ELIZABETH GEORGE IL LUNGO RITORNO (A Suitable Vengeance, 1991) A mio marito, Iran Toibin, con gratitudine per vent'anni ...
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ELIZABETH GEORGE IL LUNGO RITORNO (A Suitable Vengeance, 1991) A mio marito, Iran Toibin, con gratitudine per vent'anni di pazienza, sostegno e affetto. E a mio cugino, David Silvestri Di tutti i tristi impegni da imparare il più duro è saper dimenticare! Come obliar la colpa in buon giudizio, amar chi offese e odiare il malefizio? O separar l'amato dall'errore, distinguere il castigo dall'amore? Alexander Pope PARTE PRIMA Notti di Soho Prologo Tina Cogin sapeva sfruttare al massimo quel poco che aveva e le piaceva pensare che fosse un dono innato. Alcuni piani al di sopra del borbottio del traffico notturno, il profilo del suo corpo nudo si delineava distorto contro la parete della stanza in penombra, e lei sorrise della propria ombra che muovendosi creava forme sempre nuove di nero su bianco, simili a un test di Rorschach. E che test, pensò, accennando un gesto invitante. Che spettacolo per un maniaco! Con una mezza risatina di fronte alla propria autoironia si avvicinò al cassettone ed esaminò con affetto la collezione di biancheria. Si finse incerta, per protrarre il piacere, prima di scegliere un affascinante completo nero di seta e pizzo. Slip e reggiseno, di marca francese, con una saggia e discreta imbottitura. Li indossò, e le sue mani erano incerte, poco abituate a indumenti così delicati. Cominciò a canticchiare sommessamente, un suono gutturale privo di una melodia riconoscibile. Voleva essere un peana alla serata, a tre giorni e tre notti di libertà totale, all'emozione dell'avventurarsi nelle strade di Londra senza sapere esattamente cosa le sarebbe venuto dalle promesse di
quella tiepida notte di mezz'estate. Inserì una lunga unghia smaltata sotto il lembo sigillato di una confezione di calze, ma quando le fece scivolare fuori una si impigliò nelle sue dita ruvide e il filo si ruppe. Si concesse una breve, efficace imprecazione, liberò la calza e verificò i danni: una potenziale smagliatura in alto, sulla parte interna della coscia. Doveva fare più attenzione. Mentre infilava le calze socchiuse le palpebre con un sospiro di compiacimento. Come scorrevano morbide contro la pelle. Assaporò quella sensazione... come la carezza di un amante... e intensificò il piacere passandosi le mani dalle caviglie ai polpacci alle cosce fino alle anche. Muscoli saldi, pensò. E indugiò ad ammirare la propria linea nello specchio prima di prendere dal cassetto una sottoveste di seta nera. L'abito che tolse dall'armadio era nero. A collo alto, con maniche lunghe: lo aveva acquistato per il modo in cui aderiva al corpo, come tenebre liquide. Stretto in vita da una cintura, il corpetto tutto ricamato con perline nere. Un capo di Knightsbridge il cui costo, aggiunto a tutte le altre spese, aveva finito col precluderle il capriccio di prendere taxi per il resto dell'estate. Ma era un inconveniente trascurabile, in realtà. Tina sapeva che certe cose in ultima analisi rendono con gli interessi. Mise anche le scarpe, nere, a tacco alto, prima di accendere infine la lampada accanto al divano-letto illuminando così il semplice monolocale dotato del delizioso lusso di un bagno proprio. La prima volta che era venuta a Londra, tanti mesi prima - sposata da poco e in cerca di un rifugio sicuro -aveva commesso l'errore di prendere una camera in Edgware Road dove aveva diviso la stanza da bagno con tutto un piano di greci sorridenti e smaniosi di seguire i dettagli della sua igiene personale. Dopo tale esperienza l'idea di dividere anche solo un lavandino con un altro essere umano le era diventata inconcepibile, e sebbene la spesa in più di un bagno personale avesse costituito all'inizio un notevole ostacolo, era riuscita a superarlo con encomiabile abilità. Controllò un'ultima volta il trucco e approvò gli occhi ombreggiati in modo da metterne in risalto il colore e perfezionarne la forma, le sopracciglia ad arco, gli zigomi messi abilmente in rilievo così da ammorbidire il volto, le labbra definite con matita e rossetto per esprimere sensualità e attrarre l'attenzione. Spinse all'indietro i capelli - neri come il vestito - e passò le dita tra le brevi ciocche che ricadevano sulla fronte. Sorrise. Era in forma. Accidenti, in gran forma. Diede una rapida occhiata attorno, prese la borsetta che aveva buttato sul
letto e controllò che ci fossero solo il denaro, le chiavi, il nome del nightclub e le due bustine di plastica che contenevano la droga. Dopo di che uscì. Qualche breve momento in ascensore e infine si trovò in strada, ad aspirare i profumi misti della notte cittadina, il fermento di motori e umanità tipico di quella zona di Londra. Come sempre, prima di avviarsi in direzione di Praed Street, lanciò un'occhiata affettuosa alla liscia facciata di pietra della casa dove abitava, alle parole "Shrewsbury Court Apartments" che fungevano da epitaffio al di sopra della porta d'ingresso che si apriva sul suo nascondiglio e riparo, l'unico posto al mondo dove poteva essere se stessa. Si volse dirigendosi verso le luci della Paddington Station dove prese la District Line per Nottinghill Gate, e di là la Central fino a Tottenham Court Road con i suoi inebrianti miasmi di gas di scappamento e la folla invadente del venerdì sera. A passo svelto raggiunse Soho Square. Là brulicavano i frequentatori dei pornoshop della zona, a scambiarsi apprezzamenti osceni sulle eccitanti visioni appena godute di seni, cosce e altro ancora, con voci in cui si coglievano gli accenti più disparati. Una massa compatta di pruriginosi cacciatori di emozioni, e Tina sapeva che in un'altra occasione avrebbe potuto prenderne in considerazione uno o più, per un ameno incontro. Ma stasera era diverso. Era tutto definito. In Bateman Street, poco lontano dalla piazza, scorse l'insegna che cercava, oscillante al di sopra di una maleodorante trattoria italiana. Kat's Kradle, annunciava, con una freccia che puntava verso il vicolo buio subito accanto. Ortografia distorta in un tentativo furbesco di sembrare chic e che Tina trovava repellente. Ma non era stata lei a scegliere il luogo d'incontro, e così si diresse all'entrata discendendo la scaletta che, come il vicolo che ospitava il club, era sporca e puzzava di liquori, vomito e tubature guaste. Considerando gli orari dei night era ancora presto: i clienti del Kat's Kradle erano pochi e occupavano solo alcuni dei tavolini attorno alla pista da ballo formato francobollo. Poco più in là i componenti dell'orchestrina stavano eseguendo un malinconico pezzo di jazz per sassofono, piano e batteria mentre la cantante se ne stava appoggiata a uno sgabello di legno, a fumare con aria annoiatissima, in attesa del momento opportuno per affidare non si sa che voce al microfono lì accanto. Nel locale c'era un gran buio interrotto solo da un fievole proiettore azzurrino diretto sul gruppo, dalle candele sui tavoli e dalla luce del bar. Tina
si accostò a quest'ultimo, prese posto su uno sgabello, ordinò un gin e tonic, e riconobbe tra sé che, pur con tutto il sudiciume, quel posto era perfetto: il meglio che Soho poteva offrire per un incontro che doveva passare inosservato. Col bicchiere in mano, cominciò a esaminare i presenti: un primo sguardo da cui raccolse solo un'impressione di figure indistinte, una densa nube di fumo di sigarette, un'occasionale scintillio di gioielli, la breve fiammella di un accendino o un fiammifero. Chiacchiere, risate, passaggio di quattrini, coppie che oscillavano sulla pista. E poi lo scorse: un giovanotto che sedeva da solo al tavolo più lontano dalla luce. Ebbe un sorriso. Tipico di Peter scegliere un locale come quello, dove non avrebbe corso il rischio di essere scoperto dai familiari o dai suoi amici snob. Al Kat's Kradle non si sarebbe esposto alla riprovazione. Aveva scelto bene. Tina lo osservò, percorsa da una specie di formicolio mentre aspettava il momento in cui lui l'avrebbe individuata attraverso il fumo. Tuttavia, ignaro della sua presenza, lui teneva d'occhio solo l'ingresso passandosi nervosamente le dita tra i corti capelli biondi. Tina lo studiò con interesse per diversi minuti, lo vide ordinare e scolare due bicchieri uno dopo l'altro, notò che la sua bocca si induriva mentre guardava l'orologio, preso dalla smania crescente. Era vestito piuttosto male per essere il fratello di un conte: una logora giacca di pelle, jeans, e una maglietta con la scritta sbiadita "Hard Rock Cafe". Un orecchino d'oro gli pendeva da un lobo forato, e ogni tanto lo toccava quasi fosse un talismano. Si rosicchiava continuamente le unghie della sinistra e di tanto in tanto si batteva contro il fianco la destra stretta a pugno. Si alzò di scatto quando entrò un rumoroso gruppo di tedeschi, ma si lasciò ricadere sulla sedia quando fu chiaro che la persona che aspettava non era tra quelli. Pescò una sigaretta dal pacchetto preso dalla giacca, si frugò nelle tasche ma senza estrarne accendino o fiammiferi. Dopo un attimo spinse indietro la sedia e si diresse al bar. Vieni, vieni dalla mamma, pensò Tina sorridendo tra sé. Nella vita ci sono proprio cose predestinate. Quando il suo accompagnatore infilò la Triumph nel posteggio di Soho Square, Sidney St. James si rese conto di quanto lui avesse i nervi tesi. Era tutto rigido. Perfino le mani serravano il volante con una forza spasmodica che rivelava come il controllo fosse a un pelo dal cedere. Pure si sforzava di nasconderlo. Ammettere la propria necessità l'avrebbe avvicinato ad
ammettere la dipendenza. E lui non era un tossicodipendente. Non lui, Justin Brooke, ricercatore, bon vivant, direttore di progetti, elaboratore di proposte, destinato a riconoscimenti. — Hai lasciato i fari accesi — lo avvertì freddamente Sidney. Lui non rispose. — Ho detto i fari, Justin. Lui li spense. Sidney sentì che si voltava verso di lei e un attimo dopo avvertì le sue dita contro la guancia. Avrebbe voluto scostarsi quando la mano le percorse il collo scendendo a seguire la piccola curva del seno. Invece ci fu l'immediata reazione del suo corpo che si preparava a lui quasi fosse un'entità a sé. Poi un lieve tremore, figlio dell'ansia, nella mano di lui le disse che quella carezza era falsa, solo un breve tentativo di placarla prima di procedere al suo piccolo disgustoso acquisto. Lo respinse. — Sid. — Justin riuscì a esprimere una certa dose di carica sensuale, ma Sidney sapeva che era tutto proteso verso quel vicolo male illuminato all'altro capo della piazza. E non voleva farglielo capire. Si chinava su di lei come per dimostrarle che la cosa più importante non era il bisogno di droga ma il desiderio di averla. Raccolse le forze per resistere a quel contatto. Le labbra di lui, e poi la lingua, le sfiorarono il collo e le spalle. La mano si chiuse su un seno sollecitandola con carezze deliberate. La voce mormorò il suo nome. La fece voltare verso di sé. E, come sempre, fu un incendio, un perdersi, una bruciante rinuncia a ogni raziocinio. Sidney voleva il suo bacio, e socchiuse le labbra per riceverlo. Lui ebbe un gemito e si strinse più vicino, toccandola, baciandola. Lei mosse la mano lungo la coscia di Justin per accarezzarlo a sua volta. E poi seppe. Fu un brusco ritorno alla realtà. Si liberò dalla stretta fissandolo duramente nella fioca luce dei lampioni. — Magnifico, Justin. Pensavi che non me ne sarei accorta? Lui distolse lo sguardo e la furia di lei crebbe. — Vai pure a comperarti la tua maledetta roba. Per questo siamo venuti, no? O io avrei dovuto pensare che si trattava di tutt'altro? — Volevi che venissi a questo party, no? — replicò Justin. Il solito tentativo di scaricarsi di ogni colpa e responsabilità, ma questa volta Sidney si rifiutò di stare al gioco. — Non fare simili manovre con me. Non ci provare. Posso andarci anche per conto mio. — Perché non lo fai, allora? Perché mi hai telefonato, Sid? O forse non eri tu all'altro capo del filo, oggi pomeriggio, dolce come il miele e bramo-
sa di farti scopare al termine della serata? Lei lasciò che quelle parole restassero sospese nell'aria, sapendo che era la verità. Più volte, dopo aver giurato che ne aveva abbastanza di lui, era tornata sui suoi passi, odiandolo, disprezzandosi, ma pur sempre tornando. Era come se non possedesse una volontà slegata da quella di lui. E, maledizione, cos'era lui? Non appassionato. Non bello. Non simpatico. Niente di tutto ciò che un tempo aveva sognato di accogliere nel proprio letto. Era solo una faccia interessante su cui ogni lineamento pareva in lotta con tutti gli altri per dominare una maschera ossuta. Era una pelle olivastra. Era occhi dalle palpebre grevi. Era una sottile cicatrice che correva lungo la guancia. Era niente, niente... a parte un certo modo di guardarla, di toccarla, di farla sentire - lei con il suo corpo sottile, da ragazzo - sensuale e bellissima e fiammeggiante di vita. Era sconfitta. L'aria nell'auto pareva torrida e soffocante. — A volte mi dico che dovrei informarli — mormorò. — Pare che sia l'unico modo per venirne fuori. — Di che diavolo stai parlando? — Se i familiari, la ditta per cui uno lavora, scoprono la cosa, l'interessato si trova con le spalle al muro, e allora è costretto... La mano di Justin scattò, le afferrò il polso, lo torse. — Che non ti venga neppure in mente di dirlo a qualcuno. Giuro che se lo fai, Sid... se lo fai... — Smettila. Senti, non puoi continuare così. Quanto ci spendi, adesso? Cinquanta sterline al giorno? Cento? Di più? Justin, non possiamo neanche andare a un party senza che tu... Le lasciò bruscamente il polso. — E allora vattene. Trovati qualcun altro. Lasciami in pace. Quella era la soluzione, l'unica soluzione. Ma Sidney sapeva di non poterla accettare e si detestava perché probabilmente non ne sarebbe mai stata in grado. — Voglio solo aiutarti. — E allora tieni il becco chiuso, d'accordo? Lasciami andare in quello schifoso vicolo, comperare quel che devo e farla finita. — Spalancò la portiera e se la richiuse alle spalle, sbattendola. Era già arrivato a metà strada prima che Sidney scendesse a sua volta. — Justin... — Resta lì. — Il tono era più calmo. Non che lui si fosse placato, Sidney lo sapeva, ma nella piazza c'era la solita folla del venerdì sera a Soho, e Justin Brooke non era tipo che apprezzasse le scenate in pubblico.
Lei ignorò l'ordine e lo raggiunse in fretta, pur sapendo perfettamente che l'ultima cosa da fare era aiutarlo a procurarsi la droga. Si disse invece che senza di lei, ben attenta a far la guardia, Justin avrebbe potuto essere arrestato o peggio. — Vengo con te — disse quando gli fu vicino. Il volto di lui, teso e contratto, le fece capire che a quel punto non gli importava più nulla. — Come ti pare. — Si diresse all'imboccatura del vicolo in fondo alla piazza. Dei lavori in corso rendevano il vicolo ancor più oscuro e angusto. Sidney fece una smorfia cogliendo l'odore di urina che vi regnava. Peggio di quel che si era aspettata. Le case si profilavano sui due lati, buie e anonime. Le finestre erano protette da inferriate e i vani dei portoni ospitavano figure indistinte e mugolanti intente nei commerci illeciti che il quartiere pareva desideroso di favorire. — Justin, cosa intendi... Brooke fece un gesto di ammonimento. Rauche imprecazioni provenivano dall'altra estremità del passaggio, dove un muro di mattoni si protendeva, curvo, dal lato di un night formando un angolo riparato. Due figure si dibattevano a terra ma non era un incontro amoroso; era un'aggressione e la vittima era una donna vestita di nero che per corporatura e forza non pareva in grado di resistere a quell'attacco furibondo. — Tu, razza di... — L'uomo, biondo e fuori di sé dalla rabbia a giudicare dalla voce, martellava di pugni il volto, le braccia, lo stomaco della donna. Vedendoli, Sidney affrettò il passo e, quando Brooke cercò di fermarla, protestò: — No, è una donna — e corse avanti. Sentì la brusca esclamazione di Justin che la raggiunse quando era a meno di tre metri dai due a terra. — Stai indietro. Ci penso io — le disse in tono duro. Afferrò l'uomo per le spalle, artigliandone la giacca di pelle, e lo sollevò liberando così le braccia della vittima che istintivamente le alzò per proteggersi il volto. Brooke spinse indietro l'uomo. — Razza di idioti! Volete far arrivare la polizia? Sidney lo scostò. — Peter! Peter Lynley! Brooke passò lo sguardo dal giovanotto alla donna abbandonata sul fianco, con l'abito in disordine e le calze a brandelli. Si accosciò prendendole il volto tra le mani come per controllare l'entità delle ferite.
— Mio Dio — mormorò. Si rialzò, lasciandola, scosse il capo ed ebbe una breve risata aspra. La donna si sollevò sulle ginocchia. Allungò un braccio per recuperare la borsetta, ebbe un conato di vomito. Poi anche lei si mise a ridere. PARTE SECONDA Pomeriggi londinesi 1 Lady Helen Clyde era circondata da simboli di morte. Schierati sui tavoli, reperti provenienti da luoghi di delitti; fotografie di cadaveri appese alle pareti; macabri esemplari in bella mostra negli armadietti a vetro, e tra questi un memento particolarmente sgradevole: una ciocca di capelli con parte del cuoio capelluto della vittima. Ma a dispetto del clima sinistro dell'ambiente, i pensieri di lady Helen continuavano a volgersi al nutrimento del corpo. Tanto per distrarsi consultò la copia di un rapporto di polizia che si trovava sul banco lì vicino. — Tutto concorda, Simon. — Spense il microscopio. — B negativo, AB positivo, 0 positivo. Saranno soddisfatti, ti pare? — Hmmm — fu la risposta. I monosillabi erano tipici di lui quando era immerso nel lavoro ma la sua risposta adesso fu piuttosto irritante dato che erano le quattro passate del pomeriggio e da un quarto d'ora a quella parte lady Helen bramava un buon tè. Ignaro di questo particolare, Simon Allcourt-St. James cominciò ad aprire una serie di flaconi che aveva allineati di fronte a sé, contenenti minuscole fibre che intendeva analizzare puntando la sempre più solida reputazione di cui godeva come perito sulle proprie capacità di trarre una serie di fatti sulla base di infinitesimi frammenti intrisi di sangue. Riconoscendo gli stadi preliminari di un'analisi di tessuti, lady Helen ebbe un sospiro e si diresse alla finestra del laboratorio, aperta su quel tardo pomeriggio di giugno e affacciata, dall'ultimo piano della palazzina di St. James, su un piacevole giardino, racchiuso da un muro di mattoni, dove una vivida massa di fiori creava un'indisciplinata combinazione di colori. Sentieri e prato erano invasi dalla vegetazione. — Dovresti assumere qualcuno che si occupi del giardino — osservò
lady Helen. Sapeva benissimo che da tre anni a quella parte non era stato molto curato. E sapeva anche perché. — Già. — St. James prese delle pinzette e una scatola di vetrini. Dal basso, giunse il rumore di una porta che veniva aperta e richiusa. Finalmente, si disse lady Helen. E si concesse di immaginare Joseph Cotter che risaliva le scale dalla cucina nel seminterrato reggendo un vassoio carico di focaccine appena sfornate, pasticcini alle fragole, panna e tè. Purtroppo i suoni che seguirono - tonfi e trapestio e ansiti soffocati - non stavano a indicare l'imminente arrivo di generi di ristoro. Lady Helen aggirò uno dei computer di St. James per andare a sbirciare dal pianerottolo rivestito di pannelli di legno. — Che succede? — chiese St. James quando nella casa risuonò uno schianto secco di legno contro metallo che mal faceva presagire per la ringhiera delle scale. Scese goffamente dallo sgabello e la gamba sinistra, chiusa nell'apparecchio ortopedico, toccò il pavimento con un colpo sordo. — È Cotter. Alle prese con un baule e un pacco. Posso darle una mano, Cotter? Cosa sta portando su? — Posso cavarmela, milady — fu l'obliqua risposta di Cotter, tre piani più sotto. — Ma che diamine... — lady Helen sentì che St. James si allontanava bruscamente dalla porta per tornare al lavoro, come se quell'interruzione non ci fosse stata e Cotter non avesse bisogno di aiuto. Poi ebbe la spiegazione. Mentre Cotter trasportava il suo fardello lungo il primo pianerottolo, un fascio di luce che filtrava dalla finestra cadde sul grande autoadesivo fissato al baule. Anche dall'ultimo piano lady Helen poté leggervi la dicitura in stampatello: D. COTTER - USA. Deborah era di ritorno, e mancava molto poco a quel che pareva. E tuttavia St. James si dedicava alle sue fibre e vetrini come nulla fosse. Era già chino sul microscopio, intento a metterlo a fuoco. Lady Helen discese le scale. Cotter si schermì. — Ce la faccio — dichiarò. — Non si disturbi. — Mi piace disturbarmi. Come a lei. Cotter sorrise: quella fatica era dovuta al suo affetto di padre per la figlia che tornava a casa, e lady Helen lo sapeva. Le passò il pacco largo e basso che si sforzava di tenere sotto il braccio. Ma non lasciò il baule. — Deborah è in arrivo? — chiese lady Helen a bassa voce. — Sì. Stasera — rispose Cotter nello stesso tono. — Simon non me ne ha fatto parola.
Cotter afferrò meglio il baule. — Non c'era da aspettarselo, le pare? — replicò tetro. Risalirono le ultime rampe. Cotter trasportò il baule fino alla stanza della figlia, sulla sinistra del pianerottolo, mentre lady Helen si fermava sulla soglia del laboratorio. Appoggiò il pacco alla parete e vi tamburellò sopra le dita, soprappensiero, sbirciando l'amico. St. James non alzò lo sguardo. Quella era sempre stata la sua difesa più efficace. Banchi di lavoro e microscopi erano diventati bastioni che nessuno poteva scalare; la sua attività indefessa era l'analgesico che attutiva il dolore della perdita; lady Helen esaminò il laboratorio vedendolo in quel momento non come il centro della vita professionale di St. James ma come il rifugio che era diventato. Era un vasto locale in cui regnava un vago odore di formaldeide; pareti coperte da tavole anatomiche, grafici, scaffali; un vecchio pavimento di legno cigolante; al soffitto, un lucernario da cui filtravano lattiginosi i raggi del sole a dare un calore impersonale. L'arredamento era costituito da tavoli molto segnati, alti sgabelli, microscopi, computer, e tutta una serie di attrezzature per l'analisi di qualsiasi cosa, dal sangue ai proiettili. Su un lato una porta dava nella camera oscura di Deborah. Ma quella porta era rimasta chiusa per tutti gli anni dell'assenza di lei. Lady Helen si chiese come avrebbe reagito St. James se adesso la ragazza l'avesse riaperta, in un'inevitabile invasione dei recessi del suo cuore. — Deborah torna stasera, Simon? Perché non me l'hai detto? St. James tolse un vetrino dal microscopio e lo sostituì con un altro, regolando l'apparecchio per avere un ingrandimento maggiore. Dopo aver studiato per qualche attimo il campione prese alcuni rapidi appunti. Lady Helen si accostò al banco e spense l'apparecchio. — Deborah sta per tornare. Tu non hai fatto neppure un accenno in merito in tutta la giornata. Si può sapere perché, Simon? Invece di rispondere, St. James lanciò un'occhiata verso la porta. — Sì, Cotter? Lady Helen si volse. Cotter era fermo sulla soglia, accigliato, e si asciugava la fronte con un fazzoletto. — Non è necessario che vada a prendere Deb all'aeroporto, stasera, signor St. James — disse in fretta. — Ci pensa lord Asherton. E io l'accompagno. Mi ha telefonato meno di un'ora fa. È tutto sistemato. L'unica immediata risposta all'annuncio di Cotter venne dalla pendola a muro; da fuori giunse il pianto dirotto e rabbioso di un bambino. Poi St. James si limitò a dire: — Bene. Non mi dispiace. Ho una monta-
gna di lavoro da sbrigare. Lady Helen fu presa da quello sgomento che di solito si accompagna a un'esclamazione di protesta. Nel mondo che lei conosceva stavano insinuandosi elementi infausti che ne alteravano i contorni. Passò lo sguardo da St. James a Cotter, con una domanda che le bruciava sulle labbra, ma l'atteggiamento dei due la trattenne. Era chiaro che Cotter avrebbe voluto aggiungere dell'altro. Pareva aspettare che St. James aggiungesse qualche commento che gli permettesse di farlo, ma questi si limitò a passarsi una mano tra gli scompigliati capelli bruni e Cotter accennò a voltarsi. — Torno al mio lavoro, allora — e, dopo un breve cenno del capo, uscì. Ma le spalle erano curve e il passo pesante. — Fammi capire — disse lady Helen. — Tommy va a prendere Deborah all'aeroporto. Tommy. Non tu? Era una domanda abbastanza ragionevole. Thomas Lynley, lord Asherton, era un vecchio amico di St. James e di lady Helen, e un collega, inoltre, visto che da dieci anni faceva parte del Criminal Investigations Department di New Scotland Yard. In entrambe queste vesti aveva frequentato spesso la casa di St. James in Cheyne Row; ma da quando in qua, si chiedeva lady Helen, conosceva abbastanza bene Deborah Cotter da essere quello che andava all'aeroporto per riaccompagnarla a casa, al suo ritorno dopo tre anni? Al punto da telefonare tranquillamente al padre di lei, organizzando la cosa come se... cosa diamine era Tommy per Deborah? — È andato in America a trovarla — spiegò St. James. — Parecchie volte. Non te l'ha mai detto, Helen? — Santo cielo — lady Helen era sconcertata. — E tu come fai a saperlo? Di sicuro non è stata Deborah a informarti. Quanto a Tommy, sa benissimo che sei sempre... — Me lo ha comunicato Cotter, l'anno scorso — l'interruppe St. James. — Immagino che da parecchio si chieda quali siano le intenzioni di Tommy, come farebbe qualsiasi padre. Quel tono asciutto, distaccato, diceva infinitamente più di qualsiasi commento esplicito. Lei si sentì stringere il cuore. — Sono stati terribili, per te, questi tre anni senza di lei, vero? St. James avvicinò un altro microscopio che si trovava poco più in là e si concentrò sull'asportazione di un granello di polvere che aderiva cocciutamente all'oculare. Lady Helen lo osservava notando chiaramente come il trascorrere del tempo e la sua disgraziata menomazione stessero riuscendo, anno dopo
anno, a farlo sentire meno uomo. Avrebbe voluto dirgli quanto era sbagliata questa valutazione, convincerlo che era cosa di ben scarso peso. Ma un simile intervento poteva somigliare troppo alla compassione e lei non intendeva ferirlo con una pietà che lui certo non desiderava. Lo sbattere della porta d'ingresso, al piano terra, le risparmiò di dover dire qualcosa. Seguirono dei passi rapidi che risalirono a precipizio le tre rampe di scale senza la minima sosta per riprendere fiato ad annunciare l'unica persona dotata dell'energia necessaria per superare quella ripida ascesa in così breve tempo. — Sapevo che vi avrei trovati qui — dichiarò Sidney St. James sfiorando con un bacio la guancia di lui. Si lasciò cadere su uno sgabello e si rivolse all'amica del fratello commentando a mo' di saluto: — Magnifico quel vestito, Helen. Nuovo? Ma come fai ad avere quell'aria impeccabile alle quattro e un quarto del pomeriggio? — A proposito di aria impeccabile... — St. James diede un'occhiata all'inconsueto abbigliamento della sorella. Sidney si mise a ridere. — Calzoni di pelle. Che te ne pare? E c'è anche una pelliccia, ma quella l'ho lasciata dal fotografo. — Un abbinamento piuttosto caldo per l'estate — osservò lady Helen. — Mostruoso, vero? — convenne Sidney allegrissima. — Mi hanno tenuta inchiodata sull'Albert Bridge a partire dalle dieci di stamattina, in calzoni di pelle, pelliccia e nient'altro. Inerpicata in cima a un taxi del Cinquantuno con l'autista... vorrei proprio sapere dove vanno a prenderli certi modelli... che mi guardava ghignando come un pervertito. Ah, sì, e un po' di au naturel che si intravedeva qua e là. Il mio au naturel, intendiamoci. L'autista doveva limitarsi a fare la parte di Jack lo Squartatore. Mi sono fatta prestare questa camicia da uno dei tecnici. Adesso siamo in pausa, così ho pensato di fare un salto qui. — Si guardò attorno. — Be'. Sono le quattro passate. Dov'è il tè? St. James accennò al pacco che lady Helen aveva lasciato appoggiato al muro. — Ci trovi in pieno marasma, quest'oggi. — Deborah torna a casa stasera, Sid — disse lady Helen. — Ne eri al corrente? Sidney si illuminò in volto. — Sul serio? Finalmente! Allora là dentro devono esserci un po' delle sue foto. Magnifico! Diamo un'occhiata. — Guizzò giù dallo sgabello, diede una scrollatina al pacco come fosse un regalo di Natale, e con perfetta naturalezza cominciò ad aprirlo. — Sidney — l'ammonì St. James.
— Figurati. Sai benissimo che non avrà niente da ridire. — Buttò da parte la solida carta marrone, slegò lo spago di una cartelletta scura e prese la prima del grosso fascio di foto che si trovava all'interno. L'esaminò con attenzione emettendo un fischio sommesso. — Santo cielo, mai stata così brava con una macchina fotografica, Deb — passò la stampa a lady Helen e continuò a passare in rassegna le altre. Io al bagno. Queste tre parole erano tracciate con grafia disordinata sul margine inferiore della foto. Era un nudo di Deborah, di tre quarti rispetto all'obiettivo. Aveva composto l'immagine con autentica abilità: una bassa tinozza d'acqua; l'arco delicato del dorso; un tavolino su cui erano una brocca, spazzole da capelli e pettine; la luce soffusa colpiva il braccio e il piede sinistro, la curva della spalla. Con la macchina fotografica e usando se stessa come modella, aveva creato una replica de La tinozza di Degas. Era un'immagine squisita. Alzando lo sguardo, lady Helen vide St. James annuire, come approvando. Poi lui tornò al tavolo e cominciò a scartabellare tra una pila di referti. — Allora, lo sapevate? — stava chiedendo Sidney, impaziente. — Sapevamo, cosa? — domandò lady Helen. — Che Deborah ha una storia con Tommy. Tommy Lynley! Me l'ha detto la cuoca della mamma, credeteci o no. A sentir lei, Cotter è assolutamente contrario. Dico, Simon, dovresti vedere di farlo ragionare. E anche Tommy, del resto. Mi sembra del tutto sleale da parte sua preferire Deborah a me. — Tornò a occupare il suo sgabello facendolo roteare. — A proposito. Devo raccontarvi di Peter. Lady Helen provò un certo sollievo a questo mutar d'argomento. — Peter? — ripeté, incoraggiante. — Pensate un po'. Peter e una signora della notte... tutta abbigliata in nero con lunghi capelli corvini stile turista della Transilvania... colti in flagrante delicto in un vicolo di Soho! — Peter, il fratello di Tommy? — Lady Helen cercò conferma, conoscendo la tendenza di Sidney a trascurare i particolari di rilievo. — Ma non è possibile. Si trova a Oxford, no? — Pareva interessarsi a cose molto più affascinanti dei suoi studi. Al diavolo storia, letteratura e storia dell'arte. — Ma che stai dicendo, Sidney? — chiese St. James mentre lei scivolava giù dallo sgabello e cominciava ad aggirarsi per il laboratorio come un cucciolo.
Sidney accese il microscopio di lady Helen e diede un'occhiata. — Caspita! Cos'è? — Sangue — l'informò l'altra. — Allora, Peter Lynley? Sidney regolò il fuoco. — È stato... lasciami pensare. Venerdì sera. Sì, lo so perché venerdì dovevo andare a un deprimente cocktail party nel West End, e quella è stata la sera in cui ho visto Peter. A terra in un vicolo. Ad azzuffarsi con una prostituta! Sai come sarebbe contento Tommy se venisse a saperlo! — Da un anno in qua Tommy non ha nessun motivo di essere contento di Peter — dichiarò lady Helen. — Come se Peter non lo sapesse! — Sidney rivolse un'occhiata imbronciata al fratello. — E il tè? C'è qualche speranza? — Sempre. Finisci la tua saga. Sidney fece una smorfia. — Non c'è molto altro da raccontare. Justin e io siamo arrivati mentre Peter era alle prese con quella donna in un passaggio buio. Le stava dando una scarica di pugni in faccia, per la precisione, e Justin li ha separati. La donna... questo è stato strano... ha cominciato a ridere e ridere. Un attacco isterico, immagino. Ma prima che potessimo accertarci che non avesse niente di rotto se l'è filata. Così abbiamo accompagnato Peter a casa sua. Uno squallido appartamentino dalle parti di Whitechapel, Simon, con una ragazza dagli occhi gialli e dei jeans luridi che aspettava Peter seduta sui gradini d'ingresso — Sydney lasciò il microscopio. — Comunque Peter non ha detto una parola di Tommy, né di Oxford né d'altro. Forse era imbarazzato. Di sicuro l'ultima cosa che si aspettava era di farsi beccare da persone di sua conoscenza mentre si rotolava in un vicolo. — E tu che ci facevi da quelle parti? — chiese St. James. — O è stata un'idea di Justin? Sidney evitò il suo sguardo. — Pensi che Deb sarebbe disposta a farmi una serie di foto? Dovrò cominciare a mettere insieme un nuovo book adesso che mi sono tagliata i capelli. Non ne hai detto niente, Simon, e pensare che sono più corti dei tuoi. St. James non si lasciava distrarre così facilmente. — Non ne hai abbastanza di Justin Brooke? — Helen, come ti sembro? — Allora, Brooke? Sidney lanciò un'occhiata di scusa a lady Helen prima di affrontare il fratello. La somiglianza fra loro era straordinaria: gli stessi capelli neri e
ondulati, i medesimi lineamenti aquilini, gli identici occhi azzurri. Immagini speculari e opposte: la vivacità di una era sostituita nell'altro da una quiete rassegnata. Fotografie prima-e-dopo, il passato e il presente, legate da un innegabile vincolo di sangue. Tuttavia la risposta di Sidney parve volerlo rinnegare. — Non farmi da chioccia, Simon. I rintocchi della pendola riscossero St. James dal sonno. Erano le tre di mattina. Per qualche istante si chiese dov'era, poi un doloroso crampo al collo lo destò completamente. Si mosse nella poltrona e si alzò con movimenti lenti, faticando a raddrizzarsi. Si diresse alla finestra dello studio, cercando di stiracchiarsi, e contemplò Cheyne Row. Il fogliame degli alberi, argenteo sotto la luna, sfiorava le case restaurate di fronte alla sua, il Carlyle Museum, l'angolo della chiesa. Negli ultimi anni quel quartiere lungo il fiume aveva attraversato una fase di rinascita che l'aveva sottratto al suo passato bohémien per condurlo in un futuro sconosciuto. St. James lo amava molto. Tornò alla sua poltrona. Nel bicchiere sul tavolino restava un dito di brandy. Lo vuotò, spense la luce e lasciò lo studio percorrendo poi lo stretto corridoio verso le scale. Salì lentamente i gradini, trascinando la gamba rigida, afferrandosi al corrimano per sostenere quel peso morto. Scosse il capo pensando a quell'illusa, solitaria attesa. Cotter era rientrato diverse ore prima, ma sua figlia si era trattenuta solo per poco, restando sempre in cucina. Dal suo studio St. James aveva sentito le risate di lei, la voce di suo padre, i latrati del cane. Era arrivato perfino a immaginare il gatto di casa che saltava giù dal davanzale per darle il benvenuto. Quella riunione di famiglia era durata circa mezz'ora. Poi, invece di Deborah che veniva a salutarlo, nello studio era comparso Cotter ad annunciare con imbarazzo che lei era nuovamente uscita con lord Asherton. Thomas Lynley. Il più vecchio amico di St. James. Il disagio di Cotter non aveva fatto che peggiorare una situazione già difficoltosa. — Ha detto che sta via solo poco. Che rientra presto. Ha detto che... St. James avrebbe voluto fermare quelle parole ma non sapeva come. