Michael Moorcock
IL SIGNORE DEL CAOS
Capitolo Primo AL CASTELLO DI ERORN
Al Castello di Erorn viveva la famiglia del...
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Michael Moorcock
IL SIGNORE DEL CAOS
Capitolo Primo AL CASTELLO DI ERORN
Al Castello di Erorn viveva la famiglia del principe Vadhagh, Khlonskey. Questa famiglia aveva occupato il castello per molti secoli. Nutriva un amore viscerale per il triste mare che lambiva le mura settentrionali di Erorn e la bella foresta che saliva fitta lungo i suoi fianchi meridionali. Il Castello di Erorn era così antico che sembrava interamente fuso nella roccia del picco smisurato che sovrastava il mare. All'esterno, era tutto uno splendore di torrette diroccate dal tempo e di massi levigati dal sale. All'interno, c'erano delle pareti mobili che cambiavano struttura in accordo con gli elementi e mutavano di colore quando il vento cambiava di direzione. Vi erano sale piene di combinazioni cristalline e fontane che zampillavano in ricercati e complicati getti, raffiguranti i membri della famiglia, taluni viventi, altri morti. E gallerie piene di quadri dipinti sul velluto, di marmi e di vetrate, opere degli antenati artisti del principe Khlonskey. E biblioteche piene di manoscritti redatti da membri delle razze Vadhagh e Nhadragh. Sempre nel castello, v'erano inoltre sale con statue, e v'erano uccelliere e serragli, osservatori, laboratori, nidi per bambini, giardini, camere di meditazione, gabinetti di medicina, palestre, collezioni di
arnesi da guerra, cucine, planetari, musei, luoghi di preghiera, e così pure sale lasciate libere per compiti meno specifici, oppure sale che costituivano gli appartamenti di coloro che vivevano nel castello. Nel castello, benché una volta ve ne fossero vissute cinquecento, in quell'epoca vivevano dodici persone. Il principe Khlonskey, molto vecchio; sua moglie, Colatalarna, apparentemente molto più giovane di suo marito; Ilastru e Pholhinra, le sue figlie gemelle; il principe Rhanan, suo fratello; Sertreda, suo nipote; Corum, suo figlio. I rimanenti cinque erano fittavoli, lontani cugini del principe. Tutti possedevano le fattezze caratteristiche dei Vadhagh: i crani stretti e allungati; le orecchie erano quasi senza lobi, accostate lungo il capo; belle chiome che un soffio avrebbe fatto gonfiare, come nubi leggere, sulla loro faccia; grandi occhi a mandorla con pupille gialle contornate di porpora; bocche larghe con labbra ben pronunciate; e la pelle, di uno strano color rosa a macchie dorate. I loro corpi erano alti, esili e ben proporzionati; si muovevano con una grazia affettata che faceva assomigliare il loro portamento umano al dinoccolarsi di una scimmia sciancata. Dal momento che si occupava principalmente di remoti passatempi intellettuali, la famiglia del principe Khlonskey, da duecento anni, non aveva più avuto alcun contatto con altre stirpi Vadhagh e, da trecento, non aveva più visto un Nhadragh. Per oltre un secolo, nessuna notizia del mondo esterno era arrivata fino a loro. Soltanto una volta avevano visto un Mabden — una femmina — che era stata messa in un serraglio e ben curata, ma visse poco più di cinquant'anni e quando morì non fu più rimpiazzata. Da allora, naturalmente, i Mabden si erano moltiplicati e abitavano ora, così sembrava, larghe zone del Broan-Vadhagh. C'erano pure voci, stando alle quali qualche castello Vadhagh era stato invaso dai Mab-
den, che ne avevano sopraffatto gli abitanti e fors'anche distrutto i focolari. Il principe Khlonskey trovava tutto ciò difficile da credersi. D'altra parte, il parlarne rivestiva ben scarso interesse per lui o per la sua famiglia. C'erano tant'altre cose da discutere, tante fonti più complesse di ragionamento, centinaia di argomenti più dilettevoli. La pelle del principe Khlonskey era bianca come il latte e così sottile che tutte le vene ed i muscoli erano chiaramente visibili in trasparenza. Egli era vissuto per oltre mille anni, e solo recentemente l'età cominciava a indebolirlo. Ma quando la debolezza fosse divenuta insopportabile, quando i suoi occhi avessero cominciato ad offuscarsi, egli avrebbe posto fine alla sua vita alla maniera dei Vadhagh: entrando nella Camera dei Vapori, mettendosi a giacere su cuscini e coperte di seta, ad inalare i diversi gas dal dolce odore, fino alla morte. I suoi capelli, con l'età, erano diventati castano-dorati ed il colore dei suoi occhi si era addolcito in una specie di rosa violaceo, con le pupille di arancio intenso. I suoi abiti erano troppo larghi per il suo corpo, ma nonostante si appoggiasse ad un bastone di platino intrecciato, foggiato sul metallo incandescente, il suo portamento era ancora altero e la schiena non era ancora ricurva. Un giorno andò a cercare suo figlio, il principe Corum, in una camera dove si suonava musica creata da tubi, vuoti all'interno, da ruote che vibravano e da pietre ruotanti. La musica, estremamente semplice e sommessa, fu quasi sommersa dal rumore del piede di Khlonskey sulla tappezzeria, del battito del suo bastone e dal mormorio del respiro nella sua gola sottile. Il principe Corum distolse la sua attenzione dalla musica e rivolse a suo padre uno sguardo di cortese aspettativa. « Padre? » « Corum. Perdona l'interruzione. »
« Naturalmente. Oltre tutto, non ero soddisfatto della mia opera. » Corum sorse fra i suoi cuscini e si avvolse intorno il mantello scarlatto. «Corum, occorre che io vada presto a visitare la Camera dei Vapori », disse il principe Khlonskey, « e, presa questa decisione, mi è venuto in mente di indulgere a un capriccio. Però ho bisogno del tuo aiuto. » Il principe Corum amava suo padre, ma rispettò la sua decisione. Disse gravemente: « Quell'aiuto vi spetta, padre. Cosa posso fare? » « Vorrei conoscere qualcosa del destino dei miei parenti. Del principe Opash che dimora al Castello di Sarn, nell'est. Della principessa Lorim, che sta nel Castello di Crachah, nel sud. E del principe Faguin che vive nel Castello di Gal, al nord. » Il principe Corum aggrottò le ciglia. « Benissimo, padre, se... » « So quello che pensi, figlio — che potrei scoprire ciò che desidero conoscere con mezzi occulti. Eppure non è così. Per qualche ragione, mi è difficile entrare in rapporto con gli altri piani. Anche la percezione che io ho di loro è più sfumata di quanto dovrebbe essere se tento di entrare in essi con i miei sensi. Ed entrarci fisicamente mi è quasi impossibile. Forse è la mia età... » « No, padre », disse il principe Corum, « anch'io lo trovo difficile. Una volta era facile muoversi attraverso i Cinque Piani a volontà. Con uno sforzo di poco più grande si potevano contattare i Dieci Piani, sebbene, come ben sai, pochi abbiano potuto entrarci fisicamente. Ora, sono incapace di far di più che vedere e sentire occasionalmente gli altri quattro piani che, assieme al nostro, formano lo spettro attraverso il quale il nostro pianeta passa direttamente nel
suo cielo astrale. Io non capisco come si sia potuta verificare questa mancanza di sensibilità. » « E nemmeno io », disse il padre. « Ma sento che dev'essere un portento. Ciò sta ad indicare un cambiamento di grande portata nella natura della nostra terra. Questa è la ragione principale per cui vorrei scoprire qualcosa dei miei parenti e, possibilmente, sapere se essi conoscono per quale ragione i nostri sensi diventano vincolati ad un unico piano. Ciò è innaturale. Ed è paralizzante. Stiamo forse per diventare come le bestie di questo piano che si accorgono soltanto di una dimensione e non hanno alcuna comprensione dell'esistenza delle altre? E' forse all'opera qualche processo di involuzione? Forse che i nostri figli non conosceranno nulla delle nostre esperienze e ritorneranno lentamente verso lo stadio di quei mammiferi acquatici da cui sorse la nostra razza? Io ammetto, figlio mio, che vi sono tracce di paura nella mia mente. » Il principe Corum non cercò di rassicurare suo padre. « Ho letto una volta la storia dei Blandhagna », disse con aria pensosa. « Formavano una razza che si basava sul Terzo Piano. Un popolo molto raffinato. Ma qualcosa si impadronì dei loro geni e dei loro cervelli e, nello spazio di cinque generazioni, si mutarono in una specie di rettili volanti, ancora muniti di tracce della loro intelligenza precedente e ciò fu sufficiente per farli impazzire e, alla fine, distruggerli completamente. Ma cos'è, mi chiedo, che produce queste regressioni? » « Soltanto i Signori della Spada lo sanno », disse il padre. Corum sorrise. « E i Signori della Spada non esistono affatto. Comprendo la vostra ansia, padre. Vorreste che io visitassi questi vostri parenti e portassi loro i vostri saluti. E dovrei scoprire se essi stan-
no bene o se hanno notato ciò di cui noi ci siamo accorti al Castello di Erorn. » Il padre fece un cenno di assenso. « Se le nostre percezioni si riducono al livello di quelle di un Mabden, c'è ben poca speranza di sopravvivenza per la nostra razza. Cerca anche di scoprire, se ti è possibile, come stanno i Nhadragh — se questo ottundimento del senso ha colpito anche loro. » « Le nostre due razze sono pressappoco della stessa età », mormorò Corum. « Forse accusano gli stessi mali. Ma non disse forse qualcosa il vostro parente Shulag, quando venne a visitarvi alcuni secoli fa? » « Sì. Shulag disse che i Mabden erano venuti da occidente con delle navi e avevano soggiogato i Nhadragh, uccidendone la maggior parte e riducendone in schiavitù i sopravvissuti. Eppure mi è difficile credere che i Mabden, semi-animali, non importa il loro numero, abbiano avuto sufficiente ingegno da sconfiggere l'abilità dei Nhadragh. » Il principe Corum contrasse le labbra e rifletté. « E' possibile che si siano moltiplicati a dismisura », disse. Il padre si voltò per lasciare la sala, con il suo bastone di platino intarsiato di rubini che batteva leggermente sul tessuto, sfarzosamente ricamato, che copriva le pietre del pavimento, mentre la sua mano delicata lo teneva più stretto del solito. « Non accorgersi di un potenziale pericolo è una cosa », disse, « ed altra cosa è il timore di una rovina impossibile. Ambedue le cose, naturalmente, sono alla fine distruttive. Non dobbiamo pensarci più, visto che al tuo ritorno ci porterai la risposta a queste domande. Risposta che noi potremmo comprendere. Quando partiresti? » « Avevo in animo di completare la mia sinfonia », disse il principe Corum. « Ciò mi occuperà, più o meno, un'altra giornata. Partirò la mattina del giorno successivo a quello in cui avrò finito. »
Il principe Khlonskey scosse, soddisfatto, la sua vecchia testa. « Grazie, figlio mio. » Dopo che egli se ne fu andato, il principe Corum rivolse nuovamente la sua attenzione alla musica, ma si accorse che gli era difficile applicarvisi senza distrarsi. I suoi pensieri cominciarono a concentrarsi sul compito che aveva accettato di portare a termine. Una certa emozione lo afferrò. Credette che fosse eccitazione. Quando avesse iniziata la ricerca, sarebbe stata la prima volta nella sua vita a lasciare i dintorni del Castello di Erorn. Cercò di calmarsi, perché era contro le usanze del suo popolo lasciarsi prendere da eccessi emotivi. « Sarà istruttivo », mormorò tra sé e sé, « vedere il resto di questo continente. Avrei voluto che la geografia mi avesse interessato di più. Conosco a malapena i contorni del Bro-an-Vadhagh, per non parlare del resto del mondo. Forse dovrei studiarmi qualcuna delle mappe e i racconti dei viaggiatori che sono nella biblioteca. Sì, ci andrò domani, o forse domani l'altro. » Nemmeno allora il principe Corum avvertì alcun senso di urgenza. I Vadhagh erano un popolo che viveva a lungo; essi erano abituati a dar tempo all'azione, considerandola ed esaminandola nei suoi aspetti, prima di compierla; passavano settimane o mesi in meditazione, prima di intraprendere qualche studio o qualche lavoro creativo. Ma poi il principe Corum decise di abbandonare la sua sinfonia, alla quale aveva lavorato negli ultimi quattro anni. Forse l'avrebbe ripresa al suo ritorno, forse no. Non aveva importanza alcuna.
Capitolo
Secondo
LA PARTENZA DEL PRINCIPE CORUM
E così, con le orme del cavallo celate dalla candida bruma del mattino, il Principe Corum cavalcò fuori dal castello di Erorn per cominciare la sua ricerca. La pallida luce smorzava le linee del castello e così esso sembrava più che mai fondersi con l'altezza imponente della roccia su cui poggiava, e anche gli alberi che crescevano a lato del sentiero che Corum discendeva, parevano fondersi ed unirsi alla bruma così che il paesaggio era una visione silenziosa di teneri colori dorati, verdi e grigi tinti dai rosei raggi di un sole distante e seminascosto. E, oltre la roccia, si poteva sentire il mare, nascosto dalla nebbia, che si ritraeva dalla spiaggia. Quando Corum raggiunse i pini profumati e le betulle della foresta, uno scricciolo cominciò a cantare e gli rispose il gracchiare di una cornacchia, ma ambedue tacquero come spaventati dai suoni che la loro stessa gola aveva prodotto. Corum continuò a cavalcare attraverso la foresta finché il mormorio del mare si spense dietro di lui e la nebbia cominciò a dileguarsi alla calda luce del sole nascente. Questa antica foresta gli era familiare ed egli l'amava, perché era qui che aveva cavalcato da ragazzo ed aveva imparato l'ormai disusata arte della
guerra, considerata da suo padre come una maniera utile come ogni altra per rendere agile e forte il suo corpo. Qui, pure, egli era giaciuto per interi giorni a spiare i piccoli animali che abitavano la foresta — il piccolo animale grigio giallo con un corno in fronte, non più grosso di un cane; l'uccello con le ali a ventaglio e di vivaci colori che poteva librarsi più in alto di dove i suoi occhi potevano scorgerlo e costruiva pure il suo nido in tane abbandonate di volpi e di tassi sotto il terreno; il grosso morbido maiale con peli neri e ricciuti che si nutriva di muschio; e molti altri. Il principe Corum si accorse che aveva quasi dimenticato i piaceri della foresta per il lungo tempo trascorso all'interno del castello. Un piccolo sorriso segnò le sue labbra quando egli si guardò intorno. La foresta, pensava, sarebbe durata in eterno. Qualcosa di così bello non poteva perire. Ma questo pensiero lo spinse, per qualche ragione, in uno stato d'animo melanconico e così spinse il cavallo ad un'andatura un po' più veloce. Il cavallo era felice di galoppare veloce come desiderava Corum, anch'esso conosceva la foresta ed era felice di quell'esercizio. Era un rosso cavallo Vadhagh con coda e criniera nere e bluastre, era forte, alto, aggraziato, non come gli irsuti e piccoli pony selvaggi che abitavano la foresta. Aveva una gualdrappa colorata di velluto giallo da cui pendevano delle borse; due lance; uno scudo piatto e rotondo costituito da differenti spessori di legno, ottone, cuoio ed argento; un lungo arco di osso; ed una faretra che conteneva un buon numero di frecce. In una delle borse c'erano provviste per il viaggio, in un'altra, libri e mappe che servivano da guida e diletto. Il principe Corum portava un elmo d'argento a forma di cono, con impresso il suo nome in tre caratteri che sovrastavano la corta visiera — Corum Jhaelen Irsei — che significavano Corum, il Principe dal Mantello Scarlat-
to. Era costumanza dei Vadhagh scegliersi un mantello di un colore distintivo ed identificarsi l'un l'altro a mezzo di esso, mentre i Nhadragh usavano pennacchi e vessilli maggiormente complicati. Ora Corum indossava il mantello. Esso aveva lunghe larghe maniche e un orlo lavorato che ricadeva indietro sulla groppa del cavallo, ed era aperto davanti. Alle spalle era fissato un cappuccio abbastanza largo da coprire l'elmetto. Esso era fatto con la bella pelle sottile di una creatura che si pensava vivesse in un'altra dimensione sconosciuta perfino ai Vadhagh. Di sotto l'abito era costituito da una doppia armatura composta da milioni di maglie sottili. Lo strato superiore di questa armatura era d'argento e lo strato inferiore d'ottone. Per armi, Corum portava una ascia di guerra Vadhagh dalla lunga impugnatura e dalla lavorazione delicata e complicata, una lunga e robusta spada di un metallo senza nome, lavorato in una dimensione differente da quella della terra, con un pomo e una guardia di argento lavorato ed onice nera e rossa. La sua tunica era di sciamito blu, i suoi calzoni e gli stivali erano di cuoio finemente conciato, al pari della sella con le rifiniture di argento. Di sotto all'elmo uscivano un po' dei bei capelli argentei del Principe Corum e la sua faccia giovanile recava ora una espressione che era metà introspezione, metà eccitata anticipazione di fronte ai suoi primi sguardi sulle antiche terre del suo popolo. Cavalcava da solo perché tutti i fittavoli erano necessari al Castello, e cavalcava in sella ad un cavallo piuttosto che viaggiare con un carro perché desiderava procedere con la massima velocità possibile. Ci sarebbero voluti dei giorni prima di raggiungere il primo dei molti castelli che egli doveva visitare, ma egli cercava di immaginare quanto sarebbero state diverse le dimore del suo popolo e quanto lo avrebbero impressionato anche le persone. Forse tra loro
avrebbe anche trovato una moglie. Egli sapeva, anche se suo padre non ne aveva fatto parole, che questa era stata una considerazione in più nella mente del principe Khlonskey, quando il vecchio l'aveva pregato di compiere questa missione. Ben presto Corum lasciò la foresta e raggiunse la grande pianura chiamata Broggfythus dove una volta i Vadhagh ed i Nhadragh si erano scontrati in una sanguinosa e mistica battaglia. Era stata l'ultima battaglia combattuta fra le due razze, e nel suo culmine aveva infuriato in tutt'e cinque le dimensioni. Senza dare né vinti né vincitori, essa aveva distrutto più dei due terzi di ciascuna razza. Corum aveva udito che ora c'erano molti castelli vuoti attraverso Bro-an-Vadhagh, e molte città vuote nelle isole Nhadragh che stavano oltre il mare, di fronte al castello di Erorn. Verso mezzogiorno Corum si trovò al centro di Broggfythus e giunse alla località che segnava il confine nei territori che egli aveva percorso da ragazzo. Qui c'erano le rovine piene d'erbacce della grande città celeste che, durante la battaglia durata un mese, combattuta dai suoi antenati, era stata trasportata a gran velocità da una dimensione all'altra, forzando la fine struttura che divideva le differenti dimensioni della terra finché, crollando da ultimo sulle schiere riunite dei Vadhagh e dei Nhadragh, le aveva distrutte. Provenendo da una dimensione differente, il metallo ritorto e la pietra della città celeste mantenevano ancora quell'effetto peculiare di spostamento. Ora aveva l'apparenza di un miraggio, ma nonostante le erbacce, le ginestre spinose e gli alberi di betulla, sparpagliati intorno, sembrava abbastanza solida. In altre occasioni di minor urgenza, il principe Corum si era divertito a spostare la sua prospettiva da una dimensione all'altra, per vedere i differenti aspetti della città, ma lo sforzo richiedeva in quei gior-
ni un'energia troppo grande e al presente le diafane rovine non rappresentavano null'altro che un ostacolo attorno al quale egli era costretto a fare vari giri, poiché si estendevano in una circonferenza di più di venti miglia. Ma infine egli raggiunse l'orlo della pianura chiamata Broggfythus; il sole stava tramontando mentre egli lasciava dietro di sé il mondo conosciuto e continuava a cavalcare verso sud-ovest, verso paesi che conosceva soltanto dalle mappe che portava con sé. Egli cavalcò assiduamente ancora per tre giorni senza soste finché il cavallo rosso non mostrò segni di stanchezza, e così in una piccola vallata attraverso cui scorreva un fiume gelido, egli fece il campo e si riposò un poco. Corum mangiò una fetta del leggero e nutriente pane della sua gente e si sedette appoggiandosi con la schiena al tronco di una vecchia quercia, mentre il suo cavallo brucava l'erba sulla riva del fiume. Corum aveva accanto a sé l'elmo argenteo, l'ascia e la spada. Respirava l'aria odorosa di fronde e si rilassava contemplando le distanti cime delle montagne, blu, grigie e bianche. Era un paese piacevole e tranquillo ed egli si divertiva ad attraversarlo. Un tempo, lo sapeva, era stato abitato da parecchi insediamenti Vadhagh, ma ora non vi era alcuna traccia di essi. Come se fossero fioriti nel paesaggio o fossero stati inghiottiti da esso. Una o due volte egli credette di scorgere su rocce dagli strani profili le forme di castelli Vadhagh, ma ora non erano null'altro che rocce. Lo sfiorò il pensiero che tali rocce fossero i resti trasformati delle dimore Vadhagh, ma alla luce dell'intelligenza rigettò una cosa così impossibile. Tali immagini erano materia della poesia, non della ragione. Egli sorrise alle proprie fantasticherie e si appoggiò più comodamente all'albero. Con altri tre giorni di viaggio, sarebbe giunto al castello di Crachah, do-
ve viveva sua zia; la Principessa Lorim. Osservò il suo cavallo ripiegare le zampe e accovacciarsi sotto gli alberi per dormire, si coprì col suo mantello scarlatto, calò il cappuccio e prese anch'egli a dormire.
Capitolo Terzo L'ORDA DEI MABDEN
Alla metà del mattino seguente il principe Corum fu svegliato da suoni che in qualche modo non si addicevano alla foresta. Anche il suo cavallo li aveva sentiti, perché era in piedi e annusava l'aria, mostrando piccoli segni di agitazione. Corum aggrottò le ciglia e si diresse verso le fredde acque del fiume per lavarsi la faccia e le mani. Si fermò, ascoltando ancora. Un colpo sordo. Un tintinnìo. Un rumore metallico. Egli credette di sentire una voce che gridava lontano giù nella valle e aguzzando lo sguardo in quella direzione credette di veder qualcosa che si muoveva. Corum ritornò a grandi passi dove aveva lasciato il suo equipaggiamento, raccolse l'elmo ponendoselo sul capo, fissò la guaina della sua spada al cinturone e attaccò l'ascia dietro la schiena. Quindi cominciò a sellare il cavallo mentre questo beveva dalla riva del fiume. Ora i suoni erano più forti e, per qualche ragione, Corum sentì un'inquietudine penetrare nella sua mente. Montò a cavallo, ma continuò a stare all'erta. Su per la vallata veniva una marea di bestie con dei carri. Qualcuna di quelle creature era rivestita di ferro, pellicce e cuoio. Corum pensò che questa era
l'orda dei Mabden, sapeva che si trattava di una razza per la maggior parte migratoria, costantemente in movimento; quando aveva esaurito una certa area si muoveva per cercare nuova selvaggina e pascoli incolti. Egli fu sorpreso di notare quanto fossero simili alle armi ed alle armature Vadhagh le spade, gli scudi e gli elmetti portati da qualcuno dei Mabden. Quando vennero più vicino Corum continuò ad osservarli con intensa curiosità, come se volesse studiare qualche bestia rara mai vista prima d'allora. Essi costituivano un gruppo numeroso, guidavano bighe da combattimento barbaramente decorate con ottone e bronzo battuto, trainate da cavalli dal lungo pelo, con finimenti di cuoio dipinto da un opaco rosso, giallo e blu. Dietro venivano dei carri, alcuni aperti altri con dei ripari. Forse questi ultimi trasportavano le donne, pensava Corum, perché non si vedevano da nessun'altra parte. I Mabden avevano grosse luride barbe, lunghi baffi ricurvi e capelli scuri che uscivano di sotto ai loro elmi. Mentre si muovevano, si lanciavano grida l'un l'altro e si passavano di mano degli otri di vino. Corum riconobbe attonito il loro linguaggio come la lingua comune ai Vadhagh ed ai Nhadragh, per quanto resa più dura e molto più imbastardita. Così i Mabden avevano imparato una forma ricercata di linguaggio. Di nuovo lo pervase un inesplicabile senso di inquietudine. Corum spinse il suo cavallo all'ombra degli alberi, continuando a spiare ciò che accadeva. Ora poteva vedere perché tanti elmetti e tante armi gli riuscivano familiari. Erano gli elmi e le armi dei Vadhagh. Corum ne fu scosso. Erano forse stati saccheggiati da qualche vecchio castello abbandonato dei Vadhagh? Oppure erano dei doni? O forse erano stati rubati?
I Mabden indossavano anche armi ed armature della propria rozza fattura, certamente copie della lavorazione Vadhagh e così pure alcuni strumenti Nhadragh. Alcuni indossavano abiti rubati di sciamito e di lino, ma per la maggior parte portavano mantelli di pelle di lupo, cappucci d'orso, giubbotti e calzoni di pelle di foca, giacche di pecora e cappelli di capra, gonnellini di pelle di coniglio e stivali di pelle di maiale, camicie di pelle di daino o di lana. Alcuni avevano catene d'oro, bronzo e ferro appese al collo o legate intorno alle braccia e alle gambe, o persino intrecciate ai loro capelli sporchi. Ora, come poteva vedere Corum, essi cominciavano ad oltrepassarlo. Represse un colpo di tosse non appena il loro odore raggiunse le sue narici. Molti erano così ubriachi che a stento riuscivano a tenersi in piedi sulle bighe. Le pesanti ruote rumoreggiavano ed i cavalli faticavano con gli zoccoli su per la salita. Corum vide che i carri non contenevano femmine, ma bottino. La gran parte di esso era costituito da tesori Vadhagh, non era possibile sbagliarsi. Non si poteva interpretare quest'evidenza in alcuna altra maniera. Questo era un gruppo di guerrieri — in viaggio o in cerca di bottino, Corum non ne poteva essere sicuro. Ma trovava difficile da accettare che queste creature avessero dato battaglia ai guerrieri Vadhagh ed avessero vinto. Ora stavano per passare gli ultimi carri della carovana e Corum vide che alcuni Mabden vi camminavano dietro, legati ai carri da funi annodate ai loro polsi. Questi Mabden non portavano alcuna arma ed erano quasi del tutto svestiti. Erano magri ed i loro piedi erano scalzi e sanguinanti, gemevano e si lamentavano di quando in quando. Spesso la risposta dei guidatori dei carri a cui essi erano legati era una imprecazione o uno scoppio di risa cui seguiva una tirata alle funi per farli ruzzolare a terra.
Uno di essi inciampò e cadde, e cercò disperatamente di rimettersi in piedi mentre era trascinato via. Corum provò orrore. Perché i Mabden trattavano la loro stessa razza in questo modo? Neanche i Nhadragh che erano ritenuti più crudeli dei Vadhagh, avevano mai provocato tali sofferenze ai prigionieri Vadhagh nei tempi passati. « Sono particolarmente brutali, in verità », rifletté Corum a mezza voce. Uno dei Mabden in testa alla carovana gettò un alto grido e condusse la sua biga a fermarsi accanto al fiume. Cominciarono a fermarsi le altre bighe ed i carri. Corum vide che essi intendevano fare il campo in questo posto. Affascinato, continuava ad osservarli, ritto sul suo cavallo, nascosto in mezzo agli alberi. I Mabden tolsero i gioghi dai cavalli e li condussero verso l'acqua. Presero dai carri dei pali e delle pentole e cominciarono ad accendere fuochi. Verso il tramonto mangiarono, mentre nulla venne dato ai prigionieri, sempre legati ai carri di guerra. Quando ebbero finito di mangiare, cominciarono di nuovo a bere e ben presto più della metà dell'orda fu resa insensibile dal vino trangugiato, si stese sull'erba e prese a dormire dove cadeva. Altri si rotolarono sul terreno impegnati in lotte scherzose, ma molte di esse si fecero furiose e così furono estratti i coltelli e le asce e cominciò a scorrere il sangue. II Mabden che aveva gridato all'inizio alla carovana di fermarsi ruggì rivolto agli uomini che combattevano e, barcollando in mezzo a loro e stringendo in una mano un otre di vino, cominciò a prenderli a calci, ingiungendo loro perentoriamente di fermarsi. Due si rifiutarono di dargli ascolto ed egli estrasse dal cinturone la terribile ascia di guerra fatta di bronzo e la calò sul cranio dell'uomo più vicino, fracassandogli l'elmo, nonché la testa. Il silenzio si sparse sul campo
e Corum con un certo sforzo riuscì a distinguere le parole del capo: « Per il Cane! Non voglio più risse del genere. Perché sprecare le vostre energie accapigliandovi l'un l'altro? C'è altro con cui esercitarsi laggiù! » Egli indicò con la sua ascia i prigionieri, che stavano ora dormendo. Alcuni Mabden scoppiarono a ridere e si alzarono facendo un cenno di assenso, dirigendosi poi nella debole luce serale verso il posto dove giacevano i prigionieri. Li svegliarono a calci, tagliarono le funi attaccate ai carri da battaglia e li spinsero verso il centro dell'accampamento, dove i guerrieri che non erano ancora preda del vino si stavano mettendo in circolo. I prigionieri furono sospinti al centro di questo circolo e lì rimasero in piedi, gettando sguardi terrorizzati verso i guerrieri. Il capo avanzò in mezzo al circolo e si mise di fronte ai prigionieri. « Quando vi prendemmo con noi dal vostro villaggio io vi dichiarai che noi Denledhyssi odiavamo soltanto una cosa più degli Shefanhow. Vi ricordate cos'era? » Uno dei prigionieri mormorò qualcosa guardando fisso a terra. Il capo dei Mabden si mosse rapidamente, mettendo l'estremità della sua ascia sotto il mento dell'uomo e sollevandolo. « Oh, sì, hai imparato bene la lezione, amico. Dillo di nuovo. » La lingua al prigioniero gli si fece grossa in bocca. Le sue labbra screpolate si mossero di nuovo ed egli volse gli occhi verso il cielo che si stava oscurando, mentre le lacrime gli scendevano lungo le guance, ed allora urlò con una voce selvaggia e roca: « Quelli che leccano l'urina degli Shefanhow! » Emise un profondo gemito e poi si mise ad urlare. Il capo dei Mabden fece un ghigno, ritrasse la sua
ascia e ne conficcò con forza il manico nello stomaco del prigioniero mozzandogli il grido che si moltiplicò poi nell'agonia. Corum non aveva mai visto una tale crudeltà ed il suo disagio si accrebbe quando vide che i Mabden cominciavano ad ammucchiare i prigionieri immobilizzandoli con dei pioli conficcati al suolo e dando loro dei colpi di spada e di coltello sugli arti, bruciandoli e tagliuzzandoli in modo che non potessero morire senza contorcersi dal dolore. Il capo si mise a ridere mentre osservava, senza prendere parte alla tortura di persona. « Oh, i vostri spiriti si ricorderanno di me quando si mescoleranno con i demoni degli Shefanhow negli Abissi del Cane! » ridacchiò. « Oh, si ricorderanno del Conte di Denledhyssi, Glandyth-a-Krae, la Rovina degli Shefanhow! » Corum trovava difficile estrarre il significato di queste parole. Shefanhow poteva essere una corruzione del termine Vadhagh Sefano, che significava semplicemente « nemico mortale ». Ma per quale motivo questi Mabden chiamavano se stessi « Denledhyssi » — una corruzione quasi certa di Donledyssi che significava « assassini »? Erano forse fieri di essere degli assassini? E forse che Shefanhow era un termine generalmente usato per descrivere i loro nemici? E i nemici non erano forse, come sembrava incontrovertibile, degli altri Mabden? Corum scosse la testa, molto perplesso. Egli comprendeva le cause del comportamento di animali meno sviluppati meglio di quanto comprendesse quello dei Mabden. Trovava difficile mantenere un interesse clinico riguardo ai loro costumi e ben presto si trovò ad essere disgustato da essi. Volse il suo cavallo nelle profondità della foresta e galoppò lontano. L'unica spiegazione che egli, lì per lì, poteva trovare fu che la razza dei Mabden aveva attraversato
un processo di evoluzione ed involuzione più rapido della norma. Era possibile che questi fossero i superstiti impazziti della razza. Se era così, era proprio per questa ragione che essi si rivolgevano contro la propria specie, come volpi in preda alla rabbia. Ora lo riempiva un maggior senso di ansietà e si mise a galoppare con la maggior velocità consentitagli dal cavallo, dirigendosi al Castello di Crachah. La Principessa Lorim, che viveva più vicina all'orda dei Mabden, sarebbe stata capace di dargli risposte più chiare a queste domande.
Capitolo Quarto
LA ROVINA DELLA BELLEZZA: IL DESTINO DELLA VERITÀ'
Salvo che per alcuni fuochi ormai spenti e dei rifiuti, il principe Corum non vide alcuna ulteriore traccia dei Mabden finché non si inerpicò sulle alte colline verdeggianti che racchiudevano la valle di Crachah e cercò con gli occhi il Castello della principessa Lorim. La valle era piena di pioppi, di olmi, e di betulle, e sembrava tranquilla, immersa nella tenera luce del primo pomeriggio. Ma dov'era il Castello, egli si domandava. Corum estrasse di nuovo la sua mappa di sotto alla maglia metallica e la consultò. Il castello doveva trovarsi quasi al centro della vallata, circondato da sei filari circolari di pioppi e due filari più esterni di olmi. Egli si mise di nuovo a guardare. Sì, c'erano i filari di pioppi e di olmi. Ma verso il centro, nessun castello, soltanto un ammasso di nebbia. Ma in un giorno come questo non ci sarebbe dovuta essere nebbia. Poteva essere soltanto fumo. Il principe Corum cavalcò rapidamente giù dalla collina. Cavalcò finché raggiunse il primo dei filari senza poter vedere ancora nulla. Sentì l'odore del fumo. Egli attraversò altri filari di alberi ed allora il fumo
cominciò a bruciargli gli occhi e la gola mentre egli cominciava a distinguere in esso alcune forme oscure. Egli passò oltre all'ultimo filare di pioppi e cominciò a tossire quando il fumo riempì i suoi polmoni ed allora i suoi occhi lacrimanti riconobbero le forme. Massi affilati, rocce rovinate al suolo, metallo conterrò, travi bruciacchiate. Il principe Corum non vedeva che rovine. Si trattava senza dubbio delle rovine del Castello di Crachah. Rovine ancora fumanti. Il fuoco aveva distrutto il Castello di Crachah. Il fuoco aveva divorato la sua gente e Corum, mentre cavalcava sul suo cavallo che starnutiva continuamente lungo il perimetro delle rovine, riconobbe degli scheletri bruciacchiati. Oltre le rovine c'erano i segni della battaglia. Un carro da guerra dei Mabden semidistrutto. Alcuni corpi di Mabden. Una vecchia donna Vadhagh, tagliata in numerosi pezzi. Anche i corvi e le cornacchie adesso cominciavano ad avventurarsi con cautela, rischiando il pericolo del fumo. Il principe Corum cominciò a capire cos'era il dolore. Pensava che l'emozione che provava doveva essere proprio ciò. Emise, una volta, un grido di richiamo, nella speranza che qualcuno degli abitanti del Castello di Crachah fosse ancora in vita, ma non ebbe alcuna risposta. Lentamente, il principe Corum tornò indietro. Si mise a cavalcare verso est, verso il Castello di Sarn. Cavalcò senza soste per una settimana, mentre gli rimaneva quella sensazione dolorosa cui si aggiunse un altro senso di sgomento. Il principe Corum cominciò a pensare che doveva trattarsi di un sentimento di trepidazione. Il castello di Sarn si trovava in mezzo ad una
fitta antica foresta e vi si giungeva attraverso un sentiero su cui si muovevano affaticati il principe dal mantello scarlatto ed il suo cavallo. Piccoli animali fuggivano in cerca di scampo di fronte a loro ed una pioggia sottile cadeva da un cielo corrucciato. Qui non si levava alcun fumo. E quando Corum si avvicinò al Castello vide che aveva finito di bruciare. Le sue pietre annerite erano fredde, e i corvi e le cornacchie avevano già ripulito i corpi e se ne erano andati via in cerca di altre carogne. Allora per la prima volta gli occhi di Corum si riempirono di lacrime; egli scese dal suo cavallo impolverato e si mise a camminare sulle pietre e le ossa, e poi si sedette guardandosi intorno. Il principe Corum se ne stette seduto per parecchie ore, finché gli uscì un suono dalla gola. Era un suono che non aveva mai udito prima e di cui non conosceva il nome. Era un suono sottile che non riusciva ad esprimere ciò che provava nella sua mente stordita. Egli non aveva mai conosciuto il Principe Opash, per quanto suo padre gliene avesse parlato con grande affetto. Egli non aveva mai conosciuto la famiglia ed i fittavoli che dimoravano al Castello di Sarn. Ma pianse per loro finché, esausto, si sdraiò su un lastrone di pietra spaccato e precipitò in un cupo dormiveglia. La pioggia continuava a cadere sul mantello scarlatto di Corum. Cadeva sulle rovine e lavava le ossa. Il cavallo rosso cercò riparo sotto gli antichi alberi e si mise a giacere. Per un certo tempo brucò l'erba e osservò il suo padrone sdraiato. Poi, anche lui, si mise a dormire. Quando finalmente Corum si svegliò e ritornò indietro oltre le rovine dove il suo cavallo stava ancora sdraiato, la sua mente fu incapace di ragionare. Egli si convinse allora che quella distruzione doveva essere opera dei Mabden, perché non era costume dei
Nhadragh dare alle fiamme i castelli dei loro nemici. Inoltre, i Nhadragh ed i Vadhagh erano ormai in pace da secoli. Ambedue avevano dimenticato l'arte della guerra. Venne in mente a Corum che forse i Mabden potevano essere stati ispirati alla loro distruzione dai Nhadragh, ma anche questo appariva inverosimile. C'era un antico codice di guerra cui entrambe le razze s'erano sempre attenute, non aveva alcuna importanza la durezza del combattimento. E col declinare del loro numero, non c'era stato più alcun bisogno per i Nhadragh di espandere i loro territori o per i Vadhagh di difendere i propri. Con la faccia affilata dalla stanchezza e dalla tensione, coperta di polvere e rigata dalle lacrime, il principe Corum fece alzare il cavallo e montò in sella, dirigendosi verso il nord, dove si trovava il castello di Gal. Aveva una tenue speranza. Ed era che le orde dei Mabden si muovessero soltanto al sud ed all'est, e che il nord fosse libero dalle loro invasioni, come lo era l'occidente. Dopo un giorno di cammino, fermatosi ad abbeverare il cavallo ad un piccolo lago, oltre una distesa di ginestre selvatiche, vide che si levava altro fumo. Tirò fuori la sua mappa e la consultò. Non vi era segnato alcun castello. Egli esitò. Forse che il fumo proveniva da un altro accampamento Mabden? Se era così, vi potevano essere dei prigionieri Vadhagh che Corum doveva tentare di salvare. Egli decise di dirigersi verso la fonte del fumo. Il fumo proveniva da più parti. Si trattava, in realtà, di un accampamento Mabden, ma questo era un campo permanente, non dissimile dai più piccoli insediamenti dei Nhadragh, per quanto molto più rozzo. Una serie di casupole di pietra erano costruite a
stretto contatto con il terreno, con tetti di paglia e camini di ardesia dai quali il fumo proveniva. Attorno all'accampamento c'erano dei campi che erano stati evidentemente coltivati, ma ora non si vedeva alcun raccolto, e altri sui quali alcune vacche stavano brucando. Per qualche ragione Corum nell'avvicinarsi a questo accampamento, non prese tante precauzioni quante ne aveva prese per la carovana dei Mabden, tuttavia si avvicinò con cautela, fermando il suo cavallo a un centinaio di metri e studiando i segni di vita nell'accampamento. Attese un'ora e non vide nessuno. Mosse il suo cavallo più vicino, finché si trovò a meno di cinquanta metri dalla più prossima costruzione ad un solo piano. E ancora nessun Mabden usciva dalle basse porte d'entrata. Corum si schiarì la voce. Un bambino cominciò a strillare, ma il suo strillo fu improvvisamente soffocato. « Mabden! » chiamò Corum, con la voce rauca per la cautela ed il dolore. « Vorrei parlare con voi. Perché non uscite dalle vostre tane? » Dal tugurio più vicino rispose una voce. Una voce che era un misto di ansietà e di rabbia. « Noi non abbiamo fatto alcun male agli Shefanhow. Essi non ci hanno fatto alcun male. Ma se noi parliamo a voi ritorneranno i Denledhyssi e prenderanno più ancora del nostro cibo, uccideranno ancora i nostri uomini e rapiranno le nostre donne. Andatevene, Signore Sbefanhow, ve ne imploriamo. Noi abbiamo messo il cibo in un sacco accanto all'uscio. Prendetelo e andatevene. » Corum vide allora il sacco. Così, si trattava di una offerta per lui. Forse che essi non sapevano che il lo-
ro cibo pesante non andava bene per uno stomaco Vadhagh? « Non desidero cibo, Mabden », gridò di rimando. « Che cosa volete, Signore Shefanhow? Noi non abbiamo null'altro che le nostre anime. » « Non so cosa tu voglia dire. Io cerco risposta alle mie domande. » « Gli Shefanhow conoscono ogni cosa. Noi non conosciamo nulla. » « Perché avete paura dei Denledhyssi? Perché mi ritenete un nemico? Noi Vadhagh non vi abbiamo mai fatto alcun male. » « I Denledhyssi vi chiamano Shefanhow. E poiché noi siamo vissuti in pace con il vostro popolo, i Denledhyssi ci puniscono. Essi dicono che i Mabden devono uccidere gli Shefanhow — i Vadhagh ed i Nhadragh — dicono che voi siete il male. Essi dicono che la nostra colpa è di lasciar vivere il male. Essi dicono che i Mabden si trovano su questa terra per distruggere gli Shefanhow. I Denledhyssi sono i servitori del grande Glandyth-aKrae, il cui sovrano è anche il nostro, il re Lyr-a-Brode, la cui città di pietra chiamata Kalenwyr si trova sugli altipiani del nord-est. Non sapete tutto ciò, Signore Shefanhow? » « Non lo sapevo », disse Corum, con rabbia. « Ed ora che lo so, non lo capisco. » Alzò la voce. « Addio Mabden. Non vi darò altra causa di timore... » e dopo fece una pausa. « Ma dimmi un'ultima cosa. » « Di che si tratta, Signore? » disse la voce nervosamente. « Perché i Mabden uccidono gli altri Mabden? » « Non vi capisco Signore. » « Io ho visto membri della vostra razza uccidere altri membri della stessa razza. Si tratta di qualcosa che commettete spesso? » « Sì, Signore. Lo facciamo abbastanza spesso. Puniamo coloro che rompono le nostre leggi. E ciò
serve da esempio per quelli che avessero in animo di romperle ancora. » Il principe Corum sospirò. « Grazie Mabden. Ora me ne vado. » Il cavallo rosso trottò via oltre la brughiera, lasciandosi dietro il villaggio. Ora il principe Corum sapeva che il potere dei Mabden era diventato più grande di quanto tutti i Vadhagh avessero mai sospettato. Essi avevano un ordine sociale primitivo e complicato, con capi di rango differente. Insediamenti permanenti di varie dimensioni. La maggior parte di Bro-an-Vadhagh sembrava dominata da un singolo uomo — il re Lyr-a-Brode. Il suo nome significava, nel loro dialetto grossolano, Re di tutte le terre, o qualcosa di simile. Corum si rammentò di quello che dicevano le voci. Che i castelli Vadhagh erano stati espugnati da questi semi-animali. Che le isole Nhadragh erano cadute quasi completamente nelle loro mani. E vi erano pure dei Mabden che dedicavano tutta la vita a cercare i membri delle razze più antiche per distruggerli. Perché? Le antiche razze non avevano mai rappresentato una minaccia per l'Uomo. Che minaccia potevano costituire per una specie così feroce e numerosa? Tutto ciò che i Vadhagh ed i Nhadragh possedevano era la conoscenza. Era forse quella conoscenza che i Mabden temevano? Per dieci giorni, fermandosi due volte a riposare, il principe Corum cavalcò verso nord, ma ora aveva una visione differente di come avrebbe potuto presentarglisi il Castello di Gal quando l'avesse raggiunto. Tuttavia doveva andare per assicurarsene. E doveva mettere in guardia il principe Faguin e la sua famiglia del pericolo che correvano, sempreché fossero ancora in vita. Il principe Corum vide spesso insediamenti Mabden ma li evitò. Alcuni erano della grandezza del pri-
mo che egli aveva visto, ma molti erano più grandi, costruiti intorno a fosche torri di pietra. Talvolta vide bande di guerrieri che andavano in giro e soltanto i sensi più acuti dei Vadhagh lo resero capace di vederli prima di essere scorto. Una volta, con un terribile sforzo, egli fu costretto a trasferire se stesso ed il cavallo nella dimensione più vicina per evitare il contatto con i Mabden. Li vide passare dietro di lui, ad una distanza di meno di dieci piedi, completamente incapaci di vederlo. Come gli altri che egli aveva veduto, questi non montavano il cavallo, ma stavano su bighe da guerra trainate da pony dal pelo irsuto. Quando Corum vide le loro facce, segnate dalle malattie, coperte di grasso e di sporcizia, i loro corpi coperti di ornamenti barbarici, egli si meravigliò pensando al loro potere di distruzione. Era ancora difficile credere che bestie insensibili come quelle, che com'era evidente non avevano nemmeno una seconda vista, potessero portare alla rovina gli imponenti castelli dei Vadhagh. Alla fine il principe dal mantello scarlatto raggiunse la base della collina su cui si ergeva il Castello di Gal e vide il fumo nero che si espandeva e il contorcersi delle fiamme rossastre, rendendosi conto allora da quale recente distruzione le bestie Mabden erano reduci. Ma qui l'assedio, a quanto era dato di vedere, era stato molto più lungo. Era infuriata una battaglia durata molti giorni. I Vadhagh erano più preparati. Nella speranza di trovare qualche parente ferito che potesse essere aiutato, Corum spinse il suo cavallo al galoppo su per la collina. Ma l'unica cosa che viveva, oltre il castello fiammeggiante, era un Mabden che si lamentava, abbandonato dai suoi compagni. Corum lo ignorò. Trovò tre corpi appartenenti alla sua gente. Nessuno dei tre era morto subito o, almeno, senza che i
Mabden gli avessero inflitto delle umiliazioni. C'erano due guerrieri che erano stati spogliati delle armi e dell'armatura. E c'era pure una bambina. Una piccola di circa sei anni. Corum si chinò e sollevò i corpi uno ad uno, portandoli verso le fiamme per cremarli. Poi ritornò dal suo cavallo. Il Mabden ferito lo chiamò. Corum si fermò. Non era l'accento comune dei Mabden. « Signore, aiuto! » Era il linguaggio scorrevole dei Vadhagh e dei Nhadragh. Era forse un Vadhagh che si era travestito da Mabden per scampare alla morte? Corum tornò indietro, conducendo il suo cavallo attraverso le volute di fumo. Guardò il Mabden. Indossava un'ingombrante pelliccia di lupo coperta da una mezza maglia di ferro e da un elmetto che gli copriva quasi tutta la faccia e si era rovesciato, impedendogli così di vedere. Corum tirò via l'elmo e lo gettò da parte, indi boccheggiò per lo stupore. Non era un Mabden. E nemmeno un Vadhagh. Era la faccia insanguinata di un Nhadragh, scura con i lineamenti piatti e i capelli che crescevano fino al punto in cui si univano le orbite. « Aiuto, Signore », disse ancora il Nhadragh. « Non sono ferito troppo gravemente. Posso ancora servire. » « Servire a chi, Nhadragh? » disse piano Corum. Strappò via un pezzo della manica del ferito e gli pulì il sangue degli occhi. Il Nhadragh sbatté le palpebre, cercando di distinguerlo. « E chi potresti servire, Nhadragh? Me forse? » Lo sguardo annebbiato del Nhadragh si schiarì per riempirsi di un'emozione che Corum sospettò fosse un odio profondo.
