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WILLIAM NICHOLSON IL RITORNO DEL CANTORE (The Wind Singer, 2000) Per Edmund, Julia e Maria Molto tempo fa All'epoca in cui arrivarono gli stranieri, i Manth vivevano ancora nelle basse capanne di paglia intrecciata che avevano portato con sé quando erano ancora un popolo di cacciatori. Le capanne con il tetto a cupola erano raggruppate intorno alla miniera di sale, che in seguito sarebbe divenuta la fonte della loro ricchezza. Tutto questo, però, risale a prima che costruissero la grande città oggi situata sopra le miniere. In un pomeriggio di piena estate, un gruppo di nomadi attraversò le piane desertiche e si accampò lì vicino. Tutti, uomini e donne, portavano i capelli lunghi e sciolti, si muovevano lentamente e quando parlavano, cosa che accadeva di rado, lo facevano a voce bassa. Intrattenevano modeste relazioni commerciali con i Manth, dai quali compravano il pane, la carne e il sale, scambiandoli con piccoli oggetti d'argento di loro manifattura. Non davano fastidio a nessuno, tuttavia la loro presenza causava una specie di disagio. Chi erano? Da dove venivano? Dove stavano andando? A tutte queste domande i nuovi venuti evitavano di rispondere: si limitavano a sorridere, ad alzare le spalle e a scuotere la testa. A un certo punto gli stranieri si misero all'opera per costruire una torre. Piano piano, una struttura in legno cominciò a prendere forma: una piattaforma che superava l'altezza di un uomo, sulla quale venne costruita una seconda torre più angusta, fatta di travi di legno e tubi metallici. I tubi erano tutti di differente misura, come le canne di un organo, e alla base si aprivano su un anello di corni metallici. In alto si restringevano fino a formare un cilindro simile a un lungo collo, per poi allargarsi di nuovo e terminare con un anello costituito da grossi pezzi di cuoio concavi. Il vento veniva catturato da questi imbuti di cuoio in modo che la struttura superiore si mettesse a girare, volgendosi nella direzione delle raffiche. Il mulinello d'aria si incanalava nel collo formato dai tubi allineati, poi fuorusciva dai corni producendo dei suoni. Apparentemente, la torre non aveva nessuna funzione. Per qualche tempo fu solo una curiosità che la gente si fermava a guardare, mentre la co-
struzione scricchiolava da una parte e dall'altra. Quando soffiava forte attraverso le canne metalliche, il vento produceva una sorta di lugubre gemito che al principio sembrò curioso e divertente, ma ben presto divenne insopportabile. I nomadi silenziosi non offrirono nessuna spiegazione. Era come se fossero giunti lì con l'unico scopo di dare vita a questa insolita struttura. Una volta che l'ebbero completata, infatti, smontarono le tende e si prepararono a ripartire. Prima di andarsene, però, il loro capo prese un piccolo oggetto d'argento, salì sulla torre e lo inserì in una fessura nel collo della struttura. I nomadi partirono in una tranquilla mattina d'estate; l'aria era ferma, perciò i tubi di metallo e i corni rimasero silenziosi, mentre loro attraversavano di nuovo le piane desertiche. I Manth restarono a bocca aperta, proprio come il giorno in cui li avevano visti arrivare, con gli occhi fissi su quello spaventapasseri gigantesco che si erano lasciati alle spalle. Quella notte stessa, mentre tutti dormivano, il vento cominciò a soffiare, e un nuovo suono entrò a far parte delle loro vite. Lo sentirono nel sonno e si svegliarono sorridendo, senza sapere perché. Si riunirono nella tiepida aria della notte e ascoltarono rapiti e felici. Il Cantore era entrato in funzione. 1 La piccola Pinpin lascia il segno Squaquero! Bodoloso! Trufolo! Sdraiato nel suo letto, Bowman Hath ascoltava la voce attutita di sua madre che imprecava nel bagno adiacente. In lontananza, in cima ai tetti della città, aleggiava un dorato rimbombo di campana che veniva dalla torre del Palazzo Imperiale: dong! dong! Erano le sei, ora in cui tutta Aramanth si svegliava. Bowman aprì gli occhi e rimase sdraiato, mentre la luce del giorno rischiarava la stanza attraverso le tende color mandarino. Si rese conto di essere triste. "Cosa sarà, questa volta?" pensò fra sé. Poi pensò alla scuola che lo aspettava e, come sempre, si sentì attorcigliare le budella. Ma questa volta si trattava di una sensazione nuova. Come una fitta per la perdita di qualcosa. Ma di cosa? La sua gemella, Kestrel, dormiva ancora nel letto accanto al suo. Gli sarebbe bastato allungare il braccio per toccarla. Per qualche istante ascoltò quel respiro pesante, quindi le inviò il pensiero del risveglio. Aspettò che
lei reagisse con un grugnito scontroso. Poi, in silenzio, contò fino a cinque e rotolò giù dal letto. Attraversando il corridoio per andare al bagno, si fermò a salutare Pinpin, la sorellina minore. Era in piedi nel suo lettino, con il pigiama di spugna addosso, e si succhiava il pollice. Pinpin dormiva in corridoio perché in nessuna delle due stanze c'era spazio sufficiente per aggiungerci un lettino. Gli appartamenti del Quartiere Arancione erano veramente troppo piccoli per una famiglia di cinque persone. «Buongiorno, Pinpin» le disse. Lei si tolse il pollice dalla bocca e il suo visetto tondo fu illuminato da un sorriso di felicità. «Bacio» disse Pinpin. Bowman le diede un bacio. «Abbraccio» aggiunse la piccola. Bowman la prese in braccio. E mentre stringeva quel corpicino morbido e tondo, si ricordò. Era il giorno del primo esame di Pinpin. Aveva solo due anni, era troppo piccola per preoccuparsi della prova che stava per sostenere, ma da oggi fino al giorno della sua morte, non avrebbero fatto altro che darle voti. Ed era questo che lo rendeva triste. Gli occhi di Bowman si riempirono di lacrime. Un nulla bastava a farlo piangere, glielo dicevano tutti; ma che poteva farci? Se la prendeva troppo, e per qualsiasi cosa. Non avrebbe voluto, ma quando guardava qualcuno capiva all'istante cosa stava provando, e quasi sempre era tristezza o paura. E, una volta capiti i motivi di quella paura o di quella tristezza, cominciava a sentirsi come lui e si metteva a piangere. Era molto imbarazzante. Stamattina era triste non per quello che Pinpin provava in questo momento, ma per ciò che avrebbe provato da grande. Al momento non c'era nulla che offuscasse il suo cuoricino. Tuttavia, a partire da oggi, lei avrebbe cominciato a temere il futuro, prima in modo confuso e poi con ansia sempre maggiore. Perché ad Aramanth ogni aspetto della vita veniva valutato in base agli esami sostenuti e da sostenere. Ogni esame comportava l'eventualità di una bocciatura, e ogni esame brillantemente superato consentiva di sostenere quello successivo, rinnovando la possibilità della bocciatura. Non c'era modo di sottrarsi a questo meccanismo perpetuo. Solo a pensarci, il cuore gli scoppiava d'amore per la sorellina. La strinse forte e coprì di baci quelle guanciotte allegre. «Voglio bene, Pinpin» disse lui. «Voglio bene, Bo» rispose Pinpin. Un grido acuto e lacerante arrivò dal
bagno, seguito da un'altra raffica di ingiurie. «Squaquero! Bodolone!» E poi il solito lamento: «Oh, sventurata gente!» Era il grido della grande profetessa Ira Manth, dalla quale sua madre discendeva alla lontana. Le donne della famiglia venivano sempre chiamate con il suo nome, e anche lei si chiamava Ira. Quando Ira perdeva le staffe, papà strizzava l'occhio ai bambini e diceva: «Ecco la profetessa!» La porta del bagno si spalancò violentemente e apparve Ira Hath, con l'aria esasperata. Incapace di trovare il buco delle maniche della vestaglia, aveva rabbiosamente infilato le braccia nella stoffa. Le maniche le penzolavano vuote sui fianchi e le braccia sbucavano fuori da due strappi. «C'è l'esame di Pinpin, oggi» disse Bo. «Cosa c'è?» Per un attimo, Ira Hath sembrò sorpresa. Poi tolse la bambina dalle braccia di Bowman e la strinse a sé, come se qualcuno volesse portargliela via. «La mia piccolina» disse. «La mia piccolina.» Per quasi tutta la colazione, nessuno fece più parola dell'esame. Ma verso la fine il padre mise via il libro che stava leggendo e si alzò da tavola un po' in anticipo rispetto al solito. E, senza rivolgersi a nessuno in particolare, disse: «Credo che sia arrivato il momento di prepararci.» Kestrel alzò gli occhi, scintillanti di determinazione, e annunciò: «Io non vengo.» Hanno Hath sospirò, quindi si strofinò una guancia rugosa. «Lo so, tesoro. Lo so.» «Non è giusto» disse Kestrel come se suo padre volesse costringerla ad andare. E in un certo senso era così. Hanno Hath era molto tenero e comprensivo con i figli, tanto che loro trovavano impossibile opporsi alla sua volontà. Un odore familiare si sprigionò dalla stufa. «Oh, squaquero!» esclamò sua moglie. Aveva di nuovo fatto bruciare i toast. Il sole del mattino era basso nel cielo e le alte mura della città gettavano un'ombra su tutto il Quartiere Arancione, mentre la famiglia Hath percorreva la strada giù fino alla Sala Comunale. Il signore e la signora Hath camminavano davanti, Bowman e Kestrel dietro, tenendo Pinpin per mano in mezzo a loro. C'erano altre famiglie con bambini di due anni che andavano nella loro stessa direzione, passando davanti alle ordinatissime schie-
re di case arancione. La famiglia Blesh li precedeva e, camminando, i genitori preparavano il loro piccolino all'esame. «Uno, due, tre, quattro, chi è arrivato quatto quatto? Quattro, cinque, sei, sette, chi ha le scarpe strette strette?» Arrivando sulla piazza principale, la signora Blesh si voltò e li vide. Li salutò con il solito cenno della mano, come se fosse la loro migliore amica, quindi si fermò ad aspettare che la signora Hath la raggiungesse. «È capace di mantenere un segreto?» le sussurrò. «Se oggi il nostro piccino supera l'esame ci trasferiremo nel Quartiere Scarlatto.» La signora Hath rifletté per un istante e commentò: «È pieno di luce, il Quartiere Scarlatto.» «E... ha sentito? Ieri pomeriggio, il nostro Rufy è stato il secondo della classe.» Il signor Blesh si voltò e gridò: «Secondo? Secondo? Perché non il primo, vorrei sapere.» «Oh, voi uomini!» disse la signora Blesh. E, rivolgendosi alla signora Hath con un tono più che mai amichevole: «È più forte di loro, non trova? Devono vincere per forza.» Nel pronunciare queste parole, i suoi occhi leggermente sporgenti si posarono per un istante su Hanno Hath. Lo sapevano tutti che il povero Hanno era stato bocciato per tre anni di seguito, benché sua moglie, com'era naturale, non avesse mai ammesso la propria delusione. Kestrel si accorse di quello sguardo e subito provò il desiderio di prendere a calci la signora Blesh. Ma, più di ogni altra cosa, le era venuta voglia di abbracciare il padre e di riempire di baci la sua faccia triste e rugosa. Per risollevarsi il morale, bombardò la possente schiena della signora Blesh di pensieri impertinenti. Cianciagrilli! Bodoloso! Squaquero! All'ingresso della Sala Comunale c'era un'Assistente Esaminatrice che spuntava i nomi da una lista. I Blesh entrarono per primi. «Il piccolo è pulito?» domandò l'Assistente. «Ha imparato a controllare la vescica?» «Oh, sì» rispose la signora Blesh. «È incredibilmente maturo per la sua età.» Quando fu il turno di Pinpin, l'Assistente riformulò le stesse domande. «È pulita? Ha imparato a controllare la vescica?» Il signor Hath guardò la signora Hath. Bowman guardò Kestrel. Tutti e quattro avevano davanti agli occhi le pozze di pipì che a Pinpin capitava di
lasciare sul pavimento della cucina. Ma poi furono travolti da un moto di orgoglio familiare. «A controllare la vescica, signora?» disse la signora Hath con un sorriso raggiante. «Mia figlia sa fare la pipì al ritmo dell'inno nazionale!» L'Assistente Esaminatrice, con aria sorpresa, fece una crocetta sulla casella PULITA. «Banco ventitré» disse. La Sala Comunale era in fermento. Su una grande lavagna vicino alla porta c'erano scritti i nomi dei candidati, tutti e novantasette, in ordine alfabetico. C'era il nome di Pinpin, che sembrava così strano a vederlo scritto per intero: PINTO HATH. La famiglia Hath formò un capannello di protezione intorno al banco ventitré, intanto che la signora Hath toglieva il pannolino a Pinpin. Ora che l'aveva registrata come pulita, sarebbe stato sleale lasciarglielo addosso. Pinpin era felicissima. Le piaceva sentire l'aria fresca sul sederino. Suonò una campanella e nella stanza cadde il silenzio, in attesa che entrassero gli Esaminatori. Novantasette banchi, e a ognuno di essi sedeva un bambino di due anni; in fondo alla sala sedevano genitori e fratelli. L'improvviso silenzio intimidì i piccoli, e non si sentì volare una mosca. Entrarono gli Esaminatori con le toghe scarlatte e svolazzanti, e salirono sulla pedana formando un'unica fila di terribile imponenza. Erano in dieci. Al centro c'era l'autorevole figura dell'Esaminatore Capo, Maslo Inch, l'unico in tutta la sala a indossare i semplici abiti bianchi che indicavano il suo altissimo grado. «In piedi per il Giuramento di Dedizione!» Si alzarono tutti, i genitori tirarono su i piccoli e li rimisero in piedi. Insieme recitarono le parole che tutti conoscevano a memoria. «Giuro di sforzarmi di più, di arrivare più in alto, e di adoperarmi in tutti i modi perché domani sia migliore di oggi. Per amore del mio Imperatore e per la gloria di Aramanth!» Dopodiché si rimisero tutti a sedere e l'Esaminatore Capo pronunciò un breve discorso. Maslo Inch, che aveva solo una quarantina d'anni, era stato da poco promosso a un grado superiore. Ma era così alto di statura e imponente d'aspetto, e tanto profonda era la sua voce, che sembrava avesse ricoperto quel ruolo per tutta la vita. Hanno Hath, che conosceva Inch da lungo tempo, osservava la scena con aria piuttosto divertita. «Amici miei» esordì l'Esaminatore Capo «oggi è una giornata molto speciale, perché i vostri figli sosterranno il primo esame della loro vita.
Sarete orgogliosi di sapere che, a partire da oggi, il vostro piccolo o la vostra piccola avrà un voto suo. E i bambini stessi saranno orgogliosissimi di sapere che con i loro sforzi contribuiranno a migliorare il voto complessivo di tutta la famiglia.» E a questo punto alzò una mano in segno di amichevole avvertimento, guardando il pubblico con occhi severi. «Non dimenticate mai, però, che il voto in sé non significa nulla. Ciò che importa è migliorare sempre di più. Oggi migliori di ieri. Domani migliori di oggi. Questo è lo spirito che ha reso grande la nostra città!» A quel punto gli Esaminatori vestiti di scarlatto si disposero a ventaglio davanti alla prima fila di banchi e cominciarono a muoversi verso le file posteriori. In quanto Esaminatore Capo, Maslo Inch rimase sul podio, come una torre che sovrastava ogni cosa. Il suo sguardo che scrutava i presenti cadde inevitabilmente su Hanno Hath. Nell'attimo in cui lo riconobbe ci fu un guizzo nei suoi occhi, ma subito guardò altrove. Hanno Hath accennò una scrollata di spalle. Lui e Maslo Inch avevano esattamente la stessa età. Erano stati a scuola insieme. Ma ormai era passata una vita. I voti venivano dati all'istante ed erano immediatamente riportati sulla grossa lavagna vicino alla porta. Ben presto cominciò a formarsi una graduatoria. Il piccolo Blesh era primo, con 23 punti su 30, e un voto di 7,6. Siccome la B veniva molto prima della H, la famiglia Blesh aveva terminato prima ancora che gli Hath cominciassero, e la signora Blesh arrivò fra i banchi con il suo trionfante figliolo in braccio, per far beneficiare i vicini della propria esperienza. «Questo stupidino ha dimenticato il numero cinque» spiegò. «Uno, due, tre, quattro, sei.» E con un dito fece finta di minacciare il bimbo. «Quattro, cinque, sei, stupidino che non sei altro! Lo sai bene! Sono sicura che anche Pinto lo sa.» «A dire il vero, Pinpin sa contare fino a un milione» intervenne Kestrel. «Secondo me te lo sei appena inventato» disse la signora Blesh, facendole una carezza sulla testa. «Ha saputo mucca, libro e tazza» continuò. «Ma non banana. Ma 7,6 è un buon inizio. Il primo voto di Rufy era stato 7,8, mi ricordo, e guardatelo adesso. Mai meno di 9. Non che dia ai voti tutta questa importanza, intendiamoci bene!» L'Esaminatore era pronto a occuparsi di Pinpin. Si avvicinò al banco della bambina, con gli occhi sui fogli. «Pinto Hath» disse. Quindi alzò lo sguardo e fece un sorriso solidale. Pinpin incrociò quello sguardo con istintivo sospetto. «Allora, come dobbiamo chiamarti, piccolino mio?»
«Con il suo nome» intervenne la signora Hath. «Allora, Pinto» disse l'Esaminatore ancora tutto sorridente. «Ho con me delle belle immagini. Vediamo un po' se sai dirmi cosa sono.» Mostrò a Pinpin un foglio con delle immagini colorate. Lei le guardò senza dire niente. L'Esaminatore puntò il dito su un cane. «Questo cos'è?» Pinpin non fiatò. «Allora, questo cos'è?» Silenzio. «È un po' sordo?» «No» disse la signora Hath. «Mia figlia ci sente benissimo.» «Ma non parla.» «Immagino che la bambina non ne abbia voglia.» Bowman e Kestrel trattennero il respiro. L'Esaminatore aggrottò la fronte e prese un'espressione seria, quindi scrisse qualcosa sui suoi fogli. Poi tornò alle immagini. «Bene, Pinto. Mostrami il cagnolino. Dov'è il cagnolino?» Pinpin lo guardò di nuovo, senza rispondergli né indicargli niente. «Allora, una casa. Mostrami una casetta.» Niente. La cosa proseguì finché, alla fine, l'Esaminatore non mise via le immagini, con un'espressione ancora più seria. «Proviamo a contare un po', allora. Eh, ragazzino?» Cominciò a contare, sperando che Pinpin lo seguisse, ma lei si limitò a fissarlo. L'uomo prese un altro appunto. «La parte finale del test» disse alla signora Hath «è destinata a valutare il livello delle abilità comunicative. Ascoltare, comprendere e rispondere. Ci sembra che di solito i bambini si sentano più a loro agio se presi in braccio.» «Vuole prenderla in braccio?» «Se non ha nulla da obiettare.» «Ne è sicuro?» «Non è la prima volta, signora Hath. Il piccolino sarà al sicuro con me.» Ira Hath abbassò gli occhi e arricciò un po' il naso. Bowman se ne accorse e inviò un pensiero istantaneo a Kestrel. Mamma manderà tutto all'aria. Invece si limitò a sollevare Pinpin dalla sedia per metterla tra le braccia sollecite dell'Esaminatore. Bowman e Kestrel osservavano la scena con grande interesse. Hanno Hath sedeva con gli occhi chiusi, sapendo che
peggio di così non poteva andare, e che lui non poteva farci proprio un bel niente. «Bene, Pinto, tu sei un bravo piccolino, vero?» L'Esaminatore le fece solletico sotto il mento e le pizzicò il naso. «E questo cos'è? Il tuo nasino?» Pinpin rimase in silenzio. L'Esaminatore prese la grossa medaglia d'oro che aveva al collo, appesa a una catenina, e la fece oscillare davanti agli occhi di Pinpin. La medaglia brillava alla luce del mattino. «È bella, vero? Vuoi toccarla?» Pinpin non disse nulla. L'Esaminatore guardò disperato la signora Hath. «Forse non ve ne rendete conto» disse. «Ma, stando così le cose, mi vedo costretto a dare un bello zero a vostro figlio.» «La piccola va tanto male?» chiese la signora Hath con occhi sfavillanti. «Non riesco a cavargli nulla di bocca. C'è una filastrocca o un gioco di parole che gli piaccia recitare?» «Mi faccia pensare.» La signora Hath assunse l'espressione di chi riflette intensamente, sporgendo le labbra e portando l'indice alla tempia. Bowman inviò un pensiero a Kestrel. Manda tutto all'aria. «Sì» disse infine la signora Hath. «C'è un gioco che le piace. Provi a dirle psst psst psst.» «Psst psst psst?» «A lei piace.» Bowman e Kestrel si inviarono contemporaneamente lo stesso pensiero. Ha mandato tutto all'aria! «Psst psst psst» disse l'Esaminatore a Pinpin. «Psst psst psst, piccolino.» Pinpin lo guardò sorpresa e si contorse appena fra le sue braccia, come per sistemarsi un po' più comodamente. La signora Hath lo guardava, trattenendo il fiato. Bowman e Kestrel guardavano anche loro, con il cuore che batteva forte. È una questione di attimi, fu il pensiero di entrambi. «Psst psst psst» ripeté l'Esaminatore. «È una questione di attimi» disse la signora Hath. Adesso, Pinpin, adesso, la incitarono Bowman e Kestrel. Fallo adesso. Il signor Hath aprì gli occhi e vide la loro espressione. Capì di colpo cosa stava succedendo, si alzò dalla panca e tese le braccia. «Me la dia...» Troppo tardi.
Bene, bene, Pinpin! esultarono Bo e Kess nel silenzio gioioso dei loro pensieri. Bene bene bene Pinpin! Con uno sguardo distante e soddisfatto sul visino tondo, Pinpin stava facendo pipì tra le braccia dell'Esaminatore: un torrentello lungo e regolare. L'uomo avvertì un certo calore, senza capire subito cosa stava succedendo. Poi, vedendo lo sguardo attentissimo della signora Hath e dei suoi figli, abbassò gli occhi. La macchia si stava allargando sulla toga. Nel silenzio più assoluto, porse Pinpin al signor Hath, si voltò e ritornò sui suoi passi. La signora Hath prese Pinpin dalle braccia del marito e la coprì di baci. Bowman e Kestrel si rotolarono a terra, sghignazzando sommessamente. Hanno Hath vide che l'Esaminatore denunciava l'incidente a Maslo Inch, e sospirò silenziosamente fra sé. Lui sapeva ciò che sua moglie e i suoi figli invece ignoravano, e cioè che stamattina avrebbero avuto bisogno di un bel voto. Adesso, senza neanche un punto, probabilmente avrebbero dovuto lasciare la loro casa nel Quartiere Arancione per trasferirsi in uno più modesto. Due stanze, se erano fortunati; ma più probabilmente una stanza sola, con il bagno e la cucina in comune. Hanno Hath non era un uomo vanitoso. Gli importava ben poco del giudizio altrui. Ma adorava la sua famiglia, e il pensiero di non poterle offrire il meglio lo feriva profondamente. Ira Hath strinse forte Pinpin fra le braccia e si rifiutò di pensare al futuro. «Psst psst psst» mormorò la bambina, felice. 2 Kestrel si fa un amico orribile Una volta arrivati a scuola, Bowman e Kestrel si accorsero di aver dimenticato i compiti a casa. «Dimenticato?» tuonò il professor Batch. «Li avete dimenticati?» I gemelli erano uno vicino all'altra, davanti al professore. Lui si lisciò lo stomaco abbondante, quindi si passò la punta della lingua sulle abbondanti labbra. Si preparava a dare un esempio ai suoi scolari. Il professor Batch adorava dare esempi, lo considerava uno degli aspetti migliori del suo lavoro di insegnante. «Cominciamo dal principio. Perché li avete dimenticati?» «Stamattina la nostra sorellina ha fatto il suo primo esame» disse Bowman. «Siamo usciti di casa presto e ce ne siamo dimenticati.»
«Ve ne siete dimenticati? Bene, bene, bene.» Il professor Batch andava pazzo per le scuse poco convincenti. «Alzino la mano» disse rivolgendosi a tutta la classe «alzino la mano coloro che stamattina hanno partecipato all'esame dei piccoli.» Fra le strette file di banchi si sollevarono una dozzina di mani, compresa quella di Rufy Blesh. «E alzino la mano tutti quelli che hanno dimenticato i compiti a casa.» Tutte le mani si riabbassarono. Il professor Batch si voltò a guardare Bowman con tanto interesse che gli occhi sembravano volergli schizzare dalle orbite. «Sembra proprio che voi siate gli unici.» «Sissignore.» Per tutta la discussione, Kestrel rimase in silenzio. Bowman, però, riusciva a sentire che i suoi pensieri ribollivano di rabbia, e che lei era di umore nerissimo. Il professor Batch, ignaro di tutto, cominciò a fare su e giù davanti a loro, intrattenendo con la classe il solito scambio di battute. «Classe! Cosa succede quando non si fanno i compiti?» Da cinquantun giovani bocche scaturì la risposta a tutti nota. «Niente compiti, niente progressi!» «E che succede se non si fanno progressi?» «Niente progressi, niente punti.» «E che succede se non si guadagnano punti?» «Chi non guadagna punti, finisce ultimo in classifica.» «Ultimo.» Il professor Batch si gustò quella parola. «Ultimo! Ul-ti-mo!» La classe rabbrividì. Ultimo! Come Mumpo, il ragazzino più stupido della scuola. Qualche sguardo furtivo andò a posarsi su di lui, che sedeva tremante e accigliato in fondo all'aula, al banco della vergogna. Mumpo il matto, il cui labbro superiore era sempre lucido di moccio, perché non aveva una madre che gli dicesse di pulirselo. Mumpo il sudicio, così puzzolente che nessuno gli andava mai vicino, perché non aveva un padre che gli dicesse di lavarsi. Con passo ondeggiante, il professor Batch raggiunse la lavagna con i voti, sulla quale i nomi degli scolari erano scritti in ordine decrescente, dal più bravo al più asino. Ogni giorno, alla fine delle lezioni, si calcolavano i nuovi punteggi e si aggiornava la graduatoria della classe. «Vi toglierò cinque punti a testa» disse il professor Batch. E, seduta stante, aggiornò la classifica. Bowman e Kestrel scesero di due posti, rispettivamente al venticinquesimo e al ventiseiesimo, mentre la classe
guardava immobile. «Si ruzzola, si ruzzola, si ruzzola» disse il professor Batch mentre operava i cambiamenti. «E che facciamo quando ci ritroviamo a ruzzolare in basso?» La classe cantilenò la risposta: «Ci sforziamo di più, arriviamo più in alto, facciamo in modo che domani sia migliore di oggi.» «Più sforzi. Più in alto. Migliore.» E si voltò a guardare Bowman e Kestrel. «Spero che i compiti non li dimenticherete più. E adesso andate al vostro posto.» Mentre andavano a sedersi, Bowman sentiva Kestrel ribollire di odio per il professor Batch, per la grande lavagna con i voti, per la scuola e per tutta Aramanth. Non fa niente, fu il pensiero che le inviò. Ci rimetteremo in pari. Non voglio, replicò lei. Non me ne importa nulla. Bowman si fermò al banco dove avrebbero dovuto sedersi, due posti indietro rispetto a quello di prima. Ma Kestrel proseguì fino in fondo, dov'era seduto Mumpo. Accanto a lui c'era un posto libero, e fu lì che Kestrel si sedette. Il professor Batch la guardò allibito. E altrettanto fece Mumpo. «Ciao-o» le disse, travolgendola con una folata di fiato puzzolente. Kestrel si girò dall'altra parte, coprendosi la faccia. «Io ti sto simpatico?» le chiese lui, facendosi più vicino. «Stammi lontano» disse Kestrel. «Puzzi.» Il professor Batch la chiamò bruscamente dall'altro capo dell'aula. «Kestrel Hath! Va' immediatamente al tuo posto!» «No» rispose Kestrel. La classe rimase di stucco. «No?» disse il professor Batch. «Hai detto no?» «Sì» disse Kestrel. «Vuoi che ti tolga altri cinque punti per aver disobbedito?» «Faccia come vuole» disse Kestrel. «Non mi importa.» «Non ti importa?» Il professor Batch diventò rosso come un peperone. «Obbedisci immediatamente, altrimenti...» «Altrimenti?» disse Kestrel. Il professor Batch non riuscì a trovare le parole e si limitò a squadrarla. «Mi trovo già all'ultimo banco» disse Kestrel. «Che altro può farmi?» Non sapendo bene cosa rispondere, il professore esitò per un momento, durante il quale la classe trattenne il fiato, Mumpo si avvicinò ancora di
più a Kestrel, che si allontanò ancora di più da lui con una smorfia di disgusto. Il professor Batch se ne accorse e la sua espressione sbigottita lasciò il posto a un sorriso vendicativo. E a passo lento si diresse in fondo all'aula. «Classe» disse in tono pacato. «Classe, giratevi a guardare Kestrel Hath.» Tutti si voltarono verso di lei. «Kestrel si è fatta un nuovo amico. Come ben vedete, si tratta del nostro adorato Mumpo. Kestrel e Mumpo, fianco a fianco. Che ne pensi della tua nuova amica, Mumpo?» Mumpo annuì e sorrise. «Kess mi piace.» «Gli piaci, Kestrel» disse il professor Batch. «Perché non ti siedi più vicino a lui? Potresti addirittura mettergli un braccio intorno alle spalle. Potresti abbracciarlo. È il tuo nuovo amichetto. Chissà, magari in futuro potreste sposarvi: tu diventeresti la signora Mumpo e avresti un sacco di Mumpetti. Non ti piacerebbe?» La classe scoppiò a ridere. Il professor Batch era soddisfatto. Sentiva di avere riconquistato il controllo della situazione. Kestrel sedeva dritta come un fuso e bruciava di vergogna e rabbia. Ma non disse nulla. «Ma può darsi che mi sbagli. Può darsi che Kestrel si stia sbagliando. Può darsi che si sia semplicemente seduta nel posto sbagliato, per errore.» Ormai era vicinissimo e la guardava in silenzio. Lei sapeva che le stava proponendo un affare: la sua obbedienza in cambio del suo orgoglio. «Può darsi che Kestrel si alzi e torni al posto che le era stato assegnato.» La ragazzina cominciò a tremare, ma non si mosse di un millimetro. Il professor Batch aspettò ancora un momento, poi con un sibilo le disse: «Bene, bene. Kestrel e Mumpo. Che splendida coppia!» Per tutta la mattina, Batch continuò a prendersela con lei. Durante la lezione di grammatica scrisse sulla lavagna: RICONOSCERE I TEMPI VERBALI: Kestrel ama Mumpo Kestrel è amata da Mumpo Kestrel amerà Mumpo Kestrel ha amato Mumpo Kestrel avrà amato Mumpo
Durante la lezione di aritmetica scrisse: Se Kestrel dà a Mumpo 392 baci e 98 abbracci, e metà degli abbracci sono accompagnati da baci, e un ottavo dei baci sono bavosi, quanti baci bavosi e abbracci potrà dare a Mumpo? E così per tutta la mattina, mentre la classe sghignazzava. Bowman si voltò parecchie volte a guardare Kestrel, ma lei rimase dov'era e continuò a fare i compiti senza spiccicare parola. All'ora di pranzo, il ragazzo raggiunse la sorella che silenziosamente usciva dall'aula. Con grande fastidio si accorse che quel bavoso di Mumpo le stava appiccicato e che non la mollava neanche per un istante. «Va' all'inferno, Mumpo» disse Kestrel. Ma lui non aveva intenzione di andarci. Continuò semplicemente a trotterellarle a fianco, senza mai staccarle gli occhi di dosso. Di tanto in tanto mormorava: «Mi piace Kess» e poi si puliva il naso sulla manica della camicia. Kestrel si stava dirigendo all'uscita. «Dove stai andando?» «Fuori» rispose lei. «Odio la scuola.» «Sì, ma Kess...» Bowman non sapeva cosa dire. Era ovvio che odiasse la scuola. Tutti la odiavano. Ma bisognava andarci per forza. «Hai pensato al voto complessivo della famiglia?» «Non lo so» disse Kestrel. E accelerò il passo, scoppiando a piangere. Mumpo se ne accorse e ci rimase malissimo. Cominciò a saltellarle intorno, tendendo le mani lerce per accarezzarla ed emettendo gridolini che avrebbero dovuto consolarla. «Non piangere, Kess. Io sarò amico tuo, Kess. Non piangere.» «Va' all'inferno, Mumpo. Puzzi.» «Sì, lo so» replicò lui umilmente. «Kess» disse Bowman «torna a scuola, siediti nel posto giusto e vedrai che Batch ti lascerà in pace.» «Io non ci torno più» disse Kestrel. «Ma devi.» «Lo dirò a papà e lui mi capirà.» «Anch'io» disse Mumpo. «Vattene, Mumpo!» gli gridò Kestrel. «Vattene, altrimenti te le suono!»
E levò in aria un pugno minaccioso. Mumpo cadde in ginocchio fra mille mugolii. «Picchiami pure, se vuoi. Non mi importa.» Il pugno rimase sospeso a mezz'aria e Kestrel guardò Mumpo dritto negli occhi. Anche Bowman lo stava fissando. All'improvviso, senza rendersene conto, capì cosa provasse l'altro e, come lui, si sentì pervadere da un gelido terrore, insieme a un acuto senso di solitudine. Per poco non lanciò un grido, tanto era affamato di gentilezza. «Non voleva dire così» disse. «Non ti colpirà!» «Ma se vuole, può farlo.» Mumpo alzò gli occhi, umidi come il labbro superiore, e la guardò con adorazione. «Diglielo che non lo colpirai, Kess.» «Non ti colpirò» disse Kestrel abbassando il pugno. «Puzzi troppo, non posso toccarti.» Si voltò e s'incamminò velocemente verso la strada, con Bowman al suo fianco. Mumpo li seguiva, tenendosi leggermente indietro. Per non farsi sentire, Kestrel si rivolse al fratello col pensiero. Non ce la faccio ad andare avanti così; proprio non ce la faccio. Ma che possiamo fare! Non lo so, disse lei. Qualcosa. E al più presto, altrimenti esplodo. 3 Parolacce ad alta voce Lasciando il Quartiere Arancione con Bowman al fianco e Mumpo al seguito, Kestrel non aveva nessun piano in mente, se non quello di scappare dall'odiatissima scuola. E, senza pensarci, si stava dirigendo verso una delle quattro strade principali che conducevano all'arena centrale in cui si trovava il Cantore. La città di Aramanth era costruita a forma di cerchio, anzi di tamburo, visto che era racchiusa da mura altissime, erette nel passato per proteggerne gli abitanti dalle tribù guerriere delle pianure. Da generazioni nessuno osava più attaccare la potente Aramanth, ma le mura colossali erano rimaste al loro posto e pochissimi erano coloro che si avventuravano fuori della città. Che mai poteva esserci di così desiderabile, oltre quelle mura? Il litorale roccioso a sud, dove tuonavano le mareggiate dell'immenso oceano
grigio, e le distese desertiche e sterili a nord, che si estendevano fino alle lontane montagne. Là fuori non c'era cibo, non c'erano comodità, non c'era sicurezza. All'interno delle mura, invece, c'era tutto il necessario per la vita, anzi di più, per una bella vita. I cittadini di Aramanth erano consapevoli di quanto fossero fortunati a vivere in questo raro rifugio di pace, abbondanza e uguali opportunità per tutti. La città era suddivisa in quartieri ordinati in anelli concentrici. L'anello più periferico, quello all'ombra delle mura, era costituito dai palazzoni a cubo che formavano il Quartiere Grigio. Subito dopo venivano le case basse del Quartiere Marrone, e le file di casette disposte a mezzaluna del Quartiere Arancione, dove viveva la famiglia Hath. Verso il centro c'era la grande strada circolare del Quartiere Scarlatto, dove un gruppo di spaziosi villini, ognuno con il proprio giardino, si perdeva in un grazioso labirinto di stradine serpeggianti, di modo che ogni casa sembrasse unica e differente dalle altre, sebbene fossero tutte dipinte di rosso. E infine, al centro della città, ecco il magnifico Quartiere Bianco. Era qui che si trovava il Palazzo Imperiale, dove l'Imperatore Creoth VI, padre di Aramanth, vegliava sui suoi figli-cittadini. Era qui che si trovavano le maestose case dei governanti, costruite in marmo o in levigata pietra calcarea, belle e austere. E qui si trovava l'enorme Sala del Successo, luogo in cui venivano esposti i voti di ogni famiglia. Di fronte, sull'altro lato della piazza dove si stagliava la statua dell'Imperatore Creoth I, c'erano le numerose finestre del Collegio degli Esaminatori, sede del Consiglio degli Esaminatori, supremo organo di governo di Aramanth. Di fianco alla piazza, sotto le svettanti mura del Palazzo Imperiale, nel punto in cui si incontravano le quattro strade, si trovava l'arena della città: un grande anfiteatro di forma circolare originariamente progettato per ospitare l'intera popolazione di Aramanth in occasione di dibattiti ed elezioni, in vigore prima dell'introduzione del sistema di valutazione. I cittadini erano ormai troppi per poter entrare in quell'arena fatta solo di nove gradinate di marmo e ormai utilizzata esclusivamente per i concerti e gli spettacoli. E, naturalmente, era lì che aveva luogo il Grande Esame annuale, nel corso del quale tutti i capifamiglia venivano esaminati per aggiornare le graduatorie. Al centro dell'arena, all'interno di un circolo lastricato di marmo bianco, si ergeva la curiosa costruzione di legno nota con il nome di Cantore, che appariva completamente fuori luogo. Tanto per cominciare, non era bianco. Non era simmetrico. Non era semplice ed elegante come tutto il resto
del Quartiere Bianco. A ogni soffio di vento scricchiolava a destra e a sinistra, e quando le folate erano più vigorose emetteva un gemito lugubre. Ogni anno c'era qualche membro del Consiglio degli Esaminatori che proponeva di smantellarlo e sostituirlo con un più dignitoso emblema della città. Ogni anno, però, la proposta veniva respinta, e si mormorava che a farlo fosse l'Imperatore in persona. A dire il vero, la gente guardava il Cantore con un certo affetto perché era così antico, perché era sempre stato lì e perché, diceva la leggenda, un giorno avrebbe cantato di nuovo. Kestrel Hath aveva sempre avuto una passione per il Cantore. Le piaceva perché era imprevedibile e senza scopo, e con il suo grido di tristezza sembrava disprezzare il disciplinato mondo di Aramanth. Certe volte, quando le frustrazioni si facevano veramente insopportabili, lei scendeva di corsa le nove gradinate dell'arena, si metteva a sedere sulle lastre di pietra bianca e parlava al Cantore: gli scricchiolii lamentosi che le offriva in risposta non erano parole, ma la rilassavano. A lei non interessava granché di essere capita. Desiderava soltanto dar sfogo ai propri sentimenti di rabbia e di impotenza, e non sentirsi completamente sola. Quel giorno, finora il peggiore della sua vita, Kestrel s'incamminò istintivamente verso l'arena. Di certo suo padre non era ancora ritornato dalla biblioteca e sua madre era in clinica, dove Pinpin doveva passare l'esame medico del secondo anno. Dove altro poteva andare? In seguito l'avrebbero accusata di aver premeditato il suo riprovevole comportamento, ma Kestrel non premeditava mai niente. Agiva d'impulso, sapendo raramente quale sarebbe stata la sua mossa successiva. In compenso Bowman, che la seguiva, aveva già intuito che si sarebbe cacciata nei guai. In quanto a Mumpo, le stava andando dietro semplicemente perché la amava. La strada che portava in centro passava davanti al cortile della Compagnia dei Tessitori, i cui membri, siccome era ora di pranzo, erano fuori in giardino a fare ginnastica. «Toccate terra! Toccate il cielo!» gridava il loro allenatore. «Potete farcela! Basta provarci!» I tessitori si abbassavano e si rialzavano, si abbassavano e si rialzavano, a ritmo. Poco più in là incontrarono uno spazzino che consumava il pranzo seduto accanto al suo carretto. «Immagino che non abbiate nulla da buttare» disse loro. I bambini ispezionarono le loro tasche e Bowman trovò il toast carbonizzato che aveva portato con sé per non offendere la madre.
«Buttalo per terra» gli disse lo spazzino con gli occhi che brillavano. «Lo getto nella spazzatura» disse Bowman. «Ma bravo! Allora fallo tu il mio lavoro!» disse l'uomo con tono risentito. «Se nessuno getta mai niente per terra, come faccio a raggiungere il mio obiettivo, anzi a superarlo? Ma a voi che importa? Siete del Quartiere Arancione e vi va tutto bene. Non vi passa mica per la testa che io abbia voglia di migliorare come chiunque altro. Provateci voi, ad abitare nel Quartiere Grigio. Mia moglie ha messo gli occhi su uno di quegli appartamenti con il balconcino del Quartiere Marrone.» Bowman gettò per terra il suo toast. «Così va bene» disse lo spazzino. Kestrel si era già rimessa a camminare, sempre con Mumpo al seguito. Bowman fece una corsa per raggiungerli. «E noi quando pranziamo?» domandò Mumpo. «Chiudi il becco» gli ordinò Kestrel. Mentre attraversavano la piazza, la campana della torre batté le due. Dong! Dong! A quest'ora i loro compagni di classe erano di nuovo in marcia verso i banchi, e il professor Batch avrebbe sicuramente segnalato l'assenza ingiustificata dei tre che se l'erano svignata. Il che significava perdere altri punti. Attraversarono la doppia fila di colonne di marmo che circondavano la gradinata più alta dell'arena e cominciarono a scendere. Mumpo si arrestò di colpo sulla quinta gradinata e si mise a sedere sul gradino immacolato. «Ho fame» annunciò. Kestrel lo ignorò e continuò a scendere, con Bowman che la seguiva. Mumpo voleva andarle dietro, ma adesso che si era reso conto di quanta fame avesse, non riusciva a pensare ad altro. Si sedette sul gradino e si abbracciò le ginocchia, desiderando ardentemente un po' di cibo. Finalmente Kestrel si fermò: era ai piedi del Cantore. Tutta la rabbia provocata dall'esame di Pinpin, dalle prese in giro del professor Batch e dall'ordine esasperante di Aramanth, aveva fatto nascere in lei lo sfrenato desiderio di spargere confusione, problemi, scompiglio - non sapeva bene tra chi o cosa o come - di infrangere il regolare e continuo scorrere del mondo, sia pure per un istante. Era venuta dal Cantore perché era suo amico e alleato, ma solo quando fu sotto la torre seppe che cosa avrebbe fatto. Cominciò ad arrampicarsi. Scendi giù!, le gridò Bowman allarmato. Ti puniranno. Cadrai. Ti farai
male. Non me ne importa niente. Si arrampicò sulla piattaforma e poi cominciò a scalare la torre. L'impresa non si rivelò facile, visto che il vento la faceva oscillare e i piedi le scivolavano fra i tubi. Ma Kestrel era agile e forte, e si teneva ben salda. Dalla gradinata superiore dell'arena venne un grido lacerante. «Ehi! Tu! Vieni giù immediatamente!» Un funzionario dalla toga scarlatta stava scendendo rapidamente le scale. Vedendo Mumpo seduto sulla quinta gradinata, si fermò per interrogarlo. «Perché non sei a scuola?» «Ho fame» disse Mumpo. «Fame? Ma se hai appena pranzato.» «E invece no.» «In tutte le scuole si mangia all'una. Se non hai pranzato, puoi prendertela solo con te stesso.» «Sì, lo so» disse l'infelice Mumpo. «La fame però rimane.» A questo punto Kestrel aveva raggiunto il collo del Cantore e stava per fare un'interessante scoperta. Nel grosso tubo metallico c'era una fessura con sopra una freccia che puntava in basso. Sopra la freccia c'era un disegno. Sembrava la lettera C, con un ricciolo che quasi la racchiudeva. Il funzionario dalla toga scarlatta raggiunse la base del Cantore. «Ehi, tu» disse bruscamente a Bowman. «Ma quella che fa? E chi è?» «È mia sorella» rispose Bowman. «E tu chi saresti?» «Suo fratello.» Il funzionario infuriato lo rendeva nervoso, e quando era nervoso Bowman si comportava in maniera totalmente illogica. Dopo un attimo di perplessità l'uomo alzò lo sguardo e gridò: «Scendi, ragazzina! Scendi immediatamente! Che credi di fare lassù?» «Sgloppo!» rispose Kestrel arrampicandosi ancora più alto. «Cosa?» disse il funzionario. «Cosa hai detto?» «Sgloppo» disse Bowman. «Ha detto sgloppo a me?» «Non ne sono sicurissimo» disse Bowman. «Forse l'ha detto a me.» «No, le ho ordinato di venire giù e lei mi ha risposto sgloppo.» «Magari è convinta che sia il suo nome.» «Nessuno si chiama Sgloppo.»
«Non lo sapevo. Immagino che nemmeno lei lo sapesse.» Il funzionario, confuso dalle timide ma logiche ragioni di Bowman, tornò ad alzare gli occhi verso Kestrel, ormai vicinissima alla cima, e gridò: «È a me che hai detto sgloppo?» «Sgloppo e trufolo!» rispose Kestrel. Indispettito, l'uomo si voltò a guardare Bowman. «Vedi! L'hai sentita anche tu! Che vergogna!» E tornò a rivolgersi a Kestrel. «Se non vieni immediatamente giù, ti denuncio!» «Tanto la denuncerà anche se scende» disse Bowman. «Proprio così» disse il funzionario «ma la denuncerò due volte se non lo fa.» E di nuovo rivolto a Kestrel, aggiunse: «E farò in modo che alla tua famiglia vengano tolti dei punti!» «Bodoloso!» gridò Kestrel. Era arrivata a un livello con un pezzo di cuoio concavo quando gridò questa parolaccia, il cui suono viaggiò lungo i tubi del Cantore e riemerse dai corni un paio di secondi più tardi, deformato e amplificato. «Bo-bo-bodo-loo-so!» Quindi Kestrel infilò la testa nel pezzo di cuoio concavo e gridò: «Squaquero!» La sua voce riemerse tonante dai corni: «SQUA-A-QUE-RO-OO!» Il funzionario era inorridito. «Così disturba il turno pomeridiano di lavoro. La sentiranno fino al Collegio.» «Trufo-trufo-trufolo!» gridò Kestrel. «TRU-FO-TRU-FO-TRU-FO-LO-OO!» tuonò il Cantore su tutta l'arena. Gli alti funzionari della città uscirono dal Collegio degli Esaminatori con un gran svolazzare di toghe bianche, per vedere cosa stesse turbando il loro pomeriggio. «O-DIO-O-O LA SCU-U-O-O-LA!» urlò la voce amplificata di Kestrel. «O-DIO-O-O I VO-O-TI!» Gli Esaminatori rimasero sconvolti. «Ha perso la ragione!» dissero. «È una crisi di follia.» «Fatela scendere! Mandate i gendarmi!» «Io non mi sforzerò-ò-ò più!» gridò Kestrel. «Io non arri-i-verò più in al-l-to! E non farò in modo che doma-a-ni sia migliore di oggi-i-i!» Richiamata da quel baccano, la gente andava radunandosi sotto la torre. Una fila interminabile di bambini del Quartiere Marrone, che erano andati a visitare la Sala del Successo, apparve fra la doppia fila di colonne per
ascoltare la voce di Kestrel. «Io non amo il mio Imperatore-re-re!» stava urlando Kestrel. «Non c'è glo-o-ria ad Aramanth-anth-anth!» I bambini rimasero senza fiato. La loro insegnante era troppo scossa per parlare. Una truppa di gendarmi vestiti di grigio scesero le scale di corsa, con i manganelli in mano. «Fatela scendere!» gridò il funzionario con la toga rossa. I gendarmi formarono un cerchio intorno al Cantore e il capitano gridò a Kestrel: «Sei circondata! Non puoi scappare!» «Ma io non voglio scappare» replicò lei. E, mettendo di nuovo la testa nell'imbuto di cuoio, gridò: «SGLOPPOO-O-O AGLI ESAM-I-I-I!» I ragazzini del Quartiere Marrone scoppiarono a ridere. «Oh, malvagia creatura!» esclamò la loro insegnante, guidandoli di nuovo verso la Sala del Successo. «Andiamo, bambini. Non statela a sentire. È indemoniata.» «Scendi!» tuonò il capitano. «Vieni giù o ti farai pena da sola!» «Mi faccio pena già adesso» gridò Kestrel. «Mi faccio pena io, mi fate pena voi e mi fa pena questa città!» Rimise la testa nell'imbuto di cuoio e gridò sull'arena: «NON MI SFORZERO-Ò PIÚ, NON ARRIVERÒ PIÚ IN AL-L-TO, NON FARÒ IN MODO CHE DO-MA-A-NI SIA MIGLIORE DI OGGII!» Bowman rinunciò a fare altri tentativi per aiutare sua sorella. La conosceva troppo bene. Quando si infuriava a quella maniera, non c'era modo di farla ragionare. Doveva sbollire da sola. Aveva ragione la maestra: Kestrel era indemoniata. E adesso si stava liberando, si scaricava a modo suo, oscillando in cima al Cantore e gridando quegli impensabili, spaventosi pensieri che per tanto tempo erano rimasti sepolti in lei. Ormai si era spinta troppo oltre, aveva infranto troppe regole e urlato cose violentissime, e sapeva che per questo le avrebbero inferto la più terribile delle punizioni. E siccome non poteva più tornare indietro, era libera di essere cattiva quanto le pareva. «Sgloppo all'Imperatore!» gridò. «Tanto per dirne una, lui dov'è? Io non l'ho mai visto! Non c'è nessun Imperatore!» I gendarmi cominciarono a scalare il Cantore per trascinarla giù con la forza. Bowman, temendo che potessero farle del male, sgattaiolò via per andare a chiamare suo padre nella biblioteca del Quartiere Arancione, dove
lavorava. Uscì da un lato dell'arena nel momento esatto in cui l'Esaminatore Capo entrava dall'altro, guardando in tetro silenzio la scena che gli si parava davanti. «L'IMPERATORE È UN BODOLO-O-OSO!» fu il gridò amplificato di Kestrel. Maslo Inch fece un respiro profondo e si precipitò giù per le scale. Arrivato alla quinta gradinata, sentì una manina afferrarlo per il bordo della candida toga. «La prego, signore» gli disse una vocetta. «Avrebbe qualcosa da mangiare?» L'Esaminatore Capo abbassò gli occhi e vide Mumpo, con il naso che gli colava, la faccia sporca e due occhi stupidi e umidi. Gli strappò via la toga dalle mani con furia improvvisa. «Non toccarmi, tu, piccolo miserabile!» gli disse con voce sibilante. Mumpo ci aveva fatto il callo a essere maltrattato o deriso, ma l'odio che aveva sentito nella voce dell'Esaminatore Capo lo lasciò di stucco. «Io volevo solamente...» Maslo Inch non rimase ad aspettare la fine della frase e proseguì verso il centro dell'arena. Il suo arrivo seminò il panico fra gli ufficiali e i gendarmi. «Le abbiamo ordinato di scendere. Stiamo facendo il possibile. Dev'essere ubriaca. Ma l'ha sentita? Non vuole darci ascolto.» «Silenzio» ordinò l'Esaminatore Capo. «Che qualcuno acchiappi quello sporco ragazzino, e che lo lavi!» E con un gesto indicò Mumpo alle sue spalle. Uno dei gendarmi si precipitò su per le gradinate e afferrò Mumpo per un polso. Lui lo seguì lentamente, voltandosi per vedere Kestrel in cima al Cantore. Il gendarme lo trascinò alla fontana vicino alla statua di Creoth I, e gli tenne la testa sotto l'acqua fredda. Mumpo urlò e cercò energicamente di divincolarsi. «Faresti meglio a stare attento» gli disse il gendarme, furioso per gli schizzi che l'avevano raggiunto. «Quelli come te non ce li vogliamo, ad Aramanth.» Mollò la presa e si lavò le mani nella vasca della fontana. «Io non ci voglio stare, ad Aramanth» disse Mumpo tremante. «Ma non so dove altro andare.» Nell'arena, Maslo Inch osservava gli sforzi compiuti dai gendarmi per arrampicarsi sul Cantore e catturare la ragazzina, più agile e leggera.
«Che scendano» disse imperioso l'Esaminatore Capo. «Alla fine la prenderanno, signore» disse il capitano. «Ho detto di scendere.» «Sissignore.» I gendarmi scesero, ansimanti e paonazzi. Maslo Inch guardò con calmo disprezzo la folla riunita davanti a lui. «Nessuno ha da lavorare, oggi pomeriggio?» «Non potevamo permetterle di dire cose così orrende...» «Il suo pubblico siete voi. Andatevene e chiuderà quella boccaccia. Capitano, faccia sgombrare l'arena.» I funzionari e i gendarmi cominciarono a dileguarsi un po' alla volta, voltandosi per vedere quale sarebbe stata la mossa successiva dell'Esaminatore Capo. Kestrel però non la smise. Con tutte le parolacce che conosceva compose una specie di canzone, che cantò attraverso il Cantore. «Cianciagrilli cianciagrilli squaquero!» Bodolo-bodolo-bodoloso! Trufolo trufolo brussolo! Sgloppaccio mondo! Maslo Inch alzò lo sguardo su di lei per qualche secondo, come se volesse studiarne il viso. Ma non disse una parola. Quella ragazzina aveva insultato tutto ciò che Aramanth rispettava. L'avrebbero punita, certo, ma meritava più di una semplice punizione. Meritava di esser fatta a pezzi. Maslo Inch non era il genere d'uomo che si tirava indietro, di fronte alle decisioni difficili. Fece un brusco cenno del capo, si voltò e con passo tranquillo si allontanò. 4 Abituarsi al Quartiere Marrone Quando Bowman tornò finalmente con suo padre, l'arena si era svuotata e il Cantore era ammutolito. I gendarmi che piantonavano il perimetro dell'anfiteatro si rifiutarono di lasciarli entrare. Hanno Hath disse loro che era il padre della bambina e che era venuto per ricondurla a casa. I gendarmi mandarono a chiamare il capitano, e il capitano mandò una richiesta di istruzioni al Collegio degli Esaminatori. Ciò che ricevettero fu un semplice ordine: «Mandatela a casa. Di lei ci occuperemo in seguito.»
