri: «Guardate quel bastardo nero che batte le ali allo scemo. Lo farà cacare sotto come è successo con te quando hai provato a prendergli le uova. Vediamo se lo scemo sa piangere». Hannibal alzò i rami di salice e il cigno se ne tornò in acqua. Indispettito, Fedor tirò fuori dalla camicia una fionda i cui lacci rossi erano stati ricavati da una camera d'aria e cercò in tasca un sasso, che colpì il fango sul ciglio del fossato, schizzando la gamba di Hannibal. Lui guardò in su verso Fedor, senza espressione, e scosse il capo. Il sasso seguente cadde nell'acqua vicino al cigno piccolo e Hannibal si mise ad alzare i rami sibilando e strillando per mandare via gli uccelli. Una campana suonò dal castello. Fedor e i suoi si voltarono, ridendo per il loro scherzo, e Hannibal uscì dalla siepe strappando una manciata di erbacce con una zolla di terra attaccata alle radici. La zolla colpì Fedor in piena faccia e Hannibal, che era più piccolo di lui di tutta la festa, lo caricò e lo spinse giù dal terrapieno fino in acqua, azzuffandosi con il ragazzino stupefatto, e poi lo tenne sotto, tirandogli a più riprese l'elastico della fionda sul collo. Il volto di Hannibal era
stranamente privo di espressione, solo gli occhi erano vivi e arrossati agli angoli. Hannibal si sollevò per girare Fedor e colpirlo in viso. I compagni dei ragazzino vennero giù di corsa, ma non volevano combattere in acqua e gridarono per chiamare aiuto. Il capo sorvegliante Petrov, imprecando, guidò gli altri giù per la riva, sporcandosi gli stivali lucidi e coprendo di fango il manganello che usò ripetutamente. Era sera nel vasto salone del castello Lecter, spoglio della sua eleganza e dominato da un grande ritratto di Stalin. Un centinaio di ragazzini in uniforme, avendo finito di mangiare la zuppa, stava in piedi presso i tavoli di legno a cantare L'Internazionale. Il direttore, leggermente ubriaco, dirigeva agitando la forchetta. Il capo sorvegliante Petrov, da poco promosso, e il suo aiutante in pantaloni da equitazione e stivali camminavano fra i tavoli per essere certi che tutti cantassero. Hannibal non cantava. Aveva un lato del viso blu e un occhio semichiuso. A un altro tavolo, Fedor guardava, con una benda sul collo, graffi sul viso e un dito della mano steccato. I sorveglianti si fermarono davanti a Hannibal e lui si nascose nel palmo una forchetta. «Troppo bravo per cantare con noi, signorino?» disse Petrov superando le voci. «Non sei più il padrone qui, sei soltanto un orfano come gli altri, e per Dio adesso canti!» Il capo sorvegliante sbatté con forza il suo blocco per appunti sul viso di Hannibal, che non cambiò espressione né si mise a cantare. Un filo di sangue cominciò a colargli dall'angolo della bocca. «È muto» disse l'aiutante. «Non ha senso picchiarlo.» La canzone finì e la voce di Petrov risuonò nel silenzio. «Per essere muto, riesce a gridare bene di notte» disse, e fece per colpirlo con la mano libera, Hannibal arrestò il colpo con la forchetta che teneva in pugno, conficcando i rebbi nelle nocche di Petrov, che si mise a rincorrerlo intorno al tavolo. «Fermo! Non colpirlo ancora. Non voglio che gli restino dei segni.» Il direttore poteva anche essere ubriaco, ma sapeva comandare. «Hannibal Lecter, a rapporto nel mio ufficio.» L'ufficio del direttore conteneva un'ex scrivania dell'esercito, alcuni schedari e due brandine. Era qui che il cambiamento di odore nel castello infastidiva di più Hannibal. Invece del profumo d'olio al limone per mobili c'era un puzzo stantio di piscio nel camino. Le finestre erano spoglie, l'uni-
co ornamento rimasto erano gli intarsi di legno. «Hannibal, questa era la camera di tua madre? Si sente una specie d'atmosfera femminile.» Il direttore era volubile, poteva essere gentile ma anche crudele, se si sentiva assillato dai propri fallimenti. I suoi piccoli occhi erano rossi mentre aspettava una risposta. Hannibal annuì. «Dev'essere difficile per te vivere in questa casa.» Nessuna risposta. Il direttore prese un telegramma dalla scrivania. «Be', non ci rimarrai a lungo. Tuo zio viene a prenderti dalla Francia.» 11 La fiamma nel focolare della cucina era l'unica fonte di luce. Hannibal nell'ombra guardava l'aiuto cuoco addormentato che sbavava in una sedia vicino al fuoco, un bicchiere vuoto davanti a sé. Hannibal voleva prendere la lanterna che si trovava sullo scaffale proprio dietro di lui. Poteva vederne il vetro baluginare alla luce della fiamma. Il respiro dell'uomo era profondo e regolare, con un suono sordo di catarro. Hannibal si mosse lungo il pavimento di pietra, nell'odore di vodka e cipolla dell'aiuto cuoco, e gli si avvicinò. L'impugnatura di ferro della lanterna avrebbe cigolato. Meglio prenderla dalla base e dalla cima, tenendo il vetro fermo in modo che non tintinnasse, afferrandola saldamente e tirandola su con decisione dallo scaffale. Ora la stringeva tra le mani. Con un forte schiocco, un ciocco di legno, sibilando per il vapore, scoppiettò nel focolare scagliando scintille e pezzetti di brace, una delle quali atterrò a un paio di centimetri dal piede dell'aiuto cuoco e dal suo calzino di feltro. Quale attrezzo si trovava più vicino? Su un ripiano c'era un contenitore ricavato da un bossolo di proiettile da 150 millimetri, pieno di mestoli e di cucchiai di legno. Hannibal mise giù la lanterna e con un cucchiaio mandò il pezzetto di brace al centro del pavimento. La porta sulle scale che portavano al sotterraneo si trovava nell'angolo della cucina. Si mosse lenta sui cardini al tocco di Hannibal, che la oltrepassò nella più totale oscurità, avendo in mente il pianerottolo superiore, e la chiuse dietro di sé. Sfregò un fiammifero contro la pietra del muro, accese la lanterna e scese le scale a lui familiari, l'aria via via sempre più fre-
sca. La luce della lanterna oscillava tra le volte mentre lui passava sotto le basse arcate fino alla cantina. Il cancello di ferro era rimasto aperto. Il vino, rubato tanto tempo prima, era stato rimpiazzato da tuberi commestibili, soprattutto rape. Hannibal si ricordò di mettere in tasca un po' di rape rosse: Cesar le avrebbe mangiate al posto delle mele, per quanto gli tingessero la bocca e dessero l'impressione che avesse il rossetto. Nel tempo trascorso come ospite dell'orfanotrofio, vedendo la sua casa violata, le cose rubate, confiscate, maltrattate, Hannibal non aveva mai guardato lì nella cantina. Appoggiò la lanterna su un ripiano in alto e trascinò via alcuni sacchi di patate e cipolle che stavano davanti agli ultimi scaffali di vino. Si arrampicò sui tavolo, impugnò il lampadario e tirò. Nulla. Provò di nuovo, facendolo oscillare con tutto il suo peso. Il lampadario cedette di qualche centimetro con una scossa che ne fece volare via la polvere, e si udì un cigolio dagli ultimi scaffali. Hannibal saltò giù. Riuscì a infilare le dita nel pertugio e tirò. Lo scaffale si staccò dalla parete con uno stridere di cerniere. Hannibal tornò alla lanterna, pronto a spegnerla se avesse sentito un rumore. Nulla. Era qui, in questa stanza, che aveva visto per l'ultima volta il cuoco, e per un attimo la sua grossa faccia tonda gli apparve con estrema chiarezza, senza l'appannamento che il tempo dà alle immagini dei morti. Hannibal prese la lanterna ed entrò nella stanza nascosta dietro la cantina. Era vuota. C'era solo una larga cornice dorata, con qualche filo di tela che penzolava lì dove il dipinto era stato tagliato via. Era il quadro più grande della casa, una veduta romantica della battaglia di Žalgiris, che esaltava le imprese di Hannibal il Sanguinario. Hannibal Lecter, l'ultimo della sua stirpe, rimase lì nel castello saccheggiato della sua infanzia a guardare nella cornice vuota, consapevole che in un certo senso lui apparteneva a quella famiglia, e in un altro no. I suoi ricordi erano legati alla madre, una Sforza, ma anche al cuoco e al signor Jakov, provenienti da una tradizione diversa dalla sua. Li poteva vedere tutti all'interno della cornice vuota, riuniti intorno al fuoco nel casino di caccia. Lui non era Hannibal il Sanguinario, per quanto poteva capire. Avrebbe trascorso la sua vita sotto il soffitto dipinto della sua infanzia. Ma era sottile come il cielo, e quasi altrettanto inutile. Almeno così credeva. Non c'erano più i quadri con i volti che lui conosceva bene, come quelli della sua famiglia.
C'era una segreta nel centro della stanza, un pozzo secco in pietra in cui Hannibal il Sanguinario usava gettare i suoi nemici e dimenticarseli. Era stato recintato negli ultimi anni per prevenire incidenti. Hannibal vi tenne sopra la lanterna e illuminò per metà il collo del pozzo. Suo padre gli aveva detto che quando lui era bambino c'era ancora un mucchio di scheletri laggiù in fondo. Una volta, per gioco, Hannibal era stato calato in un cesto giù nella segreta. Vicino al fondo vi era una parola incisa nella parete. Adesso non poteva vederla alla luce della lanterna, ma sapeva che c'era. Lettere diseguali scalfite nell'oscurità da un uomo morente: "Pourquoi?". 12 Nella lunga camerata gli orfani stavano dormendo. Erano sistemati in ordine d'età. Dalla parte dei più giovani si sentiva quell'odore di lattante che c'è negli asili: i più piccoli si abbracciavano nel sonno e alcuni chiamavano a voce alta i loro morti, vedendo nei volti sognati una sollecitudine e una tenerezza che non avrebbero mai più trovato. Più in là, alcuni dei ragazzi più grandi si masturbavano sotto le coperte. Ogni bambino aveva un armadietto e sul muro sopra la testiera del letto c'era uno spazio per mettervi dei disegni o, più di rado, una foto di famiglia. Ecco una fila di semplici disegni a matita sui letti disposti in successione. Sopra quello di Hannibal Lecter c'è un bellissimo schizzo a gessetto e matita che ritrae un braccio e una mano di bambino, in un gesto al tempo stesso sorprendente e seducente, con il braccio paffuto proteso in una carezza. C'è anche un braccialetto. Sotto il disegno Hannibal dorme, le palpebre contratte. La mascella è tesa, le narici si allargano e si stringono mentre lui sogna l'alitare di un respiro mefitico. Il casino di caccia nella foresta. Hannibal e Mischa stanno al freddo, nell'odore di polvere del tappetino in cui sono avvolti; il ghiaccio sulle finestre riflette una luce verde e rossa. Il vento soffia e per un attimo il camino non tira. Un fumo blu è sospeso in strati sotto la tettoia sporgente di fronte alla ringhiera del pianerottolo, e Hannibal sente la porta d'ingresso che viene spalancata e guarda attraverso le sbarre. La vasca da bagno di Mischa è sulla stufa, dove il cuciniere sta facendo bollire la testa cornuta del piccolo capriolo insieme a qualche tubero avvizzito.
L'acqua che bolle fa sbattere le corna contro le pareti di metallo della vasca, come se il capriolo stesse facendo un ultimo sforzo per colpire a testa bassa. Occhiblu e Manopalmata arrivano accompagnati da una ventata d'aria gelida, si tolgono le racchette da neve e le appoggiano accanto al muro. Gli altri si fanno loro intorno, l'Uomo della ciotola avanza zoppicando con i piedi congelati dall'angolo della stanza. Occhiblu tira fuori dalla tasca i corpi denutriti di tre uccellini. Ne mette uno con le piume e tutto nell'acqua bollente finché si ammorbidisce abbastanza da poter togliere la pelle, che lui comincia a rosicchiare, la faccia piena di sangue e piume, mentre gli altri gli si accalcano intorno. Lancia loro la pelle dell'uccellino e gli uomini vi si buttano sopra come cani. Volta la sua faccia imbrattata di sangue verso la ringhiera, sputa una piuma e dice: "Dobbiamo mangiare o moriremo". Gettano nel fuoco l'album di famiglia dei Lecter e i giocattoli di cartapesta di Mischa, il suo castello, le sue bambole. Hannibal adesso è in piedi, all'improvviso non ha più senso scendere, e poi eccoli nella stalla, dove ci sono vestiti in mezzo alla paglia, abiti di bimbo che gli sono estranei, macchiati di sangue rappreso. Gli uomini si fanno intorno a loro sempre più vicini a palpare la sua carne e quella di Mischa. "Prendi lei, tanto sta per morire comunque. Su, vieni, vieni a giocare. " Adesso la portano via cantando. "Ein Männlein steht im Walde ganz still und stumm..." Hannibal si appende al braccio di Mischa, mentre la bambina viene trascinata verso la porta. Non vuole lasciar andare la sorellina e Occhiblu gli chiude la pesante porta della stalla sul braccio, rompendoglielo. Poi l'apre di nuovo e torna da Hannibal agitando un ciocco di legno e lo colpisce in testa con delle botte tremende. Lampi di luce gli appaiono dietro gli occhi, come esplosioni, e la voce di Mischa che chiama: "Anniba!". I colpi diventarono il bastone del capo sorvegliante che batteva sul letto mentre Hannibal urlava nel sonno: "Mischa! Mischa!". «Zitto! Zitto! Alzati, brutto bastardo!» Petrov gli strappò via le coperte dal letto e gliele gettò addosso. Lo portò fuori sul terreno gelato verso il capanno degli attrezzi, pungolandolo con il bastone, e lo seguì con una pala all'interno, che era pieno di utensili appesi, corde, strumenti da carpentiere. Petrov appoggiò la lanterna su un barilotto e alzò il bastone. Mostrò la mano bendata. «È ora di pagare per questo.»
Hannibal sembrò farsi piccolo e si mosse in cerchio allontanandosi dalla luce, in preda a una sensazione che non avrebbe saputo descrivere. Il capo sorvegliante vi lesse la paura e lo rincorse, lontano dalla lanterna, dandogli un colpo violento sulla coscia. Hannibal si riavvicinò alla lanterna, prese un falcetto e spense la luce. Si stese a terra nel buio, tenendo il falcetto con le due mani sulla testa. Sentì dei passi muoversi in fretta dietro di sé e agitò freneticamente il falcetto nell'oscurità, senza riuscire a colpire, poi udì la porta chiudersi e il rumore di una catena. «Il vantaggio di picchiare un muto è che non può raccontarlo a nessuno» disse il capo sorvegliante. Lui e il suo aiutante stavano guardando una Delahaye parcheggiata nel cortile di ghiaia del castello, un bell'esempio di carrozzeria francese, blu cielo, con le bandierine diplomatiche dell'Unione Sovietica e della Repubblica Democratica Tedesca sui parafanghi anteriori. L'automobile era esotica come poteva esserlo un veicolo francese anteguerra; lussuosa agli occhi di chi era abituato a carri armati e jeep. Petrov avrebbe voluto incidere la scritta "Fottiti" sulla fiancata con il suo coltello, ma l'autista era grosso e guardingo. Dalla stalla, Hannibal vide arrivare l'auto. Non le corse incontro. Guardò lo zio entrare nel castello insieme a un ufficiale sovietico. Hannibal posò il palmo della mano sulla guancia di Cesar. Il lungo muso si voltò verso di lui, masticando avena. Lo stalliere sovietico si prendeva buona cura del cavallo. Hannibal gli strofinò il collo e gli avvicinò il viso all'orecchio, ma nessun suono gli uscì dalla bocca. Baciò l'animale tra gli occhi. Dietro il fienile, appeso in un'intercapedine fra due muri, c'era il binocolo di suo padre. Se lo mise al collo e attraversò il piazzale sconnesso. L'aiutante di Petrov, in piedi sui gradini, lo stava cercando. I pochi averi di Hannibal erano tutti stipati in una borsa. 13 Guardando dalla finestra del direttore, Robert Lecter vide il proprio autista che barattava con il cuoco una piccola salsiccia e un pezzo di pane con un pacchetto di sigarette. Robert Lecter era di fatto il conte Lecter, essendo il fratello dato per morto. Si era già abituato al titolo, avendolo usato illegittimamente per anni. Il direttore non contò i soldi ma se li mise in un taschino, con un'occhiata al colonnello Timka.
«Conte... ehm, compagno Lecter, voglio solo dirle che ho visto due dei suoi dipinti al Catherine Palace prima della guerra, e alcune foto pubblicate su "Gorn". Ammiro enormemente il suo lavoro.» Il conte Lecter annuì. «La ringrazio, direttore. E della sorella di Hannibal, che cosa sa?» «La foto di una bambina non è di grande aiuto» ammise il direttore. «La stiamo facendo circolare negli orfanotrofi» disse il colonnello Timka. Indossava l'uniforme della polizia di confine sovietica e i suoi occhiali con la montatura d'acciaio scintillavano in sintonia con l'acciaio della sua dentatura. «Ci vuole tempo, sono talmente tanti.» «E la devo informare, compagno Lecter, che la foresta è piena di... resti ancora non identificati» aggiunse il direttore. «Hannibal non ha mai detto una parola?» domandò il conte. «Non a me. Fisicamente è capace di parlare: grida il nome di sua sorella nel sonno. "Mischa, Mischa."» Il direttore fece una pausa, pensando a come continuare. «Compagno Lecter, starei... attento con Hannibal finché non lo conoscerà meglio. Sarebbe opportuno che non giocasse con altri ragazzi fino a quando non si sarà ambientato. Qualcuno potrebbe farsi male.» «È prepotente?» «Sono i prepotenti che si fanno male. Hannibal non rispetta le gerarchie. Sono sempre più grossi di lui, ma riesce a colpirli con grande velocità e spesso duramente. Hannibal può essere pericoloso per le persone più grandi di lui, mentre è tranquillo con quelli più piccoli, si fa anche fare i dispetti. Alcuni di loro pensano che sia sordo oltre che muto e gli dicono che è matto. Lui fa loro dei regali, le rare volte che ha qualcosa da regalare.» Il colonnello Timka guardò l'ora. «Dobbiamo andare. La raggiungo alla macchina, compagno Lecter?» Aspettò che il conte Lecter uscisse dalla stanza, poi tese la mano. Il direttore, con un sospiro, gli consegnò il denaro. Con uno scintillio degli occhiali e un ghigno che gli scoprì i denti, il colonnello Timka si leccò il pollice e si mise a contare. 14 Un acquazzone eliminò la polvere mentre percorrevano gli ultimi chilometri verso il castello, con la ghiaia che scricchiolava sotto la Delahaye infangata, e l'odore di erba e di terra arata che penetrava nell'auto. Poi la
pioggia cessò e le luci della sera si tinsero di arancio. Il castello era più elegante che imponente, in quella strana luce dorata. Le colonnine tra le sue molte finestre erano curve come ragnatele sotto il peso della rugiada. Per Hannibal, che ne traeva presagi, il loggiato del castello si dipanava dall'ingresso come le volute di Huygens. Quattro cavalli da tiro, fumanti per il sudore, erano legati a un vecchio carro armato tedesco che sporgeva dall'atrio. Erano grandi come Cesar. Hannibal fu felice di vederli, sperò che fossero il suo totem. Il carro era poggiato su dei rulli e a poco a poco i cavalli lo trascinarono fuori dall'atrio come se stessero estraendo un dente, mentre il conducente li guidava e le loro orecchie fremevano al suono delle sue parole. «I tedeschi avevano fatto saltare l'ingresso con una cannonata e infilato il carro armato all'interno per sfuggire all'aviazione» spiegò il conte a Hannibal quando l'auto si fermò. Si era abituato a parlare al ragazzo senza avere risposta. «Lo hanno lasciato qui durante la ritirata. Non potevamo rimuoverlo, così abbiamo decorato quel dannato affare con cassette di fiori e ci abbiamo camminato intorno per cinque anni. Ora che riesco a vendere di nuovo i miei quadri "sovversivi" possiamo permetterci di farlo portare via. Vieni, Hannibal.» Un domestico aveva atteso l'auto e insieme alla cameriera venne incontro al conte con gli ombrelli nel caso in cui fossero stati necessari. Una femmina di mastino arrivò con loro. Hannibal apprezzò che suo zio facesse le presentazioni nel viale d'ingresso, ponendosi cortesemente di fronte al personale di servizio anziché affrettarsi verso casa parlandogli da sopra la spalla. «Questo è mio nipote Hannibal. Starà con noi, adesso, e siamo felici di averlo qui. La signora Brigitte, la nostra domestica. E Pascal, che ha il compito di far funzionare tutto.» La signora Brigitte una volta era stata una cameriera di bell'aspetto. Afferrava le cose al volo e capì Hannibal dal suo contegno. Il mastino accolse il conte con entusiasmo e si riservò il giudizio su Hannibal. Soffiò un po' d'aria dalle guance, Hannibal aprì la mano verso di lei che, annusando, lo guardò da sotto in su. «Dovremo trovargli dei vestiti» disse il conte alla signora Brigitte. «Cominci a guardare nei miei vecchi bauli di scuola in soffitta e poi cercheremo qualcosa di meglio.» «E la bambina, signore?» «Non ancora, Brigitte» disse lui, chiudendo l'argomento con un cenno
del capo. Avvicinandosi alla casa, alcune immagini colpirono Hannibal: il luccichio dei ciottoli bagnati in cortile; la lucentezza del manto dei cavalli dopo l'acquazzone; le piume scintillanti di un bel corvo che si abbeverava a una grondaia sull'angolo del tetto; il movimento di una tenda da una finestra in alto, il furtivo apparire dei capelli di Lady Murasaki e poi la sua silhouette. Lady Murasaki aprì i battenti della finestra. La luce della sera le illuminava il volto e Hannibal, fuori dal deserto del suo incubo, fece il primo passo sul ponte dei sogni... Traslocare da un istituto a una casa privata è un vero sollievo. Il mobilio in tutto il castello era originale e accogliente, un misto di epoche recuperato dalla soffitta del conte Lecter e Lady Murasaki dopo che i predoni nazisti erano stati cacciati. Durante l'occupazione, tutti i pezzi di maggior valore lasciarono la Francia in treno alla volta della Germania. Hermann Göring e il Führer stesso avevano a lungo desiderato le opere di Robert Lecter e di altri artisti importanti in Francia. Dopo l'arrivo dei nazisti, uno dei primi atti di Göring era stato quello di far arrestare Robert Lecter come "artista sovversivo" e impadronirsi del maggior numero possibile di opere "decadenti" con lo scopo di "proteggere il pubblico". I dipinti vennero incamerati nelle collezioni private di Göring e di Hitler. Quando il conte fu liberato all'avanzare degli Alleati, lui e Lady Murasaki recuperarono le loro cose come meglio poterono e il personale lavorò per la sussistenza finché il conte Lecter tornò di nuovo al suo cavalletto. Robert Lecter controllò che il nipote si sistemasse in camera sua. Grande e luminosa, la stanza da letto era stata predisposta per Hannibal con arazzi e manifesti destinati a ravvivare la pietra delle pareti. Una maschera da kendo e spade di bambù incrociate erano appese in alto. Se mai avesse parlato, Hannibal avrebbe chiesto della padrona di casa. 15 Hannibal era solo da meno di un minuto quando udì bussare. L'ancella di Lady Murasaki, Chiyoh, una giapponese più o meno dell'età di Hannibal, con i capelli tagliali a caschetto sulle orecchie, se ne stava in piedi sulla porta. Lo esaminò per un istante, poi un velo le calò sugli occhi come la membrana nittitante di un falco. «Lady Murasaki la saluta e le dà il benvenuto» disse la ragazza. «Se vuole seguirmi...» Rispettosa e solenne, Chiyoh lo condusse nel bagno in
quella che era stata la stanza della pigiatura dell'uva in una dépendance del castello. Per far piacere a sua moglie, il conte Lecter l'aveva convertita in un bagno giapponese, e il tino per la pigiatura era adesso pieno d'acqua riscaldata da una caldaia simile a un marchingegno di Rube Goldberg, ricavata da un distillatore di cognac in rame. La stanza odorava di fumo di legna e rosmarino. Candelabri d'argento, sepolti in giardino durante la guerra, erano disposti intorno alla tinozza. Chiyoh non accese le candele. Una lampadina elettrica andava bene, finché la posizione di Hannibal non si fosse definita. Chiyoh gli porse degli asciugamani e una vestaglia, e gli indicò la doccia nell'angolo. «Si bagni là, strofinandosi bene, prima di immergersi nella vasca» disse. «Lo chef le preparerà un'omelette, e poi dovrà riposare.» Gli fece una smorfia che voleva essere un sorriso, gettò un'arancia nella tinozza e aspettò fuori che Hannibal si togliesse i vestiti. Quando lui glieli porse dalla porta, Chiyoh li prese con circospezione fra due dita, li avvolse intorno a un bastone che teneva nell'altra mano e sparì. Era sera quando Hannibal si svegliò di colpo, come gli capitava all'orfanotrofio. Solo i suoi occhi si mossero finché non vide dove si trovava. Si sentiva pulito nel suo letto pulito. Attraverso i tendaggi brillavano le ultime luci del lungo crepuscolo francese. Un kimono di cotone era posato su una sedia accanto a lui. Lo indossò. Il pavimento di pietra del corridoio era piacevolmente fresco sotto i suoi piedi, e gli scalini avevano delle incavature come quelli del castello Lecter. Fuori, sotto il cielo violetto, Hannibal poteva udire dei rumori provenire dalla cucina: i preparativi per la cena. Il mastino lo vide e batté la coda un paio di volte, senza alzarsi. Dalla stanza da bagno giungeva il suono di un liuto giapponese. Hannibal andò in direzione della musica. Una finestra impolverata brillava alla luce delle candele al suo interno. Hannibal guardò dentro. Chiyoh sedeva accanto alla tinozza pizzicando le corde di un lungo ed elegante koto. Aveva acceso le candele, questa volta. La caldaia faceva un rumore soffocato, mentre il fuoco sottostante scoppiettava e le scintille fluttuavano verso l'alto. Lady Murasaki era nell'acqua. Nell'acqua, come le ninfee nel fossato dove i cigni nuotavano e non cantavano. Hannibal guardò, silenzioso come i cigni, e aprì le braccia come ali. Si allontanò dalla finestra e ritornò in camera sua, con uno strano peso addosso, quindi si rimise a letto.
Nella stanza da letto padronale c'erano abbastanza braci da scintillare fino al soffitto. Il conte Lecter, nella semioscurità, si rianimò al tocco di Lady Murasaki e al suono della sua voce. «Se non ci sei, mi sento come quando eri in prigione» disse lei. «Mi venivano in mente i versi di una mia antenata, Ono no Komachi, di circa mille anni fa.» «Umm...» «Era molto passionale.» «Sono ansioso di sapere cosa diceva.» «Ecco la poesia: "Hito ni awan tsuki no naki yo wa / omoiokite / mune hashiribi ni / kokoro yaki ori". Riesci a sentirne la musicalità?» L'orecchio occidentale di Robert Lecter non poteva goderne, ma, sapendo in cosa consisteva la sua musica, ne fu entusiasta. «Oh, sì, cara. Dimmi il significato.» «Non c'è modo di vederlo / in questa notte senza luna / io resto sveglia, piena di desiderio bruciante / il fuoco nel petto, il cuore in fiamme.» «Mio Dio, Sheba.» Lei si prese deliziosamente cura di risparmiargli ogni sforzo. Nell'atrio del castello, la grande pendola dice che l'ora è tarda, con i suoi lenti rintocchi lungo i corridoi di pietra. Il mastino si agita nella cuccia, e con tredici brevi ululati risponde alla pendola. Hannibal nel suo letto pulito si rivolta nel sonno. E sogna. Nella stalla l'aria è fredda, i vestiti dei bambini sono tirati giù fino alla cintola mentre Occhiblu e Manopalmata tastano la carne delle loro braccia. Gli altri dietro a loro si muovono qua e là come iene in attesa. Ecco quello che tende sempre la ciotola. Mischa tossisce, ha la febbre e distoglie il viso dal loro alitare. Occhiblu afferra la catena intorno al loro collo. Il sangue e le piume dell'uccello che ha sbranato gli si sono appiccicate sulla faccia. La voce distorta dell'Uomo della ciotola: "Prendi lei. Tanto sta per mooorire comunque. Lui rimarrà freeeesco ancora per un po'". Occhiblu a Mischa, in un crudele inganno: "Vieni, vieni a giocare!". Occhiblu comincia a cantare e Manopalmata si unisce a lui: Ein Männlein steht im Walde ganz stili und stumm, Es hat von lauter Purpur ein Mäntlein um...
L'Uomo della ciotola porta la ciotola con sé. Manopalmata prende l'ascia, Occhiblu afferra Mischa e Hannibal urlando gli si scaglia contro, affonda i denti nella guancia di Occhiblu, con Mischa sospesa in aria per le braccia, che si volta indietro a guardarlo. «Mischa, Mischa!» Le sue grida risuonano lungo i corridoi di pietra e il conte Lecter e Lady Murasaki si precipitano nella stanza di Hannibal. Ha strappato il cuscino con i denti e le piume volano in giro, mentre lui ringhia e urla, picchiando, lottando, battendo i denti. Il conte Lecter gli si mette addosso con tutto il suo peso, gli tiene ferme le braccia e gli blocca le ginocchia sotto le coperte. «Tranquillo, tranquillo.» Temendo per la lingua di Hannibal, Lady Murasaki si toglie la cintura dalla vestaglia, gli chiude il naso finché lui deve prendere fiato e gli infila la cintura tra i denti. Hannibal ha un fremito e poi si blocca, come un uccello che muore. La vestaglia di lei si è aperta mentre si preme contro il petto il suo viso bagnato da lacrime di rabbia, con le piume del cuscino appiccicate alla guancia. Ma è al conte che lei domanda: «Tutto bene?». 16 Hannibal si alzò presto e si lavò la faccia usando il catino e la brocca che aveva sul comodino. Una piccola piuma galleggiava nell'acqua. Aveva solamente un vago e confuso ricordo della nottata. Dietro di sé udì un foglio di carta scivolare sui pavimento di pietra, una busta infilata sotto la porta. Un rametto di salice era attaccato al messaggio. Hannibal tenne il foglietto contro il viso con le mani a coppa prima di leggerlo. Hannibal, mi farebbe molto piacere se potessi venire da me nel mio salottino all'ora della capra. (Sono le dieci del mattino in Francia.) Murasaki Shikibu Hannibal Lecter, tredicenne, i capelli lisciati dall'acqua, stava in piedi
fuori dalla porta dei salottino. Udiva il liuto. Non era la stessa canzone che aveva ascoltato dal bagno. Bussò. «Vieni.» Entrò in un salottino che era anche studio, con un telaio da ricamo vicino alla finestra e un cavalletto per gli esercizi di calligrafia. Lady Murasaki era seduta a un basso tavolino da tè. I suoi capelli erano raccolti sulla festa da un fermaglio in ebano. Le maniche del kimono sembravano sussurrare mentre lei sistemava i fiori. Le buone maniere sono compatibili con qualsiasi cultura, avendo un obiettivo comune. Lady Murasaki lo accolse con un lento e grazioso cenno del capo. Hannibal s'inchinò fino alla vita come suo padre gli aveva insegnato. Vide una voluta bluastra di fumo d'incenso passare davanti alla finestra come un volo d'uccelli in lontananza, e la vena azzurro pallido nel braccio di Lady Murasaki mentre teneva un fiore, con il sole che le tingeva di rosa l'orecchio. Il liuto di Chiyoh risuonava dolcemente da dietro un paravento. Lady Murasaki lo invitò a sedersi di fronte a lei. Aveva una piacevole voce da contralto, con alcune note irregolari che non si ritrovano nella scala occidentale. Per Hannibal il suo modo di parlare suonava come musica casuale proveniente da una campana a vento. «Se non vuoi il francese, l'inglese o l'italiano, possiamo usare alcune parole giapponesi, come kieuseru. Significa "sparire".» Lady Murasaki sistemò uno stelo, alzò gli occhi dai fiori e guardò verso di lui. «Il mio mondo di Hiroshima se n'è andato in un lampo. E anche il tuo mondo ti è stato strappato. Adesso tu e io abbiamo il mondo che facciamo... insieme. In questo momento. In questa stanza.» Prese altri fiori dal sottovaso davanti a lei e li pose sul tavolo accanto al vaso. Hannibal poteva udire le foglie frusciare e l'incresparsi delle sue maniche mentre lei gli offriva i fiori. «Hannibal, dove li metteresti per ottenere l'effetto migliore? Scegli tu.» Hannibal guardò i fiori. «Quando eri piccolo, tuo padre ci mandò i tuoi disegni. Hai un occhio promettente. Se preferisci disegnare la composizione, usa pure il blocco dietro di te.» Hannibal rifletté. Prese due fiori e il coltello. Vide l'arco delle finestre, la curva del caminetto dove il recipiente del tè era appeso sopra il fuoco. Tagliò più corti gli steli dei fiori e li pose nel vaso, regalando un tocco di armonia alla composizione e alla stanza. Poi appoggiò gli steli tagliati sul ta-
volo. Lady Murasaki sembrò compiaciuta. «Aaah. Lo potremmo chiamare moribana, lo stile obliquo.» Prese in mano una peonia dai petali di seta. «Ma dove metteresti questa? La useresti?» Nel caminetto, l'acqua nella teiera cominciò a bollire. Hannibal la udì, sentì l'acqua bollire, ne guardò la superficie e il suo viso cambiò mentre la stanza spariva. La vasca da bagno di Mischa sulla stufa nel casino di caccia, il cranio cornuto del piccolo capriolo che sbatteva contro le pareti nell'acqua bollente, come se stesse cercando di colpire a testa bassa. Le ossa che risuonavano nell'acqua che bolliva. Di nuovo in sé, di nuovo nella stanza di Lady Murasaki, e la testa della peonia, ora insanguinata, caduta sul tavolo accanto al coltello. Hannibal cercò di padroneggiarsi, si alzò in piedi tenendosi la mano sanguinante dietro la schiena. S'inchinò a Lady Murasaki e fece per allontanarsi dalla stanza. «Hannibal.» Lui aprì la porta. «Hannibal.» Lei si alzò e gli andò vicino in fretta. Gli tese la mano, mantenne lo sguardo fisso nei suoi occhi e non lo toccò, ma fece un cenno con le dita. Gli prese la mano insanguinata e il suo tocco rimase impresso negli occhi di lui, con un leggero cambiamento nella grandezza delle sue pupille. «Hai bisogno di qualche punto. Serge ci può portare in città.» Hannibal scosse il capo e indicò con il mento il telaio da ricamo. Lady Murasaki lo guardò fisso in volto finché fu sicura. «Chiyoh, metti a bollire un ago e del filo.» Alla finestra, in una buona luce, Chiyoh portò a Lady Murasaki ago e filo avvolti intorno a una forcina d'ebano, bolliti nell'acqua del tè. Lady Murasaki tenne ferma la mano di Hannibal e cucì il suo dito con sei punti precisi. Gocce di sangue caddero sulla seta bianca del suo kimono. Hannibal tenne lo sguardo fisso su di lei mentre lavorava. Non mostrò alcuna reazione al dolore. Sembrava pensare a qualcos'altro. Guardò il filo tirato stretto, srotolato dalla forcina. L'arco della cruna dell'ago era una finzione del diametro della forcina, pensò. Le pagine di Huygens sparse sulla neve, insieme al cervello.
Chiyoh applicò una foglia d'aloe e Lady Murasaki gli bendò la mano. Quando la lasciò andare, Hannibal andò al tavolo da tè, prese la peonia e ne potò lo stelo. Aggiunse la peonia al vaso, completando un'elegante composizione. Guardò Lady Murasaki e Chiyoh. Nel suo viso ci fu un movimento simile a un tremolio d'acqua mentre cercava di dire: "Grazie". Lady Murasaki ricambiò lo sforzo con un sorriso leggiadro appena accennato, ma non lo lasciò provare a lungo. «Vuoi venire con me, Hannibal? E puoi aiutarmi a portare i fiori?» Insieme salirono le scale della soffitta. La porta un tempo era stata utilizzata altrove nella casa; vi era scolpito un volto, una maschera comica greca. Lady Murasaki, che portava un candeliere, fece strada nella vasta soffitta, oltrepassando una collezione di trecento anni di bauli, decorazioni natalizie, ornamenti da giardino, mobili in vimini, costumi teatrali kabuki e no e una fila di marionette a grandezza naturale appese a una sbarra. Una luce fioca si diffondeva nell'oscurità dal vetro di un abbaino lontano. Con la candela Lady Murasaki illuminò un piccolo altare che si trovava di fronte alla finestra. Sopra c'erano immagini dei suoi antenati e di quelli di Hannibal. Tra le fotografie c'era un origami di gru in volo, molte gru. Ed ecco un'immagine dei genitori di Hannibal il giorno delle nozze. Hannibal guardò sua madre e suo padre alla luce della candela. Sua madre appariva molto felice. L'unica fiamma era quella della candela... i suoi vestiti non bruciavano. Hannibal sentì una presenza incombere accanto e sopra di sé e scrutò nel buio. Appena Lady Murasaki alzò la tendina sopra la finestra dell'abbaino, la luce del mattino sorse su Hannibal e sulla presenza scura dietro di lui, sorse su piedi rivestiti di un'armatura, su un ventaglio tenuto da una mano guantata di cavaliere, su una corazza e per ultimo sulla maschera di ferro e su un elmo a corna di un capo samurai. L'armatura era sulla pedana. Le armi del samurai - la spada lunga e quella corta, un pugnale e un'ascia da guerra - stavano su un supporto davanti all'armatura. «Mettiamo i fiori qui, Hannibal» disse Lady Murasaki, facendo posto sull'altare davanti alle foto dei suoi genitori. «Qui è dove prego per te, e dove ti raccomando vivamente di pregare per te stesso e di consultare gli spiriti della tua famiglia per ottenere saggezza e forza.» Con un gesto di cortesia, Hannibal chinò il capo davanti all'altare per un momento, ma il richiamo dell'armatura lo sopraffaceva, la sentiva tutta su
di sé. Andò verso il supporto per toccare le armi. Lady Murasaki lo fermò con una mano alzata. «Questa armatura stava nell'ambasciata di Parigi quando mio padre era ambasciatore in Francia prima della guerra. L'abbiamo nascosta ai tedeschi. Io la tocco solo una volta all'anno. Nel giorno del compleanno del mio trisavolo sono onorata di pulire la sua armatura e le sue armi, di ungerle con olio di camelia ed essenza di garofano, dall'aroma piacevole.» Tolse il tappo a una fiala e gliela porse da annusare. C'era una pergamena sulla pedana davanti all'armatura. Era srotolata quel tanto da mostrare il primo riquadro, con il samurai che indossava l'armatura durante l'udienza con i suoi servitori. Mentre Lady Murasaki sistemava le cose sull'altare, Hannibal srotolò la pergamena fino al riquadro successivo, dove la figura nell'armatura stava presiedendo una presentazione di teste di samurai. Ogni testa di nemico era etichettata con il nome del morto e l'etichetta era attaccata ai capelli o, in caso di calvizie, a un orecchio. Lady Murasaki gli prese gentilmente la pergamena e la riarrotolò fino a lasciare in evidenza solo il suo antenato con l'armatura. «Qui è dopo la battaglia per il castello di Osaka» disse. «Ci sono altri rotoli che ti potranno interessare di più. Hannibal, piacerebbe molto a tuo zio e a me se tu diventassi il genere d'uomo che era tuo padre, e che è tuo zio.» Hannibal guardò l'armatura, con una domanda negli occhi. Lei gliela lesse in viso. «Anche come lui? In un certo senso, ma con più compassione.» Diede un'occhiata all'armatura come se potesse udire e sorrise a Hannibal. «Ma non lo direi di fronte a lui in giapponese.» Gli venne vicino, con la candela in mano. «Hannibal, puoi lasciare la terra dell'incubo. Puoi essere tutto quello che riesci a immaginare. Vieni sul ponte dei sogni. Ti va di accompagnarmi?» Lady Murasaki era molto diversa da sua madre. Lei non era sua madre, ma Hannibal la sentiva profondamente dentro di sé. Il suo sguardo intenso doveva averla turbata, perché lei scelse di rompere quell'incanto. «Il ponte dei sogni porta ovunque, ma prima passa per lo studio del medico e per la scuola» disse. «Vuoi venire?» Hannibal la seguì, ma prima prese la peonia insanguinata, persa tra i fiori, e la pose sulla pedana davanti all'armatura. 17
Il dottor J. Rufin esercitava in una villetta con un minuscolo giardino. La targa discreta davanti al cancello portava il suo nome e il titolo: DOTTORE IN MEDICINA, PSICHIATRA. Il conte Lecter e Lady Murasaki sedevano su seggiole dallo schienale rigido nella sala d'attesa tra i pazienti del dottor Rufin, alcuni dei quali avevano difficoltà a stare fermi. Lo studio del medico era in stile vittoriano, con due poltrone ai lati del caminetto, una chaise longue con un rivestimento a frange e vicino alle finestre un lettino con uno sterilizzatore in acciaio inossidabile. Hannibal e il dottor Rufin, barbuto e di mezza età, stavano seduti nelle poltrone, e il medico gli parlava con voce bassa e gradevole. «Hannibal, guardando il metronomo che oscilla e ascoltando il suono della mia voce, entrerai in uno stato che chiamiamo di sonno vigile. Non ti chiederò di parlare, ma vorrei che tu emettessi un suono per indicare sì o no. Proverai un senso di pace, di rilassamento.» Tra loro, su un tavolo, il pendolo di un metronomo si muoveva da una parte all'altra. Un orologio decorato con i segni zodiacali e degli angioletti ticchettava sulla mensola del caminetto. Mentre il dottor Rufin parlava, Hannibal contava i battiti del metronomo confrontandoli con quelli dell'orologio. Andavano un po' all'unisono e un po' no. Hannibal si chiese se, contando gli intervalli tra una fase e l'altra e misurando l'ampiezza del pendolo del metronomo, avrebbe potuto calcolare la lunghezza del pendolo nascosto dentro l'orologio. Decise per il sì, mentre il dottor Rufin continuava a parlare. «Un suono con la bocca, Hannibal. Qualsiasi suono va bene.» Hannibal, gli occhi disciplinatamente fissi sul metronomo, emise un sibilo spingendo l'aria tra la lingua e il labbro inferiore. «Molto bene» disse il dottor Rufin. «Rimani calmo nello stato di sonno vigile. E quale suono useremo per il no? No, Hannibal. No.» Hannibal emise un suono più alto prendendo il labbro inferiore tra i denti ed espellendo l'aria dalla guancia oltre la gengiva superiore. «Questo vuol dire comunicare, Hannibal, e tu lo puoi fare. Pensi che possiamo continuare a lavorare ora, tu e io insieme?» L'affermazione di Hannibal fu abbastanza rumorosa da poter essere udita nella sala d'attesa, dove i pazienti si scambiarono occhiate inquiete. Il conte Lecter accavallò le gambe e si schiarì la voce, mentre i begli occhi di Lady Murasaki ruotarono lentamente verso il soffitto. Un uomo che assomigliava a uno scoiattolo disse: «Non sono stato io».
«Hannibal, so che il tuo sonno è spesso disturbato» disse il dottor Rufin. «Restando calmo, adesso, in uno stato di sonno vigile, puoi descrivermi alcune delle cose che vedi nei tuoi sogni?» Hannibal, contando i ticchettii dell'orologio, emise per il dottor Rufin il suono convenuto per "affermativo". L'orologio aveva il numero romano IV anziché IIII, per simmetria con l'VIII sul lato opposto. Hannibal si chiese se questo volesse dire che aveva la "suoneria romana": due rintocchi di diverso tono, uno per il "cinque" e uno per l'"uno". Il dottore gli porse un blocco per gli appunti. «Forse potresti scrivere alcune delle cose che vedi? Se chiami a gran voce il nome di tua sorella, riesci a vederla?» Hannibal annuì. Nel castello Lecter alcuni degli orologi avevano la suoneria romana e altri no, ma tutti quelli che avevano la suoneria romana avevano il IV invece del IIII. Quando il signor Jakov aprì un orologio e spiegò cos'ora lo scappamento, parlò di Knibb e dei suoi primi orologi con suoneria romana. Sarebbe stato bello visitare nella sua mente la Sala degli Orologi per esaminare lo scappamento. Pensò di andarci subito, ma sarebbe stato un lungo giro per il dottor Rufin. «Hannibal. Hannibal. Quando pensi all'ultima volta che hai visto tua sorella, puoi scrivere quello che vedi? Puoi scrivere quello che immagini di vedere?» Hannibal scrisse senza guardare il blocco degli appunti, contando sia i battiti del metronomo sia quelli dell'orologio. Guardando il blocco, il dottor Rufin parve incoraggiato. «Vedi i suoi denti da bambina? Solo i suoi dentini? Dove li vedi, Hannibal?» Hannibal raggiunse e fermò il pendolo, ne guardò la lunghezza e la posizione del peso contro la scala del metronomo. Scrisse sul blocchetto: "In una latrina, dottore. Posso aprire il retro dell'orologio?". Hannibal aspettò fuori con gli altri pazienti. «Eri tu, non io» ripeté il paziente che assomigliava a uno scoiattolo. «Lo devi ammettere. Hai una gomma da masticare?» «Ho provato a chiedergli di più riguardo a sua sorella, ma si è chiuso in se stesso» disse il dottor Rufin. Il conte stava in piedi nello studio dietro la
sedia di Lady Murasaki. «Per essere franco, il quadro mi è poco chiaro. L'ho esaminato e fisicamente è sano. Ho trovato delle cicatrici sul cuoio capelluto, ma nessun segno di fratture. Credo comunque di poter dire che gli emisferi del suo cervello potrebbero agire in modo indipendente, come succede in certi casi di trauma, quando la comunicazione tra gli emisferi è compromessa. Il ragazzo segue diverse linee di pensiero contemporaneamente, senza distrarsi, e una di queste è sempre per il suo puro piacere. «La cicatrice sul collo è il segno di una catena congelata sulla pelle. Ne ho viste altre simili, subito dopo la guerra, quando i campi di concentramento furono aperti. Non dirà che cosa è accaduto alla sorella. Penso lo sappia, che se ne renda conto o meno, e qui sta il pericolo: la mente ricorda quanto può permettersi di ricordare e in base ai propri ritmi. Hannibal ricorderà quando potrà affrontare la cosa. «Non lo sottoporrei a pressioni, ed è inutile provare a ipnotizzarlo. Se ricorda troppo presto, potrebbe congelarsi dentro per sempre per evitare il dolore. Lo terrete in casa vostra?» «Sì» risposero all'unisono i coniugi. Rufin annuì. «Coinvolgetelo nella vostra famiglia quanto più potete. Via via che tornerà in sé, si attaccherà a voi molto più di quanto immaginiate.» 18 La lunga estate francese, una foschia di pollini sulla superficie del fiume Essonne e anatre fra le canne. Hannibal non parlava ancora, ma aveva un sonno senza sogni e l'appetito di un tredicenne in crescita. Lo zio Robert Lecter era più affettuoso e meno misurato di quanto fosse stato suo padre. Aveva una sorta di rilassatezza d'artista che si era combinata con quella data dall'età. C'era un ballatoio sul tetto, dove si poteva camminare. Il polline si era ammucchiato nei compluvi, indorando il muschio, e le ragnatele ondeggiavano nel vento. Tra gli alberi si poteva vedere la curva argentea del fiume. Il conte era alto e allampanato, la sua pelle appariva grigiastra nella luce sui tetto. Le mani sulla ringhiera erano sottili, ma assomigliavano a quelle del padre di Hannibal. «Nella nostra famiglia, Hannibal, siamo un po' particolari» disse. «Lo impariamo presto, e mi aspetto che tu lo sappia già. Ti sentirai più a tuo
agio con gli anni a venire, se ora la cosa ti turba. Hai perso la tua famiglia e la casa, ma hai me e Sheba. Non è deliziosa? Suo padre la portò a vedere una mostra di miei quadri al Metropolitan di Tokyo venticinque anni fa. Non avevo mai incontrato una ragazzina così. Quindici anni dopo, quando suo padre è diventato ambasciatore in Francia, è venuta anche lei. Non potevo credere alla mia fortuna e mi precipitai all'ambasciata annunciando la mia intenzione di convertirmi allo shintoismo. Mi disse che la mia religione non era tra le sue preoccupazioni principali. Non mi ha mai approvato, ma le piacciono i miei quadri. Quadri! Vieni. «Questo è il mio studio.» Era una grande stanza dalle pareti bianche all'ultimo piano del castello. Tele non finite stavano sui cavalletti e molte altre erano appoggiate alle pareti. Una chaise longue era sistemata su una bassa pedana e accanto, appeso a un attaccapanni, c'era un kimono. Su un cavalletto vicino, un quadro coperto da un drappo. Passarono in una stanza adiacente dove c'era un grande cavalletto con un blocco di fogli di carta di giornale, del carboncino e dei tubetti di colore. «Ho fatto preparare uno spazio per te, un tuo studio» disse il conte. «Puoi trovare conforto qui, Hannibal. Quando senti che stai per esplodere, disegna! dipingi! Per emozioni intense, tanti colori. Non cercare di darti un obiettivo o di usare trucchi quando disegni. Otterrai abbastanza consigli da Sheba.» Guardò oltre gli alberi, verso il fiume. «Ci vediamo a pranzo. Chiedi alla signora Brigitte di trovarti un cappello. Andremo in barca nel tardo pomeriggio, dopo le tue lezioni.» Quando il conte l'ebbe lasciato, Hannibal non andò subito al cavalletto, ma vagò per lo studio guardando i lavori ancora da terminare. Appoggiò una mano sulla chaise longue, toccò il kimono sull'attaccapanni e lo tenne davanti al viso. Si fermò di fronte alla tela coperta sul cavalletto e alzò il drappo. Il conte stava ritraendo Lady Murasaki nuda sulla sedia. Il dipinto si impose agli occhi di Hannibal, punti di luce gli danzarono nelle pupille, come lucciole nella notte. L'autunno si avvicinava e Lady Murasaki organizzò delle cene sul prato dove potevano ammirare la luna di settembre e udire gli insetti. Aspettavano il sorgere della luna, Chiyoh suonava il liuto al buio quando i grilli cantavano. Con il solo fruscio della seta e un profumo a guidarlo, Hannibal sapeva sempre esattamente dov'era Lady Murasaki. I grilli francesi non erano paragonabili ai superbo grillo giapponese, il suzumushi, gli spiegò il conte, ma non c'era nulla da fare. Prima della guer-
ra, il conte aveva spedito più volte in Giappone una richiesta per ottenere qualche suzumushi per Lady Murasaki, ma nessuno era sopravvissuto al viaggio e lui aveva evitato di dirglielo. Nelle sere silenziose, quando l'aria era umida dopo la pioggia, giocavano a indovinare i profumi, con Hannibal che bruciava su un frammento di mica una varietà di cortecce e incenso che Chiyoh doveva identificare. In queste occasioni Lady Murasaki suonava il koto, così Chiyoh poteva concentrarsi, con la sua maestra che ogni tanto proponeva accenni musicali di un repertorio che Hannibal non era in grado di seguire. Hannibal venne mandato alle classi speciali nella scuola del villaggio, ed era oggetto di curiosità perché non sapeva enunciare. Il secondo giorno uno zoticone sputò dall'alto sui capelli di un bambino del primo anno e Hannibal gli ruppe il coccige e il naso. Fu spedito a casa, ma la sua espressione non cambiò mai. Seguiva invece le lezioni con Chiyoh a casa. Lei era stata fidanzata per anni con il figlio di un diplomatico in Giappone, e ora, a tredici anni, stava imparando da Lady Murasaki le arti di cui aveva bisogno. L'istruzione era molto diversa da quella del signor Jakov, ma le materie avevano una bellezza particolare, come la matematica del signor Jakov, e Hannibal le trovava affascinanti. Stando vicino alla luce della finestra nel suo salone, Lady Murasaki insegnava calligrafia, a dipingere su fogli di giornale, e riusciva a ottenere effetti delicati anche con un pennello grosso. Ecco il simbolo dell'eternità, una forma triangolare piacevole da contemplare. Sotto di essa, la frase sul giornale diceva: "Medici sotto accusa a Norimberga". «Questo esercizio è chiamato "Eternità in otto pennellate"» disse lei. «Provalo.» Ala fine delle lezioni, Lady Murasaki e Chiyoh facevano ognuna l'origami di una gru, che poi avrebbero messo sull'altare in soffitta. Hannibal prese un pezzo di carta per fare una gru. L'occhiata interrogativa di Chiyoh a Lady Murasaki lo fece sentire per un momento come un estraneo. Lady Murasaki gli tese un paio di forbici (e più tardi avrebbe corretto Chiyoh per la gaffe, che non sarebbe stata permessa nell'ambiente diplomatico). «Chiyoh ha una cugina a Hiroshima di nome Sadako» spiegò Lady Murasaki. «Sta morendo per le radiazioni. Sadako crede che se riuscirà a co-
struire mille gru di carta, lei sopravviverà. La sua forza è limitata, e noi l'aiutiamo facendo ogni giorno per lei delle gru. Che siano o no utili alla sua salute, mentre le facciamo Sadako è nei nostri pensieri, insieme a tutti coloro che sono stati avvelenati dalla guerra. Se vuoi piegare gru per noi, Hannibal, noi lo faremo per te. Facciamo tante gru insieme per Sadako.» 19 Il giovedì nella piazza del paese si teneva un bel mercato sotto i tendoni, intorno alla fontana e alla statua del maresciallo Foch. Il vento aveva un odore salmastro che proveniva dal mercante di sottaceti e il pesce e i molluschi disposti su letti di alghe portavano l'odore dell'oceano. Alcune radioline rivaleggiavano nel trasmettere musiche differenti. Il suonatore d'organetto, con la sua scimmietta - rilasciati dopo colazione da una delle loro frequenti visite in prigione -, continuava a far girare il motivo Sous les ponts de Paris, finché qualcuno diede loro rispettivamente un bicchiere di vino e un dolcetto alle noccioline. Il suonatore tracannò tutto il vino in un solo sorso e confiscò mezzo dolce per sé, mentre la scimmia prendeva nota con i suoi occhietti vispi della tasca in cui il suo padrone lo metteva. Due gendarmi impartirono al musicante i soliti inutili ammonimenti e andarono alla rivendita di dolci. La meta di Lady Murasaki era Legumes Bulot, la principale bancarella di verdure, per comprare dei germogli di felce. Erano uno dei cibi preferiti del conte, e di solito andavano presto esauriti. Hannnibal si trascinava dietro di lei portando un cesto. Si fermò per osservare come il venditore di formaggi oliasse una corda di piano e la usasse per tagliare una grossa fetta di grana. Il negoziante gliene diede un pezzo chiedendogli di raccomandarlo alla signora. Lady Murasaki non vide germogli di felce in esposizione e prima ancora di poter chiedere qualcosa Bulot il verduraio ne tirò fuori un cesto da sotto il banco. «Signora, sono così straordinari che non volevo che il sole li sciupasse. In attesa del suo arrivo li ho coperti con un panno e inumiditi non con acqua ma con vera rugiada.» Di fronte al verduraio, Paul Momund sedeva con il suo grembiule macchiato di sangue a un tavolo da macellaio, a pulire pollame gettando le frattaglie in un cesto e suddividendo stomaci e fegati in due ciotole. Era grosso e muscoloso, con un tatuaggio sull'avambraccio: una ciliegia con la scritta "Voiçi la mienne, où est la tienne?". Questa è la mia, dov'è la tua? Il
rosso della ciliegia era diventato più pallido del sangue sulle sue mani. Il fratello di Paul il macellaio, più abituato ad avere a che fare con il pubblico, lavorava al bancone sotto l'insegna MOMUND CARNI SCELTE. Portò a Paul un'oca da sventrare. Questi bevve un sorso dalla bottiglia di marc che teneva accanto a sé e si asciugò il viso con la mano lorda, lasciandosi sulle guance tracce di sangue e piume. «Prenditela con calma, Paul» gli disse il fratello. «La giornata sarà lunga.» «Perché non la spenni tu quest'oca del cazzo? Sei di sicuro più bravo a spennare che a scopare» disse Paul il macellaio, divertito dalla propria battuta. Hannibal stava guardando la testa di un maiale in una vetrina quando udì la voce di Paul. «Ehi, giapponese!» E la voce di Bulot il verduraio: «Prego, signore! È inaccettabile!». Ma Paul di nuovo: «Ehi, giapponese, dimmi un po', è vero che hai la fica di traverso? Con un ciuffettino di peli diritto come un fuso?». Hannibal allora vide Paul, la faccia sudicia di sangue e piume come quella di Occhiblu, come quella di Occhiblu che rosicchiava la pelle di un uccello. Paul si girò verso il fratello: «Dammi retta, una volta ne ho avuta una a Marsiglia che poteva prenderti tutto...». Il cosciotto di agnello si abbatté sulla faccia di Paul e lo scaraventò all'indietro, in un guazzabuglio d'interiora, con Hannibal sopra di lui ad alzare il cosciotto e a colpirlo ripetutamente finché gli sfuggì di mano. Allora il ragazzo cercò dietro di sé sul tavolo il coltello da lavoro, senza trovarlo. Trovò invece delle budella di pollo e ne scaraventò una manciata sulla faccia di Paul, mentre il macellaio lo percuoteva con le sue grosse mani piene di sangue. Il fratello di Paul diede un calcio a Hannibal dietro la testa e afferrò un pestacarne dal bancone proprio mentre Lady Murasaki si precipitava su di lui e lo spingeva gridando: «Kiai!». Lady Murasaki teneva un coltellaccio contro la gola del fratello del macellaio, proprio nel punto in cui avrebbe infilzato un maiale. Disse: «Restate immobili, signori». Tutti si bloccarono come congelati per un lungo momento. Intanto si sentivano i fischietti dei gendarmi, mentre le grandi mani di Paul erano strette intorno alla gola di Hannibal e gli occhi di suo fratello si torcevano verso il punto in cui la lama d'acciaio gli toccava il collo; e Hannibal io sentiva, lo sentiva dietro di sé. I due gendarmi, scivo-
lando sulle frattaglie, divisero Paul e Hannibal, liberando il ragazzo dalla stretta e allontanando il macellaio. Hannibal aveva la voce arrugginita per il prolungato disuso, ma il macellaio lo capì. Disse "Bestia" in tono estremamente calmo. Suonò più come una classificazione tassonomica che come un insulto. La stazione di polizia si affacciava sulla piazza. Un sergente stava dietro il banco all'ingresso. Il comandante era in borghese quel giorno, in un abito estivo spiegazzato. Aveva circa cinquant'anni ed era stato messo a dura prova dalla guerra. Nel suo ufficio offrì una sedia a Lady Murasaki e a Hannibal e si sedette lui stesso. La sua scrivania era vuota, tranne per un posacenere marchiato Cinzano e una bottiglia di digestivo. Offrì a Lady Murasaki una sigaretta, che lei rifiutò. I due gendarmi intervenuti al mercato bussarono ed entrarono. Rimasero in piedi contro il muro, esaminando Lady Murasaki con la coda dell'occhio. «Qualcuno dei presenti vi ha colpito o ha cercato di opporre resistenza?» domandò il comandante ai poliziotti. «No, signore.» Fece un cenno per avere il resto del loro resoconto. Il gendarme più anziano consultò i suoi appunti. «Bulot il verduraio ha dichiarato che il macellaio è impazzito e ha cercato di prendere il coltello, urlando che avrebbe ucciso tutti, comprese le suore della chiesa.» Il comandante alzò gli occhi al cielo, con un moto d'impazienza. «Il macellaio era uno di quelli di Vichy, ed è molto odiato, come forse sapete» disse. «Me la vedrò io con lui. Sono desolato per le offese che ha subito, Lady Murasaki. Giovanotto, se ti capita di sentir offendere di nuovo questa signora voglio che tu venga da me. Mi hai capito?» Hannibal annuì. «Nessuno deve essere attaccato in questo paese, a meno che non sia io stesso a farlo.» Il comandante si alzò e si mise dietro il ragazzo. «Ci scusi, signora. Hannibal, vieni con me.» Lady Murasaki guardò il poliziotto e scosse leggermente la testa. Il comandante condusse Hannibal nel retro della stazione di polizia dove si trovavano due celle, una occupata da un ubriaco addormentato, l'altra appena lasciata libera dal suonatore di organetto con la sua scimmietta, la cui ciotola d'acqua era ancora per terra.
«Entra dentro.» Hannibal andò al centro della cella. Il comandante chiuse la porta con un suono metallico che fece agitare e borbottare l'ubriaco. «Guarda il pavimento. Vedi come le assi sono macchiate e malridotte? Sono intrise di lacrime. Prova la porta. Dài, fallo. Vedi che non si apre da quel iato. La collera è un dono utile ma pericoloso. Abbi giudizio e non dovrai mai occupare una cella come questa. Io do solo avvertimenti, e questo è per te. Ma non farlo più. Non colpire nessun altro con un pezzo di carne.» Il comandante accompagnò Lady Murasaki e Hannibal alla loro macchina. Quando il ragazzo fu dentro, lei si fermò un attimo con il poliziotto. «Comandante, non voglio che mio marito lo sappia. Il dottor Rufin potrà spiegarvi perché.» L'uomo annuì. «Se il conte dovesse sentire qualcosa e mi chiedesse, dirò che si è trattato di una rissa tra ubriachi e che il ragazzo ci si è trovato in mezzo. Sono dispiaciuto che il conte non stia bene. Per altri versi è il più fortunato degli uomini.» Era possibile che il conte, nel suo operoso isolamento al castello, non venisse mai a sapere nulla dell'incidente. Ma la sera, mentre fumava un sigaro, l'autista Serge tornò dal paese con i giornali della sera e glieli mise accanto. Il mercato dei venerdì era a Villiers, a una quindicina di chilometri di distanza dal castello. Il conte, tetro e insonne, uscì dall'auto mentre Paul il macellaio stava portando la carcassa di un agnello. Il bastone da passeggio del conte colpì Paul sul labbro superiore e il conte gli sì scagliò contro, infuriato. «Brutto schifoso, come hai osato insultare mia moglie!» Il macellaio lasciò cadere la carne e spinse con violenza il conte, che per la sua struttura esile volò contro un bancone; il conte gli si buttò addosso di nuovo, colpendolo ancora con la canna, ma si fermò all'improvviso, con uno sguardo attonito sul viso. Alzò la mano verso il gilet e piombò a terra a faccia in giù. 20 Disgustato dal belare piagnucoloso dei salmi e dal ronzio monotono del-
la cerimonia funebre, Hannibal Lecter, tredicenne e ultimo della sua stirpe, stava in piedi accanto a Lady Murasaki e Chiyoh all'ingresso della chiesa, dando con aria assente la mano ai convenuti al funerale, a mano a mano che gli sfilavano davanti. Le donne si scoprivano il capo appena uscite dalla chiesa, per via del pregiudizio postbellico contro i foulard in testa. Lady Murasaki ascoltava, offrendo gentili e appropriate risposte. Sentendo la fatica di lei, Hannibal si riscosse e si scoprì a parlare in modo da alleviarle la fatica, ma sentì che la propria voce ritrovata degenerava velocemente in una sorta di gracidio. Se Lady Murasaki fu sorpresa di udirlo non lo diede a vedere, ma gli prese la mano e la strinse forte mentre tendeva l'altra alla persona che si stava presentando a farle le condoglianze. Un gruppo di giornalisti da Parigi e cronisti di agenzie erano lì per documentare la scomparsa di un grande artista che da vivo li aveva evitati. Lady Murasaki non ebbe nulla da dichiarare. Nel pomeriggio di quel giorno senza fine, l'avvocato del conte venne al castello insieme a un funzionario delle tasse. Lady Murasaki offrì loro del tè. «Signora, sono desolato di disturbarvi nel vostro dolore» disse il funzionario «ma voglio assicurarle che avrà tutto il tempo necessario per sistemare le sue cose prima che il castello venga messo all'asta per pagare le tasse di successione. Vorremmo poter accettare le sue garanzìe, ma dato che il suo status di residente in Francia sarà ora messo in discussione, ciò è impossibile.» Finalmente giunse la notte. Hannibal accompagnò Lady Murasaki fino alla porta della sua camera, dove Chiyoh aveva preparato un giaciglio per dormire accanto a lei. Hannibal rimase sveglio in camera sua a lungo, e quando il sonno arrivò, arrivarono anche i sogni. La faccia di Occhiblu imbrattata di sangue e piume che si trasformava in quella di Paul il macellaio, e poi cambiava di nuovo. Hannibal si svegliò nel buio e l'immagine non svanì, i volti come ologrammi sul soffitto. Ora che poteva parlare, non urlò. Si alzò e salì lentamente le scale verso lo studio del conte. Accese i candelabri su entrambi i lati del cavalletto. I ritratti alle pareti, finiti e incompleti, avevano guadagnato intensità ora che il loro autore se n'era andato. Hannibal sentì che sì fendevano verso lo spirito del conte come se potessero ritrovarlo vivo.
I pennelli puliti dello zio stavano in un barattolo, i pastelli e i carboncini in vaschette scanalate. Il quadro di Lady Murasaki non c'era, e lei aveva anche tolto il suo kimono dall'attaccapanni. Hannibal cominciò a disegnare con grandi movimenti del braccio, come il conte gli aveva consigliato, cercando di lasciarsi andare, tracciando ampi segni diagonali sulla carta e macchie di colore. Non funzionava. Verso l'alba interruppe i suoi sforzi; smise di esercitarsi e si limitò a osservare che cosa gli rivelava la sua mano. 21 Hannibal sedeva su un ceppo in una piccola radura vicino al fiume, strimpellando il liuto e osservando un ragno che filava. Il ragno, giallo e nero, era uno splendido tessitore e lavorava senza sosta. La tela vibrava sotto i suoi sforzi. L'animale sembrava eccitato dal suono e correva da una parte all'altra della ragnatela in cerca di prede mentre Harmibal pizzicava le corde. Riusciva più o meno a intonare un canto giapponese, ma faceva ancora qualche stecca. Pensò alla bella voce da contralto di Lady Murasaki quando parlava inglese, con le sue occasionali note non appartenenti alla scala occidentale. Suonò più vicino alla ragnatela e poi più lontano. Un maggiolino che volava lentamente incappò nella tela e il ragno si affrettò a imprigionarlo. L'aria era immobile e calda, la superficie del fiume perfettamente piatta. Vicino alle rive gli insetti svolazzavano e le libellule si lanciavano sui giunchi. Paul il macellaio pagaiava con una mano sola e lasciava andare alla deriva la sua piccola barca, vicino ai salici che sporgevano dall'argine. I grilli cantavano nel cesto per le esche di Paul, attraendo una mosca dagli occhi rossi, che volò dalla grossa mano dell'uomo non appena lui prese un grillo e lo mise sull'amo. Lanciò la lenza sotto i salici e quasi subito il galleggiante sparì sotto l'acqua e la canna cominciò a vibrare. Paul recuperò la sua preda con il mulinello e la mise insieme agli altri pesci infilati a una catenella appesa su un lato della barca. Durante queste operazioni udì a malapena uno strimpellare nell'aria. Si succhiò il sangue del pesce dal pollice e remò fino a un piccolo molo di legno dov'era parcheggiato il suo camioncino. Usò la ruvida panca del molo per pulire il pesce più grosso e lo pose in una borsa di tela con del ghiaccio. Gli altri pesci erano ancora vivi sulla catenella nell'acqua, e cercavano di liberarsi. Una vibrazione nell'aria, un tono interrotto proveniente da qualche luogo
remoto, lontano dalla Francia. Paul guardò il suo camioncino come se potesse trattarsi di un rumore meccanico. Salì dalla riva, portando con sé il suo coltello da pesce, ed esaminò il veicolo: controllò l'antenna della radio, le gomme, si assicurò che le portiere fossero chiuse. Di nuovo la vibrazione, in una progressione di note. Paul seguì il suono, girando intorno ad alcuni cespugli nella piccola radura, dove trovò Hannibal seduto sul ceppo che suonava il liuto giapponese, con la custodia appoggiata contro la moto. Dietro di lui c'era un album da disegno. Paul tornò subito al camioncino e controllò il tappo del serbatoio per vedere se c'era dello zucchero. Hannibal non alzò lo sguardo dallo strumento finché il macellaio non fu di ritorno e gli si mise davanti. «Paul Momund, carni scelte» disse Hannibal. Provava la sensazione di vedere in modo particolarmente chiaro, ma con delle rifrazioni rosse ai margini, come ghiaccio su una finestra o il bordo di una lente. «Hai cominciato a parlare, piccolo bastardo muto. Se hai pisciato nel radiatore ti faccio girare la testa dall'altra parte. Non ci sono i flic a darti una mano, qui.» «Nemmeno a te.» Hannibal suonò qualche nota. «Quello che hai fatto è imperdonabile.» Mise giù il liuto e prese il suo album. Guardando Paul, usò il mignolo per fare una piccola correzione su un foglio, che voltò. Poi si alzò, tendendo una pagina vuota a Paul. «Devi delle scuse scritte a una certa signora.» Il macellaio emanava un odore rancido di sebo e capelli sporchi. «Ragazzo, sei pazzo a venire qui.» «Scrivi che ti dispiace, che ti rendi conto di essere spregevole e che non la guarderai mai più né ti rivolgerai a lei di nuovo al mercato.» «Scusarmi con la giapponese?» Paul iniziò a ridere. «La prima cosa che farò è gettarti nel fiume e darti una bella lavata.» Mise le mani sul coltello. «E poi forse ti farò un bel taglio nei pantaloni e ti darò qualcosa dove non vuoi.» Si mosse verso Hannibal, mentre il ragazzo indietreggiava verso la moto e la custodia del liuto. Hannibal si fermò. «Hai chiesto della sua fica, mi pare. Come dicevi che era?» «È tua madre per caso? Le fiche giapponesi sono di traverso! Dovresti fotterla per vedere com'è.» Paul gli si avventò contro, con le grandi mani pronte a stritolarlo, ma Hannibal in un unico movimento estrasse la spada corta dalla custodia del liuto e gli squarciò il ventre.
«Di traverso così?» L'urlo del macellaio risuonò tra gli alberi tanto che gli uccelli volarono via frettolosamente. Paul si mise le mani addosso e se le ritrovò piene di sangue denso. Si guardò la ferita e cercò di tenere insieme le budella che gli si riversavano fuori dal corpo. Hannibal con un balzo di lato e voltandosi di scatto inferse un altro colpo a Paul all'altezza dei reni. «O più tangenziale alla spina dorsale?» Agitava la spada come per tracciare delle X su Paul ora, e gli occhi di questo erano spalancati per lo choc mentre provava a correre e veniva colpito alla clavicola, mentre un fiotto di sangue dall'arteria schizzava sul viso di Hannibal. I due colpi successivi lo raggiunsero dietro le caviglie e lui cadde giù azzoppato, muggendo come un vitello. Paul il macellaio è seduto, appoggiato al ceppo. Non può alzare le mani. Hannibal lo guarda in faccia. «Vuoi vedere i miei disegni?» dice tendendogli il blocco. L'immagine mostra la testa di Paul il Macellaio su un vassoio, con una targhetta con il nome attaccata ai capelli, che recita: "Paul Momund, carni scelte". La vista dell'uomo si oscura ai margini. Hannibal rotea la spada e per Paul tutto si confonde per un attimo, prima che la pressione sanguigna si arresti e si faccia buio. Nella propria oscurità, Hannibal ode la voce di Mischa quando il cigno stava arrivando contro di loro, e grida: «Oh, Anniba!». Il pomeriggio stava svanendo. Hannibal rimase fino al crepuscolo, con gli occhi chiusi, appoggiato contro il ceppo su cui era posata la testa del macellaio. Aprì gli occhi e rimase seduto per lunghi minuti. Alla fine si alzò e andò al molo. Quella che teneva i pesci era una catena sottile, e la sua vista lo indusse a sfregarsi la cicatrice sul collo. I pesci erano ancora vivi. Si bagnò la mano prima di toccarli, liberandoli uno dopo l'altro. «Via» disse. «Via.» E lanciò la catena lontano nell'acqua. Liberò anche i grilli. «Andate, su!» Guardò nella borsa di tela il grosso pesce già pulito e sentì il morso della fame. «Gnam...» disse. 22 La morte violenta di Paul il macellaio non fu una tragedia per molti del paese, il cui sindaco e parecchi anziani erano stati uccisi dai nazisti per rappresaglia contro le attività della Resistenza durante l'occupazione. La maggior parte di Paul giaceva su un tavolo di zinco nella camera
mortuaria dell'impresa di pompe funebri Roget, dove aveva preso il posto del conte Lecter. All'imbunire, una Citroën nera Traction Avant si spinse fino a lì. Un poliziotto che stazionava di fronte si affrettò ad aprire la portiera dell'auto. «Buonasera, ispettore.» L'uomo che ne uscì era sulla quarantina, vestito con un abito elegante. Restituì il saluto al poliziotto con un cenno amichevole, si girò verso la macchina e parlò all'autista e a un altro ufficiale che sedeva sul sedile posteriore. «Portate la custodia alla stazione di polizia.» L'ispettore trovò l'impresario di pompe funebri, il signor Roget, e il comandante di polizia nella camera mortuaria, piena di rubinetti, tubi e superfici smaltate, con degli utensili riposti in vetrinette. Il comandante s'illuminò alla vista del poliziotto venuto da Parigi. «Ispettore Popil! Sono felice che sia arrivato. Non si ricorderà di me, ma...» L'ispettore guardò il comandante. «Certo che mi ricordo. Comandante Balmain. Ha consegnato De Rais a Norimberga ed era seduto dietro di lui al processo.» «Complimenti. È un onore, signore.» «Cosa abbiamo?» L'assistente dell'impresario di pompe funebri, Laurent, tirò indietro la coperta. Il corpo di Paul il macellaio era ancora vestito, con lunghe strisce rosse che lo segnavano in diagonale dove il tessuto non era intriso di sangue. Gli mancava la testa. «Paul Momund, o almeno una parte di lui» disse il comandante. «È il suo dossier?» Popil annuì. «Breve e tremendo. Imbarcava gli ebrei da Orléans.» L'ispettore osservò il cadavere, gli camminò intorno, sollevò la mano e il braccio di Paul, con il tatuaggio che ora risaltava maggiormente in contrasto con il suo pallore. Parlò in modo assente, come pensando tra sé. «Ha ferite da difesa alle mani, ma i lividi sulle nocche sono vecchi di qualche giorno. Deve aver lottato di recente.» «E spesso» disse l'impresario. L'assistente Laurent rincarò la dose. «Sabato scorso ha fatto una rissa in un bar e ha spaccato i denti a un uomo e a una ragazza.» Mosse la testa di scatto per mostrare la forza dei colpi, i capelli tutti all'indietro sul piccolo cranio. «Una lista, grazie. Dei suoi più recenti avversari» chiese l'ispettore. Sì
chinò sul cadavere, annusando. «Ha fatto qualcosa al corpo, signor Roget?» «No, signore. Il comandante mi ha specificamente proibito di...» L'ispettore Popil lo chiamò con un cenno al tavolo. Anche Laurent si avvicinò. «Questo è l'odore di qualcosa che usate qui?» «Sento del cianuro» disse il signor Roget. «È stato prima avvelenato!» «Il cianuro ha l'odore di mandorle tostate» puntualizzò Popil. «Sa di qualcosa contro il mal di denti» disse Laurent, grattandosi la mascella. L'impresario si voltò verso l'assistente. «Cretino! Dove li vedi i denti?» «Sì, olio di camelia ed essenza di garofano» concluse l'ispettore Popil. «Comandante, possiamo vedere il farmacista e i suoi registri?» Con l'assistenza dello chef, Hannibal aveva cucinato lo splendido pesce con delle erbe in una crosta di sale marino, e ora lo stava togliendo dal forno. Dopo che ebbe rotto la crosta con un colpetto preciso del manico del coltello e l'ebbe rimossa, la cucina si riempì di un fantastico aroma. «Tieni conto, Hannibal» disse lo chef «che la parte più prelibata del pesce sono le guance. Ed è vero per molti animali. Quando si fanno le parti a tavola, si dà una guancia alla signora e l'altra all'ospite d'onore. Naturalmente, se prepari tutto in cucina te le mangi tu entrambe.» Serge arrivò portando la spesa dal mercato. Cominciò ad aprire le borse e a riporre il cibo. Dietro di lui, Lady Murasaki entrò piano in cucina. «Ho visto Laurent al Petit Zinc» disse l'autista. «Non hanno ancora trovato quella brutta testa del macellaio. Pare che il cadavere puzzasse di... pensate un po'... di quella roba che serve per il mal di denti. Pare...» Hannibal vide Lady Murasaki e interruppe Serge. «Dovrebbe davvero mangiare qualcosa, mia signora. Questo dev'essere ottimo» «Io ho comprato del gelato di pesca, frutta fresca» disse Serge Lady Murasaki guardò Hannibal negli occhi per un lungo momento. Lui sorrise, perfettamente calmo. «Pesca!» esclamò. 23 Mezzanotte, Lady Murasaki era a letto. Dalla finestra aperta una dolce brezza portava il profumo di una mimosa in fiore in un angolo del cortile sottostante. Lady Murasaki spinse via le coperte per sentire l'aria che si muoveva sulle braccia e sui piedi. Aveva gli occhi aperti, guardava verso il
soffitto buio e poteva udire l'impercettibile rumore delle sue palpebre che sbattevano. In cortile la vecchia femmina di mastino si muoveva nel sonno, le narici dilatate. Alcune pieghe corrugarono la sua fronte, poi si rilassò di nuovo in un bel sogno di caccia e di sangue in bocca. Al di sopra di Lady Murasaki, nel buio, il pavimento della soffitta scricchiolò. Era un peso sulle assi, non lo squittio di un topo. Lady Murasaki fece un respiro profondo e mise giù i piedi sul freddo pavimento di pietra della camera da letto. Indossò il leggero kimono, si toccò i capelli, sistemò i fiori in un vaso dell'ingresso e portando un candeliere salì le scale verso la soffitta. La maschera intagliata nella porta le sorrise. Lady Murasaki vi pose la mano sopra e spinse. Sentì la corrente d'aria premerle il vestito addosso, come una spinta leggera, e lontano, nel fondo della soffitta buia, vide il fievole tremolio di una luce. Andò verso di essa, con il candeliere che brillava sulle maschere no che la guardavano e la fila di marionette appese che gesticolavano al soffio del suo passaggio. Oltre i cesti di vimini e i bauli stipati dei suoi anni con Robert, verso l'altare di famiglia e l'armatura dove bruciavano le candele. Un oggetto scuro stava sull'altare davanti all'armatura. Ne vide la sagoma contro le candele. Pose il suo candeliere su una cassa vicino e guardò fissa la testa di Paul il macellaio in un suiban, un basso contenitore di ceramica. La faccia di Paul è pulita e pallida, le labbra sono intatte, ma mancano le guance e un po' di sangue gli è colato dalla bocca nei suiban, dove ristagna come l'acqua sotto una composizione floreale. Ai capelli è attaccata un'etichetta, con una scritta a mano: "Paul Momund, carni scelte". La festa di Paul fronteggiava l'armatura, con gli occhi girati verso la maschera del samurai. Lady Murasaki girò anch'essa la faccia in su e parlò in giapponese. «Buonasera, onorevoli antenati. Vi prego di scusare quest'omaggio inadeguato. Con tutto il rispetto, non è il genere d'aiuto che avevo in mente.» Automaticamente prese un fiore appassito e un nastro dal pavimento o lo mise nella manica, muovendo gli occhi di continuo. La spada lunga era al suo posto, e così pure l'ascia, ma mancava la spada corta. Lady Murasaki fece un passo indietro, andò alla finestra dell'abbaino e l'aprì. Fece un respiro profondo. Sentiva il battito del cuore nelle orecchie. La brezza fece ondeggiare il suo vestito e la luce delle candele.
Un tenue rumore dietro i costumi nō. Gli occhi di una delle maschere la osservavano. Lei disse in giapponese: «Buonasera, Hannibal». Dall'oscurità arrivò la risposta in giapponese: «Buonasera, mia signora.» «Possiamo continuare in inglese, Hannibal? Ci sono questioni di cui preferirei tenere all'oscuro i miei antenati.» «Come desidera, mia signora. In ogni caso, abbiamo già esaurito il mio giapponese.» Venne alla luce, portando la spada corta e uno strofinaccio. Lady Murasaki andò verso di lui. La spada lunga era sul supporto davanti all'armatura. Avrebbe potuto prenderla, se ne avesse avuto bisogno. «Avrei voluto usare il coltello del macellaio» disse Hannibal. «Ho usato la spada di Masamune-dono perché mi sembrava appropriata. Spero non le dispiaccia. Non c'è alcun segno sulla lama, glielo assicuro. Il macellaio era come burro.» «Sono spaventata per te.» «La prego, non si preoccupi. Sistemerò io... tutto quanto.» «Non dovevi fare questo per me.» «L'ho fatto per me, per il valore che lei ha per me, Lady Murasaki. Ma non ha alcun obbligo. Io penso che Masamune-dono mi avrebbe permesso di usare la sua spada. È uno strumento interessante, davvero.» Hannibal rimise la spada corta nel fodero e con un gesto rispettoso verso l'armatura la sistemò al suo posto. «Lei sta tremando» disse poi. «È perfettamente padrona di sé, ma sta tremando come un uccellino. Non mi sarei avvicinato a lei nemmeno con un fiore. L'amo, Lady Murasaki.» Sotto, nel cortile, la sirena bitonale della polizia francese risuonò una volta sola. Il mastino si alzò e iniziò ad abbaiare. Lady Murasaki si precipitò verso Hannibal, gli prese le mani tra le sue e le tenne vicino al viso. Gli baciò la fronte, e poi l'intenso sussurro della sua voce: «Presto, e lavati le mani! Chiyoh ha dei limoni nella sua stanza». Giù, nella casa, echeggiò il rumore del batacchio. 24 Lady Murasaki lasciò attendere l'ispettore Popil per la durata di cento battiti del cuore prima di fare la sua apparizione dallo scalone. L'ispettore si trovava con il suo vice al centro dell'atrio, una sala dal soffitto altissimo,
e alzò lo sguardo verso il ballatoio. Lei lo vide vigile e tranquillo, come un bel ragno fermo davanti alle colonnine palmate delle finestre, e fuori dalle finestre vide una notte senza fine. Il respiro di Popil si fece un poco più forte alla vista di Lady Murasaki. Il suono fu amplificato dalla volta dell'atrio, e lei lo ascoltò. La sua discesa dalle scale sembrava un unico movimento lineare, senza alcuna variazione di passo. Teneva le mani infilate nelle maniche. Serge, con gli occhi rossi, stava al suo fianco. «Lady Murasaki, questi signori sono della polizia.» «Buonasera.» «Buonasera, signora. Sono spiacente di disturbarla a un'ora così tarda. Ho bisogno di chiederle di suo... nipote?» «Nipote. Posso vedere le sue credenziali?» La mano uscì lentamente dalla manica, come se si stesse svestendo. Lady Murasaki lesse il documento ed esaminò la fotografia. «Ispettore Pop-il?» «Po-pil signora.» «Vedo che nella foto indossa la Legion d'onore, ispettore.» «Sì, signora.» «Grazie per essere venuto di persona.» Un profumo fresco e appena percettibile raggiunse Popil quando lei gli restituì il suo documento d'identità. Lady Murasaki guardava il suo viso dal momento in cui era arrivato e notò un cambiamento nelle narici e nelle pupille. «Signora...?» «Murasaki Shikibu.» «La signora è la contessa Lecter, e in genere ci si rivolge a lei con il tìtolo di Lady Murasaki» disse Serge con tutto il coraggio di cui disponeva, visto che si rivolgeva a un poliziotto. «Lady Murasaki, vorrei parlarle in privato, e poi con suo nipote in separata sede.» «Con tutto il rispetto per il suo incarico, temo che non sia possibile, ispettore» disse lei. «Oh, signora, credo che sia assolutamente possibile» insistette Popil. «Lei è il benvenuto in casa nostra, e lo è per parlare con noi tutti insieme.» Hannibal apparve dall'alto delle scale. «Buonasera, ispettore.» Popil si voltò verso Hannibal. «Giovanotto, vorrei che venisse con me.»
«Certamente, ispettore.» Lady Murasaki chiese a Serge: «Mi puoi prendere lo scialle?». «Non sarà necessario, signora» disse Popil. «Lei non verrà. La interrogherò qui domani. Non farò nulla di male a suo nipote.» «Va tutto bene, mia signoia» la rassicurò Hannibal. La stretta di Lady Murasaki sui polsi all'interno delle maniche si allentò in segno di sollievo. 25 La camera mortuaria era buia e silenziosa, tranne che per il lento gocciolio nel lavandino. L'ispettore stava sulla soglia con Hannibal, entrambi bagnati di pioggia sulle spalle e sulle scarpe. Momund era lì. Hannibal ne poteva sentire l'odore. Aspettò che Popil accendesse la luce, curioso di quanto sarebbe durato l'intervallo drammatico creato dal poliziotto. «Pensa che potrebbe riconoscere Paul Momund se lo vedesse di nuovo?» «Farò del mio meglio, ispettore.» Popil accese la luce. L'impresario di pompe funebri aveva spogliato Momund e messo i suoi indumenti in sacchetti di carta, come da istruzioni. Aveva chiuso l'addome con una sutura grossolana e un pezzo di impermeabile, e aveva messo un asciugamano sul collo reciso. «Si ricorda il tatuaggio dei macellaio?» Hannibal camminò intorno al corpo. «Sì, ma non ho letto che cosa c'era scritto.» Il ragazzo guardò l'ispettore Popil, al di là del cadavere, e gli colse negli occhi uno sguardo d'intesa. «Che cosa dice?» domandò l'ispettore. «"Questa è la mia, dov'è la tua?"» «Forse dovrebbe dire: "Questo è il tuo, dov'è la mia?". Questo è il tuo primo assassinio, dov'è la mia testa? Che cosa ne pensa?» «Penso che probabilmente non è degno di lei. Lo spero. Si aspetta che le sue ferite sanguinino in mia presenza?» «Che cosa ha detto alla signora il macellaio per farla andare fuori di testa?» «Non mi ha fatto andare fuori di testa, ispettore. Le sue parole hanno offeso chiunque l'abbia udito, me incluso. Era volgare.» «Che cosa ha detto, Hannibal?»
«Ha domandato se fosse vero che la fica giapponese è di traverso, ispettore. Si è rivolto a lei con un: "Ehi, giapponese!".» «Di traverso.» L'ispettore Popil seguì con il dito le linee dei punti sull'addome di Paul Momund, quasi sfiorandone la pelle. «Di traverso così?» L'ispettore scrutò il volto di Hannibal in cerca di qualcosa. Ma non lo trovò. Non trovò nulla, così pose un'altra domanda. «Come si sente, vedendolo morto?» Hannibal guardò sotto l'asciugamano che copriva il collo. «Distaccato» rispose. La macchina della verità installata alla stazione di polizia era la prima che i poliziotti del paese vedevano, e c'era molta aspettativa. L'operatore, che era arrivato da Parigi con l'ispettore Popil, fece una serie di aggiustamenti, alcuni per pura scena, mentre l'apparecchio sì scaldava e l'isolante aggiungeva un odore di cotone bruciato all'atmosfera già pregna di sudore e fumo di sigarette. Finalmente l'ispettore, guardando Hannibal che osservava la macchina, fece uscire tutti dalla stanza tranne il ragazzo e l'operatore, il quale collegò gli elettrodi a Hannibal. «Il suo nome?» disse l'operatore. «Hannibal Lecter.» La voce del ragazzo era un po' arrugginita. «Quanti anni ha?» «Tredici.» Le puntine inchiostrate correvano tranquille sul rullo di carta della macchina. «Da quanto tempo risiede in Francia?» «Sei mesi.» «Dove ha conosciuto il macellaio Paul Momund?» «Non ci hanno mai presentato.» Le puntine non ebbero oscillazioni particolari. «Ma sapeva chi era?» «Sì.» «Ha avuto un alterco, ovvero una rissa, con Paul Momund al mercato del giovedì?» «Sì.» «Lei va a scuola?» «Sì.» «La scuola richiede di indossare un'uniforme?» «No.»
