MARY HIGGINS CLARK INCUBO (Stillwatch, 1984) A Pat Myrer, il mio agente, e a Michael V. Korda, il mio editore Per l'ines...
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MARY HIGGINS CLARK INCUBO (Stillwatch, 1984) A Pat Myrer, il mio agente, e a Michael V. Korda, il mio editore Per l'inestimabile sostegno, aiuto e incoraggiamento che mi hanno dato, offro con gioia «la voce ancora piccola della gratitudine». 1 Pat guidava lentamente, soffermandosi con lo sguardo sul traffico delle strade strette di Georgetown. Il cielo era scuro e gonfio di nuvole; l'illuminazione stradale si fondeva con la luce proiettata dai piccoli lampioni accesi accanto alle porte; le decorazioni natalizie brillavano contro la neve ghiacciata, e il tutto dava un'impressione di serenità, ricordandole alcune stampe Vecchia America. Girò in N Street, superò un altro isolato, sempre scrutando il numero civico. Attraversò un incrocio. Dev'essere proprio quello, pensò. Quel palazzo sull'angolo. Casa dolce casa. Rimase per un momento immobile vicino al marciapiede, studiando l'edificio. Era l'unico della strada non illuminato, tanto che a mala pena ne distingueva le linee aggraziate. Le grandi finestre della facciata erano seminascoste dai rampicanti che nessuno si era preoccupato di potare. Dopo il lungo tragitto che per nove ore l'aveva costretta seduta in macchina da Concord, il corpo le doleva per la prolungata immobilità. Era stanchissima, eppure si rese conto che stava rimandando il momento di aprire il portone e di entrare in casa. Colpa di quella maledetta telefonata, pensò. Mi sono lasciata impressionare. Qualche giorno prima di lasciare il suo posto alla televisione di Boston, la centralinista l'aveva chiamata con una specie di sussurro: «C'è uno che insiste per parlarle a tutti i costi. Vuole che rimanga in linea?» «Sì.» Aveva sollevato il ricevitore, detto il suo nome ed era rimasta in ascolto mentre una voce sommessa ma chiaramente maschile mormorava: «Patricia Traymore, non devi venire a Washington, non devi fare alcun programma che lodi la senatrice Jennings. E soprattutto non devi abitare in
quella casa». Aveva sentito distintamente il respiro affrettato della centralinista. «Con chi parlo?» aveva chiesto bruscamente. La risposta le giunse con lo stesso tono basso e distaccato e lei si accorse che un brivido le stava percorrendo la schiena. «Sono l'angelo della misericordia, della liberazione... e della vendetta.» Pat aveva cercato di liquidare quell'episodio convincendosi che probabilmente si trattava solo di una delle tante telefonate di uno squilibrato che arrivano a una stazione televisiva, ma era impossibile non sentirsi turbata. La notizia del suo trasferimento alla Rete televisiva privata Potomac, per la quale avrebbe realizzato una serie intitolata Donne al governo, era apparsa in molte rubriche di cronaca televisiva: le riguardò tutte con attenzione, cercando qualche allusione circa il suo futuro indirizzo, ma non trovò niente. Il Washington Tribune aveva pubblicato la notizia con più dettagli rispetto agli altri giornali: «La bella Patricia Traymore che noi conosciamo non solo per i suoi magnifici capelli ramati e per i suoi penetranti occhi nocciola, ma soprattutto per la sua abilità giornalistica, costituirà un'attrazione in più per la Potomac: i suoi profili relativi ad alcune celebrità, trasmessi dalla televisione di Boston, sono stati proposti due volte per il premio Emmy. Patricia sembra conoscere il segreto per indurre le persone a parlare di sé. Il primo personaggio di cui ci parlerà sarà la riservatissima Abigail Jennings, senatrice anziana della Virginia. A quanto assicura Luther Pelham, direttore dei notiziari della Potomac, il programma tratteggerà i punti essenziali della vita pubblica e privata della senatrice. A Washington, dove il servizio è atteso con vivissima curiosità, ci si domanda se Pat Traymore riuscirà a sciogliere il rigido riserbo della senatrice». Il ricordo della telefonata perseguitava Pat. Era il tono di quella voce, il modo con cui l'interlocutore aveva detto quella casa. Chi poteva essere la persona che conosceva le sue intenzioni? La macchina era fredda. Pat si rese conto che il motore era ormai spento da qualche minuto. Un uomo con una borsa la superò a passo svelto, indugiò quando la vide seduta all'interno della macchina, poi proseguì per la sua strada. Il cancello di ferro in fondo al viale era aperto. Fermò la macchina sul viottolo lastricato in pietra che conduceva al portone e frugò nella borsa in cerca della chiave.
Immobile davanti al gradino della porta, tentò di analizzare i suoi sentimenti. Non riusciva a focalizzare alcun pensiero particolare, desiderava semplicemente entrare in casa, scaricare i bagagli, farsi un caffè e un panino. Fece girare la chiave, spalancò la porta e trovò facilmente l'interruttore della luce. La casa le parve pulitissima. Il pavimento in cotto dell'ingresso aveva una bella patina non troppo lucida; il lampadario scintillava. Poco dopo però uno sguardo più approfondito le rivelò che la tinteggiatura era un po' sbiadita e qualche piastrella era ammaccata e scolorita per l'usura. La maggior parte dei mobili inoltre andava probabilmente scartata o restaurata. Comunque l'indomani sarebbero stati consegnati i mobili di valore che erano stati conservati nella soffitta della casa di Concord. Percorse lentamente tutto il piano terra. La sala da pranzo era ampia e le piaceva. A sedici anni Pat aveva visitato Washington con la scuola, ed era passata davanti a quella casa, ma senza rendersi conto della grandezza delle sue camere. Infatti, dall'esterno, la casa appariva estremamente più piccola. Il tavolo era rovinato e la credenza aveva dei brutti segni, come se i piatti da portata caldi fossero stati appoggiati direttamente sul legno. Ma quei bei mobili del Seicento finemente intagliati erano pezzi di valore che le arrivavano dalla famiglia e sarebbe valsa la pena di spendere qualsiasi cifra per farli restaurare. Lanciò un'occhiata verso la cucina e nella biblioteca, ma di proposito continuò a camminare. Tutte le cronache nei giornali avevano descritto minuziosamente la disposizione della casa. Il soggiorno era l'ultima stanza a destra. Sentì un nodo stringerle la gola mentre vi si avvicinava. Possibile che fosse così pazza da aver preso la decisione di ritornare per tentare di ritrovare un ricordo che forse era obiettivamente meglio dimenticare? La porta del soggiorno era chiusa. Posò la mano sulla maniglia e la girò, esitante. La porta si spalancò. A tentoni trovò l'interruttore sulla parete. Era un ambiente spazioso e gradevole, dal soffitto alto, con una bella mensola sul camino rivestito di mattoni bianchi e un sedile che seguiva la rientranza della finestra. Era vuoto a parte un pianoforte a coda e il rivestimento massiccio di mogano scuro nella nicchia a destra del camino. Il camino. Vi si avvicinò. Braccia e gambe cominciarono lievemente a tremarle. La fronte e il palmo delle mani furono di colpo madidi di sudore. Non riusciva a inghiottire. Si sentì girare la testa e spaventata si precipitò verso la finestra, all'e-
stremità della parete di sinistra, cercando di aprirla con gesti nervosi, poi con uno strattone spalancò i due battenti e, inciampando, uscì sulla terrazza coperta di neve. L'aria gelata le riempì i polmoni mentre inspirava con respiri affrettati. Un brivido violento le fece stringere le braccia intorno al corpo. Sentì che ondeggiava e dovette appoggiarsi al muro per non cadere. In quello stordimento i profili scuri degli alberi senza foglie parevano ondeggiare insieme con lei. La neve le arrivava alle caviglie. Poteva sentire l'umidità penetrare attraverso gli stivali, ma non voleva rientrare finché non le fosse passato il capogiro. Trascorsero alcuni minuti prima che si sentisse in grado di tornare nella stanza. Chiuse con cura i battenti e girò la chiave a doppia mandata, esitò, poi si voltò, decisa, e, con passi lenti e riluttanti, si diresse al camino. Come se stesse ricercando qualche cosa, fece scorrere una mano sui mattoni ruvidi e imbiancati a calce. Da molto tempo, ormai, brandelli di ricordi si aggiravano in lei come i relitti di un naufragio. Negli ultimi anni aveva ripetutamente sognato di essere una bambina piccola e di vivere di nuovo in quella casa. E invariabilmente si era svegliata tremando di paura o tentando di gridare senza riuscire a emettere alcun suono. Ma insieme con la paura, la colmava la sensazione di qualcosa che aveva perduto. La verità è in questa casa, pensò. Tutto era accaduto lì. I titoli sinistri, ritrovati negli archivi dei giornali, lampeggiarono nella sua mente. "DEAN ADAMS, DEPUTATO DEL WISCONSIN, UCCIDE LA NOTA E BELLA MOGLIE E SI TOGLIE LA VITA. LA BAMBINA DI TRE ANNI IN COMA ALL'OSPEDALE ." Aveva letto quegli articoli tante di quelle volte da conoscerli a memoria. «Un dolente senatore John F. Kennedy ha commentato: 'Proprio non capisco. Dean era uno dei miei migliori amici. Niente mi faceva supporre in lui la minima traccia di violenza repressa '.» Che cosa aveva spinto il popolare uomo politico all'omicidio e poi al suicidio? Secondo alcune voci, lui e sua moglie erano in procinto di divorziare. Era possibile formulare l'ipotesi che Dean Adams avesse subito un profondo choc psicologico quando sua moglie aveva deciso in modo irrevocabile di lasciarlo? Doveva esserci stato un corpo a corpo per impadronirsi della rivoltella: sull'arma erano state rilevate le impronte di entrambi, confuse e parzialmente sovrapposte. La bambina di tre anni era stata trovata in terra contro il camino, con fratture multiple al cranio e alla gamba
destra. Veronica e Charles Traymore le avevano raccontato di averla adottata. Solo quando lei era ormai al liceo e le era venuto il desiderio di sapere qualcosa, le era stata detta tutta la verità. Con sorpresa aveva appreso che sua madre era la sorella di Veronica. «Sei stata in coma per un anno e si disperava di salvarti», aveva spiegato Veronica. «Quando finalmente riprendesti coscienza eri come un neonato e fu necessario insegnarti nuovamente tutto; tua nonna fece pubblicare un necrologio sui giornali: questo ti spiega quanto fosse decisa a evitare che lo scandalo ti seguisse per tutta la vita. Charles e io vivevamo in Inghilterra all'epoca. Ti adottammo e dicemmo ai nostri amici che la tua famiglia era inglese.» Pat ricordava quanto si era irritata Veronica quando lei aveva voluto a tutti i costi rilevare la casa di Georgetown. «Pat, non capisco proprio perché vuoi tornarci», aveva detto. «Avremmo dovuto vendere quella casa invece di tenerla affittata per tutti questi anni. Ti stai facendo un nome alla televisione... perché correre rischi riesumando il passato? Incontrerai persone che ti conoscevano da bambina: qualcuno potrebbe trarre delle deduzioni.» Le labbra sottili di Veronica si erano strette mentre Pat insisteva. «Abbiamo fatto tutto il possibile perché tu potessi rifarti una vita. Fai come vuoi, se è così importante per te, ma poi non dire che non ti avevamo avvertita.» Alla fine si erano abbracciate, scosse e sconvolte tutte e due. «Andiamo», si era difesa Pat. «Il mio mestiere è scavare in cerca della verità. Se sono sempre alla ricerca del bene e del male nella vita degli altri, sarei ingiusta se non agissi ugualmente per quanto riguarda la mia.» Ritornò al presente ed entrando in cucina prese il telefono. Anche da bambina, parlando di Veronica e Charles, usava spesso i loro nomi e, negli ultimi anni, aveva in pratica smesso di chiamarli mamma e papà. Ma aveva il sospetto che questo li irritasse e li ferisse un poco. Veronica rispose al primo squillo. «Salve, mamma. Sono qui sana e salva; ho trovato poco traffico durante tutto il viaggio.» «Qui dove?» «Nella casa di Georgetown.» Veronica le aveva chiesto di sistemarsi in albergo almeno fino a quando fossero arrivati i mobili; senza darle la possibilità di protestare, Pat attaccò subito: «Davvero, è meglio così. Posso sistemare tutto il mio equipaggiamento nella biblioteca e raccogliere le idee
per il colloquio di domattina con la senatrice Jennings». «Non ti senti nervosa?» «Niente affatto.» Poteva vedere il viso sottile, preoccupato di Veronica. «Non pensare a me e preparati invece per la tua crociera. Hai finito i bagagli?» «Naturalmente. Pat, non mi piace che tu sia sola per Natale.» «Sarò talmente occupata a mettere in piedi questo programma da non riuscire neppure a pensarci. Comunque, abbiamo avuto una magnifica festa prenatalizia insieme. Senti, ora è meglio che vada a scaricare la macchina. Tanti baci a tutti e due. Fai finta di essere in una seconda luna di miele e lascia che Charles ti corteggi e ti seduca come è nel suo stile.» «Pat!» Patricia colse nella voce di Veronica disapprovazione e riso, prima di essere investita da una nuova esortazione: «Chiudi bene a chiave!» Abbottonandosi la giacca, Pat si avventurò fuori nella sera gelida e per dieci minuti sollevò e trascinò bagagli e scatoloni. Quello della biancheria e delle coperte era pesante e scomodo da portare; salendo al piano di sopra dovette fermarsi ripetutamente. Ogni volta che portava qualche cosa di pesante le pareva che la gamba destra cedesse. Dovette issare lo scatolone con i piatti, le pentole e qualche genere alimentare sul bancone della cucina. Non si era fidata della data di consegna stabilita dagli operai addetti al trasloco e forse aveva esagerato nel carico che si era portata appresso personalmente. Aveva appena finito di appendere i vestiti e di farsi il caffè, quando il telefono squillò. Il suono parve esplodere nel silenzio della casa. Pat saltò in piedi e sobbalzò quando qualche goccia di caffè le cadde sulla mano. Appoggiò la tazza sul bancone e tese la mano verso il telefono. «Parla Pat Traymore.» «Salve, Pat.» Lei strinse il ricevitore, cercando di dare un tono esclusivamente cordiale alla sua voce. «Salve, Sam.» Era Samuel Kingsley, deputato per il ventiseiesimo distretto della Pennsylvania, l'uomo che amava disperatamente. L'altra ragione per cui aveva deciso di andare a Washington. 2 Pat, tre quarti d'ora dopo, stava combattendo con il fermaglio della collana, quando il suono del campanello annunciò l'arrivo di Sam. Si era cambiata e indossava un vestito di lana verde scuro con profili di raso:
Sam le aveva detto una volta che il verde metteva in risalto i riflessi rossi dei suoi capelli. Di nuovo lo squillo del campanello. Le tremavano troppo le dita per chiudere il gancio della collana e la fece scivolare nella borsa. Mentre scendeva in fretta le scale tentò di costringersi a essere calma ricordando che negli otto mesi trascorsi dalla morte di Janice, la moglie di Sam, questi non le aveva telefonato neanche una volta. Arrivata all'ultimo gradino si rese conto che involontariamente stava cercando di non stancare la gamba destra. Era stata proprio l'insistenza di Sam sulla necessità di far vedere la gamba che zoppicava a uno specialista che l'aveva convinta a dirgli la verità a proposito delle fratture. Esitò un momento nell'atrio poi, lentamente, aprì. Sam riempiva quasi completamente il vano della porta. La luce della strada colpiva i fili d'argento nei suoi capelli castano scuri. Sotto le sopracciglia arruffate, gli occhi color nocciola parevano diffidenti e curiosi. Piccole rughe che lei non gli conosceva partivano dagli occhi. Ma il sorriso pieno di calore che le rivolse era lo stesso, e l'avvolse completamente. Rimasero immobili, fermi, in attesa che l'altro facesse la prima mossa, che desse il giusto tono a quel loro ritrovarsi. Sam aveva in mano una scopa e gliela tese con solennità. «Nel mio distretto vivono gli Amish, e tra le loro usanze c'è quella di portare una scopa intatta e il sale per inaugurare una nuova casa.» Si frugò in tasca e ne trasse una saliera: «Omaggio della sala da pranzo del Parlamento». Entrando in casa, le mise le mani sulle spalle e si chinò a baciarla sulla guancia. «Benvenuta nella nostra città, Pat. È bello averti qui.» Dunque questo è il suo saluto, pensò Pat; due vecchi amici che si ritrovano. Washington è troppo piccola perché si possa evitare qualcuno che appartiene al passato, perciò tanto vale che l'affronti e metta in chiaro ogni cosa... Ma neanche per sogno. Questa è una partita nuova, Sam, e stavolta ho intenzione di vincerla. Lo baciò, lasciando deliberatamente le labbra su quelle di lui quanto bastava per sentire l'intensità con cui le rispondeva, poi indietreggiò e sorrise con disinvoltura. «Come hai fatto a sapere che ero qui?» chiese. «Hai forse fatto mettere sotto controllo la casa?» «Non proprio. Abigail mi ha detto che domani mattina saresti andata nel suo ufficio. E il tuo numero di telefono l'ho chiesto alla Potomac.» «Ho capito.» Aveva percepito una sfumatura di intimità mentre Sam
parlava della senatrice Jennings. Con una lieve stretta al cuore, abbassò gli occhi, perché lui non vedesse l'espressione del suo viso. Finse di darsi da fare per tirar fuori la collana dalla borsetta. «Quest'aggeggio ha un fermaglio che neppure Houdini riuscirebbe a capire. Vorresti...?» Lui gliela passò intorno al collo e Pat sentì il calore delle sue dita mentre chiudeva il fermaglio. Per un attimo le mani di lui indugiarono sulla sua pelle. Poi Sam disse: «Bene, così dovrebbe essere a posto. Mi fai fare il giro turistico della tua casa?» «Non c'è ancora niente da vedere. Il camion del trasloco mi consegna i mobili domani mattina. Tra pochi giorni questa casa cambierà completamente aspetto. E poi, muoio di fame.» «Per quanto mi ricordo, tu muori sempre di fame.» Ora gli occhi di Sam brillavano divertiti. «Che una cosina come te possa far sparire simili porzioni di crema di cioccolato e panini imburrati senza metter su nemmeno un grammo...» Molto delicato, Sam, pensò Pat entrando nel guardaroba per prendere la giacca. Sei riuscito a etichettarmi come una cosina con un robusto appetito. «Dove andiamo?» chiese. «Ho prenotato alla Maison Blanche. È sempre un posto delizioso.» Lei gli porse la propria giacca. «Hanno un menu per bambini?» chiese, soave. «Che cosa? Ah, ho capito. Scusa... credevo di farti un complimento.» Sam aveva parcheggiato sul viale, dietro la macchina di lei. Percorsero affiancati il viottolo, la mano di lui che le sorreggeva leggermente il braccio. «Pat, stai di nuovo sforzandoti di non stancare la gamba destra?» La sua voce tradiva preoccupazione. «Un poco. Sono intorpidita perché ho guidato a lungo.» «Correggimi se sbaglio. Non è questa la casa di tua proprietà?» Lei gli aveva raccontato la storia dei suoi genitori l'unica notte che avevano trascorso insieme. Adesso annuì, distratta. Aveva rivissuto spesso quella notte nel motel Ebb Tide di Cape Cod. Le bastava, per questo, il profumo dell'oceano o la vista di due persone in un ristorante, le dita intrecciate attraverso la tavola e, sul viso, il sorriso segreto degli innamorati. E quell'unica notte aveva messo termine al loro rapporto. La mattina, durante una prima colazione tranquilla e triste, ne avevano discusso a fondo e si erano trovati d'accordo sul fatto che non avevano diritto l'uno all'altra. La moglie di Sam, confinata su una sedia a rotelle a causa di un'incurabile
sclerosi multipla, non meritava di soffrire ulteriormente scoprendo il tradimento del marito. «E lo capirebbe», aveva detto Sam. Pat si costrinse a tornare nel presente e cercò di cambiare discorso. «Non è fantastica questa strada? Mi fa pensare a una cartolina natalizia.» «Quasi tutte le strade di Georgetown sembrano cartoline natalizie in questa stagione», replicò Sam. «È davvero una pessima idea, la tua, di voler riportare a galla il passato, Pat. Perché non lasci perdere?» Erano arrivati alla macchina. Lui aprì la porta e Pat scivolò dentro. Aspettò che a sua volta lui si sedesse alla guida per rispondere: «Non posso. C'è qualche cosa che continua a tormentarmi e non avrò pace finché non saprò di che cosa si tratta». Sam rallentò prima del segnale di stop, alla fine dell'isolato. «Pat, lo sai che cosa stai cercando di fare? Tu vuoi riscrivere il passato, ricordare quella notte e decidere che è stato solo un terribile incidente, che tuo padre non aveva intenzione di farti male o di uccidere tua madre. Ti stai semplicemente complicando la vita da sola.» Pat gli lanciò un'occhiata e studiò il suo profilo. I suoi lineamenti, lievemente troppo marcati e leggermente irregolari per un canone classico di bellezza, facevano tanta tenerezza e lei dovette vincere l'impulso di scivolargli più vicina e sentire contro la guancia la lana morbida del suo cappotto. «Sam, hai mai sofferto di mal di mare?» chiese. «Una volta o due forse, di solito me la cavo piuttosto bene come marinaio.» «Anch'io. Però mi ricordo che un'estate, durante il viaggio di ritorno sulla Queen Elizabeth 2 con Veronica e Charles, capitammo in una tempesta e chissà perché persi il mio piede marino. Non ricordo di essere mai stata così male. Continuavo a desiderare di vomitare e di farla finita. Capisci cosa voglio dire, è la stessa sensazione che mi capita adesso. Le cose continuano a ritornarmi in mente.» Sam girò sulla Pennsylvania Avenue. «Quali cose?» «Rumori... impressioni... a volte vaghi; altre volte, specie quando mi sveglio, stranamente nitidi... che svaniscono, però, prima che io possa afferrarli. Per la verità, l'anno scorso ho anche provato con l'ipnosi, ma non ha funzionato. Poi ho letto che alcuni adulti possono ricordare con precisione persino cose avvenute quando avevano solo due anni; in un libro specifico sull'argomento spiegavano che il modo migliore per riafferrare i
ricordi è quello di ritrovarsi nello stesso ambiente. Per fortuna, o forse purtroppo, questa è una cosa che posso fare.» «Continuo a pensare che è una pessima idea.» Pat guardava fuori del finestrino. Aveva studiato la pianta della città in modo da impadronirsene, e adesso cercava di verificare l'esattezza del suo senso dell'orientamento. Ma la macchina andava troppo veloce, e il buio le impediva di leggere i nomi delle vie, non permettendole di capire se conosceva qualche posto. Adesso non parlavano. Il maître della Maison Blanche salutò calorosamente Sam e li accompagnò a un tavolo d'angolo. «Il solito?» chiese Sam quando furono seduti. Pat annuì, intensamente conscia della vicinanza di quell'uomo. Forse quello era il suo tavolo preferito; quante altre donne ci aveva portato? «Due Chivas Regal on the rocks con uno spruzzo di soda, per favore», ordinò Sam. Aspettò che il maître fosse fuori della portata della sua voce, e chiese: «Bene... raccontami di questi ultimi anni. Senza dimenticarti niente». «È davvero impossibile. Dammi almeno qualche minuto per pensare.» Avrebbe taciuto i particolari di quei primi mesi trascorsi, dopo la loro decisione di non vedersi, in una nebbia di assoluta, desolata disperazione. Poteva parlare del suo lavoro, e lo fece, del suo nome proposto per il premio televisivo Emmy che le aveva fruttato il servizio sul sindaco di Boston, una donna appena eletta, della sua fissazione relativa alla realizzazione di un servizio sulla senatrice Jennings. «Perché su Abigail?» chiese Sam. «Perché secondo me è ora che una donna sia candidata alla presidenza. Tra due anni ci saranno le elezioni nazionali e Abigail Jennings dovrebbe essere in cima alla lista dei candidati. Pensa al suo curriculum: dieci anni come deputato; terza legislatura al Senato; membro del comitato per i rapporti esteri; comitato per il bilancio; prima donna vicecapo della maggioranza. È un fatto, mi pare, che il Congresso sia ancora riunito perché il Presidente fa assegnamento su di lei per arrivare al bilancio che vuole ottenere.» «Sì, è vero... e quel che più conta è che ce la farà.» «Che cosa ne pensi di lei?» Sam si strinse nelle spalle. «È in gamba. È maledettamente in gamba per dirla tutta. Però ha dato fastidio a molta gente importante. Quando si arrabbia, non bada a chi calpesta i piedi.»
«Immagino che questo si possa dire anche della maggior parte dei suoi colleghi.» «È probabile.» «È sicuro.» Il cameriere arrivò con il menu: Decisero di ordinare un'insalata nizzarda in due. Ed era un altro ricordo. Quell'ultimo giorno che avevano passato insieme, Pat aveva preparato un picnic, chiedendo prima a Sam quale insalata gli piacesse in modo particolare. «Nizzarda», aveva risposto lui con prontezza, «con un sacco di acciughe, per piacere.» «Come fai a mangiare quella roba?» aveva chiesto Pat. «Perché no? È un gusto che si acquisisce, ma una volta che ce l'hai non lo perdi più.» E lei quel giorno aveva provato l'insalata e aveva deciso che era buona. Anche lui lo ricordava e restituendo il menu commentò: «Sono contento che tu non abbia rinunciato alle acciughe». Sorrise. «Tornando ad Abigail, sono rimasto sbalordito che abbia accettato di concederti un'intervista.» «Per essere sincera, sono rimasta stupita anch'io. Le avevo scritto circa tre mesi fa, perché avevo fatto qualche indagine su di lei ed ero rimasta assolutamente affascinata da quello che avevo scoperto. Sam, che cosa sai delle sue origini?» «Viene dalla Virginia. Alla morte di suo marito, ha preso il suo posto al Congresso. È una fanatica del lavoro.» «Benissimo. Questa è infatti l'immagine che si ha di lei. La verità è che Abigail Jennings viene dallo stato di New York, non dalla Virginia. Fu eletta Miss New York State ma rifiutò di andare ad Atlantic City per le finalissime di Miss America perché aveva una borsa di studio a Radcliffe e non voleva rischiare di perdere un anno. Quando è rimasta vedova aveva solo trentun anni. Era così innamorata del marito che non si è ancora risposata dopo venticinque anni.» «Non si è risposata, ma non è nemmeno vissuta in convento.» «Questo non lo so, ma a giudicare dalle notizie che ho raccolto, la maggior parte dei suoi giorni e delle sue notti sono esclusivamente dedicati al lavoro.» «Questo è vero.» «Comunque, nella lettera le scrivevo che mi sarebbe piaciuto fare un servizio che desse ai telespettatori la sensazione di conoscerla su un piano personale. Ho chiarito bene quello che avevo in mente e ho ricevuto la più gelida lettera di rifiuto che mai mi fosse arrivata. Poi, un paio di settimane fa, mi ha telefonato Luther Pelham. Voleva venire a Boston espressamente
per invitarmi a colazione e desiderava parlarmi della possibilità che io venissi a lavorare per lui. Durante la colazione mi ha fatto capire che la senatrice gli aveva mostrato la mia lettera; lui, dal canto suo, già da tempo stava rimuginando intorno all'idea di una serie che si sarebbe potuta intitolare Donne al governo. Conosceva la mia professionalità e l'apprezzava e, soprattutto, secondo lui ero adatta a quel genere di lavoro. Disse anche che voleva che avessi una rubrica fissa nel suo notiziario delle sette. Puoi immaginare che cosa ho provato. Pelham è forse il commentatore televisivo più importante che ci sia e la rete televisiva una delle più valide tra quelle private; e ci sono in ballo anche un sacco di soldi. Io devo aprire la serie con uno spaccato sulla senatrice Jennings e Pelham vuole che sia pronto al più presto. Ma ancora non capisco perché la Jennings abbia cambiato idea.» «Posso dirtelo io. È possibile che il vicepresidente stia per dimettersi. È molto più malato di quanto crede la gente.» Pat depose la forchetta e lo guardò: «Sam, vorresti dire che...?» «Voglio dire che il presidente è arrivato a meno di due anni dalla scadenza del suo secondo mandato. Che cosa potrebbe esserci di meglio per rendere felici tutte le donne del paese che nominare la prima donna vicepresidente?» «Ma questo significa che se la senatrice Jennings diventa vicepresidente, alle prossime elezioni probabilmente non sarà possibile negarle la candidatura alla Presidenza.» «Un momento, Pat. Stai andando troppo in fretta. Io ho soltanto detto che se il vicepresidente si dimette ci sono ottime probabilità che a sostituirlo sia Abigail Jennings oppure Claire Lawrence. Claire è praticamente la Erma Bombeck del Senato: molto popolare, molto spiritosa, un legislatore di prim'ordine. Se la caverebbe ottimamente. Ma Abigail ha una maggiore anzianità al Senato. Claire è del Midwest come il presidente e, politicamente, questo non va bene. Certamente lui preferirebbe nominare Abigail, ma non può ignorare che in realtà non è molto nota a livello nazionale. E che in seno al Congresso si è fatta parecchi nemici che contano.» «Allora pensi che Luther Pelham vorrà che imposti l'intervista in modo che la gente possa vedere Abigail sotto una luce più calda, più personale?» «Da quanto mi hai raccontato, ho questo sospetto. Credo che voglia renderla più popolare. Sono stati piuttosto vicini per molto tempo e sono sicuro che a lui farebbe piacere vedere la sua cara amica sulla poltrona del vicepresidente.»
Continuarono a mangiare in silenzio, mentre Pat ripensava a quello che Sam le aveva detto. Così si spiegava l'improvvisa offerta di quel posto, e anche la necessità di fare in fretta. «Ehi, ti ricordi che sono qui?» scherzò finalmente Sam. «E non mi hai nemmeno chiesto che cosa ho fatto io in questi ultimi due anni.» «Ho sempre seguito la tua carriera. Ho brindato a te quando sei stato rieletto... non che ne fossi sorpresa. Ti ho scritto, e poi ho stracciato, una dozzina di biglietti quando è morta Janice. Dovrei saperci fare con le parole, eppure nulla mi pareva adatto a esprimere come si deve... Dev'essere stato molto duro per te.» «Lo è stato. Quando ho capito che a Janice non era rimasto molto tempo, ho ridotto al minimo il mio programma di lavoro e ho passato ogni minuto possibile con lei. Penso che le sia stato d'aiuto.» «Ne sono sicura.» Doveva chiederglielo: «Sam, perché hai aspettato tanto per telefonarmi? Anzi, mi avresti mai telefonato se non fossi venuta a Washington?» I rumori di fondo costituiti dalle voci dei clienti seduti ai tavoli e dal lieve tintinnio dei bicchieri, il profumo appetitoso dei cibi, i rivestimenti in legno delle pareti e i divisori in vetro smerigliato, tutto scomparve magicamente mentre aspettava la risposta di lui. «Ti ho telefonato», disse lui, «un'infinità di volte, ma ho avuto il coraggio di riattaccare prima che il tuo telefono squillasse. Pat, quando ci siamo conosciuti tu stavi per fidanzarti e io credo di averti mandato tutto a monte.» «Con o senza di te non ci sarebbe stato alcun fidanzamento. Rob è un tipo simpatico, ma questo non basta.» «È un giovane avvocato intelligente con un ottimo avvenire. Adesso probabilmente saresti sposata con lui, non fosse stato per me. Pat, io ho quarantotto anni e tu ne hai ventisette. Fra tre mesi sarò nonno. So che tu vuoi dei bambini, e io semplicemente non ho l'energia per creare un'altra famiglia.» «Capisco. Posso chiederti una cosa, Sam?» «Certo.» «Mi ami o puoi riuscire a negare anche questo?» «Ti amo abbastanza da lasciarti la possibilità di trovare qualcuno della tua età.» «E tu, hai già trovato qualcuno della tua età?» «Non frequento nessuno in modo particolare.»
«Capisco.» Riuscì a sorridere. «Bene, e adesso che abbiamo messo le cose in chiaro, perché non mi offri quel bel dolce appiccicoso per il quale dovrei fare follie?» Lui parve sollevato. Si era aspettato che fosse insistente e tormentosa? si chiese Pat. Appariva così stanco. Dov'era andato tutto l'entusiasmo di qualche anno prima? Un'ora dopo, Pat, davanti a casa, si ricordò di una cosa di cui voleva parlargli. «Sam, la settimana scorsa ho ricevuto una telefonata assurda, in ufficio.» Gli raccontò della telefonata. «I parlamentari ricevono molte lettere o telefonate minatorie?» Lui non parve particolarmente preoccupato: «Non tante, comunque nessuno di noi le prende molto sul serio». La baciò sulla guancia e ridacchiò. «Stavo pensando che forse dovrei parlare con Claire Lawrence per vedere se non sta cercando di spaventare Abigail.» Pat lo guardò allontanarsi, poi richiuse la porta e mise il catenaccio. La casa rendeva più acuta la sua sensazione di vuoto. Con i mobili sarà diverso, promise a se stessa. Qualcosa sul pavimento attrasse la sua attenzione: una semplice busta bianca. Dovevano averla fatta scivolare sotto la porta mentre lei era fuori. Il suo nome era scritto in stampatello con una forte inclinazione da sinistra a destra. Probabilmente qualcuno dell'agenzia immobiliare, cercò di convincersi. Ma nell'angolo superiore sinistro mancava la nota intestazione dell'agenzia, e la busta era di un tipo più scadente. Lentamente l'aprì e tirò fuori l'unico foglio. C'era scritto: TI AVEVO DETTO DI NON VENIRE. 3 La mattina dopo la sveglia suonò alle sei. Pat scivolò con prontezza fuori dal letto. Il materasso tutto bozzi della camera degli ospiti non le aveva davvero conciliato il sonno, e lei era rimasta sveglia, tesa ad ascoltare tutti gli scricchiolii e i rumori della casa, oltre ai ritmici colpi del bruciatore che si spegneva e riprendeva a funzionare. Per quanto si sforzasse non riusciva a credere che quel biglietto fosse l'opera di un innocuo stravagante. Qualcuno la stava osservando. L'agenzia che si occupava del trasloco le aveva promesso di mandarle gli operai e tutto il suo carico per le otto, nel frattempo lei avrebbe trasportato in biblioteca l'archivio conservato nel seminterrato.
Lo scantinato era un luogo squallido, con le pareti e il pavimento di cemento. Nel centro erano ammucchiati con ordine mobili da giardino. Il magazzino era a destra del locale con la caldaia; il pesante lucchetto che chiudeva la porta era nero per la fuliggine che si era accumulata da anni. Dandole la chiave, Charles l'aveva avvertita: «Non so esattamente che cosa troverai, Pat. Tua nonna aveva dato disposizioni all'ufficio di Dean perché rimandassero a casa tutti i suoi effetti personali. Noi non ci siamo mai preoccupati di fare una cernita». Il seminterrato era umido, con un vago odore di muffa. Per un momento le parve che la chiave fosse sbagliata; si domandò se la serratura fosse arrugginita muovendo la chiave lentamente avanti e indietro finché la sentì girare. Allora tirò la porta. Nel magazzino l'assalì un odore di muffa ancora più intenso. Due classificatori di misura standard erano talmente coperti di polvere e di ragnatele che quasi non riuscì a capirne il colore. Vicino a loro erano ammucchiati alla rinfusa parecchi scatoloni pesanti. Con il pollice sfregò la fuliggine finché apparvero le etichette: ONOREVOLE DEAN W. ADAMS, LIBRI. ONOREVOLE DEAN W. ADAMS, EFFETTI PERSONALI. ONOREVOLE DEAN W. ADAMS, DOCUMENTI PERSONALI. Le etichette sui cassetti del classificatore dicevano: ONOREVOLE DEAN W. ADAMS, PERSONALE. «L'onorevole Dean W. Adams», disse Pat ad alta voce. E ripeté quel nome cautamente. Buffo, pensava, non mi è naturale pensare a lui come deputato. Lo vedo solo qui, in questa casa. Che genere di uomo politico era? A parte le fotografie ufficiali che erano state riprodotte sui giornali all'epoca della morte, non aveva visto di lui nessuna istantanea. Veronica le aveva mostrato album pieni di fotografie di Renée bambina, di Renée debuttante, durante il primo concerto da professionista, con Pat in braccio. Del resto non le era stato difficile capire perché non conservasse niente che le potesse ricordare Dean Adams. La chiave dei classificatori era nel mazzo che le aveva dato Charles. Stava per aprire il primo quando cominciò a starnutire; decise che era stupido tentare di esaminare qualche cosa lì sotto. Anche gli occhi cominciavano a bruciarle per la polvere. Aspetterò che sia tutto in biblioteca, pensò. Ma prima avrebbe lavato l'esterno degli schedari e tolto il grosso della polvere dagli scatoloni. Risultò un lavoro terribile, molto stancante. Non c'era lavandino nel se-
minterrato e lei dovette trascinarsi ripetutamente fino alla cucina, trasportare giù un secchio di acqua bollente saponata, per ritornare qualche minuto dopo in cucina con l'acqua e la spugna totalmente neri. Nel suo ultimo viaggio si portò nel seminterrato un coltello e raschiò con cura le etichette dagli scatoloni; poi tolse le etichette dai cassetti degli schedari. Soddisfatta, esaminò la sua opera: gli schedari erano color verde oliva e ancora in buone condizioni. Sarebbero stati bene sulla parete est della biblioteca, e lì potevano trovare posto anche gli scatoloni. Nessuno avrebbe avuto motivo di credere che non venivano da Boston. Di nuovo l'influenza di Veronica, pensò con disappunto. «Non dire niente a nessuno, Pat. Pensaci. Quando ti sposerai vuoi forse che i tuoi figli vengano a sapere che se zoppichi è perché tuo padre ha tentato di ucciderti?» Ebbe appena il tempo di lavarsi la faccia e le mani prima che arrivassero gli operai. I tre uomini del camion portarono in casa i mobili, srotolarono i tappeti, sballarono porcellane e cristallerie, trasportarono a pianterreno tutto ciò che era stato conservato nel magazzino. A mezzogiorno se n'erano già andati, palesemente soddisfatti della buona mancia. Di nuovo sola, Pat andò direttamente nel soggiorno. La trasformazione era clamorosa. Il grande tappeto orientale con i suoi splendidi disegni color albicocca, verde, giallo e mirtillo su fondo nero dominava la stanza. Il divanetto a due posti di velluto verde, sul lato corto, faceva angolo con il lungo divano rivestito in raso albicocca. Le due bergère che lo accompagnavano erano accanto al camino; la cassapanca di Bombay era a sinistra della portafinestra che dava sulla terrazza. La camera era stata riportata alla sua atmosfera originaria. Pat andava qua e là, sfiorando il piano dei tavoli, spostando una sedia o un lume, accarezzando il rivestimento dei divani e delle poltrone. Che cosa provava? Non lo sapeva con certezza. Non esattamente paura, anche se doveva costringersi a passare davanti al camino. Ma allora? Nostalgia? E per che cosa? Possibile che alcune di quelle impressioni sfocate fossero ricordi di momenti felici vissuti in quella stanza? Se così era, che altro poteva fare per recuperarli? Alle tre meno cinque scese da un taxi davanti al palazzo Russell del Senato. La temperatura era calata improvvisamente nelle ultime ore e fu contenta di entrare nella hall riscaldata. Gli addetti alle misure di sicurezza controllarono il suo appuntamento e la guidarono all'ascensore. Qualche minuto dopo dava il suo nome all'impiegata della reception nell'ufficio di
Abigail Jennings. «La senatrice Jennings è un po' in ritardo», spiegò la ragazza. «Ci sono stati parecchi membri del suo collegio che sono venuti a trovarla. Ma non ci vorrà molto.» «Non ha importanza, aspetterò.» Pat si scelse una sedia dallo schienale rigido e si guardò intorno. Abigail Jennings disponeva evidentemente di uno dei più begli uffici nel Senato. Era un appartamento d'angolo arioso, che dava una sensazione di tranquillità non comune, in quel palazzo sovraffollato. Una bassa balaustra separava la sala d'aspetto dal tavolo dell'impiegata. Sulla sinistra un corridoio conduceva a una serie di uffici privati. Le pareti erano tappezzate da fotografie della senatrice ritagliate dai giornali e incorniciate semplicemente. Il tavolino accanto al divano di pelle era coperto di opuscoli che spiegavano le opinioni della senatrice Jennings sulle leggi che erano state discusse. La voce familiare, addolcita da una leggerissima sfumatura di accento meridionale, stava congedandosi dai visitatori in un ufficio più interno. «Sono felice che siate riusciti a fermarvi qui. Vorrei avere più tempo...» Gli ospiti erano una coppia di sessantenni ben vestiti che si profondevano in ringraziamenti. «Mi sono ricordato che a quella cena per raccogliere fondi in cui ci eravamo incontrati, lei aveva detto di fermarci... e io ho detto: 'Violet, dato che siamo a Washington, andiamoci!'» «È sicura di non essere libera per cena?» interloquì la voce ansiosa della donna. «Vorrei esserlo.» Pat osservò la senatrice pilotare i suoi ospiti verso la porta esterna, aprirla e richiuderla lentamente, dietro di loro. Bene, ci siamo, pensò sentendo salire la sua adrenalina. Abigail si voltò e si fermò, dandole la possibilità di studiarla da vicino. Pat si era dimenticata quanto fosse alta la senatrice, circa un metro e settantacinque, con un portamento eretto e pieno di grazia. Il tailleur di tweed grigio metteva in risalto le linee del suo corpo. Le spalle larghe accentuavano una vita sottile e i fianchi ben disegnati che armonizzavano con le gambe snelle. I capelli biondo cenere tagliati corti le circondavano il viso minuto in cui brillavano due straordinari occhi azzurri. Il naso invece era lucido, le labbra pallide e non ben disegnate. Pareva che non usasse trucco come se volutamente cercasse di attenuare la sua bellezza abbastanza straordinaria. A parte le rughe sottili che segnavano il viso accanto agli occhi e alla bocca, pareva identica a sei anni prima.
Pat colse lo sguardo della senatrice che incontrava il suo. «Salve», fece la senatrice andando verso di lei a passo svelto e, con un'occhiata di rimprovero all'impiegata, aggiunse: «Cindy, avresti dovuto avvertirmi che c'era la signorina Traymore». Poi l'espressione severa ridiventò dispiaciuta: «Be', poco male. Prego, venga nel mio ufficio, signorina Traymore. Posso chiamarla Pat? Luther l'ha raccomandata così calorosamente che mi pare già di conoscerla. E ho visto alcuni degli special che lei ha fatto a Boston. Me li ha proiettati Luther. Sono splendidi. E, come lei mi ha scritto nella sua lettera, ci siamo già incontrate alcuni anni fa. È stato quando ho parlato a Wellesley, vero?» «Sì, appunto.» Pat seguì la senatrice nel suo ufficio e si guardò intorno. «Che ambiente piacevole!» esclamò. Su una lunga console di noce erano disposte una lampada giapponese dai delicati motivi ornamentali, una statuetta, un gatto chiaramente di valore e una penna d'oro spuntava dal portapenne. La poltrona di cuoio rosso, larga e comoda con i braccioli ricurvi e ornati di borchie, era probabilmente un pezzo del Seicento inglese. Nel tappeto orientale i colori dominanti erano il rosso e l'azzurro. Dietro la scrivania, contro il muro, erano appoggiate la bandiera degli Stati Uniti e quella della Virginia. Tende azzurre di seta ai due lati della finestra addolcivano la desolazione della nuvolosa giornata invernale. Una parete era coperta da una libreria in mogano. Pat si accomodò in una sedia vicino alla scrivania della senatrice. La senatrice appariva compiaciuta per l'impressione suscitata nella sua ospite dall'ambiente. «Alcuni miei colleghi credono che più il loro ufficio è sciatto e disordinato, più i loro elettori li riterranno attivi e semplici. Io nella confusione non riesco proprio a lavorare: l'armonia ha molta importanza per me. In un'atmosfera come questa mi sento più a mio agio.» S'interruppe. «Senta, dovrò partecipare a una votazione tra poco meno di un'ora, perciò penso sia meglio che veniamo subito al sodo. Luther le avrà detto, immagino, che in realtà io non approvo l'idea di questo programma.» Pat si sentì al sicuro: molti opponevano resistenza quando si trattava di servizi imperniati su di loro, perciò rispose: «Sì, me l'ha detto, ma francamente credo che lei sarà soddisfatta del risultato». «È l'unico modo in cui potrei considerare le cose. Voglio essere sincera fino in fondo: preferisco lavorare con Luther e con lei anziché vedere poi un'altra rete trasmettere su di me notizie che non ho autorizzato. Ma nello stesso tempo, penso con nostalgia ai bei vecchi tempi in cui l'uomo politico poteva dire semplicemente: 'Basatevi, per giudicarmi, sulle posizioni
che ho assunto'.» «Quei tempi sono passati. Per lo meno, lo sono per la gente che conta.» Abigail aprì un cassetto della scrivania e ne trasse un portasigarette. «Non fumo più in pubblico», osservò. «Una volta, una sola volta, si rende conto? un giornale pubblicò una mia fotografia, con una sigaretta in mano. Ero deputato, all'epoca, e ricevetti dozzine di lettere irritate da parte di alcuni genitori del mio distretto che mi accusavano di dare un cattivo esempio.» Tese il portasigarette attraverso la scrivania. «Vuole?...» Pat scosse la testa. «No, grazie. Mio padre mi aveva pregato di non fumare prima dei diciott'anni, e dopo non mi ha più interessato farlo.» «E ha mantenuto la parola? Nessuna fumatina dietro il garage, o simili?» «No, nessuna.» La senatrice sorrise. «Questo lo trovo rassicurante. Sam Kingsley e io abbiamo in comune una grande sfiducia nei mezzi di informazione. Lo conosce, vero? Quando gli ho parlato di questo programma, mi ha assicurato che lei era diversa.» «Molto gentile da parte sua», fece Pat cercando di apparire disinvolta. «Senatrice, credo che il sistema più semplice per affrontare questo lavoro sia che lei mi dica esattamente perché l'idea del programma le risulta così fastidiosa. Se so in anticipo che cosa non le va, ovviamente risparmieremo un sacco di tempo.» Osservò il viso della senatrice farsi pensieroso. «Mi manda in bestia il fatto che nessuno è soddisfatto della mia vita personale. Sono rimasta vedova a trentun anni. Il fatto di prendere il posto di mio marito al Congresso dopo la sua morte, poi di essere eletta io stessa e di arrivare anche al Senato... be', tutto questo mi ha fatto continuare a sentire il legame con lui. Amo il mio lavoro, sono sposata con il mio lavoro. Ma naturalmente non posso descrivere con il tono dovutamente lacrimevole il primo giorno di scuola di mio figlio, perché figli non ne ho mai avuti. A differenza di Claire Lawrence non posso farmi fotografare con un esercito di nipotini. E l'avverto, Pat, non permetterò che venga usata in questo programma una fotografia di me in costume da bagno, con tacchi a spillo e una corona di fondi di bicchiere.» «Ma lei è stata Miss New York State. Non può ignorarlo.» «Non posso?» I suoi occhi incredibili lampeggiarono. «Lo sa che, poco dopo la morte di Willard, qualche stupido giornale pubblicò quella fotografia sottolineata dalla frase: il tuo vero premio non è forse rappresentare il Sud al Congresso? E lo sa che il governatore quasi ci ripensava sul fatto
di nominarmi per completare il mandato di Willard? Ci volle Jack Kennedy per persuaderlo che avevo lavorato a fianco di mio marito dal giorno in cui era stato eletto. Se Jack non fosse stato così potente, forse non sarei qui ora. No, grazie tante, niente fotografie da reginetta di bellezza. Faccia partire il suo programma da quando ero laureanda all'università di Richmond, appena sposata con Willard e lo aiutavo nella campagna elettorale per la sua prima candidatura. La mia vita è iniziata allora.» Non puoi fingere che i primi vent'anni della tua vita non esistano, pensò Pat. Perché, poi? «Mi è capitata una fotografia di lei bambina, davanti alla sua casa di famiglia ad Apple Junction. Questo è il genere di antefatto di cui penso di servirmi.» «Pat, io non ho mai detto che quella fosse la casa della mia famiglia. Per essere esatti, mia madre era la governante della famiglia Saunders, e noi avevamo un appartamentino sul retro. Per favore, non dimentichi che sono il senatore anziano della Virginia. La famiglia Jennings occupava una posizione di rilievo a Tidewater, in Virginia, fin da Jamestown, il primo insediamento inglese in America nel 1607. Mia suocera mi chiamava sempre la moglie yankee di Willard. Mi ci sono voluti molti sforzi per essere considerata una Jennings della Virginia e dimenticare Abigail Foster dello stato di New York. Lasciamo che le cose restino in questo modo, va bene?» Qualcuno bussò alla porta. Entrò un uomo sulla trentina dal viso scarno e dall'aria seria, con un completo grigio gessato che accentuava la magrezza del suo corpo. I capelli biondi e radi erano pettinati con cura ma non riuscivano a nascondere la calvizie. Gli occhiali con la montatura a giorno mettevano ancor più in evidenza il suo aspetto da persona di mezza età. «Senatore», disse, «stanno per arrivare alla votazione. Dieci minuti.» La senatrice si alzò di colpo. «Pat, mi deve scusare. A proposito, questo è Philip Buckley, il mio assistente. Lui e Toby hanno raccolto parecchio materiale per lei... ogni genere di cose: ritagli di giornali, lettere, album di fotografie, persino qualche pellicola girata in casa. Perché non se le guarda e poi ne riparliamo?» Pat non poté fare altro che accettare. Avrebbe parlato con Luther Pelham: tra tutti e due dovevano convincere la senatrice che non poteva sabotare il programma. Si accorse che Philip Buckley la stava studiando attentamente e le parve di notare una certa ostilità nei suoi modi. «Toby la riaccompagnerà a casa», continuò la senatrice in fretta. «Ma dov'è Toby, Phil?» «Eccomi, senatrice, non dia in smanie.»
A parlare con tono allegro era stato un uomo imponente e muscoloso che diede immediatamente a Pat l'impressione di essere un pugile professionista a riposo. Aveva un faccione bovino, con la carne che cominciava a gonfiarsi sotto gli occhietti incassati. I capelli di un biondo rossiccio scolorito erano abbondantemente spruzzati di bianco. Indossava un vestito blu scuro e teneva un berretto con la visiera tra le mani. Le mani... Erano le più grosse che avesse mai visto. Un anello con una pietra gigantesca ne accentuava la mole. Non dia in smanie. L'aveva sentita veramente quella frase? Sbalordita, si voltò a guardare la senatrice. Ma Abigail Jennings stava ridendo. «Pat, questo è Toby Gorgone. Può dirgli quali sono i suoi compiti mentre la riaccompagna a casa. Io non sono mai riuscita a definirli, e sono venticinque anni che è con me. Anche lui è di Apple Junction e, oltre a me, è la cosa migliore che sia venuta fuori da quel posto. E adesso scappo. Andiamo, Phil.» Uscirono. Sarà un lavoro infernale realizzare questo programma, pensò Pat. Aveva tre pagine piene di punti che avrebbe voluto discutere con la senatrice, ed era riuscita a sollevarne esattamente uno. Toby conosceva Abigail dall'infanzia, ma era incredibile che lei accettasse così la sua insolenza. Era appena arrivata alla reception, quando la porta si spalancò e la senatrice Jennings tornò indietro a precipizio, seguita da Phil. I modi rilassati erano spariti. «Toby, grazie al cielo ti ho trovato», abbaiò. «Come ti è venuta l'idea che devo andare all'ambasciata solo alle sette?» «È quello che mi ha detto lei, senatrice.» «Forse è quello che ti ho detto, ma tu sei tenuto a ricontrollare i miei appuntamenti, o sbaglio?» «No, senatrice», disse Toby gentile. «Devo essere lì alle sei. Trovati qui sotto un quarto d'ora prima.» Le parole furono dette con violenza. «Senatrice, farà tardi per la votazione», disse Toby, «meglio che si muova.» «Farei tardi per qualsiasi cosa se non avessi degli occhi sulla schiena per controllarti.» Questa volta la porta venne sbattuta alle sue spalle. Toby rideva. «Meglio che andiamo, signorina.» Pat annuì senza parlare. Non riusciva a immaginare uno dei domestici di casa sua rivolgersi a Veronica o a Charles con altrettanta confidenza, e dimostrarsi così poco mortificato per un rimprovero. Quali circostanze ave-
vano creato quel bizzarro rapporto tra la senatrice Jennings e il suo autista? Decise di scoprirlo. 4 Toby manovrava la lucente Cadillac grigia attraverso il traffico che andava rapidamente aumentando. Per la centesima volta si rese conto che Washington di pomeriggio avanzato è un incubo per chi guida. Sbirciò nel retrovisore, e quel che vide gli piacque. Patricia Traymore era come si deve. Ci erano voluti lui, Phil e Pelham, per convincere Abby a concedere l'intervista. Perciò Toby si sentiva responsabile che la cosa funzionasse. Comunque, non si poteva biasimare Abby se era nervosa. Semplicemente, era a un soffio da tutto quello che aveva sempre desiderato. I suoi occhi incontrarono nel retrovisore quelli di Pat. Che sorriso aveva quella ragazza! Aveva sentito Sam Kingsley dire ad Abigail che Pat Traymore era capace di farti dire quello che mai avresti pensato di far sapere a un altro essere umano. Poteva crederci. Pat aveva riflettuto sul modo in cui abbordare Toby e aveva deciso per la franchezza. Mentre la macchina si fermava a un semaforo in Constitution Avenue, si protese in avanti. Ridacchiò appena mentre diceva: «Toby, devo confessarle che non credevo alle mie orecchie quando lei ha detto alla senatrice di smettere di dare in smanie». Lui voltò la testa per guardarla in viso: «Forse, non dovevo dirlo in sua presenza, perlomeno la prima volta che la vedevo. Di solito non lo faccio. Solo, sapevo che Abby era molto tesa per questo programma e doveva lasciarla subito per la votazione, e che c'erano un sacco di giornalisti che le sarebbero saltati addosso per sapere i motivi per cui non segue la linea del partito, così ho pensato che se la facevo sbollire prima... era tanto di guadagnato per lei. Ma non deve fraintendere. Rispetto la signora. E non si preoccupi per la sfuriata che mi ha fatto. Tra cinque minuti l'avrà dimenticata». «Siete cresciuti insieme?» lo stimolò gentilmente Pat. Il semaforo era diventato verde. La macchina ripartì senza scosse. Toby si insinuò nella corsia di destra davanti a una giardinetta prima di rispondere. «Non esattamente. Tutti i ragazzini di Apple Junction frequentano la stessa scuola, salvo quelli della scuola parrocchiale, naturalmente. Abby era più grande di me di due anni, perciò non siamo mai capitati nella stessa
classe. Poi, a quindici anni, io ho cominciato a lavorare come garzone giardiniere nel quartiere ricco della città. Penso che Abby le abbia già detto che abitava nella casa dei Saunders.» «Sì, me l'ha detto.» «Io lavoravo per una famiglia che stava quattro ville più in là. Un giorno ho sentito Abby che strillava. Il vecchio che abitava davanti ai Saunders si era messo in testa che gli serviva un cane da guardia e aveva comprato un pastore tedesco. Una bestia pericolosa. Comunque, fatto sta che il vecchio aveva lasciato il cancello aperto e il cane era uscito proprio mentre Abby passava per la strada. Gli era saltato addosso e non aveva intenzioni affettuose.» «E lei l'ha salvata?» «Può dirlo. Ho cominciato a gridare per distrarlo. Sfortunatamente avevo lasciato cadere il rastrello, perché mi ridusse davvero male prima che riuscissi a prenderlo per il collo. E allora», la voce di Toby suonava piena di orgoglio, «e allora... addio cane da guardia.» Con una mano Pat estrasse il registratore dalla sua borsetta a tracolla e lo accese. «Adesso capisco perché la senatrice tenga tanto a lei», commentò. «I giapponesi credono che quando si salva la vita a qualcuno se ne diventa responsabili. È questo che le è successo? Ho l'impressione che lei si senta responsabile della senatrice, sbaglio?» «Non lo so. Può darsi che sia andata così oppure è stato il fatto che lei ha rischiato per me quand'eravamo ragazzini.» La macchina si fermò improvvisamente. «Mi scusi, signorina Traymore, se ho frenato bruscamente, ma la macchina davanti continua a leggere le indicazioni stradali.» «Non importa, non è successo niente. Diceva che la senatrice ha rischiato per lei?» «Ho detto può darsi che abbia rischiato. Lasci perdere. Alla senatrice non piace che io parli di Apple Junction.» «Scommetto che anche la senatrice parla di quando lei l'ha aiutata», arrischiò Pat. «Io posso immaginare come mi sarei sentita se un cane da difesa mi avesse caricato e qualcuno si fosse gettato nel mezzo.» «Ah, Abby mi è stata davvero riconoscente, niente da dire. Il braccio mi sanguinava, e lei mi ha fasciato con il suo golf, poi ha insistito per accompagnarmi al pronto soccorso e ha persino voluto restare lì mentre mi davano i punti. E dopo siamo diventati amici per la pelle.» Toby lanciò un'occhiata da sopra la spalla. «Amici», ripeté con enfasi, «nient'altro che questo. Abby non è donna per me, il perché mi sembra e-
vidente e poi cose di quel genere erano fuori discussione. Ma qualche volta, di pomeriggio, veniva a chiacchierare con me mentre io lavoravo in giardino. Odiava Apple Junction quanto me. E quando zoppicavo in inglese, mi aiutava. Io non sono un grande studioso. Datemi in mano una macchina e ve la smonto e rimonto tutta in due minuti, ma non chiedetemi di fare l'analisi grammaticale di una frase... Comunque, Abby è andata all'università, e io sono finito a New York dove mi sono sposato. Non ha funzionato e mi sono messo a raccogliere scommesse per degli allibratori, cacciandomi nei guai. Dopo ho cominciato a fare l'autista per un matto di Long Island. Intanto Abby si era sposata e suo marito era deputato, e una volta, in un articolo che li citava, lessi che avevano avuto un incidente causato dal loro autista che aveva bevuto. Allora ho pensato che potesse essere un'occasione interessante; le ho scritto e quindici giorni dopo suo marito mi ha assunto, e questo è successo venticinque anni fa. Signorina Traymore, qual è il numero? Questa è N Street.» «Tremila», disse Pat. «La casa d'angolo del prossimo isolato.» «Quella casa?» Troppo tardi, Toby tentò di nascondere l'emozione che gli incrinava la voce. «Sì, perché?» «Perché accompagnavo Abby e Willard Jennings alle feste che si davano in quella casa. Era proprietà di un deputato che si chiamava Dean Adams. Le hanno raccontato che ammazzò sua moglie e poi si suicidò?» Pat sperò che la sua voce suonasse calma. «L'avvocato di mio padre ha provveduto ad affittare la casa per me. Effettivamente mi ha detto che molti anni fa vi era successa una tragedia, ma non è sceso nei particolari.» Toby accostò al marciapiede e fermò la macchina. «Meglio non pensarci. Lui tentò perfino di uccidere la bambina, che morì invece qualche tempo dopo. Era davvero una bella bambina. Mi ricordo che si chiamava Kerry. Meglio non pensarci.» Scosse la testa. «Se lascio la macchina qui vicino all'idrante solo per un minuto, spero che le guardie non faranno storie.» Pat fece per aprire la portiera, ma Toby fu più svelto di lei. In un baleno era schizzato fuori dalla macchina, vi aveva girato intorno e teneva aperta la porta, mettendole la mano sotto il braccio. «Stia attenta, signorina Traymore, è tutto ghiacciato.» «Sì, ho visto. Grazie.» Pat era contenta che fosse già calata la sera, forse l'espressione preoccupata del suo viso avrebbe potuto rappresentare un segnale per Toby. Era possibile che lui non avesse testa per i libri, ma lei a-
vrebbe potuto scommetterci sul fatto che Toby era un uomo estremamente sensibile. Pat si rese conto di aver sempre pensato a quella casa solo nel contesto di quell'unica notte. Ma era naturale invece che vi si fossero svolte delle feste: Abigail Jennings aveva oggi cinquantasei anni, Willard era di otto o nove anni più vecchio di lei e suo padre avrebbe avuto una sessantina d'anni, se fosse vissuto. Erano tutti della stessa generazione. Toby stava cercando nel portabagagli. Lei moriva dalla voglia di fargli delle domande su Dean e Renée Adams, e su quella bella bambina di nome Kerry. Ma non era quello il momento. Toby la seguì in casa, con due grossi scatoloni sulle braccia. Si capiva benissimo che erano pesanti, ma lui li portava con disinvoltura. Gli fece strada nella biblioteca e gli fece segno di metterli accanto agli scatoloni presi dal magazzino. E benedisse l'istinto che le aveva fatto grattar via le etichette con il nome di suo padre. Ma Toby guardò appena gli scatoloni. «Meglio che scappi, signorina Traymore. Questo scatolone», indicò, «contiene ritagli di giornali, album fotografici, insomma roba di questo genere. Nell'altro invece ci sono lettere degli elettori, di tipo personale, dove potrà rendersi conto del genere di aiuto che Abby fornisce loro. Ci sono anche dei filmetti girati in famiglia, per lo più di quando era vivo il marito. Le solite cose, immagino. Sarò felice di proiettarglieli quando lei vuole e di chiarirle chi sono i personaggi e che cosa fanno.» «Li guarderò con calma e poi mi rivolgerò a lei. Grazie, Toby. Sono sicura che lei mi sarà di grande aiuto in questo progetto. Forse tra tutti e due riusciremo a mettere su qualche cosa di cui la senatrice sarà contenta.» «Se non lo sarà, lo sapremo tutti e due.» Il viso gioviale di Toby si illuminò in un sorriso cordiale. «Buona notte, signorina Traymore.» «Perché non Pat? Dopotutto, l'ho sentita chiamare la senatrice Abby.» «Sono l'unico autorizzato a chiamarla così. È un nomignolo che odia. Ma chissà? Forse avrò l'occasione di salvare la vita anche a lei.» «Non esiti un istante se le capita questa occasione.» Pat gli porse la mano e la guardò sparire dentro quella gigantesca di lui. Quando l'uomo si allontanò, rimase immobile sulla soglia, persa nei suoi pensieri. Avrebbe dovuto imparare a non lasciar trapelare alcuna emozione quando qualcuno parlava di Dean Adams. Era stata una fortuna che Toby avesse pronunciato quel nome mentre lei era ancora al riparo, nell'oscurità della macchina.
Dall'ombra della casa di fronte, qualcun altro osservava Toby allontanarsi. Con estrema irritazione e curiosità, studiava Pat ferma sulla soglia. Le mani erano affondate nelle tasche del cappotto malandato. I pantaloni bianchi di cotone, le calze bianche e le scarpe anch'esse bianche con la suola di gomma si confondevano con la neve ammucchiata contro la casa. I suoi polsi ossuti si tesero mentre stringeva le dita a pugno, e la tensione gli gonfiò i muscoli delle braccia. Era un uomo alto, scarno, con un atteggiamento rigido del corpo e un'innaturale postura della testa leggermente reclinata all'indietro. I capelli di un grigio argenteo, che contrastavano inverosimilmente con il viso senza rughe, erano pettinati in avanti e gli coprivano la fronte. Eccola, era tornata. L'aveva vista mentre scaricava la macchina la sera prima. Malgrado i suoi avvertimenti a quanto pare aveva deciso di non cambiare programma; quella che si era fermata non poteva essere che la macchina della senatrice, e senz'altro gli scatoloni contenevano documenti che la riguardavano. E, per di più, avrebbe abitato in quella casa. Il ricordo di un mattino di tanti anni prima gli si riaffacciò alla mente: l'uomo, riverso sulla schiena, incuneato tra il tavolino basso e il divano; gli occhi della donna, che guardavano fisso, senza più mettere a fuoco; i capelli della bambina, arruffati e sporchi di sangue... Rimase immobile anche dopo che Pat ebbe richiuso la porta, come se non riuscisse a fare il più piccolo movimento. In cucina, Pat si stava arrostendo una cotoletta quando il telefono cominciò a squillare. Non sperava che fosse Sam, però... Con un fugace sorriso tese la mano verso il ricevitore. «Pronto.» Un bisbiglio. «Pat Traymore.» «Sì. Con chi parlo?» Ma quella voce, che parlava bisbigliando, la conosceva. «Ha ricevuto la mia lettera?» Lei cercò di rendere la voce calma e persuasiva. «Non so perché lei sia turbato. Me lo dica.» «Si scordi di quel programma sulla senatrice, signorina Traymore. Io non voglio punire lei. Non mi ci costringa. Ma ricordi quello che ha detto il Signore: 'Chiunque fa del male a uno di questi piccoli, merita che gli sia messa una pietra al collo e che sia fatto annegare nella profondità del mare'.» La comunicazione s'interruppe.
