MARCO BUTICCHI IL VENTO DEI DEMONI (2007) Per Maria Luisa PROLOGO La storia che aspettiamo da voi non è un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d'altro genere; ma una rappresentazione più generale dello stato dell'umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello in cui si distendono ordinariamente i lavori di storia, nel senso più usuale del vocabolo. Alessandro Manzoni
Età dei Metalli, II millennio a.C. L'uomo varcò l'ingresso della caverna senza voltarsi. Temeva di non avere abbastanza tempo: prima che i suoi occhi si chiudessero per sempre doveva fare in modo che gli assassini non potessero rivelare a nessuno il percorso che conduceva alla Pietra. Come re e sommo sacerdote della tribù dei migos, aveva il compito di lasciare un indizio per il suo successore: solo lui avrebbe potuto conoscere l'esatta ubicazione del Tempio Segreto e i passi per arrivarci. Gli inseguitori erano ormai vicini. Athor, così si chiamava il fuggitivo, sapeva che tutto era perduto. Ma non aveva paura della morte. Si inoltrò risoluto all'interno della galleria che si snodava nel ventre della montagna. Il dio Hosh, signore degli spiriti, e il trascorrere di mille e mille lune, avevano fatto crescere in quel luogo una gelida vegetazione fatta di stalattiti candide come la neve che, fuori, scendeva vorticando da giorni. L'uomo attraversò una grande sala di roccia e imboccò un'altra galleria. Stremato dalla fatica e dalle molte ferite, si fermò per riprendere fiato, quindi ricominciò a correre, inciampando più volte sul fondo sconnesso della grotta. Per non cedere, si sorreggeva alle pareti con le mani coperte di sangue. All'improvviso, l'immagine del volto sorridente della sua compagna si fece largo, nitida, nella sua mente: la visione durò lo spazio di un istante, ma fu sufficiente a infondergli la forza per portare a termine il suo piano. Era toccato proprio a lui celebrare il rito che lo aveva unito per sempre a Dehal. Molte lune erano trascorse da quel giorno lontano e sei figli erano giunti ad arricchire la loro famiglia: tutti sani, forti e intelligenti. Seguendo il padre avevano assaporato, giorno dopo giorno, il piacere della caccia e avevano conosciuto il mistero dei riti dedicati al dio Hosh. Athor aveva scelto tra loro il suo successore e lo aveva educato al culto del dio, così come voleva la tradizione. Adesso, a un passo dalla fine, doveva con ogni mezzo indicare la strada del tempio al prescelto tra i suoi figli. Solo allora avrebbe potuto morire, conducendo con sé il perfido Karesh e i suoi guerrieri nel regno degli spiriti. Le urla degli inseguitori gli giunsero amplificate dall'eco con cui la caverna alterava voci e suoni. Athor conosceva alla perfezione quegli angusti passaggi. Si premette la
mano sulla ferita al ventre e imboccò una galleria secondaria in discesa, più stretta di quella percorsa sino a quel momento. Le sue spalle possenti strusciavano sui lati, consentendogli di mantenersi in equilibrio e di avanzare velocemente, gli occhi scorgevano ogni asperità del terreno anche nella più fitta oscurità. Era come se non sentisse dolore. Questa volta non avrebbe dovuto cancellare le tracce del suo passaggio: lo scopo non era quello di sfuggire agli assassini, ma di farli cadere in trappola, senza scampo. Giunse in un grande antro. La luce improvvisa quasi lo ferì. Le torce ardevano illuminando la caverna con un chiarore che gli parve accecante. Individuò l'apertura, nel terreno, alla sua destra. Si sdraiò e, strisciando, imboccò lo scuro pertugio che un occhio meno attento non sarebbe riuscito a riconoscere. Dopo aver percorso carponi il cunicolo, si ritrovò nel tempio del dio Hosh. Il luogo era rischiarato dai bracieri che ardevano in perpetuo e che era compito suo, e solo suo, alimentare. Il sarcofago contenente la Pietra Sacra era posto sul lato destro, ai piedi di un rozzo altare ricavato da un macigno. Lì la Pietra era stata adagiata secoli prima in un incavo della roccia nella quale erano stati colati diversi strati di metalli fusi, così da ottenere una specie di coppa profonda poco più di un braccio e larga altrettanto. A chiusura del contenitore era stato posto un pesante coperchio anch'esso in metallo e decorato con rilievi in oro che rappresentavano i cicli del Sole e della Luna. La perfetta aderenza del coperchio ai bordi superiori del contenitore sigillava ermeticamente la custodia della Pietra Sacra a Hosh. Si trattava di un oggetto unico e prezioso sia per la tribù dei migos del re Athor che per quella dei davaar, i nemici che entro breve lo avrebbero raggiunto. Sino ad allora Athor aveva tenuto fede alla legge e mai aveva osato posare i suoi occhi sulla Pietra: quell'atto avrebbe suscitato l'ira di Hosh. E l'ira del dio era in grado di provocare la più atroce delle morti. La leggenda, che si tramandava dalla notte dei tempi, diceva che la Pietra fosse decorata da sinuose fessure modellate dalla velocità con cui il dio Hosh l'aveva scagliata, furioso, attraverso le infinità del Cielo, per poi farla precipitare sulla Terra, affinché gli uomini avessero la cognizione del suo sconfinato potere: chiunque avesse provato a guardare la Pietra sarebbe morto tra le più terribili sofferenze. Per fortuna l'oggetto sacro era da tempo immemore nelle mani dei paci-
fici migos, altrimenti avrebbe potuto costituire un'arma micidiale in grado di uccidere centinaia di uomini in pochi istanti. Così si tramandava che fosse accaduto nell'antichità. Per questo gli avi di Athor avevano forgiato quel forziere di metallo che aveva reso inoffensivo il terribile potere della Pietra e l'avevano nascosta nel Tempio Segreto all'interno delle grotte. Athor sentiva le voci provenire dal cunicolo: tra poco gli inseguitori avrebbero raggiunto la stanza. Afferrò saldamente la corda intrecciata con fibre vegetali dalle donne del villaggio. Questa, attraverso una serie di rinvii, consentiva di aprire e chiudere il sarcofago da un piccolo antro protetto, situato vicino all'uscita della grotta. Era il sistema che veniva usato durante i sacrifici, a ogni cambio di luna: in quel modo solo gli animali destinati al supplizio sarebbero stati travolti dal potere di Hosh e della sua Pietra, e avrebbero placato la sua insaziabile fame. Athor aprì il coperchio e diede quindi volta alla corda attorno al palo della torcia, poco sotto al tizzone ardente. Qualunque cosa fosse successa, la fiamma avrebbe reciso la fune e il coperchio si sarebbe richiuso sulla Pietra, quando tutto fosse finito. Gli intarsi d'oro del sarcofago riflettevano i bagliori dei bracieri. L'uomo si nascose in una zona buia del tempio trattenendo il respiro e attese che i tre inseguitori guadagnassero la stanza. Stava per compiere un sacrilegio, scatenando l'ira del dio che lo avrebbe punito con la morte. Sperava che la furia della divinità si abbattesse anche su quegli assassini, impedendo loro di rivelare l'ubicazione della caverna segreta che celava il Tempio e la Pietra. Si appiattì dietro all'altare con il pugnale tra le mani. Gli inseguitori entrarono con fare guardingo e le armi spianate. Strinsero gli occhi per alcuni istanti, abbagliati dalla luce, e vacillarono sulle gambe. Poi si guardarono intorno alla ricerca del nemico ferito. La stanza aveva una sola uscita e, a meno che Athor non fosse davvero un figlio degli dei, non avrebbe avuto scampo. «Athor, trova il coraggio di morire da uomo. La punta della mia lancia ti ha già scavato un fianco: ormai ti resta poco da vivere. Vieni fuori e combatti da guerriero», disse uno dei tre con voce tonante, avvicinandosi all'altare e al sarcofago. Karesh, questo il nome del capo degli inseguitori, si inginocchiò e non
fece caso al coperchio sospeso in alto grazie a un sistema di corde. La sua mano sacrilega penetrò nell'apertura e accarezzò la superficie levigata dell'oggetto. La Pietra era calda al tatto, poco più grande del pugno di un uomo. Il contatto provocò in lui una sensazione di piacere quasi sensuale. «Questo sasso è liscio come la pelle della tua donna, Athor», disse ancora l'uomo accarezzando la Pietra, il volto segnato dalle cicatrici e solcato da un sinistro sorriso. Athor rimase nascosto e in silenzio. I davaar si gettarono come invasati sull'apertura del sarcofago, le loro mani affondarono nella buca bramando quel contatto, convinti di poterne ricevere l'immortalità. Ma Athor conosceva la verità: Hosh avrebbe regalato soltanto la morte a coloro che avessero osato profanare il suo tempio. Athor sapeva che i suoi inseguitori erano condannati: era solo questione di tempo. Quello era il momento che il migos stava aspettando. Raccolse le poche energie rimastegli. Benché il destino di tutti loro fosse segnato, sarebbe morto da valoroso, con le armi in pugno. I tre, sebbene si aspettassero l'attacco, furono colti alla sprovvista dalla figura che si materializzò di fronte a loro. Athor affondò il pugnale nel collo di quello che aveva più vicino, quindi si gettò a peso morto sui bracieri, buttandoli a terra. La corda si incendiò e Athor udì lo schianto con cui il coperchio del sarcofago si richiuse. Non avrebbe rischiato che uno dei suoi figli arrivasse un giorno nella stanza trovandovi la Pietra esposta. Quindi imboccò di nuovo il cunicolo. Strisciava il più velocemente possibile, ma una lancia scagliata alla cieca da Karesh lo ferì una seconda volta alla schiena. Quando raggiunse la grande caverna era allo stremo delle forze. Si alzò. A fatica, riuscì a inerpicarsi sull'impalcatura che aveva eretto con tronchi e legacci vegetali per portare a termine il disegno sulla volta della caverna. Intinse le dita nel sangue della ferita e tracciò alcuni simboli che avrebbero aiutato chi fosse venuto dopo di lui; Sar, il migliore dei suoi discendenti, quello a cui aveva dato il nome di suo padre. A lui avrebbero indicato la via per raggiungere il tempio e diventare capo tribù e sommo sacerdote. Un'espressione soddisfatta gli illuminò il volto contratto dal dolore: la
sua gente era salva e gli inseguitori condannati a morte certa. Athor aveva concluso la sua opera. Ora poteva concludere anche la sua vita. «Inseguiamolo!» ordinò Karesh. Nel buio i due riuscirono a tentoni a individuare il passaggio. Ci si infilarono l'uno dopo l'altro, prima che le forze, improvvisamente, li abbandonassero. Morirono nel volgere di pochi istanti, colpiti dalla maledizione del dio Hosh. Athor udì le urla e i rantoli dei suoi nemici, mentre si divincolavano come serpi nell'angusta galleria. Tra poco sarebbe toccato a lui, anche se Hosh ci avrebbe messo un tempo maggiore a catturare il suo spirito: lui non aveva toccato la Pietra, ma l'aveva guardata e il suo vento lo aveva lambito. Sentiva i polmoni in fiamme, come se un braciere stesse ardendo dentro di lui. Gli parve che una folata fredda stesse portando lontano il suo spirito. Era consapevole di quello che gli stava accadendo. Con la mente affollata dalle immagini della sua esistenza terrena, Athor, re della tribù dei migos, si preparò a morire. America del Sud, 2007 La morte era a un passo da lui. Ancora una volta Oswald Breil si sentì vincere dalla sensazione di freddo che pervadeva il suo corpo. Quello che era stato uno degli uomini più potenti al mondo giaceva a terra, in una pozza di sangue. I suoi arti minuti erano coperti di ecchimosi. Il volto tumefatto dalle percosse poggiava sul duro cemento. Un rivolo di sangue misto a bava gli colava dalla bocca. Oswald era nudo all'interno della cella. Il corpo rattrappito assomigliava a quello indifeso di un bambino vittima delle peggiori sevizie. La lingua passò sui coaguli di sangue che si trovavano al posto dei molari che gli erano stati strappati nel corso dell'interrogatorio. Anni di addestramenti nel Mossad lo avevano preparato a resistere alle più terribili delle torture: Oswald non aveva detto quasi nulla di ciò che sapeva. Aveva concesso ai suoi carnefici solo quello che volevano sentirsi dire e che lui voleva sapessero.
Si chiese che fine avesse fatto Sara. Probabilmente l'avevano già uccisa o stavano per farlo: sperava con tutta l'anima che fosse stata più fortunata di lui e che non avesse dovuto subire le torture di quel maledetto aguzzino. «Infame...» Oswald si rese conto che non aveva più la forza per alimentare l'odio. Stava morendo e si preparò ad accogliere la fine con onore. La mente prese a vagare a ritroso nel tempo e a soffermarsi sugli episodi di una vita intensa e avventurosa, a indugiare sui particolari che avevano dato origine a quello che si era rivelato essere l'ultimo capitolo della sua esistenza. Monaco di Baviera, 1918 Lo scalpiccio degli zoccoli dei due cavalli che trainavano la carrozza si attutì e la vettura si arrestò davanti al palazzo. L'uomo che ne scese camminava con passo frettoloso. Raggiunse l'ingresso della sua abitazione in Zweigstrasse, mise una mano nella tasca destra ed estrasse le chiavi del portone. Le riunioni, sinora, si erano tenute lì, nelle sale della sua casa: un bell'edificio situato poco distante dal centro della città. Ma quel giorno gli ambienti dell'appartamento, e dell'intero palazzo in Zweigstrasse, non avrebbero potuto contenere neanche la metà dei quasi quattrocento adepti che la Società ormai contava. Per questo aveva deciso lo spostamento della sede presso il Vier Jahreszeiten Hotel: il numero degli affiliati alla Società pareva crescere costantemente e in maniera esponenziale. La cerimonia di inaugurazione era stata fissata per il 18 agosto. Non c'era tempo da perdere: tre mesi sarebbero passati in fretta, molto in fretta. Mentre saliva lo scalone che conduceva al piano nobile, la sua espressione tradì un moto di soddisfazione: lui, figlio di Ernst Glauer, un modesto conducente di locomotive, era prossimo a scrivere una pagina importante della storia della Germania e, forse, anche di quella del mondo intero. Quell'uomo, più noto come il barone von Sebottendorff, non avrebbe potuto immaginare fino a che punto le sue previsioni si sarebbero avverate. Rudolf von Sebottendorff era nato nel novembre 1875 in Sassonia. Il ridotto albero genealogico della sua famiglia, composta da onesti lavoratori senza alcuna traccia di sangue blu nelle vene, vantava lontane origini francesi. E il cognome, Glauer, ne era la prova. Il padre ferroviere era morto quando Rudolf aveva poco più di diciott'a-
nni. Ma da genitore previdente aveva pensato al futuro del figliolo, lasciandogli fondi sufficienti per completare gli studi e venire avviato all'università. Il giovane Glauer, però, aveva abbandonato la facoltà di ingegneria e optato per una vita ben più avventurosa e, forse, incerta: era stato precettore, marinaio, persino cercatore d'oro nell'Australia Occidentale. L'avvento del XX secolo colse Glauer in Turchia, in preda al fascino dei costumi e degli usi dell'Islam. Fu là, mentre sovrintendeva alla costruzione di alcuni villaggi nei pressi di Bursa e del monte Olimpo, che iniziò ad appassionarsi allo studio dell'occultismo. Il titolo di von Sebottendorff von der Rose risaliva al 1911, quando Glauer, dopo essere stato naturalizzato cittadino turco, sostenne di essere stato adottato dall'espatriato barone Heinrich von Sebottendorff. Barone o semplice borghese, Rudolf von Sebottendorff presenziò, assieme agli altri soci fondatori, alla solenne cerimonia di inaugurazione tenuta nei cinque ampi saloni del Vier Jahreszeiten Hotel, affollati all'inverosimile. A essa seguirono alcuni seminari sull'occultismo, conferenze sull'archeoastronomia nei castelli tedeschi e investiture di massa di nuovi adepti. Gli iscritti appartenevano a ogni ceto sociale. Il collante che pareva tenere tutti indissolubilmente legati era il desiderio di dare alla Germania, che stava per uscire sconfitta da una guerra disastrosa, una nuova stagione di gloria. E il fatto che la Società avesse preso corpo nelle sale di un lussuoso hotel del centro di Monaco di Baviera, il cui nome, Vier Jahreszeiten, significava «le quattro stagioni», fu visto come un segno favorevole del destino. Von Sebottendorff era consapevole del ruolo che la Società Thule avrebbe avuto nel panorama di una Germania sconvolta da aspre lotte intestine. Di certo non poteva sapere che, dando vita alla Thule, avrebbe contribuito a risvegliare il Male. PARTE PRIMA Dovunque passavano le loro cavalcature seguite dalle orde impetuose dei Cavalieri le praterie della Linguadoca si rinsecchivano e come queste, si prosciugavano per sempre tutte le sorgenti di gioia.
Nicholaus Lenau
1 Denver, 2005 La notizia della scomparsa del «Cacciatore» Simon Wiesenthal aveva sconvolto la tranquilla quotidianità di casa Habar. Oswald Breil stava osservando i propri genitori adottivi come non aveva mai fatto prima. Il volto del padre, Ezer, era molto segnato: solo una decina d'anni lo separavano dal Cacciatore, quel Simon Wiesenthal che era morto da poche ore alla ragguardevole età di novantasei anni. Lilith Mame-loshen - Oswald la chiamava da sempre con il soprannome che in yiddish significa «madrelingua» - sembrava reggere meglio all'incedere del tempo, ma Oswald sapeva che la vitalità della donna dipendeva da quella di Ezer. Oswald si trovò per la prima volta a pensare a quanto gli sarebbero man-
cati, un giorno. «Più gli anni passano e più ci convinciamo dell'immortalità dei nostri vecchi, per poi soffrire quando ci accorgiamo che non è vero.» Le immagini televisive mostravano un vento teso che spazzava il cimitero di Herzliya in quel venerdì di fine settembre. Il Cacciatore aveva voluto essere sepolto lì. Oswald evitò di commentare il fatto che la delegazione del governo israeliano fosse rappresentata da un solo ministro, malgrado Simon Wiesenthal avesse speso la vita per rendere giustizia alla sua gente. «Anche il Cacciatore se n'è andato», osservò Ezer scuotendo il capo. «Nella baracca del lager dormiva poco distante da me e mi aveva preso in simpatia. Una volta due tedeschi volevano punirmi perché avevo disubbidito a un ordine e lui, non so come, li aveva convinti a desistere. In molti lo consideravamo un faro nella nebbia di quell'inferno. E dall'inferno riuscì a emergere ben tredici volte, tanti sono stati i campi di concentramento nei quali era stato internato prima di arrivare a Mauthausen, nella baracca che ospitava me e altri poveracci. Per tutti quelli del campo, Wiesenthal diventò subito un consigliere, un amico, un comandante. L'ho sentito più volte pregare Dio di dargli la forza di uscire da quella tortura. Giurava che, se fosse rimasto vivo, non avrebbe mai perdonato. E ha tenuto fede al suo giuramento.» Parlando, Ezer si massaggiava l'avambraccio sinistro, come se il marchio indelebile che gli avevano impresso sulla pelle avesse preso a bruciargli. Oswald annuì. Simon Wiesenthal era un duro, uno che non aveva permesso al tempo di lenire la sua ferita: sino a che aveva avuto vita, aveva dato la caccia ai carnefici nazisti. La fondazione Wiesenthal era capillare e potente, dotata di fondi cospicui e di uomini addestrati che operavano nella più totale segretezza, e la sua azione inarrestabile si infiltrava ovunque: spesso gli stessi agenti del Mossad erano stati determinanti nella cattura di latitanti nazisti, dietro le indicazioni che i membri della Simon Wiesenthal Foundation avevano loro fornito. Agli esordi, Wiesenthal aveva preteso di essere sempre presente nel corso delle operazioni più significative, quasi volesse sincerarsi del buon esito delle sue indagini. Altre volte aveva addirittura fatto tutto da solo, al massimo con l'aiuto di un pugno di uomini animati dalla sua stessa sete di giustizia.
«Simon Wiesenthal è riuscito a consegnare al tribunale speciale israeliano più di mille criminali di guerra nazisti. Oggi il centro che porta il suo nome conta oltre quattrocentomila soci e gode di disponibilità finanziarie illimitate. Ma non è stato sempre così e solo noi, la sua più ristretta cerchia di amici, sappiamo quante battaglie solitarie abbia combattuto il Cacciatore», concluse Ezer riconoscente. Sembrava parlare tra sé. «Addio, Chalùtz! Addio, Pioniere!» Oswald chinò per un istante il capo. Chalùtz era l'appellativo con cui Simon Wiesenthal si rivolgeva a lui sin da quando era bambino. Una delle ultime volte che Wiesenthal lo aveva chiamato così era accaduto nel suo ufficio, dopo che Oswald era stato nominato capo di uno tra i servizi segreti più efficienti al mondo. Il ricordo si fece vivo nella mente del piccolo uomo: sembrava ieri, ma erano gli ultimi anni del secolo passato. Era una calda giornata estiva di Tel Aviv. «Voglio raccontarti una storia, Chalùtz. Una storia diversa da quelle che ti raccontavo dopo le cene preparate da Lilith. Allora eri poco più che un bambino curioso e desideroso di apprendere. Oggi sei uno degli uomini più importanti di Israele e del mondo, ma io, vecchio, stanco e scomodo, voglio ancora una volta che tu mi stia ad ascoltare.» Queste le parole con cui Wiesenthal aveva esordito. Oswald era sprofondato nel divano della stanza all'ultimo piano della sede dell'ha-Mossad le-Modiin ule-Tafkidim Meyuhadim, o più comunemente l'Istituto, come erano soliti chiamarlo gli addetti ai lavori. Oppure Mossad, come era universalmente noto. Il Cacciatore aveva preso posto in una delle due poltrone proprio di fronte a lui. Wiesenthal, nonostante i riconoscimenti che gli erano tributati, era considerato un uomo non sempre ben visto nelle alte sfere governative israeliane: la sua estenuante battaglia aveva, in più di una occasione, minato equilibri e sconvolto giochi politici internazionali. Il Cacciatore era un cane sciolto, dotato di mezzi illimitati e fornito di una tenacia fuori dal comune, e la sua fondazione era fieramente indipendente da qualsiasi legame con gli organi governativi. Tutte queste doti non potevano certo andare d'accordo con i compromessi della politica. «Sono qui per questo, zio Simon», aveva risposto Oswald, con i piedi che dondolavano poco sopra il pavimento, come quelli di un bambino. Ma la storia che Wiesenthal stava per raccontargli non sarebbe stata adatta alle orecchie di un bimbo.
«Non so quanti siano riusciti a passare attraverso le maglie della mia rete. Di certo ci sono passati molti pesci grossi, nonostante io ne abbia percepito lo sgradevole odore. Per questo ho maturato alcune convinzioni.» «E sarebbero?» «Che il Male avesse previsto tutto e che, con un acume davvero degno del migliore tra i demoni, abbia fatto sì che alcuni suoi titolati emissari si premunissero e venissero fatti scomparire dalla circolazione molto prima di un'eventuale sconfitta.» «Non ne vedo lo scopo, Simon», commentò Oswald. «Perché un nazista avrebbe dovuto andare in pensione mentre gli inni vittoriosi del Reich scuotevano i timpani di ogni europeo? Sembra un controsenso...» «Già, un controsenso. Ma tu vedi sempre un senso in quello che succede nel mondo?» Oswald rimase in silenzio, invitando con lo sguardo il Cacciatore a proseguire. «Il processo di Norimberga», disse Wiesenthal, «stava prendendo la piega di ogni altro processo per crimini di guerra: in pochi sarebbero stati puniti per i loro misfatti e tutti si sarebbero giustificati dicendo che avevano solamente eseguito gli ordini ricevuti dall'alto. Come ogni buon soldato. Nella stesura dei capi di accusa - e io stesso partecipai per conto dell'OSS alla ricerca delle prove contro le alte gerarchie naziste - ci si rese conto che nessuna tra le potenze vincitrici sembrava essere al corrente di che cosa fosse successo davvero nei lager nazisti. Milioni di ebrei erano scomparsi nel nulla senza lasciare traccia. Fu quando sedette sul banco dei testimoni una specie di gangster ungherese, che aveva aiutato molti ebrei facoltosi a fuggire dalle persecuzioni, che le cose presero una nuova piega. Il sedicente 'barone' Wisliceny non era certo un filantropo e in cambio del suo aiuto aveva guadagnato cifre iperboliche. La deposizione fu comunque puntuale, ricca di riscontri precisi e di particolari inquietanti. A quel punto il mondo intero non poteva più fingere di non sapere che cosa fosse avvenuto nei campi di concentramento e in quelli di lavoro dove milioni di individui erano stati sterminati dai nazisti.» Oswald ascoltava attento: anche se conosceva bene quella storia, il modo di narrare del Cacciatore lo aveva sempre affascinato. «La tessera 889.895 del Partito nazionalsocialista tedesco era stata consegnata ad Adolf Eichmann. La stessa persona alla quale le SS avrebbero attribuito il numero di matricola 45.326...» «Numero che Eichmann aveva tatuato sotto l'ascella», gli fece eco Os-
wald. «Vedo che il mio Chalùtz non dimentica. Non bisogna dimenticare. E allora riprendiamo alcuni fili della storia. Adolf Eichmann era nato in Renania, a Solingen, nel 1906. Era rimasto orfano di madre molto presto e il padre dovette occuparsi da solo dei sei figli. Rilevò una piccola attività mineraria dove cercò di impiegare, con scarsi risultati, Adolf, il primogenito. Ma questi preferì andarsene in cerca della sua strada e, come impiegato della Vacuum Oil, incontrò un uomo che avrebbe condizionato il suo destino. L'avvocato Kalterbrunner, seguace del Reich, consigliò al giovane Adolf di iscriversi al Partito, cosa che questi fece più per interesse che per convinzione: sperava, accontentando il potente avvocato, di acquisire danarosi clienti. Il 1° aprile 1932 Eichmann entrò a far parte del Partito nazista. Ma il giovane aveva fatto male i suoi conti e la viennese Vacuum Oil lo licenziò in tronco: le connivenze coi nazisti non piacevano alla dirigenza. «Disoccupato, Eichmann decise allora di sfruttare una delle opportunità che il neonato governo offriva ai suoi seguaci: entrò a far parte della polizia segreta, il potente RSHA, ovvero l'ufficio centrale per la Sicurezza del Reich. Lì gli fu assegnato il poco avventuroso compito di riordinare un archivio dove venivano schedati tutti gli aderenti alla massoneria.» Wiesenthal si fermò alcuni istanti. Parlare a lungo ormai lo affaticava molto. «Vuoi del buon vino kasher, zio Simon?» chiese Oswald indicando una bottiglia immersa per metà in un secchiello colmo di ghiaccio. Wiesenthal assentì con un sorriso. «È sempre più difficile trovare vino e alimenti kasher. Ormai tutto è stato occidentalizzato, caro Oswald. Sai bene che, con il mestiere che ho fatto per tutta la vita, non posso certo considerarmi un perfetto osservante, ma il rispetto delle tradizioni ci aiuta a vivere meglio. Anche per questo mi fa piacere che tu non abbia mai smesso di chiamarmi 'zio Simon', come facevi quando eri un ragazzino.» Tra i due uomini non correva infatti alcun vincolo di parentela, li univa solo l'indissolubile amicizia che risaliva ai tempi della loro prigionia tra Ezer Habar, padre adottivo di Breil, e Simon Wiesenthal. «Grazie, Oswald. Molto buono», disse il Cacciatore assaporando soddisfatto il vino chiaro e ghiacciato. A differenza di molti altri popoli mediorientali, gli ebrei ammettevano il consumo del vino, purché prodotto secondo le rigide regole della tradizio-
ne kasher. Ciò comportava che la lavorazione fosse affidata a un ebreo osservante e che l'attrezzatura e gli additivi usati fossero solo quelli concessi. In ultimo era necessaria l'approvazione di un rabbino. Wiesenthal riprese a parlare. «Quanto Eichmann aveva imparato lavorando all'archivio dei massoni gli sarebbe tornato utile in seguito, quando venne 'promosso' a schedare e catalogare tutti gli ebrei presenti sul territorio tedesco. La precisione maniacale di 'Electro', così venne soprannominato dai suoi colleghi, fece sì che, in ogni operazione antisemita, i militari nazisti andassero quasi sempre a colpo sicuro. Ma il vero capolavoro di Eichmann fu messo in atto subito dopo l'Anschluss, l'occupazione dell'Austria da parte delle truppe tedesche di Hitler. In quell'occasione centosessantamila ebrei vennero espulsi, non senza aver pagato la loro salvezza con la remissione di ogni loro bene, attraverso la capillare opera del Zentralstelle für Jüdische Auswanderung, l'ufficio centrale per l'Emigrazione ebraica diretto dallo stesso Eichmann. «In seguito a quella brillante operazione di pulizia etnica, la carriera di Eichmann subì un'accelerazione. Nel giro di pochi mesi fu promosso tenente colonnello delle SS. Era il 1941. Quando in Germania si decise di imboccare la strada della Soluzione finale, nell'ufficio di Eichmann - che si trovava nel centro di Berlino e occupava una decina di stanze e altrettanti collaboratori - vennero messi a frutto tutti quegli anni di oscuro e meticoloso lavoro di archiviazione. Il colonnello delle SS fu il regista occulto di ogni singola deportazione. Il suo aspetto anonimo e poco carismatico gli consentì di restare sempre nell'ombra: nessuno, conoscendolo superficialmente, avrebbe mai immaginato che in lui si nascondesse l'incarnazione stessa del Male. «Al momento del crollo del Reich, Eichmann fuggì presso il suo vecchio amico avvocato filonazista, ma ben presto questi lo scaricò senza troppi complimenti: era diventato una figura scomoda e gli Alleati erano determinati a catturare ogni gerarca nazista che avessero trovato in vita. Ed Eichmann era il braccio operativo della Shoah. A maggio il colonnello delle SS fu arrestato. Ma, nel corso degli interrogatori, fornì delle generalità false e affermò di essere un semplice caporale della Wehrmacht. Nessuno tra i suoi carcerieri pensò di dargli un'occhiata sotto l'ascella, dove le SS usavano tatuare il loro numero di matricola. «E così, dopo una breve prigionia, Eichmann venne rilasciato: agli Alleati non interessavano caporali dell'esercito dall'aspetto insignificante e di-
messo. La loro caccia mirava a pesci ben più grossi. Da quel momento Eichmann fece perdere le sue tracce. E il suo ruolo sarebbe rimasto nascosto nell'oblio, se il barone Wisliceny non avesse deciso di dare corpo a una sconvolgente serie di rivelazioni.» «A questo punto lascia che sia io a continuare e se sbaglio qualche particolare correggimi, zio Simon», disse Oswald interrompendolo. «Non si sa come spuntò un atto di morte, risalente al 1945, dove si dichiarava che Eichmann era stato ucciso in combattimento a Praga nell'aprile di quell'anno. Ma non ci volle molto ai servizi alleati per accertare la falsità di tale certificato. Comunque di Eichmann scomparve ogni traccia: neanche i rari spostamenti dei suoi familiari, tutti tenuti sotto sorveglianza, servirono a portare al nascondiglio del carnefice. Nel 1952 vennero alla luce alcuni documenti che testimoniavano la permanenza e il successivo espatrio dall'Italia di Eichmann. Ma dove mai poteva essere andato a nascondersi? Sempre in quell'anno, la moglie e i figli di Eichmann non fecero ritorno dal luogo delle loro vacanze estive. Dove potevano essere finiti? Come accade spesso in queste circostanze, il caso ci mise lo zampino: un vecchio notabile ebreo ricevette una cartolina da un amico emigrato in Argentina. In essa costui faceva riferimento al 'porco che comandava gli ebrei: è proprio qui, vicino a Buenos Aires'. Il cerchio si stava finalmente stringendo. Tu accertasti che Veronika Leibl, moglie dell'aguzzino, si era imbarcata da Genova per l'Argentina nel giugno 1952... Nel 1959 identificasti nel sedicente Ricardo Kleber il responsabile della Soluzione finale, Adolf Eichmann.» «E lo prendemmo», disse l'anziano Cacciatore, con gli occhi lucidi per l'emozione che ancora suscitava in lui il ricordo di quei giorni. «Lo prendemmo alle 18.30 dell'11 maggio 1960. Eichmann rientrava a casa da un'officina che aveva aperto a Buenos Aires per conto della Mercedes. Quando scese dall'autobus lo catturammo senza che lui opponesse alcuna resistenza. Poche ore più tardi si trovava già a Tel Aviv. Il suo arresto chiuse la bocca a tutti coloro che insinuavano che la Shoah fosse un parto della fantasia degli ebrei.» «Già, ed Eichmann, condannato a morte da un tribunale israeliano, fu giustiziato nel 1962. Zio Simon, che cosa intendevi dire con la tua premessa? Chi potrebbe essere ancora in vita tra i responsabili del genocidio?» Wiesenthal rimase assorto alcuni istanti, poi rispose. «Sto pensando a un'altra pedina di fondamentale importanza per le strategie del Reich in materia di sicurezza e di discriminazione tra le razze... Colui che per primo teorizzò la 'Soluzione finale', ma che non ebbe il tem-
po di metterla in pratica in tutta la sua atrocità...» «Un'altra pedina... un'altra pedina... Stai parlando di Reinhard Heydrich, il capo dell'RSHA?» chiese Oswald perplesso. Il Cacciatore non rispose, ma rimase a osservare colui che considerava il suo migliore allievo. Negli occhi dell'uomo si leggeva la sua determinazione a ottenere giustizia, ma anche un tenero e sincero affetto nei confronti di quel bambino conosciuto tanti anni prima, e ora divenuto capo del Mossad. «Non è possibile, Simon. Heydrich è morto nel 1942 a seguito di un attentato...» «Un attentato alquanto rocambolesco. Non trovi, Oswald?» «Rocambolesco o no, così dice la Storia.» «Già... la Storia. Chissà dove sta la verità, nella Storia...» disse Wiesenthal, porgendo a Breil un'agenda dalla copertina in pelle lisa, una di quelle che le banche o le società regalano ai clienti e ai fornitori in occasione del nuovo anno. «Ne sono venuto in possesso da pochi giorni, Oswald. Si tratta degli appunti di viaggio di un giornalista italiano che, negli anni '70, si recò in Brasile per un reportage. Là precipitò, nel mezzo della foresta amazzonica, con un aereo da turismo. Circa un anno fa la foresta ha restituito i pochi resti di quell'incidente, del cronista e dell'aereo. «E, per una serie di fortunate circostanze, chi ha rinvenuto questi appunti li ha fatti pervenire alla fondazione che porta il mio nome: deve avere intuito l'importanza del loro contenuto. Sono scritti, almeno sino a un certo punto, in italiano. Tu capisci l'italiano, vero, Oswald? Poi, da un certo punto in avanti, l'italiano è stato sostituito da una sorta di alfabeto stenografico criptato.» «Non so se la mia padronanza dell'italiano sia sufficiente per riuscire a tradurre la parte iniziale. E, certo, non sono in grado di leggere la stenografia, figuriamoci quella criptata. Comunque non ti preoccupare, zio Simon: ho dei validi collaboratori...» La mente del piccolo uomo era subito corsa a Sara Terracini, amica e compagna in molte delle sue più rischiose avventure. «Lo so, Oswald. Per questo ti consiglio di metterti all'opera... senza fretta... senza fretta...» disse il Cacciatore con l'aria stanca e saggia di chi è vicino al secolo di vita. «Del resto, sono pochi quelli che riescono ad arrivare alla mia età. E Heydrich è nato nel 1904: oggi avrebbe quattro anni più di me. È molto improbabile che sia ancora fra i vivi. Quindi non c'è ragio-
ne di agire con urgenza. Questi appunti potranno servirti, però, per cercare la verità. È questa la mia ultima volontà o, se preferisci, il compito gravoso che ti lascia il tuo zio Cacciatore. Prova a dare un senso alle notizie contenute negli appunti. Sarà un modo per continuare la mia opera e forse potrai fare luce su una terribile verità...» Da quel giorno si erano rivisti raramente e Oswald, sebbene avesse letto le prime pagine degli appunti che Wiesenthal gli aveva consegnato, non s'era mai spinto a cercare di decifrarne il linguaggio criptato. «Una sorta di ultima volontà...» mormorò tra sé il piccolo uomo, ripensando a quell'incontro di quasi otto anni prima. Adesso il Cacciatore se ne era andato per sempre. E su Breil gravò all'improvviso il peso di una nuova e importante responsabilità. Denver, 2006 A Oswald Breil, che aveva ricoperto la carica più alta dello Stato di Israele, l'abito di disoccupato di lusso stava stretto. L'esigenza di rispettare l'ultimo desiderio del suo mentore si fece strada in lui alcuni mesi dopo la morte di Simon Wiesenthal. «E dove andrà il mio Oswald? Sempre che la tua destinazione non sia coperta da qualche segreto di Stato», gli chiese Lilith quando lui le disse che sarebbe partito. «Niente di riservato, Mame-loshen: vado a Roma a trovare una vecchia amica e a chiederle un consiglio.» «Stai parlando di Sara, non è vero, Oswald?» «Non credo ci vogliano particolari doti d'intuito, Mame, per arrivare a questa conclusione.» Una bonaria ironia trapelava dalle parole dell'uomo. «Ti fa ancora male, Oswald?» «È come una vecchia ferita, che di tanto in tanto brucia.» «Non ti capisco, Oswald. Tu stesso mi hai raccontato che lei, credendoti morto, aveva sussurrato in lacrime il suo amore per te.» «Appunto, Mame, qui sta il problema: lo ha confessato all'amico esanime che stringeva disperata al suo petto, convinta che per lui non ci fosse più nulla da fare.» «Sara ha detto quello che sentiva, ne sono convinta. Sei tu che hai avuto paura delle sue parole.» «Paura? Il tuo affetto materno ti fa dimenticare il mio aspetto fisico? E
come ci avrebbero descritto in coppia? 'Biancaneve e l'ottavo nano'? Oppure 'la bella e il fauno'?» «Ti prego, Oswald, una persona della tua intelligenza...» «Mame, non far finta di non capire. È proprio perché mi reputo una persona intelligente che sono convinto che un'unione tra me e Sara non sia possibile. È stato un bene prenderci questa sorta di lunga vacanza e stare lontani l'uno dall'altra. Sono convinto che la nostra amicizia, sino a che si manterrà tale, sarà un'unione indissolubile...» «Ma tu credi davvero di essere solamente suo amico, Oswald?» lo interruppe Lilith. «Le mie convinzioni contano poco in questa vicenda...» «Allora, se contano quelle di Sara, vale la stessa domanda: credi che lei veda in te solo un amico?» «Mame-loshen, non prendermi per un behàyma, un animale ottuso. Non parliamone più. Anche se sono una miniatura, sono riuscito a convivere con il peso della mia diversità. Ma, tra queste conquiste e il fare da cavaliere a una bella principessa, c'è un abisso che non intendo esplorare: la dichiarazione d'amore di Sara è stata messa nel dimenticatoio e nessuno dei due ci è più tornato sopra. E non sarò io a farlo.» «Bene, se è così che la pensi... Che cosa vuoi che ti metta in valigia?» chiese Lilith Habar. Aveva capito che non avrebbe ottenuto altro dal suo «piccolo uomo». Roma, 2006 L'Airbus A319 della British Airways atterrò sulla pista dell'aeroporto di Fiumicino poco prima delle diciotto. Il viaggio da Denver era durato più di tredici ore, ma Oswald aveva ceduto al sonno per non più di una manciata di minuti. L'autista del Centro di ricerca diretto da Sara Terracini lo attendeva all'aeroporto. L'uomo era stato assunto anni prima su suggerimento dello stesso Oswald. Sara aveva rischiato più volte la vita al suo fianco: metterle accanto un agente del Mossad lo aveva fatto sentire più tranquillo. «Buon giorno, dottor Breil. Benvenuto a Roma. Lasci, mi occupo io del suo bagaglio.» «Buon giorno a lei, Gabriele. Tutto bene? Qui sembra sempre estate.» Salirono sulla Lancia color antracite parcheggiata di fronte all'uscita principale. Furono molti, tra i presenti, a seguire Oswald Breil con lo
sguardo: alcuni lo avevano riconosciuto immediatamente, dato che il volto di Breil era stato spesso immortalato nelle prime pagine di giornali e telegiornali in tutto il mondo. Altri osservavano con curiosità il piglio deciso di quell'uomo in scala ridotta. Poco dopo l'auto si fermò davanti a un moderno edificio, seminascosto tra il verde, nel quartiere romano dell'EUR. Per la prima volta da quando si erano conosciuti, l'incontro tra Sara e Oswald non fu disinvolto: uno strano imbarazzo impedì loro di salutarsi con il consueto allegro cameratismo. «Come va, Oswald?» chiese Sara chinandosi a baciarlo sulla guancia. «Non c'è male», rispose lui contraccambiando il bacio di benvenuto. «... Mamma Lilith ed Ezer mi hanno pregato di salutarti da parte loro.» «Grazie, Oswald, ricambia di cuore.» Parlando, Sara condusse l'amico all'interno del palazzo. «Qui siamo alle prese con un trasloco secondo solo all'esodo biblico. Il Centro sta crescendo: abbiamo assunto otto nuovi ricercatori e ampliato la sede acquistando anche l'appartamento sotto di noi. Il lavoro cresce a dismisura e non riusciamo quasi a stargli dietro. Già, ma dico queste cose a te, autorevole membro del Consiglio di amministrazione della nostra istituzione.» «La vicepresidenza del vostro organo collegiale è l'unica carica ufficiale che mi è rimasta: ogni politico, quando smette di essere tale, perde rapidamente ogni altro incarico. E così è stato anche per me.» «Ti manca tutto questo?» «Non lo so ancora... per ora non ho avuto modo di annoiarmi.» «Lo immagino, so bene come sei fatto, Oswald...» Quelle poche parole ebbero il potere di annullare il distacco tra i due. «Già, mi conosci bene, tu...» borbottò Breil. «Certo, sino al punto di sapere che la tua visita di cortese ha solamente questa piccola parentesi di convenevoli. Ho imparato a mie spese che, quando ti incontro, la mole del mio lavoro sta come minimo per aumentare a dismisura. Sputa il rospo, Oswald, o se preferisci: qual buon vento ti porta?» Breil non si scompose, ma estrasse da una borsa di pelle nera l'agenda di Wiesenthal. «Premetto: non c'è fretta e non sarà un lavoro complesso, ma credo sia davvero importante. Questa agenda mi è stata consegnata anni fa dal Cacciatore...» «Vuoi dire quel Cacciatore?»
«Esattamente lui, Simon Wiesenthal. Si tratta del diario di un giornalista italiano che, anni fa, si recò in Brasile per un reportage e rimase vittima di un incidente aereo.» «Be', si direbbe che i protagonisti della storia siano di tutto rilievo. Che cosa mi devo aspettare, Oswald?» «Wiesenthal, il cui intuito si è sempre rivelato infallibile, sosteneva che tra le pagine di questo diario potessero esserci notizie molto importanti. Se avrai modo di decifrare il documento, potresti trovarci informazioni capaci di stravolgere un capitolo della nostra Storia. Peccato esserne entrati in possesso solo ora che i protagonisti della vicenda sono morti. Il Cacciatore me lo ha dato perché venisse fatta luce in nome della verità. Ma per fare ciò ho bisogno del tuo aiuto. Per te non credo si tratti di un lavoro eccessivamente faticoso... e, ripeto, non c'è fretta, non più.» «Oswald Breil, le faccende che ti riguardano sono sempre questioni di vita o di morte...» avrebbe voluto rispondere Sara, ma si limitò a prendere l'agenda dalle mani di Oswald e a esaminarla sommariamente. Si trattava di una comune agenda con stampigliato il nome del settimanale Documento, che l'aveva data in omaggio ai suoi redattori in quel lontano 1976. Nella prima pagina erano segnati i dati anagrafici e le generalità del proprietario. Sara lesse con attenzione persino i numeri dei documenti di identità e delle carte di credito. Quindi sfogliò l'agenda sino al punto in cui si interrompeva la puntuale redazione del diario. «Accidenti a te, Oswald Breil...» pensò Sara, «riesci sempre a ottenere quello che desideri... Ogni documento, papiro, diario che mi hai messo tra le mani aveva... un'anima.» Gli occhi scuri della giovane donna si sollevarono dalle pagine del diario e fissarono quelli di Oswald. «Quanto tempo?» «Con calma, Sara. Tutto il tempo che vuoi. Il destino ha già compiuto il suo corso e nessun nostro intervento, a questo punto, sarà più capace di mutarlo.» 2 Età dei Metalli, II millennio a.C.
«Noi siamo gente pacifica, Karesh», stava dicendo Sar, il re della tribù dei migos, al giovane capo della tribù dei davaar. «Siamo ottimi cacciatori e allevatori, ma non altrettanto validi combattenti.» «È proprio per questo che ti offro l'alleanza tra le nostre genti: noi, invece, siamo grandi guerrieri, in grado di proteggere i membri della tua tribù dagli attacchi dei nemici.» «Di quali attacchi stai parlando? Sai bene che rivolgere le armi contro i migos è un sacrilegio: noi siamo i custodi della Pietra di Hosh. Nessuno oserà mai farci la guerra.» «Proprio per la mia devozione al dio sono qui adesso...» Karesh era più basso e molto più giovane del re Sar. Aveva la faccia segnata come una schiena sulla quale si fosse abbattuto più volte un nerbo di bue. Era diventato capo tribù dopo aver ucciso in combattimento il suo predecessore. Da quel momento si era messo alla guida dei suoi sanguinari guerrieri, dedicandosi a razzie di ogni tipo. E adesso quell'assassino stava chiedendo ai migos di unirsi a loro. «Perché parli di devozione, Karesh?» «Chi mi dice che sia stato Hosh a volere voi e voi soltanto come custodi della Pietra e sommi sacerdoti?» «Che cosa vuoi dire, Karesh?» D'istinto, la mano di Sar cercò il pugnale che portava sempre al fianco. «Così è dalla notte dei tempi, da quando i padri dei padri dei miei padri trovarono il simbolo della potenza del dio e ne diventarono custodi.» «Sono leggi degli uomini e non di Hosh», disse Karesh alzando il tono della voce. Tra le pareti della capanna, la più grande tra le oltre cento del villaggio dei migos, le sue parole risuonarono minacciose. La giovane Dehal e Athor erano nati nel corso della stessa luna. Erano cresciuti insieme, inseparabili, sino a quando Athor non era stato iniziato alla caccia. Una notte gli uomini del villaggio erano andati a prenderlo, il volto coperto da maschere che rappresentavano gli spiriti degli animali uccisi. Gli avevano bendato gli occhi e lo avevano fatto camminare a lungo. Alle prime luci dell'alba lo avevano liberato dalla benda ed erano scomparsi nell'inestricabile buio della foresta. Fu allora che Athor smise di essere il compagno di giochi di Dehal per divenire un uomo. Fu un uomo colui che si ritrovò davanti a un lupo che, in cerca di prede, si aggirava per la fitta vegetazione. Athor lo ferì con una freccia e l'animale, reso cieco dal dolore, gli
si avventò contro. Ma il giovane riuscì a schivare le sue zampate e le zanne assassine. Quindi afferrò la belva cingendola tra le braccia muscolose. Il pugnale penetrò nel costato del lupo all'altezza del cuore facendolo morire in un unico spasmodico sussulto. Athor si caricò il trofeo sulle spalle e ritornò al villaggio. Alcune donne, vedendolo arrivare con la preda, abbandonarono le loro occupazioni e corsero a chiamare gli uomini. Un ragazzo che lasciava l'adolescenza rappresentava sempre un evento da festeggiare per i migos. Ancor più se ad avere catturato un grosso lupo nel corso della sua iniziazione era il figlio del capo e gran sacerdote della tribù. Il giorno seguente gli anziani avrebbero condotto Athor nella caverna sacra al dio Hosh per compiere il rito di consacrazione con cui sarebbe divenuto cacciatore: gli avrebbero scagliato contro, nell'oscurità, delle palle d'argilla bagnata. Sarebbe stato il numero dei colpi andati a segno a stabilire se egli avrebbe avuto o meno un avvenire come grande cacciatore. Così avevano deciso gli antichi nella notte dei tempi, secondo il volere di Hosh. Quella sera l'intero villaggio festeggiò, danzando attorno al fuoco al ritmo forsennato dei tamburi, sino a che Aker, l'indovino, non cadde tra la polvere tremando convulsamente con la bava alla bocca. «Vedo sangue e terrore all'orizzonte», annunciò in stato di trance. «Vedo morti e razzie, fuoco. Gli assassini caleranno sul villaggio e avranno armi affilate... Tuo figlio Athor uscirà dal fuoco, mio re. Vedo il fuoco... il fuoco...» Mentre l'indovino pronunciava la sua profezia, gli occhi di Athor incrociarono quelli della giovane Dehal. La guardò come se fosse la prima volta: i seni della sua compagna di giochi erano grandi e sodi, i fianchi torniti e sinuosi. Il minuscolo triangolo di pelle che da qualche tempo portava sul pube non era sufficiente a coprire la soffice peluria che le era cresciuta intorno all'inguine. Athor si rese conto in quel momento che Dehal era diventata donna, una bellissima donna, e le profezie dell'indovino non ebbero il potere di scalfire l'eccitazione di quella scoperta. Alcune settimane dopo, di ritorno da una battuta di caccia, Athor stava pensando a sé e a Dehal: da qualche tempo tra loro era sorta una specie di timidezza, un imbarazzo che forse nascondeva l'attrazione che i due ragazzi provavano l'uno per l'altra. Il carniere che il giovane portava a tracolla, ricavato dalla pelle di un or-
so, era semivuoto: al suo interno si trovavano soltanto una lepre e due pernici. Non sempre la caccia andava a buon fine. Mancavano poche centinaia di passi alla recinzione che era stata eretta attorno al villaggio per proteggerlo dagli animali feroci, più che dall'attacco di improbabili nemici: i migos erano i discendenti del dio e i custodi della Pietra e della legge. Nessuno avrebbe mai compiuto il sacrilegio di attaccarli. Tutto intorno le montagne si stagliavano alte e maestose, con i loro costoni di roccia calcarea chiara. Sembrava volessero sfidare il cielo. Athor si fermò a osservare la cascata d'acqua cristallina che alimentava il laghetto al limitare del bosco, meta di tanti suoi giochi d'infanzia. Il giovane cacciatore si chinò e raccolse con le mani un po' d'acqua. Se la gettò sul volto, per detergersi dal sudore e dalla sporcizia. Fu quando riaprì gli occhi che la vide. Dehal si trovava in un'insenatura del laghetto, protetta alla vista da alcune rocce. Athor rimase a osservarla affascinato: non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo nudo e dalla pelle morbida di Dehal. La giovane aveva la carnagione scura e gli occhi sottili, altrettanto scuri. I suoi seni si ersero rigogliosi quando la ragazza si alzò in piedi, uscì dall'acqua e andò a sedersi su uno scoglio piatto lì vicino. Athor cercò riparo dietro alla vegetazione che costeggiava la sponda. Le mani di Dehal scesero lungo il ventre, verso il suo sesso. Athor provò un brivido lungo la schiena mentre, sotto la pelle del perizoma, il suo membro si inturgidiva. Quando di lì a poco il volto di Dehal si distese in una smorfia di piacere, Athor, eccitato e turbato al tempo stesso, perse la presa dal cespuglio al quale era aggrappato, scivolò lungo la riva e, in un attimo, si ritrovò immerso nell'acqua del lago con tanto di arco, faretra e bisaccia. Dehal sobbalzò a quel tonfo improvviso e corse verso la sponda opposta, dove aveva lasciato la pelle di animale che la vestiva. La voce amica di Athor alle sue spalle la fece desistere dalla fuga. «Sono io, Dehal. Non ti spaventare», disse non appena riemerse dall'acqua. Un sorriso comparve sul volto della giovane donna mentre cercava la sua veste. «Perché ti copri, Dehal? Ti ho sempre visto nuda. Non ti nascondere, lasciami vedere come sei fatta...»
«Non dovrei essere io a nascondermi, Athor», rispose Dehal sorridendo e indicando con lo sguardo il basso ventre del giovane: nella caduta, il perizoma si era spostato, mettendo in mostra il sesso turgido di Athor che, confuso e imbarazzato, si immerse di nuovo nell'acqua. «Se tu lasci guardare me io lascio guardare te, Dehal», disse il ragazzo. Poco dopo erano seduti l'uno di fronte all'altra in uno spiazzo erboso poco distante dalla cascata e con le loro giovani mani si esploravano a vicenda. «Piano! Così mi fai male! Possibile che tu sia più rozzo dei cinghiali che ti piace cacciare?» Poi quello che sembrava un gioco li travolse. In breve Athor le fu sopra e lei si offrì a lui. Lo sentì premere dolcemente ed entrare in lei. Provò un leggero dolore, come se qualche cosa si fosse spezzato. Gli umori delle sue intimità accompagnarono il sesso di Athor, che cominciò a muoversi sempre più freneticamente. La giovane lo assecondò, pronta a ricevere il suo piacere. Di lì a poco si ritrovarono esausti, scossi dall'affanno. Le mani della ragazza accarezzavano la schiena lucida di sudore del suo amante. Rimasero così a lungo, appagati e felici. Athor era giovane e forte. I capelli castani gli ricadevano lunghi sulle spalle. Si muoveva con l'agilità di un felino e quel suo modo sinuoso aveva acceso spesso le fantasie di Dehal: il fisico possente di Athor era divenuto da tempo l'oggetto dei suoi desideri. Ma non era solo bello, era anche saggio e lei sapeva che un giorno sarebbe succeduto a suo padre come gran sacerdote e capo della tribù. Dehal, invece, era figlia di Aker l'indovino. Un tempo, prima che le zanne di un cinghiale gli maciullassero la gamba destra, Aker era stato il migliore cacciatore della tribù. «Hai una carica di bufali dentro», disse Athor con il capo appoggiato sul petto della ragazza. «Non riesco a fermare il mio cuore... Credi che Hosh si adirerà con noi per quello che abbiamo fatto, Athor?» «Spero di no: l'ira di Hosh non perdona. Comunque chiederò consiglio a mio padre... Anzi, gli chiederò... gli chiederò di celebrare la nostra unione.» Così dicendo il giovane Athor si alzò in piedi e si guardò intorno. Il sangue gli si gelò nelle vene. Avanzavano rapidi, cercando di restare nascosti tra la folta vegetazione.
Avevano i corpi dipinti di bianco, simili agli scheletri che Athor aveva visto nella valle che fungeva da cimitero. Erano armati fino ai denti. I guerrieri davaar si stavano dirigendo verso il villaggio per attaccarlo. Doveva assolutamente correre più veloce di loro. «Presto, nasconditi là, Dehal», disse in un sussurro, spingendo la giovane dietro a un tronco, prima di scomparire in un lampo nella foresta. «... e poiché sono leggi degli uomini e non del dio, re Sar dei migos», stava dicendo Karesh con piglio sempre più minaccioso, «non vedo perché la mia gente non possa condividere con la tua questo privilegio.» «La tua gente? Tu osi chiamare un gruppo di assassini rinnegati la tua gente?» chiese Sar sprezzante e per nulla intimorito dai modi minacciosi dell'altro. «Le poche donne al vostro fianco sono state rapite dai villaggi che avete raso al suolo dopo avere ucciso uomini, vecchi e ragazzi. Tu non sei né sarai mai il capo di una tribù, ma solo un assassino e il perfido carceriere di chi hai reso vedova e infelice. Non meriti la stima di Hosh. Vattene, Karesh. Fingerò di non aver sentito le tue bestemmie.» Nel villaggio dei migos gli stranieri non potevano entrare armati e anche Karesh aveva dovuto sottostare a quella regola. Per questo Sar sottovalutò il pericolo: quando si voltò per vedere cosa provocasse le urla che all'improvviso si erano levate fuori dalla capanna, fu un attimo per Karesh prendere il sopravvento. Athor aveva fatto appena in tempo a nascondere Dehal tra le radici del gigantesco albero, che un guerriero lo aveva superato senza vederlo. Lui gli andò dietro come un'ombra: non per niente era abituato a seguire gli animali senza che questi se ne accorgessero. Lo raggiunse in prossimità della palizzata del suo villaggio. Il davaar gli dava le spalle: stava acquattato dietro a un cespuglio, a una ventina di passi da lui, vicino alla staccionata. Athor incoccò la freccia e tese l'arco. Le mani erano ferme, i gesti decisi: la freccia partì con uno schiocco sonoro. Il davaar non ebbe neppure il tempo di voltarsi. Il suo corpo trafitto rimase inerme tra i cespugli dove aveva tentato di nascondersi alla vista degli abitanti del villaggio. Tra le mani di Karesh balenò un pugnale che qualche traditore doveva aver nascosto per lui all'interno della capanna. Le grida all'esterno, intanto, si facevano sempre più vicine. La mano di Sar troppo tardi corse alla lama che teneva al fianco: Karesh
lo aveva preso alle spalle e quindi lo spinse fuori dalla capanna. «Così i tuoi sudditi conosceranno il nome del loro nuovo re direttamente dalla tua voce», disse Karesh mandando avanti brutalmente il rivale, sotto la minaccia del pugnale. La voce di Athor giunse all'orecchio delle due sentinelle della città sacra simile al grido di un animale della foresta. Le guardie all'inizio non capirono, poi, mano a mano che il giovane si avvicinava, le sue urla assunsero tutto il loro terribile senso. «Siamo attaccati, presto, chiudete la porta! I davaar stanno arrivando dalla foresta. Sono molti e sono armati. Vogliono coglierci di sorpresa. Chiudete il cancello, in nome di Hosh.» Mentre i pesanti battenti dell'unica via di accesso al villaggio venivano chiusi, i davaar sbucarono urlando nella radura come fossero spuntati dal nulla. Brandivano le armi e gli scudi e avevano un aspetto terribile. I migos, pacifici cacciatori, poco avvezzi alla battaglia, rimasero pietrificati. Athor riuscì a infilarsi all'interno della cinta: per il momento era in salvo, ma adesso doveva organizzare la difesa del suo villaggio. Gridò alle sentinelle di prendere archi e frecce e di salire sugli spalti: lui per prima cosa doveva avvisare suo padre. Ma quando giunse davanti alla capanna di Sar si fermò, agghiacciato. Sar stava in piedi al centro dello slargo. La lama del coltello di Karesh gli aveva inciso la pelle del collo e un sottile rivolo di sangue stava colando lungo il petto del capo tribù. Karesh aveva dipinta sul volto una furia omicida e sorrideva trionfante: era sicuro che le urla sentite fossero il segnale che i suoi avevano fatto irruzione nel villaggio. Quando si rese conto che a gridare non erano i suoi uomini ma i migos che, con le armi alla mano, correvano verso la palizzata, capì che una parte del suo piano era fallita. Ma non si perse d'animo. Premette ancor più la lama sul collo del re e gli sibilò all'orecchio: «Adesso ordinerai ai tuoi di lasciarmi andare, altrimenti ti sgozzo come un cinghiale». «Fermo, Karesh!» gridò Athor non appena si fece più vicino. «Posa il pugnale e libera mio padre.» «Non sei nella posizione di darmi ordini, Athor. Lasciami andare e tuo padre vivrà.» Un moto di impotente ribellione scosse il corpo del ragazzo, ma sapeva che non poteva contraddire il perfido davaar.
«Nessuno si muova e aprite la porta», ordinò Athor ai migos che erano accorsi in difesa del loro re. Questi si fecero da parte per far passare l'ostaggio e il suo aguzzino. Karesh arrivò sulla soglia. Sembrò valutare la situazione: i suoi guerrieri gli avrebbero coperto le spalle. Fissò Athor negli occhi, quindi affondò la lama con un gesto rapido e letale. Sar, il re giusto e amato dei migos, cadde a terra senza un lamento con la gola recisa. Quindi, con l'arma sanguinante stretta in pugno, Karesh incitò i suoi all'assalto. I davaar si mossero in avanti, i volti deformati dall'odio, lanciando le loro terribili urla di battaglia. Fu allora che i migos si trasformarono. Vedere il loro capo riverso in una pozza di sangue li rese assetati di vendetta. I pacifici membri della tribù ingaggiarono un furioso corpo a corpo, respinsero l'assalto e colpirono a morte molti dei loro nemici. Ma alcuni tra i migos caddero prigionieri e furono trascinati via nel fitto della foresta che circondava il villaggio. Nel frattempo la porta venne richiusa e la successiva carica dei davaar fu respinta. Athor era stato tra i primi a gettarsi sui nemici e i suoi uomini gli avevano ubbidito d'impulso. Non c'era stato il tempo per le cerimonie di investitura: il giovane aveva preso il posto che suo padre aveva occupato sino a pochi istanti prima. I migos si erano appostati lungo una passerella soprelevata che costituiva il camminamento a ridosso della palizzata. Da lì incominciarono a bersagliare i nemici con frecce, lance e pietre che le donne, da sotto, porgevano loro. In breve i davaar batterono in ritirata e scomparvero tra il folto della foresta. Athor scese dal camminamento e, raggiunta la porta del villaggio presso la quale giaceva ancora il corpo di Sar, si inginocchiò di fianco al genitore. Fu allora che scorse Goreth, il suo fratellastro, il figlio che Sar aveva avuto dalla prima moglie, morta dandolo alla luce. Secondo le leggi dei migos, solo a chi restava vedovo era concesso di risposarsi. Goreth era stravolto dal dolore e dall'ira: «La pagheranno, maledetti davaar. Giuro che lo vendicherò. Karesh non avrà pace!» Goreth e Athor erano sempre stati molto uniti: la madre di Athor aveva allevato il figlio di primo letto del marito come i quattro, un maschio e tre femmine, nati dal suo matrimonio.
«Dobbiamo inseguirli!» urlò Goreth, e fece per lanciarsi verso la foresta. Ma Athor lo bloccò afferrandolo per un braccio. «Fermo! I davaar non aspettano altro. Non illudiamoci: loro sono dei guerrieri e noi semplici cacciatori. In campo aperto e senza il riparo di una palizzata avremmo la peggio», disse Athor. «Hai forse paura, fratello mio?» «Non ho paura: la foresta è piena di insidie e i davaar sanno meglio di noi dove tenderci un'imboscata.» La foresta... Athor di colpo ricordò: le concitate fasi della battaglia e l'assassinio di suo padre lo avevano distolto da ogni altro pensiero. Dehal, la dolce Dehal, si trovava ancora là. Senza aggiungere altro, si alzò, si assicurò il pugnale alla cintura e, leggero come un felino in caccia, si inoltrò fra la boscaglia. Dehal era rimasta nascosta tanto a lungo da perdere la cognizione del tempo. Decine di uomini erano passati correndo nei pressi del suo nascondiglio, poi nel bosco era tornata nuovamente la pace. Ma lei non si era mossa ed era rimasta lì in compagnia del conturbante ricordo del corpo di Athor allacciato al suo. Infine la giovane uscì guardinga dal rifugio. Era ancora seminascosta dalla vegetazione quando una mano d'acciaio le afferrò il polso. Dehal cercò inutilmente di divincolarsi dalla stretta. Karesh la stava guardando con un sorriso sinistro. «E così i nostri eroici sacerdoti hanno chiuso le porte e dimenticato fuori la perla del loro gregge...» La mano del guerriero, ancora sporca del sangue di Sar, si strinse sul seno della ragazza, che cercò di colpirlo con un calcio. Ma quel tentativo di ribellione sortì l'effetto di eccitare ancor di più l'uomo, che la gettò a terra e si buttò su di lei, ansimando. Le mani della ragazza graffiarono la schiena nuda del guerriero, le gambe scalciavano furiose, ma Karesh sembrava fatto di roccia. Le ginocchia di lui divaricarono le cosce della sua preda. «No, ti prego... noo!» L'urlo di Dehal si perse nel fitto della foresta. Athor correva come il vento, le braccia protese a schivare le frustate dei rami che gli si paravano davanti. Il grido di Dehal lo raggiunse come una pugnalata ed egli si diresse verso il punto da cui pareva provenire. Dehal era sdraiata su di un grosso masso piatto, Karesh era sopra di lei.
Dentro di lei. Athor sentì l'odio montargli dentro come la piena di un fiume. Il suo balzo fu accompagnato da un grido simile a quello di una fiera. Si abbatté con tutto il suo peso sul nemico sbalzandolo lontano dalla vittima che stava violando. Karesh rimase un istante senza fiato, poi la mano corse all'ascia che teneva alla cintura ma, prima che potesse brandirla, la lama del pugnale di Athor gli penetrò nel fianco. Athor gli fu di nuovo sopra e trattenendo il davaar per i folti capelli fece cozzare violentemente la sua testa su una pietra, quindi alzò il braccio armato del pugnale. Karesh non avrebbe avuto nemmeno il tempo di pensare che stava morendo. Il colpo alla nuca fu improvviso come un fulmine. Athor, le mani strette al pugnale, inarcò la schiena e si accasciò, privo di sensi, sul corpo di Karesh. 3 Linguadoca, 1213 I due uomini avanzavano l'uno di fianco all'altro. Il vecchio cavalcava un baio robusto; il ragazzo era a piedi e portava sulle spalle una custodia in pelle nella quale era conservata la sua ghironda. Non dimostrava più di quindici anni ma aveva un passo fiero e sicuro, da uomo. A giudicare dai loro vestiti non sembravano navigare in buone acque, benché il solo fatto di possedere un cavallo e un prezioso strumento musicale provasse la loro appartenenza a un ceto sociale elevato. «Ma era proprio necessario che tu venissi qui, nonno Beaufort?» chiese il giovane arrancando per tenere il passo del cavallo. «Certo, Aymon. Voglio parlare col maestro e mi piacerebbe essere presente quando lui ti ascolterà suonare. È molto vecchio e non gli resta granché da vivere, ma sono convinto che il tuo talento lo stupirà. E tu potrai far tesoro dei suoi insegnamenti.» «Non voglio restare da lui, in questa città nemica...» «Ne abbiamo già discusso, Aymon. Il maestro Puyol è un amico fidato che ha abbracciato la nostra religione e vive qui a Carcassonne anche per poter meglio osservare i movimenti dei nostri nemici. Io sono ricercato da tutte le milizie crociate della Linguadoca: non è prudente che tu rimanga con me perché metterei a repentaglio anche la tua vita. Non appena questa
assurda guerra sarà finita tornerò a prenderti. E nel frattempo tu avrai appreso tutti i segreti della ghironda: sono certo che il maestro Puyol te li saprà insegnare.» «Certo, imparerò l'arte della musica, ma chi mi insegnerà quella del combattimento se non staremo più insieme, nonno?» «Ho provveduto anche a questo, Aymon: nella sua lettera il maestro Puyol ha scritto che parte del tuo tempo la impegnerai con un maestro d'armi. Dice che il prescelto è il migliore sulla piazza. E, ricorda, nessuno, oltre a Puyol, dovrà conoscere la tua vera identità: solo così sarai al sicuro dalle rappresaglie degli uomini di Simone di Montfort.» Il nipote alzò uno sguardo preoccupato sulla figura del vecchio. «E se, mentre sei qui, qualcuno dovesse riconoscerti? Potresti venire condannato al rogo, ucciso...» «Non accadrà, piccolo mio... non accadrà...» Ormai erano giunti alle porte della città. Due uomini, vestiti con la tunica crociata, stavano schiamazzando sotto la torre nord della possente cinta muraria di Carcassonne, e non fecero caso ai due viandanti che oltrepassavano le mura. Beaufort, visconte della Val di Daigne, ora taceva immerso nei suoi pensieri, gli stessi che lo accompagnavano da quando era incominciata la crociata contro i catari: non solo era inaudito che dei crociati uccidessero devoti cristiani, ma ancor più grave era che ciò non avvenisse nella lontana Palestina, quanto nel bel mezzo dell'Europa. Quella che i suoi abitanti, con fierezza, chiamavano Occitania era una regione nel cuore del territorio francese, confinante con la massiccia catena pirenaica e dominata da signori e vassalli che dovevano al re d'Aragona - e quindi alla Chiesa di Roma - la loro ubbidienza. Ma la pacifica esistenza di quella gente era andata distrutta da quando il papa aveva ordinato che in quei luoghi si marciasse contro l'eresia, rappresentata da alcuni seguaci del demonio che, nei loro aberranti riti, si diceva baciassero le terga a gatti e ad altri animali, prima di lasciarsi andare a ogni più turpe atto da lupanare. Catari, si facevano chiamare, e sotto le mentite spoglie di cristiani ortodossi sino all'integralismo erano nemici della Chiesa e quindi di Dio. Almeno questo era ciò che il papa sosteneva per poter giustificare la sua crociata. Nel luglio 1209 l'incidente che aveva dato avvio a quella nuova guerra di religione era stato l'assassinio di Pietro di Castelnau, monaco cistercense e legato di papa Innocenzo III. La città di Béziers era caduta in poche ore. Molti degli abitanti si erano
rifugiati all'interno della cattedrale: qui i crociati li avevano passati a fil di lama, prima di incendiare la grande chiesa e seppellire sotto le macerie coloro che erano scampati alle armi. Secondo i rapporti recapitati a papa Innocenzo III i caduti, nella sola Béziers, erano stati almeno ventimila. Per lo più vittime innocenti, dal momento che i catari non contavano in città più di duecento adepti. Tuttavia, l'eresia che la Chiesa di Roma aveva deciso di combattere e di distruggere non era così malvista dagli occitani e, a parte alcune frange di fanatici, i catari avevano convissuto a lungo e pacificamente con i loro concittadini cristiani. Per questo, di fronte all'ordine di consegnare gli eretici all'esercito del papa accampato sulle rive dell'Orb, l'intera città aveva scelto di combattere sino alla fine. La furia delle milizie papali, e i racconti delle atrocità commesse dai crociati, avevano in breve diffuso il panico nell'intera regione: ovunque si viveva nel terrore di veder comparire i vessilli cristiani all'orizzonte. Quella che avrebbe dovuto essere una crociata contro pochi eretici si era trasformata in una repressione feroce e indistinta, il cui obiettivo era quello di insegnare a tutti gli occitani da che parte stesse la sovranità, e indicare al resto della cristianità i rischi di una convivenza con l'eresia. Dopo Béziers, l'esercito aveva mosso verso Carcassonne, che era capitolata, sia pure in maniera meno violenta, nella calda estate del 1209. Gli abitanti erano stati cacciati dalle loro case e solo in un secondo momento era stato consentito che alcuni ritornassero in città. Al comando delle milizie papali si trovava Simone di Montfort. Di lui, tutti conoscevano sia il valore sia la crudeltà con la quale aveva sempre infierito sui nemici della Chiesa. Il nonno e il ragazzo camminavano nelle strette vie della città fortificata. Se qualcuno avesse riconosciuto Beaufort, la loro sorte sarebbe stata segnata: nell'avanzata in terra occitana dell'esercito crociato, l'unico ostacolo che gli uomini di Simone di Montfort avevano incontrato era stato quello del manipolo di cavalieri comandato dal visconte della Val di Daigne, che aveva abbracciato la dottrina catara. I suoi adepti uscivano dalla boscaglia come predatori e assalivano i distaccamenti che, per una qualche ragione, avevano perso il contatto con il resto dell'esercito. Poi, dopo avere avuto la meglio sui crociati, gli uomini di Beaufort scomparivano nuovamente nella foresta dalla quale erano venuti. Queste continue rappresaglie avevano scatenato la furia di Simone: non
era ammissibile che migliaia di soldati in armi non riuscissero a fermare un manipolo di eretici rinnegati. Il comandante della milizia crociata aveva istituito una lauta taglia per chi avesse contribuito alla cattura del signore della Val di Daigne. Ma il visconte era riuscito a farla franca per quattro lunghi anni. A tutto questo stava pensando Beaufort quando il nipote, come gli avesse letto nel pensiero, chiese: «È vero che Béziers è caduta per un motivo futile, nonno?» Beaufort e Aymon erano molto legati: quando, anni prima, entrambi i genitori del piccolo erano stati uccisi da una febbre malarica, il nonno era diventato come un padre per il giovane orfano. Il ragazzo era la luce che illuminava la vita di uno tra gli uomini più valorosi e stimati dell'Occitania, ed era l'unico discendente della sua stirpe, a eccezione di un ramo laterale della famiglia che governava la contea di Foix. Forse là si sarebbero recati una volta terminata la guerra ma, per il momento, Beaufort aveva deciso che fosse più sicuro lasciare il ragazzo, sotto mentite spoglie, dietro le linee nemiche: anche Foix e Tolosa si sarebbero prima o poi piegate all'avanzata delle truppe del papa. «È vero, Aymon: un manipolo di uomini, uscito dalle mura di Béziers, ha incominciato a sbeffeggiare alcuni crociati intenti a bivaccare durante l'assedio della città. Questi li hanno inseguiti armi in pugno e sono riusciti a forzare il blocco delle sentinelle. In breve l'esercito del papa si è riversato all'interno delle mura uccidendo chiunque incontrasse. Pare addirittura che l'abate di Citeaux, Arnaud Amaury, che era al seguito delle truppe pontificie, nel bel mezzo della carneficina abbia risposto a un ufficiale che gli chiedeva come distinguere i duecento nostri fratelli catari dai cittadini cristiani: 'Accoppateli tutti, Dio saprà riconoscere i suoi!'» I due avanzavano attenti a non dare nell'occhio. E, sino a quel momento, ci erano riusciti. Era difficile che qualcuno potesse individuare Beaufort di Daigne: raramente lui e i suoi uomini avevano lasciato superstiti nelle loro scorribande. In realtà l'uccisione di ogni essere umano contrastava con il precetto cataro di non macchiarsi mai di omicidio, ma Beaufort era certo che Dio gli avrebbe perdonato quella grave disubbidienza: in fondo lui uccideva solo per difendersi. Ricordava bene, il visconte, quando si era avvicinato al catarismo in seguito alla morte della moglie. Aveva preso il Consolamentum dopo alcuni anni di osservanza. E l'unico sacramento riconosciuto dalla religione catara lo aveva elevato al ruolo di Perfetto, Amico di Dio, come
usavano definirsi i ministri del culto. La dottrina si basava sui precetti di semplicità, ormai dimenticati, dai quali però aveva preso vita il cristianesimo. Il visconte non faceva passare ora della giornata senza ripetere a se stesso i precetti fondamentali della sua dottrina. I catari credevano nell'esistenza di due princìpi contrapposti: il Bene e il Male. Il primo trovava il suo fondamento nel Dio giusto e misericordioso, il secondo in Satana, il dio nemico. Queste due forze, eternamente in lotta tra loro, avevano creato due mondi distinti: quello dello spirito, perfetto e governato dal Dio giusto, e quello della materia, nelle mani di Satana. Il corpo umano non era altro che un luogo di passaggio, prima che lo spirito venisse liberato e ricondotto a Dio. Cristo era solo un angelo sceso in terra. La croce non era un simbolo religioso e i riti eucaristici non venivano riconosciuti: unico sacramento ammesso era il Consolamentum. Il Perfetto era tenuto alla scrupolosa osservanza dei precetti. E Beaufort li seguiva, compreso il digiuno, strumento di penitenza ed espiazione. Come la dieta, per lo più vegetariana, dove però erano ammessi crostacei e pesci. Forse era stato il quieto ma inarrestabile corso di quel rigore ritrovato della religione a destare preoccupazione nelle alte sfere ecclesiastiche. Il credo era dilagato nelle terre d'Occitania e aveva intaccato anche le estreme propaggini settentrionali del territorio italico. Forse la furia del papa si era scatenata proprio per la facilità con cui il loro verbo si propagava. Tanto più che i catari convivevano pacificamente con la popolazione cristiana. Tutto questo avrebbe potuto sovvertire l'ordine costituito. Prova ne era stato l'eccidio di Béziers. «Vattene, miserabile!» disse improvvisamente nonno Beaufort piegandosi sulla sella e affibbiando una sonora pacca sulla collottola del nipote. «Ti ho detto che dovrei essere io il primo a chiedere la carità.» Stupito e offeso da quel comportamento, Aymon alzò gli occhi verso l'uomo in sella. Lo sguardo del visconte di Daigne era inequivocabile e il ragazzo comprese. Due crociati, la mano sull'elsa della spada, sbarravano il passo al cavallo. «Fermo, straniero!» ordinò il soldato alzando la mano aperta davanti a Beaufort. Le briglie si tesero e il baio si fermò con un sonoro nitrito. «Dite a me, soldato?»
«Dico proprio a te...» Il crociato si portò più vicino al cavallo, scrutando il volto del forestiero. «Ci siamo per caso già visti, noi due?» «Non mi pare. Comunque io sono solito andare di città in città per guadagnare quel poco che mi consente di mantenermi.» «E di che cosa vivi, straniero?» chiese il secondo militare che si era portato dinanzi a lui. «Di che cosa volete possa vivere un vecchio stanco... Faccio quello che capita. E spesso non sono io a fornire i miei servigi, ma il mio fedele cavallo: sapete, lui è davvero infaticabile e capita che la gente abbia bisogno della sua forza per tirare un aratro o per spostare massi e pesi.» «Sarà come dici, vecchio, io però sono convinto di averti già visto...» insistette il primo militare. Ma intanto si era fatto da parte e aveva ceduto il passo a cavallo e cavaliere. «L'abbazia di Lagrasse!» gridò a un tratto, quando ormai Beaufort stava sfilando di lato. «Fermalo!» ordinò al suo compagno. «È il capo della banda di tagliagole che ha sterminato i miei compagni!» Nei pressi dell'abbazia di Lagrasse, Beaufort lo ricordava bene, avevano teso un agguato a un drappello nemico. Evidentemente quel crociato era sopravvissuto all'eccidio. L'altro militare si parò davanti al cavallo, ma non fece neppure in tempo a sguainare la spada: il fendente preciso di Beaufort lo raggiunse al collo, e il suo sangue sprizzò in ogni direzione. Dopo essersi assicurato che suo nipote Aymon si fosse allontanato, il visconte spronò il vecchio baio. «All'armi! All'armi!» gridava il soldato sopravvissuto con tutto il fiato che aveva in corpo. «Chiudete le porte della città. Quel maledetto non ci deve sfuggire!» Le strette viuzze di Carcassonne erano affollate: Beaufort aveva scelto il giorno del mercato per meglio passare inosservato tra la calca, ma ora quella stessa folla stava ostacolando la sua fuga. La gente, impaurita, si scansava di lato per consentire al cavallo al galoppo di passare. La porta meridionale della città era ormai in vista. Beaufort strinse le gambe attorno al corpo del baio e l'animale reagì con la prontezza di un purosangue: ancora pochi passi e sarebbero stati fuori da quella trappola. Beaufort vide alcune delle sentinelle alle prese con gli argani, mentre altre, impugnato l'arco, prendevano la mira. La pesante saracinesca in ferro cadde dall'alto con un forte clangore. Il visconte di Daigne tirò a sé le redini, tentando di arrestare la folle cor-
sa del quadrupede. Tuttavia non fu quel gesto a fermare l'animale: almeno due frecce gli trafissero il collo, facendolo cadere pesantemente a terra. Beaufort venne disarcionato. Non ebbe il tempo di rialzarsi: le spade delle sentinelle lo immobilizzarono, ma egli non abbassò lo sguardo fiero. Era pronto a morire con onore. «Fermi!» disse una voce imperiosa alle loro spalle. «Lasciate che si alzi.» Gli armigeri allentarono la pressione della punta delle loro spade. «Chi siete, messere, per seminare il disordine nelle vie della mia città?» chiese il nuovo venuto. Vestiva abiti da battaglia, benché molto raffinati. Non era alto anche se, sotto la cotta di maglia, si intuiva un fisico possente e avvezzo al combattimento. Sebbene non lo avesse mai incontrato di persona, Beaufort seppe di essere al cospetto di Simone di Montfort. Stava per rispondere, quando una voce concitata alle sue spalle lo interruppe. «Chiedo scusa, mio signore», andava dicendo il crociato scampato al massacro dell'abbazia di Lagrasse, il petto scosso dall'affanno. «L'ho riconosciuto quasi subito: si tratta di Beaufort. Quest'uomo comandava gli assassini che hanno massacrato i miei commilitoni. E poco fa ne ha accoppato un altro con un solo colpo di spada.» «Risponde a verità ciò che dice il mio soldato?» chiese Simone di Montfort. «Sì, sono il visconte Beaufort di Daigne», tagliò corto il cataro, alzando le braccia in segno di resa. Sapeva di dover attirare su di sé l'attenzione dei crociati, affinché almeno Aymon riuscisse a farla franca. Questi aveva visto suo nonno ferire a morte uno dei militari e spronare il cavallo verso la porta della città. Aveva capito che il gesto brusco con cui lo aveva allontanato gli aveva salvato la vita e, impaurito, si era diretto verso il centro abitato, dove si trovava la residenza del maestro Puyol. 4 Baviera, anni '20 L'aria calda e appiccicosa di quella serata di metà settembre era impregnata dal fumo che aveva velato anche la luce delle lampade appese al soffitto nella birreria Sterneckerbrau. Il caporalmaggiore, veterano di guerra, non sopportava quell'odore di-
sgustoso di sigarette, sigari, pipe e qualsivoglia diavoleria che rendeva l'uomo schiavo del vizio. Era a causa di una rivolta sanguinosa, sedata nel sangue pochi mesi prima, che il sottufficiale tedesco si trovava lì. La sua presenza a quella riunione avrebbe cambiato il corso della sua vita. E anche quello della Storia. Tutto era cominciato alcuni giorni prima, quando aveva accettato un invito singolare. «Vi ringraziamo per aver accolto il nostro appello, caporale...» aveva detto il barone von Sebottendorff, capo della Società. «Grazie all'impegno e al coraggio vostro e di valorosi ariani come voi, il nostro Paese è riuscito a scacciare l'orda bolscevica.» Nel corso del novembre 1918, un certo Eisner, socialista di origine ebraica, aveva capeggiato una rivoluzione di stampo bolscevico in Baviera ed era riuscito a trascinare con sé una folta e agguerrita schiera di ribelli formata prevalentemente da anarchici e socialisti. Il moto aveva come obiettivo la proclamazione della Repubblica bavarese. Nel disegno dei rivoltosi la rivoluzione avrebbe dovuto propagarsi a macchia d'olio, sino a raggiungere Berlino e costringere il Kaiser alla fuga. Ma, ai primi di maggio, le truppe controrivoluzionarie capeggiate dalla Lega di Combattimento erano entrate a Monaco e avevano soffocato la sedizione nel sangue. Tra i fautori della restaurazione vi erano gli uomini della Thule. Per contrastare la «minaccia bolscevica», esisteva una sezione apposita dell'esercito tedesco, una squadra chiamata, appunto, Lega di Combattimento. Qui, un giovane disposto a tutto pur di raggiungere il potere, Rudolf Hess, stava scalando i gradini che lo avrebbero condotto ai vertici dell'organizzazione. Ma anche altri illustri sconosciuti muovevano, in quei mesi di tensioni e incertezze, i loro primi passi verso una folgorante carriera. Nel corso di una ristretta riunione del direttivo della Thule fu il giornalista Alfred Rosenberg il primo a lanciare l'invito: «Propongo che il caporale venga ammesso di diritto tra i membri della nostra Società». «Abbiamo bisogno di uomini così», approvò Gottfried Feder, noto nel gruppo per la sua arte oratoria. «Un momento», gli fece eco Dietrich Eckart, editore, poeta e drammaturgo con una vita da bohémien alle spalle, che godeva di un notevole cre-
dito all'interno del direttivo. «Credo sia opportuno giocare questa carta a nostro favore.» Si diceva che Eckart fosse legato non solo alla Thule, ma anche ad altre sette di stampo esoterico, che fosse un esperto di magia nera e seguace del Maligno. «Non me ne voglia chi sostiene l'investitura ufficiale del caporale, ma la recente sommossa di stampo bolscevico dovrebbe averci insegnato una cosa: non si è mai abbastanza all'erta dinanzi alle minacce di ebrei e comunisti. Lo stesso sottufficiale, se non erro, ne sa qualcosa: pochi giorni prima della liberazione, i rivoluzionari hanno perquisito più volte la caserma del 2° Reggimento di Fanteria, il suo. Mi è stato riferito che cercavano proprio lui e il nunzio apostolico, sua eccellenza Pacelli. Mi sbaglio, forse?» «Esatto», disse uno dei partecipanti. «Il 27 aprile il nostro uomo è riuscito a scampare alla cattura in maniera rocambolesca.» «Se lo cercavano, era probabilmente per via dei suoi meriti di militare e di investigatore. Quegli stessi meriti potrebbero aiutare la nostra causa in maniera molto più incisiva se il caporale non fosse etichettato come appartenente a una società famosa per il suo carattere antibolscevico e nazionalista. In pratica sto dicendo che sarebbe meglio che la sua adesione alla Thule rimanesse... segreta. Se tutti voi siete d'accordo, naturalmente.» Ora, pochi giorni dopo quella riunione, il caporale si trovava nella birreria Sterneckerbrau ad ascoltare le parole di Gottfried Feder sul tema «Come e con quali mezzi eliminare il capitalismo». L'interesse per l'argomento era altissimo. Dopo alcuni interventi, prese la parola il caporale: la sua dissertazione fu spesso interrotta da moti di approvazione dei presenti. Alla fine l'oratore venne avvicinato dal segretario del movimento nazionalista che aveva organizzato l'incontro. Un certo Anton Drexler. «Le vostre parole hanno suscitato entusiasmo nei camerati presenti alla riunione», gli disse l'uomo, tendendogli la mano. «Se non vi dispiace, vi inviterei a dare un'occhiata a questo opuscolo... e se poi foste così gentile da indicarmi i vostri recapiti, il Deutsche Arbeiterpartei sarà lieto di sottoporvi altra documentazione... Herr...?» «Hitler, caporal maggiore Adolf Hitler.» «Mi sono informato su questo Adolf Hitler», stava dicendo Dietrich Eckart agli altri componenti del direttivo della Thule. «È un valoroso.» Così dicendo l'editore mise mano a una borsa di pelle scura dalla quale estrasse un dossier sul caporale.
«È nato a Braunau, in Austria, nell'aprile del 1889, da una famiglia modesta: il padre era impiegato alle dogane e aveva immaginato per il figlio un avvenire simile al suo. Ma il nostro si sentiva attratto dall'arte e dall'architettura. Alla morte del padre, a soli diciotto anni, ha tentato senza successo di frequentare la prestigiosa Accademia delle belle arti di Vienna. Nel 1914, ai primi fuochi del conflitto, si è arruolato volontario in un reggimento bavarese, dove si è distinto per spirito di sacrificio e alcuni atti di eroismo. È stato ferito due volte, la prima nella battaglia della Somme e la seconda a Ypres dove, a causa dei gas urticanti, ha rischiato di perdere la vista. Per questo è stato promosso sul campo al grado di caporale e decorato per due volte al valore. Al momento dell'armistizio si trovava nell'ospedale di Pasewalk e, una volta dimesso, ha deciso di rimanere nell'esercito ed è stato assegnato qui, a Monaco. Ha fornito preziose informazioni sui responsabili dei moti bolscevichi. Recentemente è stato promosso all'ufficio stampa e informazioni del reparto politico del comando militare. Anton Drexler mi ha detto che sa anche parlare in pubblico. Credo sia davvero da tenere d'occhio.» «In realtà... nel corso del nostro incontro mi è sembrato... diciamo così... un po' grezzo e impacciato», disse von Sebottendorff, osservando Eckart da dietro gli occhialini a pinza. «Non mi preoccuperei di questo», disse Eckart. «Sarà mio compito quello di istruirlo alle buone maniere...» Nel suo sguardo brillava la luce del fanatismo. Sdraiato sulla branda, il caporale Adolf Hitler stava leggendo l'opuscolo che gli aveva dato Drexler nel corso della riunione nella birreria. Era intitolato Il mio risveglio politico e professava quelle idee reazionarie e antisemite che egli sentiva come proprie. Si disse compiaciuto che molti in Germania fossero convinti che dietro ogni movimento popolare e di lavoratori si celasse un covo di comunisti e bolscevichi. «C'è posta per voi, signor caporale.» La giovane recluta interruppe quella piacevole lettura. Hitler si alzò dalla branda e aprì il plico. Vi trovò la tessera numero 555 di iscrizione al DAP, Deutsche Arbeiterpartei, e un invito a partecipare a una riunione del Partito. Ma l'intima soddisfazione per quel riconoscimento fu mitigata dal disappunto di essere stato iscritto senza che qualcuno si fosse preso la briga di chiedere almeno il suo parere. Fu quindi più per portare le proprie rimostranze che per autentico inte-
resse che Hitler si recò nell'osteria alla periferia di Monaco, dove avevano sede le assemblee. Ma, una volta raggiunti i partecipanti, che non erano più di un centinaio, il dibattito lo coinvolse a tal punto che il suo entusiasmo non scemò neppure quando venne a conoscenza della modesta entità del fondo cassa dell'associazione: sette marchi e cinquanta centesimi. Lo sguardo di un uomo, dinanzi a lui, catturò la sua attenzione. Non riconobbe subito quel signore elegante seduto in disparte, al quale tutti si rivolgevano con grande rispetto. Alla fine dell'assemblea uno sconosciuto si fece vicino a Hitler. Aveva il volto sfigurato, privo della parte superiore del naso. Sicuramente a causa di una ferita di guerra. «Permettete che mi presenti, caporale Hitler. Sono il capitano Röhm, Ernst Röhm. Credo che voi abbiate già incontrato il nostro iscritto Dietrich Eckart.» Hitler ricordò la sera nella birreria e i suoi occhi incrociarono quelli magnetici dell'uomo. Eckart, dopo averlo scrutato a lungo, tradì un'espressione soddisfatta. Da parte sua, il caporale Hitler si sentì attratto da quello sguardo penetrante e un irrefrenabile brivido di esaltazione gli percorse la schiena. Dietrich Eckart ostentava un paio di folti baffi neri che contrastavano con la calvizie del capo. Nulla era degno di nota nel suo aspetto fisico, ma in lui c'era qualcosa che sapeva catalizzare l'attenzione di ogni platea anche quando calcava il palcoscenico come poeta e attore, attività nelle quali, però, alternava momenti di successo ad altri meno fortunati. Aveva fama di essere un cultore di esoterismo e il creatore di quelle sette che egli stesso presiedeva in gran segreto. I capi della Thule lo trattavano con rispetto e con una sorta di timore reverenziale. Eckart era stato contagiato, come molti suoi contemporanei, dalla passione per le scienze occulte che erano arrivate in Europa da oltreoceano. Erano state le sorelle Kate, Margaret e Leah Fox, vissute nella seconda metà del XIX secolo a Hydesville, le prime ad aver annunciato al mondo di poter comunicare con l'aldilà. Sull'onda di questo entusiasmo per l'ultraterreno, anche in Germania erano nate molte sette che si rifacevano ad antichi rituali e che idolatravano oggetti sacri dai misteriosi poteri. Di una di queste società segrete era a capo un certo Hermann Pohl.
L'Ordine dei cavalieri teutonici e del Santo Graal si rifaceva agli schemi della più ortodossa massoneria e ai Rosacroce, il leggendario ordine segreto nato nel XV secolo per volere di un monaco tedesco, Kristian Rosenkreutz, esperto di arti magiche. L'Ordine dei cavalieri teutonici e del Santo Graal aveva avuto, comunque, vita breve: tre anni dopo la sua nascita, data l'amicizia tra i fondatori delle due distinte società, era confluito nella neonata Thule. Pohl e un misterioso personaggio che rispondeva al nome di Wiligut erano diventati presto tra i più assidui compagni di Dietrich Eckart e insieme a lui si erano ritrovati più volte a discutere su quel caporale che sembrava avere un aspetto insignificante e modi tutt'altro che signorili. «Vi assicuro che in breve dovrete ricredervi, miei buoni amici. Lui suonerà e ballerà, ma sappiate che sarò stato io a comporre la musica», sosteneva Eckart. I suoi occhi erano due sottili fessure, eppure emettevano lampi di luce. Nel salotto della casa di Eckart aleggiava quell'odore di cera mista a polvere che solo i mobili vecchi sono capaci di diffondere nell'aria. Lì il maestro impartiva all'allievo le sue lezioni. «Voi, signor Hitler», disse Eckart rivolto al suo attento scolaro, «dovete imparare a suscitare nei vostri ascoltatori quelle sensazioni che loro si aspettano. Dovete infondere in chi vi ascolta i vostri sentimenti o rendere vostri i loro e perorarli con toni fermi e irremovibili. Solo così potrete essere il padrone delle emozioni che susciterete. Che voi le condividiate o meno... è irrilevante.» «Così facendo», obiettò l'allievo, «dovrei mentire spesso.» «Chiunque sia in procinto di candidarsi a capo di qualunque cosa deve essere capace di mentire, sempre ammesso che ciò sia utile al suo scopo.» Dietrich Eckart stava preparando Adolf Hitler ad affrontare la Storia. Sua eccellenza Eugenio Pacelli ebbe la percezione che un soffio di vento gelido lo stesse investendo, e un incontrollabile fremito di paura lo costrinse a inginocchiarsi dinanzi all'altare. Aveva provato spesso quella sensazione dopo il giorno in cui, alcuni mesi prima, i rivoluzionari bolscevichi avevano fatto irruzione nella caserma del 2° Reggimento di Fanteria. Per fortuna un soldato gli aveva indicato un passaggio segreto attraverso il quale era riuscito ad abbandonare la caserma. Lungo il percorso si era imbattuto in un sottufficiale che, come
lui, stava fuggendo dall'edificio. Hiller o Hitler, si chiamava: la lingua tedesca, a due anni dalla sua investitura a nunzio apostolico in Baviera, gli era ancora ostica e comprenderne le sfumature gli era ancora impossibile. Una cosa aveva colpito Pacelli nello sguardo di quel caporale: le sue pupille sembravano cerchiate da un sinistro alone rosso vivo. Il fatto gli era rimasto talmente impresso che, tempo dopo, aveva chiesto lumi a un conoscente medico. «Credo si tratti degli effetti dei gas tossici usati nel corso dell'ultima guerra. Chi ha avuto la fortuna di sopravvivere all'iprite è condannato a portarne i segni per sempre: la presenza di un'ombra arrossata nell'occhio o addirittura nell'iride è una di quelle indelebili tracce», gli aveva risposto il medico. Chissà perché ora il nunzio apostolico si ritrovava a pensare a quell'episodio. La sorte lo aveva accomunato a un militare, alla persona che, assieme a lui, i rivoluzionari cercavano all'interno della caserma. I filobolscevichi avevano fatto irruzione con le armi in pugno. La sorte aveva voluto che non fossero riusciti a trovarli: altrimenti quasi di sicuro li avrebbero passati per le armi. Da allora, sua eccellenza Pacelli aveva sentito spesso quel brivido di morte lungo la schiena e ogni volta era stata la preghiera l'unica medicina in grado di placare l'ansia. Ma l'arcivescovo aveva la sensazione che il suo Dio lo avesse lasciato solo. E forse non aveva torto. Se Dio, un Dio buono e misericordioso, avesse condiviso e accolto i suoi timori, tutto ciò che da quel giorno accadde non sarebbe mai successo. 5 Teheran, 2006 Parviz Fattah, ministro iraniano per l'Energia, aveva appena confermato alla nazione l'annuncio che aveva fatto tremare il mondo intero. L'immensa platea si era alzata gridando parole d'entusiasmo mentre, con toni enfatici, Parviz Fattah aveva assicurato che, entro sei mesi, avrebbe dato inizio ai lavori per la costruzione di una nuova centrale nucleare alimentata a uranio arricchito. Anche l'ayatollah Gholam Pashelvi, presidente dell'Organizzazione per lo Sviluppo delle fonti energetiche alternative e autorevole membro della direzione del Partito della rivoluzione islamica, applaudì.
Gholam Pashelvi era un uomo non comune che all'intelligenza univa un autocontrollo e una freddezza senza eguali. Molti in Iran lo avrebbero voluto marja'iya, vale a dire leader religioso sciita. Ma i sogni di Pashelvi andavano oltre, molto più in alto, e le sue mire erano conosciute soltanto da una ristretta cerchia di fedelissimi. Pashelvi continuò ad applaudire, mentre i suoi occhi scrutavano il palco presidenziale. Il presidente Mahmoud Tahrjani si avvicinò al leggio: l'importanza di ciò che stava per dire era sottolineata dalla presenza di una trentina di microfoni delle maggiori emittenti televisive del mondo, posti poco distanti dalla sua bocca. Alle spalle del presidente si stagliava il complesso della moschea dell'imam Reza con le sue cupole turchesi e con i giganteschi porticati profilati di pietra bianca. «Il mio Paese, il nostro Paese, non si piegherà al volere degli imperialisti che mirano a farlo apparire solo come uno Stato in via di sviluppo, soggiogato dalle costrizioni e dagli obblighi imposti proprio da coloro che ritengono di essere la bilancia del mondo. Noi, di fronte a tanta prevaricazione, sapremo come reagire e useremo ogni arma in nostro possesso...» Gholam Pashelvi sorrise compiaciuto: sembrava che fosse l'unico a non farsi trasportare dall'entusiasmo che lo circondava. Era trascorso poco più di un mese dall'inizio dell'anno iraniano, incominciato il 21 marzo. Gli occhi neri di Pashelvi si fissarono in quelli del presidente della Repubblica islamica dell'Iran. «Non sopravvivrai per vedere l'avvento di un nuovo anno...» pensò Pashelvi continuando ad applaudire. Chiunque lo avesse accusato di doppiogiochismo avrebbe peccato di superficialità. Washington, 2006 La riunione era tenuta da quelli che in gergo vengono chiamati «filtri»: in caso di fallimento di un'operazione segreta, il loro coinvolgimento avrebbe garantito una copertura ai veri mandanti e avrebbe reso impossibile risalire a chi aveva ordito la congiura. Le due persone sedute ai lati opposti del tavolo erano ai vertici delle gerarchie governative e, se quelli erano i «filtri», si poteva facilmente intuire chi si trovasse dietro a ogni decisione che sarebbe stata presa nel corso di quell'incontro.
«Dobbiamo fermarlo a tutti i costi», disse Phil Damiano, direttore della CIA. «Anche a costo di usare i sistemi delle amministrazioni degli anni '60, sempre pronte a sovvertire i regimi scomodi?» chiese l'uomo che gli era accanto. Era vestito in borghese, ma sembrava che avesse la divisa cucita addosso e da ogni gesto si intuiva la sua attitudine al comando. «Il presidente non ha posto limiti: la minaccia deve essere evitata a qualsiasi costo», ribadì il primo. «Senza contare che la macchina è già in moto e che sono state gettate le basi per sovvertire il potere iraniano e collocare persone a noi fedeli al posto dell'attuale establishment, generale...» «I comandanti di alcuni corpi scelti sono già dalla nostra parte. Possiamo contare sul venticinque, trenta per cento del totale delle forze armate iraniane, ma dubito che riusciremo a incrementare questa percentuale. Anzi, dobbiamo considerare il rischio che gli uomini vicini al presidente subodorino qualche cosa e procedano a destituire i sospettati... È necessario che meno persone possibili sappiano che ci saremo noi dietro alla faccenda, altrimenti...» disse il generale Edward Corrige, capo dell'ufficio Affari esteri del dipartimento della Difesa statunitense. Il militare era ormai prossimo alla pensione per raggiunti limiti di età, ma aveva ancora il piglio di un uomo vigoroso e scaltro. «...altrimenti l'intero nostro progetto sfumerebbe...» Il direttore della CIA concluse la frase. Una fresca aria di primavera spazzava le ampie vie di Washington con folate improvvise e vorticose. E vorticosi erano anche i pensieri di Phil Damiano, da poco più di due anni direttore della Central Intelligence Agency. «Questi continui tira e molla rischiano di scontentare l'opinione pubblica. E voi tutti sapete quanto sia importante per lui il favore della gente.» L'accordo era di non nominare mai espressamente il presidente nel corso di quelle riunioni «parallele». «È vero, signor Damiano», disse il generale Corrige. «Inoltre, con il suo discorso all'Assemblea delle Nazioni unite, il presidente iraniano Tahrjani ha cercato di convincere il mondo intero che la loro produzione di uranio arricchito sarà indirizzata solo a scopi civili.» «Inoltre va detto che gli americani, o meglio, tutti gli occidentali non hanno alcuna intenzione di andarsi a cacciare in una nuova guerra 'preventiva'», proseguì Damiano. «L'Iraq purtroppo è servito d'esempio...» «A ogni modo, quel che è stato è stato», tagliò corto l'alto ufficiale a cui
non piaceva che venisse tirata in ballo l'opportunità di quella guerra senza fine e senza senso, «dobbiamo agire in fretta. Da poche ore Tahrjani ha furbescamente ribadito la sua disponibilità al dialogo. Peccato abbia anche sottolineato che non ha nessuna intenzione di arrestare la produzione di uranio. Mentre tende una mano all'Occidente, con l'altra lui e i suoi fratelli stanno creando dal nulla una potenza nucleare nel cuore di una delle aree più instabili del Medio Oriente. Non possiamo fidarci di lui. Il governo non può imbarcarsi in una nuova crociata, comunque la si voglia pensare sull'opportunità del fronte iracheno. Questa volta dovremo fare in modo di ripararci dietro ad apparenti magagne interne al regime iraniano. Gli Stati Uniti rivestiranno il ruolo di silenti osservatori. Senza colpo ferire e senza apparire direttamente coinvolti, riusciremo a liberarci di un Paese canaglia e di un presidente altrettanto canaglia.» Corrige, Damiano ne era convinto, voleva ritirarsi a vita privata non prima di essersi preso il merito di un'azione eclatante. «È vero», convenne Phil Damiano. «È giunto il momento di fermarlo.» Teheran, 2006 Gholam Pashelvi salutò con la mano tesa la folla: mancavano poche ore all'annuncio delle sanzioni ONU al suo Paese. Il presidente iraniano precedette Pashelvi verso il cunicolo che li avrebbe condotti dalla residenza presidenziale sino alla Mercedes blindata che li stava aspettando nel cortile. Tahrjani salì per primo. L'ayatollah Pashelvi lo seguì. Una guardia del corpo era seduta sul sedile anteriore, accanto all'autista. Quindi la vettura si mosse, seguita dal piccolo corteo della scorta: i nemici del presidente della Repubblica islamica erano tanti e le precauzioni non erano mai troppe quando si trattava di preservare la sua incolumità. Ma quel giorno si rivelarono del tutto insufficienti a sventare la minaccia che veniva da uno tra i più stretti collaboratori del premier. Appena la guardia del corpo si voltò verso i sedili posteriori, Tahrjani si rese conto che questi impugnava una pistola. «Che cosa stai facendo, Dekel?» gli chiese il presidente incredulo. Intanto nell'altra mano di Dekel era comparsa una piccola siringa da insulina. L'uomo conficcò l'ago nella coscia del presidente, quindi spinse a fondo lo stantuffo. In un attimo gli occhi di Tahrjani si velarono e, pur rimanendo aperti, persero ogni vitalità. «Sei sicuro della dose, Dekel?» chiese Pashelvi con la consueta glaciale
impassibilità. «Non dobbiamo correre il rischio di ucciderlo: un martire può scardinare anche la più affidabile delle alleanze. Un pavido, invece, perde ogni credibilità anche per il più fedele tra i suoi seguaci.» La Mercedes con a bordo l'ayatollah e il presidente si diresse verso la periferia meridionale di Teheran dove, in un piccolo aeroporto, un jet executive era ad attendere il corteo. Ma quell'aereo non si sarebbe mai staccato dal suolo: faceva anch'esso parte di un diabolico set mediatico partorito dalla fervida mente di Gholam Pashelvi. Washington, 2006 Phil Damiano teneva nella mano destra il telecomando del televisore al plasma che troneggiava in un angolo del suo studio. Improvvisamente tutti i canali del network iraniano Irib si oscurarono per qualche istante. Quindi apparve l'immagine di Gholam Pashelvi che, con il volto contratto dall'ansia, diede notizia al popolo iraniano di ciò che era accaduto poche ore prima. Le immagini che presero a scorrere confermarono quanto l'ayatollah andava dicendo. «Il vostro, il nostro presidente, ha tradito la fede che il fiero popolo iraniano aveva riposto in lui. Lusingato dalle promesse degli occidentali, Tahrjani ha lasciato il Paese poche ore or sono, a bordo di un aereo privato che è decollato verso una destinazione sconosciuta.» Le immagini, sia pure riprese da lontano, non impedivano di riconoscere il presidente iraniano che, protetto dalle sue guardie del corpo, saliva la scaletta di un piccolo jet. «In un momento delicato come questo», proseguiva quindi l'ayatollah Pashelvi, «il nostro Stato ha bisogno di una guida. Per volere di Dio, grande e misericordioso, e del Consiglio dei guardiani della Rivoluzione islamica assumo la guida del mio Paese e giuro solennemente che servirò l'Iran secondo la via che Dio, pace e misericordia su di lui, avrà tracciato.» Pashelvi pronunciò quelle ultime parole con le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti verso il cielo. Sul palmo della mano aperta batté invece il pugno il generale Corrige: «Bingo!» esclamò il militare trionfante. «Questa volta abbiamo centrato l'obiettivo con poche e sapienti mosse.» Quelle «poche e sapienti mosse», avrebbe voluto rispondere Damiano,
erano già costate diversi milioni di dollari agli ignari contribuenti americani. Gholam Pashelvi aveva goduto di quel genere di appoggi che solamente le organizzazioni segrete del governo americano sono capaci di offrire. E proprio grazie a quegli appoggi adesso era a capo del più pericoloso Stato canaglia dell'intero scacchiere mediorientale. Ora dipendeva dalla magnanimità di Pashelvi trovare il modo di sdebitarsi con i solerti servitori dello Zio Sam. Roma, 2006 «Il destino ha già compiuto il suo corso e nessun nostro intervento, a questo punto, sarà più capace di mutarlo.» Sara Terracini ripeté ad alta voce le parole con cui Oswald si era congedato alcuni giorni addietro, lasciando nelle sue mani l'agenda appartenuta a Luca Raso, giornalista del settimanale Documento, scomparso nella tarda primavera del 1976 mentre sorvolava la foresta amazzonica a bordo di un aereo da turismo. Sara ne aveva trascritto le prime pagine e adesso si accingeva a inviarle a Breil. Il lavoro era proseguito grazie ai sofisticati programmi con cui erano equipaggiati i computer del laboratorio e non le era costato eccessiva fatica. La forma crittografica utilizzata dal giornalista era piuttosto semplice ma efficace: sulla base di una già ostica scrittura stenografica, venivano applicate alcune variabili che rendevano pressoché impossibile la lettura a chi non avesse individuato la chiave per scardinare il sistema. I computer di Sara ci avevano messo pochi minuti per farlo. Doveva comunque riconoscere che, ancora una volta, Oswald aveva ragione. Quelle vicende, a differenza di altre delle quali si era occupata per conto di Breil, sembrava avessero ormai concluso il loro ciclo di vita: appartenevano solamente al passato. E, inoltre, sembrava assai difficile provare la veridicità dei fatti trascritti da Raso sulla sua agenda: i protagonisti di quella storia erano probabilmente tutti morti da anni. «Al lavoro, dottoressa Terracini! Diamo al racconto l'aspetto di una cronaca. Oswald dice che questo è il primo passo per 'capire'. Sicuramente il 'capire senza fantasticare' del dottor Breil ne trarrà beneficio... Accidenti a te, Oswald Breil! Dovrò aggiungere alla lunga lista di grane che mi hai rifilato anche questo nuovo lavoro non retribuito.» Parlando tra sé come spesso faceva quando lavorava da sola, Sara si passò la mano tra i capelli scuri, attese che il computer si avviasse, quindi si
morse il labbro superiore e le dita cominciarono a correre veloci sulla tastiera. Dall'Agenda di Luca Raso, Rio de Janeiro, 4 maggio 1976 I quattro reattori Pratt & Whitney del Mac Donnell Douglas DC8 della Varig Airlines stavano ancora emettendo un potente sibilo, quando la berlina nera si è affiancata al nostro aereo appena atterrato dal volo transcontinentale. La Cadillac 75 si è disposta parallela all'aeromobile. I primi passeggeri stavano già camminando sull'asfalto rovente dell'area aeroportuale di sosta. Ho capito subito che l'autista doveva conoscere bene la mia fisionomia. Alla Neumann Corporation nulla veniva lasciato al caso e il giorno precedente gli erano state probabilmente consegnate alcune mie fotografie. Per questo deve avermi individuato senza difficoltà tra i viaggiatori che si dirigevano verso il bus. «Il dottor Luca Raso?» mi ha chiesto, invitandomi a seguirlo verso la limousine. Quindi ha aperto lo sportello posteriore con un gesto enfatico e cerimonioso. Impossibile non riconoscere il marchio di un impero economico noto ovunque nel mondo: l'amazzone stilizzata, simbolo della Neumann Corporation, si stagliava al centro dello sportello, impressa in oro sulla vernice nera della Cadillac. L'auto si è diretta verso una pista secondaria e lì siamo stati raggiunti da un addetto che trasportava a mano il mio borsone da viaggio: gli ospiti della Neumann non devono perdere tempo con le consuete pratiche di sbarco. Sulla pista ci attendeva un aereo privato. Non appena il bagaglio è stato caricato, il bimotore Piper PA31 Navajo ha iniziato le operazioni di rullaggio. «Si allacci la cintura, signore: stiamo per decollare», ha detto in un inglese impeccabile il pilota, indicando il divanetto posto a ridosso dei due sedili anteriori. «Ci aspettano quasi otto ore di volo, inclusa una breve sosta per il rifornimento. Si metta comodo, signore.» Così dicendo ha spinto le manette sino a che i due motori Lycoming non hanno raggiunto il massimo dei giri. Quindi ha tolto i fieni e manovrato i flap per aumentare la portanza del velivolo. In breve volavamo nell'aria densa di umidità di una calda giornata tropicale.
Ho chiesto che media di velocità avremmo tenuto. «Centonovanta nodi, circa trecentocinquanta chilometri all'ora», mi ha risposto il pilota. «Significa che dovremo percorrere duemila e ottocento chilometri?» «Sì, più o meno, signore. E per l'ultima ora e mezzo, entrati nel distretto di Santarém, sorvoleremo i possedimenti del signor Neumann. Se vuole sedersi qui in cabina di pilotaggio, signore... Si gode un panorama migliore che dagli oblò della carlinga.» Il pilota era un giovane di poco più di vent'anni e mi e sembrato cordiale e simpatico. Si chiama Jacinto, ma tutti lo chiamano Jaco. Aveva un sorriso aperto e piacevole. Gli occhi azzurri risaltavano sulla carnagione resa scura dall'esposizione al sole brasiliano. Mi sono seduto alla sua destra e, allacciata nuovamente la cintura, mi sono apprestato a osservare dall'alto quel Paese tanto bello quanto sconfinato e sconosciuto. Jaco è stato un buon compagno di viaggio e un perfetto cicerone, oltre che un pilota esperto e sicuro. Abbiamo sorvolato meravigliosi scorci di foresta amazzonica e siamo scesi a bassa quota su villaggi indios, immersi in un'impenetrabile vegetazione. Abbiamo seguito il corso di fiumi limacciosi, quasi abbagliati dallo splendore del verde della foresta tutto intorno. «Ecco, laggiù, dottor Raso!» mi ha detto Jaco indicando una radura molto vasta all'orizzonte. «Quella è la capitale della Neumann Corporation.» Non appena la distanza me lo ha consentito, ho messo mano all'inseparabile Leica e ho incominciato a scattare fotografie. «La prego, Jaco. Potrebbe fare ancora un altro giro prima di atterrare?» Sotto di noi è comparso un piccolo, ma moderno aeroporto. Parcheggiati in bell'ordine si vedevano un aereo uguale a quello sul quale stavamo viaggiando, un elicottero da turismo, un monoelica e un bireattore Caravelle. Tutta la flotta ha in comune il colore nero della fusoliera e i fregi dorati che, nella coda e sulle ali, assumono la forma del marchio con l'amazzone stilizzata.
A poca distanza dall'aeroporto si estendeva una vera e propria cittadina, composta di palazzi e villette e percorsa da una rete ordinata di strade. «Adesso scendiamo», ha detto Jaco. «Non vorrei che il mio superiore avesse da dire qualcosa perché ho sorvolato la Neumann senza preventiva autorizzazione.» Jaco aveva assunto un'aria scanzonata, mentre la prora del Piper puntava risoluta verso la pista di atterraggio. «Vedo, signor Raso, che non ha prestato molta attenzione a quanto le si raccomandava nel telegramma di accettazione dell'intervista.» Una donna bionda, infagottata in una divisa color kaki di foggia militare, indicava la Leica che portavo al collo. «Chiedo scusa, signorina Agnes. Mi sono lasciato prendere la mano dall'entusiasmo per la maestosità della sede della Neumann», le ho risposto dopo aver sbirciato la targhetta di riconoscimento che portava appuntata sul taschino. «Ag-nes», mi ha corretto lei, pronunciando il suo nome alla maniera teutonica. «Mi chiamo Ag-nes Weiczen e sono l'assistente personale del signor Neumann. Sarà mio compito rendere il suo soggiorno presso di noi quanto più confortevole possibile. Nel frattempo, se vuole consegnarmi la macchina fotografica, provvederemo a sviluppare le fotografie nei nostri laboratori e gliele riconsegneremo. La prego comunque, da questo momento in poi, di attenersi scrupolosamente alle istruzioni che le sono state e che le saranno impartite.» 6 Età dei Metalli, II millennio a.C. Il dolore al capo era insopportabile. Athor provò a portare le mani alla testa, ma si accorse che erano legate a un robusto palo conficcato nel terreno. Si trovava all'interno di una capanna la cui oscurità era rotta dai fasci di luce che penetravano attraverso la paglia secca del tetto. Lentamente riuscì a fare ordine nei suoi pensieri. Ricordò il furore cieco con cui stava per uccidere il perfido Karesh. Ricordò il corpo caldo e morbido di Dehal. Ricordò l'espressione malvagia di Karesh, mentre affondava la lama nel collo di suo padre.
Probabilmente uno dei davaar lo aveva colto alle spalle quando aveva ormai ridotto all'impotenza il loro capo. Athor sapeva che la sua prigionia non sarebbe durata a lungo: nessun uomo catturato dai davaar era mai tornato al suo villaggio. E aveva sentito dire che i davaar si cibavano del cuore e del cervello dei loro nemici. Se quella era la fine a cui era destinato, sarebbe morto con onore. Come con onore era morto suo padre Sar. Poi pensò con amarezza che non avrebbe mai avuto modo di diventare un buon capo e un sommo sacerdote. Ricordava bene ciò che aveva visto e che aveva scatenato la sua ira cieca: Karesh che si dimenava sopra a Dehal e la giovane che gridava disperata. Chissà dov'era adesso, Dehal? Sperò con tutto il cuore che fosse riuscita a sfuggire alla brutalità dei davaar. La porta della capanna si aprì e il sole inondò l'interno. Athor strinse gli occhi e vide una figura stagliarsi contro il bagliore che proveniva da fuori. «Sarà un piacere, per me», disse Karesh, «mangiare il tuo cuore mentre ancora palpita. Ma sarai l'ultimo a morire, Athor: voglio che prima tu veda con i tuoi occhi ciò che ti capiterà. Portatelo fuori!» ordinò agli uomini che lo avevano seguito. Dehal era seduta nei pressi della capanna più grande, quella destinata al capo. Per fortuna, Karesh non aveva più cercato di abusare di lei e si era limitato a comunicarle i suoi sadici intenti: appena terminati i sacrifici, l'avrebbe presa in moglie. Dehal si sentiva perduta. Piuttosto che giacere con Karesh avrebbe preferito morire. I davaar si erano disposti in cerchio. Le donne, trattate come schiave ma preziose quanto le armi di ferro, si trovavano al centro. Poco distante ardeva una pira di legna secca. Il rito si svolgeva in una radura dalla forma concava i cui confini erano segnati da una fila di capanne costruite al limite dello spiazzo. Il villaggio vero e proprio, protetto da una solida palizzata, sorgeva poco lontano. Sul lato opposto al villaggio, la radura era delimitata da un profondo baratro ai piedi del quale scorreva il fiume. Athor, legato, passò tra due ali di nemici urlanti. Quando il migos giunse vicino alla pira ardente venne fatto sedere insieme agli altri prigionieri. Probabilmente erano stati catturati durante l'assalto. Fu Karesh, che per primo soffiò con forza nel suo fischietto d'osso, a da-
re il segnale. Lo strumento emise un sibilo lacerante. Quindi ciascun guerriero portò alla bocca il proprio fischietto. Il suono, dirompente, salì al cielo, simile al grido degli avvoltoi in caccia. Molti dei prigionieri, assordati, scuotevano la testa come impazziti: le corde impedivano loro di portarsi le mani alle orecchie. In un primo momento non si resero conto di quello che stava per succedere. Karesh aveva il volto coperto da una lugubre maschera di corteccia di quercia dipinta con un colore scuro che contrastava con il bianco con cui erano sottolineate le aperture degli occhi e della bocca. Si avvicinò ai prigionieri. Il coltello sacrificale comparve nella sua mano, nell'istante in cui un nuovo sibilo si levò al cielo. E dal cielo l'arma scese come un baleno, recidendo di netto la giugulare del primo malcapitato. Athor, in preda all'ira, non poteva far altro che assistere impotente al supplizio della sua gente. «Aspetta, figlio del re dei migos... anzi, re dei migos, dato che ho appena ammazzato tuo padre. Non è il momento di distogliere lo sguardo: il bello deve ancora venire.» Brandendo il coltello, il davaar si fece di nuovo vicino al primo prigioniero che, ormai prossimo alla morte per dissanguamento, lo guardava atterrito. Con un sol colpo Karesh gli procurò un taglio dall'ombelico allo sterno. La mano del capo dei davaar si insinuò tra le labbra sanguinolente della ferita, salendo sino al cuore. Lo strinse tra le dita che palpitava, quindi lo strappò dal corpo della vittima che fu scossa dalle convulsioni, e infine ne recise vene e arterie. Karesh si tolse la maschera, sollevò il macabro trofeo e, prima di addentarlo con voracità, lo mostrò ai suoi uomini. Quello fu il segnale: due davaar si posero ciascuno di fronte a un prigioniero e ripeterono il terribile rito a cui avevano appena assistito. Il resto degli uomini della tribù emetteva grida stridule, danzando in preda a una frenesia convulsa. I cuori dei condannati vennero ridotti in piccoli pezzi e tutti i davaar ne ricevettero uno. Dehal nel frattempo era stata condotta all'interno del cerchio e fatta sedere tra l'uomo che amava, sul punto di essere giustiziato in quella maniera crudele, e il vile che aveva abusato di lei. I suoi occhi disperati incrociarono per un istante quelli di Athor, quindi Karesh le si avvicinò, grondante del sangue del prigioniero.
«Mangia, donna», disse il davaar mettendole ciò che restava del cuore dell'uomo davanti alla bocca. «Mangia e ti verrà concesso il privilegio di diventare una di noi. O preferisci il cuore del tuo re?» Così dicendo Karesh portò la mano al fianco, dove aveva riposto il coltello. Ma il guerriero aveva sottovalutato le doti della giovane donna che aveva davanti: Dehal era cresciuta insieme ad Athor e lui le aveva insegnato a difendersi e a lottare. Come un uomo. Con un guizzo fulmineo Dehal riuscì a lanciarsi sull'arma e volgerla contro la gola del suo aguzzino. «Adesso mi farai strada verso la salvezza, Karesh, altrimenti morirai con me.» I davaar smisero di ballare e rimasero a guardare con espressione incredula il loro capo in balia di una donna armata e furiosa. «Ordina a tutti i tuoi di risalire sino alle capanne e digli che se non ubbidiranno tu morirai.» Karesh assentì. Sapeva che la giovane non avrebbe esitato a fargli fare la stessa fine del prigioniero che aveva appena sgozzato. «Adesso liberalo!» ordinò Dehal indicando Athor e premendo il coltello sulla gola dell'uomo. Ma Karesh aveva combattuto nemici ben più temibili di una giovane donna, per quanto determinata e forte potesse essere. Dopo il primo attimo di sbandamento, con una torsione del busto si liberò dalla minaccia della lama, quindi tentò di afferrare Dehal mentre questa si ritraeva fendendo l'aria con il coltello. Non appena i davaar videro che il loro capo era riuscito a liberarsi, presero a correre nuovamente verso il centro dello spiazzo dei sacrifici. Dehal capì di essere spacciata. Non le restava che la fuga. Prese a correre nella direzione opposta a quella dalla quale provenivano i guerrieri. Lo strapiombo le si parò davanti, ma ormai niente l'avrebbe fermata: si dette lo slancio e si gettò nel vuoto. I suoi inseguitori si fermarono sull'orlo del precipizio: nessuno era mai riuscito a sopravvivere a quella caduta. «È inutile seguire il suo esempio. Restate fermi, miei uomini.» Karesh parlò a voce alta, assicurandosi che Athor riuscisse a sentirlo. «Scenderemo a valle e ci fermeremo poco dopo le rapide: vedrete che in breve il fiume ci restituirà il corpo.» Alcuni guerrieri si misero in marcia: il cammino era lungo e impervio. Ma i davaar non sapevano nuotare e qualsiasi altro percorso sarebbe stato meglio di un bagno nelle gelide acque del fiume.
«La tua amata ha preferito il suicidio alla vita che le avrei offerto tra la mia gente...» disse Karesh rivolto ad Athor che, impotente, aveva osservato la scena. «Poco male. Troverò altre compagne meno riottose tra le vostre donne. Alle prime luci dell'alba attaccheremo di nuovo il tuo villaggio. Per questo non ti ucciderò subito, ma lo farò quando sarò tornato vittorioso. La tua morte mi farà l'unico sovrano dei migos.» Dehal aveva trattenuto il fiato sino a che le era sembrato che i polmoni stessero per esploderle nel petto. La caduta era stata interminabile. Nel salto aveva mulinato con le braccia per mantenersi in posizione verticale e aveva visto il letto del fiume farsi sempre più vicino. L'impatto era stato violentissimo, come se l'acqua fosse stata una superficie solida. Per fortuna era riuscita a tenere le gambe rigide e serrate. Quindi l'acqua si richiuse schiumando sul suo capo mentre lei raggiungeva il fondo melmoso del fiume. Con i piedi si diede uno slancio verso l'alto. Nell'acqua torbida e scura, Dehal scelse un percorso obliquo: doveva riemergere il più lontano possibile dalla vista di Karesh e di quei cannibali assassini. Nuotò con foga, ma la massa d'acqua che la sovrastava sembrava non avere fine e lei ormai aveva un disperato bisogno di aria. Le tornarono alla mente le mille volte che lei e Athor si erano sfidati a raggiungere il fondo del fiume: erano entrambi ottimi nuotatori. Le mani protese urtarono la superficie levigata di uno scoglio. Con l'ultima riserva d'aria aggirò la roccia, emergendo al riparo dalla vista di chiunque fosse sull'altra sponda. Scorse i davaar assiepati lungo il precipizio in attesa di vederla riaffiorare, ma lo scoglio la nascondeva ai loro occhi. Abbracciata allo sperone, Dehal avrebbe voluto fermarsi a riprendere fiato, ma la forte corrente presente in quel punto la trascinò via. «Meglio», pensò, «così mi allontano dalla minaccia.» Appena un tronco galleggiante le passò di fianco vi si aggrappò: le avrebbe consentito di navigare verso la salvezza senza sprecare troppe forze. Il rombo minaccioso giunse improvviso alle sue orecchie. Tra spruzzi d'acqua e mulinelli vorticosi si ritrovò ancora nel vuoto; precipitò lungo la cascata aggrappata ai rami del tronco. Perse la presa e fu risucchiata dalla corrente, in totale balia delle rapide. Sapeva che presto le energie l'avrebbero abbandonata e che non sarebbe più potuta uscire dal vortice formato dalla cascata. Athor le aveva sempre
detto che quello sarebbe stato l'incidente più pericoloso che sarebbe potuto capitare a un nuotatore: in quei violenti mulinelli nessuno poteva farcela da solo. Le potenti correnti che governano l'acqua avrebbero spinto chiunque, anche il più forte degli uomini, verso il fondo, giocando col suo corpo per restituirlo dopo lungo tempo senza vita. Lo sapeva bene, Dehal. Adesso poteva solo sperare che la morte la raggiungesse in fretta. «Athor, amore mio... Chissà se sei ancora vivo... Chissà come sarebbe stato se il dio Hosh ci avesse regalato il tempo per amarci, avere una nostra vita, dei figli...» Poi perse i sensi. Fu allora che i rami del tronco le si impigliarono nella cintura di pelle di daino, come se una gigantesca mano la stesse sollevando dalle tenebre. Si ritrovò incastrata tra i rami. Il respiro fu un grido di liberazione. Si tastò braccia e gambe alla ricerca di fratture. Sentì il bruciore di alcune ferite ma capì che non dovevano essere gravi. E soprattutto era viva. I due davaar osservarono il tronco che navigava verso valle spinto dalla forza del fiume. Quindi rivolsero la loro attenzione alle rapide che, poco più a monte, ribollivano di schiuma. «Ha ragione Karesh», disse uno. «Nessuno può sopravvivere alle cascate.» Dehal si era accorta dei due nemici solo all'ultimo momento. Si era nascosta tra i rami ancora frondosi, e aveva cercato di rimanere il più possibile immersa nell'acqua. Quando vide che la stavano cercando tra i mulinelli sotto le rapide, si sentì al sicuro. La stanchezza ebbe la meglio su di lei e la giovane si abbandonò tra i rami senza più lottare. Dopo qualche ora si risvegliò da quello stato di torpore e si ritrovò nella verde insenatura dove lei e Athor si erano amati poco prima che Karesh arrivasse a stravolgere la loro esistenza. Adesso, però, doveva fare in fretta se voleva salvare la vita dell'uomo che amava. Corse attraverso la foresta in direzione del villaggio. La palizzata di legno le apparve come un miraggio. La sua gente, ancora terrorizzata dall'assalto dei davaar, stava lavorando per rinforzare la recinzione. «Sono sicura che tuo fratello è ancora vivo, Goreth. Dobbiamo fare presto», disse Dehal, quando fu al cospetto del fratellastro del suo uomo. «Cosa potremmo fare, Dehal», rispose questi, intento a sovrintendere ai
lavori della palizzata. «Noi non siamo guerrieri esperti come i davaar: attaccarli sarebbe un suicidio... Ci conviene stringere alleanze con loro, piuttosto che combatterli.» «Ma come puoi scendere a patti con chi divora il cuore dei suoi prigionieri? I davaar non si accontenteranno di nessun accordo. E noi abbiamo il dovere di tentare... Athor è tuo fratello...» «Con Athor, minore di me per età, condividevo il padre, non la madre.» «Allora dammi una decina di uomini: ho visto bene il loro villaggio e la capanna dove lo tengono prigioniero. Potrei tentare una sortita.» «No, ogni uomo mi è prezioso in questo momento. Mi dispiace, ma Athor dovrà fare senza aiuti. Non posso rischiare la vita dei nostri per quella di un solo uomo.» «Un solo uomo?» ripeté Dehal incredula. «Ti ricordo, Goreth, che quell'uomo, dal momento della morte di vostro padre, è il nostro re.» «E chi lo ha mai stabilito, donna? Io ho gli stessi diritti di Athor di diventare capo della mia gente. Anzi, sono io il primogenito, quindi sono l'erede legittimo di mio padre. Inoltre Sar non ha fatto in tempo a rivelargli il luogo in cui si trova il Tempio Segreto di Hosh e della Pietra Sacra, perciò nemmeno Athor si potrà fregiare del titolo di sommo sacerdote. Dehal, abbandona i tuoi sogni e mettiti a lavorare per rafforzare le difese come stiamo facendo tutti noi. La vita, per chi rimane, continua. E, dato che Athor non c'è più, ora devi ubbidire a me, il nuovo re dei migos.» Dehal avrebbe voluto lanciarsi contro di lui, graffiargli il volto sino a cavargli gli occhi, ma si rendeva conto che non era quella la strada se voleva salvare Athor. Si allontanò col capo chino e il cuore pieno di angoscia. «Ho sentito tutto, Dehal», disse Aker, suo padre, andandole vicino, «e non mi meraviglio per il comportamento di Goreth. Sei certa di quello che hai detto? Athor è ancora vivo?» «Non lo so, padre. La mia fuga deve avere creato non poco scompiglio nel villaggio dei davaar. Spero che abbiano sospeso i sacrifici umani. Inoltre li ho sentiti parlare di un nuovo attacco al nostro villaggio.» «Dobbiamo cercare di liberarlo: Athor è il solo degno erede di suo padre. Che cosa intendevi quando parlavi con Goreth di una sortita?» «Risalire sino al villaggio davaar lungo il costone di roccia che sovrasta il fiume è difficile, ma non impossibile...» Il suo sguardo carico di affetto si soffermò sulla gamba invalida del padre. «... Per un giovane guerriero», aggiunse.