« Vadhagh! » ringhiò. « Un Vadhagh vivo! » « Sì. Sono vivo. Ma perché mi odi? » « Tutti i Nhadragh odiano i Vadhagh. Vi odiamo da una eternità! Perché non sei già morto? Ti sei nascosto? » « io non sono del Castello di Gal. » « Così avevo ragione. Questo non era l'ultimo Castello Vadhagh. » L'uomo cercò di muoversi per estrarre il suo coltello, ma era troppo debole. E ricadde all'indietro. « Un odio così implacabile non era ciò che avevano una volta i Nhadragh », disse Corum. « Voi volevate le nostre terre, questo sì. Ma voi combattevate contro di noi senza quest'odio, e noi pure combattevamo contro di voi senza di esso. Tu hai imparato ad odiare dai Mabden, Nhadragh, non dai tuoi predecessori. Essi conoscevano l'onore. Tu non lo conosci. Ma come può uno che appartiene alle antiche stirpi farsi schiavo dei Mabden? » Le labbra del Nhadragh si dischiusero in un sorriso insultante. « Tutti i Nhadragh che àncora esistono sono schiavi dei Mabden e lo sono da duecento anni. Essi ci permettono di vivere soltanto per usarci come cani, per subodorare l'esistenza di quegli esseri che essi chiamano Shefanhow. Noi abbiamo prestato loro giuramento di fedeltà, per poter continuare a vivere. » « Ma non potevate sfuggire? Ci sono altre dimensioni. » « Le altre dimensioni ci sono negate, i nostri storici dicevano che l'ultima grande battaglia tra i Vadhagh ed i Nhadragh ha rotto a tal punto l'equilibrio di quelle dimensioni che esse ci sono precluse dagli dei... » « Dunque siete anche ritornati alla superstizione » disse Corum assorto. « Ah, e che cosa possono farci questi Mabden? »
Il Nhadragh cominciò a ridere e il riso si mutò in singhiozzi e il sangue gli uscì dalla bocca, colando giù dal mento. Quando Corum lo ripulì del sangue, egli disse: « Essi prendono il nostro posto, Vadhagh. Essi portano l'oscurità ed il terrore. Essi sono la morte della bellezza e la rovina della verità. Il mondo è ora dei Mabden. Noi non abbiamo alcun diritto di continuare ad esistere. La natura ci aborre. Non dovremmo essere qui! » Corum sospirò. « E' questo un muto pensiero, o te l'hanno instillato loro? » « E' un fatto. » Corum alzò le spalle. « Forse. » « E' un fatto, Vadhagh. Saresti un pazzo se tu lo negassi. » « Dicevi che questo era l'ultimo dei nostri castelli... » « Non io. Io sentivo che ce n'era un altro. E lo dissi loro. » « Ed essi sono andati a cercarlo? » « Sì. » Corum l'afferrò per le spalle. « Dove? » Il Nhadragh sorrise. « Dove? Dov'altro se non nell'ovest? » Corum corse verso il suo cavallo. « Resta! » rantolò il Nhadragh. « Finiscimi, ti prego, Vadhagh! Non lasciarmi tirare a lungo! » « Non so cosa sia uccidere », rispose Corum montando a cavallo. « Allora devi imparare, Vadhagh. Tu devi imparare a uccidere! » ghignò il morente, mentre Corum fuori di sé spronava il suo cavallo al galoppo giù per la collina.
Capitolo
Quinto
UNA LEZIONE DA IMPARARE
Ed ecco il Castello di Erorn, con le sue torri colorate avvolte da avide fiamme. Ed ancora si udiva il frangersi dei marosi che rimbombavano nelle grandi caverne oscure nelle profondità del promontorio su cui Erorn si ergeva, e sembrava che il mare protestasse, che il vento si lamentasse con rabbia, che gli spruzzi di spuma cercassero disperatamente di affogare le fiamme vittoriose. Il Castello di Erorn si scuoteva tutto nella distruzione ed i barbuti Mabden sghignazzavano per la sua rovina, scuotendo le bardature d'oro e di ottone dei carri da guerra, lanciando sguardi trionfanti a un piccolo mucchio di corpi disposti a semicerchio di fronte a loro. Erano corpi Vadhagh. Tre donne ed otto bambini. Nascosto dall'ombra del lato più lontano del ponte naturale di roccia che portava al promontorio, Corum intravvide le facce insanguinate e le riconobbe tutte: il Principe Khlonskey, suo padre, Colatalarna, sua madre. Le sue sorelle gemelle, Ilastru e PhoIhinra. Suo zio, il principe Rhanan. Sertreda, suo cugino. Ed i cinque fittavoli, tutti cugini di secondo e terzo grado.
Tre volte Corum contò i corpi, e via via l'agghiacciante dolore si trasformò in furia, mentre ascoltava quei sanguinari urlarsi l'un l'altro nel loro grossolano dialetto. Tre volte egli fece il conto, e dopo guardò verso di essi con una faccia che era veramente la faccia di uno Shefanhow. Il principe Corum aveva scoperto il dolore e la paura. Ora scopriva la rabbia. Per due settimane egli aveva cavalcato quasi senza soste, sperando di superare i Denledhyssi per avvertire la sua famiglia della venuta dei barbari. Ed era arrivato alcune ore troppo tardi. I Mabden erano venuti con la loro arroganza, nata dall'ignoranza, a distruggere quelli la cui arroganza era nata dalla saggezza. Era il modo di essere delle cose. Senza dubbio il padre di Corum, il principe Khlonskey, aveva avuto simili pensieri mentre veniva abbattuto da un'ascia di guerra sottratta ai Vadhagh. Ma ora Corum non poteva ospitare una tale filosofìa nel suo cuore. I suoi occhi, salvo le iridi, che diventarono d'oro splendente, si scurirono per la rabbia, mentre egli brandiva la sua lunga lancia e spingeva lo stanco cavallo sulla strada rialzata, nella notte illuminata dalle fiamme, contro i Denledhyssi. Questi stavano oziando sui loro carri, riversandosi sulla faccia e tracannando il dolce vino dei Vadhagh. Il frangersi delle onde del mare e il divampare delle fiamme coprirono il suono prodotto dal sopraggiungere di Corum, finché la sua lancia infilzò la faccia di un guerriero Denledhyssi e l'uomo cacciò un urlo. Corum aveva imparato ad uccidere. Liberò la punta della lancia e trapassò la schiena ed il collo di un compagno del morto mentre questi cercava di mettersi in piedi. Rigirò la lancia nelle ferite.
Corum aveva imparato cosa fosse la crudeltà. Un altro Denledhyssi impugnò un arco e cercò di tendere una freccia, ma Corum scagliò subito la lancia e trapassò la piastra di bronzo che gli ricopriva il torace, spaccandogli il cuore, e abbattendolo a lato del carro da guerra. Corum impugnò la sua seconda lancia. Ma il cavallo gli veniva meno. Egli lo aveva montato fino all'esaurimento ed ora poteva a malapena obbedire ai suoi ordini. Gli uomini che stavano sui carri più lontani stavan già frustando a sangue i loro ponyes, per girare i loro grandi carri scricchiolanti e dirigersi sul principe dal mantello scarlatto. Una freccia fischiò vicina, e Corum cercò l'arciere, spingendo avanti il suo cavallo affaticato, in modo da essergli sufficientemente vicino per vibrargli un colpo di lancia contro l'occhio destro non protetto, ma fu costretto a ritrarla, appena in tempo per parare un colpo di spada da parte di un compagno dell'arciere. La punta, ricoperta di metallo, della lancia si era smussata; Corum, usando entrambe le mani, invertì la lancia e ne conficcò l'impugnatura sulla faccia dell'uomo, gettandolo giù dal carro. Ma in quel momento gli altri carri da guerra si diressero su di lui a precipizio attraverso le ombre gettate dalle fiamme ruggenti che divoravano il castello di Erorn. Erano capeggiati da uno che Corum riconobbe, rideva e urlava roteando sul capo la sua terribile ascia di guerra. « Per il Cane! Un Vadhagh che sa come combattere al pari di un Mabden? Hai imparato troppo tardi, amico. Sei l'ultimo della tua razza! » Era Glandyth-a-Krae, gli occhi grigi che balenavano, la sua bocca crudele che ringhiava sopra le zanne giallastre. Corum scagliò la sua lancia.
L'ascia roteante la fece deviare ed il carro da guerra di Glandyth non vacillò. Corum estrasse la propria ascia di guerra ed aspettò, ma, nell'attesa, le gambe del suo cavallo non ressero più e la bestia si accosciò al suolo. Corum liberò i piedi dalle staffe, afferrò l'ascia con ambedue le mani e balzò obliquamente all'indietro mentre il carro gli veniva addosso. Diresse un colpo su Glandyth-a-Krae, ma colpì l'estremità di ottone del carro. La violenza del colpo gli intorpidì le mani e per poco l'ascia non gli cadde a terra. Ora respirava affannosamente e barcollava. Altri carri gli venivano addosso da ambedue i lati ed una spada riuscì a colpirlo sull'elmo. Intontito, cadde in ginocchio. Una lancia lo colpì ad una spalla ed egli cadde nel fango molle. Allora Corum imparò l'astuzia. Invece di tentare di rialzarsi, rimase dov'era caduto finché tutti i carri non furono passati. Prima che potessero tornare, egli si rimise in piedi. La spalla era contusa, ma la lancia non l'aveva trapassata. Egli incespicò nell'oscurità cercando di sfuggire ai barbari. Poi i suoi piedi calpestarono qualcosa di morbido; abbassò lo sguardo e vide il corpo di sua madre e ciò che le avevano fatto prima di morire; gli sfuggì allora un lungo gemito e rimase accecato dalle lacrime; afferrò più saldamente l'ascia nella mano sinistra ed estrasse dolorosamente la sua spada gridando: « Glandytha-Krae! » E Corum provò cosa fosse la brama di vendetta. La terra fu scossa dallo scalpitìo dei cavalli, che trascinavano i carri di ritorno verso di lui. Improvvisamente l'alta torre del castello crollò e si sgretolò tra le fiamme, che si levarono più alte, illuminando la notte e mostrando il Conte Glandyth che frustava il cavallo per avventarsi ancora una volta su Corum. Corum restò ritto accanto al corpo di sua madre,
la gentile principessa Colatalarna. Il suo primo colpo spaccò in due la fronte del cavallo di testa che cadde, trascinando gli altri con sé. Il Conte Glandyth fu spinto in avanti, quasi oltre il bordo del carro, e si mise ad imprecare. Dietro di lui due altri guidatori cercarono in tutta fretta di tirar le redini ai cavalli per evitare di investire il loro capo. Anche gli altri, pur senza comprendere perché essi si fermassero, tirarono le redini. Corum avanzò oltre i corpi dei cavalli e vibrò la spada sul collo di Glandyth, ma il colpo fu bloccato da una gorgiera. La gigantesca e irsuta testa di Glandyth si girò ed i suoi pallidi occhi grigi fulminarono torvi Corum. Poi Glandyth balzò dal carro e altrettanto fece Corum, per trovarsi faccia a faccia con lo sterminatore della sua famiglia. Si affrontarono alla luce delle fiamme, ansimando come volpi, ripiegando su se stessi pronti a scattare. Corum si mosse per primo calando la sua spada su Glandyth-a-Krae e vibrando contemporaneamente l'ascia. Glandyth fece una. salto per evitare la spada, adoperò la propria ascia per parare il colpo, e tirò un calcio all'inguine di Corum, mancando però il bersaglio. Cominciarono a muoversi in circolo, mentre Corum fissava con i suoi occhi scuri e dorati i pallidi occhi grigi del Conte Mabden. Per parecchi minuti essi si fronteggiarono in cerchio, mentre gli altri Mabden stavano a guardare. Glandyth mosse le labbra ed iniziò un suono, ma Corum balzò di nuovo, e questa volta il metallo sconosciuto della sua spada slanciata forò l'armatura di Glandyth alla giuntura delle spalle e vi penetrò. Glandyth emise un sibilo e la sua ascia roteò fino a colpire la spada, con tale violenza da strapparla dalle mani doloranti di Corum e farla cadere al suolo. « Ed ora », mormorò Glandyth, come parlando a
se stesso. « A noi due, Vadhagh. Non è mio destino essere ucciso da uno Shefanhow. » Corum vibrò la sua ascia. Di nuovo Glandyth schivò il colpo. Di nuovo questi vibrò con forza la sua ascia. E questa volta l'arma di Corum gli fu strappata di mano ed egli rimase indifeso di fronte al Mabden che sogghignava. « Ma è mio destino uccidere gli Shefanhow! » disse contorcendo la bocca in un ghigno ringhioso. Corum si gettò su Glandyth, cercando di strappargli l'ascia. Ma aveva esaurito tutte le forze che gli rimanevano. Era troppo debole. Glandyth gridò ai suoi uomini. « Per il Cane, ragazzi, liberatemi da questo demone. Non uccidetelo. Ci sollazzeremo con lui. Dopo tutto, è l'ultimo Vadhagh con cui avremo la possibilità di spassarcela! » Corum li udì ridere e cercò di colpirli, ma essi lo afferrarono saldamente. Egli urlava come può urlare un uomo fuori di sé, senza udire nemmeno le proprie parole. Allora un Mabden gli strappò l'elmo d'argento e un altro io colpì alla nuca con il pomo di una spada; il corpo di Corum si afflosciò improvvisamente mentre sprofondò in una invitante oscurità.
Capitolo Sesto
LA MUTILAZIONE DI CORUM
il sole era sorto e tramontato già due volte quando Corum si svegliò e si trovò incatenato nella parte posteriore di un carro Mabden. Cercò di alzare la testa e di guardare attraverso l'apertura della tenda, ma non vide nulla, salvo il fatto che era giorno. Perché non l'avevano ucciso, si domandava. E poi sussultò quando comprese che essi attendevano che egli si svegliasse per rendere la sua morte lunga e dolorosa. Prima di partire per la sua ricerca, prima di assistere a ciò che era accaduto ai castelli dei Vadhagh, prima di vedere l'influenza maligna che aveva invaso Broan-Vadhagh, egli avrebbe accettato il suo destino e si sarebbe preparato a morire alla maniera del suo popolo, ma ora le lezioni imparate a sue spese facevan parte di lui. Egli odiava i Mabden e piangeva la morte dei suoi parenti. Ma li avrebbe vendicati, se avesse potuto. E ciò significava che egli doveva vivere. Chiuse gli occhi, per conservare le sue forze. C'era solo un modo di sfuggire ai Mabden: rilassare il proprio corpo trasferendolo su di un altro piano, dove non avrebbero potuto scorgerlo. Ma far ciò avrebbe richiesto molta energia e c'erano poche possibilità di farlo rimanendo nel carro.
Le voci gutturali dei Mabden giungevano di quando in quando all'interno del carro, senza tuttavia che egli potesse distinguere quel che dicevano. Si mise a dormire. Si agitò. Qualcosa di freddo gli colava sulla faccia. Sbatté gli occhi. Era acqua. Sbatté le palpebre. Aprì gli occhi e vide i Mabden che lo sovrastavano. Era stato spostato dal carro ed ora giaceva a terra. Fuochi per cucinare ardevano lì accanto. Era notte. « Lo Shefanhow è di nuovo con noi, Signore », disse il Mabden che aveva gettato l'acqua. « E' pronto per noi, credo. » Corum trasalì muovendo il suo corpo ammaccato, cercando di rimettersi in piedi nonostante le catene. Anche se fosse potuto sfuggire in un'altra dimensione le catene lo avrebbero seguito. E sarebbe stato un ben piccolo vantaggio. Come esperimento, cercò di vedere nella dimensione più vicina. Ma gli occhi cominciarono a fargli male e desistette. Apparì allora il Conte Glandyth-a-Krae, che si faceva strada fra i suoi uomini. I suoi occhi smorti guardarono Corum con aria di trionfo. Si toccò con una mano la barba, che era stata divisa in parecchie trecce adorne di anelli d'oro saccheggiati, e fece un sorriso. Quasi con tenerezza, si chinò e tirò su Corum. Le catene e l'angusto spazio del carro gli avevano tolto la circolazione del sangue dalle gambe — che non lo reggevano in piedi. « Rodlik! Vieni qui, ragazzo! » chiamò il Conte Glandyth volgendosi indietro. « Arrivo, Signore! » un ragazzo coi capelli rossi che dimostrava circa quattordici anni venne avanti trotterellando. Portava un soffice sciamito Vadhagh verde e bianco, con un cappuccio di ermellino sulla testa e morbidi stivali di daino ai piedi. Aveva una faccia pallida, butterata dall'acne, ma per il resto era bello
per essere un Mabden. S'inginocchiò di fronte al Conte Glandyth. « Sì, Signore? » « Aiuta lo Shefanhow a reggersi in piedi, ragazzo. » Nella voce bassa ed aspra di Glandyth, mentre si rivolgeva al ragazzo, quasi c'era un che di affettuoso. « Aiutalo a reggersi, Rodlik. » Rodlik si fece avanti e afferrò Corum per i gomiti, sorreggendolo. La presa del ragazzo era fredda e nervosa. Tutti i guerrieri Mabden guardavano verso Glandyth pieni di aspettativa. Con un gesto di noncuranza egli si tolse il pesante elmo e scosse i suoi capelli ricciuti e intrisi di unto. Anche Corum guardava Glandyth. Studiò la rossa faccia dell'uomo e decise che quegli occhi grigi mostravano ben poca vera intelligenza, ma molta malizia ed orgoglio. « Perché hai sterminato tutti i Vadhagh? » disse calmo Corum. La sua bocca si muoveva a fatica. « Perché, Conte di Krae? » Glandyth lo guardò come fosse sorpreso e rispose lentamente. « Dovresti saperlo. Noi detestiamo le vostre stregonerie. La vostra aria di superiorità ci ripugna. Noi bramiamo le vostre terre e quei beni che ci sono utili. Così vi uccidiamo. » Sogghignò. « D'altra parte, non abbiamo sterminato tutti i Vadhagh. Non ancora. Ne resta uno. » « Sì », disse Corum. « Ed è uno che, se ne avrà la possibilità, vendicherà il suo popolo. » « No. » Glandyth gli mise le mani sui fianchi. « Questa possibilità non l'avrà. » « Dici di odiare le nostre stregonerie. Ma noi non ne abbiamo. Soltanto un po' di conoscenza, una seconda vista... » « Ah! Abbiam visto i vostri castelli e gli aggeggi strani e malefici che essi contengono. Abbiam visto
quello lì dietro — quello che espugnammo qualche notte fa. Pieno di stregonerie! » Corum si inumidì le labbra. « Anche se avessimo avuto tali stregonerie, questa non sarebbe stata una buona ragione per distruggerci. Noi non vi abbiamo fatto alcun male. Vi abbiamo lasciati venire nella nostra terra, senza opporvi resistenza. Io penso che voi ci odiate perché odiate qualcosa in voi stessi. Siete delle creature incomplete. » « Lo so. Voi ci chiamate semi-bestie. Non mi interessa ciò che pensi ora, Vadhagh. Non ora che la tua razza non esiste più. » Glandyth sputò a terra e fece un cenno con la mano al ragazzo. « Lascialo andare. » Il ragazzo si tirò indietro. Corum barcollò, ma non cadde. Continuò a fissare con disprezzo Glandyth-a-Krae. « Tu e la tua razza siete pazzi, Conte. Siete come una cancrena. Siete un malanno che affligge questo mondo. » Il Conte Glandyth sputò di nuovo. Ma questa volta sputò dritto in faccia a Corum. « Te l'ho detto — so cosa i Vadhagh pensano di noi. So cosa pensavano i Nhadragh prima che ne facessimo i nostri cani da caccia. E' il vostro orgoglio che vi ha distrutti, Vadhagh. I Nhadragh hanno imparato a fare a meno dell'orgoglio e così qualcuno di loro è stato risparmiato. Essi ci hanno accettati come i loro padroni. Ma voi Vadhagh non potevate farlo. Quando venimmo ai vostri castelli, ci ignoraste. Quando vi domandammo dei tributi non diceste nulla. Quando vi dicemmo che voi dovevate servirci, mostravate di non capire. Così siamo venuti a punirvi. E voi non avete fatto resistenza. Vi abbiamo torturati e voi, col vostro orgoglio, vi rifiutavate di giurare di divenire i nostri schiavi, come avevano fatto i Nhadragh. Perdemmo la pazienza, Vadhagh. Decidemmo che non po-
tevate vivere nella stessa terra del grande Re Ly-aBrode, perché non eravate disposti ad accettare di essere suoi sudditi. Per questo siamo venuti ad uccidervi tutti. Vi siete meritati il vostro triste destino. » Corum guardò a terra. Era stato, dunque, il troppo grande senso di sicurezza che aveva condotto la razza Vadhagh alla rovina. Alzò di nuovo il capo e fissò Glandyth. « Spero, comunque », disse Corum, « di poterti mostrare che l'ultimo dei Vadhagh si sa comportare in modo diverso. » Glandyth alzò le spalle e si voltò per parlare ai suoi uomini. « Non l'immagina nemmeno ciò che ci mostrerà fra poco, eh,ragazzi? » I Mabden si misero a ridere. « Preparate la tavola! » ordinò il Conte Glandyth. « Penso che sia il caso di cominciare. » Corum vide che trasportavano una grossa tavola di legno. Era spessa incisa e dipinta. Ai suoi quattro angoli eran fissate delle catene. Corum cominciò a domandarsi a che còsa poteva servire quella tavola. Due Mabden lo afferrarono per le braccia e lo spinsero verso la tavola. Un altro portò uno scalpello ed un martello di ferro. Corum fu spinto con la schiena contro la tavola, che era stata appoggiata al tronco di un albero. Usando lo scalpello, un Mabden lo liberò delle catene; quindi, gli furono afferrate le braccia e le gambe e fu legato sulla tavola con gli arti divaricati, mentre altri chiodi venivano introdotti negli anelli delle catene, per assicurarlo bene. Corum potè sentire un odore stantìo di sangue. Potè vedere i punti in cui la tavola era incisa dal segno dei coltelli, delle spade, e delle asce, in cui si erano conficcate le frecce. Egli si trovava su un banco da macello. La brama di sangue dei Mabden stava crescendo.
I loro occhi balenavano alla luce del fuoco; il loro fiato era sospeso e le narici dilatate. Le loro lingue arrossate leccavano le carnose labbra e su molte facce comparivano dei brevi sorrisi di anticipazione. Il Conte Glandyth, che se n'era stato in disparte a sovraintendere gli altri che legavano Corum sulla tavola, si avvicinò e si pose di fronte al Vadhagh. Si sfilò una lama affilata e sottile dalla cintura. Corum guardò la lama che si dirigeva verso il suo petto. S'udì poi un suono lacerante, quello del coltello che strappava l'abito di sciamito dal suo corpo. Lentamente, ghignando sempre più, Glandyth-aKrae lavorò a ciò che restava dei vestiti di Corum, tracciando di tanto in tanto una sottile linea di sangue sul corpo, finché alla fine Corum fu completamente nudo. Glandyth fece un passo indietro. « Ora », disse ansimando, « ti stai certamente chiedendo cosa intendiamo fare di te. » « Ho visto altri della mia gente che sono stati uccisi da voi », disse Corum. « Penso di sapere ciò che intendete fare. » Glandyth sollevò il mignolo della mano destra e ripose contemporaneamente il pugnale con la mano sinistra. « Ah, vedi. Non lo sai. Quegli altri Vadhagh morirono velocemente — più o meno — perché ne dovevamo scovare e uccidere tanti. Ma tu sei l'ultimo. Con te possiamo prendere tempo. Pensiamo, in effetti, che ti daremo una possibilità di sopravvivere. Se riuscirai a non morire privo di occhi, con la lingua tagliata, con le mani ed i piedi tranciati, e con i genitali estirpati, allora ti lasceremo sopravvivere. » Corum lo guardò con orrore. Glandyth scoppiò a ridere. « Vedo che apprezzi il nostro scherzo! » Egli fece segno ai suoi uomini.
« Portate gli arnesi! Si comincia. » Fu portato avanti un grande braciere. Era colmo di rossi carboni ardenti e vi pendevano ferri di varie dimensioni. Quelli erano gli strumenti particolarmente adibiti alla tortura, pensò Corum. Quale razza poteva concepire tali crudeltà e ritenersi sana di mente? Glandyth-a-Krae scelse dal braciere un lungo ferro e lo rigirò, ispezionandone la punta rovente. « Cominceremo con un occhio e finiremo con l'altro », disse. « L'occhio destro, credo. » Se Corum avesse mangiato qualcosa nei giorni immediatamente precedenti, avrebbe vomitato tutto. In quelle condizioni, la bile gli riempì la bocca e il suo stomaco fu scosso dai conati. Non vi furono ulteriori preliminari. Glandyth cominciò ad avanzare con il ferro arroventato. Il ferro fumava nell'aria fredda della notte. Corum cercò allora di dimenticare la minaccia della tortura e di concentrarsi nella sua seconda vista, cercando di scorgere la dimensione più vicina. Si mise a sudare per lo sforzo del pensiero misto al terrore. Ma la sua mente era confusa. Alternativamente vide squarci della dimensione più vicina e la punta del ferro che continuava ad avanzare sempre più vicina alla sua faccia. Gli occhi gli si offuscarono, ma Glandyth continuava ad avanzare, con gli occhi grigi che ardevano di una brama innaturale. Corum s'agitò in catene, nel tentativo di allontanare il capo. Allora Glandyth protese la sua mano sinistra e gli afferrò i capelli, tirandogli indietro la testa, mentre calava il ferro rovente. Al contatto della punta rossa infuocata con la palpebra del suo occhio serrato, Corum emise un urlo. Il dolore gli pervase la faccia e quindi tutto il corpo. Udì delle risate frammiste alle sue proprie grida, il respiro affannoso di Glandyth...
... e Corum perse i sensi. Corum vagava per le strade di una città sconosciuta. Gli edifici erano alti e sembravano costruiti di recente, e tuttavia erano già insudiciati ed imbrattati di melma. Provava ancora dolore, ma si trattava di un dolore remoto, intorpidito. Era cieco di un occhio. Da un balcone sentì una voce di donna che lo chiamava. Si guardò intorno. Era sua sorella, Pholhinra. Alla vista della sua faccia, ella cacciò un urlo pieno d'orrore. Corum tentò di coprire con la mano il suo occhio mutilato, ma non vi riuscì. Qualcosa lo tratteneva. Tentò di liberare la mano sinistra da ciò che la afferrava stretta. Tirò sempre più forte. Finché, tirando, il polso cominciò a pulsare dolorosamente. Pholhinra era scomparsa, ma Corum era assorbito dal tentativo di liberare la sua mano. Per qualche ragione, non poteva voltarsi a guardare ciò che lo tratteneva. Qualche bestia, forse, che gli afferrava la mano fra le fauci. Corum diede un ultimo terribile strappo ed il polso fu libero. Sollevò la mano per toccare l'occhio accecato, ma non sentì ancora nulla. Guardò la mano. La mano non c'era più. Rimaneva soltanto il polso. Un misero moncherino. Allora urlò di nuovo... ... Aprì gli occhi e vide che i Mabden lo afferravano per le braccia e calavano delle spade incandescenti sul moncherino per cauterizzare la ferita. Gli avevano tagliato la mano. E Glandyth continuava a sghignazzare, tenendo alta la mano strappata a Corum per mostrarla ai suoi uomini, mentre il sangue di Corum colava ancora dal coltello che aveva adoperato.
In quel momento, Corum riuscì a vedere distintamente l'altra dimensione, come sovrapposta alla scena che aveva dinanzi. Raccogliendo tutte le energie alimentate dal terrore e dall'agonia, si trasferì in quella dimensione. Scorse i Mabden con chiarezza, ma le loro voci erano venute meno. Li sentì lanciare urla di stupore indicando nella sua direzione. Vide Glandyth che si spostava, mentre i suoi occhi si allargavano attoniti. Udì il Conte di Krae che urlava ai suoi uomini di frugare fra gli alberi in cerca di Corum. La tavola era rimasta abbandonata e Glandyth ed i suoi uomini si muovevano a tentoni nell'oscurità cercando il loro prigioniero Vadhagh. Ma il prigioniero era sempre legato alla tavola che, come lui, si spostava in parecchie dimensioni. E questi sentiva ancora il dolore che gli avevano provocato ed era sempre privo dell'occhio destro e della mano sinistra. Poteva sfuggire ad ulteriori mutilazioni per poco tempo ancora, ma quando le sue energie fossero completamente svanite egli sarebbe ritornato nella loro dimensione ed essi avrebbero continuato la loro opera. Si contorse nelle catene, agitando il moncherino della sua mano sinistra nell'inutile tentativo di liberarsi di quei legami che ancora avvolgevano le sue altre membra. Sapeva di essere senza speranza. Aveva soltanto spostato la sua fine di un breve attimo. Non sarebbe mai stato libero — mai sarebbe stato più in grado di vendicarsi degli sterminatori della sua razza.
Capitolo
Settimo
L'UOMO BRUNO
Corum grondava di sudore, per lo sforzo di rimanere nell'altra dimensione, e aspettava nervosamente il ritorno di Glandyth e dei suoi uomini. Fu allora che vide una figura che si muoveva con cautela uscendo dalla foresta e si avvicinava alla tavola. Dapprima Corum pensò fosse un guerriero Mab- ' den, senza elmo e con un enorme giaccone di pelliccia. Poi si accorse che si trattava di un'altra creatura. L'individuo avanzò con cautela verso il tavolaccio, lanciando occhiate tutto intorno al campo dei Mabden, poi, furtivamente, gli si accostò. Sollevò il capo e fissò il volto di Corum. Corum rimase attonito. Quell'animale poteva vederlo! Non era come i Mabden, non era come le altre creature di quel piano, costui possedeva una seconda vista. L'agonia di Corum era così dolorosa che era costretto a torcere il suo unico occhio per le sofferenze. Quando riuscì a riaprirlo, quella creatura era già arrivata presso la tavola. La sua figura nel complesso non differiva da quella dei Mabden, ma era completamente coperta del proprio pelo. La faccia era bruna e rivelava apparente-
mente una età avanzata. I suoi lineamenti erano regolari. Aveva grandi occhi, rotondi come quelli di un gatto, e narici allargate con un'enorme bocca munita di vecchie zanne ingiallite. Tuttavia il suo sguardo rivelava una grande compassione mentre osservava Corum. Gli fece dei segni ed emise dei suoni gutturali, indicando la foresta come se volesse che Corum venisse con lui. Corum scosse il capo, accennando i legami che lo tenevano avvinto. La creatura si accarezzò pensosa il pelo bruno arricciato del collo, poi si trascinò di nuovo via, nell'oscurità della foresta. Corum la osservò mentre se ne andava, quasi dimentico, per lo stupore, del suo dolore. Quella creatura era forse stata presente alla sua tortura? Cercava forse di salvarlo? O forse era tutta un'illusione, simile a quella della città ed a quella di sua sorella, provocata dall'agonia. Sentì che le energie gli venivano meno. Ancora pochi momenti e poi sarebbe tornato nella dimensione dove i Mabden avrebbero potuto vederlo. E sapeva di non poter più ritrovare la forza per lasciare di nuovo quella dimensione. Ma la creatura buona ricomparve, conducendo per mano qualcosa ed indicando Corum. Dapprima Corum vide soltanto una forma voluminosa che sovrastava la creatura buona — un essere che si ergeva per oltre tre metri ed era ampio poco meno di due, un essere che, come la bestia pelosa, camminava su due gambe. Corum alzò gli occhi e vide delinearsi un viso. Una faccia di colore scuro, con una espressione triste, interessata, di compatimento. Il resto del corpo, per quanto apparisse simile a quello di un uomo pareva rifiutasse la luce - non si poteva distinguere
alcun dettaglio. Quell'essere venne fuori e sollevò la tavola con la stessa tenerezza con cui il padre prende in braccio il suo bambino. E trasportò Corum con sé all'interno della foresta. Incapace di stabilire se fosse fantasia o realtà, Corum cessò di sforzarsi di rimanere nell'altra dimensione e si immerse di nuovo in quella che aveva lasciato. Ma la creatura dalla faccia scura continuava a trasportarlo, con l'animale bruno al suo fianco, muovendosi a gran velocità nel folto della foresta finché furono abbastanza lontani dall'accampamento dei Mabden. Corum perse nuovamente i sensi. Si svegliò alla luce del giorno e vide la tavola che giaceva ad una certa distanza da lui. Stava disteso nel verde dell'erba di una vallata, nei pressi di una sorgente, vicino alla quale era un piccolo mucchio di frutta e nocciole. Non distante dal mucchio se ne stava seduta la bestia bruna. Essa stava osservandolo. Corum guardò il suo braccio sinistro. Avevano spalmato qualcosa sul moncherino e non sentiva più alcun dolore. Portò la mano destra all'occhio destro e sentì una sostanza untuosa che doveva essere identica a quella del moncherino. Degli uccelli cantavano sugli alberi più vicini. Il cielo era sereno ed azzurro. Se non vi fossero stati i segni delle torture subite, Corum avrebbe potuto pensare che gli avvenimenti delle ultime settimane erano soltanto un nero incubo. La creatura bruna e pelosa si alzò ed avanzò, strascicando i passi, verso di lui. Si schiarì la gola. La sua espressione era sempre di simpatia. Essa toccò il proprio occhio destro ed il polso sinistro. « Come — dolore? » disse con un tono indistinto, pronunciando ovviamente le parole con difficoltà. « E' passato », disse Corum. « Ti ringrazio, Uomo Bruno, per avermi salvato. »
L'uomo bruno aggrottò le ciglia rivolto a lui, non avendo evidentemente capito tutte le parole. Poi sorrise, ciondolò il capo e disse: « Bene. » « Chi sei? » disse Corum. « Chi era colui che ti accompagnava la notte scorsa? » La creatura si batté il petto. « Me Serwde. Me, tuo amico. » « Serwde », disse Corum pronunciando male il nome. « Io sono Corum. E chi era l'altro? » Serwde disse un nome che era ancora più difficile da pronunciare del suo. Sembrava un nome complicato. « Chi era? Non ho mai visto un essere simile. Non ho mai visto nemmeno una creatura come te, del resto. Da dove vieni? » Serwde fece dei gesti indicando se stesso. « Me vivere qui. In foresta. Foresta chiamata Laahr. Mio signore vivere qui. Noi vivere qui molti, molti, molti giorni — già prima di Vadhagh, tuo popolo. » « E dov'è ora il tuo signore? » domandò ancora Corum. « Lui andato. Non volere essere visto gente. » Corum si ricordò allora confusamente di una leggenda. La leggenda di una creatura che viveva più a ovest degli abitanti del Castello di Erorn. Si chiamava l'Uomo Bruno di Laahr. Ed era quella leggenda che riviveva. Ma non ricordava nessuna leggenda riguardo all'altra creatura di cui non riusciva a pronunciare il nome. « Padrone dire posto qui vicino andare bene te », disse l'Uomo Bruno. « Che specie di posto, Serwde? » « Mabden. » Corum fece una smorfia. « No, Serwde. I Mabden non mi accoglieranno bene. » « Questi Mabden diversi. » Tutti i mabden sono miei nemici. Essi mi odia-
no. » Corum osservò il suo moncherino. « Ed io li odio. » « Questi vecchi Mabden. Buoni Mabden. » Corum si alzò barcollando. Il dolore cominciava ad assalirlo alla testa, il moncherino della mano sinistra gli faceva male. Era ancora completamente nudo con il corpo segnato da lividi e piccoli tagli, anche se lo avevano lavato. Lentamente si fece luce nella sua mente il pensiero che ormai era uno sciancato. Era stato salvato dal peggio che Glandyth aveva deciso per lui, ma ora era soltanto un mutilato. La sua faccia era ripugnante a vedersi. Il suo corpo era diventato brutto. E quel rottame a cui si era ridotto era tutto ciò che restava della nobile razza dei Vadhagh. Sedette di nuovo e cominciò a piangere. Serwde grugnì muovendoglisi goffamente intorno. Circondò le spalle di Corum con una delle sue zampe simili a mani. Accarezzò la testa di Corum, cercando di consolarlo. Corum si asciugò le lacrime con la mano integra. « Non preoccuparti, Serwde. Devo piangere, perché se non piangessi morrei certamente. Piango per la mia gente. Io sono l'ultimo della mia stirpe. Sono l'ultimo dei Vadhagh... » « Serwde anche. Padrone anche », disse l'Uomo Bruno di Laahr. « Non c'è più gente simile a noi. » « E' per questo che mi avete salvato? » « No. Noi aiutato te perché i Mabden ti facevano del male. » « I Mabden han forse fatto male anche a voi? » « No. Noi nasconderci da essi. Loro occhi non buoni. Mai vedere noi. Noi nasconderci da Vadhagh, lo stesso. » « Perché vi nascondete? » « Mio signore sa. Noi essere sicuri. » « Sarebbe stato un bene per i Vadhagh se si fosse-
ro nascosti. Ma i Mabden arrivarono così all'improvviso. Non eravamo preparati. Lasciavamo i nostri castelli così raramente, comunicavamo così poco fra di noi, non potevamo essere preparati. » Serwde comprese soltanto a metà quel che diceva Corum, ma ascoltò cortesemente finché Corum si fermò, poi disse: « Tu mangiare. Buoni frutti. Tu dormire. Dopo noi andare al posto Mabden. » « Devo procurarmi delle armi ed un'armatura, Serwde. Ho bisogno di abiti. E di un cavallo. Voglio ritornare da Glandyth e seguirlo finché lo trovo isolato. Poi lo ucciderò. Dopo desidero soltanto morire. » Serwde guardò Corum con tristezza. « Tu uccidere? » « Soltanto Glandyth. Egli ha sterminato la mia gente ». Serwde scosse il capo. « Vadhagh non uccidere così. » « Io sì, Serwde. Io sono l'ultimo dei Vadhagh. E sono stato il primo ad imparare cosa significhi uccidere con odio. Voglio vendicarmi di quelli che mi hanno torturato, di quelli che mi hanno privato della mìa famiglia. » Serwde grugnì con commiserazione. « Mangiare. Dormire. » Corum si rialzò di nuovo e si accorse di essere molto debole. « Forse hai ragione. Forse dovrei cercare di rinfrescare le mie forze prima di procedere. » Si avvicinò al mucchio di frutta e nocciole e si mise a mangiare. Ma non potè mangiare molto e si distese di nuovo a dormire, confidando che Serwde lo avrebbe svegliato se qualche pericolo lo avesse minacciato. Corum per cinque giorni restò nella vallata con l'Uomo Bruno di Laahr. Sperava che ritornasse quella creatura dalla faccia scura perchè gli dicesse
qualcosa di più sulle proprie origini e su quelle di Serwde, ma ciò non accadde. Infine le sue ferite si cicatrizzarono del tutto ed egli si sentì abbastanza bene per partire. Quella mattina, si rivolse a Serwde. « Addio, Uomo Bruno di Laahr. Ti ringrazio per avermi salvato. E ringrazio anche il tuo signore. Ora debbo andare. » Corum fece a Serwde un cenno di saluto e cominciò ad inerpicarsi per la vallata, dirigendosi verso est. Serwde gli venne dietro goffamente. « Corum! Corum! Tu andare strada sbagliata. » « Io ritorno dove potrò ritrovare i miei nemici », disse Corum. « Questa non è la strada sbagliata. » « Mio signore dire, io portare te quella strada... » Serwde indicava un punto verso ovest. « C'è soltanto il mare in quella direzione, Serwde. E' la punta estrema di Bro-an-Vadhagh. » « Mio signore dire quella strada », insistette Serwde. « Vi sono grato per le vostre premure, Serwde. Ma io vado per questa strada — per ritrovare i Mabden e prendermi la rivincita. » « Tu andare quella strada. » Serwde indicò di nuovo quel punto e pose la sua zampa sul braccio di Corum. « Quella strada. » Corum si liberò della zampa. « No. Per di qua. » E continuò a inerpicarsi su per la vallata verso ovest. Poi, all'improvviso, qualcosa lo colpì alla nuca. Vacillò. E si volse a guardare che cosa l'aveva colpito. Serwde stava lì con un'altra pietra pronta. Corum lo rincorse e stava per insultare Serwde quando i suoi sensi lo abbandonarono di nuovo ed egli cadde disteso sull'erba. Fu risvegliato dal rumore del mare. Dapprima non riuscì a stabilire cosa gli stesse succedendo e poi si accorse di essere trasportato, faccia in
giù sulle spalle di Serwde. Tentò di opporsi, ma l'Uomo Bruno di Laahr era molto più forte di quanto sembrasse. Tratteneva Corum senza mollare la presa. Corum guardò da una parte. C'era il mare verde che schiumeggiava frangendosi sulla spiaggia di ciottoli. Guardò dall'altra parte, la parte da cui era accecato, e cercò di girare il capo per vedere cosa ci fosse. C'era ancora il mare. Egli veniva trasportato lungo una stretta striscia di terra che sorgeva dalle acque... Casualmente, visto che la testa veniva sballottata su e giù mentre Serwde lo trasportava, vide che avevano lasciato la terra ferma e si muovevano lungo una specie di terrapieno naturale che si estendeva verso l'oceano. I gabbiani facevano sentire il loro verso. Corum gridò e cercò d'opporsi, ma Serwde rimase sordo alle sue suppliche ed alle sue imprecazioni, finché non si fermò e lo scaricò al suolo. Corum si rialzò. « Serwde, io... » Si fermò, guardandosi intorno. Erano arrivati alla fine del terrapieno e si trovavano su di un'isola che si ergeva a picco sul mare. Sulla sommità dell'isola si trovava un castello di un tipo di architettura che Corum non aveva mai visto prima. Era forse questo il posto Mabden di cui Serwde gli aveva parlato? Ma Serwde stava già correndo via ripercorrendo il terrapieno. Corum lo chiamò. L'Uomo Bruno aumentò la sua andatura. Corum cercò di seguirlo ma non poteva reggere il passo di quella creatura. Serwde raggiunse la terraferma molto prima che Corum fosse giunto a metà strada — ed ora il cammino era bloccato, perché la marea montante stava per coprire il terrapieno. Corum si fermò indeciso. guardando indietro ver-
so il castello. L'aiuto che Serwde gli aveva dato a sproposito lo aveva messo, ancora una volta, in pericolo. Allora vide alcune figure a cavallo che scendevano l'erto sentiero che conduceva al castello. Erano guerrieri. Vide il riflesso del sole sulle loro lance e sui loro pettorali. A differenza degli altri Mabden, questi sapevano cavalcare, e c'era qualcosa nel loro portamento che li faceva sembrare più simili ai Vadhagh che ai Mabden. Ciò nonostante, si trattava di nemici e Corum doveva scegliere fra l'affrontarli ignudo o cercare di ritornare a nuoto con una sola mano verso la terra ferma. Si decise a mettersi a camminare nell'acqua salata, talmente gelida da farlo rabbrividire, senza prestare ascolto alle grida dei cavalieri dietro di lui. Cercò di nuotare per un po' finché non fu in acque più profonde, e la corrente si impadronì di lui. Cercò di liberarsene, ma fu tutto inutile. Rapidamente, fu trascinato verso il mare aperto.