5 Era solo una telefonata senza senso, di qualche squinternato che probabilmente pensava che le donne devono stare in cucina, non nella pubblica amministrazione. Pat ricordò il tipo che a New York andava su e giù per Fifth Avenue con cartelli in cui erano scritti passi della Bibbia che ricordavano l'ubbidienza che le donne devono ai loro mariti. Era assolutamente innocuo. Doveva esserlo anche l'autore delle telefonate. Lei non poteva credere che fosse niente di più. Portò un vassoio in biblioteca e cenò facendo un primo spoglio dei documenti di Abigail. La sua ammirazione per la senatrice cresceva a ogni rigo che leggeva. Abigail Jennings diceva la verità quando affermava di essere sposata con il suo lavoro. I suoi elettori erano davvero la sua famiglia, pensò Pat. Aveva un appuntamento con Pelham negli uffici della televisione la mattina dopo. A mezzanotte andò a letto. La camera da letto più ampia comprendeva uno spogliatoio e un bagno personale. I mobili Chippendale, con i loro delicati intarsi di legni policromi, erano perfetti, era evidente che erano stati comprati per quella casa. La cassettiera si inseriva esattamente tra gli armadi a muro; il cassettone con lo specchio era destinato alla rientranza, e il letto con la testata riccamente intagliata armonizzava perfettamente con tutto il resto dell'arredamento. Veronica aveva mandato un divanetto e materassi nuovi, e il letto risultava meravigliosamente comodo. Ma i ripetuti viaggi nel seminterrato per pulire gli schedari si facevano sentire sulla gamba. Il ben noto, tormentoso dolore, era più acuto del solito, e benché fosse molto stanca non riusciva a prendere sonno. Cercò di pensare a quelcosa di piacevole, mentre si agitava irrequieta girandosi da un fianco all'altro. Poi, al buio, sorrise amaramente. Poteva pensare a Sam. Gli uffici e lo studio della Potomac erano a un passo da Farragut Square. Entrando nella sede televisiva, Pat ricordò quello che le aveva detto il direttore dei notiziari della televisione di Boston: «È assolutamente fuori discussione accettare quel posto, Pat. Lavorare per Luther Pelham è un'occasione che capita una volta nella vita. Quando ha lasciato la CBS per passare alla Potomac, la cosa ha fatto scalpore in tutto l'ambiente». A Boston, quand'era andata a colazione con Luther, l'avevano sorpresa le occhiate che venivano loro rivolte da tutti quelli che erano nella sala. Lei si
era abituata a essere riconosciuta nella zona di Boston e ad avere gente che si avvicinava al suo tavolo per chiederle l'autografo. Ma il modo in cui praticamente ogni paio di occhi era inchiodato su Luther Pelham era assolutamente diverso. «Riesce ad andare in qualche posto senza essere al centro dell'attenzione?» gli aveva chiesto. «Sono felice di poter dire che non accade in troppi posti. Ma del resto lo scoprirà da sola, tra sei mesi la gente la seguirà per la strada, e metà delle ragazze americane cercherà di imitare la sua voce.» Un'esagerazione, certo, ma lusinghiera. Dopo la seconda volta che si era rivolta a lui chiamandolo signor Pelham, le aveva detto: «Pat, sei dei nostri. Ho un nome, oltre che un cognome. Usalo». Era indiscutibile che Luther Pelham fosse stato affascinante, anche se in quell'occasione le aveva proposto un lavoro. Adesso era il suo capo. Quando fu annunciata, Luther venne ad accoglierla nell'atrio. I suoi modi rivelavano una cordialità espansiva, la voce familiare e ben modulata trasmetteva autentico calore: «È splendido averti qui, Pat. Voglio farti conoscere la banda». La portò in giro per gli uffici del telegiornale e la presentò. Dietro i soliti scambi di battute formali, lei percepiva negli occhi dei suoi nuovi compagni di lavoro un'ombra di curiosità e il desiderio di vederla alla prova. Poteva indovinare i loro pensieri: sarebbe stata all'altezza? Le prime impressioni le piacquero. La Potomac stava diventando rapidamente uno dei più importanti network privati del paese, e gli uffici del telegiornale fervevano di attività. Una ragazza stava trasmettendo ogni ora i titoli dal suo tavolo, un esperto militare stava registrando il suo pezzo che aveva frequenza bisettimanale, alcuni redattori stavano curando le notizie di agenzia per i notiziari. Lei sapeva bene che la calma apparente di quelli che lavoravano era una trovata necessaria. Tutti quelli che lavorano in televisione convivono con una tensione costante, sempre in campana, in attesa che succeda qualche cosa, con la paura di mancare, per qualche ragione, un colpo grosso. Luther si era già detto d'accordo che lei scrivesse e curasse il programma a casa, finché fossero stati pronti a registrarlo. Le indicò il cubicolo che le era stato destinato, poi la portò nel suo ufficio privato, una grande stanza rivestita di quercia. «Mettiti comoda, Pat», fece. «Mi hanno telefonato e sono costretto a richiamare.» Mentre era al telefono, Pat ebbe la possibilità di studiarlo da vicino. Era un bell'uomo e si faceva notare. I capelli grigi erano folti, con un buon ta-
glio e contrastavano con la pelle giovane e gli occhi scuri indagatori. Pat sapeva che aveva sessant'anni compiuti da poco. Del party che aveva dato sua moglie nella loro residenza di Chevy Chase avevano parlato le cronache mondane di tutti i giornali. Con quel naso aquilino e le mani dalle dita affusolate che tamburellavano impazienti il piano della scrivania, le faceva pensare a un'aquila. Luther depose il telefono. «Ho superato l'esame?» Gli occhi parevano divertiti. «A pieni voti.» Perché, si chiese, doveva sentirsi sempre a suo agio in una situazione professionale e così spesso provare un senso di imbarazzo nei rapporti personali? «Felice di sentirtelo dire. Se non avessi cercato di valutarmi, mi sarei preoccupato. Congratulazioni. Hai fatto colpo su Abigail ieri.» Una battuta rapida ed ecco che tornava ai discorsi di lavoro. Questo le piaceva e per parte sua non aveva intenzione di fargli perdere tempo con dei giri di parola. «Sono rimasta molto impressionata da Abigail, del resto chi non lo sarebbe?» Poi aggiunse come ulteriore spiegazione: «Nei limiti in cui ho avuto la possibilità di rimanere con lei, naturalmente». Pelham agitò appena la mano, come per allontanare una realtà spiacevole. «Lo so, lo so. È difficile afferrarla, per questo le avevo detto di prepararti del materiale che la riguardasse. Non ti aspettare molta collaborazione dalla signora perché non l'avrai. Ho messo in programma il servizio per il ventisette.» «Il ventisette? Il ventisette dicembre?» Pat sentì che il tono della sua voce tradiva preoccupazione. «Mercoledì prossimo! Ma significherebbe che tutte le riprese, la redazione e la sonorizzazione dovranno essere fatte in una settimana!» «Esattamente», confermò Luther. «E sarai tu a occupartene.» «Ma perché questa fretta?» Lui si appoggiò allo schienale, accavallò le gambe e sorrise con il piacere di chi sta per rivelare una notizia importante: «Perché questo non sarà un servizio come gli altri. Pat Traymore, ti è offerta la possibilità di incoronare un re». Lei si ricordò quello che le aveva detto Sam. «Il vicepresidente?» «Il vicepresidente», confermò Luther, «e mi fa piacere constatare che tu sei al corrente di queste possibilità, significa che tieni le orecchie aperte. Quel bypass triplice che gli hanno applicato l'anno scorso non ha risolto affatto la sua situazione. I miei informatori all'interno dell'ospedale mi dico-
no che ha il cuore in cattivo stato e che se vuole sopravvivere dovrà cambiare sistema di vita. Questo significa che le sue dimissioni sono praticamente sicure... adesso. Per far contente tutte le correnti del partito, il presidente farà controllare dai servizi segreti tre o quattro dei candidati seri alla carica. Ma negli ambienti bene informati si dice che Abigail è la favorita. Quando manderemo in onda questo programma, potremo indurre milioni di americani a mandare telegrammi al presidente a favore di Abigail e questo è il compito che il programma deve svolgere per lei. E pensa anche a quello che può voler dire per la tua carriera.» Sam aveva parlato della possibilità delle dimissioni del vicepresidente e della candidatura di Abigail. Luther Pelham, evidentemente, le riteneva entrambe probabilità imminenti. Trovarsi nel posto giusto al momento giusto, esserci quando si sta delineando una storia... era il sogno di ogni giornalista, e soprattutto di ogni giornalista donna. «Se trapela la notizia sulla gravità della malattia del vicepresidente...» «Altro che trapelare», fece Luther. «Io ne parlo nel notiziario di stasera, senza tacere le voci secondo le quali il presidente sta prendendo in considerazione la possibilità che a sostituirlo possa essere una donna.» «Allora il programma sulla Jennings potrebbe battere tutti gli indici di gradimento, la settimana prossima! La senatrice Jennings non è molto nota all'elettore medio. Tutti vorranno scoprire chi è.» «Appunto. Adesso capisci perché dobbiamo montarlo in fretta e realizzare qualcosa che sia assolutamente straordinario.» «La senatrice... Se questo programma noi lo facciamo asettico come mi sembra che lei desideri non ne ricaverà che qualche telegramma, altro che milioni. Prima di proporre questo servizio ho fatto un bel po' di indagini per vedere che cosa pensa la gente di lei.» «E che cosa hai scoperto?» «I più anziani la paragonano a Margaret Chase Smith. Dicono che è un personaggio di rilievo, che ha fegato e che è intelligente.» «E che cosa c'è che non va?» «Nessuno di loro ha la sensazione di conoscerla come essere umano. La ritengono distante e formale.» «Continua.» «Per i giovani è diverso. Quando ho detto loro che la senatrice era stata Miss New York State, l'hanno trovata una notizia fantastica. Vogliono saperne di più. Bada, se Abigail Jennings viene designata alla vicepresidenza, sarà il numero due di questo paese. Un sacco di gente, sapendo che è
del Nordest, si sente offesa dal fatto che lei non ne parla mai. Io penso che sia uno sbaglio da parte sua e noi lo avalleremo se ignoriamo i primi vent'anni della sua vita.» «Non ti permetterà mai di nominare Apple Junction», replicò reciso Luther. «Quindi, non perdiamo tempo a parlarne. Mi ha detto che quando rinunciò al titolo di Miss New York State, i suoi concittadini volevano linciarla.» «Luther, sta sbagliando. Credi seriamente che a qualcuno di Apple Junction gliene importi davvero molto che Abigail non sia andata ad Atlantic City per cercare di farsi eleggere Miss America? Scommetto che in questo momento ogni adulto della città sta vantandosi di averla conosciuta all'epoca. E quanto al fatto di aver rinunciato al titolo, affrontiamolo a testa alta. Chi non proverebbe simpatia per lei, se ammettesse di essere entrata in gara per scherzo, ma avesse anche immediatamente scoperto di non poter sopportare l'idea di sfilare in costume da bagno e farsi giudicare come merce qualsiasi, in vendita al mercato? I concorsi di bellezza sono passati di moda, potremmo persino metterla in buona luce facendo notare che lei se n'era accorta prima di tutti gli altri.» Luther tamburellava con le dita sulla scrivania. L'istinto gli suggeriva che Pat aveva ragione, ma su quel punto Abigail era stata categorica. E se poi, insistendo, l'avessero convinta a inserire nel programma qualche notizia relativa alla sua giovinezza, e la cosa si fosse rivelata controproducente? Luther era deciso ad assumere un ruolo determinante appoggiando completamente Abigail nella sua carriera politica. Naturalmente i leader del partito avrebbero preteso da Abigail la promessa di non presentarsi per la carica numero uno, ma che diavolo, quel genere di promesse è fatto per essere infranto. Avrebbe dovuto sostenere Abigail sulla cresta dell'onda fino al giorno in cui sarebbe arrivata alla Sala Ovale... e di questo, lei sarebbe stata, a quel punto, riconoscente a lui... A un tratto si accorse che Pat Traymore lo stava osservando con calma. La maggior parte delle persone che assumeva era in genere particolarmente emozionata durante il primo colloquio privato in quell'ufficio; il fatto che lei apparisse invece del tutto a suo agio gli faceva nello stesso tempo piacere e lo irritava. Si era scoperto a pensare molto a lei in quegli ultimi quindici giorni, da quando le aveva offerto il posto. Era intelligente, aveva fatto tutte le domande giuste a proposito del suo contratto ed era maledettamente attraente, ma con classe, in modo interessante. Era un'intervistatrice nata: gli occhi penetranti e la voce aspra la facevano apparire come una donna dal caratte-
re comprensivo, forse un poco ingenuo che rendeva perfetta l'atmosfera del raccontami tutto. E s'intravedeva in lei una sessualità latente particolarmente affascinante. «Spiegami dall'inizio alla fine come pensi di trattare la sua vita personale» ordinò. «Prima di tutto Apple Junction», rispose Pat pronta. «Voglio andare personalmente sul posto e vedere cosa mi riesce di scoprire. Magari alcuni scorci della città, della casa in cui ha vissuto. Il fatto che sua madre facesse la governante e che lei abbia fatto l'università con una borsa di studio è senz'altro un elemento positivo. È il sogno americano, solo che per la prima volta vediamo che funziona con un leader nazionale e che, per di più, è una donna.» Tirò fuori dalla borsa il taccuino degli appunti e, aprendolo con un colpetto, continuò: «È certo che metteremo l'accento sui primi anni, quelli del matrimonio con Willard Jennings. Io ancora non ho visto i film che Abigail mi ha dato, ma ho l'impressione che potremo ricavarne abbastanza, sia sul piano pubblico sia su quello privato». Luther assentì: «A proposito, ti accorgerai che in quelle pellicole compare spesso Jack Kennedy. Lui e Willard Jennings erano amici intimi. Questo accadeva al tempo in cui Jack era senatore, naturalmente. Willard e Abigail facevano parte del loro giro negli anni pre-Casa Bianca. La gente dovrà collegare facilmente le loro figure, inserisci tutti i pezzi che li riguardano e che li vede con qualcuno dei Kennedy. Lo sapevi, per esempio, che quando morì Willard, Jack accompagnò Abigail al funerale?» Pat buttò giù un appunto sul suo taccuino. «La senatrice Jennings non aveva nessun parente?» chiese. «Penso di no. O perlomeno non è mai saltato fuori.» Luther tese la mano impaziente verso il portasigarette appoggiato sulla scrivania. «Continuo a tentare di smettere con questo maledetto vizio.» Accese una sigaretta e per un attimo parve rilassarsi un po'. «Avrei voluto essere a Washington in quegli anni», disse. «Credevo che la partita si giocasse a New York e, anche se mi è andata bene, devo riconoscere che probabilmente quegli anni a Washington erano addirittura fantastici. È spaventoso, però, pensare quanti di quegli uomini giovani siano morti di morte violenta. I fratelli Kennedy. Willard in una sciagura aerea. Dean Adams con un suicidio... Ne hai sentito parlare?» «Dean Adams?» lei modulò la voce interrogativamente. «Ha ammazzato la moglie», spiegò Luther. «Si è suicidato. E ha prati-
camente ammazzato sua figlia. La bambina, infatti, alla fine morì, probabilmente, in seguito ad alcune lesioni al cervello. Forse è stato meglio così. Lui era un deputato del Wisconsin. Nessuno è riuscito a spiegarsi la ragione di quello che accadde. Secondo me, semplicemente, gli ha dato di volta il cervello. Se ti capita qualche foto sua o di sua moglie in un gruppo, tagliali fuori. Non è davvero necessario far ricordare alla gente un fatto simile.» Pat sperò che il suo viso non tradisse l'angoscia che l'aveva sommersa. Disse con tono volutamente vivace: «La senatrice Jennings ha contribuito in modo importante a che passasse la legge sul rapimento di bambini a opera di un genitore. Nel materiale che mi ha dato ci sono alcune lettere splendide. Pensavo di rivolgermi ad alcune delle famiglie che sono state riunite e di scegliere il caso migliore per inserirlo nel programma. Potrà fare da contrapposizione alla senatrice Lawrence e ai suoi nipotini». Luther assentì: «Ottimo. Dammi le lettere. Farò fare le ricerche a qualcuno dell'ufficio. E, a proposito, nella tua scaletta non hai scritto niente sull'episodio di Eleanor Brown. Io vorrei assolutamente inserirlo. Sai che anche lei era di Apple Junction... la direttrice della scuola aveva chiesto ad Abigail di darle un posto dopo che l'avevano sorpresa a rubare in un negozio». «L'istinto mi dice di lasciar stare questa storia», disse Pat. «Pensaci, Luther. La senatrice concede la possibilità di ricominciare daccapo a una ragazza riconosciuta colpevole di un reato. E fin qui è tutto molto bello. Poi Eleanor Brown viene accusata di aver sottratto settantacinquemila dollari ai fondi per la campagna elettorale. Lei giura di essere innocente. In pratica, è stata la testimonianza della senatrice a farla dichiarare colpevole. Hai mai visto fotografie di quella ragazza? Aveva ventitré anni quando andò in carcere per appropriazione indebita, ma ne dimostrava all'incirca sedici. L'opinione pubblica ha naturalmente la tendenza a simpatizzare con i perdenti... e lo scopo di questo programma è di fare amare Abigail Jennings da tutti. Ora, nell'episodio di Eleanor Brown, Abigail fa la figura, per così dire, della cattiva.» «Quell'episodio dimostra però che qualcuno dei nostri politici non è disposto a coprire le malefatte di uno dei suoi. E se vuoi addolcire l'immagine di Abigail, insisti sul fatto che grazie a lei la ragazza ebbe una pena infinitamente più mite rispetto a chiunque altro sia mai stato accusato di aver rubato una somma così alta. Non sprecare la tua simpatia per Eleanor Brown. In prigione, finse un collasso nervoso, venne trasferita in un ospe-
dale psichiatrico, fu liberata sulla parola in modo che continuasse a essere curata come paziente esterna e tagliò la corda. Era una drittona. Qualcos'altro?» «Vorrei partire stasera per Apple Junction. Se trovo qualcosa che valga la pena ti telefono e organizziamo una troupe per le riprese. Dopo, voglio seguire la senatrice nel suo ufficio per un giorno intero, per poter decidere quale angolazione scegliere e organizzare le riprese uno o due giorni più tardi.» Luther si alzò, era il segnale che il colloquio era finito. «Va bene», disse. «Prendi l'aereo per... come si chiama... Apple Junction? Che razza di nome! Vedi se riesci a trovare del materiale utile. Ma non esagerare, stai attenta che gli eventuali intervistati non si mettano in testa che li vedranno in televisione. Appena pensano di poter entrare nel tuo programma, quelli cominciano a usare i paroloni e a pensare al vestito da mettersi.» Storse il viso in un cipiglio preoccupato e attaccò con voce nasale: «Myrtle, prendi la benzina. Ho una macchia di sugo sulla giacca». «Sono sicura che qualche persona simpatica riuscirò a trovarla.» Pat atteggiò il viso a un pallido sorriso per togliere alle sue parole l'implicito biasimo. Luther la guardò andarsene, prendendo nota del completo di tweed grigio e rosso scuro, uscito ovviamente dalle mani di qualche stilista; degli stivali di pelle in tinta con il piccolo marchio dorato di Gucci; della tracolla che accompagnava gli stivali; del Burberry appoggiato sul braccio. Soldi. Patricia Traymore era ricca di famiglia. Si capiva benissimo. Luther pensò con rancore alle proprie umili origini che risalivano a una modesta fattoria del Nebraska. L'acqua in casa era arrivata quando lui aveva dieci anni. Nessuno più di lui poteva capire perché Abigail non desiderasse ricordare la prima parte della sua vita. Aveva avuto ragione permettendo a Pat Traymore di spuntarla in questo? Ad Abigail sarebbe dispiaciuto... ma probabilmente le sarebbe dispiaciuto molto di più quando avesse scoperto che nessuno le aveva parlato di quel viaggio. Luther parlò al telefono interno: «Mi chiami l'ufficio della senatrice Jennings». Poi esitò. «No, lasci stare.» Depose il ricevitore e si strinse nelle spalle. Perché preoccuparsi fin d'ora? 6
Pat percepì le occhiate che le lanciavano quelli degli uffici del telegiornale mentre usciva dall'ufficio di Pelham. Decise di atteggiare il viso a un mezzo sorriso e di procedere a passo svelto. Luther era stato molto cordiale; aveva rischiato le ire della senatrice permettendole di andare ad Apple Junction e le aveva esplicitamente fatto capire che aveva fiducia nelle sue possibilità di montare il programma in tempi pericolosamente limitati. Allora che cosa c'è? si domandò. Dovrei essere su di giri. Fuori, era una giornata fredda e limpida. Le strade erano sgombre, perciò decise di tornare a casa a piedi. Erano più di tre chilometri, ma era contenta di fare un po' di esercizio. Ripensò al colloquio appena terminato, faceva fatica a riconoscerlo, ma era stato quello che Luther aveva detto a proposito della faccenda di Dean Adams, esattamente la stessa cosa che aveva detto Toby il giorno prima, a darle la sensazione che ognuno si tirasse indietro quando veniva pronunciato il nome di suo padre, come se nessuno volesse ammettere di averlo conosciuto. Che cosa aveva detto Luther di lei? Ah sì, pensava che la bambina fosse morta, e che in fondo era meglio così; probabilmente avrebbe riportato delle lesioni al cervello. Io non ho lesioni al cervello, pensò Pat mentre cercava di evitare gli schizzi di fango alzati dalle macchine. Però da allora mi porto dietro l'odio per mio padre e per quello che ha fatto: ha ucciso mia madre e ha tentato di uccidermi. Era arrivata lì credendo di voler soltanto capire che cosa avesse determinato in lui la crisi. Adesso vedeva le cose più chiaramente: doveva affrontare l'odio che per tanti anni aveva negato. Arrivò a casa all'una meno un quarto. Le parve che la casa stesse assumendo una certa atmosfera confortevole. Il tavolo antico di marmo e il tappeto messicano nell'ingresso facevano dimenticare la pittura sbiadita delle pareti. I piani di lavoro della cucina erano allegri, adesso, con tutti i contenitori; il tavolo ovale in ferro battuto e le poltroncine dello stesso stile che lo accompagnavano si adattavano esattamente allo spazio sotto le finestre e impedivano di notare i punti consumati delle vecchie mattonelle. Si preparò in fretta il tè e un panino e telefonò per prenotare il posto sull'aereo. Per sette minuti buoni rimase in linea, ascoltando una selezione particolarmente scadente di musica registrata prima che un impiegato arrivasse finalmente a rispondere. Prenotò un volo in partenza alle quattro e quaranta per Albany e una macchina a noleggio. Poi decise di utilizzare le poche ore prima della partenza per cominciare
a passare in rassegna gli oggetti di suo padre. Sollevò lentamente i due lembi che chiudevano il primo scatolone e si trovò a fissare la fotografia coperta di polvere di un uomo alto e ridente che portava una bambina su una spalla. Gli occhi della bambina erano spalancati per la felicità, la bocca semiaperta nel sorriso. La bambina teneva i palmi delle mani uno davanti all'altro, come se avesse appena smesso di battere le mani. Erano entrambi in costume da bagno in riva al mare. Un'onda si stava infrangendo dietro di loro. Doveva essere pomeriggio inoltrato e le loro ombre erano lunghe sulla sabbia. La bambinetta del suo papà, pensò Pat con amarezza. Aveva visto dei bambini portati sulle spalle dal padre, aggrappati al collo di lui, le mani affondate nei suoi capelli. In tutti si leggeva la paura istintiva di cadere. Ma la bambina della fotografia, la bambina che lei era stata, rivelava una fiducia assoluta nell'uomo che la teneva, la certezza che lui non l'avrebbe mai fatta cadere. Pat appoggiò la fotografia sul pavimento e continuò a vuotare lo scatolone. Quando ebbe finito, il tappeto era coperto di oggetti e ricordi provenienti dall'ufficio privato dell'onorevole Dean Adams. Una fotografia molto convenzionale della madre di Pat al pianoforte. Era bella, pensò Pat... io assomiglio più a lui. C'era un collage di istantanee raffiguranti Pat neonata e ai primi passi, che doveva aver ornato una parete del suo ufficio; la sua agenda di appuntamenti, in pelle verde scuro con le iniziali d'oro; il suo servizio da scrivania d'argento, ora terribilmente ossidato; il diploma incorniciato dell'università del Wisconsin, una laurea in inglese con lode, la laurea in legge dell'università del Michigan; una citazione della Conferenza dei vescovi episcopali che ricordava il suo aiuto generoso e illimitato in favore delle minoranze; la piastra di Uomo dell'Anno che gli era stata attribuita dal Rotary Club di Madison, nel Wisconsin. Dovevano essergli piaciuti molto i paesaggi marini. C'erano alcune vecchie stampe di velieri che ondeggiavano su acque tempestose. Aprì l'agenda degli appuntamenti. Doveva avere l'abitudine di tracciare meccanicamente ghirigori: quasi in ogni pagina c'erano spirali e disegni geometrici. Ecco da dove ho preso l'abitudine, pensò Pat. I suoi occhi non potevano staccarsi dalla fotografia di se stessa bambina insieme con suo padre. Lei aveva l'aria così felice e suo padre alzava gli occhi verso di lei con tanto amore reggendola con mano ferma. Il telefono ruppe l'incanto. Si alzò in piedi, rendendosi conto che si stava facendo tardi, che doveva rimettere tutto a posto e sistemare alcune cose in
una borsa da viaggio. «Pat.» Era Sam. «Ciao.» Si morse le labbra. «Pat, sono occupatissimo come sempre. Tra cinque minuti ho una riunione di comitato. C'è un pranzo sabato sera alla Casa Bianca in onore del nuovo primo ministro canadese. Ti piacerebbe venirci con me? Devo comunicare il tuo nome alla Casa Bianca.» «La Casa Bianca! Sarebbe meraviglioso. Mi farebbe molto piacere andarci.» Inghiottì furiosamente, cercando di sopprimere il tremito della voce. Il tono di Sam cambiò. «C'è qualche cosa che non va, Pat? Mi sembri sconvolta. Non stai piangendo, vero?» Alla fine lei riuscì a controllarsi: «No, no, veramente. Penso che mi stia venendo il raffreddore». 7 All'aeroporto di Albany Pat ritirò la macchina noleggiata, esaminò attentamente la carta stradale insieme con l'impiegato della Hertz e scelse l'itinerario per Apple Junction. Erano poco più di quaranta chilometri di strada. «Meglio che parta ora, signorina», l'ammonì l'impiegato. «Per stasera sono previsti trenta centimetri di neve.» «Mi può consigliare dove alloggiare?» «Se vuole sistemarsi in centro, il posto migliore è l'Apple Motel.» Fece un sorrisetto sciocco. «Non così di lusso come troverebbe nella Big Apple, però. E non si preoccupi di telefonare per prenotare la camera.» Pat prese le chiavi della macchina e la borsa. L'albergo consigliato non pareva molto promettente, ma ringraziò l'impiegato. Cadevano i primi fiocchi di neve quando entrò nel viale che conduceva alla triste costruzione contraddistinta da un'insegna al neon tremolante: Apple Motel. Come l'impiegato della Hertz aveva previsto, era visibile il cartello che confermava la disponibilità delle camere libere. L'impiegato che stazionava nel piccolo ufficio ingombro era sulla settantina. Gli occhiali dalla montatura metallica erano abbassati sul suo naso sottile. Rughe profonde gli scavavano le guance. Ciuffi di capelli bianchi e grigi gli cadevano sulla fronte. I suoi occhi, umidi e sbiaditi, brillarono di
sorpresa quando Pat aprì la porta. «C'è una singola per una notte o due?» chiese. Il sorriso dell'uomo rivelò la dentiera consumata e macchiata di tabacco. «Per quanto tempo la vuole, signorina? Può avere una singola, una matrimoniale, perfino l'appartamento presidenziale.» Alla battuta seguì una risata che era una specie di raglio. Pat sorrise educatamente e prese la scheda di registrazione. Deliberatamente non riempì lo spazio vuoto dopo l'indicazione LUOGO DI LAVORO. Voleva avere la possibilità di guardarsi intorno prima che diventasse nota la ragione della sua presenza sul luogo. L'impiegato studiò attentamente la scheda, ma la sua curiosità fu delusa. «Quella è la sala da pranzo.» Indicò tre tavolini contro la parete di fondo. «La mattina, per iniziare la giornata in bellezza: succo di frutta, caffè e pane tostato.» La guardò con aria astuta: «Comunque, che cosa la porta qui?» «Affari», disse Pat e aggiunse in fretta: «Non ho ancora cenato. Vado solo a lasciare la borsa in camera; lei mi può cortesemente indicare un ristorante?» Lui sbirciò l'orologio. «Meglio che si affretti», disse. «Il Lampionaio chiude alle nove e ormai sono quasi le otto. Segua il viale fino in fondo, volti a sinistra e sbucherà sul corso. È sulla destra. Non può mancarlo. Ecco la sua chiave.» Consultò la scheda della registrazione. «La signorina Traymore», concluse. «Io mi chiamo Travis Blodgett e sono il proprietario.» Pareva nello stesso tempo vantarsene e discolparsene. Un leggero sibilo faceva notare il suo enfisema. A parte l'insegna scarsamente illuminata di un cinema, il Lampionaio era l'unico locale aperto nei due isolati che comprendevano la zona commerciale di Apple Junction. Un menu unto, battuto a macchina, affisso alla porta principale, annunciava il piatto del giorno, sauerbraten con cavoli rossi, a tre dollari e novantacinque. Dentro, il pavimento era coperto di un linoleum sbiadito. Le tovaglie a quadri che coprivano una dozzina di tavoli erano per lo più ricoperte da tovaglioli non stirati. Probabilmente, pensò Pat, nascondevano le macchie fatte dai clienti precedenti. Una coppia anziana masticava rumorosamente della carne scura, attingendo da piatti stracolmi. Doveva ammettere, però, che il profumo era allettante e di colpo si sentì affamata. L'unica cameriera della sala era una donna tra i cinquanta e i sessanta anni. Sotto il grembiule pulito, un grosso golf arancione e dei pantaloni sformati rivelavano senza pietà cuscinetti di carne debordante. Ma il sorri-
so era pronto e gradevole. «È sola?» «Sì.» La cameriera si guardò intorno incerta, poi condusse Pat a un tavolo vicino alla finestra. «Così può guardare fuori e godere il panorama.» Pat sentì le sue labbra contrarsi. Il panorama! Una macchina da noleggio su una strada buia! Poi si vergognò di se stessa: era esattamente la reazione che si sarebbe aspettata da Luther Pelham. «Vuole qualcosa da bere? Abbiamo birra o vino. E penso sia meglio che ordini. Si sta facendo tardi.» Pat ordinò il vino e chiese un menu. «Ah, non si preoccupi del menu», insistette la cameriera. «Provi i sauerbraten. Sono molto buoni.» Pat lanciò un'occhiata dall'altra parte della sala: ovviamente era il piatto che i due vecchi coniugi stavano mangiando. «Se solo potessi averne una porzione ridotta...» La cameriera sorrise, rivelando grossi denti bianchi. «Ma certo!» Abbassò la voce. «Quelle sono doppie porzioni. Quei signori si possono permettere di mangiare al ristorante solo una sera alla settimana, perciò mi piace fargli consumare un pasto decente.» Il vino era rosso, di poche pretese, ma gradevole. Qualche minuto dopo la cameriera uscì dalla cucina portando un piatto fumante e un cestino di gallette fatte in casa. Il cibo era delizioso. La carne era stata marinata nel vino aromatizzato con erbe; il sugo era saporito e piccante, il cavolo piacevolmente forte, il burro si scioglieva sulle gallette ancora calde. Dio mio, se mangiassi così ogni sera diventerei una balena, pensò Pat. Ma sentì che il morale cominciava a rialzarsi. Quando ebbe finito, la cameriera si avvicinò per sparecchiare, portando il bricco del caffè. «Sono stata a guardarla e riguardarla», disse, «e mi chiedo se non la conosco. Forse l'ho vista alla televisione?» Pat annuì. Questo è quello che succede a chi cerca di conservare l'anonimato, pensò sorridendo. «Sicuro», continuò la cameriera come colpita da improvvisa folgorazione. «Lei è Patricia Traymore. L'ho vista in televisione quando sono andata a trovare mia cugina a Boston. E so anche perché è venuta qui! Vuole realizzare un programma su Abby Foster, voglio dire sulla senatrice Jennings.» «La conosceva?» chiese pronta Pat.
«Se la conoscevo? Direi proprio di sì. Ma perché non mi prendo un caffè con lei?» Era un'affermazione non una domanda e prendendo una tazza vuota dal tavolo vicino si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte a Pat. «È mio marito che cucina, ma può anche pensare a chiudere. Stasera è stato piuttosto tranquillo qui, ma i piedi mi fanno male lo stesso. Sa, a stare sempre in piedi...» Pat accennò un sorriso di simpatia. «Abigail Jennings, ehm. Ab-bi-gail Jennings», rifletté la cameriera. «Ha intenzione di metterci la gente di Apple Junction, nel suo programma?» «Non ne sono sicura», rispose Pat onesta. «Lei conosceva bene la senatrice?» «Bene non potrei dirlo. Eravamo nella stessa classe, a scuola. Ma Abigail era sempre così silenziosa, non si capiva mai che cosa stesse pensando. In genere le ragazze si raccontano ogni cosa, hanno l'amica del cuore o stanno in un gruppo. Abby no. Io non ricordo che avesse un'amica intima.» «Che cosa pensavano di lei le altre ragazze?» chiese Pat. «Be', lo sa come succede. Quando una è bella com'era Abby, suscita facilmente invidia e gelosie. E poi ognuno aveva la sensazione che lei si sentisse superiore agli altri e questo non la rendeva certo molto popolare.» Pat la studiò un momento. «Ma lei ce l'aveva questa sensazione, signora...» «Stubbins. Ethel Stubbins. In un certo senso credo di sì, ma in fondo la capivo. Abby voleva semplicemente crescere e andarsene di qui. Il circolo di discussioni era l'unica attività a cui partecipava con la scuola. Anche nel vestirsi era diversa. Mentre noi usavamo sempre maglioni troppo grandi e mocassini, lei indossava camicette inamidate e tacchi alti per venire a scuola. Sua madre era cuoca in casa Saunders e credo che a lei questo seccasse molto.» «Credevo che sua madre facesse la governante», osservò Pat. «La cuoca», ripeté con enfasi Ethel. «Lei e Abby avevano un appartamentino accanto alla cucina. Mia madre andava a casa Saunders una volta alla settimana per fare le pulizie, per questo lo so.» Esisteva una sottile differenza nel dire che la propria madre era stata la governante anziché la cuoca. Pat si strinse nelle spalle; che cosa poteva esserci di più innocuo del fatto di aver innalzato di un gradino la propria madre, da parte della senatrice Jennings? Era un po' combattuta: qualche volta prendere appunti o tirar fuori il registratore aveva l'effetto immediato di gelare l'intervistato. Decise di rischiare.
«Le dispiace se registro quello che dice?» chiese. «Per niente. Devo parlare più forte?» «No, va benissimo così.» Pat estrasse il registratore e lo sistemò sul tavolo tra loro due. «Mi parli solo di Abigail come lei la ricorda. Ha detto che le seccava che sua madre facesse la cuoca?» Mentalmente, immaginò come avrebbe reagito Sam a quella domanda: l'avrebbe considerata un'inutile intrusione. Ethel appoggiò sul tavolo i gomiti pesanti. «Altro che se le seccava! Mamma mi diceva sempre quant'era sfacciata Abby. Se c'era qualcuno che passava per la strada, lei risaliva il vialetto fino alla gradinata che portava al portone sul davanti, come se fosse lei la padrona, poi quando non la vedeva nessuno, faceva di corsa il giro della casa ed entrava dal retro. Sua madre non approvava, ma non serviva a niente.» «Ethel. Sono le nove.» Pat alzò gli occhi. Fermo accanto al tavolo c'era un uomo tarchiato con occhi nocciola chiari in un viso rotondo e gioviale, che si stava slacciando il grembiule. Il suo sguardo indugiava sul registratore. Ethel spiegò che cosa stava succedendo e presentò Pat. «Questo è mio marito, Ernie.» Era evidente che Ernie sarebbe stato allettato all'idea di contribuire all'intervista. «Raccontale di quella volta che la signora Saunders sorprese Abby che entrava dalla porta principale e le disse che doveva imparare a stare al suo posto», suggerì. «Ti ricordi, la fece ritornare sul viottolo laterale e risalire il viale fino alla porta di servizio.» «Ah, sì», fece Ethel. «Che cattiveria, vero? Mamma disse che si era sentita male per Abby, ma poi, guardandola in viso, mia madre disse anche che aveva un'espressione da far gelare il sangue.» Pat cercò di immaginarsi una giovane Abigail costretta a passare dall'entrata di servizio per dimostrare che sapeva stare al suo posto. E ancora una volta le parve di commettere un'intrusione nella vita privata della senatrice. Quel tasto l'avrebbe lasciato perdere. Rifiutando il vino che Ernie voleva versarle, suggerì: «Abby... voglio dire la senatrice... dev'essere stata molto brava a scuola per avere una borsa di studio per Radcliffe. Era la più brava, della sua classe?» «Ah, era un vero fenomeno in inglese, storia e lingue straniere», disse Ethel, «ma in matematica e scienze era una frana. Riusciva sempre a passare a mala pena.» «Sembra che mi assomigliasse», sorrise Pat. «Parliamo un po' del con-
corso di bellezza.» Ethel rise di cuore. «C'erano quattro finaliste per il titolo di Miss Apple Junction. La sottoscritta era una delle quattro. Che mi creda o no, a quell'epoca pesavo cinquanta chili o poco più, ed ero carina un sacco.» Pat aspettava l'inevitabile ed Ernie non la deluse: «Sei carina anche adesso, tesoro». «Abby stravinse», continuò Ethel. «Poi partecipò al concorso per Miss New York State. E tutti trasecolarono perché vinse anche quello. Lo sa come succede. Che lei era bella lo sapevamo, certo, ma eravamo tutti talmente abituati a vederla. Eravamo tutti su di giri, in città!» Ethel ridacchiò. «Devo dire che Abby fornì alla città materia di pettegolezzo per tutta l'estate. Qui il grande avvenimento mondano era il ballo del Country Club che si svolgeva in agosto. Tutti i figli dei ricchi per un raggio di parecchi chilometri vi partecipavano. Di noi nessuno, naturalmente. Ma quell'anno Abby Foster ci andò. Da quello che sentii dire, pareva un angelo, con un vestito di organza bianco rifinito con bordi di pizzo nero. E indovini chi era il suo cavaliere? Jeremy Saunders! Era appena tornato a casa dopo essersi laureato a Yale. E praticamente era fidanzato con Evelyn Clinton! Lui e Abby si tennero per mano tutta la sera e lui la baciava in continuazione mentre ballavano. «Il giorno dopo tutta la città mormorava. Mamma diceva che la signora Saunders si stava probabilmente mangiando le mani: il suo unico figlio innamorarsi della figlia della cuoca. E poi», Ethel si strinse nelle spalle, «a un tratto finì. Abby rinunciò al titolo di Miss New York State e partì per l'università. Disse che sapeva che non sarebbe mai diventata Miss America, che non sapeva né cantare né ballare né tantomeno recitare e che assolutamente non intendeva andare a sfilare ad Atlantic City per tornare senza aver vinto. Parecchia gente era intervenuta per metterle insieme un guardaroba da indossare al concorso per Miss America e tutti rimasero molto delusi.» «Ti ricordi che Toby prese a pugni un paio di tipi che dicevano che Abby aveva messo nei guai quelli del paese?» la aizzò Ernie. «Toby Gorgone?» chiese Pat pronta. «Proprio lui», fece Ernie. «Era cotto di Abby. Sa che i ragazzi parlano sempre tra loro negli spogliatoi. Be', se qualcuno si permetteva qualche impertinenza su Abby davanti a Toby, povero lui!» «Adesso lavora per lei», disse Pat. «No, senza scherzi!» Ernie scosse la testa. «Me lo saluti. Gli chieda se
perde ancora con i cavalli.» Erano le undici quando Pat ritornò all'Apple Motel. Disfece rapidamente la borsa, non c'era nessun armadio, solo un gancio sulla porta; si spogliò, si fece la doccia, si spazzolò i capelli e, sistemando i miseri guanciali in modo da potervisi appoggiare, si mise a letto prendendo con sé il taccuino. La gamba si faceva sentire, come al solito, un dolore lieve che cominciava dall'anca e scendeva fino al polpaccio. Scorse gli appunti che aveva preso quella sera. Secondo Ethel, la signora Foster se n'era andata da casa Saunders subito dopo il ballo al Country Club ed era entrata come cuoca nell'ospedale della contea. Ma il nuovo lavoro doveva essere stato pesante per lei. Era una donna grossa: «Le sembro pesante, io?» aveva detto Ethel. «Doveva vedere Francey Foster.» Francey era morta da molto tempo e, dopo, nessuno aveva più visto Abigail. Veramente, poche persone l'avevano vista anche prima che sua madre morisse. Ethel era diventata eloquente a proposito di Jeremy Saunders: «Abigail è stata fortunata a non sposarlo. È sempre stato uno zero assoluto. Buon per lui che era ricco di famiglia, altrimenti è probabile che sarebbe morto di fame. Dicono che il padre investì tutto in azioni vincolate e addirittura nominò Evelyn esecutrice testamentaria. Jeremy era stato una grossa delusione per lui. Ha sempre avuto quell'aria da diplomatico o da lord inglese, ma, in realtà, non è altro che un pallone gonfiato». Ethel le aveva fatto intuire che Jeremy beveva, ma aveva consigliato a Pat di telefonargli: «Probabilmente gli farebbe piacere un po' di compagnia. Evelyn vive per la maggior parte del tempo con la figlia sposata a Westchester». Pat spense la luce. L'indomani avrebbe tentato di andare a trovare la direttrice in pensione, quella che aveva chiesto ad Abigail di dare un posto a Eleanor Brown e avrebbe cercato di farsi fissare un appuntamento da Jeremy Saunders. Durante la notte nevicò, ma spazzaneve e spargisale erano già passati quando Pat prese il suo caffè in compagnia del proprietario dell'Apple Motel. Girare in macchina per Apple Junction fu un'esperienza deprimente. La cittadina era particolarmente squallida e priva di qualsiasi fascino. I negozi erano per metà chiusi e gli altri stavano andando lentamente in rovina. Un
unico filo di lampadine natalizie ciondolava attraverso la strada principale. Nelle strade secondarie, le case, schiacciate l'una contro l'altra, avevano l'intonaco in cattive condizioni. Le macchine parcheggiate in strada erano per lo più vecchie. Non si vedevano edifici nuovi di nessun tipo: né destinati a uffici né per abitazioni. C'era poca gente in giro e l'atmosfera era pervasa da un senso di vuoto. La maggior parte dei giovani scappava di lì appena possibile, come Abigail? si chiese Pat. E chi poteva dar loro torto? Lesse su un'insegna THE APPLE JUNCTION WEEKLY; impulsivamente parcheggiò ed entrò. C'erano due persone al lavoro, una ragazza che pareva occupata in una discussione telefonica e un uomo, sulla sessantina, che faceva un fracasso infernale sulla sua macchina da scrivere che si poteva considerare, senza difficoltà, un vero pezzo d'antiquariato. Risultò che era Edwin Shepherd, il proprietario nonché direttore del giornale e che si dimostrò felicissimo di parlare con Pat. Poté aggiungere pochissimo a quanto lei già sapeva di Abigail, ma volenterosamente si mise a frugare nell'archivio, alla ricerca di articoli che si riferissero ai due concorsi, quello locale e quello di stato, vinti da Abigail. Nel corso delle sue ricerche Pat aveva già trovato la fotografia di Abigail con la corona e il vestito da sera dopo l'elezione a Miss New York State. Ma l'istantanea a figura intera di Abigail con la fascia Miss Apple Junction era nuova e sconvolgente. Abigail era in piedi su una pedana circondata dalle altre tre finaliste. La corona appoggiata sulla sua testa era chiaramente di cartapesta. Le altre ragazze avevano sorrisi compiaciuti e nervosi e Pat notò che la ragazza in fondo era Ethel Stubbins, ma il sorriso di Abigail era gelido, quasi cinico. Appariva totalmente fuori posto. «Dentro c'è una foto di Abigail con la mamma», disse Shepherd girando la pagina. Pat rimase senza fiato. Come poteva Abigail Jennings, con quei lineamenti delicati e quell'ossatura sottile, essere figlia di quella donna tarchiata, quasi obesa? Sotto la fotografia si leggeva: LA MADRE ORGOGLIOSA SALUTA LA REGINETTA DI BELLEZZA DI APPLE JUNCTION. «Si prenda pure questi numeri», offrì Edwin Shepherd. «Io ho delle altre copie. Solo si ricordi di citarci se utilizza qualche cosa per il suo programma.» Sarebbe stato estremamente scortese rifiutare, pensò Pat. Anche se sapeva che mai avrebbe usato quella foto. Ringraziò il direttore, accomiatandosi subito dopo. A circa un chilometro di distanza, sempre rimanendo sulla Main Street,
l'aspetto della città cambiava clamorosamente. Le strade diventavano più larghe, le case erano più signorili e i terreni che le circondavano grandi e ben curati. La casa dei Saunders era dipinta in giallo pallido e aveva le imposte nere. Sorgeva sull'angolo di un lungo viale sinuoso che conduceva alla piccola scalinata che portava al porticato. Le colonne aggraziate ricordavano a Pat l'architettura di Mount Vernon. Il viale era fiancheggiato da alberi. Una scritta discreta indirizzava i fornitori verso la porta di servizio sul retro. Parcheggiò e salì la piccola rampa di scalini, notando che, visti più da vicino, i doppi infissi in alluminio erano corrosi e l'intonaco cominciava a scrostarsi. Premette il pulsante e all'interno, chissà dove, lontano, sentì squillare il campanello, flebilmente. Una donna magra con i capelli grigi, il grembiulino bianco su un vestito scuro, venne ad aprirle: «Il signor Saunders l'aspetta. È nella biblioteca». Jeremy Saunders, che indossava un'elegante giacca di velluto, era sistemato in una bergère accanto al fuoco. Teneva le gambe accavallate e, sotto i risvolti dei pantaloni blu notte, spuntavano i calzini intonati blu di seta. Aveva dei lineamenti straordinariamente regolari e bei capelli bianchi ondulati. Solo la vita appesantita e gli occhi gonfi tradivano la sua debolezza per l'alcol. Si alzò e riprese l'equilibrio contro il bracciolo della poltrona. «Signorina Traymore!» La sua voce rivelava noiosi corsi di dizione. «Non mi aveva detto per telefono di essere quella Patricia Traymore.» «Era importante?» sorrise Pat. «Non sia modesta. Lei è la giornalista che sta preparando un programma su Abigail.» Le indicò la poltrona di fronte alla sua. «Vuole un Bloody Mary?» «Grazie.» La caraffa era già mezza vuota. La cameriera portò via il mantello di Pat. «Grazie, Anna. Per ora non c'è altro. Forse più tardi la signorina Traymore mi farà compagnia a colazione.» Il tono di Jeremy Saunders diventava ancora più fatuo mentre parlava alla domestica, la quale uscì in silenzio. «Può chiudere la porta, se crede, Anna!» la richiamò lui. «Grazie, cara.» Aspettò che la serratura a molla scattasse, poi sospirò. «Impossibile trovare dei buoni domestici ormai. Non era così quando Francey Foster presiedeva alla cucina e Abby serviva a tavola.» Parve prendere piacere a quel pensiero.
Pat non rispose. L'uomo aveva una certa pettegola crudeltà. Sedette, accettò il bicchiere e attese. Lui sollevò un sopracciglio. «Non ha un registratore?» «Sì, se lei preferisce non lo userò.» «Non si preoccupi, preferisco che ogni parola che dico venga immortalata. Forse un giorno o l'altro esisterà una Biblioteca Abby Foster, mi scusi, una Biblioteca Senatrice Abigail Jennings, dove la gente potrà premere un pulsante e sentirmi raccontare la sua alquanto disordinata giovinezza.» Senza parlare, Pat prese la sua tracolla e ne trasse il registratore e il blocco di appunti, pur rendendosi improvvisamente conto che quello che stava per udire sarebbe stato inutilizzabile. «Lei ha seguito la carriera della senatrice?» suggerì. «Con enorme attenzione! Ho la massima ammirazione per Abby. Da quando aveva diciassette anni e cominciò a offrirsi di aiutare la madre nei lavori domestici, si è conquistata tutto il mio rispetto. È abile.» «Per lei essere abili significa aiutare la propria madre?» chiese Pat tranquilla. «No, naturalmente. Se quello che si vuole è davvero aiutare la propria madre. D'altra parte, se uno si offre di servire a tavola solo perché il giovane e bel rampollo della famiglia Saunders è tornato da Yale, il quadro diventa diverso, non le pare?» «Sta parlando di sé?» Pat sorrise un po' riluttante. Jeremy Saunders aveva dei modi ironici, che non erano privi di fascino. «Ho visto spesso fotografie di Abigail», disse con un sorriso poco convinto; «ma delle fotografie non ci si può mai fidare completamente, no? Abby è sempre stata molto fotogenica. Che aspetto ha, in realtà?» «È bellissima», disse Pat. Saunders parve deluso. Sarebbe stato felice di sentirsi riferire il contrario, o magari di credere che la senatrice avesse bisogno della chirurgia estetica per risistemarsi il viso, rifletté Pat. E lei, in un certo senso, non riusciva a capire come in passato Abigail, anche se molto giovane, potesse essere stata colpita da Jeremy. «E di Toby Gorgone che mi racconta?» chiese Saunders; «continua a interpretare il ruolo di guardia del corpo e schiavo di Abby?» «Toby lavora per la senatrice», rispose Pat. «Si vede che le è molto devoto e lei, del resto, sembra fare completo assegnamento su di lui.» Guardia del corpo e schiavo, pensava intanto: una definizione davvero azzeccata per indicare il rapporto di Toby con Abigail Jennings.
«E immagino, anche, che ognuno di loro continui a tirare fuori le castagne dal fuoco per l'altro.» «Che cosa intende dire?» Jeremy alzò una mano come per dire: lasciamo perdere. «Niente, sul serio. Probabilmente le ha raccontato di quando salvò Abby dalle fauci del cane da difesa che il nostro eccentrico vicino si teneva in casa.» «Sì, certo.» «E le ha detto che Abigail è stata invece il suo alibi per scagionarlo la notte in cui era sospettato di essersene andato in giro con una macchina rubata?» «No, non me l'ha detto, ma non mi pare che andare in giro con una macchina rubata sia un reato molto grave.» «Lo diventa, quando la macchina della polizia che insegue il veicolo preso in prestito sbanda e falcia una giovane madre e i suoi due bambini. Qualcuno che gli assomigliava era stato visto gironzolare intorno alla macchina. Ma Abigail giurò che in quel momento lei stava dando lezione di inglese a Toby, proprio in questa casa. Fu la parola di Abigail contro quella di un testimone non del tutto sicuro. Toby non fu imputato del reato e il ladruncolo non si trovò mai. A molti pareva credibilissimo che Tony Gorgone fosse coinvolto in quella storia. Aveva sempre avuto una particolare fissazione per i motori e quella era una macchina sportiva ultimo modello. Non era difficile credere che avesse voluto farsi un giro.» «Insomma, sta insinuando che la senatrice probabilmente mentì per salvarlo?» «Non sto insinuando niente. Tuttavia, la gente qui ha la memoria lunga e la fervente deposizione di Abigail, resa sotto giuramento, naturalmente è rimasta agli atti. In realtà a Toby non sarebbe potuto succedere niente, neppure se fosse stato su quella macchina. Era minorenne, sotto i sedici anni. Ma Abigail ne aveva diciotto e in caso di falso giuramento sarebbe stata penalmente responsabile. Oh, be', dopotutto è possibilissimo che Toby avesse passato la serata a sgobbare sui participi. Ha fatto progressi la sua grammatica?» «A me pare proprio di sì.» «Forse non ha parlato con lui molto a lungo. Adesso mi racconti di Abigail. Per esempio del fascino inesauribile che esercita sugli uomini. Con chi sta adesso?» «Non sta con nessuno», disse Pat. «Da quanto mi ha detto, il marito è
stato il grande amore della sua vita.» «Può darsi.» Jeremy Saunders finì il bicchiere. «E se pensa che il suo ambiente familiare era meno che zero: un padre che si è ucciso a forza di bere quando lei aveva sei anni, una madre soddisfatta di stare fra i fornelli...» Pat decise di cambiare tattica per ricavare del materiale utilizzabile. «Mi racconti di questa casa», propose. «Dopotutto, Abigail è cresciuta qui. È stata costruita dalla sua famiglia?» Jeremy Saunders era chiaramente orgoglioso della casa e della famiglia. Per tutta l'ora successiva, interrompendosi solo per riempire il bicchiere e per preparare una nuova mistura nella caraffa, raccontò la storia dei Saunders, «non proprio dal Mayflower, un Saunders avrebbe dovuto partecipare a quella storica spedizione, ma si ammalò e arrivò qui solo due anni dopo. E così», concluse, «devo ammettere, con tristezza, che sono l'ultimo a portare il nome dei Saunders». Sorrise. «Lei è un'ascoltatrice ideale, mia cara. Spero di non essere stato troppo prolisso.» Pat gli restituì il sorriso. «No, naturalmente. Gli antenati di mia madre erano tra i primi coloni e anch'io sono molto fiera di loro.» «Deve raccontarmi lei della sua famiglia», fece Jeremy, galante. «Rimanga a colazione.» «Con molto piacere.» «Io preferisco farmi portare un vassoio qui. È molto più intimo che in sala da pranzo. Le va?» E molto più vicino al bar, pensò Pat, sperando di poter presto riportare la conversazione su Abigail. L'occasione le si presentò mentre fingeva di sorseggiare il vino che Jeremy aveva voluto offrirle insieme con una mediocre insalata di pollo. «Aiuta a mandarla giù, mia cara», disse. «Temo che in assenza di mia moglie, Anna non lavori proprio al meglio. È molto diversa dalla madre di Abby. Francey Foster metteva entusiasmo in tutto quello che preparava. Panini, dolci, soufflé... Abby sa cucinare?» «Non lo so», rispose Pat. Poi, il tono improvvisamente confidenziale: «Signor Saunders, non posso fare a meno di provare la sensazione che lei sia irritato con la senatrice Jennings. Mi sbaglio? Avevo l'impressione che una volta foste piuttosto interessati l'uno all'altra.» «Irritato con lei? Irritato?» La voce era impastata, le parole confuse. «Lei non sarebbe forse irritata con qualcuno che si mette in testa di prenderla per il naso... e ci riesce magnificamente?»
Eccolo che arrivava... il momento magico che a volte le si presentava nelle sue interviste, quando le persone abbassando la guardia cominciano a mettersi a nudo. Studiò Jeremy Saunders. Quell'uomo dalla pelle liscia, alticcio, ridicolo nella sua tenuta formale, stava evidentemente cercando di mettere a fuoco un ricordo sgradevole. Gli occhi senza malizia, la bocca troppo morbida, il mento debole, rotondo, rivelavano dolore, oltre che ira. «Abigail», disse con tono più calmo, «senatrice degli Stati Uniti per la Virginia.» Fece un inchino elaborato. «Mia cara signorina Traymore, ha l'onore di parlare con il suo ex fidanzato.» Pat cercò senza riuscirvi di nascondere la sorpresa. «Lei era fidanzato con Abigail?» «L'ultima estate in cui fu qui. Per pochissimo tempo, naturalmente. Quanto bastava per il suo piano. Aveva vinto il concorso di bellezza dello stato, ma era abbastanza intelligente da capire che ad Atlantic City non sarebbe andata più in là. Aveva tentato di ottenere una borsa di studio a Radcliffe, ma i suoi voti in matematica e scienze non erano sufficienti. Naturalmente, Abby non aveva nessuna intenzione di frequentare l'università locale. Per lei era una soluzione terribile, e ancora adesso mi domando se nell'alternativa che trovò non ci fosse lo zampino di Toby. «Io mi ero appena laureato a Yale e avrei dovuto entrare nella ditta di mio padre, prospettiva che non mi interessava e inoltre stavo per fidanzarmi con la figlia del migliore amico di mio padre, prospettiva che mi esaltava ancora meno. E proprio qui, a casa mia, c'era Abigail, che mi diceva tutto quello che avrei potuto diventare con lei al fianco, che scivolava nel mio letto nel buio della notte, mentre la povera Francey Foster, stanca, russava nel suo appartamento di servizio. La conclusione fu che comprai ad Abigail un bel vestito, la portai al ballo del Country Club e le chiesi di sposarmi. «Quando tornammo a casa, svegliammo i miei genitori per annunciare loro la lieta novella. S'immagina la scena? Mia madre, che si era compiaciuta nell'obbligare Abigail a passare dalla porta di servizio, vedeva andare in fumo tutti i progetti grandiosi formulati per il suo unico figlio. Ventiquattr'ore dopo Abigail lasciava la città, con un assegno di diecimila dollari firmato da mio padre e le valigie piene del guardaroba che i suoi concittadini le avevano regalato. Era già stata accettata a Radcliffe, capisce. Solo le mancava il denaro che le permettesse di frequentare un Istituto così prestigioso.
«Io la seguii e mi sentii dire esplicitamente che tutto quello che mio padre aveva detto a suo riguardo era assolutamente esatto. Persino sul letto di morte, dopo molti anni, mio padre mi rinfacciò di essermi fatto raggirare in quel modo. Dopo trentacinque anni di matrimonio, Evelyn si irrita ancora ogni volta che sente nominare Abigail. Quanto a mia madre, l'unica soddisfazione che poté prendersi fu quella di cacciare Francey Foster e, in fin dei conti, fece solamente del male a se stessa: non abbiamo mai più avuto una cuoca decente, da allora.» Quando, in punta di piedi, Pat uscì dalla stanza, Jeremy Saunders era addormentato, la testa che gli sobbalzava sul petto. Erano quasi le due meno un quarto. Il cielo si stava di nuovo coprendo, come se fosse in vista un'altra nevicata. Mentre si dirigeva all'appuntamento con Margaret Langley, la direttrice della scuola, ormai in pensione, si domandava quanto fosse precisa la versione che Jeremy Saunders aveva dato sul comportamento giovanile di Abigail Foster. Intrigante? Calcolatrice? Bugiarda? Comunque fosse, questo non collimava con quella reputazione di assoluta integrità che era il fondamento su cui reggeva la carriera pubblica della senatrice Abigail Jennings. 8 Alle due meno un quarto Margaret Langley si accinse, cosa insolita per lei, a prepararsi un altro caffè, pur sapendo che più tardi il bruciore della gastrite avrebbe potuto tormentarla. Come sempre quando era turbata, iniziò ad andare avanti e indietro nello studio, cercando conforto nella vista delle vellutate foglie verdi delle piante appese vicino alla vetrata. Quella mattina mentre stava leggendo alcuni sonetti di Shakespeare sorseggiando il caffè che faceva seguire alla prima colazione, aveva ricevuto la telefonata di Patricia Traymore che chiedeva il permesso di rivolgerle alcune domande. Margaret scosse la testa nervosamente. Era leggermente curva, con i suoi settantatré anni. I capelli grigi ondulati le incorniciavano il viso e si raccoglievano in una piccola crocchia sulla nuca. Il viso lungo, un po' cavallino, riusciva a non essere privo di attrattiva grazie all'espressione arguta che rivelava un'intelligenza acuta. La camicetta che indossava era adorna della spilla che le aveva regalato la scuola quando era andata in pensione: una corona d'alloro in oro che racchiudeva il numero quarantacinque,
cioè il numero degli anni in cui aveva lavorato come insegnante e come direttrice. Alle due e dieci, cominciava a sperare che Patricia Traymore avesse cambiato idea e non venisse più, quando vide una piccola macchina percorrere lentamente la strada. All'altezza della cassetta delle lettere la macchina rallentò, probabilmente per permettere al guidatore di leggere il numero civico. Di mala voglia, Margaret si diresse verso il portone. Pat si scusò per il ritardo. «Chissà dove ho sbagliato a voltare», spiegò, accettando con piacere il caffè che le veniva offerto. Margaret sentì l'agitazione dentro di lei calmarsi. Quella ragazza aveva qualcosa di così gentile, per esempio nel modo in cui si era pulita gli stivali strofinandoli sullo zerbino prima di camminare sul pavimento lucido, una gentile precauzione che pochi si sarebbero data la pena di seguire, e poi era talmente carina, con quei capelli castano ramati e i begli occhi marrone. Margaret se l'era invece immaginata molto aggressiva. Quando le avesse parlato di Eleanor, forse Patricia Traymore l'avrebbe ascoltata. Mentre versava il caffè cominciò a raccontare. «Capisce», disse, e sentì la propria voce stridula e nervosa, «quando il denaro scomparve a Washington, il problema fu che tutti parlarono di Eleanor come di una ladra incallita. Signorina Traymore, le hanno mai detto il valore dell'oggetto che dovrebbe aver rubato quand'era all'ultimo anno delle superiori?» «No, credo di no», rispose Pat. «Sei dollari. La sua vita è stata rovinata per una bottiglietta di profumo del valore di sei dollari! Non le è mai capitato, signorina Traymore, di trovarsi sul punto di uscire da un negozio e accorgersi di avere in mano qualche cosa che aveva intenzione di comprare?» «Certo, qualche volta mi è capitato», convenne Pat. «Ma nessuno è accusato di furto per essersi distratto a proposito di un articolo che costa sei dollari.» «Succederebbe, se in città ci fosse stata un'ondata di furti come accadde allora; i negozianti erano sul piede di guerra e il procuratore distrettuale aveva promesso che la prima persona che sarebbe stata colta sul fatto avrebbe ricevuto una punizione esemplare.» «E la prima persona fu Eleanor?» «Sì.» Goccioline di sudore sottolineavano le rughe sulla fronte di Margaret. Pat notò, preoccupata, che il colorito della vecchia direttrice stava diventando innaturalmente grigiastro.
«Signorina Langley, non si sente bene? Posso portarle un bicchier d'acqua?» L'altra scosse la testa. «No, passerà. Mi dia solo un minuto.» Rimasero sedute in silenzio, mentre il sangue ricominciava ad affluire al viso della vecchia insegnante. «Ora va meglio. Immagino che riparlare di questo fatto mi agiti un po' troppo. Capisce, signorina, il giudice volle che il caso di Eleanor fosse esemplare, la mandò in riformatorio per trenta giorni. Quando lei ne uscì era cambiata. Diversa. Alcune persone non possono sopportare quel tipo di umiliazione. Capisce, nessuno le ha creduto all'infuori di me. Io, i giovani li conosco. Eleanor non era una sfrontata. Era di quelle che in classe non si tengono mai la gomma da masticare in bocca, né parlano quando l'insegnante non è presente, né copiano durante i compiti in classe. Non era soltanto una brava ragazza. Era timida.» C'era qualche cosa che Margaret Langley si teneva dentro. Pat lo sentiva: si chinò in avanti e chiese gentilmente: «Signorina Langley, c'è forse qualcos'altro in questa storia che lei non mi racconta?» La donna ebbe un tremito alle labbra. «Eleanor non aveva i soldi per pagare il profumo. Spiegò che aveva intenzione di chiedere che glielo mettessero da parte. Doveva andare a una festa di compleanno, quella sera. Il giudice, però, non le credette.» E non ci credo nemmeno io, pensò Pat. La rattristava di non poter accettare la spiegazione a cui Margaret Langley credeva in modo così appassionato. La vecchia direttrice si portò le mani alla gola, come per calmare un battito troppo rapido. «Quella cara bambina venne qui tante volte, la sera», continuò triste; «sapeva che ero l'unica a credere in lei in modo assoluto. Quando prese il diploma nella nostra scuola, scrissi ad Abigail e le chiesi se poteva trovarle un lavoro nel suo ufficio.» «Non è vero che la senatrice offrì quella possibilità a Eleanor, ebbe fiducia in lei e che poi Eleanor rubò i fondi per la campagna elettorale?» chiese Pat. Margaret parve a un tratto molto stanca. La sua voce si appiattì. «Io stavo prendendomi il mio anno sabbatico quando tutto ciò accadde, ero in viaggio in Europa. Quando tornai, era tutto finito. Eleanor era stata giudicata colpevole e condannata. In seguito dopo aver avuto un collasso nervoso fu trasferita nel reparto psichiatrico dell'ospedale del carcere. Le scrissi regolarmente, ma lei non mi rispose mai. Poi, a quanto ho potuto capire, fu liberata sulla parola per motivi di salute, ma a condizione che due volte alla settimana si recasse in una clinica come paziente esterna. Un bel giorno
è semplicemente scomparsa. Questo è successo nove anni fa.» «E non ha mai più avuto sue notizie?» «Io... no... cioè...» Margaret si alzò. «Mi scusi... non vuole ancora caffè? Ce n'è tanto nel bricco. Ne prendo un pochino anch'io. Non dovrei, ma ne prendo lo stesso.» Sforzandosi di sorridere, Margaret si diresse verso la cucina. Pat tirò fuori il registratore: ha notizie di Eleanor, pensò e non è assolutamente capace di mentire. Quando la signorina Langley tornò, chiese con dolcezza: «Che cosa sa di Eleanor, adesso?» Margaret Langley appoggiò il bricco del caffè sul tavolo e si avvicinò alla finestra. Avrebbe potuto far del male a Eleanor, fidandosi di Pat Traymore? Avrebbe, in concreto, fornito qualche traccia che poteva condurre fino a lei? Un passero solitario sbatté le ali davanti alla finestra e si posò sconsolatamente sul ramo gelato di un olmo vicino al viale. Margaret prese una decisione. Si sarebbe fidata di Patricia Traymore, le avrebbe mostrato le lettere e detto quello che pensava. Voltandosi, incontrò lo sguardo di Pat e lesse l'interesse nei suoi occhi. «Voglio farle vedere qualche cosa», disse senza più esitare. Quando ritornò in salotto, aveva in mano un foglio piegato. «Ho ricevuto notizie di Eleanor», disse. «Questa lettera», e tese la mano destra, «fu scritta lo stesso giorno del supposto furto. La legga, signorina Traymore, la legga.» Il foglio di carta da lettere color crema era molto sgualcito, come se fosse stato preso in mano numerose volte. Pat guardò la data: era di undici anni prima. Rapidamente scorse il testo. Eleanor sperava che la signorina Langley si godesse il suo anno di vacanza in Europa; lei aveva ricevuto una promozione e il lavoro le piaceva molto. Stava seguendo un corso di pittura alla George Washington University e lo studio andava bene. Era appena rientrata da una visita pomeridiana a Baltimora. Aveva avuto l'incarico di dipingere una marina e aveva deciso per la baia di Chesapeake. La signorina Langley aveva sottolineato una frase. Diceva: Per poco non riuscivo ad andarci. Ho dovuto precipitarmi a fare una commissione per la senatrice Jennings. Aveva dimenticato il suo anello di brillanti nell'ufficio del comitato per le elezioni, e pensava che gliel'avessero messo nella cassaforte. Ma non c'era, e sono riuscita ad arrivare appena in tempo per non perdere l'autobus.
Questa era una prova? pensò Pat. Alzò il viso e incontrò con gli occhi quelli, pieni di speranza, di Margaret Langley. «Non capisce?» disse questa. «Eleanor mi ha scritto la notte stessa in cui avrebbe dovuto avvenire il furto. Perché avrebbe dovuto imbastire questa storia?» Pat non riuscì a trovare il modo di addolcire quello che doveva dire. «Forse voleva costruirsi un alibi.» «Uno che sta cercando di costruirsi un alibi non scrive a una persona che forse non riceverà la lettera prima di qualche mese», disse con foga. Poi sospirò: «Be', io ho provato. Spero solo che avrà la bontà di non riesumare questo tormento. A quanto pare, Eleanor sta cercando di vivere in qualche modo da sola e merita di essere lasciata in pace». Pat guardò l'altra lettera che Margaret le porgeva: «Le ha scritto dopo essere scomparsa?» «Sì. Questa è arrivata sei anni fa.» Pat prese la lettera. I caratteri della macchina con cui era stata scritta dovevano essere consumati, la carta era di tipo economico. Cara signorina Langley. La prego di comprendere il perché non desidero avere alcun contatto con persone del mio passato. Se mi trovano dovrò tornare in carcere. Le giuro che io quei soldi non li ho toccati. Sono stata molto malata, ma sto tentando di rifarmi una vita, e ogni tanto riesco quasi a credere che potrò rimettermi, altre volte invece sono così spaventata, ho paura che qualcuno mi riconosca. La penso spesso. Le voglio bene e mi manca molto. La firma di Eleanor era esitante, le lettere irregolari, in evidente contrasto con la scrittura ferma e aggraziata della lettera precedente. Ci vollero tutte le arti persuasive di Pat per convincere Margaret Langley a lasciarle le lettere. «Stiamo progettando di parlare di questo episodio nel programma», disse, «ma anche se qualcuno dovesse riconoscere Eleanor e denunciarla, forse potremo far rinnovare il provvedimento di libertà sulla parola. Così non dovrebbe continuare a nascondersi per tutta la vita.» «Mi piacerebbe rivederla», bisbigliò Margaret. Adesso, gli occhi le brillavano di lacrime. «È quanto di più vicino a un figlio io abbia mai avuto. Aspetti... voglio farle vedere la sua fotografia.» Sul ripiano più basso della libreria erano accatastati mucchi di annuari. «Ne ho uno per ogni anno passato nella scuola», spiegò. «Ma quello di Eleanor lo tengo sopra agli altri.» Scorse rapidamente le pagine del volume.
«Ha preso il diploma diciassette anni fa. Non è dolce?» La ragazza della fotografia aveva capelli sottili e incolori, occhi dolci e innocenti. La didascalia diceva: Eleanor Brown; potrebbe coltivare seriamente l'hobby della pittura anche se la sua ambizione è di impiegarsi come segretaria in un buon ufficio. Di indole romantica, probabilmente si sposerà giovane. Ragazza timida e introversa degna della massima fiducia. Forte senso di responsabilità. Pat scosse la testa e lo sguardo le cadde sul mucchio degli altri annuari. «Un momento», disse, «ha per caso il giudizio che riguarda la senatrice Jennings?» «Certo. Vediamo... dev'essere qui...» Il secondo libro che Margaret Langley aprì era quello giusto. Nella fotografia Abigail portava i capelli sciolti sulle spalle, leggermente più corti ai lati del viso. Le labbra erano socchiuse, come se avesse seguito ubbidientemente l'invito del fotografo a sorridere. Gli occhi, grandi e orlati da folte ciglia, erano calmi e impenetrabili. La didascalia diceva: Abigail Foster; ragazza particolarmente vivace, impegnata in qualsiasi attività politica che si svolge all'interno della scuola. Spesso leader nelle più accese discussioni durante le assemblee. La sua massima ambizione: diventare rappresentante al Congresso per Apple Junction. «Rappresentante al Congresso», esclamò Pat: «fantastico!» Si congedò mezz'ora dopo, portandosi via l'annuario con la fotografia della senatrice. Entrando in macchina decise che avrebbe mandato una troupe televisiva a riprendere qualche inquadratura della cittadina, come il corso, la casa dei Saunders, la scuola e l'autostrada con l'autobus che faceva il servizio con Albany. Subito dopo le immagini della città, avrebbe fatto comparire la senatrice Jennings che avrebbe pronunciato qualche breve osservazione sul fatto di essere cresciuta lì e sul suo precoce interesse per la politica. Quella parte del programma si sarebbe conclusa con la fotografia della senatrice eletta Miss New York State, poi con la fotografia contenuta nell'annuario della scuola, mentre la stessa Abigail avrebbe spiegato come il fatto di andare a Radcliffe invece che ad Atlantic City fosse stata la decisione più importante della sua vita. Con l'insolita sensazione che in qualche modo stava glissando sulla vera
storia, Pat batté la città per un'ora, prendendo nota dei punti adatti alle riprese della troupe. Poi andò a disdire la camera all'Apple Motel, ritornò ad Albany dove restituì la macchina noleggiata e, con sollievo, salì sull'aereo che doveva riportarla a Washington. 9 Washington è bella, pensò Pat, da qualsiasi punto di vista la si guardi e a qualsiasi ora. Di notte, i riflettori che illuminavano il Campidoglio e gli altri monumenti parevano conferirle un carattere di quieta eternità. Era stata lontana solo trenta ore e le pareva che fossero trascorsi parecchi giorni dal momento della partenza. L'aereo atterrò con un leggero sobbalzo e rullò dolcemente sulla pista. Aprendo la porta di casa, Pat sentì il telefono squillare e avanzò a tentoni per rispondere. Era Luther Pelham e pareva irritato. «Pat, lieto di averti trovata. Non mi hai fatto sapere dove eri scesa, ad Apple Junction. Quando finalmente ti ho rintracciata, eri già partita.» «Scusami. Avrei dovuto telefonarti stamattina.» «Abigail terrà un discorso importante domani prima della votazione conclusiva sul bilancio. Ha proposto che tu passassi tutto il giorno nel suo ufficio. Lei ci sarà dopo le sei e mezza.» «Ci andrò senz'altro.» «Com'è andata nella sua città natale?» «Interessante. Possiamo fare qualche ripresa simpatica che non farà rizzare il pelo alla senatrice.» «Mi piacerebbe che tu mi raccontassi. Ho appena finito di cenare al Jockey Club e posso essere da te tra dieci minuti.» Poi ci fu lo scatto che concludeva la telefonata. A mala pena Pat ebbe il tempo di cambiarsi, di indossare un maglione e un paio di pantaloni comodi, prima che arrivasse Luther. Il materiale fornito dalla senatrice ingombrava tutta la biblioteca; Pat pilotò Luther nel soggiorno e gli offrì da bere. Quando ritornò con il bicchiere, lui stava esaminando il candelabro che ornava la mensola del camino. «Bell'esemplare di stile Sheffield», osservò. «Ma in realtà tutto è bello in questa stanza.» A Boston, Pat aveva abitato in un monolocale studio simile a quello di tutti i giovani professionisti, e non le era venuto in mente che i mobili e i ninnoli costosi che riempivano la sua nuova casa potessero suscitare commenti.
Cercò di apparire disinvolta. «I miei genitori hanno in programma di trasferirsi tra poco tempo in un condominio. Abbiamo una soffitta piena di mobili di famiglia e mia madre mi ha detto che se li volevo dovevo prenderli adesso o mai più.» Luther si sedette sul divano e tese la mano per prendere il bicchiere posato davanti a lui. «Quello che so è che alla tua età abitavo all'YMCA, non potevo permettermi altro che l'ostello per la gioventù.» Batté qualche colpetto sul cuscino accanto a sé. «Vieni a sederti qui e dimmi tutto della nostra piccola città.» Ah, no, pensò lei. Niente corteggiamenti stasera, Luther Pelham. Ignorando le sue parole, si sedette sulla sedia dall'altra parte del tavolo e si accinse a fare il resoconto di quello che aveva scoperto ad Apple Junction. Non era edificante. «Abigail era magari la più bella da quelle parti», concluse, «ma certamente non era la più popolare. Adesso capisco perché le dà fastidio ricordare il passato. Jeremy Saunders sparlerà di lei fino alla morte. Abigail ha ragione di temere che se tiriamo fuori la sua elezione a Miss New York State, i suoi concittadini anziani ricominceranno a blaterare su quel paio di dollari che a suo tempo versarono per comprarle il corredo per Atlantic City, mentre le servivano per tagliare la corda. Miss Apple Junction! Aspetta, che ti mostro la fotografia.» Vedendola, Luther fischiò: «È difficile riuscire a credere che questa balena potesse essere la madre di Abigail». Poi, ripensando all'osservazione di Pat: «E va bene. Era un motivo valido per desiderare di mettere Apple Junction e tutto il resto nel dimenticatoio. Mi pareva però che tu mi avessi detto che c'era anche del materiale interessante che si poteva recuperare». «Lo ridurremo all'osso. Vedute della città, la scuola, la casa dove è cresciuta; poi l'intervista con la direttrice della scuola, Margaret Langley, che parla di quando Abigail andava ad Albany ad assistere alle sedute del parlamento dello stato. Si chiude con la fotografia della scuola tratta dall'annuario. Non è molto, ma qualche cosa è. Bisogna che si faccia capire alla senatrice, che non è un UFO sbarcato sulla terra all'età di ventun anni. Comunque, per questo programma lei era d'accordo di collaborare. Non le abbiamo mica concesso la direzione dell'idea a livello creativo, spero.» «Questo no, ma indubbiamente una specie di diritto di veto gliel'abbiamo dato. Non te lo dimenticare, Pat: non stiamo semplicemente preparando questo programma su di lei, lo stiamo preparando con lei e la sua collaborazione è essenziale, visto che ci permette di attingere alla sua documen-
tazione privata.» Si alzò in piedi: «Dato che insisti a tenere questo tavolo tra di noi...» Aggirò il tavolo, la raggiunse, mise le mani su quelle di lei. Pat fu rapida a balzare in piedi, ma non abbastanza. Lui l'attirò contro di sé. «Sei molto bella.» Le sollevò il mento. Le sue labbra premettero su quelle di lei. La sua bocca era insistente. Pat cercò di liberarsi, ma le mani di lui la stringevano come in una morsa. Alla fine riuscì a piantargli i gomiti nel petto: «Lasciami». Lui sorrise: «Perché non mi fai vedere il resto della casa, Pat?» Non potevano esserci dubbi sulle sue intenzioni. «È abbastanza tardi, ma uscendo puoi affacciarti nella biblioteca e nella sala da pranzo. Veramente preferirei che tu aspettassi fino a quando avrò appeso i quadri e sistemato tutto il resto.» «La tua camera da letto dov'è?» «Di sopra.» «Mi piacerebbe vederla.» «Per la verità, anche quando sarà messa a posto, ti sarei grata di considerare il secondo piano di questa casa come, negli anni della tua jeunesse folle a New York, eri costretto a considerare il secondo piano dell'Hotel Barbizon per sole donne, cioè vietato per i signori uomini.» «Preferirei che non scherzassi, Pat.» «Io invece preferirei tenere questa conversazione su questo tono; altrimenti posso dirtela in un altro modo. Non vado a letto con uomini aventi a che fare con l'ambiente di lavoro, né fuori dell'ambiente di lavoro. Né stanotte. Né domani. Né tra un anno.» «Ho capito.» Lo precedette per il corridoio. Nell'ingresso gli tese il cappotto. Indossandolo, lui le rivolse un sorriso acido: «Qualche volta, le persone che hanno il tuo stesso genere di problemi non riescono a essere all'altezza delle loro responsabilità», disse. «E spesso scoprono di essere più felici in qualche sede sperduta piuttosto che trovarsi a lavorare in posti importanti. Magari esiste una stazione televisiva ad Apple Junction? Forse dovresti informarti, Pat.» Alle sei meno dieci in punto, passando dalla porta di servizio, Toby entrò nella casa di Abigail a McLean, in Virginia. La grande cucina era dotata della completa attrezzatura necessaria a un grande cuoco. Per Abigail, riposarsi significava passare una sera cucinando. A seconda dell'umore,
preparava sei o sette tipi diversi di antipasti, oppure infornava pirofile con pasticci di pesce o di carne. Altre sere creava mezza dozzina di salse diverse, oppure torte e dolci che ti si scioglievano in bocca. Poi ficcava tutto nel congelatore. Quando però organizzava una festa, non ammetteva in nessun modo di aver preparato tutto da sola: odiava essere associata con la parola cucinare. Personalmente, Abigail mangiava molto poco. Toby sapeva che era ossessionata dal ricordo della madre, la povera vecchia Francey, quella botte brontolona, con le gambe come colonne che terminavano nelle caviglie grasse e i piedi così larghi che difficilmente riusciva a trovare scarpe adatte. Toby aveva un appartamento sopra il garage. Quasi ogni mattina entrava in casa, preparava il caffè e la spremuta di frutta. Poi, dopo aver accompagnato Abigail nel suo ufficio, si godeva una sostanziosa colazione e se era prevedibile che la senatrice non richiedesse i suoi servizi trovava qualcuno con cui giocare a poker. Abigail entrò in cucina, ancora intenta a fissare sul risvolto della giacca una spilla d'oro a forma di mezzaluna. Indossava un tailleur viola che metteva in risalto l'azzurro dei suoi occhi. «Abby, è uno splendore», fece l'uomo. Il sorriso di lei fu rapido e scomparve immediatamente. Ogni volta che Abby aveva in programma un discorso importante in Senato era così: nervosa come un gatto e pronta a irritarsi per qualsiasi cosa che non girasse, secondo lei, per il verso giusto. «Non perdiamo tempo con il caffè», ringhiò. «C'è un sacco di tempo», la rassicurò Toby. «La farò arrivare prima delle sei e mezza. Beva il caffè. Sa benissimo che diventa nervosa se non lo prende.» Dopo, lasciò nel lavello le due tazze, sapendo che se avesse perso tempo a lavarle Abby si sarebbe irritata. La macchina era ferma davanti alla porta principale. Quando Abby andò a prendere la giacca e la borsa dei documenti, lui si precipitò in macchina e accese il riscaldamento. Alle sei e dieci erano sulla statale 395. Abby era insolitamente tesa, pur considerando che era un giorno in cui doveva pronunciare un discorso. La sera prima era andata a letto presto ma Toby si domandava se fosse riuscita a dormire. La sentì sospirare e chiudere con un colpo secco la borsa dei documenti.