«Non sto pensando a me, figlia mia. Io ormai sono colui che interpreta il volere di Hosh attraverso i suoi segni. È passato il tempo in cui cacciavo meglio di chiunque altro nella foresta.» Così dicendo Aker indicò la sua gamba destra. «Athor aveva molti amici tra i giovani cacciatori... Con due di loro era davvero inseparabile. Ora tu vai a riposare, ma prima dimmi che cosa avevi pensato per liberare il nostro re... Vedremo cosa fare...» «Silenzio!» ordinò Karesh. «D'ora in poi dobbiamo essere invisibili.» I davaar si nascosero nel folto della foresta. Il villaggio era poco lontano. «Dobbiamo aspettare il nostro uomo. E quando attaccheremo, questa volta i migos non riusciranno a farla franca.» I davaar fremevano con le armi in pugno: sapevano che se avessero conquistato il villaggio dei migos sarebbero diventati padroni delle loro donne. Le più belle dell'intera regione. Dehal condusse i due valorosi migos fino alla base dello sperone da cui si era gettata nel vuoto. Poi la giovane indicò ai due compagni il percorso per raggiungere il villaggio nemico: la parete era perpendicolare al suolo, ma nella roccia calcarea il vento e l'acqua avevano formato una serie di rientranze simili ai gradini di una ripidissima scala. Sarebbero saliti di lì per giungere alla sommità del promontorio. Sbucarono esausti oltre il ciglio del precipizio e si fermarono a riprendere fiato. Dehal non aveva dovuto insistere molto per partecipare alla spedizione: lei era l'unica a conoscere il villaggio dei davaar e sarebbe stata utile ai due amici di Athor. Mizda e Fet si erano resi conto ben presto che la giovane non era da meno di loro. La grande spianata dove si tenevano i sacrifici umani era deserta. I tre attesero che una nube coprisse la falce di luna e solo allora si mossero: avrebbero dovuto attraversare tutta la radura prima di raggiungere il lato su cui si trovavano le capanne, inclusa quella da cui Dehal aveva visto uscire Athor trascinato dai suoi aguzzini. «Attacchiamo, mio signore», sussurrò uno dei davaar al suo capo. «L'uomo che aspettiamo non verrà e tra poco farà giorno.» La mano di Karesh si serrò attorno alla gola del malcapitato che aveva osato dargli consigli sul da farsi. «Quando avrò bisogno del tuo parere, sarò io a chiedertelo.» Il guerriero si ritrasse spaventato.
Nel silenzio della boscaglia si udì un frusciare di passi. L'uomo avanzava veloce e guardingo. Karesh si alzò simile a una creatura delle tenebre. La sua mano sigillò la bocca del nuovo venuto, tirandogli la testa all'indietro. Il coltello del re dei davaar premette sulla carotide del forestiero. Il silenzio che regnava nel villaggio dei davaar era davvero inquietante. I tre erano a pochi passi dalle capanne e ancora non avevano scorto anima viva. Era come se un'improvvisa epidemia avesse falcidiato tutti gli abitanti e, a giudicare dai tizzoni ancora accesi nella pira al centro della piazza, la morte doveva essersi propagata con inaudita celerità. Un rumore. I tre si acquattarono sotto lo spiovente del tetto di una capanna. Improvvisamente la porta di legno si aprì e un corpulento davaar passò di fianco ai tre migos senza vederli, quindi, fatti pochi passi, scostò di lato il perizoma e si mise a orinare sopra un cespuglio. Non ebbe il tempo di accorgersi di nulla: la lama d'osso di Fet gli perforò la gola entrando da destra e uscendone a sinistra. Non un suono uscì dalla bocca dell'uomo, tranne il gorgoglio del sangue. Mizda varcò la porta lasciata socchiusa. «Hai fatto?» domandò una voce roca proveniente dall'interno. «Eppure il cuore di un maledetto migos dovrebbe incitarti a combattere, non a pisciare: è tutta la notte che non fai altro...» Quando Mizda se lo trovò davanti, si rese conto che il davaar tutto si sarebbe aspettato fuorché dover fronteggiare proprio uno di quei «maledetti migos» con il cuore ancora al suo posto. Mizda lo assalì brandendo il pugnale. Athor riconobbe il compagno, anche alla tenue luce della capanna. Avrebbe voluto andare in suo aiuto, ma i legacci lo obbligavano al ruolo di impotente spettatore. Sul suo corpo erano ben visibili i segni delle percosse subite. Mizda intanto si era avventato sul nemico prima che questi fosse riuscito a impugnare la sua arma. Il braccio possente del giovane si sollevò e ricadde col suo carico di morte al centro del petto dell'avversario. Il davaar strabuzzò gli occhi e portò le mani alla ferita. Un getto di sangue gli fuoriuscì dalla bocca insieme al suo ultimo respiro. «Stanno attaccando il nostro villaggio...» disse Athor, sostenuto dai suoi
amici d'infanzia. «Ecco perché non c'è nessuno», disse Dehal, dando da bere dell'acqua al suo re, «quasi tutti i guerrieri sono impegnati a prendere le nostre case e a catturare il nostro popolo. Dobbiamo fare in fretta e sperare che non sia troppo tardi!» Le mani di Karesh allentarono la presa e si distesero nel più antico gesto di fratellanza. Abbracciò il nuovo venuto come se si trattasse di un fratello. «Che Hosh sia con te, re dei migos!» esclamò il guerriero davaar. «Che Hosh sia con te, Karesh», rispose Goreth, il perfido fratellastro di Athor. «Ho temuto ti fosse capitato qualche imprevisto.» «No, ho solo dovuto faticare un po' per convincere gli anziani del villaggio che è molto meglio scendere a patti con il grande popolo dei davaar che combatterli armi in pugno.» «E a quale conclusione siete giunti, fratello mio?» chiese Karesh. «Che le porte del mio villaggio sono aperte per te e per la tua gente, Karesh dei davaar.» Un grido di vittoria si levò dai guerrieri che, nel frattempo, si erano radunati attorno al loro capo. A differenza dei due uomini posti a sorvegliare il prigioniero, i tre che montavano la guardia all'unica porta di accesso al villaggio sembravano molto più vigili. Athor riusciva a malapena a stare in piedi: uno scontro diretto sarebbe stato fatale per i quattro fuggitivi. L'unica via di fuga sembrava essere quella già percorsa da Dehal, ma sfidare la sorte una seconda volta poteva diventare molto pericoloso. Fu ancora la donna a escogitare il piano. Due delle sentinelle strabuzzarono gli occhi nell'oscurità. Le curve sinuose del corpo della giovane dovettero parere loro i contorni di un miraggio. Dehal avanzava senza esitazione, coperta dal solo perizoma. Sembrava l'incarnazione di una divinità. «Tu?» esclamò incredulo uno dei davaar. «Non può essere, tu sei morta nell'acqua del fiume.» «Sì, è vero», gli fece eco l'altro, «ti ho vista con i miei occhi mentre ti gettavi dalla rupe.» «Invece sono qui, viva, e ora soddisferò ogni vostro desiderio, miei prodi davaar.» Così dicendo Dehal fece scivolare a terra il perizoma.
«Che succede, compagni?» chiese la terza sentinella, preoccupata. «Vieni anche tu, il villaggio è deserto e nessuno ci punirà se abbandoniamo il posto di guardia per assaporare questo dolce frutto... Vieni qui, fatti prendere...» disse uno dei davaar in preda all'eccitazione. Le mani sudicie dell'uomo stavano per posarsi sul seno prorompente della ragazza, quando, dall'oscurità, comparvero, veloci e precisi come fiere, Mizda e Fet. I due sbucarono dal nulla e si gettarono addosso alle sentinelle. Nello stesso istante tra le mani di Dehal comparve un pugnale. La giovane agì con freddezza, ferendo alla spalla il nemico e, quando questi tentò di reagire, gli si gettò addosso ghermendolo da dietro. «Volevi abbracciarmi, vero? Eccoti accontentato!» Così dicendo Dehal piantò la lama nel collo dell'avversario. Intanto Fet sembrava sul punto di soccombere: il davaar gli era sopra e stava per aver ragione di lui. Athor raccolse le poche forze rimastegli e si scagliò in difesa dell'amico, ma troppo tardi: la lama del davaar aveva aperto una profonda ferita nel petto di Fet. «Presto, fuggiamo, tra poco avremo addosso tutto il villaggio!» urlò Mizda dopo aver avuto la meglio nel corpo a corpo contro l'altra sentinella. I tre amici non si resero subito conto che Fet non rispondeva ai loro appelli. Il giovane migos giaceva a terra, senza vita. Athor rimase immobile dinanzi al corpo dell'amico che si era sacrificato per lui. «Presto, vieni via!» gli disse Dehal passandogli un braccio attorno alle spalle. «Per lui non c'è più nulla da fare. Dobbiamo fuggire prima che sia troppo tardi.» La luce dell'alba stava cacciando le ombre della notte, quando i davaar giunsero alla palizzata. La porta era spalancata e gli spalti erano deserti. «Uomini, miei migos!» urlò Goreth. «Porto con me quelli che da oggi saranno nostri fratelli, trattateli con tutto il rispetto che è loro dovuto.» Parlando si muoveva con piccoli passi guardinghi in direzione del villaggio. «Avete sentito, mia gente? Sia pace tra noi e i davaar.» Quello era il segnale: Goreth prese a correre verso la porta, mentre gli spalti si popolarono all'improvviso di migos armati. «Presto, fuggiamo: è una trappola», gridò Karesh, cercando di salvare i suoi. Un nugolo di frecce falcidiò le avanguardie dei davaar e, prima che questi riuscissero a portarsi fuori tiro, vennero colpiti da altre due salve. In po-
chi attimi molti degli uomini di Karesh caddero feriti. Goreth era riuscito a mettersi in salvo all'interno della palizzata e da qui dirigeva il piano che solo una mente vile come la sua poteva aver architettato. «Che tu sia maledetto, Goreth!» gridò Karesh con tutta la rabbia che aveva in corpo. «Giuro che accopperò te e tutti i migos mi capiteranno tra le mani. Presto, uomini!» disse quindi rivolto ai suoi. «Soccorrete i feriti e torniamo al villaggio. Quel maledetto traditore e i suoi seguaci avranno ciò che si meritano.» 7 Linguadoca, 1213 «Adesso siedi e riprendi fiato, ragazzo», stava dicendo il maestro Puyol al giovane Aymon. «Mi hai detto che l'amico che stavo aspettando e che avrebbe dovuto accompagnarti qui è stato catturato dagli uomini di Simone di Montfort. È la verità?» Il giovane Aymon rispose con un cenno del capo. Era seduto dinanzi al maestro, le mani contratte sulla custodia della ghironda. «Gli anni», proseguì Puyol, «e l'esperienza mi hanno insegnato che non posso fidarmi di nessuno. Se tu sei quello che affermi di essere, dovresti essere abile con questo strumento. Fammi sentire la tua musica, ragazzo.» «C'è chi dice di avervi visto con un giovanetto al fianco, Beaufort», chiese Simone di Montfort nel corso dell'interrogatorio. «Era solo un mendicante che chiedeva la carità», rispose il nobiluomo, sperando di riuscire a essere convincente. «Io credo tutt'altro, ma avremo tempo per parlarne, Beaufort di Daigne. Avremo molti giorni e molte notti da trascorrere assieme. E spero che direte la verità di vostra spontanea volontà, senza farmi ricorrere alle maniere forti. Mi dovrete raccontare di alcune leggende che circondano la vostra persona. In particolare mi interessa quella che vi vorrebbe unico custode di un segreto antichissimo e letale: un'arma prodigiosa capace di distruggere un intero esercito in pochi istanti. E voglio sapere tutto sul vostro blasfemo credo, sugli orribili riti a cui voi catari vi sottoponete. Il mio compito è distruggere il demonio che si annida in tutti i maledetti eretici come voi.» «Non ho nulla da dire, se non che prego Iddio, grande e misericordioso,
affinché perdoni le vostre colpe, Simone.» La luce, all'interno della sala degli interrogatori, baluginava rossastra e fioca, alimentata da alcune torce assicurate al muro con dei bracci di ferro corrosi dal tempo e dall'umidità. Nella penombra Beaufort vide lo sguardo di Simone di Montfort che ordinava al boia di procedere con la tortura. Era lo sguardo di un folle e invasato assassino. La ghironda che stringeva il giovane Aymon era uno strumento a corde molto difficile da suonare per chiunque non fosse un musico esperto. La sua melodia veniva originata da una ruota cosparsa di pece che sfregava contro corde di diversa misura. Una di queste produceva una sorta di ronzio che, a seconda dei movimenti della ruota o dell'abilità del suonatore, assumeva cadenze ritmiche regolari. E proprio una cadenza terzinata stava eseguendo Aymon. Puyol lo ascoltava in silenzio. Aymon suonò a lungo con palese maestria e, quando concluse la sua esibizione, il maestro, ormai certo dell'identità del ragazzo, parlò. «Quanto mi ha scritto tuo nonno corrisponde al vero: sei un musicista molto capace, anche se avremo ancora da lavorare parecchio.» «Grazie, maestro Puyol, ma... vi prego... Una volta liberato mio nonno sarò un allievo esemplare. Adesso però aiutatemi: il mio dovere è quello...» Il giovane fremeva, ma l'anziano maestro non volle sentire ragioni. «...Il tuo dovere è quello di pensare al tuo futuro. Non prendere le mie parole come il cinico consiglio di un uomo senza cuore: tuo nonno è sempre stato per me come un fratello, e non solo per il credo che ci accomuna. Però nessuno è mai riuscito a fuggire dalle segrete della prigione di Carcassonne. Non sarai certo tu, giovane e inesperto, a interrompere questa funesta tradizione. E sono convinto che Beaufort la penserebbe come me.» «Ma io conosco bene l'uso delle armi, signore, e non ho paura dei crociati», ribatté con orgoglio il giovane Aymon. «Lo so bene», lo interruppe Puyol con un sorriso. «Tuo nonno me lo ha scritto e ha usato parole di elogio. Devo ammettere che se impugni la spada come tocchi la ghironda, ti dimostrerai anche un ottimo guerriero.» «Già... Un guerriero impotente e colpevole di aver messo nei guai la persona che più di ogni altra lo amava.»
«Dinanzi a me, Simone di Montfort, comandante delle milizie papali e signore di Carcassonne, è comparso Beaufort di Daigne, accusato di eresia. Per questo sarà sottoposto a interrogatorio alla presenza di un notaio che avrà il compito di redigere il verbale di tutto quanto sarà detto. Nel nome di Dio, sia dato inizio all'interrogatorio.» Detto ciò, l'uomo fece una breve pausa e si volse verso il notaio. Beaufort era ben più di un simbolo per i catari. Per questo Simone voleva che quel processo fosse solenne e pubblico. Il pentimento del visconte sarebbe stato d'esempio per ogni miscredente. E che al pentimento si sarebbe giunti Monfort era più che certo: erano pochi coloro che avevano resistito alla tortura, e quei pochi erano usciti dalla stanza degli interrogatori ormai cadaveri. «Parlate, nel nome di Dio unico e misericordioso, e avrete salva l'anima!» Così dicendo, uno degli ecclesiastici presenti brandì un crocefisso davanti al volto del prigioniero. Tutti i presenti si segnarono e l'interrogatorio continuò. Simone aveva deciso, data l'importanza dell'uomo catturato, di condurre personalmente l'inchiesta, senza affidarla ai frati domenicani, di solito destinati a svolgere questi compiti. «Il vostro nome, prigioniero?» «Mi chiamo Beaufort, visconte della Val di Daigne, signore di...» «Credo sia inutile che ci elenchiate i vostri titoli: nessuna delle vostre terre vi appartiene più, ormai.» Beaufort aveva le mani e il collo stretti nei cavallotti che erano assicurati al muro da una catena di ferro. I fieri occhi erano fissi su quelli di Simone. Pregò Dio affinché gli facesse dono della forza per resistere ai supplizi a cui l'avrebbero sottoposto. «Siete un eretico, non è vero, Beaufort? Voi professate quella che i blasfemi definiscono la religione catara?» «Mi chiamo Beaufort, visconte della Val di Daigne, signore di Villefloure, Seviès, Taurine e Rieux...» Quella era l'unica risposta che avrebbe dato. «Vi ricordo, Beaufort, che l'ammissione di eresia e il solenne giuramento di riavvicinarvi al Signore farà sì che abbiate salva la vita.» «Mi chiamo Beaufort, visconte della Val di Daigne, signore di Villefloure...» La casa di Puyol era frequentata da un buon numero di giovani allievi desiderosi di apprendere i segreti della musica.
Per questo l'arrivo di Aymon era passato quasi inosservato. Erano trascorsi alcuni giorni dalla cattura di Beaufort e nessuno aveva fatto domande sul ragazzo. Aymon aveva cercato di placare la sua ansia e si era lasciato affascinare dai modi pacati del maestro, ma non aveva perso la speranza di poter liberare il nonno: avrebbe solo dovuto aspettare il momento propizio. Puyol, dal canto suo, non aveva mai smesso di fare affluire preziose informazioni dal quartier generale dei crociati alla comunità catara. Per far pervenire i suoi messaggi all'esterno e per riceverli, Puyol si serviva di alcuni dei suoi musicisti. Il metodo che aveva escogitato era tanto semplice quanto difficilmente individuabile: era pressoché impossibile che un crociato conoscesse la musica e di questa si serviva Puyol per inviare le comunicazioni segrete fuori dalle mura di Carcassonne. L'interrogatorio procedeva da giorni nella sala dall'opprimente soffitto a volta posta nelle segrete del mastio. Beaufort era emaciato e smagrito, apparentemente ridotto allo stremo, ciononostante continuava a tener duro e a non rivelare nemmeno una parola di ciò che gli inquisitori avrebbero voluto sapere. «Ancora una volta, in nome di Dio», disse il domenicano con aria severa. «Parlate e avrete salva l'anima.» «Mi chiamo Beaufort...» Le parole gli uscirono in un sussurro. «Tirate!» comandò il frate al boia. Beaufort era stato bloccato sopra una grossa ruota per mezzo di spesse cinghie di cuoio. La ruota era poggiata su un cavalletto che le consentiva di girare, mossa da una manovella di ferro. Il prigioniero era legato in posizione supina con le braccia e le gambe tese fino allo spasimo, in modo che il corpo componesse un arco aderente alla circonferenza di legno. Le cinghie venivano tirate sempre di più, nel corso dell'interrogatorio, mentre la ruota girava. Il dolore era insopportabile e a ciò si aggiungeva l'ipossia causata dalla posizione innaturale della cassa toracica. Beaufort non avrebbe più saputo dire da quanti giorni era costretto a quel supplizio. «Tirate, vi ho detto!» ordinò ancora il frate. «Ma», rispose il boia, «così si rischia che il prigioniero muoia nel corso dell'interrogatorio.» «Vi ho detto di tirare! Non voglio che si discutano i miei ordini!» «Sia fatta la vostra volontà, padre Pelhisson», ubbidì il carnefice facendo
forza sulle cinghie. Per un boia la morte del prigioniero era indice di scarsa perizia nel proprio lavoro: il torturato doveva essere mantenuto in vita, e possibilmente lucido di mente, altrimenti non avrebbero avuto alcuno scopo le sevizie alle quali lo si sottoponeva per ottenere una piena confessione. Quella sera Beaufort perse conoscenza e quella stessa sera, appena rientrato a Carcassonne dopo alcuni giorni di assenza, Montfort volle essere informato sulle condizioni del prigioniero. Quando seppe che il nobile cataro era a un passo dalla morte, Simone montò su tutte le furie e si precipitò alla prigione. A Carcassonne si sussurrava che la madre della giovane Marie-Louise, allieva del maestro Puyol, fosse imparentata con Raimondo VI di Tolosa. Ma i genitori della ragazza avevano fatto di tutto per smentire la notizia: sia sul sovrano che sui suoi stretti familiari gravavano pesanti sospetti di frequentazioni eretiche. Le guerre di religione ormai erano riuscite a dividere popoli e città: il papa aveva segnato un profondo solco nella terra d'Occitania. Marie-Louise frequentava la scuola di musica per tre pomeriggi la settimana. Arrivava accompagnata da una serva ed eseguiva gli esercizi che le venivano assegnati con evidente malavoglia: tanto amava ascoltare la musica quanto non le piaceva suonarla. Era di pochi mesi più giovane di Aymon anche se, come spesso accade, lei sembrava già una donna, mentre il ragazzo mostrava tratti ancora infantili. Marie-Louise aveva incontrato Aymon il giorno seguente al suo arrivo, ma gli aveva rivolto la parola solo dopo averlo sentito eseguire un pezzo. «Voi siete un maestro, mio giovane amico», gli aveva detto non appena la ghironda aveva smesso di diffondere le sue note argentine. «Il vostro entusiasmo mi riempie di gioia, damigella», aveva risposto Aymon chinando leggermente il capo. Da quel giorno Aymon non aspettava altro che di poter scorgere i boccoli biondi di Marie-Louise sotto ai cappelli di panno che portava o di perdersi nel profondo dei suoi occhi azzurri. Passava ore a osservarla mentre provava anche a comporre. E gli importava assai poco che la qualità della musica della fanciulla fosse, invero, piuttosto scarsa. Simone si chinò sul corpo straziato di Beaufort. Il nobile cataro era stato sdraiato sulla paglia che ricopriva il pavimento in pietra della cella. Non
aveva più ripreso conoscenza da quando era svenuto durante le torture. Montfort si rese conto che il moribondo, in preda al delirio, stava bisbigliando qualcosa. Accostò l'orecchio alla bocca di Beaufort. «La Pietra è al sicuro, Aymon. Abbi cura di lei. Con essa potrai sconfiggere interi eserciti nemici. Ma stai attento, è molto pericolosa.» «E come farò ad arrivare alla Pietra?» chiese Simone fingendosi l'interlocutore con cui il moribondo credeva di parlare. «...la mappa... Guarda la mappa, Aymon.» Quindi Beaufort di Daigne ebbe un sussulto e spirò. «Non così, Aymon. Tieni più rilassata quella mano. L'esecuzione risente della tua rigidità. Comunque per oggi abbiamo finito. Riponi pure la ghironda... e complimenti per i progressi che stai facendo.» Ancora una volta il severo Puyol lo lodava. Aymon era raggiante e per qualche istante riuscì a dimenticare l'angoscia che lo opprimeva. Nel riporre lo strumento nella custodia, ne uscì un foglio di pergamena che scivolò sul pavimento. «Cosa conservi nella custodia?» chiese Puyol che, a dispetto dell'incedere dell'età, non aveva perso l'abitudine di notare ogni cosa, anche la più insignificante all'apparenza. «Non so», mormorò il ragazzo guardando il foglio. «Sembrano delle indicazioni per giungere a una... pietra... Una specie di mappa descritta a parole, con alcune prescrizioni da seguire, per evitare pericoli... mortali. Non capisco...» «Fammi vedere, Aymon...» Puyol prese la pergamena e l'avvicinò a una sorgente luminosa. Alla luce della candela era ben visibile il sigillo posto in calce. Sia Puyol che Aymon lo riconobbero subito: era quello del visconte della Val di Daigne. «Chiedete a padre Pelhisson di raggiungermi», disse Simone di Montfort a una delle guardie. Poco più tardi il domenicano che aveva condotto l'interrogatorio fu introdotto negli appartamenti del comandante in capo. «So che cosa volete dirmi, signore», provò a giustificarsi Guillaume Pelhisson, «ma il prigioniero ha ceduto all'improvviso.» «Il boia mi ha riferito che le cose non sono andate proprio così... Comunque non vi ho convocato per questo. Nel delirio che precede la morte, Beaufort ha parlato di una mappa che avrebbe consegnato a un certo A-
ymon...» «Aymon... Aymon... Questo nome... Ma certo!» esclamò il domenicano battendosi la mano sulla fronte. «Aymon è il nipote di Beaufort. Dopo la morte della figlia e del genero, pare che il cataro abbia adottato l'unico nipote.» «Quanti anni potrebbe avere questo Aymon, padre Guillaume?» «Credo una quindicina, signore.» Allora Simone ricordò. «Alcuni testimoni hanno riferito che al fianco di Beaufort camminava un ragazzetto, anche se in molti lo hanno preso per uno dei tanti mendicanti che chiedono la carità agli angoli delle strade. Portatemi qui il crociato che ha identificato Beaufort!» Rintracciare il militare richiese maggior tempo del previsto: questi si trovava di pattuglia fuori città e non fu disponibile che alle prime ore del mattino seguente. «Ricordi un ragazzo che era vicino a Beaufort al momento della sua cattura?» «Certo, mio comandante. Ma quello era solo un sudicio mendicante e non aveva niente a che vedere col rinnegato Beaufort. Ho visto con i miei occhi il cataro allontanare il giovanetto in malo modo. Lo ha anche percosso sulla schiena per liberarsi della sua insistenza...» «Non sei tu a dover giungere a conclusioni, soldato! Ripetimi quanto hai visto.» «Certo, signore. Beaufort cavalcava il ronzino. Il ragazzo gli stava vicino e il cataro ha affibbiato una sonora pacca sulla bisaccia di pelle che il giovane portava a tracolla. E gli ha detto di rivolgere le proprie questue altrove.» «Una bisaccia di pelle, hai detto?» «Sì, comandante. Ma non era proprio una bisaccia... Forse una custodia per qualche strumento musicale...» «E non ti è sembrato strano che un ragazzo in possesso di uno strumento musicale vada in giro a chiedere l'elemosina?» Il crociato venne liquidato in modo sbrigativo. Rimasto solo con Pelhisson, Simone riprese a parlare. «Dobbiamo trovare quel giovane.» «Puyol! Il maestro di musica!» esclamò il domenicano. «Ho sempre dubitato della fedeltà al cristianesimo di quell'uomo. Credo, mio signore, che sia giunto il momento di verificare i miei sospetti.»
«Ho lavorato quasi tutta la notte per comporre questa canzone, Aymon», disse Puyol al ragazzo mostrandogli le pagine sulle quali, all'interno del pentagramma, erano scritte le note e, poco sotto, le parole di un inno intitolato a Maria Maddalena. In esso si accennava anche a una pietra sacra e miracolosa. «Se tu te ne andassi in giro con una mappa recante i sigilli del visconte di Daigne, il tuo segreto non rimarrebbe tale a lungo. In questa maniera solamente tu e le persone che sceglierai potrete conoscere il luogo ove Beaufort voleva che tu potessi arrivare. Se mai dovessi riuscire a raggiungere la pietra di cui parla, mi raccomando, ubbidisci a tutte le indicazioni di Beaufort. Ho trascritto ogni cosa in un codice segreto, prima di distruggere il messaggio originale di tuo nonno. Adesso vieni qui e apri bene le orecchie. Ricordi la main guidonienne..?.» Aymon guardò il suo maestro con aria interrogativa. Come poteva dimenticarla? Tutti gli esercizi musicali si basavano su quel semplice sistema mnemonico che si serviva dell'aiuto delle cinque dita della mano per apprendere note e melodie. Quella strana lezione durò a lungo e alla fine Puyol disse: «E così, ora sei a conoscenza del segreto della nostra gente. Fanne tesoro, giovane Aymon, e comportati sempre come Dio vorrebbe ti comportassi. Sei il migliore allievo che io abbia mai avuto, giovane visconte di Daigne, ma adesso andiamo. La lezione del mattino ci aspetta. E mi sembra che tu non voglia fare attendere mademoiselle Marie-Louise, non è vero?» Un sorriso carico di affetto distese i tratti del volto del maestro Puyol. Ma quel moto di allegria non durò più di un istante: uno dei servitori del maestro irruppe nella stanza senza nemmeno farsi annunciare. «Presto, mio signore!» disse il nuovo venuto con aria concitata. «Dobbiamo fare presto! Ho saputo da un servo di Simone che, nel delirio che ne ha preceduto la morte, Beaufort ha parlato di una mappa e di un ragazzo che la custodisce. I crociati stanno venendo qui e cercano un giovane musico che risponde al nome di Aymon. Bisogna farlo fuggire, se non vogliamo che venga catturato dagli sgherri di Simone di Montfort.» Furono interrotti da alcuni colpi alla porta. «Puyol, aprite, in nome della legge!» Pochi istanti più tardi, Marcel, lo stesso servo che aveva avvertito il maestro dell'imminente pericolo, toglieva i catenacci al pesante portone d'accesso.
«Voi, signore?!» disse Puyol con aria stupita abbozzando un inchino dinanzi a Simone di Montfort. «La mia umile casa non è all'altezza di accogliere il signore di Carcassonne...» «Sospettiamo, maestro Puyol», tagliò corto Simone, «che fra queste mura abbia trovato asilo il nipote di un traditore. Ne sapete nulla?» «Non so a chi vi riferiate, mio signore. Del resto, qui c'è un tale viavai di allievi e di giovani musicisti.» «Aymon di Daigne. Questo nome vi dice niente?» Fu un domenicano a parlare. Puyol lo conosceva bene: era lui l'anima nera di Simone di Montfort. Il suo nome era Guillaume Pelhisson e, a dispetto del saio che portava, era un uomo scaltro e crudele. «Aymon... Lasciatemi pensare... Forse ho avuto qualche Aymon come allievo, diversi anni or sono... Non mi pare di aver incontrato qualcuno che portasse quel nome negli ultimi mesi. Certo non è attualmente tra gli ospiti della mia scuola.» «È quello che vedremo», lo interruppe Simone. Quindi disse rivolto ai soldati: «Guardie, perquisite la casa!» I militari si sparpagliarono tra le sale e i corridoi del palazzo, ritornando poco dopo nell'ampio studio di Puyol. Uno di loro conduceva con sé una fanciulla. Pelhisson girò attorno alla ragazza dai boccoli biondi, gli occhi azzurri come il mare spalancati in una muta interrogazione. «E così lei è la sola allieva presente nella vostra scuola in questo momento, Puyol?» chiese il domenicano indicando Marie-Louise. «Così è, eminenza», rispose il maestro. «E voi, damigella, avete mai conosciuto un giovane allievo di nome Aymon? Dovrebbe essere giunto qui un paio di settimane or sono.» Il silenzio nella sala si fece quasi palpabile: i servi di Puyol, gente fidata e votata alla causa del loro padrone, e lo stesso maestro trattenevano il fiato. Se la giovane avesse detto la verità, per tutti loro sarebbe stata la fine. «No, eminenza», rispose Marie-Louise con fermezza. «Sono sempre da sola col maestro, quando egli mi impartisce le sue preziose lezioni.» Simone e il domenicano trattennero a stento un moto di disappunto. Si guardarono ancora attorno, quindi abbandonarono la casa non senza aver rivolto a Puyol alcune minacciose raccomandazioni. «Spero vi ricordiate che chiunque protegga un eretico, o anche un semplice ricercato, rischia la condanna a morte», disse Pelhisson, accomiatandosi dal maestro.
Quando gli uomini di Simone furono lontani, Puyol si alzò dalla grande sedia in legno intarsiato su cui era rimasto seduto. Il servo spostò il tappeto che il suo padrone aveva sotto ai piedi e aprì una botola. Aymon uscì dal suo nascondiglio. Non c'era ombra di paura sul suo giovane volto, ma vi si leggeva il repentino dolore per la morte dell'adorato nonno. Tuttavia, quando gli occhi di Aymon incrociarono quelli della ragazza, la tristezza si trasformò in sorridente gratitudine. «Ho sentito tutto. Non dimenticherò mai il vostro gesto, Marie-Louise.» 8 Germania, anni '20 Heinrich Himmler andava ultimando gli studi universitari di agraria. La sua educazione era stata pianificata nel dettaglio dal padre, precettore di un Wittelsbach, il casato dei principi di Baviera. Le sue propensioni politiche nazionalistiche e antimarxiste trovarono presto corrispondenza in un nuovo partito, che vedeva un austriaco, tale Adolf Hitler, tra i suoi leader. Nel 1923 Himmler stava lavorando alla Stickstoff-Land, una fabbrica di fertilizzanti. In quello stesso anno si era iscritto, con la tessera numero 156, al Partito nazionalsocialista tedesco. C'era parecchia gente in Germania pronta a scommettere che, cavalcando malcontento e miseria, un movimento politico in grado di dimostrare rigidità e determinazione l'avrebbe fatta da padrone. E i nazionalsocialisti di Adolf Hitler di determinazione ne avevano da vendere. Rudolf Hess era un giovane ufficiale approdato all'aeronautica dopo essere stato ferito durante un'azione di guerra nel reggimento List. In quel frangente aveva avuto modo di osservare un giovane caporale che riusciva, grazie ai suoi discorsi, a entusiasmare gli uomini prima che uscissero dalle trincee e si lanciassero all'assalto. Il caporale si chiamava Adolf Hitler e l'amicizia che con il tempo si sarebbe instaurata tra i due sarebbe stata tale da far soprannominare Rudolf «Fraulein Hess», per l'indissolubile devozione che lo avrebbe legato a Hitler. Hess fu l'unico del suo entourage al quale Hitler si rivolse sempre in modo confidenziale, mentre a tutti gli altri veniva rigorosamente dato del «voi». Hess era nato ad Alessandria d'Egitto e vi aveva vissuto per dodici anni.
Lì aveva imparato a conoscere e ad appassionarsi ai culti misterici che permeavano la cultura egizia. Una volta adulto fu per lui inevitabile divenire un fanatico di esoterismo. Entrato come ufficiale pilota nella Luftwaffe, Hess ebbe modo di coltivare importanti conoscenze, compresa quella con Hermann Göring, il comandante della squadriglia in cui militava anche il leggendario Barone Rosso. Nel 1920 - con la tessera numero 17, Hitler possedeva la numero 7 - entrò a far parte del Partito nazionalsocialista. Reinhard Heydrich era nato in Sassonia e si era subito rivelato un allievo modello e uno sportivo d'eccezionale versatilità. Nel '21, a diciassette anni, era stato tra i fondatori dell'Associazione giovanile nazionalsocialista. Ultimato il liceo era entrato all'Accademia della marina militare e si era imbarcato sull'incrociatore Berlin. Il comandante della nave era allora l'ammiraglio Wilhelm Canaris, futuro capo dell'Abwehr, il temuto servizio segreto militare. Anche Heydrich sarebbe diventato una pedina fondamentale nei disegni di Hitler, che stava salendo i gradini della gerarchia del Partito dei lavoratori, sospinto da una determinazione inarrestabile. Da addetto alla propaganda divenne presto il vero e proprio leader di quello che lui stesso volle rinominare Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, al quale affiancò una milizia armata. Il nuovo simbolo del Partito fu una croce uncinata. Ancora quel brivido gelido lungo la schiena. Il nunzio apostolico in Baviera posò sugli altri giornali la copia del Völkischer-Beobachter. Eugenio Pacelli, alzandosi in piedi, si rivolse al suo segretario particolare: «La verità sta dalla parte da cui si guarda la notizia: il Völkischer, organo della Thule e voce ufficiale di von Sebottendorff, esalta il comportamento di Adolf Hitler e dei suoi nazisti durante il tentativo di colpo di Stato che hanno compiuto irrompendo in una birreria di Monaco per proclamare l'inizio di una rivoluzione nazionale». «Vero è, eccellenza», rispose il segretario, «che con la Germania in queste condizioni, chiunque si proponga di rimettere a posto le cose troverà un terreno fertile nell'opinione pubblica. L'economia del Paese è allo sfascio e il valore della moneta tedesca precipita verso il basso di ora in ora.» «Non so se la violenza e la prevaricazione siano il metodo migliore per
risanare questo Paese. Certo, dinanzi al collasso economico, il rigore è la prima regola da osservare. Eppure nutro molte perplessità e provo un profondo senso di angoscia quando sento i programmi di questa nuova forza politica.» «Ci penserà il carcere a raffreddare gli animi troppo bollenti dei capi del Partito nazionalsocialista, eccellenza: i responsabili del fallito colpo di Stato sono stati assicurati alla giustizia e avranno diversi mesi di tempo per placare i loro ardori.» «Non mi sembrano spiriti disposti a piegarsi. Sentiremo ancora parlare di loro...» Una volta rimasto solo, l'arcivescovo Pacelli si diresse verso la piccola cappella interna dell'edificio. Si inginocchiò e giunse le mani, cercando di alleviare, con la preghiera, l'ansia che lo divorava. 9 Washington, 2006 Nella piccola sala riunioni la tensione era palpabile. Il capo della CIA, Phil Damiano, ascoltava con aria incredula: eppure, proprio per non farsi ingannare da qualche errore di interpretazione durante la trasposizione dall'iraniano all'americano, Damiano aveva disposto che il discorso televisivo di Gholam Pashelvi fosse tradotto in simultanea dal migliore degli interpreti dell'Agenzia. «Il presidente della Repubblica islamica iraniana, Mahmoud Tahrjani, non pago del suo vile comportamento, ha arbitrariamente ritenuto giunto a termine il proprio compito, e ha rassegnato le sue irrevocabili dimissioni dal mandato a lui conferito dal popolo rivoluzionario islamico iraniano.» Così dicendo Pashelvi alzò verso le telecamere un foglio apparentemente di pugno dell'ex presidente. Quindi proseguì, gli occhi fissi nell'obiettivo. «Data la delicatezza del momento e le forti pressioni che il nostro Stato sta subendo per mano di alcuni Paesi governati da Satana e dai suoi adepti, e spronato in questa mia decisione dall'intero Consiglio dei guardiani della Rivoluzione, ho assunto la presidenza della Repubblica islamica iraniana. Tale carica avrà corso solo fino a quando l'emergenza sarà risolta.» Pashelvi fece una pausa degna di un grande attore, quindi riprese: «È mia intenzione proseguire lungo la linea politica che Tahrjani ha tracciato prima di abbandonare il Paese. Il nostro Stato ha il diritto e il dovere di ac-
cedere a ogni fonte alternativa e quindi anche a quel genere di armi di dissuasione sempre più necessarie per il mantenimento della pace. A quegli Stati, da sempre nemici, che pensano di poterci sottomettere con la paura, dico che presto saremo in grado di reagire con altrettanta capacità di dissuasione. Dio è grande. Sia fatta la volontà di Dio». Il telefono della linea riservata si mise a squillare prima ancora che Pashelvi terminasse il suo solenne discorso di insediamento. Phil Damiano si alzò e rispose. Era assolutamente certo dell'identità del suo interlocutore. «Signor Damiano, sono preoccupato. Non vorrei che gli Stati Uniti d'America avessero sperperato denari ed energie nello scalzare un pericoloso dittatore finendo per ritrovarsene uno molto peggiore tra i piedi...» «Stia tranquillo, signor presidente: sono convinto si tratti solo di una messa in scena.» «Sarà, ma Pashelvi sembrava alquanto convinto delle sue affermazioni. La prego di tenermi al corrente sugli sviluppi di questa situazione, signor Damiano. È inutile ricordarle quanto sia importante lo scacchiere iraniano in un momento come questo.» Phil Damiano ripose la cornetta, quindi si rivolse alla persona che aveva condiviso con lui i dettagli di quella operazione. «Secondo me, siamo nella merda sino al collo», disse il direttore della CIA scuotendo il capo. Teheran, 2006 Da quando Gholam Pashelvi aveva assunto l'incarico di presidente, i cambi al vertice delle istituzioni si erano susseguiti senza soluzione di continuità: un nuovo dittatore non avrebbe mai potuto mantenere la struttura e lo staff di chi lo aveva preceduto. Uno tra i primi a venire messo da parte con tutto il suo entourage fu Parviz Fattah, ministro per l'Energia. Al suo posto, come in altri seggi istituzionali, fu collocato un personaggio molto vicino all'ayatollah. A direttore generale del ministero per l'Energia, Pashelvi volle uno dei suoi più stretti e fedeli collaboratori: Nard Sourush, colui che lo aveva aiutato a organizzare il colpo di Stato. Benché avesse ben poca dimestichezza con i problemi legati all'energia nucleare, Sourush avrebbe rappresentato Pashelvi in quell'importante settore. Si trattava di un incarico della massima fiducia: la creazione di centrali nucleari iraniane, e
di quant'altro avesse a che vedere con esse, poteva tenere in ansia i governi di molti Paesi non solo occidentali. «Mi raccomando, Nard», ordinò Pashelvi, «voglio un resoconto il più dettagliato possibile sulle potenzialità nucleari della nazione. Fonti, capacità produttive, livello tecnologico. E, soprattutto, voglio sapere quale potrebbe essere il modo migliore per fare sì che i nostri impianti di produzione diventino strumenti per la realizzazione di un ordigno nucleare. E di quale potenza. Noi dovremo essere il motore della rivoluzione islamica nel mondo intero.» Nard sorrise, ma il suo ghigno aveva poco di rassicurante. Si congedò da Pashelvi con l'assicurazione che, entro una settimana al massimo, avrebbe reso una esauriente relazione su quanto gli era stato richiesto. Il neopresidente iraniano era molto soddisfatto: nessuno più di quel fido scudiero sarebbe stato capace di esaudire ogni suo desiderio. Certo, non era in grado di distinguere un atomo di materiale radioattivo da un granello di polvere del deserto, ma Nard Sourush era una macchina inarrestabile che si sarebbe fermata solo una volta concluso il compito assegnatole. Pashelvi si guardò intorno compiaciuto: il lusso dell'ufficio presidenziale rispondeva in tutto e per tutto alle sue ambizioni. Sedette nella poltrona dietro la scrivania, digitò la password personale e aprì la casella di posta elettronica che aveva utilizzato per tenere i suoi contatti segreti prima del colpo di Stato. Non si meravigliò di vedere, nell'elenco dei messaggi in arrivo, il nome in codice del suo più prolifico finanziatore. Washington, 2006 <SONO DAVVERO SPIACENTE, MIO CARO AMICO>, digitò Pashelvi, dopo aver pensato qualche istante a come formulare in un inglese impeccabile la risposta che aveva in mente da molti giorni,
STESSO MESSO A PUNTO: I NOSTRI STATI NON POTRANNO MAI ESSERE VICINI O ALLEATI, MALGRADO GLI SFORZI DI DUE SEMPLICI PEDINE COME NOI. SIAMO NELLE MANI DI DIO, GLORIA E MISERICORDIA SU DI LUI. RITENGO QUINDI SIA GIUSTO E INEVITABILE CHE CIASCUNO DEI NOSTRI RISPETTIVI PAESI SEGUA IL CORSO CHE LA STORIA HA IN SERBO PER LUI. MI CREDA SINCERAMENTE GRATO PER IL CONSISTENTE AIUTO CHE HA VOLUTO FORNIRE ALLA MIA CAUSA. DIO È GRANDE. SIA GLORIA A DIO.> «Questo gran figlio di puttana ha anche il coraggio di prendersi gioco di noi...» stava dicendo Phil Damiano, dopo aver letto ad alta voce il testo del messaggio. «Quello che lui chiama 'aiuto alla mia causa' equivale a novantatré milioni di dollari che l'Agenzia ha speso per organizzare il colpo di Stato, senza contare che i nostri uomini dislocati in Iran sono ormai da considerarsi bruciati, dopo questo cambiamento di fronte.» «Già... Ora tutti gli agenti che in Iran hanno contribuito alla riuscita dell'operazione sono a rischio...» concluse affranto il generale Corrige. «È ben peggio di quanto lei creda, generale. Da alcune ore è iniziata una vastissima operazione di polizia. Dodici nostri referenti a Teheran sono già stati arrestati da agenti dei servizi iraniani. Tutta la nostra rete in Medio Oriente è in serio pericolo.» «Io e lei, Damiano, siamo i responsabili di questo fallimento. E anche se non c'era motivo di prevedere il voltafaccia di Gholam Pashelvi, ora dovremo fare i conti con il suo tradimento. Siamo caduti nella sua rete come degli sprovveduti.» I due uomini avevano l'aspetto di cani feroci ridotti all'impotenza da guinzagli e museruole. «Ha ragione, generale. Credo che non ci rimanga altra soluzione che rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente e mettere lui e il suo staff al corrente del nostro fallimento.» «No, non sono d'accordo con lei. Prima di arrenderci definitivamente, dovremmo darci da fare per trovare una soluzione, soprattutto in vista della possibilità che gli eventi precipitino. Siamo i soli, non dimentichi, al corrente di questa situazione.» «E cosa pensa di fare, generale? Anche se propendessimo per la soluzione più estrema e pericolosa, quella di uccidere Pashelvi, non riuscirei, oggi, a trovare un mio uomo in Iran in grado di farlo. Buona parte dei miei agenti si trova già nelle celle di sicurezza dell'ayatollah e gli altri li segui-
ranno molto presto: l'intera rete della CIA in Iran sta per essere resa inoffensiva.» «In ogni modo, non è leale abbandonare la nave che affonda. Ne parleremo con il presidente e con il segretario di Stato, e chiederemo il rinnovo della loro fiducia per il tempo necessario a porre rimedio alla situazione che abbiamo creato. E solo una volta sistemata la faccenda, rimetteremo il mandato.» «E come pensa che dovremmo agire? Lanciando qualche missile intelligente sulla residenza del presidente iraniano? Armando la mano di un fanatico controrivoluzionario, ammesso di trovarlo, con un fucile ad alta precisione? Ci muoviamo sulla lama di un rasoio e basterebbe un solo passo falso per scatenare una guerra di religioni dalle dimensioni planetarie.» «Saranno la logica, la freddezza e l'esperienza le sole armi che ci consentiranno di affrontare quel voltagabbana di Gholam Pashelvi.» «Secondo lei, noi quindi non abbiamo agito in maniera logica e facendo tesoro della nostra esperienza?» chiese il direttore della CIA. Si sentiva come un bambino colto in fallo dall'insegnante. «No, se devo essere sincero: ci siamo comportati come i soliti yankee. Un centinaio di milioni di dollari, una rete di spie esperte e quella che sembrava una pedina, o meglio un fantoccio, da mettere sul piedistallo occupato sino a quel momento dal cattivo di turno. Ma abbiamo fatto alcuni errori di valutazione. Noi sappiamo ben poco degli usi di quella gente, del reale potere che un tipo come Pashelvi è in grado di esercitare nella sua terra. Dobbiamo porre rimedio alla nostra ignoranza.» «E in che modo pensa di riuscire a entrare in possesso di queste informazioni?» «Niente spie, forse basterà ricorrere a una persona di 'singolare' statura. Ma avremo tempo di parlarne, dopo aver conferito con il presidente.» «Signori, accomodatevi», disse il presidente con aria grave, facendo cenno a Phil Damiano e al generale Corrige di sedersi sulle due poltrone libere davanti alla sua scrivania. La terza era occupata dal segretario di Stato. Nello Studio Ovale della Casa Bianca non c'era nessun altro oltre a loro quattro. Il presidente ascoltò il resoconto di quanto accaduto dopo che i servizi segreti americani avevano contribuito a porre Gholam Pashelvi al vertice dell'Iran, quindi disse: «Ciò che mi dite è esattamente quanto avevo temuto
potesse accadere, sin dalla prima apparizione televisiva del nostro 'Cavallo Vincente'», spiegò, chiamando Pashelvi con il nome in codice che era stato dato a tutta l'operazione, Winning Horse. «Devo confessare anche che il suo tentativo di ridurre la figura del nuovo premier a un mero fantoccio non mi aveva molto convinto, signor Damiano. Ma mi rendo conto, al punto in cui siamo, che lei e il generale Corrige potrete essere di aiuto nel cercare di rimettere le cose a posto. Accetto le vostre dimissioni, signori. Ma sono certo che vorrete datarle... diciamo... tra trecentosessantacinque giorni: avete un anno di tempo da oggi per sanare questa situazione.» «Un anno...» stava dicendo Damiano, mentre l'aereo di servizio della CIA si fermava sulla pista di atterraggio del Denver International Airport. «Non mi ha ancora detto, generale Corrige, in che cosa consisterà l'aiuto che siamo venuti a cercare qui a Denver.» «Credo lei conosca il dottor Breil. Il dottor Oswald Breil.» Denver, 2006 Oswald Breil aveva imparato a non preoccuparsi per i tempi di lavoro di Sara Terracini. Sapeva bene che, come sempre, Sara avrebbe svolto i suoi compiti in maniera impeccabile e senza troppo farsi attendere. E anche quella volta avrebbe avuto conferma dell'affidabilità della sua amica. Oswald aveva quasi finito di leggere la traduzione di alcune delle pagine dell'agenda appartenuta al giornalista italiano Luca Raso. Guardò l'orologio: «Sempre in ritardo questi pezzi grossi americani...» commentò tra sé. Pochi istanti più tardi Lilith Habar introduceva nello studio di Oswald gli ospiti che il piccolo uomo stava aspettando. Quando il capo della Central Intelligence Agency, Phil Damiano, e il generale Corrige si congedarono, Oswald spiò nuovamente le lancette dell'orologio da polso: la loro conversazione era durata due ore e venti minuti e, in quel lasso di tempo, lui aveva appreso che il mondo intero era, ancora una volta, in serio pericolo e che, ancora una volta, era stato richiesto il suo intervento. Breil si era riservato di decidere entro qualche giorno se accettare l'incarico: non capiva in che modo lui avrebbe potuto risultare utile alla risoluzione di quella faccenda cominciata in maniera tanto catastrofica. Quando i due furono usciti, Oswald si accinse a terminare la lettura poco prima interrotta. Sara gli inviava tre o quattro pagine alla volta e mancava
ancora molto alla fine del lavoro di trascrizione. Ma ora Breil voleva pensare ad altro e distrarsi dalle gravi notizie che gli emissari del governo statunitense gli avevano comunicato. Non sapeva ancora che informazioni altrettanto gravi erano racchiuse tra le pagine scritte trent'anni prima da Luca Raso. E non poteva immaginare che, a causa di uno dei tanti misteriosi parallelismi della Storia, i fatti narrati nelle pagine trascritte da Sara si sarebbero mescolati agli eventi attuali. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 «Vedo che qui, nel bel mezzo della foresta amazzonica, esiste un vero e proprio culto per la puntualità...» ho detto, mentre scorrevo il programma dei miei cinque giorni presso il quartier generale della Neumann. Ogni dettaglio è stato meticolosamente pianificato. Chi ha redatto quel programma ha fatto in modo di impegnare tutto il tempo a mia disposizione: gli orari di pasti, partenze e arrivi, delle visite guidate alla fondazione ospedaliera piuttosto che ai laboratori d'avanguardia delle coltivazioni intensive, sono già stati rigidamente fissati. In questo lasso di tempo dovrei incontrare più volte Erick Neumann e credo di dovermi ritenere fortunato se la mia gentile accompagnatrice non abbia già predisposto il testo dell'intervista. «La puntualità è una dimostrazione di rispetto per chi ci circonda e un elemento indispensabile per chiunque voglia ottenere successo e gratificazioni. Non trova, signor Raso? Se ora vuole salire in macchina, sarò lieta di accompagnarla alla Residencia.» Gli occhi azzurri di Agnes non lasciavano trapelare alcun sentimento. «Non si preoccupi per il suo bagaglio: lo recapiteranno i nostri addetti direttamente alla villa e le femmes de chambre provvederanno a riporre i suoi oggetti personali... Mi auguro che non pensi che ciò possa ledere la sua privacy, signor Raso.» Prima le foto e adesso la biancheria intima, mi sono detto. Non ci vuole molto a capire che nella «Neumanntown» - così è soprannominata ovunque la cittadella nel mezzo dell'Amazzonia ogni libertà personale subisce un drastico ridimensionamento. In ogni modo, so che sarò il primo giornalista al mondo a cui Erick Neumann ha concesso un'intervista.
«Questo è il villaggio residenziale», ha detto Agnes con il tono asettico ed esperto di una guida turistica. «Qui alloggiano i nostri dirigenti e i loro familiari. Anche quelli dei manager che vengono temporaneamente destinati in una delle oltre centottanta fazendas che fanno capo, in tutto il Brasile, alle aziende del ramo agroalimentare.» Dopo una breve pausa, Agnes ha continuato lasciando che un moto di orgoglio smussasse la sua aria professionale. «Sebbene il comparto agricolo costituisca oggi solamente uno dei settori merceologici in cui è impegnato il gruppo, bisogna dire che questo è stato il punto di partenza, quello che ha innescato la crescita della Neumann Corporation.» La jeep sulla quale viaggiavamo ha superato una collinetta e, giunti sulla sommità, la Residencia mi è apparsa in tutta la sua magnifica ed elegante struttura. Si tratta di una villa coloniale del secolo scorso, di dimensioni inusuali, specialmente se si considera che, prima che venisse realizzata Neumanntown, quella costruzione doveva esser simile a una cattedrale nel deserto della foresta amazzonica. La Residencia è dipinta di un azzurro tenue, in contrasto con il bianco che incornicia le innumerevoli finestre della facciata principale. Bianche sono pure le possenti colonne in marmo che sorreggono il patio, sotto al quale potrebbero trovare riparo contemporaneamente almeno una decina di auto. Anche qui tutto mi è parso curato fino nei più piccoli dettagli. Persino le piante e i fiori, che il clima tropicale rende rigogliosi e lussureggianti, sono disposti secondo precisi schemi cromatici. La cancellata in ferro che immette nel viale di accesso alla villa è presidiata da alcuni uomini armati. Altri si aggirano costantemente all'interno del parco. «Negli ultimi tempi alcune case isolate sono state oggetto di scorribande di tribù di indios e, qui nella giungla amazzonica, è obbligatorio essere molto prudenti», mi ha spiegato Agnes, rivolgendo un cenno di saluto alle sentinelle. Ho avuto una strana sensazione: le guardie armate mi hanno ricordato i secondini a presidio del muro di un carcere. E mi sono chiesto se tutto quello spiegamento di forze sia davvero necessario per difendere la Residencia da un pugno di indios armati di lance e cerbottane.
L'auto si è arrestata sotto al patio proprio mentre incominciavano a scendere le prime gocce di una calda pioggia tropicale. Allora mi sono accorto che la distanza dalla villa mi aveva ingannato: quelle che mi erano sembrate semplici cornici bianche attorno alle finestre sono dei mirabili stucchi in stile barocco. Capitelli e fregi decorano la facciata senza appesantire l'architettura della Residencia. Tutto qui è enorme e fastoso. «Mi segua nella sala da te, dottor Raso», ha detto Agnes facendomi strada all'interno della villa. «Credo che il personale le abbia preparato un cocktail di benvenuto.» Camminando lungo i corridoi e i saloni della Residencia ho avuto l'impressione di trovarmi in una pinacoteca, tanti sono i quadri dei più famosi maestri d'ogni tempo appesi ai muri. Giunto nella sala da tè mi sono seduto su un'antica sedia a dondolo e ho sorseggiato, gustandone il refrigerio, una bevanda ghiacciata a base di frutti tropicali. Poi, mentre aspettavo, ho aperto nuovamente la cartellina che conteneva il programma del mio soggiorno: con sollievo ho letto che la cena sarebbe stata «informale». Il primo incontro «formale» è fissato per domani mattina, alle otto. Durante la prima colazione conoscerò finalmente Erick Neumann. PARTE SECONDA Non è possibile raccontare diversamente ciò che è accaduto. Giorgio Bocca
10 Età dei Metalli, II millennio a.C. Amor riacquistava vigore a ogni passo. Mizda e Dehal lo avevano rifocillato con il cibo sottratto alle bisacce delle due sentinelle davaar e ora mostrava di nuovo il piglio dell'inflessibile comandante determinato a raggiungere in fretta il suo villaggio in pericolo. Stavano attraversando la foresta quando il giovane capo si arrestò all'improvviso e fece cenno agli altri di nascondersi tra i cespugli: quattro davaar venivano verso di loro. Athor uscì allo scoperto e si mise a correre, incurante degli sterpi che gli ferivano le gambe, distraendo gli inseguitori dalla loro caccia. Uno dei davaar caricò il giavellotto e lo scagliò contro al fuggitivo, ma il colpo andò a vuoto, e l'uomo scomparve nel folto della macchia. Il giovane aveva ottenuto il suo scopo: Dehal e Mizda sarebbero riusciti
a mettersi in salvo, mentre lui avrebbe trovato rifugio in una tra le tante grotte che si aprivano nella parete rocciosa. La scelta non fu dettata dal caso: suo padre lo aveva condotto molte volte all'interno di quella caverna, quasi volesse fargli prendere confidenza con ogni asperità del terreno e con ogni antro segreto di quel luogo. A mano a mano che si addentrava nelle viscere della montagna senti affievolirsi, sino a scomparire del tutto, le voci dei davaar impegnati nella loro vana ricerca. Giunse in una sala molto ampia che conosceva bene: lì le rocce avevano assunto forme bizzarre. Il buio era quasi assoluto, ma Athor sapeva che nella grande parete dinanzi a lui la mano di un qualche antenato aveva dipinto delle scene di caccia: quando suo padre lo lasciava solo all'interno della caverna, trascorreva molto tempo a osservare i disegni alla luce di una torcia e si divertiva a immaginare le più fantastiche avventure. Una sottile lama di luce sembrava accarezzare il pavimento della grotta e dava l'impressione di arrivare dal centro della terra. Athor si chinò e vide che proveniva da uno dei tanti cunicoli che si aprivano nell'antro. Qualcuno si era preoccupato di nascondere lo stretto passaggio con dei sassi. Il ragazzo li rimosse, quindi imboccò strisciando il cunicolo. La luce, mentre procedeva nel budello sotterraneo, diventava sempre più forte. Lo slargo ove sorgeva il tempio sacro al dio Hosh si aprì dinanzi a lui all'improvviso. Si guardò attorno incredulo: i bracieri e le torce diffondevano luce e calore. Si disse che doveva esserci un camino nella roccia che alimentava il ricambio d'aria. Al centro, il sepolcro in metallo che conteneva la Pietra Sacra. Sull'altare che si innalzava dalla roccia calcarea, Athor vide l'oggetto che avrebbe sancito il suo diritto a diventare il sommo sacerdote del popolo dei migos. Si trattava di un disco forgiato nello stesso metallo lucente che decorava il coperchio del sarcofago. Ora lo avrebbe indossato, legandolo al collo con le cinghie in cuoio. Poi, dopo l'investitura, avrebbe riposto di nuovo il disco d'oro all'interno del tempio perché l'emblema di Hosh potesse, in futuro, essere raccolto dal suo successore. Ecco il motivo per cui il disco si trovava li, dove anni prima l'aveva deposto il saggio Sar. Il padre di Athor non aveva avuto tempo di svelare al prescelto tra i suoi figli il modo per raggiungere l'amuleto, ma gli aveva fatto conoscere la caverna e così il giovane era riuscito a trovare il tempio da solo. Certo, era stato il dio Hosh a volere che così fosse. Prima di abbandonare il tempio, Athor alimentò i fuochi perpetui che ardevano nei bracieri, quindi percorse a ritroso il cunicolo che portava allo
slargo della grotta: sapeva che guardare la Pietra Sacra o anche solo trattenersi a lungo in quel luogo lo avrebbe destinato a morire. Dehal e Mizda avevano corso a perdifiato. Quando varcarono la palizzata e li videro a guardia degli spalti, seppero che i loro compagni erano riusciti a salvare il villaggio dall'assalto dei nemici. Era la fine di un incubo. Ciò che non potevano immaginare era che, nel breve tempo della loro assenza, Goreth si era proclamato re e stava già mettendo in atto il suo piano: quello di trasformare i pacifici migos in feroci guerrieri. Ovunque vi erano uomini armati, un gruppo dei quali era comandato a vigilare costantemente sull'incolumità del nuovo sovrano, che aveva respinto la minaccia dei davaar. Questi, a causa delle perdite subite, avrebbero impiegato del tempo per preparare una controffensiva. Così il popolo dei migos, pur consapevole del dispotismo del nuovo capo, in qualche modo gli aveva dimostrato rispetto e riconoscenza. Goreth era pur sempre figlio di un re e a lui spettava la discendenza regale in assenza di altri eredi. Presto, aveva proclamato l'usurpatore, avrebbe anche recuperato il sacro disco del sommo sacerdote. Sosteneva che Sar, qualche tempo prima di morire, aveva indicato a lui e non ad Athor il luogo in cui si trovava il Tempio Segreto. Goreth era sicuro che nessuno avrebbe più potuto smentirlo o scoprire la sua menzogna. «Ecco i nostri eroi appena rientrati dalla loro missione. Come avete osato disubbidire ai miei ordini?» disse Goreth non appena Mizda e Dehal furono al suo cospetto. «E vedo che il mio fratellastro non è con voi. Avete forse perso per strada un membro della spedizione?» «No, Goreth: Athor è vivo. Siamo riusciti a liberarlo. Mentre eravamo sulla strada del ritorno, lui ha attirato l'attenzione di una pattuglia di davaar nella quale ci siamo imbattuti e così ci ha permesso...» «Basta così, donna!» la interruppe Goreth. «Non mi interessano le tue spiegazioni!» Attorno a loro si era formato un crocchio di persone. Il capo si rivolse a due guardie armate: «Imprigionateli!» ordinò. «Aspetta, Goreth!» Aker, l'indovino padre di Dehal, era davanti a loro. «Come osi contraddire il tuo sovrano, Aker? Tua figlia mi ha disubbidito e avrà la punizione che merita, così come il giovane Mizda. Quanto a mio fratello Athor, se è vero che è ancora in vita, quando farà ritorno al villag-
gio sarà giudicato dal Consiglio dei Cinque anziani.» Dehal trasalì. «E di che crimini vorresti accusarlo? Athor non ha infranto la legge, anzi ha cercato di salvare la sua gente...» Goreth la interruppe di nuovo: «Saranno gli anziani a decidere. Ogni cosa a suo tempo», disse, quindi si diresse verso la sua capanna. «Credo che quel tempo sia giunto, fratello.» Athor avanzava verso il centro della spianata. Benché fosse coperto di polvere, lacero e ferito, il suo incedere era fiero. «Bene! Vedo che hai deciso di consegnarti alla nostra legge. Ma questo non rende meno grave il reato di cui ti sei macchiato», disse Goreth ad alta voce. Quasi l'intero villaggio era raccolto nella piazza. «Fratello, vorrei sapere di quali reati mi accusi», disse Athor rompendo il silenzio che era calato sull'assemblea. «Sei un traditore: hai cospirato per uccidere nostro padre.» Il dito di Goreth era puntato su di lui. «Non dire fandonie, Goreth!» «E allora perché il capo dei davaar aveva un'arma tra le mani? Le guardie sostengono che Karesh era disarmato quando ha chiesto di parlare col re Sar.» «Che cosa vuoi dire?» «Che tu, d'accordo con Karesh, hai nascosto il pugnale all'interno della capanna di nostro padre, in modo che lui lo trovasse...» «Menti, Goreth! Anzi, visto che sei a conoscenza di fatti che nessuno può conoscere, mi viene da pensare che forse sei stato proprio tu ad armare la mano dell'assassino.» «E allora perché sono stato io tra i primi a balzare sugli spalti per difendere il nostro villaggio, mentre tu eri impegnato in una caccia dalla quale sei tornato a mani vuote? Tu sei un traditore, Athor. Le tue mani sono sporche del sangue di nostro padre e di quello degli uomini uccisi dai davaar. Meriti la morte.» Molti dei presenti, convinti dalle parole di Goreth, si rivolsero ad Athor con espressioni minacciose. Il giovane allora aprì la veste di pelle e mostrò il disco d'oro che aveva al collo: «Dimmi perché, se sono un traditore, sono in possesso di questo?» Il bagliore emanato dall'oggetto placò l'ira dei presenti. Anche Goreth per un attimo vacillò, ma si riprese subito. «Che cosa vuoi, Athor?» ringhiò. «Vuoi che ti veneriamo come il som-
mo sacerdote? Immagino che ti sarai impossessato di quell'oggetto con l'inganno. Uomini, prendetelo e imprigionatelo!» Soggiogati, i migos si mossero verso Athor. «Fermi!» disse questi, alzando il disco d'oro. «Chiunque provi a toccarmi si macchierà del peggiore sacrilegio verso il dio Hosh.» Intimoriti, gli uomini si arrestarono. Quello che diceva il giovane era vero: colpire il sommo sacerdote era come colpire Hosh. Athor approfittò di quel momento di incertezza. Tenendo il disco come uno scudo si fece largo verso la porta del villaggio e, prima che Goreth potesse riprendere in mano la situazione, scomparve nel fitto della foresta. Il giorno seguente i cacciatori che si erano gettati all'inseguimento del fuggiasco tornarono sconsolati al villaggio: sembrava fosse sparito nel nulla. Dehal, che aveva vissuto ore di angoscia, non riuscì a reprimere un gesto di soddisfazione: sapeva che Athor era il migliore tra i cacciatori e aveva sperato con tutto il cuore che il suo uomo fosse riuscito a seminare i segugi che il perfido fratellastro gli aveva messo alle calcagna. Ma l'espressione trionfante della ragazza non sfuggì a Goreth. «Miei migos, il traditore sarà catturato. Intanto, però, dobbiamo punire i suoi complici...» disse il re, puntando il suo sguardo malvagio su Dehal e Mizda. «Mizda, tu sarai giudicato dagli anziani e, se colpevole, condannato a morte. Quanto a te, donna, ordino che tu sia immediatamente allontanata dal nostro villaggio. Alla tua esecuzione penseranno gli animali affamati o qualche davaar.» Invano il padre della giovane tentò di difenderla. Dehal fu scortata fuori dalla porta e abbandonata nella foresta. Athor aveva corso per ore, cercando di non lasciare tracce del suo passaggio. Le grida degli inseguitori si erano fatte via via più lontane e quando giunse nuovamente all'imboccatura della grotta si sentì al sicuro. Arrivato al primo slargo della caverna sedette esausto e la sua mente corse a Dehal: chissà che punizione avrebbe inflitto il suo perfido fratellastro alla donna che amava e al suo amico Mizda? Il giovane rimase a lungo seduto con la testa tra le mani, sino a che la stanchezza non ebbe il sopravvento e il sonno lo accolse.
Dehal si era appena allontanata, quando Goreth chiamò a sé due uomini armati: «Seguitela senza farvi scoprire», ordinò. «Forse ci porterà da Athor.» La donna aveva girovagato a lungo, senza meta: sperava di allontanarsi quanto più possibile da Goreth. Di tanto in tanto si arrestava e rimaneva in ascolto in preda al terrore di essere seguita. In fondo al suo cuore sperava che Athor si aggirasse ancora nelle vicinanze del villaggio. Le lunghe ombre della notte avevano trasformato la foresta in un luogo spettrale. I passi di Dehal, stremata dalla stanchezza, erano sempre più incerti. Da ore aveva perduto il sentiero e vagava nel buio senza una meta. Athor aveva acceso una torcia e di nuovo era rimasto incantato davanti alle scene di caccia dipinte sulla volta della grande caverna. Rivide Sar intento a illustrargli quei disegni e fu pervaso dalla malinconia e dallo struggimento. Suo padre era morto e il futuro del giovane era più buio della notte. Ma subito si riscosse: doveva escogitare un modo per screditare Goreth e discolparsi dalle accuse di tradimento. Muovendo la torcia gli parve che i bisonti, i cervi e i lupi prendessero vita davanti ai suoi occhi. Quel gioco antico ebbe il potere di sollevarlo dai pensieri cupi che affollavano la sua mente. Avrebbe costruito una scala per poter osservare più da vicino i disegni. Si avviò verso l'uscita in cerca di pali per fabbricare i montanti e i pioli: occupare il tempo gli sarebbe stato d'aiuto. Dehal era sopraffatta dalla paura e dalla stanchezza. Continuando a girare in tondo come un animale accecato, fece un passo falso e la terra parve aprirsi sotto di lei. Cadde a peso morto nel vuoto. Poi il suo corpo rimbalzò contro una roccia, cominciò a rotolare lungo un ghiaione sino a che si arrestò contro il tronco di un albero. Un dolore lancinante, come se una spada infuocata le avesse trafitto la carne, le tolse il respiro. Lo spezzone del ramo fuoriusciva poco sotto alle costole. Prima di perdere i sensi, ebbe il tempo di rivolgere una preghiera al dio Hosh, affinché proteggesse suo padre e l'uomo che amava. La luce rosata dell'alba illuminava la foresta quando Athor uscì dalla ca-
verna. Stava guardandosi intorno alla ricerca di un tronco adatto a essere usato come montante per la scala che si accingeva a costruire, quando gli parve di udire un suono simile a un lamento. Mosse pochi passi e la vide: Dehal era lì, appoggiata a un albero secolare. Il volto era terreo, gli occhi erano chiusi, vicino a lei una grossa pozza di sangue. Athor si rese conto con raccapriccio del ramo che trafiggeva il fianco della sua donna. Si chinò su di lei e la chiamò piano. Fu allora che Dehal aprì gli occhi. «Athor», disse con un filo di voce, «Athor, mio amato sposo.» Quindi, con sollievo del giovane, svenne di nuovo: quello che Athor si apprestava a fare avrebbe messo alla prova il più valoroso tra i guerrieri. Aiutandosi con il coltello recise il ramo dal tronco, quindi adagiò Dehal sul fianco sinistro. Sapeva come estrarre una freccia o una lancia dal corpo di un compagno ferito. E, pur temendo che avrebbe corso il rischio di scatenare un'emorragia, sapeva di non avere scelta: quello era l'unico modo per salvarla. Athor puntò il piede poco sotto la scapola destra della donna, afferrando la base del ramo con ambo le mani, prese a tirare con forza costante ruotandolo verso di sé e pian piano il legno uscì dalle carni. Per fortuna Dehal non riprese conoscenza. I due inseguitori avevano perso le tracce della loro preda e si aggiravano per la foresta, consapevoli che avrebbero dovuto subire l'ira di Goreth. «Torniamo», disse uno. «Il sole è ormai alto e non c'è traccia della donna.» «Aspetta», rispose l'altro, «Goreth ci punirà se torniamo a mani vuote. Cerchiamo un riparo per questa notte e domani, se non l'avremo trovata, prenderemo la via del ritorno.» Athor aveva abbandonato Dehal solo il tempo per cercare alcune erbe medicinali. Quindi aveva preparato un infuso ricavato dai polipori di betulla: con questo avrebbe medicato la ferita e pregato. Ma sapeva che solo Hosh avrebbe potuto fare il miracolo di guarirla. Aveva trasportato Dehal nella caverna e lì si era seduto accanto a lei. Per tutta la notte aveva pregato che si svegliasse.
Fu all'alba del secondo giorno che la donna prese a rantolare: sembrava a un passo dalla morte. «...Mio amato sposo», queste erano state le ultime parole che Dehal aveva pronunciato e lui, sommo sacerdote di Hosh, era l'unico che poteva celebrare il rito del matrimonio tra un uomo e una donna. Doveva fare in fretta, se voleva che l'ultima volontà di Dehal fosse rispettata. Con un gesto pieno d'amore la sollevò tra le braccia e s'incamminò verso l'uscita della grotta. I due migos scorsero Athor che camminava nella foresta con il corpo di Dehal tra le braccia e si nascosero dietro a un cespugli. «È morta, sta andando a seppellirla!» bisbigliò uno. «Magari la sta portando dinanzi alla Pietra nel Tempio di Hosh con la speranza che il dio faccia il miracolo di resuscitarla», gli fece eco l'altro. «Seguiamolo senza farci scoprire. Goreth ci ricompenserà se, oltre a riportargli il corpo del traditore Athor e quello della sua femmina, sapremo anche dirgli dov'è il tempio.» 11 Linguadoca, 1213 Marcel, uno dei servi di Puyol, aveva condotto Aymon attraverso un passaggio segreto che correva nei sotterranei del palazzo: lo stesso che usavano le staffette catare quando dovevano abbandonare di nascosto l'abitazione. Il passaggio conduceva sino alla conduttura di un acquedotto dismesso, grande abbastanza da farci passare un uomo carponi, che sfociava nei pressi di un'antica sorgente fuori dalle mura della città. Qui Aymon e Marcel uscirono allo scoperto. «Seguimi», disse il servo al ragazzo. «Puyol mi ha detto di consegnarti a dei girovaghi che sono accampati fuori dalla città. Loro ti condurranno presso i tuoi cugini a Foix. Stai sempre in guardia, però, e non rivelare mai la tua vera identità.» Il carro era fermo poco lontano dalla porta meridionale. Le sponde in legno lungo i lati erano state alzate. Alla sommità delle pareti era poggiato un tetto ricoperto da tegole di terracotta che gli dava l'aspetto di una casa
montata su delle ruote. Da uno stretto camino di ferro usciva un filo di fumo. Un ronzino vecchio e con la schiena curva brucava dell'erba lì attorno. Vicino al carro ardeva un fuoco sopra al quale, sorretta da tre legni incastrati tra di loro, in una pentola di rame annerita dall'uso, bolliva un liquido denso e scuro. Ogni cosa appariva sudicia e malandata. Fu lì che Aymon vide Bahram Gur per la prima volta. L'uomo aveva capelli grigi e lunghi ed era vestito di stracci. Sembrava un vecchio e Aymon faticò a credere al suo accompagnatore quando questi gli disse che non doveva avere più di cinquant'anni. Quando, riconosciuto il servitore di Puyol, costui sorrise, scoprì una fila irregolare di denti sporchi. Poco distante da lui sedeva quella che Aymon immaginò essere la moglie: una donna trasandata e sciatta che tradiva, però, una passata bellezza. Tra le mani teneva una bottiglia semivuota. Bahram Gur si alzò in piedi. «In che cosa posso esservi d'aiuto, mio caro amico?» disse Bahram. Altre volte lo zingaro aveva svolto delle missioni delicate per conto di Puyol, come consegnare documenti segreti o messaggi importanti che per nulla al mondo avrebbero dovuto finire tra le mani degli uomini di Montfort. Ed era sempre stato lautamente retribuito per ogni incarico portato a buon fine. La contrattazione fra il servitore di Puyol e Bahram fu lunga e concitata, poi il nomade ordinò ad Aymon di indossare degli stracci del tutto simili a quelli che lui portava. Quindi spense il fuoco e si preparò a partire. «Sali sul carro, ragazzo», disse con modi sbrigativi. «Dobbiamo andarcene in fretta. La storia che mi avete raccontato mi convince poco: tu non hai l'aria di essere il figlio di un vecchio amico del maestro di musica che ha avuto qualche rogna con la giustizia. Non vivo certo in un altro mondo, io. E ho capito che la tua fuga è collegata al trambusto degli ultimi giorni in città. Ma non spetta certo a me fare domande: ho ricevuto il mio compenso per condurti a Foix e così farò.» Bahram schioccò la frusta sulla schiena del cavallo e il carro, cigolando, si mise in marcia. «Tira fuori quel tuo strumento», disse Bahram indicando la custodia della ghironda, «e vediamo cosa ti ha insegnato il maestro.» Aymon ubbidì senza fiatare: suonare era sempre un piacere per lui. Quando la melodia si spense, Bahram abbandonò le briglie e prese ad
applaudire tanto sonoramente da coprire il russare della moglie, che dormiva ubriaca sulla branda all'interno del carro. «Bravo! E ora ti dico di me. Il mio, Maxim», Bahram chiamò Aymon con il nome che il ragazzo gli aveva dato, «è un nome ricco di storia e di onore, quello di un antico re persiano, Bahram Gur, che cercava musici e saltimbanchi per rallegrare le sue giornate. Per trovarli chiese aiuto al suocero, il re indiano Sankàl. Fu grazie a lui che alcune migliaia di miei antenati giunsero in Persia. Noi apparteniamo al popolo dei luri e si dice che ben pochi musici riescano a competere con il nostro talento. Dalla Persia alcuni di noi si misero in viaggio e divennero i nomadi che qui in Europa sono chiamati atsigani.» Bahram tacque all'improvviso, impallidendo: due soldati a cavallo erano passati al galoppo di fianco al carro e altri si scorgevano poco lontano, lungo la strada. «Presto, nasconditi qui dentro, ragazzo», disse sollevando una tavola che celava un nascondiglio segreto posto sotto la cassetta, abbastanza grande da contenere un uomo rannicchiato. «Resta in silenzio sino a che non ti dirò di uscire. Sono certo che fermeranno il carro per perquisirlo.» «Ma guarda chi si rivede», disse uno dei crociati riconoscendo Bahram, «il nostro musico vagabondo. Cosa fai qui? Non avevi detto di voler restare in città ancora per diversi giorni? Come mai sei partito così di furia?» «Magri affari, soldato», rispose Bahram. «La gente di Carcassonne sembra che abbia la borsa cucita, e mia moglie e io viviamo solamente della benevolenza altrui.» «Dove stai andando, di grazia?» «Non lo so di preciso, mi lascerò guidare dal mio vecchio ronzino», mentì lo zingaro. Foix era ancora nelle mani dei ribelli: era meglio non far sapere che era diretto in terra nemica. «Bene. Comunque, i miei uomini dovranno ispezionare il carro.» «Fate pure: vedrete che porto solo merce avariata. E la mia sposa ne è l'esempio luminoso», rispose Bahram suscitando l'ilarità dei soldati. Un'altra risata si levò dalla soldataglia, quando la moglie di Bahram reagì con un sonoro rutto al brusco risveglio. «Avete per caso visto un ragazzino che porta uno strumento da musica a tracolla? Il suo nome è Aymon», chiese il comandante del drappello. «Non ho incontrato anima viva da quando ho lasciato Carcassonne. Ma, se non sono irrispettoso, posso chiedere perché degli eroici crociati sono
alla caccia di un giovanetto?» «Simone di Montfort in persona ha dato ordine di trovare quel ragazzo, costi quel che costi: si dice che sia il nipote di Beaufort di Daigne e che il nonno, prima di venir catturato, lo abbia messo a conoscenza di un importante segreto. Se mai ti dovesse capitare di incontrarlo, trova il modo per condurlo in città, anche in catene: c'è una ricca taglia su di lui.» Ciò detto, i soldati lasciarono il passo al carro. «Lo farò di sicuro, signore, se ne avrò l'occasione.» Quindi Bahram spronò nuovamente il ronzino e il carro si allontanò dal posto di blocco. «Maxim, vero?» disse lo zingaro puntando un dito verso il ragazzo. «Tu non ti chiami affatto Maxim, ma Aymon, e sei il nipote di Beaufort, il terrore dei crociati. E se ora tutti gli uomini di Simone di Montfort ti stanno cercando, non so davvero come riusciremo a sfuggire loro e a raggiungere sani e salvi Foix.» Aymon non rispose e rimase a osservare il nomade, che sembrava assorto nei suoi pensieri. «Bene», riprese Bahram, «dato che ho scoperto chi sei, credo che il mio compenso debba essere rivisto. Sarai tu stesso a sdebitarti con me. Noi siamo dei musici e tu sembri molto bravo con la ghironda. Ci esibiremo insieme sulle piazze e nelle strade. Per tutti sarai nostro nipote e rimarrai con noi fino a quando io deciderò che mi avrai ripagato. E non tentare di fuggire, sarebbe peggio per te perché finiresti tra le mani dei soldati di Montfort, mio bel visconte di Daigne.» Quella notte, nell'angusto e maleodorante spazio del carro, Aymon si rese conto di essere ormai solo al mondo. Nascose il volto nell'incavo del gomito e si abbandonò a un pianto silenzioso e disperato. «Venite, signori, a deliziarvi con la musica del mio giovane nipote Maxim!» Bahrain si era ripulito e indossava un abito di velluto rosso. Anche la moglie, per una volta sobria e vestita con cura, dispensava grandi sorrisi ai passanti. «Dio ha voluto regalarci il talento di nostro nipote e noi vogliamo condividerlo con voi. Venite a sentire le sue canzoni. Venite a dilettare il vostro udito con le note più belle che mai abbiate avuto modo di ascoltare. Non costa nulla: se volete e se sarete soddisfatti, lascerete solo il vostro obolo.»
Il lato del carro esposto al pubblico era stato coperto con un panno color porpora disposto a guisa di fondale di scena. Lì era seduto Aymon con la ghironda sulle ginocchia. Alla sua destra Bahram lo avrebbe accompagnato con un barbat, comunemente chiamato oud', un antico strumento persiano simile a un mandolino, le cui corde venivano toccate con un plettro di penna d'aquila. Lo zingaro aveva anche un flauto di Pan che stava appoggiato su uno sgabello al suo fianco. Dalla parte opposta del piccolo palcoscenico prese posto Sarya, la moglie del nomade. La donna possedeva una voce calda e melodiosa, adatta ad accompagnare le canzoni di Aymon con un soave controcanto. La piazza principale di Limoux era gremita: la gente, stremata dalla guerra, era accorsa ad assistere allo spettacolo, desiderosa di dimenticare per un po' gli stenti e la paura. L'Aude scorreva placido a poca distanza. Aymon, fatta eccezione per brevi esibizioni nel castello del nonno, non aveva mai suonato in pubblico. Dovette fare uno sforzo per vincere l'emozione, ma infine sfiorò le corde e intonò la prima canzone. Non appena le note si diffusero nell'aria, avvenne qualcosa dal sapore magico: sulla piazza il brusio del pubblico cessò di colpo e, nel silenzio, le sole voci che si levarono furono quelle di Aymon e di Sarya. Aymon alternava canzoni sacre a ballate che narravano di amori tra prodi cavalieri e nobili principesse. Il pubblico era catturato e quando, tempo dopo, i musici tacquero, gli astanti, in preda all'entusiasmo, chiesero che il terzetto continuasse a suonare. «Sessanta tornesi!» esclamò estasiato Bahram. «Tu e io da soli, moglie mia, non riusciamo a racimolarne più di cinque o sei quando va bene. Quel ragazzo è una vera benedizione per noi.» Così dicendo l'uomo chiuse gli scuri in legno dell'unica finestra della loro casa viaggiante e si coricò soddisfatto di fianco alla moglie. Aymon, dal canto suo, dopo essersi arrovellato per giorni su quale decisione dovesse prendere, era giunto a una conclusione. Bahram aveva ragione: i soldati cercavano un ragazzo, e se lui avesse abbandonato i due zingari sarebbe stato individuato in un baleno. E poi, dove andare? Possedeva solo i pochi spiccioli che gli aveva lasciato Puyol, non conosceva la regione e, una volta arrivato a Foix, non era certo che i suoi parenti lo avrebbero accolto a braccia aperte. E poi, per quanto tempo ancora Foix sarebbe riuscita a resistere alle truppe di Simone di Montfort?
Il fatto di viaggiare con una coppia di giramondo e di apparire come un povero menestrello lo avrebbe salvato dalle lance dei soldati cristiani. Aymon impugnava un palo di legno come fosse stata una spada e, nello spiazzo antistante il carro, si stava esercitando nelle mosse di attacco e difesa che gli aveva insegnato nonno Beaufort. Bahram era rimasto a osservarlo in silenzio. Poi, alla fine dell'esercizio, si era lasciato andare a una esclamazione ammirata. «Vedo che con la spada sei abile come con la ghironda, Aymon», commentò. «Mio nonno trascorreva intere giornate a insegnarmi i segreti della scherma. Peccato non avere una vera spada: con un pezzo di legno non è la stessa cosa, ma non ho trovato di meglio per allenarmi.» «Vuoi dire che ti eserciti spesso, Aymon?» «Certo, tutti i giorni. Ogni volta che posso. Ma devo conciliare gli esercizi musicali con quelli del corpo.» «Sei un bravo ragazzo, mio giovane amico. E un giorno raccoglierai i frutti del tuo impegno. Ora però vieni dentro, voglio mostrarti una cosa.» Bahram armeggiò attorno a un nuovo stipo nascosto ed estrasse dal fondo del pavimento un involto di stracci. Davanti agli occhi del giovane, sbarrati per lo stupore, apparve una spada bellissima: non molto lunga, con un grosso smeraldo incastonato sulla sommità dell'elsa, finemente lavorata a sbalzo in lamina d'oro. L'arma, leggera e maneggevole, aveva la forma di una mezza luna. Bahram la tenne alcuni istanti tra le mani, quindi la porse ad Aymon, che era rimasto senza parole. «È un'akinakes, un'arma usata dagli sciti in Persia. Puoi usare questa per i tuoi esercizi, ragazzo, se vuoi.» «È bellissima. Starebbe bene al fianco di un cavaliere o di un principe. Chi te l'ha data?» «È mia da sempre e per nulla al mondo mi separerei da lei. Un giorno ti racconterò la mia storia, ma ora dobbiamo mangiare e poi andarcene: non voglio che la nostra presenza incuriosisca troppo i soldati della guarnigione.» «Basta parlare, voi due!» gridò Sarya mentre girava il mestolo nel tegame sul fuoco. «Venite a mangiare. Per una volta che ho deciso di comprare un pollo invece di una buona bottiglia di vino, non me ne vorrei pentire. Forza, saziate il vostro appetito. Con lo stomaco pieno viaggeremo me-
glio.» Pareva che l'arrivo di Aymon avesse portato una ventata di buon umore nella vita dei due nomadi: Bahram ora si era rasato e ripulito, e la moglie si teneva lontana dal vino ormai da diversi giorni. Inoltre i tre avevano ridipinto di bianco il carro che aveva assunto un aspetto più lindo e ordinato. Passavano di paese in paese, senza mai fermarsi per più di una rappresentazione: non sempre il loro pubblico era generoso come lo era stato quello di Limoux, ma gli incassi erano spesso buoni e i tre ora si potevano anche concedere qualche piccolo lusso. Per il giovane Aymon i giorni volavano, mentre gli sembrava di avere finalmente trovato la famiglia che aveva sempre desiderato. Nonno Beaufort era stato un parente affettuoso, ma con la guerra, era diventato sempre più difficile che i due riuscissero a trascorrere insieme momenti spensierati. Spesso il ragazzo restava solo con le donne di casa, tormentandosi per non essere abbastanza grande da poter combattere anche lui. Poi, quel giorno a Carcassonne, tutto era finito. «Che ti succede, Aymon? Il tuo viso si è rabbuiato», gli chiese Bahram non appena ebbero finito di mangiare. «Stavo pensando a mio nonno. La sua morte pesa sulla mia coscienza come un macigno.» «Dovrai abituarti a vivere con questi pensieri. Ora sei triste, ma non devi addossarti colpe che non hai. Beaufort di Daigne era un soldato e sapeva bene che avrebbe corso molti rischi a recarsi a Carcassonne. Era convinto che ne valesse la pena.» Bahram tacque, ma vedendo che il giovane era turbato, riprese. «Tuo nonno sapeva che la sua era una guerra persa: un manipolo di catari, anche se bene addestrati e conoscitori di ogni anfratto nella zona, non poteva tenere testa per molto tempo a un esercito. E ha voluto fare in modo che tu potessi vivere la tua vita.» «Che cosa vuoi dire? Se non avesse deciso di accompagnarmi da Puyol, nessuno sarebbe mai riuscito a catturare nonno Beaufort.» «Lo credi davvero, mio giovane amico? Ora ti racconterò ancora un po' della mia storia e vedrai che nessuno è infallibile, nemmeno gli eroi. La scorsa notte Sarya e io ti abbiamo sentito singhiozzare. Ma non devi essere triste. Voglio che tu sappia che, da quando sei con noi, la nostra vita ha finalmente un senso. Purtroppo non siamo mai riusciti ad avere un figlio al quale tramandare esperienze e insegnamenti, e questo dolore ci stava por-
tando alla rovina. Hai visto come è cambiata mia moglie? E anch'io ho ritrovato la voglia di vivere, di suonare, di girare il mondo. Insomma, tu ci hai restituito dignità e pace. E non credere che la dignità si possa trovare più facilmente alla corte di un re che su un carro di nomadi. Ma adesso basta con i sermoni. Sei pronto ad ascoltare le gesta di un vecchio zingaro?» Aymon annuì e si sedette più comodo, accoccolandosi a cassetta, mentre Bahram iniziava a raccontare. Il vecchio cavallo trainava il carro nella notte con un moto lento e costante. 12 Germania, anni '30 Karl Maria Wiligut non era solo un cultore di esoterismo. Era un austriaco che fin dalla più giovane età si era votato all'Irminismo, un gruppo convinto che la Bibbia fosse stata scritta in Germania per mano di una divinità chiamata Krist. I cristiani e gli ebrei erano visti come usurpatori che si erano proditoriamente appropriati della paternità del libro sacro. Wiligut sosteneva di discendere - per linea paterna - dall'unione tra una divinità dell'aria e una dell'acqua chiamate Asen e Wanen. Sua moglie, impotente di fronte al delirante fanatismo del marito, era riuscita a farlo chiudere in una casa di cura per malattie mentali, e lì era rimasto dal '24 al '27. Una volta dichiarato guarito da una grave forma di megalomania, aveva però ripreso i contatti con gli innumerevoli discepoli e ammiratori. Dopo aver assunto lo pseudonimo di Weisthor, aveva giurato a se stesso che il mondo intero avrebbe presto dovuto riconoscere la validità delle sue teorie. Heinrich Himmler era uscito indenne dalle retate che erano seguite al fallito Putsch di Monaco. Non solo gli era stata risparmiata la prigione, ma, sul finire degli anni '20, era diventato capo delle SS. La passione per il culto delle origini e per i riti misterici ed esoterici che coltivava da sempre sarebbe diventata un'autentica ragione di vita dopo l'incontro con Karl Maria Wiligut-Weisthor. Il brillante e attraente ufficiale Reinhard Tristan Eugen Heydrich era stato costretto ad abbandonare la marina militare nel 1930. Nel dicembre di quell'anno si era sposato con la figlia diciannovenne di un aristocratico decaduto e i due giovani coniugi avevano vissuto i primi
tempi della loro unione in uno stato d'indigenza quasi assoluta. Poi, nel 1931, su suggerimento di un comune amico, Heydrich fu chiamato a lavorare per Heinrich Himmler. Al capo delle SS servivano giovani disposti a tutto per mettere in piedi una efficiente rete di controspionaggio. «Perché, Herr Heydrich, avete abbandonato la marina?» gli aveva chiesto Himmler, osservandolo con i suoi occhi sottili da dietro gli occhiali cerchiati. «È una vicenda personale, comandante, se non vi dispiace preferirei non parlarne.» «È bene che sappiate fin d'ora che tra me e i miei uomini, Herr Heydrich, non devono esistere segreti di sorta. Né faccende personali.» «Quando ho incontrato Lina von Osten, mia moglie, ho abbandonato la mia precedente fidanzata, che era la figlia di un importante industriale, amico intimo dell'ammiraglio Raeder, il comandante in capo della marina. Il congedo è stata la punizione per il mio comportamento.» Ma Himmler aveva già preso le sue informazioni: «A me risulta, signore, che la giovane da voi delusa e abbandonata fosse incinta di un vostro erede». «Vedo che non vi si può nascondere nulla, comandante», borbottò Heydrich senza riuscire a celare l'imbarazzo. «Vicende amorose a parte, Herr Heydrich, io vi considero una persona dotata di grandi qualità e, se vi unirete a noi, farò in modo di assegnarvi un incarico di rilievo.» Erano in molti a sostenere che Himmler, a causa dei suoi tratti somatici, tradisse una contaminazione da sindrome di Down. Heydrich lo osservò: quell'uomo, del quale, nonostante il suo aspetto, era difficile pensare che non fosse dotato di una mente pronta e di una pericolosa scaltrezza, gli stava offrendo il futuro. Nel luglio del 1931, Reinhard Heydrich si arruolò nelle SS. Quanto a Rudolf Hess, era giunto per lui il momento di ricevere il premio alla sua incondizionata fedeltà ad Adolf Hitler. Sebbene Hess fosse riuscito a sfuggire all'arresto dopo il colpo di Stato del 1923, egli si era costituito spontaneamente per poter restare vicino a Hitler durante i nove mesi della sua prigionia nel carcere di Landsberg. Nel corso di quel periodo lo aveva assistito nella stesura del Mein Kampf, la futura bibbia dell'ideologia nazista. Anche Hess subiva il fascino delle scienze esoteriche ma, a differenza di
Himmler, aveva sempre mantenuto un atteggiamento pragmatico e concreto. Hess, nel '28, si era adoperato affinché il figlio di un suo amico fosse nominato segretario della Società nazionale geografica. Colui che avesse ricoperto quella carica avrebbe potuto svolgere viaggi e ricerche in ogni angolo del mondo. Nel corso dei suoi spostamenti, Albrecht Haushofer questo il nome dello studioso - si mise a raccogliere informazioni riservate di ogni genere che poi inviava direttamente al delfino di Hitler. Dal canto suo, Rudolf Hess utilizzava tali informazioni per ordire il piano che da tempo aveva in mente. Per contro, in cambio dei suoi servizi, la spia ottenne una «dimenticanza» riguardo alle origini ebraiche degli Haushofer e, in seguito, una prestigiosa cattedra universitaria. Roma, anni '30 Il nunzio apostolico Eugenio Pacelli, nel 1925, era stato trasferito da Monaco alla più prestigiosa sede di Berlino e vi era rimasto per quattro anni. Rientrato a Roma nel 1929, papa Pio XI lo aveva nominato cardinale e segretario di Stato. Fu proprio a causa della sua esperienza personale che il nuovo prelato si mostrò da subito molto attento alla situazione tedesca. «Ciò che accade in Germania», ripeteva spesso, «estenderà i suoi effetti sul mondo intero.» Il cardinale stava leggendo uno dei dispacci che gli pervenivano settimanalmente da Berlino. «Che cosa ne pensate del Partito nazista, padre Roeller?» chiese Pacelli, guardando da sotto gli occhiali leggeri il suo interlocutore. «Non so, eminenza... Non vorrei addentrarmi in questioni troppo politiche. Ma certo ci vuole qualcuno dal pugno di ferro per rimettere in sesto l'economia del mio Paese, che per troppo tempo è stato in mano a ebrei e comunisti.» «Voi siete il segretario particolare del mio successore, il nunzio apostolico a Berlino», incalzò Pacelli, «ed è giusto che abbiate un'opinione personale. Ad esempio, che ne dite di quanto mi scrive sua eminenza il nunzio apostolico, circa questa passione per l'esoterismo nutrita da persone molto vicine ad Adolf Hitler? Voi conoscete qualcuno tra quei maghi e falsi pro-
feti che pare seguano passo passo personaggi come Himmler e Hess? Sapete chi sia questo Karl Maria Weisthor, padre Roeller?» «Non lo conosco, eminenza. Inoltre il nostro abito impone anche a me di non schierarmi in favore di nessuno, se non di nostro Signore, grande e misericordioso», disse il prete, inginocchiandosi in attesa della benedizione del cardinale. Eugenio Pacelli fece il segno della croce e congedò padre Roeller. Quell'uomo non gli piaceva, aveva qualcosa di sfuggente, pensò mentre osservava Roeller che si allontanava. Wewelsburg, anni '30 «Grazie per essere venuto, Reichsführer Himmler», disse Karl Maria Weisthor, alzando la mano nel saluto nazista. «Quello che abbiamo scoperto nel corso degli scavi è del tutto singolare, signore. Sarebbe forse meglio ne discutessimo in privato.» «Non ho segreti per il camerata Heydrich», rispose Himmler indicando l'uomo che lo aveva accompagnato in quel viaggio nella Vestfalia Nordoccidentale. L'imponente edificio alle loro spalle era poco più di un rudere, ma Himmler si era infatuato del castello di Wewelsburg dalla prima volta che l'aveva visto e, sicuro di riuscire a entrarne in possesso, aveva dato avvio ai lavori di ripristino. Il maniero risaliva al X secolo, all'epoca in cui i germani, sotto la minaccia degli unni, avevano costruito sulla collina del Wewelsburg una roccaforte che li avrebbe difesi dagli attacchi dei barbari. Si diceva che tra le sue mura, sin dai tempi più antichi, avessero luogo oscuri riti esoterici e che il castello facesse parte di una grande rete di manieri e di monasteri sedi di culti profani. Verso la metà del XIX secolo il maniero, ormai abbandonato e fatiscente, era stato acquistato dallo Stato prussiano. «Signore, ho qualcosa da mostrarvi che credo vi interesserà», disse Weisthor, porgendo a Himmler alcuni fogli ingialliti sui quali erano tracciati segni e lettere. «Sembra uno spartito musicale», disse Himmler, esaminandoli. «Per l'esattezza, è una parte di una canzone medievale. Meglio, una cansò, come erano soliti chiamarla i trovatori di Occitania.» «Trovatori di Occitania? In Vestfalia?» chiese l'altro, scettico.
«Non è l'unica singolarità dello spartito, eccellenza. Voi mi avete fornito la manodopera per eseguire dei lavori di manutenzione e io mi sono permesso di fare svolgere delle ricerche in punti che reputavo di particolare interesse geomantico: l'intera struttura del Wewelsburg è un vero e proprio esempio di come l'architettura possa essere messa al servizio della magia. Prova ne è la planimetria stessa del castello, che ha la forma di una freccia rivolta verso nord. Il caso ha voluto che lo scopritore di questo frammento fosse un esperto di musica antica. Quando abbiamo trovato lo spartito nascosto in una nicchia murata, egli ha provato a interpretare la composizione con una chitarra, ma si è accorto subito che qualche cosa non andava: alcune note non sono al posto giusto, e gli errori appaiono fin troppo grossolani. «Alla fine, abbinando le lettere alfabetiche a un sistema che i musici medievali chiamavano delle cinque dita o della main guidonienne, sono emersi alcuni frammenti di un messaggio. Una specie di codice segreto. Il giovane studioso assicura di non essere distante dalla sua decifrazione, ma preferirei consegnare a voi il manoscritto perché lo sottoponiate ai vostri esperti a Berlino.» Il ritrovamento di antichi reperti era, per Himmler, un'esperienza esaltante: ora i suoi occhi brillavano per l'eccitazione. «Si tratta, però, di un frammento, avete detto, Herr Weisthor?» chiese Heydrich. «Sì, signore. Crediamo che sia solo la prima parte della canzone. Siamo alla ricerca della seconda metà del documento. Speriamo si possa trovare tra queste mura ma, sino a ora, le nostre ricerche sono state infruttuose.» «Cercatelo, Weisthor, e tenetemi informato. Se lo credete necessario, posso fornirvi altri uomini. Nel frattempo farò esaminare il frammento. Voi occupatevi della ricerca del tassello mancante di questo rompicapo.» Himmler si volse verso le rovine che si stagliavano contro il rosso di un tramonto infuocato: l'attrazione incontrollabile che aveva provato per il castello di Wewelsburg a un tratto aveva assunto un senso. Il maniero doveva essere suo, ora più che mai. Berlino, anni '30 Il telefono sulla scrivania di Himmler, nell'ufficio al numero 9 di Prinz Albrechtstrasse a Berlino, prese a squillare. «Heil Hitler, comandante Himmler. Sono il colonnello Dieter, del Tech-
nische Ausrüstung und Maschinen.» «Heil Hitler, colonnello», rispose Himmler con il consueto tono freddo e distaccato. «Volevo aggiornarvi in merito a quella composizione musicale in provenzale antico.» «Ditemi, colonnello. Siete riusciti a decifrare il codice?» «In parte sì, Reichsführer, anche se ci sono ancora dei passaggi poco chiari. Da quello che siamo riusciti a intuire, il messaggio celerebbe l'ubicazione del nascondiglio di una misteriosa pietra, venerata sin dai secoli più antichi. Un frammento di roccia che avrebbe il potere di uccidere chiunque abbia la sfortuna di toccarla o anche solo di guardarla.» «E dove si trova una tale arma?» «Non c'è dato modo di saperlo, eccellenza. È probabile che questa informazione sia celata nell'altro frammento di canzone, quello di cui non siamo in possesso.» «Che cosa ne pensate, colonnello? Datemi il vostro parere, a me sembra una storia incredibile.» «Non saprei, signore... Alcune volte compaiono le parole 'puro' e 'perfetto'. Entrambe sono correlate alla religione catara, un'eresia che percorse la Francia nei primi secoli del millennio. Si dice che i catari fossero i custodi di antichi segreti e che il vero motivo per cui il papa organizzò la crociata fosse quello di scoprire il nascondiglio del Santo Graal.» Poche ore più tardi due persone erano sedute dinanzi a Himmler. Uno era Reinhard Heydrich, l'altro era una vecchia conoscenza di Himmler che aveva da poco abbracciato la causa della Società di Thule. Hermann Pohl aveva sciolto la setta da lui creata, l'Ordine dei cavalieri teutonici e del Santo Graal, per confluire con i suoi numerosi adepti nella Thule. «Mi sono rivolto a voi perché venite considerato una assoluta autorità in materia. Che cosa può esserci di vero nel testo che forse è occultato tra le note della canzone medievale?» chiese Himmler a Hermann Pohl. «Io sono uno studioso di una certa esperienza, signore», rispose Pohl. «Le mie conoscenze poggiano sull'analisi dei documenti reali e tangibili. Ma esistono reliquie che nessuno ha mai visto, delle quali non vi è traccia, e che sono ammantate da un alone di leggenda. Voi non avete bisogno di me, quanto di una persona che sappia destreggiarsi tra reperti e ricerche archeologiche. Ho un caro amico che vive in Francia da qualche anno e che credo potrebbe esservi utile. In questi giorni si trova qui a Berlino per cer-
care fondi con i quali proseguire il suo lavoro in Linguadoca e per trovare un editore che voglia pubblicare un suo saggio sul Graal. Si chiama Otto Rahn.» «Sarebbe interessante incontrare questo signor Rahn. Mi auguro che non mi voglia rifiutare un invito a cena nei prossimi giorni», concluse Heydrich. Il tono era quello di chi sa di poter ottenere qualunque cosa. Otto Rahn era un uomo dall'aspetto solo in apparenza mite: non molto alto, snello, scuro di capelli, la fronte alta, dava la sensazione che i suoi muscoli - meglio sarebbe stato chiamarli fasci di nervi - fossero in continua attività. Aveva accettato l'invito in uno tra i locali più eleganti di Berlino convinto di trovarsi davanti un potenziale editore per la sua Crociata contro il Graal: questo almeno Pohl gli aveva fatto credere quando lo aveva contattato. Riconobbe Himmler e Heydrich non appena il maître lo condusse nella saletta privata del ristorante Horcher. «Accomodatevi, Herr Rahn», disse Himmler, indicando una sedia libera tra lui e Pohl. Lo studioso sedette, perplesso per quella strana convocazione. Due delle persone sedute al suo tavolo erano tra le più in vista dell'intera Germania. Otto Rahn non si era mai interessato di politica, né aveva sostenuto in alcun modo il nazismo, anche se ammetteva che il suo Paese, negli ultimi anni, stava cambiando in meglio. Di questo c'era da render merito al partito di Adolf Hitler. «Vi abbiamo chiesto di accettare il nostro invito, signor Rahn», esordì Reinhard Heydrich dopo le presentazioni e i consueti convenevoli, «perché ci risulta che voi abbiate scritto un saggio molto interessante sul Santo Graal.» Heydrich, parlando, aveva estratto da una borsa una pila di fogli scritti a macchina. Rahn li riconobbe subito: era una copia del dattiloscritto che aveva inviato agli editori. «Vedo che vi siete documentato, Herr Heydrich», disse Otto Rahn, sempre più stupito. «Certo, per noi è molto importante sapere come lavorano gli uomini con cui vogliamo collaborare. Sia io che il comandante Himmler abbiamo letto il vostro studio e lo abbiamo trovato assai pregevole. Siamo sicuri che presto riceverete un'offerta lusinghiera per la sua pubblicazione.» Era evidente che i due nazisti avevano già trovato chi avrebbe pubblicato il saggio. A
Rahn fu chiaro che erano sul punto di proporgli uno scambio. Himmler giunse al dunque con il consueto modo autoritario: «Vorrei la vostra personale opinione sul Santo Graal, Herr Rahn. E per personale intendo scevra dagli orpelli romanzeschi o retorici con i quali gli scrittori amano farcire i loro racconti». «Voi avete centrato il punto, signore. Da sempre il Santo Graal è al centro di opere letterarie dagli alterni successi. Dal Parzival di Wolfram von Eschenbach all'intera epopea arturiana, per arrivare fino alle opere degli scrittori contemporanei, la storia del Graal è stata sfruttata per suscitare l'interesse e la curiosità del pubblico. Nulla di tutto questo è però attendibile sotto l'aspetto scientifico, signori. A seguito di anni di ricerche, sono giunto alla conclusione che ciò che viene chiamato il Graal potrebbe essere un oggetto precristiano la cui origine si perde nella notte dei tempi e che è diventato un simbolo proprio perché misconosciuto. Naturalmente, signori, queste mie convinzioni sono solo accennate nel mio testo, e sono certo che non sarà necessario far leva sulla vostra riservatezza per sottolineare la confidenzialità della nostra conversazione.» «Andate avanti, Rahn», disse Heydrich. «Il Graal non è un vaso o un calice dal quale Cristo bevve prima di morire o nel quale Giovanni d'Arimatea raccolse alcune gocce del sangue di Gesù mentre questi agonizzava sulla croce. Non è neppure un prezioso smeraldo persiano dai poteri magici, trasportato dalle sabbie africane sino alle roccaforti catare. Il Graal è una pietra, ma non possiede qualità magiche. O meglio: i poteri di questo oggetto potevano essere considerati magici nell'antichità. Oggi, in epoca moderna, noi preferiamo dare a certi fenomeni spiegazioni razionali.» «Ovvero?» «Dalle informazioni che ho raccolto, e si è trattato per lo più di voci, leggende, racconti tramandati di padre in figlio, si direbbe che tutto vada verso la stessa direzione: il potere della pietra è quello di uccidere chiunque abbia la sventura di vederla. Ciò significa che è in grado di emettere radiazioni letali.» «Voi avete idea di che materiale possa trattarsi?» chiese Himmler incalzandolo. «Gli esperimenti di Rutherford o quelli più recenti di Chadwick e Feather, gli studi di Fermi o quelli di Curie sono di pubblico dominio, signori. Sappiamo che il mondo minerale deve ancora essere esplorato come il più profondo degli oceani, ma le particelle radioattive alfa sono ormai un
dato di fatto. Non sappiamo ancora con esattezza quali danni possa provocare sul fisico umano una irradiazione massiccia di particelle radioattive. Né siamo in grado di spiegare come si trovi, in natura, la concentrazione massima di quei minerali. Nascosto da qualche parte nella Linguadoca, tra gli impervi picchi o i resti dei manieri che furono i rifugi dei catari, sono convinto si trovi un'alta concentrazione di materiale radioattivo. Per due anni ho setacciato la zona con uno strumento di precisione che Geiger ha messo a punto una quindicina di anni fa. Ma, per ora, i miei risultati sono stati deludenti. Malgrado ciò, rimango delle mie convinzioni.» «Siamo d'accordo con voi, Herr Rahn. Per questo vi chiediamo di lavorare per noi.» La domanda di Himmler assomigliava in tutto e per tutto a un ordine. 13 Teheran, 2006 «Un bluff!» Gholam Pashelvi era terreo. L'ira, per alcuni istanti, gli impedì di parlare. Poi l'ayatollah si accarezzò la barba scura e ispida, si sistemò con un gesto meccanico gli occhiali e quindi esplose come una pentola a pressione. «Com'è possibile che sia stato tutto un trucco per fare colpo sul mondo occidentale e far lievitare il prezzo del greggio?» Nard Sourush gli stava davanti con l'espressione di una tigre addomesticata redarguita dal proprio domatore. «Tenga conto che la messinscena ha fruttato miliardi di dollari che ora sono al sicuro nelle casse del nostro Paese. Ogni volta che si parlava di minaccia nucleare, il prezzo del greggio aumentava di qualche dollaro a barile. Per l'Iran è stata come una manna. Eccellenza, non me la sento di condannare il suo predecessore per una bugia che ha portato alcuni miliardi di dollari nelle casse del Paese. E non dimentichiamoci che quei denari, sporchi del sangue degli infedeli, sono serviti a finanziare i nostri fratelli...» «Uno stupido bluff», ripeté ancora Pashelvi, incapace di scuotersi da quello stato quasi catatonico. «La potenza nucleare iraniana è soltanto uno stupido bluff.» «Esatto, eccellenza. Con l'energia prodotta dalle nostre favolose centrali nucleari, potremmo forse accendere un fiammifero, solo dopo averlo stru-
sciato sulla cartavetrata, si intende.» «Gli impianti di Bushehr, Ahwaz e quello di Isfahan... il vanto della tecnologia nazionale... un monito per ogni infedele...» «Non vorrei che le mie parole suonassero come irriverenti, eccellenza. Ma, da persona a lei devota sino alla morte, preferisco dirle esattamente come stanno le cose: i nostri stabilimenti più moderni non hanno un grammo di materiale fissile o altri componenti radioattivi. Sono solo degli immensi set cinematografici, dove le comparse si aggirano fingendo di essere indaffarate, per gettare fumo negli occhi a ogni eventuale osservatore. Anche gli ispettori internazionali che hanno visitato gli impianti sono stati ingannati con abili trucchi.» Lo sguardo di Pashelvi si fece improvvisamente attento e l'uomo si raddrizzò sulla sedia, riscosso dal suo stato di torpore. «Aspetta un momento...» disse il presidente iraniano, «... aspetta un momento... Forse potremmo rivolgere questa situazione a nostro favore.» Roma, 2006 Sara Terracini, in piedi di fronte al leggio, stava concludendo il suo discorso. Il grande salone della villa settecentesca nei pressi di Roma era gremito. «Siamo quindi pronti a restituire al mondo intero questi sensazionali reperti», disse la studiosa, mentre alle sue spalle alcune foto di statue, affreschi e vasi antichissimi venivano proiettate su uno schermo gigante. «E per questo devo ringraziare la Fondazione van der Duick di Asunción, senza il cui aiuto sarebbe stato impossibile portare a termine gli scavi. Credo che oggi si sia aperta una nuova finestra sulla vita quotidiana dell'antica Roma. Accanto alle città devastate dall'eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, è venuta alla luce una nuova Pompei. E anche se la sua estensione è di gran lunga inferiore a quella del sito campano, non per questo la scoperta risulta meno importante.» Il Centro diretto da Sara Terracini aveva appena concluso con grande successo la prima fase di un impegnativo lavoro di scavo in Campania durante il quale era stato riportato in superficie un centro termale romano. «So che sembra un paradosso ma, in archeologia, i più tremendi eventi naturali sono quelli che ci danno l'opportunità di ritrovare situazioni inalterate. Così è accaduto per la nostra ultima scoperta, grazie alla quale conosceremo ancor meglio la vita quotidiana dei nostri antenati. Lo smottamen-
to che ha sepolto sotto decine di metri di terra un intero paese lo ha anche preservato delle ingiurie del tempo. Invito ora a parlare il presidente della fondazione che ha permesso tutto ciò. La parola al dottor van der Duick.» Deman van der Duick era un uomo dall'età poco definibile: poteva avere tra i sessanta e gli ottant'anni. Aveva un aspetto mite e cordiale, il naso leggermente aquilino. I capelli erano candidi. Gli occhi chiari erano messi in evidenza da un paio di occhiali leggeri. Si muoveva con un passo atletico e con gesti scattanti, inusuali in un uomo non più giovane. Proveniva da una famiglia di origine olandese che si era trasferita in Paraguay ai primi sentori dell'instabilità che sarebbe sfociata nella seconda guerra mondiale. Qui il giovane Deman aveva incominciato a interessarsi all'estrazione e alla commercializzazione dell'oro e delle pietre preziose. In pochi anni era così diventato il più importante commerciante d'oro e di pietre dell'America del Sud e uno dei più noti nel mondo intero. Era dotato di fiuto infallibile: per ben tre volte, agli albori della sua carriera, van der Duick aveva rilevato concessioni di miniere che si credevano esaurite e che invece celavano nelle loro profondità vene aurifere pressoché inestinguibili. Parlò in un inglese impeccabile, sia pure addolcito da qualche inflessione spagnola. Van der Duick rivolse un cortese saluto ai presenti e si dilungò sulle doti dell'artefice di quella impagabile scoperta: la dottoressa Sara Terracini. Sara fece ritorno nella sua casa del centro storico di Roma che era notte fonda. Le scarpe da sera dai tacchi altissimi le sembravano due morse. Se le sfilò prima ancora di varcare la soglia. Accese il computer mentre si spogliava lasciando scivolare in terra il vestito di seta. Si guardò allo specchio e quello che vide la lasciò soddisfatta: gli anni non avevano per nulla intaccato la morbida tonicità del suo fisico atletico. Quando sedette davanti al computer indossava solo gli slip e il reggiseno: avrebbe impiegato pochi istanti a controllare la posta. Lo scampanellio della macchina le segnalò che anche il suo lontano amico era in linea. Il messaggio che apparve sul monitor la fece sorridere.
aveva scritto Oswald Breil.
FARE LE ORE PICCOLE: DA TE DOVREBBERO ESSERE...> <È L'UNA E QUARANTACINQUE DI NOTTE E SONO APPENA TORNATA DA UNA CONFERENZA CON LE AUTORITÀ, LA STAMPA E IL MIO SPONSOR... MA GUARDA UN PO' SE DEVO RENDERE CONTO PROPRIO ATE DI QUELLO CHE FACCIO...> <SÌ, È VERO, NON C'È FRETTA, MA CERTO CHE LASCIARMI COSÌ, DOPO POCHE PAGINE, COL FIATO SOSPESO...> Pochi istanti più tardi Sara premeva il pulsante di invio, e si appoggiava sorridendo allo schienale della sedia. Si tolse gli slip e il reggiseno, attraversò nuda la camera da letto e si infilò sotto la doccia. L'acqua che scendeva a rivoli sulla sua pelle vellutata riuscì a placare l'inspiegabile eccitazione che l'aveva colta. Oswald immaginava Sara dinanzi al computer con gli occhiali appoggiati sul naso e il solito pigiamone di flanella che indossava quando i rigori dell'inverno attanagliavano anche la Città Eterna. «Buona notte, Sara!» sussurrò a bassa voce, mentre si accingeva a leggere quello che la sua amica oltreoceano gli aveva appena inviato. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 Non riuscivo a spiegarmene il motivo, ma quando questa matti-
na, alle otto, sono entrato nella veranda e ho visto per la prima volta Erick Neumann, non ho potuto fare a meno di pensare al giovane avvocato Jonathan Harker quando giunge al cospetto di Dracula nel romanzo di Bram Stoker. Neumann mi ha accolto con la freddezza di una statua di ghiaccio, e i miei tentativi di mitigare il suo algido comportamento con una calorosa stretta di mano e un sorriso smagliante non hanno prodotto alcun risultato. Il mio ospite porta bene i suoi settant'anni. La pelle del viso è liscia e quasi priva di rughe. Gli occhi grigioazzurri sono vivi e attenti. È alto almeno un metro e ottanta, ha spalle dritte e robuste: sembra un ex atleta che non abbia mai abbandonato l'esercizio fisico. In un ottimo inglese mi ha invitato a sedere al suo tavolo. «Spero che le siano stati comunicati i piccoli accorgimenti che le garantiranno un piacevole soggiorno qui alla Residencia. Sono certo che la mia fedele Agnes le avrà detto dell'assoluto divieto di fare e pubblicare foto non autorizzate. E le devo dire anche che sono poco propenso a trattare argomenti che non siano stati preventivamente concordati. I miei legali concederanno il loro assenso alla pubblicazione della sua intervista solo dopo averla letta.» Ancora non riesco a spiegarmi il motivo di questa idiosincrasia nei confronti di un obiettivo fotografico. In ogni caso, Documento sarà il primo giornale a riuscire là dove molti altri hanno inutilmente tentato. Erick Neumann doveva sbrigare alcune incombenze e, appena conclusa una lauta prima colazione a base di frutta, bevande e patisserie degna del migliore albergo, si è congedato affidandomi alle attenzioni della bella Agnes, che mi ha condotto in visita alla Residencia. Devo dire che il tour si è rivelato molto interessante e la guida gentile e preparata. La Residencia ha una pianta con forma di U rovesciata. Nel corpo centrale, alto tre piani, trovano posto le parti comuni, come l'immensa sala o la veranda dove mi è stata servita la prima colazione. Al primo piano ci sono sei dei nove appartamenti in cui è suddivisa la zona notte. Altri due sono collocati al terzo e ultimo pia-
no, che è occupato in gran parte dalle stanze di Erick Neumann. Nelle due ali speculari che si estendono ai lati del corpo principale per una sessantina di metri, si trovano, a destra, gli uffici di Neumann, la sala riunioni, la segreteria personale del presidente e una grande sala di attesa; a sinistra, gli uffici dell'intero staff dirigenziale di un impero che, mi rendo sempre più conto, può tranquillamente competere con le maggiori multinazionali del mondo. 14 Età dei Metalli, II millennio a.C. Nella lingua dei migos quel monte a forma di cono a doppia punta era chiamato pog. Vi si accedeva attraverso un erto sentiero sconnesso. Tra le due vette, si ergeva una struttura in pietra composta da due grandi massi disposti parallelamente in verticale, ai quali se ne sovrapponeva un terzo, orizzontale. Nel vano che si veniva a creare tra i tre massi, nel periodo del solstizio d'estate, filtrava il sole. Al tramonto, i raggi, passando attraverso l'apertura, disegnavano su una quarta roccia di colore più scuro, posta a ridosso delle altre tre, l'immagine di una farfalla. Questo fenomeno diventava sempre più evidente mano a mano che ci si avvicinava al solstizio per poi esaurirsi di tramonto in tramonto. Intorno a quella imponente struttura, sembrava che la natura avesse costruito una sorta di anfiteatro. Lì si celebravano i riti del matrimonio. Nel momento in cui prendeva forma l'immagine luminosa, le spose transitavano una a una nel passaggio tra il dolmen e la quarta pietra, in modo che l'immagine della farfalla si stagliasse sulla veste candida che indossavano, all'altezza del ventre. Quindi il sommo sacerdote, seduto su uno scranno posto più in alto rispetto al resto dei presenti, pronunciava la formula nuziale. Solo a quel punto i mariti, seduti di fronte alle donne, potevano alzarsi e andare a stringere le loro mani. I migos ritenevano indissolubile l'unione tra uomo e donna: il matrimonio era sacro e l'adulterio veniva punito con l'esilio. Solo a chi fosse rimasto vedovo veniva concesso di convolare a nuove nozze.
Athor stava salendo lungo il sentiero che conduceva al pog con passo rapido. Era come se non sentisse il peso del fardello che portava sulle spalle. Di tanto in tanto si fermava per sincerarsi che Dehal respirasse. Non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasta in vita: doveva assolutamente fare presto. Raggiunse l'altare proprio mentre il sole assumeva la colorazione rosso intenso che precede il tramonto e, con un gesto delicato e pieno d'amore, sorresse Dehal nel punto in cui tante volte aveva visto passare le giovani spose della sua tribù. Il raggio attraversò il dolmen e i contorni dorati della farfalla presero forma, sempre più nitidi, sul ventre di Dehal. Quello era il momento in cui il sacerdote doveva pronunciare la formula. Gli occhi di Athor erano gonfi di lacrime, ma la sua voce era ferma. «Io ti sposo, Dehal figlia di Aker, con Athor figlio di Sar. Siate legati dall'indissolubile vincolo da oggi e sino a che avrete vita. E che questa sia ravvivata dal sorriso di molti figli e dalla benevolenza del dio Hosh.» Poi, mentre la voce gli si spezzava in un singhiozzo, continuò: «Se tu dovessi morire, amore mio, giuro che nessuna mai prenderà il tuo posto». Quelle parole, sussurrate all'orecchio di Dehal, compirono il miracolo. Dehal mosse impercettibilmente la testa e cercò di parlare. Athor le accarezzò la fronte madida di sudore. Quindi le mormorò di non agitarsi, che andava tutto bene. Ma il giovane non era affatto tranquillo. Sapeva che ora avrebbe dovuto prendere la via del ritorno, e se anche avesse corso senza sosta, avrebbero raggiunto la grotta a notte fonda. Si caricò di nuovo Dehal sulle spalle, ma non aveva ancora mosso il primo passo, quando udì una voce minacciosa. «Fermo!» I due migos, con le lance puntate, gli avevano sbarrato il passo. La mano di Athor corse istintivamente alla cintura: il pugnale era al suo posto. «Abbassate le armi, migos. Sono un vostro fratello.» «Tu sei un traditore, Athor, e se non ti consegni a noi, ti uccideremo.» Dehal ebbe un sussulto e Athor si chinò per adagiarla a terra. «Ti ho detto di non muoverti!» ripeté minaccioso il migos, avanzando verso di lui. L'altro guerriero era rimasto in posizione di guardia pochi passi più indietro. Entrambi conoscevano bene il coraggio del figlio di Sar. Athor si mosse con la rapidità di una fiera, gettandosi sulla lancia. Le sue mani ne catturarono saldamente la punta di selce, senza curarsi della
ferita provocatagli dalla pietra tagliente. Anzi, la strinse con tutta la sua forza, facendo leva sull'asta. Il migos tentò senza successo di trattenere l'arma. Athor l'afferrò per l'impugnatura e colpì senza esitazione. Il migos strabuzzò gli occhi, mentre la punta gli si conficcava nel petto. Fu questione di attimi. L'altro, quello che avrebbe avuto il compito di coprire le spalle al compare, era rimasto immobile, terrorizzato dalla reazione del figlio di Sar. Fu forse la paura a fargli scagliare il suo giavellotto senza neppure prendere la mira. Per Athor non fu difficile schivare il colpo. Il migos fece due passi indietro. Alzò le braccia in gesto di resa. «Fermo, fratello. In nome di Hosh, non uccidermi!» urlò il migos. Athor esitò il tempo sufficiente perché la mano dell'altro corresse alla cintura e afferrasse il pugnale. Questa volta il migos prese la mira e la lama andò a conficcarsi nella spalla destra del guerriero. Ma sembrava che niente potesse fermare Athor. Il giovane afferrò il coltello per il manico, se lo estrasse dalle carni e con un balzo gli fu addosso: con un colpo preciso, gli recise la gola. Con il cuore in affanno, il guerriero migos quasi non si curò della ferita, ma sollevò la sua sposa e iniziò la lunga discesa verso valle. Era notte fonda quando raggiunse la grotta. Prima di coricarsi deterse con acqua pulita la sua ferita e quelle di Dehal. Quindi medicò entrambe con un impacco di erbe. Sorrise, passando le dita tra i capelli della donna che amava. Athor sedette al suo fianco e le adagiò sulla fronte un impacco fatto di muschio umido e foglie curative intrise d'acqua di fonte. Quindi, sfinito, si assopì. «Dove mi trovo?» mormorò Dehal. Il sole era tramontato e sorto per due volte da quando erano stati sul pog e la giovane non aveva mai ripreso conoscenza. La mano di Athor coprì la sua. «Sei al sicuro, adesso. Ci sono io con te», disse il giovane al quale parve di svegliarsi da un incubo. «Athor...? Sono forse al cospetto del dio Hosh? È dolce morire, se significa vedere esauditi i propri desideri.» La grotta rischiarata dalle torce aveva un aspetto incantato. Le bianche stalattiti scendevano dal soffitto come gigantesche candide cascate. Il baluginare delle fiamme le faceva sembrare in movimento. Anche i disegni sulla volta danzavano tra i riflessi dei fuochi.
«No, Dehal. Sei viva e sei al sicuro con me all'interno di una grotta.» «Vorrei un goccio d'acqua, Athor. Te ne prego.» Il giovane le bagnò le labbra. La donna che amava sarebbe vissuta, ora ne era certo. Il perfido Goreth aveva contato i giorni da quando Athor si era dato alla fuga: ne erano trascorsi più di quaranta e del fratellastro e della sua donna non vi era più stata traccia. Avevano rinvenuto i corpi dei due migos trucidati, ma questo non significava niente: nella foresta avrebbero potuto imbattersi in qualsiasi nemico. A cominciare dai guerrieri davaar. Ora gli mancava solo un oggetto affinché la sua investitura fosse legittimata: il disco di Hosh. Fino a che Goreth non ne fosse entrato in possesso non si sarebbe sentito tranquillo. Il Consiglio dei Cinque anziani gli aveva già chiesto conto di questa inspiegabile carenza: non era mai accaduto che qualcuno si proclamasse re senza possedere il disco di Hosh e senza essere riconosciuto come sommo sacerdote dei migos. Gli anziani avevano convocato Goreth, ricevendo da lui assicurazione che entro breve avrebbe mostrato la legittimità del suo titolo. Ma egli sapeva bene che solo Athor conosceva l'esatta ubicazione del Tempio Segreto dove il disco era custodito. Di fronte alle assicurazioni di Goreth era stato Aker, padre di Dehal e membro del Consiglio dei Cinque anziani, a prendere la parola. «Ormai si sono susseguiti oltre quaranta tramonti da che tuo padre Sar è stato ucciso e tu ti sei proclamato re dei migos, Goreth. E noi siamo ancora in attesa che tu ci presenti la prova...» «Vorresti mettere in dubbio la mia parola, Aker?» «No, voglio solo che la legge venga rispettata.» «E chi è tenuto a far rispettare la legge, se non il re dei migos? Non certo tu, un indovino!» «Non io, Goreth, ma da prima che i padri dei padri dei nostri padri venissero al mondo, chi vuole governare la nostra gente deve dimostrare di conoscere la posizione del Tempio Segreto...» «E difatti io so dove si trova il Tempio di Hosh: mi sono recato lì più volte da quando mio padre è morto. Ho dovuto alimentare i fuochi perenni, altrimenti l'ira di Hosh si sarebbe abbattuta sul nostro villaggio», mentì
Goreth e quindi continuò: «Athor, il traditore, è riuscito a impossessarsi del disco sacro. Chiedo che mi venga concesso il tempo per recuperare il talismano». «Ti è stato lasciato ben più del tempo necessario, Goreth.» «Che cosa dovrei fare? Coniare io stesso un disco di metallo lucente per soddisfare la tua brama di verità? Dimmi tu, saggio Aker, quale potrebbe essere l'alternativa?» «L'unica alternativa è che il posto che spetta al re e sommo sacerdote dei migos venga occupato da chi ne ha titolo.» «Intendi dire che io non posso essere chiamato vostro re?» chiese Goreth, con il volto deformato dall'ira. «Voglio dire quello che ho detto: che sia acclamato re colui che potrà dimostrare di esserlo.» «Ti correggo, Aker: sarà re solo chi riuscirà a detronizzarmi. Sino a quel momento, io sarò il capo della nostra gente e perciò anche il tuo, indovino. Darò ordine che tu venga estromesso dal Consiglio degli anziani e ti avverto che chiunque oserà ancora dubitare di me sarà punito con la morte.» «Portate qui Mizda», ordinò il re alle guardie. Il giovane che aveva contribuito alla liberazione dell'amico Athor fu fatto uscire da una capanna. I lunghi giorni di prigionia avevano lasciato il segno anche sul fisico possente di Mizda. Nella piazza centrale era radunato l'intero villaggio. Sulla destra, disposti poco più in alto rispetto alla platea, stavano i Cinque anziani. Aker avrebbe fatto parte per l'ultima volta della giuria che aveva il compito di emettere la sentenza. Il vecchio indovino sapeva che la sua sarebbe stata l'unica voce dissonante all'interno del Consiglio: anche se a malincuore, gli altri anziani si erano schierati a favore del nuovo re. Goreth era in piedi al centro della piazza. «Quest'uomo si è macchiato della peggiore tra le colpe. Egli ha tradito la sua gente, disubbidendo al re», disse Goreth, rivolto al Consiglio degli anziani. «Chiedo che venga condannato a morte.» «Che cos'hai da dire a tua discolpa, Mizda?» disse uno dei giudici. «Non sono colpevole. Ho voluto salvare la vita ad Athor, figlio di Sar e nostro legittimo re.» «Eri al corrente degli ordini?» chiese ancora l'anziano.
