MARGARET WEIS RAISTLIN L'ALBA DEL MALE (The Soulforge, 1998)
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MARGARET WEIS RAISTLIN L'ALBA DEL MALE (The Soulforge, 1998)
Dedicato con amore e amicizia a Tracy Raye Hickman RINGRAZIAMENTI Un ringraziamento agli amici di Krynn sull'alt. fan. dragonlance newsgroup. Essi hanno attraversato quella magica landa più recentemente di quanto non abbia fatto io e perciò sono stati in grado di fornirmi delle informazioni inestimabili. Grazie a voi tutti! Vorrei ringraziare Terry Phillips, la cui opera originale, un Adventure Book, The Soulforge è stata la principale fonte d'ispirazione della mia storia. PROLOGO Sono passati oltre dieci anni da quando ci siamo radunati nel mio piccolo appartamento per una partita. A quel tempo Dragonlance era noto soltanto ad una manciata di noi, un neonato pieno di promesse non ancora realizzate, e stavamo giocando la prima avventura di quella che si sarebbe rivelata un'esperienza meravigliosa per milioni di persone... anche se quel-
la notte, stando a quanto ricordo, per lo più non avevamo idea di quello che stavamo facendo. Io dirigevo il gioco basandomi sull'insieme delle mie annotazioni preparato in tutta fretta e sia mia moglie sia Margaret erano nella schiera di quanti stavano lottando per trovare il loro personaggio nella massa di figure indistinte che avevamo fornito loro. Chi erano questi Eroi delle Lance? Qual era il loro aspetto effettivo? Stavamo ormai cominciando a giocare quando mi sono girato verso il mio buon amico Terry Phillips e gli ho chiesto cosa intendesse fare il suo personaggio. Terry mi ha risposto... e il mondo di Krynn è cambiato per sempre: la sua voce rauca, il suo sarcasmo e la sua amarezza che servivano a mascherare un'arroganza e un potere che non avevano mai bisogno di essere dichiarati divennero improvvisamente reali e tutti noi nella stanza rimanemmo paralizzati e terrorizzati. Ancora oggi Margaret persiste nel giurare che quella notte Terry aveva indosso una veste nera. Terry Phillips aveva scelto Raistlin come suo personaggio, e con quella scelta aveva dato vita ad uno dei più duraturi personaggi di Dragonlance. Terry ha perfino scritto un Adventure Gamebook relativo alle prove sostenute da Raistlin e dotato dello stesso titolo del volume che avete ora in mano; Krynn... per non parlare di Margaret e di me... ha un notevole debito di gratitudine nei suoi confronti per averci donato Raistlin. Altri personaggi di Dragonlance possono anche appartenere a diversi creatori, ma fin dall'inizio Margaret ha messo bene in chiaro che quello che riguardava Raistlin era di sua esclusiva pertinenza e noi non ci siamo mai risentiti di questo suo accaparrarsi il mago oscuro perché lei sembrava la sola capace di confortare il suo personaggio e di dare sollievo alla sua mente turbata. La verità è che Raistlin spaventava il resto di noi, inducendoci a prendere le distanze, e che solo Margaret ha capito come varcare quell'insuperabile abisso. Adesso avete fra le mani la storia di Raistlin come l'ha narrata Margaret... la persona che lo conosce meglio di chiunque altro: forse non sarà un viaggio confortevole, ma varrà la pena di compierlo, perché Margaret è sempre stata una maestra nell'arte della narrazione e questa è una vicenda che desiderava raccontarvi da tempo. E se Terry sta leggendo queste pagine... dovunque si trovi adesso... gli auguro di avere la pace. TRACY HICKMAN 10 Ottobre 1997
Le leghe prodotte dai primi uomini che lavorarono il ferro... erano ottenute riscaldando masse di minerale di ferro e di carbone in una fucina o fornace che avesse un tiraggio d'aria forzato. Sotto questo trattamento il minerale veniva ridotto ad una spugna di ferro piena di scorie composte di impurità metalliche e di cenere di carbone. Questa spugna di ferro veniva rimossa dalla fornace quando era ancora incandescente e percossa con pesanti martelli per eliminare le impurità e uniformare e consolidare il ferro... Di tanto in tanto capitava che questa tecnica per la fabbricazione del ferro portasse per caso alla creazione di vero acciaio...1
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"Produzione dell'Acciaio" Microsoft Encarta Encyclopedia, 19931995.
LIBRO PRIMO L'anima di un mago viene forgiata nel crogiuolo della magia. ANTIMODES DALLA VESTE BIANCA CAPITOLO PRIMO Quando viaggiava, non indossava mai la veste bianca. A quell'epoca, del resto, prima che la grande e terribile Guerra delle Lance riversasse il proprio calderone su tutto Ansalon e lo bruciasse come olio bollente, erano ben pochi i maghi che osassero farlo in quanto quello era un tempo, circa quindici anni prima della guerra, in cui il fuoco sotto il calderone era appena stato acceso, la Regina delle Tenebre e i suoi seguaci avevano appena generato le scintille che ne avrebbero fatto divampare la fiamma; all'interno del calderone, l'olio era quindi ancora freddo, nero e denso, ma sul fondo stava cominciando a scaldarsi. La maggior parte degli abitanti di Ansalon non avrebbe mai visto il calderone e tanto meno l'olio che ribolliva al suo interno fino a quando esso non le fosse stato rovesciato sulla testa, insieme al fuoco dei draghi e agli altri innumerevoli orrori della guerra, e in questo periodo di relativa pace la gente di Ansalon non si prendeva per lo più la briga di guardare verso l'alto e neppure a destra e a sinistra per vedere cosa stesse succedendo nel mondo circostante, preferendo fissare i propri piedi nel vivere una polverosa giornata dopo l'altra, sollevando al massimo la testa ogni tanto per controllare che una pioggia improvvisa non rovinasse qualche scampagnata. Pochi avvertivano il calore di quel fuoco appena acceso e tenevano attentamente d'occhio il turgido liquido nero racchiuso nel calderone: pervasi di un crescente disagio, questi pochi stavano iniziando a elaborare dei piani nel vedere che esso si andava riscaldando. Il nome del mago in questione era Antimodes, era umano e originario di una buona famiglia di mercanti di Porto Balifor; essendo il più giovane di tre fratelli, era stato allevato con la previsione di essere inserito nel ramo d'affari della famiglia, che si occupava di sartoria, e a tutt'oggi era orgoglioso di mostrare le cicatrici lasciate dalle punture d'ago sul dito medio della mano destra. Quest'esperienza giovanile aveva conferito ad Antimodes un insolito senso degli affari abbinato ad un gusto eccellente nel vestire e nella scelta di stoffe pregiate, il che costituiva uno dei motivi per cui
capitava di rado di vederlo con indosso la veste bianca. Alcuni maghi avevano paura di portare la veste bianca, simbolo della loro professione, in quanto sapevano di non essere amati e ben visti in Ansalon, mentre Antimodes non aveva paura ma evitava comunque di indossarla per il semplice motivo che lasciava vedere troppo lo sporco e lui detestava arrivare a destinazione cosparso di schizzi di fango troppo evidenti. Il mago era solito viaggiare solo, cosa che in quei giorni di disagio significava che lui era uno stolto, un kender o una persona estremamente potente; Antimodes peraltro non era né uno stolto né un kender e viaggiava solo perché preferiva la compagnia di se stesso e della sua asina, Jenny, a quella della maggior parte delle persone che conosceva; quanto alle guardie del corpo, di solito erano volgari e stupide, oltre che costose, e comunque in caso di bisogno il mago era perfettamente in grado di difendersi da solo in maniera adeguata. La necessità di difendersi si era peraltro presentata di rado nei suoi oltre cinquant'anni di vita, perché in genere i ladri preferivano cercare prede che apparissero spaventate, ubriache o sventate, e anche se il suo elegante mantello di lana blu scuro dai fermagli d'argento indicava senza dubbio che lui era un uomo facoltoso, Antimodes lo portava con un'aria piena di sicurezza, cavalcando eretto e a testa alta sulla sua asina dal passo cadenzato, con lo sguardo acuto che notava tutto ciò che lo circondava, dagli scoiattoli fra i rami ai rospi nel fossato. Anche se all'apparenza non aveva armi, le sue ampie maniche e gli alti stivali di cuoio avrebbero potuto nascondere con facilità un pugnale, le sacche di cuoio lavorato a mano che gli pendevano dalla cintura contenevano senza dubbio componenti per incantesimi e la custodia d'avorio che lui portava appesa al petto mediante una cinghia di cuoio era probabilmente piena di pergamene magiche, tutti indizi che qualsiasi ladro che meritasse i propri grimaldelli non poteva mancare di notare. Di conseguenza, le figure indistinte che si tenevano annidate fra le siepi che costeggiavano la strada, in genere si allontanavano da lui per andare in cerca di vittime più facili. Quel giorno Antimodes era in viaggio alla volta della Torre della Somma Stregoneria di Wayreth e per andarvi aveva scelto il percorso più lungo, dal momento che avrebbe potuto con tutta facilità imboccare i corridoi della magia per arrivare alla Torre dalla sua città natale, Porto Balifor. Il mago aveva però ricevuto da Par-Salian, capo dell'Ordine delle Vesti Bianche e del Conclave dei Maghi e quindi suo diretto superiore, la richie-
sta di effettuare il viaggio nel modo convenzionale. Anche se Par-Salian era il suo superiore, lui e Antimodes erano peraltro intimi amici fin dall'epoca in cui entrambi erano giovani ed erano giunti alla Torre nello stesso giorno per sottoporsi alla faticosa e a volte letale Prova imposta a tutti gli aspiranti maghi. Entrambi avevano dovuto aspettare nella stessa anticamera della Torre e là ciascuno aveva condiviso con l'altro il proprio timore e la propria trepidazione trovando il conforto, la consolazione e il sostegno di cui aveva bisogno, cosa che aveva creato fra le due Vesti Bianche un'amicizia che durava da allora. Di conseguenza, contrariamente a come avrebbe fatto con chiunque altro, Par-Salian non aveva ordinato ad Antimodes di scegliere la strada più lunga ma si era limitato a chiederglielo. Nel corso di questo viaggio, Antimodes doveva conseguire due obiettivi. Il primo era quello di sbirciare in ogni angolo buio, di ascoltare senza parere ogni conversazione sussurrata, di scrutare dietro le imposte di ogni finestra sprangata; il secondo consisteva nel trovare nuovi giovani dotati di talento magico. Il primo di questi due incarichi era pericoloso in quanto la gente non si mostrava bendisposta verso i ficcanaso, soprattutto quando aveva qualcosa da nascondere, e il secondo era noioso perché in genere comportava l'avere a che fare con i bambini, che Antimodes detestava. Tutto considerato, il mago preferiva decisamente l'attività di spionaggio. Nel corso del viaggio, Antimodes aveva scritto su un diario il proprio rapporto con la sua ordinata e precisa calligrafia da sarto in modo da poterlo consegnare a Par-Salian al suo arrivo, e nel procedere lungo la strada in sella alla sua asina, dono del fratello maggiore che aveva assunto il controllo dell'attività di famiglia ed era adesso un agiato sarto di Port Balifor, ne stava ora revisionando mentalmente ogni parola, utilizzando come di consueto il tempo trascorso viaggiando per meditare su tutto ciò che aveva visto o sentito, in quanto nulla era di per sé significativo ma tutto poteva essere importante. «Par-Salian troverà interessante la lettura del mio rapporto», commentò, rivolto a Jenny che rispose scrollando la testa e rizzando gli orecchi in segno di assenso. «Non vedo l'ora di consegnarglielo», proseguì intanto Antimodes. «Lui lo leggerà, mi farà delle domande ed io gli spiegherò tutto quello che ho visto o sentito, sorseggiando al tempo stesso dell'eccellente vino elfico. E tu, mia cara, cenerai a base di avena». Jenny manifestò la propria sentita approvazione, memore del fatto che in alcuno dei posti in cui si erano fermati era stata costretta a mangiare fieno
umido e ammuffito o anche di peggio... una volta le avevano offerto addirittura delle bucce di patata. Adesso i due erano prossimi alla conclusione del loro viaggio: entro un mese Antimodes sarebbe arrivato alla Torre della Somma Stregoneria di Wayreth, o per meglio dire la Torre sarebbe arrivata da lui, in quanto nessuno poteva mai trovare la magica Torre di Wayreth e i visitatori venivano invece rintracciati da essa se il suo signore così desiderava. Quella notte Antimodes aveva in programma di fermarsi nella città di Solace. Dal momento che era soltanto mezzogiorno e che era ormai tarda primavera avrebbe anche potuto proseguire avendo a disposizione ore di luce diurna in abbondanza, ma amava Solace, apprezzava la sua famosa locanda, la Locanda dell'Ultima Casa, era affezionato al suo proprietario, Otik Sandetti, e, soprattutto, trovava decisamente di suo gusto la sua birra, al punto che stava assaporando mentalmente quella birra gelata, scura e schiumosa fin da quando aveva cominciato a respirare la polvere della strada. Il suo arrivo a Solace passò inosservato contrariamente a quello che succedeva in ogni altra città di Ansalon, dove uno straniero veniva subito considerato un ladro, un portatore di peste, un assassino o un rapitore di bambini. Solace era però diversa dalla maggior parte delle città di Ansalon perché era stata fondata da profughi che nel corso del Cataclisma erano fuggiti per salvarsi la vita e avevano arrestato la loro fuga quando erano infine giunti in quel luogo: essendo stati essi stessi un tempo stranieri in cammino, i fondatori di Solace avevano avuto quindi un atteggiamento più amichevole nei confronti degli stranieri, atteggiamento che avevano poi trasmesso ai loro discendenti con il risultato di fare di Solace un rifugio sicuro per i fuoricasta, i solitari, gli inquieti e gli avventurosi. Gli abitanti della città erano cordiali e tolleranti... fino ad un certo punto, perché era risaputo che l'illegalità dilagante non faceva bene agli affari e la gente di Solace teneva molto alla propria economia. Essendo posizionata su una strada molto trafficata che costituiva la principale arteria che dal settentrione di Ansalon portava ad ogni zona del sud del continente, Solace era abituata a intrattenere i viaggiatori, ma non fu questo il motivo per cui ben pochi si accorsero dell'arrivo di Antimodes bensì per il fatto che la maggior parte della popolazione di Solace non lo vide neppure passare in quanto si trovava molto più in alto rispetto a lui, nelle abitazioni per lo più costruite fra i folti e giganteschi rami degli immensi alberi di vallenwood.
I primi abitanti di Solace si erano letteralmente rifugiati sugli alberi per sottrarsi ai loro nemici, scoprendo che vivere lassù era più sicuro e avevano costruito di conseguenza le proprie dimore fra i grossi rami di quelle piante, una tradizione che poi era stata portata avanti dai loro discendenti. Piegando il collo all'indietro, Antimodes guardò verso l'alto, in direzione dei ponti di assi di legno che passavano da un albero all'altro e che ondeggiavano vistosamente ogni volta che qualcuno degli abitanti del villaggio li percorreva a passo svelto per andare da qualche parte. Essendo un uomo azzimato e vivace, sempre pronto a notare una bella dama, Antimodes cercò quindi di intravedere una caviglia snella o una gamba ben tornita... possibilità sempre esistente anche se le donne di Solace badavano a tenere sotto controllo le ampie gonne nel percorrere i ponti... e mentre era impegnato in questa piacevole occupazione venne d'un tratto distolto da essa da un echeggiare di grida acute che lo indusse ad abbassare lo sguardo, scoprendo così che lui e Jenny erano stati raggiunti da una banda di ragazzini dalle gambe nude e dalla pelle abbronzata che brandivano spade di legno e lance fatte con dei rami e parevano impegnati a combattere contro un esercito di nemici immaginari. I ragazzi non avevano avuto intenzione di travolgere Antimodes, ma il vorticare della battaglia li aveva trascinati nella sua direzione, a mano a mano che l'esercito di invisibili orchetti o orchi o chissà che altro si ritirava sempre più in direzione del Lago Crystalmir. Spaventato da quella massa di ragazzini che urlavano e agitavano le spade, l'asina del mago scartò e caracollò, con gli occhi dilatati per il terrore. Dopo tutto, la cavalcatura di un mago non era un cavallo da guerra, non era addestrata a galoppare in mezzo al chiasso, al sangue e alla confusione di una battaglia o a fronteggiare delle lance senza sussultare, e il peggio a cui l'asina di Antimodes aveva mai dovuto abituarsi era l'odore sgradevole di qualche componente per incantesimi e occasionali bagliori luminosi. Di per sé, Jenny era un animale placido, forte e sano, con un'incredibile abilità ad evitare sassi e radici sporgenti, cosa che garantiva a chi la cavalcava un viaggio tranquillo e comodo, ma di recente aveva dovuto tollerare cibo cattivo, alloggiamenti inadeguati e compagni di stalla spiacevoli, e un esercito di ragazzetti armati di bastoni era una cosa che esulava dalla sua residua capacità di sopportazione. Notando dall'agitarsi degli orecchi e dal modo in cui esso stava snudando i denti gialli che l'asina era prossima a sgroppare e a scalciare... cosa che non avrebbe danneggiato molto i ragazzi ma avrebbe di certo disarcio-
nato il suo cavaliere... Antimodes cercò di tenere sotto controllo la cavalcatura senza però avere molta fortuna. Pervasi dal sacro furore della battaglia, i più giovani fra i ragazzi non si accorsero neppure della presenza del cavaliere in difficoltà e gli vorticarono intorno agitando le spade e lanciando acute grida di trionfo, e Antimodes si stava già preparando a fare il suo ingresso a Solace sul proprio posteriore quando un ragazzo più grande... di circa dodici anni... emerse dalla calca e dalla polvere e prese le redini di Jenny, calmando l'asina terrorizzata con la propria presenza e con un tocco gentile. «Allontanatevi!» ordinò quindi il ragazzo agli altri, agitando la propria spada di legno che aveva passato nella mano sinistra. «Sparite, ragazzi! State spaventando l'asina». I ragazzini più giovani, che avevano un'età dai sei anni in su, obbedirono di buon grado e si allontanarono senza cessare di fare chiasso, levando grida e risate che echeggiarono fra gli enormi alberi di vallenwood. Il ragazzo più grande rimase invece sul posto e con un accento che non era di quella parte di Ansalon rivolse le proprie scuse al mago, senza cessare di accarezzare il muso morbido dell'asina per calmarla. «Perdonaci, buon signore, eravamo tanto intenti a giocare che non ci siamo accorti del tuo arrivo. Spero che tu non abbia riportato danni». Il ragazzo aveva dritti capelli biondi che portava tagliati all'altezza degli orecchi secondo uno stile popolare soltanto in Solamnia e in nessun'altra area di Krynn; i suoi occhi erano fra il grigio e l'azzurro e lui sfoggiava un comportamento rigido e serio che contrastava con la sua età, un nobile portamento di cui pareva estremamente conscio. Anche il suo modo di parlare colto e forbito indicava che non si trattava del figlio di un contadino o di uno zotico di campagna. «Ti ringrazio, giovane signore», rispose Antimodes, vagliando al tempo stesso con attenzione la sua scorta di componenti per incantesimi al fine di accertarsi che gli scossoni subiti non avessero allentato i lacci di qualcuna delle sacche che portava alla cintura; accennò quindi a chiedere il nome di quel ragazzo, che aveva destato il suo interesse, ma nel sollevare lo sguardo scoprì che stava fissando le sacche dei componenti per incantesimi con un'espressione sprezzante e piena di disapprovazione dipinta sul volto. «Se sei certo di stare bene, Sir Mago, e di non aver riportato danno a causa dei nostri giochi, permettimi di prendere congedo da te», aggiunse quindi il ragazzo con un rigido inchino, lasciando andare le redini dell'asina, poi si girò verso un compagno che aveva più o meno la sua età e che si
era fermato a studiare con interesse lo straniero e domandò in tono brusco: «Vieni, Kit?». «Fra un momento, Sturm», rispose l'interpellato, e soltanto quando lo sentì parlare Antimodes si rese conto che quel ragazzo ricciuto che indossava pantaloni e giustacuore di cuoio era in effetti una ragazza. Osservandola meglio, il mago notò che si trattava in effetti di una ragazza molto attraente che avrebbe potuto essere definita già una "giovane donna" perché anche se era ancora un'adolescente la sua figura era ben definita, i suoi movimenti erano molto aggraziati e il suo sguardo era ardito e deciso mentre lei lo studiava a sua volta manifestando un interesse intenso e meditabondo che Antimodes trovò difficile da comprendere. Essendo infatti abituato a incontrare reazioni di disprezzo e di avversione, era in grado di constatare che l'interesse di quella giovane donna non era dettato da mera curiosità e che nel suo sguardo non c'era traccia di antipatia... piuttosto, sembrava che lei stesse prendendo una decisione in merito a qualcosa. Antimodes era all'antica per quanto riguardava il suo atteggiamento nei confronti delle donne, che gli piacevano morbide e profumate, amorevoli e gentili, con le guance che tendevano ad arrossire e lo sguardo decorosamente abbassato; naturalmente si rendeva conto che in quell'epoca di potenti maghe e di forti guerriere il suo era un atteggiamento retrogrado, ma d'altro canto era l'unico che lo facesse sentire a proprio agio. Accigliandosi leggermente per indicare la propria disapprovazione a quella giovane sfrontata, incitò quindi Jenny ad avviarsi in direzione delle stalle pubbliche, che si trovavano vicino alla bottega del fabbro, gli unici due edifici di Solace, oltre a quello del fornaio che conteneva forni immensi, che si trovassero al livello del suolo. Mentre oltrepassava la giovane donna, però, Antimodes continuò ad avvertire su di sé lo sguardo perplesso e riflessivo dei suoi occhi castani. CAPITOLO SECONDO Dopo aver controllato che Jenny fosse sistemata comodamente, con una dose extra di foraggio a disposizione e la promessa da parte del garzone di stalla di fornirle ogni possibile cura e attenzione, il tutto naturalmente pagato in buone monete d'acciaio di Krynn di cui il mago fu tutt'altro che parco, Antimodes imboccò la scala più vicina che portasse ai ponti di legno. I gradini erano parecchi, e quando arrivò in cima era ormai accaldato e
con il respiro affannoso, ma l'ombra fornita dal fitto fogliame dei vallenwood lo rinfrescò e gli fornì un riparo sotto cui camminare; dopo essersi concesso un momento per riprendere fiato, Antimodes si avviò quindi sul ponte che portava alla Locanda dell'Ultima Casa. Lungo il tragitto oltrepassò numerose piccole case appollaiate in alto fra i rami; a Solace, la progettazione delle abitazioni era quanto mai varia, in quanto ogni edificio si doveva conformare all'albero su cui sorgeva e poiché per legge era vietato tagliare, bruciare o molestare in qualsiasi modo una pianta viva ogni edificio aveva almeno una parete costituita dall'ampio tronco e le travi del soffitto formate dai rami. Quanto al pavimento, esso non era mai del tutto piano e nel corso delle tempeste di vento era possibile avvertire un evidente movimento ondulatorio delle costruzioni... imperfezioni che avrebbero fatto impazzire Antimodes e che erano invece considerate affascinanti dagli abitanti di Solace. La Locanda dell'Ultima Casa era la più grande costruzione della città, posta a circa quindici metri dal suolo e costruita intorno al tronco di un massiccio vallenwood che faceva parte dell'interno dell'edificio, sostenuto da un vero e proprio boschetto di travi. La sala comune e la cucina si trovavano al piano più basso e sopra di esso erano situate delle camere per la notte che potevano essere raggiunte attraverso un ingresso separato, in modo da evitare che chi preferiva una certa riservatezza fosse costretto ad attraversare la sala comune. Le finestre della locanda erano fatte di vetro multicolore che, secondo una leggenda locale, era stato spedito fin lì da Palanthas e che costituiva un'eccellente pubblicità, in quanto i suoi colori scintillavano nell'ombra delle foglie e attiravano l'attenzione dei passanti, evitando che la locanda passasse inosservata in mezzo al fogliame. Avendo consumato soltanto una leggera colazione, Antimodes era affamato quanto bastava per rendere appieno giustizia alla rinomata cucina del proprietario della locanda, e il suo appetito era stato ulteriormente aguzzato dal salire le scale e dagli aromi che giungevano dalle cucine. Al suo ingresso, l'arcimago venne accolto personalmente da Otik, un grasso e allegro individuo di mezz'età che lo riconobbe subito anche se il mago non era più stato suo ospite da almeno un paio d'anni. «Benvenuto, amico, benvenuto», salutò Otik, inchinandosi e dondolando la testa come faceva con tutti i clienti, nobili o contadini che fossero. Il suo grembiule era immacolato e non chiazzato di grasso come lo erano a volte quelli dei locandieri, e la locanda stessa era altrettanto pulita perché quan-
do non servivano i clienti le cameriere erano impegnate a spazzare, a lavare o a lucidare lo splendido bancone di legno che era parte viva del vallenwood. Mentre Antimodes esprimeva il proprio compiacimento per essere tornato a visitare la locanda, Otik dimostrò di ricordarsi bene di lui accompagnandolo al suo tavolo preferito, che si trovava vicino alle finestre e permetteva di godere di un'eccellente panorama del Lago Crystalmir attraverso i vetri colorati di verde; senza aspettare che gli venisse ordinato, Otik provvide quindi a riempire un boccale di birra scura e a posarlo davanti al mago. «Signore, ricordo che l'ultima volta che sei stato qui hai mostrato di gradire la mia birra», commentò. «In effetti, locandiere, non ne ho mai assaggiata di così buona», replicò Antimodes, notando al tempo stesso come Otik avesse evitato di accennare in qualsiasi modo al fatto che lui fosse un mago, una delicatezza che gli riusciva gradita anche se non aveva intenzione di celare a nessuno chi o cosa fosse. «Voglio una stanza per la notte, con pranzo e cena», aggiunse quindi, sollevando la propria borsa che era ben rifornita pur non essendo piena in maniera indecente. Dichiarandosi onorato della sua presenza, Otik garantì che c'erano una quantità di camere libere fra cui lui avrebbe potuto scegliere, poi lo informò che quel giorno il pranzo era costituito da fagioli di tredici diverse varietà cotti in casseruola con erbe e prosciutto, mentre per cena ci sarebbe stata carne con contorno di quelle patate speziate per le quali la locanda andava famosa. Rilassandosi, Antimodes lasciò scorrere lo sguardo sugli altri clienti. Dal momento che l'ora abituale per il pranzo era ormai passata, la locanda era quasi vuota perché i viandanti si erano ritirati nella loro stanza per smaltire dormendo il pasto abbondante, i braccianti erano tornati al loro lavoro, gli uomini d'affari stavano sonnecchiando sui libri della contabilità e le madri stavano mettendo a letto i bambini per il sonnellino pomeridiano. Di conseguenza il solo altro cliente della locanda era un nano, che a giudicare dall'aspetto doveva essere un nano delle colline che aveva abbandonato la sua comunità ed era venuto a vivere in mezzo agli umani di Solace. Il suo abbigliamento, che era costituito da una camicia di fine stoffa fatta in casa, da calzoni di cuoio di qualità e dal grembiule di cuoio richiesto dal suo mestiere, indicava che il nano se la stava cavando ottimamente con la propria attività; un paio di striature argentee nella barba castana rivelavano
invece che era al massimo di mezz'età, anche se le linee che gli segnavano il volto erano insolitamente profonde e scure per un nano ancora abbastanza giovane, segno che la sua non era stata una vita facile. Gli occhi castani, infine erano più caldi di quelli dei suoi simili che non vivevano in mezzo agli umani e che sembravano sempre scrutare quanti li attorniavano da dietro alte barricate. Intercettando lo sguardo di quegli occhi luminosi, Antimodes sollevò il boccale in un gesto di saluto all'indirizzo del nano. «Dagli attrezzi che porti alla cintura deduco che lavori i metalli», osservò, nella lingua dei nani. «Possa Reorx guidare il tuo martello, signore». «Che la tua via sia dritta e asciutta, viandante», replicò in tono brusco il nano, nella lingua comune, sollevando a sua volta il boccale con un compiaciuto cenno del capo. Dal momento che non sembrava propenso ad avere compagnia, Antimodes non ritenne opportuno invitare il nano a dividere il proprio tavolo e dopo un momento rivolse lo sguardo fuori della finestra per ammirare il paesaggio, godendo del piacevole calore che gli si stava diffondendo nel corpo e che creava un gradevole contrasto con il fresco sollievo che la birra stava dando alla sua gola riarsa. Al tempo stesso, poiché uno dei suoi incarichi era quello di ascoltare qualsiasi conversazione gli capitasse, il mago protese un orecchio a cogliere ciò che il nano e la cameriera si stavano dicendo, anche se non pareva che stessero discutendo di qualcosa di sinistro o di fuori dal comune. «Ecco qui, Flint», stava dicendo la ragazza, nel posare davanti al nano una ciotola fumante piena di fagioli. «Una porzione extra, con il pane incluso. Vedo che ti stiamo facendo ingrassare... a proposito, pensi di partire presto?». «Sì, ragazza. Le strade si stanno riaprendo e sono già in ritardo, ma sto aspettando che Tanis torni dalla sua visita ai parenti che ha a Qualinesti. Sarebbe dovuto arrivare già da quindici giorni ma ancora non c'è traccia della sua brutta faccia». «Spero che stia bene», commentò la cameriera in tono partecipe. «La verità è che non mi fido di quegli elfi, e poi ho sentito dire che non va d'accordo con i suoi parenti». «È come un uomo con un dente guasto», borbottò il nano. «Deve continuare a tormentarlo per essere certo che gli dolga ancora. Tanis torna a casa pur sapendo che i suoi parenti elfi non sopportano di vederlo e continua a sperare che magari questa volta le cose andranno in maniera diversa... soltanto per scoprire che quel dannato dente è guasto ancora come la prima
volta che lo ha toccato e che non migliorerà di certo fino a quando non si deciderà a strapparlo via». Nel parlare, il nano si era arrossato progressivamente in volto per l'indignazione a mano a mano che procedeva nella sua arringa. «E tutto questo quando ci sono dei clienti che ci aspettano!» concluse incongruamente, bevendo un lungo sorso di birra. «Non hai motivo di definirlo brutto», si lamentò intanto la cameriera, imbronciandosi. «Tanis ha l'aspetto di un umano e in lui non c'è nulla di elfico. Per quanto mi riguarda, sarò lieta di rivederlo. Ti ricorderai di dirgli che ho chiesto di lui, Flint?». «Sì, sì, tu e ogni altra donna della città», ribatté il nano, borbottando però quelle parole fra sé in modo da non farsi sentire dalla ragazza che stava intanto tornando in cucina. Traendo le inevitabili deduzioni da ciò che aveva sentito, Antimodes prese mentalmente nota del fatto che un nano e un mezzelfo erano soci d'affari. Un mezzelfo che era stato bandito da Qualinesti... no, questo non era esatto, perché se fosse stato messo al bando quel Tanis non sarebbe potuto tornare a casa come aveva fatto seppure saltuariamente. A quanto pareva, lui aveva lasciato volontariamente la propria terra natale, cosa peraltro poco sorprendente se si pensava che per quanto gli elfi di Qualinesti avessero una mentalità più liberale rispetto ai loro cugini di Silvanesti per quanto concerneva la purezza razziale, comunque ai loro occhi un mezzelfo era pur sempre in realtà un mezzo umano e quindi una creatura contaminata. Questo spiegava perché quel mezzelfo avesse abbandonato la sua casa per venire a Solace ed entrare in società con un nano delle colline che probabilmente aveva a sua volta lasciato il proprio thane e il proprio clan o ne era stato bandito. Seguendo il filo di quelle riflessioni, Antimodes si chiese come quei due si fossero incontrati, supponendo che dovesse trattarsi di una storia interessante che lui peraltro non aveva molte probabilità di apprendere. Nel frattempo, il nano aveva cominciato a divorare i fagioli e di lì a poco arrivò anche il piatto di Antimodes, che a quel punto dedicò al pranzo la completa attenzione che esso meritava. Aveva appena finito ed era impegnato a raccogliere quello che restava del sugo con l'ultimo pezzo di pane, quando la porta della locanda si aprì ed Otik accorse per accogliere il nuovo ospite, restando sconcertato nel trovarsi davanti una giovane donna dai capelli ricciuti, la stessa che Anti-
modes aveva incontrato in precedenza lungo la strada. «Kitiara!» esclamò il locandiere. «Cosa ci fai qui, bambina? Devi assolvere ad un incarico per conto di tua madre?». La giovane donna gli scoccò un'occhiata che parve incenerirlo e scrollò con disprezzo la massa di capelli scuri e ricci. «Le tue patate hanno più cervello di te, Otik», sbuffò quindi. «Io non assolvo incarichi per conto di nessuno». Oltrepassò poi il locandiere con una spinta e si guardò intorno nella sala comune, fissando infine la propria attenzione su Antimodes con estremo stupore e irritazione di quest'ultimo. «Sono venuta per parlare con uno dei tuoi ospiti», annunciò intanto la ragazza, ignorando l'imbarazzato agitarsi delle mani di Otik. «Suvvia, Kitiara», protestò questi, «non credo sia il caso che tu importuni questo gentiluomo». Senza badargli, Kitiara si diresse verso Antimodes, fermandosi accanto al suo tavolo e abbassando lo sguardo su di lui. «Tu sei un mago, vero?» chiese dopo un momento. Antimodes manifestò la propria irritazione evitando di alzarsi in piedi come avrebbe fatto per salutare qualsiasi altra donna, e poiché si aspettava che quella sfrontata dai modi incivili lo deridesse o tentasse di circuirlo assunse un'espressione severa e carica di disapprovazione. «Ciò che sono riguarda soltanto me, giovane signora», replicò, dando un'enfasi sardonica all'ultima parola, poi spostò deliberatamente lo sguardo sul panorama esterno per indicare che la conversazione era finita. «Kitiara...» interloquì intanto Otik, che si era avvicinato con aria ansiosa, «questo gentiluomo è mio ospite, e questo non è certo il momento o il luogo per...». Continuando a ignorarlo, la giovane donna posò le mani abbronzate sul piano del tavolo e si appoggiò ad esso, protendendosi in avanti. Ormai effettivamente irritato per quell'intrusione, Antimodes riportò la propria attenzione su di lei e suo malgrado si trovò ad ammirare la curva dei suoi seni sotto il giustacuore di cuoio, così rigogliosa da non poter sfuggire all'attenzione di qualsiasi essere umano di sesso maschile. «Io conosco qualcuno che vuole diventare un mago», disse intanto la ragazza, con voce seria e intensa. «Voglio aiutarlo ma non so come procedere, non so cosa fare», proseguì, sollevando una mano in un gesto carico di frustrazione. «Dove devo andare? A chi mi devo rivolgere? Tu di certo puoi dirmelo».
Se la locanda si fosse improvvisamente spostata sui rami che la sostenevano e lo avesse scaricato fuori da una finestra, Antimodes non sarebbe rimasto più stupefatto: tutto questo era terribilmente irregolare! Non si poteva procedere in questo modo, esistevano i canali prescritti... «Mia cara ragazza...» cominciò. «Per favore», insistette Kitiara, protendendosi maggiormente in avanti. I suoi occhi erano di una liquida tonalità castana, incorniciati da lunghe e tolte ciglia scure, le sue sopracciglia brune s'inarcavano in una linea delicata al di sopra delle orbite e spiccavano sulla pelle dorata dal sole, segno che lei era solita condurre una vita all'aria aperta. Il suo corpo snello ma muscoloso aveva ormai superato la goffaggine dell'adolescenza per acquisire una grazia di movimenti che non era quella propria di una donna ma piuttosto di un gatto in caccia. Avvertendo intensamente il suo fascino, Antimodes se ne lasciò attrarre pur essendo abbastanza maturo ed esperto da sapere che lei non gli avrebbe mai permesso di avvicinarlesi troppo: quella era una donna che avrebbe concesso a pochi uomini di arrivare a scaldarsi al suo fuoco interiore, e che gli dèi aiutassero quei pochi prescelti. «Kitiara, lascia cenare in pace questo gentiluomo», intervenne ancora Otik, sfiorando un braccio della ragazza, ma fu pronto a ritrarsi quando lei si girò di scatto e lo trafisse con lo sguardo senza dire neppure una parola. «È tutto a posto, Mastro Sandeth», fu pronto a intervenire Antimodes, perché era affezionato ad Otik e non voleva che si venisse a trovare nei guai. Al tempo stesso si accorse che il nano aveva finito di pranzare e stava osservando con interesse la scena, come stavano facendo anche due delle cameriere, e si affrettò ad aggiungere: «Questa giovane signora ed io abbiamo alcuni affari di cui discutere. Per favore, signora, siediti». Mentre la ragazza prendeva posto sulla sedia di fronte alla sua, accennò quindi ad alzarsi e a inchinarsi leggermente, ignorando la cameriera che si era avvicinata per portare via i piatti... e per cercare di soddisfare la propria curiosità. «Vuoi qualche altra cosa?» chiese ad Antimodes. «Desideri mangiare qualcosa?» domandò questi alla sua giovane ospite, lanciandole un'occhiata cortese. «No, grazie», rifiutò Kitiara, concisa. «Torna pure al tuo lavoro, ti chiameremo se avremo bisogno di qualcosa», aggiunse rivolta alla cameriera. Offesa, la ragazza si allontanò con fare rigido e al tempo stesso Otik rivolse ad Antimodes un'impotente occhiata di scusa a cui il mago rispose
con un sorriso, a indicare che non era per nulla infastidito. Scrollando le spalle grassocce, Otik si allontanò con aria angosciata, ma ben presto venne per fortuna distratto dalle sue preoccupazioni dall'arrivo di un nuovo cliente che gli diede qualcosa da fare. Kitiara intanto intrecciò le mani davanti a sé e si dispose ad affrontare la conversazione con un'intensa serietà che riscosse l'approvazione di Antimodes. «Chi è questa persona?» chiese il mago. «Il mio fratellino... ecco, fratellastro», rispose Kitiara, correggendosi come per un ripensamento. Ricordando l'occhiata rovente che lei aveva scoccato ad Otik quando questi aveva menzionato sua madre, Antimodes suppose che fra madre e figlia non corresse buon sangue. «Quanti anni ha il bambino?» domandò. «Sei». «E come sai che vuole studiare la magia?» proseguì Antimodes, pur ritenendo di conoscere già la risposta a quella domanda... un genere di risposta che sentiva anche troppo spesso. Adora travestirsi e fingere di essere un mago, ed è così abile... dovresti vederlo gettare in aria della sabbia e fingere di pronunciare un incantesimo. A dire il vero noi non approviamo, signore, non ti offendere, ma non è il genere di vita che avevamo in mente per il nostro ragazzo, quindi se tu potessi parlargli e dirgli quanto è difficile... «Lui fa dei trucchi», rispose però la ragazza. «Trucchi?», ripeté Antimodes, accigliandosi. «Che sorta di trucchi?». «Sai cosa intendo, trucchi come tirare fuori una moneta dal naso di una persona oppure gettare un sasso in aria e farlo scomparire, o tagliare una sciarpa in due con un coltello e restituirla integra e nuova». «Giochi di prestigio», commentò il mago. «Naturalmente ti rendi conto che questa non è magia, vero?». «Naturalmente!» sbuffò Kitiara. «Cosa credi che sia... un'idiota? Mio padre... il mio vero padre... mi ha portata una volta a vedere una battaglia, e c'era un mago che faceva delle vere magie. Magie di guerra. Mio padre è un cavaliere di Solamnia», aggiunse, con voce pervasa di un orgoglio ingenuo che la fece sembrare d'un tratto una ragazzina. Antimodes non le credette, almeno per quanto riguardava il fatto che suo padre fosse un cavaliere di Solamnia, perché nulla spiegava per quale motivo la figlia di un cavaliere solamnico vivesse ora qui a Solace e si com-
portasse come un monello da strada. Ciò che non faticava a credere era che la ragazza fosse interessata a tutto ciò che concerneva la guerra, considerato il modo in cui continuava ad abbassare la mano verso il fianco sinistro, come se fosse stata abituata a portare la spada o a fingere di portarne una. Intanto lo sguardo di Kitiara si staccò da Antimodes per rivolgersi fuori della finestra e spingersi sempre più lontano, pervaso di un desiderio di terre lontane e di avventura, di porre fine alla noia che probabilmente cominciava a soffocarla. Di conseguenza la sua affermazione successiva non sorprese affatto il mago. «Presto io andrò via da qui, signore, e quando sarò lontana i miei fratelli minori dovranno badare a se stessi. «Caramon se la caverà senza problemi perché ha la stoffa del vero guerriero», proseguì, continuando a contemplare le colline velate di caligine e le acque azzurre e scintillanti del lago. «Io gli ho insegnato tutto quello che so e non faticherà a imparare il resto lungo la strada». Da come si esprimeva, pareva che quella ragazzina fosse un brizzolato veterano che parlasse di una nuova recluta e non una ragazza di tredici anni che parlava di un moccioso, e per poco Antimodes non scoppiò a ridere. Lei però era così seria, così intensa, che invece il mago si trovò ad osservarla e ad ascoltarla affascinato. «Chi mi preoccupa però è Raistlin», continuò intanto Kitiara, aggrottando la fronte con aria perplessa. «Lui non è come gli altri, non è come me e non lo capisco. Ho cercato di insegnargli a combattere, ma è malaticcio e non riesce ad essere all'altezza degli altri bambini, si stanca in fretta e gli manca sempre il respiro. Io me ne devo andare di qui», concluse tornando a fissare Antimodes, «ma prima di partire voglio sapere che Raistlin avrà modo di prendersi cura di se stesso e di guadagnarsi da vivere, ed ho pensato che se lui avesse potuto studiare per diventare un mago non avrei più dovuto preoccuparmi». «Quanti... quanti anni hai detto che ha il ragazzo?» domandò Antimodes. «Sei», replicò Kitiara. «Ma... cosa mi dici dei suoi genitori? Di certo i vostri genitori...». Antimodes si arrestò perché la ragazza non lo stava più ascoltando e aveva assunto quell'espressione di estrema pazienza che i giovani usano con gli adulti quando questi si dimostrano particolarmente noiosi, alzandosi in piedi prima che lui potesse finire la frase. «Ora vado a cercarlo, perché voglio che tu lo conosca», disse. «Mia cara...» accennò a protestare Antimodes, perché se da un lato gli
era piaciuto conversare con questa giovane donna interessante e attraente, d'altro canto il pensiero di avere a che fare con un bambino di sei anni gli riusciva quanto mai sgradito. La ragazza però ignorò le sue proteste e uscì dalla locanda prima che lui avesse il tempo di fermarla; dalla finestra Antimodes la vide correre con passo leggero giù per la scala, spintonando le persone che le bloccavano il passo o andando loro a sbattere contro. D'un tratto il mago si rese conto di essere di fronte ad un problema, perché non voleva essere costretto ad accollarsi quel bambino e adesso che se n'era andata non voleva più avere nulla a che fare con quella giovane donna. Kitiara aveva infatti l'effetto di sconvolgerlo e di dargli un senso di disagio simile ai disturbi derivanti dall'aver bevuto troppo vino: parlare con lei era stato piacevole, ma ora sentiva insorgere un'emicrania. Mentre chiedeva il conto pensò che non gli restava altro da fare che battere in tutta fretta in ritirata nella sua stanza, e al tempo stesso si rese conto con irritazione che da quel momento sarebbe rimasto virtualmente prigioniero in essa per tutta la durata della sua permanenza. Nel sollevare lo sguardo, incontrò poi quello del nano, che aveva sentito rispondere al nome di Flint, e si accorse che questi stava sorridendo. Molto probabilmente Flint non si stava curando affatto di Antimodes, ed era possibile che stesse sorridendo fra sé nel pensare al pasto delizioso che aveva appena assaporato o alla birra che stava bevendo, o che stesse sorridendo perché era soddisfatto del mondo in generale, ma in virtù del senso d'importanza che Antimodes attribuiva di solito a se stesso, ritenne che Flint stesse sogghignando alle sue spalle, divertito dal fatto che un potente mago come lui stesse fuggendo davanti a due bambini. Ferito nell'orgoglio, decise quindi di non dare al nano una simile soddisfazione e di non lasciarsi sloggiare dalla piacevole sala comune: sarebbe rimasto dove si trovava e si sarebbe liberato della ragazza dando una rapida occhiata a suo fratello in modo da porre fine a quella spiacevole situazione. «Ti andrebbe di unirti a me, signore?» chiese quindi al nano, che reagì scoccandogli un'occhiataccia per poi arrossire e nascondere il volto nel boccale della birra borbottando al tempo stesso che avrebbe preferito farsi bollire la barba prima di dividere il tavolo con un mago. Quella reazione strappò ad Antimodes un freddo sorriso: i nani erano rinomati per la loro avversione e diffidenza nei confronti dei maghi, e adesso poteva essere certo che sarebbe stato lasciato in pace. Flint intanto si af-
frettò a finire quello che restava della sua birra, gettò una moneta sul tavolo e uscì dalla locanda dopo aver rivolto al mago un secco cenno di saluto. Un attimo dopo la ragazza fu di ritorno accompagnata non da uno ma da due bambini. Sospirando, Antimodes ordinò un bicchiere dell'ottimo sidro di Otik, invecchiato di due anni, perché aveva la sensazione che gli sarebbe servita una bevanda più alcolica della birra. CAPITOLO TERZO L'incontro prometteva di essere ancora più sgradevole di quanto Antimodes avesse previsto. Uno dei ragazzi, quello che il mago suppose essere il maggiore, era un bambino attraente o almeno lo sarebbe stato se non fosse stato così sporco: di costituzione massiccia, con braccia e gambe robuste, aveva un volto aperto e cordiale illuminato da un sorriso sdentato e stava fissando Antimodes con occhi pieni di interesse e di curiosità, per nulla intimidito da questo sconosciuto dagli abiti eleganti. «Salve, signore, sei davvero un mago? Kit dice che lo sei. Potresti mostrarci qualche trucco... il mio gemello ne sa fare, vorresti vederlo? Raist, fagli vedere come tiri fuori una moneta dal naso e...». «Sta' zitto, Caramon», ribatté l'altro bambino con voce sommessa, poi aggiunse con aria accigliata: «Ti stai comportando da sciocco». Suo fratello accolse l'osservazione senza offendersi e ridacchiò con una scrollata di spalle, ma al tempo stesso smise di parlare. Antimodes intanto stava osservando con attenzione il bambino che sapeva fare i trucchi e che aveva un aspetto tutt'altro che attraente in quanto era magro come uno spettro, sporco e vestito in maniera trasandata, con le gambe e i piedi nudi e con addosso quell'odore particolare e sgradevole proprio dei bambini piccoli e sudati. I suoi lunghi capelli castani erano arruffati e avevano bisogno di essere lavati. Dopo aver studiato attentamente i due per qualche momento, Antimodes trasse infine alcune deduzioni. Era infatti evidente che non c'era una madre amorevole che si prendesse cura di loro, che pettinasse quei capelli arruffati o li rimproverasse per non essersi lavati dietro gli orecchi. Non si poteva dire che i due avessero l'aspetto avvilito e timido dei bambini maltrattati, ma senza dubbio erano molto trascurati. «Come ti chiami?» chiese infine il mago al più magro dei due.
«Raistlin». fu la risposta. A suo favore si poteva dire almeno una cosa, e cioè che nel parlare guardava dritto in faccia al suo interlocutore. La cosa che Antimodes detestava maggiormente nei bambini piccoli era la loro abitudine di fissare i propri piedi o il pavimento o qualsiasi altra cosa tranne lui, come se si fossero aspettati di essere aggrediti e divorati da un momento all'altro, ma questo bambinetto magro e trascurato era in grado di sostenere lo sguardo di un adulto, i suoi occhi azzurro chiaro non mostravano tracce di timore o di esitazione nel fissare quelli dell'arcimago e al tempo stesso non tradivano nulla né rivelavano aspettative di sorta. Quelli erano occhi che nascondevano un sapere eccessivo, che avevano visto troppe cose nell'arco di sei anni di vita... troppo dolore, troppa sofferenza: quegli occhi avevano guardato sotto il letto e avevano scoperto che in effetti c'erano dei mostri che si aggiravano nell'ombra. Allora, giovanotto, scommetto che da grande ti piacerebbe diventare un mago! Questa era la frase banale con cui Antimodes era solito aprire la conversazione in circostanze del genere, ma questa volta il buon senso lo trattenne dal pronunciarla, perché non si trattava di parole che potevano essere rivolte ad occhi che sapevano già tante cose. In quel momento l'arcimago avvertì un formicolio alla nuca che riconobbe come il tocco delle dita del dio. Controllando a stento la propria eccitazione, si rivolse quindi alla sorella del bambino. «Vorrei parlare da solo con tuo fratello», disse. «Forse tu e il suo gemello potreste...». «Certamente», assentì subito Kitiara. «Vieni, Caramon». «Non senza Raistlin», replicò immediatamente Caramon. «Vieni, Caramon!» ripeté con impazienza Kitiara, tirandolo con forza per un braccio. Caramon oppose però resistenza allo strattone impaziente della sorella, e poiché era un bambino robusto parve evidente che lei non sarebbe riuscita a smuoverlo se non lo avesse sollevato di peso. «Noi siamo gemelli, signore, e facciamo tutto insieme», dichiarò intanto Caramon, fissando Antimodes negli occhi. Il mago lanciò allora un'occhiata al più debole dei due per vedere come stesse affrontando la situazione e notò che le guance di Raistlin apparivano leggermente arrossate: senza dubbio lui era imbarazzato dal comportamento di Caramon, ma al tempo stesso ne pareva anche compiaciuto, cosa che
generò in Antimodes un lieve senso di gelo. Il compiacimento dimostrato dal bambino di fronte alla fedeltà del gemello non era infatti tanto il piacere che poteva derivare da una manifestazione di affetto fraterno quanto quello che un uomo trae dallo sfoggiare i talenti di un cane a cui sia affezionato. «Va' pure, Caramon», disse intanto Raistlin. «Forse lui mi insegnerà qualche trucco nuovo ed io te lo farò vedere questa sera, dopo cena». Caramon però si mostrò ancora incerto e Raistlin gli scoccò da sotto i capelli arruffati un'occhiata che era un ordine, in reazione alla quale Caramon abbassò lo sguardo e tornò di colpo a mostrarsi allegro, afferrando la mano della sorella maggiore. «Ho sentito dire che Sturm ha trovato la tana di un tasso e che vuole tentare di farlo uscire fischiando. Credi che ci riuscirà, Kit?». «Che me ne importa?» ribatté la ragazza in tono irritato, avviandosi per lasciare la locanda e assestando al tempo stesso alla nuca di Caramon un colpo che lo fece barcollare. «La prossima volta che ti dico di fare qualcosa obbedisci, hai capito? Che razza di soldato diventerai se non sai neppure obbedire agli ordini?». «Io obbedisco agli ordini, Kit», protestò Caramon, sussultando e massaggiandosi la testa, «ma tu mi hai detto di lasciare solo Raistlin, e tu sai che devo vegliare su di lui». Intanto i due avevano raggiunto la porta e si stavano avviando giù per le scale senza cessare di discutere. «Per favore, siediti», disse intanto Antimodes, riportando lo sguardo sull'altro bambino. In silenzio, Raistlin sedette sulla sedia di fronte a quella del mago, con i piedi che penzolavano senza arrivare al pavimento perché lui era piccolo per la sua età. Una volta seduto, rimase quindi del tutto immobile, senza agitarsi o contorcersi, senza dondolare le gambe o prendere a calci quelle della sedia: congiunte le mani sul tavolo, fissò in volto Antimodes e attese. «Vuoi qualcosa da bere o da mangiare?» domandò questi, e subito aggiunse: «Naturalmente sei mio ospite». Raistlin scosse il capo: anche se era sporco e vestito come un mendicante, non era certo patito e senza dubbio non lo era il suo gemello, segno che qualcuno provvedeva a che i due bambini venissero nutriti regolarmente. Quanto alla magrezza eccessiva di Raistlin, Antimodes intuì che essa doveva essere causata da un fuoco che ardeva in profondità negli intimi recessi della sua anima, un fuoco che consumava il cibo prima che esso po-
tesse nutrire il corpo e che lasciava nel bambino una fame perpetua che lui non era ancora in grado di comprendere. Di nuovo Antimodes avvertì il tocco santificante del dio. «Raistlin, tua sorella mi ha detto che vorresti andare a scuola per studiare e diventare un mago», esordì infine, per introdurre l'argomento. «Sì, suppongo di sì», annuì Raistlin, dopo un momento di esitazione. «Lo supponi?» ripeté Antimodes in tono tagliente, deluso. «Non sai neppure che cosa vuoi?». «Non ci ho mai pensato», replicò Raistlin, scrollando le spalle magre in un gesto notevolmente simile a quello del suo più robusto gemello. «Ad andare a scuola, intendo... non sapevo neppure che ci fossero delle scuole dove studiare la magia e credevo che la magia fosse soltanto una... una parte di noi stessi, come le mani o i piedi». Le dita del dio martellarono sull'anima di Antimodes, che però aveva bisogno di altre informazioni prima di potersi ritenere del tutto certo. «Dimmi, Raistlin, nella tua famiglia c'è qualcuno che è un mago?» chiese, e nel notare l'espressione sofferente e contorta apparsa sul volto del bambino si affrettò ad aggiungere: «Non voglio essere indiscreto, te lo chiedo soltanto perché abbiamo scoperto che la nostra è un'arte che viene per lo più trasmessa nel sangue». Raistlin si umettò le labbra e abbassò lo sguardo sulle proprie mani le cui dita, snelle e agili per un bambino tanto giovane, s'incurvarono istintivamente. «Mia madre», rispose infine, in tono piatto. «Lei vede delle cose, cose lontane. Vede altre parti del mondo, osserva quello che fanno gli elfi e cosa fanno i nani sotto la montagna». «È una veggente», sintetizzò Antimodes. «La maggior parte della gente pensa che sia pazza», ribatté Raistlin, scrollando ancora le spalle, poi sollevò lo sguardo con espressione piena di sfida, pronto a difendere sua madre, e quando scoprì che Antimodes lo stava invece fissando con comprensione si rilassò, lasciando fluire le parole come sangue da una vena aperta. «A volte si dimentica di mangiare... ecco, non è che si dimentichi, è come se avesse mangiato altrove. Inoltre non fa nessun lavoro in casa perché in realtà lei non è lì, sta visitando posti meravigliosi e vedendo cose splendide... io lo so perché quando torna indietro è triste», spiegò, «come se non avesse voluto davvero tornare. A volte ci guarda e non ci riconosce neppure». «Parla di quello che ha visto?» domandò con gentilezza Antimodes.
«Un po', con me, ma non molto», rispose il ragazzo. «A mio padre la cosa non piace e mia sorella... hai visto Kit, lei non ha pazienza con quelle che definisce le "crisi" di nostra madre, quindi non posso biasimare la mamma se preferisce allontanarsi da noi», aggiunse in tono tanto sommesso che Antimodes dovette protendersi in avanti per riuscire a sentirlo. «Se potessi andrei con lei e non torneremmo indietro, mai più». Antimodes prese a sorseggiare il sidro, servendosi di quella scusa per restare in silenzio fino a quando non avesse riportato sotto controllo la propria ira: quella era una vecchia storia che aveva visto ripetersi un'infinità di volte, e la povera donna che ne era vittima non era diversa da innumerevoli altre. Senza dubbio era nata con il talento per la magia ma esso era stato negato, probabilmente messo in ridicolo e senza dubbio scoraggiato da membri della sua famiglia che consideravano tutti i maghi progenie del demonio, con la conseguenza che invece di ricevere la disciplina e l'addestramento necessari ad imparare ad usare quel talento a vantaggio proprio e degli altri, quella poveretta ne era stata schiacciata e soffocata. Quello che era stato un dono era diventato una maledizione, e se ancora non era pazza presto lo sarebbe diventata. Adesso salvarla non era più possibile, ma forse per suo figlio c'era ancora speranza. «Che lavoro fa tuo padre?» volle sapere Antimodes. «È un taglialegna», rispose Raistlin, più a suo agio adesso che avevano cambiato argomento, come indicavano le mani ora rilassate sul tavolo. «È grosso come Caramon, e lavora duramente per cui non lo vediamo molto», aggiunse, senza apparire particolarmente turbato da questo particolare. Per un momento rimase quindi in silenzio, poi aggrottò le sopracciglia con aria riflessiva. «Questa scuola non è lontana, vero?» chiese. «Non posso lasciare mia madre sola molto a lungo, e poi c'è Caramon: come ha detto, noi siamo gemelli e abbiamo cura l'uno dell'altro». Presto me ne dovrò andare, aveva detto Kitiara, e allora i miei fratellini dovranno badare a se stessi. Come se stesse stipulando un patto, Antimodes strinse mentalmente e con forza la mano del dio, Solinari. «C'è una scuola che è molto vicina, in quanto si trova ad appena sette chilometri da qui, in un bosco isolato», replicò quindi. «La maggior parte della gente non sa neppure che essa esista. Fare sette chilometri a piedi avanti e indietro ogni giorno è però eccessivo per un bambino anche se può
non esserlo per un uomo adulto, quindi tu potresti alloggiare presso la scuola come fanno molti studenti, soprattutto quelli che vengono da parti lontane di Ansalon. La scuola è attiva soltanto otto mesi all'anno, perché il maestro è solito trascorrere i mesi estivi alla Torre di Wayreth, quindi in quel periodo potresti restare con la tua famiglia. Prima di tutto però devo parlare con tuo padre, perché è lui quello che ti deve iscrivere alla scuola. Credi che approverà?». «A mio padre non importerà e credo anzi che ne sarà sollevato, perché ha paura che finisca come la mamma», rispose Raistlin, mentre un acceso rossore gli affiorava di colpo sulle guance pallide. «Se però la scuola costa molto denaro non ci potrò andare», aggiunse. «Quanto al denaro», garantì Antimodes, che aveva già preso una decisione al riguardo, «noi maghi provvediamo alle necessità dei nostri allievi». Il bambino non riuscì però a capire il senso delle sue parole. «A mio padre non piacerebbe affatto che ricevessi la carità», avvertì. «Non si tratta di carità», dichiarò in tono deciso Antimodes. «Abbiamo dei fondi destinati agli studenti meritevoli e potremo aiutarti a pagare l'insegnamento e le altre spese. Posso incontrarmi con tuo padre stanotte stessa, in modo da spiegargli tutte queste cose?». «Sì, stanotte dovrebbe essere a casa perché il lavoro che sta facendo è quasi finito. Lo accompagnerò qui, perché con il buio la nostra casa è difficile da trovare», rispose Raistlin, in tono di scusa. Dentro di sé Antimodes sentì il cuore che gli si contraeva per la compassione, in quanto non faticava a immaginare una casa triste, infelice, trascurata e solitaria, che si nascondeva nell'ombra e custodiva il suo cupo segreto. Quel bambino era così fragile e magro che una forte folata di vento avrebbe potuto gettarlo a terra, quindi era possibile che la magia fosse lo scudo destinato a proteggere quel fisico delicato, il bastone a cui lui potesse appoggiarsi quando si fosse sentito debole e stanco. D'altro canto però la magia sarebbe potuta diventare anche un mostro divoratore, succhiando la vita da quel fragile corpo e lasciandosi alle spalle un guscio vuoto ed essiccato, quindi era anche possibile che Antimodes stesse avviando quel bambino su una strada che lo avrebbe portato ad una morte prematura. «Perché mi fissi in quel modo?», domandò Raistlin, in tono incuriosito. Antimodes gli segnalò di alzarsi dalla sedia e di venirsi a mettere davanti a lui, poi si protese per stringergli le mani e il ragazzino reagì sussultando
e cercando di liberarsi dalla sua stretta. Pur rendendosi conto che a Raistlin non piaceva essere toccato, Antimodes mantenne la presa perché voleva sottolineare le proprie parole con il contatto fisico, voleva che il bambino comprendesse le sue parole oltre che sentirle. «Ascoltami, Raistlin», cominciò, e subito lui s'immobilizzò mentre il mago si rendeva d'un tratto conto che quella era una conversazione su un piano di parità e non il discorso che si poteva fare ad un bambino. «La magia non risolverà i tuoi problemi, servirà solo ad aumentarli, non indurrà la gente a trovarti gradevole ma aumenterà la sua diffidenza, non darà sollievo alla tua sofferenza ma si contorcerà e brucerà dentro di te al punto da indurti a volte a pensare che perfino la morte sarebbe preferibile». Antimodes fece una pausa, senza lasciar andare le mani del bambino, che erano calde e secche come se lui fosse stato in preda alla febbre, e al tempo stesso si frugò nella mente alla ricerca di un genere di spiegazione che il suo giovane interlocutore potesse comprendere. Infine, il martellare che saliva dalla bottega del fabbro gli fornì la metafora di cui aveva bisogno. «L'anima di un mago viene forgiata nel crogiuolo della magia», disse. «Se sceglierai volontariamente di entrare nel fuoco le sue fiamme ti potrebbero distruggere, ma se sopravviverai ad esse ogni colpo di martello servirà a modellare il tuo essere, ogni goccia d'acqua che ti verrà strappata servirà a temprare e a rinforzare la tua anima. Riesci a capirlo?». «Lo capisco», annuì il bambino. «Hai qualche domanda da farmi, Raistlin?» domandò infine Antimodes, accentuando la propria stretta. «Mio padre dice che prima di poter operare la magia, i maghi vengono condotti in un posto buio e orribile dove devono lottare contro terribili mostri, e afferma che alcuni di essi muoiono. È vero?». «In realtà la Torre è un luogo adorabile, una volta che ci si abitua ad essa», rispose Antimodes, poi fece una pausa e nel riprendere a parlare scelse con cura le parole, perché anche se non voleva mentire al bambino d'altro canto sapeva che c'erano cose che esulavano dalla comprensione di un ragazzino di sei anni, per quanto questi potesse essere precoce. «Quando diventa grande, molto più grande di quanto tu lo sia adesso, un mago si reca alla Torre della Grande Stregoneria dove si sottopone ad una prova. In effetti a volte alcuni maghi muoiono, perché il potere che utilizzano è molto grande e quelli che non sono in grado di controllarlo o di votare ad esso la
vita non sono desiderati all'interno del nostro ordine». Notando che il bambino lo stava fissando con occhi sgranati nel volto pallido e solenne, Antimodes gli strinse le mani con fare rassicurante e gli sorrise. «Questo però succederà fra molto, molto tempo, Raistlin, un tempo davvero lungo. Io non ti voglio spaventare, ma desidero che tu sappia a cosa ti trovi di fronte». «Sì, signore, lo capisco», replicò Raistlin, in tono sommesso. Antimodes infine lo lasciò andare e Raistlin indietreggiò involontariamente di un passo, portando le mani dietro la schiena in un gesto inconscio. «Adesso, Raistlin, ho io una domanda per te», affermò intanto Antimodes. «Perché vuoi diventare un mago?». «Mi piace avvertire la magia dentro di me», spiegò Raistlin, con un bagliore negli occhi azzurri, poi lanciò un'occhiata in direzione di Otik, che era impegnato vicino al bancone, e aggiunse con un pallido sorriso: «E perché voglio che un giorno i grassi locandieri s'inchinino davanti a me». Sconcertato, Antimodes lo fissò per vedere se stava scherzando e scoprì che non era così. La mano che il dio gli aveva posato sulla spalla fu percorsa da un tremito improvviso. CAPITOLO QUARTO Esattamente un mese più tardi, Antimodes era comodamente insediato nelle eleganti camere di Par-Salian delle Vesti Bianche, capo del Conclave dei Maghi. I due uomini erano molto diversi l'uno dall'altro, tanto che in circostanze normali non sarebbero di certo diventati amici: anche se erano tutti e due sulla cinquantina, infatti, Par-Salian era un topo di biblioteca mentre Antimodes era un uomo di mondo che amava viaggiare, era portato per gli affari, sapeva apprezzare la buona birra, le donne graziose e le locande accoglienti, oltre a essere curioso e indagatore, meticoloso nelle abitudini e nel vestiario. Par-Salian, per contro, era uno studioso il cui sapere nel campo delle arti della magia era innegabilmente più vasto di quello di qualsiasi altro mago di tutto Krynn, detestava viaggiare, non amava mescolarsi alle altre persone e aveva amato una donna soltanto... una storia sbagliata di cui si ram-
maricava ancora adesso; in aggiunta a tutto questo Par-Salian aveva ben poca cura del suo aspetto esteriore e non badava alle comodità al punto che se si lasciava assorbire dai suoi studi dimenticava spesso anche di mangiare. Era di conseguenza responsabilità di alcuni apprendisti badare che il loro maestro mangiasse a sufficienza, cosa che essi facevano insinuandogli senza parere una pagnotta sotto il braccio mentre lui era intento a leggere, con la certezza che Par-Salian si sarebbe messo a sbocconcellarla distrattamente. Spesso gli apprendisti erano soliti scherzare fra loro sostenendo che avrebbero potuto sostituire al pane una pagnotta fatta di segatura senza che Par-Salian si accorgesse della differenza, ma d'altro canto il rispetto e la reverenza che nutrivano nei suoi confronti era tale che nessuno di essi aveva mai osato effettuare davvero un esperimento del genere. Quella sera Par-Salian aveva come ospite il suo vecchio amico e di conseguenza aveva rinunciato, sia pure con un certo rincrescimento, a concentrarsi sui suoi amati libri. Antimodes gli aveva portato in dono parecchie pergamene di magia oscura di cui era entrato in possesso per puro caso nel corso dei suoi viaggi. Una delle Sorelle dalle Vesti Nere, una maga malvagia, era infatti stata uccisa da una folla inferocita, e Antimodes era arrivato sul posto troppo tardi per cercare di salvarla, cosa che avrebbe comunque fatto sia pure con scarso entusiasmo perché tutti i maghi erano vincolati gli uni agli altri dalla loro magia, indipendentemente dal dio o dalla dea a cui si erano votati. L'arcimago era però riuscito a persuadere i superstiziosi e ignoranti abitanti della città a permettergli di prelevare gli effetti personali della maga dalla sua casa prima che ad essa venisse appiccato il fuoco, decidendo di portare le pergamene in dono a Par-Salian e tenendo per sé un amuleto che serviva ad evocare gli spiriti non-morti. Naturalmente lui non poteva usare di persona l'amuleto né avrebbe mai cercato di farlo perché i non-morti erano disgustosi e fetidi, almeno secondo il suo modo di vedere, però era intenzionato a offrire l'amuleto a qualcuna delle Vesti Nere che vivevano nella Torre per avere in cambio qualche manufatto che lui potesse utilizzare. Anche se apparteneva all'ordine delle Vesti Bianche ed era quindi completamente votato al dio Solinari, Par-Salian era comunque in grado di leggere e di comprendere le pergamene della maga malvagia sia pure a prezzo di una certa sofferenza fisica, perché era uno dei pochissimi maghi che avessero mai avuto il potere di cambiare alleanza a loro piacimento.
Naturalmente lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere, ma tale potere gli permetteva di prendere nota delle parole usate per attuare l'incantesimo, dei componenti necessari per metterlo in atto, della sua durata e di ogni altra informazione interessante in cui gli capitava di imbattersi, una ricerca che sarebbe stata registrata negli annali della Torre di Wayreth, mentre le pergamene sarebbero state depositate nella biblioteca della Torre insieme a una valutazione. «Un modo terribile di morire», commentò Par-Salian, versando al suo ospite un bicchiere di vino elfico, freddo al punto giusto, dolce e con appena un accenno di aroma di caprifoglio che evocava a beneficio di chi lo beveva l'immagine di verdi foreste e di radure rischiarate dal sole. «La conoscevi?». «Esmilla? No», rispose Antimodes, scuotendo il capo. «Del resto, si può praticamente dire che si sia andata a cercare quello che le è successo. I laici possono anche ignorare la scomparsa saltuaria di qualche bambino, ma se si comincia a far circolare monete false...». «Oh, suvvia, mio caro Antimodes!» esclamò Par-Salian, che non era famoso per il suo senso dell'umorismo, assumendo un'espressione sconvolta. «Spero che tu stia scherzando!». «Ecco... forse sì», sogghignò Antimodes, sorseggiando il vino. «In ogni caso, capisco cosa intendi dire», continuò Par-Salian, calando con impazienza il pugno sul bracciolo della sua sedia a schienale alto. «Perché questi stolti maghi persistono a sprecare la loro abilità e il loro talento durre monete di scarsa qualità che qualsiasi bottegaio fra qui e le isole dei minotauri riesce a riconoscere come false alla prima occhiata? È una cosa che per me non ha senso». Considerato lo sforzo che bisogna fare per riuscire a produrre con la magia anche soltanto due o tre monete d'acciaio, un mago potrebbe dedicarsi con minor fatica e maggior guadagno ad attività più mondane», convenne Antimodes. «Se la nostra defunta sorella avesse continuato a vendere i proori servigi per tenere la città libera dai topi, come faceva ormai da anni, senza dubbio sarebbe ancora viva. Sono state le monete create con la magia a gettare tutti nel panico, perché da un lato la maggior parte delle persone credeva che fossero maledette e aveva paura di toccarle, mentre quelli che non pensavano che fossero maledette avevano paura che lei cominciasse a sfornare monete in quantità tale da rivaleggiare con il Signore di Palanthas, con il risultato di possedere ben presto l'intera città e tutto ciò che c'è in essa».
«Questo è proprio il motivo per cui abbiamo stabilito la regola relativa alla produzione di monete del regno», ribatté Par-Salian. «Ogni giovane mago prima o poi ci prova, come sono certo abbia fatto tu stesso». Antimodes annuì e scrollò le spalle. «La maggior parte di noi impara però ben presto che non vale la pena di sprecare tempo e fatica, per non parlare del grave impatto che una simile attività da parte nostra potrebbe avere sui diversi settori dell'economia di Ansalon. Senza dubbio questa donna era abbastanza matura da sapere tutto ciò, e mi chiedo cosa sperasse di ottenere». «Chi può saperlo? Forse non era più del tutto lucida di mente, o magari era soltanto avida. In ogni caso aveva senza dubbio destato le ire del suo dio, considerato che Nuitari l'ha abbandonata alla sua sorte come dimostra il fatto che tutti gli incantesimi di difesa a cui lei aveva fatto ricorso sono falliti». «Lui non è solito permettere un uso frivolo dei talenti che elargisce», dichiarò Par-Salian, in tono severo e solenne. Antimodes spostò leggermente la propria sedia in modo da avvicinarsi maggiormente al fuoco che crepitava nel focolare. Quando veniva in visita alla Torre della Somma Stregoneria si sentiva sempre estremamente vicino a tutti gli dèi della magia, quello luminoso, quello grigio e quello oscuro, e tale vicinanza gli creava un senso di disagio, come se qualcuno gli stesse alitando sulla nuca. Questo disagio spiegava perché Antimodes non volesse vivere nella Torre e avesse scelto invece di risiedere nel mondo esterno, per quanto esso potesse essere pericoloso per i maghi. «Parlando di bambini...» cominciò, ansioso di cambiare argomento. «Ne stavamo parlando?» sorrise Par-Salian. «Certamente. Io ho fatto un commento sul rapimento di bambini». «Ah, sì; lo ricordo. D'accordo, allora, stavamo parlando di bambini: cos'hai da dire a loro riguardo? Se ben ricordo, a te non piacciono». «In genere no, ma durante il mio viaggio fin qui ho incontrato un ragazzino davvero interessante, a cui ritengo sia il caso di dedicare una certa attenzione, cosa che mi pare abbiano già fatto in tre», spiegò Antimodes, guardando fuori della finestra in direzione del cielo notturno, nel quale brillavano due delle tre lune sacre agli dèi della magia, e accennando verso di esse con l'aria di chi la sa lunga. «Il bambino in questione ha un talento innato?» chiese Par-Salian, mostrandosi interessato. «Lo hai messo alla prova? Quanti anni ha?». «Ha circa sei anni e non l'ho messo alla prova, perché ero alloggiato nel-
la locanda di Solace e quello non era né il momento né il luogo per cose del genere, senza contare che non ho mai avuto un'eccessiva fiducia in quelle stupide prove. No, quello che mi ha impressionato è stato ciò che quel bambino ha detto, e come lo ha detto... non mi vergogno ad ammettere che mi ha spaventato perché in lui c'è una buona dose di fredda ambizione che fa paura in un soggetto tanto giovane. Naturalmente, è possibile che sia un tratto che deriva dalla sua situazione personale, considerato che non proviene da una famiglia abbiente». «Che hai fatto di lui?». «L'ho affidato al Maestro Theobald. Sì, so che Theobald non è il miglior insegnante presente nel Conclave perché è lento, privo d'immaginazione, carico di pregiudizi e antiquato, ma con lui quel ragazzo otterrà delle basi solide e si vedrà imporre una rigida disciplina, cosa che non gli farà male considerato che a quanto ho dedotto sta conducendo un'esistenza piuttosto selvaggia, allevato da una sorellastra maggiore d'età che è lei stessa un soggetto alquanto particolare». «Theobald è costoso», obiettò Par-Salian, «e tu hai appena sottolineato che la famiglia del ragazzo è povera». «Ho pagato io stesso il suo primo semestre», rispose Antimodes, accantonando con un gesto distratto qualsiasi accenno al fatto che il suo potesse essere stato un atto lodevole. «Bada però che la famiglia non dovrà mai saperlo. A suo beneficio ho inventato che alla Torre abbiamo dei fondi stanziati per gli studenti meritevoli». «Non sarebbe una cattiva idea», osservò Par-Salian con aria pensosa, «anzi, è un'idea che si potrebbe mettere in pratica, soprattutto adesso che gli irragionevoli pregiudizi nei nostri confronti stanno cominciando a dissolversi. Anche se purtroppo stolti come Esmilla continuano a metterci in una cattiva luce, sono convinto che la gente si sia fatta in generale più tollerante e che cominci ad apprezzare quello che facciamo per aiutarla. Tu hai appena viaggiato a lungo e allo scoperto, amico mio, cosa che non avresti potuto fare una quarantina di anni fa». «Questo è vero», ammise Antimodes, «però credo che in generale il mondo sia diventato di recente un luogo alquanto oscuro. Ad Haven mi sono imbattuto in un ordine religioso che adora un dio noto come Belzor, e la mia impressione è che quella gente abbia intenzione di rifriggere le stesse assurdità che abbiamo sentito pronunciare dal Re-prete di Istar prima che gli dèi... sia benedetto il loro cuore... gli facessero cadere addosso una montagna».
«Davvero? Allora me ne devi parlare», replicò Par-Salian, appoggiandosi più comodamente allo schienale della sedia, poi prelevò dal tavolo che aveva accanto un libro rilegato in cuoio, lo aprì ad una pagina bianca e vi annotò la data, preparandosi a scrivere: finalmente stavano per passare alle questioni importanti di cui dovevano discutere quella sera. In prevalenza, l'incarico di Antimodes consisteva nel fare un rapporto sulla situazione politica del continente di Ansalon che, come accadeva quasi sempre, era un groviglio alquanto confuso. Il suo rapporto incluse quel nuovo ordine religioso, che venne accantonato sommariamente dopo una breve discussione. «C'è un capo carismatico originario di Haven», riferì Antimodes. «Attualmente ha soltanto una manciata di seguaci e promette il solito assortimento di miracoli, incluso il risanamento. Non ho avuto modo di incontrarlo, ma da quanto ho sentito si deve trattare con ogni probabilità di un illusionista molto abile che possiede anche qualche conoscenza dell'uso delle erbe. Nel campo del risanamento non sta facendo nulla che i Druidi non facciano già da anni, ma per la gente dell'Abanasinia si tratta di una cosa del tutto nuova ed è possibile che un giorno o l'altro noi si sia costretti a smascherarlo per il truffatore che è. Per adesso, però, non sta danneggiando nessuno e sta anzi arrecando del bene, quindi consiglierei di non essere noi a scatenare dei problemi in quanto la cosa potrebbe riflettersi molto male sul nostro ordine perché la gente si schiererebbe tutta dalla sua parte». «Sono d'accordo con te», convenne Par-Salian, stilando una breve annotazione sul suo libro. «Cosa mi dici degli elfi? Sei passato da Qualinesti?». «L'ho soltanto costeggiato, perché gli elfi sono stati molto cortesi ma non mi hanno permesso di spingermi oltre. Per quanto li concerne nulla è cambiato nell'arco degli ultimi cinquecento anni, e a patto che il mondo esterno li lasci in pace non cambierà mai nulla. Quanto agli elfi di Silvanesti, continuano a nascondersi nei loro boschi magici sotto la guida di Lorac. Sono consapevole che non ti sto dicendo nulla che tu già non sappia», aggiunse Antimodes, versandosi un altro bicchiere di vino elfico in quanto l'argomento gli aveva ricordato che esso aveva un sapore eccellente. «Di certo avrai avuto l'occasione di parlare con qualcuno dei loro maghi». «Sono venuti alla Torre ma soltanto per affari», replicò Par-Salian, scuotendo il capo. «Si sono mostrati assai taciturni, parlando con noi umani soltanto quando era assolutamente necessario, e non hanno voluto condividere con noi la loro magia anche se sono stati più che lieti di usare la no-
stra». «Hanno qualcosa che ci possa interessare?» domandò Antimodes, con un sorriso vagamente divertito. «Non per quanto concerne le pergamene», rispose Par-Salian «È sconvolgente vedere quanto siano diventati immobilisti i maghi di Silvanesti, anche se ciò non è del tutto sorprendente alla luce della loro terribile sfiducia e del loro timore di qualsiasi tipo di cambiamento. La sola mente creativa che ci sia in mezzo a loro appartiene ad un giovane mago di nome Dalamar, e sono certo che non appena scopriranno di cosa lui si stia interessando gli altri lo esilieranno senza pensarci due volte. Quanto ai capi delle loro Vesti Bianche, si sono mostrati molto interessati a ottenere parte del nuovo lavoro che stiamo svolgendo qui, in particolare per quanto concerne gli incantesimi evocativi di natura difensiva. «Inoltre ci volevano pagare in oro, che di questi tempi è privo di valore, ed io ho dovuto essere estremamente rigido nell'insistere che pagassero in acciaio... che naturalmente non avevano... o che ricorressero al baratto. Il risultato è stato che loro hanno cercato di rifilarmi alcuni vecchi incantesimi magici che erano già considerati antiquati all'epoca di mio padre, e alla fine ci siamo accordati su alcuni componenti per incantesimi, dal momento che a Silvanesti coltivano piante adorabili e insolite e che i loro gioielli sono splendidi. Gli elfi hanno concluso il baratto e se ne sono andati, e da allora non li ho più visti, cosa che m'induce a chiedermi se a Silvanesti stiano fronteggiando qualche minaccia o se abbiano appreso con la divinazione che una minaccia sta per sopraggiungere. Il loro re, Lorac, è un mago potente e un notevole veggente». «Se pure hanno previsto qualcosa noi non lo sapremo mai perché gli elfi preferirebbero veder annientato il loro popolo piuttosto che rivolgersi a noi per avere aiuto», sbuffò Antimodes, che non nutriva un particolare affetto per gli elfi di Silvanesti, i cui maghi dalla Veste Bianca appartenevano al Conclave dei Maghi ma non mancavano mai di far notare che partecipare alle sue riunioni era da parte loro un atto di estrema condiscendenza. Gli elfi non amavano gli umani, e manifestavano questa loro avversione in ogni modo, per esempio fingendo di non saper parlare la lingua comune che era propria a tutti i popoli di Krynn, oppure allontanando con disprezzo qualsiasi umano che osasse dissacrare la lingua elfica provando a parlarla. Dotati di una vita dalla durata incredibilmente lunga, essi vedevano ogni cambiamento come una cosa da temere e ai loro occhi gli esseri umani, con la loro vita più breve e frenetica, e con il loro costante bisogno di
"migliorare", costituivano tutto ciò che essi aborrivano. Per contro, gli elfi di Silvanesti non avevano più avuto un'idea creativa da almeno duemila anni. «Gli elfi di Qualinesti, d'altro canto, tengono attentamente d'occhio i loro confini ma permettono ai popoli di altre razze di oltrepassarli, a patto che il Portavoce del Sole dia il suo permesso», proseguì Antimodes. «I fabbri umani e quelli dei nani sono tenuti in alta considerazione e vengono incoraggiati a visitare Qualinesti... anche se non ad insediarvisi... e gli artigiani elfici visitano di frequente altre terre, incontrando purtroppo spesso odio e pregiudizi», aggiunse con rammarico, in quanto conosceva e apprezzava molti elfi di Qualinesti e gli dispiaceva vedere come venivano trattati. «Parecchi dei loro giovani e in particolare il figlio maggiore del Portavoce.... com'è che si chiama?». «Il Portavoce? Solostaran». «No, suo figlio maggiore». «Ah, senza dubbio ti riferisci a Porthios». «Sì, Porthios. Lui ha detto che a suo parere hanno ragione gli elfi di Silvanesti e che nessun umano dovrebbe poter entrare nelle terre di Qualinesti». «Non lo si può biasimare, considerate le cose terribili che sono successe quando gli umani hanno invaso Qualinesti, dopo il Cataclisma, però non credo che ci si debba preoccupare. Gli elfi continueranno a litigare fra loro al riguardo per tutto il prossimo secolo, a meno che qualcosa li spinga nell'una o nell'altra direzione». «Infatti», annuì Antimodes, che aveva notato un sottile cambiamento nella voce di Par-Salian. «Tu pensi che qualcosa possa esercitare questa pressione?». «Ho sentito dei borbottii, come di tuoni lontani», replicò Par-Salian. «Io non ho sentito questi tuoni», rispose Antimodes. «Le poche Vesti Nere che ho incontrato si sono però comportate in maniera un po' troppo tranquilla, come se il guano di pipistrello in mano loro non prendesse fuoco». «E alcune delle più potenti sono scomparse dalla circolazione», aggiunse Par-Salian. «Di chi si tratta?». «Di Dracart, tanto per cominciare. Era solito passare di qui in maniera regolare per vedere quali nuovi manufatti fossero arrivati e se c'erano possibili apprendisti, ma i soli maghi delle Vesti Nere che si sono fatti vedere
di recente sono stati quelli di basso rango, che di certo non potevano sapere nulla dei segreti dei loro superiori, e perfino loro apparivano un po' nervosi». «Devo allora dedurre che non hai visto neppure la bella Ladonna», osservò Antimodes, con un astuto sorriso. Par-Salian abbozzò a sua volta un sorriso e scrollò le spalle, perché quel fuoco si era spento ormai da anni e lui era troppo vecchio e troppo assorto nel suo lavoro per essere irritato o compiaciuto della provocazione del suo amico. «No, è da un anno che non parlo con Ladonna, e soprattutto ho l'impressione che lei mi stia tenendo deliberatamente nascosto quello che sta facendo, qualsiasi cosa sia. Infatti ha rifiutato di partecipare alla riunione dei capi degli ordini, cosa che non aveva mai fatto in passato, ed ha mandato a rappresentarla un uomo il quale ha detto in tutto soltanto tre parole, che sono state "passatemi il sale"», replicò scuotendo il capo. «La Regina Takhisis è rimasta tranquilla per troppo tempo, segno che qualcosa sta bollendo in pentola». «Tutto quello che possiamo fare è stare in guardia e aspettare, amico mio, ed essere preparati ad agire quando si rendesse necessario», affermò Antimodes, sorseggiando il vino elfico. «In mezzo a tutto questo ho almeno una buona notizia, e cioè che i Cavalieri di Solamnia stanno finalmente cominciando a riprendersi. Molti di essi hanno reclamato le tenute di famiglia che erano state loro tolte e hanno cominciato a ricostruire la loro dimora. Il loro nuovo capo, Lord Gunthar, è un acuto politico che sa pensare con la sua testa e non con il suo elmo, e si è accattivato la popolazione locale distruggendo alcune roccaforti di orchetti, annientando alcuni banditi e sponsorizzando giostre e tornei in svariate parti di Solamnia... non c'è nulla che alla folla piaccia di più vedere degli uomini adulti che si prendono a vicenda a colpi di spada». «Io non le considero buone notizie, Antimodes», ribatté Par-Salian, con aria grave e perfino allarmata. «I Cavalieri non hanno nessuna simpatia per noi e spero che si limitino a dare la caccia agli orchetti, anche se temo sia soltanto questione di tempo prima che decidano di aggiungere i maghi alla loro lista di nemici, come facevano in passato. Qualcosa del genere è perfino scritto nella Misura». «Dovresti incontrarti con Lord Gunthar», suggerì Antimodes, sorridendo divertito nel vedere Par-Salian inarcare di scatto le sopracciglia, poi aggiunse: «Parlo sul serio. Non ti sto suggerendo di invitarlo qui, ma...».
«Non credo proprio che sarebbe il caso», convenne Par-Salian, in tono rigido. «Ma dovresti andare tu stesso a trovarlo e garantirgli che abbiamo a cuore soltanto il bene di Solamnia». «Come posso garantirgli una cosa del genere, considerato che lui potrebbe farmi notare a ragione che molti dei nostri ordini non hanno a cuore il bene di Solamnia? I Cavalieri diffidano della magia, diffidano di noi, di tutti noi, e devo ammettere che io stesso non sono particolarmente propenso a fidarmi di loro. Mi sembra quindi più saggio e più prudente tenerci alla larga da loro e non fare nulla che possa attirare la loro attenzione». «Magius era amico di Huma», lo provocò Antimodes. «E se ben ricordo quella leggenda, Huma non era particolarmente rispettato dagli altri Cavalieri proprio per questo motivo», ribatté in tono asciutto Par-Salian. «Che notizie ci sono da Thorbardin?» chiese quindi, cambiando bruscamente argomento per indicare che la questione era chiusa. Pur essendo abbastanza diplomatico da evitare di insistere, Antimodes decise peraltro fra sé di recarsi a Solamnia, magari sulla via del ritorno anche se questo avrebbe significato deviare di parecchio dalla strada che doveva seguire per tornare al nord. D'altro canto era curioso quanto un kender per quanto concerneva i Cavalieri di Solamnia, che per molto tempo erano stati disprezzati e perfino avversati da persone che in passato avevano guardato ai cavalieri di quell'ordine come ai difensori della legge e ai loro protettori. Adesso, però, pareva che i Cavalieri stessero recuperando in parte la posizione perduta, e Antimodes era curioso di verificare la cosa con i propri occhi e di vedere se in qualche modo poteva trarne profitto. Naturalmente, non intendeva accennare alla propria decisione con ParSalian, ma del resto le Vesti Nere non erano i soli membri del Conclave ad avere dei segreti. «I nani di Thorbardin sono ancora a Thorbardin, suppongo, soprattutto perché nessuno li ha visti andare via. Sono del tutto autosufficienti, senza nessun bisogno di avere contatti con il resto del mondo, e comunque non vedo perché dovrebbero averne. I nani delle colline stanno intanto espandendo il loro territorio e molti di essi cominciano a viaggiare in altre terre. Alcuni si sono addirittura insediati lontano dalle loro dimore montane», aggiunse, ricordando il nano che aveva incontrato a Solace. «Quanto agli gnomi, sono come i nani di Thorbardin con una sola eccezione... supponiamo che abitino sempre all'interno del Monte Non Importa perché nessuno lo ha ancora visto esplodere. I kender sembrano più prolifici che mai,
vanno dappertutto, vedono tutto, rubano la maggior parte di ciò che vedono, perdono il resto e non servono assolutamente a nulla». «Oh, invece credo che siano utili», replicò in tono serio Par-Salian; del resto, era risaputo che lui aveva simpatia per i kender, soprattutto (come commentava sempre acidamente Antimodes) perché rimaneva isolato nella sua torre e non aveva mai a che fare con loro. «I kender sono i veri innocenti di questo mondo, ci ricordano che consumiamo una quantità di tempo e di energia preoccupandoci di cose che in realtà non sono importanti». «In tal caso», brontolò Antimodes, «quando possiamo aspettarci di vederti abbandonare i tuoi libri per afferrare un bastone da kender e metterti a girovagare sulle strade?». «Non credo di aver mai preso in considerazione una simile eventualità, amico mio», sorrise Par-Salian, «anche se ritengo che sarei alquanto abile nell'uso di un bastone da kender se si considera che da bambino lo ero nell'uso della fionda. Ah, bene, si sta facendo tardi», aggiunse quindi, a segnalare che il colloquio era finito. «Ci rivedremo domattina?» domandò subito dopo, con una lieve ansietà che Antimodes non faticò a comprendere. «Non mi sognerei mai di interferire con il tuo lavoro, amico mio», rispose questi. «Darò un'occhiata ai manufatti, alle pergamene e ai componenti per incantesimi, soprattutto se avete qui dei prodotti elfici perché ci sono un paio di cose che mi interessano, poi mi rimetterò in cammino». «Sei tu quello che sarebbe stato un buon kender», dichiarò Par-Salian, alzandosi. «Non ti fermi mai in un posto abbastanza a lungo da lasciare che la polvere si posi sulle tue scarpe. Dove andrai, da qui?». «Oh, di qua e di là», rispose in tono vago Antimodes. «Non ho nessuna fretta di tornare a casa perché mio fratello è del tutto capace di gestire gli affari anche senza di me e ho preso tutti gli accordi necessari per far investire la mia parte di introiti, con il risultato che continuo a guadagnare anche quando sono lontano... un modo di vivere molto più facile e proficuo dell'intonare incantesimi su un pezzo di minerale di ferro. Buona notte, amico mio». «Buona notte e buon viaggio», rispose Par-Salian, stringendo con vigore la mano all'amico, poi fece una pausa e continuò a trattenere nella propria la mano di Antimodes, che lo fissò con stupore mentre lui aggiungeva: «Sta' attento, Antimodes, perché non mi piacciono i segni e i portenti che sto vedendo. Per ora il sole splende su di noi, ma le punte di ali oscure già proiettano lunghe ombre. Continua a mandarmi i tuoi rapporti, perché li ri-
tengo di inestimabile valore». «Starò attento», promise Antimodes, leggermente turbato dalle parole dell'amico. L'arcimago era perfettamente consapevole che Par-Salian non gli aveva detto tutto quello che sapeva, che doveva essere molto di più perché il capo del Conclave era molto abile a leggere nel futuro ed era per di più un noto favorito di Solinari, il dio della magia bianca. Ali oscure... che cosa poteva significare? Era forse un riferimento alla Regina delle Tenebre, la cara, vecchia Takhisis scomparsa ma non dimenticata? Coloro che studiavano il passato, che sapevano di quali malvagità lei fosse capace, non osavano infatti rischiare di dimenticarla. Ali oscure... avvoltoi, magari? Aquile? Simboli di guerra? Grifoni o pegasi? Del resto, quelle erano bestie magiche che non si vedevano di frequente, di questi tempi. Draghi? Levando un'invocazione mentale a Paladine, Antimodes decise che quello era un motivo aggiuntivo per cercare di scoprire che cosa stesse succedendo a Solamnia. Scambiata con l'amico un'ultima stretta di mano, si stava avviando verso la porta quando Par-Salian lo fermò ancora. «Quel tuo giovane pupillo... quello di cui mi hai parlato... come si chiama?» domandò. Antimodes impiegò un momento a cambiare l'orientamento dei suoi pensieri, e un altro per cercare di ricordare il nome. «Raistlin, Raistlin Majere». Par-Salian annotò quel nome sul suo libro. CAPITOLO QUINTO A Solace era primissima mattina e il sole non era ancora sorto quando i bambini si svegliarono nella loro piccola casa annidata nell'ombra di un vallenwood; con le imposte che chiudevano male, le tende lise e le piante inselvatichite o morenti, la casa aveva un aspetto desolato e trascurato quasi quanto quello dei bambini che vi abitavano. Quella notte il padre dei due ragazzi, Gilon Majere... un uomo grosso dal volto ampio e allegro la cui espressione naturalmente placida era alterata soltanto da una perpetua linea di preoccupazione fra le sopracciglia... non era tornato a casa perché era dovuto andare lontano da Solace per svolgere un lavoro per conto di un nobile che aveva una tenuta sul lago Crystalmir;
la madre dei due era invece a casa ed era già sveglia, ma del resto non aveva più dormito dalla mezzanotte. Rosamun Majere sedeva sulla sua sedia a dondolo con una matassa fra le mani sottili, intenta ad avvolgere la lana in uno stretto gomitolo per poi disfare il tutto e ricominciare daccapo; mentre lavorava, la donna canticchiava fra sé con un timbro di voce strano e acuto, oppure si soffermava a conversare con persone che non erano visibili per nessuno tranne che per lei. Se fosse stato a casa suo marito, che era un uomo gentile e premuroso, si sarebbe sforzato di persuaderla di smetterla di "lavorare a maglia" per andare a dormire, cosa che peraltro sarebbe servita a ben poco perché anche a letto lei avrebbe continuato a cantare fra sé per poi alzarsi di nuovo nel giro di un'ora. Rosamun aveva anche dei giorni buoni, dei periodi di lucidità in cui era consapevole di gran parte di quello che le accadeva intorno anche se non manifestava mai un particolare interesse a prendervi parte. Figlia di un abbiente mercante, era stata abituata ad avere dei servi che provvedevano ad ogni sua necessità, e adesso che la famiglia non poteva permettersi servitori di sorta lei non sapeva da che parte cominciare a gestire una casa da sola. Se aveva fame capitava che si cucinasse qualcosa e che rimanesse abbastanza cibo per il resto della famiglia, a patto che lei non si dimenticasse del tutto dì quello che stava preparando e lo lasciasse a bruciare nella pentola. Quando immaginava di essere impegnata a rammendare si sedeva sulla sua sedia a dondolo con in grembo un cesto pieno di abiti strappati e rimaneva a guardare fuori della finestra, oppure a volte si gettava sulle spalle il suo logoro mantello e andava a "fare visite", il che significava che si metteva a girovagare lungo i ponti ombrosi fino a quando si decideva a fermarsi a parlare con qualcuno dei vicini, che in genere stavano ben attenti a individuarla per tempo in modo da allontanarsi prima di poter essere intercettati. Inoltre, era anche capitato che lei si dimenticasse di dove si trovava e rimanesse a casa di qualcuno per ore, fino a quando i suoi figli la trovavano e la riportavano a casa. A volte, si metteva a raccontare storie inerenti al suo primo marito, Gregor uth Matar, un furfante e un rubacuori di cui lei era stupidamente orgogliosa e che amava ancora, anche se l'aveva abbandonata ormai da anni. «Gregor era un Cavaliere di Solamnia», diceva, rivolgendosi ad ascoltatori invisibili, «e mi amava moltissimo. Era l'uomo più avvenente di tutta Palanthas e le ragazze impazzivano per lui. Gregor però ha scelto me, mi
ha regalato delle rose e ha cantato canzoni sotto la mia finestra, mi ha portata a cavalcare sul suo cavallo nero. Adesso è morto, so che è morto perché altrimenti sarebbe tornato da me. È morto da eroe, sapete». L'unica cosa certa era che Gregor uth Matar era stato dichiarato morto, perché nessuno aveva più sue notizie né lo aveva più visto da anni ed era convinzione comune che se pure non era morto avrebbe dovuto esserlo. In generale, la sua perdita non era particolarmente sentita, perché anche se era stato un Cavaliere di Solamnia era stato bandito dall'ordine ormai da anni ed era risaputo che lui, sua moglie e la loro bambina avevano dovuto lasciare in fretta Palanthas nel cuore della notte. Le voci li avevano seguiti da Solamnia a Solace, sussurrando che Gregor avesse commesso un omicidio e si fosse sottratto al boia soltanto grazie al suo denaro e ad un cavallo veloce. Gregor uth Matar era un uomo dotato di una sorta di cupa bellezza, fascino e arguzia ne facevano una compagnia gradita in qualsiasi taverna, come pure il suo coraggio... sul quale neppure i suoi nemici trovavano a ridire... e la sua disponibilità a bere, giocare e combattere. Nelle affermazioni di Rosamun sul suo conto c'era soltanto una cosa vera, e cioè che le donne lo adoravano. Dotata di una fragile bellezza, con i capelli ramati, gli occhi del colore di una foresta estiva e la pelle bianca e setosa, Rosamun era riuscita a conquistarlo perché Gregor si era innamorato di lei con tutta l'esuberanza della sua natura passionale ed era rimasto innamorato più a lungo di quanto sarebbe stato logico aspettarsi. Lui era però un uomo che non riusciva più a riattizzare la fiamma dell'amore una volta che essa si era spenta. A Solace la famiglia aveva vissuto bene, grazie ai viaggi periodici che Gregor faceva a Solamnia, soprattutto quando il denaro cominciava a scarseggiare, in quanto pareva che la sua altolocata famiglia fosse disposta a pagarlo bene pur di tenerlo lontano dalla propria vita. Poi era giunto un anno in cui lui era tornato a mani vuote, accompagnato da voci secondo cui la sua famiglia si era infine decisa ad allontanarlo definitivamente. I creditori avevano cominciato ad esercitare su di lui serie pressioni e alla fine Gregor si era recato al nord, a Sanction, per vendere la propria spada a chiunque fosse disposto ad assumerlo. Da quel momento aveva continuato a condurre quel genere di vita, tornando a casa negli intervalli fra un lavoro e il successivo senza però fermarsi mai a lungo, e Rosamun aveva cominciato a provare una gelosia sfrenata, accusandolo di lasciarla sola per cercare altre donne e scatenando liti che erano state sentite in quasi tutta
Solace. Infine, un giorno Gregor era partito per non tornare più, e le voci erano state concordi nel ritenere che fosse morto... per un colpo di spada o più probabilmente per una coltellata nella schiena. Una persona soltanto rifiutava di credere che lui fosse morto: Kitiara viveva in attesa del momento in cui avrebbe potuto lasciare Solace per andare in cerca di suo padre. Come sempre, anche quel giorno non parlò quasi d'altro mentre con i suoi modi impazienti provvedeva a preparare il fratello minore per il viaggio fino alla scuola; i pochi vestiti del ragazzo... un paio di camicie, alcuni calzoni e un mucchietto di calzini rammendati troppo spesso... erano già raccolti in un fagotto insieme a uno spesso mantello per l'inverno. «Allora questo è un addio. Molto probabilmente partirò entro la primavera, perché questo è un posto troppo stupido in cui vivere», disse, mentre allineava i due ragazzini per esaminarli, poi afferrò Raistlin per una spalla e indicò i suoi piedi nudi e impolverati, esclamando: «Cosa credi di fare? Non puoi andare a scuola conciato in questo modo! Devi indossare le scarpe». «D'estate?» domandò Caramon, stupefatto. «Le mie non mi calzano più bene», protestò Raistlin, che quella primavera era cresciuto un poco ed era adesso alto quanto il gemello, anche se pesava la metà di lui ed aveva la circonferenza della vita che era un quarto della sua. «Avanti, usa queste», replicò Kit, rintracciando un paio di vecchie scarpe di Caramon che risalivano all'inverno precedente e gettandole a Raistlin. «Mi faranno male alle dita», si lamentò il ragazzo, contemplandole con aria cupa. «Mettile lo stesso», ordinò Kit. «Tutti gli altri ragazzi della scuola portano le scarpe, giusto? Soltanto i contadini girano scalzi, o almeno così dice mio padre». Senza replicare, Raistlin infilò i piedi nelle scarpe logore, poi Kit afferrò uno strofinaccio sporco e lo immerse nel secchio dell'acqua, procedendo a stregare con esso la faccia e gli orecchi del ragazzo con tanto vigore che questi si sentì certo che gli stesse asportando almeno metà della pelle. Mentre era in corso quell'operazione, Rosamun lasciò cadere per terra il gomitolo di lana. La sua bellezza era svanita, come svanisce un arcobaleno quando le nubi di tempesta coprono il sole, e adesso i suoi capelli erano
spettinati e opachi, gli occhi pervasi di quella lucentezza eccessiva che denota la pazzia o uno stato febbrile, la pelle pallida era sfumata di grigio. Notando che sua madre stava fissando in modo vago le proprie mani vuote, come se si stesse chiedendo come utilizzarle, Caramon raccolse la lana e gliela porse. «Prendi, mamma», disse. «Grazie, figlio mio», rispose lei, sollevando lo sguardo vacuo a fissarlo in volto. «Gregor è morto, lo sai?». «Sì, mamma», rispose Caramon, senza neppure ascoltare ciò che lei stava dicendo. Rosamun faceva spesso simili affermazioni prive di senso ed essendovi abituati in genere i suoi figli le ignoravano; questa mattina però Kitiara si rivoltò contro sua madre con furia improvvisa e insolita. «Lui non è morto! Cosa ne puoi sapere, tu? Non gli è mai importato di te, quindi non dire più cose del genere, vecchia strega pazza!» inveì. Sorridendo, Rosamun riprese ad avvolgere la lana canticchiando fra sé, mentre i suoi figli assistevano alla scena in silenzio, contrariati perché le parole di Kit li avevano feriti più di quanto avessero fatto a Rosamun, che non stava prestando la minima attenzione a sua figlia. «Lui non è morto! Io lo so e riuscirò a trovarlo!» ribadì intanto Kitiara, con voce ora bassa e intensa. «Come fai a sapere che Gregor è vivo?» chiese infine Caramon, fissando la sorella. «E se lo è, come farai a trovarlo? Ho sentito dire che a Solamnia ci sono una quantità di persone, più di quante ce ne siano qui a Solace». «Lo troverò perché lui mi ha detto come fare», replicò Kit, con sicurezza, poi indugiò a contemplare i fratelli con aria riflessiva e dopo un momento aggiunse: «Sentite, questa è probabilmente l'ultima volta che mi vedete, starò via per parecchio tempo. Venite qui, vi mostrerò qualcosa, se mi promettete di non dirlo a nessuno». Conducendo i ragazzi nella piccola stanza in cui dormiva, tirò quindi fuori da sotto il materasso una rozza sacca di cuoio fatta a mano. «Ecco, qui dentro c'è la mia fortuna», annunciò con orgoglio. «Del denaro?» domandò Caramon, illuminandosi in volto. «No!» replicò però Kitiara, accantonando con disprezzo un'idea del genere. «È qualcosa di meglio del denaro, è la mia eredità». «Lasciami vedere!» implorò Caramon. «Ho promesso a mio padre che non l'avrei mai mostrata a nessuno» rifiutò però Kitiara, «e per ora non intendo farlo. Un giorno però potrai ve-
derla, quando tornerò ricca e potente, cavalcando alla testa dei miei eserciti». «Noi faremo parte del tuo esercito, vero, Kit?» esclamò Caramon. «Raist ed io, intendo». «Sarete entrambi capitani, anche se naturalmente io sarò il comandante supremo», replicò Kitiara, in tono pratico. «Mi piacerebbe essere un capitano» dichiarò Caramon, in tono pieno d'entusiasmo. «Tu che ne dici, Raist?». «A me non importa», replicò questi, scrollando le spalle, e dopo aver scoccato un'ultima, lunga occhiata alla sacca di cuoio aggiunse in tono quieto: «Adesso dobbiamo andare, altrimenti faremo tardi». «Immagino che ve la caverete», commentò Kit, adocchiando i fratelli con le mani piantate sui fianchi. «Tu, Caramon, bada a tornare subito a casa dopo aver lasciato Raistlin a scuola, perché voi due vi dovrete abituare a restare separati». «D'accordo, Kit», borbottò Caramon, incupendosi. Raistlin intanto si avvicinò alla madre e le prese una mano. «Arrivederci, mamma», mormorò, con voce incrinata. «Arrivederci, caro. Non dimenticare di coprirti la testa quando è umido», rispose lei, e quella fu l'unica benedizione che ebbe da elargire al figlio. Raistlin si era sforzato di spiegarle dove stava andando, ma lei non era assolutamente riuscita a capirlo. «A studiare la magia? Per quale motivo? Non essere sciocco», aveva ribattuto, e alla fine Raistlin si era arreso. Quando infine lui e Caramon uscirono di casa, il sole stava cominciando a tingere d'oro la sommità degli alberi. «Sono contento che Kit non sia venuta con noi perché c'è qualcosa che ti devo dire», sussurrò Caramon, guardandosi alle spalle con timore, precauzione peraltro inutile perché dopo aver assolto al proprio dovere mattutino sua sorella era già tornata a letto. I bambini percorsero più in fretta che potevano i ponti fra gli alberi per poi scendere di corsa una lunga scala che portava al suolo della foresta dove una stretta strada che era poco più di un paio di solchi scavati dalle ruote, fra cui correva un tratto di terra battuta, portava nella direzione in cui dovevano andare. Mentre camminavano, entrambi si misero a mangiare un pezzo di pane stantio che avevano staccato da una pagnotta lasciata sul tavolo. «Guarda, c'è qualcosa di azzurro sul mio pane», osservò d'un tratto Ca-
ramon, fra un boccone e l'altro. «È muffa», rispose Raistlin. «Oh», mormorò Caramon, poi procedette a mangiare il pane con tutta la muffa, commentando che «non è cattivo, soltanto un po' amaro». Raistlin invece rimosse con cura la parte della sua porzione coperta di muffa e dopo averla esaminata con attenzione la ripose in una sacca che portava con sé dappertutto e che entro la fine della giornata era sempre piena di svariati esemplari di vita animale e vegetale, al cui studio lui dedicava le sue serate. «La strada fino alla scuola è lunga», commentò intanto Caramon, strisciando i piedi nudi nella polvere della strada. «Nostro padre ha detto che sono quasi sette chilometri, e una volta che sarai là dovrai restare tutto il giorno seduto ad un banco senza muoverti, e non ti permetteranno di uscire o di giocare. Sei certo di volere una cosa del genere, Raist?». Raistlin aveva visto l'interno della scuola soltanto una volta, constatando che essa consisteva di una vasta stanza priva di finestre perché non ci potessero essere distrazioni esterne. Il pavimento era di pietra e i banchi erano sopraelevati in modo che d'inverno il freddo del pavimento non ghiacciasse i piedi degli studenti, che sedevano su alti sgabelli; il maestro occupava invece un'ampia cattedra posta sul davanti della stanza e lungo due pareti erano disposti scaffali che contenevano vasi pieni di erbe e di altre cose che andavano dall'orribile e disgustoso al piacevole o al misterioso: i componenti per gli incantesimi. Un'altra parete era invece occupata da custodie per le pergamene, per lo più bianche e destinate ad essere utilizzate dagli studenti. Alcune di esse, però, recavano scritti degli incantesimi. Pensando a quella stanza buia e tranquilla, alle ore che vi avrebbe trascorso studiando serenamente senza essere distratto dal suo esuberante gemello, Raistlin sorrise. «Sono certo che non mi dispiacerà», disse. Caramon intanto aveva raccolto un bastone e lo stava usando per sferzare l'aria, fingendo che fosse una spada. «So per certo che io non vorrei andare là», dichiarò. «E poi quel maestro ha la faccia di un rospo e sembra cattivo. Credi che ti picchierà?». In effetti l'insegnante, il Maestro Theobald, aveva l'aria cattiva e per di più nel corso del loro primo incontro si era rivelato un uomo altezzoso, pieno di sé e probabilmente meno intelligente della maggioranza dei suoi allievi. Incapace di conquistarne il rispetto, senza dubbio lui doveva essere solito ricorrere a mezzi d'intimidazione fisica, come confermava il lungo
ramo di salice che Raistlin aveva notato posato in bella vista accanto alla cattedra. «Se dovesse farlo, sarà soltanto un altro colpo di martello», replicò, pensando alle parole di Antimodes. «Credi che ti colpirà con un martello?» esclamò Caramon, inorridito, arrestandosi nel centro della strada. «Non dovresti proprio andare in quel posto, Raistlin». «No, non era questo che intendevo, Caramon», replicò Raistlin, cercando di essere paziente di fronte all'ignoranza del suo gemello... dopo tutto la sua affermazione era stata alquanto bizzarra. «Ora cercherò di spiegarti cosa volevo dire. Adesso stai combattendo con un bastone, ma un giorno possederai una spada vera, giusto?». «Ci puoi scommettere. Kit me ne porterà una, e la porterà anche a te se gliela chiederai». «Io ho già una spada, Caramon», replicò Raistlin, «ma non è come la tua, non è fatta di metallo. Questa spada è dentro di me e per il momento non è un'arma di qualità, ha bisogno di essere modellata a colpi di martello, ed è per questo che sto andando a scuola». «Per imparare a fabbricare spade?» chiese Caramon, accigliandosi nello sforzo di capire. «Allora è una scuola per fabbri?». «Non sto parlando di spade reali, Caramon, ma di spade mentali», sospirò Raistlin. «La magia sarà la mia spada». «Se lo dici tu. In ogni caso, se quel maestro dovesse picchiarti, avvertimi e ci penserò io», affermò Caramon, serrando i pugni, poi sospirò e ripeté: «Senza dubbio questa strada è molto lunga». «Sì, è lunga», convenne Raistlin, consapevole che avevano percorso soltanto un quarto della distanza e che lui era già stanco, anche se non voleva ammetterlo. «Comunque, non sei obbligato a venire con me, sai». «È ovvio che devo farlo!» protestò Caramon, mostrandosi stupito. «Cosa succederebbe se venissi attaccato dagli orchetti? Hai bisogno che io ti difenda». «Con una spada di legno», commentò Raistlin, in tono asciutto. «Come hai detto tu stesso, un giorno ne avrò una vera», rispose Caramon, rifiutando di permettere che la logica raffreddasse il suo entusiasmo. «Kitiara me l'ha promessa... ehi, questo mi ricorda che c'è una cosa che ti devo dire. Credo che Kit si stia preparando ad andare da qualche parte perché ieri l'ho vista scendere le scale di quella taverna al limitare della città, L'Abbeveratoio».
«Cosa ci faceva là?» domandò Raistlin, interessato. «E già che ci siamo, cosa ci facevi tu in quel posto? Non è un locale che abbia una buona fama». «Direi proprio di no!» convenne Caramon. «Sturm Brightblade dice che è frequentato da ladri e tagliagole, e questo è il motivo per cui sono andato là: volevo vedere un tagliagole». «E ne hai visto uno?» domandò Raistlin, con un accenno di sorriso. «No, o almeno non credo!» rispose Caramon, in tono disgustato. «Tutti i clienti avevano un aspetto comune e i più sembravano gente come nostro padre, anche se non erano altrettanto grossi». «Il che è esattamente l'aspetto che dovrebbe avere un buon assassino», gli fece notare Raistlin. «Dovrebbe somigliare a nostro padre?». «Certamente, in modo da potersi avvicinare alla sua vittima senza che questa si accorga di lui. Che aspetto credevi che avesse un assassino? Pensavi che fosse vestito tutto di nero con un lungo mantello e una maschera sulla faccia?» domandò Raistlin, in tono sarcastico. «Ecco... sì», ammise Caramon, dopo un momento di riflessione. «Sei davvero un idiota, Caramon», dichiarò Raistlin. «Suppongo di sì», ammise Caramon, avvilito, e per qualche momento si contemplò i piedi con aria contrita, sollevando nuvolette di polvere dalla strada. Non era però nella sua natura rimanere a lungo depresso, e dopo un momento riprese in tono allegro: «Se davvero i tagliagole hanno un'aria tanto comune, allora forse ne ho davvero visto qualcuno!». «Ciò che hai visto è stata nostra sorella» sbuffò Raistlin. «Cosa ci faceva là? A nostro padre non piacerebbe di certo sapere che lei frequenta posti del genere». «È quello che le ho detto io», annuì Caramon, con aria virtuosa, «ma lei mi ha dato uno schiaffo e ha detto che nostro padre non poteva arrabbiarsi per le cose che non sapeva e che io avrei dovuto tenere la bocca chiusa. Quando sono arrivato stava parlando con due uomini, che però se ne sono andati non appena mi hanno visto, e lei aveva in mano qualcosa che sembrava una mappa. Io ho provato a chiederle cosa fosse, ma mi ha pizzicato il braccio fino a farmi male», proseguì, sfoggiando un livido rosso e nero, «poi mi ha portato al cimitero e mi ha fatto giurare su una tomba che non avrei mai detto nulla a nessuno se non volevo che una notte o l'altra un non-morto venisse a prendermi». «Lo hai detto a me», sottolineò Raistlin. «Hai infranto la promessa».
«Lei non si riferiva a te!», ribatté Caramon. «Tu sei il mio gemello e parlarne con te è come parlarne con me stesso, senza contare che Kit sapeva che te lo avrei detto. In ogni caso, ho giurato a nome di tutti e due, quindi se un non-morto dovesse venire a prendere me prenderà anche te. Sai, a me non dispiacerebbe vedere un non-morto, Raist, e a te?». Raistlin levò gli occhi al cielo ma non replicò per risparmiare fiato, consapevole di essere già esausto anche se non era ancora neppure arrivato alla scuola; nel suo intimo, detestava il proprio corpo fragile che sembrava deciso a frustrare ogni suo piano, a rovinare ogni speranza, a devastare ogni desiderio, e come sempre si trovò a scoccare un'occhiata piena di gelosia al suo robusto e sano gemello. La gente narrava che un tempo c'erano stati degli dèi che avevano governato la razza umana, ma che essi se n'erano andati perché si erano infuriati con gli uomini. Prima di svanire, gli dèi avevano scagliato una montagna di fuoco su Krynn, devastando il mondo, e poi avevano abbandonato l'uomo al suo destino. Raistlin non faticava a credere che quella storia potesse essere vera, perché di certo nessun dio dotato di onore avrebbe mai potuto giocargli uno scherzo tanto crudele, dividendo una sola persona in due e dando ad un gemello una mente senza corpo e all'altro un corpo senza mente. Al tempo stesso, sarebbe però stato confortante pensare che ci fosse una motivazione intelligente, uno scopo, dietro una simile decisione, sarebbe stato piacevole sapere che lui e il suo gemello non erano soltanto uno scherzo della natura, che c'erano degli dèi a cui era possibile addossare il biasimo. Kitiara gli aveva spesso raccontato di come lui per poco non fosse morto e di come lei gli avesse salvato la vita quando la levatrice le aveva detto che il neonato aveva ben poco da vivere, lasciando il piccolo solo ad esalare l'ultimo pietoso respiro. Nel raccontare la cosa, Kit si mostrava sempre un po' seccata che Raistlin non le fosse adeguatamente grato, ma essendo dotata a sua volta di un fisico forte non poteva sapere che a volte Raistlin imprecava contro di lei nel cuore della notte, quando il suo corpo ardeva per la febbre, i muscoli gli dolevano in maniera intollerabile e la bocca era riarsa da una sete inestinguibile. Kitiara era però anche l'artefice del suo ingresso nella scuola di magia, cosa che compensava il suo precedente errore. Adesso tutto ciò che Raistlin si augurava era di riuscire ad arrivare fino alla scuola senza avere prima un collasso.
La sua salvezza risultò essere il carro di un contadino, che li raggiunse di lì a poco. Fermatosi, l'uomo chiese ai due ragazzi dove fossero diretti e pur accigliandosi nel sentire quale fosse la destinazione di Raistlin acconsentì a dare loro un passaggio. «Hai intenzione di fare questa strada tutti i giorni?» chiese quindi nel guardare Raistlin, che stava tossendo a causa della polvere mista alla pula che si levava dai campi di grano. «No, signore», rispose Caramon per conto del fratello, che in quel momento non poteva parlare. «Lui sta andando alla scuola di magia per imparare a fabbricare spade e rimarrà là da solo, perché non mi permetteranno di restare con lui». «Sentite, ragazzi», propose il contadino, un uomo gentile che aveva a sua volta dei figli piccoli, «io faccio questa strada tutti i giorni, e se di mattina verrete ad aspettarmi al crocevia potrò darvi un passaggio per poi venire a riprendervi al pomeriggio, sulla via del ritorno. In questo modo», aggiunse, rivolto a Raistlin, «potresti almeno tornare a casa la sera, dalla tua famiglia». «Sarebbe splendido!» esclamò Caramon. «Noi non ti possiamo pagare», disse contemporaneamente Raistlin, rosso in volto per la vergogna. «Sciocchezze! Non mi aspetto di essere pagato» ribatté il contadino, con aria decisa, poi scoccò un'occhiata in tralice ai due ragazzi, soffermandosi con lo sguardo sul robusto Caramon, e aggiunse: «Quello che invece mi potrebbe servire è un po' di aiuto nei campi, perché i miei figli sono ancora troppo piccoli per potermi dare una mano». «Io potrei lavorare per te», si offrì prontamente Caramon. «Potrei aiutarti mentre Raistlin è a scuola». «Allora siamo d'accordo». Caramon e il contadino sputarono ciascuno sul proprio palmo e si strinsero la mano per sigillare l'accordo. «Perché hai acconsentito a lavorare per lui?» domandò Raistlin, una volta che lui e il fratello si furono sistemati sul retro del carro vuoto, con i piedi che penzolavano appena al di sopra della strada. «In modo che tu potessi andare e tornare da scuola con il carro», rispose Caramon. «Perché? C'è qualcosa che non va in questo?». Raistlin si morse la lingua, perché anche se sapeva che avrebbe dovuto ringraziare il fratello le parole necessarie gli si erano bloccate in gola come un medicinale dal sapore sgradevole.
«È solo che... ecco, non mi piace che tu lavori a causa mia...». «Suvvia, Raist, noi siamo gemelli» ribatté Caramon, con un allegro sorriso, assestando al fratello una gomitata nelle costole mentre aggiungeva: «Tu faresti lo stesso per me». Ripensando a quelle parole, mentre il carretto lo portava verso la Scuola per Maghi del Maestro Theobald, Raistlin non si sentì per nulla certo che avrebbe davvero fatto altrettanto per suo fratello. Quel pomeriggio il carretto del contadino passò puntuale a prelevarli e al suo ritorno a casa Raistlin scoprì che sua madre non si era neppure accorta della sua assenza e che suo padre non aveva ancora fatto ritorno. Kitiara dal canto suo si mostrò sorpresa di vederlo e volle sapere perché fosse tornato, irritata come sempre quando i suoi piani venivano frustrati: nella sua mente lei si era convinta che Raistlin dovesse alloggiare presso la scuola e adesso non era contenta di scoprire che lui aveva invece deciso di fare diversamente. Kitiara pretese di sentire due volte la storia del loro incontro con il contadino, e anche allora continuò a dichiararsi certa che fosse un poco di buono e a mostrarsi furente all'idea che Caramon lavorasse per lui, commentando con disgusto che in questo modo suo fratello sarebbe diventato a sua volta un contadino, con gli stivali sporchi di letame invece che di sangue. Caramon ribatté che non sarebbe successo nulla del genere e i due discussero per qualche tempo mentre Raistlin andava a letto a causa di un'emicrania incombente. Quando si svegliò scoprì che la lite era cessata perché Kitiara pareva avere altri pensieri per la mente, come indicava il fatto che appariva più assorta e irascibile del solito, cosa che indusse i due ragazzi a tenersi alla larga dalle sue mani. Nonostante tutto lei provvide però a nutrirli, friggendo un po' di pancetta dall'aspetto poco appetitoso che servì insieme a quanto restava del pane ammuffito. A tarda notte, mentre Kitiara dormiva, le piccole e agili mani di Raistlin sfilarono dalla sua cintura la sacca che vi era appesa e le sue dita dal tocco leggero quanto quello delle zampe di una farfalla ne estrassero il contenuto: un lacero foglio di carta e uno spesso pezzo di cuoio ripiegato, che lui portò in cucina per esaminarli alla tenue luce del fuoco che covava sotto le ceneri. Sul pezzo di carta era disegnato uno stemma di famiglia che raffigurava una volpe che si ergeva vittoriosa sul corpo di un leone morto, effigie accompagnata dal motto "Nessuno è troppo possente", sotto il quale era scrit-
to il nome "Matar", mentre sul cuoio era tracciata una rozza mappa della strada che correva fra Solace e Solamnia. Rapide, le mani di Raistlin ripiegarono la carta e il cuoio, riposero il tutto nella sacca e riattaccarono quest'ultima alla cintura di Kit. Raistlin badò comunque a non parlare con nessuno di ciò che aveva scoperto, perché aveva già imparato che il sapere equivaleva a potere, soprattutto se si trattava della conoscenza dei segreti degli altri. Il mattino successivo al risveglio scoprì che Kitiara se n'era andata. CAPITOLO SESTO Nella scuola per maghi faceva molto caldo perché un fuoco ruggente che ardeva nel focolare riscaldava l'aula priva di finestre fino a portarla ad una temperatura quasi intollerabile, e la voce del Maestro Theobald echeggiava monotona e uniforme attraverso le correnti di calore che era possibile veder irradiare dal focolare. L'incantesimo del fuoco era l'unico che il maestro riuscisse a utilizzare con effettiva abilità, e lui era sempre pronto ad esibire il proprio talento ogni volta che gli era possibile. Raistlin trovava quel calore meno fastidioso di quanto esso risultasse per gli altri ragazzi, e lo avrebbe addirittura apprezzato se non fosse stato per il fatto che presto sarebbe dovuto uscire al freddo e in mezzo alla neve: passare da un estremo all'altro e avventurarsi all'esterno con indosso le vesti umide di sudore era una cosa che metteva a dura prova il suo fisico fragile, come dimostrava il fatto che stava cominciando soltanto adesso a riprendersi da un mal di gola accompagnato da febbre alta che lo aveva privato della voce per parecchi giorni e lo aveva costretto a restare a casa, a letto. Perdere giorni di scuola era una cosa che detestava, perché in cuor suo sapeva di essere più intelligente del Maestro Theobald ed era anche certo di essere un mago migliore di lui; d'altro canto c'erano cose che il maestro poteva insegnargli e che lui aveva bisogno d'imparare, perché il fuoco della magia che gli ardeva dentro come una febbre era doloroso e ciò che il Maestro Theobald sapeva e che lui ancora ignorava era come controllare questo fuoco, come indurre la magia ad asservirsi a chi la usava, come trasporre la febbre in parole che potessero essere scritte e pronunciate, come usarla in modo creativo. D'altro canto, il Maestro Theobald era un insegnante così inetto che spesso Raistlin aveva l'impressione di essere in agguato, in attesa di calare sulla prima informazione utile che per puro caso fosse giunta nella sua di-
rezione. Seduti sui loro alti sgabelli, gli allievi si stavano sforzando disperatamente di restare svegli, cosa tutt'altro che facile dopo l'abbondante pasto di mezzogiorno; d'altro canto, tutti sapevano che chi si fosse assopito sarebbe stato ridestato dal calare del sottile ramo di salice sulle sue spalle. Pur essendo un uomo grosso e flaccido, il Maestro Theobald sapeva muoversi in fretta e in silenzio quando desiderava farlo, e niente gli piaceva più del sorprendere un allievo a sonnecchiare. Raistlin aveva parlato con disinvoltura a suo fratello dell'essere stato frustato il primo giorno di scuola, ma da allora aveva continuato a sentire lo schiocco del ramo di salice sulle spalle sottili, un dolore che gli aveva ferito più l'anima della carne. In precedenza lui non era mai stato percosso, tranne qualche schiaffo occasionale da parte di sua sorella che peraltro era stato vibrato con spirito fraterno, per cui anche se a volte Kitiara colpiva involontariamente più forte del dovuto, entrambi i fratelli sapevano che ciò che contava era l'intenzione che l'aveva mossa. Il Maestro Theobald vibrava invece il ramo di salice con un bagliore nello sguardo e un sorriso sul volto tali da non far dubitare che infliggere punizioni fosse per lui una cosa piacevole. «Nel linguaggio della magia», stava dicendo il Maestro Theobald, con la sua voce monotona, «la lettera a non si pronuncia "aa" come nel vernacolo comune e neppure "ah" come nella lingua elfica o "ach" come nella lingua dei nani». "Coraggio, vieni al dunque", pensò con aria avvilita Raistlin. "Smettila di fare sfoggio del tuo sapere, grosso e vecchio idiota, considerato che probabilmente non hai mai parlato con un elfo in tutta la tua vita". «Nel linguaggio della magia, la lettera a si pronuncia "ai"». Raistlin si fece d'un tratto attento, consapevole che quella era una delle informazioni di cui aveva bisogno, e ascoltò con la massima concentrazione mentre il Maestro Theobald ripeteva la pronuncia. «"Ai". Adesso, giovani signori, ripetetelo insieme a me». Un assonnato coro di ai echeggiò nella stanza soffocante, unito ad un singolo, deciso ai scandito con fermezza da Raistlin. Di solito, la sua voce era la più sommessa di tutte perché non gli piaceva attirare su di sé l'attenzione, che era in genere dolorosa, ma la sua eccitazione alla prospettiva di imparare qualcosa di utile e il fatto di essere uno dei pochi del tutto svegli e intenti ad ascoltare lo avevano portato a parlare con voce più alta di quanto fosse stata sua intenzione.