«Se a questo punto non so ancora quello che dirò, tanto vale che me ne scordi», commentò. «Se non si riesce a votare al più presto per questo dannato bilancio, saremo in seduta anche il giorno di Natale. Ma non permetterò che eliminino i programmi di assistenza.» Nel retrovisore Toby la vide versarsi un po' di caffè da un termos. Dall'espressione del viso, capì che era pronta a parlare. «Ha dormito bene, stanotte, senatrice?» Una volta ogni tanto, anche quando erano soli, lui buttava nel discorso quel senatrice; serviva a farle ricordare che, qualunque cosa avvenisse, lui sapeva stare al suo posto. «No, per niente. Mi sono messa a pensare a quel programma. Ho fatto una sciocchezza a lasciarmi convincere. Sarà controproducente. Me lo sento nelle ossa.» Toby corrugò la fronte. Aveva un salutare rispetto per le ossa di Abby. E ancora non le aveva detto che Pat Traymore viveva nella casa di Dean Adams. Lei su quel punto era addirittura superstiziosa e non era proprio il momento adatto per farle perdere il suo sangue freddo. Probabilmente sarebbe venuta a saperlo, sarebbe per forza saltato fuori e Toby si accorse di cominciare a provare una sgradevole sensazione a proposito di quel programma. Pat aveva messo la sveglia alle cinque. Nella sua prima esperienza televisiva, aveva scoperto che mantenersi calma e padrona di sé l'aiutava ad applicare la sua energia al lavoro di cui si stava occupando. Ricordava ancora la bruciante disperazione di quando, arrivando ansimante e senza fiato a intervistare il governatore del Connecticut, si era accorta di aver dimenticato tutte le domande che aveva preparato con cura. Dopo l'Apple Motel, era stato bello ritrovarsi nel comodo lettone di casa sua; però aveva dormito male, ripensando alla scena con Luther Pelham. Nell'ambiente televisivo molti uomini si sentivano obbligati a fare delle avance e alcuni di essi si dimostravano vendicativi, se respinti. Si vestì rapidamente, scegliendo un vestito di lana nero con ampie maniche lunghe, completato da un gilet di pelle. Sembrava che anche quello fosse uno di quei giorni freddi e ventosi che avevano caratterizzato tutto il mese di dicembre. Alcune finestre mancanti dei doppi vetri, specie sul lato nord della casa, tintinnavano sotto la sferza sibilante del vento. Uscì sul pianerottolo. Il sibilo si intensificò. Ma adesso sentì il grido di un bambino. Scese di
corsa per le scale. Era tanto spaventata, e piangeva... Un improvviso capogiro le fece afferrare la balaustra. Sta cominciando, pensò. Ecco che comincia a ritornare. Per strada, diretta all'ufficio della senatrice, si sentì turbata, fuori fase. Non riusciva a liberarsi della paura che l'aveva assalita dopo quell'affiorare improvviso di ricordi. Perché doveva provare paura, adesso? Quanto aveva visto di ciò che era accaduto quella notte? Philip Buckley la stava aspettando nell'ufficio quando arrivò. Nella mezzaluce del primo mattino, l'espressione del suo viso e il suo atteggiamento verso di lei pareva cautamente ostile. Di che cosa ha paura? si domandò Pat. Il sorriso di lui, gelido, contenuto, fu privo di umorismo. «Se la ritenessi una spia inglese, a questo campo coloniale lei non si avvicinerebbe neppure», commentò. «La senatrice sarà qui a minuti. Forse vuol dare un'occhiata al suo programma di oggi; potrà farsi un'idea di quello che è il suo volume di lavoro.» Sbirciò da sopra la sua spalla, mentre lei leggeva le pagine fittissime. «Veramente dovremo rimandare gli appuntamenti con almeno tre di queste persone. Abbiamo pensato che, semplicemente permettendole di essere presente nell'ufficio della senatrice, potrà decidere quali frammenti della sua giornata vuole includere nel servizio. Naturalmente, se la senatrice deve discutere di questioni confidenziali, lei uscirà. Ho messo un tavolo per lei nell'ufficio privato della senatrice. Così non si farà notare.» «Pensa proprio a tutto», fece Pat. «Forza, perché non fa un bel sorriso? Dovrà comunque sforzarsi di farne uno davanti alla macchina da presa quando cominceremo a girare.» «Mi risparmio il sorriso per quando vedrò la versione definitiva del programma, dopo il montaggio.» Comunque, aveva un'aria un po' più rilassata. Abigail arrivò qualche minuto dopo. «Sono così felice che lei sia qui», disse a Pat. «Non riuscivamo a trovarla e temevo che lei potesse essere fuori città.» «Ho ricevuto il suo messaggio ieri sera.». «Ah. Luther non era sicuro di poterla raggiungere.» Allora, quello era il motivo della chiacchieratina, decise Pat. La senatrice voleva sapere dov'era stata. Non aveva nessuna intenzione di dirglielo.
«Sarò la sua ombra finché il programma non sarà finito», disse. «Le verrà la nausea, probabilmente, all'idea di avermi sempre tra i piedi.» Abigail non cambiò discorso. «Devo poterla raggiungere alla svelta. Luther mi ha detto che lei aveva alcuni problemi da esaminare con me e il mio programma di lavoro spesso non mi permette, fino all'ultimo, di sapere quando sono libera. A questo punto diamoci da fare.» Pat la seguì nel suo ufficio e cercò di non farsi notare. Qualche minuto più tardi, la senatrice discuteva animatamente con Philip. La relazione che il suo collaboratore appoggiò sulla sua scrivania era arrivata in ritardo e lei ne chiese, seccamente, la ragione: «Avrei dovuto averla la settimana scorsa». «Le tabelle non erano pronte.» «Perché?» «Semplicemente, il tempo non è stato sufficiente.» «Se non c'è tempo durante il giorno, c'è tempo la sera», ringhiò Abigail. «Se qualcuno del mio staff è diventato un impiegato che timbra il cartellino, voglio saperlo.» Alle sette ebbero inizio i colloqui relativi agli appuntamenti. Pat sentiva la sua stima per Abigail crescere a ogni persona che entrava. Abigail si occupò di personaggi dell'industria petrolifera, di ecologisti, di problemi relativi all'assistenza ai reduci; definì durante una riunione una strategia per la presentazione di un nuovo progetto di legge sugli alloggi, ricevette un rappresentante dell'Ufficio Imposte per prendere nota di determinate obiezioni a una proposta di esenzione in favore dei contribuenti a medio reddito e, in seguito, rispose esaurientemente alle domande di una delegazione di cittadini anziani che protestavano per i tagli alle pensioni. Quando si aprì la seduta al Senato, Pat accompagnò Abigail e Philip; non era accreditata per sedere nel settore della stampa dietro il podio, quindi si sistemò nella galleria riservata al pubblico. Osservò i senatori entrare dopo essere passati dal guardaroba, salutandosi, sorridenti, rilassati. Ce n'erano di tutti i tipi: alti, bassi; di magrezza cadaverica, paffuti; con folte criniere alcuni, altri con un taglio di capelli impeccabile, altri ancora, calvi. Quattro o cinque avevano un'apparenza seria come studiosi o professori universitari. Oltre ad Abigail, c'erano altre due senatrici, Claire Lawrence dell'Ohio e Phyllis Holzer del New Hampshire, eletta come indipendente. A Pat interessava soprattutto osservare Claire Lawrence. La senatrice giovane dell'Ohio indossava un completo in jersey blu scuro che si addice-
va alla sua figura lievemente massiccia. I capelli corti sale e pepe, naturalmente ondulati, le incorniciavano e addolcivano il viso angoloso, privandolo di qualsiasi severità. Pat osservò il piacere genuino con cui i colleghi la salutavano, lo scoppio di risa che seguivano alle battute che lei pronunciava a bassa voce. Claire Lawrence era un personaggio di cui spesso si ripetevano le battute, possedeva un modo di fare allegro e spiritoso che le permetteva di abolire ogni sfumatura negativa dai problemi più scottanti, senza compromettere l'argomento di cui si occupava rendendolo banale. Nel suo blocco di appunti, Pat annotò: umorismo e sottolineò la parola. Abigail invece dava l'impressione di essere sempre fin troppo seria. Bisognava inserire nel programma qualche brano leggero, studiandone con cura la collocazione. Una lunga scampanellata insistente stava richiamando all'ordine il Senato. Presiedeva il senatore anziano dell'Arkansas, in sostituzione del vicepresidente ammalato. Dopo alcune brevi formalità, il presidente diede la parola al senatore anziano della Virginia. Abigail si alzò e, senza traccia di nervosismo, inforcò gli occhiali da lettura con montatura azzurra. Aveva raccolto i capelli in un semplice chignon che metteva in risalto le linee eleganti del profilo e del collo. «Due delle frasi più note della Bibbia», esordì, «dicono: 'Il Signore ha dato e il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore'. In questi ultimi anni il nostro governo ha dato e dato, esageratamente e sconsideratamente. E poi ha tolto e tolto ancora. Ma pochi sono quelli che benedicono il suo nome. «Ogni cittadino responsabile converrebbe, ritengo, che un riesame dei programmi assistenziali sarebbe necessario. Ma adesso è tempo di vedere quello che abbiamo fatto. Io sostengo che l'operazione è stata troppo radicale, le riduzioni troppo drastiche. Io sostengo che è giunto il momento di ripristinare molti progetti necessari. Nessuno negherà che esiste un diritto all'assistenza e certo nessuno, in questa illustre assemblea, vorrà contestare che ogni essere umano di questo paese ha il diritto di pretendere un tetto e cibo...» Abigail era un'ottima oratrice. Il suo discorso era stato preparato con cura, documentato altrettanto bene e condito di aneddoti quanto bastava per tener desta l'attenzione anche in quei politici di professione. Parlò per un'ora e dieci minuti. L'applauso fu prolungato e sincero. Quando la seduta fu aggiornata, Pat vide il leader della maggioranza affret-
tarsi verso di lei per congratularsi. Pat aspettò insieme con Philip che la senatrice si allontanasse dai colleghi e dal pubblico che si addensava intorno a lei. Se ne andarono insieme per tornare in ufficio. «È andata bene, vero?» chiese Abigail, ma non c'era tono interrogativo nella sua voce. «Ottimo, senatrice», fece Philip, pronto. «Pat?» La senatrice ora guardava lei. «Mi sentivo male all'idea di non poterlo registrare», rispose Pat con franchezza. «Mi piacerebbe enormemente poter inserire nel programma alcuni brani di questo discorso.» Fecero colazione nell'ufficio della senatrice. Abigail ordinò un uovo sodo con caffè nero e fu interrotta quattro volte da telefonate urgenti. Una di queste era di una collaboratrice volontaria che aveva lavorato con lei in precedenti campagne elettorali. «Certo, Maggie», fece Abigail. «No, non interrompi niente. Per te ci sono sempre... lo sai. Che cosa posso fare per esserti utile?» Pat osservò il viso di Abigail diventare rigido, mentre una ruga le scavava la fronte. «Vuoi dire che l'ospedale ti ha detto di riprenderti tua madre che non può neppure alzare la testa dal cuscino?... Capisco. Hai pensato a qualche casa di cura?... Sei mesi di attesa. E tu che cosa dovresti fare in quei sei mesi?... Maggie, ti richiamo io.» Sbatté il ricevitore. «Questo è il genere di cose che mi fa impazzire. Maggie sta cercando di tirar su da sola tre ragazzini. Ha un secondo lavoro il sabato e adesso le dicono di prendersi a casa una madre costretta a letto e molto mal ridotta. Philip, trovami Arnold Pritchard. E non m'importa se è a colazione da qualche parte. Trovalo adesso.» Un quarto d'ora dopo giunse la telefonata che Abigail stava aspettando. «Arnold, piacere di sentirti... Sono contenta di sapere che stai bene... No, io non sto bene. Anzi, sono piuttosto sconvolta...» Cinque minuti dopo, Abigail concludeva la conversazione: «Sì, d'accordo. Direi che / Salici è perfetto. È abbastanza vicino, perciò Maggie potrà andarla a trovare senza perdere tutta la domenica nel viaggio. E so di poter contare su di te, Arnold, perché la vecchia signora si trovi bene... Sì, manda un'ambulanza a prenderla all'ospedale oggi pomeriggio. Maggie sarà finalmente sollevata». Riappoggiando il ricevitore, Abigail ammiccò a Pat. «Questo è l'aspetto del mio lavoro che preferisco», disse. «Forse non dovrei perdere tempo a
richiamare Maggie, ma lo farò lo stesso.» Formò il numero rapidamente: «Maggie, salve. Siamo a posto...» Maggie, decise Pat, sarebbe stata tra gli ospiti del programma. Tra le due e le tre era prevista la seduta di un comitato di ambientalisti. Abigail ebbe uno scontro verbale con uno dei testimoni esterni convocati per la seduta e citò alcuni dati ricavandoli dalla sua relazione. Il testimone disse: «Senatrice, i suoi dati sono totalmente sbagliati. Credo che siano quelli vecchi, non aggiornati». Del comitato faceva parte anche Claire Lawrence. «Forse posso essere utile», propose. «Sono sicura di avere i dati più recenti, che modificano per certi versi il quadro...» Pat osservò lo scatto rigido delle spalle di Abigail, il modo in cui stringeva le mani e le riapriva, mentre Claire Lawrence leggeva i dati dalla propria relazione. La giovane donna dall'aria diligente seduta dietro Abigail doveva essere la collaboratrice che aveva redatto la relazione imprecisa. Mentre la senatrice Lawrence commentava i dati, Abigail si voltò parecchie volte a guardare la ragazza che appariva mortalmente confusa. Era arrossita violentemente e si mordeva le labbra per nasconderne il tremore. Nel momento stesso in cui la senatrice Lawrence smetteva di parlare, Abigail intervenne: «Signor presidente, desidero ringraziare la senatrice Lawrence per il suo aiuto e scusarmi anche con questo comitato per i dati imprecisi che mi erano stati forniti e hanno fatto perdere tempo prezioso a ognuno di voi. Prometto che non succederà mai più». Si voltò di nuovo verso la sua collaboratrice, e Pat riuscì a leggere sulle sue labbra: «Sei licenziata». La ragazza si alzò silenziosamente e uscì dalla sala, con il viso bagnato di lacrime. Pat gemette internamente: la seduta era trasmessa per televisione e chiunque avesse seguito la scena avrebbe certamente provato simpatia per la giovane collaboratrice. Finita la seduta, Abigail si affrettò a tornare nel suo ufficio. Era evidente che tutti sapevano già l'accaduto; segretari e collaboratori dell'ufficio esterno non sollevarono la testa quando la senatrice attraversò di furia le loro stanze. La sfortunata responsabile dell'errore guardava fisso fuori della finestra, e si asciugava gli occhi. «Philip, vieni qui», ringhiò Abigail. «Anche lei, Pat. Tanto vale che abbia il quadro completo di come vanno le cose qua dentro.» Si sedette alla sua scrivania, appariva perfettamente normale, a parte il
pallore del viso e le labbra strette. «Che cosa è successo, Philip?» chiese, la sua voce piatta. Perfino Philip aveva perso la calma abituale. Inghiottì nervosamente, mentre cominciava a spiegare: «Senatrice, le altre ragazze mi stavano appunto raccontando. Il marito di Eileen l'ha lasciata da un paio di settimane e, a quanto mi dicono, da allora è in uno stato terribile. Lavora con noi da tre anni e, come lei sa, è una delle nostre migliori collaboratrici. Non potrebbe darle un periodo di congedo per consentirle di riprendersi? Adora questo lavoro». «Davvero? Lo adora così tanto da lasciarmi rendere ridicola in una seduta teletrasmessa. Quella ha chiuso, Philip. Voglio che sia fuori di qui entro un quarto d'ora. E considerati fortunato di non essere licenziato anche tu. Quando la relazione tardava ad arrivare, toccava a te indagare sul vero motivo alla base del ritardo. Con tutte le persone in gamba affamate di posti di lavoro, anche del mio posto!, che ci sono in giro, credi che abbia intenzione di rendermi più vulnerabile perché sono circondata da incapaci?» «No, senatrice», mugolò Philip. «Qui non esiste una seconda possibilità. Ho già avvertito di questo i miei collaboratori?» «Sì, senatrice.» «Allora esci di qui e fai come ho detto.» «Sì, senatrice.» Accidenti! pensò Pat. Non c'era da meravigliarsi, allora, che Philip stesse sul chi va là con lei. Poi si accorse che la senatrice la stava guardando. «Allora, Pat», fece Abigail calma, «suppongo che mi sta giudicando una specie di mostro.» Poi, senza aspettare risposta, proseguì: «I miei collaboratori sanno che, se hanno un problema personale e non possono far fronte al loro compito, hanno il dovere di riferirlo e chiedere un periodo di congedo. Questo sistema serve in realtà a impedire che si verifichino fatti come quello di oggi. Quando un membro dello staff commette un errore, esso si riflette su di me. E io ho lavorato troppo e per troppi anni, per lasciarmi compromettere dalla stupidità di qualcun altro. E poi, Pat, creda a me, se lo fanno una volta, lo rifaranno. Adesso, per amor del cielo, corriamo che mi aspettano sulla gradinata dell'ingresso per fotografarmi con un gruppo di piccole esploratrici!» 10
Alle cinque meno un quarto, una segretaria bussò timidamente alla porta dell'ufficio di Abigail. «Una telefonata per la signorina Traymore», bisbigliò. Era Sam. Il rassicurante calore della sua voce risollevò immediatamente il morale di Pat, che era rimasta turbata dallo sgradevole episodio, dalla disperazione e dalla tristezza che aveva scorto sul viso della ragazza. «Ciao, Sam.» Sentì su di sé lo sguardo indagatore di Abigail. «Le mie spie mi hanno riferito che eri sulla Collina. Che ne diresti di cenare insieme?» «Cenare... Non posso, Sam. Stasera devo lavorare.» «Devi anche mangiare. Che cosa ti hanno dato per colazione? Una delle uova sode di Abigail?» Lei cercò di non ridere: la senatrice stava evidentemente ascoltando le sue risposte. «Se non t'importa di mangiare in fretta e di buon'ora», fece, venendo a patti. «Per me va benissimo. Posso venirti a prendere fuori del Palazzo Russell tra mezz'ora?» Riattaccando, Pat guardò Abigail. «Ha esaminato tutto il materiale che le abbiamo dato?... i filmati?» «No.» «Nessuno?» «No», ammise Pat. Oh, cribbio, pensò. Sono contenta di non lavorare per te, cara Abigail. «Pensavo che avremmo potuto cenare insieme a casa mia in modo da vedere quale parte del materiale poteva interessarle utilizzare.» Una pausa, durante la quale Pat rimase in attesa. «Però, dato che non ha visto niente, credo sarà meglio che io utilizzi le ore serali per organizzare alcune cose che devo fare al più presto.» Abigail sorrise. «Sam Kingsley è uno degli scapoli più ambiti di Washington. Non avevo capito che lo conoscesse così bene.» Pat cercò di dare un tono leggero alla risposta: «In realtà non lo conosco così bene». Ma non poté fare a meno di pensare con compiacimento che Sam trovava evidentemente difficile stare lontano da lei. Guardò fuori della finestra, cercando di nascondere la sua espressione. Era quasi buio. Le finestre della senatrice si affacciavano sul Campidoglio. Nel crepuscolo, la cupola scintillante nella cornice delle tende azzurre di seta pareva un quadro. «Che meraviglia!» esclamò.
Abigail voltò la testa verso la finestra. «Sì, è vero, questo spettacolo mi fa sempre pensare a quello che faccio qui. Non può immaginare che soddisfazione io provi sapendo che, grazie a quello che ho fatto oggi, una povera vecchia verrà ricoverata e assistita in una casa di cura come si deve e che ci saranno un po' di soldi in più per aiutare persone che stanno cercando di arrivare alla fine del mese.» Aveva un'energia quasi sensuale quando parlava del suo lavoro, pensò Pat. Pensava veramente ogni parola che diceva. Ma le venne anche in mente che, probabilmente, la senatrice aveva già cancellato il ricordo della ragazza che aveva licenziato qualche ora prima. Pat rabbrividì mentre scendeva in fretta i pochi gradini del palazzo del Senato per entrare in macchina. Sam si chinò per baciarla sulla guancia. «Come sta la famosa giovane regista?» «Sono stanca», rispose lei. «Stare al passo con la senatrice Jennings non è davvero la ricetta adatta per una giornata di tutto riposo.» Sam sorrise: «Capisco benissimo che cosa vuoi dire. Ho lavorato con Abigail su un bel numero di leggi: non crolla mai». Guidando abilmente in mezzo al traffico, voltò in Pennsylvania Avenue. «Ho pensato che potevamo andare da Chez Grandmère, a Georgetown», disse. «È un posticino tranquillo, si mangia benissimo ed è vicino a casa tua.» Chez Grandmère era quasi vuoto. «A Washington non si va a cena alle sei meno un quarto», Sam sorrise mentre il maître gli offriva la scelta del tavolo. Mentre sorseggiavano un cocktail, Pat gli raccontò gli episodi della giornata, compresa la scena durante la seduta del comitato. Sam fischiò. «Un brutto incidente per Abigail. Proprio non le manca altro che un collaboratore che le faccia fare brutta figura, in questo momento.» «Una cosa del genere potrebbe veramente influenzare la decisione del Presidente?» chiese Pat. «Pat, qualsiasi cosa può influenzare la decisione del Presidente. Uno sbaglio può rovinarti. Be', pensa tu stessa. Non fosse stato per Chappaquiddick, Teddy Kennedy poteva essere il presidente oggi. Poi, naturalmente, vengono il Watergate e Abscam e chi più ne ha più ne metta. È una cosa che non finisce mai. Tutto si riflette sulla persona che si trova in quella posizione. È un miracolo che Abigail sia sopravvissuta allo scandalo della scomparsa dei fondi per la campagna elettorale e se lei avesse tentato
di coprire la sua collaboratrice la sua credibilità avrebbe avuto fine. Come si chiamava quella ragazza?» «Eleanor Brown.» Pat ricordò le parole di Margaret Langley: Eleanor non può aver rubato. È troppo timida. «Eleanor ha sempre sostenuto di essere innocente», fece. Lui si strinse nelle spalle: «Pat, io sono stato procuratore della contea per quattro anni. Vuoi sapere una cosa? Su dieci criminali, nove giurano di non aver commesso il fatto. E almeno otto di quei nove mentono». «Ma c'è sempre quell'uno innocente», insisté Pat. «Una volta ogni tanto capita», disse Sam. «Che cosa ti va di mangiare?» Nell'ora e mezzo che stettero insieme, a lei pareva di vederlo materialmente sciogliersi. Io ti vado bene, Sam, pensò. Posso farti felice. Tu forse sei convinto che avere un figlio debba essere com'è stato per te con Karen, per cui hai dovuto pensare a tutto, ma dimentichi che è accaduto perché Janice era così malata. Con me sarebbe diverso... Mentre bevevano il caffè, lui chiese: «Come ti trovi a vivere in quella casa? Ci sono problemi?» Pat esitò, poi decise di raccontargli del biglietto che le avevano fatto scivolare sotto la porta e di quella seconda telefonata. «Ma, come dici tu, probabilmente è solo uno scherzo stupido», concluse. Sam non rispose a quella specie di sorriso che lei aveva tentato di abbozzare. «Io veramente ho detto che una telefonata fatta alla televisione di Boston forse non era importante. Ma tu ora mi stai raccontando che negli ultimi tre giorni hai ricevuto una seconda telefonata e hai trovato un biglietto infilato sotto la porta. Come pensi che questo matto abbia avuto il tuo indirizzo?» «Tu come lo hai avuto?» chiese Pat. «Ho telefonato alla Potomac dicendo che ero un amico, una segretaria mi ha dato il numero di telefono e l'indirizzo di questa casa e mi ha detto che stavi per arrivare. Sinceramente, mi ha un po' sorpreso che dessero così facilmente tante notizie.» «Non devi stupirti, io ero d'accordo. In occasione di questo programma, userò la casa come ufficio, e ti sorprenderebbe sapere quante persone si premurano di fornirti aneddoti o documenti quando leggono che stai preparando un servizio. Non voglio rischiare di perdere delle telefonate. Certo non pensavo di dovermene preoccupare per qualche altro motivo.» «Allora quel tale, probabilmente, ha usato il mio stesso sistema. Hai per caso con te il biglietto?»
«Sì, è nella borsa.» Lo tirò fuori, felice di sbarazzarsene. Sam lo lesse aggrottando la fronte per l'intensità con cui lo studiava. «Dubito che qualcuno possa capirci qualche cosa, ma permettimi di mostrarlo a Jack Carlson: è un agente dell'FBI e anche una specie di esperto di grafologia. E se ricevi un'altra telefonata riattacca.» La depositò davanti a casa alle otto e mezzo. «Devi farti installare un congegno a tempo per le luci», commentò mentre erano fermi davanti alla porta. «Chiunque può venire qui a infilare un biglietto sotto la porta senza farsi notare.» Lei lo guardò. L'espressione distesa era sparita e le pieghe che da un po' di tempo gli segnavano gli angoli della bocca si erano fatte di nuovo più nette. Hai dovuto sempre preoccuparti per Janice, pensò, non voglio che adesso ti preoccupi per me. Tentò di ritrovare l'atmosfera rilassata e amichevole della serata. «Grazie, la parte dell'esponente del vicinato che riceve la nuova venuta ti riesce davvero bene», scherzò, «prima o poi ti faranno presidente del Comitato per le accoglienze, in Parlamento.» Lui accennò un sorriso e per un attimo la tensione parve svanire dai suoi occhi. «La mamma mi ha insegnato che bisogna essere gentile con le belle ragazze.» Chiuse le mani su quelle di lei e per un attimo rimasero in silenzio; poi Sam si chinò e la baciò sulla guancia. «Sono contenta che tu non faccia ingiustizie», mormorò Pat. «Come?» «L'altra sera mi hai baciato sotto l'occhio destro... oggi sotto il sinistro.» «Buona notte, Pat. Chiudi la porta a chiave.» Era appena arrivata in biblioteca quando ebbe inizio lo squillo insistente del telefono. Per un attimo ebbe paura di rispondere. «Parla Pat Traymore.» La sua voce le suonò rauca e carica di tensione. «Signorina Traymore», disse una voce femminile. «Sono Lila Thatcher, la vicina che abita di fronte a lei. Lo so che è appena rientrata, ma le sarebbe possibile passare da me subito? C'è qualche cosa di molto importante che vorrei lei sapesse.» Lila Thatcher, pensò Pat. Lila Thatcher, certo. La veggente, autrice di parecchi libri di successo sulla percezione extrasensoriale e altri fenomeni psichici. Solo alcuni mesi prima era stata citata dalla cronaca per l'aiuto prestato nel ritrovamento di un bambino scomparso. «Vengo subito», acconsentì, aggiungendo a malincuore: «Temo però di
non potermi fermare più di un minuto». Mentre attraversava cautamente la strada, attenta a evitare le pozzanghere e le chiazze di fango più vistose, cercò di ignorare il senso di disagio che la pervadeva. Era sicura di non aver nessuna voglia di ascoltare quello che Lila Thatcher stava per dirle. 11 Andò ad aprirle una domestica, che l'accompagnò nel soggiorno. Pat non sapeva che tipo di persona aspettarsi. Ironicamente aveva immaginato una zingara con tanto di turbante; ma la donna che si alzò per salutarla si poteva semplicemente definire affabile. Era di corporatura rotonda, con capelli grigi, occhi intelligenti che brillavano e un sorriso pieno di calore. «Patricia Traymore», disse. «Sono così contenta di conoscerla. Benvenuta a Georgetown.» Prese Pat per mano e la studiò attentamente. «Capisco quanto dev'essere occupata con il programma che sta preparando. Sono sicura che non è un lavoro da poco. E come si trova con Luther Pelham?» «Finora bene.» «Spero che continui.» Lila Thatcher inforcò gli occhiali che portava attaccati a una lunga catena d'argento che le ornava il collo. Distrattamente se li tolse e cominciò a batterli ritmicamente contro il palmo della mano sinistra. «Anch'io ho solo qualche minuto. Ho una riunione tra mezz'ora e domani mattina presto devo prendere un aereo per la California. Per questo ho deciso di telefonarle. Di solito non mi comporto così. Però, in coscienza, non posso partire senza avvertirla. Lei sa che ventitré anni fa, nella casa che lei ha preso in affitto, vi fu un omicidio-suicidio?» «Me l'hanno detto.» Era la risposta che più si avvicinava alla verità. «E questo non la turba?» «Signora Thatcher, molte case a Georgetown devono avere all'incirca duecento anni. Certamente, in ognuna di loro sono morte delle persone.» «Non è la stessa cosa.» La donna cominciò a parlare più rapidamente, la sua voce era percorsa da un tremito nervoso. «Mio marito e io venimmo ad abitare in questa casa circa un anno prima della tragedia. Ricordo la prima volta in cui gli dissi che cominciavo a sentire qualcosa di negativo nell'atmosfera che circondava la casa degli Adams. Nei mesi che seguirono quella sensazione andava e veniva, ma ogni volta che ritornava era più forte. Dean e Renée Adams erano una bellissima coppia. Lui era un uomo splen-
dido, con un magnetismo che attirava immediatamente l'attenzione. Renée era diversa: tranquilla, riservata, una ragazza molto chiusa. Io ebbi la sensazione che per il suo carattere fosse difficile adattarsi al ruolo di moglie di un uomo politico e che, inevitabilmente, il loro matrimonio ne avrebbe sofferto. Ma lei era molto innamorata e tutti e due erano attaccatissimi alla bambina.» Pat ascoltava immobile. «Qualche giorno prima di morire, Renée mi disse che aveva intenzione di ritornare nel New England con Kerry. Eravamo ferme davanti alla casa dove lei vive adesso e non so dirle il turbamento, il senso di pericolo che mi assalirono. Tentai di mettere in guardia Renée. Le dissi che se la sua decisione era irrevocabile non doveva aspettare un minuto di più. E poi fu troppo tardi. Non ho mai più provato, fino a qualche giorno fa, il minimo turbamento rispetto a quella casa. Ma adesso mi sta ritornando. Non so perché ma è come l'altra volta. Sento che qualcosa di terribile la circonda. Non può andarsene da quella casa? Lei non dovrebbe abitarci.» Pat formulò la domanda con cura. «Ha qualche altro motivo, a parte il fatto di percepire questa atmosfera intorno alla casa, per consigliarmi di non rimanere?» «Sì. Tre giorni fa la mia cameriera ha visto un uomo che bighellonava sull'angolo. Poi ha visto le orme nella neve che correvano lungo il fianco di questa casa. Abbiamo pensato che potesse essere un vagabondo o un ladro e abbiamo avvertito la polizia. Ieri mattina, dopo la nevicata, abbiamo visto di nuovo le impronte. Il vagabondo, o chiunque egli sia, è arrivato solo fino a quel grosso rododendro. Da dietro quell'albero si può vedere casa sua senza essere visti dalle nostre finestre o dalla strada.» Adesso la signora Thatcher si stringeva le braccia intorno al corpo come se improvvisamente si sentisse gelare. I tessuti del suo viso si erano irrigiditi formando rughe profonde. Fissò Pat attentamente poi, mentre questa la guardava, i suoi occhi si dilatarono, come percorsi dal guizzare di un segreto. Quando, pochi minuti dopo, Pat si accomiatò, la vecchia signora era visibilmente sconvolta e di nuovo insistette perché se ne andasse da quella casa. Lila Thatcher sa chi sono, pensò Pat. Ne sono sicura. Andò direttamente in biblioteca e si servì generosamente di brandy. «Così va meglio», mormorò mentre il calore le scendeva lungo il corpo. Cercò di non pensare al buio fuori della casa. Ma almeno la polizia era avvertita a causa del vaga-
bondo. Cercò di costringersi a essere calma. Lila aveva pregato Renée di andarsene. Se sua madre l'avesse ascoltata, se le avesse dato retta si sarebbe potuta evitare la tragedia? Adesso, avrebbe dovuto, lei, seguire il consiglio di Lila e andare in albergo o affittarsi un appartamento? «Non posso», si rispose ad alta voce. «Semplicemente non posso.» Aveva talmente poco tempo per preparare il programma che sarebbe stato impensabile sprecarlo per ritraslocare. Il fatto che, in quanto sensitiva, Lila Thatcher avvertisse i guai non significava che potesse impedirli. Se sua madre fosse andata a Boston, probabilmente papà l'avrebbe seguita, pensò Pat. Se qualcuno è ben deciso a trovarmi, ci riuscirà. Io devo solo stare attenta qui come lo sarei in un appartamento. E starò attenta. In un certo senso, il pensiero che Lila potesse aver indovinato la sua identità era confortante. Si preoccupava di mia madre e di mio padre. E mi conosceva bene quand'ero piccola. Quando avrò finito il programma, potrò parlare con lei, sondare la sua memoria. Forse potrà aiutarmi a rimettere insieme tutti i pezzi. Adesso, però, era assolutamente indispensabile cominciare a esaminare il materiale personale della senatrice, e selezionarlo per il servizio. Le bobine erano mescolate in uno degli scatoloni che aveva portato Toby. Per fortuna erano tutte etichettate. Pat cominciò a sceglierle. Alcune riguardavano attività politiche, avvenimenti delle campagne elettorali, discorsi. Alla fine trovò le pellicole che le interessava di più proiettare, quelle riguardanti avvenimenti personali. Cominciò con il film contrassegnato dall'etichetta: WILLARD E ABIGAIL - RICEVIMENTO DI NOZZE A HILLCREST. Sapeva che erano scappati insieme prima che lui si laureasse alla facoltà di giurisprudenza di Harvard, quando Abby aveva appena finito il suo primo anno a Radcliffe. Willard si era presentato candidato al Congresso alcuni mesi dopo il loro matrimonio; lei lo aveva aiutato nella campagna elettorale, poi aveva terminato gli studi all'università di Richmond. Quel ricevimento era stato dato quando lui l'aveva portata in Virginia. Il film iniziava con la panoramica di una festa in giardino. Tavolini ombreggiati da ombrelloni colorati erano disposti contro uno sfondo alberato. Dei domestici si muovevano tra gruppi di invitati: le donne indossavano vestiti estivi e cappelli a larghe falde, gli uomini erano in giacca scura e pantaloni di flanella bianca. Nel gruppo dei padroni di casa, disposti in fila ad accogliere gli ospiti, sulla terrazza, una giovane Abigail, bella da mozzare il fiato, in un fanta-
stico vestito lungo di seta bianca, era in piedi accanto a un giovanotto dall'aspetto serio e posato. Una donna anziana, evidentemente la madre di Willard Jennings, era alla destra di Abigail. Il suo viso aristocratico aveva un'espressione tesa e collerica. Mentre gli ospiti le sfilavano lentamente davanti, li presentava ad Abigail, senza guardarla mai in viso, neppure una volta. Come aveva detto la senatrice? «Mia suocera mi ha sempre considerato la yankee che le ha rubato il figlio.» Era chiaro che non aveva esagerato. Pat studiava Willard Jennings. Era solo leggermente più alto di Abigail, con capelli biondocenere e un viso lungo e gentile. Aveva una specie di riserbo che faceva tenerezza, una specie di diffidenza che si notava dal modo in cui stringeva la mano agli ospiti o li abbracciava. Dei tre, solo Abigail appariva completamente a suo agio. Aveva costantemente il sorriso sulle labbra, chinava la testa in avanti come nello sforzo di fissare bene nella memoria i nomi degli ospiti, protendeva la mano per far vedere gli anelli. Ci fosse il sonoro, pensò Pat. L'ultimo degli invitati era stato presentato e salutato. Pat osservò Abigail e Willard voltarsi l'uno verso l'altra. La madre di Willard guardare fisso davanti a sé. Adesso appariva pensierosa più che arrabbiata. E a un tratto s'illuminò in un sorriso. Si stava avvicinando un uomo alto, con i capelli ramati. L'uomo abbracciò la signora Jennings, allentò la stretta, l'abbracciò ancora, voltandosi poi a salutare gli sposi. Pat si chinò in avanti. Mentre il viso dell'uomo diventava chiaramente visibile, Pat fermò il proiettore. Quell'ultimo arrivato era suo padre, Dean Adams. Sembra così giovane! pensò. Non può avere più di trent'anni! Tentò di inghiottire il groppo che le si era formato in gola. Le era rimasto un così vago ricordo di lui. Le sue spalle larghe riempivano lo schermo. Era bello come un giovane dio, pensò Pat, dominava nella statura Willard e diffondeva una specie di energia magnetica. Tratto per tratto, studiò quel viso, congelato sullo schermo, immobile, aperto all'esame più minuzioso. Si domandò dove si trovasse sua madre in quel momento, poi si rese conto che all'epoca del film sua madre doveva studiare ancora al Conservatorio di Boston e progettare di intraprendere la carriera di musicista. Dean Adams era stato appena eletto al Congresso per lo stato del Wisconsin. C'era ancora, in lui, quell'aspetto sano, franco del Midwest, come
un profumo di vita all'aperto. Premette di nuovo il pulsante e i personaggi del film tornarono a vivere: Dean Adams che scherzava con Willard Jennings, Abigail che gli porgeva la mano. Lui che invece la baciava spavaldamente sulla guancia. Chissà che cosa aveva detto per far sì che tutti e tre scoppiassero a ridere? La macchina da presa li seguiva mentre scendevano la scalinata in pietra della terrazza e poi cominciavano ad aggirarsi tra gli ospiti. Dean Adams teneva la mano sotto il braccio della vecchia signora Jennings e lei gli parlava animatamente. Era evidente che una profonda simpatia li univa. Quando il filmetto fu finito, Pat lo proiettò di nuovo, prendendo nota degli spezzoni che si potevano usare per il programma. Willard e Abigail che tagliano la torta, che brindano l'uno all'altra, che aprono le danze. Rispetto ai parenti dello sposo che accoglievano gli ospiti non si poteva utilizzare neanche un fotogramma, tanto era evidente l'irritazione sul viso della vecchia signora Jennings. E naturalmente era fuori discussione utilizzare i brani in cui compariva Dean Adams. Che cosa aveva provato Abigail quel pomeriggio? si chiese Pat. Quella bella dimora in mattoni imbiancati a calce, quel ricevimento che riuniva tutta la gente bene della Virginia, e lei, che solo pochi anni prima era stata praticamente buttata fuori dall'appartamento di servizio di casa Saunders ad Apple Junction. E la madre di Abigail, Francey Foster, dove si trovava in quello stesso giorno? Aveva declinato l'invito per il ricevimento di nozze della figlia, sapendo che si sarebbe sentita fuori posto in mezzo a quella gente? Oppure era stata Abigail a decidere per lei? Una per una, Pat cominciò a proiettare le altre bobine, corazzandosi per non cedere all'emozione di vedere suo padre comparire regolarmente nei film girati nella proprietà Jennings. Anche se fossero mancate le date, si sarebbe potuto riordinarli cronologicamente. La prima campagna elettorale: documentari ufficiali che mostravano Abigail e Willard camminare, mano nella mano, per la strada, salutando i passanti... Abigail e Willard che visitavano un nuovo quartiere operaio. La voce dello speaker: «Oggi pomeriggio Willard Jennings, nel corso della campagna elettorale per la conquista del seggio lasciato vacante dalle dimissioni dello zio, l'onorevole Porter Jennings, si è impegnato a continuare la tradizione familiare di servizio nei confronti dell'elettorato». C'era un'intervista con Abigail: «Che effetto le fa dedicare la luna di
miele alla campagna elettorale?» E la risposta di Abigail: «Non posso immaginare niente di più eccitante che essere al fianco di mio marito per aiutarlo a iniziare la sua carriera nella vita pubblica». Una cadenza dolce nella voce di Abigail, l'inconfondibile traccia di un accento meridionale. Pat fece un rapido calcolo: in quel periodo Abigail si trovava in Virginia da meno di tre mesi. Prese un appunto: anche quel film andava utilizzato per il programma. C'erano spezzoni che si riferivano ad altre campagne elettorali e, a mano a mano che procedevano, si vedeva Abigail interpretare una parte sempre più determinante negli sforzi posti in atto per la rielezione. I suoi discorsi si aprivano spesso con questo preambolo: «Mio marito è a Washington, a lavorare per voi. A differenza di molti altri, non sottrae tempo al lavoro importante del Congresso per svolgere personalmente la sua campagna elettorale. Io sono lieta di potervi parlare di alcune delle cose che ha realizzato». I film che riprendevano episodi della vita mondana degli Jennings erano i più difficili da vedere. TRENTACINQUESIMO COMPLEANNO DI WILLARD. Due giovani coppie riprese assieme ad Abigail e Willard: Jack e Jackie Kennedy, Dean e Renée Adams... tutti sposi recenti... Era la prima volta che Pat vedeva la madre in un film. Renée indossava un vestito verde acqua e portava i capelli scuri sciolti sulle spalle. Rivelava una certa titubanza, ma quando sorrideva al marito mostrava un'aria di adorazione. Pat scoprì che non sopportava di soffermarvisi. Fu felice che il film andasse avanti. Qualche fotogramma dopo, erano rimasti solo i Kennedy e gli Jennings. Lei prese un appunto sul suo taccuino. Splendido spezzone per il mio programma, pensò amaramente. Basta evitare di inserire l'onorevole Dean Adams e la moglie da lui assassinata. L'ultimo film che proiettò era quello dei funerali di Willard Jennings. Comprendeva una ripresa avvenuta fuori della National Cathedral. La voce dello speaker era sommessa: «Ecco, è arrivato il corteo funebre dell'onorevole Willard Jennings. Personaggi famosi e non sono raccolti per dare un ultimo addio al legislatore dello stato della Virginia, morto in un incidente aereo mentre stava viaggiando per lavoro. Il parlamentare Jennings e il pilota, George Graney, sono morti sul colpo. «La giovane vedova è accompagnata dal senatore John Fitzgerald Kennedy del Massachusetts. La signora Jennings madre è accompagnata da Dean Adams, deputato del Wisconsin. Il senatore Kennedy e il deputato
Adams erano intimi amici di Willard Jennings». Pat osservò Abigail emergere dalla prima macchina, il viso composto, un velo nero sui capelli biondi. Indossava un completo di seta nera dal taglio estremamente semplice rischiarato da un filo di perle. Il giovane, aitante senatore del Massachusetts le offriva solennemente il braccio. La madre di Willard era chiaramente distrutta dal dolore. Mentre veniva aiutata a uscire dalla berlina che l'aveva portata, i suoi occhi cadevano sulla bara avvolta nella bandiera; stringeva le mani e scuoteva piano la testa come per rifiutare la realtà. A questo punto Pat vide suo padre passare il braccio sotto il gomito della vecchia signora e prenderle la mano nella sua. Lentamente, il corteo si avviò all'ingresso della cattedrale. Per quella sera non poteva assorbire più di quanto aveva visto. Di materiale interessante da un punto di vista umano come lei aveva desiderato ce n'era in abbondanza. Spense le luci nella biblioteca e uscì dalla stanza. Nel corridoio si sentiva corrente. Nella biblioteca non aveva lasciato finestre aperte. Controllò la sala da pranzo, la cucina e l'ingresso. Porte e finestre erano chiuse e le chiavi girate. Però c'era corrente. L'apprensione le rese affrettato il respiro. La porta del soggiorno era chiusa. Vi appoggiò la mano. Tra la porta e lo stipite sentì lo spiffero. Lentamente, aprì la porta. Una raffica di aria fredda l'assalì. A tentoni, sporse la mano verso l'interruttore. La portafinestra che dava sulla terrazza era aperta. Uno dei vetri era stato tagliato lungo l'intelaiatura ed era caduto sul tappeto. Poi vide la cosa. Abbandonata contro il camino, la gamba destra ripiegata sotto il corpo, il grembiulino bianco macchiato di sangue, c'era una bambola di pezza. Lasciandosi cadere sulle ginocchia, Pat rimase a fissarla. Una mano abile aveva dipinto rughe che si abbassavano partendo dalla bocca ricamata, aveva aggiunto lacrime sulle guance e tracciato dei solchi sulla fronte, trasformando il tipico viso sorridente della bambola di pezza in una piangente maschera di dolore. Si tenne la mano contro la bocca per costringersi a non gridare. Chi era entrato? Perché? Seminascosto dal grembiulino macchiato, vide un foglio di carta attaccato con uno spillo al vestito. Tese la mano per prenderlo, quasi presentendo, con ripugnanza, il contatto con quel sangue. Lo stesso tipo di carta a buon mercato, le stesse lettere piccole con una forte inclinazione. Ultimo avviso. Non deve esserci un programma in lode di Abigail
Jennings. Uno scricchiolio. Una delle portefinestre si muoveva, forse c'era qualcuno? Pat balzò in piedi. Ma era solo il vento che spingeva avanti e indietro il battente. Attraversò di corsa la stanza, accostò i battenti e chiuse a chiave la portafinestra. Ma del tutto inutilmente. La mano che aveva tagliato il vetro facendolo cadere poteva infilarsi proprio da quell'apertura, e girare la chiave. Forse l'intruso era ancora in casa o nascosto in giardino dietro gli alberi. Le mani le tremavano mentre formava il numero di pronto intervento della polizia. La voce dell'impiegato era rassicurante: «Mandiamo subito una volante». Nell'attesa, Pat rilesse il messaggio. Era la quarta volta che l'ammonivano a non realizzare il programma. Improvvisamente spaventata si domandò quanto valore avessero quelle minacce. Possibile che si trattasse di qualche sporca manovra tendente a rovinare il servizio sulla senatrice, a screditarlo mediante una pubblicità negativa e inquietante? E la bambola? Certamente un trauma per lei a causa dei ricordi che evocava, ma in sostanza una bambola di pezza con il viso vistosamente dipinto. A pensarci meglio, bizzarra più che terrificante. Anche il grembiulino insanguinato poteva essere un rozzo tentativo per impressionare. Se fossi il cronista che si occupa di questa storia, pensò, metterei una fotografia di questa cosa in prima pagina sul giornale di domani. Il gemito della sirena della polizia la spinse a una improvvisa decisione. Staccò rapida il biglietto e lo mise sulla mensola del camino. Entrò nella biblioteca, tirò fuori da sotto il tavolo lo scatolone e vi lasciò cadere la bambola. Il macabro grembiulino le dava la nausea. Il campanello cominciò a suonare, monotono, insistente. Impulsivamente Pat slacciò il grembiulino, lo prese e lo seppellì in fondo allo scatolone. Adesso la bambola assomigliava a una bambina ferita. Rimise lo scatolone sotto il tavolo e si affrettò a far entrare la polizia. 12 Nel vialetto erano parcheggiate due macchine della polizia, le luci sul tetto accese. Una terza macchina le seguiva. Fai che non sia la stampa, pregò. Era la stampa. Presero fotografie del vetro rotto; frugarono il giardino, cosparsero il soggiorno di polvere per rilevare le impronte.
Per Pat fu difficile spiegare il biglietto. «Era appuntato su qualche cosa?» osservò un poliziotto. «Dove l'ha trovato?» «Proprio qui contro il camino.» Ed era quasi la verità. Il cronista era del Tribune. Chiese di vedere il biglietto. «Preferirei che non fosse reso pubblico», insisteva Pat, ma gli permise di leggerlo. «Che cosa significa ultimo avviso?» chiese il poliziotto. «Ha ricevuto altre minacce?» Tacendo l'accenno alla casa, lei riferì le due telefonate e la lettera trovata la prima sera. «Questa non è firmata», osservò il poliziotto. «Dov'è l'altra?» «Non l'ho conservata, comunque non era firmata neanche quella.» «Ma per telefono si è qualificato un angelo vendicatore?» «Ha detto qualcosa come sono l'angelo della misericordia e della liberazione, della vendetta.» «Ha tutta l'aria di uno squinternato», commentò il poliziotto, studiandola attentamente. «Strano che si sia preoccupato di entrare in casa, questa volta. Perché non ha fatto scivolare nuovamente una busta da sotto la porta?» Costernata, Pat vedeva il cronista prendere appunti sul suo taccuino. E finalmente la polizia aveva finito. Nel soggiorno, tutti i tavoli avevano il piano sporco della polvere per rilevare le impronte. I battenti della portafinestra erano stati assicurati con un fil di ferro, in modo che fosse impossibile aprirli fino a che non si fosse rimesso il vetro. Impossibile andare a letto. Passare l'aspirapolvere per ripulire il soggiorno poteva aiutarla a rilassarsi, decise. Mentre lavorava, non riusciva a togliersi dalla mente la bambola di pezza ferita. La bambina era entrata di corsa nella stanza... inciampò... cadde su una cosa morbida, e si trovò con le mani bagnate... allora, alzò gli occhi e vide... Che cosa ho visto? si chiese Pat furiosamente. Che cosa ho visto? Le sue mani lavoravano per conto loro, passando l'aspirapolvere sulla polvere grassa per le impronte, poi lucidando i vecchi tavoli con una pelle imbevuta di crema per mobili, spostando ninnoli, spingendo le poltrone. Sul tappeto erano rimasti piccoli grumi di fango portati dalle scarpe dei poliziotti. Che cosa ho visto? Cominciò a rimettere i mobili al loro posto. No, qui no; quel tavolino sta contro la parete corta, il lume sul pianoforte, la chaise longue vicino alla portafinestra.
Fu solo quando ebbe finito che si rese conto di quello che l'aveva tenuta occupata. La chaise longue i facchini del trasloco l'avevano messa troppo vicino al pianoforte. Aveva attraversato di corsa il corridoio ed era entrata nella stanza. Aveva gridato: 'Papà, papà...' Aveva inciampato nel corpo di sua madre... sangue... Lei aveva alzato gli occhi, e... Soltanto buio. Erano quasi le tre. Per quella notte non poteva più pensarci. Era esausta e la gamba le faceva male. Chiunque avrebbe potuto vedere che zoppicava mentre trascinava l'aspirapolvere per rimetterlo a posto nel ripostiglio e poi, faticosamente, saliva le scale per andare a letto. Alle otto squillò il telefono. Era Luther Pelham. Anche se stava cercando di uscire dal torpore di un sonno profondo, Pat capì che era furioso. «Pat, a quanto vedo hai avuto visite questa notte. Stai bene?» Lei sbatté le palpebre, come per farsi uscire il sonno dagli occhi e dal cervello. «Sì.» «Sei in prima pagina sul Tribune. E senti il titolo: MINACCE DI MORTE A UN FAMOSO PERSONAGGIO TELEVISIVO. Lascia che ti legga il primo paragrafo: 'L'intrusione di sconosciuti nella sua casa di Georgetown costituisce la più recente di una serie di strane minacce che sono state rivolte a Patricia Traymore, noto personaggio televisivo. Le minacce sono collegate con il programma Profilo della senatrice Abigail Jennings, che la Traymore sta preparando e che sarà mandato in onda la sera di mercoledì prossimo dalla rete televisiva privata Potomac'. «È esattamente il genere di pubblicità di cui Abigail ha bisogno!» «Mi dispiace», balbettò Pat. «Ho cercato di tener lontano il giornalista da quel biglietto.» «Ti è almeno passato per la mente di chiamare me anziché la polizia? Sinceramente, ti facevo più intelligente di quanto ti sei dimostrata questa notte. Potevamo far sorvegliare casa tua da un poliziotto privato. Probabilmente si tratta solo di un innocuo mitomane, ma a Washington il problema scottante sarà: Chi odia a tal punto Abigail?» Aveva ragione. «Mi dispiace», ripeté Pat. Poi aggiunse: «Però, quando ti accorgi che qualcuno è entrato in casa tua e pensi che forse c'è un matto a due metri da te sulla terrazza, credo che sia una reazione piuttosto normale
quella di chiamare la polizia». «È inutile continuare a discutere fino a che non potremo valutare i danni. Hai visto i filmati di Abigail?» «Sì. C'è del materiale eccellente da utilizzare.» «Hai detto ad Abigail che sei stata ad Apple Junction?» «No.» «Be', se sei furba non glielo dire! Ci manca solo che sappia anche queste cose ora!» Senza salutarla, Luther riattaccò. Arthur aveva l'abitudine di andare dal fornaio alle otto in punto per comprare i panini caldi e poi di passare dal giornalaio per il giornale del mattino. Quel giorno invertì l'ordine. Era così ansioso di vedere se il giornale diceva qualche cosa dell'intrusione notturna che si diresse velocemente verso l'edicola. C'era. E proprio in prima pagina. Lesse il pezzo da cima a fondo, godendosi ogni parola, poi corrugò la fronte. Non si parlava della bambola. La bambola era di importanza fondamentale per lui. Doveva servire a farle capire che in quella casa erano stati commessi atti di violenza e che altri ne potevano accadere. Comprò due panini al sesamo e ripercorse i tre isolati che lo dividevano dalla casa di legno un po' cadente, poi risalì nel misero appartamento al secondo piano. A solo un chilometro da lì, in King Street, c'erano ristoranti e negozi di lusso, ma quel quartiere era squallido e miserabile. La porta della camera di Glory era aperta, e lui poté vedere che era già vestita con un pullover rosso vivo e jeans. Negli ultimi tempi aveva fatto amicizia con una ragazza del suo ufficio, una sfacciata che insegnava a Glory a truccarsi e l'aveva convinta a tagliarsi i capelli. Non alzò gli occhi per guardarlo, benché l'avesse sentito rientrare. Arthur sospirò. L'atteggiamento di Glory verso di lui stava diventando distante, addirittura insofferente. Come la sera prima, quando lui aveva cercato di raccontarle quant'era stato difficile per la vecchia signora Rodriguez inghiottire la sua medicina e come lui avesse dovuto spezzettare la pillola e darle anche un po' di pane per camuffarne il gusto, Glory l'aveva interrotto: «Padre, non si può parlare d'altro che della casa di cura?» E poi se n'era andata al cinema. Arthur mise i panini nei piatti e versò il caffè. «È pronto», chiamò. Glory entrò in fretta in cucina: si era già messa la giacca e aveva la borsa
sotto il braccio. «Salve», disse lui teneramente. «La mia bambinetta è molto carina oggi.» Glory non sorrise. «Com'era il film?» «Era divertente. Senti, non comprarmi più la colazione, la faccio in ufficio con gli altri.» Lui si sentì depresso. Gli piaceva far colazione con Glory prima che tutti e due andassero al lavoro. Lei dovette accorgersi della sua delusione, perché lo guardò negli occhi e la sua espressione si addolcì. «Sei così buono con me», disse, e la sua voce parve un po' triste. Per alcuni, lunghissimi minuti, dopo che fu uscita, Arthur rimase con gli occhi fissi nel vuoto. Si sentiva esausto per la notte precedente. Dopo tutti quegli anni, dover tornare in quella casa, in quella stanza... e deporre la bambola di Glory nel punto esatto dove si trovava la bambina... Quando aveva finito di sistemarla contro il camino, con la gamba destra ripiegata sotto il corpo, quasi si era aspettato, voltandosi, di vedere di nuovo i corpi dell'uomo e della donna esanimi sul pavimento. 13 Dopo la telefonata di Luther, Pat si alzò, si preparò il caffè e cominciò a elaborare le sceneggiature per il programma. Aveva deciso di prevederne due versioni: una in cui le sequenze iniziali erano dedicate ai primi anni di Abigail ad Apple Junction, l'altra che si apriva con il ricevimento di nozze. Più ci ripensava, più trovava giustificata l'ira di Luther. Abigail era già abbastanza capricciosa, per quanto riguardava quel programma, e non ci voleva proprio quella pubblicità negativa. Per lo meno, pensò, ho avuto la prontezza di spirito di nascondere la bambola. Alle nove era già in biblioteca, a proiettare quanto rimaneva dei filmati. Luther le aveva mandato sequenze già montate del caso Brown, in cui si vedeva Abigail uscire dal tribunale dopo la sentenza di colpevolezza. Il tono di rincrescimento della sua dichiarazione: «Questo è un giorno molto triste per me. Spero solo che adesso Eleanor avrà la decenza di rivelare dove ha nascosto quel denaro. Poteva anche esser destinato alla mia campagna elettorale, ma la cosa più importante è che proveniva da donazioni di persone che credono negli obiettivi che io perseguo».
Un giornalista chiedeva: «Allora, senatrice, non c'è niente di vero in quanto afferma Eleanor, e cioè che il suo autista le telefonò pregandola di cercare il suo anello con brillante lasciato nella cassaforte dell'ufficio adibito a quartier generale durante la campagna elettorale?» «Il mio autista mi stava portando a una riunione a Richmond e l'anello l'avevo al dito.» Poi si vedeva Eleanor Brown, in un primo piano che metteva a nudo ogni tratto del piccolo viso pallido, la bocca timida e gli occhi schivi. La bobina finiva con la scena di Abigail che parlava a un pubblico di studenti universitari. L'argomento era la fiducia pubblica, e inversamente il dovere categorico per il personaggio politico di mantenere se stesso e i propri collaboratori al di sopra di ogni dubbio. C'era anche un altro filmato che comprendeva una raccolta di sedute in cui si trattava della sicurezza aerea presenziate dalla senatrice, e brani dei suoi interventi che reclamavano una regolamentazione più rigida. La senatrice accennava spesso al fatto che suo marito era morto per aver affidato la propria vita a un pilota inesperto, e a un aereo privo dell'attrezzatura necessaria. Alla fine di ognuno di questi spezzoni Luther aveva annotato: discussione di due minuti sull'argomento tra la senatrice J. e Pat T. Pat si morse le labbra. Nessuno dei due spezzoni era in sintonia con il discorso che lei stava tentando di fare. Dove va a finire la mia direzione creativa in questo progetto? pensò. Tutta questa storia è troppo affrettata. Il telefono squillò mentre cominciava a esaminare le lettere degli elettori ad Abigail. Era Sam. «Pat, ho letto quello che è successo. Ho chiesto all'ufficio affitti di casa mia...» Sam viveva nelle Watergate Towers, «ci sono diversi appartamenti liberi in subaffitto. Voglio che tu ne prenda uno con contratto per un mese, finché non scoprono chi è quel tipo.» «Non posso, Sam. Lo sai che sono sotto pressione. Deve venire il fabbro. E poi la polizia terrà sotto sorveglianza la casa. Tutto quello che mi serve per lavorare è qui.» Tentò di cambiare argomento: «Il mio vero problema è: che cosa mi metto per la cena alla Casa Bianca?» «Sei bella comunque. Ci sarà anche Abigail. L'ho incontrata stamattina.» Poco dopo telefonò la senatrice, per dirle quanto era rimasta colpita dalla sua avventura notturna. Poi entrò in argomento: «Purtroppo, il fatto di lasciar trapelare che è minacciata a causa di questo programma porta necessariamente a congetture di ogni specie. Io voglio veramente che questa fac-
cenda si concluda al più presto. È evidente che non appena il programma sarà completato e trasmesso, le minacce cesseranno, anche se provengono semplicemente da qualche squilibrato. Ha proiettato i filmati che le avevo dato?» «Sì, certo», rispose Pat. «C'è del materiale perfetto e ne ho preso nota. Ma vorrei chiederle di prestarmi Toby: ci sono dei punti in cui mi mancano nomi e riferimenti più specifici.» Rimasero d'accordo che entro un'ora Toby sarebbe stato da lei. Quando riattaccò, Pat aveva la sensazione di esser diventata una seccatura per Abigail Jennings. Toby arrivò tre quarti d'ora dopo, il viso coriaceo atteggiato al sorriso. «Avrei voluto trovarmi qui quando quel tipo ha tentato di entrare, Pat», disse. «Ne avrei fatto polpette.» «Non ne dubito.» Sedette al tavolo della biblioteca, mentre lei azionava il proiettore. «Quello è il vecchio deputato Porter Jennings», indicò a un certo punto. «È stato lui a dire che non avrebbe dato le dimissioni se Willard non fosse subentrato nel suo seggio. Sa, questi aristocratici della Virginia: credono di essere padroni del mondo. Però bisogna ammettere che tenne testa a sua cognata quando appoggiò Abigail perché prendesse il posto di Willard. La madre di Willard, quella vecchia strega, fece di tutto per tenere Abigail lontana dal Congresso. E, detto tra noi, in politica Abigail è molto meglio di Willard. Lui non aveva abbastanza grinta. Capisce che cosa voglio dire?» Aspettando Toby, Pat aveva passato in rassegna i ritagli di giornale concernenti il caso di Eleanor Brown. I fatti sembravano fin troppo semplici. Eleanor sosteneva che Toby le aveva telefonato pregandola di andare al quartier generale della senatrice. Cinquemila dollari erano stati recuperati in un suo ripostiglio, nel sottosuolo del palazzo di cui Eleanor occupava un appartamento. «Come crede che Eleanor Brown potesse pensare di cavarsela con una storiella così inconsistente?» chiese Pat a Toby. Toby si sistemò meglio nella poltrona di cuoio, accavallò le gambe massicce e si strinse nelle spalle. Pat notò il sigaro che gli spuntava dal taschino e facendosi una leggera violenza lo autorizzò a fumare. Il volto molle dell'uomo si atteggiò a un sorriso radioso, sgualcendosi in una serie di rughe. «Mille grazie. La senatrice non sopporta il fumo del sigaro. Quando l'aspetto in macchina, anche a lungo, non oso neppure dare
una tiratina.» Si accese il sigaro e tirò con voluttà. «E per quanto riguarda Eleanor Brown...» suggerì Pat, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, le mani a coppa che sorreggevano il mento. «Per come la vedo io», confidò Toby, «Eleanor ha pensato che per un pezzo nessuno si sarebbe accorto che mancavano i soldi. Dopo quell'episodio si cambiò sistema, ma a quell'epoca si potevano tenere molti soldi nella cassaforte del quartier generale della campagna elettorale a volte persino per due settimane o anche di più.» «Sì, ma settantacinquemila dollari in contanti?» «Signorina Traymore... Pat, deve rendersi conto di quante società versano contributi alle due parti durante la campagna elettorale. Vogliono essere sicure di trovarsi con le spalle coperte rispetto al vincitore. Naturalmente, non si possono dare soldi in contanti a un senatore nel suo ufficio. Questo sì è illegale. Quindi, che cosa fanno i grossi calibri? Vanno a trovare il senatore, gli fanno capire che hanno intenzione di dare una grossa sovvenzione, se ne vanno a fare un giretto nel parco intorno al Campidoglio accompagnati casualmente dall'aiutante del senatore e, a questo punto, i soldi fanno presto a passare di mano. In questo modo, il senatore non li tocca mai, ma sa che ci sono e che vanno a finire direttamente nei fondi per la campagna elettorale. Ma, c'è un altro ma, visto che sono in contanti, se sarà eletto l'avversario, la cosa non risulterà tanto evidente. Capisce quello che voglio dire?» «Sì, capisco.» «Non mi fraintenda. È legale. Ma Phil aveva ricevuto qualche grossa sovvenzione per Abigail e naturalmente Eleanor lo sapeva. Probabilmente aveva un amico che voleva tentare qualche speculazione e ha pensato di prendere i soldi solo in prestito. Invece quando andarono a ritirare il denaro dopo così poco tempo, fu costretta a tirar fuori una scusa.» «A me sembra che la ragazza fosse troppo semplice per organizzare quest'imbroglio», osservò Pat, pensando alla fotografia dell'annuario scolastico. «Be', come ha detto il procuratore, le acque chete sono le peggiori. Mi dispiace molto farle fretta, Pat, ma tra poco la senatrice avrà bisogno di me.» «Solo un paio di domande ancora.» Squillò il telefono. «Mi sbrigo in fretta», disse Pat alzando il ricevitore. «Qui Pat Traymore.»
«Come sta, mia cara?» Lei riconobbe immediatamente quella voce troppo studiata. «Salve, signor Saunders.» Troppo tardi si ricordò che Toby lo conosceva. Infatti l'uomo aveva raddrizzato di colpo la testa; chissà se avrebbe associato il nome di Saunders con quel Jeremy Saunders che aveva conosciuto ad Apple Junction? «Ho cercato di telefonarle parecchie volte ieri pomeriggio», gorgheggiò Saunders. Questa volta non era ubriaco, Pat ne fu sicura. «Ma non ha lasciato il suo nome.» «Un messaggio registrato può arrivare alle orecchie sbagliate. Non pare anche a lei?» «Mi scusi un attimo, per favore.» Guardò Toby, che fumava il suo sigaro con aria pensierosa e pareva indifferente alla telefonata. Forse non aveva collegato il nome di Saunders, dopotutto non lo vedeva da trentacinque anni. «Toby, è una faccenda privata. Potrebbe...» Lui si alzò prontamente, prima che Pat finisse la frase. «Vuole che esca?» «No, grazie, Toby. Può riattaccare, per favore, quando io sollevo il ricevitore in cucina?» Il nome lo disse deliberatamente, in modo che Jeremy sentisse e non cominciasse a parlare se non era sicuro che solo Pat fosse in ascolto. Toby prese il ricevitore con disinvoltura, perfettamente consapevole che all'altro capo c'era Jeremy Saunders. Perché aveva telefonato a Pat Traymore? Era stata lei a mettersi in contatto con lui? Abigail sarebbe andata su tutte le furie. Sentì nella cornetta il rumore leggero di un respiro. Maledetto ipocrita, pensò, se solo cerca di calunniare Abby!... Gli giunse la voce di Pat: «Toby, le dispiace riappendere?» «Certo, Pat.» Cercò di rendere cordiale la voce; poi riappese il ricevitore con uno scatto deciso e non se la sentì di sollevarlo di nuovo dalla forcella. «Toby?» fece Jeremy Saunders, incredulo. «Non mi dica che sta facendosi quattro chiacchiere in amicizia con Toby Gorgone?» «Mi aiuta rispetto al materiale personale di Abigail che mi serve per il programma», rispose Pat a bassa voce. «Naturale. Ha seguito passo passo la nostra gran donna, no? Pat, volevo parlarle perché mi sono reso conto che l'altro giorno la vodka miscelata con il suo fascino mi ha reso piuttosto indiscreto. Devo chiederle di considerare la nostra conversazione assolutamente confidenziale. Mia moglie e
mia figlia non gradirebbero che venisse trasmessa sulla rete nazionale la mia piccola storia squallida con Abigail.» «Non ho intenzione di citare niente di quanto mi ha detto», rispose Pat. «Il Mirror forse potrebbe trovare interessanti i pettegolezzi personali, ma le posso assicurare che non sono il mio genere.» «Benissimo. Mi sento molto sollevato.» La voce di Saunders era adesso più amichevole. «Ho visto Edwin Shepherd al circolo. Mi ha detto di averle dato una copia del giornale con la fotografia di Abby come reginetta di bellezza. L'avevo dimenticato. Spero che stia pensando di utilizzare la foto di Miss Apple Junction insieme con la madre in adorazione. Quella sì che vale più di molte parole.» «Proprio non direi», ribatté Pat fredda: la presunzione di quell'uomo la mandava in bestia. «Temo di dovermi rimettere al lavoro, signor Saunders.» Riattaccò e ritornò nella biblioteca. Toby era seduto dove lei l'aveva lasciato, ma in lui qualcosa era cambiato: i modi gioviali erano scomparsi, pareva turbato e se ne andò quasi subito. Rimasta sola, Pat spalancò la finestra per far uscire l'odore del sigaro. Ancora una volta si rese conto di provare un acuto disagio che la faceva sobbalzare al minimo rumore. Rientrando in ufficio, Toby abbordò direttamente Philip. «Come sta andando?» Philip levò gli occhi al cielo. «La senatrice è molto agitata. Poco fa ne ha dette di tutti i colori a Luther Pelham perché l'aveva convinta a permettere questo programma. Avrebbe mandato all'aria tutto se non gli avessero già fatto tutta quella pubblicità. Com'è andata con Pat Traymore?» Toby non era disposto a parlare di Apple Junction, ma chiese a Philip di informarsi rispetto all'affitto della casa degli Adams, anche quello era un problema che gli girava per la testa. Bussò alla porta dell'ufficio di Abigail. Adesso lei era calma, troppo calma. E questo era un segno inequivocabile che era preoccupata. Aveva l'edizione pomeridiana del giornale. «Leggi qui», gli disse. Una famosa rubrica di pettegolezzi, redatta a Washington, cominciava così: «Negli ambienti del Campidoglio ci si diverte a scommettere sull'identità della persona che ha minacciato di morte Patricia Traymore se conti-
nuerà a occuparsi del programma sulla senatrice Jennings. Si direbbe che ognuno abbia un suo candidato. Tra i suoi colleghi, la bella senatrice anziana della Virginia gode di una irritante reputazione di eccessivo perfezionismo». Sotto gli occhi di Toby, con il viso contratto dalla rabbia, Abigail Jennings appallottolò il foglio nella mano e lo lanciò nel cestino della carta straccia. 14 Sam Kingsley finì di abbottonarsi la camicia dello smoking e fece il nodo a farfalla al cravattino. Diede un'occhiata all'orologio appoggiato sulla mensola del camino nella sua camera da letto e decise che aveva tempo in abbondanza per uno scotch e soda. Dal suo appartamento nel Watergate si godeva di una vista sconfinata sul fiume Potomac. Dalla finestra laterale del soggiorno poteva vedere il Kennedy Center. Qualche volta la sera, quando arrivava tardi dall'ufficio, vi andava e riusciva ad assistere al secondo e al terzo atto di un'opera. Dopo la morte di Janice, non c'era stato motivo di mantenere la grande casa di Chevy Chase. Karen viveva a San Francisco, e lei e il marito passavano le vacanze a Palm Springs con i suoceri. Sam le aveva detto di prendersi quello che voleva per quanto riguardava i servizi d'argento, i ninnoli e i mobili; il resto l'aveva quasi completamente venduto. Aveva deciso di ricominciare tutto daccapo, sperando che si attenuasse quella sensazione di stanchezza e di indifferenza che lo pervadeva. Con il bicchiere in mano, Sam si avvicinò alla finestra. Il Potomac scintillava delle luci degli appartamenti e dei riflettori del Kennedy Center. La febbre del Potomac. Lui ne era stato contagiato, come la maggior parte delle persone che si stabilivano lì. Sarebbe accaduto anche a Pat? si chiese. Era maledettamente preoccupato per lei. Jack Carlson, il suo amico dell'FBI, gli aveva parlato chiaro e tondo: «Prima riceve una telefonata, poi le infilano un biglietto sotto la porta, poi arriva un'altra telefonata e, per finire, qualcuno le entra anche in casa dove lascia un biglietto minatorio. Cerca di immaginare che cosa può succedere la prossima volta. Mi pare che abbiamo a che fare con uno psicopatico sul punto di esplodere. Quelle lettere a stampatello, così inclinate, sono terribilmente rivelatrici... e paragona questi due biglietti. Sono stati scritti solo a pochi giorni di distanza.