«Sì!» ammise Mizda, mentre un brusio si levava dalla piazza. «Il Consiglio degli anziani ha deciso: sei condannato a morte, Mizda», sentenziò uno dei giudici. «Abbiamo anche accolto la richiesta di Alter, l'unico tra i saggi che è contrario all'esecuzione. Durante il plenilunio il condannato a morte verrà portato dal gran sacerdote all'interno del tempio e qui lasciato al cospetto della Pietra Sacra, affinché il dio Hosh si sazi del suo spirito. Così vuole la nostra legge.» Lo sguardo di Goreth si era fatto cupo: i suoi occhi mandavano lampi di odio nella direzione di Aker l'indovino. «Così sarà», disse Goreth, rivolto all'intera adunata. «Presto la luna sarà piena e io condurrò Mizda al tempio. Dovrà espiare la sua colpa dinanzi a Hosh.» «Cosa mi state dicendo? Che Aker è fuggito?» Goreth era combattuto tra l'ira e la soddisfazione. «Sì, signore. Questa notte Aker l'indovino ha approfittato di un attimo di distrazione delle sentinelle, ha abbandonato il villaggio, e ha fatto perdere le sue tracce.» «Bene, imprigionate le sentinelle per la loro negligenza. Il Consiglio degli anziani verrà spesso chiamato in causa fino a che io resterò il vostro re.» Aker avanzava zoppicando nella foresta. L'indovino sapeva che sarebbe stato pressoché impossibile riuscire a imbattersi in Athor oppure nella sua amata Dehal, ma quella era l'unica cosa che gli era rimasta da fare: non c'era più posto per lui fra la sua gente. Diversi giorni prima aveva avuto un sogno premonitore: aveva visto Dehal sulla cima di un monte. Sua figlia aveva il colore cereo della morte in volto e sembrava fluttuare nell'aria. Non pareva infelice, però, anzi nel sogno aveva pronunciato parole rassicuranti e gioiose. Aker l'aveva vista allontanarsi e, al risveglio, non aveva provato quel senso di angoscia che solitamente accompagnava i presagi nefasti. L'uomo conosceva bene il paesaggio che aveva fatto da sfondo al suo sogno. «Piano, Dehal. Sei ancora debole e non devi fare movimenti bruschi, la ferita potrebbe riaprirsi», aveva detto Athor, mentre la giovane si tuffava
nell'acqua del fiume. «Sono meno debole di quanto immagini, Athor», aveva risposto lei guardandolo con malizia. Erano sulle rive di un luogo del tutto simile a quello in cui avevano fatto l'amore per la prima e unica volta. Sembrava che da allora fosse passato un tempo infinito. La giovane uscì dall'acqua. I seni turgidi si imperlarono di gocce luccicanti. Athor la guardava sorridendo, estasiato. «Che cos'hai da ridere, uomo?» chiese lei indispettita. «Sembri un cacciatore ferito da un cinghiale», disse lui indicando la cicatrice sul fianco di Dehal. «La mia ferita ti impressiona, guerriero?» gli rispose con tono canzonatorio. Athor le si fece vicino, si chinò e la sua bocca esitò sui bordi ormai rimarginati della lesione. Quindi le labbra salirono verso il seno, mentre il respiro di lei si faceva ansimante. Le mani forti di Athor accarezzarono il ventre della donna ancora immerso per metà nell'acqua. Athor la sollevò tra le braccia e le gambe di Dehal lo strinsero ai fianchi. Con un gemito di piacere l'uomo entrò in lei che lo avvolse con il suo desiderio. Athor la condusse con sé nell'estasi. Restarono avvinghiati alla loro passione sino a che il loro respiro non si fece di nuovo regolare. Giocarono come bambini nell'acqua, stuzzicandosi a vicenda. Infine si sdraiarono sulla riva, appagati ed esausti. Poi, d'un tratto, lo sguardo di Athor si adombrò. «So a che cosa stai pensando, uomo», disse lei, leggendo nei suoi pensieri. «E so anche che il tempo è la miglior cura.» «Il tempo e la vendetta», la corresse lui. «Forse il tempo, da solo, sarà sufficiente a cancellare le onte subite.» «Parli con facilità, donna. Ma io non posso dimenticare che un assassino ha attaccato la mia gente e ucciso mio padre, e che un usurpatore sta occupando il posto che spetta a me per diritto e per il sacro volere di Hosh.» «Non roviniamo questo momento, Athor. Sono felice di non essere nel regno degli spiriti e di stare qui, vicino a te. Vorrei... vorrei darti dei figli. Mi piacerebbe crescerli come i nostri genitori hanno cresciuto noi. Ti amo, Athor. Voglio diventare tua moglie.»
«Devo confessarti un segreto, Dehal. Quando sembrava che tu stessi per morire, ti ho caricata sulle spalle e ti ho portata sino al pog.» «Non mi avrai per caso...?» Dehal lo guardava incredula, cercando di non lasciarsi vincere dalla commozione. «Sì, io, sommo sacerdote del dio Hosh», così dicendo Athor prese nelle mani il disco d'oro, «ti ho sposata.» «Tu hai osato approfittare delle mie condizioni...» Dehal si era alzata in piedi. Athor fece per prenderla e lei si tuffò nuovamente in acqua. «Adesso mi porterai di nuovo sino al pog. voglio essere in me quando dovrò consegnare la mia vita a un uomo.» Aker si era appostato nei pressi dell'unico sentiero che conduceva alla vetta del monte sacro, lo stesso che gli era apparso nel sogno. Era convinto che proprio lì, alle pendici del pog, avrebbe riabbracciato sua figlia. Il sole era appena calato quando udì le voci. «Smettila di parlare, adesso: c'è il rischio di imbatterci in qualche pattuglia mandata da Goreth», cercò di ammonirla Athor, ma si dovette arrendere all'entusiasmo della compagna. «Tua moglie, Athor. Sono tua moglie. La moglie dell'uomo che ho sempre sognato.» La sua bocca premette contro quella di lui. Nemmeno il calore di un bacio fu sufficiente a distrarre il guerriero. Athor allontanò Dehal e afferrò il pugnale. «Chi sei? Vieni fuori da lì!» gridò Athor nel buio, in direzione di una minaccia che lui solo riusciva a percepire. «Riponi le tue armi, re dei migos. Sono solo e voi siete ciò che di più caro ho al mondo», rispose una voce amica. Aker, con un sorriso raggiante stampato sul volto rugoso, uscì dalla vegetazione. 15 Linguadoca, 1213 «Il nome del mio popolo», stava dicendo Bahram al ragazzo che lo ascoltava attento, «deriva da quello dei componenti di una setta religiosa che si diffuse secoli or sono in Frigia, una regione dell'Anatolia. Athingani,
che significa 'intoccabili'. Così venivano chiamati i sacerdoti della setta. Ma torniamo alle centinaia di musici che il principe del quale porto il nome richiese al sovrano dell'India affinché allietassero le sue giornate. Una volta morto Bahram Gur, gli atsigani si dispersero un po' ovunque. La maggior parte di noi arrivò in Grecia, un Paese ridente e baciato dal sole, dove, al contrario del resto d'Europa sconvolto da lotte, guerre e miseria, si viveva serenamente e in pace. Ci stabilimmo nell'isola di Skyros e là crebbi, imparando da mio padre sia l'arte della musica sia quella del forgiare il ferro. Quando conobbi Sarya, mia moglie, persi la testa per la sua bellezza. Ed ebbi la fortuna che lei ricambiasse i miei sentimenti. Senonché la nostra isola era governata da una potente casata veneziana, quella dei Ghisi. Un rampollo di quella nobile famiglia si invaghì della mia promessa sposa e una sera, uscendo ubriaco da una taverna, mi sfidò. Per costruire buone armi, bisogna soprattutto saperle usare. Anche questo mi aveva insegnato mio padre. Ebbi ragione del veneziano senza alcuna fatica. Lo ferii solo leggermente, ma il destino volle che, indietreggiando per il mio affondo, il giovane precipitasse da un dirupo, rimanendo ucciso sul colpo. Per questo fui costretto ad abbandonare la Grecia e a fuggire, assieme alla mia donna, verso il continente europeo.» «Continua, Bahram, la storia della tua vita è più avvincente di una favola», disse Aymon, catturato da quel racconto di duelli, fughe e avventure. «Va bene, mio giovane amico. Anche se ormai la memoria comincia a giocarmi brutti scherzi...» «Arrivammo in Ungheria dopo mille peripezie. Sarya e io eravamo stremati e temevamo che i parenti dell'uomo rimasto ucciso ci avessero messo qualcuno alle calcagna. Sulla mia testa c'era anche una cospicua taglia. «Trovammo alloggio presso un nobile di Kaposvár, nella provincia di Somogy. Il signore era imparentato con il re Andrea II che era succeduto a Ladislao. In quel periodo veneziani e magiari erano alle strette, perciò potevo contare sull'appoggio dei locali: nessuno mi avrebbe denunciato ai Ghisi. «Là ripresi in mano le sole cose che sapevo fare bene: suonare e forgiare spade. E non credere che la differenza tra comporre canzoni e forgiare il metallo sia poi così corposa. «Un giorno venne da me il comandante delle guardie e mi commissionò una spada per il suo signore.
«Ero al settimo cielo e fiero di essere stato scelto per quel compito: lavorai a quella spada come se dalla sua fattura dipendesse tutta la mia vita. E in parte fu così. «Venni pagato profumatamente, ma la cosa non mi bastò: avrei voluto ricevere un segno di riconoscimento non solo economico per il mio lavoro. Con il passare dei giorni la speranza di venire convocato a palazzo dal mio committente era ormai scemata, quando, un mattino, un uomo riccamente vestito si affacciò alla porta dell'officina. «'Sei tu il Czigny fabbro?' mi chiese. «Czigny è il nome con cui i magiari chiamano la mia gente. «'Sì, signore, per servirvi!' Un cliente di tale eleganza mi avrebbe sicuramente affidato una ricca commessa. «'Questa', disse l'uomo, estraendo la spada da sotto il mantello, 'non è ben bilanciata.' «Solo allora, riconoscendo la spada, seppi chi era l'uomo che avevo davanti. «'Lasciatemi vedere, mio signore. Forse le tecniche di scherma dei persiani, che nella mia famiglia da generazioni sono stati i nostri soli maestri, differiscono da quelle della vostra gente. Posso impugnare l'arma?' «Gèza, così si chiamava il nobiluomo che apparteneva a un ramo cadetto della famiglia regnante degli Arpadi, fece un cenno di assenso e io assunsi la posizione di guardia. «Volevo dimostrargli che quella spada era vicina alla perfezione e che il suo equilibrio, da me stesso provato e riprovato, era esemplare. «Gli mostrai una serie di affondi e parate. La lama sibilava nell'aria. Poi porsi l'elsa a Gèza, che era rimasto a osservarmi ammutolito. «'Chi ti ha insegnato a tirare di scherma così?' mi chiese. «'Mio padre, signore. Ed egli mi ha anche insegnato che bisogna saper provare ogni arma costruita con le proprie mani', gli risposi. «'Il mese prossimo si svolgerà un importante torneo nella piazza d'armi del castello. Vorresti parteciparvi anche tu?' «Meno di un mese dopo quell'incontro, mi ritrovai in sella a un destriero bardato con una robusta corazza. Anch'io indossavo un'armatura lucente e leggera che avevo costruito con le mie mani e che mi avrebbe concesso molta libertà di movimento. Era un torneo à plaisance: i duellanti utilizzavano armi senza filo e lance rese inoffensive da un'apposita corona in metallo posta sulla punta, cosa che non accadeva nei tornei à outrance, che prevedevano l'uso di armi da guerra affilate e appuntite.
«Non so come, ma riuscii a sbaragliare ognuno dei campioni presenti, e arrivai allo scontro finale. «La piazza era gremita. Gli stendardi dai colori variopinti si tendevano al vento. Ricordo come fosse ora che prima di iniziare il combattimento sorrisi a Sarya. Poi calai la visiera dell'elmo e guardai il mio avversario. «Montava un cavallo bianco e nervoso e indossava una corazza abbagliante. E ognuna delle sue armi aveva l'elsa o l'impugnatura in oro. Sapevo d'avere di fronte un eroe da leggenda. Di lui si diceva che venisse da una località vicina alla Foresta Nera e che non fosse mai uscito sconfitto da una competizione. «Fu il primo a spronare il cavallo, la lancia saldamente impugnata e stretta tra il busto e l'avambraccio destro. «Ebbi un attimo di incertezza che mi costò carissimo: in un baleno mi ritrovai disarcionato, tra la polvere. Non riuscivo a respirare a causa del dolore straziante al petto, dove la lancia dell'avversario mi aveva colpito. A fatica mi rialzai e sguainai lo spadone. L'altro, ancora a cavallo, mi fu addosso. Riuscii a evitare l'assalto e mi aggrappai con tutta la forza alla sua coscia, disarcionandolo. Fu allora che mi accorsi che la lama della sua spada era stata arrotata di recente: un colpo bene assestato avrebbe potuto staccarmi un arto di netto, nonostante la corazza. «Schivai un primo fendente, un secondo, quindi mi preparai a colpire facendo roteare la spada sopra la testa. La mia lama si abbatté sulla sommità del suo elmo. «Sembrava un gigante di ferro accecato. Mosse due passi verso di me barcollando con le braccia aperte, e lasciò andare la spada. Quindi cadde sulle ginocchia, rovinando a faccia avanti. «Quando gli tolsero l'elmo si accorsero che la ferita era grave, ma non mortale. «I miei occhi cercarono lo sguardo di Sarya, che ora sorrideva felice, poi andai verso la tribuna dove sedeva Gèza. Sulla piazza scese il silenzio, mentre il nobile, in piedi di fronte a me, parlava. «'Ti nomino vincitore del torneo, Czigny. Avrai il premio che ti spetta, ma io voglio che tu abbia anche questa. È tua di diritto.' «Così dicendo mi consegnò l'arma che avevo fabbricato per lui. «Da allora incominciai a girare l'Europa per partecipare a tutti i più importanti tornei. E ben presto divenni un motivo di richiamo per qualsiasi tenzone.» Bahram sorrise.
«Questa è la storia della spada con cui ti alleno ogni giorno. Voglio che tu sappia che sono fiero di vederla tra le tue mani. Ma ora basta con le chiacchiere! Dobbiamo entrare in città e... metterci al lavoro.» I tre erano giunti in cima alla collina sulla quale sorgeva la città di Aurillac. «Il priore del convento benedettino è un appassionato cultore della musica», disse Bahram. «Vedrai che in cambio di qualche esibizione riceveremo vitto e alloggio sino a che lo desidereremo. Penso che sia meglio lasciare passare un po' di tempo, prima di riprendere i nostri spettacoli sulle piazze. Simone di Montfort ha orecchie ovunque. Aymon... è un po' che voglio farti questa domanda: che cosa ne sai di una pietra dagli enormi poteri magici custodita dai catari?» «Perché me lo chiedi?» «Il soldato di Simone ha parlato di un segreto che tuo nonno ti avrebbe confidato. E ieri, mentre ti esercitavi con la spada, ho preso la tua ghironda per suonare un po'. Dalla custodia sono scivolati fuori alcuni fogli di carta con una canzone dedicata a Maria Maddalena. Ho riconosciuto la calligrafia di Puyol e ho provato a suonarla, ma mi sono accorto subito che ci sono errori che un maestro come lui mai avrebbe compiuto. Sai, Puyol è ricorso spesso ai miei servigi per portare analoghi spartiti fuori dal territorio controllato dai crociati, perché li consegnassi a qualche seguace del catarismo. In quelle occasioni, provando a eseguire le canzoni, sono arrivato a decifrare il linguaggio cifrato utilizzato da Puyol.» Bahram vide la preoccupazione negli occhi di Aymon, e continuò: «Non devi preoccuparti, non sono una spia dei crociati e, tra gli uomini di Simone di Montfort e i tuoi fratelli catari, sono dalla parte di questi ultimi. Per questo, pur avendo scoperto il sistema utilizzato da Puyol, non l'ho mai tradito». Aymon tacque a lungo, ma quando parlò la sua voce era ferma e il tono deciso. «Ti dirò quello che so sulla pietra magica, Bahram. Sono sicuro di potermi fidare di te.» Quando giunsero nei pressi dell'abbazia benedettina, Bahram era venuto a conoscenza dell'esistenza di un'arma più potente di cento eserciti che, tuttavia, sarebbe stato pressoché impossibile rimuovere dal sito in cui giaceva dalla notte dei tempi. «Bisogna assolutamente impedire che qualcuno si impossessi del segreto
celato tra le note e le parole della canzone di Puyol. Meno che mai Simone di Montfort e i suoi crociati.» «Potremmo nascondere il manoscritto, ma... dove?» «Non c'è bisogno di nasconderlo, Aymon. Dividiamoci le pagine: tu terrai la parte della canzone in cui è celata la mappa, in modo che neppure io potrei mai arrivare alla pietra senza di te. Così, se qualcuno dovesse catturare uno di noi e fosse anche tanto abile da decifrare il messaggio, non riuscirebbe mai a raggiungere la pietra, essendo in possesso di informazioni solo parziali.» Poco più tardi il portone del convento si aprì per lasciare passare il carro di Bahram. «Che cosa vuol dire che un ragazzo dalle capacità musicali straordinarie si è esibito suonando una ghironda nelle piazze di alcune città?» chiese Simone di Montfort, furibondo. «E nessuno dei miei soldati ha pensato di fermarlo? Siete degli inetti! Sergente, prendete con voi una mezza dozzina di uomini e mettetevi sulle tracce di quei nomadi. Voglio sapere chi è quel ragazzo. E voglio che sia condotto al mio cospetto.» 16 Linguadoca, anni '30 Nel 1933, lo stesso anno in cui Adolf Hitler e il suo Partito nazionalsocialista andavano al potere in Germania, il libro di Rahn, La Crociata contro il Graal, veniva pubblicato. E sempre in quegli anni, Rahn provava a lanciarsi anche nel mondo degli affari. Grazie ad alcune amicizie influenti, aveva trovato i denari per affittare e ristrutturare l'Hotel des Marroniers a Ussat-les-Bains, nella Francia del Sud. Ma quel «tedesco che faceva domande sui catari», con le sue ricerche in suolo francese aveva suscitato già da tempo più di una perplessità: nel marzo del '32 il quotidiano di Tolosa, La Dépêche du Midi, si era interrogato sulle motivazioni per cui uno straniero si aggirasse con tanto accanimento tra le poche vestigia rimaste a testimoniare l'eresia catara e la sua feroce repressione culminata nella crociata di Simone di Montfort. Maurice Sarraut, proprietario del giornale, aveva deciso di tenere d'oc-
chio le mosse di quel giovane tedesco con l'aria da bohémien. Com'era possibile, si chiedeva, che quel Rahn potesse disporre di mezzi e di appoggi che gli consentivano di portare avanti la sua spasmodica ricerca? L'Hôtel des Marroniers era una palazzina di pietra grigia situata di fronte alla stazione del centro termale nell'Ariège. Alle spalle dell'albergo un sentiero si inerpicava lungo le falde dei Pirenei che incombevano, con le loro pareti di roccia chiara, sul centro abitato. La zona era ricca di gole e di grotte, alcune delle quali tanto grandi da poter contenere l'intera cattedrale di Notre-Dame. Quelle caverne, che avevano ospitato l'uomo sin dall'era Neolitica, erano state poi rifugio per briganti, eremiti e fuggiaschi, ma soprattutto per i perseguitati catari. Una leggenda narrava che gli eretici sopravvissuti alla caduta dell'ultimo baluardo cataro, il pog di Montségur, avevano trovato rifugio nelle grotte della regione. E di quella leggenda, antica di secoli, Rahn era venuto a conoscenza. «Quelle piante devono essere sistemate più vicine alla reception», stava dicendo Otto Rahn al personale che si dava da fare per portare a termine gli ultimi ritocchi prima dell'inaugurazione dell'Hôtel des Marroniers. Rahn osservava soddisfatto il frutto del suo lavoro: gli intonaci erano stati dipinti, gli infissi riverniciati, gli arredi completamente rinnovati. Ora l'albergo, non lussuoso ma accogliente, era pronto a ospitare frotte di turisti che cercavano nella nota località termale francese un po' di tranquillità e benessere. E molti di più ne sarebbero arrivati in seguito, una volta che lui avesse svelato al mondo il segreto dei catari. Il neoalbergatore controllò ancora una volta che tutto fosse in ordine, si compiacque dell'abbondante buffet e delle divise del personale. Quindi si mise sulla porta d'ingresso con un sorriso soddisfatto stampato in volto. Otto Rahn era davvero raggiante: dopo anni e anni di stenti si sentiva un uomo realizzato. Possedeva un'attività economica che non avrebbe mancato di dare i suoi frutti, il suo primo libro era prossimo alla pubblicazione e nulla avrebbe più impedito le sue ricerche. Presto, ne era certo, avrebbe scoperto quello che cercava da anni e avrebbe avuto l'eterna gratitudine del Partito nazista. Un futuro radioso si apriva davanti a Rahn e le buone fate di quella fiaba si chiamavano Reinhard Heydrich e Heinrich Himmler.
Il lavoro di Himmler e dei suoi gruppi paramilitari era stato indefesso per tutto il 1932: le SA e le SS avevano seminato il terrore ovunque, mentre la propaganda aveva alimentato l'idea che, senza il pugno di ferro hitleriano, la Germania sarebbe presto precipitata nel caos. Le elezioni avevano visto il Partito nazionalsocialista attestarsi attorno al trentasette per cento delle preferenze. Ma in alcune città l'ideologia nazista era ancora fortemente osteggiata e lì, incuranti delle feroci repressioni, erano in molti i coraggiosi che scendevano in piazza per manifestare contro Hitler. «Hindenburg presto si deciderà. Altrimenti sarà la guerra civile», aveva detto Wiligut al suo comandante in capo. Karl Maria Wiligut-Weisthor aveva un volto tondo dalla fronte alta e stempiata, solcata da rughe profonde. Sfoggiava un paio di baffetti simili a quelli di Hitler, gli occhi erano neri, freddi e penetranti, ma a prima vista non sembrava un tipo inquietante, quanto piuttosto un buon nonno che, una volta smessa la divisa di SS, si sarebbe potuto occupare dei nipotini in tenera età. Ma, osservandolo bene, era in grado di suscitare un forte senso di disagio. Molti erano convinti che quell'ufficiale delle SS, grande amico del comandante Himmler, fosse l'incarnazione stessa del demonio. Himmler lo aveva guardato con aria soddisfatta. Il suo esperto d'esoterismo stava dicendo il vero: il presidente tedesco Paul von Hindenburg avrebbe dovuto presto sciogliere le sue riserve a proposito della legittima aspirazione di Hitler al ruolo di cancelliere, sebbene questi fosse uscito sconfitto dalle elezioni presidenziali di maggio: a Hindenburg era andato oltre il cinquantatré per cento, a Hitler il trentasette, appunto. Ma, se il peso politico all'interno del Reichstag era minoritario, il «peso reale», fatto di squadre armate, di intimidazioni e di terrore, stava cominciando a produrre i suoi frutti. E di tali risultati Himmler si reputava l'artefice. «Come procedono le 'appendici pirenaiche'?» chiese Himmler cambiando improvvisamente discorso. «Il nostro neoalbergatore si sta dando da fare. E dice che sente vicina la soluzione dell'enigma. Noi ce lo auguriamo. Quanto alla struttura alberghiera, una volta scoperto il segreto della Pietra, ci potrà tornare utile anche per altre cose. Ussat-les-Bains è un centro termale frequentato quanto basta perché un qualsiasi agente possa passare inosservato. In ogni modo, per ora dobbiamo dare la precedenza alle ricerche di Otto Rahn, anche se pare che lui stia suscitando qualche curiosità di troppo.» «Che cosa intendete con 'qualche curiosità di troppo', Weisthor?»
«Rahn è considerato una persona singolare ed eccentrica. Non possiede certo un carattere riservato. Le sue attività non sono passate inosservate e adesso Ussat-les-Bains sembra essere diventato il crocevia ideale per il passaggio di agenti segreti di tutte le nazionalità.» In effetti, nell'estate del 1932, l'andirivieni di turisti presso l'Hôtel des Marroniers fu incessante. La sera, con la fresca brezza che scendeva dai Pirenei, Rahn intratteneva i suoi ospiti, raccolti sulla terrazza dell'albergo, raccontando dei catari, strenui difensori del loro credo anche di fronte alle armi dei crociati al soldo del papa di Roma. «Nella Linguadoca il catarismo era molto diffuso: circa la metà della popolazione si era convertita al suo credo. Questo era il motivo ufficiale per cui venne indetta la crociata contro gli eretici. Ma, a parer mio, erano ben altre le ragioni che spinsero papa Innocenzo III a indire una vera guerra nel cuore dell'Europa.» «E quali sarebbero state, signor Rahn?» chiese un giorno di inizio agosto una turista spagnola che amava più di altri interloquire con lui. «I catari furono l'espressione di un malcontento che covava in molti ambienti cristiani sin dal Concilio di Nicea del 325, quello che riconobbe i quattro vangeli ortodossi relegando tutti gli altri al ruolo di scritti 'apocrifi'. I catari sostenevano che gli insegnamenti di povertà, uguaglianza e fratellanza erano andati via via scomparendo all'interno della Chiesa cristiana, ormai sempre più ingorda di ricchezze.» «Ma che minaccia poteva mai rappresentare per la Chiesa di Roma un gruppo di persone votate alla povertà?» chiese un altro ospite. «Si dice che i catari fossero i custodi di importanti segreti... Secondo voi c'è del vero in questo, signor Rahn?» intervenne la turista spagnola. «E come potevano esserne entrati in possesso?» La questione dell'eresia catara aveva provocato, tra i clienti dell'albergo, un acceso dibattito. Rahn proseguì: «A parer mio esiste una grande confusione su questo punto. C'è chi dice che tali segreti, assieme a un ingente tesoro, fossero stati consegnati dai cavalieri templari ai catari. Ma i templari, prima di cadere in disgrazia nel 1307, rappresentavano il braccio armato della ortodossia ecclesiastica. Perché avrebbero dovuto consegnare i segreti di Cristo a degli eretici? E se, viceversa, di questi segreti fossero stati depositari i catari sin dagli albori del cristianesimo, perché non li avevano resi di pubblico
dominio? Se io stesso avessi delle prove sulla natura umana di Gesù Cristo, di fronte a un esercito crociato che marcia contro la mia gente, divulgherei le preziose informazioni di cui sono in possesso». «A quale conclusione siete giunto, quindi, caro Rahn?» «Che troppe leggende hanno contribuito a confondere la realtà. Credo che il segreto custodito dai 'Perfetti' catari altro non sia che un semplice oggetto - lo si chiami Graal, reliquia o altro - al quale sono stati attribuiti poteri soprannaturali. Lo stesso è accaduto per i totem dei pellerossa o per gli amuleti che ogni popolo, più o meno superstizioso, trasforma in oggetti di culto.» Rahn si era accorto che stava rischiando di dire troppo e ora cercava di riportare il discorso in un ambito più generico. «Paragonare un segreto per cui migliaia di persone sono state sterminate a una zampina di coniglio o a una cornucopia dorata mi sembra un po' azzardato, signor Rahn», ribadì la cliente spagnola. Fu allora che l'albergatore, con la scusa di dovere affrontare alcune urgenti incombenze, si scusò con i suoi ospiti e si allontanò. Carla Jeogeres Núñez era nata a Barcellona nel 1912: quindi la sera della piacevole chiacchierata con Otto Rahn sulla terrazza dell'Hôtel des Marroniers aveva appena compiuto vent'anni. Ma già da due faceva parte dei servizi segreti francesi. «Nulla, ancora?» le chiese il suo diretto superiore. «Mezze frasi, improvvisi silenzi, ripensamenti», rispose Carla. «In ogni caso, ogni mattina di buonora, Otto Rahn indossa abiti comodi e scarponcini da montagna e compie lunghe escursioni nella valle di Ussat. È evidente che la sua passione dominante ha ben poco a che vedere con la gestione di un albergo di una località termale.» L'impressione di Carla Jeogeres Núñez doveva essere esatta. Difatti era stata sufficiente quell'unica estate per mettere in crisi le finanze dell'albergatore Rahn. Benché l'hotel avesse accolto centinaia di turisti, l'incapacità e l'inesperienza del tedesco avevano fatto sì che il 6 ottobre 1932 il tribunale di Foix prendesse in considerazione l'eventualità di dichiarare il fallimento dell'Hôtel des Marroniers. Invano Otto si era rivolto ai suoi benefattori: ormai gli uomini vicino a Hitler avevano ben altro cui pensare. Il telefono sulla scrivania di Heinrich Himmler squillò.
Il comandante delle SS sollevò la cornetta, rimase un attimo in ascolto, quindi il suo volto si distese in un sorriso trionfante: Adolf Hitler era diventato cancelliere del Reich. Era il 30 gennaio 1933. Roma, anni '30 «Ascoltate, santità, che cosa scrive il giornale: 'Ieri, 27 febbraio 1933'...» Il segretario di Stato Eugenio Pacelli si mise a leggere l'articolo a papa Achille Ratti. «'...Alle 21.14 l'allarme veniva diffuso al comando dei pompieri di Berlino: il Reichstag, sede del parlamento tedesco, stava bruciando. Quando il cancelliere Adolf Hitler e il generale Göring sono tempestivamente giunti sulla piazza, hanno potuto soltanto rimanere impotenti a osservare il rogo appiccato da un terrorista filobolscevico che risponde al nome di Marinus van der Lubbe...'» «Voi che conoscete bene i tedeschi e la loro mentalità, che cosa pensate di tutto questo, cardinale?» chiese Pio XI al più stimato tra i suoi collaboratori. «È presto per fare supposizioni, santità. Credo comunque che entro breve i nazisti chiederanno leggi speciali finalizzate alla tutela dell'ordine pubblico.» Il cardinale Pacelli non si sbagliava: dal marzo di quell'anno, e per tutta l'estate, il parlamento tedesco emanò una serie di leggi molto restrittive che, tra l'altro, conferivano ad Adolf Hitler pieni poteri. A luglio toccò proprio a Pacelli di sedere al tavolo con i rappresentanti del governo nazista per la stesura dei patti concordatari tra Germania e Santa Sede. L'incontro tra Adolf Hitler e il segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli fu improntato a un rigido formalismo. Ma il porporato aveva osservato a lungo negli occhi il suo interlocutore. L'intenso rossore attorno alle pupille di Hitler era stato sufficiente per riaccendere quell'oscuro e inspiegabile senso di disagio che il cardinale ben conosceva. 17 Iran, 2007
Avanzavano in silenzio nella notte come ombre, le armi leggere appoggiate contro il petto, le cinture contenenti esplosivo ad alto potenziale legate in vita, i volti dipinti di nero. Il commando era composto da quindici uomini perfettamente addestrati. Ognuno conosceva i propri compiti e sapeva che cosa avrebbe dovuto fare una volta neutralizzata la sorveglianza. Le due sentinelle camminavano lungo il muro perimetrale che costeggiava l'impianto nucleare di Bushehr. «Ne vuoi una? Sono americane, roba di prima scelta. Me le ha regalate un amico che traffica col mercato nero», disse un militare iraniano all'altro, estraendo da una tasca un pacchetto di Lucky Strike senza filtro. Fu la loro ultima sigaretta. Il collo dei due soldati venne trafitto dalle frecce di una balestra in carbonio le cui punte erano intrise di un potentissimo veleno paralizzante. I dardi letali erano stati scoccati in perfetta sincronia. Sorte analoga era toccata alle altre otto sentinelle poste lungo il muro di cinta: nessuna aveva avuto il tempo di lanciare l'allarme prima di cadere a terra colpita da una freccia o con la gola recisa. I componenti del commando si sparpagliarono quindi all'interno della base nucleare. Ciascuno, una volta raggiunta la propria destinazione, applicò le cariche e regolò i timer. Con precisione cronometrica i sabotatori si radunarono nuovamente nel punto prefissato, diciannove minuti dopo che era stata neutralizzata la sorveglianza. Non c'era stato alcun ferito nell'azione. Mancavano tre ore e mezzo al cambio della guardia: un tempo più che sufficiente per raggiungere gli elicotteri che li stavano aspettando a distanza di sicurezza. Gli uomini del commando salirono a due a due sui piccoli mezzi a propulsione elettrica con cui erano arrivati, e si lasciarono guidare dagli invisibili fari a infrarossi. Quando i tre elicotteri, anch'essi neri e anonimi, si alzarono in volo, il gruppo aveva abbandonato l'impianto da un'ora e mezzo. Lo stabilimento di Bushehr distava una decina di chilometri dal luogo del decollo. Un gigantesco bagliore illuminò il cielo della notte alle loro spalle. Uno dei punti di forza della rivoluzione nucleare iraniana era stato ridotto a un cumulo di macerie. Nard Sourush, il braccio operativo di Pashelvi, aveva militato con onore nelle Quds, le unità speciali delle forze armate della Repubblica islamica
dell'Iran, e aveva partecipato a moltissime missioni. Non poteva non riconoscere che le azioni con cui erano stati rasi al suolo gli impianti di Bushehr, di Ahwaz e di Isfahan erano state da manuale. Il presidente Pashelvi aveva preparato con cura il suo discorso televisivo. Erano le prime ore del mattino quando la televisione iraniana prese a trasmettere a reti unificate. «Fratelli iraniani, fratelli nell'Islam.» Il tono del presidente era solenne e grave. «Questa notte una mano assassina ha ordito un attentato contro gli impianti per la produzione di uranio arricchito di Bushehr, Ahwaz e Isfahan. La vita di ottantacinque persone che lavoravano per il progresso del nostro Paese e dell'intero mondo islamico è stata tragicamente spezzata. Altre ventisei persone stanno combattendo con la morte. Là, dove la nostra gente stava lavorando per un futuro di pace e indipendenza, i terroristi hanno causato morte e distruzione. La grande tecnologia dei nostri impianti nucleari è andata in fumo. Non resteremo inermi di fronte a questo vile atto di guerra. Ritengo prematuro puntare il dito contro colpevoli che pure noi tutti conosciamo ma che, per il momento, la prudenza impone di non nominare. Giuro solennemente, e sono certo che la totalità del popolo iraniano si unirà a questa mia promessa, che qualunque nazione sionista e infedele abbia armato le mani assassine, che chiunque abbia addestrato degli uomini per colpire la nostra democrazia, qualunque sia la mente perversa che si è celata dietro a un atto così vile, la pagherà cara. Sia gloria ai nostri fratelli morti nella fede di Dio. Pace e misericordia su di lui.» Vennero proclamati tre giorni di lutto nazionale e i notiziari di tutto il mondo furono inondati dalle immagini raccapriccianti dell'attentato. I filmati venivano mandati a ciclo continuo dall'ILNA, la solitamente riservata agenzia di stampa iraniana. Denver, 2007 Oswald Breil scosse il capo di fronte alle immagini degli impianti di Bushehr, Ahwaz e Isfahan ridotti ad ammassi di macerie fumanti. «Che cosa succede, Oswald?» chiese Lilith Habar dalla cucina. «Hanno fatto saltare in aria le due centrali nucleari iraniane e un impianto per l'arricchimento dell'uranio, Mame-loshen.» Non c'era ombra di soddisfazione nella voce dell'uomo che aveva guidato dapprima il Mossad e quindi l'intero Stato di Israele. Breil sapeva bene che ogni azione di guerra provoca sempre una reazione peggiore e contraria.
I servizi segreti israeliani e americani sarebbero stati i maggiori indiziati e gli iraniani avevano già fatto intuire le loro intenzioni di vendetta. La posizione assunta da Pashelvi verso Israele e l'Occidente era di totale chiusura. Ora lo stato di tensione si sarebbe fatto insopportabile. Lilith Habar si asciugò le lacrime con un fazzoletto che teneva nella manica del pullover all'altezza del polso. Reagiva quasi sempre così alle scene atroci che mostravano corpi dilaniati, immagini sulle quali il cameraman iraniano pareva indugiare con un sadico piacere. «Scusami, Oswald. Alla mia età non è facile dimenticare quanto è successo a Lauriel e queste scene mi fanno tornare alla mente l'attentato.» Lauriel era l'unica figlia di sua sorella. Aveva vent'anni, quando era salita sull'autobus che la doveva condurre sino all'università Bar-Ilan di Tel Aviv. A metà percorso il vicino di posto della ragazza si era fatto saltare in aria, attivando una cintura ad alto potenziale foderata di chiodi a tre punte e bulloni d'acciaio. Qualche giorno più tardi alla sorella di Lilith era stato mestamente consegnato un sacchetto sigillato, poco più grande di uno di quelli del pane: al suo interno c'era tutto ciò che restava di una bella ragazza di vent'anni e della sua voglia di vivere. Lilith non aveva mai perdonato a se stessa di non aver insistito a sufficienza quando si era trattato di decidere dove Lauriel avrebbe dovuto frequentare l'università. Si rammaricava di non essere stata più convincente quando aveva proposto di ospitare la ragazza per farle frequentare la DU University di Denver. Se così fosse stato, Lauriel non sarebbe morta. Oswald le accarezzò con dolcezza i capelli bianchi raccolti in una crocchia. Quindi il piccolo uomo ripensò all'incontro di poco tempo prima con gli emissari americani. Aveva fatto bene a declinare la loro offerta. Ora, più che mai, ne era convinto: se avesse accettato, adesso si sarebbe ritrovato complice di una strage. Anche lui, come l'odioso ayatollah Pashelvi, non aveva dubbi: qualunque mano avesse tecnicamente compiuto l'attentato, la firma del mandante non poteva che essere americana o israeliana. Il suono del telefono interruppe i suoi pensieri. «È per te, Oswald», disse Lilith. «Sono Phil Damiano, dottor Breil. Le dispiacerebbe collegarsi in rete e mettersi in contatto con me attraverso il programma di crittografia elettronica che le ho consegnato?» Pochi minuti più tardi Oswald era in linea con il capo della CIA.
, esordì Damiano. <MI INVITEREBBE A UNA PROIEZIONE PRIVATA, DICIAMO... DOMANI A WASHINGTON?> Oswald Breil era entrato nella partita.
Lilith conosceva bene l'espressione che in quel momento suo figlio aveva in volto. «Che cosa c'è che ti preoccupa, Oswald?» «Potrei risponderti come i supereroi dei fumetti, Mame-loshen: 'Il mondo ha bisogno di me, non aspettarmi per cena'!» le disse con un sorriso. «Hai sempre voglia di scherzare, tu.» «No, Mame. Non scherzo, purtroppo. Si tratta di una faccenda seria. Maledettamente seria.» E maledicendo la sua incapacità di tenersi fuori dai guai, la mente di Oswald prese a formulare ipotesi e a cercare soluzioni. Fu quindi per rilassarsi e per pensare ad altro che incominciò a leggere le ultime pagine che Sara gli aveva inviato. , aveva scritto Sara nel messaggio che accompagnava il testo. <SIAMO PASSATI DALLA MIA LINGUA MADRE ALLA STENOGRAFIA CRITTOGRAFATA. L'AUTORE, DA QUESTO PUNTO IN AVANTI, MANIFESTA L'INTENZIONE DI RENDERE IL SUO DIARIO ANCOR MENO DECIFRABILE... SEMPRE PIÙ DIFFICILE! SHALOM. SARA.> Oswald non poteva immaginare di stare per immergersi nella lettura di una tra le pagine più nere della Storia. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 Neumann non si è fatto aspettare: con un solo minuto di ritardo sul programma, sono stato introdotto nel suo studio privato. Le tende spesse soffondevano una piacevole penombra all'interno della stanza. Gli occhi di ghiaccio di Neumann riflettevano la luce di una lampada da tavolo posata sulla scrivania in noce. Il magnate aveva tra le mani un prezioso violino. Senza abbandonare l'archetto, mi ha invitato a sedere con un cenno del capo e ha continuato a suonare in maniera egregia. «È uno Stradivari. Lei è appassionato di musica, dottor Raso? Suona qualche strumento?» «No, signor Neumann: al di fuori di qualche lezione di chitarra quando ero bambino, non ho avuto altri contatti con la musica.» «Un vero peccato: è molto appagante ricorrere alle corde di uno strumento per placare tensione e stress.»
Poi Neumann ha riposto il violino all'interno di una teca, assieme ad altri quattro strumenti di eguale valore. «Le dispiace se stenografo quanto lei dice, signor Neumann?» gli ho chiesto prima di aprire la mia preziosa agenda. «Assolutamente no. Anche perché le ci vorrebbe la memoria di Pico della Mirandola per ricordare tutto quello che le sto per raccontare», mi ha risposto Neumann. Ecco di seguito la trascrizione della mia intervista. «Mi chiamo Erick Neumann, sono nato nel 1906 a Berlino. Ero figlio unico e solo erede di una famiglia che gestiva da generazioni una avviata attività di commercio di tessuti e stoffe in Badenstrasse. Se non fosse stato per la guerra, credo che oggi sarei là a tagliare scampoli e panni pregiati. «I nostri affari non avevano affatto risentito delle crisi economiche seguite alla prima guerra mondiale e al tracollo di Wall Street del '29: mio padre sembrava possedere il dono di prevedere gli eventi e così la Neumann non solo era rimasta a galla, ma si era ingrandita. Dal 1930 sino all'avvento delle leggi razziali, nessuno in azienda venne mai licenziato senza essere immediatamente sostituito, anzi i nostri dipendenti continuarono ad aumentare. In breve mio padre riuscì ad acquistare l'intero palazzo dove dapprima aveva in affitto il piano terreno. Tre dei quattro piani furono occupati dai reparti di vendita e l'ultimo destinato all'abitazione di famiglia. Nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare che tutto ciò stava per finire tragicamente. «Ricordo bene quella sera del novembre 1938: eravamo riuniti a casa di amici. Tutti erano molto preoccupati e, ad aumentare la nostra angoscia, giunse la notizia alla radio. Un giovane ebreo aveva assassinato, a Parigi, il segretario generale dell'ambasciata tedesca, von Rath. Per noi ebrei fu l'inizio della fine. Quello che accadde da quel giorno è scritto tra le pagine più nere della Storia. «L'intera mia famiglia fu deportata nel maggio 1940 in un campo di internamento ai confini con l'Alta Slesia, a pochi chilometri dalla città di Auschwitz. Vi arrivammo dopo giorni e giorni di viaggio in condizioni disumane, stipati come animali su lenti e maleodoranti vagoni solitamente adibiti a carri bestiame. Quando qualcuno moriva, lo trascinavamo in un angolo del vagone.
«Alcuni anni più tardi l'intera comunità ebraica di Corfu, una tra le più antiche del bacino mediterraneo, giunse al campo dopo un viaggio durato ventisette giorni. Quando i tedeschi impartirono l'ordine di abbandonare il treno, nessuno ne discese: erano tutti morti o moribondi. Vennero direttamente scaricati in una fossa comune. In fondo, credo che quelli che dai carri non scesero mai furono i più fortunati: se non altro vennero loro risparmiati gli orrori dei campi di concentramento. «Al nostro arrivo, mia madre fu spinta nella fila di sinistra, insieme ai vecchi e ai bambini: sarebbero stati trasferiti in un'altra struttura. Fu l'ultima volta che la vidi. «Auschwitz all'epoca era ancora un piccolo centro di raccolta per deportati ebrei, ma la sua localizzazione geografica, la zona scarsamente frequentata, per quanto vicina a un importante nodo ferroviario, ne fecero uno dei luoghi ideali per la 'Soluzione finale' e il prescelto dai responsabili del T-4, meglio noti come 'settore eutanasia '. Furono gli stessi prigionieri che edificarono e ampliarono la loro enorme tomba, le camere della morte e i forni crematori. Fu allora che i nostri aguzzini presero coscienza della forza lavoro gratuita di cui potevano disporre. Sino a che avevi l'energia per lavorare, la tua vita poteva ritenersi salva, altrimenti c'erano le camere: là dentro riuscivano a stipare fino a duemila persone per volta. Al posto del monossido di carbonio degli scarichi dei motori diesel usati a Treblinka o a Buchenwald, noi ad Auschwitz morivamo respirando Zyclon B, un'altra caritatevole invenzione dei 'tecnici della morte pietosa'. La miscela era costituita dai cristalli blu dell'acido prussico, mescolati con schegge di legno e un reagente che faceva evaporare allo stato gassoso il composto. «All'interno e nelle immediate vicinanze del lager, l'industria pesante tedesca avviò dei grandi stabilimenti. «Gli internati vivevano nel terrore. Tra quelli che venivano condotti alla 'salutare doccia' c'erano i segnati. Durante la giornata gli aguzzini marcavano con un segno indelebile il volto di chi si era macchiato di una grave mancanza. Alla sera, durante l'appello, i segnati venivano separati dagli altri. Di loro non se ne sarebbe saputo più nulla. Le mancanze non erano rappresentate da tentativi di evasione, attentati a soldati tedeschi o ammutina-
menti. Era sufficiente alzare la testa per asciugarsi il sudore, nel corso delle interminabili ore di massacrante lavoro, per avere il destino segnato. Il più grande gesto di amicizia e solidarietà tra noi ebrei era tirare via la panca con la massima celerità da sotto i piedi dell'amico che stava impiccandosi. «Ho visto uomini come Höss gioire mentre le sue guardie ucraine massacravano a calci un giovane ufficiale polacco, o come il terribile Mengele aggirarsi tra i prigionieri alla ricerca di soggetti utili per i suoi aberranti esperimenti. «Ho visto la porta delle camere riaprirsi dopo venticinque minuti di acido prussico e ne ho estratto corpi pregni di bava e orina, avvinghiati tra loro nell'ultimo abbraccio. «A mio padre evitai quella mezz'ora di agonia, dando un calcio al suo sgabello in una calda notte d'estate del 1942. «Fu forse per la mia forza fisica e per la mia resistenza alla fatica che riuscii a evitare la 'doccia del mattino'. «Negli ultimi anni della guerra, le docce avevano preso a lavorare a ritmo serrato, e ciò causava problemi per lo smaltimento dei corpi e a volte provocava gravi turbe psichiche anche nelle menti, sia pure votate all'assassinio, dei nostri carcerieri: le SS Totenkopfe le guardie ucraine. «Fu allora che i compiti più macabri furono affidati ai prigionieri chiamati Kommandos. Essi dovevano occuparsi di tutto quanto aveva a che fare con i cadaveri. Dal privarli di qualsiasi oggetto di valore, compresi i denti d'oro, al ripulire le camere della morte. Essere un Sonderkommando significava avere alcuni privilegi momentanei, ma anche giungere a morte certa nel volgere di tre o quattro mesi. Questo per evitare di lasciare in vita scomodi testimoni. Ciò che accadeva in quei funesti padiglioni non doveva trapelare tra i prigionieri. «Quando i soldati alleati irruppero nel campo, ero appena stato nominato Sonderkommando e la liberazione allontanò da me lo spettro di una sicura fine. «Pesavo quarantatré chili, ero ridotto quasi allo stremo e giurai che avrei abbandonato per sempre la Germania. «Prima di morire, mio padre mi aveva rivelato dove si trovava la chiave che avrebbe aperto una cassetta di sicurezza in una banca di Berna. Lì era depositato tutto ciò che la mia famiglia
aveva messo da parte per generazioni. «Recuperai la chiave nascosta, mi recai in Svizzera e prelevai quello che scoprii essere un vero e proprio tesoro in pietre preziose di ogni forma, taglio e dimensione. «Il Brasile era un Paese all'epoca poco conosciuto e vastissimo, che offriva grandi opportunità a chi fosse dotato di spirito d'iniziativa. Decisi di stabilirmi qui e di ricominciare un'altra vita, consapevole dei vantaggi derivanti dalla grande ricchezza lasciatami dai miei. Così diedi vita alla Neumann Corporation. Ma il merito non è solo mio, o meglio, il mio merito più grande è stato quello di aver saputo circondarmi di persone efficienti e fedeli, per la maggior parte appartenenti alla mia razza e, come me, profondamente segnate negli affetti dalle efferatezze del nazismo. «È anche grazie a loro che oggi il gruppo industriale che porta il mio nome è ai vertici del panorama economico mondiale.» Neumann ha taciuto, esausto. Per alcuni minuti nessuno di noi ha detto niente. Io non riuscivo a distogliere lo sguardo dai numeri marchiati sull'avambraccio del mio ospite. Durante il racconto si è arrotolato la manica della camicia e mi ha mostrato la prova del suo martirio. È stato quello l'unico momento in cui ho avuto la sensazione che avesse messo da parte la sua abituale freddezza. Tornato nella mia stanza ho fatto la doccia, poi mi sono avvicinato al tavolino da notte e ho fatto per prendere l'agenda con l'intento di rileggerla. Non era nella stessa posizione in cui l'avevo lasciata. Temo che, mentre ero sotto il getto dell'acqua, qualcuno abbia letto e probabilmente fotografato i miei appunti. Ho deciso che d'ora in poi non mi separerò più, nemmeno nel sonno, dal mio prezioso quaderno. E che utilizzerò un linguaggio criptato, fatto di caratteri stenografici modificati, in modo che nessuno possa decifrare quello che ho annotato. Ma proprio mentre stavo pensando che le mie ansie erano eccessive, che forse era stata solo una cameriera a spostarlo mentre riordinava la stanza, con un movimento maldestro ho fatto cadere in terra il pulsante del campanello elettrico posto sul comodino. Il guscio si è aperto: al suo interno ho trovato una piccola ricetrasmittente. Questa sera ho capito che, sino a che rimarrò qui, ogni mio gesto, parola, movimento saranno seguiti dalla inesauribile rete di controllo di Neu-
mann. PARTE TERZA Dovunque Dio erige una chiesa sempre il demonio innalza una cappella e se vai a vedere, troverai che dal secondo ci sono più fedeli. Daniel Defoe
18 Età dei Metalli, II millennio a.C. «Stai dicendo che Goreth dovrà condurre Mizda al tempio e lasciarlo al supplizio della Pietra Sacra?» chiedeva Athor al padre di Dehal.
I tre erano tornati nella caverna e Aker aveva raccontato loro quanto accaduto al villaggio negli ultimi tempi. Il modo con cui venivano eseguite le sentenze di morte era lo stesso sin dalla notte dei tempi. Quando non veniva raggiunta la maggioranza tra i cinque membri del Consiglio degli anziani, colui o coloro che erano in disaccordo con il verdetto avevano la facoltà di indicare le modalità di esecuzione. Di solito i dissidenti si appellavano al giudizio di Hosh, sottoponendo il condannato al supplizio della Pietra. Questo era l'unico caso, oltre ai periodici sacrifici, nel quale veniva sollevato il coperchio di metallo che sigillava l'alloggiamento della Pietra Sacra. Il sommo sacerdote procedeva a dare corso alla sentenza con un rituale assai semplice: il condannato veniva condotto all'interno del tempio durante una notte di luna piena. Qui veniva legato in posizione supina all'altare. Il sacerdote abbandonava la stanza, non senza aver alimentato i bracieri perpetui ed essersi assicurato del perfetto funzionamento del meccanismo di manovra a distanza. Giunto alla fine del cunicolo, recuperava la corda che avrebbe aperto il coperchio del sarcofago. Quindi avrebbe atteso nella grotta per tutta la notte e, al mattino seguente, sarebbe stato suo compito richiudere il coperchio. Le forti correnti d'aria provocate dai camini scavati nella roccia avrebbero contribuito a rendere nuovamente salubre l'ambiente ed evitato che il vento della morte ristagnasse all'interno del tempio. Dovevano comunque trascorrere almeno tre giorni prima che il sacerdote potesse recuperare il corpo del condannato, caricarlo su una barella e trascinarlo sino a un profondissimo pozzo all'interno della galleria principale, nel quale lo avrebbe lasciato cadere. A memoria d'uomo nessuno era mai riuscito a sopravvivere al giudizio della Pietra. Goreth avanzava con passo sicuro e fiero, ma non appena il villaggio dei migos scomparve dalla sua vista, la baldanza lo abbandonò. Era preceduto da Mizda, che aveva i polsi legati e una corda alle caviglie. Come se ciò non bastasse, il re teneva il condannato sotto la costante minaccia della sua lancia. Nessuno li seguiva: solo il sommo sacerdote doveva conoscere l'ubicazione del Tempio Segreto e accedervi. «Dove mi conduci, re dei migos? Ho l'impressione che tu non sappia la strada per arrivare al tempio», disse Mizda con sarcasmo. «Stai zitto e cammina!» A un tratto Goreth si fermò, si guardò attorno, quindi, accertatosi che
nessuno li avesse seguiti, si accinse a dare esecuzione alla sentenza. «Preparati a morire, Mizda», disse, mettendo mano al pugnale. «Siamo forse giunti al Tempio di Hosh?» chiese il giovane migos, guardando negli occhi l'usurpatore. «No, ma tu non potrai raccontarlo a nessuno.» Goreth afferrò Mizda per i capelli, tirandogli il capo all'indietro e scoprendogli la gola. Stava per colpire, quando una mano si serrò attorno al polso del re dei migos. «Lascia che sia io a portare a termine il tuo lavoro, Goreth. Abbiamo molte faccende in sospeso da sistemare.» Il sorriso malvagio di Karesh, capo dei davaar, tradiva la sua soddisfazione: in un sol colpo aveva catturato il responsabile di una fuga rocambolesca dal suo villaggio e il colpevole di un tradimento che era costato la vita a un gran numero dei suoi. Ma altre ombre, oltre a Karesh e ai davaar, avevano seguito Goreth e il prigioniero sin da quando si erano inoltrati nella foresta. Athor e Dehal si erano tenuti a distanza, aspettando il momento propizio per attaccare l'impostore e liberare l'amico. Quando, non visti, avevano scorto i davaar, si erano rifugiati sopra un albero e da lì avevano osservato la scena. La notte stava calando sulla foresta e dal loro nascondiglio Athor e Dehal avevano udito Karesh che dava disposizioni ai suoi di accamparsi. Al mattino seguente avrebbero condotto i due prigionieri al villaggio, dove li avrebbero giustiziati saziandosi dei loro cuori. «Come faremo a liberare Mizda?» bisbigliò Dehal. Athor la guardò preoccupato: non sapeva ancora in che modo, ma loro due, da soli, avrebbero dovuto avere la meglio sui sei nemici. La piccola radura dove si erano fermati per la notte era circondata da alberi d'alto fusto. L'erba era alta e secca. I sei guerrieri avevano legato i prigionieri tra di loro e li avevano collocati nei pressi del fuoco che avevano acceso per tenere lontani gli animali. La notte era calda e ventosa. Un solo davaar era rimasto di sentinella, mentre gli altri si erano sdraiati sull'erba con le armi al fianco. Athor li osservò a lungo, cercando di formulare un piano, quindi parve illuminarsi. Tirò fuori dalla bisaccia un piccolo arco, lungo poco più di un palmo, sulla cui corda inserì un ramo secco. Incominciò quindi a muoverlo avanti e indietro, sino a che non si sprigionò il primo sbuffo di fumo. Poi si rivolse alla donna: «Dobbiamo darci da fare prima che si sveglino: aiutami
a cercare legna secca e paglia». La sentinella alzò la testa e si mise ad annusare l'aria. Quando si accorse del fuoco che avanzava velocemente verso di lui, alimentato dalla sterpaglia, era già tardi per dare l'allarme. Le fiamme sospinte dal vento illuminarono la notte. Karesh fu il primo a destarsi. Il fumo gli impediva di tenere gli occhi aperti e, come una fiera accecata, si mise a cercare un varco in quel muro di fiamme. Athor aveva spiegato a Dehal come appiccare il fuoco nella zona sopravento della radura. Lui, invece, nascosto dall'erba alta, si era avvicinato all'accampamento, bruciando i cespugli che si lasciava alle spalle, ma premunendosi di aprire dietro a sé un corridoio per la fuga. Le grida di Karesh e dei suoi gli giungevano nitide, superando il crepitio delle fiamme. I davaar, in preda al panico, si erano del tutto dimenticati dei due prigionieri. Mizda era scosso da pesanti colpi di tosse: «Guarda quanto è strano il destino: morirò legato al mio carnefice», mormorò il giovane migos, osservando freddamente le fiamme ormai vicine. Il terrore, invece, si era impadronito di Goreth che, dopo avere invano tentato di liberarsi, ora gridava aiuto ai quattro venti e invocava il dio Hosh affinché gli salvasse la vita. L'uomo apparve tra il fumo e i bagliori come un miraggio. «Sono io, Mizda. Ti porto in salvo», disse Athor all'amico, mentre tagliava i legacci ai polsi e alle caviglie. «Presto, di là», gli urlò. Mizda prese a correre nella direzione indicatagli. Athor stava per seguirlo, quando gli sguardi dei due fratelli si incontrarono. Fu Goreth, con voce supplicante, a parlare per primo. «Te ne prego, libera anche me, fratello. Non lasciare che le fiamme divorino il sangue del tuo sangue.» I davaar, nel frattempo, avevano capito che l'unica via di salvezza era sperare di individuare un varco tra le lingue di fuoco. Le loro voci, mentre Athor tagliava i legacci alle caviglie di Goreth, si fecero sempre più nitide. Gli occhi di Karesh vagavano alla disperata ricerca della salvezza. Improvvisamente lo sguardo del capo dei davaar incrociò quello di Athor. Karesh ebbe solo il tempo di riconoscerlo e subito lo vide scomparire tra le fiamme, seguito da Goreth.
Quando il quartetto giunse alla grotta, Aker li accolse con un sollievo e una gioia incontenibile. La lunga attesa lo aveva fatto cadere preda di oscuri presagi. Goreth fu legato e lasciato in disparte, mentre Athor, Dehal e Mizda si rifocillarono con il cibo preparato per loro da Aker. Quando tutti si furono assopiti, Athor si mosse in direzione del cunicolo che conduceva al tempio. Non aveva rivelato a nessuno, nemmeno a Dehal, l'esistenza del passaggio segreto. Giunto all'interno della caverna sacra ravvivò i bracieri e si inginocchiò di fronte all'altare a pregare. Il disco d'oro posato sulla nuda roccia rifletteva le vampe di fuoco. «Grazie a te, dio Hosh, per avermi dato la forza di proteggere la donna che amo e il mio popolo. Ora ti prego affinché tu mi conceda la forza e la saggezza per essere un buon re.» Il giorno seguente avrebbero fatto ritorno al villaggio e Goreth sarebbe stato sottoposto al giudizio degli anziani. Athor si mosse e percorse a ritroso il cunicolo. Le braci del fuoco, Dehal, Aker e Mizda che dormivano furono le ultime cose che vide. Poi gli parve che l'intera montagna crollasse sulla sua testa. Quando riprese i sensi, si accorse che Goreth non c'era più. In preda al più cupo dei presentimenti tornò al tempio: il disco d'oro, il simbolo in grado di consacrare re e sommo sacerdote chi lo avesse indossato, era scomparso. Goreth teneva le braccia in alto, le mani sorreggevano l'amuleto. I raggi del sole si riflettevano sul metallo emanando fulgidi bagliori. «Adesso voglio vedere chi oserà ancora sostenere che io non sono il vostro re. Per Athor ci sarà solo la morte», disse Goreth rivolto ai migos. «Dieci guerrieri devono venire con me: bisogna catturare al più presto i quattro fuggiaschi.» «Dobbiamo abbandonare immediatamente la grotta!» urlò Athor. «Goreth è riuscito a fuggire e ha sottratto il disco d'oro. Tra poco sarà qui con le guardie.» Dehal lo osservò. La sua angoscia era mitigata dalla fiducia che provava per il suo uomo. «Vicino a te non ho più paura di niente», disse la giovane raccogliendo
le loro poche cose. «Sono sicura che tutto andrà bene.» Mizda e Aker furono pronti in un attimo. Athor pensò che forse Hosh li stava mettendo alla prova: per questo l'ira degli spiriti del male si era abbattuta ancora una volta su di loro. Dehal sollevò il pesante sacco di pelle d'orso senza sforzo apparente. Si sentiva piena di una nuova energia. Si accarezzò il ventre. Il suo istinto di donna le aveva svelato quanto ancora nessun altro aveva potuto intuire. I quattro si inoltrarono nella foresta. Non sapevano dove si sarebbero fermati, né quale fosse la loro meta, ma dovevano allontanarsi il più possibile dal nemico. Athor giurò a se stesso che non sarebbe finita così: avrebbe trovato il modo per ottenere quanto era suo di diritto e per sconfiggere una volta per tutte il perfido fratellastro. 19 Linguadoca, 1213 I frati del convento di Aurillac erano stati catturati da quanto avevano udito. Aymon e il suo strumento avevano il potere di incantare chiunque e questa volta non sarebbe stato necessario che Sarya girasse tra la folla con il sacchetto per la questua. L'accordo con il priore era semplice: un'esibizione dopo le preghiere del mattino e una seconda all'ora del vespro. In cambio cibo a volontà e viveri da caricare sul carro, una volta che i musici avessero deciso di lasciare il convento. «Un goccio di buon vino, amico mio? Viene dalle nostre vigne: è leggero e fresco.» Il priore era di origine italiana, ma aveva sempre vissuto in Occitania. Era un tipo allegro e cordiale e aveva accolto i nomadi con sincero affetto. Per il ragazzo che suonava come un angelo aveva da subito nutrito un'autentica venerazione. «Eseguirete qualche cosa anche questa sera, non è vero?» I dieci giorni appena trascorsi erano stati sufficienti a far sorgere tra il frate e gli zingari una profonda amicizia. Il priore non aveva fatto domande, ma aveva capito che i tre fuggivano da qualcuno o da qualche cosa. E aveva deciso di proteggerli. Una volta che ebbero terminato di suonare, i due tzigani e il ragazzo si ritirarono nel loro carro.
«Potremmo restare un po' più a lungo qui al convento. I frati sono gentili e ospitali», propose Aymon, stanco di quel continuo peregrinare. «Non credo sia una buona idea: sono sicuro che Simone e i suoi crociati ci stiano ancora cercando. Anch'io mi trovo bene qui ad Aurillac e la cucina dei padri benedettini è davvero gustosa e abbondante. Ma domani sera ci esibiremo per loro ancora una volta e la mattina seguente lasceremo il convento.» E così avevano fatto: si erano accomiatati dai loro ospiti con un'ultima serie di suonate, avevano caricato il carro di ogni ben di Dio proveniente dalle campagne e dalle dispense dei frati e si erano apprestati a trascorrere l'ultima notte all'interno delle protettive mura del convento: alle prime luci dell'alba sarebbero partiti. Ma, nel pieno della notte, dei forti colpi sul portone li svegliarono di soprassalto. «Fratello Quentin, aprite!» ordinò una voce autoritaria. «Vengo a nome del comandante della milizia crociata, Simone di Montfort. Sappiamo che nel convento si nascondono dei nemici della religione cristiana. Aprite, in nome di Dio e della legge!» Bahram, la donna e il ragazzo abbandonarono il carro e si rifugiarono all'interno del convento. Lì si imbatterono in padre Quentin che, con una lanterna in mano, stava andando loro incontro. «Che cosa succede, mio buon amico?» chiese il priore. «I soldati di Montfort stanno dando la caccia al ragazzo. Egli discende da una nobile famiglia occitana e i militari sospettano che sia in possesso delle informazioni per giungere a un tesoro. Essi sono guidati dalla cupidigia e non certo dallo spirito caritatevole di Dio. Prima che ci raggiungano, padre, voglio consegnarvi qualcosa che vi prego di conservare gelosamente. Me lo giurate? Posso fidarmi ancora una volta di voi?» I crociati intanto avevano fatto irruzione e accerchiato il carro nel cortile del convento. «Vieni fuori, Bahram! Tu e il giovane che ti accompagna», gridò il comandante. Passarono alcuni istanti, poi la porta sul retro del carro si aprì cigolando. Il volto assonnato di Bahram illuminato dalla candela che teneva in mano sbucò nella notte. «Che cosa succede, in nome di Dio? Ah, siete voi, sergente! Qual buon
vento...» «Sappiamo tutto di te e del moccioso che tu e tua moglie spacciate per vostro parente.» Il soldato non aveva alcuna intenzione di farsi abbindolare. «Ma di cosa parlate, signore? Io non capisco...» «Smettila, Bahram, e dimmi dov'è il ragazzo», disse il militare, avvicinandosi con la spada sguainata. «Entrate, messere, e controllate di persona se quello che dico corrisponde a verità.» Lo zingaro si fece da parte, indicando il carro dal quale aveva fatto capolino anche Sarya. «Bene. Visto che almeno tua moglie è presente», aggiunse il militare, «vedremo se lo spettacolo sarà di suo gradimento.» Così dicendo il sergente afferrò Bahram da dietro e lo tenne fermo sotto la minaccia della spada. «Adesso, moglie di Bahram, o mi dici dove si trova il ragazzo o vedrai la testa del tuo amato sposo rotolare per terra.» Il militare aumentò la pressione della lama sulla gola dell'uomo. «Non so davvero di che cosa stiate parlando, messere», disse Sarya. La donna non tradì la sua paura, ma sapeva bene che il crociato avrebbe tagliato la testa al marito, se nessuno avesse soddisfatto le sue domande. «Fate pure, sergente. Non so più che farmene di quel ceppo di legna vuoto. Speriamo sia buono almeno per ardere il fuoco.» I muscoli del soldato si tesero: quei nomadi avrebbero visto con chi avevano a che fare. Il crociato aumentò la pressione della lama sul collo del prigioniero. Un colpo secco e la testa sarebbe caduta a terra con un tonfo. Fu allora che Bahram, il mite musico girovago, si trasformò in una belva. Con il gomito assestò un colpo micidiale allo stomaco del sergente, quindi si abbassò, estraendo nel contempo un pugnale che teneva nascosto sotto la camicia da notte. Poi vibrò un fendente all'inguine dell'uomo e, quando il crociato si piegò in avanti, la lama sibilò nell'aria e gli squarciò la gola con la velocità del fulmine. Bahram infine si avventò sulla spada della sua vittima e si preparò a combattere. I sei militari erano rimasti attoniti. Tutto si era svolto con una tale rapidità che non avevano avuto il tempo di reagire.
Nessuno si era accorto dell'arco che Sarya aveva teso tra le mani. Due crociati caddero trafitti dalle frecce, prima che riuscissero a capire da dove proveniva la nuova minaccia. Un terzo venne ferito dalla spada che Bahram maneggiava con insospettata maestria. I tre rimasti si avventarono su quest'ultimo, che compì una finta sulla destra, quindi rapido affondò a sinistra. Due spanne della sua spada scomparvero nel petto del nemico. Senonché, sbilanciato dall'affondo, Bahram cadde a terra. E i due sopravvissuti gli furono sopra, brandendo le armi. Bahram si vide perduto. Aymon sbucò dall'oscurità come un giovane vendicatore. Il suo fisico ancora acerbo contrastava con il piglio da combattente e con la lucente akinakes dall'elsa dorata che stringeva in mano. Una breve rincorsa e Aymon parve librarsi nell'aria. La lama affilata si abbatté sulla nuca di uno dei crociati, uccidendolo sul colpo. L'ultimo militare si guardò attorno spaesato. Ma non ebbe nemmeno il tempo di formulare un pensiero che Bahram, prontamente rialzatosi, lo trafisse con un fendente. «Ti devo la vita, ragazzo mio», disse Bahram, il corpo ancora scosso dall'affanno. «Presto!» continuò. «Dobbiamo fuggire subito, prima che l'intero contingente crociato si metta sulle nostre tracce.» Ai piedi della rocca che sovrastava Leucate c'era grande animazione. Nessuno notò l'uomo e i due ragazzi a bordo del calesse: tutti gli sguardi erano concentrati sul centro della baia, dove era ancorata la nave da guerra francese. Gli scudi variopinti, fissati alle murate della galea, avevano lo scopo di proteggere l'equipaggio e i rematori, e conferivano all'imbarcazione un aspetto più che mai minaccioso. Filippo II aveva deciso di invadere l'Inghilterra. Ed era evidente che quella galea, richiamata dalla Terra Santa, avrebbe fatto parte della flotta che, secondo il re di Francia, avrebbe dovuto sconfiggere una volta per tutte i rivali inglesi. A bordo vi trovavano posto circa duecento uomini, tra vogatori, soldati e ufficiali. La galea si era vista costretta a quella sosta forzata a causa di un grave incidente occorso a due cambusieri: nel corso di una violenta tempesta i responsabili del vitto e degli approvvigionamenti erano caduti in mare ed erano affogati tra i flutti.
I corpi erano stati poi recuperati e la galea aveva quindi riparato in quel golfo, più che per dare sepoltura ai due poveretti, per trovare qualcuno che li sostituisse a bordo. L'ufficiale camminava verso la lingua di sabbia dove era stata tirata in secco la scialuppa. Gli uomini trasportavano dei baldacchini sui quali erano state collocate delle grandi botti d'acqua: gli approvvigionamenti, data la scarsa capacità di stivaggio delle galee, dovevano essere pressoché settimanali. «Perdonate il mio ardire, messere...» L'uomo si era accostato al comandante che sovrintendeva ai lavori di carico. «Dite pure, buon uomo», rispose l'altro. «Mi è giunta notizia che avete subito una grave perdita a bordo e che i vostri cambusieri sono periti tra le onde.» «È così. Sia pace alla loro anima», disse l'ufficiale alzando gli occhi al cielo. «Avete già provveduto alla loro sostituzione, di grazia?» chiese ancora l'uomo. «Non ancora. Non è facile trovare qualcuno che sia capace di preparare il rancio per quasi duecento marinai.» «Si dà il caso che io sia un cuoco, e che per lungo tempo abbia prestato servizio nell'esercito di Simone di Montfort a Carcassonne. Oggi io e i miei familiari siamo alla ricerca di un lavoro: io e il mio fratello più giovane potremmo fare da cambusieri, mentre mio figlio potrebbe venire occupato come sguattero o come mozzo.» L'ufficiale squadrò l'uomo: aveva un fisico robusto e lo sguardo intelligente. I due che lo accompagnavano stavano un poco in disparte. Il più piccolo aveva anch'egli un'aria sveglia e attenta. L'altro aveva la pelle liscia e chiara e i tratti vagamente effeminati. «Poco male», pensò il comandante, «non è scritto da nessuna parte che dei cucinieri o dei mozzi debbano avere l'aspetto di guerrieri.» «Bene, Dio ha voluto che i nostri destini si incontrassero», concluse poi con un'aria soddisfatta. «Voi e i vostri siate i benvenuti a bordo.» La nave salpò il mattino seguente. Forse fu per l'impegno con cui Bahram, Aymon e Sarya - travestita da maschio sin dalla fuga dal convento - avevano preparato il rancio. Forse fu anche per la qualità e la freschezza dei prodotti appena imbarcati a Leucate che il comandante e alcuni membri dell'equipaggio vollero complimentarsi
di persona con i nuovi addetti alla cucina: «Se continueremo a mangiare in questo modo», aveva detto un ufficiale, «riusciremo a debellare lo scorbuto che da mesi dilaga tra i membri dell'equipaggio». La galea risalì l'estuario del fiume Zwyn, presso la città di Damme, nelle Fiandre, il 28 maggio 1213. Lì erano alla fonda, in una zona tranquilla e al riparo da sguardi indiscreti, alcune centinaia di navi da guerra francesi: aspettavano che le ultime imbarcazioni le raggiungessero, quindi l'intera flotta avrebbe mosso in direzione delle coste inglesi. Se l'attacco a sorpresa fosse riuscito, le truppe di Filippo II avrebbero avuto ragione degli inglesi. Ma nella guerra, come nella vita, l'ultima parola spetta quasi sempre al caso. Il terzo conte di Old Sarum, principe William de Longespée, era sulla tolda della nave ammiraglia. Era salpato dall'Inghilterra il 28 maggio, al comando di una flotta forte di cinquecento navi. A bordo, centinaia di cavalieri ai suoi ordini. Il re di Francia aveva peccato di ingenuità: la notizia che stava preparandosi a un'invasione aveva da tempo oltrepassato la Manica. Non sarebbero stati i francesi a prendere alla sprovvista l'Inghilterra. «Cambusiere», aveva detto un ufficiale a Bahram, «per i prossimi due giorni il comandante ha concesso una licenza a tutti i soldati: se vorrete, tu e i tuoi potrete unirvi a loro e andare a divertirvi nella città di Gand. Alla fine del mese partiremo alla volta della nostra destinazione e da quel momento potrete dire addio a ogni genere di svago. Approfittatene.» «Vi ringrazio per il consiglio, signore, ma preferiamo restare a bordo a riposare. La truppa ha ben altre esigenze di quelle di un padre vedovo con un fratello e un figlio a carico.» La flotta inglese doppiò l'estuario nelle prime ore del mattino. Una leggera foschia si levava dall'acqua. Le navi alla fonda sembravano imbarcazioni fantasma: a bordo di ciascuna di esse si trovavano solo alcune sentinelle semiaddormentate. Aymon stava esercitandosi con la ghironda. Bahram e Sarya stavano riposando l'uno accanto all'altra nel minuscolo spazio a poppavia occupato dalla cucina di bordo, che fungeva anche da alloggio. L'allarme venne lanciato da una delle imbarcazioni accanto alla galea.
Quando i tre raggiunsero il ponte, lo trovarono invaso dai soldati inglesi. Tutto intorno pareva si fosse scatenato l'inferno: erano già una cinquantina le navi francesi in fiamme. L'equipaggio della galea, o meglio i pochi marinai e soldati che erano rimasti a bordo, si arrese senza resistere agli inglesi. I tre cambusieri non fecero eccezione. Nei due giorni successivi, la flotta agli ordini di William de Longespée riuscì ad affondare almeno duecento navi nemiche, a catturarne il doppio e a mettere a ferro e fuoco la città di Damme. Quando le truppe francesi, venute a conoscenza di quello che stava accadendo a Damme, fecero ritorno da Gand, gli inglesi erano di nuovo salpati sani e salvi alla volta della loro patria, dopo aver reso inutilizzabili le poche navi nemiche rimaste a galla. 20 Linguadoca, anni '30 Mandément, presidente del sindacato turistico di Tarascon e speleologo per passione, aveva un fisico massiccio che mal si adattava allo stereotipo che voleva esile e sgusciante uno studioso delle profondità terrestri. Non era un chiacchierone, anzi si compiaceva di essere un tipo molto riservato. Alla persona che aveva davanti, che conosceva sommariamente, e alla signora con l'accento spagnolo che la accompagnava, avrebbe preferito non dover raccontare quell'episodio sgradevole e in grado di gettare discredito su di lui, sul sindacato e sull'intera regione. Ma i due gli avevano mostrato le tessere di riconoscimento della Sûreté e avevano tirato in ballo la ragion di Stato. Di fronte alla salvezza della patria, anche la proverbiale riservatezza di Mandément aveva ceduto. Arrotolandosi con le dita i baffoni spioventi, aveva incominciato a raccontare quanto era accaduto alcuni mesi prima. Mandément conosceva le grotte sin da quando, bambino, avevano rappresentato il suo rifugio e la meta preferita dei suoi giochi. Crescendo, aveva continuato a frequentarle: le caverne di quella regione sarebbero potute diventare la vera attrazione turistica della zona. E questo anche senza tutte le fandonie che si era inventato quel tedesco: non c'erano sacre reliquie o oggetti misteriosi all'interno delle grotte. Se un
tempo, poi, ci fossero stati dei tesori, qualcuno nei secoli se li era sicuramente presi. Ciò che restava erano le meravigliose sculture create dallo scorrere dell'acqua nei millenni, che ne avevano fatto dei siti di notevole interesse speleologico, con scorci suggestivi e mozzafiato. Accidenti a Otto Rahn e alle sue teorie! Tanto più che erano in molti a essere convinti che fosse una spia, e ciò non contribuiva certo ad accrescere la stima che il francese di Tarascon provava per lui. Mandément intercalava il racconto ai suoi commenti personali. Un giorno, percorrendo un lungo cunicolo, era giunto in uno slargo piuttosto ampio. Il pavimento era coperto da una soffice sabbia calcarea che attutiva i suoi passi. Se lo era trovato davanti all'improvviso. Otto Rahn gli dava le spalle e non si era accorto che Mandément lo stava osservando. «Che cosa state facendo, signor Rahn?» La voce già imperiosa del francese echeggiò tra le volte della caverna. Alla luce delle torce la scena fu subito sin troppo chiara per Mandément. Rahn aveva le mani sporche di pittura nera, accanto a lui una ciotola con della polvere scura e una tanica d'acqua. Nella mano destra il tedesco stringeva uno strano oggetto: forse un punteruolo o una specie di pennello. Rahn stava tracciando dei falsi graffiti. Quasi certamente, una volta che si fossero essiccati, avrebbe denunciato la sensazionale scoperta di una serie di antichi dipinti che risalivano all'epoca dell'eresia catara. «Vedo che vi state dedicando all'arte figurativa, dottor Rahn. Me ne compiaccio. E a chi farete risalire quel prezioso dipinto? Ai catari o avete in mente altre singolari civiltà? Che ne dite di uomini preistorici? O di misteriosi abitanti di Atlantide finiti nelle grotte di Occitania assieme al Graal e alle ossa di Nostro Signore? Siete un farabutto, Otto Rahn!» Rahn era rimasto pietrificato. Guardava muto il suo interlocutore con gli occhi spalancati. Forse era stato quel silenzio irritante a far sì che le dita della mano destra di Mandément si chiudessero a pugno e andassero a colpire, sia pure senza troppa violenza, il naso dell'impostore tedesco. «Avete conosciuto un certo Wolff, signor Mandément?» chiese la donna quando il francese ebbe terminato. «No, signora, anche se ne ho sentito parlare. Pare abbia soggiornato qui la scorsa estate all'hotel del tedesco. Portava - riferisco per sentito dire - i capelli rasati come i nazisti ed era sempre di buon umore. Diceva di essere
americano, ma mi hanno riferito che parlava inglese come io parlo il greco antico. So che ha compiuto alcune escursioni nelle grotte assieme a Rahn. Questo è tutto.» Carla Jeogeres Núñez dava la caccia al sedicente Karl Wolff da tempo e la spia era convinta che non fosse un caso averlo ritrovato proprio al fianco di Otto Rahn. Carla aveva incominciato a occuparsi di Wolff un anno prima, quando lo avevano segnalato come abituale avventore di un albergo di Barcellona che si sospettava fosse un centro operativo dello spionaggio tedesco. Carla aveva i capelli castano scuri e gli occhi sottili e neri delle donne andaluse. La madre francese le aveva lasciato in eredità un corpo sinuoso e sensuale. Nessuno, guardandola, avrebbe potuto pensare che si trattasse di una spia: aveva l'aspetto di una giovane di buona famiglia in attesa di un marito di cui prendersi cura. La donna aveva la sgradevole sensazione di essere arrivata a un punto morto delle sue indagini. Ma, se avesse potuto trovarsi in una stanza di Prinz Albrechtstrasse a Berlino, avrebbe finalmente conosciuto la vera identità del Karl Wolff a cui dava la caccia. Berlino, anni '30 Karl Maria Wiligut-Weisthor sedette di fronte a Himmler. «La 'missione pirenaica' sta facendo acqua, comandante», disse Wiligut, prima ancora che l'altro potesse porre la sua domanda. «Che cosa volete dire, Weisthor?» «Mi sono recato a Ussat la scorsa estate e ho trascorso alcune piacevoli giornate in compagnia di Rahn. Piacevoli dal punto di vista di un turista, non certo per i fini che interessano a noi.» «Andate avanti, prego.» «Ho l'impressione che il nostro uomo stia vagando nella nebbia. Ha sostenuto, come sempre fa, d'altronde, di essere a un passo dalla soluzione. Ma di passi me ne ha fatti fare parecchi, all'interno di caverne ammuffite e scivolose, senza arrivare a niente. Mi ha anche raccontato una strana storia di un locale che lo ha preso a pugni credendo che lui stesse eseguendo pitture rupestri false, mentre invece, così mi ha assicurato, stava decrittando un messaggio che aveva rinvenuto proprio in una di quelle pitture.»
«E che cosa avrebbe indicato quel messaggio?» «Dice che ancora non è riuscito a decifrarlo: si tratta di segni lasciati molto prima della venuta di Cristo in terra.» «Prima di Cristo? Ma se i catari sono vissuti attorno al 1200...» «È per questo che sono convinto che Rahn stia brancolando nel buio. Per non dire che queste scazzottate nelle caverne hanno suscitato la curiosità della 'concorrenza'.» «Che cosa intendete dire, Weisthor?» «Intendo dire che le goffe manovre di Rahn hanno provocato una serie di indagini della Sûreté e che chiunque sia stato sospettato di attività spionistiche è stato allontanato dalla regione. E sono certo che, con la scusa dei debiti accumulati nel corso della sua disastrosa avventura imprenditoriale, anche Rahn verrà presto invitato ad andarsene. Vorrà dire che continuerà i suoi studi a Berlino. Di materiale ne deve avere raccolto a sufficienza, a nostre spese.» Parigi, anni '30 Otto Rahn era preoccupato: la pubblicazione del suo libro sul Graal non gli aveva portato la tranquillità economica sperata. I pochi denari che periodicamente riceveva dal suo editore erano appena sufficienti a mantenerlo nella pensione parigina in cui si era ritirato dopo aver abbandonato Ussat. Lì lo raggiunse il provvedimento di espulsione dal territorio francese. «Ma che cosa combinano quelli della polizia?» disse Carla Jeogeres Núñez, scuotendo la testa. «Che senso ha buttar fuori dal Paese una persona su cui noi stiamo svolgendo delle indagini?» «Forse non immaginavano che Rahn interessasse anche a noi...» le rispose poco convinto il suo capo. «Tu pensi che la voce secondo la quale sarebbe una spia non sia arrivata anche a loro? Persino le pareti delle grotte del Sabarthès parlano degli strani comportamenti del tedesco. Nonostante questo hanno pensato bene di togliersi dai piedi Rahn con un bel foglio di via. Avrebbero almeno potuto chiedere a noi del controspionaggio che cosa ne pensavamo sull'opportunità di espellerlo.» Germania, 1934
La radio aveva appena finito di annunciare la sofferta vittoria dell'Italia contro la Cecoslovacchia alla finale dei mondiali di calcio, disputatasi a Roma il 10 giugno 1934. Reinhard Heydrich abbandonò la scrivania e si diresse col suo passo atletico verso la sala riunioni. Seppe, prima ancora di vederlo, che Hitler era presente perché nell'aria non si respirava il minimo odore di sigaretta: a seguito dell'esposizione ai gas, il fumo di tabacco scatenava nel cancelliere gravi crisi d'asma. Attorno al tavolo erano seduti i più stretti collaboratori di Hitler. L'argomento del quale avrebbero dovuto discutere rivestiva la massima importanza e riguardava la permanenza in vita del Partito nazionalsocialista e della Germania intera. «Il suo comportamento è lesivo per la stessa sopravvivenza della razza ariana», disse Himmler con il capo chino su un voluminoso dossier. «Che cosa intendete dire?» chiese Hitler, che non riusciva ad accettare l'idea che si dovesse eliminare un compagno della prima ora sin dai tempi della Thule. «Le tendenze omosessuali di questa persona sono note a tutti, eccellenza», spiegò Heydrich. «Senza contare che la sua proposta di assorbire l'intero esercito nelle Sturmabteilung da lui controllate ha sollevato aspre critiche da parte di alcuni di noi: l'operato delle SA suscita spesso le nostre perplessità.» «Si dice anche che lui e le sue squadre d'assalto stiano lavorando a un progetto di Putsch teso a destabilizzare l'attuale governo da voi presieduto», aggiunse Göring. «È un socialista filobolscevico. Liberarci di lui non potrà che arrecarci vantaggio», concluse Göbbels. A quel punto anche l'ultima resistenza del cancelliere Adolf Hitler fu vinta: Ernst Röhm era definitivamente caduto in disgrazia. Fuori, una brezza estiva accarezzava dolcemente i viali della città in quel giugno 1934. «Entro fine mese la 'pratica' Ernst Röhm sarà chiusa per sempre», si disse Heydrich abbandonando soddisfatto la sala riunioni. Il 29 giugno Röhm indusse una sorta di stato generale per i comandanti delle SA. Naturalmente non mancò di invitare Adolf Hitler alla riunione. Il cancelliere, e segretario del Partito, si presentò in notevole ritardo all'appunta-
mento presso l'Hotel Hanselbauer di Wiesse, vicino a Monaco. Cosa ancor più singolare, al seguito di Hitler non c'erano i suoi consueti collaboratori, bensì un nutrito numero di SS che provvidero ad arrestare Röhm. Nei giorni seguenti anche tutti gli altri maggiori esponenti delle SA subirono la medesima sorte. Molti di loro vennero giustiziati poco dopo. Röhm, a cui la magnanimità di Hitler aveva offerto la via del suicidio, aveva rifiutato l'alternativa «onorevole». Dell'esecuzione si era occupato Theodor Eicke, membro della Thule, in tempi non sospetti tra i migliori collaboratori dello stesso Röhm. Ma in quella che la Storia avrebbe chiamato la «Notte dei lunghi coltelli», nessuna amicizia aveva più valore. Il 3 luglio il parlamento del Reich approvava le leggi sull'autodifesa dello Stato. Roma, 1934 Eugenio Pacelli scosse gravemente il capo leggendo il discorso del 13 luglio con cui Hitler aveva legittimato le epurazioni: sessantuno persone erano state giustiziate. Il segretario dello Stato pontificio rilesse ancora una volta il testo: «'Se qualcuno dovesse chiedermi perché quei traditori non sono stati tradotti dinanzi a un tribunale regolare, posso rispondere questo: io sono responsabile del destino del popolo tedesco, e quindi sono diventato il giudice supremo, l'Oberster Gerichtsherr, del popolo tedesco'. «Quest'uomo è pazzo», commentò Pacelli a bassa voce. «O è pazzo oppure è la personificazione del Male.» Quindi il cardinale scrisse di suo pugno l'ennesima reprimenda tesa a stigmatizzare il comportamento dei gerarchi nazisti, contrario non solo a quanto stabilito nei recenti patti concordatari, ma anche ai più basilari elementi della democrazia. Come per le altre sessanta missive del medesimo tenore che avrebbe scritto nel corso del suo incarico, anche quella non ottenne alcuna risposta. Pacelli era convinto che la Notte dei lunghi coltelli avrebbe sancito la persecuzione per chiunque - ebreo, omosessuale, menomato, nomade, o altro - fosse considerato un diverso dalle scellerate menti dei nazisti. Alla fine del mese di luglio le SS divennero definitivamente un corpo a sé stante e furono scorporate dalle SA, a loro volta sempre più marginaliz-
zate in seno alle strutture del Partito nazista. 21 Washington, 2007 «Torni indietro di qualche fotogramma», disse Oswald Breil al tecnico della CIA. Le foto satellitari che ritraevano la centrale iraniana negli attimi precedenti all'attacco scorrevano sullo schermo in rapida successione. Quindi Breil si rivolse al direttore dell'Agenzia: «Hanno atteso che le nuvole impedissero la visibilità e probabilmente erano a conoscenza dei tempi di sorvolo dei satelliti spia. È evidente che si tratta di gente preparata. Ancora indietro... ecco. Fermi su questa immagine. La ingrandisca». Phil Damiano aveva visionato quelle fotografie almeno una decina di volte e non capiva cosa avesse indotto Breil a soffermarvisi più a lungo di quanto lui non avesse già fatto. «Guardi qui, Phil», continuò Oswald, indicando delle figure nei pressi del muro di cinta dell'impianto nucleare di Bushehr. «Queste dovrebbero essere le sentinelle.» Oswald contò meno di una decina di soldati. Damiano lo osservava, ma continuava a non capire dove volesse arrivare il piccolo uomo. «Avete una scansione eseguita con un satellite del tipo COBE?» chiese Breil. Mentre il tecnico armeggiava con il computer, Oswald mise al corrente il direttore dei suoi sospetti. «Una decina di guardie sono davvero poche per garantire la sicurezza a un impianto dell'importanza di Bushehr. Anche se mi ha quasi convinto dell'estraneità dei governi occidentali in questa vicenda, la produzione nucleare iraniana resta comunque un potenziale obiettivo per un'azione israeliana o americana. Quindi... Come mai quella volpe di Pashelvi ha lasciato solo un pugno di soldati a presidiare il suo gioiello?» «Ecco la scansione con il COBE, dottor Breil», disse il tecnico indicando lo schermo. «Mi mostri l'immagine di una qualsiasi centrale nucleare americana, per favore.» Lo schermo si illuminò di zone dai contorni colorati in un'ampia gamma cromatica che andava dal blu al cremisi, al rosso vivo.
«Vede qui, Damiano», continuò Breil, «il satellite Cosmic Background Explorer riesce a effettuare una scansione che ci permette di misurare uno spettro di radiazioni a infrarosso e ogni infinitesima variazione di calore. Attraverso questi dati possiamo individuare con buona approssimazione l'esistenza di radioattività in determinate località del pianeta. Guardi l'immagine della vostra centrale nucleare, Damiano. E ora confrontiamola con quella di Bushehr.» Ci fu un istante di attonito silenzio, quindi Oswald continuò: «Credo che nel salotto di casa mia ci sia un maggior pericolo di esposizione a radiazioni che non nell'impianto nucleare di Bushehr. Ecco perché c'erano pochi guardiani: non c'era nulla da sorvegliare». «La mano che ha armato gli assassini», Al Jazeera aveva sospeso il palinsesto per mandare in onda il comunicato del presidente iraniano in diretta, «è ormai nota grazie agli indizi rinvenuti sul luogo dell'attentato. I nemici della nostra religione e della nostra civiltà hanno lasciato il loro inconfondibile marchio.» Così dicendo Pashelvi sollevò una mitraglietta poco più grande di una pistola di grosso calibro, dotata di un silenziatore. «Questa è un'Uzi, di fabbricazione israeliana, e questo, invece», continuò il presidente mostrando un frammento di acciaio contorto e bruciacchiato, «è ciò che rimane di un detonatore prodotto dalle Israeli Military Industries, fabbriche di armi di proprietà del governo sionista. Queste sono le prove che ci stanno portando alla verità. E quando l'avremo svelata, gli infedeli conosceranno il sapore amaro della nostra vendetta. Adesso capisco le parole di Tahrjani, che mi ha preceduto in questo non facile incarico: ci sono dei Paesi al mondo che non dovrebbero avere diritto all'esistenza. Sappiano questi Paesi che l'Iran non si piegherà alle loro bieche minacce sino a che anche un solo fedele dell'Islam avrà vita. Dio è con noi. Pace e misericordia su di Lui.» Roma, 2007 Sara aveva appena inviato alcune nuove pagine del diario del giornalista italiano a Oswald e adesso si godeva qualche istante di relax nella poltrona, nel suo ufficio affacciato sul verde del quartiere romano dell'EUR. All'interno del laboratorio la temperatura doveva essere costante, così come l'umidità, la presenza di rumori e la luminosità. Qualsiasi brusco
cambiamento poteva danneggiare, anche irrimediabilmente, ciascuno dei preziosi reperti che lì venivano catalogati, analizzati, studiati o restaurati. Era per questo, per la meticolosa attenzione a ogni particolare, che lo staff della studiosa era tra i più quotati al mondo. A volte Sara si chiedeva come lei, che si riteneva una donna sicura e poco influenzabile, fosse stata capace di abboccare a ognuna delle esche che Oswald Breil le aveva gettato nel corso della sua esistenza. Sapeva per esperienza che occuparsi delle faccende di Breil era sinonimo di guai a non finire. E ogni volta che si era ritrovata in un letto di ospedale o con una pistola spianata davanti al volto, aveva giurato a se stessa che quella sarebbe stata l'ultima. Poi, tornata al lavoro, si rendeva conto che il ronzio dei condizionatori scrupolosamente calibrati per fornire umidità e temperatura costanti e l'ambiente ovattato del laboratorio le davano una quiete eccessiva. E allora doveva ammettere la verità: Oswald era una specie di ottovolante sul quale salire nonostante la paura. Se non ci fosse stata la dose di adrenalina che il piccolo uomo aveva provveduto a iniettarle periodicamente, le severe regole di vita impostele dai suoi studi l'avrebbero annientata. Quello che la bella ricercatrice negava anche a se stessa era che quel vago senso di nostalgia che la coglieva quando pensava al suo amico israeliano non aveva a che vedere solo con la voglia di avventura. C'era dell'altro e lei per prima temeva di scoprire cosa fosse. La parola «amore» le faceva più paura di quanto non volesse ammettere. Lo squillo del telefono la riscosse. «Sono Deman van der Duick, buon giorno, dottoressa Terracini», disse la voce giovanile del mecenate paraguaiano di origini olandesi. «Signor van der Duick, che piacere sentirla.» Non c'era adulazione nella cordiale risposta di Sara, anche se la donna era consapevole che i finanziamenti dell'anziano miliardario sudamericano avevano consentito al mondo intero di apprendere particolari sino ad allora sconosciuti della vita quotidiana nella Roma dei Cesari. «Mi trovo a Roma di passaggio per affari. Mi deve scusare se non l'ho avvisata prima ma, se non è impegnata e se le fa piacere, ascolterebbe qualche racconto di un vecchio filantropo appassionato di storia? Vorrei invitarla a pranzo. Cosa ne dice?» Sara accettò con entusiasmo. Washington, 2007
Oswald Breil chiese di poter osservare ancora una volta le immagini riprese dal satellite COBE ed elaborate dal computer della CIA. «A detta degli iraniani, negli impianti si trovavano almeno trentamila centrifughe di ultima generazione che stavano producendo a pieno ritmo minerale di uranio arricchito. Guardi qui, Phil.» Oswald indicò i colori sullo schermo del computer. «Queste sono le immagini dell'impianto di produzione di Isfahan, immediatamente dopo l'attacco. Sembra 'pulito' come la foresta amazzonica, fatta eccezione per queste zone, assai limitate, in cui è presente una minima contaminazione radioattiva. Mi consenta di fare un'ultima verifica, Damiano. Avete possibilità di modificare la rotta del COBE?» «A quello ci pensa la NASA, ma è sufficiente una telefonata.» Circa un'ora più tardi, le immagini giungevano direttamente dallo spazio alla sede centrale della CIA a Langley, in Virginia. «Questa è la zona mineraria iraniana di Saghand. Dopo che i russi hanno detto niet alla fornitura di uranio all'Iran, la propaganda di Teheran ha diffuso la notizia della scoperta di consistenti giacimenti di materiale radioattivo proprio in quella zona. Potremo fare nostre le parole che Pashelvi ha pronunciato durante il suo minaccioso discorso in mondovisione: ho una convinzione rispetto all'identità del mandante di questa strage, ma è forse prematuro rivelarne il nome.» Phil Damiano era ammutolito. Adesso anche nella sua mente stava facendosi strada il sospetto nutrito da Oswald Breil. «Osservando questa immagine si possono trarre solo due conclusioni: o il materiale radioattivo è talmente ben schermato sottoterra da non rilasciare alcuna traccia, oppure tutta la vicenda dell'approvvigionamento nucleare iraniano non è altro che un gigantesco inganno», concluse il piccolo uomo. Roma, 2007 «Non si tratta di una favola, Sara», stava dicendo l'anziano mecenate sudamericano alla sua bella accompagnatrice. Seduti sulla terrazza panoramica del ristorante dell'Hotel Hassler a Trinità dei Monti, Sara e van der Duick si godevano un ottimo pranzo e la vista ineguagliabile della Città Eterna. Uscita dal laboratorio, Sara era passata dal suo piccolo appartamento in centro e, abbandonati jeans e maglietta su una sedia, aveva indossato un elegante vestito scuro che ne metteva in risalto la figura slanciata. Van der
Duick, dal canto suo, aveva mostrato per la sua giovane ospite attenzioni e premure d'altri tempi, e una galanteria che l'aveva lusingata. «Come le dicevo, Sara, contro i catari venne ordita una crociata. Se riuscirono a resistere tanto a lungo agli assalti dei cristiani, fu perché si arroccarono nei loro inattaccabili castelli e si nascosero con i loro tesori nelle tante caverne di quella regione impervia. Proprio all'interno di alcune di quelle grotte si dice che i crociati abbiano murato vivi un gran numero di eretici.» «Conosco bene quelle storie, signor van der Duick. E conosco anche le curiosità, la bramosia e i sogni che i misteri della Storia sono in grado di suscitare negli uomini. Ma perché nessuno si è mai dato da fare per far venire alla luce i segreti d'Occitania?» «Su questo mi consenta di correggerla, Sara», disse van der Duick con la consueta espressione bonaria e gentile. «In molti hanno eseguito scavi dilettanteschi e ricerche nei paesi dell'eresia catara.» «Lo ha detto lei stesso: dilettanti. Nella migliore delle ipotesi si trattava di cercatori di sogni. Sa quanti ne incontro io ogni giorno?» «Otto Rahn, negli anni '30, si dedicò con un certo metodo allo studio dell'eresia catara, perlustrò a lungo quei luoghi e arrivò, credo, a un passo da una scoperta davvero unica.» «Otto Rahn, sognatore tra sognatori, a un certo punto si è risvegliato con una svastica al braccio e un posto di riguardo nelle gerarchie delle SS...» «... ed è morto in maniera assai misteriosa quando si trovava a un passo dalla soluzione dell'enigma. Ho bisogno di lei, Sara, per venire a capo di questa oscura vicenda.» «Non so, signor van der Duick. Mi conceda un po' di tempo prima di decidere. Dovrei compiere alcune ispezioni per poter valutare se sia davvero il caso...» Van der Duick diede un'occhiata al suo costoso cronografo da polso. «Se crede, la prima delle sue ispezioni potremmo effettuarla insieme... diciamo tra un paio d'ore...» Sara lo guardò perplessa e divertita. Ma la sua perplessità lasciò il posto a un ammirato stupore quando, dopo un breve viaggio sull'elicottero decollato direttamente da uno spiazzo di Villa Borghese, a pochi passi dall'albergo, il fiammante Boeing 737-600 di proprietà di van der Duick sollevò i suoi oltre trenta metri di fusoliera dalla pista dell'aeroporto di Ciampino. Due ore e trentacinque minuti dopo quella loro conversazione, il magna-
te sudamericano si spostò di lato cedendole il passo, e lasciò a lei il privilegio di varcare per prima la soglia della grotta di Lombrives, nei pressi di Ussat-les-Bains in Linguadoca. «La grotta di Lombrives, di origine carsica, deve la sua nascita allo scorrere sotterraneo delle acque del fiume Ariège», stava dicendo van der Duick. «Si tratta forse della caverna più nota e visitata, all'interno di un sistema carsico che si sviluppa sottoterra per una quarantina di chilometri considerando solo quelli a oggi conosciuti - e su ben sette livelli. Dal Neolitico in poi la presenza umana è stata una costante all'interno di tutte le grotte.» Sara si guardava intorno completamente affascinata. Fu lì che seppe con certezza che avrebbe accettato anche quella sfida. Denver, 2007 «Sei tu, Oswald?» La voce di Lilith Habar arrivò dal salotto. «Sono io, Mame-loshen. Ma perché sei ancora sveglia? Aspettavi che io rientrassi?» «Sì. Ero agitata, Oswald, non so come mai...» «Non ti sembra un po' eccessivo, Mame? Ho compiuto i diciotto anni da tempo e, da allora, ho avuto una vita piuttosto movimentata. Non credi che sia ben più esposto al pericolo il capo del Mossad o un primo ministro che non un anonimo cittadino quale ormai io sono anche se viaggio a bordo di un aereo del governo statunitense? Vai a letto, Mame.» Oswald abbracciò la donna. «Sono le due del mattino e sei stanca. Per questo ti lasci vincere dall'ansia.» «Tu non sarai mai un 'anonimo cittadino', Oswald Breil», disse Lilith, ricambiando l'abbraccio. Una volta nella sua stanza, Oswald lottò a lungo con l'insonnia. Poi, stremato e sconfitto, si alzò, si sedette alla scrivania e ricominciò a leggere gli appunti di Luca Raso, gli ultimi che Sara gli aveva inviato. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 Questa mattina ero solo al tavolo della colazione. Così ho avuto modo di guardarmi un po' in giro. La Residencia è veramente piena di tesori, ma la collezione di vasi liberty è davvero insuperabile.
Pensavo che io non potrei mai permettermi nemmeno una scheggia dei vasi firmati da Emile Gallé che sono disposti sulla mensola della biblioteca. In preda all'entusiasmo ho cercato di sollevare un raro esemplare a quattro colori realizzato dal maestro vetraio di Nancy. Volevo toccare con mano ogni particolare di quella rarità da museo. Ma il vaso sembrava fissato alla mensola. Allora ho provato a prenderne in mano un altro, e ho visto che quello era solo appoggiato. Non capivo perché il primo fosse bloccato e ho provato di nuovo a spostarlo ruotandolo delicatamente. Sono rimasto allibito quando una porta segreta posta nel mezzo della parete della biblioteca si è aperta silenziosamente. Ho varcato la porta e mi sono trovato in una stanza che stava dietro al caminetto del salone. Attraverso un finto specchio di grandi dimensioni si godeva di una visuale quasi completa della sala e dello studio di Neumann. Ero molto stupito, ma sapevo che se l'onnipresente Agnes mi avesse trovato lì, non sarebbe stato un bene. La stessa Agnes, poi, mi stava aspettando per impartirmi una «lezione» sullo sconfinato impero Neumann che sarebbe stata tenuta proprio da lei. Per fortuna nessuno mi ha scoperto. Durante la sua puntuale dissertazione, corredata di lavagna luminosa con tanto di grafici e organigrammi, ho capito che i confini della proprietà del gruppo vanno ben oltre quanto mi ero immaginato. Qui si produce zucchero, alcol per locomozione, petrolio e derivati; la società, inoltre, possiede banche, colossi dell'edilizia, aziende minerarie quotate nelle borse di mezzo mondo. Per non dire di un laboratorio di ricerca e di produzione di apparecchiature aerospaziali, di due fabbriche di armi in Corea e una di medicinali a Berna. E poi c'è la Fondazione. Alla Fondazione sono riconducibili una serie di istituzioni filantropiche; una rete di piccoli ma efficienti ospedali è il fiore all'occhiello delle attività benefiche del gruppo. La lezione durava ormai da più di un'ora quando a un tratto i miei pensieri hanno preso un'altra direzione. Del resto Agnes è una splendida donna e ha un fisico molto sensuale che la divisa
non basta a nascondere. «Le è chiaro, signor Raso, il meccanismo delle operazioni di edging mediante le quali la Neumann effettua coperture finanziarie su merci con operazioni borsistiche a termine?» mi ha chiesto mentre io pensavo a tutt'altro. «Certo... certo», le ho risposto riscuotendomi. Non credo che la bella e algida Agnes avrebbe approvato i miei pensieri su di lei. «Bene», ha concluso guardando l'orologio. «Siamo in perfetto orario. Tra poco il signor Neumann dovrebbe raggiungerla all'aeroporto da dove decollerete. Sorvolerete alcune delle fazendas della Neumann. Trascorrerete la serata e pernotterete presso la proprietà di una facoltosa famiglia brasiliana, proprietà che sta per essere acquistata dal nostro gruppo. Le auguro buon viaggio, signor Raso. Ci vedremo domani, in tarda mattinata.» L'elicottero è decollato alle dieci e mezzo, in perfetto orario. Nella comoda cabina riservata ai passeggeri, Neumann sembrava del tutto a suo agio. Io invece ho sofferto non poco: non amo gli elicotteri e non mi piace volare quando altri sono ai comandi. Ma non ho scelta: sino a che sarò qui mi dovrò adeguare alla volontà del mio ospite. Certo che mi piacerebbe pilotare i suoi aerei! «Cosa ne dice?» mi ha chiesto Neumann riferendosi al velivolo. «Si tratta dell'ultimo nato in casa Agusta, l'A109. Viaggia a circa trecento chilometri l'ora. Può atterrare in un cerchio di cinque metri di raggio con venti anche superiori ai trentacinque nodi. Ha un'autonomia di circa mille chilometri e può ospitare due piloti e cinque passeggeri. Ho curato personalmente le dotazioni extra di questo modello costruito apposta per la Neumann, anche se devo ammettere che voi italiani siete degli ottimi progettisti e costruttori, quando vi ci mettete.» Piano piano mi sono rilassato. Non ero mai stato a bordo di un elicottero tanto confortevole. «Se vuole scattare fotografie, signor Raso, da questo momento può sbizzarrirsi», ha detto Neumann indicando un solco tra il verde intenso della foresta. Il mio ospite sembrava particolarmente ben disposto nei miei confronti. A un tratto il velivolo è sceso bruscamente. Ho chiuso gli occhi
e, quando li ho riaperti, ho visto che stavamo sorvolando il letto di un placido fiume. La vegetazione pareva richiudersi alcuni metri sopra le pale dell'elicottero. Volavamo in una specie di galleria formata dagli alberi che costeggiavano il fiume. Il pilota non tradiva alcuna incertezza e manteneva il velivolo sempre al centro del corso d'acqua. Poi improvvisamente fiume, alberi e tutto il resto hanno lasciato il posto al cielo. L'acqua sotto di noi si è fatta irrequieta e il fiume si è aperto in un semicerchio i cui limiti erano fissati da un altopiano di vaste proporzioni. Lungo i bordi a strapiombo di quel terrazzamento l'acqua trasportata dal fiume cadeva a precipizio, superando un dislivello di oltre sessanta metri e ricadendo in un laghetto sottostante tra fumi, spruzzi e vapori. L'elicottero è rimasto immobile sopra a quel fantastico spettacolo della natura. Poi il viaggio è ripreso e Neumann si è messo a spiegarmi come funziona una grande fazenda brasiliana. Ho stenografato tutto quanto mi ha detto. «Ogni fazenda rappresenta un microcosmo a sé stante. Spesso comprende un territorio tanto vasto che in Europa non sarebbe nemmeno immaginabile. Per questo è sempre dotata di una pista per aerei ed elicotteri. Al suo interno lavorano almeno trecento persone, che salgono a sei-settecento nei periodi del raccolto, della semina o della marchiatura del bestiame. Assieme ai contadini vive un piccolo contingente di guardie che hanno il compito di vegliare sulla sicurezza dei lavoratori e di proteggerli da aggressioni di tribù di indios ostili. Il nostro gruppo nelle fazendas di sua proprietà dà lavoro a circa centocinquantamila agricoltori e contadini. «Ora stiamo cercando di modernizzare i sistemi di carico e di imballaggio e di razionalizzare quelli di trasporto. A una distanza massima di centosessanta chilometri da ogni fazenda corre la linea ferroviaria del gruppo. Pensi che il volume delle merci da noi trasportate nello scorso anno è stato di poco inferiore a quello di un moderno porto europeo.» «Vedo che ne parla spesso, signor Neumann. Le manca l'Europa?» «Le risponderò, signor Raso, sebbene si tratti di una domanda non concordata. L'Europa mi ha regalato soltanto lutti, ingiusti-
zie e tradimenti. Come potrebbe mancarmi? Questo Paese mi ha invece offerto una nuova vita.» Mi è sembrato che gli occhi color del ghiaccio di Neumann si perdessero dietro ai ricordi. La casa padronale, chiamata Posada de Oro, di proprietà della famiglia Oliveiro, sembrava la copia in scala ridotta della Residencia di Neumann. Gli Oliveiro appartengono a una facoltosa dinastia di latifondisti brasiliani. Le estati molto secche degli ultimi anni hanno messo in ginocchio pascoli e raccolti e anche le finanze dei proprietari della Posada de Oro. Per questo Neumann è certo che non potranno mai rifiutare la sua vantaggiosa offerta. Martin Oliveiro, la moglie e la loro figlia Alexandra mi sono parse persone squisite. Hanno fatto di tutto per far sentire i loro ospiti a proprio agio, ma non mi è sfuggito il senso di malinconia che aleggiava ovunque. Terminata la cena, Martin Oliveiro ed Erick Neumann si sono appartati in un'altra stanza: quasi certamente per discutere i dettagli dell'accordo. Rimasto solo con le due donne mi sono lasciato coinvolgere in una piacevole conversazione che riguardava le origini della regione nella quale ci trovavamo: quella zona, infatti, era meta della corsa all'oro brasiliano durante il secolo scorso. Da quello ebbe origine il nome della proprietà degli Oliveiro. Mi hanno detto che al posto della casa, allora, c'era una posada, una modesta locanda che ospitava i cercatori, per lo più dei disperati all'inseguimento di un colpo di fortuna che avrebbe loro cambiato la vita. Quando Martin è rientrato nella stanza, aveva un'espressione corrucciata. Ho pensato che le condizioni propostegli da Neumann non lo avessero soddisfatto. Alexandra ha guardato il padre negli occhi e nella loro espressione ho colto un'angoscia e forse un disperato senso di impotenza. Alexandra è una bella ragazza dalla pelle scurita dal sole, alta e slanciata. Ha studiato all'estero e si è appena laureata in scienze economiche. Spesso, nel corso della serata, mi sono reso conto con imbarazzo di non riuscire a staccarle gli occhi di dosso...
Poco dopo Neumann si è scusato con i suoi ospiti, dicendo che il mattino seguente avrebbe dovuto far ritorno di buonora alla Residencia. Alexandra, ha detto, sarebbe partita con lui per iniziare il periodo di apprendistato presso la direzione del gruppo industriale. Io invece sarò prelevato e condotto in aereo nella vicina Manaus per visitare la città amazzonica prima di fare rientro alla Residencia. Il sole era sorto da poco, questa mattina, quando il Piper Navajo nero, con l'amazzone stilizzata sulla coda, è atterrato sulla pista in terra battuta poco distante dalla Posada de Oro. Il rombo dell'aereo mi ha obbligato ad affrettarmi e, in pochi minuti, sono sceso nella sala da pranzo. Martin Oliveiro e sua moglie erano seduti a tavola ed erano talmente concentrati nella loro discussione da non accorgersi di me. Così ho involontariamente ascoltato un frammento della loro conversazione. «Lo sapevamo sin dall'inizio, faceva parte dell'accordo», ha detto la donna al marito. «Certo, ma ora mi sembra impossibile privarmene», le ha risposto lui. «L'educazione che hai ricevuto era finalizzata anche a questo. Adesso non possiamo più tirarci indietro, né rinnegare l'accordo.» A questo punto gli Oliveiro si sono resi conto della mia presenza e hanno cambiato discorso, imbarazzati. Io mi sono seduto a tavola, ho bevuto del caffè nero e mangiato con gusto la loro squisita frutta tropicale. Quindi mi sono accomiatato e mi sono diretto verso la pista di atterraggio dove il Piper Navajo aspettava. Mi sto abituando a questo modo di spostarsi: in Brasile si usa l'aereo come in Italia le auto. Sono salito a bordo. Alla guida del Piper non c'era il solito pilota: Agnes era al suo posto. Il viaggio verso Manaus è stato piacevole e Agnes si e rivelata un pilota di notevole esperienza. Durante la visita, la mia guida si è mostrata gentile e disponi-
bile. Anzi, direi amichevole. Abbiamo girovagato per le vie della città coloniale come due normali turisti e bevuto chopes di birra ghiacciata mentre Agnes mi descriveva i fasti di un passato che aveva lasciato i suoi segni nell'architettura tardo barocca di Manaus. Poi abbiamo ripreso il volo diretti verso la sede della Neumann. Ancora una volta abbiamo sorvolato la foresta amazzonica. In realtà non riuscivo a capire se ero più attratto dallo spettacolo della natura o dalle lunghe gambe di Agnes che la gonna corta lasciava quasi del tutto scoperte. «Vuole aiutarmi nell'atterraggio, dottor Raso?» mi ha chiesto Agnes indicando gli strumenti. Ho annuito e ho finto di prestare molta attenzione alle istruzioni di guida che lei mi dava: dovevo tenere con la destra la cloche e appoggiare la sinistra sulle leve delle manette. La sua mano si è posata sulla mia. Quel tocco ha avuto il potere di eccitarmi moltissimo. «Al diavolo la lezione di pilotaggio!» ho pensato, mentre toglievo la mano dalla cloche e accarezzavo le cosce affusolate di Agnes. Lei ha aperto appena le gambe, senza che la sua attenzione fosse distratta dalla manovra. Tutto procedeva come da manuale. Ho tirato di lato lo slip, mentre lei si è spostata sul bordo del sedile. Le mie dita si sono mosse veloci, fino a che la schiena di Agnes si è inarcata. Non un gemito è uscito dalle sue labbra. Solo un lieve sussulto. Nello stesso momento anche l'aereo è stato scosso da un sobbalzo e le ruote si sono posate dolcemente sulla pista. 22 Età dei Metalli, II millennio a.C. Dopo aver abbandonato la grotta, Athor, Dehal, Mizda e Aker avevano deciso di fermarsi al riparo di uno sperone di roccia poco distante dal corso del fiume, in una zona più a nord, molto lontano dal villaggio dei migos.
Lì avevano costruito delle capanne. In una di quelle, nel corso di una notte scura e senza luna, il bambino decise che doveva venire al mondo. Dehal aveva sofferto per ore, in silenzio. Poi, quando aveva capito che il momento della nascita era ormai prossimo, aveva svegliato il suo uomo. Non lo aveva mai visto così agitato, nemmeno di fronte a dieci nemici. Athor camminava nervosamente senza sapere cosa fare. «Vai a svegliare mio padre e Mizda. Avremo bisogno anche di loro.» Quando i tre uomini le furono accanto, Dehal si accovacciò con le gambe larghe, mentre Mizda e il padre la sorreggevano da sotto le ascelle. Athor, davanti a lei, le asciugava la fronte imperlata di sudore. La donna aveva il volto contratto dal dolore e dallo sforzo, ma nemmeno un lamento proruppe dalle sue labbra. Poi, finalmente, il bimbo uscì dal suo ventre e fu accolto dalle mani forti di Athor. L'uomo strinse a sé il figlio e gli sembrò che la sua vita fosse iniziata una seconda volta. Gli occhi del guerriero si riempirono di lacrime, mentre Sar - lo avrebbero chiamato con il nome del nonno - emetteva il primo vagito. Intanto, al villaggio dei migos molte cose erano cambiate. La prepotenza e l'arroganza del re Goreth non conoscevano limiti. I migos erano gente pacifica e non incline alla lotta, subivano passivamente ogni angheria, si piegavano agli ordini del tiranno e ne esaudivano ogni richiesta. Un giorno, però, avvenne un fatto difficile da assecondare. La giovane era poco più che una bambina, ma Goreth incominciò a guardarla con bramosia. Di sera la fece condurre alla sua capanna e, rimasto solo con lei, cercò di possederla. La fanciulla si difese come una furia e le sue unghie ferirono al volto il malvagio re che, accecato dal dolore e dall'ira, la colpì con una tale forza da ucciderla sul colpo. Questa volta però il re aveva oltrepassato il limite: la madre della fanciulla, straziata dal dolore, si armò di un pugnale per la caccia appartenuto al marito e si recò nella capanna di Goreth decisa a vendicarsi. Fu bloccata mentre cercava di sferrare il primo colpo. Venne catturata e condotta davanti al Consiglio dei Cinque, con l'accusa di aver attentato alla vita di Goreth. Tutti conoscevano la verità e neppure i Cinque riuscirono a trovare un accordo. Due di loro erano fermamente convinti dell'innocenza di quella madre disperata. Così fu deciso che sarebbe stata sottoposta al giudizio della Pietra Sacra.
«Ho fatto un sogno, Athor», gli disse un giorno Aker, mentre osservava il piccolo Sar che giocava con dei pezzi di legno. «Ho sognato che rientravi trionfalmente al villaggio tra le acclamazioni della nostra gente. Io osservavo la scena da lontano, quasi con distacco.» La pioggia cadeva fitta da giorni e nessuno poteva far altro che restare rintanato nella propria capanna. Dal tetto di paglia copiosi rivoli d'acqua colavano bagnando ogni cosa. La piena del fiume si annunciò con un tremolio sordo che si fece sempre più forte mano a mano che l'onda avanzava. Impauriti, si ritrovarono fuori dalla capanna, mentre la massa d'acqua e fango invadeva il sottobosco. Fu allora che si accorsero che il piccolo Sar era sgattaiolato via. I quattro si misero alla disperata ricerca del bambino. Mizda vide il piccolo un attimo prima che fosse sopraffatto dall'onda. Si gettò su di lui, afferrandolo per un braccio, senza badare al fatto che, nello sforzo di resistere alla furia dell'acqua, il suo braccio aveva subito un'innaturale torsione. Quando Mizda riconsegnò il bambino ai genitori raggianti, il suo volto era contorto in una smorfia di dolore: l'omero era uscito dal suo alveo e il braccio del giovane penzolava inerte lungo il fianco. L'onda nel frattempo stava travolgendo qualunque cosa incontrasse sul suo cammino. I cinque ebbero appena il tempo di inerpicarsi su un'altura. Dall'alto dello sperone roccioso, Athor e i suoi guardavano impotenti lo spettacolo sotto di loro: le capanne, il campo coltivato, tutto scomparve. Poi la pioggia cessò e la marea limacciosa cominciò lentamente a ritirarsi. «Non possiamo più restare qui», disse Athor davanti alla distruzione provocata dall'esondazione. «È tempo di tornare al villaggio.» «Per venire processati e condannati a morte dal tuo fratellastro?» disse Dehal. «No. Dobbiamo ottenere giustizia e cacciare l'usurpatore.» Athor sapeva che sarebbe stata un'impresa quasi impossibile e Aker gli lesse nel pensiero. «Come possiamo fare?» chiese quest'ultimo, indicando la propria gamba e il braccio di Mizda al quale l'indovino stava praticando le prime cure. «Siamo tre uomini, due dei quali invalidi, una donna e un bambino. Goreth invece dispone di molti sudditi che ha reso suoi schiavi e che vegliano sul-
la sua incolumità.» «Io so che c'è un momento in cui nessuno sarà con lui. Basterà che vada nelle notti di luna piena nei pressi del Tempio di Hosh. Prima o poi il sommo sacerdote accompagnerà al supplizio una delle sue vittime.» «Voglio venire con te, Athor», disse Mizda. «No. Prima pensa a rimetterti, amico mio. Mi sarai più utile vigilando su Dehal e sul bambino: dovremo accamparci nella foresta, ora che le nostre capanne sono state distrutte. Non preoccuparti, non ho paura di Goreth. Se potrò affrontarlo da solo a solo, so che lo vincerò.» «Ma saremo noi ad aver paura per te, mio uomo», disse Dehal con lo sguardo colmo d'amore e di angoscia. «Io, tuo figlio e suo fratello, che porto in grembo.» Athor non ebbe nemmeno il tempo per gioire a quella lieta notizia. La luna piena era già alta nel cielo, sebbene gli ultimi bagliori del tramonto non si fossero ancora spenti. La donna avanzava legata a una corda lungo la galleria principale con la lancia puntata contro la schiena. Dietro di lei, il sommo sacerdote la conduceva al supplizio. «Io ti maledico, Goreth, a ogni mio passo», stava dicendo la prigioniera. «Risparmia il fiato e cammina, donna», rispose lui. Si trovavano nella prima caverna, quella con i disegni alle pareti. Goreth si fermò per riposare in una zona illuminata dalle torce. La donna, il volto e il corpo coperti di ferite, lo guardò con indicibile odio. «Che il male scenda su di te, re della malvagità. E che il mio odio possa essere causa della tua morte.» Goreth le si avvicinò. La mano del re la colpì violentemente in piena faccia. La donna non emise un lamento, ma continuò a parlare nonostante il sangue le sgorgasse copioso dalle labbra. «È questo tutto ciò che sai fare, re dei migos? Dopo che hai ammazzato mia figlia, la vita per me non ha più un senso. Uccidimi. Ma, mentre lo farai, io leverò la mia preghiera a Hosh perché sia fatta giustizia.» Una voce tonante si levò tra le pareti della caverna. «La donna ha ragione, Goreth. Perché non combatti con un tuo pari, invece che con una vittima indifesa?» La punta della lancia che il tiranno teneva in mano si diresse verso l'oscurità da cui proveniva la voce.
Ma Athor conosceva bene i segreti della caverna e come la roccia fosse in grado di ingannare sulla provenienza dei rumori. «Dove sei, Athor?» disse Goreth, che aveva riconosciuto immediatamente la voce del fratello. «Non ho paura di te: fatti vedere. Sai bene che ti ho battuto un'infinità di volte, quando eravamo bambini.» «Ma adesso non siamo più bambini, Goreth. E per te è giunta l'ora di morire.» La voce ora proveniva da un altro punto. Goreth si girò di scatto, scagliando la lancia alla cieca. E, così facendo, offrì il petto all'impeto con cui Athor lo travolse. Avvinghiati, caddero a terra, dove presero a lottare come fiere. La mano di Goreth si levò brandendo il pugnale, ma quella del suo avversario la bloccò. Con un colpo di reni Athor riuscì a liberarsi della presa, rannicchiò le gambe e spinse lontano il fratellastro. Goreth andò a sbattere contro una roccia. Athor raccolse la lancia, prese la mira e la tirò con forza. Il perfido Goreth si accasciò in un rantolo. Ansimante, Athor si rivolse alla donna e si chinò su di lei: «È finita, adesso. È tutto passato», le disse, tagliando le corde che le legavano i polsi e le caviglie. «La mia vita è finita, Athor. Goreth prima ha fatto uccidere mio marito e poi mi ha privato dell'unica gioia che mi era rimasta.» Fu allora che Goreth rovinò su di lui come una furia. La ferita provocata dalla lancia doveva essere meno grave di quanto fosse sembrato. Ancora una volta il braccio del tiranno si alzò, armato del pugnale assassino. Ma la donna, più veloce di lui, sollevò una pietra contando per lo sforzo sulla sua disperazione. «Muori, maledetto!» urlò, mentre il sasso aguzzo e tagliente fracassava il cranio di Goreth. Erano rimasti in silenzio a lungo, nella grotta, ognuno cercando di fare ordine nei suoi pensieri. Poi fu Athor il primo a parlare: «Ti accompagnerò nella foresta dove ho lasciato i miei, quindi andrò al tempio, preleverò il disco d'oro e solo allora faremo ritorno al villaggio». Un oscuro senso di disagio si impadronì di lui mentre si avvicinava alla
radura dove aveva lasciato sua moglie, suo figlio e i due compagni. Mizda e Aker dovevano aver lottato duramente prima di soccombere. Entrambi giacevano a terra. Di Dehal e del piccolo Sar non v'era traccia. Athor si inginocchiò a fianco dell'indovino che ancora respirava debolmente. «Sono io, Aker», disse sollevandogli la testa. «Stai tranquillo. Ora ti medicherò le ferite.» «È inutile, Athor. Sto morendo», gli rispose l'uomo in un sussurro. «Karesh e i suoi ci hanno attaccato all'improvviso. Mizda e io non abbiamo potuto far nulla. Hanno preso Sar e Dehal. Vai a liberarli, re dei migos.» Quindi Aker rovesciò il capo all'indietro e chiuse gli occhi per sempre. 23 Inghilterra, 1213 La galea sulla quale si erano imbarcati Bahram, Sarya e Aymon era stata catturata dagli inglesi di William de Longespée nel corso della battaglia all'estuario dello Zwyn e il comando della nave era stato assegnato a uno scagnozzo del terzo conte di Old Sarum. Il suo nome era Ackerley Colter, ma tutti lo chiamavano Pirata. I tre avevano sentito dire dagli uomini dell'equipaggio che Colter aveva fatto parte di una banda di tagliagole che infestava le coste scozzesi e che, una volta fatto prigioniero, aveva tradito i compagni rivelando il loro nascondiglio e guadagnandosi la libertà e i favori del comandante della flotta inglese. «Cambusiere!» chiamò a gran voce il Pirata, mentre scolava da un barilotto l'ultima stilla di birra. «Cambusiere!» ripeté. «Il mio equipaggio ha fame. Facci vedere se i cucinieri francesi sono meglio dei nostri. In caso contrario, avrò un buon motivo per mozzarti il capo.» «Signore, forse non sapete che le provviste sono ormai esaurite da tempo e che topi e vermi stanno facendo man bassa del poco rimasto», rispose Bahram con il consueto tono rispettoso. «Il nostro equipaggio è sceso a terra a Damme per gli approvvigionamenti, ma come ben sapete, messere, nessuno di loro ha fatto ritorno a bordo.» «Smettila di blaterare e istruisci i tuoi sguatteri. Voglio che mi sia servito un buon pranzo o ti toccherà la stessa sorte che ho riservato ai tuoi supe-
riori, finiti in mare con la gola recisa.» Gli ufficiali francesi presenti al momento dell'arrembaggio, infatti, erano stati accoppati senza troppi complimenti. I pochi superstiti erano stati assicurati ai remi con dei pesanti ceppi di ferro fissati alla murata per mezzo di catene. Bahram, presentandosi come il cuciniere di bordo, era riuscito a evitare che lui, sua moglie e il ragazzo facessero la stessa fine. Ma ora Colter il Pirata lo stava mettendo alla prova e Bahram si ritrovò alle prese con carne marcia e con cibo ormai irrimediabilmente avariato. Ciononostante riuscì a rimediare un pasto decoroso per l'inglese e per il suo seguito. Sfortuna volle, però, che il baccello di un fagiolo fosse stato prescelto come abitazione da una famiglia alquanto numerosa di larve di mosche. Al primo boccone di zuppa il baccello si aprì e il Pirata si ritrovò la bocca invasa dalle larve. Colter emise un'imprecazione di disgusto, quindi sputò rumorosamente e ordinò che il cuciniere fosse condotto alla sua presenza. Bahram si inchinò con fare umile. «Ti avevo promesso lo stesso trattamento dei tuoi ufficiali, cambusiere, se non mi avessi soddisfatto. E tu mi hai dato da mangiare vermi...» urlò il Pirata mettendo mano alla spada. «Aspettate, signore.» Sarya aveva raggiunto il ponte. «Chi ha parlato?» chiese il Pirata guardandosi attorno, poi il suo sguardo torvo e reso opaco dalla birra si fissò sulla donna travestita da maschio. «Ah, tu, il cambusiere. Vuoi forse fare la sua fine anche tu?» «Signore, siamo perseguitati dai francesi e stiamo cercando di fuggire da loro. Le cose non sono come sembrano.» «Talmente perseguitati che eravate al loro servizio. Non voglio più sentire una parola. E tu, cambusiere, preparati a raggiungere il fondo dell'oceano.» «Non credete nemmeno a questo?» Così dicendo Sarya si sfilò la maglia di lana e sciolse i nodi della fascia di garza che le comprimeva il petto. Il seno proruppe libero da quella costrizione. «Ho dovuto travestirmi da maschio per sfuggire agli arresti da parte dei francesi.» Colter era ammutolito. Guardava incredulo Sarya come se fosse stata un'apparizione. L'ultima volta che le sue mani luride si erano strette sul seno di una donna era stato sei mesi prima, e il seno era quello flaccido di una puttana in un bordello nella città di Southampton.