Immediatamente ebbe a che pentirsene perché il Maestro Theobald lo contemplò con occhi pieni di approvazione... o almeno con quel poco che poteva vedersi degli occhi in mezzo alle sacche di grasso che li circondavano... e batté con delicatezza il ramo di salice sulla cattedra. «Molto bene, Mastro Raistlin», commentò. I vicini di banco di Raistlin gli scoccarono subito di nascosto occhiate in tralice da cui lui comprese che gli avrebbero fatto pagare il complimento ricevuto, poi il ragazzo alla sua destra, Gordo, che aveva quasi tredici anni e che era stato mandato presso la scuola perché i suoi genitori non sopportavano più di averlo in casa, si protese verso di lui. «Ho sentito dire che gli baci il posteriore ogni mattina, "Mastro Raistlin"», sussurrò, facendo schioccare le labbra in un verso volgare a cui quanti sedevano nelle sue vicinanze reagirono ridendo sommessamente. Sentendo quel ridacchiare represso, il Maestro Theobald si girò verso il gruppetto e si alzò in piedi, inducendo i ragazzi a tacere immediatamente nel vederlo dirigersi verso di loro con il ramo di salice in pugno; lungo il tragitto, però, il maestro venne distratto dalla vista di un allievo molto giovane che stava dormendo profondamente, con la testa appoggiata alle braccia e gli occhi chiusi. Sorridendo, Theobald calò il ramo di salice su quelle piccole spalle e l'allievo si raddrizzò di scatto con un grido di sorpresa e di dolore. «Come ti permetti di dormire durante le mie lezioni?» tuonò il maestro all'indirizzo del giovane colpevole, che si ritrasse di fronte alla sua ira e si asciugò senza parere una lacrima. Nel frattempo, Raistlin registrò una certa attività alle proprie spalle, una sorta di suono strisciante, ma non si prese la briga di girarsi a guardare di cosa si trattava perché il comportamento degli altri allievi gli sembrava stupido e meschino, e non riusciva a capire perché essi sprecassero il loro prezioso tempo con simili stupidaggini. In tono sommesso, ripeté invece fra sé il suono "ai" fino a quando fu certo di aver assimilato la sua pronuncia, e addirittura scrisse la combinazione di vocali sulla propria lavagna in modo da potersi esercitare in seguito nella sua pronuncia. Assorto nel suo lavoro, ignorò le risate soffocate che gli echeggiavano intorno e attese che il Maestro Theobald tornasse alla cattedra dopo aver finito di demoralizzare il bambino che si era addormentato; sedutosi pesantemente, il maestro si accinse quindi a riprendere la lezione. «La seconda vocale del linguaggio dell'arcano è la o, che non si pronuncia "oo" e neppure "och", bensì "oa". La pronuncia è estremamente impor-
tante, giovani signori, quindi vi suggerisco di prestare attenzione, perché pronunciare un incantesimo nel modo sbagliato significa che esso non funzionerà. Mi ricordo che quando ero l'allievo di un grande mago...». Raistlin si agitò in preda all'irritazione nell'accorgersi che il maestro stava per lanciarsi in uno dei suoi aneddoti, tutte storie noiose e insulse che servivano invariabilmente ad elogiare il suo mediocre talento per la magia. Raistlin era impegnato a scrivere con cura la lettera o insieme alla sua pronuncia fonetica "oa" quando di colpo lo sgabello gli saettò via di sotto e lui crollò al suolo. La caduta del tutto inattesa fu piuttosto violenta e lui avvertì un'intensa fitta di dolore lungo il polso di cui si era istintivamente servito per cercare di puntellarsi mentre alle sue spalle lo sgabello si rovesciava rumorosamente al suolo e gli altri ragazzi scoppiavano a ridere per poi zittirsi immediatamente allorché il Maestro Theobald scattò in piedi con il volto purpureo sullo sfondo delle vesti rosse, tremando di rabbia come un mucchio di budino alla vaniglia. «Mastro Raistlin! Come mai ti permetti di disturbare la mia spiegazione?» tuonò. «Si è addormentato ed è caduto dallo sgabello, signore», si affrettò a spiegare Gordo. Accoccolato al suolo e intento a massaggiare il polso dolorante, Raistlin scoprì intanto il cordino che era stato legato ad una gamba dello sgabello, ma nel momento stesso in cui si protese per afferrarlo esso venne staccato con uno strattone dallo sgabello rovesciato e scivolò sul pavimento per scomparire nella manica di Devon, uno degli amici di Gordo che occupava il banco dietro il suo. «Si è addormentato! E mi ha interrotto!» esclamò intanto il Maestro Theobald, afferrando il ramo di salice e calando su Raistlin che, nel veder arrivare il colpo incurvò le spalle e sollevò un braccio in modo da proteggersi e da offrire il più ridotto bersaglio possibile. Il primo colpo del ramo di salice gli lacerò la pelle del braccio sollevato, mancando di stretta misura la faccia, poi il maestro si accinse a colpire ancora e al tempo stesso Raistlin si sentì pervadere da un'ira intensa e divorante come il fuoco di una fucina, che consumò la sua paura e la sua sofferenza, destando in lui l'impulso di scattare in piedi per aggredire a sua volta il maestro. Un barlume di gelido buon senso gli scivolò però lungo il corpo, e lui l'avvertì come una sensazione fisica, una sorta di gelo che gli fece formico-
lare le terminazioni nervose e gli strappò un brivido nonostante il calore rovente della sua furia mentre s'immaginava nell'atto di attaccare il maestro e si vedeva fare la figura dello stupido... una piccola e debole creatura dalle braccia sottili che strideva con voce acuta e colpiva impotente con i pugni minuscoli. La cosa peggiore era però che in questo modo sarebbe passato dalla parte del torto e il Maestro Theobald avrebbe trionfato a sue spese mentre gli altri ragazzi, i suoi tormentatori, avrebbero riso e gongolato. No, sarebbe stato lui ad uscire vincitore da quel confronto. Emettendo un sussulto soffocato, Raistlin si accasciò sul pavimento con gli occhi chiusi e giacque del tutto inerte in posizione supina, con le gambe piegate ad angolo e le ginocchia congiunte, lasciando che una mano gli scivolasse sul pavimento e tenendo l'altra ripiegata flaccidamente sul petto magro; al contempo, si sforzò di rendere il proprio respiro il più lento e leggero che gli fosse possibile. Nella sua breve vita gli era capitato molte volte di essere malato e sapeva bene come ci si sentisse e come fingere uno stato di malessere, quindi non gli costò fatica giacere immoto, pallido, affranto e all'apparenza senza vita, ai piedi del maestro. «Accidenti!» esclamò Devon, il ragazzo che aveva legato il cordino allo sgabello. «Lo hai ucciso!». «Sciocchezze!» ribatté il Maestro Theobald, con voce che suonò però incrinata, mentre abbassava il ramo di salice. «E... è soltanto svenuto, ecco tutto. È svenuto. Gordo...». Interrompendosi, il maestro si schiarì la gola prima di riprendere a parlare. «Gordo, va' a prendere un po' d'acqua». L'interpellato si affrettò ad obbedire e Raistlin lo sentì attraversare di corsa la stanza dal pavimento di pietra e armeggiare vicino al secchio dell'acqua mentre lui continuava a rimanere disteso dov'era caduto, immobile e con gli occhi chiusi, senza emettere il minimo suono, scoprendo al tempo stesso che gli piaceva essere oggetto di tante attenzioni e causare negli altri paura e sgomento. Gordo tornò poi indietro di corsa con il mestolo pieno d'acqua, rovesciando la maggior parte del suo contenuto sul pavimento e sulla veste rossa del maestro. «Goffo idiota! Dallo a me!» ordinò il Maestro Theobald, assestando a Gordo uno schiaffo e togliendogli di mano il mestolo per poi inginocchiarsi accanto a Raistlin e bagnargli le labbra con estrema delicatezza, chiamandolo per nome con voce sommessa e lamentosa: «Raistlin! Raistlin,
riesci a sentirmi?». Una risata salì gorgogliante nella gola di Raistlin, che fu costretto ad esercitare una dose spropositata di autocontrollo al fine di reprimerla. Per un minuto ancora rimase del tutto immobile, poi mosse lentamente la testa di qua e di là con un flebile lamento proprio quando cominciava ad avvertire la mano del maestro che prendeva a tremare per l'ansia. «Bene!» commentò il Maestro Theobald, con un sospiro di sollievo. «Si sta riprendendo. Indietreggiate, ragazzi, lasciatelo respirare. Adesso lo porterò nel mio alloggio». Sentendosi sollevare dalle braccia grasse ma forti del maestro, Raistlin lasciò penzolare inerti le gambe, le braccia e la testa, tenendo gli occhi sempre chiusi ed emettendo di tanto in tanto un gemito mentre Theobald lo trasportava con ogni cura nel proprio alloggio, seguito da tutti gli altri ragazzi nonostante le sue frequenti e rabbiose intimazioni di tornare nell'aula. Adagiato Raistlin su un divano, il maestro rimandò quindi i ragazzi in classe, e sbirciando attraverso una palpebra socchiusa Raistlin si accorse che si stava servendo soltanto delle minacce e non del ramo di salice. Allontanati infine i ragazzi, il Maestro Theobald chiamò a gran voce la sua serva e tornò verso il divano mentre Raistlin si decideva infine ad aprire gli occhi e badava per un momento a mantenere lo sguardo sfocato prima di spostarlo sul maestro. «Cosa... cosa è successo?» chiese con voce debole, guardandosi intorno con aria vaga e cercando di sollevarsi. «Dove sono?». Lo sforzo si rivelò eccessivo per le sue forze e lui ricadde all'indietro sul divano con il respiro affannoso, con il Maestro Theobald che si chinava a scrutarlo con fare ansioso. «Hai... hai fatto una brutta caduta», spiegò questi, evitando di guardare direttamente il ragazzo e scoccandogli nervose occhiate in tralice. «Sei scivolato dallo sgabello». Raistlin abbassò lo sguardo sul braccio, dove un brutto gonfiore rosso spiccava sulla pelle pallida, poi fissò negli occhi il maestro. «Mi fa male il braccio», si lamentò in tono sommesso. Theobald contemplò con imbarazzo il pavimento, poi sollevò lo sguardo con sollievo quando la donna di mezz'età che si occupava di cucinare, di pulire e di accudire i ragazzi, entrò nella stanza. La serva era estremamente brutta, con la faccia sfregiata e priva di capelli su un lato della testa dove era rimasta ustionata, a quanto si diceva a causa di un fulmine che l'aveva
sfiorata, cosa che forse spiegava i suoi processi mentali alquanto lenti. Marm, così era chiamata la donna, teneva pulita la scuola e non aveva ancora avvelenato nessuno con la sua cucina, ma questo era tutto ciò che di buono si poteva dire sul suo conto, e i ragazzi sussurravano fra loro che lei fosse il risultato di uno degli incantesimi del Maestro Theobald che non era andato per il verso giusto, e che lui la tenesse presso di sé per un senso di colpa. «Il ragazzo ha fatto una brutta caduta, Marm», spiegò il Maestro Theobald. «Vorresti prenderti cura di lui? Io devo tornare in classe». Scoccata un'ultima ansiosa occhiata a Raistlin, il maestro lasciò quindi la stanza, facendo appello a quanto restava del suo orgoglio per riuscire ad assumere una posa eretta. La serva intanto se ne andò a sua volta per tornare di lì a poco con un panno freddo e bagnato che sbatté sulla fronte di Raistlin, e con un biscotto che gli mise in mano. Il panno era troppo bagnato e grondava acqua unta che stava colando negli occhi di Raistlin, mentre il biscotto aveva il fondo bruciato e sapeva di carbone, ma Marm non parve badarci e con un grugnito lasciò Raistlin a se stesso per tornare a ciò che stava facendo... che a giudicare dall'acqua unta doveva essere il lavaggio dei piatti. Non appena lei se ne fu andata, Raistlin si tolse dalla fronte il panno bagnato e lo gettò da un lato con aria disgustata per poi buttare il biscotto nel focolare, dove ardeva il solito onnipresente fuoco, quindi si adagiò comodamente sul divano, annidandosi fra i morbidi cuscini e ascoltando la voce del maestro, che aveva ripreso ad echeggiare in tono più dimesso e che era chiaramente udibile attraverso la porta aperta. «La lettera u si pronuncia "uh". Ripetete con me». «"Uh"» - mormorò Raistlin fra sé, in tono compiaciuto, e nell'osservare le fiamme che consumavano un ceppo sorrise fra sé. Il Maestro Theobald non avrebbe mai più provato a picchiarlo. CAPITOLO SETTIMO Quel giorno la lezione riguardava l'esatto uso della penna, perché un mago non doveva essere soltanto in grado di pronunciare correttamente le parole della magia ma anche di scriverle nel modo giusto, dando ad ogni lettera la sua giusta forma. Le parole dell'arcano dovevano essere stilate sulla pergamena con precisione, esattezza, ordine e cura, altrimenti non avrebbero funzionato: per esempio, se avesse scritto la parola shirak con la
a schiacciata e la k storta, un mago intenzionato ad ottenere luce sarebbe rimasto al buio. Com'è proprio della natura goffa dei bambini, per lo più gli allievi del Maestro Theobald erano tutt'altro che abili nella scrittura, le penne d'oca che dovevano appuntire personalmente avevano la tendenza a rompersi o a gocciolare, a piegarsi o a schizzare via dalle loro dita contratte, con il risultato che invariabilmente i ragazzi finivano per sporcare loro stessi più che scrivere sulla pergamena, quando non rovesciavano addirittura il calamaio come succedeva piuttosto frequentemente. Qualsiasi visitatore che fosse entrato nell'aula durante i pomeriggi dedicati agli esercizi di scrittura avrebbe potuto immaginare di essere finito per errore nell'Abisso nel trovarsi di fronte a innumerevoli piccoli demoni dal volto e dalle mani sporchi d'inchiostro. Un pensiero di questo genere affiorò nella mente di Antimodes nel momento stesso in cui varcò la porta dell'aula, accompagnato dal fugace ricordo dei giorni che lui stesso aveva trascorso in un'aula di scuola, evocato soprattutto dall'odore di tutti quei piccoli corpi scaldati eccessivamente dal fuoco, della zuppa di cavolo che avevano mangiato per pranzo, dell'inchiostro e della cartapecora calda. «L'arcimago Antimodes», annunciò la serva, o almeno cercò di farlo dal momento che riuscì a storpiare completamente il nome del mago. Antimodes si soffermò sulla soglia e subito dodici piccoli volti accaldati, sporchi d'inchiostro e frustrati si sollevarono a fissarlo con occhi pieni di speranza, augurandosi di trovare in lui un salvatore che li liberasse da quella fatica senza speranza. Un tredicesimo volto si sollevò quindi con maggiore lentezza degli altri, concentrando la propria attenzione sul visitatore soltanto dopo aver ultimato il lavoro a cui era intento. Antimodes si sentì molto soddisfatto nel constatare che quel volto particolare era quasi del tutto pulito, tranne per una macchia d'inchiostro lungo il sopracciglio sinistro, e che la sua espressione non era tanto di sollievo quanto piuttosto di irritazione per essere stato interrotto mentre lavorava. L'irritazione si dissolse peraltro in fretta non appena il volto in questione riconobbe Antimodes, che a sua volta lo aveva già riconosciuto. Nel frattempo il Maestro Theobald si affrettò ad alzarsi in piedi, formale e noioso, insicuro e geloso come sempre. Theobald non provava nessuna simpatia per Antimodes perché sospettava, a ragion veduta, che questi si fosse opposto alla sua nomina a maestro della scuola e avesse votato contro di lui nel Conclave. Antimodes era peraltro stato messo in minoranza
perché Par-Salian in persona aveva presentato un'argomentazione irrefutabile a favore di Theobald, e cioè il fatto che questi era il solo candidato e che comunque non poteva essere utilizzato in nessun'altra veste. Perfino gli amici di Theobald erano concordi nel ritenere che lui non sarebbe mai stato un mago più che mediocre, mentre altri fra cui Antimodes si chiedevano come fosse mai riuscito a superare la Prova, argomento su cui Par-Salian si dimostrava sempre evasivo ogni volta che Antimodes lo sollevava, inducendo così l'arcimago a supporre che Theobald fosse stato aiutato a superare la Prova a patto che accettasse la carica di insegnante, un lavoro che nessun altro voleva. Antimodes non aveva potuto offrire un suggerimento migliore in quanto lui stesso avrebbe preferito andare al Monte Non Importa per istruire gli gnomi nell'uso dei fuochi d'artificio piuttosto che insegnare la magia ad un branco di mocciosi umani, e alla fine era stato costretto ad allinearsi con riluttanza al parere della maggioranza. Con il passare del tempo, Antimodes aveva poi dovuto ammettere che Par-Salian e gli altri avevano avuto ragione perché pur non essendo un maestro particolarmente abile, Theobald era almeno in grado di provvedere a che i suoi ragazzi - le ragazze avevano una loro scuola a Palanthas, gestita da una maga appena più competente di Theobald - imparassero le necessarie nozioni di base. Senza dubbio Theobald non sarebbe mai riuscito ad accendere il sacro fuoco del sapere nello studente medio, ma sarebbe riuscito ad attizzarlo negli animi in cui esso già ardeva. A causa della presenza dei bambini, i due maghi furono costretti a salutarsi con una fittizia patina di cordialità. «Come stai, signore?». «E tu come stai, mio caro signore?». Antimodes si mostrò cortese nei suoi saluti e non mancò di elogiare l'aspetto dell'aula, per quanto dal suo punto di vista essa fosse calda in modo intollerabile, afosa e sporca; dal canto suo, il Maestro Theobald lo accolse con la massima cordialità, certo che Antimodes fosse stato mandato da Par-Salian per controllare il suo operato, e pieno di amaro risentimento di fronte alla disinvoltura con cui l'arcimago sfoggiava uno splendido mantello di lana d'agnello di ottima qualità il cui costo doveva equivalere al salario di un anno di un insegnante. «Allora, arcimago, le strade sono ancora intasate dalla neve?» domandò. «No, no, maestro, sono del tutto percorribili, anche nel nord». «Allora arrivi dal nord, arcimago?».
«Da Lemish», rispose con disinvoltura Antimodes, che in effetti si era spinto molto più a nord di quella bizzarra cittadina boschiva ma non aveva nessuna intenzione di discutere dei propri viaggi con Theobald. Quest'ultimo, che non amava affatto viaggiare, inarcò un sopracciglio con aria contrariata e manifestò la propria disapprovazione volgendo le spalle al visitatore e ponendo così fine alla conversazione. «Ragazzi», annunciò, «è mio grande onore presentarvi l'Arcimago Antimodes, un mago delle Vesti Bianche». I ragazzi risposero in coro con un saluto pieno di entusiasmo. «Ci stavamo esercitando nella scrittura», proseguì Theobald, «ma la lezione stava per volgere al termine. Ti andrebbe forse di vedere qualcuno dei nostri lavori, arcimago?». In realtà Antimodes era interessato ad un allievo soltanto, ma si mise comunque a gironzolare con aria solenne fra i banchi contemplando con falso interesse le lettere che avevano ogni forma possibile tranne quella giusta e una partita a X e O che il giocatore aveva cercato invano di nascondere rovesciandovi sopra il calamaio. «Non c'è male», commentò Antimodes, «non c'è proprio male. Alcuni di questi ragazzi sono davvero... creativi». Mentre parlava arrivò infine al banco di Raistlin, che era stato dall'inizio la sua meta effettiva, e arrestandosi accanto ad esso aggiunse con effettiva sincerità e approvazione: «Un buon lavoro». Un ragazzo alle spalle di Raistlin emise un verso volgare che indusse Antimodes a girarsi di scatto. «Mi dispiace, signore», si scusò il ragazzo, con aria all'apparenza contrita. «Abbiamo mangiato cavolo per pranzo». Antimodes sapeva benissimo che il rumore non era stato provocato dal cavolo e cosa esso implicasse, e si rese subito conto dell'errore commesso nel ricordare come fossero soliti comportarsi i ragazzini... da giovane lui stesso era stato un soggetto alquanto irrequieto. Non avrebbe mai dovuto lodare apertamente Raistlin, perché gli altri ragazzi erano gelosi e invidiosi, e adesso si sarebbero vendicati su di lui. Con l'intento di rettificare il proprio errore, l'arcimago decise di evidenziare qualche sbaglio commesso dal suo pupillo, dopo tutto nessuno era perfetto, e tornò a spostare lo sguardo su Raistlin scoprendo così sulle sue labbra un sorriso soddisfatto che poteva quasi essere definito un sogghigno. Stupito, Antimodes trattenne le parole che era stato sul punto di pronun-
ciare, rischiando quasi di strozzarsi per riuscirci: tossendo, si schiarì la gola e riprese a camminare fra i banchi anche se da quel momento la sua attenzione si rivolse interiormente e lui guardò ogni cosa senza vederla davvero fino a quando si venne a trovare di nuovo a faccia a faccia con Theobald e si rese conto di essere ancora nell'aula. «Oh... ehm... i tuoi allievi hanno svolto davvero un buon lavoro, Maestro Theobald, proprio buono», disse, fermandosi di colpo con un sussulto. «Se non ti dispiace, adesso mi piacerebbe parlarti in privato». «Non dovrei assentarmi dalla classe...». «Soltanto per un momento. Sono certo che questi eccellenti giovani signori provvederanno a studiare per conto loro durante la tua assenza», insistette Antimodes, rivolgendo un sorriso agli allievi. In realtà era perfettamente consapevole che quegli eccellenti giovani signori avrebbero invece approfittato dell'opportunità per giocare a biglie, tracciare disegni osceni sulle pergamene da esercitazione e sporcarsi a vicenda con l'inchiostro. «Vorrei che mi dedicassi soltanto un momento del tuo tempo, Maestro Theobald», ribadì, con il massimo rispetto. Accigliandosi, Theobald uscì con passo pesante dall'aula e precedette il visitatore nel suo alloggio privato, chiudendo la porta e girandosi per fronteggiare Antimodes. «Allora, signore, ti prego di essere rapido». «Se non ti dispiace, Maestro Theobald, mi piacerebbe parlare individualmente con ciascuno degli allievi e porre loro qualche domanda», disse Antimodes, sentendo il finimondo che si stava già scatenando nell'aula. Il Maestro Theobald accolse le sue parole inarcando le sopracciglia in modo tanto deciso da dare l'impressione che esse stessero per staccarglisi dalla testa, poi le contrasse con aria accigliata sopra le palpebre gonfie e assunse un'espressione piena di sospetto: in tutti i suoi anni d'insegnamento non era mai capitato che un arcimago si fosse preso il disturbo di visitare la sua scuola e tanto meno di richiedere di conferire in privato con gli studenti, quindi la conclusione a cui poteva giungere era una soltanto, e lui piombò su di essa a piè pari. «Se il Conclave non trova soddisfacente il mio lavoro...» cominciò, in tono altezzoso. «Tutt'altro, lo apprezza moltissimo», si affrettò a rassicurarlo Antimodes. «Si tratta soltanto di una ricerca che sto portando avanti», aggiunse, agitando una mano con fare noncurante. «Sto indagando sui motivi filoso-
fici che inducono i giovani a scegliere di dedicare il loro tempo a questo particolare genere di studi». Il Maestro Theobald si limitò a sbuffare in tono incredulo. «Ti prego di mandarli qui uno per volta», ribadì comunque Antimodes. Sbuffando ancora, Theobald girò sui tacchi e tornò con passo pesante nell'aula, mentre Antimodes prendeva posto su una sedia e si chiedeva cosa mai avrebbe potuto dire a quei marmocchi. In effetti, lui desiderava parlare con un allievo soltanto, ma non osava favorire nuovamente Raistlin; di conseguenza stava ancora riflettendo su quel dilemma quando il primo allievo, il ragazzo più grande della scuola, entrò nella stanza e si arrestò davanti a lui con aria imbarazzata e dimessa. «Mi chiamo Gordo, signore», si presentò, con un goffo inchino. «Allora, Gordo, ragazzo mio», replicò Antimodes, altrettanto imbarazzato ma deciso a nascondere il proprio stato d'animo, «come pensi di incorporare l'uso della magia nella tua vita di ogni giorno?». «Ecco, s... signore», balbettò Gordo, manifestamente sconcertato, «a dire il vero non lo so». Antimodes si accigliò e il ragazzo si mise subito sulla difensiva. «Io sono qui soltanto perché mia madre mi obbliga a venirci», protestò. «Non voglio avere nulla a che fare con la magia». «E cosa vorresti fare?». «Voglio diventare un macellaio», fu pronto a rispondere Gordo. «Forse», sospirò Antimodes, «dovresti parlare con tua madre e spiegarle la cosa». «Ci ho provato», rispose il ragazzo, scrollando le spalle. «Non importa, signore, rimarrò qui fino a quando sarò abbastanza grande da fare l'apprendista, poi lascerò la scuola». «Ti ringrazio, apprezziamo la tua considerazione», ribatté Antimodes, in tono asciutto. «Per favore, mandami il prossimo ragazzo». Al termine del quinto colloquio, l'antipatia che Antimodes nutriva nei confronti del Maestro Theobald si era trasformata in una profonda compassione e al tempo stesso lui si sentiva allarmato e sgomento, in quanto nei quindici minuti di conversazione con quei cinque ragazzi aveva appreso più di quanto avesse scoperto nel corso di cinque mesi di viaggi per Ansalon. L'arcimago era consapevole - cosa di cui lui e Par-Salian discutevano spesso - che i maghi erano visti con sospetto e diffidenza dalla popolazione in generale, ma riteneva che questa fosse una cosa giusta perché la magia
doveva essere sempre ammantata da un alone di mistero, gli incantesimi dovevano poter ispirare reverenza e una giusta dose di timore. In quei ragazzi lui non aveva però riscontrato né reverenza né timore, e neppure molto rispetto. Senza dubbio avrebbe potuto attribuirne la colpa al Maestro Theobald, che con ogni probabilità era in parte responsabile del problema in quanto non faceva nulla per ispirare i suoi allievi, per elevarli al di sopra della fangosa ignoranza quotidiana in cui si crogiolavano, ma era peraltro consapevole che non si trattava soltanto di questo. Nella scuola non c'erano figli di nobili, e per quanto gli risultava i figli dei nobili erano ben pochi in tutte le scuole di magia di Ansalon. Soltanto fra gli elfi lo studio della magia era considerato un tipo di apprendimento adeguato alle classi superiori, che peraltro venivano scoraggiate dal dedicare ad esso la loro vita, come dimostrava il fatto che Re Lorac era stato uno degli ultimi elfi di sangue reale a sottoporsi alla Prova. I più erano invece come Gilthanas, il figlio minore del Portavoce del Sole di Qualinesti, che sarebbe stato un mago eccellente se avesse dedicato del tempo allo studio della magia ma che si limitava ad un interesse superficiale per quell'arte, rifiutando di votarsi ad essa e di assoggettarsi alla Prova. Quanto agli umani, i bambini presenti nella scuola provenivano per lo più dalla classe media, il che di per sé non era un male considerato che lo stesso Antimodes aveva origini di questo tipo. Lui però era almeno stato consapevole di quello che voleva ed era stato disposto a lottare per ottenerlo, dal momento che i suoi genitori erano del tutto contrari all'idea che lui si dedicasse allo studio della magia, mentre questi bambini erano stati mandati qui perché i loro genitori non sapevano che altro fare di loro e li avevano avviati allo studio della magia perché non li ritenevano capaci di fare niente altro. Possibile che i maghi fossero tenuti davvero in così bassa considerazione? Depresso, Antimodes si raggomitolò sulla poltrona imbottita, che aveva trascinato il più lontano possibile dal fuoco, e rifletté su quelle considerazioni, sentendo crescere la depressione che lo affliggeva fin da quando era andato a Solamnia. I Cavalieri e le loro famiglie si erano mostrati cortesi come lo sarebbero comunque stati con qualsiasi viandante umano abbiente e dai modi educati, lo avevano invitato a fermarsi nelle loro dimore e gli avevano servito carni arrostite e vini eccellenti, intrattenendolo con i loro menestrelli... ma mai una volta avevano discusso di magia o gli avevano chiesto di aiutarli
con i suoi incantesimi o accennato in qualche modo al fatto che lui era un mago. Quando Antimodes aveva provato a parlare della cosa essi si erano limitati a reagire con un vago sorriso e a cambiare argomento. Pareva quasi che ai loro occhi lui soffrisse di una sorta di deformità o di malattia: i Cavalieri erano troppo cortesi ed educati per evitarlo o per offenderlo apertamente, ma al tempo stesso Antimodes era stato consapevole delle loro occhiate in tralice quando non si erano resi conto di essere osservati: la verità era che lui li disgustava. E adesso l'arcimago si sentiva a sua volta disgustato di se stesso, perché per la prima volta si stava vedendo attraverso gli occhi di questi bambini e si rendeva conto della sottomissione con cui aveva accettato il freddo trattamento dei Cavalieri, cercando di ottenere il loro favore nel modo meno dignitoso immaginabile, al punto che nel corso di quel viaggio non aveva tirato fuori dal bagaglio la sua veste bianca neppure una volta ed era giunto a sfilarsi dalla cintura le sacche colme dei componenti per gli incantesimi e a nascondere sotto il letto la custodia con le pergamene. «Alla mia età avrei dovuto comportarmi meglio», si disse in tono acido. «Ho fatto senza dubbio la figura dello stolto e loro devono aver levato gli occhi al cielo e sospirato di sollievo quando me ne sono andato. È davvero un bene che Par-Salian non sappia nulla di tutto questo... sono proprio contento di non avergli fatto cenno della mia intenzione di andare a Solamnia». «Ben ritrovato, arcimago», salutò in quel momento una voce infantile. Sbattendo le palpebre, Antimodes tornò al presente e si accorse che Raistlin era entrato nella stanza. L'arcimago aveva atteso con impazienza questo incontro perché fin da quando lo aveva conosciuto quel ragazzo aveva destato in lui un acuto interesse, e le conversazioni con gli altri bambini erano state soltanto una scusa per poter incontrare in privato questo ragazzino davvero straordinario. Le sue recenti scoperte lo avevano però devastato a tal punto che ora non riusciva a trarre nessun piacere dal parlare infine con l'unico studente che dimostrava almeno un minimo di propensione per la magia. Che futuro si prospettava per questo ragazzo? Un futuro in cui i maghi venivano lapidati? Con non poca amarezza, l'arcimago pensò che se non altro la popolazione aveva avuto paura di Esmilla, la Maga dalla Veste Nera, e la paura sottintendeva di per sé una certa dose di rispetto. Quanto sarebbe stato peggio se la gente si fosse limitata a ridere di lei! Era dunque questa la sorte a cui si stavano avviando, quella di vedere l'uso della magia
finire nelle mani di frustrati aspiranti macellai? In quel momento, Raistlin emise un lieve colpetto di tosse e si agitò nervosamente, e d'un tratto Antimodes si rese conto che aveva continuato a fissarlo in silenzio abbastanza a lungo da metterlo a disagio. «Ti chiedo scusa, Raistlin», disse, segnalando al ragazzo di venire avanti. «Ho viaggiato molto e sono stanco, senza contare che il mio viaggio non è stato del tutto soddisfacente». «Me ne dispiace, signore», replicò Raistlin, fissando l'arcimago con quei suoi occhi azzurri che erano troppo maturi e troppo saggi. «Volevo anche scusarmi per aver lodato il tuo lavoro, di là nell'aula», aggiunse Antimodes, con un sorriso contrito. «Avrei dovuto sapere che non era il caso di farlo». «Perché, signore?» domandò il ragazzo, in tono perplesso. «Il mio lavoro non era forse buono quanto tu hai detto?». «Ecco, i tuoi compagni di classe... non avrei dovuto mostrare un particolare interesse per te. Sai, conosco i ragazzi della tua età e temo di dover ammettere di essere stato un vero discolo. La mia paura è che possano comportarsi male con te». «Sono ignoranti», replicò Raistlin, scrollando le spalle sottili. «Uhm... ecco...», borbottò Antimodes, accigliandosi con aria di disapprovazione, perché se da un lato non c'era nulla di male che lui, un adulto, fosse di questo parere, d'altro canto gli pareva in qualche modo sbagliato, sleale, sentire lo stesso parere dalle labbra di un bambino. «Non riescono a salire al mio livello», proseguì intanto Raistlin, «quindi mi vogliono far abbassare al loro e a volte... mi fanno male» concluse, fissando Antimodes con i suoi occhi azzurri limpidi e scintillanti come il sole sul ghiaccio. «Mi... mi dispiace» mormorò Antimodes, consapevole che era un'affermazione insulsa ma al tempo stesso tanto sconcertato dalla freddezza e dalle intelligenti osservazioni di questo bambino da non riuscire a pensare a nulla di più pertinente. «Non ti dispiacere per me!» esplose Raistlin, con un impeto d'ira simile al divampare del fuoco sul ghiaccio, poi tornò a scrollare le spalle e aggiunse con maggiore calma: «A me non importa, perché in realtà è una sorta di complimento. Loro mi temono». La popolazione aveva avuto paura di Esmilla, la Maga dalla Veste Nera, e la paura sottintendeva di per sé una certa dose di rispetto. Quanto sarebbe stato peggio se la gente si fosse limitata a ridere di lei!
Nel rammentare i propri pensieri di poco prima, che stavano ora trovando eco in quella voce infantile, l'arcimago sentì un brivido corrergli lungo la schiena perché un bambino non avrebbe dovuto essere tanto saggio, non avrebbe dovuto essere costretto a sopportare già ad una così giovane età il fardello di una saggezza tanto cinica. «È un colpo del martello», affermò intanto Raistlin, con un sorriso. «Ripenso spesso a quello che mi hai detto, signore, al modo in cui i colpi di martello forgiano l'anima e l'acqua la tempra. Io però non piango, o se lo faccio bado che loro non mi possano vedere», concluse in tono di voce più duro. Antimodes lo fissò stupefatto e confuso: una parte di lui voleva abbracciare questo precoce bambino, mentre un'altra parte avrebbe voluto afferrarlo e scagliarlo nel fuoco, schiacciarlo come avrebbe fatto con un uovo di vipera, e quella dicotomia di emozioni lo stava sconvolgendo al punto che fu costretto ad alzarsi in piedi e a gironzolare per la stanza per un po' prima di sentirsi in grado di riprendere la conversazione. Raistlin intanto attese con pazienza, in silenzio, che il mago finisse di concedersi lo strano e inesplicabile comportamento che spesso era proprio degli adulti, distogliendo al tempo stesso lo sguardo da Antimodes per fissarlo con avidità sugli scaffali carichi di libri. Quel particolare ricordò ad Antimodes qualcosa che era stato intenzionato a dire al ragazzo e che aveva poi quasi dimenticato a causa della sconvolgente conversazione che avevano avviato. Tornato sulla poltrona, si protese in avanti con aria seria. «C'è una cosa che ti volevo dire, giovanotto: ho avuto modo d'incontrare tua sorella quando ero... nel corso dei miei viaggi». «Kitiara?» esclamò Raistlin, riportando su di lui lo sguardo ora carico d'interesse. «L'hai vista?». «Sì, e posso dirti che sono rimasto notevolmente stupito perché non mi aspettavo... ecco, una ragazza di quell'età...». L'arcimago s'interruppe, non sapendo esattamente come proseguire, ma Raistlin comprese lo stesso. «Lei se n'è andata da casa poco tempo dopo che io ero entrato in questa scuola, arcimago», replicò. «Credo che volesse andarsene già da tempo ma che fosse preoccupata per Caramon e per me, soprattutto per me. Senza dubbio pensa che adesso io possa badare a me stesso». «Sei ancora un bambino che ha soltanto sei anni», gli ricordò Antimodes in tono severo, ritenendo che la precocità di Raistlin si stesse spingendo un
po' troppo oltre. «Ma sono in grado di badare a me stesso», ribadì Raistlin, mentre quel sorriso simile a un sogghigno che Antimodes aveva già notato in precedenza tornava ad affiorargli sulle labbra, accentuandosi quando attraverso la porta si sentì chiaramente echeggiare la voce stentorea del Maestro Theobald. «Kitiara è tornata a casa per un paio di mesi, prima che arrivasse l'inverno», proseguì quindi il ragazzo. «Ha dato a nostro padre un po' di denaro per pagarsi il vitto e l'alloggio, insistendo perché lo prendesse e dichiarando che non voleva più accettare nulla da lui. Kitiara aveva al fianco una vera spada, sporca di sangue secco, e ha dato una spada anche a Caramon, ma nostro padre si è arrabbiato e gliel'ha tolta. Kitiara non è rimasta a casa a lungo. Dove l'hai vista?». «Non ricordo con esattezza il nome di quel posto», rispose Antimodes, badando a rimanere evasivo. «Queste piccole città si somigliano tutte, dopo un po'. Lei era in una taverna con alcuni... compagni». Il mago si trattenne a stento dal dire che si era trattato di compagni poco raccomandabili perché non voleva turbare il bambino che appariva sinceramente affezionato alla sorellastra. In realtà aveva visto Kitiara in mezzo ad un gruppo di mercenari del genere peggiore, uomini che vendevano la loro spada e che erano disposti a vendere anche l'anima se incontravano qualcuno pronto ad acquistarla. «Lei mi ha raccontato una storia sul tuo conto», proseguì quindi il mago, in modo da non dare al bambino l'opportunità di fare altre domande. «Mi ha detto che quando tuo padre ti ha portato per la prima volta qui presso il Maestro Theobald tu sei entrato nella biblioteca, questa stessa stanza, e ti sei seduto a leggere un libro di magia». In un primo momento Raistlin si mostrò stupito, poi sfoggiò un sorriso che non era il sogghigno di poco prima ma un'espressione da monello che aiutò Antimodes a ricordare che in effetti il suo interlocutore era soltanto un ragazzo di sei anni. «Una cosa del genere non sarebbe stata possibile», replicò poi Raistlin, scoccando ad Antimodes un'occhiata in tralice. «Sto imparando soltanto adesso a leggere e a scrivere la magia». «So che non è possibile», annuì Antimodes, sorridendo a sua volta, consapevole che quando lo voleva quel ragazzo riusciva ad essere davvero accattivante, «ma allora da cosa può essere derivata una storia del genere?». «Da mio fratello», rispose subito Raistlin. «Eravamo nell'aula e mio padre e il maestro stavano discutendo della mia ammissione alla scuola, per-
ché il maestro non mi voleva accettare». «Come lo sai?» chiese Antimodes, inarcando le sopracciglia. «Lo ha detto apertamente?». «Non proprio, però ha detto che non ero stato allevato nel modo giusto, che avrei dovuto parlare soltanto quando mi si rivolgeva la parola, tenere lo sguardo basso e non "fissarlo in modo sfacciato". Ha detto anche che io ero impertinente, troppo loquace e irrispettoso». «In effetti lo sei, Raistlin», ammonì Antimodes, ritenendo che fosse doveroso da parte sua. «Dovresti dimostrare un maggiore rispetto per il maestro e per i tuoi compagni di classe». Raistlin accantonò il maestro e i compagni con una scrollata di spalle e proseguì con la sua storia. «Dopo un po' mi sono seccato di sentire mio padre che continuava a scusarsi per me, quindi io e Caramon siamo andati in esplorazione e siamo arrivati qui. Io ho prelevato un libro dallo scaffale, ma era soltanto un libro con gli incantesimi da addestramento, perché so che il maestro tiene quelli più potenti chiusi a chiave in cantina». La voce del bambino era fredda e seria, nei suoi occhi scintillava un'evidente avidità di sapere che allarmò Antimodes e lo indusse a prendere mentalmente nota della necessità di avvertire Theobald che i suoi preziosi libri d'incantesimi non erano ben riposti quanto lui credeva. «È possibile che io abbia detto a Caramon che il libro era autentico... non lo ricordo», continuò intanto Raistlin, tornando ad essere un bambino qualsiasi e sfoggiando nuovamente il suo sorriso da monello. «In ogni caso, il Maestro Theobald è entrato a precipizio, sbuffante e furibondo, mi ha rimproverato per aver girovagato e aver "invaso la sua privacy", e quando si è accorto che stavo guardando il libro si è infuriato ancora di più anche se io non stavo leggendo nessun incantesimo perché non ero in grado di farlo». «Tuttavia», proseguì Raistlin, scoccando ad Antimodes un'occhiata astuta, «in città c'è un illusionista di nome Waylan, che pare utilizzi la magia, ed io ho memorizzato alcune delle parole che lui impiega. So che gli incantesimi non possono funzionare, ma li uso per divertirmi quando gli altri ragazzi giocano alla guerra. Quel giorno, Caramon si è eccitato e ha detto a nostro padre che io stavo per evocare un demone dall'Abisso, al che il Maestro Theobald è diventato veramente rosso in faccia e mi ha tolto di mano il libro. Lui sapeva che non ero in grado di leggerlo, ma voleva una scusa per liberarsi di me», precisò con freddezza.
«Il Maestro Theobald ti ha accettato nella sua scuola e non si è "liberato di te", per usare le tue parole», obiettò Antimodes, in tono severo. «Inoltre quello che hai fatto è stato sbagliato, perché non avresti dovuto prendere il libro senza il suo permesso». «Ha dovuto accettarmi perché qualcuno aveva già pagato perché fossi iscritto», precisò Raistlin in tono piatto, e fissò con estrema durezza Antimodes che, essendosi aspettato qualcosa del genere, badò ad assumere un'espressione di blanda innocenza. Avendo infine incontrato qualcuno in grado di stargli alla pari, il bambino distolse lo sguardo e lo spostò sugli scaffali di libri, contraendo un angolo della bocca. «È possibile che Caramon abbia raccontato ogni cosa a Kitiara. Sai, era davvero convinto che avrei evocato un demone, ma del resto lui è come un kender e crede a qualsiasi cosa gli si dica». «Vuoi bene a tuo fratello?» domandò impulsivamente Antimodes. «Certamente, è il mio gemello», rispose con blanda scioltezza Raistlin. «Già, voi siete gemelli», annuì Antimodes, con aria riflessiva. «Mi chiedo se tuo fratello abbia del talento per la magia. Sembrerebbe logico...». D'un tratto s'interruppe, confuso e sconcertato di fronte all'occhiata che Raistlin gli aveva scoccato e che lo colpì con un impatto quasi fisico, come se lui gli avesse sferrato un pugno... anzi, lo avesse trafitto con un coltello. Sgradevolmente sorpreso dalla malevolenza che stava scorgendo nello sguardo del bambino, Antimodes si ritrasse: la sua era stata una domanda retorica e innocua, e di certo non si era aspettato una reazione del genere. «Posso tornare in classe, signore?» chiese intanto Raistlin in tono cortese; adesso il suo volto era tornato ad avere un'espressione normale, pur apparendo ancora alquanto pallido. «Uh, sì... io... uh... mi ha fatto piacere rivederti», replicò Antimodes. Senza commenti, Raistlin gli rivolse il cortese inchino che veniva insegnato a tutti i ragazzi e si diresse alla porta, aprendola e avviandosi per tornare nell'aula. Un'ondata di chiasso e di calore accompagnata da un odore di bambini, di cavolo bollito e d'inchiostro, penetrò nella biblioteca e indusse Antimodes a pensare al riversarsi della marea sulle spiagge sporche di Flotsam, poi la porta si richiuse alle spalle del ragazzo. Per un lungo momento Antimodes rimase del tutto immobile sulla poltrona. Riprendersi gli riuscì inizialmente difficile perché continuava a vedere quegli occhi azzurri taglienti come lame che scintillavano in preda
all'ira e gli trapassavano la carne con il loro sguardo. Alla fine, rendendosi conto che la giornata stava volgendo al termine e ricordandosi della propria intenzione di trascorrere la notte alla Locanda dell'Ultima Casa, si costrinse a liberarsi dell'effetto della sgradevole scena e fece ritorno nell'aula per congedarsi dal Maestro Theobald. Al suo ingresso, Raistlin non sollevò neppure la testa. Il successivo tragitto lungo la strada in sella alla placida Jenny, in mezzo a campi tinti di verde e cosparsi dei primi boccioli primaverili ebbe l'effetto di lenirgli l'anima, e quando infine arrivò alla locanda si sentì perfino pronto a ridere di se stesso con contrizione, ammettendo di aver sbagliato a porre una domanda tanto personale e accantonando l'incidente con una scrollata di spalle. Sistemata Jenny nelle stalle pubbliche, si diresse quindi alla locanda, dove annegò le sue preoccupazioni nell'ottimo sidro al miele di Otik e dormì profondamente per la prima volta da un mese. Per molti anni dopo quell'incontro Antimodes non vide più Raistlin, pur mantenendo un vivo interesse nei suoi confronti e tenendosi aggiornato sul progredire dei suoi studi. Ogni volta che veniva convocato il Conclave dei Maghi, Antimodes aveva cura di cercare il Maestro Theobald per interrogarlo su quel particolare allievo, e al tempo stesso continuò a pagare gli studi del ragazzo e a ritenere che fosse denaro ben investito a giudicare dai progressi che il suo pupillo stava facendo. Al tempo stesso non dimenticò però mai la domanda che gli aveva posto in merito al suo gemello... e neppure come Raistlin aveva risposto ad essa. LIBRO SECONDO Io lo farò. Nella mia vita nulla ha importanza tranne questo momento, il solo che esista per me: sono nato in questo momento, e se dovessi fallire esso sarà anche quello della mia morte. RAISTLIN MAJERE CAPITOLO PRIMO «Raist, sono qui!» chiamò Caramon, agitando la mano dall'alto del carro da contadino che stava guidando; tredicenne, ma tanto alto e ampio di spalle che spesso veniva creduto più maturo, era diventato il miglior lavorante del Fattore Sedge.
I suoi capelli ricciuti formavano morbidi cerchi ramati intorno alla fronte, gli occhi erano allegri, cordiali e innocenti, gli occhi di un credulone, e lui era l'idolo dei bambini che lo adoravano, così come lo adoravano tutti gli imbroglioni, i mendicanti e gli artisti da quattro soldi che passavano da Solace. Insolitamente forte per la sua età, Caramon aveva peraltro un carattere insolitamente gentile ma poteva essere terribile nella sua ira se veniva provocato; tuttavia, la sua miccia era sepolta così in profondità e impiegava così tanto tempo ad accendersi, che di solito lui si rendeva conto di essere infuriato soltanto quando la lite si era già conclusa da tempo. Le uniche occasioni in cui essa esplodeva subitanea e incontenibile era quando qualcuno minacciava il suo gemello. Lieto di vedere Caramon, di vedere un qualsiasi volto amico, Raistlin sollevò a sua volta la mano in risposta al grido del fratello. Sette inverni prima, Raistlin aveva deciso di alloggiare presso la scuola del Maestro Theobald nel corso dei mesi più freddi dell'anno, una sistemazione che aveva comportato per i due gemelli la prima separazione da quando erano nati. Da allora erano trascorsi sette inverni nei quali Raistlin era rimasto lontano da casa e i gemelli si erano ricongiunti a primavera, quando il sole veniva a sciogliere la neve e faceva spuntare le prime foglie e i primi boccioli dorati sui vallenwood. Ormai da tempo Raistlin aveva rinunciato alla speranza che un giorno nel guardarsi allo specchio si sarebbe visto come l'immagine del proprio avvenente gemello; con i suoi lineamenti fini, gli occhi grandi e i morbidi capelli rossicci che gli scendevano fino alle spalle, Raistlin sarebbe stato senza dubbio il più avvenente dei due se non fosse stato per i suoi occhi, che trattenevano troppo a lungo lo sguardo degli altri, vedevano troppo e troppo in profondità, e contenevano sempre una vaga espressione di disprezzo, dovuta al fatto che lui vedeva con chiarezza le menzogne, gli artifici e le assurdità delle persone e ne era al tempo stesso divertito e disgustato. Saltato giù dal carro, Caramon abbracciò con entusiasmo il gemello, che però non restituì l'abbraccio e si servì della scusa del fagotto di vestiti che teneva con entrambe le mani per evitare un'aperta manifestazione d'affetto che gli appariva al tempo stesso poco dignitosa e irritante. Anche se il suo corpo s'irrigidì in reazione all'abbraccio, Caramon non se ne accorse a causa del proprio entusiasmo, affrettandosi ad afferrare il fardello di Raistlin e a gettarlo sul retro del carro.
«Vieni, ti aiuto io», si offrì quindi. Raistlin dal canto suo cominciò a pensare di non essere forse tanto lieto di vedere il suo gemello quanto aveva inizialmente creduto, perché aveva dimenticato quanto Caramon riuscisse a volte ad essere irritante. «Sono del tutto capace di salire su un carro senza bisogno di aiuto», ribatté. «Oh, certo, Raist», sorrise Caramon, per nulla offeso. Era troppo stupido per offendersi. Raistlin si arrampicò quindi sul carretto e Caramon balzò a cassetta, afferrando le redini e facendo schioccare le labbra per indurre il cavallo a girarsi e ad avviarsi lungo la strada in direzione di Solace. «Chi sono quelli?» chiese d'un tratto, girandosi di scatto a guardare in direzione della scuola. «Non badare a loro, fratello», consigliò Raistlin in tono sommesso. Le lezioni erano finite e come sempre il maestro aveva approfittato di quel momento della giornata per "meditare", il che significava che era possibile trovarlo nella biblioteca con accanto un libro chiuso e una bottiglia aperta di quel vino di porto per cui Ergoth Settentrionale era famoso, uno stato meditativo in cui lui sarebbe rimasto fino all'ora di cena, quando la governante sarebbe andata a svegliarlo. In teoria, i ragazzi avrebbero dovuto usare quel tempo per studiare, ma il Maestro Theobald non controllava mai cosa facessero e questo significava che erano lasciati a loro stessi. Quel giorno, un gruppetto di allievi si era raccolto sul retro della scuola per salutare Raistlin. «Ciao, Furbacchione!» stavano gridando all'unisono, guidati da un ragazzo alto con i capelli rosso carota e il volto coperto di lentiggini, che era giunto da poco alla scuola. «Furbacchione!» ripeté Caramon, guardando verso il fratello. «Si riferiscono a te, vero?» aggiunse quindi, aggrottando le sopracciglia in un'espressione seccata mentre faceva fermare il carro. «Caramon, lascia perdere», consigliò Raistlin, posando una mano sul braccio muscoloso del fratello. «Invece non lo farò, Raist», ribatté Caramon, serrando i pugni che per un tredicenne erano davvero formidabili. «Non dovrebbero offenderti in quel modo!». «Caramon, no!» ordinò però Raistlin, in tono brusco. «Mi occuperò io di loro a mio modo e a tempo debito». «Ne sei certo, Raist?» insistette Caramon, scoccando un'occhiata rovente
in direzione del gruppetto di ragazzi. «Non ti potranno più insultare se avranno le labbra spaccate». «Non potranno farlo oggi, forse, ma domani io dovrò comunque tornare qui», gli fece notare Raistlin. «Avanti, avvia il carro, voglio arrivare a casa prima che scenda il buio». Caramon obbedì, come faceva sempre quando il gemello gli impartiva un ordine: come era pronto ad ammettere allegramente, fra loro due il pensatore era Raistlin e da tempo Caramon aveva finito per dipendere dalla guida del gemello nella maggior parte delle aree della sua vita, compresi i giochi che facevano con gli altri ragazzi, come Palla Orchetto, Tieni Lontano il Kender e Thane Sotto la Montagna. A causa della salute malferma, Raistlin non poteva partecipare a questi giochi esuberanti ma osservava con attenzione il loro svolgersi e con la sua mente rapida elaborava strategie vincenti che confidava al fratello. Senza i consigli di Raistlin, Caramon tendeva a segnare per errore dei punti a favore degli avversari in Palla Orchetto, finiva invariabilmente per rivestire il ruolo del kender in Tieni Lontano il Kender e in Thane Sotto la Montagna cadeva costantemente vittima delle tattiche militari del più maturo Sturm Brightblade; quando invece Raistlin era presente a ricordargli qual era l'estremità giusta del campo di gioco o a suggerirgli schemi astuti con cui sconfiggere gli avversari, accadeva spesso che Caramon uscisse vincitore dai giochi. Incitato di nuovo il cavallo a mettersi in movimento, Caramon fece avviare il carro lungo la strada segnata da solchi e alle loro spalle i richiami cessarono ben presto, perché i ragazzi si erano ormai stancati di quel divertimento. «Non capisco perché non hai lasciato che li pestassi», protestò Caramon. «Perché», rispose silenziosamente Raistlin, «sapevo benissimo cosa sarebbe successo e come sarebbe andata a finire: tu li avresti pestati a dovere, per usare la tua elegante definizione, poi li avresti aiutati a rialzarsi, avresti assestato loro una pacca sulla schiena affermando che non portavi rancore, e alla fine sareste diventati tutti ottimi amici... tutti tranne me, tranne il Furbacchione. No, questa è una lezione che impartirò a modo mio, e allora loro scopriranno cosa significhi essere furbi». Raistlin avrebbe probabilmente continuato a rimuginare e a elaborare piani in silenzio, meditando sui torti subiti, se non fosse stato per suo fratello, che prese a parlare dei loro genitori, dei loro amici e del clima eccellente. Quel giorno l'aria era calda e tiepida, pervasa del profumo delle
piante in crescita che si mescolava all'odore del cavallo e del fieno appena tagliato, aromi decisamente migliori del puzzo di cavolfiore e di ragazzi che si lavavano soltanto una volta alla settimana. Raistlin inspirò a fondo quell'aria calda e fragrante senza mettersi a tossire, e mentre il sole diffondeva nel suo corpo un piacevole calore si trovò ad ascoltare con divertimento la conversazione del fratello. «Nostro padre è lontano da tre settimane e con ogni probabilità tornerà soltanto alla fine del mese. La mamma si è ricordata che oggi tu saresti tornato a casa», riferì Caramon, scoccando un'occhiata in tralice al gemello. «Sai, sta molto meglio ultimamente, Raist, al punto che ti accorgerai anche tu del cambiamento. È così da quando la Vedova Judith ha preso l'abitudine di venire a tenerle compagnia durante le sue giornate più brutte». «La Vedova Judith?» ripeté Raistlin, in tono tagliente. «Chi è questa Judith? E cosa vuol dire che tiene compagnia alla mamma durante le sue giornate più brutte? Cosa fate tu e nostro padre?». «Questo è stato un inverno duro, Raist», spiegò Caramon, agitandosi a disagio sul sedile. «Tu eri lontano, e nostro padre doveva lavorare, non poteva smettere perché altrimenti saremmo morti di fame. Quando il Fattore Sedge è rimasto bloccato dalla neve e non ha più avuto bisogno di me, mi sono procurato un lavoro alle stalle, dove nutrivo i cavalli e rimuovevo il letame. Abbiamo cercato di lasciare la mamma da sola, ma... ecco, non ha funzionato: un giorno lei ha rovesciato una candela senza accorgersene e per poco non ha bruciato la casa. Abbiamo fatto del nostro meglio, Raist». Raistlin non ribatté e sprofondò in un iroso silenzio, furente con suo padre e con suo fratello che non avrebbero dovuto affidare la mamma alle cure di un'estranea, e con se stesso perché riteneva che non avrebbe dovuto lasciarla. «La Vedova Judith è davvero gentile, Raist», continuò intanto Caramon, sulla difensiva. «Nostra madre la trova molto simpatica, e come ti ho detto sta molto meglio da quando c'è lei. Judith viene ogni mattina, aiuta la mamma a vestirsi e le pettina i capelli, poi le fa mangiare qualcosa e si mette a cucire o a fare altri lavori con lei, parlandole di continuo e impedendole di avere le sue crisi... scusa, volevo dire che le impedisce di entrare in trance», si corresse Caramon, guardando il fratello con aria piena di disagio. «Di cosa parlano?» volle sapere Raistlin. «Non lo so... cose di donne, immagino», rispose Caramon, mostrandosi sorpreso. «Non le ho mai ascoltate».
«E come possiamo permetterci di pagare questa donna?». «Non la paghiamo, Raist, è questo il bello!» sorrise Caramon. «Lei non vuole nulla in cambio». «Da quando in qua accettiamo la carità?» insistette Raistlin. «Non è carità, Raist. Noi ci siamo offerti di pagare, ma lei non vuole nulla perché aiutare gli altri fa parte della sua religione. Si tratta di quel nuovo ordine sorto ad Haven, di cui abbiamo sentito parlare... i Belzoriti, o qualcosa del genere. Lei è una di loro». «Tutto questo non mi piace, perché nessuno fa niente per niente», dichiarò Raistlin. «Cosa vuole questa donna?». «Cosa vuole? Cosa potrebbe volere, considerato che la nostra casa non pullula certo di gioielli? La Vedova Judith è soltanto una persona gentile, Raist... fai tanta fatica a crederlo?». A quanto pareva, Raistlin faticava davvero a convincersi, perché continuò a porre domande. «Come vi siete imbattuti in questa "persona gentile," fratello mio?» volle sapere. «In effetti è stata lei a venire da noi», rispose Caramon, dopo aver impiegato un momento a ricordare. «Un giorno si è presentata alla porta e ha detto di aver sentito che nostra madre non si sentiva bene. Sapendo che noi uomini dovevamo andare a lavorare», spiegò Caramon, manifestando un certo orgoglio nell'usare la formula plurale, «si è offerta di tenere compagnia alla mamma durante la nostra assenza. Ha detto di essere una vedova con figli adulti che vivevano per conto loro e di sentirsi quindi a sua volta sola. Inoltre ha spiegato che il Sommo Sacerdote di Belzor ordina ai suoi seguaci di aiutare gli altri». «Chi è Belzor?» domandò Raistlin, in tono sospettoso. Ormai perfino la proverbiale pazienza di Caramon si era esaurita. «L'Abisso mi è testimone che non lo so, Raistlin!» sbottò. «Chiediglielo tu stesso, però bada di essere gentile con lei perché è ci stata molto utile, d'accordo?». Raistlin non si prese neppure la briga di rispondere e scivolò in un cupo silenzio meditabondo. Lui stesso non aveva idea del perché quella notizia lo avesse sconvolto tanto: forse era soltanto una conseguenza del proprio senso di colpa per aver abbandonato sua madre alle cure di un'estranea, ma al tempo stesso aveva la sensazione che in quella faccenda ci fosse qualcosa che non quadrava. Suo padre e Caramon erano troppo fiduciosi, troppo pronti a credere
nella bontà della gente, e di conseguenza erano facili da ingannare, mentre lui era convinto che nessuno potesse dedicare la propria giornata alla cura di un'altra persona senza trarne un guadagno di qualche tipo. Nessuno. «Non sei arrabbiato con me, vero, Raist?» domandò d'un tratto Caramon, scoccando al fratello un'occhiata ansiosa e preoccupata. «Mi dispiace di averti risposto male, ma... ecco, tu non hai ancora conosciuto la vedova, e...». «Sembri godere di ottima salute, fratello mio», lo interruppe Raistlin, che non voleva sentir parlare ancora della Vedova Judith. «Sono cresciuto di dodici centimetri dallo scorso autunno», dichiarò Caramon, ergendosi con orgoglio sulla persona. «Nostro padre mi ha misurato a ridosso dello stipite della porta. Adesso sono più alto di tutti i nostri amici, perfino di Sturm». Raistlin si era già accorto della cosa, e non aveva potuto fare a meno di constatare che Caramon non era più un bambino: nel corso di quell'inverno si era trasformato in un giovane avvenente: robusto, alto per la sua età, con una massa di capelli ricciuti e con grandi occhi castani di un'onestà quasi intollerabile. Caramon era d'indole allegra e cordiale, cortese con gli adulti, pronto a divertirsi e a stare in compagnia, ed era sempre disposto a ridere di uno scherzo anche se ne era lui stesso la vittima. Grazie a queste sue doti, era considerato un amico da ogni persona giovane di Solace, dal severo e in genere introverso Sturm Brightblade ai bambinetti del fattore Sedge, che chiedevano sempre di essere trasportati sulle sue ampie spalle. In quanto agli adulti, i loro vicini e in particolare le donne provavano compassione per quel ragazzone così solo e lo invitavano di continuo a pranzo con la loro famiglia; considerato che lui non rifiutava mai un pasto che gli veniva offerto anche se aveva appena finito di mangiare, Caramon era probabilmente il ragazzo meglio nutrito di tutta Solace. «Ci sono notizie di Kitiara?» domandò infine Raistlin. «Non abbiamo saputo nulla per tutto l'inverno», rispose Caramon, scuotendo il capo. «Ormai è passato un anno dall'ultima volta che abbiamo avuto suo notizie. Credi, voglio dire, forse è morta...». I due fratelli si scambiarono una lunga occhiata che rese evidente la loro somiglianza, che di solito passava inosservata, poi scossero entrambi il capo e infine Caramon scoppiò a ridere. «D'accordo, non è morta. Ma in tal caso, dov'è?». «A Solamnia», replicò Raistlin. «Cosa?» esclamò Caramon, stupefatto. «Come fai a saperlo?».
«Dove altro potrebbe essere andata, considerato che era decisa a cercare suo padre o almeno la sua famiglia?». «Perché dovrebbe avere bisogno di loro?» obiettò Caramon. «Lei ha noi». Raistlin si limitò a sbuffare senza rispondere. «In ogni caso, tornerà a prenderci», continuò Caramon, con sicurezza. «Tu andrai con lei, Raistlin?». «Forse, dopo che avrò superato la Prova». «La Prova? È come quelle a cui ci sottopone nostro padre?» domandò Caramon, con aria indignata. «Basta sbagliare una sola, miserabile addizione e si viene mandati a letto senza cena. In questo modo una persona potrebbe morire di fame! E poi, che se ne fa un guerriero dell'aritmetica?» rincarò, sferzando l'aria con una spada immaginaria con tanto vigore da spaventare il cavallo. «Ehi! Ooops. Scusami, Bess, mi dispiace. Immagino che potrei aver bisogno di conoscere l'aritmetica per poter contare le teste di tutti gli orchetti che ucciderò o quanti pezzi di torta tagliare, ma niente di più. Di certo non mi serviranno i quadrati, i dividendi e i divisori e tutte quelle altre cose». «In tal caso crescerai ignorante quanto un nano dei fossi», ribatté in tono freddo Raistlin. «Non m'importa» dichiarò Caramon, battendogli una pacca sulla spalla. «Potrai sempre calcolare tu i quadrati al mio posto». «Potrebbe arrivare un tempo in cui io non ti sarò più accanto, Caramon», avvertì Raistlin in tono quieto. «Noi staremo sempre insieme, Raist», replicò compiacente Caramon. «Noi siamo gemelli, io ho bisogno di te per calcolare i quadrati e tu hai bisogno che mi occupi di te». Raistlin sospirò interiormente, ammettendo suo malgrado che Caramon aveva ragione e pensando che dopo tutto non sarebbe stato poi così brutto combinare la forza del suo gemello con la forza della propria mente... «Ferma il carro!» ingiunse d'un tratto. Sorpreso, Caramon assestò uno strattone alle redini e fece arrestare il cavallo. «Cosa c'è? Devi urinare? Hai bisogno che venga con te? Cosa succede?». «Resta qui e aspettami, non ci metterò molto», rispose Raistlin, scendendo dal carro. Atterrato sulla strada di terra battuta se ne allontanò per addentrarsi nel
fitto dei cespugli e delle erbacce, al di là dei quali c'era un campo di grano che ondeggiava come un lago dorato che si riversasse contro una riva coperta di pini verde scuro. Spingendo di lato con impazienza le erbacce, Raistlin cercò quella chiazza bianca che aveva intravisto dall'alto del carro e finalmente l'individuò: fiori bianchi dai petali cerei che si allargavano sullo sfondo di ampie foglie verde scuro dai bordi seghettati e coperte di sottili filamenti. Arrestandosi, esaminò la pianta e l'identificò senza difficoltà, riflettendo al tempo stesso su come fare per raccoglierla senza danni. Dopo un momento tornò di corsa al carro. «Cosa c'è?» domandò Caramon, allungando il collo nel tentativo di vedere meglio. «Hai trovato un serpente?». «È una pianta» rispose Raistlin mentre allungava la mano all'interno del carro e afferrava il proprio fagotto di indumenti, prelevandone una camicia e tornando alla pianta che aveva trovato. «Una pianta...» ripeté intanto Caramon, con aria perplessa, poi s'illuminò in volto e chiese: «È commestibile?». Senza replicare, Raistlin s'inginocchiò accanto alla pianta con la camicia avvolta intorno alla mano destra, usando la sinistra per staccare dalla cintura un piccolo coltello; muovendosi con cautela in modo da evitare che la mano esposta entrasse in contatto con i filamenti che coprivano le foglie, ne tagliò quindi alcune dallo stelo, raccogliendole con la mano protetta dalla camicia per poi trasportarle con cautela fino al carro. «Tutto per un mucchietto di foglie?» esclamò Caramon, fissandolo con sconcerto. «Non le toccare!» avvertì Raistlin. «Perché no?» chiese Caramon, ritraendo di scatto la mano. «Vedi quei piccoli filamenti che coprono le foglie?». «Fila... cosa?». «Dei peli... quei sottili peli sulle foglie. Questa pianta si chiama "ortica", e se tocchi le foglie ti farà venire delle vesciche sulla pelle. È una cosa molto dolorosa, e a volte ci sono persone che hanno una reazione tanto violenta da morirne». «Accidenti!» esclamò Caramon, sbirciando le foglie di ortica sparse sul fondo del carro. «A cosa ti serve una pianta del genere?». «Io studio le piante», rispose Raistlin, tornando a salire a cassetta. «Ma potresti farti del male», protestò Caramon. «Perché vuoi studiare una cosa che potrebbe farti del male?». «Tu ti eserciti con quella spada che Kitiara ti ha portato. Ricordi la pri-
ma volta che hai provato ad usarla? Per poco non ti sei staccato un piede!». «Ho ancora la cicatrice», ammise con aria contrita Caramon. «Sì, suppongo che tu abbia ragione». Da quel momento i due fratelli parlarono di altri argomenti, con Caramon che portava avanti la maggior parte della conversazione, raccontando le novità successe a Solace: chi era arrivato in città e chi se n'era andato, chi era nato e chi era morto; oltre alle piccole avventure del loro gruppo di amici, costituito dai bambini con cui erano cresciuti. Caramon passò quindi alla notizia più sensazionale di tutte: un kender si era stabilito a Solace, lo stesso che aveva causato tanta agitazione durante la fiera e che adesso era andato a vivere insieme al burbero nano che lavorava i metalli. Quest'ultimo si era infuriato e aveva protestato ma aveva dovuto rassegnarsi perché l'unico modo per liberarsi del kender, che pareva prossimo ogni giorno a fare una fine prematura per questo o quel motivo, sarebbe stato annegarlo. Mentre Caramon parlava Raistlin lo ascoltava in silenzio, lasciando che la voce del fratello si riversasse su di lui, riscaldandolo come il tiepido sole primaverile. Al tempo stesso le chiacchiere allegre e distratte di Caramon ebbero l'effetto di cancellare almeno in parte il timore che lui provava all'idea di tornare a casa e di rivedere sua madre, la cui salute gli appariva sempre più cagionevole. Gli inverni la prosciugavano e le stroncavano le forze, ed ogni primavera al suo ritorno lui la trovava un po' più pallida, un po' più magra, un po' più immersa nel suo mondo di sogno. Quanto al fatto che questa Vedova Judith la stesse davvero aiutando, ci avrebbe creduto quando lo avesse visto con i propri occhi. «Se vuoi posso lasciarti al crocevia, Raistlin, perché devo lavorare nei campi fino al tramonto», disse infine Caramon. «Oppure puoi venire con me e riposare nel carro fino all'ora di andare a casa. In questo modo potremo tornare indietro insieme a piedi». «Verrò con te, fratello mio», rispose in tono pacato Raistlin. Caramon arrossì per la soddisfazione e cominciò a parlare della famiglia del fattore Sedge e dei suoi bambini. A Raistlin non interessava minimamente quella gente, ma era soddisfatto di aver rinviato il momento in cui sarebbe dovuto tornare a casa e di aver fatto in modo di non essere solo quando infine avesse rivisto Rosamun, senza contare che aveva anche reso felice Caramon. Del resto, bastava così poco a farlo felice! Lanciando un'occhiata alle foglie di ortica che aveva raccolto, Raistlin si
accorse che stavano cominciando ad avvizzire a causa del sole e provvide ad avvolgerle con cura nella camicia per proteggerle. «Jon Farnish», chiamò il Maestro Theobald, seduto come sempre alla sua cattedra, davanti agli allievi. «Il compito che ti ho assegnato era di raccogliere sei erbe che potessero essere usate come componenti per incantesimi. Vieni avanti e mostraci cosa hai trovato». Jon Farnish, con i capelli rossi puliti e pettinati, e con il volto lentigginoso atteggiato ad un'espressione solenne e studiosa, almeno finché era in presenza del maestro, scese dall'alto sgabello e si portò sul davanti della classe, inchinandosi al Maestro Theobald che rispose con un sorriso e un cenno del capo perché aveva preso in simpatia quel ragazzo lentigginoso che non mancava mai di mostrarsi estremamente impressionato ogni volta che lui usava anche il più insignificante fra gli incantesimi. Volgendo le spalle al maestro in modo da fronteggiare i compagni di classe, Jon Farnish intanto roteò gli occhi, gonfiò le guance e incurvò verso il basso gli angoli della bocca in modo da creare una caricatura del maestro, con il risultato che gli altri ragazzi si nascosero la bocca per celare il riso o si affrettarono a distogliere lo sguardo. Uno di essi scoppiò addirittura in una risata che cercò di trasformare in un colpo di tosse, con il risultato di finire quasi per strozzarsi. «Silenzio, per favore», ingiunse il Maestro Theobald, accigliandosi. «Jon Farnish, non lasciarti infastidire da questi individui chiassosi». «Cercherò di evitarlo, maestro», rispose Jon Farnish. «Continua, per favore». «Sì, maestro», assentì Jon Farnish, infilando la mano destra nella sacca che teneva nella sinistra. «La prima pianta che ho raccolto...». All'improvviso il ragazzo s'interruppe, trattenne il respiro con un sussulto poi urlò di dolore e scagliò al suolo la sacca, agitando la mano destra. «Qualcosa... qualcosa mi ha punto!» balbettò. «Ow! Brucia come il fuoco! Ow!». Con le lacrime che gli scorrevano lungo le guance infilò la mano destra sotto l'ascella sinistra e prese a saltellare per l'agonia davanti all'intera classe. Adesso soltanto uno dei suoi compagni stava sorridendo. Alzandosi in piedi, il Maestro Theobald si affrettò ad avvicinarglisi e gli afferrò la mano, esaminandola ed emettendo infine un grugnito seccato. «Va' in cucina e chiedi alla cuoca di darti un po' di burro da spalmarci
sopra», ordinò. «Ma cos'è stato?» annaspò il ragazzo, fra un gemito e l'altro. «Una vespa? Un serpente?». Raccolta la sacca, il maestro sbirciò al suo interno. «Sciocco ragazzo, hai raccolto delle foglie di ortica. Forse d'ora in poi starai più attento durante le lezioni. Adesso va' e smettila di piagnucolare. Raistlin Majere, vieni avanti». Raistlin si avvicinò alla cattedra e rivolse un cortese inchino al maestro prima di girarsi per fronteggiare i compagni di classe, lasciando vagare lo sguardo per l'aula mentre gli altri lo fissavano a loro volta con aria cupa e con le labbra serrate per poi distogliere lo sguardo di fronte alla sua espressione trionfante. Loro sapevano. Loro avevano capito. Infilando una mano nella propria sacca, Raistlin esibì alcune foglie fragranti. «La prima pianta di cui parlerò oggi è la maggiorana, una spezia così chiamata in onore di uno degli antichi dèi, Majere...». CAPITOLO SECONDO I primi giorni dell'estate in cui Raistlin aveva tredici anni furono insolitamente caldi, al punto che le foglie dei vallenwood pendevano inerti e flosce nell'aria afosa, e il sole abbronzò la pelle di Caramon e scottò quella di Raistlin nel corso del viaggio avanti e indietro da scuola che essi compivano quotidianamente sul carro del fattore. A scuola, gli allievi si mostravano distratti e intontiti a causa del caldo, trascorrendo le loro giornate a combattere contro le mosche e ad assopirsi soltanto per essere risvegliati dai colpi di ramo di salice del Maestro Theobald. Alla fine, perfino il maestro stesso dovette riconoscere che con quel caldo era impossibile ottenere risultati degni di questo nome, senza contare che era prossimo un Conclave dei Maghi a cui lui desiderava partecipare, quindi concesse agli allievi una vacanza di otto settimane, comunicando che la scuola sarebbe ripresa in autunno, dopo il raccolto. Raistlin fu grato di quella vacanza, che avrebbe almeno costituito un cambiamento nella routine quotidiana, ma non aveva ancora trascorso a casa un intero giorno che già si trovava a desiderare di essere di nuovo a scuola, e nel ricordare le provocazioni degli altri allievi, la zuppa di cavolo e il Maestro Theobald si chiese per quale motivo non fosse contento di es-
sere a casa, rendendosi infine conto che non sarebbe stato felice da nessuna parte perché si sentiva irrequieto e insoddisfatto. «Hai bisogno di una ragazza», gli consigliò Caramon. «Non credo proprio», ribatté Raistlin, in tono acido, lanciando un'occhiata in direzione di tre sorelle che stavano fingendo di essere impegnate a stendere il bucato sui rami del vallenwood ma che non stavano dedicando la loro attenzione a gonne e camicie, e continuavano invece a guardare in direzione di Caramon e a lanciargli sorrisi. «Ti rendi conto di quanto apparite sciocchi tu e gli altri, fratello mio? Gonfiate il petto, flettete i muscoli, scagliate le asce contro gli alberi oppure vi prendete a pugni a vicenda e per che cosa? Soltanto per ottenere l'attenzione di una ragazza!». «Io ottengo qualcosa di più della loro attenzione, Raistlin», replicò Caramon, con una strizzata d'occhio. «Vieni con me e ti presenterò a Lucy, che ha detto di trovarti piacevole». «Anch'io ho gli orecchi, Caramon», precisò con freddezza Raistlin. «Ciò che lei ha detto è stato che trovava piacevole il tuo fratellino». «Non intendeva quello che pensi, Raist», protestò Caramon, arrossendo per il disagio. «Lei non sapeva che eravamo gemelli, e quando le ho spiegato che abbiamo la stessa età e...». Raistlin gli volse le spalle e si allontanò. Le parole sventate di quella ragazza lo avevano ferito in profondità, causandogli un dolore che lo irritava perché in realtà voleva essere tanto superiore da non interessarsi a quello che gli altri pensavano di lui. La colpa era tutta del suo corpo traditore, che prima lo aveva danneggiato con la sua fragilità e la sua salute cagionevole, e adesso lo torturava con vaghi desideri che non riusciva neppure a comprendere e che considerava comunque disgustosi: a suo parere, Caramon si stava comportando come un cervo durante la stagione degli amori. In ogni caso le ragazze, o il fatto di non averne una per sé, non erano il suo problema principale, di cui non riusciva a discernere la natura. Una notte la calura cessò poi di colpo con una violenta tempesta, e Raistlin rimase sveglio nel letto a osservare i fulmini che scaturivano dalle nubi ribollenti con spettrali bagliori arancione e rosa, godendo del fragore dei tuoni che scuotevano i vallenwood e vibravano attraverso il pavimento. Poi ci fu un bagliore accecante seguito da una violenta esplosione, da un odore di zolfo e da un fragore di legno infranto, segno che il fulmine si era abbattuto poco lontano. Di lì a poco grida di allarme che avvertivano dello scoppio di un incendio echeggiarono soffocate dal frastuono dei tuoni e subito Caramon e Gilon uscirono sotto la pioggia torrenziale per aiutare a
combattere le fiamme in quanto esse erano il peggior nemico di Solace: anche se gli alberi di vallenwood erano più resistenti al fuoco della maggior parte delle altre piante, un incendio incontrollato avrebbe potuto infatti distruggere l'intera città. Raistlin intanto rimase accanto a sua madre, che stava piangendo e continuava a chiedere perché suo marito non era rimasto a casa a confortarla mentre Raistlin osservava il progredire delle fiamme con il libro d'incantesimi stretto sotto il braccio nel caso che lui e sua madre avessero dovuto darsi alla fuga. La tempesta cessò all'alba, lasciandosi alle spalle un solo albero distrutto e tre abitazioni bruciate anche se per fortuna le famiglie erano fuggite in tempo e nessuno era rimasto ferito. Intorno, il terreno era cosparso di foglie e di rami, l'aria era intrisa dell'odore nauseante del fumo e del legno umido, e tutti i ruscelli e i torrenti che scorrevano nelle vicinanze della città erano straripati. I campi che fino al giorno prima erano riarsi per la calura erano adesso inondati. Uscito di casa per verificare i danni, come stavano facendo praticamente tutti gli abitanti di Solace, Raistlin si avviò lungo il limitare della foresta e indugiò a contemplare il torrente il cui livello stava salendo sempre più: nel fissare quelle acque di solito placide ed ora ribollenti, schiumose e decise a consumare rabbiosamente le rive che per tanto tempo le avevano tenute confinate, Raistlin si sentì in perfetta sintonia con esse. Giunse l'autunno, portando giorni freddi e pungenti, notti rischiarate dalle lune piene e una marea di rossi e di tinte dorate. Il frusciare e il vorticare delle foglie che cadevano non contribuì certo a migliorare l'umore di Raistlin e il cambiamento di stagione, quella malinconia fra il dolce e l'amaro che era propria dell'autunno, che portava con sé sia il raccolto sia le prime gelate, servirono soltanto ad esacerbare il suo cattivo umore. Quel giorno lui sarebbe tornato a scuola e avrebbe ripreso a risiedere presso il Maestro Theobald, e stava aspettando quel momento con la stessa ansia con cui aveva atteso quello di tornare a casa, perché, se non altro, si trattava di un cambiamento che avrebbe dato al suo cervello qualche altra cosa da fare a parte tormentarlo con immagini di riccioli dorati, di dolci sorrisi, di seni rigogliosi e di ciglia maliziose. L'alba di tardo autunno sorse gelida, con la brina che scintillava sulle foglie rosse e oro dei vallenwood e copriva i ponti di legno rendendoli scivolosi e infidi fino a quando il sole non li avesse asciugati. Sopra i Picchi delle Sentinelle le nubi incombevano grigie e basse, e nell'aria si avvertiva già l'odore della neve, segno che sulle montagne avrebbe cominciato a nevica-
re entro la fine della settimana. Preparandosi a partire, Raistlin ripose in una sacca alcuni vestiti: due camicie fatte in casa, biancheria, un paio di mutandoni di scorta e calzini di lana. La maggior parte di quegli indumenti erano nuovi, fatti per lui da sua madre, e in effetti ne aveva avuto bisogno perché quell'estate era cresciuto fino a raggiungere la statura di Caramon, anche se gli mancava sempre la mole del suo più massiccio fratello con il risultato che la più alta statura serviva soltanto a sottolineare la sua eccessiva magrezza. «Cosa stai facendo, figlio?» chiese Rosamun, entrando nella stanza e soffermandosi ad osservarlo con i suoi sbiaditi occhi azzurri. Sollevando lo sguardo con fare guardingo, Raistlin constatò che i morbidi capelli castani di sua madre erano spazzolati, pettinati e raccolti in modo ordinato sotto un cappellino; quel giorno lei indossava una gonna e un corpetto puliti sopra una nuova blusa che si era cucita da sola sotto la guida della Vedova Judith. Nel sentire il suono della voce di sua madre, Raistlin si era irrigidito istintivamente ma adesso si rilassò nel constatare che quella era un'altra delle sue buone giornate. A dire il vero, Rosamun non aveva più avuto una giornata di crisi durante tutta l'estate, cosa di cui Raistlin supponeva si dovesse ringraziare la Vedova Judith. Personalmente, lui non sapeva come classificare quella donna. Al suo rientro era stato pronto a diffidare di lei, si era aspettato di scoprire sul suo conto qualcosa di nefasto, un motivo egoistico che la inducesse a mostrarsi tanto disponibile, ma finora i suoi sospetti erano risultati infondati e lei era risultata essere ciò che sembrava... una vedova sulla quarantina, con un volto piacevole e mani lisce dalle dita lunghe e aggraziate, dotata di una voce melodiosa e di una notevole abilità di parola abbinata ad una risata accattivante che non mancava mai di far affiorare un sorriso sul volto pallido e magro di Rosamun. Adesso la casa dei Majere era pulita e ben organizzata, una cosa che non si era mai vista prima dell'arrivo della Vedova Judith, Rosamun mangiava ad orari regolari, dormiva per tutta la notte, andava al mercato e andava a fare visite... sempre accompagnata dalla Vedova Judith. La donna si mostrava cordiale con Raistlin anche se non quanto lo era con Caramon: quando aveva a che fare con Raistlin lei appariva più riservata, e a poco a poco lui si era reso conto che la vedova sembrava sorvegliarlo, al punto che in casa non poteva fare nulla senza sentirsi addosso il suo sguardo.
«Lei sa di non piacerti, Raist», aveva commentato al riguardo Caramon, in tono di accusa. Raistlin si era limitato a scrollare le spalle perché quell'affermazione era vera, anche se lui non avrebbe saputo spiegare il perché della sua avversione. Sapeva soltanto che quella donna non gli piaceva e che era quasi certo di non piacerle a sua volta. Uno dei motivi della sua avversione avrebbe potuto essere il fatto che Rosamun, Gilon, Caramon e la Vedova Judith formavano una famiglia di cui lui, Raistlin, non faceva parte... non perché non fosse stato invitato ad entrarvi ma perché aveva volutamente scelto di restarne fuori. Nelle sere in cui Gilon era a casa i quattro sedevano fuori della porta, scherzando e raccontandosi storie, mentre Raistlin rimaneva dentro e si concentrava sullo studio delle sue annotazioni scolastiche. Adesso che sua moglie era stata salvata dalla follia che le divorava la mente e sembrava essere giunta ad un porto sicuro, Gilon appariva un uomo diverso: le rughe di preoccupazione erano infatti scomparse dalla sua fronte, lui rideva più spesso e riusciva addirittura a portare avanti con Rosamun delle conversazioni relativamente normali. D'estate era possibile trovare lavoro più vicino a casa, e questo permetteva a Gilon di tornare più spesso dalla famiglia, cosa che faceva piacere a tutti tranne a Raistlin, che aveva finito per abituarsi alle assenze di suo padre e si sentiva soffocato quando quell'uomo massiccio era in casa. Inoltre non gli piaceva molto neppure il cambiamento avvenuto in sua madre perché sentiva la mancanza delle fantasticherie di un tempo e dei momenti che loro due avevano passato insieme da soli: il nuovo calore che si era sviluppato fra lei e Gilon lo contrariava perché era un'intimità che lo faceva sentire ancor più isolato. Caramon era senza ombra di dubbio il favorito di Gilon, che lui adorava a sua volta. Il grosso boscaiolo cercava d'interessarsi anche all'altro gemello, ma lui era come gli alberi che abbatteva, lento a crescere, a muoversi e a pensare, quindi non riusciva a capire l'amore di Raistlin per la magia e pur avendo accettato di mandarlo alla scuola per maghi continuava segretamente a sperare che il ragazzo finisse per trovarla noiosa e per abbandonarla. Gilon persisteva nel nutrire quella segreta speranza un anno dopo l'altro, e si mostrava sempre deluso quando infine giungeva il giorno in cui la scuola ricominciava e Raistlin si preparava a partire. Misto alla delusione adesso era però possibile scorgere anche un certo sollievo, perché quell'estate Raistlin era stato come uno sconosciuto che avesse alloggiato
presso la famiglia, uno sconosciuto ostile e irritabile: sebbene non fosse disposto ad ammetterlo neppure con se stesso, Gilon era contento di vedere che suo figlio stava per ripartire. Quel sentimento era del resto reciproco. A volte Raistlin si sentiva dispiaciuto per la propria incapacità di amare maggiormente suo padre, così come percepiva in modo vago che anche Gilon era rammaricato di non riuscire ad amare questo suo strano figlio. Mentre arrotolava i calzini per riporli, Raistlin si confortò pensando che l'indomani sarebbe partito: gli sembrava incredibile, ma era davvero impaziente di avvertire di nuovo l'odore dei cavoli che cuocevano. «Cosa stai facendo con i tuoi vestiti, Raistlin?» domandò Rosamun. «Sto facendo i bagagli, mamma. Domani tornerò presso il Maestro Theobald e ci rimarrò per tutto l'inverno» rispose Raistlin, sforzandosi di sorridere. «Lo hai dimenticato?». «No», replicò Rosamun, in tono più gelido della brina. «Speravo però che non saresti tornato in quel posto». Raistlin smise di lavorare per fissare sua madre con stupore, in quanto quelle erano parole che si sarebbe piuttosto aspettato di sentire da suo padre. «Non dovrei tornare ai miei studi?» esclamò infine. «Cosa ti ha indotto a pensare una cosa del genere, mamma?». «Quel posto è malvagio, Raistlin!» esclamò Rosamun, con una veemenza e una passione spaventose per la loro intensità. «È malvagio, ti dico!» ribadì, battendo a terra un piede ed ergendosi sulla persona. «Ti proibisco di tornarci ancora!». «Mamma...» cominciò Raistlin, sconvolto, allarmato e perplesso, non sapendo cosa dire perché prima di allora sua madre non aveva mai protestato in merito al genere di studi che lui aveva scelto d'intraprendere, tanto da indurlo a volte a chiedersi se Rosamun sapesse che stava studiando la magia, e se la cosa le importasse. «Mamma, alcune persone pensano male dei maghi, ma ti assicuro che si sbagliano», affermò infine. «Gli dèi del male!» recitò lei, con voce opaca. «Voi adorate gli dèi del male, e in loro onore eseguite atti innaturali e riti immondi!». «Mamma, la cosa più innaturale che ho fatto finora è stato rischiare di rompermi la testa cadendo dal mio sgabello», ribatté Raistlin, in tono asciutto: quelle accuse erano tanto ridicole che gli riusciva difficile prendere sul serio quella conversazione. «Mamma, io trascorro le mie giornate ripetendo le cose che dice il mio maestro, imparando a dire "ah" e "oo" e "uh",
mi ricopro d'inchiostro e di tanto in tanto riesco a scrivere su una pergamena qualcosa che sia quasi leggibile, oppure mi aggiro nei campi per raccogliere fiori. Questo è tutto quello che faccio, mamma» aggiunse con amarezza, «e ti garantisco che spalare letame nelle stalle e raccogliere il grano come fa Caramon è molto più interessante ed eccitante della magia!». D'un tratto smise di parlare, stupefatto di se stesso e dei propri sentimenti: adesso capiva, ora sapeva cosa lo avesse tormentato per tutta l'estate e comprendeva la causa dell'ira e della frustrazione che gli ribollivano dentro come metallo fuso... ira e frustrazione miste a paura e a dubbi su se stesso. Inchiostro e fiori, recitare parole senza senso un giorno dopo l'altro. Dov'era la magia? Quando sarebbe venuta a lui? E poi, sarebbe davvero venuta a lui? Raistlin rabbrividì, percorso da un brivido improvviso, e subito Rosamun gli circondò la vita con un braccio, appoggiando la guancia contro quella di lui. «Hai visto? La tua pelle è calda al tatto e credo che tu abbia la febbre. Non tornare in quell'orribile scuola! Così facendo otterrai soltanto di ammalarti. Resta invece qui con me ed io ti insegnerò tutto quello che hai bisogno di sapere, leggeremo insieme dei libri e faremo aritmetica come quando eri piccolo, tenendoci compagnia». Raistlin ci pensò sopra e scoprì che l'idea lo tentava in maniera sorprendente. Basta con le futilità del Maestro Theobald, basta con le notti silenziose e solitarie in dormitorio, rese ancor più solitarie dal fatto che non era veramente solo, basta con questo tormento interiore, con questo interrogarsi continuo. Cosa era successo alla magia? Dov'era finita? Perché il suo sangue bruciava per qualche stupida ragazza ridacchiante più di quanto facesse quando lui ricopiava gli oa e gli ai? A quanto pareva aveva perso la magia, oppure essa non c'era mai stata e lui si era ingannato. Era giunto il momento di ammettere la sconfitta, di ammettere di aver fallito e di tornare a casa per rinchiudersi in questa calma accogliente, calda e sicura, circondato dall'amore di sua madre. In questo modo avrebbe potuto prendersi cura di lei e mandare via la Vedova Judith. Non volendo lasciar vedere la sua amara infelicità Raistlin chinò il capo, ma Rosamun non si accorse di nulla mentre gli accarezzava una guancia e lo induceva scherzosamente a girarsi verso lo specchio che aveva portato
con sé da Palanthas e che costituiva la sua proprietà più preziosa, un ricordo della giovinezza. «Passeremo momenti meravigliosi insieme, tu ed io. Guarda!» lo incitò, contemplando con compiaciuto orgoglio i due volti riflessi nello specchio. «Guarda quanto siamo simili!». Raistlin non era superstizioso, ma quelle parole pur pronunciate con assoluta innocenza suonarono così nefaste da strappargli un altro brivido. «Stai tremando!» esclamò Rosamun, preoccupata. «Ti avevo detto che hai la febbre. Avanti, sdraiati». «No, mamma, sto bene. Mamma, per favore...» protestò Raistlin, tentando di ritrarsi perché il tocco di lei, che poco prima gli era parso confortante, aveva adesso qualcosa di disgustoso, e pur sentendosi sgomento e vergognoso all'idea di provare una cosa del genere nei confronti di sua madre, lui non riusciva a tollerarlo. Rosamun accentuò però la sua stretta e appoggiò la guancia sul braccio del figlio, che la superava ora in altezza di tutta la testa. «Sei così magro», disse, «troppo magro. Il cibo non ti aderisce alle ossa e tu lo consumi con le preoccupazioni. Inoltre sono certa che è quella scuola che ti sta facendo ammalare, perché la Vedova Judith dice che la malattia è una punizione per tutti coloro che non seguono la via dei giusti». Raistlin non recepì quelle parole perché non la stava più ascoltando in quanto si sentiva soffocare come se qualcuno gli stesse premendo un cuscino sul naso e sulla bocca. Tutto ciò che voleva era riuscire a liberarsi dalla stretta di sua madre per correre fuori, dove avrebbe potuto trarre profonde boccate d'aria fresca. Voleva mettersi a correre e continuare a correre nella notte profumata, imboccare una strada che lo portasse lontano da lì, non importava dove. In quel momento avvertì un'intensa affinità con la sua sorellastra Kitiara e comprese perché lei se ne fosse andata e come dovesse essersi sentita, invidiando la libertà della sua vita e imprecando contro il proprio fragile corpo che lo teneva incatenato al focolare domestico e impastoiato nell'aula della scuola. Aveva sempre supposto che la magia lo avrebbe liberato, nello stesso modo in cui Kitiara era* stata liberata dalla sua spada, ma cosa avrebbe fatto se questo non fosse successo? Se la magia non fosse affiorata in lui? Cosa avrebbe fatto se davvero aveva perduto il suo talento? Il suo sguardo si posò di nuovo sullo specchio, sul volto di sua madre devastato dai sogni ad occhi aperti, e lui si affrettò ad abbassare le palpe-
bre per combattere l'insorgere della paura. CAPITOLO TERZO Dal momento che nevicava, i ragazzi vennero lasciati liberi per tempo perché andassero fuori a giocare fino all'ora di cena con la scusa che fare esercizio fisico al freddo era salutare e serviva ad espandere i polmoni, anche se tutti i ragazzi sapevano che in realtà il solo motivo per cui venivano mandati fuori era che il Maestro Theobald voleva liberarsi di loro. Il maestro era parso stranamente assorto durante tutta quella giornata, come se la sua mente fosse stata altrove, e aveva tenuto le consuete lezioni con fare distratto e dando l'impressione che non gli importasse se gli allievi assimilavano o meno ciò che lui stava loro insegnando. In aggiunta a tutto questo, non aveva fatto ricorso al ramo di salice neppure una volta, anche se uno dei ragazzi si era addormentato poco dopo il pranzo e aveva russato rumorosamente per tutto il resto del pomeriggio. Per la maggior parte dei ragazzi quella disattenzione da parte del maestro era stata un piacevole cambiamento, ma tre di essi l'avevano invece trovata particolarmente sgradevole a causa del fatto che di tanto in tanto il Maestro Theobald era scivolato in lunghi e vacui momenti di silenzio durante i quali il suo sguardo si era posato insistentemente su di loro, che erano i tre allievi più anziani della classe. Uno di essi era Raistlin. Una volta all'esterno, i ragazzi sfruttarono l'abbondante nevicata per costruire un fortino, formare degli eserciti e tempestarsi a vicenda con le palle di neve, ma Raistlin preferì avvolgersi in uno spesso e caldo mantello, che stranamente era un dono di commiato da parte della Vedova Judith, e lasciare gli altri ai loro stupidi giochi per passeggiare in mezzo ai pini che crescevano lungo il lato settentrionale della scuola. Dal momento che non c'era vento, la terra era ammantata nella quiete ovattata che la neve portava sempre con sé, soffocando ogni suono e perfino gli strilli acuti degli altri ragazzi. Raistlin era avvolto nel silenzio in quanto gli alberi erano immoti e gli animali si erano tutti rifugiati nei rispettivi nidi, covi o tane, immersi nel loro sonno invernale; anche i colori sembravano totalmente scomparsi per essere sostituiti dal candore della neve che cadeva, dal nero dei tronchi umidi e dal grigio ardesia del cielo cupo. Giunto al limitare del bosco, Raistlin si arrestò. Inizialmente era stata
sua intenzione addentrarsi fra gli alberi per seguire un sentiero ora ingombro di neve che portava ad una piccola radura dove c'era un tronco caduto che serviva da sedile. Quella radura era il suo rifugio, il santuario di cui nessuno conosceva l'esistenza: lì gli alberi lo riparavano alla vista rispetto alla scuola e al cortile dei giochi, e lui poteva meditare, rimuginare, vagliare il suo assortimento di erbe e di piante, riesaminare le proprie annotazioni, recitare fra sé le lettere dell'alfabeto del linguaggio dell'arcano. Quando aveva scelto inizialmente per sé quella radura lo aveva fatto con la certezza che gli altri ragazzi l'avrebbero trovata e rovinata, magari trascinando via il tronco o rovesciandovi i rifiuti della cucina o il contenuto di qualche pitale, ma gli altri studenti si erano invece tenuti alla larga da essa e pur sapendo che lui vi si appartava spesso non avevano mai tentato di seguirlo. Inizialmente Raistlin se ne era compiaciuto, ritenendo che essi fossero infine giunti a rispettarlo, ma ben presto il compiacimento era svanito quando infine lui si era reso conto che gli altri ragazzi lo stavano lasciando in pace perché dopo l'incidente con l'ortica avevano preso a detestarlo. In passato essi avevano sempre provato antipatia nei suoi confronti, ma adesso all'antipatia si era aggiunta anche una diffidenza tale che essi non traevano più nessun piacere dal provocarlo e preferivano lasciarlo del tutto solo. Per quanto cercasse di dirsi che questo era un cambiamento che gli riusciva gradito, Raistlin sapeva che in effetti non era così, perché lui aveva segretamente gradito l'attenzione dimostratagli dagli altri per quanto essa l'avesse al tempo stesso irritato, ferito o seccato. Se non altro, provocandolo essi avevano mostrato di riconoscerlo come uno di loro, mentre adesso era un fuoricasta. Quel giorno Raistlin aveva avuto intenzione di raggiungere la radura, ma quando si soffermò al limitare della foresta e indugiò ad osservare la neve priva di tracce, che si stendeva in onde lisce e ghiacciate intorno ai tronchi degli alberi, preferì non addentrarsi in mezzo ad essi perché quella neve era perfetta, a tal punto che non se la sentiva di calpestarla, di lasciarsi alle spalle una pista di impronte che ne avrebbe guastato la perfezione. In quel momento suonò la campana della scuola. Chinando la testa per proteggersi dai fiocchi ghiacciati che una lieve e crescente brezza gli stava soffiando negli occhi, Raistlin si girò e s'incamminò attraverso il silenzio, il candore, il nero e il grigio per tornare al caldo, al torpore e alla solitudine dell'aula scolastica
Dopo essersi cambiati gli abiti bagnati con altri asciutti, i ragazzi scesero dabbasso per la cena, che consumarono sotto l'occhio attento anche se un po' vacuo di Marni, in quanto il Maestro Theobald entrava nel refettorio soltanto se questo si rendeva necessario per impedire che il pavimento venisse ricoperto di zuppa. Dal momento che Marni riferiva al maestro l'eventuale cattivo comportamento degli allievi, i lanci di pezzi di pane e i rovesciamenti di minestra erano sempre ridotti al minimo, e comunque quella sera i ragazzi erano così stanchi e affamati dopo le dure battaglie combattute nella neve che la cena si svolse in mezzo ad una calma maggiore del solito; dal momento che il grande refettorio era quasi del tutto silenzioso tranne per qualche risata soffocata qua e là, i ragazzi rimasero quindi estremamente sorpresi nel veder entrare il Maestro Theobald. Subito gli studenti si affrettarono ad alzarsi tutti in piedi, pulendosi il mento dal sugo con il dorso della mano e reagendo con indignazione all'arrivo del maestro in quanto la cena era il loro momento privato in cui lui non aveva nessun diritto d'intromettersi. Theobald non parve notare il loro inquieto agitarsi e le loro occhiate incupite, o forse decise di non badarvi nel concentrare la propria attenzione sui tre allievi più anziani: Jon Farnish, l'aspirante macellaio Gordo e Raistlin Majere. Raistlin capì immediatamente il perché dell'arrivo del maestro nel refettorio, comprese cosa lui stava per dire e cosa stava per succedere anche se non avrebbe saputo dire come faceva a saperlo: forse si trattava di premonizione ereditata da sua madre, o forse era più semplicemente il frutto di una deduzione logica... non aveva idea di quale fosse la spiegazione giusta e neppure gl'importava. Incapace di pensare con chiarezza si sentì raggelare più di quanto gli fosse successo nella neve e al tempo stesso avvertì paura ed esultanza che lottavano dentro di lui per acquisire il predominio. Il pane che aveva in mano gli sfuggì dalle dita improvvisamente inerti, la stanza parve oscillargli sotto i piedi e fu costretto ad appoggiarsi al tavolo per non perdere l'equilibrio. Poi il Maestro Theobald chiamò per nome i tre ragazzi in questione, e Raistlin sentì a stento la sua voce a causa di un ruggito che gli echeggiava negli orecchi e che era violento quanto quello di un fuoco che si levasse su per un camino. «Venite avanti», ordinò il maestro.
Incapace di muoversi, Raistlin si sentì assalire dal terrore di crollare al suolo dove si trovava e si chiese se si stesse ammalando. La vista di Jon Farnish che attraversava il refettorio con aria da cane bastonato, certo di essere nei guai, gli fece quindi salire alle labbra un sorriso di derisione e al tempo stesso la mente gli si schiarì, il fuoco che gli ruggiva negli orecchi si spense e lui. venne avanti a sua volta, con una dignità di cui era perfettamente consapevole. Nell'arrestarsi davanti a Theobald, sentì le parole di quest'ultimo echeggiargli nelle ossa, senza neppure accorgersi di recepirle con gli orecchi. «Dopo lunga e attenta riflessione ho deciso che voi tre, in virtù della vostra età e del vostro rendimento scolastico, sarete messi questa notte alla prova al fine di determinare la vostra capacità di applicare nella pratica ciò che avete appreso. Suvvia, non è nulla di cui allarmarsi», aggiunse vedendo che gli occhi di Gordo, sgranati per la costernazione, stavano roteando nelle orbite, poi proseguì in tono rassicurante: «Questa prova non è per nulla pericolosa e se doveste fallire non vi accadrà nulla di male. Essa mi dirà soltanto se avete fatto la scelta sbagliata nel voler studiare la magia e in tal caso informerò i vostri genitori e chiunque altro sia interessato al vostro andamento scolastico, che a mio parere il vostro permanere qui sarebbe uno spreco di tempo e di denaro». Nel pronunciare quelle ultime parole, il maestro scoccò a Raistlin un'occhiata molto penetrante. «Io non ho mai voluto venire qui!» esclamò d'un tratto Gordo, ora madido di sudore. «Mai! Io voglio fare il macellaio!». Qualcuno scoppiò a ridere e subito il maestro si accigliò con espressione irosa, guardandosi intorno alla ricerca del colpevole che tacque immediatamente e si nascose dietro uno dei compagni mentre tutti gli altri scivolavano nel silenzio. Certo di aver riportato l'ordine, il Maestro Theobald tornò a concentrare l'attenzione sui suoi tre allievi più grandi. «Posso sperare che voi due non condividiate i suoi sentimenti?» domandò. «Io sono impaziente di sottopormi alla prova, maestro», sorrise Jon Farnish. Raistlin provò un impeto d'odio nei suoi confronti, tanto intenso che avrebbe potuto ucciderlo in quello stesso momento: avrebbe infatti voluto essere stato lui a pronunciare quelle parole, con tanta noncuranza e sicurezza. «Io... io sono... sono pronto», fu invece tutto ciò che riuscì a balbettare.
«Lo vedremo», sbuffò il Maestro Theobald, come se dubitasse molto di quell'affermazione. «Seguitemi». Scortò quindi fuori dal refettorio i tre ragazzi, Gordo piagnucolante e riluttante, Jon Farnish impaziente e con il sorriso sulle labbra come se si stesse divertendo, Raistlin con le ginocchia che tremavano a tal punto da impedirgli quasi di camminare. Gli pareva infatti che in quel momento tutta la sua vita fosse in equilibrio precario come la daga di Caramon quando lui la bilanciava sulla punta sopra il tavolo della cucina. Già si vedeva nell'atto di essere allontanato dalla scuola l'indomani mattina, rimandato a casa in disgrazia con il suo fagotto di vestiti sulla spalla, e immaginava gli altri ragazzi schierati lungo il vialetto intenti a ridere e a festeggiare la sua caduta, immaginava il proprio ritorno a casa dove avrebbe dovuto affrontare i goffi e ben intenzionati tentativi di confortarlo da parte di Caramon, il sollievo di sua madre e la compassione di suo padre. E cosa sarebbe stato il suo futuro senza la magia? Di nuovo si sentì raggelare dalla testa ai piedi, pervaso da quell'improvvisa e terribile constatazione in merito a se stesso: senza la magia, per lui non ci poteva essere un futuro. Il Maestro Theobald li guidò attraverso la biblioteca e lungo un corridoio, fino ad una porta bloccata da un incantesimo che dava accesso al suo alloggio privato. Tutti i ragazzi sapevano dove portasse quella porta e supponevano che da essa si potesse accedere a quel laboratorio di cui il maestro parlava tanto spesso. Una notte un gruppo di ragazzi guidato da Jon Farnish aveva effettuato un vano tentativo di annullare la magia che bloccava la serratura, e l'indomani mattina Jon aveva dovuto inventare una scusa per spiegare come si fosse ustionato le dita. Seguito dai tre ragazzi, il maestro si arrestò davanti alla porta in questione, borbottò sottovoce parecchie parole magiche che Raistlin si sforzò automaticamente di cogliere nonostante il tumulto presente nel suo animo. Il suo sforzo non ebbe però successo perché le parole non parevano avere senso e al tempo stesso lui non riusciva a pensare o a concentrarsi, con il risultato che esse gli svanirono dalla mente nel momento stesso in cui cercò di registrarvele. In quel momento non sarebbe riuscito a ricordare neppure come scandire il proprio nome, e tanto meno il complicato linguaggio della magia. Infine la porta si spalancò e il Maestro Theobald afferrò Gordo, che aveva cercato di approfittare del momento in cui lui era impegnato con l'in-
cantesimo per allontanarsi. Affondandogli nella spalla le proprie dita grassocce, il maestro spinse il ragazzo farfugliante e piagnucolante in un salotto, seguito da Jon Farnish e da Raistlin, alle cui spalle la porta si richiuse silenziosa. «Non voglio farlo! Per favore, non mi costringere! Senza dubbio un demone s'impadronirà di me!» ululò Gordo. «Un demone... che sciocchezze! Smettila subito di piagnucolare, stupido ragazzo!» ingiunse il Maestro Theobald, allungando per abitudine la mano verso il ramo di salice soltanto per scoprire che l'aveva lasciato nell'aula. «Se non ritrovi subito il controllo ti prenderò a schiaffi», minacciò allora, in tono più duro. Anche se vuota, la mano del maestro era comunque ampia e grossa, quindi a Gordo bastò darle un'occhiata per tacere, pur continuando di tanto in tanto a tirare su con il naso. «Mandarmi laggiù non servirà a nulla», dichiarò in tono cupo. «Non valgo nulla nell'uso della magia». «Questo è vero», convenne il maestro, «però i tuoi genitori hanno pagato per questo e hanno il diritto di aspettarsi che tu faccia almeno un tentativo». Nel parlare spostò con il piede un vistoso tappeto intrecciato in modo da rivelare una botola, anch'essa bloccata con la magia. Mormorando altre parole arcane, passò quindi tre volte la mano su di essa, poi si protese ad afferrare un anello di ferro e sollevò la botola che si aprì silenziosamente a rivelare una rampa di gradini che scompariva nella calda e aromatica oscurità. «Gordo e io scenderemo per primi», avvertì allora il maestro, e in tono sarcastico aggiunse: «Per sgombrare quel posto da qualsiasi demone». Afferrato per la collottola lo sfortunato Gordo, lo trascinò giù per le scale, seguito con impazienza da Jon Farnish. Raistlin stava per avviarsi a sua volta quando nel posare il piede sul primo gradino s'immobilizzò di colpo: stava per entrare in una tomba aperta. Sconcertato sbatté le palpebre e l'immagine scomparve: adesso davanti a lui non c'era nulla di più sinistro della scala della cantina, ma nonostante questo continuò ad esitare sulla soglia perché aveva imparato da sua madre ad essere sensibile a sogni e portenti e avendo visto la tomba aperta con assoluta chiarezza si stava ora chiedendo cosa questo avesse significato, o se la visione avesse in effetti un significato. Probabilmente si era trattato soltanto di una dannata fantasticheria, frutto della sua immaginazione
troppo attiva, ma per quanto continuasse a ripeterselo esitò ancora in cima alla scala. Jon Farnish era laggiù... solo che adesso non si trattava più di Jon Farnish ma di Caramon, che sostava accanto alla tomba di Raistlin e contemplava con cordoglio e compassione il suo gemello... Serrando gli occhi, Raistlin immaginò di essere lontano da lì, di trovarsi nella sua radura, seduto sul tronco, con la neve che gli cadeva addosso e riempiva il suo mondo, lasciandolo freddo, puro e privo di sentieri. Quando riaprì gli occhi Caramon era scomparso, e così pure la tomba. Con passo rapido e deciso, Raistlin si avviò giù per le scale. CAPITOLO QUARTO Il laboratorio non era come Raistlin, o uno qualsiasi degli altri ragazzi della classe, aveva immaginato. Quella camera nascosta era stata naturalmente oggetto di innumerevoli supposizioni nel corso di clandestine riunioni notturne nel dormitorio, durante le quali era risultato parere comune che il laboratorio del maestro dovesse essere del tutto buio, coperto di ragnatele e pieno di pipistrelli, con un demone imprigionato in una gabbia posta in un angolo. All'inizio dell'anno, i ragazzi più grandi confidavano in un sussurro ai nuovi arrivati che gli strani suoni che era possibile sentire di notte erano prodotti dal demone che agitava le catene nel tentativo di liberarsi, e da quel momento ogni volta che si sentiva un tonfo o uno scricchiolio i ragazzi nuovi si raggomitolavano nel letto tremanti per il timore e convinti che il demone si fosse infine liberato. Una notte in particolare il gatto, andando a caccia di topi in cucina, aveva fatto cadere una padella di ferro appesa alla parete con un frastuono che aveva scatenato il panico generale e laceranti grida di terrore che avevano svegliato il maestro e provocato un'indagine in seguito alla quale questi era venuto al corrente delle storie inerenti al demone e aveva proibito ogni conversazione dopo lo spegnimento delle candele. Gordo era sempre stato uno dei ragazzi dotati di maggiore inventiva quando si era trattato di dare vita al demone chiuso nel laboratorio, terrorizzando i tre bambini di sei anni che erano attualmente ospiti della scuola, ma adesso pareva che fosse rimasto lui stesso la prima vittima della propria inventiva: quando nel girarsi vide una vera gabbia posizionata in un angolo, con le sbarre che scintillavano sotto la fioca luce bianca emessa da
un globo appeso al soffitto, il ragazzo si accasciò infatti al suolo per il terrore. «Dannazione, ragazzo, cosa ti prende? Avanti, rialzati!» ingiunse il Maestro Theobald, pungolandolo e scrollandolo, poi sbirciò nella gabbia e aggiunse: «Buona sera, bellezze, vi ho portato la cena». L'infelice Gordo si tinse di un accentuato pallore dovuto all'evidente convinzione di essere lui stesso la cena in questione, ma subito dopo risultò che il maestro non si stava riferendo ai tre ragazzi bensì ad un pezzo di pane che tirò fuori della tasca e che posò nella gabbia, dove esso venne aggredito da quattro vivaci topi di campagna. Gordo intanto si portò una mano allo stomaco e dichiarò di non sentirsi molto bene. In altre circostanze, Raistlin avrebbe potuto sentirsi divertito di fronte all'umiliazione di uno dei suoi più inveterati tormentatori, ma quella notte era troppo teso, impaziente e nervoso per godere dei gemiti di quel bullo finalmente punito. Fatto sedere Gordo per terra con la testa fra le gambe, il maestro si diresse intanto verso una parte del laboratorio dove fu possibile sentirlo armeggiare con carta e calamai. Annoiato, Jon Farnish cominciò a giocherellare con i topi mentre Raistlin si allontanò dalla zona di luce più intensa e si ritrasse nell'ombra, in modo da poter osservare tutto ciò che accadeva senza essere visto a sua volta, procedendo quindi ad analizzare in maniera metodica il laboratorio e a registrare ogni suo dettaglio nella propria eccellente memoria con tanta precisione che, anche molti anni dopo aver lasciato la scuola del Maestro Theobald, lui continuò, chiudendo gli occhi, ad essere in grado di rivedere ogni particolare di quel laboratorio in cui era stato una volta soltanto. Il laboratorio in questione era un ambiente ordinato e pulito, senza traccia di ragnatele o di polvere, e perfino i topi apparivano puliti e ben curati. Su uno scaffale erano disposti alcuni testi di incantesimi, rilegati in colori neutri come il marrone e il grigio, mentre sei custodie per pergamene spuntavano da un contenitore progettato per contenerne molte di più; in giro si vedevano inoltre molti vasi del genere usato per riporre i componenti per incantesimi, pochi dei quali parevano però utilizzati, e nel centro della stanza spiccava il tavolo di marmo su cui si supponeva che il maestro effettuasse i suoi arcani esperimenti, e che appariva pulito come uno dei tavoli del refettorio. Nel guardarsi intorno, Raistlin si sentì pervadere da una profonda tri-
stezza, perché quello era il laboratorio di un uomo privo di ambizione, nel quale la scintilla creativa era ormai stata soffocata, sempre che essa fosse mai stata accesa. Theobald non scendeva in questo laboratorio per creare ma perché voleva stare solo per leggere un libro, per gettare briciole ai topi chiusi nella loro gabbia o per schiacciare qualche foglia di origano da mettere nello stufato. Magari di tanto in tanto tirava anche fuori qualche pergamena, la cui magia poteva funzionare come poteva non farlo, senza che la cosa avesse per lui la minima importanza. «Ti senti meglio, Gordo?» chiese intanto il Maestro Theobald, muovendosi di qua e di là con aria piena d'importanza ma combinando ben poco. «Ottimo, sapevo che ti saresti ripreso... ti sei agitato troppo, ecco tutto. Adesso prendi posto all'estremità del tavolo. Jon Farnish, tu siedi qui al centro. Raistlin? Dove diavolo... oh! Eccoti qui!» esclamò il maestro, scoccando a Raistlin un'occhiata in tralice. «Cosa fai rintanato lì nel buio? Vieni sotto la luce come ogni essere umano civile e prendi posto all'altra estremità del tavolo. Sì, lì». Raistlin occupò in silenzio il posto che gli era stato assegnato, mentre Gordo gli si sedeva di fronte con le spalle incurvate e l'aria tetra: il laboratorio si stava infatti rivelando un'amara delusione, ciò che doveva fare cominciava a somigliare anche troppo ai consueti esercizi svolti in classe, e lui era risentito per il fatto che là sotto non ci fosse davvero un demone. Jon Farnish occupò il proprio posto con un sorriso pieno di sicurezza, intrecciando con calma le mani sul tavolo davanti a sé, e Raistlin sentì di non aver mai odiato nessuno in tutta la sua vita con l'intensità con cui in quel momento stava odiando quel ragazzo. Ogni organo del suo corpo sembrava infatti essersi attorcigliato intorno agli altri, gli intestini si contraevano e si avviluppavano intorno allo stomaco, il cuore martellava e premeva dolorosamente contro i polmoni, la bocca era arida, tanto arida che la gola gli si contrasse fino a farlo tossire, e le mani erano umide di sudore al punto che lui fu costretto ad asciugarle senza parere sulla camicia. Intanto il Maestro Theobald sedette a sua volta al tavolo con aria grave e solenne, dando l'impressione di non apprezzare l'atteggiamento sorridente di Jon Farnish in quanto si accigliò e tamburellò con un dito sul tavolo. Rendendosi conto dell'errore, Jon Farnish fece sparire il sorriso e divenne immediatamente grave e solenne quanto un gufo appollaiato sul cipresso di un cimitero. «Così va meglio», commentò il maestro. «Questa prova che state per so-
stenere è una cosa piuttosto seria, nello stesso modo in cui lo sarà la Prova a cui vi sottoporrete quando sarete cresciuti e pronti ad avanzare attraverso i diversi ranghi del sapere e del potere magici. Lo ripeto, questa è una prova della massima importanza, perché se non doveste superarla non avrete mai l'opportunità di affrontare l'altra». Gordo reagì con uno sbadiglio volutamente accentuato. «La cosa migliore», proseguì il maestro, scoccandogli un'occhiata carica di rimprovero, «sarebbe poter sottoporre a questa prova ogni bambino che chiede di entrare in una scuola di magia prima della sua ammissione, ma purtroppo questo non è possibile perché per affrontarla è necessario possedere una considerevole quantità di conoscenze arcane. Di conseguenza, il Conclave ha deciso che uno studente deve portare avanti i suoi studi per almeno sei anni prima di affrontare questa prova elementare, a cui vengono sottoposti tutti coloro che hanno seguito tale periodo di studi, anche se non hanno mai mostrato talento o inclinazione per la magia». Theobald sapeva bene che ogni studente che falliva la prova veniva messo sotto sorveglianza per il resto della sua vita, nell'eventualità improbabile ma pur sempre possibile che si trasformasse in un mago rinnegato che rifiutava di aderire alle leggi della magia determinate e imposte dal Conclave. I maghi rinnegati erano considerati a ragion veduta estremamente pericolosi e i membri stessi del Conclave provvedevano a dare loro la caccia. Dal momento che quei ragazzi non sapevano però neppure cosa fosse un mago rinnegato, il Maestro Theobald si trattenne saggiamente dal parlarne, consapevole che se lo avesse fatto Gordo sarebbe rimasto con i nervi a fior di pelle per il resto della sua vita. «La prova è semplice per chi possiede del talento, estremamente difficile per chi non ne ha. Non dovrete pronunciare un incantesimo e neppure una formula magica, in quanto ci vogliono molti più anni di studio e di duro lavoro prima di possedere la disciplina e il controllo necessari per attuare anche i più rudimentali incantesimi. Questa prova serve soltanto a determinare se possedete o meno quello che nei tempi antichi veniva definito il "dono del dio"». Naturalmente Theobald si stava riferendo agli antichi dèi della magia, i tre cugini Solinari, Lunitari e Nuitari, dei quali adesso non restava che il nome... almeno secondo il parere della maggior parte della popolazione di Ansalon. Quei nomi erano correlati ciascuno ad una delle lune, quella argentea, quella rossa e quella che si supponeva nera e che tutti sapevano non esistere davvero, anche se si diceva che quanti si votavano all'oscurità
fossero in grado di vederla. Cauti nei confronti dell'opinione pubblica, consapevoli di non essere universalmente apprezzati o ritenuti degni di fiducia, i maghi evitavano di lasciarsi coinvolgere in discussioni religiose e insegnavano ai loro allievi che le lune influenzavano la magia più o meno nello stesso modo in cui influenzavano le maree, un fenomeno fisico che non aveva in sé nulla di spirituale o di mistico. Raistlin però non poteva fare a meno di chiedersi se gli dèi se ne fossero davvero andati dal mondo, lasciando soltanto le loro luci ad ardere nel buio della notte. Non era possibile che quelle luci fossero invece il bagliore di attenti occhi immortali? Intanto il Maestro Theobald si era girato verso alcuni scaffali di legno che aveva alle spalle e aveva aperto un cassetto, tirando fuori tre strisce di pelle d'agnello e posandone una davanti a ciascuno dei ragazzi. Dopo il discorso del maestro, Jon Farnish stava ora mostrando di prendere la cosa molto sul serio, mentre Gordo appariva cupo e rassegnato, desideroso soltanto che quella prova finisse e che gli fosse permesso di tornare dai suoi compagni. Probabilmente stava già elaborando mentalmente le menzogne che avrebbe raccontato loro in merito al contenuto del laboratorio del maestro. Raistlin dal canto suo esaminò con attenzione la striscia di pelle d'agnello, lunga quanto il suo braccio e tanto morbida da indicare che non era mai stata usata. Sistemati una penna e un calamaio davanti a ciascuno dei tre ragazzi, il maestro infine si appoggiò allo schienale della sedia con le mani intrecciate sullo stomaco. «Adesso», annunciò in tono solenne e stentoreo, «scriverete su questa pelle d'agnello le parole Io, Magus». «Soltanto questo, maestro?» chiese Jon Farnish. «Soltanto questo». «Come si scrive "Magus"?» volle sapere Gordo, che si stava contorcendo e tormentava con i denti l'estremità della penna. «Questo fa parte della prova!» ritorse Theobald, fissandolo con espressione di rimprovero. «Cosa... cosa succederà se lo scriviamo nel modo giusto, maestro?» chiese Raistlin, con voce che stentò a riconoscere come la propria. «Se avete del talento succederà qualcosa, altrimenti non accadrà nulla», replicò il maestro, senza guardare nella sua direzione mentre parlava.
Pur non sapendo spiegare come facesse ad esserne certo, Raistlin si rese allora conto che Theobald voleva che lui fallisse la prova. Il Maestro non lo aveva in simpatia, ma questo non era un motivo sufficiente, quindi lui dedusse che quell'avversione doveva derivare dalla gelosia che Theobald provava nei confronti del suo mentore, Antimodes... una consapevolezza che servì soltanto ad accentuare la sua determinazione mentre impugnava la penna, che era nera in quanto tolta a un corvo. Le penne usate per stilare le diverse pergamene erano dei tipi più svariati: una penna d'aquila o una di cigno erano estremamente potenti, mentre una penna d'oca serviva soltanto per gli scritti comuni di ogni giorno e veniva usata per la magia unicamente in casi d'emergenza. Una penna di corvo era d'altronde utile per quasi ogni tipo di magia, anche se alcune fra le Vesti Bianche più fanatiche trovavano da ridire sul suo colore. L'odore dell'inchiostro gli ricordò Antimodes, e quel giorno in cui questi aveva lodato il suo lavoro. Ascoltando di nascosto una conversazione fra il maestro e suo padre, Raistlin aveva scoperto già da tempo che era Antimodes, e non il Conclave, a pagare il suo sostentamento scolastico, contrariamente a ciò che l'arcimago lo aveva indotto a credere: adesso questa prova avrebbe rivelato se lui aveva visto giusto o meno nel fare quell'investimento. Raistlin si accinse ad intingere la penna nell'inchiostro ma poi esitò e si sentì assalire da un brivido che era quasi di panico, mentre tutto ciò che gli era stato insegnato pareva scivolargli via dalla mente come burro che si sciogliesse in una padella rovente: non riusciva più a rammentare come si scrivesse Magus! La penna prese a tremargli fra le dita sudate e lui scoccò un'occhiata in tralice ai suoi due compagni da sotto le ciglia abbassate. «Ho finito», annunciò intanto Gordo. Le sue dita erano coperte d'inchiostro e lui era riuscito a sporcarsi anche la faccia, dove chiazze scure nascondevano ora le lentiggini; sulla pergamena che stava ora tenendo sollevata, lui aveva scritto inizialmente la parola Magos, che poi aveva affrettatamente cancellato dopo aver dato un'occhiata di nascosto alla pergamena di Jon Farnish, scrivendo accanto ad essa Magus. «Ho finito», ripeté ad alta voce. «Adesso cosa succede?» «Per te, nulla», ribatté il Maestro Theobald in tono severo. «Ma ho scritto la parola esattamente come lui», protestò Gordo, incupendosi. «Non hai dunque imparato nulla, stupido ragazzo?» domandò in tono
rabbioso il Maestro Theobald. «Una parola magica deve essere scritta alla perfezione e nel modo corretto fin dalla prima volta. Stai scrivendo non soltanto con il sangue dell'agnello ma anche con il tuo, la magia scorre da te alla penna e da essa alla pergamena». «Oh, al diavolo», borbottò Gordo, spingendo la pelle d'agnello giù dal tavolo. Jon Farnish stava scrivendo con apparente facilità, con la penna che scivolava fluida sulla pelle d'agnello e con appena una macchia d'inchiostro sul dito indice; la sua scrittura appariva leggibile ma tendeva ad essere minuta e rattrappita. Intinta la penna nell'inchiostro, Raistlin iniziò infine a scrivere a sua volta, stilando le parole Io, Magus in grandi lettere decise e angolose. Accanto a lui Jon Farnish si appoggiò intanto all'indietro con un sospiro di soddisfazione e proprio mentre finiva a sua volta di scrivere Raistlin lo sentì emettere un sussulto che lo indusse a sollevare lo sguardo. Le lettere sulla pelle di agnello davanti a Jon Farnish erano adesso pervase di un tenue chiarore rossastro, una scintilla appena nata che lottava per vivere. «Accidenti!» esclamò Gordo, tanto impressionato da dimenticare quasi che lì non c'erano demoni. «Ben fatto, Jon», si complimentò in tono espansivo il Maestro Theobald. Arrossendo di piacere, Jon Farnish abbassò lo sguardo sulla pergamena e scoppiò a ridere. «Ce l'ho fatta!» esclamò. Il Maestro Theobald spostò infine lo sguardo su Raistlin, e per quanto si sforzasse di assumere un'espressione preoccupata non riuscì a trattenersi dall'arricciare un angolo delle labbra nel constatare che le lettere nere sulla pergamena davanti a Raistlin rimanevano di quel colore. Serrando la penna con tanta violenza da spezzarla, Raistlin distolse lo sguardo dall'esultante Jon Farnish, cancellò dalla propria attenzione lo sprezzante Gordo e il sogghignante trionfo del maestro, concentrandosi sulle lettere che componevano le parole Io, Magus, nel recitare una preghiera. «Dèi della magia, se siete davvero degli dèi e non soltanto delle lune, non lasciate che fallisca», mormorò dentro di sé, rivolgendo lo sguardo verso il nucleo più interiore del suo essere mentre giurava a se stesso: «Ce la farò! Nella mia vita nulla ha importanza tranne questo momento, il solo che esista per me: sono nato in questo momento, e se dovessi fallire esso
sarà anche quello della mia morte. «Dèi della magia, aiutatemi! Io dedicherò la mia vita a voi, vi servirò sempre, porterò gloria al vostro nome. Aiutatemi, per favore, aiutatemi!». Desiderava questo con troppa intensità, aveva lavorato troppo duramente e troppo a lungo per fallire. Facendo appello alla propria magia si concentrò con tutte le sue energie e il suo fragile corpo cominciò a risentire della tensione dandogli un senso di vertigine. Un globo di luce parve gonfiarsi fino a scindersi in tre, il pavimento si fece instabile sotto i suoi piedi e infine lui abbandonò la testa sul tavolo di pietra, in preda alla disperazione. La pietra risultò fredda e solida sotto la sua guancia accaldata mentre serrava le palpebre sugli occhi velati di lacrime roventi... e scopriva di poter continuare a vedere i tre globi di luce magica. Con suo stupore, constatò poi che all'interno di ciascuno di essi c'era una figura. La prima era quella di un giovane avvenente avvolto in vesti bianche che scintillavano di un bagliore argenteo; il suo fisico era forte e muscoloso, degno di un guerriero, e lui teneva in mano un bastone di legno sovrastato da un artiglio di drago dorato che stringeva un diamante. Anche la seconda figura era quella di un giovane, ma questi era tutt'altro che avvenente e appariva invece grottesco, con il volto rotondo come una luna e gli occhi che erano aridi pozzi vuoti e bui; avvolto in vesti nere, il secondo giovane teneva in mano un globo di cristallo nel quale vorticavano cinque teste di drago: una rossa, una verde, una blu, una bianca e una nera. In mezzo ai due c'era poi una bellissima donna dai capelli neri come le ali di un corvo e striati di bianco; le sue vesti erano rosse come il sangue e fra le braccia lei teneva un grosso volume rivestito in cuoio. I tre apparivano del tutto diversi e tuttavia stranamente simili. «Sai chi siamo?» chiese l'uomo vestito di bianco. Raistlin annuì con esitazione in quanto conosceva quei tre, anche se non avrebbe saputo spiegare perché o come facesse a conoscerli. «Tu ci rivolgi le tue preghiere, e tuttavia molti pronunciano il nostro nome con le labbra ma non con il cuore. Credi davvero in noi?» domandò la donna in rosso. Raistlin rifletté per un momento sulla domanda. «Siete venuti da me, giusto?» ribatté quindi. La sua risposta sfacciata parve contrariare il dio della luce e quello dell'oscurità, in quanto l'uomo con la faccia simile ad una luna si fece più
freddo e quello vestito di bianco s'incupì. La donna dalle vesti rosse si mostrò però soddisfatta e gli sorrise. «Sei molto giovane» affermò in tono severo Solinari. «Comprendi la promessa che ci hai fatto? La promessa di adorarci e di glorificare il nostro nome? Se lo farai andando contro le credenze di tanti, questo potrebbe porti in mortale pericolo». «Lo capisco», rispose senza esitazione Raistlin. «Sei pronto a fare i sacrifici che noi ti richiederemo?» volle sapere Nuitari, con voce tagliente come schegge di ghiaccio. «Sono pronto», annuì Raistlin con voce salda, pensando fra sé che quei tre non potevano certo chiedergli più di quanto avesse già dato. I tre però percepirono anche quella parte silenziosa della sua risposta e Solinari scosse il capo, mentre Nuitari sfoggiò un sorriso dall'aria estremamente sinistra. Lunitari invece contemplò Raistlin con aria divertita e scoppiò in una risata che lo esaltò e al tempo stesso lo lasciò turbato. «Tu non capisci», dichiarò la dea, «e se potessi prevedere quello che ti verrà richiesto in futuro fuggiresti da questo posto per non tornarvi mai più. Tuttavia, noi ti abbiamo osservato e siamo rimasti impressionati da te, quindi asseconderemo la tua richiesta ad una condizione: ricorda sempre che ci hai visti e ci hai parlato, non rinnegare mai la tua fede in noi, altrimenti noi rinnegheremo te». I tre globi di luce si fusero in uno solo che somigliava molto ad un occhio, con il bordo bianco, l'iride rossa e la pupilla nera, poi l'occhio si chiuse una volta e nel riaprirsi si fece dilatato e fisso. Le parole Io, Magus, nere sullo sfondo della bianca pelle di agnello, erano adesso tutto ciò che Raistlin riusciva a vedere. «Ti senti male, Raistlin?» domandò la voce del maestro, che pareva scaturire da una nebbia umida. «Taci!» sussurrò Raistlin. Possibile che quello stolto non si fosse accorto che essi erano lì? Che non fosse consapevole che i tre dèi stavano guardando e aspettando? «Io, Magus» mormorò, imprimendosi quelle parole nel sangue e nel cuore. D'un tratto le lettere nere presero a scintillare di un bagliore rossiccio, come una spada infilata nel fuoco della fucina di un fabbro, poi la loro luce si fece sempre più intensa fino a quando le parole lo, Magus apparvero scritte in lettere di fiamma. Dopo un momento la pelle d'agnello annerì, si arricciò su se stessa e si consumò, e soltanto allora il fuoco infine si estin-
se. Spossato, Raistlin si accasciò sul proprio sgabello: davanti a lui sul tavolo di pietra c'erano adesso soltanto una chiazza bruciacchiata e qualche frammento di cenere unta, mentre nel suo animo ardeva un fuoco che non si sarebbe più spento, forse neppure con la sua morte. D'un tratto fu scosso da un rumore, una sorta di strano gracchiare soffocato, e infine si accorse che il Maestro Theobald, Gordo e Jon Farnish lo stavano fissando tutti e tre con gli occhi sgranati e la bocca aperta. «Adesso posso andare, signore?» chiese, scivolando giù dal proprio sgabello. Theobald annuì in silenzio, incapace di parlare. In seguito, nel raccontare quegli eventi davanti al Conclave, lui riferì dei notevoli risultati ottenuti nel corso della prova da uno dei suoi giovani allievi, aggiungendo con adeguata modestia che quei risultati erano frutto della propria abilità di insegnante, che aveva senza dubbio ispirato il giovane allievo e dato simili esiti. Gli altri maghi lo ascoltarono con scetticismo, perché per quanto ne sapevano non era mai successa una cosa del genere e trovavano difficile credere che un giovane allievo potesse essere tanto dotato. Uno di essi, però, gli credette... Antimodes, che in seguito si premurò di informare Par-Salian, il quale annotò l'incidente con un asterisco accanto al nome di Raistlin sul libro dove registrava ogni studente di magia di Ansalon. Quella notte, quando gli altri ormai dormivano, Raistlin si avvolse nello spesso mantello e sgusciò fuori. La neve aveva smesso di cadere, le stelle e le lune erano sparse come i gioielli di una ricca dama sulla coltre nera del cielo, sulla quale Solinari scintillava come un diamante, Lunitari splendeva come un rubino e Nuitari, tutta ebano e onice, restava invisibile. Lui però sapeva che essa era là, con le altre. Tutt'intorno la neve brillava candida, pura e intatta sotto la luce soffusa delle stelle e delle lune, gli alberi proiettavano ombre doppie che striavano il bianco di nero sfumato di rosso sangue. Sollevando lo sguardo verso le lune, Raistlin scoppiò a ridere, una risata stentorea che echeggiò in mezzo agli alberi e che salì fino al cielo, poi si lanciò di corsa nel bosco calpestando l'intatta coltre dì neve e lasciando su di essa le proprie impronte, il proprio marchio.
LIBRO TERZO La magia è nel sangue, scorre dal cuore, e ogni volta che la usi una parte di te se ne va con essa. Soltanto quando sarai pronto a donare qualcosa di te senza ricevere nulla in cambio sarai in grado di utilizzarla. THEOBALD BECKMAN, MAESTRO CAPITOLO PRIMO Seduto sullo sgabello, nell'aula, Raistlin era chino sul proprio banco e intento a copiare faticosamente un incantesimo. Si trattava di un incantesimo del sonno, semplice per un mago esperto ma ancora fuori dalla portata di un sia pur precoce ragazzo di sedici anni... cosa che lui sapeva bene perché aveva già tentato di usare l'incantesimo in questione anche se gli era stato proibito di farlo. Armato del suo elementare libro d'incantesimi, che aveva contrabbandato fuori della scuola sotto la propria camicia, e dei necessari componenti, Raistlin aveva tentato di usare l'incantesimo del sonno sul suo spaventato ma fedele fratello: aveva recitato le parole e lanciato la sabbia verso la faccia di Caramon, poi aveva atteso i risultati. «Smettila, Caramon! Abbassa le mani!». «Ma Raist! Ho la sabbia negli occhi!». «Dovresti esserti addormentato!». «Mi dispiace Raist, evidentemente non sono stanco. È quasi ora di cena». Con un profondo sospiro, Raistlin aveva riportato il libro degli incantesimi al suo posto sotto il banco e il vasetto contenente la sabbia nel laboratorio, ed era stato costretto ad ammettere suo malgrado che forse il Maestro Theobald sapeva quello che diceva... almeno in questo particolare caso: usare un incantesimo richiedeva qualcosa di più oltre alle parole e alla sabbia, perché se fossero bastati la formula e i componenti anche Gordo sarebbe diventato un mago invece di essere impegnato adesso a macellare pecore. «La magia viene dall'interno», aveva affermato il Maestro Theobald, «comincia al centro del vostro essere e scorre verso l'esterno. Le parole intercettano la magia che fluisce dal cuore verso il cervello e da lì alla bocca, e nel pronunciarle voi date alla magia forma e sostanza, attivando l'incantesimo. Parole pronunciate da una bocca vuota servono invece soltanto a
muovere le labbra». Anche se aveva il sospetto che il Maestro Theobald avesse attinto quella lezione dalle opere di qualcun altro (e in effetti molti anni più tardi l'avrebbe ritrovata identica su un testo scritto da Par-Salian), Raistlin era rimasto impressionato da quelle parole e le aveva annotate con cura sul frontespizio del suo libro d'incantesimi. Quel discorso era adesso al centro dei suoi pensieri mentre lui copiava per la centesima volta l'incantesimo su un pezzo di carta per prepararsi poi a ricopiarlo sul suo libro di studio, un volume rilegato in cuoio che veniva dato a ogni mago novizio che aveva superato la prova iniziale. Il novizio doveva copiare su quel libro ogni incantesimo che imparava a memoria; inoltre doveva sapere come pronunciarne correttamente le parole e come scriverle su una pergamena, doveva conoscere e raccogliere i componenti necessari per attivarlo. Ogni trimestre, il Maestro Theobald metteva alla prova i novizi, nella scuola ce n'erano attualmente due, Raistlin e Jon Farnish, riguardo agli incantesimi che avevano imparato, e se conseguivano risultati tali da soddisfarlo essi ottenevano il permesso di trascrivere l'incantesimo sul loro libro. Appena il giorno prima, alla fine del trimestre di primavera, Raistlin aveva superato con facilità la prova relativa al nuovo incantesimo, mentre Jon Farnish aveva fallito perché aveva sbagliato a trascrivere due lettere della terza parola. Il Maestro Theobald aveva quindi dato a Raistlin il permesso di copiare l'incantesimo, quello stesso incantesimo del sonno che lui aveva già tentato di utilizzare, sul suo libro, mentre aveva ordinato a Jon Farnish di riscriverlo duecento volte fino a quando non fosse riuscito a comporre correttamente ogni parola. Ormai Raistlin conosceva l'incantesimo del sonno tanto da poterlo recitare in avanti o a ritroso e da poterlo scrivere anche stando a testa in giù e piedi in aria, ma nonostante questo non era in grado di attivarlo. Era arrivato perfino a pregare gli dèi della magia, chiedendo che lo aiutassero come avevano fatto nel corso della prova iniziale, ma essi non avevano risposto al suo appello. Raistlin però non dubitava degli dèi ma di se stesso, in quanto era convinto che ci fosse qualche pecca dentro di lui, qualcosa che stava facendo nel modo sbagliato; di conseguenza, invece di copiare l'incantesimo sul suo libro, stava facendo la stessa fatica di Jon Farnish, riscrivendo meticolosamente le parole lettera per lettera fino a convincersi di non aver commesso un solo errore.
Un'ampia ombra cadde d'un tratto sul foglio che aveva davanti. «Sì, maestro?» chiese Raistlin, sollevando lo sguardo e non riuscendo a nascondere del tutto la propria irritazione per essere stato interrotto. Molto tempo prima, lui si era reso conto di essere più intelligente del Maestro Theobald e più dotato di talento per la magia, e se rimaneva ancora nella scuola era soltanto perché non aveva dove andare e perché era evidente che aveva ancora molto da imparare. Quanto al Maestro Theobald, era palese che sapeva attivare soltanto l'incantesimo del sonno. «Sai che ore sono?» domandò Theobald. «È ora di cena, e dovresti essere nel refettorio con gli altri ragazzi». «Ti ringrazio, Maestro, ma non ho fame», rispose con scarsa gentilezza Raistlin, tornando a concentrarsi sul suo lavoro. Il Maestro Theobald si accigliò: essendo un uomo ben nutrito, che amava le carni e la birra di qualità, non riusciva a comprendere una persona come Raistlin, per il quale il cibo era soltanto un combustibile che permetteva al corpo di continuare a funzionare e niente di più. «Sciocchezze, devi mangiare», ribatté infine. «Cosa stai facendo di tanto importante da indurti a voler saltare un pasto?» chiese quindi, pur potendo vedere alla perfezione quello che Raistlin stava facendo. «Sono impegnato a copiare questo incantesimo, Maestro», replicò Raistlin, serrando i denti di fronte all'idiozia di quell'uomo. «Non mi sento ancora pronto a riportarlo sul mio libro». Il Maestro Theobald abbassò lo sguardo sui pezzi di carta sparsi sul banco e ne prese prima uno, poi un altro. «Ma questi testi sono accettabili... anzi, sono decisamente buoni!» obiettò. «No, ci deve essere qualcosa di sbagliato!» esclamò con impazienza Raistlin. «Altrimenti dovrei poter essere in grado di usare...». Non aveva avuto intenzione di dire nulla di simile, quindi si morse la lingua e lasciò in sospeso la frase, fissando con occhi roventi le proprie dita sporche d'inchiostro. «Ah!» commentò il Maestro Theobald, con un accenno di sorriso che Raistlin non notò perché non stava guardando verso di lui. «Dunque hai tentato di usare l'incantesimo, vero?». Raistlin non rispose. Se avesse potuto usare un incantesimo in quel momento avrebbe evocato dei demoni dall'Abisso e ordinato loro di trascinare via il Maestro Theobald. Intanto Theobald s'inarcò all'indietro e intrecciò le dita sullo stomaco,
com'era solito fare quando stava per lanciarsi in una delle sue conferenze. «Devo dedurre che non ha funzionato, e la cosa non mi sorprende», cominciò. «Sei decisamente troppo orgoglioso, giovanotto, troppo concentrato su te stesso e compiaciuto dei tuoi risultati. Tu sei portato a prendere e non a dare, tutto affluisce dentro di te e nulla ne esce. La magia è nel sangue, scorre dal cuore, e ogni volta che la usi una parte di te se ne va con essa. Soltanto quando sarai pronto a donare qualcosa di te senza ricevere nulla in cambio sarai in grado di utilizzarla». Raistlin sollevò il capo e lo scosse per allontanare dal volto i lunghi capelli castani e lisci, poi fissò lo sguardo davanti a sé, perché detestava che gli si tenessero delle prediche di quel genere. «Sì, Maestro», disse soltanto, in tono freddo e impassibile. «Grazie, Maestro». «In questo momento sei seduto in sella ad un cavallo molto alto, giovanotto», ribatté il maestro, con un verso di riprovazione, «e un giorno cadrai a terra. Se la caduta non ti ucciderà, forse da essa imparerai qualcosa. Adesso vado a cena, perché ho fame», concluse. Raistlin tornò a concentrarsi sul suo lavoro con un sorriso sprezzante sulle labbra. CAPITOLO SECONDO Quell'estate in cui i gemelli compirono sedici anni, la vita della famiglia Majere continuò a migliorare, in quanto Gilon era stato assunto perché aiutasse a tagliare una macchia di pini sui pendii del Picco dell'Occhio che Prega; quella proprietà apparteneva ad un nobile che era intenzionato a far trasportare il legname a nord per costruire una recinzione piuttosto grande, il che faceva supporre che quel lavoro ben pagato sarebbe durato a lungo. Caramon ormai lavorava a tempo pieno per il sempre più prospero Fattore Sedge, che aveva ampliato le proprie terre e adesso spediva grano, frutta e verdure ai mercati di Haven; Caramon veniva pagato con una porzione del raccolto che lui in parte rivendeva e in parte portava a casa. Quanto alla Vedova Judith, ormai era considerata un membro della famiglia e anche se aveva una sua piccola casa a tutti gli scopi pratici viveva presso i Majere perché era diventata indispensabile a Rosamun, che a sua volta era molto migliorata e non cadeva più in quei suoi stati di trance ormai da parecchi anni. Lei e la vedova svolgevano insieme i lavori domestici e andavano spesso a fare visite.
Se avesse saputo in cosa consistevano esattamente quelle visite, forse Gilon si sarebbe preoccupato per sua moglie, ma lui supponeva che Rosamun e la vedova non facessero altro che scambiare pettegolezzi con i vicini e non poteva immaginare la verità, a cui del resto avrebbe stentato a credere. Gilon e Caramon infatti trovavano entrambi simpatica la Vedova Judith, al contrario di Raistlin che invece la detestava sempre di più, forse perché durante l'estate restava a casa insieme a lei mentre suo padre e suo fratello erano assenti. Essendo presente, lui poteva vedere l'influenza che la vedova aveva su sua madre e ne diffidava, anche perché spesso al suo sopraggiungere entrambe interrompevano bruscamente la conversazione che stavano portando avanti in toni sommessi. Più di una volta lui aveva cercato di origliare nella speranza di sentire cosa le due donne si stessero dicendo, ma la Vedova Judith aveva un udito eccellente e di solito riusciva sempre a scoprire la sua presenza. Un giorno, tuttavia, le due donne erano sedute al tavolo di cucina, sotto una finestra fuori della quale erano disposti a raffreddare parecchi pasticci, e nell'avvicinarsi dall'esterno, con il frusciare delle foglie dei vallenwood che nascondeva il rumore dei suoi passi, Raistlin si arrestò nell'ombra quando sentì le loro voci. «Il Sommo Sacerdote non è contento di te, Rosamund Majere. Oggi ho ricevuto una sua lettera, nella quale lui si chiede per quale motivo tu non abbia ancora portato tuo marito e i tuoi figli nelle braccia di Belzor». La risposta di Rosamun risultò mite e sulla difensiva: lei affermò infatti di averci provato e di aver parlato diverse volte di Belzor a Gilon, che però si era limitato a ridere di lei, affermando di non aver bisogno di aver fede in nessun dio perché gli bastava avere fede in se stesso e nella forza del suo braccio destro. Quanto a Caramon, aveva risposto che era senz'altro disposto a partecipare alle riunioni dei Belzoriti, soprattutto se in esse veniva servito del cibo. E per quel che riguardava Raistlin... la voce di Rosamun si spense e lei non concluse la frase. Per quel che lo concerneva, Raistlin era impaziente di sentire qualcosa di più, ma in quel momento la Vedova Judith si alzò per controllare i pasticci e lo vide fermo vicino all'angolo della casa: per un solo momento lei e Raistlin si fissarono a vicenda senza tradire nessun sentimento tranne una reciproca ostilità, poi la vedova spostò all'interno i pasticci e chiuse le imposte mentre Raistlin si avviava di nuovo attraverso il giardino, chiedendosi chi mai fosse questo Belzor e perché volesse abbracciare lui e la sua famiglia.
«È una cosa che interessa la mamma», spiegò Caramon, quando lui lo interrogò al riguardo. «Sai, una di quelle cose di donne. Si riuniscono tutte insieme e parlano, ma non so di cosa, perché l'unica volta che ci sono andato mi sono addormentato». Rosamun non accennava mai a Belzor con Raistlin, che ne era deluso e che arrivò a prendere in considerazione l'idea di sollevare lui stesso l'argomento, trattenendosi soltanto a causa del timore che questo potesse comportare un colloquio con la Vedova Judith, che lui evitava il più possibile. Dal momento che il maestro era lontano per la sua annuale visita al Conclave e che la scuola era chiusa per l'estate, Raistlin prese a trascorrere le sue giornate seminando e curando l'orto per incrementare la sua collezione di erbe, perché la sua conoscenza in quel campo cominciava a creargli una certa reputazione presso i vicini e vendendo le erbe che non gli servivano poteva contribuire a sua volta al mantenimento della famiglia. Preso in queste attività, ben presto si dimenticò di Belzor. Quell'estate la famiglia Majere visse nella felicità e nella prosperità... un'estate che i gemelli avrebbero sempre ricordato luminosa e dorata, soprattutto se paragonata all'oscurità che stava per farvi seguito. Raistlin e Caramon stavano percorrendo a piedi la strada che portava a Solace, di ritorno dalla fattoria del Fattore Sedge; Caramon infatti aveva appena concluso la sua giornata di lavoro, e Raistlin si era recato dal fattore per consegnargli un fascio di lavanda secca, il cui aroma gli permeava ancora i vestiti. Dopo quel giorno, Raistlin non sarebbe mai più riuscito a sopportare l'odore della lavanda. Quando i due giovani erano ormai nelle vicinanze di Solace un bambino li vide arrivare e cominciò ad agitare le braccia per poi spiccare la corsa lungo la strada polverosa per andare loro incontro. «Salve, giovane Ned», lo salutò Caramon, che conosceva tutti i bambini della città. «In questo momento non posso giocare a Palla Orchetto con te, ma forse dopo cena potremmo...». «Zitto, Caramon», ingiunse Raistlin in tono secco, notando che il bambino aveva gli occhi sgranati e solenni come quelli di un piccolo gufo. «Non vedi che c'è qualcosa che non va? Cosa c'è? Cosa è successo?». «C'è stato un incidente», riuscì ad ansimare il bambino, che aveva il respiro affannoso. «Vostro... vostro padre...». Forse avrebbe aggiunto dell'altro, ma d'un tratto si trovò a corto di ascoltatori perché i due gemelli avevano spiccato la corsa alla volta di casa. Per
un breve tratto Raistlin corse più in fretta che poté, ma neppure la paura e l'adrenalina riuscirono a costringere il suo fragile corpo a mantenere a lungo quello sforzo e ben presto le forze gli vennero meno, costringendolo a rallentare il passo. Caramon continuò invece a correre finché non si rese conto dopo qualche momento di essere rimasto solo e si fermò per guardarsi alle spalle in cerca del fratello, che gli segnalò con un cenno di proseguire. Caramon esitò, con un'espressione preoccupata che pareva chiedere a Raistlin se era davvero sicuro, a cui lui rispose con uno sguardo di conferma. Annuendo, Caramon si girò e riprese a correre, mentre Raistlin proseguiva più in fretta che poteva, con l'ansia che gli serrava lo stomaco e lo raggelava al punto da farlo rabbrividire nonostante il caldo sole estivo... una reazione che lo colse di sorpresa, perché non si era aspettato che gli importasse tanto di suo padre. Gilon era stato trasportato dal Picco dell'Occhio che Prega fino a Solace a bordo di un carro, e al suo arrivo Raistlin lo trovò ancora adagiato in fondo al veicolo, intorno a cui si era raccolta una piccola folla perché quando si era diffusa la notizia dell'incidente quasi tutti gli abitanti della città che erano in grado di lasciare il proprio lavoro erano accorsi sul posto e stavano ora fissando lo sfortunato Gilon con un misto di curiosità e di orrore. Piangente, Rosamun era vicina al carro con la mano insanguinata del marito stretta nella propria e con accanto la Vedova Judith. «Abbi fede in Belzor», stava dicendo la vedova, «abbi fede e lui sarà guarito. Abbi fede». «Io ho fede», continuava a ripetere Rosamun, pallida fino alle labbra. «Io ho fede. Oh, mio povero marito, presto starai bene. Io ho fede...». Le persone raccolte intorno al carro si scambiarono un'occhiata e scossero il capo, mentre qualcuno andava a chiamare il proprietario della stalla, che passava per un esperto nel curare le fratture; nel frattempo, Otik accorse dalla locanda, con un'espressione tesa e dolente sul volto grassoccio, portando con sé una caraffa del suo brandy migliore che era la sua offerta abituale ogni volta che si verificava un'emergenza medica. «Legate Gilon su una barella e lo porteremo su per le scale», disse la Vedova Judith. «A casa sua guarirà meglio». «Tu sei pazza, donna!» esclamò un nano che risiedeva in città e che Raistlin conosceva di vista, fissando la vedova con occhi roventi. «Sballottarlo
in quel modo lo ucciderà di certo». «Lui non morirà!» esclamò di rimando la Vedova Judith. «Belzor lo salverà». I cittadini raccolti intorno al carro si scambiarono altre occhiate, e qualcuno assunse un'aria scettica mentre altri si fecero attenti e interessati. «In tal caso è meglio che tu provveda in fretta», borbottò il nano, alzandosi in punta di piedi per sbirciare dentro il carro. «Lascia vedere anche me, Flint!» strillò un kender che gli era accanto, saltando su e giù. «Voglio vedere!». Caramon intanto era salito sul carro e si era accoccolato accanto a Gilon, ansioso, impotente e pallido in volto quasi quanto il ferito, mentre un gemito sommesso e quasi animalesco gli sfuggiva dalle labbra alla vista delle spaventose lesioni riportate da suo padre, che aveva le costole spezzate e sporgenti attraverso la carne e una gamba ridotta ad un ammasso di sangue e di ossa. Senza badare al figlio sconvolto, Rosamun continuava a serrare la mano di Gilon nella propria e a dichiarare la propria fede in un frenetico sussurro. «Raist!» chiamò infine Caramon, con voce spenta, guardandosi intorno in preda al panico. «Sono qui, fratello», si affrettò a rispondere Raistlin, salendo a sua volta sul carro per raggiungere Caramon. «Raist!» ripeté questi, aggrappandosi alla mano del gemello con gratitudine ed emettendo un tremante sospiro. «Cosa possiamo fare? Ci deve essere qualcosa che si possa tentare! Pensaci, Raist!». «Non c'è nulla che possiate fare, figliolo», intervenne il nano in tono gentile. «Nulla tranne augurare a vostro padre ogni bene nel suo viaggio imminente». Non appena ebbe esaminato il ferito, Raistlin si rese conto che il nano aveva ragione e che era addirittura incredibile che Gilon fosse sopravvissuto tanto a lungo. «Ho sentito dire che nei tempi antichi, prima del Cataclisma, ad Ansalon c'erano dei chierici che pregavano i loro dèi e grazie al loro intervento potevano risanare ferite spaventose come queste» suggerì Otik, accorgendosi che nessuno voleva il suo brandy. «Quei chierici sono misteriosamente svaniti subito prima che gli dèi scagliassero giù la montagna infuocata e non sono più ritornati. Questo è uno dei motivi per cui la gente afferma che neppure gli dèi hanno più fatto ritorno».
«Belzor è qui!» esclamò con voce acuta la Vedova Judith. «Belzor risanerà quest'uomo!». Belzor se la sta prendendo comoda, pensò con amarezza Raistlin. «Padre!» chiamò al tempo stesso Caramon. Nel sentire la sua voce Gilon mosse gli occhi, non era infatti in grado di spostare la testa, e cercò i figli con lo sguardo. «Abbiate cura... di vostra madre», riuscì a sussurrare, mentre una schiuma insanguinata gli affiorava alle labbra. Singhiozzando, Caramon si nascose il volto con una mano. «Lo faremo, padre», promise Raistlin. Soffermandosi con lo sguardo sui figli, Gilon accennò un fugace sorriso, poi guardò verso Rosamun e tentò di dire qualcosa ma fu assalito da un tremito di agonia: chiudendo gli occhi, emise un gemito possente e giacque immobile. «Che Reorx lo accompagni», mormorò il nano, togliendosi il cappello con fare solenne e accostandoselo al petto. «Che tristezza, quel poveretto è morto!» esclamò il kender, con una lacrima che gli colava lungo la guancia. Quella era la prima volta che Raistlin si veniva a trovare così vicino alla morte, che lui percepì come una presenza fisica che stesse passando in mezzo a loro con le ali scure allargate a ricoprirli, una sensazione che gli diede l'impressione di essere piccolo e insignificante, nudo e vulnerabile. Era stato tutto così improvviso: appena un'ora prima Gilon stava camminando in mezzo agli alberi senza un pensiero al mondo tranne forse cosa avrebbe mangiato quella sera per cena, e adesso era immerso nell'oscurità infinita ed eterna, nella quale ciò che più spaventava non era tanto l'assenza di luce quanto l'assenza di pensiero, di conoscenza e di comprensione. Le loro vite, le vite dei vivi, sarebbero continuate, il sole sarebbe sorto come sempre, le lune avrebbero brillato nel cielo, loro avrebbero riso e parlato, ma Gilon non ne avrebbe saputo nulla, non avrebbe provato nulla. Era una cosa definitiva che con il tempo si sarebbe abbattuta su ognuno di loro. Raistlin sapeva che avrebbe dovuto provare dolore per la morte di suo padre, ma in quel momento non riusciva a provarne che per se stesso, per la propria mortalità, e questo lo indusse a voltare le spalle al cadavere devastato, soltanto per trovarsi davanti a sua madre che continuava a stringere la mano senza vita del marito, accarezzandola e incitandolo a parlarle. «Caramon, dobbiamo pensare a nostra madre e portarla in casa», avvertì
Raistlin, in tono urgente. Quando guardò verso Caramon, scoprì però che anche lui aveva bisogno di aiuto, in quanto si era accasciato accanto al corpo del padre ed era adesso scosso da violenti e angosciati singhiozzi. Protendendosi, gli posò allora una mano sul braccio in un gesto di conforto e subito la grossa mano di Caramon si serrò in maniera convulsa intorno alla sua, stringendo così forte da impedirgli di liberarsi; lui dal canto suo non aveva nessun desiderio di ritrarsi perché trovava conforto in quel contatto fraterno, ma al tempo stesso non gli piaceva l'espressione folle che stava vedendo sul volto di sua madre. «Avanti, mamma, permetti alla Vedova Judith di portarti in casa», suggerì. «No, no!» gridò Rosamun, con voce frenetica. «Non posso lasciare vostro padre, lui ha bisogno di me!». «Mamma», replicò Raistlin, che cominciava ad essere spaventato da quella reazione, «nostro padre è morto e non c'è altro...». «Morto!» ripeté Rosamun, con aria sconcertata. «Morto? No, non è possibile! Io ho fede!» esclamò quindi, gettandosi sul marito e afferrandolo per la camicia intrisa di sangue. «Gilon! Svegliati!». La testa di Gilon scivolò da un lato e un rivoletto di sangue gli colò dalla bocca. «Io ho fede», ripeté Rosamun, in un gemito affranto, guardandosi le mani ora sporche di sangue quanto la camicia. «Mamma, per favore, va' in casa», implorò Raistlin, impotente. Prendendo le mani di Rosamun nelle proprie, Otik ne allentò con gentilezza la presa e indusse la donna a spostarsi in modo da permettere ad un vicino di coprire il cadavere con una coperta. «Ecco dimostrato quanto vale Belzor», commentò intanto il nano, in tono sommesso ma tagliente. Non era stata sua intenzione farsi sentire dagli altri, ma la sua voce profonda e risonante arrivò ugualmente all'orecchio di tutti coloro che gli erano vicini. Parecchi fra i presenti reagirono scuotendo il capo, e in qualche caso concedendosi un cupo sorriso quando pensavano che nessuno li stesse osservando, mentre altri assunsero un'espressione sconvolta. Dal momento del suo arrivo in città, infatti, la Vedova Judith aveva svolto una notevole opera di proselitismo e aveva guadagnato alla sua fede un certo numero di convertiti, alcuni dei quali stavano ora fissando il morto con sgomento.
«Chi è Belzor?» chiese intanto il kender, con voce acuta e curiosa. «Flint, tu conosci Belzor? Ci si aspettava davvero che guarisse questo poveretto? E perché credi che non lo abbia fatto?». «Chiudi quella bocca, Tas, razza di pomolo di porta!» ingiunse il nano con voce bassa e aspra. Quello era però lo stesso interrogativo che si stavano ponendo molti fra i neoconvertiti presenti, che ora stavano fissando la Vedova Judith in attesa di ricevere una risposta. La vedova, che non aveva certo perso la sua fede, fissò con espressione dura e astiosa il nano e scoccò un'occhiata ancor più rovente al kender, che stava sollevando un angolo della coperta per sbirciare con curiosità il cadavere. «Forse è stato risanato e noi non ce ne siamo accorti?» suggerì intanto il kender, con l'aria di volersi rendere utile. «Lui non è stato risanato!» gridò d'un tratto in tono dolente la Vedova Judith. «Gilon Majere non è stato risanato né mai lo sarà. Di certo ve ne chiedete il perché... ebbene, non è stato risanato a causa dei peccati di questa donna!» dichiarò indicando Rosamun. «Sua figlia è una prostituta, suo figlio uno stregone... è colpa sua e dei suoi figli se Gilon Majere è morto!». Il dito proteso della vedova ebbe su Rosamun lo stesso effetto di una lancia che le avesse trapassato il corpo: per un momento lei fissò Judith con espressione sconvolta, poi urlò e si accasciò gemendo sulle ginocchia, mentre Raistlin scattava in piedi e scavalcava il corpo di suo padre. «Come osi?» sibilò in tono sommesso e minaccioso, rivolto alla vedova, mentre si aggrappava ad un lato del carro e balzava a terra. «Vattene da qui! Lasciaci in pace!» esclamò quindi, quando si venne a trovare a faccia a faccia con la donna. «Vedete?» stridette la Vedova Judith, indietreggiando precipitosamente e spostando su Raistlin il proprio dito proteso. «Lui è malvagio! Obbedisce a dèi perversi!». Un fuoco incandescente divampò all'interno di Raistlin, consumando in lui il buon senso e la razionalità: adesso non poteva vedere altro che il bagliore di quelle fiamme e non gli importava di esserne distrutto a patto di poter annientare anche Judith. «Raist!» esclamò una voce, poi una mano forte e salda si protese in mezzo alle fiamme per afferrarlo e trattenerlo. «Raist, fermati!». Quella mano, la mano di suo fratello, trascinò Raistlin fuori dal fuoco e un momento più tardi il terribile bagliore incandescente che lo aveva acce-
cato si spense, lasciandolo freddo e tremante, con il sapore della cenere in bocca. «Non la toccare, Raist», stava dicendo Caramon, con voce arrochita dal pianto, tenendo le braccia possenti strette intorno alle spalle esili del suo gemello. «Non dimostrare che ha ragione lei!». Pallida in volto, la vedova era indietreggiata fino ad addossarsi con le spalle ad un albero, ed ora si guardò intorno per appellarsi ai suoi vicini. «Avete visto anche voi, brava gente di Solace! Ha cercato di uccidermi. È un mostro in vesti umane, ve lo dico io! Scacciate questa progenie del demonio e sua madre, allontanateli da Solace, dimostrate a Belzor che non tollerate una simile malvagità in mezzo a voi!». Silenziosa, cupa e impassibile in volto, la folla si spostò lentamente in modo da formare un cerchio protettivo, con la famiglia Majere al suo centro... Rosamun ancora accasciata al suolo a testa china, Raistlin e Caramon l'uno accanto all'altro e vicini alla madre; sebbene non tornasse più da anni presso la sua famiglia, Kitiara era stata invocata in spirito ed era a sua volta presente anche se solo nella mente dei suoi fratelli. Vicino ai suoi familiari, il corpo di Gilon giaceva nel carro sotto la coperta che si andava inzuppando del suo sangue. Esclusa dal cerchio, la Vedova Judith sfidò la folla senza che nessuno parlasse. Dopo qualche momento fra la calca si fece largo un uomo che Raistlin intravide solo in modo vago perché il fuoco che ancora covava sotto le ceneri dentro di lui gli offuscava la vista; nonostante questo, conservò nella memoria l'immagine di un uomo alto dal volto rasato, con lunghi capelli che gli coprivano gli orecchi per ricadere fino alle spalle. L'uomo, che indossava abiti di cuoio decorati da frange e portava un arco appeso alla spalla, avanzò fino ad arrestarsi davanti alla Vedova Judith. «Credo che sia tu quella che deve lasciare Solace», affermò con voce sommessa, senza minacciare ma limitandosi ad affermare un dato di fatto. Judith lo fissò con aria accigliata, poi scoccò un'occhiata alla folla raccolta alle spalle dell'uomo. «Intendete permettere a questo mezzosangue di parlarmi così?» domandò. «Tanis ha ragione», ribatté Otik, venendo avanti con la sua andatura dondolante e agitando la mano grassoccia in cui stringeva ancora la caraffa di brandy. «Tornatene ad Haven, brava donna, e porta con te il tuo Belzor. Qui non abbiamo bisogno di lui perché possiamo pensare da soli alla no-
stra gente». «Aiutate vostra madre, ragazzi», consigliò intanto il nano, «e non vi preoccupate per vostro padre perché penseremo noi a seppellirlo. Naturalmente vi avvertiremo quando sarà tutto pronto, perché di certo vorrete essere presenti». Raistlin si limitò ad annuire, troppo stanco per parlare, poi si chinò per afferrare sua madre e farla rialzare. Lei però rimase inerte fra le sue braccia, accasciata e distrutta come una bambola di stracci che fosse stata lacerata da cani infuriati, e nel vederla guardarsi intorno con quell'espressione vacua che ricordava anche troppo bene, Raistlin sentì il cuore che gli si contraeva nel petto. «Mamma», chiamò in tono sommesso. «Adesso andremo a casa». Rosamun non rispose e non parve neppure averlo sentito mentre si accasciava inerte fra le sue braccia come un peso morto. «Caramon?» mormorò Raistlin, sollevando lo sguardo verso il fratello. Con gli occhi colmi di lacrime, Caramon annuì, e lo aiutò a trasportare Rosamun in casa. CAPITOLO TERZO Il mattino successivo, Gilon Majere venne sepolto sotto i vallenwood e un nuovo albero venne piantato sulla sua tomba com'era usanza presso gli abitanti di Solace. I suoi figli vennero a presenziare al rito funebre, ma sua moglie non si fece vedere. «Sta dormendo e non abbiamo voluto svegliarla», spiegò Caramon, arrossendo nel dire quella bugia. La verità era che non ci erano riusciti. Entro il pomeriggio tutti a Solace vennero a sapere che Rosamun Majere era scivolata in una delle sue trance, solo che questa volta era così profonda che lei non era neppure in grado di sentire le voci che la chiamavano, per quanto potessero esserle care. I vicini vennero a porgere le loro condoglianze e a fornire suggerimenti che potessero aiutarla a riprendersi, e Raistlin provò a metterne in pratica qualcuno, come, per esempio, farle inalare vapori di ammoniaca, mentre ne ignorò altri, come pungerla ripetutamente con uno spillo. O almeno li ignorò in un primo tempo, quando la paura non aveva ancora cominciato a divorarlo. Non appena si venne a sapere che Rosamun rifiutava di mangiare, i vici-
ni portarono cibi che destassero la sua golosità, e Otik arrivò con un cesto immenso colmo di prelibatezze provenienti dalla Locanda dell'Ultima Casa, compresa una pentola fumante piena delle sue famose patate speziate in quanto lui era fermamente convinto che nessun essere vivente e pochissimi fra i non-viventi potessero resistere a lungo al loro meraviglioso profumo aromatizzato all'aglio. Caramon accettò il cibo con un pallido sorriso e una sommessa parola di ringraziamento, ma non permise ad Otik di entrare in casa e bloccò la soglia con il proprio corpo massiccio. «Lei sta meglio?» chiese Otik, protendendo il collo nel tentativo di vedere qualcosa da sopra la spalla di Caramon. Otik era un brav'uomo, uno dei migliori fra gli abitanti di Solace, e sarebbe stato pronto a rinunciare alla sua amata locanda se avesse saputo che questo poteva aiutare la donna malata, ma al tempo stesso amava fare pettegolezzi e adesso la tragica morte di Gilon e la strana malattia di sua moglie erano diventate argomento di dominio pubblico nella sala comune della sua locanda. Caramon infine riuscì a chiudere la porta e per un momento rimase ad ascoltare i passi pesanti di Otik che si allontanavano sui ponti di assi, sentendolo fermarsi a tratti per parlare con parecchie donne della città e udendo menzionare spesso il nome di sua madre nella conversazione. Sospirando, portò il cibo in cucina e lo ripose con il resto delle provviste. Disposte un po' di patate speziate in una ciotola vi aggiunse una succulenta fetta di prosciutto cotto nel sidro e riempì un bicchiere con del vino elfico con l'intenzione di portare il tutto a sua madre. Sulla soglia della sua stanza però si arrestò incerto. Caramon amava sua madre perché questo era ciò che ci si aspettava da un bravo figlio e lui era sempre stato un bravo figlio entro i limiti delle sue capacità. D'altro canto, non era mai stato troppo affiatato con sua madre e si era sempre sentito più vicino a Kitiara che aveva fatto molto di più per allevare lui e Raistlin. Pur provando compassione per Rosamun ed essendo estremamente preoccupato per lei, Caramon dovette quindi farsi coraggio per entrare nella sua stanza nello stesso modo in cui supponeva un giorno avrebbe dovuto farsi coraggio per andare in battaglia. La camera della malata era buia e calda, l'aria fetida era sgradevole da respirare e da annusare. Supina sul letto, Rosamun sembrava fissare davanti a sé senza vedere nulla, e tuttavia pareva che scorgesse qualcosa perché i suoi occhi si muovevano e cambiavano espressione. A tratti erano sgranati,
con le pupille dilatate, come se lei stesse vedendo qualcosa che la terrorizzava, e contemporaneamente il suo respiro si faceva rapido e poco profondo; in altri momenti, invece, era calma e a volte sfoggiava perfino uno spettrale sorriso la cui vista spezzava il cuore. Lei non parlava mai, almeno non in maniera comprensibile, e i suoni che emetteva erano gutturali e incoerenti; i suoi occhi costantemente aperti non si chiudevano neppure per dormire e nulla era in grado di scuoterla o di indurla a distogliere lo sguardo dalle visioni che avevano catturato la sua attenzione. Le sue funzioni corporee sussistevano peraltro come sempre e Raistlin provvedeva a pulirla e a lavarla. Erano ormai passati tre giorni dal funerale di Gilon e in quel tempo Raistlin non aveva mai lasciato il capezzale di sua madre, dormendo su un pagliericcio steso accanto al suo letto e svegliandosi al minimo rumore da lei prodotto, parlandole di continuo e raccontandole storie divertenti relative agli scherzi che i ragazzi si facevano a vicenda a scuola, esponendole i suoi sogni e le sue speranze, descrivendole il suo orto e le diverse piante ivi coltivate. Di tanto in tanto la costringeva a bere un po' di liquidi inzuppando d'acqua uno straccio che poi le accostava alle labbra e strizzava a poco a poco in modo da farle bere qualche goccia per volta, piano perché non soffocasse; aveva anche cercato di farle mangiare qualcosa, ma Rosamun si era mostrata incapace di inghiottire e alla fine lui aveva dovuto rinunciare. Ora dopo ora, continuava ad accudirla con gentilezza, con infinita tenerezza e incrollabile pazienza. Fermo sulla soglia, Caramon indugiò ad osservare Raistlin che sedeva accanto alla madre, intento a spazzolarle i capelli mentre lei rammentava storie dell'infanzia che lei aveva vissuto a Palanthas. «Voi tutti pensate di conoscere mio fratello», disse fra sé Caramon, rivolgendosi silenziosamente ad una fila di volti. «Tu, Maestro Theobald, e tu, Jon Farnish, e anche tu, Sturm Brightblade, e tutti voi altri lo definite "Astuto" e "Subdolo", dite che è freddo, calcolatore e insensibile, e credete di conoscerlo. Io lo conosco», pensò, con occhi ora colmi di lacrime. «Sono il solo a conoscerlo davvero». Dopo aver atteso un momento che la vista gli si schiarisse, si asciugò gli occhi e il naso sulla manica della camicia versandosi al tempo stesso involontariamente addosso un po' di vino, poi trasse un'ultima, profonda boccata di aria fresca ed entrò nella buia e deprimente stanza della malata. «Ho portato qualcosa da mangiare, Raist», avvertì.
«Lei non riesce a mangiare», replicò Raistlin, scoccandogli un'occhiata per poi tornare a girarsi verso Rosamun. «Io... ecco... è per te, Raist. Devi mangiare qualcosa altrimenti ti ammalerai», si affrettò ad insistere Caramon, accorgendosi che già suo fratello accennava a scuotere il capo in un gesto di diniego. «E se tu dovessi ammalarti io cosa farei? Non sono molto bravo ad assistere i malati, Raistlin». «Fai torto a te stesso, fratello mio», rispose Raistlin, sollevando lo sguardo su di lui. «Ricordo le volte in cui ero malato e tu creavi disegni con le ombre sul muro. Conigli...». La voce gli si spense e non finì la frase. Caramon sentì le lacrime serrargli la gola, ma si affrettò a ricacciarle indietro e protese il piatto verso il fratello. «Avanti, Raist, mangia. Soltanto un poco... sono le patate di Otik». «La sua panacea per tutti i mali di questo mondo», commentò Raistlin, con una smorfia. «D'accordo». Posata la spazzola su un piccolo comodino, accettò quindi il piatto e mangiò un po' di patate e qualche boccone di prosciutto sotto lo sguardo ansioso di Caramon, che assunse un'espressione delusa quando Raistlin gli restituì il piatto ancora pieno per metà di cibo. «Non vuoi niente altro? Sei sicuro? Se vuoi ti posso portare qualche altra cosa, dato che abbiamo cibo in abbondanza». Raistlin scosse il capo. In quel momento Rosamun emise un suono, una sorta di penoso mormorio, e subito lui le rivolse tutta la propria attenzione, chinandosi su di lei e parlandole in tono sommesso mentre l'aiutava ad assumere una posizione più comoda, le umettava le labbra e le massaggiava le mani scarne. «Sta... sta un po' meglio?» domandò Caramon, sentendosi impotente. Anche ad occhio nudo era in grado di constatare che Rosamun non stava meglio, ma sperava che la sua impressione fosse sbagliata, e comunque sentiva il bisogno di dire qualcosa, di sentire almeno il suono della propria voce, perché non gli piaceva quando la casa era così stranamente silenziosa e non gli andava di essere rinchiuso in questa stanza buia e deprimente. Ciò che non capiva era come facesse suo fratello a sopportare di restarvi tanto a lungo. «No, e pare anzi peggiorata», rispose Raistlin, poi tacque per un momento e quando riprese a parlare lo fece in tono sommesso e quasi reverenziale: «È come se stesse correndo lungo una strada, Caramon, lontano da me. Io la seguo, le grido di fermarsi ma lei non mi sente perché non mi presta attenzione. Sta correndo molto in fretta, Caramon...».
Smettendo di parlare, Raistlin distolse lo sguardo e finse di essere impegnato a riassestare le coperte. «Riporta il piatto in cucina», ordinò quindi, in tono aspro, «altrimenti attirerà i topi». «Lo... lo riporto in cucina», assentì Caramon, sottovoce, e si affrettò ad allontanarsi. Una volta in cucina scagliò il piatti nella direzione in cui supponeva si trovasse il tavolo, che non riusciva a vedere bene a causa del pianto che gli velava gli occhi. Nel frattempo qualcuno bussò alla porta, ma lui ignorò quel suono e dopo un po' l'ignoto visitatore se ne andò mentre Caramon si appoggiava contro il camino e traeva profondi respiri, sbattendo con decisione le palpebre e imponendosi di smettere di piangere. Quando si sentì più controllato, tornò quindi nella stanza della malata, perché aveva delle notizie che sperava avrebbero risollevato leggermente il morale del suo gemello. Trovò Raistlin seduto di nuovo accanto al letto, su cui Rosamun giaceva nella stessa posizione di prima, con gli occhi fissi infossati nelle orbite e le mani smagrite abbandonate sul copriletto. Adesso le ossa dei polsi sembravano di una grandezza innaturale e la carne pareva dissolversi dal suo corpo a mano a mano che lo spirito sgusciava via, tanto in fretta che il suo aspetto sembrava essere peggiorato appena nei pochi momenti in cui Caramon era rimasto assente. Distogliendo in fretta lo sguardo da sua madre, questi concentrò la propria attenzione su Raistlin. «Otik è stato qui», cominciò, precisazione inutile dato che Raistlin doveva averlo già dedotto dall'apparizione delle patate. «Ha detto che la Vedova Judith ha lasciato Solace questa mattina». «Ha lasciato Solace», ripeté Raistlin, in tono che non era di domanda, girandosi a fissare il fratello con occhi arrossati nei quali era riapparsa una lingua di fiamma. «Dov'è andata?» «È tornata ad Haven», rispose Caramon, sforzandosi di sorridere. «È partita dichiarando che ci avrebbe denunciati a Belzor e che lui sarebbe venuto qui per farci pentire di essere nati». Quelle risultarono essere parole poco appropriate, in quanto Raistlin sussultò e lanciò uno sguardo rapido a sua madre. Accorgendosene, Caramon attraversò la stanza con due rapidi passi e gli serrò con forza una spalla. «Non puoi pensare una cosa del genere, Raist!» ammonì. «Non puoi pensare che sia stata colpa tua!». «Non lo è stata?» ribatté Raistlin, in tono amaro. «Se non fosse stato per
me, Judith avrebbe lasciato in pace nostra madre. Quella donna è venuta per causa mia, Caramon, era a me che stava dando la caccia. Una volta, nostra madre mi ha chiesto di abbandonare la magia, ed io mi sono domandato cosa potesse spingerla a dire una cosa del genere. Adesso capisco che era opera di Judith, che la stava tormentando. Se soltanto lo avessi saputo...». «Cosa avresti fatto, Raistlin?» lo interruppe Caramon, accoccolandosi accanto alla sua sedia e fissandolo con espressione seria. «Cosa avresti fatto? Avresti abbandonato la scuola? Rinunciato alla magia? Lo avresti fatto davvero?». Raistlin rimase in silenzio per un momento, tormentando distrattamente con le mani le pieghe della camicia lacera. «No», rispose infine, «ma avrei parlato con nostra madre, le avrei spiegato ogni cosa». Nel parlare guardò verso Rosamun e si protese a prendere nella sua quella mano smagrita, serrandola con forza come per strappare alla malata una reazione di qualche tipo, fosse pure una smorfia di dolore. Rendendosi conto che Rosamun non avrebbe battuto ciglio neppure se le avesse schiacciato la mano come se fosse stato il guscio vuoto di un uovo, alla fine sospirò e tornò a voltarsi verso Caramon. «Non avrebbe fatto nessuna differenza, vero, fratello mio?» chiese in tono sommesso. «Assolutamente nessuna», confermò Caramon. Raistlin lasciò andare la mano della madre, su cui le sue dita avevano lasciato segni che spiccavano rossi sulla pelle pallida, e si aggrappò invece alla mano forte del fratello; per lunghi momenti, i due gemelli rimasero seduti l'uno accanto all'altro, trovando conforto nella reciproca vicinanza, poi Raistlin fissò Caramon con espressione un po' perplessa. «Sei saggio, Caramon. Lo sapevi?» osservò. Caramon scoppiò in una fragorosa risata che echeggiò come un tuono nella stanza buia, allarmandolo al punto che lui si premette una mano sulla bocca e arrossì violentemente. «No, Raist, non lo sono», rispose in un sussurro. «Mi conosci, sono stupido quanto un nano dei fossi, lo dicono tutti. Sei tu ad avere tutto il cervello, ma va bene così perché ne hai bisogno mentre a me non serve, finché saremo insieme». Raistlin abbandonò improvvisamente la mano del fratello e distolse il volto.
«Esiste una differenza fra saggezza e intelligenza, fratello mio, ed è possibile avere l'una ma non l'altra», replicò in tono freddo. «Ora perché non vai a fare una passeggiata o torni a lavorare per il tuo fattore?». «Ma, Raist...». «Non è necessario che restiamo qui entrambi. Posso cavarmela da solo». «Raist, io non...» protestò Caramon, alzandosi lentamente in piedi. «Per favore, Caramon!» insistette però suo fratello. «Se proprio vuoi sapere la verità, ti agiti e ti preoccupi, e questo mi fa impazzire. Lavorando all'aperto ti sentirai meglio, ed anch'io starò meglio se avrò un po' di solitudine». «D'accordo, Raist, se è quello che vuoi» si arrese Caramon. «Suppongo che andrò a trovare Sturm: sua madre è passata a farci visita e a portare un po' di pane fresco, quindi penso che andrò a ringraziarla». «Sì, fallo», annuì Raistlin, secco. Caramon non riusciva mai a capire cosa gli causasse queste crisi di umore cupo e amaro, non era mai in grado di stabilire cosa lui potesse aver detto o fatto per spegnere la luce nell'animo di suo fratello come se vi avesse gettato sopra una secchiata di acqua fredda. Per un momento ancora indugiò nella stanza, nella speranza che Raistlin potesse cambiare idea, che dicesse qualcosa di più o gli chiedesse di restare a tenergli compagnia, ma lui era già intento a inzuppare un pezzo di stoffa in una brocca d'acqua per poi accostarlo alle labbra di Rosamun. «Devi bere un poco, mamma», stava mormorando. Con un sospiro, Caramon si girò e lasciò la stanza. Il giorno successivo Rosamun morì. CAPITOLO QUARTO I gemelli seppellirono la madre nella stessa tomba del padre, nel corso di una cerimonia funebre a cui parteciparono poche persone perché la giornata era umida e fredda, nell'aria si avvertiva già un sentore di autunno e la pioggia si riversava incessante su quanti erano raccolti intorno alla tomba, inzuppandoli fino alle ossa, martellando sulla cassa di legno e formando una piccola pozza in fondo alla fossa. Sotto il suo scrosciare, il vallenwood che venne piantato alla fine della cerimonia si accasciò triste e desolato, quasi annegato da tanta acqua. A capo scoperto sotto l'acqua, Raistlin non stava ascoltando il fratello, che già lo aveva incitato parecchie volte in tono ansioso a coprirsi la testa
con il cappuccio del mantello, non stava sentendo nulla tranne il martellare delle gocce d'acqua su quella cassa di legno, tanto piccola che avrebbe potuto quasi essere quella di un bambino. In quegli ultimi, terribili giorni, Rosamun si era infatti ridotta ad un mucchietto di pelle e di ossa, come se ciò che stava vedendo e che l'aveva intrappolata si stesse nutrendo della sua carne, divorandola a poco a poco. Raistlin era consapevole di essere sul punto di ammalarsi a sua volta perché aveva riconosciuto i sintomi e sapeva che la febbre gli ardeva già nel sangue, come testimoniava il succedersi di brividi di freddo e di ondate di calore unito a un dolore diffuso in tutti i muscoli. Al tempo stesso desiderava disperatamente dormire, ma ogni volta che ci provava sentiva la voce di sua madre che lo chiamava e si svegliava all'istante, in un silenzio assoluto e spaventoso. Durante il funerale avrebbe voluto piangere ma non lo fece e ricacciò invece indietro le lacrime, non perché se ne vergognasse ma perché non sapeva per chi stesse piangendo, se per sua madre o per se stesso. Sconvolto e confuso, non si accorse neppure dello svolgersi della cerimonia o del trascorrere del tempo, in quanto gli pareva di essere fermo accanto a quella tomba da tutta una vita. Si rese conto che il rito si era concluso soltanto quando Caramon lo tirò dapprima per una manica e poi lo sollevò quasi di peso per portarlo via; nonostante questo, non fu Caramon a indurlo ad allontanarsi ma il rumore delle zolle di terra che cadevano sulla bara, un suono opaco che destò in lui un brivido incontenibile. Quando provò a muovere un passo però incespicò e per poco non cadde nella fossa, trattenuto a tempo da Caramon che lo sostenne. «Raist! Stai bruciando!» esclamò questi, in tono preoccupato. «L'hai sentita, Caramon?» domandò Raistlin in tono preoccupato, invece di rispondere. «L'hai sentita chiamarmi?». «Ti devo portare a casa», dichiarò con fermezza Caramon, passandogli un braccio intorno alle spalle. «Dobbiamo fare in fretta!» annaspò però Raistlin, liberandosi della mano del fratello e dando l'impressione di voler balzare nella fossa. «Lei mi sta chiamando». Quando però cercò di muoversi non riuscì a camminare bene perché il terreno aveva qualcosa che non andava e persisteva nell'oscillare come la schiena di un leviatano, dondolando e facendogli perdere l'equilibrio. Adesso stava sprofondando, stava scivolando nella tomba e la terra gli cadeva addosso, senza che la voce di lei smettesse di chiamarlo...
Raistlin si accasciò al suolo accanto alla fossa, chiuse gli occhi e giacque immobile in mezzo al fango e alle foglie cadute. «Raist!» chiamò Caramon, chinandosi su di lui e scrollandolo leggermente. Quando il suo gemello non reagì Caramon si guardò intorno con preoccupazione e scoprì di essere rimasto solo con il fratello, con la sola eccezione dell'incaricato delle sepolture che stava riversando la terra nella fossa più in fretta che poteva per poter poi tornare al chiuso. Gli altri che erano intervenuti al funerale se n'erano andati non appena le convenienze lo avevano reso possibile, diretti verso il calore della loro casa o il fuoco crepitante della Locanda dell'Ultima Casa, dopo aver pronunciato in fretta qualche parola di condoglianza senza neppure saper bene che cosa dire, perché nessuno aveva conosciuto a fondo Rosamun o aveva mai avuto molta simpatia per lei. Adesso quindi non c'era nessuno che potesse aiutare Caramon, che potesse dargli consigli: sapendo di essere abbandonato a se stesso, lui si chinò e si preparò a sollevare il fratello fra le braccia per portarlo a casa, ma in quel momento un paio di lucidi stivali neri e il bordo di un mantello marrone entrarono nel suo campo visivo. «Salve, Caramon». Sentendo il suo nome, Caramon sollevò la testa e spinse indietro il cappuccio per vedere meglio, ma la pioggia gli si riversò sui capelli e di lì gli colò negli occhi. Davanti a lui c'era una donna che poteva avere circa vent'anni o forse qualcuno di più. Il suo volto era attraente anche se non bello, i capelli nascosti dal cappuccio erano neri e raccolti in riccioli umidi intorno al viso, gli occhi scuri e luminosi erano forse un po' troppo scintillanti e duri, come due diamanti, e il suo abbigliamento era costituito da un'armatura di cuoio marrone modellata in modo da aderire al corpo ben tornito, da una comoda tunica verde, da calzoni dello stesso colore e dai lucidi stivali neri che le arrivavano alle ginocchia. Una spada le pendeva dal fianco. Nel complesso, quella donna appariva familiare, ma pur essendo consapevole di conoscerla Caramon adesso non aveva il tempo di vagliare la propria memoria, quindi borbottò qualcosa sul fatto che doveva aiutare suo fratello e si disinteressò di lei, ma un attimo dopo la donna gli fu accanto e s'inginocchiò accanto a Raistlin. «È anche mio fratello, sai», commentò, incurvando le labbra in un sorriso in tralice.
«Kit!» sussultò Caramon, che infine l'aveva riconosciuta. «Cosa ci fai... dove sei... come...». «Adesso è meglio portarlo in un posto caldo e asciutto», lo interruppe Kitiara, assumendo il controllo della situazione con estremo sollievo di Caramon. «Tu prendilo per un braccio, io lo solleverò dall'altra parte». Lei era forte quanto un uomo, e fra tutti e due riuscirono a issare in piedi Raistlin, che si riscosse per un momento, si guardò intorno con occhi opachi e borbottò qualcosa prima di abbandonare la testa da un lato e perdere di nuovo conoscenza. « È... è davvero malato!» esclamò Caramon, sentendo la paura diventare dentro di lui qualcosa di vivo e di concreto che gli serrava il cuore. «Non l'ho mai visto in uno stato simile!». «Bah! Io ho visto di peggio», dichiarò con sicurezza Kitiara, «ed ho curato di molto peggio, come ferite da freccia al ventre o gambe tagliate di netto. Non ti preoccupare», aggiunse, mentre il suo sorriso si addolciva alquanto di fronte all'angoscia di Caramon. «Ho già combattuto in passato contro la Morte per salvare il mio fratellino e posso farlo di nuovo, se sarà necessario». Insieme trasportarono Raistlin su per la lunga rampa di scale che conduceva ai ponti fra gli alberi, poi proseguirono sotto i rami gocciolanti fino alla piccola casa dei Majere. Una volta dentro, Caramon accese il fuoco mentre Kit liberava Raistlin dai vestiti fradici con rapida efficienza priva di pudore, scoppiando a ridere quando Caramon azzardò una mite e imbarazzata protesta. «Cosa ti prende, fratellino? Hai paura che la mia delicata sensibilità femminile rimanga sconvolta?» domandò, e strizzandogli l'occhio aggiunse: «Non ti preoccupare, ho già visto altre volte degli uomini nudi». Rosso in volto, Caramon l'aiutò ad adagiare Raistlin nel suo letto. Adesso lui stava tremando così violentemente da far temere che potesse rotolare per terra, diceva parole che non avevano senso e di tanto in tanto lanciava un grido per poi fissare qualcosa con gli occhi dilatati dalla febbre. Frugando per tutta la casa, Kit requisì intanto tutte le coperte che riuscì a trovare e le ammucchiò sul fratello, poi gli posò una mano sul collo per controllare le pulsazioni e arricciò le labbra in un'espressione pensierosa, scuotendo il capo, mentre Caramon stava da un lato e l'osservava con aria ansiosa. «Quella vecchia è ancora da queste parti?» chiese d'un tratto Kitiara. «Sai a chi mi riferisco, quella che parlava con gli alberi, fischiava come un
uccello e aveva un lupo come animale domestico». «Meggin la Pazza? Sì, credo che ci sia ancora», rispose Caramon, in tono dubbioso. «Io non vado spesso in quella parte della città perché nostro padre non vuole...». Interrompendosi deglutì a fatica e concluse: «Nostro padre non voleva che andassimo là». «Tuo padre non c'è più, Caramon, e adesso sei affidato a te stesso», replicò Kitiara, con brutale franchezza. «Va' da Meggin la Pazza e dille che hai bisogno dell'elisir di corteccia di salice. Avanti, spicciati, dobbiamo far calare questa febbre». «Elisir di corteccia di salice», ripeté più volte Caramon fra sé mentre si metteva il mantello. «Non serve niente altro?». «Per il momento no. Caramon, ancora una cosa...» lo trattenne Kitiara, mentre lui già stava varcando la soglia. «Non dire a nessuno che sono tornata in città, d'accordo?». «Certo, Kit», assentì Caramon. «Ma perché non devo dirlo?». «Non voglio essere seccata da un mucchio di pettegoli che vendono a curiosare e a fare domande. Adesso muoviti. No, aspetta! Hai del denaro?» Quando Caramon scosse il capo, Kitiara infilò la mano in una sacca di cuoio che portava alla cintura, ne tirò fuori un paio di monete d'acciaio e le lanciò al fratello. «Sulla via del ritorno dalla casa della vecchia fermati da Otik e compra una caraffa di brandy. In casa c'è qualcosa da mangiare?». «I vicini ci hanno portato una quantità di roba», annuì Caramon. «Ah, dimenticavo, il banchetto funebre. D'accordo, adesso va' e ricorda che non devi dire a nessuno che sono qui». Caramon infine si avviò, incuriosito da quell'ordine della sorella; però, dopo parecchi momenti di lunga e attenta riflessione, giunse alla conclusione che Kitiara sapeva quello che stava facendo, perché se si fosse saputo che lei era in città ogni pettegolo fra Solace e le Pianure della Polvere sarebbe venuto a ficcare il naso nei suoi affari mentre Raistlin aveva bisogno di riposo e di quiete, non di un flusso incessante di visitatori. Sì, Kit sapeva quello che stava facendo e avrebbe aiutato Raistlin. In genere Caramon aveva sempre una visione positiva delle cose e non era portato ad angustiarsi per quello che era successo in passato o a preoccuparsi per il futuro; era per natura onesto e fiducioso, e come molte persone del genere era convinto che tutti gli altri fossero onesti e degni di fiducia, per cui ripose tutta la propria fede nella sorella e si affrettò sotto la pioggia alla volta della casa di Meggin la Pazza, che viveva in una mal-
concia baracca eretta direttamente sul terreno sotto gli alberi di vallenwood, non lontano dal locale di cattiva fama noto come L'Abbeveratoio. Concentrato com'era sull'incarico che doveva assolvere e intento a ripetere fra sé «corteccia di salice, corteccia di salice», Caramon per poco non inciampò nel vecchio lupo grigio sdraiato davanti alla soglia della capanna. Quando però il lupo ringhiò lui si affrettò a indietreggiare precipitosamente. «Bravo cagnetto», mormorò in tono amichevole. Il lupo si sollevò sulle zampe con il pelo che cominciava a rizzarsi e ritrasse le labbra in un ringhio in modo da mostrare le zanne gialle ma molto affilate. Percosso dalla pioggia che gli aveva inzuppato il mantello, Caramon rimase immobile nel fango che gli arrivava alla caviglia: da dove si trovava poteva vedere la finestra illuminata dal chiarore di una candela e una figura che si muoveva all'interno della casa, quindi fece un altro tentativo per oltrepassare il lupo. «Avanti, fa' il bravo cane», disse, accennando ad accarezzare l'animale sulla testa... e ritraendo la mano appena in tempo per evitare che le zanne gialle si richiudessero di scatto intorno ad essa. Con le mani affondate ora nelle tasche, Caramon abbandonò l'idea di usare la porta e pensò che avrebbe potuto bussare alla finestra. Il lupo però non era dello stesso parere e alla fine l'ebbe vinta lui. Caramon però sapeva che non poteva andarsene senza la corteccia di salice, e anche se chiamare qualcuno da fuori della porta non era molto cortese la disperazione infine lo indusse a tentare. «Pazza...» cominciò, poi arrossì e riprovò: «Meggin! Padrona Meggin!». Alla finestra apparve il volto di una donna di mezz'età, con i capelli grigi strettamente raccolti all'indietro e gli occhi luminosi e limpidi. La donna, che di certo non sembrava pazza, osservò con attenzione il fradicio visitatore e si allontanò dalla finestra. Per un momento Caramon sentì il cuore che gli sprofondava nel fango, che ora pareva arrivargli alle ginocchia, poi udì un rumore stridente che sembrava quello di una sbarra che veniva sollevata. Subito dopo la porta si aprì e la donna disse al lupo una parola che Caramon non comprese, in risposta alla quale l'animale si rotolò al suolo con le quattro zampe all'aria e permise alla vecchia di grattargli il ventre. «Allora, ragazzo, che cosa vuoi?» chiese quindi Meggin, sollevando lo sguardo. «Il clima è un po' inclemente perché tu sia venuto a lanciare sassi contro la mia casa, giusto?».
Caramon si tinse di un acceso rossore, perché quell'episodio dei sassi era successo molto tempo prima, quando lui era ancora un bambinetto, e aveva il presentimento che la donna non lo avrebbe riconosciuto. «Allora, che cosa vuoi?» ripeté Meggin. «Corteccia», rispose lui a bassa voce, vergognoso, impacciato e imbarazzato. «Un tipo di corteccia, ma... ho dimenticato quale». «Per che cosa serve?» domandò la vecchia in tono secco. «Uh... Kit... no, non intendevo questo. Si tratta di mio fratello, ha la febbre». «Elisir di corteccia di salice. Vado a prenderlo», disse la donna, poi lo fissò per un momento e aggiunse: «Ti inviterei ad entrare per ripararti dalla pioggia, ma scommetto che preferisci evitarlo». Caramon sbirciò nella baracca alle spalle della donna, dove ardeva un fuoco invitante. Sul tavolo sì vedeva però anche un teschio umano intorno a cui erano sparse svariate altre ossa, fra cui una cassa toracica attaccata ad una colonna vertebrale. Se non fosse stata una cosa troppo orribile da immaginare, Caramon avrebbe potuto supporre che la donna stesse cercando di ricostruire una persona partendo dalle ossa. «No, signora», rispose, indietreggiando di un passo. «Ti ringrazio, ma sto bene dove sono». La vecchia richiuse la porta ridacchiando e il lupo si accoccolò sulla soglia, tenendo d'occhio Caramon con i suoi occhi gialli mentre lui aspettava a disagio sotto la pioggia in preda alla preoccupazione per il fratello, augurandosi che la vecchia non impiegasse troppo tempo a tornare e chiedendosi con ansia se poteva fidarsi di lei. Forse quella donna aveva bisogno di altre ossa per la sua collezione, forse era andata a prendere un'ascia... La porta si riaprì in maniera tanto improvvisa che Caramon sussultò. «Ecco qui, ragazzo», disse Meggin, porgendogli una piccola fiala di vetro. «Riferisci a tua sorella che Raistlin ne deve inghiottire un grosso cucchiaio mattina e sera fino a quando la febbre non sarà cessata. Hai capito?». «Sì, signora. Grazie, signora», rispose Caramon, armeggiando per tirare fuori le monete che aveva in tasca, poi si rese conto di colpo di quello che la donna aveva detto e aggiunse balbettando: «Non è per... uh... per mia sorella. Lei non è qui... non proprio. È lontana, ed io non...». Arrendendosi, Caramon infine tacque, perché sapeva di essere incapace di mentire. «È ovvio che è qui», ribatté Meggin, ridacchiando ancora. «In ogni caso
non lo dirò a nessuno, non temere. Spero che tuo fratello si rimetta, e quando starà bene digli di venire a trovarmi. Sento la sua mancanza». «Mio fratello viene qui?» domandò Caramon, stupefatto. «Di continuo. Chi credi che gli abbia insegnato a conoscere le erbe? Certo non quell'idiota pasticcione di Theobald, che non saprebbe distinguere un dente di leone da un fiore di melo neppure se gli mordesse il posteriore. Ricordi la dose, oppure vuoi che te la scriva?». «Io... la ricordo», rispose Caramon, porgendo una moneta. «Non faccio pagare niente agli amici», disse però Meggin, respingendola con un gesto. «Mi è dispiaciuto per i vostri genitori. Prima o poi torna a trovarmi, Caramon Majere, perché mi piacerebbe parlare con te. Scommetto che sei più intelligente di quanto credi». «Sì, signora», assentì cortesemente Caramon, senza avere idea di cosa lei avesse inteso dire e senza l'intenzione di accettare il suo invito. Rivolto alla donna un goffo inchino, si avviò in mezzo al fango alla volta della scala che portava sugli alberi, tenendo stretta a sé la fiala di elisir di corteccia di salice con la stessa delicatezza con cui una madre avrebbe tenuto fra le braccia il suo neonato. Mentre camminava, i suoi pensieri erano confusi: Raistlin andava a trovare quella vecchia megera e imparava delle cose da lei... forse aveva perfino toccato quel teschio! Con una smorfia, Caramon decise che era tutto molto sconcertante. La sua mente era così sottosopra che si dimenticò completamente di fermarsi alla locanda per prendere il brandy, con il risultato che una volta a casa venne sgridato severamente da Kit e fu costretto ad uscire di nuovo sotto la pioggia per andare a prenderlo. CAPITOLO QUINTO Raistlin rimase gravemente malato per parecchi giorni. La febbre calava sempre dopo una dose di corteccia di salice ma poi tornava a salire e ogni volta pareva farsi più intensa, e anche se Kitiara tendeva a minimizzare sulle condizioni di Raistlin ogni volta che chiedeva sue notizie, Caramon non aveva difficoltà ad accorgersi che era preoccupata. A volte di notte, quando lei lo credeva addormentato, Caramon la poteva sentire emettere un profondo sospiro e poi tamburellare con le dita sul bracciolo della sedia a dondolo appartenuta a Rosamun, che aveva trascinato nella piccola camera che i due gemelli condividevano. Kitiara non era un'infermiera gentile, non aveva pazienza nei confronti
delle debolezze, ma era decisa che Raistlin dovesse vivere e stava quindi facendo tutto quello che era in suo potere perché migliorasse, irritandosi e arrivando perfino ad infuriarsi quando lui non reagiva ai trattamenti. Ad un certo punto, l'irritazione di Kitiara crebbe a tal punto che lei cominciò a considerare quella situazione una sua lotta personale, e da quel momento la sua espressione si fece così cupa e decisa da indurre Caramon a chiedersi se perfino la Morte non dovesse sentirsi un po' intimidita all'idea di affrontare una simile avversaria. Evidentemente la Morte dovette spaventarsi, perché la sua presenza incombente cominciò ad allontanarsi. La mattina del quarto giorno da quando il suo gemello si era ammalato, Caramon si svegliò dopo una notte agitata e trovò Kit accasciata sul letto con la testa appoggiata alle braccia e gli occhi chiusi, addormentata. Anche Raistlin stava dormendo, non del sonno profondo e agitato proprio della malattia ma in maniera riposante e risanante. Nel protendere una mano per controllare le pulsazioni del fratello, Caramon sfiorò involontariamente la spalla di Kitiara, che scattò in piedi e lo afferrò con una mano per il colletto della camicia, torcendolo in modo da serrargli il collo mentre nell'altra mano le appariva un coltello, scintillante sotto il sole del primo mattino. «Kit, sono io!» gracchiò Caramon, semisoffocato. Per un momento Kitiara lo fissò senza riconoscerlo, poi la sua bocca si contrasse nel consueto sorriso in tralice e lei lo lasciò andare, lisciando la camicia per liberarla dalle pieghe, mentre il coltello scompariva tanto in fretta da impedire a Caramon di vedere dove fosse andato a finire. «Mi hai spaventata», disse Kitiara. «Me ne sono accorto!» esclamò Caramon con sentimento, sentendo il collo che gli bruciava dove la rozza stoffa fatta in casa gli era affondata nella pelle; massaggiandosi il punto dolente, adocchiò con cautela la sorella. Kitiara era più bassa e snella di lui, ma se non avesse parlato in tempo per lui sarebbe stata la fine: poteva ancora sentire la sua mano che gli serrava la stoffa intorno alla gola, mozzandogli il respiro. Fra i due scese intanto un imbarazzato silenzio, perché Caramon aveva visto in sua sorella qualcosa d'inquietante che lo aveva raggelato... non l'attacco in se stesso ma piuttosto la gioia intensa che le aveva letto negli occhi mentre lo aggrediva. «Mi dispiace, non volevo spaventarti», si scusò infine lei, assestandogli
uno schiaffo scherzoso su una guancia. «Però non ti avvicinare più di soppiatto in quel modo mentre sto dormendo, d'accordo?». «Certamente, Kit», assentì Caramon, ancora a disagio ma disposto ad ammettere che l'incidente era stato colpa sua. «Mi dispiace di averti svegliata... volevo soltanto controllare come stava Raistlin». «Ha superato la crisi e adesso si rimetterà», dichiarò Kitiara con un sorriso trionfante, abbassando lo sguardo sul malato con lo stesso orgoglio con cui avrebbe contemplato un nemico sconfitto. «La febbre è calata la scorsa notte e non è più tornata a salire. Adesso la cosa migliore è lasciarlo dormire tranquillo. Avanti», continuò, spingendo il riluttante Caramon fuori della porta, «da' ascolto alla tua sorella maggiore. Intanto, per ripagarmi dello spavento che mi hai fatto prendere puoi prepararmi la colazione». «Spavento?» ripeté Caramon, sbuffando. «Tu non eri spaventata». «Un soldato è sempre spaventato», lo corresse Kitiara, sedendo al tavolo e divorando avidamente una mela ancora verde, uno dei primi frutti di quella stagione. «Ciò che conta è in che cosa si trasforma la paura». «Cosa significa?» domandò Caramon, sollevando lo sguardo dal pane che era intento ad affettare. «La paura ti può devastare», spiegò Kitiara, affondando i forti denti bianchi nella mela, «oppure puoi sfruttarla a tuo favore, usarla come un'altra arma. La paura è una cosa strana che può indebolirti le ginocchia, farti bagnare i pantaloni e indurti a piagnucolare come un bambino piccolo, oppure ti può aiutare a correre più veloce e a colpire con maggiore forza». «Davvero?» esclamò Caramon, infilando una fetta di pane con un forchettone e protendendola sul fuoco per tostarla. «Una volta ho preso parte ad un combattimento», raccontò Kitiara, appoggiandosi allo schienale della sedia e puntellando i piedi calzati di stivali sulla sedia vicina. «Un branco di orchetti ci ha aggrediti e a uno dei miei compagni, un tizio che chiamavano Bart Naso Azzurro perché il suo naso aveva una strana tinta bluastra, si è spezzata in due la spada mentre stava combattendo contro un orchetto. Il suo avversario ha lanciato uno strillo di gioia perché era certo di avere in pugno la sua preda, e Bart si è infuriato perché aveva bisogno di un'arma dato che quell'orchetto lo stava attaccando da ogni parte e lo stava costringendo a saltellare di qua e di là come un mostro dell'Abisso per non essere colpito. Alla fine Bart ha deciso che aveva bisogno di un randello ed ha afferrato la prima cosa che si è trovata a portata di mano... che era un albero. Non un ramo ma un intero, dannato
albero. Lui ha sradicato quella pianta dal terreno, si potevano sentire le radici che schioccavano e si spezzavano, e lo ha calato sulla testa dell'orchetto, uccidendolo sul colpo». «Impossibile!» protestò Caramon. «Non ci credo! Avrebbe davvero sradicato un albero dal terreno?». «Era un albero giovane», spiegò Kitiara con una scrollata di spalle, «ma quando ci ha riprovato con un'altra pianta delle stesse dimensioni, dopo che la battaglia era finita, lui non è più riuscito a sradicarla e neppure a scuoterne i rami. Questo è ciò che la paura può fare per te». «Capisco», annuì Caramon, con aria pensosa. «Stai bruciando il pane», avvertì Kitiara. «Oh, mi dispiace. Questo pezzo lo mangerò io», si scusò Caramon, sfilando il pane annerito dal forchettone per sostituirlo con un'altra fetta. Da un paio di giorni c'era una domanda che continuava a tormentarlo, e adesso cercò di escogitare un modo astuto per porla senza però trovarlo: Raistlin era fra loro quello abile nei sotterfugi, lui si limitava ad avanzare a testa bassa, quindi alla fine decise che la cosa migliore era porre la domanda come sapeva e farla finita, soprattutto perché al momento Kitiara sembrava essere di buon umore. «Perché sei tornata?» chiese quindi, evitando di guardarla mentre rigirava con cura il pane sul forchettone per dorarlo anche dall'altro lato. «È stato a causa di nostra madre? Eri presente al suo funerale, giusto?». Un istante più tardi sentì gli stivali della sorella colpire il pavimento e sollevò lo sguardo con aria tesa, pensando di averla offesa. Kitiara era adesso in piedi con la schiena rivolta verso di lui e stava guardando fuori della piccola finestra; aveva smesso infine di piovere e le foglie dei vallenwood, che stavano cominciando a cambiare colore, brillavano dorate sotto il sole del mattino. «Avevo saputo della morte di Gilon da alcuni taglialegna che ho incontrato in una taverna, nel nord», rispose infine Kitiara. «Loro hanno parlato anche della... malattia... di Rosamun», aggiunse, contraendo le labbra e scoccando un'occhiata in tralice a Caramon. «Se devo essere onesta, sono tornata per te e per Raistlin, ma te ne parlerò fra un momento. Sono giunta a Solace la notte in cui Rosamun è morta e mi sono fermata presso... presso degli amici. Sì, sono venuta al funerale perché lei era mia madre, che questo mi piacesse o meno. Immagino che la sua morte sia stata un duro colpo per te e per Raist, vero?». Caramon annuì in silenzio perché era una cosa a cui non gli andava di
pensare. Con aria cupa, prese a sbocconcellare il pane bruciacchiato. «Se vuoi delle uova te le posso friggere», propose. «Sì, sono affamata. Aggiungi anche un po' delle patate di Otik, se ce ne sono ancora», rispose Kitiara, rimanendo in piedi vicino alla finestra. «Rosamun non significava nulla per me», aggiunse con voce d'un tratto più dura, «ma non presenziare al funerale mi avrebbe portato sfortuna». «Cosa intendi con "sfortuna"?». «Oh, so che sono tutte sciocchezze superstiziose», annuì Kitiara, con un sorriso contrito, «ma lei era mia madre ed è morta, e le devo quindi portare rispetto, altrimenti... ecco... altrimenti potrei essere punita», spiegò, apparentemente a disagio. «Mi potrebbe succedere qualcosa di brutto». «Sembra di sentire la Vedova Judith», commentò Caramon, rompendo il guscio di un uovo e tentando in modo goffo e inetto di estrarne il contenuto. Le sue uova strapazzate erano note per essere miste a frammenti di guscio. «Lei ha detto che un dio chiamato Belzor ci avrebbe puniti... è questo che intendi?». «Belzor! Che idiozia! Gli dèi esistono, Caramon, dèi possenti che ti possono punire se fai qualcosa che a loro non piace, ma che ti ricompensano se li servi fedelmente». «Parli sul serio?» domandò Caramon, fissando sua sorella. «Non ti offendere, ma prima d'ora non ti avevo mai sentita fare discorsi del genere». Kitiara volse d'un tratto le spalle alla finestra e si diresse verso il tavolo con passi lunghi e decisi, piantando le mani sulla superficie di legno e fissando Caramon in volto. «Vieni con me!» propose, senza rispondere alla sua domanda. «Nel nord c'è una città chiamata Sanction dove stanno accadendo grandi cose, Caramon, cose importanti. Io ho intenzione di esserne parte e potrai farlo anche tu. Sono tornata per venire a prenderti». Caramon si sentì indotto in tentazione all'idea di viaggiare con Kitiara, di vedere il vasto mondo al di fuori di Solace. Basta sgobbare tutto il giorno in una fattoria, zappare, arare e ammucchiare fieno fino ad avere le braccia doloranti. Adesso avrebbe potuto usare quelle braccia per maneggiare una spada, combattere contro orchetti e orchi per poi trascorrere le notti intorno al fuoco con i suoi compagni oppure in una comoda taverna con una ragazza sulle ginocchia. «Cosa mi dici di Raistlin?» domandò. «Speravo di trovarlo più in forze», rispose Kitiara, scuotendo il capo. «È già in grado di usare la magia?».
«Io... io non credo», replicò Caramon. «Allora è probabile che non sarà mai in grado di usarla, considerato che i maghi che io conosco utilizzano il loro talento già all'età di dodici anni! In ogni caso sono certa che potrei trovargli un lavoro. Lui è istruito, vero? Conosco un tempio dove stanno cercando degli scribi... un lavoro facile e una vita comoda. Che te ne pare? Potremmo partire non appena Raistlin sarà in condizione di viaggiare». Caramon si concesse per un'ultima volta d'immaginarsi nell'atto di passeggiare per quella città chiamata Sanction, con indosso un'armatura tintinnante e con la spada al fianco, in mezzo agli sguardi ammirati delle donne, poi accantonò quella visione con un sospiro. «Non posso farlo, Kit. Raist non lascerà mai la sua scuola fino a quando non sarà pronto a sostenere una prova di qualche tipo a cui si dovrà sottoporre in una grande torre che si trova da qualche parte». «Che rimanga, allora», ribatté Kitiara, irritata. «Verrai soltanto tu». Nel parlare fissò il fratello con uno sguardo che era quasi quello che lui aveva immaginato di vedere negli occhi delle donne di Sanction ma che era al tempo stesso diverso in quanto lei lo stava valutando come guerriero. Inconsciamente, Caramon sedette più eretto, ben sapendo di essere più alto degli altri ragazzi della sua età e della maggior parte degli uomini adulti di Solace, senza contare che il duro lavoro nei campi lo aveva aiutato a sviluppare i muscoli, che spiccavano sotto la camicia. «Quanti anni hai?» domandò Kitiara. «Sedici». «Senza dubbio potresti fingere di averne diciotto, e lungo il viaggio verso il nord io ti potrei insegnare tutto quello che hai bisogno di imparare. Qui Raistlin se la caverà ottimamente da solo perché ha la casa... vostro padre l'ha lasciata a voi due, vero? Bene, in tal caso non c'è nulla che ti trattenga». Caramon poteva anche essere un credulone, poteva essere poco brillante, cosa di cui spesso suo fratello lo accusava, e lento nel pensare, ma una volta che aveva preso una decisione era inamovibile quanto il Picco dell'Occhio che Prega. «Non posso lasciare Raistlin», dichiarò. Kitiara si accigliò, irritata perché non era abituata a veder contrastare la propria volontà, e incrociò le braccia sul petto mentre fissava Caramon con occhi roventi e prendeva a tamburellare sul pavimento con lo stivale. A disagio sotto il suo sguardo penetrante, Caramon abbassò la testa e sbatté le
uova con tanta forza da farle schizzare fuori dalla ciotola. «Potresti discuterne con Raistlin», disse infine, con voce soffocata dal colletto della camicia nel quale aveva affondato la faccia. «Forse io mi sto sbagliando e lui vorrà partire». «Lo farò», assentì Kitiara in tono tagliente, mettendosi a camminare avanti e indietro per la piccola stanza. Senza aggiungere altro, Caramon rovesciò quanto restava delle uova in una padella che pose sul fuoco; mentre cucinava sentì i passi di Kitiara echeggiare cupi sul legno e sussultò quando uno di essi calcò il pavimento con particolare forza pervasa di rabbia... poi le uova furono pronte e i due sedettero in silenzio a fare colazione. Quando infine si arrischiò a lanciare un'occhiata alla sorella, Caramon vide che lei lo stava osservando con un sorriso affabile sulle labbra. «Queste uova sono davvero buone», affermò Kitiara, sputando qualche pezzetto di guscio. «Ti ho mai parlato di quella volta che un bandito ha cercato di accoltellarmi mentre dormivo? Il modo in cui mi hai svegliata mi ha riportato alla mente quella storia. Quel giorno avevamo combattuto duramente ed ero sfinita; questo bandito...». Nel corso della giornata, Caramon ascoltò quella storia e molte altre eccitanti avventure, divertendosi nel seguire le diverse vicende perché Kit era davvero brava a raccontarle. Di tanto in tanto, Caramon si recava nella camera da letto per controllare le condizioni di Raistlin, che trovava sempre serenamente addormentato, e al suo ritorno in cucina si vedeva elargire un'ennesima storia di valore, di audacia, di battaglie, di vittorie e di ricchezze conquistate. Lui ascoltava, rideva e sussultava al momento giusto, ma al tempo stesso era perfettamente consapevole di ciò che sua sorella stava cercando di fare. Peraltro la risposta possibile era una soltanto: se Raistlin avesse acconsentito a partire Caramon sarebbe andato con lui, e se avesse scelto di rimanere sarebbe rimasto a sua volta. Raistlin si svegliò quella sera, talmente debole da non riuscire a sollevare la testa dal cuscino senza aiuto, e mentre Caramon lo aiutava a bere un po' di brodo di pollo Kitiara gli fece la stessa proposta che aveva presentato a Caramon, solo che non riuscì ad essere altrettanto disinvolta nel fissare quegli acuti occhi azzurri che la fissavano in modo tale da dare l'impressione di vederle attraverso. «Per chi lavori?» chiese Raistlin, quando lei ebbe finito di parlare. «Delle persone», rispose Kitiara, scrollando le spalle. «E qual è questo tempio in cui vorresti che lavorassi? A quale dio è de-
dicato?». «Non a Belzor, puoi esserne certo», rise Kitiara. Tuttora impegnato a imboccare il fratello, Caramon cercò di interloquire ma Raistlin lo zittì freddamente. «Ti ringrazio, sorella, ma non sono pronto», disse infine. «Pronto?» ripeté Kitiara, che non riusciva a capire di cosa lui stesse parlando. «Cosa intendo con "pronto"? Pronto a cosa? Sai leggere, vero? E sai scrivere, se non sbaglio. È evidente che per quanto tu ci abbia provato non hai nessun talento per la magia, ma questo non è importante perché ci sono altri modi per ottenere il potere. Io lo so perché li ho trovati». «Adesso basta, Caramon!» ordinò Raistlin, allontanando il cucchiaio e riadagiandosi stancamente sui cuscini. «Ho bisogno di riposare». Kitiara si alzò in piedi e si piantò le mani sui fianchi, fissandolo con occhi fiammeggianti. «Quell'idiota di nostra madre ti teneva avvolto nella bambagia per timore che potessi romperti. Adesso è tempo che tu ne esca e che veda qualcosa del mondo», dichiarò. «Non sono pronto», ripeté Raistlin, chiudendo gli occhi. Kitiara lasciò Solace quella notte stessa. «È soltanto un breve viaggio fino a Qualinesti», disse a Caramon, mentre s'infilava i guanti di cuoio. «Sai qualcosa di quel posto?» domandò quindi con indifferenza. «Hai idea di quali siano le sue difese, di quanta gente ci viva... cose del genere, insomma». «So che là vivono gli elfi», rispose Caramon, dopo un momento di profonda riflessione. «Questo lo sanno tutti!» sbuffò Kitiara, mentre si metteva il mantello e si tirava il cappuccio sulla testa. «Quando tornerai?» volle sapere Caramon. «Non lo so», replicò Kitiara, scrollando le spalle. «Forse fra un anno, forse fra un mese o forse mai... dipende da come andranno le cose». «Non sei arrabbiata con me, vero, Kit?» domandò in tono malinconico Caramon. «Non mi piacerebbe che tu lo fossi». «No, non sono arrabbiata, soltanto delusa. Tu saresti diventato un grande guerriero, Caramon, la gente che conosco ti avrebbe plasmato a dovere. Quanto a Raistlin, ha commesso un grosso errore, perché lui vuole il potere ed io so dove è possibile trovarlo. Se resterete qui tu non sarai mai altro che un contadino e lui diventerà... diventerà come quel Waylan... un prestigiatore che sputa monete dalla bocca e tira fuori conigli dal cappello ed
è la favola di tutta Solace. È un vero spreco». Assestò quindi uno schiaffo sulla guancia di Caramon che nelle sue intenzioni doveva essere amichevole ma che gli lasciò sulla faccia il segno rosso della sua mano, poi aprì la porta e sbirciò fuori in entrambe le direzioni mentre Caramon si chiedeva cosa mai stesse guardando, dato che era passata da parecchio la mezzanotte e la maggior parte della gente di Solace era a letto. «Arrivederci, Kit», disse. «Arrivederci, fratellino». Massaggiandosi la guancia dolorante Caramon la guardò allontanarsi fra i rami dei vallenwood rischiarati dalla luna, una sagoma nera su quello sfondo argenteo. CAPITOLO SESTO Il risveglio di Raistlin fu accompagnato dal martellare della pioggia sul tetto, unito al rombo dei tuoni che echeggiava nell'aria come sul terreno e al tremito dei vallenwood sotto il grigiore dell'alba tinto a tratti di rosa dai lampi. La pioggia stava cadendo sulle tombe scavate di fresco, formando delle polle intorno ai giovani vallenwood piantati su ciascuna di esse e minacciando di annegarli. Disteso sul letto, Raistlin osservò il graduale rischiararsi del grigiore esterno a mano a mano che la tempesta passava e fuori scendeva la quiete infranta soltanto dall'incessante gocciolare dell'acqua che scivolava lungo le foglie fradice; poiché era terribilmente stanco e ogni minimo movimento gli causava uno sforzo enorme, rimase del tutto immobile, svuotato. Quel senso di vuoto era sgradevole, ma non quanto il cupo dolore della perdita subita, che sarebbe tornato a travolgerlo se soltanto si fosse mosso. Gli pareva di non riuscire ad avvertire il contatto del lenzuolo sotto il suo corpo o delle coperte stese su di esso, di essere privo di peso o di sostanza, e si chiese se giacere in una bara desse una sensazione del genere... non provare nulla, mai più, non essere coscienti di nulla, restare per sempre avviluppati da una cupa, vuota e silenziosa oscurità mentre il mondo e la gente che lo popolava continuavano a vivere. D'un tratto il dolore ruppe la diga che lo arginava e andò a riempire il vuoto del suo animo: una rovente ondata di sofferenza e di paura lo assalì inarrestabile, le lacrime gli fecero bruciare le palpebre e lui infine serrò gli occhi e pianse per se stesso, per sua madre e per suo padre, per tutti coloro
che nascevano nell'oscurità, levavano pieni di meraviglia gli occhi verso la luce, ne avvertivano il calore sulla pelle e poi dovevano tornare infine nel buio eterno. Raistlin pianse a lungo ma in silenzio per non svegliare Caramon, non tanto per considerazione nei confronti della stanchezza del fratello quanto per vergogna della propria debolezza. Infine le lacrime cessarono, lasciandolo con la bocca pervasa da uno sgradevole sapore di ferro e di sale, con il naso chiuso e con la gola contratta per lo sforzo di soffocare i singhiozzi, e lui si rese infine conto che le coltri erano umide di sudore, segno che la febbre era caduta in un momento imprecisato della notte; si lasciava alle spalle un vaghissimo ricordo di essere stato malato accompagnato dalle immagini sfumate d'orrore dei sogni indotti dalla febbre, nei quali lui si era identificato con Rosamun, era diventato il cadavere rinsecchito di sua madre che giaceva sul letto mentre la gente si raccoglieva tutt'intorno a fissarlo in silenzio. Antimodes, il Maestro Theobald, la Vedova Judith, Caramon, il nano, il kender, Kitiara... lui li aveva implorati e supplicati di dargli del cibo e dell'acqua, ma loro avevano risposto che era morto e che non ne aveva bisogno, generando nel suo animo il terrore che finissero per gettarlo in una bara e seppellirlo in una tomba che nel suo sogno si trovava nel laboratorio del Maestro Theobald. Ricordare quei sogni spaventosi li privò in parte del loro potere, e il residuo senso d'orrore che essi gli lasciarono nell'animo non seppe sopraffarlo. Spinta di lato la rozza coperta di lana che era ruvida e gli irritava la pelle nuda, Raistlin si alzò in piedi anche se era ancora debole e barcollante a causa della malattia, e si affrettò a cercare a tentoni la camicia gettata sullo schienale di una sedia perché l'aria fredda lo stava facendo rabbrividire. Sollevata la camicia sulla testa infilò le braccia nelle maniche e sostò nel centro della piccola stanza, incerto su cosa fare. Dopo un momento, attraversò la stanza per contemplare la forma addormentata del suo gemello, che come lui occupava un letto di legno incassato nella parete: Caramon era solito addormentarsi tardi e dormire di un sonno profondo, giacendo tranquillo sulla schiena con le braccia spalancate, una gamba che pendeva dal letto e l'altra piegata all'altezza del ginocchio e appoggiata alla parete, mentre per contrasto Raistlin dormiva appallottolato su se stesso con le ginocchia tirate su fino al mento e le braccia strette intorno al petto. Questa notte però il sonno di Caramon appariva inquieto e turbato quan-
to quello del suo gemello, ma il suo sfinimento era così profondo che lo teneva vincolato al letto e impediva anche ai sogni più spaventosi di destarlo, con il risultato che lui si agitava, si girava e scuoteva la testa con tale violenza che il cuscino era caduto per terra e le lenzuola gli si erano arrotolate intorno al corpo come un sudario. Senza cessare di dibattersi, Caramon borbottava, mormorava e assestava strattoni al colletto della camicia da notte, la sua pelle era fredda e umida, i capelli intrisi di sudore, e nel complesso aveva un aspetto così malato che Raistlin gli posò una mano sulla fronte per controllare se gli fosse venuta la febbre. La pelle di Caramon però era fresca, segno che ciò che lo turbava non era un prodotto del corpo ma della mente. «Non farmi andare là, Raist!» implorò intanto Caramon, rabbrividendo sotto il tocco della mano fraterna. «Non farmi andare là!». Spingendo indietro una ciocca di arruffati capelli ricciuti che ricadeva negli occhi del fratello, Raistlin si chiese se non fosse il caso di svegliarlo. Senza dubbio Caramon doveva averlo vegliato per molte notti ed essere esausto, ma quel sonno era più simile ad una tortura che non a vero riposo, quindi alla fine Raistlin posò la mano sull'ampia spalla del gemello e lo scosse con decisione. «Caramon!» chiamò in tono perentorio. Caramon spalancò gli occhi, lo fissò in volto e si ritrasse con timore. «Non mi lasciare! No, non mi lasciare! Per favore!» gemette, cominciando a dibattersi sul letto con tanta violenza che per poco non cadde per terra. Rendendosi conto che il fratello non stava sognando, di colpo Raistlin notò nel suo modo di fare qualcosa di vagamente familiare che ebbe il potere di spaventarlo: Rosamun, anche lei si era comportata più o meno in questo modo. Forse Caramon non stava dormendo, forse era intrappolato in una trance simile a quella in cui Rosamun era scivolata senza più trovare il modo per uscirne. In passato Caramon non aveva mai dato segno di aver ereditato lo strano dono della madre, ma dopo tutto era suo figlio e aveva lo stesso sangue nelle vene... con tutte le strane assurdità che ad esso si accompagnavano, e adesso aveva il corpo spossato dalle lunghe notti di veglia in cui si era preso cura del fratello malato e la mente devastata dalla tragica perdita del padre che lui adorava seguita dall'essere costretto ad assistere passivamente al lento consumarsi di sua madre: con le difese del fisico ri-
dotte al minimo e la mente confusa e sconvolta, la sua anima era rimasta esposta e vulnerabile, per cui avrebbe potuto benissimo scegliere di ritirarsi in cupe regioni di cui non si era mai conosciuta l'esistenza per cercare in essa rifugio dai duri colpi della vita. Cos'avrebbe fatto se avesse perso anche Caramon? Si sarebbe trovato del tutto solo, senza né famiglia né amici, in quanto non poteva né voleva considerare Kitiara come la propria famiglia perché la sua rozzezza e la sua indomita natura animalesca lo disgustavano... o almeno questo era ciò che aveva sempre detto a se stesso. La verità era che aveva paura di lei, prevedeva che un giorno fra loro sarebbe scoppiata una lotta per il potere e non era certo di essere abbastanza forte da poterle tenere testa da solo. Quanto agli amici, quello era un argomento sul quale non poteva farsi illusioni di sorta: non ne aveva neppure uno, perché tutti i loro amici erano in realtà legati a Caramon e non a lui. Caramon era spesso irritante e i suoi lenti processi mentali avevano l'effetto di generare un senso di frustrazione nel suo gemello più agile di mente, che a volte si sentiva tentato di afferrarlo e di scrollarlo nella tenue speranza di far affiorare accidentalmente in lui qualche pensiero sensato, ma adesso che si trovava di fronte alla possibilità di perderlo, Raistlin contemplò il vuoto che avrebbe occupato il posto in cui c'era sempre stato Caramon e si rese conto di quanto avrebbe sentito la sua mancanza, non solo per la compagnia che gliene derivava o per il fatto di avere una persona forte su cui fare affidamento: mentalmente parlando, Caramon non era un buon avversario ma era un ottimo compagno per gli addestramenti. Inoltre, lui era la sola persona che Raistlin avesse conosciuto che fosse mai riuscita quasi a farlo ridere, magari creando giochi d'ombre sulle pareti, ridicoli conigli... «Caramon!» chiamò Raistlin, tornando a scuotere il fratello. «No, Raist!» gemette però Caramon, sollevando le mani come per deviare un colpo. «Non ce l'ho! Giuro che non ce l'ho!». Spaventato, Raistlin si chiese cosa fare e lasciò la camera da letto per andare in cerca di sua sorella, con l'idea di mandarla a chiamare Meggin la Pazza, ma ben presto scoprì che Kitiara era scomparsa insieme con suo bagaglio, segno che doveva essere partita durante la notte. Incerto sul da farsi, sostò allora nel salotto della casa troppo silenziosa. Kitiara aveva riposto tutti gli abiti e gli oggetti appartenuti a Rosamun in una cassapanca di legno infilata sotto il letto, ma non aveva rimosso la sua sedia a dondolo soprattutto a causa del fatto che la casa era tristemente a
corto di sedie, e adesso la presenza di Rosamun aleggiava intorno ad essa come la fragranza dei petali di rosa appassiti: lo stesso vuoto lasciato dalla sua scomparsa ebbe l'effetto di richiamare intensamente la sua immagine alla mente di Raistlin. Troppo intensamente. Rosamun era seduta sulla sua sedia e si dondolava lentamente avanti e indietro con il vestito che frusciava e la punta dei piccoli piedi racchiusi in morbide scarpe di cuoio che toccava appena il pavimento per poi scomparire sotto l'orlo dell'abito quando la sedia tornava a dondolarsi all'indietro; e intanto la sua testa e il suo sguardo rimanevano immobili, le sue labbra sorridevano a Raistlin.... che rimase a guardarla desiderando con tutta l'intensità del suo cuore dolente che quanto stava vedendo fosse vero, anche se una parte di lui sapeva che era impossibile. Poi Rosamun smise di dondolarsi e si alzò dalla sedia con grazia disinvolta, lasciandosi alle spalle nel passargli accanto una dolce fragranza che sapeva di rose... Nella stanza accanto Caramon emise un urlo orribile e spaventoso, come se lo stessero seppellendo vivo. Con l'odore di rose che gli aleggiava ancora nelle narici, Raistlin frugò nella stanza fino a trovare quello che stava cercando, un piatto pieno di petali di rosa ora appassiti e disseccati, che era stato posato sul tavolo per profumare l'aria pervasa dal sentore di malattia. Affondando la mano nel piatto raccolse una manciata di petali e la portò con sé nella camera da letto dove Caramon si teneva aggrappato ai bordi del letto con tanta forza da far sbiancare le nocche e aveva gli occhi aperti e sbarrati fissi su qualcosa di orribile che lui soltanto poteva vedere. Raistlin non ebbe bisogno di fare ricorso al suo libro di magia per recitare l'incantesimo perché le parole che lo componevano erano incise nel suo cervello con il fuoco... e come un fuoco che dilagasse su un tratto di erba arida la magia gli si diffuse dal cervello lungo la schiena, bruciando ogni nervo fino ad avvilupparlo nelle sue fiamme. «Ast tasarak sinuralan kyrnawi», recitò, sbriciolando i petali di rosa e spargendoli sulla forma tormentata del fratello. Le palpebre di Caramon tremolarono, poi lui emise un profondo sospiro, rabbrividì e chiuse gli occhi, giacendo per un momento del tutto immobile, senza neppure respirare, mentre Raistlin sperimentava un terrore di cui non aveva mai conosciuto l'uguale nel sentirsi assalire dalla certezza che il suo gemello era morto. «Caramon!» sussurrò, allontanando con gentilezza i petali di rosa dal
volto immoto del fratello. «Caramon, non mi lasciare! Non farlo!» D'un tratto Caramon trasse un respiro lungo, profondo e rilassato, esalò il fiato e respirò ancora, con il petto che si alzava e si abbassava in modo regolare; contemporaneamente anche il viso si rilassò e tornò liscio come sempre in quanto i sogni non erano stati tanto violenti e protratti da lasciare il loro marchio su di lui. Presto i segni della stanchezza e del cordoglio sarebbero svaniti, semplici onde sulla superficie della sua abituale, allegra serenità. Pervaso da un senso di sollievo tanto intenso da lasciarlo indebolito, Raistlin si accasciò accanto al letto del fratello e appoggiò la testa fra le mani... e fu allora, con gli occhi chiusi che vedevano soltanto l'oscurità, che si rese infine conto di quello che aveva fatto. Caramon stava dormendo. «Ho attivato l'incantesimo», disse fra sé. «La magia ha funzionato per me». Dentro di lui il fuoco della magia tremolò e si spense del tutto, lasciandolo talmente debole e spossato da non riuscire neppure a rialzarsi in piedi, ma al tempo stesso fu pervaso da una gioia così intensa che in tutta la sua vita non ne aveva mai conosciuto l'uguale. «Grazie», sussurrò quindi, serrando i pugni fino a far affondare le unghie nella carne, mentre vedeva l'occhio bianco, rosso e nero contemplarlo con soddisfazione. «Non vi verrò meno», ripeté quindi, più e più volte. «Non fallirò». L'occhio ammiccò... e Raistlin si sentì trafiggere da una minuscola punta di preoccupazione, da un dubbio geloso. Possibile che Caramon fosse scivolato davvero in una trance? E se lo aveva fatto, era altrettanto possibile che avesse ereditato il talento per la magia? Raistlin riaprì gli occhi e fissò a lungo, intensamente, la sagoma dormiente del fratello, che giaceva supino con un braccio che pendeva oltre il bordo del letto e l'altro posato di traverso sulla fronte. La bocca aperta stava emettendo un russare prodigioso e mai lui aveva avuto un aspetto tanto stupido. «Mi sono sbagliato», disse Raistlin, issandosi in piedi. «Era soltanto un brutto sogno e niente di più. Come ho mai potuto immaginare che questo grosso idiota avesse ereditato il talento magico?» aggiunse, quindi, sorridendo fra sé con fare sprezzante. Lasciò quindi la stanza in punta di piedi per non disturbare il fratello e si
chiuse silenziosamente la porta alle spalle. Entrato in salotto, sedette sulla sedia a dondolo di sua madre e prese a dondolarsi lentamente avanti e indietro, crogiolandosi nel suo senso di trionfo. CAPITOLO SETTIMO Caramon dormì per tutto il giorno e durante l'intera notte successiva, e al suo risveglio mostrò di non ricordare nulla dei sogni che aveva fatto, apparendo addirittura divertito e scettico nel sentire la descrizione che ne dava il fratello. «Sciocchezze, Raist!» dichiarò. «Sai che io non sogno mai!». Raistlin evitò di ribattere. Passata la febbre si stava adesso rimettendo rapidamente in forze, tanto che quella mattina stava abbastanza bene da sedere al tavolo di cucina con il fratello. La giornata era calda e una brezza sommessa portava fino a loro le voci delle donne che si chiamavano a vicenda e ridevano mentre erano impegnate ad appendere la biancheria lavata ai rami per farla asciugare. Il sole dell'inizio dell'autunno penetrava attraverso le foglie che si muovevano, creando ombre che si rincorrevano come uccelli per la cucina mentre i due fratelli consumavano la colazione in silenzio, assaporando quel momento anche se avevano molte cose di cui parlare e molte di cui discutere. Raistlin stava sfiorando ogni istante che passava, lo tratteneva nella mente fino a quando esso gli sgusciava fra le dita per essere rimpiazzato da quello successivo: adesso si era lasciato alle spalle il passato con tutti i suoi dolori e non si sarebbe mai voltato indietro, e il futuro si trovava davanti a lui con le sue promesse e le sue paure, gli splendeva caldo sul viso come la luce del sole e a tratti lo copriva d'ombre passeggere. In quel momento, però, lui stava galleggiando libero, sospeso fra passato e futuro. Fuori un uccello trillò e un altro rispose al suo richiamo; poco lontano due giovani donne lasciarono cadere un lenzuolo umido su una delle guardie cittadine che era di sentinella sul terreno sottostante e che rimase avvoltolata nella stoffa bagnata, almeno a giudicare dalle sue soffocate e peraltro divertite imprecazioni. Ridendo, le donne dichiararono che era stato un incidente e scesero di corsa la scala per recuperare il lenzuolo e trascorrere qualche piacevole momento civettando con l'avvenente guardia. «Raistlin» disse intanto Caramon, parlando con riluttanza come se anche lui fosse stato catturato dall'incantesimo intessuto dal sole, dalla brezza e dalle risa femminili e fosse riluttante a infrangerlo. «Dobbiamo decidere
cosa fare». Raistlin non poteva vedere in faccia il fratello a causa del bagliore del sole ma avvertiva con chiarezza la sua presenza di fronte a sé... una presenza forte, solida e rassicurante che lo indusse a ricordare la paura che aveva provato quando aveva creduto che Caramon fosse morto. Un'ondata di affetto nei suoi confronti crebbe dentro di lui e gli fece salire le lacrime agli occhi, inducendolo a ritrarsi bruscamente dal sole e a sbattere le palpebre per schiarirsi la vista. Adesso gli istanti avevano preso a scorrere sempre più in fretta e non era più in suo potere toccarli. «Quali alternative abbiamo?» chiese. «Abbiamo respinto la proposta di Kit...» cominciò Caramon, assestando la propria mole sulla sedia, poi lasciò la frase in sospeso come se si stesse chiedendo in silenzio se il suo gemello non potesse ripensarci. «Sì», ribadì però Raistlin, con una nota definitiva nella voce. «Lady Brightblade si è offerta di prenderci con sé e di darci una casa», continuò Caramon, schiarendosi la gola. «Lady Brightblade» ripeté Raistlin, con un sogghigno sarcastico. «È la moglie di un cavaliere di Solamnia», gli fece notare Caramon, sulla difensiva. «È quanto sostiene lei». «Suvvia, Raist!» protestò Caramon, che era affezionato ad Anna Brightblade perché la donna era sempre stata molto gentile con lui. «Mi ha mostrato un libro con lo stemma di famiglia e comunque si comporta come una nobildonna». «E come fai a sapere in che modo si comporta una nobildonna, fratello mio?». «Ecco», rispose Caramon, dopo un momento di riflessione, «lei si comporta come immagino che si comporterebbe una nobildonna, proprio come quelle delle storie...». Interrompendosi di colpo non finì la frase, che entrambi i gemelli non ebbero difficoltà a completare nella mente: come quelle delle storie che nostra madre era solita raccontarci. Pronunciare ad alta voce quelle parole sarebbe però equivalso ad evocare il suo spirito, che era rimasto all'interno della casa. Gilon, d'altro canto, se n'era andato completamente perché anche da vivo non era mai stato molto presente in casa, e tutto ciò che si era lasciato alle spalle era un vago e piacevole ricordo. Caramon sentiva la sua mancanza, ma Raistlin cominciava già ad avere problemi a ricordarsi che suo padre
non c'era più. «Non mi va di avere Sturm Brightblade come fratello», commentò. «Mastro Il-Mio-Onore-È-La-Mia-Vita è troppo compiaciuto di sé e troppo arrogante, sfoggia la sua virtù in lungo e in largo e sbandiera di continuo la sua dirittura morale... nel complesso è un comportamento nauseante». «Sturm non è così insopportabile», ribatté Caramon. «Senza dubbio non ha avuto una vita facile... se non altro, noi sappiamo come è morto nostro padre», aggiunse in tono triste, «mentre lui non sa neppure se il suo è vivo o morto». «Se è tanto preoccupato, perché non torna indietro per scoprire la verità?» ribatté in tono impaziente Raistlin. «Di certo ormai è abbastanza grande per farlo». «Non può lasciare sua madre perché la notte in cui sono fuggiti ha promesso a suo padre che ne avrebbe avuto cura ed è vincolato da tale promessa. Quando quella marmaglia ha attaccato il suo castello...». «Castello!» sbuffò Raistlin. «... sono riusciti a stento a fuggire. Il padre di Sturm ha mandato via lui e sua madre nel cuore della notte insieme con una scorta di servi e ha detto loro di recarsi a Solace dove li avrebbe raggiunti quando avesse potuto. Da allora non hanno più avuto sue notizie». «I Cavalieri devono aver fatto qualcosa per provocare quell'attacco, perché la gente non si mette in testa senza motivo l'idea di assalire una rocca ben fortificata». «Secondo Sturm ci sono strane persone che dal nord stanno affluendo a Solamnia, persone malvagie che vogliono soltanto mettere nei guai i Cavalieri e farli scacciare in modo da poter subentrare loro e assumere il controllo di tutto». «E chi sarebbero questi ignoti malvagi?» domandò Raistlin, in tono sarcastico. «Lui non lo sa, ma pensa che abbiano qualcosa a che fare con gli antichi dèi», spiegò Caramon, scrollando le spalle. «Davvero?» esclamò Raistlin, improvvisamente pensoso, ricordando l'offerta di Kitiara e i suoi discorsi di dèi potenti, e ripensando al tempo stesso alla propria personale esperienza con gli dèi della magia, sulla quale si era interrogato fin da quando si era verificata, chiedendosi se fosse stata davvero reale o se fosse stata causata soltanto dal suo intenso desiderio di operare la magia. Caramon intanto aveva rovesciato dell'acqua sul tavolo e adesso la stava
arginando con il coltello e la forchetta nel tentativo di deviare il corso di quel fiume in miniatura in modo che non gocciolasse sul pavimento; era così impegnato in quello che stava facendo che nel parlare non sollevò neppure lo sguardo sul fratello. «Ho rifiutato la sua offerta, perché lei non ti avrebbe permesso di continuare a frequentare la scuola», disse. «Di cosa stai parlando?» scattò Raistlin in tono tagliente. «Chi non mi avrebbe permesso di continuare la scuola?». «Lady Brightblade». «Lo ha detto lei stessa, vero?». «Sì», rispose Caramon, aggiungendo un cucchiaio alla sua diga. «Non ha nulla contro di te, Raist», aggiunse, sollevando lo sguardo sul fratello e scoprendo che il suo volto sottile si era fatto duro e freddo. «I Cavalieri di Solamnia pensano che i maghi siano al di fuori dell'ordine naturale delle cose, e secondo quanto mi ha detto Sturm non si servono mai di loro in battaglia. Ritengono che i maghi manchino di disciplina e siano troppo indipendenti». «Ci piace pensare con la nostra testa», affermò Raistlin, «e non siamo disposti ad obbedire ciecamente ad un comandante idiota che forse non ha neppure un cervello degno di questo nome nel cranio. D'altro canto», proseguì, «raccontano che Magius abbia combattuto al fianco di Huma e sia stato il suo più caro amico». «So chi era Huma», replicò Caramon, lieto di cambiare argomento. «Sturm mi ha raccontato delle storie sul suo conto e mi ha narrato come molto tempo fa lui abbia combattuto contro la Regina delle Tenebre e abbia bandito per sempre i draghi dal mondo. Però non ho mai sentito parlare di questo Magius». «Non dubito che i Cavalieri vogliano dimenticare questa parte della storia. Come Huma è stato uno dei più grandi guerrieri di tutti i tempi, anche Magius è stato uno dei maghi più potenti. Nel corso della battaglia impegnata contro le forze di Takhisis, Magius è rimasto separato da Huma ed ha combattuto da solo, circondato dai nemici fino a quando non ha più avuto la forza di fare ricorso alla magia a causa delle ferite e dello sfinimento. A quei tempi, infatti, ai maghi non era permesso portare altra arma se non quella costituita dalla loro magia. Di conseguenza, Magius è stato catturato vivo e trascinato al campo della Regina delle Tenebre dove lo hanno torturato per tre giorni e tre notti nel tentativo di costringerlo a rivelare dove si trovasse l'accampamento di Huma in modo da poter mandare di notte
dei sicari ad ucciderlo. Magius è morto senza rivelare la verità, e si narra che quando ha appreso la notizia della sua morte e di come questa fosse avvenuta, Huma ne abbia sofferto a tal punto da indurre i suoi uomini a temere di poter perdere anche lui. «In seguito, Huma ha ordinato che da quel momento in poi ai maghi venisse permesso di portare indosso almeno una piccola arma da taglio da usare come ultima difesa se la magia fosse venuta loro meno, cosa che ancora oggi noi facciamo in nome di Magius». «È una storia splendida!» esclamò Caramon, tanto impressionato che lasciò straripare il suo fiume e l'acqua prese a gocciolare sul pavimento, costringendolo ad andare a prendere un panno per asciugarla. «La dovrò raccontare a Sturm». «Fallo pure», commentò Raistlin in tono asciutto. «Mi interesserebbe sentire il suo parere al riguardo». Per un momento osservò Caramon asciugare il pavimento, poi continuò: «Abbiamo scelto di non unirci a nostra sorella e abbiamo deciso di non lasciarci prendere sotto l'ala da una nobile dama di Solamnia. Cosa pensi che dobbiamo fare di noi stessi?». «Io dico che dobbiamo vivere qui», replicò con fermezza Caramon, rialzandosi in piedi e piantandosi le mani sui fianchi nell'esaminare la casa come se fosse stato un potenziale acquirente. «La casa è nostra, senza vincoli di sorta, perché nostro padre l'ha costruita lui stesso e non ha lasciato debiti. Non dobbiamo nulla a nessuno, la tua scuola è pagata e non dobbiamo preoccuparci neppure di questo. Io ottengo il cibo che ci serve dal Fattore Sedge...». «Ti sentirai solo d'inverno, quando io sarò a scuola», osservò Raistlin. «Posso sempre alloggiare dai Sedge», rispose Caramon, scrollando le spalle. «A volte mi è già capitato di farlo, quando la neve ha bloccato la strada. Oppure posso andare a stare da Sturm o da qualche altro amico». Raistlin rimase in silenzio, accigliato e meditabondo. «Cosa ti prende, Raist?», chiese Caramon, a disagio. «Non credi che sia un buon piano?». «Ritengo che sia un piano eccellente, fratello mio, ma non mi sembra giusto che sia tu a sostentarmi». «Che importanza ha?» ribatté Caramon, mentre la sua espressione preoccupata si dissolveva. «Quello che è mio è tuo, Raist, lo sai». «Ha importanza per me», ritorse Raistlin, in tono tagliente. «Ne ha moltissima. Devo trovare il modo di pagare la mia quota». Caramon rifletté in tutta serietà sulla cosa per circa tre minuti, ma appa-
rentemente la cosa gli riuscì dolorosa perché ben presto cominciò a massaggiarsi la testa e infine affermò che a suo parere doveva essere quasi ora di pranzo. Mentre lui andava a frugare nella dispensa, Raistlin continuò a riflettere su quello che poteva fare per contribuire al loro mantenimento, dato che non era abbastanza forte da lavorare in una fattoria e che comunque i suoi studi non gli lasciavano il tempo di fare nessun lavoro. Adesso la scuola era diventata per lui più importante di qualsiasi altra cosa, c'erano nuovi incantesimi da imparare, ognuno dei quali andava ad accrescere il suo sapere... e il suo potere. Il suo potere sugli altri. Il ricordo di Caramon, forte e muscoloso, che scivolava in un sonno profondo e quasi comatoso ad un ordine del suo gemello più debole gli strappò un sorriso. Intanto Caramon tornò nella stanza con una pagnotta e un barattolo di miele, e insieme con il cibo posò davanti al fratello una fiala vuota. «Questa appartiene a quella vecchia megera, Meggin la Pazza», spiegò. «Dentro c'era un succo di qualche tipo che Kit ti ha somministrato per abbassarti la febbre. Probabilmente adesso dovrei riportare la fiala a quella donna», aggiunse riluttante, poi continuò in tono reverenziale: «Lo sai, Raist? Lei ha un lupo che dorme davanti alla sua porta e una testa umana sul tavolo di cucina!». Meggin la Pazza. D'un tratto un'idea affiorò alla mente di Raistlin che prese la fiala, l'aprì e ne annusò l'interno: elisir di corteccia di salice, un medicinale che lui poteva preparare senza troppa difficoltà. Altre erbe che coltivava nel suo orto potevano essere a loro volta usate per scopi curativi, e inoltre adesso aveva il potere necessario per operare piccole magie. La gente sarebbe stata disposta a pagarlo in buone monete d'acciaio se avesse dimostrato di poter far addormentare un bambino in preda alle coliche, liberare un uomo dalla febbre o far sparire un'irritazione cutanea. «Penserò io a restituirgliela», disse infine, rigirando la fiala fra le dita. «Se non ne hai voglia, non sei obbligato ad accompagnarmi». «Verrò con te», ribatté Caramon, in tono deciso. «Prova a chiederti dove si è procurata quel teschio. Non vorrei un giorno andare a trovarla e vedere la tua testa sul suo tavolo. D'ora in poi, Raist, tu ed io staremo sempre insieme, perché ciascuno di noi ha soltanto l'altro». «Non è proprio così, mio caro fratello», mormorò Raistlin, portando la mano alla piccola sacca di cuoio che portava alla vita e che conteneva i suoi componenti per incantesimi. Attualmente dentro c'erano soltanto peta-
li secchi di rosa, ma presto ci sarebbero stati anche altri componenti, molti altri. «No, non è proprio così», ribadì. LIBRO QUARTO Chi vuole gli dèi o ne ha bisogno? Io no di certo: nessuna forza divina controlla la mia vita, e a me piace così perché sono io a scegliere il mio destino. Non sono schiava di nessun uomo, quindi perché dovrei essere schiava di un dio e permettere a qualche prete o a qualche chierico di dirmi come devo vivere? KITIARA UTH MATAR CAPITOLO PRIMO Trascorsero due anni, durante i quali le gentili piogge di primavera e il sole estivo permisero ai due alberelli di vallenwood piantati sulla tomba dei Majere di crescere e di protendere intorno a sé germogli verdi. Raistlin trascorse quei due inverni a scuola, aggiungendo al suo libro un altro incantesimo elementare inteso a determinare se un oggetto fosse magico o meno; Caramon invece trascorse quei due anni lavorando d'estate per il Fattore Sedge e d'inverno nelle stalle, evitando nei mesi invernali di trascorrere molto tempo a casa perché essa gli appariva solitaria in assenza del fratello e gli «dava i brividi». Quando Raistlin faceva ritorno dalla scuola, peraltro, i due vivevano quasi appagati nella dimora dei loro genitori. Quell'anno l'arrivo della primavera portò anche la festa del Giorno di Maggio, uno dei più grandi festeggiamenti che si tenessero a Solace, e per l'occasione venne organizzata una grande fiera in un'ampia area di terreno sgombro che si allargava al limitare meridionale della città. Liberi finalmente di viaggiare adesso che l'inverno non bloccava più le strade, i mercanti affluirono alla fiera da ogni parte di Ansalon, impazienti di vendere le merci che avevano accumulato durante l'inverno. I mercanti degli Uomini delle Pianure, individui taciturni dall'aspetto selvaggio, furono i primi ad arrivare, provenienti da villaggi dal nome strano e barbarico come Que-teh e Que-kiri. Vestiti di pelli decorate con rozzi ornamenti che si diceva servissero ad onorare i loro antenati, gli Uomini delle Pianure mantenevano un distaccato riserbo nei confronti degli altri abitanti della regione, anche se erano sempre pronti ad accettare il loro
acciaio in cambio dei loro apprezzati vasi di argilla o delle splendide coperte tessute a mano; altre mercanzie, come i teschi di piccoli animali decorati con perline, attiravano invece enormemente l'interesse dei bambini con notevole sgomento dei loro genitori. Nani vestiti con eleganza che sfoggiavano al collo catene d'oro, arrivarono dal regno sotterraneo di Thorbardin, portando con sé gli oggetti di metallo per la cui lavorazione erano giustamente famosi e che andavano dalle pentole e le padelle alle asce, alle protezioni per i polsi e alle daghe. Il primo incidente della stagione della fiera fu causato proprio da questi nani di Thorbardin, che mentre si trovavano alla Locanda dell'Ultima Casa, intenti a bere la birra di Otik, cominciarono a fare commenti sprezzanti sulla qualità della birra stessa, sostenendo che era decisamente inferiore a quella di qualità migliore a cui erano abituati. Naturalmente, un certo nano delle colline si sentì in dovere di rimbeccare quei commenti per conto di Otik, aggiungendo da parte sua che di certo un nano delle montagne non avrebbe saputo riconoscere della buona birra neppure se gli fosse stata rovesciata sulla testa e procedendo a dare una dimostrazione di fatto. A quel punto parecchi elfi di Qualinesti, che avevano portato alla fiera alcuni gioielli d'oro e d'argento di squisita fattura, dichiararono che i nani erano tutti un branco di bruti, peggiori perfino degli umani che pure erano tutt'altro che civili, e questo scatenò una rissa tale da rendere necessario che si chiamassero le guardie. Gli abitanti di Solace si mostrarono tutti solidali con il parere del nano delle colline mentre l'angosciato Otik, che non voleva perdere clienti, cercò di sostenere entrambe le tesi contemporaneamente, ammettendo che forse la sua birra non era all'altezza della qualità di sempre e che quindi era possibile che il gentiluomo proveniente da Thorbardin avesse ragione al riguardo. D'altro canto, poiché Flint Fireforge aveva bevuto nel corso della sua vita tanta birra da poter essere definito un vero esperto in materia, alla fine Otik ritenne più opportuno inchinarsi di fronte al suo parere, contrastante con quello dei nani di Thorbardin. La questione venne infine risolta decidendo che se il nano delle colline si fosse scusato con i nani delle montagne e questi ultimi si fossero scusati con Otik l'incidente sarebbe stato dimenticato. Ripulendosi il naso insanguinato, il capo dei nani di Thorbardin ammise in tono cupo che la birra era «bevibile», e il nano delle colline che era intento a massaggiarsi la mascella dolorante borbottò che forse era possibile che un nano delle montagne capisse qualcosa di birra, avendo trascorso una notevole quantità di
notti sul pavimento di qualche locanda che ne era intriso. Il nano di Thorbardin non apprezzò però quell'affermazione, che ritenne un nuovo insulto, e a questo punto Otik si affrettò a offrire da bere gratis a tutti i presenti per festeggiare la ritrovata amicizia. Non esisteva nano vivente che avesse mai rifiutato un boccale di birra gratuito, quindi entrambe le parti in attrito tornarono alle loro sedie e ciascun gruppo si convinse di aver vinto, mentre Otik raccoglieva le sedie fracassate, le cameriere spazzavano via il vasellame infranto, le guardie bevevano un boccale di birra in onore del locandiere e gli elfi contemplavano con disprezzo tutto il resto degli avventori. Raistlin e Caramon vennero a sapere dell'accaduto il giorno successivo, nel farsi largo a fatica fra la calca che si ammassava in mezzo a tende e bancarelle. «Avrei voluto esserci», commentò Caramon con un sospiro, serrando i grossi pugni. Raistlin, che non aveva prestato particolare attenzione alla vicenda, non rispose neppure perché era intento a studiare il flusso della folla per cercare di determinare quale fosse il punto migliore in cui piazzarsi. Alla fine scelse un punto che si trovava alla convergenza di due vialetti, fra la bancarella di un fabbricante di merletti di Haven e quella di un mercante di vino di Pax Tharkas. Posata una grossa ciotola di legno davanti ad un vicino ceppo d'albero, procedette quindi a impartire a Caramon le necessarie istruzioni. «Percorri fino in fondo questo vialetto, poi girati e torna indietro con calma, ricordando sempre che sei il figlio di un contadino venuto in città per la fiera. Quando arriverai alla mia altezza, fissami, indica e attira l'attenzione, e una volta che la folla avrà cominciato a raccogliersi portati al di fuori di essa e intercetta la gente di passaggio, incitandola a fermarsi a guardare. Hai capito?». «Ci puoi scommettere!» sorrise Caramon, che si stava divertendo immensamente. «Sai cosa fare quando chiederò se fra la folla c'è un volontario?». «Dire che non ti ho mai visto in tutta la mia vita e garantire che dentro quella scatola non c'è niente», annuì Caramon. «Mi raccomando, non esagerare», ammonì Raistlin. «No, non lo farò. Puoi contare su di me», promise Caramon. Raistlin aveva comunque dei dubbi in merito, ma d'altro canto non aveva modo di fugarli perché aveva fatto ripassare a Caramon la sua parte la sera
precedente e adesso poteva soltanto sperare che il suo gemello la ricordasse. Caramon infine si allontanò per raggiungere la fine del vialetto come gli era stato detto di fare, e quasi immediatamente venne intercettato da un ometto robusto che indossava uno sgargiante panciotto rosso e che lo trasse verso una tenda, promettendogli che all'interno avrebbe potuto vedere l'incarnazione stessa della bellezza femminile, una donna famosa da Solace al Mare del Sangue, che avrebbe eseguito la danza rituale dell'accoppiamento degli Ergothiani Settentrionali... una danza che, si diceva, rendesse gli uomini addirittura frenetici e a cui Caramon avrebbe potuto assistere in cambio di due misere monete d'acciaio. «Davvero?» esclamò Caramon, protendendo il collo nel tentativo di sbirciare attraverso l'apertura della tenda. «Caramon!» chiamò in tono sferzante la voce di suo fratello, raggiungendolo alle spalle come un colpo di frusta. Caramon sussultò con aria colpevole e sì affrettò ad allontanarsi, con estrema irritazione dell'ometto robusto che scoccò a Raistlin un'occhiata rovente prima di intercettare un altro passante e di recitare di nuovo il suo ritornello. Raistlin intanto sistemò la ciotola di legno in modo che fosse ben visibile, vi lasciò cadere dentro una moneta d'acciaio che fungesse da esca e infine dispose ai propri piedi il suo equipaggiamento: palle per i giochi di destrezza, monete da far apparire all'interno dell'orecchio di qualche persona, un tratto piuttosto lungo di corda che poteva essere tagliato e reso nuovamente integro in un istante, sciarpe di seta che gli sarebbero scaturite dalla bocca e una scatola dipinta a colori vivaci da cui sarebbe emerso un arruffato e seccatissimo coniglio. Per l'occasione Raistlin indossava una veste bianca che aveva laboriosamente cucito lui stesso usando un vecchio lenzuolo e coprendo i punti consumati con stelle e lune di colore rosso e nero. Nessun mago degno di questo nome si sarebbe mai fatto vedere con indosso un abbigliamento del genere, ma il pubblico comune non lo sapeva e i colori vivaci attiravano l'attenzione. Prese in mano le sfere, Raistlin salì sul ceppo e cominciò ad esibirsi, facendo roteare con dita abili quelle piccole sfere multicolori, un giocattolo che lui e Caramon avevano posseduto da piccoli. Immediatamente parecchi bambini accorsero per osservare la sua esibizione, trascinando con loro i genitori, e di lì a poco sopraggiunse anche Caramon, che lanciò esclama-
zioni di meraviglia e di ammirazione per ciò che stava vedendo, con il risultato che altre persone si fermarono ad assistere e che le monete cominciarono a cadere nella ciotola. Intanto Raistlin scoprì che stava cominciando a divertirsi, perché anche se non si trattava di vera magia stava in un certo senso gettando un incantesimo su quelle persone grazie anche al fatto che esse erano pronte a credere in lui e in ciò che vedevano. In particolar modo gli piaceva l'ammirazione dei bambini, forse perché ricordava se stesso a quell'età, rammentava la propria reverenziale meraviglia e a cosa essa lo avesse condotto. «Accidenti!» esclamò una voce acuta in mezzo alla folla. «Hai davvero inghiottito tutte quelle sciarpe? Non ti fanno il solletico quando le tiri fuori?». In un primo tempo Raistlin pensò che quella voce appartenesse ad un bambino, ma subito dopo individuò un kender dai capelli raccolti in una lunghissima coda di cavallo e vestito con pantaloni di un verde vivace, una camicia gialla e un giustacuore arancione; mentre l'osservava, il kender avanzò in mezzo alla folla che si aprì nervosamente al suo avvicinarsi, ciascuno dei presenti intento a stringere al petto la propria borsa, e infine si andò ad arrestare con aria di palese ammirazione davanti a Raistlin, che nel vederlo da vicino ebbe l'impressione di trovarlo in qualche modo familiare; d'altro canto i kender erano così diversi dal resto della gente normale che soltanto un occhio addestrato era capace di distinguerli l'uno dall'altro. In reazione ad un'occhiata preoccupata del fratello, Caramon si affrettò intanto a venire avanti per piazzarsi con aria protettiva accanto alla ciotola di legno che conteneva i loro incassi, e nel frattempo Raistlin cercò il modo di distrarre da essa l'attenzione del kender, risultato che ottenne estraendo una delle palle colorate dalla sua sacca e facendogli scaturire dal naso una pioggia di monete, con estrema delizia e assoluto sconcerto del piccolo spettatore. Divertito, il pubblico che era intanto andato aumentando di numero si mise ad applaudire, e altre monete caddero tintinnando nella ciotola. «Raist!» chiamò d'un tratto Caramon in tono sommesso e preoccupato. Nel rialzarsi dall'inchino con cui aveva risposto all'applauso, Raistlin si venne a trovare faccia a faccia con il suo maestro, rosso in volto per l'ira e con le vene che parevano prossime ad esplodergli dalla fronte. «Vergogna!» esclamò il Maestro Theobald, sollevando un dito tremante e accusatore in direzione del suo allievo. «Vergogna! Esibirti in questo modo davanti alla folla».
«Chiedo scusa, signore, ma mi impedisci di vedere», osservò intanto il kender in tono cortese, e si protese per dare uno strattone alla manica della veste bianca dell'intruso in modo da attirare la sua attenzione. Il kender era di bassa statura e il Maestro Theobald stava gridando e agitando le braccia, quindi dovette senza dubbio dipendere da questo se il kender non riuscì ad afferrargli la manica e finì per impossessarsi invece della sacca dei componenti per incantesimi che gli pendeva dalla cintura. Consapevole della presenza degli spettatori, Raistlin mantenne la propria compostezza pur sentendo un intenso rossore salirgli al volto. «So che disapprovi, Maestro, ma io devo pur guadagnarmi da vivere come meglio so fare», ribatté. «Ho sentito parlare di come ti guadagni da vivere!» accusò il Maestro Theobald. «Frequenti quella strega! Usi erbacce per raggirare i creduloni e indurli a pensare di essere stati risanati. Sono venuto qui apposta per vedere con i miei occhi, perché non potevo credere che queste storie fossero vere!». «Conosci davvero una strega?» chiese con interesse il kender, distogliendo lo sguardo dalla sacca dei componenti magici. «Vorresti che morissi di fame, Maestro?» domandò intanto Raistlin. Nel frattempo la folla stava cominciando a disperdersi nella convinzione che lo spettacolo era finito, almeno per il momento. «Dovresti mendicare per le strade prima di prostituire la tua arte e coprire di ridicolo me e la mia scuola!» esclamò il Maestro Theobald, e si protese per afferrare Raistlin e trascinarlo giù dal ceppo. «Toccami e te ne pentirai, signore», ammonì Raistlin, in tono sommesso ma denso di minaccia. «Osi minacciare...» cominciò Theobald, sempre più furioso. «Ehi, Piccoletto!» esclamò Caramon, intromettendosi fra i due. «Tirami quella sacca che hai lì». «Palla Orchetto!» esclamò il kender, disposto a ignorare con magnanimità l'offensivo accenno alla sua statura. «Tu sei l'orchetto», disse quindi al Maestro Theobald, e lanciò la sacca in modo che passasse al di sopra della testa del mago. «È tua, vero, mago?» chiese Caramon, saltellando e agitando la sacca davanti alla faccia di Theobald. «Allora, è tua?». Il Maestro Theobald riconobbe la sacca e portò subito la mano alla cintura a cui essa avrebbe dovuto essere appesa. «Restituiscimela, razza di furfante!» esclamò, mentre vene azzurrine gli
affioravano sulla fronte e la sua faccia si tingeva di un rosso più acceso. Caramon lanciò la sacca al kender e questi l'afferrò fra le risa e le incitazioni della folla, che cominciava a trovare questo gioco anche più divertente della magia. Dall'alto del suo ceppo, intanto, Raistlin si limitò ad osservare la scena con un accenno di sorriso sulle labbra. Il kender si stava preparando ad effettuare un lancio lungo in direzione di Caramon quando all'improvviso qualcuno gli tolse di mano la sacca. «Cosa stai...» cominciò il kender, sollevando lo sguardo con stupore. «Questa la prendo io», replicò una voce severa. Un uomo alto, sulla ventina, con gli occhi azzurri quanto i cieli di Solamnia e lunghi capelli raccolti in una treccia sulla schiena secondo uno stile ormai antiquato, s'impossessò della sacca; il suo volto era serio e severo, perché lui era stato allevato nella convinzione che la vita fosse seria e severa, vincolata da regole le cui rigide sbarre d'acciaio non potevano essere spostate o incurvate. Tirati i lacci della sacca per richiuderla, Sturm Brightblade la spolverò e la consegnò con un inchino al mago furente. «Ti ringrazio», disse Theobald rigidamente. Recuperata la sacca la ripose al sicuro all'interno dell'ampia manica e scoccò un'occhiata rovente al kender prima di girarsi a fissare freddamente Raistlin. «Devi lasciare questo posto oppure lasciare la mia scuola», intimò. «Cosa scegli, giovanotto?». Uno sguardo alla ciotola di legno fu sufficiente a confermare a Raistlin che per il momento avevano ormai guadagnato abbastanza. Quanto al futuro, il maestro non poteva certo risentirsi per ciò che non veniva a sapere, quindi Raistlin decise che avrebbe dovuto semplicemente essere più circospetto. Sfoggiando un'umiltà che non provava, si affrettò a scendere dal ceppo. «Mi dispiace, Maestro», si scusò in tono contrito. «La cosa non si ripeterà». «Spero proprio di no», ribatté il Maestro Theobald, allontanandosi in preda ad un'intensa indignazione che era destinata ad aumentare quando fosse tornato a casa e avesse scoperto che la maggior parte dei componenti per incantesimi e tutte le sue monete d'acciaio erano svaniti dalla sacca, e non certo per magia. Nel contempo la folla si disperse, per lo più soddisfatta di aver assistito ad uno spettacolo che era certo valso una o due monete; ben presto le sole persone che rimasero accanto al ceppo d'albero furono Sturm, Caramon, Raistlin e il kender.