Capitolo Ottavo
LA MARGRAVIA DI ALLOMGLYL
Corum aveva perso molto sangue a causa delle torture inflittegli dai Mabden e non aveva avuto modo di recuperare le forze di prima. Non riuscì a lottare a lungo contro la corrente e ben presto i crampi lo afferrarono agli arti. Si trovava ormai sul punto di annegare. Sembrava già deciso dalla sorte che egli non potesse vivere per vendicarsi di Glandyth-a-Krae. L'acqua gli riempiva la bocca ed egli cercava di non farla entrare nei polmoni mentre si contorceva ed agitava inutilmente nell'acqua. Allora udì un grido provenire dall'alto e cercò, con l'occhio sano, di sollevare lo sguardo per localizzare il punto da cui proveniva la voce. « Stai calmo, Vadhagh. Spaventerai la mia bestia. Sono mostri nervosi già in situazioni normali. » Corum vide a quel punto una forma oscura che lo sovrastava. Possedeva grandi ali che si estendevano quattro volte tanto quella della più grande delle aquile. Ma non era un uccello e, nonostante le sue ali avessero un'apparenza da rettile, non era nemmeno un rettile. Corum riconobbe di che si trattava. Quella faccia orrenda, simile ad una scimmia con le bianche
zanne sottili, era la faccia di un gigantesco pipistrello. E sopra di lui vi era un cavaliere. Il cavaliere era un Mabden giovane e flessuoso che sembrava avere ben poco in comune con i guerrieri Mabden di Glandyth-a-Krae. In quel momento scivolò giù dal fianco della creatura facendole muovere le ali più in basso per poter stendere una mano a Corum. Corum porse automaticamente il braccio più vicino ma si accorse che era quello senza mano. Il Mabden rimase indifferente, afferrò strettamente l'arto presso il gomito e sollevò Corum in modo che potesse usare la sua unica mano per aggrapparsi ad una cinghia che fungeva da cavezza e che era assicurata ad un'alta sella sul dorso dell'enorme pipistrello. Senza tante cerimonie, il corpo grondante di Corum fu sollevato e collocato davanti al cavaliere, che disse qualcosa con una voce stridula, facendo levare il pipistrello alto sopra le onde per ritornare verso il castello sull'isola. La bestia evidentemente era diffìcile da controllare, perché il cavaliere doveva costantemente correggere la direzione mentre continuava a parlarle in uno stridulo linguaggio a cui esso obbediva. Ma infine giunsero sull'isola e si librarono sopra il castello. Corum potè credere a malapena che fosse un'architettura Mabden. Vi erano torrette e parapetti lavorati con raffinatezza, passaggi coperti e balconate con edera e fiori, il tutto foggiato da una magnifica pietra bianca che brillava al sole. Il pipistrello atterrò bruscamente ed il cavaliere scese rapidamente, trascinando Corum con sé. Quasi istantaneamente, il pipistrello si levò di nuovo, librandosi nel cielo per poi dirigersi verso un punto nell'altra parte dell'isola. « Essi dormono in caverne », dichiarò il cavaliere.
« Noi li usiamo il meno possibile. Sono esseri difficili da controllare, come ti sei potuto rendere conto. » Corum non disse nulla. Benché questo Mabden gli avesse salvato la vita e sembrasse cortese e ben disposto, Corum aveva imparato, come imparano gli animali, che i Mabden erano suoi nemici. Guardò così il Mabden con cipiglio duro. « Perché mi hai salvato, Mabden? » L'uomo lo guardò con sorpresa. Si spolverò la tunica di velluto scarlatto e si aggiustò il cinturone della spada ai fianchi. « Stavi affogando », disse. « Perché sei fuggito dinanzi ai nostri uomini venuti ad accoglierti? » « Come sapevate che io dovevo venire? » « Ce lo disse la nostra Margravia. » « E chi lo comunicò alla vostra Margravia? » « Non lo so. Siete alquanto poco gentile, signore. Pensavo che i Vadhagh fossero un popolo cortese. » « Ed io pensavo che i Mabden fossero malvagi e pazzi », rispose Corum. « Ma tu... » « Ah, intendi il popolo del sud e dell'est, eh? Allora li hai incontrati? » Corum accostò il suo moncherino all'occhio mutilato. « Sono stati loro. » Il giovane scosse il capo con simpatia. « Lo supponevo. La mutilazione è uno dei loro divertimenti preferiti. Sono sorpreso che voi siate scampato. » « Anch'io. » « Beh, signore », disse il giovane indicando con complicato gesto della mano una porta della torre, « volete entrare? » Corum esitava. « Noi non siamo i vostri Mabden dell'est, signore, ve l'assicuro. » « E' possibile », rispose Corum con asprezza, « ma restate pur sempre dei Mabden. Siete in tanti, ed
ora, vedo anche che siete di specie diverse. Comunque sospetto che abbiate dei tratti in comune... » Il giovane mostrò segni di impazienza. « Come volete, signore Vadhagh. Quanto a me, io entro. Spero che mi seguirete quando vi aggrada. » Corum lo vide varcare la soglia e quindi scomparire. Egli rimase sul tetto, osservando i gabbiani che si lasciavano trasportare dal vento, si gettavano in picchiata e poi risalivano. Si passò la mano integra sul moncherino del braccio sinistro e si sentì rabbrividire. Cominciava a soffiare un forte vento ed egli se ne stava lì nudo al freddo. Lanciò uno sguardo verso la porta. C'era una donna. Sembrava tranquilla e sicura di sé ed aveva un'aura di gentilezza. I lunghi capelli neri le ricadevano morbidamente sulle spalle. Indossava una gonna di sciamito ricamato, con svariati e vivaci colori. Ella gli sorrise. « Salute », disse. « Io sono Rhalina. Chi siete voi, signore? » « Io sono Corum Jhaelen Irsei », egli rispose. La sua bellezza non era quella di una Vadhagh, ma tuttavia lo colpì. « Il principe dal... » « Mantello Scarlatto? » Ella era sinceramente divertita. « Io parlo l'antica lingua dei Vadhagh quasi altrettanto bene del linguaggio comune. Ma vi han dato un nome sbagliato, principe Corum. Non vedo alcun mantello. In realtà, non vedo... » Corum si volse dall'altra parte. « Non farti beffa di me, Mabden. Sono deciso a non sopportare ulteriormente la vostra razza. » Ella gli si fece più vicina. « Perdonatemi. Quelli che vi han fatto questo non appartengono alla nostra stirpe, per quanto appartengano alla nostra stessa razza. Avete mai sentito parlare di Lywm-an-Esh? » La sua fronte si increspò. Il nome della località gli era familiare, ma non significava nulla.
« Lywm-an-Esh », ella continuò, « è il nome della regione da cui proviene il mio popolo. Un popolo antico che viveva a Lywm-an-Esh ben prima che le Grandi Battaglie dei Vadhagh e dei Nhadragh scuotessero l'equilibrio dei Cinque Piani... » « Voi conoscete i Cinque Piani? » « Una volta avevamo dei veggenti che potevano guardarvi dentro. Tuttavia le loro capacità non uguagliavano quelle dell'Antico Popolo — il vostro popolo. » « Come mai conoscete tante cose dei Vadhagh? » « Anche se il senso di curiosità dei Vadhagh si è atrofizzato molti secoli fa, il nostro non lo è ancora », ella disse. « Di tanto in tanto delle navi Nhadragh naufragavano sulle nostre spiagge e, anche se i Nhadragh se ne andavano via, abbandonavano libri, arazzi ed altri generi. Noi abbiamo imparato a leggere quei libri ed interpretare quegli arazzi. A quel tempo, avevamo molti studiosi. » « E ora? » « Ora, non so. Abbiamo poche notizie dalla terraferma. » « Che? Ma se è così vicina? » « Non questa terraferma, Principe Corum », disse accennando col capo verso la spiaggia. Ella indicò il mare aperto. « Quella terra ferma — Lywm-anEsh — o, più esattamente, il Ducato di Bedwilralnan-Rywm, ai cui confini stava una volta questo Margraviato » Il principe Corum guardò il mare che si infrangeva sulle rocce che costituivano la base dell'isola. « Che ignoranza la nostra », mormorò pensoso, « quando pensavamo di possedere una grande saggezza. » « Perché una razza come i Vadhagh si doveva interessare delle faccende della terra dei Mabden? »
ella disse. « La nostra storia è stata breve ed incolore al confronto della vostra. » « Ma come mai un Margraviato da queste parti? » riprese lui. « Contro cosa difendete la vostra terra? » « Da altri Mabden, principe Corani. » « Glandyth e la sua gente? » « Non conosco alcun Glandyth. Parlo delle Tribù dei Pony. Essi occupano le foreste laggiù sulla costa. Barbari come sono, hanno sempre rappresentato una minaccia per Lywm-an-Esh. Il Margraviato fu posto come bastione fra quelle tribù e la nostra terra. » « Il mare non è forse un bastione sufficiente? » « Qui non c'era mare quando fu fondato il Margraviato. Una volta questo castello stava in una foresta ed il mare distava miglia a nord ed a sud. Ma poi il mare cominciò ad inghiottire la nostra terra. Ogni anno scavò sempre di più le nostre rocce. Città, villaggi e castelli svanirono nel giro di una settimana. La popolazione della terra ferma si ritirò ulteriormente all'interno... » « E voi siete rimasti qui? Ma questo castello non aveva cessato la sua funzione? Perché non partite per raggiungere il vostro popolo? » Essa sorrise e si strinse nelle spalle dirigendosi verso i merli e sporgendosi fuori a guardare i gabbiani che si adunavano sulle rocce. « Questa è la mia casa », ella disse. « Qui sono racchiusi i miei ricordi. Il Margravio ha lasciato tanti segni di sé. Non potrei partire. » « Il Margravio? » « Il Conte Moidel di Allomglyl. Mio marito. » « Ah! » Corum provò una strana fitta di disappunto. La Margravia Rhalina continuò a fissare il mare. « E' morto », disse. « Morto in un naufragio. Ave-
la terra ferma in cerca di notizie sul destino del nostro popolo. Si levò una tempesta poco dopo che era partito. La nave reggeva a malapena il mare. Affondò. » Corum non disse nulla. Come se le parole della Margravia gli avessero rammentato la sua forza, improvvisamente il vento soffiò con maggior violenza, gonfiandole la gonna e facendola svolazzare intorno al suo corpo. Ella si volse a guardare Corum. Uno sguardo lungo, pensieroso. « Allora, principe », disse. « Vorrete essere mio ospite? » « Ditemi ancora una cosa, Donna Rhalina. Come sapevate della mia venuta? Perché l'Uomo Bruno mi ha portato qui? » « Vi ha portato secondo gli ordini del suo padrone. » « E il suo padrone? » « Mi disse di aspettarvi e di farvi riposare finché il vostro corpo e la vostra mente fossero stati di nuovo in forze. Io fui più che disposta ad acconsentire. Normalmente non abbiamo visitatori — e certamente nessuno della razza dei Vadhagh. » « Ma chi è quell'essere strano, il padrone dell'Uomo Bruno? L'ho visto solo di sfuggita. Non ho potuto distinguere troppo bene la sua figura, per quanto abbia visto che era due volte la mia statura ed aveva un viso con un'espressione di infinita tristezza. » « E' lui. Viene al castello di notte, portando gli animali domestici feriti che sono scappati di volta in volta dai nostri recinti. Noi pensiamo che si tratti di un essere che proviene da un'altra dimensione, o forse da un'altra Era, addirittura prima dell'Era dei Vadhagh e dei Nhadragh. Noi non riusciamo a pronunciare il suo nome, così lo chiamiamo semplicemente il Gigante di Laahr. » Corum sorrise per la prima volta. Ora compren-
do meglio. Per lui, forse, io ero un'altra bestia ferita. Ed è qui che lui porta sempre le bestie ferite. » « Potreste aver ragione, principe Corum. » E gli indicò la porta. « E se siete debole sarò felice di aiutarvi a rimettervi in sesto... » Un'ombra passò per la faccia di Corum mentre egli la seguiva all'interno. « Per il momento, signora, temo che nulla possa curare la mia malattia. E' una malattia causata dai Mabden e non vi sono cure per un Vadhagh. » « Bene », ella disse con chiarezza sforzata, « forse noi Mabden possiamo escogitare qualcosa. » Egli si riempì di amarezza. Mentre discendevano le scale verso la parte principale del castello, egli sollevò il suo moncherino e toccò la sua orbita vuota. « Ma possono i Mabden ridarmi indietro la mia mano ed il mio occhio? » Ella si voltò e si fermò sui gradini. E gli diede una risposta misteriosa e sincera. « Chi lo sa? » disse sommessamente. « Forse lo possono fare. »
Capitolo Nono
L'ODIO E L'AMORE
Se anche il Castello della Margravia era senza dubbio magnifico secondo i canoni dei Mabden, pure colpì il principe Corum per la sua grazia e la sua semplicità. Dietro invito di lei, egli si lasciò lavare ed ungere dai servitori del castello e si fece mostrare una scelta di abiti da indossare. Scelse una camicia di sciamito blu scuro, ricamata con disegni azzurri ed un paio di calzoni marrone di lino. Gli abiti gli si adattavano a puntino. « Erano del Margravio », gli disse una ragazza che lo serviva, con timidezza, senza guardarlo direttamente. Nessuno dei servitori sembrava a suo agio davanti a lui. Egli suppose che il suo aspetto fosse repellente. Pensando a ciò domandò alla ragazza: « Potrei avere uno specchio? » « Sì, Signore. » Essa chinò il capo e lasciò la stanza. Ma fu la Margravia in persona a ritornare con lo specchio. Non glielo porse immediatamente. « Non avete visto la vostra faccia dopo la mutilazione? » domandò. Egli scosse il capo. « Eravate bello? »
Ella lo guardò con franchezza. « Sì », disse. « Eravate bello. » E poi gli porse lo specchio. La faccia che vide riflessa era incorniciata dagli stessi leggeri capelli dorati, ma non era più giovanile. La paura e l'agonia avevano lasciato i loro segni. Il viso era solcato da rughe e l'espressione dura, e la sua bocca contorta in una smorfia. L'unico occhio color d'oro e porpora gli ritornava uno sguardo gelido. L'altra orbita mostrava un'orrida cavità con un tampone macchiato di rosso. C'era una piccola cicatrice sulla sua guancia sinistra ed un'altra sul collo. La sua faccia manteneva ancora i lineamenti caratteristici dei Vadhagh. Da un viso angelico si era trasformato sotto il coltello ed i ferri di Glandyth in un volto demoniaco. Silenziosamente, Corum le ridiede lo specchio. Sfiorò con la mano destra le cicatrici della sua faccia e disse meditabondo: « Se anche ero bello, ora sono orribile. » Essa alzò le spalle. « Ne ho visti di molto peggiori. » Allora la rabbia cominciò a pervaderlo di nuovo, i suoi occhi lampeggiarono e agitò il moncherino della sua mano e gridò rivolto a lei. « Sì! — e ne vedrete uno molto peggiore quando me la sarò sbrigata con Glandyth-a-Krae! » Sorpresa, ella si scostò da lui ma poi riprese la sua compostezza. « Se nemmeno sapevi di essere bello, se non eri vanaglorioso, allora perché ciò ti ha addolorato tanto? » « Ho bisogno delle mie mani e dei miei occhi per uccidere Glandyth e vederlo perire. Possedendo soltanto metà di essi, perdo metà del piacere! » « Questo è un atteggiamento infantile, principe Corum. Non è degno di un Vadhagh. Cos'altro ti ha fatto questo Glandyth? » Corum si accorse di non averle detto ciò che ella
ignorava, dato che viveva in una località remota tagliata fuori dal mondo, com'erano vissuti i Vadhagh. « Egli ha sterminato tutti i Vadhagh », disse. « Glandyth ha distrutto la mia razza e mi avrebbe assassinato se non fosse stato per il vostro amico, il Gigante di Laahr. » « Cosa ha fatto...? » La sua voce era flebile. Ella era sinceramente scossa. « Egli ha mandato a morte tutto il mio popolo. » « Perché? Eravate in guerra con questo Glandyth? » « Non sapevamo neppure della sua esistenza. Non avevamo bisogno di guardarci dai Mabden. Sembravano tanto simili ai bruti, incapaci di portarci offesa nei nostri castelli. Ma i nostri castelli li hanno rasi al suolo. Tutti i Vadhagh, tranne me, sono morti. E così pure quasi tutti i Nhadragh, ho saputo, tranne quelli che sono i loro schiavi leccapiedi. » « Si tratta dei Mabden del Re Lyr-a-Brode di Kalenwyr? » « Precisamente. » « Nemmeno io sapevo che fossero diventati così potenti. Pensavo che fossero quelli delle Tribù Pony che vi avessero catturato. Mi domandavo per quale ragione viaggiavate solo così lontano dal più vicino castello Vadhagh.» « Di che castello si tratta? » Per un attimo Corum sperò che vi fossero dei Vadhagh ancora in vita, molto più a ovest di quanto egli avesse immaginato. « Si chiama Castello di Eran — Erin — un nome del genere. » « Erorn? » « Sì. Questo è il nome giusto. E' a più di cinquecento miglia da qui... » « Cinquecento miglia? Sono arrivato così lontano? Il Gigante di Laahr deve avermi portato mol-
avete nominato, mia signora, era il nostro castello. I Mabden l'hanno distrutto. Avrò bisogno di più tempo di quanto pensassi per ritornare indietro e scovare il Conte Glandyth ed i suoi Denledhyssi. » Improvvisamente Corum si accorse di quanto fosse solo. Era come se fosse penetrato in un'altra dimensione della terra dove ogni cosa gli era estranea. Non conosceva nulla di questo mondo. Un mondo in cui regnavano i Mabden. Quanto era stata orgogliosa la sua razza. Quanto stupida. Se si fossero soltanto dedicati alla conoscenza del mondo circostante, invece di inseguire astrazioni! Corum chinò il capo. La Margravia Rhalina sembrò comprendere la sua emozione. Ella sfiorò dolcemente il suo braccio. « Venite, Principe dei Vadhagh. Dovete mangiare. » Egli si lasciò condurre fuori dalla stanza, in un'altra in cui era stato apparecchiato un pranzo per entrambi. Il cibo — essenzialmente frutta ed alghe commestibili — era molto più vicino al suo gusto di ogni altro cibo Mabden che egli aveva avuto modo di assaggiare in precedenza. Egli si accorse di essere molto affamato e profondamente stanco. La sua mente era confusa e la sua sola certezza era l'odio che continuava a sentire nei confronti di Glandyth e la brama di Vendetta che intendeva soddisfare al più presto possibile. Durante il pranzo, non conversarono, ma la Margravia lo guardò in faccia per tutto il tempo e tentò una o due volte di aprire le labbra e di dirgli qualcosa, ma poi sembrò decidere di non farlo. La stanza in cui mangiavano era piccola; vi pendeva un ricco arazzo coperto d'un bel ricamo. Quando egli finì di mangiare e si mise ad osservare i dettagli dell'arazzo, le scene che vi erano ricamate si misero ad ondeggiare davanti a lui. Egli guardò la Margravia con fare interrogativo, ma il viso di lei era privo di
espressione. La sua testa divenne leggera e perse l'uso degli arti. Tentò di formulare qualche parola, ma non gli fu possibile. Era stato drogato. La donna gli aveva somministrato qualcosa nel cibo. Ancora una volta si era lasciato andare ed era divenuto una vittima dei Mabden. Appoggiò la testa sulle braccia e cadde, contro la sua volontà, in un sonno profondo. Corum sognò di nuovo. Vide il Castello di Erorn come l'aveva lasciato quando era partito a cavallo. Vide la faccia saggia di suo padre che pronunciava delle parole di cui si sforzò di cogliere il significato, senza però esserne capace. Vide sua madre al lavoro, che scriveva il suo ultimo trattato di matematica. Vide le sue sorelle che danzavano seguendo la nuova musica di suo zio. L'atmosfera era gioiosa. Ma ora si accorse di non poter più comprendere le loro attività. Gli sembravano strane e senza uno scopo. Erano come giochi di bambini che non si accorgevano che una bestia selvaggia li inseguiva. Tentò di gridare — per avvertirli — ma non aveva voce. Vide fuochi cominciare a sprigionarsi qua e là nelle stanze — vide i guerrieri Mabden che avevano varcato i cancelli privi di protezione, senza che gli abitanti si accorgessero almeno della loro presenza. Ridacchiando fra di loro, i Mabden misero a fuoco le tende di seta e il resto dell'arredamento. Vide ancora i suoi parenti. Si erano accorti dei fuochi e correvano qua e là per scoprirne la causa. Suo padre entrò nella stanza in cui Glandyth-aKrae stava gettando i libri su una pira che aveva eretto in mezzo.Suo padre guardo attonito Glandyth
che bruciava i libri. Le sue labbra si muovevano ed i suoi occhi avevano un'espressione interrogativa — quasi di dignitosa sorpresa. Glandyth si volse ghignando, impugnando l'ascia tolta dal cinturone. Sollevò l'ascia... Corum vide poi sua madre. Due Mabden la tenevano ferma mentre un altro con tutto il suo peso si muoveva su e giù per il suo corpo nudo. Corum tentò di entrare in scena, ma qualcosa lo fermò. Vide le sorelle e la cugina che subivano la stessa sorte della madre. Di nuovo, il suo passo verso di loro fu bloccato da qualcosa di invisibile. Egli cercò di liberarsi, mentre i Mabden stavano tagliando la gola delle ragazze. Queste si misero a tremare e morirono come dei cerbiatti sgozzati. Corum cominciò a piangere. Stava ancora piangendo, ma giaceva contro un corpo caldo e da qualche punto gli giungeva in lontananza una voce suadente. Qualcuno gli accarezzava la testa ed egli era cullato avanti e indietro su un morbido letto dalla donna sul cui seno egli poggiava il capo. Per un attimo tentò di liberarsi, ma lei lo teneva stretto. Cominciò di nuovo a piangere, questa volta senza freni, con grandi gemiti che gli tormentavano il corpo, finché si addormentò di nuovo. Ma in un sonno libero da incubi... Si svegliò con un senso di angoscia. Sentì di aver dormito troppo a lungo, che doveva alzarsi e fare qualcosa. Si alzò a mezzo busto nel letto ma poi sprofondò di nuovo fra i guanciali. Lentamente si accorse di essere molto più fresco. Per la prima volta da quando era partito per la sua ricerca, si sentì pieno di energia e completamente a po-
sto. Persino la confusione della sua mente parve essersi dileguata. La Margravia lo aveva dunque drogato ma, ora sembrava, si era trattato di una droga per farlo dormire, per aiutarlo a recuperare le sue forze. Ma quanti giorni aveva dormito? Si rigirò di nuovo nel letto e si trovò al morbido contatto di un'altra persona accanto a lui, dalla parte in cui era accecato. Volse la testa e vide Rhalina, gli occhi chiusi, il dolce viso tranquillo. Rammentò il suo sogno. Rammentò il conforto che ella gli aveva dato, mentre egli lasciava libero sfogo a tutta la propria miseria. Rhalina gli aveva dato aiuto. Si sollevò aiutandosi con la mano integra per accarezzare i suoi capelli rovesciati all'indietro. Provò affetto per lei — un affetto quasi altrettanto forte quanto quello che provava per la sua famiglia. Ricordandosi della sua gente che era ormai morta, smise di accarezzarle i capelli e osservò, invece, il moncherino raggrinzito della sua mano sinistra. Era completamente risanato ora, con una pelle bianca che ne ricopriva l'estremità. Tornò a guardare Rhalina. Come poteva ella sopportare di spartire il letto con uno storpio del genere? Mentre egli la guardava, ella aprì gli occhi e gli sorrise. Egli credette di scoprire della pietà in quel sorriso e mostrò un immediato risentimento. Stava per alzarsi dal letto, ma la mano di lei sulla sua spalla lo trattenne. « Resta con me, Corum, ora ho bisogno del tuo conforto. » Egli si fermò, guardandola con sospetto. « Te ne prego, Corum. Credo di amarti. » Egli si scosse. « Amore? Fra Vadhagh e Mabden? Amore di questo genere? » Egli scosse il capo.
« Impossibile. Non vi potrebbe essere alcuna discendenza. » « Niente bambini, lo so. Ma l'amore può generare altre cose... » « Non ti capisco. » « Mi dispiace » ella disse. « Sono egoista. Sto approfittando di te. » Si sedette sul letto. « Non ho dormito con nessuno da quando se ne andò mio marito. Non sono.. » Corum guardò attentamente il corpo di lei. Lo smuoveva, eppure non sarebbe dovuto essere così. Era innaturale per una specie provare una tale emozione nei confronti di un'altra... Si chinò e le baciò il seno. Ella gli cinse la testa. E affondarono entrambi di nuovo fra le coltri, in un tenero amore e conoscenza reciproca, come soltanto a veri innamorati accade. Dopo alcune ore, ella gli disse: « Corum, sei l'ultimo della tua razza. Nemmeno io rivedrò più il mio popolo, salvo che per questi fittavoli che stanno qui. Questo castello è pieno di pace. E c'è molto poco che possa disturbare questa pace. Non vuoi decidere di restare qui con me — almeno per alcuni mesi? » « Ho giurato di vendicare lo sterminio del mio popolo », le disse con dolcezza e la baciò sulla guancia. « Questi giuramenti non si addicono alla tua natura, Corum. Tu sei uno che è più disposto ad amare che non ad odiare, ne sono convinta. » « Non posso risponderti », egli replicò, « perché non potrò considerare compiuta la mia vita finché non riuscirò a distruggere Glandyth-a-Krae. Questo desiderio non è tanto generato dall'odio, come tu potresti pensare. Mi sento, se mai, come chi scorge un male che dilaga per la foresta. E spera di estirpare le piante malate in modo che le altre possano crescere nel modo giusto e sopravvivere. Questo è quello che sento nei confronti di Glandyth-a-Krae. Egli ha
fondato l'abitudine di uccidere. Ora che ha ucciso tutti i Vadhagh, desidererà uccidere altra gente. Se non troverà più stranieri, comincerà a sterminare quei disgraziati che occupano i villaggi situati sotto il dominio di Lyr-a-Brode. Il destino mi ha dato lo slancio necessario per assolvere a questo compito, Rhalina. » « Ma perché andarsene da qui adesso. Presto o tardi avremo notizie riguardo Glandyth. Quando arriverà quel momento allora potrai andartene per compiere la tua vendetta. » Egli strinse le labbra. « Forse hai ragione. » « E devi imparare ad arrangiarti senza una mano e senza un occhio », ella disse. « Per far ciò occorrerà molto esercizio, Corum. » « E' vero. » « Resta dunque qui, con me. » « D'accordo, Rhalina. Non prenderò alcuna decisione per qualche giorno ancora. » E Corum non prese alcuna decisione per un mese. Dopo l'orrore del suo incontro con gli invasori Mabden, il suo cervello aveva bisogno di tempo per rimettersi in sesto e ciò era reso difficile dal ricordo costante delle offese subite, ogni volta che tentava di usare la sua mano sinistra, oppure scorgeva il suo riflesso. Quando non stava con lui, Rhalina passava la gran parte del suo tempo nella biblioteca del castello, ma Corum non provava gusto nella lettura. Camminava lungo i bastioni del castello oppure prendeva un cavallo e galoppava lungo il terrapieno quando la marea era bassa (sebbene Rhalina fosse turbata da quanto egli faceva per timore che cadesse preda delle Tribù dei Pony, che vagavano di quando in quando nella zona) o cavalcava in mezzo agli alberi. Ma per quanto la confusione della sua mente diventasse sempre meno avvertibile man mano che scorrevano quei piacevoli giorni, tuttavia rimaneva sempre.
E a Corum talvolta accadeva di bloccarsi nel bel mezzo di un'azione o alla visione di qualcosa che gli ricordasse la sua casa, il Castello di Erorn. Il Castello della Margravia si chiamava semplicemente Castello di Moidel e sorgeva su un'isola chiamata Montagna di Moidel, dal nome della famiglia che l'aveva occupata per secoli. Era pieno di cose interessanti. C'erano stanze colme di figure di porcellana e di avorio, sale riempite di curiosità portate dal mare in differenti periodi, camere in cui erano disposte armi ed armature, quadri (rozzi secondo il metro di Corum) che descrivevano scene tratte dalla storia di Lywm-an-Esh, come pure scene tratte da leggende e racconti popolari di quella terra, che ne abbondava. Simili strane fantasie erano rare fra i Vadhagh, che erano stati un popolo razionale, tuttavia affascinavano Corum. Egli si accorse che molte delle storie che riguardavano terre magiche ed animali misteriosi derivavano da frammenti di conoscenza delle altre dimensioni. Ovviamente le altre dimensioni erano state soltanto intravviste e il creatore della leggenda speculava a mente libera sui frammenti di conoscenza che possedeva. Corum si divertiva a riportare una rozza storia popolare alle sue origini più mondane, in particolare quando queste leggende riguardavano le Antiche Razze — i Vadhagh ed i Nhadragh — cui veniva attribuito un campo straordinario di poteri soprannaturali. Scoprì anche, attraverso lo studio, qualcosa riguardo i costumi dei Mabden dell'est che sembrava fossero vissuti nutrendo un timore misto a venerazione nei riguardi delle Antiche Razze, prima di scoprire che erano mortali e potevano essere eliminate. Sembrava a Corum che il malvagio genocidio intrapreso da questi Mabden, fosse in parte causato dal loro odio per il fatto che i Vadhagh non erano quei grandi stregoni e veggenti che i Mabden avevano originariamente supposto.
Ma questa serie di pensieri lo riportava ai ricordi odiosi e dolorosi, e allora Corum diventava depresso, talvolta per giorni interi, e nemmeno l'amore di Rhalina riusciva a consolarlo. Ma poi un giorno, in una stanza in cui non era mai entrato prima, egli si mise ad ispezionare un arazzo che, mentre ne guardava le figure e studiava il testo ricamato, assorbì la sua attenzione. Era una storia leggendaria completa che narrava le avventure di Mag-an-Mag, un eroe popolare molto famoso. Mag-an-Mag stava ritornando da una terra di magia quando la sua nave fu assalita dai pirati. Quei pirati avevano tagliato a Mag-an-Mag le braccia e le gambe e l'avevano gettato in mare, poi avevano decapitato Jhakor-Neelus, il suo compagno, gettandone il corpo in acqua dietro a quello del suo padrone e trattenendo la testa, evidentemente per mangiarla. Dopo essere stato trascinato dall'acqua il corpo privo di arti di Mag-an-Mag era approdato sulla spiaggia di un'isola misteriosa, mentre il corpo senza testa di Jhakor-Neelus era stato sospinto ad un punto poco più lontano sulla stessa spiaggia. I corpi furono trovati dai servitori di uno stregone, che in segno di riconoscenza per i servigi resigli da Magan-Mag contro i suoi nemici, si offrì di riattaccargli gli arti e di riportarlo nelle condizioni di prima. Magan-Mag accettò a condizione che lo stregone trovasse una nuova testa per Jhakor-Neelus. Lo stregone fu d'accordo e fornì a Jhakor-Neelus la testa di una gru, la qual cosa parve divertire tutti. Poi i due lasciarono l'isola carichi dei doni dello stregone e continuarono a combattere contro i suoi nemici. Corum non riuscì a trovare alcuna spiegazione di questa leggenda nelle conoscenze del suo popolo. Non sembrava adattarsi con le altre leggende. Dapprima bandì dalla propria mente l'ossessione che provava per la leggenda considerandola originata
dal proprio desiderio di tornare in possesso della mano e dell'occhio che aveva perduti, ma tuttavia continuò ad esserne ossessionato. Provando imbarazzo per questo suo interessamento, egli non fece parola della leggenda a Rhalina per parecchie settimane. Venne l'autunno al Castello di Moidel e con esso un vento freddo che spogliò completamente gli alberi scagliando le onde del mare contro le rocce e spingendo gran parte degli uccelli alla ricerca di un clima più adatto. Corum cominciò a passare una parte sempre maggiore del suo tempo nella stanza dov'era appeso l'arazzo che riguardava Mag-an-Mag e il prodigioso stregone. Corum si accorse che era principalmente il testo ad interessarlo in modo preminente. Gli sembrò parlasse con un'autorità che altrove, nelle altre leggende che aveva conosciuto, mancava. Tuttavia non si decideva a mettere alla prova Rhalina con domande al riguardo. In seguito, in uno dei primi giorni d'inverno, essa lo cercò e lo trovò in quella camera, ed allora non si mostrò sorpresa. Tuttavia, mostrava un certo interesse, come se avesse temuto che egli prima o poi avrebbe finito per trovare l'arazzo. « Sembri tutto preso dalle divertenti avventure di Mag-an-Mag », ella disse. « Sono soltanto dei racconti. Qualcosa per passare il tempo. » « Ma questo sembra differente », disse Corum. Egli si volse verso di lei. Ella stava mordendosi le labbra. « Allora non è così, Rhalina? » mormorò Corum. « Tu sai qualcosa di tutto ciò! » Ella si mise a scuotere il capo in segno di diniego, ma poi cambiò atteggiamento. « So soltanto quello che dicono le vecchie storie. E le vecchie storie sono menzogne, non è vero? Piacevoli menzogne. »
« C'è del vero per qualche verso in questo racconto, lo sento. Devi dirmi quello che sai, Rhalina. » « Io so di più di quanto dica questo arazzo », disse calma. « Ho letto ultimamente un libro al riguardo. Mi ricordavo di aver visto il libro anni fa e così l'ho cercato. Vi ho trovato dei documenti abbastanza recenti riguardanti un'isola come quella qui descritta. E secondo questo libro, vi è anche un vecchio castello. L'ultima persona che vide quell'isola era un emissario del Ducato, che salpò laggiù portando saluti e approvvigionamenti. E quello fu pure l'ultimo emissario che venne a trovarci... » « Quanto tempo fa? Quanto tempo? » « Trent'anni fa. » Quindi Rhalina si mise a piangere e a scuotere la testa, singhiozzando e cercando di controllare le lacrime. Egli l'abbracciò. « Perché piangi, Rhalina? » « Piango, Corum, perché ciò significa che tu mi abbandonerai. Tu te ne andrai dal Castello di Moidel d'inverno per cercare quell'isola, e forse, anche tu, perirai in un naufragio. Piango perché nulla di ciò che amo resta con me. » Corum fece un passo indietro. « Hai avuto questo pensiero a lungo nella tua mente? » « Sì, da molto tempo. » « Non mi hai detto nulla. » « Perché ti amo tanto, Corum. » « Non mi dovresti amare, Rhalina. E nemmeno io ti avrei dovuto amare. Sebbene quest'isola sia per me soltanto una pallida speranza, devo cercarla. » « Lo so. » « E se troverò quello stregone ed egli mi ridarà la mano e l'occhio... » « Follia, Corum! Non può esistere! » « Ma se esiste e può fare ciò che io gli chiedo, allo-
ra scoverò Glandyth-a-Krae e l'ucciderò. Poi, se sopravvivo, ritornerò. Ma Glandyth deve morire prima che io possa ritrovare la pace della mia mente, Rhalina. » Ella disse dolcemente: « Ma non c'è una barca che sia in grado di reggere il mare. » « Ma vi sono delle barche nelle caverne che servivano da porto che possono essere rimesse in sesto. » « Occorreranno parecchi mesi per rimetterne una in sesto. » « Mi concedi i tuoi servi per il lavoro sulla barca? » « Sì, » « Allora gliene parlerò subito. » Corum la lasciò, cercando di indurire il proprio cuore alla vista della sua afflizione, biasimando se stesso per essersi innamorato di quella donna. Con tutti gli uomini che fu in grado di raccogliere che avessero qualche conoscenza di arte marinara, Corum scese le scale dei sotterranei del castello che conducevano, attraverso le rocce, alle caverne marine dove stavano le imbarcazioni. Trovò uno scafo che era in uno stato migliore degli altri, lo fece sollevare e lo ispezionò. Rhalina aveva ragione. Era necessario un lavoro enorme prima che lo scafo fosse in grado di affrontare il mare con sicurezza. Egli avrebbe aspettato con impazienza e sebbene il fine che si proponeva fosse pazzesco, cominciò a sentir diminuire il peso che l'opprimeva. Sapeva che non si sarebbe mai stancato di amare Rhalina, ma che non la poteva amare completamente finché non avesse assolto al compito che si era imposto. Corse di nuovo nella biblioteca a consultare il libro che essa gli aveva nominato. Lo trovò e scoprì il nome dell'isola. Svi-an-Fanla-Brool. Un nome niente affatto pia-
so significava « Dimora del Dio Ingordo ». Ma cosa voleva poter dire? Esaminò il testo in cerca di una risposta, ma non ne trovò alcuna. Intanto che egli copiava le carte ed i punti di riferimento dati dal capitano della nave che aveva visitato la Montagna di Moidel trent'anni prima, le ore scorrevano. Era già molto tardi quando decise di andare a letto e vi trovò Rhalina. Le scrutò il viso. Aveva certamente pianto prima di dormire. Si rese conto che era il momento di darle il proprio conforto. Ma non aveva tempo... Si tolse gli abiti. Si accomodò a letto fra le sete e le pellicce, cercando di non disturbarla. Ma ella si mosse. « Corum? » Egli non rispose. Sentì il corpo di lei tremare per un attimo, ma ella nulla più disse. Si sedette sul letto, la sua mente in pieno conflitto. Egli l'amava. Ma non avrebbe dovuto amarla. Tentò di sdraiarsi ancora, di dormire, ma non ne fu capace. Si sollevò e le accarezzò la spalla. « Rhalina? » « Sì, Corum? » Tirò un profondo sospiro, con l'intento di spiegarle con quanta imperiosità provava il bisogno di veder morto Glandyth, di ripeterle che, compiuta la sua vendetta, sarebbe ritornato. Invece egli disse: « La tempesta infuria violenta intorno al Castello di Moidel. Lascerò da parte i miei progetti fino a primavera. Resterò con te. » Ella si rivoltò nel letto e cercò attraverso l'oscurità
di distinguerlo in faccia. « Devi fare come desideri. La pietà distrugge il vero amore, Corum. » « Non è la pietà che mi muove. » « Oppure è il tuo senso di giustizia? Anche questo, è... » « Io dico a me stesso che è il mio senso di giustizia che mi fa restare, ma so che è altro. » « Perché allora vuoi restare? » « La mia decisione di partire si è indebolita. » « Che cosa l'ha fatta indebolire? » « Vi è un senso di maggior tranquillità in me, qualcosa, forse, che è più forte. E' il mio amore per te, Rhalina, che ha soggiogato il mio desiderio di prendermi un'immediata vendetta su Glandyth. E' amore. Questo è tutto ciò che so dirti. » Ella cominciò di nuovo a piangere, ma non di dispiacere.