Nel secondo biglietto alcune lettere sono praticamente illeggibili. La tensione sta arrivando al punto di rottura. E per un verso o per l'altro questa tensione sembra diretta contro la tua Pat Traymore». La sua Pat Traymore. In quegli ultimi mesi prima che Janice morisse, era riuscito a tenere Pat fuori dei suoi pensieri. Era una cosa di cui le sarebbe sempre stato riconoscente. Lui e Janice erano riusciti a ritrovare un po' dell'intimità dei primi tempi e sua moglie era morta sicura del suo amore. Dopo, si era sentito svuotato, esausto, senza vita, vecchio. Troppo vecchio per una ragazza di ventisette anni e per tutto quello che avrebbe comportato una vita con lei. Lui non voleva altro che pace. Poi aveva saputo che Pat sarebbe venuta a Washington e aveva deciso di telefonarle per invitarla a cena. Dato che sarebbe stato impossibile evitarla, aveva preferito che il loro primo incontro non fosse condizionato dalla presenza di altre persone. Così l'aveva invitata. Aveva capito subito che quello che c'era tra loro, qualsiasi cosa fosse, non si era dissolto, era ancora vivo, in attesa di divampare... e che Pat desiderava che questo accadesse. Ma lui che cosa voleva? Non lo so, si rispose ad alta voce. Le parole di Jack gli risuonavano nelle orecchie: e se dovesse succederle qualche cosa? Suonò il citofono. «La macchina è arrivata, onorevole», annunciò il portiere. «Grazie. Scendo subito.» Appoggiò sul mobile bar il bicchiere mezzo vuoto e andò a prendere giacca e cappotto in camera da letto. Aveva movimenti rapidi e vivaci: tra pochi minuti sarebbe stato con Pat. Pat aveva deciso di indossare, per la cena alla Casa Bianca, un vestito di raso smeraldo con il corpetto trapuntato di perle. Era un modello di Oscar de la Renta e Veronica aveva insistito per farglielo comprare per il Ballo della Boston Symphony. Adesso era felice di essersi lasciata convincere a quell'acquisto. Con il vestito portava gli smeraldi della nonna. «Non hai proprio l'aria della classica giornalista», commentò Sam quando passò a prenderla. «Devo prenderlo come un complimento?» Sullo smoking, Sam indossava un cappotto di cashmere blu scuro con sciarpa bianca di seta. Che cosa aveva detto di lui Abigail? Uno degli scapoli più appetibili di Washington?
«Voleva esserlo. Niente più telefonate o biglietti?» «No.» Non gli aveva raccontato della bambola e non aveva nessuna intenzione di continuare a parlare di quell'argomento. «Bene. Mi sentirò meglio quando avrai finito il programma.» «Tu ti sentirai meglio!» Strada facendo, s'informò sulle sue attività. «Lavoro», rispose Pat pronta. «Luther ha accettato gli spezzoni dei filmati che avevo scelto e abbiamo completato la sceneggiatura. È irremovibile sul fatto che non si debba irritare la senatrice inserendo nel programma i suoi anni giovanili. Sta trasformando quello che doveva essere una specie di documentario in un panegirico che giornalisticamente sarà inattendibile.» «E tu non puoi fare niente?» «Potrei piantare tutto. Ma non sono venuta qui per mollare l'osso dopo una sola settimana, almeno se posso evitarlo.» Erano arrivati all'incrocio della Diciottesima Strada con Pennsylvania Avenue. «Sam, non c'era un albergo su quell'angolo?» «Sì, il vecchio Roger Smith Hotel. L'hanno buttato giù una decina di anni fa.» Quand'ero piccola, sono venuta qui per una festa di Natale. Avevo un vestitino di velluto rosso con calzamaglia bianca e scarpette di vernice nere. Mi sono macchiata il vestito con il gelato di cioccolata e mi sono messa a piangere e papà ha detto: "Non è stata colpa tua, Kerry". La berlina si stava avvicinando all'entrata nordovest della Casa Bianca. Si fermarono in fila, perché ogni macchina doveva sottoporsi ai controlli imposti dalle misure di sicurezza. Quando arrivò il loro turno, un agente controllò i loro nomi sulla lista degli invitati. All'interno, la grande dimora splendeva di decorazioni natalizie. La banda della Marina stava suonando nell'ingresso. Il pavimento di marmo luccicava e i camerieri offrivano lo champagne. Tra gli invitati, Pat riconobbe volti noti: divi del cinema, senatori, membri del governo, rappresentanti del bel mondo, una primadonna del teatro. «Eri mai stata qui?» chiese Sam. «Quando avevo sedici anni, in una gita scolastica visitammo la Casa Bianca e ci dissero che Abigail Adams appendeva il suo bucato in quella che adesso è la Sala Est.» «Adesso non ci troverai nessun bucato. Forza. Se devi far carriera a Wa-
shington, è meglio che tu conosca un po' di gente.» Un attimo dopo la presentava all'addetto stampa del presidente. Brian Salem era un uomo paffuto e cordiale. «Sta cercando di cacciarci dalla prima pagina, signorina Traymore», disse sorridendo. Perciò, della sua disavventura si era parlato anche nella Sala Ovale. «La polizia ha qualche indizio?» «Non ne sono sicura, ma noi tutti pensiamo che si sia trattato di qualche squilibrato.» Penny Salem era una donna angolosa dallo sguardo acuto che poteva avere una quarantina d'anni. «Dio sa se Brian ne vede, di lettere di squilibrati dirette al presidente.» «Proprio così», convenne il marito. «Chiunque abbia una carica pubblica necessariamente darà fastidio a qualcuno. Più uno è potente, più gruppi o singoli sono in disaccordo con lui; e Abigail Jennings ha delle posizioni molto nette su alcuni problemi molto delicati. Ah, guardate, eccola!» Di colpo sorrise: «Non è fantastica?» Abigail era appena entrata nella Sala Est. Quella era una sera in cui non aveva certo deciso di mettere in secondo piano la sua bellezza. Indossava un vestito di raso albicocca con il corpetto ricamato di strass. La gonna ampia metteva in risalto la sua vita sottile e l'ossatura esile. I capelli erano raccolti sulla nuca in un morbido chignon e le incorniciavano dolcemente i lineamenti delicati. L'ombretto azzurro leggero sottolineava gli occhi straordinari, il blush rosa le faceva risaltare gli zigomi. Una tonalità di albicocca più accentuata disegnava le labbra dalla forma perfetta. Era una Abigail del tutto diversa, una Abigail che rideva sommessamente, che appoggiava la mano appena un momento di troppo sul braccio di un ambasciatore ottuagenario, che accettava come dovuti i tributi alla sua bellezza. Pat si domandò se ogni altra donna della sala si sentisse come lei, improvvisamente incolore e insignificante. Abigail aveva calcolato perfettamente il momento del suo arrivo. Un minuto dopo il suo ingresso, la banda della Marina attaccò a suonare un appassionato Saluto al Capo. Il presidente e la first lady erano scesi dai loro appartamenti, accompagnati dal nuovo primo ministro canadese e da sua moglie. Quando si spensero le ultime note della canzone si sentirono i primi accordi dell'inno nazionale canadese. Il presidente e la first lady si fermarono per ricevere gli ospiti. Mentre si avvicinavano a loro, Pat si accorse che il cuore le batteva. La first lady era molto più bella che nelle fotografie. Aveva un viso leg-
germente lungo che comunicava tranquillità, con una bocca generosa e occhi color nocciola chiaro e i capelli biondo rossicci con qualche filo bianco. Dava l'impressione di essere perfettamente sicura di sé. Quando sorrideva, intorno agli occhi le si formava una piccola rete di rughe e le labbra si schiudevano rivelando una dentatura forte e perfetta. Disse a Pat che, da ragazza, aveva pensato di intraprendere il suo stesso lavoro per la televisione. «E invece», rise, alzando gli occhi verso il marito, «ero appena uscita dalla confraternita studentesca di Vassar che mi ritrovai sposata.» «Sono stato abbastanza intelligente da assicurarmela prima che ci pensasse qualcun altro», disse il presidente. «Felice di conoscerla, Pat.» Fu un'emozione ricevere la ferma stretta di mano dell'uomo più potente del mondo. «Sono persone a posto», commentò Sam mentre accettavano lo champagne. «E come presidente lui è senz'altro stato all'altezza della situazione, ha avuto polso. È difficile credere che sta per completare il suo secondo mandato. È giovane, meno di sessant'anni. Sarà interessante vedere a che cosa si dedicherà dopo.» Pat stava sempre studiando la first lady: «Mi piacerebbe enormemente fare un programma su di lei. Sembra talmente a suo agio». «Suo padre è stato ambasciatore in Inghilterra; suo nonno fu vicepresidente. Alcune generazioni con un certo tipo di educazione e di denaro, assieme a una formazione diplomatica, possono infondere fiducia in se stessi, Pat.» Nella Sala da pranzo di Stato, i tavoli erano apparecchiati con porcellane di Limoges, un servizio verde con bordo d'oro dal disegno complesso. Tovaglie e tovaglioli di damasco verde pallido ravvivati da rose rosse e felci abilmente sistemate in bassi vasi di cristallo completavano l'effetto. «Mi dispiace che non stiamo insieme», commentò Sam, «ma mi sembra che stai a un buon tavolo. E ti prego di notare dove è stata messa Abigail.» La senatrice era al tavolo del presidente, tra questi e l'ospite d'onore, il primo ministro canadese. «Mi piacerebbe poter inserire questa scena nel mio documentario», mormorò Pat. Diede un'occhiata alle prime voci del menu: salmone in aspic, suprême di cappone flamblée au cognac, riso non brillato. Suo vicino di tavola era il capo del Pentagono. Gli altri erano un rettore di università, un vescovo episcopale, un drammaturgo vincitore del Premio Pulitzer, il direttore del Lincoln Center. Guardandosi discretamente in giro per vedere dov'era capitato Sam, lo
vide seduto al tavolo presidenziale, proprio di fronte alla senatrice Jennings. Si sorridevano. Con una piccola fitta dolorosa, Pat distolse lo sguardo. Verso la fine della cena, il presidente invitò i presenti a raccogliersi in una preghiera per il vicepresidente, che era così gravemente malato e aggiunse: «Ha tenuto un ritmo di lavoro stressante, di quattordici ore al giorno, senza neppure rendersi conto del prezzo che avrebbe dovuto pagare per questo rispetto alla sua salute». Quando il momento di raccoglimento fu finito era chiaro per tutti che il vicepresidente non avrebbe più riassunto le sue funzioni. Sedendosi di nuovo, il presidente sorrise ad Abigail. E fu una specie di benedizione pubblica. «Be', ti sei divertita?» chiese Sam riaccompagnandola a casa. «Quello scrittore seduto al tuo tavolo pareva molto colpito da te. Ho notato che hai ballato con lui tre o quattro volte, vero?» «Mentre tu ballavi con la senatrice. Sam, è stato un grande onore per te essere al tavolo del presidente, vero?» «È sempre un onore poter sedere a quel tavolo.» Uno strano imbarazzo cadde tra loro. Di colpo a Pat la serata parve afflosciarsi. Si chiese per quale motivo Sam le avesse procurato l'invito... forse per farle conoscere persone importanti a Washington? O semplicemente non aveva resistito a non vederla prima di ritirarsi un'altra volta dalla sua vita? Aspettò che aprisse la porta, ma rifiutò l'invito di entrare a bere qualche cosa. «Domani avrò una giornata lunga. Devo prendere il volo delle sei per Palm Springs, passerò le feste con Karen e Tom, a casa dei genitori di Tom. Tu vai a Concord per le feste, Pat?» Lei non voleva dirgli che Veronica e Charles erano già partiti per una crociera nei Caraibi. «Sarà un Natale di lavoro», fece. «Festeggiamo in ritardo quando le feste sono finite. E allora ti darò anche il regalo di Natale.» «Benissimo.» Pat sperò che la sua voce suonasse disinvoltamente amichevole come quella di lui. A nessun prezzo gli avrebbe lasciato capire quanto si sentisse svuotata. «Stasera Pat eri bellissima. Saresti sorpresa di sapere quanti commenti lusinghieri ho sentito sul tuo conto.» «Spero che quelli che li hanno fatti avessero la mia età. Buona notte, Sam.» Spinse la porta ed entrò.
«Maledizione, Pat!» Sam entrò dietro di lei e l'afferrò per un braccio. La giacca le cadde dalle spalle mentre lui l'attirava a sé. Le mani di lui le corsero intorno al collo; Pat appoggiò le dita sul colletto del cappotto di lui, sentì la pelle fresca, i capelli folti e ondulati. Era come lo ricordava... il profumo delicato del suo respiro, la sensazione delle braccia di lui che la circondavano, l'assoluta certezza che loro due si appartenevano. «Amor mio», bisbigliò, «mi sei mancato tanto.» Fu come se lo avesse schiaffeggiato. Con un moto involontario lui si raddrizzò e si staccò da lei. Stordita, Pat lasciò cadere le braccia. «Sam...» «Pat, mi dispiace...» Cercava di sorridere. «Maledizione, sei solo troppo bella e non è un bene per te.» Si guardarono negli occhi per un lungo minuto. Poi Sam la prese per le spalle. «Non credi che quello che vorrei più di tutto sarebbe riprendere da dove abbiamo smesso quel giorno? Ma non ho intenzione di farti questo, Pat. Tu sei una bella ragazza. Nello spazio di sei mesi potrai probabilmente scegliere tra una mezza dozzina di uomini che possono offrirti il genere di vita cui hai diritto. Pat, il mio tempo è passato. Accidenti, ho quasi perso il seggio alle ultime elezioni. E lo sai che cosa ha detto il mio avversario? Ha detto che è ora di vedere facce nuove. Sam Kingsley è stato troppo tempo sulla scena. Ormai si ripete. Diamogli il riposo di cui ha bisogno.» «E tu ci hai creduto?» «Ci credo perché è vero. Quest'ultimo anno e mezzo con Janice mi ha completamente svuotato, sono esausto, Pat. In questo periodo mi è difficile prendere una posizione su qualsiasi problema. Scegliermi la cravatta da mettere è un grosso sforzo, perdio, ma c'è una decisione alla quale voglio attenermi a tutti i costi: non ho nessuna intenzione di rovinarti di nuovo la vita!» «Ti sei mai chiesto se non è proprio questo il modo migliore per rovinarmela?» Si fissarono pieni di infelicità. «Sémplicemente non ho intenzione di chiedermelo, Pat.» Era già andato via. 15 Glory era cambiata: aveva cominciato ad accomodarsi i capelli ogni mattina, a comprarsi dei vestiti nuovi dai colori vivaci e qualche volta si truccava persino un poco. Le camicette avevano collettini alti e pieghettati,
invece dei soliti, più maschili. E di recente si era comprata degli orecchini, due paia. Lui non l'aveva mai vista con gli orecchini prima di allora. Ogni giorno gli diceva di non prepararle il panino per la colazione di mezzogiorno, perché avrebbe mangiato fuori. «Da sola?» aveva chiesto lui. «No, padre.» «Con Opal?» «Mangio fuori e basta», e la voce aveva una nota di insolita insofferenza. Non le piaceva più starlo a sentire quando parlava del suo lavoro. Lui aveva tentato un paio di volte di dirle quanto ansimasse e tossisse e soffrisse la vecchia signora Gillespie. Di solito Glory lo ascoltava con estrema comprensione quando parlava dei suoi pazienti ed era sempre d'accordo con lui quando diceva che sarebbe stata una grazia se i più malati fossero dolcemente saliti in cielo. Il fatto che lei fosse del suo stesso parere lo aiutava a portare a termine la sua missione. Era così distratto dal pensiero di Glory che quando consegnò la signora Gillespie al Signore commise un'imprudenza. Era sicuro che dormisse, ma mentre si accingeva a staccare la spina del respiratore pregando per lei, la povera donna aprì gli occhi e intuì immediatamente quello che stava facendo. Le era tremato il mento e aveva bisbigliato: «Per favore, per favore... Vergine santa, aiutami...» Lui era rimasto a osservare i suoi occhi che da terrorizzati diventavano vitrei, vacui. E inoltre la signora Harnick lo aveva visto uscire da quella stanza. Era stata l'infermiera Sheehan a scoprire il cadavere e non aveva accettato la morte della vecchia signora come segno della volontà di Dio. Anzi aveva insistito perché il respiratore venisse controllato in modo che si fosse sicuri del suo funzionamento. Più tardi lui l'aveva vista insieme con la signora Harnick che era molto eccitata e indicava continuamente la camera della signora Gillespie. Tutti gli volevano bene al Pensionato, salvo l'infermiera Sheehan. Lo sgridava sempre, gli diceva che eccedeva dalle sue competenze. «Ci sono i cappellani per questo», diceva. «Non tocca a lei provvedere all'assistenza spirituale.» Se avesse immaginato che l'infermiera Sheehan era di servizio quel giorno, non si sarebbe avvicinato alla signora Gillespie. Era stata la preoccupazione per il programma sulla senatrice Jennings ad agitarlo, impedendogli di riflettere freddamente. Quattro volte aveva av-
vertito Patricia Traymore di non continuare a preparare quel programma. Non ci sarebbe stata una quinta volta. Pat non aveva sonno. Dopo essersi agitata irrequieta per un'ora, rinunciò a dormire e prese un libro. Ma la sua mente rifiutava di lasciarsi interessare alla biografia di Churchill che con tanta impazienza aveva desiderato leggere. All'una tentò di chiudere gli occhi, ma non ebbe alcun successo. Alle tre scese in cucina a riscaldarsi una tazza di latte. Aveva lasciato accesa la luce nell'atrio in fondo alle scale, ma le scale erano comunque al buio e dovette afferrarsi alla ringhiera dove la rampa faceva una curva. Si sedeva sempre su quel gradino, dove non la potevano vedere dall'atrio e assisteva all'arrivo degli invitati. Aveva una carnicina da notte azzurra a fiorellini. La indossava anche quella sera... Era stata lì seduta, poi aveva avuto paura ed era tornata a letto... E poi... «Non lo so», adesso parlava ad alta voce. «Non lo so.» Neppure il latte caldo riusciva a conciliarle il sonno. Alle quattro scese di nuovo a prendere la sceneggiatura ormai quasi ultimata e la portò di sopra. Il programma iniziava mostrando la senatrice e Pat sedute nello studio televisivo davanti a un ingrandimento di Abigail e Willard che salutavano gli invitati al ricevimento di nozze. La signora Jennings madre era stata tagliata fuori del montaggio. Mentre veniva proiettato il film del ricevimento, la senatrice avrebbe raccontato come aveva conosciuto Willard mentre lei ancora frequentava Radcliffe. Almeno, in questo modo, posso infilarci qualche notizia sul Nordest, pensò Pat. Poi sarebbe seguito un montaggio delle campagne elettorali di Willard, mentre Pat in primo piano avrebbe parlato con Abigail del suo sempre maggior impegno politico. Il ricevimento per il trentacinquesimo compleanno di Willard avrebbe messo in risalto l'amicizia con i Kennedy negli anni pre Casa Bianca. Poi si sarebbe visto il funerale, Abigail accompagnata da Jack Kennedy. Avrebbero eliminato i fotogrammi che mostravano la vecchia signora Jennings che si trovava su un'altra macchina. Poi Abigail insediata al Congresso in completo nero da lutto, il viso pallido e l'espressione seria. Seguiva la sequenza sull'appropriazione indebita dei fondi per la campagna elettorale e quella che illustrava l'impegno di Abigail sul problema
della sicurezza aerea. Che voce stridula, pensò Pat, e che aria sussiegosa, e poi guarda un po' la fotografia di Eleanor Brown, con quel viso da bambina spaventata. Inoltre una cosa è preoccuparsi della sicurezza aerea, un'altra continuare a sparlare del pilota che, dopotutto, nell'incidente ha perso la vita... Ma sapeva che non sarebbe riuscita a convincere Luther a modificare niente relativamente a quei due episodi. Il giorno dopo Natale avrebbero ripreso Abigail nel suo ufficio, con i suoi collaboratori e alcuni ospiti accuratamente selezionati. Il Congresso alla fine si era aggiornato, e le riprese sarebbero state effettuate rapidamente. Luther si era almeno dichiarato d'accordo su qualche sequenza che avrebbe mostrato Abigail a casa sua in mezzo ai suoi amici. Pat aveva proposto una cena di Natale, con Abigail intenta a preparare personalmente alcune delle pietanze. Gli ospiti sarebbero stati illustri personaggi di Washington oltre a qualche collaboratore del suo ufficio che non poteva raggiungere la famiglia per le feste. L'ultima scena avrebbe mostrato la senatrice di ritorno a casa al crepuscolo, con una borsa sotto il braccio. Poi, in chiusura: «Similmente a molti, tra i sei milioni di adulti soli negli Stati Uniti, la senatrice Abigail Jennings ha trovato famiglia, vocazione e occupazione nel lavoro che ama». Pat declamò la frase a voce alta considerandola una specie di prova generale. Era di Luther l'idea che fosse lei a pronunciarla alla fine del servizio. Alle otto Pat telefonò a Luther e gli chiese di nuovo di convincere la senatrice ad autorizzarli a includere nel programma immagini dei primi anni della sua vita. «Quello che abbiamo è fiacco», disse. «A parte i brani tratti da film personali, questo servizio risulta essere solo una mezz'ora di pubblicità elettorale.» Luther la interruppe: «Hai esaminato tutti i film?» «Sì.» «E per quanto riguarda le fotografie?» «Ce ne sono molto poche.» «Telefona e vedi se ce ne sono altre. No, telefono io. Le tue quotazioni non sono molto alte presso la senatrice, in questo momento.» Tre quarti d'ora dopo le telefonò Philip. Toby sarebbe arrivato da lei verso mezzogiorno con degli album di fotografie. La senatrice era sicura che Pat vi avrebbe trovato alcune cose interessanti. Irrequieta, Pat andava avanti e indietro nella biblioteca. Aveva stipato
sotto il tavolo lo scatolone in cui aveva nascosto la bambola. Pensò di utilizzare il tempo esaminando le cose di suo padre. Tolse la bambola dallo scatolone e la portò vicino alla finestra per esaminarla meglio. Una penna abile aveva tracciato delle ombre intorno ai bottoni neri degli occhi, completato le sopracciglia, dato alla bocca quella piega dolente. Alla luce del giorno, appariva ancor più patetica. Doveva forse rappresentarla, era lei bambina? La mise da parte e cominciò a svuotare lo scatolone: fotografie di suo padre e sua madre, pacchi di lettere e documenti, album colmi di foto. Le sue mani diventavano nere e polverose via via che suddivideva in mucchi il materiale. Poi sedette a gambe incrociate sul tappeto e cominciò a passare tutto in rassegna. Mani amorevoli avevano conservato punti di riferimento importanti dell'infanzia di Dean Adams. C'erano prove scolastiche disposte per ordine di voto. Dieci e nove e mezzo. Il voto più basso era un otto. Era vissuto in una fattoria a ottanta chilometri da Milwaukee. La casa non troppo grande era bianca, e arricchita da un piccolo porticato. C'erano fotografie di suo padre con i genitori. I miei nonni, pensò Pat, rendendosi conto di non sapere neppure i loro nomi. Sul retro di una delle fotografie c'era scritto: Irene e Wilson con Dean all'età di sei mesi. Prese un pacchetto, ma l'elastico che le teneva insieme si ruppe e le lettere si sparpagliarono sul tappeto. Le raccolse rapidamente e le passò in rassegna. Una in particolare attrasse la sua attenzione. Cara mamma, Grazie. Penso che questa sia l'unica parola che posso dire per tutti gli anni di sacrificio che sono stati necessari per permettermi l'università e quindi farmi laureare in legge. So dei vestiti che non ti sei comprata, delle occasioni sociali cui non hai mai partecipato insieme con le altre signore della città. Molto tempo fa ti ho promesso che avrei cercato di essere come papà. Manterrò questa promessa. Ti voglio bene. E ricordati di andare dal dottore, per piacere. La tua tosse non mi piace per niente. Con molto affetto tuo figlio Dean Sotto la lettera trovò il necrologio di Irene Adams: era datato sei mesi dopo. Pat sentì gli occhi appannarsi di lacrime per quel giovane che non si era
vergognato di esprimere il proprio amore per la madre. Anche lei aveva ricevuto quell'amore generoso. La sua mano in quella di lui. I suoi strilli di piacere quando lui tornava a casa. Papà. Papà. Lei fatta girare nell'aria, lanciata in alto e poi riafferrata da quelle mani forti e sicure. In triciclo sul viale... e il suo ginocchio scorticato sulla ghiaia... e la voce di lui: 'Non ti farà male, Kerry. Dobbiamo solo essere sicuri che sia pulito bene... Che gelato ci compriamo?...' Sentì suonare il campanello, radunò fotografie e lettere e si alzò. Buona parte delle cose le scivolò dalle mani mentre cercava di stivarle nello scatolone. Il campanello suonò ancora, questa volta più insistente. Radunò alla meno peggio le carte sparse e le nascose insieme col resto. Mentre usciva dalla stanza si accorse che aveva dimenticato di riporre le fotografie dei suoi genitori e la bambola di pezza. E se Toby fosse entrato e le avesse notate? Infilò anche quelle nello scatolone e lo mise sotto il tavolo. Toby era sul punto di suonare un'altra volta quando, con uno strattone, lei spalancò la porta. Davanti a quel corpo massiccio che riempiva il vano della porta, istintivamente si ritrasse. «Stavo per andarmene!» Il suo tentativo di apparire cordiale pronunciando la frase con un sorriso non era riuscito. «Mi dispiace, Toby», rispose lei, fredda. Ma chi era, dopotutto, per seccarsi se doveva aspettare qualche secondo? Lui pareva esaminarla. Pat si passò rapidamente in rassegna e si rese conto delle mani sporche con cui si era strofinata gli occhi, probabilmente il suo viso doveva risultare completamente macchiato. «Si direbbe che sia stata a giocare con del fango.» Sul viso di lui Pat lesse un'espressione di curiosità, quasi di sospetto e non rispose. L'uomo cambiò di posto al pacco che portava sotto il braccio e l'enorme anello di onice si mosse avanti e indietro sul suo dito. «Dove vuole che metta questa roba, Pat? Nella biblioteca?» La seguiva talmente da vicino che lei ebbe la sgradevole impressione che fermandosi di colpo l'avrebbe fatto inciampare. Aveva la gamba destra intorpidita per essere stata seduta tanto tempo a gambe incrociate sul pavimento e, inconsapevolmente, cercava di non sforzarla. «Zoppica, Pat? Non sarà mica caduta sul ghiaccio o qualcosa di simile?» Non te ne sfugge una, pensò Pat. «Metta pure tutto sul tavolo», disse. «Bene. Devo tornare subito indietro. La senatrice non è stata molto felice di dover cercare questi album. Non c'è bisogno che m'accompagni, so dov'è la porta.»
Lei aspettò di sentire lo scatto della serratura per andare a mettere il catenaccio. Quando giunse nell'atrio, il portone si riaprì. Toby parve allarmato, poi il suo viso si piegò in una smorfia: «Questa serratura non terrebbe fuori neanche un dilettante, Pat», disse. «Metta il catenaccio.» Il nuovo materiale mandato dalla senatrice consisteva in ritagli di giornale e lettere di alcuni sostenitori. Le fotografie erano per lo più istantanee della Jennings scattate in occasione di cerimonie politiche, pranzi ufficiali, pose della prima pietra, tagli di nastri. Mentre Pat girava le pagine, parecchi fogli caddero sul pavimento. Le ultime pagine dell'album erano più interessanti. Si imbatté in un ingrandimento di Abigail e Willard giovani, seduti su una coperta vicino a un lago. Lui le stava leggendo qualche cosa. Era una scena idilliaca in cui apparivano come gli innamorati di un cammeo vittoriano. C'era qualche altra istantanea che si poteva inserire nel montaggio. Quando ebbe finito di esaminare tutto il materiale, si chinò per raccogliere le fotografie che erano cadute. Sotto a una di esse c'era un foglio ripiegato di fine carta da lettere. Lo aprì e lesse: Billy, tesoro. Sei stato splendido durante le sedute di oggi pomeriggio. Sono così orgogliosa di te. Ti amo tanto e sono impaziente di poter essere nuovamente con te, di lavorare con te. Oh, mio carissimo, lo renderemo davvero diverso questo mondo. A. La lettera recava la data del 13 maggio. Willard Jennings stava per pronunciare un discorso ai neolaureati quando la morte l'aveva colpito, proprio una settimana dopo. Che chiusura magnifica per il programma, esultò Pat! Avrebbe chiuso la bocca a tutti quelli che ritenevano la senatrice una donna fredda e insensibile. Purché riuscisse a convincere Luther a lasciarle leggere la lettera nel programma. Che effetto avrebbe fatto? «Billy, tesoro», lesse ad alta voce. «Mi dispiace tanto...» La voce le si spezzò. Che cosa mi succede? pensò e, con impazienza, risolutamente, ricominciò: «Billy, tesoro. Sei stato splendido...» 16 Il 23 dicembre alle due del pomeriggio la senatrice Abigail Jennings si
trovava nella biblioteca di casa sua insieme con Toby e Philip e guardava alla televisione la cronaca delle dimissioni formali del vicepresidente degli Stati Uniti. Le labbra secche, le unghie affondate nel palmo della mano, Abigail ascoltava il vicepresidente, sostenuto da cuscini nel suo letto di ospedale, il volto terreo e chiaramente prossimo alla morte, affermare con voce di cui risultava sorprendente il vigore: «Ho aspettato a rendere pubblica la mia decisione fino a dopo Capodanno. Sento però che è mio preciso dovere dare le dimissioni da questa carica, in modo che non sia compromesso l'ordine di successione alla presidenza di questo grande paese. Sono grato della fiducia espressami dal presidente e dal mio partito nel designarmi per due volte come candidato alla vicepresidenza. E sono grato al popolo degli Stati Uniti che mi ha dato questa possibilità di servirlo». Con profondo rimpianto, il presidente accettò le dimissioni del suo vecchio amico e collega e, a chi gli chiedeva le sue decisioni in merito alla sua sostituzione, rispose: «Ho alcune idee», rifiutando però di commentare i nomi che i giornalisti gli proponevano. Toby fischiò: «È fatta, Abby!» «Senatrice, si ricordi di quello che dico...» cominciò Philip. «State zitti e ascoltate!» ringhiò lei. Mentre cambiava l'inquadratura la macchina da presa centrò Luther Pelham negli uffici del telegiornale del network privato Potomac. «È un momento storico importante», cominciò Luther. Con austera reticenza tracciò un breve profilo del vicepresidente, poi venne al punto: «È venuto finalmente il momento che per questa carica venga scelta una donna... una donna dotata dell'esperienza necessaria e di provata serietà. Presidente, la scelga adesso». Abigail fece una risata stridula: «Parla di me». Il telefono cominciò a squillare. «Saranno giornalisti», disse lei. «Non ci sono.» Un'ora dopo i giornalisti erano ancora accampati davanti alla casa di Abigail, che alla fine acconsentì a rilasciare un'intervista. Esteriormente appariva calma. Raccontò di essere occupata a preparare una cena di Natale per gli amici. Quando le chiesero se si aspettava di essere nominata vicepresidente, rispose con tono divertito: «Ma via, non potete veramente aspettarvi che io commenti una cosa del genere». Quando la porta si fu richiusa alle sue spalle, cambiò modi ed espressione. Persino Toby non osò rivolgerle la parola.
Luther telefonò per confermare il piano delle riprese. La voce di Abigail, alta e concitata, si poteva sentire risuonare in tutta la casa. «Sì, ho capito, ma ascolta che cosa voglio dirti, probabilmente ho la carica in tasca, in questo momento, se non fosse per quel dannato programma che mi pende sulla testa. Te l'avevo detto che era una pessima idea e non mi dire che l'hai organizzato solo per aiutarmi; perché la verità è che volevi che io ti fossi obbligata, e questo lo sappiamo bene tutti e due!» Abbassò la voce mentre Philip, scambiando un'occhiata con Toby, gli chiedeva: «Che cosa ne sai Toby?» «Pat Traymore è stata ad Apple Junction la settimana scorsa. È passata dal giornale e ha avuto qualche vecchio numero. È andata a trovare Saunders... quel tipo che aveva una cotta per Abby quando era una ragazzina. Lui ha completamente vuotato il sacco con lei. Poi ha incontrato la direttrice della scuola, ormai in pensione, che conosceva Abby. Ero nella casa di Pat a Georgetown quando Saunders le ha telefonato.» «Quali danni possono arrecare alla senatrice queste persone?» chiese Philip. Toby si strinse nelle spalle. «Dipende. Tu hai scoperto qualche cosa a proposito della casa?» «Qualche cosa», ammise Philip. «Sono andato negli uffici della società immobiliare che per anni è stata incaricata di affittarla. In questo periodo avevano un affittuario interessato, ma la banca che cura gli interessi degli eredi ha fatto sapere che qualcuno della famiglia pensava di servirsene e che quindi la casa non sarebbe più stata disponibile.» «Qualcuno della famiglia?» ripeté Toby. «Chi? E di quale famiglia parli?» «Direi Pat Traymore», fece Philip, sarcastico. «Non fare l'intelligentone con me», ringhiò Toby. «Voglio sapere a chi appartiene la casa adesso, e quale parente ne fa uso.» Pat assisteva con contrastanti emozioni alla cronaca delle dimissioni del vicepresidente trasmessa dalla Potomac. Alla fine del suo intervento, Luther affermò che si riteneva improbabile che il presidente nominasse un successore prima della fine dell'anno. E noi manderemo in onda il programma il ventisette, pensò Pat. Come aveva previsto Sam la sera del suo arrivo a Washington, stava diventando reale la possibilità che lei avesse parte nella designazione della prima donna vicepresidente.
Il suo sonno era stato ancora una volta interrotto da sogni inquietanti. Ricordava davvero in modo così chiaro suo padre e sua madre o confondeva con la realtà le fotografie e i film che aveva visto? Il ricordo di lui che le disinfettava e fasciava il ginocchio e poi la portava a prendere il gelato era autentico. Di questo era sicura. Ma non c'erano forse state altre volte in cui si era premuta il cuscino sulle orecchie per non sentire voci alterate o pianti isterici? Era sempre più decisa a terminare la sua meticolosa rassegna degli incartamenti di suo padre. Aveva esaminato con ostinazione tutto il materiale e aveva scoperto di essere sempre più preoccupata per alcuni particolari che si riferivano a sua madre. C'erano alcune lettere di sua nonna a Renée. Una, datata sei mesi prima della tragedia, diceva: Renée, mia cara, il tono della tua lettera mi ha molto turbato. Se ti senti di nuovo vicina a una crisi depressiva, ti prego di contattare al più presto uno psicanalista che ti possa aiutare... Secondo gli articoli dei giornali, era stata proprio sua nonna ad affermare che Dean Adams aveva una personalità instabile. Poi trovò una lettera di suo padre a sua madre, scritta l'anno precedente la loro morte: Cara Renée, mi sconvolge l'idea che tu voglia passare tutta l'estate nel New Hampshire con Kerry. Sai bene guanto mi mancate. Io devo assolutamente andare nel Wisconsin. Perché non venite anche voi? Possiamo noleggiare una macchina veloce al posto della nostra vecchia utilitaria, così potrai muoverti più agevolmente. Ti prego di riflettere su questa mia proposta, cara. Per amor mio... A Pat sembrava di togliere lentamente la fasciatura a una ferita infetta. Più si avvicinava, più era difficile strappare il cerotto che la copriva. La sensazione di dolore, emotivo e addirittura fisico, era sempre più acuta. Uno degli scatoloni era pieno di decorazioni natalizie e di fili di lampadine colorate. Le venne un'idea: avrebbe comprato un piccolo albero di Natale. Perché no? Dov'erano Veronica e Charles in quel momento? Consultò il loro itinerario: la nave avrebbe fatto scalo a St. John l'indomani. Si
domandò se sarebbe stato possibile contattarli telefonicamente il giorno di Natale. La posta le fornì la possibilità di una gradita tregua; c'erano numerose cartoline e inviti da parte degli amici di Boston. Vieni anche solo per il giorno di Natale, se appena puoi. Siamo tutti in attesa del programma. Sicuramente per questo servizio otterrai l'Emmy, Pat... non solo la nomination... Una lettera era stata inoltrata dalla televisione privata di Boston. L'etichetta gommata del mittente, sulla busta, diceva: CATHERINE GRANEY, 22 BALSAM PLACE, RICHMOND, VA. Graney, pensò Pat. Era il nome del pilota morto insieme con Willard Jennings. La lettera era breve: Cara signorina Traymore, ho letto che sta progettando di preparare e trasmettere un'intervista sulla senatrice Abigail Jennings. Avendo avuto occasione di apprezzare parecchi dei suoi ottimi servizi, sento il dovere di avvertirla che il programma sulla senatrice Abigail Jennings può diventare oggetto di un'azione giudiziaria. La invito a non fornire alla senatrice l'opportunità di parlare della morte di Willard Jennings. Per il suo bene, signorina Traymore, non le permetta di affermare che l'errore del pilota costò la vita a suo marito. Quel pilota, che era mio marito, morì anche lui. E mi creda, è davvero un macabro scherzo il fatto che la senatrice osi atteggiarsi al ruolo di povera vedova. Se vuole parlarmi, può telefonare a questo numero: 804/555.6841. Pat si avvicinò al telefono e formò il numero. Suonò a lungo. Stava per riattaccare quando una voce frettolosa rispose: Catherine Graney. Si sentivano rumori sullo sfondo, come se ci fossero dall'altra parte del filo molte persone. Pat cercò di prendere un appuntamento. «Non potrò vederla prima di domani», disse la donna. «Ho un negozio di antiquariato e oggi devo presenziare a un'asta.» Si misero d'accordo sull'ora e la donna fornì a Pat sommarie indicazioni per raggiungerla. Nel pomeriggio Pat uscì per alcune spese. La prima sosta la fece da un corniciaio. Voleva far incorniciare una delle vecchie stampe di stile mari-
naro che provenivano dall'ufficio di suo padre. Sarebbe stato il suo regalo di Natale per Sam. «Sarà pronta tra una settimana, signorina. È davvero una bella stampa e se la volesse vendere, può ricavarne qualcosa.» «Non voglio venderla.» Si fermò poi in un grande negozio di alimentari vicino a casa dove ordinò formaggi, salumi e un piccolo tacchino. Dal fioraio comprò due poinsezie e una ghirlanda di sempreverdi da appendere sopra il camino. Trovò anche un albero di Natale che le arrivava alle spalle; la merce migliore era già stata venduta, ma quell'alberello era della dimensione che desiderava e gli aghi erano lucidi e folti. Prima di sera aveva finito di applicare le decorazioni in tutta la casa; aveva collocato l'albero accanto alla portafinestra che dava sulla terrazza, sulla mensola del camino era appesa la ghirlanda, mentre una poinsezia ornava il tavolo rotondo accanto al divano, e l'altra faceva capolino dal tavolino posto di fronte al divanetto a due posti. Aveva appeso tutti i quadri decidendo, dopo qualche esperimento, dove collocarli, ma finalmente il soggiorno le appariva a posto. Il fuoco, pensò. Ecco che cosa manca! Cercò di accenderne uno utilizzando della carta e dei pezzetti di legna minuta e sistemando il parafuoco. Poi si preparò omelette e insalata e portò il vassoio in soggiorno. Quella sera si sarebbe soltanto rilassata guardando la televisione. Si rendeva conto di avere esagerato con se stessa; adesso doveva semplicemente lasciare che la sua memoria si mettesse in moto spontaneamente. Aveva pensato che quella stanza le avrebbe creato tensione, ma malgrado il terrore della notte precedente la trovava calda e piena di pace. Forse conservava in sé anche i ricordi felici? Accese il televisore. Il presidente e la first lady si mossero sullo schermo: stavano salendo a bordo dell'aereo militare che doveva portarli nella casa di famiglia dove avrebbero trascorso il Natale. I giornalisti continuavano a molestare il presidente interrogandolo sulla sua scelta. «Per il Nuovo Anno», rispose lui, «saprete chi sarà la prescelta per il Nuovo Anno. Buon Natale.» La prescelta. Un lapsus involontario? No di certo. Qualche minuto dopo telefonò Sam: «Pat, come stai?» Lei avrebbe voluto che la sua bocca non diventasse improvvisamente secca al suono della sua voce. «Bene. Hai visto il presidente in televisione un attimo fa?»
«Sì. È chiaro che ormai la scelta è tra due sole persone. Si è praticamente impegnato a nominare una donna. Ho intenzione di dare un colpo di telefono ad Abigail: sono certo che sta rosicchiandosi le unghie.» Pat alzò le sopracciglia: «Io al suo posto lo farei». Giocherellò con la nappina della cintura. «Com'è il tempo?» «Fa un caldo del diavolo. Francamente, preferisco passare il Natale in un paesaggio invernale.» «Allora forse non dovevi partire. Io ho bighellonato per alcune spese e per comprare un albero di Natale, e devo dire che oggi faceva piuttosto freddo.» «Che progetti hai per il giorno di Natale? Vai da Abigail per quella cena?» «Sì, ma sono meravigliata che tu non sia stato invitato.» «Lo ero, Pat. E, a dirti la verità, anche se sto molto bene con Karen e Tom, mi rendo conto che questa è la famiglia di mia figlia, non la mia.» Pat non resistette: «La madre di Tom non sta cercando di sistemarti con amiche o cugine disponibili?» Sam rise. «Temo proprio di sì. Comunque ho deciso di non fermarmi per Capodanno. Tornerò subito dopo Natale. Non hai ricevuto altre minacce, vero?» «Neppure una telefonata. Mi manchi, Sam», aggiunse deliberatamente. Ci fu una pausa. Lei poteva immaginare la sua espressione preoccupata, lo vedeva teso nello sforzo di trovare la frase giusta per risponderle. Provi per me gli stessi sentimenti di due anni fa, pensò. «Sam?» La voce di lui risuonò troppo controllata. «Anche tu mi manchi, Pat. Sei molto importante per me.» Che modo fantastico di esprimersi. «Anche tu, dopotutto, sei uno dei miei più cari amici!» Senza aspettare la risposta di lui, riattaccò il ricevitore. 17 «Padre, hai visto la mia bambola di pezza?» Lui sorrise a Glory, sperando di non apparire nervoso. «No, non l'ho vista, naturalmente. Non la tieni nell'armadio in camera tua?» «Sì. Non riesco a capire... Padre, sei sicuro di non averla buttata via?» «Perché avrei dovuto farlo?»
«Non lo so.» Si alzò dal tavolo. «Vado a fare qualche spesetta per Natale. Torno presto.» Aveva un'espressione preoccupata; chiese: «Padre, sei sicuro di non cominciare a star male di nuovo, in queste ultime notti hai parlato nel sonno. Ti sentivo dalla mia camera, c'è qualcosa che ti preoccupa? Non senti di nuovo quelle voci, vero?» Vide le lacrime negli occhi di lei. Non avrebbe mai dovuto parlare delle voci a Glory. Non lo aveva capito. O peggio, si era agitata a causa sua. «Ma no. Scherzavo quando ti ho parlato di quelle voci.» Fu sicuro che, nonostante avesse assunto un'aria scherzosa, Glory non gli credeva; la ragazza gli mise la mano sul braccio: «Nel sonno, continuavi a chiamare la signora Gillespie. Non è quella donna del pensionato che è appena morta?» Quando Glory fu uscita, Arthur si sedette al tavolo della cucina, le gambe sottili attorcigliate alla traversa della sedia; era preoccupato. L'infermiera Sheehan e i medici lo avevano interrogato a proposito della signora Gillespie: era entrato a farle una visitina? «Sì», aveva ammesso lui. «Volevo solo vedere se stava bene.» «Quante volte è entrato nella sua stanza?» «Una volta soltanto. Dormiva. Era tutto a posto.» «La signora Harnick e la signora Drury sono convinte tutt'e due di averla vista. Ma la signora Drury ha detto che erano le tre e cinque, e la signora Harnisk, invece, è sicura che fosse più tardi.» «La signora Harnick si sbaglia. Sono entrato da lei una volta sola.» Avevano dovuto credergli. La signora Harnick era vecchia e poco attendibile, anche se in alcuni momenti era estremamente lucida. Improvvisamente riprese il giornale. Per venire a casa aveva preso la metropolitana. Una vecchia con la borsa della spesa piena aspettava sulla banchina appoggiandosi al bastone. Lui era sul punto di andare a offrirle il suo aiuto per la borsa, quando il treno era entrato rombando nella stazione. La folla si era lanciata in avanti fluttuando e un ragazzo, con le braccia cariche di libri scolastici, precipitandosi alla conquista di un posto a sedere, aveva quasi fatto cadere la vecchia signora. Lui ricordò di averla aiutata riuscendo a salire sul treno proprio un attimo prima che le porte si chiudessero: «Sta bene?» le aveva chiesto. «Sì, ma ho avuto paura di cadere. I giovani sono così imprudenti. Non come eravamo ai miei tempi.» «Sono crudeli», disse lui, soave. Il ragazzo scese a Dupont Circle e attraversò la banchina. Lui l'aveva seguito, riuscendo a rimanergli vicino, nonostante la folla, fino al bordo del
marciapiede. Mentre il treno si avvicinava, si era fermato dietro di lui e gli aveva dato una gomitata al braccio. I libri avevano perso la loro stabilità e un quaderno era caduto. Il ragazzo, cercando di afferrarlo, si era sbilanciato. Era stato facile spingerlo in avanti facendolo finire sulle rotaie. Sul giornale, il giorno dopo a pagina tre aveva letto: STUDENTE DICIANNOVENNE UCCISO DALLA METROPOLITANA. La cronaca parlava di incidente mortale. Uno dei presenti aveva visto un libro scivolare dal braccio del ragazzo che chinandosi per raccoglierlo aveva evidentemente perso l'equilibrio. La tazza di caffè era diventata fredda nelle mani di Arthur. Ne avrebbe preparato di nuovo, poi sarebbe andato al lavoro. C'erano tanti vecchi indifesi che aspettavano le sue cure, al pensionato. Nei giorni passati, il suo pensiero fisso era stata Patricia Traymore. Per questo motivo si era comportato distrattamente rispetto alla signora Gillespie. Il giorno dopo avrebbe detto a Glory che doveva lavorare fino a tardi e sarebbe tornato nella casa di Patricia Traymore. Doveva ritornarci. Glory rivoleva la sua bambola. Alle dieci del 24 dicembre Pat si mise in moto per raggiungere Richmond. Il sole era alto e splendeva forte, ma l'aria era ancora molto fredda. Sarebbe stato un Natale gelido. Uscita dall'autostrada, Pat si innervosì sbagliando più volte il percorso che si era studiata. Alla fine trovò Balsam Place. Era una strada fiancheggiata da belle case in stile Tudor. Quella contrassegnata con il numero 22 era più grande delle altre, e si distingueva per un'insegna scolpita, appoggiata sul prato davanti alla casa, su cui si leggeva: antichità. Catherine Graney aspettava sulla porta. Era una donna sulla cinquantina, con il viso quadrato, occhi azzurri incassati e un corpo vigoroso ma sottile. I capelli, grigi, erano lisci e con un taglio maschile. Diede a Pat una calorosa stretta di mano. «È come se la conoscessi. Vado molto spesso a fare acquisti nel New England e tutte le volte che posso seguo i suoi programmi.» Il piano terra era usato come sala per esposizione. Sedie, divani, vasi, lampade, quadri, tappeti orientali, porcellane e belle cristallerie, tutto era contrassegnato da etichette. Una cristalliera in stile Regina Anna conteneva delicate statuette. Un setter irlandese dal pelame rosso scuro abbondantemente spruzzato di grigio, che sembrava far parte dell'arredamento, dor-
miva davanti al mobile. «Io abito al piano di sopra», spiegò la signora Graney. «Praticamente il negozio è chiuso, ma mi ha appena telefonato una signora chiedendo gentilmente di poter venire ad acquistare un regalo di cui si è ricordata solo all'ultimo momento. Prende un caffè, vero?» Pat si tolse il cappotto. Si guardò intorno, esaminando la merce esposta. «Ha davvero delle belle cose.» «A me piacciono molto», la signora Graney pareva compiaciuta. «Adoro andare a caccia di antichità, e anche occuparmi del restauro. Il mio laboratorio è nel garage.» Versò il caffè da un bricco in stile sheffield e porse una tazza a Pat. «Mi piace circondarmi di oggetti preziosi. Con quei capelli ramati e la camicetta d'oro, lei sembra far parte di quel divano chippendale, signorina Traymore.» «Grazie.» Pat si accorse che le piaceva quella donna dai modi schietti. C'era un che di franco e di onesto in lei, che rendeva possibile andare dritti al motivo della visita. «Signora Graney, immagino che intuisca quanto mi abbia sorpreso la sua lettera. Le dispiacerebbe spiegarmi perché non si è messa direttamente in contatto con il network, preferendo invece rivolgersi a me?» Catherine Graney bevve un sorso di caffè. «Come le ho detto, ho visto moltissimi dei suoi programmi. Sento onestà nel suo lavoro e non credo che coscientemente collaborerebbe a perpetuare una menzogna. Per questo mi appello a lei, per essere sicura che il nome di George Graney non venga citato nel programma sulla senatrice e che Abigail Jennings non parlerà di errore del pilota a proposito della morte di Willard. Mio marito era capace di tenere in aria qualsiasi cosa che avesse delle ali.» Pat pensò ad alcuni pezzi già montati del programma. La senatrice denunciava il pilota... ma ne faceva il nome? Pat non ne era sicura. Ricordava però alcuni particolari dell'incidente. «I risultati dell'inchiesta non arrivarono alla conclusione che suo marito stava volando troppo basso?» chiese. «È esatto, l'aereo stava volando troppo basso e andò a sbattere contro la montagna. Dopo l'accaduto Abigail Jennings cominciò a sfruttare l'incidente facendosi garante per la sicurezza della navigazione aerea, lasciandosi fotografare da tutti i giornali mentre si atteggiava a moglie distrutta.» Pat osservò il setter irlandese, che pareva avvertire la tensione nella voce della sua padrona, alzarsi, stirarsi, attraversare lentamente la stanza e accucciarsi ai suoi piedi. Catherine si chinò su di lui e gli batté qualche amichevole colpetto sul fianco.
«Ma se aveva qualcosa da dire perché non lo fece allora?» «Per molte ragioni. Poche settimane dopo la sciagura nacque mio figlio, e poi non volevo ferire i sentimenti della madre di Willard.» «La madre di Willard?» «Sì. Il fatto è che George pilotava spesso l'aereo di Willard Jennings ed erano diventati buoni amici. La vecchia signora Jennings lo sapeva, e non appena furono avvistati i rottami dell'aereo si precipitò qui da me, non da sua nuora. Aspettammo insieme il comunicato definitivo. In seguito depositò una somma molto generosa destinata all'istruzione di mio figlio. Io non volli darle un dolore rivelando ciò che sapevo di Abigail Jennings. Avevamo dei sospetti tutt'e due, ma lei non avrebbe retto lo scandalo.» Tre vecchi orologi a pendolo batterono contemporaneamente le ore. Era l'una. Il sole entrò nella stanza. Pat notò che, parlando, Catherine Graney si girava nervosamente intorno al dito la fede d'oro. A quanto pareva non si era risposata. «Che cosa avrebbe potuto rivelare?» chiese. «Avrei potuto distruggere la sua credibilità. Willard era terribilmente infelice a causa sua e a causa del suo impegno politico. Il giorno stesso in cui morì, aveva in programma di annunciare che non voleva essere rieletto e che accettava la carica di rettore in un'università. Aspirava alla vita accademica. Quell'ultima mattina, lui e Abigail ebbero un litigio tremendo all'aeroporto. Lei non voleva assolutamente che annunciasse le sue dimissioni. E lui le disse, davanti a George e a me: 'Abigail, maledizione, per te non farà proprio nessuna differenza. Tra noi è tutto finito.'» «Abigail e Willard Jennings stavano per divorziare?» «La faccenda della vedova inconsolabile è sempre stata una posa. Mio figlio, George Graney junior, è pilota in Aviazione. Non ha mai conosciuto suo padre. Ma non posso permettere che venga danneggiato da sporche bugie. E che io vinca una causa o no, farò in modo che tutto il mondo capisca che ipocrita sia sempre stata quella donna.» Pat si sforzò di scegliere le parole con cura: «Signora Graney, sia certa che farò quanto è in mio potere perché non si parli di suo marito in modo lesivo della sua memoria. Ma devo dirle che ho passato in rassegna l'archivio privato della senatrice e tutto quello che ho visto sembrava indicare che Abigail e Willard Jennings fossero molto innamorati». Adesso Catherine Graney aveva un'aria sprezzante. «Mi piacerebbe vedere l'espressione del viso della vecchia signora Jennings se potesse sentir dire una cosa simile! Adesso le dirò una cosa: sulla strada del ritorno, faccia una deviazione di due chilometri e passi davanti a Hillcrest. È la pro-
prietà degli Jennings. E cerchi di immaginare che genere di sentimenti dovesse provare quella donna per decidere di non lasciarla e di non lasciare neppure un centesimo, alla propria nuora!» Un quarto d'ora dopo, Pat ammirava, tra le sbarre di ferro di un cancello imponente, la bella dimora che dominava i prati della proprietà, bianchi di neve. Come vedova di Willard, Abigail aveva potuto pensare a buon diritto che avrebbe ereditato la proprietà, oltre al suo seggio al Congresso, mentre come moglie divorziata sarebbe stata di nuovo esiliata da quel mondo. Se bisognava credere a Catherine Graney, la tragedia di cui Abigail parlava con accenti così toccanti era stata in realtà il colpo di fortuna che venticinque anni prima l'aveva salvata dall'anonimato. 18 «Sembra buono, Abby», disse Toby gentile. «Dovrebbe riuscire bene nelle riprese», ammise lei. Stavano ammirando l'albero di Natale nel soggiorno di Abigail. Il tavolo della sala da pranzo era già apparecchiato per il buffet di Natale. «Ci saranno sicuramente giornalisti in giro domani mattina», disse lei. «Cerca di scoprire a che ora sarà la prima funzione alla Cattedrale. Bisogna che mi vedano lì.» Non ne trascurava una pur di arrivare dove si era prefissa. Da quando il presidente aveva detto: «Vi dirò chi è la prescelta», Abigail era stata male per l'agitazione. «Sono la candidata migliore», aveva detto una dozzina di volte. «Claire è del suo stesso stato, e questo non va bene. Se solo non fossimo impelagati con quell'accidente di programma.» «Potrebbe aiutarla», fece lui cercando di acquietarla, mentre in cuor suo era preoccupato quanto lei. «Toby, potrebbe aiutarmi se fossi in gara per una carica elettiva in mezzo a un gran numero di candidati. Ma non credo che il presidente abbia intenzione di vedere quell'accidente di servizio per poi saltare su dicendo: 'Questa è la persona che fa per me'. Però potrebbe aspettare per vedere se il programma suscita una reazione negativa, prima di annunciare la sua decisione.» Lui sapeva che aveva ragione. «Non si preoccupi. Comunque, non può tirarsi indietro. Il programma è già stato annunciato.» Aveva scelto con cura gli ospiti per la cena fredda di Natale. Aveva due
senatori, tre deputati, un giudice della Corte Suprema e Luther Pelham. «Vorrei solo che Sam non fosse in California», disse. Per le sei, tutto era a posto. Un'oca cuoceva nel forno. Abby l'avrebbe servita fredda alla cena del giorno dopo. Il profumo delizioso, caldo, riempiva la casa. A Toby faceva tornare in mente la cucina di casa Saunders quando loro erano ragazzi e andavano alla scuola media. Quella cucina era sempre profumata di ottimo cibo che arrostiva sul fuoco o cuoceva lentamente al forno. Francey Foster era una di quelle cuoche! Questo bisognava riconoscerglielo! «Bene, penso che me ne andrò, Abby.» «Hai un appuntamento importante, Toby?» «Non troppo importante.» La cameriera di quella tavola calda stava cominciando ad annoiarlo. Alla fine lo annoiavano tutte. «Ci vediamo domani mattina. Vieni a prendermi sul presto.» «Va bene, senatrice. Dorma bene. Bisogna che domani sia in gran forma.» Toby lasciò Abby affaccendata con alcuni fili dorati che non erano appesi come lei desiderava. Tornò nel suo appartamento, si concesse una doccia e indossò un paio di pantaloni comodi, una camicia ruvida e una giacca sportiva. La maschietta della tavola calda gli aveva detto chiaro e tondo che non aveva nessuna intenzione di cucinare quella sera. L'avrebbe portata fuori, tanto per cambiare e poi sarebbero tornati nell'appartamento di lei per bere ancora qualche cosa. A Toby non faceva nessun piacere spendere soldi per mangiare, soprattutto quando l'esito della serata era comunque scontato. Si mise la cravatta verde scuro lavorata a maglia e si stava sistemando davanti allo specchio quando squillò il telefono. Era Abby. «Vai a comprarmi una copia del National Mirror», ordinò. «Del Minor?» «Hai sentito... vai a prenderla. Ha appena telefonato Philip. Miss Apple Junction e la sua elegante madre sono in prima pagina. Chi è andato a scovare quella fotografia? Chi?» Toby strinse il ricevitore. Pat Traymore era stata al giornale di Apple Junction. Jeremy Saunders aveva telefonato a Pat Traymore. «Senatrice, se qualcuno tenta di metterla con le spalle al muro, non si preoccupi, lo distruggo.» Alle tre e mezza Pat era nuovamente a casa e pregustava il piacere di u-
n'ora di sonno. Come sempre, lo sforzo insolito di stare in piedi e arrampicarsi per appendere i quadri, la sera prima, si faceva sentire sulla sua gamba. Il dolore sordo, costante, l'aveva accompagnata durante tutto il viaggio di ritorno da Richmond. Non era ancora entrata quando il telefono suonò. Era Lila Thatcher. «Sono così felice di averla trovata, Pat. Tenevo d'occhio casa sua per vederla tornare. È libera stasera?» «Ecco, veramente...» Presa alla sprovvista, Pat non riusciva a trovare una scusa ragionevole. Non è facile mentire a una sensitiva, pensò. Lila la interruppe: «La prego, mi accompagni: l'ambasciatore mi ha invitato per la solita cena della vigilia e io gli ho promesso di portarla con me. Dopotutto, adesso è anche lei una vicina. Lui ne sarebbe felicissimo». L'ottantenne ambasciatore in pensione era forse il più ragguardevole tra i politici anziani della città. Pochi leader mondiali, di passaggio a Washington, mancavano di fargli visita. «Sono contenta di accompagnarla», rispose Pat calorosamente. «Grazie di aver pensato a me.» Conclusa la conversazione, Pat salì nella sua camera da letto. Gli invitati dell'ambasciatore sarebbero stati certamente vestiti con eleganza. Decise di mettersi un completo di velluto nero, con i polsi di zibellino. Aveva ancora il tempo per un bagno caldo di un quarto d'ora e un sonnellino. Mentre era distesa nella vasca, Pat notò che in un angolo la delicata carta da parato beige si stava staccando. Tese la mano e ne staccò un grosso pezzo. Sotto, ora ricordava: quel bel lilla e l'azzurro porcellana. E il letto aveva una trapunta di raso avorio, pensò, e avevamo un tappeto azzurro sul pavimento. Meccanicamente si asciugò e infilò un accappatoio di spugna. La camera da letto era fredda e ormai scura per l'ombra pomeridiana. Per precauzione, mise la sveglia alle quattro e mezza, prima di sprofondare nel sonno. Voci irate... coperte tirate sopra la testa... quel rumore forte... un altro rumore forte... i suoi piedi nudi che scendevano le scale silenziosamente... Il suono insistente della sveglia la destò. Si passò la mano sulla fronte cercando di richiamare quel sogno indistinto. Forse era stata la carta da parato a mettere in moto qualche meccanismo nella sua testa. Oh, Dio, se non ci fosse stata la sveglia. Però si sta avvicinando, pensò. La verità viene ogni volta più vicina...
Lentamente si alzò e si avvicinò alla toeletta del guardaroba. Uno scricchiolio nel corridoio la fece girare su se stessa, portandosi le mani alla gola. Ma, naturalmente, era solo un rumore di assestamento della casa. Alle cinque in punto, Lila Thatcher suonò il campanello. Ferma nel vano della porta, con le sue guance rosee e i capelli bianchi, pareva un elfo. Aveva un'aria festosa con il suo visone selvaggio e un mazzolino natalizio appuntato sul collo a scialle. «Abbiamo tempo per un bicchierino di sherry?» chiese Pat. «Credo di sì.» Lila lanciò un'occhiata nell'atrio, allo snello tavolo di marmo di Carrara e allo specchio con la cornice di marmo, che lo accompagnava. «Mi sono sempre piaciuti questi oggetti. Sono felice di rivederli.» «Lei sa.» Era un'affermazione. «L'ho pensato l'altra sera.» Aveva messo una caraffa di sherry e un piatto di pastine sul tavolino. Lila si fermò sulla soglia del soggiorno. «Sì», disse, «ha fatto un ottimo lavoro. Naturalmente, è passato tanto tempo, ma è come lo ricordavo. Quello splendido tappeto, quel divano. Persino i quadri», mormorò. «Non c'è da meravigliarsi che io mi sia sentita turbata. Pat, è sicura che sia stata una decisione saggia quella di ritornare?» Si sedettero e Pat versò lo sherry. «Non so se è stata saggia, ma so che è necessaria.» «Quanto ricorda?» «Qualche frammento, sensazioni. Niente che combini con il resto.» «Io telefonavo spesso all'ospedale per avere sue notizie. È rimasta in coma per mesi. Quando la trasferirono, ci fecero capire che, se per caso se la fosse cavata, avrebbe riportato lesioni permanenti. E poi invece leggemmo sul giornale la notizia della sua morte.» «Veronica... la sorella di mia madre e suo marito mi adottarono. La nonna non voleva che lo scandalo mi accompagnasse... o accompagnasse loro.» «E per questo hanno cambiato anche il suo nome di battesimo?» «Il mio nome è Patricia Kerry. Penso che Kerry fosse un'idea di mio padre. Patricia era il nome di mia nonna. Decisero che, cambiandomi il cognome, avrebbero potuto mantenere almeno il mio primo nome.» «Così Kerry Adams è diventata Patricia Traymore. Che cosa spera di trovare qui?» Lila bevve un sorso di sherry, poi posò il bicchiere. Pat si alzò, irrequieta e si avvicinò al pianoforte. Meccanicamente tese le mani verso la tastiera, poi le ritrasse.
Lila l'osservava. «Suona?» «Solo come passatempo. Un hobby.» «Sua madre suonava molto spesso, lo sa.» «Sì. Veronica mi ha raccontato di lei. Vede, all'inizio volevo solo capire che cosa fosse accaduto qui. Poi ho capito che i miei ricordi mi hanno fatto odiare mio padre: l'ho odiato per il male che mi ha fatto, perché mi ha tolto mia madre. Credo di aver sperato di trovare qualche indizio di una sua malattia o depressione... non so. Ma adesso, via via che comincio a ricordare qualche particolare, capisco che c'è qualcos'altro. Io non sono la stessa persona che avrei avuto modo di diventare se...» Con un gesto indicò il punto in cui erano stati trovati i corpi. «...se tutto questo non fosse accaduto. Ho bisogno di collegare la bambina che ero con la persona che sono. Qualche parte di me è rimasta qui e io l'ho persa. Ho tante di quelle idee preconcette... mia madre era un angelo, mio padre un demonio. Veronica ha spesso insinuato che mio padre distrusse la carriera musicale di mia madre e poi la sua vita. Ma per parte sua lei sposò un uomo politico e poi rifiutò di condividerne la vita. Era onesto questo? Quanto, con la mia presenza, ho catalizzato ciò che non andava tra loro? Veronica mi ha detto una volta che questa casa era troppo piccola. Quando mia madre tentava di tenersi in esercizio suonando, io mi svegliavo e cominciavo a piangere.» «Catalizzato», disse Lila. «È esattamente quello che temo lei stia facendo, Pat. Mette in moto delle cose che è meglio dimenticare.» La stava studiando: «Sembra che sia guarita molto bene dalle ferite». «È stato necessario molto tempo. Quando finalmente uscii dal coma, mi dovettero insegnare tutto dall'inizio. Non capivo le parole. Non sapevo usare una forchetta. Fino a sette anni ho portato un apparecchio per la gamba.» Lila si accorse di avere molto caldo. Solo un attimo prima aveva sentito freddo. Non volle analizzare il motivo di quel cambiamento: sapeva soltanto che quella stanza non aveva ancora completato la sua funzione di teatro di una tragedia. Si alzò. «È meglio che non facciamo aspettare l'ambasciatore», disse con vivacità. Scorgeva nel viso di Pat gli zigomi e la bocca sensibile di Renée, gli occhi distanti tra loro come quelli di Dean e i capelli ramati di lui. «Benissimo, Lila, mi ha studiato abbastanza», disse Pat. «A quale dei miei genitori assomiglio?» «A tutti e due», rispose Lila con sincerità, «ma mi sembra che abbia pre-
so di più da suo padre.» «Dio mio, non tutto, spero», ribatté Pat, ma il suo disperato tentativo di sorridere si risolse in un fiasco. 19 Ben nascosto all'ombra degli alberi e dei cespugli, Arthur osservava Pat e Lila attraverso la portafinestra della terrazza. Era stato molto deluso vedendo le luci in casa e la macchina sul viale. Forse non avrebbe potuto cercare la bambola quella sera e voleva a tutti i costi che Glory l'avesse per Natale. Tentò di sentire quello che le due donne stavano dicendo, ma non riuscì ad afferrare più di qualche parola. Erano entrambe vestite elegantemente. Era possibile che uscissero? Decise di aspettare. Con avidità, studiò il viso di Patricia Traymore. Era così seria, aveva un'aria così turbata. Che cominciasse a dare ascolto ai suoi avvertimenti? Per il suo bene, sperava che fosse così. Era lì a osservarle solo da pochi minuti, quando si alzarono. Stavano veramente uscendo. Strisciò silenziosamente lungo il fianco della casa e un minuto dopo sentì il rumore del portone che si apriva. Non presero la macchina. Probabilmente non andavano lontano, a casa di un vicino o in un ristorante dei dintorni. Avrebbe dovuto sbrigarsi. Tornò rapidamente sulla terrazza. Patricia Traymore aveva lasciato accese le luci del soggiorno, sicché poté vedere le grosse serrature nuove alla portafinestra. Anche se avesse tagliato un vetro non sarebbe riuscito a entrare in casa. Ma l'aveva previsto e aveva pensato al da farsi. C'era un olmo vicino alla terrazza, un olmo sul quale sarebbe stato facile arrampicarsi. Un grosso ramo passava proprio sotto una delle finestre del piano superiore. La notte in cui aveva lasciato la bambola aveva notato che la finestra non chiudeva bene nella parte superiore. Si curvava, come se non fosse agganciata a dovere. Sarebbe stato facile forzarla. Qualche minuto dopo, scavalcò il davanzale ed entrò. Rimase un momento in ascolto. La camera gli dava una sensazione di vuoto. Cautamente, accese la torcia elettrica che aveva portato con sé. La camera era vuota ed egli aprì la porta che dava sul corridoio. Era sicuro di essere solo in casa. Da dove doveva cominciare le ricerche? Stava affrontando tante seccature per via di quella bambola. Per poco non l'avevano sorpreso mentre prendeva la fiala di sangue nel laboratorio alla casa di cura. Aveva dimenticato quanto Glory amasse la bambola, e
ogni volta che, in punta di piedi, era entrata nella sua camera per accertarsi che dormisse tranquillamente l'aveva trovata con la bambola stretta tra le braccia. Gli sembrava incredibile trovarsi in quella casa per la seconda volta in una settimana. Il ricordo del mattino di tanto tempo prima era ancora così vivo: l'ambulanza, tutte le luci accese, le sirene spiegate, i pneumatici che stridevano sul viale. Il marciapiede pieno di gente, vicini con cappotti frettolosamente infilati sugli accappatoi o sulle camicie da notte; le macchine della polizia che ostruivano N Street; poliziotti dappertutto. Una donna che urlava: la donna delle pulizie che aveva scoperto i corpi. Si erano precipitati nella casa, lui e il suo collega infermiere appena scesi dall'ambulanza partita dall'ospedale di Georgetown. Sulla porta c'era di guardia un giovane poliziotto. «Non vi affrettate. Ormai non hanno bisogno di voi.» L'uomo, supino, una pallottola nella tempia, doveva essere morto sul colpo. La rivoltella era tra il suo corpo e quello di lei. La donna era caduta in avanti e il sangue uscito dalla ferita nel petto aveva macchiato il tappeto tutto intorno. Aveva gli occhi aperti, fissi, come se si domandasse che cosa stesse succedendo. Non poteva avere più di trent'anni: i capelli scuri sparsi sulle spalle, il viso sottile, naso piccolo e zigomi alti. Un negligé di seta gialla fluttuava intorno a lei come un vestito da sera. Lui era stato il primo a chinarsi sulla bambina. I capelli ramati della piccola erano così intrisi di sangue rappreso da apparire molto più rossi; la gamba destra scomposta innaturalmente sotto la camicina da notte a fiorellini rivelava l'osso spezzato di una frattura esposta. Lui si era chinato ancor più vicino. «È viva», aveva bisbigliato. «Presto, la flebo.» Avevano velocemente appeso un flacone di sangue; premuto una maschera per l'ossigeno sul piccolo viso immobile; steccato provvisoriamente la gamba fratturata. Lui le aveva bendato la testa, le sue dita le avevano lisciato la fronte mentre i riccioli della bambina gli si avvolgevano sulle dita. Qualcuno aveva detto che si chiamava Kerry. «Se questa è la volontà di Dio, io ti salverò, Kerry», aveva mormorato a voce bassa. «Non può farcela», aveva detto il medico brusco, spingendolo da parte. I fotografi della polizia scattavano fotografie alla bambina e ai cadaveri. Segni di gesso sul tappeto indicavano la posizione dei corpi. In quel momento aveva avuto per la prima volta la sensazione che quella casa fosse un luogo pervaso dal peccato, dal male, un luogo dove due esseri innocenti, una giovane donna e la sua bambina, avevano subito una deli-
berata violenza. Aveva indicato la casa a Glory una volta, raccontandole ciò che era successo quel mattino. La piccola Kerry era rimasta per due mesi in rianimazione all'ospedale di Georgetown. Lui era andato a trovarla tutte le volte che gli era stato possibile. Non si svegliava, rimaneva immobile come una bambola addormentata. Quando si era convinto che non si sarebbe salvata e aveva cercato, per il suo bene, di trovare il sistema per consegnarla al Signore, la bambina era stata trasferita in una clinica per lunghe degenze vicino a Boston e dopo un certo periodo gli era giunta notizia della sua morte. Dopo aver focalizzato con il pensiero quei ricordi angosciosi Arthur, prima di ritornare al presente, visualizzò per un attimo una scena della sua infanzia: sua sorella aveva una bambola. «Lascia che ti aiuti a curarla», pregava lui. «Facciamo finta che sia malata e che io la guarisca.» La mano pesante, callosa del padre gli era calata sul viso. Aveva cominciato a uscirgli il sangue dal naso. «Guarisci questo, femminuccia!» Cominciò a cercare la bambola di Glory nella camera da letto di Pat Traymore. Aprì l'armadio a muro e cominciò a esaminare i ripiani e il pavimento, ma la bambola non c'era. Sempre più irritato osservò i bei vestiti costosi, le camicette di seta e le belle vestaglie appesi nell'armadio. Quegli abiti, quei completi erano del genere che si vedono nella pubblicità dei negozi. Glory era quasi sempre in jeans e pullover e li comprava ai grandi magazzini più a buon mercato. Gli ospiti della casa di cura stavano spesso in camicia da notte di flanella ed enormi vestaglioni che infagottavano i loro corpi sformati. Una delle vestaglie di Patricia Traymore lo colpì: era una tunica di lana marrone con cintura intrecciata e gli ricordò una tonaca da monaco. La tirò fuori dall'armadio e se l'appoggiò addosso. Poi si mise a frugare nei cassetti sotto la toeletta; ma anche qui la bambola non c'era. Anche se non era stata buttata via non poteva certo essere nella camera da letto. Non poteva perdere tanto tempo. Diede un'occhiata negli armadi a muro delle altre camere vuote e scese a pianterreno. Patricia Traymore aveva lasciato accesa sia la luce dell'ingresso sia una piccola lampada della biblioteca e alcuni faretti del soggiorno... aveva persino lasciate accese le lampadinette dell'albero di Natale. Era una stupida sprecona, pensò irato. Non era giusto consumare inutilmente tanta energia quando c'erano dei vecchi che non potevano neppure permettersi il lusso di riscaldarsi la casa. E l'albero era già secco. Se una fiamma lo avesse sfiorato, avrebbe preso fuoco e i rami avrebbero cominciato a crepitare e le candeline appese a sciogliersi.