«Ah, Sturm, ci hai rovinato il divertimento», sospirò Caramon. «Divertimento?» ripeté Sturm, accigliandosi. «Quello che stavate tormentando era il maestro di Raistlin, giusto?». «Sì, ma...». «Chiedo scusa», intervenne il kender, facendosi largo a spintoni per parlare con Raistlin. «Potresti tirare fuori di nuovo il coniglio da quella scatola?». «Raistlin dovrebbe trattare il suo maestro con maggiore rispetto», affermò intanto Sturm. «O magari potresti farmi uscire le monete dal naso», persistette il kender. «Non sapevo di avere delle monete nel naso... dopo tutto avrebbero dovuto farmi starnutire o qualcosa del genere. Ecco, adesso ne infilerò dentro una e...». «Non è il caso perché ti faresti del male», lo fermò Raistlin, togliendogli la moneta di mano. «Inoltre, questa moneta è nostra». «Davvero? Dovete averla fatta cadere», ribatté il kender, poi protese la mano e aggiunse: «Allora, com'è che fai? Io mi chiamo Tasslehoff Burrfoot. Tu come ti chiami?». Raistlin esitò, poi ricordò l'espressione stupefatta apparsa sul volto del Maestro Theobald quando aveva visto i suoi preziosi componenti per incantesimi in balia di un kender e sorrise, accettando con aria grave di stringere la mano che gli veniva offerta e procedendo a presentare il kender agli altri. «Questo è mio fratello Caramon», disse, «e questo è il suo amico Sturm Brightblade». Sturm si mostrò alquanto riluttante a stringere la mano ad un kender, ma dal momento che erano stati formalmente presentati non si poté esimere dal farlo senza apparire scortese. «Salve, Piccoletto», salutò invece Caramon in tutta cordialità, avvolgendo completamente la mano del kender nella propria e strappandogli un leggero sussulto. «Non mi va di fartelo presente proprio adesso che siamo stati appena presentati, Caramon», affermò il kender in tono solenne, «ma è molto scortese continuare a fare commenti sulla taglia di una persona. Per esempio, a te non andrebbe molto se io ti chiamassi Barile di Birra, vero?». Quel nome era talmente buffo e la scena in se stessa così ridicola, una zanzara che si azzardava a rimproverare un orso, che Raistlin scoppiò a ridere, smettendo soltanto quando si sentì indebolire per lo sforzo e fu co-
stretto a sedersi sul ceppo, e perfino il serio e solenne Sturm si concesse un sorriso. Sorpreso e lieto di vedere il fratello così di buon umore, Caramon scoppiò a ridere a sua volta e assestò una pacca sulla schiena del kender, procedendo quindi ad aiutarlo a rialzarsi da terra. «Vieni, fratello», disse infine Raistlin, «dobbiamo raccogliere le nostre cose e avviarci verso casa perché la fiera chiuderà presto. È stato un vero piacere conoscerti, Tasslehoff Burrfoot», aggiunse in tutta sincerità. «Vi aiuto io», si offrì Tasslehoff, scoccando occhiate interessate alle palle multicolori e alla scatola a colori vivaci. «Ti ringrazio, ma possiamo fare da soli», replicò in fretta Caramon, afferrando il coniglio proprio quando stava già per scomparire in una delle sacche del kender, dalle cui tasche Sturm recuperò intanto parecchie sciarpe di seta. «Dovreste stare più attenti con le vostre cose», si sentì obbligato a puntualizzare Tasslehoff. «È stato un bene che io le abbia ritrovate, cosa di cui sono lieto. Sei davvero un abile mago, Raistlin... posso chiamarti Raistlin? Grazie. Chiamerò te Caramon se tu mi chiamerai Tasslehoff, che è il mio nome anche se gli amici mi chiamano Tas, cosa che puoi fare anche tu se ti va. Quanto a te, ti chiamerò Sturm... sei un cavaliere? Una volta sono stato a Solamnia ed ho visto una quantità di cavalieri: avevano tutti baffi come i tuoi, solo che erano più folti... i baffi, intendo. I tuoi sono un po' radi per il momento, ma vedo che li stai coltivando». «Ti ringrazio», rispose Sturm, accarezzando con imbarazzo i baffi che si stava facendo crescere da poco. I fratelli intanto accennarono ad avviarsi verso l'uscita della fiera, e affermando che per quel giorno non gli interessava vedere altro Tasslehoff s'incamminò per accompagnarli; quanto a Sturm, pareva che non gli andasse di essere visto in pubblico in compagnia di un kender ed era stato sul punto di congedarsi dagli altri quando Tasslehoff aveva parlato di Solamnia. «Sei stato davvero laggiù?» domandò. «Io sono stato in tutto Ansalon», rispose con orgoglio Tas. «Solamnia è un posto molto bello, e se vuoi te ne posso parlare. Sentite, ho un'idea: perché non venite a cena da me? Tutti quanti. A Flint non dispiacerà». «Chi è Flint? Tua moglie?» domandò Caramon. «Mia moglie!» ripeté Tasslehoff, scoppiando a ridere. «Aspetta che glielo dica! No, Flint è un nano ed è il migliore amico che io abbia al mondo, così come io sono il suo migliore amico indipendentemente da quello che
dice lui, forse con la sola eccezione di Tanis Mezzelfo, che è un altro mio amico e che adesso non è qui perché è andato a Qualinesti, dove vivono gli elfi». A questo punto Tas s'interruppe, ma soltanto perché era rimasto a corto di fiato. «Adesso mi ricordo!» esclamò intanto Raistlin, arrestandosi di colpo. «Sapevo che avevi un'aria familiare. Eri presente quando Gilon è morto... eri là insieme al nano e al mezzelfo.» Fece quindi una pausa, adocchiando il kender con aria pensosa, poi aggiunse: «Ti siamo grati per l'invito a cena, Tasslehoff, e lo accettiamo». «Accettiamo?» domandò Caramon, con aria stupita. «Sì, fratello mio», ribadì Raistlin. «Vieni anche tu, vero?» esclamò Tas, girandosi con ansia verso Sturm. «Mia madre mi aspetta a casa, ma non credo che le dispiacerà se cenerò con degli amici» rifletté Sturm, accarezzandosi i baffi. «Lungo la strada mi fermerò per avvisarla di non aspettarmi. Che parte di Solamnia hai visitato?». «Ora te lo faccio vedere», rispose Tasslehoff, infilando la mano in una sacca che portava sulla schiena, tutta la sua persona era drappeggiata di sacche e sacchetti, e tirando fuori una mappa. «Io adoro le mappe, e tu? Ti dispiacerebbe tenere fermo quell'angolo? Qui c'è Tarsis sul Mare: non ci sono mai stato ma spero di visitarla un giorno quando Flint non avrà troppo bisogno del mio aiuto, che ora gli serve terribilmente. Non hai idea dei guai in cui si ficca se io non sono là a tenere sotto controllo la situazione... Sì, ecco Solamnia. Laggiù hanno prigioni davvero splendide...». I due continuarono a camminare, Sturm chino per studiare la mappa e Tasslehoff impegnato a indicargli svariati posti che riteneva interessanti. «Sturm deve aver perso il senno» commentò intanto Caramon. «Con ogni probabilità quel kender non è mai stato a Solamnia, dato che quei piccoletti mentono tutti come... ecco, come dei kender. E adesso dobbiamo cenare con uno di essi e con un nano! Non... non è conveniente, dovremmo frequentare soltanto la nostra razza. Nostro padre dice...». «No, adesso non lo dice più», lo interruppe Raistlin. Caramon impallidì e scivolò in un silenzio pieno di disagio. «Non possiamo rimanere rintanati per sempre nella nostra casa, avvolti in un piccolo bozzolo sicuro» spiegò intanto Raistlin. «Finalmente abbiamo l'occasione di liberarci dai nostri vincoli, Caramon, e dobbiamo coglierla! Ci serve un po' di tempo perché le nostre ali si asciughino al sole,
ma presto saremo abbastanza forti da poter volare». «Io non sono certo di voler volare, Raist, perché quando salgo troppo in alto ho le vertigini», replicò Caramon, poi aggiunse in tono pensoso: «Se però sei bagnato, dovresti proprio andare a casa ad asciugarti». Rassegnato, Raistlin batté un colpetto sul braccio del fratello. «D'accordo, Caramon», sospirò. «Mi cambierò i vestiti e dopo andremo a cenare con il nano... e con il kender». CAPITOLO SECONDO La casa di Flint Fireforge era considerata una stranezza e anche una delle meraviglie di Solace perché non solo era costruita sul terreno ma era anche realizzata interamente in pietra, che il nano aveva trascinato fin lì dal Picco dell'Occhio che Prega. Al nano non interessava ciò che la gente poteva dire sul suo conto e in merito alla sua casa: lui sapeva soltanto che in tutta la lunga e orgogliosa storia della sua razza nessun nano era mai vissuto fra gli alberi. Gli uccelli dimoravano fra i rami e così pure gli scoiattoli e gli elfi, ma Flint non era né un uccello né uno scoiattolo e tanto meno un elfo, cosa di cui rendeva grazie a Reorx il Creatore; lui non aveva ali, una coda cespugliosa o gli orecchi a punta, tutte caratteristiche che era risaputo essere proprie alle specie che vivevano sugli alberi, e riteneva che abitare su di essi fosse una cosa innaturale oltre che pericolosa. «Basta cadere dal letto perché quella sia l'ultima caduta che si avrà mai occasione di fare», era solito commentare in tono funesto, ed era inutile che il suo amico e socio in affari Tanis Mezzelfo gli facesse notare che se si viveva in una casa costruita su un albero, nel cadere dal letto si atterrava sul pavimento e si riportava al massimo un indolenzimento alla schiena. Flint infatti ribatteva che le case arboree erano fatte di legno e che era risaputo che il legno era un materiale da costruzione inaffidabile in quanto poteva essere intaccato dalla muffa, roso dai topi e dalle termiti, poteva prendere fuoco in qualsiasi momento, lasciava passare la pioggia e gli spifferi... anzi, una folata di vento particolarmente decisa poteva anche trascinarlo via. Nulla invece poteva avere la meglio sulla buona, solida pietra. Essa era fresca d'estate e calda d'inverno, non poteva essere attraversata dalla pioggia e il vento poteva soffiare quanto voleva, anche fino a diventare rosso in faccia, senza che i blocchi di pietra fossero scossi sia pure da una vibrazio-
ne. Era del resto risaputo che le case di pietra erano le sole che fossero sopravvissute al Cataclisma. «Tranne che a Istar», era solito provocarlo Tanis Mezzelfo. «Neppure le case di pietra possono sopravvivere quando un'intera, dannata montagna viene scaraventata su di loro», ribatteva sempre Flint, per poi aggiungere: «E comunque sono certo che sul fondo del Mare del Sangue, dove si dice che sia stata sprofondata la città di Istar, ci sono adesso alcuni pesci fortunati che vivono in tutta comodità». Quella particolare sera Flint si trovava all'interno della sua casa di pietra, intento a cercare di dare un po' di senso al disordine in cui viveva e che era diventato una situazione di fatto costante da quando il kender era venuto a stare da lui. Quei due improbabili coabitanti si erano incontrati un giorno al mercato: Flint era come sempre impegnato a esibire le sue mercanzie e Tasslehoff, che era di passaggio diretto in qualsiasi posto che apparisse interessante, si era fermato alla sua bancarella per ammirare un bracciale di eccellente fattura. Ciò che era accaduto in seguito ha diverse versioni a seconda di chi narri la storia. Secondo Tas, lui aveva preso il bracciale per provarlo, e avendo scoperto che gli calzava alla perfezione si era avviato per andare in cerca di qualcuno a cui chiederne il prezzo, mentre la versione di Flint era che nel riemergere dal retro della sua bancarella dove si era concesso un rinfrescante sorso di birra lui aveva visto Tasslehoff e il bracciale scomparire in lontananza fra la folla. Naturalmente Flint aveva bloccato il kender, che aveva proclamato con voce acuta e penetrante la propria innocenza, mentre la gente si fermava non per comprare ma per assistere alla scena. Sopraggiunto in quel momento, Tanis Mezzelfo aveva posto fine alla lite e disperso la folla; ricordando in tono sommesso al nano che scene del genere non giovavano agli affari, Tanis aveva quindi indotto Flint a convincersi che non voleva davvero vedere il kender appeso per i pollici al più vicino vallenwood, e dal canto suo Tasslehoff era stato tanto magnanimo da accettare le scuse di Flint, che questi non ricordava di aver mai pronunciato. Quella sera il kender si era presentato alla porta di Flint munito di una caraffa di eccellente brandy che sosteneva di aver acquistato alla Locanda dell'Ultima Casa e di aver portato al nano come offerta di pace. Il pomeriggio successivo Flint si era svegliato in preda ad una martellante emicrania e aveva trovato il kender installato nella camera degli ospiti.
Da quel momento Flint non era più riuscito ad indurre Tas ad andarsene né con le parole né con i fatti. «Ho sentito dire che i kender soffrono della... com'è che la chiamate... della bramosia di girovagare, sì, è così che si chiama, bramosia di girovagare... quindi suppongo che presto essa assalirà anche te», aveva provato a suggerire. «Niente affatto», aveva ribattuto Tas, in tono enfatico. «Io l'ho già avuta e l'ho superata, credo potresti dire che sono maturato e che sono pronto a sistemarmi da qualche parte. Non trovi che sia una fortuna? Tu hai proprio bisogno di qualcuno che si occupi di te, Flint, ed io sono la persona che fa al caso tuo. D'inverno condivideremo questa casa accogliente e durante l'estate viaggerò con te. Dopo tutto, ho delle mappe eccellenti e conosco tutte le prigioni migliori...». Allarmato da questa prospettiva che lo spaventava più di qualsiasi altra cosa che avesse sperimentato nella sua vita, compresa la sua cattività nelle mani degli orchi, Flint era andato a cercare il suo amico Tanis Mezzelfo e gli aveva chiesto di aiutarlo a sfrattare il kender o ad assassinarlo. Con suo stupore, però, il mezzelfo era scoppiato in una calorosa risata e aveva opposto un netto rifiuto, sostenendo che vivere con Tasslehoff gli avrebbe fatto bene perché tendeva a isolarsi ed era troppo radicato nelle sue usanze. «Il kender ti manterrà giovane», aveva dichiarato Tanis. «Sì, e probabilmente morirò anche giovane», aveva ribattuto Flint. Vivere con il kender aveva avuto l'effetto di fargli conoscere una grande quantità di abitanti di Solace, prime fra tutte le guardie cittadine, che adesso si presentavano innanzitutto a casa sua quando erano in cerca di oggetti preziosi scomparsi. D'altro canto, lo sceriffo si era stancato di arrestare Tas, che mangiava più della porzione regolamentare di cibo prevista, si portava via le chiavi delle celle e persisteva nel fornire consigli per migliorare la gestione della prigione, e alla fine dietro suggerimento di Tanis Mezzelfo aveva deciso di lasciare libero il kender affidandolo alla custodia di Flint, che aveva protestato energicamente ma invano contro quella soluzione. Adesso ogni giorno Flint depositava sulla soglia tutti gli oggetti nuovi e sconosciuti che gli capitava di trovare quando al mattino riordinava la casa, sapendo che la guardia cittadina sarebbe venuta a prelevarli o che i vicini stessi si sarebbero fermati a frugare nel mucchio alla ricerca di oggetti che erano a loro "caduti" e che il kender era stato tanto gentile da "ritrovare".
Vivere con Tasslehoff aveva anche l'effetto di mantenere Flint attivo. Quel giorno, per esempio, aveva trascorso metà della mattinata a cercare i propri attrezzi, che non erano mai al loro posto, e aveva ritrovato il suo più prezioso martello d'argento in mezzo ad un mucchietto di gusci di noce, dove era stato dimenticato dopo essere stato evidentemente usato come schiaccianoci, mentre non era invece riuscito a rintracciare le sue pinze migliori (che sarebbero saltate fuori tre giorni più tardi nel ruscello che scorreva dietro la casa, dove Tasslehoff le aveva lasciate dopo aver tentato invano di usarle per prendere dei pesci). Flint era intento a lanciare imprecazioni sulla testa del kender e a cercare la teiera quando Tasslehoff spalancò la porta con un fragore da infarto. «Salve, Flint, sono a casa! Oh, hai picchiato la testa? Ma cosa ci facevi là sotto? Non capisco perché tu stia cercando una teiera sotto il letto: che razza di pomolo di porta potrebbe mai mettere una teiera sotto il... era davvero lì? Oh, questo è davvero strano, mi chiedo come ci sia finita. Forse è una teiera magica! «A proposito di magia, Flint, questi sono alcuni miei amici. Attento alla testa, Caramon, sei troppo alto per la nostra porta. Questi sono Raistlin e suo fratello Caramon... sono gemelli; Flint, non lo trovi interessante? In effetti si somigliano, soprattutto se li fai girare di profilo. Avanti, Caramon, mettiti di profilo, e anche tu, Raistlin, in modo che Flint possa vedere. E questo è il mio nuovo amico Sturm Brightblade, che è un Cavaliere di Solamnia! Si fermeranno da noi a cena, Flint, quindi spero che abbiamo cibo a sufficienza», concluse Tas, gonfiando il petto per l'orgoglio e per i due lunghi respiri che si erano resi necessari dopo un discorso tanto lungo. Adocchiando la taglia di Caramon, anche Flint si augurò che avessero cibo a sufficienza. Il nano si trovava adesso di fronte ad un problema non facile, perché nel momento in cui avevano varcato la soglia quei giovani erano diventati ospiti della sua casa e secondo le usanze dei nani questo significava che dovevano essere trattati con lo stesso livello di ospitalità che lui avrebbe riservato ai thane del suo clan se essi si fossero degnati di venire a fargli visita, cosa peraltro del tutto improbabile. D'altro canto, Flint non nutriva una particolare simpatia per gli umani in generale e per quelli giovani in particolare, perché erano impetuosi e di indole mutevole, propensi ad agire in modo affrettato, impulsivo e, dal punto di vista del nano, pericoloso. Alcuni studiosi della razza dei nani ritenevano che queste caratteristiche dipendessero dalla brevità della durata della vita umana, ma Flint era con-
vinto che questa fosse soltanto una scusa e dal suo punto di vista gli umani erano semplicemente stupidi. Alla luce di tutto questo, il nano decise di ricorrere ad una vecchia tattica che in passato aveva sempre funzionato quando si era trovato alle prese con visitatori umani. «Sarei molto contento se vi poteste fermare per cena», disse, «ma come potete vedere non ho una sola sedia che si adatti a voi». «Vado a prenderne in prestito qualcuna», si offrì Tasslehoff, e si avviò verso la porta soltanto per essere arrestato da un grido possente. «No!» urlarono simultaneamente quattro gole, mentre Flint si asciugava con la barba il sudore freddo che gli aveva imperlato il volto all'idea degli abitanti di Solace che, improvvisamente privati delle loro sedie, calavano su di lui a dozzine. «Per favore, non ti disturbare», aggiunse quindi Sturm, con quella dannata cortesia formale tipica dei Cavalieri di Solamnia. «Non ho problemi a sedermi per terra». «Ed io posso sedermi qui», propose Caramon, trascinando in avanti una cassapanca di legno; quando però prese posto su di essa, il legno intagliato scricchiolò in maniera allarmante in reazione al suo peso. «Tu hai una sedia che si possa adattare a Raistlin», osservò intanto Tasslehoff, rivolto al nano. «È nella tua camera da letto... sai quale intendo, la sedia che usiamo ogni volta che Tanis viene; perché stai facendo quelle smorfie? Hai qualcosa in un occhio? Lasciami guardare». «Sta' lontano da me!» ruggì Flint. Rosso in volto, il nano si cercò in tasca la chiave della camera da letto, in quanto la teneva sempre chiusa e cambiava la serratura almeno una volta alla settimana, cosa che non impediva al kender di entrare ma che almeno gli causava un certo intralcio. Scomparendo con passo irato nella camera, Flint trascinò fuori la sedia che usava per il suo amico e che teneva nascosta il resto del tempo, e dopo averla sistemata nell'altra stanza si soffermò a studiare con maggiore attenzione i suoi visitatori. Il giovane chiamato Raistlin era magro, troppo magro almeno dal punto di vista del nano, e indossava un mantello logoro che non era certo adatto a tenere a bada il freddo autunnale, come indicava il fatto che lui stava tremando e aveva le labbra pallide per il freddo. D'un tratto, il nano fu assalito da un senso di vergogna per la sua carenza di ospitalità. «Ecco fatto», disse quindi, spostando la sedia più vicino al fuoco, poi aggiunse in tono burbero: «Sembra che tu abbia freddo, ragazzo, quindi
siedi e scaldati. Quanto a te», proseguì, trapassando il kender con un'occhiata rovente, «se proprio vuoi renderti utile va' da Otik e compra... compra, bada bene... una caraffa di sidro di mela». «Tornerò nel tempo che un agnello impiega ad agitare due volte la coda», promise Tas. «Ma perché due volte e non tre? E poi, gli agnelli hanno la coda? Non capisco come...». Flint richiuse con violenza la porta alle sue spalle. Raistlin intanto si era seduto dopo aver accostato ancor di più la sedia al fuoco, ed ora i suoi occhi azzurri di una limpidezza sconcertante stavano osservando il nano con un'espressione intensa e grave che indusse Flint a sentirsi estremamente a disagio. «In realtà, non è necessario che tu ci offra la cena...» cominciò Raistlin. «Non lo è?» esclamò Caramon, sgomento. «Allora perché siamo venuti qui?». Il suo gemello lo guardò in maniera tale da indurlo a contorcersi a disagio e ad abbassare la testa contrito, poi tornò a rivolgersi a Flint. «Il motivo per cui siamo qui è che mio fratello ed io volevamo ringraziarti per aver parlato a nostro favore contro quella donna, durante il funerale di nostro padre» spiegò, rifiutandosi di riconoscere la minima dignità a Judith pronunciandone il nome. D'un tratto, Flint ricordò quando aveva avuto modo di conoscere questi ragazzi; naturalmente, gli era capitato di incontrarli in giro per la città fin da quando erano stati abbastanza grandi da riuscire a camminare, ma si era dimenticato di quel particolare episodio. «Non è stato nulla», protestò, imbarazzato di fronte a quei ringraziamenti. «Quella donna era pazza! Belzor!» aggiunse, sbuffando. «Quale dio che sia degno della sua barba si farebbe mai chiamare Belzor? Mi è dispiaciuto sapere di vostra madre, ragazzi», aggiunse quindi in tono più gentile. Raistlin non replicò a quel commento, accantonandolo con un cenno impercettibile delle palpebre. «All'epoca del funerale ti ho sentito citare il nome "Reorx"; da allora ho effettuato alcuni studi, ed ho scoperto che Reorx è il nome di un dio che il tuo popolo adorava un tempo», disse invece. «È possibile», rispose Flint, lisciandosi pensosamente la barba e adocchiando quel giovane umano con diffidenza, «anche se non capisco perché un umano dovrebbe interessarsi ad un dio dei nani». «Si trattava di un libro antico», spiegò Raistlin, «molto antico, nel quale si parlava non soltanto di Reorx ma di tutti gli dèi di un tempo. Il tuo po-
polo adora ancora Reorx, signore? Non te lo chiedo per curiosità», si affrettò a precisare, con le guance pallide velate di rossore, «e neppure per essere impertinente. Desidero davvero sapere cosa ne pensi in merito». «Vorrei saperlo anch'io, signore», aggiunse Sturm Brightblade, che si era seduto sul pavimento ma continuava a mantenere una posa rigida ed eretta. Flint era stupefatto. In tutti i suoi centotrenta e più anni di vita nessun umano gli aveva mai chiesto informazioni sulle pratiche religiose dei nani, e la cosa destò i suoi sospetti. Chi erano questi giovani? Erano forse delle spie che cercavano di ingannarlo e di metterlo nei guai? Di recente, gli era capitato di sentir dire che alcuni seguaci di Belzor predicavano che nani ed elfi erano eretici e avrebbero dovuto essere bruciati vivi. Alla fine decise che se quei ragazzi erano a caccia della sua pelle avrebbe dato loro una lezione, perfino a quello più grosso, dato che gli sarebbe bastato fracassargli le rotule per ridurlo alla sua stessa taglia. «Sì, noi crediamo in Reorx», rispose quindi in tono deciso, «e non m'importa che la cosa si risappia». «Allora fra la tua gente ci sono anche dei chierici che compiono miracoli nel nome di Reorx?» domandò Sturm, protendendosi in avanti con aria interessata. «No, giovanotto, non ce ne sono», replicò Flint, «e non ce ne sono più stati dal tempo del Cataclisma». «Se non avete ricevuto nessun segno indicante che Reorx si interessa ancora della vostra sorte, come mai continuate a credere in lui?» volle sapere Raistlin. «È ben misera la fede che richiede una rassicurazione costante, giovane umano», ribatté Flint, «Reorx è un dio e non ci si aspetta che noi comprendiamo gli dèi. È stato così che il Re-prete di Istar si è messo nei guai... ha creduto di capire la mente degli dèi e si è convinto di essere lui stesso un dio, o almeno così ho sentito dire... e il risultato è stato che gli dèi gli hanno scagliato sopra una montagna infuocata. «Anche quando si aggirava in mezzo a noi», aggiunse in tono più cupo, «Reorx ha fatto molte cose che non riusciamo a capire. Per esempio, ha creato i kender e i nani dei fossi. Nella mia mente, immagino che Reorx sia come me... un uomo che viaggia e che ha altri mondi di cui occuparsi e da visitare. Come lui, io lascio la mia casa durante l'estate ma torno sempre con l'autunno e la casa è lì ad aspettarmi; nello stesso modo, noi nani dobbiamo aspettare che Reorx torni dai suoi viaggi».
«Non ci avevo mai pensato», ammise Sturm, colpito da quell'idea. «Forse è per questo che Paladine ha lasciato il suo popolo, perché aveva altri mondi da riordinare». «Non ne sono certo», obiettò Raistlin, in tono pensoso. «So che ti può sembrare improbabile, ma non è possibile che non sia stato tu a lasciare la tua casa e abbia invece scoperto una mattina al risveglio che era stata la casa ad andarsene?». «Questa casa sarà ancora qui molto tempo dopo che io non ci sarò più», ringhiò Flint, pensando che il giovane stesse sminuendo la qualità del suo lavoro di costruzione. «Guarda gli intagli e le giunture della pietra! Non troverai nulla di simile fra qui e Pax Tharkas!». «Non intendevo questo, signore», spiegò Raistlin, con un accenno di sorriso. «Mi stavo chiedendo... a me sembra...». Interrompendosi, fece uno sforzo per trovare parole adatte ad esprimere con esattezza ciò che intendeva dire, poi proseguì: «Possibile che gli dèi non se ne siano mai andati? Che siano qui e stiano soltanto aspettando che si sia noi a tornare da loro?». «Bah! Reorx non se ne starebbe ad aspettare sprecando il suo tempo senza dare a noi nani qualche segno. Sai, noi siamo i suoi favoriti», dichiarò Flint, con orgoglio. «Come fai a sapere che non ha inviato un segno ai nani, signore?» ribatté in tono freddo Raistlin. Flint si trovò in difficoltà a rispondere a quella domanda perché in effetti non lo sapeva, non con certezza, in quanto era lontano da anni dalle colline della sua terra natale e pur avendo viaggiato a lungo per la regione non aveva avuto molti contatti con altri nani. Forse Reorx era tornato e i nani di Thorbardin stavano tenendo segreta la cosa! «Da loro ci sarebbe da aspettarselo, che siano dannati la loro barba e il loro ventre», borbottò. «A proposito di ventre, non c'è nessun altro che ha fame?» domandò Caramon in tono lamentoso. «Io sono affamato!». «Una cosa del genere non è possibile», dichiarò intanto Sturm, in tono secco. «Invece sì», protestò Caramon. «Non ho più mangiato niente da colazione». «Mi stavo riferendo a ciò che ha detto tuo fratello», spiegò Sturm. «Non è possibile che Paladine sia in questo mondo e che stia assistendo alle difficoltà che la mia gente è stata ed è costretta a sopportare senza fare nulla
per intervenire». «Stando a quanto ho sentito, la tua gente ha assistito con una notevole calma alle sofferenze patite da coloro che erano sottoposti al suo dominio... forse perché ne era in vasta parte responsabile», ribatté Raistlin. «È una menzogna!» esclamò Sturm, balzando in piedi con i pugni serrati. «Suvvia, Sturm, Raist non intendeva...» cominciò Caramon. «Mi stai forse dicendo che i Cavalieri di Solamnia non hanno attivamente perseguitato i maghi?» domandò intanto Raistlin, con finto stupore. «Devo dunque supporre che essi si siano semplicemente stancati di vivere nella Torre della Somma Stregoneria di Palanthas e che sia per questo che ne sono fuggiti, temendo per la loro vita?». «Raist, sono certo che Sturm non intendeva...». «Alcuni la definiscono persecuzione, per altri è l'annientamento del male» affermò Sturm, cupo. «Quindi voi equiparate la magia al male?» domandò Raistlin in tono pericolosamente calmo. «Non lo fa forse la maggior parte delle persone dotate di buon senso?» ritorse Sturm. «Stai forse dicendo sul serio, Sturm?» chiese con voce minacciosa Caramon, alzandosi in piedi con i pugni serrati. «A Solamnia abbiamo un detto, e cioè che se lo stivale calza...». Caramon gli sferrò un goffo pugno che Sturm schivò per poi contrattaccare, cogliendo l'avversario in pieno nell'ampio stomaco, lanciandoglisi addosso quando lui crollò all'indietro e continuando a colpire. I due crollarono sulla cassapanca di legno che si smembrò nelle parti che la componevano e frantumarono il vasellame riposto all'interno, continuando a lottare sul pavimento rotolando e prendendosi a pugni. Raistlin intanto era rimasto seduto accanto al fuoco assistendo alla scena con calma e con un accenno di sorriso sulle labbra, una dimostrazione di freddezza che turbò Flint al punto da impedirgli di approfittare del momento in cui avrebbe ancora potuto porre fine alla lotta. Raistlin non appariva preoccupato o sconvolto, e Flint si sarebbe sentito quasi indotto a sospettare che avesse provocato quello scontro per il proprio divertimento se non fosse stato per il fatto che lui non sembrava apprezzare quello spettacolo e che il suo sorriso non era di piacere ma era piuttosto sprezzante e sarcastico. «Quegli occhi mi hanno fatto accapponare la pelle», raccontò in seguito
a Tanis. «In lui c'è qualcosa di terribilmente freddo, se capisci cosa intendo». «Non sono certo di capire. Stai dicendo che quel ragazzo ha deliberatamente provocato la lite fra suo fratello e il suo amico?». «Ecco no, non proprio», rifletté Flint. «Le domande che mi ha rivolto erano sincere, di questo sono certo, ma d'altro canto lui doveva sapere che effetto avrebbe avuto quel discorso di dèi e di magia su un Cavaliere di Solamnia... e se mai è esistito un cavaliere di Solamnia che andasse in giro senza armatura quello è il giovane Sturm. È nato con una spada infilata nella schiena, come dicevamo un tempo. Quel Raistlin invece... credo gli piacesse sapere che poteva indurli a litigare anche se sono ottimi amici», concluse il nano, scuotendo il capo. Nel momento in cui la lotta stava avendo luogo, Flint si rese conto di colpo che non gli sarebbe più rimasto mobilio intatto se non avesse fermato al più presto i due ragazzi. «Fermi!» gridò. «Cosa pensate di fare? Avete rotto i miei piatti! Smettetela! Smettetela, ho detto!». Quando si accorse che nessuno dei due gli dava retta, si addentrò nella mischia e sferrò con rapidità e perizia un calcio al ginocchio di Sturm, che rotolò lontano dall'avversario e prese a dondolarsi per il dolore sopra il vasellame rotto, serrandosi il ginocchio offeso e mordendosi le labbra per non gridare di dolore. Flint nel frattempo aveva afferrato una ciocca dei lunghi capelli ricciuti di Caramon e impresso uno strattone deciso a cui Caramon reagì con uno strillo, sforzandosi invano di liberarsi dalla presa del nano che risultò ferrea. «Ma guardatevi!» esclamò Flint in tono disgustato, scrollando la testa di Caramon e assestando un secondo calcio a Sturm. «Vi comportate come un paio di orchetti ubriachi. E poi, chi vi ha insegnato a lottare, la vostra prozia Minnie? Siete entrambi più alti di me di almeno trenta centimetri, forse anche sessanta nel caso di questo giovane gigante, e tuttavia eccovi stesi a terra con un piede di nano piantato sul petto. Avanti, alzatevi tutti e due». Vergognosi e con gli occhi velati di lacrime per il dolore, i due giovani si sollevarono lentamente da terra, Sturm bilanciandosi su una sola gamba perché non osava gravare con il proprio peso sul ginocchio danneggiato e Caramon intento a massaggiarsi sussultando il cuoio capelluto e a chiedersi se gli restavano ancora dei capelli. «Mi dispiace per i piatti», borbottò quest'ultimo.
«Sì, signore, mi dispiace davvero», rincarò Sturm. «È ovvio che farò ammenda per il danno». «Io farò di meglio e ti pagherò quello che ho rotto», offrì Caramon. Raistlin dal canto suo non disse nulla, ma del resto stava già prelevando mentalmente del denaro dall'incasso che avevano fatto alla fiera. «Potete essere certi che mi ripagherete», ribatté il nano. «Quanti anni avete?». «Venti», rispose Sturm. «Diciotto», disse Caramon. «Anche Raist ha diciotto anni». «Dal momento che sa che siamo gemelli, suppongo che Mastro Fireforge lo abbia dedotto da sé», commentò Raistlin in tono caustico. «E tu hai intenzione di diventare un cavaliere», affermò il nano, fissando Sturm, poi il suo sguardo si spostò su Caramon mentre continuava: «E tu, bestione, pensi di diventare un grande guerriero e di vendere la tua spada a qualche nobile. Vero?». «Esatto!» esclamò Caramon, stupito. «Come fai a saperlo?». «Ti ho visto girare per la città portando al fianco quella tua grossa spada... e maneggiandola in modo del tutto sbagliato, potrei aggiungere. Ebbene, posso garantire a tutti e due che i Cavalieri daranno una sola occhiata a come combatti, Sturm Brightblade, e rideranno fino a farsi cadere di dosso l'armatura; quanto a te, Caramon Majere, non potresti farti assoldare come combattente neppure dalla mia vecchia nonna». «So di avere molto da imparare, signore», ribatté Sturm, rigido. «Se vivessi a Solamnia diventerei lo scudiero di qualche nobile cavaliere e imparerei da lui l'arte del combattere, ma purtroppo sono esiliato qui», concluse in tono amaro. «A Solace non c'è nessuno che ci possa istruire», si lamentò Caramon. «Questa è una città troppo tranquilla dove non succede mai niente, neppure una scorreria di orchetti o qualcosa del genere che ravvivi le cose». «Morditi la lingua, ragazzo, perché non ti rendi conto di quanto siete fortunati qui. Quanto a trovare un maestro, ce lo hai di fronte», ribatté Flint, gonfiando il torace e battendosi un colpetto sul petto. «Tu?» esclamarono i due giovani, all'apparenza dubbiosi. «Ho avuto la meglio su tutti e due, vero?» ricordò loro Flint, accarezzandosi la barba con aria di sufficienza. «Inoltre», proseguì, assestando a Raistlin una gomitata nelle costole che lo fece sussultare, «voglio discutere ancora con questo appassionato di libri perché mi interessa apprendere il suo punto di vista su una quantità di argomenti. È inutile parlare di dena-
ro», proseguì, vedendo i due gemelli scambiarsi occhiate dubbiose e intuendo cosa stessero pensando, «perché mi potrete ripagare svolgendo dei lavoretti per me. Tanto per cominciare, potete andare alla locanda e vedere che ne è stato di quel dannato kender». Quasi fosse stato evocato dalle parole di Flint, il kender in questione spalancò la porta proprio in quel momento. «Ho il sidro e un pasticcio di carne che qualcuno non voleva più e... ecco! Lo sapevo!» esclamò, contemplando con aria triste i resti della cassapanca e i piatti rotti. «Flint, vedi cosa succede quando io non ci sono?» aggiunse scuotendo solennemente il capo. CAPITOLO TERZO L'improbabile amicizia fra i giovani umani, il nano e il kender crebbe rapida come le erbacce nella stagione delle piogge... almeno secondo il parere di Tasslehoff. Quanto a Flint, pur trovando da ridire sull'essere definito un'"er-baccia" fu disposto ad ammettere che Tas aveva ragione perché nel suo burbero cuore lui aveva un debole per i giovani e soprattutto per quelli che erano soli e senza amici. La sua amicizia con Tanis Mezzelfo era iniziata quando lui aveva incontrato Tanis a Qualinesti... un orfano indesiderato da entrambe le razze perché troppo umano per gli elfi e troppo elfico per gli umani. Tanis era stato allevato nella casa del Portavoce del Sole, il sovrano di Qualinesti, ed era cresciuto con i suoi figli: uno di essi, Porthios, lo odiava per quello che lui era, mentre sua cugina Laurana lo amava forse anche troppo. Questa comunque è un'altra storia; in questa sede basta ricordare che Tanis aveva lasciato il regno elfico alcuni anni prima. Abbandonato a se stesso, si era recato a chiedere aiuto all'unica persona che conoscesse al di fuori di Qualinesti: Flint Fireforge. Pur non possedendo nessun talento per la lavorazione dei metalli, Tanis era abile nel fare i conti ed aveva un acuto senso degli affari grazie al quale si era ben presto reso conto che Flint stava truffando se stesso perché vendeva le proprie merci ad un prezzo decisamente inferiore al loro valore effettivo. «La gente sarà felice di pagare di più per una lavorazione di qualità», aveva fatto notare al nano, che era terrorizzato all'idea di perdere la sua clientela. «Prova e vedrai». Il consiglio di Tanis aveva ben presto dato i suoi frutti e Flint aveva co-
minciato a prosperare, con suo stesso stupore. I due erano così diventati soci e Tanis aveva preso l'abitudine di accompagnare il nano nei suoi viaggi estivi, provvedendo lui a prendere tutti gli accordi, a montare la bancarella in occasione delle fiere locali e a fissare gli appuntamenti con i benestanti locali per mostrare loro in privato le merci di Flint. In questo modo i due avevano sviluppato un'amicizia profonda e duratura e dopo qualche tempo Flint aveva proposto a Tanis di trasferirsi presso di lui, offerta che però Tanis aveva rifiutato facendogli notare che la sua casa era un po' troppo piccola per un alto mezzelfo, e che del resto la sua abitazione era poco lontano, costruita fra i rami di un vallenwood. La sola lite che i due avessero mai avuto, e non si era trattato tanto di una vera lite quanto di una discussione accesa, aveva riguardato i viaggi che Tanis persisteva a fare a Qualinesti. «Quando torni da quel posto non servi a nulla», aveva dichiarato con brusca franchezza Flint, «perché resti di umore cupo per una settimana. Laggiù non ti vogliono tra i piedi, una cosa che hanno messo in chiaro fin troppo bene: la tua presenza sconvolge la loro vita, e la loro vicinanza sconvolge la tua, quindi la cosa migliore che puoi fare è lavare dai tuoi stivali il fango di Qualinesti e non tornarci mai più». «Naturalmente hai ragione», aveva ammesso Tanis, in tono riflessivo. «Ogni volta che me ne vado giuro di non fare più ritorno, ma qualcosa mi riporta sempre indietro e quando sento in sogno la musica dei pioppi so che per me è giunto il momento di tornare a casa... e Qualinesti è la mia casa, una verità che essi non possono negare per quanto ci provino». «Bah! Questa è la tua parte elfica che parla», aveva sbuffato Flint. «La musica dei pioppi! Tutte stupidaggini! Sono cento anni che io non torno a casa, e tuttavia non mi senti disquisire sulla musica dei noccioli, vero?». «No, ma ti ho sentito esprimere la tua nostalgia per il liquore dei nani», aveva scherzato Tanis. «È una cosa del tutto diversa», era stato pronto a ribattere Flint, «in quanto quello è vera e propria linfa vitale. Mi chiedo per quale motivo Otik non riesca a realizzare la ricetta nel modo giusto, considerato che gliel'ho ridata chissà quante volte. Deve essere colpa di questi funghi locali, o di quelli che voi umani chiamate funghi». Nonostante le insistenze di Flint, anche quell'autunno Tanis era partito per Qualinesti, rimanendo assente per tutto Yule, poi erano giunte pesanti nevicate e Flint aveva cominciato a temere che l'amico non sarebbe tornato se non a primavera.
Anche se si sarebbe tagliato la barba prima di ammetterlo, Flint si sentiva sempre solo quando Tanis era lontano, un senso di solitudine che l'accidentale e non richiesta presenza di Tasslehoff contribuiva ad attenuare un poco... per quanto Flint non sarebbe stato disposto ad ammettere neppure questo anche a costo di farsi tagliare addirittura la testa. Le chiacchiere vivaci e incessanti del kender riempivano il silenzio, sebbene il nano finisse sempre per ingiungergli di tacere ogni volta che scopriva di cominciare a interessarsi troppo ai suoi discorsi. Insegnare ai giovani umani come comportarsi in un combattimento era una cosa che ora stava dando al nano un vero senso di soddisfazione. Gli piaceva mostrare loro i piccoli trucchi e le abili manovre che aveva imparato nel corso di una vita di scontri con orchi, orchetti, ladri, tagliaborse e altri pericoli a cui si trovavano di fronte coloro che percorrevano le pericolose strade dell'Abanasinia, una sensazione che lui paragonava a quella che provava nel creare un oggetto di metallo di particolare bellezza e fattura. In pratica, ciò che stava facendo era più o meno la stessa cosa, in quanto stava modellando e rifinendo delle giovani vite nello stesso modo in cui modellava il metallo, e due di quei giovani stavano assumendo una forma decisamente gradevole, mentre il terzo non si mostrava invece molto malleabile. Raistlin, infatti, continuava a far accapponare la pelle a Flint. Ormai diciannovenni, i due gemelli stavano trascorrendo quell'inverno insieme perché all'inizio dell'autunno un incendio aveva distrutto la scuola del Maestro Theobald, costringendolo a trasferirsi. Dal momento che ormai Theobald era conosciuto a Solace e considerato degno di fiducia, le autorità gli avevano dato il permesso di aprire una nuova scuola all'interno della città una volta avuta la garanzia che l'incendio aveva avuto cause naturali e non magiche. Di conseguenza, adesso Raistlin non aveva più bisogno di alloggiare presso la scuola e poteva passare l'inverno a casa con il fratello, anche se sia lui sia Caramon non trascorrevano molto tempo fra le pareti domestiche. Raistlin apprezzava infatti la compagnia del nano e del kender, anche perché aveva bisogno di acquisire informazioni sul mondo che si stendeva al di là dei vallenwood, quel mondo in cui presto avrebbe preso il posto che gli spettava: da quando aveva acquisito la capacità di effettuare incantesimi, infatti, lui aveva cominciato a osare di sognare il proprio futuro. Adesso era assistente insegnante presso la scuola del Maestro Theobald,
perché questi sperava che se gli fosse stato offerto un modo onorevole per guadagnarsi da vivere, il giovane mago avrebbe smesso di esibirsi in pubblico. Raistlin non era un insegnante particolarmente abile perché non aveva pazienza di fronte all'ignoranza e tendeva ad essere molto sarcastico, ma se non altro teneva i ragazzi tranquilli durante il sonnellino pomeridiano del maestro, e questo era tutto ciò che Theobald voleva da lui. Una volta, il maestro aveva perfino suggerito a Raistlin che in futuro avrebbe potuto aprire a sua volta un scuola di magia, ma il giovane gli aveva riso in faccia perché ciò che lui voleva era il potere, e non solo ascendente sopra un mucchio di ragazzini che recitavano svogliatamente la loro lezione a base di aa e di ai. No, lui voleva quello stesso potere che esercitava sulla gente quando essa lo osservava mettere in pratica piccoli incantesimi di poco conto: l'espressione di reverenza e di rispetto che leggeva negli occhi degli spettatori lo riempiva di una profonda soddisfazione, e lui già si vedeva nell'atto di acquisire un sempre maggiore potere sugli altri. Potere diretto al bene, naturalmente. Avrebbe elargito denaro ai poveri, risanato i malati, consegnato i malfattori alla giustizia; sarebbe stato amato, ammirato, temuto e invidiato. Se però voleva avere il controllo su vaste masse di persone (quanto sono immensi i sogni ambiziosi della gioventù!) lui avrebbe avuto bisogno di sapere tutto il possibile sulle persone in questione, su tutte quante e non soltanto sugli umani, e di conseguenza il nano e il kender erano ottimi soggetti da studiare. La prima cosa che Raistlin apprese fu che le dita di un kender arrivano dappertutto e sono in grado di portare via qualsiasi cosa. La prima volta in cui Tasslehoff si appropriò della piccola sacca in cui lui custodiva con orgoglio il solo componente magico a cui finora avesse diritto, Raistlin reagì infuriandosi. «Guarda cosa ho trovato!» annunciò Tas. «Una sacca di cuoio su cui figura la lettera R. Vediamo cosa c'è dentro». «No!» esclamò Raistlin, riconoscendo la sacca che appena pochi momenti prima era appesa alla sua cintura. «Aspetta! Non...». Troppo tardi: Tas aveva già aperto la sacca e stava sbirciando all'interno. «Qui c'è soltanto un mucchietto di fiori secchi... adesso la svuoto», dichiarò, spargendo i petali di rosa sul pavimento per poi guardare ancora nella sacca, perplesso. «No, non c'è proprio niente altro, il che è strano. Perché qualcuno avrà...». «Dammela!» ingiunse Raistlin recuperando la sacca con mani che tre-
mavano letteralmente di rabbia. «Oh, è tua?» domandò Tasslehoff, fissandolo con occhi scintillanti. «Te l'ho ripulita: qualcuno ci aveva messo dentro un mucchio di fiori secchi». Raistlin aprì la bocca per ribattere ma scoprì che le parole erano non solo inadeguate ma addirittura inesistenti e poté soltanto fissare il kender con occhi roventi, emettere suoni incoerenti e infine soddisfare in parte la propria ira scoccando un'occhiata furente al fratello che stava ridendo. Dopo aver perso la sacca e i petali di rosa altre due volte, Raistlin si rese infine conto che l'indignazione, le minacce di violenza e/o il ricorso ad un'azione legale non funzionavano con il kender, in quanto non era mai possibile cogliere in flagrante quelle agili dita, capaci di sciogliere qualsiasi nodo per quanto stretto e di sottrarre la sacca con il tocco leggero di un ragno. Per fare fronte a Tasslehoff era necessaria l'astuzia, quindi Raistlin ricorse ad un esperimento e collocò nella propria sacca un pezzo rotondo di vetro colorato che aveva prelevato dagli scarti di un soffiatore di vetro. Incantato, Tasslehoff prelevò il pezzo di vetro e lasciò cadere la sacca sul pavimento dove Raistlin la recuperò con dentro tutti i fiori ancora intatti. Da quel momento, prese l'abitudine di riporre sempre un ninnolo o un oggetto interessante (un uovo d'uccello, uno scarafaggio pietrificato, un sasso scintillante) all'interno della sacca, ben sapendo dove andarla a cercare ogni volta che ne avesse constatato la scomparsa. Mentre Raistlin imparava nuove cose sui kender, Caramon stava imparando le finezze della tecnica di combattimento dei nani, e anche tattiche che tanto fini non erano. Data la loro bassa statura e il fatto che in genere affrontavano avversari molto più alti di loro, i nani avevano sviluppato un modo di combattere che non si poteva definire elegante e usavano una quantità di mosse, come per esempio i calci all'inguine e i pugni sotto lo sterno, che a detta di Sturm non avevano nulla di cavalleresco. «Non intendo combattere come un comune bravaccio da strada», protestò questi. L'inverno era ormai al suo culmine; il Lago Crystalmir si era ghiacciato e la gente se ne stava per lo più in casa al caldo, con i piedi accanto al fuoco e un boccale di punch bollente in mano, ma Flint aveva costretto Caramon e Sturm a uscire all'aperto e li aveva fatti lavorare fino a quando avevano cominciato a sudare, per rinforzare loro i muscoli. «Ma davvero?» ribatté il nano, avanzando fino a fermarsi sotto l'alto
giovane, che aveva i baffi coperti di gocce di condensa causate dal suo respiro affannoso, cosa che secondo Tasslehoff lo faceva somigliare ad un tricheco. «E cosa farai quando verrai attaccato da un comune bravaccio da strada, ragazzo?» continuò Flint. «Alzerai la spada per rivolgergli uno stupido saluto mentre lui ti prende a calci dove duole?». Caramon scoppiò a ridere e Sturm si accigliò di fronte alla rozzezza di quella domanda, ma al tempo stesso ammise che il nano aveva ragione e che lui doveva almeno sapere come contrastare un attacco del genere. «Quanto agli orchetti», proseguì Flint, «sono fondamentalmente dei vigliacchi a meno che non siano pieni di liquore, nel qual caso sono semplicemente pazzi. Un orchetto cercherà sempre di aggredirti alle spalle e di tagliarti la gola prima che tu ti accorga di cosa ti è successo, usando una mano pelosa per soffocare il tuo urlo e l'altra per passarti la lama lungo il collo, facendoti morire dissanguato prima ancora di crollare a terra. «Il modo in cui bisogna reagire ad un attacco del genere è il seguente: sfruttare il peso stesso e il movimento in avanti dell'orchetto quando lui vi salterà addosso, in questo modo...». «Lasciami fare l'orchetto!» implorò Tas, agitando la mano. «Per favore, Flint! Lasciamelo fare!». «D'accordo. Dunque, il kender...». «L'orchetto», lo corresse Tas, balzando sull'ampia schiena del nano. «... vi salta addosso, e voi cosa fate? Semplicemente questo». Afferrando le mani che il kender gli stava serrando intorno alla gola, Flint si chinò su se stesso e fece volare il presunto assalitore sopra la propria testa, con il risultato che Tas andò ad atterrare con violenza sul terreno gelato e coperto di neve, restando per un momento sdraiato con il respiro affannoso e le stelle che gli danzavano davanti agli occhi. «Mi hai tolto il respiro!» esclamò, quando fu di nuovo in grado di parlare, rialzandosi in piedi. «Prima d'ora non ero mai stato incapace di respirare, Caramon. È una sensazione interessante... vuoi che ti aiuti a provarla?». «Ah!» esclamò Caramon, sprezzante. «Non potresti mai farmi volare in quel modo». «Forse no», ammise Tas, «però posso fare questo». Serrando il pugno, lo usò per colpire con forza l'ampio stomaco di Caramon, che gemette, si piegò su se stesso e si tenne il ventre con un sussulto. «Bel colpo, kender», commentò in tono di approvazione una voce che echeggiò al di sopra delle risa degli altri.
«Niente male, Tasslehoff, proprio niente male», aggiunse una seconda voce. Girandosi, i membri del gruppetto videro avvicinarsi nella neve due persone avvolte in un fitto strato di pellicce. «Tanis!» ruggì Flint, a titolo di benvenuto. «Kitiara!» esclamò intanto Caramon, sorpreso. «Tanis e Kitiara!» strillò a sua volta Tasslehoff, anche se non aveva mai visto o conosciuto Kitiara in tutta la sua vita. «Un momento... vi conoscete tutti a vicenda?» domandò Tanis, spostando con stupore lo sguardo da Caramon e Raistlin a Kitiara. «Direi proprio di sì», replicò lei, con il suo sorriso in tralice. «Questi sono i miei fratelli, i gemelli di cui ti ho parlato. Quanto a Brightblade, lui e io eravamo soliti giocare insieme», aggiunse, mentre il suo sorriso dava a quelle parole un significato piccante. Con un fischio sommesso, Caramon assestò una gomitata nelle costole a Sturm, che arrossì per l'imbarazzo e per l'ira, annunciando quindi in tono rigido che era atteso a casa e allontanandosi a grandi passi dopo aver rivolto un freddo inchino ai nuovi arrivati. «Cosa ho detto di male?» domandò Kitiara, poi scoppiò a ridere e protese le braccia verso i fratelli. Subito Caramon venne ad abbracciarla e fece sfoggio della propria forza sollevandola di peso da terra. «Molto bene, fratellino», commentò lei in tono di approvazione quando Caramon la posò a terra. «Sei cresciuto dall'ultima volta che ti ho visto». «Quattro centimetri esatti», precisò con orgoglio Caramon. Raistlin intanto venne avanti e offrì la guancia alla sorella, evitando però il suo abbraccio. Con una risata e una scrollata di spalle, Kitiara gli diede un bacio leggero, poi lo squadrò dalla testa ai piedi mentre lui rimaneva immobile sotto quell'esame, con le mani incrociate sul davanti della veste bianca da mago che ora indossava, un dono del suo mentore Antimodes. «Anche tu sei cresciuto, fratellino», osservò infine Kitiara. «Raistlin è cresciuto di due centimetri», annunciò Caramon. «È merito della mia cucina». «Non intendevo questo», replicò Kitiara. «Lo so, sorella, e ti ringrazio», rispose Raistlin, scambiando con lei un'occhiata significativa. «Bene, bene», commentò allora Kitiara, tornando a girarsi verso Tanis. «Chi lo avrebbe immaginato? Lascio due fratelli neonati e al ritorno li tro-
vo ormai adulti. Quanto a lui, deve essere Flint Fireforge», aggiunse, porgendo al nano la mano guantata. «Io sono Kitiara uth Matar». «Sono tuo servitore, signora», rispose Flint, stringendo la mano offertagli. «Ed io sono Tasslehoff Burrfoot», intervenne Tas, protendendo una mano perché la donna gliela stringesse e facendo scivolare l'altra verso la sua cintura. «Piacere di conoscerti, Tasslehoff», rispose Kitiara, e in tono divertito aggiunse: «Tocca quella daga e la userò per tranciarti gli orecchi». Qualcosa nella sua voce convinse Tasslehoff che stava dicendo sul serio, ed essendo affezionato ai suoi orecchi, che servivano a puntellargli la coda di cavallo, si affrettò a rientrare in casa per frugare in una sacca che evidentemente Tanis non voleva più. Ritenendo che fosse ora di concludere le lezioni, Flint invitò intanto gli ospiti a entrare per mangiare qualcosa. Una volta in casa, Tanis e Kitiara si liberarono del mantello. Sotto di esso Kitiara indossava una lunga tunica di cuoio che le arrivava a metà della coscia, una camicia da uomo aperta sul collo e una cintura di cuoio finemente lavorato e di fattura elfica. Nel complesso era diversa da qualsiasi donna che gli altri avessero mai conosciuto e nessuno di essi, compresi i suoi fratelli, sembrava sapere come comportarsi con lei. Il suo sguardo era quello di un uomo, audace e diretto, e non aveva nulla della modestia e del pudore che si convenivano ad una donna di rango; i suoi movimenti possedevano la grazia propria di un esperto spadaccino e in lei si avvertivano la freddezza e la sicurezza di un guerriero veterano. Se pure era un po' sfacciata, questo serviva soltanto ad accentuare il suo fascino. «Mi accorgo che avete notato la mia cintura», commentò intanto Kitiara, sfoggiando con orgoglio la fascia di cuoio lavorato che le cingeva la vita sottile. «È il dono di un ammiratore». Nessuno dei presenti dovette guardare lontano per trovare quell'ammiratore, dato che Tanis Mezzelfo stava seguendo con palese interesse ogni movimento di Kitiara. «Ho sentito molto parlare di te, e sempre bene, Flint», aggiunse intanto Kitiara. «Io invece non ho mai sentito parlare di te», ribatté Flint, con la consueta diretta franchezza, «ma scommetto che presto lo sentirò». Guardò quindi verso Tanis con un'espressione in cui l'affetto per l'amico si mescolava ad
una sfumatura di preoccupazione e domandò:«Dove vi siete incontrati?». «Fuori da Qualinesti», rispose Tanis. «Mentre tornavo a Solace ho sentito delle urla giungere dal bosco e quando sono andato a indagare ho trovato questa giovane donna e un orchetto, che ho creduto la stesse aggredendo. Naturalmente sono corso in suo aiuto, soltanto per scoprire che mi ero sbagliato e che le urla che avevo sentito provenivano invece dall'orchetto». «Qualinesti», ripeté Flint, scoccando a Kitiara uno sguardo in tralice. «Cosa ci facevi tu... un'umana... a Qualinesti?». «Non ero dentro Qualinesti», specificò lei. «Ero soltanto nelle vicinanze. Quella è una zona che ho attraversato parecchie volte perché è sulla mia strada quando vengo qui». «Arrivando da dove?» domandò Flint. Kitiara non parve sentire la sua domanda oppure decise di ignorarla, e il nano stava per ripeterla quando lei segnalò ai fratelli di venire avanti per le presentazioni. «Io sono Tanis Mezzelfo», disse Tanis, porgendo loro la mano. Pieno di entusiasmo, Caramon gliela strinse fino quasi a staccarla, mentre Raistlin la sfiorò appena con le proprie dita sottili. «Io sono Caramon Majere e questo è il mio gemello Raistlin. In realtà, noi siamo i fratellastri di Kit», spiegò intanto Caramon. Raistlin invece rimase in silenzio e procedette ad esaminare con curiosità il mezzelfo, di cui aveva sentito parlare molto, quasi quotidianamente, da Flint. Tanis vestiva come un cacciatore, con un giustacuore di cuoio marrone di fattura elfica, una camicia verde, calzoni marrone e alti stivali da viaggio dello stesso colore. Le sue armi erano una spada alla cintura, un arco appeso alla spalla e una faretra di frecce assicurata alla schiena. Quanto al suo retaggio elfico, esso non era evidente ad un esame superficiale, tranne forse nei lineamenti finemente cesellati del volto, ed era impossibile dire se i suoi orecchi fossero a punta o meno perché erano nascosti da lunghi e folti capelli castani. La sua statura era quella di un elfo, ma lui aveva la corporatura più massiccia propria ad un umano. Nel complesso, era un uomo avvenente, e non c'era da meravigliarsi che avesse attirato l'attenzione di Kitiara. Intanto Tanis aveva studiato a sua volta i due fratelli, ancora meravigliato per la coincidenza di trovarli lì. «Kit ed io ci siamo incontrati per caso sulla strada e siamo diventati amici, e adesso al mio arrivo a casa scopro che i suoi fratelli e i miei migliori amici hanno fatto a loro volta amicizia! Senza dubbio, questo era un in-
contro predestinato», commentò. «Il fatto che un incontro sia predestinato implica che in futuro ne debba derivare qualcosa di significativo», osservò Raistlin. «Tu prevedi forse un evento del genere, signore?». «Io... suppongo che sia possibile», balbettò Tanis, preso in contropiede e incerto su come rispondere. «A dire il vero, stavo soltanto scherzando, e non intendevo...». «Non badare a Raistlin, Tanis», lo interruppe Kitiara. «Lui è un pensatore... l'unico della famiglia. Vuoi smetterla di essere tanto serio?» ingiunse quindi in tono sommesso al fratello. «Quest'uomo mi piace e non voglio che lo spaventi fino a farlo allontanare da me». Sorrise quindi a Tanis, che ricambiò il suo sorriso, e nel notare la cosa Raistlin comprese che lui e sua sorella erano più che amici, erano amanti. Quella consapevolezza e l'immagine improvvisa che essa gli evocò nella mente gli diede un senso di disagio e d'imbarazzo che lo portò a nutrire di colpo un'intensa avversione per il mezzelfo. «Se non altro, sono lieto di vedere che avete tenuto il mio vecchio amico Flint lontano dai guai», affermò intanto Tanis, a sua volta imbarazzato, nella speranza di cambiare argomento. «Fuori dai guai un accidente!» esclamò Flint, in tono furente. «Per poco non mi hanno fatto annegare, ed è una fortuna che sia sopravvissuto». A quel punto fu necessario riferire la storia della sfortunata gita in barca, che tutti cercarono di raccontare parlando contemporaneamente. «Io ho trovato la barca...» cominciò Tasslehoff. «Caramon, quel grosso idiota, si è alzato in piedi mentre eravamo a bordo...». «Stavo soltanto cercando di prendere un pesce, Flint...». «Ed hai rovesciato quella dannata barca, facendoci bagnare tutti fino alle ossa...». «Caramon è andato a fondo come un sasso... lo so perché ho lanciato una quantità di sassi nell'acqua e tutti sono sempre andati a fondo proprio come lui, senza neppure una bolla...». «Ero preoccupato per Raist...». «Io ero perfettamente in grado di provvedere a me stesso, fratello. Sotto la barca rovesciata c'era una sacca d'aria e non correvo il minimo pericolo, tranne quello di avere un imbecille per fratello. Cercare di prendere un pesce a mani nude...». «... mi sono tuffato per raggiungere Caramon e l'ho trascinato fuori
dall'acqua...». «Non è vero, Flint! Caramon è uscito dall'acqua da solo e sono stato io a tirarti fuori... non ricordi? Vedi in quali guai ti metti se non ci fossi io?». «Ricordo benissimo, e non è successo affatto in questo modo, dannato kender. C'è una cosa che ti voglio dire», dichiarò con enfasi Flint, ponendo fine a quel confuso racconto, «e cioè che non metterò mai più piede su una barca finché avrò vita. Quella è stata la prima volta e Reorx mi è testimone che sarà anche l'ultima». «Confido che Reorx abbia sentito il tuo voto», commentò Tanis, poi assestò una pacca affettuosa sulla spalla del nano e si alzò per andarsene, aggiungendo: «Vado a vedere se la mia casa è ancora in piedi. Vuoi accompagnarmi?». La domanda era rivolta a Flint, ma il suo sguardo si posò su Kitiara. «Vengo io!» si offrì prontamente Tas. «Invece no», intervenne Flint, afferrandolo per il colletto e tirandolo indietro. «Non riesco a trovare le mie pinze migliori e sono pronto a scommettere qualsiasi cifra, Tasslehoff Burrfoot, che tu sai dove sono». «Più tardi, magari, Adesso devo andare con Tanis e... ouch, mi hai fatto male! Perché mi hai pizzicato? Ah, ho capito», ridacchiò Tas. «Vado a cercare le tue pinze. Flint è molto trascurato con i suoi attrezzi e li perde di continuo. È un bene che ci sia io per aiutarlo a ritrovarli». «Vieni a casa con noi, Kit?» domandò intanto Caramon, in tono scherzoso. «Oppure hai altri piani?». «Forse più tardi», rispose Kitiara, protendendosi a prendere per mano Tanis. «Molto più tardi». Ridendo rivolse un cordiale cenno di saluto ai fratelli e si allontanò con il mezzelfo. «Oh, taci», ingiunse in tono cupo Raistlin a Caramon, quando questi cercò di parlare con lui di Tanis e di Kitiara. CAPITOLO QUARTO La primavera giunse a Solace, portando con sé i fiori in boccio, gli agnelli appena nati e gli uccelli che nidificavano; tutt'intorno c'erano segni che indicavano il rinnovarsi della vita, e il sangue che si era fatto freddo e lento durante l'inverno si fece più caldo e meno denso, i giovani cominciarono a risvegliarsi e le ragazze a ridacchiare. Di tutte le stagioni dell'anno, la primavera era quella che Raistlin detestava maggiormente.
«La scorsa notte Kit non è tornata a casa», commentò Caramon, ammiccando, mentre facevano colazione. Raistlin continuò a mangiare la sua porzione di pane e formaggio senza fare commenti, perché non intendeva incoraggiare quel genere di discorsi, ma a quanto pareva Caramon non aveva bisogno di incoraggiamenti. «Il suo letto era intatto», continuò, «ma sono pronto a scommettere che so quale letto è invece stato usato... anche se non è probabile che abbiano dormito molto». «Caramon», dichiarò con freddezza Raistlin, alzandosi in piedi e lasciando la colazione quasi intatta, «sei un porco». Portò quindi i resti del suo pasto a due topi di campagna che aveva catturato e che ora teneva in una gabbia insieme con un coniglio domestico. Di recente aveva sviluppato alcune teorie in merito all'uso delle erbe e gli era sembrato più saggio sperimentarne gli effetti pratici sugli animali invece che sui suoi pazienti, considerato anche che i topi erano facili da catturare e da mantenere, ed erano di certo più sopportabili ed economici di suo fratello. Il primo esperimento di Raistlin non aveva funzionato perché la sua cavia era caduta vittima del gatto dei vicini, incidente in seguito al quale lui aveva sgridato severamente Caramon per aver permesso al gatto di entrare in casa; suo fratello, che era amante dei gatti, aveva allora promesso di giocare da quel momento con l'animale all'esterno in modo che i topi fossero al sicuro. Soddisfatto di come stavano procedendo i suoi più recenti esperimenti su quelle bestiole, Raistlin infilò alcune briciole di pane fra le sbarre. «È già abbastanza spiacevole che nostra sorella si prostituisca in questo modo senza fare commenti sboccati al riguardo», continuò, dando al coniglio un po' di acqua fresca. «Suvvia, Raist!» protestò Caramon. «Kit non fa... quello che hai detto. Lei è innamorata di quell'uomo, lo si capisce dal modo in cui lo guarda, e lui la adora. Tanis mi è simpatico. Flint mi ha parlato molto di lui e mi ha detto che quest'estate Tanis m'insegnerà a usare la spada e anche arco e frecce. Secondo lui Tanis è il più grande arciere che sia mai vissuto, e...». Ignorando il resto del discorso del fratello, Raistlin si pulì le dita dalle briciole e prese i suoi libri. «Adesso devo andare altrimenti farò tardi a scuola», annunciò, interrompendo rudemente Caramon a metà di una frase. «Ci vediamo questa sera, oppure hai intenzione di trasferirti anche tu presso Tanis Mezzelfo?».
«No, Raist. Perché mi dovrei trasferire da lui?». Con Caramon, il sarcasmo era sempre sprecato. «Sai, Raist, stare con una ragazza è molto divertente», continuò questi. «Tu non parli mai con nessuna di loro ma ce n'è più di una che ti trova davvero speciale, a causa della tua magia e di tutto il resto, e ti ammirano molto soprattutto dopo che hai guarito la bambina dei Greenleaf dalla laringite difterica. Dicono che la bambina sarebbe morta senza il tuo aiuto, Raist, e queste sono cose che fanno colpo sulle ragazze». Raistlin si arrestò sulla soglia con le guance tinte di un lieve rossore di soddisfazione. «Si è trattato soltanto di una miscela di tè e di una radice di cui ho letto, chiamata ipecacuanha. La bambina doveva vomitare il catarro, e quella miscela l'ha aiutata a farlo», si schermì. «Le ragazze... loro parlano davvero... di queste cose?». Raistlin aveva l'impressione che le ragazze fossero creature strane e indecifrabili come un incantesimo tratto dal libro di qualche arcimago di alto livello e per lui ancora inutilizzabile, e tuttavia Caramon, che sotto altri aspetti era lento di comprendonio quanto un ceppo d'albero, parlava con loro e faceva loro da cavaliere nelle danze che si tenevano durante le feste, oltre a fare anche altre cose che Raistlin osava immaginare soltanto nelle ore più cupe della notte, sotto forma di sogni che gli davano l'impressione di essere sporco e lo riempivano di vergogna. D'altro canto, Caramon aveva un fisico massiccio, capelli ricciuti, grandi occhi castani e lineamenti attraenti che facevano effetto sulle donne, tutte cose che a Raistlin mancavano. Le frequenti malattie che ancora continuavano ad assalirlo lo avevano reso magro, ossuto e di scarso appetito, e anche se aveva gli stessi lineamenti ben modellati di Caramon sul proprio volto essi apparivano più affinati e aguzzi, dandogli l'aspetto astuto e infido di una volpe. Inoltre non gli piacevano le danze intorno ai fuochi che considerava uno spreco di tempo e di energie e che comunque lo lasciavano con il fiato corto e con il torace dolorante, e non sapeva come parlare con le ragazze, cosa dire loro. Quando ci provava aveva sempre la sensazione che sebbene lo ascoltassero con cortesia in fondo ai loro occhi scintillanti esse ridessero segretamente di lui. «Non credo che loro parlino dell'ipe... ipe... upecaca, o come si chiama quella cosa dal nome lungo», ammise Caramon. «Però una di loro, Miranda, ha detto che era meraviglioso che tu avessi salvato la vita della bambi-
na, che è la sua nipotina. Voleva che te lo riferissi». «Ha detto davvero così?» mormorò Raistlin. «Sì. Miranda è splendida, vero?» replicò Caramon, con un profondo sospiro. «Non ho mai visto una ragazza tanto bella. Ooops!» esclamò quindi, lanciando un'occhiata fuori della porta e vedendo che il sole già accennava a sorgere. «È tempo che m'incammini anch'io, perché oggi dobbiamo seminare e non tornerò a casa prima di notte». Fischiettando un motivo allegro che quei discorsi sulle danze intorno al fuoco gli avevano fatto venire in mente, afferrò il proprio zaino e si affrettò a incamminarsi. «Sì, fratello mio, hai proprio ragione: lei è molto bella», disse Raistlin alla casa ormai vuota. Miranda era la figlia di un ricco mercante di abiti che aveva avviato di recente i propri affari a Solace, e costituiva la migliore pubblicità per suo padre perché era sempre meravigliosamente vestita con abiti di fine fattura, tagliati e cuciti secondo lo stile più recente. Lunghi capelli di un biondo rossiccio le ricadevano fino alla vita in pigri riccioli, e lei era affascinante con i suoi modi aggraziati e modesti, era fragile e accattivante, innocente e buona. Raistlin non era quindi il solo giovane di Solace che avesse imparato ad ammirarla. A volte Raistlin aveva provato a immaginare che Miranda gli lanciasse qualche sguardo invitante, ma si era sempre detto che quelli erano soltanto sogni ad occhi aperti: come poteva lei provare il minimo interesse nei suoi confronti? Però ogni volta che la vedeva il cuore prendeva a martellargli nel petto fin quasi a soffocarlo, il sangue gli bruciava, la pelle gli si arroventava e il cervello gli si riduceva in poltiglia mentre la sua lingua di solito tanto sciolta riusciva a formulare soltanto parole vuote e lui non trovava neppure il coraggio di guardarla in faccia pur facendo fatica a impedire alle proprie mani di protendersi ad accarezzare quei riccioli ramati ogni volta che si veniva a trovare vicino a lei. La domanda che però lo tormentava davvero era se quella ragazza avrebbe destato ugualmente il suo interesse anche se non fosse stata oggetto dell'ammirazione di Caramon. La parte superficiale della sua mente tendeva a dare subito una risposta affermativa, ma quella più profonda continuava a meditare con disagio sull'interrogativo: quale demone si annidava in Raistlin e lo spingeva a questa competizione costante, e peraltro unilaterale, con Caramon, che ne era beatamente ignaro?
D'un tratto Raistlin ricordò una storia che Tasslehoff gli aveva raccontato e che parlava di un nano imbattutosi in un drago rosso addormentato. Il nano aveva attaccato il drago dormiente con l'ascia e con la spada, tempestandolo di colpi per ore fino a sfinirsi senza però che il drago si svegliasse; sbadigliando, alla fine l'enorme creatura si era girata nel sonno e aveva schiacciato il nano. Raistlin provava un'intensa comprensione per quel nano perché aveva l'impressione di essere impegnato in una costante battaglia con il suo gemello che si limitava a rotolargli addosso e a schiacciarlo. Caramon aveva un aspetto migliore, era più simpatico, ispirava maggiore fiducia, mentre Raistlin era "profondo", come lo descriveva Kit, o "scaltro", come lo aveva una volta definito Tanis, o "astuto", come lo avevano soprannominato i suoi compagni di scuola. La maggior parte della gente tollerava la sua presenza soltanto perché amava suo fratello. Mentre si avviava lungo il marciapiede, cercando di non respirare la fragrante aria primaverile che sempre lo faceva starnutire, Raistlin si confortò pensando che se non altro si stava guadagnando una certa reputazione come guaritore. Quella piccola fiamma di soddisfazione si era appena accesa in lui, dandogli un minimo di calore, quando però il suo infernale demone interiore riprese a sussurrargli in tono amaro che forse questo era tutto ciò che sarebbe mai stato... un mago di rango minore, un guaritore che maneggiava erbacce... mentre suo fratello sarebbe diventato un guerriero e avrebbe compiuto grandi imprese, conquistato ingenti ricompense e si sarebbe coperto di gloria. «Oh, povera me! Oh, che guaio!». Sorpreso, Raistlin si arrestò di colpo e si rese conto soltanto allora di essere appena andato a sbattere contro qualcuno, perché era così concentrato sui suoi pensieri e frettoloso per il timore di essere in ritardo che non aveva guardato dove stava andando. Sollevando la testa stava per borbottare qualche parola di scusa e proseguire oltre quando si trovò davanti Miranda. «Oh, povera me», ripeté lei, sbirciando da sopra il corrimano per guardare parecchie pezze di stoffa che giacevano sparse sul terreno sottostante. «Mi dispiace terribilmente!» sussultò Raistlin, consapevole che doveva essere andato a sbatterle contro facendole sfuggire di mano la stoffa che era caduta dal ponte aereo e disegnava ora sul terreno una spirale dai colori vivaci. «Aspetta... aspetta qui», balbettò. «Andrò... andrò io a prendere tut-
to». «No, no, è stata colpa mia», replicò la ragazza, i cui occhi verdi scintillavano come le foglie novelle degli alberi che allargavano i loro rami sopra di loro. «Stavo guardando un paio di passeri che facevano il nido... e non stavo badando...» continuò, coprendosi di un velo di rossore che la rese ancor più bella. «Insisto», ribadì con decisione Raistlin. «Allora andremo insieme, d'accordo?» propose Miranda, prevenendo altre proteste. «È troppa roba perché una sola persona la possa trasportare». E insinuò timidamente la mano in quella di lui. Il suo tocco scatenò in Raistlin una fiamma simile a quella della sua magia ma molto più rovente, una fiamma che consumava mentre l'altra raffinava e forgiava. Fianco a fianco, i due scesero la lunga scala fino al terreno sottostante, che si trovava ancora in ombra perché la luce del mattino stava cominciando soltanto adesso a filtrare fra le lucide foglie nuove. Senza fretta, Miranda e Raistlin procedettero quindi a raccogliere le pezze di tessuto, e quando Raistlin espresse la speranza che la rugiada non le avesse danneggiate Miranda garantì che quella mattina non c'era praticamente rugiada e che sarebbe bastata una buona spazzolata per mettere tutto a posto. Raistlin l'aiutò quindi a ripiegare le lunghe pezze di stoffa, prendendone un'estremità mentre lei teneva l'altra, con le loro mani che si sfioravano ogni volta che congiungevano gli angoli. «Volevo ringraziarti di persona», disse Miranda, fissandolo, in uno di quei momenti in cui si trovavano vicini, con la stoffa tenuta in mezzo a loro. I suoi occhi, che scintillavano in mezzo ad un velo di ciglia biondo rossiccio, erano affascinanti. «Hai salvato la bambina di mia sorella, e noi ti siamo tutti molto grati». «Non è stato nulla», protestò Raistlin. «Mi dispiace, non mi sono espresso bene, perché è ovvio che la bambina fosse importante. Quello che intendevo è che ciò che ho fatto non è nulla. Ecco, neppure questo è esatto. Ciò che voglio dire è...». «So cosa vuoi dire», lo interruppe Miranda, chiudendo le mani intorno a quelle di lui. La stoffa cadde a terra mentre lei chiudeva gli occhi e porgeva le labbra. Raistlin si chinò su di esse... «Miranda! Eccoti qui! Smettila di perdere tempo, ragazza, e portami la stoffa. Mi serve per quel corpetto!».
«Sì, mamma», rispose Miranda, mentre si chinava e raccoglieva in fretta la stoffa senza preoccuparsi di piegarla. Tenendola stretta fra le braccia sussurrò: «Una di queste sere vieni a trovarmi, Raistlin». «Miranda!». «Arrivo, mamma!» gridò di rimando Miranda, scomparendo fra un agitarsi di gonne e uno svolazzare di stoffe. Raistlin rimase fermo dove lei lo aveva lasciato, immobile come se fosse stato colpito da un fulmine e si fosse liquefatto sul posto: stordito e sconcertato, esaminò l'invito ricevuto e vagliò ciò che esso poteva significare. Lui le piaceva. Miranda lo aveva preferito a Caramon, a tutti gli uomini che in città si stavano contendendo il suo affetto. Una felicità pura e incontaminata, di cui raramente aveva conosciuto l'eguale, si riversò su di lui e Raistlin si crogiolò in essa come sotto il sole estivo, sentendosi crescere interiormente come un seme piantato di fresco mentre costruiva castelli in aria così in fretta che in pochi secondi essi furono completi e pronti per essere abitati. Si vide riconosciuto da Miranda come il suo favorito, cosa che per una volta avrebbe indotto Caramon ad invidiarlo... non che ciò che Caramon pensava avesse importanza, dato che Miranda lo amava e lei era l'incarnazione della bontà e della dolcezza, una creatura meravigliosa che avrebbe fatto affiorare ciò che di buono c'era in lui e avrebbe scacciato quei demoni perversi, la gelosia, l'ambizione, l'orgoglio, che lo tormentavano da sempre. Lui e Miranda sarebbero vissuti insieme sopra la bottega del venditore di abiti, e anche se non aveva idea di come si conducessero gli affari lui si sarebbe sforzato d'imparare per amor suo. Per amor suo avrebbe rinunciato perfino alla magia, se lei glielo avesse chiesto. Le risa di alcuni bambini lo riscossero dalle sue fantasticherie e lui si rese conto che ormai era decisamente in ritardo per la scuola e avrebbe ricevuto un severo rimprovero dal Maestro Theobald. Una volta a scuola, accettò il rimprovero senza rimostranze e guardando Theobald con quello che poteva quasi essere definito un sorriso affettuoso, cosa, questa, che indusse quasi il maestro a convincersi che il suo allievo più strano e difficile fosse infine impazzito. Quella notte Raistlin non studiò incantesimi per la prima volta da quando aveva cominciato la scuola, se non si consideravano le notti in cui era stato malato; dimenticandosi di bagnare le sue erbe, lasciò i topi e il coni-
glio ad aggirarsi frenetici nelle loro gabbie alla ricerca del cibo che lui aveva trascurato di dare loro, e quando cercò a sua volta di mangiare non riuscì a inghiottire un solo boccone e si nutrì invece d'amore, un piatto molto più dolce e succulento di qualsiasi banchetto imbandito da un imperatore. Il suo unico timore era che il fratello tornasse prima di notte, perché questo lo avrebbe costretto a sprecare del tempo per rispondere alle sue stupide domande, per le quali lui aveva già pronta una menzogna che gli era stata suggerita dal pensiero stesso di Miranda: avrebbe detto che era stato chiamato a curare un bambino malato e che non aveva bisogno che Caramon lo accompagnasse. Per fortuna Caramon non fece ritorno a casa, cosa tutt'altro che insolita durante la stagione della semina in quanto lui e il Fattore Sedge rimanevano a lavorare nei campi anche di notte, sotto la luce intensa della luna. Lasciata la casa, Raistlin si avviò quindi lungo gli ampi ponti sospesi, anche se nella sua mente era convinto di camminare su nuvole rischiarate dalla luna, diretto a casa di Miranda. Naturalmente non era sua intenzione farle direttamente visita, perché non sarebbe stato corretto andare a trovare una giovane donna nubile dopo che era sceso il buio; invece, avrebbe prima parlato con suo padre per ottenere il permesso di corteggiare sua figlia e adesso stava soltanto andando a contemplare il luogo dove lei viveva, nella speranza di riuscire magari a intravederla attraverso una finestra. Mentre camminava, la immaginò seduta accanto al fuoco e china su un lavoro di cucito mentre era forse intenta a sognare di lui nello stesso modo in cui lui la stava pensando. La bottega del mercante di abiti era al livello inferiore della casa, che era una delle più grandi di Solace. Adesso il piano inferiore era buio perché la bottega era chiusa per la notte, ma alcune luci brillavano al piano superiore e trasparivano dalle finestre. Soffermandosi in silenzio sulla passerella di legno, Raistlin attese nella tiepida aria primaverile, sperando di riuscire almeno a vedere quella luce riflettersi sui riccioli dorati di Miranda. Era lì fermo da qualche tempo quando sentì un rumore che proveniva dal basso, da una baracca eretta sul terreno sotto la bottega del mercante per fungere forse da magazzino. Immediatamente pensò che un ladro fosse penetrato nella baracca e nel suo febbrile stato di infatuazione romantica si disse che se fosse riuscito a catturarlo, o almeno a impedire il furto, avrebbe avuto la possibilità di dimostrarsi degno dell'amore di Miranda. Senza neppure soffermarsi a riflettere che quanto stava facendo era e-
stremamente pericoloso e che non aveva modo di proteggersi se davvero avesse sorpreso un ladro, scese di corsa le scale che poteva vedere con facilità perché questa notte Lunitari, la luna rossa, era piena e proiettava una luce intensa tutt'intorno. Arrivato al livello del suolo, avanzò con passo silenzioso e furtivo in direzione della baracca, notando che la porta era chiusa ma che il chiavistello era aperto. La baracca non aveva finestre, ma una tenue luce a stento visibile trapelava da un buco presente nel legno di una parete, quindi lui decise che avrebbe guardato attraverso quel buco per vedere cosa stava succedendo e per constatare con i suoi occhi ciò che il ladro stava facendo prima di dare l'allarme per prevenirne la fuga. Quando accostò l'occhio al buco vide che i rotoli di stoffa erano stati ammucchiati su un lato della baracca in modo da creare nel centro uno spazio in cui era stata stesa una coperta illuminata da una candela posata in un angolo su una cassa. Sulla coperta, rese indistinte dalle ombre proiettate dalla luce tremolante della candela, due persone si contorcevano e ansimavano. Dopo un momento i due rotolarono sotto la luce della candela: riccioli rossi ricaddero su un seno candido e nudo mentre una mano maschile si chiudeva intorno ad esso accompagnata da un gemito e Miranda ridacchiava e sussultava nel far scorrere la mano lungo la schiena altrettanto nuda dell'uomo. Una schiena ampia e muscolosa, sovrastata da ricci capelli castani che brillavano alla luce della candela: la schiena nuda di Caramon e i suoi capelli madidi di sudore. Mordicchiando il collo di Miranda, Caramon scivolò su di lei e i due rotolarono lontano dalla luce con una serie di ansiti e di risatine soffocate che scaturirono dall'oscurità e che ben presto si dissolsero in gemiti di piacere. Infilando le mani nelle maniche della veste e tremando in maniera incontrollabile nonostante la calda aria primaverile, Raistlin si allontanò e risalì con passo rapido e silenzioso le scale, tinte di una tonalità rosso sangue dalla sorridente e compiaciuta luce di Lunitari. CAPITOLO QUINTO Raistlin fuggì lungo i ponti sospesi senza avere idea di dove stesse andando: sapeva soltanto che non poteva tornare a casa perché più tardi Caramon sarebbe rientrato dopo aver saziato il suo piacere e lui non poteva
tollerare l'idea di vederlo, di scorgere il suo sorriso appagato e di sentire il profumo di lei che ancora gli aleggiava addosso. Gelosia e disgusto gli serrarono lo stomaco e gli fecero salire in gola un'amara ondata di bile: semiaccecato, debole e in preda alla nausea, nel buio andò a sbattere dritto contro un ramo d'albero. Il colpo alla fronte lo lasciò stordito e lui si sorresse aggrappandosi alla ringhiera. Solo sulle scale illuminate dalla luna, con le mani chiazzate di rosso dalla sua luce, scosso e tremante a causa dell'intensità delle proprie emozioni, desiderò che Caramon e Miranda fossero entrambi morti, e se avesse conosciuto un incantesimo che potesse bruciare loro la carne e ridurli in cenere in quel momento non avrebbe esitato ad usarlo. Nella sua mente poteva vedere con estrema chiarezza le fiamme che avvolgevano il magazzino del mercante... crepitanti lingue di fuoco rosse, arancione e di un candore incandescente che consumavano il legno e la carne che si trovava al suo interno, bruciando... purificando... Un sordo dolore alle mani e ai polsi lo fece infine tornare in sé e nell'abbassare lo sguardo vide di avere le nocche bianche sotto la luce della luna; un fetido mucchietto di bile ai suoi piedi indicava che si era sentito male, e anche se non ricordava di aver vomitato a quanto pareva quella purificazione interiore gli aveva fatto bene perché adesso non si sentiva più stordito o nauseato, l'ira e la gelosia non divampavano più nel suo animo, avvelenandolo. Finalmente in grado di connettere, si guardò intorno per orientarsi e dopo un momento si rese conto con stupore di dove si trovava, accorgendosi di aver attraversato quasi tutta Solace senza però ricordare di averlo fatto... tutto quello che ricordava erano un fuoco rovente, fumo nero e ceneri bianche. Emettendo un profondo, tremante sospiro, allentò a poco a poco la presa spasmodica intorno alla ringhiera. Poco lontano c'era una botte d'acqua di uso pubblico, e pur non osando immettere nulla nello stomaco sconvolto lui si umettò le labbra e versò dell'acqua sulle travi che aveva sporcato, grato che nessuno lo avesse visto perché sapeva che non avrebbe sopportato false espressioni di compassione. Scoprire di essere la sola persona presente in quella parte della città peraltro non lo sorprese: essendo stati fra i primi ad essere costruiti, quegli edifici erano poco più che baracche malconce, abbandonate da tempo perché i precedenti abitanti avevano prosperato e avevano migliorato la loro posizione nell'ambito della società dì Solace, oppure erano falliti e aveva-
no lasciato la città. Di giorno capitava ancora che qualcuno passasse da quella zona di ritorno dalla caccia o dalla pesca, perché questo particolare tratto di ponte sospeso portava al Lago Crystalmir; inoltre Meggin la Pazza viveva non lontano da lì e in quella zona si trovava anche l'Abbeveratoio, che doveva essere poco distante, come indicavano le risa da ubriachi che filtravano attraverso il fogliame, peraltro soffocate e sporadiche perché ormai la maggior parte delle persone di Solace, perfino gli ubriaconi, era a letto da tempo in quanto era ormai passata la mezzanotte. A quest'ora Caramon doveva essere rientrato a casa, e probabilmente era frenetico per la preoccupazione a causa dell'assenza del suo gemello, cosa che diede a Raistlin una certa soddisfazione: che Caramon si preoccupasse pure, trovare una scusa per spiegare la propria assenza non sarebbe stato difficile dato che lui credeva a tutto. Raistlin si sentiva gelato, esausto e tremante, ma pur sapendo che lo aspettava una lunga camminata fino a casa continuò tuttavia a indugiare vicino alla ringhiera, riesaminando con disagio il momento in cui aveva desiderato che suo fratello e Miranda fossero morti. Dire a se stesso che non lo aveva pensato sul serio fu un sollievo, e al tempo stesso scoprì improvvisamente di capire e di approvare le rigide leggi che controllavano l'uso della magia: nella sua impazienza di ottenere il potere magico, finora non aveva mai compreso con tanta chiarezza l'importanza della Prova che si ergeva a bloccare il suo futuro come una porta d'acciaio, impedendogli di accedere ai ranghi più elevati delle schiere dei maghi. Soltanto coloro che erano dotati della disciplina necessaria per gestire un così vasto potere si vedevano concedere il diritto di usarlo... e nel voltarsi indietro a contemplare la violenza delle proprie emozioni, il suo desiderio, la sua gelosia e la sua rabbia, Raistlin si sentì sgomento. Il fatto che il suo corpo, con le sue pulsioni e i suoi desideri, potesse aver annientato in maniera così completa la disciplina della sua mente lo disgustava e lo indusse a decidere di guardarsi in futuro da simili emozioni distruttive. Immerso in queste riflessioni stava per tornare verso casa quando sentì avvicinarsi un rumore di passi. Ritenendo che si trattasse con ogni probabilità della guardia cittadina impegnata nel suo pattugliamento notturno, Raistlin previde le irritanti domande, la severa predica e l'eventuale ritorno a casa sotto scorta e si addossò maggiormente al tronco dell'albero in modo da porsi nella sua ombra e lontano dalla luce proiettata da Lunitari. In quel momento desiderava essere solo e non aveva voglia di parlare con nessuno.
La persona che si stava avvicinando continuò a camminare ed emerse dall'ombra proiettata dalle foglie dell'albero per entrare in una rossa polla di luce lunare, e anche se era avvolta in un mantello dotato di cappuccio Raistlin riconobbe immediatamente Kitiara dal suo modo di camminare... passi rapidi e impazienti che non parevano mai portarla abbastanza in fretta a destinazione. Lei gli passò tanto vicino che Raistlin avrebbe potuto protendersi a sfiorarle il mantello scuro, ma invece si trasse maggiormente nell'ombra perché Kitiara era la persona che meno desiderava vedere quella notte e sperava che si allontanasse in fretta dalle sue vicinanze in modo da permettergli di tornare a casa. Di conseguenza, si sentì estremamente frustrato quando la vide fermarsi vicino alla botte dell'acqua. Raistlin si aspettava che lei bevesse e proseguisse, ma anche se in effetti bevve servendosi della tazza attaccata alla botte mediante una corda, Kitiara non procedette oltre. Lasciata cadere con uno sciacquio la tazza nella botte, incrociò le braccia e si appoggiò ad essa in atteggiamento di attesa. Raistlin era bloccato perché non poteva lasciare il suo albero e addentrarsi nella luce lunare senza che lei lo notasse, ma del resto adesso non se ne sarebbe andato neppure se avesse potuto perché era incuriosito: cosa ci faceva lì Kitiara? Perché si stava aggirando per le strade di Solace di notte e da sola, dato che il suo amante mezzelfo non si vedeva da nessuna parte? Era evidente che era lì per incontrare qualcuno. Kitiara non era mai stata molto abile ad aspettare e lo dimostrò anche questa volta, cominciando ad agitarsi a disagio dopo appena un paio di minuti, spostando i piedi, assestandosi in vita la spada, battendo l'una contro l'altra le mani guantate, bevendo ancora e protendendosi più di una volta in avanti per sbirciare con impazienza in direzione del ponte sospeso. «Gli concedo ancora cinque minuti», borbottò dopo un po', e nell'immota aria notturna Raistlin riuscì a sentire le sue parole con estrema chiarezza. Di lì a poco echeggiò un rumore di passi proveniente dalla direzione in cui stava guardando Kitiara, che si raddrizzò e portò d'istinto la mano alla spada. La figura che sopraggiunse era quella di un uomo che portava a sua volta mantello e cappuccio, e che puzzava di birra a tal punto che Raistlin ne poté avvertire l'odore anche da dove si trovava, a dieci passi di distanza da lui. «Ubriacone!» sogghignò Kitiara, arricciando il naso per il disgusto. «Mi hai fatta aspettare al freddo per ore mentre trangugiavi bruciabudella, ve-
ro? Ho una mezza idea di aprirti in due quella pancia piena di birra». «L'ora fissata per il nostro incontro non è trascorsa», replicò l'uomo, con voce fredda e sorprendentemente sobria. «Caso mai sono in anticipo, e comunque non si può sedere in una taverna, perfino una miserabile come l'Abbeveratoio, senza bere qualcosa, anche se sono grato di poter affermare che quel liquido immondo che il proprietario chiama birra è più sui miei vestiti che dentro di me. A quanto pare la cameriera ne fa un uso abbondante, dato che è riuscita a rovesciarmene addosso una caraffa piena... un momento, hai sentito?». Raistlin aveva cambiato posizione in maniera infinitesimale per attenuare un improvviso e doloroso crampo alla gamba sinistra, e anche se non aveva prodotto praticamente nessun rumore l'uomo lo aveva sentito e aveva girato nella sua direzione la testa nascosta dal cappuccio, mentre un bagliore d'acciaio scintillava alla luce della luna. Raistlin rimase del tutto immobile senza neppure respirare, perché non voleva essere sorpreso a spiare sua sorella, che si sarebbe infuriata e che in passato non aveva mai avuto esitazioni a sfogare la propria ira con qualche schiaffo, mentre adesso avrebbe potuto fare anche di peggio. E se pure lei non avesse fatto nulla, se avesse deciso di perdonarlo, di certo quell'uomo con la voce simile ad acciaio ghiacciato non sarebbe stato altrettanto generoso. Nonostante il timore che gli contraeva il ventre già bistrattato, Raistlin si rese però conto che aveva paura di essere sorpreso non perché temesse di essere punito ma perché avrebbe perso l'opportunità di scoprire i segreti di Kitiara. Lei aveva già tentato una volta di attirarlo nel proprio mondo e di porlo sotto la propria influenza, e Raistlin era certo che ci avrebbe provato ancora. Poiché non desiderava asservirsi a nessuno, sapeva quindi che un giorno avrebbe dovuto opporsi ai desideri della sua prepotente sorella, e che allora avrebbe avuto bisogno di un'arma con cui contrastarla. «Gli orecchi ti stanno ingannando», affermò intanto Kitiara, dopo un istante di silenzio durante il quale aveva ascoltato con attenzione. «Ti dico che ho sentito qualcosa», insistette l'uomo. «In tal caso deve essersi trattato di un gatto perché nessuno viene qui a quest'ora di notte. Ora parliamo di affari». Raistlin vide la luce lunare riflettersi con un bagliore sull'elsa della spada di Kitiara, segno che lei aveva scostato di lato il mantello. Prendendo una custodia di cuoio che portava alla cintura, Kitiara la consegnò all'uomo.
«Mappe?» chiese questi, abbassando lo sguardo sulla custodia. «Guarda tu stesso», rispose Kitiara. L'uomo svitò l'estremità della custodia e tirò fuori parecchi fogli di carta che srotolò in parte sul coperchio della botte per studiarli alla luce della luna. «È tutto qui», affermò in tono compiaciuto Kitiara, indicando con un dito guantato, «più di quanto il tuo signore abbia chiesto. Le difese di Qualinesti sono delineate sulla mappa principale con il numero dei posti di guardia e degli uomini di stanza in ciascuno di essi, la frequenza del cambio delle guardie, il genere di armi che portano e così via. Ho percorso io stessa due volte tutto il confine di Qualinesti per raccogliere questi dati. Su un'altra mappa ho segnato i punti deboli delle loro difese e le possibili aree di penetrazione, e ho indicato le vie di accesso più facili dal nord». «Un lavoro eccellente», commentò l'uomo, mentre arrotolava i fogli e li riponeva con cura nella custodia, infilandola nello stivale. «Il mio signore sarà soddisfatto. Che altro hai appreso riguardo a Qualinesti? Ho sentito dire che adesso hai un amante mezzelfo che è nato a... ulp!». Kitiara aveva afferrato senza preavviso i lacci del cappuccio dell'uomo, imprimendo con mano esperta una torsione e traendo la vittima semisoffocata verso di sé. «Lascialo fuori da tutto questo!» ingiunse, in tono sommesso e letale. «Se pensi che mi abbasserei a dormire con un uomo per ottenere delle informazioni ti sbagli, amico mio, e il tuo potrebbe risultare uno sbaglio fatale se dovessi dire o fare qualcosa che destasse in lui il minimo sospetto». Un bagliore d'acciaio sotto la luce della luna indicò che Kitiara aveva impugnato con la mano libera un coltello. L'uomo abbassò lo sguardo sull'arma, fissò gli occhi di Kitiara che scintillavano più intensi dell'acciaio e sollevò le mani in un gesto di assenso e di deprecazione. «Mi dispiace, Kit. Non c'erano sottintesi». Kitiara lo lasciò andare e lui si massaggiò il collo nel punto in cui i lacci erano penetrati nella pelle. «Come hai fatto ad assentarti stanotte?» domandò. «Gli ho detto che avrei passato la serata con i miei fratelli. Adesso voglio il mio denaro». L'uomo infilò la mano sotto il mantello e tirò fuori una borsa che le mise in mano. Aprendola, Kitiara l'accostò alla luce e valutò la quantità di denaro che essa conteneva con una rapida occhiata, poi tirò fuori una grossa moneta,
la studiò e la infilò nel palmo del guanto prima di legarsi la borsa alla cintura con aria soddisfatta. «Da dove è giunto questo ne può arrivare dell'altro, se tu dovessi raccogliere ulteriori informazioni su Qualinesti e sugli elfi, informazioni in cui ti capitasse d'imbatterti» disse l'uomo. «Come ti posso contattare?» ridacchiò Kitiara, messa di buon umore dal denaro. «Lasciami un messaggio all'Abbeveratoio perché io mi fermo là ogni volta che passo da queste parti. Pensavo però che presto saresti tornata al nord». «Non credo che lo farò», dichiarò Kitiara, scrollando le spalle. «Per il momento sono contenta di restare qui, e poi devo pensare ai miei fratelli». «Uh-uh», grugnì l'uomo. «Stanno arrivando ad un'età in cui mi potrebbero essere di qualche utilità», continuò Kit, ignorandolo. «Li ho visti in giro per la città. Quello grosso ci potrebbe forse servire come soldato, anche se è goffo come un kobold e sembra essere anche altrettanto intelligente. Quanto all'altro, l'aspirante mago, corre voce che abbia un notevole talento, e il mio signore sarebbe lieto se volesse unirsi alle nostre file». «Le voci si sbagliano! Riesce a fare trucchi come sfilare le monete dal naso della gente, ma niente di più. In ogni caso vedrò cosa posso fare», promise Kitiara, protendendo la mano. L'uomo la strinse ma abbandonò subito la presa. «Lord Ariakus sarebbe anche contento se tu ti unissi a noi, Kit, su base permanente. Ha detto che saresti un ottimo comandante». Ritratta la mano dalla stretta dell'uomo, Kit la posò sull'elsa della spada. «Non sapevo che sua signoria ed io fossimo in rapporti così intimi», ribatté in tono sarcastico. «Non l'ho mai incontrato». «Lui però ti conosce, Kit, di vista e di fama. Gli hai già fatto una notevole impressione e questo lo impressionerà ancora di più», ribatté l'uomo, indicando le mappe. «Lui è disposto ad offrirti un posto nel suo nuovo esercito, e si tratta di una grande opportunità, perché un giorno lui governerà su tutto Ansalon e poi su tutto Krynn». «Davvero?», commentò Kitiara, inarcando un sopracciglio e mostrandosi impressionata. «Non pensa in piccolo, vero?». «Perché dovrebbe, dato che ha potenti alleati? A proposito, cosa pensi dei draghi?».
«Dei draghi?» ripeté Kitiara, all'apparenza divertita. «Credo che siano adatti a terrorizzare i bambini piccoli, ma niente di più. Cosa intendevi, chiedendomi che penso di loro?». «Nulla di particolare. Non ne avresti paura, vero?». «Io non temo nulla in questo mondo o nel prossimo», dichiarò Kitiara, con una sfumatura di minaccia nella voce. «C'è forse qualcuno che sostiene il contrario?». «No, Kit, nessuno», garantì l'uomo. «Il mio signore ha sentito parlare del tuo coraggio, ed è per questo che ti vuole con sé». «Qui sto bene, almeno per il momento», ripeté Kitiara, respingendo l'offerta con una scrollata di spalle. «Fa' come preferisci. L'offerta... per Takhisis, hai sentito?». Uno sgradevole formicolio si era diffuso lungo le gambe di Raistlin, che aveva cercato di muovere il piede e di agitare le dita senza fare rumore. Purtroppo, la trave su cui si trovava non era fissata bene e aveva scricchiolato quando lui si era mosso. «Una spia!» esclamò intanto l'uomo, con voce fredda, poi balzò in avanti con un agitarsi del mantello nero, si parò davanti a Raistlin e lo afferrò per il mantello, mentre lui sentiva le parole della magia abbandonargli la mente su ali generate dal terrore. «Questo è ciò che facciamo alle spie a Neraka. Prima tagliamo loro gli orecchi...» dichiarò intanto l'uomo, trascinando Raistlin fuori dal suo nascondiglio dietro l'albero e spingendolo in ginocchio per poi strappargli il cappuccio del mantello e afferrargli i capelli in modo da sollevargli la testa. L'acciaio di una spada scintillò rosso sotto la luce della luna. «Fermati, idiota!» esclamò Kitiara, colpendo con il braccio la mano dell'uomo e mandando il coltello a cadere sulle travi. Lui le si rivoltò contro con aria furente e in preda alla sete di sangue, ma il contatto della punta della spada di Kitiara con la sua gola lo calmò subito. «Perché mi hai fermato?» domandò. «Non intendevo ucciderlo... non ancora, comunque, perché prima dovrà parlare in quanto ho bisogno di sapere chi lo sta pagando per spiarmi». «Non lo sta pagando nessuno», replicò in tono sommesso Kitiara, «e se sta spiando qualcuno, si tratta di me». «Di te?» ripeté l'uomo, scettico. «È mio fratello», spiegò Kitiara. Curvo sulle ginocchia, a testa china, Raistlin si sentì pervadere di vergo-
gna e d'imbarazzo, in quanto avrebbe preferito morire piuttosto che affrontare l'ira e soprattutto il disprezzo di sua sorella. «È sempre stato un piccolo ficcanaso», continuò intanto Kitiara, «tanto che noi lo chiamiamo l'Astuto. Avanti, alzati!» ingiunse, sferrando a Raistlin uno schiaffo così forte che lui sentì in bocca il sapore del sangue e avvertì una fitta di dolore al labbro. Consapevole di essere dalla parte del torto e furente con se stesso per aver permesso a Kitiara di porsi in vantaggio rispetto a lui, si affrettò ad obbedire, ma con suo stupore dopo averlo percosso lei gli passò un braccio intorno al collo e lo strinse a sé. «Quello era per aver fatto il cattivo», dichiarò in tono scherzoso. «Adesso che sei qui, Raist, lascia che ti presenti un mio amico. Si chiama Balif, e gli dispiace di averti spaventato in quel modo, ma ha creduto che fossi un ladro. È vero che ti dispiace, Balif?». «Già, mi dispiace», annuì l'uomo, scrutando in tralice Raistlin. «E del resto tu ti stavi comportando come un ladro, andando in giro in quel modo nel cuore della notte. A proposito, cosa ci fai fuori a quest'ora? Dove sei stato?». «Ero con Meggin la Pazza», mentì Raistlin, pulendosi il labbro dal sangue. «Ha trovato una volpe morta e l'abbiamo dissezionata». «Quella donna è una strega e dovresti starle alla larga», dichiarò Kit, arricciando il naso. «Allora, fratellino, cosa pensi di ciò di cui io e Balif stavamo discutendo?» chiese quindi con disinvoltura. Raistlin si sforzò di apparire stupido, copiando l'espressione vacua e sconcertata del suo gemello. «Nulla», rispose, scrollando le spalle. «Non ho sentito molto. Stavo passando di qui e...». «Bugiardo», ringhiò l'uomo. «Kit, ho sentito un rumore quando abbiamo cominciato a parlare, e sono certo che lui è rimasto qui per tutto il tempo». «Invece no, signore», insistette Raistlin, in tono conciliante. «Vi stavo oltrepassando quando ti ho sentito parlare di draghi e mi sono fermato per ascoltare... non ho potuto farne a meno. Tu mi conosci, sorella, sai che sono sempre stato interessato alle storie del passato, soprattutto a quelle inerenti ai draghi». «Questo è vero», confermò Kitiara. «Lui ha sempre il naso in qualche libro e ti garantisco che è innocuo, Balif, quindi smettila di preoccuparti. Ora va' a casa, Raist. Non dirò a nessuno che sei stato da quella strega». «Ed io», ribatté Raistlin in tono sommesso, incontrando il suo sguardo,
«non dirò a Tanis che sei uscita di notte con un altro uomo». Kitiara sorrise: a volte, lei e Raistlin si capivano alla perfezione. «Avanti, muoviti!» ordinò, assestandogli una spinta. Con i muscoli rigidi e doloranti, nauseato dal sapore amaro che il sangue e la paura gli avevano lasciato in bocca, Raistlin si avviò lungo il ponte, poi sentì un rumore di passi e si guardò alle spalle, timoroso che l'uomo si fosse reso conto che lui aveva mentito e lo stesse inseguendo. Balif però stava scendendo le scale con il mantello che vorticava intorno alla sua figura. Tirata fuori la moneta dal guanto, Kitiara la lanciò in aria e la riafferrò al volo con abilità, poi si appoggiò alla ringhiera. «Mi terrò in contatto!» avvertì. Raistlin sentì la breve e fredda risata dell'uomo, poi i suoi passi continuarono giù per le scale e cessarono di far rumore quando lui raggiunse il suolo. Kitiara intanto rimase ferma accanto alla botte con la testa bassa e le braccia conserte sul petto, immersa in profonde riflessioni: dopo un momento però si scosse come per allontanare dubbi e interrogativi, sollevò il cappuccio per nascondere il volto e si allontanò con passo deciso. Raistlin tornò a casa facendo un ampio giro che gli fece fare più strada ma gli evitò di incontrare ancora la sorella; mentre camminava rifletté sulla conversazione che aveva sentito nel tentativo di capire cosa significasse, ma era troppo intontito dalla stanchezza per darle un senso compiuto in quanto il suo corpo era prosciugato di ogni energia e lui riuscì a stento a costringersi a mettere un piede davanti all'altro per procedere stancamente verso casa. Dove avrebbe trovato Caramon sveglio, preoccupato e pieno di domande. Con un cupo sorriso, Raistlin decise che avrebbe semplicemente detto di aver trascorso la serata con Kitiara. CAPITOLO SESTO Quell'estate i gemelli compirono vent'anni. Il Giorno del Dono della Vita avrebbe dovuto essere una celebrazione gioiosa, quindi Kitiara offrì loro una festa e invitò i loro amici alla Locanda dell'Ultima Casa dove gli invitati scoprirono di poter mangiare e bere birra fino al massimo della loro capienza, il che nel caso del nano signifi-
cava una quantità allarmante di birra. Tutti cominciarono ben presto a divertirsi, tranne gli ospiti d'onore. Afflitto da un perdurante cattivo umore fin da quella primavera, Raistlin si mostrava più amaro e sarcastico del solito soprattutto nei confronti del fratello, e la celebrazione del loro compleanno parve soltanto accentuare il suo umore nero in quanto richiamò inevitabilmente alla memoria il ricordo dei genitori morti. Caramon dal canto suo era depresso perché aveva appena saputo che Miranda, la ragazza che lui attualmente adorava, aveva improvvisamente sposato il figlio del mugnaio. La fretta sconveniente con cui era stato celebrato il matrimonio aveva dato adito a supposizioni del genere più scandaloso. La delusione di Caramon al riguardo si era leggermente attenuata quando lui aveva notato che la notizia delle nozze di Miranda aveva fatto affiorare sul volto di Raistlin un sorriso che per quanto cupo e sgradevole, certo non il genere di sorriso che scaldasse il cuore, era comunque pur sempre un sorriso; Caramon aveva interpretato la cosa come un buon segno e si era augurato con fervore che la sua vita familiare attualmente tutt'altro che allegra potesse diventare più felice. La festa del Giorno del Dono della Vita si protrasse fino a tarda notte, e a poco a poco il calore e il buon umore degli altri commensali finirono per sgelare perfino Raistlin. Dopo tutto, questa era la prima festa di compleanno dei suoi fratelli a cui Kitiara avesse partecipato da quando loro erano piccoli, quasi troppo piccoli per ricordare, in quanto gli ultimi mesi erano stati il tempo più lungo che lei avesse mai trascorso a Solace da quando era ragazza. «Per essere una città così retrograda non è poi noiosa come la ricordavo», aveva replicato lei, in risposta ad una domanda sarcastica di Raistlin, «e comunque non devo andare da nessuna parte almeno per un po' e qui mi sto divertendo, fratellino». Quella notte Kitiara era di umore splendido, e così pure Tanis Mezzelfo. I due sedevano l'uno accanto all'altra e la loro reciproca attrazione era evidente a tutti a causa del modo in cui si fissavano a vicenda con occhi pieni di luce e di calore e s'incitavano reciprocamente a raccontare le loro storie preferite. Con sorrisi che solo loro capivano e occhiate furtive, ognuno dei due ricordava all'altro qualche scherzo da cui gli altri erano esclusi. «Stanotte offro io», dichiarò Kit, quando venne il momento di saldare il conto. «Questo è per tutte le consumazioni». E gettò sul tavolo tre grosse monete. Con un'espressione raggiante sul
volto grassoccio, Otik si protese per prenderle, ma Raistlin insinuò con destrezza la mano sotto la sua e afferrò una delle monete, accostandola alla luce. «Monete d'acciaio, coniate a Sanction», osservò, studiandole. «Si direbbero coniate di fresco». «Sanction», ripeté Tanis, accigliandosi. «Quella città ha la reputazione di essere un luogo malvagio. Come mai hai delle monete che provengono da Sanction, Kit?». «Già, dove hai trovato monete così interessanti, sorella?» aggiunse Raistlin. «Guarda questa... porta stampata l'immagine di un drago a cinque teste». «È un'effigie malvagia», dichiarò con aria grave Tanis. «È l'antico simbolo della Regina delle Tenebre». «Non essere stupido! Quella è una moneta, non un manufatto malvagio! L'ho vinta giocando a dadi con un marinaio», replicò Kitiara, con il suo consueto sorriso in tralice che esprimeva assoluta innocenza. «Dicono che chi è fortunato ai dadi sia sfortunato in amore, ma io ho dimostrato che non è vero, perché quello stesso giorno ho incontrato te, tesoro», aggiunse, protendendosi a baciare Tanis su una guancia. Il suo tono era disinvolto e noncurante, il suo sorriso sincero, e Raistlin non avrebbe avuto nessun motivo di dubitare di lei se non avesse visto quella moneta, o una molto simile ad essa, scintillare sotto la luce di Lunitari appena un mese prima. Che il mezzelfo avesse creduto alle parole di Kitiara era evidente, ma del resto Tanis era così invaghito di lei che le avrebbe creduto anche se avesse sostenuto di essere andata sulla luna a bordo di una nave degli gnomi, arrivando a chiederle di raccontargli il viaggio nei particolari. Neppure gli altri mostrarono di mettere in dubbio la sua spiegazione. Flint stava contemplando i suoi amici con un'aria paternalistica che andava degenerando rapidamente ad ogni boccale di birra da lui bevuto e Tasslehoff stava girovagando felicemente per la locanda con estremo sgomento degli altri clienti che i membri del gruppo intervenivano a turno a salvare dal kender, propenso dopo due pinte di birra ad elargire a chiunque le sue storie preferite sul conto dello zio Trapspringer. Flint e Tanis provvidero inoltre a restituire ai clienti le cose che erano state loro sottratte o a indennizzarli qualora gli oggetti personali «prestati, dimenticati o abbandonati» fossero andati irrimediabilmente perduti nelle sacche del kender. Quanto a Caramon, era impegnato ad osservare il suo gemello con ansia
quasi pietosa, desiderando disperatamente che Raistlin si divertisse, e si sentì quindi al settimo cielo quando infine il suo cupo fratello si decise a distogliere lo sguardo dall'unico bicchiere di vino che avesse ordinato e che non aveva ancora toccato e si rivolse ai compagni. «A proposito di draghi», disse, «attualmente sto portando avanti un corso di studi sulle bestie dell'antichità. Qualcuno di voi conosce storie che parlino di draghi?». «Io ne conosco una», rispose Sturm, che dopo aver bevuto due boccali di sidro per fare onore ai festeggiati era adesso insolitamente loquace, e procedette a narrare loro la storia del cavaliere solamnico Huma, che si era innamorato di un drago d'argento quando questo aveva assunto l'aspetto di una donna umana. La storia venne accolta con interesse e provocò una serie di supposizioni. Le antiche storie parlavano abbondantemente dei draghi, che pareva fossero vissuti un tempo su Krynn, ma quelle storie erano vere? I draghi esistevano davvero, e se esistevano che ne era stato di loro? «Io vivo in questo mondo da molto tempo», affermò Tanis, «e non ho mai visto draghi di sorta, quindi sono convinto che essi esistano soltanto nei canti dei menestrelli». «Se neghi l'esistenza dei draghi neghi anche quella di Huma Dragonbane» obiettò Sturm, accigliandosi. «È stato lui a scacciare i draghi dal mondo, in quanto quelli buoni hanno acconsentito ad andarsene insieme con quelli malvagi per non alterare l'equilibrio delle cose. È per questo che non hai mai visto dei draghi». «Una volta lo zio Trapspringer ha incontrato un drago...» cominciò Tasslehoff, in tono eccitato, ma gli altri non avevano nessuna intenzione di sentire un'altra delle sue storie e Flint lo prevenne togliendogli di sotto lo sgabello con un calcio e mandandolo a cadere per terra insieme con il suo boccale di birra. «I draghi sono storie da kender e niente altro», dichiarò il nano, in tono disgustato. «Anche i nani raccontano storie sui draghi», obiettò Tas, per nulla sconcertato, poi si rialzò da terra, guardò con aria triste il proprio boccale vuoto e andò a chiedere a Otik di tornare a riempirglielo. «I nani raccontano le storie migliori sui draghi», precisò intanto Flint, «il che è soltanto naturale se si considera che un tempo noi contendevamo a quelle bestie il nostro spazio vitale, dato che i draghi sono creature di buon senso e preferiscono vivere sotto terra. Capitava quindi spesso che un tha-
ne dei nani scegliesse una comoda e asciutta montagna come residenza per il suo popolo soltanto per scoprire che un drago aveva avuto la stessa idea». «Non è possibile che i draghi siano fasulli nelle storie dei kender e vere in quelle dei nani, mio vecchio amico!» rise Tanis. «E perché no?» ribatté Flint, in tono iroso. «Hai mai conosciuto un kender che dicesse una sola parola di vero? E hai mai conosciuto un nano che mentisse?». Il nano si mostrò quindi estremamente compiaciuto di quella sua argomentazione, che gli pareva del tutto coerente sotto l'effetto della birra che aveva ingurgitato. «Tu cosa ne dici, Raist?» chiese Caramon, notando che suo fratello pareva interessato a quell'argomento come non lo era stato a tutti quelli trattati in precedenza. «Come ho affermato, mi è capitato di trovare riferimenti ai draghi nei miei libri», rispose Raistlin. «In essi infatti si accenna a incantesimi e manufatti magici connessi ai draghi. Ammetto che si tratta di libri antichi, ma perché mai si sarebbero dovuti creare incantesimi e manufatti del genere se quelle bestie fossero puramente mitologiche?». «Proprio così!» esclamò Sturm, calando con forza il boccale sul tavolo ed elargendo a Raistlin un'occhiata di approvazione, cosa rara da parte sua. «La tua affermazione è del tutto logica!». «Raist conosce una storia che riguarda Huma», intervenne Caramon, contento di vedere i due che si comportavano in modo quasi amichevole. «Avanti, Raist, raccontala». Quando sentì che la storia aveva a che fare con i maghi, Sturm tornò ad accigliarsi e a tormentarsi i baffi, ma il suo cipiglio si attenuò progressivamente con il procedere della narrazione, e alla fine lui si concesse un riluttante e brusco cenno di approvazione. «Il mago ha dimostrato di avere un grande coraggio... per uno della sua specie», commentò. Caramon sussultò, temendo che suo fratello si offendesse per quel commento e partisse al contrattacco, ma ora che aveva concluso la storia Raistlin stava osservando Kitiara e non pareva aver neppure sentito le parole di Sturm. Rilassandosi, Caramon trangugiò la sua birra, ne chiese un'altra ed emise uno strillo di dolore quando una ragazzina dagli accesi capelli rossi gli balzò addosso da dietro e s'inerpicò come uno scoiattolo su per la sua schiena.
«Ouch! Dannazione, Tika!» esclamò Caramon, sforzandosi di liberarsi della bambina. «Non dovresti essere a letto?» chiese quindi, fissandola con finta ferocia e facendola ridacchiare. «Dov'è Waylan, quel tuo padre buono a nulla?». «Non lo so», rispose con indifferenza la ragazzina. «È andato da qualche parte come fa sempre ed io devo rimanere con Otik fino al suo ritorno». Nel frattempo il locandiere si affrettò ad accorrere per scusarsi e per rimproverare la bambina. «Mi dispiace, Caramon», disse, e al tempo stesso intimò: «Senti, piccola monella, sai che non devi disturbare i clienti!». E afferrò la bambina per un braccio, portandola via con sé. «Arrivederci, Caramon!» gridò Tika, agitando con aria divertita una mano. «Che brutta ragazzina», borbottò Caramon, tornando a concentrarsi sulla sua birra. «Avete visto quante lentiggini ha?». «Tu che ne pensi, Kit?» chiese Raistlin, che aveva approfittato della distrazione per protendersi verso la sorella, e sfoggiò un accenno di sorriso. «Riguardo a cosa?» ribatté lei, intenta a seguire con lo sguardo Tanis, diretto al bancone per prendere altre due birre. «Riguardo ai draghi», rispose Raistlin. Kit gli scoccò un'occhiata penetrante che lui sostenne con aria di blanda innocenza, poi scrollò le spalle e scoppiò in una risata forzata. «Io non penso affatto ai draghi», rispose. «Perché dovrei?». «È solo che ho visto cambiare la tua espressione quando ho inizialmente sollevato l'argomento, come se avessi avuto intenzione di dire qualcosa ma poi ci avessi ripensato. Tu hai viaggiato molto, e mi piacerebbe conoscere il tuo parere» replicò con fare rispettoso Raistlin. «Puah!» esclamò Kitiara in tono brusco, all'apparenza contrariata. «Quello che hai visto era una fitta di mal di pancia: credo che la cacciagione che Otik ci ha servito questa sera fosse andata a male. Sei stato saggio a non mangiarla. Per stasera ne ho abbastanza di discorsi di Cavalieri di Solamnia e di draghi», aggiunse quando Tanis tornò al tavolo. «È stupido discutere di qualcosa di cui nessuno può provare l'esistenza, quindi cambiamo argomento». «Benissimo», approvò Raistlin. «Allora parliamo degli dèi». «Gli dèi! Questo è anche peggio», gemette Kitiara. «Immagino che adesso ti convertirai a Belzor, fratellino, e comincerai a fare proseliti. Forza, Tanis, andiamo via prima che si lanci in una predica!».