«Ha la coscienza sporca circa la morte di Paul Momund?» «Coscienza sporca?» «Limiti le sue risposte a un sì o un no.» «No.» I picchi e gli avallamenti nelle linee d'inchiostro erano costanti. Non ci fu alcun aumento della pressione sanguigna né dei battiti cardiaci, il respiro era calmo e fluido. «Sa che il macellaio è morto?» «Sì.» L'operatore sembrò apportare qualche aggiustamento alle manopole della macchina. «Ha studiato matematica?» «Sì.» «Ha studiato geografia?» «Sì.» «Ha visto il cadavere di Paul Momund?» «Sì.» «Ha ucciso Paul Momund?» «No.» Nessun picco significativo nelle linee d'inchiostro. L'operatore si tolse gli occhiali e un suo cenno all'ispettore Popil indicò che l'esame era terminato. Un noto scassinatore di Orléans dalla fedina penale lunghissima rimpiazzò Hannibal sulla sedia. Il ladro aspettò mentre l'ispettore Popil e l'operatore discutevano fuori dalla stanza. Popil srotolò il grafico della registrazione. «Tutto normale.» «Il ragazzo non ha reazioni» disse l'operatore. «O è un orfano di guerra totalmente ottuso oppure ha una capacità di autocontrollo mostruosa» «Mostruosa» ripeté Popil. «Vuole interrogare prima lo scassinatore?» «Non m'interessa, ma voglio che lo metta sotto torchio. E può darsi che io lo percuota un paio di volte di fronte al ragazzo. Mi segue?». Lungo gli argini della strada che portava in paese una moto viaggiava senza fari e a motore spento. Il conducente indossava una tuta da lavoro e un passamontagna neri. Silenziosamente la moto voltò l'angolo in fondo alla piazza deserta, scomparve per un attimo dietro il furgone parcheggiato
di fronte all'ufficio postale e se ne andò, con il guidatore che spingeva a fatica la moto, senza accendere il motore prima di essere ben fuori dal paese. L'ispettore Popil e Hannibal sedevano nell'ufficio del comandante. L'ispettore lesse l'etichetta sulla bottiglia del digestivo e pensò per un attimo di berne una dose. Poi appoggiò il rotolo con il grafico della registrazione della macchina della verità sulla scrivania e lo spinse con il dito. Il rotolo si aprì parzialmente, mostrando le linee con tanti piccoli picchi, che sembravano collinette di una montagna oscurata dalle nuvole. «Ha ucciso il macellaio, Hannibal?» «Posso farle io una domanda?» «Sì.» «È un lungo viaggio da Parigi a qui. Lei è specializzato in omicidi di macellai?» «La mia specialità sono i crìmini di guerra, e Paul Momund era sospettato di averne commessi parecchi. I crimini di guerra non svaniscono con la guerra, Hannibal.» Popil fece una pausa per leggere la pubblicità su ogni lato del posacenere. «Forse sono in grado di capire la sua situazione più di quanto lei pensi.» «Qual è la mia situazione, ispettore?» «Lei è rimasto orfano durante la guerra. È vissuto in un istituto, chiuso in se stesso, con tutta la sua famiglia morta. E alla fine, ecco che la sua bella matrigna ha compensato ogni cosa.» Nel tentativo di stabilire un'intesa, Popil pose la mano su una spalla di Hannibal. «Solo il suo profumo basta a spazzare via qualsiasi odore del passato. Ma un giorno il macellaio vomita oscenità contro di lei. Se lo ha ucciso, lo posso capire. Me lo dica. Insieme potremmo spiegare al magistrato...» Hannibal si mosse all'indietro sulla sedia, sottraendosi al contatto di Popil. «"Solo il suo profumo basta a spazzare via qualsiasi odore del passato"? Posso chiederle se si diletta a comporre versi, ispettore?» «Ha ucciso lei il macellaio?» «Paul Momund ha ucciso se stesso. È morto per la sua stupidità e volgarità.» L'ispettore Popil aveva una notevole esperienza e conosceva l'orrore, e l'orrore era questa voce che stava udendo, anche se aveva un timbro più incerto e, sorprendentemente, proveniva dal corpo di un ragazzo. Non aveva mai sentito quella lunghezza d'onda specifica, ma la riconob-
be come "altro". Era da tempo che non avvertiva l'eccitazione della caccia, la qualità prensile del cervello che si oppone a un altro cervello. La sentì nel proprio cranio e negli avambracci. Viveva per essa. Una parte di lui desiderò che fosse stato lo scassinatore a uccidere il macellaio. Una parte di lui pensò quanto sarebbe stata sola e bisognosa di compagnia Lady Murasaki, con il ragazzo in istituto. «Il macellaio stava pescando. Aveva del sangue e delle squame sul coltello, ma non aveva pesci. Lo chef mi ha detto che lei ne ha portato uno splendido per cena. Dove lo ha preso?» «L'ho pescato, ispettore. Teniamo una canna da pesca nell'acqua dietro la rimessa delle barche. Gliela mostro, se vuole. Ispettore, ha scelto lei di occuparsi di crimini di guerra?» «Sì.» «Perché ha perso la sua famiglia in guerra?» «Sì.» «Posso chiederle come?» «Alcuni in combattimento. Altri sono stati spediti a Est.» «Ha catturato chi lo ha fatto?» «No.» «Ma erano quelli di Vichy... uomini come il macellaio.» «Sì.» «Possiamo essere davvero onesti l'uno con l'altro?» «Assolutamente.» «Le dispiace vedere morto Paul Momund?» Sul lato più lontano della piazza del paese, il barbiere, il signor Rubin, uscì da una stretta via alberata per il consueto giro notturno con il suo piccolo terrier. Dopo aver parlato con i clienti tutto il giorno, di sera il signor Rubin continuava la conversazione con il cane. Lo spinse via dalla striscia d'erba di fronte all'ufficio postale. «Dovresti aver già fatto i tuoi bisogni nel prato di Felipe, dove nessuno ti poteva vedere» disse. «Qui rischi una multa, e visto che non hai soldi toccherà a me pagare.» Di fronte all'ufficio postale c'era una cassetta delle lettere su un palo. Il cane tirò il guinzaglio in quella direzione e alzò la zampa. Vedendo una faccia spuntare da sopra la cassetta, Rubin disse: «Buonasera, signore» e rivolto al cane: «Attento a non sporcare il signore!». Il cane fece i suoi bisogni e Rubin notò che non si vedevano gambe dall'altra
parte, al di sotto della cassetta. La moto procedeva spedita lungo la strada asfaltata a una corsia. Quando un'auto si avvicinò proveniente dall'altro senso, il conducente si tuffò in mezzo agli alberi che fiancheggiavano la strada finché i fanali posteriori dell'auto non furono spariti. Nel buio capanno che fungeva da magazzino del castello, il fanale della moto si spense e il motore ticchettò mentre si raffreddava. Lady Murasaki si tolse il passamontagna nero e con le mani si sistemò i capelli. I fasci di luce dei fari della polizia convergevano sulla testa di Paul Momund in cima alla cassetta delle lettere. Aveva scritto in fronte "Boche" l'epiteto dispregiativo con cui i francesi chiamavano i tedeschi - proprio sotto l'attaccatura dei capelli. Qualche ubriaco ritardatario e alcuni lavoratori notturni si erano riuniti lì per vedere. L'ispettore Popil fece avvicinare Hannibal e lo guardò mentre la luce si concentrava sulla faccia del morto. Non percepì alcun cambiamento nell'espressione del ragazzo. «La Resistenza ha finalmente ucciso Momund» disse il barbiere, spiegando a tutti come lo aveva trovato, omettendo opportunamente la piccola trasgressione del cane. Alcuni nella folla pensarono che Hannibal non avrebbe dovuto guardare. Una donna anziana, un'infermiera di notte che stava tornando a casa, lo dichiarò a voce alta. Popil lo mandò a casa in un'auto della polizia. Hannibal arrivò al castello nell'alba rosata e prima di entrare tagliò alcuni fiori, sistemandoli nel pugno in base all'altezza. I versi per accompagnarli gli vennero in mente mentre tagliava gli steli. Trovò il pennello di Lady Murasaki ancora bagnato nello studio e lo usò per scrivere: L'airone notturno si è rivelato al sorgere della luna di settembre... Qual è più bello? Hannibal dormì tranquillo fino a tardi. Sognò di Mischa nell'estate prima della guerra, con la tata che le preparava il bagnetto fuori nel casino di caccia, lasciando che il sole scaldasse l'acqua e le cavolaie volassero intor-
no alla bambina. Poi lui tagliava il gambo della melanzana per la sorellina e lei la stringeva forte, calda di sole. Quando si svegliò c'era un biglietto sotto la sua porta insieme a un fiore di glicine. Diceva: "Uno sceglierebbe l'airone, se fosse circondato da rane". 26 Chiyoh si preparò alla partenza per il Giappone addestrando Hannibal nei primi rudimenti di giapponese, nella speranza che potesse fare un po' di conversazione con Lady Murasaki e sollevarla dal tedio di parlale inglese. Trovò in lui un allievo incline alla tradizione Heian di comunicare con la poesia e lo impegnò nella pratica degli scambi di versi, convinta che questa fosse una delle mancanze principali in quello che prevedeva sarebbe diventato suo marito. Chiese a Hannibal di aver cura di Lady Murasaki, facendolo giurare su oggetti che pensava potessero essere sacri per un occidentale. Gli chiese anche di impegnarsi davanti all'altare in soffitta e di fare un patto di sangue che comportava il pungersi le dita con uno spillo. Non potevano ritardare il tempo con il solo desiderio. Quando Lady Murasaki e Hannibal fecero le valigie per Parigi, Chiyoh si preparò a partire per il Giappone. Serge e Hannibal caricarono il baule di Chiyoh sul treno alla Gare de Lyon mentre Lady Murasaki si sedette accanto a lei nel vagone, tenendole la mano fino all'ultimo. Un estraneo che le avesse viste separarsi avrebbe pensato che non provavano alcuna emozione al momento di scambiarsi l'ultimo inchino. Sulla via di casa, Hannibal e Lady Murasaki sentirono molto la mancanza di Chiyoh. Adesso erano soltanto loro due. L'appartamento di Parigi lasciato libero prima della guerra dal padre di Lady Murasaki era decisamente giapponese nei suoi raffinati giochi d'ombre e lacche. Se i mobili liberati dalle coperture pezzo per pezzo, le riportarono alla mente il ricordo di suo padre, non lo diede a vedere. Lei e Hannibal aprirono i pesanti tendaggi, facendo entrare il sole. Hannibal guardò giù verso Place des Vosges, luminosa e spaziosa con i mattoni rossi, una delle più belle piazze di Parigi nonostante il giardino recasse ancora tracce della guerra. Lì, nel prato sottostante, il re Enrico II aveva giostrato sotto i colori di Diana di Poitiers ed era caduto colpito all'occhio dalla fatale lancia, e nemmeno Vesalio al suo capezzale aveva potuto salvarlo.
Hannibal chiuse un occhio e congetturò sul punto preciso in cui Enrico era caduto... forse proprio là, dove adesso stava l'ispettore Popil, che teneva in mano una piantina in vaso e guardava in alto verso le finestre. Hannibal non lo salutò. «Penso che tu abbia un visitatore, mia signora» disse parlando al di sopra della spalla. Lady Murasaki non gli chiese chi fosse. Quando sentì bussare, aspettò un momento prima di andare alla porta. Popil entrò con la sua piantina e una scatola di dolci comprata da Fauchon. Ci fu un attimo di imbarazzo quando cercò di levarsi il cappello, avendo entrambe le mani occupate. Fu Lady Murasaki a toglierglielo. «Benvenuta a Parigi, Lady Murasaki. Il fioraio mi ha giurato che questa pianta starà benissimo nella sua terrazza.» «Terrazza? Ho l'impressione che lei stia indagando su di me, ispettore... Ha già scoperto che ho una terrazza.» «Non soltanto questo... Ho accertato la presenza di un ingresso e ho il forte sospetto che abbia anche una cucina.» «Così, lavora stanza per stanza?» «Sì, è il mio metodo, procedo stanza per stanza.» «Fino ad arrivare dove?» Vide che lui stava arrossendo e lasciò perdere. «Mettiamo questa pianta alla luce?» Hannibal stava liberando l'armatura dall'imballaggio quando gli si avvicinarono. Era accanto alla cassa, con in mano la maschera del samurai. Non si girò verso l'ispettore Popil, ma voltò solo la testa come un gufo per guardarlo. Vedendo il cappello di Popil nelle mani di Lady Murasaki, Hannibal stimò le dimensioni e il peso della sua testa rispettivamente in diciannove centimetri e mezzo e sei chili. «Ha mai provato a indossarla, la maschera?» domandò l'ispettore Popil. «Non me lo sono meritato.» «Mi meraviglio.» «Lei indossa mai le sue tante decorazioni, ispettore?» «Quando il cerimoniale lo richiede.» «Cioccolatini di Fauchon. Un pensiero delicato, ispettore Popil. Toglieranno l'odore del passato.» «Ma non il profumo dell'essenza di garofano. Lady Murasaki, ho bisogno di discutere con lei la questione della sua residenza.» Popil e Lady Murasaki si misero a parlare in terrazza. Hannibal li guardò
dalla finestra, rivedendo la sua stima della grandezza del cappello di Popil in venti centimetri. Nel corso della conversazione l'ispettore e Lady Murasaki cambiarono posto alla piantina diverse volte per variarne l'esposizione al sole. Sembrava che avessero bisogno di fare qualcosa. Hannibal lasciò perdere l'armatura, ma s'inginocchiò accanto alla cassa e indugiò con la mano sull'impugnatura della spada corta. Osservò il poliziotto attraverso gli occhi della maschera. Vide Lady Murasaki che rideva. L'ispettore Popil doveva aver fatto qualche goffo tentativo di essere spiritoso e lei stava ridendo per cortesia, suppose Hannibal. Quando tornarono dentro, Lady Murasaki lì lasciò soli. «Hannibal, all'epoca della sua morte il conte Lecter stava cercando di scoprire cos'è successo a sua sorella in Lituania. Posso provarci anch'io. Nel Baltico sono tempi duri... talora i sovietici cooperano, ma per lo più non lo fanno. Ma la cosa non mi scoraggia.» «Grazie.» «Che cosa ricorda?» «Vivevamo nei casino di caccia. Ci fu un'esplosione. Rammento di essere stato raccolto dai soldati e portato in paese sopra un carro armato. Ma non so cosa sia successo in mezzo. Cerco di ricordare, ma non ci riesco.» «Ho parlato con il dottor Rufin.» Non ci fu alcuna reazione visibile. «Non intende discutere alcun dettaglio delle conversazioni che avete avuto.» Di nuovo nessuna reazione. «Ma mi ha detto che lei è molto preoccupato per sua sorella, naturalmente. Pensa che con il tempo la memoria possa tornare. Se dovesse ricordare qualcosa, la prego di informarmi.» Hannibal guardò fisso l'ispettore. «Perché non dovrei?» Desiderò udire un orologio. Sarebbe stato bello udire un orologio. «Quando abbiamo parlato dopo... l'incidente di Paul Momund, le ho detto di aver perso dei parenti in guerra. Mi richiede un grande sforzo pensarci. E sa perché?» «Me lo dica, ispettore.» «Perché penso che avrei dovuto salvarli. Ho il terrore di scoprire qualcosa che non ho fatto e che avrei potuto fare. Se lei ha la mia stessa paura, non le permetta di soffocare qualche ricordo che potrebbe essere utile per Mischa. Mi può dire qualsiasi cosa.» Lady Murasaki entrò nella stanza. Popil si alzò e cambiò argomento. «Il
liceo è una buona scuola e lei può farsi strada. Se posso aiutarla, lo farò volentieri. Verrò a trovarla a scuola, di tanto in tanto.» «Ma preferirà fare una visita qui» commentò Hannibal. «Dove è il benvenuto» disse Lady Murasaki. «Buon pomeriggio, ispettore» salutò Hannibal. Lady Murasaki accompagnò alla porta Popil e ritornò adirata. «Tu piaci all'ispettore, glielo leggo in faccia» disse Hannibal. «E cosa può leggere nella tua? È pericoloso provocarlo.» «Lo troverai noioso.» «Trovo te maleducato. Non è da te. Se desideri essere scortese con un ospite, fallo a casa tua» disse Lady Murasaki. «Lady Murasaki, io voglio stare qui con te.» La rabbia le sbollì. «No. Faremo le vacanze insieme e anche i weekend, ma devi andare in collegio, secondo le regole. Sai che la mia mano è sempre sul tuo cuore.» E gliel'appoggiò lì. Sul suo cuore. La mano che aveva tenuto il cappello di Popil stava sul suo cuore. La mano che aveva tenuto il coltello contro la gola del fratello di Momund. La mano che aveva afferrato i capelli del macellaio e messo la sua testa in una borsa per appoggiarla poi sulla cassetta delle lettere. Il suo cuore batté contro il palmo di lei, il cui volto rimase impenetrabile. 27 Le rane erano state tenute in formaldeide da prima della guerra, e il colore che un tempo differenziava i loro organi era svanito da un pezzo. Nel laboratorio maleodorante della scuola ce n'era una per ogni sei studenti. Un gruppo di scolari in cerchio si affollava intorno a ogni piatto dove il piccolo cadavere riposava, con i residui delle cancellature che sporcavano il tavolo mentre disegnavano. La stanza era fredda, dato che il carbone era ancora razionato, e molti ragazzi indossavano guanti con le punte delle dita tagliate. Hannibal venne a guardare la rana e tornò al banco a lavorare. Fece due viaggi. Il professor Bienville era solito sospettare di coloro che sceglievano di stare seduti in fondo alla classe. Si avvicinò a Hannibal di lato, e i suoi dubbi parvero giustificati quando vide che il ragazzo stava eseguendo lo schizzo di un volto invece che di una rana. «Hannibal Lecter, perché non sta disegnando l'esemplare?» «L'ho finito, signore.» Hannibal sollevò il foglio e in quello sotto c'era la
rana, resa in maniera perfetta, nella posizione anatomica e racchiusa in un cerchio come l'Uomo vitruviano di Leonardo. Le interiora erano ben tratteggiate in chiaroscuro. L'insegnante guardò con attenzione il viso di Hannibal. Si aggiustò la dentiera con la lingua e disse: «Prendo questo disegno. C'è qualcuno che vorrà vederlo. Ne avrai il merito». Il professor Bienville voltò il primo foglio del blocco di Hannibal e osservò il ritratto. «Chi è?» «Non ne sono sicuro, signore. Una faccia che ho visto da qualche parte.» Infatti era la faccia di Vladis Grutas, ma Hannibal non ne conosceva il nome. Era una faccia che aveva visto alla luce della luna e sul soffitto a notte fonda. Un anno di luce grigia dalle finestre di scuola. Almeno la luce era abbastanza diffusa per disegnare, e le stanze cambiavano a mano a mano che gli insegnanti io passavano in una classe superiore, e poi un'altra e un'altra ancora. Ora, finalmente, una vacanza da scuola. Durante il primo autunno dopo la morte del conte e la partenza di Chiyoh il senso di perdita di Lady Murasaki si era fatto più pungente. Quando suo marito era vivo, lei organizzava delle cene su un prato vicino al castello con il conte Lecter, Hannibal e Chiyoh, per vedere la luna di settembre e ascoltare gli insetti d'autunno. Ora, sulla terrazza della sua residenza a Parigi, lesse a Hannibal una lettera di Chiyoh che parlava dei preparativi per le nozze, e insieme guardarono la luna quasi piena. Ma non si sentivano i grilli. Hannibal si alzò al mattino presto dalla branda in salotto e andò in bicicletta lungo la Senna fino al Jardin des Plantes, dove fece un'altra delle sue frequenti ricerche nel serraglio. La novità di oggi era un appunto con un indirizzo... Poco più a sud di Place Monge e Rue Ortolan trovò il negozio che vendeva pesci tropicali, uccellini e animali esotici. Hannibal prese una busta dalla borsa della bicicletta ed entrò. Nella piccola vetrina c'erano file di vasche e gabbie, ed era tutto un cinguettio e un cigolio di ruote da criceto, con un odore di granaglie, piume calde e cibo per i pesci. Da una gabbia dietro il registratore di cassa un grosso pappagallo si rivolse a Hannibal in giapponese. Un vecchio giapponese dalla faccia simpatica emerse dal retro del negozio dove stava cucinando. «Gomekudasai, Monsieur?» È permesso? disse Hannibal.
«Irasshaimase, Monsieur.» Si accomodi, rispose il proprietario. «Irasshaimase, Monsieur» ripeté il pappagallo. «Ha un grillo suzumushi in vendita, signore?» «Non, je suis désolé, Monsieur» disse il proprietario. «Non, je suis désolé, Monsieur» ripeté il pappagallo. L'uomo lo guardò di traverso e passò all'inglese per confondere l'animale invadente. «Ho una varietà di eccellenti grilli da combattimento. Lottano fieramente, vincono sempre, sono famosi ovunque.» «Si tratta di un regalo per una signora giapponese che si strugge per il canto del suzumushi in questo periodo dell'anno» disse Hannibal. «Un grillo normale non va bene.» «Non mi permetterei mai di suggerire un grillo francese, il cui canto è piacevole solo durante i suoi accoppiamenti stagionali. Ma non ho suzumushi da vendere. Forse la divertirebbe un pappagallo con un vasto vocabolario giapponese, le cui espressioni abbracciano ogni campo della vita.» «Per caso ha un suzumushi personale?» L'uomo guardò in lontananza per un momento. La legge sull'importazione di insetti e delle loro uova era approssimativa in quell'inizio di nuova repubblica. «Vuole sentirlo?» «Ne sarei onorato» rispose Hannibal. Il vecchio proprietario scomparve dietro una tenda nel retro del negozio e ritornò con una piccola gabbia da grilli, un cetriolo e un coltello. Piazzò la gabbia sul bancone e sotto lo sguardo avido del pappagallo tagliò una fettina sottile di cetriolo e la spinse nella gabbia del grillo. In un attimo arrivò il chiaro suono come di scampanio del grillo. Il proprietario ascoltò con un'espressione beata quando il canto si ripeté. Il pappagallo imitò il canto del grillo come poté... forte e ripetutamente. Non ricevendo nulla in cambio, divenne scurrile e s'infuriò finché Hannibal pensò allo zio Elgar. Il proprietario mise un telo sopra la gabbia. «Merde!» esclamò il pappagallo da sotto il telo. «Pensa che potrei affittare il suzumushi, noleggiarlo insomma, a settimana?» «Quale compenso riterrebbe adeguato?» domandò il proprietario. «Ho in mente uno scambio» rispose Hannibal. Prese dalla sua busta un piccolo disegno a penna e acquerello di un coleottero su uno stelo. Il proprietario, tenendo con cura il foglio per i margini, lo girò verso la luce. Lo appoggiò alla cassa. «Posso chiedere tra i miei colleghi. Può tornare dopo l'ora di pranzo?»
Hannibal girovagò, comprò delle susine al mercato e le mangiò. C'era un negozio di articoli sportivi con dei trofei esposti in vetrina: uno stambecco e un cervo. In un angolo c'era un elegante fucile a due canne, un Holland & Holland. Era ben montato, il legno sembrava cresciuto intorno al metallo e insieme esibivano la sinuosità di un bel serpente. Il fucile era elegante e bello, com'era bella Lady Murasaki. Questo pensiero, all'ombra dei trofei, non lo metteva a suo agio. Il proprietario lo stava aspettando con il grillo. «Mi riporta la gabbia dopo ottobre?» «Non c'è nessuna possibilità che sopravviva all'autunno?» «Può durare fino all'inverno, se lo tiene al caldo. Mi restituirà la gabbia... a tempo debito.» Consegnò a Hannibal il cetriolo. «Non glielo dia tutto in una volta» raccomandò. Lady Murasaki andò in terrazza dopo le preghiere, con in viso l'espressione dei suoi pensieri autunnali. A cena, seduti a un tavolo basso sulla terrazza, alla luce del crepuscolo, erano agli spaghetti quando, invogliato dal cetriolo, il grillo la sorprese con il suo verso cristallino, cantando dal suo nascondiglio al buio sotto i fiori. Lady Murasaki sembrò pensare di averlo udito in sogno. Il grillo cantò ancora, era il nitido scampanio tipico del suzumushi. Gli occhi di Lady Murasaki si illuminarono e si ritrovò nel presente. Sorrise a Hannibal. «Sento che tu e il grillo cantate in concerto con il mio cuore.» «Il mio cuore balza nel vedere te, che gli hai insegnato a cantare.» La luna sorse al canto del suzumushi. La terrazza sembrò elevarsi anch'essa, come trasportata dalla luce della luna, sollevandoli in un luogo al di sopra della terra, un luogo isolato e privo di fantasmi, e stare insieme là era sufficiente. Con il tempo lui avrebbe detto che il grillo era stato preso a nolo e doveva riportarlo indietro al calare della luna. Meglio non tenerlo troppo a lungo in autunno. 28 Lady Murasaki conduceva la sua esistenza con una certa eleganza, cosa che le riusciva grazie alla disciplina e al gusto, e lo faceva con i fondi che
le erano rimasti dopo la vendita del castello e il pagamento delle tasse di successione. Avrebbe dato a Hannibal qualsiasi cosa le avesse chiesto, ma lui non chiedeva nulla. Robert Lecter aveva provveduto per la retta scolastica di Hannibal, ma non per gli extra. L'elemento principale del budget di Hannibal consisteva in una lettera di sua composizione. Era firmata "Dottor Gamil Jolipoli, allergologo", e informava la scuola che Hannibal soffriva di una grave allergia alla polvere di gesso che lo costringeva a sedere il più lontano possibile dalla lavagna. Dato che i suoi voti erano eccezionali, Hannibal sapeva che gli insegnanti non si sarebbero curati granché di quello che faceva, finché gli altri alunni non lo vedevano e non seguivano il suo cattivo esempio. Libero di sedere da solo nella parte più lontana della classe, era in grado di usare inchiostro e acquerelli per realizzare disegni di uccelli nello stile di Musashi Miyamoto, mentre ascoltava distrattamente le lezioni. A Parigi le cose giapponesi andavano di gran moda. I disegni erano piccoli e adatti allo spazio limitato sulle pareti degli appartamenti parigini, e potevano essere messi facilmente in valigia dai turisti. Li firmava con un ghirigoro che in giapponese significava "Eternità in otto pennellate". C'era un mercato per questi disegni nel Quartiere Latino, nelle piccole gallerie lungo Rue des Saints-Pères e Rue Jacob, anche se alcune gallerie gli chiedevano di consegnare il lavoro dopo l'orario di negozio, per assicurarsi che i clienti non venissero a sapere che i disegni erano fatti da un ragazzino. Nella tarda estate, dopo la scuola, quando c'era ancora luce nel Jardin du Luxembourg, ritraeva le barchette giocattolo nel laghetto aspettando l'ora di chiusura. Poi camminava fino a Saint-Germain per lavorare nelle gallerie. Si avvicinava il compleanno di Lady Murasaki, e lui aveva messo gli occhi su un pezzo di giada in Place Fürstenberg. Poteva vendere lo schizzo di una barca a vela a un decoratore di Rue Jacob, ma si teneva i suoi disegni in stile giapponese per una piccola galleria di ladroni in Rue des Saints-Pères. I disegni facevano miglior figura con il vetro e la cornice e Hannibal aveva trovato un buon corniciaio che gli faceva credito. Li portava in uno zaino lungo il Boulevard Saint-Germain. I tavolini all'aperto dei caffè erano pieni di gente e i clown di strada infastidivano i passanti per il divertimento del pubblico del Café Flore. Nelle stradine vicino al fiume, come Rue Saint-Benoît e Rue de l'Abbaye, i jazz club erano ancora chiusi, ma i ristoranti erano tutti aperti.
Hannibal cercava di dimenticare il suo pranzo a scuola ed esaminava i prezzi dei menu con estremo interesse mentre passava. Sperava di avere presto il denaro per una cena di compleanno e andava in cerca dei ricci di mare. Il signor Leet della Galene Leet si stava facendo la barba in vista di un appuntamento serale quando Hannibal suonò alla sua porta. Le luci della galleria erano ancora accese, anche se le tende erano abbassate. Leet aveva l'impazienza tipica dei belgi con i francesi e uno spasmodico desiderio di fregare gli americani, che secondo lui avrebbero comprato qualsiasi cosa. La galleria esponeva opere di costosi pittori figurativi, piccole sculture e antichità, ed era nota per i paesaggi marini. «Buonasera, signor Lecter» disse Leet. «Felice di vederla. Spero che stia bene. La prego di aspettare mentre imballo una tela. Deve partire stasera per Filadelfia, in America.» In base all'esperienza di Hannibal un benvenuto così caloroso in genere mascherava opportunismo. Diede al signor Leet i disegni, con il suo prezzo scritto con mano ferma. «Posso dare un'occhiata?» «Si accomodi pure.» Era piacevole essere lontano da scuola, intento a guardare dei bei quadri. Dopo un pomeriggio passato a disegnare barchette sul lago, Hannibal si concentrò sull'acqua, sulla difficoltà di dipingerla. Pensò alle foschie di Turner e alle sue sfumature, impossibili da emulare, e andò da un quadro all'altro osservando l'acqua e l'aria al di sopra. Arrivò a un piccolo dipinto su un cavalletto, con il Canal Grande in pieno sole e Santa Maria della Salute sullo sfondo. Era un Guardi proveniente dal castello Lecter. Hannibal lo sapeva ancor prima di rendersene conto, come un flash della memoria; e ora quel quadro si trovava davanti a lui nella sua cornice. Forse era una copia. Lo prese e lo osservò attentamente. La superficie era macchiata da alcuni piccoli puntini marroni nell'angolo superiore sinistro. Quando lui era piccolo aveva udito i suoi genitori dire che le macchie stavano sbiadendo: non si trattava di una copia. La cornice gli bruciò tra le mani. Il signor Leet entrò nella stanza. Aggrottò le sopracciglia. «Non si tocca se non si è pronti a comprare. Ecco un assegno per lei» rise Leet. «È una discreta somma, ma non basta per il Guardi.» «No, non oggi. La prossima volta, signor Leet.» 29
L'ispettore Popil irritato dai toni melensi del campanello, batté alla porta della Galerie Leet in Rue des Saints-Pères. Accolto dal proprietario, andò subito al punto. «Dove ha preso il Guardi?» «L'ho comprato da Kopruk, quando abbiamo separalo le nostre attività» spiegò Leet. Si asciugò il viso e pensò a quanto Popil appariva orribilmente francese con la sua giacca senza spacchi. «Mi disse di averlo avuto da un finlandese, ma non ne precisò il nome.» «Mi mostri la fattura» chiese Popil «Dovrebbe avere qui la documentazione sui furti d'arte della commissione di controllo alleata. Mi faccia vedere anche quella.» Leet confrontò la lista delle opere rubate con il proprio catalogo. «Ecco qui, il Guardi è descritto in modo diverso. Robert Lecter indicò il quadro rubato come Veduta di Santa Maria della Salute e io ho comprato questo come Veduta del Canal Grande.» «Ho un mandato del tribunale per confiscare il quadro, quale che ne sia il titolo. Le darò una ricevuta. Mi trovi questo Kopnik, signor Leet, e si risparmierà un sacco di grane.» «Kopnik è morto, ispettore. Era mio socio in questa ditta. Si chiamava Kopnik e Leet, ma Leet e Kopnik sarebbe suonato meglio.» «Ha i suoi registri?» «Li avrà il suo avvocato.» «Li cerchi, signor Leet. Li cerchi bene» disse Popil. «Voglio sapere come ha fatto questo quadro a finire dal castello Lecter alla Galerie Leet.» «Lecter...» disse Leet. «Non è il ragazzo che fa quei disegni?» «Sì.» «Straordinario.» «Già, straordinario» ripeté Popil. «M'incarti il quadro, per favore.» Leet si presentò al Quai des Orfèvres due giorni dopo con alcuni documenti. Popil fece in modo che sedesse in corridoio vicino alla stanza indicata come Auditìon 2, dove l'interrogatorio di un sospettato di violenza carnale era movimentato da tonfi e grida. Popil permise a Leet di "cuocere" in quest'atmosfera per un quarto d'ora prima di farlo entrare nel suo ufficio privato. Il mercante d'arte esibì una ricevuta. Dimostrava che Kopnik aveva comprato il Guardi da un certo Emppu Makinen per ottomila sterline.
«Lo trova convincente?» domandò Popil. «Io no.» Leet si schiarì la voce e guardò il pavimento. Passarono circa venti secondi. «Il pubblico ministero è ansioso di avviare un procedimento contro di voi, signor Leet. È un calvinista convinto, lo sapeva?» «Il quadro era...» Popil alzò la mano, zittendo Leet. «Per il momento voglio che dimentichi il suo problema. Tenga conto che io posso intervenire in suo favore, se scelgo di farlo. Voglio che mi aiuti. Guardi qui.» Tese a Leet un fascio di lucidi. «Questa è la lista di opere che la commissione di controllo alleata sta portando a Parigi dal Munich Collection Point. Tutte rubate.» «Esposte al Jeu de Paume.» «Sì, gli aventi diritto possono vederle là. Vada alla seconda pagina, sotto la metà. Ho cerchiato Il Ponte dei sospiri di Bernardo Bellotto, 36 x 30 centimetri, olio su tavola. Conosce questo quadro?» domandò Popil. «Ne ho sentito parlare, naturalmente.» «Se è quello autentico, è stato preso dal castello Lecter. Saprà anche che è accoppiato a un altro quadro che ha come soggetto il Ponte dei sospiri.» «Del Canaletto, dipinto lo stesso giorno.» «Anch'esso portato via dal castello Lecter, forse rubato nella stessa occasione e dalla stessa persona» continuò Popil. «Quanti soldi farebbe in più se vendesse la coppia di quadri insieme, rispetto al venderli separatamente?» «Quattro volte tanto. Nessuno che abbia un po' di raziocinio li separerebbe.» «Quindi furono divisi per ignoranza o per sbaglio. Due quadri del Ponte dei sospiri. Se la persona che li ha rubati ne ha ancora uno non vorrebbe riavere anche l'altro?» domandò Popil. «Sicuramente.» «Il quadro sarà pubblicizzato quando sarà al Jeu de Paume. Lei verrà alla mostra con me e staremo a vedere chi gli gironzolerà intorno.» 30 L'invito a Lady Murasaki le permise di entrare al Jeu de Paume prima della grande folla che si accalcava nelle Tuileries, impaziente di vedere le oltre cinquecento opere rubate trasferite dal Munich Collection Point grazie all'MFAA (Monuments, Fine Arts and Archives), sotto l'egida della
commissione di controllo alleata, nel tentativo di rintracciare i legittimi proprietari. Alcune opere stavano facendo il loro terzo viaggio tra Francia e Germania, essendo state rubate prima da Napoleone in Germania e portate in Francia, poi rubate dai tedeschi e riportate a casa e infine riportate in Francia un'altra volta dagli Alleati. Lady Murasaki trovò al pianterreno del Jeu de Paume un bel miscuglio d'immagini occidentali. Dipinti religiosi e crocifissioni grondanti sangue riempivano un'estremità della sala. Per sollevarsi si voltò verso il quadro di un sontuoso buffet, il cui unico commensale era uno springer spaniel intento a servirsi qualche boccone di prosciutto. Più avanti c'erano grandi tele attribuite alla scuola di Rubens, che rappresentavano donne rosee e corpulente circondate da paffuti angioletti. E fu lì che l'ispettore Popil vide dapprima Lady Murasaki nel suo finto Chanel, sottile ed elegante contro i carnosi nudi di Rubens. Poi individuò Hannibal che saliva le scale dal piano sottostante. L'ispettore rimase in osservazione senza mostrarsi. Ah, adesso si incontrano, la bella giapponese e il suo scudiero. Popil era interessato a vedere come si sarebbero salutati; si fermarono a poca distanza l'uno dall'altro e, senza inchinarsi, riconobbero la reciproca presenza con un sorrìso. Poi si avvicinarono in un abbraccio. Lei gli baciò la fronte e gli toccò una guancia, e subito si misero a conversare. Appesa al di sopra del loro caldo saluto c'era una buona copia di Giuditta e Oloferne di Caravaggio. Popil si sarebbe divertito, prima della guerra. Adesso sentì un formicolio al collo. Colse lo sguardo di Hannibal e fece cenno verso un piccolo ufficio vicino all'entrata, dove Leet stava aspettando. «Quelli del Munich Collection Point affermano che il dipinto è stato sequestrato a un contrabbandiere sul confine con la Polonia un anno e mezzo fa» disse Popil. «E lui? Ha rivelato la fonte?» domandò Leet. L'ispettore scosse il capo. «Il contrabbandiere è stato strangolato nella prigione militare americana a Monaco da un detenuto, un confidente tedesco. L'uomo è poi sparito quella stessa notte, grazie alla "Ratline" di Draganović, pensiamo. È stato un vicolo cieco.» «Il dipinto è il numero 88, vicino all'angolo. Il signor Leet dice che gli sembra autentico. Hannibal, pensa di essere in grado di dirci se è il quadro
che si trovava a casa sua?» «Sì.» «Se è il suo quadro, Hannibal, si tocchi il mento. Se viene avvicinato da qualcuno, dica semplicemente che è felice di vederlo e che ha solo una fugace curiosità di sapere chi lo ha rubato. Però lei è avido, lo vuole riavere e intende venderlo appena possibile, ma vuole anche il suo compagno. «Deve impuntarsi, Hannibal, fare il piantagrane» continuò Popil. «È sicuro di riuscirci? Avere qualche attrito con il funzionario della commissione. Quella persona vorrà avere un modo di contattarla. Si sentirà più sicuro se vi vedrà litigare. Leet e io andremo fuori, ci dia un paio di minuti prima di cominciare lo spettacolo.» «Venga» disse Popil a Leet che gli era accanto. «Siamo in affari, mio caro, non se la svigni.» Hannibal e Lady Murasaki osservavano una fila di piccoli dipinti. Ed ecco, ad altezza d'occhi, Il Ponte dei sospiri. La sua vista colpì Hannibal più di quando aveva ritrovato il Guardi: insieme a questo quadro vide il viso di sua madre. Altra gente stava entrando, con la lista delle opere in mano e i documenti di proprietà sottobraccio. Tra di loro c'era un uomo alto, in abiti così inglesi che la giacca con gli spacchi pareva avere gli alettoni. Con la sua lista davanti agli occhi, stava abbastanza vicino a Hannibal per ascoltare. «Questo quadro era uno dei due che stavano nella stanza da lavoro di mia madre» disse Hannibal. «Quando lasciammo il castello per l'ultima volta, me lo porse e mi disse di portarlo al cuoco, badando di non sporcare il retro.» Hannibal prese il quadro dal muro e lo voltò. Delle scintille gli brillarono negli occhi. Lì, sul retro del quadro, c'era il segno di una mano di bambino, ma in gran parte cancellato, soltanto il pollice e l'indice erano chiari. La traccia era protetta da un pezzo di scotch. Hannibal lo guardò per un lungo momento. In quel lasso di tempo pensò che il dito e il pollice si muovessero, come il frammento di un'onda. Con uno sforzo ricordò le istruzioni di Popil. "Se è il suo quadro, si tocchi il mento." Fece un respiro profondo e finalmente diede il segnale. «Questa è la mano di Mischa» disse a Lady Murasaki. «Quando avevo otto anni stavano imbiancando le scale. Questo quadro e il suo compagno
vennero posati su un divano nella stanza di mia madre e coperti con un telo. Mischa e io ci nascondemmo sotto: era la nostra tenda, eravamo nomadi nel deserto. Io presi un gessetto dalla mia tasca e tracciai il contorno alla sua mano per allontanare il malocchio. I miei genitori si arrabbiarono, ma il quadro non era danneggiato, e alla fine ne furono perfino divertiti, credo.» Un uomo con il cappello stava arrivando, in fretta, mostrando una targhetta di identificazione legata a uno spago intorno al collo. "Il funzionario della commissione si irriterà, si metta a discutere con lui" aveva detto Popil. «Per favore, non faccia così. Non tocchi il quadro» disse il funzionario. «Non lo toccherei se non mi appartenesse» rispose Hannibal. «Finché non sarà provato che le appartiene non lo tocchi o dovrò farla scortare fuori dall'edificio. Mi faccia chiamare qualcuno dal Registro.» Non appena il funzionario li ebbe lasciati, l'uomo vestito all'inglese era alle loro calcagna. «Mi chiamo Alec Trebelaux» disse. «Posso esservi d'aiuto?» L'ispettore Popil e Leet osservavano da venti metri di distanza. «Lo conosce?» domandò Popil. «No» disse Leet. Trebelaux invitò Hannibal e Lady Murasaki in disparte accanto a una finestra. Era sulla cinquantina, la testa calva abbronzata così come le mani. Alla luce della finestra, si notavano le sopracciglia brizzolate. Hannibal non lo aveva mai incontrato prima. Molti uomini sono felici di vedere Lady Murasaki. Trebelaux non lo era e lei lo avvertì immediatamente, al di là dei suoi modi melliflui. «Sono onorato di conoscerla, signora. C'è una questione di tutela?» «La signora è il mio prezioso consulente» disse Hannibal. «Tratti pure con me.» "Sia avido" aveva detto Popil. "Lady Murasaki sarà la voce della moderazione." «C'è una questione di tutela, signore» disse Lady Murasaki. «Ma è il mio quadro» disse Hannibal. «Dovrà presentare reclamo in un'udienza davanti ai commissari e sono prenotati già per un anno e mezzo. Il quadro verrà confiscato fino ad allora.» «Vado a scuola, signor Trebelaux, e confido di essere in grado di...» «Io posso aiutarla» lo interruppe Trebelaux.
«Mi dica come, signore.» «Ho un'udienza prevista per un'altra questione fra tre settimane.» «Lei è un mercante, signore?» domandò Lady Murasaki. «Mi piacerebbe essere un collezionista, se potessi, signora. Ma per comprare, devo vendere. È un piacere avere belle cose tra le mani, sia pure per poco tempo. La collezione della sua famiglia al castello Lecter era piccola ma ammirevole.» «Conoscevate la collezione?» disse Lady Murasaki. «L'elenco delle perdite dei castello Lecter fu recapitato alla commissione di controllo alleata da suo... da Robert Lecter, credo.» «E può presentare il mio caso alla sua udienza?» domandò Hannibal. «Posso fare la richiesta per voi con riferimento alla Convenzione dell'Aja del 1907. Le posso spiegare...» «Certo, articolo 46, ne abbiamo parlato» tagliò corto Hannibal, dando un'occhiata a Lady Murasaki e passandosi la lingua sulle labbra per apparire interessato. «Abbiamo parlato di numerose opzioni, Hannibal» disse Lady Murasaki. «E cosa succede se non voglio vendere, signor Trebelaux?» domandò Hannibal. «Dovrà aspettare il suo turno davanti alla commissione. Sarà adulto, per allora.» «Questo quadro fa parte di una coppia, mi ha spiegato mio marito» intervenne Lady Murasaki. «Hanno molto più valore insieme. Non sa per caso dove sia finito l'altro?» «No, signora.» «Varrebbe davvero la pena trovarlo, signor Trebelaux» ribatté lei incrociando lo sguardo dell'uomo. «Può dirmi come posso fare per rintracciarla?» aggiunse, calcando su "rintracciarla". Trebelaux fornì il nome di un piccolo albergo vicino alla Gare de l'Est, strinse la mano a Hannibal senza guardarlo e sparì in mezzo alla folla. Hannibal si registrò tra i reclamanti, e lui e Lady Murasaki si aggirarono in mezzo alla gran confusione di opere d'arte. Vedere il segno della mano sinistra di Mischa lo aveva lasciato intorpidito, tranne che nel viso, dove poteva sentire il tocco della sorellina mentre gli dava un buffetto sulla guancia. Si fermò davanti a un arazzo intitolato Il sacrificio di Isacco e lo guardò a lungo. «I corridoi dei piani superiori erano tutti decorati con arazzi» disse. «Potevo stare sulla punta dei piedi e raggiungerne il margine più bas-
so.» Voltò l'angolo dell'arazzo e lo guardò dietro. «Ho sempre preferito questa parte, la trama e l'ordito che compongono l'immagine.» «Come pensieri intricati» osservò Lady Murasaki. Hannibal lasciò andare l'angolo dell'arazzo e Abramo tremò tenendo la gola di suo figlio, con l'angelo che stendeva la mano per fermare il coltello. «Pensi che Dio intendesse mangiare Isacco e per questo ordinò ad Abramo di ucciderlo?» domandò Hannibal. «No, certo che no. L'angelo interviene in tempo.» «Non sempre» disse Hannibal. Appena Trebelaux li vide uscire dall'edificio bagnò il fazzoletto nella toilette degli uomini e ritornò al quadro. Si guardò intorno in fretta: non c'erano funzionari del museo a osservarlo. Con una lieve eccitazione tirò giù il quadro e, sollevando il pezzo di scotch, con il fazzoletto bagnato cancellò il segno della mano di Mischa. Avrebbe potato essere accaduto maneggiandolo quando il quadro era andato in deposito. Tanto per sgombrare il campo dalle questioni sentimentali. 31 L'agente di polizia René Aden, in abiti civili, attese fuori dall'albergo di Trebelaux finché la luce nella sua stanza al terzo piano si spense. Allora andò alla stazione per uno spuntino veloce ed ebbe la fortuna di tornare appena in tempo per vedere il suo uomo uscire dall'albergo con una sacca sportiva. Trebelaux salì su un taxi nel parcheggio fuori dalla Gare de l'Est e attraversò la Senna fino a un bagno turco in Rue de Babylone, dove entrò. Aden parcheggiò la sua auto priva di contrassegni in zona vietata, contò fino a cinquanta e si affacciò nell'ingresso. L'aria era pesante e odorava di oli essenziali. Uomini in accappatoio leggevano giornali in diverse lingue. Aden non aveva intenzione di togliersi i vestiti e seguire Trebelaux nel bagno turco. Era un tipo risoluto, ma suo padre era morto per una malattia della pelle contratta in trincea e lui non voleva togliersi le scarpe in quel posto. Prese un giornale dalla rastrelliera di legno e si sedette. Trebelaux, maldestro per gli zoccoli troppo corti, passò attraverso varie stanze in cui si trovavano uomini adagiati sui sedili piastrellati.