Una delle decorazioni era caduta dall'albero. Lui la raccolse e la riappese a un ramo. Nel soggiorno non esisteva alcun luogo che permettesse di nascondere la bambola. La biblioteca fu l'ultima stanza nella quale si mise a cercare. I classificatori erano chiusi a chiave... probabilmente era lì che l'aveva messa. Poi notò lo scatolone stivato in fondo, sotto il tavolo. Dovette faticare per tirarlo fuori, ma quando lo aprì il cuore gli balzò in petto dalla gioia. La preziosa bambola di Glory era lì. Il grembiule veramente mancava, ma non poteva perdere altro tempo per quello. Riattraversò tutte le camere, cercando con attenzione qualche traccia della sua presenza. Non aveva acceso né spento nessuna luce e non aveva toccato neppure una porta. Aveva molta esperienza grazie al lavoro che svolgeva nella casa di cura. Naturalmente, se Patricia Traymore avesse cercato la bambola, avrebbe capito che qualcuno era entrato in casa. Ma lo scatolone era stato messo in un luogo non facilmente accessibile e forse per un bel pezzo non si sarebbe accorta che era stato toccato. Sarebbe uscito da dove era entrato, dalla finestra della camera da letto del piano di sopra. Patricia Traymore non dormiva in quella stanza e probabilmente passavano giornate intere senza che ci desse un'occhiata. Era entrato in casa alle cinque e un quarto. L'orologio della chiesa vicina all'università suonava le sei mentre lui scivolava lungo il tronco dell'olmo, furtivamente attraversava il giardino davanti alla casa e scompariva nel buio. La casa dell'ambasciatore era grandissima. Le pareti bianche e luminose costituivano uno splendido fondale per la sua ricchissima collezione d'arte. I divani comodi, dai preziosi rivestimenti, e i tavoli antichi di epoca georgiana attrassero l'attenzione di Pat. Di fronte alla portafinestra che dava sulla terrazza c'era un enorme albero di Natale con decorazioni d'argento. La tavola della sala da pranzo offriva un elaborato buffet: caviale e storione, un prosciutto della Virginia, tacchino in gelatina, piccoli panini caldi e insalate. Due camerieri riempivano discretamente di champagne i bicchieri degli ospiti. L'ambasciatore Cardell, piccolo, curato e con i capelli bianchi, accolse Pat con raffinata cortesia e la presentò a sua sorella, Rowena Van Cleef, che viveva adesso con lui. «La sua sorellina», disse la signora Van Cleef a Pat, ammiccando: «ho solo settantaquattro anni; Edward ne ha ottantadue.»
Doveva esserci una quarantina di persone. A bassa voce, Lila indicò a Pat le più famose. «L'ambasciatore inglese e sua moglie, Sir John e Lady Clemens... l'ambasciatore francese... Donald Arlen... sta per essere nominato presidente della World Bank... il generale Wilkins è quello alto vicino al camino... sta per assumere il comando della NATO... il senatore Whitlock... ma quella con lui non è sua moglie...» Pat fu presentata a tutti i vicini e fu sorpresa di scoprire che era al centro dell'attenzione: si era scoperto qualche cosa rispetto alle persone penetrate in casa sua? Era vero che il presidente aveva deciso di nominare alla vicepresidenza la senatrice Jennings? Era facile lavorare con la senatrice? Il programma veniva interamente registrato in anticipo? Una valanga di domande aspettavano che Pat desse qualche chiarimento. Gina Butterfield, la columnist del Washington Tribune, si era avvicinata e ascoltava avidamente. «È talmente strano che qualcuno sia entrato in casa sua e abbia lasciato un biglietto di minacce», osservò. «Naturalmente, lei non lo ha preso sul serio.» Pat cercò di apparire disinvolta: «Crediamo tutti che sia opera di un pazzo. Mi dispiace che gli sia stata data tanta importanza. Mi sembra sleale nei confronti della senatrice». La columnist sorrise: «Mia cara, questa è Washington. Lei si renderà certamente conto che è difficile ignorare una notizia così ghiotta; mi sembra molto ottimista rispetto all'accaduto, ma se io fossi nei suoi panni non mi sentirei affatto tranquilla se qualcuno mi entrasse in casa e mi minacciasse di morte». «Soprattutto in quella casa», rincarò un altro. «Le hanno raccontato della tragedia della famiglia Adams, che avvenne appunto in quella casa?» Pat fissava le bollicine dello champagne nel suo bicchiere. «Sì, sono al corrente di quella storia, ma è stato molto tempo fa, non è vero?» «Dobbiamo proprio parlare di questo argomento?» interruppe Lila. «È la vigilia di Natale.» «Un momento», disse Gina Butterfield rapida. «Adams. Il deputato Adams. Intende dire che Pat vive nella casa in cui il deputato si suicidò? Come mai la stampa non se n'è accorta?» «Che nesso vuole che ci sia con le minacce che ha ricevuto?» sbottò Lila. Pat sentì che la vecchia signora le toccava un braccio per metterla in guardia. Forse l'espressione del suo viso era troppo eloquente?
L'ambasciatore si fermò vicino al loro gruppo. «Per favore, servitevi», li incoraggiò. Pat si voltò per seguirlo verso il tavolo, ma la domanda che la Butterfield stava rivolgendo a un'altra invitata la bloccò. «Lei viveva a Georgetown all'epoca della tragedia?» «Sì, certo», rispose la donna. «A solo due case di distanza, mia madre era ancora viva e conoscevamo la coppia degli Adams piuttosto bene.» «È successo prima che io venissi a Washington», spiegò la giornalista, «ma naturalmente ne ho sentito parlare. È vero che tutta la verità non è mai venuta a galla?» «Certo che è vero.» Le labbra della vicina si schiusero in un sorriso saputo. «La madre di Renée, la signora Schuyler, si dava arie da gran dama a Boston. Disse ai giornalisti che Renée aveva capito che il suo matrimonio era stato uno sbaglio e che progettava di divorziare.» «Pat, andiamo a prenderci qualche cosa da mangiare?» Lila cercò di trascinarla più in là. «Ma stava davvero per divorziare?» chiese Gina. «Ne dubito», ringhiò l'altra. «Era pazza di Dean, pazzamente gelosa di lui, odiava a morte il suo lavoro. Ai ricevimenti era una nullità, non apriva mai bocca, l'unica cosa che la interessava era quel dannato pianoforte che suonava per otto ore al giorno! Quando iniziava non smetteva più, c'era da impazzire ad ascoltarla. E, mi creda, non era proprio Rubinstein.» Io non ci credo, pensò Pat. Non voglio crederci. Che cosa stava chiedendo, adesso, la columnist? Qualche cosa che riguardava suo padre. «Era così affascinante, tutte le donne gli correvano appresso.» La vicina si strinse nelle spalle. «Io avevo solo ventitré anni, allora, e mi ricordo che avevo preso una cotta tremenda per lui. La sera, Dean Adams aveva l'abitudine di portare a spasso la piccola Kerry, e io cercavo in ogni modo di incontrarlo e salutarlo con qualche scusa stupida, naturalmente senza alcun risultato.» «Si vedeva che il deputato Adams era mentalmente instabile?» chiese Gina. «No, per niente. Fu sua suocera a mettere in giro quella voce e sapeva quel che faceva. Pensi che sull'arma furono trovate le impronte di tutti e due. Mia madre e io abbiamo sempre pensato che doveva essere stata Renée a perdere le staffe e a sparare e per quanto riguarda quello che accadde a Kerry... Stia a sentire, quelle mani ossute da pianista avevano una forza spaventosa. Non sono davvero sicura che non sia stata lei a colpire quella
povera bambina, quella sera.» 20 Sorseggiando una birra chiara, Sam guardava fisso qua e là, senza scopo, tra la folla del Circolo del Tennis di Palm Springs. Voltò la testa, lanciò un'occhiata alla figlia e sorrise. Karen aveva ereditato i colori della madre; l'intensa abbronzatura faceva solo sembrare più chiari i capelli. Teneva la mano appoggiata sul braccio del marito. Thomas Walton Snow junior era un tipo molto simpatico, un buon marito, un uomo d'affari di successo. La sua famiglia era troppo noiosamente mondana per i suoi gusti ma Sam si sentiva felice nel rendersi conto che la figlia aveva fatto un buon matrimonio. Fin dal suo arrivo, Sam era stato circondato di attenzioni e presentato a parecchie belle donne sulla quarantina: vedove, divorziate, donne di carriera, tutte intenzionate a scegliersi un uomo per il resto della loro vita. E questo serviva solo a fargli sentire più intensamente una crescente irrequietezza e la fastidiosa sensazione di non far parte di niente, di non essere importante per nessuno. Di che diavolo faceva parte? Di Washington. Ecco di che cosa. Era bello stare con Karen, ma semplicemente a lui non gliene importava un accidente di tutte le altre persone da cui era circondato, anche se sua figlia le trovava tanto interessanti. Mia figlia ha ventiquattro anni, pensò. È felicemente sposata e aspetta un bambino. Io però non voglio esser presentato a tutte le donne accessibili che hanno passato i quarant'anni che vivono a Palm Springs. «Papà, per piacere, non potresti cambiare quell'espressione accigliata?» Karen si chinò attraverso il tavolo, lo baciò e si risistemò sulla sedia, con il braccio di Tom che le circondava le spalle. Sam guardò i visi vivaci, in attesa, dei familiari di Tom, un altro giorno o poco più e avrebbero cominciato a essere annoiati della sua presenza. Sarebbe diventato un ospite difficile. «Dolcezza», disse a Karen con una voce che lasciava presupporre l'arrivo di qualche confidenza, «mi hai chiesto se credevo possibile che il presidente nominasse alla vicepresidenza la senatrice Jennings, e ti ho detto che non lo sapevo. Voglio essere sincero: credo che andrà proprio così.» Tutti gli occhi dei presenti di colpo furono puntati su di lui. «Domani sera la senatrice organizza una cena di Natale a casa sua; pro-
babilmente ne vedrete qualche scena nel programma televisivo che la riguarda. Lei vorrebbe che io fossi presente e, se non vi dispiace, credo proprio che sia necessario che io accetti l'invito.» Tutti furono comprensivi e il suocero di Karen per aiutarlo gli procurò velocemente un orario. Partendo la mattina dopo da Los Angeles con il volo delle otto, Sam poteva arrivare al National Airport alla quattro e mezza, ora locale della costa orientale. Doveva essere interessante presenziare a una cena ripresa dalla televisione e tutti furono concordi sul parere di Sam rispetto alla necessità di esserci, per parte loro avrebbero senz'altro guardato il servizio alla televisione. Solo Karen stava zitta. Poi, ridendo, osservò: «Papà, smettila di dir balle. La verità è che la senatrice Jennings ha messo gli occhi su di te!» 21 Alle nove e un quarto, Pat e Lila si allontanarono in silenzio dalla festa dell'ambasciatore. Fu solo quando furono davanti alle loro case che Lila disse piano: «Pat, non so dirle quanto mi dispiace!» «Quanto, di ciò che ha detto quella donna, era vero e quanto era esagerazione? Devo saperlo.» Le frasi sentite continuavano a passarle per la mente: nevrotica... lunghe dita ossute... Noi pensiamo che fu lei a colpire quella povera bambina... «Davvero ho bisogno di sapere quanto c'è di vero», ripeté. «Pat, quella donna è pettegola e maligna. Sapeva perfettamente quello che faceva quando ha iniziato a ricordare il passato di quella casa con quella giornalista del Washington Tribune.» «Si sbaglia, naturalmente», disse Pat, la voce inespressiva. «Si sbaglia?» Erano davanti al cancello di Lila. Pat guardò la sua casa, dall'altro lato della strada. Benché avesse lasciato parecchie luci accese a pianterreno, pareva lontana e cupa. «Vede, c'è una cosa che sono sicurissima di ricordare. Quando attraversai di corsa l'atrio ed entrai nel soggiorno quella notte, inciampai nel corpo di mia madre.» Si volse verso Lila. «Perciò capisce che cosa mi hanno fatto pensare le parole udite stasera: che a quanto pare avevo una madre nevrotica che, evidentemente, mi riteneva una seccatura e un padre impazzito che ha cercato di uccidermi. Davvero un bel quadretto familiare, non le pare?» Lila non rispose. Quel vago presentimento che l'aveva infastidita stava
diventando ora più insistente e più chiaro. «Oh, Kerry, vorrei proprio aiutarla.» Pat le strinse la mano. «Mi sta aiutando, Lila», disse. «Buona notte.» Nella biblioteca, la segreteria telefonica lampeggiava. Pat riavvolse il nastro. C'era una sola telefonata. «Sono Luther Pelham. Sono le sette e venti. È urgente. A qualsiasi ora rientri chiamami a casa della senatrice Jennings, 703/555.0143. È assolutamente necessario che ci vediamo stasera.» La bocca di colpo secca, Pat formò il numero. Occupato. Le ci vollero altri tre tentativi prima di avere la comunicazione. Rispose Toby. «Sono Pat Traymore, Toby. Che cosa c'è che non va?» «Un sacco di cose. Dove si trova adesso?» «A casa.» «Va bene. Fra dieci minuti verrà a prenderla una macchina. Il signor Pelham mi ha ordinato di riferirle che ha assoluto bisogno di vederla.» «Questo lo so già, ma che cosa c'è che non va?» «Signorina Traymore, forse c'è qualche cosa che dovrà spiegare alla senatrice.» E riagganciò. Mezz'ora dopo, la macchina della rete televisiva, mandata da Luther, la depositava davanti all'abitazione della senatrice Jennings, a McLean. Durante il percorso, Pat si era lambiccata il cervello con un'infinità di supposizioni, ma tutti i suoi pensieri conducevano alla stessa agghiacciante conclusione: doveva essere successo qualcosa di nuovo che aveva sconvolto o messo in imbarazzo la senatrice, e di qualsiasi cosa si trattasse la colpa sarebbe stata sua. Le aprì la porta Toby, aveva il viso scuro e la guidò, senza proferire parole, nella biblioteca. Figure silenziose erano sedute intorno al tavolo come in un consiglio di guerra e l'atmosfera contrastava stranamente con le poinsezie fiorite ai lati del camino. Glacialmente calma, il viso impenetrabile, la senatrice Jennings la trafisse con lo sguardo. Philip era alla sua destra, le lunghe ciocche sottili e incolori dei suoi capelli erano scompigliate. Luther Pelham aveva gli zigomi venati di viola, e pareva sull'orlo di un infarto. Questo non è un tribunale, pensò Pat, questa è l'Inquisizione. La mia colpevolezza è già stata decisa. Ma per che cosa? Senza offrirle di acco-
modarsi, Toby lasciò cadere la sua pesante mole nell'ultima sedia rimasta libera intorno al tavolo. «Senatrice», disse Pat, «capisco che è successo qualcosa di terribile e che ha a che fare con me, ma vorrei che qualcuno, per favore, fosse disposto a dirmi di che cosa si tratta.» C'era un giornale in mezzo al tavolo. Con uno strattone Philip lo spinse verso di lei. «Da chi hanno avuto questa fotografia?» chiese freddamente. Pat abbassò lo sguardo sulla copertina del National Mirror. Il titolo diceva: MISS APPLE JUNCTION SARÀ LA PRIMA DONNA V.P.? La fotografia, che occupava tutta la copertina, rappresentava Abigail con la fascia di Miss Apple Junction insieme con la madre. L'ingrandimento rivelava ancor più spietatamente le dimensioni enormi di Francey Foster. Masse carnose premevano contro la stoffa del suo vestito di cattiva fattura. Nel braccio che circondava Abigail il grasso scavava solchi e fossette; il sorriso pieno di orgoglio serviva solo a mettere in risalto il doppio mento. «Ha già visto questa fotografia?» domandò Philip. «Sì.» Dev'essere orribile per la senatrice, pensava intanto. Ricordò che Abigail aveva dichiarato con durezza di aver impiegato più di trent'anni nel tentativo di lasciarsi Apple Junction alle spalle. Ignorando gli altri, Pat si rivolse direttamente a lei. «Immagino che sia impossibile per lei credere nella mia estraneità in questa faccenda.» «Stia a sentire, signorina Traymore», rispose Toby, «non si scomodi a dire bugie. Io ho scoperto che era andata in giro a ficcare il naso ad Apple Junction, ripescando anche vecchi numeri del giornale locale ed ero a casa sua il giorno che ha telefonato Saunders.» Nessuna nota di ossequiosità era presente in quel momento nella voce di Toby. «Ho detto alla senatrice che sei andata ad Apple Junction contro la mia esplicita volontà», tuonò Luther. Pat raccolse il messaggio: non doveva lasciarsi sfuggire con la senatrice che lui, Luther, aveva acconsentito al suo viaggio nella cittadina natale di Abigail. «Senatrice», cominciò, «mi rendo conto di come lei deve sentirsi...» L'effetto delle sue parole fu esplosivo. Abigail balzò in piedi: «Ah, davvero, si rende conto? Credevo di essere stata abbastanza chiara, ma lasci che glielo spieghi di nuovo. Ho odiato ogni minuto della mia vita in quella fetida città. Luther e Toby mi hanno finalmente informata su quello che lei è andata a fare là, quindi so che ha visto Jeremy Saunders. Che cosa le ha
detto quell'inutile parassita? Che dovevo passare dalla porta di servizio e che mia madre era la cuoca? Scommetto che le ha detto questo, non è vero? «Io credo proprio che sia stata lei a far pubblicare questa fotografia, Patricia Traymore. E so anche perché l'ha fatto. Lei è decisa a tracciare sul mio conto un ritratto di un certo tipo, a lei piacciono le storie di Cenerentola. Nelle lettere che mi aveva scritto era facilmente intuibile. E quando sono stata così deficiente da lasciarmi persuadere ad accettare questo programma, ha deciso che andava fatto secondo il suo stile personale in modo che tutti avrebbero, in seguito, potuto parlare del tocco così commovente di Patricia Traymore. E non ha nessuna importanza che questa sua determinazione possa costarmi il prezzo per cui ho lavorato tutta una vita». «Questo vuol dire che siete convinti del fatto che avrei diffuso questa fotografia perché può servire alla mia carriera?» Pat teneva gli occhi fissi sui presenti. «Luther, la senatrice ha già visto la sceneggiatura?» «Sì, l'ha vista.» «E la sceneggiatura che ti ho proposto in alternativa?» «Quella scordatela.» «Quale sceneggiatura alternativa?» chiese Philip. «Quella che ho scongiurato Luther di usare... e vi assicuro che non c'è la minima traccia del concorso di bellezza, né vi ho inserito la relativa fotografia. Senatrice, in un certo senso lei ha ragione. Vorrei realizzare questo servizio a modo mio, ma per un motivo diverso da quello che crede: solo perché io l'ammiro sinceramente. Quando le ho scritto, non sapevo ancora della probabilità che lei venisse presto nominata vicepresidente, ma guardavo ancora più in là: speravo che l'anno prossimo potesse essere un avversario importante alla nomination presidenziale.» S'interruppe per riprendere fiato, poi proseguì impetuosamente: «Vorrei che lei andasse a ripescare la prima lettera che le ho scritto. Pensavo sul serio quello che dicevo. L'unico suo problema è che il pubblico americano la considera fredda e distante. Questa fotografia è un buon esempio. Naturalmente lei se ne vergogna. Ma guardi l'espressione sul viso di sua madre. È così orgogliosa di lei! È grassa... è forse questo che le dà fastidio? Milioni di persone sono sovrappeso e nella generazione di sua madre molte persone anziane lo erano. Perciò, se io fossi lei, quando le fanno delle domande, direi a chiunque che quello era uno dei primi concorsi di bellezza e che lei ha deciso di parteciparvi unicamente perché sapeva quanto sarebbe stata felice sua madre se avesse vinto. Non c'è madre al mondo che non
l'apprezzerà per questo. Luther può farle vedere gli altri miei suggerimenti per il programma. Ma io posso dirle questo: se non sarà nominata vicepresidente, non sarà direttamente per colpa di quella fotografia; ma per le sue reazioni a essa e perché si vergogna delle sue origini. «Ora desidero tonare a casa», concluse. Poi, gli occhi fiammeggianti, si rivolse a Luther: «Puoi telefonarmi domani mattina per farmi sapere se ti interessa ancora la mia partecipazione a questo programma. Buona notte, senatrice». Si voltò per andarsene. La voce di Luther la fermò: «Toby, alza il culo da quella sedia e prepara del caffè. Pat, siediti e cerchiamo di sistemare questo casino». Era l'una e mezzo quando Pat tornò a casa. Indossò camicia da notte e vestaglia, si preparò un tè, lo portò in soggiorno e si raggomitolò sul divano. Fissando l'albero di Natale, rifletté sugli avvenimenti della giornata. Se doveva credere a Catherine Graney, tutte le chiacchiere sul grande amore tra Abigail e Willard Jennings erano bugie. Se doveva credere a quello che aveva sentito al ricevimento dell'ambasciatore, sua madre era una nevrotica. Se doveva credere alla senatrice Jennings, tutto quello che le aveva detto Jeremy Saunders era falso. Doveva essere stato lui a mandare la fotografia di Abigail al Mirror. Era esattamente il genere di meschinità di cui pareva esser capace. Bevve l'ultimo sorso di tè e si alzò. Era inutile continuare a pensarci. Avvicinandosi all'albero di Natale, tese la mano per spegnere le piccole lampadine colorate, poi si fermò. Mentre stava prendendo lo sherry con Lila, le pareva di aver notato che una delle decorazioni era scivolata dal ramo ed era caduta per terra. Mi sarò sbagliata, pensò. Si strinse nelle spalle e andò a letto. 22 Alle nove e un quarto della mattina di Natale, Toby era fermo davanti ai fornelli nella cucina di Abigail Jennings, in attesa che il caffè fosse pronto. Sperava di riuscire a bersene una tazza prima che arrivasse Abigail. La conosceva da quando era bambino, pensò, ma quello era un giorno in cui non avrebbe saputo prevederne assolutamente l'umore. La sera prima era stata estremamente pesante. Solo in altre due occasioni aveva visto Abigail così
sconvolta e non si sarebbe mai permesso di far riferimento a nessuna delle due. Dopo che Pat Traymore se n'era andata, Abby, Pelham e Phil erano rimasti ancora un'ora seduti intorno al tavolo, nel tentativo di decidere il da farsi. O meglio, Abby aveva aggredito Pelham, dicendogli una dozzina di volte che la sua opinione era che Pat Traymore lavorava sicuramente per Claire Lawrence, la sua diretta avversaria e che forse anche lui, in realtà, faceva la stessa cosa. Anche rispetto alle sue abitudini Abby aveva ecceduto, e Toby era rimasto strabiliato dal fatto che Pelham l'avesse permesso. In seguito Phil gli aveva dato la sua spiegazione: «Senti, è il personaggio più importante del paese nel campo dei notiziari televisivi. È diventato ricchissimo. Ma ha sessant'anni ed è stanco, probabilmente il suo sogno è diventare un altro Edward R. Murrow. Murrow ha concluso la sua carriera come capo dell'USIS e Pelham desidera quel posto con tanta intensità che già ne sente il sapore: un enorme prestigio e niente più preoccupazioni per gli indici di gradimento. La senatrice può fargli questo regalo se lui le sarà utile. Pelham sa che lei ha il diritto di alzare la voce a proposito di questo programma e glielo permette». Toby, alla fine, si trovò per forza d'accordo con l'opinione di Pelham. Che lo si volesse o no, il danno ormai era fatto; quindi o si partiva dall'idea di includere nel programma Apple Junction e il concorso di bellezza o il programma stesso sarebbe risultato una farsa. «Non puoi ignorare il fatto che sei sulla copertina del National Mirror», continuava a dire Pelham ad Abby. «Ci sono quattro milioni di persone che lo leggono e lo passano o lo raccontano a Dio sa quante altre. Quella fotografia verrà ripresa da tutte le riviste scandalistiche degli Stati Uniti. Devi decidere che cosa hai intenzione di dir loro in proposito.» «Di dir loro?» aveva gridato Abby. «Dirò loro la verità: mio padre era un ubriacone e l'unica cosa decente che abbia mai fatto in vita sua è stata quella di morire quando io avevo sei anni. Poi posso dire che la mia grassa madre aveva la mentalità di una sguattera e che la sua maggiore ambizione nei miei confronti era che io fossi Miss Apple Junction e diventassi una buona cuoca. Non credi che sono esattamente le origini che un vicepresidente dovrebbe avere?» Aveva pianto lacrime di rabbia e Abigail non era certo il tipo che aveva le lacrime in tasca. Toby ricordava solo quelle rare occasioni... Anche lui aveva detto la sua: «Abby, stia a sentire me. Il bidone con la
foto di Francey oramai gliel'hanno dato, perciò adesso deve farsi forza e accettare la proposta di Pat Traymore». Così l'aveva calmata. Di lui si fidava. Udì i passi di Abigail nell'atrio. Era ansioso di vedere come si era vestita. Pelham aveva approvato il fatto che la senatrice era decisa a farsi vedere per la funzione di Natale nella cattedrale, con addosso qualcosa di fotogenico ma non troppo lussuoso. «Lascia a casa il visone», aveva detto. «Buon giorno Toby, e buon Natale.» Il tono era sarcastico, ma controllato. Anche prima di voltarsi, Toby sapeva che Abby aveva ripreso il suo sangue freddo. «Buon Natale, senatrice.» Con una mezza piroetta si voltò. «Ehi, ha un ottimo aspetto.» Indossava un tailleur da passeggio a doppio petto rosso vivo, con la giacca lunga che le arrivava sopra il ginocchio e la gonna pieghettata. «Assomiglio a uno degli aiutanti di Babbo Natale», ringhiò lei, ma anche se la voce era aspra vi si intuiva un che di scherzoso. Prese la tazza e l'alzò in un brindisi: «Porteremo a buon fine anche questa, no, Toby?» «Può scommetterci!» La stavano aspettando, fuori della cattedrale. Appena Abigail scese dalla macchina, un giornalista televisivo le mise davanti un microfono. «Buon Natale, senatrice.» «Buon Natale, Bob.» Abby era in gamba, pensò Toby. Si faceva un dovere di conoscere tutti gli inviati dei giornali e della TV, per quanto poco importanti potessero essere. «Senatrice, lei sta per partecipare alla funzione di Natale nella cattedrale. C'è una preghiera in particolare che rivolgerà a Dio?» Abby esitò quel tanto che bastava. Poi disse: «Bob, immagino che pregheremo tutti per la pace, no? E poi la mia preghiera è per quelli che hanno fame. Non sarebbe meraviglioso sapere che ogni uomo, donna o bambino di questa terra avrà da mangiare un buon pasto stasera?» Sorrise e raggiunse la marea di persone che stavano entrando nella cattedrale. Toby tornò in macchina. Fantastico, pensò. Da sotto il sedile del posto di guida tirò fuori i pronostici per le corse. I cavalli non gli erano stati troppo favorevoli ultimamente. Era ora che il vento cambiasse. La funzione durò un'ora e un quarto. All'uscita, un altro giornalista aspettava la senatrice per porle alcune domande davvero delicate: «Senatri-
ce, ha visto la copertina del National Mirror questa settimana?» chiese. Toby aveva appena fatto il giro intorno alla macchina per aprirle gentilmente la portiera. Trattenne il respiro, ansioso di vedere come se la sarebbe cavata. Abby sorrise: un sorriso cordiale, felice. «Sì, certo.» «Che cosa ne pensa, senatrice?» Abby rise. «Sono rimasta sbalordita. Devo dirle che sono molto più abituata che si parli di me nel Congressional Record che nel National Mirror.» «La pubblicazione di quella fotografia l'ha turbata?» «Naturalmente no. Perché avrebbe dovuto? Al pari di molte altre persone, immagino, quando sono libera penso a quelli che ho amato e che non sono più con me. Quella fotografia mi ha fatto ricordare quanto fu felice mia madre quando vinsi quel concorso, vi avevo partecipato unicamente per farle piacere. Era vedova, capisce, e mi ha tirata su da sola, eravamo molto, molto unite.» Adesso gli occhi di lei si inumidirono, le labbra le tremarono. Chinò rapida la testa ed entrò in macchina. Con un gesto deciso, Toby chiuse la porta dietro di lei. Quando Pat tornò dalla funzione del mattino, la segreteria telefonica lampeggiava. Meccanicamente, fece tornare indietro il nastro finché questo si fermò stridendo, poi premette il tasto per l'ascolto. Le prime tre persone non avevano lasciato alcun messaggio. Poi si sentiva Sam, la voce nervosa: «Pat, ho cercato varie volte di mettermi in contatto con te. Sto per salire sull'aereo per Washington. Ci vediamo stasera da Abigail». Che carino. Sam aveva programmato di passare la settimana con Karen e suo marito. E adesso invece eccolo che si precipitava a casa. Era ovvio che Abigail tenesse particolarmente alla sua presenza; probabilmente era uno di quei pochi veri amici presenti alla sua cena di Natale. Tra loro c'era qualche cosa! Abigail aveva otto anni più di lui, ma non li dimostrava e, dopotutto, molti uomini sposavano donne più vecchie di loro. Aveva telefonato anche Luther Pelham: «Continua a lavorare sulla seconda versione della sceneggiatura. Trovati a casa della senatrice alle quattro. Se qualche giornalista ti fa delle domande sulla fotografia del Mirror, fingi di non averla vista». Il messaggio successivo era stato detto con una voce dolce, all'inizio tur-
bata: «Signorina Traymore... Pat, forse lei non si ricorda di me». Una pausa. «Certo che no; lei vede sempre tanta gente, non è così?» Pausa. «Devo far presto. Sono Margaret Langley. La direttrice... in pensione, si capisce... della scuola media di Apple Junction.» Il tempo per dire il messaggio era finito. Esasperata, Pat si morse le labbra. Ma la signorina Langley aveva richiamato. Questa volta parlava affrettatamente: «Devo parlarle, per favore mi telefoni al 518/555.2460». Ci fu il suono di un respiro irregolare. Poi la signorina Langley esplose: «Signorina Traymore, oggi ho avuto notizie da Eleanor». Il telefono suonò solo una volta prima che la signorina Langley rispondesse. Pat disse il suo nome e fu subito interrotta: «Signorina Traymore, dopo tutti questi anni, ho sentito qualcosa da Eleanor. Proprio mentre rientravo in casa dalla chiesa, il telefono stava suonando, e lei ha detto 'pronto' con quella sua voce dolce, timida, e ci siamo messe a piangere tutt'e due». «Signorina Langley, dov'è Eleanor? Che cosa fa?» Ci fu una pausa; poi Margaret Langley parlò cautamente, come se stesse cercando di scegliere le parole adatte: «Non mi ha detto dov'è. Ha detto solo che sta molto meglio e che non vuole restare nascosta per sempre. Ha detto che pensa di costituirsi. Sa che andrà in carcere... perché non ha mantenuto la sua parola. Ha detto anche che questa volta le piacerebbe che io l'andassi a trovare». «Costituirsi?» Pat pensava al viso sbalordito, indifeso di Eleanor dopo la condanna. «E lei che cosa le ha detto?» «L'ho pregata di telefonarle. Ho pensato che lei forse poteva ottenere che le rinnovassero il provvedimento di libertà sulla parola.» A questo punto la voce di Margaret Langley si ruppe. «Signorina Traymore, la prego, faccia in modo che quella ragazza non torni in carcere.» «Ci proverò», promise Pat. «Ho un amico, un deputato, che forse potrà aiutarci. Signorina Langley, per favore, per amore di Eleanor, sa dove posso trovarla?» «No, sinceramente, non lo so.» «Se la richiama, le dica di mettersi in contatto con me prima di costituirsi.» «Sapevo che lei l'avrebbe aiutata. Avevo intuito la sua bontà.» Adesso il tono di Margaret Langley cambiò: «Voglio anche che sappia quanto sono felice che quel simpatico signor Pelham mi abbia telefonato invitandomi a partecipare al suo programma. Domani mattina verrà qualcuno a intervi-
starmi e a fare le riprese». Perciò Luther aveva accettato anche quella proposta. «Ne sono molto felice.» Pat cercò di apparire entusiasta. «Mi raccomando, si ricordi di dire a Eleanor di telefonarmi.» Abbassò lentamente il ricevitore. Se Eleanor Brown era quella ragazza timida che la signorina Langley credeva, costituirsi sarebbe stato per lei un atto di coraggio non comune. Ma per Abigail Jennings poteva essere terribilmente negativo che, proprio in quei giorni, una giovane donna indifesa venisse riportata in carcere continuando a protestare la propria innocenza in merito al furto commesso nel suo ufficio. 23 Mentre percorreva il corridoio della casa di cura Arthur percepì la tensione e subito si mise in guardia. Tutto sembrava piuttosto tranquillo: alberi di Natale e candele di Hanukkah erano sui tavolini da gioco coperti di feltro e di neve artificiale. Su tutte le porte delle camere dei pazienti erano attaccati i cartoncini degli auguri. Nella sala comune un vecchio giradischi diffondeva musica natalizia. Però c'era qualche cosa che non andava. «Buongiorno, signora Harnick. Come si sente?» La donna avanzava lentamente per il corridoio appoggiandosi al suo girello, l'ossatura sottile china in avanti, i capelli arruffati intorno al volto scavato. Alzò lo sguardo verso di lui senza sollevare la testa. Solo gli occhi si muovevano, incavati, acquosi, impauriti. «Stia lontano da me, Arthur», disse, la voce tremula. «A loro gliel'ho detto che lei usciva dalla camera della signora Gillespie e so di non sbagliarmi.» Lui le toccò il braccio, ma la signora Harnick indietreggiò. «Ma certo che ero nella camera della signora Gillespie», disse. «Lei e io eravamo amici.» «La signora Gillespie non era sua amica. Aveva paura di lei.» Arthur cercò di mantenersi calmo. «Andiamo, signora Harnick...» «Dico sul serio. Anita voleva rimanere viva. Sua figlia Anna Marie stava per venirla a trovare. Non veniva qui da due anni. Anita diceva che non le importava di morire, purché avesse rivisto Anna Marie. Non è vero che ha smesso di respirare.» La capoinfermiera, Elizabeth Sheehan, era seduta dietro una scrivania a metà del corridoio. Lui la odiava. Aveva un viso duro e occhi grigioazzurri
che diventavano freddi come l'acciaio quando era in collera. «Arthur, prima che cominci i suoi giri, venga per favore un attimo in ufficio.» La seguì nell'ufficio amministrativo. Era il luogo in cui le famiglie andavano a programmare come disfarsi dei loro vecchi. Ma quel giorno non c'erano parenti, solo un giovanotto con il viso da bambino, che indossava un vecchio impermeabile e delle scarpe che avevano bisogno di esser lucidate. Aveva un sorriso simpatico e modi molto cordiali, ma Arthur non si lasciò ingannare. «Sono l'ispettore Barrott», disse. C'era anche il direttore, il dottor Cole. «Si sieda, Arthur», disse, cercando di rendere cordiale la voce. «Grazie, infermiera Sheehan, non c'è bisogno che aspetti.» Arthur scelse una sedia diritta e si ricordò di congiungere le mani in grembo e di assumere un'aria appena incuriosita, come se non avesse idea di quel che sarebbe successo. Si era esercitato in quell'espressione davanti allo specchio. «Arthur, la signora Gillespie è morta giovedì scorso», disse l'ispettore Barrott. Arthur annuì e assunse un'espressione addolorata. Improvvisamente fu contento di aver incontrato nell'atrio la signora Harnick. «Lo so. Speravo tanto che vivesse almeno fino all'arrivo della figlia, erano due anni che non la vedeva e ci teneva così tanto...» «Lei lo sapeva?» chiese il dottor Cole. «Naturalmente. Ne parlava continuamente.» «Capisco. Non sapevamo che le avesse parlato della visita della figlia.» «Dottore, lei lo sa quanto tempo ci voleva per far mangiare la signora Gillespie. Qualche volta aveva bisogno di riposarsi e ci mettevamo a chiacchierare.» «Arthur, lei è stato contento di veder morire la signora Gillespie?» chiese l'ispettore. «Sono contento che sia morta prima che la sua malattia arrivasse allo stadio finale. Avrebbe sofferto molto, probabilmente. Non è così, dottore?» Adesso si rivolgeva al dottor Cole, gli occhi spalancati. «Può essere, sì», disse controvoglia il dottor Cole. «Naturalmente non si sa mai...» «Ma avrei voluto che la signora Gillespie vivesse abbastanza per vedere Anna Marie. Lei e io pregavamo insieme per questo. Mi chiedeva sempre di leggerle nel suo Messale di Sant'Antonio delle preghiere per ottenere
una grazia particolare.» L'ispettore Barrott lo studiava attentamente. «Arthur, è andato nella camera della signora Gillespie giovedì scorso?» «Sì, certo, sono andato a trovarla poco prima che l'infermiera Krause facesse il suo giro. Ma la signora Gillespie non ha voluto niente.» «La signora Harnick dice che l'ha vista uscire dalla camera della signora Gillespie verso le quattro. È così?» Arthur si era preparato la risposta. «Vede, a dir la verità io non sono nemmeno entrato nella sua stanza, mi sono affacciato e ho visto che dormiva. Aveva avuto una nottataccia e io ero preoccupato per lei. La signora Harnick deve avermi visto mentre mi affacciavo nella camera.» Il dottor Cole si riappoggiò allo schienale della sedia. Pareva sollevato. La voce dell'ispettore Barrott si fece più dolce: «Ma l'altro giorno lei ha detto che la signora Harnick si sbagliava». «No, qualcuno mi ha chiesto se ero entrato due volte nella camera della signora Gillespie e questo non era successo. Ma ripensandoci mi sono ricordato che mi ci ero affacciato. Perciò avevo ragione io e nello stesso tempo anche la signora Harnick, capisce?» Il dottor Cole adesso sorrideva. «Arthur è uno dei nostri collaboratori più preziosi», disse. «Gliel'ho detto, signor Barrott.» Ma l'ispettore Barrott non sorrideva. «Arthur, sono molti gli inservienti della casa di cura che pregano con i pazienti, o è solo lei?» «Credo di essere il solo. Vede, io sono stato in seminario. Volevo diventare prete ma mi sono ammalato e ho dovuto rinunciare. In un certo senso mi considero un sacerdote.» Gli occhi dell'ispettore, dolci e limpidi, incoraggiavano alle confidenze. «Quanti anni aveva quando è entrato in quel seminario, Arthur?» chiese gentilmente. «Avevo vent'anni. E ci sono rimasto per sei mesi.» «Ho capito; ma mi dica, Arthur, in quale seminario è stato?» «Sono stato a Collegeville, nel Minnesota, dai Benedettini.» L'ispettore Barrott tirò fuori un blocco e si appuntò la risposta. Troppo tardi Arthur capì di aver commesso un errore. E se quell'ispettore si fosse messo in contatto con la comunità, e avesse saputo che lui era stato invitato ad andarsene dopo la morte di padre Damian? Per tutto il giorno, Arthur fu preoccupato da quell'eventualità. Anche se il dottor Cole gli aveva detto di tornare al lavoro, poteva percepire le occhiate sospettose dell'infermiera Sheehan. Tutti i pazienti lo guardavano in
modo strano. Quando entrò dal vecchio signor Thoman, trovò la figlia di questi che gli disse: «Arthur, non deve più preoccuparsi di mio padre. Ho chiesto all'infermiera Sheehan di incaricare un altro inserviente per lui». Fu uno schiaffo in faccia. Solo la settimana precedente il signor Thoman aveva detto: «Non posso sopportare per molto tempo ancora di stare così male» e Arthur lo aveva confortato osservando: «Forse Dio non glielo chiederà, signor Thoman». Arthur cercò di mantenere un sorriso smagliante mentre attraversava la sala comune per aiutare il signor Whelan, che cercava disperatamente di tenersi in piedi. Mentre gli faceva attraversare l'atrio per portarlo in bagno, e poi tornava indietro con lui, sentì che gli stava venendo il mal di testa, uno di quei mal di testa che gli facevano saettare delle luci davanti agli occhi. Sapeva che cosa sarebbe successo dopo quel segnale. Mentre con gran cautela faceva risedere il signor Whelan nella sua poltrona, lanciò un'occhiata al televisore. Lo schermo era tutto coperto da nuvole, poi un volto cominciò a delinearsi, il volto di Gabriele come sarebbe apparso il Giorno del Giudizio. Gabriele parlò solo per lui: «Arthur, qui non sei più al sicuro». «Capisco.» Non si rese conto di aver parlato ad alta voce, finché il signor Whelan non gli fece il gesto di zittirsi. Dal suo armadietto, Arthur prese con cura gli effetti personali, ma vi lasciò l'uniforme di ricambio e un vecchio paio di scarpe. Era libero il giorno successivo e il mercoledì, perciò probabilmente non avrebbero capito che non sarebbe più ritornato; a meno che, per qualche motivo, non fossero andati a frugare nel suo armadietto e non l'avessero trovato vuoto. Indossò una giacca sportiva che aveva comprato l'anno prima e che teneva lì in modo da poter far bella figura quando doveva vedere Glory dopo il lavoro per andare al cinema o qualcosa del genere. Nella tasca dell'impermeabile mise un paio di calzini dentro i quali aveva nascosto trecento dollari. Teneva sempre a portata di mano dei soldi per i casi di emergenza sia al pensionato sia a casa, se per caso fosse stato necessario partire all'improvviso. Il locale in cui si trovavano gli armadietti era freddo e squallido. Avevano dato la giornata libera al maggior numero di dipendenti possibile. Lui si era offerto di lavorare. Le sue mani erano sudate e non riuscivano a star ferme; i suoi nervi erano a pezzi e si sentiva rabbioso. Non avevano il diritto di trattarlo così. Gli
occhi, inquieti, vagavano attraverso lo squallido locale. La maggior parte dei rifornimenti era sotto chiave nel grande magazzino, ma vicino alle scale c'era una specie di armadio a muro adibito a ripostiglio. Era pieno di bottiglie e lattine aperte di materiali per pulizie e di spolverini da lavare. Pensò alle persone del piano di sopra... la signora Harnick che lo accusava, la figlia del signor Thoman che gli diceva di stare alla larga da suo padre e poi l'infermiera Sheehan. Come osavano parlottare tra loro di lui, interrogarlo, rifiutarlo! Nell'armadio a muro trovò una lattina quasi piena di trementina. Svitò il tappo, poi rovesciò la lattina su un fianco. Gocce di liquido cominciarono a cadere sul pavimento. Lasciò aperta la porta dell'armadio a muro. Proprio lì vicino, si trovavano una dozzina di sacchi della spazzatura, in attesa di esser buttati nel bruciatore. Arthur non fumava, ma quando le persone venute a trovare gli ospiti del pensionato dimenticavano pacchetti di sigarette, li raccoglieva per Glory. Adesso prese una Salem dalla tasca, l'accese, diede qualche tirata finché fu sicuro che non si sarebbe spenta, aprì il legaccio di uno dei sacchi di rifiuti e ve la lasciò cadere. Non ci sarebbe voluto molto. La sigaretta si sarebbe consumata, poi tutto il sacco avrebbe preso fuoco, che si sarebbe velocemente esteso agli altri sacchi; la trementina che gocciolava avrebbe fatto sì che il fuoco divampasse, fino a divenire incontrollabile. Gli stracci dell'armadio a muro avrebbero provocato un fumo denso, e nel tempo necessario al personale per mettere in salvo tutti i vecchi, l'intero edificio sarebbe stato in fiamme. Sarebbe sembrato un incidente imputato alla sbadataggine di una sigaretta spenta malamente e gettata nella spazzatura; o forse un incendio provocato da una lattina di trementina rovesciata, con conseguente sgocciolio sul pavimento... questo nel caso che le indagini riuscissero a collegare quegli elementi. Chiuse il sacco con il legaccio, non appena il leggero, buon profumo di bruciato gli fece fremere le narici e tendersi le reni poi, in fretta, abbandonò l'edificio e percorse la strada solitaria diretto alla metropolitana. Glory stava leggendo un libro sul divano del soggiorno, quando Arthur rientrò. Indossava una specie di vestaglia di lana azzurra molto carina, con la chiusura lampo che le arrivava fino al collo e ampie maniche lunghe. Il libro che stava leggendo era un romanzo che figurava tra i bestseller attuali e costava quindici dollari e novantacinque. Mai, in vita sua, Arthur aveva
speso più di un dollaro per un libro. Lui e Glory andavano nei negozi di libri usati a curiosare e se ne tornavano a casa spesso con sei o sette volumi. Ed era una gioia star seduti amichevolmente vicini a leggere. Ma adesso i libri con gli angoli ormai piegati e le copertine macchiate che si erano tanto divertiti a comprare, chissà come sarebbero sembrati miseri e squallidi accanto a quel libro dalla copertina lucida e le pagine nuove e fruscianti. Gliel'avevano regalato le ragazze del suo ufficio. Glory aveva preparato per lui pollo arrosto con salsa di mirtilli e crostini caldi. Ma non c'era nessun piacere a mangiare da solo la cena di Natale. Lei diceva di non aver fame. Pareva riflettere molto intensamente. Parecchie volte la sorprese che lo fissava, con occhi indagatori molto turbati. Gli ricordavano il modo in cui lo aveva guardato la signora Harnick. Non voleva che Glory avesse paura di lui. «Ho un regalo per te», le disse. «So che ti piacerà.» Il giorno prima, nel grande magazzino del complesso commerciale, aveva comprato un grembiulino bianco ornato di volant per la bambola di pezza e, a parte qualche piccola macchia sul vestito, la bambola era esattamente come prima. Aveva anche comprato carta e nastrini natalizi perché avesse l'apparenza di un vero regalo. «Anch'io ho un regalo per te, padre.» Si scambiarono i doni con solennità. «Aprilo prima tu», disse lui. Voleva vedere la sua espressione. Sarebbe stata così felice. Lei sciolse con cura il nastro, aprì la carta e per prima cosa apparve il grembiulino con i volant. «Che cosa... ah, padre.» Era trasalita. «L'hai trovata. Che bel grembiulino nuovo.» Appariva contenta, ma non così felice come lui si era aspettato. Poi il suo viso divenne pensoso. «Guarda che viso triste. Ed era così che io mi immaginavo il giorno in cui lo disegnai. Ero molto malata, non è vero?» «La porterai di nuovo a letto con te?» chiese lui. «Per questo la volevi?» «Oh, no. Volevo solo guardarla. Apri il tuo regalo. Ne sarai felice, credo.» Era un bel pullover di lana bianco e azzurro, con le maniche lunghe e la scollatura a V. «L'ho fatto per te, padre», spiegò Glory, felice. «Ci crederesti che finalmente sono stata capace di finire qualche cosa? Forse sto guarendo. Era ora, non credi?» «Mi piaci esattamente come sei», disse lui. «Mi piace occuparmi di te.» «Ma ben presto forse sarà impossibile», disse lei. Entrambi sapevano a che cosa alludeva.
Era il momento di dirglielo. «Glory», cominciò con cautela. «Oggi mi hanno chiesto di fare qualcosa di molto speciale. Ci sono molte case di cura nel Tennessee con personale scadente, dove hanno bisogno di quel tipo di aiuto che io posso dare ai pazienti molto malati. Vogliono che io ne scelga una e che mi trasferisca per lavorarci.» «Trasferirci? Di nuovo?» Pareva costernata. «Sì, Glory. Io faccio il lavoro di Dio, e adesso tocca a me chiedere il tuo aiuto. Tu sei un grande conforto per me. Partiremo giovedì mattina.» Era certo che fino a quel momento sarebbe stato al sicuro. Come minimo, il fuoco avrebbe provocato molta confusione. Nella migliore delle ipotesi, i suoi documenti personali sarebbero anche potuti finire distrutti. Ma anche se il fuoco fosse stato domato prima di bruciare il seminterrato, sarebbero passati probabilmente alcuni giorni prima che la polizia potesse controllare le sue referenze e scoprire i lunghi periodi vuoti tra un lavoro e l'altro, o venire a sapere il motivo per cui gli era stato chiesto di lasciare il seminario. E quando l'investigatore avesse voluto interrogarlo di nuovo, lui e Glory sarebbero stati lontani. Glory rimase in silenzio per un pezzo. Poi disse: «Padre, se nel programma di mercoledì sera dovesse esserci la mia fotografia, ho deciso di costituirmi. Mi vedranno in tutti gli Stati Uniti, e io non posso continuare a chiedermi, se qualcuno mi guarda, se per caso non mi ha riconosciuto. In caso contrario, verrò con te nel Tennessee». Le labbra le tremavano e lui sapeva che era sull'orlo del pianto. Si avvicinò a lei e le diede un colpetto scherzoso sulla guancia. Non poteva dirle che l'unico motivo per cui voleva aspettare a partire fino a giovedì era proprio quel programma. «Padre», sbottò Glory, «è in questo posto che ho iniziato a essere felice. Non credo proprio sia giusto che ti costringano a far fagotto e che ti spostino in continuazione.» 24 All'una e mezzo del pomeriggio Lila suonò alla porta di Pat. Portava un pacchetto. «Buon Natale!» «Buon Natale. Entri.» Pat era sinceramente contenta di quella visita che la distraeva dai suoi pensieri almeno per un momento. Non sapeva se confidare, o no, a Luther che forse Eleanor si sarebbe costituita alla polizia e non sapeva come avviare con lui il discorso di Catherine Graney. La pro-
spettiva di un processo lo avrebbe fatto impazzire. «Sto solo un minuto», disse Lila. «Volevo farle assaggiare un dolce di frutta. È una mia specialità.» Impulsivamente Pat l'abbracciò. «Sono contenta che sia venuta. È terribilmente strano stare soli il pomeriggio di Natale. Che ne direbbe di un bicchiere di sherry?» Lila guardò il suo orologio: «A un quarto alle due me ne devo andare», annunciò. Pat le fece strada nel soggiorno; prese un piatto, un coltello e due bicchieri; versò lo sherry e tagliò sottili fette di dolce. «Squisito», esclamò dopo averlo assaggiato. «È buono, vero?» ammise Lila, guardandosi in giro. «Ha cambiato qualche cosa?» «Ho spostato un paio di quadri. Ho capito che erano nel posto sbagliato.» «Qualcosa le sta ritornando in mente, non è vero?» «Qualche cosa», riconobbe Pat. «Stavo lavorando in biblioteca quando ho sentito l'esigenza di venire in questa stanza e appena sono entrata ho capito con certezza che la natura morta andava messa al posto del paesaggio, e viceversa.» «Che altro, Pat? C'è dell'altro.» «Sono così maledettamente nervosa», disse Pat semplicemente. «E non so perché.» «Pat, per piacere, non rimanga qui. Si trasferisca in un appartamento, o in albergo», implorò Lila. «Non posso», rispose Pat. «Ma adesso mi aiuti. È stata qui il giorno di Natale qualche altra volta? Com'era?» «Quell'ultimo anno, lei aveva tre anni e mezzo ed era già in grado di intuire cosa fosse il Natale. I suoi genitori erano entusiasti di lei e fu un giorno di vera felicità.» «Qualche volta mi pare di ricordare qualche cosa di quel giorno. Avevo una bambola che camminava e tentavo di farla camminare con me. È possibile che sia vero?» «Aveva una bambola che camminava?... Sì, è vero!» «E mia madre suonò il piano quel pomeriggio...» «Sì.» Pat si avvicinò al pianoforte e lo aprì. «Ricorda che cosa suonò quel Natale?»
«Sono sicura che suonò la canzone di Natale che preferiva: Le campane di Natale.» «La conosco. Veronica ha voluto insegnarmela. Ha detto che piaceva alla nonna.» Lentamente, le sue dita cominciarono a scorrere sulla tastiera. Lila la osservava e ascoltava. Quando le ultime note svanirono, disse: «Assomiglia molto al modo in cui lo avrebbe suonato sua madre. Le ho detto che assomiglia a suo padre, ma non mi ero resa conto fino a questo istante di quanto sia impressionante questa somiglianza. Qualcuno che l'abbia conosciuto bene si accorgerebbe facilmente della parentela». Alle tre la troupe televisiva della Rete privata Potomac arrivò a casa della senatrice Jennings per effettuare le riprese della sua cena di Natale. Toby li sorvegliava con occhi attenti mentre si sistemavano nel soggiorno e in sala da pranzo, facendosi un dovere di stare attento a che niente venisse rotto o danneggiato. Sapeva quale valore avesse ogni oggetto di quella casa per Abby. Pat Traymore e Luther Pelham arrivarono a distanza di un paio di minuti l'una dall'altro. Pat indossava un vestito bianco di lana che metteva in risalto la sua figura e aveva attorcigliato i capelli in una specie di chignon. Toby non l'aveva mai vista pettinata in quel modo. La faceva apparire diversa e nello stesso tempo gli sembrava di averla già vista. Chi diavolo gli ricordava? si chiese. Pareva rilassata, mentre si capiva perfettamente che Pelham non lo era affatto. Appena entrato, cominciò a sbraitare contro uno dei cameramen. Abigail era nervosa e anche questo non aiutava, infatti quasi subito si trovò in disaccordo con Pat che voleva sistemare i piatti con i cibi sul tavolo del buffet e riprendere la senatrice che passava tutto in rassegna e qua e là spostava qualche cosa, mentre lei non desiderava tirar fuori così presto le pietanze che aveva preparato. «Senatrice, ci vuole un po' di tempo per ottenere esattamente l'atmosfera che vogliamo», le disse Pat. «Dovrebbe essere più facile farlo ora che quando ci saranno gli ospiti fermi a guardarla.» «Non voglio che i miei ospiti stiano fermi come comparse di un film di seconda serie», sbottò Abigail. «Allora sarebbe meglio riprendere la tavola subito.» Toby notò che Pat non faceva mai marcia indietro quando voleva qualche cosa. Luther osservò che Abigail aveva preparato tutta la cena personalmente e scatenò un'altra discussione. Pat voleva inquadrarla in cucina.
«Senatrice, la gente è sicura che quando lei dà un ricevimento si limita a telefonare a un'agenzia. Il fatto che lei organizzi veramente tutto di persona la renderà cara a tutte le casalinghe costrette a preparare tre pasti al giorno, per non parlare di tutte quelle donne e quegli uomini per i quali la cucina è un hobby.» Abigail rifiutò decisamente, ma Pat continuava a insistere: «Senatrice, il motivo per cui siamo qui è perché vogliamo che la gente arrivi a vederla come un essere umano». Alla fine fu Toby che convinse Abigail. «Forza, mostri a tutti che è una vera esperta in cucina, senatrice!» Abby rifiutò di indossare un grembiule sopra la camicia e i pantoioni firmati, e quando cominciò a sistemare gli antipasti fu evidente che, anche in cucina, sapeva essere una persona estremamente raffinata. Toby la stava a guardare mentre sbatteva la pastella per le barchette dolci, affettava sottile il prosciutto per la quiche, condiva la polpa di gambero, le sue belle dita affusolate lavoravano in modo miracoloso, non si notava il minimo di disordine nella sua cucina e il merito, bisognava riconoscerlo, era tutto di Francey Foster. Quando la troupe iniziò le riprese, Abigail cominciò a rilassarsi. Avevano fatto solo un paio di ciak, quando Pat disse: «Grazie, senatrice. Sono sicura che siamo riusciti a ottenere quello che ci eravamo proposti. È venuto molto bene. Adesso, se non le dispiace, dovrebbe cambiarsi indossando quello che ha previsto per il ricevimento, in modo che possiamo girare la scena intorno al tavolo». Toby era ansioso di vedere che cosa si sarebbe messa Abigail: era stata incerta tra un paio di toilette. Fu contento quando la vide ritornare con una camicia di raso gialla, che s'intonava perfettamente alla gonna di taffetà scozzese. I capelli le circondavano morbidamente il viso e le coprivano il collo. Il trucco degli occhi era più accentuato del solito. Era splendida. E poi, si sentiva in lei come un fuoco. Toby sapeva che cos'era. Sam Kingsley le aveva telefonato per confermare la sua presenza al ricevimento. Era chiaro che Abby si dava da fare con Sam Kingsley. A Toby non era sfuggito che ai pranzi cui erano invitati da amici comuni lei faceva in modo di sedersi sempre accanto a lui. C'era, in quell'uomo, qualcosa che gli ricordava Billy, e probabilmente era proprio questa la ragione per cui affascinava Abby. In pubblico, la senatrice era riuscita a darsi un contegno quando Billy era morto, ma in realtà era rimasta sconvolta per parecchio tempo.
Toby sapeva di non essere simpatico a Sam. Ma quello non era certo un problema: anche lui non sarebbe durato più degli altri. Per la maggior parte degli uomini, Abby risultava essere troppo autoritaria. E le soluzioni che ne derivavano erano soltanto due: o si stancavano loro di adeguarsi agli impegni e agli umori di lei, oppure, se loro si piegavano, era lei a stancarsi di loro. Lui, Toby, avrebbe fatto parte della vita di Abby fino alla sua morte o a quella di lei. Abby senza di lui era perduta, e lui ne era perfettamente consapevole. Mentre la osservava mettersi in posa accanto al tavolo del buffet, una punta di rimpianto lo avvelenò. Una volta ogni tanto gli capitava di sognare a occhi aperti su come sarebbero potute andare le cose se durante gli anni scolastici avesse realmente studiato invece di comportarsi soltanto da furbo: se avesse continuato gli studi e fosse diventato per esempio ingegnere anziché quella specie di factotum che era. E se fosse stato un bel ragazzo come quello smidollato di Jeremy Saunders invece di avere quel viso rozzo e quel suo corpaccione... be', chissà? Prima o poi, Abby, forse, avrebbe potuto innamorarsi di lui. Cercò di scacciare quei pensieri importuni e si rimise al lavoro. Alle cinque in punto la prima macchina si fermò davanti alla casa. Il presidente della Corte Suprema accompagnato dalla moglie entrò pochi minuti dopo. «Buon Natale, signor vicepresidente», disse con un sorriso. Abigail l'abbracciò calorosamente: «Dalla tua bocca all'orecchio di Dio», esclamò, ridendo. Altri ospiti cominciavano ad affluire. Camerieri presi in affitto versavano champagne e punch. «Le bevande più forti, conservale per dopo», aveva suggerito Luther. «Alla massa dei bigotti delle leghe antialcoliche non piace ricordare che i suoi governanti servono roba forte.» Sam fu l'ultimo ad arrivare. Gli andò ad aprire la porta Abigail e il bacio che gli diede sulla guancia non era di cortesia. Luther stava dirigendo su di loro la seconda macchina da presa. Pat sentì il cuore sprofondarle. Sam e Abigail formavano una splendida coppia... tutti e due alti, i capelli biondo cenere di lei che contrastavano con quelli scuri di lui, e le striature d'argento nei capelli di Sam che in un certo senso equilibravano le rughe sottili intorno agli splendidi occhi della senatrice. Pat vide che in poco tempo molte persone gli si erano avvicinate, dopotutto io l'ho sempre visto solo come Sam pensò, ma non ho mai avuto l'opportunità di vederlo nel suo ambiente professionale. Era successa la stessa
cosa tra sua madre e suo padre? Si erano conosciuti quando tutti e due erano in vacanza sulla Martha's Vineyard, e si erano sposati prima che fosse trascorso un mese, senza conoscersi veramente, e soprattutto senza sapere niente degli interessi professionali l'una dell'altro... E poi erano cominciati i contrasti. Solo che io non mi troverei in disaccordo con te, Sam. A me piace il tuo mondo. Abigail doveva aver detto qualcosa di divertente, perché tutti ridevano. Sam le sorrideva. «Bella inquadratura, Pat», disse il cameraman. «Appena maliziosa... capisci che cosa voglio dire? Non si è mai vista la senatrice Jennings con un uomo. Alla gente questo piace.» Il cameraman era raggiante. «A tutti piacciono gli innamorati», rispose Pat. «Abbiamo fatto abbastanza», annunciò improvvisamente Luther. «Adesso lasciamo un po' in pace la senatrice e i suoi ospiti. Pat, devi trovarti nell'ufficio della senatrice per le riprese domani mattina. Io sarò ad Apple Junction. Sai quello che ci serve.» E le voltò le spalle, liquidandola. Chissà se il suo atteggiamento distante era il risultato della fotografia pubblicata sul Mirror o del suo rifiuto di andare a letto con lui? Lo avrebbe capito con il tempo. Oltrepassò silenziosamente gli ospiti, attraversò l'ingresso ed entrò nello spogliatoio dove aveva lasciato il cappotto. «Pat.» Si voltò di colpo. «Sam!» Lui era fermo sulla soglia, e la guardava. «Onorevole. Tanti auguri!» Tese la mano per prendere il cappotto. «Pat, non te ne starai andando?» «Nessuno mi ha chiesto di rimanere.» Lui si avvicinò, prendendole il cappotto dalle mani: «Che cos'è questa storia della copertina del Mirror?» Lei gliela raccontò e aggiunse: «E pare che la senatrice anziana della Virginia sia convinta che sia stata io a passare la fotografia a quel fogliaccio solo per costringerla a fare il programma a modo mio». Sam le mise le mani sulle spalle: «E non è vero?» «Che razza di domanda!» Davvero poteva credere che lei avesse qualcosa a che fare con quei metodi di convincimento? In questo caso, era evidente che non la conosceva. O forse era giunto per lei il momento di rendersi conto che l'uomo che aveva creduto di conoscere non esisteva. «Pat, io ancora non posso andarmene, ma dovrei potermela svignare tra
un'ora. Stai andando a casa?» «Sì, certo. Perché?» «Ti raggiungo appena possibile per portarti a cena fuori.» «Tutti i ristoranti decenti sono chiusi. Rimani qui, e divertiti.» Tentò di allontanarlo da sé. «Signorina Traymore, se mi dà le chiavi le porto la macchina davanti al portone.» Imbarazzati, si staccarono di scatto. «Toby, che diavolo ci fa qui?» ringhiò Sam. Toby lo guardava, impassibile. «La senatrice sta per pregare gli ospiti di sedersi a tavola, onorevole, e mi ha chiesto, in particolare, di cercare lei.» Sam aveva ancora in mano il cappotto di Pat. Lei se lo infilò velocemente. «Posso prendere la macchina da sola, Toby», disse, guardandolo dritto in faccia. L'uomo era fermo sulla soglia, una forma scura e massiccia. Pat cercò di passare, ma Toby non si mosse. «Posso?» disse con voce seccata. Lui la stava fissando, l'espressione turbata. «Oh, certo. Mi scusi.» Si fece da parte, mentre Pat inconsciamente strisciò contro il muro, per evitare di sfiorarlo. Pat guidava a rotta di collo cercando di sfuggire il ricordo di quello scambio di saluti troppo affettuoso tra Abigail e Sam, di quella specie di complicità, dei presenti al ricevimento che sembravano considerarli una coppia. Erano le otto meno un quarto quando arrivò a casa. Felice di avere prudentemente cucinato in anticipo il tacchino, si preparò un sandwich e si versò un bicchiere di vino. La casa le dava una sensazione di buio e di vuoto. Accese le luci nell'atrio, nella biblioteca, in sala da pranzo e in soggiorno, poi inserì la spina per l'illuminazione dell'albero. Si sentiva oppressa. Solo il giorno prima, il soggiorno, chissà come, le era sembrato più caldo, più vivibile. Adesso non era per niente accogliente; era cupo. Perché? Lo sguardo le cadde su un filo d'oro quasi invisibile su una zona del tappeto di un brillante color albicocca. Il giorno prima, stando in quella stanza con Lila, le sembrava di aver notato uno degli ornamenti dell'albero in quella zona del tappeto, ma probabilmente si trattava solo di quel filo. Il televisore era nella biblioteca. Vi portò il suo bicchiere e il sandwich. La Potomac trasmetteva ogni ora un breve flash. Si domandò se avrebbero mandato in onda Abigail in chiesa.