Mentre padre e figlio scendevano le gradinate, Bowman domandò a voce bassa: «Cosa le faranno?» «Non saprei» rispose Hanno. «Hanno detto che ci abbasseranno il punteggio di famiglia.» «Sì, lo faranno senz'altro.» «Ha detto bodoloso all'Imperatore. E ha detto che non esiste.» «Sul serio?» disse suo padre sorridendo sotto i baffi. «Papà, ma l'Imperatore esiste davvero?» «Chi lo sa? Io non l'ho mai visto e non ho nemmeno mai conosciuto nessuno che l'avesse visto. Forse è semplicemente un'idea di quelle che fanno comodo.» «Ti arrabbierai con Kess?» «No, certamente no. Ma avrebbe fatto meglio a non farlo.» Raggiunsero il Cantore e Hanno Hath chiamò la figlia, che era raggomitolata fra gli imbuti di cuoio. «Kestrel! Adesso scendi, tesoro!» Lei guardò giù e vide suo padre. «Sei arrabbiato con me?» disse con una vocina sottile. «No» le rispose lui dolcemente. «Io ti voglio bene.» Kestrel scese, e non appena toccò terra il coraggio la abbandonò. Cominciò a piangere e a tremare. Hanno Hath la strinse forte fra le braccia e si sedette sulla prima gradinata, lasciando che la bambina versasse tutte le sue lacrime di rabbia e umiliazione. «Lo so, lo so» continuava a ripeterle. Bowman era seduto accanto a loro, in attesa che la sorella si calmasse. Tremava tutto e anche lui voleva stringersi al padre. Gli si avvicinò e gli poggiò la testa sul braccio. "Pa' non può aiutarci" pensò. "Vuole ma non può." Era la prima volta in assoluto che pensava una cosa del genere in modo così chiaro e lineare. E inviò questo pensiero a Kestrel. Pa' non può aiutarci. E col pensiero lei gli rispose: Lo so. Ma ci vuole bene. E in quel preciso momento tutti e due si resero conto di quanto volessero bene al loro papà, ed entrambi cominciarono a baciarlo sulle orecchie e sugli occhi e sulle guance raspose. «Così va meglio» disse lui. «Ecco i miei due uccellini.» Tornarono a casa in silenzio, sottobraccio, senza che nessuno li disturbasse. Ira Hath li stava aspettando con Pinpin in braccio, e le raccontarono
brevemente cosa era successo. «Oh, avrei voluto sentirti!» esclamò. Nessuno dei due genitori rimproverò Kestrel o le disse che si era comportata male. Ma erano tutti consapevoli che ci sarebbe stato un prezzo da pagare. «Avremo problemi, vero?» disse Kestrel guardando il padre negli occhi. «Ebbene, sì. Credo che in qualche maniera vorranno portarci come esempio» disse Hanno con un sospiro. «Ci toccherà trasferirci al Quartiere Marrone?» «Credo proprio di sì. A meno che io non riesca a stupire tutti, al prossimo Grande Esame.» «Ma tu sei intelligentissimo, pa'.» «Grazie, tesoro. Purtroppo, quel po' di intelligenza che mi rimane agli esami passa del tutto inosservata.» E fece una smorfia buffa. Tutti loro sapevano quanto odiasse gli esami. Quella sera i gendarmi non si fecero vedere, così cenarono insieme e poi fecero il bagno a Pinpin come se nulla fosse. Poi, prima di mettere a letto la bambina, mentre il sole del tramonto colorava il cielo di un delicato rosa antico, come tutte le sere espressero il loro desiderio di famiglia. Hanno Hath si inginocchiò a terra e tese le braccia. Bowman si accoccolò sotto un braccio, Kestrel sotto l'altro. Pinpin era in piedi, con il viso schiacciato contro il torace del padre, e tentava di circondarlo con le braccia troppo corte. Ira Hath si inginocchiò dietro Pinpin e avvolse nel suo abbraccio Bowman da una parte e Kestrel dall'altra, formando un minuscolo cerchio. A quel punto, tutti chinarono la testa in avanti fino a toccarsi, e a turno pronunciarono il loro desiderio della sera. Spesso lo facevano tanto per ridere, soprattutto la madre, che una volta aveva desiderato per cinque sere di seguito che i membri della famiglia Blesh si riempissero di brufoli. Ma stasera non erano dell'umore adatto per scherzare. «Vorrei che non ci fossero mai più esami» disse Kestrel. «Vorrei che a Kestrel non capitasse niente di brutto» disse Bowman. «Vorrei che i miei cari figli fossero sani e felici per tutta la vita» disse la loro madre. Questo era ciò che desiderava ogni volta che era preoccupata. «Vorrei che il Cantore cantasse di nuovo» disse il loro padre. Bowman diede di gomito a Pinpin e lei disse: «Vorrei, vorrei.» A quel punto si baciarono tutti, sbattendo come sempre il naso l'uno contro l'altro. Dopodiché andarono a mettere a letto Pinpin. «Credi che succederà di nuovo, pa'?» domandò Bowman. «Il Cantore
canterà ancora?» «È una vecchia storia» rispose Hanno Hath. «Nessuno ci crede più.» «Io sì» disse Kestrel. «Non puoi» obiettò suo fratello. «Tu sai esattamente quello che sanno tutti gli altri.» «Io ci credo perché non ci crede nessun altro» ribatté lei. Questa replica fece ridere suo padre. «Mi sento più o meno allo stesso modo» disse lui. Aveva raccontato quella storia già moltissime volte, ma Kestrel voleva ascoltarla di nuovo. Così, per calmarla, Hanno cominciò a narrare un'altra volta di quel tempo lontano, quando il Cantore cantava. I suoi canti erano talmente soavi che rendevano felici tutti quelli che lo ascoltavano. Ma la felicità degli abitanti di Aramanth aveva urtato il Morah, lo Spirito Supremo. «Ma il Morah non esiste» intervenne Bowman. «No, al Morah non ci crede più nessuno» disse suo padre. «Io sì» disse Kestrel. Il Morah era furioso, raccontava la leggenda, e così aveva inviato il terribile esercito degli Zar, affinché distruggesse Aramanth. Gli abitanti della città, terrorizzati, avevano estratto dal Cantore la sua Voce per consegnarla al Morah. Lui aveva accettato l'offerta e gli Zar si erano affrettati a fare marcia indietro senza distruggere Aramanth. Ma il Cantore aveva smesso di cantare. Kestrel era in visibilio. «È vero» gridò. «Nel Cantore c'è un posto per la Voce. L'ho visto io!» «Sì» disse Hanno. «E anch'io.» «Perciò la leggenda deve essere vera.» «Chissà» disse Hanno a voce bassa. «Chissà.» Le parole di Kestrel ricordarono a tutti loro il suo atto di sfida di quel pomeriggio, e la famiglia ammutolì. «Può darsi che se ne dimentichino» disse Ira Hath con tono fiducioso. «No» disse Hanno. «Non succederà.» «Saremo costretti a trasferirci al Quartiere Marrone. Gli appartamenti sono piccolissimi e dovremo dormire tutti nella stessa stanza» disse Bowman. «Ma non vedo cosa ci sia di male.» Kestrel lo ringraziò con gli occhi; sua madre gli diede un bacio e disse: «Sei un caro ragazzo. Tuo padre, però, russa. Lo sapevi?» «Io russo?» disse Hanno con tono sorpreso.
«Io mi ci sono abituata» disse sua moglie «ma i bambini potrebbero restare svegli per un bel pezzo.» «Perché non facciamo una prova?» suggerì Bowman. «Perché stanotte non cominciamo ad allenarci per il Quartiere Marrone?» Tolsero i materassi dai letti e li portarono nella stanza dei genitori, dove c'era il lettone con il copriletto a righe di mille colori: rosa e giallo, blu e verde, colori che ad Aramanth si vedevano di rado. Ira Hath l'aveva fatto con le sue mani, una sorta di piccolo atto di ribellione, e i bambini ne andavano pazzi. Accostando il lettone alla parete, riuscirono a sistemare i due materassi sul pavimento, uno accanto all'altro: però non c'era più spazio per muoversi, né per la culla di Pinpin. Così decisero che la bambina avrebbe dormito tra Bowman e Kestrel, nel punto in cui i due materassi si toccavano. Quando tutti furono pronti per andare a letto, i gemelli si sdraiarono e il padre prese Pinpin che già dormiva e la adagiò fra di loro. Lei si svegliò e, quando vide il fratello da una parte e la sorella dall'altra, il suo visetto rotondo s'illuminò di un sorriso assonnato. Si voltò prima da una parte, poi dall'altra, mormorò: «Voglio bene, Bo; voglio bene, Kess» e si riaddormentò. Anche i genitori si misero a letto. Per qualche istante rimasero sdraiati, stretti nel buio, ascoltando i loro respiri. Quindi, con la sua voce da profetessa, Ira Hath disse: «Oh, sventurata gente! Domani arriveranno le pene!» Risero piano, come facevano sempre quando lei parlava con quel tono di voce profetico; ma sapevano che quelle parole erano vere. Rabbrividendo, si strinsero ancora di più sotto le coperte. Era così confortevole, rassicurante e intimo dormire tutti insieme nella stessa stanza che si domandarono perché non l'avessero mai fatto prima, e quando avrebbero potuto rifarlo. 5 L'avvertimento dell'Esaminatore Capo La convocazione giunse la mattina presto, mentre erano ancora seduti a fare colazione. Suonarono alla porta e si ritrovarono davanti un messaggero del Collegio degli Esaminatori. L'Esaminatore Capo desiderava vedere Hanno Hath immediatamente, insieme a sua figlia. Hanno si alzò in piedi.
«Andiamo, Kess. Meglio sistemare subito la faccenda.» Kestrel rimase seduta, con un'espressione ostinata. «Non siamo obbligati ad andarci.» «Ma se non lo facciamo, i gendarmi verranno a prenderci.» Kestrel si alzò lentamente, fissando il messaggero con ostilità. «Fammi pure quello che vuoi» disse. «Non me ne importa niente.» «Io?» disse il messaggero risentito. «E che c'entro? Io mi limito a consegnare i messaggi. Credi forse che qualcuno si prenda il disturbo di informarmi sul loro contenuto?» «Mica sei obbligato a farlo.» «Ah, davvero? Noi viviamo nel Quartiere Grigio, noi! Provateci voi a dividere il gabinetto con altre sei famiglie. Provate a vivere con una moglie malata e due maschi scatenati in una stanza sola. Ah, no. Io faccio il mio lavoro come si deve, e anche meglio. E un bel giorno ci daranno il permesso di trasferirci al Quartiere Marrone. Proprio come piace a me. E grazie tante a voi.» Maslo Inch li stava aspettando nel suo enorme ufficio, seduto a una immensa scrivania. Quando Hanno e Kestrel entrarono nella stanza, lui si alzò in tutta la sua imponente statura. Con loro grande sorpresa, li accolse con un sorriso e l'aria del grand'uomo benevolo. Uscì da dietro la scrivania simile a una fortezza, strinse loro la mano e li invitò ad accomodarsi insieme a lui sulle maestose poltrone disposte a cerchio. «Quando avevamo la tua stessa età, io e tuo padre eravamo compagni di giochi» disse a Kestrel. «E per un po' siamo stati anche nella stessa classe. Ti ricordi, Hanno?» «Sì» rispose l'altro. «Mi ricordo.» Ricordava che Maslo Inch era molto più grosso di tutti gli altri e che li costringeva a inginocchiarsi davanti a lui. Ma di questo non fece parola. Voleva solo che il colloquio finisse alla svelta. I bianchi abiti di Inch erano talmente abbaglianti che dopo un po' bisognava distogliere lo sguardo; come dal suo sorriso, del resto. «Sto per dirti una cosa che forse ti sorprenderà» disse l'Esaminatore Capo a Kestrel. «A scuola tuo padre era molto più bravo di me.» «Non mi sorprende affatto» ribatté Kestrel. «Ah, no?» disse Maslo Inch con voce neutra. «E allora, come mai io sono l'Esaminatore Capo di Aramanth, mentre tuo padre fa il bibliotecario in una piccola biblioteca di quartiere?»
«Perché a lui gli esami non piacciono» rispose Kestrel. «A lui piacciono i libri.» Hanno Hath notò una certa irritazione affiorare sul volto dell'Esaminatore Capo. «Sappiamo di essere qui per ciò che è successo ieri» disse pacatamente. «Veniamo al dunque.» «Ah, sì. Ieri.» E Inch rivolse il suo sorriso a Hanno, come per ipnotizzarlo con il suo splendore. «Tua figlia ci ha offerto un bello spettacolo. Ma ne parleremo al momento giusto.» Hanno Hath guardò l'Esaminatore Capo e vide che i suoi occhi erano due profondissimi pozzi di odio. "Perché?" pensò. "Quest'uomo così potente non ha nulla da temere da me. Perché mi odia così tanto?" Maslo Inch si alzò in piedi. «Seguitemi, per favore. Tutti e due.» E uscì dalla stanza senza guardarsi indietro, con Hanno e Kestrel che lo seguivano mano nella mano. L'Esaminatore Capo li condusse in un lungo corridoio deserto, fiancheggiato su entrambi i lati da colonne sulle quali erano scritti nomi a caratteri d'oro. Non si trattava di uno spettacolo insolito ad Aramanth, così padre e figlia non ci badarono. Chiunque facesse un po' di strada nella vita si ritrovava il nome scritto su qualche muro, da qualche parte. Era un'usanza molto antica e nessuno poteva sottrarvisi. Il corridoio collegava il Collegio degli Esaminatori al Palazzo Imperiale, e sbucava in un cortile nel cuore dell'edificio, dove c'era un guardiano vestito di grigio intento a spazzare i vialetti. Maslo Inch diede inizio a quello che evidentemente era un discorso già preparato. «Kestrel» esordì. «Voglio che tu faccia bene attenzione a ciò che oggi ti dirò e ti mostrerò, e che te lo ricordi per tutta la vita.» La bambina non disse nulla e continuò a tenere gli occhi fissi sulla scopa del guardiano: frushh, frussh, frussh. «Mi sono informato sul tuo conto» disse l'Esaminatore Capo. «E mi hanno riferito che ieri a scuola ti sei seduta all'ultimo banco.» «E allora?» disse lei, continuando a fissare il guardiano che teneva gli occhi bassi, con un'espressione vacua sul viso. A cosa penserà? Bo lo saprebbe di sicuro. «E che hai detto al tuo insegnante: "Che altro può farmi?"» «E allora?» Perché continua a spazzare? Non c'è nulla da spazzare. «E poi hai dato pubblico spettacolo dei tuoi capricci infantili.»
«E allora?» «Sai bene che i tuoi voti influiscono sul punteggio complessivo della tua famiglia.» «E allora?» Frushh, frussh, frussh, fa la scopa. «Allora, è quello che vedremo.» Si fermò davanti a una porta in un muro di pietra. La porta era pesante e chiusa da un grosso chiavistello di ferro. Maslo Inch mise la mano sul chiavistello e si volse di nuovo verso Kestrel. «Che altro può farmi? Domanda interessante, ma inopportuna. Dovresti chiederti: Che altro posso fare per me stessa e per tutti quelli a cui tengo?» Tirò il chiavistello e spalancò la porta massiccia. Oltre c'era una galleria di pietra che scendeva verso il buio. «Vi porto a vedere le miniere di sale. In un certo qual modo, si tratta di un privilegio. Solo pochissimi fra i nostri concittadini le hanno viste, e per una ragione che presto vi risulterà evidente.» Lo seguirono giù per la galleria, inseguiti dall'eco dei propri passi. Le pareti, si accorse Kestrel, erano ricavate da una roccia bianca che scintillava nella luce fioca: il sale! Durante le lezioni di storia aveva imparato che la città di Aramanth era stata costruita proprio sul sale. I Manth, tribù nomade in cerca di una patria, avevano trovato tracce del minerale e si erano stabiliti lì per poterlo estrarre. E mentre scavavano in quell'enorme tesoro sotterraneo, le tracce erano diventate vene e le vene, caverne. Il sale aveva arricchito i Manth, che con quella ricchezza avevano costruito la città. «Vi siete mai chiesti che fine avessero fatto le miniere?» domandò Maslo Inch, mentre scendevano lungo la tortuosa galleria. «Una volta estratto tutto il sale, non era rimasto che un enorme spazio. Un enorme nulla. Un vuoto. A che serve un vuoto, secondo voi?» Adesso riuscivano a percepire il lento movimento dell'acqua, un gorgoglio basso e profondo. E in quell'atmosfera umida sentivano una puzza acre di gas. «Per cento anni abbiamo preso dal suolo ciò che desideravamo di più. E per altri cento anni abbiamo riversato nel suolo ciò che desideravamo di meno!» La scoscesa galleria si aprì di colpo su un'ampia stanza sotterranea, uno spazio indistinto e buio riempito dal rumore dell'acqua in movimento, come se mille ruscelli venissero a riversarsi in un mare sotterraneo. Il fetore era pungente e nauseante.
Maslo Inch li condusse verso un lungo parapetto. Dall'altra parte, un po' più giù, si estendeva un vasto lago di melma pieno di lenti mulinelli, e che qua e là ribolliva come un gigantesco calderone. Le pareti sopra il lago brillavano e scintillavano come se fossero ricoperte di sudore. A intervalli regolari erano traforate da grossi tubi di ferro dai quali usciva dell'acqua grigia, a volte solo un rivolo, a volte a fiotti. «Le fogne» disse l'Esaminatore Capo. «Non belle, ma necessarie.» Istintivamente, sia Kestrel che suo padre si coprirono il naso per difendersi da quel fetore. «Tu sei convinta, signorina, che se fai come ti pare, senza impegnarti a scuola, tu e la tua famiglia passerete dal Quartiere Arancione a quello Marrone. E credi che non te ne importi niente. Forse, però, verrete declassati ancora, dal Quartiere Marrone a quello Grigio. Ma credi che non ti importi nemmeno di questo. Il Quartiere Grigio è il fondo, e a quel punto sarete lasciati in pace perché più in basso di così non si può andare. È questo che pensi, vero? Che il peggio sia precipitare fino al Quartiere Grigio.» «No» disse Kestrel nonostante la pensasse proprio così. «No? Pensi che potrebbe andarvi peggio?» Lei non rispose. «Hai ragione. Potrebbe andarvi molto, molto peggio. In fin dei conti, per quanto povero, il Quartiere Grigio è sempre parte di Aramanth. Ma sotto Aramanth c'è un altro mondo.» Kestrel abbassò lo sguardo sulla torbida superficie. Si estendeva in lontananza, tanto da non riuscire a vederne la fine. E laggiù, in lontananza, le parve di scorgere un bagliore, una pozza di luce, come quella che certe volte squarciava le nuvole sulle colline lontane. Fermò lo sguardo su quel remoto bagliore e il lago maleodorante le parve quasi bello. «Avete davanti a voi il Lago Sotterraneo, fatto di materie in via di decomposizione e più grande di tutta Aramanth. In mezzo al lago ci sono parecchie isole, isole di fango. Le vedete?» Aguzzando la vista riuscirono a scorgere, sulla scivolosa superficie grigio-marrone, una serie di rilievi. Guardando meglio, colsero un movimento e, increduli, videro ciò che sembrava una figura passare lontana sul fango e improvvisamente svanire. I loro occhi si erano ormai abituati all'oscurità e cominciarono a scorgere altre figure, tutte dello stesso colore del fango su cui strisciavano, scivolando silenziosamente dentro e fuori le ombre. «Quaggiù ci vive qualcuno?» domandò Hanno. «Certo. Molte migliaia di persone. Uomini, donne, bambini. Gente pri-
mitiva, degenere, poco più evoluti delle bestie.» Li invitò ad avvicinarsi di più al parapetto. Proprio di fronte a loro c'era un angusto pontile sospeso sul lago, che partiva da un cancelletto. Una ventina di metri più sotto, ormeggiate al pontile, c'erano diverse chiatte a fondo piatto, piene di rifiuti di ogni sorta. «Campano con i nostri scarti. Vivono di immondizia e sull'immondizia.» Quindi si rivolse a Kestrel. «Hai chiesto: «Che altro può farmi?» Eccoti la risposta. Perché ci sforziamo di più? Perché arriviamo più in alto? Perché non vogliamo vivere così.» Kestrel fece spallucce. «Non me ne importa niente» disse. L'Esaminatore Capo la guardò attentamente. «Non te ne importa?» disse lentamente. «Non ti credo.» «Libero di non crederci.» «Allora dimostramelo, che non te ne importa niente.» Aprì il cancello del parapetto e lo tenne spalancato, invitandola a passare. Kestrel lanciò uno sguardo a quelle assi scivolose. «Avanti. Va' fino in fondo. Se davvero non te ne importa niente.» La ragazzina fece un passo sul pontile e si fermò subito. Il Lago Sotterraneo la spaventava, ma dentro bruciava di rabbia e di orgoglio, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per cancellare quel sorrisetto ipocrita dalla faccia dell'Esaminatore Capo. Così fece un altro passo. «Basta così, Kess» disse suo padre. Poi, rivolgendosi all'Esaminatore Capo, disse: «Hai reso l'idea, Maslo. Di lei adesso me ne occupo io.» «Dei tuoi figli te ne sei occupato troppo a lungo, Hanno.» Lo disse con la voce calma di sempre, ma con una punta di veleno. «I figli seguono l'esempio dei loro genitori. E in te c'è qualcosa che non funziona, amico mio. In te non c'è più la voglia di lottare. Nessuna volontà di riuscire.» Kestrel lo ascoltò e venne travolta da una furia gelida. Di colpo, s'incamminò velocemente lungo il pontile. Guardava dritto davanti a sé, con lo sguardo fisso sul punto in cui quella luce distante colava sulla superficie buia del lago, e camminava mettendo un piede davanti all'altro. «Kess! Torna qui!» gridò suo padre. Fece per seguirla, ma Maslo Inch gli afferrò un braccio con una mano e lo immobilizzò in una stretta di ferro. «Lasciala andare» disse. «Così impara.» Con la mano libera azionò una lunga leva di fianco al cancello e si sentì un sibilo gorgogliante, come se i piloni anteriori del pontile cominciassero a sprofondare nel lago. Il pontile si inclinò verso il basso, trasformandosi
in una sorta di scivolo sempre più ripido. Kestrel lanciò un urlo, si voltò e cercò di tornare indietro, ma le assi del pontile erano coperte di fanghiglia che cominciò a farla scivolare all'indietro. «Papà!» gridò. «Aiutami!» Hanno scattò verso di lei, tentando furiosamente di divincolarsi dalla morsa dell'Esaminatore Capo, ma non riuscì a liberarsi. «Lasciami! Cosa le stai facendo? Sei impazzito?» Maslo Inch non le toglieva gli occhi di dosso, mentre Kestrel cercava invano di frenare la caduta. «Ruzzola, ruzzola, ruzzola» gridò Maslo. «Allora, Kestrel, adesso te ne importa qualcosa?» «Papà! Aiutami!» «Tirala fuori di lì! Annegherà!» «Te ne importa adesso? Adesso ce la metterai tutta? Dimmi! Voglio sentirlo!» «Papà!» gridò Kestrel mentre scivolava in fondo alla passerella e nel lago. I suoi piedi toccarono l'acqua marrone e, con un terribile risucchio, scomparvero nel fango liquido. «Affondo!» «Dimmi che ti importa!» gridò Maslo Inch stringendo il braccio di Hanno talmente forte che le dita gli erano diventate bianche. «Voglio sentirtelo dire!» «Tu sei matto!» disse Hanno. «Sei impazzito del tutto!» In preda alla disperazione, Hanno riuscì a liberare il braccio e colpì violentemente l'Esaminatore Capo in piena faccia. Maslo Inch si voltò verso di lui, perdendo di colpo il controllo. Strapazzò Hanno come se fosse un pupazzo. «Non osare mettermi le mani addosso!» gli urlò. «Verme! Miserabile! Poveraccio! Fallito! Hai fallito con gli esami, hai fallito con la tua famiglia, hai fallito con il tuo paese!» In quel preciso momento, Kestrel capì che aveva smesso di affondare. Appena sotto la superficie c'era un fondo solido, ed era sprofondata solo fino alle ginocchia. Si aggrappò quindi ai lati dello stretto pontile con entrambe le mani e cominciò a risalire. Aveva smesso di gridare. Si limitava a fissare l'Esaminatore Capo e ce la metteva tutta per risalire il pendio. Maslo Inch era troppo impegnato a urlare contro suo padre per accorgersi di lei. «A che servi? Sei una nullità! Sei un fannullone, uno scansafatiche, uno
che si aspetta tutto dagli altri e che non fa altro che leggere libri inutili! Sei un parassita! Sei un microbo che con la sua inetta pigrizia infetta tutti coloro che gli stanno accanto! Mi fai schifo!» Kestrel arrivò in cima al pontile, fece un respiro profondo e con urlo da far raggelare il sangue si scagliò sull'Esaminatore Capo, prendendolo alle spalle. «Cianciagrilli!» Gli allacciò le braccia intorno al collo e le gambe intorno alla vita, poi con tutta la forza che aveva in corpo cominciò a stringere per fargli mollare suo padre. «Squaquero! Tropolo bodoloso! Sgloppo cianciagrilli!» Inch, colto di sorpresa, lasciò il braccio di Hanno Hath e si voltò per cercare di liberarsi dalla morsa di Kestrel. Ma per quanto si dimenasse, continuava a ritrovarsela appiccicata addosso, con quelle braccine muscolose che lo strangolavano, quei piedi inzaccherati che lo prendevano a calci nelle costole. La zuffa fu breve ma intensa, e le gambe di Kestrel ebbero modo di ripulirsi del fango sugli abiti dell'Esaminatore Capo. Quando Inch riuscì finalmente a liberarsi, staccandosela di dosso, la scaraventò più lontano di quanto avrebbe voluto. Di scatto, lei si alzò in piedi e si mise a correre. L'Esaminatore non provò nemmeno a correrle dietro. Era rimasto troppo traumatizzato dalla vista dei propri abiti infangati. «I miei abiti immacolati!» esclamò. «Quella streghetta!» Kestrel era già scomparsa, correndo a più non posso nella galleria, verso la porta lontana che dava sull'esterno. Maslo Inch si diede una spazzolata con le mani e azionò la leva che riportò il pontile nella posizione iniziale. Dopodiché, si rivolse a Hanno Hath. «Be', vecchio mio» disse con una calma glaciale. «Che mi dici di tutto questo?» «Non avresti dovuto farlo.» «Tutto qui?» Hanno rimase in silenzio. Non si sarebbe scusato per il comportamento di sua figlia, ma non era nemmeno tanto folle da dire ciò che veramente pensava, e cioè che era orgoglioso di lei. Perciò mantenne un'espressione neutra e guardò con infinita soddisfazione le macchie di fango sugli abiti dell'Esaminatore Capo. «Adesso mi rendo conto» disse Maslo Inch sottovoce «che quella ragaz-
zina rappresenta un problema più grosso di quanto immaginassi.» 6 La Scuola Speciale Kestrel sbucò di corsa dalla galleria e andò a sbattere in pieno contro il guardiano vestito di grigio. Sicuramente l'aveva sentita arrivare, visto che aveva mollato la scopa e la stava aspettando a braccia spalancate. Non appena se la ritrovò addosso, la sollevò in aria e lei cominciò a scalciare come un'indemoniata, urlando a squarciagola. Ma il guardiano era un vero omaccione, molto più grosso di quanto non le fosse sembrato quando era curvo sopra la sua scopa. Ed era forte. Le sue grida non sembravano turbarlo minimamente. Maslo Inch raggiunse il cortile, seguito da Hanno, nel momento esatto in cui altri due guardiani stavano sopraggiungendo di corsa, attirati dal chiasso. «Papà» urlò Kestrel. «Papà-à-à!» «Mettila giù!» disse Hanno Hath. «Sta' zitto!» gridò l'Esaminatore Capo con un tono autoritario che mise a tacere anche Kestrel. «Buttate fuori quest'uomo» disse con voce più pacata, e i due guardiani si precipitarono a eseguire. «Conducete la ragazzina alla Scuola Speciale.» «No!» gridò Hanno Hath. «Ti prego, no!» «Papà!» urlò Kestrel dimenandosi e tirando calci. «Papà-à-à!» Ma la stavano già trascinando nella direzione opposta. L'Esaminatore Capo rimase a guardare impassibile, mentre li portavano via entrambi. «Che altro può farmi, eh?» disse fra sé. E in fretta andò a mettersi un abito pulito. L'edificio adibito a Scuola Speciale si trovava all'interno del comprensorio dell'antico palazzo, su uno dei lati d'una piazzetta deserta. Era una costruzione solida, di pietra, molto simile a quelle dei migliori quartieri della città, con una grande porta davanti alla quale c'erano tre gradini. Mentre il guardiano si avvicinava con Kestrel in braccio, un portiere vestito di grigio aprì la porta dall'interno e, non appena i due ebbero varcato la soglia, richiuse subito.
«Ci manda l'Esaminatore Capo» disse il guardiano. Il portiere annuì e aprì una seconda porta. Kestrel venne spinta in una stanza lunga e angusta, e abbandonata lì senza una parola. La porta si richiuse dietro di lei con un clic. Era sola. Per la prima volta si rese conto che stava tremando violentemente, in preda a un misto di paura, rabbia e sfinimento. Cominciò a respirare profondamente e si guardò intorno. La stanza era vuota e senza finestre. Concentrò la sua attenzione sulla porta, sperando di trovare il modo di aprirla. Si accorse che era priva di maniglie e cominciò a tastarla tutt'intorno, ma era ben chiusa e sembrava proprio che non ci fosse niente da fare. A quel punto, tornò a ispezionare la stanza. Uno dei muri era interamente coperto da una semplice tenda grigia che arrivava fino a terra. Kestrel la scostò e vide che dietro c'era una finestra che dava su una stanza molto più ampia. Con prudenza, tirò la tenda e osservò ciò che stava succedendo dall'altra parte. Con la schiena rivolta verso di lei, c'erano tantissimi bambini seduti dietro innumerevoli file di banchi, forse un centinaio. Erano tutti diligentemente chini sopra i loro libri, intenti a studiare in silenzio. Almeno così sembrava, visto che dall'altra parte del vetro non si sentiva volare una mosca. In fondo alla classe c'erano la cattedra e la lavagna, ma non l'insegnante. I bambini degli ultimi banchi erano vicinissimi alla finestra. Forse loro avrebbero potuto aiutarla. Kestrel batté delicatamente sul vetro, nel caso ci fosse qualche insegnante nelle vicinanze. I bambini non si mossero di un millimetro. A quel punto provò a bussare un po' più forte, ma senza effetto. Cominciò a balenarle l'idea che in loro ci fosse qualcosa di strano. Tenevano la testa talmente china sui libri che non riusciva nemmeno a vedere le facce, ma poteva scorgere le mani, stranamente rugose. E avevano i capelli grigi, o bianchi, o - se ne accorgeva adesso - qualcuno era calvo. Ora che guardava più attentamente, non capiva come avesse fatto a scambiarli per bambini. Tuttavia, dei bambini avevano la taglia e le dimensioni. E di certo... La porta si aprì dietro di lei. Kestrel si voltò, con il cuore che le batteva fortissimo. Un'Esaminatrice di mezza età con la veste scarlatta entrò e si richiuse la porta alle spalle. Aveva in mano un fascicolo aperto e continuava a spostare lo sguardo dai documenti a Kestrel e viceversa. Aveva un viso simpatico. «Kestrel Hath?» disse.
«Sì, signora» disse Kestrel. Le aveva risposto con calma, con le mani intrecciate dinanzi a sé e gli occhi bassi. D'impulso, aveva deciso di fare la brava. L'Esaminatrice la guardò perplessa. «Cos'hai combinato, bambina mia?» «Ero spaventata» disse Kestrel con una vocina sottile. «Credo di essere stata presa dal panico.» «L'Esaminatore Capo ti ha mandata alla Scuola Speciale.» Mentre parlava, gettò uno sguardo alla classe che lavorava in silenzio al di là del vetro e scosse la testa. «Mi sembra un po' eccessivo.» Kestrel non replicò, ma ce la mise tutta per apparire triste e buona. «La Scuola Speciale, sai» disse l'Esaminatrice «è per i bambini più turbolenti. Quelli sfrenati e impossibili da tenere a bada. E la cosa è molto... be', definitiva.» Kestrel si avvicinò all'Esaminatrice, le prese la mano e gliela strinse fiduciosa, guardandola con occhi innocenti. «Lei ce l'ha una figlia, signora?» le chiese. «Sì, bambina mia. Certo.» «Allora saprà cosa è meglio per me, signora. Proprio come farebbe con sua figlia.» L'Esaminatrice guardò Kestrel e sospirò, quindi le accarezzò la mano. «Bene, bene» disse. «Secondo me, dovremmo andare a parlare con l'Esaminatore Capo, non credi? Forse c'è stato un errore.» Si voltò verso la porta senza maniglia e disse: «Aprite la porta, per favore!» Un guardiano aprì e l'Esaminatrice e Kestrel uscirono nella piazzetta, mano nella mano. Ora che camminava sui propri piedi, Kestrel vide che un lato della piazza era costituito dal muro posteriore della Grande Torre, cioè l'edificio che si trovava al centro del Palazzo Imperiale. Era la più alta costruzione di Aramanth e si vedeva da ogni punto del Quartiere Arancione. Vista così da vicino pareva immensamente alta, e svettava superando persino le mura di cinta della città. Mentre attraversavano la piazza, si aprì una porticina ai piedi della torre e ne uscirono due uomini vestiti di bianco. Accorgendosi che l'Esaminatrice teneva Kestrel per mano, il più vecchio dei due aggrottò la fronte e disse: «Che ci fa qui una bambina del Quartiere Arancione?» L'Esaminatrice glielo spiegò. L'uomo in bianco diede una rapida scorsa
alla documentazione. «Quindi l'Esaminatore Capo ha ordinato alla bambina la Scuola Speciale» disse bruscamente. «E lei si è assunta la responsabilità di mettere in dubbio la sua decisione.» «Credo che si tratti di un errore.» «Conosce il caso in questione?» «Be', no» rispose l'Esaminatrice arrossendo leggermente. «È più una mia sensazione.» «Una sensazione?» La voce dell'uomo si fece pungente e sprezzante. «E lei vorrebbe prendere una decisione che condizionerà questa bambina per il resto della sua vita, basandosi semplicemente su di una sensazione?» Per il resto della sua vita! Kestrel rabbrividì dalla punta dei piedi alla punta dei capelli. Si guardò intorno in cerca di una via di fuga. Alle sue spalle c'era l'edificio della Scuola Speciale dal quale erano appena uscite. Di fronte a sé aveva gli uomini vestiti di bianco. «Volevo semplicemente parlare con l'Esaminatore Capo, per assicurarmi di aver inteso bene le sue intenzioni.» «Le sue intenzioni sono scritte qui, nero su bianco. O no?» «Sì.» Kestrel notò che la porta della torre era rimasta socchiusa. «Sta forse insinuando che quando l'Esaminatore Capo ha firmato quest'ordine non sapeva quel che stava facendo?» «No.» «E allora perché non si limita a eseguire gli ordini?» «Sì, certo. Mi dispiace.» Kestrel capì di aver perso anche l'unica protezione che le era rimasta. L'Esaminatrice le rivolse uno sguardo desolato e, rivolgendosi a Kestrel, ripeté: «Mi dispiace.» «Non fa niente» disse la ragazzina stringendole lievemente la mano. «Grazie per averci provato.» Quindi le lasciò la mano e si mise a correre. Entrò nella torre e si chiuse la porta alle spalle prima che gli altri si accorgessero di ciò che stava accadendo. Tirò il chiavistello interno e solo a quel punto, con il cuore in gola, si guardò intorno. Era in un piccolo ingresso, con due porte e una stretta rampa di scale. Entrambe le porte erano chiuse a chiave. Sentiva le grida che provenivano da fuori e i colpi battuti contro la porta che dava sull'esterno. Poi sentì colpi più forti mentre cercavano di forzarla. E infine una voce che gridava:
«Tu resta lì; io faccio il giro dall'altra parte.» Non aveva scelta: cominciò a salire le scale. Saliva sempre più in alto, e la scala si faceva sempre più buia. Le parve di sentire porte che si aprivano e si richiudevano sotto di lei, così continuò a salire più in fretta che poteva. Saliva, saliva, girava, girava, finché vide una luce che veniva dall'alto. Giunse a una finestrella sbarrata e profondamente incassata nei muri di pietra della torre. Da lì si vedevano i tetti del palazzo e uno scorcio della piazza dove si ergeva la statua dell'Imperatore Creoth. Le scale continuavano a salire, e riprese la scalata con il fiato corto e le gambe indolenzite; la luce che proveniva dalla finestrella cominciò ad affievolirsi. Altri suoni le arrivarono dal basso: rumore di passi frettolosi, rimbombo di voci. Salì ancora, ma più lentamente, chiedendosi dove portasse la scala e se, una volta arrivata in cima, avrebbe trovato un'altra porta chiusa a chiave. Ecco un'altra finestra. Esausta e tremante, si concesse un momento di riposo per guardare la città dall'alto. Riusciva a distinguere le persone che camminavano nelle strade, i negozi e le case eleganti del Quartiere Scarlatto. Sentì un rumore di stivali su per le scale, e la paura le diede la forza di ricominciare a salire. Bum, bum, bum, facevano gli stivali sotto di lei, e il rumore rimbombava lungo le pareti. Ci siamo quasi, disse fra sé. Ci siamo quasi, ci siamo quasi. In realtà, non poteva sapere quanti scalini ci fossero. E poi, proprio quando non ce la faceva più, giunse a un minuscolo pianerottolo. Davanti a lei c'era una porta. Girò la maniglia con mano tremante. Per favore, disse fra sé. Per favore, apriti. La porta non si mosse. Di colpo, la paura che era riuscita a tenere a bada fino a quel momento esplose e la travolse. Scoppiò a piangere e si rannicchiò ai piedi della porta, abbracciandosi le ginocchia. Bum, bum, bum. Kestrel tremava e singhiozzava, e gli stivali continuavano a salire. Poi sentì un rumore nuovo. Passi strascicati e vicinissimi. E il rumore di un chiavistello che veniva tirato. La porta si aprì. «Entra» le disse una voce impaziente. «Sbrigati!» La ragazzina alzò gli occhi e vide una faccia chiazzata e paonazza, due occhi umidi e sporgenti e una barba grigia. «Ce ne hai messo di tempo!» disse l'uomo. «Adesso che sei qui, accomodati.»
7 Le lacrime dell'lmperatore Dopo che Kestrel fu entrata, l'uomo barbuto richiuse la porta con il chiavistello e le fece segno di stare calma. Entrambi sentivano il rumore degli stivali su per le scale, sempre più forte. Poi qualcuno arrivò al pianerottolo e si fermò. «Che mi venga un accidente!» disse una voce sorpresa. «La ragazzina non è qui!» Kestrel e l'uomo barbuto videro girare la maniglia della porta, mentre colui che aveva parlato cercava di aprirla dall'esterno. E poi sentirono il rimbombare della sua voce giù per le scale. «Non è qui, stupidi cianciagrilli! Mi sono fatto tutte queste scale e lei non c'è!» Quindi, bofonchiando, cominciò a scendere le interminabili scale a chiocciola. L'uomo barbuto si lasciò scappare un risolino. «Cianciagrilli!» disse. «Erano secoli che non sentivo quella parola. A quanto pare le parolacce di un tempo sono ancora in voga.» Prese Kestrel per mano e la condusse accanto a una finestra, per vederla meglio. E lei studiò lui. Era vestito di azzurro, cosa che la stupì. Ad Aramanth nessuno vestiva di azzurro. «Bene» disse lui. «Non mi aspettavo una come te. Ma andrai bene lo stesso.» Quindi si avvicinò al tavolo posto al centro della stanza, sul quale si trovava una ciotola di cristallo piena di pastiglie di cioccolato, e ne mangiò tre, una dopo l'altra. Kestrel continuava a guardare fuori dalla finestra. La stanza doveva trovarsi quasi in cima alla torre, visto che superava le mura della città. Da una parte si vedeva il mare, dall'altra il deserto che si stendeva fino alla catena montuosa del Nord, avvolta dalla nebbia. «È enorme!» disse Kestrel. «Eccome. Anche più grande di quanto non sembri da qui.» Osservando la città sotto di lei, la ragazzina vide il Quartiere Scarlatto e il Quartiere Bianco, le strade di quello Arancione, il Quartiere Marrone e quello Grigio, tutti racchiusi fra le massicce mura cittadine. Per la prima volta si rese conto della stranezza di questa disposizione. «Perché devono esserci le mura?»
«Già, perché?» disse l'uomo barbuto. «Perché i quartieri devono essere di colori differenti? Perché devono esserci gli esami e i voti? Perché dobbiamo sforzarci di più, arrivare più in alto, e fare in modo che domani sia migliore di oggi?» Kestrel lo guardò perplessa. Quell'uomo stava dando voce a pensieri che lei riteneva vivessero solo nella sua testa. «Per amore del mio Imperatore» rispose lei, pronunciando le parole del Giuramento di Dedizione. «E per la gloria di Aramanth.» L'uomo barbuto si lasciò scappare una risatina sommessa. «Ah!» disse. «L'Imperatore sono io. E mangiò altre tre pastiglie di cioccolato.» «Lei?» «Sì. Sono Creoth VI, Imperatore di Aramanth. E tu sei la persona che aspetto da sei anni.» «Io?» «Be', che fossi proprio tu non lo sapevo. A essere sincero, pensavo che mi sarei trovato davanti un bel giovanotto atletico, forte e coraggioso, visto quello che c'è da fare. Ma è toccato a te.» «Oh, no» disse Kestrel. «Non stavo mica cercando lei. Non sapevo nemmeno della sua esistenza. Io stavo semplicemente scappando.» «Non essere sciocca. Devi per forza essere tu. Nessuno è mai riuscito a trovarmi. Mi tengono rinchiuso qui perché nessuno mi trovi.» «Lei non è mica rinchiuso. La porta me l'ha aperta lei stesso.» «Questo è un altro paio di maniche. Il fatto è che tu ora sei qui.» Era evidente che non voleva essere contraddetto, così Kestrel non aggiunse altro e lui continuò a mangiare le pastiglie di cioccolato. Sembrava che se le mettesse in bocca automaticamente, senza pensare a quanto fosse scortese non offrirne alla bambina. Era davvero l'Imperatore? Lei non sapeva se credergli o no, ma guardandosi intorno vide che la stanza era lussuosamente arredata. Una parete era occupata da un letto con ricchi intagli e sontuosi cortinaggi. Un'altra ospitava una scrivania stupendamente intagliata e una libreria strapiena di bellissimi volumi. Al centro della stanza c'erano il tavolo rotondo sul quale si trovava la ciotola di cristallo, alcune comode poltrone di pelle e una grande vasca dai bordi alti. Il pavimento era coperto da soffici tappeti, le finestre ornate di tende di damasco erano profondamente incassate nelle pareti e intervallate da porte. Otto finestre, otto porte. Una era quella da cui era entrata Kestrel. Ce n'erano altre due aperte, e vide che erano le ante di due armadi a muro. Ne rimanevano cin-
que. Di certo, una l'avrebbe di nuovo portata fuori dalla torre. L'uomo barbuto andò alla scrivania e cominciò ad aprire tutti i cassetti, uno per uno, chiaramente alla ricerca di qualcosa. «La prego, signore» disse Kestrel. «Adesso posso tornare a casa?» «A casa? Ma di cosa stai parlando? Certo che no. Dovrai recarti alla Casa dello Spirito Supremo, e portarmelo qui.» «Cos'è che le devo portare?» «Dovrei avere le indicazioni qui, da qualche parte. Ah, sì. Eccole.» Tirò fuori una pergamena ingiallita e polverosa, la srotolò e sospirò. «Ecco qua. È tutto perfettamente chiaro, credo.» Kestrel guardò la pergamena: era screpolata e scolorita, ma capì subito che si trattava di una mappa. Riuscì a distinguere il contorno dell'oceano e un piccolo disegno che rappresentava la città di Aramanth. C'era un percorso ben tracciato che partiva da Aramanth e proseguiva attraverso le pianure desertiche, fino a una catena montuosa. In vari punti della mappa, e in particolare in quello che indicava il termine del sentiero, c'erano degli scarabocchi, gruppi di simboli che sembravano parole scritte con le lettere di un alfabeto a lei sconosciuto. Confusa, Kestrel alzò lo sguardo. «Non guardarmi così, ragazzina» disse l'Imperatore. «Se non capisci, domanda pure.» «In effetti non capisco niente.» «Sciocchezze! È tutto semplicissimo. Noi siamo qui, vedi?» E indicò Aramanth sulla mappa. «Questa è la strada che dovrai seguire. Vedi?» Con il dito seguì la linea che partiva dalla città e andava verso nord. «Dovrai seguire questa strada, altrimenti non arriverai al ponte. È l'unica possibile, capisci?» Con il dito tracciò un percorso irregolare che attraversava la mappa da una parte all'altra. Alla fine c'era un nome scritto a lettere tremolanti che, come tutte le altre scritte, a lei non diceva proprio nulla. «Ma perché devo farlo?» «Per la barba dei miei avi!» esclamò l'uomo. «Mi hanno mandato una bambina senza cervello? Per riportare qui la Voce, in modo che il Cantore possa tornare di nuovo a cantare.» «La Voce del Cantore!» A Kestrel vennero i brividi. È tutto vero, disse dentro di sé. È tutto vero.
L'Imperatore girò la mappa: sull'altro lato c'erano altre scritte, tutte in quello strano alfabeto, accanto al disegno sbiadito di una forma che Kestrel riconobbe immediatamente. Era quella lettera C col ghirigoro che aveva visto incisa sul collo del Cantore. «Ecco!» Kestrel guardò il disegno e provò un misto di paura ed eccitazione. «Cosa accadrà quando il Cantore tornerà a cantare?» «Saremo liberi dal Morah, è ovvio.» «Liberi dal Morah?» «Liberi-dal-Morah» ripeté lui, sillabando e a voce alta. «Ma quella del Morah è solo una leggenda.» «Una leggenda! Per la barba dei miei avi! Una leggenda! La città è quasi una prigione, la gente si consuma fra odi e invidie, e tu mi vieni a dire che è una leggenda! È il Morah che governa Aramanth, ragazzina! Tutti lo sanno.» «Invece, no» disse Kestrel. «Non lo sa nessuno. Tutti credono che quella del Morah sia una vecchia leggenda.» «Ah, sì?» L'Imperatore le rivolse un'occhiata sospettosa. «Questo sta proprio a dimostrare quanto sia furbo il Morah. O no?» «Immagino di sì» disse Kestrel. «Adesso mi credi?» «Non lo so. So solo che odio la scuola, odio gli esami, odio gli Esaminatori e odio Aramanth.» «È normale che sia così. È frutto dell'opera del Morah. Aramanth: la chiamano la società perfetta. Ah! Sono forse riusciti a cancellare l'odio e la paura? Certo che no. A questo ci pensa il Morah.» Il fatto strano era che, ascoltandolo, Kestrel trovava sensate le sue parole. Guardò di nuovo il disegno sul retro della mappa. «E questa da chi l'ha avuta?» «Da mio padre. E lui l'ha avuta da suo padre, e così via fino ad arrivare a Creoth I. Era stato lui a togliere la Voce al Cantore.» «Per salvare la città dagli Zar.» «Oh, allora qualcosa la sai pure tu.» «Perché il Morah voleva la Voce?» «Per impedire al Cantore di cantare, è ovvio. Il Cantore aveva appunto lo scopo di proteggere Aramanth dal Morah.» «E allora perché il primo Imperatore gliel'ha data?» «Perché? Eh già, perché?» Sospirò e scosse la testa. «Ma chi siamo noi
per biasimarlo? Lui aveva visto le truppe degli Zar, noi no. La paura, bambina mia. È questa la risposta alla tua domanda. Lui non sapeva se il Cantore avesse anche il potere di fermare gli Zar. Doveva correre il rischio? No, non possiamo biasimarlo per ciò che fece tanto tempo fa. Come puoi vedere» continuò seguendo con il dito la strana scrittura che correva tutt'intorno alla mappa «rimpianse per tutta la vita ciò che aveva fatto.» Kestrel guardò quella scritta incomprensibile. «Quindi il Cantore ha il potere di fermare il Morah?» «E chi lo sa? Mio nonno, che era un uomo saggio, diceva che la Voce deve avere dei poteri. Perché, altrimenti, il Morah l'avrebbe voluta a tutti i costi? E come puoi ben vedere, sul retro della mappa c'è scritto: La Voce del Cantore vi renderà liberi.» «Liberi dal Morah?» «Proprio così. Liberi dal Morah. E da chi altri, dal pesce volante? E non guardarmi in quel modo, ragazzina!» L'Imperatore si stava di nuovo spazientendo. «La faccenda dovrebbe essere già risolta.» «Perché, allora, nessuno è andato prima a riprendersi la Voce?» «Perché? Credi forse che sia tanto facile? Però» si interruppe immediatamente «non sto nemmeno dicendo che è troppo difficile. E bisogna assolutamente farlo. Solo che per un lungo periodo tutto sembrava andare per il meglio. Gli Zar se n'erano andati e i cambiamenti avvenivano così lentamente che nessuno se ne accorgeva. Solo all'epoca di mio nonno fu chiaro che era stato uno sbaglio. Ma a quel punto lui era ormai troppo vecchio. Così diede la mappa al figlio. Ma mio padre si ammalò e prima di morire diede la mappa a me. Io, però, non ero che un bambino piccolo. E adesso sei arrivata tu, e io la passo a te. Non potrebbe esserci nulla di più semplice.» Tornò alla scrivania e cominciò a chiudere tutti i cassetti che aveva aperto: sbam, sbam, sbam. «Ma ora non è più un bambino piccolo» disse Kestrel. «Naturalmente, no.» «E allora perché non ci va lei?» «Perché non posso. Tocca a te.» «Mi dispiace» disse Kestrel. «Si tratta di un equivoco. Io non sono niente di speciale.» L'Imperatore la guardò con occhi accusatori. «Se non sei niente di speciale, come mai sei l'unica che sia mai riuscita ad arrivare fin qui?»
«Stavo scappando.» «Da chi?» «Dagli Esaminatori.» «Ah! Vedi! Proprio il genere di cose che ad Aramanth non si fanno. Nessuno scappa dagli Esaminatori. Quindi devi essere per forza speciale.» «È solo che odio gli Esaminatori, la scuola e gli esami.» Stava quasi per mettersi a piangere. «Bene» disse l'Imperatore. «Allora significa che sei veramente la persona giusta. Una volta entrata in possesso della Voce, la rimetterai nel Cantore... e niente più esami.» «Niente più esami?» «Capisci, quindi, che non puoi non andare.» «Invece dovrebbe andarci lei, se è veramente l'Imperatore.» Lui la guardò con gli occhi velati di tristezza. «Lo farei» disse. «Sul serio. Ma c'è una difficoltà.» Passò davanti alle porte e le aprì tutte. Tre porte davano su dei pianerottoli, dai quali partivano scale che scendevano. «Certe volte mi viene in mente di andarmene» disse. «Per esempio, potrei scegliere quella porta e andare.» Fece qualche passo in direzione della porta, quindi si fermò. «Un'altra pastiglia di cioccolato prima di andare.» Tornò alla ciotola al centro della stanza. «Ne prenda una manciata» gli disse Kestrel. «Così non dovrà tornare indietro.» «Sembra facile!» disse l'Imperatore sospirando. Ma fece come Kestrel gli aveva suggerito e prese una manciata di pastiglie. Quindi, mettendosele in bocca, si avviò verso la porta. Arrivato sulla soglia si fermò di nuovo. «E quando queste saranno finite?» Cominciò a contare le pastiglie che aveva in mano. «Una, due, tre...» «Porti via tutta la ciotola» disse Kestrel. Lui tornò al tavolo e prese la ciotola di cristallo. Poi si fermò di nuovo. «Sembrano tante» disse «ma poi finiranno.» «Finirebbero comunque.» «Questo è il punto. La ciotola viene riempita ogni giorno. Ma se me la porto dietro, come faranno a riempirla?» Tornò al tavolo e rimise la ciotola al suo posto. «Forse è meglio lasciarla qui.» Kestrel lo guardò.
«Come mai le piacciono tanto le pastiglie di cioccolato?» «Be', non saprei dire se mi piacciono veramente. Mi sembrano semplicemente necessarie.» «Necessarie?» «Dobbiamo proprio parlarne? Non è facile da spiegare. Devo avercele, anche se poi non le mangio. A dire il vero, ci sono giorni in cui neanche le tocco.» «Però non ha mai smesso di mangiarle.» «È perché mi sento nervoso. Non ricevo molte visite. Anzi, non ne ricevo proprio.» «Da quanto tempo vive in questo modo?» «Oh, da sempre.» «Da sempre? Lei ha passato tutta la vita rinchiuso in questa stanza?» «Sì.» «Ma è una follia!» «Lo so.» Alzò una mano e improvvisamente si diede uno schiaffo in faccia. «Sono uno stupido. Un buono a nulla.» E si diede un altro schiaffo, più forte del precedente. «Sono la vergogna dei miei antenati.» E cominciò a colpirsi su tutto il corpo: sul viso, sul torace e sulla pancia. «Non faccio altro che mangiare e dormire; sono grasso, stanco e tanto, tanto depresso! Non vado mai da nessuna parte e non vedo mai nessuno! Conversazione: zero; divertimento: zero! Tanto varrebbe essere morto, ma non ho nemmeno il coraggio di farla finita!» Continuò a colpirsi e a singhiozzare. «Mi dispiace» disse Kestrel. «Oh, non fa niente» disse l'Imperatore piangendo a più non posso. «Va sempre a finire così. Mi stanco subito, capisci. È meglio che mi riposi un po'.» E senza tante cerimonie, montò tutto vestito sul grande letto a baldacchino, si coprì e si addormentò. Kestrel rimase ad aspettare che succedesse qualcosa. Dopo alcuni istanti l'Imperatore si mise a russare. A quel punto lei si diresse in punta di piedi verso una delle porte che davano sulle scale, e con cautela cominciò a scendere, portandosi dietro la pergamena arrotolata. 8
La vergogna della Famiglia Hath Quando Kestrel arrivò alla porta a pianterreno, si fermò e guardò dal buco della serratura per controllare il cortile. Vide due gendarmi che marciavano avanti e indietro con aria arcigna. Allora nascose la mappa in una tasca, fece un respiro profondo, aprì la porta e gridò: «Aiuto! L'Imperatore! Aiuto!» «Cosa?» gridò il gendarme più vicino. «Dove?» «Lassù, in camera sua! L'Imperatore! Aiutatelo, svelti!» Pareva così sconvolta che i gendarmi non si fermarono a chiederle altro, ma si precipitarono a tutta velocità verso la scala a chiocciola. Kestrel attraversò in fretta e furia il cortile, corse lungo il corridoio fino alla porta in fondo, uscì e si ritrovò nella piazza principale, accanto alla statua di Creoth I. Si incamminò versò il Quartiere Arancione lungo vicoli e stradine secondarie, facendo attenzione a non farsi notare. Ma, svoltando nella strada dove abitava, si accorse subito che non ce l'avrebbe fatta a entrare in casa senza essere vista. Davanti alla sua abitazione c'era un fitto capannello e quasi tutti i vicini erano affacciati alle finestre. Sui gradini, due gendarmi di quartiere dall'espressione severa armeggiavano con i loro distintivi davanti alla porta chiusa. Tutti sembravano aspettare qualcosa. Mentre Kestrel si avvicinava lentamente, Rufy Blesh la vide e le corse incontro. «Kestrel» gridò eccitato. «Sei nei guai. E anche tuo padre.» «Che è successo?» «Lo portano a fare un Corso Residenziale di Studi.» E abbassò la voce. «Mio padre dice che in realtà si tratta di una specie di prigione, comunque la chiamino. Mia madre dice che è una cosa vergognosa e che per fortuna noi stiamo per trasferirci al Quartiere Scarlatto, perché dopo questo episodio non potremmo più rivolgervi la parola.» «E allora perché adesso mi parli?» «Be', ancora non l'hanno portato via» disse Rufy. Kestrel si avvicinò il più possibile alla casa, quindi scivolò in un vicoletto laterale. A quel punto si mise a correre lungo i cassonetti dell'immondizia e si ritrovò sul retro di casa sua. Da lì, attraverso la finestra della cucina, riusciva a vedere sua madre che andava avanti e indietro con Pinpin in braccio, ma di Bowman non c'era traccia. Così lo chiamò con il pensiero.