Capitolo Decimo
MILLE SPADE
L'inverno raggiunse il suo culmine. Sembrava che le torri fossero scosse dalla forza delle bufere che infuriavano tutto intorno. Il mare s'infrangeva contro le rocce della Montagna di Moidel e sembrava talvolta che le onde si levassero più alte dello stesso castello. I giorni diventarono oscuri quasi come la notte. Si accesero enormi fuochi nel castello, ma non erano sufficienti per respingere il gelo che pervadeva ogni cosa. Era necessario indossare sempre abiti di lana, di pelle e pelliccia e così gli abitanti del castello camminavano dondolandosi nei loro spessi indumenti in un modo che ricordava quello degli orsi. Eppure Corum e Rhalina, un uomo ed una donna di specie diversa, si accorsero appena della furia invernale. Si cantavano l'un l'altro delle canzoni o scrivevano sonetti sulla profondità e sulla passione del loro amore. Erano avvolti da una follia (se follia si può chiamare quella che nega certe realtà di base) ma era piacevole follia, dolce follia. Eppure follia era. Quando la parte peggiore dell'inverno se ne fu andata, ma prima che la primavera si decidesse a mostrarsi; quando c'era ancora neve sulle rocce intorno al castello e pochi uccelli stridevano nel cielo grigio della
foresta spoglia e distante della terraferma; quando il mare aveva esaurito la sua forza e lambiva le rocce, desolato e scostante; fu allora che, sul finire d'una mattinata, si videro sbucare a cavallo, dall'oscurità degli alberi, degli strani Mabden col respiro fumante, i cavalli che incespicavano sul terreno ghiacciato, le armi che tintinnavano contro i finimenti. Fu Beldan che, recatosi sui bastioni per sgranchirsi le gambe, li scorse per primo. Beldan, il giovane che aveva salvato Corum dall'annegamento, ritornò in tutta fretta verso la torre, correndo giù per le scale, finché una figura gli bloccò la strada ridendo. « Il cesso è di sopra, Beldan, non sotto! » Beldan tirò il fiato e parlò lentamente. « Stavo venendo nelle vostre stanze, principe Corum. Li ho visti dai merli. Sono in molti. » La faccia di Corum si rannuvolò e sembrò che una dozzina di cose gli affollassero la mente tutte insieme. « Li hai riconosciuti? Chi sono? Mabden? » « Mabden senza dubbio. Penso potrebbe trattarsi di guerrieri delle Tribù Pony. » « Quelli contro cui fu fondato questo Margraviato? » « Sì. Ma non ci hanno molestato per cento anni. » Corum sorrise tristemente. « Forse noi tutti, ora, soccombiamo alla stessa ignoranza che ha ucciso i Vadhagh. E' possibile difendere il castello, Beldan? » « Se sono in pochi, principe Corum. Normalmente le Tribù Pony sono divise ed i loro guerrieri raramente si muovono in bande di più di venti o trenta. » « E pensi che siano in pochi? » Beldan scosse il capo. « No, principe Corum, temo che siano in molti. » « Faresti bene a dare l'allarme ai guerrieri. E che si può fare con i pipistrelli giganti? »
« D'inverno dormono. Nulla li farà svegliare. » « Quali sono i vostri normali metodi di difesa? » Beldan si morse le labbra. « Ebbene? » « Meglio non parlarne. E' tanto tempo che non pensiamo più a queste cose. Le tribù Pony temono la potenza di Lywm-an-Esh — e alla paura si è aggiunta la superstizione da quando la terra si è ritirata oltre l'orizzonte. Noi facevamo assegnamento sul loro timore. » « Allora fai del tuo meglio, Beldan, ti raggiungerò fra poco, voglio prima dare un'occhiata a questi guerrieri. Forse non vengono in guerra, per quel che sappiamo. » Beldan si precipitò per le scale e Corum salì alla torre, aprì la porta e uscì lungo i bastioni. Vide che la marea cominciava a decrescere e quindi il terrapieno naturale fra il castello e la terra ferma sarebbe presto emerso. Il mare era grigio e gelido, la spiaggia era battuta dal vento. E lì stavano i guerrieri. Erano uomini irsuti che montavano piccoli cavalli — pony — dal lungo pelo, portavano elmetti di ferro con visiere di ottone battuto in forma di maschere selvagge. Avevano mantelli di pelle di lupo o di lana, maglie metalliche, giubbotti di cuoio, pantaloni di tessuto blu, rosso o giallo, stretti da cinghie, ai piedi e sopra le ginocchia. Erano armati di lance, frecce, mazze ed ascie. Ogni uomo portava una spada attaccata alla sella del suo pony. Tutte le spade eran nuove, come Corum potè giudicare, perché luccicavano come appena forgiate, perfino alla luce opaca di quel giorno d'inverno. C'erano già parecchie schiere sulla spiaggia e altri uscivano al trotto dalla foresta. Corum si avvolse il suo mantello di pecora con la mano destra e diede calci, pensoso, ad uno dei merli, come per rassicurarsi che il castello fosse solido.
Tornò a guardare verso i guerrieri sulla spiaggia. Ne contò almeno mille. Un migliaio di cavalieri con mille spade appena forgiate. Aggrottò le ciglia. Mille elmetti di ferro si volgevano contro il Castello di Moidel. Mille maschere di ottone abbagliavano Corum attraverso l'acqua mentre la marea calava lentamente e cominciava ad apparire il terrapieno sotto la superficie. Corum rabbrividì. Un grosso gabbiano volò basso su quella calca silenziosa e si mise a stridere come terrorizzato per poi innalzarsi verso le nubi. Un sordo rullìo di tamburi cominciò a levarsi dalla foresta. Il suono metallico era lento e misurato e la sua eco rimbalzava sulle acque. Sembrava che i mille cavalieri non fossero venuti con intenzioni pacifiche. Arrivò Beldan e si accostò a Corum. Beldan aveva un volto pallido. « Ho parlato alla Margravia ed ho dato l'allarme ai nostri guerrieri. Abbiamo centocinquanta uomini validi. La Margravia sta consultando gli appunti di suo marito. Egli scrisse un trattato sulla maniera migliore di difendere il castello nel caso di un attacco del genere. Sembra che sapesse che un giorno le Tribù Pony si sarebbero unificate. » « Vorrei aver letto quel trattato », disse Corum. Fece un profondo respiro di aria pungente. « Non c'è nessuno qui che abbia effettiva esperienza di guerra? » « Nessuno, Principe. » « Allora dobbiamo imparare rapidamente. » « Sì. » Si udì un rumore sulle scale all'interno della torre e ne uscirono degli uomini splendidamente armati. Ognuno portava un arco con molte frecce. Ognuno ave-
va un elmetto fatto del guscio attorcigliato di un mollusco gigante. Ognuno cercava di controllare la propria paura. « Cercheremo di parlamentare con loro », mormorò Corum, « quando il terrapieno sarà all'asciutto. Cercheremo di continuare a parlare finché ritorni la marea. Ciò ci darà ancora qualche ora per prepararci. » « Essi sospetteranno certamente uno stratagemma del genere », disse Beldan. Corum annuì e si carezzò il mento con il moncherino. « E' certo. Ma se noi, se noi mettiamo loro paura riguardo alle nostre forze, forse potremo sconcertarli per un po'. » Beldan fece una smorfia, ma non disse nulla. I suoi occhi cominciarono a luccicare di una luce strana. Corum credette di riconoscere la febbre della battaglia. « Voglio vedere ciò che ha appreso la Margravia dagli scritti di suo marito », disse Corum. « Resta qui con gli occhi ben aperti, Beldan. Non appena cominciano a muoversi, fammelo sapere. » « Quel maledetto tamburo » Beldan si premette le tempie con le mani. « Mi dà i brividi al cervello. » « Cerca di ignorarlo. E' fatto per indebolire la nostra decisione. » Corum entrò nella torre e si precipitò per le scale, finché raggiunse il piano in cui egli e Rhalina avevano le loro stanze. Ella sedeva ad un tavolo con i manoscritti sparsi davanti a sé. Sollevò lo sguardo quand'egli entrò e cercò di sorridergli. « Stiamo pagando il prezzo per il dono d'amore, sembra. » Egli la guardò sorpreso. « E' una concezione dei Mabden, penso. Non la capisco... » « Ed io sono stata stupida a fare un'affermazione così superficiale. Ma vorrei che non avessero scelto
proprio questo momento per attaccarci. Hanno avuto cent'anni per farlo... » « Cos'hai saputo dagli appunti di tuo marito? » « Dove sono le nostre posizioni più deboli. Dove i nostri bastioni sono meglio difesi. Vi ho già sistemato degli uomini. Si stanno riscaldando dei calderoni di piombo. » « A che servono? » « Sai veramente così poco della guerra! » ella disse. « Meno di me. Verseremo il piombo fuso sulle teste degli assalitori quando cercheranno di assalire le nostre mura. » Corum sobbalzò. « E' necessario essere così crudeli? » « Non siamo dei Vadhagh. E non stiamo combattendo i Nhadragh. Credo che anche tu ti aspetti da questi Mabden dei crudeli stratagemmi di guerra... » « Naturalmente. Farei bene a dare uno sguardo agli scritti del Margravio. Era senza dubbio un uomo che capiva la realtà. » « Sì », ella disse dolcemente, porgendogli un foglio, « un certo tipo di realtà, in ogni caso. » Era la prima volta che la udiva esprimere un'opinione su suo marito. La guardò, desiderando farle altre domande, ma lei scosse lievemente la mano. « Faresti meglio a leggere in fretta. Capirai abbastanza facilmente lo scritto. Mio marito scelse di scrivere nella antica Lingua Alta che avevamo imparato dai Vadhagh. » Corum guardò lo scritto. Lo stile era buono, ma senza alcun carattere individuale. Gli sembrò che fosse una imitazione senza anima del modo di scrivere dei Vadhagh, tuttavia, come ella aveva detto, era abbastanza facile da intendere. Bussarono alla porta principale del loro apparta-
mento. Mentre Corum continuava a leggere, Rhalina andò a rispondere. Era un soldato. « Mi ha mandato Beldan, Margravia. Chiede che il principe Corum lo raggiunga sugli spalti. » Corum posò i fogli del manoscritto. « Arrivo immediatamente, Rhalina, vuoi provvedere che mi siano preparate le armi e l'armatura? » Ella annuì. Egli uscì. Il terrapieno era ormai quasi libero dalle acque. Beldan stava urlando qualcosa ai guerrieri che si trovavano sul terrapieno, proponendo di parlamentare. Il tamburo continuava a rullare lento, ma incessante. I guerrieri non rispondevano. Beldan si rivolse a Corum. « Potrebbero essere morti per quel che rispondono. Sembrano particolarmente ben disciplinati per dei barbari. Penso che in questa situazione vi sia qualche elemento estraneo che non si è ancora rivelato. » Corum era dello stesso parere. « Perché mi hai mandato a chiamare, Beldan? » « Ho visto qualcosa fra gli alberi. Un riflesso d'oro. Non ne sono sicuro. Si dice che la vista dei Vadhagh sia più acuta di quella dei Mabden. Ditemi, Principe, se riuscite a scorgere qualcosa, laggiù. » Indicò col dito. Corum fece un sorriso amaro. « Due occhi Mabden sono meglio di un solo occhio Vadhagh... » Tuttavia si mise a scrutare nella direzione che Beldan gli indicava. Quasi sicuramente vi era qualcosa nascosto fra gli alberi. Egli alterò il suo angolo visivo per cercare di vedere più chiaramente. Allora si accorse di che si trattava. Era la ruota di un carro da guerra decorato d'oro. Mentre osservava, la ruota prese a muoversi. Sbucarono dei cavalli dalla foresta. Quattro cavalli dal lungo pelo leggermente più grossi di quelli condotti
dalle Tribù Pony. I cavalli trainavano un immenso carro su cui si ergeva un imponente guerriero. Corum riconobbe il guidatore della biga. Quel Mabden era rivestito di ferro, cuoio e pelliccia, aveva un elmo alato, una grande barba e un portamento di superbia. « E' il Conte Glandyth-a-Krae, il mio nemico », disse Corum a bassa voce. Beldan chiese: « E' quello che vi ha privato della mano e dell'occhio? » Corum annuì. « Allora forse è lui che ha unificato le Tribù Pony e ha fornito loro quelle lucide spade nuove, esercitandoli alla disciplina che ora mantengono. » « E' probabile. Ho attirato questo male sul Castello di Moidel, Beldan. » Beldan alzò le spalle. « Sarebbe arrivato comunque. Voi avete reso felice la nostra Margravia. Prima, non l'avevo mai vista felice, principe. » « Sembra che voi Mabden pensiate che la felicità deve essere connessa col dolore. » « Penso sia così. » « Non è facile per un Vadhagh comprendere ciò. Noi crediamo — credevamo — che la felicità sia una condizione naturale degli esseri ragionevoli. » In quel momento uscirono dalla foresta altri venti carri da guerra. Si accodarono dietro Glandyth di modo che il Conte di Krae si venne a trovare fra i guerrieri mascherati e silenziosi ed il proprio seguito, i Denledhyssi. Il tamburo cessò di battere. Corum osservava la marea che si ritirava. Ora il terrapieno era completamente scoperto. « Deve avermi seguito, scoprendo dove mi trovavo, e deve aver passato l'inverno reclutando ed esercitando quei guerrieri », disse Corum.
. « Ma come è riuscito a scoprire dove vi nascondevate? » chiese Beldan. In risposta, le schiere della Tribù Pony si aprirono e Glandyth guidò il suo carro verso il terrapieno. Si chinò ed afferrò qualcosa dal fondo del suo carro, la sollevò sul suo capo, e la gettò oltre le groppe dei suoi cavalli, sul terrapieno. Corum rabbrividì quando riconobbe di che si trattava. Beldan s'irrigidì e stese la mano per aggrapparsi alla pietra di un merlo, abbassando il capo. « E' l'Uomo Bruno, principe Corum? » « E' lui. » « Quella creatura era così innocente. Così gentile. Ma non poteva salvarla il suo padrone? Devono averla torturata per ottenere le informazioni che vi riguardavano... » Corum raddrizzò la schiena. La sua voce era bassa e fredda quando parlò. « Io dissi un giorno alla vostra Signora che Glandyth era una malattia che doveva essere stroncata. Lo avrei dovuto cercare prima, Beldan. » « Egli vi avrebbe ucciso. » « Ma non avrebbe ucciso l'Uomo Bruno di Laahr. Serwde sarebbe ancora al servizio del suo triste signore. Penso che un crudele destino gravi sul mio capo, Beldan. Penso che in realtà devo considerarmi già morto e che tutti quelli che mi aiutano a continuare a sopravvivere sono perduti. Ora voglio uscire e battermi da solo con Glandyth. Allora il Castello sarà salvo. » Beldan fece un grosso respiro e parlò con voce rauca. « Noi abbiamo deciso di aiutarti. Tu non ci hai chiesto aiuto. Lascia che siamo noi a decidere quando dobbiamo ritirarlo. » « No. Perché se così stanno le cose, la Margravia e tutta la sua gente periranno di sicuro. »
« Moriranno comunque », gli disse Beldan. « No, se lascio che Glandyth mi prenda. » « Ma Glandyth ha certamente offerto alle Tribù Pony questo castello come bottino per il loro aiuto », disse Beldan con forza. « Essi non si interessano a te. Essi vogliono distruggere e saccheggiare qualcosa che odiano da secoli. Certo, è probabile che Glandyth si accontenterebbe di te — se ne andrebbe via — ma si lascerebbe alle spalle le sue mille spade. Dobbiamo combattere tutti insieme, principe Corum. Ora non c'è null'altro da fare. »
Capitolo Undicesimo
L'EVOCAZIONE
Corum fece ritorno alle sue stanze, dove lo attendevano le sue armi e la sua armatura. L'armatura era insolita; essa consisteva di una corazza, di una falda, di gambali e di un corsaletto, tutti ricavati dal guscio perlaceo di una creatura marina di colore azzurro, detta anufec, la quale aveva abitato una volta i mari dell'occidente. Il guscio era più forte del ferro più duro e più leggero di qualsiasi maglia. Il grande elmo, con criniera e con una punta sporgente, era stato ricavato, come gli elmi degli altri guerrieri del Castello Moidel, dal guscio della murice gigante. Dei servi aiutarono Corum ad indossare la sua armatura e gli porsero una gigantesca sciabola di ferro; essa era così bene bilanciata che il principe la potè tenere nella sua mano ancora efficiente. Lo scudo, che si fece assicurare al braccio monco, era il guscio di un poderoso granchio che una volta viveva, gli dissero i servi, in una località molto oltre lo stesso Lywm-an-Esh, conosciuta col nome di Terra del Mar Lontano. L'armatura del principe aveva appartenuto al già Margravio, il quale a sua volta l'aveva ereditata dai suoi antenati, i quali ancora l'avevano posseduta di gran lunga assai prima della fondazione del Margraviato. Corum, appena pronto per la battaglia, chiamò
Rhalina, ma, benché egli potesse vederla attraverso le porte che separavano le stanze, lei non sollevò lo sguardo dalle carte cui era intenta. Si trattava dell'ultimo manoscritto del Margravio e sembrava che la assorbisse più delle altre. Corum uscì per far ritorno ai bastioni. Tranne il fatto che il carro di Glandyth si trovava all'imbocco del terrapieno, per il resto la posizione dei guerrieri rimaneva immutata. La piccola salma dell'Uomo Scuro di Laahr giaceva ancora sul selciato. Il tamtam del tamburo aveva ripreso di nuovo. « Perché non avanzano? » si domandò Beldan, la voce vibrante di tensione. « Forse per una duplice ragione », rispose Corum. « Sperano di incuterci il terrore e, allo stesso tempo, allontanarlo da se stessi. » « Hanno terrore di noi? » « I membri della Tribù Pony probabilmente sì. Dopo tutto, come tu stesso mi hai detto, essi hanno vissuto per secoli nella paura superstiziosa del popolo di Lywm-an-Esh. Indubbiamente essi temono che noi abbiamo mezzi di difesa soprannaturali. » Beldan non potè trattenere un ghigno ironico. « Finalmente cominciate a capire i Mabden. E, sembra, meglio di me. » Corum fece un cenno in direzione di Glandytha-Krae. « C'è il Mabden che mi inflisse la mia prima lezione. » « Per lo meno, egli sembrava senza paura. » « Le spade non le teme, ma ha paura di se stesso. Di tutte le caratteristiche dei Mabden, direi che questa è la più distruttiva. » In quel momento Glandyth stava gettando il guanto della sfida. Ci fu ancora silenzio. « Vadhagh! » s'udì una voce selvaggia. « Lo ve-
di chi è venuto a tirarti fuori da questo castello di feccia? » Corum non rispose. Nascosto dietro a un merlo, osservò Glandyth scrutare attentamente le difese, alla ricerca di lui, fino a scoprirlo. « Vadhagh! Ci sei? » Beldan guardò interrogativamente Corum, che continuava a restare in silenzio. « Vadhagh! Vedi che abbiamo distrutto il tuo demone familiare! Distruggeremo ora anche te — e la maggior parte di tutti quegli spregevoli Mabden che ti hanno aiutato. Vadhagh! Parla! » Corum sussurrò a Beldan. « Dobbiamo prolungare il più a lungo possibile questa pausa. Ogni secondo sarà utile per attendere il ritorno della marea che inondi il terrapieno. » « Essi attaccheranno presto », disse Beldan. « Assai prima che la marea ritorni. » « Vadhagh! Oh, sei il più codardo di una razza di codardi! » Corum vide in quel momento Glandyth voltare il capo verso i suoi uomini, come per dar loro l'ordine di attaccare. Si mise allo scoperto e levò la voce. Le sue parole, nonostante la gelida rabbia, a confronto del tono rozzo e arrogante di Glandyth, suonarono dolce musica. « Sono qui, Glandyth-a-Krae, il più spregevole e miserabile dei Mabden! » Glandyth voltò, turbato, il capo. Poi scoppiò in una roca risata. « Non io sono spregevole! » Si contorse dentro le sue pelli e cavò fuori qualcosa da una cintura appesa attorno al suo collo. « Vuoi venirtela a riprendere? » Corum sentì un moto di bile alla vista di quanto Glandyth metteva in mostra. Si trattava della mano mummificata dello stesso Corum, che portava ancora intorno ad un dito l'anello regalatogli dalla sorella.
« Guarda! » Glandyth tirò fuori dalle sue pelli un sacchetto di cuoio e lo agitò in direzione di Corum. « Ho anche messo in salvo il tuo occhio! » Corum dominò l'odio e la nausea e gridò: « Puoi avere anche il resto, Glandyth, se riporti indietro la tua orda e te ne vai in pace dal Castello di Moidel. » Glandyth sollevò lo sguardo verso il cielo e vociò ridacchiando. « Oh, no, Vadhagh! Non mi permetterebbero che io li privi di una battaglia, che li privi del loro bottino. Hanno aspettato parecchi mesi per questo. Sono pronti a far fuori tutti i loro vecchi nemici. E anch'io a far fuori te. Mi ero proposto di trascorrere l'inverno nella comodità della corte di Lyran-Brode. Invece mi sono dovuto attendare qui assieme ai miei amici. E' mia intenzione trucidarti senza perder tempo, Vadhagh. Te lo prometto. Non ho più tempo da star a perdere con quel rifiuto deforme quale tu sei. » Rise ancora. « Chi è la "mezza cartuccia" ora? » « Non dovresti dunque aver alcun timore a combattere con me solamente », disse Corum. « Potresti duellare con me su questo terrapieno e, senza dubbio, uccidermi in fretta. Potresti allora lasciare il castello ai tuoi amici e far ritorno al più presto alla tua terra. » Glandyth fece un viso arcigno e soppesò la proposta. « Perché sacrificare la tua vita un po' prima di quanto non sia invece necessario? » « Ne ho abbastanza di vivere così mutilato. Ne ho abbastanza di dover vivere nella paura di te e dei tuoi uomini. » Glandyth non era convinto. Corum stava cercando di guadagnar tempo con le sue parole e con la sua proposta, ma d'altra parte a Glandyth poco importava quali difficoltà gli uomini della Tribù Pony avreb-
bero dovuto superare per impadronirsi del castello, dopo che egli avesse ucciso Corum. Finalmente fece un segno di approvazione e riprese a urlare: « D'accordo, Vadhagh, vieni giù sul terrapieno. Dirò ai miei uomini di tenersi fuori fino a che noi non avremo finito il combattimento. Se mi ucciderai, i miei aurighi lasceranno la battaglia agli altri... » « Non credo a questa parte dell'accordo », rispose Corum. « Né, comunque, mi interessa. Vengo giù. » Corum guadagnò tempo a scendere gli scalini. Non voleva cadere per mano di Glandyth e sapeva che se, con un po' di fortuna, Glandyth avesse dovuto soccombere davanti a lui, il Conte di Krae non avrebbe esitato a ricorrere all'aiuto degli uomini di cui era signore. Tutto ciò che Corum sperava era di guadagnare alcune ore per i difensori. Rhalina lo incontrò fuori delle loro stanze. « Dove vai, Corum? » « Vado a scontrarmi con Glandyth e molto probabilmente a morire », egli disse. « Preferirei morire amandoti, Rhalina. » Il volto di lei si ricoprì di orrore. « Corum! No! » « E' indispensabile, se questo castello vuole avere una qualche possibilità di resistere agli assalitori. » « No, Corum! Ci sarebbe un modo di trovar aiuto. Mio marito ne parla nel suo trattato. Un'ultima risorsa. » « Che aiuto? » « Egli è molto vago in proposito. Si tratta di qualcosa che gli è stato tramandato dai suoi antenati. Una evocazione. Un incantesimo, Corum. » Corum sorrise mestamente. « Non esiste nessun genere di incantesimo, Rhalina. Quel che tu chiami incantesimo è un rimasuglio di frammenti malcompresi della saggezza Vadhagh. »
« Non si tratta della sapienza dei Vadhagh — è qualcosa d'altro. Una evocazione. » Fece per proseguire, ma ella gli afferrò il braccio. « Corum, lasciami tentare l'evocazione! » Egli staccò il suo braccio e, spada in mano, continuò a discendere gli scalini. « D'accordo, tenta pure quello che vuoi, Rhalina. Anche se hai ragione, ti occorre il tempo che posso guadagnare per te. » La sentì urlare senza parole e poi udì il suo singhiozzo, ma egli aveva già raggiunto il vestibolo e si stava dirigendo verso uno degli ingressi principali del castello. Un soldato allarmato lo lasciò passare e infine si trovò sul terrapieno. All'estremità opposta, portati via il suo carro e i suoi cavalli, il corpo dell'Uomo Bruno gettato da parte, era il conte Glandyth-a-Krae. A fianco di Glandyth-a-Krae, a tenergli l'ascia di guerra, c'era la goffa figura del giovane Rodlik. Glandyth si stiracchiò, scompigliando l'ordine dei suoi capelli e mostrò i denti in una smorfia selvaggia. Prese l'ascia dalle mani del giovane e cominciò ad avanzare lungo il terrapieno. Corum si mosse ad incontrarlo. Il mare sbatteva violentemente contro i massi che proteggevano il terrapieno sopraelevato. A volte si udiva il grido di qualche uccello marino. Dai soldati di entrambe le parti non proveniva alcun suono. Entrambi, difensori ed attaccanti, osservavano pieni di tensione i due che si avvicinavano l'uno all'altro, fermandosi poi nel mezzo. All'incirca li separavano dieci passi. Corum notò che Glandyth s'era fatto un tantino più sottile. Ma dai suoi pallidi occhi grigi emanava ancora quello strano e innaturale sguardo e il suo volto era rosso e malaticcio, esattamente come Corum lo aveva visto l'ultima volta. Egli afferrava l'ascia di guerra, reclinata verso il basso, di fronte a lui, con
tutt'e due le mani, la testa ricoperta dall'elmo piegata sul fianco. « Per il Cane », egli disse, « ti sei fatto immensamente deforme, Vadhagh. » « Facciamo una coppia perfetta, allora, Mabden, perché tu non sei mutato per nulla. » Glandyth sorrise beffardamente. « E tu sei quasi tutto adorno di graziose conchiglie, mi accorgo, come una figlia di dio marino che vada a nozze con lo sposo pesce. Beh, potrai costituire il loro banchetto nuziale quando scaglierò il tuo corpo in mare. » Corum si nauseò di tali pesanti insulti. Balzò in avanti e brandì la sua grande sciabola contro Glandyth. Questi, impugnandola per il manico, sollevò la sua ascia metallica e parò il colpo, vacillando leggermente. Afferrò l'ascia con la mano destra ed estrasse il coltello; indi si piegò, rannicchiandosi su se stesso, e con l'ascia puntò alle ginocchia di Corum. Corum fece un grande balzo e la lama dell'ascia sibilò sotto i suoi piedi. Colpì Glandyth, ma la lama strisciò su una scapola del Mabden, senza tuttavia ferirlo. Ciononostante, Glandyth imprecò e tentò ancora lo stesso espediente. Corum balzò di nuovo e l'ascia mancò il colpo. Glandyth scattò di nuovo e diresse l'ascia contro lo scudo di guscio del granchio, che cigolò per la forza del colpo, ma non si infranse, anche se il braccio di Corum, dal polso alla spalla, ne rimase intorpidito. Ricambiò con una spallata ma Glandyth parò il colpo. _ Corum si gettò tra le gambe di Glandyth, sperando di fargli perdere l'equilibrio, però il Mabden si ritrasse rapidamente di parecchi passi, prima di riprendere la sua posizione. Corum avanzò cautamente nella sua direzione. Allora Glandyth urlò: « Ne ho abbastanza di
tutto questo. Lo abbiamo qui ormai. Arcieri, tirate! » In quel momento Corum vide gli aurighi, che inavvertitamente erano discesi nelle prime linee e stavano mirando con gli archi nella sua direzione. Sollevò lo scudo per proteggersi dai loro strali. Glandyth stava correndo velocemente fuori dal selciato. Corum era stato tradito. Mancava ancora un'ora al sopraggiungere della marea. Sembrava che egli stesse per morire invano. Ora un'altra scarica, questa volta proveniente dai bastioni del castello, ed un'ondata di strali si abbatté sul campo. Gli arcieri di Beldan avevano tirato per primi. Gli strali Denledhyssi tintinnavano contro lo scudo e i gambali di Corum. Sentì qualcosa addentrarsi nella sua gamba, appena sopra il ginocchio, dove la protezione difettava. Guardò. Era uno strale. Esso aveva oltrepassato completamente la gamba e sporgeva per metà dietro il ginocchio. Cercò di indietreggiare incespicando, però era doloroso e difficile muoversi con quel ferro conficcato. Estrarlo con la sua unica mano significava abbandonare la spada. Lanciò uno sguardo verso la riva. Non ebbe il tempo di pensare quel che il nemico avrebbe fatto, quando scorse il primo cavaliere muoversi per incrociarlo. Cominciò a indietreggiare sempre lungo il terrapieno, rendendosi conto dopo alcuni passi che non avrebbe potuto raggiungere il castello per tempo. Improvvisamente, si inginocchiò sulla gamba non colpita, depose la spada per terra, spezzò con uno scatto la parte di strale che sporgeva anteriormente, fece scorrere il resto lungo la gamba e lo sistemò in modo che non gli ostacolasse i movimenti.
Sollevò di nuovo la spada e si tenne pronto alla difesa. I guerrieri, ricoperti dalle maschere di ottone, stavano galoppando sui due fianchi del terrapieno, impugnando le spade. Corum colpì il primo cavaliere, ed il suo colpo fu fortunato, perché disarcionò l'uomo. L'altro cavaliere cercò di colpire Corum, ma mancò il bersaglio. Corum balzò in sella al cavallo del primo guerriero. Per staffe c'erano appena due cappi di cuoio che penzolavano dalla sottopancia. Corum riuscì a stento a fissare in esse i piedi e a parare un colpo di spada dal cavaliere ritornato alla carica. Sopraggiunse un altro cavaliere e la sua spada risuonò con fragore contro lo scudo di Corum. I cavalli sbuffavano e cercavano di impennarsi, ma lo spazio di manovra sul terrapieno era così limitato che né Corum né gli altri due usavano a dovere le spade e cercavano piuttosto di controllare i loro cavalli quasi in preda al panico. Gli altri restanti cavalieri, il volto ricoperto dalle maschere, furono costretti a rimettere al passo i loro cavalli per tema di poter cadere dal passaggio sopraelevato del mare; questo fatto fornì agli arcieri di Beldan l'occasione che andavano cercando. Nere coltri di strali si abbatterono fulmineamente dai bastioni sulle file degli uomini delle Tribù Pony. Furono più cavalli che uomini a cadere, ma questo contribuì a gettare ulteriore scompiglio nelle loro file. Lentamente Corum indietreggiò lungo il terrapieno, fino ad essere quasi all'ingresso del castello. Il braccio che reggeva lo scudo era ormai completamente paralizzato, quello che teneva la spada dolorava terribilmente, ma riusciva ancora a difendersi dagli attaccanti. Glandyth stava urlando verso i barbari a cavallo e cercava di indurli a ritirarsi e a ricomporre le fila. Evidentemente il suo piano di attacco non era stato
seguito. Corum fece in modo di apparire sorridente. Per lo meno qualcosa aveva ottenuto. I cancelli del castello si aprirono improvvisamente alle sue spalle. Beldan ne era a difesa con cinquanta arcieri in posizione di tiro. « Dentro, Corum, presto! » gridò Beldan. Intuendo l'intenzione di Beldan, Corum si gettò dalla schiena del cavallo e si curvò due volte, correndo verso il cancello, mentre il primo lancio di strali sibilava sopra la sua testa. Appena ebbe superato le porte, queste furono richiuse. Corum si appoggiò ansimante a un pilastro. Ebbe la sensazione di aver fallito nel suo intento. Ma in quel momento Beldan gli stava battendo la mano sulla spalla. « La marea sta arrivando, Corum! Ce l'abbiam fatta! » II colpetto di Beldan fu sufficiente a far barcollare Corum. Vide l'espressione attonita di Beldan, mentre si accasciava al suolo e per un istante, prima di perdere completamente i sensi, si rallegrò della situazione. Quando rinvenne nel suo letto, con Rhalina seduta ad un tavolo vicino che continuava a leggere i manoscritti, Corum si rese conto che non importava se s'era bene addestrato a lottare, che non importava se se l'era cavata bene nel corso del combattimento sul terrapieno, quel che contava era ch'egli non sarebbe sopravvissuto a lungo nel mondo dei Mabden, senza una mano ed un occhio. « Devo avere una nuova mano », egli disse, sedendo sul letto. « Devo avere un nuovo occhio, Rhalina. » Rhalina sulle prime sembrò non ascoltarlo. Poi sollevò gli occhi. Il suo volto appariva stanco e recava i segni di un'intensa concentrazione. Lo sguar-
do assente, ella disse: « Riposati », e ritornò alla sua lettura. S'udì un colpo alla porta. Subito dopo entrò Beldan. Corum fece per uscire dal letto. Si ritrasse trasalendo appena fece il primo movimento. La sua gamba ferita s'era irrigidita e tutto il suo corpo era pieno di contusioni. « In questo incontro hanno perduto una trentina di uomini », disse Beldan. « La marea si ritira di nuovo appena prima del tramonto. Non sono sicuro se allora tenteranno un nuovo attacco. Direi che aspetteranno fino al mattino. » Corum aggrottò le ciglia. « Direi che dipende da Glandyth. Egli potrebbe convincersi che noi non ci aspettiamo un attacco serale e, pertanto, potrebbe tentarne uno. Ma se quegli uomini delle Tribù Pony sono così superstiziosi come noi crediamo, potrebbero essere riluttanti a combattere di notte. Faremmo meglio a tenerci pronti per un attacco in concomitanza della prossima marea. E vigilare tutti i fianchi del castello. Come va l'incontro con il trattato del Margravio, Rhalina? » Ella sollevò appena gli occhi, annuendo col capo. « Abbastanza bene. » Corum cominciò a muoversi dolorosamente dentro la sua armatura. Beldan lo aiutò. Uscirono, diretti ai bastioni. I Denledhyssi si erano raggruppati sulla spiaggia. I morti e i loro cavalli, come pure la salma dell'Uomo Bruno di Laahr, erano stati spazzati via dal mare. Alcuni corpi sbattevano contro gli scogli sotto il castello. Questi guerrieri s'erano disposti nello stesso ordine di prima. I cavalieri con elmo e visiera si erano ammassati su una profondità di dieci file, con Glandyth alle loro spalle, e dietro di lui gli aurighi.
Sopra il fuoco approntato sui bastioni gorgogliavano calderoni di piombo rovente; erano state approntate piccole catapulte, con dentro, per munizioni, pile di palle di pietra; lungo il muro più lontano erano ammucchiati strali speciali e giavellotti. La marea stava nuovamente ritirandosi. Il tamtam metallico del tamburo s'udì di nuovo. S'udì il tintinnio delle armature. Glandyth stava parlando ad alcuni cavalieri. « Penso che attaccherà », disse Corum. Il sole volgeva completamente al tramonto e alla luce cominciava a subentrare una fredda oscurità. Lentamente il passaggio sopraelevato ridiventava praticabile; ormai soltanto pochi centimetri di acqua lo ricoprivano. Il tamtam del tamburo cominciò a farsi via via più frenetico. Concitazioni ed urla provenivano dagli uomini a cavallo. Questi presero ad avanzare guazzando sul selciato. La vera battaglia per il Castello di Moidel aveva così inizio. Non tutti gli uomini a cavallo avanzarono lungo il selciato. All'incirca i due terzi dell'intera forza restò sulla spiaggia. Corum cercò di capire cosa questo fatto poteva significare. « Tutti i punti del castello sono protetti, Beldan? » « Sì, principe Corum. » « Bene. Penso che ci aggireranno coi loro cavalli e si apposteranno sulle rocce, in modo da poterci attaccare da tutti i lati. Calata l'oscurità, fai tirare strali luminosi da ogni direzione. » I cavalieri mossero all'assalto del castello. Le caldaie di piombo rovente cominciarono ad essere riversate e s'udirono gli urli di strazio degli uomini e delle bestie che venivano investite da quella massa di metallo fuso. A contatto di essa, il mare sibilava emettendo vapori. Alcuni cavalieri trascinarono, appesi alle
loro cavalcature, degli arieti atti a sfondare le porte, contro le quali si accanirono. Benché alcuni cavalieri fossero stati disarcionati, i cavalli proseguirono la loro selvaggia corsa. Uno di quegli arieti si abbatté su una porta, fracassandola e penetrandovi, ma bloccando anche il passaggio. Gli attaccanti si sforzarono di liberarlo, ma senza riuscirvi. Furono investiti da una lava di piombo rovente, ma l'ariete rimase conficcato sulla porta. « Si dispongano degli arcieri alle porte », ordinò Corum. « Si abbiano pronti dei cavalli, nel caso riuscissero ad aprire una breccia all'ingresso principale. » Era ormai quasi notte, ma la battaglia infuriava. Alcuni barbari si aggiravano cavalcando intorno alle parti più basse della collina. Corum si accorse che un'ulteriore fila nemica stava abbandonando la spiaggia e guadagnando le acque meno profonde. Ma Glandyth e i suoi aurighi erano rimasti sulla spiaggia, senza prendere parte alcuna alla battaglia. Senza dubbio Glandyth stava attendendo che si aprisse una breccia nelle difese del castello, prima di attraversare il terrapieno. Dopo il tradimento di cui era stato oggetto quel giorno, l'odio di Corum verso il conte di Krae s'era accresciuto; ora il principe si rendeva conto di come il conte usasse quei barbari superstiziosi ai propri fini; si convinse che il suo giudizio su Glandyth era esatto. Quell'uomo corrompeva qualunque cosa con la quale veniva a contatto. Tutt'intorno al castello, c'erano difensori in fin di vita per ferite riportate dai giavellotti e dagli strali nemici. Almeno cinquanta erano i morti o i gravemente feriti, i cento uomini che restavano erano distribuiti in maniera assai insufficiente. Corum fece una rapida ispezione delle difese, incoraggiando i guerrieri agli sforzi più estremi, ma il piombo rovente era finito e i giavellotti e gli strali sta-
vano esaurendosi. Presto avrebbe avuto inizio la lotta corpo a corpo. Si fece notte. Gli strali luminosi mostravano bande di barbari assediati tutt'intorno il castello. Segnali luminosi bruciavano sui bastioni. La lotta continuava. I barbari si riconcentrarono alle porte principali. Azionarono più di un ariete. Le porte cominciarono a cigolare e a cedere. Coruna dispose tutti gli uomini che potè racimolare nell'ingresso principale. Qui essi montarono a cavallo, formando un semicerchio alle spalle degli arcieri, e attesero che i barbari penetrassero. Molti arieti infransero le porte e Corum udì il suono delle spade e delle ascie che si abbattevano dall'esterno contro le assi scheggiate. D'un tratto gli assalitori irruppero, urlando e schiamazzando con fragore. Una luce di fuoco brillò sulle loro maschere di ottone, facendoli apparire ancora più demoniaci e terrificanti. I loro cavalli sbuffavano, impennandosi e recalcitrando. Ci fu il tempo giusto per una scarica di strali; indi gli arcieri indietreggiarono per lasciare libero il passo a Corum e alla sua cavalleria, che dovevano attaccare i barbari disorientati. La spada di Corum si abbatté contro una di quelle maschere, squarciò e distrusse il viso che ricopriva. Il sangue schizzò via con forza e, colpito dal getto del liquido, fece frizzare un tizzone rovente che si trovava vicino. Dimentico del dolore che gli provocavano le ferite, Corum agitò avanti e indietro la spada, colpendo gli uomini a cavallo, staccando nette teste dalle spalle e arti dai corpi. Ma, lentamente, egli e gli uomini che gli restavano, dovettero ritirarsi, man mano affluivano fresche orde delle Tribù Pony. Gli assalitori erano attestati ad una estremità del-
l'ingresso, donde uno scalone di pietra si alzava verso il piano superiore. Gli arcieri si appostarono lungo le scale e cominciarono a tirare i loro strali contro i barbari. La parte degli attaccanti che non era direttamente impegnata contro gli uomini di Corum, ricambiava il tiro di giavellotti e strali, seminando lentamente la morte tra gli arcieri del principe. Corum, non cessando di lottare, si diede uno sguardo intorno. Con lui erano rimasti in pochi, forse una dozzina, mentre nell'ingresso v'erano una cinquantina di barbari. La battaglia volgeva al termine. Da lì a pochi istanti per lui e i suoi amici sarebbe giunta inesorabilmente la fine. Vide Beldan che cominciava a discendere le scale. In un primo momento, Corum pensò che egli stesse portando rinforzi, ma con lui c'erano soltanto due guerrieri. « Corum! Corum! » Corum aveva due barbari alle costole. Non potè rispondere. « Corum! Dov'è Donna Rhalina? » A quelle parole Corum ritrovò in sé una forza estrema. Vibrò un tremendo colpo sul cranio di uno dei barbari, uccidendolo. Sbalzò di sella il secondo, saltò sopra il suo cavallo e si inerpicò per la scala. « Cosa? Donna Rhalina è in pericolo? » « Non so, Principe. Non sono riuscito a trovarla. Temo che... » Corum galoppò per le scale. Alle sue spalle il frastuono della battaglia non era più come prima. Sembravano esserci scompigliate scariche provenienti dai barbari. Si arrestò e si voltò per guardare. I barbari avevano cominciato a ritirarsi in preda al panico. Corum non riusciva a rendersi conto di quanto stesse per accadere, ma non aveva il tempo di osservare.