Lo fecero. Pat guardò Abigail scendere dalla macchina, il completo rosso vivo contrastava clamorosamente con il colorito impeccabile e con i capelli, aveva lo sguardo dolce mentre parlava della sua preghiera per quelli che hanno fame. Quella era la donna che lei, Pat, aveva venerato. Lo speaker annunciò: «In seguito sono state rivolte alla senatrice Jennings alcune domande a proposito della fotografia che la ritraeva come reginetta di bellezza, che è stata riprodotta sulla copertina del National Mirror di questa settimana». Veniva mostrata la copertina del Mirror in formato francobollo. «Con le lacrime agli occhi, la senatrice ha ricordato come avesse partecipato al concorso per soddisfare il desiderio della madre. La rete televisiva privata Potomac augura alla senatrice Jennings un Natale molto felice; e siamo sicuri che la sua mamma sarebbe terribilmente fiera di lei, se potesse condividere il suo successo.» «Signore Iddio», esclamò Pat fuori di sé. Saltò in piedi e spense il televisore. «E Luther Pelham ha la faccia tosta di chiamarlo un notiziario, questo! Poi ci meravigliamo che i media siano accusati di mancanza di imparzialità.» Irrequieta, cominciò a prendere nota delle affermazioni contrastanti che aveva ascoltato nel corso della settimana: Catherine Graney ha detto che Abigail e Willard stavano per divorziare. La senatrice Jennings proclama il suo grande amore per il marito. Eleanor Brown ha rubato 75.000 dollari alla senatrice Jennings. Eleanor Brown giura di non aver rubato quei soldi. George Graney era un pilota esperto; il suo aereo veniva sottoposto ad accurato esame prima di ogni decollo. La senatrice Jennings afferma invece che George Graney era negligente come pilota e che era dotato di un'attrezzatura scadente. Non c'è niente che abbia senso, pensò Pat, assolutamente niente! Erano quasi le undici quando il campanello l'avvertì dell'arrivo di Sam. Poco prima, pensando che avesse rinunciato a farle visita, Pat era salita in camera, poi riflettendo si era convinta che se Sam non fosse venuto le avrebbe telefonato, quindi per sentirsi a suo agio aveva indossato un pigiama di seta, in modo da essere comunque presentabile. Si era concesso un ricco bagno per poi ritoccarsi leggermente le palpebre con l'ombretto e le labbra con il lucidalabbra. Non vale la pena di apparire scialba e bruttina,
aveva pensato, soprattutto quando lui ha appena salutato la reginetta di bellezza. Mise a posto rapidamente i vestiti che aveva lasciato sparpagliati nella stanza. Sam era ordinato? Non so neppure questo, pensò. In quell'unica notte che avevano passato insieme non le era certo stato possibile rendersi conto delle sue abitudini personali. Nel motel lei si era lavata i denti con lo spazzolino pieghevole che portava sempre con sé nel piccolo beauty da borsetta. «Magari lo avessi io», aveva detto Sam. Lei aveva sorriso al viso di lui riflesso nello specchio. «Una delle scene che ricordo con piacere di un vecchio film romantico è quella in cui un simpatico pastore chiede ai due protagonisti se sono tanto innamorati da usare lo stesso spazzolino da denti.» Dopo aver passato il suo sotto l'acqua calda e averci messo il dentifricio, lei glielo aveva teso: «Ecco». Quello spazzolino si trovava adesso in un astuccio di velluto da gioielleria, nel cassetto più alto della toeletta. Ci sono donne che mettono rose tra le pagine di un libro o legano un nastro intorno alle lettere, pensò Pat. Io, invece, ho conservato uno spazzolino da denti. Era appena ridiscesa a pianterreno quando il campanello suonò di nuovo. «Avanti, avanti, chiunque tu sia», fece lei. Sam aveva il viso contrito. «Scusami, Pat. Non sono riuscito a svignarmela presto come avevo sperato. E poi mi sono fatto prima portare a casa da un taxi, ho lasciato i bagagli e ho preso la mia macchina. Stavi già andando a letto?» «Niente affatto. Se lo dici per questo abbigliamento, in linguaggio tecnico si chiama pigiama palazzo, e secondo Saks è perfetto per una serata in casa con alcuni amici.» «Stai solo attenta a quali amici inviti», consigliò Sam. «È una mise piuttosto sexy.» Lei gli prese il cappotto; la morbida lana era ancora fredda per il contatto con il vento gelido. Sam si chinò per baciarla. «Bevi qualcosa?» Senza aspettare la risposta, lo guidò nella biblioteca e senza parlare gli indicò il bar. Lui versò il brandy e le porse un bicchiere: «Bevi ancora questo dopocena, o mi sbaglio?» Pat annuì e scelse per sé l'ampia poltrona di fronte al divano. Sam si era cambiato, quando era passato da casa. Adesso indossava un pullover a rombi in cui predominavano il grigio e l'azzurro, lo stesso azzurro dei suoi occhi. Si sistemò sul divano, e a lei parve di percepirne la
stanchezza dal modo in cui si muoveva e dalle piccole rughe agli angoli degli occhi. «Com'è andata la festa in mia assenza?» «Più o meno come avevi previsto. L'unica cosa rilevante è stata la telefonata del presidente per gli auguri ad Abigail.» «Il presidente ha telefonato! Ma Sam, questo vuol dire che...» «Io scommetto che lui sta sfruttando la situazione. Probabilmente ha telefonato anche a Claire Lawrence.» «Vuoi dire che non ha ancora deciso?» «Io credo che sia in procinto di farlo: avrai notato, durante la cena alla Casa Bianca, quanta importanza ha dato ad Abigail ma non dimenticarti, però, che la sera dopo ha partecipato con la moglie a una cena privata in onore di Claire.» «Sam, quanto ha nuociuto realmente alla senatrice Jennings quella copertina?» Lui si strinse nelle spalle. «È difficile a dirsi. Abigail ha calcato un po' troppo la mano sul tasto dell'aristocrazia del sud, d'altra parte questo può anche renderla simpatica. Un altro problema: la pubblicità data alle minacce che hai ricevuto ha dato il via a un sacco di scherzi da caserma tra gli abitanti della nostra Collina... e tutti gli scherzi hanno per oggetto Abigail.» Pat guardava fisso il suo bicchiere di brandy, intatto. Si sentiva la bocca improvvisamente arida e salata. La settimana prima Sam si era preoccupato per lei, dopo l'episodio della effrazione. Adesso manifestava la stessa reazione di Abigail di fronte alla pubblicità che ne era derivata. Be', in un certo senso questo le rendeva le cose più facili. «Se questo programma produce pubblicità negativa per la senatrice Jennings, potrebbe costarle la carica di vicepresidente, secondo te?» «Può darsi. Nessun presidente, tanto meno uno che ha al suo attivo un'amministrazione impeccabile, vorrebbe rischiare di vedere offuscata la sua fama.» «Temevo che dicessi proprio questo.» E gli raccontò quello che sapeva di Eleanor Brown e di Catherine Graney. «Non so che cosa fare», concluse. «Devo avvertire Luther di non sfiorare questi argomenti nello special. In questo caso, però, lui dovrà spiegarne il motivo alla senatrice.» «Non dobbiamo assolutamente irritare ancora Abigail», disse Sam reciso. «Quando gli altri se ne sono andati era in procinto di crollare.» «Quando gli altri se ne sono andati?» Pat sollevò un sopracciglio. «Que-
sto significa che tu te ne sei andato per ultimo?» «Mi ha chiesto lei di rimanere.» «Capisco.» Sentì il cuore mancarle: era la conferma a tutto quello che già pensava. «Allora non devo dir niente a Luther?» «Prova a fare così. Se quella ragazza...» «Eleanor Brown.» «Sì... se ti telefona convincila ad aspettare in modo che io possa cercare nel frattempo di accordarmi con il giudice per il rinnovo della libertà sulla parola. In questo modo non ci sarebbe pubblicità, almeno fino a quando il presidente annuncerà la sua scelta.» «E Catherine Graney?» «Lasciami ripescare i rapporti sull'incidente. Probabilmente quella donna non ha niente di valido su cui appoggiarsi. Credi che potrebbero essere state lei o la Brown le responsabili delle minacce che ti sono arrivate?» «Eleanor non l'ho mai vista. E sono sicura che non è stata Catherine Graney. Oltre a tutto, non dimenticarti che la voce era maschile.» «Sì, questo è vero. Ha ritelefonato?» Gli occhi di Pat caddero sullo scatolone nascosto sotto il tavolo. Prese per un attimo in considerazione l'idea di mostrare a Sam la bambola di pezza, ma subito la respinse. Non voleva che Sam si preoccupasse per lei. «No, non ha ritelefonato.» «Questa è una bella notizia.» Finì il brandy e posò il bicchiere sul tavolo. «Ora è meglio che me ne vada. È stata una giornata lunghissima e tu devi essere sfinita.» Era l'occasione che Pat aveva aspettato. «Sam, prima, mentre tornavo a casa, ho riflettuto. Posso parlarti ancora un poco?» «Sicuro.» «Sono venuta a Washington con tre obiettivi ben precisi e piuttosto utopistici: realizzare un programma che sarebbe risultato degno di un Emmy su una donna senza dubbio eccezionale; trovare una spiegazione per quello che mio padre aveva fatto a mia madre e a me; e, infine, rivederti. Be', in nessuno di questi progetti le cose sono andate come mi aspettavo. Abigail Jennings è una persona valida da un punto di vista politico ed è senz'altro una leader di polso, ma non è una donna simpatica; in fondo, sono rimasta invischiata in questo programma perché le idee preconcette che nutrivo su Abigail andavano bene a Luther Pelham. Qualunque possa essere la fama che mi sono fatta in televisione essa dava credibilità a ciò che in sostanza è solo materiale pubblicitario. Nella nostra senatrice ci sono troppe cose che
non quadrano. Sono stata qui abbastanza per capire che mia madre non era una santa, come mi avevano fatto credere e che, molto probabilmente, scatenò in mio padre, quella sera, una qualche forma di temporanea pazzia. Non è tutto... non ancora; ma mi ci sto avvicinando. «Per quanto riguarda noi, Sam, ti devo delle scuse. Di sicuro sono stata terribilmente ingenua pensando di essere per te qualcosa di più di un'avventura. Il fatto che tu non mi avessi mai telefonato dopo la morte di Janice avrebbe dovuto mettermi sull'avviso, ma probabilmente non sono un tipo molto sveglio. Comunque ora puoi stare tranquillo: non ho intenzione di metterti più in imbarazzo con le mie dichiarazioni d'amore, del resto è evidente che tra te e Abigail c'è qualcosa.» «Non c'è niente tra me e Abigail!» «Oh, sì, invece. Forse tu ancora non lo sai ma c'è. La signora ti vuole, Sam. Anche un cieco se ne accorgerebbe. E tu non sei tipo da interrompere le tue vacanze, precipitandoti dall'altro capo del continente a un suo cenno, senza una buona ragione. Solo, vorrei non ti sentissi obbligato a trattarmi con delicatezza. Sul serio, Sam, tutta quella storia che sei stanco e non ti senti capace di prendere delle decisioni non ti si addice. Puoi darci un taglio adesso.» «Quella che ti ho detto è la verità.» «Non ne sono così convinta; comunque sei un bell'uomo, attraente, con davanti venti o trent'anni di vita piena.» Riuscì a sorridere: «Forse la prospettiva di diventare nonno è un po' traumatizzante per il tuo superlo?» «Hai finito?» «Assolutamente.» «Allora, se non ti dispiace, ho prolungato troppo la visita.» Si alzò, il viso in fiamme. Pat gli tese la mano. «Non c'è motivo di non essere amici. Washington è una città piccola. È stato per questo motivo che mi hai telefonato subito, non è vero?» Lui non rispose. Con una certa soddisfazione, Pat lo sentì sbattere la porta uscendo. 25 «Senatrice, probabilmente la vorranno come protagonista del programma televisivo Today», attaccò Toby pieno di buone intenzioni, lanciando un'occhiata nel retrovisore per cogliere la reazione di Abby. Stavano an-
dando in ufficio. Erano le sei e mezza della mattina del ventisei dicembre, faceva ancora buio e il freddo penetrava fino alle ossa. «Non desidero partecipare a nessun altro programma», ringhiò Abigail. «Toby, che razza di faccia ho? Non ho chiuso occhio, stanotte. Toby, il presidente mi ha telefonato... ha telefonato personalmente a me. Ha detto di riposarmi durante l'interruzione natalizia perché mi aspetta un anno molto faticoso. Che cosa avrà voluto dire?... Toby, lo sento. La vicepresidenza. Perché non ho seguito il mio istinto? Perché mi sono lasciata convincere da Luther Pelham per quel programma? Dove avevo la testa?» «Senatrice, ascolti. Quella fotografia potrebbe essere la cosa migliore che mai le sia capitata. È più che certo che quello sgorbietto di Claire Lawrence concorsi di bellezza non ne ha mai vinti. Forse Pat Traymore ha ragione. Questa storia in un certo senso la rende più accessibile... è questa la parola?» Stavano attraversando il ponte Roosevelt e il traffico si stava intensificando. Toby si concentrò sulla guida. Quando guardò di nuovo nel retrovisore, Abby teneva ancora le mani abbandonate in grembo. «Toby, ho lavorato tanto per questo progetto.» «Lo so, Abby.» «Non è giusto che non debba realizzarlo solo perché ho dovuto farmi strada con le unghie e con i denti.» «Non accadrà, senatrice.» «Non lo so. C'è qualcosa che mi disturba in Pat Traymore. In una settimana è riuscita per due volte a coinvolgermi in una pubblicità imbarazzante. Mi risulta sfuggente, come se nascondesse un segreto.» «Senatrice, Phil ha fatto tutti i controlli possibili su di lei. Patricia Traymore ha sempre avuto una particolare ammirazione nei suoi riguardi, senatrice. Ha persino scritto un saggio su di lei l'anno prima di diplomarsi a Wellesley. Mi sembra una persona sincera.» «Ha un non so che. Ricordati di quello che ti dico, Toby, c'è in lei qualcos'altro.» La macchina oltrepassò il Campidoglio e si fermò davanti al Palazzo Russell. «Arrivo subito, senatrice, e le prometto che terrò gli occhi aperti su Pat Traymore. Non le metterà il bastone tra le ruote.» Saltò fuori dalla macchina per aprire la portiera di Abby. Lei accettò la mano che Toby le porgeva, uscì dalla macchina, poi impulsivamente gli strinse le dita. «Toby, osserva gli occhi di quella ragazza. Hanno qualche cosa... qualche cosa di reticente... come se...»
Non finì la frase. Ma per Toby non era necessario. Alle sei Philip era già in ufficio, in attesa di Pat e della troupe televisiva che doveva effettuare le riprese. Nel Palazzo Russell non si vedeva nessun altro, all'infuori dei guardiani dagli occhi sonnolenti e delle donne delle pulizie dai visi stanchi. Nell'ufficio di Abigail, Pat e il cameraman erano curvi sulla sceneggiatura. «Daremo solo tre minuti a questa sequenza», disse Pat. «Voglio che si veda la senatrice che arriva in ufficio e comincia a lavorare prima che compaia qualcun altro. Poi entra Philip e fa un rapporto... poi un'inquadratura della sua agenda quotidiana, ma senza far vedere la data... poi arriva un collaboratore, i telefoni cominciano a squillare, inquadratura della posta del giorno, la senatrice che riceve alcuni cittadini, la senatrice che parla con un elettore, Phil che entra ed esce portando messaggi. Lei ha capito quello che vogliamo: l'atmosfera da dietro le quinte durante un giorno di lavoro nell'ufficio di un senatore.» Quando arrivò Abigail, erano pronti. Pat spiegò la prima inquadratura alla senatrice che annuì e ritornò nell'ingresso. Le macchine da ripresa ronzavano mentre la senatrice girava la chiave nella toppa. Aveva un'espressione assorta e sicura di sé. Si tolse la mantella di cashmere grigia che copriva un tailleur grigio gessato di buon taglio ma severo. Perfino il modo in cui si passò le dita tra i capelli, mentre si toglieva il cappello, era naturale, il gesto di una persona che cura il suo aspetto ma ha cose più importanti per la testa. «Stop», disse Pat. «Senatrice, era perfetta, esattamente l'atmosfera che volevo.» La lode spontanea suonò condiscendente anche alle sue orecchie. Il sorriso della senatrice Jennings era enigmatico. «Grazie. E adesso?» Pat spiegò la scena della posta, con Phil e l'elettrice, Maggie Sayles. Le riprese procedevano senza difficoltà. Pat si rese conto rapidamente che la senatrice Jennings aveva la capacità istintiva di farsi riprendere sotto l'angolo più favorevole. Il tailleur gessato le conferiva un aspetto manageriale che avrebbe contrastato piacevolmente con la frivolezza della gonna di taffetà indossata per la cena di Natale. Portava degli orecchini e una spilla d'argento rigida e sottile appuntata sulla sciarpa-cravatta di una morbida camicetta di seta grigia. Fu un'idea della stessa senatrice di riprendere l'ufficio in campo lungo, inquadrando così la bandiera degli Stati Uniti e quella della Virginia, mentre nei primi piani che la riguardavano era visibile soltanto la bandiera degli Stati Uniti.
Pat osservava la macchina da presa avvicinarsi ad Abigail che sceglieva con cura una lettera dal mucchio della posta appoggiato alla rinfusa sul suo tavolo, una lettera dalla grafia chiaramente infantile. Un altro tocco di classe, pensò Pat. Era in gamba. Poi entrò un'elettrice, Maggie. Era sua madre che Abigail era riuscita a sistemare in breve tempo nella casa di cura più adatta. Abigail balzò in piedi per riceverla, l'abbracciò affettuosamente, le indicò una sedia... era animata, cordiale, premurosa. Premurosa lo è veramente, pensò Pat. Ero qui quando è riuscita a sistemare la madre di quella donna in una casa per anziani; ma in quel momento la scena le parve un poco forzata. Sono tutti così i politici? Oppure sono io troppo ingenua? Per le dieci avevano finito e, rassicurata Abigail che tutto il necessario era stato fatto, Pat e la troupe televisiva furono pronti per andarsene. «Oggi pomeriggio prepariamo il montaggio provvisorio», disse Pat al regista. «Poi stasera lei lo rivedrà con Luther.» «Credo che sarà fantastico», osservò il cameraman. «Fantastico è un termine esagerato, ma sono sicura che sarà un buon programma», disse Pat. 26 Il sonno di Arthur era stato popolato da sogni in cui gli occhi della signora Gillespie immancabilmente diventavano vitrei. Al mattino era stanco e aveva gli occhi cerchiati. Si alzò, fece il caffè e avrebbe voluto uscire per andare a comprare i panini ma Glory lo pregò di non farlo. «Non ho voglia di mangiare e poi, quando esco per andare al lavoro, tu dovresti riposare un po'. Non hai dormito bene, vero?» «Come lo sai?» Era seduto a tavola di fronte a lei, e la guardava. «Non hai fatto altro che parlare ad alta voce. Ti ha turbato così tanto la morte della signora Gillespie, padre? So bene quanto parlavi di lei, prima.» Un brivido di paura lo percorse. E se avessero interrogato Glory su di lui? Che cosa avrebbe risposto? Certamente non avrebbe mai detto niente con l'intento di nuocergli, ma come poteva sapere lei? Cercò di scegliere le parole con molta prudenza. «Sono solo tanto triste che non sia riuscita a vedere sua figlia prima di morire. Lo desideravamo tanto tutti e due.» Glory bevve il suo caffè e si alzò. «Padre, vorrei che tu ti prendessi un periodo di vacanza e ti riposassi. Probabilmente lavori troppo.»
«Sto benissimo, Glory. Che cosa dicevo nel sonno?» «Continuavi a dire alla signora Gillespie di chiudere gli occhi. Che cosa stavi sognando?» Lo guardava come se avesse quasi paura di lui, pensò Arthur. Che cosa sapeva o che cosa supponeva? Quando fu uscita, lui rimase a fissare la sua tazza, preoccupato, e di colpo si sentì stanco. Si sentiva irrequieto e decise di uscire a fare una passeggiata. Ma non riuscì a rilassarsi e dopo qualche isolato tornò indietro. Era arrivato all'angolo della strada in cui abitava quando notò un certo fermento. Una macchina della polizia era ferma davanti a casa sua. Istintivamente, si tuffò nel portone di una palazzina e rimase in osservazione nell'atrio. Chi cercavano? Glory? O proprio lui? Doveva avvertirla. Doveva fissarle un appuntamento in qualche posto e poi sarebbero scappati un'altra volta. Aveva i trecento dollari in contanti e altri seicentoventidue dollari erano depositati su un libretto di risparmio di Baltimora sotto un altro nome. Sarebbero stati sufficienti fino a quando avesse trovato un nuovo lavoro, e trovare lavoro in una casa di cura era facile: avevano sempre disperatamente bisogno di inservienti. Sgusciò fuori dalla porta sul retro della palazzina, attraversò il cortile che dava sulla strada, arrivò quasi di corsa all'angolo e telefonò a Glory in ufficio. Lei era su un'altra linea. «Me la passi», ordinò iroso alla donna che gli aveva risposto. «È urgente. Le dica che suo padre dice che è importante.» Quando Glory arrivò al telefono, aveva la voce seccata. «Padre, che cosa c'è?» Lui glielo disse. Credeva che avrebbe pianto o si sarebbe dimostrata sconvolta, ma da lei non venne niente... solo silenzio. «Glory?...» «Sì, padre.» La voce quieta, senza vita. «Vieni via subito, non dire niente, fai come se stessi andando alla toilette. Ci vediamo alla fermata della metropolitana centrale, nella stazione all'incrocio tra G. Street e la Dodicesima. Prima che abbiano il tempo di dare l'allarme saremo lontani. Ritiriamo i soldi dalla banca di Baltimora e poi andiamo verso sud.» «No, padre.» La voce di Glory adesso era forte e sicura. «Non ho intenzione di scappare ancora. Grazie, padre. Non devi più scappare per me. Vado alla polizia.» «Glory, no. Aspetta. Andrà tutto bene. Prometti che non lo farai.» Una macchina della polizia stava procedendo lentamente lungo l'isolato.
Non c'era più un minuto da perdere. Mentre lei bisbigliava «Te lo prometto», riappese il ricevitore e si tuffò dentro un portone. Quando la macchina della polizia fu passata affondò le mani nelle tasche e col suo passo rigido, legnoso, si diresse alla stazione della metropolitana. Quella che fece ritorno alla macchina alle dieci e mezzo era una Abigail tutta raddolcita. Toby stava per parlare, ma qualcosa gli suggerì di tener la bocca chiusa. Lascia che sia Abby a decidere se vuole sfogarsi, pensò. «Toby, non ho voglia di andare subito a casa», disse a un tratto Abigail. «Portami al Watergate. Vorrei far colazione anche se è tardi.» «Certo, senatrice.» Rese la sua voce cordiale, come se la richiesta non fosse stata insolita. Sapeva il perché della scelta di Abby: Sam Kingsley abitava nello stesso palazzo in cui si trovava il ristorante. Probabilmente, il prossimo passo, per Abby, sarebbe stato di telefonare di sopra e, se Sam era in casa, invitarlo a scendere per prendere un caffè insieme. Benissimo, ma la chiacchierata tra Kingsley e Pat Traymore nel guardaroba, la sera prima, non era stata casuale. Tra quei due c'era qualcosa. E lui non voleva che Abby soffrisse di nuovo. Si domandò se non fosse il caso di riferirle il fatto. Lanciando un'occhiata dietro le spalle, notò che Abigail si stava ritoccando il trucco nello specchietto della borsetta. «Ha un aspetto favoloso, Abigail», disse. Al Watergate il portiere aprì lo sportello della macchina e Toby notò il sorriso accentuato dell'uomo e l'inchino pieno di rispetto. Diavolo, c'erano cento senatori a Washington, ma solo un vicepresidente. Voglio che sia tu, Abby, pensò. Nessuno ti metterà bastoni tra le ruote, se ho voce in capitolo. Manovrò dirigendosi verso la zona in cui avevano parcheggiato altri autisti, e scese dalla macchina per salutarli. Non si parlava che di Abigail. Riuscì ad afferrare le parole dell'autista di un membro del governo: «Praticamente la senatrice Jennings ha la carica in tasca». Abby, ce l'hai quasi fatta, ragazza mia, pensò esultante. Abby si sarebbe fermata più di un'ora, perciò aveva tutto il tempo di leggere il giornale. Per ultimo aprì il fascicolo dedicato alla moda e ai costumi per scorrere le rubriche. A volte trovava qualche primizia utile che poi passava ad Abby; lei di solito era troppo occupata per leggersi i pettegolezzi. Gina Butterfield era la titolare di quella rubrica che a Washington tutti leggevano. Quel giorno il suo pezzo aveva un titolo che occupava un'intera
pagina. Toby lo lesse, poi lo rilesse, tentando di negare a se stesso quello che vedeva. Il titolo diceva: MINACCE NELLA CASA CHE FU TEATRO DELLA TRAGEDIA ADAMS. COINVOLTA LA SENATRICE ABIGAIL JENNINGS. I primi due paragrafi erano in nero: La giornalista televisiva Pat Traymore, una giovane donna di sicuro successo, assunta dalla Potomac per dirigere un servizio sulla senatrice Jennings, è stata bombardata da lettere e telefonate minatorie; in seguito ha anche subito un'irruzione in casa. Le minacce di morte riguardano le sue decisioni di portare a termine il programma sulla senatrice. Invitata dall'ambasciatore Cardell alla sua selezionatissima cena della vigilia di Natale, l'affascinante Pat ha rivelato di aver preso in affitto la casa che fu teatro, ventiquattro anni fa, dell'omicidio-suicidio Adams. Pat sostiene di non essere disturbata dalla sinistra storia della casa, ma altri invitati, vecchi residenti del quartiere, non parevano altrettanto a loro agio... Il resto del pezzo era dedicato a particolari relativi all'omicidio Adams. L'articolo era corredato da ingrandimenti di foto di repertorio di Dean e Renée Adams, dall'immagine vistosa dei sacchi in cui erano stati impacchettati i cadaveri, da un primo piano della piccola Kerry che veniva trasportata via coperta da fasciature macchiate di sangue. SEI MESI DOPO KERRY ADAMS PERSE LA SUA INDOMITA BATTAGLIA PER LA VITA, diceva la didascalia che accompagnava il primo piano. L'articolo lasciava capire che la sentenza di omicidio-suicidio era stata in realtà un tentativo per mettere a tacere le cose: L'aristocratica signora Patricia Remington Schuyler, madre di Renée Adams, ci tenne a sottolineare il fatto che l'onorevole Adams soffriva di instabilità mentale e anche che stava per divorziare da sua moglie. Molti veterani di Washington ritengono invece che forse Dean Adams fu ingiustamente denigrato e che in realtà quella notte fu Renée a impugnare l'arma del delitto! «Era infatuata di lui e si vedeva», mi ha raccontato un amico, «e lui era così volubile.» La gelosia di Renée arrivò forse quella sera al punto di rottura? Chi può aver scatenato quella tragica esplosione? A ventiquattro anni di distanza, Washington se lo chiede ancora. La fotografia di Abigail con la sua corona di Miss Apple Junction era in
posizione di rilievo. Il trafiletto che l'accompagnava diceva: Per lo più, gli special imperniati su personaggi famosi sono una noia, scialbi rifacimenti nello stile dei vecchi servizi di Ed Murrow. Ma il prossimo programma sulla senatrice Abigail Jennings si conquisterà probabilmente il più alto indice di gradimento della settimana. Dopotutto, la senatrice potrebbe diventare il nostro primo vicepresidente di sesso femminile: tutte le previsioni sono a suo favore. A questo punto ognuno di noi spera che il servizio contenga numerose immagini dell'illustre senatrice anziana della Virginia con la corona di reginetta di bellezza da lei a suo tempo conquistata. Parlando invece seriamente, ci si chiede chi possa odiare tanto Abigail Jennings da minacciare di morte la giornalista che ha ideato il programma su di lei. Metà della pagina di destra recava come sottotitolo: L'ERA PREKENNEDIANA. Era piena di fotografie, molte delle quali semplici istantanee. Il testo che le accompagnava diceva: Per una strana coincidenza, la senatrice Abigail Jennings era, all'epoca, assidua frequentatrice di casa Adams. Lei e il suo defunto marito, l'onorevole Willard Jennings, erano intimi amici di Dean e Renée Adams e anche di John e Jacqueline Kennedy. Queste tre splendide giovani coppie non potevano certo immaginare allora che l'ombra di un tragico destino aleggiava su casa Adams e su tutte le loro vite. C'erano fotografie dei sei giovani insieme e in gruppo con altri, nel giardino della casa di Georgetown e nella proprietà Jennings in Virginia. C'erano anche una mezza dozzina di fotografie di Abigail sola nel gruppo degli amici, dopo la morte di Willard. Toby emise un ringhio selvaggio, infuriato. Cominciò a spiegazzare il giornale tra le mani, come per disintegrare, con la pura forza fisica, quelle pagine nauseabonde, ma era inutile: non era possibile eliminarlo. Avrebbe dovuto mostrare il giornale ad Abby non appena l'avesse riportata a casa. Dio solo sapeva quale sarebbe stata la sua reazione. Eppure doveva mantenersi calma. Tutto dipendeva da questo. Quando Toby accostò la macchina al marciapiede, Abigail era lì, con Sam Kingsley al fianco. Fece per scendere dalla macchina, ma Sam fu pronto ad aprire la porta per Abigail e ad aiutarla a salire. «Grazie per a-
vermi tenuto compagnia, Sam», disse. «Mi sento molto meglio. Mi dispiace che tu non possa venire a cena.» «Hai promesso di invitarmi di nuovo.» Toby tenne un'andatura veloce, impaziente di portare Abby a casa, come se sentisse la necessità di nasconderla alla vista degli altri per poterla sostenere e curare durante quella che sarebbe stata la reazione immediata a quell'articolo. «Sam è davvero unico», disse a un tratto Abby, interrompendo il pesante silenzio. «Lo sai come mi è stato vicino in tutti questi anni... Non so per quale motivo mi fa pensare a Billy. Ho la sensazione, appena la sensazione, Toby, che potrebbe nascere qualche cosa tra noi. Sarebbe come avere un'altra occasione.» Era la prima volta che gli parlava in quel modo, così apertamente. Toby guardò nel retrovisore. Abigail si era appoggiata all'indietro, il corpo rilassato e il viso addolcito da un mezzo sorriso. E lui era il figlio di puttana cui toccava far crollare quella speranza e quella fiducia. «Toby, hai comprato il giornale?» Era inutile mentire. «Sì, senatrice, l'ho comprato.» «Dammelo, per favore.» Lui tese verso il sedile posteriore i primi fogli del giornale. «No, non ho voglia di leggere cose serie. Dove sono le rubriche?» «Non adesso, senatrice.» C'era poco traffico. Stavano attraversando il Chain Bridge. Tra qualche minuto sarebbero stati a casa. «Che cosa significa, non adesso?» Toby non rispose e ci fu un lungo silenzio. Poi Abigail disse, glaciale e nello stesso tempo fragilissima: «C'è forse qualcosa che non va in una delle rubriche... qualcosa che potrebbe nuocermi?» «Qualcosa che non le piacerà, senatrice.» Percorsero in silenzio il resto della strada. 27 Per tutte le vacanze di Natale la Washington ufficiale fu una città morta. Il presidente era nella sua residenza privata nel sudovest; il Congresso non si riuniva; le università erano chiuse per le vacanze. Washington era diventata una città sonnolenta, in attesa di quell'esplosione di attività che avrebbe indicato il ritorno del suo presidente, dei legislatori e degli studenti.
Pat stava tornando a casa in macchina. Il traffico era scarso. Non aveva fame. Qualche pezzetto di tacchino e una tazza di tè era tutto ciò che voleva. Si domandò come se la cavasse Luther ad Apple Junction: aveva già sfoderato il fascino raffinato con cui aveva tentato una volta di sedurla? Sembrava un episodio di tanto tempo prima. E sempre in tema di Apple Junction, si chiese se Eleanor Brown avesse richiamato la signorina Langley. Eleanor Brown. Era un elemento centrale nei dubbi sempre crescenti che Pat nutriva sull'onestà del suo programma televisivo. Quali erano in realtà i fatti? C'era la parola di Eleanor contro quella di Toby. Toby le aveva veramente telefonato per chiederle di recarsi nell'ufficio elettorale a cercare l'anello della senatrice? La senatrice convalidava la tesi di Toby, che al momento della presunta telefonata doveva trovarsi alla guida della macchina che la trasportava. E una parte del denaro era stata ritrovata nel ripostiglio di Eleanor. Ma come aveva potuto quella ragazza pensare di cavarsela con un alibi tanto inconsistente? Mi piacerebbe avere i verbali del processo, pensò Pat. Aprì il suo blocco di appunti e passò in rassegna le frasi che aveva annotato la sera prima. Ancora non portavano a nessuna conclusione logica. Nella pagina seguente scrisse: Eleanor Brown. Che cosa aveva detto Margaret Langley a proposito della ragazza? Tamburellando con la penna sul piano della scrivania, la fronte aggrottata nello sforzo di ricordare, cominciò a prendere nota delle impressioni che aveva ricavato dalla loro conversazione: Eleanor era timida... in classe non teneva mai gomma da masticare in bocca né parlava quando l'insegnante era fuori dell'aula... le piaceva il suo lavoro in Senato... aveva appena avuto una promozione... stava seguendo un corso di pittura... stava andando a Baltimora quel giorno per dipingere... Pat lesse e rilesse i suoi appunti. Una ragazza che svolge bene un lavoro di responsabilità e che ha appena ricevuto una promozione poteva essere tanto stupida da nascondere il denaro rubato nel proprio ripostiglio? Una parte di quel denaro, settantamila dollari, non era stato mai ritrovato. In carcere Eleanor aveva avuto un collasso nervoso. Avrebbe dovuto essere un'attrice consumata per simularlo. Però rimaneva il fatto che aveva violato la parola data.
E Toby? Era stato il testimone che aveva smentito la versione di Eleanor. Aveva giurato di non averle mai telefonato quella mattina. La senatrice Jennings aveva naturalmente confermato la sua versione. Possibile che la senatrice Jennings avesse mentito deliberatamente per difendere Toby, che avesse deliberatamente lasciato condannare una ragazza innocente? Ma supponiamo che qualcuno con la voce di Toby avesse telefonato a Eleanor, pensò Pat, in questo caso tutti e tre, Eleanor, Toby e la senatrice, avrebbero detto la verità. Chi altri poteva sapere dell'esistenza del ripostiglio di Eleanor nel palazzo in cui lei abitava? E che cosa pensare della persona che aveva minacciato lei, Pat, che aveva fatto irruzione in casa sua e che le aveva lasciato la bambola? Che fosse questa persona il fattore X nella scomparsa dei fondi per la campagna elettorale? La bambola. Pat spinse indietro la sedia e tese la mano verso lo scatolone stipato sotto il tavolo della biblioteca, poi ci ripensò. Non aveva voglia di riguardarla. La vista di quella bambola dal viso piangente la turbava troppo. Se non ci fossero state più minacce dopo la messa in onda del programma, l'avrebbe gettata. Se ci fossero state invece altre lettere o telefonate o tentativi di effrazione, avrebbe dovuto mostrarla alla polizia. Sulla pagina seguente del suo blocco di appunti scrisse: Toby, poi si mise a cercare nel cassetto della scrivania le cassette con le registrazioni delle sue interviste. Aveva registrato le parole di Toby in macchina quel primo pomeriggio; lui non se ne era accorto e la sua voce risultava lievemente smorzata. Mise il volume al massimo, accese e cominciò a prendere appunti. Può darsi che Abby abbia rischiato per me... Lavoravo per un allibratore a New York e mi sono quasi messo nei guai... Accompagnavo Abby e Willard Jennings alle feste che si davano in quella casa... una bella bambinetta, Kerry. Fu felice di passare all'intervista con la cameriera, Ethel Stubbins, e con il marito di lei, Ernie. Avevano detto qualche cosa a proposito di Toby. Trovò quel punto, Ernie che diceva: «Me lo saluti. Gli chieda se perde ancora con i cavalli». Anche Jeremy Saunders aveva parlato di Toby. Pat riascoltò le sue osservazioni ironiche a proposito dell'incidente della macchina rubata, il suo racconto di come suo padre avesse pagato per liberarsi di Abigail: «Ho
sempre pensato che ci fosse lo zampino di Toby». Dopo aver ascoltato l'ultima cassetta, Pat lesse ripetutamente le trascrizioni che ne aveva fatto. Sapeva perfettamente che cosa avrebbe dovuto fare: se Eleanor si fosse costituita e fosse tornata in carcere, Pat si ripromise di approfondire quella storia fino a convincersi della colpa o dell'innocenza di quella ragazza. E se alla fine credo alla sua versione, pensò, farò tutto quello che posso per aiutarla. E poi, accada quel che deve accadere... anche per Abigail Jennings. Senza motivo Pat si spostò dalla biblioteca nell'atrio, poi cominciò a salire la scala. Diede un'occhiata verso l'alto, poi esitò. Il gradino dove la scala girava. Era lì che mi sedevo. Impulsivamente si affrettò a salire, sedette su quel gradino, appoggiò la testa alla ringhiera e chiuse gli occhi. Suo padre era nell'atrio. Lei era indietreggiata rifugiandosi nell'ombra, perché sapeva che il padre era in collera, che questa volta non avrebbe scherzato fingendo di non vederla. E poi era corsa di nuovo a letto. Salì di corsa il resto della scala. La sua camera da letto di quando era bambina era dopo la camera degli ospiti, sul retro della casa e dava sul giardino. Adesso era vuota. Vi era entrata solo quella prima mattina in cui i facchini del trasloco si muovevano per la casa, ma non aveva risvegliato in lei nessun ricordo. Adesso le pareva di ricordare il suo letto con il baldacchino bianco ornato di pizzo, la piccola sedia a dondolo accanto alla finestra, il fonografo e gli scaffali pieni di giocattoli. Quella notte tornai a letto. Ero spaventata perché papà era tanto arrabbiato. Il soggiorno si trova proprio sotto questa camera. Sentivo le loro voci; si parlavano gridando. Poi quel rumore forte e la mamma che urlava: «No... no!» La mamma che urlava. Dopo quel rumore forte. Era stata in grado di urlare dopo essere stata colpita, oppure aveva urlato quando si era resa conto di aver colpito il marito? Pat sentì il suo corpo che cominciava a tremare. Si afferrò alla porta per reggersi, si accorse di avere la fronte e le mani madide di sudore. Aveva il respiro corto e affannoso. Ho paura, pensò. Ma devo calmarmi. È stato tanto tempo fa. Si voltò e si accorse che stava correndo per il corridoio, che si precipitava giù per le scale. Sono tornata qui, pensò. Sto per ricordare. Papà, papà, chiamò piano. In fondo alle scale si voltò e incespicando attraversò l'atrio, le braccia tese in avanti. Papà... Papà!
Giunta sulla porta del soggiorno si raggomitolò inginocchiandosi. Ombre indefinite la circondavano, senza però prendere forma. Nascondendo il viso nelle mani cominciò a singhiozzare... «Mamma, papà, tornate.» Si era svegliata e aveva trovato una baby-sitter sconosciuta. Mamma. Papà. Voglio la mia mamma. Voglio il mio papà. E loro erano venuti. La mamma che la cullava. Kerry. Kerry, va tutto bene. Papà che le carezzava i capelli; le braccia di lui che circondavano lei e la mamma. Sss, Kerry, siamo qui. Dopo un momento Pat si lasciò scivolare seduta sul pavimento e appoggiandosi alla parete guardò nella stanza. Un altro ricordo era tornato ed era sicura che fosse esatto. Chiunque fosse stato il colpevole di quell'ultima notte, pensò, i miei genitori mi volevano bene... 28 C'era un cinema, sulla Wisconsin Avenue, che apriva alle dieci. Arthur entrò in una tavola calda lì vicino e perse un po' di tempo prendendo un caffè, poi stette nelle vicinanze finché aprirono la biglietteria. Quando era sconvolto, gli piaceva andare al cinema. Sceglieva un posto in fondo alla sala contro il muro. Si comprava la confezione più grossa di popcorn e stava lì seduto a mangiare e a guardare senza vedere le figure che passavano sullo schermo. Gli piaceva sentire la gente vicina che però lo ignorava, le voci e la musica della colonna sonora, l'anonimato della sala buia. Era un posto dove poteva riflettere. Era stato uno sbaglio appiccare il fuoco. Nel giornale non se ne parlava. Uscendo dalla metropolitana, aveva telefonato alla casa di cura e la telefonista aveva risposto subito. Lui aveva parlato soffocando la voce: «Sono il figlio della signora Harnick. È stato grave l'incendio?» «No, lo hanno scoperto quasi subito. Una sigaretta che finiva di consumarsi nel sacco dell'immondizia. Non sappiamo neppure se gli ospiti della casa se ne siano accorti.» Questo voleva dire che dovevano aver visto la lattina di trementina rovesciata. Nessuno quindi avrebbe creduto a un incidente fortuito. Se solo non avesse parlato del convento. Naturalmente i Benedettini potevano anche limitarsi a rispondere: «Sì, dai nostri registri risulta che Arthur Stevens è stato con noi per un breve periodo». E se la polizia avesse insistito per avere dei particolari? «Se n'è andato
su consiglio del suo direttore spirituale.» «Possiamo parlare con il direttore spirituale?» «È morto qualche anno fa.» Gli avrebbero detto in che modo era morto il direttore spirituale? Avrebbero studiato i registri della casa di cura e avrebbero visto quali pazienti erano morti in quel periodo e a quanti di loro lui aveva dato assistenza? Era sicuro che non avrebbero capito che lui agiva solo per gentilezza, solo per alleviare le loro sofferenze. Era già capitato che lo interrogassero in merito ad alcuni suoi pazienti che erano morti. «Sei stato contento di vederli morire, Arthur?» «Sono stato contento di non vederli più soffrire. Ho fatto tutto il possibile per aiutarli a stare bene o perlomeno a loro agio.» Quando non c'era più speranza, né possibile sollievo alla loro sofferenza, quando i vecchi diventavano troppo deboli anche solo per sussurrare o gemere, quando medici e parenti erano d'accordo nel dire che sarebbe stata una benedizione se Dio se li fosse presi, allora, e solo allora, lui li aiutava ad andarsene. Se avesse saputo che Anita Gillespie era impaziente di rivedere la figlia, avrebbe aspettato. Sarebbe stata una tale gioia per lui sapere che la signora Gillespie era morta felice. Era stato quello il problema. Lei aveva lottato contro la morte. Per questa ragione era così spaventata da non capire che lui stava solo cercando di aiutarla. Era stata la preoccupazione per Glory a renderlo così trascurato. Ricordava la sera in cui aveva cominciato a preoccuparsi. Stavano cenando insieme a casa, e ognuno leggeva un pezzo del giornale, quando Glory aveva gridato: «Santo cielo!» Stava leggendo la pagina del Tribune dedicata ai programmi televisivi e aveva letto del probabile servizio sulla senatrice Jennings. Il programma avrebbe messo a fuoco i punti salienti della sua carriera. Arthur l'aveva pregata di non agitarsi, era sicuro che tutto sarebbe andato bene. Ma lei non lo ascoltava nemmeno. Si era messa a singhiozzare. «Forse è meglio affrontare questa storia», aveva detto. «Non voglio più vivere in questo modo.» Era proprio da allora che il suo atteggiamento aveva cominciato a cambiare, pensò fissando lo schermo davanti a sé e continuando macchinalmente a masticare popcorn. Non gli era stato concesso il privilegio di prendere i voti secondo le regole. Ma privatamente lui aveva fatto il suo
giuramento. Povertà, castità e ubbidienza. Mai una volta li aveva infranti... ma si sentiva tanto solo... Poi aveva conosciuto Glory, nove anni prima. Era seduta nella tetra sala d'aspetto della clinica, stringeva convulsamente la sua bambola di pezza e aspettava il suo turno per vedere lo psichiatra. Era stata la bambola ad attirare la sua attenzione. Qualche cosa lo spinse ad aspettarla. Si incamminarono insieme verso la fermata dell'autobus. Lui le aveva spiegato di essere un prete che aveva deciso di dedicare le sue cure ai malati. Lei gli aveva raccontato tutto di sé, che era stata in carcere per un reato che non aveva commesso e che adesso era in libertà sulla parola e viveva in una camera ammobiliata. «Non mi è permesso di fumare in camera mia», gli aveva raccontato, «e neppure di avere un fornelletto per farmi il caffè o una minestra quando non ho voglia di uscire per andare a mangiare alla tavola calda.» Erano andati a prendere un gelato e improvvisamente si era fatto buio. Glory disse che era in ritardo e che la donna presso cui viveva si sarebbe arrabbiata. Poi si era messa a piangere e a dire che avrebbe preferito morire piuttosto che tornare in quel posto. E lui aveva deciso di portarla a casa. «Fingeremo che sei una bambina che mi è stata affidata», le aveva detto. E lei era proprio come una bambina indifesa. Le aveva dato il suo letto, e si era messo a dormire sul divano. Nei primi giorni Glory passava molte ore coricata a letto a piangere. Per qualche settimana i poliziotti avevano controllato l'ingresso della clinica pensando che ricomparisse, poi avevano perso interesse al suo caso. Avevano deciso di trasferirsi a Baltimora ed era stato allora che lui le aveva proposto di dire a tutti che era sua figlia. «In ogni caso chiamami Padre», aveva aggiunto. E a lei aveva dato nome Glory. Poco alla volta lei aveva cominciato a migliorare. Ma per quasi sette anni non era uscita se non di notte, sicura com'era che un poliziotto l'avrebbe riconosciuta. Lui aveva lavorato in varie case di cura nelle zone di Baltimora, poi, erano ormai passati due anni da allora, era stato necessario partire ed erano venuti ad Alexandria. A Glory piaceva molto vivere vicino a Washington, ma aveva paura di imbattersi in qualcuno che la riconoscesse. Lui la convinse che era un'ipotesi molto remota. «Nessuno di quelli che lavorano nell'ufficio della senatrice si avvicinerebbe mai a questo quartiere.» Eppure, ogni volta che usciva, Glory si metteva gli occhiali scuri. Lentamente le sue crisi depressive cominciarono a diradarsi e Glory smise di curarsi con i
farmaci che Arthur le portava dalla casa di cura. Finì il popcorn. Non avrebbe abbandonato Washington prima dell'indomani sera, dopo aver visto il servizio sulla senatrice Jennings. Lui non aiutava mai una persona ad andarsene se non quando i medici non potevano più fare niente per lei, se non quando le sue voci glielo ordinavano dicendogli che il tempo di quella persona era venuto. Allo stesso modo, non avrebbe condannato Patricia Traymore senza motivo. Se nel programma lei non avesse parlato di Glory o mostrato la sua fotografia, la sua bambina sarebbe stata salva. Le avrebbe dato un appuntamento e se ne sarebbero andati via insieme. Ma se Glory fosse stata indicata a dito come una ladra, si sarebbe costituita. E in carcere sarebbe morta, ne era sicuro. Ne aveva viste abbastanza di persone che avevano perso la voglia di vivere. Ma se questo fosse accaduto, Patricia Traymore sarebbe stata punita per il suo peccato. Si sarebbe recato nella casa dove lei viveva e avrebbe fatto giustizia. N Street numero tremila. Perfino la casa in cui Patricia Traymore viveva era un simbolo di sofferenza e di morte. Il film stava per finire. Dove poteva andare, adesso? Devi nasconderti, Arthur. «Ma dove?» Capì di aver parlato ad alta voce. La donna seduta accanto a lui si voltò a guardarlo. N Street numero tremila, bisbigliarono le voci. Vai lì, Arthur. Passa di nuovo dalla finestra. Ricordati dell'armadio a muro. L'immagine dell'armadio a muro nella camera da letto vuota gli riempì la mente. Sarebbe stato al caldo e al sicuro nascosto dietro le file di ripiani nell'armadio a muro. Nella sala si riaccesero le luci e Arthur si alzò senza esitare. Non doveva attirare l'attenzione su di sé. Adesso sarebbe andato in un altro cinema e dopo in un altro ancora. Poi sarebbe stato buio. Quale luogo migliore per aspettare la trasmissione dell'indomani sera che la casa stessa di Patricia Traymore? Nessuno si sarebbe sognato di cercarlo lì. Deve avere la possibilità di essere assolta, Arthur. Non essere affrettato. Le parole turbinarono nell'aria sopra la sua testa. «Capisco», disse lui. Se non ci fosse stato nessun riferimento a Glory nel programma, Patricia Traymore non avrebbe mai saputo che era stato da lei. Ma se Glory fosse stata identificata, Patricia sarebbe stata giustamente punita. Ci avrebbe pensato lui ad accendere la fiaccola della vendetta. 29
All'una la cameriera di Lila Thatcher ritornò dalla spesa. Lila era nel suo studio e lavorava sul testo di una conferenza che avrebbe dovuto tenere la settimana seguente all'università. L'argomento era: Come scoprire le proprie doti paranormali. Lila era china sulla macchina da scrivere, persa nei suoi pensieri. La cameriera bussò alla porta. «Signora Lila, non mi sembra molto tranquilla.» Parlava con la disinvolta familiarità del subalterno che è diventato un amico fidato. «E non lo sono, Ouida. Per essere una che cerca di insegnare alla gente a servirsi dei propri poteri paranormali, mi sento troppo confusa solo per gestire i miei oggi.» «Ho portato il Tribune. Vuole vederlo adesso?» «Sì, credo di sì.» Cinque minuti dopo, incredula e irritata, Lila leggeva l'articolo di Gina Butterfield. Un quarto d'ora dopo suonava alla porta di Pat. Sgomenta, si accorse che Pat aveva pianto. «Devo farle vedere una cosa», spiegò. Entrarono nella biblioteca. Lila posò il giornale sul tavolo e lo aprì. Osservò Pat leggere il titolo e vide il colore svanire dal suo viso. Impotente, essa scorreva il giornale, guardando le fotografie. «Dio mio, mi fa apparire come una stupida pettegola. Non posso pensare quali saranno le reazioni di tutti quanti... Luther Pelham aveva tagliato dai vecchi film ogni fotogramma di mio padre e di mia madre. Non voleva che si facesse nessun collegamento tra la senatrice e, per citare le sue parole, il casino degli Adams. È come se si fosse messo in moto qualcosa che non posso fermare. Non so se tentare di spiegarlo, rassegnarmici, o cos'altro.» Cercava di ricacciare lacrime di rabbia. Lila cominciò a piegare il giornale. «Non posso darti consigli a proposito del lavoro, ma posso consigliarti di non guardare più questa roba, Kerry. Io dovevo informarti, ma ora mi riporto il giornale a casa. Non è piacevole per te ricordare com'eri quel giorno: una bambola rotta.» Pat afferrò la vecchia signora per il braccio. «Perché dice questo?» «Dico che cosa? Il fatto che ti abbia chiamato Kerry? Mi è scappato.» «No, voglio dire, perché mi ha paragonato a una bambola rotta?» Lila la fissò, poi abbassò lo sguardo sul giornale. «È qui che lo dicono», fece. «L'ho appena letto. Guarda.» Nella prima colonna Gina Butterfield riportava parte della cronaca originale del Tribune sulla tragedia della sua famiglia:
Il capo della polizia Collins, commentando la scena sinistra, ha detto: «È il quadro più macabro che mi sia capitato di vedere. Quando ho visto quella povera piccola simile a una bambola rotta, mi sono chiesto perché l'uomo non avesse ucciso anche lei. Sarebbe stato un gesto pietoso per la bambina». «Una bambola rotta», ripeté Pat con un sussurro. «Quello che l'ha lasciata, chiunque sia, mi ha riconosciuta, mi conosceva allora.» «Lasciato che cosa? Siediti, Pat. Hai la faccia di chi sta per svenire. Vado a prenderti un bicchier d'acqua.» Lila uscì in fretta dalla camera. Pat appoggiò la testa contro lo schienale del divano e chiuse gli occhi. Quando aveva esaminato i resoconti che i giornali davano della tragedia, aveva visto le fotografie dei cadaveri che venivano rimossi e di se stessa, fasciata e sanguinante sulla lettiga. Ma vedere quelle fotografie accostate a quelle delle tre giovani coppie sorridenti e apparentemente spensierate era molto peggio. Non ricordava di aver letto la frase del capo della polizia che veniva riferita sul Tribune. Forse non aveva visto l'edizione del giornale in cui era stata pubblicata. Comunque dimostrava che chi le aveva rivolto quelle minacce conosceva la sua vera identità, l'aveva conosciuta all'epoca della tragedia. Ritornò Lila, con un bicchiere di acqua fresca in mano. «Sto bene», disse Pat. «Lila, la persona che è penetrata in questa casa non aveva lasciato solo un biglietto.» Cercò di tirar fuori lo scatolone da sotto il tavolo, ma era incastrato in modo tale che non riuscì neppure a spostarlo. Non riesco a credere di averlo compresso così, pensò. Intanto, mentre si sforzava di tirarlo fuori raccontò a Lila della bambola che aveva trovato. Lila assorbiva, scioccata, le sue parole. L'intruso aveva lasciato una bambola insanguinata contro il camino? Pat era in pericolo in quella casa. Lei ne aveva avuto la sensazione e il pericolo era ancora presente. Finalmente Pat riuscì a liberare lo scatolone. Lo aprì e frugò rapidamente nel contenuto. Lila osservò il suo viso passare da un'espressione sorpresa alla preoccupazione. «Pat, che cosa c'è?» «La bambola. È scomparsa.» «Sei sicura...» «Certo, sono stata io a mettercela l'altro giorno, le ho tolto il grembiule, faceva star male a guardarlo. L'ho infilato sul fondo. Forse c'è ancora.» Pat
frugò meglio nello scatolone. «Guardi, eccolo qua.» Lila osservava il piccolo quadrato di cotone bianco spiegazzato, coperto di macchie brunorossastre, con le fettucce della cintura che pendevano abbandonate ai lati. «Quando hai visto la bambola per l'ultima volta?» «Sabato pomeriggio. L'avevo tirata fuori sul tavolo. È venuto l'autista della senatrice a portarmi altri album di fotografie e io l'ho nascosta di nuovo nello scatolone. Non volevo che la vedesse.» Pat s'interruppe bruscamente. «Aspetti. Toby aveva qualche cosa di strano quando è entrato. Era brusco e continuava a guardarsi intorno. Io non avevo risposto subito alla scampanellata e credo si sia chiesto che cosa stessi facendo; poi non ha voluto che lo accompagnassi alla porta e quando ho sentito la porta chiudersi ho pensato di andare a mettere il catenaccio, stavo per farlo... ma ho visto la porta riaprirsi. Toby aveva in mano qualche cosa che poteva essere una carta di credito. Ha cercato di farmi credere che stava solo controllando la serratura per me e mi ha consigliato di mettere sempre il catenaccio. «Lui mi conosceva quand'ero piccola. Forse è stato lui a fare quelle minacce. Ma perché?» Erano le prime ore del pomeriggio, ma la giornata si era fatta grigia e nuvolosa. La boiserie di legno scuro e la luce del crepuscolo facevano apparire Pat piccola e vulnerabile. «Dobbiamo immediatamente chiamare la polizia», disse Lila. «Interrogheranno quell'uomo.» «Non posso farlo. Si immagina che cosa penserebbe la senatrice? E poi è solo una possibilità. Però conosco qualcuno che può far effettuare delle indagini su Toby senza che si sappia.» Lesse lo sgomento sul viso di Lila. «Andrà tutto bene», la rassicurò. «Terrò il catenaccio alla porta... e poi, Lila, se qualcosa di ciò che è accaduto fosse davvero un tentativo per impedire il programma, è troppo tardi. Stasera riprendiamo la senatrice che torna a casa. Domani giriamo qualche scena in studio, e domani sera va in onda il servizio. Dopo di che, non avrà più alcun senso spaventarmi. E comincio a pensare che era proprio questo lo scopo: solo un tentativo di spaventarmi per farmi rinunciare.» Lila se ne andò qualche minuto dopo. Pat doveva trovarsi nello studio della Potomac alle quattro. Promise alla vecchia signora che avrebbe telefonato al suo amico deputato Sam Kingsley e che gli avrebbe chiesto di far svolgere delle indagini su Toby. Con grande sgomento di Lila, insistette per tenere il giornale. «Voglio leggerlo attentamente e vedere che cosa di-
ce. Se non me lo lasciasse ne comprerei un altro.» La cameriera di Lila aprì la porta mentre la vecchia signora saliva i pochi gradini dell'ingresso. «Ero preoccupata, signora Lila», spiegò. «Non ha finito di mangiare e pareva sconvolta quando è uscita.» «Guardavi per vedermi tornare, Ouida?» Lila entrò in sala da pranzo e si avvicinò alle finestre che davano sulla strada. Da lì poteva vedere tutta la parte del giardino che dava sulla strada e il fianco destro della casa di Pat. «Non funziona», mormorò. «Quell'uomo dev'essere passato dalla finestra sulla terrazza e io da qui non la vedo.» «Che cosa sta dicendo, signora Lila?» «Niente. Ho pensato di sistemare la mia macchina da scrivere su questo tavolo sotto la finestra. Devo stare in campana!» «In campana?» «Sì, vuol dire stare all'erta. C'è qualcosa che non va.» «Dove? Nella casa della signorina Traymore? Crede che quel vagabondo possa ritornare?» Lila fissò l'oscurità innaturale che avvolgeva la casa di Pat. Con la netta consapevolezza che la risposta le veniva dalle sue facoltà paranormali, disse cupamente: «Ne sono quasi sicura». 30 Dal momento in cui Arthur le aveva telefonato, Glory aveva aspettato l'arrivo della polizia. Alle dieci la porta dell'ufficio immobiliare si aprì ed entrò un uomo sui trentacinque anni. Lei alzò lo sguardo e vide una macchina della polizia parcheggiata di fronte all'ufficio. Le dita le scivolarono dalla tastiera della macchina da scrivere. «Ispettore Barrott», disse l'uomo e le mostrò un distintivo. «Vorrei parlare con Gloria Stevens. È qui?» Glory si alzò, sapeva perfettamente le domande che le avrebbe rivolto: Il suo vero nome non è Eleanor Brown? Perché è mancata alla parola? Per quanto tempo ancora pensava di farla franca? L'ispettore Barrott le si avvicinò. Aveva un viso franco, rotondo, con capelli biondo rossicci che si arricciavano intorno alle orecchie. Gli occhi erano indagatori ma non privi di cordialità. Glory pensò che dovesse essere all'incirca della sua stessa età e che per qualche verso sembrava meno terribile di quel poliziotto sprezzante che l'aveva interrogata quando avevano ritrovato dei soldi nel suo ripostiglio.
«La signorina Stevens? Stia tranquilla. Potrei parlarle privatamente?» «Possiamo entrare qui.» Gli fece strada nel piccolo ufficio privato del signor Schuller. C'erano due sedie di pelle davanti alla scrivania: si accomodarono. «Sembra spaventata», fece l'uomo gentilmente. «Non ha di che preoccuparsi. Vogliamo solo parlare con il suo papà. Sa dove possiamo trovarlo?» Parlare con il suo papà. Padre! Deglutì. «Quando sono uscita per venire al lavoro era a casa. Probabilmente se non c'è sarà andato dal fornaio.» «Non è rientrato. Forse quando ha visto la macchina della polizia di fronte a casa, ha deciso di non rientrare. Crede che potrebbe essere da qualche parente o amico?» «Non... non lo so. Perché volete parlare con lui?» «Solo per fargli qualche domanda. Per caso le ha telefonato nella mattinata?» Quell'uomo credeva che Arthur fosse suo padre. Non si occupava di lei. «Ha... ha telefonato. Ma io ero impegnata con il direttore.» «Che cosa voleva?» «Voleva vedermi, ma io gli ho detto che non potevo.» «Dove voleva vederla?» Le parole del padre le risuonarono nelle orecchie. La metropolitana centrale... incrocio tra G Street e la Dodicesima... Lui forse era là, adesso? Era nei guai? Arthur si era preso cura di lei per tutti quegli anni, ora lei non poteva fargli del male. Scelse le parole cautamente. «Non potevo rimanere al telefono... Gli... gli ho solo detto che non potevo allontanarmi dall'ufficio e in pratica ho riattaccato. Perché volete parlare con lui? È successo qualcosa?» «Be', forse niente.» La voce dell'ispettore era gentile. «Suo padre le parla dei suoi pazienti?» «Sì.» A quella domanda era più facile rispondere. «Si preoccupa tanto di loro.» «Le ha mai parlato della signora Gillespie?» «Sì. È morta la settimana scorsa, vero? Lui ne era così triste. Per via della figlia che doveva venirla a trovare e che non ha fatto in tempo a vederla...» Si ricordò come aveva gridato nel sonno. «Chiuda gli occhi, signora Gillespie. Chiuda gli occhi.» Forse aveva commesso un errore mentre accudiva alla signora Gillespie e loro glielo rimproveravano. «Le è sembrato diverso, ultimamente... nervoso o qualcosa del genere?» «È l'uomo più gentile che conosco. Dedica tutta la vita ad aiutare gli al-
tri. Anzi, alla casa di cura lo hanno appena pregato di andare nel Tennessee per prestare il suo aiuto.» L'ispettore sorrise: «Quanti anni ha, signorina Stevens?» «Trentaquattro.» Lui parve sorpreso. «Non li dimostra. Secondo i registri della casa di cura, Arthur Stevens ne ha quarantanove.» S'interruppe, poi aggiunse con voce amichevole: «Non è il suo vero padre, vero?» Tra poco l'avrebbe inchiodata con le domande. «Era un prete ma a un certo punto decise di dedicare tutta la vita alla cura degli infermi. Quando ero molto malata e non avevo nessuno, mi prese con sé.» Adesso le avrebbe chiesto il suo vero nome. Ma non lo fece. «Capisco. Signorina... signorina, noi vogliamo parlare con... con padre Stevens. Se le telefona, vuole mettersi in contatto con me?» Le diede il suo biglietto da visita. ISPETTORE WILLIAM BARROTT. Lei poteva percepire che la stava studiando. Perché non le faceva altre domande su di lei, sul suo passato? Adesso se n'era andato. Rimase seduta nell'ufficio privato finché entrò Opal. «Gloria, c'è qualcosa che non va?» Opal era una buona amica, la migliore che lei avesse mai avuto. L'aveva aiutata a pensare di nuovo a se stessa come a una donna. La spingeva sempre ad andare alle feste e le diceva che il suo amico avrebbe portato qualcuno anche per lei. Lei aveva sempre detto di no. «Gloria, che cos'è che non va?» ripeté Opal. «Hai un'aria terribile.» «No, non c'è niente che non va. Ho mal di testa. Credi che potrei tornare a casa?» «Certo, finisco io di battere a macchina il tuo lavoro. Gloria, se c'è qualcosa che posso fare...» Glory guardò il viso turbato dell'amica. «Niente altro, ma grazie di tutto.» S'incamminò verso casa. Il termometro era di qualche grado sopra lo zero, ma la giornata era rigida e il freddo la faceva rabbrividire passando attraverso la giacca e i guanti. L'appartamento, con i miseri mobili presi in affitto, pareva stranamente vuoto, come se si sentisse che loro stavano per partire. Si avvicinò all'armadio a muro del corridoio e trovò la valigia nera malridotta che Arthur aveva comprato a una vendita di roba vecchia in un garage. Vi mise i suoi pochi capi di abbigliamento, i cosmetici e il libro nuovo che le aveva regalato Opal per Natale. La valigia non era grande, le
serrature erano arrugginite e fu difficile aprirla. C'era un'altra cosa... la sua bambola di pezza. Al centro di igiene mentale lo psichiatra le aveva chiesto di disegnare come si vedeva, ma chissà perché lei non ci riusciva. La bambola era su uno scaffale insieme con alcuni altri oggetti e lui gliel'aveva data. «Credi di potermi far vedere che aspetto avrebbe questa bambola se fossi tu?» Non era stato difficile dipingere le lacrime, esprimere l'aria spaventata negli occhi e modificare la piega della bocca in modo che invece di sorridere paresse in procinto di gridare. «Così brutta?» aveva chiesto il dottore quando lei aveva finito. «Peggio.» Oh, padre, pensò, magari potessi stare qui e aspettare finché tu mi telefoni. Ma stanno per scoprire tutto su di me. Quell'ispettore probabilmente avrà già fatto dei con trolli. Non posso più scappare. Finché ne ho il coraggio, devo costituirmi. Forse mi aiuterà a ottenere una condanna più mite perché ho mancato alla parola. Una promessa avrebbe potuto rispettarla. La signorina Langley le aveva chiesto di telefonare alla famosa Patricia Traymore della televisione prima di fare qualsiasi cosa. Così fece la telefonata, disse che cosa aveva intenzione di fare e ascoltò impassibile l'arringa appassionata di Pat. Finalmente, alle tre uscì. Una macchina era parcheggiata nella strada, con dentro due uomini. «Quella è la ragazza», disse uno di loro. «Mentiva quando ha detto che non pensava di incontrarsi con Stevens.» Nella sua voce una sfumatura di delusione. L'altro premette il piede sull'acceleratore. «Te l'avevo detto che non diceva la verità. Scommetto dieci dollari che adesso ci porterà da lui.» 31 Pat attraversò di volata la città per recarsi nel ristorante Lotus Inn, in Wisconsin Avenue. Tentava disperatamente di elaborare qualche modo per persuadere Eleanor Brown a non costituirsi, almeno per il momento. Doveva esserci un modo per far ascoltare a Eleanor il discorso della ragione. Aveva tentato di mettersi in contatto con Sam, ma dopo cinque squilli aveva sbattuto giù il telefono ed era uscita di corsa. Adesso, correndo verso il ristorante, si domandava se avrebbe riconosciuto la ragazza di cui aveva visto solo le fotografie dell'epoca in cui frequentava le scuole medie. E chissà se usava il suo vero nome? Probabilmente no.
La proprietaria del locale si fece avanti per accoglierla: «È la signorina Traymore?» «Sì, sono io.» «La signorina Brown l'aspetta.» Era seduta a un tavolo verso il fondo della sala e sorseggiava dello chablis. Pat si lasciò cadere nella sedia di fronte alla sua, cercando di concentrarsi su quello che le avrebbe detto. Eleanor Brown non era cambiata molto rispetto alla fotografia. Era naturalmente più vecchia, non più così terribilmente magra e più carina di quanto Pat si fosse aspettata, ma inequivocabilmente lei. Parlò piano: «La signorina Traymore? La ringrazio di esser venuta». «Eleanor, per favore, mi ascolti. Possiamo farle avere un avvocato. Lei può rimanere in libertà su cauzione mentre elaboriamo qualche cosa. Ha violato la parola mentre era in preda a una crisi depressiva. Ci sono tanti di quegli elementi a cui un buon avvocato può appigliarsi.» Si avvicinò il cameriere con un antipasto di gamberetti. «Vuole ordinare qualche cosa?» disse Eleanor. «No, niente. Eleanor, ha capito quello che ho detto?» «Sì, ho capito.» Eleanor intinse un gamberetto nella salsa dolce. «Che buono!» Aveva il viso pallido ma deciso. «Signorina Traymore, spero che lei riesca a farmi rinnovare il provvedimento di libertà sulla parola ma, se non fosse possibile, adesso sono abbastanza forte per scontare la pena che mi hanno inflitto. Posso dormire in una cella, indossare l'uniforme da carcerata, mangiare quella sbobba che chiamano cibo e rassegnarmi alle perquisizioni e alla noia. Quando uscirò non dovrò più nascondermi e ho intenzione di passare il resto della mia vita a tentare di dimostrare la mia innocenza.» «Ma il denaro, Eleanor, non è stato trovato in suo possesso?» «Signorina Traymore, metà di quelli dell'ufficio sapevano dell'esistenza di quel ripostiglio. Quando traslocai in un altro appartamento, mi aiutarono sei o otto persone. Fu quasi un divertimento per noi. Alcuni mobili che non potevo utilizzare furono messi nel ripostiglio, nello stesso in cui fu poi trovato il denaro, ma i settantamila dollari sono finiti nelle tasche di qualcun altro.» «Eleanor, lei sostiene che Toby le telefonò e lui disse di non averlo fatto. Non le parve insolita la richiesta di andare in ufficio di domenica?» Eleanor spinse da parte i gusci nel suo piatto. «No. Vede, la senatrice stava svolgendo la campagna per la rielezione. Dal quartier generale si
spedivano un sacco di lettere di propaganda elettorale. Lei spesso si affacciava a quell'ufficio o aiutava i volontari, tanto per farli sentire importanti. In questi casi, si toglieva l'anello, quel grosso diamante la infastidiva, solo che dopo, qualche volta, si dimenticava di rimetterlo. Non era mica la prima volta...» «E Toby o qualcuno con la voce di Toby le disse che lo aveva perso o dimenticato anche quella volta?» «Sì. Io sapevo che era stata al quartier generale il sabato ad aiutare per le spedizioni, perciò mi pareva abbastanza facile che potesse averlo dimenticato in quell'ufficio un'altra volta e che probabilmente uno dei collaboratori più importanti gliel'avesse messo per sicurezza in cassaforte. Io credo che Toby stesse guidando la macchina con la senatrice a bordo nel momento in cui mi telefonò. La sua voce era smorzata e quello che disse fu estremamente conciso. Era una frase del tipo: 'Vada a vedere se l'anello della senatrice si trova nella cassaforte dell'ufficio per la campagna elettorale e glielo faccia sapere'. Io ne fui seccata, perché volevo andare a Richmond a dipingere e dissi anche qualcosa come 'scommetto che ce l'ha sotto il naso'. L'uomo al telefono fece una specie di risatina e riattaccò. Se Abigail Jennings non avesse parlato tanto di quella seconda occasione che mi aveva dato e non mi avesse definita una recidiva, avrei avuto maggiori probabilità di ottenere l'insufficienza di prove. Ho perso undici anni della mia vita per una cosa che non ho commesso e non ho intenzione di perdere neppure un giorno di più.» Si alzò e lasciò dei soldi sul tavolo. «Questo dovrebbe essere sufficiente.» Si chinò, prese la valigia, poi tacque un momento. «Lo sa qual è la cosa più dura per me adesso? Mancare alla promessa che ho fatto all'uomo con cui vivo e che è stato così buono per me. Mi aveva chiesto di non andare alla polizia. Vorrei potergli spiegare perché ci vado, ma non so dove trovarlo.» «Posso telefonargli io più tardi? Come si chiama? Dove lavora?» «Si chiama Arthur Stevens. Credo che abbia qualche problema con il lavoro. Non ci sarà. Lei non può fare niente, comunque la ringrazio. Spero che il suo programma abbia molto successo, signorina Traymore. Ero terribilmente sconvolta quando lessi le sue intenzioni: sapevo che, se avessero trasmesso una mia fotografia, nello spazio di ventiquattr'ore sarei stata di nuovo in carcere. Ma vede, questo mi ha fatto anche capire quanto ero stanca di scappare, mi ha dato il coraggio di affrontare nuovamente l'idea di tornare in prigione. È l'unico modo per poter essere, un giorno, veramente libera. Mio padre, voglio dire Arthur Stevens, questo non poteva ac-
cettarlo. E adesso è meglio che vada prima che mi manchi il coraggio.» Impotente, Pat la guardò allontanarsi. Mentre Eleanor usciva dal ristorante, due uomini seduti a un tavolo d'angolo si alzarono e la seguirono. 32 «Abby, cerchi di calmarsi, non è poi così terribile...» Erano quarant'anni che la conosceva, ma quella era solo la terza volta che la teneva tra le braccia. Abigail stava singhiozzando disperatamente. «Perché non mi hai detto che abitava in quella casa?» «Non ce n'era ragione.» Erano nel soggiorno di Abigail; Toby le aveva mostrato l'articolo appena erano arrivati, poi aveva tentato di calmare l'inevitabile esplosione. «Abby, domani questo giornale servirà a foderare i secchi dell'immondizia.» «Io non voglio foderare i secchi dell'immondizia!» gridò lei. Lui versò uno scotch liscio e glielo fece bere. «Forza, senatrice, si tiri su. Magari c'è un fotografo nascosto tra i cespugli», cercò di scherzare. «Piantala, maledetto idiota.» Ma le parole di lui erano state sufficienti a scuoterla. E dopo aver bevuto si era messa a piangere: «Toby, è come nei vecchi giornali scandalistici. E quella fotografia. Toby, quella fotografia!» e non alludeva alla fotografia di se stessa con Francey. Lui l'abbracciò, le diede piccole pacche goffe sulla schiena e si rese conto, con l'ottusità di un dolore da lungo tempo accettato, di non essere per lei niente altro che una ringhiera dove afferrarsi quando perdeva l'equilibrio. «Se qualcuno si mette a guardare per bene quelle fotografie! Toby, guarda questa qui.» «Nessuno ha intenzione di rompere le scatole.» «Toby, quella ragazza... quella Pat Traymore. Com'è stato che ha preso in affitto quella casa? Non può essere una coincidenza.» «La casa è stata affittata a dodici diversi inquilini negli ultimi ventiquattro anni. Lei è soltanto la tredicesima.» Toby tentò di rendere la propria voce sincera. Non credeva neanche lui a quello che stava dicendo, ma, d'altra parte, Phil ancora non era stato capace di scoprire i particolari di quel contratto d'affitto. «Senatrice, deve resistere. Chi ha fatto quelle minacce a Pat Traymore...» «Toby, come possiamo essere sicuri che ci sono state delle minacce?
Come sappiamo che non si tratta di un ben studiato tentativo per sbarazzarsi di me?» Lui ne fu così allarmato che fece un passo indietro. Di riflesso lei si staccò da lui, e rimasero tutti e due a fissarsi. «Dio onnipotente, Abby, pensa che quella ragazza abbia progettato tutto questo?» Lo squillo del telefono li fece trasalire entrambi. Toby la guardò: «Vuole che io...» «Sì.» Si portò le mani al viso. «Non me ne importa un accidente di chi telefona. Io non ci sono.» «Casa della senatrice Jennings.» Toby aveva assunto la sua voce da maggiordomo. «Può lasciare a me il messaggio se vuole. La senatrice non è in casa per il momento.» Strizzò l'occhio ad Abby e fu ricompensato dall'ombra di un sorriso. «Il presidente... Oh, solo un momento, signore.» Coprì il microfono con la mano. «Abby, è il presidente che la vuole...» «Toby, non azzardarti...» «Abby, è il PRESIDENTE, cribbio!» Lei si coprì le labbra con una mano, poi si avvicinò e prese il ricevitore. «Se credi di prendermi in giro...» poi proseguì: «Parla Abigail Jennings». Toby la osservò cambiare espressione. «Signor presidente. Mi scusi tanto... mi scusi... Qualcosa da leggere... per questo avevo dato disposizioni... mi scusi... Sì, naturalmente. Sì, posso venire domani sera alla Casa Bianca... alle otto e mezzo, naturalmente. Sì, abbiamo avuto molto da fare con quel programma. Sinceramente, non mi sento molto a mio agio nella parte di protagonista di una cosa del genere... Be', molto gentile da parte sua... Intende dire, signor presidente... Naturalmente, capisco... Grazie, signor presidente.» Riattaccò, guardando Toby come inebetita. «Non devo dirlo ad anima viva. Domani sera, dopo il programma, annuncerà che ha scelto me. Ha detto che non è sbagliato fare in modo che il paese mi conosca un po' meglio: ha riso della copertina del Mirror; ha detto che anche sua madre era un pezzo di donna, ma che io sono molto più carina adesso di quando avevo diciassette anni. Toby, sarò vicepresidente degli Stati Uniti!» Fece una risata isterica e si lanciò verso di lui. «Abby, ce l'ha fatta!» e la fece piroettare per aria. Un attimo dopo il viso di lei era alterato dalla tensione. «Toby, non deve succedere niente... Niente deve impedire questo...» Lui la rimise a terra e le chiuse le mani nelle sue: «Abby, giuro che tutto filerà liscio».