Bo! Sono qui! Immediatamente avvertì la presenza del fratello e il suo sollievo nel saperla sana e salva. Kess! Stai bene! Bowman apparve alla finestra della sua camera e lei uscì allo scoperto. Non farti trovare, Kess. Sono venuti a prenderti per portarti via. Portano via anche papà. Adesso vengo dentro, disse Kestrel. Devo parlare con papà. Bowman scese in salotto, dove suo padre era in piedi al centro della stanza, intento a fare la valigia. Il professor Batch, l'insegnante dei gemelli, era seduto sul divano accanto a un superiore del Collegio degli Esaminatori, il professor Minish. Avevano entrambi un'espressione profondamente arcigna. Il professor Batch estrasse un orologio e guardò l'ora. «Siamo già in ritardo di mezz'ora sul programma» annunciò. «Non c'è modo di sapere a che ora rientrerà la ragazzina. Dunque, procediamo!» «Non appena torna a casa, dovrà informare i gendarmi di quartiere» disse il professor Minish. «Ma io non ci sarò» replicò Hanno Hath con tono dimesso. «Svelto, signore; svelto.» A vedere l'indifferenza con cui quell'uomo si gingillava tra mucchi di vestiti e di libri sparsi sul pavimento, il professor Batch cominciò a innervosirsi. «Non dimenticare le tue cose per il bagno, papà» disse Bowman. «Le mie cose per il bagno?» Hanno Hath guardò suo figlio. Era stato proprio Bowman a portargli lo spazzolino e il rasoio, mezz'ora prima. «Nel bagno» disse Bowman. «Nel bagno?» A quel punto capì. «Ah, sì.» Il professor Minish seguì con esasperazione questo scambio di battute. «Si sbrighi, su!» «Sì, certo.» Hanno Hath salì le scale e andò in bagno. Ira entrò in salotto con Pinpin in braccio. La piccola avvertiva la tensione che c'era in casa e piangeva sommessamente. «Nel frattempo, gradireste qualcosa da bere?» domandò la signora Hath ai due insegnanti. «Magari una limonata, se ce l'ha» disse il professor Minish.
«La limonata è di suo gradimento, professor Batch?» «Sì, signora. La limonata andrà benissimo.» La signora Hath tornò in cucina. Hanno Hath trovò sua figlia che lo attendeva nel bagno al piano di sopra. La abbracciò senza fare rumore e la baciò, enormemente sollevato. «Mia cara, cara Kess. Ho temuto il peggio!» Parlando a voce bassissima, lei gli raccontò della Scuola Speciale, e lui non poté fare a meno di protestare a voce alta. «Non permettere che ti portino là, mai, mai.» «Perché? Là cosa succede?» Lui però continuava a scuotere la testa e a ripetere: «Non permettere che ti portino là.» Poi gli raccontò di quell'uomo che sosteneva di essere l'Imperatore. «L'Imperatore! Hai visto l'Imperatore?» «Mi ha detto che dovevo andare a riprendere la Voce del Cantore. E mi ha dato questa.» Gli mostrò la mappa. Lui la srotolò e la guardò stupefatto, con la mano che gli tremava. «Kess, ma è straordinario...» «Mi ha detto che il Morah esiste realmente e che siamo tutti in suo potere.» Suo padre annuì, assorto. «È scritta in Manth antico. Questa mappa è stata disegnata dal Popolo dei Cantori.» «Il Popolo dei Cantori? E chi sono?» «Di preciso non lo so. So solo che vissero molto tempo fa e che costruirono il Cantore. Oh, Kess! Kess, tesoro mio. Come faccio a tirarmi fuori da questa storia? E a te, cosa faranno?» Kestrel era stata ormai contagiata dalla profonda eccitazione di suo padre. E lo teneva stretto per le braccia come per impedirgli di andare via senza di lei. «Allora esiste veramente?» «Esatto. Ne sono sicuro. Io so leggere il Manth antico. Guarda, qui c'è scritto La Grande Via. Qui, L'Incrinatura nella Terra. Qui, La Casa del Morah. Qui, Nel fuoco.» Girò la mappa e guardò la scritta che c'era dietro, e quella curiosa C disegnata di lato. «Questo è il simbolo del Popolo dei Cantori.»
«L'Imperatore ha detto che era la Voce del Cantore.» «Dunque deve avere la forma del loro simbolo.» Studiò attentamente quella scritta sbiadita, rimettendo insieme le parole e pronunciandole lentamente. «La Voce del Cantore... vi renderà liberi. Cercate dunque... la terra natia.» Guardò Kestrel con gli occhi che gli brillavano. «Oh, Kess. Se solo potessi tirarmene fuori...» E cominciò a camminare avanti e indietro nel minuscolo bagno, con la mente che galoppava fra mille piani assurdi, ognuno dei quali, dopo un attimo di speranza, terminava con un gesto di frustrazione. «No... prenderebbero Ira e i bambini...» Tremò. «È meglio se collaboro. La pena non sarà tanto severa. Dovrò partecipare a un Corso di Studi fino al giorno del Grande Esame.» «Corso di Studi! Prigione, vuoi dire.» «Be', be'» disse suo padre dolcemente. «Non mi farà male. E forse, se lavoro sodo, al Grande Esame otterrò dei risultati migliori, e a quel punto potrò chiedere che ci diano una seconda possibilità.» «Non la voglio, una seconda possibilità. Li odio tutti.» «Ma io non potrei mai sopportare che ti...» Si interruppe con una scrollata di spalle. «Per te farei di tutto, tesoro. Per te sono disposto a morire. Ma pare che la prova a cui mi devo sottoporre sia proprio quella di sapere che non c'è niente da fare.» Ammutolì, con gli occhi fissi sulla mappa. Sentirono la voce furente del professor Minish, che chiamava da sotto le scale. «Si sbrighi, signore! La stiamo aspettando!» «L'Imperatore ha detto che se riportiamo qui la Voce, e il Cantore riprenderà a cantare, non ci saranno più esami.» «Ha detto questo?» Per un attimo la tristezza abbandonò i suoi occhi. «Ma, tesoro mio, tu non puoi andarci. Sei solo una bambina. E comunque sia, non ti permetteranno mai di lasciare la città. Ti stanno cercando. No, bisognerà rimandare tutto al mio ritorno.» In salotto gli insegnanti aspettavano, sempre più impazienti e assetati. Quando la signora Hath tornò dalla cucina, teneva Pinpin in braccio, pro-
fondamente addormentata. Il professor Batch, che aspettava ansioso la sua limonata, le lanciò uno sguardo penetrante. Il professor Minish si accigliò e guardò di nuovo l'ora. «Non ci aveva parlato di una limonata?» disse il professor Batch. «Limonata?» disse la signora Hath. «Ci aveva offerto da bere» disse il professor Batch con tono leggermente più tagliente. «Ah, sì?» La signora Hath pareva sorpresa. «Proprio così, signora. Ci ha chiesto se la limonata fosse di nostro gradimento.» «Sì. Me lo ricordo.» «E noi abbiamo risposto in maniera affermativa.» «Sì. Mi ricordo anche questo.» «Però non ce l'ha portata.» «Portata, professor Batch? Non afferro.» «Ci ha chiesto se la limonata fosse di nostro gradimento» ripeté lentamente l'insegnante, come se si stesse rivolgendo a una scolaretta particolarmente stupida «e noi abbiamo risposto di sì. Adesso dovrebbe quindi portarcela.» «Perché?» «Perché... perché... perché ci va!» «Professor Batch, dev'esserci un equivoco. In casa non abbiamo limonata.» «Niente limonata? Signora, lei ci ha offerto la limonata. Come può negarlo?» «Come potrei offrirvi la limonata se in casa non ce n'è? No, signore. Io ho chiesto se la limonata fosse di vostro gradimento. E questa è tutta un'altra storia.» «Santo cielo, buona donna! Perché domandare a un uomo se la limonata è di suo gradimento se poi l'intenzione di portargliela non c'è?» «Che ragionamento tortuoso, professor Batch. Dunque dovrei portarle tutto ciò che è di suo gradimento. Sono certa che lei adora le lunghe serate estive, ma spero non vorrà che io gliene porti una.» Il professor Minish si alzò in piedi. «Chiami i gendarmi» disse. «Quand'è troppo, è troppo.» Il professor Batch si alzò. «Troveremo sua figlia e anche lei dovrà rendere conto. Ne stia pur certa!» Il professor Minish si avvicinò alle scale. «Signore, scende da solo? O
dobbiamo venire a prenderla?» La porta del bagno si aprì e Hanno venne fuori. Mentre lui scendeva, il professor Batch aprì la porta di casa. «Il signor Hath sta arrivando» disse ai gendarmi. La folla si accalcò più vicino alla porta. Hanno Hath entrò nel salotto e salutò i suoi. Baciò la piccola Pinpin, ancora addormentata nelle braccia della signora Hath. Baciò sua moglie che, malgrado si sforzasse, non riusciva a trattenere le lacrime. E infine baciò Bowman. E facendolo, gli sussurrò in un orecchio: «Abbi cura di Kess.» Prese in mano la valigia e uscì. I gendarmi si misero al passo, uno a ogni lato, e i due insegnanti vestiti di scarlatto li seguirono. La folla arretrò per guardare in silenzio il passaggio di quel piccolo corteo. La famiglia Hath si riunì davanti alla porta d'ingresso. Tenevano la testa alta e salutavano Hanno con la mano, come se stesse andando in vacanza. La gente che guardava, invece, scuoteva la testa e bisbigliava: «Poveretto!» Quando il piccolo corteo raggiunse l'angolo della strada, Hanno Hath si fermò per un istante e si voltò a guardare. Fece un ultimo cenno di saluto, con un grande gesto del braccio, e sorrise. Bowman non dimenticò mai quel gesto né quel sorriso, perché dal punto in cui si trovava, sugli scalini di casa, percepì in modo chiaro e improvviso i sentimenti del padre. Sentì l'immensità del suo amore per tutti loro, caldo, forte e inesauribile, e sentì anche un muto grido di desolazione che voleva dire: "Dovrò lasciarvi per sempre?" In quell'istante il padre di Rufy Blesh, che era lì vicino, notò quel sorriso e quel gesto di sfida, e Bowman lo sentì dire alla moglie: «Rida pure quanto gli pare, tanto non gli faranno più rivedere la sua famiglia.» Fu in quel momento che Bowman decise in cuor suo che avrebbe fatto qualunque cosa per riportare suo padre a casa, che avrebbe distrutto Aramanth, se fosse stato necessario. Perché cosa contava questo mondo ordinato e pulito, in confronto al momento in cui avrebbe potuto rivedere il sorriso coraggioso di suo padre? 9 Fuga da Aramanth Quella sera, le guardie circondarono la casa per poter acciuffare Kestrel non appena si fosse fatta viva; cosa che, secondo loro, si sarebbe verificata
con le prime ombre della sera. Ma Kestrel era già in casa e si teneva alla larga dalle finestre. Quando fece notte, tirarono tranquillamente le tende senza destare sospetti e lei poté muoversi più liberamente. Ira Hath si rifiutò di piangere o di farsi prendere dal panico. Con fermezza, continuava a ripetere: «Vostro padre ritornerà da noi» tanto che i piccoli cominciarono a convincersene. Poi diede da mangiare a Pinpin e le fece il bagnetto come ogni sera. Lei e i suoi tre figli espressero il desiderio di famiglia, proprio come sempre, anche se senza Hanno non sembrava la stessa cosa. Ma tutti espressero il medesimo desiderio di riavere a casa il loro papà, e per un attimo ebbero la sensazione che lui fosse lì. Poi Ira mise Pinpin nella culla e le rimboccò le coperte, e solo dopo che la piccola si fu addormentata, si sedette con i gemelli e, incrociando le mani sulle ginocchia, disse: «Raccontatemi tutto.» Kestrel le spiegò ogni cosa, incluso quel che le aveva detto suo padre. Quindi tirò fuori la mappa e, prima di dimenticarsene, scrisse a fianco di ciascun gruppo di lettere la traduzione di Hanno: La Grande Via, L'Incrinatura nella Terra, La Casa del Morali, Nel fuoco. Sul retro copiò quella dell'iscrizione: La Voce del Cantore vi renderà liberi. Cercate dunque la terra natia. «Ah, la terra natia» disse Ira Hath con un sospiro. «Qui non ci siamo mai sentiti a casa nostra.» «La terra natia dov'è?» «Chi lo sa? Ma lo sapremo quando l'avremo trovata.» «E come faremo a saperlo?» «Perché ci sentiremo finalmente a casa.» Guardò la mappa per un po', poi la arrotolò di nuovo e disse: «Di qualunque cosa si tratti, è meglio aspettare che ritorni vostro padre. Dobbiamo prima decidere cosa fare di te, Kestrel.» «Non potrei semplicemente starmene nascosta qui?» «Tesoro mio, non credo che ci lasceranno restare in questa casa ancora per molto.» «Non permetterò che mi portino via. Assolutamente, no.» «No, no. Dobbiamo nasconderti. Mi farò venire in mente qualcosa.» Erano tutti provati dalle emozioni di quella lunga giornata, e Kestrel più di tutti. Così, Ira Hath decise di rimandare ogni discussione all'indomani. Ma la punizione sarebbe arrivata rapidamente e loro non l'avevano messo in conto.
Non era ancora l'alba quando furono svegliati da qualcuno che bussava violentemente alla porta. «In piedi! Presto! È ora di andare!» La signora Hath aprì la finestra della sua stanza da letto e si affacciò per vedere cosa stava succedendo. La strada era occupata da uno squadrone di gendarmi. «Fate i bagagli!» gridò uno di loro. «Dovete lasciare questa casa!» Erano stati assegnati a un nuovo alloggio. Non nel quartiere Marrone, ma in quello Grigio. La loro nuova abitazione sarebbe stato un monolocale all'interno di un alto edificio di dieci piani, in un condominio che ospitava trecento famiglie. La loro casa del Quartiere Arancione doveva essere liberata entro mezzogiorno e consegnata a una nuova famiglia. Ira Hath rimase impassibile. «Meno pulizie da fare» disse mentre svegliava Pinpin. Il problema più urgente era Kestrel. I gendarmi la stavano ancora cercando e si erano appostati sia davanti che dietro la casa. Come avrebbero fatto a uscire senza che Kestrel venisse scoperta? Poco dopo, due guardie scesero lungo la strada con un carretto vuoto per caricarci sopra gli effetti personali della famiglia Hath e trasportarli al Quartiere Grigio. I vicini si erano alzati e molti di loro erano usciti di casa per assistere allo spettacolo che avrebbe avuto luogo di lì a poco. «La madre verrà fuori piangendo, come fanno sempre quando c'è una retrocessione. Ma i nuovi inquilini, be', loro sorrideranno.» «E la piccola? Non c'è anche una piccolina? Lei non capirà di certo cosa le sta succedendo.» «I gemelli, però, sono due vere pesti.» «Avete saputo cosa ha fatto la femmina? Lo sapevo che era una poco di buono.» «Be', adesso dovrà pentirsene.» Nel frattempo, all'interno della casa, stavano decidendo se fosse il caso di nascondere Kestrel nel baule della biancheria. Bowman guardò fuori dalla finestra e, alla vista delle guardie, dei vicini e dei gendarmi, scosse la testa. «È troppo rischioso.» Poi i suoi occhi si posarono su una minuscola figura tra la folla. Era Mumpo, che teneva gli occhi puntati sulla porta di casa loro. Stava aspettando Kestrel, era evidente. «Là fuori c'è Mumpo» disse.
«Oh, no! Ancora quel mostro puzzolente.» «Mi è venuta un'idea.» Bowman andò in camera loro e prese dall'armadio la mantellina invernale di Kestrel, un indumento arancione per i giorni freddi, lungo e con il cappuccio. La appallottolò per bene e se la infilò sotto la tunica. «Esco e vado a parlare con Mumpo» disse. «Non muovetevi fino al mio ritorno.» «Ma Bo...» Bowman era già fuori dalla porta. «Siete pronti, allora?» gridò una delle guardie grigie mentre lui usciva dalla porta. «Non ancora» rispose Bowman passandogli accanto in fretta. «Quando mia madre prepara i bagagli è di una pignoleria incredibile.» Fece la strada di corsa per evitare di dover parlare con i vicini impiccioni e si fermò solo dietro l'angolo, fuori dalla vista di tutti. Come previsto, Mumpo apparve poco dopo, sbuffando e sbavando. «Bo!» gridò. «Che succede? Kess dov'è?» «Ti va di aiutarla?» «Sì. La aiuterò. Dove si trova?» Bowman estrasse la mantellina arancione da sotto la tunica e la spiegò. «Ecco cosa devi fare.» Bowman era già rientrato in casa da un'oretta buona quando sua madre andò ad aprire la porta e disse alle guardie che potevano entrare a prendere i bauli. Con loro grande sorpresa, i bauli erano stati preparati nella stanza dell'ultimo piano, quella più distante dalla porta principale. «Cosa vi ha impedito di fare i bagagli nell'ingresso? Queste scale non sono mica uno scherzo.» Tanto per aumentare la confusione, la famiglia Warmish, che doveva trasferirsi nella casa, arrivò in anticipo con due carretti stracolmi al seguito. Erano ovviamente impazienti di entrare e di guardarsi un po' attorno, ma Ira Hath si piantò davanti alla porta e non lasciò passare nessuno, sorridendo a tutti implacabilmente. «Quant'è grande la cucina?» domandò la signora Warmish. «È abitabile o semplicemente un angolo cottura?» «Oh, è molto spaziosa» rispose la signora Hath. «Volendo, al tavolo della cucina ci si può mangiare in trentasei.» «Trentasei? Accidenti! Ne è sicura?»
«E aspetti solo di vedere la vasca! Ci si può fare il bagno in otto, tutti adulti, e distendendo bene le gambe nell'acqua.» «Caspita!» Queste informazioni lasciarono talmente di stucco la signora Warmish che non seppe più cosa dire, e si accontentò dello scorcio di casa che si vedeva dietro la signora Hath. «E il pavimento, è incerato oppure verniciato?» «Verniciato?» disse la signora Hath con tono sprezzante. «Pura cera d'api, glielo assicuro, come in tutte le case che si rispettano.» Uno a uno, i bauli vennero caricati sul carretto. I mobili non potevano portarseli dietro, visto che il loro nuovo appartamento sarebbe stato molto più piccolo. Una volta caricato l'ultimo baule, la signora Hath, ancora a guardia della porta, prese Pinpin in braccio e si voltò a cercare lo sguardo di Bowman. Lui le rivolse un rapido cenno del capo e scivolò dietro di lei sui gradini di casa. Da lì mosse qualche passo verso il carretto carico, ma poi si fermò di colpo, indicò in fondo alla folla e chiamò: «Kess!» Tutti si voltarono e videro una figuretta con mantellina e cappuccio, in piedi in fondo alla strada. «Scappa, Kess, scappa!» gridò Bowman. La figuretta si voltò e prese a scappare. Immediatamente, i gendarmi e le guardie partirono all'inseguimento, mentre i vicini correvano giù per la strada nella speranza di assistere alla cattura. Kestrel uscì di soppiatto dalla porta principale e nessuno l'avrebbe notata se Pinpin, vedendola, non avesse gridato con gioia il suo nome: «Kess!» La più lenta delle guardie, che al momento dell'inseguimento stava ancora legando i bauli sul carro, sentì il grido, si voltò e vide Kestrel che si precipitava nel vicolo laterale, con Bowman al suo fianco. «È qui! L'ho vista!» gridò l'uomo, lanciandosi goffamente all'inseguimento. I bambini correvano più veloci di lui e ben presto lo distanziarono. Però non sapevano dove stavano andando. Smisero di correre per riprendere fiato. Lì vicino c'era una specie di nicchia piena di bidoni della spazzatura in attesa di essere svuotati. E lì dietro si nascosero. «Dobbiamo lasciare la città» disse Kestrel. «E come? Non abbiamo i lasciapassare. Senza lasciapassare non ti aprono i cancelli.» «Si può uscire attraverso le miniere di sale. Ho visto un passaggio. È solo che non so come arrivarci.»
«Non hai detto che le miniere servono da fogne?» disse Bowman. «Sì.» «Allora deve per forza essere il posto dove convergono tutti i canali di scolo.» «Bo, sei un genio!» I loro occhi scrutarono la strada e, poco distante da loro, videro un tombino. In quello stesso momento sentirono i passi e le grida ancora distanti dei loro inseguitori, che continuavano a perlustrare le strade. «Si stanno avvicinando.» «Sei sicura che possiamo uscire dalle miniere di sale?» «No.» In fondo alla strada apparve una guardia. Non avevano altra scelta. Così corsero verso il tombino. Il coperchio era rotondo e di ferro, molto pesante, con un anello che fungeva da impugnatura. Non fu facile sollevarlo, visto che si era arrugginito, ma alla fine riuscirono ad alzarlo quel tanto che bastava per poterci infilare le dita. E a quel punto la guardia li vide e lanciò un grido. «Eccoli là! Ehi, venite! Li ho trovati!» La paura diede loro la forza necessaria per spostare la chiusura del tombino, finché non ci fu lo spazio sufficiente per passare. Sulla parete di mattoni c'erano dei pioli in ferro che scendevano verso il basso, e da sotto veniva il rumore dell'acqua. Kestrel passò per prima, e Bowman la seguì. Una volta sotto il livello del suolo, provò a rimettere il coperchio metallico al suo posto, ma fu impossibile. «Lascia stare» disse Kestrel. «Andiamo.» Bowman la seguì giù per la scaletta e una volta arrivati in fondo si ritrovarono con i piedi nell'acqua. Era troppo preoccupato di capire dove stessero andando per voltarsi a guardare: ma se l'avesse fatto, avrebbe visto un'ombra levarsi dietro di loro. «Va tutto bene» disse Kestrel. «Non è profonda. Segui l'acqua.» Avanzarono lungo la galleria buia, con l'acqua fino alle caviglie, e la luce che proveniva dalla fessura da cui si erano calati cominciò a scomparire lentamente. Continuarono a camminare, con l'impressione di essere in marcia da ore. Bowman non diceva nulla, ma il buio gli faceva paura. Tutt'intorno sentiva strani rumori, l'acqua che gorgogliava e gocciolava e l'eco dei loro stessi passi. Oltrepassarono diversi condotti che sbucavano nella galleria, che sembrava diventare sempre più grande.
Poi, per la prima volta, sentirono un rumore alle proprie spalle: splash, splash, splash. Qualcuno li stava seguendo. Accelerarono il passo. Adesso l'acqua era più profonda e arrivava all'altezza dei polpacci. Davanti a loro si intravedeva una specie di debole bagliore e dalla medesima direzione proveniva un rumore assordante. Alle loro spalle, si sentivano ancora i passi regolari dell'inseguitore. Di colpo, la galleria sbucò in una lunga caverna, al centro della quale scorreva un fiume tumultuoso. La luce che illuminava appena le pareti luccicanti della caverna proveniva da un grande buco in fondo, dove il fiume scompariva. D'un tratto si ritrovarono con i piedi a secco su un argine di rocce asciutte. Quasi immediatamente, Bowman avvertì qualcosa di terribile, sempre più vicino. «Non possiamo fermarci qui» disse. «Dobbiamo andare avanti, e alla svelta.» «A casa» disse una voce profonda. «Andate a casa.» Kestrel fece un salto in aria e scrutò nel buio. «Bo? Sei tu che hai parlato?» «No» rispose Bowman tremando come una foglia. «C'è qualcun altro.» «Un amico» disse quella voce profonda. «Un amico in difficoltà.» «Dove sei?» domandò Kestrel. «Non riesco a vederti.» Per tutta risposta si sentì lo sfregamento di un fiammifero che veniva acceso, e subito dopo uno scintillante arco di fuoco, simile a una torcia ardente, disegnò una curva nell'aria e andò ad atterrare a pochi metri da loro. Restò a terra, sibilante e crepitante, emettendo una luce ambrata. Dall'oscurità sbucò una minuscola sagoma dai capelli grigi che avanzò fino al limitare del bagliore. Camminava a passi lenti come se fosse un vecchio; ma una volta vicino alla luce, videro che si trattava di un ragazzino che aveva più o meno la loro età. I suoi capelli, però, erano completamente bianchi, e la pelle era secca e grinzosa. Rimase fermo a guardarli, e poi disse: «Adesso potete vedermi.» Era la stessa voce profonda che avevano sentito poco prima, la voce di un vecchio. Una voce roca e stanca che, provenendo dal corpo di un ragazzino, produceva un effetto particolarmente terrificante. «I bambini vecchi» disse Kestrel. «Quelli che ho visto prima.» «Non vedevamo l'ora di averti in classe con noi» disse il bambino dai capelli bianchi. «Ma, come si dice, tutto è bene ciò che finisce bene. Seguitemi e vi ricondurrò indietro.»
«Noi non stiamo tornando indietro» disse Kestrel. «Ah, no? Ma non capite? Senza il mio aiuto non troverete mai la via d'uscita. Qua dentro ci morirete.» Nel buio si sentì una specie di risata. Il bambino dai capelli bianchi sorrise. «I miei amici lo trovano divertente.» E nella pozza di luce, uno alla volta, avanzarono gli altri bambini, alcuni con i capelli bianchi come lui, altri pelati, tutti però invecchiati prematuramente. Sembravano pochi, ma poi cominciarono a spuntarne fuori sempre di più: prima dieci, poi venti, poi trenta e ancora, ancora. Bowman li guardava e tremava. «Siamo i vostri piccoli alleati» disse il bambino dai capelli bianchi. E tutti gli altri scoppiarono di nuovo a ridere, con la risata roca e fonda degli adulti. «Voi aiutate noi, noi aiuteremo voi. È giusto così, no?» Fece un passo in avanti e tese una mano. «Venite con me.» Dietro di lui, tutti gli altri si avvicinarono un po' di più, stropicciando i piedi. Una volta arrivati, anche loro tesero le mani. Non sembravano aggressivi, ma solo curiosi. «I miei amici vogliono accarezzarvi» disse il capo con quella sua voce profonda, dolce e distante. Bowman era talmente spaventato che riusciva solo a pensare al modo di scappare. Indietreggiò, sottraendosi a tutte quelle braccia tese verso di lui. Ma alle sue spalle c'era il fiume che scorreva tumultuoso verso il buco sotterraneo. I bambini vecchi gli si avvicinarono ancora di più e lui sentì una mano sul braccio. All'improvviso, fu assalito da una sensazione mai provata prima: sembrava che gli avessero succhiato via una parte delle forze, lasciandolo stanco e sonnolento. Kess!, disse sottovoce e in tono disperato. Aiutami! «Lasciatelo in pace!» gridò Kestrel. Si scagliò coraggiosamente in avanti con l'intenzione di colpire il ragazzino dai capelli bianchi e di scaraventarlo a terra. Ma non appena il suo pugno sfiorò il piccolo corpo, il colpo perse energia e lei sentì il braccio indebolirsi. Provò a colpirlo un'altra volta, ma diventò ancora più debole. Sembrava che l'aria si fosse fatta pesante e irrespirabile, i suoni lontani e indistinti. Bo! chiamò. Mi sta succedendo qualcosa. Bowman vide che sua sorella stava cadendo in ginocchio e avvertì l'enorme debolezza che si stava impossessando di lei. Sapeva che doveva
accorrere in suo aiuto, ma non riusciva a muoversi: era paralizzato dal terrore. Vieni via, Kess, la implorò. Vieni via. Non ci riesco. Lui lo sapeva e lo sentiva. Kess stava diventando sempre più debole, come sei i bambini vecchi la stessero portando via. Non riesco a muovervi, Bo. Aiutami. Bowman li vide farsi intorno a sua sorella, ma aveva troppa paura per intervenire e, rendendosene conto, si mise a piangere per la vergogna. Improvvisamente si sentirono un tonfo e uno splash, e qualcosa uscì dal tunnel dietro di loro. Ruggiva come una bestia feroce, sferrando colpi da tutte le parti con le braccia che mulinavano vorticosamente. «Trakka-rakka-rak!» urlò la creatura. «Bubba-bubba-bubba-rak!» Spaventati, i bambini vecchi fecero un balzo all'indietro. Quella specie di uragano passò accanto a Bowman, spingendolo nel fiume. Gli schizzi inzupparono la torcia e ne spensero la fiamma. Nell'improvvisa oscurità, Kestrel sentì che la stavano trascinando verso la sponda del fiume e che la spingevano in acqua. Si sentì un terzo splash, e tutti e tre si ritrovarono nella corrente, trascinati verso quel buco tumultuoso. L'acqua gelida rianimò Kestrel, che si mise a battere i piedi. Mettendocela tutta per risalire in superficie, riuscì a riprendere fiato. A quel punto vide la volta bassa e rocciosa che si avvicinava, e così si rituffò sott'acqua e venne risucchiata nel buco. Dopo alcuni istanti si ritrovò di colpo scaraventata nell'aria, fra gli spruzzi; e poi cominciò a ricadere giù, giù, respirando a fatica e pensando: Questa è la fine, adesso mi rompo tutte le ossa; quando improvvisamente, con un tonfo sordo e un lungo sibilo, si accorse di essere atterrata nel fango soffice e profondo. 10 Nelle miniere ai sale Dopo essersi ripresa dallo shock della caduta, Kestrel sentì un odore nauseante e capì di essere atterrata in qualche punto del Lago Sotterraneo. Sopra di lei si stagliava la grande volta di salgemma che aveva già visto, e non troppo distante c'era uno dei numerosi buchi nel soffitto dal quale filtrava una debole luce. Davanti a lei si stendeva un tratto d'acqua buia e scintillante, e di fango fetido. Alle sue spalle, il getto ruscellante da cui
erano precipitati. Cercò la piattaforma con il pontile e le chiatte ormeggiate, ma dovevano trovarsi in un'altra parte delle grandi miniere di sale, sperdute nelle tenebre. Sentì un flebile mormorio, si voltò e vide Bowman che si dibatteva nel fango. «Bo, stai bene?» «Sì» rispose lui. E poi si mise a piangere, un po' per il sollievo di essere ancora in vita, ma soprattutto per la vergogna. «Non piangere» gli disse Kestrel. «Non ne abbiamo il tempo.» «Sì, lo so. Scusami.» In silenzio, implorò il perdono della sorella. Avrei dovuto aiutarti. Ma ero tanto spaventato. «Questo è il Lago Sotterraneo» disse Kestrel a voce alta per attirare l'attenzione del fratello su questioni più pratiche. «C'è una via d'uscita che sbuca sulle pianure, ne sono certa.» Si voltò verso il fango liquido e vide spuntarne una forma vagamente familiare, che grugniva e sputacchiava. La creatura si alzò in tutta la sua statura e si ripulì il viso dal fango, lanciandole un raggiante sorriso. «Mumpo!» «Ciao, Kess» disse lui, felice. «Eri tu!» «Ho visto che finivi nel tombino. E ti ho seguita. Io sono amico tuo.» «Mumpo, tu mi hai salvata!» «Ti avrebbero fatto del male. Non permetterò a nessuno di farti del male, Kess.» Lei lo guardò, sporco di fango dalla testa ai piedi, e si stupì di tanta allegria. Ma, in fin dei conti, loro erano coperti di fango quanto lui e ormai puzzavano tutti allo stesso modo. «Mumpo» disse Kestrel «sei stato forte e coraggioso e non smetterò mai di ringraziarti per avermi salvata. Ma adesso devi tornare indietro.» Mumpo si incupì. «Io voglio restare con te, Kess.» «No.» Glielo disse con un tono gentile ma deciso, come se stesse parlando a un bambino piccolo. «Stanno cercando me, non te. Tu devi tornartene a casa.» «Non posso, Kess» rispose Mumpo. «Non riesco più a muovere le gambe.» E a quel punto i gemelli si accorsero che stavano affondando, a ritmo lento ma regolare.
«Tranquilli» disse Kestrel. «Io qui ci sono già stata. Si affonda solo fino alle ginocchia.» Provò a sollevare una gamba, ma non ci riuscì. Kess, le disse suo fratello con il pensiero. E se li avessimo alle calcagna? Lei si guardò intorno, ma dei bambini vecchi non c'era traccia. In questo caso, rispose Kess, resterebbero imprigionati pure loro. Rimasero dunque lì, con i vestiti inzuppati e incollati ai corpi tremanti, respirando l'aria fetida e affondando pian piano. Quando si ritrovarono con il fango all'altezza delle ginocchia, Bowman disse: «Continuiamo ad affondare.» «Dovrà pur esserci un fondo» disse Kestrel. «Perché?» «Non possiamo mica affondare completamente.» «Perché no?» Per un istante non dissero altro e continuarono ad affondare. Poi Mumpo ruppe il silenzio: «Mi piaci, Kess. Tu sei la mia amica.» «Oh, chiudi il becco, Mumpo. Scusami. Lo so che mi hai salvata, ma sinceramente...» Seguì un altro silenzio. Ormai il fango era all'altezza della vita. «Io ti piaccio, Kess?» domandò Mumpo. «Un po'» rispose Kestrel. «Siamo amici, allora» disse felice Mumpo. Quella sua assurda felicità spinse Kestrel a dire ad alta voce ciò che non aveva neanche osato pensare. «Stupido sgloppo! Proprio non lo vuoi capire? Il fango ci sta risucchiando completamente!» Mumpo la guardò attonito. «Ne sei certa, Kess?» «Guardati un po' intorno. Chi pensi che verrà a tirarci fuori?» Mumpo lanciò un'occhiata attorno a sé e non vide nessuno. La paura si dipinse sul suo volto e cominciò a gridare: «Aiuto! Affondo! Aiuto! Vado sotto! Aiuto!» «Oh, chiudi il becco. Non c'è nessuno che possa aiutarci.» Ma lui si mise a strillare ancora più forte. Per fortuna! Perché Kestrel aveva torto. Qualcuno c'era. Non troppo lontano da loro, un grasso ometto coperto di fango, che si
chiamava Willum, andava alla ricerca di foglie di tixa. La tixa cresceva spontanea in posti insospettabili, e l'unico modo di trovarla era quello di andarsene a zonzo per ore in uno stato di semiveglia. Guardando attentamente la grigia e cupa superficie del lago non si sarebbero mai viste le piante di tixa, anch'esse di un colore cupo. Ma se non si guardava, era possibile vederle con la coda dell'occhio. Se le trovavi, ne raccoglievi le foglie e le mettevi nella borsa, ficcandone in bocca una da masticare durante il cammino. Masticando le foglie di tixa si cadeva in uno stato di torpore, che permetteva a chi le cercava di trovarle ancora più facilmente. Quando Willum sentì quelle grida distanti, si drizzò, sbirciò fra le tenebre e per una volta cercò di aguzzare la vista. «Caspita! Caspiterina!» mormorò fra sé, sorridendo. Era tutto il giorno che andava in giro e non aveva mai smesso di masticare foglie di tixa; ormai avrebbe fatto bene a rincasare. Le calze per le noci che portava appese al collo erano piene, e sicuramente sua moglie lo stava aspettando da un pezzo. Quelle grida laceranti, però, non cessavano ancora, così Willum decise di andare verso di esse, seguendo la rete di piste che gli uomini del fango imparavano a conoscere non appena cominciavano a muovere i primi passi. Le piste correvano sotto la superficie fangosa; a volte a pelo d'acqua, altre all'altezza delle ginocchia. La gente del fango aveva un suo modo di percorrerle, avanzando a grandi falcate regolari, immergendo cautamente prima un piede e tirando fuori l'altro, con ritmo costante ed equilibrato. Non si poteva andare veloci, ma oscillando lievemente, soprattutto dopo una giornata trascorsa a cercare la tixa. Intanto i ragazzini continuavano ad affondare. Erano ormai nel fango fino al collo, e pur continuando disperatamente a contorcere le dita dei piedi, non riuscivano ancora a sentire il fondo. Kestrel era spaventata a morte e si sarebbe messa a piangere, se Mumpo non lo avesse fatto a sufficienza per tutti e tre. «Uee-ee uee-ee!» strillava, proprio come un neonato. «Uee-eee ueeeee!» Nessuno si accorse che Willum si stava avvicinando alle loro spalle, finché non parlò. «Oh, santo cielo!» esclamò, arrestandosi sul ciglio della pista più vicina ai ragazzi. «Uee-eee uee... Glup!» Mumpo ammutolì di colpo. Non perché fossero arrivati i soccorsi, ma
perché si ritrovò con la bocca piena di fango. I tre ragazzi cercarono di girare la testa, ma non ci riuscirono. «Aiuto!» disse Bowman con la voce soffocata dal fango. «In effetti, sarebbe il caso» disse Willum. Come ogni altro uomo del fango in perlustrazione sul lago, Willum aveva con sé una fune, arrotolata più volte intorno alla grassa vita. La srotolò e la gettò con precisione sulla superficie del lago, facendola finire a portata di mano dei tre ragazzi. «Aggrappatevi» disse loro. «Ma lentamente, attenzione.» Mentre loro cercavano faticosamente di tirare fuori le mani dal fango per afferrare la fune, Willum vide un cespuglio di tixa che cresceva proprio lì accanto. Era un bel cespuglio rigoglioso, con foglie larghe e mature, della miglior specie. «Quelle foglie» disse. «Prendete e portatemele qui, eh?» Sforzandosi di arrivare alla fune, i bambini non facevano altro che affondare sempre più rapidamente, e ormai il fango li stava per soffocare. Willum, eccitatissimo alla vista della tixa, si dimenticò totalmente della disperata situazione in cui versavano gli altri tre. «Quelle foglie» ripeté loro, indicandogliele. «Prendetele, eh?» Bowman era riuscito ad arrivare alla fune, e la strattonò talmente forte che per poco non scaraventò Willum fuori dalla pista. Poi tese la mano ancora libera a sua sorella e la tenne stretta finché anche lei non riuscì a raggiungere la fune. A sua volta, Kestrel tese la mano a Mumpo, il più vicino dei tre alle foglie di tixa. «Tira!» gridò Bowman sentendo che aveva ricominciato ad affondare. «Tira!» «Forse sarebbe il caso di pensarci» disse Willum, che non stava affatto tirando. «Prima prendetemi quelle foglie.» Fu un puro caso che la mano di Mumpo, nel tentativo di afferrare la fune, si ritrovasse ad agguantare la pianta di tixa. Non appena Willum se ne accorse, cominciò a tirare, avanzando sulla pista come una bestia da soma. Le sue gambette tozze erano incredibilmente forti, come quelle di tutta la gente del fango, e ben presto i bambini sentirono che stavano uscendo fuori da quella poltiglia appiccicosa. Sputacchiando a più non posso, Kestrel liberò il viso e respirò profondamente. Anche Mumpo sputò il fango che aveva in bocca e ricominciò a sbraitare. E Bowman, ansimante, cercò di non pensare a cosa sarebbe successo se l'uomo del fango non li avesse trovati.
Quando sentirono la terra solida della pista sotto i piedi, si lasciarono cadere a terra e rimasero lì, stremati dalla traumatica esperienza appena vissuta. Willum si chinò su Mumpo e gli tolse di mano le foglie di tixa. «Va bene così. Grazie mille mille.» Era estasiato. Ruppe la punta di una foglia, la pulì dal fango e se la mise in bocca. Le altre finirono nella piccola sacca. Quindi tornò a osservare i bambini che aveva appena tirato fuori dal lago. Chi erano? Di certo non gente del fango. Erano troppo magri, e poi nessuno se ne andava in giro uscendo dalle piste per inoltrarsi nelle zone profonde, per di più senza una fune. Sicuramente venivano da lassù. «Lo so chi siete» disse loro. «Appartenete ai magrolini.» I tre bambini seguirono l'ometto piccolo e grasso perle tortuose piste che correvano sotto la superficie scura del lago e che solo lui riusciva a vedere. Troppo stanchi per fare domande, gli andavano dietro a passi pesanti, in fila indiana, continuando a sorreggersi alla fune. A forza di camminare nel fango avevano le gambe indolenzite, ma continuarono ad avanzare, finché dal buco in alto videro il cielo che cominciava a imbrunire. Intanto Willum cantava dolcemente e ogni tanto rideva tra sé. Che colpo di fortuna aver trovato i magrolini!, pensava. Che sorpresa per Jum! E a questo pensiero si fece una fragorosa risata. A furia di cercare la tixa, quel giorno si era allontanato un po' troppo da casa, e quando arrivarono a destinazione era ormai notte fonda. Le tenebre si erano infittite a tal punto che i bambini non vedevano più dove mettevano i piedi e cercavano di non uscire dalla pista, tenendosi sempre aggrappati alla fune. Finalmente Willum si fermò e con un sospiro di soddisfazione annunciò: «Nessun posto è meglio della propria casa, eh?» Nessun posto, proprio: non c'erano segni di case né di ripari di alcun genere, anche se un sottile filo di fumo si levava dal terreno. Esausti e impauriti, i bambini continuavano a tremare e a guardarsi intorno. «Seguitemi, e attenzione ai gradini.» Detto ciò, si calò direttamente nel fango. Kestrel, che veniva subito dietro di lui, sentì i piedi scivolarle in un buco dove pareva esserci una scala. «Bocca chiusa» disse Willum. «Occhi chiusi.» Kestrel sentì il fango salirle fino al collo, e in un attimo se lo ritrovò in bocca, nel naso e sugli occhi, prima di aprirli e di scoprire che era in una stanza sotterranea illuminata e affumicata da un falò. Subito dopo arrivò Bowman e poi Mumpo, entrambi sputando e ripulendosi gli occhi dal fan-
go. Sopra di loro, in cima alla scala, il fango si era richiuso come il coperchio di una botola. «Bene, Willum» disse una voce arrabbiata. «Ce ne hai messo di tempo.» «Sì, ma guarda un po', Jum!» Willum si spostò di lato per farle vedere i bambini. Una donna grassa e coperta di fango sedeva su uno sgabello accanto al fuoco, mescolando qualcosa in una pentola con l'aria accigliata. «E che roba è?» chiese lei. «Magrolini, amore mio.» «Magrolini? Sul serio?» Si sollevò pesantemente dallo sgabello e andò verso di loro. Li toccò con una mano inzaccherata e li accarezzò sulle guance tremanti. «Poverini.» Poi si rivolse a Willum e con tono brusco gli disse: «I denti!» Lui, obbediente, le mostrò la dentatura macchiata di un marrone giallastro. «Tixa. Lo sapevo.» «Una fogliolina soltanto, tesoruccio.» «E domani il raccolto intero. Vergognati, Willum!» «Ho delle noci del fango, Jum» disse con tono suadente. Slegò le calze per le noci e ne estrasse un numero incredibile di palline marrone. Jum tornò verso il fuoco, rifiutandosi di accettarle. «Ma, amore mio! Pasticcino mio! Susina mia!» «Non cercare di addolcirmi! Tu e la tua tixa!» I bambini, per un attimo dimenticati, scrutavano la stanza. Era un'ampia tana rotonda con un soffitto a forma di cupola bucato in cima, in modo da permettere al fumo di uscire. Il falò si trovava al centro della stanza, su una piattaforma di pietra, e tutt'intorno c'era una specie di gabbia con grosse sbarre di ferro piuttosto rade, che permetteva a pentole e bollitori di restare sospesi sulle fiamme, da tutte le parti e a vari livelli. Un bollitore sospeso molto in alto fumava dolcemente; più in basso c'era un paiolo che crepitava e scoppiettava. Accanto al fuoco videro una panca di legno sulla quale sedevano i membri della famiglia, tutti ugualmente grassi e coperti di fango. Se non fossero stati di statura diversa, sarebbe stato difficile distinguerli l'uno dall'altro. Infatti c'erano una bambina, una zia e un nonno. Tutti guardavano con curiosità i nuovi arrivati, a parte il nonno, che continuava a guardare Willum e a strizzargli l'occhio.
Il pavimento della tana era cosparso di morbidi tappetini, sgualciti e sporchi di fango, uno sopra l'altro come le lenzuola di un enorme letto sfatto. «Pollum!» disse Jum continuando a mescolare lo stufato. «Prendi delle altre scodelle!» La bambina del fango scattò in piedi e andò di corsa verso la credenza a muro. «Allora, Willum, è stata una buona giornata?» chiese il vecchio strizzandogli l'occhio. «Abbastanza» rispose l'altro ricambiando l'occhiolino. «Allora non avrai voglia di cenare» disse Jum, dando un colpo al paiolo. «Ti basta la tixa.» Willum le andò alle spalle e la abbracciò forte forte. «Chi impazzisce d'amore per la piccola Jum?» disse. «Chi è tornato a casa dalla sua dolce Jum?» «Chi è rimasto fuori casa per tutto il giorno?» bofonchiò Jum. «Jum, Jum, il mio cuore fa bum!» «Va bene, va bene!» Mise giù il mestolo e si lasciò baciare sul collo. «E con questi magrolini che ci facciamo?» A questo punto la zia, che era rimasta in silenzio per tutto il tempo, prese la parola. «Riempiremo i loro pancini magrolini» disse. «Ben detto» ribatté Willum. Andò a sedersi vicino al vecchio e cominciò a parlare sottovoce. Pollum mise in tavola le scodelle e Jum le riempì di stufato denso e bollente. «Sedetevi, magrolini» disse, con un tono più mansueto. Bowman, Kestrel e Mumpo si sedettero a tavola e guardarono lo stufato. Erano affamatissimi, ma la pietanza aveva l'aspetto del fango grumoso. «Stufato di noci» disse Jum per incoraggiarli. E se ne mise una cucchiaiata in bocca. «Scusi, signora» disse Bowman. «Di che noci si tratta?» «Be'» rispose Jum «noci del fango, è ovvio.» Mumpo cominciò a mangiare. Sembrava che lo stufato non gli dispiacesse, così anche Kestrel fece un tentativo. Era sorprendentemente buono e sapeva di patate affumicate. Subito dopo, tutti e tre si ritrovarono a mangiare di gusto. Jum li guardava soddisfatta. Pollum si avvinghiò alle gambe robuste di sua madre e le sussurrò: «Cosa sono, mamma?»
«Sono dei magrolini. Vivono lassù. Poverini.» «E perché sono qui?» «Sono fuggiti. Stanno scappando.» Mentre mangiavano, i tre bambini cominciarono a sentirsi meglio e a domandarsi dove fossero finiti. «Siamo nel Lago Sotterraneo?» domandò Kestrel. «Io non ne so niente» rispose Jum. «Sotto ci siamo, e questo è certo. Siamo tutti sotto.» «Il fango è...? Cioè, proviene da...?» Sembrava che non ci fosse un modo diplomatico di porre la domanda, così cambiò tattica. «Sembra che quaggiù la puzza del fango non sia così forte.» «La puzza?» disse Jum. «Magari puzzasse forte. Il puzzo della dolce, dolce terra.» La zia, seduta accanto al fuoco, sbottò a ridere. «Purupupù!» esclamò. «Credono che il nostro fango sia purupupù!» «Noo» disse Jum. «Non sono mica scemi.» «Domandaglielo» disse la zia. «Domandaglielo un po'!» «Non penserete mica che il nostro fango sia purupupù, magrolini?» «Cos'è il purupupù?» chiese Bowman. «Cos'è il purupupù?» ripeté sconcertata Jum. Pollum cominciò a sghignazzare. «Be', è il purupupù.» A quel punto intervenne Willum. «Be', sì, è purupupù» disse. «E perché no? Tutto finisce nella dolce terra e dà sapore. Un pentolone per lo stufato, ecco cos'è.» Immerse il mestolo nel paiolo e lo ritrasse colmo di denso stufato. «Un giorno mi distenderò sul terreno e la dolce terra prenderà il mio corpo, trasformandolo nuovamente in qualcosa di buono e restituendolo. Non preoccupatevi del purupupù, magrolini. Siamo tutti purupupù, a guardar bene. Siamo tutti parte della dolce terra.» Mangiò lo stufato direttamente dal mestolo. Jum approvò con un cenno del capo. «Certe volte mi sorprendi, Willum» gli disse. Mumpo terminò il suo stufato per primo e subito dopo si sdraiò sul pavimento, si raggomitolò tutto e si addormentò. «Bravo, magrolino. È così che si fa» disse Jum, coprendolo con un tappeto. Anche Bowman e Kestrel avevano sonno, ma prima volevano ripulirsi dal fango che gli si era seccato addosso. «Scusi, signora» disse Bowman. «Dove posso lavarmi?»
«Vuoi fare un bagno?» «Sì, signora.» «Pollum, prepara il bagno!» Pollum andò al fuoco e sganciò il bollitore fumante. Lo portò in un angolo della tana dove c'era una specie di avvallamento. Quindi, come se fosse un ruscello tortuoso, versò l'acqua bollente che andò formare una pozza fumante sul terreno. L'acqua lambì i lati della cavità e poi si raccolse sul fondo. «Chi va per primo?» disse Jum. Bowman e Kestrel si limitarono a guardare. «Faglielo vedere, Pollum» disse la zia. «Lassù il bagno non esiste, poverini.» Pollum, che non aveva spesso la possibilità di rotolarsi per prima nel bagno quando l'acqua era ancora pulita, vi saltò dentro senza farselo ripetere due volte. Distesa sul dorso, agitava gambe e braccia come un granchio e poi si girava e rigirava, coprendosi di un nuovo strato di caldo liquame. Si dimenava e rideva, ovviamente di gusto. «Basta così, Pollum. Lasciane un po' per i magrolini.» Bowman e Kestrel dissero che era molto gentile da parte loro, ma che in fin dei conti erano troppo stanchi per fare il bagno. Così Jum allestì loro un giaciglio sul pavimento, in mezzo ai mucchi di tappeti, e loro si rannicchiarono come aveva fatto Mumpo. Bowman, esausto, si addormentò di colpo e profondamente, ma gli occhi di Kestrel rimasero aperti un po' più a lungo, e così osservò la gente del fango e ascoltò i loro discorsi. Willum aveva estratto qualcosa dalla sua borsa e lo stava passando al vecchio, e insieme sghignazzavano sottovoce. Jum era accanto al fuoco, a preparare quella che sembrava una quantità spropositata di stufato. «Perché sono così magri, mamma?» «Non mangiano abbastanza. Niente noci del fango lassù, capisci?» «Niente noci del fango!» «Non hanno il fango per farle.» «Niente fango?» «Non dimenticarlo, Pollum. Tu sei una bambina fortunata.» Kestrel tese l'orecchio, ma sembrava che le voci si facessero sempre più basse e confuse, mentre le ombre delle fiamme sul soffitto si scioglievano lentamente in una calda macchia indistinta. Si rannicchiò sempre di più nel suo cantuccio e pensò a quanto le facessero male le gambe, e a quanto fosse bello essere a letto, e le palpebre le diventarono così pesanti che infine
si chiusero, e un attimo dopo dormiva profondamente. 11 La raccolta delle noci del fango Quando si risvegliarono, dal buco sul soffitto attraverso il quale usciva il fumo filtrava una debole luce grigia. Erano usciti tutti tranne Pollum, che sedeva in silenzio accanto al fuoco in attesa del loro risveglio. Mumpo era scomparso. «Il vostro amico è andato al lago» disse Pollum. «Per dare una mano con il raccolto.» Aveva preparato la colazione: quello che inizialmente pareva un piatto di biscotti si rivelò essere un mucchio di noci del fango fritte. «Ma voi non mangiate altro che noci del fango?» le domandò Kestrel. Pollum sembrò non afferrare la domanda. Mentre mangiavano, i gemelli discussero sul da farsi. Si erano persi ed erano spaventati. E sapevano che la madre doveva essere terribilmente in pena per loro. Ma Kestrel sapeva anche che allo stato attuale delle cose non potevano assolutamente tornare ad Aramanth. «Ci manderanno con i bambini vecchi» disse. «Preferisco morire.» «Allora sai quel che ci resta da fare.» «Sì.» Tirò fuori la mappa che le aveva dato l'Imperatore e si misero a studiarla per bene. Bowman seguì con il dito la linea della Grande Via. «Dobbiamo trovare questa strada.» «Prima di tutto, dobbiamo trovare il modo di uscire da qui.» Chiesero a Pollum se ci fosse un modo di arrivare "lassù", ma lei rispose di no, che non ne aveva mai sentito parlare. E, ancora una volta, la domanda sembrò sconcertarla. «Un modo dovrà pur esserci» disse Kestrel. «In fin dei conti, la luce qui dentro ci arriva.» «Be'» disse Pollum dopo averci riflettuto. «Si può cadere giù, ma non si può cadere su.» «I grandi lo sapranno. Lo chiederemo a loro. Quand'è che tornano?» «Tardi. Oggi è il giorno del raccolto.» «Che genere di raccolto?» «Noci del fango» rispose Pollum.
Si alzò e cominciò a sparecchiare i resti della colazione. Bowman e Kestrel si misero a parlare a voce bassa. «E con Mumpo che facciamo?» disse Kestrel. «Sarebbe meglio che venisse con noi» disse Bowman. «Lui è molto più utile di me.» «Non dire così, Bo. Ti rimetterai a piangere.» Infatti era sul punto di scoppiare in lacrime. «Mi dispiace, Kess. Ma non sono affatto coraggioso.» «Non conta solo il coraggio.» «Papà mi ha chiesto di badare a te.» «Ci prenderemo cura l'uno dell'altra» disse Kestrel. «Tu le cose le senti, io invece le faccio.» Bowman annuì lentamente. Lo pensava da sempre, ma non era mai riuscito a esprimerlo così chiaramente con le parole. Pollum aveva messo le stoviglie a mollo nella pozza di fango liquido. «È ora di andare al lago» disse. «È tempo di raccolto, capite. Tutti devono dare una mano.» Decisero di andare con lei e di cercare Willum. Dovevano trovare il modo di andarsene di là. La scena che si offrì ai loro occhi mentre uscivano dalla tana era tutt'altra cosa, rispetto a quella del tetro Lago Sotterraneo della notte precedente. La luce brillava e si rifletteva dovunque, penetrando dai buchi della grande volta di salgemma argentea della caverna, con squarci di sole talmente scintillanti da ferire gli occhi. Da queste pozze brillanti si propagavano onde luminose che facevano risplendere il fango liquido nella foschia. E, affaccendati nella luce, centinaia di abitanti del fango si muovevano avanti e indietro. Lavoravano disposti in lunghe file, a bordo di grandi zattere piatte, raccolte intorno a immensi falò e a grossi marchingegni simili ad argani. E cantavano. Le canzoni si intrecciavano passando di bocca in bocca, come i canti dei marinai; e come quelli dei marinai, anche questi erano canti di lavoro. Perché la gente del fango lavorava, e parecchio. «La puzza non si sente più» disse Kestrel con grande meraviglia. «Si sente, si sente» disse Bowman. «È che ci abbiamo fatto l'abitudine.» Si guardarono intorno per vedere se ci fossero i bambini vecchi, ma di loro non v'era traccia. Quindi cercarono di localizzare qualche faccia conosciuta, ma quelli del fango parevano tutti uguali: grassi e molto infangati. Seguendo Pollum con un po' di timore, percorsero uno spartiacque verso il
falò più vicino. Mentre avanzavano, osservavano la gente al lavoro e cominciarono a capire cosa stavano facendo. Le noci del fango crescevano in campi poco profondi sotto la superficie del lago, e per raccoglierle i braccianti dovevano chinarsi e affondare le braccia nella melma. Lunghe file di gente del fango si snodavano metodicamente attraverso il lago, avanzando insieme, abbassandosi e affondando il braccio allo stesso ritmo. Le noci, grosse quanto mele, venivano gettate in basse tinozze di legno che i raccoglitori si trascinavano dietro. Era uno spettacolo strabiliante vedere quelle interminabili file di persone che avanzavano sul lago, alzandosi e abbassandosi all'unisono, mentre il loro canto si levava fino alla volta della caverna, suscitando un'eco profonda e attutita. E cantava anche la gente riunita intorno ai grandi falò: pareva che alcuni non stessero facendo niente, ma lo facevano comunque fra mille risate. Altri erano impegnati ad arrostire le noci del fango, rigirandole nella brace e tirandole fuori con lunghi stecchi; altri ancora le ripulivano, togliendo il fango dalla buccia, e molti facevano avanti e indietro con le tinozze. Pollum prese tre tinozze vuote, ne diede una ciascuno a Kestrel e Bowman, quindi disse: «Venite con me. Vi mostrerò come si fa.» Dava per scontato che anche loro avrebbero dato una mano, e siccome Willum non si vedeva da nessuna parte e tutti si stavano dando un gran da fare, i gemelli non vollero mostrarsi ingrati: andarono con Pollum nel campo di fango e seguirono le sue indicazioni. I bambini avevano il compito di svuotare le tinozze di legno man mano che si riempivano. Quando una tinozza era colma, i braccianti gridavano: «Piena!» e un bambino accorreva veloce a portarla via e a sostituirla con una vuota. Le noci del fango venivano raccolte in grandi mucchi intorno ai falò accesi sugli spartiacque lungo i campi, in modo che i bambini non dovessero andare troppo lontano. Tuttavia, come scoprirono in fretta Kestrel e Bowman, era comunque un lavoraccio. Le tinozze piene erano pesanti, e bisognava trascinarle nella fanghiglia alta fino agli stinchi. Ma presto trovarono il ritmo, e poi, prima che qualcuno gridasse nuovamente: «Piena!», c'era sempre un momento di pausa. Dopo aver svuotato le tinozze, i loro corpi sembravano farsi leggeri come l'aria. Tornare verso il lago era come danzare fra i raggi del sole e le ombre che screziavano la superficie. Dopo aver lavorato per un tempo che parve interminabile, quando la luce che scendeva dai buchi nella volta cominciò a impallidire, i gemelli
videro i braccianti drizzarsi e massaggiarsi la schiena indolenzita, e poi dirigersi verso i falò. «Cena» disse Pollum. La gente si radunò in gruppi numerosi intorno ai falò, dove c'erano grossi catini pieni di noci del fango appena arrostite e bacinelle piene d'acqua. Per prima cosa bevvero dai lunghi mestoli per togliersi la sete di una giornata di lavoro. Poi si sedettero in piccoli gruppi, chiacchierando, passandosi i catini e mangiando noci una dietro l'altra. I gemelli non provarono nemmeno a cercare il loro amico. Erano così affamati che presero una grossa noce ciascuno e ci diedero sotto. Per qualche istante mangiarono in silenzio, poi i loro sguardi si incontrarono. Entrambi sapevano di non aver mai mangiato nulla di così buono in tutta la loro vita. Un gusto di nocciola, dolce e cremoso allo stesso tempo; croccante la buccia leggermente bruciacchiata, tenera la polpa. «Mai assaggiato niente di simile, eh?» Era Willum, che veniva verso di loro con un grande sorriso. «Appena raccolte dal fango e subito nel fuoco. La vita non è mai più dolce di una noce del raccolto.» Fece l'occhiolino e scoppiò a ridere, apparentemente senza motivo. «Scusi, signore» disse Kestrel accorgendosi che Willum stava di nuovo per andarsene. «Potrebbe aiutarci?» «Aiutarvi, magrolini? E come?» E rimase lì, spostando il peso da un piede all'altro e ridacchiando. «Vorremmo sapere come si esce dalle miniere di sale e si arriva alle pianure.» Willum strizzò gli occhi e aggrottò la fronte, quindi ricominciò a sorridere. «Uscire dalle miniere di sale? Arrivare alle pianure? No, no, no, non vorrete mica fare una cosa del genere?» E ripartì, barcollando e ridendo piano fra sé e sé. I gemelli si guardarono intorno e videro che molti altri uomini del fango si stavano comportando come Willum: si muovevano al rallentatore e ridevano come matti. «Credo che dipenda da quelle foglie che masticano» disse Bowman. «Proprio così» disse con un sospiro una voce nota. «Stasera tutti gli uomini saranno in Tixalandia.» Era Jum, che stava passando con un grosso catino pieno di noci arrostite. «Sapete, le donne hanno troppo buon senso per mangiare la tixa. E trop-
pe cose da fare.» «La prego, signora» disse Kestrel. «Saprebbe dirci come si esce da qui?» «Come si esce? Be', vediamo. Dipende da dove volete andare.» «Verso nord. Verso le montagne.» «Le montagne?» Jum aggrottò la fronte. «E perché?» «Siamo diretti alla Casa del Morah.» Intorno a loro si fece improvvisamente silenzio. Alcuni cominciarono ad alzarsi e a trascinarsi via, continuando a voltarsi e a lanciare occhiate nervose ai gemelli. «Di certe cose qui non si parla» disse Jum. «Nemmeno le nominiamo.» «Perché no?» Jum scosse la testa rotonda. «Qui non abbiamo niente del genere, e neanche lo vogliamo. Ce n'è già abbastanza lassù.» E sollevò gli occhi alla volta della caverna. «Ad Aramanth?» «Lassù» disse Jum «vive la gente di colui che noi non nominiamo. Ma tu lo sai bene, magrolina. È per questo che stai scappando.» «No...» disse Kestrel. Ma suo fratello la interruppe. «Sì» disse. «Lo sappiamo bene.» Kestrel lo guardò. «Ah, sì?» «Sì» disse suo fratello, benché non sapesse bene come spiegare ciò che aveva appena capito. In maniera vaga, intuiva che il mondo come lui lo conosceva, il solo mondo che finora avesse mai conosciuto, era una sorta di prigione, e la gente che vi abitava, la sua stessa gente, era intrappolata fra quelle alte mura. «Lassù c'è il mondo di colui che non nominiamo» disse nuovamente Jum. «Tutti appartengono a lui, chi in un modo, chi in un altro. Solo qui, nella dolce terra, ci lasciano in pace.» «Ma quando il Cantore riprenderà a cantare» disse Bowman «non apparterremo più a... a colui che voi non nominate. Non più.» «Ah, il Cantore, vero?» «Ne ha sentito parlare?» «Sono tutte storie. Storie antiche. Mi piacerebbe sentirlo, quel Cantore, eccome. A noi le canzoni piacciono.» «Allora, la prego, ci aiuti a trovare la strada.» «Be'» disse lei dopo averci pensato su per qualche istante. «Fareste me-
glio a parlare con la Regina Anziana. Lei saprà cosa dirvi.» Con un dito tozzo indicò una collina che emergeva dal lago, un po' in lontananza. Sulla sommità c'era una bassa staccionata di legno. «La troverete nel suo palazzo, laggiù.» «E ci daranno il permesso di parlare con lei?» Jum fece la faccia perplessa. «E perché non dovrebbero? Certo che potrete parlare con la Regina Anziana.» I gemelli la ringraziarono e si incamminarono lungo lo spartiacque, in direzione del palazzo. Intorno a loro gli uomini del fango erano di ottimo umore, ridevano, cantavano e addirittura ballavano. Le foglie di tixa, evidentemente, li riempivano di benevolenza nei confronti di tutta l'umanità, perché passando i gemelli ricevettero sorrisi, cenni di saluto e addirittura abbracci. Poco dopo giunsero in una zona dove il fango troppo profondo consentiva di procedere al raccolto solo con le zattere, strutture di legno pensate proprio per galleggiare sulla superficie del lago e per essere tirate lentamente da funi e argani. Durante il raccolto, i braccianti stavano sdraiati sui bordi delle zattere e immergevano le braccia nel fango. Ora che la giornata di lavoro era giunta al termine, le zattere erano ferme e gli argani abbandonati. E questo era il momento in cui i giovanotti più audaci praticavano lo sport del tuffo nel fango. Bowman e Kestrel si fermarono a guardarli, meravigliati per lo spettacolo che si offriva ai loro occhi. Agli angoli di una delle zattere erano state fissate pertiche lunghe e sottili, che svettavano per una ventina di metri fuori dell'acqua. I tuffatori si fissavano una fune intorno alla vita e si arrampicavano sulle pertiche come scimmie. Una volta in cima, cominciavano a oscillare avanti e indietro, e poi si tuffavano, con la corda che serpeggiava dietro di loro. In quel punto il fango era talmente liquido che scomparivano immediatamente sotto la superficie. I cuori si fermavano per un istante, ma poi la fune cominciava a tirare, il fango ribolliva un po' e il tuffatore riemergeva fra gli applausi degli spettatori. Chi rimaneva in apnea più a lungo riceveva gli applausi più calorosi. Kestrel osservava rapita i tuffatori, quando notò una figura conosciuta che si stava arrampicando sulle pertiche. «Quello è Mumpo!» Era proprio lui. In confronto agli altri pareva smilzo e fragile, ma era il più coraggioso di tutti. Rimase in equilibrio in cima alla pertica, quindi si lanciò e risalì immediatamente. Si tuffò più volte, lanciandosi più lontano
di chiunque altro, restando sotto più a lungo di chiunque altro, e riemergendo fra gli applausi più entusiasti. I gemelli erano allibiti. «Come ha fatto a imparare?» «Mumpo!» gridò Kestrel. «Mumpo. Siamo qui!» «Kess! Kess!» Non appena li vide, si tuffò un'altra volta tanto per fare lo spaccone. Dopodiché, slegò la fune e andò a raggiungerli. «Mi avete visto?» gridò. «Mi avete visto?» Era incredibilmente soddisfatto di sé, sorrideva e saltellava come un cagnolino. Fu Bowman ad accorgersi delle macchie giallastre che aveva sui denti. «Ha mangiato quelle foglie.» «Io ti amo, Kess» disse Mumpo abbracciandola. «Sono così felice. E tu, sei felice? Voglio che tu sia felice quanto me.» E cominciò a saltellarle attorno, ridendo e agitando le braccia incrostate di fango. Bowman notò l'espressione di Kestrel e prima che pronunciasse una sola parola, le disse: «Lascialo fare, Kess.» «È impazzito.» «Non possiamo lasciarlo qui.» E non appena Mumpo gli agitò un braccio sotto il naso, lui glielo afferrò. «Forza, Mumpo. Andiamo dalla Regina Anziana.» «Sono tanto felice! Felice, felice, felice!» disse Mumpo sghignazzando. «In tutta sincerità» si lamentò Kestrel «credo che mi piacesse di più quando piangeva.» Ma Bowman stava riflettendo sulla visione di Mumpo che si tuffava dall'alto della pertica. Il suo corpo era diventato sorprendentemente agile. Mumpo era come un'oca selvatica: impacciata a terra, bellissima in volo. Bowman si rese conto che la compassione che prima provava per lui non era altro che una forma di indifferenza. Perché non si era mai interessato al ragazzino moccioso e puzzolente? Dopo tutto, a modo suo Mumpo era un enigma. Da dove veniva? Perché era senza famiglia? Ad Aramanth, tutti ne avevano una. «Mumpo...» cominciò a dire. «Felice, felice, felice» cantava l'altro. Questo non era il momento per fare domande. Così continuarono il loro cammino e Mumpo non smise di cantare e di ridere per tutta la strada, fino
al palazzo. 12 I ricordi di una Regina Via via che si avvicinavano al palazzo, si accorsero che dall'interno veniva un rumore molto strano. Una specie di gorgoglio fatto di balbettii e squittii. Inoltre sembrava che ci fosse un gran viavai di passi e una moltitudine di voci che gridavano: «Basta!» e «Abbassati!» Qualunque cosa stesse succedendo, non riuscivano a vederla per via della staccionata di legno, nella quale c'era un'unica porta. Man mano che si avvicinavano alla porta, persino Mumpo si incuriosì e tacque, per ascoltare anche lui. Per Kestrel fu un vero sollievo. «Adesso cerca di comportarti come si deve, Mumpo. Stiamo andando dalla Regina, la persona più importante di questo posto. Perciò, cerca di essere rispettoso.» Quindi bussò alla porta. Qualche istante dopo, rendendosi conto che dentro nessuno avrebbe potuto sentirla, aprì da sé. All'interno c'era un ampio spazio aperto, pieno zeppo di bebè del fango. Ce n'erano di piccolissimi, sdraiati su tappetini, e altri che sgattaiolavano dappertutto come tanti cagnolini, e poi c'erano quelli che muovevano i primi passi e ruzzolavano gli uni sugli altri, e quelli che camminavano e scorrazzavano di qua e di là, urlando a squarciagola. Erano completamente nudi e completamente coperti di fango. E sembrava che se la stessero spassando alla grande. Continuavano a scontrarsi fra loro e a inciampare l'uno nell'altro, ma nessuno si faceva male o si metteva a piangere. In mezzo a quella nidiata schiamazzante di bebè sedevano diverse donne anziane e grasse. A differenza dei bambini, erano immobili come isole di granito in un mare in tempesta. I bebè le circondavano e si arrampicavano su di loro proprio come se fossero colline; a volte le anziane signore tendevano un braccio protettivo, o ammonivano qualcuno. Ma per la maggior parte del tempo non facevano niente. Davanti a tanta confusione, i gemelli non sapevano cosa fare. Notarono un ampio varco in mezzo allo spazio recintato, con dei gradini che scendevano verso quelle che potevano essere stanze sotterranee, e immaginarono che la Regina fosse lì. Ma, ovviamente, la cosa migliore era chiedere. Kestrel si avvicinò alla donna più vicina.
«Per favore, signora» disse. «Siamo venuti per vedere la Regina.» «È ovvio» replicò l'anziana donna. «Potrebbe indicarci dove andare, per favore?» «Se fossi in voi, non andrei da nessuna parte» replicò lei. «Allora potrebbe portarci dalla Regina, per favore?» «Ma la Regina sono io» rispose quella. «O perlomeno sono una delle tante.» «Oh» esclamò Kestrel arrossendo come un peperone. «Ci sono molte regine?» «Sì, moltissime. Tutte le signore qui presenti, e molte altre ancora.» Accorgendosi dell'espressione confusa di Kestrel, la donna scosse la testa e disse: «Non preoccuparti, giovane magrolina. Dimmi solo cos'è che vuoi.» «Vogliamo parlare con la Regina Anziana.» «Ah, la Regina Anziana!» A questo punto, tre marmocchi che si erano arrampicati sulla sua schiena precipitarono tutti insieme e cominciarono a piagnucolare. La Regina li rimise in piedi, li accarezzò e disse: «Tra un po' sarà ora di metterli a letto. Subito dopo vi accompagnerò dalla Regina Anziana.» In quel preciso momento suonò una campanella. Le anziane donne si alzarono in piedi e condussero i piccoli giù per i larghi scalini. Bowman, Kestrel e Mumpo li seguirono. L'effetto delle foglie di tixa stava svanendo, e Mumpo si era fatto taciturno. In fondo alle scale c'era una stanza simile alla tana che avevano già visto, ma questa era enorme, con grossi pilastri di terra dura che sorreggevano il tetto. Sembrava che la stanza non avesse fine, e innumerevoli alcove si susseguivano una dopo l'altra, svanendo nell'ombra in lontananza. La truppa dei bebè venne rapidamente messa a dormire sui soffici tappeti che coprivano il pavimento. Le anziane e grasse signore passavano in mezzo a loro, accarezzandoli e sistemandoli, fissando i pannolini se necessario, coprendoli con i tappeti, ma soprattutto lasciandoli sdraiati dove volevano loro. Poi si sedettero tutt'intorno e cominciarono a cantare una ninnananna con le loro vecchie voci roche, mentre i bimbi tiravano su con il naso, sbadigliavano e si addormentavano. Mumpo si lamentò, dicendo che aveva un po' di mal di testa. Guardò i bambini addormentati e fece un enorme sbadiglio, poi disse che si sarebbe seduto per qualche istante. Un attimo dopo si era rannicchiato sui tappeti in mezzo ai bebè e dormiva profondamente.
In men che non si dica regnò il silenzio, increspato da centinaia di piccoli respiri. L'anziana signora che prima aveva parlato con i gemelli, ora li chiamò con un cenno e si avviò con loro verso il fondo della stanza. Mentre camminavano, li informò che il suo nome era Regina Num, e che di solito i bebè non trascorrevano la notte nel palazzo. Le regine badavano ai bimbi solo di giorno, ma questa era la sera del raccolto, e tutti sarebbero rimasti in piedi fino a tardi per festeggiare. Kestrel chiese come mai delle regine badassero ai bambini, e Num rise: «E a che altro potrebbero servire le regine? Sai, siamo troppo vecchie per lavorare nei campi.» In fondo all'enorme salone sotterraneo c'era un gruppetto di donne ancora più anziane, sedute su poltrone disposte a semicerchio attorno al fuoco e intente a fissare il vuoto con occhi assenti. Una era così vecchia che non sembrava neppure viva. E fu da lei che la Regina Num condusse i bambini. «Sei sveglia, cara?» chiese a voce piuttosto alta. «Questa è la Regina Anziana. Non ci sente bene.» Seguì un momento di silenzio e poi arrivò una risposta irritata. «Certo che sono sveglia. Sono anni che non dormo. Magari ci riuscissi!» «Lo so, cara. È davvero terribile.» «E tu che ne sai?» «Due giovani magrolini sono venuti per parlare con te, cara. Vogliono rivolgerti qualche domanda.» «Niente indovinelli, intesi?» disse la voce stizzosa. Nonostante i bambini fossero proprio davanti a lei, sembrava che non li avesse visti. «Gli indovinelli mi annoiano.» «Non credo che si tratti di indovinelli» disse la Regina Num. «Credo piuttosto che si tratti di ricordi.» «Oh, i ricordi.» La Regina Anziana sembrò disgustata. «Troppi.» Improvvisamente i suoi occhietti da uccellino si posarono su Kestrel, che era la più vicina a lei. «Io ho mille anni. Ci credi?» «Be', veramente no» disse Kestrel. «Benissimo. È una bugia.» E scoppiò a ridere, una risata lenta e secca che subito svanì tra le innumerevoli rughe. «Adesso potete andare» concluse. «Per favore, cara. Non vuoi parlare un po' con loro?» disse la Regina Num. «Hanno fatto molta strada.» «Peggio per loro. Avrebbero dovuto restarsene a casa.» Chiuse gli occhi e la Regina Num si voltò verso i gemelli, scrollando le spalle.
«Mi dispiace. Quando le prende così non c'è niente da fare.» «Posso rivolgerle la parola?» chiese Bowman. «Non credo che ti risponderà.» «Non fa niente.» Il ragazzo si sedette per terra accanto a lei e chiuse gli occhi anche lui. Quindi si concentrò, e dopo alcuni istanti, cominciò ad avvertire il lento ronzio dei pensieri della Regina Anziana, come tante mosche d'inverno. Percepì i suoi borbottii furenti, i rimpianti lontani, e una stanchezza spaventosa. Poi, andando sempre più a fondo, raggiunse una regione buia e silenziosa come la notte. E lì c'era un buco, un vuoto, un nulla che si spalancava sul terrore. Senza rendersene conto, cominciò a gridare. «Aah! Terribile!» «Cosa c'è?» chiese Kestrel preoccupata. «Morirà» bisbigliò Bowman con voce tremante. «Sta per succedere ed è terribile! Non sapevo che la morte fosse così!» La Regina Anziana parlò, rivolgendosi più a se stessa che a Bowman. «Troppo stanca per vivere» disse con un tocco di sinistra ironia. «Troppo spaventata per morire.» E, mentre parlava, le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance. Aprì gli occhi e guardò Bowman. «Ah, magrolino, piccolo magrolino» disse «come hai fatto a entrare nel mio cuore?» Anche Bowman si era messo a piangere, non perché fosse triste, ma perché in quell'attimo fra loro due si era stabilita una profonda sintonia. La Regina Anziana sollevò le braccia tremanti, e sapendo ciò che desiderava, Bowman salì sulla sedia e si lasciò avvolgere da quel fragile abbraccio. Lei avvicinò le sue guance umide al viso di Bowman e le loro lacrime si mescolarono. «Che piccolo ladro sei!» mormorò. «Un piccolo ladro di cuori.» Kestrel li guardava, piena di stupore. Anche se era la gemella di Bowman e a volte si sentiva così unita a lui da avere la sensazione che fossero una persona sola, non capiva come facesse a penetrare nei sentimenti della gente. E proprio per questo gli voleva un bene dell'anima. «Su, su» disse la Regina Anziana, cercando di calmarsi e di calmare Bowman allo stesso tempo. «È inutile piangerci sopra.» La Regina Num li guardò, sbigottita. «Oh, cara» disse. «Oh, mia cara.» «Non c'è nulla che si possa fare» disse la Regina Anziana, accarezzando i capelli incrostati di fango di Bowman. «Nulla che si possa fare.»
«La prego» disse Bowman. «Vuole aiutarci?» «A che ti serve una vecchia signora come me, piccolo magrolino?» «Ci dica di...» Bowman esitò e si accorse dello sguardo ammonitore di Kestrel. «Di colui che non nominate.» «Ah, di questo dunque si tratta.» Continuò ad accarezzarlo in silenzio. Quindi, cominciò a parlare con la voce distante di chi sta ricordando. «Si dice che colui che non ha nome dorma e non debba mai essere svegliato, perché... C'era una ragione, ma me la sono dimenticata. È successo tanto, tanto tempo fa. Ah! Aspetta! Adesso ricordo...» Sgranò gli occhi per il ricordo di una paura da tempo dimenticata. «Essi marciano, e ammazzano, e continuano a marciare. Senza pietà. Senza lasciare vie di fuga. Oh, cari miei, lasciatemi morire prima che gli Zar facciano ritorno.» Poi fissò il vuoto che aveva davanti a sé e si tirò su a sedere, rigida per la paura, come se li vedesse arrivare in quel momento. «Gli Zar!» «Oh, miei piccoli magrolini!» disse la Regina Anziana tremando. «Li avevo dimenticati per tutti questi anni. Mia nonna mi raccontava storie spaventose su di loro. E sua nonna aveva visto l'ultima marcia degli Zar... oh, pietà! Pietà! È meglio morire tutti, prima che tornino gli Zar.» Cominciava a respirare con difficoltà e a mostrare segni di fatica. La Regina Num si avvicinò a lei. «Basta così, mia cara. Adesso riposati.» «Noi sappiamo come far tornare a cantare il Cantore» disse Kestrel. «Ah...» Dopo aver sentito queste parole, la Regina Anziana parve ritrovare la calma. «Il Cantore... se solo potessi sentire la sua Voce, non avrei più paura...» Kestrel estrasse la mappa e la srotolò per mostrargliela. «È qui che dobbiamo andare» disse. «Solo che non riusciamo a leggerla.» La Regina Anziana prese la mappa e la esaminò con gli occhi velati di lacrime. E guardandola sospirò più volte, come se avesse nostalgia dei tempi passati e perduti. «E questa dove l'hai presa, piccolina?» «Me l'ha data l'Imperatore.» «L'Imperatore! Puah! Imperatore di che, mi piacerebbe sapere.» «Lei sa leggerla?»
«Leggerla? Sì. Oh, sì...» Sollevò un dito rugoso e tremante, quindi tracciò il sentiero sulla carta ingiallita. «Questa è quella che chiamano la Grande Via... Ah, un tempo era magnifica! A farti strada c'erano i giganti. Io li ho visti, quando ero bambina...» Il suo dito ossuto continuava a muoversi sulla pergamena. «C'è un solo ponte sul burrone. Sulla... sulla... com'è che si chiama? Accidenti, odio la vecchiaia!» «Incrinatura nella Terra» disse Kestrel. «Esatto! Come fai a saperlo?» «Mio padre sa leggere il Manth antico.» «Sul serio? Ormai sono in pochi a saperlo leggere. Dev'essere addirittura più vecchio di me. L'Incrinatura nella Terra, ecco, vedi. Dovete seguire la Grande Via, perché questa conduce all'unico ponte...» La sua voce si affievolì. «Ti stai stancando, mia cara» disse la Regina Num. «Dovresti riposare.» «Presto avrò tutto il tempo per riposarmi» replicò lei con un bisbiglio. «E dopo che succede?» domandò Bowman. «Dopo c'è la montagna... C'è il fuoco... C'è colui che non nominiamo... Si entra nel fuoco ma non se ne esce più...» «Perché no? Cosa potrà mai farci?» «Cos'è che fa a tutto il mondo, magrolini miei? Ruba il cuore e tutto l'amore che c'è in esso.» «Non abbiamo altra scelta» disse Kestrel a voce bassa. «Dobbiamo far cantare di nuovo il Cantore, altrimenti la cattiveria non avrà mai fine.» La Regina Anziana aprì gli occhi e la guardò. «La cattiveria non avrà mai fine... Hai ragione. Be', be', forse è così che deve andare... Num, faresti meglio a indicare ai magrolini la strada per le terre di lassù. Fa' di tutto per aiutarli. Che il nostro amore li accompagni. Mi senti?» «Sì, cara.» La voce della Regina Anziana si ridusse a uno stanco mormorio. «Se deve venire, che venga» disse. E queste furono le sue ultime parole, prima di cadere in un sonno leggero turbato dai sogni. La Regina Num fece capire ai visitatori che era il momento di andare e li accompagnò in un'altra parte del palazzo, dove si stava servendo la cena. «Non possiamo fare niente fino a domani mattina» disse in tono pratico. Li accompagnò in uno spazio vuoto dove avrebbero potuto sdraiarsi dopo la cena. Lei contava di trascorrere la notte su una sedia, per sorvegliare
i bebè che dormivano. «Nelle notti di raccolto non dormo mai» disse. «Me ne resto seduta ad aspettare l'alba. Vedere i bambini addormentati mi fa bene al cuore.» I gemelli si inginocchiarono sul tappeto che copriva il pavimento, e lì, prima di prepararsi per la notte, si accinsero a esprimere un piccolo desiderio di famiglia. Che tristezza senza le braccia sicure e forti dei genitori, e senza il fiato caldo della sorellina sui loro visi. Non era proprio la stessa cosa, ma sempre meglio di niente. Kestrel appoggiò la fronte contro quella del fratello ed espresse il suo desiderio per prima, parlando sottovoce in quella stanza piena dei respiri sommessi di chi dormiva. «Vorrei trovare la Voce del Cantore e tornare presto a casa.» Poi fu il turno di Bowman. «Vorrei che mamma, papà e Pinpin fossero tranquilli e al sicuro e non si rattristassero perché noi non ci siamo.» Poi, abbracciati, aspettarono di addormentarsi. «Kess» bisbigliò Bowman. «Hai paura?» «Sì» rispose lei con un altro bisbiglio. «Ma qualunque cosa succeda, noi saremo insieme.» «Se sei con me, non mi importa più di niente.» E finalmente si addormentarono. 13 La punizione della famiglia Hath Da quando i gemelli erano scomparsi, Ira Hath non era più riuscita a chiudere occhio. Quella sera, sola con Pinpin nell'unica stanza in cui si erano trasferite, aveva messo la bambina a letto ed era rimasta seduta per tutta la notte in attesa di sentir bussare alla porta. I suoi figli erano nascosti da qualche parte in città, ne era certa, e sarebbero tornati con l'aiuto delle tenebre. Ma non fu così. ' Il mattino seguente, Ira ricevette la visita di due arcigni gendarmi che le fecero un mucchio di domande sui gemelli e le dissero di avvertire immediatamente le autorità, nel caso si fossero fatti vivi. Questa visita rinnovò in lei la speranza. Evidentemente non li avevano ancora acciuffati. Pensò anche che i suoi bambini non avrebbero rischiato di avvicinarsi alla loro nuova abitazione, nel caso fosse sorvegliata. Così decise di uscire e di farsi vedere in giro per il quartiere, sperando che la scorgessero dal loro na-
scondiglio e le inviassero un messaggio. Non appena si ritrovò in strada con Pinpin al suo fianco, notò che i passanti la fissavano con aria ostile. Nessuno le andava vicino o le rivolgeva la parola, ma tutti continuavano a fissarla e a sogghignare. Lì vicino c'era una panetteria e lei entrò per acquistare delle focaccine di mais per la colazione. Anche la moglie del fornaio la fissò con insolenza, e porgendole le focaccine disse: «Immagino che nel Quartiere Arancione non si mangino le focaccine di mais.» Poi aggiunse scostandosi i capelli dagli occhi. «Per voi è una bella umiliazione.» Uscendo dal forno, vide che si era formato un capannello di donne del quartiere, tutte vestite di grigio, che starnazzavano come tante galline. Una di loro, una madre di famiglia che abitava sul suo stesso pianerottolo, scattò verso di lei e con tono acido le disse: «È inutile darsi tante arie da queste parti. Se il grigio va bene per noi, andrà bene anche per voi.» Solo allora Ira Hath si accorse che, nella baraonda del trasloco, si era dimenticata di cambiarsi d'abito. Sia lei che Pinpin indossavano ancora i loro abiti arancione. Intervenne un'altra vicina: «Abbiamo sporto denuncia. Adesso per voi saranno guai. E ben vi sta.» «Me ne sono semplicemente dimenticata» disse Ira. «Oh, se n'è dimenticata! Credeva di essere ancora al Quartiere Arancione!» «Lei non è mica meglio di noi! Soprattutto con quei due figli in fuga come topi.» «Guardate la sua povera piccina! Non è giusto, ecco.» Pinpin si mise a piangere. Ira Hath le guardò in faccia, una per una, e vide la medesima espressione di disprezzo. «Io non credo affatto di essere migliore di voi» disse. «Al momento sono sola e non è una situazione facile.» Questo era il suo modo di chiedere un po' di comprensione, ma lo disse con un tono di voce calmo che fece infuriare ancora di più le sue vicine. «E di chi sarebbe la colpa?» disse la signora Mooth, quella che abitava sul suo stesso pianerottolo. «Suo marito dovrebbe impegnarsi di più, o sbaglio? In questo mondo, nessuno ti regala niente.» "Oh, gente sventurata" pensò Ira Hath fra sé. E non aggiunse altro. Prese su Pinpin, che piangeva ancora, e tornò verso casa. Salì i tre piani di scale e attraversò il pianerottolo male illuminato fino al Numero 318, Palazzina 29, Quartiere Grigio, il monolocale che adesso era la loro casa.
Non aveva risposto alle vicine, ma non appena si fu chiusa la porta alle spalle ed ebbe messo giù Pinpin, il suo cuore cominciò a ribollire di rabbia. Sentiva disperatamente la mancanza del marito, era spaventosamente preoccupata per i gemelli e odiava la gente del Quartiere Grigio d'un odio spietato. Si sedette sul letto, che occupava metà della stanza, e dalla finestra guardò la Palazzina 28 che era dall'altra parte della strada. Tutti gli edifici erano fatti di cemento grigio, così come le pareti della sua stanza, grigie e prive di intonaco. L'unica tendina della stanza era grigia. La porta era grigia. L'unico tocco di colore di quella stanza era rappresentato dal vestito arancione che indossava e dal copriletto a righe che si era portata dietro dal Quartiere Arancione, e sul quale adesso era seduta. «Oh, tesorucci miei» disse a voce alta. «Vi prego, tornate a casa...» In quel preciso momento, Hanno Hath era seduto al suo banco insieme agli altri quarantadue candidati, come venivano chiamati, nella sala principale per i seminari del Centro Studi Residenziali, ad ascoltare il Preside Pillish che faceva presente a tutti loro di essere la loro unica salvezza. «In passato, i risultati del vostro Grande Esame sono stati molto scarsi» disse con il tono di chi ha detto le stesse cose molte altre volte, e con le stesse parole. «Siete stati una delusione per voi stessi e per le vostre famiglie, e di questo avete dovuto amaramente pentirvi. Ora siete qui per rimediare e io sono qui per darvi una mano. Ma, prima di tutto, siete qui per aiutare voi stessi, perché l'unico modo di migliorare la vostra triste condizione è quello di lavorare sodo.» Per sottolineare questo punto, il più importante, batté le mani e ripeté: «Lavorare sodo!» Prese quattro libri dalla copertina marrone. «Il Grande Esame non è particolarmente difficile. I quesiti sono di vario genere. E non favorisce solo chi è portato per lo studio, ma anche chi lavora sodo.» E sollevò in aria i quattro libri, uno alla volta. «Aritmetica. Grammatica. Scienze. Arte. Tutto ciò che dovete sapere per il Grande Esame è contenuto in questi quattro libri. Leggere. Ricordare. Ripetere. Non dovete fare altro. Leggere. Ricordare. Ripetere.» Hanno Hath non aveva ascoltato neanche una parola di ciò che il Preside aveva detto. Riusciva a pensare soltanto alla sua famiglia. Durante l'intervallo della mattina, fece un giro intorno alle mura perimetrali del cortile,
cercando di calmarsi e di vedere le cose chiaramente. Da quando aveva lasciato casa sua non aveva ricevuto più notizie. Il che lasciava supporre che Kestrel non fosse ancora stata presa e si nascondesse da qualche parte in città. In tal caso era solo questione di tempo, perché non c'era modo di uscire da Aramanth. Questi pensieri angoscianti continuarono a vorticargli nella testa, mentre proseguiva la sua camminata in cerchio, finché non sentì il suono di un pianto soffocato che lo costrinse a fermarsi. Uno degli altri candidati, un uomo basso con radi capelli grigi, piangeva con la faccia rivolta al muro. Hanno gli andò vicino. «Cosa c'è?» «Oh, niente» rispose l'uomo asciugandosi gli occhi. «Certe volte non riesco proprio a trattenermi.» «È per via del Grande Esame?» L'ometto fece segno di sì con la testa. «Io ce la metto tutta, ma non appena mi siedo al banco, mi dimentico tutto quello che ho imparato.» Si chiamava Miko Mimilith. Faceva il sarto e viveva con la sua famiglia nel Quartiere Marrone. Lavorava sodo, disse, e il suo mestiere lo sapeva fare, ma quel Grande Esame annuale rappresentava per lui un vero spauracchio. «Quest'anno compio quarantasette anni» disse. «Il Grande Esame l'ho fatto venticinque volte. Ed è sempre la stessa storia.» «Ci sono domande a cui sai rispondere?» «Se non mi innervosisco troppo, riesco a fare qualche operazione aritmetica. Ma nient'altro.» «Allora sei fortunato.» A dirlo fu un giovanotto biondo che aveva ascoltato la conversazione. «Magari ci riuscissi io, a fare qualche operazione. Se mi facessero delle domande sulle farfalle, un paio di risposte potrei anche darle.» «O sulla formazione delle nuvole» intervenne un terzo uomo. «Io conosco tutte le specie di farfalle mai viste ad Aramanth» disse il giovanotto biondo con entusiasmo. «E anche una che non si vede da più di trent'anni.» «Fatemi una domanda sulle nuvole» disse il terzo uomo per non essere da meno. «Datemi la forza del vento e la sua direzione, più la temperatura dell'aria, e io vi dirò dove e quando pioverà.» «Quello che piacerebbe a me» disse quel bassetto di Miko Mimilith «è una domanda sui tessuti. Sulla finezza del cotone, sulla freschezza del lino,
sul calore del tweed. Li conosco tutti. Potreste bendarmi e farmelo toccare solo con il polpastrello, e io sarei in grado di dirvi di che stoffa si tratta e anche dove l'hanno tessuta.» Hanno Hath guardava ora l'uno ora l'altro e vide che la pesante indifferenza era scomparsa dai loro occhi, e che adesso tenevano la testa alta e mostravano una gran voglia di parlare. «Oh, quanto sarebbe bello» disse l'uomo delle nuvole con un lungo sospiro «se ci esaminassero in base alle cose che sappiamo veramente!» «Forse dovrebbe essere proprio così» disse Hanno Hath. Prima che riuscisse ad aggiungere altro, la voce del Preside Pillish rimbombò nel cortile. «Candidato Hath! Presentarsi nell'ufficio del Preside.» Hanno entrò nella stanza tappezzata di libri e trovò il Preside Pillish intento a conversare con l'Esaminatore Capo in persona, Maslo Inch. «Ah, eccolo qui» disse il Preside Pillish. «Devo lasciarvi soli?» «Non ce n'è bisogno» disse Maslo Inch rivolgendo a Hanno il suo sorriso glaciale. «Bene, vecchio amico mio. Mi dispiace dover interrompere i tuoi studi, ma sono certo che sarai curioso di sapere che fine hanno fatto i tuoi figli.» Hanno non replicò, ma il cuore cominciò a battergli forte. «Non si tratta di buone notizie. Li hanno visti addentrarsi nel Lago Sotterraneo, ieri verso mezzogiorno. E non sono più riemersi. Temo che le speranze di ritrovarli vivi siano minime.» Mentre parlava, osservava attentamente Hanno, che si sforzava di mantenere un'espressione neutra, anche se nel suo cuore era di nuovo sbocciata la speranza. Là sotto ci arrivava la luce del giorno, si disse. Kess l'aveva vista. Sono sulla strada giusta. Provò un moto di orgoglio, perché i suoi figli avevano avuto il coraggio di intraprendere quel viaggio rischioso. Ma a questo pensiero seguì immediatamente un gelido terrore. Proteggili, disse, come rivolgendosi a qualcuno o a qualcosa che nemmeno conosceva. Sono così piccoli. Veglia su di loro. «È solo colpa tua, amico mio.» «Sì» disse Hanno. «Adesso me ne rendo conto.» L'Esaminatore Capo gli aveva portato questa notizia personalmente perché voleva punirlo. Hanno lo capiva bene. Abbassò la testa, sperando di
apparire pentito. Non voleva destare sospetti. «Ti resta una figlia, ma è ancora troppo piccola perché il tuo pessimo esempio l'abbia danneggiata. Per quanto mi riguarda, da ora in poi ti consiglio di applicarti. E che questo infelice episodio ti insegni il valore della disciplina, della giusta ambizione e del lavoro semplice e duro.» «Duro» fece eco il Preside Pillish con tono rispettoso. «Farò in modo che tua moglie ne venga informata.» «Ne sarà straziata» disse Hanno a voce bassa. «Potrei dirglielo io?» L'Esaminatore Capo guardò il Preside. «Viste le circostanze, credo che un breve colloquio si possa autorizzare» disse. Ira Hath indossava un sobrio abito grigio, quando venne scortata nel parlatorio del Centro Studi Residenziali. Hanno, anche lui vestito di grigio, la stava aspettando. Come suo preciso dovere, il Preside Pillish assistette all'incontro attraverso un vetro. E ci provò gusto nel vedere che la coppia singhiozzava e si abbracciava con aria disperata. Però non riusciva a sentire le parole che si mormoravano, parole che non corrispondevano all'apparenza. Ora che avevano motivo di credere a una fuga dei gemelli, gli Hath erano nuovamente pieni di coraggio. Bowman e Kestrel stavano rischiando tutto per infrangere il cupo potere che opprimeva le loro vite. Non avrebbero potuto fare altrimenti. «Non mi arrenderò» sussurrò Hanno. «Nemmeno io» disse sua moglie. «E adesso so cosa fare.» 14 Il ritorno dei bambini vecchi Al loro risveglio, Kestrel e Bowman si accorsero che i bambini del fango erano scomparsi, mentre Mumpo era già in piedi, aveva fatto un'abbondante colazione e sprizzava energia da tutti i pori. Arrivarono poi alcuni uomini del fango per scortarli fuori dal Lago Sotterraneo. Tra loro c'era anche Willum, pallido e affranto. «Duro lavoro, il raccolto» bofonchiò senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Ti spezza le ossa.» «Partiamo per un'avventura» annunciò Mumpo. «Kess è amica mia.» Il sole brillava già attraverso i buchi sul soffitto, così i gemelli mangia-
rono alla svelta e si congedarono. La Regina Num li salutò affettuosamente, poi, con aria triste, diede loro le calze riempite di noci per il viaggio. «Ci sono due calze per le noci a testa, perché tanto non potreste portarne di più. E state attenti, magrolini miei. Quello di lassù è un mondo secco e crudele.» Legarono a coppie le pesanti calze per le noci e, seguendo l'esempio degli uomini di fango, se le appesero intorno al collo. Lasciarono il palazzo scortati da circa venti uomini robusti. Percorrendo la pista che passo dopo passo si faceva sempre più luminosa, altri uomini si unirono a loro, sempre più numerosi, finché non si ritrovarono un centinaio di persone del fango al loro seguito. Più si avvicinavano all'imboccatura della grande miniera di sale in cui si trovava il Lago Sotterraneo, più il terreno si alzava quasi impercettibilmente, e il fango diventava più duro sotto i piedi. Dopo un po' cominciarono a sentire una brezza fresca sul viso, e la pietra argentea del soffitto sembrò farsi sempre più brillante via via che aumentava l'intensità della luce. La bocca della grotta apparve ai loro occhi come una striscia di luce accecante in lontananza. Ma, mentre si avvicinavano camminando sulla sabbia umida e solida, si accorsero che in quel punto la grotta si restringeva, mentre il soffitto si abbassava e si incurvava. All'esterno, la luce sempre più intensa rivelava una vasta spianata di sabbia sotto un cielo azzurrissimo. Quando la colonna in marcia raggiunse finalmente il punto in cui il sole batteva direttamente sulla dura terra, tutti si fermarono, facendo bene attenzione a non superare il confine del reame dell'ombra. E i ragazzi capirono che da quel momento in poi avrebbero dovuto continuare da soli. «Grazie» dissero. «Grazie per esservi presi cura di noi.» Al momento del congedo, gli uomini del fango levarono le mani in segno di saluto e poi cominciarono a cantare. Un canto d'addio dolce e senza parole, un semplice intreccio di melodie. «È il loro amore» disse Kestrel, ricordandosi delle parole della Regina Anziana. «Ce lo offrono perché ci accompagni.» Mentre i bambini uscivano dalla miniera di sale, diretti alle pianure polverose, il canto degli uomini del fango li accompagnava, caldo come le tane in cui avevano dormito. Con la brezza il canto cominciò ad affievolirsi, finché non si sentì più nemmeno una nota. A quel punto seppero di essere rimasti veramente soli. Dopo l'ombra protettrice del Lago Sotterraneo, le pianure sembravano
sconfinate. Solo verso nord, in lontananza, riuscivano a scorgere la pallida linea grigia delle montagne. Il sole saliva sempre più alto e la caligine che si levava dalla sabbia rovente sembrava fondere insieme cielo e terra. Sembrava che i tre ragazzi fossero le uniche creature viventi in un mondo indistinto e baluginante. Ancora per un po', voltandosi, riuscirono a vedere la bocca nera della grotta dalla quale erano sbucati, ma poi anch'essa venne inghiottita dall'aria polverosa e dalla distanza, e persero ogni punto di riferimento. Arrancarono verso nord, seguendo quella che secondo loro era una linea retta, sperando di incontrare qualche indicazione per la Grande Via. Il vento cominciò a soffiare sui loro visi, sollevando la sabbia e facendo tremare la terra. Bowman e Kestrel camminavano in silenzio, ma entrambi avvertivano l'ansia che era in loro. Solo Mumpo non si preoccupava di niente, e continuava a seguire Kestrel mettendo i piedi nelle orme lasciate da lei e gridando: «Io sono come te, Kess! Noi due siamo uguali!» Il vento cominciò a soffiare più forte e a sollevare sempre più sabbia, oscurando la brillantezza del cielo. Camminare diventò difficile, perché dovevano ripararsi il volto dal vento e da ciò che esso trasportava. A un certo punto videro una struttura bassa e quadrata, simile a una capanna senza tetto, e si diressero lì per cercare riparo. Avvicinandosi, notarono che si trattava di una specie di carro rovesciato su un fianco. Aveva gli assi rotti e le ruote erano mezzo affondate nella terra. La sabbia si era accumulata sul lato esposto al vento, ma dall'altro lato c'era uno spazio protetto dove potersi rannicchiare. Una volta lì, slegarono le calze e consumarono un pranzo appetitoso a base di noci del fango arrostite. Finché il vento rimaneva così forte, non aveva senso rimettersi faticosamente in marcia. Quindi Kestrel tirò fuori la mappa e cominciò a studiarla insieme a Bowman. Nel deserto non c'erano segni di riferimento, se non la posizione del sole che indicava il Nord, e forse la vista delle montagne in lontananza. In ogni caso dovevano trovare la Grande Via, o ciò che di essa rimaneva. «La Regina Anziana ha detto che c'erano dei giganti.» «Sì, ma molto tempo fa. Oggi i giganti non ci sono più.» «Faremmo meglio a continuare verso nord, non appena passa la tormenta.» Kestrel levò gli occhi dalla mappa e notò che Mumpo la guardava e sorrideva.
«Cos'è che ti rende tanto felice, Mumpo?» «Niente.» La ragazzina si accorse che le calze di Mumpo erano vuote. «Non posso crederci! Ti sei mangiato tutte le noci?» «Quasi tutte» ammise Mumpo. «E invece sì. Te le sei finite!» Mumpo sollevò le calze vuote e le guardò meravigliato. «Finite» disse, come se gliele avesse prese qualcun altro. «Grandissimo bodoloso che non sei altro! Ti sarebbero dovute durare per parecchi giorni.» «Mi dispiace, Kess» disse Mumpo. Ma adesso aveva la pancia piena e si sentiva felice, sensazione che non gli dispiaceva affatto. Bowman tornò a ispezionare il carro contro il quale si stavano riparando e i detriti che lo circondavano. A parte le ruote, che erano incredibilmente larghe e sottili, c'erano frammenti di un'asta lunga e spessa, pezzi di tessuto e di rete, e filacci di corda: tutto faceva pensare al relitto di un'imbarcazione a vela. Si alzò e girò intorno al relitto, strizzando le palpebre per proteggersi dalla sabbia; vide il punto in cui i pennoni erano stati fissati al piano del carro e capì che era stato usato come una sorta di veicolo a vela. Tornò al riparo, scavò nella sabbia accumulata dal vento e trovò una puleggia e una cinghia di trasmissione; per poco non si spaccò le mani dissotterrando due lunghe lame di ferro. Era chiaro che quel carro aveva ospitato un complesso meccanismo. Ma per cosa l'avevano progettato? Siccome al momento non aveva altro da fare, e siccome era così che funzionava la sua mente, Bowman cominciò a ricostruire mentalmente il carro con i pezzi che vedeva sparsi intorno a sé. Aveva avuto due pennoni, e questo era evidente; e doveva correre sollevato da terra, su quelle sue quattro ruote gigantesche. Sembrava che un tempo la prua terminasse con un rebbio. Su entrambi i lati c'erano stati due bracci, due grossi raggi di legno che uscivano all'esterno, e appese ad essi c'erano due reti ancora visibili. Il carro a vento era stato ideato per sfrecciare sulle pianure, con le braccia aperte e le reti al traino, per intrappolare e portarsi via... cosa? Volse lo sguardo alla tormenta, come se cercasse una risposta. E così facendo ebbe l'impressione di vedere qualcosa che prima non c'era. Aguzzò la vista per mettere a fuoco la sagoma che si muoveva in lontananza, nella vorticante foschia di sabbia. E di sagome ne vide due. E poi tre. Figure indistinte che si avvicinavano lentamente. Il suo cuore cominciò a battere fortissimo.
«Kess» disse. «Arriva qualcuno.» Kestrel ripose la mappa e guardò anche lei nella direzione del vento. Adesso si distinguevano abbastanza bene, una linea di forme scure a ridosso del cielo cupo. Si guardò intorno e ne vide altre accanto a loro. E dietro. «Sono loro» disse Bowman. «Ne sono certo.» «Chi?» domandò Mumpo. «I bambini vecchi.» Subito Mumpo cominciò a saltellare, spostando il peso da un piede all'altro e agitando le braccia. «Vorrà dire che gliele suonerò un'altra volta» gridò. «Non farti toccare, Mumpo!» lo avvisò Kestrel. «Se ti toccano, ti succede qualcosa. Sta' lontano da loro.» Le figure continuavano ad avvicinarsi, trascinandosi nella bufera di sabbia e circondando i resti del carro a vela contro il quale loro tre si erano rannicchiati. Sentirono una voce portata dal vento, profonda e rassicurante come quella che avevano già sentito una volta. «Vi ricordate di noi? Siamo i vostri piccoli salvatori.» E da tutte le parti arrivò il rombo sommesso di una risata. «Non potrete sfuggirci, lo sapete, vero? Allora, perché non ve ne tornate a casa con noi, adesso?» Mumpo continuava a saltellare tutt'intorno, sferrando pugni all'aria. «Io sono l'amico di Kess» gridò. «Avvicinatevi un altro po' e ve le suono!» Bowman si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da usare come arma. Diede uno strattone a un pezzo di pennone sepolto a metà, che non si mosse di un millimetro. I bambini vecchi erano ormai abbastanza vicini da poterne distinguere gli spaventosi volti pieni di rughe, decrepiti e infantili allo stesso tempo. Le mani raggrinzite cominciarono a protendersi verso di loro, per toccarli. «O dobbiamo accarezzarvi per farvi addormentare?» disse la voce profonda. «Carezze, carezze, carezze e vi risveglierete vecchi come noi.» Il resto del gruppo si mise a ridere, e la loro risata bassa e chioccia venne spazzata via dal vento che la fece vorticare tutt'intorno. Dobbiamo darcela a gambe, disse Kestrel a Bowman, con il pensiero. Riesci a vedere un varco nel cerchio che hanno formato? No. Ci hanno circondati. Non c'è altro modo. Sono sicura che possiamo correre più veloci di loro. I bambini vecchi continuavano ad avvicinarsi, trascinandosi e chiudendo
il cerchio. «Bubba-bubba-kak!» gridò Mumpo prendendo a pugni l'aria. «Volete un pugno sul naso?» Se Mumpo molla un pugno a uno di loro, possiamo scappare attraverso il varco che si formerà. E che ne sarà di lui? Nel momento esatto in cui Bowman inviava il suo pensiero, Mumpo scattò in avanti e colpì uno dei bambini vecchi sul naso. Poi cadde a terra, lamentandosi a più non posso. «Kess! Kess!» Kestrel lo prese fra le braccia. «Ho sbagliato qualcosa, Kess. Aiutami.» I bambini vecchi si misero a sghignazzare e il loro capo disse: «È ora di andare. Avete già perso troppe lezioni. Pensate ai vostri voti.» «No» gridò Kestrel. «Piuttosto voglio morire qui!» «Oh, non morirai» disse quella voce profonda e rassicurante, facendosi sempre più vicina. «Diventerai semplicemente vecchia.» Non c'era via di scampo. Terrorizzato, Bowman chiuse gli occhi e attese che le mani secche e ossute lo toccassero. Sentì i loro passi farsi più vicini. Poi, sopra il gemito del vento, colse un suono nuovo, il lungo suono di un corno che si avvicinava a gran velocità. D'improvviso il suono fu vicinissimo, accompagnato da un tremendo frastuono, da botti e scricchiolii, e dalla tormenta; spinto dal vento ingovernabile, arrivò a tutta birra un carro a vela, con i bracci di legno aperti e le reti svolazzanti. Kestrel lo vide e capì cosa doveva fare. Nell'istante in cui le passò davanti, afferrò il polso di Bowman con una mano, quello di Mumpo con l'altra, e li trascinò sulla traiettoria del carro. Quasi immediatamente furono travolti dalle reti e trascinati via. Impigliati nelle maglie, vennero trasportati alla velocità della tormenta, sfrecciando attraverso la pianura offuscata dalla sabbia. Non appena ebbe ripreso fiato, Kestrel cominciò ad arrampicarsi sulla rete fino a raggiungere il braccio cui era appesa. Lassù, battuta dal vento sferzante, riuscì a guardarsi intorno. Vide Mumpo sotto di lei, urlante e intrappolato come un animale selvatico, con le gambe prese nelle maglie della rete e la testa in giù. Bowman era riuscito a raddrizzarsi e la stava seguendo, arrampicandosi anche lui sulla rete. Non era un'impresa facile, perché il carro viaggiava a una velocità spaventosa e sbandava a ogni solco e sasso che incontrava; e per tutto il tempo la sabbia portata dal vento gli
sfrecciava accanto sibilando. Il corno sull'albero maestro gemeva come lo spirito di un morto, e all'estremità dei bracci di legno protesi verso l'esterno c'erano enormi lame di ferro, simili a falci per il fieno che roteavano a grande velocità, emettendo un orribile sibilo. Kestrel guardò a bordo e vide che non c'era equipaggio. Cercò la barra del timone o l'apparecchio per governare il veicolo, con la speranza di poter dirigere il carro fuori dalla rotta del vento, ma non vide nulla. Il carro a vela era del tutto ingovernabile: sarebbe bastato incontrare una grossa pietra o un albero per andare a sfracellarsi. Doveva assolutamente trovare il modo di farlo rallentare. «Tutto a posto?» gridò a Bowman. «Credo di sì.» «Fa' salire Mumpo a bordo. Io intanto taglio le vele.» Si voltò immediatamente e scese in aiuto di Mumpo, che riuscì a raddrizzarsi e a seguire Bowman su per la rete. Una volta a bordo, si aggrapparono entrambi ai pennoni mentre il carro filava a tutta velocità. Kestrel trovò il punto in cui era fissata la vela maestra e cominciò a srotolare la fune. Uno scossone violento la scaraventò fuori bordo, ma lei si tenne alla fune con tutte le sue forze e andò a sbattere sul fianco del carro. Riuscì ad arrampicarsi, si issò di nuovo a bordo e mollò la vela maestra. La sua intenzione era quella di liberarla interamente per frenare la velocità, ma solo una parte della vela si staccò e cambiò bruscamente direzione, costringendo il carro a procedere su due ruote, con la lama del lato più basso che falciava la sabbia. A un certo punto, però, la lama rimase incagliata nel terreno e il carro fece un testacoda, ruzzolando e capovolgendosi. Mentre rotolava, le due grosse lame si spezzarono, i pennoni si ruppero e le ruote andarono in frantumi, ma il telaio a cui erano aggrappati i bambini rimase intatto. Quando finalmente il veicolo semidistrutto si arrestò, nonostante il corpo indolenzito e i polmoni senza più fiato, i bambini si resero conto di essere ancora vivi e interi. Rimasero a terra in silenzio, ad ascoltare il ritmo selvaggio dei loro cuori. La tormenta infuriava ancora, ma il corno era ammutolito e gli ingranaggi del carro avevano cessato di funzionare. Non si sentiva altro che il flap flap delle vele ormai afflosciate. Erano di nuovo al riparo di un veicolo immobile. Non restava altro che rimanere lì sdraiati, in attesa che la tormenta si placasse. Spossati dallo spavento, tutti e tre sprofondarono in un sonno agitato, durante il quale ebbero la sensazione che i loro corpi si trovassero ancora a
bordo del carro, nel turbinio di una folle corsa. Il sogno e i ricordi si mescolavano al vento ululante, e i ragazzi si svegliarono gridando forte e tenendosi stretti gl'uno all'altro. Mentre cominciavano a riprendere coscienza, si accorsero del grande silenzio che era sceso intorno a loro. La tormenta era finita. Il vento era diventato una brezza leggera. L'aria era limpida e su di loro, mentre strisciavano fuori dal relitto del carro, il cielo era di un azzurro brillante. Per la prima volta da quando avevano lasciato la miniera di sale, riuscivano a vedere chiaramente in lontananza e in tutte le direzioni. Si trovavano nel bel mezzo di una pianura sabbiosa e monotona, fatta di dune basse che si estendevano a perdita d'occhio. Verso nord, la linea delle montagne si stagliava all'orizzonte. Ma, a parte questo, non c'erano altri punti di riferimento. Le montagne erano più vicine, ma per raggiungerle ci volevano alcuni giorni di cammino. Avevano ancora un po' di cibo che, razionato, sarebbe forse bastato per un'altra giornata di viaggio. Ma dopo? «Andiamo avanti» disse Kestrel. «Qualcosa dovrà pur succedere.» Il sole cominciava a tramontare; inutile proseguire adesso. La ragazzina tirò fuori la sua riserva di noci del fango. Come aveva previsto, Mumpo annunciò immediatamente di essere affamato. «Mi dispiace» disse Kestrel. «Le mie, però, non le tocchi.» «Ma io ho fame.» «Potevi pensarci prima.» Era decisa a dargli una lezione; così consumò le sue noci in orgoglioso silenzio. Mumpo si sedette e restò a guardarla come un cagnolino triste e fedele. «È inutile che mi guardi così, Mumpo. Le tue le hai mangiate; adesso io mangio le mie.» «Ma ho fame.» «Troppo tardi, no?» Mumpo cominciò a piangere in silenzio. Dopo qualche istante, Bowman gli diede una delle sue noci. «Grazie, Bo» disse Mumpo, tornando immediatamente di buon umore. Kestrel lo guardò seccata. La bontà di suo fratello la fece arrabbiare con se stessa. «Tu non servi proprio a niente, Mumpo» gli disse. «Hai ragione, Kess.» «Abbiamo ancora un mucchio di strada da fare, lo sai?»