Il Pirata si avvicinò a Sarya, le mani presero a scorrere sulla sua pelle liscia. Gli occhi dell'inglese mandavano lampi di bramosia. E nelle orbite, a spegnere quei lampi, si infilarono le dita di Bahram. Lo tzigano non aveva resistito all'oltraggio che stava subendo la sua donna e aveva reagito d'istinto, senza pensare alle conseguenze di quel gesto. Gli uomini di Colter saltarono addosso al cambusiere che pareva pazzo d'ira e, sia pure a fatica, riuscirono a ridurlo all'impotenza. Il Pirata si rialzò, con un occhio che sanguinava copiosamente, e andò verso Bahram deciso a farsi giustizia. «Fermi!» disse la voce imperiosa di William de Longespée, «che cosa succede qui?» Il comandante era appena salito a bordo. Le navi erano all'ancora da alcune ore davanti alle coste inglesi e il conte di Old Sarum voleva accertarsi di persona dello stato del suo bottino di guerra. Colter gli raccontò quanto accaduto. «Amici o nemici dei francesi, nessuno potrà risparmiarvi un salutare periodo nelle prigioni del conte di Old Sarum.» «Risparmiate almeno al nostro ragazzo la galera, eccellenza. Lui non ha colpe», supplicò Sarya. «E per farne che cosa, di grazia? Per avere un altro di quei disgraziati senza madre né padre che soffre la fame e il freddo e campa di furti e di elemosine? Ma voglio essere clemente. Invece di farvi marcire nelle segrete assieme ai delinquenti comuni, chiederò al conte di riservarvi un trattamento di favore: il ragazzo potrà restare con voi in un'altra ala delle sue prigioni.» Quando i tre prigionieri furono sbarcati a Southampton vennero confiscati loro tutti i beni e i pochi abiti. Bahram, Sarya e lo stesso Aymon avevano cercato di tenere con sé almeno gli strumenti musicali, ma il Pirata era stato irremovibile: «L'intervento del principe William ti ha fatto salva la vita, cambusiere. Ti consiglio di non tirare oltre la corda: sappi che io non sono così magnanimo e che non vedo l'ora di passarti a fil di lama. Non vorrei ti capitasse qualche brutta avventura nel tragitto verso Old Sarum dove siete destinati». «Non insistere, Bahram, pazienza», sussurrò Aymon. «Per ora dobbiamo pensare solo a scendere da questa nave e ad allontanarci dalle grinfie del Pirata. Un giorno, mi farò costruire una nuova ghironda ancora più bella della mia.»
«Veramente io pensavo alla mappa», gli rispose Bahram. «Non ti preoccupare: conosco a memoria sia il testo di Puyol che i dettagli della mappa.» Di fronte alla tranquilla sicurezza di Aymon, il nomade non aveva aggiunto altro. Il castello di Old Sarum sorgeva sopra un altopiano dai versanti a strapiombo nella contea del Wiltshire, nel Sud dell'Inghilterra. Già i romani e i normanni dovevano aver apprezzato i vantaggi di quel luogo inattaccabile: l'attuale maniero era stato edificato su fondamenta molto più antiche. Era racchiuso da due cerchie murarie concentriche, nella più esterna delle quali si trovavano le abitazioni dei sudditi del contado. L'intera fortificazione era imponente, con il mastio che si ergeva per oltre trenta metri al di sopra della cinta orlata di merli e presidiata da otto torri difensive. Inghilterra, 1216 Bahram era scosso da alcuni giorni da potenti colpi di tosse. La promessa di William de Longespée era stata mantenuta: i tre non erano stati separati e, invece di venire condotti nelle segrete del castello di Old Sarum, erano stati rinchiusi in una cella nella quale venivano segregati i prigionieri in attesa di processo o quelli che si erano macchiati di colpe meno gravi. Dal giorno dello sbarco erano passati più di due anni. Il comandante delle guardie aveva preso in simpatia quei tre francesi tanto educati e dignitosi e spesso li faceva uscire dalla cella e chiedeva loro di suonare e cantare, oppure di preparare il rancio per lui e per i suoi uomini. «Ho parlato di voi a sua eccellenza il conte. Al castello si sta allestendo la festa per il fidanzamento del figlio maggiore. Ci sarà bisogno di cucinieri per il banchetto e di musici per le danze. E sono riuscito a convincere il signor conte a prendervi al suo servizio. Dovrete cantare e suonare e anche aiutare in cucina. È la vostra occasione! Non sprecatela e, forse, sarete liberi.» «Non temete, comandante», rispose Bahram. «Non vi deluderemo. Come musici però, non so... Tutti i nostri strumenti sono stati confiscati non appena giunti in Inghilterra e chissà ormai dove saranno.» «Ho già parlato di questo con il signor conte e lui mi ha detto che prov-
vederà a fornirvi ciò che richiederete: il vescovo di questa contea è un appassionato di musica e nel suo castello ha una collezione di strumenti davvero unica.» Il caldo e il fetore nelle cucine del castello erano forse peggiori di quelli della loro angusta cella: tutti correvano a destra e a manca, gridavano contro sguatteri e servi, scivolavano su strati di grasso e olio a terra. Le fiamme dei camini arroventavano l'aria, mentre i vapori delle pentole la rendevano irrespirabile. L'aspetto del luogo era quello di un girone infernale da cui sortivano, come per miracolo, prelibati ed elaborati piatti per il banchetto di fidanzamento. Nelle sale erano radunati almeno trecento invitati. Tra essi figuravano i più influenti personaggi dell'alta nobiltà inglese. «Presto, voi. Andate a cambiarvi. Tra poco vi dovete esibire», disse loro il maestro di cerimonia. Dopo aver lavorato incessantemente per quattro giorni, i tre erano sfiniti. Ma quel secco ordine fu per loro come una benedizione: erano anni che non si esibivano in pubblico e l'idea di suonare nuovamente li eccitava. Il conte, oltre ad avergli fatto avere due ghironde in ottimo stato e un tamburello, aveva anche fornito loro degli abiti molto eleganti che probabilmente appartenevano ai paggi di corte. Aymon si sentiva un po' ridicolo con quelle vesti addosso, ma si sedette al centro del palchetto sul quale si sarebbero esibiti. Avevano provato per ore e ore fino a che non si erano convinti che l'affiatamento che li univa non era andato perduto. Le dita di Aymon fecero presa sui ponticelli e sulle chiavi. Poi Bahram lo seguì e la suadente voce di Sarya si levò nella grande sala del castello. Come per incanto ogni brusio cessò e tutti si volsero verso di loro. Fu a questo punto che Aymon alzò gli occhi e la vide. Dapprima credette di sognare, quindi mise a fuoco lo sguardo e finalmente ne fu certo: l'ospite d'onore della festa, la promessa sposa di Dolbert, il figlio del conte, era Marie-Louise, la giovane allieva di Puyol, la ragazza dai boccoli biondi e gli occhi azzurri. La stessa che, anni prima, gli aveva salvato la vita. La stessa che da allora quasi ogni notte abitava i suoi sogni. «Continua a suonare, Aymon!» gli bisbigliò Bahram bruscamente. Il giovane si riscosse e riprese a toccare i tasti dello strumento con la grazia di un fauno. Un lungo applauso accompagnato da grida di entusiasmo concluse l'esi-
bizione. «Scusatemi, messere», Marie-Louise si era alzata e ora parlava al suo promesso sposo, «vorrei andare a complimentarmi di persona con questi musici: come voi sapete, la musica è la mia più grande passione. Mi volete accompagnare?» Così dicendo, Marie-Louise porse il braccio al futuro marito. Aymon aveva perduto i tratti infantili e, ormai diciassettenne, era diventato un giovane uomo dalle spalle larghe e forti. I capelli neri e riccioluti incorniciavano un volto che costituiva il perfetto connubio tra dolcezza e severità. Più che un musico di strada sembrava un nobile cavaliere. Anche Marie-Louise era mutata. Era diventata la più bella donna che Aymon avesse mai visto. Quando gli fu di fronte, gli occhi del giovane si fissarono in quelli della ragazza. «Avete suonato benissimo, messere. Posso sapere il vostro nome?» chiese la giovane. «Maxim», mentì il giovane. «E l'uomo e la donna che hanno suonato con me sono i miei genitori.» Lei non diede segno di averlo riconosciuto. «E avete dimora in questo castello, Maxim?» «A dire la verità, damigella...» «Certo che vivono qui, sono i nostri musici di corte!» Il conte, che ci teneva ad assecondare la futura nuora, si intromise nella conversazione. «Sarò felice se potrò ascoltarvi nuovamente. La vostra musica è dolce e struggente, Maxim. Mi ha toccato il cuore.» 24 Berlino, anni '30 «Vedete, dottor Rahn», disse l'SS, mentre teneva in mano compiaciuto le nuove mostrine che aveva fatto realizzare ispirandosi ai miti teutonici. «Avete ragione, Herr Weisthor», constatò Otto Rahn, «questi simboli delle SS altro non sono se non delle rune.» L'alfabeto runico, detto anche futhark, era quello usato dagli antichi popoli germanici. Dall'analisi dei documenti di quell'epoca lontana, Weisthor e un certo Lanz avevano elaborato l'Ariosofismo, una dottrina che assegnava l'origine di tutte le religioni moderne agli insegnamenti di un profeta
nato in terra germanica, dal poco fantasioso nome di Krist. Da questo punto partivano tutte le teorie che vedevano gli ariani come scampati alla distruzione di una terra ideale, una specie di Atlantide, che aveva il nome di Thule. «Come potrete intuire, non vi ho chiesto questo incontro solo per farvi vedere le mostrine delle SS, dottor Rahn. Vorrei sottoporre alla vostra attenzione una mia proposta, della quale ho già parlato anche con il comandante Himmler. Da qualche tempo abbiamo costituito in seno alle SS un dipartimento di ricerca, che è stato chiamato Ahnenerbe e che dovrà occuparsi dello studio delle origini del popolo germanico. Con Ahnenerbe collaborano i nostri migliori docenti, eminenti scienziati, ricercatori illustri. Mi farebbe piacere se anche voi ne faceste parte, dottor Rahn.» Le tasche di Otto Rahn erano, come sempre, tristemente vuote: l'occasione che Weisthor gli stava offrendo gli apriva prospettive insperate. Pochi giorni più tardi, Otto Rahn si arruolava nelle SS di Himmler e, nel giro di breve tempo, a seguito di una serie di brillanti promozioni, otteneva il grado di sottufficiale. Londra, anni '30 Peter Wilson era appena stato nominato direttore della celebre casa d'aste londinese Sotheby's. Era il 1936, e quell'anno avrebbe segnato l'inizio di una fulgida carriera. Wilson era un uomo non comune: non solo sapeva riconoscere all'istante il reale valore di quanto sarebbe stato messo all'asta, ma aveva imparato a individuare, tra i suoi clienti, colui che, più di ogni altro, avrebbe fatto di tutto per entrare in possesso di un determinato pezzo. Wilson si rese immediatamente conto del valore dell'oggetto che aveva tra le mani. Il capitano di fregata Rowell Kater era uno dei più stretti collaboratori dell'ammiraglio di sua maestà britannica Hugh Sinclair. Di lui si diceva che avesse due passioni: i servizi segreti per i quali operava e la sua collezione di antichi strumenti musicali. La telefonata di Peter Wilson aveva avuto il potere di mettere di ottimo umore il capitano di fregata Rowell Kater. «... e uno, e due, e tre.» Il martello del battitore emise un sordo schiocco. «Ghironda o symphonia, di epoca medievale. Probabile provenienza: Sud della Francia. Aggiudicata per milleseicento sterline, oltre i diritti d'asta, al
capitano di fregata Kater.» Appena arrivato a casa, Kater estrasse lo strumento dall'imballaggio e lo accarezzò trepidante. Il tempo vi aveva lasciato il suo segno indelebile, ma la cosa non turbò in alcun modo l'ufficiale. Restaurare l'antica ghironda lo avrebbe appassionato. Il legno non era stato attaccato da tarli, umidità o muffe e la cassa acustica si presentava in buono stato. Mancavano, è vero, diversi capotasti d'avorio, tutte le corde e alcuni tra i ponticelli. Ma sotto le sue mani esperte, Kater ne era certo, la ghironda sarebbe rinata a nuova vita. Picchiettò delicatamente sulla ruota in metallo che i suonatori cospargevano di pece prima di farla girare sulle corde. Inaspettatamente la ruota cedette alla leggera pressione delle dita del collezionista. «Poco male», si disse Kater, «tanto, prima o poi, sarei stato costretto a restaurare anche quella.» Quando la rimosse del tutto, si accorse che all'interno della cassa armonica vi era un piccolo vano nascosto: lì si trovavano dei fogli ingialliti. Con mani trepidanti Kater estrasse l'antico spartito. La metà della canzone scritta di pugno dal maestro Puyol rivide la luce dopo più di settecento anni. Berlino, anni '30 La centrale della polizia segreta del Reich si era da poco trasferita al numero 102 di Wilhelmstrasse. Così aveva deciso il nuovo responsabile del servizio, Reinhard Heydrich, la cui candidatura era stata strenuamente appoggiata dallo stesso Himmler. Per prima cosa il capo della polizia si adoperò affinché la GESTAPO diventasse uno strumento efficiente e terribile, ma soprattutto indispensabile all'esercizio del potere nazista in Germania. Heydrich era intenzionato a non tradire la fiducia del suo superiore, né quella di Adolf Hitler. Londra, anni '30 Giorgio V, re d'Inghilterra, era morto all'inizio del 1936. A lui era succeduto Edoardo VIII, un sovrano tanto inviso alla nobiltà quanto amato dal popolo, che lo chiamava amichevolmente «Ted». Il nuovo re non aveva mai fatto mistero della sua marcata simpatia per la politica di Adolf Hitler. A essa si accompagnava un'atavica avversione verso il comunismo russo.
Ma il regno di Edoardo VIII ebbe breve durata: nel dicembre dello stesso anno egli abdicò in favore del fratello, per convolare a nozze con la signora Simpson. In realtà, il nome da nubile della giovane americana era Warfield, ma i giornalisti l'avrebbero sempre chiamata con il cognome del primo marito, quasi a sottolineare il fatto che la donna, oltre a non aver neppure un'oncia di sangue blu nelle vene, era una divorziata. L'ex sovrano, ora duca di Windsor, finalmente libero di seguire le sue simpatie politiche, si recò subito in Germania per incontrare Adolf Hitler. A quella prima visita, molte altre ne sarebbero seguite. Ma, nonostante il volontario esilio e la simpatia per il nazismo, Edoardo continuava a essere molto amato dagli inglesi, tanto che ogni volta che rimetteva piede in patria veniva accolto al grido di: «Ted, we want you back». Tutto ciò preoccupava non solo Giorgio VI, da sempre geloso del fratello, ma anche i servizi segreti di mezzo mondo. A questo si aggiungeva il fatto che il fratello minore di Edoardo, duca di Kent, dalla personalità molto discussa, si proclamava d'accordo con le idee del duca di Windsor. Albrecht Haushofer sedeva nell'elegante salotto. Le luci erano soffuse e un denso fumo impregnava l'aria, rendendola quasi irrespirabile. Il principe George, duca di Kent, stava dedicando le sue attenzioni non certo regali a una giovane signora imbottita di cocaina e di alcol. Era stato lo stesso Haushofer a combinare l'incontro, certo che in quel modo avrebbe ottenuto dal duca quanto stava a cuore a Rudolf Hess: un rapporto privilegiato e continuo con un esponente della famiglia reale inglese. Le debolezze del giovane duca erano ben note e Hess sapeva che, soddisfacendone gli sfrenati desideri, lo avrebbe avuto alla sua mercé. Roma, anni '30 «Siete certo dell'opportunità di questo discorso, santità?» disse senza troppi giri di parole il segretario di Stato Pacelli a papa Ratti. «Avete forse dei dubbi, eminenza?» «Non so se sia questo il momento propizio, alla luce di quello che succede nel mondo. In Germania, ad esempio, i nazisti...» «Nazisti... nazisti», ribatté papa Pio XI con l'aria infastidita. «Non sento parlare d'altro. Anche i vostri discorsi, eminenza, sembrano ruotare intorno
a un unico argomento: Hitler e il suo governo. Capisco», il tono del papa si fece più conciliante, «che voi conosciate bene l'ambiente dove il nazismo sta prendendo piede, anzi, sta divampando. Ma, credetemi, l'occupazione della Renania da parte delle truppe del Reich nello scorso marzo non è stata altro che un'esibizione di muscoli e, aggiungo, non troppo riuscita. Finita la parata militare, la Germania avrà ben altro di cui preoccuparsi che non andarsi a infilare in un conflitto. E meno che mai lo farebbero i fascisti. Sono certo che Mussolini sappia bene che una cosa sono le vittorie riportate sul fronte d'Africa, altra cosa sarebbe confrontarsi con potenze come Francia, Inghilterra o Russia. Per questo motivo ho deciso di appoggiare incondizionatamente la campagna d'Africa del duce.» «Consentitemi di suggerirvi prudenza, santità.» Il giorno seguente, il 12 maggio 1936, papa Pio XI definì «preludio della vera pace europea e mondiale» le conquiste coloniali dell'Italia fascista. Quel martedì mattina dense nuvole nere si erano addensate sul cielo di Roma. Il cardinale Pacelli le osservò in preda a un'oscura apprensione. Sperava in cuor suo di sbagliarsi e che il santo padre avesse ragione, ma era convinto che altre nuvole, ben più scure e minacciose, avrebbero presto invaso i cieli d'Europa. 25 Linguadoca, 2007 Sara aveva bisogno di una pausa e benedisse le benefiche acque di Ussat-les-Bains che, come recitava il dépliant della stazione termale, avevano proprietà sedative, equilibranti e rimineralizzanti. Si sdraiò sul lettino e lasciò che un'esperta massaggiatrice si prendesse cura di lei e del suo benessere. Teneva gli occhi chiusi, mentre i pensieri vagavano altrove, tra gente vissuta in tempi lontanissimi, eroi catari guidati da una fede cieca e assoluta che combattevano contro i crociati del papa. Rivide rocche inespugnabili, assedi lunghi e sanguinosi, eccidi perpetrati contro innocenti nel nome di Dio. Rivide Otto Rahn che si allacciava gli scarponi di cuoio e si inoltrava nelle caverne alla ricerca del segreto dei catari. Già, le grotte: un infinito dedalo di antri e gallerie, di angusti passaggi che avevano custodito per secoli un segreto della cui esistenza lei stessa dubitava. Da quando era giunta nella regione che un tempo si chiamava Occitania, le sue escursioni erano state quotidiane. Ogni mattina di buonora lo speleo-
logo che van der Duick le aveva messo a disposizione la passava a prendere in albergo e insieme si inoltravano nelle caverne. Sara aveva letto e riletto i libri che Rahn aveva scritto negli anni '30. Sapeva bene che anche i particolari all'apparenza più irrilevanti avrebbero potuto essere utili. Ma fino a ora ogni indizio l'aveva condotta a un punto morto. Inoltre non si spiegava perché i due saggi principali dello studioso tedesco - La Crociata contro il Graal e La Corte di Lucifero - sembrassero redatti da due mani differenti. Dopo l'iniziale perplessità, Sara aveva attribuito questa impressione al fatto che era trascorso molto tempo tra una pubblicazione e l'altra. Addirittura, la seconda opera era stata pubblicata postuma e della sua edizione si era personalmente interessato Himmler. Al di là delle differenze stilistiche, entrambi gli scritti erano caratterizzati da un connubio di notizie storiche, di antiche leggende, di congetture d'autore che li rendevano, a tratti, poco attendibili. Quello che maggiormente emergeva dai lavori di Rahn era la sua sincera ammirazione nei confronti dei catari, il rispetto per le loro idee e per quelle scelte eroiche che avevano portato alla distruzione di questa setta. Il pog di Montségur, un castello arroccato su una montagna nel quale si erano rifugiati i catari per la loro ultima, strenua difesa, era il protagonista di molte pagine di Rahn. Denver, 2007 La situazione in Medio Oriente si andava aggravando di giorno in giorno. Com'era prevedibile, gli attentati alle centrali nucleari iraniane avevano creato il presupposto per l'intensificazione di operazioni militari che facevano temere lo scoppio di un nuovo conflitto. «Noi non abbiamo paura», aveva tuonato Pashelvi davanti alle telecamere. «La nostra sarà una guerra letale e inesorabile contro le mani assassine che hanno insanguinato l'Islam. Gli infedeli vivano nel terrore. Impareranno presto che ogni volta che saluteranno le loro famiglie, dovranno farlo come se fosse l'ultima. Dietro a ogni credente in Allah si può nascondere la mano del giustiziere che vendicherà i propri fratelli, le proprie madri, le proprie mogli, i propri figli. A quei giustizieri Dio ha riservato un posto in paradiso. Dio è grande! Sia fatta la volontà di Dio!» Dopo quella sfida mediatica gli attentati nei Paesi infedeli si erano susseguiti senza soluzione di continuità. Non si trattava di atti eclatanti, ma di uno stillicidio fatto di incessanti rappresaglie.
L'Europa viveva sotto scacco e nel terrore. E negli Stati Uniti la situazione non era migliore: dal giorno dell'attacco alle centrali iraniane, si erano verificati almeno sette attentati e altri due erano stati sventati in extremis. Ma Pashelvi non sembrava ancora soddisfatto. «Non crediate che sia finita qui», minacciò nel corso di uno dei suoi comizi oceanici, «per ora ci stiamo solo limitando a farvi conoscere la stessa paura con la quale la nostra gente convive ogni giorno. Presto verrà il momento della resa dei conti definitiva.» , scriveva il capitano Bernstein, responsabile della Sezione 8200, la sede dell'archivio del Mossad. Bernstein conosceva Oswald sin dai tempi della comune militanza nelle file del Mossad. E da allora non aveva mai smesso di chiamarlo «maggiore». Anche quando il suo superiore era diventato prima capo del Mossad e poi del governo. <SEMBRA CHE I TERRORISTI SI SIANO MOBILITATI SIMULTANEAMENTE IN OGNI ANGOLO DELLA TERRA. OGGI È STATA LA VOLTA DELL'INDONESIA. UNA SALA D'ASPETTO DEL SUVARNABHUMI AIRPORT DI BANGKOK E IL TEMPIO DI TAMAN AYUN A BALI SONO STATI FATTI SALTARE IN ARIA. ENTRAMBI ERANO AFFOLLATI DI TURISTI, SI CONTANO CENTINAIA DI VITTIME>, digitò Bernstein. Quindi continuò: . I loro messaggi viaggiavano lungo una connessione criptata impossibile da scardinare. Poi il piccolo uomo aggiunse: <MI CORREGGO, BERNSTEIN. SIETE STATI VOI?> <SAPPIAMO ENTRAMBI CHE IO SONO SEMPRE STATO TRA I SUOI PIÙ FEDELI COLLABORATORI, MAGGIORE BREIL. E CONTINUERÒ A ESSERLO, ANCHE SE LEI NON RIVESTE PIÜ ALCUNA CARICA POLITICA NEL NOSTRO PAESE. SO BENE CHE I SUOI INTERESSI E I MIEI SONO COINCIDENTI E CHE IL NOSTRO FINE ULTIMO È IL BENE DI ISRAELE E DELL'OCCIDENTE INTERO: PER QUESTO QUI LEI TROVERÀ SEMPRE UNA PORTA APERTA. MA NON DIMENTICHI CHE HO GIURATO FEDELTÀ AL SERVIZIO
PER IL QUALE OPERO NELL'INTERESSE DELLA SICUREZZA DI ISRAELE. SE CI FOSSE IL MOSSAD DIETRO AGLI ATTACCHI ALLE CENTRALI IRANIANE, NON LO RIVELEREI MAI A NESSUNO. NEMMENO SOTTO TORTURA. NEMMENO A LEI, MAGGIORE.> Bernstein, con il suo aspetto da cassiere di banca, faceva scorrere le dita sulla tastiera a una velocità inimmaginabile. Dietro agli occhiali dalla montatura in oro, lo sguardo era attraversato da un lampo da satrapo mentre rispondeva. , digitò Breil scuotendo il capo. Da qualche istante il computer di Oswald gli aveva indicato con uno scampanellio che anche Sara Terracini era in linea. Breil salutò Bernstein e si accinse a dialogare con l'amica ricercatrice. Linguadoca, 2007 Dopo il massaggio, Sara, sentendosi molto meglio, aveva fatto ritorno alla sua stanza nell'albergo in cui alloggiava ormai da alcuni giorni. D'improvviso si era sentita sola e aveva provato un irrefrenabile bisogno di parlare con una voce conosciuta e cara. Il suo pensiero era corso a un piccolo uomo che si trovava migliaia di chilometri lontano. Aveva acceso il computer portatile ed era rimasta in attesa che la macchina completasse le procedure, quindi aveva aperto il file denominato Agenda di Luca Raso, al quale non aveva smesso di lavorare nemmeno dopo che era arrivata a Ussat. Lesse ancora una volta le pagine che avrebbe inviato a Breil. Guardò l'orologio e calcolò rapidamente che ora fosse a Denver: «Vediamo se sei nei paraggi, Oswald Breil». <SHALOM, SARA.>
<SPERO SIANO STATI BUONI PENSIERI.> <SE TUTTI I NEGRIERI FOSSERO STATI COME ME, IL MONDO NON AVREBBE MAI CONOSCIUTO LA SCHIAVITÙ: SONO MESI CHE MI CENTELLINI LE AVVENTURE BRASILIANE DI LUCA RASO.> <TI RINGRAZIO, SARA. COME MAI IN FRANCIA?» <MI SEMBRA DI RICORDARE QUALCHE COSA... DI UNA REGINA CHE APRÌ UNA MONTAGNA E VI SCAGLIÒ DENTRO IL SACRO GRAAL, VERO?> <MA COME FAI A TENERE IN MEMORIA COSÌ TANTI CHIP? PRIMA O POI TI ANDRÀ IN CORTOCIRCUITO IL CERVELLO, OSWALD. QUELLA LEGGENDA RIGUARDA UNA REGINA CATARA CHIAMATA ESCLARMONDA DI FOIX E DI LEI SI PARLA IN UNO DEI LIBRI DI OTTO RAHN.> <E L'ALTRA VICENDA, QUELLA DI RASO, COME PROCEDE, INVECE?> <SHALOM, SARA.> Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976
Oggi Neumann doveva essere in vena di cordialità. «Vuole che le confessi una mia debolezza?» mi ha detto mentre in automobile ci dirigevamo verso l'hangar in cemento che sorge vicino all'aeroporto. La grande porta scorrevole si è aperta elettricamente e sono rimasto senza parole: le dimensioni della rimessa sono davvero... ciclopiche. Nella parte anteriore del capannone, i meccanici stavano provvedendo alla manutenzione di un Piper Navajo identico a quello con cui ho viaggiato anch'io e, poco lontano, c'era l'elicottero Agusta con alcuni pannelli laterali smontati. Ho dato una rapida occhiata e ho visto un nastro di mitragliatrice di grosso calibro identico a quelli usati sui velivoli da guerra. Sul muso dell'elicottero erano visibili un paio di tappi circolari realizzati nello stesso materiale e colore della carlinga: sono certo che le canne delle mitragliatrici sono nascoste lì dietro. Uno dei meccanici deve aver notato la mia curiosità e ha chiuso bruscamente il pannello laterale del velivolo. «Venga, dottor Raso, i miei giocattoli preferiti si trovano in fondo all'hangar.» Anche Neumann mi è sembrato ansioso di distogliermi da quei particolari. Là, ordinatamente allineate con il muso rivolto verso il centro della rimessa, erano posteggiate almeno una decina delle più famose macchine volanti della storia mondiale dell'aviazione militare. «Questa», ha detto Neumann posando la mano destra sul muso affusolato di un bireattore dipinto con i colori mimetici della Luftwaffe, «è una delle armi segrete con cui Hitler pensava di capovolgere le sorti della guerra. Si tratta del Messerschmitt Me 262, il primo aereo a reazione del secondo conflitto mondiale.» Ho voluto stupire il mio ospite e ho dato prova di tutto il mio sapere in materia: gli aerei da guerra non sono una passione soltanto per Neumann. «L'Me 262 vide il suo battesimo dell'aria nel 1942 ma, a causa dell'esplosione di un compressore di uno dei due reattori BMW, fu costretto a un atterraggio di fortuna. Allora fu equipaggiato con motori a reazione Junkers ed entrò nuovamente in servizio alcuni mesi dopo. Il collaudatore, Adolf Galland, dopo aver effet-
tuato il volo di prova, disse che l'aereo sembrava spinto da un angelo. Ma, in realtà, sebbene raggiungesse velocità prossime ai novecento chilometri l'ora - impensabile per qualsiasi caccia a propulsione tradizionale - l'Me 262 aveva subito destato non poche perplessità nei piloti, che impararono a loro spese a conoscere la sua inaffidabilità, la breve vita dei motori, la scarsa maneggevolezza del velivolo alle basse velocità. Hitler, malamente consigliato in tal senso dai suoi consulenti, ne dispose l'uso come bombardiere leggero. Così, oltre a snaturare le caratteristiche della macchina, fece sì che l'aereo perdesse quelle doti che lo avrebbero reso imbattibile.» Neumann ha ascoltato stupito e compiaciuto la mia lezione. «Mio nonno prima e mio padre poi sono stati piloti nel corso dei due conflitti mondiali. E anch'io ho preso il brevetto di volo a sedici anni», gli ho detto. «Credevo che provasse avversione per tutto ciò che si stacca da terra. E la nostra Agnes mi ha raccontato di averle impartito alcuni rudimenti di volo nel corso del vostro rientro da Manaus...» «È vero, signor Neumann: sono a disagio quando non sono io a pilotare, ma di fronte all'abilità della signorina Agnes mi sono tranquillizzato. E non me la sono sentita di deludere una così bella signora intenzionata a farmi da maestra...» «... Pieno di sorprese nascoste, il nostro ospite italiano!» ha esclamato Neumann. Il suo sguardo attento e indagatore mi ha messo a disagio. La scorsa notte è stata più calda e umida del solito. Cercando un po' di refrigerio, sono andato sulla veranda: fuori, l'aria amazzonica era ancor più soffocante e brulicava di insetti. Avevo appena deciso di tornarmene a letto, quando un rumore proveniente dal corridoio ha suscitato la mia curiosità. Mi sono affacciato alla porta, attento a non far rumore, e ho visto una figura che si muoveva circospetta. Benché il buio fosse quasi assoluto, l'ho riconosciuta subito: era Alexandra Oliveiro. Non mi dispiaceva affatto che anche la bella brasiliana non riuscisse a prendere sonno: forse avremmo potuto scambiare qualche parola in attesa che la stanchezza avesse la meglio sull'insonnia, ma non è andata così. Devo dire che le donne di
questo luogo hanno il potere di sedurmi. Alexandra, invece di scendere lo scalone e accedere alle parti comuni, è salita al piano superiore. Ma al piano superiore si trovano solamente l'appartamento di Neumann e gli alloggi dei suoi più stretti collaboratori. Cosa ci sarà andata a fare, nel cuore della notte? 26 Età dei Metalli, II millennio a.C. Athor entrò nel villaggio tra due ali di folla festante. Teneva il disco d'oro in alto sopra alla testa perché tutti potessero vederlo. Il tiranno era morto e il vero re, giusto e valoroso, avrebbe finalmente guidato il popolo dei sacerdoti di Hosh. Athor guardò verso la collina dei defunti, appena fuori dalla cinta del villaggio: lì avrebbe seppellito con gli onori riservati agli eroi il padre di Dehal e Mizda. Ora aveva compreso il significato del sogno dell'indovino: dalla collina dei morti si dominava l'intero villaggio. Aker non si era sbagliato: aveva visto la scena dall'alto e da lontano. «Non è finita, migos.» Athor aveva aperto le braccia, invitando i suoi ad ascoltarlo. «Karesh ha rapito mia moglie e mio figlio. Ma se al posto loro ci fosse un'altra delle donne del villaggio con il suo bambino sarebbe lo stesso. La nostra legge ci dice che ciascuno di noi deve fare qualsiasi cosa pur di trarre in salvo anche uno solo dei nostri fratelli qualora fosse in pericolo. Inoltre sono sicuro che presto i davaar ci attaccheranno. Dobbiamo essere pronti a respingerli. Forse prevenire le mosse dei nostri nemici potrà avvantaggiarci. Infine voglio che sappiate che, se qualcuno di voi deciderà di non unirsi a noi, sarà libero di farlo.» «Siamo con te!» gridarono i migos all'unisono. Dehal aveva tenuto fra le braccia Sar tutta la notte, accarezzandolo e sussurrandogli dolci parole ogni volta che il piccolo si destava all'improvviso in preda alla paura. Madre e figlio erano sdraiati su un sottile strato di paglia sudicia nella capanna che i davaar riservavano ai prigionieri. Dehal non aveva avuto il tempo di versare nemmeno una lacrima per la morte di suo padre e per quella dell'amico Mizda: il suo unico pensiero era stato salvare la vita al
figlio e alla creatura che aveva in grembo. Ora, sdraiata nel buio della capanna, si chiedeva come avrebbe potuto fuggire di lì. Il sonno la colse mentre cercava di formulare un piano di fuga. In sogno le apparve Aker, che la guardava sorridendo e le diceva di avvicinarsi. Le pose quindi entrambe le mani sul capo e pronunciò alcune parole che la giovane non avrebbe mai più dimenticato. «Ti faccio dono della mia sola ricchezza, la preveggenza, figlia mia. E ricordati che aspetti un bambino. Ricordatelo!» Poi il padre scomparve in una nuvola di luce. Al risveglio, Dehal si rese conto che le parole proferite da Aker avrebbero potuto salvarla dal supplizio: i davaar, sempre in cerca di donne per perpetuare la loro ignobile stirpe, nutrivano nei confronti della gravidanza una sorta di venerazione. Le donne gravide erano intoccabili e, anzi, oggetto di cure e di attenzioni. Suo padre, ancora una volta, dal regno di Hosh aveva voluto proteggerla. Quando la porta si aprì, il fascio di luce impedì a Dehal di riconoscere subito il perfido Karesh. «Bentornata tra noi, Dehal. E benvenuto anche al tuo nobile figlio. Ma guarda come passa il tempo: la prima volta che ti ho accolta qui eri quasi vergine... e adesso sei madre di un bambino. Ma sei sempre la donna più bella che abbia conosciuto.» L'uomo si era accovacciato accanto a lei e aveva iniziato ad accarezzarla con il dorso della mano. «E ne porto un altro in grembo, Karesh. Conosco la vostra legge: le donne incinte sono sacre per voi. Allontanati da me o griderò a chiunque possa sentirmi il tuo sacrilegio.» «Nessuno ti ascolterà, donna. La parola del loro re vale ben più della tua per i davaar. Comunque non è mia intenzione disubbidire alla legge.» Un lampo sinistro attraversò lo sguardo dell'uomo mentre afferrava il piccolo, strappandolo dalle braccia della madre. «La legge dice anche che mangiare il cuore dei rivali rafforza l'animo dei guerrieri: non conta l'età del nemico.» «Fermo, Karesh. Non toccare mio figlio: farò quello che vuoi.» «Non così, uomini. Non state cacciando un cervo», disse Athor, mimando una parata con la lancia. «Immaginate che di fronte a voi ci sia un davaar armato di un'ascia o di un pugnale affilato, pronto a spaccarvi in due la testa...» La lezione fu interrotta dall'arrivo di un uomo di ritorno da un'incursione
segreta al villaggio dei davaar. L'osservatore sembrava imbarazzato, poi ruppe ogni indugio e disse: «La tua sposa... Dehal... è diventata regina dei davaar. L'ho vista con i miei occhi: due giorni fa ha sposato Karesh». «Non è possibile! So che Dehal preferirebbe morire piuttosto che giacere con quell'assassino.» «Mi dispiace, mio re. Sono certo di non essermi sbagliato.» «E il bambino? Hai visto anche mio figlio Sar?» «Karesh ha tenuto in braccio un bambino per buona parte della cerimonia. Ma il piccolo non ha mai smesso di piangere a squarciagola e di scalciare.» «Dobbiamo muoverci in fretta, abbiamo poco tempo», disse Athor. Aveva intuito quale motivo spingesse la sua donna a comportarsi così. «Che avvenire ti aspetta, mio piccolo Sar?» stava dicendo Dehal a suo figlio, il volto rigato dalle lacrime. I primi giorni erano stati terribili: Karesh continuava ad abusare di lei con brutale bramosia. E lei sapeva bene a che cosa sarebbe andata incontro se non avesse soddisfatto ogni desiderio del suo carceriere. Se non fosse stato per il bambino, avrebbe tentato una seconda volta di saltare nel vuoto... Saltare nel vuoto... L'idea prese forma nella sua mente e con essa il piano. La vegetazione del villaggio davaar era costituita per lo più da un'intricata macchia di canne: giorno dopo giorno Dehal ne aveva reciso dei fasci che, una volta giunta nella sua capanna, aveva intrecciato a più strati, lasciando tra l'uno e l'altro una zona vuota. Al momento opportuno avrebbe riempito le cavità con paglia secca. «Ecco come ci muoveremo...» disse Athor rivolto ai suoi uomini più valorosi. Una nebbia candida come il latte salutò il drappello che abbandonava in armi il villaggio dei migos. Il re Athor era alla testa dei suoi: il primo raggio di sole illuminò l'ascia che indicava ai guerrieri la via da seguire. Se fossero usciti vittoriosi da quella spedizione, il popolo dei migos si sarebbe liberato per sempre dei suoi nemici. L'involucro di canne aveva assunto la forma di una piccola imbarcazio-
ne. Dehal se lo strinse al petto, dopo avervi collocato il bambino e averlo legato saldamente alla cesta. Poi fu questione di attimi. La donna si guardò attorno, prese una breve rincorsa e si lanciò nel vuoto, incurante delle grida di una sentinella. «Ma che stai dicendo? È fuggita gettandosi nel fiume? Che ne è stato del figlio?» Karesh sembrava un folle mentre interrogava il soldato. «Non ho avuto il tempo di intervenire, mio re», disse la sentinella. «Ha messo il figlio in un guscio di canne e con lui si è buttata dalla rupe.» «Questa volta non deve sfuggirci!» tuonò Karesh. Dehal ancora una volta provò l'angoscia del salto nel nulla. Strinse a sé il fagotto e attese l'urto con l'acqua che fu dirompente, proprio come lo ricordava. Pregò Hosh affinché suo figlio avesse salva la vita. L'impatto col fondale fu violento, e la donna sentì l'osso della gamba destra spezzarsi. Il dolore le tolse il respiro, ma riuscì a non perdere i sensi mentre spingeva la culla verso la riva, confortata dalle grida disperate del piccolo Sar. Solo quando fu certa che suo figlio era vivo, la vista le si annebbiò: percepì il flusso caldo del sangue tra le cosce. Dehal seppe che aveva perso il bambino che portava in grembo. Quando riprese i sensi, il viso arcigno di Karesh la sovrastava. «Ma bene... Questa volta ti è andata male, mia dolce e amata sposa», ghignò il re dei Davaar. Quindi indicò la macchia di sangue sulle vesti. «Sembra anche che tu non sia più incinta. E non vedo perché dovrei continuare ad aver cura di tuo figlio. È giunto il tempo che il giovane Sar alimenti il nostro valore.» «No, te ne prego, Karesh. Lascialo vivere. È soltanto un bambino.» «Domani il suo cuore nutrirà i miei guerrieri.» La mossa di Dehal fu repentina e imprevedibile: riuscì ad alzarsi, appoggiandosi alla gamba sana e, preso il guscio di canne, lo lanciò di nuovo nella corrente. Nessuno dei davaar, come sempre terrorizzati dall'acqua, ebbe il coraggio di tuffarsi. Impotenti, rimasero a guardare quell'involucro galleggiante e il suo carico trascinati dolcemente a valle dalla corrente. «Facciamo provvista d'acqua. Da qui in avanti non potremo più fermarci: c'è il pericolo che le sentinelle dei davaar ci vedano», aveva detto Athor avvicinandosi al fiume per riempire la borraccia ricavata da una vescica di
capra. «Che cos'è quello?» disse il re dei migos, indicando uno strano guscio di paglia e canne che galleggiava vicino alla riva. «Fate silenzio, uomini! Zitti!» disse ancora Athor. Il pianto disperato di un bambino sovrastò i rumori della foresta e lo scrosciare del fiume. Il re dei migos si tuffò e con alcune potenti bracciate raggiunse l'oggetto galleggiante. Tornato a riva, aprì l'involucro. La gioia che provò nel vedere suo figlio sano e salvo durò un solo istante: se sua madre l'aveva abbandonato, doveva esserle accaduta una terribile disgrazia. Dehal aveva steccato la gamba destra, utilizzando un ramo e dei brandelli dei suoi vestiti, come aveva visto fare ai cacciatori migos. Ma il dolore era insopportabile e inoltre aveva perso molto sangue: si sentiva debole, sola e disperata. Karesh entrò nella capanna. La giovane donna giaceva seminuda sulla paglia e non avrebbe potuto opporgli resistenza. La mano del davaar indugiò tra le sue cosce, poi le dita dell'uomo violarono il suo sesso. In un attimo le fu sopra e insinuò prepotentemente il membro eretto tra le labbra di lei. Vincendo il disgusto, la donna spinse il viso in avanti, assecondando il movimento dell'uomo. Poi la mascella si serrò con forza. I denti affondarono nella carne. L'urlo di dolore del davaar fu agghiacciante, ma venne sopraffatto da altre grida che, in quel momento, si erano levate tra le capanne: i migos erano sbucati come fiere affamate dalla macchia e stavano attaccando il villaggio. 27 Inghilterra, 1216 Il banchetto nuziale era stato sfarzoso. Il conte non si era risparmiato: sapeva bene che quel matrimonio avrebbe potuto rivelarsi un utile strumento di pressione politica, un giorno. Poco importava se, nella Francia martoriata da una crociata sanguinaria, la famiglia della giovane sposa fosse considerata nemica dal re cattolico. Le guerre religiose sarebbero finite, prima o poi. E quando anche gli scontri tra inglesi e francesi fossero cessati, l'allean-
za tra la famiglia di Dolbert e quella di Marie-Louise avrebbe potuto mettere il conte nella posizione di far da mediatore tra i due Stati. Che Dolbert, suo figlio, sembrasse del tutto indifferente al fascino della sua sposa francese non era parsa cosa degna di nota al conte. Con il tempo, era certo che si sarebbe reso conto dell'avvenenza della giovane sposa. Ma Dolbert, per ora, osservava con aria annoiata gli stendardi variopinti che adornavano il castello e sorrideva di tanto in tanto alla bellissima Marie-Louise con il medesimo trasporto che avrebbe potuto riservare a uno dei suoi amati cavalli. La sposa fingeva di non accorgersi di quella freddezza. Entrambi sapevano che quel matrimonio era solo il risultato di un accordo tra i loro genitori, ma la giovane sperava di riuscire, un giorno, ad amare e a farsi amare dal legittimo sposo. Se mai avesse potuto vincere la passione per quel giovane che aveva incontrato nella casa di Puyol. Quando aveva rivisto Aymon alla corte del conte era stata vinta da un'emozione fortissima. L'aveva riconosciuto immediatamente, ancor prima che le sue dita toccassero i tasti dello strumento che suonava con inconfondibile maestria. «Perdonate il mio ardire, messeri e dame», aveva detto a un certo punto della sua esibizione Aymon, alzandosi in piedi e richiamando l'attenzione del pubblico. «Mi sono permesso di comporre una canzone nella lingua d'Occitania, in onore della sposa, e vorrei dedicarla a lei.» Le parole fluttuarono nell'aria, morbide come le foglie portate dal vento tiepido d'autunno. Benvenuta mia signora, signora dagli occhi come stelle signora dei sogni e del pensiero, signora del vero. Benvenuta raggio di ricordi, d'amore e di vita benvenuta regina di ogni felicità, felicità infinita. Era un mottetto a tre voci, un componimento in cui le voci acute di Aymon e di Sarya e quella bassa di Bahram si andavano a sovrapporre l'una all'altra accompagnate dal suono degli strumenti. Aymon cantò e suonò senza mai distogliere lo sguardo dalla giovane Marie-Louise che, benché fosse in preda a un'emozione profonda, riuscì a non tradire il suo stato d'animo. La giovane rimase ad ascoltare sorridendo, con l'elegante riserbo che le imponeva il suo ruolo.
Il brano si concluse tra gli applausi del pubblico, che per lo più non aveva capito neppure una parola della canzone, quindi il terzetto riprese a suonare brani di musica sacra e allegre ballate. L'atmosfera era festosa e sembrava che il repertorio dei musici fosse inesauribile. Fu allora che accadde la disgrazia. Bahram emise all'improvviso alcuni colpi di tosse, si portò una mano al petto, quindi si accasciò rantolante sul liuto. Aymon e Sarya smisero di suonare, sollevarono Bahram e lo condussero dietro a una tenda poco distante dal palco. L'uomo era pallidissimo e prossimo a perdere conoscenza, ma con un cenno del capo chiese ai due di farsi più vicini e, con un filo di voce, disse loro: «Sto morendo, lo so. Ti amo, dolce mia compagna, amore della mia vita. Abbi cura di lui». Poi le sue labbra ceree si posarono sul dorso della mano della donna in un ultimo tenero bacio. «E tu, Aymon, ragazzo mio, accudisci questa donna alla quale hai illuminato la vita, regalandole il dono della maternità. Se il cielo esiste, spero che mi accolga.» Bahram, lo tzigano che aveva battuto in duello i più grandi campioni dei tornei, il musico che poteva suonare per ore senza mai stancarsi, l'uomo che aveva amato Aymon come un figlio, si spense guardando dolcemente entrambi. «Chissà che notte di passione vi attende, mia signora», aveva detto l'ancella, passando il pettine tra i capelli d'oro di Marie-Louise. La giovane sposa aveva sorriso, mentre l'altra le cospargeva la pelle con un olio profumato. Quindi si era coricata, ed era rimasta in attesa che il marito venisse a farle visita nella sua stanza. Sapeva bene qual era il suo dovere di moglie. Dolbert non si palesò quella prima notte, e neppure la seconda, né le successive. Dopo un anno il matrimonio non era ancora stato consumato. Segretamente grata di ciò, la giovane sposa si comportava in pubblico in maniera esemplare e non pareva soffrire in alcun modo del manifesto disinteresse del marito. «Avete chiesto di parlarmi, signore», disse Aymon posando a terra il ginocchio destro e chinando il capo dinanzi al conte di Old Sarum. «Si, Maxim», rispose il nobiluomo, facendogli cenno di alzarsi. «È molto tempo che vivi in casa mia e devo ammettere che le tue doti musicali
hanno rallegrato spesso la vita di corte. Ricordi Ackerley Colter, il Pirata, non è vero?» «E come non potrei? Quando ha catturato la galea sulla quale eravamo imbarcati, mi ha fatto passare dei brutti momenti.» «Al momento del vostro arrivo in Inghilterra», continuò il conte, «le vostre cose vennero requisite e gli strumenti musicali furono venduti a un mercante di Londra. Ma il Pirata trattenne per sé questa.» Così dicendo il nobile sollevò un drappo e l'akinakes forgiata dalle mani di Bahram balenò alla luce dei bracieri che ardevano nella sala del trono. «È tua. Colter me l'ha mostrata tempo fa e mi ha raccontato la sua storia. Così ho deciso di comprarla per restituirla al suo legittimo proprietario», concluse il conte, porgendogli l'arma. Aymon la prese con mani trepidanti. Quella spada non era solo un oggetto prezioso e un'arma perfetta: era anche ciò che Bahram aveva avuto di più caro. L'eredità che il valoroso tzigano gli aveva lasciato era tornata nelle sue mani. Quando uscì dal salone Aymon era in un tale stato di estatica euforia che quasi andò a sbattere contro Dolbert. «Che fai, musico, come osi sbarrare il mio passo?» chiese il figlio del conte con fare arrogante. «No, mio signore, non mi permetterei mai. È che sono felice. Guardate questa spada che già mi fu donata un tempo e che in seguito mi è stata confiscata: vostro padre è riuscito a ritrovarla e ora me l'ha ridata.» Dolbert dette un'occhiata sprezzante all'oggetto, quindi si rivolse al suo luogotenente: «Mio padre sta davvero invecchiando: un tempo mai avrebbe fatto un simile dono a un servo e, per di più, ex galeotto». Nel piccolo cortile sul retro della casetta che abitava con Sarya, Aymon stava esercitandosi con la spada. Era a torso nudo e, sotto la pelle lucida di sudore, i muscoli guizzavano assecondando i movimenti agili del suo aitante corpo. Dal giorno del matrimonio, oltre un anno prima, il giovane non aveva mai avuto l'occasione di scambiare con Marie-Louise più di qualche parola. I loro sguardi si erano incrociati alcune volte, ma sempre alla presenza di ancelle o altre persone, e Aymon non aveva mai potuto dirle ciò che avrebbe voluto. Ma ormai aveva deciso: non appena ne avesse avuto l'occasione, avrebbe chiesto a Marie-Louise se davvero non l'avesse riconosciuto. E le avrebbe detto che l'amava fin da quando suonavano insieme nella
casa del maestro Puyol. A questo stava pensando, mentre concludeva un affondo nel costato di uno spaventapasseri di paglia che, oltre a vegliare sul piccolo orto, rappresentava il suo solo avversario. «Toccato!» disse una voce soave alle sue spalle. Aymon si fermò di scatto, con il cuore in subbuglio e non solo per lo sforzo. Marie-Louise era in piedi dinanzi alla palizzata che delimitava la proprietà che il conte aveva assegnato a lui e alla vedova di Bahram. L'ancella stava poco più indietro. «Vedo che non siete solo un musico raffinato, messere», continuò Marie-Louise sorridendogli. «Perdonate il mio abbigliamento, madame. Sono onorato della vostra presenza», disse Aymon, indossando in un lampo la spessa maglia di lana. «Mi sto recando a far visita a una famiglia di fattori che è appena stata allietata dalla nascita di un bambino. Vi ho visto e devo dire che la vostra abilità nel tirare di scherma ha catturato la mia attenzione.» «Troppo buona, mia signora. Stavo solo allenandomi, tanto per non perdere l'abitudine.» La giovane sorrise. E nel suo sguardo ad Aymon parve di scorgere il lampo della passione. «Buona giornata, messere», disse lei. «Buona giornata a voi, signora», disse Aymon inginocchiandosi, ma tenendo gli occhi fissi in quelli della giovane donna. Sarya lo raggiunse. Era una donna riservata che poteva apparire dura e insensibile, ma Aymon negli anni aveva imparato a conoscerla e ad apprezzarne le doti di umanità. «Sei innamorato di lei, non è vero?» gli chiese, seria in volto. Egli la guardò sorpreso. Non avrebbe mai pensato che i suoi sentimenti fossero tanto palesi. «Sì, Sarya. La amo dal giorno in cui l'ho vista per la prima volta. Ero poco più di un bambino.» «È bello, vero?» disse l'ancella mentre aiutava la sua signora a prepararsi per la notte. «Di chi parli, Reanna?» «Del musico Maxim. È lui che eccita le fantasie delle giovani del borgo.
Pare che tutte siano innamorate di lui, ma che nessuna sia ricambiata. Con voi sembra diverso, mia signora. Ogni volta che vi incontra gli si illuminano gli occhi e arrossisce.» «Lascia perdere questi discorsi e vai a dormire. È tardi.» Quella notte Marie-Louise tentò invano di prendere sonno: il fisico muscoloso di Aymon, i suoi occhi luminosi, le labbra sensuali l'avevano turbata. Immaginò di avere accanto il giovane per il quale segretamente batteva il suo cuore... Sapeva che il suo era un amore puro e casto ma, ugualmente, sentì il bisogno di pregare per la sua anima e perché Dio si prendesse cura dell'uomo che amava, perché lo tenesse lontano dai pericoli e dalla cattiva sorte. Si alzò e si avventurò nei corridoi del maniero in direzione della piccola cappella. La fredda aria autunnale si insinuava tra i vasti ambienti nei quali i camini venivano accesi solo di giorno. Fu per questo che Marie-Louise decise di attraversare la sala del trono: avrebbe allungato il percorso, ma lì i bracieri e i camini rimanevano sempre accesi. Aprì la porta: le ci vollero alcuni istanti prima di rendersi conto di ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi. Suo marito Dolbert era inginocchiato sul trono, le gambe divaricate, il busto piegato in avanti. Dietro di lui Pell, il suo inseparabile luogotenente, si agitava ritmicamente. Marie-Louise non riuscì a trattenere un grido di raccapriccio, quindi girò le spalle e corse verso i suoi appartamenti. Pell portava i capelli neri lunghi sulle spalle, aveva un viso spigoloso e duro, degno della sua fama di feroce soldato. Era meno alto del suo padrone, ma il fisico tozzo e robusto pareva fatto per combattere. Da qualche anno era stato ingaggiato dal conte come maestro d'armi e guardia personale del figlio maggiore. «Ci ha visto, accidenti a lei!» aveva detto, rivestendosi in tutta fretta. «E ora, che dobbiamo fare? Se si verrà a sapere sarà uno scandalo. Dobbiamo impedirlo a ogni costo», disse Dolbert con aria spaventata. «Ammazziamola, Pell.» «Sì, bella idea! Così rischieresti di essere incolpato di uxoricidio!» «Io sono il futuro conte di Old Sarum, voglio vedere chi avrà l'ardire...» «Stai zitto e lasciami pensare!» Dopo un breve silenzio, Pell continuò.
«Da tempo Reanna, l'ancella di tua moglie, mi tiene informato delle giornate della sua signora, di qualsiasi cosa lei faccia. Sembra che tra lei e quel Maxim, il musico, ci sia qualche cosa... Stai a sentire come ti troverai non solo conte di Old Sarum, ma anche scapolo e libero!» 28 Berlino, anni '30 La nascita dell'Ahnenerbe era stata sancita il primo giorno del 1935 ma molti suoi adepti, tra i quali Himmler, si erano prodigati per la realizzazione di quel progetto da almeno un quinquennio. L'Ahnenerbe, che ufficialmente si chiamava Società per lo studio sulla storia antica dello spirito germanico, ma che presto venne definita da chiunque «Eredità ancestrale», arrivò in breve a contare quarantatre dipartimenti, centottantasette scienziati e una novantina di tecnici. Ogni dipartimento si occupava di esaminare argomenti dai risvolti più o meno misteriosi, comunque sempre legati a fenomeni esoterici. Le materie di studio comprendevano l'antropologia, la musica tradizionale, l'archeologia, l'occultismo, la magia e le erbe medicinali. Al sergente delle SS Otto Rahn erano stati dati un ufficio e un assistente personale. Lo avevano assegnato al dipartimento per lo studio dell'eredità ancestrale, ma lui aveva chiesto, e ottenuto, di potersi occupare anche delle sue ricerche sul segreto dei catari. Nonostante i ripetuti insuccessi, continuava a pensare di essere a un passo dalla scoperta che lo avrebbe reso famoso. Rahn era uno studioso attento e scrupoloso. Lavorava alle dipendenze di Friederich Hielscher, il capo del dipartimento occultistico dell'Ahnenerbe, il quale aveva in mente progetti molto ambiziosi, tesi a dimostrare la veridicità della leggenda di Thule: secondo questa, una volta distrutta a causa di una catastrofe naturale la mitica terra iperborea, gli ariani che l'abitavano erano migrati negli angoli più disparati del mondo, dal Tibet al deserto del Gobi. Compito dell'Ahnenerbe sarebbe stato quello di ricercare i discendenti in linea diretta di quei progenitori ariani. Per questo Hielscher si era dedicato all'organizzazione di alcune missioni in Tibet, sotto la guida di un esploratore esperto come il naturalista Ernst Schäfer.
L'opinione di Otto Rahn era tenuta in grande considerazione e ogni documento che riguardasse antichi segreti passava prima o poi sulla sua scrivania: tra essi vi erano quelli relativi alle grandi persecuzioni delle eresie. Nei suoi interminabili studi e nell'elaborare ipotesi sull'origine del Graal, Rahn non era però solo: Himmler era molto interessato all'evolversi delle ricerche e spesso lo convocava per essere aggiornato. Quella mattina, dopo l'ennesima telefonata del Reichsführer, Otto aveva pensato che ancora una volta sarebbe stato costretto ad arrampicarsi sugli specchi per soddisfare le aspettative del suo superiore. Himmler era molto nervoso, temeva di essere in trappola. Le leggi razziali sull'arianesimo e quelle, ancor più restrittive, per l'ammissione alle SS, prescrivevano che il candidato dovesse risalire col suo albero genealogico sino al 1750 senza che nessun suo antenato si fosse macchiato con un'unione «impura». Qualcuno aveva instillato in Hitler il sospetto che proprio il capo delle SS non avrebbe potuto dimostrare la completa appartenenza alla razza ariana: la sua genealogia si perdeva tra le vallate di un cantone di lingua francese in Svizzera. «Avete capito, Weisthor?» stava dicendo Himmler al suo interlocutore. «Proprio io, ariano tra gli ariani, mi vedo costretto a fornire ulteriori dimostrazioni sulla mia ascendenza. Ho chiesto di poter parlare con le massime autorità elvetiche e vedrete che, entro breve, riuscirò a venirne a capo. Anche a costo di dover ottenere certificati falsi da parte del consiglio cantonese.» «Aspettate, Reichsführer. Non credo sia necessario smuovere mari e monti per falsificare dei certificati. Non vi conviene esporvi con operazioni non propriamente... legali. Bisogna essere cauti.» «E che cosa mi consigliate di fare, Weisthor?» «Mi sembra che Otto Rahn abbia un amico di nazionalità svizzera, la cui famiglia gode di una grande influenza nella confederazione. Chiamatelo. Sono certo che si farà in quattro per accontentarvi.» L'amico di Rahn si chiamava Raymond Perrier e suo padre, avvocato a Ginevra, riuscì a sistemare le cose in un baleno. Ma, se Himmler poteva ora contare su un'impeccabile ascendenza ariana, aveva però maturato un debito nei confronti del suo sottoposto. Adolf Hitler osservava compiaciuto i modi raffinati ed eleganti di He-
ydrich. Quell'uomo gli piaceva molto, perché incarnava l'essenza dello spirito ariano ed era dotato di un cinismo inscalfibile. Sosteneva che le razze inferiori dovessero essere allontanate dallo Stato tedesco. Beninteso, dopo averle private di ogni loro avere. «Sapete perché molti, tra i grandi condottieri del passato, sono stati costretti a soccombere?» aveva esordito il Führer guardando Heydrich negli occhi nel corso del loro ultimo incontro. «No, signore», rispose il comandante della GESTAPO. «Perché nessuno di loro si è mai preoccupato di pianificare la propria salvezza. Nessuno può sperare di restare in eterno sulla cresta dell'onda. I grandi generali insegnano che importante quanto il piano d'attacco è la strategia di fuga o, se preferite, di ritirata. Se Napoleone avesse preparato un piano per sottrarsi alla prigionia, la Storia avrebbe avuto un corso diverso. Se Giulio Cesare, per arginare la sua crescente impopolarità, avesse attuato strategie alternative, non avrebbe dovuto soccombere alla pugnalata di Bruto. Ma avremo modo di approfondire l'argomento, Herr Heydrich.» Quindi il Führer si rivolse a Hess, l'unico tra i suoi collaboratori che chiamava per nome: «Dimmi, Rudolf, a che punto sono le trattative?» «I miei contatti segreti con alcuni esponenti della famiglia reale inglese stanno producendo ottimi risultati. Credo che riusciremo ad accordarci per fronteggiare assieme l'orda comunista e bolscevica.» «Molto bene», concluse Hitler. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi. Londra, anni '30 Il capitano di fregata Rowell Kater non era affatto soddisfatto della mansione che i servizi segreti britannici gli avevano assegnato: pedinare giorno e notte un membro della famiglia reale lo faceva sentire un traditore. Malgrado ciò, Kater si era mosso affinché il suo lavoro fosse svolto con scrupolo e puntiglio. Il duca di Kent era uscito da solo, a bordo dell'auto che di solito usava il suo maggiordomo. L'ufficiale dei servizi segreti faticò a riconoscerlo, nascosto com'era dalla sciarpa e dal cappello calato sugli occhi. «Una delle sue solite stravaganze», pensò Kater mettendosi sulle tracce del terzogenito di re Giorgio V «Ecco perché un ufficiale di marina è costretto a eseguire pedinamenti
come un novellino: le dissolutezze dei potenti devono essere scoperte da persone molto affidabili. Adesso mi toccherà il solito incontro clandestino e passerò l'intera giornata di domani a cercare parole adatte per buttare giù il rapporto di servizio.» Dopo avere girovagato per le strade intasate di traffico di Londra, l'auto del duca si infilò nel portone del palazzo dove si trovava la sede londinese della Società nazionale geografica. Kater sapeva bene che la società altro non era che una copertura dietro alla quale si celava l'intera rete dello spionaggio della Germania nazista. La Società geografica era diretta da un certo Albrecht Haushofer, persona che si diceva molto vicina ai gerarchi di Hitler. L'agente britannico annotò alcuni appunti sul suo taccuino, quindi scese dall'auto e iniziò a passeggiare, facendo finta di osservare le vetrine dei negozi. Un'auto scura rallentò, quindi si infilò anch'essa nel cortile della casa. Quando scorse il volto del passeggero, Kater trasalì. L'uomo che scese dall'auto era Rudolf Hess, il braccio destro di Adolf Hitler. Dopo avere redatto il suo rapporto di servizio, quella sera Kater poté finalmente dedicarsi alla cosa che, più di ogni altra, da giorni lo entusiasmava: la decifrazione dell'antico spartito. Aveva provato a eseguire la musica, ma c'era qualche cosa che non andava nella sequenza delle note. Era certo di essersi imbattuto in un mistero antico e affascinante. Quindi si accinse a continuare il lavoro di restauro dello strumento. Presto sarebbe tornato come nuovo, pensò soddisfatto. Se avesse sospettato che un filo di sangue legava la storia della ghironda ai protagonisti del rapporto che ancora aveva sul tavolo, la sua espressione sarebbe stata ben più preoccupata. Roma, anni '30 L'incontro tra il segretario di Stato vaticano e il presidente degli Stati Uniti d'America non aveva portato ai risultati sperati: Roosevelt aveva preferito non prendere posizione sul fenomeno nazista. Come molti potenti della terra, sperava di poter continuare a essere solo uno spettatore e si diceva certo che il caso Hitler sarebbe rimasto circoscritto al suolo tedesco o, alla peggio, all'area nordeuropea. L'America era lontana migliaia di chilometri dai problemi del Vecchio Continente e ne aveva di assai più importanti da risolvere: la Grande recessione mieteva vittime e scontento, mise-
ria e ribellioni. Il cardinale Pacelli era quindi tornato dal suo viaggio in America senza aver trovato il sostegno e la partecipazione su cui aveva contato. Si sentiva solo e senza appoggi, ma sapeva che era suo dovere combattere il Male e nutriva la certezza che un conflitto lungo e difficile sarebbe stato presto inevitabile. L'anno stava per finire. Pacelli si augurò che il 1937 portasse un po' di saggezza nelle menti dei potenti. Berlino, anni '30 Gli studi di Otto Rahn erano giunti a un punto morto. Da quando aveva individuato il graffito preistorico non aveva fatto altro che dibattersi tra una ridda infinita di ipotesi. Prese tra le mani una delle foto che aveva scattato prima di alterare la pittura rupestre. Aveva identificato in uno strano simbolo a spirale l'oggetto che stava cercando. E quello che a una prima impressione sarebbe potuto sembrare un manipolo di guerrieri o cacciatori altro non era che uno stuolo di cadaveri. Ma ancora non era riuscito a spiegarsi il significato di quello strano rettile, una specie di grande lucertola. Otto Rahn guardò fuori dalla finestra del suo ufficio al quarto piano della sede dell'Ahnenerbe, al numero 16 di Pucklerstrasse, dove i cartelli stradali sembravano sul punto di cedere alla furia del vento. E, come per incanto, tutto gli fu chiaro. «Ma come ho fatto a non pensarci prima? Si tratta di un'indicazione per giungere alla meta. Non è altro che un cartello segnaletico!» disse ad alta voce. «Che cosa avete detto, sergente Rahn?» domandò attonito un suo collega. «Nulla, nulla. Parlavo da solo», rispose Rahn, tirando fuori dallo schedario a muro due voluminosi album fotografici. «Ma voi non uscite mai, sergente? Vivete sempre chiuso qui dentro? Ogni mattina vi trovo qui e alla sera, quando esco, vi lascio intento a consultare tutte quelle vostre foto di caverne e castelli diroccati. Capisco che siete solo, qui a Berlino... Ma se volete... Mia moglie, una vera ariana, è un'ottima cuoca. Potreste cenare da noi, una di queste sere.» «La cena. Accidenti! Quasi me ne dimenticavo!» esclamò Otto Rahn battendosi la mano sulla fronte. Mezz'ora più tardi scendeva da un taxi davanti al ristorante Horcher.
La cena, a cui li aveva invitati Himmler, era una festa in onore delle confermate origini ariane del Reichsführer. Attorno a una tavola rotonda elegantemente imbandita, si trovavano Himmler, Heydrich, il ginevrino Perrier e lo stesso Rahn. Era singolare che un semplice sottufficiale delle SS potesse sedere al medesimo tavolo del suo comandante e del capo supremo della GESTAPO. Ma Rahn, per le alte gerarchie naziste, rappresentava ben altro che un graduato di truppa. «Come procedono le vostre ricerche?» chiese a un tratto Himmler. Rahn si aspettava quella domanda, e la sua risposta fu vaga, ma dai toni entusiasti. «Ho appena scalato la parete più difficile della montagna. La meta mi appare adesso più vicina, Reichsführer. Chiederò una breve licenza ai miei superiori: credo che un'altra visita alle grotte di Ussat sia a questo punto indispensabile.» Il treno era rimasto fermo a Wissembourg per oltre un'ora. Prima erano salite a bordo le guardie di frontiera tedesche, quindi, dopo pochi metri, era stata la volta di quelle francesi. I doganieri avevano controllato con scrupolo i documenti di tutti i passeggeri. Finalmente il treno era ripartito e Rahn, che viaggiava con il nome falso di Otto Raush, si era ancora una volta trovato in Francia, l'unica terra in cui gli sarebbe piaciuto vivere. Il tedesco guardava oltre il vetro appannato e non si accorse subito della donna che era entrata nello scompartimento. «Sono liberi questi posti?» chiese con un marcato accento del Nord. Aveva un aspetto rassicurante e quieto: poteva essere un'impiegata, forse un'insegnante. I capelli castani erano striati di grigio, e gli occhiali spessi ne oscuravano lo sguardo. Otto Rahn le fece cenno di accomodarsi. L'agente della Sûreté Carla Jeogeres Núñez era fiduciosa del suo travestimento e sapeva che Rahn non era un fisionomista. Sedette tranquilla di fronte a lui, un libro aperto tra le mani e gli occhi che spesso si soffermavano sui lineamenti del tedesco. Il treno correva veloce sbuffando nuvole di vapore denso. 29 Linguadoca, 2007
«Ho saputo che Otto Rahn venne sorpreso mentre alterava dei graffiti, e che si prese alcuni cazzotti sul muso», aveva detto Sara Terracini rivolgendosi alla guida. «Domani vorrei visitare la grotta con quei graffiti, se possibile.» Quando Sara si sdraiò nel letto della sua stanza all'hotel di Ussat era sfinita: la fatica di quei cinque giorni di arrampicate e camminate incominciava a farsi sentire, e l'idea di rientrare a Roma le appariva come un miraggio. Ma sapeva che avrebbe dovuto informare il suo anziano mentore, il miliardario paraguaiano, dell'insuccesso della sua spedizione. Ci fosse stato Breil, tutto sarebbe stato diverso. Avrebbe annusato l'aria e percepito i segreti di Otto Rahn. Ma chissà dove si trovava Oswald? Probabilmente a farsi coccolare dall'anziana Mame-loshen Habar e dalle sue delizie culinarie. Il mattino seguente, Sara si presentò al quotidiano appuntamento con la guida, portando con sé una valigetta nera. «Di che cosa si tratta?» le chiese l'uomo, che non riusciva a nascondere la curiosità. «È un'apparecchiatura in grado di leggere la fluorescenza ai raggi X. Viene utilizzata per lo più nei laboratori di restauro per verificare se, sotto al dipinto principale, si nascondono i cosiddetti ripensamenti dell'artista o altre opere. Funziona misurando la lunghezza d'onda emessa dai materiali colpiti da radiazioni elettromagnetiche. Se Otto Rahn, nel corso della falsificazione, avesse utilizzato colori e materiali differenti da quelli utilizzati dall'antico autore, potrei riuscire a decifrare il graffito originale.» Denver, 2007 <ECCOMI A LEI, MAGGIORE!> In poche ore il capitano Bernstein aveva trovato il piccone che avrebbe rimosso il primo mattone. Forse sarebbero riusciti a demolire il muro che nascondeva la realtà su una vicenda che stava a cuore a Oswald Breil e al mondo intero. , digitò Breil.
Oswald aprì l'allegato e le immagini cominciarono a scorrere sullo schermo. In esse si vedeva un anziano parlamentare che scandiva le parole con aria saggia, ben sapendo che ciò che usciva dalla sua bocca era più tagliente di una lama d'acciaio: «Signor presidente Pashelvi, signori colleghi. Riconosco lo sforzo con cui si cerca di far passare una rivoluzione per un fatto normale. Ma non lo approvo. Il nostro parlamento è il solo strumento che può garantire il rispetto delle leggi. Ora tutti noi sappiamo bene che il parlamento sta correndo il rischio di finire sotto il controllo di pochi». Mentre parlava, il relatore puntava lo sguardo in direzione del presidente Pashelvi, che pareva indifferente alle accuse a lui rivolte. «Se non vado errato», continuò l'anziano deputato senza nascondere il sarcasmo, «avevamo un presidente, eletto a suffragio universale, la cui carica sarebbe dovuta durare quattro anni. Dov'è finito? L'unico ad avere avuto contatti con lui, dal momento della sua 'fuga traditrice', è stato lei, presidente Pashelvi. Nessuno 'Stato tentatore' ha segnalato l'arrivo del nostro ex capo dello Stato, né tantomeno ha annunciato di esserne divenuto protettore. Quindi mi rivolgo a lei per avere notizie del suo predecessore: nessuno ne sa più nulla da diversi mesi.» Ci fu un brusio sommesso: i metodi repressivi di Pashelvi erano ben noti. Ma il presidente, ignorando la provocazione, si limitò a chiedere se altri
avevano intenzione di prendere la parola e quindi dichiarò conclusa la seduta. Oswald era pensieroso. scrisse. <MI METTO SUBITO AL LAVORO, MAGGIORE, E SPERO DI POTER ARRIVARE A QUALCOSA GIÀ NELLE PROSSIME ORE.> Teheran, 2007 Bijan Tabor uscì dalla sua casa di Teheran e percorse pochi passi lungo Fatemi Avenue. Era quasi arrivato all'angolo di Laleh Park quando il rombo alle sue spalle lo costrinse a voltarsi. L'auto era salita sul marciapiede e lo stava puntando. Il parlamentare tese le mani davanti a sé nell'istintivo ma inutile gesto di respingere il pericolo. L'auto lo travolse, facendolo carambolare in aria come un fantoccio. Quindi, sgommando, abbandonò la scena. Bijan Tabor giaceva a terra con il cranio fracassato. Linguadoca, 2007 L'entusiasmo di Sara Terracini era durato poche ore. La giovane ricercatrice aveva esultato quando era riuscita a scorporare i tratti dell'antico graffito da quelli che Otto Rahn vi aveva sovrapposto. Poi era rimasta a lungo a osservare i disegni: una spirale, delle apparenti figure antropomorfe, tracciate con le semplici linee che contraddistinguono le raffigurazioni preistoriche, senza riuscire a darsi spiegazione alcuna. Lo squillo del telefono la riscosse.
«Come procedono le ricerche, dottoressa Terracini?» chiese la voce di van der Duick. «Oggi credevo di aver fatto una scoperta interessante, ma ora mi pare di essere arrivata a un punto morto. Mi dispiace, signor van der Duick: non so proprio come venirne fuori. Forse è il caso che lei affidi a qualcun altro questa ricerca.» «Non si lasci vincere dallo sconforto, Sara. Non esiste nessuno più competente di lei. Se Otto Rahn ha fatto di tutto per alterare quel graffito, deve aver avuto i suoi buoni motivi. Non è da lei arrendersi quando la soluzione è a un passo.» «Magari la soluzione non esiste e Rahn era solo un piccolo impostore che ha manipolato un antico dipinto per dare credibilità a una leggenda che avrebbe fatto accorrere nella zona - e quindi anche nel suo albergo - frotte di curiosi.» Conclusa la telefonata, Sara accese la televisione. Ma se aveva sperato di riuscire a distrarsi, rimase ancora una volta delusa. Restò a osservare le tragiche notizie che provenivano da Israele: al confine con il Libano erano ripresi scontri sempre più cruenti. Nessuno la chiamava «guerra» solo perché gli Hezbollah, controparte armata degli israeliani, rappresentavano una realtà subdola ed evanescente. Ma quella era una vera guerra, finanziata dall'Iran di Pashelvi. Quando il servizio sul Medio Oriente si chiuse, Sara si domandò come fosse possibile che i telegiornali potessero alternare la più cruenta delle notizie alla trattazione di argomenti futili e quasi banali. In pochi istanti il notiziario era passato dal focolaio di un potenziale terzo conflitto mondiale all'habitat del drago di Komodo, un varano di quasi tre metri, simile a una gigantesca lucertola di colore scuro. La telecamera indugiò in una ripresa dall'alto. Sara rimase a osservare la figura dell'animale... Un uomo che disegna un suo simile con poche linee rette, come potrebbe disegnare un drago? Con una linea orizzontale e due verticali parallele: l'enigmatico simbolo che compariva nella pittura rupestre che Otto Rahn aveva cercato di cancellare per sempre. Un drago... Come aveva fatto a non pensarci prima? Sollevò il ricevitore e compose nuovamente il numero di van der Duick. Alla Grotte des Chevaliers veniva attribuita un'importanza inferiore rispetto alle più conosciute grotte di Lombrives, di Bouan o di Betléem, che erano composte da caverne collegate tra loro da cunicoli percorribili per
centinaia e centinaia di metri, quotidianamente visitate da molti turisti. La Grotte des Chevaliers aveva invece un breve percorso a senso unico: non attraversava la montagna da parte a parte ma, giunti in prossimità di un laghetto di acqua cristallina e fresca, i visitatori dovevano fare dietro front e tornare sui loro passi. La sua maggiore attrazione era rappresentata da una figura che gli agenti atmosferici avevano scolpito al suo esterno, a pochi passi dell'imboccatura. I locali chiamavano Tarasque quella gigantesca scultura di pietra che rappresentava un grosso rettile in posizione d'attacco. La Tarasque sembrava vigilare l'ingresso della grotta come un dragone che l'incantesimo di un malvagio mago avesse trasformato in un'immobile sfinge di pietra. «La Tarasque», stava dicendo la guida a Sara Terracini, «è un animale fantastico che secondo la leggenda abitava il fiume Rodano nell'antichità. Spesso il dragone famelico abbandonava il suo rifugio e compiva razzie nei villaggi della Linguadoca, pretendendo il suo tributo in vite umane. Si credeva fosse figlio del Male e la gente di qui si faceva il segno della croce ogni volta che lo nominava. Fu grazie all'intervento di santa Marta che la valle del Rodano venne finalmente liberata dal mostro, diventato improvvisamente docile e mansueto.» Washington, 2007 Phil Damiano stava scorrendo l'ultimo dispaccio sulla situazione in Medio Oriente. Aveva trascorso tutta la sua esistenza a prevedere e a disegnare scenari di guerra, anzi a volte aveva contribuito a creare i presupposti per far divampare un conflitto: anche questi erano i compiti degli agenti della CIA. Ora era evidente che la situazione in Medio Oriente era prossima al collasso. «Guardi qui, generale», disse indicando lo schermo del computer, mentre impartiva i comandi per ingrandire le immagini riprese dai satelliti spia. «Nelle ultime settimane abbiamo riscontrato considerevoli movimenti di truppe iraniane al confine con l'Iraq. E, nel frattempo, la Siria ha rinforzato i suoi presidi alle frontiere con il Libano e con Israele. Due divisioni corazzate della Stella di David, invece, sono penetrate per quasi quaranta chilometri in territorio libanese. Manca solamente la scintilla e sarà la guerra.» Il generale Edward Corrige ascoltava il direttore della CIA in silenzio,
ma la sua espressione era preoccupata. Quando parlò, la tensione trasparì nitida dalla sua voce. «In questi anni di relativa calma e con i prezzi del greggio alle stelle, l'Iran ha avuto il tempo e i mezzi per ricostituire le sue forze armate, uscite provate dal conflitto con l'Iraq. Oggi le truppe sotto la bandiera del leone di Persia possono contare su settecentosessantottomila soldati. Ma consideri che gli iraniani tra i diciotto e i cinquant'anni sono oltre diciotto milioni. A questi si vanno ad aggiungere ogni anno i quasi novecentomila neodiciottenni. L'Iran spende, ufficialmente, dagli otto ai dieci miliardi di dollari l'anno per spese militari. I loro armamenti sono moderni ed efficaci. In compenso, dopo l'inizio della smobilitazione delle nostre truppe in Iraq, nella zona sono rimasti solamente pochi contingenti americani con dotazioni atte a garantire il controllo sulla regione e non certo in grado di fronteggiare un attacco da parte delle vicine milizie iraniane.» «Che cosa intende dire, generale?» «Basandomi sulla mia esperienza e su quanto vedo, temo che se gli iraniani dovessero varcare il confine, riuscirebbero a travolgere le nostre truppe di stanza in Iraq nel giro di poche ore. Ciò significherebbe che, dopo aver sbaragliato sul territorio iracheno la nazione più potente del mondo, i militari agli ordini di Gholam Pashelvi avrebbero la via spianata per marciare su Israele. A quel punto gli ebrei non staranno certo a guardare, e metteranno in campo ogni arma a loro disposizione. Comprese quelle atomiche. Uno scenario devastante.» «Sarebbe ancora più preoccupante se anche l'Iran avesse a disposizione ordigni nucleari.» «Sì. Dobbiamo augurarci che almeno questo pericolo sia scongiurato.» Denver, 2007 , aveva appena digitato Breil nel corso di uno dei suoi quotidiani meeting con Tel Aviv.
PAGARE... NON È VERO?> <SIAMO SULLA GIUSTA VIA, MAGGIORE... SULLA GIUSTA VIA...> Oswald chiuse la comunicazione con l'unico rimasto tra tutti i suoi ex collaboratori sul quale sapeva di poter fare sempre affidamento. Unico? Se qualcuno avesse riferito a Sara il suo pensiero, lei si sarebbe certamente offesa. Oswald sorrise tra sé, mentre riprendeva a leggere le memorie che la sua amica gli inviava con regolare puntualità. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 Finalmente si torna a casa! Sono seduto su un aereo di linea semivuoto che mi sta portando all'aeroporto di Rio de Janiero, da dove dovrei imbarcarmi per l'Italia. Piove a dirotto, ma il volo procede regolare e così ne approfitto per aggiornare il mio diario. Quando l'altra notte ho realizzato che la bella Alexandra Oliveiro saliva nell'appartamento padronale, ho pensato che anche lei facesse parte dell'accordo siglato tra suo padre e la Neumann.
C'è qualcosa che mi sfugge nei rapporti tra queste persone e devo dire che non mi dispiace affatto di partire. Rimpiango solo di non essere riuscito a trascorrere altro tempo da solo con Agnes: dopo quanto successo nel corso dell'atterraggio nessuno di noi ha più fatto cenno all'accaduto o ha assunto comportamenti meno che formali. Gli ultimi due giorni sono stati piuttosto concitati e, a causa del maltempo, ho dovuto posticipare la mia partenza. Non so se sia stato un bene, ma so che la cosa mi ha consentito di conoscere un tipo a dir poco interessante. Moshe Swazinski è il braccio destro di Neumann da diversi anni. Di parecchio più giovane del magnate, è arrivato in Brasile poco più che decenne, quando la sua famiglia di ebrei polacchi riuscì a farlo espatriare clandestinamente da Varsavia poco tempo prima che i nazisti rastrellassero il ghetto e deportassero la quasi totalità degli ebrei a Buchenwald. Neumann, da allora, si è sempre occupato di Moshe e lo ha allevato come un figlio. Agnes mi ha raccontato per sommi capi la biografia dell'aitante comandante in seconda della Neumann ieri mattina, mentre guidava in direzione dell'aeroporto. La pioggia della notte si era trasformata in una vera e propria tempesta tropicale. «Peccato che non incontrerà il signor Swazinski se non per qualche minuto all'aeroporto. L'aereo che lo riporta qui è lo stesso con cui lei partirà.» Il Piper Navajo è atterrato tra le raffiche di pioggia e di vento. «Sono stato fortunato, Agnes», ha detto Swazinski, dopo le presentazioni di rito, «ho ballato da Rio a qui senza dover pagare nemmeno l'ingresso in discoteca. Non vedo l'ora che mi riaccompagni a casa. Non appena imbarcato il dottor Raso, si intende.» Moshe Swazinski è un uomo molto elegante. Impossibile non riconoscere nei suoi abiti la firma dei migliori sarti italiani. Ha un fisico alto e atletico, spalle larghe e un collo possente che sorregge un viso squadrato. Il suo sguardo è freddo e sfuggente. Ma per me non era ancora giunto il momento della partenza. «Le previsioni non parlano di miglioramento. Mi sembra un azzardo decollare di nuovo», ha detto Jaco rivolgendosi ad Agnes.
«Signor Raso, come avrà capito temo che il suo rientro debba essere rimandato. Mi dispiace per questa variazione di programma, ma dovrà trascorrere un'altra notte alla Residencia», mi ha comunicato la mia accompagnatrice. In breve i nostri bagagli sono tornati nel vano della Range Rover e tutti insieme abbiamo fatto ritorno. Appena giunto in camera, mi sono tolto i vestiti bagnati e ho aperto il borsone da viaggio di Gucci per tirare fuori degli abiti asciutti. È stato allora che mi sono reso conto che quella non era la mia valigia: all'aeroporto avevo notato che Swazinski ne aveva una identica alla mia. Probabilmente il personale della Residencia le aveva inavvertitamente scambiate. L'occasione è stata troppo ghiotta e non ho potuto fare a meno di curiosare tra le sue cose. Ho visto un portadocumenti in pelle appoggiato sopra agli abiti. L'ho aperto. C'erano alcune carte di credito, un migliaio di dollari americani in contanti, la patente di guida e un passaporto brasiliano intestato a Moshe. Imbarazzato dal mio gesto, stavo per rimettere tutto a posto quando ho notato una istantanea dai bordi ingialliti. La foto ritraeva un ufficiale in divisa. Sul retro la dedica recitava: «Con amore, papà». Ma, se quello era il padre di Moshe Swazinski, per quale motivo vestiva la divisa delle SS con tanto di croce uncinata al braccio? Moshe Swazinski non era un ebreo fuggito dalla miseria e dalle umiliazioni del ghetto di Varsavia, poco prima che i nazisti rastrellassero e traducessero nei campi di sterminio tutti i suoi familiari? Sotto al portadocumenti c'era un cartelletta di colore giallo che conteneva dei fogli. Sul frontespizio qualcuno aveva scritto a penna la parola «amazzone». Messi da parte scrupoli e imbarazzo stavo per accingermi a guardarne il contenuto quando hanno bussato alla porta. Ho rimesso tutto a posto e ho consegnato la borsa di Moshe alla cameriera mentre questa mi ridava, con mille scuse, la mia. La sera è calata senza che la tempesta accennasse a placarsi. La cena, consumata in assenza di Neumann, e stata breve e silenziosa. Attorno al grande tavolo nella sala da pranzo eravamo seduti in quattro: Agnes, Alexandra Oliveiro, Moshe Swazinski e io. Non posso dire che la conversazione tra i commensali sia sta-
ta... entusiasmante. Ognuno di noi sembrava seguire i propri pensieri. Così, appena finito di mangiare ci siamo ritirati nelle nostre stanze. Ho atteso un paio d'ore prima di abbandonare di nuovo il mio appartamento. La scoperta fatta frugando tra gli effetti di Swazinski aveva acceso la mia curiosità. Sono sceso in silenzio e ho raggiunto la biblioteca. Non sapevo neppure io cosa avrei cercato e mi stavo guardando attorno perplesso, quando un rumore improvviso mi ha fatto trasalire. Ho avuto solo il tempo di ruotare il vaso liberty e di infilarmi nella stanza segreta. Da lì, attraverso il vetro schermato ho visto, con mia grande sorpresa, Alexandra Oliveiro avanzare con passo felpato e mettersi a frugare nei cassetti della scrivania di Neumann. La stanza segreta è dotata di un'ottima acustica: le voci mi hanno raggiunto prima che Alexandra potesse udirle. Sono uscito dal mio nascondiglio. Non sapevo quale sorte sarebbe toccata alla ragazza se Neumann l'avesse sorpresa a ficcare il naso tra le sue cose. «Presto, Alexandra», le ho detto trascinandomela dietro, «seguimi!» «Non tutto è ciò che sembra, dottor Raso», mi ha sussurrato lei, mentre la portavo nella stanza segreta e ne richiudevo la porta. Un istante dopo Neumann e Moshe Swazinski sono entrati nello studio. «C'era anche il dossier?» ha chiesto Neumann al suo vice. «Sì, Erick», ha risposto Swazinski. «Pensi che lo abbia visto?» «Non lo so, ma tutto può essere...» «Bene, dovremo comunque provvedere...» ha concluso Neumann. Il suo sguardo freddo mi è sembrato più sinistro che mai. Quando se ne sono andati abbiamo atteso oltre mezz'ora prima di uscire e fare ritorno nelle nostre camere. «Mi dispiace, dottor Raso, per questo brusco risveglio», mi ha detto Agnes al telefono, mentre fuori non era ancora sorto il sole. «Il pilota mi ha appena comunicato che il nostro Piper ha subito una grave avaria durante il temporale di ieri. L'unica soluzione è che io l'accompagni all'aeroporto di Santarém: lì c'è un collega-
mento giornaliero per Rio. Se partiamo da qui entro i prossimi trenta minuti farà in tempo a imbarcarsi.» Nel corso del viaggio lungo le strade dissestate che attraversano l'Amazzonia, Agnes è rimasta stranamente silenziosa e io ne ho approfittato per schiacciare un pisolino: nelle due ultime notti ho dormito poco o nulla. Sono ben consapevole che le parole pronunciate da Neumann in biblioteca si riferivano a me. So di essermi ritrovato in una posizione difficile. Ma forse, visto che ormai me ne sono andato, Neumann e i suoi uomini penseranno che non sarò più in grado di cacciare il naso nei loro affari. Il DC3 Dakota su cui sto viaggiando ha visto certamente momenti migliori. Il comandante e il suo secondo sembrano dei surfisti in procinto di cavalcare le onde: entrambi giovanissimi, hanno il fisico aitante e indossano calzoni corti e camicie bianche. A bordo ci sono un contadino dall'aria spaventata che tiene stretta la sua valigia sulle ginocchia. Una fila più indietro, c'è una giovane graziosa e timida. E infine una coppia di anziani che mi hanno raccontato di essere in viaggio per Rio per sottoporsi a una serie di cure mediche. Il resto dei posti è vuoto. Finalmente mi sto rilassando. Il vecchio Dakota vola sicuro alla quota di crociera di settemila metri e alla velocità di centosettanta nodi. Non so ancora quale interpretazione dare ad alcuni fatti poco chiari: radiospie, stanze segrete, improvvisi cambi di programma, personaggi a dir poco ambigui. Una volta in Italia, rileggendo le pagine di questo taccuino, forse verrò a capo di qualcosa. Ma... accidenti... Cos'è? Un'esplosione! Credo nella stiva! Le maschere a ossigeno sono uscite dai loro vani... Vedo delle fiamme... L'aereo sta precipitando! 30 Età dei Metalli, II millennio a.C. Quando i migos assalirono il villaggio nemico con l'impeto di uno sciame di cavallette affamate, i davaar, colti alla sprovvista, non ebbero nem-
meno il tempo di rendersi conto di ciò che stava accadendo. Karesh, nonostante il dolore per la ferita provocatagli dal morso di Dehal, cercò di organizzare il contrattacco mettendosi alla guida di un manipolo di guerrieri. Athor lo vide da lontano e prese ad avanzare verso di lui, travolgendo chiunque osasse pararglisi davanti. Karesh, con aria di scherno, volse lo sguardo alla capanna nella quale era imprigionata Dehal e Athor capì. Come un fulmine entrò dove lei giaceva a terra, legata. C'era molto sangue dappertutto, il legno sosteneva la gamba fratturata. Ma era viva e cosciente. «Maledetto!» urlò Athor uscendo alla luce del sole e brandendo l'ascia. «Dove sei, maledetto!» ripeté. Ma Karesh nel frattempo si era dato alla fuga nel fitto della foresta, seguito da una quindicina di uomini che con lui erano riusciti a sottrarsi alla furia dei migos. Erano passati alcuni giorni, durante i quali i migos avevano perlustrato in lungo e in largo la regione. Ma di Karesh non vi era più traccia. Ora il re Athor aveva chiamato a raccolta il suo popolo. «Giustizia è fatta», disse, «anche se non abbiamo catturato Karesh, siamo riusciti ad allontanare la minaccia dei davaar. Mi auguro per sempre.» Lo sguardo colmo d'amore del re incontrò quello della sua donna che avanzava appoggiandosi a due bastoni: la convalescenza sarebbe stata lunga. Più tardi, seduta su una panca di legno, Dehal ripensò al sogno in cui il padre morto le aveva annunciato di lasciarle in eredità ciò che possedeva e temette che Aker si fosse riferito alla sua gamba offesa. L'angoscia si impadronì di lei: sarebbe rimasta una povera storpia per tutta la vita. La mano del suo uomo le si posò sulla spalla. «Che ti succede, perché quegli occhi tristi?» le chiese. «Nulla, solo alcuni pensieri cupi che affollano la mia mente.» Athor, intento a preparare un impacco con delle erbe per curare la ferita della moglie, indicò Sar che cresceva a vista d'occhio. «Nulla deve più preoccuparti. Guarda la felicità di nostro figlio. E per il resto, vedrai: ti ci vorrà del tempo, ma sono sicuro che tornerai a camminare e a correre come prima. Hai una tempra forte, donna, e io la conosco bene.» Ma non c'era erba che avrebbe potuto curare Karesh: la ferita aveva fatto
infezione e il dolore che provava era sempre più insopportabile. I segni del morso di Dehal erano contornati da un alone color porpora e la febbre non lo abbandonava da giorni. Karesh sapeva che c'era una sola cosa da fare, se non voleva morire. Le mani gli tremavano, la fronte era imperlata di sudore, ma riuscì a sollevare dal fuoco la pietra rovente e a premerla contro il suo sesso ferito. Il malvagio re dei davaar svenne per il dolore. Dehal strinse i denti per non urlare. Athor le aveva praticato delle piccole incisioni in corrispondenza della frattura. In esse aveva inserito delle erbe curative e quindi, utilizzando una punta di ferro incandescente, aveva cauterizzato le ferite e carbonizzato le erbe. L'antico rimedio avrebbe provocato dei tatuaggi permanenti sulla pelle della donna: delle linee scure sarebbero apparse in corrispondenza delle bruciature, ma quella cura avrebbe aiutato Dehal a guarire. Seguendo il corso del fiume, lentamente Karesh era giunto al mare. Alcuni, tra i davaar che erano riusciti a fuggire con lui, portavano ancora i segni del combattimento. «Fermiamoci, Karesh! Sono sfinito e ho perso molto sangue», disse uno dei suoi, appena giunse in prossimità della riva. Karesh appoggiò il propulsore della lancia poco sopra la spalla. Si trattava di un osso d'anca di renna che, agganciato alla base dell'asta di legno, serviva per dare maggiore gettata all'arma. La lancia sibilò nell'aria, conficcandosi nel torace del davaar che aveva parlato. «Così non dovrai affaticarti per seguirci», disse Karesh con aria crudele. «Qualcun altro ha intenzione di impartire ordini al suo re?» Nonostante il dolore, la sua malvagità non conosceva soste. Si erano incamminati lungo una striscia di sabbia bianca, quando, oltre un crinale, scorsero due piroghe poco distanti dalla riva. Gli otto uomini a bordo erano intenti in una battuta di pesca, e non si accorsero dell'arrivo dei davaar. Karesh ordinò ai suoi di restare nascosti, ma di tenersi pronti a intervenire. Quindi si avvicinò alla battigia urlando e gesticolando alla volta dei pescatori; questi, convinti che l'uomo fosse in difficoltà, diressero le loro barche verso riva. Quando vi giunsero, i davaar uscirono dal nascondiglio e si avventarono
contro i pescatori disarmati. Poco dopo sette degli otto corpi galleggiavano sul bagnasciuga nel rosso del loro sangue. Uno solo dei pescatori era stato tenuto in vita: Karesh voleva sapere quale fosse il loro villaggio, dove si trovasse e come fosse difeso. Quindi i davaar, vincendo la repulsione nei confronti dell'acqua, salirono a bordo delle imbarcazioni e si diressero alla volta del villaggio. Dehal correva felice giocando con Sar e teneva fra le braccia un fagotto: una bambina era nata da pochi mesi. Era trascorso molto tempo da quei terribili giorni in cui era stata prigioniera di Karesh. Da allora avevano passato momenti spensierati, coronati da quella nascita che era il segno della benevolenza degli dei. Nel giorno del solstizio dell'estate, gli abitanti di tutti i villaggi amici si riunivano sul pog della farfalla e rendevano omaggio al dio Hosh con dei festeggiamenti che sarebbero durati alcuni giorni per culminare con il rito dei matrimoni. Athor, nella sua qualità di sommo sacerdote, avrebbe officiato le nozze. In occasione del solstizio dell'anno precedente, il re aveva notato che la gente di un intero villaggio di pescatori, uno tra i più distanti dal pog, aveva mancato la cerimonia. Capitava raramente che i fedeli disertassero quella festa religiosa. Quando l'assenza si verificò per la seconda volta, Athor ne chiese ragione a uno degli abitanti di una comunità poco distante. «Non se ne sa più nulla, re dei migos», gli rispose l'uomo. «Forse gli è accaduto qualche cosa di grave.» 31 Inghilterra, 1218 Aymon si destò di soprassalto, e per un attimo credette di sognare. Ma la spada puntata contro la sua gola era assai più reale di un incubo. «Stai fermo, assassino», sibilò la voce di Pell, il luogotenente di Dolbert. «Cosa dite, signore? Vi state sbagliando, io sono solamente un musico. E non ho mai fatto male nemmeno a una mosca», riuscì a dire il giovane. «Sì... un musico capace di nascondere una spada come questa, ancora
lorda del sangue della tua vittima. Ti accuso di aver ucciso il conte di Old Sarum, Maxim.» «Vi ho già detto, signore, che potreste essere in errore», mormorò Aymon tentando di alzarsi dal letto, ma le lance dei quattro uomini che accompagnavano Pell lo fermarono. «E perché mai avrei dovuto uccidere il mio benefattore, l'uomo che mi ha restituito la libertà?» «Semplice: ti ha sorpreso mentre amoreggiavi con Marie-Louise, la moglie di suo figlio, e tu lo hai ucciso a sangue freddo.» Così dicendo Pell sollevò l'akinakes che aveva la lama insanguinata. La trappola tesa dal crudele Dolbert e dal suo degno compare si stava stringendo intorno alla vittima designata. In un baleno Aymon decise: la prigionia gli avrebbe impedito di difendere se stesso e Marie-Louise, che pareva anch'essa coinvolta in quella vicenda. «Datemi il tempo di alzarmi e di vestirmi e vi seguirò, messere.» La guardia di Pell e dei soldati si allentò: del resto, quel giovane non poteva rappresentare un pericolo per cinque uomini armati. Aymon si mosse con la rapidità di un felino. Con il pugno serrato colpì Pell al mento. Mentre questi cadeva a terra privo di sensi, le dita della mano destra del musico si erano già strette attorno all'elsa della sua akinakes. Due degli armigeri se lo trovarono nel mezzo. Entrambi menarono un fendente simultaneo. Aymon fu lesto nell'abbassarsi, con il risultato che i due si colpirono a vicenda. Quindi il giovane si parò di fronte a un altro soldato, ed ebbe ragione di lui dopo solo due stoccate. L'ultimo rimasto si guardò intorno terrorizzato: il suo superiore giaceva tramortito a terra e i suoi tre compari erano feriti. Dopo aver visto con quale impeto e perizia si muoveva il musico, pensò bene di darsela a gambe. «Che succede?» chiese Sarya con voce assonnata. Il trambusto l'aveva svegliata, ma non riusciva a capire quanto stesse accadendo. «Presto, Sarya. Dobbiamo fuggire da qui: se rimani, ti metteranno in prigione accusandoti di essere mia complice.» «Il conte di Old Sarum», stava dicendo un uomo nella fumosa locanda del porto di Bristol, alla foce del fiume Avon, «è stato accoppato dall'amante della nuora. Forse i due avevano in mente, una volta che Dolbert fosse salito al trono, di sbarazzarsi anche di lui. Tra qualche giorno taglieranno la testa alla donna. Ma il musico di corte è ancora uccel di bosco.
Certo che quel Maxim non sembrava un assassino. L'ho conosciuto, al castello, e non mi era sembrato un tipo capace di uccidere.» Aymon aveva chinato il capo e aveva affondato i denti in una coscia di pollo fumante. Non voleva lasciarsi scappare nemmeno una parola delle informazioni che gli stava fornendo l'avventore. Ma doveva stare attento che l'uomo non lo riconoscesse. Avrebbe voluto gridare a tutti la sua innocenza, invece, quando i due cambiarono discorso, Aymon si alzò e silenziosamente salì nella camera che lui e Sarya occupavano da quando erano giunti in città. Non si accorse dello sguardo indagatore che uno dei due uomini gli aveva rivolto. «Cosa devo fare?» si chiedeva Aymon, camminando nervosamente avanti e indietro nella stanza. «Domenica prossima Marie-Louise sarà giustiziata. E a domenica mancano soltanto tre giorni... Sono disperato, Sarya. È vero, io amo da sempre Marie-Louise, ma tra noi non c'è mai stato nulla. Tu mi conosci... Lo sai che non sarei mai capace di far del male a chi mi ha regalato la libertà e dato tanto, come ha fatto il conte.» «È inutile che tu mi dica queste cose, Aymon. Adesso dobbiamo fare di tutto per riuscire a liberare la donna che ami. Io avrei in mente un piano...» Tim Hulser era il comandante delle carceri del conte da più di quindici anni. Ed era un uomo onesto e retto. Abitava, insieme a buona parte di coloro che prestavano i loro servigi al conte, nella schiera di casupole situate appena fuori la cinta del castello. Come ogni sera rincasò che era buio da un pezzo e, prima di sedersi davanti al suo piatto di minestra, sussurrò la consueta preghiera per sua moglie Margerth, morta ormai da tre anni. Il loro unico figlio si era imbarcato su una nave da guerra e di lui non aveva più notizie da mesi. I ricordi erano l'unica compagnia rimastagli. Tim Hulser slacciò la cintura di cuoio ed estrasse l'anello di ferro dal quale pendevano le grosse chiavi delle celle. Le posò sul tavolo. L'omicidio del conte aveva lasciato tutti sgomenti. E pensare che proprio lui aveva raccomandato Bahram e i suoi familiari al suo signore. Non riusciva a crederci. Quel Maxim non poteva essere un assassino. Eppure... Se avesse avuto per le mani quel bastardo... Con questi rancorosi pensieri si sdraiò sul suo giaciglio e prese sonno.
Aymon attese che fosse buio prima di abbandonare il riparo all'interno della botte posta su di un carro nei pressi del cortile. Aveva impiegato circa quindici ore per percorrere a piedi le cinquanta miglia che separavano Bristol da Old Sarum. Si era mosso come una fiera in caccia, nascondendosi ogni volta che udiva lo scalpiccio dei cavalli o le voci dei viandanti. Aveva varcato il portone della prima cerchia di mura approfittando di un momento di distrazione delle guardie. Aymon conosceva bene la casa di Tim Hulser. Forzò uno scuro ed entrò. Una lampada a olio emanava una luce fioca nell'ambiente angusto. Sul letto posto in un angolo Tim, profondamente addormentato, russava. Aymon vide le chiavi posate sopra al tavolo: con quelle avrebbe potuto aprire le porte della prigione. Allungò la mano. «Fermo, ladruncolo!» gridò Tim. La mano dell'uomo era corsa fulminea alla spada che aveva di fianco al letto. «Tu?!» esclamò l'incredulo comandante delle carceri, quando ebbe riconosciuto l'intruso. «Traditore e assassino! Ora ti rinchiuderò in cella e domani, assieme alla tua bella, farai la fine che ti meriti.» «Aspetta, Tim, ascoltami. Io non c'entro nulla con ciò che è successo.» «E come pensi che io possa crederti?» «Così come hai creduto, a ragione, che tre musici girovaghi ingiustamente incarcerati fossero delle persone oneste...» «Che cosa vuoi dire?» chiese Tim, che nel frattempo aveva abbassato la spada. La mano di Aymon si serrò attorno all'elsa della akinakes. La sua mossa fu fulminea e l'impugnatura d'oro calò come un maglio sul capo di Tim. «Scusami, mio vecchio amico», sussurrò Aymon, mentre l'altro cadeva a terra privo di sensi, «ma non voglio farti entrare in questa vicenda e questo è l'unico sistema: nessuno potrà accusarti di avermi aiutato.» Una volta che Aymon ebbe legato e imbavagliato il comandante della prigione, uscì nella notte. Il mazzo di chiavi si trovava al sicuro nella sua borsa di pelle. La prigione aveva due accessi: uno comunicava direttamente con i sotterranei del castello. L'altro, invece, si trovava all'esterno del maniero, fuori dalla prima cerchia di mura. Aymon sapeva che, tra le chiavi di Tim, vi erano quelle di una porticina di legno che era intagliata nel grande portale: il comandante delle carceri la usava quando doveva compiere brevi sopralluoghi o improvvise incursioni
nelle segrete. La piccola porta non aveva mai sentinelle di guardia, ma quando c'era il rischio di incursioni o di attacchi nemici veniva calata una saracinesca in ferro a proteggere il portale. Aymon aveva camminato tenendosi rasente ai muri. Una volta giunto alla porta, nel buio della notte ci mise un po' a trovare la chiave giusta, poi, entrato, si ritrovò nello spiazzo dove gli uomini di guardia erano soliti legare i propri cavalli. Ce n'erano sei allineati. Uno di questi nitrì, innervosito da quella presenza estranea, ma il giovane gli accarezzò dolcemente il muso, fino a placarlo. Quindi aprì la soglia della prigione. La ripida scala di pietra era illuminata da torce fissate al muro con staffe di ferro. Sembrava che conducesse direttamente all'inferno. Il giovane impugnò la spada e incominciò a scendere. Se Aymon ricordava bene, avrebbe dovuto varcare un'altra porta, che immetteva negli alloggi delle guardie. Oltre quel locale vi erano le celle, in una delle quali aveva trascorso la sua prigionia. La porta si aprì con un cigolio. Aymon pregò che le guardie dormissero. Il buio era quasi assoluto. Si avvicinò ai militari: gli parve fossero tre o quattro e stavano russando sonoramente. Aymon chiuse a chiave le due porte, trasformando i carcerieri in prigionieri. Il giovane imboccò senza esitazione una seconda scala, ancor più ripida della precedente. Le pareti trasudavano umidità. L'aria si faceva via via più pesante. Aymon avanzava prudentemente, la spada sguainata e pronta a colpire. Sapeva che di solito c'era un solo uomo a presidiare le segrete. Marie-Louise era stata arrestata la notte in cui Aymon era fuggito. L'avevano rinchiusa in una cella senza darle nessuna spiegazione. Poi, finalmente, suo marito era sceso a farle visita nella lurida prigione dove era stata segregata. «Siete accusata», le aveva detto Dolbert con tono distaccato e sarcastico, «di aver ordito una congiura assieme al vostro amante, un modesto musico di corte. Quando mio padre vi ha sorpresi insieme, avete convinto quell'assassino a ucciderlo.» «Sono solo infamie, Dolbert, lo sapete bene: il musico non è il mio amante, non ho mai amoreggiato con lui e non ho mai congiurato contro vostro padre, al quale ero devotamente affezionata. E ciò vale anche per quel
giovane che nutriva nei confronti del conte un debito di gratitudine.» «Lo vedete! Anche adesso, dinanzi allo spettro di una condanna a morte, cercate di proteggere il vostro amico. Bene. Sono venuto a dirvi che siete stata condannata alla pena capitale. La sentenza sarà eseguita domenica mattina.» «Siete un essere abietto, Dolbert! Noi saremo le vittime innocenti della montatura che avete architettato in combutta con Pell. Non è stato vostro padre a sorprendere me, bensì sono stata io che ho sorpreso voi e il vostro inseparabile subalterno mentre vi abbandonavate alla lussuria e al peccato. Siate maledetto, Dolbert! Maledetto voi e il vostro scudiero!» Dolbert alzò la mano, come se volesse colpirla. Quindi si voltò di scatto e uscì dalla cella. Dopo la visita del marito, Marie-Louise aveva perso la cognizione del tempo. Quando sentì la chiave girare nella toppa, la giovane pensò che fosse giunta la sua ora. Le tornarono alla mente i suoi genitori, la sua infanzia, la Francia lontana. Rivide il volto del solo uomo che mai avesse amato: Aymon, colui che conosceva l'arte di incantare con le sue canzoni e che combatteva come un prode cavaliere. Aprì gli occhi e inorridì mentre la mano sudicia del carceriere le accarezzava le guance rigate di pianto. «Ho sentito tutto, damigella, quando voi parlavate con il vostro... ehm... sposo.» La mano scese lungo il collo. «Se avete sentito, perché non denunciate Dolbert?» «E pensate che qualcuno mi crederebbe? La parola di una guardia contro quella del nostro signore...» La mano si strinse attorno al seno turgido della donna. «Come osate toccarmi? Andatevene!» gridò Marie-Louise, ritraendosi nell'angolo della cella. «Me ne andrò, ma prima vi farò conoscere il piacere. Vedrete cosa significa essere posseduta da un vero uomo.» Così dicendo, il carceriere lasciò cadere le brache. Si fece vicinissimo a Marie-Louise che sentì sulla faccia il suo alito fetido e caldo. La giovane girò la testa di lato e chiuse gli occhi, mentre l'altro tentava di baciarla. Sapeva che non sarebbe servito a nulla cercare di reagire. «Con onore», si disse la giovane. «Morire con onore.» E sferrò un potente calcio in direzione del basso ventre della guardia.
«Vi piace scalciare, puledrina? Meglio così. Una primizia come voi deve avere il suo prezzo. Gridate pure, le altre celle sono vuote e i miei compari si faranno vivi solo tra molte ore per darmi il cambio.» Marie-Louise gli graffiò il volto, lo colpì con le ginocchia, cercò di morderlo, ma ogni sua reazione aveva anzi il potere di eccitare sempre di più il focoso energumeno. «Adesso basta!» urlò lui a un tratto, stringendole il collo sino a impedirle di respirare. La vista le si annebbiò: stava per morire soffocata. Chiuse gli occhi e si lasciò andare. Fu allora che la morsa si attenuò e un fiotto d'aria riempì di nuovo i suoi polmoni. Il volto di Aymon le apparve come in una visione. Poi la giovane si rese conto che il corpo del carceriere era steso a terra privo di vita. «Presto, Marie-Louise, fuori di qui!» Il conte Dolbert sembrava un folle: si aggirava nella sala del trono come un leone in gabbia. Pell, fermo in un angolo, lo seguiva con lo sguardo. «Ma da dove sono fuggiti? Come hanno fatto a valicare due cinte di mura senza essere visti?» «Per superare la prima erano in possesso della chiave di Tim. Sull'altra abbiamo trovato una scala di corda che scendeva sino a terra. Probabilmente il musico aveva predisposto tutto per la fuga sin dal giorno precedente.» «E gli uomini che abbiamo mandato alla loro ricerca? Cos'hanno riferito?» «Niente di buono: sembra che i due siano scomparsi nel nulla.» Alcune miglia lontano dal maniero, il commerciante di vino camminava a fianco dei buoi. Il carro carico di botti aveva lasciato il castello alle prime luci dell'alba, quando nessuno si era ancora destato. Il vinaio guardò con un'aria idiota i due giovani che erano sbucati dalle botti. «Ti conviene non averci mai visto, ne va della tua vita. Se il signor conte dovesse sapere del favore che ci hai reso, non esiterebbe a mozzarti la testa.» Quindi i due giovani scomparvero come fauni nel cuore della foresta. 32
Roma, fine anni '30 Il segretario di Stato vaticano si sentiva impotente di fronte alle forze del Male. Il 1937 era giunto al termine e la situazione in Europa si faceva sempre più cupa. Ma in cuor suo l'alto prelato continuava a sperare che la furia nazista potesse placarsi e che la Germania sarebbe riuscita a sconfiggere la dittatura. Fu la notizia dell'apertura di un campo di lavoro e di prigionia a Buchenwald, passata quasi inosservata ai più, a far perdere a monsignor Pacelli l'ultima speranza. Berlino, fine anni '30 «Mussolini sta facendo un ottimo lavoro, Rudolf», disse il Führer al suo delfino. «La sua politica nei confronti degli inglesi è quella giusta: da un lato sigla accordi, dall'altro li istruisce e li condiziona sui metodi da seguire per sconfiggere il bolscevismo.» «È vero, mein Führer. Però... all'inizio dell'anno il duce ha firmato un accordo di collaborazione con l'Impero britannico e cinque mesi più tardi ha espulso tutti i cronisti inglesi dall'Italia e ritirato i corrispondenti italiani dal territorio del Regno Unito.» «Vedrai che presto li riammetterà. Bisogna che i nostri cugini anglosassoni capiscano da che parte schierarsi: con l'Asse sarebbero certi di vincere, con i bolscevichi non avrebbero speranze. Un conflitto di grandi proporzioni resta un'ipotesi della quale dobbiamo tenere conto. E nel caso che questa eventualità si dovesse verificare, un'alleanza delle nazioni dell'Asse con la Gran Bretagna rappresenterà una garanzia di vittoria.» «In Inghilterra», concluse Hess, «sono in molti a essere perplessi dalle dichiarazioni filobolsceviche di personaggi vicini al governo. Per questo si sono moltiplicate le iniziative pubbliche a noi amiche: non passa giorno senza che nelle vie delle città inglesi si snodino cortei inneggianti a voi, mein Führer. E anche buona parte della nobiltà è già dalla nostra parte.» Il 28 maggio del 1937, Arthur Neville Chamberlain venne eletto primo ministro e Hitler convocò d'urgenza i suoi più diretti collaboratori per commentare l'evento. «Il nuovo primo ministro inglese non è un impulsivo né un uomo d'azio-
ne. Non posso dire che Chamberlain sia un pavido, ma quando pure si deciderà a intervenire, qualcuno gli avrà sottratto dal piatto nel quale si appresta a mangiare tutta la sua pietanza. Signori, non possiamo più aspettare: i tempi sono ormai maturi per scacciare la minaccia ebrea e bolscevica dall'Europa e dal mondo intero.» Quando la riunione fu terminata, Hitler sedette in una poltrona di pelle e si abbandonò all'ascolto della musica che più amava e che aveva il potere di rilassarlo. Le opere di Richard Wagner lo trasportarono nel magico mondo di Parsifal e della ricerca del Graal. Londra, fine anni '30 Il capitano Rowell Kater provò ancora una volta a suonare l'antica canzone, quindi prese nota delle macroscopiche anomalie musicali. Non gli ci volle molto a collegare quegli errori così palesi a un messaggio in codice. Ma, nonostante la sua esperienza, Kater non riusciva però a risolvere l'enigma. La Government Code and Cypher School - GC&CS - era nata nel 1919 dalla fusione di un dipartimento della marina britannica chiamato «Stanza 40» con un dipartimento analogo facente capo ai servizi dell'esercito, l'MI8. Venticinque ufficiali provenienti dai due corpi, tutti esperti in decrittazione, avevano dato vita al più potente servizio di intelligence per lo studio e la decodifica di ogni sistema di comunicazione in codice. Da lì uscivano i migliori agenti segreti del mondo. Ma la scuola aveva anche un altro fine: si proponeva di assistere il governo di sua maestà e quelli alleati nella redazione di alfabeti o sistemi cifrati. Quando l'ammiraglio Sinclair aveva proposto a Rowell Kater di entrare a far parte del GC&CS, il capitano di fregata non aveva avuto esitazioni: quel piccolo dipartimento gli avrebbe consentito una notevole libertà d'azione e, soprattutto, lo avrebbe sollevato da quegli estenuanti pedinamenti ai danni dei potenti d'Inghilterra. Berlino, fine anni '30 L'estate aveva portato con sé una ventata d'entusiasmo. Rahn era appena rientrato a Berlino da un ennesimo viaggio in Linguadoca ed era raggiante:
questa volta era davvero vicino alla soluzione. Himmler lo aveva subito mandato a chiamare. «Come vanno le ricerche, dottor Rahn?» «Non me ne vogliate, Reichsführer, ma questa volta preferisco non sbilanciarmi. Non voglio essere preso per visionario, né deludere la fiducia che avete riposto in me. Prima di rendere pubblica la mia scoperta, se me lo concederete, dovrei effettuare ulteriori approfondimenti.» «Rahn, sapete bene che godete della mia incondizionata stima e della mia fiducia. Se le vostre teorie si rivelassero fondate, sarebbero determinanti per l'avvenire del Reich. E se davvero, come supponete, la Pietra dei catari si rivelerà essere un oggetto dal potere radioattivo, i nostri scienziati avranno a disposizione uno strumento eccezionale, quando ne entreranno in possesso. Sapete, non è vero, che il vostro quasi omonimo Otto Hahn, Fritz Strassmann e Leo Szilard stanno eseguendo importantissimi esperimenti. Bombardando il nucleo di uranio con i neutroni lenti, scoperti da Enrico Fermi in Italia, i nostri ricercatori dell'Università di Berlino sono convinti che si possa arrivare a sprigionare un'energia enorme. Sostengono anche che, ottenuta la reazione nucleare e trovato il combustibile adatto, si potrà utilizzare tale energia per scopi bellici o industriali. E io sono convinto che saranno proprio quelle armi radioattive a far pendere in una direzione o nell'altra l'ago della supremazia bellica nel prossimo futuro.» «Certo, signore. Ma, al momento, le mie sono ancora supposizioni, sebbene suffragate da un frammento di un antico messaggio...» «Capisco e apprezzo la vostra cautela, dottor Rahn. Ma qualche cosa mi spinge a credere che queste vostre ipotesi abbiano centrato il cuore del problema. Sono troppe le coincidenze: una crociata contro un pugno di eretici e la creazione del più sommario tra i tribunali della società civile, quello dell'Inquisizione cattolica, non possono essere nati per caso. A questo si aggiunge la frase 'una pietra capace di sbaragliare da sola un esercito' che appare in quello strano messaggio musicale. E infine, che dire della regina Esclarmonda che getta, poco prima della capitolazione, la pietra nelle viscere di quelle stesse montagne oggetto della vostra ricerca... Sappiamo bene che ogni leggenda, anche la più astrusa, si basa su di un fondo di verità.» «Una verità che mi auguro sia prossima a essere svelata, Reichsführer.» «Un'altra cosa, dottor Rahn», gli disse Himmler congedandolo. «Ho letto con molto interesse il vostro ultimo lavoro La Corte di Lucifero e ho disposto affinché venga pubblicato. Spero che voi non me ne vorrete, ma mi
sono permesso di intervenire su alcuni brani al fine di sottolineare gli aspetti che riguardano la filosofia nazista. Vi farò avere le bozze e, dopo la vostra approvazione, procederemo alla pubblicazione.» Rahn si dedicò alla revisione con solerzia e attenzione. La notizia della pubblicazione del suo ultimo scritto lo aveva riempito di orgoglio. Tagliassero pure e rimaneggiassero: l'importante era che La Corte di Lucifero venisse stampato. Alcuni giorni dopo il suo incontro con Himmler, una sera, uscito dalla sede dell'Ahnenerbe si recò alla stazione di Berlino e salì su di un treno. Giunse a Monaco nelle prime ore del mattino successivo. Prese un taxi e si fece portare in Gravelotte Strasse, nel quartiere di Haidhausen. Rahn salì le scale di un palazzo malandato e sudicio. Giunto al terzo piano verificò ancora una volta l'indirizzo e suonò il campanello. Attese qualche minuto, quindi suonò ancora, ma nessuno venne ad aprire. Si aprì invece una porta dietro di lui, che dava sul medesimo ballatoio. «Cercate l'ingegnere?» disse una donna dall'aspetto dimesso, affacciatasi all'uscio. «Sì. Dovrei vederlo per una questione di lavoro, signora. Sa dirmi a che ora torna?» «Ma che lavoro e lavoro. Caro il mio signore, negli ultimi tempi l'ingegnere parlava solo di politica. Credo che tutti quei suoi studi sull'idraulica gli abbiano mandato in acqua il cervello. Se poi volete sapere quando tornerà, dovreste chiederlo a quelli che lo sono venuti a prendere: erano della GESTAPO. Da quel giorno non l'abbiamo più visto. Nel palazzo c'è chi dice fosse un vero rivoluzionario, un capo della resistenza comunista. Comunque, lasciatemi un vostro recapito. Se dovesse tornare...» «Non importa, signora», tagliò corto Rahn. «Ditemi almeno come vi chiamate, così posso...» insistette la donna affacciandosi al ballatoio. Otto stava scendendo di corsa le scale. Il fatto che Filcher fosse stato prelevato dagli uomini di Heydrich non lo aveva affatto tranquillizzato: se davvero la persona che cercava era un caporione dei rivoluzionari comunisti, difficilmente avrebbe fornito spontaneamente a un SS le informazioni in suo possesso. A meno che...
Dachau, fine anni '30 Theodor Eicke, Gruppenführer SS, ispettore generale dei campi di concentramento nonché comandante del campo di Dachau, accolse Otto Rahn con fare marziale. Mai avrebbe tradito la sua incredulità nel leggere le poche righe appena recapitategli. Nell'ordine di servizio che Himmler gli aveva inviato, c'era scritto che il 1° settembre del 1937, il sottufficiale Otto Rahn si sarebbe presentato al campo per espiare una colpa che un SS non avrebbe dovuto commettere per alcun motivo: quella di aver bevuto oltre misura e di essersi lasciato andare a confidenze su riservati argomenti militari. Per fortuna il sottufficiale, in seguito, aveva spontaneamente posto rimedio a quella disonorevole condotta con una dichiarazione nella quale, oltre a ripromettersi di non toccare alcol per almeno i prossimi due anni, accettava di svolgere un periodo di servizio di alcuni mesi presso il campo di concentramento di Dachau. Sia Rahn che Eicke sapevano che in quella comunicazione non c'era una sola parola di verità e che lo scopo della missione di Rahn a Dachau era un altro, e segreto. «Accomodatevi, Rahn», gli aveva detto Eicke. «Il prigioniero di cui avete chiesto notizie è un duro: lo abbiamo più volte sottoposto alle nostre 'particolari attenzioni', ma non siamo riusciti a piegarlo né a estorcergli informazioni di nessun tipo...» «... Un modo ci sarebbe, Herr Gruppenführer.» Così dicendo, Rahn illustrò il suo piano. Quando Rahn ebbe finito di spiegare, Eicke, con un gesto che sottolineava la sua perplessità, disse: «Se ve la sentite di correre il rischio, Rahn...» Quello che nel campo di Dachau veniva chiamato «il bunker» era una costruzione a un piano larga circa dieci metri e lunga un'ottantina. L'interno era percorso in tutta la sua lunghezza da un corridoio. Le celle si aprivano su ambo i lati. A metà circa dell'edificio si trovavano quattro stanze per gli interrogatori: erano state insonorizzate in modo che le urla dei prigionieri che venivano torturati dalla GESTAPO non raggiungessero l'esterno. Ma i consueti metodi di tortura non erano il supplizio più temuto da chi veniva internato nel bunker. Le Stehzellen erano dei parallelepipedi in cemento dall'interno cavo nei quali si accedeva attraverso una porticina. La base consisteva in un quadra-
to di settanta centimetri per lato, le pareti arrivavano a un paio di metri di altezza. Al loro interno il prigioniero, impossibilitato ad assumere altre posizioni, era costretto a rimanere in piedi per giorni interi. Senza luce, né acqua, né cibo. Chi possedeva un fisico abbastanza forte da non soccombere, quasi sempre cadeva vittima della follia. L'ingegner Filcher era rinchiuso nella Stehzelle da due giorni, quando Otto Rahn entrò nel bunker scortato da due SS. Lo studioso vestiva i pantaloni a strisce blu e celesti degli internati, aveva la barba lunga e camminava con fatica, trascinando le gambe. Sul volto i segni evidenti di percosse. Le guardie che lo avevano accompagnato aprirono la Stehzelle di fianco a quella di Filcher e vi spinsero dentro Rahn. Era trascorsa quasi un'ora quando Otto si girò nella direzione da cui sentiva provenire il respiro di Filcher e disse: «Mi chiamo Raush. Sono accusato di cospirazione contro il Partito nazista. Tu che cosa hai fatto per trovarti qui?» «Risparmia il fiato, compare, ne avrai bisogno», fu la secca risposta dell'ingegnere. Sia Rahn che Filcher vennero tirati fuori dai cubicoli la sera stessa e condotti alla baracca numero 15, quella che i prigionieri chiamavano «della compagnia di punizione»: lì venivano alloggiati coloro che sarebbero stati oggetto delle cure particolari degli aguzzini nazisti. «Eppure sono certo di non averti mai visto a Berlino, signor Raush», disse il capo baracca Bock, rivolgendosi a Rahn e squadrandolo con aria sospettosa. Filcher, che era rimasto in un angolo in silenzio, osservava attento la scena. «Te l'ho già detto, Bock. È bastato alzare un po' troppo il gomito e lasciarmi andare a qualche battuta filosovietica per finire a Dachau. Poi, una volta arrivato, ho peggiorato da solo la mia situazione: quando hanno incominciato a percuotermi con i sacchetti pieni di sabbia non ci ho visto più e ho ferito al volto uno dei miei aguzzini. Sono dei figli di puttana e, se pure ne avessi avute, ora non ho più alcuna remora sul comportamento da tenere nei confronti dei nazisti.» «Tu non mi piaci, Raush. Prendi posto nel tuo letto e pensa a riposare. La giornata di lavoro è dura, qui in 'azienda'.» Ogni mattina uscivano in gruppi di venti prigionieri, disposti in fila per quattro, al cui comando si poneva un capo plotone che aveva il compito di
scandire il passo sino alla fabbrica. Lì i detenuti venivano obbligati a turni massacranti per la costruzione di componenti usate nella corsa al riarmo. La Germania nazista si stava preparando alla guerra. Rahn marciava in silenzio, Filcher era alla sua destra. Transitarono davanti al cancello di metallo al centro del quale troneggiava la scritta che avrebbe conferito un risvolto ironicamente macabro alla tragedia che si sarebbe presto consumata nei campi di internamento nazisti: ARBEIT MACHT FREI, «Il lavoro rende liberi». In realtà molti dei duecentoseimila e più prigionieri che sarebbero transitati per Dachau non avrebbero mai più visto la luce della libertà. Per una settimana Rahn e Filcher lavorarono fianco a fianco. Tra i due non c'era mai stato altro che qualche secco scambio di frasi e ogni tentativo di Rahn di intavolare una discussione era stato frustrato dalla scarsa confidenza concessa dall'ingegnere. Fu uno dei loro carcerieri a fornire a Rahn un nuovo spunto. Il graduato della SS passò accanto al tornio affidato a Filcher. «Molto bene, ingegnere. Peccato che i tuoi amici bolscevichi non possano vederti, altrimenti ti rinnegherebbero», disse il carceriere con un ghigno. «Come mai ti ha chiamato ingegnere?» chiese Rahn. «Perché lo sono», rispose spiccio Filcher. «Con quale specializzazione?» «Idraulica.» «Questi maledetti nazisti stanno rovinando la Germania. Invece di sfruttare le capacità del nostro popolo, tengono ingegneri a lavorare al tornio come normali operai. Chissà quante opere avresti potuto realizzare là fuori.» «Sarà difficile che io esca, amico mio. E se anche accadesse, non so per quanto tempo rimarrei sul suolo tedesco, prima di andarmene per sempre.» «Silenzio voi due e pensate a lavorare!» disse uno dei carcerieri. «E, dimmi, ingegnere», aveva detto Rahn il giorno seguente proseguendo la conversazione come se fosse stata appena interrotta, «dove ti recheresti, una volta abbandonata la Germania?» «Ho scritto la mia tesi di laurea sui fenomeni carsici in Francia. E lì ho trovato il mio primo impiego.» «En France? Et ou, en France?» disse Rahn passando a un francese spigliato e corretto.