«Non sto parlando di Belzor», dichiarò però Raistlin, con una nota di asprezza nella voce, «sto parlando degli antichi dèi, quelli che venivano adorati prima del Cataclisma. Quegli dèi venivano posti sullo stesso piano dei draghi e si diceva che alcuni di essi ne potessero assumere la forma... per esempio la Regina Takhisis, come indica il suo simbolo sulla moneta. A me sembra che credere nei draghi debba necessariamente implicare la fede in queste divinità, e viceversa». A quel punto tutti i presenti, con la sola eccezione di Kitiara che levò gli occhi al cielo e sferrò un calcio a Tanis sotto la tavola, parvero avere un parere da dare. Sturm dichiarò di aver riflettuto parecchio dopo la loro ultima conversazione sull'argomento e di aver parlato con sua madre a proposito di Paladine. Lei aveva affermato che i Cavalieri credevano ancora nel dio della luce e che stavano aspettando che lui tornasse a casa e si scusasse per essere rimasto lontano tanto a lungo, nel qual caso i Cavalieri sarebbero stati disposti a perdonarlo e a dimenticare le sue passate manchevolezze. Secondo Tanis, invece, gli elfi erano convinti che gli dèi, tutti gli dèi, avessero lasciato il mondo a causa della malvagità degli umani e che i veri dèi sarebbero tornati quando infine gli umani fossero stati cancellati dal mondo... cosa che doveva inevitabilmente succedere dal momento che erano una razza poco longeva e notoriamente bellicosa. Flint invece affermò di essere giunto a ritenere dopo lunghe riflessioni che Reorx fosse stato fuorviato dalle menzogne dei nani delle montagne e fosse ora rinchiuso dentro Thorbardin, all'oscuro del fatto che i nani delle colline avevano bisogno del suo aiuto. «È tipico di un nano delle montagne far finta che noi non esistiamo, perché vorrebbero che noi precipitassimo dalla faccia di Krynn in quanto per loro siamo una fonte di vergogna e d'imbarazzo», concluse. «Ma potreste davvero precipitare dalla faccia di Krynn?» domandò con curiosità Tas. «Come potreste fare? A me sembra di avere i piedi saldamente piantati sul terreno e non credo che ne potrei cadere giù. E se mi mettessi a testa in giù?». «Se su questo mondo ci fosse almeno un vero dio i kender ne sarebbero già precipitati tutti», borbottò Flint. «Guardate quel pomolo di porta! Adesso si è messo a testa in giù!». Sarebbe stato più esatto dire che Tasslehoff stava cercando di mettersi a testa in giù, dato che aveva puntellato la testa sul pavimento e stava ora scalciando con le gambe nel tentativo di levare in aria i piedi, senza peral-
tro avere molto successo. Quando infine riuscì a stare in equilibrio sulla testa, il risultato fu che si rovesciò quasi subito dall'altra parte, ma la cosa non parve abbatterlo minimamente e lui si accinse a ritentare, questa volta addossandosi ad una parete. Fortunatamente per i suoi compagni e per il resto della clientela, quell'attività concentrò la sua attenzione e le sue energie per un tempo piuttosto lungo. «Se gli antichi dèi sono ancora in circolazione da qualche parte», affermò intanto Tanis, posando una mano su quella di Kit per incitarla ad essere paziente e a fermarsi ancora un poco, «allora ci dovrebbero essere dei segni della loro presenza. Si dice che nei tempi antichi i chierici degli dèi avessero il potere di guarire malattie e ferite, che potessero perfino riportare in vita i morti. I chierici sono però scomparsi subito dopo il Cataclisma e non sono più riapparsi, almeno per quanto risulta agli elfi». «I chierici di Reorx sono vivi, di questo sono certo», dichiarò Flint in tono amaro. «Essi sono dentro Thorbardin e stanno compiendo ogni sorta di miracoli nelle sale dei nostri antenati, le stesse che per diritto dovrebbero appartenere anche ai nani delle colline!» esclamò quindi, calando con violenza il boccale sul tavolo. «Suvvia, vecchio amico», lo ammonì Tanis, in tono pacato. «Ricordi quando abbiamo incontrato quel nano delle montagne alla fiera di Haven, lo scorso autunno? Lui ha sostenuto che erano i nani delle colline ad avere il controllo del potere dei chierici e a rifiutare di condividerlo con i loro cugini delle montagne». «È ovvio che lo abbia detto!» tuonò Flint. «Lo ha fatto per placare i rimorsi di coscienza!». «Raccontaci una storia su Reorx», suggerì Caramon, fungendo come sempre da pacificatore, ma il nano era troppo furente e oppose un rifiuto. «Alcuni dei seguaci di questi nuovi dèi sostengono di avere il potere degli antichi chierici», osservò intanto Tanis, per dare a Flint il tempo di placarsi. «Per esempio, i chierici di Belzor. L'ultima volta che sono stato ad Haven hanno fatto una grande dimostrazione, inducendo gli storpi a camminare e i muti a parlare. Cos'hai detto, Kit?». In realtà Kitiara stava sbadigliando e non si preoccupò di nascondere la cosa. «Chi vuole gli dèi o ne ha bisogno?» rise lei con noncuranza, spingendosi indietro i capelli ricciuti. «Io no di certo. Nessuna forza divina controlla la mia vita e a me piace così perché sono io a scegliere il mio destino. Non sono schiava di nessun uomo, quindi perché dovrei essere schiava di un
dio e permettere a qualche prete o a qualche chierico di dirmi come devo vivere?». Quando ebbe finito di parlare Tanis applaudì e levò il boccale verso di lei in segno di omaggio. Flint per contro appariva accigliato e taciturno, e ogni volta che il suo sguardo si posava su Tanis la sua espressione accigliata assumeva anche una sfumatura di preoccupazione. Sturm invece stava fissando il fuoco con aria rapita e con gli occhi scuri pervasi di un bagliore insolito, come se stesse vedendo i Cavalieri di Paladine andare nuovamente in battaglia nel nome del loro dio; accanto a lui, Caramon si era assopito già da qualche tempo con la testa sul tavolo e le mani ancora strette intorno al boccale di birra, russando leggermente. Quanto a Tasslehoff, era infine riuscito a restare ritto sulla testa e stava chiedendo con voce acuta che tutti lo guardassero... subito, prima che lui precipitasse dalla faccia di Krynn. «Siamo rimasti qui abbastanza a lungo», sussurrò Kitiara a Tanis. «Ci sono una quantità di cose più interessanti da fare che stare seduti a bere». E gli prese la mano, portandosela alle labbra e baciandola sulle nocche. Tanis aveva praticamente il cuore che gli straripava dagli occhi, l'amore e il desiderio che nutriva nei confronti di Kitiara erano evidenti per chiunque lo guardasse... chiunque tranne la stessa Kitiara che adesso gli stava mordicchiando scherzosamente le nocche che poco prima stava baciando. «Presto dovrò lasciare Solace, Kit», mormorò Tanis, «perché Flint si metterà in viaggio entro pochi giorni». «Ragione di più per non sprecare il tempo che ci rimane», ribatté lei, alzandosi in piedi. «Buona notte, fratellini, e buon Giorno del Dono della Vita», aggiunse, senza girarsi a guardare gli interessati. «Anch'io vi faccio i miei migliori auguri», disse Tanis, rivolgendo a Raistlin un caldo sorriso e battendo un colpetto sulla spalla dell'addormentato Caramon. Passandogli un braccio intorno alla vita, Kitiara si appoggiò quindi a lui, che le cinse con affetto le spalle; camminando fianco a fianco, così vicini da inciampare quasi l'uno nei piedi dell'altra, i due lasciarono la locanda. «Altra birra», ordinò allora Flint in tono rude, scuotendo il capo con un sospiro. «Mi hai visto, Flint? Mi hai visto?» domandò Tasslehoff, paonazzo in volto, tornando al tavolo. «Sono rimasto in equilibrio sulla testa e non sono precipitato dalla faccia di Krynn! La mia testa è rimasta appoggiata al pavimento proprio come fanno i piedi, quindi suppongo che non si debba
toccare terra con nessuna parte del corpo per poter precipitare. Pensi che se saltassi dal tetto della locanda...?». «Sì, sì, fa' pure», borbottò Flint, che stava pensando ad altro. Immediatamente il kender si allontanò di corsa. «Vado a fermarlo», si offrì Sturm, lanciandosi al suo inseguimento, e intanto Raistlin assestò una gomitata nelle costole del fratello. «Uh? Cosa?» grugnì Caramon, sollevandosi a sedere e sbirciandosi intorno con occhi assonnati e vacui, emergendo da un sogno che riguardava Miranda. «Un brindisi, fratello mio», propose Raistlin, sollevando il bicchiere ancora pieno a metà di vino. «All'amore». «All'amore», borbottò Caramon, versando buona parte della sua birra sul tavolo. CAPITOLO SETTIMO Contrariamente a quanto avevano in programma, quell'estate Flint e Tanis non lasciarono Solace. Una mattina all'alba, Caramon era già uscito per andare a lavorare e Raistlin stava radunando i suoi libri per prepararsi ad andare a scuola quando bussarono alla porta e contemporaneamente il battente si spalancò e Tasslehoff Burrfoot fece irruzione in casa. Flint aveva cercato di insegnare al kender che bussare alla porta era in genere considerato fra i popoli civili un modo per annunciare la propria presenza e chiedere di poter entrare, precisando che bisognava aspettare con pazienza alla porta fino a quando chi abitava in casa rispondeva venendo ad aprire la porta. Tasslehoff, però, semplicemente non era in grado di capire quel concetto perché bussare alla porta non era una cosa che i kender fossero soliti fare nelle loro terre, dove generalmente la porta di casa era spalancata e veniva chiusa solo in caso di maltempo. Se un kender in visita entrava in una casa e scopriva che gli occupanti erano impegnati a fare qualcosa a cui lui non era particolarmente interessato, poteva restare seduto in salotto ad aspettare che gli abitanti della casa si facessero vedere oppure poteva andarsene tranquillamente... dopo aver ovviamente prelevato dalla dimora ogni oggetto che gli sembrava interessante. Alcune persone poco informate di Ansalon sostenevano che quest'usanza
dipendeva dal fatto che i kender non avevano serrature alla porta ma questo non era vero perché la porta di ogni abitazione kender aveva delle serrature, in genere numerose e di svariati tipi. Esse venivano usate soltanto quando era in corso una festa, perché in quelle occasioni non si bussava alla porta ma gli ospiti dovevano riuscire a forzare le serrature per poter entrare, in quanto quella era la principale forma di divertimento della serata. Finora Flint era almeno riuscito ad abituare Tasslehoff a bussare alla porta, cosa che lui di solito faceva mentre già apriva il battente oppure dopo averlo spalancato, in modo da annunciare adeguatamente la sua presenza qualora essa fosse passata inosservata. In questo caso particolare, Raistlin stava comunque già aspettando l'arrivo del kender perché lo aveva sentito strillare con voce affannosa il suo nome quando ancora si trovava a sei porte di distanza e aveva anche sentito i vicini reagire chiedendo con voce irosa a Tasslehoff se sapeva che ora era e lui rispondere fornendo loro l'ora esatta. «Sono stati loro a chiedermelo!» dichiarò Tasslehoff in tono indignato, nell'entrare in casa. «Se non volevano saperlo perché stavano gridando in quel modo? Ti garantisco che a volte non capisco gli umani», concluse con un sospiro, sedendosi al tavolo di cucina. «Buon giorno» lo salutò Raistlin, togliendogli di mano la teiera. «Sono in ritardo per la scuola... volevi qualcosa da me?» chiese quindi in tono severo, vedendo Tasslehoff allungare le mani verso il pane e il forchettone che si usava per tostare le fette sul fuoco. «Oh, sì!» esclamò il kender, lasciando cadere fragorosamente il forchettone e balzando in piedi. «Me n'ero quasi dimenticato ed è un bene che tu me lo abbia fatto ricordare, Raistlin! Sono terribilmente preoccupato... no, grazie, non posso mangiare nulla perché sono troppo sconvolto... ecco, forse un biscotto mi andrebbe. Hai della marmellata? Io...» «Cosa volevi?» insistette Raistlin. «Si tratta di Flint», spiegò il kender, mangiando la marmellata direttamente dal vaso con l'ausilio di un cucchiaio. «Non riesce a stare in piedi e neppure a sdraiarsi o a sedersi. È in condizioni davvero brutte e sono molto preoccupato per lui. Davvero preoccupato». Che il kender fosse sconvolto risultò palese dal fatto che allontanò da sé il vaso anche se conteneva ancora un po' di marmellata; naturalmente dopo si mise in tasca il cucchiaio che aveva usato, ma questo era logico e prevedibile. Recuperando il cucchiaio, Raistlin chiese ulteriori delucidazioni sui sin-
tomi manifestati da Flint. «È successo questa mattina», replicò il kender. «Flint si è alzato dal letto ed io l'ho sentito lanciare un urlo, cosa che di solito fa la mattina ma in genere dopo che io sono entrato nella sua stanza per dargli il buon giorno quando lui non è ancora pronto a cominciare la giornata. Questa volta io però non ero nella stanza e lui ha comunque urlato, quindi sono andato a vedere cosa stava succedendo e l'ho trovato piegato in due come un elfo esposto ad un vento violento. Dapprima ho pensato che stesse cercando qualcosa per terra e mi sono avvicinato per guardare, ma poi ho scoperto che non stava cercando nulla e che non stava guardando il pavimento perché volesse farlo ma perché non poteva fare niente altro». «"Sono bloccato in questa posizione, stupido kender!" ha detto, esprimendosi in modo molto preciso dato che io ero instupidito dalla preoccupazione. A quel punto gli ho chiesto cosa fosse successo e lui ha risposto: "Mi sono chinato per allacciarmi gli stivali e la mia schiena ha ceduto". Mi sono allora offerto di aiutarlo a raddrizzarsi, ma lui ha minacciato di colpirmi con l'attizzatoio se avessi cercato di avvicinarmi... una cosa che peraltro non mi è mai successa prima... ed io ho deciso che picchiarmi non gli sarebbe servito a molto e che era meglio che venissi da te per vedere se ci potevi dare qualche suggerimento». Quando finì di parlare Tasslehoff fissò Raistlin con occhi pieni di ansiosa aspettativa, notando che il giovane aveva posato i libri e stava frugando fra i vasetti che contenevano gli unguenti e le pozioni che lui aveva ricavato dal suo orto di erbe medicinali. «Sai cos'ha Flint che non va?» chiese infine il kender. «Prima d'ora ha mai avuto dolori alla schiena?» ribatté Raistlin. «Oh, sì», rispose allegramente Tas. «Sostiene che la schiena gli duole da quando Caramon ha cercato di annegarlo sulla barca... la schiena e la gamba sinistra». «Capisco... è proprio come pensavo. Mi pare che Flint soffra di un deflusso di catarro», replicò Raistlin. «Un deflusso di catarro», ripeté Tas, scandendo le parole e assaporandole con palese meraviglia. «Davvero splendido... è contagioso?» chiese quindi in tono speranzoso. «No, non è contagioso. Si tratta di un'infiammazione delle articolazioni nota anche come lombaggine. Tuttavia», continuò Raistlin, accigliandosi, «il dolore alla gamba sinistra potrebbe indicare qualcosa di più grave. Avevo intenzione di darti un po' di olio di gaultheria con cui fargli dei mas-
saggi nell'area dolorante ma comincio a pensare che sia meglio che venga a dargli un'occhiata io stesso». «Flint, hai un influsso di carota!» annunciò in tono eccitato Tasslehoff, oltrepassando a precipizio la porta che non si era preso la briga di chiudere quando era uscito e che il nano, nella sua infelice situazione, non era riuscito a raggiungere. Flint non si era praticamente mosso da dove il kender lo aveva lasciato ed era ancora piegato quasi a metà, con la barba che sfiorava il pavimento; qualsiasi tentativo di raddrizzarsi gli faceva salire stille di sudore alla fronte e gemiti di agonia alle labbra, i suoi stivali erano tuttora slacciati e lui passava il tempo alternando gemiti a imprecazioni. «Carota?» strillò il nano. «Cosa c'entrano le carote?». «Catarro», si affrettò a chiarire Raistlin. «È un'infiammazione delle articolazioni causata dalla prolungata esposizione al freddo e all'umidità». «Lo sapevo, è colpa di quella dannata barca!» commentò Flint, in tono di amaro trionfo. «Ribadisco che non metterò mai più piede su uno di quei dannati arnesi finché avrò vita, lo giuro su Reorx!». E cercò di battere a terra un piede per confermare il proprio voto secondo le usanze dei nani, ma il movimento lo indusse a lanciare un grido e a serrarsi la gamba sinistra. «Quest'estate devo andare in giro a vendere le mie merci, ma come posso viaggiare in questo stato?» si lamentò in tono irritato. «Tu non andrai da nessuna parte tranne che a letto», ribatté Raistlin, «e ci resterai fino a quando i muscoli non si saranno rilassati, perché sono tutti contratti. Quest'olio ti darà sollievo dal dolore. Tas, ho bisogno del tuo aiuto, sollevagli la camicia», ordinò quindi. «No! State lontani! Non mi toccate!» protestò Flint. «Vogliamo soltanto aiutarti a...». «Cos'è quell'odore? Che olio è? Di pino? Non mi farete inghiottire nessun succo d'albero!». «Ho intenzione di usarlo per farti un massaggio», spiegò Raistlin. «Ti ho detto che non voglio! Ouch! Ouch! Vattene! Bada che ho l'attizzatoio!». «Tas, va' a chiamare Tanis», disse Raistlin, rendendosi conto che il paziente era tutt'altro che facile da controllare. Anche se gli dispiaceva terribilmente di andarsene in mezzo a quegli eventi eccitanti, il kender partì di corsa per consegnare il messaggio e Tanis arrivò di lì a poco, allarmato dal resoconto alquanto confuso di Tas secon-
do cui Flint era stato attaccato da carote, cosa che Raistlin stava cercando di curare facendo inghiottire al nano degli aghi di pino. Non appena Raistlin gli ebbe spiegato la situazione in termini più dettagliati e coerenti, Tanis si disse d'accordo con lui sia in merito alla diagnosi sia alla terapia: ignorando le veementi proteste del nano e sottraendogli a forza l'attizzatoio di cui si era munito, procedettero quindi a spalmargli la pelle con l'olio e a massaggiargli i muscoli delle gambe e delle braccia fino a quando lui riuscì infine a raddrizzare la schiena abbastanza da potersi sdraiare. Durante tutto il tempo del trattamento, Flint continuò a ribadire che non sarebbe andato a letto, che sarebbe invece partito per i suoi viaggi estivi e che non c'era nulla che nessuno di loro potesse fare per impedirglielo, proteste che continuò a formulare anche mentre Tanis lo aiutava ad arrivare zoppicando fino al letto e quando fu costretto a serrare le labbra per resistere a fitte di dolore che definì simili alla trafittura di una daga d'orchetto avvelenata che gli fosse stata piantata nella gamba. Le proteste continuarono fino a quando Raistlin ordinò a Tas di andare alla locanda e di chiedere a Otik una caraffa di brandy. «A cosa serve?» domandò allora Flint, in tono sospettoso. «Hai intenzione di farmi dei massaggi anche con quello?». «Ne devi bere un bicchierino ogni ora», rispose Raistlin. «Sarà sufficiente ad attenuare il dolore, a patto che tu rimanga a letto». «Ogni ora?» ripeté il nano, illuminandosi in volto, poi si sistemò più comodamente fra i cuscini e aggiunse: «Forse posso restare a riposo giusto per oggi. Dopo tutto, possiamo sempre partire domani... accertati che Otik mandi il suo brandy migliore!» gridò quindi a Tas, che già si stava avviando. «Domani lui non potrà andare da nessuna parte», disse Raistlin a Tanis, «e neppure dopodomani o nei prossimi giorni. Dovrà rimanere a letto fino a quando il dolore non sarà passato e potrà camminare liberamente, altrimenti potrebbe rimanere storpio per tutta la vita». «Ne sei certo?» chiese Tanis, in tono scettico. «Flint si lamenta di dolori assortiti fin da quando lo conosco». «Questa è una cosa diversa e piuttosto grave, che ha a che fare con la colonna vertebrale e i nervi che corrono lungo la gamba. Una volta Meggin la Pazza ha curato una persona che soffriva di sintomi simili e mentre l'aiutavo lei mi ha spiegato ogni cosa servendosi di uno scheletro umano che ha dissezionato. Se vuoi ti posso portare da lei e farti vedere».
«No, no, non sarà necessario», si affrettò a rifiutare Tanis. «Mi basta la tua parola, però il Creatore del Mondo mi è testimone che non so proprio come faremo a costringere quel vecchio nano cocciuto a rimanere a letto a meno di legarvelo», aggiunse, sfregandosi il mento e scuotendo il capo. Il brandy risultò un aiuto eccellente in quel senso, in quanto rese il paziente calmo, anche se non tranquillo, e lo mise relativamente di buon umore al punto che lui fece ciò che gli veniva detto e rimase volontariamente a letto, cosa che colse tutti di sorpresa e che indusse Tanis a complimentarsi con lui per essere un simile paziente modello. Nessuno di loro sapeva che Flint aveva tentato di lasciare il letto la prima notte dopo essere rimasto bloccato e che aveva dovuto rinunciare a causa del dolore lancinante e del fatto che la gamba sinistra non aveva retto il suo peso. Quell'incidente lo aveva spaventato a tal punto da indurlo a pensare che forse Raistlin aveva ragione e da farlo tornare a letto strisciando con l'intenzione di rimanervi per il tempo necessario a guarire, e adesso si stava divertendo a impartire ordini a tutti e a far sentire Caramon colpevole per essere stato la causa del suo problema. A Tanis certo non dispiacque di restare a Solace invece di viaggiare per tutta l'Abanasinia, e anche Kitiara passò l'estate a Solace con estremo stupore dei suoi fratelli. «Non avrei mai pensato di vedere Kit innamorarsi di qualcuno», commentò una sera Caramon con il suo gemello, mentre stavano cenando. «Lei non sembra il tipo che tenda ad affezionarsi a qualcuno». «Amore non è la parola adatta, fratello mio», sogghignò Raistlin, «perché è un termine che implica interessamento, rispetto e affetto. Io piuttosto definirei l'attaccamento di nostra sorella per il mezzelfo con il termine "passione", anche se forse "desiderio" sarebbe una descrizione più appropriata. A giudicare dalle storie che ci raccontava nostra madre, mi pare che da questo punto di vista Kitiara somigli parecchio a suo padre». «Immagino di sì», assentì Caramon, mostrandosi a disagio perché se poteva evitarlo preferiva non parlare di sua madre, di cui non conservava ricordi piacevoli. «L'amore di Gregor nei confronti di Rosamun è stato estremamente appassionato... finché è durato», continuò Raistlin, dando una certa enfasi ironica all'ultima parte della frase. «La trovava diversa dalle altre donne e questo lo divertiva, così come sono sicura che ci sia una certa componente di divertimento nel rapporto che Kitiara ha con il mezzelfo. Lui è senza dubbio un uomo molto diverso da tutti gli altri che lei ha conosciuto».
«Tanis mi piace», dichiarò Caramon, sulla difensiva, pensando che le parole del fratello tendessero a sminuire il suo amico. «È un uomo in gamba e mi sta dando lezioni nell'uso della spada. Lui dice che sto diventando veramente bravo, e prima o poi dovrò farti vedere». «È ovvio che Tanis ti piaccia, lui piace a tutti noi», ribatté Raistlin, scrollando le spalle. «È onorevole, onesto, degno di fiducia, fedele... come ho detto, è molto diverso da qualsiasi altro uomo che nostra sorella abbia amato». «Non puoi esserne tanto sicuro», protestò Caramon. «Invece posso, fratello mio, invece posso», replicò Raistlin. Caramon avrebbe voluto sapere da cosa gli derivava tanta sicurezza ma Raistlin si rifiutò di aggiungere altro e i due gemelli finirono il pasto in silenzio. Come sempre, Caramon divorò con voracità la sua porzione e poi si guardò intorno alla ricerca di altro cibo, per avere il quale dovette soltanto aspettare, perché Raistlin mangiò soltanto i bocconi più scelti, scartando ogni pezzo di carne che avesse anche un minimo di grasso o che non fosse cotto alla perfezione, e ben presto Caramon poté finire quello che lui aveva avanzato. Mentre Caramon andava a lavare le ciotole di legno, Raistlin diede da mangiare ai suoi topi e pulì la loro gabbia, poi andò in cucina ad aiutare il fratello. «Non vorrei che succedesse nulla di male a Tanis, Raist», osservò allora Caramon, senza sollevare lo sguardo da quello che stava facendo. «Mio caro fratello, stai versando sul pavimento più acqua di quanta ne sia rimasta nel secchio... No, finisci quello che stai facendo, poi penserò io ad asciugare», disse Raistlin afferrando uno straccio e chinandosi per passarlo sulle lastre di pietra del pavimento. «Quanto a Tanis, è abbastanza maturo da sapersi prendere cura di se stesso, Caramon, dato che ritengo abbia più di cento anni». «Forse è vecchio di anni, Raist, ma sotto altri aspetti lo è meno di te o di me», ribatté Caramon, mentre accumulava le ciotole bagnate e le stoviglie per poi strizzare il panno che aveva usato per lavare il tutto e sgrondare l'acqua dalle mani, che si asciugò sul davanti della camicia. Raistlin reagì con uno sbuffo di palese incredulità. «Poiché è onesto, crede che lo siano anche tutti gli altri», proseguì Caramon, cercando di spiegarsi meglio. «Crede che tutti siano leali e onorevoli, ma tu e io... noi sappiamo che non è vero, soprattutto quando si tratta di Kit».
«Cosa intendi dire?» chiese Raistlin, sollevando lo sguardo di scatto. «Ha mentito a Tanis riguardo al denaro, Raist», rispose Caramon, arrossendo per la vergogna che provava a causa della sorella. «Mi riferisco a quelle monete d'acciaio di Sanction. Lei ha detto a Tanis di averle vinte giocando a dadi con un marinaio, ma non è così. Alcuni giorni fa, Kit è venuta qui per vedere se mi volevo esercitare con la spada insieme con lei, e quando stava per andarsene mi ha mandato a prenderle il mantello che aveva posato sulla cassapanca che c'è in camera da letto. Mentre lo prendevo, dal mantello è caduta la borsa con le monete, che si sono rovesciate per terra. Incuriosito, ne ho raccolta una perché non avevo mai visto monete del genere, e le ho chiesto da dove venissero». «E lei cos'ha risposto?». «Ha detto che era la paga che aveva guadagnato per un lavoro che aveva fatto su al nord, che c'era molto altro denaro là da dove era giunto quello e che io avrei potuto guadagnarne la mia parte, e così pure anche tu, se avessi rinunciato a quest'assurdità della magia e fossi venuto via con noi. Ha poi aggiunto che non era ancora pronta a tornare nel nord perché qui si stava divertendo troppo, senza contare che io avevo bisogno di altro addestramento e che bisognava convincere te di...». D'un tratto Caramon s'interruppe, esitando. «Di cosa?» lo pungolò Raistlin. «Di essere un fallimento come mago. È quello che ha detto lei, Raist, quindi non t'infuriare con me». «Non sono infuriato, ma mi chiedo perché mai abbia detto una cosa del genere». «Perché non ti ha mai visto compiere nessuna magia, Raist. Io ho cercato di dirle che sei veramente bravo come mago ma lei ha riso e ha ribattuto che sono tanto credulone da lasciarmi ingannare da qualsiasi gioco di prestigio. Io però so che non è così perché tu mi hai insegnato a capire la differenza», dichiarò Caramon, in tono enfatico. «Credo che tu abbia assimilato i miei insegnamenti meglio di quanto io stesso supponessi», affermò Raistlin, guardando il fratello con una certa dose di ammirazione. «Sapevi tutte queste cose e tuttavia non ne hai fatto parola?». «Lei mi ha ordinato di non dire niente a nessuno, neppure a te, e avrei continuato a tacere se non fosse per il fatto che non mi piace che lei abbia mentito a proposito del denaro, Raist. Chi può sapere da dove provenga? A dire il vero non mi piacevano neppure quelle monete... davano una strana
sensazione», rispose Caramon, rabbrividendo. «Lei però non ha mentito a te», osservò Raistlin, in tono pensoso. «Eh?» esclamò Caramon, stupito. «Come fai a saperlo?». «Un'intuizione», replicò Raistlin, in tono evasivo. «Non è la prima volta che dice di aver lavorato per della gente del nord». «Io non voglio andare lassù, Raist», affermò Caramon. «Ho preso una decisione e voglio piuttosto diventare un cavaliere, come Sturm. Forse ti permetteranno di diventare un mago guerriero, come Magius». «Mi piacerebbe addestrarmi per diventare un mago guerriero», ammise Raistlin, «ma i cavalieri non mi accetterebbero mai e non credo che accetterebbero neppure te. Peraltro potremmo lavorare insieme, magari come mercenari, abbinando la magia all'acciaio. Dopo tutto i maghi guerrieri non sono comuni e la gente pagherebbe bene per disporre di un talento del genere». «Questa è un'idea grandiosa, Raist!» esclamò Caramon, raggiante di piacere. «Quando pensi che potremo cominciare?» chiese quindi, dando l'impressione di essere pronto a partire in quello stesso momento. «Manca ancora del tempo», lo calmò Raistlin, tenendo a freno la sua impazienza. «Per ora non posso lasciare la scuola, e se gli parlassi delle mie intenzioni al Maestro Theobald verrebbe un colpo apoplettico, perché secondo lui la magia deve essere usata soltanto in situazioni di estrema emergenza, come per accendere un fuoco da campo quando la legna è bagnata. D'altro canto non dobbiamo agire in modo precipitoso, fratello», ammonì, vedendo che Caramon stava già cominciando a lucidare la spada. «Ci servono denaro ed esperienza, ed io devo accumulare altri incantesimi nel mio libro». «Certamente, Raist. In ogni caso, credo che sia un'idea grandiosa e mi terrò pronto», assentì Caramon, poi smise di lavorare e sollevò lo sguardo con aria solenne e turbata, domandando: «Cosa diremo a Kit?». «Nulla, fino a quando non arriverà il momento», rispose Raistlin, e subito dopo aggiunse con un cupo sorriso: «E lascia che continui a pensare che io non abbia talento per la magia». «Certamente, Raist, se è quello che vuoi», assentì Caramon, che non riusciva a capire gli intenti del fratello ma come sempre era disposto ad obbedirgli perché riteneva che lui sapesse cosa era meglio fare. «E come ci regoliamo con Tanis?», chiese quindi. «Non c'è nulla che possiamo fare per lui», affermò Raistlin, in tono sommesso. «Se gli dicessimo qualcosa di negativo sul conto di Kit si rifiu-
terebbe di crederci. Dopo tutto, tu non mi avresti creduto se ti avessi detto qualcosa di sgradevole sul conto di Miranda, vero?» precisò, con una sfumatura di amarezza nella voce. «No, suppongo di no», ammise Caramon, con un profondo sospiro, in quanto dichiarava di avere tuttora il cuore infranto anche se attualmente frequentava tre ragazze diverse, poi domandò: «E non c'è nulla che possiamo fare neppure riguardo a Kit?». «Dobbiamo tenerla d'occhio con estrema attenzione, fratello mio». CAPITOLO OTTAVO Le giornate estive trascorsero sonnolente fra le volute di fumo che si levavano dai fuochi da cucina, la polvere sollevata dai viandanti che percorrevano la strada di Solace e le nebbie mattutine che si avvolgevano come spettri intorno ai tronchi dei vallenwood. Flint intanto continuava a rimanere a letto e si mostrava un paziente sorprendentemente docile anche se borbottava a sufficienza per trenta nani, come sosteneva Tasslehoff, aggiungendo di sentire la mancanza del divertimento di un tempo; nel complesso Flint conduceva una vita estremamente comoda, con il kender che lo serviva in tutto e per tutto, e Caramon e Sturm che venivano a turno a fargli visita ogni pomeriggio dopo le esercitazioni con la spada per fargli vedere quanto stessero migliorando. Inoltre Raistlin passava ogni giorno a fargli un massaggio alla schiena e alla gamba con l'olio di gaulfheria, e perfino Kit si faceva vedere di tanto in tanto per distrarre il nano con storie di scontri con orchi e orchetti. Flint era talmente comodo e appagato che Tanis cominciava a temere che stesse godendo troppo di quello stato di cose, dato che il dolore alla schiena e alla gamba era quasi svanito senza però che lui accennasse a voler riprendere a camminare. Di conseguenza, Tanis riunì i suoi amici e studiò insieme a loro un complotto che inducesse il nano a lasciare il letto senza che si dovesse ricorrere alla polvere degli gnomi, come aggiunse il mezzelfo. «Ho sentito dire che un nuovo fabbro si sta per trasferire a Solace», commentò una mattina Tasslehoff Burrfoot, mentre sprimacciava i cuscini del nano. «Del resto era prevedibile, dato che corre voce che tu ti sia ritirato dagli affari». «Non l'ho fatto!» esclamò Flint in tono indignato. «Mi sto soltanto concedendo un periodo di riposo per motivi di salute».
«Ho anche sentito dire che si tratta di un nano e che viene da Thorbardin», rincarò Tas. Poi lasciò quella freccia avvelenata conficcata nello spirito del nano, certo che avrebbe fatto il suo effetto, e uscì per il suo giro quotidiano di Solace, in modo da vedere se c'era qualche persona nuova in città e soprattutto se c'erano oggetti interessanti che potessero finire nelle sue sacche. Il visitatore successivo fu Sturm, che si presentò con una pentola di zuppa calda fatta da sua madre e che in risposta alle domande ansiose del nano rispose di aver "sentito qualcosa in merito ad un nuovo fabbro che stava per arrivare in città", ma aggiunse di non essere propenso a prestare orecchio ai pettegolezzi e di non poter quindi dare ulteriori notizie. Raistlin risultò invece una fonte d'informazione molto migliore in quanto fornì una quantità di dettagli su questo fabbro di Thorbardin, arrivando a parlare del suo clan, della lunghezza e del colore della sua barba, e aggiungendo che il motivo principale per cui un nano di Thorbardin aveva scelto di insediare la propria bottega a Solace era che «aveva sentito dire che da quelle parti non avevano da molto tempo un buon fabbro». Quando si presentò a casa del nano nel tardo pomeriggio, Tanis fu contento ma non troppo sorpreso di trovare Flint nella sua bottega, intento ad accendere la fucina che era rimasta fredda per tutta l'estate. Il nano camminava ancora zoppicando (quando se ne ricordava) e lamentava dolori alla schiena (soprattutto quando doveva intervenire a salvare Tasslehoff da uno degli innumerevoli piccoli disastri che provocava), ma da quel momento non ricominciò più a recitare la parte del malato. Quanto al nano di Thorbardin, parve che avesse trovato che l'aria di Solace non gli si addiceva, o almeno fu così che Tanis giustificò il suo mancato arrivo. L'estate era stata lunga e prospera per la gente di Solace perché una grande quantità di viandanti, più di quanti se ne ricordassero, erano passati dalla città grazie al fatto che le strade erano relativamente sicure. Certo, c'erano pur sempre i ladri e i tagliaborse, ma quella era una realtà familiare che non veniva considerata qualcosa di più di una semplice seccatura, mentre la guerra aveva l'effetto di paralizzare i traffici e in questo periodo non erano in corso né erano imminenti guerre in nessuna parte di Ansalon. Il continente era in pace ormai da trecento anni e a Solace tutti supponevano con compiacenza che quella pace sarebbe durata per altri trecento anni. O almeno quasi tutti. Raistlin infatti nutriva convinzioni diverse e per questo motivo aveva deciso di concentrare i propri studi magici sul campo
della magia di guerra. La sua non era una decisione basata sull'immagine idealizzata che un ragazzo poteva avere della guerra come di una cosa gloriosa ed eccitante, perché Raistlin non aveva mai giocato alla guerra come facevano gli altri bambini, non amava la vita marziale e non si sentiva eccitato al pensiero di prendere parte ad una battaglia. No, la sua era una decisione ponderata presa dopo lunga e attenta riflessione e mirata ad un unico obiettivo: il denaro. La conversazione fra Kitiara e lo sconosciuto che lui era riuscito ad ascoltare aveva avuto una parte predominante nelle sue pianificazioni; Raistlin la ricordava così bene che avrebbe potuto ripeterla parola per parola, e ne riesaminava quasi ogni notte il contenuto nella propria mente. Nel nord, presumibilmente a Sanction, qualche grande signore che disponeva di enormi somme di denaro era interessato a ottenere informazioni su Qualinesti e ad assoldare abili guerrieri, e aveva al suo servizio agenti fedeli e intelligenti. Sulla base di quelle informazioni perfino un bambino dei nani dei fossi avrebbe potuto arrivare alle logiche conclusioni. In un giorno non lontano da qualche parte qualcuno avrebbe avuto bisogno di mettere insieme un esercito per difendersi da questo grande signore, e avrebbe dovuto farlo in fretta, il che significava che questo ignoto qualcuno sarebbe stato disposto a pagare somme ingenti ai soldati e somme ancora più elevate a maghi che fossero esperti nell'arte di combinare la spada con la magia. Di conseguenza, Raistlin supponeva a ragion veduta che seminare morte gli avrebbe fruttato di più che miscelare erbe per guarire bambini malati. Presa la sua decisione, lui meditò sul modo migliore per metterla in atto: innanzitutto aveva bisogno di incantesimi che fossero di natura aggressiva, su questo non c'erano dubbi, ma avrebbe avuto anche bisogno d'incantesimi con cui difendersi se non voleva che la sua prima battaglia fosse anche l'ultima. Contro cosa avrebbe però dovuto difendersi? Cosa si aspettava un comandante militare da un mago guerriero? E quale sarebbe stato il suo posto nello schieramento? Quali incantesimi d'attacco sarebbero serviti? Raistlin s'intendeva ben poco di arte militare, ed ora cominciava a rendersi conto che aveva bisogno di saperne di più in materia se voleva diventare un mago guerriero efficace. La persona che poteva conoscere la risposta a tutti i suoi interrogativi era l'unica a cui lui non osava rivolgersi, cioè Kitiara, perché non voleva metterle idee strane in testa. Interpellare Tanis Mezzelfo sarebbe equivalso a parlare con Kitiara perché senza dubbio Tanis avrebbe discusso con lei di
qualsiasi cosa lui gli avesse detto, e né Sturm né Flint gli potevano essere d'aiuto perché cavalieri e nani diffidavano della magia e non avrebbero mai fatto affidamento su un mago nel corso di una battaglia. Quanto a Tasslehoff, non era neppure da prendere in considerazione, perché chiunque era tanto stupido da porre una domanda ad un kender meritava la risposta così ottenuta. Agendo in segreto, Raistlin effettuò allora delle ricerche nella biblioteca del Maestro Theobald, ma non vi trovò nulla di utile. «Quest'era di Krynn verrà chiamata Era della Pace», era solito predire il Maestro Theobald. «Il nostro popolo è cambiato, e la guerra è un'istituzione retrograda che apparteneva alle generazioni passate. Adesso le nazioni hanno imparato a coesistere pacificamente, umani, nani ed elfi riescono a lavorare insieme». Il parere di Raistlin era però che questo risultato fosse ottenuto ignorandosi a vicenda, il che significava che non si trattava di coesistenza pacifica ma di cecità. Quando guardava al futuro, lui lo vedeva avvolto nelle fiamme e inondato dal sangue, e gli pareva di scorgere le guerre imminenti con tanta chiarezza da sentirsi indotto a tratti a chiedersi se non avesse ereditato in parte il talento di veggente di sua madre. Convinto che il suo piano fosse meritevole e che gli avrebbe portato fama e fortuna, Raistlin aveva adesso bisogno soltanto del sapere necessario per metterlo in pratica, e quel sapere poteva venire da una fonte soltanto: libri, che però il suo maestro non possedeva. Come poteva fare per entrarne in possesso? Si diceva che la Torre della Somma Stregoneria di Wayreth avesse la più vasta biblioteca magica esistente su Krynn, ma in qualità di mago novizio che non era ancora arrivato neppure al livello di apprendista, Raistlin non avrebbe avuto il permesso di entrare nella Torre, in cui avrebbe messo piede per la prima volta soltanto quando fosse stato convocato a sottoporsi alla Prova. La Torre di Wayreth era quindi fuori della sua portata, ma c'erano altre fonti di libri di e sulla magia, e cioè i negozi di articoli per maghi. In quell'epoca e in quei giorni negozi del genere non erano numerosi ma esistevano e Raistlin sapeva che ce n'era uno ad Haven perché aveva sentito il Maestro Theobald che ne parlava, così come sapeva dove esso si trovasse grazie a indagini svolte senza dare nell'occhio. Una notte, poco tempo dopo la miracolosa guarigione di Flint, Raistlin
s'inginocchiò accanto ad una piccola cassa di legno che teneva nella sua stanza, che era protetta da un semplice incantesimo che ne bloccava la serratura e che costituiva una delle prime magie apprese da qualsiasi mago, assolutamente essenziale in un mondo popolato di kender. Rimosso l'incantesimo con una singola parola che fungeva da comando e che poteva essere personalizzata in modo da adattarsi ad ogni mago che utilizzasse quell'incantesimo, Raistlin aprì la cassa e tirò fuori una piccola sacca di cuoio, contando le monete ivi contenute... cosa del tutto inutile in quanto sapeva esattamente a quanto ammontavano i suoi risparmi, che riteneva sarebbero stati sufficienti allo scopo. Il mattino successivo affrontò l'argomento con suo fratello. «Informa il Fattore Sedge che devi prenderti qualche giorno libero, Caramon, perché dobbiamo andare ad Haven», annunciò. Caramon sgranò gli occhi a tal punto da far apparire improbabile che riuscisse mai più a richiuderli e rimase senza parole per lo stupore. La distanza fra Solace e la precedente scuola del Maestro Theobald, circa sette chilometri in tutto, era il viaggio più lungo che lui avesse mai fatto in tutta la sua vita, e di conseguenza gli sembrava che la città di Haven, che si trovava a circa centotrentacinque chilometri di distanza, fosse ai confini stessi del mondo conosciuto. «La prossima settimana Flint si recherà alla Festa del Raccolto di Haven... la scorsa notte l'ho sentito mentre ne parlava con Tanis, che senza dubbio lo accompagnerà insieme con Kit. Io propongo di andare con loro». «Ci puoi scommettere che lo faremo!» esclamò infine Caramon, così felice da improvvisare una danza sulla soglia di casa con il risultato di far tremare tutta la costruzione dalle fondamenta. «Calmati, Caramon», ingiunse Raistlin, in tono irritato, «altrimenti sfonderai di nuovo le travi del pavimento, e non abbiamo denaro da sprecare per le riparazioni». «Mi dispiace, Raist», si scusò Caramon, la cui esaltazione si stava dissolvendo in fretta sotto la pressione di un pensiero angosciante: «A proposito di denaro, pensi che ne abbiamo a sufficienza? Andare ad Haven sarà costoso, e anche se Tanis si offrirà di addossarsi le nostre spese non possiamo permetterlo». «Ce la faremo se saremo frugali. Penserò io a tutto, tu non ti devi preoccupare». «Chiederò a Sturm se vuole venire anche lui», decise Caramon, sentendo riaffiorare il proprio entusiasmo, e sfregandosi le mani aggiunse: «Sarà
una vera avventura!». «Non credo proprio», ribatté Raistlin, in tono sarcastico. «Non vedo nulla di avventuroso in un viaggio di tre giorni su un carro e lungo vie abbondantemente trafficate». Il che dimostrò soltanto che dopo tutto lui non aveva ereditato il dono della preveggenza posseduto da sua madre. CAPITOLO NONO Il viaggio cominciò nel modo più tranquillo e pacifico possibile, con la probabile eccezione di due giovani aspiranti guerrieri ansiosi di sfoggiare il loro talento di recente acquisizione. Il clima era sereno e fresco, il sole era piacevolmente caldo nel pomeriggio e le piogge recenti impedivano alla polvere di levarsi nell'aria sulla strada di Haven ora piena di viandanti, dato che la Festa del Raccolto era la festa più importante che si tenesse in quella città. Tanis era alla guida del carro, che era stato caricato al massimo della sua capienza con le merci del nano, che sperava di guadagnare nel corso della fiera di Haven una cifra sufficiente a compensare le perdite subite quell'estate. Raistlin viaggiava sul carro accanto a Tanis per tenergli compagnia mentre Kitiara a tratti cavalcava e a tratti camminava, decisamente troppo irrequieta per fare a lungo la stessa cosa; Flint invece era sistemato comodamente sul retro del carro, annidato fra pentole e padelle dove poteva tenere d'occhio le merci più preziose, come polsiere e bracciali d'argento e collane in cui erano incastonate pietre preziose. Sturm e Caramon procedevano a piedi accanto al veicolo, pronti a intervenire in caso di pericolo. Con la loro fantasia i due giovani stavano popolando la strada di bande di ladroni, di legioni di orchetti (sebbene Tanis continuasse a garantire loro in tono divertito che a Solace non si erano più visti degli orchetti dall'epoca del Cataclisma) e di orde di bestie feroci che andavano dai lupi ai basilischi. Le loro speranze di impegnare un combattimento (non era necessario che fosse qualcosa di serio, anche una lite di poco conto sarebbe andata bene) erano alimentate e incoraggiate da Tasslehoff, che si divertì estremamente a raccontare ogni storia che aveva sentito e qualche altra del tutto inventata sul momento in cui si parlava di incauti viandanti a cui gli orchi avevano strappato e divorato il cuore o che erano stati trascinati via da qualche orso o trasformati in non-morti dagli spettri.
Il risultato fu che Sturm cominciò a tenere la mano sull'elsa della spada e a scrutare ogni persona che incontrava con freddezza e con tale intensità da indurre i più a pensare che fosse lui stesso un ladro e ad affrettarsi ad accelerare il passo, mentre Caramon improntò il suo volto di solito allegro ad un'espressione accigliata che lui credeva lo facesse apparire un duro mentre invece gli dava soltanto un aspetto bilioso, come ebbe modo di commentare Raistlin. Con il trascorrere della giornata, Sturai cominciò ad avere i crampi alla mano per aver stretto troppo a lungo l'elsa della spada e Caramon cadde preda di una devastante emicrania dovuta all'aver tenuto la mascella protesa in avanti con un'angolazione innaturale; quando a Kitiara, aveva le costole che le dolevano per il riso represso perché Tanis non le permetteva di ridere apertamente dei due giovani. «Devono imparare», affermò poco dopo pranzo, quando si rimise alla guida del carro con Kitiara seduta a cassetta fra lui e Raistlin. «Non è un male che sviluppino l'abitudine di stare all'erta e di essere cauti quando sono in viaggio, anche se per adesso stanno esagerando un poco. Ricordo che da giovane ero il loro esatto opposto, quando sono partito da Qualinesti senza una preoccupazione al mondo o un cervello in testa, dando per scontato che chiunque incontravo fosse un amico. È un miracolo che non sia finito in un fosso con la testa sfondata». «Quando eri giovane», ripeté Kitiara in tono di rimprovero, stringendogli la mano. «Parli come se adesso fossi un vecchio. Tu sei ancora giovane, amico mio». «Forse lo sono in termini elfici», rispose Tanis, «ma non secondo quelli umani. Non pensi mai a questo, Kit?». «A cosa dovrei pensare?» domandò lei in tono noncurante. La verità era che non stava veramente prestando attenzione alle parole di lui, perché aveva di recente acquistato da Flint un coltello dall'eccellente lama d'acciaio ed era impegnata ad avvolgere intorno all'impugnatura strisce di cuoio intrecciato. «Al fatto che io ho già vissuto per oltre cento dei vostri anni umani, e che vivrò per altre centinaia di anni», persistette Tanis. «Bah!» sbuffò Kit, china sul suo lavoro, con le dita che si muovevano rapide ma senza particolare efficienza. Il cuoio intrecciato le avrebbe permesso di avere una presa migliore sull'impugnatura, ma il suo operato era tutt'altro che perfetto e il risultato ottenuto non la soddisfaceva in modo particolare. Finito il lavoro ripose il coltello nello stivale e aggiunse: «Do-
potutto sei elfo soltanto in parte». «Però la durata della mia vita è molto più lunga se paragonata a...». «Ehi, Caramon!» gridò Kit, fingendo un tono allarmato. «Mi è parso di vedere qualcosa muoversi fra quei cespugli! Guarda quel grosso idiota!» commentò poi. «Se qualcosa saltasse fuori da quei cespugli per aggredirlo se la farebbe nei pantaloni... cosa stavi dicendo?». «Nulla», sorrise Tanis. «Non era importante». Scrollando le spalle Kitiara saltò giù dal carro per andare a divertirsi alle spalle di Sturm pretendendo di essere certa che degli orchetti li stessero seguendo. Lanciando un'occhiata in direzione di Tanis, Raistlin notò che il volto liscio e privo di rughe del mezzelfo, un volto che avrebbe conservato quel suo giovane aspetto forse per altri cento anni, era velato dall'infelicità. Tanis sapeva che sarebbe stato ancora giovane quando Kitiara sarebbe diventata una donna molto vecchia, che l'avrebbe vista consumarsi e morire mentre il trascorrere del tempo non aveva virtualmente effetto su di lui. I bardi intonavano tragiche canzoni che parlavano dell'amore fra elfi e umani. Pensandoci, Raistlin si chiese cosa si dovesse provare nel veder avvizzire bellezza e giovinezza nella persona amata, vederla scivolare nella vecchiaia e poi nella senilità restando giovani e vibranti di vita; d'altro canto, se si fosse innamorato di una donna elfica Tanis sarebbe andato incontro a quella stessa sorte, con la sola differenza che in quel caso sarebbe stato lui ad invecchiare per primo. Raistlin si sorprese a osservare il mezzelfo alla luce di quella nuova comprensione e con una certa compassione, riflettendo che quell'uomo era condannato dalla nascita e non avrebbe mai potuto essere felice né nel mondo degli uomini né in quello degli elfi. Di certo gli dèi gli avevano giocato uno scherzo davvero crudele! Quei pensieri lo indussero a ricordarsi dei tre antichi dèi della magia e ad avvertire un certo rimorso per non aver adempiuto alla sua promessa: se davvero credeva in loro, come aveva professato tanto tempo prima, perché metteva di continuo in discussione la propria fede e ne dubitava? I tre dèi gli tornarono di nuovo alla mente più tardi quando, sul finire della giornata, lui e i suoi compagni s'imbatterono in un gruppo di preti che procedeva lungo la strada. I preti, venti uomini e una donna, camminavano nel centro della strada disposti su due file e avanzavano con passo lento e con espressione solenne come se stessero accompagnando un corpo alla sepoltura, senza guar-
darsi intorno e tenendo il viso rivolto davanti a loro, lo sguardo abbassato verso il terreno. Naturalmente quella lenta colonna che avanzava nel centro della strada stava avendo l'effetto più o meno voluto di rallentare lo scorrimento del traffico. Quel giorno sulla strada di Haven c'era una grande quantità di persone, e Flint era soltanto uno dei numerosi mercanti che stavano viaggiando in quella direzione, trasportando le loro merci su carri trainati da cavalli o su carretti a mano o ancora in fagotti appesi alla schiena o bilanciati sulla testa. Non potendo oltrepassare i preti, i carri furono costretti ad adottare il loro stesso passo da funerale mentre in un primo tempo parve che quanti viaggiavano a piedi o a cavallo sarebbero stati più fortunati. Quando però cercavano di aggirare la doppia fila di preti, i viandanti appiedati arrivavano al massimo fino a metà della colonna e poi si fermavano dove si trovavano per il timore di proseguire oppure si affrettavano a tornare sui loro passi. Coloro che invece erano a cavallo cercarono anch'essi di aggirare il gruppo di preti ma dovettero rinunciare perché i cavalli presero a scartare nervosamente, spostandosi lateralmente fra i cespugli, o addirittura divennero recalcitranti e rifiutarono di avvicinarsi ai preti. «Cosa c'è? Cosa sta succedendo?» borbottò Flint, svegliandosi da un sonnellino ristoratore sotto il caldo sole pomeridiano, poi si alzò in piedi sul carro e si portò sulla parte anteriore del veicolo, continuando: «Cosa significa questo ritardo? Di questo passo arriveremo ad Haven in tempo per la danza di Calendimaggio!». «Si tratta di quei preti là davanti», spiegò Tanis. «Non si spostano dalla strada e nessuno li riesce ad aggirare». «Forse non sanno che noi siamo qui dietro», opinò Flint. «Qualcuno li dovrebbe avvisare». Il conducente del carro in testa alla fila che si era creata stava tentando di fare proprio questo e stava gridando, con estrema cortesia, è ovvio, ai preti di spostarsi da un lato. Essi però non gli prestavano attenzione e continuavano a procedere nel centro della strada come se fossero stati tutti sordi. «Questo è ridicolo!» esclamò Kit. «Andrò a parlare con loro!». E si allontanò con andatura decisa, con il mantello che le si agitava intorno alla figura e la spada che tintinnava ad ogni passo, subito seguita di corsa da Tasslehoff.
«No! Tas, Kit, aspettate! Dannazione!» imprecò sommessamente Tanis. Gettate le redini allo stupito Raistlin si affrettò quindi a scendere dal carro e a seguire i due; non avendo mai guidato un carro in tutta la sua vita, Raistlin prese ad armeggiare incerto con le redini, ma per sua fortuna Caramon fu pronto a balzare a cassetta e fece arrestare il carro in modo che potessero seguire tutti cosa stava succedendo. Poiché su Krynn esistono poche creature capaci di muoversi in fretta quanto un kender eccitato, quando Tanis raggiunse Kitiara il kender era già molto più avanti rispetto ad entrambi e il mezzelfo gli gridò invano di fermarsi, dato che su Krynn poche creature sono sorde quanto un kender eccitato. Prima che Tanis potesse raggiungerlo Tasslehoff si portò accanto ad uno dei preti, un uomo calvo che era anche il più alto del gruppo e che procedeva per ultimo nella fila di destra della colonna. Come sua abitudine, Tas protese una mano verso di lui per presentarsi, e un attimo più tardi compì un'impresa davvero notevole saltando contemporaneamente in alto di una sessantina di centimetri e indietro di tre passi, per poi atterrare nel mezzo di un cespuglio in un ammasso confuso di sacche e di borse. Quando infine Tanis e Kitiara lo raggiunsero, lui era impegnato a districare se stesso e il suo assortimento di sacche e di borse dai rami del cespuglio. «Quell'uomo ha un serpente, Tanis!» esclamò in tono eccitato, ripulendo da foglie e ramoscelli i suoi migliori calzoni a scacchi arancioni e verdi. «Ognuno di quei preti porta un serpente avvolto intorno al braccio!». «Dei serpenti?» ripeté Kitiara, arricciando il naso e guardando con disgusto in direzione dei preti. «Cosa se ne fanno dei serpenti?». «È stato tutto molto eccitante», riferì Tas. «Mi sono avvicinato al primo prete e mi stavo per presentare come richiede la cortesia, solo che lui si è rifiutato di guardarmi o di parlarmi. Allora ho proteso la mano per tirarlo per una manica, pensando che non mi avesse visto, e il serpente ha tirato su la testa e mi ha sibilato contro», continuò, tanto eccitato da non riuscire quasi a parlare. «Stavo per chiedergli se potevo accarezzarlo, i serpenti hanno una pelle così meravigliosamente secca, quando il rettile ha proteso di scatto la testa verso di me, ed è stato allora che sono saltato all'indietro. Una volta, quando ero un piccolo kender, sono stato morso da un serpente, e per quanto interessante non è un'esperienza che voglia ripetere molto spesso... come sei solito dire tu, Tanis, non è utile per la salute, soprattutto dal momento che a mio parere quello era un serpente velenoso, dato che
aveva un cappuccio sulla testa, la lingua biforcuta e piccoli occhi scintillanti. Qualcuno può aiutarmi a liberare questa sacca? Si è impigliata in quel ramo». Mentre Tanis districava la sacca in questione sopraggiunsero Flint, Raistlin e Sturm, che avevano lasciato un seccatissimo Caramon a guardia del carro. «Stando alla tua descrizione quel serpente sembrerebbe una vipera», osservò Raistlin, «però non ho mai sentito che si potessero trovare delle vipere al di fuori delle Pianure della Polvere». «In tal caso a quella vipera dovevano essere stati estratti i denti», obiettò Sturm. «Non riesco a immaginare nessuna persona sana di mente che sia disposta a camminare lungo una strada portando con sé un serpente velenoso!». «Allora hai un'immaginazione molto limitata, fratello», commentò un venditore ambulante, avvicinandosi al gruppetto, «anche se di certo hai ragione per quanto concerne la sanità mentale. Il loro dio assume la forma di una vipera, quindi il serpente è il loro simbolo e una prova della sincerità della loro fede, in quanto il dio dona ai suoi fedeli il potere di controllare la vipera in modo che non faccia loro del male». «In altre parole», commentò Raistlin, arricciando con disprezzo le labbra, «sono incantatori di serpenti». «Non lasciare che ti sentano definirli in questo modo, fratello», consigliò il venditore ambulante, scoccando un'occhiata in tralice e piena di disagio in direzione dei preti, poi abbassò la voce e aggiunse: «Loro non tollerano la mancanza di rispetto... anzi, le cose che non tollerano sono molte, e se potranno fare a modo loro questa sarà una Festa del Raccolto davvero misera». «Perché? Cos'hanno fatto?» chiese Kit con un sogghigno. «Hanno forse fatto chiudere tutte le birrerie?». «Cos'hai detto?» intervenne Flint, che poteva seguire soltanto in parte la conversazione, che si svolgeva molto più in alto rispetto alla sua testa, poi si fece più vicino per sentire meglio e insistette: «Cos'hai detto? Chiudere le birrerie?». «No, niente del genere, anche se personalmente loro non toccano quella roba», replicò il venditore ambulante. «Sanno che non riuscirebbero mai ad ottenere nulla di tanto drastico ma potrebbero anche provarci. Mi dispiace di trovarli qui, perché adesso sarà difficile che qualcuno venga a vedere la fiera, dato che si recheranno tutti al tempio per assistere ai "mira-
coli". Penso quasi che mi convenga girarmi e tornare a casa». «Come si chiama il loro dio?» domandò Raistlin. «Belzor, o qualcosa del genere. Vi auguro una buona giornata, sempre che possa ancora esserlo», concluse in tono cupo il venditore ambulante, avviandosi nella direzione da cui era giunto. «Ehi! Cosa sta succedendo?» gridò Caramon, dal carro. «Belzor», ripeté Raistlin, cupo. «È lo stesso dio di cui parlava quella vedova, vero?» domandò Flint, tormentandosi la barba. «La Vedova Judith. Sì, Belzor era il suo dio e lei proveniva da Haven... una cosa che avevo dimenticato», replicò Raistlin, pensoso perché non avrebbe mai pensato di poter dimenticare la Vedova Judith, il cui ricordo era peraltro stato spinto in un angolo dagli altri eventi della sua vita e stava tornando ad affiorare con prepotenza soltanto adesso. «Mi chiedo se la troveremo qui», aggiunse. «Non la troveremo perché eviteremo di avvicinarci a quei preti», dichiarò in tono deciso Tanis. «Andremo alla fiera e ci concentreremo sui nostri affari, perché non voglio guai di nessun genere», proseguì, protendendo una mano ad afferrare il kender per il colletto della camicia. «Oh, per favore, Tanis! Voglio soltanto dare un'altra occhiata a quei serpenti!» protestò il kender. «Caramon!» chiamò Tanis, continuando a trattenere sia pure con difficoltà il kender che si dibatteva. «Porta il carro lontano dalla strada. Ci fermiamo per la notte». Flint parve sul punto di contestare quella decisione, ma quando Tanis usava quel tono perfino Kitiara teneva a freno la lingua; scuotendo il capo, non disse nulla e si diresse invece verso Raistlin. «Judith», disse con noncuranza. «Si tratta della donna responsabile della morte di nostra madre?». «Nostra madre?» ripeté Raistlin, fissando con stupore la sorella. Di solito, infatti, le rare volte in cui parlava di Rosamun lei usava un tono sprezzante e si rivolgeva ai gemelli usando invece il termine vostra madre. Questa era la prima volta che Raistlin la sentiva ammettere il suo rapporto di consanguineità con Rosamun. «Sì, è quella donna», rispose, quando si fu ripreso dalla sorpresa abbastanza da poter parlare. Kit annuì, scoccò un'occhiata a Tanis e infine si protese verso Raistlin con fare confidenziale.
«Se sai tenere a freno la lingua, fratellino, forse è possibile che in questo viaggio si riesca a divertirci, dopo tutto», sussurrò. Quella notte, Sturm e Caramon insistettero per montare la guardia accanto al fuoco da campo, suscitando l'ilarità di Kitiara. «Dove pensate che siamo... a Sanction?» chiese lei, ridendo. Acceso il fuoco sistemarono intorno ad esso i rotoli delle coperte, notando che altri fuochi stavano comparendo non molto lontano, segno che parecchi viandanti avevano deciso di lasciare un notevole margine di vantaggio ai preti di Belzor. Incaricatosi di cucinare, Flint preparò il suo famoso stufato del viandante, una ricetta dei nani a base di carne secca e di bacche cotte a fuoco lento nella birra. Raistlin aggiunse al tutto alcune erbe che aveva trovato lungo la strada e che Flint adocchiò con sospetto, accettandole ma rifiutando di ammettere che migliorassero il sapore del tutto in quanto a suo parere le ricette dei nani non avevano bisogno di modifiche... anche se poi mangiò quattro porzioni di stufato per accertarsi che il gusto fosse invariato. Mantenendo acceso il fuoco per tenere a bada il freddo della notte, i compagni sedettero intorno ad esso e fecero circolare una caraffa di birra, scambiandosi storie fino a quando la legna cominciò a consumarsi, poi Flint bevve un ultimo sorso e decise che era ora di ritirarsi, andando a dormire sul carro per proteggere le proprie merci da eventuali ladri. Subito dopo Tanis e Kit si spostarono nell'ombra, da dove fu possibile sentirli ridere sommessamente e sussurrare fra loro mentre Caramon e Sturm discutevano per stabilire chi avrebbe fatto il primo turno di guardia, ricorrendo infine al lancio di una moneta che assegnò il turno conteso a Caramon. Avvoltosi in una coperta, Raistlin si preparò intanto a trascorrere la sua prima notte all'aperto sdraiato sul terreno sotto le stelle, cosa che scoprì scomoda proprio quanto lui aveva immaginato. Stagliandosi sullo sfondo della poca luce proiettata dai carboni quasi spenti del fuoco, Caramon stava fischiettando fra sé, impegnato a tagliuzzare un pezzo di legno mentre montava la guardia, e l'ultima immagine che Raistlin vide prima di scivolare in un sonno irrequieto fu quella del grosso corpo del suo gemello che nascondeva la luce delle stelle. CAPITOLO DECIMO Il giorno successivo il kender tenne d'occhio con solerzia la strada nella speranza di avvistare i preti di Belzor, che però dovevano aver camminato
per tutta la notte o abbandonato la strada perché i compagni non li raggiunsero né quel giorno né quello successivo. A quanto pareva, le idee pessimistiche nutrite dal venditore ambulante in merito al probabile insuccesso della Fiera della Festa del Raccolto non erano condivise dalla massa della popolazione dell'Abanasinia, in quanto la strada si fece sempre più affollata e fornì a Tasslehoff una serie di soggetti così interessanti da analizzare che ben presto lui si dimenticò dei serpenti, con estremo sollievo di Tanis. Ricchi mercanti che si erano fatti precedere dai loro servi che scortavano le mercanzie procedevano lungo la strada su adorne portantine issate sulle spalle di robusti portatori; una nobile famiglia al completo passò accanto al gruppo dei compagni con il suo seguito di servi, il nobile che procedeva per primo in sella al suo grande cavallo da guerra, seguito dalla moglie, dalla figlia e dalla duenna di quest'ultima, che montavano dei piccoli pony. I cavalli erano tutti decorati con finimenti dai colori vivaci, e quello della ragazza aveva le briglie adorne di campanellini d'argento e la criniera intrecciata con nastri di seta. La figlia del nobile era una ragazza adorabile di circa sedici anni, che elargì un caritatevole sorriso a Caramon e a Sturm nello stesso modo in cui avrebbe potuto elargire delle monete ai poveri. Togliendosi il cappello, Sturm rispose con un elegante inchino mentre Caramon strizzò l'occhio alla ragazza e seguì di corsa il suo cavallo nella speranza di parlarle, con il risultato che il nobile si accigliò e i servi serrarono le file intorno alla famiglia mentre la duenna emetteva un verso di disapprovazione e gettava uno scialle sulla testa della ragazza, ammonendola a bassa voce di non badare alla marmaglia che vedeva lungo la strada... aspre parole che ferirono l'orgoglio di Sturm. «Ti sei comportato da zoticone e ci hai fatti apparire ridicoli», disse a Caramon. Questi invece aveva trovato l'episodio divertente, e per tutto il chilometro successivo procedette accanto al carro in punta di piedi, con passo contegnoso e con la faccia coperta da un fazzoletto, fingendosi disgustato dai compagni e gridando di continuo "marmaglia" con la voce in falsetto. Il viaggio proseguì senza eventi degni di nota fino a metà pomeriggio, quando Flint si alzò di scatto dal suo posto sul retro del carro. «Attento!» gridò, battendo un colpo sulla spalla di Tanis per enfatizzare il pericolo. «Guida più in fretta! Presto! Si stanno avvicinando!». Tanis si guardò alle spalle con aria allarmata, aspettandosi di vedere un
esercito di minotauri lanciato al loro inseguimento. «Troppo tardi!» gemette intanto Flint, mentre il carro veniva circondato da un gruppo di circa quindici allegri kender. Fortunatamente per il nano, in quel momento i kender erano più interessati a Tasslehoff che alle sue merci: sempre felice di incontrare altri membri della sua razza, Tas balzò giù dal carro e si gettò in quel boschetto di piccole braccia protese. «Come state? Il mio nome è Tasslehoff Burrfoot», si presentò. «Clayfoot?». «No, Burrfoot. Burr... con la doppia erre». «Ah, Burrfoot! Piacere di conoscerti, io sono Eider Thistledown». «Eiderdown?». «Thistledown. Eider viene prima. E questo è Hefty Warblethroat». «Felice di conoscerti, Tuftedhair Hotfoot». «Tasslehoff Burrfoot». lo corresse Tasslehoff. «È un onore conoscerti, Flabby Cutthroat». Quelle presentazioni si protrassero per parecchio tempo, e una volta che tutti i kender si furono adeguatamente presentati a vicenda e che tutti seppero come si chiamavano tutti gli altri, passarono alla seconda fase del rituale, che consisteva nel determinare se erano imparentati fra loro, cosa peraltro facile da accertare in quanto è un fatto noto che ogni kender mai nato può far risalire le proprie origini in un modo o nell'altro, di dritto o di rovescio, al famoso zio Trapspringer. «Zio Trapspringer era il terzo cugino della zia di mia madre, dal lato paterno e acquisito per matrimonio», disse Eider Thistledown. «Davvero stupefacente!» esclamò Tasslehoff. «Zio Trapspringer era cugino di secondo grado della moglie dello zio di mio padre». «Fratello!» gridò Eider, spalancando le braccia. «Fratello!» fece eco Tasslehoff, precipitandosi in quell'abbraccio. Quella scena si ripeté lungo tutta la linea di kender, portando a stabilire che Tasslehoff era strettamente imparentato con tutti e quindici anche se non aveva mai visto nessuno di loro in tutta la sua vita. Era giunto adesso il momento della terza fase: con estrema cortesia, Tasslehoff chiese agli altri kender se nel corso dei loro viaggi avevano acquisito qualche oggetto interessante, con il risultato che tutti i kender si sedettero nel bel mezzo della strada, svuotarono le loro sacche e cominciarono a frugare gli uni nelle cose degli altri mentre il traffico si bloccava alle loro spalle.
«Avvia il carro, Tanis!» incitò Flint, in un rauco sussurro. «Più in fretta! Più in fretta! Forse riusciremo a seminarlo». Ben sapendo che Tas sarebbe rimasto impegnato in quella divertente attività per almeno una giornata, Tanis seguì il consiglio del nano anche se non sperava che potessero seminare davvero il kender, per quanto avessero cercato di viaggiare veloci. Quella notte stessa, mentre stavano preparando il campo, Tas infatti li raggiunse stanco, affamato, senza neppure più indosso gli stessi vestiti di prima, ma assolutamente felice. «Hai sentito la mia mancanza, Flint?» chiese, sedendosi accanto al nano, e ignorando il tonante diniego di quest'ultimo procedette a mostrare ai suoi compagni i nuovi tesori che aveva acquisito. «Guarda, Flint, ho un'intera serie di nuove mappe, fatte davvero bene, tanto che non ne ho mai viste di così buone. Mio cugino dice che provengono da Istar, che non esiste più perché è stata distrutta durante il Cataclisma. Su di esse sono disegnate piccole montagne e piccole strade, e c'è perfino un piccolo lago, e ci sono nomi scritti dappertutto. Io non ho mai sentito nominare nessuno di questi posti e non so dove siano, ma se mai ci vorrò andare adesso ho una mappa che mi può indicare come arrivarci». «Se non sai dove si trova qualcosa, a che ti serve una mappa, pomolo di porta?» obiettò Flint. Tas rifletté per un momento, poi evidenziò la pecca nel ragionamento del nano. «Però senza mappa non ci posso arrivare, giusto?» ribatté. «Tu hai appena detto che non sai dove sia quel posto, il che significa che non ci puoi arrivare neppure con la mappa!» tuonò Flint, irritato. «Ah, ma se mai ci arriverò saprò dove sono» dichiarò Tasslehoff in tono di trionfo, e a questo punto Tanis intervenne a cambiare argomento prima che il nano, ora estremamente rosso in faccia, si facesse scoppiare qualche importante vaso sanguigno. Verso mezzogiorno dell'indomani arrivarono alle porte della Signoria di Haven. Pomposamente, i residenti di Haven avevano ribattezzato la loro città una Signoria perché nella loro mente essa rivaleggiava con la favolosa metropoli settentrionale di Palanthas. Naturalmente nessuno degli abitanti di Haven era mai stato a Palanthas, il che poteva forse spiegare le loro erronee convinzioni, dato che in realtà Haven non era nulla di più grandioso di
un'ampia comunità agricola collocata su una zona di terra estremamente fertile, il cui ricco terriccio veniva nutrito quasi ogni anno dalle piene del fiume Whiterage. In questi giorni di relativa pace fra le diverse razze che abitavano l'Abanasinia, i raccolti di Haven contribuivano a nutrire sia i nani di Thorbardin sia gli umani di Pax Tharkas. Quanto agli elfi di Qualinesti, essi non apprezzavano il cibo coltivato dagli umani ma avevano scoperto che i vigneti sui pendii soleggiati dei Monti Kharolis producevano uve notevolmente dolci, che venivano quindi importate a Qualinesti per fare con esse il vino famoso in tutto Ansalon. La canapa di Haven era molto apprezzata dal Popolo delle Pianure che la intrecciava in modo da ottenere corde resistenti, il legno era utilizzato dagli abitanti di Solace per costruire le loro case e le loro botteghe. Di conseguenza, la Fiera della Festa del Raccolto non era soltanto l'occasione per celebrare un anno di eccellente rendimento dei campi ma anche di rendere un tributo alla prosperità agreste di Haven. La città era circondata da una palizzata di legno che serviva a tenere lontani branchi di lupi in caccia piuttosto che eserciti, dato che Haven non era mai stata attaccata né prevedeva di esserlo, considerato che dopo tutto questa era l'Era della Pace. Le porte della palizzata venivano chiuse soltanto di notte e restavano spalancate durante il giorno, controllate da sentinelle che fungevano più da comitato di benvenuto che da guardie e scambiavano saluti amichevoli con i visitatori che riconoscevano da un anno all'altro, dando al tempo stesso un cordiale benvenuto a chi era un volto nuovo. Flint e Tanis erano ampiamente conosciuti e tenuti in alta considerazione, al punto che il sergente di turno venne di persona a stringere la mano al nano e al mezzelfo, e a fissare con ammirazione Kitiara. Il sergente affermò poi di aver sentito la mancanza dell'abituale visita estiva del nano e gli chiese dove fosse stato per tutta l'estate, ascoltando con profonda commiserazione la storia dolente di Flint e garantendogli che avrebbe trovato ad attenderlo la consueta bancarella che occupava sempre all'interno della fiera. A quanto pareva anche Tasslehoff era ben noto, dato che il sergente lo fissò con espressione accigliata e gli suggerì di andare fin d'ora a rinchiudersi da solo in prigione in modo da risparmiare in seguito a tutti una quantità di tempo e di fastidi. Pur ritenendo che fosse estremamente gentile da parte del sergente fargli un'offerta così generosa, Tasslehoff si vide però costretto a rifiutare.
«Flint fa affidamento su di me, sai» affermò, per fortuna senza essere sentito dal nano. Il sergente diede quindi il benvenuto ai tre giovani e nell'apprendere che quella era la loro prima visita ad Haven si augurò che non trascorressero tutto il loro tempo lavorando e che si concedessero l'opportunità di dare un'occhiata in giro. Dopo aver stretto di nuovo la mano a Flint avvertì in tono sommesso Tanis che doveva considerarsi responsabile per il kender, s'inchinò a Kitiara e si avviò ad accogliere il carro successivo che stava oltrepassando le porte di legno. Una volta all'interno della palizzata, il gruppo venne avvicinato da un giovane che indossava una veste azzurro cielo e che segnalò loro di fermare il carro. «Cosa succede?» domandò Tanis. «È uno di quei preti di Belzor», replicò Flint, fissando il soggetto in questione con occhi roventi. «Ha un serpente? Voglio vedere!» intervenne Tasslehoff, preparandosi a saltare giù dal carro. «Non ora, Tas», ingiunse però Tanis, in un tono a cui a volte era capitato che lui obbedisse. Per sicurezza, Caramon intanto afferrò il kender per il colletto del giustacuore a strisce verdi e porpora, trattenendolo saldamente. «Cosa possiamo fare per te, signore?» domandò intanto Tanis, alzando la voce per farsi sentire al di sopra del frastuono dei carri che passavano, dei cavalli che nitrivano e della folla che fluiva loro intorno. «Vorrei parlare con quel giovane dalla veste bianca» rispose il prete, appuntando la propria attenzione su Raistlin. «Sei forse un mago, fratello?». «Soltanto un mago novizio, signore» rispose con umiltà Raistlin. «Non mi sono ancora sottoposto alla Prova». Il prete si avvicinò al carro dal lato su cui era seduto Raistlin e sollevò lo sguardo su di lui con espressione seria e intensa. «Sei molto giovane, fratello. Sei consapevole del male con cui stai avendo a che fare... di certo senza rendertene conto?». «Male?» ripeté Raistlin, protendendosi oltre il lato del carro. «No, signore, non ho nessuna intenzione di fare del male. Cosa vuoi dire?». «Vieni fuori del tempio di Belzor per ascoltarci, fratello», esortò il prete, serrando la mano intorno a quella di Raistlin. «Allora tutto ti sarà spiegato, e non appena avrai capito che stai adorando falsi dèi rinuncerai ad essi e alle loro arti malvagie, ti toglierai quella veste immonda e camminerai di nuovo alla luce del sole. Verrai, fratello?».
«Con gioia!» esclamò Raistlin. «Le tue parole mi hanno terrorizzato». «Cosa? Ma, Raist...» accennò a protestare Caramon. «Zitto, grosso idiota!» ingiunse però Kitiara, affondandogli le unghie nel braccio. Il prete fornì intanto a Raistlin le indicazioni necessarie perché potesse trovare il tempio, che a suo dire era il più grosso edificio di Haven e si trovava esattamente nel centro della città. «Dimmi, signore» chiese Raistlin, dopo aver avuto le indicazioni, «c'è forse una persona connessa al tempio che si chiama Judith?». «Sì, fratello! È la nostra reverendissima sacerdotessa, colei che ci comunica la volontà di Belzor. La conosci?». «Soltanto di fama» rispose Raistlin, in tono rispettoso. «È triste che tu sia un mago che si dichiara tale, fratello, altrimenti ti potrei invitare all'interno del tempio per assistere alla cerimonia del Miracolo. La Sacerdotessa Judith evocherà Belzor, che apparirà fra noi questa stessa notte, poi parlerà con i Benedetti di Belzor che sono passati alla vita ultraterrena». «Mi piacerebbe vederlo», affermò Raistlin. «Ahimè, fratello, ai maghi non è permesso di assistere al Miracolo. Perdonami se ti dico questo, fratello, ma Belzor è offeso dalle vostre usanze malvagie». «Io non sono una maga», intervenne Kitiara, rivolgendo un sorriso affascinante al giovane prete. «Potrei venire nel tempio?». «Ma certo! Tutto il resto di voi è il benvenuto. Vedrete compiere miracoli meravigliosi che vi lasceranno stupefatti e cancelleranno in voi ogni dubbio, inducendovi a credere in Belzor con tutto il cuore e con tutta l'anima». «Grazie. Ci sarò», promise Kitiara. Il prete elargì loro solennemente la benedizione di Belzor poi procedette a interrogare gli occupanti di un altro carro in arrivo. «Non mi serve la simpatia di nessun dio che ami i serpenti», sbuffò allora Flint, ripulendosi i vestiti dalla benedizione. «Quanto a te, ragazzo, ammetto di non amare la magia com'è proprio di ogni vero nano, ma mi pare che per te sia molto meglio diventare un mago che un seguace di Belzor». «Sono d'accordo con te, Flint», assentì Raistlin, in tono grave, ritenendo che quello non fosse il momento più adatto per ricordare al nano le sue arringhe contro la magia in tutte le sue forme e manifestazioni. «Peraltro non
mi farà male parlare con questo prete e scoprire cosa comporti quest'adorazione di Belzor, che potrebbe davvero essere uno dei veri dèi che noi tutti stiamo cercando. Inoltre mi piacerebbe moltissimo assistere a questi miracoli di cui parlano». «Sì, anch'io sono interessata a Belzor», interloquì Kitiara, «e credo che stanotte andrò al tempio. Tu potresti venire con me, fratellino: basterà che cambi vestiti ed è improbabile che chiunque ti possa riconoscere». «Non mi costringerete a venire con voi, vero?» domandò Caramon, a disagio. «Non che voglia mancare di rispetto a Belzor, ma ho sentito dire che le taverne di Haven sono davvero accoglienti, soprattutto nel periodo della fiera, e...». «No, fratello mio, non c'è bisogno che venga anche tu», tagliò corto Raistlin. «Nessuno di voi è obbligato a venire», aggiunse Kitiara. «Raist e io siamo i soli membri di questa famiglia portati per la spiritualità». «Io invece credo che siate i membri pazzi della famiglia», dichiarò Caramon. «Questa è la nostra prima notte ad Haven e voi volete visitare un tempio... e comunque cos'era quella storia di una sacerdotessa di nome Judith?» domandò, poi s'interruppe, sbatté le palpebre e ripeté con espressione accigliata: «Judith. Vengo anch'io», disse quindi, fissando con espressione dura il fratello e Kitiara. «Vengo anch'io!» esclamò Tas. «Magari riuscirò a vedere di nuovo quei serpenti, per non parlare della possibilità di comunicare con quelli che sono già passati alla vita ultraterrena. A proposito, questo cosa significa?». «Significa che parlano con i morti», gli spiegò Raistlin. «Prima d'ora non ho mai parlato con un morto», dichiaro Tas, sgranando gli occhi. «Pensi che mi lascerebbero parlare con lo zio Trapspringer? Non che si sia sicuri che sia morto, bada bene, dato che al suo funerale c'è stata una certa confusione perché un minuto prima il corpo era lì e quello successivo era sparito. In vecchiaia, zio Trapspringer aveva la tendenza ad essere distratto, quindi qualcuno ha detto che forse si era dimenticato di essere morto e se n'era andato a zonzo; o magari aveva provato ad essere morto, non gli era piaciuto ed era quindi tornato in vita, o anche è possibile che il becchino abbia perso il corpo. In ogni caso, parlargli sarebbe un modo per accertare la verità». «Questo taglia la testa al toro!» grugnì Flint. «Io non ho nessuna intenzione di avvicinarmi a questo tempio perché è già abbastanza spiacevole parlare con un kender vivo per voler parlare con uno morto».
«Io andrò perché è mio dovere», dichiarò Sturm. «Se davvero stanno compiendo miracoli nel nome di Belzor è mio compito portare ai Cavalieri questa notizia». «Credo che verrò con voi», aggiunse Tanis, ma del resto questo era già stato sottinteso nel momento in cui Kitiara aveva espresso l'intento di andare al tempio. «Siete tutti pazzi», ribadì Flint, mentre il carro si andava ad unire agli altri diretti verso il terreno della fiera. «A quanto pare non ci potremo divertire quanto pensavamo di fare», sussurrò Kitiara a Raistlin, scoccando un'occhiata in direzione di Tanis. Raistlin però le prestò poca attenzione perché stava cercando di localizzare la Via degli Erboristi, dove secondo il Maestro Theobald si trovava la bottega che vendeva articoli per maghi. CAPITOLO UNDICESIMO A quel tempo le strade di Haven non avevano un nome, anche se quella era una delle migliorie civiche attualmente in fase di vaglio, soprattutto dopo che un coraggioso viaggiatore aveva accennato al fatto che gli abitanti di Palanthas davano un nome alle loro strade e per di più erigevano in ciascuna strada un cartello su cui era scritto come essa si chiamava e questo per permettere al viandante confuso di orientarsi. Sebbene i visitatori che arrivavano ad Haven avessero di rado modo di confondersi perché se erano abbastanza alti potevano vedere il villaggio da un'estremità all'altra, l'Alto Sceriffo di Haven si era comunque convinto che quella dei cartelli per indicare le strade fosse un'idea eccellente e aveva deciso di metterla in pratica. Molte strade di Haven avevano del resto già un nome logico che aveva a che fare con la natura delle merci vendute in ciascuna di esse, com'era nel caso della Via del Mercato, della Via dei Mugnai o della Via delle Lame; altri nomi avevano invece a che vedere con la natura stessa della strada in questione, come la Via Storta o i Tre Bivi, e altre ancora prendevano il nome dalle famiglie che vi abitavano. La Via degli Erboristi era facile da trovare, soprattutto basandosi più sull'odorato che sulla vista dato che il profumo del rosmarino, della lavanda e della cannella aleggiava nell'aria e creava un piacevole contrasto con la puzza di sterco di cavallo presente lungo la strada; le bancarelle e le botteghe presenti nella Via degli Erboristi erano contrassegnate da mazzetti di
piante secche appesi a testa in giù sotto il sole, cesti di semi e di foglie secche erano disposti in modo artistico lungo la strada in modo da indurre i passanti in tentazione e spingerli a fare acquisti. Arrivati a quella via, Raistlin chiese a Tanis di fermare il carro. «Ci sono delle erbe che non coltivo direttamente e con cui non ho familiarità», spiegò, «quindi mi piacerebbe rinnovare le mie provviste e discutere del loro impiego». Dopo avergli spiegato come trovare la bancarella di Flint sul terreno riservato alla fiera, Tanis gli augurò di divertirsi e Raistlin balzò giù dal carro, seguito naturalmente da Caramon; quanto a Tasslehoff si venne a trovare in preda ad un'angosciosa indecisione nel tentare di decidere se andare con Raistlin o restare con Flint, e alla fine Flint e la fiera vinsero soltanto perché nello sbirciare lungo la strada il kender non riuscì a vedere altro che piante, che per quanto interessanti non erano certo paragonabili alle meraviglie che lo aspettavano alla fiera. Quella decisione risparmiò una discussione a Raistlin, in quanto lui non avrebbe mai permesso al kender di accompagnarlo ed era anche incerto per quanto concerneva Caramon. Era infatti stata sua intenzione visitare il negozio di articoli per maghi da solo e in segreto e non aveva detto a nessuno che intendeva andarvi, così come non aveva fatto parola con nessuno di quello che sperava di acquistare, e adesso il suo istinto sarebbe stato quello di continuare a mantenere il segreto e di ordinare a suo fratello di andare con Flint. Capitava di rado che lui discutesse di cose dell'arcano con Caramon e non lo faceva mai con i suoi amici, ed era dai giorni della sua gioventù, giorni che adesso ricordava con vergogna, che non vantava o dimostrava apertamente il proprio talento in quanto era perfettamente consapevole che la magia aveva l'effetto di rendere nervose certe persone, com'era del resto logico dal momento che essa dava sugli altri un potere in cui lui si crogiolava. D'altro canto, Raistlin era abbastanza saggio da rendersi conto che un potere del genere poteva essere sminuito dal suo uso ripetuto, perché perfino la magia diventava una cosa comune se veniva utilizzata ogni giorno. L'opinione che lui aveva nei confronti della gente era mutata nel corso degli anni, e se un tempo si era sforzato di farsi amare e ammirare quanto suo fratello adesso era invece giunto a comprendere se stesso e ad affrontare la consapevolezza che lui non avrebbe mai conquistato il tipo di considerazione elargito al suo gemello. Nella casa dell'anima di Caramon, infatti, la porta era sempre aperta, le
imposte della finestra erano spalancate, il sole splendeva quotidianamente e chiunque era il benvenuto; all'interno di quella casa non c'erano inoltre molti arredi, e il visitatore poteva vedere in ogni angolo. La casa dell'anima di Raistlin era invece molto diversa: la porta era sempre sbarrata e veniva aperta appena di una fessura per i visitatori, che del resto non erano molti perché a pochissimi era concesso di varcare quella soglia, senza peraltro che venisse poi permesso loro di avanzare di molto. Le sue finestre erano sempre chiuse e sprangate, e qua e là ardeva una candela che creava una chiazza di calore e di luce nel buio; la casa era piena di arredi e di oggetti strani e meravigliosi senza essere però ingombra o disordinata, tanto che Raistlin aveva modo di reperire all'istante ciò che gli serviva. Dal momento che non potevano individuare gli angoli della sua casa e tanto meno sbirciare in essi, non c'era quindi da meravigliarsi se i visitatori non si fermavano a lungo e fossero riluttanti a tornare. «Dove stiamo andando?» chiese Caramon. Raistlin era sul punto di ordinargli di tornare sul carro ma all'ultimo momento ci ripensò, e senza rispondere si avviò a passo rapido, lasciando Caramon fermo nel centro della strada. «È soltanto sensato che lui mi accompagni», si disse intanto. «Sono uno straniero in una città sconosciuta, non ho protezioni che sia disposto ad usare se non nelle più pericolose circostanze, quindi ho bisogno dell'aiuto di Caramon come ne avrò in futuro: se voglio diventare un mago guerriero dovrò infatti imparare a combattere al suo fianco, quindi tanto vale che mi abitui ad averlo intorno». Quelle ultime riflessioni vennero accompagnate da un sospiro, soprattutto quando Caramon sopraggiunse di corsa con passo pesante, sollevando una grande nuvola di polvere e pretendendo di nuovo di sapere dove stavano andando, che cosa stavano cercando e se avrebbero potuto fermarsi in una taverna lungo la strada. Arrestandosi, Raistlin si girò a fronteggiare il fratello in maniera tanto improvvisa che Caramon indietreggiò barcollando per non rovinargli addosso. «Ascolta bene le mie parole, Caramon, e non le dimenticare», ingiunse in tono duro e severo, ed ebbe la soddisfazione di vedere Caramon reagire come se gli avesse assestato uno schiaffo in piena faccia. «Sto andando in un certo posto ad incontrare una certa persona per acquistare una determinata mercanzia, e ti sto permettendo di accompagnarmi soltanto perché siamo giovani e verremo quindi considerati dei bersagli facili da ladri e
malfattori. Sappi però, fratello mio, che quello che faccio, quello che dico e quello che compro sono cose private e segrete, note soltanto a me stesso e a te, per cui non ne farai menzione con Tanis o con Flint o con Kitiara o con Sturm o con chiunque altro; non dirai nulla di dove siamo stati, di chi ho visto, di cosa ho detto o fatto. Me lo devi promettere, Caramon». «Ma loro vorranno saperlo e mi faranno delle domande. Cosa devo rispondere?» replicò Caramon, manifestamente contrariato. «Tenere dei segreti non mi piace, Raist». «Allora il tuo posto non è accanto a me. Torna indietro!» ordinò freddamente Raistlin, agitando una mano. «Torna indietro dai tuoi amici. Non ho bisogno di te». «Invece ne hai, Raist, lo sai anche tu», ribatté Caramon. Raistlin non rispose subito e incontrò invece con il proprio sguardo deciso quello del fratello, consapevole che quello era un momento dal quale dipendeva tutto il loro futuro. «In tal caso devi fare una scelta, fratello mio. Devi votare a me la tua fedeltà oppure tornare dai tuoi amici», affermò, e nel sollevare una mano per bloccare la intempestiva risposta del fratello aggiunse: «Pensaci bene, Caramon. Se resterai con me dovrai darmi la tua più completa fiducia, obbedirmi implicitamente, non fare domande, mantenere i miei segreti meglio di quanto tu faccia con i tuoi. Allora, cosa decidi?». «Resto con te, Raist», rispose senza esitazione Caramon. «Tu sei il mio gemello e noi apparteniamo l'uno all'altro. Era destino che fosse così». «Può darsi», rispose Raistlin, con un amaro sorriso, pensando che se questo era vero gli sarebbe piaciuto sapere chi avesse determinato quel destino e perché, e gli sarebbe anche piaciuto un giorno scambiare due parole con quel qualcuno. «Avanti, fratello, allora vieni con me». Secondo il Maestro Theobald, la bottega di articoli per maghi si trovava in fondo alla Via degli Erboristi, su quello che era il lato sinistro della strada se ci si metteva rivolti verso nord; posta ad una certa distanza dalle altre botteghe e abitazioni, essa era isolata all'interno di un boschetto di querce. «La bottega si trova al pianterreno della casa», aveva detto Theobald, «mentre l'abitazione del proprietario è al piano superiore. Vederla dalla strada è difficile perché è circondata dalle querce e da un giardino recintato da un muro, ma all'esterno c'è un'insegna... un'asse di legno su cui è dipinto un occhio rosso, nero e bianco.
«Personalmente non ci sono mai andato perché compro tutto ciò che mi serve alla Torre di Wayreth», aveva aggiunto, sbuffando. «Tuttavia, sono certo che Lemuel ha alcuni articoli che possono risultare interessanti per maghi di basso livello». Se c'era una cosa che Raistlin aveva imparato da Theobald questa era come e quando tenere a freno la lingua, quindi aveva soffocato le parole caustiche con cui avrebbe risposto un tempo e aveva ringraziato con cortesia il maestro, cosa che gli aveva fruttato come ricompensa un'ulteriore informazione che sarebbe potuta risultare di inestimabile valore. «Ho sentito dire che Lemuel è interessato all'uso delle erbe, proprio come te», aveva aggiunto Theobald. «Voi due dovreste andare molto d'accordo». Sulla scia di quell'informazione, Raistlin aveva portato con sé un paio di rare specie di piante che aveva scoperte, estratte dal terreno e portate a casa, con il risultato che adesso dal loro trapianto erano nate altre piantine che poteva regalare. La sua speranza era di riuscire in questo modo ad accattivarsi la simpatia di Lemuel e di persuaderlo eventualmente ad abbassare il prezzo dei libri che gli interessavano qualora esso fosse risultato eccessivo per i suoi mezzi. I due gemelli percorsero tutta la Via degli Erboristi, con Caramon che prendeva i suoi nuovi doveri e le sue responsabilità in modo tanto serio che per poco non inciampava nei piedi del fratello al fine di proteggerlo e prese a fissare con occhi roventi chiunque mostrasse un interesse più che superficiale nei loro confronti, oltre a far tintinnare di continuo la spada. Raistlin sospirò nell'accorgersi di quel comportamento, in merito al quale sapeva di non poter fare nulla perché protestare con suo fratello e incitarlo a rilassarsi e a non dar tanto nell'occhio sarebbe servito soltanto a confondergli le idee. Prima o poi Caramon si sarebbe calato nel modo giusto nel suo ruolo di guardia del corpo, ma la cosa avrebbe richiesto del tempo, e nel frattempo a Raistlin non restava che essere paziente e sopportare. Per fortuna lungo la strada non c'erano molte persone che li potessero notare perché gli erboristi erano impegnati a montare i loro banchi alla fiera. Arrivati in fondo alla via i due la trovarono deserta e senza nessuno in vista, e una volta là Raistlin non ebbe difficoltà a individuare la bottega di articoli per maghi in quanto era la sola costruzione presente sul lato sinistro della strada, nascosta alla vista da alcune querce e circondata da un giardino cinto da un alto muro di pietra. Mancava però l'insegna dell'oc-
chio a tre colori appesa sopra l'ingresso e la porta era chiusa, le finestre sprangate; di conseguenza Raistlin temette che la casa fosse abbandonata finché non sbirciò oltre il muro e vide che il giardino era ben curato. «Sei certo che il posto sia questo?» domandò Caramon. «Sì, fratello mio. Forse l'insegna è stata strappata via da una tempesta». «Se lo dici tu», borbottò Caramon, che aveva la mano sull'elsa della spada. «Però lascia che sia io a bussare alla porta». «Neppure per idea!» esclamò Raistlin, allarmato. «Vedere un uomo grande e grosso come te che si acciglia e agita la spada sarebbe sufficiente a terrorizzare qualsiasi mago, e tu potresti trovarti trasformato in un rospo o in qualcosa di peggio. Aspetta qui sulla strada finché non ti chiamerò e non temere: non c'è nulla che non vada», aggiunse, con maggiore sicurezza di quanta ne provasse. Caramon accennò a protestare ma poi ricordò la promessa che aveva fatto e rimase in silenzio, anche se forse la minaccia di una possibile trasformazione in rospo ebbe qualcosa a che vedere con la sua rapida acquiescenza. «Certamente, Raist», assentì, «però cerca di stare attento perché non mi fido di questi maghi». Raistlin si avvicinò alla porta con il corpo che vibrava di anticipazione e di timore, di eccitazione all'idea di poter ottenere ciò che gli serviva e di paura dovuta al pensiero che poteva aver fatto tutta quella strada soltanto per scoprire che il mago se n'era andato. Il suo stato di eccitazione nervosa era tale che quando infine arrivò alla porta le forze gli vennero meno e non riuscì neppure a sollevare la mano tremante per bussare; quando infine ce la fece, il colpo che ne risultò fu tanto debole da costringerlo a bussare ancora. Nessuno venne però ad aprire e nessuna faccia curiosa fece capolino da una finestra. Poco mancò che Raistlin cedesse alla disperazione, perché le sue speranze e i suoi sogni di successo futuro erano tutti basati su questo negozio e lui non avrebbe mai immaginato che potesse essere chiuso, una delusione che non riteneva di poter sopportare dopo aver guardato per tanto tempo con anticipazione all'acquisizione dei libri che gli servivano, aver fatto tanta strada ed essere giunto tanto vicino alla meta. Bussò quindi di nuovo, questa volta con forza molto maggiore, e lanciò anche un richiamo. «Maestro Lemuel! Sei in casa, signore? Vengo da parte del Maestro Theobald di Solace. Sono un suo allievo, e...».
Una piccola finestra inserita nella porta si aprì e in essa apparve un occhio pieno di timore che fissò Raistlin. «Non m'importa di chi sei allievo!» ribatté una voce sottile che giungeva attraverso la piccola apertura. «Cosa credi di fare, gridando il fatto che sei un mago con quanto fiato hai in gola? Vattene!». La finestrella si richiuse di scatto ma Raistlin bussò di nuovo, con forza ancora maggiore. «Lui mi ha consigliato la tua bottega», disse ad alta voce. «Sono venuto per acquistare...». La finestrella si riaprì e l'occhio riapparve. «La bottega è chiusa», disse la voce, poi l'apertura venne di nuovo sprangata. «Ho con me un'insolita varietà di pianta», insistette Raistlin, ricorrendo alla sua carta migliore. «Ho pensato che forse tu non la conoscessi. Si tratta della brionia nera...». La finestrella si spalancò ancora e questa volta l'occhio si mostrò più interessato. «La brionia nera, hai detto? Ne hai un campione?». «Sì, signore», rispose Raistlin, infilando con cautela una mano nella sua sacca ed estraendo con delicatezza un fagotto di foglie, steli e frutti a cui erano ancora attaccate le radici. «Forse t'interessa...». La finestrella si richiuse, ma questa volta Raistlin sentì il rumore di un catenaccio che veniva tirato indietro e un momento più tardi la porta si aprì, rivelando un uomo che indossava una sbiadita veste rossa sporca di terra sulle ginocchia a causa della sua abitudine di inginocchiarsi in giardino. L'uomo doveva essersi alzato in punta di piedi per sbirciare attraverso la piccola apertura nella porta perché era basso quasi quanto un nano, con un fisico compatto e rotondo e una faccia che un tempo doveva essere stata allegra e rossa come il sole estivo ma che adesso appariva come un sole in fase di eclissi perché gli occhi erano ombrati dal timore e la fronte solcata da rughe di preoccupazione. L'ometto sbirciò con ansia in direzione della strada e nel vedere Caramon sgranò gli occhi per la paura, arrivando quasi a richiudere la porta; Raistlin però fu lesto a insinuare un piede nell'apertura e ad afferrare la maniglia per bloccarla. «Signore, ti posso presentare mio fratello?» disse intanto. «Caramon, vieni qui». Obbediente, Caramon si avvicinò a testa bassa e sfoggiando un sorriso imbarazzato.
«Sei certo che sia quello che dice di essere?» domandò intanto il mago, scrutando Caramon con intenso sospetto. «Sì, sono certo che è mio fratello», replicò Raistlin, chiedendosi con un senso di disagio se stava avendo a che fare con un folle. «Se ci guardi con attenzione noterai la somiglianza, perché siamo gemelli». Cercando di rendersi utile, Caramon si sforzò di apparire il più possibile simile al fratello e dal canto suo Raistlin tentò di sfoggiare un sorriso aperto e onesto come quello di Caramon, mentre Lemuel li osservava con attenzione per parecchi momenti durante i quali Raistlin temette di andare in pezzi per la tensione che gli derivava da questo strano colloquio. «Suppongo che sia come dite», affermò infine il mago, senza apparire troppo convinto. «Vi ha seguiti qualcuno lungo la strada?». «No, signore», rispose Raistlin. «Chi avrebbe potuto seguirci, dato che la maggior parte della gente è alla fiera?» «Loro sono dappertutto, sai» dichiarò Lemuel, cupo, scrutando ancora la strada a destra e a sinistra. «Comunque credo che tu abbia ragione, però a tuo fratello seccherebbe molto andare a controllare che non ci sia nessuno nascosto nell'ombra di quell'edificio laggiù?». Caramon si mostrò notevolmente stupito, ma ad un cenno impaziente del suo gemello fece come gli era stato detto, tornando indietro lungo la strada fino ad una baracca semidiroccata ed esaminando non soltanto la zona in ombra ma anche l'interno. Quando ebbe finito tornò sulla strada, sollevò le mani e scrollò le spalle per indicare che non aveva trovato nulla. «Ecco, signore, hai visto?» chiese Raistlin, segnalando al fratello di tornare indietro. «Siamo soli. La brionia nera è molto bella, ed io l'ho usata con successo per guarire cicatrici e chiudere ferite», aggiunse, protendendo la piantina che aveva in mano. «Sì, ho letto qualcosa al riguardo ma non avevo mai visto la pianta in sé», replicò Lemuel fissando l'esemplare con interesse. «Dove l'hai trovata?».. «Se potessi entrare...». Lemuel scrutò Raistlin con occhi socchiusi, contemplò con desiderio la pianta che aveva in mano e alla fine prese una decisione. «D'accordo, però ti suggerisco di piazzare tuo fratello all'esterno perché faccia la guardia. Non si è mai abbastanza cauti». «Certamente», assentì con sollievo Raistlin. Il mago allora lo trasse dentro e chiuse la porta così in fretta da bloccare fra il battente e lo stipite un bordo della veste del giovane, con il risultato
che fu costretto a riaprire per liberarla. Dopo che il suo gemello fu entrato, Caramon gironzolò nei dintorni per qualche momento, grattandosi la testa e cercando di decidere cosa fare; alla fine trovò da sedersi sopra uno sgretolato muretto di pietra e si dispose a montare la guardia, chiedendosi cosa ci si aspettava che vedesse e cosa avrebbe dovuto fare qualora lo avesse visto. L'interno della bottega del mago era buio perché le imposte chiuse escludevano completamente la luce del sole, quindi Lemuel accese una candela per sé ed una per Raistlin che vide allora con sgomento come tutto fosse in disordine, con una serie di casse e di botti piene a metà sparse in giro e gli scaffali spogli perché gran parte delle merci era già stata imballata. «Un incantesimo per produrre luce costerebbe meno e sarebbe più efficace delle candele», osservò intanto Lemuel, «ma il tormento a cui loro mi hanno sottoposto mi ha talmente sconvolto che da un mese non riesco più a praticare la magia... non che prima fossi un mago particolarmente abile, del resto», aggiunse con un sospiro. «Chiedo scusa, signore, ma chi ti sta tormentando?» domandò infine Raistlin. «Belzor», rispose il mago a bassa voce, guardandosi intorno nella stanza in ombra come se pensasse che il dio potesse balzargli addosso da sopra una credenza. «Ah», commentò Raistlin. «Conosci Belzor, vero?». «Al mio ingresso in città ho incontrato uno dei suoi preti, che mi ha avvisato che la magia è una cosa malvagia e mi ha incitato a recarmi al suo tempio». «Non farlo!» gridò Lemuel, rabbrividendo. «Non ti avvicinare a quel posto. Sai dei serpenti?». «Ho visto che i preti portavano con loro delle vipere», annuì Raistlin, «ma ho supposto che fossero stati loro estirpati i denti». «Niente affatto!» ribatté Lemuel, rabbrividendo. «Quei serpenti sono velenosi e letali. I preti li catturano sulle Pianure della Polvere, ed essere in grado di tenerne uno in mano senza essere morso è considerata una prova di fede». «Cosa succede a quanti mancano di fede?». «Cosa pensi che succeda? Vengono puniti, me lo ha detto un amico che è stato presente ad uno dei loro raduni. Ho tentato di andarci anch'io, ma
hanno rifiutato di lasciarmi entrare, dicendo che avrei contaminato la santità del loro tempio, e adesso sono lieto di questo perché quel giorno stesso uno dei serpenti ha morso una giovane donna che è morta nell'arco di pochi secondi». «Cos'hanno fatto i preti?» chiese Raistlin, sconvolto. «Nulla. La Somma Sacerdotessa ha detto che era la volontà di Belzor», rispose Lemuel, tremando a tal punto da far oscillare la fiamma della candela. «Adesso sai perché ho chiesto a tuo fratello di montare la guardia: sono tormentato dal terrore di svegliarmi una mattina trovando una di quelle vipere nel mio letto, ma del resto non vivrò ancora a lungo nel timore perché loro hanno vinto: ho deciso di arrendermi e come vedi mi sto trasferendo», aggiunse accennando alle casse, poi accostò maggiormente la candela alla pianta e concluse: «Adesso posso esaminare meglio la brionia nera?». «Cosa ti hanno fatto?» chiese Raistlin, nel consegnargli la pianta, poi dovette ripetere la domanda più volte e arrivare a dare al mago una leggera spinta prima di indurlo a staccare la propria attenzione dall'esame della pianta. «La Somma Sacerdotessa in persona è venuta da me e mi ha ingiunto di chiudere la bottega se non volevo affrontare le ire di Belzor. All'inizio ho rifiutato, ma poi i preti sono diventati insistenti e sgradevoli, piazzandosi davanti alla bottega e mettendosi a gridare che io ero uno strumento del male ogni volta che si avvicinava un cliente. Io, uno strumento del male?» sospirò. «Riesci a immaginarlo? Però i preti hanno spaventato la gente che ha smesso di venire da me... e una notte ho trovato una pelle di serpente appesa alla porta. È stato allora che ho deciso di chiudere la bottega e di trasferirmi altrove». «Chiedo scusa se sembro mancarti di rispetto, signore, ma se li temi perché hai cercato di andare al loro tempio?». «Ho pensato che forse li potevo placare, che potevo fingere di adeguarmi in modo da impedire che mi perseguitassero, ma non ha funzionato», spiegò Lemuel, scuotendo tristemente il capo. «Trasferirmi non sarà poi una cosa tanto brutta, anche perché la bottega di articoli per maghi di per sé non ha mai fruttato molto denaro. Quello di cui sentirò la mancanza sono le mie erbe e le mie piante: le sto togliendo dal terreno nella speranza di trapiantarle ma temo che ne perderò la maggior parte». «La bottega non aveva successo?» domandò Raistlin, lanciando un'occhiata malinconica e interessata agli scaffali vuoti.
«Forse ne avrebbe avuto se avessi vissuto in una città come Palanthas», replicò Lemuel, scrollando le spalle. «La maggior parte delle cose che vendevo facevano parte della collezione di mio padre che era un mago notevole, un arcimago. Lui voleva che seguissi le sue orme, ma le sue scarpe erano troppo grandi per me e non potevo sperare di adattarmici perché non ero semplicemente tagliato per fare il mago. Io volevo diventare un contadino, perché ho un'abilità meravigliosa con le piante, ma mio padre non ne ha voluto sapere e ha insistito perché studiassi la magia, e anche se non ero granché ha continuato a sperare che sarei migliorato con il tempo. «Quando infine sono diventato abbastanza grande da sottopormi alla Prova il Conclave non mi ha però ammesso ad essa e Par-Salian ha detto a mio padre che darmi il permesso di affrontarla sarebbe stato un atto equivalente all'omicidio. Lui ne è rimasto terribilmente deluso e se n'è andato di casa quel giorno stesso, quasi vent'anni fa, senza più fare ritorno». Raistlin non stava quasi ascoltando le chiacchiere del mago perché era impegnato ad affrontare l'amara constatazione che il suo viaggio era stato vano. «Mi dispiace», disse, più per se stesso che per il mago. «Non devi dispiacerti», rispose però Lemuel, in tono allegro. «Se devo essere sincero, la partenza di mio padre è stata un sollievo: il giorno stesso in cui lui se n'è andato ho arato il cortile e piantato il mio giardino... a proposito, dobbiamo mettere immediatamente questa pianta nell'acqua!». Con quelle parole Lemuel si diresse verso la cucina, che si trovava sul retro del negozio, spegnendo al tempo stesso la candela perché là le imposte erano aperte e lasciavano entrare la luce del sole. «Che genere di mago era tuo padre?» domandò Raistlin, soffiando per spegnere la propria candela. «Un mago guerriero», rispose Lemuel, prendendosi cura con tenerezza della brionia nera. «Questo è davvero un bell'esemplare. Hai detto di averlo coltivato tu? Che genere di fertilizzante usi?». Raistlin rispose distrattamente, guardando oltre la finestra il giardino di Lemuel che era davvero splendido anche se adesso era in parte dissodato. In qualsiasi altro momento sarebbe stato interessato alle erbe del mago, ma attualmente riusciva a vedere soltanto un'indistinta chiazza verde. Un mago guerriero... Un'idea cominciò a prendere forma nella sua mente, e anche se fu costretto a discutere di erbe per qualche altro momento alla fine riuscì a riportare la conversazione sull'arcimago.
«Era considerato uno dei migliori», dichiarò Lemuel, che era manifestamente orgoglioso di suo padre e non pareva nutrire nei suoi confronti rancori o risentimenti, tanto che nel parlare di lui s'illuminava in volto. «Una volta gli elfi di Silvanesti gli hanno chiesto di andare ad aiutarli a combattere contro i minotauri: dal momento che quegli elfi sono altezzosi e non vogliono aver a che fare con gli umani, mio padre ha detto che quello era un grande onore e ne è stato immensamente soddisfatto». «Quando è partito, tuo padre ha preso con sé i suoi libri d'incantesimi?» chiese con esitazione Raistlin, non osando sperare. «Sono certo che ne ha presi alcuni, quelli più potenti, ma ha abbandonato gli altri. La mia supposizione è che si sia trasferito nella Torre di Wayreth, dove non avrà certo avuto bisogno dei libri d'incantesimi più elementari. Che genere di terriccio consigli?». «Leggermente sabbioso. Li hai ancora? Intendo i libri... mi interesserebbe vederli». «Benedetto Gilean! Certo, sono ancora qui, ma non ho idea di quanti siano o di quanto siano importanti, perché la maggior parte dei maghi con cui faccio, o forse dovrei dire facevo, affari non è molto interessata alla magia di guerra. «Gli elfi vengono qui spesso, negli ultimi tempi soprattutto quelli di Qualinesti, perché a volte hanno bisogno di quella che definiscono "magia umana" e a volte delle mie erbe... non lo avresti mai supposto, vero, considerato che gli elfi sono loro stessi tanto abili con le piante. Eppure mi dicono che io ho parecchie specie che loro non riescono a coltivare, e c'era un giovane che era solito dire che io dovevo avere da qualche parte nelle vene del sangue elfico. È un mago anche lui, quindi forse lo conosci. Si chiama Gilthanas». «Non lo conosco, signore, mi dispiace», replicò Raistlin. «Lo supponevo. Naturalmente io non ho sangue elfico nelle vene perché mia madre era figlia di un fattore ed è nata e cresciuta ad Haven. Ha avuto la sfortuna di essere estremamente bella, cosa che ha attratto l'attenzione di mio padre, altrimenti sono certo che sarei diventato il figlio di qualche onesto contadino. Lei non era molto felice con mio padre, diceva di vivere nel terrore che finisse per incendiare la casa. Hai detto che usi la brionia nera per cicatrizzare le ferite? Quale parte usi, il succo delle bacche oppure triti le foglie?». «Riguardo a quei libri...» azzardò Raistlin, dopo aver soddisfatto Lemuel per quanto concerneva le cure da prestare alla brionia, come innaffiarla e
come utilizzarla. «Oh, sì, sono nella biblioteca, su per le scale e lungo il corridoio, seconda porta a sinistra. Fa' come se fossi a casa tua, mentre vado ad invasare questa pianta. Supponi che tuo fratello gradirebbe mangiare qualcosa mentre monta la guardia?». Raistlin si affrettò su per le scale, fingendo di non sentire Lemuel che lo chiamava per sapere se la brionia nera preferiva la luce diretta del sole oppure un'ombra parziale, e puntò dritto verso la biblioteca, attirato dal canto sussurrato della magia, una melodia affascinante e provocatoria. La porta risultò chiusa ma non a chiave, e si aprì sui cardini stridenti quando lui abbassò la maniglia. La stanza puzzava di chiuso e di muffa, segno evidente che non era più stata arieggiata da anni, sterco secco di topo scricchiolò sotto gli stivali di Raistlin e al suo ingresso sagome scure si precipitarono verso gli angoli più nascosti, inducendolo a chiedersi cosa trovassero i topi da mangiare in quella stanza e ad augurarsi che non si trattasse dei libri. La biblioteca risultò essere un ambiente piccolo arredato con una scrivania, scaffali di libri e una serie di contenitori per pergamene. Nel constatare che questi ultimi erano vuoti, Raistlin rimase deluso ma non sorpreso: gli incantesimi scritti sulle pergamene potevano essere letti ad alta voce da coloro che conoscevano il linguaggio della magia e non richiedevano né l'abilità né il livello di energie necessari per produrre un incantesimo "all'impronta", come si usava dire fra i maghi. Perfino un novizio avrebbe potuto usare un incantesimo su pergamena scritto da un arcimago, a patto che avesse saputo pronunciare correttamente le parole, quindi le pergamene erano molto preziose e da sorvegliare attentamente, e potevano essere vendute ad altri maghi se il possessore non ne aveva più bisogno. Era inevitabile perciò che l'arcimago le avesse portate con sé... abbandonando però molti dei suoi libri. Alcuni di quei volumi giacevano per terra sparsi e rovesciati, come se fossero stati esaminati e poi scartati, ed era possibile vedere sugli scaffali i vuoti rimasti dove l'arcimago aveva prelevato qualche volume prezioso, lasciando gli altri a marcire nella biblioteca. I libri rimasti, che avevano adesso la copertina bianca tinta di un grigio sporco e le pagine ingiallite dal tempo, erano stati ritenuti privi di valore dal loro precedente proprietario ma agli occhi di Raistlin essi scintillavano più di qualsiasi tesoro ammucchiato da un drago. Sopraffatto dall'eccitazione, lui sentì il cuore che prendeva a martellargli nel petto così in fretta
da farlo sentire stordito e prossimo a svenire. Quell'improvvisa debolezza lo spaventò e lo indusse a sedersi su una sedia traballante, traendo parecchi profondi respiri, una cura che per poco non gli diede il colpo di grazia perché l'aria densa di polvere lo fece tossire violentemente e trascorsero alcuni momenti prima che gli riuscisse di riprendere fiato. Notando un libro che giaceva praticamente ai suoi piedi, si chino e lo raccolse, aprendolo. La scrittura dell'arcimago era compatta, con angoli aspri e sporgenti, la netta inclinazione verso sinistra delle lettere indicava che quell'uomo era un solitario che preferiva la propria compagnia a quella degli altri. Con una certa delusione, Raistlin scoprì che quel volume non era in fin dei conti un libro d'incantesimi, dato che era scritto nella lingua comune mista a qualcosa che lui ritenne essere la lingua dei mercenari, un insieme usato dai soldati di professione. Poi lesse la prima pagina e la sua delusione si dissolse. Il libro forniva istruzioni dettagliate su come usare incantesimi magici su armi normali, come spade e asce da battaglia, ed era quindi di immenso valore, almeno per lui. Posatolo da un lato, Raistlin ne prese un altro, questa volta un testo d'incantesimi che dovevano probabilmente essere molto elementari dato che il volume non aveva blocchi magici che impedissero di aprirlo o proibizioni scritte sul frontespizio: constatando che gli riusciva di decifrare soltanto poche parole e che la maggior parte delle altre gli era ignota, lui si rese conto di quanto ancora avesse da imparare e contemplò il volume con amarezza e frustrazione. Esso era stato accantonato e abbandonato dal grande arcimago, che aveva considerato insignificanti gli incantesimi che vi erano annotati, e tuttavia lui non riusciva neppure a decifrarli! «Mi sto comportando da stupido», si rimproverò quindi. «Quando aveva la mia età quell'arcimago era probabilmente ignorante quanto me. Un giorno sarò io a leggere questo libro, io ad accantonarlo». Posò quindi il libro sopra quello esaminato in precedenza e andò avanti con le proprie indagini, che lo assorbirono a tal punto da fargli perdere del tutto la nozione del tempo. Quando infine si rese conto che doveva accostare i libri al naso per riuscire a leggerli si accorse che era ormai il crepuscolo, e mentre stava per andare in cerca di candele Lemuel bussò alla porta. «Cosa vuoi?» domandò Raistlin, in tono irritato. «Scusami se ti disturbo», rispose in tono mite Lemuel, facendo capolino
oltre la soglia, «ma tuo fratello dice che presto farà buio e che dovreste andarvene». «Signore, ti prego, perdona la mia scortesia! Ero così interessato, questi libri sono così affascinanti, che ho dimenticato di non essere a casa mia». «Non importa, non ci badare», lo interruppe Lemuel, con un cortese sorriso. «Sembravi proprio mio padre e mi hai fatto tornare indietro nel tempo, tanto che per un momento mi sono sentito di nuovo un ragazzo. Hai trovato qualcosa di utile?». Raistlin accennò a tre grosse pile di libri che stavano crescendo di dimensioni accanto alla sedia. «Tutti questi. Lo sapevi che qui c'è un resoconto della battaglia combattuta a Silvanesti contro i minotauri, con una descrizione di come usare con efficacia gli incantesimi da battaglia senza mettere in pericolo le proprie truppe? Questi sono tre libri d'incantesimi e devo ancora esaminare gli altri. Ti proporrei di vendermeli tutti, ma so di non avere il denaro necessario», aggiunse, contemplando con tristezza il mucchio e chiedendosi con disperazione come sarebbe mai riuscito a risparmiare tanto denaro. «Oh, prendili e non ci pensare più», disse però Lemuel, abbracciando la stanza con un gesto noncurante. «Cosa? Davvero, signore? Parli sul serio?» esclamò Raistlin, aggrappandosi allo schienale della sedia per sorreggersi, poi si riprese e aggiunse: «No, signore, questo sarebbe troppo, non potrei mai ripagarti». «Sciocchezze! Se non li prendi tu li dovrò trasferire e sto rimanendo a corto di casse», replicò Lemuel, che parlava con estrema disinvoltura dell'abbandonare quella casa ma che si guardava tristemente intorno nel momento stesso in cui cercava di scherzare sulla cosa. «E dopo finiranno in soffitta ad essere divorati dai topi, mentre io preferirei che venissero utilizzati al meglio e so che la cosa farebbe piacere a mio padre. Tu sei il figlio che lui desiderava». Raistlin sentì le lacrime che gli salivano agli occhi: la stanchezza di tre giorni di viaggio, che includevano non soltanto il tempo trascorso sulla strada ma anche quello passato a scalare montagne di speranza per poi sprofondare in vallate di delusione, lo avevano lasciato debole, e adesso la gentilezza e la generosità di Lemuel lo aveva completamente disarmato. Incapace di trovare le parole necessarie per ringraziarlo, rimase immerso in un umile e gioioso silenzio, sbattendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime che gli facevano bruciare gli occhi e gli serravano la gola. «Raist?» chiamò la voce ansiosa di Caramon, fluttuando su per le scale.
«Comincia a fare buio ed io muoio di fame. Stai bene?». «Ti servirà un carro per portare a casa tutta questa roba», osservò intanto Lemuel. «Ho... i miei amici... carro... alla fiera...» balbettò Raistlin, che pareva incapace di mettere insieme una frase coerente. «Splendido. Allora vieni qui quando la fiera sarà finita e ti farò trovare i libri impacchettati e pronti al trasporto». Tirata fuori la propria borsa del denaro, Raistlin la mise fra le mani del mago. «Per favore, accettala. Non è molto e non comincia neppure a saldare il debito che ho contratto con te, ma vorrei che la prendessi lo stesso». «Davvero? Allora l'accetterò anche se non è necessario», sorrise Lemuel. «Ricordo però che una volta mio padre mi ha detto che gli oggetti magici dovevano sempre essere acquistati, mai regalati, perché lo scambio di denaro spezza qualsiasi appiglio che il precedente proprietario possa avere su di essi e li lascia liberi di essere usati dal nuovo padrone». «Se per caso dovessi mai venire a Solace», replicò Raistlin, lanciando un'altra occhiata piena di desiderio alla biblioteca mentre Samuel ne chiudeva la porta, «ti darò talee e sementi di ogni pianta che ho nel mio giardino». «Se sono eccellenti quanto la brionia nera, allora questo sarà un pagamento più che sufficiente», replicò Lemuel, con assoluta serietà. CAPITOLO DODICESIMO Quando infine i due fratelli raggiunsero l'area della fiera, situata a circa un chilometro e mezzo dalla palizzata che circondava la città, era ormai scesa la notte e loro non ebbero difficoltà ad orientarsi perché fuochi da campo numerosi come lucciole indicavano l'accampamento dei diversi venditori; anche se nessuna delle bancarelle avrebbe aperto fino all'indomani l'area pullulava di gente, perché i venditori continuavano ad arrivare e scambiavano saluti con gli amici o battibeccavano allegramente con i concorrenti mentre scaricavano le loro merci. Molte delle costruzioni esistenti erano permanenti perché erano state erette da quei venditori che frequentavano spesso la fiera e venivano chiuse con delle assi durante il resto dell'anno; la bancarella di Flint era una di queste, un piccolo banco di vendita con un tetto che lo proteggeva e porte su cardini che si potevano spalancare in modo da permettere ai clienti di
vedere con comodo le merci esposte in bella vista sul banco e sugli scaffali; una piccola stanza sul retro serviva come alloggio in cui dormire. Flint aveva una posizione ideale, circa a metà dell'intera ampiezza della fiera e vicino alla tenda a colori vivaci di un fabbricante di flauti elfico; all'inizio, lui si lamentò peraltro abbondantemente della continua musica di flauto che scaturiva dalla tenda, ma dopo che Tanis gli ebbe fatto osservare che la musica serviva ad attirare i clienti nella loro direzione, lui dovette tenere per sé i propri borbottii, e ogni volta che Tanis lo sorprendeva a battere il piede a terra a tempo con la musica, si ostinava a sostenere che la circolazione gli si era fermata e stava soltanto tentando di riattivarla. Alla fiera c'erano circa quaranta o cinquanta venditori, oltre a svariate forme d'intrattenimento che andavano dalle tende in cui si mesceva la birra ai venditori di cibo, dagli orsi che danzavano ai giochi d'azzardo studiati per separare i creduloni dalle loro monete, dagli acrobati che camminavano sul filo ai giocolieri e ai menestrelli. All'interno della fiera i mercanti che erano arrivati per primi avevano già scaricato le loro merci e disposto i banchi, e adesso erano pronti per l'indomani; prendendosela comoda, riposavano quindi accanto ai loro fuochi, mangiando e bevendo oppure facendo un giro della fiera per vedere chi c'era e chi non c'era, e scambiandosi pettegolezzi e fiasche di vino. Tanis aveva spiegato ai gemelli come trovare il banco di Flint, e qualche ulteriore domanda posta ad altri venditori fu sufficiente a permettere ai due di giungervi senza problemi; al loro arrivo trovarono Kitiara che camminava avanti e indietro davanti al banco, che era chiuso per la notte con le porte sprangate e munite di lucchetto. «Dove siete stati?» chiese subito Kitiara, in tono irritato, con le mani sui fianchi. «Sono ore che vi aspettiamo! Avete ancora intenzione di andare al tempio, suppongo, quindi si può sapere cosa avete fatto finora?». «Eravamo...» cominciò Caramon. Raistlin gli assestò una gomitata alla base della schiena. «Uh... abbiamo fatto un giro per la città», concluse Caramon, con un rossore colpevole che lo avrebbe tradito se Kitiara non fosse stata troppo assorta per accorgersene. «Non ci siamo resi conto di quanto fosse tardi», aggiunse intanto Raistlin, in tutta sincerità. «Adesso siete qui ed è questo quello che importa», tagliò corto Kit. «Nella tenda c'è un cambio di vestiti per te, fratellino, quindi spicciati a toglierti quella veste».
Raistlin trovò una camicia e un paio di pantaloni di cuoio che appartenevano a Tanis, entrambi troppo larghi per il suo fisico snello ma accettabili in un'emergenza, anche se dovette assicurarsi i pantaloni intorno alla vita con la cintura di corda della sua veste per evitare che gli scivolassero intorno alle ginocchia; legati dietro la nuca i lunghi capelli, li nascose sotto un cappello floscio che apparteneva a Flint e infine emerse dalla tenda, e venne accolto dalle risa divertite di Caramon e di Kitiara. Abituato com'era alla libertà di movimento data dalla veste, i calzoni gli irritavano le gambe, mentre le maniche della camicia continuavano a scivolargli in avanti sulle braccia sottili e il cappello tendeva a scendergli sugli occhi: nel complesso, era soddisfatto del suo travestimento e dubitava che perfino la Vedova Judith lo avrebbe riconosciuto. «Avanti, muovetevi», ingiunse quindi Kitiara, avviandosi verso la città. «Siamo già in ritardo». «Ma io non ho ancora mangiato!» protestò Caramon. «Non c'è tempo, e comunque è meglio che ti abitui a saltare qualche pasto se vuoi diventare un soldato... o forse credi che gli eserciti posino le armi per impugnare la padella?». Caramon inorridì. Aveva sempre saputo che la vita del soldato era pericolosa e quella del mercenario difficile, ma non avrebbe mai immaginato che potessero non dargli da mangiare e d'un tratto la carriera a cui stava guardando con desiderio da quando aveva sei anni perse molto della sua attrattiva. Fermandosi accanto ad un pozzo, lui bevve quindi due tazze d'acqua nella speranza di calmare così i borbottii dello stomaco. «Non mi biasimate se questi rombi spaventeranno i serpenti», commentò sottovoce con Raistlin. «Dove sono Tanis, Flint e gli altri?» chiese Raistlin alla sorella, mentre tornavano verso Haven. «Flint è andato allo Gnomo Scervellato, la sua birreria preferita, mentre Sturm ci ha preceduti al tempio perché non sapeva se voi due ci avreste onorati o meno della vostra presenza; quanto al kender è svanito, e io dico che è meglio così», replicò Kit, come al solito senza fare mistero del fatto che considerava Tasslehoff soltanto una seccatura. «Grazie al kender sono riuscita a liberarmi anche di Tanis, che credo sia meglio non ci accompagni». Caramon lanciò un'occhiata contrariata al fratello, che si accigliò e scosse il capo. «Cosa intendi dicendo che ti sei liberata di Tanis?» insistette però Cara-
mon, troppo turbato per accettare quel sottile avvertimento. «Come hai fatto?». «Gli ho detto che un messaggero ci aveva avvertiti che Tasslehoff era stato messo in prigione», spiegò Kitiara, scrollando le spalle. «Tanis ha promesso alle guardie cittadine di addossarsi la responsabilità del kender, quindi ha dovuto suo malgrado andare a vedere di cosa si trattava». «Ecco laggiù il tempio... è dove brilla quella luce intensa», intervenne Raistlin, indicando, nella speranza che suo fratello cogliesse il suggerimento e lasciasse cadere l'argomento. «È meglio svoltare in questa strada», aggiunse, accennando alla Via degli Stallieri. «Tas è in prigione?» persistette Caramon. «Se non c'è ancora ci sarà presto» rispose Kitiara, con un sorriso ammiccante. «Non ho propriamente detto una bugia». «Credevo che Tanis ti piacesse», affermò Caramon, a bassa voce. «Oh, Caramon, deciditi a crescere!» esclamò Kit, esasperata. «È ovvio che mi piace, mi piace più di qualsiasi altro uomo abbia mai conosciuto, ma questo non vuol dire che voglia averlo intorno ogni minuto di ogni ora di ogni giorno! Inoltre devi ammettere che Tanis tende ad essere un guastafeste. Per esempio, quella volta in cui ho catturato un orchetto vivo avevo deciso di divertirmi un po' a sue spese, ma Tanis ha detto...». «Credo che siamo arrivati al tempio», la interruppe Raistlin. Il tempio di Belzor era una grande e imponente costruzione realizzata con il granito estratto dai vicini Monti Kharolis e trascinato fino ad Haven su slitte trainate da buoi, ma essendo stato eretto in fretta non possedeva né grazia né bellezza e si riduceva ad una struttura squadrata, bassa e tozza, sovrastata da una rozza cupola. In esso non c'erano finestre e degli intagli eseguiti con scarsa abilità, raffiguranti delle vipere, adornavano le pareti di granito. Evidentemente l'edificio era studiato per uno scopo prettamente funzionale, e cioè per ospitare i preti e le sacerdotesse che servivano Belzor e per tenere delle cerimonie in onore del loro dio. Circa venti preti erano schierati in doppia fila fuori delle porte del tempio, in modo da incanalare i fedeli e i curiosi verso la porta aperta; i preti tenevano in mano una torcia fiammeggiante e si mostravano cordiali e sorridenti, invitando tutti a venire ad assistere al miracolo di Belzor. Sui lati della soglia erano stati posti sei grandi bracieri di ferro battuto, con le gambe a forma di serpenti intrecciati, e da essi si levavano alte fiamme che scagliavano scintille nel cielo notturno e riempivano l'aria di un fumo dall'odore soffocante.
Nell'avvertirlo Kitiara arricciò il naso e Caramon tossì, assalito dalla sensazione che esso gli serrasse la gola; accanto a lui Raistlin annusò l'aria e diede un colpo di tosse. «Copritevi il naso e la bocca, presto!» intimò al fratello e alla sorella. «Non respirate questo fumo!». Kitiara si premette subito la mano guantata sul naso e sulla bocca, Raistlin si coprì la faccia con la manica della camicia e Caramon armeggiò per trovare il fazzoletto soltanto per scoprire che era sparito (sarebbe stato ritrovato il giorno successivo nella tasca di Tasslehoff, che ve lo aveva riposto perché non andasse perduto). «Trattenete il fiato!» insistette Raistlin, con voce soffocata dalla manica premuta contro la bocca. Caramon provò ad obbedire, ma proprio mentre stava entrando nel tempio, procedendo con lentezza in mezzo alla folla avviata nella stessa direzione, un accolito si servì di un gigantesco ventaglio per spingergli il fumo in faccia, con il risultato che lui sbatté le palpebre, annaspò e trasse un enorme respiro. «Allontana da noi quella cosa!» ingiunse Kitiara, e quando l'accolito non si mosse abbastanza in fretta da soddisfarla gli assestò una spinta che per poco non lo gettò a terra. Afferrato per una manica Caramon, che stava barcollando come un ubriaco e deviando sulla destra, si mescolò quindi in fretta alla folla che entrava nel tempio e accanto a lei Raistlin sgusciò fra la calca per non essere separato dal fratello e dalla sorella. Percorso un ampio corridoio, sbucarono in una vasta arena sottostante la cupola, dove una serie di panche di granito formavano un cerchio intorno ad un palcoscenico centrale. Tutt'intorno i preti stavano accompagnando la gente a sedersi, e incitarono i tre fratelli a procedere verso il centro della sala per fare posto agli altri che ancora dovevano entrare. «Ecco Sturm!» esclamò Kitiara, e senza badare alle istruzioni dei preti scese parecchi gradini in modo da raggiungere il davanti dell'arena. «Mi sento terribilmente stanco» affermò intanto Caramon, incespicando e portandosi una mano alla testa. «La stanza mi gira intorno». «Ti avevo detto di non respirare il fumo», ribatté Raistlin, facendo del suo meglio per pilotare lungo i gradini i passi esitanti del fratello. «Cos'era quella roba?» domandò intanto Kitiara, da sopra la spalla. «Stanno bruciando semi di papavero, il cui fumo genera una piacevole sensazione di euforia. Trovo interessante notare che a quanto pare Belzor
preferisce che i suoi fedeli versino in uno stato di appannamento mentale». «In effetti è interessante», convenne Kitiara. «Cosa ne sarà di Caramon? Si riprenderà?». Con un sorriso sciocco sul volto, Caramon stava intanto canticchiando fra sé un motivetto popolare. «Gli effetti svaniranno con il tempo», rispose Raistlin, «ma per almeno un'ora non possiamo fare affidamento su di lui qualora ci sia da agire in qualche modo. Siediti, fratello mio, questo non è né il posto né il luogo per mettersi a danzare». «Cosa sta succedendo?» domandò intanto Kitiara a Sturm, che aveva tenuto liberi per loro alcuni posti nelle file anteriori, proprio davanti all'arena. «Nulla d'interessante», rispose lui. Per parlare non c'era bisogno di abbassare la voce perché nella sala regnava un frastuono assordante. Influenzate dal fumo le persone erano euforiche, ridevano e chiamavano gli amici mentre i preti le indirizzavano ai loro posti. «Io sono arrivato in anticipo. Si può sapere cos'hanno tutti?» chiese intanto Sturm, guardandosi intorno con disapprovazione. «Sembra di essere in una birreria e non in un tempio!» aggiunse, scoccando a Caramon un'occhiata carica di rimprovero. «Non sono ubriaco!» protestò questi in tono indignato, scivolando al tempo stesso dalla panca sul pavimento. Massaggiandosi il posteriore si rialzò quindi ridacchiando. «Si tratta di quei bracieri accesi all'esterno: emettono una specie di fumo velenoso», spiegò Kitiara. «Tu non lo hai respirato, vero?». «Quando sono entrato stavano ancora preparando i fuochi», replicò Sturm, scuotendo il capo. «Dov'è Tanis? Credevo che dovesse venire anche lui». «Il kender si è fatto arrestare», rispose Kitiara, scrollando con disinvoltura le spalle, «e Tanis è dovuto andare a tirarlo fuori di prigione». Sturm assunse un'espressione grave. Anche se era affezionato a Tasslehoff, il vizio che questi aveva di «prendere a prestito» le cose altrui lo turbava, inducendolo a tenere a Tas interminabili prediche sulla malvagità del furto, citandogli brani del codice di leggi solamniche noto come la Misura. Tas lo ascoltava con estrema serietà, conveniva che rubare era un peccato terribile e aggiungeva di non riuscire a immaginare che sorta di persona potesse portare via ad un'altra ciò che per questa era più prezioso. In gene-
re a questo punto Sturm si accorgeva della sparizione della sua daga o della sacca del denaro o del pane e formaggio che aveva avuto intenzione di mangiare per pranzo, oggetti che venivano invariabilmente ritrovati addosso al kender che aveva approfittato della predica per impossessarsene. Tanis aveva cercato invano di far capire a Sturm che stava sprecando il suo tempo: i kender erano fatti così fin da quando erano stati creati dalla Gemma Grigia e cambiarli era impossibile. Peraltro l'aspirante cavaliere riteneva che fosse suo dovere cambiare almeno uno di essi, ma finora non aveva avuto molta fortuna. «Forse Tanis arriverà più tardi», disse. «Gli ho conservato un posto». Incontrando lo sguardo di Raistlin, Kitiara sfoggiò il suo sorriso in tralice. Una volta che ebbero preso posto, con Caramon piazzato fra lui e Kitiara in modo da poter essere tenuto sotto controllo, Raistlin fu libero di guardarsi intorno. L'interno del tempio era illuminato in modo molto fioco da quattro bracieri disposti sull'arena centrale, ma quando annusò con cautela l'aria per verificare se si avvertisse l'odore che lo aveva inizialmente avvertito della presenza del derivato dell'oppio nel fumo, Raistlin non riscontrò nulla d'insolito: a quanto pareva i preti volevano che il loro pubblico fosse rilassato ma non comatoso. La luce dei bracieri metteva in evidenza la grande statua di un serpente dotato di cappuccio che incombeva in fondo all'arena. Si trattava di una statua rozzamente intagliata che se esposta ad una luce diretta sarebbe risultata grottesca e addirittura ridicola, ma che vista in quella tremolante penombra appariva invece imponente, soprattutto grazie agli occhi che erano costituiti da specchi e riflettevano il chiarore dei fuochi: quegli occhi scintillanti davano alla vipera gigantesca un aspetto molto realistico e spaventoso, tanto che fra il pubblico parecchi bambini stavano piangendo e più di una donna si lasciava sfuggire un grido nel vedere la statua per la prima volta. Una corda tesa attraverso l'arena proibiva l'accesso e alcuni preti erano di guardia in svariati punti in modo da impedire alla folla di valicare quella barriera; l'unico altro oggetto visibile nel centro dell'arena era una sedia di legno dall'alto schienale. «Quel serpente è veramente grosso, non trovate anche voi?» commentò Caramon ad alta voce, fissando la statua con occhi vitrei. «Zitto, fratello!» ingiunse Raistlin, assestandogli un pizzicotto sul braccio.
«Taci!» borbottò dall'altro lato Kitiara, piantando un gomito nelle costole di Caramon. Questi obbedì, continuando peraltro a borbottare fra sé, e non creò più problemi fino a quando la testa gli si chinò in avanti sull'ampio petto e lui prese a russare; puntellandolo contro il sostegno di granito del sedile alle loro spalle, Kitiara si disinteressò allora di lui e concentrò la propria attenzione sull'arena. In quel momento le porte esterne si chiusero con uno schianto risonante che colse di sorpresa i membri del pubblico, poi i preti chiesero di fare silenzio e con molto agitarsi, tossire e sussurrare la folla si dispose infine ad aspettare i miracoli che le erano stati promessi. Due suonatori di flauto entrarono nell'arena e cominciarono a suonare una musica lamentosa mentre le porte ai due lati della statua si aprivano e una processione di preti e di sacerdotesse vestiti d'azzurro cielo entrava nell'arena. Ciascuno di essi portava in mano una vipera arrotolata in un cesto e mentre avanzavano Raistlin esaminò con attenzione le donne, alla ricerca della Vedova Judith, rimanendo deluso nel non trovarla fra gli altri. Intanto la musica dei flauti si fece più vivace e le vipere sollevarono la testa, prendendo a dondolarsi all'unisono con il movimento dei loro padroni. Raistlin aveva avuto modo di leggere su uno dei libri del Maestro Theobald un resoconto inerente alla pratica dell'incantamento dei serpenti, sviluppata presso gli elfi che non uccidevano nessuna creatura vivente se potevano farne a meno e che si servivano di questo sistema per liberare i loro giardini da serpenti potenzialmente letali. Secondo il libro, l'incantesimo non era di natura magica ma derivava dal fatto che era possibile far scivolare in trance i serpenti mediante la musica, cosa a cui Raistlin aveva fatto fatica a credere. Adesso però nel vedere come le vipere reagissero ai cambiamenti della musica del flauto lui cominciò a pensare che in quelle teorie ci potesse essere qualcosa di vero. Il pubblico era senza dubbio impressionato. Molta gente stava sussultando per la meraviglia e per l'orrore, le donne si stavano raccogliendo le gonne intorno alle caviglie per poi tirare in grembo i bambini e gli uomini borbottavano nell'impugnare il coltello. I preti invece apparivano sereni e tranquilli, e una volta conclusa la loro danza in onore della statua posarono i cesti contenenti i serpenti sul pavimento dell'arena, dove le vipere rimasero ciascuna all'interno del proprio cestino, dondolando la testa con fare assonnato mentre le persone sedute nelle prime file le tenevano d'occhio con aria guardinga.