«No» rispose lui candidamente. «Non so neanche dove siamo diretti.» Era vero: non si erano mai presi il disturbo di dirglielo. Di colpo, Bowman provò una grande vergogna. «Mostragli la mappa, Kess.» Kestrel srotolò la mappa e gli spiegò il loro itinerario come meglio poté. Mumpo la ascoltò in silenzio, fissandola negli occhi. Quando lei ebbe finito di parlare, le chiese: «Hai paura, Kess?» «Sì.» «Ti aiuterò io. Io non ho paura.» «E perché no, Mumpo?» gli domandò Bowman. «E cosa c'è da aver paura? Eccoci qua, tre amici. La tormenta è passata. Abbiamo la nostra cena. Tutto è a posto.» «Ma non ti preoccupa quello che potrebbe capitarci più avanti?» «E come potrei? Tanto, finché non succede non lo saprò mai.» Bowman guardò Mumpo con curiosità. In fin dei conti, non era tanto stupido. Forse... Rimase impietrito. Kestrel avvertì subito la paura di suo fratello. «Che c'è, Bo?» «Non senti niente?» Lei tese l'orecchio: un tuono lontano. Tutti e tre scrutarono l'orizzonte. «Qualcosa sta venendo verso di noi. Qualcosa di grosso.» 15 Prigionieri ai Ombaraka Dalle dune era spuntata una bandiera che ora avanzava verso i bambini. Una bandiera bianca e rossa che sventolava alta su un'asta. Ma su cosa poggiasse l'asta non si vedeva. Sapevano, però, che stava puntando verso di loro, perché continuava a svettare sempre più alta. Quando all'orizzonte cominciò a profilarsi la sagoma di una vela, capirono subito che in realtà si trattava di un pennone. Sgattaiolarono fra i rottami del carro a vela, e dal loro nascondiglio continuarono a tenere d'occhio la situazione. Allineate su una lunga fila di pennoni, le vele si moltiplicarono; le più piccole in cima, le più grandi sotto. Adesso riuscivano a vedere la struttura del veicolo, una costruzione elaborata, con finestre sulle fiancate e numerose passerelle sulle quali c'erano persone che correvano, troppo distanti
per poterle distinguere bene. L'imbarcazione, tuttavia, continuava a emergere lentamente dalla duna e adesso si sentiva distintamente il rumore che produceva: un rombo sordo e potente. Apparvero altre vele su pennoni più bassi, poi spuntò un secondo livello del vascello principale, molto più vasto del primo: un'accozzaglia di capanni e rifugi tenuti insieme da ponti di corda e passaggi di legno. Centinaia di persone si muovevano disordinatamente, e si poteva sentirle gridare e impartirsi ordini a vicenda. Indossavano lunghe tuniche svolazzanti e si muovevano con grande agilità, passando da un livello all'altro. Il sole ormai basso illuminò la fiancata della gigantesca imbarcazione mentre scricchiolando sormontava la duna, con la sua miriade di vele gonfiate dalla brezza. Mentre i bambini guardavano la scena, in preda a un assoluto stupore, un terzo livello, anch'esso in legno, apparve ai loro occhi. Era ancora più complesso degli altri due, con una sequenza di casette dalle graziose finestre intarsiate e portici eleganti, disposte intorno a cortili circondati da colonne. Gli alberi maestri svettavano oltre questi edifici, fino alle vele principali, e le bandiere garrivano su tutto. La colossale struttura raggiunse la sommità della duna, puntando contro il relitto del carro a vela. Il rumore era ormai assordante: un alternarsi di gemiti, scricchiolii e sferragliamenti che parevano riempire l'universo. E già l'incredibile vascello torreggiava su di loro, riempiendo il cielo. Apparvero le ruote su cui si muoveva, più grandi di una casa. E fra le ruote c'era ancora un altro livello, sede di magazzini, fabbriche, aie e botteghe di fabbri, collegati da strade interne e tortuosi passaggi. Non si trattava di un'imbarcazione da terra, ma di una città su ruote, un mondo mobile che stava facendo rotta verso il relitto del carro a vela, e con precisione assoluta. Ai tre bambini non rimaneva altro che starsene acquattati all'interno, sperando di non finire schiacciati dal passaggio del mastodonte. Cosa che non accadde perché, mentre la sua ombra cadeva su di loro, le centinaia di vele vennero terzarolate e le ruote del mostro si arrestarono fra strattoni e tremolii a pochi metri dal relitto. Il lungo braccio di legno di una gru calò oscillando dal livello superiore. Dalla sua estremità discesero un paio di gigantesche ganasce di ferro. Prima che i bambini si rendessero conto di quel che stava succedendo, le ganasce si richiusero sul carro, e con un violento strattone lo sollevarono. Mentre salivano sempre più in alto, videro che le persone a bordo del grande vascello gesticolavano e li indicavano. Il braccio della gru oscillò verso l'interno, e il carro a vela venne bruscamente calato in una specie di
pozzo fra il ponte di coperta e quello inferiore. Era già stato lanciato l'ordine di salpare; le vele erano state issate e l'enorme edificio era di nuovo in marcia fra mille scossoni. Quando il carro a vela toccò il ponte, i bambini si videro accerchiati da una folla di uomini dallo sguardo feroce. Sembravano tutti uguali: erano alti e avevano la barba, portavano tuniche color sabbia strette in vita da cinture di cuoio, e i capelli lunghi erano raccolti in centinaia di treccine, ognuna delle quali conteneva un filo dal colore brillante. «Fuori!» ordinò uno degli uomini. I bambini saltarono giù dal carro. Vennero immediatamente afferrati e immobilizzati. «Spie Chaka!» disse il comandante; e con disprezzo sputò sul ponte. «Sabotatori!» «La prego, signore...» esordì Kestrel. «Silenzio!» gridò il comandante. «Sporchi Chaka. Parlerete solo quando ve lo dico io!» E si voltò verso il carro. Alcuni dei suoi uomini lo stavano esaminando. «La corvetta è distrutta?» «Sissignore.» «Rinchiudeteli! Per questo meritano l'impiccagione!» E a grandi passi si allontanò, seguito da un gruppetto di subordinati. Bowman, Kestrel e Mumpo vennero spinti in una gabbia su un lato del ponte. I secondini ci entrarono insieme a loro, e gridarono: «Giù tutta!» La gabbia venne abbassata e, scivolando fra i binari verticali di legno, arrivò fino al livello più basso. Mentre scendevano, i secondini guardavano i bambini con un'espressione di odio e disgusto. Con un tonfo, la gabbia si fermò e i bambini vennero condotti fino a una porta sbarrata che si trovava in fondo a un passaggio buio, e poi brutalmente spinti all'interno di ciò che con tutta evidenza era la cella di una prigione. La porta si richiuse dietro di loro e sentirono lo scatto di una chiave che girava nella serratura. La cella era spoglia; non c'era neanche una panca su cui sedersi. Una piccola finestra si affacciava su un cortile. Mentre i prigionieri, ancora in piedi, si guardavano intorno per rendersi conto della nuova situazione, sentirono un rumore di passi in marcia. Dalla finestra videro una squadra di uomini con la barba e la tunica allineati nel cortile. Il loro capo abbaiò un ordine e i soldati sfoderarono una lunga spada, brandendola dinanzi a sé.
«Morte alle spie Chaka!» gridò il comandante. «Morte alle spie Chaka!» gridarono in coro i suoi uomini. Seguirono urla feroci e mosse che facevano pensare a una danza di guerra. Il capo gridò: «Baraka!» e gli uomini tagliarono l'aria con la spada rispondendo con un altro grido: «Raka ka! ka! ka!» e «Morte alle spie Chaka!» Poi batterono i piedi, con i volti paonazzi per il furore e l'aria di essere pronti a combattere contro tutto e tutti. Kestrel e Bowman osservarono lo spettacolo con crescente sbigottimento, mentre Mumpo seguiva con ammirazione la danza guerresca. Ma più di ogni altra cosa, era rimasto colpito dalle acconciature. «Avete visto?» disse giocherellando con i propri capelli lunghi e lisci. «Mettono un filo rosso e blu in ogni treccina. E giallo e verde. E di tutti i colori.» «Chiudi il becco, Mumpo.» Si sentì scattare la serratura e la porta si aprì per far entrare un uomo che pareva esattamente come tutti gli altri, a parte il fatto che era più anziano e più robusto. Era un po' affannato e portava con sé un vassoio pieno di cibo. «Tanto, a che serve?» disse, posandolo sul pavimento. «Visto che comunque vi impiccheranno. Ma sia fatta la volontà del Morah!» «Il Morah!» esclamò Kestrel. «Lei lo conosce?» «Perché non dovrei?» ribatté il secondino. «Il Morah veglia su tutti noi. Me compreso.» «Per proteggerla?» «Proteggermi!» Quell'idea lo fece ridere. «Oh, sì, il Morah mi protegge. Come no! A furia di bufere ed epidemie, e facendo morire senza ragione le vacche da latte. Ecco come mi protegge il Morah, Aspettate e vedrete con i vostri occhi. Adesso siete qui, belli e giulivi, ma domani avrete la corda al collo. Eh già, il Morah veglia su tutti noi, come no!» Il pasto era a base di pane di mais, latte e formaggio. Mumpo si sedette per terra e cominciò a mangiare con voracità. Dopo un istante di esitazione, i gemelli lo imitarono, mangiando però più lentamente. Il secondino rimase alla porta, tenendoli d'occhio con sospetto. «Siete piccoli per fare le spie» osservò. «Non siamo spie» replicò Kestrel. «Siete degli sporchi Chaka, non è vero?» «E invece no!» «Volete farmi credere che siete Baraka?» «No...»
«E allora, se non siete Baraka, dovete per forza essere Chaka.» A questa osservazione, Kestrel non seppe cosa rispondere. «E i Chaka noi li facciamo fuori» aggiunse il secondino. «Adoro i suoi capelli» disse Mumpo, che aveva già terminato la sua razione. «Sul serio?» Il secondino era stato colto alla sprovvista, ma era evidente che la cosa gli faceva piacere. Sollevò la mano e si tirò le treccine con fare distratto. «Questa settimana voglio provare il verde e il blu.» «Sono difficili da fare?» «Difficili non direi, ma perché le treccine siano ben strette e regolarmente distanziate, sì, ci vuole un po' di pratica.» «Scommetto che lei ci sa fare.» «Devo ammettere di essere piuttosto abile» rispose il secondino. «Per essere uno sporco Chaka, sei un ragazzetto sveglio.» I gemelli seguivano la conversazione con grande stupore. Dalla voce del secondino era scomparsa ogni traccia di ostilità. «Il blu è lo stesso dei suoi occhi» disse Mumpo. «Be', l'idea era proprio quella» ammise il secondino. «A molti piace una nota di rosso, ma io preferisco i toni naturali.» «Immagino che a me non potrà farle» disse tristemente Mumpo. «Non so cosa darei per assomigliare a lei.» Il secondino lo osservò con aria pensosa. «Be', certo che potrei» disse infine. «Visto che ti impiccheranno comunque, non vedo che differenza possa fare. Che colori ti piacerebbero?» «Che colori ci sono?» «Tutti. Qualsiasi colore ti piaccia.» «Allora, li vorrei tutti» disse Mumpo. «Non è molto elegante, sai. Però, visto che è la tua prima volta...!» Il secondino li lasciò soli, chiudendosi la porta alle spalle. «Insomma, Mumpo» disse Kestrel. «Ma come puoi pensare ai capelli in un momento come questo?» «E a che altro dovrei pensare?» ribatté Mumpo. Il secondino tornò con un pettine e una borsa piena di rocchetti di filo colorato. Si sedette a terra a gambe incrociate e cominciò a intrecciare i capelli di Mumpo. Mentre lavorava, divenne quasi gentile. Il suo nome era Salimba e di solito faceva il mandriano. Disse loro che Ombaraka, l'enorme città in movimento sulla quale vivevano, trasportava una mandria di
circa mille vacche, un gregge di capre e uno di montoni. Kestrel approfittò della cordialità del secondino per carpirgli informazioni più importanti. Tanto per cominciare, chi erano i Chaka? Salimba considerò la domanda un trabocchetto. «Ah, mica ci casco così. Ecco, questo viola sì che mi piace. Ti ci vorrebbe una bella lavata di capelli, sai.» «Sì, lo so» disse Mumpo. «I Chaka sono i nemici dei Baraka?» insisté Kestrel. «Come puoi farmi una domanda del genere? Nemici? Voi Chaka ci avete massacrati senza pietà per generazioni! Credi che abbiamo dimenticato il Massacro della Luna Crescente? Oppure l'assassinio di Raka IV? Mai! Nessun Baraka troverà pace finché l'ultimo Chaka non sarà morto.» Salimba si innervosì a tal punto che la treccina non riuscì perfetta. Imprecando, la sciolse e la rifece da capo. Kestrel formulò la domanda in maniera più diplomatica. «Quindi, alla fine vinceranno i Baraka?» «Naturalmente» rispose Salimba. Ogni maschio Baraka sopra i sedici anni, spiegò, veniva arruolato nell'esercito e sottoposto a un quotidiano addestramento militare. E con un cenno del capo indicò il cortile esterno, dove la truppa aveva appena terminato le esercitazioni. Le reclute avevano tutte un altro lavoro, aggiunse. C'era chi faceva il marinaio, chi il falegname e chi si occupava di nutrire il bestiame, ma il loro primo dovere restava sempre quello di difendere Ombaraka. Quando risuonavano i corni della battaglia, tutti gli uomini abbandonavano le loro occupazioni, mettevano mano alla spada e si precipitavano alle postazioni assegnate. E lo facevano con entusiasmo, perché ogni vero Baraka viveva per vedere il giorno della distruzione di Omchaka. E quel giorno sarebbe sicuramente arrivato, disse, secondo la volontà del Morah. Per fare le treccine a Mumpo ci volle più di un'ora, ma il risultato fu strabiliante. Aveva ancora l'aria sudicia, ma dalle sopracciglia in su era uno splendore. I suoi capelli erano talmente incrostati di fango che una volta intrecciati rimasero dritti come tanti spuntoni. Da come Salimba guardava Mumpo, era chiaro che andava davvero fiero del risultato. La cella era priva di specchi e il ragazzino era impaziente di vedere la sua nuova acconciatura. «Com'è? Ti piace, Kess? Eh?» Lei non sapeva che cosa dire. Mumpo era affascinante. Sembrava un porcospino variopinto.
«Sei completamente diverso» disse. «Mi dona?» «È solo... diverso!» In quel momento, Salimba si ricordò che il vassoio aveva il fondo lucido. Lo sollevò per permettere a Mumpo di vedere il riflesso sfocato della sua nuova acconciatura. Mumpo si guardò ed emise un sospiro di piacere. «Grazie» disse. «Lo sapevo che lei era bravo.» Il tramestio dei passi nel corridoio esterno riportò secondino e prigionieri con i piedi per terra. Qualcuno cominciò a bussare violentemente alla porta. Salimba si affrettò ad assumere un'espressione rigorosa e girò la chiave nella serratura. «Prigionieri, alzatevi!» gridò. I bambini si alzarono in piedi. Un anziano Baraka fece il suo ingresso nella cella. I suoi capelli erano lunghi, grigi e pieni di treccine, e così pure la barba. Lo seguiva un drappello di dodici soldati, che si misero sull'attenti fuori della porta, a braccia conserte. L'uomo dai capelli grigi guardò Mumpo con aria sorpresa, ma decise di non fare commenti. «Sono Kemba, Consigliere di Raka IX, Signore della guerra dei Baraka, Grande Feudatario di Ombaraka, Comandante Supremo dei Guerrieri del Vento e Sovrano delle Pianure» annunciò. «Secondino, lasciaci soli!» «Sì, Consigliere.» Salimba si ritirò chiudendosi la porta alle spalle. Kemba andò alla finestra e guardò fuori, giocherellando con la sua cintura di perline colorate. Sospirò e si voltò verso i bambini. «La vostra presenza in questo luogo è profondamente sconveniente» disse. «Immagino che verrete impiccati.» «Noi non siamo Chaka» disse Kestrel. «Certo che siete Chaka. Se non siete Baraka, dovete per forza essere Chaka. E noi siamo in guerra con tutti i Chaka; una guerra all'ultimo sangue.» «Noi veniamo da Aramanth.» «Sciocchezze! Non siate assurdi. Voi siete Chaka e sarete impiccati.» «Non potete impiccarci!» esclamò Kestrel. «Si dà il caso che tu abbia ragione» disse il Consigliere, rivolgendosi più a se stesso che ai presenti. «Non possiamo impiccarvi per via del trattato. D'altro canto, però, non possiamo nemmeno lasciarvi in vita. Accidenti!» Emise un lungo sospiro esasperato. «Che situazione! Ma mi farò venire in
mente qualcosa. Come sempre.» Batté le mani esclamando: «Porta!» E poi, rivolgendosi ai bambini come se avesse avuto un ripensamento, disse: «Dovrò condurvi al cospetto di Raka. È una pura formalità. Ma tutte le sentenze di morte devono essere pronunciate da lui in persona.» La porta si aprì. «Formate la scorta!» comandò Kemba. «I prigionieri dovranno essere immediatamente condotti davanti al Tribunale.» Sorvegliati da vicino per tutto il tragitto, i bambini vennero condotti lungo il ponte inferiore dell'enorme edificio mobile, fino ad arrivare alla cabina di un ascensore che cominciò a salire cigolando. Superarono scale e passerelle, fino a raggiungere il ponte dove aveva sede il Tribunale, e, uscendo dall'ascensore, presero un viale elegante che portava in uno dei cortili con le colonne. Al loro passaggio la gente si fermava a guardarli, bisbigliando parole ostili. Ma quando notavano Mumpo, restavano invariabilmente a bocca aperta. Kestrel sentiva i commenti a voce bassa dei membri della scorta. «Troppo vistosi, quei capelli» diceva uno. «Tutto quell'arancione! Talmente volgare.» «Chissà come riesce a farli star dritti in quel modo? Non che mi piacerebbe portarli così, intendiamoci!» Attraversato il cortile, raggiunsero una porta che al loro arrivo si aprì su una lunga sala: al centro troneggiava un tavolo il cui ripiano era costituito da una mappa gigantesca. In piedi intorno a esso c'erano diversi uomini dall'aria importante e accigliata; fra loro, il comandante che aveva visto emergere i bambini dal carro a vela e Tanaka, capo delle forze armate, un uomo dalla faccia paonazza segnata da profonde rughe di rabbia. Quando si accorse delle treccine di Mumpo, anche lui rimase a bocca aperta per la sorpresa. «Che vi avevo detto?» gridò. «Adesso uno ha preso le sembianze dei Baraka.» Il più piccolo degli uomini che si trovavano intorno al tavolo avanzò impettito verso di loro, guardandoli con grandissima ostilità. Raka IX, Signore della guerra dei Baraka, Grande Feudatario di Ombaraka, Comandante Supremo dei Guerrieri del Vento, e Sovrano delle Pianure, aveva la sfortuna di essere basso, e compensava la statura con la ferocia più spietata. Le sue treccine erano le uniche in tutta Ombaraka a contenere sottili lamine di
acciaio, che scintillavano sotto la luce ogni volta che muoveva la testa. La sua tunica era tutto un incrocio di cinture e bandoliere, nelle quali erano infilati spade e pugnali di ogni misura. Sembrava che ce l'avesse con il mondo intero. Ringhiò: «Spie Chaka!» «No, signore...» «Osi contraddirmi? Io sono Raka!» La sua furia era così violenta che Kestrel non si azzardò a replicare. «Comandante!» «Sì, mio signore.» Tanaka fece un passo avanti. «Hanno distrutto la corvetta?» «Sì, mio signore.» «I Chaka la pagheranno!» Digrignò i denti e batté i piedi. «Omchaka è nelle vicinanze?» «No, mio signore.» La risposta giunse da uno degli altri uomini davanti al tavolo-mappa. «Al massimo a un giorno di viaggio da qui, mio signore.» «Fate in modo di intercettarli!» gridò Raka. «Mi hanno provocato, e per loro saranno guai.» «Intende dare battaglia, mio signore?» domandò Kemba con tono pacato. «Sì, Consigliere! Devono imparare che se mi attaccano, la mia risposta sarà dieci volte più forte.» «Ben detto, mio signore.» Erano già stati impartiti nuovi ordini, e persino i bambini capirono che tutti quegli scricchiolii e tremolii significavano una sola cosa: Ombaraka stava cambiando rotta. «Comandante! Che la flotta sia pronta ad attaccare all'alba!» «Sì, mio signore!» «E le spie Chaka, mio signore?» «Impiccatele, è ovvio.» «Mi domando se sia saggio da parte nostra.» Questa era la voce assorta di Kemba. «Saggio? Saggio?» urlò il Signore della guerra. «Ma cosa dici? Certo che è saggio! Che altro si fa con le spie?» Kemba si avvicinò ancora e sussurrò nell'orecchio del suo signore. «Li interroghi. Scopra i segreti della flotta dei Chaka.» «E dopo li impicchiamo?» «Precisamente, mio signore.» Il basso Signore della guerra annuì e cominciò a fare avanti e indietro,
riflettendo assorto. Tutti gli altri rimasero zitti e buoni. Quindi si fermò e con voce squillante annunciò la sua decisione. «Le spie saranno prima interrogate e poi impiccate.» Ancora una volta, Kemba gli bisbigliò nell'orecchio. «Meglio dire che se collaborano non verranno impiccati, mio signore. Altrimenti non ci riveleranno nulla.» «E dopo li impicchiamo?» «Precisamente, mio signore.» Raka annuì e di nuovo, con voce squillante, disse: «Se decideranno di collaborare, le spie non verranno impiccate.» «Li conduca via, Consigliere» disse poi, facendo un cenno con la mano. «Li interroghi.» Quindi tornò al tavolo-mappa. «Io e lei, Comandante Tanaka, abbiamo una battaglia da preparare.» I bambini furono condotti di nuovo nella loro cella. Una volta dentro, le guardie furono congedate, ma Kemba restò con loro. «Ho guadagnato un po' di tempo» disse. «Mi serve per uscire da questo dilemma. E non ho intenzione di sprecarlo chiedendovi i segreti della flotta da battaglia dei Chaka.» «Ma noi non li conosciamo!» «Questo non ha nessuna importanza. Il dilemma è il seguente: non possiamo impiccarvi senza rompere il trattato. Ma non possiamo nemmeno lasciarvi in vita senza disonorare i nostri antenati e Ombaraka. Tutti gli uomini hanno fatto giuramento di vendicare i nostri morti con il sangue dei Chaka. Finora non ci sono stati problemi, perché non abbiamo catturato un Chaka. E, credetemi, preferirei che non fosse mai successo.» E andò avanti con la sua spiegazione. A quanto pareva, per arrestare il fiume di sangue che scorreva in seguito alla perpetua guerra fra i Chaka e i Baraka, molto tempo addietro i due popoli guerrieri avevano firmato un trattato in cui si stabiliva che da quel momento in poi i guerrieri Baraka non avrebbero più versato sangue Chaka, a meno che il sangue Baraka non fosse stato versato per primo. E viceversa. «Così la guerra è finita?» «Niente affatto» disse Kemba. «Sarebbe stato impensabile. La guerra non potrà mai finire. La stessa esistenza di Ombaraka dipende dalla guerra. Noi viviamo su un'isola mobile per proteggerci dagli attacchi, siamo un popolo guerriero, la nostra è una società militare e, cosa più importante di tutte, il nostro condottiero, Raka di Baraka, è un Signore della guerra. No,
la guerra deve continuare. Abbiamo solo smesso di uccidere. Sono diverse generazioni che nessun guerriero Chaka o Baraka muore in battaglia.» «Come si fa a combattere una battaglia in cui nessuno muore?» «Con le macchine.» Kemba indicò fuori dalla finestra. In fondo al cortile per gli addestramenti si potevano scorgere i pennoni dei vascelli di terra. «La nostra flotta attacca la loro flotta. A volte vinciamo noi, a volte loro. Ma nessun uomo rischia la vita. Le corvette, i caccia e gli incrociatori vanno in battaglia da soli.» «Quindi è solo un gioco.» «No, no. È la guerra, e noi combattiamo con passione. Raka è seriamente convinto che un giorno la sua armata distruggerà Omchaka, e lui rimarrà l'unico Sovrano delle Pianure. E ci crediamo tutti; in un certo senso, ci credo anch'io. Se smettessimo di crederci, dovremmo cominciare a vivere diversamente, e allora smetteremmo di essere Baraka.» «Allora non dovete impiccarci per forza? Non siete crudeli e spietati come sembra.» «Oh, invece sì» disse distrattamente il Consigliere. «Di voi non me ne importa un fico secco. Però mi importa del trattato. Se i Chaka vengono a sapere che abbiamo impiccato le loro spie, dovranno vendicarvi e la carneficina ricomincerà.» «Perciò non potete impiccarci.» «Ma tutta Ombaraka sa che siete qui. E tutti si aspettano la vostra impiccagione. Non avete idea di quanto siano eccitati. Fin dalla nascita siamo allevati per sterminare i Chaka e finalmente, dopo tutti questi anni, ci ritroviamo con tre spie Chaka sorprese nel mezzo di un atto di sabotaggio. È ovvio che dovrete essere impiccati.» Stava di nuovo guardando fuori dalla finestra, e parlava più a se stesso che a loro. «Il trattato l'ho negoziato io, sapete. È stato il mio momento di gloria.» Ed emise un lungo e malinconico sospiro. «Potrebbe lasciarci fuggire.» «No, no. Sarebbe un'onta per tutti noi.» «Allora potreste solo far finta di impiccarci.» «Figuriamoci! Se la finta riuscisse, i Chaka direbbero che abbiamo rotto il trattato e la carneficina ricomincerebbe. Se invece non riuscisse, la gente di Ombaraka vi farebbe a pezzi con le sue mani, e me con voi. Vi prego, datemi dei suggerimenti sensati oppure restate in silenzio e lasciatemi pen-
sare.» Cadde il silenzio, disturbato solo dai cigolii e dagli scricchiolii dell'intera struttura, mentre Ombaraka avanzava attraverso le pianure. Dopo alcuni minuti il Consigliere si diede una manata sulla fronte. «Ma certo! Che stupido sono! Una risposta c'è, e ce l'ho proprio davanti agli occhi!» Bowman e Kestrel corsero alla finestra per vedere cosa stesse guardando. Nel cortile non c'era nessuno e la situazione pareva immutata. «Cosa?» «La flotta da battaglia! La giusta pena per il crimine commesso!» Si voltò verso di loro, raggiante. «Lo sapevo che mi sarebbe venuto in mente qualcosa! Che cervello, il mio! Statemi a sentire.» L'indomani ci sarebbe stata battaglia, disse. I Baraka avrebbero lanciato la loro flotta e i Chaka pure. I vascelli da terra sarebbero entrati in collisione ad altissima velocità, e si sarebbero distrutti a vicenda con le lame rotanti. Quale migliore morte per dei sabotatori, che farli uscire con una corvetta affinché la flotta dei Chaka li riducesse in polpette? «Che idea fantastica! Voi morirete e questo ci darà soddisfazione; ma saranno i Chaka a uccidervi, quindi non infrangeremo il trattato. Non è un piano perfetto?» Fece su e giù per la cella a grandi passi, agitando le braccia. «Che simmetria! Che purezza, che eleganza!» «Ma noi moriremo?» «Esattamente! E tutta Ombaraka potrà vedere! Sì, credo che questa sia una delle migliori idee che abbia mai avuto in vita mia.» Si voltò di scatto e si diresse verso la porta. «Guardia! Apri! Fammi uscire!» «Per favore» gridò Kestrel. «Non potremmo...» «Silenzio, sporca Chaka!» disse il Consigliere senza cattiveria, e uscì dalla cella. 16 La battaglia del vento Il piano di Kemba aveva evidentemente incontrato l'approvazione di Raka di Baraka, perché quando Salimba entrò nella cella disse ai bambini che il popolo di Ombaraka non parlava d'altro.
«Una battaglia con dei morti veri non l'abbiamo mai avuta» disse il secondino con gli occhi che brillavano. «Oh, me la guarderò anch'io, potete contarci.» «Come fa a essere tanto sicuro che resteremo uccisi?» domandò Kestrel. «La nostra corvetta potrebbe anche farcela.» «Oh, no! Ci staranno molto attenti» disse Salimba. «Aspetteranno che l'intera flotta da battaglia dei Chaka sia in campo, e poi vi manderanno all'attacco. Sui loro incrociatori sono montate lame vecchie e pesanti. Vi affetteranno in mille pezzi.» «E a lei non importa niente?» disse Bowman con gli occhi umidi. Salimba lo osservò, poi distolse lo sguardo, un po' impacciato. «Be', per voi non sarà proprio il massimo» disse. «Lo capisco. Tuttavia...» e tornò a guardarlo dritto negli occhi «sarà grandioso!» Quando se ne fu andato, i gemelli si scervellarono per escogitare una soluzione. «È strano» disse Bowman «ma nonostante tutte queste chiacchiere sull'impiccagione e le uccisioni, ho la sensazione che in fondo siano gente cordiale.» «Uiii-iii!» esclamò Mumpo. «Mumpo?» «Sì, Kess?» «Ti rendi conto di cosa sta succedendo?» «Tu sei amica mia, e io ti voglio bene.» Aveva uno sguardo un po' strano, ma lei continuò: «Domani mattina ci metteranno su uno di quegli incrociatori a vela e verremo attaccati da altri incrociatori dello stesso tipo.» «Che bello, Kess.» «No, non è bello proprio per niente. Le lame rotanti ci taglieranno in mille pezzi.» «Pezzi grandi o piccoli?» E Mumpo cominciò a sghignazzare. «O piccolissimi?» Kestrel lo osservò più attentamente. «Mumpo! Mostrami i denti!» Mumpo glieli mostrò. Erano gialli. «Hai masticato la tixa, non è vero?» «Sono molto felice, Kess.» «Dov'è? Fammi vedere.» Lui si infilò una mano in tasca e ne estrasse un mazzetto di foglie di tixa.
«Sei veramente un caso disperato, Mumpo.» «Sì, Kess. Lo so. Ma io ti amo.» «Ma falla finita!» Bowman guardò le foglie grigioverdi. «Forse possiamo farcela.» «A fare cosa?» «Quando eravamo al riparo del carro a vela, ho osservato il modo in cui erano assemblate le sue parti. E credo di averlo capito. Se Mumpo salisse in cima al pennone, come quando faceva i tuffi nel fango, potremmo anche farcela.» Il mattino seguente, appena la luce dell'alba rischiarò il cielo d'oriente, le sentinelle sulle alte torri di guardia di Ombaraka lanciarono il segnale che i navigatori stavano attendendo: «Omchaka in vista!» Un secondo grande vascello, che era la copia speculare di Ombaraka, avanzava pesantemente verso di loro attraverso la pianura; era dotato di pennoni e vele spiegate, di ponti e di torri che si stagliavano contro il cielo rosa e dorato. Un forte vento soffiava da sud-ovest e le due città mobili stavano bordeggiando per ritrovarsi a portata di tiro, una volta che il sole fosse stato alto nel cielo. Raka andò a piazzarsi sul ponte di comando. Sul ponte inferiore, gli argani e le strutture metalliche che sostenevano i carri a vela erano pronti per essere manovrati, e in tutta Ombaraka gli uomini si stavano preparando per l'imminente battaglia. I maestri del vento erano al loro posto sulle gallerie esterne; sul ponte di comando, tutti i loro rapporti venivano studiati per prevedere con esattezza la forza e la direzione del vento. In battaglia, gli elementi di vitale importanza erano due: la direzione del vento e il momento in cui lanciare all'attacco la flotta. Più si aspettava, più ci si trovava vicini agli obiettivi e maggiore era il grado di precisione. Tuttavia, ritardando troppo il lancio si correva il rischio che la flotta non avesse il tempo necessario per raggiungere la velocità d'attacco, prima di subire quello del vascello nemico. Nel frattempo i due vascelli principali, Ombaraka e Omchaka, avanzavano pesantemente per mettersi in posizione di battaglia, cercando entrambi di trovarsi controvento. Inevitabilmente, come sempre accadeva, finirono per trovarsi tutti e due con il vento di traverso, invece che in posizione di vantaggio. Ma non era grave, visto che proprio per questo entrambe le flotte erano progettate per filare meglio controvento. Quando il sole superò la linea dell'orizzonte, Raka diede ordine di suo-
nare i corni della battaglia. Il primo tuonò dall'alto della torre di guardia principale, e tutti gli altri lo imitarono. Uno dopo l'altro, i corni riecheggiarono tra i ponti, sovrapponendo le loro note lunghe e profonde. I tre bambini li sentirono dalla loro cella e ne compresero immediatamente il senso; altrettanto immediatamente si sentì un rumore di passi affrettati e la porta si spalancò. Uomini armati fino ai denti li afferrarono e, senza dire una sola parola, li condussero a forza attraverso il cortile e giù per una rampa, verso il ponte di lancio. Lì, guardando in tutte le direzioni e fin dove arrivava l'occhio, si vedeva allineata la flotta dei Baraka: file e file di carri a vela, ogni vascello sospeso su strutture metalliche che sporgevano dalle fiancate del vascello principale. I carri brulicavano di uomini, impegnati ad allineare le lame a elica, ad appendere le reti, a controllare pulegge e cinghie, a sistemare le vele. Ogni vascello aveva la sua squadra di meccanici, che stavano vivendo un momento solenne. La macchina che avevano costruito con tanto amore, e che con tanta precisione stavano preparando per la battaglia, presto sarebbe stata lanciata perché non facesse più ritorno. Avrebbe portato con sé tutte le loro speranze di gloria e, se avesse avuto fortuna, avrebbe abbattuto un carro Chaka prima di cadere davanti ai colpi del nemico o degli elementi. Ai bambini venne ordinato di fermarsi davanti al primo di quei vascelli leggeri che chiamavano corvette. I soldati Baraka erano dappertutto e, ogni volta che il loro sguardo si posava sui prigionieri, sputavano a terra e lanciavano insulti: «Sporchi Chaka! Non vedo l'ora che i vostri cervelli schizzino in aria!» Accanto a ogni gru c'erano uomini con lunghe pertiche uncinate, che servivano a trainare i carri di lato al vascello. Tre di quelle pertiche tenevano adesso la corvetta principale in prossimità del ponte di lancio, di modo che i bambini potessero salirvi a bordo. Le argentee lame d'attacco brillavano accecanti sotto la luce del sole; sarebbero rimaste immobili finché la corvetta non si fosse messa in moto. A quel punto apparve il Consigliere Kemba per sovrintendere personalmente alla sorte delle spie Chaka. Rivolse ai bambini un amichevole cenno del capo, quindi impartì un ordine alla scorta. «Legate le spie ai pennoni!» «Per favore, signore» disse Kestrel. «Non ci aveva detto che avrebbero assistito tutti alla scena?» «E anche se l'avessi detto?» «Be', se ci legate, lo spettacolo finirà subito. O sbaglio?»
«E allora cosa proponi?» «Stavo pensando che se fossimo lasciati liberi di muoverci, la gente di Ombaraka si divertirebbe di più.» Kemba, leggermente perplesso, prese in considerazione il suggerimento di Kestrel. «Ma così potreste benissimo saltare giù» fece notare. «Allora legateci senza stringere troppo» disse Kestrel. «E dateci qualcosa con cui batterci. In questo modo potremmo offrirvi uno spettacolo vero e proprio.» «No, no» disse Kemba. «Niente spade. Non per delle spie Chaka.» «Allora una di quelle pertiche?» disse Bowman, indicando i pali uncinati che trattenevano la corvetta. «Per farci cosa?» «Potremmo usarla per respingere la flotta dei Chaka.» «Respingere la flotta dei Chaka? Con una pertica?» L'idea fece sorridere l'anziano Consigliere, mentre gli uomini intorno a lui scoppiavano in una fragorosa risata. Loro sapevano bene con quale travolgente velocità le corvette si scagliavano l'una contro l'altra. «Molto bene» disse Kemba. «Forniteli di una pertica. Noi resteremo a guardare mentre respingeranno gli incrociatori dei Chaka.» Fra risate di scherno, i bambini furono condotti a bordo della corvetta, e ognuno di loro venne legato al pennone centrale. Le corde erano sottili ma molto lunghe, e i nodi erano ben stretti. Una pertica uncinata venne lanciata a bordo e un altro scoppio di risa risuonò sul ponte di lancio. La pertica cadde rumorosamente sul fondo della corvetta, e Bowman la lasciò dov'era. Kestrel mormorò qualcosa a Mumpo, che annuì, sorrise e la raccolse. Su tutto il fianco ovest di Ombaraka, la flotta attendeva l'ordine di lancio. Dal punto in cui si trovavano, i bambini riuscirono a contare quattordici grandi incrociatori davanti a loro e nove corvette dietro. In lontananza si scorgeva la massiccia mole di Omchaka stagliarsi contro il cielo luminoso, e alle loro orecchie arrivava il suono distante dei corni da battaglia dei Chaka. I due vascelli principali procedevano con velocità costante controvento, accorciando sempre di più la distanza che li separava. Sulla flotta da battaglia non erano ancora state issate le vele, nonostante i marinai fossero pronti all'azione. Kestrel si voltò, alzò gli occhi verso i ponti e le gallerie che svettavano sopra la sua testa, e vide centinaia di persone: uomini, donne e bambini si accalcavano nei punti di osservazione, fissando in silenzio
la pianura. E ancora più in alto, nelle torri di guardia, le sentinelle puntavano i loro telescopi sulle gru di Omchaka, pronte a gridare non appena i Chaka avessero lanciato la propria flotta. Era un momento delicato per tutti, quello dell'avvicinamento... per tutti tranne che per Mumpo. Il ragazzino faceva roteare la lunga pertica uncinata e rideva da solo. Sembrava non si rendesse conto che i Baraka lo odiavano, e quando gli mostravano il pugno rispondeva con allegri cenni di saluto, continuando a ridere. Bowman e Kestrel, al contrario, restarono muti, cercando di attirare su di sé la minore attenzione possibile. Stavano studiando il meccanismo delle vele e le mosse dell'equipaggio che avrebbe lanciato la corvetta. Alla fine, si sentì un grido lontano, seguito da uno più vicino e da un altro ancora più prossimo. «Prepararsi alla battaglia!» Sul ponte di lancio tutti si misero in stato di allerta, preparandosi a eseguire gli ordini. Davanti a loro, a un miglio di distanza, un'identica agitazione regnava sui ponti di lancio di Omchaka. Poi, lontano ma nitido, come il fragore intenso di una cascata, si levò il grido di battaglia dei Chaka. «Cha-cha-chaka! Cha-cha-chaka!» Vennero istantaneamente spiegate le vele degli incrociatori Chaka, e il vascello in testa venne abbassato fino a terra, mentre il vento gonfiava le vele. Tutti gli occhi di Ombaraka si fissarono sull'incrociatore Chaka che veniva mollato e sulle sue lame che cominciavano a fendere l'aria. «Lancio numero uno!» Quest'ordine secco mise immediatamente in azione gli uomini sul ponte di lancio. Delicatamente, i membri dell'equipaggio vicini all'incrociatore di testa eseguirono tutti i gesti di routine: vele sciolte, lame sbloccate, direzione del vento verificata, nemici sott'occhio, rotta stabilita. Un breve cenno del capo da parte della sentinella, e il responsabile del lancio diede l'ordine finale. «Via!» I morsetti che tenevano bloccato il carro si aprirono di scatto. Il vento lo trascinò via dal ponte di lancio, e il veicolo prese a muoversi sulle proprie ruote. Le grosse lame cominciarono a girare mentre le vele si gonfiavano al vento. Da ogni ponte e galleria si levò il grido di guerra dei Baraka. «Raka ka! ka! ka! Raka ka! ka! ka!» Venne lanciato un secondo incrociatore, poi un terzo e infine tutti gli altri, a uno a uno. E intanto i due vascelli principali continuavano ad avvici-
narsi. Le vedette avevano fatto un buon lavoro. I primi due incrociatori si scagliarono l'uno contro l'altro, fracassandosi a vicenda e incrociando le grosse lame, in un vortice di reciproca distruzione. Dagli spettatori di entrambe le parti si levò un applauso. La distanza era eccessiva per poter stabilire quale dei due carri avesse subito maggior danno. Gli scontri successivi si susseguirono rapidi e intensi. Le vedette e i signori del vento di entrambi i fronti erano degli esperti nel loro campo, e gli incrociatori si avvicinavano ai propri obiettivi con una precisione tale che pareva avessero a bordo dei veri timonieri. Ben presto il centro della pianura divenne un cimitero di rottami, con le vele degli incrociatori che ciondolavano dagli scafi arenati. Il ritmo dei lanci era più veloce: era ovvio che l'obiettivo dei comandanti Chaka fosse quello di sopraffare la flotta dei Baraka, in modo che Ombaraka si ritrovasse indifesa durante la fase finale della battaglia, quando le due città mobili sarebbero state abbastanza vicine perché le flotte d'attacco potessero infliggere danni ai vascelli principali. Le grida di guerra continuavano a levarsi su entrambi i fronti e il loro ruggito incessante si fondeva col fracasso degli incrociatori che entravano in collisione o che andavano a finire contro i carri già distrutti. Impossibile dire quale dei due avversari fosse in vantaggio, anche se la flotta dei Chaka sembrava al momento talmente numerosa da occupare tutta la pianura. Uno dopo l'altro, i carri Baraka vennero calati a terra e presero a sfrecciare sulla sabbia, mentre sul ponte di comando Raka faceva avanti e indietro davanti all'oblò di osservazione. «Il vento vira a ovest di due gradi!» «Lancio Chaka: numero trentuno!» «Colpite! Distruggete!» «Distanza dal nemico: duecento metri!» «Lancio Chaka: numero trentadue! Trentatré!» «Quanti ne mancano?» esclamò Raka. «Seconda flotta: partita! Pronte le corvette!» Tanaka, il comandante delle forze armate, corse al fianco del Signore della guerra. «Mandiamo le corvette, mio signore?» «No! È esattamente ciò che vogliono loro!» «Lancio Chaka: trentaquattro! Trentacinque! Trentasei!» «Distanza dal nemico: mille metri!»
«Bisogna lanciare le corvette, mio signore! Altrimenti non riusciremo a fermarli!» «Che siano maledetti tutti i Chaka!» sbottò Raka. «Quanti ne restano ancora?» «Lancio Chaka: trentasette!» «Dobbiamo lanciare le corvette!» «Non dobbiamo permettere che condizionino la nostra strategia» disse Raka. «È ciò che vogliono.» «Un incrociatore Chaka ha penetrato il fronte! Un incrociatore Chaka ha rotto il fronte!» Quel grido fece scendere il gelo sul ponte di comando. Era accaduto ciò che tutti temevano: un incrociatore aveva rotto la linea difensiva della flotta Baraka e puntava a tutta velocità verso Ombaraka. «Calcolate il punto di collisione!» ringhiò Tanaka. «Suonate le sirene d'allarme!» E rivolgendosi al Signore della guerra disse con voce grave: «Mio signore... le corvette!» «E sia» disse Raka a malincuore. «Lanciate le corvette.» Sui ponti di lancio, gli equipaggi sentirono i corni emettere una nota lacerante: era il segnale d'allarme. Il grido di guerra si incrinò, mentre da una galleria all'altra si cominciava a prendere coscienza di ciò che stava succedendo: la flotta dei Chaka aveva rotto la linea difensiva. Ma non c'era il tempo di chiedersi come o perché, dato che il suono dei corni fu subito seguito dai segnali di lancio, e alla fine le corvette entrarono in azione. «Via! Via! Via!» La corvetta di testa, quella su cui si trovavano i bambini, rimase al suo posto. Dietro di essa, una dopo l'altra, le corvette venivano lanciate a raffica e sfrecciavano a velocità supersonica verso la linea degli incrociatori Chaka in rapido avvicinamento. L'unico incrociatore che era riuscito a penetrare la linea difensiva colpì la prima corvetta, facendola schizzare in aria, e proseguì la sua corsa fino a colpire il ponte inferiore di Ombaraka. Un boato di approvazione si levò da Omchaka, mentre i frammenti vorticanti dell'incrociatore fracassato schizzavano in aria davanti alle pareti di Ombaraka, e gli spettatori si abbassavano per evitare di essere colpiti. Gli equipaggi sui ponti di lancio rimasero impassibili e continuarono a spedire una corvetta dopo l'altra all'assalto degli incrociatori Chaka che avanzavano. «Via! Via! Via!» I bambini assistevano alla battaglia dalla corvetta rimasta sul ponte di
lancio. Bowman e Kestrel erano attenti e muti; Mumpo faceva oscillare la sua pertica uncinata e gridava per l'eccitazione. «Bum! Bum! Sbang sbang! Eccoli! Bang-bum-sbong! Yu-hu!» Poi si sentì una nuova serie di ordini, e i mozzi di Ombaraka serrarono le vele. Lentamente, la città mobile si fermò sussultando. Raka aveva deciso la mossa finale. Qui si sarebbe svolta l'ultima fase del combattimento. Per alcuni lunghi minuti, Omchaka continuò ad avanzare verso di loro. Avevano forse deciso di concludere la battaglia con uno scontro frontale? Ma poi anche Omchaka serrò le vele, e i due mastodonti si bloccarono a cinquecento metri l'uno dall'altro, mentre le loro flotte da battaglia affrontavano l'assalto finale. Sul ponte di comando, Raka era travolto da un'angoscia frenetica. «Hanno ancora vascelli da lanciare? Devo saperlo!» «No, mio signore. Tutte le gru dei Chaka sono vuote.» «Il vento vira a sud-ovest di tre gradi.» «Tre corvette di riserva, mio signore. Dobbiamo lanciarle?» «Allora, andiamo! Via!» Gli occhi di Raka tornarono a brillare. «Hanno giocato l'ultima carta troppo presto! Adesso lo vedranno chi sfonderà la linea difensiva!» Le due tribù nemiche, ormai abbastanza vicine per potersi vedere, facevano a gara a chi urlava più forte. «Cha-cha-chaka! Cha-cha-chaka!» «Raka ka! ka! ka! Raka ka! ka! ka!» Le due flotte da battaglia entrarono in collisione, provocando a ogni urto un boato da parte degli spettatori. Nessun mezzo, da entrambe le parti, aveva più infranto la linea difensiva. La corvetta su cui si trovavano i bambini era la terza in ordine di lancio. Secondo i piani di Kemba, la sua distruzione sarebbe stata il gran finale della battaglia. I bambini mantennero la calma mentre venivano issate le vele, e sentirono il pennone vacillare sotto la forza del vento. Le pulegge sopra le loro teste cigolarono e la corvetta scese verso terra. La vedetta ne stabilì la traiettoria e fissò la boma della vela maestra. Kemba rivolse loro un ultimo, amichevole cenno di saluto. «La migliore idea che mi sia mai venuta» gridò verso di loro. «Regalateci un bello spettacolo.» «Via!» Le morse di bloccaggio si aprirono di scatto, e con uno scossone tremendo la corvetta entrò in azione, sfrecciando nello spazio aperto. Le lame cominciarono a vorticare, e il corno in cima al pennone emise il suo
gemito spettrale. La folla si accalcò sui ponti di Ombaraka per salutare le corvette di riserva con un urlo trionfale. Poi, vedendo i bambini a bordo dell'ultima corvetta, l'urlo si tramutò in un grido di odio. «Sporchi Chaka! Spie dei Chaka! A morte! A morte! A morte!» All'improvviso, gli insulti cessarono. Sulla fiancata di Omchaka si aprirono due enormi porte, rivelando delle gru nascoste alle quali era attaccata una nuova flotta da battaglia al completo. Sul ponte di comando, Raka assisté alla scena con glaciale disperazione. Non c'era nulla che potesse fare. Aveva impegnato i suoi ultimi mezzi che ormai non potevano essere più richiamati. Ombaraka era alla mercé del nemico. «Quanti?» domandò affranto. Ma la risposta ce l'aveva davanti agli occhi, via via che le gru uscivano allo scoperto. Otto incrociatori da guerra. Partendo da una distanza di cinquecento metri non potevano raggiungere la velocità massima, ma avrebbero comunque inferto colpi letali. Ombaraka avrebbe subito danni gravissimi. Era un vero disastro. Tutto il suo popolo lo sapeva. Un silenzio spaventoso cadde sui ponti e sulle gallerie, mentre i Baraka guardavano le loro corvette entrare in collisione con gli ultimi incrociatori Chaka ancora in campo. Ormai non si gridava più "a morte". Si sentiva solo il feroce grido di guerra di Omchaka, portato dal vento. «Cha-cha-chaka! Cha-cha-chaka!» Ma fu allora che accadde qualcosa di strano. La terza corvetta, quella con a bordo le spie Chaka, stava disegnando un'ampia curva. Due dei bambini si stavano dando da fare con le vele: uno era impegnato con la vela maestra, l'altra con il fiocco. Il terzo era salito sull'albero maestro, e da lì faceva sventolare una pertica. Seguendo una traiettoria curva, la corvetta si allontanò dalla battaglia, disegnò una circonferenza e tornò poi indietro. A bordo della corvetta, che avanzava a una velocità da far paura, Bowman e Kestrel erano tesi e concentrati, ben consapevoli del fatto che il mezzo obbediva alle loro manovre. Alla prima virata fecero in modo di tenere tutte e quattro le ruote a terra, ma alla seconda presero la curva un po' più stretta e il veicolo si inclinò leggermente. Comunicando fra loro con il pensiero, i gemelli si scambiarono le loro impressioni. Adesso, di traverso! L'altro lato! Attenzione alla virata! E via! Mentre completavano il secondo lungo giro, capirono di avere ormai il
controllo della corvetta. «Tutto bene, Mumpo?» gridò Kestrel dal basso. «Felice, felice, felice!» rispose Mumpo in una sorta di canto gioioso, facendosi oscillare la pertica uncinata sopra la testa. «Andiamo a pescare!» Il primo degli incrociatori della flotta nascosta toccò terra. Mentre entrava in azione, schivando l'intrico di rottami degli altri mezzi, Bowman e Kestrel invertirono la rotta e si misero al suo inseguimento. La loro traiettoria era studiata non per entrare in collisione con quella dell'incrociatore Chaka, ma per girargli intorno e seguirlo di fianco. Gira, Kess, gira! Adesso, avanti tutta! Il popolo di Ombaraka assisteva alla manovra con grande stupore. Il popolo di Omchaka era altrettanto meravigliato e le grida di trionfo cessarono. Cosa stava succedendo? La corvetta stava forse per unirsi all'attacco dell'incrociatore Chaka? Perché così sembrava, mentre il vascello Baraka, molto più leggero, si affiancava al pesante veicolo. Più vicino! Più vicino! E più vicino... A prua, Kestrel dava gli ordini; alla boma principale, Bowman manovrava la corvetta per farla avvicinare il più possibile senza farsi inghiottire dalla sua lama rotante. Mumpo era appeso alla cima dell'albero maestro per le ginocchia, brandendo la sua pertica e gridando: «Più vicino! Più vicino!» E finalmente la corvetta si trovò a una distanza tale da sentire il vento delle lame che rotavano. «Pesca pesca pesca!» gridò Mumpo. «Adesso!» gridò Kestrel. Bowman strattonò la vela maestra, in modo che la corvetta si inclinasse su due ruote, e Mumpo agganciò l'uncino della sua pertica al sartiame superiore dell'incrociatore. «Scostati! Scostati!» gridò Kestrel. Bowman tirò con forza la boma della vela maestra, la corvetta si raddrizzò e virò di colpo allontanandosi dall'incrociatore, e Mumpo si tenne forte mentre sganciava la pertica. La corvetta schizzò via su due ruote e l'incrociatore andò a schiantarsi con un boato, riducendosi in mille pezzi con le proprie lame. Un grido selvaggio si levò da Ombaraka. La corvetta tornò in equilibrio sulle quattro ruote, e Mumpo si rimise in posizione verticale, alzando le braccia in segno di trionfo. «Bravo, bravo, Mumpo!» gridò Kestrel. Con una nuova virata, tornarono all'attacco. Più colpivano, più la loro
audacia cresceva. Quando i grandi incrociatori venivano lanciati, li rincorrevano come cani da caccia dietro un cervo. E a ogni vittoria, dai ponti di Ombaraka si levava un boato di consenso. Sul ponte di comando, Raka assisteva alla scena sbigottito, tormentando meccanicamente la cintura di perline. «Quelle non sono spie Chaka» disse a voce bassa. Il disastro stava per trasformarsi in trionfo davanti ai suoi occhi. Dopo la distruzione del quarto incrociatore, il comandante supremo dei Chaka si diede per vinto. Le porte dietro le quali si nascondeva la rampa di lancio segreta si richiusero e Omchaka issò le vele per battere in ritirata. Raka di Baraka ordinò di intonare l'inno della vittoria, i corni squillarono e il popolo di Ombaraka cominciò a cantare; uomini, donne, bambini, nessuno escluso. Accompagnati da quel canto, Bowman e Kestrel fecero virare la corvetta per riportarla, con le lame rotanti ancora in azione, verso il vascello principale. Mentre si avvicinavano alla città mobile, le vele si abbassarono e il mezzo cominciò ad arrestarsi. Mumpo scivolò in basso e i tre bambini si abbracciarono, ancora tremanti per la tensione della battaglia. «Mumpo, sei un eroe! Bo, sei un eroe!» «Tutti eroi» disse Mumpo felice come non lo era mai stato in vita sua. «Siamo i tre eroi!» Vennero issati nuovamente a bordo, acclamati da tutti, e fra mille applausi percorsero il ponte di lancio e poi la passerella, attraverso le sale con le colonne fino al ponte di comando, dove Raka li stava aspettando. «Dopo ciò che ho visto» dichiarò «ho capito che non siete Chaka. E se non siete Chaka, allora siete Baraka! Siete nostri fratelli!» «E nostra sorella» aggiunse il Consigliere Kemba con un affabile sorriso. Raka li abbracciò uno a uno, tremando per l'emozione. «Io e il mio popolo siamo al vostro servizio!» Come speciale segno di gratitudine, Raka di Baraka ordinò che il Mastro Trecciaio facesse le treccine ai tre bambini. Dopo lunghe discussioni, venne deciso che nei capelli dei giovani eroi fossero intrecciati fili d'oro: l'onore supremo dopo quello di portare le lame, che spettava al Signore della guerra. La decisione fece alzare numerosi sopraccigli. Ma, come fece notare il Consigliere Kemba, i bambini non sarebbero rimasti a lungo su Ombaraka, e una volta che il Mastro Trecciaio non se ne fosse più preso cura, i
fili d'oro sarebbero presto divenuti opachi. Mumpo era molto eccitato all'idea di avere dei fili d'oro fra i capelli; Kestrel e Bowman molto meno. Tuttavia capirono che sarebbe stato scortese rifiutare. Una volta dato inizio all'elaborato procedimento, però, scoprirono che la cosa era molto più piacevole di quanto immaginassero. Per prima cosa, i loro capelli vennero lavati tre volte, in modo da eliminare tutto il fango. Poi, abilissimi pettinatori separarono i capelli in centinaia di ciocche sottili. Dopodiché entrarono in azione i sottotrecciai, direttamente agli ordini del Mastro Trecciaio. Ogni ciocca veniva intrecciata con tre fili d'oro, e la treccina terminava con un nodino dorato. Se il Mastro Trecciaio notava anche un piccolo difetto, ordinava di disfare la treccina fino alle radici e di ricominciare da capo. Quando questo pazientissimo lavoro fu quasi al termine, il Consigliere Kemba li raggiunse. «Miei cari e giovani amici» disse «Raka di Baraka vi invita alla cena che si terrà stasera in vostro onore. Egli inoltre desidera sapere se c'è un modo più duraturo per dimostrarvi la sua gratitudine.» «Vorremmo essere aiutati a ritrovare la strada» disse Kestrel. «E di quale strada si tratterebbe?» «Dobbiamo raggiungere la Grande Via.» «La Grande Via?» Il tono amabile di Kemba si fece d'improvviso grave. «E perché?» Kestrel incrociò lo sguardo di Bowman e vi lesse lo stesso sospetto che nutriva lei. «È semplicemente il cammino che dobbiamo seguire» disse. «Sa dov'è?» «So dov'era» replicò Kemba. «Sono molti, molti anni che la Grande Via è in disuso. Quella è una regione piena di insidie. Ci sono i lupi. E anche di peggio.» «I lupi non ci spaventano affatto» disse Mumpo. «Noi siamo i tre eroi.» «Ce ne siamo accorti» disse Kemba abbozzando un sorriso. «Ciò nonostante, credo che sarebbe meglio andare a sud, verso Aramanth, da dove dite di venire.» «No, grazie» disse Kestrel con tono deciso. «Dobbiamo andare verso nord.» Il Consigliere Kemba fece un inchino e li lasciò alle loro treccine. Il risultato finale fu spettacolare. I bambini si guardarono allo specchio, muti per lo stupore. I capelli formavano intorno al viso un'aureola di luce
che luccicava a ogni loro movimento. Il Mastro Trecciaio sorrise orgoglioso. «Lo sapevo che l'oro avrebbe donato alla vostra carnagione pallida» disse. «Noi Baraka abbiamo bisogno di colori più accesi. Su di me, l'oro non risalterebbe affatto.» E si toccò le treccine rosse, arancione e verde acido. Alla cena di gala, l'ingresso dei bambini venne salutato con un'ovazione. Intorno alle lunghe file di tavoli lo scintillio delle treccine dorate suscitò sospiri di ammirazione. Raka di Baraka li invitò a sedersi accanto a lui. Convinto che la cosa avrebbe fatto loro piacere, annunciò: «Facciamo rotta a sud! Kemba mi ha informato che uno dei vostri desideri è quello di ritornare ad Aramanth. Ho dunque dato ordine di procedere in quella direzione.» «Ma non è vero» gridò Kestrel. «Noi vogliamo andare a nord.» Il sorriso svanì dal volto di Raka, che guardò Kemba, seduto dall'altra parte del tavolo. Il Consigliere Kemba allargò le braccia. «Considero nostro preciso dovere, mio signore, prenderci cura dei giovani eroi in tutti i modi possibili. Il ponte sopra il burrone è in rovina. E nessun viaggiatore si azzarda più a prendere quella direzione.» «Ebbene, noi sì» disse Kestrel con tono di sfida. «C'è poi un altro fatto.» Kemba sospirò, come se parlarne fosse doloroso. «Mio signore, anche se siamo in guerra con Omchaka da lungo tempo, abbiamo scampato un pericolo ancora più grande. Sto parlando degli...» Esitò per un istante, poi a voce bassa mormorò «... degli Zar.» «Gli Zar?» ripeté Raka con voce tonante. La parola rimbalzò da un tavolo all'altro. «Gli Zar... gli Zar.» «Se i bambini svegliassero inavvertitamente...» «D'accordo, d'accordo» disse Raka alla svelta. «Meglio andare a sud.» I gemelli erano costernati. Per il momento lascia stare, disse Bowman con il pensiero. Così, Kestrel non disse più nulla, e il Consigliere Kemba né fu soddisfatto. Alla fine della cena di gala, Bowman chiese a Raka un favore speciale: voleva parlare con lui a quattr'occhi. «Certamente» disse Raka che, avendo ben mangiato e ben bevuto, era ben disposto verso tutto e tutti. «Perché no?» Ma Kemba era sospettoso. «Credo, mio signore...» esordì. «Suvvia, Kemba» disse Raka. «Ti preoccupi troppo.»
Condusse Bowman nei suoi quartieri privati e Kemba dovette accontentarsi di restare dietro la porta a origliare. Non si aspettava affatto di sentire ciò che sentì. Per un bel pezzo il ragazzino e il Signore della guerra sedettero insieme nel più totale silenzio. Raka si era forse addormentato? Ma poi il Consigliere sentì la voce del ragazzino che parlava piano. «Mi accorgo che se lo ricorda ancora» disse. «Sì...» replicò Raka. «Lei è un bambino e suo padre la porta dappertutto. La tiene stretto, sorride. Lei è piccolo, ma sente tutto il suo amore e il suo orgoglio.» «Sì, sì...» «Adesso è cresciuto. È diventato un ragazzo. È davanti a suo padre che dice: Testa dritta! Testa dritta! Vorrebbe che fosse più alto, lei lo sa. E anche lei lo desidera, più di ogni altra cosa al mondo.» «Sì, sì...» «Adesso è ancora più grande. È un uomo e suo padre non la guarda mai. Non tollera la sua vista perché è troppo basso. Lei non dice niente, ma il suo cuore gli grida: Sii fiero di me. Amami.» «Sì, sì...» Raka singhiozzava sommessamente. «Come fai a sapere tutte queste cose? Come?» «Le sento dentro di lei. Le sento dentro di me.» «Io non le ho mai dette a nessuno. Mai, mai.» Il Consigliere Kemba, con l'orecchio sulla porta, non riuscì a sopportare oltre. Non sapeva bene come tutto questo potesse interferire con i suoi piani, ma era certo che non era bene, per il Signore della guerra di Ombaraka, piangere come un bebè. Così, fingendosi preoccupato, fece irruzione nella stanza. «Mio signore, cosa è successo? Che problema c'è?» Raka IX, Signore della guerra dei Baraka, Grande Feudatario di Ombaraka, Comandante Supremo dei Guerrieri del Vento e Sovrano delle Pianure, guardò il suo Consigliere capo con le lacrime agli occhi e disse: «Pensa agli affari tuoi!» «Ma, mio signore...» «Fuori!» A questo punto, il Consigliere Kemba si ritirò. Poco più tardi, ai timonieri giunse l'ordine di fare rotta verso nord, e lentamente il grande vascello cominciò ad avanzare in direzione delle montagne.
Mentre il sole sorgeva sul nuovo giorno, Kestrel salì sulla più alta torre di guardia di Ombaraka e scrutò le pianure. Era una mattina fresca e chiara e si vedeva a miglia di distanza. In fondo alla pianura, riusciva a scorgere un altipiano e la foresta che lo copriva. E non troppo lontano, laggiù all'orizzonte, la massa scura delle montagne. Mentre Kestrel guardava la terra, credette di vedere sotto la polvere delle pianure e tra gli alberi della foresta i contorni di una lunga strada abbandonata, larga e dritta, che andava verso i monti. Aveva la mappa aperta davanti agli occhi, con la Grande Via interrotta dalla linea frammentata dell'Incrinatura nella Terra. Alla fine della strada, nel punto esatto in cui questa incontrava la montagna più alta, c'erano le parole che suo padre le aveva tradotto come Nel fuoco. Il popolo riconoscente di Ombaraka rivolse un solenne addio ai suoi eroi; tutti, tranne il Consigliere Kemba che non si vedeva da nessuna parte. Raka li abbracciò, uno alla volta, stringendo Bowman fra le braccia in maniera del tutto particolare. «Se mai aveste bisogno del nostro aiuto» disse «non dovrete fare altro che chiederlo.» Salimba avanzò verso di loro con tre bisacce piene di provviste per il viaggio. «Io l'avevo capito subito che non erano spie» disse. «Non sono stato forse io a fargli le treccine?» Vennero calati a terra e tutta Ombaraka si riunì per ripetere ancora una volta l'inno della vittoria, come ultimo omaggio nei loro confronti. Con quelle grida nelle orecchie, i bambini s'incamminarono verso la grande foresta. Si voltarono una sola volta per salutare i nuovi amici, e per un istante rimasero fermi a guardare la grande città mobile che scioglieva le innumerevoli vele e, tra cigolii e scricchiolii, se ne tornava verso le pianure. Una folata di vento smosse le loro treccine dorate, facendoli rabbrividire. Qui l'aria era più fredda, e nera era la terra che si profilava davanti ai loro occhi. 17 La famiglia Hath non si arrende «Dove Bo?» domandò Pinpin. «Dove Kess?» «Sono partiti per le montagne» le rispose Ira Hath, convinta che non si
dovesse mai mentire a un bambino, anche se aveva solo due anni. «Alza le braccine.» «Dove pa'?» «È andato a prepararsi per il suo esame. Sta' ferma mentre ti vesto. Abbiamo quasi finito.» Ira guardò sua figlia con occhio critico. Il copriletto non era abbastanza grande per ricavarne due vestiti, uno per lei e uno per sua figlia; così per Pinpin aveva cucito una tunica senza maniche da infilare sopra la camiciola arancione. Guardandola, si sentì felice di aver preso la decisione giusta. Madre e figlia con lo stesso identico vestito a righe sarebbe stato un po' eccessivo. Una volta pronte, Ira afferrò il grosso paniere che aveva preparato in precedenza, prese Pinpin per mano e uscì sul pianerottolo. Mentre passava davanti al monolocale dei Mooth, sentì la porta che si apriva e un grido acuto: «Oh, ma guardate un po' che si è inventata adesso!» Dalla porta socchiusa, tre visi sbigottiti fissavano madre e figlia che stavano andando verso le scale. Una volta in strada, gli abiti a righe variopinte suscitarono un certo scalpore. Il guardiano del condominio alzò immediatamente una mano, soffiò nel suo fischietto e gridò: «Non potete farlo!» Un uomo che stava passando con un carretto carico di botti si voltò a guardare, e investì un altro uomo con un cesto in testa. Il cesto volò via e le botti ruzzolarono giù dal carro. Dal cesto capovolto uscì una miriade di piccoli granchi rosa, una prelibatezza molto ricercata nel Quartiere Bianco. Due grasse signore che sopraggiungevano dalla direzione opposta, anche loro con gli occhi puntati su Ira e Pinpin Hath, inciamparono nelle botti che rotolavano, e la più grassa delle due andò a finire contro una botte, rompendola in mille pezzi e facendo uscire la melassa che conteneva. Il guardiano del condominio, che si affrettava verso la scena dell'incidente, mise i piedi prima nella melassa e poi sui granchi che correvano da tutte le parti, e cadde lungo disteso. Mentre si dimenava per rimettersi in piedi, con gli stivali che si agitavano in aria andò a colpire la testa della donna, riempiendole i capelli di melassa e granchi. Pinpin era deliziata, come se assistesse a uno spettacolo appositamente allestito in suo onore. Ira Hath, indifferente agli sguardi dei vicini, alle imprecazioni del guardiano, alle urla della donna con i granchi fra i capelli, continuò per la sua strada, svoltando nel corso principale in direzione del centro.
Mentre procedeva, con il paniere in una mano e Pinpin nell'altra, parecchie persone presero a seguirla, bisbigliando come se temessero che lei potesse sentirli. Ira Hath si accorse che tutto questo cominciava a piacerle. Essere una donna a righe le conferiva un certo potere. Quando attraversò il Quartiere Marrone e poi quello Arancione, il piccolo corteo si ingrossò sempre di più, e alla fine Ira si ritrovò con più di una cinquantina di persone di tutti i ranghi al seguito. Alle porte del Quartiere Scarlatto, si fermò di colpo e si voltò verso di loro. Anche gli altri si fermarono e in silenzio ricambiarono il suo sguardo come una mandria di mucche. Ira sapeva benissimo che la stavano seguendo perché volevano assistere alla sua punizione. Per la gente di Aramanth non c'era nulla di più eccitante che la pubblica umiliazione di un concittadino. Qualcosa, in quegli occhi tristi e vacui, smosse in lei una sorta di istinto ancestrale, e le parole le salirono alle labbra senza che lo volesse. «Oh, sventurata gente!» gridò. «Domani vi porterà il dolore, ma dopodomani riderete! Preparatevi a mescolare i vostri colori!» Quindi si voltò e si rimise in cammino, con tutti gli altri dietro. Ira Hath camminava a testa alta e sentiva il sangue che cantava dentro di lei. Le piaceva essere madre e moglie, ma aveva appena scoperto che essere una profetessa le piaceva ancor di più. Quando raggiunse la piazza nei pressi del Palazzo Imperiale, ogni perdigiorno di Aramanth sembrava essersi accodato a lei". A dire il vero, però, ad Aramanth non c'erano perdigiorno, perché la città faceva in modo che tutti avessero un'utile occupazione da svolgere. Così vedere quel corteo che, trascinandosi dietro a madre e figlia abbigliate di righe variopinte, passava davanti al Consiglio degli Esaminatori, non fu gradito ai governanti della città. Ira Hath continuò ad avanzare a passi decisi, attraversò il doppio colonnato e giunse nell'arena. Scese le nove gradinate, e la folla continuò a seguirla per vedere cosa avrebbe fatto dopo. Giunta al centro della grande arena, ai piedi della piattaforma di legno dove si ergeva il Cantore, Ira si fermò. Depose il paniere sulla piattaforma e accanto a esso sistemò Pinpin. Poi ci montò sopra anche lei. A questo punto tirò fuori una coperta, una bottiglia di limonata, un sacchetto pieno di panini e si sedette con Pinpin in braccio. La folla la guardava a bocca aperta, in attesa della sua prossima azione oltraggiosa. «Oh, sventurata gente!» gridò la profetessa. «È giunto il tempo di seder-
si e di mangiare i panini!» E fu esattamente ciò che fece. La folla attendeva paziente, sicura che ci sarebbero stati ulteriori sviluppi. Dopo un po' apparve un Esaminatore vestito di bianco, con quattro gendarmi al seguito. Era il professore Greeth, che aveva la responsabilità di mantenere l'ordine nella città. Vedendolo scendere le nove gradinate insieme alla sua scorta, la folla fu percorsa da un fremito. «Signora» disse il professor Greeth con quella sua voce nitida e tagliente. «Questo non è un circo. Lei non è un pagliaccio. Scenda immediatamente di lì e si abbigli come conviene.» «Non lo farò» disse Ira Hath. Il professor Greeth indirizzò un brusco cenno del capo ai gendarmi. «Fatela scendere!» «Oh, sventurata gente! Guardate, e vedrete che ad Aramanth non v'è libertà!» «Ad Aramanth non v'è libertà?» esclamò il professor Greeth indignato. «Io sono Ira Hath, diretta discendente della profetessa Ira Manth, e sono qui per aprire gli occhi alla gente!» Il professor Greeth fece segno ai gendarmi di aspettare. «Signora» disse, parlando a voce alta perché la folla potesse sentirlo «sta dicendo un mucchio di sciocchezze. Lei ha la fortuna di vivere nell'unica società veramente libera che sia mai esistita. Ad Aramanth tutti gli uomini e tutte le donne nascono uguali, e hanno uguali possibilità di arrivare alle posizioni più alte. Qui non esistono povertà, né delinquenza, né guerra. Non abbiamo nessun bisogno di profeti.» «Tuttavia» gridò la profetessa «voi mi temete!» Mossa astuta, pensò subito il professor Greeth. Non sarebbe stato saggio reagire in maniera esagerata. «Lei si sbaglia, signora. Noi non la temiamo affatto. La troviamo solamente un po' rumorosa.» La folla scoppiò a ridere. Il professor Greeth aveva raggiunto il suo scopo. Se fosse ricorso alle maniere forti, la gente avrebbe solidarizzato con la donna. Meglio lasciarla là finché il freddo e la fame non l'avrebbero fatta scendere. Nel frattempo, per riaffermare la propria autorità, il professor Greeth ordinò ai gendarmi di disperdere la folla. «Tornate al vostro lavoro!» gridò. «Lasciamole profetizzare cosa mangerà per cena.»
Hanno Hath, rinchiuso nel Centro Studi Residenziali, seppe della ribellione di sua moglie solo all'ora di pranzo. Le ragazze che servivano ai tavoli bisbigliavano tra di loro eccitate, mentre scodellavano il minestrone ai candidati. Si raccontavano che una donna stravagante, vestita come un pagliaccio, si fosse seduta sul Cantore e trattasse tutti da sventurati. Hanno riconobbe immediatamente lo stile della moglie e si sentì travolgere prima dall'orgoglio e poi dalla preoccupazione. Chiese maggiori dettagli alle ragazze. Le autorità avevano usato la forza per tirare giù dal Cantore quella donna? «Oh, no» disse la ragazza che serviva il budino di riso. «Sono andati a vedere e si sono semplicemente fatti quattro risate, come tutti noi.» Hanno si tranquillizzò, ma il suo proposito divenne ancora più fermo. Mancavano solo due giorni al Grande Esame e il suo piccolo atto di ribellione era già a buon punto. Un po' alla volta, gli altri candidati avevano deciso di prendere parte al suo piano, tutti tranne un certo Scooch, addetto alle pulizie in una fabbrica, che non si era lasciato convincere. Il piano di Hanno aveva avuto come effetto secondario quello di modificare l'atmosfera del Corso di Studi. I candidati, che prima fissavano inebetiti i libri di testo e ascoltavano le lezioni del Preside con un'espressione di sconfitta, avevano cominciato ad applicarsi con profitto. Il Preside Pillish aveva notato la cosa con grande soddisfazione. Aveva l'impressione che i candidati si aiutassero a vicenda e questa era una buona garanzia per l'esito finale. Aveva anche notato che il fulcro di questo nuovo entusiasmo era rappresentato da Hanno Hath. Curioso di sapere cosa avesse detto ai suoi colleghi esaminandi, l'aveva convocato nel suo ufficio per un colloquio riservato. «Sono molto colpito, Hath: Qual è il suo segreto?» «Oh, è molto semplice» aveva risposto Hanno. «Qui abbiamo tutto il tempo per riflettere sul reale valore degli esami. E abbiamo capito che il loro vero scopo è quello di valutare la parte migliore di ognuno di noi. Così, se diamo il meglio di noi stessi, be'... comunque vada, dovremmo essere contenti di venir giudicati in base a quello.» «Bravo!» aveva gridato il Preside Pillish. «Che bella svolta. Eccellente! Non esito a dirle che nel suo fascicolo lei è presentato come un disfattista. E invece... Dare il meglio di se stessi: ottimo! Nemmeno io avrei trovato maniera migliore per dirlo.» Ciò che Hanno non aveva sentito il dovere di spiegare al Preside era
proprio il modo in cui lui e gli altri candidati intendevano dare il meglio di se stessi. Aveva avuto quell'idea mentre ascoltava Miko Mimilith parlare dei diversi tessuti che gli passavano fra le mani. Se Miko avesse potuto sostenere un esame su quell'argomento, aveva pensato, non ne avrebbe avuto paura. E a questa idea ne era seguita immediatamente un'altra. La conoscenza dei tessuti rappresentava la specialità e la passione di Miko. Perché interrogarlo su altre materie su cui non sapeva rispondere? Tutti avrebbero dovuto essere interrogati sulle cose che conoscevano meglio e che amavano. E queste idee le aveva comunicate ai suoi amici del Corso. «Non fa una grinza» avevano risposto. «Ma non succederà mai.» Il Grande Esame era composto da più di cento domande, e sarebbero stati fortunati se ce ne fosse stata una sola sui tessuti o sulla formazione delle nuvole. «Lasciate stare le domande sul foglio» aveva detto Hanno. «Scrivete di ciò che conoscete. Fategli vedere il meglio di voi.» «Ma così ci bocceranno.» «Ci bocceranno comunque, anche se proveremo a rispondere alle loro domande.» Avevano annuito tutti. In fin dei conti era proprio così. Stavano facendo quel Corso perché nessuno di loro aveva mai superato l'esame. Perché stavolta doveva andare diversamente? «A cosa servirebbe, dunque?» aveva insistito Hanno. «È come fare un esame di volo ai pesci. Che ognuno di noi faccia ciò che sa fare!» «A loro non piacerà.» «Pazienza. Volete starvene seduti in quell'arena a morire di paura per quattro ore?» Quelle parole erano state decisive. Ognuno di loro temeva, molto più del risultato, la lunga umiliazione dell'esame in sé. Ogni odioso dettaglio bruciava ancora nella loro memoria. Il lento dirigersi verso il banco numerato. Il rumore di mille sedie che venivano spostate. Il fruscio delle pagine dei questionari. L'odore della vernice fresca. Le lettere nere che danzavano sul foglio, formando parole prive di senso. Il grat grat grat delle penne dei più bravi che cominciavano subito a rispondere alle domande. Il passo felpato degli Esaminatori che sorvegliavano lo svolgimento dell'esame e passavano tra le file. Il bisogno di cominciare a scrivere, qualcosa, qualunque cosa. La profonda e desolata certezza che nulla di quanto avrebbero scritto sarebbe stato giusto, buono, bello. Il lento e incessante procedere delle
lancette dell'orologio. La disperazione paralizzante. Tutto, tutto, ma non quello. Così, uno alla volta, i candidati si erano uniti al segreto atto di ribellione di Hanno Hath. Durante le ore di studio si esercitavano a scrivere temi su argomenti a scelta, monografie sui sistemi di drenaggio, sulla coltivazione dei cavoli, sul salto con la corda. Miko Mimilith stava lavorando alla classificazione definitiva dei fili di lana. Hanno Hath era intento a risolvere questioni legate all'antica scrittura Manth. Solo Scooch non scriveva niente. Sedeva nel banco con le spalle curve e fissava la parete. «Dovrai pur sapere qualcosa su qualcosa» gli disse Hanno. «Invece, no» rispose Scooch. «Non so niente di niente. Faccio solo quello che mi dicono di fare.» «Non c'è qualcosa che ti piace fare quando finisci di lavorare?» «Mi piace stare seduto» rispose Scooch. Hanno Hath sospirò. «Perché non racconti la tua giornata?» «Cosa intendi dire con "raccontare"?» «Comincia dall'inizio, da quando ti alzi, e scrivi cosa fai durante il giorno.» «Faccio colazione. Vado a lavorare. Torno a casa. Ceno. Vado a letto.» «Bene. Adesso non devi fare altro che aggiungere qualche dettaglio. Per esempio, scrivi cosa mangi a colazione. Cosa vedi per la strada mentre vai al lavoro. È più interessante che fissare la parete.» Scooch si decise a scrivere, e dopo un'ora di lavoro fece una scoperta sorprendente. Durante la ricreazione, andò da Hanno Hath e glielo comunicò. «Ho trovato una cosa che conosco bene» disse. «Ed è di questo che scriverò al Grande Esame.» «È magnifico» disse Hanno. «Di cosa si tratta?» «Le pause per il tè.» Scooch gli sorrise, con il viso illuminato dall'orgoglio. «Non me ne ero mai reso conto finché non ho cominciato a raccontare la mia giornata, e ho scoperto che ciò che amo sopra ogni cosa sono le pause per il tè.» Trascorse la mezz'ora successiva spiegando al paziente Hanno Hath come, dal momento in cui prendeva servizio al mattino, attendeva con ansia la pausa per il tè. La sua impazienza cresceva via via, e quello in cui posava la scopa e prendeva in mano il thermos del tè era un momento di gioia quasi perfetta. Prima respirava il vapore che usciva dal thermos non appena toglieva il tappo, e poi versava il tè scuro nella tazza. Quindi tirava fuo-
ri i suoi tre biscotti d'avena dalla carta oleata e, a uno a uno, li inzuppava nel tè bollente. Ah, come gli piaceva inzuppare i biscotti! Questo era il culmine della pausa, un istante pieno di soddisfazione, un esercizio di abilità e un incontro con l'ignoto. Certe volte portava il biscotto inzuppato alla bocca e lo consumava intero, lasciandoselo sciogliere sulla lingua. Certe volte lo lasciava immerso troppo a lungo, oppure lo estraeva troppo bruscamente, e allora un grosso frammento cadeva sul fondo della tazza. «Sai» disse Hanno Hath riflettendoci su «qualcuno dovrebbe inventare dei biscotti che si possano inzuppare nel tè senza spezzarsi.» «Inventare dei biscotti?» disse Scooch stupefatto. «Inventare un biscotto completamente nuovo?» «Sì» disse Hanno. «Caspita!» disse Scooch, e cominciò a riflettere. Essere un inventore di biscotti! Fantastico. In questo modo, con un'impazienza crescente, i candidati del Centro Studi Residenziali si preparavano per il giorno del Grande Esame. Per la prima volta in vita loro avrebbero realmente dato il meglio di sé. Ira Hath e Pinpin rimasero sulla pedana del Cantore per tutta la notte. Ira si era preparata a questa evenienza e in fondo al paniere aveva messo delle coperte e del cibo in più. Si era addirittura portata il pigiamino e il cuscino speciale di Pinpin. Quando il mattino seguente si scoprì che erano ancora lì, si radunò una folla decisa a prendersi gioco di lei. «Sentiamo un po' la tua profezia!» gridarono. «Dai, su, dicci ancora: «Oh, sventurata gente!»» «Oh, sventurata gente!» disse Ira Hath. Ma stavolta lo disse con un tono che non faceva precisamente ridere. Poi, con voce pacata e triste, disse: «Oh, sventurata gente! Niente povertà. Niente delinquenza. Niente guerra. E niente bontà.» La cosa era tutt'altro che spassosa. La gente era a disagio ed evitava di guardarsi negli occhi. Per la terza volta e con tono ancora più pacato, Ira Hath disse: «Oh, sventurata gente. Sento piangere i vostri cuori affamati di bontà.» Ad Aramanth nessuno aveva mai detto niente di simile. La gente la ascoltava in un silenzio sconcertato. Quindi gli spettatori cominciarono ad andare via, da soli o in coppia, e lei capì di essere una vera profetessa, perché nessuno riusciva a tollerare le sue parole.
Il Consiglio degli Esaminatori mise la questione di Ira Hath all'ordine del giorno, e il professor Greeth continuò a pronunciarsi contro un loro intervento. «Quella donna non può restare lassù ancora per molto tempo. Meglio mostrare a tutti quanto sia inutile questo tipo di comportamento. Presto lo capirà anche lei e a quel punto scenderà.» Il professor Greeth era piuttosto soddisfatto di come aveva articolato il suo pensiero in maniera sintetica e precisa. Ma l'Esaminatore Capo non era d'accordo. «Conosco quella famiglia» disse. «Il padre è un fallito. La madre è una pazza. I figli più grandi... be', loro non ci daranno più noie. Ci rimane la piccola.» «Non capisco» disse il professor Greeth «se lei sia d'accordo con me oppure no.» «In teoria sì» gli rispose Maslo Inch. «In pratica, dobbiamo tirarla giù prima del Grande Esame.» «Oh, per quel giorno se ne sarà andata da un pezzo.» «E poi dovranno offrire una riparazione alla città.» «E cosa propone esattamente, Esaminatore Capo?» «La condotta di questa famiglia rappresenta un insulto per Aramanth. Dobbiamo esigere pubbliche scuse.» «Quella è una donna piena di energie» disse dubbioso il professor Greeth. «Una donna ostinata.» «Le energie possono esaurirsi» disse l'Esaminatore Capo con quel suo sorriso glaciale «e l'ostinazione si può spezzare.» 18 L'Incrinatura della Terra Ora che i ragazzi erano di nuovo con i piedi sulla terra ferma, la Grande Via, distintamente visibile dalla torre di guardia di Ombaraka, sembrava di nuovo scomparsa. Le colline che sorgevano tutt'intorno rivelavano avvallamenti e rilievi, e sparsi qua e là c'erano gruppetti di alberi striminziti, ma nessuna grande strada. All'orizzonte si vedevano solo le montagne frastagliate, e verso di esse si misero in marcia. Mumpo camminava e mugolava. Durante la battaglia aveva masticato
troppa tixa, e adesso la testa gli scoppiava; aveva voglia di vomitare ma non ci riusciva. All'inizio Bowman e Kestrel si preoccuparono, ma le sue lamentele durarono talmente a lungo che dopo un po' si stufarono e Kestrel tornò quella di sempre. «Oh, chiudi il becco, Mumpo.» A quel punto lui si mise a piangere e cominciò a colargli il naso. Era ancora più difficile stare dalla sua parte, con quel labbro superiore coperto di moccio. Comunque, Bowman e Kestrel avevano ben altro per la testa. Via via che gli alberi si infittivano e che le zone d'ombra aumentavano, Kestrel continuava a tenere gli occhi aperti in cerca di segnali che indicassero la Grande Via, mentre Bowman si guardava intorno nel timore di eventuali pericoli. Sapeva di avere una fervida immaginazione, perciò non voleva allarmare gli altri senza motivo, ma aveva la sensazione che fossero seguiti. Poi vide qualcosa, o qualcuno, davanti a sé. Rimase paralizzato, in silenzio, con il dito puntato. In un boschetto c'era un'enorme figura dritta su una specie di posatoio, e li stava fissando. Bowman e Kestrel ebbero lo stesso pensiero: i giganti. La Regina Anziana aveva detto che sulla Grande Via c'erano i giganti. Restarono a lungo immobili, e neanche il gigante si mosse. Poi Mumpo starnutì forte e disse: «Scusa, Kess.» Il gigante non diede segno di aver sentito. Decisero di avvicinarsi con cautela, ma, una volta oltrepassato il boschetto, i loro timori scomparvero. Ciò che avevano davanti agli occhi era una statua alta il doppio di una persona vera, molto antica e corrosa dalle intemperie. Raffigurava un uomo con la toga, che con una mano alzata indicava verso sud. A dire il vero con un braccio, visto che la mano non c'era più. Lo stesso valeva per l'altro braccio e per gran parte del volto. La statua posava su un alto piedistallo di marmo, smussato dal vento e dalla pioggia. Poco distante c'era un altro piedistallo, con un'altra statua. Cominciarono a vederne sempre di più, e si accorsero che tutte insieme le statue formavano due linee parallele fra gli alberi. «I giganti» disse Kestrel. «Per guidare i viaggiatori sulla Grande Via. Una volta dovevano esserci statue lungo tutta la strada.» Sicuri di essere sulla giusta via, ripresero immediatamente il cammino. Presto, però, Mumpo ricominciò a frignare e a tirare sul col naso. «Possiamo sederci? Voglio mettermi seduto. Ho la testa che mi scoppia.» «È meglio non fermarsi» disse Bowman.
Mumpo, avvilito, cominciò a strillare. «Voglio tornare a casa.» «Mi dispiace» disse Bowman cercando di non infierire troppo «ma dobbiamo andare.» «Perché non ti pulisci mai il naso?» gli disse Kestrel. «Perché tanto continua a colarmi» rispose Mumpo con tono affranto. Una volta raggiunta la foresta vera e propria, videro che stavano veramente seguendo quella che un tempo era stata una strada con alberi altissimi su entrambi i lati. Soddisfatta dei progressi compiuti, Kestrel disse che potevano fermarsi per una breve sosta e fare uno spuntino. Mumpo si accasciò a terra come un sacco di patate. Bowman divise il pane e il formaggio e mangiarono avidamente, senza parlare. Kestrel osservava Mumpo e notò che, con lo stomaco pieno, tornava subito di buon umore. Le ricordava Pinpin. «Sei proprio un bambino piccolo, Mumpo» gli disse. «Piangi quando hai fame, come un bebè. E dormi come un bebè.» «C'è qualcosa di male, Kess?» disse Mumpo. «Ti piace fare il bebè?» «Mi piace fare tutto quello che tu vuoi che faccia» fu l'umile risposta. «Oh, davvero! Con te è inutile parlare.» «Scusa, Kess.» «Davvero non so come tu abbia fatto a restare nel Quartiere Arancione per tutti questi anni.» «Non lo sai perché non glielo abbiamo mai chiesto» disse Bowman a bassa voce. Kestrel guardò suo fratello. Era vero: di Mumpo lei sapeva poco o niente. A scuola era sempre stato quello da evitare. Poi, quando era divenuto il suo indesiderato "amico", ne aveva trovato fastidioso l'affetto, e non aveva fatto niente per incoraggiarlo. Nel corso del viaggio aveva cominciato a vederlo come una specie di animale domestico di cui non riusciva a liberarsi. Mumpo, però, non era un animale. Era un bambino, proprio come lei. «Cosa è successo a tua madre e a tuo padre, Mumpo?» La domanda lo colse alla sprovvista, ma fu felicissimo di risponderle. «Mia madre è morta quando ero piccolo. E il papà non ce l'ho.» «È morto anche lui?» «Non ne sono sicuro. Credo solo di non avercelo mai avuto.» «Un padre ce l'hanno tutti. Almeno per un po'.» «Io no.» «Non sei curioso di sapere cosa gli è successo?»
«No.» «Perché no?» «Perché no e basta.» «Ma se non hai una famiglia» disse Bowman «come fai ad avere un voto familiare?» «Come fai ad andare a scuola nel Quartiere Arancione» disse Kestrel «visto che...» Incontrò lo sguardo di Bowman e si interruppe. «Visto che sono così stupido?» Sembrava che non se la fosse affatto presa. «Ho uno zio. È merito suo se vado a scuola nel Quartiere Arancione, anche se sono così stupido.» Bowman percepì l'improvvisa tristezza di Mumpo. «Tu detesti la scuola, vero?» gli chiese. «Oh, sì» rispose Mumpo. «Non capisco niente e sto sempre da solo. Sono sempre infelice.» I gemelli lo guardarono, ricordando come avevano riso di lui insieme ai compagni, e si vergognarono. «Ma adesso va tutto bene» disse. «Adesso ho un'amica; vero, Kess?» «Sì» disse Kestrel. «Io sono amica tua.» Quelle parole commossero Bowman, anche se sapeva che sua sorella non era sincera. Ti voglio bene, Kess. «E tuo zio chi è, Mumpo?» «Non lo so. Non l'ho mai visto. È un uomo molto importante, con voti altissimi. Ma io sono stupido, e così non mi vuole nella sua famiglia.» «Ma è una cosa terribile!» «Oh, no. Con me è molto buono. La signora Chirish me lo dice sempre. Se entrassi a far parte della sua famiglia, però, i loro voti si abbasserebbero moltissimo. Quindi è meglio che io abiti con la signora Chirish.» «Oh, Mumpo» esclamò Kestrel. «Che posto triste e brutto è diventato Aramanth!» «Lo pensi sul serio, Kess? Credevo di essere l'unico a pensarlo.» Bowman era stupito. Più conosceva Mumpo, più lo ammirava. Sembrava che in lui non ci fosse un briciolo di malizia, né di vanità. Accettava tutto ciò che gli capitava e non si angosciava mai con questioni che erano fuori dal suo controllo. Nonostante la tristezza della sua vita solitaria, sembrava che fosse nato con un inguaribile cuore d'oro. O forse era il contrario, erano state tutte le crudeltà che aveva subito a insegnargli ad ap-
prezzare anche i più piccoli atti di gentilezza. Avevano finito di mangiare, si erano riposati, ma la giornata stava volgendo al termine, così si rimisero in piedi e ripresero il viaggio. La strada era in salita e si inerpicava sulle colline che precedevano le alte montagne. Poco alla volta, su entrambi i lati della strada, gli alberi si fecero sempre più alti e ravvicinati e, mentre il sole precipitava nel cielo, le ombre si addensavano intorno a loro. Cominciarono a vedere, o a immaginare, sagome in movimento tra gli alberi, e lo scintillio di occhi che li osservavano. Si tennero vicinissimi, camminando velocemente, ma quelle sagome fuor di vista continuavano a seguirli. Quando cominciò a imbrunire, si resero conto che avrebbero dovuto passare una notte nella foresta. Non si fermarono, ma tennero gli occhi bene aperti per individuare un posto in cui accamparsi. Mumpo cominciava a sentire la stanchezza e gli importava molto poco di dove si sarebbero sistemati. «Che ne dite di questo posto qui? Mi sembra bello.» «No, Mumpo. Ce ne serve uno dove non ci trovi nessuno.» «Perché? Chi ci sta cercando?» «Non lo so. Forse nessuno.» A quel punto Mumpo venne preso dal nervosismo e cominciò a saltellare e a guardarsi intorno. Una volta vide o credette di aver visto qualcosa tra gli alberi e cominciò a correre, preso dal panico. Bowman fu costretto ad afferrarlo e tenerlo stretto finché non si calmò di nuovo. «È tutto a posto, Mumpo.» «Ho visto degli occhi che ci guardavano! Li ho visti sul serio!» «Sì. Li ho visti anch'io. Però non dobbiamo permettere che facciano del male a Kess.» «Hai ragione, Bo.» E di colpo si calmò. «Kess è amica mia.» Continuò a guardare nervosamente fra gli alberi, ma ogni volta che vedeva qualcosa muoversi, agitava il pugno e gridava: «Avvicinatevi e ve le suono!» Continuarono ad arrancare nel crepuscolo, decisi a fare più strada possibile. E proprio quando decisero di fermarsi, che il posto fosse adatto oppure no, videro apparire tra gli alberi due altissime colonne che segnavano l'inizio di un lungo ponte di pietra, gettato sopra un burrone. Dall'altra parte il ponte terminava con altre due colonne, ad almeno duecento metri di distanza. Era in completa rovina. I due muri, entrambi sormontati da un parapetto, attraversavano il burrone sovrapponendosi a due immensi archi
di pietra, a venti metri l'uno dall'altro. La parte centrale del ponte, quella che un tempo era stata la carreggiata, non esisteva più. Come avevano fatto i due archi gemelli che si libravano in aria a resistere senza il reciproco sostegno? I tre bambini si fermarono vicino ai pilastri e guardarono il burrone. Le ripide pareti rocciose si tuffavano a precipizio nelle ombre del crepuscolo, fino al fiume giù in basso. Lo vedevano scintillare mentre scorreva rapido. L'altro versante del burrone si ergeva davanti a loro, più alto di qualsiasi scogliera, e dai crepacci spuntavano ciuffi d'erba e rametti secchi. Sui due lati, il bordo frastagliato della gola tagliava la foresta e vi penetrava a perdita d'occhio, come una grande ferita da coltello. «L'Incrinatura nella Terra» disse Kestrel. Il ponte era l'unica possibilità per attraversare quel grande precipizio, e più lo guardavano, meno avevano voglia di farlo. «Si sta sgretolando» disse Bowman. «Cederà sotto il nostro peso.» Erosa da centinaia di inverni, la muratura si era spaccata e appariva friabile e traditrice. Solo i due parapetti, ricavati da una pietra più solida, restavano intatti e formavano una stretta copertura su ciò che restava delle pareti. Kestrel salì su uno dei parapetti: era piatto in cima e largo un po' più di mezzo metro. Lo osservò per tutta la sua lunghezza, fino alle colonne lontane. Sembrava in sesto. «Possiamo camminarci sopra» disse. Bowman non replicò, ma lo stretto camminamento e il vertiginoso precipizio lo riempivano di terrore. «Basta non guardare giù» disse Kestrel, sapendo cosa stava pensando suo fratello «e non sarà molto diverso dal camminare lungo un sentiero.» Non ci riesco, Kess. «E tu, Mumpo? Ce la farai ad arrivare dall'altra parte camminando sul muro?» «Se lo fai tu, Kess» disse Mumpo «lo faccio anch'io.» Non ci riesco, Kess. Ma proprio nel momento in cui stava inviando questo pensiero a sua sorella, si sentì un rumore di passi strascicati dietro di loro, e a Bowman si gelò il sangue. Si voltò lentamente. Eccoli lì, in fila uno dietro l'altro, che si tenevano per mano lungo la Grande Via. Avanzavano con prudenza, ridacchiando maliziosi, come bambini che giocano a un gioco segreto; solo che la loro risata era cupa, da vecchi.
«Ne avete fatta di strada» disse il capofila. «Ma eccoci di nuovo qui.» Mumpo cominciò a frignare per la paura. Kestrel rivolse un'occhiata alla fila di bambini vecchi e un'altra al parapetto, poi disse: «Avanti! Andiamo!» Quindi saltò su e cominciò a camminare. Mumpo la seguì, gridando: «Non permettere che mi tocchino, Kess!» Bowman esitò un po' più a lungo, ma sapeva di non avere altra scelta. Fece un respiro profondo e salì a propria volta. A passi prudenti, si incamminò dietro agli altri. Per alcuni metri il ponte seguiva l'orlo scosceso della gola, e il precipizio sottostante non era profondo. Ma d'improvviso il terreno cominciava a scendere, e ai tre sembrò di camminare sospesi a mezz'aria. Ormai si stava facendo buio rapidamente, ma quando Bowman guardò giù, pur avendo giurato di non farlo, vide lo scintillio del fiume che scorreva come un filo d'argento, così in basso che lui si sentì svenire e cominciò a tremare come una foglia. Kestrel si fermò, si voltò a guardare e vide che i bambini vecchi si erano arrampicati sul parapetto e li stavano seguendo. «Non fermatevi» disse. «Ricordate che non sono veloci quanto noi. Saremo dall'altra parte molto prima di loro.» E continuò ad avanzare con determinazione. Bowman, gettando un'occhiata dietro di sé, vide che sua sorella aveva ragione, e che loro attraversavano il ponte molto più velocemente dei bambini vecchi. Molti erano già sul parapetto, uno dietro all'altro, e si muovevano con prudenza. Kestrel avanzava con passo costante, un piede davanti all'altro, senza mai guardare giù, senza mai pensare al precipizio sotto di lei, facendosi coraggio con l'idea che erano ormai a metà strada, quando dall'altra parte vide qualcosa che le fece fermare il cuore. Accanto ai pilastri che segnavano la fine del ponte c'erano dozzine di bambini vecchi. E quando si fermò per guardare meglio, quelli montarono sul parapetto e, strascicando i piedi, presero ad avanzare verso di lei. Bo! Sono anche dall'altra parte! Stavolta non avevano via di scampo. I bambini vecchi stavano avanzando lentamente da entrambe le parti. Kestrel guardò l'immenso precipizio che cadeva a strapiombo nel buio e si chiese come sarebbe stato cadere e schiantarsi sulle rocce. Sarebbe stata una morte rapida? Bo! Dobbiamo batterci! Come?
Non lo so. Ma io mi batterò contro di loro. Bowman sentì la furia di sua sorella; una furia che lui conosceva bene e che era stranamente rassicurante. Cercò di trovare una soluzione, ma i bambini vecchi si avvicinavano sempre di più. A questo punto, Mumpo si rese conto di quello che stava succedendo e si fece prendere dal panico. «Kess! Bo! Vengono a prenderci! Non permettete che mi tocchino! Non voglio diventare vecchio!» «Smettila di saltellare, Mumpo! Resta fermo.» «È tutto a posto. Non riusciranno a prenderci.» Ricordati, disse Kestrel, sono deboli e vecchi, e possono arrivare solo uno alla volta. Non dobbiamo fare altro che tenerli a distanza. «Senza toccarli» disse Bowman, rispondendo a voce alta. «Teneteli lontano!» gridò Mumpo, saltellando per la paura. E cercò di aggrapparsi a Kestrel, facendo correre a tutti il rischio di perdere l'equilibrio. «Smettila, Mumpo!» Come facciamo a calmarlo? Facendolo mangiare, rispose Bowman. A quel punto, Kestrel si ricordò di avere ancora le calze intorno al collo, e che le restavano ancora alcune noci del fango. In un lampo prese le calze e cominciò a farle roteare seguendone le pesanti estremità. Le era venuta un'idea. «Bo!» gridò. «Hai ancora qualche noce?» Lui tastò le calze intorno al collo: aveva ancora una noce per ogni calza. «Due» le rispose. «Ecco come li terremo lontani» disse Kestrel. E fece oscillare le sue calze. «Le noci del fango non gli faranno niente.» «Mica li dobbiamo tramortire. Devono solo perdere l'equilibrio.» Poco convinto, Bowman provò a far roteare le sue calze e per poco non precipitò. Con il cuore che gli batteva forte e madido di sudore, riconquistò l'equilibrio. «Non funzionerà. Io non ci riesco.» «Devi riuscirci» disse Kestrel. «Ho fame» disse Mumpo. Tutte queste chiacchiere sulle noci del fango gli avevano fatto passare la paura. «Chiudi il becco.» «Va bene, Kess.»
Nel frattempo i due capifila dei bambini vecchi non avevano smesso di strisciare lungo il parapetto, da entrambi i lati del ponte. Gli altri li seguivano. Quelli che venivano dalla parte di Bowman avanzavano più velocemente. «Fa' roteare le calze con le noci, Bo» gridò Kestrel. «E trova l'equilibrio.» Suo fratello abbassò gli occhi e guardò sotto, ma non vide altro che buio. "Non avrei paura se sotto di noi non ci fosse questo terribile precipizio" pensò. E mentre guardava giù, un'idea semplicissima gli balenò nella mente. "Là sotto è talmente buio che potrebbe esserci qualunque cosa io voglia." Così smise di immaginarsi quel grande precipizio. "Non c'è l'Incrinatura nella Terra" disse fra sé. "Qua sotto c'è solo una stradina con un bel praticello." E aggiunse altri dettagli all'immagine che aveva creato: trifogli, papaveri e, per darle un tocco realistico, un cespuglietto di ortica pungente. Con sua grande sorpresa si accorse che la paura di cadere gli era passata del tutto. Rimaneva solo la paura del bambino vecchio che si stava avvicinando sempre di più. "Erba soffice, soffice prato d'erba" disse fra sé. "Erba soffice e vellutata." «Attento, ragazzino» disse il bambino vecchio con quella sua voce gracidante. «Dammi la mano.» Gli tese la mano avvizzita e fece una risata malefica. Ma non era ancora abbastanza vicino. Kestrel era girata dall'altra parte, e teneva d'occhio il bambino vecchio che si stava avvicinando a lei. Toccherà prima a te, Bo. Ce la farai? Ci proverò. Ti voglio bene, Bo. Non ci fu il tempo di rispondere, nemmeno col pensiero. Il bambino vecchio era ormai vicinissimo. Con il braccio all'indietro, Bowman fece partire le calze, che sibilarono nell'aria e mancarono l'avversario. «Perché battersi?» chiese il bambino vecchio. «È la volontà del Morah. E tu lo sai.» Bowman non disse nulla. Fletté le gambe, fece roteare le calze sempre più velocemente e valutò la distanza che li separava. «Non devi avere paura di invecchiare» mormorò il bambino vecchio. «Sarà solo per poco, e poi il Morah ti farà ridiventare giovane e bello.» Secondo i calcoli di Bowman, doveva ormai trovarsi a tiro. «Tieni, prendi la mia mano» disse il bambino vecchio. «Vieni e lasciati
accarezzare.» Il ragazzo sollevò il braccio e fece roteare le calze a gran velocità, mirando contro quella testa ingrigita. Fiuuuu! Fischiò senza colpire, senza incontrare nessuna resistenza. Bowman incespicò e per poco non cadde. Il bambino vecchio si era abbassato e aveva schivato il colpo. «Caspita, caspita» sghignazzò la voce profonda. «Attento, ragazzino. Non vorrai mica...» Bowman ritentò rabbiosamente il colpo e, beng!, andò a colpire l'avversario sullo zigomo, appena sotto l'orecchio. «Iuhuu! Iuhuuu!» Coprendosi il viso con le mani, il bambino vecchio vacillò e perse l'equilibrio. Tese le mani in cerca di un appiglio, ma non lo trovò e cadde. «Aaaaah...» Si sentì un urlo di terrore, che scendeva sempre più in basso fino a cessare del tutto. Bravo bravo bravo Bo!, gridò Kestrel. Kestrel partì a sua volta all'attacco, e scaraventò il suo avversario giù dal parapetto. I bambini vecchi, scossi dalla scena, cominciarono a emettere grida di vendetta e a precipitarsi verso Bowman e Kestrel da entrambi i lati. Ma non potevano avanzare che uno alla volta e i gemelli li spedirono in quel vuoto nero come l'inchiostro. Kestrel faceva roteare le sue calze ed esultava. «Fatti sotto, vecchio cianciagrilli! Anche tu vuoi allenarti a fare un po' di salto nel vuoto?» «Colpiscilo, Kess!» gridò Mumpo saltellando eccitato. «Buttalo giù!» Kestrel scattò in avanti e colpì, e un altro bambino vecchio cadde nel vuoto con un urlo agghiacciante. Mumpo gridò: «Vedrete che bella botta! Bing bong bang e poi bum, spiaccicati per terra, iuhuu!» Dopo aver visto che ben sette di loro erano stati scaraventati di sotto, i bambini vecchi smisero di avanzare e cominciarono a bisbigliare fra loro. Poi si voltarono nervosamente e con estrema attenzione tornarono sui propri passi. Stavano battendo in ritirata. I gemelli videro la scena e levarono le braccia in aria per dichiarare il loro trionfo. Bowman era tutto rosso per via di un feroce e inusuale orgoglio. «Ce l'abbiamo fatta! Li abbiamo sconfitti!» Ma i bambini vecchi non erano andati lontano. Stavano scendendo dal
parapetto, su entrambi i lati del ponte, e lì si fermarono. Mumpo forse pensava che fossero ormai in salvo, ma Kestrel e Bowman sapevano che non era così. A terra, una volta accerchiati dai bambini vecchi, non si sarebbero certo salvati facendo roteare le calze. Erano in trappola ancora una volta. «Inseguili, Kess!» gridò Mumpo. «Colpiscili di nuovo!» «Non posso. Sono in troppi.» «Troppi?» Scrutò nel buio della notte, prima da una parte e poi dall'altra. «Dobbiamo restare qui» gli disse Kestrel. «Almeno fino a domani mattina.» «Cosa? Per tutta la notte?» «Sì, Mumpo. Per tutta la notte.» «Kess, non possiamo. Non c'è spazio per dormire.» «Non dormiremo mica, Mumpo.» «Non dormiremo?» Per Mumpo dormire era necessario e inevitabile quanto mangiare. Più che sgomento, era sconcertato. Come poteva non dormire? Non era qualcosa che uno sceglieva di fare. Il sonno arrivava e ti faceva chiudere gli occhi. Punto. Anche i gemelli lo sapevano. «Coraggio, Mumpo» disse Bowman. «Ti faremo sedere in mezzo a noi, così se vorrai dormire, potrai farlo.» Quindi si sedettero sul parapetto; Bowman e Kestrel misero il braccio intorno a Mumpo, che stava in mezzo, e si sporsero l'uno verso l'altra per sostenerlo in un doppio abbraccio, proprio come facevano a casa, quando esprimevano un desiderio. Mumpo sentì l'abbraccio dei gemelli e provò una felicità immensa. «Siamo tre amici» disse. E talmente grande era la fiducia che riponeva in loro che si addormentò, sospeso a seicento metri sopra il burrone. I gemelli non dormirono. «Non c'è modo di scappare, vero?» disse Bowman. «Non vedo come.» «Uno di loro mi ha detto: "Non devi avere paura di invecchiare. Il Morah ti farà ridiventare giovane e bello."» «Preferirei morire, piuttosto!» «Resteremo insieme, vero, Kess?» «Sempre insieme.»
E non dissero più nulla. Poi, dopo qualche istante: «E che ne sarà di mamma, papà e Pinpin?» disse Bowman. Stava cercando di immaginare cosa avrebbero pensato se non li avessero visti tornare. «Non lo saprebbero mai, che siamo morti. E continuerebbero ad aspettarci.» L'immagine dei loro genitori che continuavano a sperare lo sconvolse ancora di più dell'idea di morire. Cercò di trasformare il proprio sgomento in un desiderio. «Vorrei che papà e mamma sapessero cosa ci sta succedendo.» «Vorrei tanto fuggire dai bambini vecchi» disse Kestrel «ritrovare la Voce del Cantore e tornare a casa sani e salvi.» Dopodiché cadde il silenzio. Si sentiva solo Mumpo che tirava su col naso nel sonno, e il sospiro del vento che riempiva il burrone. E poi, un tuono lontano. «Hai sentito?» Un lampo rosso illuminò il cielo e scomparve subito dopo. «Sta arrivando un temporale?» Si sentì di nuovo il fragore di un tuono e poi ci fu un'esplosione di luce rossa. Questa volta lo videro: uno schizzo di fuoco lontano, che si alzava verso il cielo e ricadeva verso terra disegnando una curva. «Viene dalle montagne.» «Guarda, Kess! Guarda i bambini vecchi!» Si sentì il boato del tuono e si vide il lampo della palla di fuoco, e mentre l'arco incandescente si dissolveva nel cielo per lasciare il posto a un altro e un altro ancora, su entrambi i cigli del burrone i bambini vecchi gridavano e correvano. Adesso era un susseguirsi di tuoni e di palle di fuoco che sfrecciavano verso il cielo in tutte le direzioni. Alcuni frammenti ancora incandescenti caddero vicino a loro. I gemelli ne videro passare uno a pochi metri di distanza per poi precipitare, come ambra ardente, nel vuoto sottostante. Un altro cadde a terra poco lontano da loro e continuò a bruciare per qualche istante, prima di spegnersi nella notte. I bambini vecchi erano agitatissimi. All'inizio i gemelli pensarono che avessero paura, ma poi li videro levare le braccia al cielo e precipitarsi verso le palle di fuoco che cadevano. «Vogliono essere colpiti!» Kestrel aveva appena terminato di pronunciare questa frase che una palla di fuoco prese in pieno uno dei bambini vecchi, facendolo esplodere in una grande fiammata arancione. La luce accecante svanì con la stessa velocità
con cui era arrivata, lasciandosi dietro... niente. I bambini vecchi sembravano impazziti; cominciarono a correre di qua e di là, tendendo le braccia e gridando: «Prendimi! Prendimi!» Ogni tanto una palla di fuoco cadeva su uno di loro e lo disintegrava. Il cielo era ormai tutto un fuoco, e i proiettili ardenti erano tanti che i bambini riuscirono a capirne la provenienza: la montagna più alta della catena settentrionale. I gemelli guardarono lo spettacolo, troppo allibiti per esserne spaventati. Mumpo continuava a dormire come un ghiro. «È là che dobbiamo andare» disse Kestrel guardando la montagna. «Nel fuoco.» Le palle di fuoco cadevano tutt'intorno, ma loro rimasero dove erano perché non potevano andare da nessuna parte. Nonostante tutto, sapevano che sarebbero rimasti illesi. Questa pioggia mortale non era riservata a loro, ne erano semplicemente testimoni casuali. Essa era riservata ai bambini vecchi. «Prendimi!» gridavano allungando le mani verso il fuoco. «Fammi tornare giovane!» Ma una volta colpiti dalla fiamma, di loro non restava nulla. Mentre le palle di fuoco divenivano sempre meno frequenti, il tuono cominciò a indebolirsi e il cielo a farsi più scuro. Gli ultimi bambini vecchi corsero via piangendo miseramente. Poi le montagne furono avvolte dal silenzio e i gemelli compresero di essere nuovamente soli. Scossero dolcemente Mumpo, per evitare che svegliandosi di soprassalto precipitasse dal parapetto. Lui, mezzo addormentato, fece ciò che gli dissero, senza capire. Avanzando con estrema cautela, tutti e tre attraversarono il ponte e raggiunsero il ciglio opposto. Scesero quindi dall'angusto parapetto e misero finalmente i piedi sulla terra ferma e sicura. A questo punto Mumpo non fece altro che raggomitolarsi e rimettersi a dormire. I gemelli si scambiarono un'occhiata e anche loro si resero conto di essere esausti. Kestrel si sdraiò. «E se ritornano?» disse Bowman. «Non me ne importa niente» replicò sua sorella. E anche lei si addormentò. Bowman si sedette e decise che avrebbe vegliato sugli altri due. Ma nel giro di pochi istanti, dormiva anche lui. 19
L'errore di Mumpo Quando i gemelli si risvegliarono, il sole era già alto nel cielo. Dei bambini vecchi non c'era più traccia. Loro tre erano sdraiati uno accanto all'altro, sul ciglio del burrone che nella semioscurità della sera prima avevano solo intravisto. Adesso, alzandosi e stirandosi le membra indolenzite, si resero conto della spaventevole profondità del precipizio e della fragilità del muro che avevano attraversato. «Io avrei veramente camminato su quella cosa lì?» disse Bowman. Kestrel guardò i grandi archi di pietra che sostenevano il ponte. Adesso le appariva evidente ciò che la notte prima non lo era affatto: la struttura si stava sbriciolando in molti punti. Uno dei pilastri di sostegno era talmente roso alla base dalle piene del fiume, che pareva reggersi con gli spilli. Ma, sapendo che al ritorno avrebbero dovuto rifare la stessa strada, Kestrel non disse nulla. Mumpo annunciò di avere fame. «Guarda» disse Kestrel indicandogli la spettacolare vista dell'Incrinatura. «Abbiamo attraversato quel grande ponte!» «Ci siamo portati qualcosa da mangiare?» domandò Mumpo. Bowman prese la calza per le noci che aveva usato contro i bambini vecchi e ne estrasse una noce del fango piuttosto ammaccata. «Tieni.» La lanciò a Mumpo, che mancò la presa. La noce ruzzolò verso il ciglio scosceso del burrone. Lui la rincorse e vide che andava a finire su una specie di scalino oltre il bordo. Inginocchiato sull'orlo del precipizio, guardò giù. «La vedo!» gridò. «Riesco a prenderla.» «Ne ho un'altra» disse Bowman. «Lasciagliela prendere se ci riesce» disse Kestrel. «Non possiamo sprecare nulla, abbiamo poche provviste.» Raggiunsero Mumpo: la noce del fango era rimasta impigliata in un ciuffo d'erba che cresceva sopra la roccia. Appena sotto c'era una zona cespugliosa. Bowman fu colto da vertigini e si tirò indietro. Mumpo era sdraiato sulla pancia e si allungava oltre il ciglio, per raggiungere la noce. Era vicinissima, ma non riusciva a prenderla. Così cominciò a sporgersi in avanti. «Attento, Mumpo.» Lui era così affamato che il suo unico pensiero era rivolto alla noce. Si
allungò un po' di più e riuscì a toccarla, ma non ad afferrarla. «Ancora un po'» disse, e raggiunse la noce proprio nel momento in cui il suo corpo cominciava a scivolare oltre il bordo. «Aiu-u-to!» gridò, e Kestrel gli afferrò le gambe. «Così va meglio» disse Mumpo. E, penzoloni oltre il ciglio dell'Incrinatura, tornò a dedicarsi alla sua colazione. «Torna su!» gridò Kestrel. «Torna indietro!» «Prendo solo la...» Aveva le dita intorno alla noce, quando una mano raggrinzita e tutta ossa sbucò dal cespuglio sotto di lui e lo agguantò per il polso. «Aah! Aah! Aiutatemi!» Per la paura, Mumpo diede uno strattone e Kestrel per poco perse la presa. «Bo! Che succede?» Bowman si fece coraggio e andò a guardare oltre il precipizio. Dal cespuglio emergeva uno dei bambini vecchi, aggrappato al braccio di Mumpo. «Dagli una botta!» gridò Bowman. «Dagli un morso!» «Che succede?» urlò Kestrel che faceva fatica a reggere Mumpo, dato il peso in più che si era improvvisamente aggiunto. «Aiutatemi» fu il grido di Mumpo, la cui voce mutava mentre parlava, diventando sempre più profonda. «Aiutatemi...» «È uno dei bambini vecchi» le disse Bowman. Quindi sganciò la sua seconda calza per le noci e, sforzandosi di non guardare in quel precipizio vertiginoso, la fece oscillare oltre il ciglio del burrone. La pesante estremità della calza colpì alla spalla il bambino vecchio, che alzò immediatamente gli occhi per guardare Bowman. Il suo viso rugoso si contorse in una smorfia di odio e di rabbia. «Bambini!» sibilò. «Stupidi bambinetti!» Bowman ebbe così l'occasione di guardarlo bene. Vide i capelli grigi e radi, le guance rinsecchite, il collo scheletrico, e avvertì l'irrefrenabile desiderio di distruzione che emanava da quell'essere. Levò la calza in alto e la fece roteare con violenza, quindi la abbassò sul viso rivolto verso di lui. «Aaah!» gridò il bambino vecchio, mollando il braccio di Mumpo. Persa la presa, scivolò nel cespuglio che cedette sotto il suo peso, staccandosi dalla parete rocciosa e precipitando insieme a lui. «Aaa-aa-aa-aa...» Sentirono il suo grido per tutta la caduta e poi il tonfo distante dell'im-
patto sulle rocce. Kestrel trascinò Mumpo sulla terra ferma e poi lo lasciò. Lui rimase sdraiato senza muoversi, emettendo piccoli gemiti. «Stai bene, Mumpo?» La risposta fu data da una voce profonda e gracidante. «Mi fa male tutto.» Provò a rimettersi in piedi, ma per lui lo sforzo era eccessivo. Si rimise seduto, respirando a fatica. «Ho commesso un errore, Kess.» Kestrel e Bowman lo guardarono, cercando in tutti i modi di non dimostrare il proprio orrore. Le treccine di Mumpo erano ingrigite. La pelle era diventata rugosa e cadente. Il corpo si era ingobbito. Era diventato un piccolo uomo vecchio. «Si sistemerà tutto, Mumpo» gli disse Kestrel soffocando l'impulso di mettersi a piangere. «Ti faremo guarire.» «Sono malato, Kess?» «Sì, un po'. Ma in qualche modo ti faremo guarire.» «Mi fa male ogni parte del corpo.» E scoppiò a piangere. Non era più quel pianto squillante che conoscevano bene, ma un pianto stanco e sommesso, con qualche lacrima che scendeva nelle rughe profonde del viso. Che possiamo fare? Dobbiamo proseguire, rispose Bowman. Poi, a voce alta, disse a Mumpo: «Ce la fai a camminare?» «Credo di sì.» Si alzò in piedi, questa volta con maggiore cautela, e mosse qualche passo. «Non posso andare veloce.» «Non c'è problema. Fa' quello che puoi.» «Bo, mi daresti una mano? Se potessi appoggiarmi un po' a te, andrei sicuramente più veloce.» «Non devi toccarci, Mumpo. Almeno finché non ti sarai ristabilito.» «Non devo toccarvi? E perché no?» Capirono che non si era reso conto di quello che gli era capitato. «Perché così non restiamo contagiati.» «Oh, capisco. Guarirò presto?» «Sì, Mumpo. Presto.» Quindi volsero la schiena all'Incrinatura nella Terra e ripartirono sulla
Grande Via, alla volta delle montagne. Il loro ritmo di marcia era tremendamente lento. Per quanto ci provasse, Mumpo non riusciva a camminare a velocità normale. Si trascinava per un po' e poi doveva fermarsi per qualche minuto a riprendere fiato. Poi riprendeva ad arrancare senza lamentarsi, sforzandosi al massimo. I gemelli capirono che a quel passo non sarebbero mai arrivati in cima alla montagna. Mumpo, tuttavia, non era la loro unica fonte di preoccupazione. Su entrambi i lati della strada, la foresta stava mutando. La strada che percorrevano, quel viale pieno di erbacce che un tempo era stato la Grande Via, era costeggiata da un muro di vegetazione che si infittiva sempre più. E, nell'oscurità del sottobosco, sembravano guizzare sagome che li accompagnavano, procedendo in silenzio e a grandi passi, senza mai sorpassarli, senza mai restare indietro. Bowman ne avvertiva la presenza e le vedeva con la coda dell'occhio, ma ogni volta che si voltava, non c'era più nulla. E poi scorsero delle ombre che passavano sopra le loro teste: grandi uccelli che volteggiavano in alto, sopra gli alberi. Dapprincipio non ci badarono, ma quelli continuarono a planare silenziosi verso di loro. All'inizio non erano che cinque o sei, ma quando Bowman alzò di nuovo gli occhi al cielo, mezz'ora più tardi, era diventato impossibile contarli. Formavano uno stormo infinito e minaccioso che si perdeva in lontananza. Bo ricordò storie sinistre su animali selvatici che seguivano i viaggiatori, in attesa che esaurissero le forze, e accelerò il passo. «È troppo faticoso per Mumpo» disse Kestrel. «Dobbiamo rallentare. Dovremmo riposare un po'.» «No! Non dobbiamo fermarci assolutamente! Notando il tono impaurito del fratello, Kestrel si guardò attentamente intorno.» «Non... c'è problema» disse Mumpo. «Terrò... il... passo.» Ma riuscì a trovare a malapena il fiato per pronunciare queste poche parole. Continuarono ad arrancare. Più rallentavano, più gli uccelli si facevano audaci. Adesso volavano molto bassi, al livello delle cime degli alberi, gettando ombra sul terreno con le loro ali enormi. Sembravano aquile, ma più nere e più grosse del normale. Da quella distanza, però, era difficile stabilirne le reali dimensioni. A un certo punto, Mumpo inciampò e cadde a terra. E lì rimase, senza neanche provare a rialzarsi. Kestrel si inginocchiò accanto a lui per assicurarsi che non si fosse fatto niente. In realtà era solo sfinito. «Deve riposarsi, Bo. Che ci piaccia o no.»
Bowman capì che sua sorella aveva ragione. «Si sentirà meglio dopo aver messo qualcosa sotto i denti.» Prese la calza e ne estrasse l'ultima noce del fango che gli rimaneva. La stava per porgere a Kestrel perché la passasse a Mumpo, quando sentì un'improvvisa folata di vento, un fruscio, un colpo secco e doloroso sulla mano. Bowman lanciò un urlo, più per la sorpresa che per il dolore. Il sangue gli colava fra le dita. Un'aquila nera si stava già allontanando, agitando le ali gigantesche, con la noce del fango fra gli artigli affilati come la lama di un rasoio. Sulla mano di Bo c'erano quattro tagli superficiali, ma netti. Bowman, stupefatto, alzò gli occhi verso l'enorme uccello. Ne vide altri tre volare bassi sopra di loro, in attesa che dalla bisaccia uscisse altro cibo. L'apertura alare era tale che le aquile, volando una accanto all'altra, oscuravano completamente la strada. Mumpo rimase sdraiato, con gli occhi spalancati per la paura e il cuore che gli batteva all'impazzata. Istintivamente, Kestrel lo coprì con le braccia, come per proteggerlo. Gli uccelli stavano volando sempre più basso alla ricerca di cibo. «Gettala via, Bo!» gridò Kestrel. Bowman lanciò la calza per le noci il più lontano possibile. Immediatamente un'aquila gigante scese in picchiata e la afferrò al volo; poi riprese quota. E innumerevoli altre continuarono a volteggiare in silenzio sopra le loro teste guardando, aspettando. Con gli occhi rivolti al cielo, i bambini non si accorsero del primo animale che stava sbucando silenziosamente dal folto, e nemmeno del secondo. Avevano sentito l'odore del sangue di Bowman: l'odore delle ferite e della debolezza. Uscirono dalla foresta senza fare rumore, uno alla volta, fissandoli con i loro occhi gialli. Fu Mumpo a vederli per primo. Lanciò un urlo. Bowman si voltò di scatto e rimase paralizzato. Intorno a loro, a una ventina di metri di distanza, si era formato un cerchio di grossi lupi grigi. Magri e irsuti, grossi come cervi, con le enormi fauci spalancate e le lingue penzoloni, li guardavano e ansimavano. «Tranquillo, Mumpo» disse automaticamente Kestrel, preoccupata solo di farlo tacere. Le aquile nere si abbassarono di nuovo, in attesa di una carneficina. Le loro ali immense oscuravano la strada come se stesse facendo notte. I lupi si avvicinarono un po', quindi si arrestarono di nuovo, in attesa di vedere
se le loro prede si disponessero alla lotta. Il grido di Mumpo tornò a essere il gemito di paura a loro noto; solo che adesso singhiozzava con la voce di un vecchio. «Non fatemi prendere» gracidò. Avvertirono lo spostamento d'aria mentre le aquile scendevano veloci sopra le loro teste, e sentirono l'odore caldo e umido del pelo dei lupi che, mostrando i denti lucidi e aguzzi, si avvicinavano sempre di più. Poi dalla foresta venne un lungo ululato, una sorta di richiamo. I lupi si fermarono di botto e le aquile ricominciarono a prendere quota. Si sentì di nuovo il richiamo, forte e spettrale, e i lupi si voltarono in direzione della foresta, in attesa. Tra gli alberi apparve un vecchio lupo grigio, il più grosso di tutti. Ogni suo movimento rivelava potere e autorità. Grosso quanto un cervo, ma asciutto e vigoroso per la sua età, si avvicinò senza mai distogliere i suoi occhi gialli da Bowman. Il ragazzo restò immobile, senza batter ciglio. Gli altri lupi si fecero da parte per lasciar passare il loro capo, così il padre del branco avanzò fino a dominare Bowman con tutta la sua imponenza. Quindi si sedette sulle zampe posteriori e poi si appiattì al suolo. Poggiò la testa sulle zampe anteriori distese e continuò a guardare Bowman. Gli altri lupi seguirono l'esempio del capo, finché l'intero branco non si ritrovò a terra, ansimando piano, in cerchio intorno ai tre bambini. A quel punto, Bowman capì quel che doveva fare. Allungò la mano sanguinante e il padre dei lupi sollevò il muso grigio e la annusò. Poi leccò via il sangue con la lunga lingua rosa. Bowman si mise lentamente a sedere, a gambe incrociate, e il lupo gli appoggiò la testa in grembo. I due si parlarono in silenzio e si compresero a vicenda. «Ci stavano aspettando» disse Bowman alla fine, rivolto alla sorella. «E perché?» «Per combattere il Morah.» Quando pronunciò quel nome, un lungo brivido attraversò i lupi, come un vento gelido, facendo tremare il loro pelo ispido. Il capobranco si rimise seduto sulle zampe posteriori, e tutti gli altri lo imitarono. Quindi levò la testa ed emise un altro ululato. Le grosse aquile che volteggiavano sopra le loro teste sentirono il richiamo e cominciarono a scendere, sempre più in basso, finché le punte delle ali sfiorarono quasi le teste dei bambini. Poi, una alla volta, atterraro-
no dietro ai lupi, formando un secondo cerchio. Bowman guardò negli occhi neri delle aquile e in quelli gialli dei lupi e vide il loro orgoglio e il loro coraggio. È da tanto che aspettiamo. Finalmente potremo affrontare il nostro antico nemico. «Loro ci aiuteranno» disse il ragazzo. Quindi si alzò in piedi e i lupi fecero la stessa cosa. «Adesso è ora di andare.» Kestrel e Mumpo gli obbedirono senza muovere obiezioni. Le aquile spiegarono le ali e spiccarono il volo, mentre i bambini e le bestie riprendevano il cammino lungo la Grande Via, in direzione delle montagne. Mumpo avanzava lentamente, trascinandosi a fatica. I gemelli cercavano di stargli accanto, consapevoli della sua paura di essere abbandonato. Ma giunse il momento in cui fu chiaro che non poteva proseguire. Si sedette e scoppiò a piangere. «Non abbandonatemi» disse tra le lacrime. Il capo dei lupi vide la scena e comprese tutto. Un istante dopo, un lupo giovane e forte fece un balzo e andò a sdraiarsi accanto a Mumpo. «Montagli in groppa. Ti porterà lui.» Dopo alcuni tentativi maldestri, Mumpo riuscì a montare sul lupo e il viaggio riprese con andatura costante; si stavano avvicinando sempre di più alla montagna. Ma ben presto anche i gemelli furono stanchi e i lupi caricarono anche loro sul dorso. Adesso potevano abbandonare la Grande Via e seguire le piste dei lupi nella foresta. Così avanzarono molto più rapidamente, mentre le aquile volavano sopra di loro. Non si vedeva altro che le volte oscure dei rami. Erano ormai arrivati sul più alto versante delle montagne, dove l'aria era ghiacciata e la foschia aleggiava fra i rami dei pini. Gli alberi cominciavano a diradarsi e, quando i bambini si guardarono alle spalle, videro che erano stati raggiunti da un numero enorme di lupi, che formavano dietro di loro un corteo senza fine. E sopra le loro teste volavano centinaia e centinaia di aquile. All'orizzonte cominciava a profilarsi la meta del loro viaggio. Sembrava immensa, con quella vetta piatta e alta, e raggiungerla appariva impossibile. Dopo un po', oltretutto, scoprirono che era più distante di quanto avessero immaginato. Una volta giunti su un crinale, infatti, videro sotto di loro una valle coperta di alberi, e capirono che ancora non avevano cominciato
a scalare il picco principale. Scendendo, la pista formava un tornante e spariva dietro al crinale. Qui i lupi che trasportavano i bambini cominciarono a rallentare, mentre le aquile planavano lentamente. Raggiunto il tornante della pista, i lupi si fermarono e si acquattarono a terra. Era evidente che volevano far smontare i bambini. Anche le aquile si posarono a centinaia intorno a loro, per terra e sugli alberi. Kestrel guardò Bowman per capire cosa avrebbero dovuto fare, ma lui non ne aveva idea. A questo punto fu Mumpo a prendere in mano la situazione. Con grande sorpresa dei gemelli, si alzò in piedi e cominciò a muoversi con passo strascicato lungo la pista, il più velocemente possibile, spinto da un impulso inspiegabile. «Mumpo! Aspetta!» Lui non li sentì. Camminava con le braccia tese in avanti, come per giungere a sfiorare ciò che lo stava chiamando. Bowman si voltò a guardare l'enorme armata di lupi. Erano tutti seduti o sdraiati, ansimanti e con gli occhi puntati sul capobranco, il quale, da parte sua, sedeva a testa alta, annusando il vento e aspettando. Bowman fiutò l'aria. «Fumo.» Si lanciarono all'inseguimento di Mumpo, che ormai era sparito dalla vista. E mentre anche loro superavano il tornante, si trovarono davanti uno spettacolo straordinario. Sotto di loro c'era di nuovo la Grande Via, larga e sgombra, e là si muovevano numerose figure. Mumpo era fra loro. Come lui, tutti avevano le braccia tese in avanti e procedevano curvi e zoppicanti. Mumpo era leggermente in testa rispetto agli altri, e quasi correva, ansimando e gridando con quella sua voce da vecchio: «Prendimi! Prendimi!» Stava correndo verso l'origine di quel fumo, là dove la Grande Via penetrava nel fianco della montagna, in una crepa larga quanto la strada e interamente occupata da alte fiamme. Sulla Grande Via, in direzione di questa porta di fuoco, davanti a Mumpo e dietro di lui, le altre figure si muovevano curve e con le braccia protese: non tutti bambini, ma tutti vecchi. E mentre si avvicinavano alle fiamme, dalle loro bocche usciva un unico grido: «Prendimi! Fammi tornare giovane!» Adesso Mumpo correva sul serio, con difficoltà, come se da questo dipendesse la sua vita. «Mumpo! No!» Kestrel si precipitò dietro di lui, ma ormai era troppo lontano e sembrava
non sentirla. Andava dritto verso il fuoco. Gli altri vecchi stavano facendo la stessa cosa: più si avvicinavano alle fiamme, più acceleravano la loro corsa, come se bramassero la morte. Una volta raggiunto il fuoco, lasciavano cadere le braccia ed entravano tranquillamente tra le fiamme, senza paura o segni di sofferenza. Cosa succedesse dopo, Kestrel non riuscì a vederlo, perché il fulgore delle fiamme celava ogni cosa. Bowman la raggiunse e si fermò al suo fianco. In silenzio contemplarono l'enorme crepa fiammeggiante nella montagna e il fumo che eruttava da essa. «Prendimi! Fammi tornare giovane!» Poi quel grido miserevole svanì, inghiottito anch'esso dal fuoco. Per un lungo momento, i gemelli restarono muti. Quindi Kestrel cercò la mano di suo fratello. Dobbiamo entrare nel fuoco. Andiamo insieme, disse, sapendo che non poteva essere altrimenti. Sempre insieme. Così, mano nella mano, percorsero l'ultimo tratto della Grande Via, verso le fiamme. 20 Nel fuoco Mentre si avvicinavano alla grande crepa nella montagna, i gemelli sentirono il calore feroce del fuoco e l'odore acre del fumo che saliva. Come mai i vecchi non avevano paura? Come mai entravano tanto volentieri nel cuore della fiamma senza neanche un grido? Bowman e Kestrel continuarono ad avanzare, e solo la forza con cui si stringevano la mano rivelava la loro paura. Quando il bagliore si fece troppo accecante, chiusero gli occhi. Il calore era forte. I rumori del mondo esterno, delle montagne e della foresta, cessarono del tutto. Persino le loro scarpe, che marciavano risolute verso la fornace, pareva non producessero alcun rumore. Non si poteva più tornare indietro. Ancora pochi passi... Improvvisamente il calore si attenuò e venne sostituito da una mite frescura che pareva accarezzarli. Il bagliore era sempre accecante e feriva gli occhi chiusi con una luce rosso sangue. Pur non guardando, capirono di essere entrati nel fuoco e di essere bagnati da una gelida fiamma.
Illesi, continuarono a camminare finché la luce brillante si fece meno intensa e la fredda carezza scomparve. Poi, poco alla volta, sentirono che la luce cominciava a indebolirsi. Aprirono gli occhi e videro che le fiamme erano meno violente; bastarono pochi passi per essere completamente fuori dal fuoco, in un reame di ombre. Tuttavia, era impossibile stabilire dove si trovassero. Via via che i loro occhi si abituavano all'oscurità, cominciarono a scorgere i muri di un ampio corridoio con in fondo una porta a doppio battente. Le pareti erano rivestite di legno e il pavimento di piastrelle in ceramica. Ebbero l'impressione di trovarsi nell'atrio di un elegante palazzo. Quando si voltarono, ebbero un'altra sorpresa. Alle loro spalle c'era solo un modesto fuocherello che ardeva in un caminetto scavato nella pietra. Erano davvero usciti di lì? Tranne la porta in fondo non c'erano aperture, e non si poteva andare da nessun'altra parte. Tenendosi ancora per mano, più che mai sbigottiti, si incamminarono verso la porta chiusa. Bowman provò a girare la maniglia e scoprì che cedeva. Spinse appena il battente e guardò dentro. Un altro corridoio: un'estensione del primo, ma con molte stanze che si affacciavano su entrambi i lati. Era illuminato da candele e sontuosamente decorato. I pannelli di legno che rivestivano le pareti erano intagliati a motivi di foglie e fiori. Le numerose porte erano intervallate da arazzi raffiguranti sbiadite scene di caccia e di tiro con l'arco. Al centro del corridoio si stendeva un magnifico tappeto. I gemelli avanzarono sul tappeto, guardando all'interno delle porte aperte sia a destra che a sinistra. Si intravedevano salotti bui con i mobili coperti da drappi polverosi. Procedevano cercando di non fare rumore, timorosi di ciò che avrebbero potuto incontrare. Per istinto, si diressero verso la fine del corridoio che come prima era chiuso da una porta. Avvicinandosi, videro che da sotto filtrava un bagliore di luce. Non si sentiva altro rumore che il battito dei loro cuori. Il palazzo, se di palazzo si trattava, sembrava deserto. Eppure le candele ardevano nelle applique sulle pareti, e il tappeto sul quale camminavano era immacolato. Quando raggiunsero la porta in fondo, si fermarono e tesero l'orecchio. Non si sentiva volare una mosca. Senza fare rumore, Kestrel girò la maniglia e aprì. I cardini cigolarono appena. Kestrel e Bowman rimasero paralizzati. Però non accadde nulla: niente passi, niente voci. Così spalancaro-
no la porta ed entrarono nella stanza. Era una sala da pranzo. Al centro c'era una tavola scintillante di cristalli e argenteria, apparecchiata per dodici e pronta per la cena. Le candele ardevano in candelabri a due bracci e in uno più grande appeso al soffitto. C'era l'acqua in caraffe di cristallo e il pane in panieri d'argento. Il fuoco era acceso in due eleganti caminetti, uno a ogni estremità della stanza. Le pareti prive di finestre erano coperte di ritratti, immagini altezzose di dame e gentiluomini di tempi lontani. Di fronte a loro, all'altro lato della sala, c'era solo un'altra porta. Ed era chiusa. I gemelli non avevano immaginato nulla di simile. Non sapevano proprio cosa aspettarsi, ma pensavano che in ogni caso sarebbe stato qualcosa di spaventoso. La grandiosità di questo luogo abbandonato era terrificante, ma non perché suscitasse una sensazione di pericolo. La paura nasceva dall'incapacità di comprendere. Nulla di quello che si trovavano davanti agli occhi aveva senso, e qualunque cosa sarebbe potuta accadere. Traversarono la stanza a passi felpati, passando davanti alle sedie di broccato allineate davanti alla lunga tavola scintillante, e giunsero di fronte alla porta chiusa. Ancora una volta Kestrel si fermò, tese l'orecchio e non sentì nulla. Quindi, aprì la porta. Dall'altra parte c'era uno spogliatoio per signora illuminato da due lampade a olio. C'erano alti armadi con le ante aperte, pieni di abiti bellissimi. Un'infinità di cassetti, anch'essi aperti, erano pieni di calze e sottovesti e camicette, il tutto impeccabilmente stirato e piegato. E poi innumerevoli scarpe, pantofole e stivali. Su un manichino da sarta c'era un vestito da ballo ancora da finire, con gli orli fermati da spille. Pezze di seta fantasia giacevano parzialmente srotolate sul sofà, e sopra un tavolo a intarsio erano disposti gli accessori di un sarto: forbici e aghi, fili, bottoni e passamanerie. C'era una specchiera alta e stretta nella quale i gemelli colsero il riflesso della loro immagine pallida e nervosa, occhi sgranati, mano nella mano. Due porte conducevano fuori dallo spogliatoio, ed erano entrambe aperte. Una dava su un bagno, vuoto e buio. L'altra conduceva in una stanza da letto. Rimasero fermi sulla soglia e gettarono uno sguardo all'interno. Una lampada ardeva su un tavolinetto basso di fianco al letto. La stanza era spaziosa e quadrata. Sulle pareti rivestite di pannelli di legno erano appesi dei trofei: spade ed elmetti, bandiere e gagliardetti, come se quella fosse la sala mensa di un reggimento fiero della propria storia. Ma al posto delle
poltrone di cuoio da circoli ufficiali, c'era solo un alto letto a baldacchino, al centro esatto del pavimento tirato a cera. Il baldacchino, in garza, era sospeso a un anello al centro del soffitto, e cadeva verso il basso come una gonna trasparente che coprisse l'intero letto. Sul comodino, oltre alla lampada che emanava una luce soffusa, c'erano un bicchiere d'acqua e un piatto con un'arancia. Accanto all'arancia, un coltellino d'argento. E nel letto, appena visibile attraverso la garza, sotto le lenzuola di lino bordate di pizzo e il copriletto ricamato, sostenuta da una montagna di cuscini, sedeva una signora molto, molto anziana, profondamente addormentata. Con estrema cautela, i gemelli entrarono nella stanza. Le assi del pavimento non fecero rumore sotto i passi, e loro si sforzarono di trattenere il respiro. Così, un passo alla volta, raggiunsero il letto e si fermarono a guardare l'anziana signora attraverso la garza. Lei continuava a dormire. Il suo viso era calmo e liscio, il profilo delle ossa si delineava sotto la pelle secca e sottile come carta. Aveva l'aria di chi molto tempo prima era stata bella. Bowman non riusciva a distogliere lo sguardo da lei e provò uno strano senso di nostalgia, ma non riusciva a capire di che cosa. Gli occhi di Kestrel guizzavano da una parte all'altra della stanza, in cerca di un comò o di un baule che potesse contenere la Voce del Cantore. Era sicuramente qualcosa di piccolo che poteva trovarsi in qualunque posto: in questa stanza, in una delle altre, o in un posto dove ancora non erano entrati. Per la prima volta ammise, con un profondo sentimento di paura, che avrebbero potuto anche non farcela. Che forse la Voce non l'avrebbero mai trovata. Suo fratello sentì la paura che era in lei. Senza distogliere lo sguardo dall'anziana signora che dormiva, si rivolse con il pensiero a sua sorella: È lì. Tra i suoi capelli. Kestrel guardò e la vide. I capelli bianchi e fini dell'anziana signora erano raccolti in un fermaglio d'argento a forma di una lettera C tutta arricciata: la forma stilizzata incisa sul Cantore, il disegno sul retro della mappa. Un immenso sollievo, improvviso quanto il terrore, la sommerse. Riesci a prenderlo senza farla svegliare? Ci provo. Bowman sembrava aver perso la sua timidezza o, quanto meno, averla dimenticata di fronte al fascino di quel volto vecchissimo. Allungò delicatamente una mano e con dita sicure afferrò il fermaglio d'argento. Quindi, trattenendo il respiro di modo che il suo corpo restasse totalmente immobile, sfilò il fermaglio dai capelli fini e bianchi, molto, ma molto lentamente. L'anziana signora continuava a dormire. Con un impercettibile scatto, il
fermaglio si liberò e nel brillio della lampada Bowman vide che attraverso la curva della C passavano numerosi fili d'argento, tesi e sottili. Riprese fiato e tirò, ma avvertì un improvviso strattone. C'era un unico capello bianco impigliato nel fermaglio; e mentre lui tirava, il capello si tese e si spezzò. Bowman rimase paralizzato. Kestrel allungò il braccio e gli tolse di mano il fermaglio d'argento: la Voce del Cantore. Andiamocene! Ma gli occhi di Bowman erano ancora puntati sull'anziana signora, che batté le palpebre. Due occhi di un celeste sbiadito si levarono su di lui. «Perché mi hai svegliata, figliolo?» La sua voce era bassa e soave. Bowman cercò di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Bo! Andiamocene! Non posso. Mentre Bowman guardava gli acquosi occhi azzurri, li vide cambiare. In essi c'erano altri occhi, molti occhi, centinaia di occhi, che ricambiavano il suo sguardo e lo attiravano verso di loro. E in ognuno vedeva altri occhi, sempre di più, senza fine. Mentre li guardava, sentì uno spirito nuovo impadronirsi di lui, uno spirito lucente, puro e potente. Noi siamo il Morah, gli dissero quei milioni di occhi. Noi siamo legione. Noi siamo tutto. «Bene» disse la voce dell'anziana signora. «La paura ti è passata.» Era vero. Ma di cosa aveva avuto paura? Finché guardava quei milioni di occhi, anche lui faceva parte di un immenso flusso vitale. Niente più paura, adesso. Che fossero gli altri a temere. Sentì una musica in lontananza: tamburi, pifferi, trombe. Il suono inequivocabile di una fanfara, accompagnato dal rumore sordo di piedi in marcia. «Bo!» gridò Kestrel spaventata. «Vieni via!» Ma lui non poteva distogliere lo sguardo dagli occhi azzurri sbiaditi nei quali si era unito al Morah; né lo voleva. Il rumore dei piedi in marcia si avvicinava sempre di più, guidato da una festosa fanfara. «Stanno arrivando» disse l'anziana signora. «Ormai non posso più fermarli.» Kestrel lo afferrò per un braccio e fece per tirarlo via, ma, inaspettatamente, non riuscì a spostarlo. «Bo! Vieni via!»
«I miei bellissimi Zar» mormorò l'anziana signora. «Oh, quanto adorano uccidere!» Uccidere!, pensò Bowman, e si sentì attraversare da un brivido di energia. Uccidere! Alzò gli occhi e vide che sulla parete davanti a sé era appesa una bella sciabola. Bum! Bum! Bum!, avanzava tumultuosamente la truppa. «Prendi la spada» gli disse l'anziana signora. «No» gridò Kestrel. Bowman allungò il braccio e staccò l'arma dal muro, impugnandola con la destra: la lama era leggera ma mortale. Kestrel fece un passo indietro, spaventata. E fu una fortuna, perché Bowman si voltò di scatto con un sorriso che lei non aveva mai visto, e con la lama colpì l'aria nel punto in cui lei si trovava un istante prima. «Uccidere!» disse lui. Oh, fratello mio! Cosa ti ha fatto quella donna? Bum! Bum! Bum! Il rullo dei tamburi, lo squillo delle trombe. Con terrore, Kestrel vide che i muri della stanza si stavano dissolvendo nell'oscurità. La porta dello spogliatoio, le pareti cariche di trofei, stavano scomparendo, finché non rimasero altro che il letto a baldacchino e il tavolinetto accanto, con la lampada che emanava la sua tenue luce. Al di là, il buio. Bum! Bum! Bum! «Niente più paura» disse l'anziana signora. «Che adesso siano gli altri a temere.» Kestrel si stava allontanando da Bowman, terrorizzata, pur continuando a gridargli col pensiero: Bo mio! Fratello mio! Torna qui da me! «Uccidere!» ripeté lui fendendo l'aria con la spada. «Che adesso siano gli altri a temere!» «I miei bellissimi Zar si sono rimessi in marcia» disse l'anziana signora. «Oh, quanto adorano uccidere!» «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere!» disse Bowman cantilenando quelle parole su un allegro motivetto, lo stesso suonato dalla fanfara. «Uccidere! Uccidere! Uccidere!» Fratello mio, gridò Kestrel con il cuore a pezzi, non abbandonarmi proprio adesso. Senza di te non posso vivere... E finalmente uscirono dal buio. In testa a tutti, facendo roteare una mazza d'oro, avanzava una ragazza bellissima con un'uniforme bianca. I capelli
lunghi e biondi le cadevano morbidi sulle spalle, a incorniciare un adorabile, giovane viso. Non dimostrava più di quindici anni e, mentre marciava e faceva roteare la mazza, non smetteva mai di sorridere. Come sorrideva! Portava una giacca bianca con grossi bottoni d'oro e le spalle quadrate, stretta in vita, e pantaloni da cavallerizza con lucenti stivali neri. Sulla testa aveva un cappello bianco a punta, ornato d'oro, e sulle spalle una lunga mantella fluente, anch'essa bordata d'oro. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé e sorrideva. Dietro di lei uscì dall'oscurità una fila di suonatori, tutti con l'uniforme bianca. Anche loro erano giovani, ragazzi e ragazze di tredici, quattordici, quindici anni, belli e sorridenti. Marciavano a passo vivace, tenendo perfettamente il ritmo e suonando i loro strumenti. Dietro c'erano altri suonatori, seguiti da una fila di tamburini. E dietro ancora, cantando, sorridendo e procedendo al passo, sopraggiungevano file e file di giovani soldati. Ragazzi e ragazze vestiti di bianco e oro cantavano la stessa identica canzone che era sulle labbra di Bowman, quella canzone composta da un'unica parola. «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» La melodia era marziale ma orecchiabile, e una volta sentita era impossibile dimenticarla. «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» Le file dei soldati avanzavano, una dopo l'altra, fuori dal buio. Ma quanti erano? Un numero sconfinato. «I miei bellissimi Zar» disse l'anziana signora. «Nulla potrà fermarli.» La majorette si arrestò, ma continuò a marciare sul posto. Alle sue spalle la banda, che non aveva smesso di suonare, si dispose su file più larghe e continuò anch'essa a marciare sul posto. E dietro di loro, i soldati fecero la stessa cosa. Il canto cessò, ma la musica e il ritmo costante dei piedi che battevano sul posto continuarono, benché la grande armata avesse smesso di avanzare. Dietro, nel buio dove la luce della lampada non arrivava, c'erano altre schiere di soldati che continuavano a giungere per unirsi a quelle ferme in attesa. Erano tutti giovani e belli e sorridevano. Kestrel continuava ad arretrare in direzione del corridoio. Teneva ancora stretta nella mano la Voce d'argento, ma se n'era completamente dimenticata. E stava piangendo senza rendersene conto. Perché i suoi occhi erano fissi sul fratello, che lei amava persino più di se stessa, e il suo cuore era a pezzi. Fratello mio! Tesoro mio! Torna qui da me!
Bowman non la sentiva, né la guardava. Si era messo alla testa dell'armata, brandiva la spada e sul suo viso era comparso lo stesso terribile sorriso che era sul volto di tutti gli altri. Poi, in una fila successiva, Kestrel vide tra le lacrime un volto familiare. Era Mumpo, anche lui con l'uniforme bianca e dorata degli Zar; e non era più vecchio, né sporco. Era giovane e bello e sorrideva orgoglioso. In quel momento la vide e le fece un cenno di saluto. «Ho tanti amici, Kess!» le gridò pieno di gioia. «Guarda tutti i miei amici!» «No!» gridò Kestrel. «No! No! No!» Bowman brandì in alto la spada, tutti gli Zar lo imitarono e l'armata si rimise in marcia. La bella majorette prese posizione, mentre suonatori e tamburini ci davano dentro, e gli altri soldati cantavano e marciavano. «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» Kestrel si voltò e, piangendo, si mise a correre. Quando l'armata raggiunse il letto a baldacchino, gli Zar si divisero in due colonne, ognuna disposta su ciascun lato del letto. Le loro spade scintillavano durante la marcia, affettando l'arancia sul piatto d'argento, tagliando a strisce il baldacchino e facendo volare frammenti di garza nell'aria. Uno dei frammenti atterrò sulla lampada e prese fuoco. Sul letto divamparono immediatamente le fiamme. Gli Zar continuavano a marciare, imperterriti, con le facce giovani e belle illuminate dal letto che bruciava. E l'anziana signora, immobile nel letto e sollevata sui cuscini in fiamme, continuava a guardare l'armata che sfilava orgogliosa. Kestrel correva piangendo nella Casa del Morah, con la Voce d'argento stretta nella mano. Dietro di lei venivano gli Zar, distruggendo ogni cosa al loro passaggio. Gli abiti eleganti nello spogliatoio, la tavola apparecchiata per gli ospiti mai arrivati, tutto cadeva sotto i colpi delle loro spade scintillanti e veniva ridotto in polvere. Oh, fratello mio, tesoro mio! Kestrel gridava il suo dolore mentre correva terrorizzata, finché non si ritrovò davanti al caminetto di pietra con il fuoco acceso. Alle sue spalle, il tonfo di un milione di piedi in marcia, il canto di un milione di voci. Non c'era tempo per farsi domande o per comprendere. Senza rallentare, si precipitò nel caminetto e... Silenzio. Fredde colonne di fuoco. Lucentezza abbagliante. Affanno, tremore. Kestrel si sforzò di calmarsi. La sinistra frescura del fuoco le schiarì la mente, e capì che non stava facendo ciò che davvero voleva fare.
Perché stava fuggendo dal suo gemello? Tanto, senza di lui non poteva vivere. Se era cambiato, allora sarebbe cambiata anche lei. Non così, pensò. Noi due andremo insieme. Si voltò e in quella luce bianca vide il suo amato fratello avanzare verso di lei, in testa all'armata degli Zar. Si muoveva lentamente e cantava sottovoce, come tutti gli altri, in una specie di sussurro sorridente. «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» Kestrel levò gli occhi per incontrare lo sguardo di Bo e spalancò le braccia, in modo che la sua spada, che durante la marcia continuava ad alzarsi e ad abbassarsi, la colpisse in pieno petto. Noi andremo insieme, fratello mio, gli disse. Dovessi uccidermi. Gli occhi di Bowman a quel punto incontrarono lo sguardo di sua sorella. Smise di sorridere e le parole del canto svanirono piano dalle sue labbra. Non ti lascerò, gli disse. Non ti lascerò mai più. Lui le era ormai vicino, con la spada che si alzava e si abbassava. Ti voglio bene, gli disse. Mio adorato fratello. Adesso anche i movimenti della spada si fecero più lenti. Si avvicinò ancora e vide le lacrime di sua sorella. Uccidimi, tesoro mio. Andiamo insieme. Gli occhi di Bowman si riempirono di confusione. Teneva la spada in alto e aveva raggiunto la sorella. Bastava abbassarla di nuovo e l'avrebbe colpita. Ma quel colpo non arrivò mai. Bowman si arrestò e rimase fermo, immobile. La bella majorette passò accanto a loro senza degnarli di uno sguardo. E lo stesso fecero i suonatori e i tamburini, che continuarono a sorridere mentre penetravano nelle gelide fiamme. Gli occhi di Bowman erano fissi in quelli di sua sorella, e lei capì che il fratello perduto stava tornando, come un sommozzatore che riemerge dalle acque. Kess, le disse riconoscendola. E la spada gli cadde di mano. Prese sua sorella fra le braccia e la strinse forte, intanto che l'armata degli Zar sfilava cantando accanto a loro. Oh, Kess... Bowman tremava e piangeva. Kestrel lo baciò sulle guance bagnate. Ecco, disse. Sei tornato. 21
La marcia degli Zar Stringendo la mano di sua sorella, Bowman attraversò di corsa le fiamme e Kestrel corse insieme a lui. Non c'era il tempo di parlare di quello che era successo. Sorpassarono la majorette, che continuava a ignorarli. All'improvviso furono fuori dal fuoco, davanti alle montagne coperte di alberi che si ergevano a destra e a sinistra, il vento sulla faccia, la Grande Via innanzi a loro e nuvoloni neri sopra le loro teste. Ma non erano nuvole. Erano centinaia di aquile che volavano in tondo, oscurando il cielo. Con uno strattone, Kestrel trascinò Bowman al riparo degli alberi, via dalla strada. «Ci attaccheranno!» Le aquile scendevano sempre più in basso e il battito delle loro ali faceva fremere i rami degli alberi. In silenzio, lì in mezzo alla vegetazione, con gli occhi gialli fissi sulla porta di fuoco, c'era un branco sconfinato di lupi grigi. La majorette uscì impettita con la mazza che roteava alta; seguiva la banda con il suo allegro motivetto. Mentre sulla Grande Via la truppa degli Zar procedeva in fila per otto, le aquile raccolsero le ali e piombarono dal cielo come folgori sibilanti. All'ultimo momento, spiegarono di nuovo le ali e colpirono con gli enormi artigli. Afferrarono le prede e spiccarono di nuovo il volo, con i corpi bianchi e dorati che si dibattevano sotto di loro, per poi lasciar cadere le loro vittime dall'alto. Gli Zar rapiti non si lasciarono sfuggire un lamento, né i loro compagni alzarono mai gli occhi al cielo. Le aquile, una dopo l'altra e a ondate, attaccarono la colonna in marcia, ma ogni vuoto veniva immediatamente riempito e gli Zar continuavano a marciare brandendo le lunghe spade scintillanti e mortali. Molte delle aquile scese in picchiata su di loro non ripresero mai il volo. Nemmeno per un solo istante gli Zar smisero di sorridere, mentre i loro compagni morivano. E mai una volta persero il ritmo della marcia. Interminabili, continuavano a uscire dalle fiamme in una lunga, ininterrotta fila di bianco e oro. Venne il turno dei lupi grigi. Il capobranco sollevò la testa, lanciò un ululato selvaggio e la prima linea di lupi si avventò sul nemico. Si scagliarono sugli Zar con le enormi fauci spalancate, aprendo nella colonna vuoti insanguinati; ma le spade erano rapide e mortali, e nemmeno un animale si rialzò per tornare all'attacco. La battaglia infuriava. A turno, aquile e lupi tornavano all'attacco, ma
sempre, da dietro, si riformavano le file dell'armata, e i soldati con le loro brillanti uniformi bianche e dorate continuavano ad avanzare al ritmo costante della musica, calpestando le carcasse delle aquile e dei lupi e i corpi dei propri compagni. Bum! Bum! Bum! «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» E non smettevano mai di cantare. Bowman li guardava affascinato e nel contempo pieno di terrore. «Sono in marcia verso Aramanth» disse. E rivolgendosi a Kestrel con angoscia, disse: «Ce l'hai ancora la Voce?» «Sì, eccola qui!» «Dobbiamo andare! Dobbiamo arrivare ad Aramanth prima di loro!» Era pronto a partire seduta stante, per cercare di distanziare gli infaticabili Zar e arrivare prima di loro, ma Kestrel lo trattenne. «Guarda! C'è Mumpo!» Nel bel mezzo della battaglia, raggiante di giovinezza ritrovata, con l'uniforme bianca e dorata macchiata di sangue, Mumpo marciava con gli Zar, sorridendo alla carneficina tutt'intorno. «Andiamo!» gridò Bowman. «Dobbiamo andare!» «Non possiamo lasciarlo qui» disse Kestrel. Quando Mumpo passò davanti a loro, Kestrel si precipitò ad agguantarlo per un braccio, trascinandolo di lato. Semipnotizzato dalla musica e dalla marcia, lui dapprincipio non si rese conto di quel che stava succedendo. «Kess! Guarda quanti amici, Kess!» Kestrel e Bowman lo presero tra loro e corsero via, nel folto degli alberi. Mentre scappavano, un drappello di Zar si separò dalla colonna e li inseguì. I tre corsero a perdifiato. Poi Kestrel si voltò verso Mumpo e gli disse: «Stammi bene a sentire. Gli Zar sono i nostri nemici. I tuoi amici siamo noi. Devi scegliere: o con noi o con loro.» Mumpo la guardò confuso. «E perché non possiamo andare tutti insieme?» «Ma non vedi che...» Furiosa, per poco non lo prese a schiaffi. «Lascia stare, Kess» disse Bowman. Prese la mano di Mumpo nella sua e gli parlò dolcemente. «So come ci si sente, Mumpo. L'ho provato anch'io. La paura e la solitudine spariscono e si è convinti che nessuno possa mai più farci del male.»
«Sì, Bo. È proprio così.» «Noi non possiamo farti provare questa stessa sensazione. Ma siamo sempre stati al tuo fianco e tu hai fatto lo stesso con noi. Non abbandonarci proprio adesso.» Mumpo guardò dritto in quegli occhi gentili e lentamente il suo sogno di gloria prese a svanire. «Tornerò di nuovo a sentirmi solo e spaventato, Bo?» «Sì, Mumpo. Vorrei tanto dirti che ti proteggeremo, ma non posso farlo. Non siamo forti quanto loro.» Kestrel osservava suo fratello, e si stupì. Sembrava più adulto, più triste, più sicuro di sé. Anche Mumpo, notò, era cambiato. Appariva confuso, ma nei suoi occhi brillava un'intelligenza nuova. «Voi siete stati i miei primi amici» si limitò a dire. «Non vi abbandonerò mai.» I gemelli lo abbracciarono insieme, ma poi si accorsero del brillio delle bianche uniformi che si avvicinavano fra gli alberi. Si resero conto che gli Zar non li avevano semplicemente seguiti, ma circondati. Ce n'erano più di una dozzina che stavano stringendo il cerchio intorno a loro. «Arrampicatevi!» gridò Kestrel. Saltò sui rami bassi di un albero e cominciò ad arrampicarsi. Bowman e Mumpo le andarono dietro. Salirono sempre più in alto, finché non arrivarono quasi in vetta. Da lì si vedeva la Grande Via e la battaglia che infuriava ancora. Il numero delle aquile si era notevolmente ridotto, e i lupi erano decimati. Su un'alta roccia, il vecchio lupo grigio incitava i suoi all'attacco con lunghi ululati. Dall'alto dell'albero, i bambini osservarono impotenti i lupi che andavano alla carica. I pochi che rimanevano se ne stavano a testa alta fra gli alberi, in attesa del loro turno, e quando giungeva il comando andavano incontro alla morte senza esitare, per abbattere più Zar che potevano prima di venire abbattuti a loro volta. Ma gli Zar erano infiniti, e più ne venivano uccisi, più ne continuavano ad arrivare. «Basta!» gridò Kestrel dall'alto, travolta dalla pietà e dal terrore. «Basta! Non serve a niente!» Se il lupo anziano l'aveva sentita, non tenne conto delle sue parole. Ululò ancora una volta, e l'ultima linea di lupi rimasti si scagliò nella mischia. Finalmente abbiamo affrontato il nostro antico nemico. Cosa ci resta da fare se non morirei? Poi alzò la vecchia testa, lanciò il suo grido di morte, e raccogliendo le forze si buttò anche lui nella mischia. Fuori uno, grazie ai suoi denti assas-
sini che mordevano e azzannavano; fuori due, e poi un terzo... un istante dopo lo scintillio di una spada gli trafisse la spalla e il cuore. Gli Zar, intanto, continuavano ad avanzare cantando, lasciandosi alle spalle uno stuolo di cadaveri; sopra di loro, le aquile continuavano a scendere in picchiata e ad attaccare, ma la colonna avanzava allegramente e l'unico segno delle perdite era il sangue che inzaccherava i loro gonfi e candidi mantelli. Nel frattempo, gli inseguitori dei bambini avevano trovato l'albero su cui si erano rifugiati. Ridendo come monelli, si tolsero cappello e mantello e cominciarono ad arrampicarsi. Erano incredibilmente agili, tanto da sembrare capaci di camminare orizzontalmente sulla superficie del tronco. Ben presto il capofila, un ragazzetto dal viso abbronzato che non doveva avere più di tredici anni, raggiunse i rami più alti senza mai distogliere lo sguardo dal punto in cui si trovavano i tre bambini. «Ciao!» gridò loro in tono amichevole. «Sto venendo a uccidervi!» Dietro di lui veniva una splendida ragazza dai capelli biondo cenere, che lo raggiunse a tutta velocità. «Lasciamene uno!» gridò al suo compagno. I bambini strisciarono in fondo al ramo. In quel modo gli Zar avrebbero potuto avvicinarli solo uno alla volta. Kestrel guardò giù. Troppo alto per saltare. Bowman guardò su, sapendo che rimaneva solo una via di fuga. Quindi lanciò un lungo grido senza parole, che venne ascoltato. Battendo rapidamente le ali, le aquile scesero verso di loro. Il capofila degli Zar montò sul loro ramo. «Non ci si mette tanto, vero?» disse sorridendo. E sguainò la spada. «Lasciamene uno!» gridò la ragazza dal basso. «Lasciami la femmina!» «La femmina la voglio io» ribatté il giovane Zar. «Non ne ho mai ammazzata una.» Un lampo nero, un colpo vibrante, e venne agguantato dagli artigli dell'aquila in picchiata e trascinato via in volo. Prima che i bambini si rendessero conto di ciò che era successo, si ritrovarono tre aquile sopra la testa, e a quel punto seppero cosa fare. Bowman alzò le mani e Mumpo lo imitò. Un'aquila si abbassò su di lui, afferrandogli delicatamente i polsi con i grossi artigli, lo sollevò e lo portò via. Bowman lo seguì. Kestrel esitò, guardando la ragazza Zar che si avvicinava al suo ramo, con la spada che fendeva l'aria. Vedendo sopraggiungere l'aquila, anche lei alzò le braccia. La spada scintillò, costringendo l'uccello a cambiare direzione proprio nell'attimo in cui Kestrel si lanciava nel vuoto. Cadde con le braccia tese, poi
avvertì un'improvvisa vicinanza e gli artigli dell'aquila le strinsero i polsi, arrestando la sua caduta. Con il vento sul viso, nell'ombra delle grandi ali, Kestrel ritrovò un po' di speranza. Gli Zar sembravano piccoli e lontani, benché non si vedesse ancora la fine della colonna. Poi si accorse che la sua aquila faticava a volare. Davanti a sé vedeva quella di Bowman che già andava più lentamente e perdeva quota. Per quanto grandi fossero gli uccelli, i bambini erano troppo pesanti perché potessero trasportarli lontano. E adesso? Se li avessero depositati a terra, gli Zar li avrebbero subito raggiunti. Kestrel si voltò e dietro di loro scorse altre tre aquile in volo. Le vide separarsi e prendere posizione per continuare il volo, planando in silenzio. Tutto accadde con tale rapidità che lei non ebbe il tempo di avere paura. Vide prima un'aquila passarle accanto; poi sentì gli artigli aprirsi liberandole i polsi; quindi, cadde come un peso morto. Ma appena un istante dopo l'altra aquila le afferrò i polsi e riprese quota. Girandosi, vide che a Mumpo stava succedendo la stessa cosa. Bowman era già aggrappato a un'altra aquila, e volava alla sinistra di sua sorella. Kestrel si voltò a guardare e in lontananza vide la colonna degli Zar che marciavano a ritmo costante sulla Grande Via, infastiditi dalle poche aquile rimaste a combattere una battaglia già perduta. Tornò a guardare davanti a sé e vide il crepaccio frastagliato che chiamavano l'Incrinatura nella Terra e le alte campate del ponte in rovina. Quando queste ultime tre aquile si fossero stancate, non ce ne sarebbero state altre per portarli fino ad Aramanth, che era ancora molto lontana. Avevano una sola possibilità. «Bo!» chiamò. «Dobbiamo far crollare il ponte.» Anche lui stava guardando davanti a sé e capì immediatamente cosa stava pensando la sorella. Tirò le zampe dell'aquila e l'uccello, felice di riposare un po', cominciò a scendere descrivendo un cerchio. Atterrarono sul versante meridionale del burrone, di fianco agli alti pilastri che segnavano l'inizio del ponte. Poi le aquile spiccarono nuovamente il volo per tornare alla battaglia, come se fossero ansiose di morire. Bowman cominciò a raccogliere pietre a un ritmo frenetico. «Dobbiamo provocare una slavina» disse. «Dobbiamo far crollare il ponte.» Fece rotolare le pietre giù per la scarpata, seguendole fino all'orlo del precipizio per vedere dove andassero a cadere. Alla fine, una andò a colpire il pilastro più debole.
«Mumpo, passami la tua spada!» gridò. Mumpo estrasse la spada dal fodero e Bowman la conficcò in terra con un gesto deciso. Poi cominciò a formare un cumulo di pietre a ridosso dell'arma. Mumpo, nel frattempo, si stava slacciando la cintura, poi si sbottonò la giacca bianca e si tolse i pantaloni da fantino. Sotto indossava i suoi vecchi abiti arancione. Tenne solo gli stivali perché non si era portato dietro le vecchie scarpe. Quindi prese il mucchietto di abiti bianchi sporchi di sangue e li gettò nel burrone. «Adesso è finita» disse. Tutti e tre si misero all'opera, raccogliendo pietre il più velocemente possibile. E continuarono a lavorare anche quando la luce del giorno cominciò ad affievolirsi, finché il monticello di pietre non divenne più alto di loro. Gli Zar continuavano ad avanzare, avvicinandosi sempre di più. Ogni tanto una pietra cadeva dal cumulo e precipitava giù per la scarpata. Bowman correva a vedere dove sarebbe atterrata e tornava dicendo: «Di più! Ce ne servono di più!» Il sole si tinse di rosso e cominciò a tramontare. Dall'altra parte del burrone, l'avanguardia degli Zar era ormai tanto vicina che si distingueva la mazza della majorette. Non c'era modo di sapere se avessero raccolto pietre sufficienti per fare quello che avevano in mente, ma Bowman capì che non avevano più tempo. Tutti e tre presero posizione accanto al monticello di pietre, pronti all'azione. L'aria del tramonto portava fino a loro il suono della fanfara e il martellare incessante dei piedi in marcia. Bum! Bum! Bum! «Adesso!» disse Bowman, tirando via la spada mentre tutti e tre spingevano. «Più forte! Dobbiamo farle cadere tutte insieme!» Spinsero di nuovo con tutte le loro forze, e d'improvviso il cumulo cedette. Con un lento rimbombo, le migliaia di pietre che avevano radunato cominciarono a rotolare, sollevando un nuvolone di polvere e detriti, fino al salto nel grande vuoto dell'Incrinatura nella Terra. Trattenendo il fiato, i bambini rimasero a contemplare quella pioggia di macerie che cadeva giù, giù, formando un fumoso nastro di detriti. Il burrone era ormai troppo buio per vedere dove cadeva la slavina, ma dopo un momento che parve interminabile, lo sentirono: una raffica di botti e schiocchi mentre le pietre colpivano.... cosa? I pilastri del ponte? La parete del burrone? Osservarono il parapetto angusto sul quale si erano battuti con i bambini vecchi, ma nulla si muoveva. E sul versante opposto del burrone si vede-
vano gli Zar con le loro uniformi bianche e dorate sotto gli ultimi raggi del sole che tramontava. «Non ha funzionato.» Era stata Kestrel a parlare, con gli occhi sul ponte. «Dobbiamo andare» aggiunse. «Dobbiamo mantenere il vantaggio che abbiamo su di loro.» «No» disse Bowman con decisione. «Ci sorpasseranno molto tempo prima di raggiungere Aramanth.» «Che altro possiamo fare?» «Tu va' pure insieme a Mumpo. Io resterò qui. Possono attraversare il ponte solo uno alla volta, e io cercherò di fermarli.» Gli Zar avevano ormai raggiunto il bordo dell'Incrinatura. La majorette continuava a marciare sul posto, sollevando e abbassando la mazza dorata; dietro di lei, la banda non smetteva di suonare. Poi, mentre Kestrel cercava di trovare le parole per dire a suo fratello che doveva per forza esserci un'altra soluzione, la majorette afferrò la mazza, la puntò in avanti e con un saltello balzò sul parapetto. Dietro di lei, mentre la banda suonava sul ciglio del burrone, sopraggiunsero gli Zar in fila indiana. Bowman si chinò a raccogliere la spada. «No!» gridò Kestrel. Lui le rivolse un sorriso, parlandole con un tono che non gli conosceva: pacato ma risoluto. «Va' ad Aramanth. Non c'è altra soluzione.» «Non posso lasciarti qui da solo.» Ma lui si voltò e corse verso il ponte. La majorette era già a metà strada, marciando pacifica come se si trovasse ancora sulla Grande Via, e alle sue spalle giungeva la lunga fila di Zar sorridenti. Bowman correva lanciando un insensato grido di furia, senza rendersi conto che le lacrime gli scendevano lungo le guance. Kestrel gli corse dietro, gridando a squarciagola. «Non andare! Non andare senza di me!» Solo Mumpo rimase a fissare il precipizio, perciò fu lui a vedere i primi segni di ciò che stava per accadere. «Il ponte!» gridò. «Si muove!» Bowman era appena arrivato al parapetto di pietra, quando l'arcata centrale cominciò lentamente a tremare come un albero battuto dal vento, e poi si sentì il rumore della muratura che si spaccava. Dopodiché la sottile linea che univa i due bordi del burrone si spezzò come una corda troppo
tesa e cominciò a crollare, prima dalla parte dove si trovavano i bambini e poi verso il centro, dove stavano avanzando gli Zar. La majorette cadde, seguita dalla colonna di soldati, nell'oscurità in cui i raggi del sole che tramontava non riuscivano a penetrare. Nessuno gridò. E dietro di loro i compagni continuavano a marciare verso lo stesso destino. Bowman guardava stupefatto quell'assurdo spettacolo. Kestrel l'aveva raggiunto e, abbracciati, i gemelli videro gli Zar avanzare in fila per otto verso l'orlo del burrone, per poi precipitare. «Li abbiamo fermati, Bo. Siamo salvi.» Bowman rivolse lo sguardo al ponte crollato. «No» disse. «Non siamo salvi. Ma adesso abbiamo più tempo.» «Come possono attraversare l'Incrinatura nella Terra senza il ponte?» «Non c'è nulla che possa fermare gli Zar» disse Bowman. Mumpo andò a raggiungerli, impressionato dalla vista dei soldati che marciavano verso la morte. «Ma non hanno paura di morire?» disse. «Non te lo ricordi, Mumpo?» disse Bowman. «Finché anche un solo Zar resterà in vita, tutti gli altri continueranno a vivere. Vivono l'uno per gli altri. Poco importa quanti ne muoiono, perché ce ne saranno sempre degli altri.» «Quanti altri?» «Non hanno fine.» Era questo l'orrore a cui aveva assistito la Regina Anziana. Gli Zar potevano essere massacrati, sconfitti, però mai fermati. Ce ne sarebbero sempre stati degli altri. «Ecco perché dobbiamo arrivare ad Aramanth prima di loro» disse Bowman. E si voltò come se fosse pronto a partire all'istante; ma con l'ultimo attacco aveva dato fondo a tutte le energie che gli rimanevano. Così, dopo qualche passo, si accasciò lentamente a terra. Kestrel, preoccupata, si chinò su di lui. «Non posso ripartire» disse Bo. «Devo assolutamente dormire.» Così, Kestrel e Mumpo si rannicchiarono vicino a lui, uno a destra, l'altra a sinistra, e tutti e tre si addormentarono. 22 La separazione della Famiglia Hath
Il giorno prima del Grande Esame, il Preside Pillish riunì tutti i partecipanti al Corso Residenziale di Studi per il solito discorso del giorno prima. Ne andava molto fiero e, avendolo pronunciato infinite volte, lo conosceva a memoria. Era convinto che servisse a calmare i nervi dei candidati. Era vero che, anno dopo anno, i membri di questo gruppo, nessuno escluso, erano stati tutti bocciati al Grande Esame. Ma chi poteva dire che non sarebbe andata peggio, senza il suo discorso del giorno prima? La verità era che il Preside Pillish nutriva un sogno segreto: che prima o poi un membro del suo gruppo di bocciati sorprendesse tutta Aramanth ottenendo il massimo dei voti al Grande Esame. Dopodiché il Preside, con un sospiro felice, avrebbe dichiarato di volersi ritirare, sapendo che il suo lavoro non era stato vano. Quest'anno, pensò mentre ispezionava i suoi candidati, c'era una reale possibilità che il suo sogno si avverasse. Non aveva mai visto un gruppo con il morale tanto alto. Mai, prima di allora, era arrivato a questo punto del Corso senza che almeno uno dei candidati avesse un crollo nervoso. «Candidati» esordì raggiante per infondere loro un po' di autostima. «Candidati, domani sosterrete il Grande Esame. Siete nervosi. È normale. Tutti i candidati sono nervosi. Ma il vostro nervosismo non vi metterà in una posizione di svantaggio. Anzi, vi sarà d'aiuto. Il nervosismo è vostro amico.» E sorrise di nuovo. Era convinto che questo fosse uno dei punti forti del suo discorso. «Un atleta è nervoso prima di cominciare la corsa» continuò infervorandosi. «Quel nervosismo gli permette di raggiungere il più alto livello di concentrazione. Viene dato il via e lui parte! Il suo nervosismo è divenuto parte della sua forza, della sua velocità, della sua vittoria!» Aveva sperato di vedere un guizzo di eccitamento nei loro occhi. Invece, sorridevano e basta. Era una reazione insolita. A questo punto, negli anni precedenti, i candidati avevano un'espressione sconfitta ed evitavano di guardarlo negli occhi. Quest'anno erano indubbiamente spensierati, e il Preside aveva la netta sensazione che nemmeno lo stessero a sentire. Decise dunque di interrompere il discorso per controllare le loro reazioni. «Candidato Hath» disse, scegliendo colui sul quale riponeva maggiori speranze. «Lei si sente ben preparato per domani?» «Oh, sì. Credo di sì» rispose Hanno Hath. «Darò il meglio di me stesso.»
«Bene, bene» disse il Preside Pillish. Tuttavia, c'era qualcosa che non lo convinceva. «Candidato Mimilith. E lei, come si sente?» «Non c'è male, signore, grazie» rispose Miko Mimilith. Ci risiamo, pensò il Preside Pillish. C'è qualcosa che non quadra. Istintivamente si rivolse al candidato più debole. «Candidato Scooch. Manca solo un giorno. Impaziente di cominciare, immagino.» «Sì, signore» rispose allegramente Scooch. La cosa era assolutamente bizzarra. Cosa c'era che non andava? Questa fu la domanda che il Preside Pillish rivolse a se stesso. Ed ecco la risposta: non erano nervosi. Si sentiva oltraggiato. Che diritto avevano di non essere nervosi? A che serviva il suo discorso del giorno prima se non erano nervosi? Era irriverente. E insolente. Era... sì... era da ingrati. Era suo preciso dovere, in quanto loro insegnante e guida, riportare il nervosismo in quel gruppo troppo sicuro di sé. Doveva farlo per il loro bene, e per il bene delle loro famiglie. «Candidato Scooch» disse senza più sorridere. «Sono felice che lei sia così ansioso di scendere in battaglia. Perché non affiliamo un po' le nostre spade mentali provando qualche domanda qui, adesso?» Prese uno dei libri di testo e lo aprì. «Qual è la composizione del sale da cucina?» «Non lo so» rispose Scooch. Il Preside Pillish voltò le pagine a caso. «Mi parli del ciclo vitale della salamandra acquaiola.» «Non lo so» rispose Scooch. «Se sessantaquattro scatoloni cubici vengono accatastati in una pila a forma di cubo, quanti scatoloni formeranno l'altezza della pila?» «Non lo so» rispose Scooch. Con un colpo secco il Preside Pillish richiuse il libro. «Tre domande del Grande Esame, candidato Scooch, e lei non sa rispondere a nessuna. Questo non la rende un po' nervoso per domani?» «No, signore.» «E come mai?» «Be', signore» disse Scooch, senza rendersi conto che Hanno Hath stava disperatamente cercando di intercettare il suo sguardo «io non risponderò mica a questo genere di domande, signore.»
«E cosa scriverà dunque sul foglio dell'esame, candidato Scooch?» «Delle pause per il tè» rispose Scooch. Il Preside Pillish si appoggiò al tavolo che aveva accanto. «Pause per il tè?» ripeté flebilmente. «Sì, signore» ribadì Scooch, totalmente inconsapevole di quel che stava per scatenare. «Nel mio piccolo, credo di essere un esperto di pause per il tè. Pare che non tutti le facciano. Ne ho discusso a lungo con i miei compagni di Corso.» «Faccia silenzio» gli ordinò il Preside Pillish. Lanciò un'occhiataccia ai candidati. Il sogno segreto giaceva infranto ai suoi piedi e il suo cuore era pieno di amarezza. «C'è qualcun altro che intende scrivere di pause per il tè?» Nessuno rispose. «Qualcuno avrebbe la decenza di spiegarmi cosa sta succedendo qui?» Hanno Hath alzò la mano. Il Preside Pillish ascoltò la spiegazione in privato, nel suo studio. Hanno Hath difese a spada tratta il suo sistema che, tuttavia, agli occhi del Preside apparve come una madornale sciocchezza. Quando Hanno disse: «Tanto varrebbe fare un esame di volo ai pesci» il Preside Pillish si passò la mano sulla fronte e disse: «I candidati del mio Corso non sono pesci.» Quando Hanno ebbe terminato, il Preside rimase seduto in silenzio per un bel po'. Si sentiva tradito. Non aveva capito il flusso di quelle parole appassionate, ma aveva sentito, forte e chiara, la nota di ribellione in sottofondo. Non era più un problema di pigrizia, né di nervosismo legato all'esame. Questo era un caso di ammutinamento. Viste le circostanze, il suo dovere era chiaro. Doveva informare l'Esaminatore Capo. Maslo Inch ascoltò il resoconto dell'infelice episodio, quindi scosse lentamente la testa e disse: «È tutta colpa mia. Quell'uomo è una mela marcia che ha fatto marcire tutte le altre.» «Cosa devo fare, Esaminatore Capo?» «Nulla. Me ne occuperò io di persona.» «Il punto è che lui non è pentito. È convinto di avere ragione.» «Ci penserò io a farlo pentire.» Il modo in cui l'Esaminatore Capo pronunciò queste parole fu un balsamo per l'orgoglio ferito del Preside Pillish. Voleva vedere il sorriso di Hanno Hath tramutarsi in una smorfia di paura. Voleva vederlo umiliato.
Per il suo bene, s'intende. Questo nuovo sviluppo fu decisivo per Maslo Inch. Mandò a chiamare il capitano dei gendarmi e quella sera stessa, due ore dopo il tramonto, dieci uomini scelti penetrarono silenziosamente nell'arena e circondarono il Cantore, dove Ira Hath dormiva con Pinpin fra le braccia. Ira non si rese conto di nulla finché non si sentì bloccare le braccia, quindi si svegliò e vide che la stavano alleggerendo del tiepido peso di sua figlia. Cominciò a gridare, ma una mano energica le tappò la bocca e una benda le coprì gli occhi. Sentiva Pinpin che gridava disperata: «Mamma! Mamma!», perciò prese a scalciare e a dimenarsi con tutte le sue forze, ma non riuscì a liberarsi. Poi le grida di Pinpin si affievolirono e Ira, esausta, si fermò. Una voce vicino al suo orecchio le disse: «Ha finito?» Lei fece segno di sì con la testa. «Viene con noi di sua volontà o dobbiamo trascinarla con la forza?» Lei annuì di nuovo. Le tolsero quella manaccia dalla bocca e poté finalmente riprendere fiato. «Mia figlia dov'è?» «Al sicuro. Se vuole rivederla, faccia come le diciamo.» A quel punto, Ira Hath capì che non aveva scelta. Con gli occhi ancora bendati, si lasciò calare giù dal Cantore e condurre fuori dalla grande arena. Attraversarono la piazza ed entrarono in un edificio, oltrepassando porte e corridoi, entrando e uscendo da diverse stanze, finché lei e la sua scorta non si fermarono. «Lasciatela» disse una voce nota. «Toglietele la benda.» Di fronte a lei, seduto dietro un lungo tavolo, c'era Maslo Inch. E a destra, così vicino da poterlo sfiorare con il braccio teso, c'era suo marito. «Hanno!» «Silenzio!» ringhiò l'Esaminatore Capo. «Che nessuno dei due parli finché non avrò detto ciò che ho da dire.» Ira Hath non parlò più. Ma i suoi occhi incontrarono quelli del marito e con lo sguardo si dissero: In qualche maniera, supereremo anche questa. Una guardia entrò nella stanza per consegnare un mucchietto di abiti grigi ben piegati. «Mettili sul tavolo» gli disse Maslo Inch. La guardia obbedì e uscì dalla stanza. «Benissimo» disse l'Esaminatore Capo guardando entrambi con occhi inespressivi. «Ecco cosa farete. Domani è il giorno del Grande Esame. Tu,
Hanno Hath, lo sosterrai com'è tuo preciso dovere, e cercherai di cavartela come meglio potrai. Lei, Ira Hath, assisterà alla prova in quanto moglie e madre devota, per mostrare tutto il suo appoggio al capofamiglia. E, ovviamente, indosserete gli abiti a voi destinati.» E con un cenno del capo indicò il mucchietto di vestiti. «Quando l'esame sarà terminato, e prima che la gente lasci l'arena, io vi chiamerò entrambi affinché pronunciate una breve dichiarazione pubblica. Quello che dovrete dire è scritto qui. Lo imparerete a memoria durante la notte.» Mostrò due fogli di carta che il capitano dei gendarmi consegnò a Hanno e Ira. «Trascorrerete la notte in cella. E non sarete disturbati.» «Dov'è mia figlia?» esplose Ira Hath, incapace di trattenersi. «Sua figlia è in mani sicure. Domani la brava donna che si sta prendendo cura di lei la porterà nell'arena, dove potrà assistere allo svolgimento del Grande Esame dal recinto per i bambini. Se con la vostra condotta mi dimostrerete di essere dei genitori idonei, vi sarà riconsegnata. Altrimenti resterà sotto la tutela della città e non la rivedrete mai più.» Ira Hath sentì lacrime di fuoco salirle agli occhi. «Oh, mostro, mostro» disse a bassa voce. «Se questo è il suo atteggiamento, signora...» «No» intervenne Hanno. «Abbiamo capito. Faremo ciò che ci hai ordinato.» «Staremo a vedere» disse Maslo Inch. Lasciati da soli in una cella di detenzione, Ira e Hanno Hath caddero l'uno nelle braccia dell'altra e scoppiarono in amari singhiozzi. Poi, dopo un po', Hanno asciugò le lacrime di sua moglie e le proprie, e disse: «Coraggio. Dobbiamo fare tutto il possibile.» «Voglio la mia Pinpin! Oh, bambina mia, dove sei?» «Non fare così. Sarà solo per questa notte.» «Li odio, li odio, li odio.» «Certo, certo. Ma per il momento dobbiamo fare come dicono loro.» Hanno spiegò il suo foglio di carta e lesse la dichiarazione che doveva ripetere in pubblico: Concittadini, è di mia spontanea volontà che faccio questa pubblica dichiarazione. Sono molti anni che non cerco di dare tutto quello che posso.
Di conseguenza, ho fallito e fatto fallire la mia famiglia. Per mia grande vergogna, ho voluto far ricadere le colpe del mio fallimento sugli altri. Ora mi rendo conto di quanto il mio comportamento sia stato puerile ed egoista. Ognuno è responsabile del proprio destino. Io sono orgoglioso di essere cittadino di Aramanth, e prometto di fare tutto ciò che è in mio potere per essere degno di tale onore. «Poteva essere peggio» disse Hanno con un sospiro, dopo aver terminato di leggere. La dichiarazione di Ira Hath diceva: Concittadini, come saprete ho recentemente perduto due dei miei figli. E questo immenso dolore mi ha provocato un esaurimento nervoso e mi ha spinto a fare cose di cui ora mi vergogno. Chiedo il vostro perdono e la vostra comprensione. Prometto in futuro di agire con la modestia e la decenza degne di una donna che è moglie e madre. Gettò il foglio per terra. «Io non lo dirò!» Hanno raccolse il foglio. «Sono solo parole.» «Oh, i miei bambini, i miei bambini» gridò Ira Hath ricominciando a piangere. «Quando potrò abbracciarli di nuovo?» 23 Il flagello delle pianure Quando i tre bambini furono svegliati dalle prime luci dell'alba, il primo suono che sentirono fu la musica della banda. Guardando dall'altra parte del burrone videro gli Zar che continuavano a marciare e a cadere. Terrorizzati, si avvicinarono al ciglio del precipizio e guardarono in basso. Laggiù, il letto del fiume era bianco, come coperto da un manto di neve; solo che in tutto quel bianco scintillavano dei puntini dorati. I giovani Zar cadevano giù, e a poco a poco il mucchio bianco cresceva in altezza. Chissà quando, sarebbe giunto il momento in cui gli Zar avrebbero traversato il burrone camminando sulla montagna formata dai loro stessi morti. Senza dire niente, i tre amici si voltarono e tornarono sulla Grande Via,
camminando a passo svelto in direzione di Aramanth nella frescura del mattino. La Voce d'argento del Cantore era appesa al collo di Kestrel, dentro la sua camicetta, legata al collo con un filo d'oro che si era tolta dai capelli. Le pendeva sul petto, riscaldata dal suo stesso calore, e mentre camminavano le faceva il solletico. I pensieri della bambina erano rivolti ad Aramanth, a suo padre, a sua madre e alla sua sorellina. Questo dava alle sue gambe la forza necessaria per tenere il passo con Bowman, che marciava a ritmo instancabile. «Dobbiamo arrivare ad Aramanth prima di loro» disse. Non erano più inseguiti dagli Zar ma, ora che camminavano veloci sulla Grande Via, si trovarono ad affrontare un altro problema, del quale nessuno di loro parlava. Era evidente che in Mumpo aveva avuto luogo un grande mutamento, perché neanche lui disse niente, nonostante i crampi allo stomaco. Avevano fame. Non toccavano cibo da ventiquattro ore, le loro provviste erano finite e gli alberi che incontravano erano privi di frutti. Ogni tanto, lungo la strada, incontravano un ruscello al quale bere, ma sapevano che una volta raggiunte le grandi pianure desertiche non avrebbero più avuto di che dissetarsi. Quanta strada rimaneva ancora? Non sapevano, perché la prima volta avevano traversato le pianure a bordo di Ombaraka, spinta dalle sue mille vele. Calcolarono tre giorni, ma potevano essere di più. Come resistere senza cibo a quella lunga traversata? La Grande Via era larga, leggermente in discesa, e ormai cominciavano a vedere le pianure che si stendevano davanti ai loro occhi. Verso mezzogiorno la fame li fece rallentare e, rendendosi conto della crescente debolezza, cominciarono a spaventarsi. Persino Bowman stava perdendo le forze. Finirono per cedere e decisero di fermarsi a riposare. Con immenso piacere, si sdraiarono sotto l'ombra del folto fogliame di un albero. «Come facciamo a tornare a casa?» domandò Kestrel. Si accorse che si stava rivolgendo a suo fratello come se ormai fosse diventato il loro capo. «Non lo so» rispose lui. «Ma ci torneremo, perché dobbiamo.» Non era una vera risposta, ma lei si sentì ugualmente confortata. «Forse potremmo mangiare le foglie» disse, tirando a sé un ramo. «Lo so io!» disse Mumpo. Si infilò una mano in tasca e ne trasse le ultime foglie di tixa. Ne fece tre parti e le divise con gli altri due. «Non è cibo vero» disse «ma almeno non ti fa pensare alla fame.» Aveva ragione. Masticarono le foglie e ne inghiottirono il succo dal sa-
pore aspro. La pancia rimase vuota, ma le foglie diedero loro l'impressione che la cosa non avesse importanza. «Sono amare» disse Kestrel storcendo la bocca. «Amaro amaro amaro» cantilenò Mumpo. Si rialzarono e ripresero il cammino, sbandando e trascinandosi: la soluzione dei loro problemi pareva ormai un gioco da ragazzi. Come avrebbero fatto a traversare le grandi pianure? Avrebbero volato come uccelli, dolcemente trasportati dal vento. Avrebbero sorvolato la terra come nubi leggere. Mentre danzavano giù per la Grande Via si ritrovarono a parlare ad alta voce delle loro paure e a riderne. «Ah ah ah, alla faccia degli Zar!» cantò Mumpo. «Ah ah ah, Zar Zar Zar» cantarono i gemelli. «Mumpo era un vecchierello!» cantilenò Kestrel. «Vecchierello, ello, ello!» cantarono tutti insieme. «Che effetto ti faceva essere vecchio, Mumpo?» «Lentezza e pesantezza» canticchiò Mumpo mentre sgambettava davanti a loro. «Lentezza e pesantezza e stanchezza.» «Stanchezza, stanchezza, stanchezza» cantarono tutti. «Come quando eravamo tutti coperti di fango.» «Fango, fango, fango!» «Poi il fango è caduto e...» Saltò e agitò selvaggiamente le braccia. «Zar, Zar, urrà!» «Zar, Zar, urrà!» fecero eco gli altri due. Prendendosi sottobraccio, cominciarono a imitare il passo di marcia degli Zar, intonando una musica da fanfara. «Taratatà taratatà! Taratatà taratatà!» E così, marciando e cantando, uscirono dalla foresta e si ritrovarono allo scoperto. Qui finalmente si fermarono. Mentre guardavano l'arida desolazione delle pianure che si stendeva fino alla linea dell'orizzonte, l'effetto della tixa cominciò a svanire e di nuovo capirono che stavano morendo di fame, e che erano lontani, lontani, lontani da casa. A quel punto sarebbe stato facile sdraiarsi, dormire e non rialzarsi mai più, perché con tutto quel cantare e ballare avevano consumato ogni briciola di energia. Ma Bowman, cocciuto e instancabile, insistette per continuare. «È troppo lontano. Non arriveremo mai!» «Non fa niente. Dobbiamo proseguire.»
E così ripresero il cammino, con il sole che lentamente declinava nel cielo, alla loro destra. Si era levato un vento sferzante e i tre cominciarono a procedere sempre più lentamente, ma senza fermarsi. Si trascinavano per la stanchezza, ma continuarono ad arrancare pesantemente, spinti dalla volontà di Bowman. Si stava facendo buio e nel cielo correvano grossi nuvoloni neri, quando Kestrel si fermò. Si tolse dal collo il filo d'oro e porse la Voce a Bowman. Quindi bisbigliò: «Continua tu. Io non ce la faccio.» Lui prese il bel fermaglio d'argento e lo strinse nella mano. Poi i suoi occhi incontrarono quelli della sorella, e lui vi lesse la vergogna di non poter andare avanti. Ma più forte della vergogna era la stanchezza. Senza di te non posso farcela, Kestrel. Allora è finita. Bowman girò la testa e vide che Mumpo lo stava guardando, in attesa: ma lui era rimasto senza parole. E chiuse gli occhi. Aiutami, disse Bowman in silenzio, senza sapere bene a chi o cosa si stesse rivolgendo. Come in risposta, si sentì un rumore quasi familiare: un cigolio e uno scricchiolio distanti, portati dal vento. Riaprì gli occhi e tutti e tre si voltarono a guardare. E là, all'orizzonte, apparve un gagliardetto battuto dal vento che si stagliava contro il cielo del tramonto. Poi cominciarono a profilarsi vele e pennoni, torri di vedetta e ponti superiori. Apparvero quindi i ponti principali interamente occupati dalle vele gonfie di vento, e l'immenso scafo di un vascello che avanzava verso di loro, emergendo lentamente dal crepuscolo. «Ombaraka!» gridò Kestrel. Rianimati dalla speranza, i bambini si misero a correre verso l'immensa città in movimento, agitando le braccia e gridando per attirare l'attenzione delle vedette. Li avevano avvistati. Il grosso vascello rallentò fino a fermarsi. Venne calato un ponteggio, loro ci montarono sopra e, abbracciati, cominciarono a piangere di sollievo. Il ponteggio riprese a salire cigolando, oltrepassò i ponti inferiori e si fermò con uno scossone all'altezza del ponte di comando. Furono aperti i cancelli e i tre si ritrovarono davanti un gruppo di uomini armati fino ai denti, con le teste completamente rasate. «Spie Baraka!» gridò il comandante. «Rinchiudeteli! Li impiccheremo alle prime luci dell'alba!» E a quel punto che si resero conto di essere prigionieri di Omchaka.
Vennero gettati in una gabbia grande quel tanto da poterci stare tutti e tre seduti, uno di fianco all'altro, con le ginocchia piegate contro il petto. La gabbia venne poi sollevata a diversi metri da terra e fu lasciata sospesa nell'aria, a dondolare nel vento, esponendo i bambini agli insulti e agli sputi delle guardie che li sorvegliavano. «Sporchi Baraka! Vi appenderemo come pupazzi!» «Per favore» li supplicarono i bambini. «Abbiamo fame.» «Perché dovremmo sprecare del cibo? Tanto vi impiccheremo all'alba.» I Chaka sembravano più feroci dei Baraka, forse per via delle teste rasate. Ma sotto tutti gli altri aspetti erano assolutamente identici. Stessi abiti color sabbia, stesso cipiglio da guerrieri, stessi festoni di armi. Quando sentirono il grido dei bambini, i Baraka scoppiarono a ridere. «Femminucce piagnucolose!» dissero. «Domani mattina sì che avrete motivo di gridare.» «Moriremo prima» disse Kestrel con un filo di voce. «Sono giorni che non mangiamo.» «Fareste meglio a restare in vita» urlò il più grosso dei loro secondini. «Se domani mattina vi trovo morti, giuro che vi ammazzo.» A questa battuta, gli altri secondini si sbellicarono dalle risate, ma chi l'aveva pronunciata diventò rosso come un peperone. «Ammazzali un'altra volta, Pok! Questo sì che li spaventerà!» E risero ancora più forte. Il massiccio secondino chiamato Pok si accigliò e borbottò qualcosa fra sé e sé. «Voi pensate che io sia stupido; be', gli stupidi siete voi, non io, e ve lo dimostrerò.» Mentre calava la notte e il vento si faceva più forte, i secondini decisero di stabilire dei turni per la sorveglianza. Il grosso Pok si offrì volontario per il primo, così gli altri se ne andarono. Non appena restarono soli, Pok si avvicinò alla gabbia e con un roco sussurro disse: «Ehi, voi! Spie Baraka! Siete ancora vivi?» Dalla gabbia non venne risposta. Pok emise un rumoroso grugnito. «Per favore rispondetemi, sporche spie! Non dovete morire.» Con una voce sottile e gracidante, Kestrel gli rispose. «Cibo» disse. «Cibo...» «Va bene» disse Pok nervoso. «Aspettatemi qui. Vado a prendervi da mangiare. Non morite, d'accordo? Promettetemi che non morirete, altrimenti non ci vado.» «Non ci manca molto...» disse Kestrel flebilmente. «Stiamo morendo...»
«No, no! È proprio quello che non dovete fare. Non fatelo, altrimenti io vi... vi...» Rendendosi conto che non aveva nessun mezzo per minacciarli, ripiegò verso la supplica. «Statemi a sentire. Tanto morirete comunque, quindi per voi non cambia niente. Per me, però, la differenza è grossa. Se morite durante il mio turno di sorveglianza, daranno la colpa a me e questo non è giusto. Oh, ancora Pok, diranno. Contate pure su di lui quando c'è da combinare un disastro! Povero vecchio Pok, stupido come un somaro. Ecco cosa diranno, e non è giusto!» Silenzio assoluto. Pok fu preso dal panico. «Non morite adesso; vi chiedo solo questo. Ora vado. Il cibo sta per arrivare.» E partì di corsa. I bambini rimasero zitti e buoni nel caso qualcuno stesse guardando, anche se ormai era notte fonda e il ruggito del vento induceva la gente a stare al riparo. Poco dopo riapparve Pok, con le braccia cariche di pane e di frutta. «Ecco qua» disse con il fiato corto, infilando il pane attraverso le sbarre. «Mangiate! Mangiate!» Quando vide che i bambini cominciavano a mangiare, emise un sospiro di sollievo. «Ecco! Adesso va meglio. Non si muore più, eh?» Più loro mangiavano, più la contentezza di Pok cresceva. «Ecco! In fin dei conti, il vecchio Pok non ha combinato nessun disastro! Domani mattina sarete arzilli come passerotti e Haka Chaka assisterà a una splendida impiccagione. Tutto è bene ciò che finisce bene, come si dice.» Il cibo restituì un po' di forza a Bowman, e con la forza tornò anche la speranza. Così cominciò a pensare al modo di fuggire. «Noi non siamo spie Baraka» disse. «Ah, no» disse Pok. «Persino il vecchio Pok vede che non siete Chaka; perciò, se non siete Chaka, dovete per forza essere Baraka.» «Siamo di Aramanth.» «Non è vero. Avete i capelli dei Baraka.» «E se disfacessimo le treccine?» disse Kestrel. «E se ci rasassimo completamente la testa come voi?» «Be', allora» disse Pok esitando. «Be', allora, sareste... Sembrereste...» Tutto questo gli confondeva le idee. «Sembreremmo come voi.» «Può darsi» disse. «Ma stanotte non potete rasarvi la testa, e domani
mattina sarete impiccati. Ecco come stanno le cose.» «Non vorrai mica farci impiccare per poi scoprire che è stato tutto un errore.» «Gli ordini li dà Haka Chaka» disse Pok con tono compiaciuto. «Haka Chaka è il Padre di Omchaka, il Giudice Supremo della Giustizia e il Flagello delle Pianure. Non commette errori.» Quella notte, nonostante lo spazio ristretto e l'ululato del vento, i bambini dormirono. La stanchezza che avevano nelle ossa superava anche la paura, e si svegliarono solo quando spuntò il giorno. Il vento si era placato, ma il cielo era plumbeo e prometteva temporali violenti. Una pattuglia di Chaka marciò verso di loro e circondò la gabbia, che venne calata sul ponte e aperta. I bambini uscirono traballando. La pattuglia li scortò lungo la passerella fino alla piazza centrale di Omchaka. Lì c'era una folla in attesa, accalcata intorno alla piazza e appesa ai parapetti dei ponti superiori. Non appena apparvero i prigionieri, la folla cominciò a fischiare e a lanciare insulti. «Impiccateli! Sporchi Baraka! Impiccateli!» Al centro della piazza si ergeva un patibolo nuovo di zecca, dal quale penzolavano tre nodi scorsoi. Dietro c'erano i comandanti dell'esercito di Omchaka e una fila di suonatori di tamburo. I bambini vennero fatti salire su una pedana, ognuno davanti a un cappio. A quel punto, si sentì un rullio di tamburo e il Comandante Supremo gridò: «Tutti in piedi in onore di Haka Chaka, Padre di Omchaka, Giudice Supremo della Giustizia e Flagello delle Pianure!» Nessuno si mosse, visto che erano già tutti in piedi, e Haka Chaka fece il suo ingresso nella piazza, accompagnato dai dignitari. Era un uomo anziano di imponente statura, con i capelli grigi quasi rasati a zero. Ma non fu a lui che i bambini rivolsero uno sguardo attonito. Alle sue spalle, con i capelli debitamente rasati a zero, seguiva il Consigliere Kemba. «Lui è un Baraka!» gridò Kestrel puntandogli contro un dito accusatore. «Il suo nome è Kemba e viene da Ombaraka!» Kemba sorrise, come se la cosa non lo turbasse affatto. «Presto diranno che anche voi siete un Baraka, Altezza.» «Possono dire quello che vogliono» disse Haka Chaka in tono sinistro. «Le chiacchiere avranno presto fine.» Fece segno agli uomini che tenevano i tre bambini, e i cappi vennero collocati intorno ai loro colli. Mumpo non si mise a gridare come avrebbe
fatto un tempo, ma emise comunque un piccolo suono soffocato. «Mi dispiace, Mumpo» gli disse Kestrel. «In fin dei conti, non ti siamo stati di nessun aiuto.» «E invece sì» disse lui, coraggioso. «Siete stati miei amici.» Haka Chaka salì sull'alto podio per rivolgersi alla folla. «Popolo di Omchaka!» gridò. «Il Morah ha consegnato il nemico nelle nostre mani!» All'improvviso, Bowman vide la via d'uscita. «Il Morah si è risvegliato» gridò. Un silenzio stupito cadde sulla folla. Dal cielo plumbeo sopraggiunse il rombo sommesso di un temporale in arrivo. Gli occhi di Kemba si spostarono su Bowman come due fuochi ardenti. «Gli Zar sono in marcia!» gridò Bowman. Questa notizia provocò costernazione nella folla. Un brusio di parole concitate si sollevò da ogni lato della piazza. Haka Chaka si voltò verso i suoi consiglieri. «Sarà vero?» «Marciano al nostro inseguimento» gridò Bowman. «E ci troveranno dovunque.» Adesso, da tutte le parti giunsero voci terrorizzate, amplificate dalle improvvise folate di vento che agitavano il sartiame in alto. «Nulla potrà fermare gli Zar!» «Ci uccideranno tutti!» «Ditelo all'equipaggio. Bisogna salpare subito!» «Cretini!» Kemba cercò di dominare il panico che si era scatenato. Parlò a voce alta, ma i toni erano pacati, addirittura suadenti. «Ma non sapete riconoscere una trappola dei Baraka quando vi ci trovate davanti? Perché il Morah avrebbe dovuto risvegliarsi? Perché gli Zar dovrebbero essere in marcia? Sta solo mentendo per salvare la sua miserabile pelle.» «Sono stato io in persona a risvegliare il Morah» disse Bowman. «Il Morah mi ha detto: «Noi siamo legione.»» Queste parole gelarono la folla. Kemba rivolse a Bowman un'occhiata carica di odio, ma insieme all'odio c'era la paura. «Sta mentendo!» gridò. «Questi sono nostri nemici! Perché li state a sentire? Impiccateli! Impiccateli adesso!» La folla fece selvaggiamente eco a questo incitamento.
«Impiccateli! Impiccateli!» Haka Chaka levò le braccia al cielo per quietare la folla che urlava. «Cosa abbiamo da temere?» gridò. «Noi siamo Omchaka! Che tremi Ombaraka! Ecco come trattiamo i nemici di Omchaka!» Ma nel silenzio che precedette l'attimo del segnale convenuto per l'esecuzione, un suono portato dal vento giunse alle loro orecchie: il martellare dei piedi in marcia, la musica della fanfara, il canto di una moltitudine di giovani voci. «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» Il popolo di Omchaka ammutolì per il terrore. Poi le parole che nessuno voleva sentire si formarono sulle labbra di tutti. «Gli Zar! Gli Zar!» Il Consigliere Kemba prese in mano la situazione. «Altezza» si affrettò a dire «rilasciate le spie! Mettetele a bordo di un carro a vela che faccia rotta verso sud. Gli Zar li seguiranno. Omchaka deve immediatamente fare rotta verso est.» Haka Chaka annuì e gli ordini furono dati. Mentre la folla si disperdeva e i Chaka si affrettavano a raggiungere le proprie postazioni, Kemba si avvicinò ai bambini e si rivolse a loro con un sussurro furioso. «Quarant'anni di pace e voi avete rovinato tutto! Il lavoro di tutta una vita distrutto! La mia unica consolazione è che con gli Zar non la farete franca, né voi né la vostra preziosa Aramanth!» I bambini furono liberati e caricati su un carro a vela: non una corvetta facilmente manovrabile, ma un pesante carro merci, con un'unica vela fissa. Venne calato sul lato del vascello, mentre la grande città di Omchaka riecheggiava di frenetica attività. Su ogni ponte, la ciurma urlava istruzioni e il vento crescente gonfiava quella miriade di vele facendo muovere bruscamente l'immenso vascello. Non appena il piccolo carro a vela toccò violentemente terra, gli Zar furono visibili all'orizzonte: marciavano in fila per otto dietro la fanfara, cantando. Il vento di burrasca che soffiava da nord gonfiò la vela del carro che bruscamente si mosse, staccandosi dal bordo di Omchaka e acquistando subito velocità. E a un tratto, con il fragore di un tuono, nel cielo di un grigio metallico scoppiò il temporale, e una pioggia incessante si abbatté su di loro. Il carro a vela correva sempre più veloce sul terreno pieno di sassi, e i bambini non potevano fare altro che tenersi stretti al pennone e lasciarsi sballottare dalle intemperie. Il vento si trasformò in fortunale, la pioggia
diventò torrenziale, e loro non riuscirono più a vedere nulla. Il cielo livido era lacerato da continui lampi e lo scafo si stava riempiendo d'acqua, ma loro non potevano fare altro che continuare a tenersi ben saldi mentre sfrecciavano in avanti, senza controllo. Poi, una ruota colpì una roccia e due dei raggi si ruppero. La ruota continuò a girare ancora per qualche istante, ma il cerchione si deformò. Il vento feroce martellava la vela, e un'altra ruota andò in frantumi. Il carro a vento si rovesciò su un fianco e continuò a scivolare, poi si fermò. La tempesta infuriava e loro non potevano fare nulla, così si strinsero insieme nello scafo spezzato e attesero che la pioggia cessasse. Bowman pensò a quanto si fossero avvicinati alla morte, ed ebbe la sensazione che qualcuno o qualcosa vegliasse su di loro. Qualcuno o qualcosa voleva che tornassero a casa; ma chi o cosa fosse, lui non lo sapeva proprio. «Ce la faremo» disse. Kestrel e Mumpo avevano la stessa sensazione. Ormai Aramanth non doveva più essere tanto lontana. In breve, il temporale si trasformò in piovaschi intermittenti, e il vento cessò. I bambini strisciarono fuori dal loro riparo e si guardarono intorno. La burrasca si stava spostando a sud e là, sulla linea dell'orizzonte, oltre il velo di pioggia, si vedevano le inconfondibili mura di Aramanth. «Ce la faremo» ripeté Bowman pieno di entusiasmo. Bum! Bum! Bum! Zuppi ma sorridenti, gli Zar cantavano e marciavano, avanzando inesorabili. «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» Senza dire nemmeno una parola, i bambini si misero a correre verso le mura della città. 24 L'ultimo Grande Esame Il giorno del Grande Esame era arrivato. Il temporale fuori stagione aveva ritardato l'inizio delle prove, ma adesso le file di banchi che riempivano le gradinate dell'arena erano stati asciugati e l'esame seguiva il suo corso. Seduti ai loro posti, c'erano tutti i capifamiglia della città, impegnati a rispondere alle domande che avrebbero determinato il voto per l'anno successivo. Ognuna delle nove gradinate circolari ospitava trecentoventi ban-
chi: quasi tremila candidati seduti in assoluto silenzio, a parte il rumore delle penne che grattavano sui fogli e i passi felpati degli Esaminatori che sorvegliavano l'arena. Le famiglie erano accalcate nelle ripide tribune. Tutti dovevano essere presenti, in parte per dare sostegno ai capifamiglia, in parte per dimostrare che quell'esame determinava la posizione sociale di tutta la famiglia. I parenti prendevano posto in zone separate a seconda dei loro colori. I numerosi scarlatti e i pochissimi bianchi sedevano vicino al palazzo; la parte centrale era largamente occupata dagli arancione su un lato e dai marrone sull'altro; la zona in fondo, quella nei pressi della statua di Creoth, era un oceano di grigio. Maslo Inch, l'Esaminatore Capo, sedeva su un podio posto su un piedistallo di marmo con su inciso il Giuramento di Dedizione. GIURO DI SFORZARMI DI PIÙ, DI ARRIVARE PIÙ IN ALTO, E DI FARE IN MODO CHE DOMANI SIA MIGLIORE DI OGGI. PER AMORE DEL MIO IMPERATORE E PER LA GLORIA DI ARAMANTH. L'Esaminatore Capo guardò l'orologio e vide che era già passata un'ora. Si alzò, scese dal podio e fece un lento giro dell'arena, lasciando che i suoi occhi vagassero sopra le teste chine dei candidati. Per Maslo Inch, il Grande Esame era sempre un momento di appagante riflessione, e oggi, dopo le recenti scaramucce, lo era più che mai. Qui era raccolta l'intera popolazione di Aramanth, in ordine e in fila, impegnata a sostenere un esame secondo modalità giuste ed eque. Nessuno poteva lamentare favoritismi o rappresaglie per segreti rancori. Tutti sostenevano lo stesso esame e tutti venivano valutati in base agli stessi criteri imparziali. Quelli bravi e diligenti sedevano ai primi posti, com'era giusto che fosse; quelli stupidi e svogliati si ritrovavano seduti in fondo, e anche questo era giusto. Era ovviamente spiacevole per i candidati meno brillanti, ai quali toccava trasferirsi in un quartiere più povero, ma pur sempre giusto, perché significava che qualche altra famiglia che aveva lavorato sodo veniva giustamente ricompensata. E non dimenticate mai - ripassava mentalmente il suo discorso di fine esame - non dimenticate mai che l'anno venturo, al prossimo Grande Esame, avrete di nuovo una possibilità e potrete riprendervi ciò che avete perso. Sì, tutto considerato, era il miglior sistema possibile e nessuno poteva negarlo.
I suoi occhi si posarono sul gruppetto di candidati del Corso Residenziale di Studi, i quali sedevano tutti insieme perché soggetti a una sorveglianza speciale. Lesse sui loro volti il panico e la disperazione di ogni anno, mentre si misuravano con domande per le quali non si erano preparati, e capì che tutto era come doveva essere. Come mai, si chiese, certa gente non impara mai nulla? Basterebbe un piccolo sforzo, una piccola spinta in più. E là, in mezzo a tutti gli altri, sedeva Hanno Hath con la testa fra le mani. Quell'uomo era un'autentica vergogna per Aramanth. Ma adesso lo teneva in pugno. I suoi occhi si spostarono dall'altra parte dell'arena, dove sedevano le famiglie del Quartiere Grigio. C'era la signora Hath, vestita di grigio e con le mani sulle ginocchia, docile come non mai. Guardò quindi il recinto dei bambini, dove l'affidabile signora Chirish sedeva con la piccola Hath in grembo. Lui si era aspettato che la piccolina creasse problemi, ma sembrava tranquilla, senza dubbio intimorita dal grande silenzio che aleggiava sull'arena. Bene, davvero un ottimo lavoro, si disse Maslo Inch. L'orgoglio della famiglia Hath era annientato. In cima alla torre che sovrastava il Palazzo Imperiale, l'Imperatore mangiava di malumore pastiglie di cioccolato e guardava le strade deserte. Qualche attimo prima aveva visto arrivare i candidati insieme alle loro famiglie e aveva percepito la loro ansia e paura. Odiava quell'appuntamento annuale con il Grande Esame. Aveva sentito migliaia di voci che intonavano il Giuramento di Dedizione, e quando erano arrivate alla parte che diceva "per amore del mio Imperatore", aveva dovuto tapparsi le orecchie per non sentire. Ma in quell'ultima ora non si era sentita volare una mosca. Era come se la città fosse morta. A questo punto, però, gli sembrava di sentire un suono nuovo: distante, debole, attutito, ma... era forse una fanfara? Chi mai osava suonare, il giorno del Grande Esame? Abbassò gli occhi sulle strade sottostanti e vide uno spettacolo davvero insolito. Un tombino si aprì e ne uscì un ragazzino inzaccherato di fango, con altri due al seguito. I tre si guardarono intorno e poi si misero a correre in direzione dell'arena. L'Imperatore rimase a guardarli e gli parve di riconoscerne uno. Non era forse quella ragazzina...? All'improvviso, dallo stesso tombino sbucò fuori un bellissimo ragazzetto con un'uniforme bianca e oro. Dopo di lui, ne sbucò fuori un altro e un
altro ancora. Poi sulla strada prese forma una colonna capeggiata dalla fanfara. L'Imperatore sgranò gli occhi e rimase di sasso. Aveva già capito che si trattava degli Zar. Dai tombini delle strade laterali cominciarono a sbucarne fuori sempre di più, e tutti andavano a unirsi alla colonna principale. E, sempre a passo di marcia, cominciarono a cantare un'unica parola: «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere! Uccidere, uccidere, uccidere!» L'Imperatore capì che doveva fermarli. Ma come? Non poteva neanche muoversi dalla sua stanza. Prese una manciata di pastiglie di cioccolato e le mangiò senza sentirne il sapore. E mangiandole si mise a piangere. I bambini oltrepassarono di corsa la statua di Creoth, attraversarono il colonnato dell'arena e si fermarono con il fiato corto sulla gradinata superiore. In qualche modo, nonostante l'urgenza di quel momento, la vista delle migliaia di candidati in silenzio con la testa china sul foglio d'esame li intimorì, e, mentre riprendevano fiato, esitarono. In quei pochi istanti Maslo Inch li vide e si sentì oltraggiato. Nulla doveva disturbare il sacro silenzio del Grande Esame. Non riconobbe, però, i tre monelli sporchi e disordinati con quelle treccine ridicole e i piedi coperti di fango. Erano intrusi, e questo gli bastava. Fece un brusco segno ai suoi assistenti affinché si occupassero della questione. I bambini videro gli Esaminatori vestiti di scarlatto dirigersi minacciosi verso di loro. In basso, al centro dell'arena, il Cantore si ergeva silente, oscillando da una parte o dall'altra in balia del vento. Bowman estrasse la Voce d'argento dalla camicia e se la sfilò dal collo. Poi con il pensiero, si rivolse a sua sorella. Stammi vicino. Se mi acchiappano, la voce prendila tu. Uno accanto all'altro, i bambini ripresero a scendere verso il Cantore. A quel punto, gli Esaminatori cominciarono a notare un po' di agitazione e il brusio sommesso che giungeva dalle tribune. È intollerabile, pensò Maslo Inch fra sé e sé, tornando istintivamente verso il suo podio. Gli Esaminatori accerchiarono i bambini, convinti che sarebbe bastato rimbrottarli aspramente perché se ne andassero. Ma, mentre loro si avvicinavano, i bambini scattarono in tre diverse direzioni. «Prendeteli!» ringhiò l'Esaminatore Capo ai gendarmi, senza preoccuparsi più di disturbare lo svolgimento dell'esame. «Fermateli!» E mentre gridava si accorse di un suono impossibile che arrivava dalla strada: quello di una fanfara e di piedi che marciavano.
Bum! Bum! Bum! Bowman zigzagò fra i banchi, facendo cadere pile di fogli da tutte le parti, saltando da una gradinata all'altra. Alla sua sinistra vide Kestrel che teneva il passo. Passò accanto a Hanno Hath senza nemmeno accorgersene, ma suo padre lo riconobbe e il cuore cominciò a battergli forte per la gioia. Un gendarme catturò Kestrel, ma lei gli morse il braccio così forte da costringerlo a lasciarla andare. Ormai tutti avevano smesso di rispondere alle domande e avevano alzato la testa, guardando attoniti i gendarmi che inseguivano i bambini. Sulla tribuna grigia, Ira Hath si alzò in piedi. Ne era quasi sicura - di diverso avevano solo i capelli - si trattava di... «Brava, brava Kestrel!» le gridò, pazza di gioia. Hanno Hath, nell'altra parte dell'arena, anche lui in piedi e con il cuore che gli batteva forte, gridò: «Bravo, bravo Bowman!» Girandosi per salutare suo padre, Bowman andò a sbattere contro due gendarmi, che immediatamente lo presero per il collo e per le gambe. «Kess!» gridò. Quindi le lanciò la Voce d'argento. Lei cercò di vedere dove era atterrata. E, con Mumpo al suo fianco, corse come un fulmine giù per la gradinata successiva, verso il Cantore. Con tutta quell'agitazione, la signora Chirish si dimenticò per un attimo di Pinpin, la quale non perse l'occasione di saltarle giù dalle ginocchia e correre via. «Ehi!» gridò la signora Chirish. «Fermate quella bambina!» Ma Pinpin era già scappata, guizzando fra i banchi e le gambe della gente, verso quelle buffe figure sporche di fango che aveva riconosciuto all'istante come suo fratello e sua sorella. Kestrel si lanciò dall'ultima gradinata e corse verso il Cantore, con due gendarmi che la inseguivano. Fece appena in tempo ad arrivare ai piedi della torre di legno, quando le mani dei gendarmi la raggiunsero e la trascinarono giù. «Mumpo!» gridò gettandogli la Voce d'argento. Inch vide l'oggetto cadere e immediatamente capì cosa stava succedendo. Si precipitò a raccogliere la Voce, ma Mumpo ci arrivò prima di lui. «Dammela, brutta peste inzaccherata!» ordinò l'Esaminatore Capo con la sua voce più autoritaria acciuffando il ragazzino. Poi il suo sguardo incrociò quello di Mumpo, e accadde una cosa davvero strana. L'uomo arrossì violentemente ed esclamò «Tu!»
Mollò la presa e Mumpo corse via, sfrecciando verso il Cantore con la Voce d'argento in mano. Fuori dell'arena, gli Zar continuavano a marciare e ad avvicinarsi sempre di più. All'interno, le persone riuscivano ormai a sentire la banda e stavano cercando di aguzzare la vista per scoprire chi avesse la sfrontatezza di suonare in quel giorno. Bowman e Kestrel, tenuti fermi dai gendarmi, guardavano Mumpo che, arrivato al Cantore, aveva cominciato ad arrampicarsi. Forza, Mumpo! Forza! Agile come una scimmia, Mumpo si arrampicò sulla torre di legno, sempre con la Voce d'argento in mano. Ma in che punto doveva inserirla? «Nel collo!» gli gridò Kestrel. «Nella fessura del collo!» La musica degli Zar arrivava ormai nitida dalla strada, come anche il bum! bum! bum! dei loro piedi martellanti. Mumpo cercò freneticamente la fessura, tastando il metallo arrugginito. Hanno Hath lo guardava con il cuore in gola, incoraggiandolo con tutto se stesso. Forza, Mumpo! Forza! Ira Hath lo guardava e non riusciva a smettere di tremare. Forza, Mumpo! Forza! A un tratto trovò la fessura, più in alto di dove se l'era immaginata. La Voce d'argento vi scivolò dentro con un leggero clic!, proprio nel momento in cui la testa della colonna di Zar faceva irruzione nel colonnato, con le spade sguainate e scintillanti e il canto sulle labbra. «Uccidere, uccidere, uccidere, uccidere...» La brezza fece girare il Cantore, un flusso d'aria penetrò nei condotti di cuoio e scese fino alla Voce d'argento. Dolcemente, i corni cominciarono a cantare. La prima nota, una vibrazione profonda, arrestò di colpo la marcia degli Zar. Rimasero impietriti con le spade alzate e i volti raggianti e sorridenti. Tutt'intorno all'arena, la gente venne attraversata da uno strano fremito. La nota successiva fu più alta, delicata ma penetrante. Mentre il Cantore continuava a girare con il vento, la nota seguiva nuove modulazioni. Poi arrivò la nota più alta di tutte, simile al canto di un uccello celestiale, una cascata melodiosa e ruscellante che sembrava risuonare sempre più forte e più lontano, impossessandosi dell'arena, gradinata dopo gradinata, e poi delle tribune e, infine, della città intera. I gendarmi che trattenevano Bowman e Kestrel mollarono la presa. I candidati guardarono sconcertati i fogli sui banchi. Nelle tribune, le loro famiglie si scambiavano occhiate.
Hanno Hath abbandonò il suo banco. Ira Hath abbandonò la tribuna grigia. Pinpin strisciò a quattro zampe sotto i banchi, uscì allo scoperto e cominciò a ridacchiare di gioia. E per tutto il tempo la Voce del Cantore continuò a penetrare nel cuore della gente, e ogni cosa stava cambiando. Si sentivano i candidati chiedersi: «Ma cosa ci facciamo qui?» Uno prese i fogli dell'esame dal banco, li strappò e ne gettò i pezzi in aria. Immediatamente gli altri lo imitarono, ridendo come Pinpin, e l'aria si riempì di pezzetti di carta svolazzanti. Le famiglie sulle tribune cominciarono a mescolarsi, i marrone che finivano tra i grigi e gli arancione che abbracciavano gli scarlatti. Dall'alto della sua torre, l'Imperatore sentì la musica del Cantore, spalancò la finestra e lanciò nel vuoto la ciotola con le pastiglie di cioccolato. Quindi si voltò, uscì da una delle numerose porte e scese le scale. Nell'arena, Ira Hath attraversava la folla e scendeva assorta fra le persone che adesso si scambiavano i vestiti, sperimentando diverse combinazioni di colori e ridendo a quell'insolito spettacolo. Vide Hanno che giungeva dalla direzione opposta, le braccia tese. Lei raggiunse il centro dell'arena e prese Pinpin in braccio, la strinse forte e la baciò; poi si voltò, si trovò davanti il suo caro Bowman e lo riempì di baci. Hanno si unì a loro, con Kestrel fra le braccia, e fu a quel punto che Ira Hath si mise a piangere per la gioia. «I miei uccellini coraggiosi» diceva Hanno mentre li abbracciava e li copriva di baci. «I miei uccellini coraggiosi sono ritornati.» Pinpin si dimenava fra le braccia di sua madre, fuori di sé per l'eccitazione. «Voglio bene Bo!» gridò. «Voglio bene Kess!» «Oh, tesori miei» disse Ira Hath abbracciandoli. «Oh, adorati miei.» Non distante da loro, inosservato per via della confusione e delle risa, Maslo Inch si diresse verso Mumpo e lentamente cadde in ginocchio davanti a lui. «Perdonami» gli disse con voce tremante. «Perdonarla?» disse Mumpo. «Perché?» «Tu sei figlio mio, ma ti ho respinto.» Per alcuni interminabili momenti Mumpo lo guardò attonito. Poi gli tese timidamente una mano; l'Esaminatore Capo la prese e se la portò alle labbra. «Papà» disse Mumpo. «Adesso ho degli amici.» Maslo Inch scoppiò in lacrime. «Davvero, figlio mio?» disse.
«Vuoi che te li presenti?» Incapace di parlare, l'Esaminatore Capo fece segno di sì. Mumpo lo prese per mano e lo condusse dalla famiglia Hath. «Kess» disse. «Dopo tutto ce l'ho anch'io, un padre.» Maslo Inch rimase davanti a loro a testa bassa, incapace di incontrare il loro sguardo. «Abbi cura di lui, Mumpo» gli disse Hanno Hath con il solito tono pacato e le braccia strette intorno ai suoi figli. «I papà hanno bisogno di tutto l'aiuto che i figli possono offrire.» L'Imperatore attraversò il doppio colonnato della gradinata superiore e rimase a guardare lo spettacolo caotico che si stava svolgendo nell'arena. La Voce del Cantore aleggiava nell'aria e l'Imperatore sentì il calore dei suoi poteri, distensivo come il sole dopo un lungo inverno. Aprì le braccia, fece un sorriso di felicità e gridò: «È così che deve essere! Ah! Una città deve essere rumorosa!» In quanto agli Zar, dal momento in cui il Cantore si era messo a cantare avevano cominciato a invecchiare. Immobili come statue, i loro bei lineamenti avvizzirono e gli occhi fanatici si incupirono. Le schiene cominciarono a ingobbirsi e i capelli d'oro a ingrigire e a cadere. In qualche minuto passarono anni e, a uno a uno, gli Zar si accasciarono a terra e morirono. Il tempo e la decomposizione, che a lungo li avevano risparmiati, si impadronirono di loro. La carne marcì sui loro corpi e divenne polvere. Sulle strade di Aramanth, il vento che cantava nel Cantore soffiò la polvere delle loro ossa e la trasportò con i suoi vortici nei giardini e nei canali di scolo, finché dell'invincibile armata del Morah non rimase che una lunga schiera di scheletri con la spada al fianco, scintillante al sole. FINE