Raggiunse le sue stanze. « Rhalina! Rhalina! » Nessuna risposta. Qua e là corpi di propri guerrieri e di barbari che avevano tentato di insinuarsi dentro il castello attraverso finestre e terrazze debolmente difese. Rhalina era stata catturata da un gruppo di barbari? Improvvisamente udì uno strano suono provenire dal terrazzo del suo appartamento. Era una cantilena, simile alla quale mai prima ne aveva udita alcuna. Si fermò, indi con molta cautela si avvicinò al terrazzo. Rhalina era lì, ed era lei che stava cantando. 11 vento aveva sollevato i suoi vestiti ed i suoi veli, spargendoli vicini a lei, quasi strane nubi multicolori. I suoi occhi erano fissati assai lontano e la sua gola pulsava e vibrava con i suoni ch'ella emetteva. Ella sembrava essere in uno stato di estasi e rapimento. Corum non fece alcun rumore, nulla disse, limitandosi a osservare. Le parole ch'ella pronunciava appartenevano ad una lingua ch'egli non conosceva. Corum si sentì rabbrividire. Indi Rhalina si fermò e si voltò nella direzione di lui. Ma non si accorse di lui. Ella era ancora in estasi; gli passò accanto e rientrò nella camera attigua al terrazzo. Corum osservò attentamente intorno ad un pilastro. Egli aveva visto una strana luce verde che brillava in direzione del continente. Non vide null'altro, ma udì distintamente le grida dei barbari che guardavano le acque nelle vicinanze del terrapieno. Non c'era alcun dubbio: essi in quel momento stavano ritirandosi. Corum entrò nell'appartamento. Rhalina era seduta sulla sedia vicino al tavolo. Era rigida come una statua e non udì Corum che bisbigliava il suo nome. Fiducioso che non sarebbe ricaduta in quel particola-
re stato di estasi, egli uscì dalla stanza e corse verso i bastioni principali. Beldan si trovava già lì, l'espressione inebetita alla vista di quanto stava accadendo. Una nave gigantesca stava aggirando il promontorio a nord. Da essa proveniva la strana luce verde e navigava veloce, benché in quel momento non vi fosse assolutamente il minimo fil di vento. I barbari si stavano affrettando a montare sui loro cavalli o a attraversare a piedi l'acqua che stava riprendendo a inondare il terrapieno. Apparivano in preda ad un folle terrore. Dall'oscurità della spiaggia, Coruna udì Glandyth maledirli e tentare di farli tornare indietro. Sembrava che dalla nave guizzassero come tanti piccoli fuochi. L'albero e lo scafo del vascello sembravano imperlati di rubini che luccicavano debolmente. E Corum vide quanto i barbari avevano già visto. L'equipaggio della nave. La carne putrefatta che pendeva a brandelli dalle facce e dagli arti di quei marinai. La nave era equipaggiata da cadaveri. « Che cos'è, Beldan? », egli bisbigliò. « Un artificio, un'illusione? » Beldan rispose, la voce fioca. « Non credo che sia un'illusione, principe Corum. » « Allora cos'è? » « Un'evocazione. Quella è la nave del vecchio margravio. Essa è stata riportata in superficie. Il suo equipaggio è stato riportato a qualcosa come la vita. Guardate — » egli indicò la figura sulla poppa, una creatura scheletrica ricoperta da un'armatura che, come quella dello stesso Corum, era fatta di grandi conchiglie, dai cui occhi scavati, quasi tizzoni di brace smorzata, guizzava la stessa debole luce di cui era cosparso il vascello - « c'è il margravio in persona. Ritornato a salvare il suo castello. »
Corum si sforzò di guardare attentamente man mano l'apparizione si faceva più vicina. « E per cos'altro egli è tornato, mi chiedo? » egli disse.
Capitolo Dodicesimo
IL PATTO DEL MARGRAVIO
La nave si accostò al terrapieno e si fermò. Essa emanava odori di ozono e di putrefazione. « Se si tratta di un'illusione », mormorò Corum, corrucciato, « è una buona illusione. » Beldan non rispose alcunché. Da lontano si udivano i barbari fuggire scompigliatamente attraverso la foresta. Si udiva il rumore dei carri che s'allontanavano e le imprecazioni di Glandyth contro i suoi alleati. Benché fossero armati, i cadaveri non si mossero; si limitarono semplicemente a voltare il capo in direzione dell'ingresso principale del castello. Corum rimase impalato e attonito per l'orrore. L'avvenimento che gli si presentava davanti agli occhi era qualcosa che poteva esistere solo nell'animo superstizioso di un Mabden. Immagini siffatte erano quelle create dalla paura ignorante e dalla insana immaginazione. Sembravano scene degne degli arazzi più primitivi e barbarici che egli aveva visto nel castello. « E adesso cosa faranno, Beldan? » « Non ho alcuna cognizione di fenomeni occulti, principe. Donna Rhalina è la sola tra noi che abbia fatto qualche studio di fenomeni del genere. E' sta-
ta lei a fare questa evocazione. So soltanto che deve esserci implicato un patto... » « Un patto? » Beldan rimase senza fiato. « La margravia! » Corum vide Rhalina, che camminava ancora in stato di estasi, dirigersi a passo rapido, dopo aver attraversato le porte, lungo il terrapieno verso la nave. La testa del defunto margravio si voltò leggermente; il fuoco verde che emanava dalle sue orbite sembrò farsi più intenso. «NO! » Corum corse come un baleno dai bastioni, si lanciò per le scale, inciampando sui corpi dei caduti che erano nell'ingresso principale. « NO! Rhalina! NO! » Raggiunse il terrapieno e cominciò a guardare dietro di lei, asfissiato dalle maleodoranti esalazioni provenienti dal vascello. Era il sogno più terribile che mai avesse fatto da quando Glandyth aveva distrutto il Castello di Erorn. « Rhalina! » « RHALINA! » Ella aveva quasi raggiunto la nave, quando Corum riuscì a superarla e ad afferrarle un braccio con la mano buona. Sembrava dimentica di lui, tutta intenta a giungere alla nave. « Rhalina! Quale patto hai concluso per salvarci? Perché è venuta qui questa nave di morti? » La voce di lei fu fredda, priva di tono. « Sarò assieme a mio marito adesso. » « No, Rhalina. Un simile patto non può essere onorato. E' osceno. E' un patto malefico. E'... E'... » Cercò di spiegare in termini razionali che cose del genere non potevano esistere, che essi stavano soggiacendo ad una particolare allucinazione. « Tor-
na con me, Rhalina. Lascia che la nave se ne torni agli abissi donde è venuta. » « Devo andare con essa. Erano questi i termini del nostro patto. » Si aggrappò a lei, cercando di trascinarla indietro; s'udì allora un'altra voce. Era una voce che sembrava afona, eppure essa echeggiava nel suo teschio di morte, e lo indusse a fermarsi. « Ella salpa con noi, Principe dei Vadhagh. Così deve essere. » Corum alzò lo sguardo. Il defunto margravio aveva sollevato la sua mano, come in un gesto di comando. I suoi occhi di fuoco balenarono nell'unico occhio di Corum. Corum tentò di alterare la sua prospettiva, di guardare nelle altre dimensioni intorno a lui. Alla fine vi riuscì. Ma nulla cambiò. La nave esisteva in tutte e cinque le dimensioni. Ed egli non poteva sfuggirle. « Non permetterò che ella parta con voi », rispose Corum. « Il vostro patto è iniquo. Perché dovrebbe morire? » « Ella non muore. Ella presto si risveglierà. » « Cosa? Sotto gli abissi del mare? » « E' stata lei a riportare questa nave alla vita. Senza di essa, sprofonderemmo di nuovo. Con lei a bordo, noi viviamo. » « Vivrete? Voi non vivrete. » « E' meglio della morte. » « Allora la morte deve essere qualcosa di più terribile di quanto io non abbia mai immaginato. » « Per noi lo è, Principe dei Vadhagh. Noi siamo gli schiavi di Shool-an-Jyvan, perché noi morimmo nelle acque che lui domina. Ora, lasciate che mia moglie ed io ci ricongiungiamo. » « No. » Corum afferrò saldamente il braccio di Rhalìna. « E chi è onesto Shool-an-Twan? »
« Egli è il nostro padrone. Egli è di Svi-an-Fanla-Brool. » « La Dimora del Dio Ingordo! » Il posto dove Corum intendeva andare prima di innamorarsi di Rhalina nel Castello di Moidel. « Dunque, lasciate che mia moglie salga a bordo. » « Cosa potete fare contro di me? Voi siete morto! Voi avete il solo potere di spaventare e mettere in fuga dei barbari. » « Noi abbiamo salvato la vostra vita. Allora lasciateci i mezzi per vivere. Ella deve venire con noi. » « I morti sono egoisti. » Il cadavere annuì col capo e il fuoco verde si offuscò leggermente. « Eh già! I morti sono egoisti. » In quel momento Corum vide il resto dell'equipaggio cominciare a muoversi. Egli udì i loro passi sdrucciolare sul ponte ricoperto di melma e salsedine. Vide la loro carne penzolante, le loro luccicanti cavità orbitali. Prese a indietreggiare, trascinando con sé Rhalina. Ma Rhalina non si muoveva volentieri. Corum si sentì completamente esausto. Ansimante, si fermò e prese a parlarle accoratamente. « Rhalina. So che non lo hai mai amato, nemmeno in vita. Tu ami me. Io ti amo. E certo questo fatto vale di più di qualsiasi patto! » « Devo ricongiungermi a mio marito. » L'equipaggio dei morti era disceso dalla nave sul terrapieno e si stava dirigendo verso di loro. Corum aveva lasciato prima la sua spada. Era completamente sprovvisto di armi. « Tornatevene! » egli gridò. « Il morto non ha alcun diritto di afferrare il vivo! » I cadaveri avanzarono. Corum si rivolse urlando alla figura del margravio, che era ancora sulla poppa. « Fermateli! Prendete me anziché lei! Fate un patto con me! » « Non posso. »
« Allora lasciatemi salpare assieme a lei. Che c'è di male in ciò. Avrete così due esseri viventi per scaldare le vostre anime morte! » Il margravio sembrò prendere in considerazione la proposta. « Perché dovreste mai farlo? Il vivo non ha alcun desiderio del morto. » « Io amo Rhalina. Si tratta dell'amore, mi capite? » « Amore? Il morto non sa nulla di amore. » « Eppure voi volete con voi vostra moglie. » «E' stata lei a proporre il patto. Shool-an-Jyvan l'udì e ci inviò. » Quei cadaveri strascicantisi li avevano ormai completamente attorniati. Corum si tappò la bocca per il loro fetore. « Allora verrò con voi. » Il defunto margravio annuì col capo. Scortati da quei cadaveri penzolanti, Corum lasciò condurre se stesso e Rhalina a bordo della nave. Essa era ricoperta della schiuma degli abissi marini. La melma di cui era incrostata emetteva gli strani bagliori verdi. Quelli che Corum credeva fossero rubini erano crostacei colorati che imperlavano ogni cosa. Il limo cospargeva ogni superficie. Mentre il margravio osservava dalla sua poppa, Corum e Rhalina furono portati in una cabina e fatti entrare. Era quasi nera di pece e stagnava di putrefazione. Corum udì lo stridio di quel legno marcio e la nave cominciò a muoversi. Essa navigava veloce, pur non essendoci alcun vento, né disponendo di altro comprensibile mezzo di propulsione. Essa salpava in direzione di Svi-an-Fanla-Brool, l'isola delle leggende, la Residenza del Dio Ingordo.
LIBRO SECONDO Il principe Corum riceve un dono e conclude un patto
Capitolo
Primo
IL MAGO AMBIZIOSO
Mentre il vascello, nel corso della notte, navigava, Corum fece parecchi tentativi di ridestare Rhalina dal suo stato di trance, ma nessuno di essi ebbe effetto. Ella era sdraiata tra i drappi di seta marci e sfilacciati di una cuccetta e aveva lo sguardo fisso al tetto della cabina. Da un portello della cabina, troppo piccolo per permettere di uscir fuori, proveniva una fioca luce verde. Corum si mise a percorrere gravemente il pavimento, ancora incapace di rendersi conto della sua precaria situazione. Appariva chiaro che quello era l'alloggio del margravio. E se Corum non si fosse trovato lì in quel momento, il margravio avrebbe voluto dividere la cuccetta con sua moglie...? Corum si sentì rabbrividire e si compresse il capo con la mano, convinto di non essere in condizioni mentali normali e di essere stato ipnotizzato, convinto che nulla di tutto quanto accadeva fosse vero. Da Vadhagh, quale egli era, era preparato a molti eventi e situazioni che ad un Mabden avrebbero potuto apparire strani. Eppure quella era qualcosa che gli appariva completamente al di fuori del normale. Non appariva comprensibile alla luce di quanto di scientifico egli conoscesse. Se egli era in condizioni
di lucidità mentale e tutto era realmente così come appariva, allora i poteri dei Mabden erano più grandi di qualsiasi cosa i Vadhagh avessero conosciuto. Eppure si trattava di poteri oscuri e malsani, poteri essenzialmente malefici... Corani era assai stanco, eppure non riusciva a dormire. Qualunque cosa egli toccasse, era ricoperta di melma, e lo faceva star male. Provò ad aprire il lucchetto della cabina. E benché il legno fosse fradicio e scheggiato, la porta appariva stranamente robusta. C'era qualche altro tipo di forza in funzione lì. Le assi della nave erano tenute assieme da qualcos'altro che non fossero i chiodi e la pece. La stanchezza certo non aiutò il suo cervello a schiarirsi. I suoi pensieri restarono confusi e disperati. Guardò spesso intorno a sé dall'oblò della cabina, nella speranza di giungere a una qualche sorta di rilevamento della posizione, ma fu impossibile vedere alcunché, se non un'ondata occasionale e una stella nel cielo. In seguito, molto più tardi, vide profilarsi sull'orizzonte i primi grigiori e si sentì risollevare dal momento che il giorno stava per cominciare. Quella era una nave della notte. Avrebbe dovuto scomparire con il sole, ed egli e Rhalina si sarebbero risvegliati nel loro proprio letto. Ma cosa aveva terrorizzato i barbari? Era quella parte del sogno? Che forse il suo collasso nella difesa delle porte e il suo duello con Glandyth avevano provocato quel sogno eccitato? Forse i suoi compagni stavano ancora lottando per le proprie vite contro le Tribù Pony. Si strofinò la testa con il moncherino della mano. Si passò la lingua sulle labbra secche e cercò, ancora una volta, di guardarsi intorno, nelle altre dimensioni. Le altre dimensioni gli erano però precluse. Passeggiò nella cabina, in attesa del giorno. Ma udì allora uno strano ronzio. Si sentì ronfare
il cervello. Gli si corrugò il cranio e la fronte. Si strofinò la faccia. Il ronzio aumentò. Sentì le orecchie doloranti. I suoi denti allegare. Il rumore crebbe ancora. Si pressò un orecchio con la mano buona e coprì l'altro con il braccio. Si sentì le lacrime nell'occhio. Nell'orbita dove una volta si trovava l'altro occhio avvertì un enorme dolore. Sbatté contro le pareti di quella cadente cabina e cercò anche di aprirsi un varco nella porta. Ma stava per perdere i sensi. Le cose apparvero vaghe... ... Si trovò in una oscura sala con pareti di pietra scanalata e incurvata a formare una volta, abbastanza alta, sulla sua testa. La sala appariva eguale in esecuzione a qualsiasi altra che potesse essere opera dei Vadhagh, ma non era bella. Piuttosto, essa aveva qualcosa di sinistro. Sentì male alla testa. All'inizio, Corum scorse dei pallidi bagliori di luce azzurra, poi notò la presenza di un giovane, alto di statura. Il volto era giovane, ma gli occhi erano vecchi. Egli indossava una fluente toga di sciamito giallo. Si curvò, piegò la schiena, percorse qualche passo e andò a sedere su una panca di pietra scavata nella parete. Corum aggrottò le ciglia. « Credete di sognare, Maestro Corum? » « Io sono il Principe Corum dal Mantello Scarlatto, l'ultimo della razza dei Vadhagh. » « Qui non c'è altro principe fuor che me », disse il giovane con dolcezza. « Non lo permetterò a nessuno. Se comprenderete questo, non ci sarà allora tensione tra di noi. » Corum si strinse nelle spalle. « Credo di sognare, sì. »
« In un certo senso, sì, senza dubbio. Nella misura in cui noi tutti sogniamo. Per qualche tempo, Vadhagh, siete stato intrappolato in un sogno Mabden. Le leggi dei Mabden controllano il vostro destino e ve ne sentite irritato. » « Dov'è la nave che mi ha portato qui? Dov'è Rhalina? » « La nave non può navigare di giorno. Essa è ritornata agli abissi. » « E Rhalina? » Il giovane sorrise. « E' andata con essa, beninteso. Questo era il patto da lei sottoscritto. » « Allora è morta? » « No. Ella vive. » « E come può vivere se è sotto la superficie dell'oceano! » « Ella vive. Vivrà sempre. Ella è di indicibile conforto per l'equipaggio. » « Voi chi siete? » « Credo che avete già indovinato il mio nome. » « Shool-an-Jyvan. » « Principe Shool-an-Jyvan, Signore di tutto ciò che è morto in mare — uno dei miei vari titoli. » « Restituitemi Rhalina. » « Questa è la mia intenzione. » Corum lanciò uno sguardo sospettoso in direzione del mago. « Cosa? » « Pensate proprio che mi sarei preso il cruccio di rispondere ad un'evocazione così priva di significato come quella da lei fatta, se non avessi avuto in mente altri interessi? » « Il vostro interesse è chiaro. Avete gustato l'orrore della situazione in cui lei si trovava. » « Assurdo. Credete che io sia talmente infantile? Sono diventato grande abbastanza per simili cose. Vedo che prendete ad argomentare in termini Mab-
den. E' cosa giusta e buona per voi, se desiderate sopravvivere a questo sogno Mabden. » « E' un sogno...? » « In un certo senso. Abbastanza reale, comunque. E' quello che voi potreste chiamare il sogno di un Dio. Potreste inoltre dire che si tratta di un sogno che un Dio ha fatto sì che divenisse realtà. Mi riferisco naturalmente al Cavaliere delle Spade che governa i Cinque Piani. » « I Signori delle Spade! Essi non esistono. Si tratta di una superstizione in cui una volta credevano i Vadhagh e i Nhadragh. » « I Signori delle Spade, invece, esistono, Maestro Corum. In fin dei conti, è proprio uno di loro che voi dovete ringraziare per i vostri infortuni. E' stato il Cavaliere delle Spade a decidere di lasciar sviluppare i Mabden e distruggere le Vecchie Razze. » Corum si diede uno sguardo intorno, nelle tenebre. « Perché? » « Poiché era stufo di voi. Chi avrebbe potuto non esserlo? Il mondo si è fatto assai più interessante ora, sono sicuro che ne converrete. » « E' nel caos e nella distruzione l'interessante? » Corum fece un gesto di impazienza. « Pensavo che aveste veramente abbandonato siffatte idee infantili. » Shool-an-Jyvan sorrise. « Forse io sì. Ma il Cavaliere delle Spade? » « Voi non parlate con semplicità, Principe Shool. » « E' vero. Un vizio che trovo impossibile superare. Tuttavia, ravviva alle volte una conversazione pesante. » « Se ne avete abbastanza di questa conversazione, ridatemi Rhalina ed io me ne andrò. » Shool sorrise ancora. « Restituirvi Rhalina e rimettervi in libertà, questo dipende da me. Ecco
perché ho permesso a Maestro Moidel di rispondere alla sua Evocazione. Desideravo incontrarvi, Maestro Corum. » « Non sapevate che sarei venuto. » « Lo ritenevo probabile. » « E' perché desideravate incontrarvi con me? » « Ho qualche cosa da offrirvi. Nel caso voi rifiutaste il mio dono, penso che sarà saggio tenere nelle mie mani la signora Rhalina. » « E perché dovrei rifiutare un dono? » Shool si strinse nelle spalle. « I miei doni vengono talvolta rifiutati. La gente è sospettosa di me. Il genere della mia professione li disturba. Sono in pochi ad avere una parola gentile per un mago, Maestro Corum. » Corum si diede uno sguardo intorno, nelle tenebre. « Dov'è la porta? Andrò io stesso alla ricerca di Rhalina. Sono molto stanco, principe Shool ». « Non potete non esserlo. Avete molto sofferto. Avete scambiato il vostro dolce sogno per realtà e la realtà per sogno. Uno shock. Non ci sono porte. Non ne ho affatto bisogno. Non avete voglia di ascoltarmi fino in fondo? » « Se mi userete la cortesia di parlare in maniera meno contorta, perché no? » « Siete un povero ospite, Vadhagh. La vostra l'ho ritenuta una razza cortese. » « Non sono più un tipico rappresentante di essa. » « Peccato che l'ultimo di una razza non ne voglia incarnare le virtù. Ad ogni modo, io sono, lo spero, un ospite migliore e mi conformerò alle vostre richieste. Io sono un essere antico. Non appartengo ai Mabden, come non appartengo alla gente che voi chiamate Vecchie Razze. Io sono venuto prima. Appartenevo a una razza che cominciò a degenerare. Io non volevo assolutamente degenerare e pertanto mi sono dedicato alla ricerca dei mezzi scientifici attra-
verso i quali preservare la mia mente in tutta la sua saggezza. E i mezzi per fare simili cose li ho scoperti, come voi stesso potete constatare. Io sono essenzialmente puro spirito. Posso trasferire, con poco sforzo, il mio essere da un corpo all'altro, cosicché sono immortale. Sforzi per distruggermi ne sono stati fatti nel corso dei millenni, ma non hanno mai avuto successo. Questo avrebbe implicato la distruzione di troppe cose. Perciò, mi è stato consentito, generalmente parlando, di continuare la mia esistenza e i miei esperimenti. Il mio sapere si è accresciuto. Controllo sia la Vita che la Morte. Ho il potere di distruggere e di riportare alla vita. Se lo voglio, posso dare ad altri l'immortalità. Col mio ingegno e con la mia abilità sono diventato, in parole povere, un Dio. Forse non il più potente degli Dei — ma alla fine sarà così. Ora capirete che gli Dei che semplicemente » — Shool allargò le sue mani — « si ritrovano con una esistenza — che vivono soltanto in virtù di un puro caso d'ordine cosmico — capirete perché sono irritati con me. Essi rifiutano di riconoscere la mia divinità. Essi sono gelosi. Preferirebbero farla finita con me, dal momento che io arreco disturbo al loro amor proprio. Il Cavaliere delle Spade è mio nemico. Egli mi desidera morto. Così, come vedete, abbiamo molto in comune noi due, Maestro Corum. » « Io non sono affatto un "Dio", principe Shool. Ed inoltre, fino a poco tempo fa, nemmeno credevo assolutamente negli dei. » « Il fatto che voi non siate un Dio, Maestro Corum, appare evidente dalla vostra stessa ottusità. Non questo io intendevo. Quello che volevo dire è questo — entrambi siamo rappresentanti ultimi di razze che, per ragioni loro, i Signori delle Spade hanno deciso di distruggere. Entrambi, ai loro occhi, rappresentiamo un anacronismo che deve essere estirpato. Così come hanno rimpiazzato il mio popolo con i Vadhagh
e i Nhadragh, così stanno sostituendo i Vadhagh e Nhadragh con i Mabden. Nel vostro popolo — perdonatemi se vi associo con i Nhadragh — si sta verificando una degenerazione analoga a quella che si è avuta nel mio. Al par mio, voi avete tentato di resistere a questo fatto, di lottare contro di esso. Io ho scelto la scienza — voi avete scelto la spada. Lascerò a voi decidere quale sia stata la scelta più saggia... » « Sembrate alquanto meschino per essere un Dio », Corum disse perdendo la pazienza. « Ora... » « Sono un Dio meschino per il momento. Mi troverete più altero e più benigno quando avrò raggiunto la posizione di un Dio più grande. Volete lasciarmi continuare, Maestro Corum? Non capite che mi sono fin qui comportato secondo un sentimento di comunanza con voi? » « Nulla di quanto fin qui avete fatto sembra indicare la vostra amicizia. » « Ho detto comunanza, non amicizia. Vi assicuro, Maestro Corum, che sono in grado di distruggervi in un istante e così pure la vostra signora. » « Avrei avuto più pazienza se avessi saputo che voi l'avreste svincolata da quel terribile patto che lei fece e l'avreste condotta qui, in modo che io stesso potessi constatare che ella è in vita e in grado di essere salvata. » « Dovrete credermi sulla parola. » « E allora provate a distruggermi. » Il principe Shool si levò in piedi. Si agitò con le gesticolazioni irascibili di un uomo molto vecchio. Gesti che non si accordavano assolutamente con il giovane corpo e che ne resero il suono della voce ancora più osceno. « Dovreste portarmi maggior rispetto, Maestro Corum. » « E perché mai? Sono stato finora sottoposto a vari trucchi ed ho sopportato una gran quantità di discorsi pomposi. »
« Vi sto offrendo molto, ve ne avverto. Siate gentile con me. » « E cosa mi state offrendo? » Gli occhi del principe Shool si rimpicciolirono. « Vi sto offrendo la vostra stessa vita. Potrei anche tenermela. » « Questo me l'avete già detto. » « Vi offro una nuova mano e un nuovo occhio. » L'interesse di Corum si tradì, ed il principe Shool rise soffocatamente di soddisfazione. « Vi offro il ritorno di quella donna Mabden per la quale voi nutrite un affetto così perverso. » Il principe Shool alzò la mano. « Oh, benissimo, me ne scuso. A ciascuno secondo i propri gusti, suppongo. E quanto alla causa dei vostri malanni... » « Glandyth-a-Krae? » « No, no, no! Il Cavaliere delle Spade! Il Cavaliere delle Spade! Quello che ha permesso ai Mabden di radicarsi al primo posto su questo piano! » « E Glandyth? Io ne avevo giurato la distruzione. » « Voi accusate me di meschinità. Le vostre ambizioni sono proprio piccine. Con i poteri che io vi offro, potete distruggere quanti conti Mabden volete! » « Continuate... » « Continuare? Continuare? Non vi ho forse offerto abbastanza? » « Voi non dite ancora come vi proponete di trasformare queste offerte in qualcosa di più di tanti semplici discorsi. » « Oh, siete offensivo! I Mabden hanno paura di me! Quando io mi materializzo, alla mia vista i Mabden perdono il ben della parola. E ne muoiono anche quando rendo manifesti i miei poteri! »
« Non è molto che ho visto troppo orrore », disse il principe Corum. « Questo non dovrebbe importare. Il vostro fastidio, Vadhagh, è che i terrori da me impiegati sono terrori Mabden. Voi mi associate con i Mabden, ma restate ancora un Vadhagh. I sogni neri dei Mabden vi spaventano meno di quanto essi stessi non terrorizzino i Mabden. Se voi foste stato un Mabden, mi sarebbe stato assai più facile convincervi... » « Ma non potete usare un Mabden per il progetto che avete in animo », disse Corum con viso arcigno. « Ho ragione? » « Il vostro ingegno si aguzza. E' esattamente questa la verità. Non c'è un Mabden che possa sopravvivere a quello che voi dovete superare. E non sono poi nemmeno tanto sicuro che anche un Vadhagh... » « Qual è il compito? » « Impossessarvi di qualcosa di cui io ho bisogno per sviluppare ulteriormente le mie ambizioni. » « E non potreste impadronirvene da voi stesso? » « Evidentemente, no. Come potrei lasciare la mia isola? Allora, non v'è dubbio, mi distruggerebbero. » « Chi vi dovrebbe distruggere? » « I miei rivali, evidentemente — i Signori delle Spade e compagnia! Se posso sopravvivere è perché mi proteggo con una infinità di stratagemmi e incantesimi che, benché essi possano già adesso spezzare, non osano per il momento farlo per paura delle conseguenze. Spezzare i miei incantesimi potrebbe portare ad una effettiva dissoluzione dei Quindici Piani — e all'estinzione dei Signori delle Spade medesimi. No, dovete proprio commettere quel furto per me. Nessun altro, fuor che voi, su tutto questo piano, ne potrebbe avere il coraggio — o il motivo ben fondato. Perché se voi farete questo, vi restituirò Rhalina. E, se voi lo vorrete ancora, avrete il potere di vendicarvi di Glandyth-a-Krae. Ma, ve ne assicuro, chi
realmente è responsabile dell'esistenza di Glandyth è il Cavaliere delle Spade, e portandogli via quella cosa, voi sarete totalmente vendicato. » Corum disse: « Cosa devo rubare? » Shool rise basso. « Il suo cuore, Maestro Corum. » « Voi volete che io uccida un Dio e gli porti via il cuore... » « Certamente non sapete alcunché degli Dei. Se voi uccideste il Cavaliere, le conseguenze sarebbero inimmaginabili. Egli il cuore non lo tiene affatto nel suo petto. Esso è meglio custodito che se fosse nel suo petto. Il suo cuore è su questo piano. Il suo cervello su un altro piano — e così via. Tutto ciò serve alla sua protezione, capite? » Corum sospirò. « Dovreste spiegarvi meglio al momento opportuno. Per intanto, liberate Rhalina da quella nave ed io cercherò di fare quanto mi chiedete. » « Siete eccessivamente testardo, Maestro Corum! » « Se io sono il solo che possa venire incontro alle vostre ambizioni, principe Shool, dunque posso permettermi di esserlo. » Le labbra del giovane si contorsero in una smorfia che fu quasi Mabden. « Per fortuna voi non siete immortale, Maestro Corum. La vostra arroganza mi affliggerà soltanto per qualche centinaia di anni al massimo. D'accordo, vi mostrerò Rhalina. Vi mostrerò che ella è salva. Ma non la rilascerò. La terrò qui e ve la restituirò solo quando voi tornerete col cuore del Cavaliere delle Spade. » « Di che utilità vi è il cuore? » « Con esso potrò trattare eccellentemente. » « Avrete le ambizioni di un Dio, Maestro Shool, ma usate i metodi di un fanfarone. » « Principe Shool. I vostri insulti non mi toccano. Adesso... »
Shool scomparve dietro ad una spessa nube di fumo verde creatasi come d'incanto. Nel fumo si formò una scena. Corum vide la nave dei morti e la cabina. Vide il cadavere del margravio abbracciare la carne viva della moglie Rhalina, la margravia. Corum potè accorgersi che Rhalina stava urlando di orrore, ma che era incapace di opporre resistenza. « Mi avete detto che era illesa! Shool! Mi avete detto che era salva! » « Lo è — tra le braccia di un amato marito », si udì una voce offesa proveniente dal nulla. « Liberatela, Shool! » La scena si dissolse. Rhalina si trovava ora, ansimante e terrorizzata, nella stanza che non aveva porte. « Corum? » Corum corse verso di lei per aiutarla, ma lei si allontanò con un brivido. « Sei Corum? Non sei un fantasma? Io ho fatto un patto per salvare Corum... » « Io sono Corum. A mia volta, ho fatto un patto per salvare te, Rhalina. » « Non mi ero resa conto che sarebbe stato così sconcio, non avevo capito i termini... Egli stava giungendo al punto di... » « Anche i morti hanno i loro piaceri, signora Rhalina. » Dietro a loro era una creatura antropoide in giacca e pantaloni verdi. Questa notò con piacere lo sbalordimento di Corum. « Ho diversi corpi da poter utilizzare. Questo apparteneva ad un antenato dei Nhadragh, penso. Una di quelle razze. » « Chi è, Corum? » domandò Rhalina. Gli si accostò ed egli l'abbracciò con calore. Tutto il suo corpo si scosse. Tutta la sua pelle era stranamente umida. « Questi è Shool-an-Tyvan. Egli afferma di essere un Dio. E' lui che assicurò che la tua Evocazione venisse accolta. Egli chiede che io porti a termine un suo incarico, e in cambio ti permetterà di startene
al sicuro qui fino al mio ritorno. Allora potremo andarcene insieme. » « Ma perché egli...? » « Non di voi avevo bisogno, ma del vostro amante », disse Shool infastidito. « Ora che non ho mantenuto la mia promessa con vostro marito ho perduto il mio potere su di lui! La cosa è irritante. » « Avete perduto il vostro potere su Moidel, il Margravio? » domandò Rhalina. « Sì, sì. Egli è morto definitivamente. Mi ci vorrà una fatica immane per riportarlo alla vita di nuovo. » « Vi ringrazio per averlo rilasciato », disse Rhalina. « Non era certo mio desiderio. Me l'ha fatto fare il Maestro Corum. » Il principe Shool sospirò. « Ad ogni modo, in mare c'è un'infinità di cadaveri. Avrò da trovare un'altra nave, immagino. » Rhalina svenne. Corum la sostenne con la sua mano buona. « Vedete! » disse Shool, manifestando trionfo. « I Mabden hanno una eccellente paura di me. » « Avremo bisogno di cibo, di vestiti nuovi, letti e simili », disse Corum, « prima di poter discutere qualsiasi altra cosa con voi, Shool. » Shool scomparve. Un istante dopo la grande stanza traboccava di tutto quanto Corum aveva chiesto e desiderato. Corum non potè certo nutrire dubbi sui poteri di Shool, ma dubitò della sua sanità di mente. Spogliò Rhalina, la lavò e la sistemò nel letto. Ella poi si svegliò con gli occhi ancora pieni di terrore, ma sorrise a Corum. « Sei salva adesso », egli disse. « Dormi. » Ella dormì. Corum si lavò ed esaminò i vestiti che erano stati approntati per lui. Si mordicchiò le labbra sollevando
quegli abiti piegati e alla vista dell'armatura e delle armi di cui era stato anche provvisto. Erano vestiti Vadhagh. C'era perfino un mantello scarlatto che quasi certamente era suo. Cominciò a riflettere sulle implicazioni della sua alleanza con lo strano ed anormale mago di Svi-anFanla-Brool.
Capitolo
Secondo
L'OCCHIO DI RHYNN E LA MANO DI KWLL
Corum aveva dormito. Ora, improvvisamente, stava levandosi. Aprì il suo occhio. « Benvenuto alla mia bottega. » La voce di Shool proveniva dalle spalle di Corum. Egli si voltò. Questa volta potè vedere una bellissima ragazza sui quindici anni. Il riso soffocato proveniente da quella giovane bocca era osceno. Corum osservò la grande stanza. Essa era scura e ingombra. Era riempita di ogni genere di piante e di animali imbalsamati. Sugli scaffali, appesi alla rinfusa, si affollavano manoscritti e libri. C'erano cristalli di particolare colore e taglio, pezzi di armature, spade adorne di pietre preziose, sacchetti imputriditi dai quali fuoriuscivano indescrivibili sostanze e tesori. C'erano dipinti e raffigurazioni, assortimenti di strumenti, di pesi e misure, oggetti che rassomigliavano a pendole con suddivisioni eccentriche, in linguaggi che Corum non sapeva decifrare. Esseri viventi si accalcavano tra le pile o pigolavano agli angoli. Il posto stagnava di polvere, di terriccio e di morte. « Non riuscirete ad attrarre molti clienti, penso », disse Corum. Shool aspirò rumorosamente col naso. « Non c'è
molta gente che io abbia voglia di servire. Ora... » sempre mantenendo il giovane volto di ragazza, si avvicinò ad una cassa, in parte ricoperta di lucide pelli che dovettero appartenere ad una bestia che in vita doveva essere grande e feroce. Scostò le pelli e mormorò qualcosa sulla cassa. Senza che venisse toccato, il coperchio balzò indietro. Dall'interno della cassa si sollevò una coltre di sostanza nerastra, Shool indietreggiò di un passo o due, agitò le mani e urlò qualcosa in una lingua strana. La coltre nera si dissolse. Shool si avvicinò con molta cautela alla cassa e vi guardò dentro. Schioccò le labbra di soddisfazione. « Ci siamo! » Tirò fuori due sacchetti, uno più piccolo dell'altro. Li sollevò, sogghignando in direzione di Corum. « I vostri doni. » « Io pensavo che mi avreste restituito la mia mano e il mio occhio. » « Non esattamente "restituire". Vi sto offrendo un dono di maggior utilità di quello. Avete mai sentito parlare degli Dei Perduti? » « No. » « Gli Dei Perduti che erano fratelli? I loro nomi erano Lord Rhynn e Lord Kwll. Essi esistettero ancor prima che io venissi alla luce dell'universo. Essi furono coinvolti in qualche genere di scontro, la cui natura non è chiara. Essi scomparvero, non so bene se volontariamente o involontariamente. Essi però dimenticarono una parte di se stessi. » Egli sollevò di nuovo i sacchetti. « Questo. » Corum gesticolò con impazienza. Shool estrasse la sua lingua di fanciulla e si leccò le labbra fresche di giovinezza. I suoi occhi vecchi scintillarono verso Corum. « I doni che io ho qui una volta appartennero a questi due Dei bellicosi. Ho sentito una leggenda secondo la quale essi lottarono fino alla morte, non lasciando altro segno della
loro esistenza che questo. » Aprì il sacchetto più piccolo. Sulla sua mano cadde un oggetto piuttosto grande. Lo porse perché Corum lo vedesse. Esso era incrostato di perle e sfaccettato. I gioielli brillavano di colori foschi, intensi rossi, azzurri profondi e nero. « E' molto bello », disse Corum, « ma io... » « Attendete. » Shool vuotò il sacchetto più grande sul coperchio della cassa, la quale era stata chiusa. Sollevò l'oggetto e lo mostrò. Corum rimase senza fiato. Sembrava trattarsi di un guanto con lo spazio per cinque dita sottili e un pollice. Anch'esso era ricoperto di strani gioielli scuri. « Quel guanto non mi può essere di alcuna utilità », disse Corum. « Esso è per una mano sinistra con sei dita. Io ho cinque dita e non ho la mano sinistra. » « Non è un guanto. E' la mano di Kwll. Egli ne aveva quattro, ma ne ha perduta una. Staccatagli da suo fratello, mi pare... » « Le vostre burle non mi incantano, mago. Sono tiri macabri. Sprecate ancora tempo con me. » « Fareste meglio a servirvi delle mie burle, come voi le chiamate, Maestro Vadhagh. » « Non ne vedo il motivo. » « Questi sono i doni. Per sostituire il vostro occhio mancante — io vi offro l'occhio di Rhynn. Per sostituire la vostra mano mancante — la mano di Kwll! » Corum storse la bocca, nauseato. « Non prenderò nulla di tutto ciò! Non ho bisogno di arti di esseri morti! Pensavo che mi avreste restituito i miei! Mi avete ingannato, stregone! » « Assurdo. Voi non capite le proprietà che queste cose possiedono. Essi vi daranno un potere più grande di quanto nessuno della vostra razza o della razza dei Mabden abbia mai conosciuto! L'occhio può vedere in estensioni di tempo e di spazio mai osservate
prima da un mortale. E la mano — la mano può evocare aiuto da queste estensioni. Pensate che vi avrei mandato nella tana del Cavaliere delle Spade senza un qualche aiuto soprannaturale? » « Fino a che punto operano questi poteri? » Shool si strinse nelle sue spalle di ragazza. « Non ho avuto ancora la possibilità di verificarlo. » « Ci potrebbe quindi essere pericolo nell'usarli? » « Perché dovrebbe essercene? » Corum si fece pensoso. Avrebbe dovuto accettare i disgustosi doni di Shool e rischiare le conseguenze in ordine alla sopravvivenza, all'annientamento di Glandyth, alla liberazione di Rhalina? Ovvero avrebbe dovuto prepararsi a morire subito e porre così fine all'intera faccenda? Shool disse: « Pensate alla conoscenza che questi doni vi apporteranno. Pensate alle cose che potrete vedere nei vostri viaggi. Nessun mortale ha mai potuto prima d'ora varcare i domini del Cavaliere delle Spade! E ricordate — è il Cavaliere che in definitiva è responsabile della vostra rovina e della morte del vostro popolo... » Corum tirò un profondo respiro di quell'aria polverosa. Si decise. « D'accordo, accetterò i vostri doni. » « Ne sono onorato », disse sardonicamente Shool. Egli puntò un dito verso Corum e questi barcollò all'indietro e cadde tra una pila di ossa. Cercò di alzarsi. Ma si sentì assopire. « Continuate pure a sonnecchiare, Maestro Corum », disse Shool. Egli si trovò di nuovo nella stanza dove all'inizio aveva incontrato Shool. Sentì un terribile dolore nell'orbita del suo occhio cieco. Un'atroce sofferenza nel moncherino della mano sinistra. Si sentì svuotato di ogni forza. Cercava di guardarsi intorno, ma la sua vista continuava a restare offuscata.