«A Toulouse, à l'université.» «Le monde est vraiment petit. Ma tante, elle vit à Ornolac. Je connais très bien la Languedoc!» «Basta chiacchierare, voi due, altrimenti vi separo!» disse l'SS Totenkompf, puntando il suo manganello in mezzo agli occhi di Rahn. Una volta nella baracca, fu Filcher a farsi vicino alla branda occupata dal suo compagno di lavoro. «Ti disturbo, Raush?» chiese il giovane ingegnere. «Assolutamente no. Anzi, guarda che cosa sono riuscito a comprare da uno dei nostri guardiani.» Così dicendo tirò fuori una bottiglia di vino del Reno da sotto il materasso. «Erano i miei ultimi marchi, ma tanto qui dentro non mi serviranno a nulla: è molto meglio se ce li beviamo insieme parlando della bella Francia, vive la France!» Dopo una trentina di minuti, la lingua di Filcher pareva si fosse sciolta: fu allora che Rahn tornò sull'argomento che più gli stava a cuore. «Hai parlato della tua tesi di laurea e di conseguenti ricerche presso l'università di Tolosa. Che cosa hai studiato esattamente, Filcher?» «Conosci i catari, Raush?» «Come potrei non conoscerli: chiunque sia passato per la Linguadoca conosce le antiche leggende...» «Leggende? È molto più di una leggenda quella che si nasconde dietro una tra le pagine più nere della Chiesa. Uomini e donne vennero massacrati nel corso di una crociata il cui epilogo fu veramente tragico, secondo quanto sono riuscito a scoprire.» «Silenzio, voi due! È ora di dormire», gridò Bock, il capo baracca, mentre le luci venivano spente e l'oscurità calava tra le brande. 33 Linguadoca, 2007 Trasportare l'attrezzatura subacquea all'interno della Grotte des Chevaliers era stato estenuante. Sara, ormai pronta a immergersi, era seduta su una grossa stalagmite dalla bizzarra forma di fungo sulla sponda del laghetto sotterraneo. Stava osservando il rivolo che riforniva la polla: era stato proprio grazie a quell'afflusso costante che era giunta alla soluzione. «Se l'acqua entra, da qualche parte dovrà pure uscire», si era ripetuta ancora una volta prima di calarsi la maschera sugli occhi, inserire il bocca-
glio tra le labbra e lasciarsi scivolare nel gelo del lago sotterraneo. Il bacino era lungo una ventina di metri e largo quasi la metà. Aveva una forma ellittica e nel punto più profondo misurava all'incirca quattro metri. Il fascio di luce della lampada alogena investiva le meravigliose sculture modellate dai secoli: stalattiti e stalagmiti, sott'acqua, formavano un'intricata foresta. Se il lago era rivestito di quelle formazioni calcaree, la sua origine doveva essere relativamente recente. Sul fondo del laghetto era sedimentata una fanghiglia immota e bruna, quella stessa che gli speleologi chiamano «latte di roccia», viscida e scivolosa. Sara passò la mano guantata sul fondo. Una nuvola scura si diffuse intorno a lei. Quando questa si diradò, la donna trasalì per la sorpresa: quello che vide non poteva essere un'altra opera della natura. Un muro di quelle dimensioni, costruito con parallelepipedi di pietra squadrati alla perfezione, poteva essere solo frutto del lavoro dell'uomo. Denver, 2007 , aveva digitato Bernstein, una volta in contatto con Oswald Breil. <ESATTAMENTE, SIGNORE. SENZA SPOSTARMI DAL MIO UFFICIO RIESCO A ENTRARE NEL SISTEMA DI UN CIRCUITO DI TELECAMERE, NELLA CENTRALE DELLA TELEFONIA MOBILE IRANIANA E IN TANTI ALTRI LUOGHI INTERESSANTI. LA RETE TELEFONICA, SUDDIVISA IN CELLULE TERRITORIALI, RENDE FACILMENTE IDENTIFICABILI LE TRACCE LASCIATE DA UN TELEFONO PORTATILE ALL'INTERNO DEL TERRITORIO NEL QUALE L'APPARECCHIO, DI VOLTA IN VOLTA, STA TRASMETTENDO.>
<SEGUIRE PASHELVI È INUTILE. I PESCI GROSSI RARAMENTE SI AVVENTURANO NELLO STAGNO. MEGLIO TENERE SOTTO CONTROLLO QUELLI PICCOLI...> Bernstein allegò un file e lo spedì a Oswald Breil. Nard Sourush era davvero un brutto ceffo: la barba nera ne incorniciava il volto duro dal colorito olivastro segnato dall'acne. Oswald lo aveva visto spesso alle spalle di Pashelvi nel corso di interviste e servizi televisivi. Bernstein aveva corredato il documento con una breve scheda biografica. <SONO RIUSCITO A ENTRARE NEL SISTEMA DELLA IRANTELECOM, LA COMPAGNIA TELEFONICA IRANIANA: UNA VOLTA CHE NE HAI SCARDINATO UNO, GLI ALTRI SISTEMI SONO TUTTI UGUALI. POI MI È STATO SUFFICIENTE SEGUIRE LA «BAVA» LASCIATA DAL TELEFONO DI SOURUSH. IL BRACCIO DESTRO DI PASHELVI EFFETTUA REGOLARMENTE VISITE CHE SI PROTRAGGONO PER ALMENO MEZZ'ORA IN UN QUARTIERE PERIFERICO DI TEHERAN.> Bernstein inviò a Breil anche il file di una mappa dettagliata che mostrava l'intera zona nei pressi di Bagher Abad, nella periferia meridionale della capitale iraniana. Linguadoca, 2007 «L'unica certezza che abbiamo, signor van der Duick», stava dicendo al telefono Sara Terracini che ancora indossava la muta da sub, «è che sul fondo del lago, delle mani antiche hanno eretto un muro di pietra.» «È riuscita a datare il periodo della costruzione, Sara?» le chiese il mi-
liardario paraguaiano. «Più o meno. Ma ero talmente entusiasta di questa inaspettata scoperta, che ho voluto risalire subito in superficie per comunicarle la notizia. Da come sono squadrati, i blocchi di roccia dovrebbero risalire al tardo Medioevo. Devo comunque immergermi nuovamente e rimuovere uno strato di fanghiglia per poterle dare una risposta definitiva. Poi si tratterà di scoprire che cosa si nasconde dall'altra parte.» «Un passo per volta, mia cara Sara. Che cosa ne pensa di questa scoperta?» «La Grotte des Chevaliers potrebbe continuare oltre quella specie di diga che probabilmente è stata eretta per arginare l'acqua e che ha formato il laghetto.» «Bene. Allora, buon lavoro, Sara. Se domani riuscirò a liberarmi dai miei impegni, cercherò di raggiungerla in Europa. Non vedo l'ora di toccare con mano quanto lei sta scoprendo.» «D'accordo, ma aspetti a farsi prendere dall'entusiasmo: per ora le mie sono solo congetture.» Cinque minuti più tardi, Sara era di nuovo sul bordo del lago sotterraneo con la maschera sugli occhi e la monobombola allacciata alla schiena. Si immerse e nuotò rapidamente verso il fondo. Questa volta si era munita di una piccola Sorbona, una specie di aspirapolvere subacqueo. Azionò il comando e mosse per alcune volte il bocchettone sui depositi melmosi: una vasta porzione di muro era adesso visibile. In preda all'entusiasmo, non si accorse che qualche cosa non stava funzionando a dovere: in breve perse i sensi senza rendersene conto. Teheran, 2007 Gholam Pashelvi fece accomodare l'ospite sulla poltrona posta di fronte alla scrivania del suo studio. Non gli era ancora chiaro che cosa quell'uomo avesse da offrirgli, ma il suo sesto senso gli consigliava di starlo a sentire. L'uomo parlava perfettamente il farsi e i suoi modi erano sicuri e disinvolti. «Isotopi d'uranio arricchito. E questo nella peggiore delle ipotesi, eccellenza.» «Che cosa intende con 'peggiore delle ipotesi'?» «Esattamente ciò che ho detto: il mio cliente, che vuole rimanere anoni-
mo, non ha ancora idea del reale valore del materiale nucleare in suo possesso. È scontato che si tratti di elementi ad alto potenziale, si potrebbe addirittura trattare di un quantitativo considerevole di plutonio. Molto vicino alla massa critica.» Pashelvi sapeva bene che con «massa critica» si intende la soglia minima oltre la quale ha luogo la reazione di fissione nucleare, ma sapeva anche che quella storia non era molto attendibile. «Il plutonio non esiste in natura, viene generato nei procedimenti di arricchimento», disse con aria scettica. «Mi permetta di correggerla, eccellenza, il plutonio non si riscontra, allo stato di minerale, in quantitativi rilevanti sulla Terra, ma ogni fenomeno esplosivo che avviene nello spazio, dal Big Bang alle Supernove, genera quantità di plutonio tali da far saltare in aria mezzo universo in pochi secondi.» L'interlocutore di Pashelvi era basso di statura e nero di capelli. Aveva la carnagione molto scura e il piglio sfacciato di un commerciante di tappeti avvezzo ai suk delle città arabe. Gli abiti di foggia occidentale non bastavano a cancellare le sue origini mediorientali. «Se non la conoscessi personalmente come il più affidabile mercante d'armi del nostro Paese, crederei che si stia prendendo gioco di me e la farei imprigionare.» «Non mi permetterei mai, eccellenza. E so di poter garantire anche sulla serietà del mio cliente. Del resto, a favore di quest'ultimo dovrebbe deporre la sua prudenza: ha tenuto a precisare più volte che per ora è bene muoversi solo nel campo delle possibilità. L'offerta vera e propria sarà concretizzata nel momento in cui il mio cliente avrà un'idea più precisa riguardo al materiale da vendere.» «E quanto mi costerebbe questa fornitura?» «A conti fatti, un prezzo più che onesto: una consistente fornitura di greggio e una solenne promessa che sono convinto sia nei desideri di entrambi. Qualora con il materiale a voi fornito venissero prodotti ordigni di qualsiasi tipo, questi dovranno essere usati esclusivamente contro l'Impero del Male.» «Farò di più, mio buon amico: dica pure al suo misterioso cliente che, se quella eventualità dovesse verificarsi, i nostri ordigni serviranno per radere al suolo Israele.» Denver, 2007
«Mi dispiace disturbarla a quest'ora, dottor Breil. Mi chiamo Deman van der Duick e sono il finanziatore di una ricerca che la dottoressa Terracini stava svolgendo nelle grotte di Ornolac-Ussat-les-Bains in Linguadoca.» Il tono allarmato dell'uomo non faceva presagire nulla di buono. «È successo qualche cosa a Sara, signor van der Duick?» La voce di Oswald ne tradì l'improvvisa preoccupazione. «La dottoressa Terracini si trova in fin di vita all'ospedale di Tolosa. È stata colta da un malore mentre eseguiva un'immersione in un laghetto sotterraneo. Per fortuna tra i turisti che stavano visitando la Grotte des Chevaliers c'erano due medici. La guida che accompagnava la dottoressa Terracini mi ha raccontato che i due stavano seguendo la sua immersione dalla riva, quando si sono accorti che qualche cosa non andava e sono subito intervenuti. Nonostante ciò, le condizioni di Sara sono gravissime. Ho trovato il suo numero di telefono segnato in rosso sull'agenda della dottoressa e ho pensato fosse il caso di avvertirla personalmente.» Mezz'ora più tardi Oswald saliva su un taxi diretto al Denver International Airport. Erano necessarie circa quindici ore per arrivare da Denver a Tolosa. Benché il suo cuore fosse stretto in una morsa, Oswald, una volta seduto a bordo dell'aereo di linea, si mise a leggere alcune pagine che gli aveva inviato Sara. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 L'impatto è stato devastante. I miei ricordi sono molto confusi, ma credo che il DC3 sia precipitato in fiamme sulla foresta amazzonica, dopo un'agonia in cielo durata alcuni minuti. Mi sono comunque reso conto di quanto stava succedendo e ho mantenuto la lucidità sino al momento dello schianto. Curiosamente, mentre perdevamo quota velocemente, invece di pregare o farmi prendere dal panico, mi sono sorpreso a pensare alla bravura dei piloti che erano riusciti, nonostante tutto, a mantenere il velivolo in assetto. Ho visto le chiome di alberi sempre più vicine, ho percepito il frastuono metallico del ventre del Dakota che veniva squarciato dai rami giganteschi. Poi qualcosa mi ha colpito al capo e devo essere svenuto.
Quando ho ripreso i sensi ero ancora legato al seggiolino, ma mi sono accorto di trovarmi ad almeno sei metri di altezza. Probabilmente i rami robusti della pianta hanno attutito l'impatto e la protezione fornita dallo schienale del seggiolino ha fatto sì che non venissi trafitto. Mi sono guardato intorno. La scena era desolante: il sigaro di metallo aveva violato la foresta. La sua scia incandescente ha tracciato due linee di confine annerite tra la vegetazione, simili ai lembi di una ferita. La fusoliera si è aperta come una scatola di latta, disseminando tutto intorno frammenti di ogni genere. Quanto a me, avevo un taglio profondo sulla fronte e gli abiti e il capo intrisi di sangue rappreso, ma ero vivo e non mi pareva di essere ferito in modo grave. Il mio prezioso taccuino era nella mia tasca. Non mi ci è voluto molto per capire che ero l'unico superstite dell'incidente. Non un lamento, né un richiamo mi ha segnalato la presenza di altri sopravvissuti. Scendere dall'albero è stato meno facile del previsto. Immaginavo che il vecchio DC3 non fosse dotato dei moderni sistemi di rilevazione automatica in caso di emergenza: i soccorritori avrebbero potuto impiegare giorni e giorni per trovarmi. Dovevo cavarmela da solo... Ma come? Ho cercato di ragionare, ma l'angoscia mi attanagliava: mi trovavo solo, in una foresta grande come l'intero continente europeo, disarmato e senza nessuno strumento per conoscere la mia posizione. Avevo fatto solo pochi passi, quando un rumore argentino ha catalizzato la mia attenzione. Il corso d'acqua scorreva a una cinquantina di metri dal luogo dell'impatto. Si trattava di un fiume di piccole dimensioni, se comparato alla vastità del Rio delle Amazzoni e dei suoi affluenti principali. Il corso del fiume è diventato il mio sentiero: l'ho seguito sperando che, prima o poi, avrei raggiunto un qualche luogo abitato. Avanzavo a fatica nel fitto della vegetazione e non mi sono accorto del grosso ragno che stava fermo su un ramo, nel punto in
cui ho appoggiato una mano. Il dolore per il morso non è stato immediato: assieme al veleno, era come se l'aracnide mi avesse iniettato una sostanza anestetizzante. Nel volgere di pochi istanti la mano sinistra ha iniziato a gonfiarsi. Ho slacciato la fibbia della cintura e con questa ho reciso la pelle in prossimità del morso. La mente mi si è annebbiata, ma con l'ultimo barlume di lucidità mi sono messo a succhiare il sangue infettato dal veleno. Il volto dell'indio, quando ho riaperto gli occhi, mi è sembrato un miraggio. Ho sentito delle braccia che mi sollevavano e poi sono svenuto di nuovo. Rio de Janeiro, 1976 Ho trascorso dieci giorni in una capanna di indios, sospeso tra la vita e la morte. Se sono ancora vivo lo devo a quella gente. Stavano cacciando nella foresta quando hanno visto l'aereo precipitare. Se così non fosse stato, sarei sicuramente morto. Ora, la camera al Copacabana Palace mi sembra un angolo di paradiso. Lo squillo del telefono mi ha fatto trasalire. «Luca», ha detto in inglese una voce dalla melodiosa inflessione brasiliana, «sono stata in pena per lei tutti questi giorni e non ho fatto altro che telefonare al consolato italiano qui a Rio. Non ha idea di quanto sia felice che sia salvo.» «Anche io, Alexandra, mi creda...» le ho risposto. Ero davvero contento di sentirla. «Penso sia opportuno che ci incontriamo. Devo parlarle urgentemente, Luca.» Alexandra Oliveiro era già nella hall dell'albergo. Dopo pochi minuti è entrata nella mia stanza. La nostra conversazione, ha detto, doveva restare lontano da orecchie indiscrete. Non ricordavo che Alexandra fosse tanto bella! «Vengo subito al dunque, dottor Raso», mi ha detto la giovane brasiliana, non appena si è seduta sulla poltrona di fronte alla mia, «sono convinta che la sciagura aerea nella quale è rimasto coinvolto non sia frutto del caso.» «Che cosa glielo fa pensare?» le ho chiesto, stupito. «Il fatto è che sono dodici mesi che svolgo delle indagini. Sono un'agen-
te del Mossad.» «Il Mossad?» Ero sempre più incredulo. «Sì. I miei antenati portoghesi provenivano da un'antica famiglia ebrea che fu costretta ad abbandonare il Portogallo. Di lì si rifugiarono ad Anversa prima e ad Amsterdam poi. Ciò accadde attorno alla metà del XVI secolo. Dai Paesi Bassi un mio avo emigrò in Sudamerica. Ma il senso di appartenenza alla nostra razza non è mai venuto meno nella mia famiglia. Così io sono stata addestrata per diventare una spia e sono entrata a far parte di uno dei migliori apparati spionistici del mondo. Ora le racconterò alcune cose che, in un modo o nell'altro, ormai la riguardano direttamente. Vorrei che lei capisse, però, che se rivelasse ad altri quello che sto per dirle, potrebbe essere molto pericoloso. E non credo che io sarei in grado di proteggerla.» «Vuole dire, se ho capito bene, che se un domani mi dovessero ritrovare sulla spiaggia di Ipanema, lei non avrebbe potuto fare nulla per impedire la mia morte?» «Più o meno, dottor Raso. Da questo momento noi due saremo indissolubilmente legati e lei sarà il solo a conoscere ogni risvolto delle mie indagini: ho la certezza che i soggetti verso i quali nutro pesanti sospetti abbiano potenti amicizie ovunque. Una fuga di notizie riguardanti le mie indagini potrebbe costarmi la vita. «La mia famiglia, che si è trovata in gravi ristrettezze economiche, si è imbattuta nell'impero costruito da Erick Neumann in Brasile. Questi ha fatto pervenire a mio padre un'offerta che gli era impossibile rifiutare, correlata com'era da minacce più o meno velate. Non nego che dietro alle mie prime indagini ci fosse il risentimento verso chi ci stava spogliando di ogni bene. Ma in breve ho lasciato da parte le questioni personali: la biografia e le attività di Neumann meritavano un'attenzione circostanziata. E obiettiva. La sua presenza, Luca, è stata un intoppo alla mia attività spionistica, anche se sono convinta di doverle la vita. Se non ci fosse stato lei, quella sera, Neumann mi avrebbe sorpreso a fugare tra le sue carte...» Le parole di Alexandra mi sembravano tratte dalla sceneggiatura di un film, ma ho capito che quello che mi stava raccontando era tragicamente vero. Abbiamo deciso di darci del tu. In fondo il nostro è ormai un «indissolubile legame». Alexandra ha preso dalla borsa un voluminoso dossier. «Adesso seguimi, Luca: ti condurrò in un viaggio sino alle origini del Male... Isaac Neumann, ricco commerciante di tessuti e padre del nostro
Erick, fu internato ad Auschwitz nel 1940. E da quel campo di prigionia egli non fece più ritorno. Più controverso è il destino della sua famiglia, o meglio, di alcuni membri della stessa. Di Erick, in particolare, c'è chi dice che si sia arruolato sotto falso nome nella Wehrmacht, grazie alla protezione di alcuni gerarchi nazisti, e che si sia comportato con onore sul fronte russo, prima di essere dichiarato disperso.» «Ma... esistono delle prove di questo?» «Non parlerei di prove, ma di un insieme di supposizioni sufficienti a delineare la situazione.» Così dicendo, Alexandra mi ha mostrato due fotografie in bianco e nero che ritraevano l'una un bambino di una dozzina d'anni, l'altra un adolescente di quasi quattordici anni. «Questo è Erick Neumann. Ti prego, astieniti da ogni commento. So bene che una foto di un bambino non può essere molto utile nell'identificazione di un uomo che ha passato i settanta. C'è però da tenere conto delle evidenti differenze somatiche tra il nostro Neumann e questo bambino.» Alexandra, poi, mi ha fatto vedere la copia di una stampa d'epoca. Le ho detto che quell'amazzone stilizzata era l'effigie della Neumann Corporation. «No, Luca, non è solo questo. È una Valchiria, il simbolo della belligerante mitologia nordica, nonché l'emblema di molti battaglioni del Reich. 'Operazione Valchiria' fu anche il nome in codice di un tentativo di golpe contro Adolf Hitler messo a punto verso la fine del conflitto. L'attentato fallì e molti dei congiurati vennero giustiziati. In ogni caso, una figura molto simile all'amazzone-Neumann era già cara al simbolismo nazista e a quello tedesco in genere. Dobbiamo tenere conto anche di questa ulteriore coincidenza.» «Un momento... Amazzone era anche il nome scritto sulla cartelletta all'interno del borsone da viaggio di Swazinski. L'ho visto quando ce li hanno scambiati di ritorno dall'aeroporto.» «Sei riuscito a leggerne il contenuto?» mi ha domandato Alexandra. Ho visto la delusione nei suoi occhi quando le ho detto di non aver avuto il tempo di leggere alcunché. «Andiamo avanti. Spero davvero che la fiducia che io ti sto dimostrando raccontandoti i miei segreti venga ripagata da altrettanta sincerità.» Non ho voluto indagare sul senso delle sue parole e lei ha continuato. «A proposito di Swazinski», ha detto mostrandomi la prima di una serie di fotografie. In essa erano immortalati due uomini: uno più giovane e uno
più anziano, di spalle. L'uomo di fronte all'obiettivo era Moshe Swazinski, il braccio destro di Erick Neumann. «Questa foto è stata scattata a Verbania, in Italia, nel 1951. L'uomo che parla con il giovane Swazinski si chiamava Walther Frederick Schellenberg ed era stato prima capo della GESTAPO, quindi, dal 1942, dell'intero RSHA. Schellenberg ha custodito i suoi segreti sino alla morte, avvenuta a Torino un anno dopo che gli avevano scattato di nascosto queste foto.» Parlando, Alexandra mi ha sottoposto altre foto dell'ufficiale nazista. Ma mi era stata sufficiente la prima per riconoscerlo: quel Schellenberg era lo stesso uomo la cui immagine ingiallita Swazinski custodiva nel suo portadocumenti. «Prendiamo atto anche di questa stranezza: un ebreo che non solo chiacchiera amichevolmente con uno dei suoi aguzzini, ma che ne conserva l'immagine tra i ricordi più cari. Inoltre, dai dati in nostro possesso, risulta che nessuna famiglia di nome Swazinski sia mai stata deportata a Buchenwald. Anche se è vero che le liste dei prigionieri sono spesso incomplete, tutto appare davvero sospetto.» Alexandra ha poi preso dalla sua cartelletta un'altra fotografia. «Questo è un Kapò di Mathausen.» La foto ritraeva un prigioniero con la divisa a righe che trascinava uno scarno cadavere servendosi di una grossa pinza di ferro. «Sin dal 1933 i gerarchi nazisti si adoperarono per reclutare tutto ciò che la feccia delle carceri comuni potesse loro offrire. Questi carceraticarcerieri, chiamati Kapò, divennero i protagonisti delle peggiori atrocità perpetrate nei campi di concentramento. A loro veniva concessa una grande libertà di movimento ed enormi privilegi. «Questo è lo stesso uomo», ha continuato la mia nuova amica mostrandomi un'altra immagine, «così come lo ha trovato il cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal diciotto anni dopo.» Ci voleva molta fantasia e bisognava essere degli ottimi fisionomisti per rendersi conto che l'affermazione di Alexandra corrispondeva a verità. Gli occhi torvi del primo erano diventati a mandorla nel secondo, il naso aveva tutt'altro profilo, anche l'ovale del viso risultava modificato. «Si tratta dei miracoli della chirurgia plastica. Se l'aguzzino non si fosse tradito da solo nel corso di una conversazione con un nostro agente infiltrato, anche un segugio dell'esperienza di Wiesenthal non sarebbe mai riu-
scito a identificarlo. Questo signore era diventato un rispettato e onesto commerciante di bestiame in Cile e si era gettato alle spalle il suo terribile passato. Non dimenticare, Luca, che le possibilità economiche dei carnefici nazisti sono pressoché illimitate: ogni deportato ebreo veniva spogliato di ogni suo bene. E spesso quei beni erano davvero cospicui. Tutti erano pronti ad arraffare a piene mani e, anche se la fetta più grossa toccava ai gerarchi e alla loro farneticante causa, le briciole che andavano alle SS Totenkompf, ai Kapò e alle guardie ucraine avrebbero potuto garantire a ciascuno di loro un'esistenza agiata una volta finita la guerra. Gli ebrei internati furono milioni: un solo dente d'oro prelevato da ogni bocca avrebbe costituito una riserva aurea da fare invidia a Fort Knox. Inoltre i deportati erano gente disperata, disposta a tutto pur di avere non dico la libertà, ma anche un piatto caldo e una coperta. «So bene che ti ho sottoposto una serie di informazioni apparentemente slegate tra di loro e che tutto ciò di cui dispongo è solo... materiale indiziario ma, credimi, tutto porta nella stessa direzione, Luca. Quello che voglio non è una vendetta personale o una rivincita, ma che sia fatta giustizia. Uno dei capitoli più neri della nostra Storia presenta ancora molti lati oscuri e io sono sicura che non si sia ancora concluso. E sono tanti coloro che sono rimasti impuniti. Il compito che mi sono prefissa è gravoso e difficile, ma può contribuire a fare giustizia. Devo farlo per quei milioni di uomini, donne e bambini che la reclamano a gran voce.» Lentamente ho iniziato a capire. «Vuoi dire che, dietro all'impero della Neumann, si cela un gruppo di criminali nazisti sfuggiti alla giustizia degli Alleati?» ho chiesto ad Alexandra. «Sì, ma non è tutto, Luca. Sono convinta che, dopo trent'anni di letargo, il Male sia di nuovo in procinto di risvegliarsi. Nessuno mi toglie dalla testa che l'incidente occorso al tuo aereo avrebbe dovuto eliminare una persona scomoda che sapeva troppo. Non mi è del tutto chiaro, però, quale enorme segreto tu sia riuscito a carpire nel corso del tuo soggiorno alla Residencia. Sei sicuro di non volermi raccontare quello che sai sul 'dossier Amazzone?» «Te lo ripeto, Alexandra: non sono riuscito a leggere nemmeno una sola riga di quanto c'era scritto.» PARTE QUARTA
In una grotta sua dimora che un soffio di vento sfiora appena, là era un abito con cui lo vestì per condurlo non lontano, nell'incavo di una cella. Wolfram von Eschenbach
34 Età dei Metalli, II millennio a.C. «Grazie, Hosh, per averci liberato dalla minaccia dei davaar.» Il re Athor era inginocchiato dinanzi all'altare, nel Tempio Segreto. Teneva il capo chino mentre recitava la sua preghiera. «Grazie, Hosh per la pace che ora regna tra la mia gente. Grazie per avermi dato Dehal, il suo sorriso e figli sani e forti.» Quindi percorse a ritroso il cunicolo e, giunto nella grotta dei disegni,
chiamò a gran voce Sar. Il ragazzo gli corse incontro. Sarebbe stato difficile riconoscere in lui il bambino che anni prima, nella stessa grotta, aveva mosso i suoi primi incerti passi. Sar aveva gambe lunghe e muscolose e braccia possenti e forti. Sarebbe diventato un ottimo cacciatore: tra non molto anche per lui si sarebbe tenuta la cerimonia di iniziazione alla caccia. Come passava in fretta il tempo! L'immensa sala sotterranea che aveva ospitato Athor e Dehal fuggitivi accoglieva adesso il maggiore tra i loro cinque figli; e un sesto stava per venire alla luce. Dehal aveva allevato tre maschi e due femmine con gioioso entusiasmo, quasi non sentisse il peso delle gravidanze. Anche quest'ultima non aveva minato il suo fisico robusto né il suo spirito. Athor sapeva che sarebbe stato Sar a succedergli, perciò, come suo padre aveva fatto con lui, lo conduceva spesso alla grotta: doveva imparare a muoversi con sapienza nel luogo dove sorgeva il Tempio di Hosh. Anche quella mattina aveva condotto con sé Sar. Ma Dehal, stranamente, aveva tentato di dissuaderlo: non avrebbe saputo dire che cosa fosse, ma si sentiva oppressa da oscuri presagi. Karesh osservava la sua orribile cicatrice: per quanto fossero passati molti anni, non riusciva a rassegnarsi a convivere con il dolore di una virilità menomata. Guardò la giovane che viveva nella sua capanna da qualche giorno, era poco più di una bambina, per questo il possederla gli procurava un piacere sfrenato. Non si era nemmeno ritratta nel vedere la sua deformità. Karesh stava ripensando al giorno in cui Dehal, che la maledizione di Hosh calasse su di lei, lo aveva ridotto in quello stato. Lo stesso giorno in cui il marito di quella strega aveva decimato la sua tribù, costringendolo alla fuga con pochi superstiti. Erano giunti sulla riva del mare, avevano assalito i pescatori e li avevano uccisi. Ne avevano risparmiato uno solo, che era stato tenuto sotto la minaccia delle armi e, terrorizzato, aveva guidato i davaar sino nei pressi del suo villaggio. Era stato lo stesso Karesh a infilargli un coltello nel costato, una volta che il poveretto aveva esaurito il suo compito. A guardia di donne e bambini, avevano trovato soltanto alcuni vecchi e un giovane pescatore rimasto ferito nel corso di una recente battuta. I davaar avevano attaccato in pieno giorno. Il ferito, i vecchi e i bambini vennero trucidati, mentre le donne furono
rinchiuse in una capanna. Erano otto in età matura e tre più giovani. Queste ultime sarebbero toccate al capo, quando questi avesse deciso che era giunto il momento di divertirsi con le prigioniere. Erano passate molte e molte lune da quel giorno, le stagioni si erano avvicendate, l'una dopo l'altra. I davaar si erano stabiliti nel villaggio, stravolgendone le consuetudini: la principale attività della pesca era stata sostituita dalla caccia, arte nella quale gli uomini di Karesh si sentivano imbattibili. Con il passare del tempo le donne si erano piegate all'arroganza degli usurpatori. La giovane con cui Karesh aveva trascorso i giorni precedenti gli si fece vicino. Era nuda e la sua pelle serica sfiorò la schiena del guerriero solcata da cicatrici. Karesh si volse di scatto, proprio mentre la giovane, brandendo un pugnale, sollevava il braccio per colpirlo. «Hai ucciso mio padre e mangiato il suo cuore. Muori, assassino!» Le mani di Karesh si serrarono attorno ai polsi della ragazza come due morse. L'uomo strinse sino a che lei non fu costretta ad abbandonare la presa. «Hai ragione, donna: ho ucciso tuo padre e mi sono saziato del suo valore. Anche se un pescatore ha ben poco coraggio da trasmettere al re dei davaar. Vediamo invece quanto me ne puoi dare tu.» Così dicendo Karesh raccolse il pugnale e l'affondò nella gola della ragazza. Quindi, squarciatone il petto, ne estrasse il cuore ancora palpitante. Dehal si destò di soprassalto: la visione della lama del pugnale che penetrava nella carne era stata così nitida che le sembrò di sentire il dolore per la ferita. «Un altro dei tuoi sogni, Dehal?» le chiese il suo compagno. «Sì, Athor. Ho visto Karesh che mi colpiva con la sua lama. Ho paura. Una grave minaccia incombe su di noi, lo sento.» Athor abbracciò la moglie e ne placò il respiro affannoso. Poi, però, disse: «Hai ragione. In questi anni di calma e serenità, lo spettro di Karesh non ha mai abbandonato i miei pensieri. Ho sempre saputo che solo quando avrò regolato tutti i conti con lui potrò vivere in pace insieme alla mia gente». Athor tacque a lungo, quindi pronunciò poche frasi, definitive: «Da alcuni anni un intero villaggio di pescatori diserta la cerimonia del solstizio
dell'estate. Ho sperato invano, ogni volta, di vederli arrivare al pog. Ma ora non posso più far finta di niente: è tempo che io parta e, se i miei sospetti sono esatti, chiuderò la partita con Karesh. Per sempre». 35 Inghilterra, 1218 «Ci cercano ovunque», disse Marie-Louise, spaventata. «Non so come riusciremo a far perdere le nostre tracce, ma so che per me sarà dolce morire insieme.» «Spero solo», le rispose Aymon mentre addentava con voracità il pane che la giovane aveva appena comprato, «che Dolbert sia convinto della nostra intenzione di raggiungere il Sud dell'Inghilterra per tornare in Francia... E mi auguro che non immagini che prenderemo la strada verso nord. D'altra parte, non possiamo abbandonare Sarya al suo destino. Anche lei è accusata di essere nostra complice e per questo rischia la morte.» Il porto fluviale della città di Bristol era meta del traffico marittimo con l'Irlanda. La locanda dove Aymon aveva alloggiato assieme a Sarya si trovava a pochi passi dai moli. Aymon aveva detto a Marie-Louise di restare nascosta tra le mura di una vecchia casa diroccata: la prudenza non era mai troppa per due fuggiaschi accusati di avere ucciso un nobiluomo. «Giuratemi che tornerete», disse Marie-Louise trattenendo Aymon per la mano con la voce rotta. «Ve lo giuro sul mio onore, damigella. Suvvia, non siate sciocca, tornerò entro poche ore», la schernì Aymon, mimando il gesto di inginocchiarsi. Il volto di Marie-Louise era vicinissimo al suo. Rimasero a guardarsi per un attimo, poi le labbra dei due giovani si unirono nel loro primo, appassionato bacio. «Se fate così, state pur certa che non vi abbandonerò mai.» «Ti amo, Aymon. Ti amo da sempre.» «Anche io ti amo, dalla prima volta che ti ho vista. Ma ora, lascia che io vada a riprendere la donna che mi ha fatto da madre in questi anni. Poi, tutti insieme, faremo ritorno in Francia.» Una pioggia sottile e incessante aveva reso il fondo delle strade melmo-
so e viscido. Aymon camminava con il capo coperto e lo sguardo basso. Quando scorse due soldati davanti alla porta della locanda, lo assalì un terribile presentimento. I suoi timori ebbero conferma quando Pell, poco dopo, uscì trascinandosi dietro una pesante catena assicurata ai ceppi che imprigionavano Sarya. La donna aveva il volto segnato dalle percosse e camminava a stento. Aymon si sentì ribollire di rabbia. Poco più in là vide l'uomo che aveva sentito parlare nella locanda. Stava contando con aria soddisfatta alcune monete d'oro: il prezzo della sua soffiata. «Cammina, puttana!» gridò Pell, strattonando la catena. Aymon si rese conto che otto uomini armati di tutto punto erano troppi per un solo assalitore. Il drappello si mise in marcia. Il giovane si ricongiunse all'amata Marie-Louise e insieme ritrovarono i soldati, seguendoli a distanza. «Tu aspettami qui», bisbigliò Aymon, indicando a Marie-Louise un fitto cespuglio. Quindi si dileguò nel buio della notte. Gli sbirri erano accampati a pochi metri da loro. Aymon individuò l'unica sentinella posta di guardia. La raggiunse da dietro e la colpì alla nuca con l'elsa della sua akinakes. Sarya era distesa con gli occhi spalancati. Il giovane si chinò su di lei, la chiamò, la scosse delicatamente, ma invano. Aymon girò Sarya in posizione supina e capì. La donna aveva preferito uccidersi infilandosi un paletto aguzzo nel cuore, piuttosto che subire le umiliazioni e le violenze degli uomini di Dolbert. «Pagherete per questo!» disse a denti stretti il giovane, reprimendo a stento la sua disperazione e maledicendosi per avere abbandonato l'amata madre adottiva. Pell si incamminò verso il limite della foresta in cerca di un luogo appartato. Stava per calarsi le brache, quando una voce, poco più che un sussurro, si levò da dietro un cespuglio. «Sei tu, Aymon?» «Si!» bisbigliò di rimando il perfido Pell. Marie-Louise usci allo scoperto. «Uomini, all'armi!» gridò Pell, mentre tratteneva la donna tra le braccia.
«Ho preso l'assassina. Venite a darmi manforte. E state all'erta: lui deve essere...» Il colpo alla base del cranio lo fece stramazzare al suolo tramortito. Ma i soldati ormai erano stati destati dalle grida e stavano accorrendo. Tenendo la giovane per un braccio, Aymon si diresse verso il cavallo di Pell. Si sbarazzò con un fendente di una guardia che gli si era parata davanti. Quindi aiutò Marie-Louise a salire in sella e, preso posto dietro di lei, si allontanò al galoppo. La nave era accostata alla banchina del porto sul fiume Avon. L'equipaggio era indaffarato a caricare le ultime derrate prima della partenza. Approfittando della confusione, Aymon e Marie-Louise salirono a bordo scavalcando la murata. Il portellone di una delle stive era aperto e i due vi si gettarono dentro. Atterrarono su alcuni sacchi di grano. Aymon non sapeva per quanto tempo avesse dormito tra i sacchi di granaglie. Si svegliò al morbido tocco delle mani calde di lei che gli accarezzavano il petto. Con gli occhi ancora chiusi, il giovane schiuse le labbra al bacio di lei. Solo allora aprì gli occhi: Marie-Louise era nuda accanto a lui. L'ardire della donna lo turbò e lo eccitò al tempo stesso. «Qui?» le chiese incredulo. «Perché no? Potrebbe essere la nostra unica occasione», disse lei, baciandolo ancora. Aymon sentì il desiderio montargli dentro come una marea mentre Marie-Louise lo guidava verso la tiepida umidità del suo ventre. Aymon inarcò la schiena e lei si schiuse per riceverlo. Fecero l'amore per tutta la notte, quasi volessero recuperare il tempo perduto. E infine, esausti e felici, si addormentarono. Stavano ancora dormendo abbracciati quando i marinai li sorpresero e diedero l'allarme. «E così tu e questa giovane avete osato imbarcarvi come clandestini sulla mia nave!» Lo sguardo del comandante era torvo e sinistro. «Sapete che la pena per i clandestini è la morte?» «So bene cosa dice la legge, comandante Colter», rispose Aymon alzando lo sguardo verso l'uomo. «Tu... tu mi conosci? Fatti un po' vedere... Sì, il tuo viso mi è familiare...» disse Colter il Pirata scrutando i lineamenti di Aymon.
«Sono il figlio del cambusiere a cui William de Longespée salvò la vita dopo la battaglia di Damme. Vi ricordate di me?» «Certo!» esclamò Colter, studiando l'impugnatura dell'akinakes che i suoi uomini avevano sottratto ad Aymon. «Ricordo anche quest'arma. L'ho venduta io stesso al conte di Old Sarum. E mi ricordo anche che tuo padre mi fece ingurgitare un pugno di vermi!» esclamò il Pirata, suscitando l'ilarità sua e quella dei presenti. «Comunque, cambusiere o non cambusiere, ora sei un clandestino», proseguì, «e la tua pena sarà la morte.» «Aspettate, comandante Colter!» disse Aymon. «Dovete sapere che noi siamo in possesso di informazioni che potrebbero esservi molto utili e che vi metteranno in buona luce con i vostri superiori.» «E quali sarebbero, di grazia?» chiese Colter incuriosito. «Preferirei parlarvene in privato», concluse Aymon. Colter, con un inchino, indicò la porta che immetteva nella cabina riservata all'alloggio del comandante. «Credo», disse il Pirata dopo averlo ascoltato, con aria pensosa, «che ne dobbiate parlare con il principe William in persona. Ancora una volta sei fortunato, cambusiere: egli deve fare ritorno da una visita in Irlanda e la mia nave sta andando a prenderlo per ricondurlo in Inghilterra.» La città di Port Láirge era situata nella parte sudorientale dell'Irlanda. Apparteneva al regno d'Inghilterra da quando Enrico II vi era sbarcato nell'Anno del Signore 1171, proclamando Port Láirge e Dublino città appartenenti alla corona inglese. William de Longespée salì a bordo nelle prime ore del mattino. Poco dopo la partenza, Aymon e Marie-Louise avevano già ottenuto udienza. «Quanto da voi riferito è molto grave. Ma purtroppo non ci sono prove per suffragare le vostre accuse...» disse il principe William. «Ho pensato anche a questo, mio signore, se avrete la pazienza di starmi ad ascoltare...» disse Aymon, rivolgendosi al terzo conte di Old Sarum, figlio illegittimo di Enrico II. «Cosa può volere da noi il figlio bastardo del re?» chiese Pell rivolto a Dolbert. «Che vuoi che ne sappia, ogni tanto William de Longespée annuncia una visita a Old Sarum. Di solito il suo scopo è quello di battere cassa o di raccattare uomini per la sua flotta. Ma questa volta terremo duro: la nostra
contea ha già dato la sua parte», concluse Dolbert. La città di Old Sarum era in festa. Sullo spiazzo di fronte al castello avevano trovato posto i banchi della fiera. Musici e artisti di strada si esibivano a ogni angolo. Tutti aspettavano l'arrivo del Grande Ammiraglio, che aveva difeso con onore i confini della patria, sventolando stendardi e gonfaloni. William de Longespée indossava un mantello bianco sopra la corazza. Marciava alla testa di un plotone composto da una sessantina di uomini a cavallo. Aveva il capo scoperto e salutava con la mano aperta gli abitanti che si erano riversati lungo la via principale per dargli il benvenuto. Pell si alzò dal letto. Dolbert fece per trattenerlo, ma l'amante lo allontanò con un gesto brusco. «Devo rientrare nella mia stanza: vuoi che ci scoprano? Tanto più che non sono nemmeno cavaliere», disse Pell, infilandosi le brache. «Cosa te ne farai mai di un semplice ufficiale?» Il sarcasmo traspariva feroce tra le parole dell'uomo. «Domani chiederò al principe di nominarti cavaliere. Ma ora resta ancora un po' con me, te ne prego.» Pell cedette alle insistenze dell'amante e di nuovo giacque con lui. Fu quando i due ebbero raggiunto l'apice del piacere che un rumore improvviso ruppe l'incantesimo. «Ma che bella atmosfera familiare!» esclamò una voce alle loro spalle. Aymon era entrato nella stanza del conte di Old Sarum. Impugnava una balestra e l'akinakes gli pendeva al fianco. «Tu?» chiese incredulo Pell, e il suo sguardo corse a cercare la spada che aveva abbandonato ai piedi del letto quando si era svestito. «Sì, ti stupisce?» disse Aymon. «Vi conviene restare fermi e zitti: la mia balestra è impaziente di scoccare il dardo.» Aymon, parlando, si era fatto da parte e aveva lasciato il passo a MarieLouise. «Ora il tuo segreto non è più tale, Dolbert», esclamò la giovane contessa. «So bene che avresti fatto qualsiasi cosa pur di non svelare le tue perverse passioni e la tua lussuria. Ma non è più necessario.» Pell si lanciò verso la spada, ma Aymon fu più veloce: il dardo partì con un sonoro schiocco. Pell si piegò su se stesso e cadde a terra, ansimando. Il sangue sgorgava
copioso da una grossa ferita all'addome. «E adesso, a noi due, Dolbert», disse Aymon dirigendosi verso il conte che, rannicchiato sul letto, tremava come una foglia. «Tu e Pell avete ucciso tuo padre, per poi incolpare me e Marie-Louise dell'omicidio, non è vero?» Dolbert lo guardava atterrito. «Confessa, Dolbert, o ti mozzo il capo.» L'akinakes fendette l'aria con un sibilo a poca distanza dalla gola del nobile. Dolbert scoppiò in un pianto isterico e, tra le lacrime, incominciò a parlare. «È stato lui!» gridò indicando il corpo del suo amante steso ai piedi del letto. «È stato Pell a decidere ogni cosa e a suggerirmi di incolpare voi due, dato che eravate amanti. Lui ha ucciso mio padre, malgrado io fossi contrario.» «Maledetto! Come osi dire questo?» Pell alzò il capo da terra, la voce ridotta a un rantolo. «Sei stato tu che hai infilato la lama nel collo di tuo padre e che subito dopo hai brindato alla tua investitura. È vero, io ti ho suggerito il piano, ma tu lo hai portato a compimento con entusiasmo.» Ciò detto il luogotenente si accasciò, mentre la vita lo abbandonava. «Abbiamo sentito abbastanza», sentenziò la voce imperiosa di William de Longespée, che era rimasto nascosto dietro alla porta. «Guardie, arrestate il conte di Old Sarum!» ordinò il principe ai suoi. «È la fine del nostro incubo... e l'inizio di una nuova vita», stava dicendo Marie-Louise rivolta al suo uomo. La prora della nave fendeva il mare liscio come olio. La costa francese si faceva sempre più vicina. «Non so se sia davvero finita. Nella nostra terra si combatte ancora un'assurda guerra tra i cristiani di Roma e chiunque non la pensi come loro, che siano o non siano catari», rispose Aymon passandole un braccio attorno alle spalle. «Già, i catari. Tu hai abbracciato la loro religione, non è vero?» «La vita non mi ha dato il tempo per pensare alla religione. Ma mio nonno, Beaufort di Daigne, era un cataro e in nome del suo credo egli ha combattuto sino alla morte. Io riponevo in lui fiducia, stima e affetto. Per questo sono divenuto il custode di un segreto che appartiene ai catari.» «Quale segreto, Aymon?»
«Non lo so con certezza, forse è soltanto una leggenda, ma mio nonno mi ha lasciato la mappa per raggiungere il luogo in cui si dice sia nascosta un'arma tanto potente da uccidere un intero esercito all'istante.» «Mi sembra una di quelle storie che, passando di bocca in bocca, diventano fantastiche. E come mai nessuno si è ancora servito di un'arma così potente?» «Mio nonno Beaufort ha sempre detto che è impossibile rimuoverla dal suo nascondiglio senza venire colpiti dalla sua forza letale. Non esiste difesa contro il suo potere.» Linguadoca, 1218 In segno di riconoscenza per aver contribuito a smascherare il traditore, William de Longespée aveva fatto dono al musico di un bel gruzzolo di monete d'oro. Con esso Aymon aveva comprato un piccolo podere nei pressi di Villefloure, nelle terre che erano già state di proprietà della sua famiglia prima che venissero loro confiscate dai crociati. Lì Marie-Louise e Aymon ricominciarono a vivere, sostenuti dall'amore profondo che li univa. I due si recavano al mercato di Villefloure una volta ogni due giorni e tutti li accoglievano con gioia: i prodotti della loro campagna diventarono in breve tra i più apprezzati dagli abitanti della cittadina e dell'intera Val di Daigne. Ma a parte questi periodici incontri con la comunità, la coppia conduceva un'esistenza riservata: sia Aymon che Marie-Louise disertavano la messa e non partecipavano alle fiere che si tenevano in paese. Vivevano solitari nel loro podere saziandosi della loro passione. Spesso, la sera, Aymon deliziava la donna con la sua musica: aveva acquistato una nuova ghironda con la quale si esercitava e componeva nuove canzoni. L'unica cosa che Marie-Louise aveva voluto conservare del suo passato era stato l'atto di matrimonio che l'aveva legata al conte Dolbert di Old Sarum. «In questo modo», diceva lei sorridendo, «potrò raccontare ai nostri figli che discendono da una contessa...» Linguadoca, 1241 Così erano passati gli anni. I figli che entrambi avevano tanto desiderato non erano venuti, ma né Marie-Louise né Aymon se n'erano data troppa
pena: così aveva voluto il destino. La loro esistenza era scivolata tranquilla e serena sino al giorno in cui il curato di Villefloure era venuto a mancare. Il vecchio padre Pierre era stato un uomo buono e saggio. Aymon era convinto che il prete nutrisse dei sospetti sulla sua reale identità, anche se era trascorso molto tempo da quando la sua famiglia esercitava la signoria in quella zona. Padre Pierre lo aveva sempre salutato con calore ogni volta che lo aveva incontrato in paese, ma non gli aveva mai rivolto domande di alcun genere. Dal canto loro, Aymon e Marie-Louise non avevano sentito il bisogno di abbracciare nessun credo religioso: vivevano in pace e semplicità, non si macchiavano di alcun peccato tra quelli elencati dalla Chiesa o dalla religione catara. Per questo erano sicuri che Dio li avrebbe accolti accanto a lui quando fosse giunta la loro ora. Padre Pierre si era addormentato in silenzio, una notte d'estate. La cura delle anime di quella tumultuosa regione della Linguadoca doveva stare molto a cuore ai potenti del clero: erano trascorsi solamente pochi giorni dalla morte del curato di Villefloure quando il suo sostituto prese possesso della chiesa. Il carretto con a bordo il nuovo pastore d'anime arrivò al podere nella tarda mattinata. Marie-Louise stava raccogliendo il fieno. Padre Fabron dimostrava tutti i suoi cinquant'anni ed era l'esatto contrario del suo energico e bonario predecessore: aveva un fisico mingherlino e mani nervose che strofinava l'una con l'altra in continuazione. Il volto aveva un che di arcigno e gli occhi sottili gli conferivano un'aria sospettosa e diffidente. I capelli erano grigi e lisci, tagliati a scodella, con una chierica al centro della nuca. «Buon giorno, Marie-Louise. Che il Signore sia con te», disse il prete benedicendola con il segno della croce. Ubbidendo a un mai sopito impulso, Marie-Louise si segnò a sua volta. Si chiese come il prete fosse già a conoscenza del suo nome. «Sono padre Fabron, il nuovo parroco di Villefloure», disse. «Sto facendo un giro nelle campagne per conoscere tutti i miei fedeli. Tuo marito è in casa, Marie-Louise?» «No, Aymon è nei campi. La morte di padre Pierre ci ha molto addolorati. Sia pace all'anima sua.» «Sia pace alla sua anima», ripeté Fabron e di nuovo fece il segno della croce.
La donna, intanto, aveva nuovamente impugnato il manico del forcone e ripreso a raccogliere il fieno. Il curato rimase a osservarla. «Padre, se credete, potete aspettare. Aymon, mio marito», riprese MarieLouise, «dovrebbe essere qui tra breve.» «Dimmi, Marie-Louise, sono curioso: posso sapere qual è il luogo in cui vi siete sposati? Nei registri della mia chiesa non ho trovato traccia di voi: sembra che nessuno dei due abbia ricevuto alcun sacramento religioso, né contratto matrimonio.» «A Béziers... sa, noi non siamo di qui...» disse Marie-Louise, sperando che il suo imbarazzo non fosse troppo evidente. «Ci siamo sposati a Béziers, da dove entrambi proveniamo, padre.» «Meno male, mia cara figliola. C'è sempre da temere, in questi luoghi, di trovarsi di fronte a degli adepti del demonio: l'eresia catara è ovunque. Devo confessare che ho temuto che anche voi apparteneste a quella setta di figli di Satana...» «Non dovete preoccuparvi di questo, padre», disse una voce ferma alle loro spalle. «Siamo dei pacifici lavoratori che vivono timorati di Dio e nel rispetto della legge.» Marie-Louise sospirò di sollievo: le domande del prete e quel suo sguardo indagatore l'avevano messa a disagio. «Tu sei Aymon, suppongo», disse padre Fabron alzando gli occhi in quelli del nuovo venuto. «Per l'esattezza, padre: sono Aymon, libero cittadino, proprietario di questo fazzoletto di terra che, a Dio piacendo e grazie al nostro lavoro, ci dona i suoi preziosi frutti.» «Ho sentito parlare in paese dell'ottima qualità dei tuoi raccolti, Aymon... Aymon... un nome nobile, specialmente da queste parti. Non si chiamava Aymon il nipote dell'ultimo signore della Val di Daigne, colui i cui beni sono stati confiscati dai soldati del nostro papa? Ricordo che questo Aymon, allora un ragazzino, riuscì a sfuggire alle guardie di Simone di Montfort. Doveva essere una preda ambita, perché su di lui fu posta una ricca taglia. Oggi dovrebbe avere più o meno la tua età, Aymon.» «Non conosco questa storia, padre. Noi siamo gente semplice...» «Già... gente semplice...» disse padre Fabron, mentre il suo sguardo si posava sulla ghironda che Aymon aveva lasciato in un angolo sotto il piccolo pergolato della casa.
Marie-Louise e Aymon parlarono a lungo di quella strana visita, poi passarono le settimane e la sospetta curiosità di padre Fabron fu dimenticata. Un giorno, come spesso succedeva, Marie-Louise aveva accompagnato Aymon in paese per vendere la frutta e la verdura dei loro campi. Aymon stava chiacchierando con un vecchio artigiano quando il discorso cadde sul nuovo prete. «A differenza del bonario padre Pierre, questo Fabron ha l'aspetto di un segugio e la curiosità di un inquisitore», disse Aymon, sapendo di parlare con una persona molto vicina alla fede catara. «Già, gli inquisitori...» rispose l'artigiano. «Il trattato di Parigi, qualche anno fa, ha dato loro carta bianca. Adesso possono mettere in atto, in nome di Dio, ogni prepotenza sui cittadini di Francia.» Nel 1229 era stato firmato un accordo che, al fine di mantenere l'ordine e di sopprimere le eresie, permetteva agli uomini del papa di Roma e a quelli del re di Francia di amministrare la giustizia religiosa. E la giustizia religiosa, ai tempi, aveva un solo nome, in grado di intimorire anche il più osservante dei credenti: Tribunale dell'Inquisizione. Aymon si rese conto che era giunto il momento di gettare acqua sul fuoco di quella pericolosa conversazione. Non era prudente esporsi con certe affermazioni e ancor meno in un luogo pubblico. «Va detto però che non tutti i mali vengono per nuocere: la crociata indetta dalla Chiesa era diventata una guerra con cui i nobili del Nord cercavano di impadronirsi del Midi. Almeno ora la nostra regione non è più attraversata da una guerra senza senso. Dopo che il figlio di Simone di Montfort ha restituito i beni che suo padre aveva sottratto alla nobiltà locale, e con la pace tra i casati del Sud della Francia e la Chiesa, forse potremo vivere anni più tranquilli.» «Siete molto ottimista, Aymon: quegli accordi hanno solo consegnato la nostra nobile terra d'Occitania nelle mani degli inquisitori. Che trovano nei preti della razza di padre Fabron i loro migliori alleati. Si dice che sia arrivato da Béziers con una scorta di soldati per arrestare dei pericolosi eretici che ancora si nascondono nel nostro territorio.» «Da Béziers, avete detto?» Aymon si sentì gelare il sangue nelle vene. Marie-Louise varcò la soglia di casa e posò sul tavolo il cesto con le provviste. Padre Fabron le comparve davanti dal nulla come se fosse stato un fan-
tasma. Brandiva un foglio arrotolato e lo agitava freneticamente davanti a sé. «Ecco le prove della vostra appartenenza ai sodali di Satana!» gridò il prete rosso in volto, srotolando l'atto di matrimonio tra la donna e il conte di Old Sarum. «Qui c'è scritto che sei stata sposata con un nobile inglese. Ecco perché non esistono tracce dell'unione tra te e Aymon negli archivi della mia chiesa, né in quelli di Béziers. E sono certo che voi apparteniate alla setta dei catari e che pratichiate la magia nera e i suoi nefandi riti per accattivarvi i favori di Satana.» «Ma che state dicendo, prete? E come vi siete permesso di introdurvi nella mia dimora? Fuori di qui!» urlò Marie-Louise non appena si fu riavuta dalla sorpresa. L'esile padre Fabron, da solo, non avrebbe certo costituito un ostacolo per una donna forte come lei. Ma in quel momento, quattro soldati armati di alabarde sbucarono dall'oscurità: dovevano essersi nascosti anche loro tra le mura di casa. «Ti dichiaro in arresto, Marie-Louise. E appena tornerà a casa, arresteremo anche l'uomo con cui vivi nel peccato. Immagino che il tuo Aymon abbia molte cose da raccontarci sulle sue misteriose origini...» Il dardo emise uno schiocco secco, seguito da un tonfo provocato dal corpo di uno dei soldati che cadeva a terra. Quando Aymon parlò aveva già ricaricato la balestra e si accingeva a mettere fuori combattimento un secondo militare: «C'è un errore, padre, nel vostro farneticante piano: mia moglie e io non abbiamo alcuna intenzione di seguirvi». La seconda freccia colpì la coscia di un altro soldato. «Avrei potuto uccidere i vostri uomini e non l'ho fatto, Fabron. Raccogliete i vostri feriti e andatevene da qui. Noi faremo altrettanto. Posso assicurarvi che non ci vedrete mai più.» «Vade retro, Satana!» continuava a gridare il prete, in un eccesso di follia, brandendo la croce e avanzando verso l'angolo della stanza in cui si trovavano Marie-Louise e Aymon. I soldati erano rimasti impietriti. «Fermo, prete!» disse Aymon, brandendo l'akinakes. «Voi ci state condannando ancora una volta alla fuga e alla clandestinità. Accontentatevi di questo e della mia promessa. Altrimenti... sarà peggio per voi.» Non si sarebbe mai aspettato che il prete potesse arrivare a tanto. Ma si era ingannato: con una mossa fulminea Fabron aveva afferrato Marie-
Louise e ora la teneva sotto la minaccia del crocefisso d'argento che brandiva come se fosse stato un pugnale. «Fermo, Aymon! Altrimenti la tua convivente morirà trafitta dal segno di Dio. E voi, rammolliti, venite qui a darmi una mano», disse il prete ai due soldati che erano ancora in piedi. Aymon non ebbe molto tempo per riflettere. Con un solo movimento della mano, sempre guardando negli occhi il curato, fece scorrere la lama della spada nel palmo, afferrandone poi la punta. Tese il braccio all'indietro, quindi l'arto compì un veloce gesto circolare e l'arma si librò nell'aria, roteando su se stessa. Fu questione di un attimo e la spada si conficcò in profondità nella fronte di quell'uomo di fede. Fabron rimase per un secondo immobile, con gli occhi sbarrati e l'akinakes piantata nel mezzo della fronte, quindi lasciò la presa e si accasciò a terra. Aymon fu più lesto dei due militari: ancor prima che questi raggiungessero il prete, egli era rientrato in possesso della sua preziosa arma ed era pronto a fronteggiarli. Uno dei due tentò un affondo con l'alabarda. Pronta, la lama dell'akinakes andò a cozzare contro il manico di legno dell'arma dell'uomo. Quindi la spada guizzò come una saetta e recise la gola del soldato. Il suo compare, atterrito, si diede alla fuga. Quel contadino doveva essere la personificazione del demonio. Aymon e Marie-Louise raccolsero ciò che avevano di più caro e salirono in fretta e furia sul carro. Non avevano tempo da perdere e sapevano bene che in breve il soldato fuggito avrebbe dato l'allarme. Aymon spronò il loro povero mulo fino a sfiancarlo. «Andremo a Foix», disse rivolto alla sua donna. «Il feudo è ancora governato da miei parenti che, a quanto so, non si sono mai piegati al volere di Simone di Montfort.» La notte trovarono alloggio in una misera locanda sulle sponde dell'Hers, nei pressi di un traghetto che, il mattino successivo, avrebbe consentito loro, in cambio di qualche moneta, di attraversare il fiume. Si imbarcarono all'alba. Il traghettatore manovrava sicuro un lungo palo con cui contrastava la corrente del fiume. Tra un colpo e l'altro sollevava il capo e guardava incuriosito i due viaggiatori.
La chiatta si muoveva agganciata a una corda tesa da una sponda all'altra; oltre a questa, che serviva a mantenere la direzione, ve n'era un'altra, mobile, assicurata a un argano situato sulla riva. Lì un asino piuttosto male in arnese impartiva il moto al traghetto. Fu quando si trovarono a metà del guado che l'uomo parlò. «Ne sono certo, anche se sono passati molti anni. Voi siete Aymon e Marie-Louise, due allievi del mio padrone, il maestro Puyol, sia pace all'anima sua. Non vi ricordate di me? Io sono Marcel, il servo di Puyol. Aymon, sono io che vi ho condotto da Bahram e da sua moglie, quando siete stato costretto a fuggire da Carcassonne.» «Ma certo, Marcel, ricordo», disse Aymon con un sorriso. «Mi avete salvato la vita.» Il traghettatore arrossì d'orgoglio. «Ho soltanto eseguito gli ordini di un padrone saggio e buono come Puyol. Alcuni anni dopo è stato imprigionato dagli uomini di Simone di Montfort. Non fu mai processato ed è morto di stenti in carcere. Sono felice di rivedervi e di sapere che non siete caduti nelle mani dell'Inquisizione.» Fu allora che le urla provenienti dalla riva appena lasciata li fecero voltare. Un manipolo di soldati si stava agitando per richiamare l'attenzione del traghettatore. «Stanno cercando voi?» chiese Marcel rivolto ai due fuggiaschi. «Ebbene sì», rispose Aymon. «È il nostro destino... essere vittime della prepotenza dei più forti...» «Non voglio sapere altro, Aymon. Vi ho conosciuto entrambi e sono certo della vostra onestà. State a vedere...» Marcel si sporse a poppa, mise le mani a conchiglia vicino alle orecchie e gridò in direzione dei militari: «Non vi sento! Fatemi finire questo viaggio e tornerò a prendervi!» Quindi, incurante delle proteste dei militari, Marcel ordinò al suo giovane aiutante di spronare l'asino. Poco dopo Aymon, Marie-Louise e il loro carretto sbarcavano sani e salvi sulla riva opposta. «Accidenti, arrivo!» gridò Marcel, muovendo il palo per far staccare lo scafo dall'imbarcadero. Poi, con un gesto rapido, Marcel infilò il palo sotto la carrucola e fece deragliare la corda dalla sua guida. Il traghetto si ritrovò in balia della corrente, a dispetto dei teatrali sforzi di Marcel per mantenerlo in rotta.
L'imbarcazione prese a scarrocciare seguendo il corso dell'Hers, andando ad arrestarsi sulla riva presidiata dai soldati molte centinaia di metri più a valle. I militari salirono subito a bordo, mentre Marcel si scusava per l'accaduto e cercava di tranquillizzare il comandante del drappello: «Chiedo umilmente perdono, vostra signoria, ma la corda è uscita dal suo alloggiamento provocando questo disastro. Se i vostri uomini mi daranno una mano, in due o tre ore riusciremo a risistemare tutto e vi porterò sull'altra sponda». Quando, quattro ore più tardi, i militari riuscirono a guadare il fiume, Aymon e Marie-Louise erano ormai al sicuro in vista del castello di Foix. Sorte ben peggiore attendeva però il povero Marcel: accusato di aver aiutato un eretico a fuggire, venne arrestato seduta stante. Ci avrebbe pensato il Tribunale dell'Inquisizione a fargli dire quanto sapeva. 36 Germania, fine anni '30 Mano a mano che i giorni passavano, Otto Rahn, sotto le mentite spoglie del prigioniero Otto Raush, si guadagnava la fiducia di Kurt Filcher, ingegnere idraulico arrestato dalla GESTAPO per le sue manifeste simpatie filobolsceviche. Una mattina Rahn seguì con lo sguardo vigile il sorvegliante che si allontanava dai torni accoppiati sui quali lavoravano lui e Filcher. «È per stanotte, Kurt. Il camion che trasporta i rifiuti sosterà dietro alle cucine per alcuni minuti. Tra i rifiuti e la base del camion dovrebbe esserci un doppiofondo che ci consentirà di nasconderci. Una volta giunti al deposito dei rifiuti troveremo un automezzo che ci condurrà sino in Francia.» «Speriamo che tutto fili liscio. Non so come hai fatto a organizzare ogni cosa, Otto.» «Te l'ho già detto, la mia famiglia è piuttosto agiata e un sottufficiale qui al campo è stato sensibile alla... ehm... agiatezza dei miei. Ma adesso cerchiamo di ripassare il nostro piano.» Il militare si avvicinò al camion, impugnò il fucile e infilzò la baionetta tra i rifiuti, penetrando negli strati di immondizia sin quasi al grilletto. «Nulla da segnalare, Herr Oberscharführer», disse il soldato. Quindi ag-
giunse, con aria disgustata: «Tranne questo olezzo che la mia arma si porterà appresso per una settimana buona». Il camion si fermò dopo aver sballottato i due evasi, nascosti nel cassone maleodorante, per diversi chilometri. Quando scesero non ebbero nemmeno il tempo per sgranchirsi le gambe: un uomo anziano dai modi bruschi e sgarbati consegnò loro degli abiti miseri ma puliti, denaro in diverse valute e dei documenti falsi. Quindi l'uomo li fece entrare nel doppiofondo ricavato nel pianale di un secondo camion: lo spazio era appena sufficiente a contenere due persone sdraiate. Il cassone fu riempito con ceste di verdura e il camion partì. Dopo oltre dieci ore di viaggio, i due rividero la luce del giorno. Si trovavano alla periferia occidentale di Zurigo. Linguadoca, fine anni '30 Tre giorni più tardi due eleganti escursionisti camminavano, appoggiandosi a dei bastoni da passeggio, lungo la valle dell'Ariège. «... lì sta il punto, Raush», stava dicendo Filcher. «Dove sono andati a finire? Si dice che fossero centinaia i catari che si rifugiarono dentro alle grotte, mentre i crociati assaltavano il castello di Montségur.» «Già, e all'interno di Montségur erano ancora asserragliate altre trecento persone», aggiunse Otto Rahn. «Nessuna cronaca ha mai raccontato che cosa ne è stato di quella gente. Ma è probabile che da lì nessuno sia uscito vivo», disse Filcher, indicando due bocche carsiche che sputavano un getto continuo d'acqua. «Non dev'essere stato difficile precludere le vie di fuga da alcune di queste grotte: è sufficiente bloccare il deflusso dell'acqua perché queste si riempiano.» Rahn fingeva indifferenza, ma Filcher in poche parole gli aveva svelato la soluzione del mistero che lo aveva accompagnato tutta la vita. «Rahn, Otto Rahn!» gridò un uomo con tono gioviale dall'alto di un costone. Sopra a una roccia si stagliava la figura possente di Mandément. «Non mi riconoscete, Rahn? Sono Mandément. Quello che alcuni anni fa vi ha steso con un gancio destro. Volevo dirvi che non nutro nessun...» «Vi state sbagliando, signore. Mi chiamo sì Otto, ma Raush e, sebbene la distanza a cui vi trovate mi possa ingannare, non mi pare di conoscervi.»
«Scusatemi, mi devo essere sbagliato. Sapete com'è, gli scherzi della memoria...» «Nulla, signore. Buona giornata», tagliò corto Otto Rahn dirigendosi verso l'ingresso della Grotte des Chevaliers, mentre Mandément proseguiva per la sua strada. Quando furono nella caverna fu Filcher a parlare. «Come mai quell'uomo ti ha chiamato Rahn?» «Mi ha scambiato per un'altra persona, sono cose che succedono.» «Eppure quel Mandément sembrava sicuro di quello che diceva. E doveva conoscere bene questo Otto Rahn. Un caso di omonimia?» chiese ancora Filcher. Ora aveva un'aria minacciosa. «Io invece credo sia venuto il momento di gettare la maschera, Otto Raush o Rahn: chi sei veramente? Dapprima mi coinvolgi in una rocambolesca fuga organizzata sin nei minimi particolari, quindi un francese ti chiama con un nome differente da quello che io conosco.» Filcher serrò i pugni: Otto era esile e non sarebbe stato difficile ridurlo all'impotenza. La pistola apparve nella mano di Rahn come il mazzo di carte tra le dita di un prestigiatore. Il colpo raggiunse Filcher in mezzo alla fronte, facendolo stramazzare a terra privo di vita. «Poco male», pensò Otto. «Ormai, mio caro Filcher, non mi saresti più servito.» Quando Mandément raggiunse il posto telefonico pubblico di Ornolac aveva il fiatone. Compose un numero che aveva annotato nella sua agendina. Il responsabile dei servizi di sicurezza francesi Maurice Sarraut, nonché editore del quotidiano di Tolosa La Dépêche du Midi, aveva un'aria molto soddisfatta quando riagganciò la cornetta: Otto Rahn era ricomparso nella valle dell'Ariège. Sarraut compose a sua volta un numero di telefono e avvertì la migliore tra i suoi agenti, Carla Jeogeres Núñez, di tenersi pronta all'azione: il lupo era tornato a cercare le sue prede all'interno delle grotte di Ornolac. Berlino, fine anni '30 Reinhard Heydrich era un uomo scaltro e attento. «Questo... questo scienziato», aveva confidato a un suo collaboratore,
«questo Otto Hahn è una testa calda. Non ha mai fatto mistero della sua avversione allo spirito nazista e nello scorso luglio ha aiutato la sua collaboratrice ebrea Lise Meitner a espatriare clandestinamente in Svezia. Ma Hahn è un vero portento nel suo campo: nei prossimi giorni è previsto un esperimento che egli definisce 'frazionamento radio-bario-mesotorio'. Sono certo che gli studi di Hahn saranno in grado di aprire nuovi orizzonti della scienza.» Il 17 dicembre 1938, a seguito della riuscita dell'esperimento, Hahn dichiarava al mondo di avere ottenuto una «esplosione» del nucleo di uranio in nuclei atomici di medio peso. Ai massimi esponenti del Partito nazista non potevano certo sfuggire le applicazioni di quella nuova e inesauribile fonte di energia. L'idea di Hitler di diventare padrone del mondo avrebbe finalmente potuto avverarsi. In quei giorni, nella Berlino del Führer ebbe inizio l'era atomica. Linguadoca, fine anni '30 Otto Rahn uscì dalla Grotte des Chevaliers con un'espressione raggiante: erano stati necessari altri mesi di ricerche estenuanti, complicati dal fatto che non gli era stato possibile, a causa dei suoi fallimentari trascorsi da imprenditore, soggiornare negli alberghi più prossimi alle grotte. Aveva quindi trovato una gradevole pensioncina nel centro di Tolosa e quotidianamente raggiungeva la valle dell'Ariège con un autobus che sbuffava fumo nero e denso arrancando lungo la strada in salita. Adesso, nel viaggio di ritorno verso Tolosa, Otto Rahn era seduto in uno degli ultimi sedili con un sorriso soddisfatto stampato sul volto. In preda all'euforia non prestò alcuna attenzione alla donna col capo coperto da un velo scuro seduta nelle prime file. Carla Jeogeres Núñez non aveva invece perso nessuno dei suoi movimenti, nemmeno quando Rahn, dal telegrafo pubblico di Tolosa, aveva spedito il suo messaggio a un indirizzo di Berlino. Carla aveva mostrato il suo tesserino di riconoscimento all'impiegato, ottenendo senza difficoltà di farsi consegnare il telegramma. Il testo in lingua tedesca non le fu del tutto chiaro, ma lo furono il luogo e la data dell'appuntamento: 16 marzo 1939 a Söll, ai piedi del massiccio del Wilden Kaiser. Roma, fine anni '30
«Padre dei principi e dei re, reggitore dell'orbe qui sulla terra, vicario del Salvator nostro cui va onore e gloria nei secoli dei secoli.» Mentre proferiva la formula di rito, il cardinale primo diacono sollevò la tiara ornata dalle tre corone sul capo di Eugenio Pacelli. Pio XII, questo il nome del nuovo papa, si affacciò alla finestra di piazza San Pietro e pronunciò il suo primo discorso come rappresentante di Cristo in terra. A Dio chiese una cosa più di ogni altra: pace nel mondo. «Pace!» ripeté il santo padre, allargando le braccia. Probabilmente il Signore aveva altro a cui pensare, quel 2 marzo 1939. Quello che accadde dopo quel giorno era ciò che di più lontano si potesse immaginare dall'idea di pace. Berlino, fine anni '30 Padre Roeller tese la mano con fare amichevole a Reynard Heydrich che si alzò in piedi, rispondendo alla stretta e sorridendo cordiale. «Che cosa dicono i vostri nuovi superiori a Roma, padre?» chiese Heydrich. «Eugenio Pacelli, Pio XII, ha una profonda conoscenza della nostra nazione, Herr Heydrich», rispose il religioso cercando di non sbilanciarsi troppo. «Sono convinto che saprà affrontare ogni questione con le dovute cautele.» «Scusate se mi permetto, monsignor Roeller.» Una delle particolarità di Heydrich era quella di sapersi trasformare nello spazio di un baleno da squisito gentiluomo nel più velenoso tra i serpenti. «Ho saputo, però, che tra voi e papa Pacelli da tempo non corre buon sangue.» «Se devo essere sincero, Herr Heydrich, devo ammettere che tra noi i rapporti non sono troppo frequenti. Ma si tratta di cosa da poco: tra me e papa Pacelli non c'è mai stato nessun importante contrasto. E, in ogni caso, devo riconoscere che Pio XII è una persona molto intelligente...» Heydrich gli fece cenno di continuare. «... e per questo egli sa bene quanto la mia figura possa essere importante in questo momento: io rappresento il tramite tra la Santa Sede e la Germania del Reich. Non credo potrà fare a meno di ascoltare i miei consigli.» «Apprezzo la vostra logica, monsignor Roeller. Credo che sia tempo di trasferirci nell'ufficio di sua eccellenza il Führer: non mi sembra opportuno farlo aspettare. Era ansioso di incontrarvi già da prima che voi vi recaste a
Roma in udienza dal papa: non è un segreto per nessuno che Adolf Hitler non ami molto Eugenio Pacelli, sin dai tempi dei suoi incarichi apostolici qui in Germania.» Tirolo, fine anni '30 Il Wilden Kaiser si stagliava sopra la valle con i suoi quasi duemilacinquecento metri di altezza. Tutt'attorno al piccolo centro tirolese di Söll troneggiavano invece le cime ammantate da una spessa coltre di neve. Otto Rahn respirò a pieni polmoni. Aveva incominciato a nevicare da poco, ma non sarebbero certo stati pochi fiocchi a farlo desistere dalla sua camminata quotidiana. Era arrivato con due giorni d'anticipo sulla data dell'appuntamento fissato con Himmler ed era intenzionato a godersi due giornate di vera vacanza. Ciò che avrebbe comunicato al Reichsführer era il risultato di una vita di studi, ricerche, stenti, angosce e pericoli. Finalmente ce l'aveva fatta: il segreto dei catari era, per quanto lo riguardava, risolto. Mancavano solamente alcuni particolari, per lo più di tipo pratico. Ora sarebbe stato necessario realizzare opere molto impegnative all'interno della grotta, lavori che non sarebbero certo passati inosservati. A risolvere quel tipo di problemi ci avrebbero però pensato Himmler e il suo sconfinato potere. Non era cosa che spettasse a lui. Gli scarponi affondavano nella neve fresca, tanto che Rahn dovette calzare le racchette per continuare nella sua passeggiata. Si sentiva appagato e in pace con la natura che lo circondava. Carla Jeogeres Núñez aveva seguito Otto Rahn passo dopo passo, senza mai perderlo di vista. Quando la neve incominciò a scendere più fitta e la visibilità a calare sensibilmente, l'agente del controspionaggio francese fu costretta ad affrettare la sua andatura per non perdere le tracce sul sentiero. Otto Rahn aveva udito distintamente il rumore di un ramoscello che si spezzava alle sue spalle. Con la mano destra si assicurò che il revolver fosse sempre al suo posto, infilato nella cintura. Il contatto con il calcio in legno dell'arma ebbe il potere di rassicurarlo. Si accovacciò ai piedi di un grosso tronco e restò in attesa. Ora avrebbe scoperto se qualcuno lo stava seguendo o se a insospettirlo erano stati solamente i rumori della foresta. Carla Jeogeres Núñez lo vide acquattato dietro il tronco della pianta. Si
nascose a sua volta: sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare. Rahn si sporse leggermente. La convinzione che non esistesse alcun pericolo si stava facendo strada in lui, quando il calcio della pistola di Carla si abbatté sulla sua nuca. Otto Rahn perse i sensi e cadde riverso a faccia in giù nella neve. L'agente non perse tempo: aprì la bocca di Rahn. Gli sollevò la lingua, tenendola tra il pollice e l'indice, quindi inserì l'ago della siringa nella zona sublinguale. Londra, fine anni '30 Kater sapeva che, quando l'ammiraglio Sinclair lo convocava nel suo ufficio di comandante in capo dell'MI6, gli sarebbe stato affidato qualche incarico quasi impossibile da realizzare. Ma quel giorno lo aspettava un'autentica sorpresa. Non appena si fu accomodato, l'ammiraglio gli mostrò alcune foto di una splendida dimora ottocentesca nella quale si mescolavano con effetti incredibili lo stile gotico vittoriano, il Tudor e il barocco olandese. «Si chiama Bletchley Park e prende il nome dalla cittadina di Bletchley», disse l'ammiraglio Sinclair. «Non vi sto a raccontare nei particolari la sua storia che risale agli inizi del XVIII secolo. Vi dirò solo che la proprietà era stata venduta da un nobile in cattive acque a un imprenditore edile che aveva intenzione di raderla al suolo. Per questo ho pensato bene di acquistarla.» «Un'ottima scelta, signore. Credo che voi e la vostra famiglia starete benissimo a Bletchley Park», disse Kater, sempre più stupito dalle confidenze che stava ricevendo dal suo riservatissimo superiore. «Se con ciò intendete dire che ormai tutti voi siete diventati la mia famiglia, allora avete ragione, Kater. Ho deciso di trasferire a Bletchley Park l'intera Station X, il centro di decrittazione che voi andrete a dirigere.» Kater lo guardò annichilito. «Sono... sono onorato, signore. Spero soltanto di non deludere le vostre aspettative e quelle della nostra nazione. Stiamo navigando in acque difficili e pericolose.» «È vero, Kater. E sarà sempre peggio, almeno sino a quando la Gran Bretagna non sceglierà con chi stare. Se continueremo a schierarci oggi con Stalin e domani con Hitler, riusciremo soltanto ad aumentare confusione e disordine. Dal canto mio, voi lo sapete bene, ho ben poca simpatia per i nazisti. A proposito... Mi risulta che il duca di Kent abbia ripreso le
sue frequentazioni... ehm... poco ortodosse...» «Di che genere di frequentazioni state parlando, signore? Non vorrei sembrarvi irrispettoso, ma dovendo seguire da vicino il fratello di sua maestà per qualche tempo, ho avuto modo di osservare 'frequentazioni' di tutti i generi.» «Pare che il duca sia in costante contatto con il braccio destro di Hitler, Rudolf Hess. Non sarebbe male se voi lo teneste d'occhio ancora per un po'.» Kater capì perfettamente che quell'ordine significava una nuova serie di pedinamenti e appostamenti. Ma, del resto, era consapevole che la faccenda era della massima delicatezza e che quell'incarico equivaleva a una attestazione di totale fiducia da parte del suo superiore. Quella sera, come faceva ormai da tempo, Kater disegnò su di un foglio bianco un pentagramma sul quale trascrisse note e parole dell'antica canzone che ormai conosceva a memoria. Si soffermò sulle dissonanze, quindi scosse la testa: nonostante la sua conoscenza dei linguaggi cifrati, non riusciva a venirne a capo. Avrebbe avuto bisogno di aiuto per risolvere quel rebus. Per padre Daniel Mc Aiden sarebbe stato impossibile cercare di nascondere la sua origine irlandese: aveva i capelli rosso fuoco, la carnagione lattea costellata di efelidi e un nome che profumava come il St Stephen's Green, il parco nel centro di Dublino, a primavera. Prima di divenire il responsabile del London Orator Choir, un coro tra i più famosi al mondo che aveva sede presso la chiesa del Brompton Oratory, padre Mc Aiden aveva trascorso un lungo periodo presso la Santa Sede, dove aveva lavorato a stretto contatto con il segretario di Stato monsignor Pacelli. A ragione era considerato uno dei maggiori esperti al mondo di musica sacra e medievale. Con il capitano di fregata Rowell Kater condivideva la passione per gli strumenti antichi e tra i due era nata, col tempo, una solida e sincera amicizia. «Vediamo un po' che cosa mi ha portato il mio amico marinaio...» disse Mc Aiden aprendo con cura l'involto nel quale era racchiuso lo spartito. «Piano... Fate piano, padre Daniel...» lo esortò Kater. «Un antico spartito...» Mentre parlava Mc Aiden esaminava la pergamena. «... diciamo del XII secolo... Francia, probabile origine nella regione della Linguadoca. Direi che si tratta della seconda parte di una canzone.
Possedete anche la prima parte, capitano Kater?» «Purtroppo no, padre. Ma la singolarità dello spartito è un'altra: alcune note stridono. Sembra che siano state collocate erroneamente nel pentagramma. Forse per dare forma a un messaggio cifrato. Un messaggio al quale però non riesco a risalire. E la cosa sta diventando per me un'autentica ossessione.» «Mi sembra strano che proprio voi, capitano, non riusciate a decifrare un codice segreto. Comunque era prassi piuttosto frequente, nel Medioevo, affidare alle canzoni i propri pensieri o messaggi più segreti. Potete lasciarmi il manoscritto per qualche giorno, Rowell?» «Certo. Ma mi raccomando, padre: è un reperto molto prezioso. Abbiatene cura.» «Non temete, capitano. Sapete bene che qui si trova in mani sicure.» Tirolo, fine anni '30 Il potente sedativo a base di fenobarbital stava incominciando a circolare nel sangue di Rahn proprio mentre questi riprendeva i sensi. Con lo sguardo annebbiato, il tedesco cercò invano di liberare le mani che la donna gli aveva saldamente legato dietro la schiena. Quindi si concentrò sui contorni di quel viso che gli sembrava familiare. «Io vi ho già vista!» disse Rahn con la voce impastata, poco prima che le sue capacità cognitive e la sua volontà venissero sopraffatte dalla massiccia dose di barbiturici. «In treno.... Ai Marroniers... Sono anni che mi inseguite...» Poi fu la volta di Carla: le sue domande si fecero via via più incalzanti, mentre l'uomo scivolava in uno stato di incoscienza stranamente vigile. I primi tepori di una primavera precoce avevano intaccato la coltre della neve facendole perdere consistenza. I due ragazzi giocavano a nascondersi nei pressi della radura tra gli alberi. Il padre gli aveva raccomandato di tornare a casa prima del tramonto. La loro attenzione venne catturata da una figura di spalle, appoggiata al tronco di un albero. Sembrava non avesse udito i loro schiamazzi. I due girarono attorno all'albero e la realtà si rivelò loro con la terribile smorfia che la morte dipinge a volte sul viso degli uomini. Il gelo aveva impedito la decomposizione dei tessuti. Il cadavere di Otto Rahn giaceva con la testa reclinata. La schiena era appoggiata allo stesso
albero dietro al quale l'uomo si era seduto poco meno di un mese prima. I fratelli Maier lo riconobbero immediatamente: si trattava di quello stravagante tedesco che erano rimasti a osservare tempo addietro mentre scompariva nella tormenta. Dopo di lui era passata anche quella signora altrettanto strana che parlava francese. Il giorno seguente al rinvenimento del corpo, la tranquilla routine del paese venne sconvolta dall'arrivo di uomini in divisa che interrogavano chiunque capitasse loro a tiro, in cerca di informazioni sul tedesco e sulla donna. Nei pressi del cadavere erano stati rinvenuti due flaconi di medicinale vuoti. Nessuno si prese mai la briga di analizzarli e la morte misteriosa di Otto Rahn venne liquidata come suicidio in fretta e furia. Nessuno tra le alte sfere del Reich gradiva prestarci troppa attenzione. Con la scomparsa di Otto Rahn si chiuse una finestra che avrebbe potuto affacciarsi su un antico segreto della Storia. Ma la Storia era in quel momento indaffarata in faccende ben più impellenti. A nessuno interessava il destino di un pugno di eretici medievali. Polonia, fine anni '30 Quando il generale Pilsudski, dopo un decennio di regime militare, aveva lasciato - nel 1935 - la vita terrena e la sua Polonia, quest'ultima era vista come uno Stato bene armato e pronto a difendersi contro qualsiasi aggressore. Il popolo polacco, infatti, con l'irrilevante eccezione dei due opposti schieramenti minoritari filobolscevico e filonazista, era formato per lo più da ferventi indipendentisti, pronti a vendere caro ogni metro del suolo patrio. Il 23 agosto del 1939 Ribbentrop per la Germania e Molotov per la Russia avevano sottoscritto un reciproco patto di non aggressione. Soltanto una settimana più tardi, le truppe del Reich davano inizio alle ostilità contro le armate polacche. Il 1° settembre i militari tedeschi dilagavano in Polonia, aprendo quello che venne chiamato «corridoio di Danzica». Dopo l'invasione della Polonia, Adolf Hitler concluse il suo discorso dinanzi al Reichstag con queste parole: «E mi piacerebbe chiudere con la dichiarazione che feci una volta quando cominciai la lotta per il potere. Dissi allora: 'Se la nostra volontà sarà
tanto forte da non essere vinta dalla fatica e dalla sofferenza, allora la potenza della Germania prevarrà'». Era iniziata la seconda guerra mondiale. 37 Linguadoca, 2007 «Lei è un parente, dottor Breil?» chiese il medico imbarazzato e intimidito. Non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi di fronte a quel piccolo uomo che aveva tenuto in mano le sorti di Israele e del mondo. Oswald avrebbe voluto dirgli che lui era qualcosa di più che un parente, che Sara era la donna della sua vita. Invece scosse il capo e, in un francese impeccabile, rispose che la signorina Terracini era una sua cara e vecchia amica. Quindi il responsabile del reparto terapia d'urgenza e rianimazione degli Ospedali Riuniti di Tolosa continuò: «La signorina Terracini ha subito una grave anossia e ora versa in coma. Siamo costretti a dirle, dottor Breil, che le sue condizioni sono disperate e che, se anche dovesse risvegliarsi dal coma, non sappiamo ancora quali e quanti danni siano stati provocati alle cellule cerebrali e al resto dell'organismo dalla temporanea mancanza di ossigeno. Ma la signorina è di tempra forte e l'esperienza mi ha insegnato ad abbandonare le speranze solo di fronte all'inevitabile. Inoltre, i primi interventi di soccorso effettuati da due colleghi casualmente presenti sul luogo dell'incidente sono stati provvidenziali. Se così non fosse stato, dubito che la signorina Terracini si sarebbe salvata». «La ringrazio, dottore. Ho piena fiducia in lei e nella sua équipe.» Oswald Breil sedette sulla panca in formica grigia e alluminio nella sala d'aspetto del reparto, con gli occhi gonfi di lacrime. Pensava a quanto bizzarra fosse la vita: lui aveva coinvolto Sara in decine di avventure pericolose e adesso lei combatteva con la morte a causa di un incidente avvenuto banalmente durante una delle sue ricerche archeologiche. Erano trascorse molte ore e quel singolare personaggio, già primo ministro di Israele, era sempre rimasto lì, seduto insieme a persone normali e anonime, accomunate da un analogo dolore. «Posso portarle un caffè, dottor Breil?» La donna aveva parlato in francese con una voce gentile e musicale, solo lievemente tremula. Oswald alzò gli occhi e vide il volto sorridente di una signora molto an-
ziana. «Non si preoccupi, dottor Breil. Ho più di novant'anni, ma sono in grado di servirle del caffè senza tremiti nella mano. Non posso però garantire la qualità di una bevanda che proviene dai meandri diabolici di una macchina automatica. Lo accetta comunque?» Oswald le sorrise grato: aveva davvero bisogno di un caffè e più ancora di distrarsi dai suoi cupi pensieri. Lei tornò da lì a poco, tenendo in mano un bicchierino di plastica, sedette di fronte a Breil e attese che avesse bevuto prima di ricominciare a parlare. Oswald si accorse che tre dita della mano destra della donna mancavano dell'ultima falange. Quegli antichi segni di sofferenza lo indussero a prestare tutta la sua attenzione all'anziana signora: lei sembrò accorgersene e, senza ulteriori preamboli, prese a parlare. «È successo alla Grotte des Chevaliers, non è vero?» gli chiese. «Che cosa ha detto, signora?» chiese Oswald stupito. Non si aspettava una domanda tanto diretta. «Le ho chiesto se l'incidente alla sua amica è avvenuto nella Grotte des Chevaliers.» «Sì, mi sembra che qualcuno abbia fatto quel nome... des Chevaliers... Ma lei come fa a...» «Deve avere pazienza, dottor Breil. Alla mia età anche il parlare costa energia», disse, ponendo il dito indice in verticale tra naso e bocca. «Anzitutto lasci che mi presenti: mi chiamo Carla Bock. Prima che sposassi il capomastro Bock - sia pace alla sua anima buona - il mio nome era Carla Jeogeres Núñez. Per buona parte della mia lunga vita ho militato nei servizi segreti francesi. Mi rendo conto di sembrarle inopportuna ma, vede, ho un dubbio che mi assilla da oltre mezzo secolo e riguarda proprio quella grotta: la Grotte des Chevaliers. Ho saputo dal notiziario locale dell'incidente occorso a una stimata ricercatrice italiana. Per questo ho chiesto a mio nipote di accompagnarmi qui. Quando l'ho vista, dottor Breil, ho avuto la conferma che molti dei miei sospetti potrebbero risultare fondati.» Washington, 2007 «È una follia! Però mi piace...» esclamò Phil Damiano. L'azzardo e l'intrigo erano la sua linfa vitale, da sempre. «Certo si tratta di un piano molto rischioso, anche perché l'intera rete dei
nostri agenti in Iran è stata smantellata dal controspionaggio di Pashelvi», continuò il generale Corrige. «Ma è pur vero che, senza correre qualche rischio, non è possibile uscire da una situazione che minaccia la sopravvivenza del mondo intero. Anch'io sono convinto che il piano proposto da Oswald Breil sia da prendere in seria considerazione.» «Certo, generale. Sono d'accordo con lei. Ne discuteremo con lo stesso Breil non appena rientrerà dall'Europa. È dovuto partire all'improvviso per assistere una sua cara amica che ha avuto un grave incidente.» Linguadoca, 2007 Oswald Breil era di nuovo seduto sulla fredda panca di formica della sala d'attesa. Dopo che Carla Jeogeres Núñez lo aveva lasciato, aveva camminato a lungo su e giù per il corridoio, cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. Poi, quando un infermiere gli aveva portato camice e mascherina sterili, era entrato nella sala di rianimazione. Lì era rimasto immobile di fronte al corpo immoto di Sara, consapevole che la vita della sua amica era appesa a un filo. Deman van der Duick lo trovò così, seduto nella saletta, con la testa tra le mani e lo sguardo perso nel vuoto. «Avrei preferito conoscerla in un'altra circostanza, dottor Breil», disse il magnate sudamericano tendendogli la mano destra, quindi proseguì. «Una terribile disgrazia. Sono giunto qui da Asunción non appena ho potuto. Come sta Sara? Che cosa dicono i medici? Se fosse possibile trasportarla, mi sono messo in contatto con il miglior centro di rianimazione...» «Sara è in coma profondo. Le sue condizioni restano disperate. Ma questo è un ottimo ospedale e dispone di un'équipe di altissimo livello. In realtà l'unico luminare che potrebbe salvare Sara è Dio. Piuttosto, mi dica: ha qualche dettaglio in più sull'incidente?» «No, dottor Breil, la guida che accompagnava Sara mi ha detto che la polizia ha chiuso con i sigilli il cancello d'ingresso della grotta e ha disposto un pattugliamento del luogo: la dottoressa Terracini è una studiosa molto nota e le autorità francesi sono le prime a voler fare chiarezza sull'accaduto.» «So che lei è stata l'ultima persona a sentire Sara prima dell'immersione, signor van der Duick. Ha detto qualcosa di strano... ha percepito un diverso tono nella voce...»
«Non direi, dottor Breil, mi sembrava tutto normale.» Un'ora più tardi, van der Duick si congedò da Breil. Oswald invece non riusciva a staccarsi da quel luogo. Era come se rimanendo lì potesse aiutare Sara e accudirne il sonno. A questo stava pensando, quando il suo telefono prese a squillare. «Sono Toni Marradesi, dottor Breil. Lei è al corrente...?» Toni Marradesi era da sempre il collaboratore più fidato di Sara Terracini, che ne ammirava la competenza e la dedizione al lavoro. «Sì, dottor Marradesi. Sono all'ospedale di Tolosa.» «Sono appena arrivato a Tolosa anch'io, dottor Breil. Tra poco sarò lì.» Toni e Oswald parlarono a lungo, poi, con aria sconsolata, il ricercatore italiano disse: «E pensare che era così entusiasta quando mi ha chiamato per chiedermi cosa ne pensavo della faccenda del muro...» «Muro?» «Sì, dottor Breil: poche ore prima dell'incidente Sara mi ha telefonato e mi ha parlato di un muro che aveva rinvenuto sul fondo di un piccolo lago all'interno della grotta. Eravamo entrambi dell'idea che si potesse trattare di una costruzione medievale. Alla fine della telefonata mi ha assicurato che, non appena fosse riuscita a fotografarlo, mi avrebbe mandato le immagini.» «Un muro sott'acqua...» disse Breil con aria pensosa. «Non ne avevo ancora sentito parlare. Adesso che lei è qui, dottor Marradesi, posso andare a trovare un mio vecchio amico: sono certo di lasciare Sara in ottime mani. Non voglio che rimanga sola... nel caso dovesse svegliarsi.» La prefettura del dipartimento dell'Ariège aveva sede a Foix. Yves Tamberly aveva appena compiuto sessantadue anni e da tre si era insediato in rue de la Prefecture con la qualifica di prefetto. Il suo curriculum era ricco di onorificenze e di medaglie al merito, per lo più ottenute in missioni all'estero per conto dei servizi segreti francesi. Si era sposato in età matura e, dopo la nascita dei figli, aveva deciso che era giunto il momento di fermarsi e di dare alla sua vita un indirizzo più tranquillo. Aveva un fisico massiccio, il naso schiacciato da alcuni incidenti e uno sguardo fermo e coraggioso. Molti dicevano, lusingandone la vanità, che assomigliava all'attore Lino Ventura. Tamberly alzò il ricevitore e la giovane centralinista gli disse: «Una chiamata per lei, signor prefetto. Dice di essere un suo vecchio amico. Si chiama... Oswald Breil».
«Oswald», esclamò incredulo Tamberly una volta in comunicazione col suo interlocutore. «Ma sei davvero tu? Qual buon vento...?» «Non è un buon vento, mio caro Yves: mi trovo dalle tue parti a causa di un grave incidente occorso a una persona a me molto cara.» «Stai parlando dell'archeologa italiana che faceva ricerche nelle grotte di Ornolac?» «Sì, Yves, proprio lei.» «Mi dispiace... Comunque ho disposto la chiusura della grotta e il piantonamento dell'unico ingresso della medesima. E ho personalmente presieduto alle indagini: la dottoressa Terracini è una personalità scientifica di grande rilievo internazionale. Ma ora dimmi che cosa posso fare per te, Oswald.» «Prepararti a un'escursione. Disdici i tuoi appuntamenti e dedica quello che resta della tua giornata a un vecchio amico. Sto venendo a prenderti, sarò lì tra mezz'ora.» La Tarasque, il dragone scolpito nella roccia, presidiava l'accesso alla Grotte des Chevaliers. Ai due agenti di guardia la coppia dovette sembrare alquanto singolare: il prefetto era accompagnato da quello che poteva essere un elfo appena uscito dalla foresta che si stendeva nella piana dell'Ariège. «Rimuovete i sigilli dal cancello e aprite», ordinò Tamberly. La grotta era illuminata da una serie di fari alogeni che sottolineavano le forme delle magnifiche formazioni di roccia calcarea. Oswald incominciò a camminare lungo la sponda del laghetto, prendendo mentalmente nota degli indumenti e delle attrezzature subacquee; tutto era ancora rimasto come al momento dell'incidente. «Sara era una subacquea esperta e mai avrebbe effettuato un'immersione in situazioni meno che sicure», pensava Breil. La parte superiore della tuta in neoprene era stata forse tagliata dai medici che le avevano praticato i primi soccorsi e adesso giaceva in un angolo, simile alla pelle vuota di un serpente dopo la muta. Oswald la raccolse, poi aprì il rubinetto della bombola, verificando la presenza e la pressione dell'aria all'interno. Ispezionò la Sorbona, anch'essa abbandonata sulla riva. Quindi si fermò folgorato. L'erogatore dell'aria era scomparso. Come mai non era più collegato alla bombola? «Come si chiamano i medici che hanno soccorso Sara?» chiese Oswald a Tamberly.
«Aspetta, ho qui i loro nomi e i numeri di telefono», rispose il prefetto, che aveva portato con sé i verbali stilati dai suoi agenti. «Sono Yves Tamberly, il prefetto dell'Ariège», disse il francese una volta usciti dalla grotta, parlando al cellulare. «Parlo con il dottor Masins? Le dispiacerebbe rispondere ad alcune domande che uno degli inquirenti vorrebbe rivolgerle, dottore?» Tamberly passò il telefono a Oswald. «Dottore, lei ricorda se qualcuno ha smontato l'erogatore dalla bombola della signorina Terracini?» «Sì... ora ricordo... L'uomo che accompagnava la signorina, e che non si era immerso, mentre noi cercavamo di rianimarla si è messo ad armeggiare con la bombola. La cosa mi ha stupito, ma poi gli ho chiesto di venire ad aiutarci e non ho più pensato all'episodio.» «Grazie, dottore. E grazie per tutto quello che ha fatto», disse Oswald chiudendo la comunicazione. «Adesso non ci rimane che interrogare la guida», concluse rivolto al prefetto. «Ho già chiesto ai miei di rintracciarlo. Si chiama Nardonne e abita qui vicino: ci metterà poco a raggiungerci.» «Lo credi?» chiese Breil con aria dubbiosa: era come se presagisse qualcosa. Mai sensazione si rivelò essere più corretta: Nardonne, la guida turistica, era rimasto vittima di un pirata della strada che lo aveva travolto con la sua automobile fratturandogli una gamba. Da allora, ed erano trascorsi alcuni giorni, la guida era rimasta a letto, impossibilitata a muoversi. «A questo punto possiamo anche abbandonare la grotta», disse Oswald. «Quel che è certo è che l'incidente di Sara sembra sempre meno un episodio casuale. Cosa ne dici, Tamberly?» Fu allora che il telefono di Oswald prese a squillare. La voce di Toni Marradesi era talmente concitata che per un attimo il piccolo uomo temette il peggio. Toni Marradesi aveva chiesto ai medici di poter stare vicino a Sara per alcuni minuti. La procedura per entrare nella camera di rianimazione prevedeva che dapprima si sostasse in una camera di «decantazione», illuminata con speciali lampade igienizzanti; quindi si dovevano indossare tuta, guanti, cuffie, mascherina e ghette sterili. Marradesi era rimasto alcuni minuti al capezzale della ricercatrice, senza riuscire a trattenere le lacrime. Poi era uscito e aveva cercato di riprendere il controllo delle sue emo-
zioni passeggiando per i corridoi: la saletta d'aspetto era occupata dai parenti di altri malati. A un tratto il comportamento di un infermiere aveva attirato la sua attenzione. Il volto dell'uomo era coperto per metà dalla mascherina. Aveva aperto la porta a vetri della camera di decantazione e, senza avere indossato gli indumenti sterili, si era diretto verso la sala di rianimazione. «Che cosa sta facendo? Lei non ha eseguito le procedure necessarie!» aveva detto Toni ad alta voce, richiamando così l'attenzione dei presenti. L'infermiere, per tutta risposta, era tornato sui suoi passi, quindi aveva tentato di darsela a gambe da un'uscita laterale. Era stato a quel punto che un uomo e una donna, che Toni aveva creduto fossero parenti di qualche ammalato, si erano alzati dalla panchina in formica. «Fermo! Siamo agenti della Sûreté!» avevano ingiunto all'infermiere. Una pistola era comparsa nella mano dell'uomo che si era messo a sparare. La donna si era gettata a terra, mentre l'uomo era stato colpito alla spalla da uno dei proiettili. Era accaduto tutto in una manciata di secondi, poi la donna aveva aperto il fuoco a sua volta e il malvivente era caduto a terra, colpito a morte. Quando Oswald chiuse la comunicazione con Toni Marradesi, il prefetto lo guardò con aria interrogativa. «Hai messo un piantonamento all'ospedale, Yves?» gli chiese Breil. «Certo, appena ho saputo che tu eri uno degli ingredienti della zuppa, mi sono detto che la prudenza non sarebbe mai stata troppa. Che cosa è successo?» «I tuoi agenti e il buon Toni Marradesi hanno appena sventato un nuovo tentativo di far tacere per sempre Sara. Pare che un tuo uomo sia ferito in maniera lieve alla spalla. Sono sempre più convinto che si debba capire in fretta che cosa Sara ha scoperto di tanto importante da farla condannare a morte. Penso che domattina di buonora farò una bella immersione nel laghetto della Grotte des Chevaliers. Adesso devo tornare in ospedale: Marradesi mi è sembrato davvero scosso.» Teheran, 2007 «Quattro VLCC cariche di greggio consegnate al netto di costi, assicurazione e nolo in porti occidentali? Ma lei sa che cosa significa questo?»
Gholam Pashelvi aveva gli occhi sgranati e un'espressione furiosa. «Ogni Very Large Crude Carrier, le cosiddette superpetroliere, trasporta mediamente trecentomila tonnellate di greggio: quindi il 'corrispettivo' che il suo cliente mi sta chiedendo si aggirerebbe attorno al mezzo miliardo di dollari! Una follia!» «Ogni follia ha il suo prezzo, eccellenza», disse Fadah, il mercante d'armi di origine giordana. «Ed è questo il prezzo che il mio cliente chiede per rifornirvi del materiale che voi state cercando. Tutto ciò, beninteso, una volta appurato che la quantità e le caratteristiche del materiale siano tali da consentirvi di realizzare un'arma nucleare.» «È solo una questione di tempo, non posso accettare una proposta del genere, anzi un tale ricatto. Non appena avremo riattivato l'attività delle nostre centrali nucleari distrutte dai terroristi...» «Mi permetta di dissentire, eccellenza. Servo onorevolmente il suo Paese da abbastanza tempo per conoscere quale sia l'autentica potenzialità di quelle centrali: una potenzialità da sempre prossima allo zero assoluto. Mi consenta anche di precisare che non si tratta di un ricatto: non mi permetterei mai. Quella del mio cliente è una semplice offerta che, inoltre, potrà essere formalizzata solo quando egli avrà valutato l'effettiva disponibilità del materiale. E concludo facendole notare che, al momento, il mio cliente pare essere l'unico al mondo intenzionato a venirle in aiuto.» «E va bene. Devo ammettere che sa essere persuasivo. Scaricata l'ultima goccia di greggio, il suo cliente porterà a bordo il materiale che gli abbiamo richiesto. Sempre che questo si sia rivelato essere quello che sembra», disse Pashelvi con aria severa. «Capisco la sua perplessità, eccellenza», disse Fadah fattosi d'un tratto più accomodante, «ma non è intenzione del mio cliente quella di truffarla. Prova ne sia la sua prudenza nella trattativa: solo quando sarà entrato in possesso dell'arma e ne avrà controllato ogni reale potenzialità, egli concluderà l'accordo con lei. Mi creda, non è il denaro l'interesse del mio cliente, ma un fine che vi accomuna: la scomparsa di Israele e del suo popolo dalla faccia della Terra.» Linguadoca, 2007 «Siamo riusciti a identificare il falso infermiere dalle sue impronte digitali», stava dicendo Tamberly a Breil, mentre entravano in auto nel grande parcheggio degli Ospedali Riuniti di Tolosa. «Si chiamava Paul Herder ed
era una nostra vecchia conoscenza: un tipo pericoloso, da sempre legato ai movimenti neonazisti europei.» «Stai pensando che lui e la guida che accompagnava Sara fossero la stessa persona?» «Il mio è qualcosa di più di un pensiero, Oswald. Ho appena ricevuto il responso dalla centrale della Scientifica sulle impronte rilevate nella Grotte des Chevaliers. Alcune di queste appartengono a Herder: era lui l'uomo con Sara e quasi certamente è stato lui a manomettere l'erogatore. Solo che l'intervento tempestivo dei turisti-medici ha rovinato il suo piano.» «Così come qui in ospedale l'attenzione di Toni Marradesi e la prontezza dei tuoi agenti hanno reso vano il suo secondo tentativo. Ora devo chiedere lumi a van der Duick in merito all'identità della guida, anche se credo di conoscere già quale sarà la sua risposta.» Van der Duick rispose al secondo squillo. Il rumore di fondo dei due reattori del Boeing 737-600 rendeva difficoltosa la conversazione, ma le informazioni di cui Breil aveva bisogno avevano la priorità su tutto. «Alcuni miei collaboratori hanno contattato la guida, tramite l'agenzia turistica del luogo o forse addirittura trovandola sull'elenco del telefono», rispose van der Duick. «Ma, mi dica, sbaglio o lei crede che quello occorso a Sara non sia stato un semplice incidente?» «Supposizione esatta, signor van der Duick.» Rimasto finalmente solo nella sala d'attesa, Oswald aprì il computer portatile, e si collegò in rete augurandosi che il suo interlocutore fosse reperibile. Bernstein diede l'ennesima prova della sua tempestività. digitò Bernstein dal suo ufficio di Tel Aviv.
DOVE SI TROVA ADESSO: NELLA STANZA DEI BOTTONI.> <MI DICA, MAGGIORE. SONO A SUA COMPLETA DISPOSIZIONE.> Bernstein conosceva bene il suo interlocutore e sapeva che presto il piccolo uomo gli avrebbe chiesto di scardinare qualche forziere informatico o di rincorrere un imperscrutabile indizio lungo gli infiniti viali cibernetici. Brevemente, ma senza omettere alcun particolare, Oswald mise al corrente Bernstein di quanto era accaduto nelle ultime ore, quindi concluse: <... STANDO COSÌ LE COSE, CREDO SIA IL CASO DI CERCARE DI SAPERNE DI PIÙ SUL NOSTRO AMICO FILANTROPO PARAGUAIANO. LE DISPIACEREBBE EFFETTUARE LE OPPORTUNE RICERCHE SU DEMAN VAN DER DUICK, BERNSTEIN?> Ancora una volta, Bernstein ebbe il potere di stupirlo. <MI SONO PERMESSO DI ANTICIPARLA, DOTTOR BREIL, E HO EFFETTUATO ALCUNE INDAGINI, SEPPURE SUPERFICIALI, SUL MAGNATE PARAGUAIANO. APPARENTEMENTE NON CI SONO MACCHIE NELLA SUA VITA, NÉ RISVOLTI OSCURI NELLA SUA SFOLGORANTE CARRIERA. COMUNQUE CONTINUERÒ A LAVORARCI E LE FARÒ SAPERE. SHALOM, MAGGIORE, E UN CARO ABBRACCIO A SARA.> «... un caro abbraccio a Sara...» mormorò Oswald con il cuore pesante. Quindi aprì l'ultimo file che lei gli aveva inviato. La notte sarebbe stata lunga: per niente al mondo si sarebbe mosso da lì. Si mise a rileggere le ultime pagine che gli aveva inviato Sara prima del suo terribile incidente e si lasciò trasportare dal racconto del giornalista italiano: dalle righe di Luca Raso oltre trent'anni prima, il mistero si irradiava come l'onda provocata dal sasso in uno stagno. Per un attimo ebbe l'irrazionale certezza che quelle onde fossero le stesse che ora avevano lambito la vita di Sara. Ed erano onde malvagie. Dall'Agenda di Luca Raso, Rio de Janeiro, 1976 Ho osservato con molta attenzione ognuna delle foto del classificatore. Ma in nessuno tra i gerarchi nazisti sfuggiti alla giustizia ho colto una rassomiglianza con l'aitante Erick Neumann. Alexandra Oliveiro intanto continuava a parlare. «Ho appena avuto un'ulteriore conferma: la Residencia venne acquistata, nel 1941, da una società anonima tedesca che risulta
molto attiva nelle diversificazioni di capitali germanici all'estero. E che è sempre stata legata a doppio filo alla DEST, il braccio finanziario segreto delle SS e della GESTAPO.» Non so come ne verremo a capo: gli interventi di chirurgia plastica devono avere modificato radicalmente l'aspetto delle persone che Alexandra sta cercando di identificare. Quando gliel'ho fatto notare, lei mi è sembrata ottimista e mi ha detto: «Nessun bisturi riesce a cambiare un atteggiamento, un modo di affrontare la vita o una passione. Certo che non riesco a capacitarmi di come abbiano fatto pittori falliti, allevatori di polli, rappresentanti di champagne, esoteristi e maghi a diventare quasi i padroni del mondo. Dopo aver lasciato dietro di sé un'ampia scia di sangue. Adesso noi abbiamo il dovere di ricostruire il loro passato e di fare giustizia. Non ci crederai, ma a volte basta davvero poco per identificare uno di quei soggetti... Un gesto, un tic nervoso, un innocente hobby...» «Il violino!» ho esclamato io, fulminato da un'idea improvvisa. «Qualcuno dei tuoi ricercati era un suonatore di violino?» Alexandra mi ha guardato con un'aria stupita. «Un violinista, hai detto? Sì, certo. Ma è tra coloro che risulterebbero morti.» Così dicendo, Alexandra ha aperto un secondo classificatore di fotografie. L'uomo in divisa aveva la camicia slacciata. Era seduto di fianco a una bella ragazza durante una colazione all'aperto. La macchia alla base del collo si vedeva chiaramente. Quella era la prova che cercavamo! Ecco perché Neumann aveva sempre quei fazzoletti di seta annodati al collo. Ed ecco perché quella sera nella sua biblioteca, quando si è accorto che io stavo guardando distrattamente il grosso neo, si è affettato a sistemare il suo foulard. È lui, ne sono sicuro. Gli interventi chirurgici e l'incedere degli anni non sono stati sufficienti a mascherare la realtà: il nazista in divisa ritratto in un momento di svago ed Erick Neumann sono la stessa persona.
38 Età dei metalli, II millennio a.C. Athor non aveva voluto sguarnire il villaggio conducendo con sé troppi uomini. In fondo si trattava solo di scoprire che cosa ne fosse stato del perfido Karesh e dei suoi davaar. Se Athor avesse avuto conferma che il villaggio dei pescatori era caduto nelle mani dei fedeli di Karesh, avrebbe fatto ritorno dai suoi e solo allora avrebbe organizzato una vera spedizione per annientare una volta per tutte il suo acerrimo nemico. Dehal era malinconica quella mattina: il suo uomo, ancora una volta, stava per andare incontro all'ignoto. «Sei proprio deciso, Athor?» gli aveva chiesto, sperando di convincerlo a cambiare idea. «Devo partire, Dehal. È mio dovere fare di tutto per combattere la minaccia rappresentata da Karesh. E poi non è detto che i davaar e il loro sovrano siano sopravvissuti e che si siano insediati nel villaggio sulle rive del mare: forse i pescatori non sono venuti a celebrare il rito del solstizio ogni volta per un motivo diverso. Potrebbero essere morti per una carestia o essere stati costretti a emigrare altrove. O, forse, sono rimasti uccisi da uno dei violenti terremoti che scuotono la nostra terra. Non devi temere, tornerò presto», le disse con un sorriso rassicurante. «Ho già visto in sogno quello che mi stai dicendo, mio uomo. E so bene che non potrò fare nulla per distoglierti dal tuo volere. Tieni, prendi questo oggetto. L'ho fatto con le mie mani: spero che ti possa preservare da ogni pericolo.» Quelli che avevano trascorso insieme erano stati anni meravigliosi. Negli ultimi, in particolare, avevano assaporato i piaceri che il calore di una famiglia numerosa e felice riesce a regalare. Athor prese la perla di marmo che la sua donna gli porgeva: era una sfera candida e perfetta, grossa quanto la falange del suo pollice. Al centro era attraversata da un foro nel quale Dehal aveva fatto passare un laccio di pelle. La donna annodò il laccio attorno al collo del marito. Poi le mani di Dehal cinsero le spalle del guerriero. La guancia di Athor si posò su quella della donna, rigata da silenziose lacrime. Athor si allontanò dal villaggio appena dopo il sorgere del sole, mentre una nebbia leggera si alzava dai boschi. Simili a spiriti dell'aldilà, lui e i
cinque migos che lo seguivano parvero fluttuare sopra alle nubi. Quindi scomparvero nella foresta. Il tragitto verso il villaggio dei pescatori era lungo e impervio. Athor non si era mai spinto così lontano prima di allora, ma conosceva bene la strada che suo padre, tanti anni prima, gli aveva descritto. Il sesto giorno di marcia trovarono riparo in una delle grotte che si aprivano nella montagna, a poca distanza dal mare. Tutti dormivano, a eccezione dell'uomo di guardia che stava rosolando sul fuoco la coscia del cinghiale catturato il giorno prima. La terra prese a tremare all'improvviso. Athor si drizzò di soprassalto urlando per svegliare i compagni. Un istante più tardi l'intera volta della grotta si piegò su se stessa e gli enormi massi rovinarono con un rombo assordante sul drappello di guerrieri. Athor, al riparo in una piccola nicchia, rimase impotente a guardare la scena dei suoi compagni che venivano sepolti dalle macerie. Quindi fu solo buio e desolazione. Dehal era divenuta l'erede del padre indovino. Molti ormai erano quelli che la interpellavano per conoscere il proprio futuro e lei aveva risposte sagge per tutti. I suoi sogni premonitori si erano fatti sempre più frequenti e in molti casi rispecchiavano fedelmente gli avvenimenti futuri. Si destò di soprassalto, mentre la terra tremava sotto ai suoi piedi: i terremoti erano un evento frequente, ai quali tutti loro erano abituati, ma quella notte l'angoscia si impadronì di lei. Percepì nettamente la sensazione di un terribile pericolo che minacciava il suo uomo. Svegliò Sar e gli raccomandò di prendersi cura dei fratelli, quindi, alle prime luci dell'alba, lasciò il villaggio. Le mani di Athor si imbatterono a tentoni in una delle torce che avevano utilizzato per illuminare la caverna. La diresse sulla brace e la fiamma guizzò improvvisa, illuminando la scena. Un cumulo di detriti ricopriva il luogo che i migos avevano scelto per trascorrere la loro ultima notte: nessuno dei suoi compagni aveva avuto il tempo per mettersi in salvo. Forse l'unico che avrebbe potuto scampare alla morte era la sentinella: il fuoco sul quale ardeva la preda era ancora intatto. Ma di lui Athor non vide traccia. Magari, pensò, era riuscito a fuggire dalla grotta prima del crollo. Gli altri giacevano sotto l'enorme mole di macerie. Un'altra frana, composta anch'essa da massi di grandi dimensioni, preclu-
deva l'unica via d'uscita. Athor cercò inutilmente di rimuovere alcune delle pietre: avrebbe avuto necessità di puntelli e leve per spostare quei blocchi calcarei. Ma non aveva nulla di tutto questo. Poteva contare solamente sulle sue armi: un pugnale di selce, un'ascia e un arco; e sulla forza delle sue braccia. Athor continuò a scavare, sino a che non dovette arrendersi dinanzi a un gigantesco sperone di roccia che chiudeva il passaggio. Dehal correva da giorni, sospinta da una forza misteriosa che pareva attrarla verso un punto preciso. Sentiva che il suo uomo era in pericolo. Il resto non aveva importanza. Athor non sapeva quanto tempo fosse passato. La carne del cinghiale che avevano ucciso il giorno del terremoto lo aveva tenuto in vita, ma ormai le ossa spolpate dell'animale non avrebbero più potuto nutrirlo. Nel buio, Athor si sedette e attese di spegnersi. Hosh sarebbe venuto a prenderlo. Sapeva che, quando si muore di fame, ci si addormenta dolcemente passando dalla vita alla morte senza dolore. «Ti prego, Hosh», disse Dehal rivolgendo gli occhi al cielo. «Fammi rivedere il mio uomo, fammi riabbracciare il padre dei miei figli. Ho visto in sogno che si trova in pericolo e che ha bisogno di me. Ma so che è vivo.» La donna cercava qualche traccia del passaggio dei migos benché sapesse che il suo sforzo sarebbe stato vano: la sua gente era abile a muoversi nella foresta senza lasciare segno. Vide il corpo privo di vita quando girò dietro un grosso albero. Era uno dei guerrieri partiti assieme ad Athor. Giaceva riverso, dilaniato dagli animali che avevano infierito sulle sue carni. Prima di morire, però, il giovane aveva tracciato dei segni nel terreno. Una freccia che indirizzava verso un punto nella parete di roccia: avrebbe potuto sembrare l'accesso di una grotta, se la volta non fosse stata ostruita da massi di ogni forma e dimensione. Dehal sentì l'angoscia crescere dentro di lei, quello era il luogo che aveva visto in sogno. Capì che quei massi si erano staccati di recente dalla volta, probabilmente per effetto del terremoto. Tutto si fece chiaro nella sua mente.
Servendosi dell'ascia che portava al fianco, Dehal tagliò alcuni tronchi di un legno leggero e resistente: le sarebbero stati utili per rimuovere i massi. Quindi si mise al lavoro. Sapeva che il suo uomo era là dentro e che era vivo. E lei lo avrebbe salvato. Il pensiero di Athor corse a Sar, il suo primogenito. Si augurò di avergli insegnato abbastanza per farlo diventare un buon re e che fosse in grado di raggiungere il Tempio Segreto: la legge vietava al sommo sacerdote di indicare espressamente il cammino a chiunque. E Athor si era attenuto alla legge: aveva condotto spesso il figlio alla grande grotta, senza mai rivelargli però l'esistenza del cunicolo che portava al tempio. Ai futuri re dei migos veniva però insegnato quali fossero le proprietà distruttive della Pietra di Hosh e come comportarsi per evitare di esporsi al suo potere letale. Athor sapeva che avrebbe dovuto lasciare degli indizi affinché il suo successore potesse raggiungere il tempio. Invece il tempo era passato e lui non aveva fatto i conti con la morte che a volte giunge improvvisa e inaspettata. Il rumore proveniente dal punto in cui c'era l'uscita della caverna lo mise in allerta. Athor tese le orecchie. Il suono si ripeté ancora. Forse qualcuno, là fuori, stava smuovendo le pietre. Dehal non aveva mai smesso di scavare ed era riuscita ad aprirsi un varco verso l'interno della grotta. Non sapeva quanti fossero ancora i massi che ostruivano il passaggio, ma il suo istinto le ordinava di non fermarsi, di andare avanti. Il sasso gigantesco le si parò davanti, fermando inesorabilmente la sua faticosa avanzata. Cadde in ginocchio, impotente ed esausta, la testa fra le mani. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Non sarebbe mai riuscita a spostare il macigno. «Perché? Perché, mio dio Hosh, perché tutto questo?» disse tra i singhiozzi. Il pianto della donna giunse alle orecchie di Athor come in un sogno. «Dehal! Sono io, donna. Sono qua. Come hai fatto a raggiungermi?» «Athor! Amore mio, dove sei?» «Sono qui, separato da te solo da questo masso enorme. Quanti guerrieri ci sono con te?» «Sono sola. Ma ti tirerò fuori. Stai tranquillo: tornerò al villaggio e condurrò qui tutti i migos...»
La speranza si spense nella voce del re. «Sai bene anche tu che sarebbe inutile: per andare e tornare dal villaggio impiegherai diverse lune. Io non sono in grado di sopravvivere così a lungo e il masso che sigilla l'apertura non ti consente di passarmi cibo e acqua. Torna al villaggio, Dehal, e veglia sul nostro primogenito. Fai che sia un buon re.» «No, non me ne andrò, Athor. Resterò qui con te. Sino alla fine.» Dehal si sedette nei pressi della fessura da cui proveniva la voce del grande amore della sua vita, pregando Hosh di compiere un miracolo. Ancora una volta, il dio decise di darle ascolto. La terra iniziò di nuovo a tremare e fu scossa da sussulti potenti e continui. Nel masso che ostruiva la galleria si aprì una lunga crepa, quindi, dopo una scossa più forte delle altre, si sbriciolò in centinaia di pezzi. Athor comparve in una nuvola di polvere attraverso lo stretto pertugio che il nuovo terremoto aveva creato. L'uomo e la donna caddero l'uno nelle braccia dell'altra. Piansero entrambi, a lungo, mentre Dehal mormorava all'orecchio del marito: «Ho visto tutto nel mio sogno, Athor. E ho visto anche il resto. Non è ancora finita, amore mio. Non è ancora finita». 39 Linguadoca, 1241 Il castello di Foix era stato costruito intorno al Mille e poi via via rimaneggiato. Sorgeva su una rocca che dominava il borgo sottostante, al quale era collegato mediante una strada tortuosa e stretta che s'inerpicava con una serie di tornanti sino al ponte levatoio. «Ti avevano dato per morto, cugino mio», disse Esclarmonda, sorella del conte di Foix, Raimondo Ruggero, abbracciando Aymon dopo averlo riconosciuto. «Ebbene, come vedi, si erano sbagliati. Ma mi è costata non poca fatica sopravvivere», rispose Aymon sorridendo. «Vedo che non hai perso la voglia di scherzare con tutti, come quando eri poco più che un bambino.» Una gioia sincera trapelava dal suo sguardo buono. Esclarmonda era una donna energica e retta. Aveva ricevuto il Consolamentum, il sacramento cataro, nel 1204, poco dopo essere rimasta vedova di Giordano dell'Isle. Era stato Guilberto di Castres, figura eminente per tutti i catari della
Linguadoca, a posare sul capo dell'allora giovane contessa di Foix il Vangelo di Giovanni e a recitare con lei il Padre Nostro. Da allora Esclarmonda aveva vestito l'abito nero della «buona cristiana» e aveva osservato, insieme a molti dei suoi sudditi e concittadini, i precetti del catarismo. Esclarmonda guardò il cugino con affetto: aveva pianto per lui quando lo aveva creduto morto, e adesso, trovarsi davanti quell'uomo forte e bello la riempiva di felicità: «La mia casa è la tua casa, cugino mio. Tua e della donna che ti accompagna. Qui sarete al sicuro, per il momento. Anche se temo che i soldati degli inquisitori possano provare ad assaltare il castello da un momento all'altro». «Grazie, cugina. Senza il tuo aiuto saremmo perduti: anche i possedimenti della famiglia di Marie-Louise sono stati requisiti dagli uomini di Simone di Montfort e i suoi genitori sono stati accusati di eresia e imprigionati. Di loro non si hanno più notizie da anni, e io sono ricercato come cataro infedele e come pericoloso assassino. Purtroppo è vero che ho ucciso, ma l'ho fatto per salvare la mia vita e quella della donna che amo.» Roma, 1241 Ugolino dei conti di Segni, questo era il nome di papa Gregorio IX, era il centosettantanovesimo pontefice a sedere sul trono di Pietro. La sua parentela, che alcuni chiamavano «filiale», con Innocenzo III, ne avrebbe contraddistinto l'operato. Con il suo parente e predecessore condivideva la profonda avversione nei confronti delle eresie. Per questo motivo Gregorio IX voleva che si agisse in fretta, senza indugi o ripensamenti: solo così si sarebbe estirpato il Male una volta per tutte. Il papa sedeva su uno scranno che lo elevava di almeno due spanne al di sopra di tutti gli altri presenti. Con la mano sinistra si accarezzava il mento coperto da una folta barba. L'espressione era pensierosa: i catari continuavano a opporre una resistenza strenua alle milizie di San Pietro e ciò cominciava a minare l'entusiasmo dei soldati del papa e del re di Francia. «I catari trovano appoggi ovunque: in ogni villaggio c'è chi è pronto a dar loro ospitalità e aiuto, santità», stava dicendo il nuovo vescovo di Tolosa che si era sempre distinto nella lotta contro l'eresia. «E inoltre dispongono di alcune roccaforti inespugnabili. Tra queste c'è il pog di Montségur: un castello edificato dagli albigesi, che sorge sulla vetta di una montagna inaccessibile. Ebbene noi, santità, dobbiamo impossessarci di ogni rifugio
cataro e cominciare proprio da quelli che gli eretici considerano imprendibili.» «Chi governa questo Montségur?» chiese il papa. «Si dice che il capo dei rivoltosi sia una donna, la signora del castello, una figlia di Satana, eminenza. Il suo nome è Esclarmonda di Foix, ed è la sorella del conte Raimondo Ruggero.» «E per quale motivo non abbiamo ancora fatto ricorso a un'azione militare per ridurre questa adepta del demonio all'impotenza?» «La nostra forza militare in Linguadoca, santità, in questi anni si è retta sul valore di un singolo uomo: Simone di Montfort. Sino a che egli ha avuto il comando delle milizie, i suoi soldati hanno ignorato stanchezza e ristrettezze, appagati dai loro successi militari. Ma, dopo la morte di Simone, avvenuta nel giugno del 1218 a causa di una pietra lanciata dalle mura di Tolosa cinta d'assedio, le cose sono radicalmente cambiate. La fiducia che il vostro predecessore papa Onorio aveva riposto nel figlio di Simone, Amaury di Montfort, si è rivelata eccessiva. Amaury non ha nemmeno un'oncia del carisma di suo padre. E ora le nostre truppe sono pressoché allo sbando. Inoltre, anche Foix è una città ottimamente protetta e un nostro attacco diretto potrebbe sollevare moti popolari. Perdonate il mio ardire, santità: sembra che qui a Roma le voci giungano attutite, ma in Linguadoca la situazione è davvero critica. I fedeli in Cristo vi chiedono un ultimo sforzo, santo padre, affinché un vostro intervento li liberi una volta per tutte dall'impero del demonio. La mia esperienza mi spinge a consigliarvi una sola via perché il segno di nostro Signore Gesù Cristo abbia la meglio su quella terra patria dell'eresia: bisogna espugnare i baluardi che i catari considerano imprendibili.» «E come pensate di giungere a questo traguardo? Voi stesso dite che le nostre truppe sono disperate», disse il papa all'arcivescovo di Tolosa. «Io sono un uomo di Dio e non un generale in armi, ma se ci muoveremo con attenzione, acquisendo notizie, infiltrandoci nei paesi e nelle città, riusciremo a isolare gli eretici e alimenteremo la diffidenza tra gli abitanti della Linguadoca. Solo con l'appoggio di quella parte del popolo ancora non contagiata dall'eresia riusciremo a dare nuovo vigore al nostro esercito.» L'aver dato rifugio a dei ricercati aveva segnato la carriera ecclesiastica di fratello Quentin, il priore del convento di Aurillac dove Aymon, Bahram e Sarya erano stati accolti anni prima mentre sfuggivano agli sgherri
di Simone di Montfort. Per questo il vescovo di Tolosa gli aveva ordinato di trasferirsi nella lontana Germania. Ciò era avvenuto molto tempo dopo la fuga di Aymon e dei suoi amici, quando ormai fratello Quentin si era convinto che a Roma si fossero dimenticati di lui e delle sue sospette amicizie. Il suo sogno sarebbe stato quello di restare ad Aurillac o di venire destinato in Italia, suo Paese d'origine; invece ora, quel convento sperduto nel mezzo della Vestfalia, nel territorio dei conti von Arnsberg, sarebbe entro breve diventato la sua nuova casa. Se mai il Signore gli avesse concesso la forza necessaria ad arrivarci. Anche il nome gli suonava ostile: Wewelsburg. Il frate benedettino guardò per un istante lo spartito, prima di riporlo nel baule che conteneva le sue poche cose. «Chissà dov'è finito Bahram? Chissà se lui e i suoi amici sono ancora vivi», si chiese fratello Quentin. «Se davvero questo spartito era così importante e se mai riuscirò a mettermi in contatto con loro e verranno in Germania a prenderselo.» Il convento si trovava al centro di una regione collinosa, solcata da un piccolo fiume, l'Alme, che si snodava tra fitte foreste e zone coltivate. Su di tutto dominava la rocca dei signori locali dalla curiosa forma che ricordava la punta di una freccia. Ma fratello Quentin non fece neppure in tempo ad ambientarsi nella nuova diocesi. Appena giunto a destinazione, dopo un viaggio molto disagevole durato quasi un mese, l'anziano priore si ammalò gravemente. Quando il benedettino si rese conto che non gli sarebbe rimasto molto da vivere, decise di nascondere lo scritto che Bahram gli aveva affidato all'interno di una nicchia in un muro del castello. Poco prima di chiudere gli occhi per sempre rivide il volto sorridente di Aymon mentre suonava la sua ghironda. Per tutti quegli anni aveva continuato a pensare che quella partitura nascondesse un importante segreto. «Che Dio ti benedica, Aymon, ovunque tu ti trovi.» Certo non poteva sapere, il pio benedettino, che in quel momento Aymon si stava rifugiando a Foix, pronto a combattere l'ultima decisiva battaglia della sua vita. Quentin si sdraiò sul letto della sua cella e, serenamente, si preparò a raggiungere il Dio nel nome del quale aveva vissuto e operato. Molto lontano dalla Vestfalia, un altro umile servitore fedele agli amici e
animato dal senso della giustizia aveva perso la propria libertà per avere dato aiuto a dei sodali. Per questo era rinchiuso in una segreta in attesa che i giudici dell'Inquisizione procedessero al suo interrogatorio. Guillaume Arnaud ed Etienne de Saint-Thibéry entrarono nella sala con passo solenne. Il primo era domenicano, il secondo francescano di Guascogna. Il povero Marcel aveva addosso pochi stracci logori e sudici, ancora quelli che vestiva il giorno dell'arresto, quando aveva aiutato Aymon e Marie-Louise a fuggire. Aveva i ceppi ai polsi, ma il suo sguardo era saldo e fiero. «Dove erano diretti Aymon e la sua donna?» chiese subito il francescano. «Non lo so, reverendo padre. Io sono un semplice traghettatore e non avevo capito che i soldati stessero cercando quei due. Poi la fretta mi ha fatto perdere la guida e la chiatta è stata trasportata dalla corrente...» «Smettetela di mentire! Dio vi punirà anche per questo: voi conoscevate bene i due che avete imbarcato!» disse Guillaume scorrendo delle carte che aveva poggiato sul tavolo davanti a lui. «Non è vero, reverendo padre: io non avevo mai visto né l'uomo né la donna.» «Siete pronto a giurarlo?» incalzò l'inquisitore. «Lo giuro, dinanzi a Dio.» «Blasfemo e spergiuro!» gridò il domenicano. Quindi agitò dei fogli nervosamente. «Credete di avere a che fare con degli sprovveduti? Noi sappiamo tutto di voi e di quei due infedeli. Da giovane Marie-Louise è stata allieva della scuola di musica di Puyol a Carcassonne. La stessa dove anche voi, Marcel, avete servito per molti anni. E sappiamo anche che Puyol venne sospettato di aver dato asilo e rifugio ad Aymon della Val di Daigne, prima che il giovane sparisse senza lasciare traccia. Siete ancora disposto a giurare che non conoscevate i due?» «Lo giuro.» «Torturatelo!» ordinò uno dei due inquisitori rivolto al boia, poco prima di abbandonare la stanza. Marcel crollò dopo sei giorni e sei notti durante i quali non fu mai staccato dalle macchine da tortura. Stremato, rivelò ogni cosa, compreso il fatto che si diceva che Aymon portasse con sé, sotto forma di uno spartito musicale composto dal maestro Puyol, un segreto di grande importanza. Quando fu tradotto nuovamente in cella, il traghettatore fece a strisce i
suoi cenci, quindi li arrotolò sino a formare una corda lunga oltre tre braccia. Passò la corda attorno a un supporto in ferro usato per le torce. Il mattino successivo, lo trovarono appeso come un sacco, con le gambe penzolanti nel vuoto. 40 Germania, anni '40 Il castello di Wewelsburg aveva una singolare pianta a forma di freccia che puntava verso nord. Per questo alcuni tra i più stretti collaboratori di Hitler, tra i quali Himmler, si erano convinti che in quel punto si trovasse il centro del mondo, del mondo nazista. Il Reichsführer SS lo aveva quindi affittato alla simbolica cifra di un marco l'anno dalla municipalità della cittadina nella Vestfalia Nordoccidentale. Nella mente di Himmler aveva preso forma un grandioso progetto edilizio che prevedeva la ricostruzione e il restauro dell'imponente edificio. Himmler per prima cosa aveva fatto allestire un campo di concentramento nelle vicinanze del castello per poter usufruire di manodopera gratuita. Erano più di quattromila gli operai che avrebbero lavorato alla ristrutturazione del castello di Wewelsburg. Le direttive venivano impartite da Himmler stesso al suo architetto personale, Hermann Bartels. Era notte fonda quando gli uomini delle SS Totenkompf fecero irruzione nella baracca numero 15 del campo di concentramento di Dachau. Bock, il capo della baracca, era ancora sveglio. Chissà perché stava pensando all'evasione che aveva avuto luogo alcuni anni prima: quel brutto ceffo di Raush si era dato alla fuga insieme all'ingegner Filcher. Abelard Bock era comunista in ogni sua fibra e per niente al mondo avrebbe rinnegato il suo credo. Aveva partecipato a tutti i moti insurrezionalisti che avevano infiammato il territorio tedesco ben prima dell'avvento di Hitler e dei suoi seguaci. Per un po' di tempo, dopo che i nazisti avevano preso il potere, aveva continuato a lavorare come capomastro; e aveva sperato di riuscire a sfuggire all'arresto. Ma non era stato così: i nazisti erano inesorabili con i loro nemici. E così aveva dovuto abbandonare ogni cosa: la libertà e, con essa, la sua grande passione per il volo. Chissà se ancora gli sarebbe servito il brevetto di pilota conquistato al prezzo di enormi sacrifici!