Lei si mise a ridere e poi ricominciò a piangere. «Toby, sono sulle montagne russe. Tu e quel dannato scotch. Lo sai che non posso bere. Toby... vicepresidente!» Dovette acquetarla. Con la voce carezzevole andava dicendo: «Dopo ci facciamo un giretto, una specie di ricognizione davanti alla sua nuova casa, Abby. Finalmente sta per avere una residenza. Il prossimo passo è Massachusetts Avenue». «Toby, piantala. Fammi solo una tazza di tè. Voglio farmi una doccia e tentare di rimettermi in sesto. Vicepresidente! Dio mio, Dio mio!» Lui mise il bricco dell'acqua sul fuoco poi, senza preoccuparsi di indossare il cappotto, andò fino alla cassetta delle lettere di fronte alla strada e l'aprì. La solita raccolta di robaccia: scontrini, concorsi, Lei può essere il vincitore di due milioni di dollari... Il novanta per cento della posta personale di Abby passava dall'ufficio. Poi la vide. La busta azzurra con l'indirizzo scritto a mano. Un biglietto personale per Abby. Guardò l'angolo in alto a sinistra e sentì ogni goccia di sangue abbandonare il suo viso. Il biglietto era di Catherine Graney. 33 Sam stava percorrendo in macchina la Settima strada, già un po' in ritardo per l'appuntamento di mezzogiorno che aveva preso con Larry Saggiotes, dell'Ufficio per la sicurezza dei trasporti nazionali. Dopo aver lasciato Pat, era ritornato a casa ed era rimasto sveglio per la maggior parte della notte, passando dall'ira a un pacato esame delle accuse che Pat gli aveva mosso. «Posso fare qualcosa per lei, signore?» «Cosa? Ah, scusi.» Impacciato, Sam si rese conto di essere stato tanto assorto nei suoi pensieri da essere arrivato nell'ingresso del grande edificio ministeriale senza accorgersi di passare dalla porta girevole. L'addetto alla sicurezza lo stava guardando in modo strano. Salì all'ottavo piano e disse il suo nome all'impiegata della reception. «Ci vorrà solo qualche minuto, signore.» Sam si accomodò a sedere. Molti pensieri si confondevano nella sua testa. Abigail e Willard Jennings avevano avuto una discussione violenta quell'ultimo giorno? si domandava. Ma questo non poteva significare niente, ricordò di aver lui stesso a volte minacciato di lasciare il Congresso, per
trovarsi un lavoro che gli avrebbe dato in parte il lusso che Janice si meritava, sua moglie aveva controbattuto e si era infuriata con lui, e chiunque li avesse uditi avrebbe potuto pensare che non si sopportavano a vicenda. Forse quel giorno la moglie del pilota aveva sentito Abigail bisticciare con Willard Jennings. Forse Willard era disgustato chissà per che cosa e pronto a rinunciare alla politica, e lei non voleva che si bruciasse la carriera. Sam aveva telefonato al suo amico Jack Carlson dell'FBI e l'aveva pregato di ritrovargli la relazione dell'incidente. «Un incidente di ventisette anni fa? Potrebbe essere difficile», aveva detto Jack. «L'Ufficio per la sicurezza dei trasporti nazionali adesso si occupa delle indagini sui disastri aerei, ma a quell'epoca esse erano di competenza della Direzione dell'aeronautica civile. Ti richiamo più tardi.» Alle nove e mezza Jack aveva ritelefonato. «Sei fortunato», aveva detto, laconico. «La maggior parte delle relazioni dopo dieci anni vengono stracciate, ma quando nell'incidente sono state coinvolte persone importanti, le relazioni delle indagini vengono conservate nel magazzino dell'Ufficio per la sicurezza. Ci sono ancora i dati degli incidenti in cui furono coinvolti da Amelia Earhart e Carole Lombard a Dag Hammarskjòld e Hale Boggs. Il mio uomo lì è Larry Saggiotes. Si farà portare la relazione e le darà un'occhiata. Mi ha chiesto se puoi essere da lui verso mezzogiorno, così la guarderete insieme.» «Mi scusi, signore. Il signor Saggiotes può riceverla subito.» Sam alzò lo sguardo: aveva la sensazione che l'impiegata della reception avesse tentato ripetutamente di attirare la sua attenzione. Mi devo svegliare, pensò, e la seguì per il corridoio. Larry Saggiotes era un pezzo d'uomo, con lineamenti e colorito che denunciavano l'origine greca. Si salutarono, poi Sam fornì una versione accuratamente preparata del motivo per cui doveva indagare sull'incidente. Larry si appoggiò allo schienale, corrugando la fronte. «Bella giornata qui, vero?» osservò. «Ma a New York c'è la nebbia, a Minneapolis fa un freddo glaciale e a Dallas piove a dirotto. Eppure entro le prossime ventiquattr'ore ventimila aerei commerciali, militari o privati decolleranno e atterreranno nel nostro paese. E i pronostici per l'incolumità di ognuno di essi sono incalcolabilmente alti. È per questo che quando un aereo che è stato controllato da un meccanico esperto ed è guidato da un pilota di prim'ordine in una giornata di buona visibilità finisce improvvisamente contro una montagna e i relitti ne risultano sparpagliati per un raggio di cinque chilometri quadrati di terreno roccioso, noi non siamo affatto felici.»
«L'aereo di Jennings?» «L'aereo di Jennings», confermò Larry. «Ho appena finito di leggere la relazione. Che cosa accadde? Non lo sappiamo. L'ultimo contatto con George Graney si ebbe quando lasciò la torre di controllo a Richmond. Niente lasciava pensare che ci fossero problemi. Era un volo di routine di due ore. E poi l'aereo non arrivò.» «E il verdetto fu: errore del pilota?» chiese Sam. «Probabile causa: un errore del pilota. Va a finire sempre così quando non si arriva a un'altra risposta. Era un bimotore Cessna quasi nuovo, perciò gli ingegneri della casa si diedero da fare per dimostrare che l'aereo era assolutamente a posto. La vedova di Willard Jennings pianse tutte le sue lacrime ricordando che odiava i piccoli aerei da noleggio, e che suo marito si era spesso lamentato con Graney per degli atterraggi troppo burrascosi.» «Venne mai presa in considerazione la possibilità di un sabotaggio?» «Onorevole, in un caso come questo si prende sempre in considerazione una simile ipotesi. In primo luogo, cerchiamo di capire in che modo l'apparecchio può essere stato sabotato: ci sono moltissimi sistemi estremamente difficili da individuare. Per esempio, con tutto il nastro magnetico che viene usato oggi, un magnete potente nascosto nella carlinga potrebbe mandare a farsi fottere tutta la strumentazione. Ventisette anni fa, questo non sarebbe accaduto. Ma se qualcuno avesse sabotato il generatore dell'aereo di Graney, per esempio, sfilacciato o tagliato un filo, Graney avrebbe perso potenza proprio mentre stava sorvolando le montagne. Le possibilità di recuperare prove utili sarebbero state trascurabili. L'interruttore del carburante poteva essere un'altra possibilità. Quell'aereo aveva due serbatoi. Il pilota passava al secondo serbatoio quando la lancetta del primo indicava che questo era vuoto. Mettiamo che l'interruttore non funzionasse. Non avrebbe avuto nessuna possibilità di collegarsi con il secondo serbatoio. E poi, naturalmente, abbiamo l'acido corrosivo. L'ipotetico sabotatore potrebbe aver messo a bordo un contenitore di quella roba che perdeva. Poteva metterlo tra i bagagli, sotto un sedile... non ha importanza. In poco più di una mezz'ora, l'acido avrebbe corroso i cavi e l'apparecchio sarebbe diventato impossibile da controllare. Ma questo sistema sarebbe stato più facile da scoprire.» «Uno di questi elementi fu scoperto dalla commissione d'inchiesta?» chiese Sam. «Di quell'aereo non fu recuperato neppure quanto bastava per fare una scatola di cerini. In questi casi la nostra prassi è cercare un movente. E non
ne trovammo proprio nessuno. La compagnia di aerei da noleggio di Graney stava andando bene; il pilota personalmente non aveva firmato di recente alcuna polizza di assicurazione; il deputato ne aveva una così modesta da risultare sbalorditiva, ma quando si hanno quattrini, immagino non ci si preoccupi dell'assicurazione. A proposito, è la seconda volta che mi chiedono una copia di questa relazione. La settimana scorsa è venuta a chiedermela la vedova di George Graney.» «Larry, per quanto è possibile, sto cercando di fare in modo che la senatrice Jennings non debba esser messa in imbarazzo da una riapertura di tutta questa storia... e naturalmente studierò la relazione personalmente, ma mi lasci formulare una domanda brutalmente: c'era qualche cosa da cui si poteva ricavare l'idea che George Graney fosse un pilota inesperto o sbadato?» «Assolutamente no. Aveva un curriculum impeccabile, onorevole. Ha prestato servizio in aeronautica durante tutta la guerra di Corea; da un paio d'anni, lavorava per la United. Questo genere di volo era per lui un gioco da ragazzi.» «E la sua attrezzatura?» «Sempre in ottimo stato. I suoi meccanici erano tra i migliori.» «Perciò la sua vedova aveva reali e validi motivi per essere sconvolta dal fatto che la colpa dell'incidente fosse ricaduta su George Graney.» Larry mandò in aria un cerchio di fumo delle dimensioni di una ciambella. «Può scommetterci!» disse. «Più che validi.» 34 Alle quattro e dieci Pat riuscì a raggiungere Sam, telefonandogli dall'atrio del palazzo della Potomac. Senza far cenno al loro bisticcio, gli disse di Eleanor Brown. «Non sono riuscita a fermarla. Era decisa a costituirsi.» «Calmati, Pat. Manderò un avvocato a parlarle. Per quanto tempo rimani alla Potomac?» «Non lo so. Hai visto il Tribune oggi?» «Solo i titoli.» «Leggi le rubriche nella seconda parte. Una columnist che ho conosciuto l'altra sera ha sentito dove abitavo e ha ritirato tutto in ballo.» «Pat, io sono qui. Ti aspetto quando hai finito con la Potomac.» Luther la stava aspettando nel suo ufficio. Lei aveva pensato che l'a-
vrebbe aggredita e insultata, invece Luther mantenne un certo contegno. «Le riprese ad Apple Junction sono andate bene», disse. «Nevicava ieri e tutto quello schifo di foreste pareva il sogno americano. Abbiamo ripreso la casa dei Saunders, la scuola media con davanti il presepio e il corso con il suo albero di Natale. Abbiamo messo un cartello davanti al municipio: Apple Junction, città natale della senatrice Abigail Foster Jennings.» Aspirò la sigaretta. «Quella vecchia signora, Margaret Langley, ci ha concesso una buona intervista: ha un certo stile ed è molto affabile. È stato un piccolo tocco simpatico, farla parlare di com'era coscienziosa la senatrice a scuola e farle tirar fuori l'annuario.» Pat si rese conto che in un certo senso quella di riprendere il retroterra culturale di Apple Junction era diventata ormai un'idea di Luther. «Hai visto le ultime sequenze di ieri sera e stamattina?» chiese. «Sì. Sono fatte come si deve. Avresti solo potuto riprendere un po' più Abigail che lavora al suo tavolo. Il pranzo di Natale invece era buono.» «Certamente hai visto il Tribune di oggi?» «Sì.» Luther maciullò la sigaretta nel portacenere e ne prese un'altra. La sua voce cambiò. Rivelatrici macchie rosse comparvero sulle sue guance. «Pat, ti dispiacerebbe mettere le carte in tavola e spiegarmi perché hai tirato fuori quella storia?» «Perché che cosa?» Adesso ogni contegno scomparve dai modi di Luther. «Forse qualcuno potrebbe anche pensare che casualmente in questa settimana sono successe diverse cose che hanno fatto una pubblicità sensazionale alla senatrice, ma si dà il caso che io non creda nelle coincidenze. Sono invece d'accordo con quello che ha detto Abigail in occasione della prima fotografia apparsa sul Mirror: dal primo giorno di lavoro hai fatto di tutto per costringerci a produrre questo programma a modo tuo. E credo anche che tu ti sia servita di ogni possibile trucco per farti della pubblicità personale. Non c'è nessuno a Washington, in questo momento, che non parli di Pat Traymore.» «Se la pensi così, perché non mi licenzi?» «Per farti conquistare qualche altro titolo in prima pagina? Niente da fare. Ma, per curiosità, vuoi rispondere a qualche domanda?» «Se posso...» «Il primo giorno, in questo ufficio, ti ho detto di tagliare ogni riferimento relativo all'onorevole Adams e a sua moglie. Sapevi di aver preso in affitto la loro casa?» «Sì, lo sapevo.»
«E non sarebbe stato naturale dirmelo?» «Non mi pare. Quel che è certo, invece, è che ho eliminato ogni loro fotografia dal materiale della senatrice... e, se sei corretto, devi anche ammettere che ho fatto un buon lavoro. Hai passato in rassegna tutti quei film?» «Sì, hai fatto un buon lavoro. Ma almeno dimmi il tuo parere a proposito delle minacce. Chiunque conosca questa baracca si renderebbe conto che, con o senza la tua partecipazione, il programma sarebbe stato completato.» Pat scelse le parole con cura. «Io credo che le minacce fossero solo questo... minacce. Non credo che nessuno abbia mai pensato di farmi del male, ma solo di spaventarmi per farmi cedere. Credo che qualcuno avesse paura che il programma andasse in porto e che abbia pensato che senza la mia presenza il progetto sarebbe stato abbandonato.» S'interruppe, poi aggiunse deliberatamente: «Quella persona non poteva sapere che io fungo solo da paravento in una campagna per portare Abigail Jennings alla vicepresidenza». «Stai cercando di insinuare?...» «No, non insinuare: affermare. Stai a sentire, ci sono cascata. Ci sono cascata come una stupida: non ho tenuto conto di alcuni particolari come la mia assunzione frettolosa o il fatto di dover realizzare in una settimana un lavoro di tre mesi, ma, guarda caso, il materiale relativo al servizio mi è stato fornito, bell'e preparato, da te e dalla senatrice. Se, anche in minima parte, questo programma verrà considerato un onesto servizio lo deve soltanto a quegli spezzoni che ho dovuto farvi ingoiare o alla pubblicità sgradevole che inavvertitamente ho procurato ad Abigail Jennings. Ma ti avverto, quando tutto sarà finito, ci sono alcune cose su cui intendo indagare.» «Per esempio?» «Per esempio Eleanor Brown, la ragazza che fu ritenuta responsabile di essersi appropriata dei fondi della campagna elettorale. L'ho vista ieri. Era sul punto di costituirsi alla polizia. E giura di non aver mai toccato quel denaro.» «Eleanor Brown si è costituita?» la interruppe Luther. «Questo può esserci utile. Avendo violato la parola non potrà avere la libertà provvisoria su cauzione.» «L'onorevole Kingsley sta cercando di ottenerla.» «È un errore. Farò in modo che rimanga dentro finché il presidente non ha fatto la nomina. Dopo, non avrà nessuna importanza. Quella ragazza ha
avuto un regolare processo. Nel programma tratteremo l'episodio esattamente come previsto, solo aggiungeremo il fatto che a causa del servizio la Brown si è costituita. Questo le rovinerà i piani nel caso avesse voluto crearci fastidi.» Pat sentiva di avere in un certo senso tradito la fiducia di Eleanor. «Si dà il caso che io ritenga quella ragazza innocente e, se lo è, mi batterò perché abbia un altro processo.» «È colpevole», ringhiò Luther. «Altrimenti, perché avrebbe mancato alla parola? Probabilmente adesso ha finito quei settantamila dollari e vuole smettere di scappare. Non dimenticare: l'ha condannata, all'unanimità, una giuria popolare. Continui a credere nel sistema delle giurie popolari, voglio sperare! C'è qualcos'altro che potrebbe riflettersi negativamente sulla senatrice?» Pat parlò di Catherine Graney. «Dice di voler citare in giudizio la rete televisiva?» Luther apparve straordinariamente contento. «E te ne preoccupi?» «Se comincia a spettegolare sul matrimonio degli Jennings... il solo fatto che la suocera non abbia lasciato un soldo alla senatrice...» «Abigail avrà la totale solidarietà di qualunque donna americana che deve sopportare una suocera sgradevole. Per quanto riguarda il matrimonio degli Jennings, si tratta della parola di questa Graney contro quella della senatrice e di Toby... non dimenticare che lui fu testimone dell'ultimo periodo della loro vita comune. E che dire della lettera che tu mi hai dato, scritta dalla senatrice al marito? Era datata solo qualche giorno prima della sua morte.» «Questa è solo una nostra ipotesi. Qualcuno potrebbe far rilevare che lei non ha messo l'anno.» «Può mettercelo adesso, se necessario. Nient'altro?» «Per quello che ne so questi sono gli unici due punti da cui potrebbe nascere una pubblicità negativa per la senatrice. Sono pronta a dare la mia parola d'onore su questo.» «Benissimo.» Luther pareva placato. «Sto mettendo insieme una troupe per riprendere la senatrice che rientra a casa stasera: fine di una giornata di lavoro.» «Non mi vuoi per questa ripresa?» «Ti voglio il più lontana possibile da Abigail Jennings finché lei avrà il tempo di calmarsi. Pat, hai letto attentamente il tuo contratto con questa rete?»
«Credo di sì.» «Allora sai che abbiamo il diritto di annullare la tua assunzione? Francamente io non la bevo la storia che qualcuno sta cercando di impedire la realizzazione di questo programma. Ma quasi ti ammiro per essere riuscita a far parlare tutti di te, qui a Washington, e ci sei riuscita servendoti della figura di una donna che ha dedicato tutta la vita a servire il proprio paese.» «Tu l'hai letto il mio contratto?» chiese Pat. «L'ho scritto.» «Allora sai anche che mi conferiva la direzione creativa del progetto per cui sono stata assunta. Credi di aver rispettato questo punto, questa settimana?» Aprì la porta dell'ufficio di Luther, sicura che tutti quelli che si trovavano nell'ufficio notiziari stavano ascoltando. Le ultime parole di Luther riecheggiarono nella stanza: «La prossima settimana a quest'ora i termini del tuo contratto non varranno più niente». Fu una delle poche volte in cui Pat sbatté la porta. Un quarto d'ora dopo dava il suo nome al portiere del palazzo di Sam. Sam l'aspettava sul pianerottolo. Se lo trovò di fronte quando l'ascensore si fermò al suo piano. «Sembri sfinita, Pat», le disse. «Lo sono.» Stancamente, alzò gli occhi verso di lui. Indossava lo stesso pullover a rombi della sera prima. Con una fitta dolorosa notò di nuovo come facesse risaltare l'azzurro dei suoi occhi. Lui la prese per un braccio e percorsero affiancati il lungo corridoio. Entrando nell'appartamento, la prima impressione di Pat fu di sorpresa per l'arredamento. Mobili componibili color grigio antracite erano disposti al centro della stanza. Le pareti ospitavano una quantità di stampe e alcuni quadri di valore. La moquette era un melange di grigio, nero e bianco. Chissà perché, si era fatta un'idea più tradizionale di quella che doveva essere la casa di Sam... un divano con braccioli, comode poltrone, mobili di famiglia. Un tappeto orientale, anche se consumato, sarebbe stato molto meglio della moquette. Lui le chiese che impressione le facesse quell'ambiente e Pat glielo disse. Sam strinse gli occhi. «Certo sai come farti invitare di nuovo, vero? Naturalmente hai ragione. Volevo fare piazza pulita, ricominciare daccapo, ed è chiaro che ho esagerato: questa stanza assomiglia all'atrio di un motel.» «Allora, perché ci vivi? Immagino che avresti altre possibilità.» «In realtà l'appartamento va bene», fece Sam tranquillo. «Sono solo i
mobili che mi danno fastidio. Sono stato contento di sbarazzarmi dei vecchi, ma non sapevo con esattezza come dovessero essere i nuovi.» Era una frase semischerzosa che di colpo prendeva troppo peso. «Avresti per caso uno scotch per una donna stanca?» chiese Pat. «Certo che ce l'ho.» Si avvicinò al bar. «Moltissima soda, un cubetto di ghiaccio, una buccia di limone se possibile, ma non ti preoccupare se sei a corto di limone.» Lui sorrise. «Sono sicuro di non avere un'aria così apprensiva.» «Non apprensiva, solo gentile.» Sam mescolò gli scotch e li appoggiò su un tavolino basso. «Siediti e non essere così nervosa. Com'è andata in studio?» «La prossima settimana a quest'ora sarò probabilmente disoccupata. Vedi, Luther è convinto che tutta questa storia sia una trovata pubblicitaria che ho organizzato io, e per certi versi pensa addirittura che non sia stata per niente stupida a tentarla. «Credo che Abigail la pensi pressappoco nello stesso modo.» Pat sollevò un sopracciglio. «Sono certa che saresti il primo a saperlo. Sam, non pensavo di telefonarti subito, dopo ieri sera. In realtà volevo lasciar passare qualche mese prima di rivederci come semplici amici. Ma ho bisogno di un aiuto immediato e non posso certo chiederlo a Luther Pelham. Perciò temo che la scelta sia caduta su di te.» «Non è precisamente quello che speravo di sentirti dire, ma mi fa piacere esserti utile.» Sam era diverso, quel giorno. Pat lo percepiva chiaramente. I suoi atteggiamenti sembravano più determinati, l'espressione indecisa era scomparsa dal suo viso. «Sam, a proposito di quell'intrusione in casa mia, c'è qualcos'altro.» Con la maggior calma che le era possibile, gli raccontò della bambola di pezza. «E adesso la bambola è sparita.» «Pat, mi stai dicendo che qualcuno è tornato in casa tua senza che tu lo sapessi?» «Sì.» «Allora, non devi rimanerci un minuto di più.» Irrequieta, lei si alzò e si avvicinò alla finestra. «Non è questa la soluzione. Ti sembrerà assurdo ma il fatto che la bambola sia scomparsa è quasi rassicurante. Io non credo che chi mi ha rivolto quelle minacce abbia davvero l'intenzione di farmi del male. Altrimenti, me l'avrebbe già fatto. Credo che quell'uomo abbia paura di quello che il programma può rivelare. E ho qualche idea in proposito.» Rapidamente,
gli tracciò la sua analisi sull'episodio di Eleanor Brown. «Se Eleanor Brown ha detto la verità mentiva Toby e se Toby mentiva, la senatrice lo ha coperto, anche se questo sembra incredibile. Ma se fosse stata coinvolta un'altra persona, capace di contraffare la voce di Toby, che conosceva l'esistenza del ripostiglio di Eleanor e vi nascose quel tanto di denaro che bastava per accusarla?» «Come ti spieghi la bambola e le minacce?» «Credo che qualcuno che mi conosceva quand'ero piccola, e forse mi ha riconosciuto, stia cercando di spaventarmi e di impedire la trasmissione di questo programma. Sam, che cosa ne pensi di quest'ipotesi? Toby mi conosceva quand'ero piccola e inoltre è diventato chiaramente ostile verso di me; in principio ho pensato che dipendesse dalla senatrice e da tutta quella cattiva pubblicità, ma l'altro giorno in casa mia continuava a guardare nella biblioteca, come se la passasse in rassegna. E dopo essersene andato è rientrato in casa in silenzio. Non si è accorto che lo stavo seguendo per mettere il catenaccio, e si è scusato dicendo che stava solo controllando la serratura, che chiunque avrebbe potuto entrare in casa e che dovevo stare attenta. Io ci sono cascata... ma, Sam, sul serio mi mette in agitazione quell'uomo. Potresti farlo controllare per vedere se ha mai avuto guai? Voglio dire, guai veri?» «Sì, posso farlo. Anche a me quell'individuo non è mai piaciuto.» Le si avvicinò dalle spalle e le mise le braccia intorno alla vita istintivamente, lei gli si appoggiò contro. «Mi sei mancata, Pat.» «Da ieri sera?» «No, da due anni fa.» «Non l'avrei mai capito.» Per un attimo si abbandonò alla semplice gioia di essere vicino a lui; poi si voltò e lo guardò in viso: «Sam, un po' di affetto residuo non mi basta. Perciò, perché non ti limiti...» Le braccia di lui la stringevano, le sue labbra non erano più incerte. «Non ne ho più, di affetto residuo.» Per qualche lungo momento rimasero così, in controluce davanti alla finestra. Poi Pat fece un passo indietro e Sam la lasciò andare. Si guardarono. «Pat», disse lui, «tutto quello che hai detto ieri sera era vero, eccetto una cosa. Non c'è assolutamente niente tra Abigail e me. Puoi darmi un po' di tempo per ritrovare me stesso? Io non sapevo, non mi ero reso conto di aver tirato avanti prima di averti rivista come uno... come uno zombie.» Lei cercò di sorridere. «Sembra che tu dimentichi che anch'io ho bisogno
di un po' di tempo. La via della memoria non è così semplice come credevo.» «Ti stanno ritornando in mente delle sensazioni di quella notte? Ricordi reali?» «Reali, forse, ma non particolarmente desiderabili. Sto cominciando a credere che forse è stata mia madre a impazzire quella notte, e in un certo senso questo pensiero è anche più difficile da accettare.» «Perché lo pensi?» «Non m'interessa scoprire perché lo penso: quello che voglio è capire che cosa la fece crollare. Comunque manca solo un giorno e poi il programma andrà in onda, sarà finalmente presentato al mondo; e, a quel punto, potrò fare qualche indagine seria. Rimpiango solo di non aver fatto questo lavoro con la dovuta calma. Sam, davvero ci sono cose che non quadrano. E non m'interessa quel che pensa Luther Pelham sul mio conto. La sequenza sull'incidente aereo avrà delle conseguenze per Abigail. Catherine Graney non molla.» Rifiutò il suo invito a cena: «È stata una giornata estenuante. Mi sono alzata alle quattro per essere pronta per la ripresa nell'ufficio della senatrice, ho intenzione di prepararmi un sandwich e di andare a letto prima delle nove». Sulla porta, lui la trattenne ancora. «Quando avrò settant'anni, tu ne avrai quarantanove.» «E quando tu ne avrai centotré, io ne avrò ottantadue», sorrise. «Cercherai di scoprire qualche cosa a proposito di Toby e mi farai sapere se avrai notizie di Eleanor Brown?» «D'accordo.» Appena Pat fu uscita, Sam telefonò a Jack Carlson e gli raccontò brevemente quello che Pat gli aveva confidato. Jack emise un lungo fischio. «Vuoi dire che quel tale è tornato? Sam, siamo certamente di fronte a un pazzo. Sì, possiamo controllare questo Toby, ma tu fammi un favore. Procurami un campione della sua scrittura, ti è possibile?» 35 L'ispettore Barrott era gentile. Le credeva. Ma l'ispettore capo, un uomo anziano, le era ostile: Eleanor rispondeva con tono sommesso alle domande sempre identiche che lui le rivolgeva.
Come poteva dir loro dove aveva nascosto settantamila dollari che non aveva mai visto? Ce l'aveva con Patricia Traymore per quel programma che forse l'avrebbe costretta a uscire allo scoperto? No, certo che no. In principio aveva avuto paura, ma poi aveva capito che non poteva più nascondersi, che sarebbe stata felice solo quando questa situazione fosse stata definitivamente risolta. Sapeva dove viveva Patricia Traymore? Sì, Arthur le aveva detto che Patricia Traymore abitava a Georgetown, nella casa degli Adams. Una volta le aveva mostrato quella casa. Padre Stevens era di servizio sull'ambulanza dell'ospedale di Georgetown quando era accaduta quella terribile tragedia. Se era penetrata in quella casa? No, naturalmente; come avrebbe potuto? Nella cella si sedette sull'orlo della cuccetta, chiedendosi come avesse potuto credere di essere abbastanza forte da rientrare in quel mondo. Le sbarre d'acciaio le davano la sensazione di essere in trappola; un'opprimente depressione stava cominciando ad avvolgerla come in una nebbia scura. Si sdraiò sulla cuccetta, chiedendosi dove fosse andato Arthur. Era impossibile credere quello che loro continuavano a insinuare: lui non avrebbe mai fatto deliberatamente del male a qualcuno. Era l'uomo più gentile che lei avesse mai conosciuto, solo dopo la morte della signora Gillespie era stato terribilmente agitato. Sperò che non si arrabbiasse perché si era costituita. L'avrebbero arrestata in ogni caso; era sicura che l'ispettore Barrott aveva in mente di fare indagini su di lei. Chissà se il padre se n'era andato. Probabile. Con sempre crescente preoccupazione, Eleanor ricordò le molte volte in cui aveva cambiato lavoro. Ma dov'era, adesso? Arthur cenò di buon'ora in una tavola calda della Quattordicesima. Scelse del manzo stufato, meringa al limone e caffè. Mangiò lentamente e con attenzione. Era importante mangiare bene adesso: potevano passare dei giorni prima di poter prendere un altro pasto caldo. I suoi piani erano ormai stabiliti: quando fosse diventato buio sarebbe tornato nella casa di Patricia Traymore. Sarebbe entrato in casa dalla finestra del primo piano e si sarebbe sistemato nell'armadio a muro della stanza degli ospiti. Avrebbe portato con sé qualche lattina di gassosa; aveva ancora in tasca due dei panini comprati la mattina. Era meglio procurarsi anche qualche lattina di succo di frutta e magari anche burro di arachidi e
pane di segala. Sarebbe bastato a sostenerlo fino a quando avrebbe visto il programma, la sera successiva. Dovette spendere novanta dei suoi preziosi dollari per un minuscolo televisore in bianco e nero, con cuffia: così avrebbe potuto vedere il programma all'interno dell'armadio. Strada facendo, avrebbe comprato pillole di caffeina in farmacia: non poteva correre il rischio di mettersi a gridare nel sonno. Probabilmente lei non lo avrebbe sentito, da quella stanza, ma lui non poteva correre rischi. Quaranta minuti più tardi si trovava a Georgetown, a due strade di distanza dalla casa di Patricia Traymore. Tutta la zona era tranquilla, fin troppo tranquilla. Adesso che gli acquisti natalizi erano finiti, un vagabondo aveva più probabilità di farsi notare. Poteva anche darsi che la polizia tenesse d'occhio la casa della signorina Traymore. Ma il fatto che il suo giardino fosse in angolo era un vantaggio. La casa vicina non era illuminata. Arthur scivolò nel giardino della casa confinante; il recinto di legno che separava i due giardini sul retro delle case non era alto. Lasciò cadere la borsa con gli acquisti oltre lo steccato, assicurandosi che andasse a finire su un mucchio di neve, poi scavalcò con facilità. Rimase in attesa. Non si sentiva nessun rumore. La macchina della signorina Traymore non era nel vialetto, e la casa era completamente al buio. Fu terribile arrampicarsi sull'albero con la borsa degli acquisti. Il tronco era gelato e difficile da stringere, e si graffiò le mani, con la corteccia ghiacciata, attraverso i guanti. Senza l'aiuto dei rami, non ce l'avrebbe fatta. La finestra era incastrata e fu difficile alzarla. Quando saltò dal davanzale dentro la stanza, le assi del pavimento scricchiolarono rumorosamente. Per dei lunghi, terribili minuti, rimase fermo vicino alla finestra, pronto a svignarsela velocemente compiendo il percorso a ritroso. Ma in casa c'era solo silenzio, interrotto ritmicamente dal rumore sordo della caldaia. Cominciò a organizzare il suo nascondiglio nell'armadio a muro. Constatò, con grande soddisfazione, che i ripiani non aderivano alle pareti; se li avesse spinti appena un poco più in fuori, nessuno avrebbe potuto capire quanto spazio rimaneva tra loro e la parete. Cautamente si mise a sistemare la sua tana. Scelse una trapunta spessa e la stese su pavimento: era grande e poteva essere utilizzata come un sacco a pelo. Tirò fuori le provviste e il piccolo televisore. Sul ripiano più basso
trovò quattro guanciali enormi. Dopo qualche minuto ebbe finito; adesso non gli restava che esplorare le altre stanze. Purtroppo, Pat Traymore non aveva lasciato luci accese questa volta. E questo significava che avrebbe potuto spostarsi solo tenendo la torcia elettrica molto bassa, puntata sul pavimento, in modo che dall'esterno non si notasse alcun raggio di luce. Fece parecchie prove andando avanti e indietro tra la camera degli ospiti e il corridoio. Controllò le tavole del pavimento e trovò quella che scricchiolava. Gli ci vollero dodici secondi per percorrere il corridoio dal suo armadio a muro alla camera di Pat. Entrò furtivo nella sua camera e si avvicinò alla toeletta. Non aveva mai visto oggetti tanto graziosi. Il pettine, lo specchio e le spazzole erano tutti ornati d'argento lavorato. Tolse il tappo al flacone del profumo e aspirò la sottile fragranza. Poi entrò nel bagno, notò la vestaglia sullo schienale della sedia e ne tastò la stoffa. Irosamente, pensò che quello era il genere di oggetti che avrebbe dovuto possedere la sua piccola Glory. Chissà se la polizia era andata nel suo ufficio per interrogarla. Ormai doveva essere rientrata. Aveva bisogno di parlarle. Si avvicinò al letto, trovò il telefono sul comodino e formò il numero. Dopo il quarto squillo cominciò a rannuvolarsi: lei aveva parlato di costituirsi, ma non lo avrebbe mai fatto dopo avergli promesso di aspettare. No, probabilmente in quel momento era a letto, tremante, in attesa di vedere se nel programma del giorno dopo avrebbero trasmesso la sua fotografia. Rimise a posto il telefono sul comodino ma si accovacciò accanto al letto di Pat. Sentiva la mancanza di Glory. La tranquillità solitaria della casa lo permeava dolorosamente; ma sapeva che presto le sue voci sarebbero venute a tenergli compagnia. 36 «Ottimo, senatrice», disse Luther. «Mi spiace di averti chiesto di cambiarti, ma doveva apparire come un'unica giornata lavorativa, quindi tornando a casa dovevi per forza indossare le stesse cose che avevi quando sei uscita.» «Non importa. Dovevo pensarci da sola», rispose concisa Abigail. Erano nel suo soggiorno e la troupe televisiva stava mettendo via le attrezzature. Toby capiva benissimo che Abigail non aveva intenzione di of-
frire qualcosa da bere a Luther, voleva solo sbarazzarsi di lui. Luther aveva chiaramente ricevuto il messaggio. «Sbrigatevi», ringhiò rivolgendosi alla troupe. Poi sorrise, accattivante: «So che per te è stata una lunga giornata. Solo un'ultima seduta in studio domani mattina e abbiamo finito». «Sarà il momento più felice della mia vita.» Toby desiderava che Abby potesse rilassarsi. Avevano fatto un giretto ed erano passati un paio di volte davanti alla residenza del vicepresidente. Abby ci aveva perfino scherzato su: «Ti immagini che cosa direbbero i giornalisti se mi vedessero fare questo sopralluogo?» Ma appena la troupe era arrivata, Abby era diventata nuovamente tesa. Pelham stava infilandosi il cappotto. «Il presidente ha indetto una conferenza stampa per le nove di domani sera nella sala est. Pensi di esserci, Abigail?» «Credo di essere stata invitata», rispose lei. «Questo rende perfetta la nostra scelta dei tempi. Il programma sarà trasmesso tra le sei e mezza e le sette, perciò i telespettatori non avranno il problema di dover scegliere che cosa seguire.» «Sono sicura che tutta Washington muore dal desiderio di vederlo», disse Abigail. «Luther, sono davvero terribilmente stanca.» «Naturale. Perdonami. A domani mattina alle nove, se per te va bene.» «Ancora un minuto e impazzivo», disse Abigail quando lei e Toby rimasero finalmente soli. «E se penso che tutto questo è assolutamente superfluo...» «No, non è superfluo, senatrice.» Toby parlava con dolcezza. «Deve ancora avere la conferma del Congresso. Otterrà la maggioranza, d'accordo, ma sarebbe anche bello se un sacco di gente le mandasse telegrammi di felicitazioni per la sua designazione: e questo è quello che le può portare il programma.» «In tal caso ne sarà valsa la pena.» «Abby, vuole ancora qualcosa per stasera?» «No, ho intenzione di andare a letto presto e di leggere finché mi addormento. È stata una giornata lunghissima.» Sorrise e lui capì che cominciava a sciogliersi. «A quale cameriera stai dando la caccia adesso? Oppure si tratta di una partita a poker?» Pat tornò a casa alle sei e mezza. Accese la luce nell'atrio, ma la scala rimase in ombra dopo il punto in cui s'incurvava.
Le parole irate di suo padre improvvisamente le risuonarono nelle orecchie: «Non dovevi venire!» Quell'ultima sera il campanello aveva squillato con insistenza; suo padre aveva aperto la porta; qualcuno era entrato rapido e leggero sfiorandolo; quella persona aveva alzato lo sguardo... per questo lei era così spaventata; papà era in collera e lei temeva di essere stata vista. La mano le tremava quando l'appoggiò sulla ringhiera. È assurdo essere così turbata, pensò. Sono soltanto esausta ed è stata una giornataccia. Adesso mi metto comoda e mi preparo qualcosa da mangiare. In camera da letto si spogliò rapidamente e fece per prendere la vestaglia appoggiata sullo schienale della sedia, poi ci ripensò e decise di mettersi il caffettano di velluto marrone. Era caldo e comodo. Davanti alla toeletta si sciolse i capelli e cominciò a spalmarsi la crema sul viso. Le dita picchiettavano meccanicamente la pelle, con il movimento circolare che le aveva insegnato l'estetista, premendo un attimo sulle tempie, sfiorando la cicatrice sottile accanto all'attaccatura dei capelli. Lo specchio rifletteva i mobili dietro di lei; le colonne del letto sembravano imponenti sentinelle. Pat guardò attentamente nello specchio. Aveva sentito dire che immaginando un punto sulla propria fronte e fissandolo è possibile autoipnotizzarsi e risalire al passato. Per un minuto si concentrò su quel punto immaginario, con la strana sensazione di guardare se stessa percorrere a ritroso una galleria... e non da sola, pareva. Sentiva un'altra presenza. Ridicolo. Stava diventando una visionaria. Scese in cucina, si preparò una frittatina, caffè e pane abbrustolito; poi si costrinse a mangiare. La cucina aveva un calore intimo che la calmava. Lei, sua madre e suo padre dovevano mangiarci spesso insieme. Aveva un vago ricordo di essere stata seduta a quel tavolo sulle ginocchia di suo padre? Veronica le aveva fatto vedere il biglietto di auguri del loro ultimo Natale. Era firmato: Dean, Renée e Kerry. Pronunciò i nomi ad alta voce, «Dean, Renée e Kerry», e si domandò perché la cadenza le sembrasse sbagliata. Sciacquare i piatti e metterli nella lavastoviglie fu un modo di rinviare quello che sapeva di dover fare. Doveva studiare l'articolo del giornale per vedere se diceva qualcosa di nuovo a proposito di Dean e Renée Adams. Il giornale era ancora sul tavolo della biblioteca. Lo aprì al paginone centrale e si costrinse a leggerne ogni riga. Molte cose le sapeva già, ma questo non serviva ad attutire il dolore... «sull'arma furono rilevate le im-
pronte digitali di tutti e due... Dean Adams era morto all'istante, colpito alla fronte... Renée Adams forse era vissuta ancora per qualche minuto...» Un pezzo dava rilievo alle voci che i suoi vicini avevano riferito alla festa: il matrimonio era chiaramente non riuscito. Renée aveva insistito perché suo marito lasciasse Washington, non amava partecipare ai ricevimenti, era gelosa dell'attenzione che le altre donne riservavano a suo marito... Si citavano le parole di un vicino: «Era infatuata di lui e si vedeva... e lui era volubile». Secondo voci insistenti era stata Renée, non Dean, a usare l'arma. Nel corso dell'inchiesta, la madre di Renée aveva cercato di soffocare congetture di quel genere. «Non è un mistero», aveva detto, «è una tragedia. Solo pochi giorni prima di essere assassinata, mia figlia mi disse che tornava a casa con Kerry, che avrebbe chiesto il divorzio e che le venisse assegnata la bambina. Credo proprio che fu questa sua decisione a far scattare la violenza di lui.» Forse aveva ragione, pensò Pat. Ricordo di aver inciampato in un corpo. Perché sono così sicura che fosse quello della mamma e non quello di mio padre? O non ne era sicura? Esaminò le istantanee che coprivano gran parte della seconda pagina. Willard Jennings aveva tanto l'aria dello studioso. Catherine Graney aveva detto che voleva rinunciare alla carriera politica e diventare rettore di un'università. E Abigail giovane era una donna strepitosamente bella. Infilata tra le altre c'era un'istantanea piuttosto sfocata. Pat la guardò parecchie volte, poi spostò il giornale per proiettare su quella fotografia la luce diretta. Era stata presa sulla spiaggia. Suo padre, sua madre e Abigail erano in gruppo con altre due persone. Sua madre era assorta nella lettura di un libro. I due sconosciuti erano distesi su teli da spiaggia, gli occhi chiusi. L'obiettivo aveva sorpreso suo padre e Abigail che si guardavano. Il senso di intimità era inconfondibile. Sul tavolo c'era una lente di ingrandimento. Pat la trovò e la tenne sopra la fotografia. L'espressione di Abigail, con l'ingrandimento, diventava estatica. Gli occhi di suo padre erano teneri nel guardarla. Le loro mani si toccavano. Pat piegò il giornale. Che cosa potevano significare quelle fotografie? Un idillio casuale? Suo padre piaceva alle donne, probabilmente le incoraggiava. Abigail era una bella vedova, giovane. Forse, tutto si fermava lì. Come sempre quando qualcosa la turbava, Pat cercò rifugio nella musica. Nel soggiorno accese le luci dell'albero di Natale e impulsivamente
spense il lampadario. Seduta al pianoforte lasciò errare le dita sulla tastiera finché trovò le dolci note della Patetica di Beethoven. Sam era ritornato quello di sempre, così come lei lo ricordava, forte e pieno di fiducia. Aveva bisogno di tempo. Naturale. Anche lei ne aveva bisogno. Due anni prima, si erano sentiti talmente dilaniati e colpevoli per la loro relazione. Adesso poteva essere diverso. Suo padre e Abigail Jennings. C'era stato qualche cosa tra loro? Oppure lei era stata solo un episodio, un'avventura senza importanza? Forse suo padre era davvero un dongiovanni. Perché no? Certamente era un uomo affascinante e quello dopotutto era il tono tra i giovani uomini politici rampanti dell'epoca... bastava pensare solo ai Kennedy... Eleanor Brown. Chissà se l'avvocato era riuscito a farle avere la libertà provvisoria su cauzione? Sam non aveva telefonato. Eleanor è innocente, si disse Pat, ne sono sicura. Stava suonando il Liebestraum di Liszt e Beethoven. Inconsciamente aveva scelto gli stessi pezzi dell'altra sera. Chissà se anche sua madre li aveva suonati in quella stessa stanza? C'era in entrambi la stessa disposizione d'animo, lamentosa e malinconica. «Renée, ascoltami. Smettila di suonare e ascoltami.» «Non posso. Lasciami in pace.» Le voci... quella di lui turbata e insistente, quella di lei disperata. Bisticciavano tanto, pensò Pat. Dopo i litigi lei suonava per delle ore il pianoforte. Ma qualche volta, quando era felice, si metteva sulla panchetta accanto a sé. «No, Kerry, in questo modo. Metti qui le dita...» Pat sentì le proprie dita scorrere sulle note iniziali dell'Opera 30, numero 3 di Mendelssohn, ancora un brano intriso di tristezza. C'erano troppi fantasmi in quella stanza. Sam telefonò proprio mentre stava per salire di sopra. «Non vogliono rilasciare Eleanor Brown. Hanno paura che scappi. Pare che l'uomo con cui vive sia indiziato per qualche caso di morte sospetta in una casa di cura per anziani.» «Sam, non posso sopportare l'idea di quella ragazza chiusa in una cella.» «Frank Crowley, l'avvocato che le ho mandato, pensa che stia dicendo la verità. Avrà domani mattina una copia del verbale del suo processo. Faremo il possibile per lei, Pat. Può darsi che non sia molto però, temo... Come stai?» «Bene, sono sul punto di andare a dormire.» «Hai chiuso bene?»
«Con il catenaccio.» «Bene. Pat, può darsi che sia tutto finito, salvo gli hurrà. Alcuni di noi sono stati invitati alla Casa Bianca domani sera. Il presidente farà un annuncio importante. Il tuo nome è sulla lista della stampa. Ho controllato.» «Sam, credi che?...» «Proprio non lo so. Si punta su Abigail, ma il presidente tiene ben nascoste le sue carte. Ancora a nessuno di quelli che possono venir nominati è stata assegnata la protezione dei servizi segreti. Questo è sempre un indizio. Penso che il presidente voglia che fino all'ultimo tutti continuino a far congetture. Ma chiunque sia a farcela, tu e io andremo fuori a festeggiare.» «E se tu non fossi d'accordo con la scelta del presidente?» «A questo punto non m'importa un accidente di chi sceglierà. Ho altro per la testa. Voglio festeggiare solo il fatto di essere con te. Voglio rifarmi di questi ultimi due anni. Quando abbiamo smesso di vederci, l'unico modo che mi faceva sentire meno la tua mancanza era pensare che tanto non avrebbe funzionato anche se fossi stato libero. Dopo un certo tempo, probabilmente ho cominciato a convincermi delle bugie che mi raccontavo da solo.» La risata di Pat era piuttosto incerta. Con un batter di palpebre, ricacciò indietro l'improvviso affacciarsi di una lacrima. «Scusa accettata.» «Poi voglio convincerti del fatto che non dobbiamo più sprecare le nostre vite.» «Credevo che avessi ancora bisogno di tempo...» «Nessuno di noi ne ha bisogno.» Persino la voce era diversa: piena di fiducia, forte, così come l'aveva ricordata per tanto tempo, sveglia nel suo letto pensando a lui. «Pat, sono disperatamente innamorato di te dal giorno di Cape Cod. Questo, niente può cambiarlo. E sono maledettamente felice che tu mi abbia aspettato.» «Non avevo scelta. Oh Dio, Sam, sarà meraviglioso. Ti amo.» Per qualche minuto dopo che si furono salutati, Pat rimase con la mano appoggiata sul telefono, come se toccandolo potesse sentire di nuovo ogni parola che Sam le aveva detto. Alla fine, con un sorriso leggero a fior di labbra, cominciò a salire la scala. Un improvviso scricchiolio sopra di lei la fece trasalire. Sapeva che cos'era. Quell'asse del pianerottolo al primo piano che si spostava camminandoci sopra. Non essere ridicola, disse a se stessa. Il corridoio era male illuminato dalle lampadine a forma di fiamma delle applique. Fece per entrare in camera da letto, poi ubbidendo a un impulso
si voltò e si diresse verso il retro della casa. Deliberatamente, camminò sull'asse che si muoveva e ascoltò lo scricchiolio ben riconoscibile che provocava. Avrei giurato di aver sentito proprio questo rumore, pensò. Entrò nella sua vecchia camera da letto, e i suoi passi risuonarono sul pavimento privo di tappeto. La camera era calda e odorava di chiuso. La porta della camera degli ospiti non era ben chiusa. Lì faceva molto più freddo. Sentì corrente e si diresse alla finestra. Il vetro più alto era aperto. Cercò di chiuderlo, poi vide che la corda del contrappeso era rotta. Ecco che cosa è stato, pensò; probabilmente la corrente ha fatto aprire la porta. Comunque, aprì l'armadio a muro e diede un'occhiata ai ripiani delle lenzuola e delle coperte. Rientrata nella sua stanza, si spogliò rapidamente e si mise a letto. Era ridicolo sentirsi ancora così nervosa. Voleva pensare a Sam e alla vita che avrebbero avuto insieme. La sua ultima impressione prima di assopirsi fu la strana sensazione di non essere sola. Non aveva senso, ma era troppo stanca per pensarci. Con un sospiro di sollievo, rovesciò il cartellino sulla porta mettendo in mostra la parte con scritto CHIUSO. Per essere il giorno dopo Natale, l'andamento degli affari era stato inaspettatamente vivace. Un compratore del Texas aveva acquistato la coppia di candelabri di Rudolfstadt, i tavoli da gioco a intarsi e il tappeto Stouk. Aveva fatto vendite straordinarie. Catherine spense le luci nel negozio e salì nel suo appartamento, con Sligo alle calcagna. Aveva preparato il fuoco, la mattina; adesso accostò un fiammifero alla carta, sotto la legna minuta, mentre il cane si accomodava al suo posto preferito. In cucina, si mise a preparare la cena. La settimana successiva, quando ci sarebbe stato suo figlio George, si sarebbe divertita a cucinare pasti elaborati; ma adesso, tutto ciò che le serviva era una bistecca con insalata. George le aveva telefonato il giorno prima per farle gli auguri di Natale e darle la buona notizia: era stato promosso maggiore. «Ventisette anni e sei già maggiore!» aveva esclamato lei. «Dio, come sarebbe orgoglioso tuo padre.» Catherine mise la sua bistecca sulla griglia. Quella era un'altra buona ragione per non permettere ad Abigail Jennings di infangare ancora il nome di suo marito. Si domandò che cosa avesse pensato Abigail della lettera. L'aveva riscritta molte volte prima di impostarla la vigilia di Natale.
Devo chiederle con fermezza di cogliere l'occasione del prossimo programma televisivo per dichiarare pubblicamente che non si è mai trovata la minima prova che consentisse di affermare che l'incidente aereo, che fu fatale a suo marito, fosse dovuto a un errore del pilota. Non sarà sufficiente evitare di parlare di mio marito, la versione deve essere ritrattata. In caso contrario, la denuncerò per diffamazione e rivelerò quale fosse il suo vero rapporto con Willard Jennings. Alle undici guardò il telegiornale. Alle undici e mezzo Sligo le leccò una mano. «Lo so», gemette lei. «D'accordo, vai a prendere il guinzaglio.» Era una sera buia. Prima si vedeva almeno qualche stella, ma adesso il cielo era completamente coperto. Il vento era freddo, e Catherine si tirò su il bavero del cappotto. «Faremo una passeggiatina rapida», disse a Sligo. C'era un sentiero che attraversava i boschi, vicino a casa sua. Di solito lei e il cane lo percorrevano fino in fondo, poi facevano il giro dell'isolato. Sligo tirò il guinzaglio verso il solito percorso ma giunto all'inizio del sentiero si fermò di colpo, emettendo un cupo brontolio. «Avanti», disse Catherine impaziente. Non ci mancava altro che si mettesse a inseguire una moffetta. Sligo fece un balzo in avanti. Sconcertata, Catherine vide una mano spuntare dall'ombra e stringere il vecchio animale al collo. Ci fu un rumore atroce, e il corpo molle di Sligo ricadde sulla neve ghiacciata. Catherine cercò di gridare, ma non le uscì nessun suono. La mano che aveva ghermito il collo di Sligo era alzata sulla sua testa, e nell'attimo prima di morire Catherine Graney finalmente capì che cosa era accaduto quel giorno di tanti anni prima. 37 La mattina del 27 dicembre, Sam si alzò alle sette, rilesse con attenzione la copia del rapporto sull'inchiesta dell'Aviazione Civile sul sinistro aereo in cui era morto l'onorevole Willard Jennings, sottolineò una frase e telefonò a Jack Carlson. «A che punto sei con il rapporto su Toby Gorgone?» «Lo avrò per le undici.» «Sei libero per colazione? Voglio farti vedere una cosa.» Era la frase che aveva appeno sottolineato: «L'autista dell'onorevole Jennings, Toby Gorgone, mise il suo bagaglio sull'aereo». Sam voleva leggere il rapporto su Toby prima di parlarne.
Rimasero d'accordo di vedersi a mezzogiorno al Gangplank Restaurant. Poi Sam telefonò a Frank Crowley, l'avvocato che aveva assunto per rappresentare Eleanor Brown, e invitò anche lui. «Puoi portare la copia dei verbali del processo contro Eleanor Brown?» «Cercherò di averla, Sam.» Il caffè era pronto. Sam si versò una tazza e accese la radio in cucina. Il notiziario delle nove era quasi finito; il meteorologo stava promettendo una giornata quasi serena. La temperatura si sarebbe mantenuta intorno allo zero. Poi furono riepilogati i titoli, qualcosa attirò l'attenzione di Sam: Il cadavere di una importante antiquaria di Richmond, la signora Catherine Graney, è stato trovato in un tratto boscoso vicino alla sua abitazione. Il suo cane aveva il collo spezzato. La polizia ritiene che l'animale sia morto nel tentativo di difenderla. Catherine Graney morta! Proprio quando era sul punto di dare il via a un potenziale scandalo che avrebbe coinvolto Abigail. «Io non credo possa trattarsi di una coincidenza», disse Sam ad alta voce. «Proprio non ci credo.» Per il resto della mattinata si torturò pieno di sospetti. Più volte fu sul punto di telefonare alla Casa Bianca, ma ogni volta si fermava prima di completare il numero. Non aveva la minima prova che indicasse in Toby Gorgone qualcosa di diverso da quello che appariva, fedele guardia del corpo e autista di Abigail. E anche se Toby era responsabile di quel delitto, non aveva la minima prova che Abigail fosse al corrente delle sue attività. Il presidente avrebbe annunciato quella stessa sera la nomina di Abigail. Sam ne era sicuro. Ma le sedute in cui doveva essere confermata quella nomina erano fissate per parecchie settimane dopo. Ci sarebbe stato il tempo di avviare indagini minuziose. E questa volta farò in modo che non si metta a tacere niente, pensò cupamente. In qualche modo, Sam era sicuro che Toby fosse responsabile delle minacce contro Pat. Se aveva qualche cosa da nascondere, non poteva desiderare di vederla andare a scavare nel passato. Se saltava fuori che era stato lui l'autore di quelle minacce... Sam strinse le mani a pugno; non si vedeva più come un futuro nonno. Abigail si torse le mani nervosamente. «Dovevamo uscire prima», disse,
«ci sarà traffico. Sbrigati.» «Non si preoccupi, senatrice», rispose Toby, accattivante. «Non possono cominciare le riprese senza di lei. Come ha dormito?» «Ero agitata e mi sono svegliata parecchie volte. Tutto quello che riuscivo a pensare era: 'Sto per diventare il vicepresidente degli Stati Uniti'. Accendi la radio. Vediamo che cosa dicono di me...» Il notiziario della CBS per le otto e trenta stava appena iniziando: «Continuano a dilagare le voci secondo cui il motivo della conferenza stampa indetta dal presidente per questa sera è la sua probabile intenzione di annunciare la sua scelta per la vicepresidenza degli Stati Uniti, scelta tuttora incerta tra la senatrice Abigail Jennings e la senatrice Claire Lawrence: sarà comunque la prima volta che una donna ricopre questa carica». E poi: «Per una tragica coincidenza, si apprende che Catherine Graney, l'antiquaria di Richmond che è stata assassinata mentre portava a spasso il suo cane, era la vedova del pilota che morì ventisette anni fa in un incidente aereo insieme con l'onorevole Willard Jennings. Abigail Jennings cominciò la sua carriera politica quando fu nominata per completare il mandato del marito...» «Toby!» Lui lanciò un'occhiata nel retrovisore. Abigail appariva scossa. «Toby, è terribile.» «Sì, schifoso.» Guardò ancora Abigail e vide il suo viso indurirsi. «Non dimenticherò mai che la madre di Willard si avvicinò a quella donna e rimase seduta con lei in attesa dell'aereo che non arrivava. Mentre io non ricevetti neppure una telefonata da parte sua.» «Be', adesso sono insieme, Abby. Guardi com'è rapido il traffico. Arriveremo puntuali allo studio.» Mentre entravano nel parcheggio privato, Abigail chiese, calma: «Che cosa hai fatto ieri sera, Toby... hai giocato a poker oppure avevi un appuntamento?» «Ho visto la piccola cameriera della tavola calda e ho passato la serata con lei. Perché? Mi controlla? Vuole parlarle, senatrice?» Adesso nella sua voce c'era una sfumatura d'indignazione. «No, naturalmente no. Sei padrone di frequentare chi vuoi nel tempo libero. Spero che ti sia divertito.» «L'ho fatto. Non mi sono preso molto tempo per me, in quest'ultimo periodo.» «Lo so. Ti ho tenuto terribilmente occupato.» La voce era conciliante.
«Solo che...» «Solo che cosa, senatrice?» «Niente... proprio niente.» Alle otto Eleanor venne portata a sottoporsi alla prova della macchina della verità. Aveva dormito sorprendentemente bene. Ricordava quella prima notte in cella, undici anni prima, quando improvvisamente si era messa a urlare. «Quella notte hai manifestato di soffrire di claustrofobia», le aveva detto uno psichiatra dopo il collasso. Ma quella mattina si sentiva stranamente tranquilla, forse era l'idea di non dover più scappare, pensò. Padre Arthur aveva fatto realmente del male a quei vecchi? Eleanor si spremeva il cervello, cercando di ricordarsi anche un solo episodio in cui non fosse stato dolce e gentile. Non ce n'erano. L'infermiera del carcere la fece entrare in una stanzetta vicino al braccio in cui si trovava la sua cella. L'ispettore Barrott stava leggendo il giornale. Lei fu contenta che ci fosse: non la trattava come se fosse una bugiarda. L'ispettore alzò gli occhi per guardarla e le sorrise. Anche quando entrò un altro uomo per mettere in funzione la macchina della verità, lei non si mise a piangere come aveva fatto quando l'avevano arrestata accusandola di aver derubato la senatrice. Rimase invece seduta sulla sua sedia, alzò la bambola e con un po' di imbarazzo chiese se a loro non importava che la tenesse con sé. Loro non si comportarono come se quella fosse una richiesta assurda. Poi arrivò Frank Crowley, quell'uomo simpatico e dall'aria paterna che era il suo avvocato; il giorno prima, aveva cercato di spiegargli che non poteva dargli come onorario più di cinquecento dollari, erano tutti i suoi risparmi e lui le aveva risposto di non preoccuparsi. «Eleanor, puoi ancora rifiutarti di sottoporti a questa prova», le disse ora, e lei rispose che aveva capito. In principio l'uomo che doveva effettuare il test le rivolse domande molto semplici, persino stupide, sulla sua età, l'istruzione ricevuta e i suoi cibi preferiti. Poi cominciò a formulare quelle contro cui lei aveva cercato di corazzarsi. «Ha mai rubato?» «No.» «Neppure una cosa piccola, come una matita o un pezzo di gesso quand'era bambina?»
L'altra volta, quando gliel'avevano chiesto, si era messa a singhiozzare: «Non sono una ladra. Non sono una ladra». Ma adesso non le sembrava così doloroso. Finse di parlare con l'ispettore Barrott, non con quell'estraneo brusco e impersonale. «Non ho mai rubato niente in vita mia», disse con convinzione. «Neppure una matita o un pezzo di gesso. Non sarei capace di prendere una cosa che appartiene a un'altra persona.» «E la boccetta di profumo quando frequentava la scuola media?» «Non la rubai. Glielo giuro. Dimenticai di darla al commesso!» «Con quale frequenza beve alcolici? Ogni giorno?» «Oh, no. Solo ogni tanto un po' di vino, non molto. Mi fa venire sonno.» Notò che l'ispettore Barrott sorrideva. «Prese lei i settantacinquemila dollari che si trovavano nell'ufficio che fungeva da quartier generale per la campagna elettorale della senatrice Jennings?» L'altra volta, durante il test, a quella domanda era diventata isterica. Adesso rispose semplicemente: «No, non li presi». «Però mise cinquemila dollari che facevano parte di quella somma nel suo ripostiglio, vero?» «No, non fui io a metterceli.» «Allora come pensa che siano arrivati lì?» Le domande si susseguivano. «Mentì quando sostenne che Toby Gorgone le aveva telefonato?» «No, non mentivo.» «È sicura che fosse proprio Toby Gorgone?» «Io penso che lo fosse. La voce era identica.» Poi improvvisamente le rivolsero alcune domande incredibili: «Sapeva che Arthur Stevens era sospettato della morte di una delle sue pazienti, una certa signora Anita Gillespie?» Lei perse quasi il controllo: «No, non lo sapevo. E non ci credo». Poi ricordò che lui aveva gridato nel sonno: «Chiuda gli occhi, signora Gillespie. Chiuda gli occhi!» «Lei lo crede possibile. Risulta dal test.» Le dissero in seguito. «No», bisbigliò lei. «Arthur non potrebbe mai far del male a qualcuno, li aiuta soltanto. Se la prende così a cuore quando uno dei suoi pazienti soffre.» «Non pensa che potrebbe essere un sistema per mettere fine alla loro sofferenza?» «Non capisco che cosa vuol dire.»
«Credo che lo capisca. Eleanor, Arthur Stevens ha tentato di appiccare il fuoco alla casa di cura il giorno di Natale.» «È impossibile.» Lo choc per quello che le stavano dicendo la fece impallidire. Inorridita, guardò fisso l'uomo che formulava la sua ultima domanda: «Ha mai avuto motivi per sospettare che Arthur Stevens fosse un maniaco omicida?» Per tutta la notte, ogni due ore, Arthur inghiottì pillole di caffeina. Non poteva correre il rischio di addormentarsi e di mettersi a gridare. Rimase invece seduto, accovacciato, nell'armadio a muro, troppo teso per stendersi, guardando fisso nel buio. Era stato straordinariamente sventato. Quando Patricia Traymore era rientrata era rimasto in ascolto, dietro la porta dell'armadio a muro, dei rumori che lei faceva spostandosi per la casa. Aveva sentito il brontolio delle tubature quando aveva fatto la doccia; poi lei era tornata a pianterreno e gli era arrivato il profumo del caffè. Dopo lei aveva cominciato a suonare il pianoforte e lui, sapendo che poteva uscire senza rischi, si era seduto sul pianerottolo per ascoltare la musica. Era stato allora che le voci avevano ricominciato a parlargli, gli dicevano che avrebbe dovuto, risolta la storia del programma televisivo, trovare un'altra casa di cura dove poter continuare a svolgere la sua missione. Era talmente assorto nella sua meditazione da non accorgersi che la musica era cessata, per un attimo si dimenticò di dove si trovava, poi sentì i passi di Patricia Traymore che saliva la scala. Nella furia di nascondersi, era passato sull'asse allentato e lei aveva capito che c'era qualcosa che non andava. Arthur aveva trattenuto il respiro mentre lei apriva la porta dell'armadio a muro. Ma fortunatamente non le era venuto in mente di guardare dietro i ripiani. Così aveva continuato a stare sveglio tutta la notte, teso a percepire i rumori del risveglio di lei, felice quando finalmente era uscita di casa, ma timoroso di uscire dall'armadio a muro per più di qualche minuto alla volta. Poteva sempre arrivare qualche donna di servizio e scoprire il suo rifugio. Trascorsero lunghe ore. Poi le voci gli ordinarono di prendere la lunga tunica marrone dall'armadio di Patricia Traymore e di indossarla. Se la giornalista aveva tradito Glory, sarebbe stato vestito in modo conveniente per somministrarle la giusta punizione.
38 Pat arrivò al palazzo della rete televisiva alle nove e trentacinque e decise di prendere un caffè e una brioche al bar. Non si sentiva pronta per quell'atmosfera carica di tensioni, che l'aspettava, lei lo sapeva, quell'ultimo giorno di riprese e di montaggio. La testa le pulsava vagamente, tutto il corpo le doleva. Aveva dormito male e aveva fatto sogni agitati. A un certo punto aveva gridato, ma non riusciva a ricordare che cosa avesse detto. In macchina aveva acceso la radio per sentire il notiziario e aveva appreso la notizia della morte di Catherine Graney. Non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine della donna, il suo viso, che si era illuminato mentre parlava del figlio, la pacca affettuosa che aveva dato al suo vecchio setter. Catherine Graney avrebbe certamente dato seguito alla sua minaccia di far causa alla senatrice Jennings e alla rete televisiva dopo che il programma fosse stato mandato in onda. La sua morte aveva cancellato quella minaccia. Vittima casuale di un rapinatore? Secondo il notiziario stava portando a spasso il cane. Come si chiamava?... Sligo? Pareva improbabile che un criminale decidesse di attaccare una donna con un grosso cane. Pat respinse la brioche. Non aveva fame: solo tre giorni prima aveva preso il caffè in compagnia di Catherine Graney e adesso quella donna era morta. Quando entrò nello studio, Luther era già sul set, il viso chiazzato, le labbra esangui, gli occhi che erravano da una cosa all'altra, alla caccia del particolare sbagliato. «Ho detto che ci dobbiamo sbarazzare di quei fiori», stava urlando. «Non m'importa un accidente che li abbiano appena portati. Non mi piacciono. Non c'è nessuno che sia capace di fare qualche cosa di utile qui? Quella sedia non è abbastanza alta per la senatrice: accidenti, sembra uno sgabello per mungere.» Individuò Pat: «Vedo che ce l'hai fatta ad arrivare. Hai sentito di quella Graney? Dovremo ritoccare il servizio nel punto in cui Abigail parla della sicurezza del traffico aereo; ha calcato la mano su quel pilota e ci sarà di sicuro molto rumore quando la gente scoprirà che la sua vedova è stata vittima di un delitto. Cominciamo le riprese tra dieci minuti». Pat guardò fisso Luther: Catherine Graney era stata una donna buona e onesta in tutta la sua vita, e tutto quello che preoccupava quest'uomo era che la sua morte potesse in qualche modo nuocere al lavoro. Senza parlare gli voltò la schiena ed entrò nel camerino.
La senatrice Jennings era seduta davanti a uno specchio, con un asciugamano che le copriva le spalle. L'artista del trucco svolazzava agitata su di lei, passandole un velo di cipria sul naso. La senatrice teneva le dita strettamente intrecciate; il suo saluto fu abbastanza cordiale: «Eccoci qua, Pat. Sarà felice quanto me di aver finito?» «Sì, senatrice, credo di sì.» La truccatrice prese la bombola della lacca e la provò. «Non mi metta quella roba», ringhiò la senatrice. «Non voglio mica sembrare una bambola Barbie.» «Mi scusi.» La ragazza balbettava. «Le altre signore...» La voce le morì in gola. Sentendosi osservata nello specchio da Abigail, Pat evitò di proposito di incontrare il suo sguardo. «Ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare», il tono di Abigail adesso era sbrigativo. «Sono contenta di dover modificare la parte sulla sicurezza aerea, anche se, naturalmente, è terribile per la signora Graney. Ma voglio mettere ancora più in rilievo la necessità che i piccoli aeroporti siano meglio attrezzati. Inoltre ho deciso di parlare di più di mia madre. È inutile non affrontare di petto quella fotografia del Mirror e il paginone del Tribune di ieri. E bisogna certamente sottolineare il mio ruolo negli affari esteri. Le ho preparato alcune domande che lei mi rivolgerà.» Pat depose la spazzola che aveva in mano e si voltò verso la senatrice: «Ah, davvero?» Quattro ore dopo, un gruppetto prese posto in sala proiezione per rivedere il programma finito, mentre circolavano sandwich e caffè. Abigail era in prima fila con, ai due lati, Philip e Luther. Pat si trovava parecchie file indietro con l'aiuto regista. Nell'ultima fila Toby montava la sua guardia solitaria. Il programma iniziava con Pat, Luther e la senatrice seduti in semicerchio. «Buonasera, e benvenuti al primo programma della serie Donne al governo...» Pat si studiava con occhio critico. La voce era più roca del solito e qualcosa, nel modo rigido di stare seduta, denotava la tensione. Luther era del tutto a suo agio e, in complesso, l'attacco era ottimo. Lei e Abigail si completavano a vicenda. Il vestito di seta azzurro di Abigail era stato una buona scelta: esprimeva femminilità senza fronzoli. Il sorriso era cordiale, gli occhi si stringevano nel riso. Non c'era nessuna sfumatura di modestia nella sua voce quando ammise che l'inizio era lusinghiero.
Adesso discutevano della sua posizione di senatrice anziana della Virginia. Abigail: «È un mestiere spaventosamente esigente e di enormi soddisfazioni...» Il montaggio delle istantanee di Apple Junction. Quella di Abigail con la madre. Pat osservava lo schermo mentre la voce di Abigail si faceva tenera: «Mia madre dovette affrontare lo stesso problema che tante madri che lavorano si pongono oggi. Era rimasta vedova quando io avevo sei anni e non volle lasciarmi sola. Perciò accettò un posto di governante, sacrificando una carriera di gestione alberghiera, in modo che tornando da scuola io potessi trovarla a casa. Eravamo molto unite. Soffriva molto per il peso eccessivo, aveva una disfunzione ghiandolare e penso che molta gente possa capirlo. Quando cercai di convincerla a venire a vivere con Willard e me, rise e disse: 'La montagna non va certamente a Washington'. Era una donna dolce e spiritosa». A questo punto la voce di Abigail tremò. Poi venne la spiegazione del concorso di bellezza: «Altro che vincere per la gloria... Io lo vinsi per la mia mamma...» Pat si sentiva presa nell'incantesimo del calore umano di quella donna. Persino la scena, nel salotto di Abigail, quando la senatrice aveva definito sua madre una grassa tiranna, adesso le sembrava irreale. Però quelle erano state esattamente le sue parole, pensò Pat; Abigail Jennings era un'attrice consumata. Gli spezzoni del ricevimento e della prima campagna elettorale. Le domande di Pat: «Senatrice, lei era una giovane sposa; stava finendo l'ultimo anno di università e aiutava suo marito nella campagna elettorale per la sua prima elezione al Congresso. Ci dica quali sensazioni provava». E la risposta di Abigail: «Era meraviglioso. Ero molto innamorata. Avevo sempre desiderato di lavorare al fianco di un uomo politico; e sostenerlo durante la campagna elettorale sin dall'inizio era entusiasmante. Capisce, anche se quel seggio l'ha sempre occupato uno Jennings, la lotta fu dura per Willard. La notte in cui sapemmo che era stato eletto... non so descriverla. Ogni vittoria elettorale è eccitante, ma la prima è indimenticabile». Lo spezzone con i Kennedy alla festa per il compleanno di Willard Jennings... Abigail: «Eravamo tutti così giovani... Eravamo tre o quattro coppie che si riunivano regolarmente e rimanevano a parlare per ore. Eravamo tutti così sicuri che avremmo lavorato per trasformare il mondo e migliorare la qualità della vita. Adesso quei giovani uomini politici non ci sono più. Io sono l'unica di loro rimasta al governo e penso spesso ai progetti che Willard e Jack e gli altri facevano». E mio padre era uno degli altri, rifletteva Pat seguendo la proiezione. C'erano parecchie scene autenticamente commoventi. Maggie in ufficio
che ringraziava Abigail perché le aveva trovato un posto per la madre in un pensionato; una giovane mamma che stringeva la sua bambina di tre anni e raccontava come il suo ex marito l'avesse rapita: «Nessuno mi aiutava. Poi qualcuno mi ha detto: 'Parla con la senatrice Jennings, lei ottiene sempre quello che vuole'.». Sì, appunto, approvò Pat. Ma poi, intervistata da Luther, Abigail discusse del furto dei fondi per la campagna elettorale: «Mi fa molto piacere che Eleanor Brown si sia costituita per saldare il debito che ancora ha verso la società. Spero solo che possa anche essere abbastanza onesta da restituire quello che è rimasto di quel denaro, o ci dica con chi lo ha speso». Qualche cosa spinse Pat a voltarsi. Nella semioscurità della sala di proiezione, si vedeva indistintamente la figura massiccia di Toby seduto al suo posto, le mani sotto il mento, l'anello di onice che gli scintillava al dito. Con la testa faceva cenni di approvazione. Pat riportò in fretta lo sguardo sullo schermo, non volendo incrociare quello di lui. Luther a quel punto interrogava Abigail a proposito del suo impegno nella questione della sicurezza del traffico aereo. «A Willard chiedevano sempre di parlare nelle università e lui accettava ogni possibile incontro. Diceva che durante il periodo universitario i giovani cominciano a formarsi un giudizio maturo sul mondo, sul governo. Noi vivevamo di uno stipendio da deputato e dovevamo fare molta attenzione alle più piccole spese. Se io oggi sono vedova è perché mio marito noleggiò l'aereo più economico che riuscì a trovare... Sapete quanti piloti dell'esercito comprano aerei di seconda mano e cercano di organizzare una compagnia aerea da noleggio con due soldi? Esistono delle statistiche. La maggior parte di loro in poco tempo rinuncia non avendo i soldi per mantenere gli aerei nella forma dovuta. Mio marito è morto più di venticinque anni fa e io mi batto da allora perché questi piccoli aerei siano banditi dagli aeroporti più frequentati. E ho sempre lavorato in stretto contatto con l'Associazione Piloti Civili perché siano stabilite e osservate rigide regole per i piloti.» Nessun accenno a George Graney, ma ancora una volta, sottintesa, la causa della morte di Willard Jennings. Dopo tutti quegli anni, pensò Pat, Abigail non aveva rinunciato a sottolineare quali fossero le responsabilità di quell'incidente. Mentre si osservava sullo schermo, si rese conto che quel programma era esattamente come lei lo aveva progettato: ritraeva Abigail come un essere umano ricco di fascino e come un fedele servitore dello stato. Ma il rendersene conto non le dava alcuna soddisfazione.
Il programma si concludeva con Abigail che rientrava a casa sua nel crepuscolo e il commento di Pat sulle persone sole che dedicano la loro vita al lavoro; la frase che Luther aveva pensato qualche giorno prima. Lo schermo diventò scuro, in sala si riaccesero le luci e tutti si alzarono. Pat osservava la reazione di Abigail. La senatrice si voltò verso Toby che fece un cenno di approvazione e lei, sorridendo rilassata, definì il programma un successo. Poi si rivolse a Pat: «Malgrado tutti i problemi, ha fatto un ottimo lavoro. E aveva ragione a voler utilizzare l'ambiente della mia adolescenza. Mi spiace di averla fatta tribolare. Luther, tu che ne pensi?» «Penso che sei fantastica, Abigail. Pat, come la vedi tu?» Pat rifletteva. Erano tutti soddisfatti e la chiusura era tecnicamente perfetta. Allora, che cosa la spingeva a proporre che si aggiungesse un'altra scena? La lettera. Voleva leggere la lettera che Abigail aveva scritto a Willard Jennings. «Ho un problema», disse. «Sono i tocchi personali quelli che caratterizzano questo programma. Vorrei che non chiudessimo sulla nota lavoro.» Abigail alzò gli occhi al cielo con un moto di impazienza. Toby si accigliò. L'atmosfera della sala di colpo si fece tesa. Dall'altoparlante arrivò la voce dell'operatore: «Abbiamo finito?» «No. Rimetti l'ultima scena», ringhiò Luther. Si spensero le luci e un attimo dopo furono riproiettati gli ultimi due minuti del programma. Seguirono tutti con molta attenzione, ma Luther fu il primo a commentare: «Possiamo lasciarlo così se vogliamo, ma credo che Pat abbia ragione». «Magnifico», disse Abigail. «E adesso che cosa avete intenzione di fare? Io devo essere alla Casa Bianca tra qualche ora e non ho intenzione di arrivare all'ultimo minuto.» Riuscirò a farle accettare la mia proposta? si domandava Pat. Per una ragione che non riusciva a capire, desiderava disperatamente leggere la lettera Billy, tesoro e voleva vedere la reazione spontanea della senatrice a quella lettera. Ma Abigail aveva insistito per leggere ogni riga della sceneggiatura prima delle riprese. Pat cercò di assumere un tono indifferente: «Senatrice, lei è stata molto generosa ad aprire per noi i suoi archivi personali. Nell'ultimo lotto che Toby mi ha portato, ho trovato una lettera che potrebbe servire perfettamente per quel tocco personale conclusivo di cui abbiamo bisogno. Naturalmente lei può leggerla prima che facciamo le riprese, ma credo che se non lo facesse la scena risulterebbe più naturale. In
ogni caso, se non funziona, lasceremo la scena di chiusura che abbiamo». Gli occhi di Abigail erano diventati una fessura. Guardò Luther: «Tu hai letto quella lettera?» «Sì, l'ho letta. Sono d'accordo con Pat. Ma naturalmente dipende da te.» Lei si rivolse a Philip e a Toby: «Voi due avete esaminato tutto il materiale che consegnavate perché potesse essere eventualmente utilizzato nel programma?» «Tutto, senatrice.» Lei si strinse nelle spalle. «In questo caso... Solo, fate in modo di non leggere la lettera di qualcuno che sostiene di essere stata Miss Apple Junction l'anno dopo di me.» Tutti risero. Ha qualcosa di diverso, pensò Pat. È più sicura di sé. «Giriamo la scena tra dieci minuti», disse Luther. Pat tornò in fretta nel camerino a nascondere con la cipria le goccioline di sudore che le imperlavano la fronte. Che cosa mi succede? si chiese furiosa. La porta si aprì ed entrò Abigail. Estrasse lentamente il portacipria dalla borsetta. «Il programma è riuscito, Pat, vero?» «Sì, direi di sì.» «Io ero così contraria. Avevo una sensazione sgradevole. Ma ha fatto un ottimo lavoro facendomi apparire come una persona più umana.» Sorrise. «Vedendolo, mi sono anche trovata più simpatica di quanto probabilmente sia in realtà.» «Mi fa piacere.» Era di nuovo la donna per cui aveva provato ammirazione. Qualche minuto dopo erano di nuovo sul set. Pat copriva con la mano la lettera che si accingeva a leggere. Luther cominciò a parlare: «Senatrice, vogliamo ringraziarla perché ha voluto dividere il suo tempo con noi in modo così personale. Quello che lei ha fatto sarà certamente di ispirazione a tutti e costituirà un esempio di come da una tragedia possa scaturire del bene. Quando preparavamo questo programma, lei ci ha permesso di leggere molti documenti, lettere e fotografie personali; tra queste abbiamo trovato una lettera che lei scrisse a suo marito, l'onorevole Willard Jennings. Credo che questa lettera sintetizzi la ragazza che lei era e la donna che è diventata. Posso pregare Pat di leggergliela, ora?» Abigail piegò leggermente la testa, con aria interrogativa. Pat aprì la lettera. La voce roca, lesse lentamente. «Billy, tesoro.» La gola le si strinse, dovette costringersi ad andare avanti. Aveva di nuovo la
bocca disperatamente secca. Alzò gli occhi: Abigail la stava fissando e tutto il colore abbandonava il suo viso. «Sei stato splendido durante le sedute di oggi pomeriggio. Sono così orgogliosa di te e sono impaziente di poter essere nuovamente con te, di lavorare con te. Oh, caro, lo renderemo davvero diverso questo mondo.» Luther interloquì: «Questo biglietto fu scritto il tredici maggio, e il venti maggio l'onorevole Willard Jennings moriva tragicamente. Da allora questa donna sta continuando a lottare da sola per cercare di rendere diverso questo mondo. Senatrice Abigail Jennings, grazie.» Gli occhi della senatrice brillavano. Un sorriso tenero, appena accennato, aleggiava agli angoli della sua bocca. Annuì e le sue labbra formularono la parola «Grazie». «Stop», gridò il regista. Luther balzò in piedi: «Senatrice, è stata perfetta. Tutti saranno...» Si fermò a metà della frase mentre Abigail si precipitava in avanti e strappava la lettera dalle mani di Pat. «Dove l'ha trovata?» urlò. «Che cosa sta cercando di fare?» «Abigail, calmati, non siamo obbligati a utilizzarla, se non vuoi», protestò Luther. Pat osservava il viso di Abigail diventare una maschera di ira e di dolore. Dove aveva visto quell'espressione, su quel viso, prima di allora? Una sagoma massiccia le passò vicina e la oltrepassò. Toby stava scuotendo la senatrice e quasi gridava: «Abby, si controlli. È stato grandioso concludere il programma così. Abby, va benissimo che la gente conosca la sua ultima lettera a suo marito». «La mia... ultima... lettera?» Abigail alzò una mano per coprirsi il viso, come se stesse cercando di plasmarsi un'altra espressione. «Certo... scusatemi... il fatto è che Willard e io avevamo l'abitudine di scriverci biglietti in continuazione... Sono così contenta che abbiate trovato... l'ultimo...» Pat era seduta e non riusciva a muoversi. Billy, tesoro, Billy, tesoro... Le parole risuonavano come colpi di tamburo martellanti nella sua mente. Aggrappandosi ai braccioli, alzò gli occhi e incontrò la furia dello sguardo di Toby; con un assurdo terrore, si riappoggiò allo schienale. Lui si rivolse ad Abigail e, insieme con Luther e Phil, la scortò all'uscita dello studio. A uno a uno i riflettori si spensero. «Ehi, Pat», gridò il cameraman. «Abbiamo finito, vero?» Finalmente riuscì ad alzarsi: «Abbiamo finito», rispose.
39 Ogni volta che si trovava alle prese con un problema, Sam si accorgeva che una lunga passeggiata riusciva in qualche modo a schiarirgli le idee e ad aiutarlo a pensare. Per questo decise di fare a piedi tutti i chilometri che separavano il suo appartamento dal quartiere sudoccidentale di Washington. Il Gangplank Restaurant era sul Canale di Washington, e mentre lo percorreva egli si perse a contemplare il moto incessante dei cavalloni. Cape Cod. Nauset Beach. Pat che camminava al suo fianco, i capelli scompigliati dal vento, il braccio infilato nel suo e quell'incredibile senso di libertà, come se non esistessero che loro due e il cielo, la spiaggia e l'oceano. Quest'estate ci ritorniamo, promise a se stesso. Il ristorante pareva una nave ormeggiata alla banchina. Si affrettò a percorrere la passerella. Jack Carlson era già seduto a un tavolo accanto a una finestra. Il portacenere davanti a lui era pieno di mozziconi e Jack stava sorseggiando un'acqua minerale Perrier. Sam si scusò per il ritardo. «Sono io in anticipo», disse semplicemente Jack. Era un uomo curato con folti capelli grigi e occhi vivaci e inquisitori. Lui e Sam erano amici da oltre vent'anni. Sam ordinò un martini e gin: «Forse servirà a calmarmi o a tirarmi su», spiegò tentando un sorriso. Sentiva su di sé gli occhi di Jack che lo studiavano. «Ti ho visto più allegro», commentò Jack. «Sam, che cosa ti ha spinto a controllare Toby Gorgone?» «Solo un sospetto.» Sam era teso. «Hai scovato qualche cosa di interessante?» «Direi di sì.» «Salve, Sam.» Era arrivato Frank Crowley, il viso, normalmente pallido, rosso per il freddo, i folti capelli bianchi arruffati. Si presentò a Jack, si sistemò gli occhiali dalla montatura d'argento, aprì la borsa e ne estrasse un voluminoso fascicolo. «Consideratevi fortunati se sono arrivato», annunciò. «Ho cominciato a esaminare i verbali del processo e quasi ho dimenticato l'ora.» Il cameriere era in attesa dietro di lui: «Martini e vodka, molto secco», ordinò. «Sam, sei l'unica persona che conosco che possa ancora bere martini e gin.» Senza aspettare una replica, continuò: «Stati Uniti contro Eleanor Brown. Lettura interessante che può riassumersi in una semplice domanda:
qual era il membro della famiglia ufficiale della senatrice Jennings che mentiva, Eleanor o Toby? Eleanor fu teste a discarico in favore di se stessa: un grosso errore. Cominciò a parlare dell'episodio del furto nel negozio e il procuratore lo gonfiò al punto che sembrava avesse svaligiato Fort Knox. La deposizione della senatrice certo non fu di aiuto. Parlò maledettamente troppo della seconda occasione che aveva fornito a Eleanor. Ho segnato le pagine più rilevanti». Tese la copia del verbale a Carlson. Jack estrasse una busta dalla tasca della giacca: «Ecco il curriculum di Gorgone che volevi, Sam». Sam lo scorse, sollevò le sopracciglia e lo rilesse. Apple Junction: Sospettato per furto d'auto. L'inseguimento della polizia ha provocato tre vittime. Non rinviato a giudizio. Apple Junction: Sospettato di attività illegale come allibratore. Non rinviato a giudizio. New York City: Sospettato di aver messo una bomba incendiaria in una macchina (provocando la morte di un usuraio). Non rinviato a giudizio. Ritenuto un fiancheggiatore della mafia. Potrebbe aver saldato debiti di gioco rendendo servizi alla malavita. Elemento di rilievo: Eccezionali capacità meccaniche. «Una fedina immacolata», osservò, sarcastico. Mangiando alcuni sandwich di carne discussero, paragonarono e soppesarono il rapporto su Toby Gorgone, il verbale del processo contro Eleanor Brown, i dati emersi dall'inchiesta dell'Aviazione Civile e la notizia della morte di Catherine Graney. Prima che venisse servito il caffè, erano arrivati, ognuno per conto proprio e tutti insieme, a formulare ipotesi allarmanti: Toby era un brillante meccanico che aveva lasciato una valigia sull'aereo di Jennings qualche minuto prima del decollo e l'aereo si era schiantato a terra in circostanze misteriose. Toby era un giocatore d'azzardo che avrebbe potuto trovarsi in debito verso qualche allibratore all'epoca in cui erano scomparsi i fondi della campagna elettorale. «Mi sembra che la senatrice Jennings e questo Toby si scambino piaceri a vicenda», commentò Crowley. «Lei conferma i suoi alibi e lui le cava le castagne dal fuoco.» «Non posso credere che Abigail Jennings manderebbe di proposito una ragazza in prigione», fece Sam, reciso. «E nemmeno che abbia preso parte all'assassinio di suo marito.» Si accorse che adesso stavano bisbigliando:
in fondo parlavano della donna che di lì a qualche ora poteva ricevere la vicepresidenza degli Stati Uniti. Il ristorante cominciava a vuotarsi. I clienti, che per la maggior parte gravitavano nel mondo ufficiale della politica, si affrettavano a tornare alle loro attività. Probabilmente ognuno di loro, durante il pranzo, aveva fatto qualche congettura sulla conferenza stampa indetta dal presidente quella sera. «Sam, ho visto dozzine di personaggi come questo Toby», disse Jack. «Per lo più nel mondo della malavita. Sono assolutamente fedeli al loro capo. Gli spianano la strada... e, nello stesso tempo, proteggono se stessi. Può darsi che la senatrice Jennings non fosse implicata nelle attività di Toby. Ma guardala in questo modo. Ipotizziamo che Toby fosse al corrente che Willard Jennings voleva rinunciare al suo seggio al Congresso e ottenere il divorzio da Abigail. Jennings inoltre di suo non aveva cinquantamila dollari, i cordoni della borsa li teneva ancora sua madre. Se le cose fossero andate così Abigail sarebbe rimasta fuori della scena politica e sarebbe stata abbandonata dal circolo degli amici di Willard, ridiventando l'ex reginetta di bellezza di una cittadina di provincia. Toby decise che non avrebbe permesso che questo avvenisse.» «Stai insinuando che lei gli ha restituito il favore mentendo a suo vantaggio a proposito dei soldi della campagna elettorale?» chiese Sam. «Non necessariamente», disse Frank. «Ecco... leggi la deposizione della senatrice. Ammette che si erano fermati a una stazione di servizio all'incirca alla stessa ora in cui Eleanor aveva ricevuto la telefonata. Il motore picchiava in testa e Toby voleva controllare. Giura di averlo avuto sempre sotto gli occhi. Però lei stava andando a fare una conferenza e probabilmente si riguardava gli appunti. Un minuto prima probabilmente aveva visto il suo autista davanti alla macchina che si gingillava con il motore: un minuto dopo lui poteva essere dietro la macchina, per prendere un arnese dal portabagagli. Quanto tempo ci vuole per arrivare a un telefono pubblico, formare un numero e lasciare un messaggio di due secondi? Io questa deposizione l'avrei smontata come niente. Ma anche partendo dal presupposto che abbiamo ragione, non riesco a capire perché Toby abbia scelto Eleanor.» «È facile», disse Jack. «Sapeva di quel suo precedente. Sapeva quanto fosse sensibile. Se la soluzione del caso non fosse stata immediata, ci sarebbe stata un'inchiesta approfondita sull'ammanco. Lui stesso sarebbe stato sospettato e si sarebbe scavato nel suo passato. Era abbastanza intelli-
gente da cavarsela di nuovo con un non rinvio a giudizio, ma la senatrice sarebbe stata sottoposta a pressioni dal suo partito affinché si sbarazzasse di lui.» «Se questo è esatto», concluse Sam, «la morte di Catherine Graney diventa troppo tempestiva, troppo vantaggiosa per essere un caso di omicidio accidentale.» «Se stasera Abigail Jennings verrà designata dal presidente», disse Jack, «e poi salta fuori che il suo autista ha assassinato la Graney, le sedute per la conferma saranno motivo di scandalo in tutto il mondo.» I tre uomini rimasero in silenzio, ognuno immerso in tetre riflessioni sul possibile disagio in cui si sarebbe trovato il presidente. Poi Sam ruppe il silenzio. «Può venire fuori anche qualcosa di positivo se possiamo dimostrare che Toby è l'autore di quelle minacce e arrestarlo, e se potrò smettere di preoccuparmi per Pat.» Frank Crowley fece un cenno a Jack: «E se i suoi uomini trovassero prove sufficienti, Toby potrebbe convincersi a dire la verità anche sui soldi della campagna elettorale. Vi assicuro che vedere quella povera ragazza di Eleanor Brown sottoporsi alla macchina della verità questa mattina e giurare che non ha mai rubato neppure un gessetto, è stata una cosa che spezzava il cuore. Non dimostra neanche diciott'anni, altro che trentaquattro. L'esperienza del carcere l'ha quasi uccisa. Dopo il collasso, uno strizzacervelli le ha chiesto di descrivere come vedeva se stessa dipingendo l'espressione del viso di una bambola; e quella poveretta se la porta ancora appresso, se la vedeste vi darebbe i brividi». «Una bambola!» esclamò Sam. «Eleanor Brown si porta appresso una bambola? Una bambola... di pezza?» E mentre Frank annuiva, stupefatto, ordinò altri tre caffè. «Ho paura che stiamo seguendo la pista sbagliata», disse stancamente. «Ricominciamo daccapo.» 40 Toby versò un manhattan nel bicchiere da cocktail preventivamente ghiacciato e lo posò davanti ad Abigail. «Beva questo, senatrice. Ne ha bisogno.» «Toby, dove ha preso quella lettera? Da dove l'ha tirata fuori?» «Non lo so, senatrice.»
«Non poteva assolutamente trovarsi nel materiale che le abbiamo dato. L'ultima volta che l'ho vista è stata quando l'ho scritta. Che cosa sa? Toby, se lei potesse provare che quella notte io ero lì...» «Non può, senatrice. Nessuno può provarlo. E per quanto possa essere andata a fondo, non ha nessuna prova. Via, le ha fatto un piacere. Quella lettera le procurerà molte simpatie. Aspetti e vedrà.» Alla fine la calmò nell'unico modo che funzionava: «Abbia fiducia in me! Non si preoccupi. L'ho mai lasciata nei guai?» Riuscì a calmarla un poco ma le leggeva la tensione nello sguardo e nei gesti bruschi. Doveva riuscire a tranquillizzarla, di lì a qualche ora era aspettata alla Casa Bianca. «Ascolti, Abby», disse. «Mentre io le preparo qualche cosa da mangiare, voglio che butti giù due manhattan. Dopo si faccia un bagno caldo e dorma per un'ora. Poi si vesta con il vestito che le dona di più: questa è la serata più importante della sua vita.» Lo pensava sul serio e dopotutto lei aveva ragione di essere sconvolta. L'attimo stesso in cui lui, Toby, aveva sentito la prima frase di quella lettera, era balzato in piedi. Ma appena Pelham aveva detto: «Suo marito morì una settimana dopo», aveva capito che andava tutto bene. Abby quasi aveva rovinato tutto. Ancora una volta lui era stato pronto a impedirle di fare un terribile sbaglio. Abby prese il bicchiere. «Salute», disse, mentre un accenno di sorriso le aleggiava sulle labbra. «Toby, tra poco ce l'abbiamo.» La vicepresidenza. «Proprio così, senatrice.» Era seduto su uno sgabellino basso di fronte al divano. «Ah, Toby», fece lei. «Che cosa sarei stata senza di te?» «Deputato all'assemblea dello stato per Apple Junction.» «Ah, sicuro.» Tentava di sorridere. Aveva i capelli morbidi intorno al viso e non dimostrava più di trent'anni. Era così snella. Snella come deve esserlo una donna: non un sacco di ossa però, e la sua pelle era soda e levigata. «Toby, si direbbe che stai riflettendo. Sarebbe la prima volta.» Lui le rivolse un largo sorriso, felice di vedere che si stava rilassando. «Già, quella intelligente è lei. Pensare è compito suo.» Lei sorseggiò il cocktail rapidamente. «Il programma non è male, vero?» «Continuo a dirglielo... non avrebbe avuto senso per lei insistere a proposito della lettera. Quella Traymore le ha fatto un favore.» «Lo so... Solo che...» Il manhattan cominciava a fare effetto. Adesso doveva convincerla a
mangiare qualche cosa. «Senatrice, si rilassi. Io le preparo un vassoio.» «Sì... è una buona idea. Toby, ti rendi conto che tra qualche ora sarò designata vicepresidente degli Stati Uniti?» «Certo che me ne rendo conto, Abby.» «Sappiamo tutti che la carica è soprattutto di rappresentanza. Ma Toby, se faccio un buon lavoro, non potranno negarmi il gradino più alto l'anno prossimo. È lì che voglio arrivare.» «Lo so, senatrice», disse Toby riempiendole il bicchiere. «Adesso le faccio un'omelette. Poi lei va a farsi un sonnellino. Questa è la sua serata.» Toby si alzò. Non sopportava di vedere, così scoperto sul viso di lei, quel desiderio struggente. L'aveva già visto una volta: il giorno in cui Abby aveva ricevuto una risposta negativa alla sua richiesta per una borsa di studio per Radcliffe. Era andata da lui mentre falciava il prato e gli aveva mostrato la lettera, poi si era seduta sugli scalini del porticato, le braccia strette intorno alle gambe e il viso nascosto sulle ginocchia. Aveva diciotto anni. «Toby, desidero così tanto andarci. Non posso marcire in questo schifo di città, non posso...» E allora lui le aveva consigliato di sedurre quel fesso di Jeremy Saunders... Altre volte l'aveva aiutata in questo modo; aiutata a trovare il suo destino. E adesso, ancora una volta, qualcuno stava tentando di mandarle tutto all'aria. Toby andò in cucina. Mentre preparava la cena, cercò di immaginarsi quanto sarebbe stato interessante lottare con Abby per la presidenza. Squillò il telefono. Era Phil: «Tutto a posto con la senatrice?» «Sta bene. Senti, sto preparando la cena.» «Ho l'informazione che ti serviva. Indovina a chi appartiene la casa di Pat Traymore.» Toby rimase in attesa. «A Pat Traymore, ecco a chi. È vincolata a suo nome da quando aveva quattro anni.» Toby fischiò in silenzio. Quegli occhi, quei capelli, un certo non so che... come aveva fatto a non capirlo prima? Avrebbe potuto rovinare tutto con la sua ottusità. La voce di Phil era querula. «Mi hai sentito? Ho detto...» «Ti ho sentito. Però tienti questa notizia per te. Se la senatrice non lo viene a sapere è meglio.»
Poco dopo quella telefonata, Toby tornava nel suo appartamento sopra il garage. Cedendo alle sue insistenze, Abigail aveva deciso di vedersi il programma stando distesa sul letto in camera sua. Alle otto lui avrebbe tirato fuori la macchina e si sarebbero avviati verso la Casa Bianca. Aspettò che il programma fosse iniziato da qualche minuto, poi, senza far rumore, uscì dal suo appartamento. La sua macchina, una Toyota nera, era sul viale del giardino. La spinse a mano fino alla strada. Non voleva che Abby sapesse che stava uscendo. Aveva poco meno di un'ora e mezzo per andare e tornare dalla casa di Pat Traymore. Bastava, per fare quello che era necessario. 41 Pat percorse Massachusetts Avenue, risalì Q Street, attraversò il Buffalo Bridge ed entrò in Georgetown. Aveva mal di testa, una pulsazione regolare le batteva le tempie. Guidava per inerzia e abitudine, osservando i semafori solo inconsciamente. Poi fu sulla Trentunesima, girò l'angolo ed entrò nel vialetto di casa. Era sui gradini d'ingresso, con il vento che le schiaffeggiava il viso. Le dita frugavano nella borsa alla ricerca della chiave. Poi lo scatto della serratura: Pat spalancò la porta ed entrò nell'oscurità tranquilla dell'atrio. Istintivamente chiuse la porta e vi si appoggiò contro. Il cappotto le pesava sulle spalle; se ne liberò, gettandolo su una sedia. Alzò la testa e i suoi occhi si fissarono sul solito scalino in ombra della scala. C'era una bambina seduta lì. Una bambina dai lunghi capelli castano rossicci, il mento appoggiato alle ginocchio e un'espressione curiosa in viso. Non dormivo, pensò. Sentii il campanello suonare e volevo vedere chi era. Papà aprì la porta e qualcuno lo spinse da parte per entrare. Lui era arrabbiato. Tornai a letto di corsa. Quando sentii il primo sparo, non scesi subito. Rimasi a letto e gridai perché volevo il mio papà. Ma lui non venne. E io sentii un altro rumore improvviso e violento e scesi le scale di corsa dirigendomi verso il soggiorno... E poi... Si accorse di tremare e di avere le vertigini. Entrò nella biblioteca, si versò del brandy e lo bevve tutto d'un fiato. Perché la lettera aveva sconvolto in quel modo la senatrice Jennings? L'aveva vista in preda al panico, furiosa, spaventata. Perché?
Non aveva senso. E perché turbava tanto anche me leggerla? Perché mi ha turbato ogni volta che l'ho letta? Come mi guardava Toby, come se mi odiasse. E come gridava con la senatrice. Non stava cercando di calmarla: stava cercando di avvertirla di qualche cosa. Ma che cosa? Si raggomitolò nell'angolo del divano, le braccia strette intorno alle ginocchia. Mi sedevo sempre qui quando papà lavorava alla sua scrivania. «Puoi rimanere, Kerry, purché tu prometta di stare buona.» Perché il ricordo di lui era così vivo adesso? Lo vedeva, non come appariva dalle sequenze del film ma come era stato lì in quella stanza, appoggiato allo schienale della sedia, mentre tamburellava con le dita il piano della scrivania per cercare di concentrarsi. Il giornale era ancora aperto sulla scrivania a quella pagina. Cedendo a un impulso improvviso, si avvicinò alla scrivania e rilesse l'articolo con attenzione. I suoi occhi si posarono di nuovo sulla fotografia di suo padre con Abigail sulla spiaggia. C'era una innegabile intimità, in quella scena. Un piccolo idillio di un pomeriggio d'estate o qualcosa di più? E se sua madre avesse alzato gli occhi e avesse sorpreso lo sguardo che si scambiavano? Perché aveva tanta paura? Aveva dormito così male la notte precedente; un bagno caldo e un sonnellino l'avrebbero calmata. Salì lentamente in camera sua. E di nuovo quella strana sensazione di essere osservata. L'aveva avuta anche la notte precedente, prima di addormentarsi, ma di nuovo cercò di scacciarla. Il telefono suonò esattamente quando arrivava in camera sua. Era Lila. «Stai bene, Pat? Sono preoccupata per te. Non vorrei allarmarti, ma devo farlo. Percepisco il pericolo intorno a te. Non vorresti venire qui e rimanere con me?» «Lila, io credo che quello che lei sente sia il fatto che sono davvero vicinissima a ricordare tutti i particolari di quella notte. Oggi è successo qualcosa, durante le ultime riprese, non so ancora esattamente cosa ma... Ma non si preoccupi... di qualunque cosa si tratti, saprò dominarla.» «Pat, ascoltami. Non restare in quella casa adesso!» «Solo così potrò ricostruire tutto.» È nervosa per via di quelle effrazioni, pensò Pat, distesa nella vasca da bagno. Ha paura che io non sia in grado di affrontare la realtà. Si infilò l'accappatoio, poi, seduta alla toeletta, sciolse i capelli e cominciò a spazzolarli. Li aveva tenuti sempre legati quella settimana, senza pensare che a
Sam piacevano di più sciolti. Domani avrebbe rimediato. Si mise a letto e accese la radio con il volume quasi al minimo. Pensava di non riuscire a dormire, ma ben presto dovette ricredersi, si lasciò lentamente andare. La voce della radio che parlava di Eleanor Brown la fece trasalire riportandola alla coscienza. L'orologio sul comodino segnava le sei e un quarto. Il programma sarebbe andato in onda di lì a un quarto d'ora. Ascoltò il notiziario: «Adducendo come motivo il fatto che non poteva più sopportare la paura di esser riconosciuta, Eleanor Brown si è costituita ed è stata arrestata. Continua a sostenere con fermezza la propria estraneità al furto per il quale fu condannata. Un portavoce della polizia ha reso noto che nei nove anni trascorsi dalla sua scomparsa mentre era in libertà vigilata sulla parola, la Brown è vissuta con un certo Arthur Stevens, che svolgeva attività assistenziale. Stevens è a sua volta sospettato di essere implicato in una lunga serie di decessi avvenuti in pensionati per anziani e, contro di lui, è stato emesso mandato di cattura. Affetto da mania religiosa, egli si è soprannominato l'angelo delle case di cura». Angelo delle case di cura! Nella prima telefonata di minacce che aveva ricevuto l'uomo aveva detto di essere un angelo della misericordia, della liberazione, della vendetta. Pat si precipitò al telefono, formò il numero di Sam, lasciò che il segnale si ripetesse dieci, dodici, quattordici volte prima di riappoggiare il ricevitore. Se solo avesse capito prima il significato delle parole di Eleanor: aveva detto che Arthur... Padre Arthur l'aveva pregata di non costituirsi. Per salvare Eleanor quell'uomo sarebbe arrivato a tentare di impedire il programma? Era possibile che Eleanor fosse al corrente di quelle minacce? No, sono sicura che non lo era, si disse Pat. Il suo avvocato, però, deve essere messo al corrente di tutto questo prima che io avvisi la polizia. Erano le sei e venticinque. Scese dal letto, strinse la cintura dell'accappatoio e s'infilò le pantofole. Mentre scendeva di corsa le scale, si chiese dove potesse essere in quel momento Arthur Stevens. Sapeva che Eleanor era stata arrestata? Avrebbe visto il programma e l'avrebbe considerata colpevole quando sarebbe apparsa la fotografia di Eleanor? Colpevole perché Eleanor non aveva mantenuto la promessa di aspettare prima di costituirsi? In soggiorno accese tutte le luci del lampadario e perse qualche minuto anche con le lampadine dell'albero di Natale, prima di accendere il televisore. Ma anche così la stanza era stranamente priva di allegria. Sistemandosi sul divano seguì con attenzione lo svolgersi dei titoli di testa dopo il
notiziario delle sei. Non era stata casuale la sua decisione di guardare il programma da sola; in studio, si era accorta di legare le proprie reazioni a quelle di tutti i presenti, mentre lei desiderava giudicarlo obiettivamente. Adesso si accorse di aver paura: ma era qualcosa di molto più forte della normale apprensione che provava all'inizio di una nuova serie. La caldaia rumoreggiava e le bocchette dell'aria calda sibilavano fastidiosamente. Il rumore improvviso di uno scoppio più forte la fece balzare in piedi. È assurdo, non capisco perché questa casa debba rendermi così nervosa. Il programma stava cominciando. Pat esaminò criticamente la senatrice, Luther e se stessa, seduti in semicerchio. Lo sfondo era buono, pensò, e Luther aveva avuto ragione a far togliere i fiori. Abigail non rivelava niente della tensione di cui era pervasa, a quanto pareva, soltanto lontana dalla cinepresa. Il pezzo su Apple Junction era stato ben scelto: i ricordi di Abigail sui primi anni della sua vita la facevano apparire una persona come tante altre con quel tocco di umanità che serviva. Ed era tutto falso, pensò Pat. I filmetti su Abigail e Willard Jennings al ricevimento di nozze, alle feste in giardino, durante le campagne elettorali di lui. I teneri riferimenti di Abigail mentre venivano proiettati: «Willard e io...», «Mio marito e io...». Strano che non lo chiamasse mai Billy. Pat era sempre più cosciente del fatto che i vecchi filmati con Abigail giovane avevano qualcosa di stranamente familiare, suscitavano ricordi in lei che non avevano niente a che vedere con il fatto che li avesse, in quei giorni, visti e rivisti dozzine di volte. In quel momento trasmettevano la pubblicità. L'episodio di Eleanor Brown e della scomparsa dei fondi veniva subito dopo. Arthur sentì Patricia Traymore scendere le scale. Cautamente, uscì dal nascondiglio e arrivò in punta di piedi fino al punto in cui fu sicuro di percepire, debolmente, i rumori della televisione che arrivavano dal pianterreno. Aveva temuto che potessero venire degli amici a vedere il programma con lei, invece era sola. Per la prima volta in tutti quegli anni, si sentì vestito come Dio avrebbe voluto che fosse. Con le mani aperte, madide, si lisciò contro il corpo la morbida stoffa. Quella donna contaminava persino dei paramenti sacri: come osava indossare le vesti degli eletti?
Rientrò nel suo nascondiglio, si mise la cuffia, accese il televisore e regolò il video. Aveva innestato l'antenna e lo schermo era chiarissimo. In ginocchio come davanti a un altare, le mani giunte nell'atto della preghiera, Arthur si accinse a vedere il programma. Lila era seduta davanti al televisore per vedere il servizio di Pat, la cena su un vassoio davanti a lei. Le era difficile persino fingere di mangiare. La sua assoluta certezza del pericolo in cui Pat si trovava non fece che aumentare quando vide la sua immagine sullo schermo. Le predizioni di Cassandra, pensò con amarezza. Pat non vuole darmi ascolto. Ma deve andarsene da quella casa o incontrerà una morte più violenta di quella dei suoi genitori. Il suo tempo sta per scadere. Lila aveva visto Sam Kingsley una sola volta e lo aveva trovato molto simpatico; inoltre aveva intuito quanto quell'uomo fosse importante per Pat. Forse sarebbe stato utile tentare di parlargli, dividere con lui la sua apprensione? Forse avrebbe potuto persuaderlo a indurre Pat a lasciare quella casa finché l'atmosfera negativa che la circondava si fosse dissolta. Spinse da parte il vassoio, si alzò e prese l'elenco telefonico. Lo avrebbe chiamato immediatamente. Sam andò direttamente dal ristorante al suo ufficio. Aveva parecchi appuntamenti, ma gli risultò impossibile concentrarsi anche su uno solo di essi. Il suo pensiero tornava continuamente alle ipotesi fatte durante la colazione. Avevano montato contro Toby un solido processo indiziario, ma Sam aveva abbastanza esperienza come procuratore per sapere che le prove indiziarie, anche le più schiaccianti, possono esser smontate come un castello di carte. E quella bambola di pezza aveva sconvolto gli indizi contro Toby. Ora se Toby fosse stato esente da qualsiasi responsabilità nel disastro aereo e nel furto e se Catherine Graney era stata vittima di un qualsiasi rapinatore, allora Abigail Jennings era veramente quella che appariva: una donna al di sopra di ogni sospetto, una candidata degna del compito che tanta gente si aspettava svolgesse. Ma più Sam pensava a Toby, più si sentiva a disagio. Alle sei e venti, finalmente libero, telefonò a Pat. Era occupato. Chiuse a chiave rapidamente il cassetto della scrivania. Voleva arrivare a casa in tempo per vedere il programma. Lo squillo del telefono lo bloccò mentre usciva di corsa dall'ufficio; l'i-
stinto lo spinse a non ignorarlo. Era Jack Carlson. «Sei solo, Sam?» «Sì.» «Ci sono nuovi sviluppi nel caso di Catherine Graney. Il figlio ha trovato la brutta copia di una lettera che sua madre aveva scritto alla senatrice Jennings. Una lettera che probabilmente è arrivata ieri all'indirizzo privato della senatrice. Il testo è piuttosto esplosivo. La signora Graney intendeva smascherare la versione della senatrice Jennings sui suoi rapporti con il marito, e aveva intenzione di citarla in giudizio per diffamazione a meno che non ritrattasse, nel corso del programma, le sue affermazioni a proposito dell'errore del pilota.» Sam emise un lungo fischio: «Mi stai dicendo che è possibile che Abigail abbia ricevuto la lettera ieri?» «Esattamente. Ma aspetta, non ho finito. C'è dell'altro. I vicini della Graney davano una festa ieri sera. Abbiamo chiesto loro una lista degli ospiti e li abbiamo rintracciati tutti. Una giovane coppia arrivata tardi, verso le undici e un quarto, incontrò delle difficoltà a trovare la strada. Chiesero indicazioni a un uomo che stava avvicinandosi in macchina da due isolati di distanza. Lui se ne sbarazzò alla svelta: la macchina era una Toyota nera, con la targa della Virginia. La descrizione potrebbe corrispondere a Toby Gorgone. La ragazza ricorda perfino che aveva un grosso anello scuro. Andiamo a prelevare Toby per interrogarlo. Pensi di telefonare alla Casa Bianca?» Se Toby fosse stato visto vicino al luogo in cui era avvenuto l'assassinio di Catherine Graney, se aveva ucciso quella donna, tutto il resto di cui lo sospettavano diventava possibile, persino logico. «Abigail dev'essere immediatamente informata», disse Sam. «Vado subito da lei. Deve avere la possibilità di ritirare il suo nome da quelli dei candidati alla designazione. Se rifiuta, telefonerò io stesso al presidente. Anche se non fosse al corrente delle azioni di Toby, deve accettare la sua responsabilità morale.» «Non credo che la signora in questione si preoccuperà molto delle sue responsabilità morali. Comunque se il grande capo dell'FBI J. Edgar fosse vivo, probabilmente non sarebbe neanche arrivata tanto vicina alla vicepresidenza. Hai visto l'articolo del Tribune, l'altro giorno, sulla grande amicizia che c'era tra lei, l'onorevole Adams e sua moglie?» «Sì, l'ho visto.» «I giornali di allora lasciarono trapelare che forse era stata un'altra donna la causa diretta di quel fatale litigio. Io ero appena entrato nell'FBI quando
successe la tragedia, ma leggendo quell'articolo qualche cosa ha cominciato a tormentarmi. Istintivamente ho deciso di riguardarmi il fascicolo sul caso. Dentro ho trovato un appunto su Abigail Jennings. Molti elementi portavano alla conclusione che l'altra donna fosse lei.» Per quanto ci provasse, Abigail non riusciva a riposare. Il pensiero che di lì a qualche ora sarebbe stata designata per la vicepresidenza degli Stati Uniti era troppo esaltante perché riuscisse a non pensarci continuamente. Signora vicepresidente. L'aereo Air Force Two e la residenza nella tenuta del Vecchio Osservatorio navale. Presidente del Senato e rappresentante del presidente in tutto il mondo. Tra due anni la nomination presidenziale. Vincerò, promise a se stessa. Golda Meir. Indira Gandhi. Margaret Thatcher. Abigail Jennings. Il Senato era stato una piattaforma di lancio formidabile. La sera in cui era stata eletta, Luther aveva detto: «Bene, Abigail, adesso sei membro del circolo più esclusivo del mondo». Adesso stava per salire un altro gradino. Non più una tra cento senatori, ma la seconda carica di tutto il paese. Aveva deciso di indossare un completo di seta costituito da gonna, camicia e giacca nei toni del grigio: le donava molto ed era abbastanza serio per l'occasione. Il vicepresidente Abigail Jennings... Erano le sei e un quarto. Si alzò dalla sdraio, si avvicinò alla toeletta e cominciò a spazzolarsi i capelli. Si truccò velocemente con una lieve sfumatura di ombretto e un po' di mascara. Le guance erano rosee per l'eccitazione, non avevano bisogno di blush. Tanto valeva vestirsi subito, assistere al programma e provare ancora il discorso di accettazione finché sarebbe stato il momento di uscire per recarsi alla Casa Bianca. Si vestì e appuntò sulla giacca una spilla d'oro e diamanti a forma di sole. Decise di seguire il programma sul televisore della biblioteca che aveva lo schermo più grande. «Rimanete in ascolto: sta per andare in onda Donne al governo.» Lo aveva già visto praticamente finito, salvo gli ultimi minuti. Ma voleva assistervi comunque di nuovo, lo trovava rassicurante. Apple Junction sotto un manto di neve fresca aveva un aspetto così rustico e familiare che ne nascondeva la squallida tristezza. Studiò pensierosa la casa dei Saunders. Ricordava quando la signora Saunders l'aveva rimandata indietro fino al cancello perché entrasse dalla porta di servizio. A quella miserabile
strega aveva fatto pagare caro il suo errore. Se Toby non avesse escogitato il modo di trovare i soldi per Radcliffe, dove sarebbe stata lei adesso? I Saunders mi dovevano quel denaro, pensò: dodici anni di umiliazioni in quella casa! Guardò i brani relativi al ricevimento di nozze, alle prime campagne elettorali, al funerale di Willard. Ricordò l'esultanza provata quando, nella macchina che seguiva il funerale, Jack Kennedy si era dimostrato favorevole a insistere presso il governatore perché la nominasse per completare il mandato di Willard. Una scampanellata insistente la fece trasalire. Nessuno capitava mai senza preavviso: possibile che qualche giornalista avesse la faccia tosta di suonare in quel modo? Tentò di ignorarlo. Ma il suono divenne costante, ininterrotto. Si affrettò ad andare alla porta: «Chi è?» «Sam.» Lei spalancò la porta. Sam entrò, il viso scuro. «Sam, perché non stai guardando Vite vissute in Tv? Andiamo.» Lo prese per la mano e lo trascinò quasi di corsa nella biblioteca. Sullo schermo, Luther le stava chiedendo di parlare del suo impegno per la sicurezza delle linee aeree civili. «Abigail, devo parlarti.» «Sam, per amor del cielo. Non puoi lasciarmi vedere il mio programma?» «No, non posso aspettare.» Con il programma come sottofondo le disse perché era venuto, osservando la crescente incredulità dei suoi occhi. «Stai cercando di dirmi che forse Toby ha ucciso quella Graney? Sei pazzo.» «No, non sono pazzo.» «Aveva un appuntamento. Quella cameriera testimonierà per lui.» «Due persone lo hanno descritto fin nei minimi particolari. Il movente era la lettera che ti aveva scritto la Graney.» «Quale lettera?» Si guardarono senza parlare. Abigail impallidì. «Prende lui la tua posta, vero Abigail?» «Sì.» «L'ha fatto ieri?» «Sì.» «E che cosa ti ha portato?» «La solita robaccia. Aspetta un momento, Sam, non puoi fargli queste
accuse alle spalle; parla con lui direttamente.» «Allora chiamalo. Subito. In ogni caso, stanno per venire a prenderlo per interrogarlo.» Sam guardò Abigail formare il numero, osservò spassionatamente il bel completo che indossava: si era vestita con particolare cura per diventare vicepresidente, pensò. Abigail teneva il ricevitore contro l'orecchio, ascoltando il ripetersi della suoneria. «Probabilmente non ha voglia di rispondere; di certo non pensa che sia io.» La voce le mancò, poi divenne risolutamente vivace: «Sam, tu non puoi credere veramente a quello che dici. È stata Pat Traymore a montare questa storia, ha cercato di sabotarmi fin dall'inizio». «Pat non ha niente a che fare con il fatto che Toby Gorgone sia stato visto vicino alla casa di Catherine Graney.» Sul piccolo schermo Abigail stava spiegando il suo impegno nella regolamentazione per la sicurezza aerea. «Se oggi sono vedova è perché mio marito noleggiò l'aereo più economico che riuscì a trovare.» Sam indicò il televisore: «Questa affermazione sarebbe stata sufficiente a far andare Catherine Graney dalla stampa domani mattina, e Toby lo sapeva. Abigail, se il presidente ha indetto questa conferenza stampa stasera per presentarti come designata alla vicepresidenza, devi chiedergli di rinviare l'annuncio fino a quando tutto sarà stato chiarito». «Hai perso il senno? Non me ne importa un accidente che Toby fosse a due isolati di distanza dal punto in cui quella donna è stata uccisa. Che cosa dimostra questo? Forse ha un'amica o c'è una sala da gioco clandestina a Richmond. Probabilmente ha solo deciso di non rispondere al telefono. Oh Dio, perché mi sono disturbata ad aprirti la porta?» Sam si sentiva oppresso da una sensazione di urgenza. Il giorno prima Pat gli aveva detto che sentiva crescere l'ostilità di Toby nei suoi riguardi, da renderla estremamente nervosa ogni qualvolta era presente. Solo pochi minuti prima Abigail aveva detto che Pat stava cercando di sabotarla. Anche Toby la pensava così? Afferrò Abigail per le spalle: «Esiste un qualsiasi motivo per cui Toby possa considerare Pat un pericolo per te?» «Sam, smettila! Lasciami! È rimasto semplicemente sconvolto quanto me per la pubblicità che lei mi ha procurato, ma alla fine è andata bene. In realtà, lui pensa che alla lunga Pat mi abbia fatto un favore.» «Ne sei sicura?» «Sam, Toby non ha mai visto Pat Traymore prima della settimana scor-
sa. Perché dovrebbe avercela con lei? Ti stai comportando in modo irrazionale.» Non l'ha mai vista prima della settimana scorsa? Non era vero. Toby conosceva bene Pat da bambina. Forse l'aveva riconosciuta? Abigail aveva avuto una storia con suo padre, ne era al corrente Pat? Perdonami, tesoro, pensò: ma io devo dirglielo. «Abigail, Pat Traymore è la figlia di Dean Adams, Kerry.» «Pat Traymore è... Kerry?» Abigail sbarrò gli occhi; poi si riprese: «Non sai di che cosa stai parlando. Kerry Adams è morta». «Ti sto dicendo che Pat Traymore è Kerry Adams. Mi hanno detto che avevi una storia con suo padre, che forse sei stata tu a provocare quell'ultimo litigio. Pat sta cominciando a ricordare, a sprazzi, ciò che avvenne quella notte. È possibile che Toby cerchi di proteggere te o se stesso da qualche cosa che lei potrebbe scoprire?» «No.» Abigail fu recisa. «Non m'importa se ricorda di avermi vista. Nulla di quanto accadde fu per colpa mia.» «E Toby? Dimmi di Toby. C'era anche lui?» «Lei non lo vide. Quando Toby tornò dentro a prendere la mia borsetta, mi disse che lei era già in stato di incoscienza.» Come in un lampo, a entrambi saltò agli occhi ciò che era implicito in quello che lei aveva detto. Sam si precipitò alla porta, Abigail lo seguì incespicando. Davanti ad Arthur stavano scorrendo le immagini di qualche vecchio notiziario in cui Glory ammanettata veniva condotta fuori dall'aula dopo la sentenza di colpevolezza. Ci fu un primo piano della ragazza: il viso era inebetito e privo di espressione, ma le pupille erano enormi. Il dolore stupito che traspariva dagli occhi di lei colmò i suoi di lacrime. Si nascose il viso tra le mani mentre Luther Pelham parlava del collasso nervoso di Glory, della libertà sulla parola che aveva ottenuto per seguire cure psichiatriche ambulatoriamente, della sua scomparsa, nove anni prima. Poi, quasi rifiutandosi di credere a quello che sentiva, ascoltò Pelham raccontare: «Ieri, adducendo come motivo l'insopportabile paura di essere riconosciuta, Eleanor Brown si è costituita alla polizia. È stata tratta in arresto e farà ritorno al carcere federale dove completerà la pena che le era stata inflitta». Glory si era costituita alla polizia. Non aveva mantenuto la promessa che gli aveva fatto.
No. Era stata costretta a violare la sua promessa, costretta dalla certezza che il programma l'avrebbe smascherata. Arthur capì improvvisamente che non l'avrebbe vista mai più. Le sue voci cominciarono a parlargli, irate e vendicative. Stringendo i pugni, egli le ascoltò con attenzione; quando tacquero, si strappò la cuffia. Senza preoccuparsi di rimettere a posto i ripiani per coprire il suo nascondiglio, corse verso il pianerottolo e scese la scala. Seduta immobile, Pat seguiva il programma. Si osservava leggere la lettera: «Billy, tesoro». «Billy», sussurrò. «Billy.» Osservò assorta l'espressione turbata di Abigail Jennings, le sue mani che si stringevano nervosamente prima che, con ferreo controllo, riuscisse ad assumere un contegno piacevolmente sognante mentre le veniva letta la lettera. Pat aveva già visto prima di allora quell'espressione tormentata sul viso di Abigail. Billy, tesoro. Billy, tesoro. Non devi chiamare la mamma 'Renée'. Ma papà ti chiama 'Renée'. Il modo in cui Abigail si era precipitata su di lei quando le macchine da presa si erano fermate. «Dove ha trovato quella lettera? Che cosa sta cercando di farmi?» Il grido di Toby: «Va tutto benissimo, Abby. Va benissimo che la gente conosca l'ultima lettera che lei ha scritto a suo marito». «A suo marito.» Era stato questo che aveva cercato di dirle. Non devi chiamarmi 'Renée' e non devi chiamare papà 'Billy'. La fotografia di Abigail e suo padre sulla spiaggia, le loro mani unite. Era stata Abigail a suonare il campanello quella sera, a entrare mentre suo padre tentava di impedirglielo, Abigail, il viso devastato dal dolore e dall'ira. Dean Wilson Adams. Era suo padre, non Willard Jennings, Billy! La lettera! L'aveva trovata sul pavimento della biblioteca il giorno in cui aveva voluto nascondere a Toby i documenti privati di suo padre. Quella lettera doveva essere scivolata dalle carte di lui, non da quelle di Abigail. Quella notte, Abigail era stata lì, in quella casa. Lei e Dean Adams, Billy Adams, erano amanti. Era stata lei a mettere in moto o ad affrettare quell'ultimo litigio?
Una bambinetta raggomitolata nel suo letto, le mani sulle orecchie per coprire il suono delle voci irate. Lo sparo. «Papà! Papà!» Un altro colpo forte e sordo. E poi io mi sono precipitata di sotto. Ho inciampato nel corpo della mamma. C'era qualcun altro. Abigail, forse? Oh, Dio, possibile che Abigail fosse presente quando entrai correndo nella stanza? La portafinestra della terrazza si era aperta. Il telefono cominciò a suonare e, contemporaneamente, i lampadari si spensero. Pat si alzò e si girò. Illuminata dalle piccole luci palpitanti dell'albero di Natale, una strana apparizione stava precipitandosi su di lei, la figura alta e scarna di un monaco con un viso senza rughe dallo sguardo vuoto e con i capelli d'argento che ricadevano sugli scintillanti occhi azzurri. Toby procedeva verso Georgetown, attento a non superare i limiti di velocità: non era proprio la sera adatta per farsi dare una multa. Aveva aspettato, per uscire, che il programma fosse iniziato: sapeva che Abby sarebbe rimasta, per quella mezz'ora, incollata al televisore e, se gli avesse telefonato dopo la fine del programma, lui poteva sempre dire di essere uscito a controllare la macchina. Lo aveva capito sin dal principio che c'era qualche cosa di stranamente familiare in Pat Traymore. Molti anni prima, non aveva versato lacrime apprendendo che Kerry Adams era morta in seguito alle lesioni riportate. Non che le parole di una bambina di tre o quattro anni avrebbero avuto peso in un processo; ma, lo stesso, era stato meglio così. Una preoccupazione in meno. Abby aveva ragione: Pat Traymore aveva cercato fin dal principio di incastrarli tutti e due. Ma non l'avrebbe fatta franca. Stava percorrendo la M Street di Georgetown. Voltò nella Trentunesima e si diresse verso la N Street, poi voltò ancora a destra. Sapeva dove parcheggiare la macchina, aveva già dovuto farlo in passato. Il fianco destro della proprietà occupava mezzo isolato. Lasciò la macchina dietro l'angolo della casa adiacente, tornò indietro a piedi e ignorando il cancello chiuso da un lucchetto scavalcò facilmente lo steccato. Senza far rumore, scomparve nella zona in ombra davanti alla terrazza. Era impossibile non ripensare a quell'altra sera in quella stessa casa... lui
che trascinava fuori Abby, che le teneva la mano sulla bocca per impedirle di gridare, che la deponeva sul sedile posteriore della macchina, ascoltava quel suo gemito terrorizzato: «Ho lasciato la borsetta», e tornava indietro. Avviandosi furtivamente al riparo dei tronchi degli alberi, Toby si schiacciò contro la parete posteriore della casa, finché arrivò sulla terrazza, a pochi centimetri dalla portafinestra. Voltando la testa, lanciò un'occhiata prudente all'interno. E si sentì gelare il sangue. Pat Traymore era distesa sul divano, le mani e i piedi legati, la bocca chiusa da un cerotto. Un prete, o forse un monaco, che voltava le spalle alla finestra, stava inginocchiato accanto a lei e accendeva le candele di un candeliere d'argento. Che diavolo stava facendo? L'uomo si voltò e Toby poté vederlo meglio. Non era un vero prete, quella che indossava non era una tonaca, ma una specie di palandrana. L'espressione del suo viso ricordò a Toby quella di un vicino che qualche anno prima aveva dato in escandescenze. Il tipo stava inveendo contro Pat Traymore. Toby poté a malapena afferrare le parole: «Non hai dato retta ai miei avvertimenti. Ti avevo dato la possibilità di scegliere». Avvertimenti. E loro avevano creduto che Pat Traymore si fosse inventata le telefonate e l'intrusione in casa! Ma se non aveva... Mentre Toby continuava a osservare, l'uomo portò il candelabro verso l'albero di Natale e lo sistemò sotto i rami più bassi. Stava appiccando il fuoco! Pat Traymore sarebbe rimasta in trappola. Quanto a lui, bastava che se la svignasse tornando velocemente a casa. Toby si appiattì contro il muro: il prete si stava dirigendo verso la portafinestra. E se quell'uomo fosse stato trovato con lei? Tutti sapevano che Pat Traymore aveva ricevuto delle minacce; se la casa bruciava e lei veniva trovata insieme col tipo che l'aveva minacciata, la storia si sarebbe chiusa: niente inchieste, né la possibilità che qualcuno raccontasse di aver visto una macchina sconosciuta parcheggiata nelle vicinanze. Toby aspettava lo scatto della serratura. Lo sconosciuto con la palandrana spalancò la portafinestra, poi si voltò a guardare nella stanza. Senza far rumore Toby gli si avvicinò e si fermò alle sue spalle. Mentre i titoli di coda del programma si avvicendavano sullo schermo, Lila rifece il numero di Sam, ma fu inutile: non vi fu nessuna risposta. Provò di nuovo a telefonare a Pat, ma dopo cinque o sei squilli riappoggiò il ricevitore e si avvicinò alla finestra. La macchina di Pat era ancora nel
vialetto e Lila era assolutamente certa che lei fosse in casa. Mentre guardava con attenzione, le parve di vedere uno scintillio rossastro dietro l'aureola scura che circondava la casa. Si domandò se doveva chiamare la polizia. Ma se il pericolo che lei presentiva fosse stato di natura emotiva e non fisica? Se le sue sensazioni, rispetto a quel pericolo, fossero state indotte solo dall'avvicinarsi di Pat ai suoi ricordi? Quella ragazza voleva assolutamente capire come uno dei suoi genitori fosse arrivato a farle tanto male. E se la verità fosse stata peggiore di quanto aveva previsto? Che cosa avrebbe potuto fare la polizia se, semplicemente, Pat si fosse rifiutata di aprire la porta? Quelli della polizia non avrebbero fatto irruzione in casa solo perché lei avrebbe raccontato loro i suoi presentimenti. Lila sapeva con esattezza quanto potevano mostrarsi sprezzanti verso la parapsicologia i poliziotti. Rimase impotente alla finestra, sentendo sempre più intensamente dentro di sé la sensazione angosciosa del pericolo. La portafinestra. Quella sera l'avevano aperta. Lei aveva alzato gli occhi, lo aveva visto ed era corsa verso di lui, aggrappandosi alle sue gambe. Toby, il suo amico che la portava a cavalluccio. E lui l'aveva sollevata e scaraventata lontano... Toby... era stato Toby. E adesso era lì, immobile dietro Arthur Stevens... Arthur sentì la presenza di Toby e si girò. Il colpo che la mano di Toby gli assestò lo colpì direttamente alla gola, facendolo barcollare all'indietro attraverso tutta la stanza. Con un grido affannoso, soffocato, crollò accanto al camino; gli occhi si chiusero, la testa penzolò di lato. Toby entrò nella stanza. Pat si contrasse alla vista delle sue gambe tozze nei pantaloni scuri, del suo corpo massiccio, delle sue mani poderose, del quadrato scuro che era l'anello di onice. Lui si chinò su di lei. «Lo sai, vero, Kerry? Appena ho scoperto chi eri sono stato certo che avresti capito. Mi dispiace per quello che è successo, ma io dovevo pensare ad Abby. Lei era pazza di Billy; quando vide tua madre sparargli, crollò. Se non fossi tornato dentro a riprendere la sua borsetta, giuro che non ti avrei toccata. Volevo solo che tu stessi zitta per un po'. Ma adesso stai per intrappolare Abby, e questo non deve succedere. «Questa volta mi hai facilitato le cose, Kerry. Tutti sanno che hai ricevuto delle minacce. Adesso troveranno questo balordo insieme con te e nes-
suno farà più domande. Tu ne hai fatte troppe, di domande... lo sai?» I rami dell'albero che erano immediatamente sopra il candelabro improvvisamente presero fuoco. Cominciarono a crepitare e viluppi di fumo salirono verso il soffitto. «Tra qualche minuto tutta la stanza sarà in fiamme, io adesso devo andarmene. È una grande serata per Abby.» Le diede un buffetto sulla guancia: «Scusami». Adesso tutto l'albero era di fuoco. Mentre lo guardava chiudersi alle spalle la portafinestra, Pat vide il tappeto che cominciava a consumarsi senza fiamma. L'odore acuto degli aghi di pino si confuse con il fumo. Tentò di trattenere il fiato. Gli occhi le pungevano al punto che era impossibile tenerli aperti. Sarebbe asfissiata se non si fosse mossa. Cercò di allontanarsi rotolando fino al limite del divano, poi si buttò per terra, e la sua fronte urtò contro le gambe del tavolino; senza fiato per il dolore improvviso, Pat cominciò a strisciare in direzione del corridoio. Con le mani legate dietro la schiena, le era difficile spostarsi. Con un colpetto riuscì a mettersi supina e, stringendo le mani dietro la schiena, a usarle per spingersi in avanti. Il pesante accappatoio di spugna l'ostacolava nei movimenti, i suoi piedi nudi scivolavano sul tappeto. Sulla soglia del soggiorno si fermò: se fosse riuscita a chiudere la porta, avrebbe impedito al fuoco di propagarsi, almeno per qualche minuto. Si trascinò sulla soglia e la piastra di metallo le ferì la pelle delle mani. Contorcendosi, si puntellò contro il muro, si incuneò con le spalle contro il battente e si appoggiò all'indietro finché non sentì lo scatto della serratura. Il corridoio si stava già riempiendo di fumo. Non riusciva più a capire quale direzione avesse preso; se per sbaglio fosse finita nella biblioteca, non avrebbe avuto nessuna possibilità di cavarsela. Servendosi dello zoccolo come guida, avanzò piano piano verso il portone. 42 Lila tentò ancora di mettersi in comunicazione con Pat. Questa volta chiese al centralino di controllare il numero. L'apparecchio era funzionante. Non riuscì più ad aspettare: stava succedendo qualche cosa di terribile. Compose il numero della polizia; avrebbe potuto chiedere che controllassero la casa di Pat, dicendo di aver visto il vagabondo. Ma quando il sergente di turno rispose, non riuscì a parlare. Aveva la gola chiusa, le narici piene di un odore acre di fumo, il corpo percorso da vampate di calore e
fitte lancinanti le attraversavano i polsi e le caviglie. Con una certa impazienza il sergente ripeté il proprio nome, e finalmente Lila ritrovò la voce. «N Street numero tremila», gridò. «Patricia Traymore sta morendo! Patricia Traymore sta morendo!» Sam guidava a velocità frenetica, ignorando apposta i semafori rossi, sperando di riuscire a conquistarsi una scorta della polizia. Abigail era seduta accanto a lui, le mani strette premute contro la bocca. «Abigail, voglio la verità. Che cosa avvenne la notte in cui Dean e Renée Adams morirono?» «Billy mi aveva promesso di chiedere il divorzio... Quel giorno mi telefonò e mi disse che non poteva... Che voleva tentare ancora di rimettere in piedi il suo matrimonio... Che non poteva lasciare Kerry. Io credevo che Renée fosse a Boston e andai a casa sua per tentare di convincerlo. Renée si infuriò quando mi vide. Aveva scoperto di noi due. Billy teneva una rivoltella nella scrivania; lei la prese e la rivolse contro di sé... Lui cercò di strappargliela... partì un colpo... Sam, fu un incubo. È morto davanti a me!» «Chi ha ucciso lei, chi uccise Renée Adams?» chiese Sam. «Chi?» «Si suicidò», singhiozzò Abigail. «Toby sapeva che ci sarebbero stati guai, e sorvegliava tutto dalla terrazza. Mi trascinò fuori dalla portafinestra e mi mise in macchina. Sam, io ero sotto choc, non sapevo che cosa stesse succedendo. Toby dovette tornare dentro per riprendere la mia borsetta, ma il secondo sparo lo sentii prima che lui rientrasse in casa, lo giuro. Toby non mi parlò di Kerry fino al giorno dopo; poi mi disse che doveva essere scesa subito dopo che ce ne eravamo andati, e che Renée doveva averla spinta contro il camino per sbarazzarsene. Ma lui non aveva capito che le lesioni fossero così gravi.» «Pat ricorda di aver inciampato nel corpo di sua madre.» «No, è impossibile. Non può essere.» I pneumatici stridettero mentre svoltavano in Wisconsin Avenue. «Tu hai sempre creduto a Toby», l'accusò lui, «perché volevi credergli. Per te era meglio così. Credesti all'incidente aereo, Abigail... all'incidente fortuito? Credesti a Toby quando confermasti il suo alibi per il furto dei fondi della campagna elettorale?» «Sì... sì...» Le strade erano affollate di pedoni. Sam cominciò a suonare il clacson, selvaggiamente. Gruppi di persone entravano pigramente nei ristoranti.
Percorse come un pazzo M Street, attraversò la Trentunesima fino all'angolo di N Street, e schiacciò di colpo il pedale del freno. Tutti e due furono proiettati in avanti. «Oh, Dio», sussurrò Abigail. Una donna anziana gridava invocando aiuto e con i pugni chiusi picchiava contro il portone sul fronte della casa di Pat. Una macchina della polizia, a sirene spiegate, stava arrivando a forte velocità lungo l'isolato. La casa era in fiamme. Toby attraversò di corsa il giardinetto fino allo steccato. Adesso era fatta. Non c'era più niente in sospeso. Nessuna vedova di nessun pilota per creare guai ad Abigail; nessuna Kerry Adams a ricordare che cosa era avvenuto quella notte. Doveva affrettarsi. Tra poco Abby l'avrebbe cercato: l'aspettavano alla Casa Bianca di lì a un'ora. Qualcuno stava invocando aiuto, qualcuno doveva essersi accorto del fumo. Sentì la sirena della polizia e cominciò a correre. Era appena arrivato allo steccato quando una macchina lo superò rombando, girò l'angolo e si fermò in uno stridio di freni. Le porte della macchina furono sbattute e lui poté sentire una voce d'uomo chiamare ad alta voce Pat Traymore. Sam Kingsley! Doveva uscire da lì, tutta la parte posteriore della casa era ormai pericolante, ma qualcuno poteva vederlo. «Non dal portone sul davanti, Sam, qui sul retro, presto!» Toby si lasciò scivolare dallo steccato. Abby. Era Abby. Stava correndo lungo la casa e si dirigeva alla terrazza. Corse verso di lei, la raggiunse: «Abby, perdio, stia alla larga da qui». Lei lo guardò con occhi fiammeggianti. L'odore del fumo permeava l'aria notturna. Una finestra, sul fianco della casa, si spalancò e le fiamme rotolarono attraverso il prato. «Toby, Kerry è là dentro?» Abby lo afferrò per i risvolti del cappotto. «Non so di che cosa parla.» «Toby, sei stato visto ieri notte vicino alla casa della Graney.» «La pianti, Abby! Ieri notte ho cenato con la mia amica della tavola calda. Lei stessa mi ha vista rientrare alle dieci e mezza.» «No, non ti ho visto.» «Sì, mi ha visto, senatrice.» «Allora è vero... Quello che mi ha detto Sam...» «Abby, non dica stronzate. Io mi prendo cura di lei. Lei si prende cura di
me. È sempre stato così, e lei lo sa.» Un'altra macchina della polizia, con la sua luce intermittente sul tetto, sfrecciò accanto a loro. «Abby, devo andarmene.» Nessuna paura nella sua voce. «Kerry è là dentro?» «Non sono stato io ad appiccare il fuoco. Io non le ho fatto niente.» «È là dentro?» «Sì.» «Idiota! Stupido idiota assassino! Portala fuori di lì!» Lo tempestò di colpi sul petto. «Mi hai sentito. Tirala fuori di lì.» Le fiamme esplosero attraverso il tetto. «Fai come ti dico», gridò lei. Per qualche secondo si guardarono negli occhi. Poi Toby scrollò le spalle, si arrese, e si mise a correre goffamente lungo il prato coperto di neve, attraverso il giardino, per entrare dalla terrazza. Mentre con un calcio spalancava la portafinestra, le sirene delle pompe antincendio riempirono la strada. Dentro, il caldo era spaventoso. Toby si tolse il cappotto e se lo avvolse intorno alla testa e alle spalle. Ricordava che Kerry era sul divano, a destra della portafinestra. Tutto questo perché è la figlia di Billy, pensò. È finita per te, Abby. Questa volta non la spuntiamo... Era arrivato al divano, vi passò le mani sopra. Non si vedeva niente, ma lei non c'era. Cercò di tastare il pavimento intorno al divano, ma in quel momento, sopra di lui, esplose un crepitio. Doveva uscire di lì... tutta la casa stava per franare. Inciampando si diresse alla portafinestra, guidato solo dalla corrente fredda. Pezzi d'intonaco gli caddero addosso, perse l'equilibrio e cadde. Le sue mani toccarono un corpo. Anzi un viso, ma non un viso di donna. Era il prete. Toby si rialzò, si sentì tremare, sentì tremare tutta la stanza. Un attimo dopo il soffitto crollava. Con l'ultimo fiato che gli restava bisbigliò: «Abby!» Ma sapeva che stavolta lei non avrebbe potuto aiutarlo. Spingendosi avanti, strisciando, Pat si faceva strada, centimetro per centimetro, nel corridoio. La corda che la legava strettamente le impediva ormai del tutto la circolazione del sangue nella gamba destra. Doveva trascinare le gambe usando solo le dita e il palmo delle mani per proiettarsi in
avanti. Le assi del parquet stavano diventando calde in modo insopportabile. Il fumo acre le pungeva gli occhi e la pelle. Non riusciva più a trovare lo zoccolo, aveva perso l'orientamento. Non c'era più niente da fare. Soffocava. Sarebbe morta carbonizzata. Poi cominciò... quei colpi picchiati contro il portone... quella voce... la voce di Lila che invocava aiuto... Pat si contorse, cercò di muoversi in direzione del rumore. Un rombo fece tremare il pavimento. Tutta la casa stava crollando. Sentì che stava perdendo i sensi... Volevano proprio che morisse in quella casa. Mentre sprofondava nelle tenebre, sentì una cacofonia di martellamenti, di legno che si scheggiava. Stavano cercando di abbattere la porta. Era così vicina. Ci fu un afflusso di aria fredda e risucchi di fiamme e fumo verso la corrente... Voci irose di uomini che gridavano: «È troppo tardi. Non si può entrare». Le grida di Lila: «Aiutatela, aiutatela». E quello disperato, furioso di Sam: «Lasciatemi entrare!» Sam... Sam... Un rumore di passi che si avvicinavano... Sam che gridava il suo nome. Con tutta la forza che le rimaneva, Pat alzò le gambe e le sbatté contro il muro. Lui si girò. Alla luce delle fiamme la vide, la prese tra le braccia, e uscì di corsa dalla casa. La strada era affollata di pompe antincendio e di macchine della polizia. Scossi, i presenti si accalcavano in silenzio. Immobile come una statua, Abigail sorvegliava gli infermieri dell'ambulanza darsi da fare su Pat. Sam era inginocchiato accanto alla barella, il viso livido per la preoccupazione. Tremante, il volto terreo, Lila era ferma a qualche metro di distanza, gli occhi inchiodati sul corpo di Pat. Intorno a loro piovevano detriti bollenti e fuligginosi, provenienti dalla casa che crollava. «Il polso diventa più forte», disse l'infermiere. Pat si mosse, cercò di togliersi la maschera dell'ossigeno. «Sam...» «Sono qui, amore.» Sam alzò lo sguardo perché Abigail gli toccava la spalla. Il viso di lei era sporco e annerito. Il vestito prescelto per quella sera importante alla Casa Bianca era macchiato e strappato. «Sono felice che Kerry sia salva, Sam. Abbine cura.» «È quello che ho intenzione di fare.» «Chiederò a un poliziotto di portarmi a un telefono. Non me la sento di dire personalmente al presidente che devo abbandonare la carriera politica. Fammi sapere che cosa devo fare per aiutare Eleanor Brown.»
Lentamente, si avviò alla più vicina macchina della polizia. I presenti, riconoscendola, si abbandonarono a commenti pieni di stupore e si divisero per lasciarla passare. Alcuni cominciarono ad applaudire. «Il suo programma era ottimo, senatrice», gridò qualcuno. «Faremo il tifo per averla vicepresidente», gridò un altro. Salendo in macchina, Abigail Jennings si voltò e, tentando coraggiosamente di sorridere, si costrinse ad accogliere per l'ultima volta le loro acclamazioni. 43 Il 29 dicembre alle nove di sera, il presidente entrò a passo svelto nella sala orientale della Casa Bianca dove era attesa la conferenza stampa che aveva improvvisamente rinviato due giorni prima. Si diresse al leggìo intorno al quale erano stati sistemati i microfoni. «Mi domando perché siamo tutti qui», osservò, e uno scoppio di risa accolse la battuta. Il presidente espresse il suo rincrescimento per le premature dimissioni dell'ultimo vicepresidente. Poi proseguì: «Molti eccellenti legislatori sarebbero in grado di assolvere a questo compito in modo degnissimo e potrebbero completare anche il mio secondo mandato se per una qualsiasi ragione mi diventasse impossibile farlo. Ma la persona che ho scelto per la vicepresidenza, con la sincera approvazione di tutto il governo, sempreché riceva la conferma del Congresso, avrà un posto unico nella storia di questo paese. Signore e signori, è con piacere che ho l'onore di presentarvi la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti, la senatrice Claire Lawrence del Wisconsin». Scrosciarono gli applausi, mentre i presenti scattavano in piedi. Sam e Pat, stretti sul divano nell'appartamento di lui, seguivano davanti al televisore la conferenza stampa. «Mi domando se Abigail la sta guardando», disse Pat. «Credo di sì.» «Non le serviva nessun aiuto, come quello di Toby. Avrebbe potuto benissimo farcela da sola.» «Certo. Ed è la cosa più triste.» «Che cosa ne sarà di lei, adesso?» «Lascerà Washington. Ma non credere che per lei la partita sia chiusa. Abigail è forte: riuscirà a tornare a galla. E questa volta senza quel pazzo alle spalle.»
«Ha fatto molte cose utili», osservò Pat con tristezza. «Per molti versi, era veramente la donna che io credevo fosse.» Ascoltarono il discorso di accettazione di Claire Lawrence. Poi Sam aiutò Pat ad alzarsi in piedi. «Con quelle sopracciglia e quelle ciglia bruciacchiate, hai un'espressione stupefatta che è incredibile.» Le chiuse il viso nel cavo delle mani. «Si sta bene fuori dell'ospedale?» «Lo sai!» Era stato così vicino a perderla! Adesso Pat alzava gli occhi su di lui, l'espressione fiduciosa ma turbata. «Che cosa accadrà a Eleanor?» chiese. «Tu non mi hai detto niente, e io avevo paura di chiedertelo.» «La nuova dichiarazione di Abigail, assieme a tutte le prove relative a Toby, la discolpa in pieno. Ma tu? Adesso che sai la verità, che cosa provi per tua madre e tuo padre?» «Sono felice che non sia stato mio padre a premere il grilletto. Mi dispiace per mia madre. E sono contenta che nessuno di loro mi abbia fatto del male quella notte. Erano assolutamente in torto nei confronti l'uno dell'altra, ma quello che è accaduto non è stato per colpa di nessuno. Forse comincio a capire meglio la gente. Almeno lo spero.» «Pensa. Se i tuoi genitori non si fossero messi insieme, tu non ci saresti, e io forse passerei il resto della mia vita in un luogo arredato... come avevi detto... come l'atrio di un motel?» «Qualcosa del genere.» «Hai deciso qualcosa per il lavoro?» «Non lo so. Luther sembra sincero quando dice che vuole che io rimanga. Per quel che può significare, credo che il programma abbia avuto un certo successo. Mi ha detto di cominciare a pensarne uno su Claire Lawrence, e crede che potremmo addirittura riuscire a convincere la first lady a concederci un'intervista. Mi tenta molto. Giura che questa volta avrò la direzione creativa assoluta dei miei progetti. E con te in giro, di certo non tenterà più di prendersi certe confidenze con me.» «Che non ci provi!» Sam le passò un braccio intorno alle spalle e vide sul suo viso l'inizio di un debole sorriso. «Vieni. Ti piacciono i paesaggi sull'acqua.» Si avvicinarono alla finestra e guardarono fuori. La sera era coperta, ma il Potomac scintillava di tutte le luci del Centro Kennedy. «Vedere quella casa in fiamme sapendo che dentro c'eri tu è stato terribile, non credo di aver provato mai niente di simile in vita mia», disse. Il suo braccio si strinse intorno a lei: «Non posso perderti, Pat, né ora né mai».
La baciò. «Parlo sul serio quando dico che non dobbiamo più perdere tempo. Ti andrebbe bene una luna di miele a Caneel Bay la prossima settimana?» «Risparmia i soldi. Preferisco tornare a Cape Cod.» «E all'Ebb Tide?» «Hai indovinato. Con una sola differenza.» Alzò gli occhi per guardarlo e il suo sorriso divenne radioso: «Questa volta prenderemo lo stesso aereo per tornare a casa». FINE