Le cabine private potevano essere affittate per quindici minuti. Trebelaux entrò nella seconda, l'ingresso era già stato pagato. L'aria era satura di vapore e lui si asciugò gli occhiali nell'asciugamano. «Che cosa aspettavi?» disse Leet nella nebbia del vapore. «Sto per cuocere.» «Mi hanno dato il messaggio solo quando ero già a letto» spiegò Trebelaux. «La polizia oggi ti stava osservando mentre eri al Jeu de Paume, sanno che il Guardi che mi hai venduto scotta.» «Me li hai messi addosso tu?» «No di certo. Pensano che tu sappia chi ha i quadri del castello Lecter. Tu lo sai?» «No. Ma forse lo sa il mio cliente.» «Se riesci a prendere l'altro Ponte dei sospiri, li posso piazzare entrambi» disse Leet. «Dove li potresti vendere?» «Sono affari miei. Un grosso cliente in America, diciamo pure un'istituzione. Sai qualcosa o sto sudando inutilmente?» «Mi farò vivo» rispose Trebelaux. Il pomeriggio seguente Trebelaux comprò un biglietto per Lussemburgo alla Gare de l'Est. L'agente Aden lo vide salire sul treno con una valigia. Il facchino non sembrava soddisfatto della mancia. Aden fece una telefonata al Quai des Orfèvres e si precipitò a bordo del treno all'ultimo momento, mostrando al volo il proprio tesserino al controllore. Era notte quando il convoglio si avvicinò alla fermata di Meaux. Trebelaux prese rasoio e pennello e se li portò in bagno. Saltò giù dai treno proprio quando cominciava a riprendere la corsa, abbandonando la valigia. Un'auto lo stava aspettando a un isolato dalla stazione. «Perché qui?» domandò Trebelaux appena fu seduto accanto al guidatore. «Avrei potuto raggiungerti io a Fontainebleau.» «Abbiamo degli affari, qui» rispose l'uomo al volante. «Buoni affari.» Trebelaux lo conosceva come Christophe Kleber. Kleber guidò fino a un bar vicino alla stazione, dove si concesse una cena sostanziosa, portandosi la ciotola alla bocca per finire la zuppa. Trebelaux giocherellò con un'insalata nizzarda e scrisse le proprie iniziali sul
bordo del piatto con i fili dei fagiolini. «La polizia ha confiscato il Guardi» disse mentre portavano a Kleber una paillard di vitello. «Così hai detto a Hercule. Ma non dovresti parlare di certe cose al telefono. Qual è il problema?» «Hanno detto a Leet che è stato trafugato all'Est. È vero?» «Certo che no. Chi è che lo vuole sapere?» «Un ispettore di polizia con una lista della commissione di controllo alleata. Dice che è stato rubato. È vero?» «Hai guardato il timbro?» «Un timbro del Commissariato per la propaganda... ma che t'importa?» «Il poliziotto ha detto a chi apparteneva all'Est? Se si tratta di un ebreo non ha importanza, gli Alleati non rimandano indietro le opere d'arte prese agli ebrei, sono morti tatti. I sovietici se le tengono.» «Non è un poliziotto, è un ispettore di polizia» precisò Trebelaux. «Parli proprio come uno svizzero. Come si chiama?» «Popil o qualcosa dei genere.» «Ah» fece Kleber, pulendosi la bocca con il tovagliolo. «Lo immaginavo. Allora non c'è problema. È stato sul mio libro paga per anni. È solo un'estorsione. Che cosa gli ha detto Leet?» «Ancora nulla, ma sembra nervoso. Per ora sta addossando la responsabilità a Kopnik, il suo defunto socio» disse Trebelaux. «Leet non sa niente, non ha idea di come hai ottenuto il quadro?» «Pensa che l'abbia preso a Losanna, come d'accordo. Protesta che vuole indietro i suoi soldi e gli ho detto che avrei controllato con il mio cliente.» «Popil è mio, me ne occupo io, dimentica tutto. Ho una cosa molto più importante di cui parlare con te. Pensi di poter andare in America?» «Non ho intenzione di portare nulla attraverso la dogana.» «La dogana non c'entra, è solo una consulenza. Devi vedere la roba prima che parta, poi la vedi di nuovo una volta là, sui tavolo di una sala riunioni in una banca. Puoi andarci in aereo, prenditi una settimana di tempo.» «Di che si tratta?» «Piccole antichità. Alcune icone, una saliera d'argento. Diamo un'occhiata, mi dici che cosa ne pensi.» «E sull'altro fronte?» «Sei in una botte di ferro» assicurò Kleber. Kleber era il suo nome solo in Francia. Quello vero era Petras Kolnas e
conosceva l'ispettore Popil di fama, non dal suo libro paga. 32 La chiatta Christabel era legata solo con una corda da ormeggio a un molo sulla Marna a est di Parigi, e appena Trebelaux fu salito a bordo si mise in moto. Era nera, di fabbricazione olandese, con cabine basse e un giardino pensile sul ponte con cespugli fioriti. Il proprietario, un uomo snello con gli occhi azzurri e un'espressione piacevole, era sulla passerella per accogliere Trebelaux. «Sono felice di vederla» disse l'uomo tendendo la mano. I peli gli crescevano all'indietro, verso il polso, cosa che fece rabbrividire lo svizzero. «Segua il signor Milko. Ho tutto pronto qui sotto.» Il proprietario indugiò sui ponte con Kolnas. Passeggiarono per un po' tra le fioriere in terracotta e si fermarono accanto all'unico brutto oggetto del giardino, un bidone di nafta da duecento litri con dei buchi grandi abbastanza da farci passare un pesce e la parte superiore tagliata con la fiamma ossidrica e fissata alla meglio con del filo di ferro. Un telone impermeabile era disteso sul ponte, sotto il bidone. Il proprietario della chiatta gli diede una pacca, abbastanza forte da farne risuonare l'acciaio. «Vieni» disse. Sul ponte inferiore aprì un alto ripostiglio. Conteneva diversi tipi di armi, un fucile Dragunov, un mitra americano Thompson, un paio di Schmeisser tedeschi, cinque Panzerfaust anticarro da usare contro altre imbarcazioni e una serie di pistole. Il proprietario scelse un arpione da pesca e lo diede a Kolnas. «Non ho intenzione di tagliarlo troppo» disse il proprietario con tono amabile. «Eva non è qui per pulire. Lo farai tu, dopo che avremo scoperto cosa gli hanno detto. Punzecchialo per bene, così non farà galleggiare il bidone.» «Milko potrebbe...» cominciò Kolnas. «Lui è stato una tua idea, era il tuo uomo, arrangiati. Non tagli carne tutti i giorni? Milko lo porterà su morto e ti aiuterà a metterlo nel bidone quando lo avrete sistemato a dovere. Prendigli le chiavi e vai nella sua camera. Sistemeremo anche Leet, se sarà necessario. Non lasceremo nulla in sospeso. E basta con l'arte per un po'» disse il proprietario della chiatta, il cui nome in Francia era Victor Gustavson. Un uomo d'affari di successo, che si occupava di morfina per le ex SS e di prostituzione, per lo più fem-
minile. Il suo vero nome era Vladis Grutas. Leet rimase vivo, ma senza quadri. Furono messi in un caveau del governo per anni mentre la corte era bloccata sulla questione se l'accordo croato sui danni di guerra fosse applicabile o meno alla Lituania. Trebelaux invece fissava, senza vederlo, il fondo della Marna dal suo bidone, non più calvo, ma con una chioma verde di alghe che ondeggiavano nella corrente come i riccioli di quando era giovane. Nessun altro dipinto proveniente dal castello Lecter apparve sul mercato per anni. Grazie ai buoni uffici dell'ispettore Popil, negli armi seguenti Hannibal Lecter ebbe di tanto in tanto il permesso di fare visita ai quadri in custodia. Furioso di sedere nel silenzio del caveau sotto gli occhi di un guardiano, a portata d'orecchio del suo respiro nasale. Hannibal guarda il quadro che aveva ricevuto dalle mani di sua madre e sa che il passato non è affatto passato; la bestia che ansimava fiato puzzolente sulla pelle sua e di Mischa continua a respirare, sta respirando tuttora. Gira Il Ponte dei sospiri verso il muro e fissa il retro del quadro per qualche minuto ogni volta. Cancellata la mano di Mischa, è rimasto solo un quadrato vuoto dove proiettare i suoi sogni agitati. Hannibal sta crescendo e cambiando, o forse realizzandosi per quello che è sempre stato. Seconda parte Quando dissi che la Pietà stava entro il margine del bosco, mi riferivo alla bestia indulgente, con artigli e mascelle possenti grondanti sangue LAWRENCE SPINGARN 33 Al centro del palcoscenico dell'Opéra di Parigi, il tempo del dottor Faust stava per scadere nel suo patto con il diavolo. Hannibal Lecter e Lady Murasaki osservavano da un appartato palco di sinistra mentre la richiesta di Faust di sfuggire alle fiamme s'innalzava fino al soffitto a prova di fuoco del grande teatro Garnier. Hannibal, diciottenne, faceva il tifo per Mefistofele e disprezzava Faust,
ma seguiva solo in parte la vicenda. Osservava Lady Murasaki, elegantissima per la serata, come se l'assorbisse con il suo respiro. Lampi di luce arrivavano dai palchi di fronte ogni volta che un uomo spostava il binocolo da teatro dal palcoscenico verso di lei. Era una silhouette in controluce rispetto alla scena, come quando Hannibal l'aveva vista per la prima volta al castello. Le immagini di allora gli vennero alla mente in sequenza: il luccichio di un corvo che beveva dalla grondaia, la lucentezza dei capelli di Lady Murasaki. Dapprima la sua sagoma, poi aveva scostato le tende e la luce le aveva accarezzato il volto. Hannibal aveva percorso un lungo tratto sul ponte dei sogni. Era cresciuto tanto da poter indossare gli abiti da sera del conte, mentre apparentemente Lady Murasaki era rimasta la stessa. La sua mano si appoggiò sulla stoffa della gonna e lui poté udire il fruscio della seta sul sottofondo della musica. Sapendo che lei avrebbe potuto avvertire il suo sguardo fisso, guardò altrove. Il palco aveva un suo fascino. Dietro i sedili, al riparo dalla vista dei palchi di fronte, c'era una peccaminosa poltroncina con i piedi a forma di zoccolo di capra dove gli amanti potevano ritirarsi mentre l'orchestra sottostante provvedeva alla musica. Durante la stagione precedente un vecchio signore vi era morto d'infarto alle battute finali del Volo del calabrone, come Hannibal aveva avuto occasione di apprendere dagli addetti dell'ambulanza. Hannibal e Lady Murasaki non erano soli nel palco. Nelle due sedie di fronte a loro sedevano il commissario di polizia della prefettura di Parigi con la moglie, il che lasciava pochi dubbi su dove Lady Murasaki avesse ottenuto i biglietti. Dall'ispettore Popil, ovviamente. Che piacere che non fosse potuto venire... forse trattenuto da un'indagine su un omicidio, magari una di quelle pericolose e impegnative, all'aperto e con il rischio persino di un tremendo temporale. Le luci si accesero e il tenore Beniamino Gigli ottenne l'applauso scrosciante che si meritava da un pubblico molto esigente. Il commissario di polizia e sua moglie si girarono nel palco per stringere la mano ai vicini, con i palmi ancora brucianti per gli applausi. La moglie del commissario ebbe uno sguardo vivace e curioso. Prese da parte Hannibal, perfetto nell'abito da sera del conte, e non poté resistere alla tentazione di porgli una domanda. «Giovanotto, mio marito dice che è il più giovane studente che sia mai stato ammesso alla facoltà di medicina in Francia.»
«Gli archivi non sono completi, signora. Forse ci sono stati apprendisti chirurghi...» «È vero che una volta ha letto da cima a fondo dei testi e poi li ha riportati alla libreria entro la settimana per avere indietro i suoi soldi?» Hannibal sorrise. «Oh, no, signora. Non è del tutto vero» rispose. Indovina da dove viene questa informazione? Dalla stessa fonte dei biglietti. Hannibal si avvicinò alla donna. Cercando una via d'uscita, voltò lo sguardo verso il commissario e si chinò verso la mano di sua moglie, sussurrando, ma abbastanza forte da farsi sentire: «Questo suona come un crimine». Il commissario era di buon umore, dopo aver visto Faust patire per i propri peccati. «Chiuderò un occhio, giovanotto, se confessa subito ogni cosa a mia moglie.» «La verità è, signora, che non ho riavuto tutti i miei soldi. La libreria si è trattenuta duecento franchi per il disturbo.» Poco dopo, Hannibal e Lady Murasaki scendevano lungo il grande scalone del teatro più veloci di Faust per sfuggire alla folla, con il soffitto affrescato di Pils che sembrava muoversi sopra di loro, decorazioni a forma di ah ovunque, dipinte sulle pareti e scolpite nella pietra. C'erano dei taxi in Place de l'Opera e Hannibal ne chiamò uno al volo, mentre il braciere a carbone di un venditore ambulante riempiva l'aria con uno sbuffo dell'incubo di Faust. Hannibal fece segno a un taxi di fermarsi. «Sono sorpreso che tu abbia raccontato all'ispettore Popil dei miei libri» disse Hannibal dopo essere salito sull'auto. «Lo ha scoperto da solo» rispose Lady Murasaki. «Lo ha detto al commissario, che lo ha ripetuto a sua moglie. E lei ha bisogno di fare la civetta. Non sei poi così ottuso, Hannibal.» Non è a suo agio nei posti chiusi con me, ora, e lo esprime con l'irritazione. «Mi dispiace.» Lei gli diede una rapida occhiata mentre il taxi oltrepassava un semaforo. «La tua animosità limita il giudizio. L'ispettore Popil continua a vederti perché lo incuriosisci.» «No, mia signora, sei tu a incuriosirlo. Immagino che t'importuni con i suoi versi...» Lady Murasaki non soddisfece la curiosità di Hannibal. «Sa che sei il primo della classe» disse «e ne è orgoglioso. Il suo interesse è del tutto benevolo.» «"Del tutto benevolo" non è una diagnosi felice.»
Gli alberi fiorivano in Place des Vosges, profumati nella notte di primavera. Hannibal lasciò andare il taxi, sentendo lo sguardo di Lady Murasaki anche nell'oscurità del loggiato. Non era un ragazzino, non voleva trattenersi oltre. «Ho un'ora di tempo e voglio camminare un po'» disse. 34 «Hai tempo per un tè» disse Lady Murasaki. Lo portò subito in terrazza, preferendo chiaramente stare all'aperto con lui, che non sapeva come reagire al riguardo. Era cambiato e lei no. Un alito di vento e la fiamma della lampada a olio si allungò. Mentre lei versava il tè verde lui poté vedere il pulsare del suo polso, e la leggera fragranza che proveniva dalle maniche del suo vestito io penetrò come uno dei suoi pensieri. «Una lettera da Chiyoh» continuò lei. «Ha rotto il fidanzamento. La diplomazia non fa più per lei.» «È felice?» «Penso di sì. Era un buon partito nel senso tradizionale del termine. Come posso disapprovare? Scrive che sta facendo quello che ho fatto io: seguire il suo cuore.» «Seguirlo dove?» «Un giovane all'università di Kyoto, facoltà di ingegneria.» «Mi piacerebbe vederla felice.» «E io vorrei vedere felice te. Dormi, Hannibal? «Quando ho tempo. Schiaccio un pisolino su una barella se non posso dormire in camera mia.» «Sai cosa intendo dire.» «Se sogno? Sì. Tu non rivedi Hiroshima nei tuoi sogni?» «Non invito i miei sogni.» «Ho bisogno di ricordare, in tutti i modi possibili.» Sulla porta lei gli diede una scatola di bambù con qualcosa da mangiare per la notte e un pacchetto di camomilla. «Per dormire» aggiunse. Hannibal baciò la mano di Lady Murasaki, non con il tipico gesto di galanteria francese, ma appoggiando le labbra sul dorso in modo da poterla assaporare. Ripeté i versi che le aveva scrìtto tanto tempo prima, la notte del macellaio.
L'airone notturno si è rivelato Al sorgere della luna di settembre... Che cosa è più bello? «Non è la luna di settembre» disse lei sorridendo e mettendogli la mano sul cuore come aveva fatto quando lui aveva tredici anni. Poi tolse la mano e lui sentì freddo sul petto. «Riporti davvero i tuoi libri?» «Sì.» «Significa che riesci a ricordare tutto.» «Tutto ciò che è importante.» «Allora puoi ricordare che è importante non provocare l'ispettore Popil. In questo modo è innocuo per te e per me.» Ha indossato la sua irritazione come un kimono invernale. Vedendo questo, posso usarlo per impedirmi di pensare a lei nel bagno del castello tanto tempo fa, il suo viso e il petto come fiori d'acqua? Come i fiori color rosa e crema nel fossato? Posso? No, non posso. Hannibal uscì nella notte, sentendosi a disagio mentre percorreva a grandi passi i primi due isolati e passava attraverso le strette vie del Marais e il Pont Louis-Philippe, con la Senna che vi scivolava sotto illuminata dalla luna. Vista da est, Notre-Dame era paragonabile a un grande ragno, con gli archi rampanti a mo' di zampe e i rosoni come tanti occhi. Hannibal poté vedere la cattedrale-ragno di pietra correre via per la città nel buio, afferrando un treno qualsiasi dalla Gare d'Orsay come fosse un lungo verme, per puro diletto, o meglio ancora individuando un ghiotto ispettore di polizia che usciva dal suo quartier generale al Quai des Orfèvres, appena un passo più in là. Da Notre-Dame proveniva il suono di un coro che faceva le prove. Hannibal si fermò al di sotto delle arcate dell'ingresso centrale a guardare il Giudizio Universale in rilievo sugli architravi sopra il portale. Stava considerando di trovare loro un posto nel suo palazzo della memoria, come testimonianza di una complicata dissezione del collo. Là, sull'architrave superiore, san Michele teneva una bilancia come se stesse facendo un'autopsia. La bilancia di san Michele non era molto dissimile da un osso ioide, e lui era coperto da una volta di santi come dal processo mastoideo.
L'architrave inferiore, dove i dannati erano condotti in catene, poteva rappresentare la clavicola e la successione di arcate gli strati strutturali del collo, in una sorta di litania facile da ricordare: sternoioideo omoioideo tiroioideo giuuuugulare... amen! No, non funzionava. Il problema era la luce. Le vetrine nel palazzo della memoria devono essere ben illuminate, con ampi spazi fra loro. Questa pietra sporca era di un colore troppo uniforme. Hannibal una volta aveva mancato una domanda di esame perché la risposta era complessa, e la sua mente l'aveva collocata contro uno sfondo ancora più complesso. La dissezione del triangolo cervicale prevista per la settimana seguente avrebbe richiesto vetrine chiare e ben distanziate. Gli ultimi coristi sfilarono fuori dalla cattedrale con i loro abiti di scena piegati sulle braccia. Hannibal entrò. Notre-Dame era buia tranne che per le candele votive. Si diresse verso la statua in marmo di Giovanna d'Arco, vicino all'uscita del lato sud. Davanti a lei file e file di candele bruciavano nella corrente della porta. Hannibal si appoggiò contro una colonna nell'oscurità e guardò il volto della santa attraverso i bagliori. Il fuoco sui vestiti di sua madre. La luce delle candele si rifletteva rosseggiante negli occhi di Hannibal. Le fiammelle giocavano su santa Giovanna e conferivano al suo viso espressioni diverse e singolari. Memoria, memoria. Hannibal si domandò se santa Giovanna, con i suoi ricordi, avrebbe preferito un'offerta votiva alle candele. Sapeva che sua madre l'avrebbe preferita. Udì il sagrestano che si avvicinava, il suono delle sue chiavi che echeggiava dapprima sui muri più vicini e poi dall'alto soffitto, con i passi che provocavano anch'essi una sorta di rimbalzo risuonando sul pavimento e rimbombando dalla profonda oscurità delle volte. Il sagrestano vide dapprima gli occhi di Hannibal che brillavano rossi oltre la luce delle candele e un timore primordiale gli si rimescolò dentro. Sentì un pizzicore alla nuca e fece una croce con le chiavi. Ah, era solo un uomo, giovane per giunta. Il sagrestano agitò le chiavi davanti a lui come fossero un incensiere. «È ora» disse con un cenno del mento. «Sì, è ora, già da un pezzo» rispose Hannibal, e uscì dalla porta laterale nella notte. 35 Attraversò la Senna sul Pont au Double e continuò lungo Rue de la Bû-
cherie dove udì un sassofono e delle risate provenire da un jazz club in un seminterrato. Una coppia fumava in un androne, un alone di hashish tra loro. La ragazza si alzò in punta dei piedi per baciare la guancia del ragazzo e Hannibal sentì distintamente il suo bacio sul viso. Brani di musica si mescolavano con quella che gli batteva in testa: prendi tempo, tempo... Tempo. Lungo Rue Dante e oltre l'ampio Boulevard Saint-Germain, sentendosi la luce della luna sulla testa, e dietro Cluny fino a Rue de l'École de Médecine, fino all'ingresso notturno della facoltà, dove bruciava una fioca lanterna. Hannibal aprì la porta ed entrò. Solo nell'edificio, indossò un camice bianco e prese la lavagnetta con la lista delle cose da fare. Il mentore e supervisore di Hannibal alla facoltà era il professor Dumas, un anatomista di valore che aveva scelto di insegnare usando i morti invece di fare pratica sui vivi, Dumas era un uomo brillante ma distratto e gli mancava il lampo di genio del chirurgo. Aveva chiesto a ogni studente di scrivere una lettera all'anonimo cadavere che avrebbe sezionato, ringraziando quello specifico donatore per il privilegio di poter studiare il suo corpo assicurandogli che sarebbe stato trattato con rispetto e coperto in ogni parte che non fosse stata sotto esame in quel momento. Per la lezione del giorno seguente, Hannibal doveva preparare due schemi: un'immagine della gabbia toracica mostrando intatto il pericardio, e una delicata dissezione del cranio. Era notte nel laboratorio di anatomia. La temperatura nella stanza con le sue alte finestre e i grandi sfiatatoi era abbastanza bassa da consentire che i cadaveri coperti, conservati in formalina, potessero rimanere sui venti tavoli per tutta la notte. D'estate sarebbero stati rimessi negli appositi contenitori alla fine della giornata di studio. Quei miseri corpi sotto le lenzuola appartenevano a coloro che nessuno reclamava, i poveracci morti di fame e trovati rannicchiati nei vicoli, irrigiditi, ancora con le braccia avvolte intorno a sé che poi, messi nel bagno di formalina con i loro compagni, finalmente potevano lasciarsi andare. Simili a fragili uccellini, erano accartocciati come i passeri congelati caduti nella neve, esseri umani morti d'inedia ridotti pelle e ossa. Con quaranta milioni di morti in guerra, a Hannibal sembrava strano che gli studenti dovessero utilizzare cadaveri tenuti da lungo tempo nelle vasche, con il colore ormai slavato dalla formalina. Di tanto in tanto l'istituto aveva la fortuna di ricevere il cadavere di un
criminale dal patibolo oppure dal plotone d'esecuzione della fortezza di Montrouge o di Fresnes, o dalla ghigliottina della Santé. Dovendo fare una dissezione del cranio, Hannibal era fortunato ad avere a disposizione proprio la testa di uno che proveniva da lì e che ora lo guardava dal lavandino, con un'espressione rappresa in un misto di sangue e paglia. Dato che la sega da autopsie dell'istituto aspettava da mesi un motore nuovo, Hannibal aveva modificato un trapano elettrico americano saldando una piccola lama rotante alla punta. Aveva un convertitore di corrente grande come un portapane, che emetteva un ronzio forte quasi quanto quello della sega. Hannibal aveva appena finito di sezionare il torace quando ci fu un calo di tensione, come del resto succedeva spesso, e la corrente andò via. Lavorò al lavandino alla luce della lampada a kerosene, per lavare via il sangue e la paglia dalla faccia del cadavere, aspettando che la corrente tornasse. Quando la luce si riaccese, non impiegò molto tempo ad asportare il cuoio capelluto e a rimuovere la calotta cranica con una sezione a corona, per scoprire il cervello. Iniettò del gel colorato nei vasi sanguigni principali, forando il meno possibile la dura madre che lo ricopriva. Era più difficile, ma il professore, incline alla teatralità, avrebbe poi voluto rimuovere la dura madre lui stesso prima della lezione, togliendo la sottile copertura del cervello: per questo Hannibal la lasciò in gran parte intatta. Posò con delicatezza le mani guantate sul cervello. Ossessionato dal ricordo, e dagli spazi vuoti nella sua mente, desiderò leggere al tatto i sogni di un altro essere umano morto ed esplorare con la sola forza di volontà i propri. Il laboratorio di notte era un buon posto per pensare, la quiete rotta solo dal tintinnio degli strumenti e, di rado, dai rumori emessi nelle prime fasi della dissezione, quando dagli organi può ancora fuoriuscire un po' d'aria. Hannibal eseguì una meticolosa sezione parziale del lato sinistro del volto, poi disegnò la testa, sia la parte sezionata sia quella intatta, per le illustrazioni di anatomia che erano parte del programma scolastico. Ora voleva immagazzinare per sempre nella sua mente le strutture muscolari, neurali e venose del volto. Seduto con la mano guantata appoggiata sulla testa dell'uomo, Hannibal arrivò al centro della propria mente e nell'atrio del suo palazzo della memoria. Scelse come musica che lo accompagnasse in quei meandri un quartetto d'archi di Bach e passò veloce attraverso la Sala della Matematica, poi della Chimica, fino a una stanza che aveva recentemente adottato dal Musée Carnavalet e aveva chiamato
Sala del Cranio. Gli ci vollero solo pochi minuti per depositarvi tutto, associando i dettagli anatomici con la sistemazione delle vetrine del Carnavalet, attento a non mettere le vene blu del viso sullo sfondo blu della tappezzeria. Quando ebbe finito nella Sala del Cranio, fece una breve pausa nella Sala della Matematica, vicino all'ingresso. Era una delle parti più antiche del palazzo nella sua mente. Voleva premiarsi con la sensazione che aveva avuto all'età di sette anni, quando aveva capito la dimostrazione che il signor Jakov gli aveva fatto. Tutte le lezioni con il signor Jakov al castello erano immagazzinate lì, ma non c'era nessuna delle loro conversazioni al casino di caccia. Tutto ciò che lo riguardava era fuori dal palazzo della memoria, ancora immobile sul terreno, ma nei bui recessi dei suoi sogni, annerito e bruciato come il casino di caccia; e per poterci arrivare sarebbe dovuto uscire. Avrebbe dovuto attraversare lo spiazzo innevato dove le pagine strappate del Trattato sulla luce di Huygens erano disperse insieme al cervello e al sangue del signor Jakov, schizzato e congelato nella neve. Nei corridoi del palazzo poteva scegliere di sentire musica oppure no, ma in quei recessi non riusciva a controllare il suono, e uno in particolare era in grado di ucciderlo, Hannibal emerse dal palazzo della memoria e tornò di nuovo in sé, da dietro i suoi occhi fino al suo corpo di diciottenne, che sedeva accanto al tavolo nel laboratorio di anatomia, con la mano su un cervello. Disegnò per un'altra ora. Quando ebbe terminato, nel suo schizzo le vene e i nervi della metà sezionata del volto riflettevano esattamente il soggetto che si trovava sul tavolo, mentre il lato non sezionato non gli somigliava per nulla. Era un volto che proveniva da quei recessi. Era il volto di Vladis Grutas, benché Hannibal pensasse a lui soltanto come a Occhiblu. Salì i cinque piani di strette scale fino al suo alloggio nella mansarda sopra la facoltà di medicina, e dormì. Il soffitto era inclinato e la parte bassa della stanza era ordinata, armoniosa, in stile giapponese, con un letto basso. La scrivania si trovava nella parte più alta della stanza, le cui pareti erano piene d'immagini, disegni di dissezioni, illustrazioni anatomiche. Gli organi e i vasi sanguigni erano resi alla perfezione, ma i volti dei soggetti erano facce che lui aveva visto in sogno. Al di sopra di tutto, il cranio di un gibbone dalle lunghe zanne osservava da uno scaffale. Hannibal riuscì a togliersi di dosso il puzzo di formalina, e l'odore chi-
mico del laboratorio non raggiungeva quella parte dell'edificio alta e piena di spifferi. Non portava nel suo sonno le immagini grottesche dei morti e dei cadaveri sezionati, né quelle dei criminali, impiccati o ghigliottinati, che talvolta riusciva a raccogliere nelle prigioni. C'erano solo un'immagine, un suono, che potevano risvegliarlo di colpo. E non sapeva mai quando stavano per arrivare. La luna tramontava. La sua luce si diffuse sui vetri irregolari delle finestre, scorrendo sul viso di Hannibal e muovendosi lenta e silenziosa lungo la parete. Sfiorò la mano di Mischa nel disegno sopra il letto, si spostò sulle mezze facce degli schizzi di anatomia, si mosse sopra i volti dei suoi sogni e arrivò infine al cranio del gibbone, brillando bianca dapprima sulle lunghe zanne e poi sulla fronte sopra le grandi orbite. Dall'oscurità del suo cranio, il gibbone osservava Hannibal addormentato. Il suo viso sembrava quello di un fanciullo. Hannibal emise un suono e si voltò di lato, togliendo il braccio da una stretta invisibile. Sia in piedi con Mischa nella stalla accanto al casino di caccia, tenendosela vicina, e lei tossisce. L'Uomo della ciotola palpa la carne delle loro braccia e parla, ma non esce alcun suono dalla sua bocca, solo un orrendo respiro visibile nell'aria gelida. Mischa affonda il viso nel petto di Hannibal per distoglierlo dal fiato dell'uomo. Occhiblu dice qualcosa, e ora stanno cantando, per ingannarli. Hannibal vede l'ascia e la ciotola. Si getta su Occhiblu, sente un sapore di sangue e di barba ispida, mentre portano via Mischa. Hanno l'ascia e la ciotola. Liberandosi corre verso di loro, con i piedi che si muovono troooppo leeeenti verso la porta. Occhiblu e l'Uomo della ciotola tengono Mischa per i polsi sospesa da terra. Lei volta la testa per guardare disperatamente verso di lui in mezzo alla neve insanguinata e lo chiama... Hannibal si destò di colpo, senza fiato, appeso alla fine del suo sogno, e strinse gli occhi nello sforzo di superare il punto in cui si era svegliato. Morse l'angolo della federa del cuscino e si costrinse ad andare oltre il sogno. Come si chiamavano quegli uomini fra di loro? Quali erano i loro nomi? Quando aveva perso il ricordo del suono delle loro voci? Non era in grado di ricordare il momento in cui era svanito. Voleva sapere come si chiamavano l'uno con l'altro. Doveva terminare il sogno. Andò nel suo palazzo della memoria e cercò di attraversare il terreno che portava ai recessi
bui, di oltrepassare il cervello del signor Jakov sulla neve, ma non vi riuscì. Poteva sopportare di vedere i vestiti di sua madre in fiamme, i suoi genitori, Berndt e il signor Jakov morti nel cortile. Poteva vedere gli sciacalli che si aggiravano nel casino di caccia. Ma non riusciva ad andare oltre quell'immagine di Mischa sospesa per aria, che voltava la testa per guardarlo. Non poteva ricordare nulla di ciò che era accaduto subito dopo, poteva solo rievocare qualcosa molto più tardi, sopra un carro armato, quando era stato trovato dai soldati con la catena chiusa intorno al collo. Voleva ricordare. Doveva ricordare. Dentinellalatrina. Questo lampo di memoria non arrivava spesso e lo fece sedere sul letto. Guardò il gibbone alla luce della luna. Denti molto più piccoli di quelli. Denti di bambino. Non zanne, simili ai miei. Devo udire le voci portate dal loro fiato puzzolente, so che odore hanno le loro parole. Devo ricordare i loro nomi. Devo trovarli. E lo farò. Come posso interrogarmi? 36 Il professor Dumas aveva una calligrafia delicata, rotonda, insolita in un medico. L'appunto diceva: "Hannibal, vuole vedere, per favore, che cosa si può fare per la questione Louis Ferrat alla Santé?". Il professore aveva attaccato un ritaglio di giornale sulla sentenza Ferrat, con alcuni dettagli sul soggetto in questione: Ferrat, di Lione, era stato un funzionario minore di Vichy, un collaboratore di secondo piano durante l'occupazione, ma poi era stato arrestato dai tedeschi per contraffazione e vendita di tessere annonarie. Al termine del conflitto era stato accusato di complicità in crimini di guerra, ma rilasciato per insufficienza di prove. Un tribunale francese lo aveva incriminato per l'uccisione di due donne nel periodo 1949-50 per motivi personali. Era previsto che venisse giustiziato nel giro di tre giorni. La prigione della Santé si trova nel quattordicesimo arrondissement, non lontano dalla facoltà di medicina. Hannibal la raggiunse a piedi in un quarto d'ora. Alcuni operai con un carico di tubi stavano riparando la fognatura nel cortile, che era il luogo delle esecuzioni con la ghigliottina da quando il pubblico era stato escluso dal parteciparvi, nel 1939. Le guardie al cancello conoscevano Hannibal di vista e lo fecero passare. Nel firmare il registro dei visitatori, vide il nome dell'ispettore Popil in cima alla pagina. Un rumore di martello proveniva da una grande stanza vuota che dava
sul corridoio principale. Passandovi, Hannibal intravide un volto che conosceva. Il boia di Stato, Anatole Tourneau in persona, noto come "Monsieur Paris", aveva portato la ghigliottina dal suo garage in Rue de la TombeIssoire per montarla all'interno della prigione. Stava giocherellando con le rotelle del meccanismo della lama, il mouton, che le impedisce di incepparsi quando viene calata. Monsieur Paris era un perfezionista. A suo merito va detto che usava mettere sempre un telo alla sommità della ghigliottina, in modo che il condannato non fosse costretto a vedere la lama. Louis Ferrat stava nella cella della morte, separata da un corridoio dalle altre celle al piano della Sante. Il baccano della prigione affollata arrivava fino alla sua cella come un insieme di mormorii, grida, suoni metallici, ma poteva udire distintamente i colpi del martello di Monsieur Paris a mano a mano che questi procedeva nei montaggio del suo strumento. Louis Ferrat era un uomo snello con i capelli scuri, da poco tagliati sul collo e sulla nuca. Quelli in cima alla testa erano rimasti lunghi, per fornire all'assistente di Monsieur Paris una presa migliore di quella fornita dalle piccole orecchie del condannato. Ferrat sedeva sulla sua branda in mutande e maglietta, strofinando tra il pollice e l'indice una croce legata a una catenina che gli pendeva dal collo. La camicia e i pantaloni erano sistemati con cura su una sedia, come se una persona in carne e ossa ci fosse stata seduta e fosse evaporata fuori dei vestiti. Le scarpe erano allineate sotto il risvolto dei pantaloni. Ferrat udì Hannibal, ma non lo guardò. «Signor Louis Ferrat buongiorno» disse Hannibal. «Il signor Ferrat è uscito dalla cella» disse il condannato. «Io lo rappresento. Che cosa vuole?» Hannibal esaminò i vestiti senza muovere gli occhi. «Vorrei chiedergli di donare il proprio corpo alla facoltà di medicina, per la scienza. Sarà trattato con grande rispetto.» «Lei si prenderà il suo corpo comunque, lo trascinerà via.» «Non posso e non vorrei prendere il suo corpo senza la sua autorizzazione. Né tanto meno trascinarlo via.» «Ah, ecco il mio cliente» disse Ferrat. Voltò le spalle a Harmibal e conferì a bassa voce con i vestiti come se fossero appena entrati nella cella e si fossero accomodati sulla sedia. Poi si avvicinò alle sbarre. «Vuole sapere perché dovrebbe darglielo.» «Quindicimila franchi per i suoi parenti.»
Ferrat si voltò verso i vestiti e poi di nuovo verso Hannibal. «Il signor Ferrat dice: "Al diavolo i miei parenti. Tendono la mano e io ci cago sopra".» Ferrat abbassò la voce e proseguì: «Perdoni il linguaggio... È sconvolto, e la gravità della questione richiede che io riferisca con esattezza le sue parole». «Capisco perfettamente» rispose Hannibal. «Pensa che gli piacerebbe devolvere il compenso a una causa che la sua famiglia disprezza? Sarebbe una soddisfazione per lui, signor...?» «Mi può chiamare Louis... Il signor Ferrat e io abbiamo lo stesso nome di battesimo. No. Credo che lui sia molto risoluto. Il signor Ferrat vive in qualche modo lontano da sé. Dice di avere pochissima influenza su di sé.» «Capisco. Non è il solo.» «Faccio fatica a immaginare come lei possa capire, è poco più che un rag... poco più che uno studente.» «Allora mi può aiutare. Ogni studente alla facoltà di medicina scrive una lettera personale di ringraziamento al donatore con cui ha a che fare. Conoscendo il signor Ferrat così bene, potrebbe aiutarmi a scrivere una lettera del genere? Nel caso in cui decidesse favorevolmente?» Ferrat si strofinò il volto. Le sue dita sembravano avere delle nocche in più dove erano state rotte e mal sistemate anni prima. «Chi altri la leggerebbe, a parte lo stesso signor Ferrat?» «Sarebbe affissa in facoltà, se lui lo desidera. Tutti potrebbero vederla, anche persone importanti e influenti. Potrebbe inviarla a "Le Canard enchaîné" per farla pubblicare.» «Che genere di cose vorrebbe dire?» «Lo descrìverei come altruista. Citerei il suo contributo alla scienza, al popolo francese, alle ricerche mediche che aiuteranno le future generazioni di bambini.» «Non si preoccupi dei bambini. Li lasci fuori.» Hannibal scrisse in fretta alcune righe sul suo quaderno di appunti. «Pensa che questo sia sufficientemente rispettoso?» Tenne il quaderno abbastanza alto perché Louis Ferrat potesse guardarlo, in modo da valutare al meglio la lunghezza del suo collo. Non ha un collo molto lungo. A meno che Monsieur Paris lo tenga bene per i capelli, non resterà granché sotto il suo osso ioide e sarà inutile per una presentazione del triangolo cervicale. «Non dobbiamo dimenticare il suo patriottismo» disse Ferrat. «Quando De Gaulle parlò per radio da Londra, chi rispose? Fu Ferrat ad andare alle
barricate! Vive la France!» Hannibal osservò come il fervore patriottico gli gonfiasse le arterie della fronte e gli facesse emergere la giugulare e la carotide nel collo... Una testa perfetta per le iniezioni con il gel colorato. «Sì, vive la France!» esclamò Hannibal, raddoppiando gli sforzi. «La nostra lettera dovrebbe metterlo in risalto. Anche se lo chiamano collaborazionista, in realtà è stato un eroe della Resistenza, no?» «Certo.» «Ha salvato degli aviatori abbattuti, immagino.» «In diverse occasioni.» «Ha compiuto atti di sabotaggio?» «Spesso, e con sprezzo del pericolo.» «Ha cercato di proteggere gli ebrei?» Ferrat esitò per una frazione di secondo. «Senza badare ai rischi che correva.» «Ed è stato anche torturato, ha avuto le dita rotte per la causa della Francia?» «Poté ancora usarle per salutare con orgoglio il ritorno di De Gaulle.» Hannibal terminò di scarabocchiare. «Ho messo giù la lista dei punti principali, pensa di potergliela mostrare?» Ferrat guardò il foglio di carta, toccando ogni punto con l'indice, annuendo, mormorando tra sé. «Dovrebbe inserire alcune testimonianze di suoi amici della Resistenza. Gliele posso fornire. Un momento, prego.» Ferrat voltò la schiena a Hannibal e si chinò vicino ai vestiti. Poi si girò con decisione. «La risposta del mio cliente è: "Merde. Di' a quel fottuto studente che prima voglio la droga per strofinarmici le gengive e poi firmo". Chiedo scusa, ma è quel che ha detto verbatim et literatim.» Ferrat si fece confidenziale, chinandosi verso le sbarre. «Altri della prigione gli hanno detto che potrebbe avere del laudano, abbastanza da non sentire la lama. "Sognare per non urlare" è come lo descriverei in un'aula di tribunale. La facoltà di medicina di Saint-Pierre dà del laudano in cambio del... dell'autorizzazione. Voi lo date?» «Verrò a trovarla di nuovo con la risposta per lui.» «Non aspetterei a lungo» disse Ferrat. «Verranno anche da Saint-Pierre.» Alzò la voce e attaccò le mani al collo della sua maglietta come avrebbe afferrato il panciotto durante un discorso pubblico. «Sono autorizzato a negoziare per conto suo anche con Saint-Pierre.» Poi, vicino alle sbarre e
di nuovo quieto: «Fra tre giorni il povero Ferrat sarà morto, e io sarò in lutto e senza cliente. Lei è uno studente di medicina. Pensa che farà male? Che il signor Ferrat soffrirà quando...». «Assolutamente no. Il peggio è adesso, l'attesa. Ma la cosa in sé no, nemmeno per un attimo.» Hannibal stava per andare via, quando Ferrat lo chiamò e lui tornò alle sbarre. «Gli studenti non rideranno di lui, delle parti del suo corpo?» «Certo che no. Una persona è sempre coperta, tranne il punto che è oggetto di studio.» «Anche se era... in qualche modo unico?» «In che senso?» «Anche se aveva, diciamo, delle parti infantili?» «È una circostanza comune e non è mai, ripeto mai, occasione per fare dell'umorismo» rispose Hannibal. C'è un candidato per il museo di anatomia, dove i donatori non sono registrati. I colpi del martello del boia causarono come una contrazione nell'angolo dell'occhio di Louis Ferrat mentre tornava a sedersi sulla sua branda, con la mano sulla manica del suo compagno, i vestiti. Hannibal lo vide immaginare l'insieme dei componenti: l'intelaiatura piazzata al suo posto, il filo della lama protetto da un pezzo di gomma e, sotto, il contenitore. Di colpo, vedendolo nella sua mente, Hannibal si rese conto di che cos'era il contenitore. Era una vasca da bagno da bambino. Come una lama in caduta la mente di Hannibal troncò via di netto quel pensiero e, nel silenzio che seguì, l'angoscia di Louis gli divenne familiare come le vene del suo volto o le arterie del proprio. «Gli porterò il laudano» disse Hannibal. In mancanza avrebbe potuto comprargli un po' di oppio. «Mi dia la scheda per il consenso. La riprenderà quando porterà la droga.» Hannibal guardò Louis Ferrat, osservando il suo volto attentamente come aveva fatto con il collo, sentendogli addosso l'odore della paura, e disse: «Louis, una considerazione per il suo cliente. Tutte le guerre, tutte le sofferenze e il male accaduti nei secoli prima di lui, prima della sua esistenza, quanto lo preoccupano?». «Nulla.» «E allora perché dovrebbe preoccuparsi di qualcosa dopo la sua morte? È un sonno senza tormento. La differenza è che non si sveglierà.»
37 Le tavole originali delle incisioni del grande atlante di anatomia di Vesalio De humani corporis fabrica rimasero distrutti a Monaco durante la Seconda guerra mondiale. Per il professor Dumas le incisioni erano reliquie sacre e nel suo dolore pieno di rabbia gli venne l'ispirazione di mettere a punto un nuovo atlante. Sarebbe stato il migliore di tutti quelli che erano succeduti a Vesalio nei quattrocento anni dal De humani corporis fabrica. Dumas riteneva che i disegni fossero superiori alle fotografie nell'illustrare l'anatomia, ed essenziali nello spiegare radiografie poco chiare. Il professor Dumas era un anatomista di grande valore, ma non un artista. Per sua immensa fortuna, aveva visto il disegno di una rana fatto da Hannibal Lecter a scuola, ne aveva seguito i progressi e gli aveva assicurato un percorso di studi in medicina. Era sera nel laboratorio. Durante la sua lezione quotidiana il professor Dumas aveva sezionato l'orecchio interno lasciandolo a Hannibal, che adesso stava disegnando le ossa della coclea su una lavagna a ingrandimento 5x. Il campanello notturno suonò. Hannibal stava aspettando una consegna da Fresnes. Prese una barella e la spinse lungo il corridoio verso l'entrata secondaria. Una ruota cigolava sul pavimento di pietra e lui si ripromise di aggiustarla. Accanto al corpo c'era l'ispettore Popil. Due addetti dell'ambulanza trasferirono il fardello che penzolava e perdeva sangue dalla loro barella a quella di Hannibal e se ne andarono. Lady Murasaki una volta aveva notato, con disappunto di Hannibal, che Popil assomigliava al prestante attore Louis Jourdan. «Buonasera, ispettore.» «Vorrei parlarle» disse Popil, che non assomigliava affatto a Louis Jourdan. «Le dispiace se continuo a lavorare mentre parliamo?» «No» «Venga, allora.» Hannibal spinse la barella in corridoio, facendo ancora più rumore. Doveva essere il supporto di una ruota. Popil tenne aperta la porta a vento del laboratorio. Come Hannibal si aspettava, le larghe ferite al petto causate dal plotone di esecuzione di Fresnes avevano dissanguato il corpo. Era pronto per la vasca. Quella procedura non era urgente, ma Hannibal era curioso di vede-
re se Popil avrebbe assomigliato ancora meno a Louis Jourdan nella stanza delle vasche dei cadaveri, e se l'ambiente avrebbe intaccato il suo bell'aspetto. Era un locale con le pareti di cemento a vista, adiacente al laboratorio, che si raggiungeva tramite una porta a due battenti con guarnizioni di gomma. Una vasca rotonda di tre metri e mezzo di diametro piena di formalina era incassata nel pavimento, con un coperchio di zinco provvisto di una serie di sportelli incernierati. In un angolo della stanza un inceneritore bruciava i rifiuti della giornata, nella fattispecie un assortimento di orecchie. Un paranco a catena pendeva sopra la vasca. I cadaveri, etichettati e numerati, ognuno in un'imbragatura, erano assicurati a una sbarra lungo la circonferenza della vasca. Hannibal fece partire un ventilatore dalle pale impolverate che era infisso nel muro e aprì i pesanti sportelli di metallo. Etichettò il cadavere, lo mise in un'imbragatura, io sollevò con il paranco sopra la vasca e io calò nella formalina. «È venuto da Fresnes con lui?» domandò Hannibal mentre le bollicine cominciavano a salire. «Sì.» «Ha assistito all'esecuzione?» «Sì.» «Perché, ispettore?» «Sono stato io ad arrestarlo. Se porto qualcuno in quel posto, assisto.» «Una questione di coscienza?» «La morte è una conseguenza di quello che faccio. Io credo nelle conseguenze. Ha promesso il laudano a Louis Ferrat?» «Laudano ottenuto legalmente.» «Ma non prescritto legalmente.» «È una pratica comune con un condannato, in cambio dell'autorizzazione. Sono certo che ne è al corrente.» «Sì. Ma non glielo dia.» «Ferrat è uno dei suoi? Lo preferisce lucido?» «Sì.» «Vuole che senta proprio tutto, ispettore? Chiederà a Monsieur Paris di togliere la copertura della ghigliottina perché possa vedere la lama quando è ancora vigile, con la vista non annebbiata?» «Le mie ragioni sono solo mie. Quello che lei non farà è dargli il laudano. Se troverò Ferrat sotto la sua influenza, lei non otterrà mai una laurea
in medicina in Francia. Faccia attenzione a questo, con la sua vista non annebbiata.» Hannibal notò che l'ambiente non creava problemi a Popil. Sentì crescere dentro di sé il rispetto per quell'uomo. Popil si voltò dall'altra parte per parlare. «Sarebbe un peccato, visto che lei è così promettente. Mi congratulo per i suoi ottimi voti» aggiunse. «Ha fatto piacere... La sua famiglia sarebbe stata... ed è... molto orgogliosa. Buonanotte.» «Buonanotte, ispettore. E grazie per i biglietti del teatro.» 38 Era sera, a Parigi, cadeva una pioggia leggera e i ciottoli brillavano. I negozianti, chiudendo per la notte, dirigevano il flusso dell'acqua piovana nelle canaline di scolo. Il tergicristallo del furgone della facoltà di medicina era mosso da un collettore a depressione e Hannibal doveva dare gas di quando in quando per pulire il parabrezza durante il breve tragitto verso la prigione della Santé. Entrò nel cortile attraverso il cancello a marcia indietro, con la pioggia che gli cadeva fredda sul collo mentre sporgeva la testa fuori dal finestrino per vedere, dato che il guardiano non era uscito dalla garitta per dargli istruzioni. Nei corridoio principale della Santé l'assistente di Monsieur Paris gli fece cenno di entrare nella stanza dov'era montata la ghigliottina. L'uomo indossava un grembiule di tela impermeabile e una protezione per il suo cappello, inoltre aveva messo un paraspruzzi davanti al suo posto di fronte alla lama, per proteggersi meglio le scarpe e i risvolti dei pantaloni. Una lunga cesta di vimini rivestita di zinco stava accanto alla ghigliottina, pronta per rovesciarvi dentro il corpo. «Non si usano sacchi di tela qui, ordine del guardiano» disse l'assistente. «Deve prendere la cesta e poi restituirla. Ci sta nel furgone?» «Sì.» «Vuole misurare meglio?» «No.» «Allora lo prenderà tutto insieme. Gli piegheremo in sotto le braccia. È la porta accanto.» In una stanza imbiancata a calce con alte finestre a sbarre Louis Ferrat era disteso su una barella sotto la luce fredda di una lampadina. La tavola
inclinata, la bascule, della ghigliottina era sotto di lui. Aveva nel braccio una flebo. L'ispettore Popil gli stava sopra, parlandogli in tono calmo, schermandogli gli occhi dalla luce con la mano. Il medico della prigione inserì una siringa ipodermica nella flebo e vi iniettò una piccola quantità di un liquido chiaro. Quando Hannibal entrò nella stanza, Popil non alzò lo sguardo. «Ricorda, Louis» disse Popii. «Ho bisogno che tu ricordi.» Gii occhi di Louis si girarono e riconobbero subito Hannibal. Popil a quel punto vide Hannibal e alzò una mano per tenerlo indietro. Poi si abbassò vicino al viso sudato di Louis Ferrat. «Dimmi.» «Ho messo il corpo di Cendrine in due borse. Le ho appesantite con dei vomeri, e intanto mi tornavano in mente le sue parole di scherno...» «Non Cendrine, Louis. Ricorda. Chi ha raccontato a Klaus Barbie dov'erano nascosti i bambini, in modo che potesse spedirli all'Est? Voglio che tu ricordi.» «L'ho chiesto a Cendrine, le ho detto: "Toccalo soltanto", ma lei ha riso di me e ha cominciato con il ritornello...» «No! Non Cendrine» urlò Popil. «Chi ha detto ai nazisti dei bambini?» «Non riesco a pensarci.» «Devi farlo ancora una volta soltanto. Questo ti aiuterà a ricordare.» Il dottore iniettò una dose maggiore di droga nelle vene di Louis, sfregando il braccio perché entrasse meglio in circolo. «Louis, devi ricordare. Klaus Barbie ha spedito i bambini ad Auschwitz. Chi gli ha detto dov'erano nascosti? Sei stato tu?» Il volto di Louis era grigio. «La Gestapo mi sorprese a falsificare le carte annonarie» disse. «Quando mi hanno rotto le dita, ho consegnato loro Pardou... che sapeva dov'erano nascosti gli orfani. Ha avuto un sacco di soldi per questo, e ho mantenuto anche le dita. È maggiore a Trent-la-Forêt, ora. Ho assistito, ma non ho fatto nient'altro. Mi guardavano dal retro del camion.» «Pardou.» Popil annuì. «Grazie Louis.» Popil stava per girarsi quando Ferrat gli disse: «Ispettore». «Sì, Louis?» «Quando i nazisti hanno messo i bambini nei camion, dov'era la polizia?» Popil chiuse gli occhi per un momento, poi fece segno a una guardia, che aprì la porta della stanza dove sarebbe avvenuta l'esecuzione. Hannibal
poté vedere un prete e Monsieur Paris che stavano in piedi accanto alla ghigliottina. L'assistente del boia tolse la catenina con il crocifisso dal collo di Louis e gliela mise in mano. Louis guardò Hannibal. Sollevò la testa e aprì la bocca. Hannibal gli si avvicinò e Popil non cercò di fermarlo. «I soldi Louis?» «Saint-Sulpice. Non la cassetta dei poveri, quella per le anime del purgatorio. Dov'è la droga?» «L'avevo promesso.» Hannibal tirò fuori una fiala di tintura d'oppio diluita che teneva nella tasca della giacca. La guardia e l'assistente del boia finsero di non vedere. Popil no. Hannibal l'accostò alle labbra di Louis e lui ne ingoiò il contenuto, poi fece un cenno verso la sua mano e aprì di nuovo la bocca. Hannibal vi introdusse il crocifisso e la catenina prima che girassero Louis sulla tavola che lo avrebbe portato sotto la lama. Hannibal restò a guardare mentre lo portavano via. La lettiga oltrepassò la soglia della stanza della ghigliottina e la guardia chiuse la porta. «Voleva che il crocifisso restasse con la sua testa invece che con il suo cuore» disse Popil. «Lei sapeva che cosa voleva, non vero? Cos'altro ha in comune con Louis?» «La curiosità di sapere dov'era la polizia quando i nazisti buttarono i bambini nei camion. Abbiamo questo in comune.» Popil avrebbe potuto colpirlo, ma poi il momento di tensione passò. Chiuse il suo taccuino e lasciò la stanza. Hannibal si avvicinò subito al medico. «Dottore, cos'era quella droga?» «Un misto di sodio thiopental e altri due barbiturici. La Sureté lo usa per gli interrogatori. Spesso fa emergere ricordi repressi nei condannati.» «Dobbiamo tenerne conto nel nostro esame del sangue in laboratorio. Posso averne un campione?» Il dottore gli consegnò la fiala. «La formula e il dosaggio sono scritti sull'etichetta.» Dalla stanza accanto arnvò un tonfo sordo. «Aspetterei qualche minuto, se fossi in lei» disse il medico. «Lasciamo che Louis si assesti.» 39 Hannibal era disteso nel suo letto basso nella stanza in soffitta. Le luci delle candele tremolavano sulle facce che aveva disegnato sulla base dei
suoi sogni e le ombre giocavano sul cranio del gibbone. Fissò lo sguardo sulle orbite vuote e digrignò i denti come per fare un confronto con le zanne dell'animale. Accanto a lui c'era un grammofono con una tromba a forma di giglio. Hannibal aveva un ago nel braccio, attaccato a una siringa ipodermica riempita con il cocktail di ipnotici usati nell'interrogatorio di Louis Ferrat. «Mischa, Mischa. Arrivo.» Il fuoco sui vestiti di sua madre, le candele votive sfolgoranti davanti a santa Giovanna. Il sagrestano disse: "È ora". Fece partire il piatto del grammofono e abbassò il braccio con la puntina sul disco di canzoni di bambini. Era graffiato, e il suono metallico e debole, ma lo trafisse. Sagt, wer mag das Männlein sein Das da steht im Walde allein Spinse lo stantuffo della siringa per quasi un centimetro e sentì la droga bruciargli nella vena. Si frizionò il braccio per far circolare meglio la sostanza. Guardò fisso nella luce delle candele le facce ispirate dai suoi sogni, e cercò di far muovere loro la bocca. Forse avrebbero prima cantato e quindi pronunciato il proprio nome. Hannibal cantò lui stesso, per indurle a cominciare. Non poté far muovere le facce più di quanto potesse aizzare il gibbone. Ma fu proprio lui a sorridere dietro le zanne, senza labbra, con la mascella piegata in una smorfia, e allora Occhiblu sorrise, l'espressione confusa si chiarì con un lampo nella mente di Hannibal. E poi l'odore di legna bruciata nel casino di caccia, gli strati di fumo nella stanza fredda, il fiato mefitico degli uomini che si affollavano intorno a lui e a Mischa accanto al focolare. Li portarono fuori nella stalla. Stracci di vestiti di bambini, pieni di macchie e a lui estranei. Non riusciva a udire gli uomini che parlavano, né a sentire come si chiamavano l'uno con l'altro, ma poi arrivò la voce distorta dell'Uomo della ciotola che diceva: "Prendi lei, tanto sta per morire comunque. Lui rimarrà freeeesco ancora per un po'". Hannibal lottava e mordeva, ma ora avveniva la cosa che lui non poteva sopportare di vedere: Mischa tenuta sollevata per le braccia, i piedi sopra la neve insanguinata, che si girava per guardare verso di lui. "Anniba!!" gridava la sua voce. Hannibal si tirò su a sedere sul letto e con il braccio piegato spinse fino in fondo lo stantuffo della siringa.
E allora la stalla girò intorno a lui. "ANNIBA!!" Hannibal si precipitava correndo verso di loro, la porta della stalla veniva sbattuta contro il suo braccio, le ossa si rompevano. Occhiblu si girava indietro a raccogliere un ciocco di legna da ardere e lo colpiva sulla testa. Dal cortile il suono dell'ascia. Poi il buio. Hannibal si sollevò sul letto nella soffitta, la messa a fuoco delle immagini andava e veniva, le facce sembravano galleggiare sul muro. Era oltre. Oltre la cosa che non poteva guardare, la cosa che non poteva udire né rivivere. Si risvegliò nel casino di caccia, con il sangue raggrumato su un lato della testa e un dolore lancinante al braccio, incatenato alla ringhiera del pianerottolo con il tappetino tirato su di sé. Tuoni... no, erano colpi di artiglieria nel bosco. Gli uomini stavano ammassati davanti al caminetto con la borsa di pelle del cuciniere, si toglievano le piastrine di riconoscimento, le gettavano nella borsa insieme ai documenti tirati fuori dai portafogli e si infilavano le fasce della Croce Rossa. Poi l'urlo e il lampo di una granata al fosforo che colpiva la carcassa del carro armato fuori uso, e il casino di caccia che bruciava, bruciava. I criminali che in fretta uscivano nella notte, verso il loro camion semicingolato, e sulla porta il cuciniere si ferma. Tenendo la borsa alzata contro il viso per proteggersi dal calore prende una chiave dalla tasca e la lancia in alio verso Hannibal proprio nel momento in cui esplode un'altra granata che non avevano sentito arrivare. Ed ecco che la casa si solleva, il pianerottolo dove è steso Hannibal s'inclina e lui scivola contro la ringhiera mentre le scale precipitano addosso al cuoco. Hannibal sente i capelli che si arricciano in una lingua di fiamme e poi è fuori, con il camion in fuga nella foresta, i bordi del tappetino che gli bruciano intorno, schegge di granata che si conficcano nel terreno o gli fischiano vicino. Con un po' di neve spegne il tappetino in fiamme e arranca, arranca, con il braccio penzoloni. Un'alba grigia sui tetti di Parigi. Nella soffitta il grammofono si è fermato e le candele sgocciolano lentamente. Gli occhi di Hannibal sono aperti. Le facce sulle pareti sono immobili. Sono di nuovo schizzi fatti con il gessetto, semplici fogli di carta che si muovono con gli spifferi d'aria. Il gibbone ha assunto di nuovo la sua espressione abituale. Il giorno sta arrivando, ovunque sta sorgendo la luce, una nuova luce dappertutto.
40 Sotto un basso cielo grigio a Vilnius, in Lituania, una Škoda berlina della polizia svoltò nella trafficata Šventaragio e in una stretta via nei pressi dell'università, suonando il clacson per indurre i passanti a spostarsi e facendoli imprecare nei loro colletti alzati. Si fermò di fronte a un palazzone di appartamenti costruito dai russi, la cui bruttezza risaltava anche in un quartiere di edifici decrepiti. Un uomo alto con l'uniforme della polizia sovietica uscì dall'auto e scorrendo con il dito lungo una fila di pulsanti, premette quello a nome "Dortlich". Il campanello suonò in un appartamento al secondo piano dove un uomo anziano stava disteso a letto, con una quantità di medicine poggiate su un tavolo accanto a lui. Sopra il letto c'era un orologio a pendolo, dal quale pendeva sul cuscino una cordicella. Il vecchio era un uomo risoluto, ma di notte, quando il terrore lo assaliva, poteva tirare la cordicella, udire nel buio l'orologio battere l'ora e capire così di non essere ancora morto. La sua mano minuta si muoveva a scatti. L'uomo fantasticava che la pendola stesse decidendo il momento della sua morte. Aveva confuso il campanello con il proprio respiro stridulo. Udì la voce della domestica alzarsi nell'ingresso e poi la donna fece capolino nella stanza, i capelli ispidi sotto la cuffia. «Suo figlio, signore.» L'ufficiale Dortlich le passò accanto sfiorandola ed entrò. «Ciao, papà.» «Non sono ancora morto. È troppo presto per venire a rubare.» Il vecchio trovò strano che la rabbia ora fosse tutta nella sua testa e non arrivasse più al cuore. «Ti ho portato dei cioccolatini.» «Dalli a Bergid quando esci. E non violentarla. La saluto, ufficiale Dortlich.» «È tardi per comportarti così. Stai morendo. Sono venuto a vedere se c'è qualcosa che posso fare per te, oltre a provvedere a questo appartamento.» «Potresti cambiare nome. Quante volte hai cambiato bandiera?» «Abbastanza da restare vivo.» Dortlich indossava l'uniforme verde della polizia di confine sovietica. Si tolse un guanto e si avvicinò al capezzale del padre. Tentò di prendergli la mano, cercandogli il polso con il dito, ma lui spinse via la mano sfregiata del figlio, la cui vista gli fece inumidire gli occhi. Con uno sforzo il vec-
chio si alzò e toccò le medaglie che pendevano sul petto del figlio mentre era chino sul letto. Tra le decorazioni spiccavano la medaglia al valore della polizia, quella dell'istituto di formazione dei dirigenti dei campi di prigionia e quella di merito del genio pontieri. L'ultima era una forzatura: Dortlich aveva sì costruito alcuni ponti di barche, ma per i nazisti in un battaglione di lavoro. Eppure aveva una bella faccia tosta e interrogato in proposito era in grado di reggere il gioco. «Te le hanno tirate fuori da una scatola di cartone?» «Non sono venuto per le tue benedizioni, ma per sapere se avevi bisogno di qualcosa e per salutarti.» «È già abbastanza brutto vederti in un'uniforme russa.» «Il Ventisettesimo fucilieri» disse Dortlich. «Ma era peggio vederti con l'uniforme nazista. Loro hanno ucciso tua madre.» «C'erano molti di noi, non solo io. Così ho una vita. E tu hai un letto in cui morire invece di una fogna, hai di che scaldarti. È tutto quello che posso fare per te. I treni per la Siberia sono pieni, con la gente che si calpesta e si caca in testa. Goditi le tue lenzuola pulite.» «Grutas era peggiore di te, e lo sapevi.» Il vecchio dovette fare una pausa per prendere fiato. «Perché lo hai seguito? Vi siete uniti a criminali e sciacalli, avete rapinato case e spogliato i morti.» Dortlich replicò come se non avesse udito le parole di suo padre. «Quando ero piccolo e mi bruciai, ti sedesti accanto al letto e intagliasti la testiera per me. Fu un regalo, una bella testiera con sopra tutti gli animali, e ce l'ho ancora. Grazie.» Mise i cioccolatini ai piedi del letto dove il vecchio non poteva buttarli a terra. «Tornatene alla tua stazione di polizia, tira fuori il mio schedario e scrivici sopra "Famiglia sconosciuta"» disse il vecchio. Dortlich prese un foglietto dalla tasca. «Se vuoi che ti mandi a casa quando muori, firma questo e lascialo per me. Bergid farà da garante sull'autenticità della tua firma.» Risalito in auto, Dortlich rimase in silenzio finché si trovarono nel traffico della Radvilaites. Il sergente Svenka al volante offrì a Dortlich una sigaretta e gli domandò: «È stata dura vederlo?». «Per fortuna non sono nei suoi panni» rispose Dortlich. «Quella fottuta domestica... avrei dovuto andarci quando Bergid era in chiesa. Chiesa... Rischia la prigione andandoci. Pensa che non lo sappia. Mio padre morirà
entro un mese. Lo spedirò in nave nella sua città natale in Svezia. Avremo forse tre metri cubi a disposizione sotto il corpo. Tre metri è proprio un bello spazio.» Il tenente Dortlich non aveva ancora un ufficio privato, ma poteva usufruire di una scrivania nella stanza comune della stazione di polizia, dove il prestigio era attestato dalla vicinanza alla stufa. Ora, in primavera, la stufa era spenta e vi erano impilati sopra dei documenti. Le carte che ingombravano la scrivania di Dortlich erano per il cinquanta per cento inutile burocrazia e metà di esse avrebbe potuto essere buttata via senza problemi. C'era scarsa comunicazione trasversale tra i dipartimenti di polizia lituani e quelli delle vicine Lettonia e Polonia. La polizia nei paesi satelliti dell'Unione Sovietica era organizzata intorno al Soviet centrale a Mosca come una ruota con i raggi ma senza cerchione. Tra le cose che Dortlich doveva controllare c'era la lista arrivata via telegrafo degli stranieri che avevano un visto per la Lituania. Dortlich la confrontò con il lungo elenco dei ricercati e con quello dei politicamente sospetti. L'ottavo della lista di coloro che avevano un visto era Hannibal Lecter, appena diventato membro dell'associazione giovanile del partito comunista francese. Dortlich diresse la sua Wartburg due tempi all'Ufficio dei telefoni di Stato, dove lavorava circa una volta al mese. Aspettò fuori finché vide Svenka che entrava per cominciare il suo turno. Poco dopo, con Svenka al quadro di commutazione del centralino, Dortlich si ritrovò da solo in una cabina telefonica con una linea diretta, per quanto gracchiante, con la Francia. Mise un rilevatore di intercettazioni sul telefono e osservò l'ago per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando la chiamata. Nel seminterrato di un ristorante vicino a Fontainebleau, in Francia, un telefono squillò nel buio. Suonò per cinque minuti prima che qualcuno rispondesse. «Pronto?» «Una certa persona dovrebbe rispondere un po' più in fretta, visto che sto seduto qui con il culo all'aria. Abbiamo bisogno di una sistemazione in Svezia, per degli amici che devono ricevere un corpo» disse Dortlich. «E il giovane Lecter sta tornando. Ha un visto da studente come membro della Gioventù per la rinascita del comunismo.» «Chi?» «Pensaci. Ne abbiamo discusso l'ultima volta che abbiamo cenato insie-
me» disse Dortlich. «Scopo della visita: "catalogare per il popolo la biblioteca del castello Lecter". È uno scherzo, i russi con i libri si puliscono il culo. Potremmo avere bisogno di fare qualcosa di definitivo. Sai con chi parlare.» 41 A nordovest di Vilnius, vicino al fiume Neris, ci sono le rovine di una vecchia centrale elettrica, la prima nella regione. In tempi più felici forniva una modesta quantità d'energia alla città, ad alcune segherie e a un'officina meccanica lungo il fiume. Funzionava in ogni condizione di tempo, dato che poteva essere rifornita di carbone polacco da un binario a scartamento ridotto o da una chiatta lungo il fiume. La Luftwaffe l'aveva bombardata a tappeto nei primi cinque giorni dell'invasione tedesca. Con l'avvento delle nuove linee di trasmissione sovietiche, non era mai stata ricostruita. La strada verso la centrale era interrotta da una catena chiusa con un lucchetto tra due pali di cemento. Il lucchetto era arrugginito fuori, ma ben oliato dentro. Un cartello in russo, lituano e polacco diceva: TERRENO MINATO - VIETATO L'INGRESSO. Dortlich scese dal camion e fece cadere la catena a terra. Il sergente Svenka proseguì al volante. La ghiaia era coperta qua e là da erbacce che frusciavano sotto il camion. Svenka disse: «Qui è dove tutta la banda...». «Sì» tagliò corto Dortlich. «Pensi che ci siano davvero delle mine?» «No. E se mi sbaglio tienilo per te» rispose Dortlich. Non era nel suo carattere dare confidenza, e il fatto di aver bisogno dell'aiuto di Svenka lo rendeva irritabile. Vicino ai ruderi anneriti della centrale elettrica c'era un capannone. «Accosta laggiù vicino a quei cespugli e togli la catena dal bagagliaio» disse Dortlich. Dortlich legò la catena alla barra da traino del camion, scuotendola per sistemarne gli anelli. Sradicò dei cespugli per trovare l'anello di una piattaforma di legno e, legatavi la catena, fece avanzare il camion finché la piattaforma si mosse abbastanza da rivelare la porta di metallo di un rifugio antibombardamento. «Dopo l'ultimo raid aereo, i tedeschi lanciarono dei paracadutisti per
controllare il passaggio del Neris» spiegò Dortlich. «La squadra della centrale aveva trovato riparo qui dentro. Un paracadutista bussò alla porta e quando aprirono lanciò dentro una granata al fosforo. Fu difficile da pulire. Ci vuole un po' per abituarsi.» Mentre parlava, Dortlich aprì i tre lucchetti che assicuravano la porta. La spalancò e lo sbuffo d'aria stantia che colpì la faccia di Svenka aveva un sottofondo di bruciato. Dortlich accese la sua torcia e scese le ripide scale di metallo. Svenka fece un respiro profondo e lo seguì. L'interno era imbiancato a calce e c'erano file di scaffali di legno grezzo colmi di opere d'arte, icone avvolte in stracci, file intere di contenitori tubolari in alluminio, tutti numerati, con i coperchi sigillati a cera. In fondo al locale c'erano cornici vuote, alcune con i chiodi strappati, altre con logori resti della tela che era stata tagliata via dalla cornice. «Porta tutto su quello scaffale, e le cose che stanno in piedi mettile laggiù» ordinò Dortlich. Riunì alcuni fagotti di tela impermeabile e condusse Svenka al capannone. Dentro, appoggiata su un tavolo, c'era una bara in quercia intagliata con il simbolo dell'Associazione dei portuali di Klaipeda. La bara aveva tutt'intorno un motivo decorativo e la metà inferiore era di colore più scuro, come la linea di galleggiamento nello scafo di una barca. «È la barca dell'anima di mio padre» disse Dortlich. «Portami quella scatola di scarti di cotone. L'importante è non farla sbatacchiare.» «Se sbatacchia penseranno che siano le sue ossa» commentò Svenka. Dortlich gli diede un ceffone sulla bocca. «Mostra un po' di rispetto. Dammi il cacciavite.» 42 Hannibal Lecter abbassò il finestrino sporco dello scompartimento per guardare fuori, mentre il treno passava serpeggiando attraverso le alte file di tigli e pini ai lati dei binari, e finalmente, a una distanza di circa un chilometro, vide le torri del castello Lecter. Due chilometri più in là il treno, stridendo e ansimando, si fermò alla stazione di rifornimento d'acqua di Dubrunst. Alcuni soldati e un gruppo di operai scesero per urinare sulla massicciata. Un rimprovero secco del capotreno li indusse a voltare la schiena ai passeggeri. Hannibal scese con loro, zaino in spalla. Quando il capotreno tornò a bordo, Hannibal s'infilò in mezzo al bosco. Aveva strappato una pagina di giornale mentre se ne andava, nel caso il secondo capotreno lo
avesse visto dall'alto della cisterna. Aspettò tra gli alberi di sentire il rumore della locomotiva a vapore che si allontanava. Adesso era solo nella quiete del bosco. Era stanco, ma pieno di coraggio. Quando aveva sei anni, Berndt lo aveva portato su per le scale a chiocciola della cisterna e lo aveva lasciato sporgere oltre il bordo coperto di muschio, sopra l'acqua che rifletteva un cerchio di cielo. C'era anche una scaletta che portava dentro. Berndt aveva l'abitudine di andarci a nuotare con una ragazza del villaggio tutte le volte che si presentava l'occasione. Berndt era morto là, nel bosco, e probabilmente anche la ragazza era morta. Hannibal fece un bagno veloce e poi il bucato. Pensò a Lady Murasaki nell'acqua, pensò di poter nuotare con lei nella cisterna... Ritornò a camminare lungo la ferrovia, nascondendosi tra gli alberi solo una volta quando udì il rumore di un carrello che arrivava lungo i binari. Due muscolosi magiari spingevano con forza sulle maniglie, con la camicia legata alla cintola. A un chilometro dal castello una nuova linea elettrica sovietica attraversava i binari. Le avevano aperto la strada in mezzo ai boschi con i bulldozer. Hannibal sentì l'elettricità statica mentre passava sotto i cavi dell'alta tensione e gli si drizzarono i peli sulle braccia. Camminò abbastanza lontano dalle linee elettriche e dai binari perché la bussola del binocolo si riassestasse. Da lì c'erano due vie per arrivare al casino di caccia, ammesso che ci fosse ancora. La linea elettrica correva fino a un punto lontano dalla vista e, continuando in quella direzione, sarebbe dovuta passare a pochi chilometri di distanza. Prese una razione dell'esercito americano dallo zaino, buttò vìa le sigarette ingiallite e mangiò la carne in scatola, riflettendo. Le scale che si abbattevano sul cuoco, il legno che crollava. Il casino di caccia poteva non esserci più del tutto. Se c'era ancora e vi era rimasto qualcosa voleva dire che gli sciacalli non erano riusciti a smuovere i detriti più pesanti. Per fare quello che loro non avevano potuto fare gli serviva energia. Al castello, dunque. Poco prima del crepuscolo Hannibal si avvicinò al castello Lecter dal bosco. Guardandolo non provò particolari emozioni. Non è salutare vedere la casa dell'infanzia, ma può aiutare a misurare le proprie ferite, a confrontarsi con il come e il perché, ammesso che uno abbia voglia di farlo. Hannibal vide la massa scura del castello contro la luce fioca a ovest, piatto come il quello di cartone dove vivevano le bambole di cartapesta di
Mischa. Ma quel castello di cartone incombeva dentro di lui più di quello di pietra che aveva davanti agli occhi. Le bambole di cartapesta si accartocciano quando bruciano. Il fuoco sui vestiti di sua madre. Dagli alberi dietro la scuderia poteva udire il vocio della cena e gli orfani che cantavano L'Internazionale. Una volpe ululò tra gli alberi dietro di lui. Un uomo con gli stivali infangati lasciò la scuderia con vanga e secchio in mano e attraversò l'orto. Si sedette sulla Ravenstone per togliersi gli stivali ed entrò in cucina. Il cuoco era seduto sulla Ravenstone, disse Berndt. Gli spararono perché era ebreo e lui sputò sull'Hiwi che gli aveva sparato. Berndt non disse mai il nome dell'Hiwi. "Meglio che tu non sappia quando lo sistemerò dopo la guerra" aveva detto, stringendosi forte le mani. Adesso era tutto buio. C'era corrente elettrica almeno in una parte del vecchio castello Lecter. Quando vide la luce accesa nell'ufficio del direttore dell'orfanotrofio, Hannibal estrasse il binocolo. Poteva vedere attraverso i vetri che il soffitto con gli affreschi italiani di sua madre era stato coperto da una mano di vernice bianca d'impronta stalinista, per nascondere le figure mitologiche di sapore borghese che vi erano dipinte. Di lì a poco lo stesso direttore apparve alla finestra con un bicchiere in mano. Era appesantito e curvo. Il capo sorvegliante apparve dietro di lui e gli pose una mano sulla spalla. Il direttore si allontanò dalla finestra e dopo alcuni istanti la luce si spense. Nuvole frastagliate passarono davanti alla luna e la loro sagoma salì lungo la merlatura scivolando sul tetto. Hannibal aspettò un'altra mezz'ora. Poi, muovendosi nell'ombra di una nuvola, andò verso la scuderia. Poteva sentire il cavallo che russava nel buio. Cesar si svegliò ed emise un nitrito, voltando subito la testa per vedere chi entrava nel box. Hannibal gli soffiò sul muso e gli grattò il collo. «Svegliati, Cesar» gli disse all'orecchio, che fremette contro il suo viso. Dovette mettersi un dito sotto il naso per non starnutire. Poi, con la mano a coppa sulla torcia, guardò il cavallo. Il manto era ben strigliato e gli zoccoli sembravano a posto. Doveva avere tredici anni, ormai, essendo nato quando Hannibal ne aveva cinque. «Hai solo messo su un centinaio di chili» aggiunse. Cesar gli diede una spinta amichevole con il muso e Hannibal dovette appoggiarsi contro la parete del box. Mise al cavallo un collare imbottito, le briglie e una bardatura da tiro, e gli strinse i finimenti. Gli appese al collo la sacca della biada e Cesar mosse subito la testa nel tentativo
di infilarci il muso. Hannibal andò al capanno in cui era stato rinchiuso da ragazzino e prese un rotolo di fune, alcuni attrezzi e una lanterna. Non c'erano luci nel castello. Quindi portò il cavallo fuori sulla ghiaia e poi sul terreno soffice, verso la foresta, in direzione della luna. Non ci fu alcun segnale d'allarme dal castello. Osservando dalla cima merlata della torre occidentale, il sergente Svenka alzò il ricevitore della radio da campo che aveva trasportato per duecento gradini. 43 Al limitare del bosco un grande albero era stato messo di traverso sul sentiero. Un cartello diceva in russo: PERICOLO - MINE INESPLOSE. Hannibal dovette guidare il cavallo intorno all'albero caduto e in mezzo alla foresta della sua infanzia. La luce pallida della luna che filtrava attraverso il manto della vegetazione creava macchie grigie sul sentiero coperto di erbe. Cesar procedeva con cautela nel buio. Hannibal accese la lanterna solo quando furono ben dentro il bosco. Camminava davanti, con i grossi zoccoli del cavallo che calpestavano l'estremità del fascio della luce della lanterna. Accanto al sentiero la testa di un femore umano sbucò dal terreno come un fungo. Ogni tanto Hannibal parlava al cavallo: «Per quante estati hai percorso questo sentiero con il carro, Cesar? Con Mischa, me, la tata e il signor Jakov?» Tre ore di cammino fra le erbacce li condussero al margine della radura. Il casino di caccia era ancora lì, per fortuna, e a Hannibal non apparve così cadente. Non era piatto come il castello, incombeva proprio come nei suoi sogni. Hannibal si fermò al limitare del bosco e guardò fisso nel punto dove le bambole di cartapesta sembravano accartocciarsi ancora nel fuoco. L'edificio era mezzo bruciato, alcune parti di tetto erano cadute, ma i muri di pietra avevano impedito il crollo totale. Lo spiazzo era ricoperto di erbacce e cespugli ad altezza d'uomo. Il carro armato incendiatosi di fronte al casino di caccia era ricoperto di vite, con un tralcio che pendeva dal cannone, mentre la coda dello Stuka abbattuto spuntava fuori dall'erba come una vela. Non c'erano sentieri nella vegetazione. I tutori per le piante rampicanti del giardino svettavano ancora al di sopra delle erbacce. Là, nell'orto, la tata mise la vasca da lagno di Mischa, e quando il sole
ebbe scaldato l'acqua, Mischa si sedette dentro e agitò le mani verso le bianche cavolaie che le volavano intorno. Una volta lui recise il gambo di una melanzana e gliela diede perché Mischa ne amava il colore, il suo viola nel sole, e la sorella strinse fra le mani la calda melanzana. Il prato di fronte all'ingresso non era calpestato, c'erano cumuli di foglie sui gradini e davanti alla porta. Hannibal osservò il casino di caccia mentre la luna si spostava lenta nel cielo. Tempo... era giunto il tempo. Hannibal venne fuori dal riparo degli alberi portando il cavallo alla luce della luna. Andò alla pompa, le versò sopra un po' d'acqua da un otre di pelle per sbloccarne il meccanismo e pompò fino a quando il sifone cigolante tirò su acqua fredda dal terreno. L'annusò e l'assaggiò, poi ne diede a Cesar, che bevve più di quattro litri e mangiò due manciate di biada dalla sacca. Il rumore della pompa si diffuse nei boschi. Un gufo gridò e Cesar orientò le orecchie in direzione del suono. A un centinaio di metri, tra gli alberi, Dortlich udì il rumore della pompa e ne approfittò per avvicinarsi. Riuscì a sporgersi tra le alte felci, ma i suoi passi scricchiolarono sulle ghiande. Si raggelò quando il silenzio scese nella radura, e poi udì l'uccello gridare da qualche parte tra lui e il casino di caccia, per poi volare via, con le ali tese mentre se ne andava nel groviglio di rami senza emettere un suono. Dortlich sentì freddo e si alzò il bavero. Si sedette tra le felci, in attesa. Hannibal guardava il casino di caccia. Tutte le finestre erano rotte e i loro buchi scuri lo stavano fissando come le orbite vuote nel cranio del gibbone. Con la struttura mutata dopo il crollo, e un'altezza apparentemente diversa per via della vegetazione cresciutagli intorno, il casino di caccia della sua infanzia divenne il capanno buio dei suoi sogni. Si avvicinò attraverso Il giardino incolto. Laggiù era distesa sua madre con il vestito in fiamme. In seguito lui le aveva messo la mano sul petto ed era duro e raggelato. Laggiù c'era Berndt, e là il cervello del signor Jakov congelato nella neve tra le pagine sparse. Suo padre riverso vicino ai gradini, morto per sua decisione. Ma sul terreno non c'era più nulla. La porta d'ingresso del casino di caccia era a pezzi, sorretta da un solo cardine. Hannibal salì i gradini e si spinse nell'oscurità. All'interno qualcosa di piccolo sgattaiolò via per nascondersi. Lui tenne la lanterna alzata davanti a sé ed entrò. La stanza era in parte carbonizzata, mezza aperta verso il cielo. Le scale
erano distrutte in prossimità del pianerottolo e le travi del tetto vi erano cadute sopra. Il tavolo era spezzato in due tronconi. In un angolo il piccolo pianoforte giaceva su un lato, con i tasti d'avorio che sembravano denti nella luce fioca. C'erano dei graffiti in russo sul muro: "Al diavolo il piano quinquennale" e "Il capitano Grenko ha il culo grosso". Due animaletti saltarono fuori dalla finestra. La stanza oppresse Hannibal con il suo silenzio. Come per sfida, lui fece un gran fracasso con il suo grimaldello, liberando la parte superiore della grossa stufa per appoggiarvi la lanterna. I fornelli erano scoperchiati e mancavano le piastre estraibili, forse portate via dai ladri insieme alle pentole per usarle sul fuoco da bivacco. Muovendosi alla luce della lanterna, Hannibal tolse gran parte dei detriti intorno alla scala. Il resto era coperto dalle grosse travi di legno del tetto, un cumulo carbonizzato di giganteschi stuzzicadenti. L'alba entrò dalle finestre vuote mentre stava ancora lavorando, e gli occhi di un trofeo di caccia bruciacchiato appeso al muro catturarono il barlume rossastro del sole che sorgeva. Hannibal studiò la catasta di legna per alcuni minuti, fece due giri di fune intorno a una trave al centro e srotolò la corda indietreggiando oltre la porta. Svegliò Cesar, che un po' pisolava un po' brucava l'erba. Lo fece camminare per qualche minuto per sciogliergli i muscoli. Una pesante rugiada che gli inzuppò i pantaloni scintillava sull'erba e copriva come un sudore freddo la fusoliera in alluminio dello Stuka. Nella luce del giorno Hannibal vide che una vite era nata dentro l'abitacolo dell'aereo, come fosse una serra, con grandi foglie e nuovi viticci. Il pilota era ancora dentro, con dietro il mitragliere, e la vite gli era cresciuta intorno e attraverso, avvolgendosi in spire tra le costole e nel cranio. Hannibal legò la corda alla bardatura di Cesar e lo fece avanzare finché il collo e il petto del cavallo sentirono il carico. Poi fece schioccare le dita vicino al suo orecchio, un suono che risaliva alla sua infanzia. Cesar si tese in avanti sotto il peso, i muscoli gli si tesero e iniziò ad avanzare. Si udì un fracasso e un tonfo dall'interno del casino di caccia. Dalle finestre uscirono fuliggine e cenere, che volarono nel bosco come uno sciame scuro. Hannibal diede un buffetto al cavallo. Senza aspettare che la polvere si depositasse, si mise un fazzoletto sul viso e andò dentro il casino di caccia, arrampicandosi sulla catasta di detriti che aveva fatto crollare, tossendo e tirando per liberare la corda e legarla di nuovo. Altre due manovre simili e
i detriti più pesanti furono rimossi dall'alto strato di macerie dove le scale erano crollate. Hannibal legò Cesar e con un grimaldello e una pala scavò tra le macerie, buttando pezzi rotti di mobilio, cuscini bruciacchiati, un contenitore termico di sughero. Tirò fuori dalla catasta un trofeo con una testa di cinghiale bruciata. Udì la voce di sua madre: "Perle ai porci". La testa del cinghiale tintinnò quando lui la scosse. Hannibal afferrò la lingua dell'animale, tirò e quella uscì con il suo meccanismo di arresto. Poi abbassò il naso e ne uscirono i gioielli di sua madre, che caddero sopra la stufa. Non si fermò a esaminarli, ma ricominciò subito a scavare. Quando vide la vasca da bagno di Mischa, l'estremità di rame con il suo manico decorato, si fermò e si alzò in piedi. La stanza ondeggiò per un momento e lui dovette aggrapparsi al freddo angolo della stufa, appoggiando la fronte contro il ferro. Poi uscì all'aperto e tornò con metri e metri di tralci di vite. Senza guardare nella vasca le attorcigliò la vite intorno e la sistemò sulla stufa, ma non potendone sopportare la vista la portò fuori e l'appoggiò sul carro armato. Il chiasso prodotto da Hannibal facilitò l'avanzata di Dortlich. Protetto dall'oscurità del bosco, ricorreva ogni tanto al suo binocolo da campo, guardando solo quando sentiva il rumore prodotto da tanto scavare e rovistare. Hannibal con la pala colpì e tirò fuori una mano scheletrita e poi il teschio del cuciniere. Con il suo "sorriso" lo scheletro rappresentava una buona notizia: il dente d'oro dimostrava che gli sciacalli non erano arrivati fin lì. E infatti trovò, ancora stretta fra le ossa del braccio, la borsa di pelle. Hannibal la prese e la portò alla stufa. Il contenuto tintinnò sul ferro mentre tirava fuori un assortimento di collari militari in ottone, mostrine e insegne delle SS, aquile in alluminio della polizia lituana, colletti dell'Esercito della salvezza e infine sei piastrine di riconoscimento in acciaio inossidabile. La prima era quella di Dortlich. Cesar notava due tipi di cose nelle mani degli uomini: il primo erano mele e sacche di biada, il secondo fruste e bastoni. Non sopportava di essere avvicinato con un bastone in mano, perché da puledro era stato cacciato dall'orto da un cuoco infuriato quando era un puledro. Se Dortlich non avesse avuto in mano un manganello quando uscì dagli alberi, Cesar l'avrebbe forse ignorato. Ma così il cavallo sbuffò e fece qualche passo di la-
to, trascinando la corda lungo gli scalini del casino di caccia, e si voltò per affrontare l'uomo. Dortlich arretrò fra gli alberi e sparì nel bosco. Si allontanò di un centinaio di metri, in mezzo alle felci che gli arrivavano fino al petto, bagnate di rugiada, e lontano dalla vista delle finestre vuote. Estrasse la pistola e mise una pallottola in canna. Una latrina vittoriana con vistosi ornamenti sotto il cornicione si trovava a circa quaranta metri dietro il casino di caccia, coperta dal timo piantato un tempo sullo stretto sentiero, cresciuto alto e selvaggio, e dalle siepi aggrovigliate che la nascondevano alla vista. Dortlich poté a malapena farsi largo, con rami e foglie che gli sfregavano il collo, ma la siepe non oppose resistenza. Con il manganello in una mano e la pistola nell'altra, avanzò lentamente verso una finestra laterale del casino di caccia, quando una pala lo colpì di taglio sulla colonna vertebrale facendogli piegare le gambe. Sparò un colpo a terra mentre cadeva e la pala lo colpiva di piatto sul cranio con un rumore sordo. Vide solo l'erba davanti al proprio volto prima del buio. Un canto di uccelli tra gli alberi e la luce dorata del sole del mattino, sull'erba alta piegata dove erano passati Hannibal e Cesar. Hannibal si appoggiò contro il carro armato bruciato, con gli occhi chiusi, per circa cinque minuti. Ritornò alla vasca da bagno e rimosse i tralci di vite con il dito, abbastanza per vedervi dentro i resti di Mischa. Fu quasi di conforto per lui notare che aveva tutti i suoi dentini da bambina... questo scacciava una delle sue tremende visioni. Tolse una foglia d'alloro dalla vasca e la buttò via. Dai gioielli sulla stufa scelse una spilla che ricordava di aver visto sul petto di sua madre, una fila di diamanti che formava un anello di Möbius. Prese un nastro da un cammeo e mise la spilla lì dove Mischa usava indossare un nastro nei capelli. In una collinetta davanti al casino di caccia, affacciata a est, scavò una fossa e la foderò di tutti i fiori di campo che riuscì a trovare. Vi pose dentro la vasca e la coprì con alcune tegole del tetto. Rimase in piedi accanto alla tomba. Al suono della voce di Hannibal, Cesar alzò la testa dal prato dove stava brucando. «Mischa, ci conforta sapere che non esiste alcun Dio. Che tu non sei schiava in un paradiso, costretta a baciare il culo di Dio per sempre. Ciò che hai è meglio del paradiso, è un felice oblio. Sento la tua mancanza ogni giorno.»
Hannibal riempì la tomba e compattò la terra con la mano. Coprì il tumulo con aghi di pino, foglie e ramoscelli finché apparve uguale al terreno circostante del bosco. In una piccola radura a qualche distanza dalla tomba, Dortlich sedeva imbavagliato e legato a un albero. Hannibal e Cesar lo raggiunsero. Accovacciandosi, Hannibal esaminò il contenuto dello zaino di Dortlich. Una mappa, le chiavi di un'automobile, un apriscatole militare, un sandwich avvolto nella carta oleata, una mela, un paio di calze di ricambio, un portafoglio. Dal portafoglio tirò fuori un documento d'identità che confrontò con le piastrine trovate nel casino di caccia. «Herr... Dortlich. A nome mio personale e della mia ex famiglia, voglio ringraziarti per essere venuto fin qui oggi. Per noi, e per me in particolare, la sua presenza significa molto. Sono felice di avere questa opportunità di parlare seriamente con te del fatto che vi siete mangiati mia sorella.» Gli tirò via il bavaglio e Dortlich parlò immediatamente. «Sono un poliziotto e vengo dalla città. Ci avevano informato che il cavallo era stato rubato» disse. «È l'unica cosa che voglio: avvertirla di riportare il cavallo. E dimenticheremo questa storia.» Hannibal scosse la testa. «Mi ricordo il tuo viso. L'ho visto tante volte. E la tua mano su di noi con quelle dita palmate, mentre ci tastavi per sentire chi era più grasso. Ti ricordi la vasca che bolliva sulla stufa?» «No. Della guerra ricordo soltanto di aver avuto freddo.» «Avevi in mente di mangiare me, oggi, Herr Dortlich? Ecco qui il tuo pranzo.» Hannibal esaminò il contenuto del sandwich. «Quanta maionese, Herr Dortlich!» «Verranno a cercarmi molto presto» disse l'uomo. «Ci hai palpato le braccia.» Hannibal gli tastò il braccio. «Ci hai palpato le guance» proseguì, dandogli un pizzicotto sulla guancia. «Ti chiamo "Herr", ma tu non sei tedesco, vero? Né lituano, né russo. Tu sei cittadino di te stesso... un cittadino di Dortlich. Sai dove sono gli altri? Sei in contatto con loro?» «Morti. Sono tutti morti in guerra.» Hannibal gli sorrise e slegò l'involto fatto con il suo fazzoletto: era pieno di funghi. «A Parigi le spugnole costano cento franchi all'etto, e queste crescevano su un tronco!» Si alzò e si avvicinò al cavallo. Dortlich si dimenò nel momento in cui l'attenzione di Hannibal era rivolta altrove. C'era un rotolo di corda sulla groppa di Cesar. Hannibal attaccò il capo
libero ai tiranti della bardatura, poi srotolò la corda e portò l'altro capo, legato a formare un cappio, verso Dortlich. Aprì il sandwich e ingrassò la corda con la maionese, mettendone un bel po' anche sul collo dell'uomo. Cercando di divincolarsi, Dortlich gridò: «Uno è rimasto vivo! In Canada... Grentz... Guarda la piastrina. Potrei testimoniare». «Su che cosa, Herr Dortlich?» «Su quello che hai detto. Non è vero, ma giurerò che l'ho visto.» Hannibal sistemò il cappio intorno al collo di Dortlich e lo guardò in faccia. «Ti sembro arrabbiato con te?» Ritornò al cavallo. «È l'unico, Grentz... È fuggito su una barca di rifugiati da Bremerhaven... Posso giurarlo...» «Bene, allora vuoi cantare?» «Sì, canterò.» «Allora cantiamo per Mischa, Herr Dortlich. Conosci questa canzone, a Mischa piaceva.» Fece voltare Cesar in modo che desse la groppa a Dortlich. «Non voglio che tu veda» disse in un orecchio al cavallo, e cominciò a cantare. «Ein Mánnlein steht im Walde ganz still und stumm...» Fece uno schiocco nelle orecchie di Cesar e gli camminò davanti. «Canta per divertimento, Herr Dortlich. Es hat von lauter Purpur ein Mäntlcin um.» Dortlich girò il collo da un lato all'altro nel cappio unto di grasso, guardando la corda che giaceva nel prato. «Non stai cantando, Herr Dortlich.» Dortlich aprì la bocca e cominciò in un grido stonato: «Sagt, wer mag das Männlein sein...». E a questo punto stavano cantando insieme: «Das da steht im Walde allein...». La corda cominciò ad alzarsi sull'erba e Dortlich urlò: «Porvik! Il suo nome era Porvik! Lo chiamavamo Guardapentola. È rimasto ucciso nel casino di caccia. Lo hai già trovato». Hannibal fermò il cavallo e tornò indietro da Dortlich, si chinò e lo guardò in faccia. «Legalo! Lega il cavallo, un'ape potrebbe pungerlo» pregò l'uomo. «Sì, ce ne sono parecchie nel prato.» HannibaI controllò le piastrine. «Milko?» «Non lo so. Non lo so, lo giuro.» «E adesso veniamo a Grutas.» «Non lo so. Lasciami andare e testimonierò contro Grentz. È in Canada.»
«Qualche altro brano, Herr Dortlich.» HannibaI condusse avanti il cavallo, la rugiada luccicò sulla corda, ormai quasi tesa. «Das da steht im Walde allein...» Arrivò il grido strozzato di Dortlich: «Kolnas! Kolnas è in contatto con lui». HannibaI fermò il cavallo e tornò indietro per avvicinarsi a Dortlich. «Dov'è Kolnas?» «A Fontainebleau, vicino a Fontainebleau, in Francia. Ha un bar. Gli lascio lì dei messaggi, è l'unico modo per contattarlo.» Dortlich guardò HannibaI negli occhi. «Giuro su Dio che era morta. Era morta in ogni caso, lo giuro.» Fissando il viso di Dortlich, HannibaI schioccò le dita ai cavallo. La corda si tese ancora e la rugiada schizzò a mano a mano che i fili si sollevavano. Un ultimo grido si spezzò in gola a Dortlich mentre HannibaI gli ululava la canzone in faccia: Das da steht im Walde allein, Mit dem purputtoten Mantelein. Ci furono uno scrocchio e uno schizzo da un'arteria. La testa di Dortlich seguì il cappio per circa sei metri e giacque rivolta al cielo. HannibaI fischiò e il cavallo si fermò, le orecchie voltate all'indietro. «Dem purpurroten Mantelein, davvero.» Hannibal rovesciò il contenuto dello zaino di Dortlich per terra prendendo le chiavi e il documento d'identità. Da un legnetto verde ricavò un rudimentale spiedo e si tastò le tasche in cerca dei fiammiferi. Mentre il fuoco era ormai ridotto a braci, Hannibal prese la mela di Dortlich e la diede a Cesar. Gli tolse i finimenti in modo che non s'impigliassero nei cespugli e lo condusse lungo il sentiero verso il castello. Gli abbracciò il collo e gli diede una pacca sulla groppa. «Vai a casa, Cesar, a casa.» Cesar conosceva la strada. 44 La nebbia toccava quasi il suolo lungo il viottolo ripido e spoglio della centrale elettrica, e il sergente Svenka disse al conducente di rallentare per paura che il camion andasse a sbattere. Guardò la sua mappa e controllò il
numero su un traliccio dell'alta tensione. «Qui.» Le tracce dei pneumatici proseguivano per un tratto, ma era evidente che l'auto di Dortlich si era fermata in quel punto perché aveva lasciato dell'olio sul terreno. I poliziotti e i cani scesero da dietro il camion: due grandi pastori tedeschi neri, eccitati dal giro nei boschi, e un cane da caccia più tranquillo. Il sergente Svenka diede loro da annusare la giacca del pigiama di flanella di Dortlich e loro corsero via. Sotto il cielo coperto gli alberi sembravano grigi con delle ombre indistinte e la foschia sospesa nelle radure. I pastori tedeschi giravano intorno al casino di caccia, il segugio ne esplorava i dintorni, correndo nei boschi e di nuovo indietro, quando un soldato chiamò dal folto degli alberi. Visto che gli altri non lo udivano, fece un fischio. La testa di Dortlich stava su un ceppo e un corvo vi era appollaiato sopra. Quando i soldati si avvicinarono, il corvo volò via, prendendo con sé quello che poteva. Il sergente Svenka fece un respiro profondo e diede l'esempio agli altri, avvicinandosi alla testa mozza di Dortlich. Mancavano le guance, tagliate in modo netto, e i denti erano ben visibili ai lati. La bocca era tenuta aperta dalla sua piastrina, incastrata fra i denti. Trovarono il fuoco e lo spiedo. Il sergente Svenka annusò le ceneri rimaste nel piccolo focolare, ormai fredde. «Uno spiedino di funghi e guance» disse. 45 L'ispettore Popil si recò a piedi dal quartier generale della polizia in Quai des Orfèvres a Place des Vosges, portando con sé una piccola cartella. Quando si fermò in un bar lungo la strada per un espresso veloce, sentì il profumo del calvados sul bancone e desiderò che fosse già sera. Camminò avanti e indietro sulla ghiaia, guardando in su verso le finestre di Lady Murasaki. Le tende erano chiuse e di tanto in tanto il loro tessuto leggero ondeggiava. Il custode di giorno, un'anziana donna greca, lo riconobbe. «La signora mi sta aspettando» disse Popil. «Il giovanotto è passato di qui?» La donna drizzò le antenne da portinaia e diede la risposta appropriata.
«Non l'ho visto, signore, ma sono stata via qualche giorno.» Poi fece passare Popil. Lady Murasaki era adagiata nel suo bagno profumato. Aveva messo a galleggiare nell'acqua quattro gardenie e alcune arance. Il kimono preferito di sua madre aveva delle gardenie ricamate. Era ridotto in cenere, ormai. In preda ai ricordi, fece un movimento con la mano che provocò una piccola onda che agitò i fiori nell'acqua. Sua madre era stata l'unica a capirla quando lei si era soosata con Robert Lecter. Le rare lettere di suo padre dal Giappone avevano tuttora un sottofondo di freddezza. Invece di un fiore secco o di un'erba profumata, la sua missiva più recente conteneva un ramoscello annerito di Hiroshima. Era il campanello della porta che suonava? Sorrise pensando "Hannibal" e allungò una mano per prendere il kimono. Ma lui chiamava sempre o mandava due righe prima di venire, e suonava prima di usare la chiave. Non si sentivano chiavi nella serratura, adesso, ma di nuovo il suono del campanello. Uscì dal bagno e si avvolse in fretta nella vestaglia di cotone. Avvicinò l'occhio allo spioncino. Popil. C'era Popil nello spioncino. Lady Murasaki ogni tanto aveva pranzato con lui. La prima volta, al ristorante Le Pré Catelan al Bois de Boulogne, era stata piuttosto formale, ma le altre, da Chez Paul vicino all'ufficio di lui, erano state occasioni più informali e rilassate. Lui l'aveva anche invitata a cena, sempre con due righe, una volta accompagnate da un haiku con eccessivi riferimenti stagionali. Lei aveva declinato gli inviti, sempre per iscritto. Tolse il catenaccio alla porta Aveva i capelli raccolti ed era a piedi nudi. «Ispettore.» «Mi perdoni la visita senza preavviso, ho cercato di chiamare.» «Ho sentito il telefono.» «Dal bagno, immagino.» «Si accomodi.» Seguendo il suo sguardo, notò Popil accertarsi subito che le armi fossero al loro posto di fronte all'armatura: il pugnale, la spada corta, quella lunga, l'ascia di guerra. «Hannibal?» «Non c'è.» Essendo una donna attraente, Lady Murasaki era un cacciatore immobile. Rimase in piedi con la schiena rivolta al caminetto, le mani infilate nelle maniche, lasciando che la preda le venisse incontro. L'istinto di Popil era
invece di muoversi, di stanarla. Stava in piedi dietro un divano, sfiorandone il tessuto. «Devo trovarlo. Quando l'ha visto per l'ultima volta?» «Quanti giorni saranno? Cinque. Che cosa c'è che non va?» Popil era vicino all'armatura. Accarezzò la superficie laccata del petto. «Sa dove si trova?» «No.» «Ha segnalato dove sarebbe andato?» Segnalato. Lady Murasaki guardò Popil, le punte delle orecchie gli si erano arrossate. Si stava muovendo, stava facendo domande e toccando cose. Gli piaceva alternare le sensazioni tattili: toccare qualcosa di ruvido e poi qualcosa di liscio. Lei lo aveva notato anche a tavola. Ruvido e poi liscio. Come la cima e il fondo della lingua. Lei sapeva di poterlo eccitare con la sua immagine deviando il sangue dal suo cervello. Popil girò intorno a una pianta in vaso. Quando la spiò tra le foglie lei gli sorrise e disturbò il suo ritmo. «È a fare una gita, non so bene dove.» «Già, una gita» disse Popil. «Una gita per andare a caccia di criminali di guerra.» La guardò in faccia. «Mi dispiace, ma devo mostrarle questo.» Popil mise sul tavolino da tè un'immagine sfuocata, ancora umida e arricciata dal thermofax dell'ambasciata sovietica. Mostrava la testa di Dortlich sul ceppo e la polizia intorno, con i due pastori tedeschi e il cane da caccia. Un'altra foto di Dortlich era quella su un documento di identità della polizia sovietica. «È stato trovato nella foresta che la famiglia di Hannibal possedeva prima della guerra. So che era da quelle partì... ha attraversato il confine polacco il giorno prima.» «Perché dovrebbe essere stato Hannibal? Quest'uomo può avere molti nemici, ha detto che era un criminale di guerra.» Popil indicò la foto nel documento d'identità. «Qui è come appariva da vivo.» Popil prese uno schizzo dalla sua cartella, il primo di una serie. «Ecco come Hannibal lo ha disegnato e lo ha appeso sul muro della propria stanza.» Metà del viso era un disegno anatomico in sezione, l'altra metà era chiaramente Dortlich. «Lei non è stato invitato in camera sua.» Popil si arrabbiò di colpo. «Il suo cocco ha ucciso un uomo. E forse non è il primo, come saprà anche meglio di me. Ecco gli altri» aggiunse, mostrando i disegni. «Questo era nella sua stanza, come questo, e questo, e questo. Quella faccia appartiene a un imputato in contumacia al processo
di Norimberga, me lo ricordo. Sono dei fuggiaschi e ora lo uccideranno, se possono.» «E la polizia sovietica?» «Stanno facendo qualche timida indagine in Francia. Un nazista come Dortlich che faceva parte della polizìa del popolo è fonte d'imbarazzo per loro. Adesso avranno il suo dossier dai servizi di sicurezza della Repubblica Democratica Tedesca.» «Se prendono Hannibal...» «Se lo prendono all'Est, gli sparano e basta. Se lui esce dai confini, possono lasciare che il caso s'insabbi, purché tenga la bocca chiusa.» «Lei lo lascerebbe insabbiare?» «Se colpisce in Francia, va in prigione. E potrebbe perdere la testa.» Popil non si mosse. Rilassò le spalle e si mise le mani in tasca. Lady Murasaki tirò fuori le sue dalle maniche. «Lei sarebbe deportata» proseguì Popil. «Io sarei infelice. Mi fa piacere vederla.» «Lei vive solo per i suoi occhi, ispettore?» «E Hannibal? Lei farebbe qualsiasi cosa per lui, non è vero?» Lady Murasaki stava per dire qualcosa, qualcosa con cui proteggersi, ma poi sussurrò solo: «Sì» e attese. «Lo aiuti. Lo aiuti, Pascal.» Non lo aveva mai chiamato per nome prima. «Lo mandi da me.» 46 Il fiume Essonne, calmo e scuro, scivolava oltre i magazzini e sotto la nera casa galleggiante ormeggiata a un molo vicino a Vert-le-Petit. Le basse cabine dell'imbarcazione avevano le tende ed erano dotate di linea telefonica e corrente elettrica. Le foglie del giardino pensile erano bagnate e scintillanti. Le prese d'aria sul ponte erano aperte e da una di esse giunse un grido. Il volto di una donna apparve a uno degli oblò inferiori, l'espressione atterrita, la guancia premuta contro il vetro, poi una mano robusta la spinse via e chiuse con violenza la tenda. Nessuno vide la scena. Una leggera foschia creava aloni intorno alle luci sul molo, ma dall'alto il chiarore di qualche stella riusciva a penetrare, troppo debole però per distinguere qualcosa. Dalla strada, una guardia al cancello puntò la sua torcia all'interno del
furgone con l'insegna CAFÉ DE L'EST e, dopo aver riconosciuto Petras Kolnas, con un cenno della mano lo fece passare nel recinto del parcheggio, delimitato dal filo spinato. Kolnas attraversò in fretta il magazzino dove un'operaia stava marchiando casse di elettrodomestici con la scritta U.S. POST EXCHANGE, NEUILLY. Il magazzino era pieno di scatole e Kolnas dovette passarvi in mezzo per uscire sul molo. Accanto alla passerella della casa galleggiante, una guardia era seduta a un tavolo fatto con una cassetta di legno. Stava mangiando una salsiccia con un coltellino a serramanico e fumando allo stesso tempo. Si pulì la mano con il fazzoletto per salutare militarmente, poi riconobbe Kolnas e gli fece segno di passare con un cenno della testa. Kolnas non s'incontrava spesso con gli altri, avendo i propri interessi. Girava nella cucina del suo ristorante con una ciotola, assaggiando tutto, e aveva messo su peso dalla fine della guerra. Zigmas Milko, magro più che mai, lo fece entrare nella cabina. Vladis Grutas era seduto su un divano di pelle e si faceva fare il pedicure da una donna che aveva un livido sulla guancia. Sembrava impaurita ed era troppo vecchia per farla prostituire. Grutas guardò in su con quell'espressione gradevole, aperta, che spesso è un segno di carattere. Il capitano della casa galleggiante giocava a carte con un uomo dal pancione enorme di nome Mueller, un criminale ex appartenente alla brigata SS Dirlewanger, i cui tatuaggi da carcerato gli coprivano tutto il retro del collo e le mani, continuando anche sotto le maniche. Quando Grutas puntò i suoi occhi chiari sui giocatori, loro misero via le carte e lasciarono la cabina. Kolnas non perse tempo in convenevoli. «La piastrina di Dortlich era incastrata fra i denti. Buon acciaio inossidabile tedesco: non si scioglie, non brucia. Il ragazzo deve avere anche la tua, la mia e quella di Milko e di Grentz.» «Avevi detto a Dortlich di cercare nel casino di caccia, quattro anni fa» disse Milko. «Ha rovistato dappertutto, il bastardo» imprecò Grutas. Spinse via la donna con il piede, senza mai guardarla, e lei si affrettò a uscire dalla cabina. «Dove sta questo ragazzino pestifero che ha ucciso Dortlich?» domandò Milko. Kolnas alzò le spalle. «Fa lo studente a Parigi. Non so come abbia ottenuto il visto. L'ha usato per entrare, ma non abbiamo informazioni su come
sia uscito. Nessuno sa dove sia.» «Che succede se va alla polizia?» domandò Kolnas. «Con che cosa?» disse Grutas. «Ricordi di bambino, incubi infantili e vecchie piastrine?» «Dortlich potrebbe avergli detto che mi telefona per mettersi in contatto con te» insinuò Kolnas. Grutas ebbe uno scatto. «Il ragazzo cercherà di darci fastidio.» Milko sbuffò. «Fastidio? Direi che ha abbastanza infastidito Dortlich. Ucciderlo non dev'essere stato facile, probabilmente gli ha sparato alla schiena.» «Ivanov mi è debitore» disse Grutas. «Il servizio di sicurezza dell'ambasciata sovietica troverà il giovane Hannibal e noi faremo il resto. Così Kolnas non dovrà preoccuparsi.» Grida soffocate e un rumore di botte giunsero da qualche parte nell'imbarcazione. Gli uomini non vi prestarono attenzione. «A Dortlich subentrerà Svenka» disse Kolnas, per far vedere che non era preoccupato. «È proprio indispensabile?» domandò Mueller. Kolnas allargò le braccia. «Dobbiamo. Svenka ha lavorato con Dortlich per due anni. Ha le nostre cose, ed è l'unico legame che abbiamo con i quadri. Vede i deportati, può indicare quelli di aspetto più decente all'imbarco a Bremerhaven. Possiamo ottenerli da lì.» Impaurito dal piano Pleven di riarmo della Germania, Stalin stava purgando l'Europa dell'Est con deportazioni di massa. Treni stipati andavano ogni settimana o verso la morte nei campi di lavoro in Siberia o verso gli stenti nei campi di rifugiati all'Ovest. Grutas si procurava da quei disperati un ricco rifornimento di donne e bambini. Ci sapeva fare con la sua mercanzia. La morfina tedesca era di ottima qualità. Forniva convertitori elettrici per il mercato nero e faceva tutto quello che era necessario perché la sua merce umana funzionasse al meglio. Ora sembrava pensieroso. «Questo Svenka è stato al fronte?» domandò. Non credeva che uno che non fosse stato sul fronte orientale potesse rivelarsi davvero concreto. Kolnas non lo sapeva. «Al telefono mi è sembra giovane. Dortlich doveva avere qualche accordo.» «Porteremo via tutto. È troppo presto per vendere, ma abbiamo bisogno di portare fuori la merce. Quando richiamerà?» «Venerdì.»
«Digli di farlo ora.» «Vorrà uscire. Vorrà dei documenti.» «Possiamo farlo arrivare a Roma, non so se lo vogliamo qui. Promettigli qualsiasi cosa, capito?» «Quei quadri scottano» disse Kolnas. «Torna al tuo ristorante, Kolnas. Continua a dar da mangiare gratis ai flic e loro continueranno a strappare le tue multe. Porta qualche profiterole la prossima volta che vieni quaggiù a piagnucolare.» «È okay» disse Grutas a Milko quando Kolnas se ne fu andato. «Lo spero» ribatté Milko. «Non vorrei dover gestire un ristorante.» «Dieter? Dov'è Dieter?» Grutas batté contro la porta di una cabina sul ponte inferiore e la spalancò con una spinta. Due giovani donne spaventate erano sedute sulle loro cuccette, entrambe incatenate per il polso alla testiera del letto. Dieter, venticinque anni, ne teneva una per i capelli. «Se le riempi il viso di lividi o le rompi il labbro, incassiamo di meno» disse Grutas. «E quella per ora è mia.» Dieter lasciò andare i capelli della donna e si frugò in tasca cercando una chiave. «Eva!» La donna matura entrò nella cabina e rimase vicino al muro. «Dalle una ripulita e poi Mueller la porterà a casa» disse Dieter. Grutas e Milko attraversarono il magazzino diretti all'automobile. In un'area delimitata da un cordone c'erano alcune casse con l'etichetta CASALINGHI. Grutas vide tra la merce un frigorifero inglese. «Milko, lo sai perché gli inglesi bevono la birra calda? Perché hanno frigoriferi Lucas. Non fanno per me. Io voglio Kelvinator, Frigidaire, Magnavox, Curtis-Mathis. Voglio tutto made in America.» Grutas alzò il ripiano di un pianoforte verticale e suonò qualche nota. «Questo è un piano da bordello. Non lo voglio. Kolnas mi ha trovato un Bosendorfer. Il migliore. Preso a Parigi, Milko... dove farai l'altra cosa.» 47 Sapendo che non sarebbe venuto da lei finché non si fosse ripulito e non avesse avuto un aspetto curato. Lady Murasaki lo aspettò nella sua mansarda. Lui non l'aveva mai invitata lì e lei non curiosò intorno. Guardò i di-
segni sulle pareti, le illustrazioni anatomiche che riempivano metà della stanza. Si stese sul letto in perfetto ordine che si trovava nella parte arredata in stile giapponese. Su un piccolo scaffale accanto al letto c'era un quadro incorniciato e coperto da un panno di seta ricamato con degli aironi. Girandosi su un fianco Lady Murasaki lo raggiunse con la mano e alzò la seta. Era un bel disegno di lei nuda nel bagno del castello, a matita e gessetto e colorato a tinte pastello. Era firmato con il simbolo giapponese per "Eternità in otto pennellate" e quello, seppure non troppo corretto, per "ninfee". Lo guardò a lungo, e poi lo coprì e chiuse gli occhi, mentre le venivano in mente i versi di Yosano Akiko: Tra le note del mio koto c'è un altro profondo misterioso tono, un suono che viene da dentro il mio stesso petto. Poco dopo il sorgere del sole del mattino seguente lei udì dei passi per le scale. Una chiave nella serratura, ed ecco Hannibal, in disordine e stanco, con lo zaino in mano. Lady Murasaki era in piedi. «Hannibal, ho bisogno di sentire il tuo cuore» disse. «Il cuore di Robert è diventato silenzioso. Il tuo cuore si è fermato nei miei sogni.» Andò verso di lui e pose l'orecchio contro il suo petto. «Puzzi di fumo e sangue.» «Tu profumi di gelsomino e tè verde. Profumi di pace.» «Sei ferito?» «No.» Il viso di lei premeva conto le piastrine bruciacchiate che pendevano intorno al collo di Hannibal. Le tirò fuori dalla camicia. «Hai preso queste dal morto?» «Quale morto?» «La polizia sovietica sa chi sei. L'ispettore Popil è venuto a trovarmi. Se vai da lui ti aiuterà.» «Questi uomini non sono morti. Sono fin troppo vivi.» «Si trovano in Francia? Allora consegnali all'ispettore Popil.» «Darli alla polizia francese? Perché?» Scosse la testa. «Domani è domenica... giusto?» «Sì, domenica.»
«Vieni con me, domani. Ti porto con me. Voglio che tu veda una bestia e che mi dica se può far paura alla polizia francese.» «L'ispettore Popil...» «Quando vedi l'ispettore Popil, digli che ho della posta per lui.» Hannibal stava annuendo con la testa. «Dove vai a farli il bagno?» «Nella doccia nel laboratorio» disse lui. «Vado giù adesso.» «Vuoi qualcosa da mangiare?» «No, grazie.» «Allora dormi» disse lei. «Verrò con te, domani. E nei giorni successivi.» 48 La motocicletta di Hannibal Lecter era una BMW abbandonata dall'armata tedesca durante la sua ritirata. Ridipinta di nero, aveva i manubri bassi e il sellino posteriore. Lady Murasaki stava dietro di lui, con una fascia nei capelli e un paio di stivali che le davano un'aria da teppista parigina. Si teneva stretta a Hannibal, con le mani leggermente appoggiate sulle sue costole. Di notte aveva piovuto e il selciato adesso era pulito e asciutto nel mattino di sole, mentre si piegavano nelle curve lungo la strada attraverso la foresta di Fontainebleau, sfrecciando tra le strisce di ombra e di sole create dagli alberi sulla strada. L'aria era più fresca negli avvallamenti, più calda sui loro visi quando passavano in radure aperte. Poiché l'inclinazione della moto in curva sembra molto più accentuata stando sul sellino posteriore, Hannibal sentì dietro di sé Lady Murasaki che nei primi chilometri cercava di compensare. Ma poi si abituò, e il peso di lei divenne tutt'uno con quello di lui. Oltrepassarono una siepe piena di caprifoglio e l'aria era così dolce da sentirne il gusto sulle labbra. Sapore di asfalto e caprifoglio. Il Café de l'Est si trova sulla riva della Senna a circa mezzo chilometro dal paese di Fontainebleau, con una piacevole vista sui boschi al di là del fiume. La moto arrivò silenziosa e si mise a ticchettare mentre si raffreddava. Vicino all'ingresso verso la terrazza c'era una voliera con dentro degli ortolani, uccelli che costituivano una specialità gastronomica locale. Ma dato che in alcuni periodi era stato proibito servirli, nel menu erano indicati come allodole. Gli ortolani sono dei buoni canterini, e quelli della
voliera stavano godendosi il sole. Hannibal e Lady Murasaki si fermarono ad ammirarli. «Così piccoli e così belli» disse lei, ancora eccitata per la gita in moto Hannibal appoggiò la fronte contro la gabbia. Gli uccellini voltarono la testa per guardarlo, usando un occhio per volta. Il loro canto era il dialetto baltico che aveva udito nei boschi di casa sua. «Sono proprio come noi» disse lui. «Riescono a sentire l'odore dei loro compagni in cucina, eppure continuano a cantare. Vieni.» Tre quarti dei tavoli sulla terrazza erano occupati, i clienti erano un misto di gente di città e di campagna in abiti della domenica, intenti a godersi il pranzo di buon'ora. Il cameriere trovò loro un posto. A un tavolo vicino, di soli uomini, tutti avevano ordinato ortolani. All'arrivo degli uccellini arrosto si chinarono sui piatti, coprendosi la testa con il tovagliolo per sentirne meglio il profumo. Hannibal percepì l'odore del vino che avevano scelto e decise che sapeva di tappo. Li osservò senza espressione quando, ignari, lo bevvero ugualmente. «Gradite una coppa di gelato con frutta e panna?» «Perfetto.» Hannibal entrò nel ristorante. Si fermò davanti alla lavagnetta con le specialità scritte a gessetto e intanto lesse la licenza del ristorante appesa vicino al registratore di cassa. Nel corridoio c'era una porta con la scritta PRIVÉ. Il corridoio era vuoto e la porta non era chiusa a chiave. Hannibal l'aprì e scese i gradini verso il seminterrato. In una cassa da imballaggio parzialmente aperta c'era una lavapiatti americana. Si chinò per leggere l'etichetta della spedizione. Hercule, l'aiuto cuoco, scese le scale portando un cesto di tovaglie sporche. «Cosa sta facendo qui, è privato.» Hannibal si girò e lo apostrofò in inglese: «Be', dov'è, allora? Sulla porta c'è scritto "Privy", no? Vengo giù e c'è solo il seminterrato. Il cesso, buon uomo, il bagno, la toilette, dov'è? Parlo inglese. Lo capisce, cesso? Me lo dica in fretta o me la faccio sotto». «Privé, privé!» Hercule gesticolò indicando le scale di sopra. «Toilette!» e con un gesto della mano indicò la giusta direzione. Hannibal tornò al tavolo mentre stavano arrivando i gelati. «Kolnas usa il nome Kleber, c'è scritto sulla licenza. Monsieur Kleber, residente in Rue Juliana. Ah, ossequi.» Petras Kolnas uscì sulla terrazza con la famiglia, vestito per andare in
chiesa. Fu come se le conversazioni intorno a Hannibal si smorzassero mentre lo fissava, ombre scure gli si affollarono davanti. Kolnas indossava un elegante completo scuro, con una spilla del Rotary sui revers della giacca. La moglie e i due figli erano belli, con la tipica aria da tedeschi. Nel sole, i capelli rossi corti e le basette di Kolnas brillavano come setole di maiale. Andò alla cassa e sollevò il figlio su un seggiolino del bar. «Kolnas il Facoltoso» disse Hannibal. «Il ristoratore, il gourmand. È passato a controllare la cassa mentre va in chiesa. Com'è per bene!» Il maître prese il libro delle prenotazioni che stava accanto al telefono e lo aprì perché Kolnas lo controllasse. «Ci ricordi nelle sue preghiere, signore» disse. Kolnas annuì. Nascondendo il movimento ai clienti con il suo corpo tarchiato, prese un revolver Webley .455 dalla cintola, lo posò su un ripiano nascosto sotto la cassa e si lisciò il panciotto. Poi prese due monetine e le pulì con il fazzoletto. Ne diede una al bambino sul seggiolino: «Questa è la tua offerta per la chiesa, mettila in tasca». Si chinò e diede l'altra alla bambina piccola. «Ecco la tua offerta, Liebchen. Non metterla in bocca. Tienila al sicuro in tasca!» Alcuni bevitori al bar attaccarono conversazione con lui, e c'erano dei clienti da salutare. Kolnas mostrò a suo figlio come si dà una bella stretta di mano. La bambina si staccò dai suoi pantaloni e andò con passo incerto tra i tavoli, adorabile con il suo vestitino, la cuffietta di pizzo e i monili, mentre gli astanti le sorridevano. Hannibal prese la ciliegia dalla sua coppa di gelato e la posò sul bordo del tavolo. La bambina venne a prenderla con la manina tesa, pollice e indice pronti ad afferrarla. Gli occhi di Hannibal luccicarono. S'intravide per un attimo la punta della sua lingua e poi cominciò a cantare. «Ein Männlein steht im Walde ganz still und stumm... La conosci questa canzone?» Mentre mangiava la ciliegia, Hannibal le fece scivolare qualcosa nella tasca. «Es hat von lauter Purpur ein Mäntlein um...» Kolnas raggiunse subito il tavolo e prese la figlia in braccio. «Non conosce questa canzone.» «Lei dovrebbe conoscerla, non mi sembra francese.» «Neanche lei, signore» ribatté Kolnas. «Né lei né sua moglie avete l'aria di esserlo. Ma siamo tutti francesi, adesso.»
Hannibal e Lady Murasaki guardarono Kolnas che faceva salire la famigliola su una Citroën Traction Avant. «Com'è carina» commentò lei. «Proprio una bella bambina.» «Già» disse Hannibal. «E porta il braccialetto di Mischa.» Sopra l'altare della Chiesa del Redentore c'era una rappresentazione del Cristo in croce particolarmente cruenta, che risaliva al diciassettesimo secolo ed era stata trafugata in Sicilia. Sotto il crocifisso, il prete stava celebrando l'eucarestìa. «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi... Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.» Kolnas, con i bambini in braccio, prese l'ostia in bocca e ritornò al banco vicino alla moglie. La fila si esaurì e poi qualcuno passò con il piatto per la raccolta delle offerte. Kolnas sussurrò qualcosa al figlio e il bambino estrasse la monetina dalla tasca e la mise nel piatto. Poi sussurrò alla figlia, che sembrava riluttante a dare la sua offerta. «Katerina...» La bimba mise la mano in tasca e pose nel piatto una piastrina bruciacchiata con il nome Petras Kolnas. Lui non la vide finché l'inserviente non la prese dal piatto e la restituì, aspettando con un sorriso paziente che venisse rimpiazzata con una moneta. 49 Sulla terrazza di Lady Murasaki un piccolo pruno in una fioriera si piegava al di sopra del tavolo, con i germogli più bassi che sfioravano i capelli di Hannibal mentre sedeva di fronte a lei. Al di sopra delle sue spalle il Sacré-Cœur illuminato a giorno era sospeso nel cielo notturno come una goccia di luna. Lei stava suonando Il mare in primavera di Miyagi Michio sul lungo ed elegante koto. La luce della lampada era calda sulla sua pelle. Aveva i capelli sciolti e guardava fisso Hannibal mentre pizzicava le corde. Lady Murasaki era difficile da interpretare, qualità che il più delle volte rappresentava per lui un sollievo. Con gli anni aveva imparato a procedere, se non con cautela, con attenzione. La musica rallentò progressivamente. L'ultima nota sembrò silenziosa. Un grillo suzumushi in gabbia rispose al koto. Lei pose una fetta di cetriolo
tra le sbarre e il grillo la tirò dentro. Sembrava che Lady Murasaki guardasse attraverso Hannibal, fissando qualcosa che stava al di là, un punto lontano, ma poi Hannibal sentì l'attenzione di lei che quasi lo avvolgeva mentre gli diceva parole familiari. «Ti vedo e il grillo canta in accordo con il mio cuore.» «Il mio cuore trasale alla tua vista, tu gli hai insegnato a cantare» ribatté lui. «Consegna Kolnas e gli altri all'ispettore Popil.» Hannibal finì di bere il sakè e posò la tazza. «È per i figli di Kolnas, vero? Tu fai gru di carta per i bambini.» «Io faccio gru per la tua anima, Hannibal. Tu vieni trascinato nel buio.» «Non trascinato. Quando non potevo parlare non ero trascinato nel silenzio, era il silenzio che mi aveva catturato.» «Sei venuto a me uscendo dal silenzio e mi hai parlato. Ti conosco, Hannibal, e non è facile. Tu sei trascinato verso l'oscurità, ma sei trascinato anche verso di me.» «Sul ponte dei sogni.» Il liuto emise un piccolo suono mentre Lady Murasaki lo riponeva. Lei allungò la mano verso Hannibal, che si alzò, e lo condusse verso il bagno. Dall'acqua bollente saliva il vapore, e intorno alla vasca erano accese delle candele. Lady Murasaki lo invitò a sedere sul tatami. Erano l'uno di fronte all'altro, in ginocchio, con i volti a una trentina di centimetri. «Hannibal, vieni a casa con me in Giappone. Potresti fare pratica in una clinica nella tenuta di mio padre. C'è molto da fare, là. Staremmo insieme.» Si piegò verso di lui e gli baciò la fronte. «A Hiroshima le piante verdi crescono dalle ceneri verso la luce.» Gli toccò il viso. «Se sei terra bruciata, io sarò pioggia calda.» Prese un'arancia da una ciotola vicino alla vasca. Vi conficcò le unghie e premette la mano profumata sulle labbra di Hannibal. «Un tocco reale è meglio del ponte dei sogni.» Spense la candela vicino a loro con una tazza da sakè, tenendovela sopra, con la mano appoggiata più a lungo di quanto avrebbe dovuto. Spinse l'arancia con il dito e la fece rotolare lungo le piastrelle. Mise la mano dietro la testa di Hannibal e lo baciò sulla bocca, un accenno di bacio, un invito fuggevole. Poi gli premette la fronte contro la bocca, mentre gli sbottonava la camicia. Hannibal la tenne a distanza e guardò il suo viso così bello, quasi raggiante. Erano vicini e insieme lontani, come un riflesso tra due specchi.
La vestaglia di lei scivolò a terra. Occhi, seni, ombre e luci sulle anche, simmetria su simmetria... il suo respiro che si faceva corto. «Hannibal, promettimelo.» Lui la strinse contro di sé e chiuse forte gli occhi. Le labbra di lei, il respiro sul suo collo, la cavità della sua gola, la sua clavicola. Clavicola. La bilancia di san Michele. Aveva visto l'arancia che rotolava qua e là nel bagno. Per un istante fu il cranio del piccolo capriolo che sbatteva nella vasca con l'acqua bollente, al ritmo delle pulsazioni del suo cuore, come se pur morendo avesse ancora la speranza di poter uscire. I dannati in catene sotto il suo petto marciavano attraverso il suo diaframma verso l'inferno al di sotto della bilancia. Sternoioideo omoioideo tiroioideo giuugulare. Aaaamen. Era giunta l'ora e lei lo capì. «Hannibal, prometti.» Un battito, e poi lui replicò: «Ho già promesso a Mischa». Lei rimase seduta accanto alla vasca finché udì la porta chiudersi. Si rimise la vestaglia e annodò con calma la cintura. Prese le candele e le mise davanti alle fotografie sul suo altare. Brillavano sui volti dei morti e sull'armatura che sembrava fissarla: nella maschera di Masamune Date vide arrivare la morte. 50 Il professor Dumas appese il grembiule da laboratorio su una gruccia e allacciò l'ultimo bottone con le sue mani rosee e paffute. Anche le guance erano rosee, mentre i capelli erano biondi ben curati e l'abito sempre in ordine per tutto il giorno. Il suo modo di fare, quasi disumano nella sua serenità, restava inalterato per tutta la giornata. Alcuni studenti si trattennero nel laboratorio a pulire le loro postazioni per le dissezioni. «Hannibal, domani mattina in aula magna avrò bisogno di un soggetto con la cavità toracica aperta, le costole esposte e i principali vasi sanguigni polmonari evidenziati, così come le arterie cardiache maggiori. Dal colore ho il sospetto che il numero ottantotto sia morto per un'occlusione coronarica. Sarebbe interessante verificare» disse serenamente. «Colora la discendente anteriore e la circonflessa della coronaria sinistra in giallo. Se c'è un'ostruzione, colora anche la destra. Ti lascio gli appunti. È un sacco di lavoro, se vuoi può rimanere Graves a darti una mano.» «Farò da solo, professor Dumas.» «Lo immaginavo. Ah, buone notizie: Albin Michel ha restituito le prime
incisioni. Le possiamo vedere domani! Non sto nella pelle.» Qualche settimana prima, Hannibal aveva mandato i suoi schizzi all'editore in Rue Huygens. Vedere il nome della via gli aveva fatto pensare al signor Jakov e al Trattato sulla luce di Christiaan Huygens. Dopo era rimasto seduto nel Jardin du Luxembourg per un'ora, a guardare le barche giocattolo sul laghetto, svolgendo mentalmente una voluta dal semicerchio di un'aiuola. I disegni nel nuovo testo di anatomia sarebbero stati firmati Lecter-Jakov. L'ultimo studente lasciò l'istituto. L'edificio adesso era vuoto e buio, eccetto le forti luci da lavoro di Hannibal nel laboratorio di anatomia. Dopo che ebbe spento la sega elettrica gli unici suoni furono il flebile gemito del vento nelle canne fumarie, il tintinnio degli strumenti e il gorgoglio delle storte in cui stavano scaldando le sostanze colorate per le iniezioni. Hannibal valutò il suo soggetto, un uomo tarchiato di mezza età, coperto da un telo tranne che sul torace, con le costole aperte come le centine di una barca. Ecco le aree che il professor Dumas vuole esporre nel corso della sua lezione, facendo lui stesso l'ultima incisione ed estraendo un polmone. Per la sua illustrazione Hannibal aveva bisogno di osservarne il lato posteriore, che non era visibile nel cadavere. Hannibal percorse il corridoio verso il museo di anatomia per una consultazione, accendendo le luci al suo passaggio. Seduto dentro un camion dall'altra parte della strada, Zigmas Milko attraverso le alte finestre della facoltà di medicina poteva seguire gli spostamenti di Hannibal nella sala. Milko aveva un corto grimaldello infilato nella manica della giacca e una pistola con silenziatore nella tasca. Poté vedere meglio quando Hannibal accese le luci del museo. Le tasche del suo grembiule erano piatte, non sembrava armato. Lasciò il museo portando con sé un vaso di vetro e le luci si spensero via via che ritornava al laboratorio di anatomia. Adesso era l'unica stanza illuminata, con le finestre smerigliate e il lucernario che risaltavano nel buio. Milko pensava che la faccenda non avrebbe richiesto molto tempo, comunque decise di fumarsi prima una sigaretta... ammesso che l'investigatore dell'ambasciata russa gliene avesse lasciata almeno una prima di svignarsela. Sembrava che quello scroccone testa di cazzo non avesse mai visto del tabacco decente. Gli aveva fregato tutto il pacchetto? Dannazione, c'erano almeno una quindicina di Lucky Strike. Adesso fai quel che devi
fare e dopo ti prenderai qualche sigaretta americana al Bal-Musette. Così poi ti rilassi, ti strofini un po' contro le ragazze del bar, con il silenziatore nella tasca dei pantaloni, e le guardi in faccia mentre te lo sentono duro. Il pianoforte di Grutas andrai a recuperarlo domattina. Quel ragazzo aveva fatto fuori Dortlich. Milko si ricordò che una volta Dortlich, con un grimaldello nella manica, si era scheggiato un dente accendendosi una sigaretta. «Coglione, saresti dovuto venire via insieme a noi» disse a Dortlich, ovunque si trovasse, all'inferno probabilmente. Milko attraversò la strada con la scala a pioli nera, e una gavetta per ingannare eventuali osservatori, e la portò al riparo delle siepi accanto alla facoltà di medicina. Mise il piede sul primo piolo e borbottò: «'fanculo la fattoria!». Era stato il suo mantra fin da quando era scappato di casa a dodici anni. Hannibal completò le iniezioni blu nelle vene e fece uno schizzo del proprio lavoro con le matite colorate a un tavolo da disegno vicino al corpo, osservando di quando in quando il polmone conservato nel vaso di vetro con l'alcol. Alcuni fogli tenuti da un portablocco a molla si sollevarono leggermente per un colpo d'aria. Hannibal alzò gli occhi dal suo lavoro, guardò verso il corridoio e poi finì di colorare una vena. Milko chiuse la finestra del museo di anatomia dietro di sé, si sfilò gli stivali e, scalzo, strisciò tra le teche di vetro. Si mosse lungo la fila dell'apparato digerente, sostò vicino a un vaso che conteneva un paio di enormi piedi torti. La luce bastava appena per muoversi. Non voleva sparare lì dentro e rischiare di spargere quella schifezza dappertutto. Si tirò su il bavero per non sentire l'aria dietro il collo. Poco per volta si sporse in corridoio per sbirciare oltre la gobba del proprio naso in modo da non esporre nemmeno l'orecchio. Le narici di Hannibal fremettero sopra il tavolo da disegno e la luce della lampada da lavoro si rifletté rossa nei suoi occhi. Osservando dal corridoio attraverso la porta del laboratorio, Ivlilko poteva vedere la schiena di Hannibal mentre lavorava intorno al cadavere con il suo grosso ago ipodermico pieno di tintura. Era un po' troppo lontano per sparare, dato che il silenziatore gli impediva di prendere accuratamente la mira. Non voleva ferirlo ed essere poi costretto a dargli la caccia, rovesciando roba dappertutto. Dio sa cosa poteva schizzargli addosso, con tutti quei fetidi liquami. Respirò a fondo, come si fa quando ci si prepara a uccidere. Hannibal uscì dal suo campo visivo e Milko poté vederne solo la mano
sul tavolo da disegno, che continuava a fare schizzi, e poi una piccola cancellatura. D'improvviso Hannibal posò la matita, venne in corridoio e accese la luce. Milko arretrò, poi la luce si spense di nuovo e lui tornò a fare capolino dallo stipite della porta. Hannibal stava lavorando sul corpo coperto. Milko udì la sega da autopsia. Quando guardò di nuovo, Hannibal era fuori campo. Disegna ancora. Che cazzo! Entra dentro e sparagli. Digli di salutare Dortlich quando arriva all'inferno. Facendo lunghi passi a piedi scalzi nel corridoio, silenzioso sul pavimento di pietra, tenendo d'occhio la mano sul tavolo da disegno, Milko alzò la pistola e varcò di scatto la soglia, ma vide solo la mano e la manica, oltre al grembiule gettato sulla sedia. Ma il resto dove diavolo è? Hannibal gli balzò alle spalle e gli infilò la siringa ipodermica piena di alcol nel lato del collo, sorreggendolo mentre le gambe cedevano e gli occhi si rivoltavano all'indietro, poi lo appoggiò a terra. Una cosa per volta. Hannibal rimise la mano del cadavere al suo posto e la riattaccò con qualche veloce punto di sutura. «Mi spiace» disse al corpo. «Includerò un ringraziamento particolare nella mia nota.» Un senso di bruciore, di tosse, di freddo sulla faccia di Milko mentre tornava cosciente, con la stanza che gli galleggiava intorno e poi si riassestava. Iniziò a leccarsi le labbra e a sputare. Sentì del liquido colargli sul viso. Hannibal posò la caraffa di acqua fredda accanto al bordo della vasca dei cadaveri e si sedette come per fare conversazione. Milko indossava l'imbragatura con la catena ed era immerso fino al collo nella soluzione di formalina della vasca. Gli altri occupanti gli si affollavano intorno e lo fissavano con occhi ormai annebbiati, mentre lui cercava di scrollarsi di dosso le loro mani avvizzite. Hannibal esaminò il portafoglio di Milko. Prese dalla propria tasca una piastrina e la pose accanto ai suo documento d'identità sull'orlo della vasca. «Zigmas Milko. Buonasera.» Milko tossì e respirò affannosamente. «Abbiamo parlato di te e ti ho portato del denaro. È un accordo, vogliamo che tu abbia il denaro. Ce l'ho con me, fammi andare a prenderlo.» «Ha l'aria di un gran bel piano. Ne hai uccisi così tanti, Milko, molti più di questi. Li senti nella vasca intorno a te? Lì, vicino ai tuoi piedi: quello è
un bambino morto in un incendio. È più vecchio di mia sorella, e in parte è cotto.» «Non so che cosa vuoi.» Hannibal si mise un guanto di gomma. «Voglio ascoltare che cos'hai da dire a proposito del fatto che vi siete mangiati mia sorella.» «Io non l'ho fatto.» Hannibal premette la testa di Milko sotto la superficie del liquido. Dopo un lungo momento afferrò la catena, lo tirò su di nuovo e gli versò dell'acqua in faccia, lavandogli gli occhi. «Non dirlo più» sibilò Hannibal. «Stavamo tutti male, malissimo» gemette Milko appena fu in grado di parlare. «Avevamo le mani congelate e i piedi incancreniti. Qualsiasi cosa abbiamo fatto, l'abbiamo fatta per vivere. Grutas è stato veloce, lei non ha mai... Ti abbiamo lasciato vivere...» «Dov'è Grutas?» «Se te lo dico, mi lasci andare a prenderti il denaro? È un sacco di soldi, in dollari. E c'è molto di più, li possiamo ricattare con quello che so e la tua testimonianza.» «Dov'è Grentz?» «In Canada.» «Giusto, è la verità, una volta tanto. Dov'è Grutas?» «Ha una casa vicino Milly-le-Forêt.» «Come si chiama, adesso?» «Fa affari come Satrug.» «Ha venduto i miei quadri?» «Una volta per comprare una partita di morfina, e poi basta. Li possiamo recuperare.» «Hai mai provato il cibo del ristorante di Kolnas? Il gelato non è male.» «Ho il denaro nel camion.» «Ultime parole? Un commiato?» Milko aprì la bocca per parlare ma Hannibal chiuse il pesante coperchio con un fragore metallico. Restava meno di un centimetro d'aria tra il coperchio e la superficie dei liquido. Lasciò la stanza, con Milko che batteva contro il coperchio come un'aragosta in una pentola. Hannibal chiuse la porta dietro di sé, con le guarnizioni di gomma che stridettero contro i cardini. L'ispettore Popil era in piedi accanto al tavolo da lavoro nel laboratorio
di anatomia e guardava i disegni. Hannibal tirò la cordicella e accese il grosso ventilatore sul soffitto. Le pale si misero a girare con un suono metallico. Popil guardò in su al rumore delle pale. Hannibal non sapeva cos'altro avesse udito. La pistola di Milko era tra i piedi del cadavere, sotto il lenzuolo. «Ispettore Popil.» Hannibal prese una siringa di tintura e fece un'iniezione. «Mi scusi un momento, ma devo usare questa prima che s'indurisca di nuovo.» «Ha ucciso Dortlich nel bosco della sua famiglia.» L'espressione di Hannibal non cambiò. Pulì la punta dell'ago. «La sua faccia era mangiata» continuò Popil. «Sospetterei dei corvi. Quei boschi ne sono pieni. Andavano a mangiare nella ciotola del cane appena lui si voltava.» «Corvi che si sono preparati uno shish kebab.» «Lo ha detto a Lady Murasaki?» «No. Cannibalismo... è successo sul fronte orientale, e più di una volta, quando lei era un bambino.» Popil voltò la schiena a Hannibal, osservandolo nello specchio di fronte. «Ma questo lo sa già, non è vero? Lei c'era. Ed è stato in Lituania quattro giorni fa. È entrato con un visto regolare ed è uscito in un altro modo. Come?» Popil non aspettò la risposta. «Le dirò io come: ha comprato i documenti tramite un condannato a Fresnes, ed è un reato.» Nella stanza della vasca il pesante coperchio si sollevò leggermente e le dita di Milko apparvero sotto il bordo. Sporse le labbra per aspirare quel poco d'aria, ma una piccola onda di liquido lo colpì in faccia e lui fece un ultimo respiro soffocato. Nel laboratorio di anatomia, mentre osservava la schiena di Popil, Hannibal si appoggiò leggermente sul polmone del cadavere, producendo una specie di gorgoglio. «Spiacente» disse. «Succede.» Rialzò la fiamma del bruciatore Bunsen sotto una storta per aumentare il bollore. «Questo disegno non è il volto del suo soggetto. È la faccia di Vladis Grutas. Come gli altri nella sua stanza. Ha ucciso anche Grutas?» «Assolutamente no.» «Lo ha trovato?» «Se lo trovassi, le do la mia parola che lo porterei alla sua attenzione.» «Non mi prenda in giro! Lo sa che ha segato la testa di un rabbino a Kaunas? Che ha sparato ai bambini degli zingari nei boschi? Lo sa che l'ha
fatta franca a Norimberga perché a una testimone hanno fatto ingoiare dell'acido? Ogni tanto mi capita di imbattermi nel suo tanfo, ma nel frattempo è scomparso. Se Grutas sa che gli sta dando la caccia la ucciderà. Ha assassinato la sua famiglia?» «Ha ucciso mia sorella e l'ha mangiata.» «Lo ha visto?» «Sì.» «Potrebbe testimoniare.» «Naturalmente.» Popil guardò Hannibal per un lungo momento. «Se lei uccide in Francia, Hannibal, vedrò la sua testa in un cesto. Lady Murasaki verrà deportata. La ama?» «Sì. E lei?» «Ci sono foto di Grutas negli archivi di Norimberga. Se i sovietici le fanno circolare, e se riescono a trovarlo, la Sûreté ha qualcuno che potremmo scambiare con lui. Se riusciamo a prenderlo avrò bisogno della sua deposizione. Esistono altre prove?» «Le impronte dei suoi denti sulle ossa.» «Se non passa nel mio ufficio domani, la faccio arrestare.» «Buonanotte, ispettore.» Nella stanza della vasca, le tozze dita da contadino di Milko scivolarono indietro, il coperchio si richiuse pesantemente, e a un volto raggrinzito che gli stava davanti sussurrò con una smorfia le sue parole d'addio: «'fanculo la fattoria». Era notte nel laboratorio di anatomia, Hannibal stava lavorando da solo. Aveva quasi finito con i suoi disegni accanto al corpo. Sul ripiano c'era un guanto di gomma rigonfio di fluido e legato stretto all'altezza del polso. Il guanto era sospeso sopra un bicchiere di polvere. Un timer gli ticchettava accanto. Hannibal coprì il blocco da disegno con un tovagliolo bianco. Avvolse il cadavere in un telo e lo portò fino all'aula di lezione. Dal museo di anatomia prese gli stivali di Milko e li mise vicino ai vestiti su una lettiga accanto all'inceneritore, con il contenuto delle sue tasche: un coltello a serramanico, delle chiavi e un portafoglio. Il portafoglio conteneva dei soldi e l'anello di un preservativo, con cui Milko traeva in inganno le donne sfruttando la penombra. Hannibal tolse il denaro. Aprì l'inceneritore: la testa di Milko era in mezzo alle fiamme e assomigliava al pilota bruciato dello
Stuka. Hannibal gettò dentro gli stivali e uno colpì la testa. 51 Un camion da cinque tonnellate residuato bellico con un telone nuovo era parcheggiato sull'altro lato della strada rispetto al laboratorio di anatomia, bloccando metà della carreggiata. Stranamente, non c'erano multe sui tergicristallo. Hannibal provò le chiavi di Milko sulla portiera del conducente, che si aprì. Una busta con delle carte stava sul parasole, e lui le scorse in fretta. Una rampa nel retro del camion gli permise di caricare la sua moto dal marciapiede. Guidò fino alla Porte de Montempoivre, vicino al Bois de Vincennes e lasciò il veicolo in un parcheggio vicino alla ferrovia. Nascose le targhe e la pistola di Milko nella cabina sotto il sedile. Hannibal Lecter sedeva sulla sua moto in un frutteto in collina, facendo colazione con dei deliziosi fichi d'India che aveva trovato al mercato in Rue de Buci, insieme a un po' di prosciutto cotto. Poteva vedere la strada sotto la collina e, a circa quattrocento metri, l'ingresso della villa di Vladis Grutas. Le api ronzavano rumorosamente nel frutteto e molte si affollarono intorno ai suoi fichi, finché lui li coprì con il fazzoletto. García Lorca, che era in gran voga a Parigi in quel periodo, diceva che il cuore era un frutteto. Hannibal stava riflettendo su quell'immagine e pensava, come fanno i giovani, alla forma delle pesche e delle pere, quando il camion di un carpentiere passò sotto di lui e si diresse al cancello di Grutas. Hannibal alzò il binocolo di suo padre. La casa di Vladis Grutas era una villa in stile Bauhaus costruita nel 1938 su un terreno agricolo con vista sul fiume Essonne. Era stata abbandonata durante la guerra e, mancando le grondaie, presentava delle macchie scure provocate dall'acqua colata sui muri. L'intera facciata e uno dei lati erano stati ridipinti d'un bianco accecante e un ponteggio era montato sui muri ancora da imbiancare. La residenza era stata utilizzata come quartier generale durante l'occupazione dai tedeschi, i quali le avevano aggiunto rutta una serie di difese. Il cubo di cemento e vetro della casa era protetto da un'alta recinzione sormontata da filo spinato. L'ingresso era sorvegliato da una guardiola in cemento che sembrava una casamatta. Da una feritoia frontale, ingentilita
da una fioriera, una mitragliatrice poteva tenere sotto tiro la strada. Due uomini uscirono dalla guardiola, uno biondo e l'altro bruno e coperto di tatuaggi. Usarono uno specchio posto su un lungo manico per controllare la parte sottostante del camion. I carpentieri dovettero scendere ed esibire i documenti d'identità. Dopo qualche cenno e qualche alzata di spalle, le guardie fecero entrare il camion. Hannibal guidò la moto fino a un boschetto e la parcheggiò tra i cespugli. Manomise in qualche modo l'accensione con un pezzo di cavo nascosto dietro le puntine e lasciò un appunto sul sellino dicendo che era andato a cercare i ricambi. Poi camminò per circa mezz'ora fino all'autostrada e fece ritorno a Parigi in autostop. Il marciapiede di carico della Gabrielle Instrument Co. si trovava in Rue de Paradis, tra un venditore di insegne luminose e un vetraio. Nell'ultimo impegno della giornata il magazziniere caricò un pianoforte Bösendorfer a mezza coda sul camion di Milko, insieme a uno sgabello imballato separatamente. Hannibal firmò la fattura come Zigmas Milko, pronunciando il nome tra sé mentre lo scriveva. I camion della Gabrielle Instrument stavano tornando alla fine della giornata di lavoro. Hannibal vide che da uno di essi scendeva un'autista donna, piuttosto attraente nella sua tuta, con una vitalità tipicamente francese. La donna entrò nell'edificio e ne uscì dopo qualche minuto in pantaloni e camicetta, con la tuta piegata su un braccio, che ripose nella sacca di una piccola moto. Sentì gli occhi di Hannibal su di sé e voltò il viso sbarazzino verso di lui. Tirò fuori una sigaretta e lui gìiel'accese. «Merci, Monsieur... Zippo.» Era un tipo vivace, con gli occhi mobilissimi e un'esagerata gestualità nel fumare. I ficcanaso che stavano spazzando il marciapiede di carico si sforzarono di udire quello che i due si stavano dicendo ma poterono sentire solo la risata di lei. Guardava fisso il volto di Hannibal e a poco a poco smise di fare la civetta. Sembrava affascinata da lui, quasi ipnotizzata. S'incamminarono insieme lungo la strada verso un bar. Mueller stava in guardiola con un tedesco di nome Gassmann, che aveva da poco lasciato la Legione Straniera. Stava cercando di convincerlo a farsi un tatuaggio quando il camion di Milko si avvicinò lungo la strada. «Facciamogli un applauso, ecco Milko che torna da Parigi» disse Mueller.
Gassmann aveva una vista migliore. «Quello non è Milko.» Uscirono dalla guardiola. «Dov'è Milko?» domandò Mueller alla donna al volante. «E io che cosa ne so? Mi ha pagato per portarvi questo pianoforte. Ha detto che sarà di ritorno tra un paio di giorni. Intanto scaricatemi la moto da dietro con i vostri bei muscoli.» «Chi ti ha pagato?» «Il signor Zippo.» «Vuoi dire Milko.» «Certo, Milko.» Il furgone di una ditta di catering si fermò dietro il grosso camion e aspettò, con l'autista impaziente che tamburellava sul volante. Gassmann alzò il tendone che copriva il retro del camion, vide un pianoforte in una cassa e una più piccola con un cartello PER LA CANTINA e PER IL CANTINIERE: TENERE IN FRESCO. La moto era legata alle sponde laterali del camion. C'era una rampa, ma era più facile sollevarla per farla scendere. Mueller venne ad aiutare Gassmann. Guardò la donna. «Vuoi bere qualcosa?» «Non qui» disse lei montando in sella. «La tua moto fa il rumore di una scoreggia» le urlò dietro Mueller mentre se n'andava. «Devi averla sedotta con la tua conversazione» commentò l'altro tedesco. L'accordatore di pianoforte era un uomo scheletrico, con spazi neri tra i denti e un sorriso perenne sulle labbra come quello di Lawrence Welk. Quando ebbe finito di accordare il Bösendorfer nero si cambiò, indossando una vecchia cravatta bianca e un frac per suonare al cocktail mentre gli ospiti di Grutas cominciavano ad arrivare. Il piano aveva un suono freddo contro il pavimento di piastrelle e le superfici di vetro della casa. I vicini ripiani di una libreria in vetro e acciaio vibrarono in si bemolle finché lui spostò i libri e allora risuonò in si. Si era seduto su una sedia da cucina per accordare, ma ora non voleva sedervisi ancora per suonare. «Dove posso stare? Dov'è lo sgabello?» chiese alla domestica, che girò la richiesta a Mueller. Gli fu trovata una sedia dell'altezza giusta, ma con i braccioli. «Mi toccherà suonare con i gomiti aperti» si rassegnò il pianista. «Piantala di rompere e suona qualcosa di americano» gli ordinò Mueller.
«Lui vuole della musica da cocktail, e cantata.» Il buffet era per una trentina di persone, un misto di strani relitti della guerra. C'era Ivanov dell'ambasciata sovietica, troppo ben vestito per un servitore dello Stato. Stava parlando con un maresciallo americano, responsabile amministrativo dell'ufficio postale americano di Neuilly. Il maresciallo era in borghese, con un abito a quadri di un colore che faceva risaltare l'angioma sul lato del suo naso. Il vescovo, venuto apposta da Versailles, era accompagnato da un chierico che si puliva le unghie. Sotto l'impietosa luce artificiale, l'abito nero del vescovo aveva una lucentezza verdastra, osservò Grutas mentre gli baciava l'anello. Parlarono brevemente delle loro conoscenze comuni in Argentina. C'era una strana atmosfera da nostalgici di Vichy nella stanza. Il pianista cercò di accontentare l'uditorio arrischiando con il suo sorriso da scheletro qualche canzone di Cole Porter. L'inglese era solo la sua quarta lingua e in qualche caso si trovò costretto a improvvisare. «Night and day, you are the sun. Only you beneese the moon, you are the one.» Il seminterrato era quasi buio, con una sola lampadina accesa vicino alle scale. La musica risuonava debolmente dal piano di sopra. Una parete era coperta da scaffali di vino. Vicino c'erano parecchie casse, alcune aperte, con trucioli sparsi. Un lavello nuovo in acciaio inossidabile era appoggiato per terra accanto a un jukebox con gli ultimi dischi e i rotoli di monetine in nichel da infilarci dentro. Accanto alla parete con il vino una cassa etichettata con PER LA CANTINA e PER IL CANTINIERE: TENERE IN FRESCO. Un debole scricchiolio provenne dalla cassa. Il pianista aggiunse qualche "fortissimo" per trarsi d'impaccio sulle rime che non sapeva: «Whether me or you depart, no matter darling I'm apart, I think of you night and dayyyyyyyy». Grutas si muoveva in mezzo agli ospiti stringendo mani. Con un piccolo movimento della testa convocò Ivanov nella biblioteca. Era ispirata a un gusto assolutamente moderno, con una scrivania su cavalletti, ripiani d'acciaio e vetro e una scultura dalle linee picassiane di Anthony Quinn, intitolata La logica è il sedere di una donna. Ivanov osservò l'opera. «Ti piace la scultura?» domandò Grutas. «Mio padre faceva il curatore di un museo a San Pietroburgo, quando era ancora San Pietroburgo.»
«La puoi toccare, se vuoi» lo invitò Grutas. «Grazie. Gli elettrodomestici per Mosca?» «Sessanta frigoriferi sono su un treno a Helsinki in questo momento. Kelvinator. E tu cos'hai per me?» Grutas non poté impedirsi di schioccare le dita. Per reazione allo schiocco, Ivanov fece aspettare Grutas mentre osservava le natiche di pietra. «Non c'è nessun fascicolo sul ragazzo, all'ambasciata» disse infine. «Ha ottenuto un visto per la Lituania proponendo un articolo per "l'Humanité". Doveva riguardare il buon funzionamento della collettivizzazione quando i terreni sono stati confiscati alla sua famiglia e la soddisfazione degli agricoltori di andare in città a costruire reti fognarie. Un aristocratico che appoggia la rivoluzione.» Grutas sbuffò dal naso. Ivanov mise una foto sulla scrivania e gliela fece vedere. Mostrava Lady Murasaki con Hannibal mentre uscivano dalla loro casa. «Di quando è?» «Ieri mattina. Milko era con il mio uomo quando l'ha scattata. Il giovane Lecter è uno studente, lavora di notte, dorme sopra la facoltà di medicina. Il mio uomo ha mostrato tutto a Milko... e non voglio sapere altro.» «Quando ha visto Milko l'ultima volta?» Ivanov sollevò gli occhi bruscamente. «Ieri. Qualcosa non va?» Grutas alzò le spalle. «Forse no. Chi è la donna?» «La sua matrigna, o qualcosa del genere. È bella» disse Ivanov, toccando il sedere di pietra. «Ha un culo come questo?» «Non penso.» «La polizia francese gli gira intorno?» «Un ispettore chiamato Popil.» Grutas contrasse le labbra e per un attimo sembrò dimenticare che Ivanov era nella stanza. Mueller e Gassmann osservavano la gente. Stavano portando i cappotti e controllando che nessuno degli ospiti rubasse qualcosa. Nel guardaroba Mueller tirò l'elastico del cravattino di Gassmann, gli fece fare un mezzo giro e lo lasciò andare. «Sapresti usarlo come un'elica e sparire come una fata?» scherzò Mueller. «Fallo ancora una volta e te ne pentirai» disse Gassmann. «Guardati.
Metti dentro la camicia. Hai dimenticato che sei in servizio?» Dovettero aiutare il fornitore del catering a scaricare la roba. Mentre portavano un tavolo pieghevole nel seminterrato non videro nascosto sotto i gradini un guanto rigonfio sospeso sopra un piatto di polvere da sparo, con una miccia che arrivava fino a una latta da tre chili che una volta conteneva lardo. Una reazione chimica rallenta quando la temperatura si abbassa. Il seminterrato di Grutas era di cinque gradi più freddo della facoltà di medicina. 52 La domestica stava stendendo il pigiama di seta di Grutas sul letto quando lui chiamò per avere altri asciugamani. Non le piaceva portarglieli in bagno, ma lui le ordinava sempre di farlo. Doveva andarci ma non guardare. Il bagno di Grutas era tutto di piastrelle bianche e acciaio inossidabile, con una grande vasca in mezzo alla stanza, una sauna con porte a vetri smerigliati e una doccia. Grutas era disteso nella vasca. La prigioniera che aveva portato dalla barca gli stava radendo il petto usando un rasoio di sicurezza da prigione, con la lama chiusa a chiave. Un lato del viso della donna era gonfio. La domestica non volle incontrare il suo sguardo. Come in una stanza per gli esperimenti di deprivazione sensoriale, anche la doccia era bianca, e grande abbastanza da starci in quattro. La sua strana acustica amplificava ogni più piccolo rumore. Hannibal era in grado di udire il fruscio dei propri capelli contro le piastrelle mentre stava sdraiato sul pavimento della doccia. Coperto da un paio di asciugamani anch'essi bianchi era pressoché invisibile dalla sauna attraverso la porta smerigliata. Sotto gli asciugamani sentiva il proprio respiro, era come essere avvolto nel tappetino con Mischa. Invece dei suoi capelli caldi vicino al viso sentiva l'odore della pistola insieme a lubrificante, cartucce e cordite. Poteva udire la voce di Grutas, ma non aveva ancora visto la sua faccia se non con il binocolo. Il tono non era cambiato.. quell'irritazione cupa che precede la tempesta. «Scaldami l'accappatoio» ordinò Grutas alla domestica. «Dopo voglio fare un bagno di vapore. Preparalo.» Lei scivolò dietro la sauna e aprì la valvola. Nella stanza tutta bianca l'unico colore era dato dalle lunette rosse del timer e del termometro. Assomigliavano a strumenti nautici, con i numeri abbastanza grandi da poter essere letti anche tra le nuvole di vapore.
La manopola del timer aveva già comanciato a muoversi verso l'indicatore rosso. Grutas teneva le mani dietro la testa. Sotto il braccio aveva tatuato il simbolo delle SS, a forma di fulmine. Contrasse il muscolo e il fulmine sussultò. «Accipicchia!» Rise quando la sua prigioniera indietreggiò. «Nooo, non ti picchio più. Mi piaci, adesso. Ti faccio sistemare i denti con qualche protesi che puoi mettere in un bicchiere accanto al letto.» Hannibal uscì dalle porte a vetri in una nuvola di vapore, la pistola puntata al cuore di Grutas. Nell'altra mano aveva una bottiglia di reagente alcolico. La pelle di Grutas stridette mentre balzava fuori dalla vasca e la donna fece uno scatto all'indietro ignorando che Hannibal era alle sue spalle. «Mi fa piacere che tu sia qui» disse Grutas. Guardò la bottiglia, sperando che Hannibal fosse ubriaco. «Ho sempre sentito che ti dovevo qualcosa.» «Ne ho discusso con Milko.» «E allora?» «È giunto a una soluzione.» «I soldi, naturalmente! Te li ho mandati tramite lui, te li ha dati? Bene!» Hannibal si rivolse alla donna senza guardarla. «Bagna il tuo asciugamano nella vasca. Vai nell'angolo e siediti, con l'asciugamano sulla faccia. Presto! Bagnalo nella vasca» La donna immerse l'asciugamano e indietreggiò nell'angolo. «Uccidilo» lo incitò. «Ho aspettato tanto tempo di rivedere la tua faccia» disse Hannibal. «L'ho vista in quella di ogni spaccone che ho picchiato. Pensavo fossi più grosso.» La domestica entrò nella stanza da letto con l'accappatoio. Attraverso la porta aperta del bagno vide la pistola. Uscì dalla stanza, le sue pantofole silenziose sul tappeto. Anche Grutas vedeva la pistola. Era quella di Milko. Sul carrello aveva un innesto su cui era montato un silenziatore rudimentale. Se il giovane Lecter non era esperto, avrebbe potuto sparare un colpo solo e poi sarebbe stato costretto a trafficare con la pistola per riarmarla. «Hai visto quanta roba ho in questa casa, Hannibal? Opportunità offerte dalla guerra! Tu sei abituato alle cose belle, e puoi averle. Siamo simili! Siamo gli Uomini Nuovi, Hannibal! Tu, io... siamo la crema. Staremo sempre a galla!» Sollevò un po' di schiuma con la mano per far vedere come stava a galla, nell'intento di abituare il giovane Lecter ai suoi movi-
menti. «Le piastrine non galleggiano.» Hannibal gettò nella vasca quella di Grutas, che si adagiò come una foglia sul fondo. «Ma l'alcol sì.» Hannibal lanciò la bottiglia, che si ruppe sulle piastrelle sopra Grutas, spargendogli il liquido bruciante sulla testa, mentre frammenti di vetro gli cadevano sui capelli. Hannibal prese dalla tasca uno Zippo per appiccare il fuoco. Ma mentre lo apriva, Mueller gli puntò una pistola alla tempia. Gassmann e Dieter afferrarono per le braccia Hannibal dai due lati. Mueller spinse la canna della pistola di Hannibal verso l'alto, poi gliela tolse di mano e se la infilò nella cintola. «Non sparate» disse Grutas. «Potreste rompere le piastrelle. Voglio parlare con lui un momento. Poi può crepare dentro una tinozza come sua sorella.» Grutas uscì dall'acqua e rimase in piedi su un asciugamano. Fece un gesto verso la donna, ora disperatamente disposta a soddisfarlo. Lei spruzzò seltz sul corpo rasato di Grutas mentre lui si voltava, a braccia distese. «Sai come ci si sente con l'acqua frizzante?» domandò. «Sembra di rinascere. Mi sento tutto nuovo, in un mondo nuovo in cui non c'è spazio per te. Non posso credere che tu abbia ucciso Milko da solo.» «Qualcuno mi ha dato una mano» disse Hannibal. «Tienilo sopra la vasca e taglia quando te lo dico.» I tre uomini bloccarono Hannibal sul pavimento tenendogli la testa e il collo sopra la vasca. Mueller aveva un coltello a serramanico, che puntò alla gola di Hannibal. «Guardami, conte Lecter, mio bel principe! Volta la testa e guardami, allunga bene il collo e morirai dissanguato in fretta. Non ti farà troppo male.» Attraverso la porta della sauna, Hannibal poteva vedere la manopola del timer che si muoveva ticchettando. «Rispondi a questa domanda» disse Grutas. «Non mi avresti forse dato da mangiare alla bambina se lei fosse stata sul punto di morire di fame? Perché l'amavi?» «Naturalmente.» Grutas sorrise e diede un pizzicotto sulla guancia di Hannibal. «Ecco. Adesso ci sei. Amore. Io amo me stesso a questo punto. E non mi sarei mai scusato con te. Hai perso tua sorella in guerra.» Grutas ruttò e rise. «Questo è il mio commento. Cerchi compassione? La puoi trovare sul dizionario tra le parole coglione e culo. Taglialo, Mueller. E l'ultima cosa che sentirai è questa: ti dirò cos'hai fatto TU per vivere. TU...»
L'esplosione fece tremare la stanza da bagno. Il lavandino si staccò dal muro, l'acqua zampillò dalle tubature e le luci si spensero. Nella mischia che si scatenò sul pavimento, Mueller, Gassmann, Dieter si ingarbugliarono con la donna. Il coltello finì nel braccio di Gassmann, che bestemmiò e si mise a urlare. Hannibal colpì forte qualcuno con il gomito in piena faccia e gli pestò i piedi, un colpo di pistola partì nella stanza piastrellata e le schegge lo colpirono sul viso. Un fumo pesante si sollevò dai muri. Una pistola stava scivolando sulle piastrelle con Dieter che cercava di impadronirsene. Grutas la raccolse mentre la donna gli saltava addosso conficcandogli le unghie in faccia, e lui le sparò due colpi al petto. Sentendosi la pistola puntata contro, Hannibal lanciò l'asciugamano bagnato negli occhi di Grutas, poi si gettò all'indietro contro Dieter che gli stava alle spalle e sentì l'impatto quando lui andò a sbattere di schiena contro il bordo della vasca e si afflosciò. Ma Mueller gli fu addosso prima che Hannibal potesse alzarsi, cercando di conficcargli i pollici sotto il mento. Hannibal gli diede una testata in faccia, poi fece scivolare la mano tra di loro, trovò la pistola infilata nella cintola di Mueller e tirò il grilletto senza estrarla. Il grosso tedesco si accasciò con un gemito e Hannibal fuggì con l'arma. Dovette rallentare nella camera da letto buia, poi riprese a correre nel corridoio pieno di fumo. Afferrò il secchio della domestica e se lo portò dietro attraverso la casa, udendo uno sparo alle sue spalle. L'uomo al cancello era fuori dalla guardiola, a metà strada rispetto all'ingresso. «Prendi dell'acqua!» gli gridò Hannibal. Gli lanciò il secchio mentre lo oltrepassava di corsa. «Io prendo l'idrante!» Si lanciò a perdifiato lungo la strada e appena gli fu possibile tagliò nei boschi. Udì delle grida alle sue spalle. Risalì la collina fino al frutteto e risistemò in fretta l'accensione della moto. Aprì la valvola di compressione, diede un po' di gas, poi qualche colpo sul pedale di avviamento. Tirò leggermente l'aria. Un altro colpo sul pedale e la BMW si svegliò con un brontolio. Hannibal scattò fuori dal cespuglio, giù per un viale tra gli alberi, quasi perdendo la marmitta su un tronco, poi si ritrovò lanciato sulla strada, e nell'oscurità, con il tubo di scappamento che strusciava contro l'asfalto lasciando una scia di scintille. I pompieri dovettero fermarsi fino a tarda notte per spegnere le ultime braci nel seminterrato della villa di Grutas e buttare acqua negli interstizi dei muri. Grutas stava in piedi all'estremità del giardino, con il fumo e il vapore che si alzavano nel cielo notturno dietro di lui, e guardava fisso in
direzione di Parigi. 53 La studentessa della scuola per infermieri aveva i capelli rosso mogano e gli occhi marroni più o meno come quelli di Hanrabal. Quando lui rimase in piedi vicino al distributore d'acqua nel corridoio della facoltà di medicina, in modo che potesse bere per prima, lei gli andò vicina con il viso e lo annusò. «Da quando ti sei messo a fumare?» «Sto cercando di smettere» disse lui. «Hai le sopracciglia bruciacchiate!» «Ho acceso il fornello senza fare attenzione.» «Se non stai attento con il fuoco non dovresti cucinare.» Lei si leccò il dito e glielo passò sul sopracciglio. «La mia compagna di stanza e io stasera diamo una cena e c'è un sacco...» «Grazie. Davvero. Ma ho un impegno.» Nei suo biglietto a Lady Murasaki chiedeva se poteva farle visita. Aggiunse un rametto di glicine, appassito quel tanto da apparire un'offerta di scuse. L'invito di lei era accompagnato da due ramoscelli, uno di mirto crespo e uno di pino con una piccola pigna. Il pino non si manda a cuor leggero: i suoi sottintesi sono emozionanti e infiniti. Il pescivendolo di Lady Murasaki non la deluse. Aveva messo da parte quattro bei ricci di mare della Bretagna conservati nella loro acqua. Nel negozio a fianco il macellaio aveva delle animelle, già bagnate nel latte e pressate tra due piatti. Lady Murasaki fece anche una sosta da Fauchon per una torta di pere e infine comprò una reticella di arance. Si fermò davanti al fiorista, con le braccia ingombre di pacchetti. No, Hannibal avrebbe di sicuro portato dei fiori. Hannibal portò i fiori: un mazzo di tulipani, gigli e felci in una bella composizione che aveva infilato nel sellino posteriore della sua motocicletta. Due ragazze che attraversavano la strada gli dissero che i fiori sembravano una coda di gallo. Lui ammiccò mentre il semaforo diventava verde e corse via con un senso di leggerezza nel petto. Parcheggiò nel viale davanti al palazzo di Lady Murasaki e svoltò l'angolo verso l'ingresso. Stava per salutare con la mano la portinaia quando Popil e due robusti poliziotti balzarono fuori dall'androne e lo afferrarono.
Popil prese i fiori. «Non sono per lei» disse Hannibal. «La dichiaro in arresto» intimò Popil. Quando Hannibal venne ammanettato, Popil si mise i fiori sotto il braccio. Nel suo ufficio al Quai des Orfèvres, l'ispettore Popil lasciò Hannibal da solo e lo fece aspettare circa mezz'ora perché assaporasse l'atmosfera. Quando rientrò nella stanza, lo trovò che sistemava l'ultimo stelo di una composizione floreale in una caraffa d'acqua sulla scrivania di Popil. «Le piace?» disse Hannibal. L'ispettore lo colpì con un piccolo manganello di gomma e si sedette. «E questo le piace?» Il più grosso dei due poliziotti sbucò da dietro Popil e si piazzò accanto a Hannibal. «Risponda alla domanda: le ho chiesto se le piace questo» ripeté l'ispettore. «È più onesto della sua stretta di mano. E almeno è pulito.» Popil prese da una busta due piastrine legate con uno spago. «Sono state trovate nella sua stanza. Questi due sono stati accusati in contumacia a Norimberga. Domanda: dove sono?» «Non lo so.» «Non li vuole vedere impiccati? Il boia usa il metodo inglese, ma non è sufficiente a rompergli l'osso dei collo. Non fa bollire né dilata la corda. Scalciano per un bel po' prima di morire. Dovrebbe essere di suo gusto.» «Ispettore, lei non sa nulla dei miei gusti.» «La giustizia non le importa, l'unica cosa che conta è che sia lei a ucciderli.» «Conta anche per lei, vero, ispettore? Li guarda sempre morire. È di suo gusto. Pensa che potremmo parlare da soli?» Prese dalla tasca un biglietto macchiato di sangue, avvolto nel cellofan. «Posta da parte di Louis Ferrat.» Popil fece segno al poliziotto di uscire dalla stanza. «Quando ho tagliato i vestiti del corpo di Louis ho trovato questo per lei.» Lesse a voce alta la parte sopra la piegatura. «"Ispettore Popil, perché mi tormenta con domande alle quali non risponde lei stesso? Io l'ho vista a Lione". E poi va avanti.» Hannibal passò il biglietto a Popil. «Se vuole, è asciutto, adesso. Non puzza.» La carta frusciò quando Popil aprì il biglietto, scaglie scure caddero dalla piegatura. Dopo aver finito di leggere, l'ispettore sedette tenendosi il fo-
glio vicino alla tempia. «Qualcuno della sua famiglia le ha forse fatto ciao ciao con la mano dal treno?» disse Hannibal. «Stava per caso dirigendo il traffico al deposito, quel giorno?» Popil tirò indietro la mano che teneva le piastrine. «Nei suoi panni non lo farei» osservò Hannibal piano. «Se sapessi qualcosa, perché dovrei dirglielo? È una domanda ragionevole, ispettore. Magari vorrebbe fargli avere un passaggio per l'Argentina.» Popil chiuse gli occhi e poi li riaprì. «Pétain era sempre stato il mio eroe. Mio padre e mio zio avevano combattuto sotto di lui nella Prima guerra mondiale. Quando costituì il nuovo governo ci disse: "Mantenete la pace finché buttiamo fuori i tedeschi. Vichy salverà la Francia". Eravamo già poliziotti, ci sembrava solo di continuare il nostro mestiere.» «Ha aiutato i tedeschi?» Popil alzò le spalle. «Ho mantenuto la pace, e forse questo li ha aiutati. Poi ho visto uno di quei treni, così ho disertato e mi sono unito alla Resistenza. Non si fidavano di me finché non ho ucciso uno della Gestapo. I tedeschi per rappresaglia hanno sparato a otto persone del paese. Mi sono sentito come se li avessi ammazzati io. Che razza di guerra è questa? Abbiamo combattuto in Normandia, usando questo come mezzo di riconoscimento.» Prese un "cicalino" dalla scrivania. «Abbiamo aiutato gli Alleati che sbarcavano sulle spiagge. Questo significa che sono un amico, non infierisca. Non m'importa di Dortlich. Mi aiuti a trovarli. Come sta dando la caccia a Grutas?» «Attraverso alcuni familiari in Lituania e le conoscenze di mia madre nella Chiesa.» «Potrei trattenerla per la storia dei documenti falsi, solo sulla base della testimonianza del condannato. Se la lascio andare, mi giura di dirmi tutto quello che scoprirà? Lo giura davanti a Dio?» «Davanti a Dio? Sì, lo giuro davanti a Dio. Ha una Bibbia?» Popil aveva una copia dei Pensieri di Blaise Pascal su uno scaffale. Hannibal la prese. «Possiamo anche usare il suo Pascal... Pascal.» «Giurerebbe sulla vita di Lady Murasaki?» Un attimo di esitazione. «Sì, sulla vita di Lady Murasaki.» Hannibal raccolse il cicalino dalla scrivania e lo fece scattare due volte. Popil tirò fuori le piastrine e Hannibal se le riprese. Appena Hannibal ebbe lasciato l'ufficio, entrò il vice di Popil. L'ispetto-
re fece un segno dalla finestra e quando Hannibal uscì dall'edificio un poliziotto in borghese si mise a seguirlo. «Sa qualcosa. Ha le sopracciglia bruciacchiate. Controlla gli incendi in tutta l'Île-de-France negli ultimi tre giorni» disse Popil. «Quando ci avrà portato da Grutas, voglio incriminarlo per la storia del macellaio di quand'era ragazzo.» «Perché il macellaio?» «È un crimine giovanile, Etienne, un delitto passionale. Non voglio che finisca in prigione, ma che lo dichiarino malato di mente. In un manicomio potranno studiarlo e cercare di scoprire che cos'è.» «Che cosa pensa che sia?» «Il piccolo Hannibal è morto nel 1945 là fuori nella neve, cercando di salvare la sorella. Il suo cuore è morto con Mischa. Che cos'è ora? Non c'è una parola per dirlo. In mancanza di meglio, possiamo chiamarlo mostro.» 54 Nel palazzo di Lady Murasaki in Place des Vbsges la guardiola era buia, la porta con i vetri smerigliati era chiusa. Hannibal entrò nell'edificio con la sua chiave e corse su per le scale. Dentro la guardiola, seduta sulla sedia, la portinaia aveva la posta sparsa davanti a sé sul tavolo, suddivisa inquilino per inquilino come se stesse facendo un solitario. Il cavo di un lucchetto da bicicletta era quasi completamente affondato nella carne del suo collo e la lingua le penzolava dalla bocca. Hannibal bussò alla porta di Lady Murasaki. Udì il telefono squillare all'interno e il suono gli parve stranamente acuto. La porta si spalancò appena infilò la chiave nella toppa. Corse attraverso l'appartamento, guardandosi intorno, e indietreggiò di un passo quando spinse l'uscio della camera da letto, ma la stanza era vuota. Il telefono, intanto, continuava a squillare. Hannibal alzò la cornetta. In una gabbia nella cucina del Café de l'Est, alcuni ortolani aspettavano di essere affogati nell'Armagnac e scottati in una grossa pentola di acqua bollente sulla stufa. Grutas afferrò per il collo Lady Murasaki e le portò la faccia vicino alla pentola, mentre reggeva la cornetta con l'altra mano. Le mani di lei erano legate dietro la schiena e Mueller la teneva per le braccia. Quando udì la voce di Hannibal al telefono, Grutas parlò. «Per continua-
re la nostra conversazione, vuoi vedere la giapponese viva?» domandò. «Sì.» «Ascolta e indovina se ha ancora le guance.» Cos'era quel rumore in sottofondo? Acqua che bolliva? Hannibal non sapeva se il suono fosse reale: sentiva dell'acqua bollire anche nei suoi sogni. «Parla al tuo fottuto ragazzo.» Lady Murasaki riuscì a dire: «Mio caro, NON...» prima di essere strappata via dal telefono. Lottò per divincolarsi dalla stretta di Mueller ed entrambi andarono a sbattere contro la gabbia degli ortolani. Gli uccelli emisero un verso stridulo e pigolarono. Grutas parlò a Hannibal. «Mio CARO, hai ucciso due uomini per tua sorella e hai incendiato casa mia. Ti offro una vita per una vita. Porta tutto, le piastrine, l'inventario di Guardapentola, ogni fottuta cosa. Altrimenti la sentirai urlare.» «Dove...» «Stai zitto. Al chilometro 36 sulla strada per Trilbardou c'è una cabina del telefono. Trovati lì all'alba e verrai chiamato. Se non ci sarai avrai le sue guance per posta. Se vedo Popil o un qualsiasi poliziotto riceverai il suo cuore in un pacchetto. Magari potrai usarlo per i tuoi studi. E poi vedi un po' se potrai ancora guardarti in faccia. Una vita per una vita?» «Una vita per una vita» disse Hannibal. La comunicazione fu interrotta. Dieter e Mueller portarono Lady Murasaki a un furgone fuori dal ristorante. Kolnas cambiò la targa sulla macchina di Grutas. Grutas aprì il retro del furgone e tirò fuori un fucile di precisione Dragunov che diede a Dieter. «Kolnas, porta un vaso di vetro.» Voleva che Lady Murasaki udisse e osservò la sua faccia con una specie d'ingordigia mentre dava istruzioni. «Prendete la macchina. Uccidetelo mentre è al telefono» ordinò a Dieter dandogli il vaso. «E poi portatemi le sue palle alla barca.» Hannibal non voleva guardare fuori dalla finestra, l'uomo in borghese di Popil lo avrebbe visto. Andò in camera e sedette sul letto per un momento con gli occhi chiusi. Il rumore di fondo gli risuonava in testa. Chip chip, era il dialetto baltico degli ortolani. Le lenzuola di Lady Murasaki erano di lino e profumavano di lavanda. Le afferrò, se le portò al viso, poi le strappò via dal letto e le mise nella vasca da bagno. Sistemò una corda da bucato in salotto e vi appese un kimo-
no, mise un ventilatore oscillante sul pavimento e lo accese in modo che le pale facessero ondeggiare piano il kimono e la sua ombra sulle tende leggere. Ritto davanti all'armatura del samurai, Hannibal tenne in mano il pugnale e guardò la maschera di Masamune Date. «Se puoi aiutala, aiutala adesso.» Si legò il cordoncino intorno al collo e fece scivolare il pugnale all'interno del colletto, sul dietro. Poi arrotolò e annodò le lenzuola bagnate come per un tentato suicidio in carcere e quando ebbe finito le lenzuola pendevano dal parapetto del terrazzo fino a circa quattro metri dal marciapiede del viale. Ci mise un po' a scendere. Quando lasciò andare il lenzuolo il salto gli sembrò eterno, e sentì una fitta alla pianta dei piedi nell'atterrare rotolando sul selciato. Spinse la moto lungo il vicolo dietro l'edificio, poi mollò la frizione e saltò in sella mentre il motore partiva. Aveva bisogno di un po' di vantaggio per recuperare la pistola di Milko. 55 Nella voliera fuori dal Café de l'Est gli ortolani si agitavano e pigolavano, irrequieti sotto la luna splendente. Il tendone del patio era arrotolato e gli ombrelloni chiusi. La sala da pranzo era buia, ma in cucina e nel bar le luci erano ancora accese. Hannibal poté vedere Hercule che spazzava il pavimento. Kolnas sedeva su una seggiola del bar con un registro. Hannibal si ritrasse nell'oscurità, poi salì sulla moto e se ne andò via senza accendere i fari. Fece a piedi gli ultimi trecento metri verso la casa di Rue Juliana. Una Citroën Due Cavalli era parcheggiata nel vialetto d'accesso e un uomo seduto al posto del conducente stava tirando le ultime boccate da una sigaretta. Hannibal lo vide lanciare il mozzicone lontano dall'auto e le braci si sparsero sulla strada. Poi l'uomo si sistemò sul sedile e appoggiò la testa allo schienale. Fra poco si sarebbe addormentato. Da una siepe fuori dalla cucina Hannibal poté guardare all'interno della casa. La signora Kolnas passò davanti a una finestra parlando con qualcuno che era troppo piccolo per essere visto. Le finestre erano aperte nella notte calda, la porta a vetri della cucina si affacciava sul giardino. Il pugnale scivolò facilmente nell'interstizio e liberò il gancio. Hannibal si pulì le
scarpe sullo zerbino ed entrò in casa. L'orologio della cucina gli sembrò particolarmente rumoroso. Udì rumore di acqua che scorreva e schizzava provenire dal bagno. Ne oltrepassò la porta, tenendosi rasente al muro perché il pavimento non scricchiolasse. Poteva sentire la signora Kolnas che parlava con un bambino nella stanza da bagno. La porta successiva era semiaperta. Hannibal intravide degli scaffali pieni di giocattoli e un grosso elefante di peluche. Guardò nella stanza. Due letti. Katerina Kolnas dormiva in quello più vicino. La sua testa era girata di lato, il pollice che toccava la fronte. Hannibal poté vedere le sue tempie pulsare e sentire il suo cuore battere. La bimba indossava il braccialetto di Mischa. Hannibal percepì i propri occhi sbattere alla luce calda della lampada e il respiro della bambina. Udì la voce della signora Kolnas. Piccoli suoni, percepibili al di sopra del grande dolore che gli ruggiva dentro. «Su, tesoro, è ora di asciugarsi» disse la donna. La casa galleggiante di Grutas, nera e sinistra, era ormeggiata al molo avvolta da una fitta nebbia. Grutas e Mueller portarono Lady Murasaki legata e imbavagliata sulla passerella e giù per la scala di boccaporto fino alla cabina sul retro. Grutas aprì con un calcio la porta della sua stanza delle torture sul ponte inferiore. C'era una sedia al centro del pavimento, con sotto un lenzuolo insanguinato. «Mi spiace che la tua stanza non sia ancora pronta» disse Grutas. «Chiamerò la reception. Eva!!» Percorse il corridoio fino alla cabina successiva e spalancò la porta. Tre donne incatenate alle loro cuccette lo guardarono con un'espressione piena d'odio. Eva stava raccogliendo la loro roba in disordine. «Vieni qui.» Eva andò nella stanza delle torture, tenendosi fuori dalla portata di Grutas. Prese il lenzuolo insanguinato e ne stese uno pulito sotto la sedia. Stava per portare vìa quello macchiato, ma Grutas disse: «Lascialo. Mettilo lì dove lei possa vederlo». Grutas e Mueller legarono Lady Murasaki alla sedia. Grutas congedò Mueller. Si allungò su una poltrona appoggiata alla parete, le gambe aperte, sfregandosi le cosce. «Hai idea di cosa accadrà se non trovi un modo per farmi godere?» disse Grutas. Lady Murasaki chiuse gli occhi. Sentì la casa galleggiante vibrare e cominciare a muoversi.
Hercule fece due giri fuori dal bar con i bidoni della spazzatura. Tolse il lucchetto alla bicicletta e se ne andò. Il fanalino posteriore era ancora visibile quando Hannibal si intrufolò dalla porta della cucina. Portava un oggetto voluminoso in una borsa macchiata di sangue. Kolnas entrò in cucina con i suoi registri. Aprì lo sportello del forno a legna e vi buttò dentro alcune ricevute. Dietro di lui, Hannibal disse: «Herr Kolnas, circondato da ciotole». Kolnas si guardò intorno e vide Hannibal appoggiato contro il muro, un bicchiere di vino in una mano e una pistola nell'altra. «Che cosa vuole? Siamo chiusi.» «Kolnas nel paradiso delle ciotole, circondato da ciotole. Hai indosso la tua piastrina, Herr Kolnas?» «Mi chiamo Kleber, cittadino francese, e ora chiamo la polizia.» «La chiamo io per te.» Hannibal appoggiò il bicchiere e prese il telefono. «Ti dispiace se chiamo anche la Commissione per i crimini di guerra? Ti rimborso la telefonata.» «Vaffanculo. Chiama chi ti pare. Telefona pure, davvero. Altrimenti lo faccio io. Ho i documenti in regola e molti amici.» «Io invece ho dei bambini. I tuoi.» «Cosa vuoi dire?» «Li ho tutti e due. Sono stato a casa tua in Rue Juliana. Sono stato nella loro stanza con il grande elefante imbottito e li ho presi.» «Stai mentendo.» «"Prendi lei, tanto sta per morire comunque." Sono parole tue, ricordi? Mentre tallonavi Grutas con la tua ciotola. «Ho portato qualcosa per il tuo forno.» Hannibal gli si avvicinò da dietro e gettò sul tavolo la sua borsa insanguinata. «Possiamo cucinare insieme, come ai vecchi tempi.» Fece cadere sul tavolo di cucina il braccialetto di Mischa, che rotolò un po' prima di fermarsi. Kolnas emise un suono soffocato. Per un momento non riuscì nemmeno a toccare la borsa con le mani che gli tremavano. Poi l'afferrò e la strappò con furia, lacerò la carta da macellaio insanguinata da cui uscirono carne e ossa. «È un pezzo di roast-beef, Herr Kolnas, e un melone. Li ho comprati al mercato. Ma vedi come ci si sente?» Kolnas si scagliò al di sopra del tavolo, protendendo le mani insanguina-
te verso il volto di Hannibal, ma perse l'equilibrio allungandosi e Hannibal lo spinse giù, dandogli un colpo alla base del cranio con il calcio della pistola e facendogli perdere i sensi. Il volto di Hannibal, sporco di sangue, assomigliava alle facce demoniache dei suoi sogni. Gettò dell'acqua sul viso di Kolnas finché lui non aprì gli occhi. «Dov'è Katerina? Che cosa le hai fatto?» domandò. «È al sicuro, Herr Kolnas. È bella rosea, perfetta. Si può vedere il sangue che le pulsa sulle tempie. Te la ridarò quando tu mi darai Lady Murasaki.» «Se lo faccio sono un uomo morto.» «No. Grutas sarà arrestato e io non ricorderò la tua faccia. Hai l'opportunità di salvare i tuoi figli.» «Come faccio a sapere che sono vivi?» «Giuro sull'anima di mia sorella che udirai le loro voci. Sono al sicuro. Aiutami o ti uccido e li lascio morire di fame. Dov'è Grutas? Dov'è Lady Murasaki?» Kolnas deglutì, sentendosi del sangue in bocca. «Grutas ha una casa galleggiante, sul canale, con cui va in giro. È sul canale di Loing, a sud di Nemours.» «Come si chiama la barca?» «Christabel. Hai dato la tua parola, dove sono i miei figli?» Hannibal lasciò che Kolnas si alzasse. Prese il telefono dietro al registratore di cassa, compose il numero e gli passò il ricevitore. Per un momento Kolnas non riconobbe la voce della moglie, ma poi: «Pronto? Pronto, Astrid? Vai a vedere i bambini, fammi parlare con Katerina! Subito!». Mentre Kolnas ascoltava la voce mezza addormentata della bambina che era stata svegliata, l'espressione sul suo viso cambiò; dapprima sollievo, poi uno strano pallore quando la sua mano strisciò verso la pistola sul ripiano sotto la cassa. Le sue spalle si abbassarono. «Mi hai ingannato, Herr Lecter.» «Ho mantenuto la parola. Ti risparmio la vita per la salvezza...» Kolnas si voltò con la grossa Webley in pugno, ma Hannibal gli assestò un colpo violento, facendo volare via la pistola, e affondò il pugnale sotto il mento di Kolnas finché la punta gli uscì dalla sommità del capo. La cornetta del telefono cadde penzoloni. Kolnas cadde in avanti, Hannibal lo fece rotolare a terra e si sedette per un momento su una sedia della
cucina a guardarlo. Gli occhi di Kolnas erano aperti e il suo sguardo cominciava ad appannarsi. Hannibal gli mise una ciotola sul viso. Portò fuori la gabbia degli ortolani e l'aprì. Dovette prendere con le mani l'ultimo e lanciarlo verso il cielo illuminato dalla luna. Aprì la voliera esterna e fece uscire gli uccelli, che si riunirono a stormo e si mossero in cerchio a scatti, da una parte all'altra del patio, per poi innalzarsi testando il vento e puntare verso la stella polare. «Andate» disse Hannibal. «Il Baltico è da quella parte. Rimaneteci per l'intera stagione.» 56 Nell'immensità della notte un punto luminoso sparato attraverso gli oscuri campi dell'Île-de-France: la moto a tutta velocità, Hannibal piegato sul serbatoio. Fuori dall'abitato di Nemours e seguendo una vecchia alzaia d'asfalto e ghiaia lungo il canale di Loing, che poi diventava una strada a una corsia, coperta di vegetazione da ambo i lati, Hannibal zigzagò sfilando accanto alle mucche che invadevano la carreggiata e lo colpivano con la coda al suo passaggio, sbandò di lato, con la ghiaia che gli picchiettava sui parafanghi, poi riprese il controllo della moto e ripartì a tutta birra. Le luci di Nemours si affievolivano dietro di lui, che ora si trovava in aperta campagna, con l'oscurità di fronte a sé, solo la ghiaia e le erbacce rese nitide dal cono giallo dei fari. Si chiese se non avesse raggiunto il canale troppo a sud: forse la casa galleggiante era dietro di lui? Si fermò e rimase a fari spenti per decidere il da farsi, mentre la moto gli vibrava sotto. Lontano, più avanti, gli parve che due piccole case si muovessero in tandem attraverso la prateria, cabine di una casa galleggiante appena visibile al di sopra delle rive del canale di Loing. La chiatta di Vladis Grutas era perfettamente quieta mentre si muoveva verso sud con un leggero sciabordio lungo le sponde del canale, dove le mucche dormivano in mezzo ai campi. Mueller, cercando di non forzare i punti di sutura sulla coscia, sedeva in una sdraio sul ponte di prua, con un fucile a canne mozze appoggiato contro la ringhiera della scala di boccaporto accanto a sé. A poppa, Gassmann aprì un armadietto e tirò fuori dei parabordi di canapa. Trecento metri indietro, Hannibal rallentò, con la BMW che brontolava
e l'erba alfa che gli solleticava gli stinchi. Si fermò e prese il binocolo di suo padre dalla borsa dietro il sellino. Nel buio non riusciva a leggere il nome dell'imbarcazione. Si vedevano solo le luci in movimento e il chiarore dietro le tende. In quel punto il canale era troppo largo per essere sicuri di riuscire a saltare sul ponte della barca. Dalla riva avrebbe potuto sparare al capitano nella timoniera e togliergli il comando, ma poi le persone a bordo si sarebbero messe in allerta e lui avrebbe dovuto affrontarle tutte appena salito a bordo. Riuscì a vedere una scala di boccaporto coperta a poppa e una zona scura vicino a. prua, forse un altro ingresso al ponte inferiore. La luce scintillò nelle finestre della timoniera vicino a poppa, ma Hannibal non riuscì a distinguere nessuno all'interno. Doveva superare l'imbarcazione: l'alzaia non aveva collegamento con il fiume e i campi erano troppo selvaggi e incolti per consentire una deviazione. Hannibal proseguì lungo l'alzaia, sentendo formicolare il lato del corpo rivolto alla chiatta. Le lanciò un'occhiata. Gassmann a poppa stava tirando fuori i parabordi da un armadietto e alzò lo sguardo mentre la motocicletta passava. Alcune falene svolazzavano sopra il lucernario di una cabina. Hannibal si mantenne a un'andatura moderata. Un chilometro più avanti vide le luci di un'auto che attraversava il canale. Il Loing si restringeva in una chiusa non molto larga e massiccia, con un ponte di pietra, le paratoie a monte inserite nell'arco di pietra, l'invaso come una scatola oltre il ponte, non più lungo della Christabel. Hannibal voltò a sinistra, imboccò il ponte, nel caso in cui il capitano della barca lo stesse guardando, e proseguì per un centinaio di metri. Spense le luci, fece inversione di marcia e tornò verso il ponte, fermando la moto nei cespugli accanto alla strada. Poi proseguì a piedi nel buio. Alcune barche a remi erano capovolte sulla riva del canale. Hannibal sedette per terra tra loro e spiò al di sopra degli scafi la Christabel che stava arrivando, lontana ancora mezzo chilometro. Era molto buio. Hannibal sentì il suono di una radio che proveniva da una casetta all'estremità del ponte, forse l'abitazione del guardiano della chiusa. Infilò la pistola nella tasca della giacca e l'abbottonò. Le luci di posizione della barca si avvicinavano piano, la rossa luce di babordo dalla sua parte e, dietro, la luce bianca più alta dell'albero pieghevole sopra la cabina. La chiatta avrebbe dovuto fermarsi e abbassarsi di un metro nella chiusa. Hannibal rimase disteso nell'erba alta. Non era ancora
la stagione per sentire i grilli cantare. Aspettò l'arrivo dell'imbarcazione, pazientemente. C'era tempo per pensare. Parte di ciò che aveva fatto nel ristorante di Kolnas era sgradevole da ricordare. Era stato difficile risparmiare la vita a quell'uomo, sia pure per breve tempo, e disgustoso permettergli di parlare. Che bello scricchiolio aveva sentito nella mano quando il pugnale aveva sfondato la sommità del cranio di Kolnas come fosse un corno! Aveva provato più gusto che con Milko. Queste erano le buone cose di cui godere: come la dimostrazione del teorema di Pitagora con le piastrelle, o come quando aveva strappato via la testa di Dortlich. Ora doveva guardare avanti: avrebbe invitato Lady Murasaki a mangiare la lepre in salmi al ristorante Champ-de-Mars. Hannibal era calmo, il suo cuore aveva settantadue pulsazioni al minuto. Era buio accanto alla chiusa, il cielo era chiaro e coperto di stelle. La luce dell'albero della casa galleggiante avrebbe dovuto confondersi con le stelle più basse all'orizzonte una volta che l'imbarcazione avesse raggiunto la chiusa. L'albero era quasi arrivato in posizione quando si ripiegò, con la luce che abbassandosi descrisse un arco come una stella cadente. Hannibal vide il filamento scintillare nel grosso riflettore della chiatta. Si abbassò mentre il fascio luminoso passava sopra di lui fino alle paratoie della chiusa e la sirena della barca risuonava. Una luce si accese nella casetta del guardiano e dopo meno di un minuto l'uomo uscì fuori tirandosi su le bretelle. Hannibal fissò il silenziatore sulla pistola di Milko. Vladis Grufas uscì dal boccaporto di prua e si fermò sul ponte. Si stirò e buttò un mozzicone in acqua. Disse qualcosa a Mueller, mise il fucile sul ponte tra le fioriere, lontano dalla vista del guardiano, e poi tornò giù. Gassmann a poppa mise fuori i parabordi e preparò gli ormeggi. Le paratoie a monte della chiusa rimasero aperte. Il guardiano con gli stivaloni si avvicinò al canale e accese le luci a ciascuna estremità della chiusa. La barca scivolò sotto il ponte e il capitano fece macchina indietro fino a fermarsi. In quel momento Hannibal si lanciò sul ponte e si accovacciò sotto il parapetto di pietra. Abbassò lo sguardo sulla casa galleggiante mentre scivolava sotto di lui, e scrutò in coperta attraverso i lucernari. A un certo punto, solo per un istante, vide Lady Murasaki legata a una sedia. Ci vollero circa dieci minuti per equiparare il livello dell'acqua con il lato a valle, mentre le pesanti porte restavano aperte, e Gassmann e Mueller
ritiravano gli ormeggi. Il guardiano tornò alla sua casetta. Il capitano spinse in avanti la manetta e l'acqua ribollì dietro l'imbarcazione. Hannibal si sporse dal parapetto. A una distanza di mezzo metro sparò a Gassmann alla testa e poi saltò giù, atterrando sul morto e rotolando sul ponte della chiatta. Il capitano sentì il tonfo del corpo che cadeva e guardò verso gli ormeggi a poppa, vedendo che erano incustoditi. Hannibal provò la porta della scala di boccaporto a poppa. Era chiusa. Il capitano si affacciò dalla timoniera: «Gassmann?». Hannibal si rannicchiò accanto al cadavere e gli tastò con la mano la cintola: non era armato. Avrebbe dovuto oltrepassare la timoniera per avanzare, e Mueller era a prua. Indietreggiò sul lato di destra. Il capitano uscì dalla timoniera sulla sinistra e vide Gassmann steso a terra, con la testa che perdeva sangue. Hannibal scattò in avanti piegandosi nel passare accanto alle cabine del ponte inferiore. Sentì che la barca andava in folle e mentre correva udì sparare dietro di sé, il proiettile che colpiva un'asta di sostegno del parapetto e frammenti di metallo che gli pungevano la spalla. Si girò e vide il capitano chinarsi dietro la cabina di poppa. Vicino al boccaporto successivo vide per un attimo una mano e un braccio tatuati che afferravano il fucile da dietro le fioriere. Hannibal sparò ma senza successo. Sentiva il braccio caldo e umido. Avanzò chino tra le due cabine e poi sul ponte di babordo corse avanti tenendosi basso e rialzandosi mentre passava accanto alla successiva cabina verso il ponte di prua, con Mueller era accovacciato proprio in quel punto e si alzò quando udì Hannibal. Si girò di scatto con il fucile e colpì con la canna l'angolo del boccaporto, poi si girò di nuovo e Hannibal gli sparò quattro volte nel petto premendo il grilletto il più velocemente possibile, mentre anche dal fucile a canne mozze partiva un colpo che fece un buco nel legno accanto alla porta della scala di boccaporto. Mueller barcollò e si guardò il petto, poi cadde all'indietro morto, seduto contro la ringhiera. La porta della scala di boccaporto era aperta. Hannibal scese e la chiuse dietro di sé. A poppa il capitano, accovacciato sul ponte accanto al corpo di Gassmann, armeggiava cercando le chiavi in tasca. Hannibal si affrettò giù per le scale e lungo lo stretto passaggio del ponte inferiore. Guardò nella prima cabina, dove c'erano solo corde e catene. Spalancò la porta della seconda cabina, vide Lady Murasaki legata alla sedia e si lanciò verso di lei. Grutas, appostato dietro la porta, gli sparò tra le
scapole e Hannibal cadde sulla schiena, mentre una pozza di sangue si allargava sotto di lui. Grutas sorrise e si avvicinò. Gli puntò la pistola sotto il mento e lo perquisì. Allontanò l'arma di Hannibal con un calcio. Poi prese uno stiletto dalla cintola e gliene conficcò la punta nelle gambe. Non si mossero. «Colpito alla spina dorsale, mio caro Männlein» disse Grutas. «Non senti più le gambe? Che peccato! Non sentirai nemmeno quando ti taglierò le palle.» Grutas sorrise a Lady Murasaki. «Te ne farò un portamonete per i soldi delle mance.» Gli occhi di Hannibal si aprirono. «Riesci a vedere?» Grutas agitò la lunga lama davanti al viso di Hannibal. «Ottimo! Guarda questo!» Si mise davanti a Lady Murasaki e strisciò lentamente la punta dello stiletto lungo la sua guancia, segnandole appena la pelle. «Posso metterle un po' di colore sul viso.» Conficcò lo stiletto nello schienale della sedia dietro la testa di lei. «Creare qualche nuovo buco per fare sesso.» Lady Murasaki non disse nulla. I suoi occhi erano fissi su Hannibal. Le dita di lui ebbero uno spasmo, la sua mano si mosse piano verso la testa, i suoi occhi si spostarono da Lady Murasaki a Grutas e di nuovo a lei. Lady Murasaki alzò lo sguardo verso Grutas, con un'espressione di eccitazione mista ad angoscia sul suo viso. Poteva essere bella quanto voleva. Grutas si chinò e la baciò con violenza, spingendole le labbra contro i denti e tenendo la faccia premuta contro la sua. il volto di lui era vuoto e pallido, gli occhi chiari e impassibili mentre la palpava dentro la camicetta. Hannibal riuscì a estrarre da dietro il colletto il pugnale, che era insanguinato, piegato e ammaccato dal proiettile di Grutas, e a colpire. Grutas sbatté le palpebre, la faccia contratta per il dolore, poi, con i tendini delle caviglie tagliati, cadde azzoppato su Hannibal, che cercava di liberarsi dal suo peso. Lady Murasaki, con i piedi legati, sferrò un calcio a Grutas sulla testa. Lui cercò di alzare la pistola, ma Hannibal, voltandosi, gli afferrò il polso costringendolo a mollare l'arma, che cadde e scivolò sul pavimento. Strisciando, Grutas cercò di raggiungerla, tirandosi su con i gomiti, avanzando sulle ginocchia, cadendo di nuovo e rimettendosi a spingere con i gomiti, come un animale ferito. Hannibal liberò le braccia di Lady Murasaki e lei strappò lo stiletto dallo schienale della sedia per liberarsi le caviglie e si spostò verso l'angolo accanto alla porta. Hannibal, con la schiena insanguinata, si mise tra Grutas e la pistola. Grutas si fermò sulle ginocchia davanti a Hannibal. Una calma lugubre
lo invase. Alzò lo sguardo verso Hannibal con i suoi occhi pallidi e freddi. «Salpiamo tutti insieme verso la morte» disse. «Io, tu, quella puttana della tua matrigna, gli uomini che hai uccìso.» «Quelli non erano uomini.» «Di che cosa sapeva Dortlich, di pesce? Hai mangiato anche Milko?» Lady Murasaki parlò dall'angolo in cui si trovava. «Hannibal, se Popil prende Grutas non può prendere te. Hannibal, resta con me. Dallo a Popil.» «Ha mangiato mia sorella.» «L'hai fatto anche tu» ruggì Grutas, «Perché non uccidi anche te stesso?» «No. È una menzogna.» «Oh, sì che l'hai fatto. Gentilmente Guardapentola te ne diede un pezzetto nel brodo. Devi uccidere chiunque lo sappia, non è vero? Adesso che la tua donna lo sa, sarai costretto a uccidere anche lei.» Hannibal si coprì le orecchie con le mani, una delle quali reggeva ancora il pugnale insanguinato. Si voltò verso Lady Murasaki, cercando il suo viso, andò verso di lei e la tenne contro di sé. «No, Hannibal. È una bugia» disse lei. «Dallo a Popil.» Grutas scattò verso la pistola, sempre parlando. «L'hai mangiata anche tu, senza saperlo, e hai leccato con ingordigia il cucchiaio!» Hannibal urlò verso il cielo: «NOOO!» poi si scagliò su Grutas con il pugnale alzato, allontanò la pistola con un calcio e tracciò una M per tutta la lunghezza della faccia di Grutas mentre urlava: «M per Mischa! M per Mischa! M per Mischa!». Grutas cadde all'indietro sul pavimento e Hannibal continuò a squarciarlo incidendogli grandi M su tutto il corpo. Un grido dietro di lui. Indistinto nella nebbia rossa un fucile. Hannibal sentì lo sparo, ma non capì se era stato colpito oppure no. Si voltò. Il capitano stava dietro di lui, con la schiena rivolta a Lady Murasaki, il manico dello stiletto che spuntava dalla sua clavicola, la lama conficcata nell'aorta. Poi il fucile gli scivolò dalle dita cadde a terra in avanti. Hannibal ondeggiò, il volto trasformato in una maschera rossa. Lady Murasaki chiuse gli occhi. Tremava come una foglia. «Sei ferita?» le domandò lui. «No.» «Ti amo, Lady Murasaki» disse Hannibal. E si mosse verso di lei. Lei aprì gli occhi e allontanò le sue mani lorde di sangue. «Cos'è rimasto in te da amare?» Poi corse via dalla cabina, su per la scala del boccaporto e con un tuffo perfetto saltò oltre il parapetto nel canale.
La casa galleggiante avanzava piano lungo le rive del canale. Sulla Christabel Hannibal era rimasto solo con i morti dallo sguardo velato. Mueller e Gassmann erano sui ponti inferiori adesso, ai piedi della scala di boccaporto. Grutas, il corpo tutto striato di rosso, giaceva nella cabina in cui era morto. Ognuno di loro teneva in mano un lanciarazzi Panzerfaust come una bambola dalla testa grossa. Hannibal prese l'ultimo Panzerfaust e lo legò in sala macchine, mettendo l'arma anticarro a mezzo metro dalla tanica del carburante. Dall'attrezzatura in dotazione alla chiatta prese un rampino e attaccò il cavo intorno al grilletto del Panzerfaust. Rimase con il rampino in mano mentre la barca si muoveva lenta, sbattendo delicatamente contro gli argini di pietra del canale. Vide delle luci sul ponte, udì delle grida e un cane che abbaiava. Lanciò il rampino in acqua. Il cavo serpeggiò lentamente sopra la fiancata mentre Hannibal saltava sulla riva mettendosi a correre nei campi. Non si voltò a guardare. Aveva percorso quattrocento metri quando sentì l'esplosione. Avvertì l'onda d'urto sulla schiena e la pressione lo sovrastò insieme al fragore dello scoppio. Un pezzo di metallo cadde poco dietro di lui. La Christabel avvampò e una colonna di scintille s'innalzò verso l'alto, avvolgendosi in spirali. Altre esplosioni fecero volare tizzoni ardenti nel cielo quando le ultime cariche dei Panzerfaust brillarono. Da oltre un chilometro di distanza, Hannibal vide i lampeggiatori delle auto della polizia alla chiusa. Non tornò indietro. Camminò in mezzo ai campi, dove lo trovarono all'alba. 57 Durante i mesi estivi, all'ora di colazione, le finestre sul lato est del quartier generale della polizia di Parigi erano affollate da giovani agenti che speravano di vedere Simone Signoret prendere il caffè sulla sua terrazza nella vicina Place Dauphine. L'ispettore Popil lavorava alla sua scrivania, senza alzare gli occhi nemmeno quando qualcuno disse che le porte della terrazza dell'attrice si stavano aprendo, e rimase indifferente al brontolio generale, quando ne uscì solo la domestica per annaffiare le piante. La finestra di Popil era aperta e lui udiva a malapena la protesta dei comunisti sul Quai des Orfèvres e il Pont-Neuf. I dimostranti erano per lo più studenti, che gridavano: «Hannibal libero, Hannibal libero!». Portavano
dei cartelli con scritto MORTE AL FASCISMO e chiedevano l'immediato rilascio di Hannibal Lecter, che era diventato un vero e proprio caso. Lettere su "l'Humanité" e "Le Canard enchaîné" ne prendevano le difese. "Le Canard" pubblicò persino una foto dell'incendio e del naufragio della Christabel con la didascalia "Cannibali arrosto". Un commovente ricordo d'infanzia sui benefici della collettivizzazione era apparso su "l'Humanité" in un articolo dello stesso Hannibal, fatto uscire di nascosto dal carcere, che aveva dato ulteriore appoggio ai suoi sostenitori comunisti. Avrebbe scritto con altrettanta prontezza anche per le testate dell'estrema destra, ma questa era un po' fuori moda e non poteva dimostrare in suo favore. Davanti a Popil c'era un memorandum del pubblico ministero, che voleva sapere quali prove sicure esistevano contro Hannibal Lecter. Nell'imperante spirito punitivo - l'épuration sauvage - conseguente al conflitto, una condanna per l'assassinio di un gruppo di fascisti e criminali di guerra avrebbe dovuto essere inattaccabile, e comunque, anche se giustificata, era politicamente impopolare. L'assassinio del macellaio Paul Momund risaliva ad anni addietro, e l'unica prova consisteva nell'odore di essenza di garofano, sottolineava il pubblico ministero. A cosa serviva tenere in prigione la signora Murasaki? Poteva essere stata sua complice? L'ispettore Popil diede un parere contrario alla detenzione della signora Murasaki. Le circostanze precise riguardanti la morte del ristoratore Kolnas, il "ristoratore cripto-fascista e venditore al mercato nero Kolnas", com'era indicato nei documenti, non poterono essere chiarite. Certo, aveva un buco d'incerta origine in cima al cranio, e la lingua e il palato erano stati trafitti da ignoti. Ma lui aveva sparato con un revolver, come aveva dimostrato il test della paraffina. I morti sulla casa galleggiante erano stati ridotti in grasso e fuliggine. Erano noti come rapitori e mercanti di schiavi. Non era forse stato ritrovato un furgone con dentro due donne prigioniere, grazie a un numero di targa fornito dalla signora Murasaki? Il ragazzo non aveva precedenti penali ed era il migliore del suo corso alla facoltà di medicina. L'ispettore Popil guardò l'orologio e percorse il corridoio fino alla Audition 3, la migliore delle stanze destinate agli interrogatori perché riceveva un po' di luce naturale e i graffiti erano stati ricoperti con uno spesso strato
di vernice bianca. Una guardia stava in piedi davanti alla porta. Popil fece un cenno e la guardia tirò il catenaccio per farlo entrare. Hannibal sedeva al centro della stanza, con una caviglia incatenata a una gamba di un tavolo vuoto e i polsi ammanettati a un anello. «Gli tolga i ferri» ordinò Popil alla guardia. «Buongiorno, ispettore» disse Hannibal. «La signora è qui» annunciò Popil. «Il dottor Dumas e il dottor Rufin torneranno dopo pranzo.» Poi Popil lo lasciò solo. Hannibal era in piedi quando Lady Murasaki entrò nella stanza. La porta si chiuse alle sue spalle e lei si girò posando il palmo della mano sulla porta. «Riesci a dormire?» domandò. «Sì. Dormo bene.» «Chiyoh manda i suoi auguri. Dice che è molto felice.» «Sono contento.» «Il suo ragazzo si è laureato e si sono fidanzati.» «Mi fa molto piacere per lei.» Una pausa. «Costruiscono motociclette e motorini, insieme a due fratelli. Ne hanno fatti sei. Lei spera che la cosa funzioni.» «Ne sono certo. Gli comprerò una moto io stesso.» Le donne sono molto più vigili degli uomini, fa parte delle loro capacità di sopravvivenza, e riconoscono immediatamente il desiderio, così come ne riconoscono l'assenza. Lei avvertì un cambiamento in lui. Nel suo sguardo mancava qualcosa. Le vennero in mente le parole della sua antenata Murasaki Shikibu e le recitò: Sono in riposo le acque gelate; ma ora con onde di luce il raggio lunare fluisce e rifluisce. Hannibal pronunciò la classica risposta del principe Genji: Non ti turba stranamente il canto dell'uccello d'amore, in questa notte in cui, come la neve che il vento sospinge, i ricordi si accumulano sui ricordi? «No» disse Lady Murasaki. «No, ora c'è solo ghiaccio. È finita. Non è
così?» «Sei la persona che amo di più al mondo» rispose Hannibal sinceramente. Lei chinò il capo davanti a lui e lasciò la stanza. Nell'ufficio di Popil, Lady Murasaki trovò il dottor Rufin e il dottor Dumas in animata conversazione. Rufin le prese le mani tra le sue. «Lei mi disse che Hannibal avrebbe potuto congelarsi dentro per sempre» ricordò Lady Murasaki. «Sente che è così?» domandò Rufin. «Lo amo e non riesco a trovarlo» rispose Lady Murasaki. «E lei?» «Io non ci sono mai riuscito» ammise Rufin. Lady Murasaki se ne andò senza salutare Popil. Hannibal lavorò come volontario nel dispensario del carcere e presentò un'istanza al tribunale perché gli fosse permesso di tornare alla facoltà di medicina. La dottoressa Claire DeVrie, capo del neonato Laboratorio di polizia forense, una donna brillante e attraente, trovò Hannibal estremamente utile per preparare uno studio di analisi qualitativa e tossicologica con il minimo di reagenti e di attrezzatura. Scrisse una lettera in suo favore. Il professor Dumas, la cui imperturbabile serenità irritava Popil oltre misura, presentò un'altisonante mozione di sostegno alla causa di Hannibal, spiegando che il Johns Hopkins Medical Center di Baltimora, negli Stati Uniti, gli offriva un internato, dopo aver esaminato le sue illustrazioni per il nuovo testo di anatomia. Dumas lo raccomandò in termini assolutamente entusiastici. Nel giro di tre settimane, nonostante le obiezioni dell'ispettore Popil, Hannibal uscì dal palazzo di giustizia e ritornò alla sua stanza sopra la facoltà di medicina. Popil non lo salutò, una guardia semplicemente gli portò i vestiti. Dormì ottimamente nella sua stanza. Al mattino chiamò Place des Vosges e scoprì che il telefono di Lady Murasaki era stato staccato. Andò a casa sua ed entrò con la chiave. L'appartamento era vuoto, c'era solo il telefono, con accanto un biglietto per lui. Era attaccato al ramoscello annerito proveniente da Hiroshima che Lady Murasaki aveva ricevuto dal padre. Il biglietto diceva: "Addio, Hannibal. Torno a casa".
Hannibal gettò il ramoscello bruciato nella Senna mentre rientrava per cena. Al ristorante Champ-de-Mars si concesse una magnifica lepre in salmi con i soldi che Louis gli aveva lasciato per pagare una messa per la sua anima. Riscaldato dai vino, decise che poteva benissimo recitare lui alcune preghiere in latino per Louis e cantare persino un salmo, visto che le sue benedizioni non sarebbero state meno efficaci di quelle che avrebbe potuto comprare a Saint-Sulpice. Cenò da solo, ma non si sentiva solo. Hannibal era entrato nel lungo inverno del suo cuore. Dormì profondamente e non fu visitato dai sogni come succede agli umani. Terza parte Mi darei subito al diavolo, Non fossi diavolo anch'io! J W. GOETHE, Faust 58 A Svenka sembrava che il padre di Dortlich non sarebbe mai morto. Il vecchio continuava a respirare, erano due anni che respirava ancora mentre la bara avvolta in una tela cerata aspettava su un cavalletto nel piccolo appartamento di Svenka, dove occupava gran parte del salotto. Questo fatto era fonte di parecchi problemi con la donna che viveva con lui, la quale sottolineava come la bombatura del coperchio della bara ne impedisse l'uso anche come credenza. Dopo qualche mese cominciò a utilizzarla per conservarvi il cibo di contrabbando che Svenka estorceva alla gente di ritorno da Helsinki con il traghetto. Nei due anni delle feroci purghe ordinate da Stalin, tre colleghi di Svenka furono uccisi e un quarto impiccato nella prigione della Lubjanka. Svenka si rese conto che era tempo di andarsene. Le opere d'arte erano sue e non aveva intenzione di lasciarle. Non aveva ereditato tutti i contatti di Dortlich, ma poteva ottenere dei buoni documenti. E anche se non aveva conoscenze in Svezia, ne aveva molte sulle navi tra Riga e la Svezia, dove avrebbe potuto fare affari e un sacco di soldi una volta in mare. Doveva procedere con cautela. Domenica mattina alle 6.45 la domestica Bergid uscì dal condominio di Vilnius in cui il padre di Dortlich abitava. Era a capo scoperto per non dare l'idea di recarsi in chiesa e portava una borsetta con dentro lo scialle e la
Bibbia. Era uscita da una decina di minuti quando, dal suo letto, il padre di Dortlich udì i passi di una persona più pesante di Bergid che salivano le scale. Poi strani rumori metallici provennero dalla porta dell'appartamento, come se qualcuno stesse manovrando il cilindro della serratura. Con uno sforzo, il padre di Dortlich si sollevò dai cuscini. La porta d'ingresso strusciò quando venne spinta. Il padre di Dortlich frugò nel cassetto accanto al letto e tirò fuori una pistola Luger. Provato dallo sforzo, la tenne con entrambe le mani e la mise sotto il lenzuolo. Chiuse gli occhi finché sentì aprire la porta della camera. «Sta dormendo, Herr Dortlich? Spero di non disturbarla» disse il sergente Svenka, in abiti civili e con i capelli lisciati all'indietro. «Oh, è lei.» L'espressione del vecchio era fiera come al solito, ma lui sembrava molto debole. «Vengo per conto dell'Associazione della polizia di confine» annunciò Svenka. «Stavamo pulendo un armadietto e abbiamo trovato altre cose di suo figlio.» «Non le voglio. Le tenga lei» disse il vecchio. «Ha rotto la serratura?» «Visto che non veniva nessuno ad aprire sono entrato. Ho pensato che avrei potuto lasciare semplicemente la scatola, se non c'era nessuno in casa. Ho la chiave di suo figlio.» «Non ha mai avuto una chiave.» «È la sua chiave universale.» «Allora può chiudere la porta andandosene.» «Il tenente Dortlich mi aveva confidato alcuni dettagli circa la sua situazione e i suoi eventuali desideri. Lei ha scritto qualcosa? Ha i documenti? L'associazione ritiene che sia nostra responsabilità ora verificare che i suoi desideri siano rispettati alla lettera.» «Sì» rispose il padre di Dortlich. «Firmati e autenticati. Una copia è stata spedita a Klaipeda. Non c'è bisogno di fare nulla.» «Sì, invece. Una cosa c'è.» Il sergente Svenka mise giù la scatola. Sorridendo mentre si avvicinava al letto, prese un cuscino da una sedia e, spostandosi di lato con uno scatto, lo premette sul volto del vecchio, salendo a cavalcioni sul letto, con le ginocchia appoggiate sulle sue spaile e disteso con tutto il peso sul cuscino. Quanto tempo ci sarebbe voluto? Il vecchio non si stava dimenando. Svenka sentì qualcosa di duro premere contro il cavallo dei pantaloni, il lenzuolo si tese sotto di lui e la Luger sparò. Svenka sentì la pelle che gli
bruciava e una vampata di calore dentro di sé, nel profondo. Cadde all'indietro, mentre il vecchio alzava la pistola e sparava attraverso il lenzuolo, colpendolo al petto e al mento; poi l'arma gli si piegò in mano e l'ultimo colpo lo raggiunse al piede. Il cuore del vecchio batté forte, sempre più forte, poi si fermò. L'orologio sopra il letto suonò le sette, ma lui udì solo i primi quattro rintocchi. 59 La neve imbiancava la parte più settentrionale dell'emisfero, a nord del cinquantesimo parallelo: Canada, Islanda, Scozia e Scandinavia. La neve turbinava su Grisslehamm, in Svezia, e cadeva anche sul mare mentre arrivava il traghetto con a bordo la bara. Lo spedizioniere marittimo aveva fornito un carrello a quattro ruote agli uomini dell'impresa di pompe funebri e li aiutò a montarvi la bara e ad alzare la rampa sul molo dove il camion aspettava. Il padre di Dortlich era morto senza lasciare familiari stretti e i suoi desideri erano stati chiaramente espressi. L'Associazione dei portuali di Klaipeda si assicurò che venissero rispettati. Il piccolo corteo diretto al cimitero era formato dal carro funebre, un furgone con sei uomini dell'impresa di pompe funebri, e un'automobile con due anziani parenti. Non perché il padre di Dortlich fosse stato dimenticato, ma perché quasi tutti i suoi amici erano morti. Era stato un secondogenito individualista e il suo entusiasmo per la Rivoluzione d'ottobre lo aveva estraniato dalla famiglia e condotto in Russia. Figlio di un ingegnere navale, aveva passato la vita come un marinaio qualsiasi. Ironia della sorte, concordarono i due parenti presenti alle esequie, in mezzo alla neve che cadeva nel tardo pomeriggio. Il mausoleo della famiglia Dortlich era di granito grigio, con una croce incisa sopra la porta e una serie di belle vetrate, con pannelli a colori. Il custode del cimitero, un uomo coscienzioso, aveva pulito il sentiero che conduceva alla porta del mausoleo e scopato i gradini. La grossa chiave di ferro era fredda nonostante i guanti e lui dovette usare entrambe la mani per girarla, con i cilindri che stridettero nella serratura. Gli uomini dell'impresa aprirono la grande porta a due battenti e trasferirono all'interno la bara. Ci fu qualche mormorio da parte dei parenti a proposito dell'emblema dell'Unione dei lavoratori comunisti sul coperchio, che veni-
va esibito nel mausoleo. «Consideratelo come un fraterno commiato da parte di coloro che lo hanno conosciuto di più» disse l'impresario di pompe funebri, coprendosi la bocca con il guanto mentre tossiva. Era una bara costosa per un comunista, rifletté, o almeno così sembrava, e cercò di immaginare quanto poteva essere stato il margine di guadagno. Il custode aveva in tasca un tubetto di grasso al litio bianco. Fece dei segni sulla pietra perché i piedi della bara potessero scivolarvi sopra mentre entrava lateralmente nella nicchia, e i portatori furono contenti quando dovettero semplicemente farla scorrere al suo posto, spingendola da una parte senza bisogno di sollevarla. I componenti del corteo si guardarono a vicenda. Nessuno si offrì di pregare, così chiusero il mausoleo e si affrettarono a tornare ai loro veicoli mentre la neve continuava a cadere. Sopra il suo letto di opere d'arte il padre di Dortlich giaceva tranquillo e silente, con il cuore che gli si ghiacciava. Le stagioni vanno e vengono. Dal sentiero di ghiaia all'esterno provengono deboli voci e ogni tanto si vede agitarsi un tralcio di vite. I colori delle vetrate si fanno sempre più tenui a mano a mano che la polvere le ricopre. Le foglie spuntano, e poi di nuovo arriva la neve, e ancora e ancora. I quadri, con i loro volti così familiari a Hannibal Lecter, rimangono arrotolati nel buio come le volute della memoria. 60 Grandi e soffici fiocchi di neve cadono nell'aria quieta del mattino lungo il fiume Lièvre, nel Québec, e si posano leggeri sui davanzali del Caribou, un negozio specializzato in tassidermia. I fiocchi cadono come piume sui capelli di Hannibal Lecter mentre percorre il viale alberato che conduce all'edificio di legno. È aperto. Può sentire O Canada! provenire da una radio nel retro mentre una partita di hockey sta per cominciare. Trofei di caccia coprono le pareti. Un alce sovrasta tutti gli altri e sotto, in bella mostra, ci sono quadri con una volpe artica, una pernice, un cervo, una lince rossa. Sul bancone c'è un vassoio con diverse file di occhi per animali impagliati. Hannibal depone la borsa e fruga con un dito tra gli occhi. Ne trova un paio di un azzurro pallido destinato a un cane husky. Li prende dal vassoio e li posa vicini sul bancone.
Il proprietario arriva dal retro del negozio. La barba di Bronys Grentz è brizzolata, ora, e le tempie sono grigie. «Sì? Posso aiutarla?» Hannibal lo guarda, fruga nel vassoio e trova un paio d'occhi che combaciano con quelli marrone brillante di Grentz. «Di cosa si tratta?» chiede Grentz. «Sono venuto a prendere una testa» risponde Hannibal. «Quale? Ha la ricevuta?» «Non la vedo qui sulla parete.» «Dev'essere nel retro.» Hannibal ha un suggerimento. «Posso venire anch'io? Le faccio vedere quale.» Hannibal porta la borsa con sé. Contiene qualche vestito, una mannaia e un grembiule di gomma con la scritta PROPRIETÀ DELLA JOHNS HOPKINS. Era interessante confrontare la posta di Grentz e il suo indirizzario con l'elenco dei ricercati della Totenkopf che era stato fatto circolare dagli inglesi dopo la guerra. Grentz aveva un certo numero di corrispondenti in Canada e in Paraguay e parecchi negli Stati Uniti. Hannibal esaminò i documenti con tutta calma sul treno, dove si concesse uno scompartimento privato, gentilmente offerto dalla cassa di Grentz. Sulla via del ritorno verso il suo internato a Baltimora fece una sosta a Montréal, dove inviò la testa di Grentz a uno dei tassidermisti suoi corrispondenti di penna, indicando come mittente il nome di un altro. Non provava rabbia nei confronti di Grentz. Non provava più rabbia in assoluto, né era più torturato dai sogni. Era in vacanza e uccidere Grentz era stato meglio che sciare. Il treno era diretto a sud, verso gli Stati Uniti, ben riscaldato e con ottime sospensioni. Era molto differente da quello su cui aveva effettuato un lungo viaggio verso la Lituania quando era ragazzino. Si sarebbe fermato a New York per la notte, alloggiando al Carlyle come ospite di Grentz, e sarebbe andato a teatro. Aveva i biglietti sia per Delitto perfetto che per Picnic. Decise di vedere Picnic, perché trovava che i delitti a teatro erano poco credibili. L'America lo affascinava. C'erano riscaldamento e luce in abbondanza. E quelle strane, enormi automobili. Le facce americane, aperte ma non innocenti, piacevoli da leggersi. Con il tempo avrebbe voluto utilizzare il suo
mecenatismo per stare dietro al palcoscenico e guardare gli spettatori, le loro facce rapite illuminate dalle luci di scena, e leggere, leggere, leggere. Si fece buio e il cameriere della carrozza ristorante portò una candela per il suo tavolo e il vino rosso color sangue tremò nel suo bicchiere con il movimento del treno. Durante la notte si svegliò una volta a una stazione, udendo gli operai della ferrovia che toglievano il ghiaccio dai binari con un idrante, e grandi nuvole di vapore sfioravano il suo finestrino sotto la sferza del vento. Il treno ripartì con un leggero strattone, sfilando poi sotto la striscia liquida di luci della stazione, mentre si muoveva ritmico nella notte verso sud, verso gli Stati Uniti d'America. Il suo finestrino si disappannò e lui poté vedere le stelle. RINGRAZIAMENTI I miei ringraziamenti alla Brigata criminale della polizia di Parigi, che mi ha introdotto nel mondo del Quai des Orfèvres e ha condiviso con me sia le sue tormentate conoscenze sia un fantastico pranzo. Lady Murasaki è ispirata a Murasaki Shikibu, che scrisse il primo grande romanzo del mondo, Storia di Genji. Il principe splendente. La nostra Lady Murasaki cita Izumi Shikibu e Ono no Komachi e ricorda una poesia di Yosano Akiko. Il suo addio a Hannibal è tratto da Storia di Genji. Noriko Miyamoto mi è stata di grande aiuto con le sue conoscenze nel campo della letteratura e della musica. Come avrete notato, ho preso in prestito il nome Christabel dal poema di Samuel T. Coleridge. Per una migliore comprensione della Francia durante l'occupazione e nel periodo postbellico, sono in debito con Marianne in Chains di Robert Gildea, con Paris After the Liberation 1944-1949 di Antony Beevor e Artemis Cooper e con The Rape of Europa di Lynn H. Nicholas. Mi sono state d'aiuto anche le notevoli lettere di Susan Mary Alsop a Marietta Tree, raccolte in To Marietta from Paris, 1945-1960. E soprattutto, il mio grazie va a Pace Barnes per il suo inesauribile supporto, il suo amore e la sua pazienza. T.H. FINE