Sentì un urlo. Era di Rhalina. « Rhalina! Dove sei? » « Sono — Sono qui — Corum. Cosa ti è stato fatto? Il tuo volto — la tua mano... » Con la mano destra riuscì a toccare la cavità orbitale. Qualcosa di caldo gli scivolò tra le dita. Era un occhio! Ma un occhio di un tessuto e di un formato insoliti. Si rese allora conto che quello era l'occhio di Rhynn. La sua vista cominciò a schiarirsi. Vide il volto terrorizzato di Rhalina. Ella sedeva sul letto, la schiena rigida dal terrore. Abbassò lo sguardo alla sua mano sinistra. Essa era di dimensioni simili alla sua mano di una volta, ma aveva sei dita ed aveva una pelle imperlata come quella di un serpente. Si sentì venir meno mentre si sforzava di accettare quanto gli era successo. « Sono i doni di Shool », bisbigliò privo di forze. « Sono l'Occhio di Rhynn e la Mano di Kwll. Essi erano stati Dei — gli Dei Perduti, ha detto Shool. Ora sono di nuovo completo, Rhalina. » « Completo? Sei qualcosa di più e qualcosa di meno che completo, Corum. Perché hai accettato simili terribili doni? Sono doni malefici. Ti porteranno alla distruzione! » « Li ho accettati per portare a termine il compito che Shool mi ha assegnato, e così conquistare la libertà per noi entrambi. Li ho accettati per poter scovare Glandyth e, possibilmente, strangolarlo con questa mano estranea. Li ho accettati perché se non l'avessi fatto, sarei perito. » « Forse », ella disse teneramente, « meglio sarebbe stato per noi soccombere. »
Capitolo Terzo
OLTRE I QUINDICI PIANI
« Quali poteri io ho, Maestro Coturni Ho fatto di me stesso un Dio e di voi un semi-Dio. Entreremo presto nella leggenda. » « Voi nella leggenda ci siete già. » Corum si voltò a guardare Shool, il quale era apparso nella stanza nelle sembianze di un essere che somigliava ad un orso e indossava un elmo piumato e calzoni. « E in quanto a ciò, anche i Vadhagh. » « Avremo presto il nostro ciclo, Maestro Corum. Ecco cosa volevo dire. Come vi sentite? » « Provo ancora qualche dolore al polso e alla testa. » « Però nemmeno una traccia della giuntura, eh! Sono un chirurgo come si deve! L'innesto è stato perfetto e compiuto col minimo degli incantesimi! » « Comunque, con l'Occhio di Rhynn io non vedo alcunché », disse Corum. « Non sono poi sicuro che funzioni, stregone. » Shool sfregò le zampe. « Ci vorrà del tempo prima che il vostro cervello vi si abitui. Qui, avrete bisogno anche di questo. » Egli mostrò qualcosa che rassomigliava a uno scudo in miniatura di gioielli e smalti, con una stringa attaccata ad esso. « Questo è da posare sopra il vostro nuovo occhio. »
« E mi accecate di nuovo! » « Beh, non avete sempre bisogno di stare ad osservare questi mondi al di là dei quindici piani, non vi pare? » « Volete dire che l'occhio vede soltanto lì? » « No. Esso vede anche qui, ma non sempre nello stesso tipo di prospettiva. » Corum aggrottò le ciglia diffidente. Il movimento di socchiudere gli occhi fece sì che, improvvisamente, dal suo nuovo occhio, egli vedesse una gran quantità di nuove immagini, mentre continuava a fissare Shool col suo occhio abituale. Erano immagini scure e scivolavano una sull'altra finché una ne predominò. « Shool! Cos'è questo mondo? » « Non son sicuro. Qualcuno dice che lì ci sono altri Quindici Piani che sono una sorta di immagine speculare distorta dei nostri piani. Potrebbe trattarsi di un posto simile, eh? » Cose che ribollivano e gorgogliavano, apparivano e scomparivano. Esseri che avanzavano sulla scena e poi se ne allontanavano. Fiamme che si arricciavano, terra che si liquefaceva, strane bestie che giungevano ad assumere enormi proporzioni e poi si contraevano di nuovo, carne che sembrava gonfiarsi e poi restringersi. « Son contento di non far parte di quel mondo », Corum bisbigliò. « Shool, datemi lo scudo. » Prese l'oggetto dal mago e lo sistemò sull'occhio. Le scene di prima svanirono e potè vedere soltanto Shool e Rhalina — ma con entrambi gli occhi. « Ah, io ho affermato che lo scudo vi protegge da visioni di altri mondi, ma non di questo. » « Cosa vedi, Corum? » chiese Rhalina con calma. Egli scosse il capo. « Nulla che si possa facilmente descrivere. » Rhalina guardò Shool. « Vorrei che vi riprendeste i vostri doni, principe Shool. Siffatte cose non si addicono a mortali. »
Shool fece una smorfia. « Egli non è più un mortale. Ve l'ho detto, egli è un semi-Dio. » « E cosa ne penseranno gli Dei? » « Beh, evidentemente, alcuni di loro si adirerebbero se mai venissero a conoscenza del nuovo modo d'essere di Maestro Corum. Lo ritengo, comunque, improbabile. » Rhalina, il volto dipinto di ferocia, disse: « Voi parlate di queste cose troppo alla leggera, Mago. Se Corum non capisce le implicazioni di quanto gli avete donato, io invece le capisco. Vi son leggi alle quali i mortali devono obbedire. Voi avete trasgredito tali leggi e ne sarete punito — come pure le vostre creazioni saranno punite ed annientate! » Shool agitò sdegnosamente le sue braccia da orso. « Voi dimenticate che io dispongo di una buona dose di potere. E sarò presto nella situazione di poter sfidare qualsiasi Dio, per quanto antico egli sia, che voglia misurarsi e incrociare le spade con me. » « Voi siete folle di superbia », ella disse. « Voi siete soltanto un mago mortale! » « Fate silenzio, signora Rhalina! Tacete perché posso destinarvi a una sorte di gran lunga peggiore di quella alla quale siete appena sfuggita! Se qui il Maestro Corum non mi fosse utile, a quest'ora sareste entrambi in qualche tetra forma di sofferenza. Badate a quello che dite. Badate a quello che dite! » « Stiamo ancora sprecando tempo », s'intromise Corum. « Desidero portare a termine il mio compito in modo che io e Rhalina possiamo abbandonare questo posto. » Shool si placò, si voltò e disse: « Siete uno sciocco a fare tanto per questa creatura. Ella, come tutto il suo genere, teme la conoscenza, ha paura della profonda, nera sapienza che arreca potere. » « Parliamo del cuore del Cavaliere delle Spade », Corum disse. « Come posso rubarlo? »
« Venite », disse Shool. Si trovarono in un giardino con bocciuoli enormi che emettevano un odore irresistibilmente piacevole. Il sole splendeva di rosso nel cielo che li sovrastava. Le foglie delle piante erano scure, quasi nere. Si sentiva il loro stormire. Shool aveva ripreso la sua precedente figura di giovane vestito di una fluente toga azzurra. Condusse Corum lungo un sentiero. « Questo giardino l'ho coltivato per millenni. In esso vi sono molte piante speciali. Esso copre la maggior parte dell'isola che non è occupata dal mio castello ed ha uno scopo pratico. Esso è un tranquillo posto in cui rilassarsi. E' difficile agli ospiti non desiderati poterlo attraversare. » « Perché l'isola è chiamata la Residenza del Dio Ingordo? » « L'ho chiamata io così — dall'essere dal quale la ho ereditata. Qui solitamente abitava un altro Dio, che tutti temevano. Cercando un posto sicuro dove poter continuare i miei studi, scoprii l'isola. Ma avevo sentito dire che essa era abitata da un Dio spaventevole e, naturalmente, ci sono andato piano. Allora disponevo appena di una piccola parte della mia sapienza attuale, avendo poco più di qualche centinaio di anni di età, e sapevo quindi di non aver il potere di distruggere un Dio. » Una gigantesca orchidea toccò, strisciandola, la nuova mano di Corum. Egli la allontanò. « Allora come vi siete impadronito dell'isola? » egli chiese a Shool. « Seppi che il Dio mangiava bambini. Gliene veniva sacrificato uno al giorno dagli antenati di quelli che voi chiamate Nhadragh. Avendo abbondantemente il denaro che mi occorreva per comprare un buon numero di bambini e darglieli in pasto tutti in una volta, era facile prevedere cosa sarebbe accaduto. »
« Cosa accadde? » « Li trangugiò tutti e cadde in un sonno di sazietà. » « E voi lo assaliste uccidendolo! » « Nulla di tutto ciò! Lo catturai. Attualmente egli si trova da qualche parte, rinchiuso in una delle sue stesse celle, anche se non è più l'essere bello qual era quando io ereditai il suo palazzo. Egli era, certo, un piccolo Dio solamente, ma qualcosa di analogo al Cavaliere delle Spade. Ecco un'altra ragione per la quale né il Cavaliere, né nessuno degli altri, mi dà molto fastidio: io tengo Pliproth prigioniero. » « Distruggere la vostra isola vorrebbe dire distruggere il loro fratello? » « Abbastanza. » « E questa è un'altra ragione per cui voi dovete impiegarmi per commettere questa ruberia: avete paura che se lasciate l'isola possano estinguervi. » « Paura? Assolutamente no. Ma mi premunisco con un ragionevole grado di cautela. Ecco perché esisto ancora. » « Dov'è il cuore del Cavaliere delle Spade? » « Beh, esso è al di là della Scogliera delle Mille Leghe, della quale certamente avete sentito parlare. » « Credo di averne letto qualcosa in qualche vecchio libro di geografia. Si trova a nord, o sbaglio? » Corum si districò da una vite che gli aveva attorniato la gamba. « Non sbagliate. » « E' tutto qui ciò che potete dirmi? » « Al di là della Scogliera delle Mille Leghe c'è un posto chiamato Urde, il quale talvolta è terra e talvolta è acqua. Al di là di questo c'è il deserto di Dhroonhazat. Oltre il deserto, le Terre del Fuoco abitate dalla Regina Cieca, Ooresé. Al di là delle Terre del Fuoco si trova la Landa di Ghiaccio dove vagano i Brikling. »
Corum si fermò per staccarsi dal volto una foglia che gli si era appiccicata. La cosa sembrava avere minuscole rosse labbra che lo baciarono. « E dopo questa Landa? » egli chiese con un sorriso sardonico. « Ebbene, dopo di questa inizia il dominio del Cavaliere delle Spade. » « Queste strane terre. Su quale piano sono situate? » « Su tutt'e cinque sui quali il Cavaliere ha influenza. Il vostro potere di muovervi attraverso i piani, me ne dispiace, non vi sarà di grande aiuto ed utilità. » « Non sono sicuro di avere ancora quel potere. Se voi dite la verità, il Cavaliere delle Spade ha tolto quel potere ai Vadhagh. » « Niente preoccupazioni, voi avete poteri che sono giusti e buoni. » Shool gli si avvicinò e gli carezzò la sua nuova strana mano. Quella nuova mano cominciava a rispondere al pari di un arto normale. Spinto da curiosità Corum la usò per sollevare la toppa che ricopriva il suo occhio ingemmato. Trattenne il respiro e riabbassò rapidamente la toppa. Shool disse: « Cosa avete visto? » « Ho visto un posto. » « Questo è tutto? » « Una terra arsa da un sole nero. La luce spuntava dal basso, ma i raggi del sole nero quasi la facevano svanire. Davanti a me si trovavano quattro figure. Ho intravisto i loro volti... » Corum si leccò le labbra. « Non ho potuto vedere oltre. » « Tocchiamo tanti piani », rifletté Shool. « Gli orrori che esistono e di cui noi a volte afferriamo soltanto la vista — nei sogni, per esempio. Ad ogni modo, dovete imparare a cogliere questi aspetti e tutte le altre cose che vedete con il vostro nuovo occhio, se dovete usare pienamente i vostri poteri. »
« Mi dà fastidio, Shool, sapere che esistono questi oscuri, terribili piani e che attorno a me si nascondono, separate soltanto da qualche sottile tessuto astrale, tante mostruose creature. » « Io ho imparato a vivere conoscendo tali cose — e facendo uso di tali cose. Vi abituerete a siffatte cose in alcuni millenni. » Corum allontanò da sé un rampicante che gli si era stretto sulla cintola. « Le piante del vostro giardino sembrano più che amichevoli. » « Sono affezionate. Sono le sole mie vere amiche. Ma è interessante che voi piacciate loro. Sono propenso a giudicare un essere dal modo con cui le mie piante reagiscono verso di lui. Certamente, esse sono povere cose. Devo indurre una nave o due ad attraccare al più presto all'isola. Abbiamo bisogno di cibo. Tutti questi preparativi mi han fatto dimenticare le mie regolari abitudini. » « Non mi avete ancora descritto dettagliatamente come possa trovare il Cavaliere delle Spade. » « Avete ragione. Beh, il Cavaliere vive in un palazzo sulla cima di una montagna che è il vero centro sia di questo pianeta che dei cinque piani. Egli tiene il cuore sulla torre più alta del palazzo. Esso è ben guardato, ovviamente. » « E questo è tutto ciò che sapete? Non conoscete il genere di protezione? » « Sto adoperando voi, Maestro Corum, per il fatto che voi avete un pizzico di cervello in più, una iota di elasticità mentale e una frazione di immaginazione e di coraggio in più di un Mabden. Starà a voi scoprire la natura di questa protezione. Potete contare su una cosa, comunque. » « Che cosa, Maestro Shool? » « Principe Shool. Potete contare sul fatto che egli non si aspetta alcun genere di attacco da un mortale quale voi siete. Al pari dei Vadhagh, Maestro
Corum, i Signori della Spada sono cortesi. Tutti noi ci arrampichiamo. Tutti noi cadiamo. » Shool ridacchiò. « E i piani continuano ad andare, eh? » « E dopo esservi arrampicato, non cadrete? » « Senza dubbio — in alcuni millenni. Chi sa? Potrei salire così in alto da poter controllare l'intero movimento del multiverso. Potrei diventare il primo Dio veramente onnisciente e onnipotente. Oh, quali giochi potrei giocare! » « Abbiamo studiato poco il misticismo, noi popolo Vadhagh », Corum disse, « ma ho appreso che tutti gli Dei sono onniscienti e onnipotenti. » « Soltanto a livelli molto ristretti. Alcuni Dei — il pantheon Mabden, ad esempio il dio Cane e il dio Orso Cornuto — sono più o meno onniscienti riguardo alle faccende dei Mabden, e possono, se vogliono, controllare in larga misura tali questioni. Ma essi nulla conoscono delle mie faccende ed ancor meno di quelle del Cavaliere delle Spade, il quale conosce la maggior parte delle cose, tranne quelle che accadono sulla mia ben protetta isola. Questa, temo, è un'Era di Dei, maestro Corum. Ce ne sono molti, piccoli e grandi, e affollano l'universo. Una volta non era così. Talvolta, sospetto, l'universo fa a meno di tutti loro! » « Di questo ero già convinto. » « Questa situazione passerà. E' il pensiero », Shool si compresse il cranio, « che crea gli Dei e gli Dei che creano il pensiero. Devono esserci periodi in cui il pensiero — che io a volte sopravvaluto — non esiste per nulla. La sua esistenza o la mancanza di esso, dopo tutto, non interessa l'universo. Ma se ne avessi il potere — io renderei interessato l'universo! » Gli occhi di Shool brillarono. « Ne cambierei la sua vera natura! Ne muterei tutte le condizioni! Siete saggio ad aiutarmi, Maestro Corum. » Corum spinse indietro la testa colpita da
come un gigantesco tulipano color malva, ma munito di denti. « Io ne dubito, Shool. Ma d'altra parte non ho scelta. » « Certo, non avete scelta. O, almeno, la vostra scelta è assai limitata. E' la mia ambizione di non dover essere costretto a fare scelte, su larga scala almeno, che mi spinge avanti, Maestro Corum. » « Eh sì », annuì Corum ironicamente. « Siamo tutti mortali. » « Parlate per voi, Maestro Corum. »
LIBRO
TERZO
Il principe Corum compie l'impossibile
Capitolo
Primo
IL DIO CHE CAMMINA
Il commiato di Corum da Rhalina non era stato facile. Esso era stato pieno di tensione. Quando lui l'aveva abbracciata, negli occhi di lei non c'era stato amore, ma soltanto interesse per lui e paura per entrambi. Questo lo aveva disturbato, ma non c'era nulla che egli potesse fare. Shool gli aveva dato un battello di forma bizzarra ed egli aveva salpato. Ora il mare si estendeva in tutte le direzioni. Con un magnetite per guida, Corum si stava dirigendo a nord, verso la Scogliera delle Mille Leghe. Corum sapeva di essere un pazzo, in termini Vadhagh. Ma supponeva di essere abbastanza normale in termini Mabden. E quello, dopo tutto, ora era un mondo Mabden. Doveva imparare ad accettare i suoi particolari disordini mentali come norma, se voleva sopravvivere. E di ragioni per sopravvivere ce n'erano parecchie, non ultima tra esse Rhalina. Egli era l'ultimo dei Vadhagh, anche se non riusciva a convincersene. I poteri di cui disponevano stregoni come Shool potevano essere controllati da altri. La natura del tempo poteva essere alterata. I piani che lo attorniavano potevano essere fermati nel loro corso, forse
anche rovesciati. Gli eventi dell'anno passato potevano essere mutati, forse completamente cancellati. Corum si proponeva di vivere e, vivendo, di apprendere. E se avesse appreso abbastanza, forse avrebbe guadagnato sufficiente potere per realizzare le sue ambizioni e restituire un mondo ai Vadhagh e i Vadhagh al mondo. Sarebbe stato giusto, egli pensava. Il battello era in metallo battuto, con molte parti in rilievo e asimmetriche. Esso permetteva un debole calore che forniva Corum di caldo e luce durante la notte, dal momento che la navigazione era lunga. Il suo unico albero portava una singola vela quadrata di sciamito ricoperta di una strana sostanza la quale anche essa emetteva luce e si voltava, senza bisogno che Corum la manovrasse, per lasciarsi gonfiare da qualsiasi vento. Corum sedeva sul battello avvolto nel suo mantello scarlatto; la sua attrezzatura bellica giaceva accanto a lui; l'elmo di argento sul capo; ricoperto dalla maglia metallica dalla gola fino alle ginocchia. Di tanto in tanto bloccava il magnetite con dei lacci su cui era sospeso. Il magnetite era sagomato a mo' di uno strale ed aveva la punta rivolta sempre a nord. Pensò molto a Rhalina ed al proprio amore per lei. Un amore del genere non era mai esistito prima tra un Vadhagh ed una Mabden. Il suo proprio popolo avrebbe potuto considerare i suoi sentimenti per Rhalina come degenerati, così come un Mabden avrebbe nutrito la stessa diffidenza verso siffatti sentimenti di un uomo verso la propria moglie, ma egli era attratto verso di lei più di quanto non fosse mai stato attratto verso una donna Vadhagh, e sapeva anche che l'intelligenza di lei era pari alla sua. Erano i suoi stati d'animo che erano difficili da comprendere — i suoi segni del destino — la sua superstizione. Eppure Rhalina conosceva questo mondo meglio di lui. E forse ella aveva ragione a nutrire tali convinzioni. Neppure le sue lezioni erano dimenticate.
La terza notte, Corum dormì, la sua nuova mano appoggiata alla barra del timone. Al mattino fu risvegliato dalla vivida luce del sole che batteva contro i suoi occhi. Avanti a lui era la Scogliera delle Mille Leghe. Essa si estendeva da una parte all'altra dell'orizzonte e sembrava non ci fosse neppure una breccia tra le punte taglienti della roccia che spuntava dal mare schiumoso. Shool lo aveva messo in guardia sul fatto che ben pochi erano riusciti a trovare un passaggio attraverso la scogliera, ed ora egli ne potè comprendere il perché. La scogliera era impenetrabile. Non sembrava assolutamente di origine naturale, ma piuttosto piazzata lì da qualche entità a mo' di bastione contro gli intrusi. Forse l'aveva costruita il Cavaliere delle Spade. Corum decise di navigare lungo la parte orientale degli scogli, sperando di trovare qualcosa dove poter attraccare il battello e magari trascinarlo via terra fino alle acque al di là della scogliera. Navigò per altri quattro giorni, senza dormire, ma la scogliera non offriva né passaggi per attraversarla, né posti per approdarvi. Una leggera bruma, di un colore rosa sfumato dal sole, copriva ora le acque in ogni direzione; Corum si allontanò dagli scogli facendo uso del magnetite ed ascoltando i rumori dei frangenti che sbattevano contro le rocce. Estrasse la mappa, tracciò la rotta sulla pelle e cercò di valutare la sua posizione. Le mappe erano rozze e probabilmente poco accurate, ma erano le migliori di cui Shool disponesse. Egli si stava avvicinando a uno stretto canale tra gli scogli ed una terra segnata sulla mappa col nome di Khoolocrah. Shool non era stato in grado di dirgli molto su quella terra, eccetto il fatto che nei dintorni viveva una razza chiamata dei Ragha-da-Kheta.
Alla luce proveniente dal battello, egli diede uno sguardo alle mappe, sperando di distinguere una qualche breccia negli scogli segnati in quel punto, ma non se ne presentava alcuna. Allora il battello cominciò a cullarsi con rapidità e Corum si guardò intorno, alla ricerca della fonte di quell'improvviso gorgo. Molto lontano, il frangente continuava la sua attività, ma egli udì un altro suono, a sud rispetto a lui; guardò in quella direzione. Il suono era un rumore regolare di qualcosa che scorreva impetuoso e schiaffeggiava le acque, come di un uomo che guadasse un corso d'acqua. Che fosse qualche bestia marina? I Mabden sembravano aver paura di molti di tali mostri. Corum si aggrappò disperatamente ai lati, cercando di tenere il battello su una rotta lontana dalle rocce, ma le onde aumentarono il loro agitato movimento. Il rumore si fece più vicino. Corum sollevò la sua lunga e forte spada e si tenne pronto. Vide allora qualcosa nella bruma. Era una grossa, massiccia sagoma — il profilo di un uomo. E l'uomo stava trascinando qualcosa dietro di lui. Una rete da pesca! Le acque erano dunque così basse? Corum si spostò su una fiancata, abbassò la spada, immergendola con la punta nell'acqua. Essa non ne toccava il fondo. Potè scorgere il fondo dell'oceano molto profondo sotto di lui. Guardò di nuovo la figura. Si rese allora conto che gli occhi e la bruma lo avevano ingannato, falsando la prospettiva. La figura era ancora a qualche distanza da lui ed era gigantesca — molto più enorme del Gigante di Laahr. Ecco perché provocava onde così grandi. Ecco perché il battello si cullava. Corum fece per chiamare, chiedere a quell'essere gigantesco di allontanarsi per paura che il battello affondasse, poi ci ripensò. Si riteneva che esseri come
quello la pensassero meno cortesemente verso i comuni mortali di quanto non facesse il Gigante di Laahr. Ora il gigante, ancora avvolto nella bruma, cambiava direzione, pur continuando a pescare. Si trovava alle spalle del battello di Corum e si muoveva a fatica sulle acque, trascinandosi dietro le sue reti. L'onda allontanò il battello dalla Scogliera delle Mille Leghe, facendolo puntare quasi direttamente verso est; non ci fu nulla che Corum potesse fare per fermarlo. Lottò con la vela e con il timone, ma essi non rispondevano. Era come se egli stesse per essere trasportato su una corrente che si dirige impetuosamente verso il baratro. Il gigante aveva scatenato una corrente contro cui Corum non poteva far nulla. Non c'era altro da fare che lasciarsi trasportare dal battello. Il gigante era da lungo scomparso nella bruma, dirigendosi verso la Scogliera delle Mille Leghe, dove probabilmente viveva. Come uno squalo che si avventa sulla preda, il piccolo battello navigò veloce, finché improvvisamente irruppe dalla bruma al sole caldo. E Corum vide una costa. Contro i cui scogli egli veniva trascinato veloce.
Capitolo Secondo
TEMGOL-LEP
Corum cercò disperatamente di far deviare il battello dalla direzione degli scogli. La sua mano sinistra a sei dita si aggrappò al timone e la sua destra tirò la vela. Ma s'udì allora un forte stridìo. Un brivido corse attraverso il battello metallico, che cominciò a capovolgersi. Corum cercò di afferrare le sue armi e trattenerle, prima di essere scaraventato fuori dall'imbarcazione e trascinato dall'acqua. Respirava affannosamente con l'acqua che gli aveva riempito la bocca. Sentì il suo corpo strisciare contro una massa di ciottoli e, barcollante, cercò di tenersi in piedi, mentre la corrente cominciava a diminuire. Vide una roccia e vi si afferrò, lasciandosi cadere l'arco e la faretra con gli strali, che furono immediatamente spazzati via. Le acque si ritirarono. Si voltò indietro e si accorse che il mare aveva portato via il battello capovolto. Lasciò la presa della roccia e si alzò in piedi, per allacciarsi la cintura che tratteneva la spada alla vita. Si raddrizzò anche l'elmo sul capo. Un senso di impotenza gli attraversò il corpo. Fece alcuni passi lungo la spiaggia e si sedette sotto il grande scoglio nero. Si era incagliato in una strana spiaggia, il battello ormai era perduto e la sua meta e
il suo traguardo erano dall'altra parte dell'oceano. In quel momento Corum non se ne preoccupò. Scomparvero da lui i pensieri di amore, di odio o di vendetta. Sentì di averli dimenticati in quel mondo di sogno che era Svi-an-Fanla-Brool. Tutto ciò che gli era rimasto di quel mondo erano la mano a sei dita e l'occhio imperlato. Pensando all'occhio e a quello che con esso aveva visto Corum si sentì rabbrividire. Alzò la mano e toccò la toppa che lo ricopriva. Si rese allora conto che, accettando i doni di Shool, egli aveva anche accettato la logica del mondo di Shool. Ormai a questa logica non poteva più sfuggire. Sospirando, si alzò in piedi ed osservò lo scoglio. Era impossibile valicarlo. Prese a camminate sui ciottoli grigi, nella speranza di scoprire un putito da dove avrebbe potuto arrampicarsi in cima allo scoglio e, così, rendersi conto della terra sulla quale egli si trovava. Prese un guanto datogli da Shool e lo infilò sulla mano sinistra. Ricordò quanto Shool, prima della partenza, gli aveva detto riguardo ai poteri di quella mano. Egli tuttavia non dava totale credito alle parole di Shool e non aveva voglia di verificarne la rispondenza al vero. Per oltre un'ora si mosse a fatica lungo la spiaggia, fino ad aggirare un promontorio; da qui scorse una baia, i cui fianchi inclinavano dolcemente versa l'alto e avrebbero potuto essere facilmente scalati. La marea stava cominciando a ritornare e in poco tempo avrebbe ricoperto la spiaggia. Corum prese a correre. Raggiunse i declivi e si arrestò, ansimante. Si era salvato per tempo. Il mare aveva già coperto la maggior parte della spiaggia. Montò sulla cima del pendio e potè vedere la città. Era una città di cupole e di minareti che, alla luce
del sole, emanavano riflessi bianchi; ma osservandola più attentamente Corum si accorse che le torri e le cupole non erano bianche, ma ricoperte di variopinti mosaici. Non aveva mai visto nulla di simile. Valutò bene se evitare la città o avvicinarsi. Se gli abitanti fossero stati ospitali, egli avrebbe potuto chiedere aiuto e trovare un altro battello. Se si trattava di Mabden, non sarebbero certo stati ospitali. Si trattava dei Rhaga-da-Kheta di cui si faceva menzione nelle sue mappe? Tastò le sue tasche, ma le mappe erano andate perdute assieme al battello ed al magnetite. La disperazione si reimpossessò di lui. Si avviò in direzione della città. Corum aveva percorso meno di un miglio, quando avanzò verso di lui una strana cavalleria — guerrieri che montavano bestie screziate dal collo lungo, con corna arricciate e creste simili a quelle di una lucertola. Le loro sottili gambe, comunque, si muovevano con rapidità, e poco dopo Corum potè vedere che anche i guerrieri erano molto alti ed estremamente esili, con piccole teste rotonde e occhi rotondi. Non erano Mabden, però non somigliavano ad alcuna razza di cui egli avesse sentito parlare. Corum si fermò ed attese. Non c'era altro che potesse fare prima di aver scoperto se si trattasse di nemici o amici. Rapidamente, quegli uomini lo circondarono, scrutandolo attentamente coi loro grandi occhi sbarrati. Anche i loro nasi e le loro bocche erano rotonde, ed avevano un'espressione di sorpresa permanente. « Olanja ko? » disse uno di loro che indossava un elaborato mantello ed un copricapo fatto di piume luccicanti e impugnava una clava dalla sagoma di un artiglio di pesce gigante. « Olanja ko, drajer? » Corum, ricorrendo alla Bassa Lingua dei Vadhagh e dei Nhadragh, che era la lingua comune dei Mabden, rispose: « Non comprendo questa lingua. »
L'individuo dal mantello di piume raddrizzò il capo e chiuse la bocca. Gli altri guerrieri, tutti armati e vestiti, sebbene meno ricercatamente, allo stesso modo, mormorarono tra loro. Corum indicò approssimativamente la direzione sud. « Vengo dal mare. » Questa volta parlò nella Lingua Media, che avevano parlato i Vadhagh e Nhadragh, ma che i Mabden non conoscevano. Il cavaliere si chinò in avanti come se quei suoni gli fossero più familiari, ma poi scosse il capo, non capendo nemmeno una parola. « Olanja ko? » Corum scosse il capo. Il guerriero sembrò imbarazzato e si passò delicatamente le dita sulla guancia. Corum non seppe interpretare quel gesto. Il capo fece cenno ad uno del suo seguito. « Mor nafta! » L'uomo smontò da cavallo facendo cenno col suo braccio sottile a Corum di salire sulla bestia dal collo lungo. Con qualche difficoltà, Corum cercò di sistemarsi sulla stretta sella, provandone grande scomodità. « Hoj! » Il capo fece cenno ai suoi uomini e voltò la sua cavalcatura in direzione della città. « Hojala! » Le bestie trottarono, lasciandosi alle spalle il resto dei guerrieri, che si avviarono in città a piedi. La città era circondata da alte mura, decorate di disegni geometrici di mille colori. Vi penetrarono attraverso una porta alta e stretta, raggirarono una serie di muri, probabilmente progettati come semplice labirinto, e cominciarono a percorrere una grande strada, delimitata da alberi in fiore, che conduceva ad un palazzo, nel centro della città. Giunti alle porte del palazzo, smontarono tutti quanti; dei servi, esili ed alti al pari dei guerrieri, con le stesse rotonde facce sbalordite, portarono via le ca-
valcature. Corum fu condotto dalle porte, attraverso una scala di più di un centinaio di scalini, fino a un locale appartato ed isolato. Le raffigurazioni dei muri del palazzo erano meno ricche di colore, ma più raffinate di quelle sulle mura esterne della città. Abbondavano i colori oro, bianco ed azzurro pallido. Sebbene vagamente barbarici, la loro esecuzione era molto bella, e Corum ne rimase ammirato. Attraversarono il locale isolato e penetrarono in un cortile circondato da muri, al cui centro stava una fontana. Sotto un baldacchino era disposta una grande sedia con uno schienale affusolato. La sedia era in oro ed adorna di rubini. I guerrieri che scortavano Corum si arrestarono, e subito dopo, dall'interno fece la sua apparizione un individuo. Egli indossava un gigantesco copricapo di piume di pavone, un gran manto, anch'esso adorno di piume luccicanti ed una tunica di sottile tessuto d'oro. Prese posto sul trono. Questi era, dunque, il signore della città. Il capo dei guerrieri ed il suo monarca conversarono brevemente nella loro lingua, e Corum attese pazientemente, non volendo comportarsi assolutamente in un modo che quel popolo potesse giudicare scortese. Finalmente quelle due persone posero fine alla loro conversazione. Il monarca si rivolse a Corum. Sembrò che avesse parlato in parecchie diverse lingue, finché Corum gli sentì dire, con uno strano accento. « Siete di razza Mabden? » Era la vecchia lingua dei Nhadragh che Corum aveva imparato da bambino. « Non lo sono », egli rispose, scandendo le parole. « Ma non siete Nhedregh. » « No — Non lo sono — "Nhedregh". Conoscete quel popolo? » « Due di loro sono vissuti tra noi, alcuni secoli fa. A quale razza appartenete? »
« Ai Vadhagh. » Il re succhiò le labbra, facendole schioccare. « I nemici dei Nhedregh, vero? » « Non più adesso. » « Non più adesso? » Il re aggrottò le ciglia. « Tutti i Vadhagh, tranne me, sono morti », spiegò Corum. « E quelli che sono rimasti di quelli che voi chiamate Nhedregh sono diventati schiavi degenerati dei Mabden. » « Ma i Mabden sono barbari! » « Ora essi sono barbari molto potenti. » Il re annuì. « Così era scritto. » Egli studiò Corum da vicino. « Perché voi non siete morto? » « Ho scelto di non morire. » « Non avevate nessuna scelta se Arioch aveva deciso. » « Chi è "Arioch"? » « Il Dio. » « Quale Dio? » « Il Dio che governa i nostri destini. Il Duca Arioch delle Spade. » « Il Cavaliere delle Spade? » « Credo che egli sia conosciuto con quel nome nel lontano Sud. » Il re apparve allora profondamente turbato. Si leccò le labbra. « Io sono il re TemgolLep. Questa è la mia città, Arke. » Fece un cenno con la sua mano sottile. « Questo è il mio popolo, i Ragha-da-Kheta. Questa terra si chiama Khoolocrah. Anche noi presto moriremo. » « E perché mai? » « Questo è il tempo Mabden. Arioch decide. » Il re si strinse nelle sue esili spalle. « Arioch decide. Presto i Mabden verranno e ci distruggeranno. » « Evidentemente, potrete lottare contro di essi. » «No. Questo è il tempo Mabden. Arioch comanda. Egli lascia vivere ancora i Ragha-da-Kheta perché essi gli portano obbedienza, perché essi non
si oppongono ai suoi voleri. Ma presto noi moriremo. » Corum scosse la testa. « Non pensate che Arioch sia ingiusto a distruggervi così? » « Arioch decide. » A Corum venne in mente che quel popolo non era stato così fatalista una volta. Forse anch'esso attraversava un processo di degenerazione, voluto dal Cavaliere delle Spade. « Perché Arioch dovrebbe mai distruggere tutta la bellezza e la cultura che voi qui avete? » « Arioch decide. » Il re Temgol-Lep sembrava più familiare con il Cavaliere delle Spade ed i suoi piani di chiunque altro Corum avesse finora incontrato. Quella gente vivendo così vicina ai domini del Cavaliere forse lo aveva visto. « Arioch lo ha detto a voi personalmente? » « Egli ha parlato per bocca dei nostri saggi. » « E questi saggi, sono certi del volere di Arioch? » « Lo sono. » Corum sospirò. « Beh, io intendo resistere ai suoi piani, lo non li trovo simpatici! » Il re Temgol-Lep si calò il copricapo sugli occhi e tremò debolmente. I guerrieri lo guardarono nervosamente. Evidentemente si resero conto che il re era dispiaciuto. « Non voglio più parlare di Arioch », disse il re Temgol-Lep. « Ma in quanto nostro ospite noi dobbiamo trattenerti. Berrete un po' di vino con noi. » « Berrò un po' di vino. Grazie. » Corum avrebbe preferito incominciare con un po' di cibo, ma temeva ancora di arrecare offesa ai Ragha-da-Kheta, che avrebbero potuto aiutarlo per il battello di cui egli aveva bisogno. Il re si rivolse ad alcuni servi che erano in attesa in disparte, vicini alla porta d'ingresso. Si fecero avanti.
Subito dopo ritornarono con un vassoio su cui si trovavano un boccale d'oro e dei calici alti e sottili. Il re allungò una mano e prese il vassoio, appoggiandoselo sulle ginocchia. Con gesto grave e compreso, egli versò del vino nei bicchieri e ne porse a Corum. Corum tese la mano sinistra per ricevere il calice. La mano gli tremò. Corum si sforzò di controllarla, ma essa allontanò il bicchiere. Il re apparve spaventato e fece per parlare. La mano si allungò e le sue dita afferrarono la gola del sovrano. Il re Temgol-Lep emise gorgoglìi e suoni gutturali e recalcitrò, mentre Corum tentava di staccare la presa della mano di Kwll. Ma le dita tennero salda la presa. Corum sentì di togliere la vita al sovrano. Prima ancora di rendersi conto che i guerrieri stavano pensando che egli stesse attentando alla vita del re di sua propria volontà, Corum invocò aiuto. Indi i guerrieri mossero all'attacco armati delle loro bizzarre clave lavorate, ma Corum estrasse la spada, roteandosela intorno a difesa. I guerrieri erano assai poco preparati alla battaglia, perché le loro azioni risultarono goffe e senza adeguato coordinamento. Improvvisamente la mano di Kwll lasciò la presa e Corum si rese conto che il re Temgol-Lep era già morto. La sua nuova mano aveva assassinato una creatura gentile e innocente! Ed aveva rovinato le sue possibilità di ottenere aiuto dai Ragha-da-Kheta. Questi avrebbero potuto anche ucciderlo, essendo i guerrieri numerosissimi. Ritto sul corpo del re morto, Corum brandì la spada in ogni direzione, staccando arti dai corpi, mozzando teste. Il sangue schizzò da ogni dove e lo ricoprì in tutto il corpo, ma egli continuò a dibattersi. Indi, improvvisamente, non ci fu neppure un guer-
riero in vita. Egli si ritrovò nel cortile ad osservare tutti i cadaveri che aveva fatto, mentre in cielo splendeva un sole tiepido e la fontana mormorava con i suoi giochi d'acqua. Alzò la sua mano guantata estranea e le sputò sopra. « Oh, cosa malefica! Rhalina aveva ragione! Hai fatto di me un assassino! » Ma la mano era ancora sua, ed era incapace di movimenti autonomi. Piegò le sei dita. Era come un normalissimo arto. Nel cortile regnava il silenzio. Unico rumore quello dello zampillo della fontana. Corum guardò di nuovo il re morto e si sentì rabbrividire. Sollevò la spada. Avrebbe potuto staccare la Mano di Kwll e allontanarla da sé. Meglio monco che schiavo di una cosa talmente malefica. In quel momento si sentì mancare il terreno sotto i piedi; egli sprofondò verso il basso per cadere con uno schianto sul dorso di una bestia che gli sputava contro e cercava di agguantarlo.
Capitolo Terzo
ARRIVANO LE COSE OSCURE
Sprofondando, Corum si ritrovò per un attimo alla luce; ma subito dopo il pavimento si aprì ed egli cadde nell'oscurità assieme alla bestia che era alloggiata nella stalla sotto il cortile. Essa stava ringhiando in qualche angolo. Egli si preparò a difendersi da quell'animale. Il ringhio cessò e per un istante ci fu silenzio. Corum attese. Udì un rumore di passi strascicati. Vide una scintilla. La scintilla si fece fiamma. La fiamma proveniva da un lucignolo che ardeva su un vaso di argilla colmo d'olio. Il vaso d'argilla era sostenuto da una mano molto insudiciata. E la mano apparteneva a un individuo irsuto i cui occhi traboccavano di rabbia. « Chi siete? » domandò Corum. L'individuo si trascinò ancora per qualche passo e collocò la rozza lampada in una nicchia del muro. Corum si accorse che la stanza era ingombra di paglia sporca. C'erano una brocca e un piatto e, ad un'estremità, una pesante porta in ferro. Il posto emanava fetori di escrementi umani. « Mi capite? » Corum disse ancora in lingua Nhadragh.
« Smettetela di borbottare. » L'individuo parlò con tono distaccato, come se non si aspettasse che Corum comprendesse quanto egli stava dicendo. Aveva adoperato la Bassa Lingua. « Presto sarete come me. » Corani evitò di rispondere. Sguainò la spada e prese a passeggiare per la cella, ispezionandola. Sembrava non ci fosse alcuna via d'uscita. Sopra la sua testa sentì dei passi sul pavimento del cortile. Udì abbastanza chiaramente le voci dei Rhaga-da-Kheta. Apparivano agitati, quasi isterici. L'individuo che era nella stanza rizzò le orecchie per ascoltare. « Dunque questo è successo », egli disse pensoso, fissando Corum e ghignando. « Avete ucciso quel miserabile piccolo codardo, eh? Humm! Beh, la vostra presenza qui con me non mi irriterà tanto. Anche se starete qui per poco, temo. Mi domando in quale modo vi uccideranno... » Corum ascoltò in silenzio, evitando ancora di rivelare che egli aveva compreso le parole di quell'individuo. Egli udì il rumore dei cadaveri che, al piano soprastante, venivano trascinati via. Molte voci andavano e venivano. « In questo momento essi sono in imbarazzo », rise basso l'individuo. « Sono soltanto capaci di uccidere a tradimento. Cosa han cercato di farvi, amico mio, avvelenarvi? E' questo il sistema con cui abitualmente si sbarazzano di coloro di cui han paura. » Veleno? Corum aggrottò le ciglia. Il vino era avvelenato? Egli guardò la sua mano sinistra. Essa lo sapeva? Essa era in qualche modo sensibile? Decise di rompere il silenzio. « Chi siete? » domandò nella Bassa Lingua. L'individuo si mise a ridacchiare. « Mi capite dunque! Beh, dal momento che siete mio ospite, mi pare che dovreste rispondere per primo alle mie domande. Mi sembrate un Vadhagh, anche se ritene-
vo che tutti i Vadhagh si fossero estinti da un bel pezzo. Ditemi il nome vostro e del vostro popolo, amico. » Corum rispose, « Io sono Corum Jhaelen Irsei — il Principe dal Mantello Scarlatto. E sono l'ultimo dei Vadhagh. » « Ed io sono Hanafax di Pengarde, qualcosa come un soldato, qualcosa come un prete, qualcosa come un esploratore — e qualcosa come un povero disgraziato, come vedete. Vi porto il saluto da una terra chiamata Lywm-an-Esh — una terra lontana ad est da qui... » « Conosco Lywm-an-Esh. Sono stato ospite della Margravia dell'Est. » « Cosa? Il Margraviato esìste ancora? Avevo sentito dire che era stato spazzato via da un'inondazione marina molto tempo fa! » « Sarà stato distrutto adesso. Le Tribù Pony... » « Per Urleh! Le Tribù dei piccoli cavalli! E' qualcosa di passato alla storia. » « Come fate a trovarvi così lontano dalla vostra patria, signor Hanafax? » « E' una lunga storia, principe Corum. Arioch — così lo chiamano qui — non è benevolo col popolo di Lywm-an-Esh. Egli pretende che tutti i Mabden facciano il lavoro per lui — essenzialmente la riduzione delle vecchie razze, come la vostra. Come voi certamente sapete, il nostro popolo non aveva alcun interesse a distruggere quelle razze, per il semplice fatto che esse non gli avevano mai fatto nulla di male. Ma Urleh è una sorta di divinità vassalla del Cavaliere delle Spade. Era al servizio di Urleh che io ero come prete. Beh, sembra che Arioch si spazientisca e ordini a Urleh di imporre al popolo di Lywm-anEsh di imbarcarsi per una crociata, di dirigersi nel lontano oriente dove abita un popolo di mare. Questo popolo si compone soltanto di una cinquantina
di persone che vivono in un castello costruito nei coralli. Si chiamano Shalafen. Urleh mi trasmise l'ordine di Arioch. Io mi convinsi che si trattava di un falso ordine — proveniente da una altra divinità nemica di Urleh. La mia fortuna, che non era mai stata tra le migliori, allora mutò molto. Ci fu un assassinio. Ne fui incolpato. Rubai una nave ed abbandonai la mia patria. Dopo svariate e sofferte peripezie, approdai tra questo popolo piagnone che così pazientemente attende la distruzione da parte di Arioch. Tentai di unirli contro Arioch. Mi fu offerto del vino, che però rifiutai. Mi presero, allora, e condussero qui, dove mi trovo da parecchi mesi. » « Cosa faranno di voi? » « Non posso saperlo. Sperano che finalmente io muoia, suppongo. E' gente scriteriata ed anche un po' stupida, ma non crudele. Però il loro terrore di Arioch è talmente grande che essi non oserebbero fare alcunché che possa offendere il Cavaliere. Così essi sperano che egli consenta loro di vivere un anno o due ancora. » « E non sapete come si comporteranno con me? Dopo tutto ho ucciso il loro re. » « E' proprio quello che stavo prendendo in considerazione. Il veleno ha mancato il colpo. Essi sono assai riluttanti a far uso della violenza anche verso di noi. Non ci resta che vedere. » « Io ho una missione da compiere », Corum gli disse. « Non posso permettermi di aspettare. » Hanafax sorrise. « Penso proprio che dovrete attendere, amico Corum. Io sono qualcosa come un mago, ve l'ho detto. Conosco parecchi stratagemmi, ma in questo posto non ne funziona nessuno. Non mi spiego perché. E se la magia non può aiutarci, cosa possiamo? » Corum alzò la sua mano estranea e la fissò pensoso.
Indi scrutò la faccia pelosa del suo compagno di prigione. « Avete mai sentito parlare della Mano di Kwll? » Hanafax aggrottò le ciglia. « Ssì... Credo di sì. Tutto ciò che rimase di un Dio, uno di due fratelli che ebbe qualche specie di antagonismo... Certamente una leggenda, come tante — » Corum sollevò la sua mano sinistra. « Questa è la mano di Kwll. Mi è stata data da un mago, assieme a quest'occhio — l'occhio di Rhynn — e entrambi hanno grandi poteri, mi è stato detto. » « Voi non ne siete sicuro? » « Non ho avuto ancora il modo di provare. » Hanafax apparve turbato. « Però avrei pensato che siffatti poteri fossero troppo grandi per un mortale. Le conseguenze del loro uso potrebbero essere mostruose... » « Non credo di aver altra scelta. Ho deciso. Evocherò i poteri della Mano di Kwll e dell'Occhio di Rhynn! » « Spero che ricorderete loro che io sono al vostro fianco, principe Corum. » Corum sfilò il guanto dalla mano a sei dita. Egli stava rabbrividendo per la tensione. Poi sospinse la toppa che ricopriva l'occhio della fronte. Cominciò a vedere i piani più scuri. Vide di nuovo il paesaggio su cui brillava il sole nero. Vide di nuovo le quattro figure incappucciate. Questa volta, egli le fissò nel volto. Lanciò un urlo. Però non potè definire la ragione del suo terrore. Guardò di nuovo. La Mano di Kwll si tese verso le figure. Le loro teste si mossero non appena videro la mano. I loro terribili occhi sembrava gli portassero via tutto il calore dal corpo, tutta la vitalità dall'anima. Ma egli continuò a guardarle.
La Mano fece un cenno. Le figure nere si mossero verso Corum. Egli udì Hanafax dire: « Non vedo nulla. Cosa state evocando? Cosa vedete? » Corum lo ignorò. Egli stava sudando ed ogni suo arto, tranne la mano di Kwll, stava tremando. Da sotto i loro mantelli le quattro figure estrassero gigantesche falci. Corum mosse le labbra intorpidite. « Qui. Venite su questo piano. Obbeditemi. » I quattro si approssimarono e sembrarono passare attraverso una turbinosa cortina di vapore. Hanafax in quel momento urlò di terrore e disgusto. « Dei! Sono cose che vengono dalle Fosse del Cane Shefanhow! » Fece un balzo e si nascose dietro Corum. « Teneteli lontano da me, Vadhagh. » Cavernose voci emanarono da quelle strane bocche distorte: « Padrone. Faremo la tua volontà. Sarà fatta la volontà di Kwll. » « Distruggete quella porta! » Corum ordinò. « Avremo la nostra preda, padrone? » « Che preda volete? » « Una vita per ognuno di noi, Padrone. » Corum rabbrividì. « Ssì, d'accordo, avrete la vostra preda.» Le falci si levarono e la porta s'abbattè; le quattro figure, che erano veramente "Shefanhow", si fecero strada in uno stretto passaggio. « Il mio aquilone! » Hanafax bisbigliò a Corum. « Possiamo fuggire su quello. » « Un aquilone? » « Sì. Esso vola e può portarci entrambi. » Gli Shefanhow camminavano avanti. Da loro si irradiava una forza che raggelava la pelle. Salirono alcuni scalini ed un'altra porta fu infranta dalle falci degli incappucciati. Si ritrovarono alla luce.
Erano nel cortile principale del palazzo. Da ogni parte accorsero guerrieri. Questa volta non sembravano affatto riluttanti a uccidere Corum e Hanafax, ma si arrestarono alla vista dei quattro esseri incappucciati. « Ci sono le vostre prede », disse Corum. « Prendetene a sazietà e poi tornatevene donde siete venuti. » Le falci piroettarono sotto la luce del sole. I Rhaga-da-Kheta cadevano urlando. Le urla si fecero più strazianti. I quattro cominciarono a ridacchiare. Poi presero a ruggire. Poi ancora a cominciare a riecheggiare le urla delle loro vittime, man mano le loro falci si agitavano e le teste balzavano lontane dai loro corpi. Nauseati, Corum e Hanafax si precipitarono attraverso i corridoi del palazzo. Hanafax faceva strada; si fermarono davanti ad una porta. Da ogni dove s'udivano urla, ma le più orribili erano quelle dei quattro. Hanafax sospinse la porta aperta. Era buio all'interno. Cominciò a frugare nella stanza. « Mi trovavo qui quand'ero loro ospite. Prima che essi decidessero che io avevo offeso Arioch. Ero venuto qui col mio aquilone. Ora... » Corum si accorse di parecchi guerrieri che si precipitavano nei corridoi verso di loro. « Trovatelo al più presto, Hanafax » egli disse. Corse fuori a bloccare il corridoio brandendo la spada. Quegli esseri smilzi si arrestarono e guardarono la spada di Corum. Sollevarono le loro clavi e cominciarono cautamente ad avanzare. La spada di Corum si abbatté alla velocità di un bolide su quei guerrieri, sguarciando la gola di uno di essi. Egli si ritrovò in un groviglio di braccia e di gambe. Corum ne colpì un altro ad un occhio. In quel momento le urla si affievolirono. Gli scon-
ci alleati di Corum se ne stavano ritornando al proprio piano con le loro prede. Alle spalle di Corum, Hanafax stava sospingendo un insieme di bastoni e di seta. « Ce l'ho, Principe Corum. Datemi soltanto qualche istante per ricordarmi le formule magiche di cui ho bisogno. » I Rhaga-da-Kheta, piuttosto che essere terrorizzati dalla morte dei loro compagni, sembravano spronati con più ferocia alla lotta. Corum, parzialmente protetto da una piccola siepe di corpi trucidati, continuò a combattere. Hanafax cominciò a evocare qualcosa in una strana lingua. Corum avvertì il vento che si levava increspando il suo mantello scarlatto. Qualcosa lo afferrò alle spalle e lo fece alzare in volo, sulle teste dei Rhagada-Kheta, correndo per i corridoi fino all'aperto. Guardò sotto di sé nervosamente. La città scorreva veloce ai loro piedi. Hanafax lo sospinse in un box di seta gialla e verde. Corum fu certo che sarebbe caduto, ma l'aquilone resse. La figura lacera e trascurata che stava alle sue spalle gli stava sorridendo. « Dunque la volontà di Arioch può essere contrastata », disse Corum. « A meno che non siamo noi gli strumenti di essa », disse Hanafax, il sorriso smorzato.
Capitolo
Quarto
NELLE TERRE DEL FUOCO
Corum si adattò al volo, quantunque si sentisse a disagio. Hanafax mormorò qualcosa tra sé, mentre si tagliava i capelli e le basette fino a rivelare un volto bello e giovane. Evidentemente senza interesse, abbandonò i suoi cenci ed indossò una giubba pulita ed un paio di pantaloni, che aveva portato con sé in un fagotto. « Mi sento mille volte ringiovanito. Vi ringrazio, Principe Corum, per aver voluto visitare la città di Arke prima che io vi imputridissi del tutto! » Corum si era accorto che Hanafax non sopportava il suo atteggiamento introspettivo, ma era per natura sempre di buon umore. « Verso dove sta volando questa cosa che ci trasporta, signor Hanafax? » « Ah, qui è il problema », rispose Hanafax. « Ecco perché mi sono trovato in guai più seri di quanto abbia cercato. Io non posso — um — guidare l'aquilone. Esso vola dove vuole. » In quel momento si trovavano al di sopra del mare. Corum si strinse ai legni dell'aquilone e fissò gli occhi davanti a sé, mentre Hanafax cominciò a cantare qualcosa che non aveva nulla a che vedere con i canti a Arioch o al Dio Cane del popolo Mabden.
Corum vide qualcosa sotto di sé e disse seccamente: « Vorrei avvertirvi di dimenticare gli insulti ad Arioch. Sembra che stiamo volando sulla Scogliera delle Mille Leghe. Mi pare che il suo dominio sia al di là di essa. » « Una bella distanza, comunque. Spero che l'aquilone ci porti presto a terra. » Sempre in volo si avvicinarono alla costa. Corum aguzzò gli occhi per cercare di vederla. A volte essa sembrava esser fatta soltanto di acqua — una sorta di enorme mare interno — a volte l'acqua scompariva e si poteva vedere soltanto terra. Tutto si spostava in continuazione. « Quella è Urde, signor Hanafax? » « Dalla sua posizione, sembra che debba essere "Urde". Materia instabile, principe Corum, creata dai Signori del Caos. » « I Signori del Caos? Non ho mai sentito quel termine prima. » « Davvero? Beh, è la loro volontà che ci governa. Arioch è uno di loro. Molto tempo fa ci fu una guerra tra le forze dell'Ordine e le forze del Caos. Le forze del Caos vinsero e giunsero a dominare i Quindici Piani e, per quanto mi è dato di sapere, molto di quello che sta al di là di essi. Qualcuno dice che l'Ordine fu disfatto completamente e che i suoi Dei svanirono. Si dice che la Bilancia Cosmica si spostò troppo in una direzione e che perciò tanti avvenimenti arbitrari stanno verificandosi nel mondo. Si dice che una volta il mondo era rotondo anziché appiattito. E' dura da accettare, ne convengo. » « Alcune leggende Vadhagh dicono che esso era rotondo.» « Già. Beh, i Vadhagh iniziarono la loro ascesa appena prima che l'Ordine venisse bandito. Ecco perché i Signori della Spada odiano tanto le vecchie razze. Esse non sono affatto loro creazioni. Ma
i Grandi Dei non possono permettersi di interferire troppo direttamente nelle questioni dei mortali, così che essi sono intervenuti attraverso i Mabden, principalmente... » « E questa è la verità? » « Questa è una verità », Hanafax si strinse nelle spalle. « Conosco altre versioni dello stesso racconto. Ma sono propenso a credere a questa. » « Questi Grandi Dei — vi riferite ai Signori della Spada? » « Sì, ai Signori della Spada ed altri. Ci sono poi i Grandi Vecchi Dei, per i quali le miriadi di piani della Terra sono semplicemente un esiguo frammento in un grande mosaico. » Hanafax si strinse nelle spalle. « Questa è la cosmologia che io insegnavo da prete. La verità di essa non posso garantirla. » Corum aggrottò le ciglia. Guardò in basso e questa volta vide che stavano volando sopra un deserto nero e ventoso. Era il deserto chiamato Dhroonhazat e sembrava del tutto privo di acqua. Per un accidente del destino egli stava per essere condotto verso il Cavaliere delle Spade prima di quanto si sarebbe mai aspettato. Ma era un accidente del destino? Il caldo si faceva sempre maggiore e la sabbia sottostante mandava bagliori e turbinava. Hanafax leccò le labbra. « Stiamo portandoci pericolosamente vicini alle Terre del Fuoco, principe Corum. Guardate. » Corum vide all'orizzonte una esile luce rossa tremolante. Il cielo sfumava di rosso. L'aquilone si avvicinava ed il calore aumentava. Sbalordito, Corum si rese conto che stavano volando verso una parete di fiamme che si estendeva a perdita d'occhio in entrambe le direzioni. « Hanafax, saremo arsi vivi », egli disse sommessamente. « Già, sembra proprio così. »
« Non c'è verso di far tornare indietro questo vostro aquilone? » « Ho tentato in passato. Non è la prima volta che mi cava da un pericolo per cacciarmi in uno peggiore... » Il muro di fuoco era ormai così vicino che Corum potè sentire la sua faccia che bruciava per il calore diretto. Udì il rumoreggiare e crepitare delle fiamme, che sembrava non si alimentassero che di aria. « Una simile cosa è una sfida alla natura! » egli ansimò. « Mi pare che sia un'ottima definizione di ogni magia! » disse Hanafax. « Questo è il lavoro dei Signori del Caos. La dissoluzione dell'armonia naturale è, dopo tutto, il loro piacere. » « Ah, questa magia! Mi affatica il cervello. Non riesco ad afferrarne la logica. » « Per il semplice fatto che non ne ha nessuna. E' arbitrario. I Signori del Caos sono nemici della Logica, coloro che capovolgono la verità, i distruttori della bellezza. Sarei sorpreso se le Terre del Fuoco non le avessero create per un qualche impulso estetico. La bellezza — una bellezza in perenne cambiamento —è tutto ciò per cui essi vivono. » « Una bellezza malefica. » « Io credo che siffatte nozioni quali il "bene" o il "male" non esistono per i Signori del Caos. » « Vorrei farle esistere per loro. » Corum si asciugò la fronte bagnata con una manica della tunica. « E distruggere tutta la loro bellezza? » Corum lanciò uno sguardo interrogativo ad Hanafax. Il Mabden era forse dalla parte del Cavaliere? Aveva egli forse intrappolato Corum per condurlo da lui? « Ci sono altri più tranquilli generi di verità, signor Hanafax. » « Certo. »
Sotto di loro le fiamme emettevano boati e si levavano verso il cielo. L'aquilone cominciò ad alzarsi di quota e la sua seta a surriscaldarsi. Corum avvertì la certezza che da lì a poco l'aquilone sarebbe stato distrutto dalle fiamme e i suoi passeggeri sarebbero sprofondati nel baratro sottostante. In quel momento stavano volando proprio sopra il muro di fiamme, e da lì, nonostante un improvviso principio d'incendio della seta e la sensazione di Corum di dover arrostirsi nella sua armatura, come una tartaruga nella sua conchiglia, si poteva vedere l'altra estremità del muro. Un pezzo dell'aquilone volò via fiammeggiando. Hanafax, la faccia rossa di fuoco, il corpo grondante di sudore, si afferrò ad una trave e ansimò, « Afferratevi a un sostegno, principe Corum! Afferratevi ad un sostegno! » Corum si afferrò ad una delle travi su cui era appoggiato, mentre la seta s'era strappata dalla struttura e svolazzava in fiamme verso il fuoco sottostante. L'aquilone perse quota e minacciò di seguire la seta. Continuò a perdere quota con rapidità. Corum tossiva per l'aria ardente che gli entrava nei polmoni. Sulla sua mano destra spuntarono delle pustole, mentre la sinistra sembrava del tutto immune. L'aquilone barcollò e cominciò a cadere. Durante la folle discesa, Corum si lanciò in avanti, pur tentando di mantenere la presa della trave. Ci fu poi uno schianto e un terribile tonfo, ed egli giacque fra i rottami dell'aquilone su una superficie di ossidiana liscia, con alle spalle il muro di fiamme. Alzò il corpo ammaccato. C'era ancora il calore insopportabile e le fiamme schioppettavano dietro di lui, levandosi in aria per una diecina di metri. La roccia quasi incandescente su cui poggiava era verde e brillante e rifletteva i bagliori del fuoco, sembrando che si contorcesse sotto ai suoi piedi. Sulla sua sinistra, a
poca distanza, scorreva lentamente un fiume di lava incandescente, con un po' di fiamme che si levavano dalla sua superficie. Ovunque Coruna volgesse lo sguardo era sempre lo stesso paesaggio di roccia che emetteva bagliori, gli stessi fiumi rossi di fuoco. Ispezionò l'aquilone. Esso era completamente impraticabile. Accanto a quello che restava di esso, Hanafax giaceva per terra e lo malediceva. Si alzò. « Beh », diede un calcio alla struttura fracassata ed annerita, « non mi caccerai mai più in nessun pericolo! » « Penso che questo pericolo è tutto quanto basta », disse Corum. « Potrebbe essere l'ultimo al quale facciami fronte. » Hanafax sollevò la cintura della sua spada dai rottami e se l'allacciò intorno alla vita. Trovò anche un mantello bruciacchiato e se lo mise addosso per proteggersi le spalle. « Eh, penso che sarebbe meglio dircela la verità, principe Corum. Un posto miserabile per trovarvi la propria fine, no? » « Secondo alcune leggende Mabden », Corum disse, « avremmo già dovuto incontrare qui la nostra fine. Non è detto che certi mondi del nulla Mabden sono fatti di fuoco eterno? » Hanafax sbuffò. « All'est, forse. Beh, non possiamo tornare indietro, dunque suppongo che dobbiamo andare avanti. » « Mi è stato detto che verso nord si estende la Landa di Ghiaccio », fece Corum. « Ma non capisco come non debba fondere così vicina alle Terre del Fuoco. » « Un altro artifìcio dei Signori del Caos. » « Senza dubbio. » Iniziarono a avanzare sulla roccia viscida che bruciava ad ogni passo i loro piedi, lasciandosi alle spalle il muro di fiamme, saltando sopra rivoletti di lava, muovendosi così lentamente e guardinghi che fu-
rono presto esausti. Si riposarono, voltandosi a guardare la lontana parete di fuoco, e asciugarono i loro volti, scambiandosi sguardi scoraggiati. La sete li tormentava e le loro voci erano fioche. « Penso che siamo perduti, principe Corum. » Corum annuì stancamente. Sollevò lo sguardo al cielo. Su di loro gorgogliavano nuvole rosse, simili a cupole di fuoco. Sembrava che ogni cosa bruciasse. « Non avete qualche formula magica per scatenare la pioggia, signor Hanafax? » « Purtroppo no. Noi preti disdegniamo siffatti espedienti primitivi. » « Utili espedienti. I maghi sembrano avere soltanto il gusto dello spettacolare. » « Temo proprio che sia così. » Hanafax sospirò. « E i vostri poteri? Non potete », egli fremette, « evocare qualche sorta di aiuto da quel nulla donde vennero quei vostri orribili alleati? » « Temo che quegli alleati siano soltanto utili in battaglia. Non so esattamente cosa essi siano o perché essi vengano. Sono giunto a credere che il mago stesso che mi ha adattato questa mano e quest'occhio non avesse, neanche lui, un'idea più chiara. Il suo lavoro è stato qualcosa di sperimentale, sembra. » « Avete notato che il sole sembra non tramonti mai nelle Terre del Fuoco. Non possiamo aspettarci nemmeno la notte che ci arrechi sollievo. » Corum stava per rispondere quando vide qualcosa che si muoveva su una sporgenza della distesa di ossidiana nera, a breve distanza da loro. « State zitto, signor Hanafax... » Hanafax scrutò attraverso la cortina di vapore dovuta al caldo. « Che cos'è? » Poi si potè vedere. Ce n'erano una ventina all'incirca, a cavallo di bestie ricoperte da una densa pelle squamosa somigliante ad un'armatura metallica. Gli animali avevano quat-
tro zampe corte e piedi spaccati, un groviglio di corna protese sulla testa, e piccoli occhi rossi che luccicavano nella loro direzione. I cavalieri erano coperti dalla testa ai piedi in mantelli rossi, fatti di un qualche materiale luccicante, che nascondeva anche le loro facce e le loro mani. Per armi avevano lunghe lance dentate. In silenzio, i cavalieri circondarono Corum e Hanafax. Per qualche istante ci fu silenzio, indi uno dei cavalieri parlò. « Cosa fate nelle nostre Terre del Fuoco, stranieri? » « Non siamo qui per nostra volontà », rispose Corum. « Un accidente ci ha condotti alla vostra terra. Abbiamo intenzioni pacifiche. » « Non avete intenzioni pacifiche. Voi portate spade. » « Non sapevamo che ci fossero abitanti in questa terra », disse Hanafax. « Noi cerchiamo aiuto. Vogliamo andarcene. » « Nessuno può lasciare le Terre del Fuoco senza subire un funesto destino. » La voce era sonora ed anche triste. « C'è soltanto una via d'uscita ed è attraverso la Bocca del Leone. » « Voi non potete...? » I cavalieri cominciarono ad avvicinarsi. Corum ed Hanafax estrassero le loro spade. « Beh, principe Corum, sembra che non avremo scampo. » La faccia di Corum si fece feroce. Spostò la benda dall'occhio. Per un attimo la sua visione s'offuscò, ma subito dopo vide ancora una volta quel mondo del nulla. Si chiese per un istante se non fosse meglio morire per mano degli abitanti delle Terre del Fuoco, ma in quel momento stava guardando in una caverna su cui giacevano come ghiacciati degli individui alti di statura. Con uno shock Corum li riconobbe come i guer-
rieri morti dei Rhaga-da-Kheta, le loro ferite non più sanguinanti, i loro occhi attoniti e sbarrati, i loro vestiti e le loro armature lacerati, le armi ancora in mano. Appena egli tese la mano sinistra per chiamarli, essi cominciarono a muoversi verso di lui. « NO! Anche questi sono miei nemici! » urlò. Hanafax, impossibilitato a vedere ciò che Corum vedeva, voltò il capo sbalordito. I guerrieri morti avanzarono. La scena dietro di loro svanì. Si materializzarono sulla roccia di ossidiana delle Terre del Fuoco. Corum indietreggiò, gesticolando ferocemente. I guerrieri delle Terre del Fuoco trascinarono le loro cavalcature e si fermarono, sorpresi. Il volto di Hanafax era una maschera di paura. « No! Io... » Dalle labbra del defunto re Temgol-Lep emanò una voce sussurrante. « Noi vi serviamo, Padrone. Ci darete le nostre prede? » Corum si autocontrollò. Lentamente annuì. « Sì. Potete prendere le vostre prede. » I guerrieri dagli arti lunghi si voltarono in direzione dei guerrieri delle Terre del Fuoco. Le bestie sbuffarono e cercarono di indietreggiare, ma furono costrette a tener fermo dai loro cavalieri. C'erano all'incirca una cinquantina di Rhaga-da-Kheta. Divisi a gruppi di due o tre, brandendo le loro clave affilate, essi si scagliarono sugli individui a cavallo. Le lance appuntite si alzarono e ferirono i Rhagada-Kheta. Molti di essi furono colpiti, ma questo fatto non li scoraggiò. Cominciarono a disarcionare i cavalieri che combattevano dalle loro cavalcature. Corum osservava, il volto pallido. Comprese che stava consegnando i guerrieri delle Terre del Fuoco allo stesso regno del nulla dal quale egli aveva evocato i Rhaga-da-Kheta. E che era stata la sua azione a spedire, prima, nello stesso posto i Rhaga-da-Kheta.
Sulle rocce scintillanti, su cui scorrevano fiumi di lava rossa, l'orrenda battaglia continuò. I colpi di clava strapparono i mantelli ed i cappucci di dosso ai cavalieri, mettendo in mostra gente i cui volti erano familiari. « Basta! » urlò Corum. « Basta! Questo è abbastanza. Non uccidete più nessuno! » Temgol-Lep voltò i suoi occhi sbarrati verso Corum. Il defunto re aveva una lancia appuntita conficcata completamente nel corpo, ma sembrava noncurante e inconsapevole del fatto. Le sue morte labbra si mossero. « Queste sono nostre prede, Padrone. Non possiamo fermarci. » « Ma essi sono Vadhagh! Essi sono come me! Essi sono il mio stesso popolo! » Hanafax poggiò una mano sulle spalle di Corum. « Ormai sono morti tutti, principe Corum. » Singhiozzando, Corum si precipitò verso i cadaveri, osservandone i volti. Essi avevano lo stesso cranio allungato, gli stessi grandi occhi a mandorla, le stesse orecchie affusolate. « Come son finiti qui i Vadhagh? » mormorò Hanafax. In quel momento Temgol-Lep stava trascinando via uno dei cadaveri, aiutato da uno del suo seguito. Le bestie squamate si dispersero, alcune di loro finendo noncuranti nella lava. Con l'Occhio di Rhynn, Corum vide i Rhagada-Kheta sospingere le salme nella loro caverna. Con un brivido calò la benda sull'occhio. Tranne qualche arma e qualche brandello di armatura e vestito, tranne le cavalcature scomparse, nulla più rimaneva dei Vadhagh delle Terre del Fuoco. « Ho annientato il mio stesso popolo! » Corum urlò. « L'ho consegnato ad un terribile destino in quel mondo del nulla. »
« La magia ha il modo di ritorcersi contro chi la usa », Hanafax disse quietamente. « E' un potere arbitrario, come vi ho già detto. » Corum roteò su Hanafax. « Chiudete il becco, Mabden! Voi, non vi rendete conto di quello che ho fatto? » Hanafax annuì immediatamente. « Sì. Ma è fatto, no? Le nostre vite sono salve. » « Ho aggiunto il fratricidio ai miei crimini. » Corum si prostrò in ginocchio, lasciando cadere la spada sulla roccia. E pianse. « Chi piange? » Era una voce femminile. Una voce triste. « Chi piange per Cira-an-Venl, le Terre che ora son fiamme? Chi ricorda le sue dolci praterie e le sue ridenti colline? » Corum sollevò il capo e si alzò in piedi. Hanafax stava già fissando l'apparizione sulla roccia che li sovrastava. « Chi piange qui? » La donna era vecchia. Il suo bel volto era bianco e severo e segnato. I suoi capelli grigi svolazzavano intorno a lei che indossava un mantello rosso, simile a quello indossato dai guerrieri, e cavalcava una bestia simile. Era una donna Vadhagh, una donna molto fragile. Dove una volta c'erano i suoi occhi, adesso c'erano due bianche fosse di colore. « Io sono Corum Jhaelen Irsei, Signora. Perché siete cieca? » « Sono cieca per mia scelta. Piuttosto che assistere a quello che la mia terra è diventata, ho preferito strapparmi gli occhi dalla testa. Io sono Ooresé di Cira-an-Venl ed il mio popolo si componeva di venti persone. » Le labbra di Corum rinsecchirono. « Ho trucidato io il vostro popolo, Signora. Ecco perché piango. »
La sua faccia non si alterò. « Esso era condannato a morire », ella disse. « E' meglio che siano morti. Vi ringrazio, Straniero, per averli liberati. Forse potreste preoccuparvi di liberare anche me. Io vivo soltanto perché la memoria di Cira-an-Venl possa vivere. » Fece una pausa. « Perché usate un nome Vedragh? » « Io appartengo ai Vadhagh — i Vedragh, come voi li chiamate — Sono originario delle terre molto a sud. » « Dunque i Vedragh andarono a sud. Ed è dolce la loro terra? » « E' molto dolce la loro terra. » « Ed il vostro popolo è felice, principe Corum dal Mantello Scarlatto? » « Esso è morto, Regina Ooresé. Esso è morto. » « Tutti morti, dunque, ormai? Eccetto voi? » « Ed eccetto voi stessa, mia regina. » Un sorriso toccò le sue labbra. « Egli disse che dovevamo morire tutti, ovunque fossimo, su qualunque piano ci trovassimo ad esistere. Ma ci fu un'altra profezia — morendo noi, la stessa sorte sarà la sua. Egli preferisce ignorarlo, come mi ricordo. » « Chi ha detto questo, signora? » « Il Cavaliere delle Spade. Il Duca Arioch del Caos. Quegli che ha ereditato come sua parte questi cinque piani, nella battaglia che molto tempo fa si svolse tra Ordine e Caos. Colui che venne qui e volle queste viscide rocce sulle nostre ridenti colline, questa lava incandescente che scorre sui nostri meravigliosi fiumi e ruscelli, quelle fiamme che si sprigionano dove un tempo erano le nostre verdi foreste. Il Duca Arioch fece quella predizione, principe. Ma, prima di partirsene per il luogo del suo esilio, il Signore Arkyn ne fece un'altra. » « Il Signore Arkyn? » « Il Signore della Legge che governava qui pri-
ma che Arioch lo spodestasse. Egli disse che distruggendo le vecchie razze, Arioch avrebbe distrutto il suo stesso potere sui cinque piani. » « Un desiderio ammirevole », mormorò Hanafax, « ma io dubito che sia vero. » « Forse voi volete ingannare voi stesso con felici menzogne, voi che parlate con l'accento del Mabden. Ma voi non sapete quel che noi sappiamo, perché voi siete i figli di Arioch. » Hanafax si avvicinò. « Suoi figli potremo essere, Regina Ooresé, ma schiavi suoi non lo siamo. Se mi trovo qui è perché ho contrastato la volontà di Arioch. » Ella sorrise di nuovo col suo sorriso triste. « Ed alcuni dicono che il funesto destino dei Vedragh sia stato opera di loro stessi. Essi combatterono i Nhadragh e così sfidarono l'ordine delle cose del Dio Arkyn. » « Gli Dei sono vendicativi », mormorò Hanafax. « Ma anch'io sono vendicativa, signore Mabden », disse la regina. « Perché abbiamo ucciso i vostri guerrieri? » Ella fece un gesto con la propria mano in segno di noncuranza. « No. Essi vi hanno attaccato. Voi vi siete difesi. Ecco come stan le cose. Parlo del Duca di Arioch e dei suoi capricci — i capricci che hanno trasformato una terra bellissima in un deserto di fiamme eterne. » « Vi vorreste vendicare del Duca di Arioch, dunque? » disse Corum. « Il mio popolo una volta contava centinaia di uomini. Li ho mandati l'uno dopo l'altro attraverso la Bocca del Leone a distruggere il Cavaliere delle Spade. Nessuno ci è riuscito. Nessuno di loro è ritornato. » « Qual è la Bocca del Leone? » domandò Hanafax. « Abbiamo sentito dire che è la sola via d'uscita dalle Terre del Fuoco. »
« Lo è. E non lo è affatto. Coloro che riescono a superare il passaggio attraverso la Bocca del Leone, non riescono a sopravvivere al di là di essa — il palazzo del Duca di Arioch stesso. » « Nessuno può sopravvivere? » Il volto della Regina Cieca si diresse verso il cielo arrossato. « Soltanto un grande eroe, Principe dal Mantello Scarlatto. Soltanto un grande eroe. » « Un tempo i Vadhagh non credevano negli eroi e simili », Corum disse con amarezza. Ella annuì. « Ricordo. Ma allora essi non avevano bisogno di credenze di questo genere. » Corum tacque per un istante. Indi disse: « Dove si trova la Bocca del Leone, Regina? » « Vi ci porterò, Principe Corum. »
Capitolo
Quinto
ATTRAVERSO LA BOCCA DEL LEONE
La regina offrì loro da bere l'acqua di una borraccia appesa dietro la sua sella; fece un richiamo a due di quelle bestie che si trascinavano pesantemente, perché Corum e Hanafax vi cavalcassero. Essi montarono sugli animali, afferrarono le redini, e cominciarono a seguirla sui lastroni neri e verdi di ossidiana. Per quanto cieca, ella guidava il suo animale con estrema abilità, parlando tutto il tempo di ciò che c'era stato in un posto, di ciò che era accaduto in un altro, come se ricordasse ogni albero ed ogni fiore che erano una volta cresciuti sulla sua terra desolata. Dopo un buon lasso di tempo ella si fermò ed indicò davanti a sé. « Cosa vedete? » Corum aguzzò lo sguardo attraverso le volute di fumo. « Sembra una grande roccia... » « Ci avvicineremo di più », ella disse. Avvicinandosi, Corum cominciò a distinguere di che si trattava. Era, in effetti, una roccia gigantesca. Una roccia di pietra levigata e lucente che splendeva come oro colato. Essa aveva la forma, con la perfezione dei dettagli, di una testa di un enorme leone con le fauci munite di acute zanne spalancate in un ruggito. « Per gli Dei! Chi ha fatto una tal cosa? » mormorò Hanafax.
« E' una creazione di Arioch », disse la regina Ooresé. « Un tempo qui si estendeva la nostra pacifica città. Ora viviamo — vivevamo — in caverne sotterranee dove scorre l'acqua ed è un po' più fresco. » Corum fissò l'enorme testa del leone e quindi guardò la regina Ooresé. « Quanti anni avete, regina? » « Non lo so. Il tempo non esiste nelle Terre del Fuoco. Forse diecimila anni. » Molto distante si levava un altro muro di fiamme. Ooresé fece qualche commento. « Siamo circondati dalle fiamme da ogni parte. Quando Arioch creò tutto ciò, in un primo tempo molti si gettarono volontariamente tra le fiamme piuttosto che sopportare la vista di quello che era diventata la loro terra. Mio marito morì così. E similmente perirono i miei fratelli e tutte le mie sorelle. » Corum si accorse che Hanafax non era così loquace come di consueto. Teneva il capo chino e di tanto in tanto se lo sfregava come fosse perplesso. « Che c'è, amico Hanafax? » « Nulla, principe Corum. Un dolore al capo. Senza dubbio è colpa del caldo. » Allora un singolare suono lamentoso giunse alle loro orecchie. Hanafax sollevò lo sguardo, con gli occhi dilatati senza capire. « Cos'è? » « E' il verso del leone », disse la regina. « Egli sa che noi ci avviciniamo. » Allora Hanafax emise un suono simile a quello di un cane che imita l'ululato di un altro cane. « Hanafax, amico mio! » Corum condusse il suo animale vicino a quello dell'altro. « Ti senti male? » Hanafax lo fissò con espressione incerta. « No. Te l'ho detto, il caldo... » La sua faccia si contorse. « Aah! Che dolore! Non voglio! Non voglio! » Corum si volse verso la regina Ooresé. « Avete mai visto prima una cosa del genere? » Ella aggrottò le ciglia, in un atteggiamento penso-
so, più che interessato, a Hanafax. « No », disse ella infine. « A meno che... » « Arioch! Non voglio! » Hanafax cominciò a respirare affannosamente. Allora la mano posticcia di Corum si sollevò dalla sella dove reggeva le redini. Corum cercò di controllarla, ma essa si gettò diritta verso la faccia di Hanafax. Le sue dita si allargarono. Si conficcarono negli occhi del Mabden. Penetrarono nella testa immergendosi profondamente nel cervello. Hanafax urlò. « No, Corum, pietà non... posso combatterlo... aaaah! » La Mano di Kwll si ritirò, le dita stillanti del sangue e delle cervella di Hanafax, mentre il corpo senza vita del Mabden scivolò dalla sella. « Cosa succede? » chiese la regina Ooresé. Corum guardò fisso la sua mano prodigiosa, tornata sotto il suo controllo. « Non è nulla », mormorò. « Ho ucciso il mio amico. » Egli alzò improvvisamente lo sguardo. Sopra di lui, su una collina, credette di scorgere il contorno di una figura che lo spiava. Ma poi il fumo invase la visuale e non potè più vedere nulla. « Così anche voi sospettavate ciò che io sospettavo, Principe dal Mantello Scarlatto », disse la regina. « Io non sospettavo alcunché. Ho ucciso il mio amico, questo è tutto quello che so. Egli mi aiutava. Mi mostrava... » Corum deglutì con difficoltà. « Era soltanto un Mabden, Principe Corum. Soltanto un Mabden schiavo di Arioch. » « Egli odiava Arioch! » « Ma Arioch lo trovò e penetrò in lui. Avrebbe cercato di ucciderci. Avete fatto bene a eliminarlo. Vi avrebbe tradito, principe. » Corum la fissò con espressione meditabonda. « Avrei dovuto lasciare che mi uccidesse. Per quale ragione dovrei continuare a vivere? »
« Perché siete un Vedragh. L'ultimo dei Vedragh che possa vendicare la nostra razza. » « Che restino invendicati! Troppi crimini sono stati commessi per portare a termine questa vendetta! Troppi sventurati hanno subito una sorte terribile! Sarà ricordato con amore il nome dei Vadhagh — o mormorato con odio? » « E' già pronunciato con odio. Arioch ha provveduto a ciò. Lì c'è la Bocca del Leone. Addio, Principe dal Mantello Scarlatto! » E la regina Ooresé spronò il suo animale al galoppo e scomparve dietro la grande roccia, dirigendosi verso l'enorme muro di fiamme in lontananza. Corum sapeva ciò che ella avrebbe fatto. Guardò il corpo di Hanafax. L'allegro compagno non avrebbe più sorriso e la sua anima si trovava ora senza dubbio a soffrire secondo il capriccio di Arioch. Egli fu di nuovo solo. Rabbrividì singhiozzando. Ancora una volta dalla Bocca del Leone uscì quello strano suono lamentoso. Sembrava chiamarlo. Egli scrollò le spalle. Cosa importava se egli moriva? Ciò avrebbe significato che nessuno sarebbe più morto per causa sua. Lentamente, cominciò a dirigersi verso la Bocca del Leone. Mentre si accostava, cominciò ad aumentare la velocità, e poi, con un grido, si tuffò attraverso le fauci spalancate nell'oscurità da cui provenivano i suoni lamentosi! Il suo animale incespicò, scivolò, cadde. Corum fu gettato a terra, si rialzò, cercò a tentoni di riafferrare le redini. Ma l'animale si era voltato e già galoppava indietro verso la luce del giorno che balenava rossa e gialla all'entrata. Per un istante la decisione di Corum si raffreddò ed egli pensò di seguirlo. Poi si ricordò della faccia di
Hanafax morto e si volse iniziando ad avanzare faticosamente nell'oscurità sempre più fitta. Continuò a camminare per un lungo tratto dentro la Bocca del Leone, dove era fresco, e si chiese se ciò che aveva detto la regina Ooresé non era null'altro che superstizione, visto che l'interno sembrava essere soltanto una grande caverna. Poi cominciò ad udire dei mormorii. Pensò di scorgere degli occhi che lo osservavano. Occhi di accusa? No. Semplicemente malevoli, fistrasse la spada. Si fermò, guardandosi intorno. Fece un altro passo innanzi. Egli si trovò in un nulla vorticoso. Dei colori balenavano dietro di lui, qualcosa urlava; la sua testa fu frastornata dalle risate. Tentò di muovere ancora un passo. Si trovò su un piano di cristallo e, incastonati in esso sotto i suoi piedi, c'erano milioni di esseri — Vadhagh, Nhadragh, Mabden, Rhaga-da-Kheta, e molti altri che non fu in grado di riconoscere. C'erano maschi e femmine e tutti avevano gli occhi aperti; tutti avevano le facce premute contro il cristallo; tutti stendevano le mani come in cerca d'aiuto. Tutti lo fissavano. Tentò di infrangere il cristallo con la sua spada, ma non si ruppe. Avanzò. Vide tutti i Cinque Piani, l'uno sovrapposto all'altro, come li aveva potuti vedere da piccolo — come li avevano visti i suoi antenati. Egli si trovò in un canyon, in una foresta, in una vallata, in un campo, in un'altra foresta. Fece per muoversi in un piano determinato, ma fu bloccato. Cose che strillavano si gettarono su di lui beccandogli la carne. Egli le cacciò via con la spada. Svanirono. Stava attraversando un ponte di ghiaccio. Il ghiaccio si stava sciogliendo. Cose mostruose, provviste di
zanne, lo aspettavano di sotto. Il ghiaccio si ruppe. Egli scivolò. Cadde. Cadde in un vortice di liquido ribollente che, dopo averle create, distruggeva istantaneamente delle forme. Vide intere città create ed annullate immediatamente dopo. Vide delle creature, alcune stupende, alcune orribili e disgustose. Vide delle cose che lo muovevano all'amore ed altre all'odio. Egli si trovò di nuovo nell'oscurità della grande caverna, dove delle cose ridacchiavano e sbattevano scostandosi al suo passaggio. Corum si accorse che qualunque altra persona che non avesse sperimentato gli orrori e le atrocità che lui aveva subito, sarebbe certamente impazzita in una situazione del genere. Egli aveva ottenuto da Shool il mago, oltre all'Occhio di Rhynn e la Mano di Kwll, anche qualcos'altro. Aveva ricevuto la capacità di affrontare la più terribile apparizione e rimanere del tutto impassibile. Ma ciò, egli pensò, significava pure che aveva perso qualcosa... Egli mosse un altro passo. Egli si trovò ora immerso fino al ginocchio in un viscido carname che non aveva forma definita eppure viveva. La cosa cominciò a inghiottirlo. Egli si difese roteando la spada intorno a sé. Restò immerso fino alla vita. Cercò affannosamente di sfuggire a quella liquida materia. Si ritrovò sotto una cupola di ghiaccio ed insieme a lui c'erano milioni di Corum. Eccolo, innocente e allegro prima della venuta dei Mabden, eccolo cupo ed addolorato, con l'occhio incastonato di perle e la sua mano assassina, eccolo che moriva... Fece ancora un passo. Fu inondato di sangue. Tentò di rimettersi in piedi. Sorsero dalla materia le sudice teste di alcuni rettili che cercarono di serrare le fauci sulla sua faccia.