Quella notte il trambusto non l'aveva colto di sorpresa. Accadeva spesso che le guardie facessero irruzione nella baracca. Ma rimase stupefatto quando l'ufficiale che comandava il drappello gli puntò l'indice addosso dicendogli: «Seguici, Abelard Bock!» Nell'ufficio del comandante gli era stato notificato il suo immediato trasferimento. Lui e altri dieci prigionieri erano stati caricati sul cassone di un camion. Dopo venti ore di viaggio estenuante erano giunti a destinazione. Bock aveva guardato il grande edificio che dominava il campo di concentramento chiamato KZ Niederlagen: si trattava di un castello in corso di ristrutturazione. La forma del maniero era davvero singolare: pareva un triangolo isoscele rivolto verso nord simile alla punta di una freccia. Il capomastro Bock avrebbe presto appreso che si trattava di una vestigia tra le più care all'anima inquieta di Himmler: il castello di Wewelsburg. Le truppe tedesche avevano aggirato la linea Maginot nel mese di maggio del 1940 ed erano dilagate nel territorio francese dopo aver conquistato Danimarca, Norvegia, Belgio e Paesi Bassi. Nel giro di pochi giorni, grazie alla tecnica di quella che i nazisti avevano soprannominato Blitzkrieg, la guerra lampo, le truppe del Terzo Reich avevano sfilato lungo gli Champs-Elysees. Inghilterra, anni '40 Sembrava che nulla potesse porre freno all'impeto delle armate di Hitler. A questo stava pensando Carla Jeogeres Núñez, mentre osservava le coste della Francia occupata che, a poppa del peschereccio, si facevano sempre più lontane. Si era imbarcata all'alba ed entro sera avrebbe raggiunto le acque territoriali britanniche. Il giorno seguente l'attendevano gli addetti dei servizi segreti inglesi. Da ora in avanti avrebbe collaborato con gli Alleati al fine di organizzare la resistenza in territorio francese. Fu accolta, con freddezza e con una certa malcelata diffidenza, da un ufficiale dei servizi militari di sua maestà che verbalizzò con solerzia ogni parola uscita dalla bocca dell'agente della Sûreté. Carla aveva fatto proprie le parole pronunciate dal generale De Gaulle ai microfoni della BBC nell'appello del 18 giugno 1940: ogni francese aveva l'obbligo di respingere con qualunque mezzo l'oppressione nazista, mettendo tutta la sua esperienza al servizio degli Alleati e dei nemici del nazi-
smo. La spia, mentre l'ufficiale britannico prendeva diligentemente nota, si era dilungata anche nella descrizione della morte di Otto Rahn. Le parole dell'ufficiale delle SS, offuscate dalla droga, avevano accennato a un'arma letale e invincibile, la cui segreta ubicazione era indicata nella metà di un antico spartito musicale andato ormai perduto. L'altra parte dello spartito era invece nelle mani dei più stretti collaboratori di Adolf Hitler. Malgrado avesse avuto a disposizione solo metà del messaggio, Rahn era riuscito a risalire al luogo esatto in cui si trovava il letale ordigno. Il motivo per cui si era recato nelle Alpi austriache era quello di rivelare a Himmler i dettagli della sua scoperta. «E dove si troverebbe questa 'arma totale', signorina Núñez?» le chiese l'ufficiale britannico con aria di scherno. «Purtroppo non ho potuto portare a termine l'interrogatorio. Otto Rahn è spirato senza potermi rivelare null'altro oltre a ciò che voi avete appena verbalizzato, signore», rispose Carla. Alcuni giorni più tardi, lo stesso peschereccio con cui era arrivata in Inghilterra la prese a bordo al largo di Dover per ricondurla nuovamente sulle coste francesi. Da quel momento in poi l'ex agente avrebbe operato nelle file dell'organizzazione clandestina denominata Francia Libera e lottato senza tregua per liberare il suolo patrio dagli oppressori nazisti. Nel maniero di Bletchley Park, una delle sedi dei servizi segreti di sua maestà britannica, ogni giorno passavano sotto agli occhi del capitano di fregata Kater centinaia di fogli e verbali di interrogatori. Nella maggior parte dei casi si trattava di segnalazioni senza alcun peso, destinate a venire archiviate in polverosi faldoni, riposti in lunghi corridoi rivestiti di scaffalature metalliche alte sino al soffitto. Kater trasalì all'improvviso mentre leggeva l'ennesima trascrizione: un agente francese - la cui identità era celata dietro un nome in codice - dichiarava di conoscere l'esistenza di uno spartito risalente al Medioevo dove si nascondeva un messaggio cifrato. O meglio, nel verbale si faceva riferimento a una parte di canzone andata perduta, mentre l'altra era al sicuro nelle mani dei nazisti. Kater comprese che la metà di spartito da lui rinvenuta all'interno della ghironda avrebbe potuto essere quella che completava il documento. E inviò pensieri irriguardosi all'indirizzo del duca di Kent, alle sue fre-
quentazioni e all'ordine di servizio che gli impediva di mettersi subito in contatto con padre Mc Aiden. Si rassegnò ad attendere fino al giorno seguente. Poi, insieme al prete irlandese, avrebbe cercato la soluzione del mistero. Un mistero che diveniva di momento in momento più inquietante. Per guadagnare tempo, Kater prese la velina della deposizione di Carla Jeogeres Núñez, che nel rapporto veniva indicata come «agente Eiffel», e uscì dal maniero di Bletchley Park. Un vento tiepido di primavera spazzava l'aria. Kater salì su una delle auto anonime che utilizzava nel corso dei suoi tediosi pedinamenti e guidò verso il centro di Londra. Il duca di Kent era appena salito in un appartamento dove si stava svolgendo una chiassosa festa. Non ne sarebbe uscito prima di qualche ora. Il capitano di fregata Kater tirò fuori il foglio della deposizione dell'agente Eiffel e cominciò a trascrivere i passaggi dell'antica canzone medievale che ricordava a memoria. «Capitano Kater?» disse un uomo, affacciandosi al finestrino. Nello stesso istante, un secondo individuo entrava nell'auto. Kater sentì la canna della pistola premere contro il fianco sinistro. «Non fate gesti inconsulti e ubbidite alle mie istruzioni, capitano.» Il secondo agente della GESTAPO prese posto nel sedile posteriore. Nel frattempo, all'interno della casa in cui si era recato il fratello del re d'Inghilterra, la festa si faceva sempre più sfrenata. Ma, oltre il salone da ballo, in uno studio sobriamente arredato, il duca di Kent e alcuni membri dell'alta nobiltà inglese di dichiarato credo filonazista stavano tenendo una riunione decisiva. Dall'esito di quell'incontro sarebbero dipese le sorti della guerra, il destino dell'Inghilterra e quello dell'intera Europa. Padre Mc Aiden era preoccupato: la sua profonda conoscenza dell'arte musicale antica lo aveva condotto a un passo dalla soluzione dell'enigma. E ne ebbe paura. Nel messaggio si parlava di un'arma capace di uccidere interi eserciti senza utilizzare né lame, né fuoco. Un'arma simile, per la sua potenza letale, al soffio pestifero del contagio. Padre Mc Aiden aveva tentato di entrare in contatto con il capitano Kater, per metterlo al corrente di quanto aveva scoperto. Ma il telefono dell'ufficiale di marina suonava a vuoto da giorni. Così, verso sera, Mc Aiden ruppe gli indugi e decise di raggiungere la casa dell'amico. Conosceva bene la strada: Kater lo aveva invitato più volte per mostrargli la sua collezione e insieme si erano dilettati a eseguire antiche musiche con gli stru-
menti che l'ufficiale restaurava con sapiente passione. L'angoscia del prete irlandese si allentò per un attimo quando la porta si schiuse, ma fu un'illusione: l'uomo che gli aveva aperto facendolo entrare non era Kater, bensì un agente dei servizi britannici. Questi, dopo avergli chiesto i documenti di identità, iniziò a tempestare il sacerdote di domande. «Come mai, padre Mc Aiden», chiese l'agente controllando le carte che teneva in mano, «siete venuto a casa del capitano Kater?» «Accade spesso, signore: Kater e io siamo amici e condividiamo un grande interesse per la musica e per gli strumenti antichi.» «Quando avete visto o sentito il capitano Kater per l'ultima volta?» «Alcuni giorni fa. Ma, mi dovete scusare, non capisco. Sono venuto qui per incontrare un amico e non mi aspettavo di subire un interrogatorio. Anzi, questo vostro atteggiamento mi preoccupa. Devo arguire che sia successo qualche cosa di grave al caro Rowell Kater?» «Vi chiedo scusa, padre. Sono il colonnello Danton dell'MI6. Il capitano di fregata Kater è scomparso da cinque giorni. Un comportamento certo singolare per una persona metodica come il nostro ufficiale. Stiamo cercandolo ovunque, ma è introvabile.» Padre Mc Aiden trasalì: forse c'era una relazione tra l'antico messaggio cifrato e la scomparsa di Kater. «Qualche cosa non va, padre?» chiese Danton vedendo il religioso impallidire. «Nulla, sono solo preoccupato e molto dispiaciuto. Se non avete altre domande vorrei tornare a casa, colonnello Danton. Spero che quando troverete il capitano me lo facciate sapere.» «Certo, certo. Ma temo che avremo modo di incontrarci di nuovo. Se non vi dispiace vi chiedo di lasciarmi le vostre generalità complete e, nel caso vi venisse in mente un qualsiasi particolare, vi lascio un mio biglietto da visita.» Una volta raggiunta la sua abitazione, padre Mc Aiden non esitò nemmeno un istante: dapprima scrisse una lunga lettera; quindi sigillò il plico all'interno di una missiva diplomatica e vi appose con mano tremante l'indirizzo. Conosceva una sola persona tanto potente da non dover soccombere dinanzi a un segreto in grado di far scomparire nel nulla il suo amico Kater. Si trattava dell'uomo che aveva conosciuto quando rivestiva il ruolo di segretario di Stato vaticano e che, da circa due anni, era ai vertici della Chiesa di Roma.
Roma, anni '40 Papa Pacelli dedicava molta attenzione alla lettura della posta personale: dalle missive riservate che gli giungevano dalle più disparate diocesi nel mondo, era convinto si potesse conoscere lo stato d'animo di intere nazioni. Quel giorno i plichi sigillati da piombi e ceralacca disposti sulla scrivania del papa erano due. Pio IX ebbe la sensazione, ancora prima di conoscerne il contenuto, che tra essi vi fosse un indissolubile legame. Aprì il primo, proveniva dalla Germania ed era firmato da monsignor Roeller. Santità, spero vogliate credermi sincero quando vi dico che io per primo mi sento ferito da ciò che sto per scrivere. Ma la necessità di trovare rimedi a una situazione che è sempre più drammatica si fa impellente. Altissimo è infatti il numero di vite in pericolo. Ho avuto una riunione nei giorni scorsi con l'intero stato maggiore nazista e con lo stesso Führer. Il motivo che ha spinto i collaboratori di Hitler a incontrarmi è da imputare alle numerose lettere di protesta che vostra santità ha inviato ai governanti tedeschi in merito a «presunti» maltrattamenti subiti da individui di razza ebraica o di altre razze considerate inferiori. Ebbene, senza mezzi termini mi è stato «caldamente consigliato» di mantenere sull'argomento una posizione defilata: sul territorio del Terzo Reich i nazisti non ammetteranno altre ingerenze da parte della Chiesa. Addirittura Rudolf Hess mi ha fatto capire che adottare comportamenti analoghi a quelli tenuti nei confronti degli ebrei anche con i cristiani non desterebbe in lui alcuna remora. Per il bene di tutti coloro che credono in Cristo, vi scongiuro, santità, di voler tenere debitamente conto di questa, neppure molto velata, minaccia: alla luce dei recenti avvenimenti bellici, reputo la vittoria da parte delle truppe tedesche ormai cosa di pochi mesi. Prego per voi. padre Roeller Profondamente scosso per quelle parole, il papa si apprestò ad aprire il
secondo plico: la sensazione che aveva provato doveva essere errata. Non capiva come potesse esserci un nesso tra le due lettere: la prima conteneva un ricatto di enormi dimensioni al quale sapeva che avrebbe dovuto piegarsi. Altrimenti milioni di cristiani rischiavano di trovarsi in pericolo di vita. La loro salvezza dipendeva dal comportamento che avrebbe tenuto la Santa Sede rispetto alla questione ebraica. Nella seconda lettera un vecchio e stimato amico, un sacerdote irlandese che da qualche tempo si era trasferito a Londra, lo pregava di prendersi cura di un antico spartito all'interno del cui testo sembrava fosse contenuto un messaggio segreto. Il messaggio, secondo quanto scriveva padre Mc Aiden, riguardava un'arma potentissima e invincibile. Quella parte di manoscritto, se unito alla metà mancante, avrebbe consentito al suo possessore di trovare il nascondiglio in cui l'arma era custodita. La lettera di Mc Aiden proseguiva narrando della misteriosa scomparsa del capitano di fregata Kater. Nonostante la stima che provava per il sacerdote irlandese, il papa non diede grande peso alla missiva: il mondo era pieno di leggende che descrivevano come accedere ad armi letali, come risvegliare Golem pronti a difendere chi li aveva creati, come raggiungere la Fonte dell'Eterna Giovinezza. Ma il santo padre era preoccupato. Chiamò il suo segretario personale e gli diede ordine di conservare i due plichi tra i documenti della massima importanza. Germania, anni '40 Nell'attesa che il Führer li raggiungesse, Bormann, Himmler, Hess e Heydrich stavano affrontando un argomento molto delicato. «Quello che definisco il 'provvedimento di grazia' che il Führer ha concesso agli inglesi a Dunkerque si mostra in tutta la sua efficacia soltanto oggi, a quasi un anno di distanza», stava dicendo Himmler rivolto agli altri. «E pensare che, al momento, io stesso non mi sono saputo spiegare il motivo di tanta clemenza da parte di Hitler: le truppe britanniche erano allo sbando e nel bel mezzo di una catastrofica ritirata nella baia di Dunkerque. È stato solo grazie al personale intervento del Führer se le nostre divisioni non hanno annientato per sempre gli inglesi, consentendo anzi loro di raggiungere le navi che li avrebbero tratti in salvo. Ebbene, devo ammette-
re che il nostro Führer è stato molto lungimirante», continuò Bormann, segretario personale di Hess. «Già», aggiunse Hess, «adesso, con l'operazione Barbarossa, le nostre truppe sono pronte a marciare in territorio russo e gli inglesi dovranno restituirci il favore...» «Non riesco a condividere il vostro entusiasmo. Non so quali debiti di riconoscenza si sia disposti a concedere nel mezzo di un conflitto. La guerra altera ogni rapporto e lealtà, amicizia, gratitudine diventano concetti astratti e senza valore. Ci attendono momenti non facili, camerati. Anche se oggi il Reich sta travolgendo ogni resistenza con un impeto irrefrenabile», disse Heydrich. «Per fortuna il senso d'appartenenza alla razza ariana è più forte di ogni altra considerazione. Nessuno di noi tradirebbe mai un sodale, o lo lascerebbe languire nel pericolo, non è vero?» Gli occhi di Hess passavano da un interlocutore all'altro in maniera quasi frenetica. «Già», aggiunse Himmler, «come antichi cavalieri, o meglio, come amazzoni che si legano l'una all'altra con un giuramento eterno.» Fu in quella sede che quegli uomini, già uniti dalla profonda fede nel credo nazista, accomunarono i loro destini con una solenne promessa di mutuo soccorso. Una sorta di assicurazione di assistenza reciproca, che chiamarono proprio «il giuramento dell'Amazzone». Adolf Hitler entrò nella sala riunioni con un'espressione soddisfatta. La guerra della Germania nazista, seppure appena iniziata, si avviava verso una schiacciante vittoria. Finalmente si sarebbe potuto dimenticare l'onta della sconfitta subita nel primo conflitto mondiale. I collaboratori del Führer si alzarono in piedi simultaneamente, tendendo la mano destra nel segno di saluto. Il Führer rispose al gesto collettivo e invitò tutti a sedersi attorno al tavolo sul cui piano era rappresentata la carta geografica dell'Europa. «La data fissata per dare inizio all'operazione Barbarossa è il 22 giugno. Entro quel giorno dobbiamo cercare con tutti i mezzi a disposizione di portare l'Inghilterra dalla nostra parte. Come vanno i tuoi contatti inglesi, Rudolf?» «Proprio di questo volevo parlarvi, mein Führer. I nostri uomini a Londra hanno provveduto a liberare il duca di Kent e i nostri sostenitori da uno scomodo personaggio che era alle loro calcagna da diverso tempo. La spia, un certo Kater, ufficiale della reale marina britannica prestato ai servizi se-
greti della Corona, stava scarabocchiando delle frasi su questo foglio di carta. Ne sono entrato in possesso poche ore fa.» Così dicendo Rudolf Hess porse al Führer un foglio piegato accuratamente. Si trattava della velina che riassumeva ciò che l'agente francese Eiffel aveva appreso da Otto Rahn morente. «Ricordo bene che abbiamo cercato in tutti i modi di risalire all'esatta ubicazione del nascondiglio che Rahn era convinto di aver trovato», disse Hitler. «Infatti, mein Führer», proseguì Hess. «Ed è un peccato che Rahn sia morto. Ma io credo che se noi riveleremo agli inglesi che siamo in grado di accedere a un'arma invincibile, ciò potrebbe far protendere gli indecisi verso un'alleanza con il Reich. E quando riusciremo ad abbinare l'antico documento in nostro possesso, rinvenuto tra le mura del castello di Wewelsburg, a quello che con ogni probabilità è nelle mani dei britannici, avremo trovato il nascondiglio.» «Sempre ammesso che questa arma esista davvero, Rudolf», aggiunse il Führer. «Sono certo, eccellenza», intervenne Himmler, «che la ricerca di Otto Rahn si sia svolta lungo i binari del più rigoroso pragmatismo: tra le grotte dell'Ornolac si cela un mistero. E, avendo seguito il lavoro di Rahn sin dall'inizio, credo di poter affermare non si tratti di amuleti dotati di potere esoterico, ma di qualche cosa di molto più... importante. Se davvero dovesse trattarsi di una potente e misteriosa arma, avremmo uno strumento ulteriore per decretare la nostra vittoria.» «Bene, signori», disse il Führer appoggiando i pugni sul ripiano del tavolo. «Ditemi come intendete procedere.» «Credo che le ricerche di Rahn non vadano abbandonate proprio adesso che abbiamo assoluta libertà di muoverci in territorio francese», disse Heydrich. «Sono d'accordo con il camerata Heydrich», aggiunse Himmler, «gli sforzi di Rahn presto daranno i loro frutti. Inoltre sappiamo che egli è morto per mano di una spia nemica. Credo si debba identificare questo sedicente agente Eiffel. Solo così conosceremo i particolari degli ultimi istanti di vita di Otto Rahn.» Il Führer si rivolse quindi a Hess: «E tu, Rudolf, che cosa pensi?» «Quanto a me, credo che il momento sia maturo per un mio incontro con i nobili dissidenti inglesi.»
«E come pensi di riuscire a radunarli qui in Germania?» «Non ho detto questo, mein Führer: ho già compiuto innumerevoli missioni segrete nel corso delle quali mi sono recato in incognito in Inghilterra. Credetemi, è più facile di quanto immaginiate. E, se poi qualcosa dovesse andare storto... so che ci saranno delle Amazzoni pronte a venirmi a recuperare», concluse con uno sguardo d'intesa ai suoi compagni. La discussione si stava esaurendo ma, prima di dichiarare chiusa la riunione, Hitler congedò Himmler e Hess, chiedendo a Heydrich di trattenersi con lui ancora per qualche minuto. «Ricordate quando parlai con voi dei grandi condottieri del passato e della loro incapacità di costruire una preventiva via di fuga per qualsiasi futura evenienza: una sorta di passaggio segreto che consentisse loro di cavarsela a prescindere dai risultati delle battaglie?» «Ricordo benissimo, eccellenza», rispose Heydrich. «E ricordo anche che le vostre parole mi hanno molto colpito e mi hanno illuminato.» «Per mettere in pratica questo mio disegno, Heydrich, ho pensato a voi. Siete voi, infatti, la persona più adatta: se l'esito della guerra dovesse rimanere, come sembra, a nostro favore, allora il nostro piano non avrà più ragione di esistere. Nella malaugurata ipotesi in cui la sorte dovesse invece rivolgersi contro di noi, allora avremo bisogno di ricostituire le file del partito dopo la ritirata. Per fare ciò avremo necessità di una rete capillare ed efficiente che si prenda cura dei profughi e dei latitanti, che catalizzi consensi, acquisti prestigio presso gli Stati amici, corrompa funzionari e politici, ponga le basi per la riscossa. Sareste pronto a dire addio a ogni vostro legame, a scomparire dagli occhi del mondo tranne che per una ristretta cerchia di camerati? E, nella malaugurata ipotesi che il Reich abbia la peggio, saprete diventare il fulcro della sua rinascita? Pensateci con calma, Herr Heydrich. Ma io spero che ve la sentiate di accettare la mia proposta.» Reinhard Heydrich sapeva bene che non era possibile rifiutare una proposta del Führer. E, in effetti, quanto Hitler andava dicendo lo aveva esaltato: lui era il miglior organizzatore di ogni struttura segreta che il Terzo Reich avesse messo in piedi. Anche il Führer ne era convinto. E ora lo aveva riconosciuto. «Per fare questo avremo necessità di finanziamenti pressoché illimitati, eccellenza.» «Questo aspetto della questione rappresenta per noi un problema di scarsa rilevanza, Herr Heydrich.»
Da qualche tempo le riserve auree custodite nelle banche centrali, a cui si erano aggiunti i patrimoni artistici dei Paesi che i nazisti andavano conquistando giorno dopo giorno, venivano trasferite nei caveau della Reichsbank di Berlino. E infine c'erano le ricchezze confiscate agli ebrei. Alcune di dimensioni sconfinate. Si trattava di fortune incalcolabili della cui destinazione erano a conoscenza solo pochi uomini della DEST, una società sotto la cui apparentemente regolare operatività si nascondeva il braccio finanziario della GESTAPO e dei servizi segreti nazisti. 41 Linguadoca, 2007 Oswald Breil aveva da poco sostituito Toni Marradesi nella saletta d'attesa del reparto rianimazione dell'ospedale di Tolosa per quella che, ormai da due giorni, era diventata una specie di veglia. Prima di andare a riposare per qualche ora, Toni gli aveva riferito che non c'era stato alcun miglioramento nelle condizioni di Sara Terracini. Inoltre, più il tempo passava, più si faceva reale il rischio che i danni provocati dall'anossia si rivelassero irreversibili. Sempre ammesso che Sara fosse rimasta in vita. Oswald sedette sulla panca, accese il computer e aprì la casella di posta elettronica. Il messaggio di Bernstein era lapidario: <MI CHIAMI APPENA LE È POSSIBILE>. <ECCOMI, BERNSTEIN, CHE COSA SUCCEDE?> <STAZIONARIA. MA IO CONTINUO A SPERARE IN UN MIGLIORAMENTO. MI RACCONTI LE SUE NOVITÀ.>
FURIOSI. POI, ROVISTANDO PER ECCESSO DI ZELO NEGLI ARCHIVI DELLA SEDE DI ASUNCIÓN DEL BANCO CENTRAL DEL PARAGUAY, HO TROVATO QUESTA...> Sul video di Oswald apparve una mappa dei seminterrati della banca. , digitò Breil anche se intuiva che le sorprese non erano ancora finite.
ACQUISTO O NOLEGGIO DI MEZZI D'ESCAVAZIONE, MOVIMENTO TERRA O ALTRO. L'ORO ARRIVAVA GIÀ IMPACCHETTATO E SUDDIVISO IN LINGOTTI... PROVI A INDOVINARE DOVE, MAGGIORE BREIL?> <... NEL CAVEAU DEL BANCO CENTRAL DI ASUNCION AFFITTATO A VAN DER DUICK SIN DALLA SUA ADOLESCENZA?> <ESATTO!> La porta della stanza si aprì di scatto e per un attimo Oswald pensò al peggio. Poi il medico disse con un sorriso: «Buone notizie, dottor Breil. Venga con me. La signorina Terracini si è svegliata. Ancor prima di aprire gli occhi ha chiesto di lei. Le abbiamo già levato le sonde e ora respira autonomamente». Dopo aver indossato il camice e gli altri indumenti sterili, Oswald entrò nella stanza di Sara e si sedette di fianco al suo letto. La mano di Sara, coperta di lividi dovuti alle flebo, era abbandonata sul bordo candido del lenzuolo. Oswald la prese e la strinse con dolcezza. La risposta sia pure debole a quella stretta lo riempì di una gioia assoluta. «Non posso nemmeno incolparti, Oswald: stavolta proprio non c'entri», disse Sara con un filo di voce. «Non c'entro 'ancora', Sara», rispose sorridendo il piccolo uomo. Quindi girò il capo per non mostrare a Sara gli occhi gonfi di lacrime, e ringraziò Dio per il miracolo. Denver, 2007 Mame-loshen Lilith Habar aveva perso il sonno e la pace da quando Oswald le aveva comunicato dell'incidente occorso a Sara. Sapeva bene quanto la giovane italiana fosse importante per Oswald e, con l'intuito delle madri, aveva letto da tempo nel cuore innamorato di suo figlio. E la sua agitazione cresceva insieme alle chiamate quotidiane degli alti esponenti di vari enti governativi statunitensi che si informavano sulla data prevista per il rientro di Oswald. A giudicare dal tono che quel Phil Damiano aveva usato, sembrava che avesse il diavolo alle calcagna. «Chi era al telefono?» chiese Ezer, senza alzare gli occhi dal giornale che stava leggendo. «Quel tale con un cognome italiano: chiama ogni giorno per avere notizie di Sara, ma sembra ben più interessato al rientro di Oswald. Credo che
si tratti di un governativo... Sai, uno di quelli che fanno spesso coppia col nostro Oswald... Un federale o qualcosa di simile. Si chiama Damiano.» «Phil Damiano?» chiese Ezer emergendo finalmente da dietro i fogli stampati. «Esatto, Habar. Proprio Phil Damiano.» «Accidenti, donna. Si tratta del capo della CIA. E tu lo dipingi come un poliziotto di quartiere.» «Non ho detto 'poliziotto', ho detto 'federale', Habar. E di un federale si tratta. E se è davvero il direttore della CIA, come sostieni, pensi che gli sarebbe difficile contattare l'ex primo ministro israeliano, ovunque si trovi?» Linguadoca, 2007 In quell'istante, un jet Grumann di proprietà del governo statunitense atterrava sulla pista dell'aeroporto di Tolosa. A bordo si trovavano soltanto due passeggeri: Phil Damiano, appunto, direttore della CIA, e il generale Edward Corrige. «Prego, accomodatevi pure nel mio ufficio», disse Oswald indicando una panca della sala d'attesa di fronte a lui. «Purtroppo, non ho potuto chiamare chi poteva sostituirmi nell'assistenza e non voglio che Sara Terracini resti sola nemmeno per un minuto. La vostra visita è giunta inattesa.» «Nessun problema», disse Damiano. «Mi dica... Come sta la signorina Terracini, dottor Breil?» «Le sue condizioni migliorano di ora in ora. I medici sono ottimisti: sembra che non abbia subito danni cerebrali. Un vero miracolo, grazie a Dio.» «Sono davvero contento per questa bella notizia. Ora, dottor Breil, vorrei esporle le ultime novità che riguardano il despota di Teheran.» Teheran, 2007 «La mia pazienza ha un limite, Fadah», stava dicendo Gholam Pashelvi al mercante d'armi giordano. «Mi sembra che questo suo fantomatico cliente si stia prendendo gioco di me.» «Sarebbe contro ogni mio interesse, eccellenza, che qualcuno si prendesse gioco di lei. Ancora una volta, voglio rassicurarla circa la serietà della controparte. Abbia pazienza e vedrà che la questione giungerà presto a so-
luzione. E sono convinto che si tratterà di una soluzione a lei favorevole.» «Per darle ascolto ho tralasciato altri canali di trattativa», mentì Pashelvi: nessuno in quel momento avrebbe consegnato all'Iran nemmeno un grammo di materiale radioattivo. «Le concedo ancora quindici giorni per formalizzare un'offerta che specifichi le tipologie del materiale e le modalità dello scambio, dato che il prezzo, davvero esorbitante, è già stato indicato. Trascorso questo termine la considererò personalmente responsabile del tempo perso e avrò modo di rivalermi su di lei.» «Sarà fatto, eccellenza. E lei tenga però a mente che alcuni milioni di tonnellate di greggio in più o in meno non cambieranno l'economia del suo Paese. Un'arma nucleare invece, oltre a consentire l'eliminazione degli infedeli in un'unica, radicale soluzione, farebbe assurgere l'Iran al ruolo di prima potenza mediorientale. Un ruolo a cui il suo Paese sembra aspirare, eccellenza.» Linguadoca, 2007 Non appena i due alti funzionari americani ebbero lasciato la sala d'attesa, Oswald Breil telefonò al prefetto Yves Tamberly. «Sono enormemente felice per quello che mi stai dicendo, Oswald. Non ti avevo mai visto così in ansia prima d'ora: la salute di Sara ti deve stare davvero molto a cuore», disse il funzionario francese. «E le tue indagini? Hai scoperto qualche cosa di nuovo?» «Niente, per ora. Pensavo, domattina, di effettuare un'immersione nel laghetto sotterraneo. Vorrei tentare di capire dove porta il cunicolo ostruito dal muro.» «Mi sembra un'ottima idea. Per questo ho già disposto l'ispezione da parte di due sommozzatori della Gendarmerie. Sarà proprio domattina. Se vuoi accompagnarli non dovrebbero esserci problemi: è sufficiente che io dica loro di provvedere a portare un'attrezzatura per te.» «Grazie, Yves. Allora ci vediamo domani alla Grotte des Chevaliers.» Il medico fece ancora una volta capolino nella sala d'attesa. «Signor Breil, la signorina Terracini ha chiesto di vederla con insistenza. Mi raccomando: è ancora molto debole e non bisogna assolutamente che si stanchi. Le concedo pochi minuti.» «Prima ho chiesto a Toni di portare qui il mio computer», disse Sara a Oswald, guardando verso il piccolo tavolo ai piedi del letto. «Lì ci troverai gli ultimi capitoli della storia di Luca Raso. Ti consiglio di leggerli, Os-
wald: sono davvero inquietanti.» «Lo farò, Sara: tra qualche secondo il medico mi caccerà da qui e grazie alla tua 'traduzione' saprò come passare il tempo.» «Aspetta. Ancora un'altra cosa.» Sara parlava con fatica, ma era perfettamente lucida. «Devi vedere che cosa c'è oltre il muro sotterraneo, sul fondo del laghetto. Sono sicura che in quel posto si nasconde un antico mistero.» «Anche questo sarà fatto al più presto: ho appuntamento domattina con due sommozzatori della Gendarmerie. Ma ora smettila di arrovellarti. Voglio che tu riposi e che ti riprenda in fretta. Dopo parleremo delle tue ricerche e di questo tuo inspiegabile incidente.» «Che cosa vuoi dire, Oswald?» «Che attorno alla tua scoperta sembra che ruoti un mondo governato dal Male: la conferma l'abbiamo avuta qui in ospedale... Non posseggo ancora un quadro completo, ma presto riuscirò a far combaciare i tasselli del puzzle.» «Dottor Breil, chiedo scusa...» disse il medico affacciandosi sulla porta e facendogli capire che era tempo di uscire. Da quando un killer aveva tentato di introdursi nella camera di rianimazione per uccidere Sara, oltre a una maggiore sorveglianza e a un agente che piantonava il reparto, Oswald e Toni avevano convenuto di non interrompere mai la loro vigilanza. Nell'attesa dell'arrivo di Marradesi, Oswald apri il file denominato Luca Raso e si accinse a leggere. Dall'Agenda di Luca Raso, Brasile, 1976 «È tra i morti che dobbiamo cercare», ha ripetuto Alexandra Oliveiro aprendo un altro dossier e posandolo di fronte a me. «Questo signore era un provetto suonatore di violino, ed è morto in un attentato a Praga.» Ho osservato tutte le foto: molte di queste ritraevano l'alto ufficiale nazista al fianco di Himmler; in altre era seduto sul sedile posteriore della Mercedes scoperta di Hitler nel corso di una parata; in altre ancora indossava la divisa utilizzata dalla nazionale tedesca di scherma. Era quasi impossibile accorgersi che l'ufficiale ritratto nelle foto degli anni '40 ed Erick Neumann fossero la stessa persona. Ma
ormai ne sono certo. Quella voglia all'attaccatura del collo ne è la prova. Reinhard Heydrich ed Erick Neumann sono la stessa persona. Alexandra mi ha dato ragione. «Sì, è vero: i tratti del volto possono essere modificati, ma il portamento e la corporatura no. E anche l'ovale del viso, il colore degli occhi, l'attaccatura dei capelli sono identici», ha aggiunto lei. «Peccato che la mia macchina fotografica sia andata perduta nell'impatto dell'aereo: abbiamo solo i ritratti 'ufficiali' del nostro signor Neumann e credo che siano stati alterati ad arte perché non presentassero alcun punto di contatto con quelli del braccio destro di Himmler. Niente pare lasciato al caso. Ma le voglie spesso sono inoperabili; e quella del nostro uomo probabilmente lo era.» Poi Alexandra ha iniziato a raccontare, scorrendo i suoi preziosi appunti. «La storia personale di Heydrich è poco nota... Offuscata da quella di altre sinistre figure che hanno caratterizzato il periodo della seconda guerra mondiale. Heydrich è morto ma, alla luce delle nostre conclusioni, meglio faremmo a dire che si è tolto di scena nel 1942, quando era al culmine del successo ed era uno degli uomini più vicini a Adolf Hitler. Tutto appare come un piano perfetto che lo stesso Heydrich e altri, d'accordo con lui, avevano messo a punto da tempo. Già nel 1932 Heydrich stava per sedere ai vertici dell'organizzazione che sarebbe divenuta l'apparato di servizio segreto e di sicurezza più potente del mondo, temuto non solo nella Germania nazista. In quei giorni è nato infatti l'Abteilung - in seguito chiamato Sicherheitsdienst o più comunemente SD - con sede a Monaco in Türkenstrasse 25. Hitler, giunto al potere, non lesinò mai riconoscimenti ai suoi uomini più fedeli. È così che Heydrich diventò, nel 1933, Brigadeführer e l'SD, ormai operativo, venne trasferito in una sede più sfarzosa e consona al suo ruolo. Lo sconfinato potere dell'organizzazione si concentrava nelle sole mani di Heydrich: in seguito, non appena venne istituita la polizia segreta dello Stato, il delfino di Himmler fu posto ai vertici della GESTAPO. Poi, una volta entrata sotto la sua egida anche la Kripo, la polizia criminale, il 27 settembre del
1939, Heydrich diede vita alla Reichssicherheitshauptamt, l'ufficio centrale per la Sicurezza del Reich, tristemente noto come RSHA.» Alexandra continua a stupirmi. Pur essendo molto giovane conosce come pochi al mondo la storia del nazismo e delle sue nefandezze. «Bisogna conoscere perfettamente il proprio nemico, se si vuole cercare di combatterlo», mi ha detto quando gliel'ho fatto notare. «Ci sono ancora pesanti strascichi che si dipanano come tentacoli velenosi dagli avvenimenti di quegli anni per giungere sino a noi. Se non vogliamo che attanaglino anche i nostri figli e chi verrà dopo di loro, dobbiamo fare di tutto per portare alla luce ogni segreto del nazismo e per decretarne la sua reale fine. Ma torniamo al nostro uomo e alla sua vita. Gli appartenenti all'RSHA si erano trasferiti da qualche tempo a Berlino, al 102 di Willhemstrasse, dove si erano insediati gli uffici di quell'organico di polizia. Heydrich, il loro capo, un uomo piacente, scaltro, veloce nelle decisioni, sportivo e aitante, era protetto costantemente da una nutrita squadra di guardie del corpo. Si dice che fossero almeno quaranta gli uomini chiamati a vegliare sulla sua incolumità e che Heydrich si aggirasse per Berlino a bordo di macchine blindate precedute e seguite da staffette con le armi spianate. Tieni a mente questo particolare, Luca: ci sarà utile per comprendere meglio gli eventi futuri della vita del sedicente Erick Neumann. Negli anni precedenti allo scoppio della guerra, l'RSHA di Heydrich crebbe e divenne sempre più potente. Allo stesso dipartimento vennero affidate buona parte delle attività di polizia connesse alla persecuzione degli ebrei che, fino a quel momento, erano spettate al ministero degli Interni. Gli agenti dell'RSHA si infiltrarono ovunque, non soltanto in Europa, ma anche nelle Americhe. «Poco prima dell'avvio dell'operazione Barbarossa, Heydrich ebbe l'ordine di risolvere, con ogni mezzo, la questione ebraica: la politica adottata sino ad allora, sulla scorta delle direttive dello stesso Heydrich, non era più sufficiente. Con la scusa che l'Europa in guerra non poteva più 'ammortizzare' gli afflussi interminabili di ebrei che il regime provvedeva a espellere dopo averli privati di ogni bene, si giustificò lo sterminio. In realtà il nazismo
aveva ormai partorito l'idea che la razza ebraica dovesse essere annientata. Si cominciò con l'uccisione di massa degli ebrei sovietici. «E fu proprio Heydrich a chiedere interventi radicali sulla questione ebraica agli organi di governo nazisti, riuniti, nel gennaio del 1942, a Wannsee. Nel 1941, Reinhard Heydrich aggiunse alle sue molte cariche quella di viceprotettore della Boemia e della Moravia. Essendo il suo diretto superiore un governante fantoccio, Heydrich divenne una. sorta di viceré, dotato di un illimitato potere su un vastissimo territorio, che oggi corrisponde più o meno a quello della Cecoslovacchia. Il protettorato costituiva un punto di fondamentale importanza strategica per le mire espansionistiche tedesche: l'enorme potenziale industriale e agricolo della regione avrebbe supportato l'impegno bellico germanico. «Per Heydrich fu uno scherzo da ragazzi soffocare i rigurgiti di ribellione della zona. Stabilì il proprio quartier generale nel maestoso castello di Praga, e prese alloggio in un secondo castello poco più a sud della capitale. «Heydrich protettore di Boemia e Moravia divenne in breve un uomo molto diverso da quello berlinese. Non aveva più scorte, non viaggiava su auto blindate: per i suoi spostamenti dalla residenza al castello che domina l'intera città di Praga utilizzava una Mercedes scoperta, facendosi accompagnare, a volte, da un autista. Fu semplice per i due attentatori, che viaggiavano a bordo di biciclette, lasciare rotolare una bomba anticarro al passaggio della Mercedes di Heydrich. La paternità dell'attentato è stata in seguito rivendicata dai servizi segreti britannici, i quali assicurarono che l'operazione, chiamata in codice Anthropoid, era stata pianificata da anni. Ma la faccenda non è mai stata chiarita. «A ogni modo, Heydrich fu ricoverato all'ospedale di Praga. Sia pure ferito, non sembrava versare in pericolo di vita. Era il 27 maggio del 1942. Hitler mostrò grande preoccupazione per la salute del suo pupillo e sollecitò l'invio di uno staff medico da Berlino. Ma il 4 giugno le condizioni di Heydrich si aggravarono all'improvviso e, nel giro di poche ore, una delle pedine più potenti del nazismo morì. «Heydrich fu tumulato dopo solenni funerali di Stato, in un tripudio di svastiche e gerarchi affranti che giuravano vendetta.
«E, difatti, la vendetta fu terribile. Il villaggio di Lidice, presso Kladno, contava poco meno di trecentocinquanta anime, tra cui molti erano bambini e ragazzi. La voce che proprio da Lidice fossero giunti gli attentatori si diffuse come un lampo. Ogni via d'accesso al villaggio venne chiusa dai militari dei corpi speciali tedeschi. Uomini e donne vennero sterminati: alcuni fucilati sul posto, altri nei giorni seguenti e altri ancora finirono i loro giorni nei campi di sterminio. Dei bambini si perse ogni traccia. C'è chi sostiene che vennero inviati nel campo di Łödž, dove i più 'fortunati' vennero ritenuti rispondenti ai criteri ariani e affidati a famiglie tedesche che avrebbero dovuto occuparsi della loro corretta educazione nazista. Il paese di Lidice venne ridotto a un ammasso di macerie dal passaggio di bulldozer e dalle cariche di dinamite. Ma noi oggi sappiamo che quella fu solo una terribile copertura per avvalorare l'uscita di scena di Heydrich. Al fine di perseguire il loro folle piano, alcuni gerarchi nazisti ordinarono l'uccisione di centinaia di uomini e donne senza motivo. Per tutte queste ragioni sono certa che la sua morte sia stata parte di un oscuro disegno architettato da menti governate dal Male.» Quando Alexandra ha smesso di parlare, sono rimasto a lungo in silenzio, annichilito. Poi le ho chiesto se non fosse il caso di informare i vertici del Mossad delle nostre scoperte. «Allo stato attuale credo sia prematuro, e pericoloso, rivelare ogni nostra supposizione anche all'amico più fidato. Neumann ha appoggi ovunque e può arrivare a chiunque, anche alle più alte personalità del governo israeliano, che lo credono uno di loro. E tu, Luca, cosa farai adesso?» mi ha infine chiesto Alexandra. Le ho detto di avere deciso. Farò come se l'incidente e quanto ne è seguito non fosse mai avvenuto. Invierò a Documento un dettagliato articolo su Neumann e sul suo impero. Resterò quindi in attesa degli eventi. Heydrich-Neumann sospetta che io sia al corrente di particolari inerenti all'operazione Amazzone: prima o poi uscirà di nuovo allo scoperto per verificare le sue supposizioni. «È un gioco pericoloso, Luca», ha detto lei. «Proprio per questo motivo mi sento di giocare», le ho risposto. «Un criminale di guerra, scampato chissà come alla morte e alla giustizia, ha cercato di accopparmi facendo precipitare un Dakota con tanto di membri dell'equipaggio e passeggeri inno-
centi. Un degno coronamento alla sua carriera di assassino. Nell'attesa che Neumann si faccia vivo mi godrò questa meravigliosa città, adducendo come scusa la convalescenza dai postumi dell'avvelenamento causatomi dal morso di un ragno amazzonico. Se la signorina Alexandra Oliveiro avrà voglia di farmi da guida per Rio de Janeiro gliene sarei davvero grato», ho concluso. «Solo per un paio di giorni, però: mi sono allontanata dalla Residencia con la scusa di un importante impegno qui a Rio. Non so se mi hanno creduta e per questo ho aggiunto che, dal momento che tu eri qui, avrei colto l'occasione per venire a vedere come stavi. Ma tra breve dovrò rientrare per proseguire nel mio stage alla Neumann: quello rimane sempre un ottimo modo per attingere notizie e informazioni.» Alexandra è stata di parola e per due giorni, a tempo pieno, mi ha fatto da guida trascinandomi nel vortice di vita e divertimenti di Rio de Janeiro. Messe da parte le cupe storie di nazisti e criminali di guerra, abbiamo trascorso il tempo come una coppia qualsiasi in viaggio tra le bellezze del Brasile. Poi, come in ogni bel sogno, mi sono bruscamente risvegliato e la mia amica ha fatto ritorno alla Residencia. «Ho letto il tuo articolo, Luca. Il nostro ufficio legale ce ne ha fatto pervenire il testo ancor prima che uscisse Documento», ha detto la voce sensuale di Agnes quando ho sollevato il ricevitore. Erano trascorse solo poche ore dalla partenza di Alexandra. «Finalmente sono riuscita a trovarti. Volevo sapere come stai e ringraziarti per le belle parole che mi hai dedicato.» Rispondendole non ho voluto nascondere il mio sarcasmo. «Ma come, quel concentrato di bellezza ed efficienza rappresentato dall'insostituibile segretaria personale di uno tra gli uomini più potenti al mondo trova difficoltà nel rintracciarmi? Se mi avessi avvertito per tempo, ti avrei aggiornato su ogni mio recapito, compresi quelli nella foresta amazzonica dove sono stato ricoverato alcuni giorni presso una provvidenziale tribù di indios.» «Hai sempre voglia di fare dell'ironia. Scommetto che il tuo buonumore non ti ha abbandonato nemmeno al momento del brutto incidente che ti è capitato.»
«Ho dovuto purtroppo arrendermi ai fatti: non hai idea di quanto siano privi di spirito e velenosi i ragni amazzonici.» «Adesso però so che stai meglio...» «Be', in effetti non mi sono ancora del tutto ristabilito... Per questo motivo ho deciso di rimandare la mia partenza per l'Italia.» «Prima... prima che tu parta vorrei rivederti. Ho pensato molto a te in questi giorni. Domani sarò a Rio per lavoro... Se ne hai voglia ci potremmo incontrare.» Il ristorante Oro Verde si trova lungo l'avenida Atlantica, quella che costeggia la celebre spiaggia di Copacabana, a pochi passi dal mio albergo. Agnes aveva smesso gli abiti di foggia militare e indossava un'elegante gonna di lino blu al ginocchio e una camicetta bianca, portata con disinvoltura senza reggiseno. Il candore della camicia sottolineava sia l'abbronzatura sia gli occhi azzurri di quella donna che comunque ha il potere di confondermi e turbare i miei sensi. Stavo sorseggiando del vino cileno, profumato dalle spezie sferzate dai venti delle Ande, quando il ginocchio di Agnes, sotto il tavolo, si è insinuato tra le mie gambe. Dopo alcuni minuti, fingendo di recuperare il tovagliolo che le era scivolato, ho sentito la sua mano accarezzare l'interno della mia coscia e soffermarsi sul mio sesso. Poco più tardi entravamo nell'ascensore del Copacabana Palace, in preda a un'eccitazione incontenibile. Agnes si è inginocchiata, ha armeggiato rapidissima con i bottoni dei pantaloni, quindi ha chiuso la bocca intorno al mio membro turgido. Quando la porta dell'ascensore si è aperta, ci eravamo appena ricomposti. Come furie ci siamo infilati in camera e nel breve tragitto dall'uscio al materasso eravamo già nudi. Abbiamo fatto l'amore per ore. Poi, esausti, ci siamo abbandonati uno tra le braccia dell'altra. Quindi Agnes si è alzata e mi ha versato un bicchiere di champagne. Abbiamo brindato e poi... non ricordo altro. Devo essermi addormentato. Al mio risveglio mi aspettava una spiacevole sorpresa. La borsa da viaggio era ai piedi del letto e i vestiti che avevo
indossato nel corso della cena con Agnes erano ordinatamente piegati su una sedia. La mia preziosa agenda si trovava posata sopra di questi. C'era un solo particolare che non quadrava: non mi trovavo più nella mia stanza al Copacabana Palace, bensì in quella che avevo occupato nel corso del mio soggiorno alla Residencia. Ho provato ad alzarmi, ma qualcosa ha trattenuto le mie braccia: i polsi erano assicurati ai montanti in ferro del letto con delle manette d'acciaio. PARTE QUINTA Chi non punisce il male, comanda lo si faccia. Leonardo da Vinci
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Età dei Metalli, II millennio a.C. «Stiamo camminando da tempo. Sei troppo debole per continuare ancora», disse Dehal quando raggiunsero la radura. «Fermiamoci qui per la notte. E mentre tu riposi, io cercherò di procurarci del cibo.» «Va bene, ma stai attenta: la foresta è piena di insidie», acconsentì Athor, stremato. La donna gli sorrise rassicurante, benché fosse dominata dall'angoscia. Lei sapeva che il pericolo era vicino: lo aveva visto in sogno. Karesh si appostò dietro a un albero: quattro dei suoi uomini lo seguirono. Erano giorni che marciavano sulle tracce del branco. Un grande cervo dalle corna ramificate stava brucando tranquillamente le fronde di un arbusto. All'improvviso drizzò le orecchie, annusò l'aria e, impaurito, fuggì via. Karesh si volse, furibondo, pronto a prendersela con chi, tra i suoi, era stato tanto avventato da muoversi e spaventare l'ambita preda, quando un fruscio lo spinse a restare nascosto. Karesh non credette ai suoi occhi: quell'apparizione sembrava un dono del dio Hosh. Ora avrebbe potuto soddisfare la sua brama di vendetta. La riconobbe immediatamente: non avrebbe mai potuto scordarsi di colei che lo aveva ferito per sempre. Fece cenno ai suoi di non muoversi: questa volta non si sarebbe lasciato tentare dal primo impulso. Prima di uscire allo scoperto, voleva essere sicuro che Dehal fosse sola. La femmina di germano reale stava picchiettando con il becco in una pozzanghera. Le sue penne quasi marroni la rendevano quasi invisibile nel sottobosco. Il padre e lo stesso Athor le avevano insegnato a usare l'arco e l'avevano portata spesso con loro a caccia. In breve la mira della donna si era rivelata infallibile. Ma questa volta la mano le tremò e Dehal temette di fallire il bersaglio. La freccia partì con un sibilo. Il germano parve accorgersene e dispiegò le ali. La freccia lo raggiunse al petto, proprio mentre stava alzandosi da terra. Dehal lo raccolse soddisfatta: Athor avrebbe avuto di che rifocillarsi. Il fuoco stava per spegnersi e Athor ne alimentò le braci con ceppi di legna.
Le ossa spolpate del germano finirono tra la cenere. «Senza di te, a quest'ora dormirei il sonno eterno nella mia tomba di roccia. Grazie, Dehal», disse l'uomo attirandola a sé. «Non devi ringraziarmi, lo sai. La mia vita non ha senso senza la tua.» Così dicendo, Dehal abbassò gli occhi mentre un'ombra attraversava il suo sguardo. «E ora che cosa ti turba, donna? Voglio conoscere i tuoi pensieri.» «Nulla, Athor... soltanto un sogno...» «Che cosa hai sognato?» «Ho visto tutto ciò che è accaduto: la grotta con te prigioniero, la salvezza. Anche la mia caccia fortunata è stata, nel sogno, un'esperienza reale.» «E quindi? Che altro c'è?» «Non è finita... purtroppo. Ti ho visto morire, uomo mio. Morire per salvare la nostra gente dai malvagi. Nel sogno i nemici ti inseguivano dentro una grotta e tu riuscivi sì a sconfiggerli, ma al prezzo della tua vita.» «È vero, la tua premonizione si è rivelata esatta, come tante altre volte, ma non devi preoccuparti d'altro, vedrai...» Athor si interruppe di colpo e tese le orecchie. Fece cenno a Dehal di rimanere immobile, quindi si alzò, silenzioso come un felino in caccia. Nel volgere di pochi minuti il re dei migos fece ritorno accanto al fuoco. «Sono in cinque, guerrieri davaar. Non ho visto se Karesh è con loro, ma tu devi allontanarti e in fretta.» «Non voglio abbandonarti, Athor.» «Restando al mio fianco rischi che i tuoi figli rimangano soli per sempre, donna. E sai bene quanto abbiano ancora bisogno di te per crescere. I cinque davaar sono disposti a semicerchio. La parte non sorvegliata è quella davanti a te. Io mi metterò a fare un gran baccano per distrarli. Tu scappa e imbocca il sentiero che corre nella direzione opposta a quello che abbiamo appena percorso. In breve giungerai al mare e lì, seguendo la costa, troverai la foce del fiume. Io intanto me li tirerò dietro sino alla nostra grotta. Ho in mente un piano per sbarazzarmi per sempre di loro.» Athor non le diede modo di controbattere, la spinse fino al limitare della radura e attese di vederla sparire nel buio della foresta. Quindi, presi due rami secchi, incominciò a batterli con forza sul tronco di un albero cavo e contemporaneamente modulò la voce in uno dei canti che accompagnavano le cerimonie religiose del suo popolo. Dehal si era messa a correre accompagnata dal pensiero dei figli e dall'immagine del suo uomo alle prese con il suo eterno nemico.
Quando seppe di essere sufficientemente lontana si fermò per riprendere fiato: ormai si sentiva in salvo, ma la colpa per avere abbandonato Athor al suo destino le stringeva la gola. Karesh aveva ascoltato, sempre più disorientato, i canti intonati dal re dei migos. Poi la voce si era fatta via via più flebile, quindi era calato il silenzio. Il davaar attese che la luna scomparisse dietro al crinale delle colline. Quando il buio fu assoluto decise che era venuto il momento di attaccare. Athor sapeva che i nemici erano lì, poco distanti, nascosti nella vegetazione, pronti ad assalirlo. Rimase a osservare la luna che si nascondeva dietro alle colline. Si acquattò nel nascondiglio che aveva individuato poco prima e si mise in attesa. Dehal aveva ripreso a correre senza più fermarsi. Le lacrime le rigavano il volto: aveva già visto tutto quello che adesso stava accadendo, ma si rifiutava di abbandonare la speranza. Sapeva bene che nulla avrebbe consentito ai migos di arrivare in tempo per salvare il loro re. I particolari del sogno le tornavano ora alla mente, reali e tragici. Karesh fu colto da un dubbio atroce: un guerriero esperto come Athor non avrebbe mai fatto tutto quel frastuono trovandosi solo nella foresta, neppure se fosse stato Hosh in persona a chiedergli di cantare per lui. A meno che non volesse sviare, con quel rumore, l'attenzione dei suoi nemici... Probabilmente aveva fatto fuggire la sua donna. Ordinò di attaccare, mentre lui si diresse verso l'unico lato della radura che era rimasto scoperto. I segni lasciati dalla fuga di Dehal erano evidenti anche nell'oscurità della foresta. Il capo dei davaar imprecò contro Hosh e si mise a correre, seguendo le tracce dei rami spezzati e dell'erba calpestata da Dehal. Il primo dei davaar raggiunse il fuoco e al bagliore delle fiamme individuò, tra i due giacigli, quello di maggiori dimensioni. Inarcò la schiena, portando la lancia sopra il capo. Il colpo raggiunse il bersaglio e la pelle di animale, sotto la quale stava certamente dormendo Athor, ebbe un sussulto. Il guerriero si lanciò quindi
con il pugnale sguainato sull'altro giaciglio. Ebbe soltanto il tempo di accorgersi che la coperta di pelle era stata riempita di foglie. Athor, sbucato all'improvviso dal buio come uno spirito della notte, si era avventato su di lui. Il re dei migos afferrò la testa del nemico con entrambe le mani in una morsa ferrea, ruotò gli avambracci in senso contrario l'uno rispetto all'altro. Il davaar cadde a terra con il collo spezzato, senza un lamento. «Dove sei, Karesh?» gridò Athor. «È te che voglio, non i tuoi schiavi. Fatti vedere e combatti da uomo.» «Sei solo, re dei migos?» disse una voce proveniente dal buio. «Hai cercato di nascondere la tua donna, vero? Ma il mio re non si è lasciato ingannare dai tuoi canti alla luna. Vedrai che questa volta la bella Dehal non riuscirà a sopravvivere all'ira di Karesh.» Una nebbia leggera si alzava dal mare insieme al sorgere del nuovo giorno. Dehal era stanchissima. Poco distante si trovavano alcune barche di pescatori tirate in secca: sembravano abbandonate da tempo. Rallentò la corsa, si volse indietro e lo vide. Karesh avanzava correndo sulla sabbia. Sembrava un bisonte reso cieco dall'ira, ed entro breve l'avrebbe raggiunta. Dehal si aggrappò al legno della prora e spinse la piroga sino alla battigia. Qui attese un'onda più grossa delle altre e spinse ancora, sino a che la chiglia non vinse anche l'ultima resistenza della sabbia e lo scafo si trovò a galleggiare sull'acqua. Non senza fatica, Dehal salì a bordo. Karesh superò il ricciolo dell'onda. Vide la donna immergere la pagaia e incominciare a remare verso la salvezza. Quando l'acqua gli giunse all'altezza del ventre, il re dei davaar si dovette fermare. «Maledetta!» gridò impotente, restando a guardare Dehal che si allontanava verso il largo. L'acqua continuava a essere per lui un nemico invincibile. Athor gli balzò alle spalle come una belva feroce. Karesh non aveva pensato neppure per un istante che Athor potesse sopravvivere ai suoi uomini e inseguirlo a sua volta. La sorpresa lo paralizzò. Dehal aveva vogato senza voltarsi indietro sino a che non era giunta molto distante dalla spiaggia. Solo allora si era girata nella direzione della riva. Si meravigliò che fosse deserta e che non vi fosse più traccia di Karesh né degli altri davaar.
Athor era ancora debole, ma nonostante ciò aveva affibbiato un colpo secco alla nuca del suo nemico. Karesh si era piegato in avanti, quindi si era girato con espressione incredula. «Tu? Come hai fatto a sfuggire ai miei uomini? Ma ora morirai, Athor! E dopo toccherà alla tua donna: tornerà a terra, prima o poi.» Lottarono sul bagnasciuga per interminabili minuti. Con la coda dell'occhio Athor scorse altri davaar che stavano accorrendo in aiuto del loro capo. Il re dei migos sapeva che non avrebbe potuto difendersi da solo contro tutti e sentiva che le forze gli venivano meno. Si divincolò dalla stretta di Karesh, prese a correre verso la foresta e scomparve nella macchia. Sentì il sibilo alle sue spalle, quindi un colpo secco al fianco lo sbilanciò di lato. La lancia scagliata da Karesh lo aveva colpito solo di striscio, ma lui sapeva bene che l'emorragia lo avrebbe reso in breve ancora più debole. Le grida degli uomini provenivano distinte e sempre più vicine dalla boscaglia: il drappello di inseguitori si era compattato e di nuovo gli erano alle calcagna. Pregò il dio Hosh di dargli la forza per mettere in atto il suo piano e, premendo la mano sulla ferita, si inoltrò nella foresta. Il mare aveva incominciato a montare sul calar della notte e il vento si era fatto impetuoso, soffiando con forza da terra e spingendo la piroga sempre più lontana dalla costa. Dehal aveva lottato contro la furia degli elementi, cercando di bilanciare con colpi di pagaia le impennate dello scafo. Poi il vento aveva mutato direzione e aveva incominciato a spirare dal largo. A quel punto le onde erano ormai altissime. Da ore la donna combatteva contro l'immane forza degli elementi. Poi un'onda più grossa delle altre si abbatté sulla piccola barca. Dehal venne sbalzata nell'acqua gelida. Il suo pensiero corse ad Athor e ai figli. Non li avrebbe mai più rivisti. Nei suoi sogni non c'era mai stato spazio per le premonizioni sulla propria vita ed era stato meglio così: sarebbe stato tremendo sapere quale orribile morte l'attendeva. Athor scorse la grande sagoma del rettile di roccia che presidiava l'ingresso della grotta. Pochi passi ancora e i suoi inseguitori avrebbero avuto ciò che si meritavano e lui avrebbe regolato i conti con Karesh. Una volta
per tutte. Benedisse il dio Hosh per avergli concesso di giungere sino al Tempio Segreto sufficientemente in forze, quindi entrò nella grotta senza voltarsi indietro. 43 Linguadoca, primavera 1242 «Vi stanno cercando ovunque», stava dicendo al cugino Esclarmonda di Foix. «Sembra che per gli inquisitori, o meglio per Guillaume Arnaud ed Etienne de Saint-Thibéry, la vostra cattura sia diventata ragione di vita o di morte. Si dice che siano venuti a sapere della leggenda che vuole la nostra gente custode di una terribile arma sin dalla notte dei tempi. E pare che il servo di un nostro confratello abbia confessato sotto tortura che proprio tu, Aymon, sei colui che è a conoscenza del nascondiglio ove è riposta quest'arma capace di sterminare interi eserciti. Credo che non sia prudente per te rimanere a Foix: la città brulica di persone pronte a vendersi agli inquisitori in cambio di un'indulgenza.» «E dove mai potremmo andare, Esclarmonda: ormai Marie-Louise e io siamo come due animali braccati.» «Lo so, cugino. Credo che tu debba cercare rifugio al pog di Montségur.» In risposta allo sguardo interrogativo di Aymon, la donna continuò: «L'appellativo di pog pare risalga ai tempi in cui i nostri antenati vennero in possesso del segreto che tu ora custodisci. Tra la nostra gente si narra che, sulla vetta della montagna, si trovasse un antichissimo luogo di culto dove, sino all'avvento del cristianesimo, le coppie venivano unite in matrimonio. Ricordo che, ancora bambina, accompagnai mio padre sulla vetta del pog dove si era deciso di ampliare una piccola fortificazione esistente. Li ho assistito a un fenomeno luminoso che non ho mai più dimenticato. Era il solstizio d'estate e i raggi del sole al tramonto, passando attraverso una fessura nelle rocce, hanno assunto la forma di una farfalla dorata. Secondo la leggenda, quello era il segno con cui la divinità suggellava i matrimoni. Tutto questo oggi non esiste più: al posto di quel tempio c'è una fortezza inespugnabile, l'estremo nostro rifugio di fronte all'incalzare dei soldati del papa». La rocca si stagliava imponente e austera davanti a loro. Avevano per-
corso sei delle otto leghe che separavano Montségur dalla città di Foix. La cugina Esclarmonda aveva fatto dono ad Aymon e a Marie-Louise di due splendidi cavalli provenzali. I due stavano procedendo appaiati cavalcando a un trotto leggero. «Quello», disse Aymon indicando il maniero avvolto dalle nubi, «diventerà l'emblema della nostra affrancatura dal giogo papale. Esclarmonda mi ha detto che lassù, in quel nido d'aquila, convivono in pace eroici cavalieri e devoti catari, accomunati dalla necessità di sfuggire alla sommaria giustizia degli inquisitori.» «Ho paura, Aymon», disse Marie-Louise, «gli inquisitori sono sempre più assetati di sangue e istruiscono processi ingiusti anche contro persone di alto lignaggio. Colpendo i capi, sanno di colpire a morte il popolo: da Tolosa a Carcassonne i giudici ecclesiastici si sono lasciati dietro una scia di morte, terrore e desolazione. Ho sentito dire che hanno addirittura riesumato i cadaveri degli eretici per darli alle fiamme purificatrici. E confiscano ogni bene non solo a chi è in odore di eresia, ma anche a chi ha commesso il solo peccato di essere imparentato con un infedele. Ora quei due loschi figuri stanno cercandoci per ogni dove. E prima o poi ci troveranno, Aymon.» «Non devi parlare così. Vedrai che tra poche ore, quando avremo raggiunto Montségur, tutte le nostre paure spariranno. Guarda lassù: una prima cerchia di mura protegge il villaggio, al centro del quale si trovano la seconda cerchia e il mastio. La montagna è alta oltre mille braccia e non è possibile assediare la rocca senza circondare l'intera base del pog. Un'operazione che renderebbe necessario un dispiegamento enorme di forze, mentre per difendere la fortezza sono sufficienti un pugno di uomini. A occhio e croce penso che un soldato in armi ci impiegherebbe almeno un'ora a salire l'ultimo tratto. E sarebbe esposto al tiro delle catapulte e delle frecce. Come vedi non è affatto semplice prendere Montségur. Da lì organizzeremo la nostra difesa e, se sarà necessario, non avrò esitazione a utilizzare l'arma nascosta dai nostri avi. Se davvero esiste e se riusciremo a trovarla.» «Fermi!» Una dozzina di soldati del re di Francia, armati di tutto punto, erano sbucati da un anfratto vicino al ciglio della strada. «Scappa!» gridò Aymon alla donna, piantando gli speroni nei fianchi del suo cavallo. L'animale si impennò, colpendo con gli zoccoli uno dei soldati che riuscì a non perdere l'equilibrio e posò la base della lancia a terra, infilandosi sotto la pancia del destriero imbizzarrito. Quando l'animale ricadde
in avanti, la punta dell'alabarda gli si conficcò nel petto, spaccandogli il cuore. Fu un miracolo se Aymon non fu travolto dal cavallo mentre questo stramazzava a terra. Ebbe il tempo di vedere che Marie-Louise ce l'aveva fatta a scappare, poi i soldati gli furono addosso. «Siete voi Aymon di Daigne?» tuonò la voce di Arnaud l'inquisitore nella sala del castello di Avignonet dove il temuto tribunale ecclesiastico aveva eletto la propria sede. «Sono io», rispose Aymon, eretto e fiero, nonostante i giorni passati a pane e acqua in una cella tanto angusta da non consentirgli il minimo movimento. «L'imputato ha la facoltà di pronunciare un'orazione a sua discolpa, prima che abbia inizio il giudizio», aggiunse Etienne de Saint-Thibéry. «Singolare è la vita, reverendi padri», rispose Aymon, guardando fisso negli occhi gli inquisitori. «Alcuni vostri predecessori sono riusciti ad aver ragione della forte tempra di mio nonno e adesso, a distanza di anni, voi mi state condannando alla stessa fine. Purtroppo la dura scorza di Beaumont di Daigne ha ceduto negli attimi d'incoscienza che precedono la morte, rendendo al suo carnefice Simone di Montfort alcune segrete informazioni. È per via di quella confessione che io oggi sono qui. Ma vi sbagliate: io non ho mai ucciso, se non per legittima difesa. Sono una persona morigerata e retta. Ho vissuto una vita giusta e onesta. Ma disconosco l'autorità di questo tribunale. Voi non avete diritto di giurisdizione nelle terre del conte di Tolosa. Solo Raimondo può giudicare i miei ipotetici reati. Da me non riuscirete a ottenere alcuna informazione, nonostante la crudeltà dei vostri boia.» «In nome di Dio!» disse il domenicano con enfasi. La luce rossa dei bracieri e il soffitto a volta conferivano alla grande sala l'aspetto di un luogo infernale. «In nome di Dio, parlate, Aymon! Corrisponde a verità il fatto che voi siate il depositario del segreto dei catari?» Il silenzio più assoluto accolse la domanda dell'inquisitore. «Corrisponde a verità il fatto che, nascosta in un luogo solo a voi noto, esista un'arma terribile, la cui potenza è governata dal Maligno in persona?» Silenzio. «Vi avverto che, perdurando questo vostro atteggiamento, saremo costretti a indurvi alla confessione con ogni mezzo a noi conosciuto.» Silenzio.
«Bene, Aymon. L'avete voluto voi.» Il boia e due suoi assistenti gli tolsero i ceppi ai polsi e gli passarono le braccia dietro la schiena dove vennero nuovamente assicurate da una corda. Questa era collegata a un'altra che pendeva da una carrucola fissata al soffitto. A un gesto di Etienne de Saint-Thibéry, la corda venne tirata e Aymon fu sollevato a mezz'aria al centro della stanza. Aymon strinse i denti: il dolore alle articolazioni era insopportabile, la posizione innaturale del busto lo costringeva a respirare affannosamente. Malgrado ciò non un lamento uscì dalla sua bocca. «Vi conviene confessare, Aymon. Altrimenti il vostro supplizio potrebbe andare avanti all'infinito. Esistono, sapete, metodi ben più dolorosi di questo.» Così dicendo, Arnaud indicò delle macchine da tortura che erano situate in un angolo della sala. Marie-Louise lasciò vagare lo sguardo all'orizzonte: la vista dalla roccaforte dei catari era indimenticabile. Tutti i toni del rosso del tramonto erano esaltati dalla limpidezza di quella giornata quasi estiva. Ma gli occhi della donna erano accecati dalle lacrime. L'uomo che amava le mancava come l'aria: sapeva di non poter vivere senza di lui. I racconti e le voci si rincorrevano tra gli abitanti di Montségur: c'era chi diceva che Aymon fosse detenuto a Tolosa in attesa di interrogatorio; altri lo volevano in catene in viaggio alla volta di Roma; altri ancora erano sicuri che fosse prossimo alla morte, straziato dalle torture. «Se mai potrò rivederti, Aymon amore mio, giuro che non ti abbandonerò mai più, nemmeno per un solo istante.» Il sole scomparve come una palla di fuoco dietro a un crinale all'orizzonte. Le voci, amplificate dalle mura del castello, le giunsero distinte e la riscossero dai suoi pensieri: qualcuno era appena arrivato alla rocca e stava chiedendo di lei. Il nuovo venuto la raggiunse su uno dei bastioni merlati e le si inchinò di fronte. Indossava un'armatura leggera portata sopra a una cotta di maglia. Un grosso spadone sbucava dal fodero fissato alla schiena. Aveva l'aria di aver viaggiato a lungo e senza sosta. «Aymon si trova prigioniero ad Avignonet. Gli inquisitori lo stanno interrogando ormai da tre giorni. Ma dalla sua bocca non è uscita una sola parola e pare che Arnaud e Saint-Thibéry siano fuori di sé per la rabbia.
Gli inquisitori stanno infierendo su di lui con ogni tortura, ma Aymon non ha parlato, mia signora. Anche se non so quanto potrà ancora resistere.» «Per l'ultima volta», urlò Arnaud. «Dove si nasconde il segreto dei catari?» Aymon rimase in silenzio. Il suo bel volto era ridotto a una maschera di sangue, ma non aveva mai smesso di essere cosciente. Del resto stava proprio in questo l'abilità del boia: il condannato al supplizio non doveva mai perdere conoscenza o, ancor peggio, morire. Soltanto così poteva rendersi conto di quello che gli stava capitando. Soltanto così avrebbe ceduto e confessato. «Proseguite!» ordinò l'inquisitore. Il boia avanzò verso Aymon che stava supino su una tavola di legno ed era completamente nudo. L'aguzzino stringeva fra le mani una pentola di ferro, la cui apertura era coperta da una tela di sacco. Avvicinatosi, appoggiò la grossa pentola sul ventre di Aymon, con l'apertura rivolta verso la pelle del prigioniero. Sfilò quindi la tela, facendo attenzione che il bordo della pentola restasse aderente alla pelle. Aymon percepì il peso dei due grossi ratti sullo stomaco e sentì distintamente le loro zampe che gli graffiavano la carne alla ricerca di una via d'uscita. Il boia avvicinò una torcia alla pentola. I topi, spaventati dal calore del fuoco, emisero degli squittii acuti e presero a scavare là dove potevano: nel ventre di Aymon. «Devo fermarmi, eccellenza», disse solerte il boia dopo alcuni minuti. «C'è il rischio che i topi arrivino agli organi interni uccidendo il condannato.» «Va bene, sospendi», disse Etienne de Saint-Thibéry. «E tu cerca di rianimarlo. L'interrogatorio riprenderà domattina. Sono sicuro che Aymon sia prossimo a cedere.» Dalla requisitoria iniziale, non era più uscita una parola dalla bocca di Aymon. Improvvisa la voce profonda del condannato, anche se resa debole dalle sevizie, si levò nella sala delle torture. Ciò che disse ebbe il potere di turbare anche i due inquisitori. «Io vi maledico, angeli del Male. Voi cadrete, come cadde Lucifero con tutti i suoi sodali, fra atroci tormenti.»
Oltre sessanta uomini erano appostati nella fitta boscaglia, poco lontano dalle mura di Avignonet. Erano partiti il giorno precedente, il 27 maggio di quel 1242, da Montségur. Al momento di lasciare l'eremo non erano più di una trentina, ma, strada facendo, altri erano andati a infoltire le file del drappello. Si trattava di gente comune, per lo più contadini e artigiani, senza alcuna particolare appartenenza religiosa. Li univa soltanto l'esasperazione verso i soprusi con cui era costretta a convivere la gente occitana, vessata dagli inquisitori del papa e dai soldati del re di Francia. La loro non era una guerra di religione, ma solo una rivolta contro l'ingiustizia e l'arroganza. Altri trenta fiancheggiatori erano in attesa alle porte della cittadina di Avignonet. Verso sera, un certo Golairan si mise a fare la spola tra l'interno del castello e gli incursori. Quando la spia comunicò che quasi tutti, nella portineria, erano andati a dormire, gli uomini di Montségur varcarono le mura e percorsero in silenzio le strette strade di Avignonet. Al loro passaggio molti cittadini armati anche solo di semplici clave si unirono ai rivoltosi. Il gruppo giunse alla porta del maniero, che venne aperta da un complice appostato all'interno. Il dormitorio per gli inquisitori e per i prelati e i notabili che li accompagnavano era stato allestito nella grande sala del torrione. Gli assalitori abbatterono la porta a colpi d'ascia e infierirono sugli undici occupanti del locale, che non ebbero neppure il tempo di comprendere quanto stava accadendo. Arnaud e Saint-Thibéry, unitamente al loro seguito, composto da un francescano, due domenicani, un arcidiacono, il notaio che aveva stilato i verbali degli interrogatori, un chierico, due uscieri e il priore di Avignonet, morirono trapassati dalle spade degli uomini di Montségur. Quindi furono trovati i libri dove il notaio aveva trascritto ogni parola degli interrogatori. Gli uomini di Montségur, accertatisi che tra essi vi fossero anche quelli di Aymon di Daigne, li gettarono nel fuoco affinché le fiamme li riducessero in cenere. Poi un piccolo drappello entrò nella sala delle torture. La sala era fiocamente rischiarata dalla luce di poche torce. In un angolo le macchine da tortura. Il boia era chino su un corpo martoriato, intento a mondarne ogni traccia di sangue con una pezza umida. L'aguzzino venne preso, spogliato e chiuso nello stesso sarcofago chiodato nel quale aveva collocato decine e decine di condannati. Ancora vivo,
venne gettato nel pozzo del castello. Le sue urla si spensero nel vuoto. «Così, tra merda e rifiuti, ti passerà la voglia di torturare le anime appena giungerai all'inferno!» disse uno dei rivoltosi. Le sale del castello sembravano trasformate in un mattatoio: ovunque c'erano corpi straziati e chiazze di sangue. Infine, così come erano venuti, gli uomini di Montségur ripresero il cammino verso il loro inaccessibile rifugio. Nel corso della sortita non avevano subito perdite; anzi, non appena Aymon si fosse ripreso dalle sevizie, avrebbero acquisito un valoroso compagno d'armi. E in più sarebbero venuti a conoscenza del segreto di cui era custode. 44 Germania, anni '40 Zerstörer, il distruttore. Così veniva comunemente chiamato il caccia Messerschmitt Bf 110. Si trattava di un velivolo a due posti dove pilota e mitragliere stavano seduti l'uno davanti all'altro, in tandem, come si soleva dire. Aveva una linea aerodinamica e arrotondata ed era agile e maneggevole, nonostante fosse un bimotore. Le due grandi eliche e i cofani dei motori posti sulle ali trapezoidali erano perfettamente allineati con i due timoni verticali della coda a T. Era equipaggiato con due propulsori Daimler Benz 601 che gli consentivano di raggiungere la notevole velocità di 550 chilometri all'ora e disponeva di un'autonomia di un migliaio di chilometri. L'esemplare di Me 110, attorno al quale stavano affaccendandosi diversi meccanici della Luftwaffe, era dotato di due voluminosi serbatoi supplementari a forma di siluro montati sotto le ali. Con il carburante addizionale in essi contenuto, l'aereo avrebbe potuto percorrere oltre quattromila chilometri, una distanza molto maggiore di quella del viaggio di sola andata previsto per la missione. Rudolf Hess salì a bordo nel tardo pomeriggio. Mise mano alle manette, rivolse un cenno di saluto al personale di terra e si diresse verso la pista di decollo. Il delfino di Adolf Hitler era sicuro che, quel sabato 10 maggio 1941, avrebbe dato l'avvio a un nuovo corso della Storia. Il cielo bavarese di Ausburg salutò il decollo dell'Me 110, alle 17.45 Middle European Time (MET). Il pilota, solo a bordo, conosceva alla per-
fezione la macchina: il suo grande amico Willy Messerschmitt lo aveva sempre tenuto al corrente di ogni modifica, dalla fase di progettazione sino all'entrata in servizio dell'Me 110 nel 1938. E Hess aveva partecipato a molti test di volo: non solo era un ottimo pilota, ma anche un attento collaudatore. Obersalzberg, anni '40 Adolf Hitler quel pomeriggio aveva convocato sia Heydrich che Himmler. La segretaria del Führer aveva loro raccomandato di indossare l'alta uniforme, con tanto di onorificenze e decorazioni. I due capi dell'enorme apparato di polizia del Reich giunsero insieme al tunnel che portava sino all'ascensore. La galleria si inoltrava per oltre centoventi metri nella montagna che sovrastava Obersalzberg. Quel tunnel era l'unico accesso al «Nido dell'Aquila». Così l'ambasciatore francese François Poncet, dopo una visita, aveva soprannominato quella strabiliante costruzione. La zona era sorvegliata giorno e notte da una sessantina di Leibstandarte-SS, le guardie del corpo di Adolf Hitler. La maggior parte di questi militari stava di guardia nei pressi di un pesante portale di bronzo che chiudeva la bocca del tunnel. Le SS lasciavano accedere i visitatori solo dopo minuziosi accertamenti. Himmler e Heydrich entrarono nello spazioso ascensore e sedettero su una panca foderata con una lussuosa imbottitura di pelle verde. Heydrich sistemò le medaglie che portava sul petto, contemplandosi nelle pareti rivestite di specchi e di lamina d'ottone tirata a lucido. «Non male come regalo di compleanno», disse il capo della GESTAPO all'altro occupante della cabina. La Kehlsteinhaus era stato il dono che Martin Bormann aveva fatto al Führer in occasione del suo mezzo secolo di vita. Il fedele segretario personale di Hitler non aveva però tenuto conto della passione per l'architettura del Führer, che solitamente assillava i suoi progettisti con continui consigli e intromissioni. Bormann aveva fatto tutto di testa sua, ed era riuscito a realizzare, sulla vetta del Kehlstein, a 1834 metri d'altezza, una struttura unica, lussuosa e confortevole al tempo stesso. Si diceva che fosse stata proprio l'estromissione dalla fase di progettazione uno dei motivi per cui il Führer aveva snobbato il Nido dell'Aquila sin da quando gli era stato regalato con una solenne cerimonia, nel 1938. E Hitler non aveva mai fatto mistero di preferirgli il piccolo chalet chiamato Ber-
ghof, nel vicino villaggio di Berchtesgaden. «Vedrete che l'argomento della convocazione sarà l'incontro che il Führer ha avuto con Rudolf Hess alcuni giorni fa», disse Heydrich. «Ho saputo che i due si sono chiusi nell'ufficio di Hitler per quattro ore e hanno avuto uno scambio di opinioni molto acceso. Quando sono usciti, pare che il Führer abbia tacciato il suo braccio destro di essere 'una testa dura, ma convincente'.» «Forse avete ragione, Herr Heydrich, ma allora perché ci hanno raccomandato di indossare queste divise?» L'ascensore concluse la sua vertiginosa corsa di centotrentanove metri nel cuore della montagna. Himmler e Heydrich furono accolti da un ufficiale della guardia personale del Führer. Si trovavano all'interno di un edificio tozzo e massiccio con un patio decorato da imponenti colonne in stile romano. Quando entrarono nella sala li avvolse un piacevole tepore: sebbene fosse maggio inoltrato, ai quasi duemila metri di altitudine della Kehlsteinhaus, il clima dolce della primavera non era ancora arrivato. Nel grande camino di marmo, donato al Führer da Mussolini, ardevano grossi ceppi di legna. Hitler si alzò dal divano e rispose al saluto dei due; alle sue spalle un'ampia vetrata semicircolare si apriva su un panorama paragonabile a quello di cui si può godere dalla cabina di pilotaggio di un aereo. «Seguitemi, signori», disse Hitler con il tono gentile e fermo che usava quando sapeva che avrebbe ancora una volta sorpreso i suoi interlocutori. La stanza nella quale entrarono era divisa in due da una tenda di colore blu scuro. Al centro si trovava una poltrona. Hitler sedette sulla poltrona e chiese ai due di rimanere in piedi, uno alla sua sinistra e l'altro alla sua destra. Anzi, non contento, indicò loro anche la posa da assumere, quasi si trattasse dei preparativi che precedono una fotografia. E difatti a questo pensavano i due attoniti ospiti. La tenda si aprì e i collaboratori del Führer si chiesero, sempre più perplessi, che cosa ci fosse di tanto singolare nell'immagine di loro tre riflessa in uno specchio. Fu Heydrich il primo ad accorgersi da alcuni piccoli particolari che non si trattava di un'immagine riflessa: le tre figure che avevano davanti erano delle loro identiche copie. «Vedo che il mio esperimento ha sortito un'ottima riuscita», disse il Führer compiaciuto. «Eppure non dovreste stupirvi. Molti grandi uomini del passato hanno utilizzato dei sosia nelle più disparate occasioni. Pensate
che si dice che al posto di Nerone morì uno dei suoi numerosi sosia, mentre l'imperatore si dava alla fuga in Palestina. I tre attori davanti a noi, e a noi incredibilmente somiglianti, hanno studiato il nostro carattere, i nostri modi e i nostri compiti per anni. Riescono addirittura a imitare le nostre voci, la nostra calligrafia e le nostre firme. È inutile che vi dica che si tratta di uomini fedeli alla nostra causa sino alla morte e sulla cui discrezione non esistono dubbi. E so che non dovrò raccomandarvi analoga discrezione: se la cosa dovesse trapelare sarebbero vanificati anni di sforzi e di lavoro. Signori, potete presentarvi a voi stessi... senza oltrepassare però la metà della stanza: qualora doveste confondervi, sarebbe molto difficile distinguere la copia dall'originale.» «Chiedo scusa, mein Führer», disse Heydrich mentre osservava con espressione meravigliata il suo alter ego, «la medicina forense riesce oggi a identificare con assoluta certezza a chi appartengano le arcate dentali, le ossa interessate da fratture, alcune specifiche caratteristiche del cranio o altro. Dinanzi a un confronto diciamo... scientifico - sia in vita che in morte con un nostro sosia, si scoprirebbe presto l'inganno.» «Giusta osservazione, Herr Heydrich. A meno che le caratteristiche del vero non diventino quelle del falso... Mi spiego meglio: tutte le cartelle cliniche di questi signori sono state sostituite alle vostre. Risulterà quindi che il calco della vostra arcata dentale presso il vostro odontoiatra, Herr Heydrich, sarà quello del sosia che ora è qui, dinanzi a noi. E altrettanto è stato fatto per le radiografie, le analisi del sangue e quant'altro.» Quando, mezz'ora più tardi, uscirono dalla stanza, Hitler fece cenno ai due gerarchi di accomodarsi nella saia con la vetrata circolare: le sorprese non erano ancora finite. «Ora vorrei parlarvi di un altro argomento della massima segretezza, dal cui esito dipende la durata della guerra che stiamo combattendo. Ne ho discusso a lungo lo scorso 3 maggio con Herr Hess...» Scozia, anni '40 La pista di atterraggio privata allestita nei terreni della residenza del marchese di Clydesdale, futuro quattordicesimo duca di Hamilton, si trovava nella parte occidentale della tenuta di Dungavel, nei pressi di un casolare un tempo sede dei canili per gli animali da caccia. La notte era buia e senza luna. Proprio accanto agli ex canili era in attesa un singolare comitato di ben-
venuto, costituito dal padrone di casa e da alcuni personaggi di nobile lignaggio. Una lieve coltre di nebbia era scesa sulla campagna quel 10 maggio 1941. Il duca di Hamilton tirò fuori dalla tasca un orologio d'oro. Guardò l'ora, mancavano pochi minuti alle ventitré, e rivolse un'occhiata interrogativa all'uomo alla sua sinistra. Il duca di Kent, fratello del re d'Inghilterra, annuì a sua volta. I fari che delimitavano la pista si accesero all'improvviso, delineando una retta luminosa nel buio circostante. Trascorsero altri minuti. Gli uomini erano in silenzio, con le orecchie tese per captare il rombo dei motori. Sui loro volti si leggeva l'ansia prodotta da quella trepidante attesa. Dopo circa mezz'ora il duca di Kent si rivolse con aria sconsolata al suo ospite: «Temo proprio che la storia dell'arma totale sia stata solo un tranello e che qualche buontempone nazista si sia divertito a prendersi gioco di noi. E che anche la spedizione del tedesco sia stata un'invenzione». «Non può essere così, altezza. Ne sono sicuro: l'aereo è decollato in perfetto orario questo pomeriggio. Ho ricevuto una comunicazione radio in codice da parte di Haushofer. Il mio solo timore è che i nostri Spitfire siano riusciti a intercettarlo.» «In ogni caso è tempo di spegnere le luci della pista: non vorrei che con tutte queste luminarie accese la sorpresa ce la facessero i bombardieri tedeschi, radendo al suolo mezza Scozia.» Hess aveva volato a pelo d'acqua per sfuggire ai sistemi di intercettazione degli inglesi. E difatti, a terra, nessuno si era accorto del volo solitario del caccia nemico; nessuno tranne un osservatore che si trovava nei pressi della costa e che aveva dato l'allarme. Una squadriglia di caccia intercettori della RAF era immediatamente decollata, ma l'abile pilota tedesco era riuscito a far perdere le proprie tracce infilandosi in un banco di nubi. Hess aveva visto i caccia nella sua scia dallo specchietto. Per questo si era diretto senza esitare verso un enorme ammasso nuvoloso. Ogni pilota, anche il meno esperto, sapeva che attraversare un cumulonembo di quelle dimensioni avrebbe quasi certamente significato la perdita del velivolo. Nessuno tra gli inglesi osò seguire il temerario aviatore della Luftwaffe. Hess lottò contro le turbolenze, cercando di assecondare le fortissime correnti all'interno dell'ammasso nuvoloso. Quel supplizio gli sembrò non
dovesse avere mai fine e il pilota tedesco più volte temette che il suo Me 110 fosse sul punto di disintegrarsi. Quando ne usci, miracolosamente incolume, dei suoi inseguitori non vi era più traccia. Spinse in avanti la cloche per tornare a volare a bassa quota ma, appena tentò di rimettere il velivolo in assetto, si accorse che i timoni di profondità non rispondevano più al comando: le turbolenze li avevano irrimediabilmente danneggiati e l'aereo stava puntando verso terra simile a un gigantesco proiettile. Aprì il tettuccio dell'abitacolo e slacciò la cintura di sicurezza, ma la pressione lo tenne schiacciato al posto di pilotaggio. Hess cercò di mantenersi calmo e d'un tratto si ricordò del racconto di un suo commilitone che si era trovato in situazione di emergenza: per gettarsi era stato costretto a capovolgere l'aereo e lasciarsi scivolare fuori. Così fece Hess: capovolse il Messerschmitt e spinse più forte che poteva con mani e gambe. L'impatto con l'aria fresca della notte lo confortò. Ce l'aveva fatta. Si ribaltò nel vuoto prima di andare a cozzare contro la coda del velivolo, fratturandosi l'anca. Nonostante il dolore fosse lancinante, Hess mantenne la lucidità necessaria per azionare il dispositivo di apertura del paracadute. Obersalzberg, anni '40 «In questo momento, il camerata Rudolf Hess sta sorvolando i cieli dell'Inghilterra a bordo di un Me 110», disse Hitler rivolto ai suoi increduli interlocutori. Quindi continuò: «Avete capito bene, signori. Hess è convinto che la chiave dell'enigma, ovvero la metà di quella canzone medievale che ci servirebbe per giungere al nascondiglio a lungo cercato da Otto Rahn, si trovi in Inghilterra. Recentemente, lo ricorderete, un agente inglese è stato trovato in possesso di alcuni appunti che facevano riferimento al testo tratto dalla metà scomparsa dello spartito. Caso ancor più singolare, alcuni appunti al riguardo erano stati scritti di pugno dall'agente sul retro di un dattiloscritto di un'informativa interna dell'MI6. Nella velina un appartenente ai servizi francesi riportava le ultime parole estorte a un ufficiale delle SS prima che questi morisse ucciso da una dose letale di barbiturici. Sotto l'effetto della droga il nostro ufficiale ha rivelato l'importanza dell'antico spartito e fornito altri dettagli su quella che egli stesso aveva definito più volte l'arma totale. Quel nostro camerata, assassinato da un certo 'agente Eiffel' sulle alpi austriache, era Otto Rahn. Herr Himmler, Herr
Heydrich, avete domande?» Al cenno di diniego dei due, Hitler continuò. «Sappiamo bene che da tempo, in Inghilterra, esiste un movimento sostenuto da individui provenienti da ogni ceto sociale e da ogni appartenenza politica: nobili, borghesi, militari, massoni, agenti dei servizi segreti... Non sarei sincero se definissi tale movimento - che è profondamente contrario a questa guerra e che è pronto all'azione - come filonazista. In realtà i suoi adepti sono innanzitutto antibolscevichi. Questi patrioti sostengono che, se l'Inghilterra dovesse proprio combattere, il suo naturale alleato nella guerra sarebbe il Reich e non certo Stalin o i comunisti. Un'efficace azione del nostro Haushofer, che ha risieduto a lungo in Inghilterra intrattenendo importanti relazioni con i maggiori esponenti di questo movimento, ha fatto sì che si riuscissero a collegare le diverse voci del dissenso e dare corpo e gerarchie a quella che, altrimenti, sarebbe rimasta una sterile protesta. Quello che forse voi non sapete è che a capo dei dissenzienti c'è un personaggio di grande rilievo: sua altezza reale il principe George Edward Alexander Edmund Windsor, duca di Kent, figlio del precedente re, fratello di Edoardo VIII e dell'attuale re d'Inghilterra Giorgio VI. Mi rendo conto che potrà apparire strano che io non vi abbia mai parlato così dettagliatamente di tutto ciò e soprattutto del piano messo a punto da Hess. Ma certo capirete che, data la situazione, anche una parola potrebbe essere causa del fallimento dell'intera operazione.» Himmler e Heydrich erano rimasti in silenzio, mentre ascoltavano il Führer con espressione di sincera meraviglia: era noto che in Inghilterra esistessero frange contrarie alla politica governativa e che ci fossero contatti tra esponenti nazisti ed emissari dissenzienti britannici. Ma nessuno avrebbe mai potuto pensare che un'organizzazione dotata di una propria struttura fosse ormai prossima alla rivolta. «Hess», continuò il Führer, «è certo che questa sua missione sarà un successo. Egli sostiene che la scintilla capace di infiammare chi da tempo manifesta la sua contrarietà all'alleanza tra inglesi e bolscevichi sarà il possesso comune di un segreto. Un segreto che conduce a un'arma capace di radere al suolo la città di Mosca in un secondo. Se la missione dovesse fallire, la posizione ufficiale del Reich sarà quella di addossare ogni responsabilità all'iniziativa personale di Hess. Verrà detto che egli, colpito da un improvviso delirio di onnipotenza, è partito alla volta dell'Inghilterra. Hess è ovviamente al corrente di ciò e mi ha autorizzato ad agire in tal senso con una lettera autografa recapitatami da sua moglie. E mi ha assicurato che
manterrà il segreto anche sotto tortura e che comunque, in caso di cattura, reciterà la parte del pazzo. Poi toccherà a noi tirarlo fuori dai guai. Rudolf Hess si sta comportando da eroe.» «La missione del camerata Hess è davvero eroica», disse Himmler. «Sia gloria al suo coraggio, Heil Hitler.» «Heil Hitler», gli fece eco Heydrich, prima di aggiungere a voce più bassa: «Nessuno abbandonerà mai un'Amazzone al proprio destino». «Che cosa avete detto, Herr Heydrich?» chiese Hitler. «Nulla, nulla, mein Führer. È solo la formula di un vecchio giuramento...» Scozia, anni '40 L'uomo, che teneva il forcone con entrambe le mani, scostò la tela del paracadute. L'ufficiale tedesco giaceva sdraiato su un fianco. Era cosciente, anche se ferito. «Stai fermo, chi sei?» disse lo scozzese puntando il forcone come fosse stato una baionetta. La mano di Hess corse alla fondina. «Il mio amico David McLean ti ha detto di stare fermo!» esclamò una seconda voce. Il tedesco si guardò intorno: la radura dove era atterrato era piena di gente che lo guardava sospettosa. Hess alzò una mano, con l'altra estrasse la Luger tenendola con due dita e la lanciò tra i piedi dei contadini che lo circondavano. «Mi chiamo Alfred Horn, capitano Alfred Horn della Luftwaffe e sono latore di un importante messaggio», disse il tedesco in un inglese incerto. «Per il bene comune della vostra e della nostra nazione devo parlare subito con il duca di Hamilton. Vi prego, signori, quello che devo dire al duca è molto importante. Potete riferirgli che il mio messaggio proviene dal dottor Haushofer. Conducetemi da lui, o almeno ditegli che sono qui. Lui capirà.» «Mi sembra che sia meglio portarti in ospedale, tedesco, e non dal signor duca», disse ancora McLean, con il suo spiccato accento scozzese. «La tua gamba si sta gonfiando e a vederla così non mi sembra proprio in buone condizioni. Avrai tempo per raccontare alla polizia tutti i messaggi che vuoi. Ma, per prima cosa, andremo a casa mia, dove aspetteremo le autorità inglesi.»
Il telefono suonò mentre nella sala della caccia il duca di Hamilton e il duca di Kent stavano gustando un prezioso scotch che speravano avesse il potere di far loro dimenticare la cocente delusione appena subita. Il fratello del re d'Inghilterra stava dicendo: «Quello che non riesco a credere è che si siano presi gioco di noi: tutto era così minuziosamente pianificato... Come mai questo voltafaccia?» «Già», rispose il duca di Hamilton avviandosi verso l'apparecchio telefonico nell'atrio. «Tramite le mie conoscenze nella RAF, ero persino riuscito a far montare di guardia delle riserve lungo la rotta che avrebbe dovuto percorrere il nostro messaggero. Era tutto pronto, anche il carburante necessario a Hess per tornare in Germania in tutta sicurezza.» Il padrone di casa parlò a lungo al telefono, quindi riagganciò e, pallido come un fantasma, tornò nella sala. «L'hanno preso: Hess è precipitato in un campo nei pressi del villaggio di Paisley. Ha un'anca fratturata. Lo hanno portato nella fattoria di uno degli agricoltori che hanno visto l'aereo precipitare. Quindi è stato preso in consegna da due poliziotti, un tale Peterson e un tale Gibson. Sembra che i due non abbiano affatto creduto alla versione del sedicente capitano Horn, e hanno delegato al locale comando di polizia ogni decisione in merito al prigioniero. L'atterraggio di un pilota nemico non è cosa all'ordine del giorno, da queste parti. Pare che Horn abbia chiesto ripetutamente che io venissi informato del suo arrivo. Horn-Hess è stato portato al quartier generale.» «Chiamate il duca di Hamilton, ditegli che il capitano Horn è qui. Lui capirà», continuava a ripetere Hess, prostrato dal dolore per la frattura. Per tutta risposta, l'aviatore tedesco venne trasferito, a bordo di un autocarro, a Glasgow. Lì venne nuovamente interrogato alla presenza del console polacco, necessario per la traduzione dal tedesco. Hess a quel punto aveva inspiegabilmente cambiato versione: «Sono qui per salvare l'umanità. Mi chiamo Rudolf Hess e sono atteso da influenti personalità del vostro governo». Quindi lo avevano portato in ospedale per ridurre la frattura all'anca e anche da lì aveva continuato a chiedere del duca con delirante ostinazione. «E allora trovate il modo di conferire con lui, mio buon amico», aveva detto il duca di Kent, facendo ruotare il bicchiere nella mano. «Non era
quello che ci auguravamo? Bisogna che voi veniate a conoscenza del segreto capace di porre fine al conflitto e che il signor Hess ha portato con sé. Soprattutto dobbiamo trovare il sistema per far sì che questo incidente volga a nostro favore: tutti noi stiamo rischiando una condanna a morte per alto tradimento.» Dopo un primo incontro a tu per tu con Hess durato alcuni minuti, il duca di Hamilton fece approntare in tutta fretta il suo caccia Hurricane e decollò alla volta di Londra. Londra, anni '40 Raggiunse Winston Churchill nel mezzo di un banchetto con una trentina di invitati e gli chiese di conferire con lui in privato per motivi molto seri che riguardavano la sicurezza nazionale. Churchill, soddisfatto di avere una scusa per appartarsi in una saletta privata e godersi in pace il suo sigaro, ascoltò attentamente il duca di Hamilton. «State parlando di Hess, di Rudolf Hess, il braccio destro di Adolf Hitler?» chiese Churchill sgranando gli occhi. «Sì, signor primo ministro, proprio di quel Rudolf Hess.» «I casi sono due, signore: o avete ecceduto con le libagioni, o avete preso un abbaglio. Se il vero Rudolf Hess si è veramente paracadutato sul nostro territorio, allora io sono Orazio Nelson.» «Ebbene, allora credo sia giunto il momento di svelare la vostra vera identità, signore.» Ci volle del tempo per convincere il primo ministro, ma alla fine il nobile scozzese riuscì nel suo intento. Adesso non gli rimaneva altro da fare che tirare fuori dai guai se stesso e l'intera organizzazione clandestina. La venuta di Hess in Gran Bretagna era ormai diventata un fatto di pubblico dominio. «E perché mai Hess avrebbe chiesto di voi?» chiese Churchill inarcando sospettoso le sopracciglia. «Nel corso di un incontro che ho avuto con lui nella giornata di ieri, mi ha detto di avere apprezzato un mio articolo apparso sul Times nell'ottobre del 1939. In quell'articolo stigmatizzavo il comportamento dei vincitori della Grande Guerra nei confronti della Germania e auspicavo una rinascita del popolo tedesco, a noi, per tanti versi, affine. Hess ha detto che questa mia pubblica dichiarazione ha fatto di me il suo referente ideale per la missione di pace che ha intrapreso.»
«Pace... pace... Mentre il vostro signor Hess atterrava, decine di bombardieri tedeschi stavano seminando il loro carico di morte sul territorio britannico. I nostri caccia ne hanno abbattuti trentatré proprio mentre un sedicente emissario nazista si dichiarava latore di un messaggio di pace. Voi credete davvero che i nazisti siano capaci di vivere in questa condizione, signore?» Quindi Churchill alzò lo sguardo: «Avevate mai incontrato Rudolf Hess prima d'ora?» Lo aveva incontrato diverse volte, sia in Inghilterra che in Germania, prima e dopo l'inizio del conflitto, sempre alla presenza del comune amico Haushofer, ma il futuro duca di Hamilton sapeva bene che sarebbe stato prudente non far trapelare questa notizia. Quindi si limitò a rispondere: «Sì, Hess mi venne presentato nel corso di un ricevimento durante le Olimpiadi di Berlino nel 1936». Nel novembre 1939 l'ammiraglio Hugh Sinclair era morto lasciando vacante il posto di capo dell'MI6, la direzione dei servizi segreti britannici. A lui era succeduto Sir Steward Graham Menzies. Le malelingue dicevano che fosse il figlio illegittimo di re Edoardo VII. Oltre al nome, che Churchill considerava impronunciabile, il capo dell'MI6 presentava un ulteriore difetto agli occhi del premier: la sua politica era da sempre indirizzata a sobillare sommosse nei Paesi nemici e ad alimentare e sostenere con ogni mezzo qualsiasi focolaio di resistenza. A Churchill piaceva molto di più il fragore delle granate e il potenziale distruttivo delle bombe aeree. Il primo ministro provò una gran soddisfazione nel comunicare per primo al capo dell'intelligence la sconvolgente notizia dell'arrivo di Hess in Gran Bretagna: in un certo senso Churchill gli aveva rubato il mestiere. Menzies rimase apparentemente impassibile, ma la sua mente incominciò subito a elaborare supposizioni e significati riguardo a quel caso. Era certo che quanto accaduto facesse parte di un più ampio disegno. Ricordava bene di avere avuto notizia della presenza di Hess sul suolo inglese assai prima della data attuale. Menzies si fece portare alcuni faldoni d'archivio e incominciò a scorrere i rapporti di un agente di cui aveva apprezzato la puntigliosa diligenza, quasi certamente eliminato da spie nemiche proprio a causa delle sue indagini. Le parole con cui il capitano di fregata Kater aveva descritto i suoi pedinamenti erano state profetiche: Hess, spesso in compagnia del suo emissario Haushofer, era stato un assiduo frequentatore di alcuni membri dell'alta
aristocrazia britannica. La sua recente venuta in Inghilterra poteva significare soltanto l'epilogo di una vicenda che odorava di tradimento e di collaborazione con il nemico. Ma, per formulare quelle accuse, il capo dell'MI6 avrebbe dovuto trovare prove inoppugnabili. I suoi uomini erano infallibili quando si trattava di assumere informazioni sui nemici della Gran Bretagna. Tuttavia, non sarebbero stati altrettanto affidabili se si fosse trattato di tradire o anche solo di svolgere indagini sui componenti della nobiltà britannica o, ancor peggio, della famiglia reale. Forse era quello il motivo che aveva spinto Sinclair a mettere alle calcagna del duca di Kent un ufficiale dotato di grande esperienza. Il fatto era che all'interno del British Secret Intelligence Service militavano anche agenti sospettati di simpatie rivoluzionarie filonaziste e, in ogni caso, molto vicini alle posizioni del duca di Kent. Bisognava muoversi con i piedi di piombo. L'arrivo di Rudolf Hess in Inghilterra aveva chiamato Sir Steward Menzies a un compito ancor più difficile della già complicata «quotidiana routine» di un Paese in guerra. Scozia, anni '40 Il motto che troneggiava sul portale del castello di Buchanan, CLAMOR HINC HONOS, contrastava con l'aspetto austero e tetro del maniero che era stato trasformato in ospedale militare. Qui venivano generalmente ricoverati i malati di riguardo. La stanza di Rudolf Hess era sorvegliata da un giovane ufficiale dell'MI6, di nome Robert Shaw. La sentinella riconobbe subito il pezzo grosso dei servizi segreti che accompagnava il duca di Hamilton. Malgrado ciò, il tenente si attenne alle consegne, chiedendo di visionare permessi e lasciapassare prima di fare accedere i visitatori nella stanza occupata dal numero due del Reich. «Buon giorno, Herr Hess», disse il duca di Hamilton giunto di fianco al letto del tedesco. «Ho condotto con me il colonnello Danton dell'MI6. È lui che ha diretto le indagini seguite alla scomparsa dell'agente Kater. Vi potete rivolgere a lui in tutta tranquillità: il colonnello è dei nostri da molto tempo. Potete porgere a lui le stesse domande che mi avete rivolto alcuni giorni fa.» «Nell'abitazione di Kater avete per caso rinvenuto, signor colonnello, la
metà di un antico spartito o una copia di una ballata medievale dedicata a Maria Maddalena?» chiese Hess entrando subito nel merito della questione. «Non mi sembra, ma ho portato con me il verbale della perquisizione. Aspettate... C'erano, a dire il vero, alcuni antichi spartiti, una decina in tutto che ho elencato... eccoli», disse il colonnello Danton scorrendo la lista. «Nessuno però riguardava un canto per Maria Maddalena e mi sembra non si trattasse di fogli incompleti. Del resto abbiamo sottoposto ogni reperto all'esame degli esperti e anche loro hanno confermato quanto le sto dicendo. La mia indagine è stata davvero molto approfondita: ho fatto addirittura verificare che non esistessero nascondigli nei muri o nei pavimenti. Escludo che il documento che voi state cercando possa essere stato in quella casa.» «Questo Kater aveva parenti o amici fidati ai quali potrebbe aver recapitato il testo?» insistette Hess. «Nossignore», rispose pronto il colonnello inglese. «Kater era tutto lavoro e musica, ma... aspettate... Quel prete... padre Mc Aiden, si chiamava. È arrivato nella casa di Kater mentre eseguivo la perquisizione. Sembrava sconvolto. Mi ha detto che con l'ufficiale scomparso condivideva una solida amicizia e la passione per la musica antica. Come ho fatto a non pensarci prima?» «Avete modo di rintracciare quel sacerdote?» chiese il duca di Hamilton. «Certo, ricordo di aver annotato i suoi dati», rispose il colonnello britannico. Il tenente Robert Shaw aveva preso uno specchietto di quelli che si usano per radersi e lo aveva collocato sopra la porta: in questa maniera riuscì a vedere alcuni particolari della scena che si svolgeva all'interno della stanza e a carpire le ultime frasi pronunciate dall'ufficiale superiore. In seguito, così come gli era stato raccomandato, il tenente Shaw preparò un dettagliato rapporto, senza omettere le poche parole della conversazione che era riuscito a cogliere. Il rapporto del giovane ufficiale giunse, poche ore più tardi, sul tavolo del primo ministro. Londra, anni '40 «C'è un grosso baco nella mela», commentò Churchill, mentre disponeva il trasferimento di Hess in un luogo meno visitato. I pochi presenti nell'ufficio del primo ministro sarebbero stati pronti a
giurare che, quando Churchill aveva parlato di un baco, si riferisse al duca di Kent e alle sue dubbie frequentazioni. Nei giorni seguenti il numero due del Reich venne condotto alla torre di Londra. Qualcuno si preoccupò comunque di far pervenire un'informativa cifrata a Haushofer a Berlino nella quale venivano elencati nel dettaglio i particolari di cui avevano discusso i tre uomini, Danton, il duca e Hess, all'interno della stanza dell'ospedale militare di Buchanan. Il mondo intero stava dando alla vicenda Hess molto risalto: non c'era prima pagina di giornale che non citasse l'evento a caratteri cubitali. Anche la radio tedesca si vide costretta a diramare un comunicato ufficiale, alla stesura del quale il Führer in persona aveva voluto contribuire. «Il membro del Partito Rudolf Hess», diceva il comunicato, «malgrado il Führer gli avesse vietato di pilotare personalmente aerei a causa di una malattia invalidante e progressiva che lo sta conducendo all'infermità fisica e mentale, ha contravvenuto all'ordine. Si è procurato un apparecchio di fortuna e si è mosso in volo verso il suolo nemico. In una lettera lasciata da Hess e indirizzata al Führer risultano evidenti i gravi segni dei disturbi mentali di cui soffre...» L'eco della vicenda non si sarebbe estinto in fretta: troppe erano le forze in gioco e gli interessi politici che vorticavano intorno a quello strano e inspiegabile episodio. I servizi segreti di tutto il mondo erano stati mobilitati per raccogliere informazioni sull'ultimo volo di Rudolf Hess. Tra questi i più preoccupati dalla piega degli eventi erano forse quelli sovietici: molte indiscrezioni riferivano di un cambiamento di fronte degli inglesi dietro a tutta quella incredibile vicenda. E colui che più di tutti sarebbe uscito malconcio da una pace separata tra britannici e nazisti sarebbe proprio stato Josif Vissarionovič Stalin e l'intera Unione Sovietica. Per questo, a fianco delle vie sotterranee, il leader del Cremlino aveva scelto di percorrere anche i normali canali diplomatici. Quando la centralinista di Downing Street annunciò al primo ministro che l'ambasciatore sovietico era al telefono, per un attimo Churchill pensò che sarebbe stato meglio prendere tempo; ma, in una frazione di secondo, cambiò idea e chiese di passargli la comunicazione. In un tempo altrettanto breve partorì una scusa plausibile che avrebbe accompagnato l'intera vicenda nella Storia.
«Il compagno Stalin ha appreso la notizia e voleva comunicarvi la sua grande preoccupazione per l'accaduto, signor primo ministro.» «Il fatto, signor ambasciatore, è stato come sempre ingigantito dai giornali. E questo, purtroppo, ha avuto come principale conseguenza quella di bruciare l'intero apparato dei nostri servizi segreti», disse Churchill, enigmatico. «Volete dire che c'era un piano dietro l'arrivo di Rudolf Hess, eccellenza?» «I nostri migliori uomini», improvvisò Churchill, «ci stavano lavorando da anni. Al momento non posso rivelare altro, neppure a un alleato fidato come l'Unione Sovietica: rischierei di mettere in pericolo tutti i nostri agenti che ancora non sono rientrati in Inghilterra. Il solo risultato che siamo riusciti a portare a casa è stata la cattura di Rudolf Hess, ma il disegno era molto più ampio. Vi prego di tranquillizzare l'amico Stalin in merito alla fedeltà e all'onore del nostro popolo. Non appena mi sarà possibile, vi fornirò ogni dettaglio dell'intera operazione.» Quando Churchill chiuse la comunicazione era furioso. Sbatté il ricevitore con forza e sibilò a denti stretti: «Questi rampolli dal sangue blu, se invece di dilettarsi con improbabili strategie sotterranee si limitassero a giocare a polo o alle battute di caccia alla volpe, preserverebbero la loro salute, la mia e anche quella dell'intero popolo britannico». Pochi giorni più tardi, Stalin diffuse in un comunicato la sua opinione in merito al caso: il leader sovietico sposava appieno la versione di Churchill che parlava di un mirabile complotto ordito dai servizi britannici per catturare Hess. Nessuno avrebbe mai potuto giurare sul suo reale convincimento, ma in un momento come quello era inutile andare troppo per il sottile con la scelta degli Alleati: centosettanta divisioni germaniche stavano ammassandosi ai confini sovietici, dove centocinquanta divisioni agli ordini di Stalin erano ad aspettarle. Obersalzberg, anni '40 Era trascorso del tempo da quel maggio 1941, mesi caratterizzati da importanti avvenimenti. Nel dicembre di quell'anno era inoltre accaduto un fatto destinato a mutare radicalmente la situazione. Hitler continuava a preferire il suo rifugio sulle alpi bavaresi a qualsiasi altra dimora. Il Berghof, così era chiamata la bella villa a due piani situata poco distante dal Nido dell'Aquila, nei pressi di Berchtesgaden, nella zona
di Obersalzberg, era il luogo dove Hitler era solito tenere le riunioni riservate con i suoi più stretti collaboratori che venivano alloggiati nelle quattordici stanze del piano superiore. Questa volta, oltre a Himmler e a Heydrich, era presente anche Martin Bormann. Hitler indicò ai suoi ospiti le cinque poltrone di pelle disposte a semicerchio nel salotto, di fronte al grande camino di maiolica. Il Führer fu l'ultimo a sedersi: attivò personalmente il giradischi dove aveva collocato un'opera dell'amato Wagner, del quale spiccava un busto in bronzo realizzato da Breker e posto sul tavolo di cristallo. Le note del Tannhäuser si diffusero nella stanza. Dalla grande vetrata si poteva dominare l'intera vallata ricoperta di neve. L'inverno particolarmente rigido non aveva certo aiutato le operazioni belliche e gli uomini al fronte. Fu Hitler a introdurre il primo degli argomenti che avrebbe affrontato: gli ebrei. Heydrich sarebbe stato il principale relatore alla conferenza che si sarebbe tenuta a metà gennaio a Wannsee e che aveva come scopo quello di trovare una soluzione al problema ebraico: sino a quel momento gli ebrei, spogliati dei loro beni, erano stati per lo più espulsi dai territori del Reich. Ma ora bisognava fare i conti con le difficoltà oggettive che tutti i Paesi europei coinvolti nella guerra dovevano affrontare per poter accogliere imponenti flussi di immigrati. Heydrich espose la questione come se non stesse parlando di uomini, ma di merci in transito sul territorio tedesco. Quindi rimase in attesa di istruzioni. Ciò che il Führer avrebbe deciso sarebbe divenuto la posizione ufficiale del governo alla conferenza di Wannsee. Tra le soluzioni proposte venne scelta la Endlösung der Judenfrage, la «Soluzione finale della questione ebraica». Il primo punto all'ordine del giorno della riunione era stato risolto così, una decisione che avallava lo sterminio di un intero popolo. Ed era stato approvato da tutti i presenti. Hitler mise quindi in discussione un secondo argomento che, al momento, rivestiva per lui un'importanza ben maggiore di quello che riguardava gli ebrei. «I giapponesi attaccheranno domani», disse senza mezzi termini. Tutti sapevano che cosa sarebbe scaturito da ciò: gli americani avrebbero ricevuto una sonora lezione per la loro politica di non intervento e sa-
rebbero stati obbligati a entrare in guerra. Ciò avrebbe potuto sconvolgere gli attuali equilibri militari e rappresentare un'incognita per l'esito del conflitto. E non certo a favore della Germania. Nessuno dei presenti lo avrebbe ammesso, ma tutti, Hitler compreso, lo sapevano: proprio adesso che la vittoria sembrava a portata di mano, un nuovo e fosco orizzonte si delineava per il Reich e i suoi alleati. L'entrata in guerra dell'America avrebbe sbilanciato ogni pronostico. Bisognava riportare l'ago della bilancia dalla parte dell'Asse Roma-Berlino-Tokyo. Nella mente dei gerarchi nazisti cominciò a balenare un disegno che nel corso di quegli ultimi mesi era stato messo provvisoriamente da parte. «Ritengo opportuno», disse Himmler, «prendere di nuovo in considerazione la lungimirante ipotesi del camerata Hess: offrendo agli inglesi la possibilità di costruire congiuntamente un'arma potentissima, la Germania riuscirebbe a siglare una pace separata con la Gran Bretagna.» «Il progetto di cui parlate, Reichsführer Himmler, non è mai stato accantonato per quanto mi riguarda», gli fece eco Bormann. «A tale scopo ho mantenuto vivi i buoni rapporti costruiti dal mio predecessore Hess con il duca di Kent e con i suoi. Le acque dei servizi segreti, in terra nemica, sono ora molto più calme: il Führer ha diffuso abilmente il sospetto della follia di Herr Hess, mentre gli inglesi hanno fatto circolare la voce che la cattura del nostro camerata sia stata il frutto di un'abile operazione ordita dai loro servizi di sicurezza. Le due versioni hanno contribuito a ridurre l'interesse morboso che si era creato attorno al caso. Contemporaneamente si è abbassato il livello di controllo da parte dei servizi di sicurezza. Penso che sia tempo di attivare ancora una volta le nostre pedine.» Inghilterra, anni '40 Quando Danton aveva interrogato di nuovo il prete irlandese, questi gli aveva risposto candidamente di aver fatto pervenire il manoscritto alla Santa Sede: trattandosi di musica sacra, padre Mc Aiden aveva pensato che il Vaticano fosse il luogo più adatto alla sua custodia. Invano il colonnello Danton lo aveva minacciato di accusarlo di alto tradimento: la logica di padre Mc Aiden sembrava lontana da qualsiasi macchinazione. Il colonnello dell'MI6 aveva quindi redatto un rapporto di servizio ufficiale, nel quale dichiarava chiuse le indagini relative al caso Kater. Poi aveva compilato un secondo rapporto, ben più dettagliato, destinato all'attenzione del duca di Kent.
Poche ore più tardi quella stessa relazione si trovava sul tavolo di Bormann che nel frattempo aveva preso il posto del «folle» Hess nelle gerarchie naziste. Germania, anni '40 Al contrario di altri collaboratori di Hitler, Martin Bormann era un uomo schivo e solitario. Aveva trascorso un'infanzia travagliata: rimasto giovanissimo orfano di padre e costantemente alle prese con gravi ristrettezze economiche, aveva preferito i campi di addestramento all'istruzione e si era arruolato come cannoniere nel corso del primo conflitto mondiale, senza mai però partecipare ad azioni di guerra. Nel 1927, ventisettenne, si era iscritto all'NSDAP iniziando nel contempo una folgorante carriera che lo aveva visto, dal 1933 al 1941, segretario personale di Rudolf Hess. Bormann amava la musica e gli scacchi. Aveva un carattere pacato e riflessivo. Non era però meno feroce di molti suoi colleghi nel trattare argomenti per i quali fosse richiesta risolutezza d'azione e polso fermo. Forse furono queste sue caratteristiche a metterlo in luce agli occhi del Führer, sino a fargli prendere il posto di Hess quando quest'ultimo, tacciato di follia, venne colpito dalla damnatio memoriae. Bormann aveva sempre sostenuto posizioni profondamente anticlericali: i preti dovevano stare fuori dagli organi di partito e a loro doveva venire preclusa ogni forma di adesione al nazismo. Unica eccezione che ammetteva riguardava un sacerdote molto vicino alle idee naziste, che in più di un'occasione aveva fatto da tramite tra il Führer e il Vaticano. Si chiamava Roeller e Bormann lo aveva conosciuto tramite il suo predecessore Hess. Il segretario personale del Führer pensò subito a lui quando apprese che la parte mancante dell'antico manoscritto era finita tra le carte del Vaticano. 45 Linguadoca, 2007 I due sommozzatori della Gendarmerie avevano aiutato Oswald Breil ad assicurare la monobombola sulla schiena. Nei pressi delle rive del laghetto sotterraneo c'era grande animazione: gli uomini di Tamberly si erano in-
daffarati nella ricerca di ulteriori indizi sotto i fasci delle fotoelettriche. L'acqua cristallina rifletteva sulla volta della caverna la luce proveniente dalle alogene subacquee. Quando lo strato di fanghiglia accumulatosi nel corso dei secoli venne interamente rimosso, apparve per intero la sagoma di una galleria sigillata da grossi blocchi di pietra. Ben presto i sommozzatori si resero conto che con mazze e scalpelli non sarebbero mai riusciti a intaccare i massi che costituivano quell'antico muro. A quel punto uno dei due risalì in superficie. Quando ridiscese aveva in mano un utensile collegato a un tubo di aria compressa. Le vibrazioni del martello pneumatico si propagarono sott'acqua con un rumore sordo, simile al rombo di un terremoto. Anche con questa tecnica abbattere il muro fu un'operazione lunga e complicata: i grossi blocchi erano posati senza malta, ma le giunzioni risultavano talmente precise e le pietre tanto pesanti da rendere la costruzione inscalfibile quasi fosse stata un unico blocco di roccia. I tre si erano alternati nel lavoro: là sotto non c'era spazio per più di due persone alla volta. Oswald era risalito da una decina di minuti, quando un sommozzatore emerse e lo invitò a seguirlo: erano riusciti ad aprire una breccia sufficiente a far passare una persona. Poco dopo Oswald guidava la piccola cordata subacquea oltre il foro aperto nella parte alta del muro. La galleria alla quale accedettero era invasa dall'acqua e si sviluppava in senso orizzontale con una serie di anse e di brusche curve che impedivano ai tre di vedere oltre pochi passi. Quando ebbero percorso all'incirca una trentina di metri, il cunicolo prese a salire e finalmente sbucarono in una sacca d'aria. Breil tirò fuori la testa dall'acqua e, fatto qualche metro, si trovò all'asciutto anche con i piedi: la torcia illuminò la volta della gigantesca grotta nella quale erano sbucati, la cui sommità si trovava almeno venti metri sopra le loro teste, simile alla cupola di una chiesa costellata da stalattiti. Appena diresse il potente fascio della lampada verso il basso Oswald trasalì. Giacevano allineati, uno accanto all'altro. Il microclima all'interno della grotta aveva fatto sì che restassero pressoché intatti per tutti quei secoli. Sembrava che dormissero. Oswald si liberò della pesante attrezzatura subacquea e si incamminò
con passi leggeri, quasi non avesse voluto violare il riposo eterno degli abitanti della grotta. C'erano almeno cento cadaveri adagiati pressoché ovunque. Molti di questi erano di bambini. Alcuni tenevano stretta la mano di quello di fianco, in una sorta di gesto fraterno. Breil si avvicinò a uno degli scheletri. Si chinò e prese la spada ancora agganciata alla vita del suo proprietario. Ne riconobbe immediatamente la provenienza: era un'arma medievale in uso tra le persone di alto lignaggio nell'antica Persia. Era un oggetto rarissimo e dalla fattura squisita: l'elsa era in oro sbalzato e sovrastata da un grosso smeraldo. Le spade di quella foggia, con la lama ricurva e molto leggere e maneggevoli, erano chiamate akinakes. Oswald la prese tra le mani: quella fredda lama era lì a testimoniare i terribili eventi di cui era stata protagonista, anche se inutilmente. «Torniamo al lago», disse rivolto ai due agenti sommozzatori che si guardavano attorno senza parole. «Domani saremo costretti a trascorrere molto tempo qui dentro.» Tamberly li accolse con preoccupata curiosità: «Che cosa c'è dietro al muro?» chiese il prefetto dell'Ariège. «Era da più di mezz'ora che non vedevo le vostre bolle. Stavo incominciando a pensare al peggio.» «C'è un'altra grotta. Un po' più in alto rispetto a questa. Là dentro l'acqua non è arrivata e ci sono almeno un centinaio di scheletri: qualcuno ha voluto precludere per sempre a quella povera gente l'unica via di fuga e ha trasformato la caverna in un enorme sepolcro. Se ti è possibile, Yves, domani dovresti mettermi a disposizione altri uomini e farlo con grande riservatezza: non è ancora il momento di divulgare la notizia. Voglio scoprire che cosa ha provocato questo antico e terribile massacro. E niente giornalisti armati di telecamere tra i piedi o archeologi con pennello e paletta.» «Certo, Oswald. Non temere. A ogni modo, questa notte lascerò un paio di uomini a piantonare l'ingresso della grotta.» Teheran, 2007 «Domani, eccellenza», stava dicendo Fadah, il mercante d'armi. «Le chiedo ancora tempo sino a domani. Il mio cliente mi ha assicurato che siamo a un passo dalla conclusione della trattativa.» «A dire il vero non c'è mai stata alcuna trattativa», rispose irato Gholam Pashelvi. «Io fino a ora non sono stato che un ostaggio nelle mani sue e in
quelle del suo cliente: avete fatto tutto voi, dalla determinazione del prezzo alle modalità di consegna, persino la qualità di greggio è stata scelta da voi. Ora mi auguro per lei che tutto fili liscio, Fadah.» Quando il mercante d'armi uscì dalla stanza del capo di Stato iraniano, Pashelvi si rivolse al suo inseparabile sottoposto. «Continua a farlo tenere d'occhio, Nard. Quella specie di topo parlante non mi è mai piaciuto. Spero davvero che ci sia qualche verità dietro a tutta questa faccenda del materiale radioattivo. E quando questa vicenda sarà conclusa ci occuperemo di lui in maniera definitiva: non è pensabile che si lasci in giro un tale testimone. A proposito di testimoni, come sta il nostro ex presidente democraticamente eletto?» «Non si preoccupi, stiamo tenendo sotto controllo ogni mossa di Fadah. Non mancherò di informarla di qualsiasi avvenimento degno di nota», rispose Nard con uno sguardo sinistro. «Quanto ai testimoni... non crede sia giunto il momento di eliminare il presidente Tahrjani?» «Assolutamente no! Dobbiamo usare l'ex capo del governo come un jolly da giocare ogni volta che si addensano sospetti sulla sua scomparsa: le sue sporadiche apparizioni televisive con tanto di dichiarazioni rilasciate da località segrete sono la nostra garanzia di legittimità. La confessione del tradimento di Tahrjani ci ha scagionato da qualsiasi accusa.» Linguadoca, 2007 «Guarda qui, Sara», disse Oswald tenendo la spada con entrambe le mani. «Ma è un'akinakes! Dove l'hai trovata, Oswald?» «Sei abbastanza in forze per ascoltare una storia davvero singolare?» Sara rimase in silenzio per tutta la durata del racconto, i begli occhi accesi dall'interesse. «I catari! L'antica leggenda che narra di decine di fuggiaschi murati vivi all'interno di una grotta è dunque vera...» esclamò infine. Teheran, 2007 Erano le nove del mattino a Teheran, due ore e mezzo più avanti rispetto all'ora europea, quando il telefono della linea privata del presidente iraniano prese a squillare. «Il mio cliente mi ha chiamato poco fa. È tutto a posto, eccellenza», sta-
va dicendo Fadah con un tono eccitato e compiaciuto. «Credo sia opportuno incontrarci al più presto.» «Nel mio ufficio tra due ore», disse Pashelvi con tono che non ammetteva repliche. Linguadoca, 2007 Oswald stava trascorrendo la prima notte tranquilla nel letto del suo albergo dopo molti giorni. Ora che l'angoscia per la sorte di Sara si era allentata, un sonno ristoratore lo aveva finalmente accolto. Il telefono suonò a lungo, ma alla fine riuscì a penetrare nei sogni dell'uomo. Diede un'occhiata all'orologio: erano le sei e venti del mattino. «Oswald, ho una brutta notizia da darti», disse Yves Tamberly dall'altro capo della linea. Breil si augurò che la brutta notizia non riguardasse Sara. «Una squadra di cinque sommozzatori si è recata alla Grotte des Chevaliers venti minuti fa per preparare le attrezzature e gli impianti d'illuminazione per l'immersione. I tre uomini di guardia sono stati ammazzati a colpi d'arma da fuoco. L'attacco deve essere avvenuto tra le tre, ora in cui quei poveri ragazzi avevano dato il cambio ai loro compagni, e le sei del mattino. Gli assassini dovevano essere dei professionisti: ognuno dei miei uomini è stato ucciso da un solo preciso colpo.» «Riesci a tenere stampa e televisioni lontane ancora per qualche ora, Yves?» «Non te lo posso promettere, Oswald, ma ci proverò. Che cosa hai intenzione di fare?» «L'ispezione che avrei dovuto fare in mattinata. Anche se temo che sia ormai troppo tardi.» «Hai bisogno di qualche cosa? Chiedimela e cercherò di accontentarti.» «Se è possibile, vorrei disporre della squadra di sommozzatori e delle loro attrezzature. Fai anche portare un contatore Geiger all'interno della grande caverna che abbiamo scoperto.» Sara Terracini si era svegliata all'alba, come le succedeva dal giorno in cui era uscita dallo stato di incoscienza. Probabilmente aveva dormito abbastanza mentre era in coma, si disse. Allungò la mano verso il comodino e prese il computer portatile. Aprì il
file nel quale aveva inserito la copia di tutte le pagine dell'agenda di Luca Raso, dopo averle fatte decrittare dai macchinari elettronici del laboratorio. Si immerse nella lettura e in breve fu travolta dal succedersi tumultuoso degli avvenimenti narrati dal giornalista. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, 1976 La testa mi doleva ancora, mentre percorrevo il corridoio sotterraneo scortato da due guardie armate. Lungo le pareti si aprivano diverse porte protette da solide sbarre. Credo si tratti dei depositi dove il piccolo esercito alle dipendenze della Neumann custodisce armi e munizioni. Delle grosse tubature correvano lungo il soffitto del tunnel, interrotte dalle valvole e dalle diramazioni che salivano verso gli impianti e le cucine. La stanza nella quale mi hanno condotto era spoglia, il cemento armato a vista. Mi hanno bloccato i polsi e le caviglie con delle manette fissate ai braccioli e al basamento di una solida poltroncina di ferro, a sua volta fissata con grossi bulloni al pavimento nel centro della stanza. Una lampada di alluminio che pendeva dal soffitto concentrava la luce su di me, impedendomi di distinguere con chiarezza ciò che accadeva fuori dalla zona illuminata. Un'ora più tardi la porta si è aperta. Una guardia è entrata spingendo un carrello simile a quelli usati nelle sale operatorie. Lo ha messo di fianco alla mia poltrona ed è uscita. I ferri erano ordinatamente disposti su un telo di garza. Ho immaginato fin troppo bene a che cosa sarebbero serviti. Dopo ore di attesa snervante, la porta si è aperta di nuovo. Erick Neumann era accompagnato da altre tre persone, che sono rimaste fuori del cono di luce proiettato dalla lampada. Non riuscivo a vederne i volti. «Bentornato, dottor Raso!» ha detto Neumann con un sorriso sarcastico. «Questa volta, purtroppo, il suo soggiorno sarà meno piacevole del precedente. Sono convinto che lei ha molte cose da dirci. Tutti noi siamo qui in trepidante attesa di ascoltare le sue parole.» «Che differenza può fare, Heydrich? Spero non le dispiaccia se la chiamo col suo vero nome: non vorrei che se lo fosse scordato
in tutti questi anni placidamente trascorsi sotto le spoglie del magnate brasiliano di origini ebraiche. Lei ha un debito con la Storia, Herr Reinhard Heydrich.» «Non mi pare che lei sia in grado di dettare condizioni, ma mi chiami pure come vuole, purché incominci a parlare. Non vorrei dover dare ordine ai miei uomini di aiutarla a diventare più loquace. Che cosa sa dell'operazione Amazzone?» «E perché mai dovrei parlare? Sono in ogni caso condannato a morte, o no?» «Sulla sua sopravvivenza, devo essere sincero, non ho grosse garanzie da offrirle. Ma le posso assicurare che è ben diverso raggiungere la meta finale senza aver conosciuto le piacevoli cure mediche del nostro giovane Moshe Swazinski. Anzi, dato che ci tiene a chiamare ciascuno col proprio nome, le presento Frederick Schellenberg: suo padre, Walther Frederick Schellenberg, mio degnissimo successore alla guida dell'RSHA, ha voluto imporgli il suo stesso nome. Il giovane Moshe ha sempre avuto una grande passione per la medicina. Ma purtroppo è dovuto diventare un uomo d'affari e credo non veda l'ora di sfogarsi. Glielo chiedo per l'ultima volta, dottor Raso: che cosa sa dell'operazione Amazzone?» Swazinski si e staccato dal piccolo gruppo di persone nell'ombra e ha iniziato ad armeggiare con i ferri chirurgici contenuti nel carrello. «Ho fotografato il dossier, pagina per pagina. Non ho avuto il tempo di leggerlo, dato che lo scambio dei nostri bagagli è avvenuto troppo presto. Ma ho conservato il rullino fotografico e, dopo l'incidente aereo, l'ho consegnato a un avvocato di Rio de Janeiro. Se non passerò personalmente a ritirare la pellicola entro una settimana da oggi, ho dato indicazioni di provvedere allo sviluppo delle fotografie e di divulgare le immagini agli organi di stampa. Ecco che cosa so dell'operazione Amazzone.» Heydrich-Neumann ha avuto un moto di stizza, si è allontanato e ha preso a confabulare in tedesco con i tre compagni, quindi è tornato vicino a me. «Sono convinto che lei stia bluffando, signor Raso. Ma non vogliamo correre rischi. Per noi sarà cosa da poco constatare la veridicità delle sue ammissioni. La sua esecuzione e solo riman-
data: giusto il tempo per eseguire i nostri controlli.» Poi Heydrich e i tre hanno lasciato la stanza. Non avevo idea di quanto tempo fosse trascorso da quando il mio interrogatorio era stato interrotto: ma certo non meno di una dozzina di ore. Ero stremato dalla sete e dai crampi che mi assalivano di continuo a causa della posizione innaturale a cui ero costretto. Il rumore nella toppa mi ha fatto trasalire: ho pensato che avessero scoperto la mia bugia e che fossero venuti per uccidermi. Una figura solitaria si è avvicinata alla sedia. Il viso di Alexandra Oliveiro mi è apparso come una visione sotto al fascio di luce. I suoi lineamenti erano tesi, i gesti rapidi e sicuri. Con una chiave ha fatto scattare la serratura delle manette. «Presto, seguimi», mi ha detto. «Non so quanto tempo abbiamo prima che venga dato l'allarme.» «Prima devo recuperare la mia agenda nella stanza della Residencia.» Sapevo che avrei corso un grosso rischio, ma ogni cosa che avevo scoperto in quei giorni era annotata sull'agenda. «Sei pazzo, Luca? Lascia stare i tuoi appunti e seguimi: ci dobbiamo nascondere e trovare al più presto il modo per andarcene da qui.» Quando abbiamo varcato la soglia, ho visto che l'uomo di guardia giaceva a terra con la faccia in una pozza di sangue. Alexandra lo aveva ucciso. Giunti nel corridoio, le ho fatto cenno di proseguire: io l'avrei raggiunta solo dopo aver recuperato il taccuino. «Aspettami all'hangar. Entro mezz'ora sarò lì», le ho sussurrato, quindi ho imboccato il corridoio che portava alla villa. Il corridoio era deserto. Ho salito la scala che conduceva ai locali di servizio della villa padronale. Anche nella Residencia non ho incontrato anima viva. Ho raggiunto la mia stanza: l'agenda era ancora dove l'avevo vista l'ultima volta. Scendendo le scale, ho udito delle voci che provenivano dallo studio di Heydrich. Sono entrato nella biblioteca, ho ruotato il vaso liberty e mi so-
no infilato nella stanza segreta. Neumann era seduto alla scrivania, due persone stavano in piedi davanti a luì. «Sino a che è stato in vita, il Führer ci ha impedito di portare a compimento l'operazione Amazzone», stava dicendo Heydrich. «E non ci è stato possibile liberare Hess dal carcere di Spandau. Del resto, devo ammettere che allora sarebbe stata un'operazione... inopportuna.» «Ma adesso che anche il nostro amato Führer è morto, non vedo ostacoli per tenere fede al nostro antico giuramento. Nessuno potrà mai giungere fino a noi», gli ha risposto uno dei due uomini. «Non è esatto, camerata: un ostacolo c'è ed è rappresentato dal giornalista italiano», lo ha interrotto Heydrich. «Dobbiamo assolutamente scoprire se davvero ha lasciato quelle disposizioni all'avvocato.» «Personalmente», ha aggiunto l'altro, «penso che quella storia sia solo un bluff escogitato da Raso nel tentativo di spaventarci e di salvarsi la pelle. Io lo ammazzerei subito, anche perché credo che esistano almeno tre o quattrocento studi legali nella città di Rio. Sarebbe praticamente impossibile scoprire dove Raso ha depositato il rullino nelle poche ore in cui è sfuggito al nostro controllo. Portiamo a compimento l'operazione Amazzone senza ulteriori indugi. Tenete presente che Rudolf Hess ha preso il posto del Führer nel cuore di tutti i neonazisti europei sin da quando è stato rinchiuso a Spandau. Da allora si svolgono periodiche manifestazioni di protesta che inneggiano a lui e contro il prolungarsi della sua carcerazione. Una volta fatto evadere Hess, il nostro movimento, che sta vivendo una fase di stallo, verrebbe rinvigorito di nuova linfa vitale. Il carisma che eserciterà Hess una volta libero potrebbe catalizzare il consenso di milioni di simpatizzanti neonazisti in tutto il mondo. Solo così potremo rendere davvero eterna la nostra ideologia, l'ideologia del nostro Führer.» «Sono d'accordo, camerata. Anche se penso si debba agire con molta circospezione. Per me è davvero obbligatorio scoprire se e quanto Raso abbia bluffato. Se per caso avesse detto la verità, rischiamo di compromettere il lavoro di decine di anni. Ora che
siamo a un passo dalla rinascita del Quarto Reich, non possiamo permetterci di sbagliare», aggiunse l'altro. «Faremo parlare l'italiano: conosciamo i modi per sciogliere la lingua anche a chi non vuole.» «Preferisco aspettare prima di sottoporre Raso alla tortura: ci serve in buone condizioni, se dovremo presentarci con lui dal suo legale e ritirare la pellicola. Fatemi giocare quest'ultima carta, e se dovesse rivelarsi inutile, mi arrenderò alle vostre opinioni. Ma torniamo a noi, il problema del giornalista è un incidente di percorso che certamente riusciremo a superare. Se non sbaglio l'argomento di cui dovevamo discutere avrebbe dovuto essere la resurrezione della nostra idea», ha concluso Heydrich. «Già... risorgere», ha detto l'uomo alla sua sinistra. «Non ne posso più di false identità di ebrei sfuggiti alla Soluzione finale. Voglio che la gente, per strada, mi saluti con rispetto. Voglio scrollarmi di dosso questa insopportabile nemesi: io nei panni di un ebreo per tutti questi anni. Voglio essere chiamato col mio nome, col nome di un fedele nazista. Sono esasperato dagli 'Shalom, signor Isaac Hilsenrath'. Voglio che mi si dica 'Buon giorno, signor Martin Bormann'!» Quanto stavo ascoltando aveva dell'incredibile. Un mondo parallelo e popolato di demoni aveva vissuto per anni sotto mentite spoglie e ora si preparava alla riscossa. «Se l'identità è stata di peso a te, Bormann, figuriamoci che cosa è stato per il Führer chiamarsi signor Deumir Magruder sino al giorno della sua morte. Colui che è stato a un passo dal cambiare le sorti del mondo ha vestito i panni di un oscuro commerciante di cereali in pensione sino a che una banale bronchite non lo ha ucciso, un anno fa», ha concluso il terzo uomo che, mentre parlava, si era diretto verso lo specchio dietro al quale ero appostato. Gli occhi sottili e il viso rotondo non erano così cambiati, nonostante gli anni e alcuni ritocchi chirurgici. E il fatto che fosse in compagnia degli altri due era la prova inconfutabile della sua identità. Himmler, l'architetto dello stermino, si è guardato nello specchio. «Dobbiamo liberare il camerata Hess, a tutti i costi. Una volta
che lo avremo condotto al sicuro, uniremo i nostri sforzi per recuperare finalmente i componenti dell'arma nucleare nascosti in Linguadoca. E quando saremo in possesso di quell'ordigno, vedrete che potremo finalmente riacquistare le nostre sembianze e tornare a rivestire il ruolo che ci spetta nel mondo.» L'incedere dell'età, che solitamente mitiga la malvagità e il desiderio di vendetta, aveva acuito la vena d'odio che aleggiava tra quelle belve partorite dal Maligno. 46 Età dei Metalli, II millennio a.C. Il giovane Sar era preoccupato per il mancato ritorno al villaggio dei genitori. Si era quindi messo alla loro ricerca, seguendo il percorso che conduceva alla riva del mare. Aveva camminato a lungo, lasciandosi guidare dal corso del fiume. Giunto alla grande distesa d'acqua si era fermato, lasciando correre lo sguardo lungo la linea dell'orizzonte. Dal cielo erano cominciati a scendere dei fiocchi di neve e il mare in tempesta aveva assunto un colore scuro e minaccioso. Le onde si inseguivano nella loro eterna corsa verso la riva. Per un po' il ragazzo rimase incantato di fronte a quello spettacolo. Poi l'attenzione di Sar venne catturata dalla piccola piroga alla deriva. Rimase a guardare l'imbarcazione sballottata dalle onde, pensando a quale triste destino avessero subito i poveri pescatori travolti dalla furia degli elementi. La figura umana apparve e subito scomparve tra i flutti: lottava cercando di tenere la testa fuori dall'acqua, una mano aggrappata al relitto. Senza esitazione Sar si gettò in mare: suo padre e sua madre gli avevano insegnato a resistere alla forza delle onde nelle rapide del loro fiume e lui sapeva di essere un ottimo nuotatore. Ma, ugualmente, quando raggiunse la piroga, era stremato. Afferrò il malcapitato per i capelli e lo trascinò verso riva, sperando di essere arrivato in tempo. Anche Athor aveva il petto scosso dall'affanno. Le urla dei nemici morenti si erano appena spente, nel buio della galleria che conduceva al Tempio di Hosh.
Le mani empie di Karesh e dei suoi davaar avevano osato accarezzare la Pietra Sacra e la morte li aveva raggiunti mentre, troppo tardi, si erano nuovamente lanciati al suo inseguimento per ucciderlo. Il re premette la mano insanguinata sulla ferita e alzò gli occhi verso la volta della grande grotta. Pregò Hosh affinché i disegni che aveva appena tracciato con il suo sangue fossero sufficienti a indicare la strada a Sar. Ma, nonostante tutto, era ottimista: il suo primogenito era un giovane uomo intelligente e coraggioso. Ogni volta che lo guardava gli sembrava di rivedere se stesso, al tempo in cui, nella foresta, aveva abbracciato per la prima volta il corpo di Dehal... il senso della sua vita, l'essenza dell'amore. Era sicuro che fosse riuscita a mettersi in salvo. Ci avrebbe pensato lei a portare avanti la famiglia: non aveva nulla da invidiare al più valoroso dei guerrieri. Sorrise ripensando al viso di Dehal, la meravigliosa madre dei loro sei figli. I volti allegri di ciascuno di loro apparvero nitidi nella mente di Athor. Mosse le mani come per accarezzarli uno a uno. Era felice di aver portato a termine la sua missione di padre, di re e gran sacerdote: aveva costruito un mondo migliore per la sua gente e per la sua famiglia. E ora Karesh, figlio del Male, era morto. Athor, re dei migos, sapeva che anche per lui era giunto il momento di intraprendere il viaggio verso il regno di Hosh. Sar raggiunse la spiaggia e vi adagiò il corpo esanime di quello che credeva un pescatore in difficoltà. La sorpresa gli tolse il respiro. Il naufrago non era un pescatore, ma sua madre che, scossa dai colpi di tosse, stava rinvenendo e ora lo guardava, incredula. Il suo provvidenziale intervento le aveva salvato la vita. Dehal tese le braccia e lo strinse al petto come quando era bambino. Rimasero così per qualche istante, infreddoliti e bagnati, adagiati sulla sabbia, mentre la neve cadeva sempre più fitta. «Vieni, madre. Cerchiamo un riparo e della legna secca per accendere un fuoco.» «Non abbiamo tempo, Sar. Non abbiamo tempo. Tuo padre è in pericolo. Dobbiamo correre alla grotta, sperando che non sia troppo tardi.» Dehal conosceva il presagio, ma ciononostante continuava a sperare di essersi sbagliata, di aver confuso la morte con il sonno, che per Athor ci fosse ancora una possibilità di salvezza... 47
Rocca di Montségur, 1243 La comunità di Montségur era composta sia da osservanti e ferventi catari che da esperti combattenti - i faidits -, in molti casi strettamente imparentati tra loro. Tutti, più di trecento persone tra uomini, donne e bambini, vivevano in pace in quella rocca sospesa tra le nuvole. Ognuno aveva una sua mansione all'interno della comunità e si dedicava alla propria quotidiana occupazione con entusiasmo e passione. Ma negli ultimi tempi una rassegnata certezza li accomunava: l'amara consapevolezza che, malgrado i loro sforzi, presto sarebbe finita. Nell'anno trascorso dal massacro degli inquisitori ad Avignonet, Aymon della Val di Daigne si era completamente rimesso. Portava però con sé dei segni indelebili e non si trattava solamente di quelli con cui i suoi torturatori avevano infierito sul suo corpo. «Più in alto quella guardia, Gaillard!» stava dicendo Aymon a uno dei giovani a cui insegnava l'arte del combattimento. «La tua spada non è uno scacciamosche, ma un'arma che deve uccidere. E tu, Raymond, guarda sempre negli occhi il tuo avversario: gli occhi tradiscono le sue mosse ben prima che queste si manifestino.» «Non ti sembra di essere troppo severo con loro?» La voce familiare proveniva dalle sue spalle. «Sono poco più che ragazzi.» Marie-Louise gli si era fatta vicino. «Per ora basta, miei giovani allievi. Domattina ripeteremo le mosse che abbiamo provato oggi... E guai a chi le sbaglierà!» Non c'era ira nel tono di Aymon, ma solo la necessaria rigidità dell'educatore, che non riusciva a mascherare la comprensione e l'affetto. I dieci allievi sembrava non vedessero l'ora di correre verso le loro case, fuori dalla più interna delle due cinte murarie. Aymon si rivolse quindi a Marie-Louise: «Questi ragazzi devono essere preparati al futuro. E per loro non sarà facile... se pure ci sarà, un futuro». «Devi lasciare che si godano la loro gioventù. Lasciali apprezzare questi indimenticabili giorni, i primi amori, le emozioni, ogni esperienza che poi si porteranno dietro per sempre.» «Lo credi davvero, Marie-Louise?» «Certo: sono sicura che debbano vivere anche momenti spensierati e...» La donna non voleva sentire quello che in cuor suo sapeva bene. «Non intendevo quello. Sei davvero sicura che la loro esistenza sarà
lunga? Ho sentito dire che a Béziers è maturata la decisione di cingere d'assedio Montségur. E che sono stati condannati in contumacia buona parte di coloro che hanno preso parte alla spedizione organizzata per liberarmi. I primi della lista sono i cugini Pietro e Arnaldo Ruggero di Mirepoix e tutti i loro nipoti: vengono considerati i responsabili dell'assalto ad Avignonet, nonché i capi militari di questa nostra comunità di folli eretici. Condannato a morte pare sia stato anche il capo spirituale dei Perfetti, Bertrando Marty. Si dice che il siniscalco di Carcassonne sia andato in giro per mezza Francia allo scopo di costringere i nobili a mobilitarsi per l'assedio con i loro soldati. A onor del vero, pare che la richiesta di questo Ugo d'Arcis sia stata accolta tiepidamente dai signori locali. Ma sembra che sia comunque riuscito a mettere assieme un numeroso contingente di cavalleria e diversi di fanteria. Per questo sono convinto che l'unico modo che quei ragazzi abbiano per prolungare la loro esistenza sia quello di conoscere perfettamente l'uso delle armi.» Così dicendo Aymon si volse in direzione di una torre più alta delle altre sulla quale alcuni uomini stavano erigendo una catapulta. «Vorrei sbagliarmi, ma temo che i tempi siano maturi. Dobbiamo prepararci a resistere a un assedio.» L'assedio iniziò nella primavera del 1243. I catari e i faidits osservarono dall'alto della rocca le truppe ammassarsi dapprima nella valle, quindi raggiungere la postazione di battaglia. Qualcuno stimò che oltre diecimila uomini si fossero messi in armi per assediare Montségur. Il silenzio era assoluto. Gli assediati restavano a guardare impotenti, protetti dalle due cerchia di mura e dagli speroni finora inespugnabili della montagna. Un vento teso spazzava la pianura. Il calpestio dell'esercito e dei cavalli in marcia alzava nuvole di polvere densa. Le armi luccicanti riflettevano il sole e gli stendardi si tendevano al vento. Lenti come serpi che si attorcigliano attorno al fusto di un albero, i contingenti degli assalitori presero a salire verso la rocca. Chiunque durante l'assedio avrebbe provato una sensazione di totale impotenza, unita a un'invincibile claustrofobia. Dal momento in cui i soldati avevano rizzato le tende nella valle, ogni singolo seme, ogni chicco di grano, ogni baccello commestibile aveva assunto un diverso valore per coloro che sapevano di essere prigionieri tra le mura di Montségur. Fu dato l'ordi-
ne di razionare cibo e acqua. E le figure destinate ad approvvigionare la piccola comunità di assediati divennero importanti come condottieri: da ora in poi il Perfetto Ponzio di Moissac o la Perfetta Gulielma Marty di Montferrier, rispettivamente mugnaio e fornaia, sarebbero divenuti la loro sola fonte di sostentamento. Ogni artigiano, dall'inizio dell'assedio, aveva smesso di produrre manufatti che non fossero strettamente necessari alla popolazione. Una disposizione che esisteva da tempo, e sulla quale i soldati del re di Francia e del papa avevano deciso di usare la massima severità, prevedeva il divieto per contadini locali di vendere i propri prodotti agli eretici asserragliati a Montségur. La legge era in vigore da una decina d'anni, ma fino ad allora era stata del tutto ignorata: da Villeneuve, Lasset, Massabrac, Laroque e da molti altri paesi venivano fornite al castello ogni genere di derrate, incluso l'ottimo vino che contribuiva a vincere la rigidità degli inverni. Il commercio era andato avanti sino a che non era cominciato l'assedio: a quel punto i fornitori clandestini avevano smesso di salire a Montségur per vendere le proprie derrate. E, parimenti, dal mastio non erano più usciti i prodotti che un tempo venivano usati per gli scambi. Da più parti si diceva che, in quelle condizioni, gli eretici non avrebbero potuto resistere per più di qualche settimana: a Montségur non c'erano grandi spazi coltivabili, né fonti d'acqua a cui attingere. Ma Pietro Ruggero di Mirepoix sapeva invece che i magazzini del castello erano ben stipati di viveri: da molti anni la popolazione della rocca si preparava a essere assediata. La preoccupazione del capo militare dell'enclave era piuttosto di carattere difensivo e tattico: scarseggiavano le armi da lancio e, soprattutto, mancavano alcune parti della catapulta. Senza quella poderosa macchina d'artiglieria la difesa sarebbe stata molto più debole. «Aymon», disse Pietro Ruggero, «mi rivolgo a voi perché conosco le vostre capacità. La catapulta è inutilizzabile: mancano decine di braccia di corda e la sacca per riporvi il proiettile. Sono convinto che voi riuscirete a escogitare un modo per superare le linee nemiche, raggiungere l'alta contea di Foix e procurarci quanto ci necessita. Sappiamo bene che, senza la catapulta, sarà molto più facile per i nemici arrivare sin sotto le mura.» «Ci proverò domani stesso. Ho in mente un piano per riuscire ad abbandonare Montségur senza che il nemico se ne accorga», rispose Aymon risoluto. Erano giorni che pensava a come lasciare la rocca: la catapulta era la loro ultima speranza.
«Ho giurato a me stessa che non ti avrei mai più abbandonato», aveva detto Marie-Louise. «E non ti abbandonerò.» «Non si tratta di una missione facile, Marie-Louise... Sarà molto rischioso anche per un uomo...» «Lasciami venire, Aymon, ti prego. E pensa all'alternativa...» «Alternativa?» «Sì, certo: se tu vai, io resterò prigioniera di una città assediata. Preferisco rischiare con te, perché questa battaglia impari abbia qualche possibilità di vittoria. E se non ce la faremo, vorrò essere al tuo fianco quando renderemo la nostra anima a Dio.» La nebbia della sera si stava alzando dalla valle e presto avrebbe avvolto il picco di Montségur come un candido, inestricabile velo. Aymon sapeva che si doveva fare in fretta: diede ordine di sporgere nel vuoto il braccio che i carpentieri avevano costruito, simile a quello di una forca. Quindi aveva preso posto nella cesta sorretta ai quattro angoli da robuste corde. Queste si ricongiungevano a loro volta in un'unica cima, tanto lunga da consentire alla cesta di raggiungere le pendici della montagna. Aymon osservò il baratro sotto di lui, mentre dondolava pericolosamente. L'uomo attese qualche istante che il movimento terminasse, quindi fece cenno di iniziare a calare. Le nubi proteggevano alla vista del nemico la discesa. Aymon aveva calcolato che, se anche lo avessero scorto, avrebbe avuto il tempo, una volta toccata terra, di mettersi al riparo prima che i nemici riuscissero a raggiungerlo. L'operazione richiese più di un'ora, ma alla fine Aymon giunse sano e salvo ai piedi del picco di Montségur. Gli assedianti avevano lasciato pressoché sguarnito il solo fronte che avevano giudicato impraticabile, dove il castello si affacciava su uno strapiombo alto più di milleduecento passi. E quella era stata la via di fuga scelta da Aymon. Quindi toccò a Marie-Louise di farsi calare a valle. La donna si raggomitolò sul fondo della cesta, decisa a non guardare il baratro, e così rimase, immobile, sino a che la mano di Aymon si posò sulla sua spalla. «Sei arrivata a destinazione, Marie-Louise. Scendi o tra un attimo risalirai al castello. Togliamoci di qui: non oso chiedere troppo alla fortuna.» Oltrepassarono l'accampamento nemico nel cuore della notte, trovandolo completamente addormentato. Del resto, nessuno dei «francesi» - così li
chiamavano a Montségur - agli ordini del siniscalco di Carcassonne aveva ragione di temere incursioni notturne da parte degli assediati. Aymon riuscì persino a impadronirsi di un carretto trainato da un mulo. La sera seguente erano in vista di Miglos. Avevano scelto accuratamente il percorso da seguire. Aymon era sempre un ricercato e non doveva rischiare di incontrare qualcuno che potesse riconoscerlo. Nella cittadina dell'alta valle di Foix c'era un parente dei Mirepoix che gestiva un emporio: si sarebbero rivolti a lui per reperire quanto necessario a far funzionare la catapulta. Erano vestiti come semplici contadini, ma Aymon teneva nascosta l'akinakes sotto l'ampia cappa scura che indossava. Tutto si svolse senza incidenti. Mentre tornavano verso Montségur, Marie-Louise gli prese la mano: «Avevo dimenticato come sia dolce il sapore della libertà. Grazie, Aymon, per avermelo fatto assaporare per un'ultima volta». «Perché dici questo, donna?» «Tu credi che torneremo mai a essere liberi? Pensi che ci sia davvero una sola possibilità di sopravvivere all'assedio? Montségur è una rocca inespugnabile, ma il tempo giocherà contro di noi. Verrà il momento in cui i viveri incominceranno a scarseggiare...» «Potremo sempre utilizzare la nostra via di fuga sino a che non sarà stata scoperta. E i contadini delle valli vicine a Montségur non vedono di buon occhio i soldati del re: li considerano alla stregua di stranieri usurpatori. Sono convinto che, nonostante divieti e minacce, continueranno a rifornirci di quello che ci necessita per resistere. Vedrai, non sarà per molto. E poi il conte di Tolosa verrà prima o poi a liberarci.» Aymon parlava con forzata gaiezza, ma sapeva bene che la sua donna aveva detto la verità. La sera stava calando sull'accampamento. Aymon riportò mulo e carretto là dove li aveva presi. Era meglio non destare i sospetti dei nemici per il furto di un calesse. Il primo viaggio venne effettuato con la cesta colma degli acquisti effettuati a Miglos. Intanto le ore passavano, inesorabili. La notte stava rischiarando il cielo a oriente e un vento teso aveva spazzato via la nebbia che avrebbe protetto la loro ascesa. Quando la cesta fu di nuovo pronta a salire, mancava ormai poco al sorgere del giorno. «Non possiamo rischiare che ci scoprano: saliremo assieme», disse Aymon. «La cesta e le corde saranno in grado di sopportare il nostro peso?»
«Credo di sì e comunque sarà un rischio minore rispetto a quello che correremmo nell'affrontare la salita in piena luce.» Avevano ormai superato la metà del percorso. Stavano raggomitolati all'interno della cesta che a malapena era sufficiente per contenere entrambi. A mano a mano che salivano il vento si faceva più intenso. Sotto di loro il vuoto; al loro fianco la parete perfettamente verticale. Una raffica di vento più forte delle altre, come la mano di un gigante infuriato, prese a strattonare la cesta che parve fermarsi un istante a mezz'aria, ma poi ricadde velocemente in direzione della parete. Aymon vide con terrore la roccia avvicinarsi, strinse a sé Marie-Louise e chiuse gli occhi, aspettando l'impatto. 48 Praga, anni '40 I due uomini erano appostati da ore dietro alla curva a gomito, poco distante dal ponte sulla Moldava. Il fiume che divide Praga scorreva gonfio d'acqua, dopo un inverno lungo e piovoso. Era il 27 maggio del 1942. Entrambi avevano partecipato a un breve corso di addestramento nel Cheshire e quindi erano stati paracadutati in Cecoslovacchia. Ora i servizi inglesi contavano su di loro perché portassero a termine la missione. Ma il piano sembrava ormai prossimo a sfumare. Il loro bersaglio era un maniaco della puntualità: era inspiegabile che fosse in ritardo di quasi un'ora. Poi, all'improvviso, il rombo del potente motore della Mercedes 320 B cabriolet superò il rumoreggiare della corrente. I due uomini presero posizione. L'Obergruppenführer Reinhard Heydrich era seduto di fianco all'autista, il sergente Klein, e stava scorrendo alcune carte. Il giorno seguente, a malincuore, si sarebbe dovuto privare per qualche tempo di quella splendida autovettura sportiva che spesso amava guidare personalmente: come tutte le auto utilizzate dai vertici nazisti, anche la sua sarebbe stata dotata di blindature e rinforzi in acciaio. Quello era il sistema migliore per ridurre il rischio in caso di attentati. Heydrich inizialmente si era opposto a questa iniziativa, affermando che sarebbe stato meglio indirizzare altrove le risorse del Reich: in Boemia e in
Moldavia la resistenza armata era da tempo un lontano ricordo. Ma alla fine aveva dovuto cedere. Uno dei due uomini, Josef Gabčík, sollevò la coperta appoggiata sul telaio della bicicletta sotto la quale era nascosto un mitragliatore Sten. Impugnò l'arma, si gettò in mezzo alla strada e aprì il fuoco. Sulle prime né il sergente Klein né Reinhard Heydrich si resero conto di quello che stava succedendo. La Mercedes continuò ad avanzare nella direzione del terrorista che seguitava imperterrito a fare fuoco. Poi, in prossimità della curva, l'auto si fermò di colpo, i due tedeschi abbandonarono l'abitacolo e, messisi al riparo dietro i voluminosi parafanghi, si accinsero a rispondere al fuoco. Lo Sten di Josef Gabčík si inceppò nel momento in cui entrò in gioco il secondo attentatore, Jan Kubes che, armata la bomba, lasciò rotolare l'ordigno sferico anticarro Type 73 nella direzione della Mercedes. L'auto venne investita solo parzialmente dall'esplosione, nella quale rimase coinvolto lo stesso Kubes. Heydrich e il suo autista stavano sparando all'impazzata, quando i due attentatori riguadagnarono le proprie biciclette e, seppure uno dei due fosse seriamente ferito, si diedero alla fuga, lasciando cadere dietro di loro un paio di fumogeni. Fu allora che l'emissario del Reich in Cecoslovacchia si accasciò al suolo. Reinhard Heydrich venne trasportato all'ospedale Bulovka. I primi bollettini medici parlarono di gravi ferite, ma non tali da metterlo in pericolo di vita. Berlino, anni '40 Quando Himmler varcò la soglia dell'ufficio del Führer era visibilmente alterato: i lineamenti contratti lasciavano trapelare l'ira e il desiderio di vendetta che l'attentato a Heydrich aveva suscitato in lui. Martin Bormann si aggirava nervosamente nella stanza. «Sedetevi, Reichsführer», disse Hitler con un tono inspiegabilmente pacato. «Ho appena ricevuto un nuovo bollettino medico: quasi certamente saranno costretti ad asportargli la milza, ma Heydrich se la caverà.» «Abbiamo individuato un gruppo di terroristi addestrati in Gran Breta-
gna, eccellenza. Penso che nelle prossime ore riusciremo ad assicurarli alla giustizia...» Un cenno di Hitler con la mano lo fermò. «Avremo tempo e modo di farla pagare a quei fanatici assassini, Herr Himmler», disse il Führer. «Il motivo per cui vi ho convocato non riguarda le misure repressive che adotteremo. Questo attentato potrà essere sfruttato per portare a compimento un antico progetto che ho condiviso, sino a oggi, solamente con l'Obergruppenführer Reinhard Heydrich.» Brevemente Hitler accennò ai suoi più fedeli seguaci il proprio piano, quindi si rivolse nuovamente a Himmler. «Ricordo che un giorno avete dato un curioso appellativo a un giuramento che lega voi tre e il povero Rudolf Hess. Non mi dispiacerebbe che l'operazione Amazzone venisse estesa anche a questo nostro importante segreto.» «Mein Führer, devo dirvi che sono piuttosto perplesso», rispose Himmler. «Il mondo intero è a conoscenza dell'attentato e delle condizioni di salute non gravi dell'Obergruppenführer. Come potremmo spiegare la sua morte? E inoltre... Dovremo anche occuparci della morte reale del sosia del capo dell'RSHA...» «Quanto alla prima questione, Reichsführer, aggiorneremo il bollettino medico con nuovi particolari: ad esempio che l'ordigno era contaminato da un potente veleno per il quale non esiste antidoto. Per il resto, il sosia non avrà neppure il tempo di sapere quale destino lo attende...» Il giorno seguente Himmler giungeva a Praga accompagnato da tre medici di fiducia. Nel volgere di ventiquattr'ore, il bollettino medico parlava di un grave peggioramento dovuto a misteriose sostanze tossiche presenti nel sangue del ferito. Un comunicato ufficiale datato 4 giugno 1942 annunciò che l'Obergruppenführer Reinhard Heydrich, capo dell'RSHA e viceprotettore del Reich in Boemia e Moldavia, aveva cessato di vivere. Prima di venire rimpatriata in Germania, la salma di Heydrich venne esposta nel castello di Hradčany. Il mondo intero ebbe così modo di accertarsi di quella morte. Il 9 giugno il corpo di Heydrich raggiunse Berlino dove gli vennero tributati dei sontuosi funerali di Stato. Un Adolf Hitler visibilmente commosso salutò l'Obergruppenführer con
un'accorata orazione funebre: «Ho poche parole da dedicare a questo grande uomo scomparso. Egli fu uno dei migliori nazionalsocialisti, uno dei più forti difensori del nostro credo, uno dei più fieri oppositori di ogni nostro nemico. È caduto da eroe per la preservazione e la salvaguardia del Reich, come un leader di partito, come un leader del Reich. Ti conferisco, mio caro camerata Heydrich, la più alta onorificenza che la Germania possa concedere a un suo eroe: l'Ordine Germanico di primo livello». Ai funerali del gerarca seguì una sanguinaria repressione nel corso della quale i nazisti si accanirono con spietatezza contro la popolazione ceca e contro chiunque fosse anche solo sospettato di connivenza con gli attentatori. La giustizia del Reich si abbatté con inusitata ferocia in tutta la regione. Con la scomparsa di Heydrich dalla scena, i suoi successori si impegnarono con ogni energia per mettere in pratica quanto l'ex capo RSHA aveva prospettato nella sua relazione alla conferenza di Wannsee: dall'estate del 1942 venne attuata la Soluzione finale del problema ebraico. Camere a gas e forni crematori presero a inghiottire vittime innocenti già ridotte allo stremo dalle disumane condizioni dei lager. Londra, anni '40 Malgrado avesse seguito i più celeri canali diplomatici vaticani, la lettera di padre Roeller impiegò qualche settimana per raggiungere da Berlino il destinatario, padre Mc Aiden, responsabile del London Orator Choir. Mc Aiden lesse e rilesse la missiva nella quale, sia pure con modi garbati, un sacerdote tedesco a lui del tutto sconosciuto gli chiedeva notizie di un antico documento assai importante. Stando a quanto padre Roeller scriveva, egli sapeva che l'antico spartito era stato spedito in Vaticano, ma chiedeva lumi circa l'istituzione alla quale era stato recapitato, onde poterlo rintracciare. Roeller raccomandava inoltre la massima discrezione su tutta la delicata faccenda. Mc Aiden, in un primo momento, fu tentato di rispondergli in maniera evasiva, ma poi ci ripensò: l'antico spartito e il segreto che conteneva facevano gola a troppe persone. Sebbene il colonnello Danton non gli fosse mai andato a genio, il prete irlandese recuperò il biglietto da visita che l'ufficiale dell'MI6 gli aveva lasciato ai tempi delle indagini sulla scomparsa di Kater.
Concordarono un appuntamento per il giorno seguente in una sala da tè londinese. Poche ore dopo quell'incontro il colonnello dei servizi segreti britannici era seduto dinanzi al duca di Kent, al quale aveva chiesto udienza per impellenti motivi di Stato. «Che convinzione personale vi siete fatto, colonnello, circa la richiesta del prete tedesco?» chiese il fratello del re, dopo aver ascoltato il resoconto dell'incontro. «Non saprei che cosa dire, altezza. Dalle informazioni che ho raccolto, padre Roeller risulta essere molto vicino alle alte sfere del Reich. Ciò che temo, signore, è che i tedeschi vogliano fare tutto da soli e recuperare la metà dello spartito che a loro manca. Se davvero riuscissero a interpretare quel documento e giungere al luogo dove è celato un ordigno micidiale, il nostro... chiamiamolo... potere contrattuale diverrebbe davvero minimo.» «Avete ragione, colonnello. Credo che questo padre Roeller sia da tenere d'occhio.» Berlino, anni '40 Himmler sapeva bene che avrebbe risentito più di altri della scomparsa di Heydrich: il giovane capo dell'RSHA era stato una fucina di iniziative, molte delle quali mettevano in buona luce agli occhi del Führer anche lo stesso Himmler. Per questo ora il Reichsführer era ansioso di procurarsi riconoscimenti, meriti e gloria. Non appena la notizia gli venne riferita dagli ufficiali SS di stanza a Parigi, Himmler si precipitò a comunicarla a Hitler. «Ho qualcosa da dirvi, mein Führer, e credo che vi farà piacere», disse Himmler con entusiasmo. «Forse molto presto saremo in grado di provare che le ricerche di Otto Rahn non sono state vane.» «E come può essere possibile? Voi stesso mi avete riferito che quel misterioso documento medievale si trova addirittura in Vaticano!» «Ci stiamo muovendo in due direzioni, mein Führer. Da una parte stiamo cercando di recuperare la metà mancante dello spartito. Dall'altra siamo a un passo dal conoscere l'identità dell'agente francese che ha assassinato Otto Rahn, quell'agente Eiffel che viene nominato nell'informativa interna dell'MI6.» «Andate avanti, Herr Himmler.»
«Tempo addietro abbiamo ritenuto opportuno eliminare un appartenente alla resistenza francese, un certo Sarraut, editore di un quotidiano di Tolosa, La Dépêche du Midi, sul quale era apparso, una decina d'anni or sono, uno scritto che gettava pesanti sospetti sul camerata Rahn e sulle sue ricerche. Sarraut era, prima della nostra occupazione del territorio francese, il responsabile degli agenti dei servizi segreti operanti nella prefettura di Tolosa. Qualche giorno fa un nostro emissario è entrato in possesso delle note spese che il giornalista-editore recapitava periodicamente a Parigi. Alcune di esse riguardavano pagamenti per soggiorni all'Hôtel des Marroniers, nel periodo in cui l'albergo era gestito da Otto Rahn. Confrontando i registri delle presenze - che nel frattempo siamo riusciti a recuperare - con le date delle ricevute di pagamento, riusciremo a identificare gli avventori, tra essi presumo che troveremo anche l'agente Eiffel e quindi la sua identità.» «Un ottimo lavoro, Reichsführer. Se la Germania potesse disporre di un ordigno di distruzione di massa, la nostra vittoria sarebbe una questione di poche ore. Questo compito è della massima importanza, quindi vi prego di tenermi costantemente informato.» Roma, anni '40 Le suppliche e le richieste di Pio XII non erano approdate a nulla: sembrava che l'umanità fosse sorda al sibilo del gas con cui veniva sterminato chiunque non fosse considerato degno di vivere nel mondo ariano di prossima realizzazione. Il papa ricevette padre Roeller nell'estate del 1942 con spirito speranzoso: forse qualcuno, all'interno dell'apparato nazista, sarebbe stato disposto ad ascoltarlo. Ma la speranza fu presto delusa: i nazisti non avevano alcuna intenzione di sospendere i loro programmi. Il santo padre dedicò all'udienza con Roeller più di mezz'ora, ma la loro discussione si mantenne su toni superficiali e vaghi. Sembrava che il prete tedesco facesse di tutto per non dover affrontare argomenti spinosi. Alla fine, Roeller si inginocchiò baciando l'anello con il sigillo papale e si congedò dal santo padre. Appena fuori dalla sala delle udienze, il prete non si diresse subito verso l'uscita degli appartamenti papali, protetta da due guardie svizzere armate di alabarda, ma sgattaiolò, non visto, nell'ampio studio del papa. Ne uscì alcuni minuti dopo con un plico oblungo nascosto sotto la tonaca.
Fu mentre si chiudeva la porta dello studio alle sue spalle che una voce lo fece trasalire: «Padre Roeller, che cosa ci facevate nello studio privato di sua santità?» disse il segretario personale del pontefice. «Dovete scusarmi, reverendo», mentì il tedesco, fingendo imbarazzo, «stavo cercando una toilette. Sarebbe così gentile da indicarmi dove posso trovarne una?» La costruzione avrebbe portato lo stesso nome della cisterna che alimentava le terme di Diocleziano: «Botte di Termini». I lavori per costruire la nuova stazione ferroviaria di Roma erano iniziati alcuni anni prima e avrebbero dovuto essere completati entro il 1942. Ma la guerra aveva provocato l'arresto di qualsiasi lavoro pubblico e la conclusione dell'opera era ancora lontano da venire e i viaggiatori continuavano a utilizzare la vecchia struttura, adiacente al cantiere. Nel caldo afoso dell'estate romana padre Roeller sudava copiosamente. Salì sul treno per Innsbruck e solo allora la tensione che lo animava si allentò: una volta partito il treno, forse sarebbe stato in salvo. Si augurò che il furto dello spartito non venisse scoperto ancora per qualche ora. Roeller guardava con trepidazione l'orologio. La locomotiva emise un lungo fischio e il treno si mosse. «Sono liberi quei posti?» chiese una voce gentile in ottimo italiano. «Certo, accomodatevi pure, padre», rispose Roeller a un altro sacerdote. Attese che il religioso si sedesse, quindi gli chiese: «A quale diocesi appartenete?» I due chiacchierarono piacevolmente per buona parte del viaggio, mentre padre Roeller man mano si rilassava. Erano giunti in prossimità dello scalo di Verona, quando il sacerdote infilò una mano in tasca ed estrasse un'arma automatica dotata di silenziatore e la puntò verso il prete tedesco. «Mi chiamo Danton, sono un colonnello dei servizi segreti inglesi. State tranquillo, padre Roeller: al momento voi e io ci troviamo dalla stessa parte. Per garantire il buon esito del nostro comune fine, voi mi dovrete seguire in Svizzera. Da lì partiremo alla volta dell'Inghilterra. Mi auguro che questo piccolo cambio di programma possa incontrare il vostro gradimento. Vi prego quindi di avviarvi, davanti a me, verso l'uscita del treno.» Scozia, anni '40
Gli uomini del duca di Kent finalmente erano in grado di trattare alla pari con gli esponenti del Reich. Sarebbe stato lo stesso duca di Kent a recapitare il manoscritto nella neutrale Svezia. Qui i nazisti e i dissidenti britannici si sarebbero reciprocamente scambiati una copia della metà di spartito in loro possesso. Quindi, facendo leva sullo spettro della minaccia nucleare, il duca di Kent avrebbe spodestato il primo ministro Churchill e, se fosse stato necessario, avrebbe messo in discussione la legittimità della corona che al momento poggiava sulla testa di suo fratello. Si sarebbe trattato di un vero e proprio colpo di Stato, sostenuto anche dalla promessa di Hitler di sospendere le operazioni di guerra nei confronti della Gran Bretagna. Padre Roeller era stato trattato con ogni riguardo: dopo avergli confiscato il manoscritto, gli inglesi lo avevano alloggiato in un podere nei pressi di Loch More in Scozia, dove lo avevano considerato alla stregua di un prigioniero, sia pure di riguardo. L'idrovolante Sunderland W4026 si era alzato in volo da Invergordon con destinazione Islanda alle 13.10 del 25 agosto 1942. Le quindici persone a bordo erano consapevoli che con la loro missione avrebbero contribuito a porre fine a quella sanguinaria guerra. Tra di esse si trovava anche sua altezza reale il principe George, duca di Kent, e fu lui a ordinare la discesa verso Loch More, dove un nuovo passeggero si sarebbe aggiunto al gruppo. «Avere suore o preti a bordo non porta fortuna», disse a un commilitone il mitragliere di coda Andrew Jack, mentre si accingeva ad aprire il portello e lasciar salire padre Roeller sull'idrovolante. Solo a quel punto il duca di Kent consegnò il piano di volo al pilota Frederick Goyen, un ventiseienne australiano con oltre mille ore di esperienza alla guida degli idrovolanti. La meta non sarebbe stata l'Islanda, bensì la Svezia. Li il fratello del re d'Inghilterra avrebbe dovuto incontrare il Reichsführer Himmler e suggellare l'accordo. Roma, anni '40 Papa Pacelli si era destato di soprassalto, come ormai gli capitava spesso. Ma il suo brusco risveglio non era da attribuire al caldo che, nella notte
del 24 agosto 1942, pareva soffocare l'intera città di Roma. Le parole scritte di pugno da padre Mc Aiden che accompagnavano un antico spartito musicale gli tornarono alla mente. In quella canzone composta da un trovatore occitano e dedicata a Maria Maddalena si celavano, secondo Mc Aiden, le indicazioni per giungere al nascondiglio di un'arma segreta, antichissima e distruttiva. Il papa si ripromise di rileggere la lettera e, l'indomani, di fare esaminare il reperto allegato da un esperto. Londra, anni '40 L'indole irlandese di padre Mc Aiden lo induceva a non fidarsi di nessuno. Quel Danton, poi, non gli piaceva affatto. Non appena ebbe portato a termine i suoi doveri di devoto suddito britannico, mettendo al corrente le istituzioni riguardo allo strano interesse mostrato dai tedeschi nei confronti dell'antico spartito, si accinse a espletare anche quelli nei confronti della Chiesa. Perciò scrisse una nuova lettera al papa, nella quale lo informava della strana comunicazione ricevuta da padre Roeller, e la inviò a mezzo dei canali diplomatici vaticani. Roma, anni '40 Al suo risveglio, papa Pio XII, prima di dare disposizione perché gli venissero portati i documenti ricevuti qualche tempo prima da Mc Aiden, si accinse a leggere la posta del giorno. Riconobbe subito la carta intestata del London Orator Choir. Il papa lesse con trepidazione le parole di Mc Aiden: Roeller era stato ricevuto già da qualche giorno. Pacelli chiamò il suo segretario personale e gli chiese di portargli urgentemente il plico di Mc Aiden. Circa mezz'ora più tardi il sacerdote si presentò nuovamente al Santo Padre: aveva cercato ovunque nello studio, ma della cartelletta contenente il manoscritto non c'era più traccia. «Siete sicuro, padre, che nessuno sia entrato nel mio studio oltre a voi?» «Più che certo, santità... Un momento... L'altro giorno, padre Roeller, dopo essere stato ricevuto da vostra santità, mi disse che cercava un bagno e che aveva aperto per errore la porta, ma io ho avuto l'impressione che stesse uscendo dal vostro ufficio. Mi è sembrato inspiegabilmente imba-
razzato. Per questo sono andato a controllare di persona. Ma nello studio tutto era apparentemente in ordine, e così la cosa mi è passata di mente.» «Ho necessità di contattare con urgenza il primo ministro inglese su una linea telefonica riservata», disse papa Pacelli visibilmente preoccupato. «Il mondo potrebbe correre un pericolo ancora più terribile della guerra con cui convive da anni.» Londra, anni '40 «Importare» in Gran Bretagna un prete di nazionalità germanica non era stato facile nemmeno per un ufficiale dell'MI6. Tanto più che da tempo Danton era tenuto sotto osservazione dagli uomini del controspionaggio alle dirette dipendenze del primo ministro. Ogni mossa di padre Roeller, da quando era giunto in Inghilterra, era quindi stata annotata e riferita direttamente a Winston Churchill. La telefonata, giunta la sera del 24 agosto nella residenza-prigione in cui si trovava Roeller era stata intercettata e registrata dagli agenti al servizio del primo ministro. Nella breve comunicazione telefonica si diceva di tenere pronto Roeller alla partenza: il pomeriggio seguente sarebbe stato prelevato dalle rive del Loch More, per essere trasferito in territorio neutrale e riconsegnato alle autorità tedesche. Quando Churchill posò la cornetta rimase per alcuni minuti assorto nei suoi pensieri. Ciò che gli aveva detto il papa era di una gravità assoluta. Ma il primo ministro, com'era nel suo carattere, si riscosse in fretta: erano in gioco interessi enormi, il più importante dei quali riguardava la sopravvivenza del suo Paese. Guardò l'orologio: era troppo tardi per convocare riunioni di gabinetto nel corso delle quali si sarebbe discusso per ore prima di arrivare alla soluzione che meno avrebbe potuto urtare la suscettibilità di un membro della famiglia reale. Bisognava agire. Prima che qualcuno mettesse l'Impero britannico nelle mani del nemico. Il Sunderland di cui il duca di Kent aveva chiesto di poter disporre sarebbe stato pronto a partire dalla mattina seguente. Non c'era tempo. E non c'era modo di mettere in atto un'azione di forza nei confronti di un centinaio di persone di alto lignaggio, la maggior parte delle quali imparentate con la Corona britannica. Quasi tutti i dissidenti risultavano iscritti a logge massoniche potentissime, la capofila delle quali - la Gran loggia unita d'Inghilterra - era governata sin dal 1939 dal Gran Maestro principe George, duca di Kent.
Winston Churchill era in preda alla frustrazione. Un primo ministro avrebbe dovuto mettere in piedi tutto quel bailamme per che cosa? Per entrare in possesso di parte di uno spartito di una ballata medievale francese? Mettendosi in tal modo contro gran parte dell'alta nobiltà? Avrebbe corso il rischio di perdere la sua credibilità e di apparire ridicolo, e questo proprio Churchill non avrebbe potuto accettarlo. A ciò si aggiungeva il fatto che ora, con l'entrata in guerra degli Stati Uniti, la speranza di vincere il conflitto si avviava a divenire una certezza. Tutto avrebbe potuto mettersi al meglio per gli inglesi, se solo Hitler non avesse continuato ad alimentare quelle voci inquietanti sulla potenza delle sue armi nascoste. E se la corte di studiosi, esoteristi e maghi alle dipendenze dell'artefice del Male fosse riuscita a decifrare i messaggi in codice che provenivano dal Medioevo, Hitler da una parte e nobili, massoni, dandy, omosessuali e cocainomani dall'altra, avrebbero potuto diventare i padroni del mondo e vanificare gli eroici sacrifici del popolo inglese. Prima di alzare la cornetta e convocare una riunione urgente dei più fidati membri del controspionaggio, Churchill mormorò a denti stretti: «È giunto il momento di eliminare il baco che infesta la mela. Poco importa se sarà necessario sacrificare il frutto». Scozia, anni '40 Il muso del Sunderland si infilò nelle nubi candide: una leggera nebbia avvolgeva ancora le colline sottostanti. Ma non sarebbe stata la foschia a destare preoccupazioni nel comandante Goyen e nel suo equipaggio. L'aereo planò dolcemente sulle acque calme del lago. A terra, dal crinale della collina, tutte le operazioni svolte dall'idrovolante dal momento del suo ammaraggio sul Loch More erano state seguite da un misterioso osservatore. Infine, l'aereo decollò di nuovo. «Confermo partenza del corvo sulla freccia argentata. Confermo: il corvo si trova a bordo», disse l'uomo in un apparecchio radio portatile abbandonando per un istante il binocolo. Erano passate da poco le quattordici, quando una potente deflagrazione scosse il Sunderland, trasformandolo in una palla di fuoco. Buona parte degli occupanti morì all'istante. Gli altri perirono al momento dello schianto. A terra, nella parte settentrionale della Scozia, in una località conosciuta come «La Roccia delle Aquile», rimasero solo pochi rottami fumanti.
Una squadra speciale della RAF giunse sul posto poche ore dopo il disastro e non poté far altro che constatare la morte di tutti i viaggiatori e recuperare quello che restava dei corpi, resi irriconoscibili dalle fiamme. I primi soccorritori avrebbero dovuto inoltre occultare le prove dell'attentato. Non ci fu però bisogno di darsi eccessivamente da fare in quel senso: il fuoco aveva già distrutto ogni cosa. Quindici furono i cadaveri rinvenuti e quindici risultavano essere le persone a bordo dell'aereo: non c'erano stati superstiti del tragico volo nel quale aveva perso la vita, tra gli altri, anche il duca di Kent. A poche ore dal disastro, il sito era stato perfettamente bonificato da tutte le tracce dell'impatto. La popolazione di Dunbeath rimase attonita a guardare il viavai di mezzi che dirigevano verso la Roccia delle Aquile. L'intera zona era presidiata da agenti della polizia militare e ogni accesso precluso al personale non autorizzato. Attorno alle dieci del mattino seguente Nell Sutherland, una ragazzina che viveva in un piccolo centro abitato poco distante dal luogo dell'impatto, arrivò correndo dalla madre e le disse che un uomo ferito era sdraiato nel campo vicino a casa. Si trattava del mitragliere di coda Andrew Jack, miracolosamente scampato al disastro. Jack aveva vagato per ore in stato confusionale, dopo che l'intera postazione della sua mitragliatrice, posta lateralmente in coda al Sunderland, era stata scagliata lontano dal rogo. Il sospetto si insinuò allora tra coloro che erano all'oscuro dell'esatto svolgimento dei fatti. E gli organi di stampa cominciarono a porsi delle domande: se i cadaveri recuperati erano quindici e c'era un sopravvissuto, chi era il sedicesimo imbarcato sul Sunderland? Winston Churchill seppe mantenersi fuori da tutta la polemica seguita a quell'operazione misteriosa e al suo altrettanto misterioso e tragico epilogo. Poi, con l'andar dei giorni, il caso dell'incidente aereo fu sostituito nell'interesse dell'opinione pubblica dai tragici bollettini di guerra. E in guerra i misteri si dimenticano in fretta, per lasciare il posto a una realtà fatta di precaria sopravvivenza e di ordigni assassini. 49 Linguadoca, 2007 Oswald si fermò davanti ai cadaveri dei tre poliziotti francesi che erano
stati posti a guardia della Grotte des Chevaliers, e giurò a se stesso che la morte di quei tre ragazzi non sarebbe stata inutile. Avrebbe reso loro giustizia. Quindi indossò, per la seconda volta in ventiquattr'ore, l'attrezzatura subacquea: l'idrovora stava lavorando a pieno ritmo dalla sera precedente ed era riuscita ad abbassare di una ventina di centimetri il livello del laghetto. Gli avevano detto che, con l'arrivo di due nuove pompe, si sarebbe riusciti a prosciugare anche la galleria entro un paio di giorni. Oswald percorse di nuovo il cunicolo ormai convinto che il suo timore si sarebbe rivelato fondato. Qualsiasi cosa vi fosse stata nascosta, chi aveva ammazzato quei tre ragazzi, e quasi certamente aveva cercato di ammazzare anche Sara, l'aveva già trafugata. La grande grotta dal soffitto a volta, illuminata dalle potenti fotoelettriche disposte dagli uomini di Tamberly, aveva ora un aspetto completamente diverso. Oswald incominciò a scandagliare le pareti con il fascio della sua torcia alogena, mentre gli risuonavano nella mente le parole dell'anziana signora che lo aveva avvicinato nella sala d'attesa dell'ospedale di Tolosa. «Non l'ho mai rivelato a nessuno», gli aveva raccontato Carla Jeogeres Núñez, «né agli inglesi, che avevano snobbato la mia deposizione volontaria, né ai nazisti. Le ultime parole di Otto Rahn sono state: 'I disegni sono come una rete di segnaletica stradale e interpretarli significa raggiungere il segreto. Sempre ammesso che l'acqua non abbia fatto il suo corso...' Dopo di che il tedesco è spirato.» Forse l'acqua aveva fatto il suo corso: quella immensa caverna era collegata alla Grotte des Chevaliers attraverso il budello che oggi era completamente sommerso. Lì aveva trovato sepoltura, in epoca medievale, la gente d'Occitania: sembrava che in quella grotta si stendesse una scia di morte capace di sorvolare i secoli. Il fascio della torcia illuminò una delle zone più scure al centro della volta. Breil chiese che una fotoelettrica venisse rivolta verso il punto da lui indicato. Il piccolo uomo rimase immobile, lo sguardo ai disegni che una mano preistorica aveva tracciato millenni prima, la mano sotto al mento e l'espressione pensosa. Quei disegni erano simili ad altri tornati visibili una volta che le apparecchiature di Sara li avevano scremati dalle contraffazioni di Rahn. Teheran, 2007
«Plutonio», ripeté con enfasi il mercante d'armi Fadah, rivolgendosi al presidente. «Non sono ancora a conoscenza del grado di purezza del materiale, ma si tratta di almeno dieci chilogrammi di plutonio. Pensi, eccellenza: tale quantità equivale alla massa critica di un ordigno nucleare capace di scatenare un'esplosione pari ad almeno dieci volte quella di Hiroshima e Nagasaki. Tutta questa capacità distruttiva è racchiusa in una sfera di una decina di centimetri di diametro, eppure è in grado di cancellare dalla faccia della terra buona parte dei sionisti e del loro esercito assassino.» «Certo», gli fece eco Pashelvi, compiacendosi di poter fare sfoggio della sua competenza in materia, «la chiamano bomba riflettente, in quanto viene usata una schermatura composta di tungsteno, che ne riflette i neutroni emessi. In pratica funziona come i telescopi o i teleobiettivi: l'immagine, continuando a rispecchiarsi, giunge all'occhio ingrandita. Nelle bombe di tipo riflettente è possibile ridurre la massa critica, ovvero la quantità necessaria per innescare l'esplosione nucleare: questa passa dai sedici ai dieci chilogrammi di plutonio... Come vede, so di che cosa stiamo parlando. Ma veniamo al nostro accordo, Fadah. La prima delle navi potrebbe essere pronta... diciamo entro un paio di giorni, le altre nell'arco dei prossimi cinque. Dato che non conosciamo ancora la destinazione che il suo fantomatico cliente vorrà indicarci, mi sento di poter dire che entro una ventina di giorni le operazioni dovrebbero essere concluse. Ma quali sono le garanzie che mi dà? Io non ho intenzione di effettuare il 'pagamento' se non avrò certezze circa la fornitura che lei mi ha assicurato.» «Le ho già detto e ripetuto che l'odio contro lo Stato che non può né deve esistere è la forma di garanzia più valida che lei può avere...» «Parole, Fadah, soltanto parole. Lei rappresenta la mia garanzia. Starà a bordo dell'ultima nave, sino a che la petroliera e il plutonio non avranno fatto ritorno in Iran. E suo compagno in questo per lei lucroso viaggio sarà il fedele Nard Sourush: con lui al suo fianco mi sentirò più tranquillo.» Il gigantesco e silenzioso iraniano, sempre presente anche alle più riservate conversazioni del suo presidente, alzò gli occhi nei quali brillava una luce sinistra. Linguadoca, 2007 Anche agli occhi profani di Breil fu subito chiaro che due ben differenti mani avevano tracciato i disegni rupestri. Una, più esperta, si era cimentata
nell'immortalare scene di caccia e i più svariati animali che popolavano la zona in epoche antiche. La seconda, invece, aveva solamente tracciato dei segni essenziali, del tutto simili a quelli che Otto Rahn aveva con ogni probabilità cercato di dissimulare all'interno della grotta di Lombrives. La spirale, nel disegno rupestre, compariva due volte. I segni concentrici che, secondo le deduzioni di Sara, rappresentavano l'oggetto nascosto, si trovavano agli estremi di una serie di punti, trentasei in tutto, e di una linea obliqua. Breil rimase a lungo, immobile, davanti all'indicazione, quindi mosse trentasei passi, partendo dalla parete su cui erano rappresentati i disegni e seguendo la direzione obliqua indicata dalla linea. Al primo istante non notò l'imboccatura del cunicolo, ma la sua attenzione fu attratta da alcune rocce che parevano addossate di recente alla parete della caverna. Le rimosse e scoprì la galleria. Probabilmente chi lo aveva preceduto, solamente di poche ore, si era premurato di nascondere le sue mosse. «Mi può raggiungere con il contatore Geiger, sergente?» disse Breil a un poliziotto. La lancetta del rilevatore di radiazioni segnalò loro un sensibile aumento, in ogni caso non pericoloso per l'uomo. Oswald si infilò risoluto nel pertugio. Strisciava sulla roccia levigata tenendo sempre davanti a sé il sensore del contatore Geiger. Le radiazioni, pur facendosi più intense a mano a mano che avanzava, si mantenevano entro i livelli di guardia. Poi la lampada alogena illuminò la grotta che aveva ospitato per millenni il tempio del dio Hosh. Dinanzi a Oswald c'era un altare sopra al quale era posato un antico disco d'oro. Quasi certamente si trattava dell'ornamento di un capo o di un sacerdote appartenente alla tribù che aveva custodito il segreto. Un secondo disco, più grande del primo, pareva invece appoggiato a terra. Era di un metallo bruno e spesso, e decorato con dei bassorilievi in lamina d'oro. Avvicinandosi, Oswald si accorse che il disco sembrava fare da tappo a un cilindro dello stesso metallo incastrato nel pavimento. Il sergente della Gendarmerie che lo aveva seguito si avvicinò al disco e stava per sollevarlo, quando la voce di Oswald lo distolse. «Non lo tocchi, sergente!» gridò Breil. «Se lì dentro si trovava - o si trova ancora - ciò che penso, e se noi rimuovessimo quel coperchio, ci resterebbero pochi minuti da vivere. Usciamo da qui e lasciamo intervenire la
squadra di esperti in bonifica da contaminazione nucleare. Ormai dovrebbero essere arrivati.» Poche ore più tardi, Oswald ebbe conferma dei suoi sospetti, non solo riguardo alla pericolosità di quanto conservato nel cilindro, ma anche in merito al fatto che di tale letale contenuto non vi era più traccia. «Il cilindro è composto da una lega metallica a prevalenza di piombo, il cui interno è stato foderato di lamina d'oro. Questo il motivo della stabilità del contenitore, che risulta quasi integro, malgrado abbia racchiuso per millenni materiale nucleare. Il coperchio è realizzato con la stessa tecnica e con i medesimi materiali», stava dicendogli un ufficiale degli artificieri dell'esercito francese. «Lo spessore del metallo è di venti-trenta centimetri nel cilindro, che salgono a cinquanta per il fondo e quaranta per il coperchio. Quasi certamente chi ha costruito la custodia ha colato il metallo fuso direttamente all'interno dello scavo nella roccia; roccia che è, come tutta quella della zona, estremamente ricca di piombo: un ulteriore motivo per cui, una volta chiuso il materiale nel cilindro ermetico, si sarebbe ridotto al minimo il rischio di contaminazione all'esterno. In questa specie di sarcofago è stato custodito da tempi lontanissimi del materiale nucleare. È ancora presto per emettere responsi ma, dalle ossidazioni presenti di colore giallastro e dalle lesioni provocate nei secoli dal metallo radioattivo nella struttura contenitrice, direi che si sia trattato di plutonio...» «Plutonio?... Un minerale difficilissimo da rinvenire in natura in quantità massicce.» «Capisco il suo stupore, dottor Breil. Ed è corretta l'affermazione che il plutonio non esiste in natura. Ma solo se al concetto di natura si associa quello di 'terrestre'. L'universo è generato da immense reazioni nucleari scatenate proprio dal plutonio. Una biglia di una dozzina di centimetri di diametro di quel materiale potrebbe distruggere una città come New York, Chicago, o Il Cairo... o fornire energia per qualche millennio a intere nazioni. Sono quasi certo che l'elemento radioattivo sottratto sia di origine cosmica: un meteorite grande poco più di una pallina da tennis, caduto sulla terra chissà quanti milioni di anni fa e che è stato 'messo in sicurezza' in questa caverna da uomini preistorici.» «Uomini che probabilmente hanno venerato quella pietra per il suo gigantesco potere. Ecco spiegato il significato di questo tempio sotterraneo.» «Un potere impossibile da governare.» Quando Oswald varcò la soglia della stanza dove, una volta dimessa dal-
la terapia intensiva, era stata trasferita Sara, lei stava riposando. Certo di non essere visto si soffermò a guardarla, ancora una volta catturato dalla sua bellezza. Poi la mano del piccolo uomo, leggera, si posò sulla fronte della donna. Gli parve che le labbra di Sara si schiudessero in un sorriso anche se lei continuava a dormire. Oswald sedette sulla poltrona posta vicino al letto e aprì il computer portatile. Il capitano Bernstein da Tel Aviv lo stava aspettando in linea. Brevemente Oswald mise al corrente il proprio interlocutore dei risultati delle sue sconcertanti scoperte. Quindi rimase in attesa di ricevere novità dal responsabile del servizio informazioni del Mossad.
SVIZZERA, UNA SOCIETÀ ELVETICA CONTROLLATA DALLA DEST CURÒ IL TRASFERIMENTO DI UN GROSSO CAPITALE DALLA BANCA DOVE ERA STATO RECAPITATO L'ORO A UNA BANCA DI MANAUS IN BRASILE. LA SPEDIZIONE SI SVOLSE SOTTO UNA FITTA COLTRE DI RISERBO E DI MISTERO. L'UNICA COSA CERTA È IL PESO DEL «PACCO» SPEDITO: VENTI TONNELLATE. QUASI LA METÀ DELL'ORO ITALIANO APPENA ARRIVATO IN SVIZZERA. > <SÌ. SETTE GIORNI DOPO L'ARRIVO NELLA BANCA BRASILIANA DI MANAUS DEL «PACCO» DA VENTI TONNELLATE, DA QUELLA STESSA BANCA È PARTITO UN ALTRO PACCO, UN PO' PIÙ PICCOLO, SOLO CINQUE TONNELLATE. E SA CON QUALE DESTINAZIONE?> <ESATTO, MAGGIORE.> Il resoconto di Bernstein aveva piuttosto disorientato il piccolo uomo. Si accomiatò dal fedele amico dopo avergli raccomandato una più approfondita ricerca sulle attività dell'istituto di credito di Manaus. «Le cose non succedono mai per caso», mormorò Breil, chiudendo la comunicazione con Tel Aviv. «Che cosa hai detto?» disse Sara. Doveva essersi svegliata da qualche minuto, ma aveva atteso che Oswald terminasse di scrivere. Il riposo forzato stava sortendo il suo effetto e la donna acquistava forza e vitalità di
giorno in giorno. «Nulla, un commento tra me e me.» «Sei qui da molto?» «Forse mezz'ora. Il tempo di scambiare due chiacchiere con l'amico Bernstein in Israele.» «Raccontami. Cos'è successo?» «Siamo riusciti a localizzare l'antichissimo nascondiglio segreto. Il problema è che qualcuno è arrivato prima di noi e ha probabilmente sottratto un'ingente quantità di materiale radioattivo. Per farlo non ha esitato ad accoppare tre poliziotti francesi. Sono molto preoccupato e, come se non bastasse, Bernstein, cercando informazioni sul tuo mecenate, ha scoperto cose inquietanti.» Oswald raccontò ogni cosa a Sara con meticolosa precisione. La donna lo ascoltava attenta, mentre le lacrime le rigavano il volto. «Che succede? Stai piangendo?» «Accidenti, devo essere ancora debole per commuovermi così. Non è da me... Ma penso alla vita di quei tre ragazzi e al pericolo che un'arma nucleare può rappresentare per l'umanità. E poi... Ho letto le ultime pagine dell'agenda di Raso, e non è stata una lettura piacevole. In calce, ho anche raccolto alcune notizie ricavate dalla stampa dell'epoca, che riguardano i fatti narrati.» Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, 1976 Avevo sentito e visto abbastanza, quindi sono strisciato fuori dalla stanza segreta, ho raggiunto la scala di servizio che portava fino al corridoio sotterraneo e ho cominciato a correre. Mezz'ora dopo sono arrivato all'aeroporto. Non ho incontrato anima viva per tutto il percorso. Sono entrato nell'hangar dal grande portale che era semiaperto. Lì si trovavano, tra gli altri, l'elicottero e l'aereo sui quali avevo viaggiato. Alexandra è emersa dall'ombra e ci siamo abbracciati con la disperazione di due naufraghi. «Come faremo a fuggire dalle grinfie di Heydrich?» mi ha chiesto spaventata. «Troveremo un modo. Non sai che cosa ho scoperto. Heydrich non è il solo sopravvissuto: anche gli altri gerarchi le cui morti
avevano suscitato dei dubbi, Himmler e Bormann, sono ancora in vita. Li ho visti! Dicevano che anche Adolf Hitler ha vissuto a lungo sotto falso nome e che è morto di recente di malattia. I tre figli del Male discutevano tra loro su come liberare Hess: questa è l'operazione Amazzone! Finalmente sono riuscito a saperlo. Ma adesso dobbiamo fuggire. Li ho convinti a rimandare la mia esecuzione raccontando a quegli aguzzini che avevo lasciato un rullino fotografico e delle precise istruzioni a un avvocato di Rio...» «È una storia che ti sei inventato, Luca?» mi ha chiesto Alexandra, portandosi la mano destra dietro la schiena. Se avevo bisogno di una conferma dei miei sospetti, quel gesto lo è stato. «Di sana pianta, cara mia. E vedessi come ci sono cascati tutti quanti. Dovreste stare più attenti, voi nazisti, a chi vi circonda. Se stai cercando questa, l'ho appena sfilata dai tuoi pantaloni mentre ti abbracciavo», le ho detto, puntandole contro la sua pistola. «Che cosa dici, Luca?» «Esattamente quello che ho detto. Dovreste essere più accorti, mia cara Alexandra. Il fatto è che io faccio parte di un servizio segreto, quello del mio Paese, considerato 'amico' del Mossad. Sono un ufficiale dei carabinieri a copertura profonda, e sono arrivato fino alla Neumann seguendo le tracce che l'Oro d'Italia, l'intera riserva aurea italiana trafugata dai nazisti, ha lasciato dietro di sé. Mentre mi trovavo a Rio ho chiesto al Mossad di controllare se tu risultassi in organico, ma non ti hanno trovata nemmeno tra gli addetti alle pulizie. Allora ho aspettato le tue mosse: potevi far parte di un altro servizio segreto e avere preferito non rivelarmi quale fosse. La pistola, la tua domanda di poco fa e la tua mano che correva a cercare l'arma mi hanno fatto capire da che parte stai: con Heydrich e la sua cricca di criminali.» Avevo appena pronunciato queste parole quando un colpo d'arma è rimbombato nell'hangar. D'istinto ho incassato la testa tra le spalle, mentre quella di Alexandra sembrava colpita da una mano invisibile. Un foro rosso si è aperto al centro della sua fronte. «Lo sapevo che era una stupida. Non poteva essere altrimenti!» La bionda Agnes impugnava un'automatica ancora fumante puntata contro di me.
«Non spaventarti, mio meraviglioso amante italiano, e posa quella pistola a terra», mi ha ordinato tenendomi sotto mira. Poi si è messa a parlare in una piccola ricetrasmittente. «Potete venire a prenderlo, siamo qui nell'hangar. Ha ucciso Alexandra, ma ha rivelato che la storia dell'avvocato è soltanto un bluff.» Quindi Agnes mi ha fatto cenno di indietreggiare sino a che non mi sono trovato con le spalle al muro, a ridosso dell'elicottero. «Non poteva riuscire, nostra madre lo sapeva sin dall'inizio.» «Vostra madre?» Devo averla guardata con aria ottusa. Non capivo che cosa stesse dicendo. «Sì, Alexandra e io siamo sorellastre. Nostra madre è una 'ragazza di Lidice'. Conosci la storia?» «Lidice, il villaggio cecoslovacco raso al suolo dai nazisti dopo l'attentato a Heydrich...» «Esatto, Luca. Mia madre era uno dei novanta bambini che in quell'occasione scomparvero nel nulla. I più ariani tra questi vennero portati in Brasile a popolare Neumanntown. Si sposò con uno di quei bambini e da quel matrimonio sono nata io. Mio padre però morì in un banale incidente, quindi mia madre si è risposata con Oliveiro. La mia sorellina ha sempre cercato di primeggiare e con te ha voluto fare di testa sua a ogni costo. Se non l'avessi seguita passo dopo passo, avrebbe combinato un bel disastro.» I due fuoristrada stavano arrivando. Sapevo che a bordo ci sarebbero stati Heydrich e i suoi compari; e che per me non ci sarebbe stato più scampo. «Adesso incomincia a correre: con un colpo alla schiena, ti eviterò di morire nel dolore. Heydrich e i suoi godono nel torturare le persone.» «Un piacere reciproco: tu incolpi me per Alexandra e mi eviti la tortura.» «Smettila di parlare e girati!» Il rombo delle due auto si faceva sempre più vicino. «Presto, Raso mi ha assalita e sta scappando!» ha gridato Agnes nella ricetrasmittente. Quell'attimo di distrazione è stata la mia salvezza. Con un bal-
zo mi sono gettato a terra e ho afferrato la pistola. Il proiettile è entrato appena sotto il mento. Le è rimasto solo qualche istante di vita, il tempo per vedermi entrare nella cabina di pilotaggio dell'elicottero. A fatica ho trovato l'interruttore d'accensione del rotore: per quanto sia capace di pilotare ogni tipo di aereo, sono del tutto ignaro delle manovre da eseguire per fare decollare un elicottero. Ho tirato una manopola a sinistra del sedile, poi una seconda, andando per tentativi. Il mezzo ha avuto un sussulto, scartando violentemente di lato. Le due jeep si sono fermate di fianco all'hangar. Dalla prima è sceso Heydrich con tre guardie armate. Altre quattro erano nella seconda. Nessuno di loro si aspettava di trovarsi davanti quella scena: Agnes e Alexandra morte e un elicottero che, come una mosca impazzita, cercava una via di fuga. Dal canto mio, non riuscivo ad assumere il controllo del mezzo. Ho visto un pulsante rosso dotato di sicura, ne ho sollevato la linguetta protettiva e ho premuto sul comando che azionava le due mitragliatrici calibro 12 nascoste nella fusoliera. La raffica ha preso la stessa traiettoria traballante del muso della macchina e tutti i colpi sono andati a vuoto. Gli uomini di Heydrich correvano sparando verso di me. Poi l'elicottero si è alzato velocemente, l'elica di coda ha strusciato contro le pareti dell'hangar e le pale del rotore hanno urtato contro un ostacolo, quindi il velivolo si è piegato di lato. Le pale si sono accartocciate prima di volare lontano come micidiali boomerang d'acciaio. Il rotore girava ancora vorticosamente, quando l'elicottero è esploso. Non so nemmeno io come ho potuto uscire da quell'inferno di fuoco. Ma ci sono riuscito e, coperto dalla coltre di fumo, sono salito a bordo del Piper Navajo. Finalmente sarei stato padrone del mezzo che stavo pilotando! Gli uomini armati hanno cercato di fermarmi, ma le loro raff che non hanno neppure sfiorato l'aereo lanciato verso la pista di decollo e, in pochi istanti, il bimotore si è levato nell'aria tersa del cielo amazzonico. Ero salvo! Ora dovevo solo comunicare via radio con le autorità brasiliane e avvisarle del mio imminente arrivo. Ho immagina-
to lo sguardo di Heydrich mentre mi vedeva sparire all'orizzonte. La radio è stata danneggiata probabilmente durante la sparatoria ed è fuori uso, ma ho inserito il pilota automatico. Il viaggio sino a Rio è ancora lungo e io ne approfitto per scrivere il resoconto dei miei ultimi giorni, da quando ho incontrato Agnes a Copacabana. Se dovesse succedermi qualche cosa, spero che la mia agenda possa essere, un giorno, il mezzo per far conoscere al mondo questa storia terribile. Ma... Nooo... Mi stanno sparando addosso! Heydrich, ancora lui! Lo vedo nella cabina del Messerschmitt 262. Devo cercare di seminarlo, anche se mi pare impossibile. Non gli permetterò di abbattermi. Non credo sopravvivrò al prossimo assalto. Chiunque trovi questo diario, lo consegni a qualsiasi istituzione italiana, oppure al Cacciatore Simon Wiesenthal. Ho innescato una spoletta a tempo che custodivo nella tasca interna di questo stesso quaderno. L'ho collegata al condotto principale del gas che corre nei sotterranei della Residencia, dopo averlo manomesso. Se questo non sarà stato sufficiente per uccidere i signori del Male, prego Dio che uomini come il Cacciatore riescano a vendicare le tante anime innocenti delle loro vittime. Ecco... l'Afe 262 mi sta puntando contro. Tra poco aprirà il fuoco e sarà la fine... Dalla prima pagina di O Globo, 29 maggio 1976 Dal nostro inviato in Amazzonia Un grave incidente è occorso nel pomeriggio di ieri alla Residencia, la città creata nel mezzo della foresta amazzonica dal miliardario di origine ebraica Erick Neumann, imprenditore, magnate e filantropo schivo e riservato, ma famoso in tutto il mondo. Neumann era appena atterrato con un aereo d'epoca, parte della sua favolosa collezione, ed era atteso dal suo braccio destro Moshe Swazinski e da alcuni ospiti - in seguito identificati come Isaac Hilsenrath e Adam Drexel, facoltosi allevatori argentini - che con Neumann condividevano le origini ebraiche e la sopravvivenza all'Olocausto. Una banale fuga di gas nei sotterranei del cuore della Neumann Corporation ha innescato una serie di sconvolgen-
ti esplosioni che hanno completamente distrutto la Residencia. Le vittime accertate, oltre al magnate, ai suoi ospiti e ai suoi più diretti collaboratori, sarebbero cinquantatré, quasi tutte persone alle sue dipendenze. Le prime indagini sul luogo dell'esplosione farebbero pensare a una terribile fatalità. Dalla prima pagina di Valor Económico, Brasilia, 28 gennaio 1978 Sono trascorsi ormai quasi due anni dalla scomparsa improvvisa del magnate Erick Neumann, proprietario dell'omonimo colosso multinazionale brasiliano. Ieri il governo del nostro Paese ha deliberato la cessione parcellizzata del gruppo all'incanto. Questa procedura si è resa necessaria dato che è venuto a mancare simultaneamente l'intero management e la proprietà della società. D'altra parte il governo brasiliano ha accertato la necessità di giungere a una soluzione del problema al fine di non pregiudicare il posto di lavoro per migliaia di dipendenti impiegati presso la Neumann Corporation. L'interesse destato dalle aste è altissimo nell'intero mondo finanziario internazionale. Prime tra i possibili acquirenti sembrano essere alcune multinazionali nordamericane, anche se, in rappresentanza dell'America del Sud, la paraguaiana van der Duick sembra la più determinata a spuntarla. Il ricavato delle vendite, in assenza di eredi di Erick Neumann, verrà impiegato per il finanziamento di attività socialmente utili. 50 Età dei Metalli, II millennio a.C. Sar e sua madre arrivarono alla grotta custodita dal gigantesco rettile di roccia, lo stesso che la mano di Athor aveva in precedenza dipinto in molte delle grotte della zona, quasi volesse indicare il percorso da seguire a chi gli sarebbe succeduto. Da sempre si narrava che fosse stato il dio Hosh a trasformare il drago in una statua di roccia perché facesse la guardia ai segreti celati all'interno. Madre e figlio corsero a perdifiato lungo la galleria di accesso fino alla grande caverna. Le torce illuminavano la scena. «Athor!» chiamarono i due all'unisono.
Per tutta risposta giunse un flebile lamento dall'impalcatura che l'uomo aveva costruito per decorare con i suoi disegni la volta della caverna. Dehal e Sar lo raggiunsero. Athor era sdraiato supino, le braccia inerti penzolavano fuori dal camminamento dell'impalcatura. «Siete... siete davvero voi? Sono felice che il dio Hosh mi abbia concesso di abbracciarvi ancora una volta prima di condurmi con sé nel mondo degli spiriti.» «Non dire così, uomo. Ne abbiamo passate tante insieme. Vedrai che presto potrai raccontare anche questa avventura ai nostri figli. Adesso però non devi affaticarti, amore mio.» «Dehal, lascia che io usi le poche forze che mi rimangono per il futuro della nostra gente e di Sar. Vieni qui, figlio mio. La legge del nostro dio mi impone di non rivelarti l'ubicazione del Tempio Segreto. Ricorda però come ti ho insegnato quanto sono importanti le tracce che tutti noi abbiamo lasciato sui muri delle nostre caverne. Sono il segno della nostra storia. Studiane i disegni, ti condurranno alla meta. Vi voglio bene e che il potente dio Hosh vegli su di voi. Ti amo, donna.» «Athor! Athor!» gridò Dehal stringendo a sé quel corpo che tante volte aveva abbracciato. Ma non ottenne più risposta: Athor, re dei migos, era morto. Erano trascorsi pochi giorni dalla morte del re. Il villaggio stava tributando gli onori al nuovo sovrano. Sar estrasse il disco d'oro, simbolo del potere di Hosh. Un raggio di sole si rifletté sulla superficie levigata del disco lanciando bagliori tutto intorno. Nulla avrebbe potuto colmare il vuoto che Dehal aveva nel cuore. La donna aveva preferito non presenziare alla cerimonia di investitura di suo figlio a re e sommo sacerdote e, nel corso della notte, si era incamminata verso il pog. Aveva raggiunto la vetta e il tempio della farfalla quando il sole era alto. I ricordi le facevano male. Aveva rivisto la scena del loro matrimonio, benedetto dalla benevolenza di Hosh. Aveva rivisto l'effigie della farfalla che suggellava per sempre il loro amore. Un amore che sarebbe sopravvissuto alla morte. I ricordi le facevano male. Pensò che la sua esistenza, senza di Athor, non avrebbe più avuto senso. Guardò in basso, verso il baratro, si avvicinò al ciglio: e quell'antica voglia
di sfidare il vuoto si impadronì di lei. Ma questa volta non sarebbe stato per avere salva la vita. L'intenso bagliore la riscosse. Il lampo proveniva dal villaggio e allora capì: suo figlio Sar stava levando al cielo il disco d'oro. Come se stesse sognando, la mente di Dehal si riempì delle visioni di un futuro molto lontano, eppure nitido. Vide genti sterminate dai propri fratelli, vide soldati in marcia per espugnare città dalle mura altissime. Vide donne abbracciare i propri figli per nascondere loro la visione della morte. Vide il disco sacro a Hosh posto come uno scudo per fermare il vento gelido che spazza la strada ai demoni della notte. Fu allora che il desiderio di gettarsi nel vuoto svanì e lei si allontanò dal baratro. All'improvviso aveva compreso il significato di tante esistenze spese a preservare la Pietra Sacra di Hosh dalle brame dei malvagi. Quella era la missione a cui il dio aveva chiamato tutti loro. Altri sarebbero venuti dopo Athor, lei e Sar in quell'inesauribile lotta contro il Male. I ricordi cessarono di scuoterle il cuore e un'espressione carica d'amore le illuminò il viso segnato dagli anni e dagli eventi. Seppe con certezza che non avrebbe posto fine alla sua vita. Aveva ancora dei figli a cui insegnare a vivere e a difendersi dalle insidie e dalla malvagità. Arrendersi avrebbe significato gettare al vento ogni attimo della sua esistenza, ogni battaglia combattuta al fianco di Athor, ogni sorriso regalatole dalle creature che aveva messo al mondo, ogni momento di amore e di passione condiviso con il suo uomo. Lentamente Dehal si incamminò lungo il sentiero che conduceva ai piedi del pog. 51 Pog di Montségur, 1243 Aymon strinse a sé Marie-Louise, mentre cercava, con il suo peso, di opporsi all'ondeggiare della cesta. Ma una delle quattro corde che la assicuravano alla cima portante strusciò violentemente contro le rocce aguzze e si spezzò con un colpo secco. La cesta, privata all'improvviso di uno dei suoi sostegni, si inclinò violentemente da un lato, la donna fu sbalzata fuori e si ritrovò sospesa nel vuoto. Marie-Louise riuscì a trovare un appiglio e le sue dita si strinsero attorno
a una fune, ma il peso del corpo la trascinava inesorabilmente verso il basso. Stava per abbandonare la presa quando Aymon le afferrò il braccio, poco sopra il polso. Dalla cima del monte, nel frattempo, gli uomini avevano ricominciato a recuperare la corda di buona lena. «Resisti, Marie-Louise. Ti tengo io. Tra poco saremo in salvo», diceva Aymon, sperando in cuor suo che le forze non gli venissero meno. Quando furono tratti oltre il bordo del precipizio e si misero in piedi sulla terraferma, la donna ruppe in un pianto disperato e liberatorio. Ancora una volta, erano salvi. La vita nella rocca procedeva tra momenti di speranzoso ottimismo e altri di sconfortante disperazione. Gli uomini del re di Francia, giù nella valle, si limitavano a presidiare gli accessi alla base del pog. Ma, giorno dopo giorno, arrivavano nuove truppe a rinforzo di quelle impegnate nell'assedio. Rari erano stati finora gli scontri, anche se in alcune occasioni i Perfetti catari si erano visti costretti a somministrare il Consolamentum a qualche loro compagno ferito a morte. Il vescovo cataro Bertrando Marty attendeva alla cura delle anime. Pietro Ruggero di Mirepoix, invece, addestrava e incitava i suoi eroici faidits. Tutti speravano che il conte di Tolosa, benché in quei giorni fosse in visita a Roma per compiere atto di sottomissione nei confronti del papa, sarebbe prima o poi riuscito a trarre i suoi fedeli sudditi fuori da quella situazione. Tutto nella rocca era razionato: cibo, acqua, vino, armi. Nessuno però aveva ancora patito la fame o la sete, o il freddo. La vita a Montségur, nonostante le restrizioni dovute allo stato di guerra, poteva continuare. Ma purtroppo giunse quel giorno di dicembre del 1243. «Le donne mi hanno raccontato che proprio qui, dove ora sorge il torrione centrale del castello, esisteva un antichissimo luogo di culto», stava dicendo Marie-Louise ad Aymon, «e che il sole, nel giorno del solstizio dell'estate, disegnava, in un certo punto, delle ombre singolari sulle rocce. Si dice che questo fosse il luogo ove gli antichi venivano a sposarsi e a praticare i loro riti della fertilità. Peccato che tutto questo non esista più. Mi sarebbe piaciuto che il sole benedicesse la nostra unione qui, sul pog. Tu e io non ci siamo mai sposati...» «Non per colpa mia, donna: tra i due chi aveva precedentemente contrat-
to un matrimonio eri tu, non io. E la vita poi non ci ha dato modo di rimediare. In fondo, gli unici anni di tranquilla serenità li abbiamo vissuti sotto falso nome. E quale identità avremmo potuto rivelare a un prete sconosciuto e magari ficcanaso affinché ci sposasse?» «Hai ragione, Aymon. Non abbiamo bisogno di un prete per sposarci. È sufficiente una promessa. E noi ci siamo promessi da sempre amore eterno. Ma ora, qui, io voglio farlo ancora una volta. L'ultima, per sempre.» E i due innamorati, commossi e felici a dispetto del futuro incerto che li attendeva, si scambiarono il loro solenne giuramento. Aymon guardò verso una feritoia: il sole non investiva mai l'interno del torrione tranne che nel giorno del solstizio. Forse i costruttori del castello avevano voluto mantenere viva quell'antica magia. In quel giorno infatti i raggi del sole entravano da una delle feritoie e uscivano da un'altra. Avrebbe dovuto tornare in quel punto, la prossima estate, e, con MarieLouise, lasciare che quel raggio li avvolgesse di luce. Già, la prossima estate... Lo sguardo dell'uomo si perse verso la fortificazione, chiamata Col de la Tour, che presidiava la parte orientale del complesso di Montségur. Si trattava di una postazione avanzata, distante oltre cinquecento passi, ma importantissima dal punto di vista strategico. A differenza di ogni altra via d'accesso, quel baluardo era situato in una posizione favorevole per sferrare un attacco a Montségur, dato che si trovava sulla cima di un crinale che digradava verso le mura principali con un'agevole discesa. Aymon rimase impietrito, aguzzò lo sguardo, quindi gridò con tutto il fiato che aveva in corpo: «All'armi! All'armi! Siamo attaccati!» Ma era troppo tardi. Durante la notte i nemici avevano risalito il pendio e al mattino avevano attaccato la guarnigione posta a difesa del Col de la Tour, riuscendo in poco tempo ad aver ragione degli assediati. I soldati del re erano riusciti ad aprire una breccia all'interno delle difese di Montségur e Pietro Ruggero non aveva idea di come i suoi uomini potessero ora avere ragione degli assalitori. Nei sessanta giorni che seguirono la conquista del Col de la Tour, gli assalti ai catari assediati si fecero incessanti e ogni volta pareva che l'impeto dei nemici fosse maggiore. La difesa vacillava, ed erano sempre più numerosi gli uomini che rimanevano feriti o uccisi dai lanci delle balestre. Le catapulte schierate fuori dalle mura lanciavano giorno e notte i loro pesanti proiettili di pietra, tanto che le case all'interno della prima cerchia di mura avevano i tetti e le mura sfondati.
«Credo che per noi non ci siano più speranze e che sia giunto il tempo di trattare la resa. Ma prima dobbiamo cercare un modo per mettere in salvo almeno le donne e i bambini. Non ho molta fiducia nella clemenza degli uomini agli ordini del siniscalco del re Ugo d'Arcis e temo che abbiano intenzione di riservare a ogni cataro i peggiori supplizi», disse Pietro nel corso di un consiglio di guerra. «E come faremo a metterci in salvo?» domandò uno dei suoi valorosi cugini. «È praticamente impossibile allontanarsi dal pog senza finire tra le braccia del nemico.» «Aspettate... Un modo ci sarebbe...» disse Aymon. Una seconda corda era stata fissata alla sommità e il primo a calarsi l'avrebbe dovuta fissare alla base del tragitto. In tal modo la cesta sarebbe salita e scesa lungo una guida. Lo stesso contenitore era stato modificato: ora era più capiente e più sicuro. Aymon aveva garantito che, nel corso di una notte, sarebbe riuscito a portare ai piedi del pog un centinaio di persone. I fuggitivi avrebbero trovato rifugio all'interno di una grotta che lui stesso conosceva bene. Da lì, una volta riuniti i nuclei familiari, sarebbero partiti alla spicciolata nelle più diverse direzioni. Se il piano avesse funzionato, nell'arco di una settimana l'intera comunità sarebbe riuscita ad abbandonare Montségur e il nemico avrebbe dato l'assalto decisivo a una città fantasma. «Presto. Devono fare presto. È quasi giorno. Se dovessero scoprirci non riusciremmo a portare a termine il nostro piano», stava dicendo Aymon alla sua compagna. Entrambi avevano lo sguardo rivolto verso il cielo che si stava colorando di una tenue luce rosata. Riuscivano addirittura a scorgere la cesta mentre in alto si svolgevano le operazioni dell'ultimo viaggio della nottata. Ugo d'Arcis aveva trascorso una notte insonne. Sapeva che le difese di Montségur erano prossime a cedere. Malgrado ciò si sentiva inquieto. Volse lo sguardo verso la rocca illuminata dalla pallida luce dell'alba. Gli occhi dell'emissario del papa e del re di Francia notarono qualcosa che pareva in movimento sulla parete rocciosa del pog. Improvvisamente capì il motivo della sua inquietudine: quei maledetti adoratori del demonio stavano per fargliela sotto al naso.
Erano venticinque gli uomini armati che avrebbero dovuto scortare una settantina di persone. Il piano che Aymon aveva predisposto prevedeva di radunare l'intera popolazione in una grotta della valle dell'Ariège, riconoscibile perché una singolare figura, un grosso drago che gli elementi naturali avevano modellato nella roccia, era posto davanti al suo ingresso. Aymon conosceva bene quel luogo: si poteva dire che suo nonno l'avesse praticamente cresciuto lì dentro, prima di essere costretto a nascondersi. Per questo lui e Marie-Louise si erano messi alla guida del gruppo. E un giorno suo nonno gli aveva spiegato che lì, in quella caverna, era celato il segreto di un'arma invincibile. Un'arma talmente potente che avrebbe ucciso chiunque ne fosse venuto a contatto. Nessuno avrebbe mai dovuto prelevarla dalla sua custodia di metallo. Anche per questo Aymon aveva scelto la caverna come rifugio per i suoi compagni: se il nemico li avesse scoperti, lui non avrebbe esitato a usare l'arma contro gli uomini del re di Francia. Aymon aveva ordinato due posti di guardia: uno nei pressi dell'ingresso e l'altro all'imboccatura della galleria che conduceva a una gigantesca caverna nella quale tutti avevano trovato riparo. Fuori, una nuova notte era calata sulla foresta. Le torce ardevano riflettendo il loro bagliore sulle volte dipinte. Il rumore dei ferri che cozzavano fu come un grido d'allarme. Gli uomini si rizzarono in piedi e corsero nella galleria all'imboccatura della quale si stava combattendo. Fu allora che Aymon capì che la sua battaglia era persa: il nemico premeva compatto e numeroso, mentre i fuggiaschi di Montségur erano pochi e male armati. L'unica via di salvezza era rifugiarsi nella caverna e lì aspettare al varco gli oppressori che sarebbero sbucati uno a uno dalla stretta galleria. Così diede ordine di battere in ritirata. Ogni tanto Aymon mandava una vedetta a controllare quanto accadeva nel cunicolo, ma inspiegabilmente il nemico non attaccava. Aymon allora decise: il giorno seguente avrebbe raggiunto l'antico tempio e avrebbe prelevato la pietra. Nessuno dormì quella notte. E i bambini, quasi avessero intuito la gravità della situazione, non smisero mai di piangere. Aymon stimò che fosse mattina, quando decise di effettuare egli stesso una sortita sino all'imboccatura del cunicolo.
Soltanto allora capì qual era il piano dei francesi. E seppe che il potenziale della Pietra sarebbe stato del tutto inutile: nell'arco di poche ore i soldati avevano eretto un solido muro che avrebbe precluso ai catari asserragliati nella caverna ogni via di fuga. Li avevano murati vivi. 52 Tolosa, anni '40 Carla Jeogeres Núñez aveva trovato un nuovo impiego all'inizio del 1943: il ruolo di insegnante di lingua spagnola in una scuola francese sarebbe stata un'ottima copertura. La ex agente dei servizi segreti francesi aveva l'esperienza necessaria per muoversi con destrezza tra le trappole disseminate ovunque dai nazisti e dai loro temuti organi di spionaggio. La delazione era l'esca più utilizzata per catturare ogni giorno decine di patrioti francesi. Bisognava riconoscere una grande abilità agli uomini delle SS e della GESTAPO: sapevano come volgere a proprio fine ogni sussurro, confidenza, malumore, antica inimicizia. In questo modo dominavano con il terrore e con l'intimidazione le popolazioni dei territori che occupavano. Spesso a Carla tornava alla mente la brutta fine dell'editore Sarraut, suo diretto superiore nella Sûreté. Per fortuna che, poco prima di essere catturato dalla GESTAPO, era riuscito a distruggere gli elenchi degli appartenenti al servizio. Se così non fosse stato, probabilmente, sarebbe caduta anche lei nella rete dei nazisti e non avrebbe mai potuto entrare a far parte delle file della resistenza. Proprio a Sarraut stava pensando quando due uomini vestiti con un impermeabile scuro e un cappello di uguale colore le si pararono davanti. Per un attimo pensò che fossero angeli del Male. «Carla Jeogeres Núñez?» chiese il primo con marcato accento tedesco. «Sono io...» rispose lei, decisa. Per nulla al mondo avrebbe voluto far trapelare la sua angoscia. «GESTAPO. Seguiteci, signora. Dovrete rispondere ad alcune domande.» Così dicendo quello che tra i due doveva essere il più alto in grado le infilò una mano sotto il braccio, stringendolo in una morsa inesorabile. Nessuno tra i tanti passanti che nelle affollate vie di Tolosa aveva osservato la scena si sarebbe potuto aspettare una simile reazione da quella
donna in apparenza fragile e minuta. Carla ruotò il braccio in avanti, facendo leva sul polso dell'agente tedesco. Mentre si liberava dalla stretta, colpì l'altro con una violenta gomitata alla mascella. Quindi fece per estrarre dalla borsetta la piccola Walter 6.35 che portava sempre con sé. Ma non fece in tempo a impugnarla: uno dei due agenti aveva estratto un manganello e l'aveva colpita al capo. Carla Jeogeres Núñez cadde a terra priva di sensi. Wewelsburg, anni '40 Abelard Bock percorreva a piedi, come ogni mattina, la strada che conduceva al campo di lavoro dal sinistro castello di Wewelsburg. In quanto caposquadra doveva camminare a fianco del drappello di internati. Dietro di loro quattro SS Totenkopf, con le armi spianate, scoraggiavano qualsiasi idea di fuga nei prigionieri. Ma anche senza di loro sarebbe stato impensabile cercare di evadere, con addosso una divisa a strisce, nel cuore della Vestfalia. Il comunista Abelard Bock portava con orgoglio il triangolo rosso cucito poco sopra al numero di matricola, sul lato sinistro del petto: quello era il segno distintivo degli internati politici. Bock sapeva che presto sarebbe esploso così come era esplosa la rabbia proletaria nell'amata Russia. Nel frattempo continuava a lavorare con cieco fervore, non certo per collaborazionismo, ma per puro istinto di sopravvivenza. L'unico legame che i prigionieri avevano con la vita fuori dal campo di lavoro era il rombo dei motori degli aerei che atterravano o decollavano dalla vicina pista di Paderborn. Ne riconosceva a memoria i modelli, senza dover nemmeno alzare più gli occhi al cielo. Quello svago aveva contagiato tutti gli occupanti della sua baracca: ogni volta che udivano il rombo di un velivolo in avvicinamento, si affrettavano a scommettere ed era Abelard Bock colui che, sempre, vinceva la scommessa. In breve nessuno osò più mettersi in gara con il capo baracca e con la sua passione per l'aeronautica. Bock stava lavorando nella torre nord, quella che, nelle folli convinzioni di Himmler e delle sue teorie esoteriche, avrebbe dovuto coincidere con il «Centro del mondo». Gli ordini che le SS avevano impartito erano stati perentori: le squadre avrebbero dovuto terminare entro un tempo brevissimo la ristrutturazione della torre nord e della sala di culto tanto cara al Reichsführer.
La sala era di forma circolare. Lungo la sua circonferenza più interna si trovavano dodici monumentali colonne bianche. Il pavimento era anch'esso in marmo bianco, a eccezione del centro. Qui si trovava un mosaico di circa quattro metri di diametro composto di marmi policromi - nero, rosa e blu - intarsiati, a dare origine a forme geometriche. Dodici saette di pietra nera si dipartivano dal centro, in tutto simili ai simboli runici che ornavano le mostrine delle SS. Un cerchio racchiudeva le saette al suo interno, rendendo il disegno simile a un sole nero. Quello era, difatti, lo Schwarze Sonne, il Sole nero delle SS. «Come vi chiamate, prigioniero?» Una voce autoritaria alle sue spalle lo fece girare di scatto. «Bock, signore», rispose il deportato, rimanendo carponi e senza distogliersi dalla sua occupazione consistente nel lucidare il marmo con la lana di piombo. Il calcio colpì Abelard alle reni. Il dolore fu tale da togliergli il respiro e da farlo rovinare a terra. «Lurido comunista!» disse l'ufficiale che l'aveva colpito. «Il Reichsführer in persona vi ha fatto una domanda e voi non siete nemmeno scattato in piedi. Adesso io...» «Aspettate, capitano!» disse Himmler. «Ho già avuto modo di apprezzare le capacità di lavoro di questo prigioniero. Vorrei sentire le sue ragioni, prima che voi lo puniate. Dite, Bock, come giustificate il vostro comportamento?» «Ho ricevuto l'ordine di portare a termine il mio lavoro, signore. E questo sto facendo. Se mi fossi alzato e avessi perso tempo, qualcuno avrebbe potuto chiedermene il motivo. E questa volta con maggior ragione.» Solo allora Bock si alzò. Nella stanza c'erano soltanto lui, il Reichsführer e l'ufficiale. Ecco! Quella sarebbe stata l'occasione migliore per esplodere: doveva solo afferrare la gola di quel figlio di puttana di Himmler e fare in modo di prevenire la reazione dell'ufficiale delle SS. Sapeva che sarebbe stato ucciso, ma ne sarebbe valsa la pena se prima fosse riuscito a portare con sé all'inferno il principe degli aguzzini. Himmler per un attimo parve rendersi conto dell'aria ostile di quel massiccio lavoratore dalle mani grandi e forti. «Adesso!» si disse Bock. Ma proprio in quell'istante un particolare lo costrinse a fermarsi.
Quella che Himmler aveva sotto braccio insieme a un plico di documenti era una fotografia nella quale era ritratto Otto Raush. Il comunista Bock non era uomo da dimenticare e ricordava ogni particolare di quello strano prigioniero, quasi certamente una spia dei nazisti, che aveva trascorso alcuni mesi nella sua baracca a Dachau. Raush aveva organizzato un'evasione che aveva suscitato molte perplessità. Tant'è vero che nessuno era stato punito dopo la fuga. Raush aveva portato con sé un tale Filcher, ottimo ingegnere idraulico e perfetto socialista. E adesso la faccia di Otto Raush era sotto al braccio di Himmler. Due SS entrarono nella sala. Bock comprese che aveva perso un'occasione d'oro ma, in compenso, aveva avuto conferma dei suoi sospetti. «Conducete qui la prigioniera... e anche un 'cavallo'», disse Himmler, mentre negli occhi gli balenava una luce diabolica. «E voi, Bock, che ci fate ancora qui! Forza, andate a completare la vostra giornata di lavoro da un'altra parte.» Carla Jeogeres Núñez era arrivata al Wewelsburg la notte precedente, a bordo di una berlina scura, scortata da due agenti della GESTAPO. Il luogo, tristemente famoso, le era sembrato ancor più tetro di quanto se l'era immaginato. La donna era consapevole che quello sarebbe stato l'ultimo viaggio della sua vita. Le celle dei prigionieri erano rimaste quelle dove i signori del maniero rinchiudevano, nel Medioevo, i loro nemici. Himmler si compiaceva di dire che coloro che arrivavano sino al suo castello costituivano l'«élite» dei prigionieri. Quando Carla entrò nella stanza circolare del Sole nero, per la prima volta si sentì venire meno. Himmler era in piedi davanti a lei. In disparte, un secondo ufficiale delle SS. Al centro della stanza, sopra a un mosaico circolare, stava un cavalletto da tortura. Bock conosceva la torre come le sue tasche: poteva ben dire di averla ricostruita lui, mattone dopo mattone, anno dopo anno. Disse al suo sorvegliante che doveva sistemare alcune travi al piano superiore: all'interno del castello, i capisquadra godevano di una relativa libertà. Al piano superiore, la stanza corrispondente a quella in cui si trovava Himmler era ancora in cantiere. Si poteva però già intuirne la struttura simile a un tempio circolare; le pareti, interrotte da una serie di finestre a bocca di lupo che la illuminavano, conferivano una luce radente e priva di
cromaticità. Bock si diresse verso il camino. Si infilò nella canna fumaria al cui interno correva una scaletta formata da ferri ricurvi murati. Quando giunse al piano sottostante, gli fu sufficiente scostare leggermente la grata di metallo usata a chiusura del camino per avere una visione quasi completa del locale. La donna era stata legata al «cavallo». Si trattava di uno strumento di tortura molto semplice, simile a un tavolo, ma dotato di un sistema per fissare i piedi della vittima a terra. Il tronco del prigioniero veniva legato al tavolato, in modo che fosse a squadra con le gambe. Quindi gli aguzzini alzavano il piano sempre di più, mentre i piedi rimanevano ancorati a terra. Il dolore era insopportabile e spesso erano i legamenti delle anche o addirittura le teste dei femori a spezzarsi a causa della trazione. «Ripeto la domanda, signora Núñez. Avete conosciuto quest'uomo?» Il tono di Himmler era terribile. «Vi ho detto di no, signore. E non capisco che cosa ci faccio io qui. Sono una semplice insegnante di spagn...» La mano dell'ufficiale la colpì sulla bocca, dal basso verso l'alto. «Zitta, puttana! Sappiamo bene chi sei e ora ti spiego per l'ultima volta che cosa vogliamo da te, prima di passare alle maniere forti. Tu, per gli inglesi l'agente Eiffel, sei stata l'ultima persona a vedere vivo l'Obersturmführer-SS Otto Rahn. Entro breve pagherai anche per il suo omicidio. Ma adesso devi dirci quali sono state le sue ultime parole.» Carla pregò di riuscire a essere coraggiosa di fronte alle sofferenze e alla morte. «Se sapete già tutto, che bisogno avete che io ve lo ripeta?» chiese spavalda. L'ufficiale non parlò. Sotto lo sguardo attento e compiaciuto di Himmler prese una pinza, si avvicinò alle mani di Carla, legate per i polsi. Afferrò con la pinza l'unghia dell'indice e la strappò via con estenuante lentezza. Carla avrebbe voluto gridare, ma si trattenne ed emise solo un sordo mugolio mentre lacrime di dolore le riempivano gli occhi. «Così composta?» chiese con fare di scherno l'ufficiale delle SS. «Dall'agente Eiffel avrei dovuto aspettarmelo. Proviamo a vedere se con le altre unghie riceverò maggiore soddisfazione.» Bock aveva visto abbastanza ed era inutile che rimanesse ancora lì con il rischio di venire scoperto o di destare sospetti nei suoi carcerieri. Si augurò che la donna arrivasse viva alla notte: poi l'avrebbe portata via, a ogni costo.
Berlino, anni '40 Le ricerche sull'energia atomica nella Germania nazista avevano avuto, sino ad allora, un solo nome: Werner Heisenberg. Il fisico tedesco si era messo al lavoro sin dal 1939 sviluppando e approfondendo la scoperta della fissione nucleare di cui il chimico nucleare Otto Hahn, insieme ai suoi collaboratori, era stato il padre. Heisenberg aveva fatto passi da gigante nella progettazione del Wunderwaffe, l'arma totale, ma era incappato in un banale errore di calcolo nel determinare la massa critica dell'isotopo di uranio necessario per innescare la reazione atomica. Era giunto infatti alla conclusione che fosse necessaria una sfera di uranio dal diametro di cinquantaquattro centimetri per ottenere la massa critica. A tale dimensione corrispondono, in realtà, tredici tonnellate di materiale fissile! Una quantità enorme che neppure la Germania nazista avrebbe mai potuto procurarsi. Per questo motivo il progetto dell'arma totale si era in parte arenato. Ma anche per questo Hitler non aveva mai abbandonato il sogno che l'archeologo Otto Rahn gli aveva fatto accarezzare: quello di una massa cospicua di materiale radioattivo nascosta sin dalla notte dei tempi in Linguadoca. «Dobbiamo venirne a capo, adesso più che mai», stava dicendo il Führer con aria grave. «Gli americani stanno lavorando alacremente a quello che in codice chiamano 'progetto Manhattan'. E secondo i nostri informatori pare che siano a buon punto.» «Soprattutto, mein Führer», aggiunse Bormann, che aveva sempre nutrito forti perplessità circa il lavoro di Heisenberg e del suo staff, «pare che gli scienziati americani abbiano notevolmente ridimensionato il quantitativo di materiale necessario per costruire una bomba. Al contrario di quanto affermano i nostri.» «Per questo, anche, dobbiamo costruire per primi la Wunderwaffe. Costi quel che costi. Nel frattempo non abbandoneremo i progetti relativi a nuove e più moderne armi, come i razzi a lunga gittata o gli aerei a reazione. Vinceremo, camerati: nessuno potrà fermare l'ascesa del Reich. Vinceremo e la guerra sarà totale.» Fu sull'onda di queste parole che il ministro della Propaganda Goebbels, il 18 febbraio 1943, pronunciò un discorso in cui ammoniva i nemici della Germania e il mondo intero. Da quel momento, il Reich avrebbe combattu-
to la «guerra totale». Wewelsburg, anni '40 Le dieci falangi erano coperte da uno scuro strato di sangue rappreso. Le dolevano, così come ogni parte del corpo sulla quale l'ufficiale delle SS aveva infierito. Alla fine Carla aveva ceduto e rivelato alcuni particolari riguardo al suo interrogatorio a Otto Rahn. Ma quelle che aveva svelato erano notizie di scarso rilievo, cosa di cui sembrava ben conscio anche l'ufficiale nazista. L'avevano riportata in prigione e uno dei carcerieri le aveva detto ridendo con crudele cinismo che era stata fortunata a poter rientrare in cella camminando con le proprie gambe. Carla si sentiva svuotata di ogni energia e sapeva di avere una sola possibilità per porre fine al supplizio: rivelare quanto era riuscita a carpire a Otto Rahn. Ma non avrebbe mai dato ai nazisti quella soddisfazione. Con mosse lente e sicure utilizzò quanto le era rimasto dei suoi abiti per costruire un cappio, ne legò un'estremità a una delle sbarre. Si passò il nodo attorno al collo e pregò di non dovere più soffrire. Bock aveva idealmente percorso quel tragitto decine di volte. Ma adesso non era più finzione: ora, oltrepassato il recinto dopo aver reciso il filo spinato che circondava il campo, avrebbe dovuto fare i conti con le difficoltà. Himmler aveva voluto che un inestricabile dedalo di percorsi segreti si dipanasse all'interno della collina su cui sorgeva il Wewelsburg, e Bock aveva partecipato alla loro realizzazione. Per questo li conosceva come le sue tasche. Il prigioniero respirò a lungo l'aria frizzante della notte, prima di infilarsi nel cunicolo che lo avrebbe condotto nei pressi delle celle. Da quel momento in poi, avrebbe dovuto improvvisare. Le due sentinelle erano silenziose, forse vinte dal sonno e dalla stanchezza. Il Wewelsburg era considerato un luogo inespugnabile, dal quale era impossibile fuggire e le guardie sapevano bene che il loro era un ruolo quasi inutile. La forza con cui Abelard Bock li travolse alle spalle fu simile a quella di un treno in corsa. I due carcerieri rimasero disorientati, doloranti e impauriti. Le braccia del capo baracca cinsero il collo del più grosso tra i due e lo
spezzarono con un solo sapiente movimento. Quindi Bock rivolse le proprie attenzioni al più esile, che stava cercando di estrarre la pistola. Ma Abelard fu più veloce: scaricò tutta la sua rabbia in un solo pugno, di inaudita potenza, sul volto dell'uomo. Le ossa del naso, frantumandosi, penetrarono nella zona frontale del cervello provocando la morte istantanea dell'ss. Ansimante, Bock sfilò l'anello delle chiavi dalla cintura di uno dei carcerieri, quindi ne infilò una nella porta della cella. Il trambusto che aveva sentito là fuori poteva significare una sola cosa: stavano venendo a prenderla per sottoporla a un altro interrogatorio e Carla sapeva che la sua resistenza al dolore si era ormai esaurita. Doveva fare in fretta: non potevano prenderla viva. «Ferma!» Due mani forti la cinsero per i fianchi, proprio mentre stava per lasciarsi andare, e si trovò stretta al corpo muscoloso di un uomo. Nella semioscurità della cella si accorse che il suo salvatore indossava la divisa a strisce da prigioniero. «Ferma!» ripeté lui in un francese zoppicante. «Sono qui per aiutarvi.» «Grazie, grazie... grazie», rispose Carla in tedesco. Non aveva idea di chi fosse il suo salvatore, ma il pensiero di non essere più sola le infuse coraggio e nuova speranza. Alla luce delle torce poté vederlo in viso: aveva il naso schiacciato, come quello di un pugile professionista, il volto rotondo e gli zigomi alti. Le spalle, molto larghe e leggermente arcuate, sembravano sostenere la testa senza l'ausilio del collo. Eppure, malgrado l'aspetto, lo sconosciuto aveva modi timidi e gentili. «Dio mio, come vi hanno ridotta quei maledetti. Ma andrà tutto a posto, signorina, vedrete. Se riusciremo ad andarcene da qui, vi saranno sufficienti poche settimane. Mi chiamo Abelard Bock. Sono evaso dal campo di concentramento con l'intento di portarvi in salvo. Ho assistito di nascosto a una parte del vostro interrogatorio.» «Io sono Carla Jeogeres Núñez. Non so come ringraziarvi, signor Bock.» «Mi ringrazierete quando saremo al sicuro. Adesso aiutatemi a portare i corpi dei carcerieri dentro la cella. Indosseremo le loro divise», disse l'uomo indicando i due militari a terra.
Berlino, anni '40 L'impalcatura del grande Reich, che fino ad allora era sembrata indistruttibile, da qualche mese aveva incominciato a incrinarsi. Tra i gerarchi e i capi del nazismo serpeggiava la perplessità e la paura che nessuno avrebbe potuto prevedere solo poco tempo prima. Questo stato di precarietà fu una delle cause della ferocia con cui i tedeschi perseguitavano chiunque potesse essere visto come un potenziale nemico. Ma, oltre che con le persecuzioni, i nazisti avevano capito che per vincere una guerra che si faceva sempre più estenuante era necessario continuare a sviluppare l'apparato bellico e, soprattutto, cercare di sfruttare la dirompente forza dell'energia nucleare. «Che cosa intendete dire, Herr Göring?» stava dicendo il Führer sopraffatto dall'ira. «Perché mai dovremmo avere alleati così poco affidabili? Pensate che in caso di sbarco nemico gli italiani ci tradirebbero? E perché non abbiamo continuato le trattative separate con le singole forze alleate?» «Non c'è stata volontà, mein Führer. Quelle con gli inglesi, si sono arenate dopo la morte del duca di Kent.» «E dei russi? Che cosa mi dite dei russi? Sembravano prossimi alla resa all'inizio dell'anno, e molto favorevoli a trattative segrete. Che fine ha fatto quel progetto?» «Ci stiamo ancora lavorando, ma i continui capovolgimenti nei pressi del fronte a Kharkov fanno mutare lo scenario e le prospettive di ora in ora.» «E per quanto riguarda i 'disubbidienti silenziosi', Herr Bormann, che cosa sta succedendo?» «Se vi riferite agli appartenenti alla Rosa Bianca, mein Führer, vi assicuro che nelle prossime ore saranno tutti incarcerati. Anche se sono convinto che si tratti prevalentemente di studentelli poco pericolosi, sarei propenso a una pena esemplare nei loro confronti.» Nei sei mesi in cui era stato attivo, il gruppo clandestino di resistenza non violenta della Rosa Bianca aveva distribuito alcuni opuscoli dove si auspicava il declino del nazismo e della sua folle politica sanguinaria. «Condivido la vostra opinione: fateli decapitare tutti, quando li avrete assicurati alla giustizia. Servirà d'esempio a chiunque cercherà di emularli. Ma tornando al problema dei nostri inaffidabili alleati, credo che non ci resti che un'unica soluzione. Americani o no, la chiave di volta sarà la costruzione dell'arma totale. Dobbiamo concentrare i nostri sforzi in tal sen-
so, e meno gli altri se ne accorgeranno, meglio sarà. Che mi dite a proposito del segreto che Otto Rahn è stato sul punto di scoprire?» «Mi risulta che proprio in queste ore il Reichsführer Himmler stia procedendo a interrogare l'agente Eiffel al Wewelsburg.» Vestfalia, anni '40 Carla e Bock si erano tolti i pantaloni e avevano camminato per più di un chilometro con le gambe immerse sino alle cosce nel letto del fiume Alme. «Tra poco», le aveva detto Bock, «scopriranno la nostra fuga e a quel punto ci scateneranno dietro i cani: questo è l'unico sistema per far perdere le nostre tracce. Quegli animali sono feroci e scaltri come i loro maledetti padroni.» Si erano appena rivestiti con le divise sottratte ai carcerieri, che le sirene d'allarme del campo ruppero, con il loro urlo, la quiete della notte. «Per ora stanno cercando me: non credo abbiano ancora scoperto la vostra fuga, Carla. Dobbiamo sbrigarci se vogliamo raggiungere il campo d'aviazione prima che blocchino tutte le strade. Non appena entreranno nella cella e scopriranno i corpi dei due carcerieri, il nostro travestimento diventerà pressoché inutile. A quel punto dovremo essere riusciti a portare a termine il mio piano.» Il posto di guardia dell'aeroporto era sorvegliato da una sentinella che probabilmente aveva maledetto più volte chi aveva interrotto il suo sonno. Succedeva spesso che qualcuno dei prigionieri rimanesse impigliato come un pesce nella rete di filo spinato, ormai ci aveva fatto l'abitudine. La figura del sottufficiale delle SS apparve dal buio della notte. Poco più indietro la sentinella scorse un secondo militare. «Nulla da segnalare, soldato?» chiese il sottufficiale con fare autoritario. «Nulla, sergente. Ma non superate quel limite, altrimenti sarò costretto a intimarvi l'altolà», rispose la sentinella ligia alle consegne. «Che cosa è successo al campo?» «Solita storia: un tentativo di fuga andato male. Sono davvero tutti uguali, questi bastardi di prigionieri.» «State fermo lì, sergente. Sta suonando il telefono nella garitta. Vado a rispondere e torno.» Dalla posizione nella quale si trovava, Bock riusciva a vedere il volto del
giovane militare illuminato dalla luce della guardiola e anche a intendere in parte le sue parole. «Aviere Gotern, guardia carraia aeroporto. Comandi, signore.» Fu in quello stesso istante che un'arma d'ordinanza delle SS si piantò in mezzo agli occhi increduli del giovane militare. Bock gli fece cenno di andare avanti nella conversazione telefonica. «Non mancherò, signore. Un uomo e una donna, avete detto? Probabilmente indossano nostre divise? Se mi dovessero capitare a tiro non me li lascerò scappare, signor colonnello. Heil Hitler.» L'aviere Gotern aveva recitato meglio di quanto Bock avesse osato sperare. «... E con questo ho firmato la mia condanna a morte», mormorò il giovane soldato, riponendo la cornetta. «Non ancora», sussurrò Bock, affibbiandogli un colpo con il calcio della pistola proprio dietro la nuca. Quindi si girò verso Carla che lo guardava accigliata. «Non temete. Sto cercando di salvarlo. Solo dimostrando di essere stato aggredito dagli evasi potrà giustificare la mancata consegna. In caso contrario, i suoi camerati lo impiccherebbero.» Legarono l'aviere Gotern alla sedia, con una tavoletta dietro alla schiena che lo teneva diritto, benché fosse privo di sensi. Sembrava seduto, vigile e attento. Quindi i due fuggiaschi si diressero verso la pista. Carla lo stava osservando: mano a mano che si avvicinavano all'aereo, Bock assumeva un'aria baldanzosa e spavalda, quasi non si rendesse conto della pericolosità della loro situazione. L'Heinkel He.70 G usato da Himmler per i suoi spostamenti era fermo nei pressi di una rimessa di fianco a un piccolo ricognitore. Il velivolo era lungo una dozzina di metri e aveva un'apertura alare di quasi quindici. Era in grado di trasportare, oltre al pilota, quattro passeggeri che trovavano posto in un alloggiamento situato più in basso rispetto alla cabina di pilotaggio. L'aereo, fatta eccezione per una banda rossa sul timone verticale di coda all'interno della quale spiccava una svastica, non aveva particolari segni di riconoscimento. La carlinga era dipinta d'argento con delle saette nere incorniciate di bianco. Dal 1933, anno in cui era entrato in servizio, l'He.70 G aveva collezionato un record dietro l'altro. E si trattava sempre di primati di velocità. Il potente motore BMW da 630 cavalli poteva spingere quella macchina a oltre trecento chilometri all'ora, e i suoi serbatoi gli assicuravano un'au-
tonomia di quasi mille chilometri. Bock, in preda a una sorta di euforia, stava illustrando alla sua compagna di fuga i meravigliosi meriti di quel mezzo, quando la donna lo interruppe, piccata. «Siete stato davvero esauriente, Herr Bock, ma credo che dovremmo pensare a come scrollarci di dosso l'intero stato maggiore delle SS, piuttosto che dilungarci nella disamina dei pregi di questo eccezionale aereo.» «Siete sempre tanto sarcastica, signora Núñez? O lo siete solo a mio beneficio? Ma vi sbagliate: io stavo solo... ripassando. Farlo partire rappresenta la nostra unica possibilità per fuggire dal Wewelsburg.» «Certo, signor Bock. Ma come pensate di fare? Lo farete pilotare al giovane aviere di terra che abbiamo appena tramortito e legato come un insaccato?» «No, signora. Sarò io a pilotarlo.» «Voi?» Per una volta Carla era rimasta senza parole. Quell'uomo rude e dall'aspetto rozzo aveva il potere di sorprenderla. «Ma voi avete mai...?» chiese Carla, mentre Bock la stava spingendo a bordo. «Non ho mai pilotato un simile aereo, signora, ma ci dovrò provare... Guardate là...» Carla guardò verso la direzione indicatale: i fari di un convoglio d'automezzi illuminavano i tornanti della strada che proveniva dal castello. «Sicuramente stanno venendo a controllare per quale motivo l'aviere Gotern non ha più dato segni di vita.» Il sibilo di due proiettili la convinsero di non avere scelta. La donna impugnò la Luger e si accucciò dietro al portellone, mentre Bock tentava di avviare i motori. Il secondo aviere di guardia sbucò all'improvviso dal buio. Teneva il fucile in mano come fosse una scopa. Negli aeroporti meno importanti non erano necessari degli esperti combattenti: un paio di meccanici di buona qualità erano più che sufficienti per controllare il raro traffico aereo. Malgrado l'oscurità, Carla riuscì a individuare il riparo dietro al quale stava nascosto il cecchino. Prese la mira ed esplose due colpi. L'aviere tedesco parve inciampare, mosse due passi verso l'aereo che si era messo in moto, quindi cadde a terra, immobile. Nel frattempo Bock stava disponendosi in posizione di decollo. Due camion carichi di militari divelsero la sbarra che precludeva l'accesso ai mezzi non autorizzati.
«Presto, Carla, dovete chiudere il portello!» gridava Bock. Se i mezzi delle SS fossero riusciti a tagliare la strada al velivolo, per loro sarebbe finita. Carla stava armeggiando con le maniglie quando la spinta la fece vacillare: Bock aveva accelerato al massimo. I due camion proseguirono paralleli ai loro finestrini per circa un centinaio di metri. Qualcuno dei soldati sparò, ma i colpi andarono a vuoto. «Adesso!» gridò Bock, mentre tirava a sé la cloche. Il muso dell'He.70 si alzò rispondendo docile come un cucciolo ai comandi. I camion frenarono e si misero di traverso, mentre i soldati continuavano a sparare. Ma l'aereo in pochi istanti divenne irraggiungibile. Bock e Carla Jeogeres Núñez erano salvi. 53 Denver, 2007 Phil Damiano si era espresso in una delle sue famose sfuriate, nel corso della quale quasi tutti coloro che sedevano ai vertici della CIA avevano ricevuto una sonora lavata di testa. «Anche se la nostra rete in Iran risulta compromessa», aveva ringhiato, «abbiamo altri mezzi per tenere sotto controllo quel figlio di puttana di Pashelvi e le sue sporche manovre: satelliti, intercettazioni, comunicazioni con i nostri alleati. Qualsiasi comportamento sospetto registrato in territorio iraniano deve, ripeto, deve, essere sottoposto alla mia personale attenzione.» Così aveva ordinato e in quel senso il suo staff si era mosso. Adesso Damiano e il generale Edward Corrige stavano guardando gli ingrandimenti delle foto satellitari. In esse si vedeva il porto petrolifero di Kharg Island nel golfo Arabico dove erano in atto le manovre delle navi intente a caricare il greggio. «Allora, generale, cerchiamo di procedere con ordine. Le quattro navi che da alcuni giorni stazionano dinanzi al terminal petrolifero di Kharg Island sono VLCC, vale a dire Very Large Crude Carrier, le più grandi petroliere che incrociano nel golfo. Ciascuna di loro è capace di stivare almeno trecentomila tonnellate di greggio. Le navi, costruite in Cina, appartengono alla NITC (National Iranian Tankers Company), una società di
Stato considerata la sorella minore della National Iranian Oil Company, la vera potenza economica del Paese. E a ragione, dal momento che gli introiti dell'Iran provengono quasi esclusivamente dall'esportazione di greggio. All'improvviso, dopo giorni di inconsueta attesa, le navi sono state ormeggiate ed è iniziato lo stivaggio. I nostri uffici si sono allertati per verificare chi fosse il destinatario di un così consistente quantitativo di greggio. Ebbene, si è scoperto che l'intestatario di quel contratto miliardario non era un operatore tradizionale del campo petrolifero, bensì un'anonima società, recentemente costituita, avente sede alle isole Cayman: una delle tante scatole vuote in cui vengono riversati i denari derivanti da ogni genere di operazione che non sia proprio... limpida.» «Quanto può valere il greggio contenuto in ciascuna di quelle VLCC?» «Tenuto conto che su ogni nave vengono caricate più o meno trecentomila tonnellate di greggio, e fatte le debite conversioni da tonnellate in barili, ognuna di quelle VLCC dovrebbe avere a bordo merce per oltre centoventi milioni di dollari. Con l'anonima e neonata Magic Stone Oil di Grand Cayman gli iraniani stanno concludendo un affare di poco inferiore al mezzo miliardo di dollari americani. Il tutto senza che, come abbiamo appurato, venga richiesta alcuna garanzia bancaria alla società ombra.» Linguadoca, 2007 Sara aveva accettato di trascorrere il periodo della convalescenza presso gli Habar a Denver a un patto: prima di partire Oswald avrebbe dovuto condurla a ispezionare quanto era stato scoperto all'interno della Grotte des Chevaliers. Una volta che la polizia scientifica aveva abbandonato il campo, dopo aver svolto le sue indagini in seguito al triplice omicidio, erano entrati in gioco gli archeologi che avrebbero cercato di far luce su un mistero antico più di ottocento anni. E su un altro che certamente risaliva alla preistoria. Ora il laghetto insieme all'intera galleria erano stati prosciugati e, con l'ausilio di un buon paio di stivali, si poteva accedere alla parte di caverna appena scoperta. «Carla Jeogeres Núñez, l'anziana signora che mi ha avvicinato in ospedale, ai tempi era l'agente francese incaricato di interrogare Otto Rahn», stava dicendo Oswald a Sara. «Durante la nostra conversazione mi ha giurato di non aver mai rivelato a nessuno prima che a me il significato delle pitture rupestri e il mistero dei passaggi sotterranei utili a raggiungere il
segreto. Queste informazioni le furono date da Rahn poco prima di morire. Sotto l'effetto della droga, lui le confessò che, per verificare le sue supposizioni sui corsi d'acqua sotterranei, aveva fatto evadere dal lager di Dachau un ingegnere molto esperto in materia. Il laghetto non è di origine preistorica e certo non è naturale. E quindi l'allagamento della galleria che conduceva alla caverna dei graffiti è stato frutto dell'opera dell'uomo. Chi ha costruito la barriera di pietra per murare vive quelle povere anime ha anche provveduto ad allagare ogni cosa per impedire eventuali fughe e cancellare le tracce del suo passaggio.» Percorsa la prima galleria, quella che il muro di pietra aveva tenuto celata per secoli, arrivarono nella grande caverna. Lì Oswald indicò a Sara gli scheletri disposti un po' ovunque a terra. Sara si fermò in silenzio dinanzi a uno in particolare: quello al cui fianco Oswald le aveva detto di aver rinvenuto l'antica spada di fattura persiana. Quindi i due si infilarono nel cunicolo e raggiunsero il Tempio Segreto. «Non ci è dato modo di conoscere», disse Breil con aria preoccupata, «la quantità di plutonio che ha trovato posto per millenni all'interno del contenitore schermato. Ma il fatto è che quel micidiale elemento si trova ora nelle mani di qualcuno che non ha avuto scrupoli nell'attentare alla tua vita e che ha ucciso gli agenti di guardia per entrarne in possesso. E questo è niente in confronto a quello che potrebbe fare con quell'arma.» Yves Tamberly li raggiunse. «Ho saputo che state per lasciarci», disse loro il funzionario del governo francese. «Signora, ho appena parlato con il nostro primo ministro, il quale mi ha pregato di farle dono di questo.» Così dicendo il prefetto dell'Ariège le porse un involto di carta antiurto. Sara non poteva aspettare; lo scartò trepidante e, alla luce delle fotoelettriche, l'antico disco dei sacerdoti di Hosh lanciò in ogni direzione i suoi lampi dorati. «Io la ringrazio, Sara. Sono convinto che quello che ha scoperto ci consentirà di far luce su una delle pagine più oscure della nostra Storia. Quanto a te, Oswald, voglio dirti che è stato entusiasmante lavorare al tuo fianco. So che non c'è tempo da perdere e che il mantenimento della pace nel mondo è nelle tue mani, ma sono certo che, ancora una volta, non ci deluderai. Grazie, Oswald Breil.» «Se continui così, va a finire che mi commuovo, Yves. Non so se con il tuo attestato di stima ti sei voluto tirare fuori dall'intera vicenda o se hai solo cercato di ricordare a tutti noi che non è ancora finita. Ma è così: non è ancora finita.» Gli occhi neri di Breil rifletterono l'oro dell'antico disco di
Hosh che Sara teneva in mano. «Sono contenta che quelli del governo americano ti abbiano messo a disposizione un jet privato», disse Sara una volta seduta sui lussuosi divani dell'Executive. «Ho ancora qualche amico tra le alte sfere e ho pensato che la mia amica convalescente preferisse viaggiare tranquillamente...» rispose Oswald, evasivo. In realtà Phil Damiano era nei guai e, pur di avere Breil al suo fianco, avrebbe accondisceso a qualsiasi richiesta del piccolo uomo. Oswald rimase per qualche tempo a osservare i lineamenti perfetti di Sara, abbandonata nel sonno. Quindi accese il computer, sperando che il buon Bernstein gli avesse inviato nuove notizie circa le sue indagini. Bernstein, per una volta, non era in linea, ma gli aveva già mandato un messaggio. Ciò che Oswald vi lesse lo lasciò di sasso. <SHALOM, MAGGIORE. LE ALLEGO ALCUNE CURIOSITÀ IN MERITO ALLA SOCIETÀ SULLA QUALE MI HA CHIESTO DI INDAGARE. LA MAGIC STONE (NELLO SCEGLIERE IL NOME NON MI PARE SI SIANO SBIZZARRITI CON LA FANTASIA) È STATA COSTITUITA LO SCORSO 28 MAGGIO 2007 A GRAND CAYMAN, PRESSO LO STUDIO DELL'AVVOCATO BORADOR, DOVE LA STESSA MAGIC STONE HA SEDE ASSIEME A UN ALTRO MIGLIAIO DI SOCIETÀ DI COMODO. PER COSTITUIRE COMPAGNIE SIMILI A QUESTA, LA LEGISLAZIONE DELLE ISOLE CAYMAN RICHIEDE LA PRESENZA DI UN FIDUCIARIO, DI SOLITO UN AVVOCATO, OLTRE AL VERSAMENTO DI UN CAPITALE IRRISORIO. L'AVVOCATO BORADOR, GUARDA CASO, RISULTA ANCHE IL FIDUCIARIO DI ALMENO OTTO SOCIETÀ OFFSHORE RICONDUCIBILI A VAN DER DUICK. UNA SEMPLICE CASUALITÀ, SI POTREBBE PENSARE. E NON LE NEGO CHE ANCH'IO HO AVUTO QUESTA SENSAZIONE. MA «QUALCUNO» MI HA INSEGNATO CHE BISOGNA SEMPRE DIFFIDARE DELLE COINCIDENZE E ALLORA SONO ANDATO A SPULCIARE ON LINE I CONTI CORRENTI DELL'AVVOCATO. IL BONIFICO A SALDO DELLA PARCELLA PER LA COSTITUZIONE DELLA MAGIC STONE È STATO PRELEVATO DAI FONDI DI UNA DELLE SOCIETÀ DI COMODO DI VAN DER DUICK.> «Sempre più interessante il nostro magnate paraguaiano. Credo proprio
sia il caso che lo incontri entro breve tempo», commentò tra sé Oswald, richiudendo il computer. Quindi si sistemò sul sedile, pronto a imitare la sua compagna di viaggio che dormiva profondamente. Golfo Persico, 2007 La VLCC Zohereh, la più nuova tra le quattro navi gemelle che costituivano il fiore all'occhiello della flotta iraniana, era lunga trecentotrentatré metri e larga cinquantotto. Il suo potente motore Silzer a sette cilindri era in grado di erogare una potenza di ventisettemila cavalli già a un basso numero di giri. I membri dell'equipaggio erano stati sostituiti con uomini appartenenti ai corpi speciali di Pashelvi: la missione nella quale era coinvolta la gigantesca petroliera era della massima segretezza e la presenza a bordo del braccio destro del presidente iraniano, il bieco Nard Sourush, ne era la prova. In una delle stive per le merci era stato collocato un parallelepipedo delle dimensioni di alcuni container. Al suo interno avrebbe operato uno staff di scienziati esperti nella fabbricazione di ordigni nucleari: quando la nave fosse tornata dal suo viaggio, Pashelvi sarebbe stato il padrone dei destini dell'intero scacchiere mediorientale. La Zohereh si era infine staccata dalla banchina di carico nell'isola di Kharg. Trasportava trecentomila tonnellate di greggio per conto della Magic Stone di Grand Cayman. Da alcune ore stava navigando in direzione di Hormuz, quando il comandante pose la prora al vento e ridusse la velocità di crociera. L'elicottero atterrò sul ponte pochi istanti più tardi. Dal velivolo scesero due individui scortati da altrettanti uomini. Uno di loro era Fadah, il mercante d'armi giordano che aveva fatto da tramite e da garante dello scambio. L'altro era condotto quasi a forza da una delle guardie. Aveva l'aspetto di un bancario o di un funzionario statale. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quell'anonimo personaggio fosse il depositario di importanti segreti e rappresentante di uno Stato in grado di determinare gli equilibri di forza del mondo islamico e occidentale. Verso Denver, 2007 Oswald aveva lasciato attiva la connessione in attesa che Bernstein si mettesse in contatto con lui. Non era mai successo che il capitano stesse tanto a lungo lontano da un computer collegato in rete. Breil gli mandò un
messaggio scherzoso, ma incominciava a essere preoccupato: il suo prezioso collaboratore mancava all'appello ormai da oltre ventiquattro ore. Uri Tzvi era diventato capo del Mossad da qualche anno, ma non era ancora riuscito a vincere il senso di frustrazione. Il suo peggiore incubo non era costituito dai molti che volevano cancellare Israele dalla faccia della terra, bensì dalla serie di successi raccolti dal suo predecessore. In ogni angolo, incartamento, atteggiamento di un subalterno aleggiava il fantasma di Oswald Breil. Per questo Tzvi era animato da un senso di rivalità nei confronti di Breil, non scevra da uno spiccato sentimento di antipatia. Fare quella telefonata gli costò non poca fatica. Il telefono collocato nel bracciolo della poltrona del jet squillò. Quando Oswald rispose, rimase per un attimo perplesso. Chi poteva cercarlo dalla sede del Mossad a Tel Aviv? Poi si disse che quasi certamente doveva trattarsi di Bernstein che aveva avuto problemi con il computer. Ma quando il centralino lo mise in contatto con il suo interlocutore, il piccolo uomo capì che i problemi che aveva incontrato Bernstein erano di tutt'altra natura. «Sono Uri Tzvi. È lei, dottor Breil?» disse il capo del Mossad. «Sono io, Uri. Che succede?» rispose Breil, sapendo bene che il suo successore difficilmente lo avrebbe chiamato per scambiare convenevoli. «Hanno rapito Bernstein.» Quelle poche parole ebbero l'effetto di una doccia fredda per Oswald. «Com'è successo?» «Ieri sera è uscito dall'ufficio. È salito in auto ed è scomparso nel nulla. La macchina è stata ritrovata stamattina a cinquanta chilometri da casa sua. Nessuna traccia rinvenuta a bordo. Niente che ci possa condurre a una pista.» «Avete sospetti?» «Nessuno, Oswald. Per questo mi sono rivolto a lei: so che lei e Bernstein siete sempre rimasti in... stretto contatto.» Sara si svegliò proprio mentre Breil chiudeva la conversazione con il capo del Mossad. «Brutte notizie, Oswald?» chiese Sara di fronte all'espressione cupa del suo amico. «Hanno rapito Bernstein», disse Oswald, mentre digitava un numero sul cellulare. Doveva parlare al più presto con chi sospettava avesse sin troppo a che vedere con il rapimento.
La voce di van der Duick era fredda come la lama di un pugnale. «Devo essere sincero: stavo aspettando la sua chiamata, dottor Breil», esordì van der Duick. «Quindi conoscerà anche il motivo della mia telefonata, signor van der Duick», rispose Breil senza preamboli. «Non arrivo a tanto. Mi dica, Breil. Sono tutto orecchie.» «Sembra che ultimamente alcune tra le persone a me più vicine siano state colpite da una sorta di maledizione. Non le pare?» «Ne è convinto? Del resto bisogna sempre stare in guardia quando si imboccano strade pericolose. Non trova, signor Breil?» Quel balletto di frasi a metà e di doppi sensi non avrebbe condotto a nulla, pensò Oswald. «Credo che lei e io dovremmo incontrarci per giungere a un accordo che metta la parola fine a tutta la vicenda.» «Certo, dottor Breil. A sua disposizione. Ma badi bene che ogni sua affermazione sia sempre sostenuta da prove concrete. Le parole sono leggere e si disperdono nell'aria.» La capacità di van der Duick di lasciare cadere come per caso le più subdole minacce era simile a quella dei personaggi di spicco di Cosa Nostra. Il viaggio stava ormai volgendo al termine, quando il telefono suonò ancora una volta. La voce di Lilith Habar era quasi irriconoscibile, rotta dal pianto e dai singhiozzi. «Oswald, sono io», disse Mame-loshen. «Hanno sparato. Dalla strada verso la nostra veranda. Habar stava leggendo il suo giornale. Il mio Ezer non faceva male a nessuno e me lo hanno ammazzato. Lo hanno colpito alla testa con un fucile di precisione. Torna a casa, Oswald. Torna a casa subito. Ti prego.» EPILOGO Non è la fine. Non è neanche il principio della fine. Ma è, forse, la fine del principio. Winston Churchill
54 Linguadoca, 1170 I migos e i loro saggi capi vennero cancellati dall'incedere degli eventi e altri popoli si insediarono in quelle regioni. L'ultimo dei re e dei sacerdoti del dio Hosh cadde mentre cercava di fuggire dal nemico tra i ghiacci perenni. Al collo portava ancora la perla di marmo che Dehal aveva scolpito per Athor. Il suo corpo mummificato venne rinvenuto dai coniugi Simon, mentre effettuavano un'escursione tra le nevi del Similaun nel 1991... ma questa è un'altra storia. I nomi e le leggende, come sempre accade, sopravvissero invece ai loro protagonisti e giunsero fino all'epoca medievale quando, in terra d'Occitania, andava affermandosi l'eresia catara. Tutti in Linguadoca conoscevano quindi la storia del pog e della pietra che uccide, ma nessuno avrebbe saputo indicarne il nascondiglio. Un ragazzino amava nascondersi e giocare nelle grotte della valle dell'Ariège. Si chiamava Beaufort, ed era figlio del signore del luogo. Un giorno stava percorrendo, assieme a un compagno di giochi, un angusto cunicolo e si ritrovò all'interno dell'antico Tempio Segreto dedicato al dio Hosh. Beaufort tentò invano di far desistere il compagno dall'aprire il pesante coperchio, ma questi non volle sentire ragioni. Mentre Beaufort abbandonava la caverna, l'altro alzava il coperchio in metallo. «Come vedi non mi è successo nulla», aveva detto all'amico dopo averlo
raggiunto all'esterno e ostentando aria di superiorità. «La tua leggenda è solo una bugia per gente paurosa.» Ma subito dopo il ragazzo aveva incominciato a stare male ed era morto in una manciata di minuti. Da allora, Beaufort di Daigne era rientrato nella grotta un'unica volta, da solo, per riporre al suo posto il pesante amuleto d'oro a forma di disco che aveva trovato durante la prima spedizione. Quindi si era allontanato, giurando a se stesso di conservare quel terribile segreto e di tramandarlo solo ai suoi eredi in linea diretta. Il Male, annidato in quella caverna, era troppo potente, e se fosse caduto in mani sbagliate il potere della Pietra sarebbe sfuggito al controllo dell'uomo. 55 Linguadoca, marzo 1244 Dall'alto della rocca avevano calato la fune ed erano rimasti ad aspettare che Aymon la fissasse alla base per poi metterla in tensione. Ma la corda era rimasta a penzolare nel vuoto: doveva essere capitato qualcosa di grave. Venne mandato in perlustrazione un faidits che fece ritorno dichiarando che a valle non v'era traccia né di Aymon né di nessuno del folto gruppo che era stato calato dalla rocca la notte precedente. Gli assediati erano quindi stati costretti a sospendere le operazioni di evacuazione e al mattino la rocca era stata oggetto di un pesante attacco. Pietro Ruggero di Mirepoix si consultò con il vescovo cataro Bertrando Marty, quindi domandò di poter parlamentare con il siniscalco del re Ugo d'Arcis. Era il 2 marzo del 1244. Pietro e il drappello che lo accompagnava vennero fatti sfilare tra due ali di soldati. Il comandante di Montségur avanzava con la testa alta e lo sguardo fiero, ricevendo dagli avversari l'onore delle armi. Il manipolo di guerrieri ai suoi ordini aveva tenuto testa a un esercito numeroso, addestrato e agguerrito. A dispetto dell'inevitabile sconfitta, il nome di Montségur sarebbe rimasto nella Storia a simboleggiare il valore delle idee e del credo di fronte al po-
tere della forza e della tirannide. «Vi chiedo un tregua di quindici giorni, prima di consegnare Montségur e i suoi abitanti alla Chiesa e al re», disse Pietro Ruggero che non aveva abbandonato la speranza di mettere in salvo i suoi attraverso la via di fuga aperta da Aymon. «E sia. Vi sarà dato quanto chiedete. Allo scadere del quindicesimo giorno, ai militari saranno rese le armi: ho una dispensa del papa e del re che vi concederà ampia amnistia per tutti i vostri reati, inclusi i fatti di Avignonet. Sarete liberi dietro il pagamento di un riscatto. I Perfetti e le Perfette catare e tutti i seguaci del catarismo dovranno consegnarsi ai rappresentanti della Chiesa, i quali intimeranno loro di abiurare. Coloro che si rifiuteranno saranno arsi sul rogo.» Naturalmente l'emissario del re di Francia non fece parola dei fuggiaschi che lui stesso aveva ordinato di murare vivi all'interno della Grotte des Chevaliers. «Eccellenza!...» provò a controbattere Pietro Ruggero. «Non siete nello stato di poter dettare condizioni, messere», lo interruppe con tono fermo il siniscalco. «Così è. E dovreste essermi grato del fatto che risparmierò la vita a voi e ai vostri uomini.» Pietro tornò alla fortezza e riferì l'esito dell'incontro ai suoi fedeli. Decisero che quella notte avrebbero tentato il tutto per tutto. Ancora una volta la fune venne calata nel baratro, benché non ci fosse nessuno ad assicurarla a valle. I primi a toccare terra avrebbero provveduto a fissarla. I faidits sporsero la cesta, mentre i primi tre militari vi prendevano posto. Ma circa a metà della discesa un bagliore illuminò la notte. Gli uomini del siniscalco avevano impregnato la fune con dell'olio lampante e le avevano dato fuoco: ora le fiamme stavano risalendo verso l'alto. Quando raggiunsero la navicella, la trasformarono in un rogo. Per i tre fuggiaschi non vi fu nulla da fare. Le loro urla disperate si spensero nel buio della notte. «Meglio morire con onore che per inedia e murati vivi in questa caverna», aveva detto Aymon prendendo una barra con la quale sperava di riuscire a rimuovere le pietre del muro. Una volta apertosi un varco, avrebbe prelevato la Pietra dal nascondiglio e si sarebbe gettato tra le truppe nemiche: se davvero fosse stata in grado di annientare interi eserciti, avrebbe provocato anche la morte sua e di tutti
gli occupanti della grotta, ma ne sarebbe valsa la pena. Solo così si sarebbero potute capovolgere le sorti di una guerra dall'esito ormai segnato. Il siniscalco del re guardava soddisfatto la chiusa che i suoi uomini avevano appena realizzato in corrispondenza dello sbocco di un rivo carsico. «Serrate!» ordinò il siniscalco. Qualche istante più tardi le pesanti paratie di legno e ferro venivano calate lungo delle guide, in modo da fermare il flusso delle acque. Aymon, solo in fondo al cunicolo, aveva appena iniziato a battere con il ferro contro i pesanti blocchi, quando ciò che vide lo paralizzò. Dalle fenditure e dagli interstizi tra le pietre del muro l'acqua aveva preso a zampillare. Tornato nella caverna, chiamò tutti a raccolta e li mise al corrente di ciò che stava accadendo. Le sue parole caddero in un silenzio disperato e insieme rassegnato. «Ho conservato questo sperando di non averne mai necessità», gli disse Marie-Louise una volta che furono soli, porgendogli un sacchetto di pelle ripieno di una polvere scura e priva di odore. «Avevo giurato che ne avrei fatto uso qualora tu non fossi stato liberato quella notte ad Avignonet. Credo ce ne sia a sufficienza per tutti.» Alla rocca, perduta ormai anche l'ultima speranza di fuggire, molti valorosi soldati decisero di abbracciare la fede catara e chiesero di poter ricevere il Consolamentum. Volevano condividere la sorte dei compagni d'assedio sino all'ultimo, anche a costo della loro libertà. Come fosse un rito estremo e purificatore, le ampolle contenenti il veleno passarono di bocca in bocca. Nessuno, sebbene Aymon avesse lasciato a ciascuno la libertà di scegliere, si rifiutò di bere. Si addormentarono uno di fianco all'altro, uniti, anche nella morte, dalla loro fede e da un'eroica dignità. Il 16 marzo del 1244, il siniscalco del re Ugo d'Arcis prese possesso della fortezza. I Perfetti e le Perfette catare vennero separati dagli altri e riuniti dinanzi all'arcivescovo Pietro Amiel. «In nome di Dio grande e misericordioso», disse il vescovo con voce tonante, «intimo a tutti voi di abiurare la vostra miscredente religione per abbracciare il credo del nostro papa. Altrimenti tutti gli eretici subiranno la
pena del rogo purificatore.» Il silenzio fu l'unica risposta che si udì tra le mura di Montségur. Nessuno accolse la proposta di Amiel. Una lunga fila di prigionieri catari si incamminò lungo lo stretto sentiero che scendeva da Montségur. In un ampio spiazzo, ai piedi della rocca, gli uomini del siniscalco avevano eretto una gigantesca pira. A uno a uno, duecentoventiquattro «buoni cristiani» arsero tra le fiamme purificatrici dell'Inquisizione. In nome di un Dio unico, grande, misericordioso e buono. 56 Europa, primavera 1945 I nazisti avevano sperimentato una sola volta la potenza di un ordigno nucleare. Era avvenuto nel settembre 1944 nell'isola di Rugen, a poca distanza dal centro missilistico di Peenemünde. Da Peenemünde venivano lanciate le terribili bombe a razzo denominate con la sigla V-1 e V-2. Presto, secondo la rete spionistica alleata, i tedeschi sarebbero riusciti a colpire con queste anche il territorio americano. Un anno prima dell'esperimento, nell'agosto 1943, la base sul Baltico era stata oggetto di uno dei più massicci bombardamenti dell'intero periodo bellico: seicento bombardieri alleati avevano distrutto quasi completamente la base nazista. Ma, nonostante ciò, gli scienziati della base, guidati dal giovanissimo Wernher von Braun, avevano continuato a operare nei bunker sotterranei, da dove le bombe volanti erano pronte a essere utilizzate attraverso una complessa rete di rampe. A Peenemünde ci si illudeva ancora di poter vincere la guerra. Del resto anche i gerarchi nazisti stavano facendo di tutto per non dare l'impressione che il Reich fosse prossimo alla disfatta. E ostentavano una sicurezza assai lungi dall'essere ben riposta. «Raderemo al suolo New York, Boston o Philadelphia», andava proclamando da qualche tempo Himmler. «Così anche gli americani conosceranno l'orrore della guerra. E capiranno che cosa significa assistere alla distruzione della propria casa.» In preda a una delirante euforia e intenti a suffragare tale propaganda, i tedeschi vicini al Führer parevano sordi alle cannonate nemiche sempre più vicine a Berlino e inneggiavano alla prossima e definitiva vittoria del
Reich. Secondo le cronache, Heinrich Luitpold Himmler si congedò dal Führer il 20 aprile. Da quel momento in poi il Reichsführer SS si rese protagonista di una serie di iniziative personali che indussero Hitler a macchiare la memoria del suo pupillo con l'infamante accusa di tradimento. Quella fredda mattina del 30 aprile 1945 Adolf Hitler uscì dal suo rifugio sotterraneo situato nei pressi di Potsdamer Platz a Berlino. Le artiglierie russe continuavano a colpire senza tregua i quartieri della capitale del Reich. Hitler osservò per un istante le rovine fumanti intorno a lui. Ormai era inutile farsi illusioni: tutto era perduto. Il Führer allora si chiuse nello studio assieme a Eva Braun, diventata sua moglie da poche ore. Dopo aver ingerito entrambi il cianuro contenuto nelle capsule Zyankali, si fecero saltare le cervella. Schaub, l'attendente di Hitler, Bormann e pochi altri fedeli avvolsero i corpi in coperte militari, li portarono in un cortile interno, li cosparsero di benzina e appiccarono loro il fuoco. I resti carbonizzati dei due vennero quindi seppelliti. I soli testimoni dell'inumazione furono Martin Bormann, il capo della GESTAPO Müller, il segretario di Stato Naumann, l'autista Kempka, il fotografo Hoffmann e il medico personale di Hitler Stumpfegger. Quindi il piccolo gruppo cercò di mettersi in salvo, mentre i russi erano ormai a pochi metri dal bunker. Secondo i rapporti, durante la fuga i sei trovarono riparo dietro una colonna di carri armati impegnati in un'inutile e strenua difesa. Uno di questi venne colpito e saltò in aria. Quando Kempka rinvenne, si accorse di essere il solo sopravvissuto. Il 22 maggio 1945 il Reich non esisteva più. Una lunga fila di ex appartenenti alla Wehrmacht, ormai sbandati, disarmati e malnutriti stava marciando verso la Baviera. Il militare inglese teneva il fucile Garand appoggiato sul fianco e si domandava come avesse potuto quella massa di derelitti arrivare a un passo dal conquistare il mondo. Dalla sua postazione nei pressi di Bremervörde, nel Nord della Germania, lungo il percorso di quella mesta ritirata, osservava quei soldati sconfitti e annientati. Alcune divise pulite e ben stirate attirarono l'attenzione del militare di guardia.
«Voi, venite qui. Fatemi vedere i vostri documenti», ordinò. Uno dei prigionieri, un sergente maggiore, portava una vistosa benda sull'occhio. Disse di chiamarsi Heinrich Hitzinger e lo stesso nome era scritto sui documenti. La sentinella stava quasi per lasciarlo andare, quando, colto da un eccesso di zelo, sollevò la benda: fu così che si rese conto che l'occhio del sergente Hitzinger era perfettamente sano. Il sottufficiale nazista e i suoi compagni vennero tradotti nel campo di prigionia 031, nei pressi di Bramstedt. Qui Hitzinger chiese di poter parlare con il comandante del campo, il capitano Sylvester, al quale confessò di essere in realtà Heinrich Himmler. Il giorno seguente, il 23 maggio, il sedicente Himmler venne perquisito e trovato in possesso di alcune capsule di cianuro. Ma, mentre il medico del campo concludeva una seconda e più approfondita perquisizione, Himmler riuscì a mettersi in bocca una capsula sfuggita chissà come ai controlli. A nulla valsero i tentativi di rianimarlo: l'uomo morì nel volgere di pochi istanti. Il corpo del Reichsführer venne tumulato in una località segreta all'interno del bosco del Lüneburg. Le esecuzioni dei gerarchi nazisti, condannati a morte durante il processo di Norimberga, iniziarono alle ore 1.11 del 16 ottobre 1946. Il primo a salire sul patibolo fu Ribbentrop, seguito da Keitel, Kaltenbrunner, Rosenberg, Frank, Frick, Streicher, Seyss-Inquart, Sauckel e Jodl. Hermann Göring sfuggì al boia ingerendo anch'egli una capsula di cianuro che qualcuno gli aveva fatto pervenire nella sua cella di massima sorveglianza. Ma l'impressione generale fu che la gabbia fosse rimasta aperta per troppo tempo e che nella trappola fossero caduti soltanto le mezze figure. In effetti molti tra i protagonisti di una tra le più grandi follie della Storia non figurarono neppure tra gli imputati al processo. Quanto a Rudolf Hess, dopo aver recitato la parte del demente per la durata dell'intero processo, si era alzato in piedi e aveva chiesto di parlare. Lo fece a lungo, quindi concluse dicendo: «Ho avuto la fortuna di vivere per molti anni a fianco di uno degli uomini più grandi che il mio popolo abbia mai avuto nel corso della sua storia millenaria. Sono felice e orgoglioso di aver fatto il mio dovere come tedesco, come nazista, come fedele al Führer. Non rimpiango niente. Se doves-
si tornare indietro, agirei nello stesso modo: anche sapendo che alla fine della mia vita mi aspetta il rogo. Poco mi importa di ciò che possono farmi gli uomini. Comparirò davanti all'Onnipotente. È a lui che debbo rendere conto, e so che mi assolverà». Rudolf Hess fu condannato all'ergastolo, da scontarsi nel carcere di Spandau. Lì, durante i primi ventotto anni di prigionia, si rifiutò di ricevere le visite sia della moglie che del figlio. Sembrava - dissero alcuni testimoni - che aspettasse davvero il Messia o qualche miracolo che intervenisse a liberarlo dal suo destino. Nelle rare occasioni in cui qualcuno andò a trovarlo nel parlatorio del carcere, gli venne imposto di non fare alcun riferimento a eventi o situazioni che fossero avvenuti nell'arco temporale tra il 1933 e il 1945, o relative al suo viaggio in Inghilterra. Con il passare del tempo Rudolf Hess divenne il solo detenuto in un carcere capace di contenerne un migliaio. La notte tra il 17 e il 18 agosto 1987 fu rinvenuto cadavere da uno degli addetti alla sorveglianza. Nei drammatici giorni dell'aprile 1945 il sottomarino classe U-boot contraddistinto dalla sigla U-234 era partito da un porto finlandese ufficialmente diretto in Giappone. Era il 16 aprile 1945. Il marinaio tedesco era rimasto a osservare i camion dai quali venivano scaricati i fusti contraddistinti da una scritta ben visibile. «Chissà se un giorno quelli della logistica impareranno a scrivere almeno il nostro nome», si disse. Sui fusti era stampigliata la dicitura U-235. Il marinaio non sapeva nemmeno che cosa fosse l'isotopo U-235 dell'uranio. Per lui si trattava di un semplice errore nel riportare la sigla del sottomarino nazista. Il comandante Johann Heinrich Fehler aveva ricevuto in consegna l'unità nel marzo 1944. Il suo sommergibile, da allora, era stato impegnato nelle più disparate missioni, ma mai in quella di posamine per cui il sommergibile U-234 era stato costruito. Il contrordine che Fehler ricevette, mentre si accingeva a salpare dalle coste della Finlandia, non lo stupì più di tanto. Avrebbe dovuto rimanere alla fonda in una zona di mare al largo del porto di Amburgo in attesa di ordini. Il viaggio era stato lungo e faticoso. Il piccolo velivolo aveva dovuto al-
lungare di molto il percorso per non venire intercettato dai caccia alleati, ormai padroni dei cieli tedeschi. Le turbolenze a bassa quota avevano contribuito a rendere ancor più disagevole il volo da Berlino alla destinazione. Il 1° maggio l'aereo era atterrato in un campo privato nei pressi di Amburgo. Ne erano scesi tre uomini e una donna. Quindi il pilota aveva ridato potenza ai motori e l'aereo era nuovamente decollato. I passeggeri erano saliti sul cassone di un camion militare ed erano stati condotti nei pressi di una spiaggia. Da lì si erano imbarcati su un gommone e avevano raggiunto il sommergibile. Quando il comandante Fehler se li era visti davanti era trasalito: sarebbe stato impossibile sbagliarsi in merito all'identità dei suoi passeggeri. Gli uomini portavano la barba lunga e tenevano alzato il bavero dei loro cappotti da ufficiali della Wermacht. La donna, che non indossava uno dei suoi prediletti abiti di foggia tirolese ma un austero tailleur marrone, aveva un aspetto sfinito. «È un onore avervi a bordo dell'U-234, mein Führer», disse Fehler, alzando la mano destra. «Riposo, comandante, riposo», disse Hitler con aria assente. «Voi e il vostro equipaggio siete stati scelti per portare a termine una missione di enorme segretezza, comandante», disse uno dei quattro. «Ciò che ora vi accingerete a fare non dovrà mai essere rivelato a nessuno, nemmeno al più stretto dei vostri familiari, nemmeno dinanzi allo spettro della tortura o al miraggio dell'impunità.» Anche il volto di colui che aveva parlato era ben noto. «Sono pronto, Herr Bormann», rispose il comandante dell'U-234, «a prestare a voi, al Reichsführer Himmler, alla signora Eva Braun e, soprattutto, a sua eccellenza il Führer ogni assistenza che riterrete necessaria. E a mantenere il segreto per sempre. Il mio equipaggio e io siamo ai vostri ordini.» «Vi correggo, alla signora Eva Hitler, comandante», precisò Bormann. Poche ore più tardi il sommergibile stava navigando in immersione alla volta della costa statunitense. Negli spazi angusti dell'U-234 i tre nazisti, che il mondo intero sapeva morti, abituati ai fasti architettonici del Terzo Reich, si muovevano con goffa difficoltà. Insieme alla donna, si riunirono nella saletta da carteggio. Fu Bormann a parlare per primo:
«Ho concordato con gli americani uno scambio: l'intero carico dell'Uboot 234 in cambio della libertà dei vostri passeggeri. Nessuno è a conoscenza della vostra identità, mein Führer, né di quella del Reichsführer Himmler. I nemici sanno soltanto di me e hanno accettato di lasciarmi sbarcare indisturbato quando gli consegneremo l'uranio e le nostre più avanzate invenzioni tecnologiche». «Gli americani», disse il Führer, «vogliono concludere la guerra con un atto definitivo. A loro serve l'uranio, non altri prigionieri. Con quello che noi gli procureremo potranno costruire ben più di una bomba e le faranno cadere sulle teste dei giapponesi. Sarà la loro prova di forza, il loro modo di dimostrare ai russi che non avrebbero vita facile se cercassero di farla da padroni quando, tra vincitori, firmeranno i loro accordi alla fine del conflitto. Accordi nei quali noi non entreremo, signori. È terribile pensare che il Terzo Reich verrà spartito come i quarti di un bue al mercato.» Il Führer era ridotto all'ombra dell'uomo che era stato. «Noi risorgeremo, mein Führer», disse Himmler che sino ad allora era rimasto in silenzio. «Abbiamo molto denaro, appoggi e potere. Abbiamo pedine fedeli, poste a controllare l'economia e i governi di interi Stati. E presto saremo in grado di entrare in possesso di una quantità di materiale nucleare tale da far sorridere il carico di uranio che trasportiamo in questo momento. L'Amazzone ha aperto la strada alla nostra ritirata. Ma sottolineo che si è trattato solamente di una ritirata strategica: entro breve saremo pronti a far rinascere il Quarto Reich.» Casco Bay, 1945 L'U-234 si consegnò alle forze statunitensi il 14 maggio 1945 e venne condotto sotto scorta fino al porto di Casco Bay nel Maine. Erano trascorse due settimane dalla sua partenza da Amburgo. Ma nel momento in cui il comandante Fehler si consegnava alle forze alleate, la sua unità si trovava in acque americane da alcuni giorni. Il carico del sommergibile venne sbarcato. Oltre a due aviogetti a reazione Me 262 smontati e imballati e altri armamenti sperimentali, vennero portati a terra 560 chilogrammi di ossido d'uranio U-235 trasportato in fusti. Buona parte di quel materiale fissile era destinato alla realizzazione delle bombe atomiche, esplose a Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945, che sancirono la fine della seconda guerra mondiale.
Nelle convinzioni dei vincitori, il Male avrebbe dovuto essere sconfitto. Per sempre. 57 Denver, 2007 Lilith Habar era seduta dinanzi alla poltrona vuota che il marito aveva occupato per tutta la vita. Una grossa macchia marrone segnava il punto in cui il proiettile era uscito dalla testa dell'uomo. Dopo aver versato fiumi di lacrime silenziose, gli occhi asciutti della donna fissavano il vuoto. Quando Oswald entrò in casa, Mame-loshen si alzò come fosse stata un automa. «Ezer non c'è più», disse con un filo di voce. «Lo hanno portato via poche ore fa. Devono fargli l'autopsia, mi hanno detto. Ezer non c'è più...» Sara le si fece vicino e in silenzio le cinse le spalle, quindi si sedette accanto a lei sul divano. Il detective della polizia di Denver lo stava aspettando da ore, ma sapeva che ne sarebbe valsa la pena. Non era cosa di tutti i giorni poter parlare con il grande Oswald Breil e partecipare a un'indagine che coinvolgeva l'ex primo ministro israeliano nei suoi più cari affetti. «Il colpo è entrato da qui», spiegò a Oswald il detective Sedale, indicando un punto della veranda dove, al posto del vetro, si trovava adesso un foglio di cartone. «Hanno sparato dalla strada da una distanza piuttosto ridotta: una cinquantina di metri al massimo. Con ogni probabilità il killer era appostato in un'auto in sosta ed era munito di una carabina ad alta precisione. Ha dei sospetti, dottor Breil? Chi poteva aver interesse a uccidere il signor Habar?» «Ezer Habar ha sempre condotto un'esistenza tranquilla. E sono certo che non avesse nemici. Da quando è andato in pensione si è dedicato allo studio e alla lettura e trascorreva gran parte del suo tempo su quella poltrona. Se invece, come purtroppo penso, si dovesse trattare di una vendetta trasversale nei miei confronti, non ho che l'imbarazzo della scelta: temo siano molti coloro che vogliono il mio male. Ma ora mi scusi, Sedale. Vorrei stare con mia madre.» In quel momento suonarono alla porta. La vicina di casa degli Habar, che si era presa cura di Lilith fino dagli istanti successivi al dramma, sbucò dalla cucina e andò ad aprire. Quando rientrò nella veranda era in compa-
gnia di un uomo corpulento che indossava una tuta da lavoro di colore chiaro. «Il vetraio», disse la vicina passando davanti a Oswald. Nel volgere di dieci minuti l'operaio aveva sostituito il vetro infranto dal proiettile. «Le lascio la fattura sul tavolo dell'ingresso, dottor Breil. Potrà passare con calma a saldare il suo conto», disse l'uomo andandosene. Oswald lo ringraziò distrattamente. Finalmente avrebbe potuto dedicare qualche minuto a Lilith. «Hai fatto bene, Oswald, a far riparare subito il vetro rotto: Ezer non avrebbe sopportato lo spiffero», gli disse la donna non appena lui le fu vicino. «Non sono stato io a chiamare il vetraio, Mame-loshen.» «Che strano... quel gentile signore mi ha detto che ha cercato di fare prima possibile dopo la tua chiamata, non capisco...» Lilith non aveva ancora finito di parlare che Oswald si era già precipitato nell'ingresso, e aveva aperto la busta che avrebbe dovuto contenere la fattura. Eccomi, dottor Breil. Come vede ho la possibilità di giungere ovunque. Sono molto spiacente per quanto successo al signor Habar, ma anche lei ha la sua parte di responsabilità in questa faccenda: gli affetti sono soggetti, come tutte le cose, a una scala di valori. E io la sua scala la conosco bene. Se lei non darà il giusto peso al mio avvertimento, sarò costretto ad alzare il tiro. Sono certo che lei abbia ormai capito che per me non è stato difficile neppure raggiungere il suo inseparabile amico Bernstein: non c'è foto che la riguarda, mentre riceve decine di riconoscimenti per aver giocato a fare il salvatore del mondo, in cui non sia in compagnia del funzionario del Mossad. E devo dire che il suo mago dei computer ha lasciato dietro di sé una ben visibile scia di bava elettronica, quando indagava sui miei interessi. Mi è stato sufficiente seguire la scia per giungere sino a lui. Sappia che ho consegnato il suo capitano ad alcuni amici che si stanno occupando della sua salute e che non si faranno molti scrupoli a infliggergli una morte atroce alla sua prossima mossa avventata. Naturalmente lei avrà perfettamente capito chi sono, quindi evito di firmarmi. Ma tenga presente che ci vuole ben altro che dei semplici
sospetti per incastrarmi. Le propongo una tregua di trenta giorni. Lei vada a farsi una bella vacanza con la convalescente Sara e non pensi agli equilibri del mondo. In sua assenza sarò io stesso a preoccuparmene. Addio, Breil. Aveva appena terminato di leggere il messaggio, quando Phil Damiano suonò alla porta di casa. Oswald ripiegò la lettera prima di andargli incontro e la mise in tasca: avrebbe avuto modo di parlargliene in seguito, forse. La vita di Bernstein era nelle mani di uno spietato assassino. Doveva muoversi con prudenza. «Mi sono precipitato qui non appena ho saputo, Oswald. Non sa quanto sia dispiaciuto...» «Grazie, Phil. Grazie per essere venuto. Ma, mi dica, come procede il piano?» Il direttore della CIA non scorse neppure l'ombra di una rassegnata disperazione negli occhi di Breil, ma solo un feroce desiderio di vendetta. E ne ebbe quasi paura. «È tutto pronto», rispose Damiano. Teheran, 2007 Da sempre l'università di Teheran fungeva da cartina di tornasole del malcontento della popolazione. I primi tumulti di protesta per i sistemi dittatoriali di Gholam Pashelvi scoppiarono in una tranquilla mattina di primavera e andarono avanti sino a notte. La polizia, peraltro poco convinta di essere dalla parte del giusto, riuscì a sedare la rivolta solamente a notte fonda e al prezzo di due morti e innumerevoli feriti. «Le elezioni!» gridava Pashelvi nel corso della riunione di gabinetto che aveva convocato urgentemente. «Le elezioni! Stiamo per diventare la potenza egemone nello scacchiere mediorientale e quattro studentelli chiedono di esercitare quello che chiamano 'un loro diritto'. Se li possono scordare, i diritti, anzi, dopo i tumulti odierni, da oggi stesso entrerà in vigore la legge marziale. L'esercito presidierà i luoghi pubblici, con particolare riguardo per gli atenei universitari. Nei centri urbani considerati a rischio verrà proclamato il coprifuoco. Non posso permettere che poche decine di facinorosi pregiudichino la realizzazione di un disegno che cambierà il
corso della Storia.» Il camioncino Toyota sembrava uno dei tanti che si aggiravano per le vie di Teheran, con il cassone indifferentemente carico di materiali edili o di operai che venivano trasportati nei cantieri. Breil era seduto accanto al guidatore. Dietro, camuffati da muratori in procinto di raggiungere il posto di lavoro, stavano sei tra le migliori teste di cuoio americane, reclutate dai corpi scelti della CIA. «La crema della crema», gli aveva assicurato Damiano mentre li presentava a Breil. «Nei pochi giorni che abbiamo a disposizione dobbiamo riuscire a raggiungere l'affiatamento perfetto, quasi fossimo tutti parte di un sol corpo. Solo così riusciremo a portare a termine la nostra difficile missione. Io sarò con voi sempre, sin da ora.» Erano trascorsi tre giorni di addestramenti intensi: ognuno sapeva alla perfezione ciò che avrebbe dovuto fare. Quegli uomini erano abituati a non lasciare niente al caso. Sapevano essere freddi e lucidi in ogni circostanza. La struttura che la CIA aveva loro messo a disposizione per esercitarsi ricalcava puntualmente, come un set cinematografico, la scena in cui si sarebbe svolta l'azione. Avevano provato e riprovato ogni mossa decine di volte. La missione non sarebbe stata facile, ma ce l'avrebbero fatta: l'obiettivo era presidiato solo da una squadra di militari di leva. Se tutto si fosse svolto secondo i piani, avrebbero raggiunto lo scopo prima che qualcuno potesse rendersi conto di quanto stava accadendo. Oswald e la sua piccola squadra erano stati trasferiti, a bordo di un Executive della CIA, ad Asgabat, in Turkmenistan. Poi un elicottero, solitamente utilizzato per le prospezioni petrolifere, aveva trasportato gli otto uomini a Gasan-Kuli, un villaggio sulla costa del mar Caspio. Lì si erano imbarcati su un motoscafo di quelli usati dai contrabbandieri locali. Nottetempo avevano raggiunto la costa iraniana nei pressi di Chatus. Teheran distava ormai pochi chilometri. Oceano Indiano, 2007 Quando Bernstein si svegliò si rese conto di trovarsi nell'angusta cabina di una nave. Era sicuro che avessero aggiunto dei sedativi al suo pasto, e se voleva restare lucido l'unica soluzione sarebbe stata il digiuno. Doveva as-
solutamente evitare di cadere nuovamente in quello stato di torpore. I ricordi degli ultimi giorni erano molto confusi, ma ora sapeva di essere a bordo di una petroliera. La porta della cabina non aveva maniglie. Probabilmente i suoi carcerieri l'aprivano dall'esterno servendosi di un sistema elettronico, forse un codice da digitare su una tastiera. Bernstein fece correre lo sguardo lungo la parete e sorrise quando vide il coperchio di una scatola elettrica di derivazione. Le navi VLCC, a causa delle loro dimensioni, non possono quasi mai accedere alle banchine dei porti. Per questo sono costrette a effettuare le operazioni di carico e scarico in stazioni di pompaggio galleggianti chiamate isole, di solito poste a diverse miglia dalla costa. Le manovre di ormeggio si erano concluse e la VLCC iraniana Zohereh era ferma lungo il pontile galleggiante. Da lì, un oleodotto lungo alcuni chilometri avrebbe trasportato le circa trecentomila tonnellate di greggio sino ai capienti serbatoi della Vizag Refinery di Bombay, appartenente alla Hindustan Petroleum Corporation (HPCL). Bernstein si era accorto che la nave aveva rallentato la sua corsa, aveva seguito le fasi della manovra di attracco attraverso le diverse vibrazioni trasmesse dal motore di quell'enorme pachiderma d'acciaio. Infine il capitano del Mossad aveva capito che la nave si era fermata e che, presto, sarebbero iniziate le operazioni di pompaggio. Bernstein, benché rinchiuso nella cabina, aveva seguito tutte le fasi della manovra. Aprì la scatola elettrica utilizzando il cucchiaio che i suoi carcerieri gli avevano lasciato insieme al piatto di zuppa. Non gli fu difficile individuare i due cavi elettrici che, dalla serratura, portavano alla tastiera posta all'esterno della cabina. Li recise entrambi e provocò il contatto. La porta si aprì con un sonoro scatto metallico. Uscì nel corridoio. Adesso poteva solo sperare che la sorveglianza non fosse eccessiva. Il viaggio da Kharg Island era durato dieci giorni. Gli occhi di Nard Sourush scrutavano la zona di mare circostante: non era l'esito delle operazioni di scarico del greggio a provocargli tanta tensione, ma quel piccolo punto all'orizzonte che si faceva sempre più vicino. Quando l'imbarcazione si accostò alla murata della nave, Nard abbandonò la sua postazione e scese, attraverso una scaletta interna, sino al portellone situato poco sopra la linea di galleggiamento. Nard si sporse leggermente e la valigia metallica passò di mano in mano
e da uno scafo all'altro. Dopo che ebbe recuperato il prezzo pattuito per lo scambio, Nard rivolse un cenno di saluto agli occupanti del grosso motoscafo che si allontanò velocemente. Teheran, 2007 «Leggi la firma là sotto, in calce all'ordine di servizio», stava dicendo in farsi Oswald Breil alla sentinella di guardia presso il magazzino di artiglieria. «È un ordine del ministro della Difesa in persona. Noi siamo muratori turcmeni. Ci hanno chiamato qui per un lavoro urgente agli scarichi delle acque nere.» Il militare parve convincersi e premette un bottone che fece alzare la sbarra di metallo. Il camioncino Toyota entrò nel cortile del fabbricato. Si trattava di una vera e propria piazza d'armi lunga quasi trecento metri e larga la metà. Tutto intorno si sviluppava un edificio a due piani che aveva visto tempi migliori. In un angolo si trovavano diversi mezzi corazzati e pezzi di artiglieria che parevano in perfetta efficienza. Nello slargo per l'atterraggio, in fondo al cortile, era posteggiato un elicottero. La luce del sole si rifletté con un bagliore su un oggetto metallico nascosto dietro a una finestra aperta. «Ci stanno aspettando», mormorò tra i denti Breil, quindi si sporse dal finestrino. «Ci stanno aspettando!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola, mentre l'autista premeva sull'acceleratore e i primi colpi d'arma da fuoco fischiavano sopra le loro teste. Il parabrezza fu trapassato da una pallottola che concluse la sua corsa nella fronte dell'autista. L'uomo si accasciò sul volante, schiacciando il piede sull'acceleratore. Oswald ebbe solo il tempo di afferrare il volante e di correggere la corsa del furgone impazzito verso un passaggio carraio invece che contro il muro della costruzione. L'automezzo percorse ancora diversi metri, prima di fermarsi all'interno del fabbricato in una nuvola di polvere. «Noi siamo tutti vivi, come va laggiù, comandante Breil?» «Abbiamo perso l'autista. Non credo che i nostri nemici siano intenzionati a prenderci vivi. Ma noi venderemo cara la pelle. Siete pronti a farlo?» Sentirsi chiamare «comandante» dai suoi uomini aveva risvegliato in Oswald Breil il ricordo di tempi passati. E con essi la determinazione a
non arrendersi. Il loro piano era stato scoperto, ma il piccolo uomo aveva ancora qualche asso nella manica. «Perché hanno smesso di sparare?» chiese Oswald preoccupato dall'improvviso silenzio. Gli fu sufficiente guardarsi attorno per avere la risposta alla sua domanda: il magazzino dove si trovavano era il deposito delle munizioni. Un solo colpo d'arma da fuoco sarebbe stato sufficiente a far saltare in aria l'intera base. «Guardi, signore», disse uno degli uomini che nel frattempo erano scesi dal furgone. «Li vede quelli? Sono razzi Arash da 122 millimetri, chiamati comunemente Katyusha. E qui fuori, parcheggiati assieme agli altri, ho visto almeno tre camion lanciarazzi Benz Al 911. Se due di voi ci coprono le spalle e gli altri vengono con me, vedrà che tra qualche minuto assisteremo a un indimenticabile spettacolo pirotecnico.» Il militare non aveva ancora finito di parlare che già i suoi compagni avevano iniziato a estrarre i razzi dalle loro custodie e a rimuoverne le sicure. Ora si trattava di portarli sino alla porta e da qui, strisciando sotto al ventre degli altri automezzi, avrebbero provato a caricare i lanciarazzi. Il camion militare Benz era dotato di una torretta girevole armata con trenta tubi lanciarazzi di tipo Katyusha ed era in grado di lanciarli tutti e trenta in meno di quindici secondi. «Mentre voi organizzate la festa, io vado a cercare il festeggiato», disse Breil. «Se entro mezz'ora esatta non sarò di ritorno, vi autorizzo a dare inizio allo spettacolo anche senza di me.» Oswald non lasciò ai suoi nemmeno il tempo per rispondere e sgusciò con la velocità di un felino da una porta laterale. Il deposito di artiglieria era immenso e Oswald dovette affidarsi solo al suo istinto per trovare la prigione che stava cercando: sapeva che doveva trattarsi di un ambiente in grado di contenere il set televisivo da cui venivano trasmesse le interviste a Tahrjani. Le antenne a parabola furono il primo indizio; le due sentinelle di guardia la conferma dei suoi sospetti. Oswald si avvicinò guardingo, respirò a fondo prima di prendere la mira. L'arma di precisione silenziata emise in rapida successione due sbuffi soffocati. Le sentinelle si accasciarono senza un lamento. Breil entrò in una stanza buia. I suoi occhi si abituarono in fretta all'oscurità. Il presidente Tahrjani era sdraiato sul letto. Uno dei polsi era assicurato a un gancio nel muro con una manetta d'acciaio. Aveva un'aria inebetita: quasi certamente lo tenevano sotto l'effetto di
droghe e sedativi. Tahrjani di fronte all'incredibile apparizione dell'ex primo ministro israeliano pensò di essere in preda alle allucinazioni provocategli dalla droga. «Lei? Oswald Breil? Che cosa ci fa qui?» «Sono qui per portarla in salvo. Le spiegherò tutto più tardi, quando sarò riuscito a tirarla fuori da qui, presidente. Nel frattempo si copra gli occhi: dovrò sparare su quel gancio per liberare il suo polso.» Non appena fu libero, Breil prese per un braccio il prigioniero e si diresse verso il magazzino in cui erano asserragliati i suoi. Tahrjani continuava a guardarsi attorno con aria attonita. Il crepitio delle armi automatiche era assordante. Gli uomini riparati nel magazzino avevano aperto un intenso fuoco di copertura. Finché fossero rimasti là dentro, nessuno avrebbe osato sparare su di loro. I passi provenienti dal corridoio costrinsero Oswald a cercare un riparo in un ripostiglio e a cacciarvi dentro anche il suo compagno. Il presidente iraniano si faceva più vigile a mano a mano che il tempo passava: l'adrenalina messa in circolo dall'organismo stava vincendo la sua battaglia contro gli effetti soporiferi degli stupefacenti. «Ma che succede?» stava dicendo uno dei due uomini all'altro. «Sembra sia scoppiato il finimondo. Prima quelli dei corpi speciali, i fedelissimi di Pashelvi, che arrivano in elicottero, poi gli spari. Ci sono una decina di nostri uomini appostati nell'edificio che tengono sotto tiro un commando asserragliato all'interno del magazzino.» «Pare che siamo stati attaccati da un misterioso gruppo di terroristi che vogliono liberare il presidente. Dobbiamo fare in fretta a smontare il set e le apparecchiature: Pashelvi non può correre il rischio che si scopra che le false interviste partivano da qui», rispose il secondo tecnico. Il cervello di Oswald elaborava dati e informazioni alla velocità della luce. Uscì nel corridoio tenendo la pistola in mano e puntandola sui due addetti alle riprese televisive. «Quanto tempo vi occorre per poter trasmettere un comunicato?» chiese loro il piccolo uomo. «Pochi minuti», rispose uno, terrorizzato. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di avere salva la vita. E quel piccolo uomo sembrava poco in vena di scherzi. «E per quanti secondi il presidente Tahrjani potrebbe riuscire a parlare prima di venire oscurato?» chiese ancora Oswald Breil. «Siamo in grado di sovrapporci al segnale di qualsiasi canale televisivo
stia trasmettendo sull'intero territorio nazionale. Non sarà facile che riescano a interferire con le nostre trasmissioni e a oscurarle in un baleno. Avrete a disposizione almeno tre minuti prima che qualcuno possa intervenire.» «Andiamo nello studio televisivo», disse Oswald, spiccio. Pochi minuti più tardi i programmi diffusi dalle reti iraniane vennero interessati da un disturbo, e subito dopo, l'immagine di Tahrjani apparve nitida e inequivocabile su ogni apparecchio televisivo acceso in quel momento. «Popolo della Repubblica islamica dell'Iran, mio popolo. La congiura ordita da un traditore ha fatto sì che io venissi rinchiuso in una cella e imbottito di droghe. Non avrei mai abbandonato la carica che voi tutti mi avete assegnato. Ora vi chiedo di essermi ancora una volta fedeli e di mobilitarvi in massa per cacciare il dittatore assassino e ripristinare la Repubblica. Mi rivolgo ai comandanti delle forze armate e rivendico la mia sovranità di fronte all'Iran, alla mia gente e a Dio, sia gloria e misericordia su di lui.» L'Iran intero fu scosso da un fremito di indignazione. «Presto, presidente. Prima che il suo messaggio si trasformi in una vera controrivoluzione, potranno passare giorni», disse Oswald uscendo dallo studio televisivo. «Adesso dobbiamo innanzitutto cercare di tagliare la corda.» I due raggiunsero il magazzino. I soldati americani rivolsero un freddo saluto al presidente Tahrjani. Ma ben diversa fu l'accoglienza che tributarono a Breil. «Stavamo quasi per accendere le candeline senza di lei. Abbiamo tenuto impegnato il nemico mentre alcuni di noi caricavano il lanciarazzi. È stato sufficiente spostare di pochi gradi l'inclinazione dei tubi per avere l'obiettivo nel mirino. A lei l'onore di aprire il fuoco, comandante.» I trenta Katyusha partirono uno dopo l'altro come una raffica di mitragliatrice. Il muro dell'edificio, dalle cui finestre gli iraniani li tenevano sotto tiro, venne raso al suolo da una serie di esplosioni. Nel giro di una ventina di secondi era tutto finito. Al posto delle due finestre adesso c'era un grande foro fumante. E, con ogni probabilità, tra le macerie si sarebbero dovuti trovare i resti dei militari iraniani. «Presto, all'elicottero!» disse Breil, indicando il mezzo fermo a una cin-
quantina di metri di distanza da loro. Ma l'allarme doveva ormai essere stato lanciato: tra non molto avrebbero avuto addosso l'intero esercito iraniano. Gli uomini dei corpi scelti di Pashelvi di stanza alla base dov'era tenuto prigioniero l'ex presidente avevano dato ordine ai militari di leva a guardia del deposito di tenersi pronti a rispondere al fuoco nemico. Poi, una volta avuto la meglio sugli incursori, sarebbe stato semplice volgere a loro favore l'azione del commando guidato da Breil. Pashelvi avrebbe divulgato la notizia che un presidente traditore, in combutta con gli americani e con gli israeliani, aveva tentato di organizzare un colpo di Stato allo scopo di consegnare la Repubblica islamica d'Iran nelle mani degli infedeli. Ma i pochi militari di truppa, annichiliti dalla mole di fuoco che si era invece scatenata, non avevano reagito in alcun modo e ora assistevano inermi alla scena di un piccolo gruppo di persone che saliva a bordo dell'elicottero Shabaviz. Alla testa di cuoio americana che si era messo ai comandi del velivolo furono sufficienti pochi secondi per raccapezzarsi con le scritte in farsi. Conosceva alla perfezione quella macchina e nel volgere di pochi istanti l'elicottero si alzò dal piazzale tra le grida di giubilo dei componenti del commando. Quando furono in aria, il presidente Tahrjani tese la mano a Breil: «Grazie, Oswald. Grazie a tutti voi, signori», disse con sincera riconoscenza. «Avrà modo di ringraziarci quando tutto sarà finito, signor presidente: è ancora presto per festeggiare», rispose Breil, e si rivolse al pilota. «Diriga verso il mar Caspio. Quindi costeggeremo sino al Turkmenistan volando a bassa quota. E speriamo che la difesa aerea iraniana non sia troppo zelante.» Denver, 2007 L'affetto che Sara Terracini provava per Lilith Habar era sincero e profondo. E ora era molto preoccupata per l'anziana donna. Lilith si era chiusa in un silenzio duro e ostinato e aveva avvolto il proprio dolore in una pesante corazza di abulia: niente aveva il potere di smuoverla. Sara cercava di rendersi utile come poteva, dopo che Breil l'aveva prega-
ta di rimanere nella villetta degli Habar a fianco di Lilith, almeno sino al suo ritorno. «Il tuo ritorno...» mormorò Sara tra sé e sé. «Chissà dove sei finito, Oswald...» Mar Caspio, 2007 L'elicottero sfiorava la superficie dell'acqua con i pattini. I due antiquati F5 Tiger dell'aviazione iraniana si annunciarono alla vista come due puntini all'orizzonte seguiti dalla nera scia del combustibile. Un attimo dopo sfrecciavano uno a destra e l'altro a sinistra dell'elicottero. «Adesso compiranno un largo giro e poi, se non atterreremo arrendendoci, ci attaccheranno. Quei due rottami sono in grado di abbatterci con una sola raffica delle loro mitragliatrici», disse il pilota. «Quanto dista il confine?» «Una trentina di miglia. Troppe per sperare di farcela.» «Proviamoci! Se ci arrendiamo, avremo comunque perso la battaglia», disse Breil. «Ma come la mettiamo con quei due, signore?» Gli elicotteri da combattimento Cobra erano immobili a mezz'aria davanti a loro. Ogni via di fuga, a quel punto, era evidentemente preclusa. «Di fronte a un comitato di accoglienza tanto numeroso non credo ci resti altra scelta se non quella di atterrare», concluse Oswald con amaro sarcasmo. Lo Shabaviz 2061 posò i pattini a terra. Gli americani, Breil e il presidente iraniano Tahrjani alzarono le mani in segno di resa dinanzi al cannoncino di uno dei Cobra che li stava tenendo sotto tiro. Il secondo elicottero iraniano, invece, atterrò tra mulinelli di polvere. Ne uscì un alto ufficiale in uniforme. Quando questi giunse di fronte al drappello dei fuggitivi, scattò sull'attenti e portò la mano al berretto in segno di saluto. Tahrjani lo guardò perplesso, ma l'ufficiale iraniano disse: «Dopo il suo discorso alla televisione, signor presidente, la gente è scesa nelle piazze invocando il suo nome. Tutti i comandanti delle forze armate hanno riformulato il loro giuramento di fedeltà alla Repubblica, alla bandiera e a lei. È lei, infatti, il nostro legittimo presidente. Pashelvi ha fatto perdere le sue tracce: nessuno sa dove sia finito. C'è chi dice sia fuggito ai primi moti nelle strade, chi dice che sia nascosto da qualche parte nella ca-
pitale. Sono qui per condurla a Teheran, signore. Una città nuovamente libera dall'oppressione. Una città che la sta aspettando». Prima di congedarsi da lui, Oswald ottenne dal presidente iraniano la promessa che avrebbe mantenuto l'assoluto riserbo sull'operazione che aveva portato alla sua liberazione. Almeno sino a che quella storia non si fosse davvero conclusa. E Breil sapeva bene che molte pedine aspettavano ancora di essere mosse. La partita non era finita. Denver, 2007 Sara Terracini era rimasta incollata davanti alle immagini diffuse in mondovisione: in Iran un vero e proprio colpo di Stato si era risolto senza quasi spargimento di sangue. Il presidente Tahrjani era riuscito a riconquistare il potere e, in una brevissima conferenza stampa, aveva detto che mai si sarebbe immaginato di dovere gratitudine a gente che in passato aveva giudicato come nemica. Sara era certa che dietro a quella vicenda ci fosse lo zampino di Oswald Breil. Oceano Indiano, 2007 Bernstein aveva osservato dall'alto la manovra del motoscafo e quel curioso passaggio della valigetta. Quindi rimase a guardare il mare sotto di lui. La costa era lontana alcune miglia: l'avrebbe potuta raggiungere a nuoto. Gli sarebbe stato sufficiente scendere sino al portellone posto a metà della murata e tuffarsi in acqua. Stava per abbandonare il ponte intenzionato a dirigersi verso la scala interna, quando il rombo di un elicottero lo fermò. Dal suo nascondiglio improvvisato il capitano del Mossad riuscì a distinguere le due persone che erano scese dal velivolo atterrato sul ponte. Bernstein riconobbe subito Gholam Pashelvi, sebbene si fosse tagliato la barba e non portasse il solito turbante in capo. Il secondo dapprima gli sembrò uno sconosciuto. Ma, dopo alcuni secondi, la verità gli apparve in tutta la sua drammatica realtà. Fu per questo che Bernstein abbandonò il progetto di fuggire: doveva restare a bordo e scoprire che cosa ci faceva quell'uomo che conosceva bene su una petroliera iraniana impegnata in un oscuro traffico. Bernstein calcolò che avrebbe avuto ancora un'ora di libertà prima che gli venisse somministrato un nuovo pasto. A quel punto avrebbe dovuto
farsi trovare all'interno della sua cella. Ma poi avrebbe provato ad abbandonarla nuovamente per tentare di mettersi in contatto con Breil. Per fortuna, sulla nave la sorveglianza non era troppo serrata. Bernstein sgattaiolò nei corridoi, sino a che alcune voci, provenienti dalla sala riunioni attigua agli alloggi degli ufficiali, lo indussero a fermarsi e ad aguzzare l'udito. Nella sala si trovavano Pashelvi e l'inseparabile Nard, il mercante d'armi Fadah e il nuovo arrivato. Quest'ultimo parlava con tono autorevole. «È stato un errore imperdonabile sottovalutare un personaggio della levatura di Oswald Breil: una decina dei vostri migliori uomini non sarebbero sufficienti a fermare quel satrapo. Questo drammatico cambio di programma ci ha messo nei guai. Ma tant'è. Ora è inutile recriminare!» «Il fatto che io non sia più presidente dell'Iran non cambia i termini della nostra trattativa. Lei riceverà da questa operazione il compenso e le soddisfazioni pattuite. Stia tranquillo, non rimarrò in disgrazia molto a lungo: le ricordo che nelle nostre mani si trova il plutonio e che, proprio adesso, su questa nave, i migliori scienziati del mio Paese stanno confezionando un ordigno nucleare di enorme potenza. E il fine ultimo della nostra missione, la scomparsa dello Stato di Israele dalle carte geografiche, sarà perseguito. Vedrà che, una volta che il mondo islamico mi riconoscerà come suo salvatore, il premio che mi verrà concesso sarà ben più consistente della presidenza di un solo Stato.» Pashelvi parlava con l'aria invasata di chi sente che il suo potere sta vacillando. «Tra qualche giorno», continuò, «raggiungeremo lo stretto di Hormuz. E, a quel punto, l'ordigno dovrebbe essere pronto.» Quindi si rivolse al nuovo venuto. «Lei e il nostro prezioso carico sbarcherete a Dubai. Il suo compito sarà quello di far giungere la bomba sana e salva in Israele.» «Chiedo scusa, eccellenza», lo interruppe Fadah. «Ma questi particolari esulano dalle mie mansioni di mediatore. In compenso, vorrei che fosse riconosciuto che un pericoloso agente del Mossad si trova ora sotto la sua custodia grazie all'intervento del mio cliente. Le indagini che stava svolgendo Bernstein sarebbero state in grado di mandare all'aria l'intero affare. Non le chiederò un sovrapprezzo, ma sbarcherò anch'io a Dubai, dato che il mio compito è concluso.» «Ha davvero ragione, Fadah. La sua mediazione è da considerarsi conclusa.» A un cenno del capo di Pashelvi nella mano destra di Nard apparve una
pistola. Il colpo, unico e preciso, uccise all'istante il mercante d'armi. «E che ne facciamo di Bernstein, signore?» chiese Nard Sourush con ancora in pugno la pistola. «Aspettiamo qualche giorno prima di eliminarlo: gli ebrei sono gente sempre piena di risorse e magari potrebbe tornarci utile. E fino a che sarà a bordo con noi, non potrà arrecarci alcun danno.» Bernstein si incamminò guardingo lungo il corridoio: aveva sentito abbastanza. La porta della sala da carteggio era socchiusa. Al comandante della Sezione 8200 del Mossad la vista del computer provocò la stessa euforia che gli avrebbe provocato un'oasi dopo chilometri di deserto. Entrò, riuscì a digitare poche parole e a inviarle all'indirizzo di posta elettronica di Sara. Poi dei passi nel corridoio lo costrinsero ad abbandonare la postazione. Denver, 2007 Sara Terracini si alzò da tavola e aiutò Lilith a sparecchiare in silenzio. La composta disperazione della donna la stava contagiando e la mancanza di notizie da parte di Oswald non faceva che accrescere la sua angoscia. Sedette al computer e digitò la password per accedere alla sua casella di posta privata. Il messaggio era composto da due sole parole: «Still alive», ancora vivo, e proveniva dal capitano Bernstein. Oceano Indiano, 2007 L'uomo varcò la porta della sala carteggio, sedette davanti al computer e digitò poche parole, prima di impartire alla macchina i comandi per spedire il messaggio di posta elettronica. «Winning Horse è in fase estatica. Non mi fido più di lui», aveva scritto l'ultimo arrivato a bordo della petroliera. Una volta chiusa la comunicazione riguadagnò il ponte di comando, dove Pashelvi lo stava aspettando. I due parlarono brevemente, poi l'uomo si congedò dopo aver chiesto nuovamente conferma della data e dell'ora del suo appuntamento di alcuni giorni più tardi a Dubai. Bernstein era rientrato nella cabina e aveva richiuso la porta alle sue spalle. Poco dopo il rumore dei motori a pieni giri gli fece capire che la nave aveva ripreso la navigazione. Poi udì il rombo dell'elicottero che de-
collava. Washington, 2007 Phil Damiano sorrideva soddisfatto. Accanto a lui il generale Edward Corrige partecipava con entusiasmo ai festeggiamenti: il blitz condotto da Oswald Breil aveva salvato le loro traballanti poltrone. «Bene signori», venne al dunque Oswald. «Siamo riusciti a restituire la legittimità di governo in un Paese islamico. Sono convinto che d'ora in poi la politica di Tahrjani, e dell'Iran in generale, sarà caratterizzata da un cambio radicale nell'atteggiamento tenuto verso i nostri Paesi. Ma non dobbiamo dimenticare che un ingente quantitativo di materiale nucleare è ancora nelle mani di alcuni criminali tra i più pericolosi del mondo. E inoltre sono convinto che gli artefici del rapimento del capitano Bernstein siano gli stessi individui. Mi auguro solo che sia ancora vivo.» Denver, 2007 Quando Oswald varcò la soglia della villetta degli Habar, Sara gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Quell'accoglienza gli fece dimenticare per un attimo le sue preoccupazioni. «Sono stata in pena per te», disse Sara accarezzandogli il volto teso e stanco. «E hai fatto bene a esserlo, per una volta», rispose Oswald tra il serio e il faceto. «Non scherzare, Oswald. Sono giorni che non ho tue notizie.» «Non ci crederai, ma dove sono stato non sono riuscito a trovare una cabina telefonica», continuò a scherzare Oswald, passandole le dita tra i capelli. «Come sta Mame-loshen?» «Sono in ansia anche per lei: è come se si fosse trasformata in una statua di ghiaccio. Ma c'è una cosa che ti devo dire, prima di tutto. Mi è arrivato un messaggio da Bernstein. Dice solo: 'Still alive'.» «Inossidabile Bernstein! Still alive... Era una frase che usavamo nel Mossad per comunicare che eravamo ancora in salute, anche se in pericolo, e che avremmo cercato di portare a casa la pelle.» Lilith Habar entrò nella stanza, e per un po' Breil e Sara si dedicarono a lei e cercarono di distrarla e di alleviarne il dolore.
Paraguay, 2007 Deman van der Duick lesse il messaggio con apprensione crescente: da quando quel musulmano invasato di Pashelvi si era fatto soffiare la presidenza dell'Iran, era sempre più convinto che quello non fosse più un cavallo vincente su cui puntare. La comunicazione appena ricevuta da uno tra i suoi migliori uomini non faceva altro che confermare le sue convinzioni. Denver, 2007 Oswald si era coricato presto. Aveva bisogno di riposare per raccogliere le energie necessarie a superare di slancio gli ultimi metri della sua corsa contro il Male. Un tocco leggero lo distolse dai suoi pensieri. Sara era entrata nella stanza. Nella penombra della notte gli apparve bella come un'antica dea. Per fortuna l'incidente non aveva lasciato segni. «Che cosa succede, Oswald? Vuoi parlarmene?» chiese Sara sedendosi sul bordo del letto. «Siamo andati a cacciarci in un brutto pasticcio e in gioco ci sono delle forze pericolose e distruttrici», disse Oswald e si mise a raccontarle quanto sapeva su potenziali terroristi nucleari e petroliere in giro per il mondo con il loro carico di morte. Quindi concluse: «Non appena Mame-loshen starà un po' meglio, potremmo prenderci qualche giorno di vacanza, tu e io. Sei mai stata in Paraguay? Anzi, se Lilith ce lo consentirà, potremmo partire... subito!» «Paraguay?! La tana di van der Duick. Riesci sempre a sorprendermi, Oswald Breil. Non ti sono bastati i pericoli che abbiamo affrontato sino a ora?» «No, Sara. La partita non è ancora chiusa. Dobbiamo fermare quella gente. E poi ho ancora un amico nelle loro mani, un padre da vendicare e l'attentato alla vita della... ehm... della mia più cara amica.» Il mattino successivo Lilith si alzò presto e Oswald, che era sveglio da ore, chiese di poterle parlare. «Sei sempre stata la mia confidente preferita, sin da quando ero bambino e anche ora che sono un uomo maturo. Sara e io stiamo per partire per il Paraguay...» Quindi Oswald spiegò per sommi capi a Mame-loshen i suoi sospetti.
Washington, 2007 «Com'è possibile?» stava commentando Phil Damiano ad alta voce. «La VLCC Zohereh è stata avvistata quasi simultaneamente in quattro luoghi diversi del globo terrestre. O quella nave e il suo equipaggio sono dotati del dono dell'ubiquità... oppure... accidenti! Le quattro VLCC iraniane sono gemelle e pressoché identiche: sarebbe sufficiente avere cambiato nome a tre di esse per avere quattro Zohereh in giro per il mondo. E in effetti le navi erano ormeggiate tutte insieme alle banchine di Kharg Island.» Oceano Indiano, 2007 Bernstein compì la solita manovra e aprì la serratura della cabina. Ormai aveva molta dimestichezza con quel sistema. La nave stava navigando a piena velocità verso il golfo Persico. Il capitano del Mossad benedisse i sistemi elettronici che consentivano a una nave colossale come quella di essere manovrata da un numero esiguo di uomini: nelle ore notturne era davvero difficile incontrare anima viva nei corridoi della Zohereh. Bernstein entrò ancora una volta in sala carteggio: doveva rendere il suo messaggio indecifrabile nel caso che occhi indiscreti lo avessero potuto leggere. Non disponeva del suo personale codice di decrittazione; doveva quindi affidarsi alla fantasia. E farlo in fretta: la sua sortita poteva venire scoperta in qualsiasi momento. Denver, 2007 Per un ultimo scrupolo, prima di riporre il computer nella borsa da viaggio, Sara scaricò la posta in arrivo. Con trepidazione si rese conto che Bernstein le aveva inviato un nuovo messaggio: «PUBORDETAGULFZOHERRATAUS», queste erano le sillabe che Bernstein le aveva fatto pervenire da chissà quale angolo della terra. Sara, benché fosse una tra le maggiori esperte di decrittazione al mondo, non riuscì a capire il senso del messaggio del capitano del Mossad. Sembrava che un bambino avesse schiacciato a caso i tasti del computer. Senza alcuna logica. Attese che Oswald terminasse la telefonata con Phil Damiano, quindi si
recò nello studio con il messaggio appena ricevuto copiato su un foglio di carta. «Che cosa succede, Oswald?» gli chiese vedendolo accigliato. «Ho saputo da Damiano che in questo momento ci sono quattro navi identiche, sulla cui fiancata c'è lo stesso nome, che navigano in luoghi differenti nel mondo. Una di queste potrebbe essere coinvolta in un traffico di materiale nucleare finalizzato alla distruzione di Israele.» «E come si chiamerebbe questa nave una et quatrina?» «Zohereh, è una VLCC costruita recentemente in Cina con le sue tre gemelle.» «Un piccolo passo avanti», disse Sara, cerchiando con una matita rossa la parola «Zoher» nel messaggio «PUBORDETAGULFZOHERRATAUS» ricevuto da Bernstein. «Non sei tu quello che dice sempre che le coincidenze non esistono?» «Quando ti è arrivato?» chiese Oswald, improvvisamente interessato, posando gli occhi sulle sillabe. «Pochi minuti fa. E non riesco proprio a venirne a capo. Pensavo di mandare il messaggio a Toni per vedere se le macchine del laboratorio riescono a capirci qualche cosa più di me.» «Non penso ce ne sia bisogno, Sara. Lo chiamavamo alfabeto Poppins, perché lo abbiamo inventato seguendo l'esempio dello scioglilingua della famosa baby sitter: era uno dei sistemi che noi agenti del Mossad usavamo per scambiarci comunicazioni. È sufficiente scomporre le sillabe e aggiungere un po' di fantasia. Certo non si tratta di un metodo molto scientifico... Ecco, guarda: Pu è il simbolo nella tavola degli elementi del plutonio. 'Pu bord' potrebbe stare per il plutonio si trova a bordo', 'ETA' è un acronimo del linguaggio commerciale marittimo, e sta per Estimateci Time of Arrival. Orario stimato di arrivo.» «Quindi: stimo di arrivare nel 'Gulf' - e a quelle latitudini il golfo non può che essere il golfo Persico - a bordo della Zoher...» «Esatto, Sara. Ricapitoliamo: il plutonio è a bordo. Siamo in rotta verso il golfo Persico con la Zohereh. Non capisco però che cosa significhi la parte terminale del messaggio: 'rataus'. Intanto richiamerò Damiano per dirgli di questo nuovo passo avanti che dobbiamo a Bernstein.» Oceano Indiano, 2007 Il capitano Bernstein si allontanò dalla sala carteggio. Stava percorrendo
un corridoio che si affacciava all'esterno, quando li vide sbucare dalla notte: i tre gommoni scuri scivolavano veloci sul mare calmo. Accostarono e si misero alla stessa velocità della nave. Alcuni degli uomini lanciarono dei rampini magnetici, che si agganciarono al portellone della fiancata. Uno dei commandos, armato di una lunga leva, riuscì a forzare il portello e ad aprirlo. Bernstein rimase nascosto a osservare le manovre di arrembaggio: quegli uomini erano armati sino ai denti e palesemente bene addestrati. Il capitano del Mossad sapeva che un'occasione del genere non gli si sarebbe più presentata e, inoltre, aveva la sensazione che da lì a poco sulla nave avrebbe fatto molto caldo. Gli uomini del commando salirono a bordo e scomparvero nel ventre della VLCC. Bernstein scese da una scaletta secondaria. Non c'erano sentinelle a garantire la via di fuga aperta per gli incursori e nemmeno sui gommoni che venivano trascinati dalla nave per mezzo dei rampini. Bernstein si lanciò. Accese i due potenti motori fuoribordo da duecento cavalli l'uno e controllò la disponibilità di carburante. I commandos dovevano provenire da qualche nave appoggio poco distante: probabilmente non c'era benzina a sufficienza per raggiungere la terraferma che ormai distava almeno duecento miglia. Ma ci avrebbe pensato in seguito, ora doveva solo allontanarsi dalla nave. Mollò le cime d'ormeggio a cui erano fissati i rampini e lasciò che la Zohereh sfilasse di lato. In breve scomparve nel buio della notte. Asunción, 2007 «Paraguay», l'uomo, al volante della vecchia Dodge, gesticolava animatamente, «nella lingua guarani significa 'acqua che va verso l'acqua'. E in effetti è strano che questo sia il nome di uno dei soli due Stati dell'America del Sud che non possiede sbocco al mare. Il mio nome è Norberto Rodas e sono a sua completa disposizione, dottor Breil. Il direttore Damiano mi ha chiamato, chiedendomi di soddisfare ogni sua richiesta.» Oswald sorrise divertito: i corrispondenti esteri dei servizi segreti, soprattutto quelli che vivevano in Paesi tropicali, trattavano sempre gli agenti in missione come turisti. Sara era seduta sul sedile posteriore. Osservava il caotico traffico di Asunción senza parlare. La città, una delle più antiche del Sudamerica, le ricordava Parigi. Del resto molti suoi palazzi, come per esempio il Panteón
de los Héroes quasi identico all'Hôtel des Invalides, si ispiravano a quelli della capitale francese. «Per non dare troppo nell'occhio», riprese Norberto Rodas, «ho preferito non prenotare un albergo. Ho affittato una casa a pochi passi di distanza dalla proprietà di van der Duick.» «Che tipo è? Mi parli un po' di lui.» «Che dire? Deman van der Duick è una tra le persone più in vista del Paese. Senza dubbio è il più ricco. Negli ambienti a lui ostili, pochi per la verità, si mormora che dietro di lui ci siano affari non proprio limpidi o che sia l'artefice di candidature di politici legati ai cartelli del narcotraffico sudamericano. Ma sino a oggi ogni voce è sempre stata smentita. Van der Duick per lo più è considerato un mecenate senza macchia. Non saprei dire quante fondazioni filantropiche portino il suo nome o quello dei suoi familiari. E inoltre il fatto che egli sia così legato alla figura dei propri genitori adottivi è giudicato degno di ammirazione.» «Un momento. Che cosa intende per 'adottivi', Norberto?» «Proprio ciò che ho detto, dottor Breil. Credo che l'adozione sia avvenuta poco prima dell'inizio della guerra, quando egli doveva avere non più di cinque o sei anni. Arrivò in Sudamerica dalla Germania.» «Non dall'Olanda?» chiese Breil, stupito. «Nossignore. Dalla Germania. A quanto ne so era rimasto orfano e i van der Duick, onesti lavoratori di origini olandesi, hanno deciso di adottarlo. Deman li ha ripagati con una vita segnata da folgoranti successi.» «Ecco, sono i suoi iniziali successi a costituire il nostro punto di partenza: lei ha qualche amico al Banco Central, Norberto?» «La CIA ha amici ovunque, dottor Breil. Il problema sarà scoprire se sono davvero amici nostri o di van der Duick. Il nostro è un Paese nel quale ci si deve muovere con molta circospezione...» «Non ne ho ancora conosciuto uno in cui non si debba essere prudenti...» «Siamo arrivati, signori. Alla vostra destra c'è la villa di van der Duick.» Anche la casa del magnate sembrava risentire di quell'aria parigina che si respirava un po' ovunque. La villa era protetta da un alto muro di cinta. Un imponente cancello in ferro battuto dalle punte a freccia del colore dell'oro precludeva l'accesso al viale alberato che conduceva alla casa. Si trattava di un'elegante costruzione tardo ottocentesca su tre piani. Sulla facciata si aprivano otto tra finestre e balconi per piano. La pianta era apparentemente quella di un parallelepipedo regolare. Gli occhi di tele-
camere a circuito chiuso tenevano sotto controllo ogni angolo della proprietà. Il complesso non aveva niente in comune con le gigantesche dimore dei latifondisti sudamericani o, peggio, con quelle dei narcotrafficanti, che trasudano lusso e ostentazione. La dimora di van der Duick era caratterizzata dal buon gusto e da una elegante sobrietà. Mentre l'auto guidata da Rodas si infilava in un cancello a una cinquantina di metri da quello di van der Duick, il telefono di Oswald suonò. «Grazie per l'accoglienza, Phil», disse Breil. «Un dovere, Oswald, dal momento che lei sta lavorando per il bene del mondo intero», gli rispose il direttore della CIA. Poi continuò: «Abbiamo trovato la Zobereh. Si è incagliata stamattina lungo la costa dell'Oman. Era una nave fantasma: a bordo erano tutti morti». «Anche... anche Bernstein?» chiese Oswald con un tuffo al cuore. «No, Oswald. Non c'era traccia di Bernstein e nemmeno del guardaspalle di Pashelvi, Nard Sourush. Gli altri sono stati ammazzati probabilmente da un commando perfettamente addestrato. In una specie di grande scatola, all'interno di una stiva, abbiamo trovato un vero e proprio laboratorio ad altissima tecnologia. I nostri esperti sostengono che le attrezzature rinvenute avrebbero dovuto servire a fabbricare un ordigno nucleare ad alto potenziale ricavato dal plutonio. Nel laboratorio c'erano i quattro più importanti scienziati nucleari iraniani e alcuni tecnici. Anche loro cadaveri. La nave è stata lasciata con il pilota automatico inserito, programmato perché si arenasse. Al timone, in segno di scherno, era stato legato il cadavere di Pashelvi crivellato di colpi.» Oceano Indiano, 2007 Quando Bernstein si era sentito in salvo, aveva ridotto la velocità e seguito la Zohereh da lontano con una rotta parallela. Nella notte aveva distinto i bagliori provocati dalle armi automatiche: i misteriosi assalitori dovevano aver colto tutti gli occupanti della petroliera alla sprovvista. Alcuni minuti più tardi sulla piazzola della VLCC era atterrato un elicottero. Solo allora Bernstein aveva invertito la rotta. Aveva calcolato di aver percorso circa un centinaio di miglia quando, uno dopo l'altro, i due fuoribordo si erano fermati. Il capitano del Mossad si era preparato a trascorrere lunghe ore alla deriva. Secondo i suoi calcoli la terraferma non doveva distare più di sessanta miglia.
L'elicottero si era posato sul ponte della Zohereh dolcemente. Il suo occupante era sceso mentre il capo del commando gli si avvicinava. «Pulizia effettuata, signore.» «Anche Bernstein?» «Né io né i miei uomini abbiamo trovato traccia dell'agente del Mossad, e neppure di Nard Sourush.» «Meglio», aveva commentato l'uomo appena atterrato con l'elicottero. «Probabilmente quel pazzo di Pashelvi ha provveduto a far accoppare l'ebreo dal suo guardaspalle. Quanto a Sourush, anche se fosse riuscito a fuggire, potrebbe fare poco da solo, isolato e ricercato come sarà dalle polizie di mezzo mondo. Ci hanno evitato una fatica facendo fuori Bernstein. Presto, caricate l'ordigno sull'elicottero. Non mi posso trattenere altro tempo qui.» Asunción, 2007 Oswald Breil stava scartabellando ormai da tre giorni tra le carte della sede del Banco Central: non vi aveva trovato nulla di più di quello che Bernstein gli aveva già segnalato. Benedetto Bernstein! Con il passare dei giorni le speranze che il suo fedele amico fosse ancora in vita si facevano sempre più flebili. Sara gli stava vicino e collaborava senza sosta alle ricerche. Bastava la sua presenza a mitigare l'angoscia del piccolo uomo. I due trascorrevano buona parte della giornata all'interno delle stanze occupate dagli archivi della banca. A sera rimanevano a casa e Oswald scriveva a Mame-loshen Habar: le aveva promesso di farlo. Mame-loshen aveva accettato di saperlo nella tana del lupo che aveva ucciso il suo Ezer, a patto che lui la tenesse giornalmente al corrente di quanto accadeva. Oswald stava scorrendo alcune rettifiche a uno dei documenti della banca. Trasalì quando lesse l'elenco sovrastato dalla dicitura errata corrige. «Sara, ci sono!» disse alla donna, battendosi una mano sulla fronte. «Abbiamo sbagliato a scandire le ultime sillabe del messaggio di Bernstein! La corretta sillabazione non era 'Zoher-rataus', bensì 'Zoh-errata-US'. Devo urgentemente comunicare con Phil Damiano. Andiamo a casa!» Norberto stava, come al solito, gesticolando, parlando e guidando nello stesso momento, quando un colpo in piena fronte gli scaraventò la testa all'indietro.
Oswald non ebbe neppure il tempo di mettere mano al suo revolver. Due mani forti lo afferrarono, tirandolo fuori dall'auto. Con la coda dell'occhio vide che Sara stava subendo il medesimo trattamento. «Buona sera, signor Breil. Sono davvero onorato di averla mio ospite. Abbiamo molte cose di cui parlare e mi auguro che lei e la dottoressa Terracini possiate essere esaurienti.» Van der Duick era in piedi al centro della stanza. Un bicchiere da cognac nella mano destra, uno spaccaossa nella sinistra. «Perché il generale Corrige?» chiese Oswald muovendo le mani strette tra i legacci, tentando di far circolare il sangue nelle estremità. Van der Duick lo colpì con la molla d'acciaio sulla coscia. «Qui sono solo io il titolato a fare le domande, Breil», disse ancora il paraguaiano, con aria feroce. «Perché Corrige?» insistette Breil. Van der Duick alzò di nuovo il manganello, quindi ritrasse il braccio. «Le risponderò solo se riuscirà a spiegarmi come ha fatto a capirlo.» «Perché il generale Edward Corrige, capo dell'ufficio Affari esteri del dipartimento della Difesa statunitense?» ripeté Breil. La sua non era una prova di forza o di coraggio. Sapeva che van der Duick non li avrebbe lasciati in vita: tanto valeva morire con onore e togliendosi alcune curiosità. «Oswald, digli come mai sei riuscito a saperlo», lo pregò Sara, anch'essa legata a una sedia di metallo. «Digli che risillabando il messaggio ricevuto da Bernstein sono apparse le parole 'errata' e 'US'. Ieri sera, mentre leggeva un errata corrige su degli scritti del Banco, ha avuto una folgorazione.» «Vedo, signor Breil, che la dottoressa Terracini è molto più ragionevole di lei.» La mano di van der Duick si mosse rapida come un serpente all'attacco e la molla d'acciaio dello spaccaossa sibilò nell'aria. La sfera posta alla sommità si abbatté con violenza sull'avambraccio di Oswald. «Comunque, nessuno potrà mai dire che io sia venuto meno a un impegno. Lei conosce Lidice, Breil?» «La città rasa al suolo dopo la morte di Heydrich?» «Vedo che ricorda bene la storia. La popolazione venne punita per aver sostenuto l'attentato contro il sosia di mio padre, dando rifugio ai suoi assassini. Una novantina di bambini vennero portati in Germania e affidati alle cure dei medici della GESTAPO. Una ventina di questi furono avviati
a una nuova e ariana esistenza. Corrige deve a noi la sua salvezza. Per questo ci è debitore di un... favore.» «Suo padre? Noi?? E chi sarebbero gli altri?» «Vede, Breil, che avevo ragione? Le ho concesso una domanda e una risposta, e invece lei mi sta annoiando con la sua curiosità. Bene, le confesso che mi fa quasi piacere soddisfarla: sì, mio padre. Vediamo se è davvero così preparato. Quale carriera intraprese Reinhard Heydrich? E che cosa lo costrinse a interromperla?» «Heydrich era un ufficiale di marina, ma fu espulso dall'Accademia per aver messo incinta una ragazza. Recentemente ho scoperto che è sopravvissuto all'attentato in cui venne ufficialmente dichiarato morto.» «Vedo che lei sa ben più di quanto non sia universalmente noto, Oswald. È un piacere conversare con lei. Crede che un gentiluomo come Heydrich possa aver disatteso ai propri obblighi familiari? Non solo ho goduto delle stesse attenzioni dei suoi figli 'ufficiali' ma, come figlio segreto, ho beneficiato del suo affetto anche dopo che mio padre venne dichiarato morto: fu lui stesso a volere il mio trasferimento presso i van der Duick qui in America del Sud. La segretezza accomunava le nostre vite quasi quanto i vincoli di affetto. Grazie a lui ho potuto creare questo impero.» «Grazie all'oro che suo padre e altri criminali di guerra sono riusciti a trafugare dalle casse di intere nazioni e dai patrimoni di chi veniva internato nei campi di concentramento. Lei è pazzo!» Lo spaccaossa sibilò nell'aria e colpì Oswald in pieno volto. Il sangue incominciò a scorrere da una grossa spaccatura sul labbro. «Non le conviene essere irriverente, Breil. Altrimenti mi costringerà a farle sempre più male. Per quanto poco mi esalti infierire su un nano. Ma, tornando a noi, credo che lei sia consapevole che non sono certo il solo a manifestare questo genere di follia. Ci sono migliaia, forse milioni di persone convinte che presto nascerà il Quarto Reich. Io non sono altro che un esecutore delle volontà altrui. Davvero voi, strenui nemici del nazismo, credevate che con un processo farsa come quello di Norimberga si potessero cancellare per sempre le idee e i progetti del Terzo Reich? Davvero credevate che con la finta morte di Hitler e di altri suoi fedelissimi ci saremmo assopiti per sempre? Voi pensate che sia stato sufficiente il vostro ipocrita colpo di spugna per cancellarci dalla Storia e dal mondo?» Van der Duick aveva il collo gonfio e gli occhi fuori dalle orbite. Parlava con il trasporto di un folle in preda all'esaltazione. «Lei è pazzo, van der Duick. Dovrebbe essere internato in un istituto e
curato adeguatamente.» Un altro colpo terribile si abbatté sul braccio destro di Breil. «Adesso basta! È ora che lei mi dica quello che sa. Quanto conosce dei nostri piani, Breil?» Oswald restò in silenzio. «Certo, dovevo immaginarmelo, Breil. Ma io riuscirò ad avere ragione di lei. Sarò inflessibile, giorno dopo giorno, ora dopo ora, e costringerò la sua amica Sara a far da spettatrice al suo dolore. E, se non si arrenderà, quando non sarà più in grado di parlare, invertirò le parti: lei diventerà spettatore e Sara la protagonista.» Così dicendo, van der Duick tirò fuori da un astuccio un set completo di ferri dentistici, afferrò una pinza e si avvicinò alla bocca di Oswald. Denver, 2007 Lilith Habar era rimasta sveglia per tutta la notte con il computer acceso, sperando di vedere arrivare il messaggio del suo Oswald a tranquillizzarla. Al mattino seguente era ancora lì. Le ore trascorrevano lente, senza portarle nessuna notizia. Lilith sapeva che non avrebbe potuto sopportare un'altra disgrazia. Oswald era tutto quanto le rimaneva al mondo. Così il piano che aveva maturato nella notte si trasformò in una decisione. Asunción, 2007 La cuoca della residenza di van der Duick uscì dalla villa, come sempre, a sera tarda: il suo padrone riceveva spesso ospiti molto importanti e a lei spettava il compito di deliziarli con indimenticabili e raffinate ricette. Quella sera era uscita un po' prima del solito. Aveva bisogno di riposare: l'indomani era in programma la visita di due ministri e del capo di Stato. Entrò in casa, fece per accendere la luce, ma il colpo secco di una mazza di legno le spezzò una tibia prima che riuscisse a toccare l'interruttore. Il maggiordomo di casa van der Duick era in piedi al centro della stanza e aveva l'aria mortificata di chi non sa come rimediare a un danno. Il suo principale si aggirava per la stanza come un indemoniato. «Che cosa significa che Assunta è stata ferita nel corso di una rapina nella sua abitazione?» chiese ancora una volta van der Duick.
«È così, signore: ieri sera, tornando a casa, ha sorpreso un ladro nell'appartamento e questo l'ha aggredita spezzandole una gamba con un bastone.» «E come pensa che potremo, adesso, ospitare a cena il primo ministro e due membri del governo con le rispettive signore?» «Sinceramente non vedo altre soluzioni che rivolgerci a un catering, signore. A meno che lei non decida di rimandare la cena.» «Rinviare l'incontro è impossibile: si tratta di una serata programmata da mesi, nel corso della quale devo discutere di alcune importantissime e urgenti questioni. Un catering potrebbe essere la soluzione, ma so che deluderò i miei ospiti.» «Chiedo scusa, signore.» Una delle guardie responsabili della sicurezza era entrata nel salone dopo aver bussato. «Al cancello c'è una signora. Dice di essere una cuoca e che ha saputo da una vicina di casa di Assunta dell'incidente occorsole.» «Che cosa aspetti? Falla passare!» «Signor van der Duick», disse il primo ministro, «la sua cuoca questa sera ha davvero superato se stessa. Raramente ho assaggiato tali delizie in vita mia. E stia tranquillo per quella concessione. Le assicuro che non ci saranno problemi...» Quando tutti si furono allontanati, il padrone di casa si rivolse al maggiordomo: «Mandami qui la nuova cuoca e poi va' pure a letto. È stata una giornata faticosa per tutti». La donna entrò nello studio del magnate, in segno di rispetto si tolse la cuffia dal capo e la tenne in mano. Era più anziana di Assunta e, forse per questo, ancora più esperta e capace. «I miei complimenti, signora. Un'ottima cena», disse van der Duick contando alcune banconote. «Anzi, volevo dirle che sarebbe mia intenzione assumerla in pianta stabile, signora... Come si chiama?» «Habar», disse Mame-loshen. La canna di una vecchia 45 era ficcata nella bocca di van der Duick sino a spezzargli gli incisivi. «Mi chiamo Habar come mio marito Ezer che hai fatto ammazzare senza pietà e senza ragione. Dov'è Oswald?» Oswald sentì i passi nel corridoio. Tra poco la porta si sarebbe aperta e sarebbe finalmente finita. La faccia dell'uomo era una maschera di sangue. A stento riusciva a tenere gli occhi aperti. Ma non era il dolore fisico ad
annientarlo, quanto piuttosto l'angoscia per la sorte di Sara. Van der Duick aprì la porta della cella. Lilith vide il figlio adottivo e per un attimo temette che fosse morto. Era ferito, nudo, sdraiato sul pavimento. Lo sguardo di Mame-loshen era carico d'odio e illuminato da una feroce determinazione. Nessuno avrebbe potuto riconoscere in lei la mite donna di casa che era sempre stata. «Maledetto», disse Lilith. «Per il povero Ezer, per tutti quelli che hai sulla coscienza, per Oswald e per Sara, io ti condanno a morte.» La mano di Lilith era ferma. Due colpi esplosero in rapida successione. La testa di van der Duick scoppiò come un'anguria matura. Oswald alzò un poco le palpebre tumefatte. Sembrava non riuscisse a distinguere le figure al centro della stanza. Non c'era incredulità nel suo sguardo, ma solo l'espressione vacua di chi ha subito ogni genere di torture. Scivolando in uno stato di semincoscienza, mormorò: «Ho freddo, Mame-loshen. Ho tanto freddo». Quando Breil si risvegliò, Sara era accanto a lui. Si trovavano nello studio di un medico ebreo, figlio di un amico di vecchia data degli Habar. Lo stesso che, non appena Lilith era giunta in Paraguay, si era messo a sua disposizione, assicurandole ogni genere di assistenza. «Quanto ho dormito?» chiese Oswald, cercando di reagire al dolore che sentiva dappertutto. «Sette ore. Se Lilith fosse arrivata poco più tardi non ci sarebbe stato nulla da fare. Ma il dottor Weismann dice che ti rimetterai in fretta.» Sara gli sorrise. E quel sorriso fu per Oswald la migliore delle medicine. «Lilith... Allora non era un sogno. Chi è a conoscenza di quello che è successo?» «Ancora nessuno. Siamo riusciti a fuggire nel bagagliaio dell'auto della falsa cuoca. Lilith ci ha portati subito qui. Ma è questione di ore e tra poco qualcuno scoprirà il corpo di van der Duick rinchiuso nella cella.» «Il dottore possiede un computer nel suo studio? Portami davanti al computer, Sara.» «Oswald, sei troppo debole. Aspetta.» Il medico gli portò il suo portatile.
NO!! È SOLO?> digitò Breil a fatica. Dopo circa cinque minuti giunse la risposta. Denver, 2007 La minaccia della bomba e la scomparsa di Bernstein erano i due chiodi inestirpabili da giorni nella mente del piccolo uomo. Casa Habar parve loro un'isola felice. Anche Mame-loshen sembrava leggermente sollevata dopo aver portato a termine la sua vendetta. Ma Breil non riusciva a trovare pace. Erano rientrati ormai da due giorni. Oswald si era tenuto in costante contatto con Phil Damiano, al quale aveva rivelato quanto aveva scoperto sull'alto ufficiale statunitense. Corrige, ignaro di tutto, era tenuto sotto stretta sorveglianza. Quando il telefono prese a squillare, Oswald si alzò di scatto, non riuscendo a trattenere un lamento: i colpi dello spaccaossa lo avevano ridotto piuttosto male. La voce di Uri Tzvi tradiva lo stato d'animo del direttore del Mossad: «L'abbiamo trovato!» esclamò non appena Oswald fu in linea. «Bernstein era alla deriva su un gommone privo di carburante. È ricoverato in terapia intensiva: è abbastanza malridotto e molto disidratato, ma se la caverà. Lo hanno sedato e ora stanno provvedendo a reidratarlo. I medici dicono che tra uno o due giorni sarà possibile interrogarlo. Prima di perdere conoscenza, però, ha chiesto di parlare urgentemente con lei.» «Grazie, Uri. Questa è la migliore notizia che poteva darmi. Mi imbar-
cherò stasera stessa su un volo per Tel Aviv: devo parlare con Bernstein non appena possibile. Ormai ci manca un solo tassello per completare l'intero mosaico.» Tel Aviv, 2007 L'autista che era venuto a prelevarlo in una saletta riservata dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv era in forza all'Istituto da prima che Oswald vi prendesse servizio. «Buon giorno, direttore!» disse l'uomo prendendo la borsa da viaggio dalle mani di Breil. «Nimrod, che piacere rivederla. Ma basta con questo 'direttore'. Ormai è un pezzo che ho ben poco da dirigere...» «Lo so, dottor Breil. E le assicuro che io rimpiango la sua presenza ogni giorno. Per me lei sarà sempre il miglior direttore che abbia mai conosciuto. Eppure ne ho visti passare parecchi, in questi anni, qui all'Istituto.» «Davvero, Nimrod. Quanti anni sono, ormai?» «Preferisco non contarli. Il grande capo mi ha dato questa per lei, dottore. Ha detto che si tratta di un messaggio urgente», disse l'uomo porgendogli una busta. Oswald l'aprì e vi trovò un biglietto da visita di Uri Tzvi attaccato con una graffetta a un foglio sul quale era stato stampato un messaggio di posta elettronica. Sul biglietto stava scritto: «Il 'collega' Phil Damiano mi ha pregato di farle pervenire questo messaggio non appena lei fosse atterrato, dottor Breil. Shalom. Bentornato in Israele». Il messaggio del capo della CIA non era latore di buone notizie: Oswald si accigliò, quindi piegò il foglio e se lo mise in tasca. Non era sorpreso: da giorni temeva che questo sarebbe potuto accadere. Ma ora ciò che avrebbe potuto apprendere da Bernstein era divenuto di vitale importanza. «Andiamo al Sourasky Medical Center», disse Oswald rivolto all'autista. Oswald ricevette una calorosa accoglienza anche dai medici che si stavano prendendo cura del responsabile della Sezione 8200 del Mossad. Gli
vennero accordati tre minuti di colloquio. Il volto di Bernstein era tumefatto e piagato dal sole, ma l'uomo si sforzò di sorridere quando vide entrare l'amico. «Quale onore, maggiore! Devo essere stato davvero in pericolo di vita per meritare questo trattamento. Ma, mi dica, è riuscito a decifrare i miei messaggi?» «Certo, come potrei dimenticare i metodi usati dai giovani agenti del Mossad? Mi ci è voluto un po', ma sono riuscito a venirne a capo. Purtroppo mi è appena giunta la notizia che il generale Corrige ha fatto perdere le proprie tracce.» «Hanno costruito un ordigno. Vogliono distruggere Israele, bisogna fermarli», disse Bernstein con una voce debole. Quindi prese a raccontare quanto aveva visto e sentito a bordo della VLCC. In quei pochi minuti i due riuscirono a dirsi quasi tutto. Poi, puntuali come cronometri di precisione, i medici del Sourasky Medical Center invitarono gentilmente Breil ad abbandonare la stanza. Salito nuovamente sulla berlina dai vetri oscurati, Oswald chiese all'autista di condurlo all'albergo, situato sul lungomare cittadino, in Hayarkon Street. La strada a quell'ora era intasata dal traffico. Erano quasi giunti nei pressi dell'ambasciata americana, situata al numero 71 della via, quando Oswald ebbe un sussulto: il cancello elettrico sorvegliato da alcuni marine si stava aprendo. Dall'altro lato della strada, un'auto che proveniva in senso contrario alla loro aveva svoltato a destra e stava imboccando il cancello della sede diplomatica. Fu allora che Oswald distinse chiaramente il volto di Corrige dietro al finestrino posteriore. «L'ho trovato, Phil!» disse poco dopo Oswald al telefono con Damiano. «L'auto sulla quale viaggiava è entrata nella sede della vostra ambasciata qui a Tel Aviv.» «Mi dia solo il tempo di raggiungerla», rispose il capo della CIA. «Temo che sia tardi: abbiamo perso troppi giorni per la mia convalescenza. Dobbiamo agire tempestivamente, se vogliamo scongiurare il pericolo di una catastrofe nucleare.» «Posso sempre far fermare - con le buone o con le cattive - quel bastardo di Corrige...» «No, in questo modo rimarremmo con le spalle al muro senza avere alcuna possibilità di difesa: Corrige deve credere di poter operare in tutta tranquillità, come se nessuno avesse scoperto le sue intenzioni. Soltanto
così riusciremo a conoscere le sue mire e, soprattutto, a individuare il nascondiglio dell'ordigno. Mentre lei è in viaggio, potrebbe 'raccomandarmi' al suo referente presso l'ambasciata, sempre che si tratti di persona fidata: sono certo che Corrige sia riuscito a tessere un'ottima rete di amicizie.» «Nessuno dei nostri potrebbe mai condividere un piano folle come...» «Esatto. È proprio perché nessuno conosce il suo piano che Corrige è in grado di contare sul potere che gli deriva dalla sua posizione.» «D'accordo. Contatterò immediatamente il nostro uomo in Israele e gli dirò di mettersi a sua disposizione.» Circa venti minuti più tardi - il Dan Hotel di Tel Aviv si trova a pochi isolati di distanza dall'ambasciata statunitense - Woody Ryker sedeva davanti a Breil nel salottino di una suite all'ultimo piano. Ryker non aveva l'aria dell'agente segreto: sembrava piuttosto un attempato cadetto uscito dall'accademia di West Point. Portava benissimo i suoi cinquantaquattro anni appena compiuti. I suoi modi erano attenti e educati. Oswald immaginò Woody intento a pelare un'arancia con coltello e forchetta: da quella specie di marine malriuscito non avrebbe certo potuto aspettarsi prontezza o azioni sul filo del rasoio. «Che cosa sa dirmi, Ryker, del generale Corrige, capo di un settore del dipartimento della Difesa? So che dovrebbe essere a Tel Aviv.» «Non molto, dottor Breil: il generale è arrivato in ambasciata da poco più di ventiquattr'ore. Ha chiesto a sua eccellenza l'ambasciatore di poter occupare una stanza per svolgere delle indagini coperte dal più stretto riserbo. Ha portato con sé un potente computer per non dovere usare apparecchi non sufficientemente schermati.» «Il suo computer personale?» «Sì, per motivi di sicurezza. Così mi hanno detto ieri i militari che stavano scaricando le casse dall'auto del generale.» «Lei deve farmi entrare in quella stanza, Ryker. Subito e senza che nessuno possa vedermi.» Un'ora e quaranta minuti più tardi le guardie in servizio erano state preavvertite dell'arrivo di alcuni nuovi mobili per l'ufficio di Ryker. I marine all'ingresso controllarono i documenti dei trasportatori, quindi diedero ordine di scaricare il camion. Ryker aprì lo sportello del mobile dopo che i facchini lo ebbero addossato alla parete del suo ufficio e se ne furono andati. Oswald si srotolò fuori
dallo spazio angusto, simile a un contorsionista. «Per fortuna, non ne potevo davvero più di stare lì dentro», disse Oswald muovendo il collo e stirando gli arti anchilosati. «Dove si trova la stanza che avete assegnato a Corrige?» «Esattamente un piano sopra a questa. È utilizzata come deposito di documenti, come l'intero ultimo piano, del resto. Credo sia ancora invasa da scartoffie di ogni tipo. Ma Corrige non si è formalizzato e ha detto che, per quello che doveva fare lui, i faldoni non gli avrebbero assolutamente dato fastidio.» «Dove si trova il generale in questo momento, Ryker?» «A colloquio con sua eccellenza l'ambasciatore. Sono stato io stesso a sollecitare l'incontro.» «Ben fatto, Woody. Mi faccia strada e diamo un'occhiata all'antro da dove Corrige pensa di poter dare avvio alla distruzione del mondo.» La porta dietro la quale l'ufficiale del dipartimento della Difesa aveva stabilito il proprio quartier generale a Tel Aviv non era dotata di particolari blindature, ma era chiusa a doppia mandata. L'ineffabile Ryker, con movenze degne di un maggiordomo inglese, estrasse, tra lo stupore di Breil, un piccolo grimaldello. Gli furono sufficienti pochi sapienti gesti e una trentina di secondi per aver ragione della serratura. La stanza aveva l'aspetto di un archivio semiabbandonato. I fascicoli giacevano un po' ovunque, dato che le scaffalature non erano più in grado di contenerne. La polvere si era depositata dappertutto e ricopriva con uno strato latteo e soffice buona parte del materiale che si trovava nella stanza. Il computer spiccava lindo e lucido in un angolo, vicino a una finestra. «È quello l'apparecchio che Corrige ha portato con sé?» «Credo di sì, dottor Breil.» «Sembra un normale computer, dotato di una CPU un po' più voluminosa delle normali torri in dotazione ai personal, simile a quelle utilizzate nei server. Proviamo a vedere che cosa vi ha nascosto Corrige.» Oswald premette sull'interruttore. Il ronzio della macchina gli segnalò che le procedure di accensione erano in atto. «Si ricordi che dobbiamo fare in fretta, dottor Breil. Non so per quanto tempo il generale si tratterrà con l'ambasciatore.» Il ronzio cessò di colpo, mentre sul monitor appariva la richiesta della password di accesso. Oswald si rese conto ancora una volta di quanto gli mancasse Bernstein: in pochi minuti il capitano del Mossad avrebbe saputo scardinare qualsiasi
barriera o filtro elettronico. Quindi le dita di Breil corsero sui tasti simili a quelle di uno scassinatore sui rulli della combinazione di una cassaforte. Con il cuore in gola digitò le sei lettere della parola «Amazon». La schermata cambiò e apparve la pagina iniziale del programma più conosciuto al mondo. «Adesso vediamo dove si trovano questi importanti segreti, Corrige...» disse Breil scorrendo la lista dei programmi. Ma la memoria del computer si rivelò vuota, eccezione fatta per i normali software che vengono installati al momento dell'acquisto di ogni nuova macchina. «Com'è possibile?» si chiese Breil ad alta voce. «Questo computer sembra vergine...» Poi l'idea lo folgorò. «Ryker, chiami qui gli artificieri più esperti che conosce sul disinnesco e rimozione di ordigni nucleari. E lo faccia in fretta!» Così dicendo, Oswald mise mano a una cassettina di attrezzi portatile e, estratto un cacciavite, cominciò ad armeggiare con l'involucro in metallo del computer. «Molto bene, Breil. Un'ottima deduzione, la sua. Peccato che le servirà davvero a poco: lei e il solerte Ryker sarete già morti quando gran parte dello Stato che non avrebbe mai dovuto esistere salterà in aria.» Corrige era entrato nella stanza. Nella mano destra stringeva una Smith and Wesson 38 dotata di silenziatore. «Il computer non è altro che un involucro, non è vero, Corrige? La torre della CPU in realtà è il contenitore della bomba?» «Esatto. Pensi, Breil: da una sfera di plutonio grande poco più del pugno di un uomo, gli scienziati iraniani sono riusciti a realizzare un ordigno dalla potenza di una dozzina di volte superiore a quello di Hiroshima. Il progresso della tecnica!» «Si rende conto che centinaia di migliaia di innocenti moriranno senza ragione, Corrige?» «Centinaia di migliaia di ebrei, vuol dire. Se la sua razza riuscirà a sopravvivere anche alle conseguenze del mio gesto, e mi riferisco a un conflitto senza precedenti e a scenari devastati dall'uso di ordigni nucleari, potreste sempre trovare altri Stati pronti a regalarvi una nuova terra promessa, come accadde alla fine della seconda guerra mondiale.» «Questa terra è nostra, Corrige. Lei lo sa e sa anche che sta per commettere un crimine contro l'intera umanità.» «Sto solo finalmente realizzando il progetto che i difensori della razza
ariana avrebbero voluto attuare molto tempo fa. Sarò io a portare a termine il progetto Amazzone. Io ho recuperato il materiale nucleare che Rahn ha cercato per tutta la vita e io lo utilizzerò per radere al suolo Israele. Se il Reich fosse stato in grado di costruire allora questo ordigno, la Storia avrebbe avuto un altro corso. Ma ora io porrò rimedio a tutto questo. Dalle ceneri del conflitto nucleare che si scatenerà a seguito dell'esplosione nascerà il Quarto Reich. Lei era l'unico vero impedimento alla realizzazione del piano: per questo motivo ho sempre cercato di tenerla sotto controllo. Peccato che i miei... colleghi non siano riusciti a farla fuori prima... Ma ora non ho più tempo per parlare tanto piacevolmente con lei: è ora che io inneschi il timer. Poi mi ci vorranno almeno un paio d'ore di volo per allontanarmi da qui. Le auguro che, nell'aldilà, ci sia qualcuno così gentile da soddisfare ogni sua curiosità. Addio per sempre, Oswald Breil.» Dal corridoio si udì la voce dell'archivista che stava spingendo un carrello pieno di documenti e canticchiava un celebre successo di Elvis Presley degli anni '60. Corrige ebbe un moto di disappunto e si distrasse per un istante. Non così Ryker che, con una prontezza sorprendente in un uomo flemmatico come lui, si aggrappò con tutte le sue forze alla scaffalatura metallica. L'intera struttura barcollò per un attimo. Corrige esplose alcuni colpi in direzione dei suoi nemici, quindi venne travolto dalla struttura d'acciaio. Oswald fece appena in tempo a scansarsi di lato mentre centinaia di pesanti faldoni si abbattevano sul militare con uno schianto. Corrige rimase immobile, gli occhi sbarrati, il cranio fracassato dallo spigolo aguzzo dello scaffale. Oswald si chinò su Ryker che giaceva a terra poco distante da lui. I colpi sparati dal generale erano andati a segno e avevano ferito l'agente in modo serio ma non letale. «Lei è ferito, dottor Breil?» disse con un filo di voce l'uomo. «No, Woody: sono salvo e lo devo al suo coraggio e alla sua prontezza.» «Che ne è di Corrige?» «È sepolto sotto qualche tonnellata di documenti e ha la testa sfondata. Non credo sia ancora vivo.» «Sono fiero di aver lavorato al suo fianco», disse ancora Ryker, prima di perdere i sensi. Golfo di Guinea, 2007
La piattaforma era stata costruita anni prima nel golfo di Guinea, a un centinaio di miglia dal delta del fiume Niger, per estrarre greggio dalle profondità marine. Poi il pozzo si era esaurito e la piattaforma petrolifera era stata abbandonata. Ora il continuo viavai di elicotteri e imbarcazioni aveva ridato vita all'intera struttura. A giudicare dalla quantità di mezzi utilizzati per raggiungere l'isola artificiale e dal dispiegamento di forze militari e di polizia, la caratura degli ospiti presenti per la cerimonia doveva essere davvero eccezionale. Il presidente francese fu il primo a prendere la parola. Il suo intervento fu contraddistinto da proclami di pace e richiami alla fratellanza tra i popoli che rasentavano la demagogia. «La Francia», concluse il presidente, «è fiera di poter partecipare a questo importante progetto di pace, con la speranza che esso rappresenti un percorso da seguire per sconfiggere povertà e indigenza nel continente africano.» Il presidente iraniano fu assai più incisivo e meno retorico. Non manifestò alcun imbarazzo nel ringraziare un ebreo che gli aveva salvato la vita e che aveva scongiurato un atto di guerra che avrebbe pregiudicato la sopravvivenza dell'intera razza umana. «Il merito», concluse Tahrjani, «di uomini come Oswald Breil è quello di riuscire ad aprire gli occhi altrui sulle più terribili realtà. È quello di dimostrare con i fatti che la fratellanza tra gli esseri umani esiste, e che si tratta solo di darle modo di esprimersi. Sono felice di dovere la vita a un cittadino israeliano e sono fiero di essere amico di Oswald Breil. Voglio qui dichiarare ufficialmente che l'Iran ha deciso di abbandonare ogni progetto teso alla realizzazione di armi nucleari. E che da oggi la nostra politica sarà improntata allo sviluppo di un rapporto di amicizia e di collaborazione tra Iran, Israele e l'intero Occidente. Il nostro è un messaggio di pace che siamo certi sarà accettato e condiviso. Abbiamo perso tutti troppo tempo ed energie per coltivare odio e rivalità, ma siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Per questo l'Iran ha accettato con entusiasmo di far parte di questo progetto voluto dalle Nazioni Unite.» Oswald salì sul palco, prese un mattone e lo cementò sul vasto piazzale della piattaforma petrolifera. Quindi sistemò l'asta del microfono alla sua altezza e parlò:
«Non so quanto questo mattone rappresenti l'inizio di un nuovo modo di pensare al futuro, al futuro delle nostre genti, dei nostri figli, delle nostre famiglie. Ma anche il progresso, la conoscenza e lo sviluppo sono andati avanti a piccoli passi. Sono convinto che la posa di questa pietra sarà il primo passo verso la pacifica collaborazione tra diverse civiltà. Non mi illudo che il Male possa essere definitivamente sconfitto o che il vento gelido che l'accompagna smetta di soffiare per sempre, ma certo con oggi si è chiusa una delle parentesi più dolorose del nostro passato. Altre rimangono ancora aperte. Altre ancora si apriranno. E noi lavoreremo per renderle innocue». Quando Oswald scese dal palco venne salutato da calorose strette di mano da parte di chi, assieme a lui, aveva rischiato la propria vita per scongiurare l'orribile minaccia che era stata sul punto di cambiare per sempre il corso della Storia. C'erano Bernstein, Damiano, Tamberly e Ryker ancora convalescente. C'era persino Mame-loshen Lilith Habar, che continuava a passarsi un fazzoletto sugli occhi rossi di pianto. L'anziana donna era tornata a essere la mite pensionata di un tempo: era come se, quando si era trasformata in una dea vendicatrice, fosse stata spinta e guidata da una invincibile forza esterna. Quando Oswald fu vicino a Sara, lei gli disse sorridendo: «Ti ricordo che mi hai promesso una vacanza. E questa volta pretendo il pagamento di quanto pattuito, Oswald Breil. E sarò io a decidere quale sarà la meta». La centrale nucleare, alimentata dal combustibile ricavato dall'ordigno inesploso, sarebbe entrata in funzione entro dodici mesi. Alla sua realizzazione avevano contribuito tutti gli Stati coinvolti nell'ultima avventura che aveva avuto in Oswald il suo eroe, dal Paraguay - che aveva messo a disposizione una cospicua fetta dei beni confiscati a van der Duick - all'Iran, alla Francia, che aveva deciso di non rivendicare alcun diritto di proprietà sul plutonio proveniente dalla Grotte des Chevaliers. La centrale avrebbe risolto i problemi di approvvigionamento elettrico per molte delle regioni più povere del continente africano. Montségur, 2007 «Ti avevo promesso una vacanza, ma tu la stai trasformando in una tortura!» disse Oswald ansimando, mentre affrontava l'ultimo tratto dell'irto
sentiero che conduce ai resti di Montségur. «Mancano ancora pochi metri, non mi abbandonerai proprio adesso, salvatore del mondo!» rispose Sara asciugandosi il sudore dalla fronte. Indossava un paio di scarponcini da montagna, pantaloncini color kaki e una maglietta bianca. Le sue gambe lunghe e abbronzate si muovevano agili e scattanti lungo la salita. Sulle spalle aveva uno zainetto nel quale aveva riposto il disco sacro a Hosh. Oswald, malgrado le continue proteste, se la cavava assai bene. Sembrava che fosse sempre vissuto fra picchi e burroni. Raggiunsero le rovine della roccaforte catara accompagnati da una piacevole brezza settembrina e dall'odore di erbe arse dal sole. Alla donna sembrava che, tra le mura a strapiombo e le torri diroccate, aleggiasse ancora lo spettro della tragedia che lì si era consumata quasi ottocento anni prima. Sara condusse Oswald verso un torrione che aveva resistito agli assalti degli uomini di Ugo d'Arcis, siniscalco del re, e alle ingiurie del tempo. «Questa era la torre centrale del fortilizio», disse Sara rivolta al suo accompagnatore. Quindi indicò una delle feritoie, estrasse il disco d'oro che era appartenuto ai capi di un popolo preistorico e poi, via via, agli eroici sostenitori dell'eresia catara, e incominciò a giocare con i riflessi di luce prodotti dal metallo. «Qui penetrano i raggi del sole, nel giorno del solstizio, e attraversano l'intera torre. Pensa quante storie potrebbe raccontare ognuna di queste pietre se potesse parlare.» «Già, storie di assalti e combattimenti, lanci di pietre e grida di guerrieri...» «Siete tutti uguali, voi uomini! E tu sei il miglior esponente della categoria, Oswald Breil. Voi pensate solo a guerre, armi e battaglie. Ma all'interno di queste mura, ne sono convinta, si sono scritte anche molte pagine di storie d'amore. Forse, su questi spalti, si sono giurati amore eterno uomini e donne mentre osservavano disperati avanzare il nemico. È l'amore il solo sentimento capace di superare anche lo spettro della...» «Della morte!» disse una voce minacciosa alle loro spalle. Nard Sourush era sbucato dal nulla. Brandiva un grosso pugnale e avanzava verso di loro con uno sguardo folle. «Vi sto seguendo da giorni e ora è giunto il mio momento. Adesso pareggeremo i conti, anche se il sogno del mio signore Pashelvi non si potrà mai più realizzare. Tu, piccolo ebreo, sarai il primo a morire.»
Il corpulento iraniano si scagliò contro Oswald Breil, travolgendolo. Quindi lo afferrò per i capelli, tirandogli la testa all'indietro. Con l'altra mano Nard Sourush sollevò il pugnale. Oswald tentò una reazione, ma la ferrea presa dell'energumeno gli impediva qualsiasi movimento. «Morirai sgozzato, come ogni infedele merita di morire.» Sara non si perse d'animo: bilanciò l'antico disco d'oro nella mano, ne percorse il bordo tagliente con i polpastrelli, quindi lo lanciò imprimendogli un moto circolare. Il disco si librò nell'aria ruotando vorticosamente. Il disco colpì Sourush alla base del collo. L'iraniano strabuzzò gli occhi, si volse incredulo verso Sara, quindi abbandonò la presa, portandosi entrambe le mani alla ferita nell'inutile tentativo di fermare il sangue che zampillava dalla giugulare recisa. L'uomo mosse pochi passi, barcollando. Giunse nei pressi della feritoia e lì inciampò, perdendo l'equilibrio. Sourush tentò invano con le ultime forze che gli restavano di aggrapparsi allo stipite, ma fu inutile e precipitò dalla torre nella corte sottostante. «Adesso è davvero finita. Grazie, Sara», disse ansimando Oswald. Sara gli strinse la mano e lo guardò negli occhi. Il respiro scosso dall'affanno, nello sguardo ancora la paura. Rimasero in silenzio per un po' tenendosi la mano in preda a un turbamento che aveva sempre meno a che fare con la paura. Poi la donna sorrise e riprese il discorso che bruscamente era stata costretta a interrompere, sperando di riuscire ad apparire distaccata e di non tradire quella nuova emozione. «Parlavo di promesse d'amore... di un amore in grado di superare anche lo spettro della morte.» Oswald le strinse la mano e l'attirò a sé. Poi posò le sue labbra su quelle di lei. Sara chiuse gli occhi e si abbandonò a quel bacio. «Un amore come il nostro. Un amore capace anche di sconfiggere il Male...» I raggi del sole si rifletterono sul disco di Hosh che era caduto a terra di fianco a loro componendo il disegno di una farfalla dorata dalle ali spiegate. L'immagine si stagliò nitida davanti all'uomo e alla donna abbracciati. NOTA DELL'AUTORE Una delle domande che più frequentemente mi vengono rivolte è dove si trovi, nei miei lavori, il confine tra la trattazione storica e la fantasia. Sono
spesso tentato di rispondere che la Storia viene quasi sempre scritta dai vincitori e quindi raramente rispecchia il corretto avvicendarsi degli avvenimenti. Ho sempre cercato, nel descrivere vicende all'interno delle quali si muovono personaggi partoriti dalla mia fantasia, di attenermi rigorosamente ai fatti così come la Storia ce li ha riportati. Nel farlo sono tuttavia più volte incappato in strane coincidenze. Ma, del resto, la Storia assomiglia spesso al più avvincente dei romanzi d'avventura. Rudolf Hess si è ufficialmente suicidato nel carcere di Spandau il 17 agosto 1987. In quello stesso giorno, sessantanove anni prima, veniva fondata la Thule, società segreta di cui Hess faceva parte e che rappresentò l'origine dell'ideologia nazista. Dovremo però attendere il 2017 perché vengano finalmente resi pubblici i dossier britannici sul caso Hess. Quello che venne archiviato come il suicidio di Otto Rahn ebbe luogo il 16 marzo 1939. In quello stesso giorno, seicentonovantasei anni prima, cadeva l'ultima roccaforte del pog di Montségur, il luogo in cui Rahn aveva speso gran parte della sua vita per riuscire a svelare il segreto dei catari. I corpi di Adolf Hitler, Martin Bormann e Heinrich Himmler, dopo essere stati sommariamente esaminati, furono sepolti in località segrete. Nessuno ha mai potuto e mai potrà compiere un approfondito esame che riesca a regalare al mondo la certezza delle loro identità. È mia ferma convinzione che nei pressi di quegli anonimi e ormai sconosciuti luoghi di sepoltura ancora si possa sentire il soffio di un vento freddo e maligno. Il vento dei demoni... RINGRAZIAMENTI Alle mie «donne»: Consuelo, Andrea e Beatrice. Il tempo passa, la bibliografia personale diventa sempre più ricca e voi riuscite ancora ad accogliere con sorrisi, coccole e tranquillità ogni bizza e malumore di un autore impegnato nella stesura di un romanzo. A mia madre Maria Luisa che, per la prima volta, non mi leggerà. A tutti quelli che hanno accolto con disponibilità ogni mia domanda, cercando di dare un senso ai miei dubbi e alle mie curiosità. A tutti quelli che hanno scritto sugli argomenti trattati e, in particolare:
AA.VV., Storia e Segreti del Nazismo, Finson Spa, 2002 (DVD). Enzo Angelucci, Paolo Matricardi, Guida pratica agli aeroplani di tutto il mondo, Mondadori, Milano, 1978. Mario Baudino, Il mito che uccide, Longanesi, Milano, 2004. Ian Black, Benny Morris, Israel's Secret Wars, Grove Press, New York, 1991. Luigi Bonanate, Terrorismo internazionale, Giunti, Firenze, 2001. Robert de Boron, Il libro del Graal. Giuseppe di Arimatea, Merlino, Perceval, Adelphi, Milano, 2005. Mario Del Pero, La CIA. Storia dei servizi segreti americani, Giunti, Firenze, 2001. R. Di Nunzio, U. Rapetto, L'atlante delle spie, BUR, Milano, 2002. G. Filoramo, M. Massenzio, M. Raveri, P. Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari, 1998. Jean Fiori, Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Einaudi, Torino, 1999. Ernest Fornairon, La tragedia dei catari. La crociata contro gli albigesi, 1207-1244, Sugar, Milano, 1969. Antonio Frescaroli, La Gestapo, De Vecchi Editore, Milano, 1967. Nicholas Goodrick-Clarke, Le radici occulte del nazismo, SugarCo Edizioni, Milano, 1992. Jean Guilaine, Guida alla Preistoria, Gremese Editore, Roma, 2004. Robert Jackson, Submarines of the World, Amber Books Ltd. for Grange Books, London, U.K., 2000. Eric A. Johnson, Il terrore nazista, Mondadori, Milano, 2001. Jean Markale, Santi o eretici? L'enigma dei catari, Sperling & Kupfer, Milano, 2005. François Massoulié, I conflitti del Medio Oriente, Giunti, Firenze, 2003. Otto Rahn, Crociata contro il Graal, Soc. Editrice Barbarossa, Saluzzo, 1999. Otto Rahn, La Corte di Lucifero, Soc. Editrice Barbarossa, Saluzzo, 1989. Jean Richard, La grande storia delle crociate, Newton & Com-
pton, Roma, 1999. Michel Roquebert, I catari. Eresia, crociata, Inquisizione dall'XI al XIVsecolo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2003. Christian Salès, Secrets & legendes du Pays Cathares, Racines Occitanes, 2003 (DVD). Elena Spagnol, Enciclopedia delle citazioni, Garzanti, Milano, 2000. Rudiger Sunner, Schwarze Sonne, Absolut Medien, 1997 (DVD). Georges Tate, Le Crociate. Cronache dall'Oriente, Electa Gallimard, Torino, 1994. Wewelsburg, Westfalischen Landesmedienzentrums, 2006 (DVD). Francesco Zambon, a cura di, La cena segreta. Trattati e rituali catari, Adelphi, Milano, 1997. Grazie anche allo sconfinato sapere che ci regala la Rete: i siti relativi agli argomenti trattati sono in grado di soddisfare ogni curiosità.
FINE