I preti e le sacerdotesse si disposero quindi in semicerchio intorno alla statua e presero a intonare un canto, guidati da un uomo di mezz'età dalla lunga barba nera striata di bianco che indossava una veste di colore più scuro e di stoffa più pregiata rispetto agli altri e portava al collo una catena d'oro da cui pendeva l'immagine di una vipera; voci sussurrate che circolavano fra gli spettatori affermarono che quello era il Sommo Sacerdote di Belzor. L'uomo aveva un'espressione serena e piacevole, ma Raistlin notò che i suoi occhi erano molto simili a quelli della statua e riflettevano la luce senza emetterne di propria; il canto, che aveva un ritmo sonnolento e monotono, infranto a tratti da grida sonore che non seguivano uno schema preciso e che parevano avere la funzione di svegliare quanti fra il pubblico si erano intanto assopiti, si protrasse così tanto che smise di essere soltanto fastidioso per diventare addirittura irritante e da far tendere i nervi. «È intollerabile», borbottò Sturm. Raistlin si trovò d'accordo con lui perché fra il rumore echeggiante, il fumo prodotto dai fuochi che ardevano nei bracieri e la puzza generata da parecchie centinaia di persone accalcate in una singola stanza priva di finestre, respirare stava diventando sempre più faticoso. Adesso aveva la testa che doleva e la gola che bruciava, e non sapeva per quanto tempo sarebbe ancora riuscito a resistere, per cui si augurò che quella sorta di spettacolo finisse presto perché cominciava a temere di potersi sentire male e di essere costretto ad andarsene senza aver trovato Judith o aver assistito a questi supposti miracoli. Il canto cessò improvvisamente e dal pubblico si levò un sospiro corale, anche se non era possibile capire se fosse di reverenza o di sollievo. Nello stesso momento una porta nascosta che si trovava vicino alla statua si aprì e una donna entrò nell'arena. Protendendosi in avanti Raistlin fissò con attenzione la nuova venuta: sebbene fossero passati molti anni dall'ultima volta che l'aveva vista la riconobbe immediatamente, però volle essere del tutto certo e afferrò quindi Caramon per un braccio, scuotendolo fino a svegliarlo. «Eh?» balbettò Caramon, guardandosi intorno con aria stordita, poi mise a fuoco lo sguardo e di colpo si raddrizzò sulla persona con gli occhi fissi sulla sacerdotessa che era appena entrata... e dalla rigidità che pervadeva ora il corpo del suo gemello Raistlin comprese che anche lui l'aveva riconosciuta. «La Vedova Judith!» esclamò Caramon, con voce rauca.
«È lei?» domandò Kitiara. «Ne sei certo? Io l'ho vista una volta soltanto». «È improbabile che la possa mai dimenticare», replicò Caramon, cupo. «Anch'io l'ho riconosciuta», intervenne Sturm. «Quella è la donna che noi conoscevamo come la Vedova Judith». Sfoggiando un sorriso compiaciuto, Kitiara incrociò le braccia sul petto e si appoggiò comodamente all'indietro con una gamba piegata e appoggiata sull'altro ginocchio, concentrando la propria attenzione esclusivamente sulla sacerdotessa. Raistlin dal canto suo stava a sua volta osservando attentamente Judith, anche se rivederla aveva fatto riaffiorare nel suo animo ricordi dolorosi. Ciò che stava aspettando era di vederle compiere un miracolo. La Somma Sacerdotessa indossava una veste azzurro cielo uguale a quella degli altri fedeli di Belzor tranne che per due particolari: il bordo era ricamato in filo dorato e mentre le altre vesti avevano le maniche molto aderenti la sua aveva maniche voluminose che quando lei allargò le braccia fluttuarono in maniera tale da conferirle un aspetto strano e ultraterreno, cosa accentuata ulteriormente dalla sua carnagione estremamente pallida che Raistlin sospettò essere dovuta ad un abile uso del gesso. Judith si era inoltre scurita le palpebre con il kohl e aveva sfregato della polvere di corallo sulle labbra per renderle più evidenti alla luce tremolante dei fuochi. I suoi capelli erano raccolti sulla nuca in un nodo tanto stretto da tendere la pelle sugli zigomi, cancellando così parecchie rughe e facendola apparire più giovane di quanto non fosse. Nel complesso costituiva uno spettacolo impressionante, che il pubblico saturato dal fumo oppiato apprezzò a fondo, come dimostrarono i mormorii di ammirazione e di reverenza che aleggiarono per l'arena. Quando Judith sollevò le braccia per chiedere silenzio il pubblico obbedì e sul tempio cadde una quiete così totale che non si sentiva neppure un colpo di tosse o un bambino che piangeva. «I supplici che sono stati ritenuti degni possono venire avanti per parlare con coloro che sono passati oltre», intonò il Sommo Sacerdote, che aveva una voce stranamente acuta per un uomo della sua mole. Otto persone che si trovavano in una sorta di recinto da un lato dell'arena scesero le scale in fila per una precedute dai preti; neppure ai supplici venne però permesso di addentrarsi nell'arena e fu loro imposto di fermarsi prima delle corde che la recintavano. Sei erano donne di mezz'età che portavano neri abiti da lutto e che sfog-
giarono un'aria compiaciuta e piena d'importanza nell'entrare al seguito dei preti; la settima era una giovane donna non molto più matura di Raistlin che appariva pallida e consumata, e che a tratti si portava le mani agli occhi. Anche lei era vestita a lutto e il suo dolore era palesemente recente. L'ultimo supplice era uno stolido contadino sulla quarantina, che rimase del tutto immobile con lo sguardo fisso davanti a sé e il volto composto in modo da non tradire nessuna emozione; non essendo vestito a lutto, quell'uomo appariva del tutto fuori posto accanto alle sette donne. «Venite avanti e presentate la vostra richiesta. Cosa volete domandare a Belzor?» intonò il Sommo Sacerdote. Accompagnata da un prete la prima donna venne avanti e si arrestò di fronte alla Somma Sacerdotessa, formulando la sua richiesta: voleva parlare con il suo defunto marito, Arginon. «Voglio essere certa che indossi la maglia di flanella per proteggersi dal freddo», affermò la donna. «È quella che gli ho fatto io». La Somma Sacerdotessa Judith l'ascoltò attentamente e quando lei ebbe finito di parlare le rivolse un cortese inchino. «Belzor prenderà in considerazione la tua richiesta», disse soltanto. Venne il turno della donna successiva che, come la precedente e le quattro che la seguirono, voleva a sua volta parlare con il defunto marito. La Somma Sacerdotessa si mostrò cortese con ciascuna delle supplici, promettendo che Belzor le stava ascoltando. I preti scortarono quindi nell'arena la giovane donna, che congiunse le mani e fissò con estrema serietà la Somma Sacerdotessa. «La mia bambina è morta di... di una febbre. Aveva cinque anni e aveva tanta paura del buio! Voglio essere certa... che non ci sia il buio... dove lei si trova...» balbettò la povera madre, chinando il capo e scoppiando in singhiozzi. «Povera ragazza», mormorò Caramon. Raistlin non replicò perché aveva visto Judith accigliarsi leggermente e comprimere le labbra in quel teso e severo sorriso che ricordava molto bene. Usando un tono alquanto più freddo di quello che aveva impiegato con le altre donne, la Somma Sacerdotessa promise che Belzor si sarebbe occupato della cosa, poi la giovane donna venne accompagnata al suo posto e giunse il turno del fattore. Questi si mostrò nervoso ma deciso: serrando le mani, si schiarì la gola e con voce sonora, parlando molto in fretta senza pause per prendere fiato e
senza soste di punteggiatura, espose il suo caso. «Mio padre è morto sei mesi fa noi sappiamo che aveva del denaro quando è morto perché ne ha parlato quando ha avuto l'attacco che lo ha ucciso deve averlo nascosto ma nessuno di noi è riuscito a trovarlo quello che vogliamo sapere è dove si trova il denaro grazie». Con un breve cenno del capo il fattore tornò al suo posto, quasi calpestando il prete che si era avvicinato per accompagnarlo. Il suo comportamento destò dei mormorii fra il pubblico, dove qualcuno rise e venne immediatamente zittito. «Sono stupito che gli sia stato permesso di presentare una così ignobile richiesta», mormorò Sturm. «Al contrario», replicò Raistlin. «Immagino che Belzor guarderà al suo caso con un occhio di favore», ribatté Raistlin. Sturm si mostrò sconvolto e si tormentò i lunghi baffi scuotendo il capo. «Aspetta e vedrai», consigliò Raistlin. Intanto la Somma Sacerdotessa aveva sollevato nuovamente le braccia per imporre il silenzio e il pubblico trattenne il fiato, pieno di eccitazione e di aspettativa: fra i presenti i più avevano già assistito molte altre volte a questo spettacolo, che era il motivo della loro presenza lì. Abbassando le braccia con un gesto improvviso e drammatico che fece ricadere le ampie maniche sulle mani, nascondendole alla vista, la Somma Sacerdotessa prese a cantilenate un'invocazione a Belzor con la testa inclinata da un lato, gli occhi chiusi e le labbra che si muovevano in una silenziosa preghiera. E la statua si mosse. Poiché la sua attenzione era concentrata su Judith, Raistlin recepì il movimento soltanto con la coda dell'occhio e subito spostò lo sguardo sulla statua, dando al tempo stesso di gomito al fratello per indurlo a guardare a sua volta. «Eh?» esclamò Caramon, con un violento sussulto. La rozza statua di pietra della vipera pareva essersi animata e si stava agitando e contorcendo, anche se nel fissarla con occhi socchiusi Raistlin ebbe l'impressione che non fosse veramente la statua in se stessa a muoversi. «È come un'ombra», mormorò fra sé. «È come se l'ombra del serpente avesse preso vita, e mi chiedo...». «Avete visto?» esclamò Caramon, sussultando meravigliato. «È viva! Kit, hai visto? Sturm? La statua è viva!». La forma d'ombra del serpente, con il cappuccio dilatato, scivolò in a-
vanti attraverso l'arena. La vipera era enorme, con la testa oscillante che sfiorava le travi del soffitto e con la lingua biforcuta che saettava di continuo fuori delle fauci mentre strisciava verso la Somma Sacerdotessa. Fra il pubblico le donne urlarono, i bambini stridettero e gli uomini gridarono rauchi avvertimenti. «Non abbiate paura!» esclamò però la Somma Sacerdotessa, sollevando le mani con il palmo proteso verso l'esterno per tranquillizzare i fedeli. «Quello che vedete è lo spirito di Belzor e lui non farà del male ai giusti. Viene a portarci notizie dall'Oltre». Il serpente si arrestò alle spalle di Judith e prese a far oscillare benevolmente sopra di lei la testa incappucciata, fissando al tempo stesso la folla con occhi scintillanti. Nel guardare verso i preti e le sacerdotesse che si trovavano nell'arena, Raistlin constatò che alcuni, soprattutto i più giovani, stavano contemplando il serpente con meraviglia e con fede assoluta, condivisa dal pubblico che stava assaporando a fondo quel miracolo. Sconcertata, Kitiara era suo malgrado impressionata da quanto stava vedendo e Caramon stava sviluppando in fretta una fede cieca: a quanto pareva soltanto Sturm era ancora dubbioso, ma del resto ci sarebbe voluto più di una statua che si animava per sloggiare Paladine dal suo animo. Judith intanto sollevò la testa con un'espressione estatica sul volto, rovesciò gli occhi all'indietro nelle orbite e socchiuse le labbra, mentre un velo di sudore le appariva sulla fronte. «Belzor chiama Obadiah Miller!». La vedova del defunto Miller venne avanti con aria nervosa e con le mani serrate mentre Judith chiudeva gli occhi, barcollava leggermente e prendeva a ondeggiare secondo lo stesso ritmo del serpente. «Puoi parlare a tuo marito», disse alla donna. «Obadiah, sei felice?» chiese la vedova. «Molto felice, Allodola» rispose Judith, con voce alterata, profonda e grave. «Allodola!» esclamò la vedova, serrandosi le mani al seno. «Era il soprannome che usava per me! È davvero Obadiah!». «Mia cara», continuò intanto il defunto Obadiah, «mi farebbe molto piacere se tu elargissi una parte del denaro che ti ho lasciato al Tempio di Belzor!». «Lo farò, Obadiah, lo farò!». La vedova avrebbe voluto parlare più a lungo con il marito, ma i preti la sospinsero con gentilezza al suo posto in modo da permettere alla vedova
successiva di farsi avanti. La seconda donna salutò il defunto marito e chiese se l'anno successivo avrebbero dovuto piantare cavoli oppure seminare rape nel tratto di terra che si stendeva sul pendio soleggiato. Parlando tramite Judith il defunto optò per i cavoli e aggiunse che gli avrebbe fatto molto piacere se una porzione di tutti i loro prodotti fosse stata elargita al Tempio di Belzor. Nel sentire quelle parole, Kitiara si raddrizzò di scatto e scoccò un'occhiata interrogativa a Raistlin, che incontrò il suo sguardo e annuì una volta in maniera quasi impercettibile. Kitiara inarcò allora le sopracciglia in una silenziosa domanda e Raistlin scosse il capo perché non era ancora giunto il momento di agire. Soddisfatta, Kitiara tornò a rilassarsi e il sorriso compiaciuto le riaffiorò sulle labbra. Una per volta anche le altre vedove parlarono con i loro cari defunti e ogni volta il marito così evocato riuscì a dire qualcosa che soltanto la moglie poteva sapere, concludendo immancabilmente con una richiesta di denaro a favore di Belzor, che le vedove promisero di elargire nell'asciugarsi dal volto lacrime di gioia. Judith chiese quindi al fattore che cercava l'eredità perduta di farsi avanti. Seguì un dialogo fra padre e figlio relativo alle devastazioni portate dai vermi delle patate, una conversazione che Belzor, che parlava per il tramite di Judith... parve trovare tediosa; appena possibile, la Somma Sacerdotessa passò all'argomento del denaro nascosto. «Ho detto a Belzor dove trovare il denaro», affermò il defunto fattore, parlando per bocca di Judith. «Non intendo rivelare ad alta voce il suo nascondiglio per timore che qualche persona disonesta ne approfitti mentre sei lontano da casa. Torna domani con un'offerta per il tempio e riceverai l'informazione che cerchi». Il fattore chinò il capo diverse volte, grato come se Belzor gli avesse consegnato sul posto una cassa piena di monete d'acciaio. Infine giunse il turno della madre a cui era morta la bambina. Rammentando l'espressione minacciosa apparsa sul volto della Somma Sacerdotessa, Raistlin s'irrigidì: non riusciva infatti a immaginare che Belzor potesse ricavare offerte consistenti da quella poveretta che aveva gli abiti logori, le scarpe che dovevano essere state scartate da qualcun altro perché non le calzavano bene e la testa coperta da uno scialle sbrindellato. La sua persona e gli abiti erano però puliti, i capelli erano ben pettinati e in passato lei doveva essere stata graziosa, come sarebbe tornata ad esserlo
quanto il tempo avesse smussato gli aspri angoli del suo dolore. La testa di Judith dondolò di qua e di là, e quando lei riprese a parlare lo fece con la voce acuta di una bambina, palesemente terrorizzata. «Mamma! Mamma! Dove sei? Mamma, ho paura! Aiutami, mamma! Perché non vieni da me?». «La mamma è qui, Mia, piccolina!» esclamò la donna, rabbrividendo e protendendo le braccia. «La mamma è qui! Non avere paura!». «Mamma! Mamma! Non riesco a vederti! Mamma, delle bestie terribili stanno venendo a prendermi! I ragni, mamma, e i topi! Mamma, aiutami!». «La mia bambina!» gridò la donna, cercando di precipitarsi nell'arena, e quando i preti la trattennero prese a implorare: «Lasciatemi andare da lei! Cosa le sta succedendo? Dov'è?». «Mamma! Perché non mi aiuti?». «Lo farò!» promise la madre, torcendosi le mani per poi serrarle strettamente. «Dimmi come!». «Il padre della bambina è un elfo, vero?» domandò Judith, che ora stava parlando con la sua voce e non con quella di una bambina. «Lui... lo è in parte», balbettò la giovane donna, sorpresa e guardinga. «Il suo bisnonno era un elfo. Perché? Cosa c'entra questo?». «Belzor non guarda con favore ai matrimoni fra gli umani e persone di razze inferiori. Tali matrimoni sono un complotto degli elfi per indebolire l'umanità in modo che cada un giorno sotto il loro dominio». Dal pubblico si levarono mormorii di approvazione e molti presero ad annuire. «La tua bambina è maledetta a causa del suo sangue elfico», continuò intanto Judith, «e per questo dovrà vivere in eterno nell'oscurità e nei tormenti». «Che follia è questa?» sbottò Sturm, con voce bassa e irosa, inducendo parecchi fra quanti lo sentirono a scoccargli occhiate in tralice. «Una follia pericolosa», rispose Raistlin, serrando la mano intorno al polso dell'amico. «Taci, Sturm, non dire più nulla. Non è ancora il momento». «Tu e tuo marito non siete graditi qui ad Haven», proseguì intanto Judith. «Andatevene subito, prima che vi accada qualcosa di peggio!». «Ma dove andremo? Cosa faremo? La terra è tutto quello che abbiamo ed è poca cosa! E la mia bambina... che ne sarà della mia povera bambina?». «Belzor ha pietà di te, sorella», replicò Judith, in tono ora più dolce.
«Donate la vostra terra al tempio e forse Belzor si sentirà indotto a liberare la tua bambina dall'oscurità per portarla nella luce». Judith abbassò quindi la testa sul petto e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, chiudendo gli occhi. Alle sue spalle la sagoma ombrosa della vipera indietreggiò fino a fondersi con la statua e a svanire, poi Judith risollevò il capo e si guardò intorno come se non avesse idea di dove fosse o di cosa fosse successo, e il Sommo Sacerdote si affrettò a sostenerla prendendola per un braccio mentre lei contemplava il pubblico con un sorriso beato sulle labbra. «L'udienza presso Belzor è conclusa», dichiarò allora il Sommo Sacerdote. I preti e le sacerdotesse raccolsero i cestini contenenti le vipere incantate, formarono una processione e girarono per tre volte in cerchio intorno all'arena invocando il nome di Belzor prima di andarsene attraverso la porta adiacente la statua. Nel frattempo alcuni accoliti presero a circolare fra la folla, accettando con grazia tutte le offerte fatte nel nome di Belzor e con la sua benedizione, e il Sommo Sacerdote accompagnò Judith alla porta principale del tempio, dove lei salutò i fedeli che imploravano la sua benedizione e gettavano al tempo stesso monete d'acciaio in un grande cesto posato ai suoi piedi. Vicino all'arena era rimasta soltanto la povera madre affranta e sola. «Abbiate pietà della mia povera bambina!» implorò la donna, aggrappandosi ad uno degli accoliti. «Non ha colpa del sangue che le scorre nelle vene». «Hai sentito la volontà di Belzor, donna», ribatté freddamente l'accolito, liberandosi dalla sua stretta. «Sei fortunata che il nostro dio sia così misericordioso: quello che chiede per liberate la tua bambina dal tormento eterno è un piccolo prezzo». La giovane madre si nascose il volto fra le mani. «Dov'è andato il serpente?» chiese intanto Caramon, alzandosi in piedi con mosse incerte. Afferrandolo saldamente, Raistlin lo trattenne dall'addentrarsi nell'arena alla ricerca della vipera gigantesca. «Kitiara, Sturm, riportate Caramon alla fiera e mettetelo a letto»,ordinò. «Io vi raggiungerò là». «Non voglio credere in questo miracolo, ma non posso neppure spiegarlo», affermò Sturm, fissando la statua. «Io posso spiegarlo ma non ne ho l'intenzione», ribatté Raistlin. «Non
ora». «Cosa vuoi fare?» chiese Kitiara, afferrando il barcollante Caramon per il dietro della camicia. «Vi raggiungerò più tardi», si limitò a rispondere Raistlin, e si allontanò prima che Kitiara potesse insistere per accompagnarlo. Facendosi largo fra gli accoliti che circolavano ancora con i loro cesti, scese verso l'arena dov'era ferma la madre della bambina morta, isolata da tutto e da tutti. Nel passarle accanto un uomo le diede una spinta, definendola una «sgualdrina elfica», mentre una donna le si avvicinò e le disse con voce stentorea che era un bene che la sua bambina fosse morta, perché sarebbe stata soltanto un mostro dagli orecchi a punta. Vedendo la povera madre ritrarsi da quelle parole come da colpi crudeli, Raistlin sentì insorgere dentro di sé un'ira alimentata dal ricordo di parole che gli erano state gridate contro tanto tempo prima, parole che i deboli usavano per infierire su chi era più debole di loro, e nelle fiamme roventi di quell'ira un'idea prese forma a poco a poco, emergendone come una lama d'acciaio incandescente e pronta ad essere forgiata. Nel tempo che impiegò a muovere tre passi lui elaborò nella mente il piano che avrebbe usato per portare alla rovina la Somma Sacerdotessa Judith e per screditare tutti i falsi preti di Belzor, causando la caduta di quel falso dio. Avvicinandosi alla sventurata madre protese quindi una mano per trattenerla: il suo tocco fu gentile, lui sapeva essere molto delicato, quando lo voleva, ma la donna rabbrividì comunque sotto di esso per la paura e lo fissò con occhi colmi di panico. «Lasciami stare!» implorò. «Ti prego, ho già sofferto abbastanza!». «Io non sono uno dei tuoi tormentatori, signora», replicò Raistlin, ricorrendo al tono calmo e sommesso che usava di solito per rilassare i malati; nel serrare la mano intorno a quella della donna si accorse che lei stava tremando e prese ad accarezzarla per calmarla mentre si protendeva in avanti e sussurrava: «Belzor è una frode, un inganno. La tua bambina è in pace e sta dormendo serena, come se tu stessa l'avessi cullata fino a farla assopire». «L'ho cullata, l'ho tenuta stretta e alla fine era serena, come tu hai detto», rispose la donna, con occhi colmi di lacrime. «"Adesso mi sento meglio, mamma", ha sussurrato, e ha chiuso gli occhi. Io voglio crederti», continuò, aggrappandosi freneticamente a Raistlin, «ma come posso farlo? Che prova mi puoi dare?». «Torna al tempio domani notte».
«Tornare qui?» ripeté la donna, scuotendo il capo. «Devi farlo», ribadì Raistlin, in tono deciso. «Domani ti dimostrerò che quanto ho detto è la verità». «Ti credo e mi fido di te», replicò lei, con un pallido sorriso. «Verrò». Raistlin si girò a guardare verso l'arena e verso la lunga fila di fedeli adoranti che circondava Judith, mentre la luce dei bracieri si rifletteva sulle monete ammucchiate nei cesti e sulle altre che continuavano ad affluirvi: quella notte Belzor aveva curato bene i suoi interessi. Uno degli accoliti si avvicinò a Raistlin e fece tintinnare il proprio cesto con aria speranzosa. «Spero di vederti alla cerimonia di domani notte, fratello», disse. «Ci puoi contare», rispose Raistlin. CAPITOLO TREDICESIMO Nel tornare alla fiera, Raistlin esaminò mentalmente il suo piano. Il fuoco presente nella sua anima aveva divampato intenso come quello di una fucina ma le fiamme si erano spente in fretta a contatto con l'aria fredda della notte e lui cominciava già ad essere tormentato dai dubbi e a rimpiangere la promessa che aveva fatto a quella povera madre: se avesse fallito sarebbe diventato la barzelletta di tutto Haven. Affrontare vergogna e derisione gli riusciva molto più difficile che sopportare qualsiasi punizione fisica, e nell'immaginare la folla che rideva divertita mentre il Sommo Sacerdote celava un compiaciuto sorriso di compassione e la Somma Sacerdotessa Judith contemplava in trionfo la sua umiliazione lui quasi si contorse per l'angoscia e cominciò a pensare ad una serie di scuse. L'indomani non sarebbe andato al tempio sostenendo di non sentirsi bene: la giovane madre sarebbe rimasta delusa e se ne sarebbe andata in preda ad un'acuta infelicità, ma non sarebbe stata in condizioni peggiori di quelle in cui versava attualmente. La cosa più giusta e corretta da fare sarebbe stata riferire ogni cosa al Conclave dei Maghi, perché loro erano le persone più adatte a occuparsi di questa faccenda, mentre lui era troppo giovane e inesperto... Ma se avesse avuto successo sarebbe stato un trionfo, perché avrebbe posto fine alle sofferenze di quella madre e al tempo stesso si sarebbe distinto per il suo talento. Di certo avrebbe fatto un'altra impressione se nel riferire il problema al Conclave avesse anche precisato con debita modestia di averlo già risolto. Il grande Par-Salian, che senza dubbio finora non
aveva mai sentito parlare di lui, si sarebbe accorto dell'esistenza di Raistlin Majere... un pensiero che gli fece correre un brivido per tutto il corpo. Forse lo avrebbero invitato ad assistere ad una riunione del Conclave! Con un'azione del genere avrebbe potuto dimostrare agli altri e a se stesso che era capace di usare potenti magie in situazioni di crisi, e di certo lo avrebbero ricompensato... un premio che valeva qualche rischio. «Inoltre, adempirei alla mia promessa ai tre dèi che in passato si sono interessati a me. Se non posso dimostrare agli altri la loro esistenza posso almeno infrangere l'immagine di questo falso dio che sta tentando di usurpare il loro posto. In questo modo attirerò anche la loro attenzione e il loro favore», aggiunse fra sé. Riesaminò quindi nella mente il proprio piano, questa volta con impazienza ed entusiasmo, cercando eventuali pecche, ma la sola che riuscì a trovare risiedeva in lui stesso: era abbastanza forte, abile e coraggioso? Purtroppo nessuna di quelle domande avrebbe trovato risposta fino a quando non fosse giunto il momento di agire. I suoi amici lo avrebbero aiutato? Oppure Tanis, che era nominalmente il loro capo, gli avrebbe perfino negato il permesso di tentare di mettere in atto il suo piano? «Mi aiuteranno, se li avvicinerò nel modo giusto», decise. Trovò gli altri raccolti intorno al fuoco da campo che avevano acceso nel retro della bancarella di Flint. Tanis e Kit sedevano fianco a fianco, segno evidente che il mezzelfo non aveva scoperto l'inganno di Kitiara; Caramon era accasciato su un tronco con la testa fra le mani, Flint era un po' alticcio perché era appena tornato da una taverna dove si era imbattuto in alcuni nani delle colline che provenivano dai Monti Kharolis e che, pur non appartenendo al suo clan, erano passati vicino alla sua antica patria ed erano stati felici di condividere con lui birra e pettegolezzi. Quanto a Tasslehoff, era accoccolato accanto al fuoco, intento ad arrostire castagne in una padella. «Sei tornato», commentò Kitiara, quando Raistlin arrivò. «Cominciavamo a preoccuparci e stavo per mandare Tanis a cercarti, anche se è già dovuto andare a salvare il kender». Approfittando di un momento in cui Tanis non stava guardando Kitiara fece seguire a quelle parole una strizzata d'occhio che Raistlin comprese alla perfezione e che anche Caramon parve comprendere, dato che sollevò la testa per fissare con aria accigliata il gemello prima di tornare ad abbandonarla fra le mani.
«La testa mi fa male», si lamentò. Tanis spiegò intanto che aveva trovato Tasslehoff e altri venti kender incarcerati nelle prigioni di Haven, aveva pagato la multa inflitta a quanti "consapevolmente e volontariamente frequentavano dei kender" e aveva riportato a forza Tas alla fiera, confidando che l'indomani essa avrebbe offerto distrazioni sufficienti a tenerlo lontano dalla città vera e propria. Tasslehoff era molto dispiaciuto di non aver potuto partecipare alla loro avventura serale, ed era incantato soprattutto dal serpente gigantesco e dal fumo intossicante; al contrario, la prigione di Haven era risultata per lui una delusione. «Era sporca, Raistlin, e c'erano i topi! Riesci a crederci? I topi! Per una manciata di topi mi sono perso un serpente gigante e fumi intossicanti. La vita è davvero ingiusta!». Tas però non riusciva a rimanere infelice a lungo e dopo aver riflettuto che non poteva trovarsi in due posti contemporaneamente (soltanto zio Trapspringer una volta ci era riuscito) finì per rasserenarsi. Dimenticandosi delle castagne (che di lì a poco bruciarono in maniera irreparabile), prese quindi a vagliare tutti i suoi nuovi averi e infine, spossato da quella giornata eccitante, si addormentò con la testa appoggiata su una delle sue sacche. Nel sentire la storia relativa a Belzor, Flint scosse il capo e si accarezzò la lunga barba dichiarandosi tutt'altro che sorpreso: non si era mai aspettato nulla di meglio dagli umani, naturalmente a esclusione dei presenti. Kit la ritenne una battuta divertente. «Avresti dovuto vedere Caramon», raccontò ridendo. «Barcollava come un grosso orso ubriaco». Gemendo, Caramon si alzò in piedi con mosse incerte, borbottò qualcosa sul fatto che si stava sentendo male e si allontanò in direzione delle latrine degli uomini. «Questi seguaci di Belzor non mi piacciono», dichiarò Sturm, accigliandosi di fronte al tono per lui troppo scherzoso di Kitiara, «ma devo ammettere che nell'arena abbiamo visto compiere un miracolo. Quale altra spiegazione ci può essere se non che Belzor è un dio e che i suoi preti hanno poteri miracolosi?». «Posso darti io una spiegazione», replicò Raistlin. «La magia». «La magia?». «Lo sapevo», commentò Flint, mentre Kitiara scoppiava a ridere e Sturm assumeva un'aria di disapprovazione. «Ne sei certo, Raistlin?» chiese Tanis.
«Sì, perché ho familiarità con l'incantesimo che quella donna usa», rispose Raistlin. «Perdonami, Raistlin», obiettò Tanis, in apparenza dubbioso, «non voglio certo contestare le tue conoscenze, ma tu sei soltanto un novizio». «E come tale sono in grado soltanto di lavare il pitale del mio maestro? È questo che stai dicendo, Tanis?». «Non intendevo...». «So cosa intendevi», tagliò corto Raistlin, accantonando quelle scuse con un cenno irritato della mano, «e non m'importa di cosa pensate di me e del mio talento. Ho altre prove che quanto ho detto è vero, ma è evidente che a Tanis non interessa sentire di cosa si tratta». «Io voglio sentire», dichiarò Caramon, che era tornato dal suo breve giro alle latrine e pareva sentirsi meglio. «Dicci di cosa si tratta», rincarò Kitiara, i cui occhi neri scintillavano alla luce del fuoco. «Sì, ragazzo, sentiamo quali sono queste prove», annuì Flint. «Bada, io ho sempre saputo che si trattava di magia». «Portami una coperta, fratello mio,» ordinò Raistlin, «altrimenti mi ammalerò di certo, seduto su questo terreno umido». Una volta che fu comodamente seduto accanto al fuoco su una coperta, intento a sorseggiare un bicchiere di vino caldo speziato che Kitiara gli aveva preparato, espose quindi il suo ragionamento. «Ho avuto il primo sospetto che ci fosse qualcosa che non quadrava quando ho sentito che i preti non permettevano a nessun mago di entrare nel tempio e che stavano addirittura perseguitando l'unico mago che vive ad Haven, una Veste Rossa di nome Lemuel che Caramon e io abbiamo conosciuto questo pomeriggio e che loro hanno spaventato al punto da indurlo ad abbandonare la città e la casa in cui è nato. In aggiunta a tutto questo, i preti non permettono a nessun mago di entrare nel tempio soprattutto quando viene compiuto il "miracolo"... perché? Perché qualsiasi mago, perfino un novizio quale io sono», concluse in tono acido, «saprebbe riconoscere l'incantesimo usato da Judith». «Perché hanno costretto quel tuo amico, quel Lemuel, a chiudere la sua bottega di articoli per maghi?» domandò Caramon. «Che danno poteva recare loro?». «Chiudere la bottega di Lemuel significa garantire che i maghi che la frequentavano, e che potrebbero denunciare Judith quale impostora, non avranno più motivo di venire ad Haven. Una volta che Lemuel avrà lascia-
to la città i preti si riterranno al sicuro». «In tal caso, fratellino, perché quel prete ti ha invitato a recarti al tempio?» obiettò Kitiara. «Per essere certo che non sarei diventato un problema» replicò Raistlin. «Se ben ricordi, ha detto che non mi sarebbe stato permesso di entrare per assistere al miracolo, e senza dubbio se avessi fatto come mi era stato chiesto al mio arrivo sarei stato incitato a rinunciare alla magia per abbracciare la fede di Belzor». «A me piacerebbe abbracciare lui», commentò Caramon, flettendo le grosse mani. «Ho i peggiori postumi di sbornia che abbia mai patito in vita mia senza aver toccato una sola goccia di birra. Come ha detto il kender, la vita è ingiusta». «Ma cosa mi dici di quelle persone che hanno parlato con Belzor?» chiese Sturm, difendendo la tesi del miracolo. «Come faceva la Vedova Judith a sapere certe cose sul loro conto, come per esempio il soprannome che un marito dava alla moglie o dove il padre del fattore ha nascosto il suo denaro?». «Ricorda che le persone che si sono presentate davanti a Belzor sono state scelte una per una», replicò Raistlin. «Probabilmente Judith ha parlato in precedenza con loro, e mediante abili domande ha senza dubbio ottenuto informazioni sul conto del marito e della famiglia senza che esse si rendessero neppure conto di fornirle. Quanto al fattore e al tesoro nascosto, non gli hanno detto apertamente dove trovare i soldi. Quando si presenterà al tempio con l'offerta gli diranno di cercare sotto il materasso e se il tesoro non dovesse essere lì dichiareranno che lui non ha avuto fede in Belzor e che se porterà un'altra offerta gli indicheranno un posto diverso dove cercare». «C'è però una cosa che non capisco», interloquì Flint, con aria riflessiva. «Se questa vedova è una maga, perché ha fatto amicizia con tua madre per poi denunciarla pubblicamente durante il funerale di tuo padre?». «In un primo tempo la cosa ha sconcertato anche me», ammise Raistlin, ma poi ho capito che aveva senso. Judith stava cercando di introdurre a Solace il culto di Belzor, e il suo primo atto all'arrivo in città deve essere stato quello di cercare eventuali maghi che potessero risultare una minaccia. Mia madre aveva una certa reputazione come veggente ed era quindi la scelta più ovvia. Per tutto il tempo che ha trascorso nella nostra città Judith ha cercato di crearsi un seguito di fedeli. A quel tempo non eseguiva i suoi "miracoli", forse perché non aveva ancora padronanza della tecnica neces-
saria o forse perché stava aspettando di avere una sede e un pubblico adatti. Prima però che potesse portare avanti i suoi piani, tu e Tanis li avete stroncati sul nascere: al funerale di mio padre lei si è resa conto che la gente di Solace non sarebbe caduta facilmente vittima dei suoi giochetti. «Quanto a ciò che abbiamo visto stanotte, Judith e il Sommo Sacerdote, che deve essere il suo complice in questo imbroglio, sfruttano i lati peggiori del carattere delle persone: paura, pregiudizio e avidità... mentre gli abitanti di Solace tendono ad avere meno paura degli stranieri e ad essere più aperti nell'accettare gli altri per il semplice fatto che la loro città sorge ad un crocevia». «Questa vedova sta portando avanti un brutto gioco, sottraendo alla gente il poco che ha», commentò Flint, cupo, assumendo un aspetto piuttosto feroce con le sopracciglia irte per l'ira. «Per non parlare del modo in cui ha tormentato quella povera ragazza che ha perso la sua bambina». «È un brutto gioco», convenne Raistlin, «ma io credo che noi vi possiamo mettere fine». «Io ci sto», dichiarò subito Kitiara. «Anch'io», aggiunse prontamente Caramon, anche se questo era scontato. Se il suo gemello avesse proposto di avviare una spedizione per cercare la Gemma Grigia di Gargath, Caramon avrebbe cominciato a fare i bagagli. «Se questi "miracoli" in realtà non sono altro che i subdoli trucchi di una maga, allora è mio dovere smascherarla», affermò Sturm. Raistlin sfoggiò un cupo sorriso e si trattenne dal rispondere in modo tagliente perché aveva bisogno dell'aspirante cavaliere. «Non mi dispiacerebbe procurare un occhio nero a quella vedova», rifletté Flint. «Tu cosa ne dici, Tanis?». «Voglio prima sentire il piano di Raistlin», rispose il mezzelfo, con la consueta cautela. «Attaccare la fede delle persone è pericoloso, più che aggredirle fisicamente». «Sono anch'io dei vostri», intervenne Tasslehoff, sollevandosi a sedere e sfregandosi gli occhi. «Cosa dobbiamo fare?». «Qualsiasi cosa sia non abbiamo bisogno di un kender, quindi toma a dormire», ribatté Flint, in tono brusco. «Anzi, meglio ancora, perché non torni alla prigione e spieghi alle guardie come dovrebbero gestirla?». «Oh, l'ho già fatto», rispose Tas, che si stava svegliando del tutto nell'avvertire l'eccitazione presente nell'aria. «Sono state estremamente scortesi perfino quando ho offerto loro i miei più disinteressati suggeri-
menti. Posso venire anch'io, Raistlin? Per favore! Dove stiamo andando?». «Niente kender», ribadì Flint, con enfasi. «Il kender può venire», lo contraddisse però Raistlin. «Anzi, si dà il caso che Tasslehoff sia il cardine su cui poggia il mio piano». «Che Reorx ci aiuti!» gemette Flint. «Spero che lo farà», replicò Raistlin in tono grave. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Il mattino successivo Raistlin si alzò di buon'ora, dopo essere rimasto desto per la maggior parte della notte ed essere infine scivolato in un sonno agitato nelle ore che precedevano l'alba per poi svegliarsi da un sogno che non riusciva a ricordare ma che gli aveva lasciato un senso di turbamento nella mente, insieme con l'impressione di aver sognato sua madre. Anche Flint e Tanis si alzarono per tempo e cominciarono a ridisporre le merci nel modo più vantaggioso possibile. Il giorno precedente avevano sistemato le polsiere con le loro splendide incisioni raffiguranti grifoni, draghi e altre bestie mitologiche su uno scaffale anteriore, le collane di fine e delicata treccia d'argento su un panno di velluto rosso e gli anelli d'amore in oro e argento, fatti in modo da sembrare tralci d'edera, all'interno di lucide custodie di legno. Flint non era però contento del modo in cui le merci erano esposte perché era certo che verso mezzogiorno il sole avrebbe messo in ombra la bancarella, il che significava che l'argento andava posto da un lato e non dall'altro. Tanis lo ascoltò con pazienza, poi gli ricordò che quella era una cosa di cui avevano già discusso il giorno precedente, e che grazie ai rami di una vicina quercia i raggi del sole sarebbero stati deviati e sarebbero caduti sull'argento, facendo scintillare le gemme che lo decoravano, senza bisogno di doverlo spostare. I due stavano ancora discutendo quando Raistlin si recò alle latrine degli uomini per le abluzioni del mattino, lavandosi la faccia e il corpo con acqua attinta da un secchio comune; tremando, si rivestì in fretta con la sua veste bianca, già pronto a muoversi mentre Caramon ancora russava nella loro tenda, impegnato a smaltire i residui del fumo oppiato che aveva respirato. L'aria del mattino era fredda e pungente, il sole cominciava appena a tingere di rosso i picchi montani che erano già ammantati da una spruzzata di neve, in cielo non c'era una nuvola e la giornata si annunciava tiepida e
piacevole, il che significava che i visitatori sarebbero accorsi numerosi alla fiera. Flint intanto chiamò Raistlin perché venisse a risolvere la discussione relativa a dove posizionare i gioielli ma il giovane mago, a cui non importava nulla di dove essi fossero messi, riuscì ad allontanarsi fingendo di non aver sentito la voce tonante del nano. Nell'attraversare l'area riservata alla fiera osservò con interesse l'attività che già vi ferveva: dovunque c'erano imposte che venivano aperte, carretti trascinati al loro posto, fuochi da cui un profumo di pancetta e di pane fresco si levava a pervadere l'aria; quanto al chiasso, per ora era minimo se paragonato a quello previsto più tardi nel corso della giornata, in quanto per il momento i venditori si limitavano ad augurarsi reciprocamente buona fortuna oppure si riunivano in gruppetti per condividere cibo e storielle o per barattare le reciproche mercanzie. Anche se erano lì soltanto da un giorno, quei venditori avevano già creato una loro comunità, completa di capi, di pettegolezzi e di scandali, uniti da un senso di cameratismo che derivava da una sorta di mentalità del genere "Noi contro di Loro", nell'ambito della quale con quel "loro" s'intendevano i clienti, di cui per ora si parlava nei termini più dispregiativi e che sarebbero stati in seguito accolti con sorrisi cortesi e atteggiamento servile. Raistlin contemplò quel piccolo mondo con divertito cinismo fino a quando giunse alla bancarella di uno dei fornai, dove una giovane donna stava disponendo in un cesto dei muffin freschi e ancora caldi il cui aroma speziato alla cannella si mescolava così gradevolmente con il profumo di legna che emanava dal forno che Raistlin si sentì indotto in tentazione e si avvicinò per chiedere quanto costassero quei muffin. Stava armeggiando alla ricerca delle poche monete che gli rimanevano quando la giovane donna sorrise e scosse il capo. «Metti via quel denaro, signore. Tu sei uno di noi». Il muffin gli scaldò le mani mentre camminava e il suo sapore di mela e di cannella parve esplodergli sulla lingua: senza dubbio quello era il muffin migliore che avesse mai mangiato, ed essere parte di questa piccola comunità era in fin dei conti piacevole, anche se un po' strano. Le strade di Haven stavano cominciando a svegliarsi. I bambinetti erompevano ovunque dalle case, strillando con eccitazione che quel giorno sarebbero andati alla fiera mentre le madri irritate saettavano a recuperarli per lavare loro la faccia sporca, e i membri della guardia cittadina di Haven andavano in giro per le vie con aria piena d'importanza, decisi a fare
buona impressione sugli stranieri che visitavano Haven in quel periodo. Durante il tragitto Raistlin tenne gli occhi aperti per scorgere in anticipo le tonache azzurre dei preti di Belzor, e ogni volta che ne avvistò uno da lontano si affrettò a svoltare in un'altra strada per evitarli, perché anche se era improbabile che chiunque fra loro potesse riconoscere in lui il trasandato e malvestito contadino della sera precedente quello era comunque un rischio che lui non osava correre. Prima di avviarsi aveva preso in considerazione l'opportunità di ricorrere anche quel giorno al travestimento, ma poi aveva riflettuto che avrebbe dovuto spiegarne il motivo a Lemuel, cosa che non voleva fare a meno che risultasse inevitabile perché senza dubbio quell'ometto mite e gentile avrebbe cercato di dissuaderlo dal mettere in atto il suo piano e lui non se la sentiva di ascoltare altre obiezioni dato che le aveva già vagliate tutte da solo. I raggi del sole cominciavano a sciogliere la brina sulle foglie quando Raistlin arrivò alla casa di Lemuel. Nella costruzione regnava il silenzio, e anche se una cosa del genere non era insolita per quel mago portato all'isolamento, Raistlin si rese conto con disagio che era ancora molto presto e che forse Lemuel stava dormendo. Per parecchi momenti si aggirò quindi intorno alla casa, riluttante a svegliare il mago ma altrettanto riluttante ad andarsene e a sprecare così tanto tempo e tante energie; portatosi sul retro della casa nella speranza di poter sbirciare attraverso una delle finestre, sentì con piacere e sollievo dei rumori che provenivano dal giardino. Trovato un mattone che sporgeva nella parte più bassa del muro di recinzione, vi appoggiò sopra il piede e si issò fino alla cima del muro. «Chiedo scusa, signor Lemuel», chiamò a bassa voce, per non spaventare quell'uomo tanto nervoso. Le sue buone intenzioni andarono però a vuoto perché Lemuel sussultò, lasciò cadere la vanga e lo fissò con aria costernata. «Chi... chi ha parlato?» domandò con voce tremula. «Sono io, signore. Raistlin» rispose il giovane mago, consapevole della propria posizione poco dignitosa, aggrappato precariamente al muro com'era, appeso con entrambe le mani. Dopo aver cercato per un momento con lo sguardo, infine Lemuel individuò il visitatore e lo salutò con estrema cordialità; purtroppo i saluti vennero troncati sul nascere dal fatto che il piede di Raistlin scivolò dal mattone e lui scomparve dalla vista del mago in maniera improvvisa e alquanto brusca, ma subito dopo Lemuel si affrettò ad aprire il cancello del giar-
dino e a invitare Raistlin ad entrare, chiedendogli ansiosamente se avesse scorto dei serpenti nelle vicinanze. «No, signore», rispose con un sorriso Raistlin, che aveva sviluppato una notevole simpatia per quest'ometto nervoso. Una parte dei motivi per cui voleva portare avanti il proprio piano, la parte non egoistica, era la sua determinazione che Lemuel potesse continuare a curare il suo amato giardino. «I preti sono in giro per la fiera alla ricerca di nuovi seguaci, e non credo che ti disturberanno oltre finché essa sarà in corso». «Dovrei essere grato per le piccole benedizioni, come ha detto lo gnomo quando si è fatto saltare in aria una mano invece della testa. Hai già fatto colazione? Ti dispiace se portiamo il cibo in giardino? Ho un sacco di lavoro da fare». Raistlin replicò che aveva già mangiato e che sarebbe stato contentissimo di andare in giardino; una volta là scoprì che il terreno era stato smosso per circa un quarto della sua ampiezza e che le piante erano disposte ora in fagotti ordinati, pronte ad essere trasportate. «La metà non sopravviverà al viaggio, ma alcune ce la faranno e oso sperare che entro pochi anni avrò di nuovo il mio giardino», commentò Lemuel, cercando di mostrarsi sereno. Mentre parlava il suo sguardo si posò però con tristezza sui cespugli di more, sul ciliegio, sul melo e sull'enorme lillà, consapevole che gli alberi e le piante che non fosse riuscito a portare con sé non avrebbero più potuto essere rimpiazzate. «Forse non te ne dovrai andare, signore», osservò Raistlin. «Ho sentito dire che alcune persone sono convinte che Belzor sia una frode e che intendono denunciarlo come tale». «Davvero?» esclamò Lemuel, illuminandosi in volto, poi tornò a rattristarsi mentre aggiungeva: «Non ci riusciranno perché i suoi seguaci sono troppo potenti. In ogni caso, sei gentile a darmi speranza, anche se per un momento soltanto. Ora posso sapere che cosa desideri, giovanotto?» domandò, scrutando Raistlin con aria astuta. «C'è qualcuno che sta male? Ti serve qualcuna delle mie medicine?». «No, signore», arrossì Raistlin, vergognandosi di essere così trasparente. «Se non ti dispiace, vorrei dare un'altra occhiata ai libri di tuo padre». «Adesso sono i tuoi libri, benedetto ragazzo», gli ricordò Lemuel, con tanto calore e gentilezza che Raistlin decise in quel momento di abbattere Belzor indipendentemente da quanto questo potesse costare e senza pensare alla propria ambizione mentre lasciava il mago a rovistare con aria infe-
lice nel proprio giardino, nel tentativo di decidere cosa poteva essere trapiantato senza rischi e cosa doveva essere abbandonato... nella speranza che il prossimo proprietario della casa abbeverasse adeguatamente l'hydrangea. Una volta nella biblioteca, Raistlin si concesse un momento per contemplare con orgoglio i libri... i suoi libri, che presto sarebbero diventati la sua biblioteca, e poi si mise al lavoro, rintracciando senza difficoltà l'incantesimo che stava cercando perché il mago guerriero era stato un uomo meticoloso e preciso e aveva annotato ciascun incantesimo e dove esso si trovasse su un volume a se stante. Dopo aver letto la descrizione dell'incantesimo, che il mago aveva aggiunto probabilmente per propria comodità, si convinse quindi senza ombra di dubbio che era proprio quello che la Somma Sacerdotessa stava usando. La sua convinzione fu ulteriormente rafforzata quando constatò che l'incantesimo non richiedeva componenti di sorta... niente sabbia lanciata negli occhi o sterco di pipistrello da appallottolare fra le dita. Judith doveva soltanto pronunciare le parole e compiere i gesti richiesti perché la magia entrasse in funzione, il che spiegava il perché delle sue maniche tanto voluminose. L'interrogativo adesso era se anche lui fosse in grado o meno di usare quell'incantesimo che non era particolarmente difficile e non richiedeva il talento di un arcimago per cui era facilmente accessibile anche ad un apprendista... solo che Raistlin non era neppure questo, era appena un novizio a cui non sarebbe stato permesso di diventare apprendista finché non si fosse sottoposto alla Prova. Secondo le leggi del Conclave, che su quel punto erano estremamente specifiche, fino a quel momento gli era quindi proibito usare l'incantesimo in questione. La legge del Conclave era però molto specifica anche su un altro punto: se mai avesse incontrato un mago rinnegato, e cioè uno che operava al di fuori delle leggi del Conclave, un mago avrebbe il dovere di ricondurlo alla ragione, di portarlo davanti alla giustizia del Conclave, oppure, in casi estremi, di porre fine alla sua vita. Judith era una rinnegata? Questo era un interrogativo su cui Raistlin aveva riflettuto per tutta la notte. Era possibile che quella donna fosse una malvagia maga dalia veste nera che si serviva della magia per ottenere ricchezze in modo fraudolento e per avvelenare l'anima della gente. I praticanti la magia malvagia, i membri dell'Ordine delle Vesti Nere, adoravano Nuitari ed erano accettati all'interno del Conclave, anche se pochi profani
potevano capire questo che a loro appariva come un patto stretto con le forze dell'oscurità. Raistlin ricordò d'un tratto l'argomentazione che aveva sottoposto a Sturm proprio a questo riguardo. «Noi maghi riconosciamo che nel mondo ci deve essere un equilibrio», aveva cercato di spiegargli. «L'oscurità segue la luce del giorno, ed entrambe sono necessarie perché noi si continui ad esistere; nello stesso modo il Conclave rispetta sia l'oscurità sia la luce, chiedendo in cambio che tutti i maghi rispettino le sue leggi, che sono state elaborate nel corso dei secoli per proteggere la magia e quanti la praticano. La fedeltà di ogni mago deve andare innanzitutto alla magia, e poi a qualsiasi altra cosa». Inutile dire che Sturm non si era lasciato convincere. Secondo la tesi esposta dallo stesso Raistlin, era possibile che una maga dalla veste nera praticasse la magia sotto mentite spoglie e tuttavia fosse perdonata dal Conclave... però con un'importante eccezione: infatti il Conclave non avrebbe visto di buon occhio che si ricorresse all'uso della magia per promuovere l'adorazione di un falso dio. Inoltre era risaputo che Nuitari, il dio della luna nera e della magia oscura, era famoso per essere un dio geloso che pretendeva una fedeltà assoluta da parte di coloro che cercavano il suo favore, quindi Raistlin non riusciva a immaginare che Nuitari potesse accettare in qualsiasi modo l'esistenza fittizia di Belzor. In aggiunta a tutto questo, Judith stava svilendo la magia, perseguitando i maghi e cercando di persuadere gli altri che la magia era una cosa malvagia, e questo sarebbe stato di per sé sufficiente a condannarla agli occhi del Conclave. Alla luce di tutto questo Raistlin non aveva dubbi che lei fosse una rinnegata ed era certo che se anche fosse incorso nelle ire del Conclave per aver usato un incantesimo prima di essere stato accettato in seno ad esso, avrebbe potuto presentare una valida linea di difesa: ciò che stava facendo era denunciare una truffatrice, punire una rinnegata e risanare in questo modo la reputazione della magia nel mondo. Placati i dubbi e presa la sua decisione, si mise quindi al lavoro frugando nella biblioteca fino a trovare un pezzo di pelle d'agnello arrotolata insieme con altre e riposta in un cesto, che srotolò sul piano della scrivania bloccandola agli angoli con dei libri; purtroppo, la fiala di sangue d'agnello che gli doveva servire come inchiostro si era ormai seccata... un'eventualità, questa, che Raistlin aveva comunque previsto. Tirato fuori il coltello che aveva preso a prestito dal fratello, lo posò sul tavolo perché fosse pronto all'uso e si preparò a trasferire l'incantesimo dal
libro sulla pelle d'agnello. In realtà gli sarebbe piaciuto essere in grado di utilizzarlo sulla sola base della memoria, ma con un incantesimo tanto complesso, molto più di qualsiasi altro che lui avesse appreso fino a quel momento... non osava fidarsi delle proprie capacità, anche perché finora non aveva mai usato la magia in una situazione di crisi e non sapeva come avrebbe reagito sotto pressione. Per quanto gli piacesse pensare che non avrebbe avuto esitazioni, peraltro non doveva peccare di eccessiva sicurezza. Adesso aveva a disposizione il tempo e la solitudine necessari per il suo lavoro, poteva concentrare le proprie energie e il proprio talento sul compito di trasferire l'incantesimo sulla pergamena e concedersi di studiare in anticipo le parole in modo da essere certo di pronunciarle correttamente, dato che questo era ciò che avrebbe dovuto fare sia mentre le copiava sulla pelle d'agnello sia quando fosse giunto il momento di attivare l'incantesimo. Sedutosi con il libro aperto davanti, si concentrò quindi sulla lettura dell'incantesimo, pronunciando ad alta voce prima ogni lettera e poi ogni parola, ripetendole fino a quando il suono non gli echeggiava giusto all'orecchio, nello stesso modo in cui un menestrello avrebbe accordato il suo liuto. Se la stava cavando davvero bene e cominciava a sentirsi alquanto orgoglioso di se stesso quando giunse alla settima parola, una che non gli era mai capitato di sentir pronunciare e che aveva svariati tipi di pronuncia, ciascuno con un diverso significato. Qual era quello giusto? Per un momento prese in considerazione l'idea di andare a chiederlo a Lemuel, ma per farlo avrebbe dovuto rivelargli quello che aveva intenzione di fare, e questa era un'alternativa che lui aveva già scartato. «Posso farcela», disse fra sé. «La parola è composta di sillabe, e tutto quello che devo fare è capire quale sia la funzione di ciascuna sillaba in modo da poterla pronunciare correttamente. Quando ci sarò riuscito mi basterà combinare le sillabe per ottenere la parola». In teoria era facile, ma la pratica risultò esserlo molto meno di quanto si fosse aspettato: non appena ebbe chiarito il significato della prima sillaba scoprì infatti che quello della seconda pareva contraddirlo e che la terza non aveva nulla a che fare con le altre due. Parecchie volte giunse sul punto di arrendersi per la disperazione perché quell'impresa sembrava impossibile a compiersi; con il corpo gelido a causa del sudore, abbandonò infine la testa fra le mani. «È troppo difficile ed io non sono pronto. Devo abbandonare il mio pia-
no riferire tutto al Conclave e lasciare che sia un arcimago a vedersela con Judith. Dirò a Kitiara e agli altri che ho fallito...». Sollevandosi di scatto abbassò di nuovo lo sguardo sulla parola. Lui sapeva quale fosse l'effetto di quell'incantesimo e di certo usando la deduzione logica e ricorrendo allo studio dei testi ad esso correlati sarebbe riuscito a determinare quali fossero i significati corretti. Pungolato da quel pensiero, si rimise al lavoro. Due ore più tardi, due ore trascorse cercando nei diversi testi ogni esempio dell'uso della parola in questione o di sue parti in ogni incantesimo magico che riuscì a rintracciare, paragonando quegli incantesimi fra loro e cercando schemi e correlazioni, Raistlin si accasciò contro lo schienale della sedia, già stanco anche se la parte più difficile, il copiare l'incantesimo... era ancora da affrontare. D'altro canto si sentiva però in certa misura soddisfatto perché adesso aveva la padronanza del testo, sapeva, o almeno riteneva di sapere, come esso andava pronunciato. Si concesse quindi qualche minuto di riposo, crogiolandosi nel piacere della propria vittoria, e quando ebbe ritrovato le forze si praticò nell'avambraccio un taglio lungo circa tre centimetri, tenendo poi il braccio sopra un piatto che aveva preparato sul tavolo a questo scopo e raccogliendo il proprio sangue per usarlo come inchiostro. Una volta che ne ebbe a sufficienza esercitò pressione sulla ferita per fermare la fuoriuscita del sangue e la fasciò con un fazzoletto. Aveva appena finito quando un rumore di passi lungo il corridoio lo indusse ad abbassare affrettatamente la manica sul braccio ferito e ad aprire il libro alla pagina di un altro incantesimo. «Spero di non disturbarti», disse Lemuel, facendo capolino dalla porta. «Volevo chiederti se gradivi qualcosa per pranzo...». Il mago vide poi il piattino di sangue e la pelle d'agnello e s'interruppe con aria alquanto sconcertata. «Sto copiando un incantesimo», spiegò Raistlin. «Spero che non ti dispiaccia... si tratta di un incantesimo del sonno che mi sta causando qualche problema, motivo per cui ho pensato che se lo avessi copiato avrei potuto impararlo meglio. Ti ringrazio per la tua offerta, ma in realtà non ho fame». «Sei davvero molto dedito allo studio», sorrise Lemuel, meravigliato. «Non mi avresti mai trovato chiuso in una stanza con i miei libri in un soleggiato pomeriggio del periodo della Fiera del Raccolto». Accennò quindi ad andarsene ma poi esitò ancora e aggiunse: «Sei certo in merito al pran-
zo? La governante ha preparato stufato di coniglio. Sai, lei è in parte elfa, viene da Qualinesti, e il suo stufato è decisamente buono, insaporito con le erbe che coltivo io stesso: timo, maggiorana, salvia...». «Sembra buono. Più tardi, magari», replicò Raistlin, che non aveva per nulla fame ma non voleva ferire i sentimenti del mago. Lemuel sorrise e si affrettò ad andarsene, lieto di tornare al suo giardino. Raistlin intanto si concentrò di nuovo sul proprio lavoro e sfogliò il libro fino a ritrovare l'incantesimo che gli interessava, poi prese la penna ricavata dalla piuma di un cigno e dotata di una punta d'argento; uno strumento piuttosto stravagante e in realtà non necessario per creare la pergamena, ma che indicava come il mago guerriero avesse prosperato nell'esercitare la propria professione. Intinta la punta della penna nel sangue, Raistlin l'accostò alla pergamena sussurrando una rapida preghiera a tutti e tre gli dèi della magia... in quanto non voleva offendere nessuno di loro. L'elegante penna scorreva con estrema scioltezza, al contrario di altre che s'impuntavano o schizzavano e portavano alla devastazione di più di una pergamena, e mentre la prima lettera pareva fluire senza sforzo sulla pelle d'agnello Raistlin promise a se stesso che un giorno si sarebbe procurato una penna come quella. Senza dubbio Lemuel sarebbe stato lieto di dargliela se gliel'avesse chiesta, ma il mago aveva già fatto anche troppo per il suo nuovo amico e l'orgoglio proibiva a Raistlin di chiedere altro. Copiare l'incantesimo pronunciando ogni parola mentre veniva scritta fu un lavoro lento e faticoso, durante il quale il sudore gli si formò sotto i capelli e gli colò lungo il collo; dopo ogni parola doveva smettere di scrivere per liberare la mano dai crampi che gli derivavano dal fatto che serrava troppo la penna fra le dita e per asciugarsi il palmo sudato. Scrisse infine la settima parola con il cuore pieno di paura, perché essa poteva essere errata e far sì che la pergamena, per quanto completa, risultasse così inutile: se avesse sbagliato a pronunciarla, infatti, l'incantesimo e tutto il suo accurato lavoro sarebbero stati vani. Arrivato alla fine, Raistlin esitò un momento prima di aggiungere il punto conclusivo e chiuse gli occhi, levando un'altra preghiera di supplica ai tre dèi. «Sto svolgendo la vostra opera, sto facendo questo per voi. Concedetemi la magia!». Quando infine contemplò il proprio operato esso risultò perfetto: le o non avevano tremiti, il ricciolo delle s era aggraziato e non esagerato. Per un momento indugiò quindi a fissare con ansia la settima parola, consape-
vole di aver fatto del suo meglio e di non poter chiedere di più. Infine tornò ad accostare alla pergamena la fine penna dalla punta d'argento e appose il punto conclusivo che avrebbe dovuto attivare la magia. Non accadde nulla: a quanto pareva aveva fallito. D'un tratto colse con la coda dell'occhio un minuscolo tremito di luce e trattenne il fiato, desiderando ciò che sperava stesse succedendo con la stessa intensità con cui aveva desiderato che sua madre vivesse, imponendogli con la volontà di accadere come aveva cercato di imporre a sua madre di continuare a respirare. Rosamun era morta, ma il tremolio di luce che avviluppava la prima lettera della prima parola crebbe invece d'intensità. Non era frutto dell'immaginazione; la lettera splendeva e la sua luminosità si stava estendendo a quella accanto, poi a tutta la prima parola e da essa alla seconda e così via. La settima parola parve fiammeggiare addirittura in maniera trionfale, poi il punto di chiusura scintillò a sua volta e il bagliore svanì: adesso le lettere erano incise a fuoco nella pelle d'agnello, e l'incantesimo era pronto all'uso. Chinando il capo, Raistlin sussurrò un'intensa e sentita preghiera di ringraziamento agli dèi che non gli erano venuti meno, poi si alzò in piedi e si sentì assalire da vertigini tanto intense che per poco non svenne. Lasciatosi ricadere sulla sedia si rese conto di non avere idea di che ora fosse, e rimase stupito di constatare dalla posizione del sole che era ormai primo pomeriggio, accorgendosi al tempo stesso di avere fame e sete, e un urgente bisogno di usare il pitale. Arrotolata la pelle d'agnello la ripose con cura in una custodia per pergamene che si legò saldamente alla cintura, poi si issò in piedi e scese faticosamente dabbasso, dove usò la latrina e divorò poi due ciotole di stufato di coniglio. Raistlin non ricordava di aver mai mangiato tanto in tutta la sua vita; spingendo indietro la ciotola si appoggiò allo schienale della sedia con l'intenzione di concedersi soltanto un breve momento di riposo. Lemuel lo trovò immerso in un sonno profondo e lo lasciò dormire dopo averlo avvolto con gentilezza in una coperta. CAPITOLO QUINDICESIMO Raistlin si svegliò nel tardo pomeriggio, intontito e instupidito per il sonnellino che non era stata sua intenzione fare, con il collo irrigidito e la
nuca che doleva per essere rimasta troppo a lungo appoggiata allo schienale della sedia, e fu subito assalito dall'improvviso timore di aver dormito troppo a lungo e di aver così mancato di presenziare al "miracolo" previsto al tempio per quella notte; un'occhiata ad una chiazza di luce solare che penetrava pigra attraverso l'edera che s'inerpicava intorno alla finestra fu però sufficiente a rassicurarlo; massaggiandosi il collo si liberò della coperta e andò in cerca del suo ospite, certo di sapere dove trovarlo. Come previsto, Lemuel era in giardino intento a lavorare con diligenza anche se non pareva aver fatto molti progressi nei suoi preparativi per la partenza, come lui stesso confessò a Raistlin. «Comincio a fare una cosa, poi me ne viene in mente un'altra e lascio perdere la prima per passare ad essa soltanto per ricordarmi poi che ne devo fare una terza prima delle altre due, con il risultato che abbandono tutto per provvedere e dopo un po' mi rendo conto che avrei dovuto in realtà portare a termine innanzitutto la prima... non sto procedendo molto m fretta», concluse con un sospiro nel contemplare con aria triste lo sconvolgimento che lo circondava: vasi rovesciati, cumuli di terra, buchi dove le piante erano state sradicate, e le piante stesse che apparivano nude e desolate stese al suolo con le radici che tremavano. «Suppongo dipenda dal fatto che non sono mai stato in nessun altro posto e che in realtà non voglio andare in nessun altro posto. Se devo essere sincero, non ho ancora neppure deciso dove recarmi. Che ne pensi di Solace?». «Forse non te ne dovrai andare per niente», replicò Raistlin, incapace di sopportare passivamente la sofferenza dell'ometto: dopo tutto, anche se non poteva dirgli cosa voleva fare, poteva almeno accennarvi in modo indiretto. «Può sempre succedere qualcosa che induca i seguaci di Belzor a lasciarti in pace». «Un secondo Cataclisma? Montagne di fuoco che cadono loro sulla testa?» ribatté Lemuel, con un pallido sorriso. «È sperare troppo, ma ti sono grato per il pensiero. Hai trovato quello che stavi cercando?». «I miei studi hanno dato buon esito», rispose Raistlin, con aria grave. «Ti fermerai per cena?». «No, signore, ti ringrazio ma devo tornare alla fiera perché i miei amici saranno preoccupati per me. Per favore, signore», aggiunse, nel congedarsi, «non abbandonare la speranza. Ho la sensazione che tu sarai ancora qui molto tempo dopo che Belzor sarà scomparso». Lemuel rimase notevolmente stupito di fronte a quell'affermazione e gli avrebbe posto altre domande se Raistlin non gli avesse indicato dei bulbi
di tulipano che correvano il pericolo di essere portati via da uno scoiattolo. Mentre Lemuel si affrettava ad andare in soccorso dei suoi bulbi, Raistlin controllò per la ventesima volta che la preziosa custodia per pergamene fosse ancora appesa alla sua cintura e se ne andò. «Mi chiedo cosa stia escogitando...» rifletté intanto Lemuel, che dopo aver scacciato il ladro di tulipani stava ora osservando Raistlin allontanarsi lungo la strada in direzione della fiera. «Non stava copiando un incantesimo del sonno, questo è certo. Forse non sono granché come mago, ma perfino io riuscirei ad attivare un incantesimo del genere senza doverlo scrivere. No, lui stava copiando qualcosa di molto più avanzato e parecchio al di là del suo rango di novizio. E tutti questi discorsi sul fatto che ai Belzoriti starebbe per succedere qualcosa...». Per un momento Lemuel rosicchiò pensosamente un ramoscello di menta, sempre più preoccupato. «Immagino che dovrei cercare di fermarlo...» si disse, ma poi considerò quell'alternativa e scosse il capo. «No, sarebbe come cercare di fermare una gigantesca macchina degli gnomi una volta che abbia cominciato a rotolare giù per la collina: lui non mi darebbe ascolto e naturalmente non c'è motivo per cui dovrebbe farlo. Per quel che ne so potrebbe anche avere una possibilità di riuscita, considerato che ci sono molte cose nascoste dietro quei suoi strani occhi. Molte cose davvero». Borbottando fra sé accennò a riprendere a scavare, poi s'immobilizzò per un momento con la vanga a mezz'aria, fissando lo stato di caos che regnava nel suo giardino un tempo ordinato. «Forse dovrei aspettare e vedere cosa porterà il domani», rifletté quindi, e dopo aver coperto con la terra le radici delle piante che aveva già estirpato, accertandosi che fossero calde e umide, entrò in casa per cenare. Raistlin arrivò alla fiera in tempo per impedire che Caramon si rivolgesse alla guardia cittadina per farlo cercare. «Ero occupato», dichiarò in tono seccato, in risposta alle persistenti domande del fratello. «Hai fatto quello che ti ho ordinato?». «Se ho tenuto Tasslehoff sotto controllo?» sospirò Caramon, con aria di rassegnata sopportazione. «Sì, fra tutti e due, Sturm ed io, ci siamo riusciti, ma non voglio più patire nulla del genere per tutta la vita. Questa mattina eravamo convinti di aver trovato il modo di tenerlo impegnato: dato che Sturm voleva dare un'occhiata alle mappe di Tas, lui le ha rovesciate tutte per terra e ha passato un'ora ad esaminarle con Sturm. Immagino di esser-
mi assopito, e intanto Sturm si è assorto eccessivamente nell'esame di una mappa di Solamnia, con il risultato che quando mi sono svegliato ci siamo accorti che il kender era sparito». Raistlin si accigliò visibilmente. «Siamo subito andati a cercarlo e lo abbiamo raggiunto», si affrettò a proseguire Caramon. «Per fortuna non era andato lontano... sai, la fiera è davvero molto interessante, così lo abbiano preso e abbiamo riconsegnato la scimmia al suo padrone che la stava cercando dappertutto; dovresti vedere cosa sa fare quella bestiola, Raist, è davvero intelligente. Il proprietario era decisamente infuriato, e anche se Tas ha detto e ripetuto che la scimmia lo aveva accompagnato di sua volontà e la bestiola ha in effetti mostrato di trovarlo simpatico...». «Spiriti affini», commentò Raistlin. «... in ogni caso il proprietario ha cominciato a gridare per chiamare la guardia cittadina, ma per fortuna in quel momento è arrivato Tanis e noi abbiamo portato via Tas mentre lui spiegava che si era trattato di un errore e dava al padrone della bestiola un paio di monete d'acciaio per il disturbo. A quel punto Sturm ha deciso che un po' di disciplina militare era ciò che ci voleva, quindi abbiamo portato Tas sul terreno di parata e lo abbiamo fatto marciare avanti e indietro per un'ora. Lui pensava che fosse molto divertente e avrebbe voluto continuare, ma a causa del sole molto caldo e del fatto che ci eravamo dimenticati di portarci dietro dell'acqua, io e Sturm abbiamo dovuto arrenderci perché eravamo sfiniti. Naturalmente il kender era in perfetta forma. «Non eravamo quasi neppure tornati alla fiera che lui ha visto una donna che inghiottiva il fuoco, lo faceva davvero, Raist, l'ho vista anch'io; ed è scappato via. Noi lo abbiamo inseguito e quando lo abbiamo ripreso aveva già rubato due sacche di soldi e un panino dolce, ed era sul punto di cercare di mettersi dei carboni ardenti in bocca. Gli abbiamo tolto di mano i carboni ardenti e abbiamo restituito le sacche con il denaro, ma ormai il panino dolce era sparito tranne per poche briciole sulle labbra di Tas. A quel punto...». «Rispondi soltanto ad una domanda», interruppe Raistlin, sollevando una mano. «Dov'è Tasslehoff, adesso?». «Legato», replicò in tono stanco Caramon. «È nel retro della bancarella di Flint e c'è Sturm che sta montando la guardia: era il solo sistema di controllarlo». «Eccellente, fratello mio», si complimentò Raistlin.
«È stato un dannato inferno», borbottò Caramon. Flint stava avendo un notevole successo alla fiera perche la gente si affollava davanti al suo banco e lo teneva impegnato a tirare fuori anelli dalle custodie e ad affibbiare polsiere. La giornata gli aveva già fruttato una buona quantità d'acciaio, che lui teneva chiuso in una cassetta dotata di lucchetto, e anche molti oggetti ricevuti come baratto, una pratica comunemente accettata alle fiere soprattutto fra i venditori. In questo modo Flint era entrato in possesso di una nuova zangola per il burro (che avrebbe ceduto ad Otik in cambio di brandy), di una vasca da bagno (la sua aveva una perdita) e di una bella cintura di cuoio lavorato (la sua attuale cintura era un po' troppo piccola, cosa che secondo Flint dipendeva dal fatto che si era ristretta quando era caduto nel Lago Crystalmir, mentre secondo Tanis era invece il nano ad essersi espanso». Evitando la calca sul davanti del banco, Raistlin entrò nel retro dove trovò il kender saldamente legato su una sedia con Sturm seduto sulla sedia di fronte. Se si fosse dovuto giudicare però dall'espressione del loro volto, si sarebbe detto che era Sturm il prigioniero, perché Tasslehoff stava godendo notevolmente della novità di essere legato mani e piedi, e stava passando il tempo intrattenendo Sturm. «... e a quel punto zio Trapspringer ha detto: "Sei certo che quello sia il tuo tricheco?". E il barbaro ha risposto... Oh, salve, Raistlin! Guardami! Sono legato ad una sedia, non è eccitante? Scommetto che se glielo chiedessi cortesemente Sturm legherebbe anche te... vero, Sturm? Legheresti Raistlin?». «Che ne è stato del bavaglio?» domandò Caramon. «Tanis mi ha costretto a toglierlo dicendo che era crudele... lui non conosce il significato di quella parola», replicò Sturm, fissando Raistlin con aria tanto cupa da far supporre che intendesse seguire il suggerimento del kender. «Confido che tutto questo serva a qualcosa, anche se non riesco a immaginare nulla che possa ricompensarci adeguatamente della giornata che abbiamo passato, tranne forse il ritorno dell'intero panteon degli dèi che appare per denunciare la falsità di Belzor». «Sarà qualcosa di meno clamoroso ma di altrettanto efficace», replicò Raistlin. «Dov'è Kitiara?». «È andata a fare un giro per la fiera ma ha promesso di tornare in tempo», rispose Caramon, inarcando un sopracciglio. «Ha detto che qui l'atmosfera era troppo fredda per i suoi gusti, se capisci cosa intendo». Raistlin annuì per indicare che aveva capito. La notte precedente fra Ki-
tiara e Tanis era scoppiata una lite che probabilmente era stata sentita dalla maggior parte degli altri venditori e forse anche da metà della città di Haven, perché se da un lato Tanis aveva tenuto la voce tanto bassa da impedire a chiunque di sentire cosa stesse dicendo, Kitiara non aveva certo avuto scrupoli del genere. «Per chi mi hai presa? Per una delle vostre viziate e fragili fanciulle elfiche che hanno bisogno di aggrapparsi a te ad ogni momento? Io vado dove mi pare, quando mi pare e con chi mi pare, e se proprio vuoi sapere la verità... no, non ti volevo con me perché alle volte ti comporti come un vecchietto e rovini tutto il divertimento». La lite si era protratta fino a notte inoltrata. «Hanno fatto la pace, questa mattina?» chiese Raistlin a suo fratello, lanciando un'occhiata verso la schiena di Tanis, che era dietro il banco, impegnato a contare denaro, a rispondere alle domande dei clienti, a prendere misure e ad annotare gli ordini particolari. «Argento e ametista», stava ordinando una nobile dama. «E voglio anche un paio di orecchini abbinati». «Neppure per idea» rispose Caramon. «Tu conosci Kit, lei era già pronta a fare la pace con un bacio e a dimenticare tutto, ma Tanis...». Come se si fosse accorto che stavano parlando di lui, il mezzelfo si girò nell'atto di riporre tre monete d'acciaio nella cassetta del denaro. «Hai ancora intenzione di andare fino in fondo?» domandò. «Sì», rispose Raistlin. «La cosa non mi piace», dichiarò Tanis, scuotendo il capo; i suoi occhi erano cerchiati di scuro e lui appariva stanco. «Nessuno ha mai chiesto che ti piacesse», ribatté Raistlin. Sul gruppo scese un imbarazzato silenzio mentre Caramon arrossiva e si mordeva un labbro, imbarazzato a causa del fratello e tuttavia troppo fedele per dire qualsiasi cosa; Sturm dal canto suo scoccò a Raistlin un'altezzosa occhiata di disapprovazione intesa a ricordargli silenziosamente che non doveva mancare di rispetto a chi era più anziano di lui e Tas accennò a raccontare l'ennesima storia sullo zio Trapspringer, ma per una volta non riuscì a trovarne una che si attagliasse alla situazione e rimase in silenzio, contorcendosi con aria infelice sulla sua sedia. Il kender sarebbe stato pronto ad entrare allegramente nella bocca aperta di un drago senza scomporsi di un solo capello, ma avvertire ira reciproca fra i suoi amici era una cosa che lo metteva sempre a disagio. «Hai ragione, Raistlin: nessuno lo ha chiesto a me - ribatté infine Tanis,
accennando a girarsi per tornare davanti, al banco di vendita. «Tanis, mi dispiace», lo richiamò Raistlin. «Come mi rammenterebbe volentieri il nostro aspirante cavaliere, non avevo il diritto di parlare in questo tono a te, che mi sei maggiore d'età. Come giustificazione posso offrire soltanto il fatto che stanotte mi aspetta un compito difficile. A questo proposito voglio ricordare a te e anche agli altri», continuò, abbracciando tutti con lo sguardo, «che se fallirò sarò io a pagarne il prezzo e che nessuno di voi rimarrà implicato nella cosa». «Tuttavia io mi chiedo se tu sia consapevole dell'enorme rischio che stai correndo», replicò in tono estremamente serio Tanis. «Questa falsa religione sta facendo arricchire Judith e i suoi seguaci, e denunciandola potresti esporti ad un considerevole rischio. Secondo me dovresti ripensarci e lasciare che siano altri a toglierla di mezzo». «Già», convenne Flint, che era venuto nel retro per portare dell'altro denaro nella cassetta e aveva così sentito l'ultima parte della conversazione. «Se seguirai il mio consiglio, ragazzo, cosa che peraltro non fai mai, terremo tutti il naso fuori da questa faccenda. Ci ho pensato sopra, la scorsa notte, e dopo quello che mi hai raccontato su come la gente si è messa a tormentare quella povera ragazza che aveva perso la sua bambina, sono giunto alla conclusione che gli umani di Haven e Belzor si meritano a vicenda». «Non puoi dire sul serio, signore!» esclamò Sturm, sconvolto. «Secondo la Misura, se qualcuno è a conoscenza del fatto che una legge sta venendo violata e non fa nulla per porre termine alla cosa, si rende colpevole quanto chi ha infranto personalmente la legge. Noi dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere per porre fine alle attività di questa falsa sacerdotessa». «Possiamo farlo denunciandola alle autorità competenti», ribatté Tanis. «Che non ci crederanno mai», gli fece notare Caramon. «Io ritengo...». «Basta così! Ho preso la mia decisione», esclamò Raistlin, ponendo fine a quella discussione che stava ridestando i suoi dubbi e minando le fortificazioni che lui aveva eretto con tanta cura per contenerli. «Porterò avanti il mio piano, e quanti mi vogliono aiutare potranno farlo; quelli che invece non vogliono possono comportarsi come meglio credono». «Io ti aiuterò», dichiarò Sturm. «Anch'io», ribadì Caramon, fedele come sempre. «Anch'io! Io sono la chiave!» strillò Tas, e tentò di mettersi a saltellare per l'eccitazione ma scoprì che in quel momento saltare gli riusciva diffici-
le perché comportava portare con sé la sedia a cui era legato. «Non essere arrabbiato, Tanis. Ci divertiremo!». «Non sono arrabbiato», rispose Tanis, mentre il suo volto stanco si rilassava in un sorriso. «Sono contento che voi ragazzi siate disposti a rischiare un grave pericolo per una causa che ritenete giusta... o, almeno, confido che sia questo il motivo che vi spinge ad agire», aggiunse, lanciando un'occhiata penetrante in direzione di Raistlin. Non cercare di conoscere le mie motivazioni perché non le capiresti, consigliò fra sé Raistlin al mezzelfo. Cosa t'importa del perché lo faccio, se comunque l'esito che intendo ottenere ti soddisfa e porta beneficio agli altri? Irritato, accennò a volgere le spalle al gruppo proprio nel momento in cui Kitiara attraversava la porta del banco da fiera e si faceva largo a gomitate fra i clienti, che le scoccarono occhiate risentite, fino ad arrivare dietro il banco. «Vedo che siamo tutti qui. Siamo pronti ad andare a dare Judith in pasto ai serpenti?» chiese con un sorriso. «A proposito, fratellino, io sono fra i prescelti di stanotte. Ho chiesto di parlare con la mia defunta madre, e la Somma Sacerdotessa ha gentilmente acconsentito alla mia richiesta». Pensando che questo non faceva parte del suo piano, Raistlin si chiese cosa avesse in mente Kitiara, ma prima che potesse interrogarla al riguardo, lei cinse Tanis con il braccio e gli passò una mano sulla spalla con fare carezzevole. «Stanotte verrai ad aiutarci, amore mio?» domandò. «La fiera non chiude se non quando è notte fatta», rispose Tanis, ritraendosi dal suo tocco. «Ho del lavoro da fare qui». «Tanis è ancora infuriato con Kitiara?» insistette lei in tono scherzoso, facendoglisi più vicina e mordicchiandogli un orecchio. «Non qui», ammonì lui, respingendola con gentilezza, e a bassa voce aggiunse: «Ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare, Kit». «Oh, per l'amore di... Parlare! Non vuoi mai fare altro che parlare!» s'infuriò Kitiara. «Già tutta la scorsa notte abbiamo parlato e parlato e parlato! D'accordo, ti ho detto una piccola e innocua bugia! Non è stata la prima volta e non sarà neppure l'ultima! Del resto, sono certo che anche tu mi hai mentito spesso e volentieri!». «Non stai parlando sul serio», affermò Tanis in tono quieto, impallidendo. «No, certo che no. Io dico di continuo cose che non penso veramente, e
sono una bugiarda... puoi chiedere a chiunque», ribatté Kitiara, poi aggirò rabbiosamente il bancone sferrando un calcio a Caramon quando questi non si tolse abbastanza in fretta dalla sua strada, e domandò: «Voialtri venite oppure no?». «Slegate il kender» ordinò Raistlin. «Sturm tu ti occuperai di Tas. Quanto a te», continuò, fissando il kender con occhio severo, «dovrai fare esattamente quello che ti dirò, altrimenti potresti essere tu a finire in pasto alle vipere». «Ooh, quanto è eccit...» cominciò Tas, poi si accorse dal repentino accigliarsi di Raistlin che quella non era la risposta giusta e si fece d'un tratto estremamente solenne. «Volevo dire di sì, Raistlin: farò tutto quello che tu mi dirai, e non guarderò neppure un solo serpente a meno che non sia tu ad ordinarlo», aggiunse, formulando una promessa che ai suoi occhi era un sacrificio veramente eroico. Raistlin represse a fatica un sospiro, perché già poteva vedere ogni sorta di falle che si aprivano nel suo piano e una quantità di cose che potevano andare storte. Tanto per cominciare, stava facendo affidamento su un kender, cosa che chiunque su Krynn avrebbe definito una pura follia; in secondo luogo stava contando sul fatto che un aspirante cavaliere anteponesse onore e onestà ad ogni altra cosa, incluso il buon senso; infine, non aveva la minima idea di cosa stesse complottando Kitiara, e quella era forse la falla più pericolosa di tutte... un vero e proprio abisso in cui sarebbero potuti precipitare tutti. «Io sono pronto», dichiarò con fermezza Caramon, con una fedeltà che Raistlin trovò confortante, ma subito dopo rovinò tutto assestando con orgoglio uno strattone al collo della camicia e aggiungendo: «Questa volta non respirerò il fumo: ho indossato questa camicia così larga proprio per potermela tirare sopra la testa». Posto di fronte ad un'improvvisa visione di Caramon che entrava nel tempio con la camicia avvolta intorno alla testa, Raistlin chiuse gli occhi e pregò silenziosamente gli dèi, quelli della magia e qualsiasi altro vero dio, dovunque si trovasse, di camminargli al fianco. CAPITOLO SEDICESIMO Arrivarono al tempio in tempo per mescolarsi con la folla che si stava riversando in esso e che quella notte era molto più numerosa perché la notizia del "miracolo" compiuto da Judith si era diffusa fra i visitatori della
fiera, con il risultato che fra il pubblico c'erano adesso anche alcuni Nani delle Colline, parecchi Uomini delle Pianure con le loro decorazioni piumate e il loro aspetto barbarico, e una quantità di famiglie nobili, abbigliate con eleganza e accompagnate dai loro servitori. Fra gli altri, Raistlin notò anche con sgomento parecchi dei loro vicini di casa di Solace, cosa che lo indusse a calcarsi sulla faccia l'informe cappello di feltro e a raggomitolarsi nello spesso mantello nero che portava sopra la veste bianca, sentendosi al tempo stesso addirittura sollevato nel vedere che Caramon si era in effetti tirato su la camicia fino agli orecchi, cosa che lo faceva somigliare ad una sorta di gigantesca testuggine, e augurandosi che nessuno dei vicini li riconoscesse e facesse qualche accenno al talento magico del loro giovane conoscente. Nel guardarsi intorno, Raistlin si sentì piuttosto intimidito nel rendersi conto che persone provenienti da ogni parte dell'Abanasinia avrebbero assistito alla sua esibizione: fino a quel momento non aveva infatti pensato al fatto che avrebbe eseguito l'incantesimo davanti ad un vasto pubblico e adesso stava scoprendo che l'idea lo metteva a disagio. In quel momento, se qualcuno gli si fosse presentato davanti e gli avesse offerto una moneta falsa purché fuggisse, lui avrebbe afferrato la moneta e si sarebbe messo a correre. L'orgoglio lo costrinse però ad andare fino in fondo: dopo il suo confronto con Tanis e i bei discorsi che aveva fatto a parenti e amici non poteva certo tirarsi indietro adesso, non senza perdere il loro rispetto e qualsiasi possibilità di poter un giorno esercitare ancora il controllo su di loro. Tenendosi a ridosso di Caramon, si servì del corpo massiccio del fratello come di uno scudo fino a quando non si furono fatti largo fra la folla, consapevole che Sturm era accanto a loro e stava spingendo Tasslehoff davanti a sé tenendogli una mano sulla spalla e usando l'altra per staccare le dita irrequiete del kender dalla sacca del denaro e dagli altri averi del resto dei fedeli. «Io devo andare davanti dove ci sono i preti! È il mio grande momento! Buona fortuna!» gridò Kitiara, agitando la mano in un cenno di saluto. «Aspetta!» esclamò Raistlin, lottando per aggirare Caramon e cercare di raggiungere la sorella, ma entrambi erano intrappolati nella calca e comunque era ormai troppo tardi, perché Kitiara si era già rivolta ad uno dei preti che la stava precedendo fra la folla. Che cosa aveva intenzione di fare? Raistlin imprecò contro la natura chiusa e diffidente della sorella, ma nel
borbottare quelle parole fu costretto a ricacciarle in gola: sangue al sangue, dicevano i nani, e da questo punto di vista lui avrebbe potuto imprecare altrettanto giustamente contro se stesso, dato che non aveva esposto i propri piani a Kitiara. «Adesso puoi abbassare la camicia», disse in tono secco a Caramon, reso irritabile dal nervosismo. «Dove vuoi che ci mettiamo?» chiese intanto Sturm. «Tu e il kender prendete posto a ridosso del muro di fondo», rispose Raistlin, indicando le ultime file di posti dell'arena, poi impartì loro le ultime istruzioni: «Tas, quando griderò "Mirate!" dovrai cominciare a camminare lungo la navata. Bada però di procedere lentamente e di tenere la mente concentrata su quello che stai facendo senza lasciarti distrarre da nulla. Hai capito? Se mi obbedirai avrai modo di contemplare la magia più splendida che tu abbia mai visto in tutta la tua vita». «Ti obbedirò, Raistlin», promise Tas. «Mirate», disse quindi fra sé, e per non dimenticarsi continuò a ripetere: «Mirate, mirate, mirate. Una volta ho visto uno che mirava. Ti ho mai raccontato...». «I kender non sono ammessi», avvertì un prete in tonaca azzurra, calando su di loro. Incapace di mentire e riluttante a farlo, Sturm rimase immobile con la mano stretta intorno alla spalla del kender e Raistlin sentì il respiro che gli si bloccava in gola senza però osare d'intervenire perché non poteva attirare l'attenzione su se stesso. Per fortuna di tutti loro, Tasslehoff era però abituato ad essere buttato fuori da ogni genere di posto. «Oh, mi stava soltanto scortando fuori, signore», dichiarò infatti, con un raggiante sorriso. «È vero?». Con i baffi irti per la tensione interiore, Sturm inclinò la testa di una frazione di centimetro in un cenno di assenso, l'atto più vicino a proferire una menzogna che lui avesse mai compiuto in tutta la sua vita. Forse però la Misura ammetteva le bugie se erano per una buona causa. «In tal caso mi dispiace di aver interferito, signore», affermò il prete, in tono più conciliante. «Per favore, non lasciare che ti trattenga oltre dall'ultimare il tuo compito. Le porte sono da quella parte», aggiunse, accennando con una mano. Sturm gli rivolse un freddo inchino e trascinò con sé Tasslehoff, ponendo fine ai suoi commenti con la severa ingiunzione di tacere e con una scrollata che serviva ad enfatizzare il concetto.
Raistlin intanto riprese a respirare. «Noi dove andiamo?» domandò Caramon, scrutando sopra la testa della folla. «Da qualche parte nelle prime file». «Tieniti dietro di me», consigliò Caramon, poi protese in fuori i gomiti e si creò a spintoni un sentiero in mezzo alla folla mentre le altre persone si accigliavano ma tenevano per sé i commenti rabbiosi che stavano per fare quando notavano le dimensioni di chi le aveva urtate. I posti a sedere più vicini all'arena erano però tutti occupati. In fondo alla navata c'era posto al massimo per una persona, a patto che fosse minuta. «Sta' a guardare», disse Caramon, strizzando l'occhio al fratello. Un attimo più tardi occupò quel posto vuoto e prese ad agitarsi e a urtare con il proprio corpo quello dell'elegante e facoltosa donna che gli sedeva accanto, che lo fissò con occhi di brace e si ritrasse con fredda determinazione dal suo tocco. Raistlin si stava chiedendo cosa suo fratello sperasse di ottenere in quel modo, dato che ancora non c'era spazio a sufficienza anche per lui, quando Caramon emise all'improvviso un rutto sonoro seguito da una flatulenza altrettanto rumorosa. Le persone sedute nelle vicinanze contrassero il volto in una smorfia e fissarono Caramon con disgusto mentre la donna che gli sedeva accanto si premeva una mano sul naso e gli scoccava un'occhiata rovente a cui lui rispose con un sorriso contrito. «Fagioli per cena», spiegò. La donna si alzò in piedi e raccolse intorno a sé le vesti di seta nel trapassarlo con uno sguardo disgustato. «Zoticone!» esclamò. «Non capisco perché permettano a gente della tua risma di entrare qui, ma puoi essere certo che ora andrò a protestare!». E si avviò lungo la scala alla ricerca di uno dei preti. Caramon intanto segnalò al fratello di venire ad occupare il posto vuoto che si era creato accanto a lui. «Non mi ero reso conto che sapessi essere tanto astuto, fratello mio», commentò Raistlin, sedendogli accanto. «Astuto io? Altroché!» ridacchiò Caramon. Raistlin intanto si guardò intorno alla ricerca di Sturm, che ben presto localizzò in piedi all'ombra di una colonna vicino alla navata. Tasslehoff non era visibile, ma probabilmente Sturm aveva nascosto il kender nell'ombra. Anche Sturm stava cercando di individuare Raistlin, e non appena lo av-
vistò gli rivolse un breve cenno del capo, accennando al tempo stesso con il pollice a qualcosa; contemporaneamente una piccola mano apparve da dietro la sua schiena, si agitò in un gesto di saluto e scomparve. Il kender e il cavaliere erano in posizione. Girandosi verso l'arena, Raistlin non ebbe difficoltà a trovare sua sorella, che era nel recinto sul davanti dell'arena insieme con gli altri che erano stati invitati a comunicare con i loro parenti morti. Quasi avesse avvertito su di sé il suo sguardo, Kitiara sfoggiò il proprio abituale sorriso in tralice, e Raistlin si rese conto con una certa dose di amarezza che lei era calma e rilassata, e che si stava perfino divertendo. Lui invece no. Quando anche gli ultimi ritardatari si furono affrettati a prendere posto, le porte vennero chiuse e sul tempio calò il buio. Un momento più tardi i bracieri disposti nell'arena si accesero e il canto ebbe inizio, annunciando l'arrivo dei preti e delle sacerdotesse con i cesti contenenti le vipere incantate. Presto Judith avrebbe fatto il proprio ingresso, il che significava che il momento in cui Raistlin avrebbe dovuto agire si stava avvicinando. Lui era terrorizzato, e dai sintomi aveva anche capito quale fosse la natura del suo problema: era un attacco di panico da palcoscenico. In passato, gli era capitato di sperimentare qualcosa di simile, anche se in misura drasticamente minore, prima delle sue esibizioni durante le piccole fiere che si tenevano a Solace, ma in quei casi la paura era sempre svanita non appena aveva cominciato ad esibirsi e quindi non se n'era particolarmente preoccupato. D'altro canto, non si era mai esibito davanti ad un pubblico di queste dimensioni, e che andava per di più considerato ostile, e la posta in gioco non era mai stata tanto grande, il che significava che la sua paura era cento volte più intensa di quanto lo fosse mai stata in passato. Le sue mani erano gelate fino all'osso, le dita tanto rigide da indurlo a temere di non riuscire a muoverle quanto bastava per estrarre la pelle d'agnello dalla custodia; al tempo stesso gli intestini gli si stavano contraendo in maniera tale che per un orribile momento lui ebbe il timore di dover abbandonare l'assemblea per andare in cerca di una latrina, la bocca era tanto arida da non permettergli di pronunciare una sola parola... ma come avrebbe fatto ad attivare l'incantesimo se non poteva parlare? In aggiunta a tutto questo era madido di sudore e si sentiva percorrere dai brividi. D'un tratto lo stomaco gli si contrasse in modo tale da indurlo a pensare che la sua esibizione stesse per concludersi nell'ignominia e nella vergogna
ancor prima di essere cominciata, con lui che si vomitava addosso. Intanto il Sommo Sacerdote aveva cominciato con le frasi di introduzione ma Raistlin non vi badò e si piegò su se stesso, sentendosi infelice e nauseato. Di lì a poco arrivò anche la Somma Sacerdotessa Judith che rivolse al pubblico il suo solito discorso di benvenuto di cui Raistlin non riuscì a sentire una sola parola a causa del ruggito che gli echeggiava negli orecchi: adesso il momento dell'azione era imminente, Caramon lo stava guardando pieno di aspettativa e da qualche parte nell'ombra anche Kit lo stava fissando; Sturm era in attesa del suo segnale e così pure Tasslehoff. Tutti aspettavano lui, contavano su di lui, dipendevano da lui. Se avesse fallito lo avrebbero capito, sarebbero stati cortesi e non lo avrebbero rimproverato. Lo avrebbero compatito... Judith intanto aveva abbassato le braccia, con le maniche che le ricadevano a coprire le mani, segno che stava per pronunciare l'incantesimo. Armeggiando con la custodia per pergamene, Raistlin costrinse le dita intorpidite ad aprirne il coperchio e tirò fuori la pelle d'agnello con mani che tremavano a tal punto che per poco non la lasciò cadere. In preda al panico, timoroso di perderla nell'oscurità e di non riuscire poi a ritrovarla, serrò il pugno intorno ad essa. Lentamente, tremando, si liberò quindi del mantello nero e si alzò in piedi. I suoi vicini di posto lo guardarono con irritazione, qualcuno alle sue spalle emise un sibilo sonoro per ingiungergli di sedersi, e quando lui non obbedì altre voci si levarono in segno di protesta, creando una confusione che indusse altri fra il pubblico a girarsi a guardare verso di lui, compreso uno dei preti che si trovavano nell'arena. Frenetico, Raistlin si frugò nella mente alla ricerca del discorso che aveva preparato con tanta cura e ripetuto così spesso, ma non riuscì a ricordarne neppure una parola: stordito dalla paura che lo paralizzava, srotolò la pergamena e la fissò, nella speranza di trovare ispirazione in essa. Le lettere delle parole magiche brillavano di un tenue e piacevole chiarore come se la punta del pennino che le aveva stilate fosse stata intinta nel fuoco. Il calore della magia si diffuse dalla pergamena alle sue dita ghiacciate, portando con sé un senso di rassicurazione: lui possedeva la capacità di attivare quell'incantesimo, di gestire la magia. Avrebbe imposto la propria volontà su queste persone, le avrebbe tenute sotto il proprio controllo. Quella consapevolezza lo galvanizzò e il senso di potere consumò la sua paura. Quando infine parlò, la sua stessa voce gli suonò poco familiare perché
era in genere sommessa e non si era aspettato di sentirla risuonare così possente. Cercò allora di modularla in modo da sfruttare al meglio l'acustica del tempio e il risultato fu così drammatico che perfino lui ne rimase sorpreso. «Cittadini di Haven» esordì, «amici e vicini. Mi presento davanti a voi per avvertirvi che vi si sta raggirando!». Mormorii e borbottii si levarono dalla folla. Alcuni gli gridarono con rabbia di smetterla di insultare il dio, altri si mostrarono irritati e preoccupati che il suo intervento impedisse il preannunciato miracolo. Qua e là qualcuno batté le mani e lo incitò invece a proseguire: quelle erano persone che erano venute per assistere ad uno spettacolo, e questo intervento garantiva che il loro denaro era stato ben speso. Da tutte le parti la gente protese il collo per cercare di vedere meglio chi aveva parlato, e parecchi fra gli spettatori si alzarono in piedi. Nell'arena i preti e le sacerdotesse guardarono con incertezza il loro capo, chiedendosi cosa dovevano fare. Ad un segnale del Sommo Sacerdote levarono allora la voce nel canto per cercare di soffocare le parole di Raistlin; intanto Caramon si era alzato in piedi per ergersi protettivamente accanto al fratello e stava tenendo d'occhio con fare minaccioso gli accoliti che si erano muniti di torce e stavano scendendo lungo la navata per venire verso di loro. Raistlin non stava però badando a tutta quella confusione: il suo sguardo era fisso su Judith, che aveva sospeso l'attivazione dell'incantesimo e dopo averlo localizzato fra la folla lo stava fissando a sua volta. A causa dell'oscurità lei non era in grado di riconoscerlo, ma vide la sua veste bianca e comprese immediatamente il pericolo che stava correndo; la sua confusione durò però un solo istante, poi lei ritrovò subito il controllo. «Attenti al mago!» esclamò. «Prendetelo e portatelo via! A quelli come lui è proibito entrare nel tempio: viene ad operare fra di noi la sua magia malvagia!». «Sentiamo qualcosa di più in merito alla magia malvagia, Vedova Judith», gridò di rimando Raistlin. A quel punto lei lo riconobbe e il sangue le salì al volto per l'ira, le pupille le si dilatarono negli occhi sgranati e le labbra pallide si mossero senza emettere suono, mentre Raistlin si sentiva assalire da un senso di allarme e di sgomento alla vista dell'odio che si leggeva nel suo sguardo. Sotto il suo impatto la sicurezza appena ritrovata vacillò e Judith parve avvertirlo. Socchiudendo le labbra in un terribile sorriso fece ciò che a-
vrebbe dovuto fare fin dall'inizio, volgergli le spalle ignorandolo. Intanto gli accoliti stavano scendendo rumorosamente le scale diretti verso di lui, ma per fortuna alcuni fra il pubblico si erano spostati nella navata per vedere meglio e stavano bloccando loro il passo; con i pugni serrati, Caramon era pronto a tenere a bada gli aggressori, ma era soltanto questione di tempo prima che essi lo sopraffacessero grazie alla loro semplice superiorità numerica. «Posso provare che le mie accuse sono vere!» gridò Raistlin, ma la voce gli s'incrinò e la gente prese a fischiare e a deriderlo. Imbarazzato e consapevole che stava perdendo il controllo sul pubblico, lui lottò disperatamente per ritrovarlo. «La donna che si definisce una Somma Sacerdotessa compie quello che lei chiama un miracolo... ma io posso dimostrare che è soltanto una magia usando esattamente lo stesso incantesimo e facendo apparire fra di voi un altro cosiddetto dio. Mirate!». Arrivato al momento cruciale scoprì di non avere bisogno della pergamena perché le parole dell'incantesimo gli erano penetrate nel sangue e la magia stava creando una polla di fuoco intorno al suo cuore martellante per poi essere trasportata dal sangue in ogni parte del corpo. Recitò quindi le parole dell'incantesimo, pronunciando ciascuna di esse in modo preciso e corretto, crogiolandosi nell'esaltante sensazione che la magia gli dava nel fluirgli come acciaio fuso lungo le gambe, le braccia e le dita. Attingendo alle energie di quanti lo stavano osservando, utilizzando l'odio e la furia dei suoi nemici a proprio vantaggio, scagliò quindi la magia fuori da sé e l'incantesimo sciamò dalla sua persona, parve sollevarlo per trasportarlo lungo un irradiarsi di onde di fuoco e di calore. Contemporaneamente un gigante apparve davanti al pubblico: un gigante spaventoso che aveva un'enorme coda di cavallo e indossava pantaloni a scacchi verdi e una camicia di seta porpora, che aveva sacche e borse drappeggiate su tutto il corpo e faceva del suo meglio per dare l'impressione di apprezzare l'enormità della situazione. «Mirate!» ripeté intanto Raistlin. «Il Kender Gigante di Balifor!». Alcune persone sussultarono, altre scoppiarono in risatine nervose e cariche di tensione mentre il gigantesco kender procedeva lungo la navata mantenendo un'espressione così seria e solenne che il naso gli vibrava per lo sforzo. «Evocate Belzor!» gridò qualcuno. «Fatelo lottare con il kender!». «Io scommetto sul kender!» gridò qualcun altro. Ondate di risa divertite aleggiarono fra la folla, buona parte della quale
era venuta per vedere uno spettacolo e si sentiva ricompensata; alcuni fra i fedeli lanciarono invece grida di rabbia, pretendendo che il mago cessasse il suo sacrilegio, ma una volta scatenato il riso era una cosa difficile da arrestare. Il riso... un'arma letale quanto qualsiasi lancia. «In quest'angolo Belzor e nell'altro...» esclamò qualcuno. Le risate salirono di tono, facendosi ruggenti. Nel frattempo quattro accoliti erano riusciti ad arrivare in fondo alle scale e stavano cercando di afferrare Raistlin, ma Caramon non ebbe difficoltà a respingerli a mani nude, spintonandoli; i vicini di posto, che si stavano godendo lo spettacolo e non volevano che finisse, intervennero a dargli una mano e alcuni dei fedeli si schierarono dalla parte degli accoliti mentre tre uomini che erano venuti al tempio dopo essere passati da una birreria si lanciavano con entusiasmo nella mischia senza badare alla fazione con cui si stavano schierando. Ben presto un piccolo tumulto scoppiò tutt'intorno a Raistlin. Le grida e le imprecazioni attirarono l'attenzione degli uomini della Guardia Cittadina di Haven che si trovavano fra il pubblico e che fino a quel momento avevano continuato a scoccare occhiate nervose al loro capitano, timorose che questi potesse ordinare loro da un momento all'altro di arrestare il kender gigantesco. Quanto al capitano, era anche lui considerevolmente sconvolto dato che gli si stava parando davanti agli occhi l'immagine di quell'immenso kender rinchiuso nella prigione di Haven, con la testa e la maggior parte del torso che sbucavano dal foro che avrebbero dovuto praticare nel soffitto. In quelle circostanze un semplice e comune tumulto era decisamente il benvenuto, quindi il capitano si disinteressò del kender e ordinò ai suoi uomini di andare a sedare la rissa in corso. Nel frattempo il kender continuò indisturbato la propria marcia lungo la navata, anche se adesso ben pochi gli stavano ancora prestando attenzione, dato che ormai quasi tutti i presenti erano in piedi. I più prudenti, notando che la situazione stava sfuggendo pericolosamente al controllo, radunarono la famiglia e si avviarono verso l'uscita, mentre quanti amavano le situazioni emozionanti rimanevano invece al loro posto, salendo in piedi sui sedili per cercare di vedere meglio e i giovani presenti fra il pubblico si lanciarono di corsa attraverso l'arena per andare a prendere parte alla mischia. Nel frattempo parecchi bambini sfuggirono alla presa delle madri frenetiche per gettarsi all'inseguimento del kender gigantesco e alcuni nani presero a lottare contro chiunque gli capitasse a tiro, giurando
che questo era il miglior raduno religioso a cui avessero preso parte dall'epoca del Cataclisma. Raistlin intanto si era rifugiato sopra il sedile di marmo, sentendosi dapprima sgomento e poi eccitato al pensiero di essere lui l'artefice di tanta confusione, il sobillatore di quel caos. In quel momento assaporò il potere e scoprì che il suo gusto era dolce... per lui più dolce anche dell'amore e del profitto. Raistlin non aveva difficoltà a vedere i fatali difetti presenti negli esseri mortali, vedeva la loro avidità, i loro pregiudizi, la loro credulità, la loro perfidia e la loro bassezza d'animo, tutte pecche per le quali li disprezzava, e in quel momento comprese che avrebbe potuto sfruttare quelle pecche per i propri fini, quali che potessero essere, operando il bene o il male con il suo potere, a seconda di quello che avesse scelto. In preda ad un senso di trionfo si girò verso la Somma Sacerdotessa e scoprì che era scomparsa... e con lei anche Kitiara. Sgomento, Raistlin afferrò Caramon per il dietro della camicia, la sola parte di lui che fosse visibile, e diede uno strattone. In quel momento Caramon stava lottando contro due accoliti, tenendone uno per la gola e l'altro ad un braccio di distanza mentre continuava a ripetere loro che dovevano calmarsi e lasciare in pace la gente onesta. Quando lo strattone alla camicia rischiò quasi di soffocarlo, Caramon girò di scatto la testa per vedere di cosa si trattasse. «Lasciali andare e vieni con me!» gridò Raistlin. Intorno a loro c'erano pugni che si agitavano, uomini che si spintonavano, gridavano e imprecavano, una confusione che le guardie avevano soltanto aumentato nel loro tentativo di ripristinare l'ordine. Guardandosi intorno per un momento, Raistlin cercò di rintracciare Sturm in quella confusione ma non riuscì a trovarlo; intanto il kender gigantesco era scomparso perché l'incantesimo si era dissolto quando la disponibilità del pubblico a credere nell'illusione era scomparsa, e adesso Tasslehoff, tornato alle sue dimensioni normali, era sepolto sotto una valanga di ragazzini. Con lo svanire dell'incantesimo anche la magia era defluita da Raistlin, lasciandolo prosciugato come se si fosse aperto un'arteria e ne avesse fatto scaturire tutto il proprio sangue. Adesso ciò che desiderava disperatamente era raggomitolarsi sotto una coperta e dormire, dormire per giorni, però non osava farlo. La sua debolezza era tale che quando cercò di muovere un passo barcollò e per poco non cadde. «Raist, hai un aspetto spaventoso!» esclamò Caramon, prendendolo per
un braccio. «Cosa ti succede? Stai male? Avanti, lascia che ti porti io!». «Niente affatto! Adesso taci e ascoltami!» ordinò Raistlin, che non aveva né tempo né energie da sprecare con le stupidaggini di Caramon; accennò quindi ad allontanare da sé il braccio con cui il fratello lo stava sostenendo ma poi si rese conto che senza di esso avrebbe rischiato di collassare e aggiunse: «D'accordo, allora aiutami a camminare! Non da quella parte, stupido! La porta sotto il serpente! Dobbiamo trovare Judith!». «Trovare quella strega?» ribatté Caramon, accigliandosi. «E perché? Ci siamo liberati di lei, e che l'Abisso se la prenda!». «Non sai cosa stai dicendo, Caramon!» sussultò Raistlin, assalito da un senso di minacciosa premonizione che gli destò un brivido in tutto il corpo. «Se non verrai con me andrò da solo». «D'accordo, Raist», assentì Caramon in tono sottomesso, impressionato dal tono urgente del fratello. «Togliti di mezzo!» gridò quindi, assestando un pugno ad una magra guardia cittadina che stava invano cercando di circondargli con le mani il collo taurino. Aiutato Raistlin a scendere dal gradino di marmo, Caramon lo accompagnò verso la corda che impediva ai fedeli l'accesso all'arena. «Attento alle vipere!» ammonì Raistlin, appoggiandosi al braccio possente del fratello. «L'incantesimo che le teneva sottomesse è cessato». Caramon fece un largo giro per evitare i serpenti che continuavano a dondolarsi nei loro cesti, abbandonati dal Sommo Sacerdote e dai suoi seguaci che si erano saggiamente lasciati alle spalle sia l'arena sia le vipere. Nel momento stesso in cui Raistlin pronunciava il suo avvertimento, uno dei serpenti scivolò fuori dal cesto e prese a strisciare sul pavimento. Intanto la gente cominciava a riversarsi verso il centro dell'arena per sfuggire alla mischia sempre più violenta oppure per cercare nuovi avversari. Una delle guardie andò a sbattere contro un braciere e ne rovesciò i carboni ardenti sulla paglia che copriva il pavimento al fine di ovattare i rumori: subito dal suolo si levarono lingue di fiamma, volute di fumo si arrotolarono nell'aria e il pandemonio generale aumentò ulteriormente quando qualcuno prese a gridare in tono isterico che l'edificio era in fiamme. «Da questa parte!» ordinò Raistlin, indicando la stretta porta inserita nella statua di pietra del serpente. I due fratelli si addentrarono in un corridoio di pietra rischiarato da torce tremolanti, nel quale si aprivano parecchie porte su entrambi i lati, e nel guardare oltre una di quelle soglie, Raistlin vide un'ampia stanza splendidamente arredata e rischiarata da centinaia di candele di cera: dunque quel-
le erano le camere in cui i preti di Belzor vivevano, lussuosamente, a quanto pareva, e lavoravano. Era stata speranza di Raistlin di trovare Judith in una di quelle stanze, ma esse erano tutte vuote come pure quella parte del corridoio, segno che i seguaci di Belzor avevano ritenuto più saggio abbandonare il tempio in balia della folla in tumulto. Lanciando intorno a sé un'occhiata affrettata, Raistlin scoprì poi che non tutti i fedeli seguaci del dio erano fuggiti: in un angolo in ombra c'era una figura accoccolata, e quando fu più vicino lui poté constatare che si trattava di una delle sacerdotesse, che doveva essere ferita oppure essere crollata per la paura. Quale che fosse il motivo per cui era rimasta indietro, gli altri seguaci di Belzor l'avevano abbandonata e adesso lei era raggomitolata contro la parete di pietra e stava piangendo disperatamente. «Chiedile dove possiamo trovare Judith» ordinò Raistlin, ritenendo più saggio rimanere nascosto nell'ombra dietro suo fratello. Caramon si protese a sfiorare con gentilezza la mano della sacerdotessa per attirare la sua attenzione e lei sussultò, sollevando il volto striato di lacrime a fissarlo con aria spaventata. «Dov'è la Somma Sacerdotessa?» chiese Caramon. «Non è stata colpa mia! Lei ci ha mentito!» esclamò la ragazza, deglutendo a fatica. «Io le credevo!». «Ne sono certo. Dove...» Da qualche parte echeggiò un urlo di rabbia che si mutò in un acuto grido di paura per poi interrompersi di colpo con un orribile gorgoglio che ebbe l'effetto di raggelare Raistlin fino alle ossa per l'orrore; quanto alla ragazza, urlò a sua volta e sì coprì gli orecchi con le mani. «Dov'è Judith?» insistette Caramon, che non aveva idea di cosa stesse succedendo ma aveva un ordine a cui obbedire e non intendeva permettere a nulla di distrarlo. Per dare enfasi alle proprie parole scosse leggermente la ragazza spaventata. «È nella sua sala d'attesa... laggiù», gemette la sacerdotessa, sollevandosi in ginocchio. «Dovete credermi! Io non lo sapevo...». Notando che Raistlin si era già avviato nella direzione indicata dalla ragazza, Caramon non attese di sentire altro e si affrettò a raggiungere il fratello all'estremità del corridoio, che in quel punto si biforcava a Y in due diversi passaggi. Le torce poste sul lato sinistro del corridoio, quello dove si trovava la stanza di Judith, erano state spente e quella parte del tempio era immersa nel buio. «Ci serve una luce», ordinò Raistlin.
Prima di addentrarsi nella parte buia del corridoio Caramon afferrò una delle torce accese e la levò in alto. Il fumo prodotto dalla paglia che stava bruciando nell'arena era intanto filtrato fin lì e si stava muovendo in riccioli sinuosi lungo il pavimento; in fondo al corridoio buio era adesso visibile grazie alla torcia una singola porta su cui spiccava il simbolo del serpente lavorato in oro. «Hai sentito quell'urlo, Raist?» domandò a disagio Caramon, fermandosi di colpo. «Sì, e di certo non siamo stati i soli a sentirlo», rispose Raistlin, scoccando al fratello un'occhiata impaziente. «Perché te ne stai fermo lì? Spicciati, presto la gente verrà ad indagare e non abbiamo molto tempo». Con quelle parole si avviò nel corridoio buio, e dopo un momento di esitazione Caramon si affrettò a raggiungerlo; quando Raistlin bussò con decisione alla porta essa si aprì da sola non appena entrò in contatto con la sua mano. «Tutto questo non mi piace, Raist. Andiamo via», incitò Caramon, nervoso e scosso. Raistlin però spinse la porta, spalancandola. La piccola stanza era intensamente illuminata da venti o trenta grosse candele disposte su una sporgenza di pietra della parete, spessi tendaggi di velluto nascondevano in parte un'altra porta, questa chiusa, che dava accesso ad una stanza posteriore che era probabilmente la camera da letto di Judith; un boccale di peltro pieno di vino e un piatto di pane e carne, che sarebbero dovuti servire a ripristinare le energie della sacerdotessa dopo il rituale erano sistemati su un piccolo tavolo di legno. Judith però non aveva più bisogno di mangiare e le sue esibizioni erano finite per sempre: la maga giaceva infatti al suolo sotto il tavolo e intorno a lei il pavimento era coperto di sangue perché la gola le era stata tagliata con violenza tale che chi l'aveva uccisa le aveva quasi troncato la testa dal collo. Di fronte a quello spettacolo orribile, Caramon fu assalito da un conato di vomito e si coprì gli occhi con le mani. «Oh, Raist! Non dicevo sul serio!» mormorò, sgomento. «Riguardo all'Abisso, io non dicevo sul serio!». «Nonostante questo, fratello mio», replicò Raistlin, che stava invece contemplando il corpo con una calma spaventosa, «possiamo supporre senza tema di errore che l'Abisso sia proprio la sua attuale residenza. Vieni, dobbiamo andare via subito perché nessuno ci deve trovare qui».
Stava per volgere le spalle al cadavere quando con la coda dell'occhio intravide un bagliore prodotto dalla luce della torcia che si rifletteva su qualcosa di metallico, e guardando più attentamente scorse un coltello abbandonato a terra accanto al corpo: lui conosceva quel coltello, lo aveva già visto in precedenza, quindi dopo appena una frazione di secondo d'esitazione si chinò rapidamente a raccoglierlo e lo infilò nella manica della veste. «Presto, fratello mio! Sta arrivando qualcuno!». All'esterno della stanza si sentì un rumore di piedi calzati di stivali, unito alla voce acuta della ragazza che indirizzava la guardia cittadina verso le camere della Somma Sacerdotessa, e nel momento stesso in cui Raistlin arrivò alla porta sulla soglia apparvero il capitano della Guardia e parecchi dei suoi uomini, che alla vista del cadavere si arrestarono di colpo, allarmati e stupiti; una delle guardie volse le spalle alla scena e si ritirò in un angolo dove vomitò senza dare nell'occhio. Il capitano era pero un vecchio soldato che aveva visto la morte in molti dei suoi orribili aspetti e che non era quindi particolarmente sconvolto da quello spettacolo. Fissò quindi dapprima i resti di Judith, che era venuto a interrogare perché sospetta di aver frodato il denaro dei buoni cittadini di Haven, poi spostò lo sguardo severo sui due giovani presenti nella stanza e li riconobbe immediatamente come i due che avevano scatenato i disastrosi eventi della serata. «Io... io non dicevo sul serio...» balbettò con voce rotta Caramon, che era pallido quasi quanto il cadavere esangue. Raistlin rimase invece in silenzio, impegnato a riflettere rapidamente: la situazione era infatti disperata, perché le circostanze erano tutte contro di loro. «Cos'è questa?» domandò intanto il capitano, indicando una macchia di sangue sulla manica della veste bianca di Raistlin. «Ho una certa reputazione come guaritore e mi sono chinato ad esaminarla», rispose Raistlin. Stava per aggiungere che voleva vedere se c'era qualche segno di vita ma un'occhiata al corpo gli fece capire quanto sarebbe parsa assurda un'affermazione del genere e preferì non dire altro. Intanto era acutamente consapevole del coltello che teneva stretto in mano: l'impugnatura era coperta di sangue che gli si stava appiccicando alle dita e lui si sentiva così disgustato che avrebbe dato qualsiasi cosa per potersele lavare. Raccogliere il coltello era stato un atto di una stupidità incredibile e a-
desso Raistlin stava imprecando contro se stesso per la propria follia, senza riuscire a capire cosa potesse averlo spinto ad un gesto così sconsiderato... probabilmente qualche vago e istintivo desiderio di proteggere lei, anche se sapeva che lei al suo posto non avrebbe mai fatto altrettanto per lui. «L'arma non è qui», affermò intanto il capitano, dopo aver scoccato un'altra occhiata alla veste insanguinata di Raistlin e aver esaminato la stanza con uno sguardo superficiale. «Perquisiteli entrambi». Una delle guardie afferrò rudemente Raistlin, bloccandogli le braccia mentre una seconda guardia gli sollevava le lunghe maniche, rivelando il coltello insanguinato stretto nella mano a sua volta sporca di sangue. «Prima il kender gigante e adesso un assassinio», commentò il capitano, con un cupo sorriso di trionfo. «Hai avuto una nottata impegnata, giovanotto». CAPITOLO DICIASSETTESIMO Come aveva giustamente protestato Tasslehoff, la prigione di Haven non era particolarmente accogliente. Posta vicino alla casa dello sceriffo, era situata all'interno di un edificio che un tempo era stato un granaio e che era quindi freddo e pieno di correnti, con i pavimenti sporchi coperti di rifiuti; in aggiunta a questo le celle puzzavano di escrementi sia di cavallo sia umani, e anche del vomito di coloro che avevano bevuto troppo spirito dei nani nel corso della fiera. Raistlin però non si accorse dell'odore, almeno dopo i primi secondi, perché era troppo stanco per badare a qualsiasi cosa, al punto che in quel momento avrebbero potuto impiccarlo, l'impiccagione era la pena prevista ad Haven per l'assassinio, e lui avrebbe accettato la cosa senza protestare. Lasciatosi cadere su uno sporco materasso di paglia, scivolò in un sonno così profondo che non sentì neppure i topi che gli passavano sulle gambe. Quel suo sonno senza sogni fornì intanto un argomento di conversazione alle guardie della prigione, in quanto una di esse sosteneva che chi dormiva in maniera così serena doveva essere innocente di qualsiasi accusa di assassinio in quanto una coscienza colpevole non avrebbe mai potuto godere di un sonno sereno; un'altra guardia più vecchia ed esperta rise però della teoria del compagno, e dichiarò che un sonno tranquillo era invece indice del fatto che il prigioniero era un incallito criminale, capace di dormire profondamente quando aveva ancora sulle mani il sangue della sua vittima.
Raistlin però non sentì la loro discussione e neppure le voci chiassose degli altri prigionieri, per lo più kender pieni di eccitazione perché quella era stata una giornata ricca di eventi, compresi una rissa, un incendio, un assassinio e, cosa più meravigliosa di tutti, un membro della loro razza trasformato in un gigante... un'impresa davvero incredibile di cui non risultava fosse mai stato capace neppure zio Trapspringer; dopo quella sera il kender gigante era destinato a diventare una figura mitologica celebrata nei canti e nelle storie dei kender, spesso vista attraversare a grandi passi gli oceani o saltare da una cima montana all'altra. Da allora, se capitava una notte in cui la luna d'argento e quella rossa non sorgevano, i kender divennero propensi a raccontare a tutti che era stato il kender gigante a "prenderle in prestito". Impazienti di discutere di quell'evento incredibile, i kender entravano e uscivano di continuo dalle rispettive celle, forzando le serrature quasi prima che la porta fosse stata chiusa, e le guardie facevano appena in tempo a riportare uno di essi nella sua cella che ne trovavano altri due in circolazione per la prigione. «Sta tremando», osservò d'un tratto la guardia più giovane, guardando nella cella di Raistlin durante un momento di pausa concesso loro dai kender, pausa che peraltro non presagiva nulla di buono perché significava che essi stavano escogitando chissà che cosa. «Non dovrei portargli una coperta?». «No», ribatté con un sogghigno il carceriere. «Presto avrà caldo a sufficienza... anzi, anche troppo se capisci cosa intendo. Dicono che l'Abisso sia più caldo della fucina di un fabbro». «Immagino che lo processeranno prima d'impiccarlo», protestò l'altra guardia, che era nuova della zona. «Lo sceriffo terrà un processo per pura formalità», annuì il carceriere, scrollando le spalle, «ma per quel che mi riguarda non vedo che bisogno ci sia di farlo, dato che lo hanno trovato con il coltello in mano e fermo accanto al cadavere. Avanti, coprilo pure, se vuoi», continuò, esibendo una coperta sporca. «Sarebbe un peccato se dovesse ammalarsi e morire prima dell'impiccagione. Dammi le chiavi». «Non le ho. Credevo che le avessi tu». Dopo qualche ricerca risultò che erano i kender ad avere le chiavi: essi infatti si riversarono fuori da tutte le celle e organizzarono un picnic nel centro della prigione. Intenti com'erano a cercare di persuadere i kender a restituire loro le
chiavi, il carceriere e la guardia erano troppo distratti per notare il bagliore di torce che si stava avvicinando alla prigione, e le grida dei kender impedirono loro di sentire le urla della folla che si stava avvicinando. Spossato a causa dell'incantesimo e dell'interrogatorio dello sceriffo, Raistlin rimase immerso nel suo sonno quasi comatoso e a sua volta non sentì nulla. Neppure Caramon vide il bagliore delle torce, perché in quel momento era lontano dalla prigione e stava correndo più in fretta che poteva verso la fiera dopo aver evitato di stretta misura di essere preso prigioniero a sua volta. Quando era stato interrogato dallo sceriffo di Haven, aveva negato con costanza e determinazione di sapere qualsiasi cosa in merito al crimine, sia per quanto riguardava se stesso sia a nome del fratello, che intanto continuava a sua volta a ripetere stancamente la propria versione dell'accaduto, e cioè che era inginocchiato accanto al corpo per esaminare la vittima. Quanto al coltello non aveva idea del perché lo avesse raccolto o avesse cercato di nasconderlo, probabilmente aveva agito così perché si era trovato in stato di shock e non si era reso conto di quello che stava facendo. Inoltre, aveva ribadito enfaticamente, Caramon non aveva nulla a che vedere con quanto era accaduto. Per fortuna la giovane sacerdotessa si era presentata come testimone e aveva dichiarato che stava parlando con Caramon nel corridoio quando avevano sentito Judith urlare. Caramon aveva giurato che il suo gemello era stato con lui in quel momento, ma la ragazza aveva ribadito di aver visto soltanto lui. A causa di quell'alibi lo sceriffo era stato costretto sia pure con riluttanza a liberare Caramon, che aveva scoccato un'occhiata devota, ansiosa e preoccupata al fratello, che l'aveva ignorata, e si era allontanato in tutta fretta verso la fiera, riflettendo lungo il tragitto su quanto era accaduto. La gente lo accusava di essere stupido e lento di mente, e pur non essendo stupido lui in effetti era lento nel ragionamento, anche se non nella comune accezione di quella definizione con cui di solito s'intendeva una persona stupida. Caramon infatti era un pensatore, lento e razionale, che considerava ogni aspetto di un problema prima di arrivare infine alla soluzione, e a causa della lentezza di quel procedimento la maggior parte della gente di solito non notava che lui arrivava invariabilmente alla soluzione giusta. Adesso Caramon aveva davanti a sé parecchi chilometri lungo i quali ri-
flettere sulla terribile situazione che si era creata. Lo sceriffo era stato del tutto trasparente e aveva ammesso che ci sarebbe stato un processo puramente formale, il cui esito era già scontato in partenza: Raistlin sarebbe stato riconosciuto colpevole di omicidio e sarebbe stato impiccato, sentenza che sarebbe probabilmente stata eseguita il giorno stesso del processo, non appena fosse stato possibile montare il patibolo. Quando infine giunse alla fiera, Caramon aveva ormai preso una decisione e sapeva con esattezza cosa doveva fare. L'area della fiera era tranquilla, rischiarata qua e là da una luce che filtrava attraverso gli antoni chiusi delle bancarelle perché sebbene fosse ormai passata la mezzanotte alcuni artigiani stavano ancora lavorando duramente per preparare una nuova scorta di merce per l'indomani, che sarebbe stato l'ultimo giorno di fiera, l'ultima occasione per indurre i clienti a comprare le loro mercanzie. La notizia di quanto era successo ad Haven non era evidentemente ancora giunta fin lì oppure, se vi era giunta, era stata accolta come una storia interessante e niente di più, perché quei mercanti certo non pensavano che essa potesse avere il minimo riflesso sui loro interessi; senza dubbio avrebbero avuto un parere diverso l'indomani, perché se davvero ci fossero stati un processo per omicidio e un'impiccagione l'afflusso alla fiera sarebbe stato scarso e le vendite poche. Caramon rintracciò la bancarella di Flint orientandosi in base alle sagome dei diversi edifici che spiccavano sotto la pallida luce delle stelle e quella della luna rossa, che era piena e proiettava un chiarore anche troppo intenso... cosa che a Caramon parve un buon presagio perché pur portando la veste bianca Raistlin aveva affermato una volta che la sua preferenza andava a Lunitari. Innanzitutto Caramon andò alla ricerca di Sturm, ma non riuscì a trovare da nessuna parte né lui né Tasslehoff e infine si recò alla tenda di Tanis, esitando davanti all'apertura. Essendo abbastanza disperato da non avere il minimo scrupolo a interrompere qualsiasi piacevole attività che potesse essere in corso all'interno della tenda, Caramon ascoltò per un momento e quando non riuscì a sentire nulla sollevò il telo d'ingresso per sbirciare all'interno, scoprendo che Tanis era solo e immerso in un sonno tutt'altro che sereno, dato che stava mormorando qualcosa in una lingua incomprensibile, probabilmente elfica, e si agitava con inquietudine. Deducendo che a quanto pareva la lite non era ancora stata superata, Caramon lasciò ricadere il telo e indietreggiò.
Entrando nella tenda che divideva con il suo gemello, non rimase sorpreso di trovarvi Kitiara, avvolta in una coperta e all'apparenza immersa in un sonno tranquillo e sereno, almeno a giudicare dal suo respiro uniforme; un'ondata di luce lunare si riversò nella tenda insieme con Caramon, quasi che Lunitari stessa fosse decisa ad essere presente a quel colloquio, e questo destò nell'animo di Caramon un senso di meraviglia che si andò a mescolare all'ira che gli divampava nell'anima. Accoccolandosi, toccò la spalla della sorella ed ottenne una reazione soltanto dopo averla scossa parecchie volte... e da questo così come dalla scarsa credibilità del modo in cui lei si girò e finse di non riconoscerlo immediatamente, comprese che Kitiara aveva finto di dormire. Sapeva infatti per passate e dolorose esperienze, che lei non era tipo da permettere a qualcuno di avvicinarlesi tanto di soppiatto. «Chi è? Caramon?» mormorò Kitiara, fingendo uno sbadiglio e passandosi la mano fra i capelli arruffati. «Cosa vuoi? Che ore sono?». «Hanno arrestato Raistlin», affermò Caramon. «Già, certo, non mi sorprende. Domattina pagheremo la multa e lo tireremo fuori di prigione», ribatté Kit, tirandosi la coperta sulle spalle e accennando a girarsi dall'altra parte. «Lo hanno arrestato per omicidio», aggiunse Caramon, parlando alla schiena della sorella. «Per l'omicidio della Vedova Judith. Noi l'abbiamo trovata morta nelle sue stanze con la gola tagliata. Accanto al corpo c'era un coltello che Raistlin ed io abbiamo entrambi riconosciuto perché lo avevamo già visto in precedenza... alla tua cintura». Poi tacque, in attesa. Per un momento Kitiara rimase immobile, poi si liberò della coperta e si levò a sedere, rivelando di essere ancora quasi del tutto vestita in quanto aveva indosso pantaloni, camicia e stivali, e si era tolta soltanto il giustacuore di cuoio. «Allora perché hanno arrestato Raistlin?», domandò con disinvolta noncuranza, addirittura leggermente divertita. «Lo hanno trovato con il coltello in mano». «Questo è stato stupido da parte sua», affermò Kitiara, con una smorfia. «Di solito il fratellino non fa simili errori. Quanto ad aver riconosciuto il coltello in questo mondo c'è una quantità di coltelli simili», aggiunse scrollando le spalle. «Non molti con impresso il marchio di Flint, o con l'elsa avvolta nel cuoio intrecciato come sei solita fare tu. Quello era il tuo coltello, Kit, io e
Raistlin lo sappiamo entrambi». «Ma davvero?» ribatté Kitiara, inarcando un sopracciglio. «Raistlin ha detto qualcosa al riguardo?». «Naturalmente no, non lo farebbe mai, almeno non prima che io abbia parlato con te», replicò Caramon, cupo. «Però prima o poi lo farà». «Non gli crederanno». «Allora dovrai essere tu a parlare. Sei stata tu ad ucciderla, vero, Kit?». Kitiara scrollò le spalle e non rispose; la luce della luna rossa, che si rifletteva nei suoi occhi, continuò a riversarsi intensa nella tenda. «Allora lo farò io, Kit», disse Caramon, alzandosi in piedi. «Dirò loro la verità». E si chinò per uscire dalla tenda. Kitiara scattò in piedi e l'afferrò per una manica. «Caramon, aspetta! C'è una cosa che devi considerare, qualcosa a cui non hai pensato», affermò, traendolo di nuovo nella tenda e chiudendone il telo d'ingresso in modo da escludere la luce lunare. «Allora, di cosa si tratta?», chiese in tono freddo Caramon. «Sapevi che Raistlin poteva compiere magie come quelle?» domandò Kitiara, facendoglisi più vicino. «Come cosa?» replicò lui, perplesso. «Come l'incantesimo che ha usato stanotte. Era potente, Caramon, io lo so perché ho frequentato un po' alcuni maghi e ho visto... ecco, non ha importanza ciò che ho visto, ma puoi fidarti di me se ti dico che Raistlin non avrebbe dovuto essere in grado di fare quello che ha fatto, non alla sua giovane età». «È abile nella magia», affermò Caramon, che ancora non comprendeva dove intendesse andare a parare Kitiara con questo discorso, usando lo stesso tono con cui avrebbe potuto affermare che Raistlin era abile nel giardinaggio o in cucina, perché per lui quella era una cosa del tutto naturale. «Sei imparentato con i nani dei fossi per essere tanto stupido?» domandò Kitiara, accennando un gesto impaziente. «Possibile che tu non riesca a capire?», aggiunse quindi, riducendo la voce ad un sibilo sommesso. «Ascoltami, Caramon. Tu hai detto che Raistlin è abile nella magia, e adesso io ti dico che lui è troppo abile, cosa di cui non mi ero resa conto prima di stanotte. Credevo che stesse soltanto giocando a fare il mago e non avevo idea che fosse così potente, non mi aspettavo...». «Cosa stai dicendo, Kit?» chiese Caramon, che cominciava a perdere la pazienza.
«Lascialo a loro, Caramon», mormorò Kitiara, in tono sommesso. «Lascia che lo impicchino! Raistlin è pericoloso, è come una di quelle vipere: finché è sottoposto a incantesimo è gentile, ma se lo si contraria... non tornare alla prigione, Caramon, va' a letto e domattina se qualcuno dovesse chiederti del coltello rispondi che apparteneva a Raistlin. Questo è ciò che devi fare perché tutto finisca in fretta». Caramon rimase sconvolto da quelle parole che lo colpirono come un pugno e lo lasciarono troppo stordito perché riuscisse a pensare ad una risposta; incapace di decifrare il suo volto a causa dell'oscurità, Kitiara giudicò la sua reazione in base ai propri standard e ritenne che lui si sentisse indotto in tentazione. «Dopo saremo soltanto tu ed io, Caramon», continuò. «Ho avuto un'offerta per un lavoro, su al nord. La paga è buona e andrà migliorando. Si tratta di un lavoro mercenario, del genere di cui abbiamo sempre parlato, ed io metterò una buona parola per te. Senza dubbio il nobile ti assolderà perché sta cercando soldati addestrati, e tu sarai libero da Solace, libero da qualsiasi legame», aggiunse, scoccando un'occhiata in tralice in direzione della tenda di Tanis per poi tornare a fissare il fratellastro e concludere: «Sarai libero di fare quello che vorrai. Che ne dici? Sei con me?». «Vuoi che... che lasci morire... Raistlin?» chiese infine Caramon con voce roca, quasi strozzandosi nel proferire quelle parole. «Lascia che accada quel che deve accadere», replicò Kitiara, blandendolo. «È per il meglio». «Non puoi dire davvero!» esclamò lui, incredulo. «Non parli sul serio!». «Non essere idiota, Caramon!» ribatté Kitiara, in tono severo. «Raistlin ti sta usando, lo ha sempre fatto e sempre lo farà! Non gli importa niente di te e ti userà per ottenere quello che vuole, salvo poi scartarti come fossi uno straccio sporco quando non gli servirai più. Renderà la tua vita un inferno, Caramon! Lascia che lo impicchino! Non sarà colpa tua!». Caramon indietreggiò con tanta violenza che per poco non abbatté il palo della tenda. «Come puoi... no. non lo farò!» esclamò, annaspando con il telo di apertura nel disperato tentativo di uscire. Kitiara si scagliò contro di lui e gli affondò le unghie nella carne, incombendo con il volto così vicino al suo che Caramon ne poté sentire sulla guancia il respiro rovente. «Mi sarei aspettata una risposta del genere da Sturm o da Tanis, ma non da te! Tu non sei uno smidollato, Caramon, Pensa a quello che ti ho det-
to!». Caramon scosse con violenza il capo, sentendosi nauseato come quando aveva visto per la prima volta il cadavere della sacerdotessa, e anche se stava ancora cercando di uscire, adesso era così sconvolto che non riusciva a trovare la porta. Kitiara lo contemplò in silenzio con le mani sui fianchi, e alla fine emise un sospiro esasperato. «Lascia perdere!» ordinò in tono irritato. «Smettila di dibatterti altrimenti abbatterai la tenda. Adesso calmati, d'accordo? Non dicevo sul serio, stavo scherzando: non permetterei mai che impiccassero Raistlin». «Questa è la tua idea di uno scherzo?» ribatté Caramon, asciugandosi il sudore gelido dalla fronte. «Non sto ridendo. Allora, dirai la verità?». «A cosa diavolo servirebbe?» ribatté Kitiara, e con un lampo d'ira aggiunse: «Vuoi che impicchino me invece di lui? Si tratta di questo?». Angosciato e infelice, Caramon non replicò. «Non l'ho uccisa io» dichiarò intanto Kitiara, in tono freddo. «Il tuo coltello...». «In mezzo alla confusione che c'era nel tempio qualcuno me lo ha rubato sfilandomelo dalla cintura. Te lo avrei detto se me lo avessi chiesto, invece di accusarmi in quel modo. Questo è ciò che è veramente successo, ma pensi che qualcuno mi crederebbe?». Caramon era del tutto certo che nessuno le avrebbe mai creduto. «Vieni con me», ordinò intanto Kitiara. «Andiamo a svegliare Tanis, lui saprà cosa fare». Si infilò quindi il giustacuore di cuoio e afferrò la spada che giaceva per terra accanto alla coperta, affibbiandosela alla cintura. «Non fare parola con il mezzelfo del mio scherzo di prima perché lui non capirebbe», disse quindi a Caramon, accarezzandogli un braccio. Incapace di parlare, Caramon si limitò ad annuire, consapevole che non lo avrebbe mai raccontato a nessuno perché era una cosa troppo vergognosa e orribile: forse si era trattato davvero di uno scherzo, per quanto macabro, ma lui non ne era convinto. Gli pareva di sentire ancora le parole di Kitiara, la veemenza con cui erano state pronunciate, e ricordava bene la strana luce che le era apparsa nello sguardo. D'istinto, si ritrasse dalla mano di lei perché il suo contatto gli faceva accapponare la pelle. Kitiara gli batté un colpetto sul braccio come se fosse stato un bravo bambino che aveva mangiato tutta la cena, poi lo oltrepassò e uscì con passo deciso dalla tenda, urlando il nome di Tanis mentre camminava.
Caramon era diretto verso il retro della bancarella per svegliare Flint quando sentì una voce eccitata echeggiare nel silenzio dell'area della fiera. «Stanno per bruciare un mago! Venite a vedere! Stanno per bruciare un mago!». CAPITOLO DICIOTTESIMO Raistlin venne svegliato di colpo da un senso di pericolo che mentre dormiva lo pervase con una scarica simile a quella di un fulmine, riscuotendolo da sogni spaventosi. D'istinto rimase immobile, tremando sotto la coperta, fino a quando la mente non fu del tutto sveglia e attiva e non ebbe individuato la fonte del pericolo. Dalla cella poteva avvertire l'odore delle torce accese e sentire le voci che echeggiavano fuori della prigione, che ascoltò con timore restando immobile. «Vi garantisco che il processo del mago avrà luogo domani», stava dicendo la guardia, «o per meglio dire oggi. Allora potrete dire quello che pensate al cospetto dello sceriffo». «Lo sceriffo non ha giurisdizione su questo caso!» rispose una voce profonda. «Quel mago ha assassinato mia moglie, la nostra sacerdotessa! Brucerà questa notte stessa, come devono bruciare tutti gli stregoni per pagare i loro orrendi crimini! Fatti da parte, carceriere: siete soltanto in due e noi siamo più di trenta... non vogliamo che persone innocenti si facciano del male». Nelle celle adiacenti i kender stavano parlando pieni di eccitazione, spingendo le panche sotto le finestre per poter vedere e lamentandosi del fatto che essendo chiusi in prigione non avrebbero potuto assistere al rogo del mago. A questo punto qualcuno suggerì che potevano forzare di nuovo la serratura, ma purtroppo in seguito al furto delle chiavi le guardie avevano aggiunto una catena munita di lucchetto alla porta della loro cella, cosa che elevava notevolmente il livello di difficoltà dell'impresa. Per nulla scoraggiati, i kender si misero all'opera. «Rankin! Corri a chiamare il capitano», ordinò intanto il carceriere. All'esterno si sentì un rumore di lotta accompagnato da grida, imprecazioni e infine da un urlo di dolore. «Ecco le chiavi», disse la stessa voce profonda di poco prima. «Voi due entrate nella prigione e portatelo fuori». «Come faremo con il capitano delle guardie e con lo sceriffo?» domandò
qualcuno. «Non cercheranno d'interferire?». «Qualcuno dei nostri confratelli si è già occupato di loro e per questa notte non ci causeranno problemi. Andate a prendere il mago». Raistlin balzò in piedi, cercando disperatamente di soffocare il panico e di pensare al da farsi. I pochi incantesimi di cui disponeva gli affiorarono alla mente, ma il carceriere gli aveva sottratto le sacche con i componenti necessari ad attivare la magia, senza contare che a causa della stanchezza estrema e della paura dubitava che sarebbe comunque riuscito ad avere la forza o la coerenza per farvi ricorso. E del resto a cosa gli sarebbe servito? Con amarezza pensò che non poteva certo far addormentare trenta persone. Avrebbe potuto usare un incantesimo che bloccasse la porta della prigione, ma stanco com'era non avrebbe potuto mantenerlo a lungo e non aveva altre armi a cui ricorrere: era impotente, del tutto alla mercé di quegli uomini! I preti vestiti delle loro tuniche azzurro cielo apparvero in fondo al corridoio con in mano delle torce e cominciarono a cercare in una cella dopo l'altra mentre Raistlin lottava contro l'impulso dettato dal panico di nascondersi in un angolo in ombra: immaginandosi mentre veniva trovato e trascinato vergognosamente all'aperto si costrinse ad aspettare con stoica calma che i due lo raggiungessero perché dignità e orgoglio erano le sole cose che gli rimanessero ed era deciso a conservarle fino alla fine. Per un momento, in modo fugace, pensò a Caramon, ma poi accantonò quella speranza considerandola utopica perché la fiera era lontana dalla prigione e suo fratello non aveva modo di sapere quello che stava succedendo. Sarebbe tornato l'indomani mattina, e allora sarebbe stato ormai troppo tardi. Poi uno dei preti si fermò davanti alla porta della sua cella. «È qui dentro!» avvertì. Raistlin serrò strettamente le mani per soffocarne il tremito e fronteggiò i due uomini con atteggiamento di sfida, componendo il volto in una maschera di freddezza e di orgoglio per nascondere la paura. I preti avevano le chiavi della cella, che il carceriere non aveva difeso molto strenuamente, e ignorando le suppliche e le esortazioni dei kender che stavano avendo problemi ad eliminare il lucchetto, aprirono la porta della cella di Raistlin, afferrandolo e legandogli i polsi con un pezzo di corda. «Non opererai altre immonde magie contro di noi», dichiarò uno di essi. «Non è la mia magia che temete», ribatté con orgoglio Raistlin, lieto che
la voce non gli tremasse. «Invece temete le mie parole ed è per questo che mi volete uccidere prima che possa essere processato. Sapete che se avessi la possibilità di parlare vi denuncerei per quei ladri e quei ciarlatani che siete». Uno dei preti gli sferrò al volto un colpo che gli spinse la testa all'indietro, gli smosse un dente e gli lacerò un labbro; il sapore del sangue gli riempì la bocca e la cella e i preti ondeggiarono davanti ai suoi occhi. «Non farlo svenire!» rimprovero l'altro prete. «Vogliamo che sia sveglio in modo che possa sentire le fiamme quando si leveranno a lambirlo!». Afferrarono quindi Raistlin per le braccia e lo trascinarono fuori dalla cella muovendosi così in fretta che per poco non lo fecero cadere. Incespicando lui fu costretto quasi a correre per non perdere l'equilibrio e ogni volta che cercò di rallentare il passo venne costretto a proseguire con un doloroso strattone alle braccia. Il carceriere era raggomitolato vicino alla porta con la testa bassa e lo sguardo fisso al suolo mentre la giovane guardia, che pareva aver fatto almeno un tentativo per difendere il prigioniero, giaceva al suolo priva di sensi con una pozza di sangue che si andava formando sotto la sua testa. All'apparire di Raistlin, i preti levarono un grido di gioia che però si quietò immediatamente ad un ordine del Sommo Sacerdote. In silenzio, animati da un intento letale, i Belzoriti circondarono Raistlin e attesero ordini dal loro capo. «Lo porteremo al tempio e lo giustizieremo là, in modo che la sua morte serva da esempio ad altri che possano avere in mente di ostacolarci. «Dopo la morte del mago dichiareremo che nessuno di noi ha visto il kender gigantesco e manderemo in giro i nostri seguaci perché diffondano la stessa versione dei fatti. Presto, quanti hanno visto il kender cominceranno a dubitare dei loro sensi e noi sosterremo che il mago, spaventato dal potere di Belzor, ha scatenato una rissa in modo da poter sgusciare via senza essere notato e assassinare la nostra sacerdotessa». «Funzionerà?» chiese qualcuno, in tono dubbioso. «La gente sa bene quello che ha visto». «Presto tutti cambieranno idea e vedere il corpo carbonizzato del mago davanti al tempio li aiuterà ad arrivare alla giusta decisione. Quanti non si convinceranno andranno incontro alla stessa sorte». «E gli amici del mago? Il nano e il mezzelfo e gli altri?». «Judith li conosceva e mi ha parlato di loro. Non abbiamo nulla da temere perché la sorella è una prostituta, il nano è un ubriacone a cui importa
soltanto del suo boccale di birra e il mezzelfo è un bastardo, un vigliacco come tutti gli elfi. Quella gente non ci causerà problemi e sarà fin troppo lieta di lasciare di soppiatto la città. Qualcuno di voi cominci a cantare», ordinò il Sommo Sacerdote. «La cosa avrà un aspetto migliore se la faremo nel nome di Belzor». Raistlin riuscì a sfoggiare un cupo sorriso anche se questo gli costò il riaprirsi del labbro ferito. Al pensiero dei suoi amici la disperazione che lo opprimeva si era attenuata e lui aveva ricominciato a sperare. Quei preti non volevano tanto la sua morte quanto il dramma che l'avrebbe accompagnata, necessario per instillare il timore di Belzor nella mente della popolazione, e questo ritardo poteva tornare soltanto a suo vantaggio perché il rumore, la luce e l'agitazione sarebbero certo stati notati in città e la notizia sarebbe arrivata fino alla fiera. Cominciando a cantilenare e a gridare il nome di Belzor i preti lo trascinarono lungo le strade di Haven e il suono stentoreo del loro canto unito al chiarore delle torce indusse la gente ad alzarsi per guardare dalla finestra. Nel vedere la macabra processione, gli abitanti si affrettarono a vestirsi per uscire ad assistere, i buoni a nulla che erano intenti a bere nelle taverne abbandonarono i boccali per accertare la causa di tanto chiasso e furono pronti ad unirsi alla folla crescente che stava seguendo i preti con un coro di grida ubriache che adesso punteggiavano il canto religioso. Il dolore causato dalla mascella che si andava gonfiando stava intanto causando a Raistlin un'emicrania intollerabile, le corde gli penetravano nella carne e la stretta dei preti intorno alle braccia era altrettanto dolorosa mentre lui lottava per restare in piedi e non cadere finendo calpestato. Il tutto era così irreale che non riusciva a provare paura. Essa sarebbe giunta più tardi, per ora si trattava soltanto di un incubo, di una sorta di orribile sogno ad occhi aperti da cui non era possibile svegliarsi. La luce delle torce lo accecava e gli impediva di vedere qualsiasi cosa tranne di tanto in tanto qualche volto sogghignante che appariva nel chiarore e subito svaniva nel buio circostante per essere sostituito da un altro. Ad un certo punto intravide la giovane donna che aveva perso la sua bambina e che lo contemplava con dolorosa compassione e con timore; d'un tratto la donna protese la mano verso di lui come per cercare di aiutarlo, ma i preti la spinsero indietro con brutalità. Poi in lontananza apparve la mole incombente del Tempio di Belzor. A quanto pareva la struttura di pietra non era stata danneggiata dal fuoco che
aveva distrutto soltanto alcune parti dell'interno e la grande folla che si era creata al seguito dei preti si raccolse nell'ampio spiazzo verde antistante la costruzione per guardare mentre gli uomini in tunica azzurra piantavano nel terreno un grosso palo di legno e altri preti accatastavano intorno ad esso delle fascine di legna da ardere. Molti cittadini di Haven diedero loro una mano nei preparativi per il rogo, gli stessi che appena poche ore prima avevano riso dei Belzoriti e si erano fatti beffe del loro dio. Raistlin però non ne rimase sorpreso perché per lui quella era soltanto un'ulteriore dimostrazione della bruttura dell'animo umano: che quella gente fosse pure soggiogata, derubata e raggirata da Belzor. Dopo tutto, quel dio e i suoi seguaci si meritavano a vicenda. I preti e la folla eccitata lo trascinarono quindi lungo la strada che portava al tempio. Ormai erano molto vicini al rogo... dov'era Caramon? Dov'erano Kit e Tanis? Possibile che i preti fossero riusciti a intercettarli e ad assalirli, che in quel momento stessero lottando per salvarsi la vita al loro accampamento senza avere modo di raggiungerlo? Oppure, pensiero raggelante, si erano resi conto che salvarlo era impossibile e vi avevano rinunciato? «Belzor! Belzor!» cominciò a gridare la folla, inebriandosi con quella folle litania, e Raistlin sentì morire la speranza rimpiazzata da una orribile paura. Poi una voce si levò tanto possente da sovrastare il canto dei preti e le grida della folla. «Fermi! Cosa significa tutto questo?». Sollevando il capo, Raistlin vide Sturm Brightblade fermo nel centro della strada fra il palo e la vittima designata, in modo da bloccare il passo ai preti. Illuminato dal chiarore di molte torce, Sturm costituiva una figura impressionante mentre si ergeva alto e impavido, con i lunghi baffi irti per l'indignazione e il volto severo che sembrava più maturo della sua età effettiva. In pugno stringeva la spada snudata e la luce delle torce divampava sul metallo come se fosse stato incandescente. Nel complesso, Sturm appariva orgoglioso e fiero, calmo e dignitoso, un punto fisso al centro di quel vorticante tumulto. Un silenzio fatto di meraviglia e di rispetto calò sulla folla e i preti che erano all'avanguardia si arrestarono, intimoriti da questo giovane che non era un cavaliere ma che appariva tale in virtù del suo portamento e del suo coraggio. In quel momento, Sturm sembrava un'apparizione emersa dall'epoca leggendaria di Huma: incerti e a disagio, i preti si girarono verso il Sommo Sacerdote in attesa di ordini.
«Stolti!» esclamò questi, in tono furente. «È un uomo soltanto! Toglietelo di mezzo e proseguite!». Un sasso partì dalla calca di spettatori e andò a colpire Sturm alla fronte. Premendosi una mano sulla ferita lui barcollò ma non lasciò il suo posto sulla strada e non si fece sfuggire di mano la spada nonostante il sangue che ora gli colava sul volto impedendogli di vedere bene da un occhio. Sollevando la spada, prese quindi ad avanzare verso i preti con fare minaccioso. Avendo visto scorrere il primo sangue, la folla era adesso ansiosa di vederne altro, a patto che non fosse il proprio: parecchi ruffiani si staccarono di corsa dalla calca, aggirarono Sturm e lo aggredirono alle spalle con calci e pugni, spingendolo a terra fra grida e imprecazioni. Vedendo che la via era libera, i preti si affrettarono a trascinare verso il palo il prigioniero, che ebbe appena il tempo di lanciare un'occhiata in direzione dell'amico, che giaceva ora gemente sulla strada con i vestiti laceri e insanguinati; poi la folla tornò a stringerglisi intorno e gli bloccò la visuale. Ormai il giovane mago aveva perso ogni speranza: Caramon e gli altri non sarebbero arrivati in tempo e questo significava che lui sarebbe morto in maniera orribile e dolorosa. Il palo di legno si ergeva al centro delle fascine di legna secca che si spezzava sotto i piedi e i cui rami sporgenti s'impigliavano nella veste di Raistlin, lacerandola in più punti mentre i preti lo spingevano a ridosso del palo e lo costringevano rudemente a girarsi in modo da fronteggiare la folla che era adesso una massa di occhi scintillanti e di bocche aperte con espressione avida e interessata; intanto qualcuno stava versando un liquido sulla legna secca... spirito dei nani, a giudicare dall'odore, di certo l'idea di qualche spettatore ubriaco e non dei preti. Questi legarono i polsi di Raistlin dietro il palo, poi gli passarono più volte una corda intorno al petto e al torace in modo da legarlo saldamente, tanto che per quanto si dibattesse con le poche forze che gli rimanevano lui non riuscì a liberarsi. A questo punto il Sommo Sacerdote accennò a tenere un discorso, ma qualcuno degli ubriachi più impazienti di assistere allo spettacolo lanciò una torcia fra la legna prima ancora che i preti avessero finito di legare il prigioniero, con il rischio di bruciare con lui anche il Sommo Sacerdote che insieme con i suoi seguaci fu costretto a battere in ritirata con fretta indecorosa per allontanarsi dalla legna intrisa di liquore che stava prendendo fuoco anche troppo in fretta, tanto che già lingue di
fiamma si levavano a lambire e a divorare i mucchietti di esca. Il fumo aggredì gli occhi di Raistlin, riempiendoli di lacrime, e nel chiuderli per proteggerli il più a lungo possibile dalle fiamme e dal fumo lui imprecò contro la propria debolezza e impotenza, preparandosi alla sofferenza lancinante che lo avrebbe aggredito quando le fiamme gli avessero raggiunto la pelle. «Salve, Raistlin!» trillò una voce alle sue spalle. «Non trovi che sia eccitante? Prima d'ora non avevo mai visto bruciare nessuno sul rogo, anche se naturalmente preferirei che non si trattasse di te...». Mentre chiacchierava, Tasslehoff si servì di un coltello per tagliare in fretta le corde che bloccavano i polsi di Raistlin. «Il kender!» gridò qualcuno con voce irosa. «Fermatelo!». «Prendi, ho pensato che questo potesse esserti d'aiuto», aggiunse in fretta Tasslehoff, e mentre Raistlin sentiva l'impugnatura di un coltello che gli veniva messo in mano aggiunse: «È da parte del tuo amico Lemuel. Lui ha detto...». Raistlin era però destinato a non sapere mai cosa avesse detto Lemuel, perché in quel momento un ruggito devastante sovrastò il vociare della folla, e la gente prese a gridare e a urlare allarmata quando un bagliore d'acciaio divampò alla luce delle torce. All'improvviso, Caramon incombette davanti a Raistlin, che si sentì sul punto di scoppiare in pianto per la gioia alla vista del volto del fratello che senza badare al dolore prese ad afferrare fascine di legna ardente per scagliarle lontano. Tanis intanto si era addossato con la schiena a quella di Caramon e stava colpendo di piatto con la spada per allontanare torce e randelli; al suo fianco Kitiara non stava invece usando la spada di piatto, come indicava il fatto che già un prete giaceva sanguinante ai suoi piedi mentre lei combatteva con un sorriso sulle labbra e gli occhi neri che scintillavano per il divertimento. Anche Flint era lì, impegnato a lottare con i preti che avevano afferrato Tasslehoff e stavano cercando di trascinarlo nel tempio ma che di fronte all'attacco imprevedibilmente feroce del nano abbandonarono ben presto la preda per fuggire, proprio mentre Sturm veniva a raggiungere gli amici, con il volto trasformato dal sangue in una sorta di maschera e con la spada che non mancava un colpo. Per quanto dispiaciuti di vedere che dopo tutto il mago non sarebbe arrostito fra le fiamme, i cittadini di Haven trovarono divertente e appassionante quel coraggioso salvataggio e ben presto la folla incostante si rivoltò
contro i preti, applaudendo quel pugno di eroi. Vedendo come si stavano mettendo le cose il Sommo Sacerdote fuggì verso il tempio imitato in tutta fretta dai suoi complici, quelli che erano ancora in piedi, e la folla scagliò loro dietro una gragnuola di sassi, elaborando al tempo stesso piani per invadere il tempio. Intanto il sollievo e la consapevolezza che non sarebbe morto fra le fiamme si riversarono in Raistlin con un'ondata così violenta che lui si sentì debole e stordito e si accasciò fra i legami. Liberato dalle corde il fratello prossimo a svenire, Caramon lo sorresse e lo prese fra le braccia, portandolo lontano dal rogo e adagiandolo al suolo mentre la folla gli si accalcava intorno, ansiosa di contribuire a soccorrere il giovane mago nella stessa misura in cui poco prima era stata impaziente di vederlo morire bruciato. «Fate largo, buoni a nulla!» ruggì Flint, agitando le braccia con occhi roventi. «Lasciatelo respirare». Qualcuno gli porse una bottiglia di spirito dei nani perché la desse a quel "coraggioso giovane", e con una parola di ringraziamento Flint bevve lui stesso un lungo sorso prima di passare la bottiglia a Caramon, che l'accostò alle labbra di Raistlin. Il bruciante contatto del liquore con il labbro lacerato e la scia infuocata che esso gli tracciò in gola riportarono in sé Raistlin, che tossì, sputacchiò e allontanò la bottiglia. «Sono sfuggito di stretta misura dal morire bruciato vivo, Caramon, e adesso mi vuoi avvelenare?» chiese, fra i colpi di tosse e i conati di vomito, poi lottò per alzarsi in piedi senza badare alle proteste del fratello, secondo il quale lui avrebbe dovuto riposare ancora; poco lontano, intanto, la folla aveva circondato il tempio e stava gridando che i preti di Belzor avrebbero dovuto essere bruciati tutti. «Questo giovanotto è ferito?» chiese poi una voce ansiosa. «Ho qui un unguento contro le ustioni». «Va tutto bene, Caramon», affermò Raistlin, bloccando il fratello che stava cercando di allontanare quello che riteneva un semplice curioso. «È un mio amico». «Ti hanno fatto del male?» domandò Lemuel, scrutando Raistlin con ansia. «No, signore, ti ringrazio ma non sono ferito, soltanto un po' stordito». «Ho preparato io stesso quest'unguento a base di aloe...» cominciò Lemuel, protendendo un vasetto. «Ti sono grato», lo interruppe Raistlin, accettando il vasetto. «Io non ne
ho bisogno, ma ritengo che possa servire a mio fratello». Nel parlare lanciò un'occhiata alle mani di Caramon, che erano scottate e coperte di vesciche; arrossendo e sorridendo con imbarazzo, lui si affrettò intanto a nascondere le mani dietro la schiena. «Ti ringrazio anche per il coltello», aggiunse intanto Raistlin, «sebbene non abbia avuto bisogno di usarlo». «Tienilo. È il meno che possa fare, giovanotto, dal momento che grazie a te non sarò costretto a lasciare la mia casa», replicò Lemuel. «Ma mi hai già dato i tuoi libri», protestò Raistlin, porgendogli l'arma in questione. «Apparteneva a mio padre, e lui avrebbe voluto che entrasse in possesso di un mago come te», dichiarò però Lemuel, rifiutandola. «Di certo a me non serve a nulla, anche se lo trovo utile per aerare il terriccio intorno alle gardenie; ad esso si abbina uno strano laccio di cuoio che mio padre usava per tenere il coltello nascosto lungo il braccio. Lui affermava che era il mezzo estremo di difesa di un mago». Il coltello in questione era di eccellente fattura e di ottimo acciaio affilato, e dal leggero formicolio che esso gli trasmetteva Raistlin intuì che doveva essere stato permeato di qualche magia; infilandolo nella cintura senza protestare oltre, strinse quindi calorosamente la mano a Lemuel. «Passeremo più tardi a prendere i libri», promise. «Sarei molto contento se tu e i tuoi amici voleste anche prendere un tè con me», invitò Lemuel, con un cortese inchino. Dopo altri inchini e una serie di presentazioni, abbinati alla promessa di passare a trovarlo quando avessero lasciato la città, Lemuel si congedò, impaziente di rimettere nel terreno le piante che aveva estirpato. I compagni si ritrovarono allora soli perché la folla che aveva circondato il tempio stava cominciando a disperdersi. Correva infatti voce che i preti di Belzor avessero abbandonato l'edificio mediante un passaggio segreto sotterraneo e stessero ora fuggendo verso le montagne per salvarsi la vita. Qualcuno già parlava di formare delle squadre per dare loro la caccia, ma ormai era quasi l'alba, l'aria era fredda e tagliente e gli ubriachi si sentivano assonnati e storditi. D'un tratto gli uomini si ricordarono che dovevano andare a lavorare nei campi, le donne rammentarono i bambini lasciati in casa da soli e i cittadini di Haven si allontanarono alla spicciolata, lasciando che ai preti pensassero gli orchetti e gli orchi che infestavano le montagne. I compagni invece si avviarono per tornare alla fiera, e lungo la strada
Flint annunciò la propria intenzione di andare via subito anche se la fiera sarebbe durata ancora un giorno. «Non intendo passare un minuto più del necessario in quest'immonda città», affermò. «Qui la gente è pazza, semplicemente pazza: prima i serpenti, poi le impiccagioni e adesso un rogo. Sono pazzi», borbottò fra sé. «Del tutto pazzi». «Perderai un giorno di vendite», obiettò Tanis. «Non voglio il loro denaro perché probabilmente è maledetto», ribatté in tono secco il nano. «Sto addirittura prendendo in seria considerazione l'idea di restituire quanto ho già incassato». Naturalmente non fece nulla di simile e in seguito la cassetta contenente il denaro fu la prima cosa che mise sul carro, riponendola al sicuro e ben nascosta sotto il sedile di guida. «Voglio ringraziarvi tutti», disse Raistlin, mentre percorrevano le strade ora deserte, «e mi voglio scusare per avervi messi in pericolo. Avevi ragione, Tanis, ho sottovalutato questa gente e non mi sono reso conto di quanto fosse veramente pericolosa. La prossima volta starò più attento». «Speriamo che non ci sia una prossima volta», sorrise Tanis. «Voglio ringraziare anche te, Kitiara», continuò Raistlin. «Per cosa? Per averti salvato?» domandò lei, con il suo sorriso in tralice. «Sì, per avermi salvato», replicò Raistlin, in tono asciutto. «Non c'è di che!» rise Kitiara, assestandogli una pacca sulla spalla. «Non c'è di che». Il suo comportamento parve turbare Caramon, che assunse un'espressione solenne e distolse lo sguardo. La battaglia faceva bene a Kitiara, che aveva adesso le guance arrossate, gli occhi scintillanti e le labbra rosse come se avesse bevuto il sangue che aveva versato. Senza smettere di ridere, prese Tanis per un braccio e si strinse a lui. «Sei uno spadaccino eccellente, amico mio», dichiarò, «al punto da lasciarmi sorpresa che tu non abbia pensato di fare il mercenario». «Mi guadagno già di che vivere, e in modo sicuro», obiettò Tanis, ma lo disse con un sorriso, manifestamente compiaciuto dall'ammirazione di lei. «Bah!» esclamò Kitiara, in tono sprezzante. «La sicurezza è per i vecchi! Noi combattiamo bene, fianco a fianco, e stavo pensando...». Traendo in disparte Tanis continuò quindi a parlare abbassando la voce: a quanto pareva, la lite scoppiata fra loro era ormai stata dimenticata. «Non intendi ringraziare anche me, Raistlin?» strillò Tasslehoff, saltel-
lando intorno al mago. «Guarda qui», aggiunse poi, esibendo con aria triste l'estremità della sua lunga coda di cavallo. «Mi sono strinato un poco ma ne valeva la pena, anche se non sono riuscito a vederti bruciare sul rogo. Questo mi ha deluso parecchio, ma so che non hai potuto fare altrimenti», concluse, abbracciando Raistlin con fare conciliatorio. «Sì, Tas, ti ringrazio», rispose Raistlin, districandosi e togliendo il suo nuovo coltello dalle mani del kender. «Sono molto grato anche a te, Sturm: quello che hai fatto è stato incredibilmente coraggioso... sconsiderato ma coraggioso». «Non avevano il diritto di tentare di giustiziarti senza prima averti concesso un equo processo. Erano nel torto ed era quindi mio dovere cercare di fermarli, tuttavia...». Arrestandosi nel centro della strada con la mano premuta contro le costole doloranti, Sturm. solenne, fronteggiò Raistlin, continuando: «Mentre camminavamo ho riflettuto a fondo sulla cosa e devo insistere perché tu ti consegni allo sceriffo di Haven». «Perché dovrei? Non ho fatto nulla di male». «Per l'assassinio della sacerdotessa», dichiarò Sturm con aria accigliata, pensando che Raistlin stesse peccando di riprovevole leggerezza e noncuranza. «Lui non ha ucciso la Vedova Judith, Sturm», intervenne Caramon, in tono quieto e pacato. «Quando siamo entrati in quella stanza lei era già morta». «Non mi risulta che tu abbia mai mentito, Caramon», affermò Sturm, spostando con aria turbata lo sguardo dall'uno all'altro dei due gemelli, «ma credo che potresti farlo se ne andasse della vita di tuo fratello». «Forse», ammise Caramon, «però non sto mentendo. Ti giuro sulla tomba di mio padre che Raistlin è innocente di questo assassinio». Sturm lo fissò per un lungo momento e infine annuì, persuaso, riprendendo a camminare insieme con gli altri. «Sapete chi l'abbia uccisa?» domandò dopo un momento. I due fratelli si scambiarono una lunga occhiata. «No», rispose infine Caramon, fissando i propri stivali con fare imbarazzato. Era ormai giorno quando arrivarono al terreno della fiera, e già i venditori stavano aprendo le bancarelle per prepararsi agli affari mattutini. All'arrivo del gruppo essi accolsero Raistlin come un eroe e applaudirono il suo coraggio mentre il gruppo raggiungeva il banchetto di Flint senza
però rivolgere direttamente la parola a nessuno di loro. Invece di aprire la bancarella, Flint lasciò le imposte chiuse e procedette a caricare le sue merci sul carro; quando parecchi mercanti, sopraffatti dalla curiosità, vennero infine a chiedere cosa stesse succedendo, il nano li respinse in modo rude ed essi se ne andarono offesi. La mattinata riservava però ancora una visita e un ultimo spavento: lo sceriffo in persona venne a cercare Raistlin e nel vederlo arrivare Kitiara estrasse la spada, ordinando al fratello di sparire dalla circolazione. Per un momento parve che stesse per scatenarsi un altro scontro, ma Raistlin disse alla sorella di riporre la spada. «Sono innocente», ribadì, scoccandole un'occhiata significativa. «Per poco non sei diventato un innocente arrosto», ribatté in tono rabbioso Kitiara, mentre riponeva la spada nel fodero con un gesto secco. «Va', allora, ma questa volta non aspettarti che venga a salvarti». A quanto pareva, però, lo sceriffo era venuto a scusarsi, cosa che fece con riluttanza e con imbarazzo. La giovane sacerdotessa aveva infine ammesso di aver visto Raistlin accanto al fratello nel momento i cui veniva commesso l'assassinio, e aveva anche confessato di non averlo detto prima perché odiava il mago per il ruolo avuto nel causare la rovina di Belzor; adesso però era inorridita per le azioni del Sommo Sacerdote e non voleva più avere nulla a che fare con quella gente. «Che cosa le succederà?» domandò Caramon, preoccupato. «Nulla», rispose lo sceriffo, scrollando le spalle. «Come il resto di noi, quei giovani sono stati raggirati dalla donna che è morta e da suo marito, ma immagino che supereranno la cosa, che la supereremo tutti». Tacque quindi per un momento, fissando il sole che stava apparendo sopra la cima degli alberi, e senza guardare verso i suoi interlocutori aggiunse: «Ad Haven non ci piacciono i maghi. Lemuel è diverso, lui è innocuo e non ci crea problemi, ma qui non ne vogliamo altri». «Avrebbe dovuto ringraziarti», commentò più tardi Caramon, ferito e sconcertato. «Per cosa? Per aver distrutto la sua carriera?» ribatté Raistlin, con un amaro sorriso. «Se non sapeva che Judith e gli altri seguaci di Belzor erano degli imbroglioni quell'uomo è lo stupido più grande di tutta l'Abanasinia, mentre se lo sapeva era senza dubbio pagato profumatamente perché li lasciasse in pace. In ogni caso, la sua carriera è finita. Adesso lascia che applichi un po' di unguento su quelle ustioni, fratello. È evidente che stai soffrendo».
Una volta pulite le ustioni e applicato su di esse uno strato di unguento curativo, Raistlin lasciò gli altri a finire di fare i bagagli e si andò a sdraiare sul fondo del carro perché era del tutto esausto, tanto spossato da sentirsi quasi male. Stava per arrampicarsi sul veicolo quando venne avvicinato da uno sconosciuto che indossava una veste marrone e che aveva l'aria di un chierico; avendo visto di recente un numero tale di chierici che gli poteva bastare per tutta una vita, Raistlin gli volse le spalle nella speranza che capisse di non essere il benvenuto e se ne andasse. «Un momento soltanto, giovanotto», affermò però lo sconosciuto, tirandolo per una manica. «So che hai avuto una giornata spossante, ma ti voglio ringraziare per aver abbattuto quel falso dio, Belzor. I miei seguaci ed io ti siamo eternamente debitori». Grugnendo, Raistlin si liberò dalla sua stretta e salì sul carro, ma l'uomo si aggrappò ai bordi del veicolo e sbirciò dentro di esso. «Io sono Hederick, il Sommo Teocrate», si presentò con un tono d'importanza. «Rappresento un nuovo ordine religioso che spera di fiorire qui ad Haven adesso che i truffaldini seguaci di Belzor sono stati scacciati. Noi siamo conosciuti come i Cercatori, perché cerchiamo i veri dèi». «Spero con tutto il cuore che li troviate, signore», replicò Raistlin. «Ne siamo certi!» esclamò l'uomo, che non aveva colto il sarcasmo insito in quelle parole. «Forse t'interesserebbe...». A Raistlin però non interessava minimamente: srotolata la propria coperta, la stese sul mucchio delle tende e si sdraiò. Per qualche momento ancora il chierico rimase vicino al carro, parlando dei suoi dèi, ma quando infine Raistlin si tirò sulla testa il cappuccio della veste l'uomo si decise ad andarsene e Raistlin non pensò più a lui, dimenticandosi del tutto della sua esistenza. Steso sul fondo del carro cercò di dormire, ma ogni volta che chiudeva gli occhi gli pareva di vedere le fiamme, di sentirne il calore e di avvertire l'odore di fumo, e immancabilmente si trovava del tutto desto e tremante. Ricordando con spaventosa chiarezza il senso d'impotenza che aveva provato, chiuse la mano intorno all'elsa del suo nuovo coltello e nell'avvertire il contatto freddo e rassicurante dell'arma giurò che da quel momento non si sarebbe più separato da quell'estremo mezzo di difesa, a costo di usarlo per togliersi personalmente la vita prima che lo facessero i suoi nemici. Poi i suoi pensieri si spostarono su un altro coltello, quello insanguinato che aveva trovato abbandonato accanto alla donna assassinata e che aveva
riconosciuto come appartenente a Kitiara, e con un profondo sospiro riuscì infine a chiudere gli occhi e a scivolare nel sonno. I figli di Rosamun si erano vendicati. LIBRO QUINTO L'aspirante mago Raistlin Majere è convocato presso la Torre della Grande Stregoneria di Wayreth perché si presenti davanti al Conclave dei Maghi nel settimo giorno del settimo mese, il settimo minuto della settima ora. Nel tempo e nel luogo fissati sarà messo alla prova dai suoi superiori per essere incluso fra le file di coloro che sono stati dotati dì talento dai tre dèi: Solinari, Lunitari e Nuitari. IL CONCLAVE DEI MAGHI CAPITOLO PRIMO Quell'inverno fu uno dei più miti che Solace avesse mai conosciuto, con pioggia e nebbia al posto di neve e brina, e nel riporre le decorazioni proprie di Yule in attesa dell'anno successivo, rimuovendo rami di pino e di vischio, gli abitanti si congratularono con loro stessi per essere sfuggiti agli inconvenienti di un duro inverno. La gente stava già pensando ad una primavera anticipata quando a Solace giunse una visitatrice spaventosa e del tutto sgradita: la Peste, che era accompagnata dalla sua spettrale compagna, la Morte. Nessuno seppe determinare con certezza chi avesse invitato quei temuti ospiti a Solace perché il numero di viandanti era stato elevato nel corso di quel mite inverno e chiunque poteva aver portato il contagio. Alcuni accusarono anche le fosse di fango che circondavano il Lago Crystalmir e che quell'inverno non si erano ghiacciate come di consueto, ma indipendentemente da come il male fosse giunto, i sintomi risultarono uguali in tutti i casi, cominciando con una febbre elevata accompagnata da estrema letargia, a cui facevano seguito emicrania, vomito e diarrea; la malattia faceva il proprio corso nell'arco di un paio di settimane e chi era forte e sano guariva mentre i giovanissimi, i vecchi e i deboli non sopravvivevano. Nei giorni precedenti il Cataclisma, i chierici avevano invocato in questi casi l'aiuto della dea Mishakal che concedeva loro poteri di risanamento, con il risultato che le pestilenze erano state una cosa virtualmente sconosciuta. Mishakal aveva però abbandonato Krynn insieme con il resto degli
dèi e adesso coloro che praticavano le arti del risanamento dovevano fare affidamento sulla loro abilità e sul loro sapere, il che significava che non potevano curare la malattia ma ne potevano controllare i sintomi, cercando di impedire che il paziente s'indebolisse a tal punto da sviluppare la polmonite, che inevitabilmente portava alla morte. Meggin la Pazza lavorò incessantemente fra i malati, somministrando loro corteccia di salice per abbassare la febbre e un amaro medicinale pastoso che pareva aiutare coloro che riuscivano a inghiottirlo. In passato molti abitanti di Solace avevano deriso la vecchia definendola una «svitata» o una strega, ma adesso quelle stesse persone furono fra le prime a chiedere il suo aiuto nel momento in cui si sentirono assalire dalla febbre e lei non venne meno alle richieste di nessuno accorrendo in qualsiasi momento del giorno o della notte, e anche se i suoi modi erano un po' strani, per esempio, parlava spesso fra sé e insisteva per lavarsi di continuo le mani, costringendo quanti si trovavano nella stanza di un malato a fare altrettanto, era sempre la benvenuta. Raistlin cominciò ben presto ad accompagnare Meggin nei suoi giri, aiutandola a fare spugnature ai pazienti febbricitanti e a persuadere i bambini malati a inghiottire la medicina amara, e imparando a lenire le sofferenze dei morenti. Nonostante i loro sforzi la peste però si diffuse e un numero sempre maggiore di cittadini di Solace si trovò stretto nella sua morsa letale, con il risultato che Raistlin fu ben presto costretto a curare da solo un certo numero di pazienti. Caramon fu uno dei primi a contrarre la malattia, cosa che lo sconvolse perché prima di allora non era mai stato malato in tutta la sua vita e che destò in lui la certezza di essere in punto di morte; massiccio com'era di corporatura, nel corso del delirio per poco non distrusse la camera da letto nel lottare contro giganteschi serpenti muniti di torce che stavano cercando di dargli fuoco. Il suo corpo robusto si liberò però presto del contagio e poiché aveva avuto la malattia ed era sopravvissuto lui poté poi aiutare il fratello a prendersi cura degli altri, anche se era tormentato dal continuo timore che Raistlin potesse contrarre a sua volta la peste, a cui non sarebbe certo sopravvissuto a causa della sua costituzione fragile. Raistlin però si mostrò sordo alle sue suppliche di rimanere a casa al sicuro e al tempo stesso scoprì con sorpresa di ricavare una profonda e appagante soddisfazione nell'aiutare quanti cadevano vittime della malattia. Lui non stava assistendo i malati per compassione perché in genere non
gli importava nulla dei vicini che considerava stupidi e cafoni, e neppure lo stava facendo per guadagno, dato che era pronto a curare i ricchi e i poveri in pari misura; in realtà stava scoprendo che ciò che in effetti gli piaceva davvero era il potere che esercitava sui vivi, che erano giunti a manifestare nei suoi confronti una speranza che rasentava la reverenza, e il potere che a volte poteva esercitare sulla sua più grande e temuta nemica, la Morte. Per quanto accudisse i malati lui non contrasse la peste, e quando le chiese il perché Meggin rispose che dipendeva dal fatto che stava bene attento a lavarsi le mani dopo aver assistito i malati; Raistlin accolse quell'affermazione con un sorriso di derisione, ma non contraddisse la vecchia perché le era affezionato. Alla fine, la Peste aprì a poco a poco le sue dita scheletriche e liberò Solace dalla propria morsa letale. Obbedendo alle istruzioni di Meggin, gli abitanti bruciarono i vestiti e le coltri dei malati... e di lì a poco giunse finalmente la neve, che ricoprì parecchie nuove tombe nel cimitero di Solace. Fra le altre c'era anche quella di Anna Brightblade. È scritto nella Misura che il dovere della nobile sposa di un cavaliere è quello di nutrire i poveri e di curare i malati del maniero, e anche se era lontana dalla terra in cui la Misura era stata scritta e la gente vi obbediva, all'insorgere della peste Lady Brightblade si era mostrata fedele alla legge ed era andata in aiuto dei vicini malati, contraendo lei stessa la malattia ma persistendo nel suo dovere d'infermiera anche dopo aver notato in sé l'insorgere dei primi sintomi. Quando alla fine era crollata, Sturm l'aveva portata a casa ed era corso a chiamare Raistlin, che aveva curato la donna come meglio sapeva ma senza risultato. «Sto morendo, vero, ragazzo?» aveva chiesto una notte Anna Brightblade a Raistlin. «Dimmi la verità. Io sono la moglie di un nobile cavaliere e posso sopportarla». «Sì», aveva risposto Raistlin, che poteva sentire i suoni crepitanti prodotti dai fluidi che si andavano addensando nei polmoni della donna. «Sì, stai morendo». «Quanto tempo mi rimane?» aveva domandato lei, con calma. «Non molto, ormai». Inginocchiato accanto al capezzale della madre, Sturm si era lasciato sfuggire un singhiozzo e aveva abbassato la testa contro la coperta mentre
Anna protendeva una mano consumata dalla febbre ad accarezzargli i lunghi capelli. «Lasciaci soli», aveva quindi ordinato a Raistlin con la consueta imperiosità, ma un momento più tardi aveva levato lo sguardo su di lui con un pallido sorriso che aveva attenuato la sua espressione severa, aggiungendo: «Ti sono grata per tutto quello che hai fatto. È possibile che abbia sbagliato a giudicarti, ragazzo, e ti do la mia benedizione». «Ti ringrazio, Lady Brightblade», aveva risposto Raistlin. «Onoro il tuo coraggio. Possa Paladine accoglierti presso di sé». Pensando che quelle fossero parole blasfeme lei lo aveva fissato con espressione cupa e accigliata, poi aveva distolto il viso. Il mattino successivo, mentre Caramon era impegnato a preparare al gemello una ciotola di farinata d'avena calda che gli desse energie nel corso della faticosa giornata che lo aspettava, qualcuno aveva bussato alla porta e nell'andare ad aprire Caramon si era trovato davanti Sturm, che appariva stanco e spaventosamente pallido, con gli occhi rossi e gonfi, ma che si era mostrato anche composto e controllato. Quando Caramon lo aveva fatto entrare, Sturm era crollato su una sedia come se le gambe gli avessero ceduto, perché aveva dormito ben poco da quando sua madre si era ammalata. «Lady Brightblade è...» aveva cominciato Caramon, senza riuscire a finire la frase, e allorché Sturm aveva annuito si era asciugato una lacrima mormorando: «Mi dispiace, Sturm. Era una grande dama». «Sì», aveva risposto lui, accasciandosi sulla sedia mentre un tremito e un singhiozzo gli percorrevano tutto il corpo. «Quanto tempo è passato dall'ultima volta che hai mangiato qualcosa?» aveva chiesto Raistlin. Sospirando, Sturm aveva agitato una mano con indifferenza. «Caramon, porta un'altra ciotola di farinata», aveva allora ordinato Raistlin, e rivolto a Sturm aveva aggiunto: «Mangia, Sir Cavaliere, se non vuoi seguire a breve termine tua madre nella tomba». Negli occhi scuri di Sturm era apparso un bagliore d'ira in reazione al tono usato da Raistlin, ma poi lui si era accorto che Caramon aveva preso un cucchiaio e pareva avere tutte le intenzioni di imboccarlo come un bambino e aveva borbottato che forse sarebbe riuscito a inghiottire qualche boccone; alla fine aveva invece mangiato tutta la ciotola di farinata, accompagnandola con un bicchiere di vino, e a poco a poco un po' di colore era riaffiorato sulle sue guance pallide.
Raistlin invece aveva allontanato la propria ciotola quando era ancora piena a metà, ma per quanto concerneva lui questa era una cosa normale e Caramon sapeva bene che non era il caso di protestare. «Verso la fine mia madre ed io abbiamo parlato», aveva infine detto Sturm, a bassa voce. «Lei mi ha raccontato di Solamnia e di mio padre, ammettendo di aver cessato da tempo di credere che lui fosse vivo e di aver mantenuto la finzione soltanto per amor mio». A quel punto aveva abbassato il capo e serrato le labbra, ma non aveva versato una lacrima e dopo un momento aveva ritrovato il controllo, sollevando lo sguardo su Raistlin che era impegnato a raccogliere le sue medicine per poi avviarsi a visitare i malati. «Alla... alla fine è successa una cosa strana ed ho pensato di raccontartela per sapere se avevi mai sentito di qualcosa di simile. Forse si è trattato soltanto di una manifestazione della malattia», aveva aggiunto. Raistlin aveva subito sollevato la testa con interesse perché stava prendendo annotazioni sulla malattia, registrandone i sintomi e scrivendo i tipi di cure adottate per un riferimento futuro. «Mia madre era scivolata in un sonno profondo da cui nulla pareva riuscire a svegliarla». «Il sonno della morte», aveva precisato Raistlin. «L'ho visto spesso nel corso di questa malattia; quando sopraggiunge può durare anche parecchi giorni, ma in tutti i casi il paziente non si risveglia più». «Invece mia madre lo ha fatto», aveva replicato bruscamente Sturm. «Davvero? Dimmi con esattezza cosa è successo». «Ha aperto gli occhi ma non ha guardato verso di me, bensì alle mie spalle in direzione della porta della sua stanza. "Io ti conosco, vero, signore?" ha detto con esitazione, e in tono lamentoso ha chiesto: "Dove sei stato tutto questo tempo? Ti stavamo aspettando da un'eternità." Poi ha aggiunto: "Presto, figlio, porta a questo anziano gentiluomo una sedia". «Io mi sono girato a guardare ma sulla porta non c'era nessuno. "Ah, non ti puoi fermare?" ha detto intanto mia madre. "Ed io devo venire con te? Ma questo vorrà dire lasciare del tutto solo il mio ragazzo". Ha dato quindi l'impressione di ascoltare e dopo un momento ha sorriso, aggiungendo: "È vero, non è più un ragazzo. Veglierai su di lui dopo che me ne sarò andata?". A quel punto ha sorriso ancora, come se fosse stata rassicurata, ed ha esalato l'ultimo respiro. «Adesso c'è la cosa più strana. Io mi ero alzato per andare da lei quando mi è parso di vedere al suo fianco la figura di un vecchio dall'aspetto tra-
sandato che indossava una veste grigia e sfoggiava un malconcio cappello a punta», aveva aggiunto Sturm, accigliandosi. «Il suo aspetto era quello di un mago. Allora, cosa ne pensi?». «Penso che tu sia rimasto troppo tempo senza mangiare e senza dormire», aveva dichiarato Raistlin. «Può darsi», aveva ammesso Sturm, perplesso. «Però la visione sembrava molto reale. Chi poteva essere quel vecchio? E perché mia madre era contenta di vederlo? Lei non ha mai potuto tollerare i maghi». Raistlin si era diretto verso la porta, pensando che era stato fin troppo paziente con Sturm rispetto al suo dolore, ma che adesso era stanco di essere insultato; Caramon dal canto suo gli aveva scoccato un'occhiata spaventata e apprensiva dovuta al timore che lui potesse reagire con qualche commento sarcastico, ma il suo gemello aveva lasciato la stanza senza una parola e Sturm se n'era andato poco dopo per prendere gli accordi necessari per la sepoltura di sua madre. Con un sospiro dolente, Caramon si era seduto per finire quanto restava della colazione del fratello. CAPITOLO SECONDO La primavera compì il consueto miracolo: nuove foglie verdi rivestirono i vallenwood e i fiori selvatici sbocciarono nel cimitero dove i piccoli vallenwood piantati sulle nuove tombe crebbero con la rapidità propria di quella pianta, portando conforto ai dolenti, certi che lo spirito di quanti erano morti stesse fiorendo e trovasse rinnovamento in quegli alberi viventi. La primavera portò però a Solace anche una nuova malattia, di un genere che si sapeva essere trasmesso dai kender e che era spesso contagioso soprattutto fra i giovani che si erano appena resi conto di come la vita fosse breve e molto dolce, e andasse quindi assaporata fino in fondo. Quella malattia si chiamava «voglia di girovagare». Anche se gli stessi sintomi cominciavano già ad affiorare anche nei suoi amici, Sturm fu il primo a contrarla perché il suo caso aveva cominciato a profilarsi all'orizzonte fin da quando sua madre era morta: orfano e solo, Sturm aveva rivolto i suoi pensieri e i suoi sogni verso nord, in direzione della propria terra natale. «Non posso rinunciare alla speranza che mio padre sia ancora vivo», confessò una mattina a Caramon. Ultimamente, Sturm aveva preso l'abitudine di venire a fare colazione con i gemelli perché mangiare da solo nella
casa vuota gli riusciva intollerabile. «Peraltro devo ammettere che la teoria di mia madre ha un certo fondamento: se fosse vivo, perché mio padre non avrebbe cercato di contattarci almeno una volta?». «Potrebbero esserci una quantità di ragioni», rispose Caramon. «Forse è tenuto prigioniero in una segreta da qualche mago folle... oh, scusa, Raist, non è esattamente quello che intendevo dire». Intento a nutrire i suoi conigli, Raistlin stava prestando poca attenzione alla conversazione e si limitò a reagire sbuffando. «Comunque sia», ribadì Sturm, «ho intenzione di scoprire la verità. Ormai le strade torneranno ad essere praticabili entro un mese ed io ho intenzione di andare a Solamnia». «No! Nel nome dell'Abisso», esclamò Caramon. Anche Raistlin era stupefatto, al punto che volse le spalle ai conigli con le foglie di cavolfiore ancora in mano, per vedere se il giovane cavaliere stesse parlando sul serio. «Sono ormai tre anni che desidero compiere questo viaggio, ma ero riluttante a lasciare sola mia madre per un prolungato periodo di tempo, mentre adesso non c'è più nulla che mi trattenga. Di conseguenza partirò sapendo di avere la sua benedizione, anche perché se mio padre è veramente morto devo reclamare la mia eredità, mentre se è vivo...». Sturm scosse il capo, incapace di esprimere completamente il proprio sogno, troppo bello per poter essere vero. «Intendi partire da solo?» domandò Caramon, ancora stupefatto. Sturm sorrise, una cosa rara in lui che era di solito così serio e solenne. «A dire il vero speravo che saresti venuto con me, Caramon. Chiederei anche a te di accompagnarmi, Raistlin», aggiunse in tono più rigido, «ma si tratterà di un viaggio lungo e difficile e temo che potrebbe risultare troppo gravoso per la tua salute, senza contare che so quanto poco tu desideri allontanarti dai tuoi studi». Fin da quando erano tornati da Haven, Raistlin aveva trascorso, ogni momento che riusciva a trovare, a studiare i volumi del mago guerriero, con il risultato che aveva aggiunto parecchi nuovi incantesimi al suo libro. «Invece questa primavera mi sento insolitamente in forze», ribatté, «e comunque mi potrei portare dietro i miei libri. Ti ringrazio per l'offerta, Sturm: ci rifletterò sopra, come farà anche mio fratello». «Io sono pronto a venire a patto che lo faccia anche Raist», dichiarò Caramon. «In effetti ha ragione nel dire che ultimamente si è rimesso parecchio in forze. È molto tempo che non si ammala più».
«Mi fa piacere sentirlo», commentò Sturm, sia pure con scarso entusiasmo. Infatti lui sapeva benissimo che era impossibile separare i due gemelli, ma aveva comunque sperato contro ogni logica di poter persuadere Caramon a lasciare Raistlin a casa. «Raistlin, ti ricordo che i maghi non sono certo venerati nella mia terra, anche se ti sarà naturalmente accordata l'ospitalità che si deve ad un visitatore». «Cosa di cui sono profondamente grato», rispose Raistlin, con un inchino. «Ti garantisco, Sturm, che sarò un ospite assai accomodante, che non incendierò le lenzuola e non avvelenerò i pozzi. Anzi, lungo la strada potresti perfino trovare utili alcuni miei talenti». «È davvero molto abile come cuoco», interloquì Caramon. «Benissimo. In tal caso comincerò con i preparativi», dichiarò Sturm, alzandosi. «Mia madre mi ha lasciato un po' di denaro, anche se non è molto e temo che non sia sufficiente per acquistare dei cavalli, il che significa che dovremo viaggiare a piedi». Nel momento stesso in cui la porta si fu chiusa alle sue spalle, Caramon prese a saltellare per la piccola casa, spostando i mobili e creando una vera e propria devastazione sulla scia della sua gioia, arrivando al punto di avere la temerarietà di abbracciare suo fratello. «Sei impazzito?», domandò Raistlin. «Guarda cos'hai fatto! Quello era il nostro unico contenitore per la crema... no, non cercare di aiutarmi, hai già causato danni sufficienti. Perché non vai a lucidare la spada o ad affilarla o a prendertene cura in qualche altro modo?». «Certamente, è un'idea grandiosa!» esclamò Caramon, precipitandosi in camera da letto soltanto per tornare indietro altrettanto a precipizio un momento più tardi e gemere: «Non ho una pietra per affilare!». «Va' a prenderne a prestito una da Flint... oppure, meglio ancora, porta da lui la tua spada e lavora là», ribatté Raistlin, che era impegnato ad asciugare la crema sparsa per terra. «Qualsiasi cosa, purché ti tolga dai piedi». «Mi chiedo se a Flint piacerebbe partire con noi, insieme a Kit, a Tanis e a Tasslehoff! Vado a chiederglielo». Quando suo fratello se ne fu andato e nella casa fu tornata la quiete, Raistlin raccolse i pezzi della caraffa rotta e li gettò via. Anche lui si sentiva eccitato quanto il fratello alla prospettiva di un viaggio in terre nuove e lontane, ma aveva abbastanza buon senso da non mettersi a fracassare il vasellame per esprimere la propria gioia. Stava riflettendo su quali erbe si sarebbe dovuto portare dietro e quali avrebbe invece potuto raccogliere
lungo la strada quando qualcuno bussò alla porta. «Caramon è andato da Flint», gridò, pensando che si trattasse di Sturm, ma i colpi si ripeterono, questa volta con una certa impazienza, e quando infine andò ad aprire la porta lui rimase immobile sulla soglia a contemplare il suo visitatore con stupore, sorpresa e non poca preoccupazione. «Maestro Theobald!» esclamò infine. Fermo sulla passatoia di legno antistante la casa, il mago portava un mantello sopra la veste bianca ed era munito di un robusto bastone, due segni certi del fatto che era di ritorno da qualche viaggio. «Posso entrare?», domandò in tono burbero. «Ma certo, è ovvio. Chiedo scusa, Maestro», rispose Raistlin, traendosi di lato e lasciando passare il suo ospite oltre la soglia. «Non ti aspettavo, ecco tutto». Questo era vero, perché nel corso dei numerosi anni durante i quali lui aveva frequentato la scuola del maestro, questi non si era recato mai neppure una volta a casa sua né aveva mostrato la minima propensione a desiderare di farlo. Sconcertato e alquanto apprensivo, le imprese da lui compiute ad Haven erano state da tempo abbondantemente risapute per tutta Solace, Raistlin invitò il maestro a sedersi sull'unica sedia buona della casa, e cioè la sedia a dondolo appartenuta a sua madre; una volta sedutosi, Theobald rifiutò però qualsiasi offerta di cibo o di vino. «Non ho tempo di fermarmi perché sono rimasto assente una settimana e non sono ancora rientrato a casa», disse. «Arrivo proprio adesso dalla Torre di Wayreth, dove si è tenuta una riunione del Conclave». «Non è piuttosto insolito che ci sia una riunione del Conclave in questa stagione dell'anno, Maestro?» domandò Raistlin, sentendo aumentare la propria apprensione. «Credevo che avessero luogo sempre d'estate». «In effetti è una cosa insolita, ma noi maghi avevamo cose di grande importanza di cui discutere, ed io sono stato convocato espressamente», rispose Theobald, accarezzandosi la barba. Raistlin rispose con adeguati commenti d'interessamento, mentre aspettava con impazienza e con crescente nervosismo che questo irritante vecchio idiota si decidesse a venire al dunque. «Le azioni da te compiute ad Haven sono state fra gli argomenti in discussione, Majere», affermò infine Theobald, fissando Raistlin con occhi roventi. «Hai infranto molte regole, non ultima quella che ti proibiva di usare un incantesimo al di sopra delle tue capacità».
Raistlin avrebbe voluto ribattere che evidentemente l'incantesimo non era stato al di sopra delle sue capacità dato che lui era riuscito ad attivarlo, ma sapeva che con Theobald un sarcasmo del genere sarebbe andato sprecato. «Ho fatto quello che ritenevo fosse giusto in quelle circostanze, Maestro», rispose soltanto, sforzandosi di mostrarsi il più mite e contrito possibile. «Sciocchezze!» sbuffò Theobald. «Sai cosa sarebbe stato giusto fare in quelle circostanze: avresti dovuto denunciare a noi quella maga rinnegata, lasciando che ci occupassimo a tempo debito della faccenda». «A tempo debito, Maestro», ribatté Raistlin, con enfasi. «Nel frattempo persone innocenti venivano private del poco che avevano e altre addirittura scacciate dalla loro casa. Quella sacerdotessa ciarlatana e i suoi seguaci stavano causando danni irreparabili, ed io ho cercato di porvi fine». «Senza dubbio hai usato un metodo davvero definitivo», commentò Theobald, con voce piena di cupi sottintesi. «Sono stato riconosciuto innocente dell'assassinio, Maestro», ribatté Raistlin, in tono ora tagliente. «Ho un atto stilato dallo sceriffo di Haven in persona in cui si proclama la mia innocenza». «Allora chi l'ha uccisa?» domandò Theobald. «Non ne ho idea, Maestro», rispose Raistlin. «Hmmm», grugnì Theobald. «Hai gestito male la cosa ma comunque sei riuscito a gestirla, anche se a quanto ho sentito per poco non ti sei fatto ammazzare. Come ti ho detto, il Conclave ha discusso dell'accaduto». Raistlin rimase in silenzio, aspettando di sentire quale fosse la sua punizione, già deciso nel proprio intimo a sfidare qualsiasi proibizione di praticare in futuro la magia e a diventare eventualmente lui stesso un rinnegato. Nel frattempo, Theobald aveva tirato fuori una custodia per pergamene, l'aveva aperta con una lentezza incredibile, armeggiando in maniera così impacciata che Raistlin si sentì tentato di attraversare d'un balzo la stanza per strappargli di mano la custodia, e alla fine riuscì a rimuovere il coperchio e a estrarre una pergamena, che consegnò a Raistlin. «Ecco, allievo, tanto vale che legga tu stesso», disse. Adesso che aveva la pergamena fra le mani Raistlin si chiese se avrebbe avuto il coraggio di leggerla: dopo un momento di esitazione, inteso a garantire che le mani non gli tremassero e non tradissero l'apprensione che stava cercando di mascherare dietro un'apparente disinvoltura, srotolò infine la pergamena e cercò di leggerla. A causa dell'eccessivo nervosismo,
però, i suoi occhi non furono inizialmente in grado di mettere a fuoco le parole, e quando infine ci fu riuscito esse gli parvero prive di senso. Per quanto si sforzasse, il loro significato gli sfuggiva. «Questo... questo non può essere esatto», mormorò infine, sgomento. «Io sono troppo giovane». «È ciò che ho detto io stesso», annuì Theobald, esprimendosi in tono incattivito, «ma sono stato messo in minoranza». Raistlin tornò a rileggere la pergamena e gli parve che le parole scritte su di essa, pur non essendo magiche, stessero scintillando di un bagliore simile a quello di mille soli. L'aspirante mago Raistlim Majere è convocato alla Torre della Grande Stregoneria di Wayreth perché si presenti davanti al Conclave dei Maghi nel settimo giorno del settimo mese, il settimo minuto della settima ora. Nel tempo e nel luogo fissati sarà messo alla prova dai suoi superiori per essere incluso fra le file di coloro che sono stati dotati di talento dai tre dèi: Solinari, Lunitari e Nuitari. Raistlin Majere, essere invitati a sottoporsi alla Prova è un grande onore accordato a pochi, e come tale dovrebbe essere preso seriamente. Tale onore può essere comunicato ai membri più intimi della famiglia ma non deve essere rivelato a nessun altro. Il mancato rispetto di questa direttiva potrebbe comportare la perdita del diritto a sottoporsi alla Prova. Porterai con te il tuo libro d'incantesimi e i tuoi componenti magici, indosserai le vesti che rappresentano l'alleanza scelta dal tuo patrocinatore mentre il colore delle vesti che indosserai se e quando sarai accettato come apprendista, e cioè il simbolo della tua alleanza con uno dei tre dèi, verrà determinato durante la Prova. Non porterai con te armi o manufatti magici, in quanto i manufatti magici necessari ti saranno forniti durante la Prova stessa al fine di valutare la tua abilità nel gestirli. Nella sfortunata eventualità della tua morte nel corso della Prova tutti i tuoi effetti personali saranno restituiti alla tua famiglia. Ti è permesso farti accompagnare fino alla Torre, ma chi ti accompagnerà dovrà essere informato che non gli, o le, sarà permesso di entrare nella Foresta Guardiana; qualsiasi tentativo di penetrarvi con la forza comporterebbe per la tua scorta danni estremamente gravi di cui noi non ci riterremo responsabili. Quest'ultima frase era stata scritta e poi cancellata, come se chi aveva stilato il documento avesse avuto dei ripensamenti, e al suo posto erano state aggiunte altre poche righe.
Un' eccezione a questa regola potrà essere fatta per Caramon Majere, il fratello gemello del summenzionato aspirante mago. Si desidera espressamente che Caramon Majere presenzi alla Prova di suo fratello e per questo motivo gli sarà permesso di entrare nella Foresta Guardiana, e la sua sicurezza sarà garantita per tutto il tempo in cui lui rimarrà al suo interno. Raistlin abbassò la pergamena e lasciò che tornasse ad arrotolarsi su se stessa perché le sue mani non avevano la forza di sorreggerla o di tenerla aperta: essere invitato a sottoporsi alla Prova quando era ancora così giovane, essere considerato capace di affrontarla per quanto fosse ancora un semplice novizio, era un onore di portata incredibile, e lui si sentì sopraffatto dalla gioia e dall'orgoglio. Naturalmente esisteva sempre quella frase cautelativa... nell'eventualità della tua morte. Più tardi, nel cuore della notte, quando si ritrovò sveglio e incapace di prendere sonno per l'eccitazione, quella frase gli affiorò davanti agli occhi come una mano scheletrica che si protendesse per afferrarlo e trascinarlo verso il basso, ma per il momento si sentiva pieno di sicurezza, orgoglioso di ciò che aveva realizzato e del fatto che le sue azioni avevano senza dubbio impressionato i membri del Conclave, e in questo stato d'animo non c'era posto per i dubbi o per la paura. «Ti ringrazio, Maestro», cominciò, quando fu certo di poter controllare a sufficienza la voce. «Non mi ringraziare», replicò però il Maestro Theobald, alzandosi in piedi, «perché è probabile che io ti stia mandando incontro alla morte, e non voglio avere la tua fine sulla coscienza. L'ho detto a Par-Salian e ho voluto che si mettesse agli atti la mia opposizione ad una simile follia». «Mi dispiace che tu abbia così poca fede in me, Maestro», commentò Raistlin, accompagnandolo alla porta. «Vieni da me se avrai delle domande da porre in merito al tuo libro d'incantesimi», ribatté soltanto il Maestro Theobald, con un gesto irritato. «Lo farò, Maestro», garantì Raistlin, anche se dentro di sé non ne aveva la minima intenzione. «Ti ringrazio». Dopo che il maestro se ne fu andato, Raistlin richiuse la porta alle sue spalle e si mise a sua volta a saltellare per la stanza. Trasportato dalla gioia sollevò la veste ed eseguì una serie di passi di danza che Caramon aveva cercato per anni di insegnargli. Entrando proprio allora, Caramon rimase a fissare a bocca aperta il fratello, e il suo stupore si decuplicò un momento più tardi quando Raistlin
corse verso di lui, lo abbracciò e scoppiò in pianto. «Cosa c'è che non va?» domandò Caramon, fraintendendo quel comportamento e sentendo il cuore che quasi gli si bloccava per il terrore. Lasciata andare la spada, che cadde rumorosamente al suolo, afferrò il suo gemello e lo scrollò, esclamando: «Raistlin! Cosa succede? Cosa c'è che non va? Chi è morto?». «Non c'è nulla che non vada, fratello mio!» replicò Raistlin, ridendo e asciugandosi le lacrime. «Nulla al mondo! Per una volta sta andando tutto a meraviglia». Agitando la pergamena, che teneva ancora in mano, riprese a saltellare per la piccola stanza fino a crollare senza fiato ma ancora ridente, sulla sedia a dondolo di sua madre. «Chiudi la porta, fratello, e vieni a sederti vicino a me perché abbiamo molte cose di cui discutere», disse. CAPITOLO TERZO Costringere Caramon a giurare di mantenere il segreto in merito alla Prova risultò un compito arduo. Quando Raistlin gli mostrò il prezioso documento che li convocava entrambi alla Torre di Wayreth, Caramon notò infatti quella spiacevole frase, nell'eventualità della tua morte, e ne fu estremamente turbato... al punto che in un primo momento giurò che Raistlin non sarebbe andato a sottoporsi alla Prova, che lui avrebbe chiesto a Tanis e a Sturm e a Flint e a Otik e alla metà della popolazione di Solace di sederglisi addosso per impedirgli di affrontare una Prova nella quale la pena per il fallimento era la morte. In un primo tempo, Raistlin si sentì commuovere dalla sincera preoccupazione del fratello e facendo sfoggio di una pazienza per lui insolita cercò di spiegargli il ragionamento che si celava dietro misure così drastiche. «Mio caro fratello, come tu stesso hai avuto modo di vedere, la magia gestita dalle persone sbagliate può essere estremamente pericolosa. Per questo motivo il Conclave accetta nei propri ranghi soltanto coloro che hanno dimostrato di essere disciplinati, abili e, soprattutto, votati anima e corpo all'arte magica. In questo modo quanti si limitano a pasticciare con la magia e a praticarla per il loro divertimento, non si sentono indotti a sottoporsi alla Prova perché non sono pronti a rischiare la loro vita per amore della magia». «È un assassinio», ribatté Caramon, con voce sommessa. «Un puro e
semplice assassinio». «No, no, fratello mio», lo blandì Raistlin, in tono rassicurante; pensando a Lemuel, sorrise e aggiunse: «Coloro che non vengono ritenuti adatti a sottoporsi alla Prova ricevono dal Conclave la proibizione di affrontarla. Il permesso viene concesso soltanto a quei maghi che si ritiene abbiano buone probabilità di superarla e quelli che falliscono, fratello mio, sono davvero pochissimi. Il rischio è tanto minimo da essere pressoché inesistente, e per me non è neppure qualificabile come un rischio. Sai quanto ho lavorato e studiato intensamente: come potrei mai fallire?». «È vero?» domandò Caramon, sollevando il volto pallido e teso per scrutare il fratello con occhi penetranti e fissi. «Lo giuro», replicò Raistlin, appoggiandosi con un sorriso allo schienale della sedia a dondolo. Quel giorno non riusciva a smettere di sorridere. «Allora perché vogliono che io venga con te?» obiettò Caramon, in tono sospettoso. Raistlin fu costretto a riflettere un momento prima di rispondere, perché la verità era che lui stesso non sapeva perché Caramon fosse stato invitato ad accompagnarlo. Quanto più ci pensava sopra, tanto più si risentiva della cosa, perché se da un lato era logico che suo fratello lo scortasse fino alla foresta, d'altro canto per quale motivo doveva poi proseguire fino alla Torre? Era estremamente insolito che il Conclave permettesse di accedere alla Torre a qualcuno che non faceva parte delle sue file. «Non lo so con certezza», ammise infine. «Probabilmente è qualcosa che ha a che vedere con il fatto che siamo gemelli. In questo non c'è nulla di sinistro, Caramon, se è quello che stai pensando. Basterà che tu mi accompagni alla Torre e aspetti che io abbia concluso la Prova, poi torneremo insieme a casa». «Non mi piace, e credo che ne dovresti discutere con Tanis», ribatté Caramon, scuotendo il capo con aria dolente. «Ti ripeto che non mi è permesso di discuterne con nessuno, Caramon!» esclamò Raistlin in tono iroso, perdendo infine la pazienza. «Possibile che tu non riesca a ficcarti questo concetto in quella tua testa da nano dei fossi?». Caramon si mostrò infelice e a disagio, ma continuò a mantenere un atteggiamento di sfida e alla fine Raistlin si alzò dalla sedia a dondolo, piantandosi davanti a lui con le mani serrate a pugno e trapassandolo con lo sguardo nel parlargli con appassionata intensità. «Mi è stato ordinato di mantenere il segreto e intendo farlo, così come lo
farai anche tu, fratello caro. Non accennerai della cosa con Tanis e neppure con Kitiara o con Sturm o con chiunque altro. Hai capito, Caramon? Non deve saperlo nessuno!» gridò, poi fece una pausa, trasse un profondo respiro e proseguì in tono più sommesso, in modo che non si potesse mettere in discussione la sincerità della sua affermazione: «Se tu dovessi parlarne... se dovessi rovinare quest'opportunità che mi si offre... allora io non avrò più un fratello». «Raist, io...» cominciò Caramon, impallidendo fino alle labbra. «Ti disconoscerò», insistette Raistlin, ben sapendo che il colpo doveva essere inferto fino in fondo. «Lascerò questa casa e non vi farò mai più ritorno, il tuo nome non sarà mai più pronunciato in mia presenza e se mi capiterà di vederti arrivare lungo una strada mi avvierò nella direzione opposta». Caramon era profondamente ferito, al punto che il suo grosso corpo fu attraversato da un brivido, come se il colpo sferrato da Raistlin fosse stato effettivamente inferto con una vera spada. «Immagino che significhi molto... per te», mormorò infine con voce affranta, abbassando il capo e fissando le mani strette l'una all'altra. Raistlin si sentì commuovere dalla sua angoscia, ma dentro di sé sapeva che doveva indurlo a capire. Inginocchiandoglisi accanto, gli accarezzò i capelli ricciuti. «È ovvio che significa molto per me, Caramon, significa tutto! Ho lavorato e studiato per quasi tutta la mia vita proprio per avere quest'opportunità. Adesso cosa vorresti che facessi... che vi rinunciassi perché è pericolosa? Non ci si può nascondere dal pericolo, la morte fluttua nell'aria, striscia attraverso le finestre, viene trasmessa dalla stretta di mano di uno sconosciuto. Se cessiamo di vivere per paura della morte, allora siamo già morti. «Tu vuoi diventare un guerriero, Caramon, e ti eserciti con una spada vera... questo non è forse pericoloso? Quante volte tu e Sturm per poco non vi siete tranciati a vicenda gli orecchi? Sturm ci ha parlato dei giovani Cavalieri che muoiono nei tornei indetti proprio per determinare il loro valore, e tuttavia se ti sì offrisse l'opportunità di partecipare ad uno di quei tornei tu forse la rifiuteresti?». Caramon annuì e una lacrima gli cadde sulle mani ancora serrate. «Quello che faccio io è la stessa cosa», proseguì con gentilezza Raistlin. «Ogni lama deve essere forgiata nel fuoco. Verrai con me, fratello mio?» domandò infine, premendo la mano su quelle di Caramon. «Sai che io sarei al tuo fianco se mai tu dovessi combattere per dimostrare di che stoffa sei
fatto». Caramon sollevò il capo e fissò il gemello con occhi colmi di una nuova espressione di ammirazione e di rispetto. «Sì, Raist, verrò con te. Ora che mi hai spiegato ogni cosa ho capito, e non ne parlerò con nessuno». «Bene», sospirò Raistlin. Adesso la sua esaltazione si era esaurita perché il confronto di volontà con il fratello gli aveva prosciugato le energie, lasciandolo debole ed esausto: tutto quello che voleva era sdraiarsi, rimanere tranquillo e solo nell'oscurità. «Cosa dirò agli altri?» chiese Caramon. «Quello che preferisci, a patto che non sia la verità», rispose Raistlin, avviandosi verso la propria stanza. «Raist...» chiamò ancora Caramon, poi fece una pausa e infine chiese: «Non faresti mai quello che hai detto, vero? Saresti capace di disconoscermi, di sostenere di non aver mai avuto un fratello?». «Oh, non essere idiota, Caramon», rispose Raistlin, e andò a letto. CAPITOLO QUARTO Quando Caramon lo informò che né lui né suo fratello avrebbero potuto accompagnarlo a Solamnia, Sturm cercò di discutere e di persuaderlo a cambiare idea, ma Caramon rimase inflessibile anche se non poté fornire una motivazione plausibile per questo cambiamento. Al tempo stesso Sturm si accorse che l'amico appariva turbato e preoccupato per qualcosa e suppose che Raistlin avesse deciso di non intraprendere il viaggio e avesse proibito anche al fratello di partire; di conseguenza, pur sentendosi offeso e ferito, non riprese più l'argomento. «Se vuoi un compagno di viaggio, Brightblade, verrò io con te», si offrì Kitiara. «Dopo tutto conosco le strade migliori e più rapide per arrivare al nord. Inoltre, stando a quanto ho sentito lassù stanno accadendo cose poco piacevoli e sarebbe quindi sconsigliabile per ciascuno di noi viaggiare da solo; dal momento che anch'io sono diretta da quelle parti, tanto vale che facciamo la strada insieme». I tre si trovavano alla Locanda dell'Ultima Casa, intenti a bere un boccale di birra. Kitiara, che era stata indotta a raggiungere i due giovani dal fatto che aveva sentito menzionare Raistlin, era convinta che i due gemelli stessero escogitando qualcosa ed era irritata per la loro pretesa che non stesse invece accadendo nulla d'insolito. Consapevole che non sarebbe mai
riuscita ad estorcere il segreto in questione a Raistlin, sperava di riuscire ad ottenere informazioni con le blandizie dal più malleabile Caramon. «Tu e Tanis sarete di certo i benvenuti, Kitiara», replicò Sturm, riprendendosi dall'iniziale stupore destato in lui da quell'offerta. «All'inizio non vi avevo detto nulla perché sapevo che Tanis era intenzionato ad accompagnare Flint nei suoi viaggi estivi, ma...». «Tanis non verrà con me», lo interruppe Kitiara, in tono piatto e opaco, poi vuotò il proprio boccale di birra e chiamò a gran voce Otik perché tornasse a riempirglielo. Sturm intanto guardò verso Caramon, chiedendosi cosa stesse succedendo, dato che Tanis e Kitiara avevano trascorso insieme tutto l'inverno ed erano parsi affezionati come sempre. Caramon però scosse il capo per indicare che non ne sapeva nulla. «Non sono certo...» iniziò, con aria turbata. «Ottimo, allora è tutto deciso, partirò con te», lo interruppe Kitiara, rifiutandosi di sentire qualsiasi obiezione. «Adesso, Caramon, vuoi dirmi perché tu e quel tuo fratello mago non verrete con noi? Viaggiare in quattro è molto più sicuro, e poi al nord ci sono alcune persone che voglio farvi conoscere». «Come ho detto a Sturm, non posso partire», rispose Caramon. Il suo volto abitualmente allegro appariva solenne e velato, e lui non aveva bevuto neppure un sorso della sua birra, che aveva intanto perso tutta la schiuma; spingendo da un lato il boccale, gettò una moneta sul tavolo e lasciò la locanda perché non si sentiva più a proprio agio quando c'era in giro Kitiara. In cuor suo era lieto che lei stesse per partire e che Tanis non l'accompagnasse. Si era chiesto spesso se fosse il caso di dire a Tanis la verità in merito ai fatti di quella notte ad Haven, di informarlo che era stata Kitiara ad assassinare la Vedova Judith e che, dopo, lei lo aveva incitato a lasciare che Raistlin venisse incolpato della cosa e impiccato. Kitiara aveva poi sostenuto che stava scherzando, e tuttavia... Caramon si concesse un sospiro di sollievo: adesso lei stava per partire, e se fossero stati fortunati non sarebbe più tornata. La sua preoccupazione era adesso per Sturm, che avrebbe viaggiato in compagnia di Kitiara, ma dopo averci riflettuto sopra, Caramon decise che il giovane cavaliere, forte della sua fedeltà al Giuramento e alla Misura, avrebbe saputo badare a se stesso. Inoltre, viaggiare soli era pericoloso, proprio come aveva detto Kit. La preoccupazione maggiore di Caramon era invece per Tanis, che sarebbe rimasto terribilmente ferito dalla decisione presa da Kit di partire;
basandosi sul ragionamento logico, infatti, Caramon era convinto che fosse stata Kitiara, irrequieta come sempre, a porre fine al loro rapporto. Chi scoprì invece la verità fu Raistlin. Anche se aveva ancora davanti a sé parecchi mesi di attesa prima d'intraprendere con Caramon il viaggio fino alla Torre, Raistlin iniziò subito i suoi preparativi, uno dei quali consisteva nel far rimodellare il laccio di cuoio che serviva a trattenergli il coltello a ridosso del braccio, nascosto sotto la manica della veste in posizione tale da far sì che un semplice scatto del polso permettesse all'arma di scivolargli in mano senza essere notata. Questo era almeno lo scopo per cui era stato progettato il laccio, solo che il polso di Raistlin era molto più sottile di quanto lo fosse stato quello del mago guerriero a cui erano appartenuti in origine il laccio e il coltello, e quando Raistlin aveva provato ad utilizzare il marchingegno gli era scivolato in mano il laccio mentre il coltello era caduto per terra. Di conseguenza, lui mostrò la striscia di cuoio a Flint nella speranza che potesse adattarla. Dopo averla esaminata, il nano si mostrò impressionato dall'abile manifattura dell'oggetto, che pensava essere un prodotto del suo popolo. Guardandosi bene dall'accennare al fatto che secondo Lemuel erano stati gli elfi di Silvanesti a fabbricare sia il coltello sia il laccio come dono per il loro amico, Raistlin convenne con il nano che il laccio era stato senza dubbio modellato da qualche grande artigiano del cuoio del suo popolo e Flint si offrì di modificarne le dimensioni se lui glielo avesse lasciato per un paio di settimane. Il giorno in cui andò a portare il laccio al nano, Raistlin stava per bussare alla porta di casa quando sentì giungere dall'interno un tenue suono di voci, che appartenevano a Tanis e a Flint, e pur non riuscendo a sentire quasi nulla di quello che dicevano colse comunque alcune parole, fra cui un nome: Kitiara. Certo che qualsiasi conversazione relativa a sua sorella sarebbe cessata nel momento in cui lui fosse entrato, Raistlin allontanò con cautela e in silenzio la mano dalla porta e si guardò intorno per verificare se qualcuno si fosse accorto di lui; dopo aver constatato che era solo sgusciò quindi lungo il lato della casa e raggiunse la bottega di Flint, che aveva aperto le finestre per lasciar entrare la mite aria primaverile. Nascosto alla vista da una clematide rossa che cresceva rigogliosa lungo la parete della bottega, si arrestò accanto alla finestra, soffocando con facilità qualsiasi riluttanza poteva avvertire all'idea di spiare i suoi amici perché da molto tempo desiderava
sapere fino a che punto Tanis fosse a conoscenza delle attività di Kit, dei suoi incontri notturni con degli sconosciuti, dell'assassinio della sacerdotessa... Kit stava forse fuggendo da qualche pericolo? Oppure Tanis aveva minacciato di denunciarla? E quale sarebbe stata in questo caso la sua posizione? Comprensibilmente, Raistlin aveva ben poca fiducia nella lealtà di sua sorella. «Sono giorni che continuiamo a discutere», stava dicendo Tanis, «perché lei vuole che l'accompagni nel nord». La conversazione venne interrotta per un momento da un furioso martellare per poi riprendere quando esso fu cessato. «Sostiene di avere là degli amici disposti a pagare grosse somme a chi sappia usare bene arco e spada», aggiunse Tanis. «Anche dei mezzelfi?» grugnì Flint. «Gliel'ho fatto notare, ma lei sostiene, giustamente, che se volessi potrei nascondere il mio retaggio, facendomi crescere la barba e portando i capelli lunghi per coprire gli orecchi». «Sai che bell'aspetto avresti, con la barba!» ritorse Flint, riprendendo a martellare, e quando ebbe finito domandò: «Allora, hai intenzione di andare?». «No», rispose con riluttanza Tanis, restio a condividere i propri sentimenti perfino con quell'amico di così vecchia data. «Ho bisogno di restarle lontano per qualche tempo perché quando le sono vicino non riesco a riflettere. La verità, Flint, è che mi sto innamorando di lei». Fuori della finestra Raistlin sbuffo e per poco non scoppiò a ridere, ma si costrinse a soffocare la propria ilarità per timore di tradirsi: si sarebbe aspettato un comportamento così stupido da Caramon ma non dal mezzelfo, che era senza dubbio abbastanza maturo da sapersi guardare da certe cose. «L'unica volta che ho anche solo accennato al matrimonio, Kit si è fatta beffe di me», proseguì intanto Tanis, parlando ora più in fretta come se sfogarsi gli stesse dando sollievo. «Dopo mi ha rimproverato per giorni, chiedendomi se volevo rovinare tutto il divertimento: dividevamo il letto, quindi che altro potevo mai volere? Io però non sono felice di limitarmi a dividere con lei il mio letto, Flint, voglio condividere anche la mia vita, i miei sogni, le mie speranze e i miei piani, mi voglio sistemare per sempre. Kitiara invece non lo vuole affatto, si sente intrappolata, chiusa in gabbia, e sta diventando irrequieta e annoiata, con il risultato che litighiamo di continuo per cose stupide. Se restassimo insieme finirebbe per sviluppare del risentimento nei miei confronti e forse perfino per odiarmi, e questo
non potrei sopportarlo. Sentirò terribilmente la sua mancanza, ma è meglio così». «Bah! Lascia che resti un anno o due con quei suoi amici su nel nord e vedrai che tornerà indietro. Magari allora si mostrerà ricettiva alla tua proposta, ragazzo». «Forse tornerà», convenne Tanis, e dopo un momento di silenzio aggiunse: «Però io non sarò qui ad aspettarla». «Dove pensi di andare, allora?». «A casa», rispose Tanis, in tono sommesso. «È da molto tempo che non torno più a casa, e anche se so che così non ti potrò accompagnare nella prima parte dei tuoi viaggi ci potremmo sempre incontrare in seguito a Qualinesti». «Certamente, però... ecco... a dire la verità non penso di andare da quella parte, Tanis», spiegò Flint, schiarendosi la gola con aria imbarazzata. «Avevo intenzione di parlartene, ma dato che non sembro trovare mai il momento giusto, suppongo che sia il caso di farlo adesso. «Quella fiera ad Haven mi ha amareggiato, ragazzo, ho visto la bruttura che si cela dietro la maschera che gli umani portano sul volto e questo mi ha lasciato un sapore sgradevole in bocca, senza contare che parlare con quei nani delle colline mi ha indotto a ripensare alla mia terra. Naturalmente non potrò mai tornare presso il mio clan per i motivi che anche tu conosci, ma ho in mente di visitare alcuni degli altri clan che vivono nelle vicinanze perché per me sarà un conforto trovarmi in mezzo a gente della mia razza. Sai, stavo pensando a quello che afferma il giovane Raistlin in merito agli dèi, e mi piacerebbe scoprire se Reorx è in giro da qualche parte, magari intrappolato dentro Thorbardin». «Cercare qualche traccia dei veri dèi... è un'idea interessante», commentò Tanis, poi aggiunse con un sospiro: «Chissà, cercando loro, forse lungo la strada potrei trovare me stesso». Il dolore e la tristezza che trasparivano dalla sua voce indussero Raistlin a vergognarsi di aver ascoltato quella conversazione privata. Stava lasciando il suo posto, diretto alla porta principale per annunciarsi nel modo convenzionale, quando sentì il nano domandare, in tono acido: «Chi di noi due si prenderà il kender?». CAPITOLO QUINTO Era l'ultimo giorno del mese dell'epoca dei Boccioli di Primavera, le
strade erano ormai aperte e i viandanti riempivano di nuovo al massimo della sua capienza la Locanda dell'Ultima Casa, mangiavano le patate di Otik, lodavano la sua birra e raccontavano storie che annunciavano il profilarsi di problemi per il mondo, storie di eserciti di orchetti in marcia, di orchi che lasciavano i loro covi nascosti fra le montagne, di creature a cui si accennava appena ma che erano descritte come ancor più spaventose. Sturm e Kitiara stavano progettando di partire il primo giorno d'estate, e a quanto pareva anche Tanis aveva intenzione di partire quel giorno perché, come spiegò con un certo imbarazzo, era stato invitato a Qualinesti per partecipare ad una celebrazione elfica che aveva a che fare con il sole. La verità era che lui sapeva benissimo di non poter tornare alla sua casa vuota, che avrebbe echeggiato per sempre della risata di Kitiara; quanto a Flint, avrebbe accompagnato l'amico per un tratto di strada quindi si stava preparando anche lui a partire l'indomani. Adesso gli altri membri del gruppo erano infine stati messi al corrente del fatto che Caramon e Raistlin avevano a loro volta in programma un viaggio... come aveva scoperto Kitiara che, consumata dalla curiosità a causa dell'aria insolitamente circospetta di Caramon lo aveva tormentato, minacciato e blandito fino a costringerlo ad ammettere almeno quello. Timoroso che Kitiara potesse finire per infrangere la determinazione del fratello e costringerlo a rivelare il suo segreto, Raistlin aveva allora lasciato intendere che stessero andando in cerca dei parenti del padre, che si presumeva fosse originario di Pax Tharkas; se avessero guardato una mappa, i loro amici avrebbero scoperto che Pax Tharkas era situata nella direzione esattamente opposta a quella in cui si trovava la Foresta di Wayreth. Nessuno però controllò una mappa, perché le uniche disponibili erano in possesso di Tasslehoff Burrfoot, che non era presente. Infatti uno dei motivi per cui i compagni si erano riuniti quella sera, a parte l'accomiatarsi gli uni dagli altri, era decidere cosa fare del kender. Sturm esordì dichiarando senza mezzi termini che i kender non erano i benvenuti a Solamnia, aggiungendo che qualsiasi Cavaliere che fosse stato visto viaggiare con un kender ne avrebbe avuto la reputazione rovinata per sempre. Kit dal canto suo affermò in tono secco che i suoi amici nel nord non sapevano cosa farsene dei kender, e che se ci teneva alla pelle Tasslehoff avrebbe fatto meglio a non andare da quelle parti, come aveva commentato fissando Tanis con espressione altezzosa. I rapporti fra loro si erano fatti più che mai tesi, perché Kit era stata certa che Tanis l'avrebbe implorata di
rimanere o di accompagnarlo a Qualinesti, mentre lui non aveva fatto nessuna delle due cose e questo l'aveva fatta infuriare. «Non posso portare Tas a Qualinesti», mormorò Tanis, evitando lo sguardo di lei. «Gli elfi non lo permetterebbero mai». «Non guardate me!» esclamò Flint, allarmato nel notare che gli altri stavano facendo esattamente questo. «Se un qualsiasi membro del mio clan dovesse vedermi in compagnia di un kender verrei considerato pazzo e mi troverei in difficoltà a spiegare che si stanno sbagliando e che sono sano di mente. Tasslehoff dovrebbe andare a Pax Tharkas con Raistlin e Caramon». «No», replicò Raistlin, in un tono tanto definitivo da non ammettere repliche. «Assolutamente no». «Allora cosa ne facciamo di lui?» domandò Tanis, perplesso. «Possiamo legarlo, imbavagliarlo e calarlo in fondo ad un pozzo per poi sgusciare via nel cuore della notte con la speranza, ripeto, la speranza, che lui non ci trovi», consigliò Flint. «Chi volete legare sul fondo di un pozzo?» chiese una voce allegra. Avendo scorto gli amici attraverso una finestra aperta, Tasslehoff aveva deciso che non era il caso di fare tutto lo stancante giro fino alla porta e si era issato sul davanzale per poi calarsi all'interno. «Attento al mio boccale di birra, per poco non lo hai rovesciato! Scendi dal tavolo, razza di pomolo di porta!» esclamò Flint, afferrando il proprio boccale e tenendolo stretto al petto. «Se proprio lo vuoi sapere, eri tu quello che volevamo legare in fondo ad un pozzo». «Davvero? Meraviglioso!» esclamò Tas, illuminandosi in volto. «Prima d'ora non sono mai stato in fondo ad un pozzo, e... Ah, mi sono appena ricordato che non posso farlo. Apprezzo il pensiero», proseguì, protendendosi a battere un colpetto sulla mano di Flint, «lo apprezzo al punto che mi sento quasi indotto a rimanere per poterlo mettere in atto, ma il problema è che domani non sarò più qui». «Dove stai andando?» chiese con trepidazione Tanis. «Prima di rispondere voglio dire qualcosa. Stavate discutendo per decidere chi di voi mi dovrà prendere con sé, vero?» domandò il kender, fissando il gruppo con aria severa. «Non puoi venire con noi, Tas», cominciò Tanis, imbarazzato perché non voleva ferire i sentimenti del kender, e subito Flint gli fece eco in tono inorridito: «Non può davvero!». «Vedete», affermò Tas, sollevando una piccola mano per chiedere silen-
zio, «se andrò con uno di voi gli altri se ne risentiranno ed io non voglio che questo succeda, quindi ho deciso di partire per conto mio... no, non cercate di farmi cambiare idea, sto tornando a Kendermore e devo ammettere che là non vi trovereste a vostro agio», concluse con aria estremamente severa. «Vuoi dire che i kender non ci permetterebbero di entrare nelle loro terre?», domandò Caramon, sentendosi insultato. «No, voglio dire che non entrereste nelle case, soprattutto tu, Caramon: nel momento in cui tentassi di alzarti in piedi scoperchieresti il tetto della mia casa, per non parlare dei danni che arrecheresti ai miei mobili. Naturalmente potrei fare un'eccezione per Flint...». «No, non puoi», si affrettò a correggerlo il nano. Tasslehoff continuò intanto a descrivere le meraviglie di Kendermore, dipingendo il quadro di una contea libera dove il concetto di proprietà privata e di beni personali era del tutto sconosciuto, in toni così vividi che tutti coloro che sedevano al tavolo votarono con risolutezza di non recarsi mai laggiù. Una volta risolto il problema del kender, agli amici non rimase altro da fare se non dirsi addio e rimasero a lungo seduti al loro tavolo mentre il sole al tramonto splendeva come una palla infuocata attraverso la porzione rossa della finestra colorata, si tingeva d'arancione in quella gialla e assumeva una strana tonalità verde in quella blu; quella sera il sole parve attardarsi come i compagni, allargando la sua luce dorata nel cielo prima di scivolare oltre l'orizzonte lasciandosi alle spalle un luminoso crepuscolo. Otik portò candele e lampade per dissipare l'improvvisa penombra e servì la cena che comprendeva le sue famose patate speziate, stufato d'agnello, trota del Lago Crystalmir, pane e formaggio di capra. Il cibo era così eccellente che perfino Raistlin mangiò qualcosa di più dei consueti pochi bocconi svogliati e divorò un'intera trota. Quando ebbero finito di cenare mangiando tutto fino all'ultima briciola perché quando a tavola c'era Caramon non restavano mai avanzi, Tanis chiamò Otik per saldare il conto. «Questa cena è offerta dalla casa, amici miei, amici carissimi», disse Otik, stringendo la mano a tutti, incluso Tasslehoff, e augurando loro buon viaggio. Otik accettò poi l'invito di Tanis a bere un bicchiere con loro e quello di Flint a berne un altro e poi un altro ancora, con il risultato che quando infine venne richiesta la sua presenza in cucina la giovane Tika dovette venire per aiutarlo ad alzarsi.
Intanto altri abitanti di Solace passarono dalla locanda per salutarli e porgere i loro auguri di buon viaggio. Molti erano clienti di Flint, che avevano appreso con dispiacere che lui se ne stava andando quando aveva venduto tutta la sua merce affermando di essere intenzionato a restare assente almeno un anno, ma molti altri vennero ad accomiatarsi da Raistlin, con celato stupore dei suoi compagni, che non avevano immaginato che quel giovane riservato e dalla lingua caustica e tagliente potesse avere tanti amici. Quelli però non erano suoi amici, erano i suoi pazienti, venuti ad esprimere gratitudine per le cure che lui aveva prodigato loro. Fra gli altri c'era anche Miranda, che non era più la bella della città e appariva pallida e smorta nei suoi abiti a lutto, dovuti al fatto che sua figlia era stata fra le prime vittime della peste. Dando un bacio sulla guancia a Raistlin lo ringraziò con voce soffocata di essere stato tanto gentile con la sua bambina morente, poi il suo giovane marito porse a sua volta i propri ringraziamenti e portò via la moglie affranta. Raistlin li osservò allontanarsi, lieto in cuor suo di essersi trattenuto in tempo dal seguire quel grazioso sentiero coperto di rose, e quella sera si mostrò particolarmente gentile con Caramon che ne rimase stupito, non sapendo cos'aveva fatto per guadagnarsi la gratitudine di Raistlin. Anche gli stranieri che si trovavano alla locanda notarono lo strano assortimento di amici, e furono stupiti soprattutto del fatto che di tanto in tanto Tanis o Flint provvedevano a restituire gli oggetti preziosi di cui il kender si era appropriato, fatto che induceva i forestieri a scuotere il capo e a inarcare le sopracciglia. «Per fare il mondo ci vuole gente di ogni sorta», commentavano quegli stranieri, ma in un tono di disprezzo da cui si capiva che credevano ben poco a quel vecchio adagio e che a loro parere l'unica razza necessaria era quella umana. Fuori scese la notte e l'oscurità si addensò intorno alla locanda, penetrando dentro di essa con le proprie ombre perché ormai gli altri clienti erano andati a letto portandosi dietro lampade e candele per rischiararsi la strada; piacevolmente brillo, Otik si era ritirato ormai da tempo, affidando il compito di ripulire ogni cosa a Tika, al cuoco e alle cameriere. Mentre essi pulivano i tavoli e spazzavano il pavimento, accompagnati da un rumore di vasellame che giungeva dalla cucina, i compagni rimasero ancora al loro tavolo, riluttanti a separarsi perché ciascuno di essi sentiva in cuor suo che quella separazione sarebbe durata a lungo.
«Per noi è ora di andare, fratello», disse infine Raistlin, che già da un po' si assopiva a tratti sulla sedia. «Ho bisogno di riposare perché domani dovrò studiare a lungo». Caramon rispose con un suono incomprensibile perché aveva bevuto una quantità spropositata di birra e adesso aveva il naso rosso ed era giunto a quel livello di ubriachezza che rende litigiosi alcuni uomini incapaci e altri di articolare parola; lui apparteneva alla seconda categoria. «Anch'io devo andare», affermò Sturm, «perché domattina dovremo partire per tempo in modo da percorrere parecchi chilometri prima delle ore più calde». «Vorrei che cambiassi idea e venissi con noi», mormorò Kitiara, fissando Tanis negli occhi. Quella sera Kitiara era stata l'elemento più allegro, rumoroso e vivace del gruppo, tranne quando il suo sguardo si posava su Tanis e il suo sorriso in tralice scompariva; pochi momenti più tardi esso riappariva, ora più duro, e la sua risata squillava aspra. La sua allegria era però svanita a mano a mano che la locanda si era fatta più silenziosa e le ombre si erano accentuate intorno a loro; a quel punto la risata di Kit era svanita e le storie che raccontava avevano dato l'impressione di non arrivare mai ad una conclusione mentre lei si spostava sempre più vicino a Tanis, a cui ora stava stringendo la mano sotto il tavolo. «Per favore, Tanis, vieni nel nord» implorò. «Ti giuro che troverai gloria in battaglia, ricchezza e potere». Tanis esitò. Quegli occhi scuri erano caldi e morbidi, il sorriso di lei tremava per l'intensità della sua passione e nel complesso lui non aveva mai visto una persona tanto adorabile, cosa che gli stava rendendo sempre più difficile rinunciare a lei. «Sì, Tanis, vieni con noi», lo incitò Sturm. «Non ti posso promettere ricchezza o potere, ma di certo troveremo la gloria». Il mezzelfo aprì la bocca e parve sul punto di dire di sì: tutti al tavolo si aspettavano che lo facesse, incluso lui stesso, e quando invece dalle labbra gli uscì un «no» il primo a rimanere stupito fu proprio Tanis. Come avrebbe commentato in seguito Raistlin con Caramon, mentre tornavano a casa quella notte, il lato umano di Tanis era stato disposto ad andare con Kitiara, ma quello elfico lo aveva trattenuto. «Del resto, chi vuole la tua compagnia?» divampò Kitiara, ferita nell'orgoglio e furente perché non aveva previsto quel fallimento, poi si allontanò da lui e si alzò in piedi, aggiungendo: «Viaggiare con te sarebbe come
viaggiare con mio nonno. Sturm e io ci divertiremo molto di più da soli». Sturm apparve alquanto allarmato da quell'affermazione perché il pellegrinaggio alla volta della sua terra natale era per lui un viaggio sacro e non stava andando al nord «per divertirsi». Accigliandosi, si lisciò i baffi e ripeté che sarebbero dovuti partire di buon'ora. Scese allora sul gruppo un silenzio pieno di disagio perché nessuno voleva essere il primo ad andarsene, soprattutto adesso che la separazione sembrava avvenire sulla scia di una nota di attrito. Perfino Tasslehoff stava risentendo dell'atmosfera e sedeva quieto e silenzioso, così infelice che restituì addirittura la sacca del denaro di Sturm, anche se per sbaglio la consegnò a Caramon. «Ho un'idea», suggerì infine Tanis. «Pianifichiamo di incontrarci di nuovo quest'autunno, la prima notte del Mese del Raccolto». «Io potrei essere di ritorno oppure no, quindi non contate su di me», dichiarò Kit, scrollando con noncuranza le spalle. «Quanto a me, spero di non essere di ritorno», dichiarò Sturm in tono enfatico, e i suoi amici compresero cosa stesse intendendo: tornare quell'autunno a Solace avrebbe significato che lui aveva fallito nella propria ricerca di suo padre e della sua eredità. «Allora c'incontreremo ogni anno successivo, la prima notte del Mese del Raccolto, quelli di noi che si troveranno qui», propose Tanis. «Giuriamo inoltre che fra cinque anni da adesso torneremo alla locanda, indipendentemente da dove si sia o da che cosa si stia facendo». «Quelli di noi che saranno ancora vivi», aggiunse Raistlin. Era stata sua intenzione scherzare, ma Caramon si raddrizzò di scatto e assunse un'espressione sconvolta nel momento in cui le parole del fratello penetravano nella sua mente ottenebrata dalla troppa birra bevuta, e scoccò a Raistlin un'occhiata spaventata che questi bloccò sul nascere incontrando il suo sguardo con occhi socchiusi. «Era solo un piccolo tentativo di umorismo, fratello», aggiunse. «Comunque non dovresti dire cose del genere, Raist», supplicò Caramon. «Porta sfortuna». «Bevi la tua birra e taci», ordinò Raistlin in tono irritato. «Questa è una buona idea», osservò intanto Sturm, la cui espressione severa si era fatta più rilassata. «Mi impegno a tornare qui fra cinque anni». «Tornerò anch'io, Tanis!» promise Tas, saltellando per l'eccitazione. «Fra cinque anni sarò qui». «È più probabile che fra cinque anni tu sia in qualche prigione», borbot-
tò Flint. «In quel caso tu pagherai la multa e mi farai uscire, vero, Flint?». Il nano giurò che avrebbe dovuto esserci un giorno freddo nell'Abisso prima che lui tirasse ancora una volta il kender fuori di prigione. «Ci sono giorni freddi nell'Abisso?» domandò Tasslehoff. «Anzi, ci sono giorni di qualsiasi tipo nell'Abisso oppure è quasi sempre buio e spaventoso come in un gigantesco buco nel terreno... o magari è pieno di fuoco? Non credi che l'Abisso sarebbe un posto grandioso da visitare, Raistlin? Un giorno mi piacerebbe proprio andarci, e scommetto che neppure lo zio Trapspringer ha mai...». Tanis impose il silenzio appena in tempo per impedire che Flint rovesciasse il proprio boccale di birra sulla testa del kender, e posò la mano sul tavolo con il palmo rivolto verso il basso. «Giuro sull'affetto e l'amicizia che provo per tutti voi», disse, sfiorando con lo sguardo tutti i suoi amici, «che fra cinque anni da oggi tornerò alla Locanda dell'Ultima Casa nel primo giorno del Mese del Raccolto». «Io tornerò fra cinque anni», dichiarò Kitiara, posando la mano su quella di Tanis mentre la sua espressione si addolciva, e accentuando la stretta delle dita intorno a quelle di lui aggiunse: «Se non molto prima di allora». «Giuro sul mio onore, da quel Cavaliere che spero di diventare, che tornerò qui fra cinque anni» scandì in tono solenne Sturai Brightblade, posando la mano su quelle di Tanis e di Kit. «Io ci sarò», garantì Caramon, calando la sua mano enorme a coprire quelle degli amici. «E anch'io», annuì Raistlin, sfiorando con la punta delle dita il dorso della mano del fratello. «Non vi dimenticate di me! Tornerò anch'io!» esclamò Tasslehoff, arrampicandosi sul piano del tavolo per aggiungere al mucchio la sua piccola mano. «Allora, Flint?» domandò Tanis, sorridendo al suo vecchio amico. «Dannazione, è possibile che abbia cose più importanti da fare che tornare in questo posto per vedere le vostre brutte facce», brontolò il nano, poi strinse le mani dei suoi amici nelle proprie, nodose e segnate dal lavoro, e aggiunse: «Reorx vi accompagni tutti fino a quando c'incontreremo di nuovo». Infine distolse il capo e rimase a lungo a guardare fuori della finestra, in silenzio. La porta della locanda era già stata da tempo chiusa a chiave per la notte, ma una cameriera assonnata aprì per lasciarli uscire. Raistlin fu rapido con
i saluti perché desiderava andare a casa a riposare, e dalla soglia guardò con impazienza Caramon abbracciare Sturm e i due amici di vecchissima data restare per un momento stretti l'uno all'altro. I due si separarono in silenzio, incapaci di parlare, poi Caramon strinse la mano a Tanis e cercò di abbracciare anche Flint che, scandalizzato, si ritrasse e gli disse di andare a casa. Tasslehoff invece circondò il grosso corpo di Caramon con le braccia nella misura in cui questo gli era possibile e lo abbracciò mentre lui gli torceva scherzosamente la coda di cavallo. Intanto Kitiara venne avanti per abbracciare il fratello ma Caramon non parve vederla. Consapevole che Raistlin stava adesso battendo il piede per terra per l'irritazione si affrettò ad uscire oltrepassando senza una parola la sorella, che per un momento lo seguì con lo sguardo e infine scrollò le spalle con un sorriso. I saluti di Sturm furono brevi e formali, accompagnati da profondi e rispettosi inchini diretti a Flint e a Tanis, poi lui stabilì con Kitiara il posto dove si sarebbero incontrati l'indomani e se ne andò. «Credo che mi fermerò ancora un poco», dichiarò allora Tas, e stava per rovesciare le sue sacche per vagliare i "ritrovamenti" della giornata quando qualcuno bussò pesantemente alla porta. «Salve, sceriffo, stai cercando qualcuno?» chiese in tono allegro Tasslehoff. Naturalmente il kender se ne andò insieme con lo sceriffo, e le sue ultime parole della serata furono la richiesta che l'indomani qualcuno si ricordasse di tirarlo fuori di prigione. Ferma sulla soglia, Kit intanto stava aspettando Tanis. «Flint, vieni con noi?» chiese questi. La locanda era buia perché la cameriera aveva portato via le candele e il nano, seduto nell'oscurità, non rispose. «La ragazza sta aspettando di poter chiudere», insistette Tanis, ma ancora non ebbe risposta. «Mi occuperò io di lui, signore», promise la cameriera in tono sommesso. Tanis annuì e raggiunse Kit, passandole un braccio intorno alle spalle e traendola contro di sé mentre si allontanavano fianco a fianco nella notte. Il nano rimase seduto là da solo fino all'alba. LIBRO SESTO La lama deve passare attraverso il fuoco, altrimenti un giorno si spezze-
rà. PAR-SALIAN
CAPITOLO PRIMO Era il sesto giorno del settimo mese, e Antimodes era fermo accanto alla finestra della sua stanza nella Torre di Wayreth, intento a contemplare la notte. La camera che lui occupava era una delle molte che nella torre erano messe a disposizione dei maghi che vi affluivano per studiare, per conferire con altri maghi oppure, come nel caso di Antimodes, per partecipare all'organizzazione della Prova, che avrebbe avuto luogo l'indomani. Gli alloggi disponibili nella torre erano di diverse dimensioni e di diversa progettazione, e andavano da camere simili a celle destinate agli apprendisti maghi ad altre più grandi e più lussuose riservate invece agli arcimaghi. Quella in cui Antimodes si era comodamente insediato era la sua stanza abituale e quella che lui preferiva, e dal momento che l'arcimago viaggiava spesso e compariva alla torre nei momenti più inattesi, ParSalian aveva l'abitudine di badare che essa fosse sempre tenuta pronta per l'eventuale arrivo del suo amico. Collocato vicino alla sommità della torre, quell'alloggio comprendeva una camera da letto e un salotto dotato di una piccola balconata che a volte si affacciava sulla Foresta di Wayreth e a volte no, a seconda di dove fosse in quel momento la foresta magica. Nei momenti in cui la foresta era chissà dove, Antimodes evocava di solito un panorama di suo gusto, costituito da gialli campi di grano o magari da una costa marina percossa dalla risacca, a seconda dell'umore di cui era in quel particolare giorno. Questa notte la foresta non era presente, ma poiché era buio e lui era stanco a causa della giornata di viaggio, Antimodes non si era preso il disturbo di evocare un particolare panorama ed era semplicemente uscito sulla balconata per godere della rinfrescante brezza serale. Lasciate le imposte aperte per permettere all'aria di circolare dato che la notte era insolitamente calda, il mago tornò infine alla scrivania dove riprese a studiare con aria accigliata una pergamena il cui esame era già stato interrotto dalla cena. Un momento più tardi un colpo battuto contro la porta gli causò una nuova interruzione. «Avanti», disse Antimodes, irritato.
La porta si aprì e Par-Salian fece capolino nella stanza. «Ti disturbo? Se vuoi posso tornare in un altro...». «No, no, mio caro amico», rispose Antimodes, affrettandosi ad alzarsi in piedi per accogliere il visitatore. «Entra, entra, sono davvero lieto di vederti e speravo proprio di poter avere l'occasione di parlarti prima della giornata di domani, al punto che sarei venuto io da te se non avessi temuto di disturbarti mentre lavoravi. So quanto sei di solito impegnato prima di una Prova». «Sì, e questa in particolare sarà più difficile della media. Stai studiando un nuovo incantesimo?» domandò Par-Salian, lanciando un'occhiata alla pergamena posata sulla scrivania e in parte srotolata. «È quella che ho comprato», rispose Antimodes, con una smorfia. «A quanto pare sono stato truffato, perché non è ciò che mi era stato promesso da chi me l'ha venduta». «Mio caro Antimodes, non l'hai letta prima di acquistarla?» esclamò Par-Salian, sorpreso e sconvolto. «Le ho solo dato una rapida occhiata, e il fatto che quindi la colpa sia mia serve soltanto ad accentuare la mia irritazione». «Immagino che non ti sia possibile restituirla». «Temo di no. Si è trattato di uno di quegli acquisti che si fanno nelle locande... naturalmente avrei dovuto sapere che non era il caso di fidarmi, ma si trattava di un incantesimo che stavo cercando da parecchio tempo e lei era molto gentile, per non parlare di quanto era graziosa, e mi ha garantito che questo incantesimo avrebbe fatto esattamente quello che io desideravo. Ah, bene, vivendo s'impara», concluse Antimodes, scrollando le spalle. «Per favore, siediti. Gradisci un po' di vino?». «Grazie», accettò Par-Salian, assaporando il vino giallo chiaro. «Evocato o acquistato?» chiese poi. «Acquistato», rispose Antimodes. «A mio parere il vino evocato manca di corpo. Soltanto gli elfi di Silvanesti sanno come procedere nel modo giusto, e ultimamente sta diventando sempre più difficile procurarsi del buon vino di Silvanesti». «Verissimo», convenne Par-Salian. «Re Lorac era solito portarmene in dono parecchie bottiglie ogni volta che veniva in visita, ma ormai sono passati molti anni dall'ultima volta che è venuto da noi». «Sta tenendo il broncio», osservò Antimodes. «È convinto che avrebbe dovuto essere eletto lui a capo del Conclave». «Non credo che si tratti di questo. Certo, riteneva di meritare la posizio-
ne, ma è stato pronto ad ammettere di essere già estremamente impegnato con i suoi doveri di sovrano degli elfi di Silvanesti. Piuttosto, credo che volesse che gli venisse conferito quell'onore in modo da poterlo cortesemente rifiutare», rispose Par-Salian, poi assunse un tono pensoso e proseguì: «Sai, amico mio, ho la stranissima sensazione che Lorac ci stia nascondendo qualcosa e che non venga più da me per timore di essere scoperto». «Di cosa pensi che si tratti? Di qualche potente manufatto magico? Ce n'è qualcuno che manca?». «Non che io sappia. È possibile che la mia sensazione sia errata, ed io lo spero davvero». «Lorac è sempre stato propenso ad agire di testa sua, senza curarsi della volontà del Conclave», rifletté Antimodes. «Però ha sempre accettato le nostre regole, almeno nella misura in cui qualsiasi elfo rispetta regole che non siano state create dal suo popolo», gli ricordò Par-Salian, finendo il vino e concedendosene un altro bicchiere. Per qualche momento Antimodes rimase immerso in un pensoso silenzio. «Gli dèi concedano allora a Lorac di trarre del bene dal suo segreto, quale che esso sia, perché temo che ne avrà bisogno. Hai ricevuto il mio ultimo rapporto?». «Sì, e voglio sapere se sei assolutamente certo dei fatti che hai riferito», sospirò Par-Salian. «Certo? No, naturalmente non lo sono e non potrò mai esserlo fino a quando non avrò verificato con i miei stessi occhi!» esclamò Antimodes, agitando una mano. «Si tratta di voci, di sentito dire, e niente di più, e tuttavia... tuttavia io ci credo», concluse in tono sommesso. «I draghi! I draghi stanno ritornando su Krynn, e quelli di Takhisis, per di più! Amico mio, spero e prego che tu ti stia sbagliando», dichiarò in tutta serietà Par-Salian. «Però combacia con i fatti di cui siamo certi. Hai parlato della cosa con i nostri fratelli dalla veste nera, come ti avevo consigliato di fare?». «Ho discusso il problema con Ladonna», rispose Par-Salian, «senza specificare dove o come avevo sentito parlare della cosa, ma lei è stata evasiva». «Non lo è forse sempre?» commentò in tono asciutto Antimodes. «Sì, ma se la si conosce si ha comunque di solito il modo di capire ciò che non dice», ribatté Par-Salian.
Antimodes si limitò ad annuire perché era un vecchio e fidato amico di Par-Salian, e fra loro non c'era bisogno di accennare al fatto che questi conosceva Ladonna meglio della maggior parte degli altri maghi. «Per tutto lo scorso anno lei è stata di umore eccellente», continuò ParSalian, «direi addirittura felice ed esaltata, ed è stata anche estremamente impegnata con qualcosa perché ha visitato la torre soltanto due volte, ed esclusivamente per passare al setaccio la nostra collezione di pergamene». «Quanto all'altra notizia che ti ho inviato, ho avuto modo di verificarla», affermò Antimodes. «Come avevo sentito dire, un ricco nobile del settentrione sta assoldando dei soldati senza essere troppo schizzinoso in merito al genere di persone che recluta: orchi, orchetti, perfino umani disposti a barattare la loro anima in cambio di una porzione di bottino. Al nord si stanno radunando vasti eserciti, eserciti di oscurità. Conosco perfino il nome di questo nobile... Ariakas. Lo conosci?». «Mi pare di ricordare qualcosa sul suo conto... se non mi sbaglio, si tratta di un mago di rango minore, molto più interessato a ottenere quello che gli sta a cuore in modo rapido e brutale per mezzo della spada che con i mezzi più sottili ed eleganti della magia». «Sembra che si tratti proprio di lui», sospirò Antimodes, scuotendo il capo con un sospiro. «Il sole sta tramontando, amico mio. La notte sta calando e noi non la possiamo fermare». «Però potremmo riuscire a tenere alcune luci accese nell'oscurità», obiettò Par-Salian. «Non senza aiuto!» esclamò Antimodes, serrando i pugni. «Se soltanto gli dèi ci dessero un segno!» «Direi che Takhisis lo ha appena fatto», commentò in tono asciutto ParSalian. «Mi riferivo agli dèi del bene. Oppure lasceranno che lei li calpesti?» domandò Antimodes, impaziente ed esasperato. «Quand'è che Paladine e Mishakal renderanno finalmente nota la loro presenza nel mondo?». «Forse stanno aspettando un segno da parte nostra», osservò in tono mite Par-Salian. «Un segno di cosa?». «Di fede. Aspettano che mostriamo di credere in loro e di avere fiducia, anche se non comprendiamo il loro piano». Antimodes fissò il suo amico socchiudendo gli occhi con perplessità, poi si appoggiò allo schienale della sedia senza cessare di scrutarlo e si grattò la mascella coperta da un velo di barba lunga mentre Par-Salian sosteneva
quell'intenso e prolungato esame con un sorriso inteso a segnalare al suo amico che anche le sue riflessioni stavano andando nella stessa direzione. «Allora è di questo che si tratta?» domandò Antimodes, dopo un momento, e Par-Salian annuì. «Me lo ero chiesto. Lui è così giovane. Abile, lo ammetto, ma giovane e inesperto». «Acquisterà esperienza», replicò Par-Salian. «Dopo tutto abbiamo davanti a noi un po' di tempo, no?». «Questi orchi, orchetti e umani dovranno essere addestrati e modellati fino a diventare un esercito, cosa che potrebbe risultare estremamente difficile», rifletté Antimodes. «Nella loro condizione attuale ci sono altrettante probabilità che si sgozzino fra loro quante ce ne sono che attacchino il nemico, il che significa che Ariakas ha davanti a sé un lavoro titanico. Se poi le voci sono vere e i draghi sono davvero tornati, allora sarà necessario controllarli in qualche modo, anche se per riuscirci ci vorranno individui forti e coraggiosi! Di conseguenza, in risposta alla tua domanda ti posso dire che abbiamo del tempo, ma non molto. Inoltre quel giovane non indosserà mai la veste bianca... lo sai anche tu, vero?». «Lo so», rispose con calma Par-Salian. «Ho ascoltato per anni Theobald infuriare contro Raistlin Majere e lamentarsi di lui praticamente da quando ha cominciato gli studi, da bambino. Conosco i suoi difetti: è taciturno e portato a tramare di nascosto, arrogante, ambizioso e avido». «Però è anche creativo, intelligente e coraggioso», aggiunse Antimodes, che era orgoglioso del suo protetto. «Ne è testimone l'abile modo in cui ha trattato quella strega rinnegata, Judith, usando un incantesimo nettamente superiore al suo livello di abilità e che non avrebbe dovuto essere neppure capace di leggere, tanto meno di controllare. Inoltre lo ha usato da solo, senza aiuti». «Il che prova soltanto che sarà sempre pronto a piegare le regole o addirittura a infrangerle per conseguire i suoi scopi», obiettò Par-Salian. «No, no, non sentire il bisogno di difenderlo. Sono consapevole dei suoi meriti come lo sono delle sue debolezze, ed è per questo che l'ho invitato a sottoporsi alla Prova invece di chiedergli di presentarsi al Conclave per essere accusato del suo operato, come avrei dovuto fare di diritto. Credi che l'abbia uccisa lui?». «No», rispose con decisione Antimodes, «se non altro per il motivo che tagliare la gola ad una persona non rientra nel suo stile, è troppo volgare. Lui è esperto nell'uso delle erbe, e se l'avesse voluta morta avrebbe trovato
il modo di versare un po' di veleno nel suo tè». «Allora lo credi capace di commettere un assassinio?», domandò ParSalian, accigliandosi. «Chi fra noi non lo è, posto nelle giuste circostanze? Nella mia città c'è un sarto nostro rivale, un uomo odioso che truffa i clienti e diffonde sgradevoli menzogne sul conto dei suoi concorrenti, compreso mio fratello, e io stesso sono stato tentato più di una volta di mandare la Mano Devastante di Bigby a bussare alla sua porta», dichiarò Antimodes con aria feroce. Par-Salian nascose il proprio sorriso sorseggiando dell'altro vino. «Tu stesso sei sempre stato solito dire che coloro che percorrono i sentieri della notte devono sapere come vedere al buio», continuò Antimodes. «Immagino che non vorrai vederlo brancolare di qua e di là alla cieca». «Questo è stato parte integrante del mio ragionamento. La Prova gli insegnerà alcune cose sul conto di se stesso che forse non gli piacerà sapere ma che gli sono necessarie per poter capire la propria stessa natura e il potere che gestisce». «La Prova è un'esperienza che insegna l'umiltà», commentò Antimodes, con un gesto che era una via di mezzo fra un sospiro e un brivido. D'un tratto entrambi s'incupirono in volto e si scambiarono occhiate in tralice per verificare se ancora una volta i loro pensieri stessero viaggiando nella stessa direzione: a quanto pareva anche questa volta stavano seguendo la stessa linea di pensiero, come venne dimostrato dal fatto che nessuno dei due ebbe bisogno di citare il nome della persona di cui adesso stavano parlando. «Lui sarà senza dubbio presente», sussurrò Antimodes, scrutando intorno a sé con aria guardinga come se temesse di poter essere sentito in quella camera peraltro isolata nella parte più elevata della Torre, una camera a cui soltanto loro due potevano accedere. «Sì, lo temo anch'io», annuì Par-Salian, «e manifesterà di certo un particolare interesse per questo giovane». «Dovremmo finirlo una volta per tutte», osservò Antimodes. «Ci abbiamo provato», gli ricordò Par-Salian, «e conosci quanto me il risultato. Non possiamo toccarlo sul suo piano dell'esistenza, e oltre a questo ho il sospetto che Nuitari lo protegga». «Mi sembra giusto, dato che non ha mai avuto un servitore più fedele... quello sì che era un esperto di assassinii!» esclamò Antimodes, poi si protese in avanti e proseguì, in tono confidenziale: «Potremmo sempre limitare le possibilità di quel giovane di accedere a lui».
«E che ne sarebbe della libera volontà? Essa è sempre stata l'emblema dei nostri ordini, una libertà per la cui protezione molti di noi hanno sacrificato la vita. Vogliamo forse gettare nell'Abisso il diritto di scegliere il nostro destino?». «Perdonami, amico mio, ho parlato affrettatamente», si scusò Antimodes, mortificato. «Però sono affezionato a quel giovane, e sono anche orgoglioso di lui perché ha reso onore alla mia capacità di giudizio, e detesterei di vedergli succedere qualcosa di male». «In effetti ti ha davvero reso onore e spero che continuerà a farlo. Le sue scelte lo condurranno al sentiero che è destinato a percorrere così come è successo a noi, e confido che saranno scelte sagge». «La Prova sarà dura per lui, perché è fragile di costituzione». «La lama deve passare attraverso il fuoco, altrimenti un giorno si spezzerà». «E se dovesse morire? Che ne sarà allora dei nostri piani?». «In quel caso cercherò altrove. Labanna mi ha parlato di un promettente giovane elfo di nome Dalamar...». La conversazione si spostò quindi su altri argomenti, come l'allievo di Ladonna, i nefasti eventi che si stavano verificando nel mondo e infine l'argomento che più li interessava entrambi, la magia. Sopra la torre l'argentea Solinari e la rossa Lunitari splendevano intense, e anche Nuitari era lassù, un buco nero in mezzo alle costellazioni. Quella notte le tre lune erano tutte piene, com'era necessario per la Prova. Nelle terre al di là della Torre, molto, molto lontano dalla stanza in cui i due arcimaghi sorseggiavano vino elfico e parlavano del destino del mondo, i giovani maghi che stavano viaggiando alla volta della torre per sottoporsi alla Prova stavano dormendo di un sonno irrequieto nei casi in cui erano riusciti ad addormentarsi. L'indomani la Foresta di Wayreth li avrebbe trovati e scortati incontro al loro destino. E l'indomani alcuni di loro si sarebbero forse addormentati per non svegliarsi mai più. CAPITOLO SECONDO I gemelli impiegarono più di un mese a raggiungere la Torre, un viaggio peraltro più breve di quanto essi avessero inizialmente preventivato, in quanto in origine avevano supposto che avrebbero viaggiato a piedi; però poco dopo che i loro amici avevano lasciato Solace, un messaggero venne a riferire che alle stalle pubbliche erano stati consegnati due cavalli per i
Majere inviati in dono da Antimodes, il mecenate di Raistlin. Una volta in viaggio verso sudovest i due fratelli passarono da Haven, e Raistlin ne approfittò per fermarsi a fare visita a Lemuel, da cui apprese che il tempio di Belzor era stato raso al suolo e i blocchi di pietra usati per costruire case per i poveri, operazione effettuata sotto gli auspici di un nuovo e all'apparenza innocuo ordine religioso, quello dei Cercatori. Lemuel, che intanto aveva riaperto la sua bottega di articoli per maghi, mostrò a Raistlin come stesse prosperando la sua brionia nera, poi chiese dove i due fratelli fossero diretti e quando si sentì rispondere che erano in viaggio di piacere e che si stavano dirigendo a Pax Tharkas facendo un ampio giro, assunse un'espressione molto grave e augurò loro molte volte di fare un viaggio sicuro, concedendosi poi un profondo sospiro dopo che i due se ne furono andati. Proseguendo il loro viaggio, i due gemelli si diressero a sud lungo i pendii meridionali dei Monti Kharolis e costeggiarono i confini di Qualinesti, senza avvistare neppure un elfo per quanto tenessero gli occhi bene aperti e tuttavia avendo sempre la consapevolezza di essere sorvegliati a vista da loro. Quando Caramon propose di andare a trovare Tanis e di visitare così il regno elfico, Raistlin gli ricordò che il loro era un viaggio segreto e che si supponeva che adesso si trovassero a Pax Tharkas, senza contare che sarebbe stato difficile convincere gli elfi a lasciarli entrare nelle loro terre, perché per quanto gli elfi di Qualinesti avessero maggiore simpatia per gli umani di quanta ne dimostrassero i loro cugini di Silvanesti, in questo periodo in cui voci malvagie giungevano dal nord su ali nere anche loro erano diventati molto guardinghi nei confronti degli sconosciuti. Il mattino successivo all'ultima notte trascorsa nelle vicinanze del confine elfico, al risveglio i due fratelli trovarono una freccia conficcata vicino al giaciglio di ciascuno e non ebbero difficoltà a decifrare quel tacito messaggio degli elfi di Qualinesti: vi abbiamo lasciati passare, ma non tornate. Una volta fuori delle terre elfiche i due fratelli si rilassarono un poco ma non allentarono la vigilanza perché adesso dovevano cominciare le ricerche della girovaga Foresta di Wayreth, cosa non esente da pericoli in quanto quella parte dell'Abanasinia era selvaggia e desolata, come dimostrò il fatto che i due fratelli s'imbatterono in alcuni banditi e incrociarono una banda di orchetti, che passò loro tanto vicina da poter quasi essere toccata. I banditi avevano pensato di piombare su due giovani viandanti indifesi, ma la spada di Caramon e gli incantesimi di fuoco di Raistlin fecero ben
presto capire loro che avevano commesso un errore e li indussero a darsi alla fuga lasciando un compagno morto sulla strada. Gli orchetti invece risultarono troppo numerosi per poter essere affrontati, quindi i due fratelli si rifugiarono in una grotta fino a quando essi non furono passati oltre, diretti a nord con passo veloce. I gemelli trascorsero poi quattro giorni impegnati a cercare la Foresta mentre Caramon, nervoso e frustrato, ripeteva più di una volta che sarebbero dovuti tornare indietro e continuava a consultare tre mappe, una ottenuta da Tasslehoff, una fornita da un locandiere di Haven e la terza trovata addosso al bandito ucciso, scoprendo soltanto che su ciascuna di esse la Foresta era indicata in un punto diverso. Raistlin intanto cercò di placare i timori del fratello con la massima calma a cui riusciva a fare appello, consapevole che l'indomani sarebbe stato il settimo giorno e che ancora non avevano visto traccia della Foresta. Quella notte i due stesero le loro coperte in una radura circondata da pini stentati, e al risveglio si trovarono distesi sotto i grandi rami di querce enormi. Per poco Caramon non si diede alla fuga nel vedere quelle querce, che non erano piante normali in quanto era possibile vedere degli occhi nei nodi dei tronchi e cogliere delle parole nel frusciare delle foglie e perfino nel canto degli uccelli... parole che lui non riusciva a comprendere bene ma che parevano ingiungergli di andarsene. Raccolte le loro cose, i gemelli montarono a cavallo. Fronteggiando gli enormi alberi che formavano una barriera compatta e bloccavano loro il passo, Raistlin li contemplò in silenzio per un momento, poi fece appello a tutto il proprio coraggio e incitò il cavallo ad avanzare: immediatamente le querce si divisero in modo da formare un sentiero sgombro che portava dritto alla Torre. Quando però Caramon cercò di entrare nella Foresta per seguire il fratello gli alberi lo fissarono con odio e agitarono le foglie con ira a stento repressa: sentendo il coraggio che gli veniva meno e la paura che lo assaliva lasciandolo impotente, debole e incapace di muoversi, lui lanciò un rauco grido d'aiuto. «Raist!» chiamò. Girandosi, Raistlin si accorse della situazione del fratello e tornò indietro, protendendosi a prendere la mano di Caramon nella propria. «Non avere paura, Caramon», rispose. «Io sono con te». I due entrarono nella Foresta insieme.
Il settimo giorno del settimo mese, sette maghi vennero introdotti in un grande cortile alla base della Torre della Grande Stregoneria. Si trattava di quattro uomini e di tre donne, di cui quattro umani, due elfi e uno che sembrava per metà umano e per metà nano, un incrocio insolito per un mago. Raistlin Majere era più giovane degli altri di almeno cinque anni, ed era inoltre il solo che fosse arrivato con una scorta, cosa che indusse gli altri a scoccargli occhiate in tralice che non mancarono di notare i lineamenti delicati, la carnagione pallida e la magrezza eccessiva che lo facevano apparire più giovane di quanto non fosse in realtà. Osservandolo senza parere, gli altri si chiesero cosa ci facesse qui e perché gli fosse stato permesso di portare con sé un membro della sua famiglia, cosa a cui gli elfi reagirono con aperto disprezzo mentre il novizio per metà nano mostrò di sospettare che Raistlin fosse riuscito ad arrivare fin lì senza essere stato invitato, anche se non avrebbe saputo spiegare come. Il giardino che occupava il cortile della Torre della Grande Stregoneria era un luogo strano, attraversato da una serie di corridoi della magia che i maghi percorrevano con regolarità nel recarsi alla Torre per assolvere a incarichi ufficiali o per affari personali; quanti erano adesso raccolti nel giardino non potevano vedere quei viandanti che stavano percorrendo i nascosti sentieri della magia ma potevano avvertire in qualche modo il loro passaggio. I maghi più maturi ed esperti che frequentavano la Torre si abituavano ben presto ai mutevoli vortici di magia che permeavano il cortile mentre per i novizi, che erano alla loro prima visita alla Torre, le voci che scaturivano dal nulla, le improvvise folate d'aria o l'apparire appena intravisto e fugace di una mano o di un piede erano cose abbastanza sconvolgenti e aumentavano la tensione con cui stavano aspettando quello che speravano sarebbe stato l'inizio della loro vita come membri di questa ristretta cerchia di maghi. Nell'attesa, gli iniziati cercavano di non pensare che quello avrebbe potuto essere l'ultimo giorno della loro vita. Altrettanto teso, Caramon sussultò rumorosamente e si girò di scatto per guardarsi alle spalle. «Sta' fermo, Caramon! Ti stai rendendo ridicolo», ammonì Raistlin. «Ho sentito una mano toccarmi la schiena», rispose Caramon, pallido e sudato. «È molto probabile», rispose Raistlin, imperturbato. «Non ci badare». «Questo posto non mi piace, Raist!» ribatté Caramon, con voce che ri-
suonò più forte del dovuto nel silenzio pervaso da sussurri che regnava nel cortile. «Torniamo a casa. Sei un mago abbastanza abile senza doverti sottoporre a tutto questo». Sentendo con chiarezza le sue parole, gli altri iniziati si girarono a fissarlo e uno degli elfi arricciò le labbra in un sogghigno che fece salire un'ondata di rossore al volto di Raistlin. «Taci, Caramon!» ingiunse questi, con voce carica d'ira. «Ci stai coprendo entrambi di vergogna». Caramon chiuse la bocca e si morse un labbro mentre Raistlin gli volgeva le spalle con una mossa deliberata, incapace di comprendere per quale motivo il Conclave avesse insistito perché Caramon fosse presente alla sua Prova. «A meno che non abbiano intenzione di irritarmi a morte», borbottò fra sé. Cercò quindi di ignorare la presenza del fratello e si concentrò sul tentativo di liberarsi del proprio nervosismo e della paura. Non c'era motivo per cui dovesse avere paura perché aveva studiato il proprio libro degli incantesimi fino a conoscerlo così bene che avrebbe potuto recitare gli incantesimi a ritroso stando a testa in giù e piedi in aria, e inoltre aveva dimostrato di essere in grado di operare un incantesimo anche se posto sotto pressione, senza che lui o la sua magia venissero meno a causa di una situazione di tensione. Di conseguenza, non aveva motivo di essere preoccupato in merito alla sua capacità o meno di impiegare la magia durante la Prova; quanto alla parte meno tangibile di essa, quella in cui il mago era indotto a scoprire se stesso, essa non gli causava timori perché lui era stato portato all'introspezione fin dalla nascita ed era quindi certo di sapere sul proprio animo tutto quello che c'era da sapere. Per lui, la Prova sarebbe stata una semplice formalità. Riuscendo infine a rilassarsi, Raistlin scoprì di essere addirittura impaziente di cominciare, e una volta placati i propri timori trascorse il tempo dell'attesa dell'arrivo dei giudici osservando la favolosa Torre di Wayreth. «In futuro la vedrò spesso», disse a se stesso, immaginandosi nell'atto di percorrere i sentieri invisibili della magia, di curare le erbe che crescevano nel giardino e di studiare nella grande biblioteca. La Torre di Wayreth era costituita in effetti da due torri principali di lucida ossidiana nera, circondate da un muro che aveva la forma di un triangolo equilatero e che aveva tre torri più piccole posizionate su ciascuno
degli angoli; all'interno del muro era racchiuso il giardino, nel quale cresceva una grande varietà di piante usate non solo come componenti per incantesimi ma anche per scopi medicinali e per la cucina. La sommità delle mura era priva di bastioni, perché le difese erano costituite da potenti magie e comunque la foresta non avrebbe permesso il passaggio a nessuno che non fosse stato invitato dal Conclave. Se per puro caso un nemico si fosse imbattuto in essa, le creature magiche che vi si aggiravano lo avrebbero neutralizzato immediatamente. Per quanto potessero sembrare eccessive, simili precauzioni erano necessarie. Un tempo c'erano state cinque Torri della Grande Stregoneria, centri della magia di Ansalon. ma nel periodo dell'ascesa di Istar il RePrete, che segretamente temeva la magia e il potere dei maghi, aveva dichiarato entrambi fuorilegge e aveva indotto le folle a insorgere contro i maghi nella speranza di sterminarli. Naturalmente i maghi avrebbero potuto reagire e difendersi, e alcuni di essi avevano suggerito che si ricorresse all'uso della forza, ma il Conclave aveva ritenuto poco saggio ricorrere a misure drastiche in quanto se i maghi si fossero difesi questo avrebbe portato a tragiche perdite di vite umane da entrambe le parti, un sanguinoso conflitto che avrebbe fatto il gioco del Re-Prete e dei suoi seguaci, permettendo loro di puntare contro i maghi un dito accusatore e di denunciarli come una minaccia che andava distrutta. Di conseguenza, il Conclave aveva stretto un accordo con il Re-Prete: i maghi avrebbero abbandonato le loro torri per ritirarsi in una soltanto, quella che si trovava a Wayreth, dove avrebbero continuato i loro studi senza essere molestati. Per quanto deluso dal fatto che i maghi non fossero disposti a combattere, il Re-Prete aveva acconsentito: avendo già assunto il controllo della Torre della Grande Stregoneria di Istar era adesso impaziente di fare altrettanto con l'adorabile torre che sorgeva a Palanthas e che voleva trasformare in un tempio che esaltasse il suo potere. Quando vi aveva fatto il suo ingresso, però, un mago dalla veste nera che si supponeva fosse pazzo si era gettato da una delle finestre superiori della torre, impalandosi sulle punte di ferro della recinzione sottostante: con il suo ultimo alito di vita quel mago aveva gettato una maledizione sulla torre, secondo la quale non vi avrebbe mai potuto dimorare nessuno tranne il Signore del Passato e del Presente. Nessuno era stato in grado di determinare chi fosse questo misterioso signore, anche se di certo non si era trattato del Re-Prete, che con occhi inorriditi aveva visto la torre mutare aspetto e diventare così orribile da indurre
chi cercava di osservarla a distogliere lo sguardo e ad essere per sempre perseguitato da ciò che aveva visto. Il Re-Prete aveva incaricato chierici potenti di cercare di annullare la maledizione, ma intorno alla torre era sorto intanto il Boschetto di Shoikan, una foresta di terrore, e la torre stessa era sorvegliata dall'oscuro dio Nuitari che non prestava attenzione alle preghiere rivolte a qualsiasi altra divinità. I chierici di Paladine erano quindi fuggiti gemendo e i chierici di Mishakal che avevano cercato di penetrare nella torre erano riusciti a stento a salvarsi la vita. Quando poi gli dèi avevano scagliato su Ansalon una montagna infuocata, il Cataclisma che ne era conseguito aveva sprofondato Istar sul fondo del Mare di Sangue e aveva scatenato in tutto il continente dei terremoti che avevano spaccato la terra, formando nuovi mari e creando catene montuose. La città di Palanthas era stata scossa fino alle fondamenta, case e palazzi erano crollati, ma nel Boschetto di Shoikan non aveva tremato neppure una foglia. Cupa e silenziosa, la torre stava aspettando il suo signore, chiunque potesse essere. Mentre aspettava, Raistlin rifletteva sulla storia delle torri, e con l'occhio della mente si stava già vedendo nell'atto di passeggiare per le sale della Torre di Wayreth nei panni di un mago accettato e riverito, quando una campana invisibile scandì sette rintocchi. I sette iniziati, che stavano passeggiando per il giardino, conversando fra loro o recitando incantesimi fra sé e sé, si arrestarono di colpo e tacquero. Alcuni impallidirono per il timore, altri arrossirono per l'eccitazione mentre gli elfi, che andavano orgogliosi della loro capacità di non tradire emozioni davanti agli umani, si mostrarono noncuranti e annoiati. «Cos'è stato?» domandò Caramon, con voce resa rauca dal nervosismo. «È il momento, fratello mio», rispose Raistlin. «Raist, per favore...» cominciò Caramon, ma nel vedere l'espressione apparsa sul volto del fratello, il socchiudersi minaccioso degli occhi, l'aggrottarsi della fronte, il deciso serrarsi delle labbra, troncò sul nascere quell'ultima supplica. In quel momento una mano priva di corpo apparve nell'aria al di sopra di un roseto che cresceva nel centro del giardino. «Dannazione!» sussurrò Caramon, serrando convulsamente la mano intorno all'elsa della spada senza però avere bisogno dell'occhiata di ammonimento del fratello per sapere che non era il caso di estrarre un'arma in
quel luogo... cosa che comunque dubitava di avere la forza di fare. La mano rivolse un cenno ai sette iniziati, che si sollevarono il cappuccio sulla testa, infilarono le mani nelle maniche della veste e s'incamminarono in silenzio nella direzione loro indicata, alla volta di una piccola torre posta fra le due più grandi. Essendo stati gli ultimi ad arrivare, Raistlin e suo fratello si avviarono dietro agli altri. La mano indicò quindi la porta della prima torre, che aveva il batacchio a forma di testa di drago; nessuno dovette però bussare per farsi aprire, perché all'avvicinarsi degli iniziati il battente si schiuse da solo. Ad uno ad uno i membri della piccola processione oltrepassarono la soglia, lasciando il giardino rischiarato dal sole per passare in un'oscurità così fitta da renderli temporaneamente ciechi. I primi della fila si arrestarono, incerti su dove andare e timorosi di addentrarsi in un luogo che non riuscivano a vedere, e quelli che li seguivano si accalcarono dietro di loro appena oltre la soglia. Entrando per ultimo, Caramon andò a sbattere contro gli altri. «Chiedo scusa. Mi dispiace, ma non ho visto...». «Silenzio», ingiunse l'oscurità circostante. Gli iniziati obbedirono e così pure Caramon, o almeno ci provò, senza però riuscire a impedire che il giustacuore di cuoio scricchiolasse, la spada tintinnasse e il suo respiro possente echeggiasse per la stanza. «Svoltate a sinistra e dirigetevi verso la luce», ordinò quella voce incorporea quanto la mano. Gli iniziati obbedirono e nel veder comparire una luce si diressero verso di essa con passi sommessi, seguiti da Caramon che procedeva con un'andatura molto più rumorosa, addentrandosi in un piccolo corridoio di pietra rischiarato da torce il cui fuoco pallido ardeva in modo costante, senza emanare calore o fumo, e sbucando infine in una vasta sala. «La Sala dei Maghi!» sussurrò Raistlin, affondando le unghie nella carne del braccio e facendo ricorso al dolore per soffocare la propria eccitazione. Gli altri parevano condividere la sua meraviglia e la sua esaltazione, dato che gli elfi abbandonarono la loro maschera d'indifferenza e si guardarono intorno con gli occhi che brillavano e le labbra socchiuse per la meraviglia. Ciascuno degli iniziati aveva sognato a lungo questo momento, aveva sognato di trovarsi nella Sala dei Maghi, un luogo proibito che la maggior parte degli abitanti di Krynn non avrebbe mai visto. «Qualsiasi cosa accada, ne sarà valsa la pena», disse fra sé Raistlin.
L'unico a non manifestare altra emozione che non fosse il timore, fu Caramon, che chinò il capo e si rifiutò di guardarsi intorno, quasi sperasse che così sarebbe svanito tutto. Le pareti della camera erano di ossidiana, resa liscia e lucida con la magia, l'alto soffitto si perdeva nelle ombre sovrastanti e non c'erano colonne che ne reggessero il peso. Una luce bianca pervadeva la camera, che era il luogo di raduno del Conclave dei Maghi, e illuminava ventuno seggi di pietra disposti a semicerchio e corredati da cuscini, sette neri, sette rossi e sette bianchi; al centro del semicerchio c'era un seggio di poco più grande degli altri, quello riservato al capo del Conclave, sul quale posava attualmente un cuscino bianco. I seggi, che al loro ingresso erano apparsi vuoti, risultarono ora occupati da altrettanti maghi, uomini e donne di diverse razze che portavano ciascuno il colore proprio del suo ordine. Sussultando, Caramon barcollò vistosamente e subito la mano di Raistlin gli si chiuse intorno al braccio in una morsa tale che probabilmente gli fece male nella stessa misura in cui lo sostenne. Era evidente che Caramon si stava trovando in seria difficoltà. Nel corso degli anni lui non aveva mai preso troppo sul serio né la magia né il talento che il fratello dimostrava in quel campo, in quanto per lui la magia erano monete che scaturivano dal naso, conigli che saltavano fuori da un cappello, kender giganteschi. Perfino quel particolare incantesimo aveva fatto su di lui un'impressione minima, perché in fin dei conti il kender non era stato effettivamente trasformato in un gigante e in pratica si era trattato soltanto di un'illusione, di un trucco: nella sua mente, trucchi e magia avevano finito per diventare la stessa cosa. Qui però non si poteva trattare di trucchi, ciò che stava vedendo era una manifestazione di vero e puro potere, studiata apposta per fare impressione e per intimidire. Sentendo crescere il proprio timore per il gemello, Caramon desiderò di poter fuggire da quel posto trascinando Raistlin con sé... ma si trattenne perché da qualche parte nelle profondità della sua mente stava infine cominciando a capire quanto fosse alta la posta a cui suo fratello stava mirando, abbastanza alta da far sì che per lui valesse la pena di mettere in gioco la propria vita. Infine il mago che sedeva al centro del semicerchio si alzò in piedi. «Quello è Par-Salian, il capo del Conclave», sussurrò Raistlin al fratello, sperando di evitargli nuove brutte figure. «Sii cortese!».
Quando gli iniziati si inchinarono con rispetto, Caramon fece altrettanto. «Salute a voi», disse allora Par-Salian, in tono gentile e accogliente. Il grande arcimago aveva a quell'epoca poco più di sessant'anni, anche se i lunghi e lanugginosi capelli bianchi, la barba candida e le spalle curve lo facevano apparire più vecchio. Preferendo lo studio all'azione, lui non era mai stato robusto e dedicava tutto il suo tempo a sviluppare nuovi incantesimi e a perfezionare quelli vecchi, oltre ad essere avido di manufatti magici nello stesso modo in cui un bambino poteva esserlo di dolciumi, il che spiegava perché i suoi apprendisti trascorressero gran parte del loro tempo viaggiando per il continente in cerca di manufatti o di pergamene, oppure per accertare se voci inerenti a oggetti del genere fossero vere o false. Par-Salian era anche un acuto osservatore e tendeva a partecipare in modo attivo alla politica di Ansalon, contrariamente a molti maghi che si ritenevano al di sopra delle attività quotidiane della popolazione ignorante. Il capo del Conclave aveva quindi dei contatti all'interno di ogni governo importante di Ansalon, e Antimodes non era certo la sua unica fonte d'informazione, anche se lui teneva segreto ciò che sapeva a meno che divulgarlo potesse tornare utile ai suoi piani. Sebbene fossero in pochi a conoscere l'effettiva portata della sua influenza in Ansalon, un'aura di potere e di saggezza creava intorno alla sua persona un alone quasi visibile di luce bianca e così intensa da indurre i due elfi di Silvanesti, che di solito avevano per gli umani la stessa considerazione che la maggior parte delle altre razze aveva per i kender, a rivolgergli un profondo inchino e poi un altro ancora. «Salute a voi, iniziati», ripeté Par-Salian. «E ospite», aggiunse quindi, spostando il proprio sguardo su Caramon, che si sentì trapassare il cuore e cominciò a tremare. «Dietro nostro invito, ognuno di voi si è presentato nel momento stabilito per mettere alla prova la sua abilità, il suo talento, la sua creatività, i suoi processi mentali e, cosa più importante, se stesso. Quali sono i vostri limiti? Fino a che punto siete in grado di valicarli? Quali sono i vostri difetti e in che modo possono ostacolare il vostro talento? Sono domande spiacevoli, ma a cui è necessario dare una risposta perché soltanto quando conosciamo noi stessi, quando siamo coscienti in pari misura dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze, possiamo accedere appieno al potenziale che è racchiuso dentro di noi». Gli iniziati lo ascoltarono in silenzio e circospetti, pervasi di nervosismo, di reverenza e di ansia. «Non vi preoccupate», sorrise Par-Salian. «So quanto siete impazienti di
cominciare quindi non vi terrò un lungo discorso. Voglio soltanto porgervi di nuovo il benvenuto e darvi la mia benedizione. Chiedo a Solinari di essere oggi al vostro fianco», concluse, sollevando le mani, e mentre gli iniziati chinavano il capo si rimise a sedere. Il capo dell'Ordine delle Vesti Rosse si alzò allora a sua volta e procedette a dare in tono asciutto le necessarie istruzioni. «Quando verrà chiamato il vostro nome verrete avanti e seguirete uno dei giudici, che vi condurrà nell'area in cui avrà inizio la Prova. Sono certo che avete familiarità con i criteri su cui essa si basa, ma il Conclave richiede che io adesso ve li legga in modo che in seguito nessuno possa sostenere di aver affrontato la Prova ignorandone la natura. Vi ricordo che questi sono soltanto i criteri fondamentali e che ogni Prova viene studiata in modo specifico per il singolo iniziato e può quindi includere tutti questi elementi oppure soltanto alcuni di essi. «Ci saranno almeno tre situazioni in cui verrà messa alla prova la conoscenza che l'iniziato ha della magia e del suo utilizzo, la Prova richiederà l'uso di tutti gli incantesimi noti all'iniziato e ci saranno almeno tre situazioni che non potranno essere risolte soltanto con la magia, e almeno una che preveda un combattimento contro un avversario di rango più elevato dell'iniziato. Avete delle domande?». Nessuno degli iniziati parlò, perché le eventuali domande erano racchiuse nel cuore di ciascuno di essi; Caramon, per contro, aveva molti interrogativi che avrebbe voluto porre, ma era troppo spaventato per riuscire a formularli. «In tal caso», concluse la Veste Rossa, rimettendosi a sedere, «chiedo a Lunitari di accompagnarvi». Infine si alzò in piedi la donna che presiedeva all'Ordine delle Vesti Nere. «Che Nuitari vi accompagni», disse, poi srotolò una pergamena e cominciò a scandire i nomi degli iniziati. A mano a mano che il suo nome veniva chiamato, ciascuno di essi veniva avanti e preso in consegna da un membro del Conclave che in silenzio e con assoluta solennità lo conduceva verso le ombre che avvolgevano la sala, scomparendo con lui. Uno dopo l'altro tutti gli iniziati se ne andarono, e infine nella sala rimase soltanto Raistlin Majere. Raistlin aveva aspettato con stoica calma mentre i suoi compagni diminuivano di numero intorno a lui, ma le sue mani nascoste nelle maniche
erano serrate a pugno e lui cominciava ad avvertire l'irrazionale paura che ci fosse stato un errore di qualche tipo e che la sua presenza lì non fosse stata prevista. Forse i maghi avevano cambiato idea e lo avrebbero mandato via, o forse quello zotico di suo fratello li aveva offesi in qualche modo e adesso loro lo avrebbero scacciato coprendolo di vergogna e d'ignominia. La Veste Nera finì di leggere i nomi e arrotolò la pergamena con un gesto secco... e ancora Raistlin era in attesa nella Sala dei Maghi, solo che adesso era l'unico novizio presente. Mantenendo una posa rigida, il giovane attese di sentire quale fosse la sua sorte, e infine Par-Salian si alzò in piedi, venendo verso di lui. «Raistlin Majere, ti abbiamo lasciato per ultimo a causa delle circostanze alquanto insolite, dovute al fatto che hai con te una scorta». «Mi è stato chiesto di venire accompagnato, signore», rispose Raistlin, con voce che scaturì, ridotta ad un sussurro, dalle labbra aride. Schiarendosi la gola aggiunse quindi in tono un po' più deciso: «Questo è il mio gemello Caramon». «Benvenuto, Caramon Majere», salutò Par-Salian, mentre i suoi occhi azzurri affondati in un nido di rughe parevano sbirciare in profondità nell'animo di Caramon che borbottò qualcosa d'incomprensibile e si chiuse in un cupo silenzio. «Volevo spiegarti perché abbiamo richiesto la presenza di tuo fratello», proseguì intanto Par-Salian, riportando su Raistlin il proprio sguardo astuto. «Vogliamo innanzitutto garantirti che non sei unico e che questo non è un trattamento speciale a te riservato: facciamo questo per ogni caso di gemelli che si sottopongono alla Prova perché abbiamo scoperto che i gemelli hanno fra loro un vincolo molto stretto, più della maggior parte dei fratelli, al punto che sembrano quasi un solo essere diviso in due. Naturalmente nella maggior parte dei casi entrambi i gemelli intraprendono lo studio della magia in quanto sono tutti e due dotati di talento, e la tua unicità consiste soltanto in questo, Raistlin, nel fatto di essere il solo dei due che abbia del talento per la nostra arte. Tu hai mai avuto interesse per la magia, Caramon?». Chiamato a rispondere ad una domanda così sorprendente, che in realtà non aveva mai neppure preso in considerazione, Caramon aprì la bocca per replicare ma venne prevenuto da Raistlin. «No, non ne ha mai avuto», dichiarò. «Capisco», commentò Par-Salian, osservandoli entrambi. «Ti ringraziamo di essere venuto, Caramon. Quanto a te, Raistlin, vuoi per favore seguire Justarius? Lui ti accompagnerà nell'area dove avrà inizio la tua Pro-
va». Il sollievo che pervase Raistlin fu così intenso che per un momento si sentì assalire dalle vertigini e dovette chiudere gli occhi fino a quando non ebbe ritrovato l'equilibrio; di conseguenza non prestò molta attenzione alla Veste Rossa che gli stava venendo incontro e notò soltanto che era un uomo anziano che camminava zoppicando in modo vistoso. Tenendo stretto a sé il suo libro degli incantesimi, Raistlin rivolse un profondo inchino a Par-Salian e si avviò per seguire la Veste Rossa e quando Caramon si mosse per accompagnarlo Par-Salian fu pronto a intervenire per bloccarlo. «Mi dispiace, Caramon, ma non puoi andare con tuo fratello», disse. «Ma mi avete detto di venire qui!» protestò Caramon, ritrovando la voce sotto il pungolo del timore. «Sì, e sarà nostro piacere intrattenerti in assenza di tuo fratello», replicò Par-Salian, in tono cortese ma inflessibile. «Buona... buona fortuna, Raist», esclamò allora Caramon all'indirizzo del gemello. Imbarazzato, Raistlin lo ignorò e finse di non averlo sentito, seguendo Justarius nelle ombre della sala... e un attimo più tardi scomparve, avviato su un cammino lungo il quale il fratello non poteva seguirlo. «Ho una domanda da fare!» gridò intanto Caramon. «È vero che a volte gli iniziati muoiono...». D'un tratto si rese conto che stava parlando ad una porta e che adesso si trovava all'interno di una camera estremamente accogliente che pareva essere stata estratta da una delle migliori locande di Ansalon. Un fuoco ardeva nel camino, il tavolo era coperto di vivande che comprendevano tutti i suoi piatti preferiti a cui si accompagnava una birra di qualità eccellente. Caramon però non prestò attenzione al cibo: furente per quello che considerava un trattamento altezzoso e prepotente, cercò di aprire la porta, con il solo risultato che la maniglia gli rimase in mano. Ormai veramente spaventato per il fratello e assalito dal sospetto che i maghi avessero intenti sinistri nei suoi confronti, Caramon decise di andare a salvarlo e si scagliò contro la porta che tremò sotto il suo peso ma non cedette. Tempestando il battente di pugni, lui prese allora a gridare perché qualcuno venisse a liberarlo. «Caramon Majere», chiamò una voce che proveniva da un punto alle sue spalle. Sorpreso e allarmato, Caramon si girò così in fretta da inciampare nei
propri piedi; aggrappandosi al tavolo per non cadere, fissò interdetto ParSalian che si trovava ora nel centro della stanza e gli stava rivolgendo un sorriso rassicurante. «Perdona il mio arrivo drammatico, ma la porta è bloccata con una magia ed è fastidioso rimuovere l'incantesimo per poi riapplicarlo. La stanza è confortevole? C'è qualcosa che possiamo portarti?». «Che m'importa della stanza?» tuonò Caramon. «Mi hanno detto che lui potrebbe morire». «È vero, ma è consapevole dei rischi che corre». «Voglio stare con Raistlin», dichiarò Caramon. «Sono il suo gemello ed è nel mio diritto!». «Tu sei con lui», affermò in tono sommesso Par-Salian. «Ti porta con sé dovunque vada». Caramon non riuscì a capire cosa il mago intendesse dire: per quanto lo riguardava sapeva soltanto che non era con Raistlin e che lo stavano ingannando, quindi decise di ignorare tutti quei discorsi strani. «Lasciatemi andare da lui», ringhiò, serrando i pugni, «altrimenti farò a pezzi questa Torre pietra su pietra». «Farò un patto con te, Caramon», replicò Par-Salian, accarezzandosi la barba per nascondere un sorriso. «Tu lascerai che la nostra Torre resti integra e io ti permetterò di assistere mentre tuo fratello si sottopone alla Prova. Non potrai aiutarlo in nessun modo, ma forse vederlo potrà alleviare i tuoi timori». «Sì, d'accordo», assentì Caramon, dopo aver riflettuto, pensando che quando avesse saputo dove si trovava Raistlin sarebbe potuto andare in suo soccorso qualora avesse avuto bisogno di aiuto. «Sono pronto, accompagnami da lui... oh, ti ringrazio, ma adesso non ho sete», aggiunse, vedendo che Par-Salian stava versando in una bacinella l'acqua contenuta in una brocca. «Siediti, Caramon», ordinò l'arcimago. «Dobbiamo andare da Raist...». «Siediti, Caramon», ripeté Par-Salian. «Vuoi vedere il tuo gemello? Allora guarda nella ciotola». «Ma è soltanto acqua...». Par-Salian passò la mano sulla bacinella, pronunciò una parola magica e lasciò cadere nell'acqua alcune foglie sbriciolate mentre infine Caramon si sedeva, con l'intenzione di fingere di assecondare quel vecchio per poi afferrarlo per il suo collo magro, e abbassava lo sguardo sull'acqua.
CAPITOLO TERZO Raistlin stava camminando lungo una solitaria e poco trafficata strada alla periferia di Haven. La notte era ormai prossima, una brezza tesa faceva ondeggiare le cime degli alberi, disperdendo le foglie autunnali, e nell'aria umida si avvertiva l'odore dei fulmini. Avendo viaggiato a piedi per tutto il giorno Raistlin era stanco e affamato, e adesso che si stava avvicinando una tempesta aveva accantonato del tutto la sua idea iniziale di trascorrere la notte dormendo all'aperto. In risposta ad una sua richiesta d'informazioni, un arrotino incontrato in precedenza gli aveva detto che più avanti c'era una locanda dal nome alquanto insulso, Locanda Inmezzo, e aveva aggiunto a titolo di avvertimento che quel posto aveva una brutta reputazione in quanto si sapeva che era frequentato da ogni sorta di persone. A Raistlin però non importava che genere di gente vi andasse a bere, a patto che la locanda avesse da mettergli a disposizione un letto al coperto, e comunque aveva ben poca paura dei ladri perché le sue vesti logore dovevano rendere evidente che non aveva con sé nulla di prezioso, senza contare che di solito la semplice vista delle vestì di un mago era sufficiente a indurre qualsiasi ladro a pensarci due volte prima di avvicinarglisi. La Locanda Inmezzo, così chiamata perché era posta a pari distanza fra Haven e Qualinesti, non aveva un aspetto invitante e i colori dell'insegna erano sbiaditi da tempo fino a diventare irriconoscibili, anche se questa non era una grave perdita per il patrimonio artistico in quanto il proprietario della locanda, dopo aver consumato tutto il suo ingegno per trovare il nome adatto al locale non era riuscito a pensare ad un'insegna più fantasiosa di una semplice X in mezzo ad un ghirigoro che avrebbe potuto essere una strada. L'edificio in se stesso aveva un'aria cupa e al tempo stesso piena di sfida, come se si fosse stancato di essere deriso a causa del suo nome e fosse pronto in una crisi d'ira a crollare sulla testa della prossima persona che se ne fosse fatta beffe; le imposte semichiuse davano alle finestre l'aria di occhi storti e sospettosi, le grondaie quasi divelte sembravano sopracciglia aggrottate. La porta era così riluttante ad aprirsi che al primo tentativo Raistlin temette che la locanda fosse chiusa, ma poi dall'interno gli giunsero voci, risa e un odore di cibo, e ad una seconda spinta più decisa da parte sua la
porta infine cedette con riluttanza, si aprì stridendo sui cardini arrugginiti e si richiuse di scatto alle sue spalle quasi a voler dire, «Non biasimare me, io ho fatto del mio meglio per avvertirti». All'ingresso di Raistlin le risa cessarono e gli avventori si girarono tutti a guardarlo come per soppesarlo e prepararsi ad agire nel modo che fosse parso più appropriato. Abbagliato dalla luce intensa di un fuoco ruggente, in un primo momento lui non riuscì a vedere nulla e non poté quindi determinare se qualcuno degli altri clienti della locanda stesse manifestando un insolito interesse nei suoi confronti; quando infine la vista gli si fu abituata era ormai troppo tardi perché tutti erano tornati a concentrarsi sulle loro attività... o almeno questo valeva per la maggior parte dei presenti, dato che un gruppetto costituito da tre individui avvolti nel mantello e con il cappuccio sollevato che sedevano al lato opposto della stanza lo stavano osservando con considerevole attenzione. Dopo un po' infine i tre ripresero a parlare in tono eccitato, sollevando di tanto in tanto la testa per scoccare rapide occhiate nella sua direzione. Trovato un tavolo vuoto vicino al fuoco, Raistlin si sedette con sollievo per riposarsi e scaldarsi; una sola occhiata ai piatti dei vicini di tavolo gli rivelò che il cibo era estremamente semplice, e pur non apparendo particolarmente gustoso esso non sembrava tale avvelenarlo: dal momento che la sola portata disponibile era lo stufato, ne ordinò un piatto insieme con un bicchiere di vino, ma dopo aver mangiato qualche boccone di quella carne di natura indecifrabile non riuscì a inghiottire altro e si limitò a giocherellare con le patate immerse nel denso condimento, sorseggiando al tempo stesso il vino che era invece sorprendentemente buono, con un sentore di fondo di chiodo di garofano. Stava rimpiangendo che la sua borsa poco fornita non gli permettesse di ordinarne un secondo bicchiere quando una brocca di vino fresco gli apparve accanto al gomito. Sollevando il capo, Raistlin trovò accanto a sé uno degli uomini incappucciati che avevano mostrato tanto interesse nei suoi confronti. «Salve, straniero», salutò l'uomo, parlando la lingua comune con un lieve accento che ricordò a Raistlin quello di Tanis, motivo per cui lui non rimase particolarmente sorpreso di constatare che il suo interlocutore era un elfo, mentre venne invece preso in contropiede dalle sue parole successive: «I miei amici ed io abbiamo notato quanto tu abbia apprezzato il vino, che proviene da Qualinesti, proprio come noi. Io e i miei compagni gradiremmo quindi dividere con te questa caraffa del nostro eccellente vino, signore».
Nessun elfo rispettabile si sarebbe fatto vedere a bere in una taverna posseduta da un umano, né avrebbe avviato una conversazione con un umano e tanto meno gli avrebbe offerto una caraffa di vino, cosa che diede a Raistlin un'idea abbastanza precisa della condizione sociale dei suoi nuovi conoscenti: quelli dovevano essere elfi scuri... coloro che erano stati "scacciati dalla luce", o per meglio dire esiliati dalle terre elfiche, il che costituiva la sorte peggiore che si potesse abbattere su un elfo. «Cosa bevi e con chi lo bevi è una tua prerogativa, signore», rispose quindi con cautela. «Non è una prerogativa, è vino», replicò l'elfo con un sorriso, credendosi spiritoso. «E il vino è tuo, se lo vuoi. Ti dispiace se mi siedo?». «Perdona se ti sembro scortese, signore, ma non sono dell'umore giusto per avere compagnia». «Grazie, accetto il tuo invito», ribatté l'elfo, sedendoglisi di fronte. Ritenendo che la cosa si fosse protratta anche troppo, Raistlin si alzò in piedi. «Ti auguro la buona notte, signore, perché ho bisogno di riposare. Se mi vuoi scusare...». «Sei un mago, vero?» domandò l'elfo; anche se non si era tolto il cappuccio, gli occhi erano adesso visibili sotto di esso, a mandorla e scintillanti. Non ritenendo opportuno rispondere a quella domanda impertinente e forse pericolosa, Raistlin volse le spalle al suo interlocutore con l'intenzione di contrattare con il locandiere perché gli permettesse di dormire sul pavimento, vicino al fuoco, della sala comune. «Peccato», commentò l'elfo. «Sarebbe stata una fortuna se lo fossi stato... un mago, voglio dire. I miei amici e io», proseguì, accennando con la testa in direzione dei suoi due compagni, «avevamo in mente un lavoretto in cui un mago ci sarebbe potuto tornare utile». Raistlin non rispose ma neppure si allontanò dal tavolo, rimanendo in piedi e guardando l'elfo con maggiore interesse. «C'è da guadagnare del denaro», aggiunse questi, sorridendo. Raistlin si limitò a scrollare le spalle, e quella reazione parve sconcertare il suo interlocutore. «Strano», osservò. «Credevo che voi umani foste sempre interessati al denaro, ma pare che mi sia sbagliato. In che modo posso allora indurti in tentazione? Ah, ma certo, con la magia! È ovvio... ti interessano manufatti, anelli incantati e libri d'incantesimi. Vieni a incontrare i miei amici», pro-
pose l'elfo, alzandosi in piedi con mosse aggraziate, «e ascolta la nostra proposta. In questo modo, se ti capiterà di incontrare un mago potrai informarlo che unendosi a noi guadagnerebbe una fortuna», concluse ammiccando. «Porta il vino», rispose Raistlin, avviandosi attraverso la sala della locanda per sedersi al tavolo occupato dai due elfi; sorridendo, il terzo componente del gruppetto prese la caraffa e lo seguì. Raistlin aveva appreso da Tanis qualcosa sugli elfi di Qualinesti, e forse ne sapeva sull'argomento più della maggior parte degli umani perché aveva interrogato a lungo il mezzelfo sugli usi e abitudini del popolo elfico. I tre avevano la corporatura alta e snella tipica della loro razza, e sebbene gli elfi tendessero ad apparire tutti uguali agli occhi degli umani, Raistlin ebbe l'impressione di notare fra loro una certa rassomiglianza, soprattutto dovuta al mento affilato e sporgente e agli occhi verdi comuni a tutti e tre. Ancora in giovane età, probabilmente non avevano più di un paio di centinaia di anni, i suoi interlocutori erano armati di spada corta, che si poteva sentir urtare a tratti contro il legno della sedia e probabilmente anche di coltello; dallo scricchiolio di cuoio pareva inoltre evidente che sotto il mantello indossassero una corazza di quel materiale. Raistlin si chiese quale crimine avessero commesso per essere stati condannati all'esilio, una punizione che per gli elfi era peggiore della morte, e d'un tratto ebbe la sensazione di essere in procinto di scoprirlo. Quello dei tre che lo aveva accostato risultò essere il portavoce del gruppo, mentre gli altri due interloquivano molto di rado, cosa che indusse Raistlin a pensare che non parlassero la lingua comune, com'era tipico di molti elfi che non si degnavano di apprendere la lingua degli umani. «Io mi chiamo Liam», si presentò il primo elfo, «e loro sono Micah e Renet. Il tuo nome invece è...». «È di scarso interesse per voi», ribatté Raistlin. «Oh, invece ti assicuro che lo è, signore», ribatté Liam. «A me piace conoscere il nome di ogni uomo con cui mi siedo a bere». «Majere», disse Raistlin. «Majere?» ripeté Liam, accigliandosi. «Mi pare di ricordare che questo fosse il nome di uno degli antichi dèi». «Pare anche a me», annuì Raistlin, sorseggiando il vino, «ma non per questo pretendo di avere una natura divina. Per favore, signore, spiegami in cosa consiste questo lavoro perché la compagnia degli elfi scuri non mi è così gradita da indurmi a voler prolungare il nostro colloquio».
Un bagliore di rabbia apparve nello sguardo dell'elfo chiamato Renet, che serrò i pugni ed accennò ad alzarsi in piedi, soltanto per essere bloccato da alcune secche parole che Liam gli rivolse nella lingua elfica, spingendolo al tempo stesso di nuovo a sedere. Quella reazione fornì a Raistlin la risposta ad un interrogativo che si stava ponendo, in quanto indicava che almeno uno dei suoi altri due interlocutori comprendeva la lingua comune. Dal canto suo, Raistlin aveva un'infarinatura della lingua di Qualinesti che aveva appreso da Tanis, ma non diede a vedere che la comprendeva perché riteneva che se gli elfi avessero creduto di poter parlare liberamente fra loro nella propria lingua, lui avrebbe potuto così apprendere qualche informazione utile. «Non è il momento di essere troppo sensibili, cugino, perché abbiamo bisogno di quest'umano», disse Liam in lingua elfica, poi passò alla lingua comune e aggiunse: «Devi perdonare mio cugino, signore, perché ha un carattere un po' focoso. Credo però che dovresti essere più cortese nei nostri confronti, Majere, dato che ti stiamo facendo un grosso favore». «Se state soltanto cercando compagnia vi suggerisco di parlare con la cameriera», replicò Raistlin, «che sembra in grado di potervi soddisfare. Se invece volete assoldare un mago dovete spiegarmi di che lavoro si tratta». «Allora sei un mago?» domandò Liam, con un astuto sorriso, e quando Raistlin annuì lo squadrò attentamente, aggiungendo: «Sei molto giovane». «Sei stato tu ad avvicinarmi, signore», gli fece notare Raistlin, che cominciava ad irritarsi, «e sapevi che aspetto avevo quando mi hai invitato ad unirmi a voi. A quanto pare, ho sprecato il mio tempo», concluse, accennando ad alzarsi. «D'accordo, d'accordo! Suppongo che la tua età non abbia importanza, a patto che tu sia in grado di fare il lavoro», affermò Liam, poi si protese in avanti e continuò abbassando la voce: «Ecco la nostra proposta: qui ad Haven vive un mago che possiede una bottega di articoli magici. È un umano, come te, e si chiama Lemuel... lo conosci?». In effetti Raistlin conosceva Lemuel, con il quale aveva fatto degli affari in passato, lo considerava un amico e per questo pensò di cercare di scoprire cosa volessero da lui questi elfi in modo da poterlo avvertire. «Chi conosco o non conosco è soltanto affar mio e non vostro», replicò, scrollando le spalle. «Questo tuo mago non mi piace molto, cugino», commentò in elfico Micah, accennando con un pollice in direzione di Raistlin.
«Nessuno ha mai detto che dovesse piacerti», ribatté Liam nella stessa lingua, accigliandosi. «Bevi il tuo vino e tieni la bocca chiusa. Lascia che sia io a parlare». Durante quello scambio, Raistlin fissò i due con aria inespressiva, come se non si fosse reso conto di cosa stavano dicendo. «Dunque», riprese poi Liam, tornando alla lingua comune, «il nostro piano è questo: entreremo di notte nella casa del mago, ruberemo le cose preziose che ci sono nel suo negozio e le venderemo in cambio di acciaio sonante. È a questo punto che entri in gioco tu, perché puoi indicarci cosa è prezioso e cosa non lo è, oltre a dirci dove ottenere un prezzo onesto in cambio della merce. Naturalmente avrai la tua parte». «Signore, si dà il caso che io abbia frequentato la bottega di questo Lemuel, e ti posso garantire subito che state sprecando il vostro tempo», dichiarò Raistlin, in tono sprezzante. «Lui non ha nulla di prezioso e tutta la sua collezione di articoli può valere al massimo venti monete d'acciaio, una cifra che non ripagherebbe di certo la fatica e il rischio». Naturalmente supponeva che questo avrebbe posto fine alla conversazione e che sarebbe stato sufficiente a indurre quei ladri a rinunciare al loro piano, ma decise comunque che per buona misura sarebbe stato bene avvertire Lemuel perché prendesse le debite precauzioni. «E ora, signori, se volete scusarmi...» aggiunse, accennando ad alzarsi. Liam però si protese a trattenerlo per un polso. Sentendo il mago irrigidirsi, l'elfo fu pronto ad abbandonare la presa, ma la sua mano snella e forte continuò a librarsi nelle vicinanze del braccio di Raistlin mentre lui scambiava un'occhiata con i suoi cugini come per chiedere loro il permesso di proseguire, che gli venne accordato con un riluttante cenno del capo. «Hai ragione riguardo al negozio, signore», affermò quindi Liam, «ma forse non sai cosa il mago tiene nascosto nella cantina sottostante la cucina». «Di cosa si tratta?» domandò Raistlin, al quale non risultava che Lemuel avesse qualcosa nascosto in cantina. «Di libri d'incantesimi», rispose Liam. «Un tempo Lemuel ne aveva qualcuno, ma so per certo che li ha venduti tutti». «Non tutti!» lo corresse Liam, con voce ora ridotta ad un sussurro. «Ne ha altri, molti altri, testi antichi che risalgono ai tempi precedenti il Cataclisma, volumi che molti ritengono essere andati perduti. Si tratta di un vero tesoro!».
Poiché Lemuel non gli aveva mai parlato di quei libri e aveva anzi sostenuto di avergli ceduto tutti quelli che suo padre aveva posseduto, Raistlin si sentì tradito. «Come fai a saperlo?» chiese in tono tagliente. «Non sei il solo ad avere dei segreti, signore», sorrise Liam. «In tal caso ti auguro la buona notte». «Oh, nel nome della Regina, diglielo!» esclamò uno dei due cugini di Liam, in elfico. «Stiamo sprecando tempo! Dracart vuole quei libri entro quindici giorni». «Dracart ci ha proibito...». «Allora digli una parte della verità». «Micah ha visitato il negozio fingendo di voler acquistare delle erbe», disse allora Liam, rivolto a Raistlin. «Se conosci questo Lemuel di certo sai che è stupido e ingenuo perfino per gli standard degli umani. Di conseguenza ha lasciato solo Micah nel negozio per andare in giardino, e lui ne ha approfittato per fare un calco in cera della chiave del negozio». «Ma come sapete dell'esistenza dei libri d'incantesimi?» insistette Raistlin. «Questo deve rimanere un nostro segreto», ribadì Liam, con una nota pericolosa nella voce. Intuendo che questo Dracart, chiunque fosse, doveva sapere dell'esistenza dei libri, Raistlin tentò allora con un'altra domanda, formulandola nel modo più innocente possibile. «E cosa pensate di fare con quei volumi preziosi?» domandò. «Venderli, naturalmente... a noi di che utilità potrebbero mai essere?» sorrise Liam, imitato dai cugini. Il suo tono era persuasivo, lo sguardo degli occhi obliqui del tutto sincero. Raistlin rifletté per un momento, perché pur essendo irritato per il fatto che Lemuel non gli avesse parlato dell'esistenza di quei preziosi tomi, d'altro canto non voleva che al mago succedesse qualcosa di male. «Non intendo lasciarmi coinvolgere in un assassinio», disse. «Neppure noi!» annuì con enfasi Liam. «Questo Lemuel ha molti amici nelle terre elfiche, amici legati da vincolo di ospitalità che si sentirebbero obbligati a vendicarne la morte, e poi in questo momento non è in casa perché è andato a Qualinost a trovare i suoi amici. La casa è quindi vuota e un'ora di lavoro ci permetterà di essere ricchi! Quanto a te, potrai prendere la tua parte in oggetti magici oppure in acciaio sonante». Raistlin però non stava pensando al denaro e neppure al fatto che gli elfi
gli stavano senza dubbio mentendo e che avevano di certo intenzione di usarlo per poi eliminarlo non appena fosse stato possibile. No, lui stava pensando a quei libri d'incantesimi... libri antichi, forse gli stessi che erano stati rubati dall'assediata Torre della Grande Stregoneria di Deltigoth o recuperati dall'affondata Torre di Istar. Quale patrimonio magico si celava dentro quei volumi? E perché Lemuel li stava tenendo così nascosti? La risposta gli apparve subito evidente: la sola spiegazione logica era che quelli fossero libri di magia nera. Essendo stato un mago guerriero dell'Ordine delle Vesti Bianche, il padre di Lemuel non aveva potuto distruggere quei volumi perché in base ad una legge inflessibile nessun membro di uno dei tre ordini poteva volontariamente distruggere manufatti magici o tomi d'incantesimi appartenenti ad un altro ordine. Il sapere magico, non importava da dove giungesse, chi lo avesse prodotto o a chi potesse giovare, era prezioso e meritava di essere protetto. Era peraltro possibile che il padre di Lemuel si fosse sentito indotto a nascondere quei libri che a suo parere erano malvagi, perché in questo modo avrebbe potuto al tempo stesso preservarli e impedire che cadessero nelle mani dei suoi nemici. Sulla scia di quelle riflessioni, Raistlin si convinse che era suo dovere indagare sulla cosa, senza contare che se non fosse andato con loro quegli elfi avrebbero di certo trovato qualcun altro che avrebbe potuto danneggiare i libri. Quella fu la spiegazione razionale che lui diede a se stesso, ma nel suo cuore era adesso insorto l'innegabile desiderio di vedere quei libri, di toccarli e di avvertirne il potere, magari perfino di svelarne i segreti... «Quando vi proponete di agire?» domandò. «Lemuel ha lasciato la città due giorni fa, quindi non ci resta più molto tempo. Che ne dici di stanotte? Sei dei nostri?». «Sono dei vostri», annunciò Raistlin. CAPITOLO QUARTO La luna rossa e quella argentea splendevano luminose, e quella notte le loro sfere apparivano vicine, quasi che i due dèi avessero accostato la testa l'uno all'altro per sussurrare e ridere delle follie che contemplavano dall'alto. La loro luce rossa e argento scendeva a illuminare il gruppo di ladri, e Raistlin si trovò così a proiettare davanti a sé due ombre nel camminare lungo la strada: una di esse, sfumata d'argento, tendeva verso destra, mentre quella dall'alone rossastro andava verso sinistra, e nel guardarle lui si
sentì quasi indotto a immaginare che esse indicassero sentieri divergenti se non fosse stato per il fatto che in essenza entrambe erano nere. Raggiunsero la casa di Lemuel seguendo un percorso indiretto che evitava di attraversare il centro della città e che Raistlin non riconobbe; poiché stavano arrivando da una direzione diversa da quella abituale rimase stupito, stupito e a disagio, nel vedere la casa del mago incombergli davanti all'improvviso quando ancora non si aspettava di giungervi. Dall'esterno, la costruzione aveva lo stesso aspetto abbandonato che Raistlin ricordava dalla prima volta che era andato a trovare Lemuel, non c'erano luci che brillassero alle finestre e dall'interno non giungeva il minimo suono proprio come allora, quando Lemuel si era trovato in casa. E se fosse stato a casa anche adesso? Quegli elfi scuri non avrebbero avuto la minima esitazione ad ucciderlo. Tirata fuori la chiave ricavata dal calco Micah la inserì nella serratura mentre gli altri due elfi stavano di guardia, con il mantello spinto indietro per permettere di impugnare in fretta le armi in caso di necessità... cosa che ora permetteva di vedere come fossero ben equipaggiati di daghe e coltelli, le armi proprie dei ladri e degli assassini. Raistlin provava un profondo disgusto nei confronti di questi elfi scuri, disgusto che cominciava ad estendersi anche a se stesso per il fatto di trovarsi lì sotto la luna nel cuore della notte insieme con quei ladri, preparandosi ad entrare in casa di un uomo senza che lui lo sapesse o avesse dato il permesso. Dovrei girarmi e andarmene in questo preciso momento, si disse. Quando però la porta si aprì senza un suono, rivelando l'interno buio e silenzioso, Raistlin esitò soltanto un istante prima di sgusciare dentro. Naturalmente avrebbe potuto continuare a razionalizzare, dicendosi che si era spinto troppo oltre e che adesso gli elfi scuri non gli avrebbero permesso di fuggire vivo, oppure fingendo con se stesso che stava facendo questo nell'interesse di Lemuel, per liberarlo di libri che dovevano costituire un peso per la sua anima, ma adesso che era qui, che si era impegnato fino in fondo, lui rifiutò di fare entrambe le cose, perché già si detestava per il crimine che era sul punto di commettere e non intendeva detestarsi anche per aver mentito a se stesso in merito alle proprie motivazioni: non era venuto fin lì spinto dalla paura o sotto costrizione, e non era lì neppure nel nome della lealtà e dell'amicizia. Era lì per la magia. Sostando nell'oscurità della bottega accanto agli elfi, Raistlin sentì il
cuore che gli martellava nel petto per l'eccitazione e l'anticipazione. «L'umano non può vedere al buio, e noi non vogliamo che inciampi in qualcosa e cada, rompendosi il collo», osservò Liam in elfico. «Almeno non prima che abbiamo finito con lui», convenne Micah, con una trillante e musicale risata che si accordava stranamente alle sue parole minacciose. «Accendete una luce». Uno degli elfi tirò fuori un fiammifero, lo accese e lo accostò ad una candela posata sul bancone, porgendola poi con cortesia a Raistlin che l'accettò con altrettanta grazia. «Da questa parte», disse quindi Micah, precedendoli fuori della bottega. Raistlin evitò di far notare agli elfi che avrebbe potuto creare da solo una luce magica perché preferiva risparmiare energie di cui avrebbe di certo avuto bisogno prima della fine di quella nottata. Lasciata la bottega, i quattro si addentrarono nella cucina, che Raistlin rammentava dalla sua prima visita, poi proseguirono attraverso la dispensa, oltrepassarono una porta ed entrarono in un piccolo magazzino dove c'era un vero e proprio boschetto di scope e di spazzoloni per i pavimenti che gli elfi spostarono in fretta da un lato lavorando con efficienza e senza far rumore. «Non vedo libri di sorta», commentò intanto Raistlin. «È ovvio che tu non ne veda», grugnì Liam, trattenendosi a stento dal dargli dello stolto. «Come ti ho detto sono nascosto in cantina. La botola si trova sotto quel tavolo». Il tavolo in questione era un ceppo per la macellazione, usato per tagliare la carne: fatto di quercia, era chiazzato dal sangue di innumerevoli animali, e Raistlin provò un certo divertimento nel vedere come questo disgustasse gli elfi scuri, che erano pronti ad assassinare degli umani senza la minima esitazione ma che si mostravano nauseati all'idea di una bistecca o di una costoletta d'agnello. Trattenendo il respiro per difendersi da quello che a loro doveva apparire un fetore intollerabile, Micah e Renet spostarono il tavolo da un lato e dopo si pulirono entrambi in fretta le mani con uno straccio. «Quando ce ne andremo rimetteremo ogni cosa come l'abbiamo trovata», affermò intanto Liam. «Questo Lemuel è un ometto stupido e poco osservatore, quindi è probabile che passino anni prima che lui si accorga che i libri sono stati scoperti e rimossi». Raistlin dovette ammettere che era vero: a Lemuel non importava di nul-
la tranne che del suo giardino e lui s'interessava ben poco ai testi di magia a meno che riguardassero le erbe, quindi era probabile che non avesse mai guardato quei libri e stesse soltanto obbedendo all'ingiunzione di suo padre di tenerli nascosti. Quando Raistlin avesse portato i volumi alla Torre di Wayreth, cosa che lui era intenzionato a fare confessando al tempo stesso il suo peccato, il Conclave avrebbe informato Lemuel che erano stati rimossi, e per quanto lo concerneva Raistlin riteneva probabile che si sarebbero limitati ad un semplice rimprovero perché il Conclave non avrebbe accolto con piacere il fatto che quei preziosi volumi fossero rimasti nascosti per tutti quegli anni e dei due crimini questo sarebbe di certo apparso il più grave secondo il suo modo di vedere. La sola speranza di Raistlin era che la condanna ricadesse sulla testa del padre, se era ancora vivo, e non su quella del figlio. Quando Micah tirò la maniglia della botola essa rifiutò di aprirsi, e in un primo tempo l'elfo credette che fosse bloccata con un chiavistello o con la magia; di conseguenza gli elfi controllarono se c'erano dei chiavistelli e Raistlin ricorse ad un semplice incantesimo destinato a individuare la presenza della magia, ma alla fine risultò che non si trattava di nessuna delle due cose ma semplicemente del fatto che il legno si era gonfiato per l'umidità e di conseguenza il battente si era incastrato. A forza di strattoni, gli elfi riuscirono infine ad aprirla e una folata di aria fredda e umida come l'alito presente in una tomba scaturì dall'oscurità sottostante, portando con sé un odore così immondo che gli elfi si ritrassero arricciando il naso e Raistlin si protesse la bocca con la manica della veste. Micah e Renet scoccarono poi occhiate furtive in direzione di Liam, timorosi che lui ordinasse loro di addentrarsi in quella pericolosa oscurità, ma Liam parve a sua volta decisamente a disagio. «Cos'è questo fetore?» chiese, quasi parlando fra sé. «Sembrerebbe che lì sotto sia morto qualcosa perché di certo dei libri di magia, anche se di magia umana, non possono esalare un odore del genere». «Io non ho paura di un cattivo odore», ribatté Raistlin, in tono sprezzante, «quindi andrò a vedere cosa c'è che non va». La cosa non piacque a Micah, che trovò offensiva l'insinuazione da parte di Raistlin che loro avessero paura, anche se la sua indignazione non fu sufficiente a stimolarlo a entrare nella cantina. Mentre gli elfi discutevano della cosa nella loro lingua, Raistlin rimase in disparte ad ascoltarli, divertito della loro arroganza che li portava a non prendere neppure in conside-
razione la possibilità che un umano potesse comprendere la loro lingua. Renet suggerì che Raistlin scendesse da solo, in quanto era possibile che i libri avessero un custode e in quanto umano il mago era sacrificabile. Micah obiettò però che Raistlin era un mago ed avrebbe quindi potuto impadronirsi di parecchi di quei libri e scomparire con essi, percorrendo i corridoi della magia sui quali loro non lo avrebbero potuto seguire. Alla fine fu Liam a trovare la soluzione al problema, in quanto concesse graziosamente a Raistlin di scendere per primo nella cantina ma al tempo stesso si piazzò sulla sommità delle scale armato di arco e con una freccia incoccata. «Cosa significa questo?» domandò Raistlin, fingendosi all'oscuro di tutto. «E per proteggerti», mentì con disinvoltura Liam. «Ho una mira eccellente, e anche se non parlo la lingua della magia la comprendo un poco. Per esempio, sarei in grado di capire se in quella cantina una persona cercasse di usare un incantesimo per scomparire, e dubito che avrebbe il tempo di ultimarlo prima di avere il cuore trapassato da una freccia. Se dovessi trovarti in pericolo, non esitare a chiedere aiuto». «Nelle tue mani mi sento al sicuro», ribatté Raistlin, inchinandosi per nascondere un sorriso sardonico. Sollevando la veste che, lo notava soltanto adesso, aveva un indefinito colore grigio e tenendo alta la candela, Raistlin scese con cautela i gradini, addentrandosi nell'oscurità. La scala risultò lunga, più lunga di quanto lui si sarebbe aspettato, con gradini intagliati nella pietra e un muro dello stesso materiale che si estendeva sulla destra, mentre sulla sinistra la scala era aperta sul vuoto. Spostando di continuo la candela mentre scendeva, Raistlin cercò di illuminare quante più porzioni di soffitto gli era possibile nel tentativo di scorgere qualcosa, qualsiasi cosa, senza però riuscire a vedere niente. Continuando a scendere raggiunse infine un pavimento di terra battuta, e nel guardarsi alle spalle vide che adesso gli elfi apparivano piccoli e distanti, come se fossero su un altro piano dell'esistenza. Da dove si trovava poteva sentire in modo flebile le loro voci: preoccupati perché non riuscivano più a scorgerlo, stavano decidendo di scendere a cercarlo. Spostando di qua e di là la candela, Raistlin cercò di vedere quanto più gli era possibile prima che essi lo raggiungessero, ma la luce fievole non arrivava molto lontano, e in quel momento al posto dei passi sommessi degli elfi lui rimase sorpreso di sentir echeggiare invece un tonfo sordo se-
guito da una violenta corrente d'aria che gli spense la candela e lo lasciò intrappolato in un'oscurità così profonda che avrebbe potuto essere quella del Caos da cui il mondo si era formato. «Liam! Micah!» chiamò, e fu assalito da un senso di allarme quando ottenne come sola risposta l'eco della sua voce. Soltanto gli echi: nessuna risposta da parte degli elfi. Cercando di fare del suo meglio per sentire qualcosa al di sopra del rombo del sangue che gli pervadeva gli orecchi, Raistlin avvertì infine il fievole picchiare di qualcuno che stava martellando di colpi una porta e da questo, unitamente al fatto che gli elfi non gli avessero risposto, dedusse che la botola si era inesplicabilmente chiusa, lasciando lui da un lato e gli elfi dall'altro. Il suo primo impulso dettato dal panico fu quello di usare la magia per fare luce, ma si trattenne prima di ricorrere all'incantesimo perché non doveva agire d'impulso, doveva prima riflettere sulla situazione con la massima calma possibile. Dopo un momento, decise che sarebbe stato meglio rimanere al buio, perché se da un lato una luce gli avrebbe permesso di vedere ciò che c'era là sotto, d'altro canto avrebbe anche rivelato lui a chissà chi o che cosa. Fermo nel buio, continuò a riflettere e la prima idea che gli affiorò nella mente fu che gli elfi lo avessero indotto a scendere laggiù per lasciarlo morire, una supposizione che però accantonò in fretta perché i tre non avevano avuto motivo di volerlo uccidere e avevano invece avuto ogni motivo per voler penetrare nella cantina, dato che ascoltando le loro conversazioni private aveva appreso che non gli avevano mentito in merito all'esistenza dei libri. Inoltre il persistere dei colpi battuti sulla botola era una garanzia che essi desiderassero riaprirla tanto quanto lui. Giunto a questa conclusione prese quindi la precauzione di muoversi il più silenziosamente possibile per addossarsi con la schiena ad una parete: non essendo più in grado di vedere, si affidò quindi agli altri sensi e adesso che era più calmo riuscì a sentire quasi subito il rumore prodotto dal respiro di qualcun altro, segno che non era solo laggiù. Quello non era però il respiro di uno spaventoso guardiano o quello aspro e sbuffante di un orco o ancora il respiro cupo e sibilante di un orchetto. No, si trattava invece di un suono sottile, rauco e un po' rantolante, del genere che lui aveva già udito in precedenza quando si era trovato in presenza di qualche malato o di qualche anziano. Per quanto in certa misura rassicurante, quel suono ebbe l'effetto di de-
molire le sue previsioni in merito a ciò che avrebbe potuto trovare nella cantina. Il suo primo, assurdo pensiero fu di essere in procinto di incontrare il proprietario dei libri, il padre di Lemuel. Forse il vecchio mago aveva scelto di ritirarsi in quella cantina per trascorrere il resto della vita in mezzo ai suoi preziosi libri, oppure Lemuel lo aveva rinchiuso laggiù, cosa peraltro del tutto improbabile se si considerava che suo padre era un rispettato arcimago. Fermo nel buio, Raistlin sentì il proprio timore diminuire progressivamente ad ogni momento che passava senza che gli accadesse nulla di male, e al tempo stesso la sua curiosità andò aumentando nel sentire il protrarsi di quel respiro irregolare e affaticato, infranto di tanto in tanto da un sussulto; a parte quel suono, nella cantina non si sentivano altri rumori, né un tintinnare di cotta di maglia né lo scricchiolare di una corazza di cuoio o il più sordo rumore metallico prodotto da una spada. In alto, intanto, a quanto pareva gli elfi si erano messi a lavorare d'impegno per aprire la botola, e dai suoni pareva che la stessero aggredendo con una scure. D'un tratto echeggiò una voce, molto vicina a lui. «Sei astuto, vero?» commentò, e dopo una pausa aggiunse: «E anche intelligente e audace, considerato che non sono molti gli uomini che oserebbero scendere soli nel buio. Avanti, lascia che ti dia un'occhiata!». La luce improvvisa di una candela rivelò un semplice tavolo di legno, piccolo e rotondo, e due sedie l'una di fronte all'altra una delle quali era occupata da un vecchio. Una sola occhiata fu sufficiente a Raistlin per accertarsi che quello non poteva essere il padre di Lemuel, l'arcimago che aveva combattuto al fianco degli elfi, perché il vecchio indossava una veste nera sul cui sfondo la barba e i capelli bianchi spiccavano pervasi di uno strano alone. Ciò che più colpì Raistlin fu il volto del vecchio, perché come una sorta di aspro panorama esso era segnato da solchi e crepacci che fornivano indizi sulla sua storia passata. Le linee sottili che si diramavano dal naso alla fronte avrebbero potuto in un altro uomo denotare saggezza, mentre in lui denunciavano astuzia; le linee d'intelligenza che circondavano gli occhi neri come quelli di un falco erano intrise della tensione portata da un cinico divertimento, il disprezzo per gli altri esseri umani era facilmente decifrabile nelle labbra sottili e l'ambizione trapelava dalla mascella protesa. Gli occhi enigmatici erano freddi, calcolatori e luminosi. Immobile, Raistlin si rese conto che il volto di quell'uomo era un deserto di desolazione, aspro, letale e crudele, e si sentì infine assalire da una vio-
lenta ondata di paura, pensando che per lui sarebbe stato molto meglio dover combattere contro un orco o un orchetto. Le parole di un semplice incantesimo difensivo che gli erano salite alle labbra si dissolsero in un sospiro e lui s'immaginò nell'atto di pronunciare l'incantesimo, ebbe quasi l'impressione di sentire la risata beffarda del vecchio. Adesso quelle mani grandi, nodose e avide erano vuote, ma un tempo avevano posseduto un enorme potere. Il vecchio parve comprendere i suoi pensieri come se lui avesse parlato ad alta voce e fissò lo sguardo sulla sua persona, anche se essa era ancora ammantata nell'oscurità. «Vieni, Astuto. Vieni, tu che hai abboccato alla mia esca, e siediti a parlare con un vecchio». Scosso da quelle parole relative all'esca, Raistlin continuò a rimanere immobile. «Tanto vale che tu venga a sederti», insistette il vecchio, con un sorriso che distorse le linee che gli segnavano il volto trasformando la derisione in crudeltà, «tanto non andrai da nessuna parte fino a quando io non deciderò che potrai farlo. Sei stato tu a venire da me, ricordalo», aggiunse, sollevando un dito nodoso e puntandolo dritto verso il cuore di Raistlin. Questi considerò le alternative che aveva a disposizione: poteva rimanere in piedi nel buio, che evidentemente non gli offriva molta protezione dato che il vecchio pareva riuscire a vederlo con estrema chiarezza, oppure poteva fare un disperato tentativo di fuggire su per i gradini, che sarebbe probabilmente risultato inutile e lo avrebbe fatto apparire sciocco, o ancora poteva afferrare il coraggio a due mani e fare appello alla dignità che gli rimaneva, affrontando quel vecchio e scoprendo cosa avesse inteso con quello strano riferimento ad un'esca. Un momento più tardi venne avanti, emergendo dall'oscurità per addentrarsi nel cerchio di luce della candela e sedersi di fronte al vecchio, che indugiò ad osservarlo e non si mostrò particolarmente compiaciuto di quello che stava vedendo. «Sei un debole! Un debole moccioso! Ho più forza io nel mio corpo, che è soltanto cenere e polvere, di quanta ne possa vedere nel tuo! A cosa mi puoi servire tu? La mia solita sfortuna! Mi aspettavo un'aquila ed è arrivato un passero. Tuttavia,» continuò il vecchio, con un borbottio che era appena udibile, «vedo della fame in quegli occhi, e se il corpo è fragile questo forse dipende dal fatto che esso alimenta la mente che, lo vedo con chiarezza, ha un disperato bisogno di nutrimento. Forse sono stato frettolo-
so nel giudicare, ma questo lo vedremo presto. Come ti chiami?». Raistlin era stato scaltro e arrogante con gli elfi scuri, ma messo a confronto di quel vecchio fu pronto a rispondere con sottomissione. «Raistlin Majere, arcimago». «Arcimago...» ripeté il vecchio, assaporando quella parola. «Sai, un tempo lo ero, ero il più grande di tutti, al punto che ancora adesso mi temono, anche se non abbastanza. Quanti anni hai?». «Ne ho appena compiuti ventuno». «Giovane, troppo giovane per sottometterti alla Prova. Mi sorprende che Par-Salian te lo abbia permesso, ma è evidente che è disperato. Come credi di essertela cavata finora, Raistlin Majere?» chiese il vecchio, con il sorriso più orribile che Raistlin avesse mai visto. «Mi dispiace, signore, ma non so di cosa stai parlando. Cosa significa, come me la sono cavata? Io...». D'un tratto Raistlin trattenne il respiro ed ebbe la sensazione di svegliarsi da uno di quei sogni che sono più concreti della realtà... solo che non si era trattato di un sogno. Si stava sottoponendo alla Prova, questa era la Prova. Gli elfi, la locanda, gli eventi, le situazioni erano tutti inventati. Fissando la fiamma della candela ripensò freneticamente alle proprie azioni chiedendosi, proprio come aveva fatto il vecchio, come se la fosse cavata. Il suo interlocutore scoppiò intanto in una risata simile al gorgogliare dell'acqua sotto il ghiaccio. «Non mi stanco mai di questa reazione, che si verifica ogni volta! È uno dei pochi piaceri che mi rimangono. Sì, giovane mago, ti stai sottoponendo alla Prova e sei proprio nel bel mezzo di essa. No, io non ne faccio parte... o forse sarebbe più esatto dire che non ne faccio parte ufficialmente». «Hai accennato ad un'esca, e hai detto che sono venuto da te», osservò Raistlin, facendo appello al proprio coraggio e serrando le mani in modo che il loro tremito non tradisse la sua paura. «Sì, sei venuto da me in virtù delle tue scelte e delle tue decisioni», annuì il vecchio. «Non capisco», protestò Raistlin. «Alcuni maghi», fu pronto a spiegare il vecchio, «avrebbero dato ascolto all'avvertimento dell'arrotino e non sarebbero mai entrati in una locanda malfamata. Altri, se ci fossero entrati, avrebbero rifiutato di avere a che fare in qualsiasi modo con degli elfi scuri. Tu invece sei andato alla locanda, hai parlato con gli elfi e ti sei associato prontamente al loro piano disone-
sto... pur tenendo presente che l'uomo che stavi per derubare era un amico», precisò, sollevando un dito nodoso. «Quello che dici è vero», ammise Raistlin, perché riteneva inutile negare e perché non si vergognava particolarmente delle proprie azioni. Secondo il suo modo di vedere, qualsiasi mago, tranne forse la più candida fra le Vesti Bianche, al suo posto avrebbe agito nello stesso modo. «Volevo salvare i libri d'incantesimi, e avevo intenzione di consegnarli al Conclave». Per un momento rimase in silenzio, poi aggiunse: «Quei libri non esistono, vero?». «No, ci sono soltanto io», confermò il vecchio. «E tu chi sei?» volle sapere Raistlin. «Il mio nome non ha importanza, non ancora». «Allora dimmi cosa vuoi da me». «Un piccolo favore, nulla di più», rispose il vecchio, abbozzando un gesto di deprecazione con le dita nodose. Questa volta fu Raistlin a sorridere, con amarezza. «Chiedo scusa, signore, ma di certo devi essere consapevole che poiché mi sto sottoponendo alla Prova il mio rango è di livello minimo, mentre tu sembri essere, o essere stato, un mago dotato di un'abilità e di un potere immensi. Di conseguenza io non ho nulla che tu possa volere». «Ah, invece sì», ribatté il vecchio, con un bagliore avido nello sguardo, così intenso da far apparire per contrasto fievole la fiamma della candela. «Tu sei vivo». «Per il momento», ribatté Raistlin, in tono asciutto, «ma forse non per molto ancora. Gli elfi scuri non mi crederanno quando dirò loro che quaggiù non ci sono antichi libri d'incantesimi, penseranno che io li abbia sottratti con la magia per il mio uso personale, e non penso che ci siano altre vie d'uscita da questa cantina», aggiunse, guardandosi intorno. «C'è una via, la mia», rispose il vecchio. «Hai ragione, gli elfi scuri ti uccideranno perché non sono i ladri che fingono di essere ma maghi di alto rango, dotati di una magia estremamente potente». Raistlin si rese conto che avrebbe dovuto capirlo all'istante. «Non starai rinunciando, vero?» domandò il vecchio, con un sogghigno. «Certamente no», ribatté Raistlin, sollevando lo sguardo a incontrare con fermezza il suo. «Stavo riflettendo». «Rifletti quanto vuoi, giovane mago. Dovrai pensare molto intensamente per riuscire ad avere la meglio essendo tre contro uno... o per meglio dire dodici contro uno, dato che ciascuno di quegli elfi scuri è quattro volte più
potente di te». «Questa è la Prova, è un'illusione», affermò Raistlin. «Certo, alcuni maghi muoiono durante la prova, ma per un loro fallimento o errore. Io non ho sbagliato nulla, quindi perché il Conclave dovrebbe volermi uccidere?». «Hai parlato con me», gli fece notare in tono sommesso il vecchio. «Loro ne sono consapevoli e questo potrebbe segnare la tua fine». «Chi sei dunque, perché ti temano tanto?» chiese ancora Raistlin, questa volta con impazienza. «Il mio nome è Fistandantilus. Forse hai sentito parlare di me». «Sì», annuì Raistlin. Molto tempo prima, negli anni turbolenti e disperati che erano seguiti al Cataclisma, un esercito di nani delle colline e di umani aveva assediato Thorbardin, la grande città sotterranea dei nani delle montagne. A capo di quest'esercito c'era l'uomo che lo aveva radunato con l'intento di usarlo per realizzare le proprie sfrenate ambizioni, un mago dell'Ordine delle Vesti Nere dotato di immenso potere, un rinnegato che stava sfidando apertamente il Conclave. Il suo nome era Fistandantilus. Quel mago aveva costruito una fortezza magica nota come Zhaman e da essa aveva sferrato i propri attacchi contro la fortezza dei nani, combattendo contro di essi con la magia mentre il suo esercito li combatteva con l'ascia e con la spada. Molte migliaia di vite erano state spente sulle pianure o nei passi montani, ma alla fine l'esercito del mago aveva ceduto e la vittoria era andata ai nani di Thorbardin. Secondo i menestrelli, Fistandantilus aveva elaborato un ultimo incantesimo dal potere catastrofico che avrebbe spaccato la montagna e aperto Thorbardin alla conquista. Purtroppo, l'incantesimo si era rivelato troppo potente, Fistandantilus non era riuscito a controllarlo ed esso aveva devastato invece la fortezza di Zhaman che era crollata su se stessa ed era nota adesso come «il Teschio». Migliaia di uomini erano morti nell'esplosione, compreso il mago che aveva pronunciato l'incantesimo. Questo era ciò che cantavano i menestrelli e che la maggior parte della gente credeva, ma Raistlin aveva sempre supposto che la storia non si limitasse soltanto a questo. Fistandantilus aveva acquisito il suo potere nell'arco di centinaia di anni: correva infatti voce che pur essendo un umano e non un elfo, lui avesse trovato il modo di ingannare la Morte e di prolungare la propria vita assassinando i suoi giovani apprendisti e prosciugando la loro forza vitale per mezzo di una magica pietra insanguinata. Il mago non aveva però potuto salvarsi dagli effetti devastanti della propria magia,
o almeno questo era ciò che il mondo credeva, mentre a quanto pareva Fistandantilus era riuscito ancora una volta a ingannare la Morte, anche se non sembrava che avrebbe continuato a farlo ancora a lungo. «Fistandantilus, il più grande dei maghi», affermò Raistlin. «Il mago più potente che sia mai vissuto». «Infatti», annuì il vecchio. «E adesso stai morendo», osservò Raistlin. Quell'osservazione non piacque a Fistandantilus, che contrasse le sopracciglia ed espresse ira e indignazione in ogni linea del volto. Ogni respiro era però per lui una lotta e stava consumando una quantità enorme di energia magica semplicemente per mantenere unita quella forma, quindi di lì a poco la sua furia smise di ribollire come una pentola sotto la quale fosse stato spento il fuoco. «Quello che dici è vero: io sto morendo e sono prossimo alla fine», borbottò, frustrato e impotente. «Loro affermano che il mio intento era quello di conquistare Thorbardin», aggiunse, con un sorriso sprezzante. «Che idiozia! Io ho giocato per conquistare una posta molto più elevata di una puzzolente e sotterranea tana di nani: il mio piano consisteva nell'entrare nell'Abisso per spodestare la Regina delle Tenebre e sottrarle il suo trono. Volevo diventare un dio!». Raistlin ascoltò quelle parole con meraviglia, stupore... e comprensione. «Sotto il Teschio c'è, o forse dovrei dire c'era, dato che adesso esso è distrutto, un modo per penetrare nell'Abisso, quel crudele mondo ultraterreno», proseguì intanto Fistandantilus, con un'espressione estremamente astuta. «Takhisis sapeva di me, mi temeva ed ha complottato per la mia fine. Certo, il mio corpo è morto nell'esplosione, ma io avevo già programmato tutto perché la mia anima si ritirasse su un altro piano dell'esistenza e lei non ha potuto uccidermi perché non è stata in grado di raggiungermi. Tuttavia, non cessa di provarci e da secoli sono sotto un assalto costante. Adesso mi resta poca energia, perché la forza vitale di cui disponevo è quasi svanita». «E così hai trovato il modo di inserirti nella Prova e di attirare nella tua rete giovani maghi come me», concluse Raistlin. «Immagino di non essere il primo... che ne è stato di quanti mi hanno preceduto?». «Sono morti», rispose Fistandantilus, scrollando le spalle. «Te l'ho detto, hanno parlato con me, e il Conclave teme che io possa entrare nel corpo di un giovane mago, assumerne il controllo e tornare nel mondo per completare ciò che ho cominciato. Loro non possono permetterlo, quindi ogni vol-
ta provvedono ad eliminare la possibile minaccia». «Non ti credo», dichiarò Raistlin, fissando con fermezza quel vecchio morente. «I maghi sono morti, ma non è stato il Conclave ad ucciderli, sei stato tu. È stato così che sei riuscito a vivere tanto a lungo... sempre che questa la si possa chiamare vita». «Comunque la si chiami, è preferibile al grande nulla che vedo protendersi verso di me», ribatté Fistandantilus, con un orribile sorriso. «Lo stesso nulla che si protende verso di te, giovane mago». «A quanto pare non ho molte alternative», commentò in tono amaro Raistlin. «Posso morire per mano di quei tre maghi oppure essere prosciugato da un morto vivente». «Sei stato tu a decidere di venire qui», gli ricordò Fistandantilus. Raistlin distolse gli occhi, rifiutando di permettere allo sguardo penetrante di quel vecchio di sondargli l'anima, e mentre fissava il legno del tavolo ricordò d'un tratto il tavolo che c'era nel laboratorio del suo maestro, quello sul quale da bambino lui aveva scritto con un così grande senso di trionfo le parole Io, Mago. Rifletté quindi sulle alternative a cui si trovava di fronte, pensò agli elfi scuri, chiedendosi quanto fosse potente la loro magia e se ciò che il vecchio aveva detto sul loro conto fosse vero o fosse soltanto una menzogna intesa a intrappolarlo, poi si interrogò sulla propria capacità di sopravvivere e si domandò se davvero il Conclave lo avrebbe ucciso soltanto perché aveva parlato con Fistandantilus. «Accetto la tua offerta», disse infine, sollevando lo sguardo a incontrare quello penetrante del vecchio. «Pensavo che lo avresti fatto», replicò Fistandantilus, schiudendo le labbra sottili in un sorriso che pareva quello di un teschio. «Mostrami il tuo libro d'incantesimi». CAPITOLO QUINTO Fermo in fondo alle scale, Raistlin stava aspettando che il vecchio liberasse la botola dall'incantesimo che la teneva chiusa e al tempo stesso si stava chiedendo perché non provasse paura ma soltanto un tagliente e doloroso senso di ansia. Gli elfi avevano intanto cessato i loro assalti contro la botola perché dovevano ormai aver capito che essa era bloccata con la magia, e per un momento Raistlin si concesse di sperare che se ne fossero andati, ma l'istante successivo scoppiò a ridere della propria stupidità: questa era la sua Prova,
e di certo gli sarebbe stato richiesto di dimostrare la propria abilità magica in un combattimento. Adesso! avvertì una voce nella sua mente. Fistandantilus era scomparso, abbandonando la forma fisica illusoria che aveva evocato esclusivamente a beneficio di Raistlin e che adesso non era più necessaria. D'un tratto la botola della cantina si spalancò con violenza e ricadde con un tonfo fragoroso sul pavimento ricoperto di lastre di pietra. Confidando che gli elfi venissero colti alla sprovvista dall'improvviso aprirsi della porta, Raistlin aveva avuto intenzione di sfruttare quei loro primi istanti di sconcerto con lo sferrare il proprio attacco, ma con suo sgomento scoprì che essi stavano aspettando proprio un evento del genere ed erano pronti ad accoglierlo. Una voce elfica pronunciò una parola magica e un globo di luce apparve a illuminare il volto di Liam per poi saettare attraverso l'aria con una scia di scintille simile alla coda di una cometa nel momento stesso in cui la botola si aprì. Raistlin non era preparato a quell'attacco perché non aveva immaginato che gli elfi scuri sarebbero stati tanto rapidi nel reagire e adesso non aveva via di fuga perché la sfera di fuoco avrebbe pervaso la stanza di fiamme letali. Istintivamente, sollevò di scatto il braccio sinistro per proteggersi il volto, pur sapendo che non esisteva modo di difendersi da quell'assalto. Poi la sfera di fuoco esplose sopra e intorno a lui, ma non fece danno e i suoi effetti si dissiparono in fretta, riversandogli addosso una pioggia di scintille e di gocce di fuoco che gli toccarono le mani e il volto stupefatto per poi svanire in uno sfrigolio, come se stessero cadendo nell'acqua. «Il tuo incantesimo! Presto!» ordinò la voce. Intanto Raistlin si era già ripreso dallo stupore e dalla paura, quindi l'incantesimo gli salì immediato alle labbra mentre la mano eseguiva i movimenti richiesti, tracciando nell'aria il simbolo del sole senza più badare alle scintille della sfera di fuoco che ancora sfrigolavano ai suoi piedi sul pavimento della cantina. Mentre muoveva la mano notò che la sua pelle aveva una sorta di riflesso dorato ma non si concesse di riflettere sulla cosa perché non osava perdere la concentrazione. Tracciato il simbolo pronunciò le parole magiche che lo accompagnavano ed esso emise un intenso bagliore, segno che le parole erano state pronunciate nel modo giusto; allargando le dita della mano destra ancora protese, Raistlin tracciò quindi cinque minuscoli proiettili di fuoco, una risposta insignificante rispetto alle armi letali di cui disponevano i tre potenti
arcimaghi, la cui risata non lo sorprese minimamente perché di certo agli elfi doveva sembrare che lui stesse cercando di combatterli scagliando loro contro fuochi d'artificio degli gnomi. Trattenendo il respiro, pregando che il vecchio mantenesse la sua promessa e pregando gli dèi della magia perché lo costringessero a farlo, Raistlin attese pieno di tensione... e un momento più tardi ebbe la profonda, immensa soddisfazione di sentire la risata degli elfi spegnersi in un coro di sussulti d'allarme e di stupore. Le cinque scie di fuoco erano infatti diventate dapprima dieci, poi venti e non erano più minuscole fiammelle ma crepitanti stelle incandescenti che stavano saettando su per le scale, dirette con assoluta precisione verso i suoi nemici. Adesso erano gli elfi scuri a non avere via di fuga o incantesimi abbastanza potenti per proteggersi: le stelle letali si abbatterono su di loro con una violenza esplosiva che fece perdere l'equilibrio a Raistlin che pure si trovava ad una certa distanza dal centro dello scoppio, poi l'ondata di calore prodotto dalle fiamme si estese fino alla cantina e portò con sé un odore di carne che bruciava. Non ci furono urla, perché nessuno dei tre aveva avuto il tempo di emetterne. Rialzandosi, Raistlin si ripulì le mani dalla terra, notando ancora una volta lo strano colore dorato della pelle, e d'un tratto si rese conto che quella patina dorata era ciò che lo aveva protetto dalla sfera di fuoco: essa era come l'armatura di un cavaliere ma era molto più efficace, perché un cavaliere avvolto in cotta di maglia e armatura di piastre metalliche sarebbe fritto dentro di essa e sarebbe morto se la sfera di fuoco lo avesse colpito, mentre lui non aveva riportato danni. «Se è vero», si disse, «se questa è un'armatura o uno scudo magico di qualche tipo, si tratta di una difesa che in futuro potrebbe essermi di considerevole aiuto». Poiché il magazzino in cima alle scale era in fiamme, attese che l'incendio si fosse spento, usando quel tempo per ritrovare le forze e per far affiorare nella mente l'incantesimo successivo. Premendosi la manica della veste contro il naso per non sentire il fetore della carne bruciata degli elfi, cominciò quindi a salire le scale, pronto ad affrontare il nemico successivo. Due corpi giacevano alla sommità delle scale, ridotti a due ammassi neri così bruciati da essere irriconoscibili, mentre il terzo non era visibile e pareva essersi vaporizzato. Nel formulare quei pensieri, Raistlin ricordò a se
stesso che quella era tutta un'illusione e che forse il Conclave aveva solo commesso un errore di calcolo. Emergendo dalla cantina sollevò la veste per scavalcare uno dei due corpi e si guardò rapidamente intorno nel magazzino: adesso il tavolo era un mucchio di cenere, gli spazzoloni e le scope erano volute di fumo, e l'immagine di Fistandantilus si librava in mezzo a quella devastazione. Ora la sua forma illusoria era sottile e trasparente, quasi impossibile a distinguersi dal fumo, e pareva che un soffio deciso potesse spazzarlo via... constatazione, questa, che portò un sorriso sulle labbra di Raistlin mentre il vecchio protendeva il braccio coperto dalla manica della veste nera da cui emergevano dita ora avvizzite e scheletriche, poco più che un mucchietto di ossa. «È il momento che io prenda il mio compenso», disse, stendendo la mano verso il cuore di Raistlin. Questi però indietreggiò di un passo e sollevò a sua volta la mano in un gesto protettivo, con il palmo in fuori. «Ti ringrazio per la tua assistenza, arcimago, ma a partire da ora devi considerare annullata la mia parte dell'accordo», replicò. «Che cosa hai detto?». Quelle parole, sibilanti e letali, si avvilupparono intorno al cervello di Raistlin come una vipera in un cesto, poi il serpente sollevò gli occhi crudeli, maligni e spietati, fissandolo. La determinazione di Raistlin vacillò, il suo coraggio venne meno quando lui sentì l'ira del vecchio crepitargli intorno con fiamme più intense di quelle della sfera di fuoco. Ho ucciso gli elfi, ricordò però a se stesso il giovane mago, aggrappandosi al poco coraggio che gli rimaneva. L'incantesimo apparteneva a Fistandantilus, ma il potere che permeava l'incantesimo era il mio. Lui è debole e svuotato, non è una minaccia. «Ho detto che il nostro accordo è annullato», ripeté quindi. «Torna al piano da cui sei venuto e aspetta la prossima vittima». «Infrangi la tua promessa!» ringhiò Fistandantilus. «Non hai dunque onore?». «Sono forse un Cavaliere di Solamnia per dovermi preoccupare dell'onore?» ribatte Raistlin, e poi aggiunse. «E a questo proposito, che onore c'è nell'attirare mosche ignare nella tua ragnatela per poi catturarle e divorarle? Se non mi sbaglio, il tuo stesso incantesimo mi protegge da qualsiasi magia che tu possa cercare di usare, quindi questa volta la mosca ti sfuggi-
rà». Inchinatosi all'immagine quasi indistinta del vecchio, Raistlin le volse deliberatamente le spalle e si avviò verso la porta, consapevole che se fosse riuscito a varcarla e a lasciare quella stanza di morte sarebbe stato al sicuro. La strada non era molta, e anche se una parte di lui continuava ad aspettarsi di sentire il tocco di quella mano spaventosa, la sua sicurezza andò crescendo ad ogni passo che lo portava verso l'uscita. Infine raggiunse la porta, e alle sue spalle risuonò ancora la voce del vecchio, che pareva venire da così lontano da essere a stento udibile. «Sei forte e sei astuto, l'armatura che ti protegge è una tua creazione e non opera mia. La tua Prova non è però ancora conclusa, altre lotte ti attendono: se la tua armatura è fatta di vero acciaio sopravviverai, ma se è fatta di scarti si creperà al primo colpo e quando questo succederà io sguscerò al di là di essa per prendere quello che è mio». Poiché una semplice voce non poteva fargli del male, Raistlin non le prestò attenzione e continuò a camminare fino ad oltrepassare la porta, mentre la voce si dissolveva nell'aria fumosa. CAPITOLO SESTO Raistlin oltrepassò la porta del magazzino di Lemuel e si venne a trovare in un buio corridoio fatto di pietra, cosa che inizialmente lo lasciò sorpreso e sconcertato perché avrebbe dovuto invece sbucare nella cucina del mago; dopo un momento, ricordò però che la casa di Lemuel non era mai esistita davvero se non nella sua mente e in quella di coloro che ne avevano evocato l'immagine. Una luce brillava sulla vicina parete, dove un sostegno che aveva la forma di una mano d'argento reggeva un globo di luce bianca simile alla luce di Solinari; poco più avanti una mano d'ottone reggeva una sfera di luce rossa e più oltre una mano intagliata nell'ebano pareva non contenere nulla... almeno per quello che gli occhi di Raistlin erano in grado di vedere, dato che i maghi votati a Nuitari ne avrebbero scorto con chiarezza il contenuto. Dalla vista di quelle luci Raistlin dedusse di essere di nuovo nella Torre di Wayreth, intento a camminare in uno dei molti corridoi di quel magico edificio: evidentemente Fistandantilus gli aveva mentito, la sua Prova era finita e adesso doveva soltanto trovare la via per tornare nella Sala dei Maghi e ricevere le loro congratulazioni.
Poi un alito d'aria gli sfiorò il collo, e nel momento stesso in cui lui accennava a girarsi una fitta bruciante e la sensazione agghiacciante del metallo che strisciava contro l'osso, un suo osso, gli strapparono un sussulto d'agonia. «Questo è per Micah e per Renet!» sibilò la voce di Liam, poi il suo braccio sottile ma pieno di forza cercò di circondare il collo di Raistlin e una lama scintillò sotto la luce. L'elfo aveva avuto intenzione di sferrare un solo colpo letale che recidesse la spina dorsale di Raistlin, ma il lieve alito di vento sul collo aveva messo in guardia il ragazzo che, nel voltarsi aveva fatto sì che la lama mancasse il bersaglio e gli scivolasse lungo le costole; adesso Liam era deciso a ripetere il tentativo, puntando questa volta alla gola. In preda al panico, Raistlin non riuscì a trovare le parole di nessun incantesimo, e poiché non aveva con sé armi di sorta tranne la propria magia si trovò ridotto a lottare come un animale, con le unghie e con i denti, consapevole che la paura era adesso la sua arma più potente, se non avesse lasciato che essa lo debilitasse. Ricordando vagamente le cose che aveva visto fare a suo fratello e a Sturm quando si esercitavano nel combattimento corpo a corpo, serrò le mani l'una nell'altra e conficcò il gomito destro nello sterno di Liam con tutta la forza che il suo corpo pervaso di adrenalina riuscì a chiamare a raccolta. L'elfo scuro emise un grugnito e indietreggiò, non ferito ma a corto di fiato, poi tornò a scagliarsi in avanti con il coltello che gli scintillava in pugno. Frenetico e terrorizzato, Raistlin gli afferrò la mano che stringeva l'arma e i due presero a lottare, con Liam che cercava di trafiggere il giovane mago e quest'ultimo che lottava per strappare il coltello alla presa dell'elfo. Lottando si spostarono barcollando lungo lo stretto corridoio e intanto Raistlin sentì che le forze cominciavano a venirgli meno. Consapevole che non avrebbe potuto portate avanti a lungo questa lotta letale, concentrò tutte le proprie speranze su una singola mossa e usò le energie che gli restavano per sbattere contro la pietra la mano in cui l'elfo stringeva il coltello. Ci fu un crepitare di ossa che si rompevano accompagnato da un sussulto di dolore, ma Liam continuò a stringere tenacemente l'arma in pugno. Sentendosi assalire nuovamente dal panico, Raistlin fece sbattere di nuovo la mano di Liam contro la pietra e questa volta il sangue che rendeva scivolosa l'impugnatura del coltello impedì all'elfo di mantenere la presa, con il risultato che l'arma gli sfuggì dalla mano e scivolò al suolo. Immediatamente l'elfo scuro scattò in avanti per cercare di recuperarla,
ma parve che la penombra gli impedisse di individuarla perché si gettò carponi e cominciò a cercare sul pavimento. Intanto Raistlin vide la lama del coltello emettere un bagliore rossastro sotto la luce rossa dedicata a Lunitari e scattò verso di essa contemporaneamente a Liam che nel frattempo aveva scorto a sua volta il bagliore: sfilando il coltello da sotto le dita protese dell'avversario, Raistlin lo piantò fino all'elsa nello stomaco dell'elfo, che lanciò un urlo e si piegò su se stesso. Raistlin liberò poi la lama con uno strattone e Liam cadde in ginocchio con la mano che premeva sullo stomaco e il sangue che gli colava dalla bocca, crollando infine morto ai piedi di Raistlin. Ansimando, con ogni respiro che gli causava una sofferenza intollerabile, Raistlin si volse per fuggire ma non riuscì a indurre le gambe a muoversi e di lì a poco crollò sul pavimento di pietra, avvertendo al tempo stesso una sensazione bruciante che partiva dalla ferita e gli correva lungo tutte le terminazioni nervose, causandogli un'ondata di nausea: rendendosi conto con un senso di amara disperazione che la lama del coltello dell'elfo doveva essere stata avvelenata, pensò che in fin dei conti Liam avrebbe avuto comunque la sua vendetta. Poi la luce di Solinari e quella di Lunitari oscillarono davanti ai suoi occhi e si congiunsero sfocate prima che l'oscurità lo avviluppasse. Al risveglio, Raistlin si trovò nello stesso corridoio, dove il corpo di Liam giaceva ancora accanto a lui con la mano protesa a sfiorarlo: constatando che il cadavere era ancora caldo, Raistlin si rese conto di non essere rimasto a lungo privo di sensi. Ferito e debole, si trascinò lontano dall'elfo morto e si addentrò in un corridoio in ombra, accasciandosi contro una parete. Assalito da una fitta di dolore che gli trafisse il ventre si serrò quindi lo stomaco con le braccia e vomitò a lungo, giacendo poi abbandonato sul pavimento di pietra in attesa di morire. «Perché mi state facendo questo?», domandò, assalito da un nuovo senso di malessere. Conosceva la risposta: era perché aveva osato trattare con un mago tanto potente che aveva pensato un tempo di spodestare Takhisis, così potente che ancora adesso il Conclave lo temeva sebbene fosse ormai morto. Se la tua armatura è fatta di scarti si creperà al primo colpo e quando questo succederà io sguscerò al di là di essa per prendere quello che è mio.
«Se vuoi prenderti il poco che mi rimane sei il benvenuto, arcimago!» mormorò Raistlin, quasi ridendo, poi giacque sul pavimento con la guancia premuta contro la pietra. Voleva sopravvivere? La Prova aveva esatto da lui un prezzo terribile e forse non si sarebbe mai più ripreso perché la sua salute era sempre stata precaria e se pure fosse sopravvissuto adesso il suo corpo sarebbe stato come un cristallo infranto e tenuto insieme soltanto dalla sua forza di volontà. Come sarebbe vissuto? Chi si sarebbe preso cura di lui? Caramon. Caramon avrebbe avuto cura del suo debole gemello. Raistlin fissò la luce rossa di Lunitari e si rese conto di non riuscire a immaginare una vita del genere, in cui avesse dovuto dipendere in tutto dal fratello: di certo la morte era preferibile a questo. Mentre formulava quel pensiero, nell'oscurità del corridoio si materializzò d'un tratto una figura illuminata dalla luce argentea di Solinari. «Ci siamo,» si disse Raistlin. «È il confronto finale, quello a cui non sopravviverò». Sentendosi quasi grato che i maghi avessero deciso di porre fine alle sue sofferenze giacque immobile e impotente, osservando l'ombra scura farsi sempre più vicina. Infine essa gli si arrestò accanto e quando si chinò su di lui, ne percepì la presenza viva, ne sentì il respiro, e involontariamente chiuse gli occhi. «Raist?» chiamò una voce, e dita gentili toccarono il suo corpo febbricitante. «Raist! Cosa ti hanno fatto?» singhiozzò poi la voce. «Caramon», disse Raistlin, sentendo la gola che gli doleva per il fumo e l'attacco di vomito. «Ti porterò via di qui», dichiarò intanto suo fratello. Braccia forti scivolarono sotto il corpo di Raistlin, che avvertì il familiare odore di sudore e di cuoio, sentì lo scricchiolare dell'armatura, il tintinnare della spada contro la pietra. «No!» protestò, cercando di liberarsi e premendo con la mano fragile contro il petto massiccio del fratello. «Lasciami, Caramon! La mia Prova non è finita! Lasciami!» insistette, con voce rauca e quasi inintelligibile, poi fu assalito da una tosse devastante. «Nulla vale tutto questo, Raist», replicò Caramon, sollevandolo e tenendolo stretto fra le braccia. «Riposa». Quando si avviarono, passando sotto la mano d'argento che reggeva la luce bianca, Raistlin vide che Caramon aveva le guance bagnate di lacrime.
«Non mi permetteranno di andarmene, Caramon!» tentò ancora, lottando per respirare. «Cercheranno di fermarci. Ti stai soltanto mettendo in pericolo anche tu!». «Che vengano!», ribatté Caramon, cupo, procedendo con passo calmo e deciso lungo il corridoio. Impotente, Raistlin si accasciò con la testa contro la sua spalla e per un istante si concesse di trarre conforto dalla forza del fratello; il momento successivo, però, imprecò contro di lui e contro la propria debolezza. «Stolto», disse in silenzio fra sé, perché non aveva la forza di parlare ad alta voce. «Grande stolto cocciuto! Adesso moriremo entrambi, e naturalmente tu morirai proteggendomi. Anche nella morte ti sono debitore...». «Ah!». Raistlin udì e percepì il brusco sussulto che percorse il corpo del fratello e mentre questi rallentava il passo sollevò la testa, vedendo fluttuare in fondo al corridoio la testa priva di corpo di un vecchio, e sentendo una voce sussurrante. Se la tua armatura è fatta di scorie... Un rombo profondo echeggiò nel petto di Caramon... il suo grido di battaglia. «La mia magia può distruggerlo!» protestò Raistlin, quando Caramon lo adagiò con delicatezza sul pavimento di pietra. Era una menzogna, perché lui non aveva più neppure le forze necessarie a tirare fuori un coniglio da un cappello, ma non voleva che Caramon combattesse le sue battaglie, soprattutto contro quel vecchio: era stato lui a fare un patto ed era lui che doveva pagare. «Togliti di mezzo, Caramon!». Invece di rispondere Caramon avanzò verso Fistandantilus, bloccando la visuale al fratello. Puntellando le mani contro la parete Raistlin si appoggiò alla pietra e riuscì a issarsi a sedere: stava per usare le forze che gli restavano in un ultimo grido, nella speranza di indurre suo fratello ad allontanarsi quando la voce gli si spense in gola e il grido si trasformò in un rantolo d'incredulità. Caramon aveva lasciato cadere le armi e adesso al posto della spada impugnava un'asta d'ambra, al posto dello scudo un pezzo di pelliccia. Sfregando insieme i due oggetti, lui pronunciò alcune parole magiche e dall'ambra scaturì un lampo che sfrigolò lungo il corridoio e colpì la testa di Fistandantilus. Ridendo, la testa si scagliò contro Caramon, che non sussultò neppure e tenne le mani sollevate, pronunciando di nuovo le parole magiche e otte-
nendo un altro fulmine. Questa volta la testa del vecchio esplose in una vampata di fuoco azzurro e un flebile grido d'ira e di frustrazione echeggiò da un altro piano esistenziale per poi spegnersi nel silenzio. Adesso il corridoio era vuoto. «Ora andiamo via di qui», affermò con soddisfazione Caramon, riponendo l'asta e la pelliccia in una sacca che portava alla cintura. «La porta è poco più avanti». «Come... come hai fatto?» annaspò Raistlin, accasciandosi contro la parete. «Fatto cosa, Raist?» domandò Caramon, immobilizzandosi, allarmato dall'espressione sconvolta e frenetica del fratello. «La magia!» gridò con rabbia Raistlin. «La magia!». «Oh, quello», replicò Caramon, con un sorriso timido. «Sono sempre stato capace di farlo. In genere», proseguì in tono d'un tratto solenne e severo, «non ho bisogno della magia perché ho la spada e tutto il resto, ma adesso sei ferito in modo veramente grave e non volevo perdere tempo combattendo contro quel cadavere vivente. Non ti preoccupare, Raist, la magia continuerà ad essere la tua specialità. Come ho detto, in genere non ne ho bisogno». «Questo non è possibile», si disse Raistlin, lottando per pensare con chiarezza. «Caramon non può aver acquisito in pochi momenti ciò che a me ha richiesto anni di studio. Non ha senso. C'è qualcosa che non è come sembra... devo riflettere, dannazione! Devo riflettere!». Ad annebbiargli la mente non era il dolore fisico ma l'antica sofferenza interiore che aveva ripreso ad artigliarlo con unghie avvelenate: Caramon il forte, l'allegro, il buono, il gentile; Caramon, l'amico di tutti. Lui non era come Raistlin... il malaticcio, l'Astuto. «La mia magia è sempre stata la sola cosa che avessi», disse, parlando con chiarezza e pensando con chiarezza per la prima volta nella sua vita. «E adesso ce l'hai anche tu». Appoggiandosi alla parete Raistlin sollevò entrambe le mani, congiunse i pollici e cominciò a pronunciare le parole che avrebbero evocato la magia. «Raist!» esclamò Caramon, indietreggiando. «Raist, cosa stai facendo? Suvvia, hai bisogno di me! Mi prenderò cura di te come ho sempre fatto. Raist, io sono tuo fratello!». «Non ho fratelli!».
Sotto lo strato di roccia dura e fredda la gelosia prese a gorgogliare e a ribollire, poi un tremito spaccò la roccia e la lava fusa della gelosia si riversò nel corpo di Raistlin, scaturendo come fiamma dalle sue mani... un'ondata di fuoco che avviluppò Caramon. Urlando, lui cercò di spegnere le fiamme con le mani ma sfuggire alla magia era impossibile e ben presto il suo corpo si consumò nel fuoco, rimpicciolendo fino a diventare quello di un vecchio avvizzito, che indossava una veste nera e aveva capelli e barba da cui pendevano filamenti di fiamma. Con la mano protesa, Fistandantilus si diresse verso Raistlin. «Se la tua armatura è fatta di scorie, troverò una fessura», sussurrò il vecchio. Avendo esaurito le forze residue con quell'ultima magia, Raistlin non riuscì a muoversi o a difendersi, e un momento più tardi Fistandantilus si erse davanti a lui. La veste del vecchio era fatta di laceri brandelli di oscurità, la sua carne era marcia e putrescente, le ossa erano visibili attraverso la pelle, le unghie erano lunghe e appuntite come quelle di un cadavere, gli occhi scintillavano di quel calore devastante che in precedenza era racchiuso nell'anima di Raistlin, e una pietra insanguinata pendeva da una catena che cingeva il collo scarno. La mano del vecchio toccò il petto di Raistlin, gli accarezzò la carne con fare provocatorio, tormentandolo, poi Fistandantilus gli affondò le dita nel torace e le chiuse intorno al suo cuore. Come il soldato morente serra le mani intorno all'asta della lancia che lo ha trafitto, così Raistlin afferrò il polso del vecchio con una stretta che neppure la morte avrebbe potuto allentare. Intrappolato, Fistandantilus cercò di liberarsi, ma scoprì che non poteva farlo e al tempo stesso mantenere la presa intorno al cuore. La luce argentea di Solinari, quella rossa di Lunitari e quella nera e vuota di Nuitari... che adesso Raistlin era in grado di vedere... si fusero davanti al suo sguardo sempre più opaco, formando un occhio fisso puntato verso di lui. «Puoi prendere la mia vita», scandì Raistlin, mantenendo la presa intorno al polso del vecchio come questi la manteneva intorno al suo cuore, «ma in cambio mi servirai». L'occhio ammiccò e scomparve. CAPITOLO SETTIMO
«Ha ucciso suo fratello?» domandò Antimodes, ripetendo con incredulità l'informazione che Par-Salian gli aveva appena fornito. Antimodes non aveva preso parte alla Prova di Raistlin perché all'insegnante o al mentore di un iniziato non era permesso di parteciparvi. La maggior parte degli iniziati se l'era cavata molto bene e tutti ne erano usciti, anche se nessuna Prova era stata drammatica quanto quella di Raistlin. Ad Antimodes era dispiaciuto di non potervi assistere, o almeno gli era dispiaciuto fino a quando non aveva sentito questo particolare che lo lasciò sconvolto e profondamente turbato. «E avete affidato quel giovane alle Vesti Rosse? Amico mio, sei forse impazzito? Non riesco a immaginare un atto più malvagio di questo!». «Ha ucciso un'immagine illusoria di suo fratello» precisò con enfasi ParSalian. «A quanto mi risulta anche tu hai dei fratelli, giusto?» aggiunse con un sorriso significativo. «So cosa vuoi dire, e in effetti ci sono stati momenti in cui sarei stato lieto che mio fratello venisse divorato dalle fiamme, ma un pensiero è molto diverso dall'azione effettiva. Raistlin sapeva che si trattava di un'illusione?». «Quando gli ho posto questa domanda mi ha guardato negli occhi e ha ribattuto in un tono che non dimenticherò mai: "Ha importanza?"» replicò Par-Salian. «Povero giovane», sospirò Antimodes. «O forse dovrei dire poveri giovani, dato che l'altro gemello ha assistito alla propria morte per mano del fratello. Era davvero necessario lasciare che vedesse?». «Ho ritenuto di sì. Per quanto possa sembrare strano, pur essendo fisicamente il più forte dei due Caramon dipende da suo fratello molto più di quanto Raistlin dipenda da lui, e con questa dimostrazione speravo di troncare il loro rapporto malsano, di convincere Caramon che ha bisogno di costruirsi una vita tutta sua. Temo però che il mio piano non abbia avuto successo perché Caramon ha completamente giustificato il fratello sostenendo che Raistlin stava male, non era in sé e non poteva essere ritenuto responsabile delle sue azioni. E adesso, a complicare le cose, Raistlin dipende più che mai da suo fratello». «Come sono le sue condizioni di salute?». «Non sono buone. Vivrà, ma soltanto perché il suo spirito è forte, molto più forte del corpo». «Allora c'è stato un incontro fra Raistlin e Fistandantilus, e Raistlin ha
accettato il patto: ha ceduto la sua energia vitale per nutrire quell'immondo cadavere vivente!». «Ci sono stati sia l'incontro sia un patto», ammise in tono cauto ParSalian. «Credo però che questa volta Fistandantilus possa aver trovato pane per i suoi denti». «Raistlin non ricorda nulla?». «Assolutamente nulla... ci ha pensato Fistandantilus. Non credo che lui voglia che Raistlin ricordi: pur avendo accettato il patto Raistlin non è morto com'è invece successo agli altri, qualcosa lo ha mantenuto vivo e pieno di sfida, e credo che se lui dovesse ricordare sarebbe Fistandantilus a venirsi a trovare in notevole pericolo». «Raistlin cosa pensa che gli sia successo?». «È convinto che sia stata la Prova a debilitarlo, lasciandogli una debolezza di cuore e di polmoni che lo perseguiterà per tutta la vita e che lui attribuisce alla battaglia con gli elfi scuri. Personalmente non ho ritenuto che fosse il caso di togliergli questa convinzione perché se gli avessi detto la verità non mi avrebbe creduto». «E supponi che avrà mai modo di scoprirla?». «Succederà soltanto se e quando scoprirà la verità su se stesso», rispose Par-Salian. «Dovrà prima affrontare e ammettere la sua oscurità interiore, ed io gli ho dato occhi che gli permetteranno di vederla se lo vorrà fare: gli occhi a clessidra della maga Raelana. In questo modo potrà scorgere il passare del tempo in tutte le cose che guarderà, vedrà la giovinezza appassire sotto i suoi occhi, la bellezza svanire, le montagne ridursi in polvere». «E cosa speri di ottenere con questa tortura?» domandò in tono rabbioso Antimodes, ormai effettivamente convinto che il capo del Conclave si fosse spinto troppo oltre. «Perforare la sua arroganza, insegnargli la pazienza e, come ho detto, dargli la capacità di vedere dentro di sé, qualora dovesse rivolgere lo sguardo nel proprio animo. Nella sua vita ci sarà ben poca gioia» ammise Par-Salian, «ma del resto prevedo ben poca gioia per chiunque, in Ansalon. Inoltre, ho provveduto a compensare quella che tu ritieni una crudeltà». «Non ho mai detto...». «Non ce n'era bisogno, amico mio, so cosa stai provando. Ho dato a Raistlin il Bastone di Magius, uno dei nostri manufatti più potenti, anche se passerà molto tempo prima che lui ne apprenda il vero potere». «E adesso tu hai la tua spada», osservò Antimodes, rifiutando di farsi
ammansire. «Il metallo ha resistito al fuoco», ammise in tono grave Par-Salian, «e ne è emerso temprato e forte, con una lama affilata. Ora il giovane si deve addestrare, deve affinare i talenti di cui avrà bisogno in futuro e apprenderne di nuovi». «Nessuno in seno al Conclave, neppure le Vesti Nere, lo vorrà come apprendista se si penserà che sia in qualche modo legato a Fistandantilus. Come farà ad imparare?». «Credo che troverà un maestro. Una dama ha sviluppato un notevole interesse nei suoi confronti». «Ladonna?» domandò Antimodes, accigliandosi. «No, no, un'altra dama, molto più grande e potente», precisò Par-Salian, guardando fuori della finestra in direzione della luna rossa che splendeva con l'intensità di un rubino. «Davvero?» esclamò Antimodes, impressionato. «Bene, in tal caso suppongo di non dovermi preoccupare per lui. Tuttavia è ancora molto giovane ed è molto fragile, e noi non abbiamo molto tempo». «Come hai detto tu stesso, passeranno alcuni anni prima che la Regina delle Tenebre possa schierare in campo le sue forze, prima che sia pronta a sferrare il suo attacco». «Ma le nubi di guerra già si addensano», osservò Antimodes, in tono cupo. «Ci troviamo sotto gli ultimi raggi del sole al tramonto e io continuo a domandarmi dove siano i veri dèi, adesso che abbiamo bisogno di loro». «Dove sono sempre stati», rispose Par-Salian in tono compiacente. CAPITOLO OTTAVO Raistlin sedeva ad una scrivania nella Torre della Grande Stregoneria, dove Par-Salian gli aveva dato il permesso di rimanere per tutto il tempo necessario a riprendersi dagli effetti della Prova. In realtà Raistlin non si sarebbe mai ripreso del tutto. In passato non era mai stato particolarmente forte o sano di fisico, ma al confronto delle sue condizioni attuali gli capitava ora di guardare con invidia al suo io di un tempo. Per un momento indugiò a ricordare i giorni della sua adolescenza, rendendosi conto con rimpianto che non li aveva mai apprezzati a fondo, che non aveva mai apprezzato l'energia e il vigore che comunque possedeva, e si chiese se sarebbe stato disposto a tornare indietro, a barattare questo corpo devastato con uno sano.
La sua mano si protese a sfiorare il Bastone di Magius, che era sempre al suo fianco: il legno era liscio e caldo, la magia racchiusa nel bastone gli faceva formicolare le dita e quella era una sensazione esaltante; per il momento lui aveva soltanto una vaghissima idea delle magie che si potevano realizzare con quel manufatto perché la regola prevedeva che qualsiasi mago che entrava in possesso di un oggetto magico ne dovesse ricercare da solo l'uso e i poteri. D'altro canto era anche consapevole dell'immenso potere magico racchiuso nel bastone e vi si crogiolava. Nella Torre non esistevano soverchie informazioni sul Bastone di Magius anche perché molti degli antichi manoscritti relativi a quel mago erano stati custoditi nella Torre di Palanthas ed erano andati perduti quando i maghi si erano trasferiti nella Torre di Wayreth; il bastone stesso era stato conservato perché era di estremo valore, anche se pareva che fosse rimasto inutilizzato per tutti quei secoli, almeno secondo le affermazioni di ParSalian. In risposta alle domande di Raistlin, il capo del Conclave aveva ammesso in modo evasivo che fino a quel momento non era mai giunto il momento giusto perché il bastone tornasse nel mondo in quanto finora non era stato necessario. Di conseguenza, Raistlin si stava ora chiedendo cosa facesse del momento attuale quello giusto per un bastone che si supponeva fosse stato usato per combattere contro i draghi, ma sapeva che era improbabile che riuscisse a scoprirlo: Par-Salian infatti era molto reticente e non era disposto a dirgli nulla in merito al bastone a parte dove trovare dei libri che avrebbero potuto fornirgli delle informazioni al riguardo. Adesso Raistlin aveva davanti a sé uno di quei libri, una piccola opera scritta da uno scriba che faceva parte del seguito di Huma, e il volume stava risultando più frustrante che utile, in quanto nel leggerlo lui aveva appreso una quantità di cose su come si difendevano dei bastioni e si dislocavano delle guardie, nozioni che erano comunque utili per un mago guerriero, ma ben poco riguardo al bastone e quel poco in maniera indiretta. Parlando di Magius, lo scriba aveva descritto il mago nell'atto di balzare dalla torre più alta del castello assediato per atterrare illeso in mezzo a noi con nostro estremo stupore e meraviglia. Lui ha sostenuto di aver usato la magia del suo bastone... Interrompendo la lettura, Raistlin scrisse un'annotazione su un suo libretto personale: Pare che il bastone abbia la capacità di permettere al suo possessore di volare attraverso l'aria con la leggerezza di una piuma. Questo incantesimo è inerente al bastone stesso? Devono essere recitate
delle parole magiche per attivarlo? Esiste un limite al suo impiego? L'incantesimo può operare anche per chiunque altro, a parte il mago in possesso del bastone? Questi erano tutti interrogativi che avevano bisogno di una risposta, e si trattava soltanto di uno degli incantesimi racchiusi nel bastone, che lui intuiva dover essere numerosi. Da un certo punto di vista, essere all'oscuro di tutto era frustrante perché gli sarebbe piaciuto che gli incantesimi gli venissero spiegati, e tuttavia se pure gli fosse stata esposta nel dettagli la natura del potere del bastone lui avrebbe comunque portato avanti i suoi studi, perché era possibile che gli antichi manoscritti mentissero o che di proposito non fornissero tutte le informazioni. In realtà, Raistlin si fidava soltanto di se stesso. Certo, i suoi studi avrebbero potuto richiedere anni, ma... Un attacco di tosse interruppe il suo lavoro, spasmi dolorosi e debilitanti che lo spaventavano perché la trachea gli si bloccava, non riusciva a respirare e quando le crisi erano veramente violente veniva assalito dalla terribile sensazione che non sarebbe mai più riuscito a respirare di nuovo e che sarebbe morto soffocato. Questa era una crisi violenta, e mentre lottava per immettere aria nei polmoni lui si sentì sempre più debole e stordito per la carenza d'ossigeno; quando finalmente riuscì a trarre un respiro, anche se poco profondo, era così esausto per lo sforzo che fu costretto ad abbandonare la testa sulle braccia appoggiate sul tavolo, quasi singhiozzando, con le costole offese che gli dolevano terribilmente e il diaframma che bruciava per la tosse. Una mano gentile gli toccò la spalla. «Raist? Stai... stai bene?». Sollevandosi, Raistlin allontanò da se la mano del fratello. «Che domanda stupida perfino per te! È ovvio che non sto bene, Caramon!» ribatté, tamponandosi le labbra con un fazzoletto; quando lo allontanò vide che era sporco di sangue e si affrettò a riporlo in una tasca segreta della sua nuova veste rossa. «C'è qualcosa che posso fare per aiutarti?» insistette Caramon, ignorando con pazienza il cattivo umore del fratello. «Puoi lasciarmi solo e smettere di interrompere il mio lavoro!» scattò Raistlin. «Hai fatto i bagagli? Sai che partiremo fra un'ora». «Se sei certo di sentirti abbastanza bene...» cominciò Caramon, poi notò lo sguardo irritato e rovente del fratello e s'interruppe. «Vado... a fare i bagagli», disse, anche se erano già pronti da almeno tre ore.
Si avviò quindi per lasciare la stanza in punta di piedi, credendo di essere molto silenzioso mentre in realtà con l'assortimento di scricchiolii, tintinnii e suoni assortiti che stava producendo era rumoroso quanto una legione di nani delle montagne che eseguissero una parata. Infilando la mano nella tasca, Raistlin intanto tirò fuori il fazzoletto, umido del suo stesso sangue, e lo contemplò per un momento con aria cupa e riflessiva. «Caramon», chiamò. «Sì, Raist?» rispose Caramon, girandosi subito con aria pateticamente ansiosa. «C'è qualcosa che posso fare per te?». Avrebbero dovuto trascorrere molti anni lavorando insieme, vivendo insieme, mangiando insieme, combattendo insieme. E questo dopo che Caramon aveva visto il suo gemello ucciderlo, dopo che Raistlin si era visto nell'atto di togliergli la vita. Colpi violenti come martellate, l'uno dopo l'altro. «Sì, fratello mio», rispose Raistlin, con un profondo sospiro. «C'è una cosa che puoi fare per me. Par-Salian mi ha dato la ricetta di una tisana che ritiene possa darmi sollievo dalla tosse. Troverai la ricetta e gli ingredienti in quella sacca, sulla sedia, e se potessi prepararmela...». «Certamente, Raist!» esclamò Caramon, in tono eccitato, mostrandosi più felice di quanto lo sarebbe stato se Raistlin gli avesse elargito un tesoro in gemme e monete d'acciaio. «Non ho visto teiere, ma sono certo che ce ne deve essere una qui in giro... oh, eccola qui, strano che prima non l'avessi vista. Tu continua a lavorare, io intanto doserò le foglie... accidenti, che odore orribile! Sei certo... non importa», si affrettò a interrompersi, «vado a preparare il tè. Forse il sapore sarà migliore dell'odore». Messa la teiera sul fuoco procedette quindi a dosare e a misurare i quantitativi di foglie con la stessa attenzione che uno gnomo avrebbe dedicato ad un'Impresa. Raistlin intanto tornò a dedicarsi alla lettura. Magius colpì un orco sulla testa con il suo bastone ed io mi affrettai a correre in suo soccorso perché è risaputo che gli orchi hanno il cranio robusto e non ritenevo che il bastone del mago avesse potuto infliggere molto danno. Con mia sorpresa, però, l'orco crollò morto al suolo come se fosse stato abbattuto da un fulmine. Di nuovo Raistlin annotò con cura l'episodio, scrivendo: Pare che il bastone incrementi la violenza di un colpo inferto con esso. «Raist», disse in quel momento Caramon, volgendo le spalle alla teiera
che era prossima a bollire. «Voglio che tu sappia una cosa: riguardo a quanto è successo... io capisco...». Smettendo di scrivere, Raistlin sollevò la testa ma non guardò verso il fratello e diresse invece lo sguardo fuori della finestra. All'esterno, la Foresta di Wayreth circondava la Torre, e nel guardarla lui vide soltanto foglie che avvizzivano, rami spogli, tronchi che marcivano. «Fratello mio, finché vivrai non dovrai più parlare di quell'incidente né con me né con chiunque altro. Hai capito?». «Certo, Raist, capisco», replicò Caramon, in tono sommesso, poi tornò a dedicarsi al suo compito e aggiunse: «Il tè è quasi pronto». Raistlin chiuse il libro che stava leggendo. Gli occhi gli bruciavano per la fatica di cercare di decifrare la calligrafia antiquata dello scriba e la mente era stanca per lo sforzo di tradurre quella miscela di lingua comune arcaica e di gergo militare in uso fra i soldati e i mercenari. Flettendo la mano, che doleva per aver stretto troppo a lungo la penna, Raistlin si infilò il volume relativo a Magius nella cintura per continuare ad esaminarlo nel corso del lungo viaggio verso nord. Non sarebbero infatti tornati a Solace perché Antimodes aveva dato loro il nome di un nobile che stava assoldando guerrieri e che secondo lui sarebbe stato lieto di assumere anche un mago guerriero. Poiché era a sua volta diretto al nord, Antimodes aveva aggiunto che sarebbe stato lieto se i due giovani avessero viaggiato con lui e Raistlin era stato pronto ad acconsentire perché aveva intenzione di ottenere dall'arcimago il massimo di informazioni possibile prima che le loro strade si separassero. Era stata sua speranza che Antimodes lo scegliesse come apprendista ed era stato tanto audace da chiederglielo apertamente, ma Antimodes aveva rifiutato sostenendo che non prendeva mai apprendisti perché non aveva la pazienza necessaria per istruirli. Aveva poi aggiunto che ultimamente c'era poca richiesta di apprendisti e che Raistlin si sarebbe trovato molto meglio se avesse studiato per conto suo. Questa era senza dubbio un'imposizione (non si poteva dire che una Veste Bianca mentisse) in quanto gli altri maghi che si erano sottoposti alla Prova erano stati tutti accettati come apprendisti. Raistlin si era quindi chiesto perché lui costituisse un'eccezione, e dopo lunghe riflessioni era giunto alla conclusione che si trattasse di qualcosa che aveva a che vedere con Caramon. Intanto suo fratello stava spostando la teiera con un fracasso intollerabile, versando acqua bollente su tutto il pavimento e rovesciando le erbe.
Tornerei ai giorni della mia giovinezza? si chiese Raistlin. Allora il mio corpo sembrava fragile ma era forte rispetto a questo insieme di ossa e di carne in cui sono adesso racchiuso, tenuto unito soltanto dalla mia volontà. Tornerei indietro? Allora quando guardavo qualcosa di bello esso mi appariva tale, mentre adesso nel contemplare la bellezza la vedo annegata, gonfia e sfigurata, trascinata verso valle dal fiume del tempo. Tornerei indietro? Allora noi eravamo gemelli, insieme nel grembo materno e dopo la nascita, anche se fisicamente separati. Adesso i cordoni di seta della fratellanza pendono tagliati in mezzo a noi e non si rinsalderanno più. Tornerei indietro? Chiudendo il volume su cui aveva stilato le sue preziose annotazioni, Raistlin prese la penna e scrisse sulla copertina: Io, Magus. E con un rapido, deciso tratto sottolineò quelle due parole. CONCLUSIONE Una sera, mentre ero assorto nel mio consueto compito di stilare la cronaca della storia del mondo, il mio fedele ma a volte inetto assistente Bertram entrò di soppiatto nel mio studio e chiese il permesso di interrompere il mio lavoro. «Cosa succede, Bertram?» domandai, notando che lui appariva pallido come se avesse appena incontrato uno gnomo che stava portando un congegno incendiario dentro la Grande Biblioteca. «Si tratta di questa, Maestro», rispose con voce tremante, protendendo con mano altrettanto tremante una piccola pergamena arrotolata e legata con un nastro nero sigillato con inchiostro dello stesso colore su cui era stampato il disegno di un occhio. «Da dove viene?», chiesi, anche se avevo immediatamente capito chi doveva averla mandata. «È proprio questo il problema, Maestro», spiegò Bertram, tenendo la pergamena con la punta delle dita. «Non lo so! Un minuto prima non c'era e quello successivo era lì!». Sapendo che da lui non avrei ricavato una spiegazione più intelligente gli dissi di posare la pergamena sulla scrivania e di andarsene, perché l'avrei vagliata quando ne avessi avuto il tempo. Lui si mostrò palesemente riluttante a lasciare lì la missiva (pensando senza dubbio che avrebbe preso
fuoco o qualche altra assurdità del genere), ma fece come avevo chiesto e se ne andò scoccandosi molte occhiate alle spalle. Come appresi in seguito, una volta uscito attese poi dietro la porta munito di un secchio d'acqua, che di certo aveva intenzione di svuotarmi addosso al primo sbuffo di fumo. Io infransi il sigillo, sciolsi il nastro nero e mi trovai davanti a questa lettera, di cui trascrivo qui una parte. Ad Astinus, È possibile che io stia per intraprendere un'impresa audace2 , e qualora dovessi decidere di farlo può darsi che non ritorni da essa o che ritorni in uno stato alterato. Se dovessi incontrare la morte nel corso della mia impresa, ti accordo il permesso di pubblicare un resoconto vero della mia giovinezza, includendo ciò che è sempre stato tenuto segreto in ogni modo, la mia Prova nella Torre della Grande Stregoneria. È una scelta che compio in reazione alle molte assurde storie e falsità che hanno circolato sul mio conto e su quello della mia famiglia. Naturalmente, il mio permesso è condizionato dal fatto che Caramon si mostri d'accordo con questa decisione... Contrariamente a quanto alcuni hanno insinuato, non ho dimenticato l'incarico affidatomi da Raistlin, ma finora né Caramon né io abbiamo ritenuto che fosse giunto il momento di una simile pubblicazione. Adesso che il nipote di Raistlin, Palin, è diventato adulto e si è sottoposto a sua volta alla Prova nella Torre, Caramon mi ha infine concesso il permesso di pubblicare il libro. Questo è il vero resoconto degli anni giovanili di Raistlin, e i lettori più attenti noteranno delle discrepanze fra questa versione e altre che l'hanno preceduta. Confido che quei lettori prenderanno in considerazione il fatto che il nome di Raistlin Majere è diventato nel corso degli anni una vera e propria leggenda, con il risultato che sul suo conto si sono scritte, dette e cantate cose che sono false o che distorcono la verità. Io stesso sono in certa misura colpevole di questo perché ho deliberatamente indotto in errore la gente in merito ad alcuni aspetti della vita di Raistlin, fra cui uno dei più importanti è senza dubbio la Prova sostenuta nella Torre della Grande Stregoneria, quella Prova che ebbe poi su di lui 2
L'impresa a cui Raistlin si riferisce è il suo tentativo di entrare nell'Abisso per spodestare Takhisis. Quanti sono interessati, possono trovare questa storia nella Grande Biblioteca, all'interno dei libri contrassegnati come "Le Leggende di Dragonlance".
un'influenza così devastante e fatale. Di essa esistono anche altri resoconti, ma questa è la prima volta che ne viene scritta la storia vera. Il Conclave ha da tempo decretato che la natura della Prova venga tenuta segreta, ma in seguito alla «morte» di Raistlin hanno cominciato a circolare sul suo conto certe voci selvagge e distruttive e Caramon ha chiesto a Par-Salian il permesso di metterle a tacere. E poiché sembrava probabile che queste voci potessero danneggiare la reputazione di tutti i maghi di Krynn, il Conclave ha acconsentito a che la storia venisse raccontata, ma soltanto se alcuni fatti fossero stati alterati. Di conseguenza, Caramon ha fatto scrivere una versione abbreviata della storia della Prova di Raistlin, che è diventata famosa come la Prova dei Gemelli. In essenza la storia è vera, anche se come potrete vedere gli eventi effettivi differiscono notevolmente da quelli riportati in passato. Per finire, ecco la conclusione della lettera di Raistlin. Infrango il silenzio adesso perché voglio che i fatti siano conosciuti: se devo essere giudicato da quanti mi seguiranno, chiedo di essere almeno giudicato sulla base della verità. Dedico questo libro a colei che mi ha dato la vita. RAISTLIN MAJERE. FINE