L'istinto gli suggeriva di tornare indietro. Ma avanzò verso di essi. Si trovò in un tunnel di oro e d'argento. Alla sua fine si trovava una porta e dietro di essa potè sentire dei movimenti. Con la spada in mano, la varcò. Strane, disperate risate riempivano l'immensa galleria in cui si trovava. Seppe di essere giunto alla Corte del Cavaliere delle Spade.
Capitolo Sesto IL BANCHETTO DEL DIO
Corum si sentì rimpicciolito dall'enormità del salone. Improvvisamente considerò le sue passate avventure, le sue emozioni, i suoi desideri, le sue colpe come assolutamente illogici e privi di forza. Questo stato d'animo si esasperò per il fatto che egli si era aspettato di dover confrontarsi con Arioch appena avesse raggiunto la sua corte. Ma Corum era entrato nel palazzo senza essere assolutamente notato. La risata proveniva da una galleria situata molto in alto, dove due demoni coperti di squame, con lunghe corna e code ancora più lunghe, stavano duellando. Mentre combattevano ridevano entrambi, nonostante sembrasse chiaro che erano vicini a morire. Sembrava che l'attenzione di Arioch fosse concentrata su questo combattimento. Il Cavaliere delle Spade — il Duca del Caos — giaceva su un mucchio di sudiciume e tracannava un liquido maleodorante da un calice tutto lercio. Era enormemente grasso e, ridendo, la carne gli tremava addosso. Era completamente nudo ed aveva in proporzione fattezze identiche ad un Mabden. Sul suo corpo apparivano croste e piaghe, in particolare vicino al pelvi. La sua faccia era sanguigna ed orribile, i
suoi denti, quando apriva la bocca, sembravano putrefatti. Corum non si sarebbe accorto che egli era un Dio, se non fosse stato per la sua enorme taglia; in effetti Arioch era massiccio come un castello e la sua spada, simbolo del suo potere, posta diritta si ergeva alta come la torre più elevata del Castello di Erorn. I lati del salone eran costituiti da palchi disposti a file sovrapposte. Innumerevoli palchi si estendevano fino all'alta cupola del soffitto, anch'essa imbrattata di fumo untuoso. Questi palchi erano occupati principalmente da Mabden di ogni età. Corum vide che la maggior parte erano nudi. In molti palchi essi si stavano accoppiando, si combattevano l'un l'altro, oppure si torturavano a vicenda. Altrove c'erano altre creature — soprattutto squamosi Shefanhow leggermente più piccoli dei due che stavano combattendo. La spada di Arioch era nera e incisa con parecchi segni particolari. C'erano Mabden all'opera sulla spada. Essi si inginocchiavano sulla lama e lucidavano parti del disegno, oppure si arrampicavano sull'elsa e la lavavano, si sedevano a cavalcioni dell'impugnatura e riparavano il filo d'oro che l'avvolgeva. C'erano altre creature anch'esse indaffarate. Come pidocchi, correvano lestamente e strisciavano sull'enorme massa del Dio, mangiandogli la pelle, cibandosi del suo sangue e della sua carne. Arioch sembrava completamente dimentico di tutte queste attività. Continuava ad interessarsi della lotta a morte nella galleria sovrastante. Era questo, allora, l'onnipotente Arioch, che vìveva come un contadino ubriaco in un porcile? Era questa la malvagia creatura che, per preparare il suo avvento e imporsi sulla terra, aveva distrutto intere nazioni e perseguito il disegno di vendetta su tutte le razze? La risata di Arioch scosse il pavimento. Alcuni
dei parassiti Mabden scivolarono giù dal suo corpo. Alcuni rimasero illesi mentre altri si riversarono a terra con le schiene o con gli arti rotti, incapaci di muoversi. I loro compagni ignorarono i loro lamenti e si arrampicarono di nuovo pazientemente sul corpo del Dio, strappando piccoli pezzi di carne con i loro denti. I capelli di Arioch erano lunghi, raggrumati ed untuosi. Anche qui, i Mabden frugavano e si accapigliavano per i grumetti di cibo che vi erano appiccicati. Altrove fra i peli del corpo del Dio i Mabden strisciavano dentro e fuori, a caccia di pezzetti e di briciole o teneri frammenti delle sue carni. Lo scontro tra i due demoni ebbe termine. Uno era morto l'altro quasi lo era, eppure rideva ancora debolmente. Poi il riso tacque. Arioch si diede delle pacche sul corpo, uccidendo più o meno una dozzina di Mabden, e si grattò la pancia. Ispezionò i rimasugli sanguinolenti che gli rimanevano sul palmo della mano e distrattamente se li strofinò sui capelli. Dei Mabden ancora vivi afferrarono questi rimasugli e li divorarono. Poi il Dio emise dall'enorme bocca un rutto tremendo e cominciò a stuzzicarsi il naso con un dito sudicio che aveva le stesse dimensioni di un alto pioppo. Corum vide che vi erano aperture oltre le gallerie e scale che si inerpicavano verso l'alto, ma non aveva idea di dove si potesse trovare la torre più alta del palazzo. Cominciò a muoversi, con passi cauti, intorno al salone. Le orecchie di Arioch percepirono il suono ed il Dio si mise all'erta. Chinò il capo e scrutò il pavimento. Gli enormi occhi si fissarono su Corum ed una mano mostruosamente grande si allungò per afferrarlo. Corum levò la sua spada e colpì ripetutamente la
mano, Arioch ne rise e trasse a sé il principe Vadhagh. « Che cos'è? » tuonò la sua voce. « Non è uno dei miei. Non è uno dei miei. » Corum continuò a menare colpi sulla mano di Arioch il quale sembrò continuare a non accorgersi delle ferite, per quanto la spada gli provocasse dei profondi tagli nella carne. Da sopra le spalle, da dietro le orecchie ed in mezzo ai sudici capelli, gli occhi dei Mabden fissarono Corum con curiosità e terrore. « Non è uno dei miei », tuonò ancora Arioch. « Uno dei suoi. Sì. Uno dei suoi. » « Di chi? » urlò Corum, continuando a dibattersi. « Quello da cui ho recentemente ereditato questo castello. Quel tipo ostinato Arkyn. Arkyn della Legge. Uno dei suoi. Pensavo che ormai fossero tutti morti. Io non posso sprecare la vista con i piccoli esseri che non sono stato io a creare. Non comprendo il loro comportamento. » « Arioch! Hai distrutto tutta la mia gente! » « Ah. Bene. Tutti hai detto? Bene. E' questo il messaggio che mi porti? Perché non l'ho udito prima, da una delle mie piccole creature! » « Lasciami andare! » gridò Corum. Arioch aprì la mano e Corum fu libero, barcollante ed affannato. Non si aspettava che Arioch avrebbe acconsentito. Fu allora che lo colpì la completa ingiustizia del suo destino. Arioch non provava alcun malanimo verso i Vadhagh. Non si curava di essi più di quanto si curasse dei parassiti Mabden che gli mangiucchiavano il corpo. Stava semplicemente ripulendo la sua tavolozza dei vecchi colori, come avrebbe fatto un pittore prima di cominciare una nuova tela. Tutto il dolore e la miseria che egli ed i suoi avevano dovuto sopportare era stato causato dal puro capriccio di un Dio incurante che soltanto occasionalmente rivolgeva la
propria attenzione al mondo posto sotto il suo dominio. Allora Arioch svanì. Un'altra figura stava al suo posto. Tutti i Mabden erano spariti. Quest'altra figura era bellissima ed osservava Corum con una sorta di superba condiscendenza. Era completamente vestita di nero e di argento, con al fianco una versione in miniatura della spada nera. La sua espressione era canzonatoria. Sorrideva. Era la quintessenza del male. « Chi sei? » disse Corum col fiato grosso. « Io sono il Duca Arioch, tuo signore. Io sono il Signore degli Inferi, Nobile del Regno del Caos, il Cavaliere delle Spade, tuo nemico. » « Sei dunque il mio nemico. L'altra forma non era quella vera! » « Io sono tutto ciò che vuoi, principe Corum. Cosa significa "vera" in questo contesto? Io posso essere tutto ciò che scelgo di essere — o quello che scegli tu, se così preferisci. Considerami malvagio ed io avrò l'apparenza del male. Considerami buono — ed io assumerò una forma adatta a questa parte. Non mi interessa. Il mio unico desiderio è quello di esistere in pace, vedi. Passare il mio tempo. E se tu vuoi giocare una parte, un gioco ideato da te, io mi diletterò con te finché non comincerai ad annoiarmi. » « Sono sempre queste le tue ambizioni? » « Cos'hai detto? Cosa? Sempre? No, credo di no. Non quando combattevo con i Signori della Legge che regnavano in questa dimensione prima di me. Ma ora che ho vinto, mi merito dunque ciò per cui ho combattuto. Tutti gli esseri non esigerebbero forse le stesse cose? » Corum assentì. « Suppongo di sì. » « Beh », Arioch sorrise. « E allora Piccolo Corum dei Vadhagh? Devi essere tolto di mezzo presto,
questo lo sai. Per la pace della mia gente, tu capisci, solo per questo. Hai fatto bene a venire alla mia corte. Ti darò ospitalità come ricompensa e poi, a un certo punto, ti farò sparire. Ora sai perché. » Corum gli lanciò uno sguardo deciso. « Io non "sparirò", Duca Arioch. Perché dovrei? » Arioch si passò una mano sul volto bellissimo e sbadigliò. « Perché no? Allora! Cosa posso fare per intrattenerti? » Corum esitò. Poi disse: « Vuoi mostrarmi tutto il tuo castello? Non ho mai visto qualcosa di così imponente. » Arioch inarcò un sopracciglio. « Questo è tutto...? » « E' tutto, per il momento. » Arioch sorrise. « Molto bene. Del resto non l'ho mai visto tutto nemmeno io. Andiamo. » Circondò con una morbida mano le spalle di Corum e lo condusse oltre una porta. Percorrendo una bellissima galleria con le pareti di marmo variopinto, Arioch parlò tranquillamente a Corum, con una voce bassa ed ipnotica. « Vedi, Amico Corum, i Quindici Piani erano in stato di stagnazione. Cosa facevate voi Vadhagh e consimili? Nulla. Raramente uscivate dalle vostre città e dai vostri castelli. La natura produceva papaveri e margherite. I Signori della Legge si assicuravano che tutto fosse ordinato al proprio posto. Non succedeva nulla di nulla. Noi abbiamo portato molto di più nel vostro mondo, io assieme a mio fratello Mabelode e a mia sorella Xiombarg. » « Chi sono questi altri? » « Credo li conosca, come la Regina delle Spade ed il Re delle Spade. Ognuno di essi domina Cinque degli altri dieci piani. Noi li abbiamo strappati ai Signori della Legge, poco tempo fa. » « Ed avete cominciato a distruggere ogni verità e saggezza. »
« Se così ti piace, Mortale. » Corum tacque. La sua capacità di comprensione era indebolita dalla voce suadente di Arioch. Si voltò. « Penso che mi stai mentendo, Duca Arioch. Le tue ambizioni devono essere più grandi di quanto tu abbia detto. » « E' questione di prospettiva, Corum. Noi seguiamo i vostri capricci. Noi siamo potenti e nulla temiamo. Perché dovremmo essere vendicativi? » « Allora sarete distrutti così come sono stati distrutti i Vadhagh. Per le stesse ragioni. » Arioch alzò le spalle. « Forse. » « Avete un potente nemico in Shool di Svi-anFanla-Brool! Penso che fareste bene a temerlo. » « Conosci Shool, allora? » Arioch fece un riso argentino. « Povero Shool. Egli fa i piani e complotta e maligna contro di noi. E' divertente, non è vero? » « Soltanto divertente? » Corum fece incredulo. « Sì, semplicemente divertente. » « Egli dice che voi lo odiate perché è potente quasi quanto voi. » « Noi non odiamo nessuno. » « Non mi fido di te, Arioch. » « Quale mortale non diffida degli Dei? » Salivano per una rampa a spirale che sembrava interamente costituita di luce. Arioch si fermò. « Penso che sia meglio esplorare qualche altra parte del palazzo. Questa scala conduce soltanto ad una torre. » Davanti a loro Corum vide una parte sulla quale pulsava un'insegna — otto frecce disposte in circolo. « Cos'è quel segno, Arioch? » « Non è nulla. L'insegna del Caos. » « Ma cosa c'è dietro alla porta? » « Solo una torre. » Arioch diede segni di impazienza. « Andiamo. Ci sono cose più interessanti da vedere altrove. »
Corum lo seguì riluttante lungo la discesa delle scale. Si convinse di aver scoperto il posto in cui Arioch teneva rinchiuso il proprio cuore. Per parecchie ore ancora vagarono attraverso il palazzo, osservando le meraviglie che conteneva. Tutto era luce e bellezza e non si vedeva alcunché di sinistro. Corum ne fu turbato. Era sicuro che Arioch lo stava ingannando. Ritornarono verso la sala. I pidocchi Mabden erano svaniti. Il sudiciume era scomparso. Al suo posto stava una tavola riccamente imbandita di cibi e vini. Arioch la indicò con un gesto. « Vuoi pranzare con me, principe Corum? » Corum fece un ghigno sardonico. « Prima di distruggermi? » Arioch rise. « Se vuoi continuare a vivere un altro po', non ho nulla da obiettare. Non puoi lasciare il mio palazzo, come vedi. E finché la tua ingenuità continua a divertirmi, perché dovrei distruggerti? » « Non mi temi per nulla? » « Assolutamente no. » « Non hai paura di ciò che io rappresento? » « E cos'è che rappresenti? » « La giustizia. » Di nuovo Arioch si mise a ridere. « Oh, pensi in modo così angusto. Una cosa siffatta non esiste! » « Esisteva quando qui governavano i Signori della Legge.» « Ogni cosa può esistere per un certo periodo — anche la giustizia. Ma il vero stato dell'universo è il caos. La tragedia del mortale è che egli non può mai accettare questo stato. » Corum non fu in grado di rispondere. Sedette a tavola e cominciò a mangiare. Arioch non mangiava con lui, ma sedeva dall'altra parte della tavola, versan-
dosi del vino. Corum interruppe di mangiare. Arioch sorrise. « Non temere, Corum. Non è drogato. Perché dovrei ricorrere a cose quali il veleno? » Corum riprese il suo pranzo. Quando ebbe finito disse: « Ora vorrei riposare, se è vero che sono tuo ospite. » « Ah », Arioch sembrava perplesso. « Sì — beh, dormi pure. » Egli fece un cenno con la mano e Corum si riversò con la faccia contro la tavola. E dormì.
Capitolo
Settimo
LA ROVINA DEI CAVALIERI DELLE SPADE
Corum si stirò e si sforzò di aprire gli occhi. La tavola era sparita. Era sparito anche Arioch. Il vasto salone era immerso nell'oscurità, rotta soltanto da fioche luci che provenivano da alcune porte e gallerie. Si rialzò. Stava forse sognando? O era stato un sogno tutto quanto era accaduto in precedenza? Certamente tutti gli eventi rivestivano i caratteri dei sogni divenuti realtà. Ma ciò valeva per il mondo intero, ormai, da quando, parecchio tempo prima, egli aveva lasciato la tranquillità del castello di Erorn. Ma dov'era andato il Duca Arioch? Se n'era partito in missione, in qualche parte del mondo? Senza dubbio aveva supposto che la sua influenza su Corum sarebbe durata molto più a lungo. Dopo tutto, era per questa ragione che desiderava distruggere tutti i Vadhagh, perché non riusciva a comprenderli, non riusciva a prevedere tutto quello che avrebbero fatto, non riusciva a controllare le loro menti al pari di quelle dei Mabden. Corum si accorse improvvisamente di avere allora una possibilità, forse l'ultima, di cercare di penetrare nel luogo in cui Arioch teneva racchiuso il proprio cuore. Poi avrebbe potuto fuggire mentre Arioch era ancora assente, ritornando da Shool per farsi restituì-
re Rhalina. Non aveva più motivazioni di vendetta ormai. Tutto ciò che cercava era la fine della sua avventura, la pace colla donna che amava, la sicurezza dell'antico castello sul mare. Attraversò di corsa il salone e salì per la scala verso le gallerie dalle pareti di marmi variegati, finché giunse alla rampa che sembrava consistere unicamente di luce. La luce si era attenuata ora in un riverbero, e molto più in alto stava la porta con l'insegna color arancio che pulsava — le otto frecce che si irradiavano da un punto centrale — lo stemma del Caos. Respirando affannosamente, si slanciò su per la rampa a spirale. Continuò a correre salendo sempre più in alto, finché il resto del palazzo restò molto sotto di lui; raggiunse una porta al cui cospetto si sentiva rimpicciolito; a quel punto si fermò, si guardò intorno e congetturò, finché fu sicuro di aver raggiunto la sua meta. L'enorme stemma pulsava con regolarità, come un cuore vivo, e inondava la faccia, il corpo e l'armatura di Corum con la sua luce rosso-dorata. Corum spinse la porta, ma era come un topo che cercasse di aprire il coperchio di un sarcofago. Non riusciva a smuoverla. Aveva bisogno di aiuto. Contemplò la sua mano sinistra — la Mano di Kwll. Poteva invocare aiuto dal mondo oscuro? Non senza una "preda" da offrire. Ma la Mano di Kwll si strinse da sé a pugno e cominciò a mandare riverberi di una luce che accecava Corum costringendolo a stendere lontano il braccio quanto più era possibile, coprendosi l'altro occhio con l'altro braccio. Sentì la Mano di Kwll alzarsi nell'aria e poi colpire la possente porta. Sentì un suono come di campane. Udì uno schianto, come se la Terra stessa si spezzasse. Poi la mano di Kwll rimase inerte al suo fianco ed egli aprì gli occhi e vide che
uno squarcio appariva nella porta. Era un piccolo squarcio sul fondo dell'angolo destro ma era abbastanza largo per permettere a Corum di strisciare attraverso di esso. « Ora mi stai aiutando come vorrei sempre che tu facessi », mormorò rivolto alla mano. Si inginocchiò e si introdusse attraverso la spaccatura. Un'altra rampa si stendeva verso l'alto sopra un vortice di vuoto che scintillava. Strani suoni riempivano l'aria, nascevano e si spegnevano, si avvicinavano e poi si perdevano in lontananza. C'erano segni di minaccia, segni di bellezza, segni di morte, segni di vita eterna, segni di terrore, segni di tranquillità. Corum fece per estrarre la sua spada ma poi si accorse dell'inutilità di una tale azione. Pose il piede sulla rampa e cominciò a salire ancora. Parve che un vento si levasse ed il suo mantello scarlatto volò dietro di lui. Raffiche fredde lo trascinarono e venti caldi gli sfregarono la pelle. Vide delle facce intorno a sé e credette di riconoscerne molte. Alcune erano enormi, altre infinitamente minuscole. Occhi lo fissarono. Labbra si dischiusero ghignando. Un lamento doloroso s'udì e svanì. Una nube oscura lo avvolse. Un tintinnio come di campanelli di vetro gli riempì le orecchie. Una voce lo chiamò per nome e la sua ©co continuò senza spegnersi. Un arcobaleno lo circondò, lo penetrò e fece lampeggiare tutto il corpo con i suoi colori. Egli continuò senza sosta a salire per la lunga rampa. S'accorse di essere arrivato ad una piattaforma, all'estremità della rampa, che era sospesa sull'abisso. Oltre ad essa non v'era nulla. Sulla piattaforma c'era una pedana. Sulla pedana c'era un piedestallo e sul piedestallo c'era qualcosa che pulsava ed emanava radiazioni. Trafitti da esse c'erano parecchi guerrieri Mabden. I loro corpi erano congelati nel gesto di cercare
di raggiungere la fonte dei raggi, ma i loro occhi si muovevano, vedendo Corum avvicinarsi alla pedana. In quegli occhi vi era dolore, curiosità e senso di avvertimento. Corum si fermò. La cosa che stava sul piedestallo aveva un profondo e morbido colore blu; era piuttosto piccola, risplendeva e sembrava simile ad un gioiello a forma di cuore. Ad ogni pulsazione, emanava da sé raggi di luce. Non poteva che essere il cuore di Arioch. Ma era in grado di proteggersi da sé, come appariva chiaro dai guerrieri congelati che stavano intorno ad esso. Corum avanzò di un passo. Un raggio di luce lo colpì ad una guancia ed egli sentì un formicolìo. Avanzò di un altro passo ed altri due raggi lo colpirono al corpo facendolo rabbrividire, ma non riuscirono a congelarlo. Ora aveva superato i guerrieri Mabden. Altri due passi ed i raggi gli bombardarono tutta la testa ed il corpo, ma la sensazione era soltanto piacevole. Stese la mano destra per afferrare il cuore, ma la sinistra si mosse prima e la mano di Kwll afferrò il cuore di Arioch. « Il mondo sembra pieno di frammenti di Dei », mormorò Corum. Si volse e vide che i guerrieri Mabden non erano più stretti dalla morsa del gelo. Si stavano sfregando le facce, rimettendo le spade nel fodero. Corum parlò al più vicino. « Perché cercavi il cuore di Arioch? » « Non è stata una mia scelta. Mi ha mandato un mago, offrendomi la mia vita in cambio del furto del cuore di Arioch da questo palazzo. » « Si chiamava forse Shool? » « Sì — Shool. Il Principe Shool. » Corum rivolse lo sguardo agli altri. Tutti annuirono. « Mi ha mandato Shool! » « Anche me! »
« Shool ha inviato pure me », disse Corum. « Non pensavo che avesse tentato prima tante volte. » « Egli fa parte di un gioco controllato da Arioch », mormorò uno dei guerrieri Mabden. « Ho saputo che Shool ha ben poco potere che sia suo proprio. Arioch concede a Shool il potere che egli pensa sia proprio, perché Arioch si diverte ad avere un nemico con cui poter giocare. Ogni azione fatta da Arioch non è ispirata da null'altro che la noia. Ed ora tu hai il suo cuore. Certamente egli non si aspettava che il gioco gli sfuggisse di mano fino a questo punto. » « Già », annuì Corum. « E' stato soltanto il disinteresse di Arioch che mi ha permesso di raggiungere questo posto. Ora debbo ritornare indietro. Devo trovare il modo di uscire dal palazzo prima che egli si accorga di quello che è successo. » « Possiamo venire con te? » chiesero i Mabden. Corum annuì. « In fretta, però. » Essi ridiscesero per la rampa. A metà strada, uno dei Mabden si mise a urlare, annaspò nell'aria, barcollò verso un angolo della rampa e fu trascinato nel vuoto balenante. Affrettarono il passo finché raggiunsero la piccola fenditura alla base dell'enorme porta e, uno per uno, strisciarono oltre di essa. Giù per la rampa fatta di luce. Attraverso le gallerie di marmi variegati. E giù per le scale fino al salone immerso nell'oscurità. Corum cercò la porta argentea attraverso la quale era entrato nel palazzo. Fece un giro completo dell'immenso salone e, prima di accorgersi che la porta era svanita, cominciò a sentire dolore ai piedi. Improvvisamente il salone fu di nuovo inondato di luce e Corum distinse l'enorme e grassa figura che aveva visto originariamente, contorcersi dalle risa, giacere in mezzo al sudiciume, con i parassiti Mabden che scrutavano da sotto la peluria delle sue ascelle.
«Ah! Vedi, Corum, sono gentile! Ti ho lasciato avere quasi tutto quello che desideravi da me. Hai anche il mio cuore! Ma non posso lasciare che tu lo porti lontano da me, Corum. Senza il mio cuore non potrei esercitare qui il mio potere. Penso che lo rimetterò in queste mie carni. » Corum scrollò le spalle. « Ci ha giocati », egli disse ai suoi compagni Mabden terrorizzati. Ma un Mabden disse: « Egli ti ha usato, Signore Vadhagh. Egli non sarebbe mai riuscito a prendere il proprio cuore da sé. Non lo sapevi? » Arioch si mise a ridere e scosse il ventre così che alcuni Mabden caddero al suolo. « E' vero! E' vero! Mi hai reso un servizio, Principe Corum. Il cuore di ogni Signore della Spada è conservato in un posto che gli è precluso, in modo che gli altri siano sicuri che egli dimori soltanto nei propri domini e non possa spostarsi negli altri, e così non possa usurpare il potere di un rivale. Ma tu, Corum col tuo sangue antico, con le tue caratteristiche particolari, sei stato capace di fare ciò di cui io non ero capace. Ora ho il mio cuore e posso estendere il mio dominio ovunque lo voglia. Oppure no, evidentemente, se scelgo di non farlo. » « Così ti ho aiutato », disse Corum amaramente, « quando invece desideravo ostacolarti... » Il riso di Arioch riempì il salone. « Sì. E' esatto. Un bel gioco eh? Ora, ridammi il mio cuore, piccolo Vadhagh. » Corum addossò le spalle alla parete ed estrasse la sua spada. Stava ritto con il cuore di Arioch nella mano sinistra e la spada nella destra. « Piuttosto preferisco morire, Arioch. » « Come vuoi. » La mano mostruosa si distese cercando di afferrare Corum. Egli la evitò. Arioch fece risuonare ancora la sua risata, e raccolse due guerrieri Mabden dal pa-
vimento. Essi urlavano e si contorcevano mentre egli se li portava verso l'enorme bocca piena di saliva e di denti anneriti. Poi se li mise in bocca e Corvini udì le ossa che si rompevano. Arioch inghiottì e risputò fuori una spada. Poi il suo sguardo si fissò ancora su Corum. Corum fece un salto e si riparò dietro ad un pilastro. La mano di Arioch cercò di aggirarlo, in cerca di lui. Corum si mise a correre. Altre risa, e poi il salone fu pieno di riverberi. All'allegria del Dio facevano eco le voci ridacchianti dei suoi parassiti Mabden. Un pilastro, colpito da Arioch, alla ricerca di Corum, si sgretolò. Corum si slanciò attraverso il pavimento del salone, passando sui corpi stritolati dei Mabden che erano caduti dall'enorme corpo del Dio. Indi Arioch lo vide, lo afferrò, e le sue impreca zioni diminuirono. « Adesso ridammi il mio cuore. » Corum annaspò, cercando di respirare, e liberò le sue due mani dalla morbida carne che lo imprigionava. L'enorme mano del gigante era calda e sudicia. Le unghie erano spezzate. « Ridammi il mio cuore, Piccolo Essere. » « No. » Corum indirizzò un colpo di spada sul pollice del Dio, ma questi nemmeno se ne avvide. I Mabden si avviticchiarono ai peli del petto e rimasero ad osservare, con vuote smorfie. Le costole di Corum stavano per spezzarsi, ma egli non era disposto a mollare il Cuore di Arioch, che stringeva nel pugno della sua mano sinistra. « Non importa », disse Arioch, rilassando appena appena la sua stretta, « posso inghiottire te ed il mio cuore al tempo stesso. » Quindi Arioch cominciò a muovere la sua enorme mano verso la sua bocca aperta. Il suo fiato usciva in soffi asfissianti e Corum si sentì soffocare, ma continuò
a vibrare colpi su colpi. Un ghigno si allargò sulle labbra gigantesche. Tutto ciò che Corum poteva vedere era quella bocca, le narici tagliuzzate, gli occhi enormi. La bocca si aprì ancora di più per inghiottirlo. Egli menò un colpo al labbro superiore, guardando con terrore la gola rossa ed oscura del Dio. Fu allora che la sua mano sinistra si contrasse. Prese a stritolare il cuore di Arioch. La forza di Corum non sarebbe stata sufficiente per fare una cosa del genere, ma ancora una volta la Mano di Kwll mostrava di possedere un proprio potere. La risata di Arioch svanì. Gli enormi occhi si allargarono e presero a riempirsi di una nuova luce. Uno strano suono uscì della gola. La Mano di Kwll continuò a stringere sempre più forte. Arioch si mise ad urlare. Il cuore cominciò a spezzarsi sotto la stretta. Raggi di una luce blu e porpora schizzarono fra le dita di Corum. Il dolore gli inondò il braccio. Si udì un suono acuto e soffocato. Arioch cominciò a piangere. La sua stretta su Corum si indebolì. Egli barcollò. « No, mortale. No... » La sua voce era patetica. « Ti prego, mortale, possiamo... » Corum vide la gonfia forma del Dio cominciare a svanire nell'aria. La mano che lo stringeva cominciò a perdere la propria forma. Quindi Corum cadde sul pavimento del salone, mentre i pezzi rotti del cuore di Arioch si sparsero per la caduta. Atterrò con uno schianto, cercò di rialzarsi, vide ciò che rimaneva del corpo di Arioch contorcersi nell'aria, udì un suono lamentoso. E Corum perse quindi conoscenza, credendo di udire le ultime parole mormorate da Arioch. « Corum dei Vadhagh. Hai vinto. Hai provocato l'eterna rovina dei Signori della Spada... »
Capitolo
Ottavo
UNA PAUSA NELLA LOTTA
Corum vide un corteo passare davanti a lui. Creature appartenenti a centinaia di razze diverse marciavano o cavalcavano o erano trasportate in quel corteo; egli si avvide di stare osservando tutte le razze mortali esistite da quando la Legge ed il Caos avevano iniziato la loro lotta per il dominio dei molteplici piani della Terra. Vide sventolare a distanza gli Stendardi della Legge e del Caos, l'uno di fianco all'altro, con gli stemmi delle otto frecce a raggiera e l'unica freccia diritta della Legge. Sopra a tutto ciò pendeva una enorme bilancia in perfetto equilibrio. In ognuno dei piatti della bilancia stavano disposti altri esseri, non mortali. Corum vide Arioch ed i Signori del Caos da una parte ed i Signori della Legge dall'altra. Corum udì una voce che diceva: « Così è come dovrebbe essere. Né la Legge né il Caos debbono reggere i destini dei piani mortali. Ci deve essere equilibrio. » Corum proruppe in un grido: « Ma non c'è alcun equilibrio. Il Caos domina ogni cosa! » La voce gli rispose dicendo: « Talvolta la bilancia pende. Deve essere raddrizzata. E questo è il potere dei mortali, aggiustare la bilancia. »
« Come potrei far ciò? » « Hai già cominciato. Ora devi continuare fino alla fine. E' possibile che tu perisca prima di aver terminato l'opera, ma qualcun altro prenderà il tuo posto. » Corum gridò: « Non voglio. Non posso sopportare un tale fardello! » « TU DEVI! » Il corteo proseguì il suo cammino, senza accorgersi di Corum, senza vedere i due stendardi al vento, senza scorgere la Bilancia Cosmica che lo sovrastava. Corum si trovava sospeso in uno spazio nebbioso ed il suo cuore era tranquillo. Cominciò a scorgere delle forme e poi si accorse di trovarsi di nuovo nell'antro di Arioch. Cercò la sua spada, ma era sparita. « Ti restituirò la spada prima che te ne vada, Principe Corum dei Vadhagh. » La voce era piana e chiara. Corum si volse a guardare. Sobbalzò. « Il Gigante di Laahr! » La faccia triste e saggia sorrideva china su di lui. « Ero chiamato così, quand'ero in esilio. Ma ora non sono più messo al bando e mi puoi chiamare col mio vero nome. Sono il Dio Arkyn e questo è il mio palazzo. Arioch è sparito. Senza il suo cuore egli non può assumere forma in queste dimensioni. Senza la sua carne egli non può adoperare il suo potere. Ora qui regno io, come regnavo una volta. » La sostanza di quell'essere era ancora indistinta, per quanto non fosse priva di forma come prima. Il Dio Arkyn sorrise. « Mi occorrerà del tempo prima che io possa riassumere la mia antica forma. Soltanto con un grande sforzo di volontà sono stato capace di rimanere su questa dimensione. Quando ti ho salvato, Corum, non sapevo che tu saresti stato la causa della mia restaurazione. Ti ringrazio. »
« Io ringrazio voi, mio Signore. » « Il bene genera il bene », disse il Dio Arkyn, « ed il male genera il male. » Corum sorrise. « Talvolta, mio signore. » Il Dio Arkyn borbottò tranquillamente. « Sì, hai ragione — qualche volta. Beh, mortale, devo riportarti al piano che ti è proprio. » « Potete trasportarmi in un luogo particolare, mio signore? » « Lo posso, Principe dal Mantello Scarlatto. » « Signore Arkyn, voi sapete perché mi sono messo in questa avventura. Cercavo i resti della razza dei Vadhagh, il mio popolo. Ditemi, son perduti per sempre? » Il Signore Arkyn abbassò il capo. « Tutti tranne te. » « Non potete riportarli indietro? » « I Vadhagh son sempre stati i mortali che più amavo, Principe Corum. Ma non ho il potere di invertire il grande ciclo del tempo. Tu sei l'ultimo dei Vadhagh. Eppure... » il Dio Arkyn fece una pausa. « Eppure potrebbe venire un giorno in cui i Vadhagh ritorneranno. Ma non vedo nulla di chiaro e non devo più parlare di ciò. » Corum sospirò. « Beh, devo accontentarmi. E cosa ne è di Shool? Rhalina è salva? » « Penso di sì. I miei sensi non sono ancora capaci di vedere tutto ciò che accade e Shool è una cosa del Caos e perciò è molto più difficile per me scorgerlo. Ma credo che Rhalina sia in pericolo, nonostante il potere di Shool sia svanito con la fine di Arioch. » « Allora mandatemi, ve ne prego, a Swi-an-FanlaBrool, perché io amo la Margravia. » « E' la tua capacità d'amare che ti rende forte, Principe Corum. » « E la mia capacità di odiare? » « Quella dirige la tua forza. »
Il Dio Arkyn corrugò la fronte, come se ci fosse qualcosa che non poteva comprendere. « Siete triste nel vostro trionfo, Dio Arkyn? Siete sempre triste? » Il Signore delle Spade guardò Corum, quasi sorpreso. « Credo di essere ancora triste, sì. Io piango i Vadhagh come tu li piangi. Piango per colui che fu ucciso dal tuo nemico, Glandyth-a-Krae, quello che tu chiamavi l'Uomo Bruno. » « Era una creatura buona. E Glandyth semina ancora morte per la terra di Bro-an-Vadhagh? » « Sì. Credo che lo incontrerai di nuovo. » « E allora lo ucciderò. » « Può darsi. » Il Dio svanì. Svanì pure il palazzo. Con la spada in mano, Corum si trovò davanti alla bassa porta contorta che costituiva l'entrata della dimora di Shool. Dietro di lui, nel giardino le piante allungavano lo stelo per dissetarsi con la pioggia che cadeva dal pallido cielo. Una calma particolare regnava sulla costruzione oscura e dalle strane forme, ma Corum senza esitazione si tuffò all'interno e cominciò a correre per corridoi eccentrici. « Rhalina! Rhalina! » La casa attutiva le sue grida, qualunque fosse la loro forza. « Rhalina! » Corse attraverso il palazzo tenebroso finché udì una voce flebile che riconobbe. Shool! « Shool! Dove sei? » « Principe Shool, prego. Voglio che mi sia riconosciuto il mio rango. Tu mi prendi in giro ora che Ì miei nemici mi hanno battuto. » Corum entrò in una stanza e vi trovò Shool. Potè riconoscere soltanto i suoi occhi. Il resto era una cosa evanescente e decrepita, che giaceva su un letto incapace di muoversi.
Shool piagnucolò. « Anche tu vieni a tormentarmi ora che sono stato sconfitto. Accade sempre così ai potenti che cadono in basso. » « Sei salito in alto soltanto in grazia del senso dell'humor di Arioch. » « Silenzio! Non mi lascerò ingannare. Arioch si è vendicato -di me perché ero più potente di lui. » « Hai preso a prestito, senza saperlo, una frazione del suo potere. Arioch è sparito dai Cinque Piani, Shool. Hai messo in moto degli eventi che sono sfociati nella sua rovina. Volevi il suo cuore per renderlo tuo schiavo. Hai mandato molti Mabden per sottrarglielo. E tutti hanno fallito. Non avresti dovuto mandare me, Shool, perché io non ho fallito e ciò è risultato a tuo svantaggio. » Shool singhiozzò e scosse la sua testa scavata. « Dov'è Rhalina, Shool? Se le hai fatto del male... » « Del male? » un riso senza espressione venne dalle labbra raggrinzite. « Io farle del male? E' stata lei che mi ha messo in queste condizioni. Portala via da me. So che vuole avvelenarmi. » « Dov'è? » « Io ti ho dato dei doni. Una nuova mano, un nuovo occhio. Ora saresti uno storpio se non fossi stato generoso con te. Ma tu non ti ricorderai della mia generosità, lo so. Tu — » « I tuoi "doni", Shool, mi han quasi storpiato l'anima! Dov'è Rhalina? » « Promettimi di non farmi del male, se te lo dico. » « Perché dovrei desiderare di far del male a una cosa così pietosa come te, Shool? Ora dimmelo. » « Alla fine di questo passaggio c'è una scala. In cima alla scala c'è una stanza. Ella si è chiusa lì dentro. Io avrei voluto prenderla in moglie, lo sai. Sarebbe stato magnifico essere la moglie di un Dio. Una immortale. Ma ella... » « Meditavi di tradirmi, quindi? »
« Un dio può fare come gli pare. » Corum abbandonò la stanza, corse per il passaggio e salì per la piccola rampa di scale, bussando con l'elsa della spada alla porta. « Rhalina! » Si sentì una voce allarmata oltre la porta. « Hai dunque ripreso il tuo potere, Shool. Non mi ingannerai più cercando di farti passare per Corum. Nonostante egli sia morto, non mi darò a nessun altro, meno di tutti... » « Rhalina! Sono veramente Corum. Shool non può fare nulla. I Cavalieri delle Spade sono stati banditi da questa dimensione e con essi è svanita la stregoneria di Shool. » « E' vero? » « Apri la porta, Rhalina. » Si sentirono i catenacci che venivano tolti con cautela, ed ecco Rhalina. Era stanca, aveva certamente sofferto molto, ma era ancora bellissima. Guardò profondamente gli occhi di Corum e il suo viso arrossì di sollievo, di amore. Ella svenne. Corum la raccolse e prese a portarla giù per le scale lungo il passaggio. Si fermò di fronte alla stanza di Shool. Quello che era stato il Mago era scomparso. Sospettando un trucco, Corum si affrettò verso la porta principale. Sotto la pioggia, lungo un sentiero che passava attraverso le piante ondeggianti, vide Shool che si affrettava con le vecchie gambe che erano a stento capaci di sostenerlo. Egli diede un'occhiata indietro verso Corum e tremò di paura. Sparì fra i cespugli. Si udì un suono schioccante. Un sibilo. Un lamento. La gola di Corum si riempì di bile. Le piante si cibarono per l'ultima volta. Con attenzione trasportò Rhalina lungo il sentie-
ro, liberandosi dei tralci e dei fiori che cercavano di trattenerlo e di baciarlo, ed infine raggiunse la riva del mare. C'era un battello tirato in secco, un piccolo scafo che, con manovra attenta, sarebbe stato in grado di portarli al Castello di Moidel. Il mare era tranquillo sotto la pioggia grigia. All'orizzonte il cielo cominciava a schiarirsi. Corum collocò delicatamente Rhalina nel battello e salpò per la montagna di Moidel. Ella si risvegliò parecchie ore più tardi, lo guardò, sorridendo dolcemente; quindi si addormentò di nuovo. Al calar della notte, mentre il battello continuava a navigare verso casa, ella si alzò e sedette vicino a lui. Egli le cinse il mantello scarlatto attorno le spalle senza dire nulla. Quando si levò la luna, ella si sollevò e lo baciò. « Non speravo... » cominciò. E poi si mise a piangere per un po' mentre egli le dava conforto. « Corum », ella disse alla fine, « come mai la nostra fortuna si è risollevata? » Egli cominciò a raccontarle ciò che gli era accaduto. Le raccontò dei Ragha-da-Kheta, del magico aquilone, delle Terre del Fuoco, di Arioch e di Arkyn. Le disse tutto, tranne due cose. Non le disse come egli — o la mano di Kwll — aveva assassinato il re Temgol-Lep, che aveva cercato di drogarlo, o come aveva ucciso Hanafax, che apparteneva allo stesso popolo di lei e che aveva tentato di aiutarlo. Quand'ebbe finito, la fronte di lei fu serena; ella singhiozzò di felicità. « Così abbiamo pace, infine. La lotta è finita. » « Pace, se siamo fortunati, per un po' di tempo. » Il sole cominciava a sorgere. Egli corresse la rotta.
« Non mi lascerai ancora? Ora regna la Legge, è sicuro, e... » « La Legge regna solo in questa dimensione. I Signori del Caos non saranno contenti di ciò che è accaduto qui. Le ultime parole di Arioch rivolte a me sono state che io ho provocato la rovina dei Cavalieri della Spada. E il Dio Arkyn sa che molto resta da fare prima che la legge sia di nuovo sicura nei Quindici Piani. E Glandyth-a-Krae lo sentiremo di nuovo. » « Cerchi ancora di vendicarti su di lui? » « Non più. Era semplicemente uno strumento di Arioch. Ma non dimenticherò il suo odio per me, Rhalina. » Il cielo era sereno, azzurro e dorato. Una tiepida brezza prese a soffiare. « E così, Corum, non avremo mai pace? » « Un po' ne avremo, credo. Ma sarà soltanto una pausa nella lotta, Rhalina. Godiamoci questa interruzione finché possiamo. Questo almeno, l'abbiamo meritato. » « Sì. » Il tono di lei fu allegro. « La pace e l'amore, se conquistati, sono apprezzati maggiormente che non semplicemente ricevuti in eredità! » Egli la prese tra le sue braccia. Il sole era alto nel cielo. I suoi raggi colpirono la mano e l'occhio imperlati e li bruciarono facendoli divampare come fuoco. Ma Rhalina non li vide bruciare, perché dormiva ancora fra le braccia di Corum. Apparve alla vista la Montagna di Moidel. I suoi pendii verdeggianti erano lambiti da un tranquillo mare azzurro ed il sole brillava sulle bianche pietre del castello. La marea era alta, e copriva il terrapieno. Corum guardò la faccia di Rhalina che continuava a dormire. Sorrise e le accarezzò i capelli.
Vide la foresta sulla terra ferma. Non si vedeva alcun segno di minaccia. Sollevò lo sguardo verso il cielo libero da nubi. Sperò che la pausa sarebbe stata lunga. Così finisce il Primo Libro di Corum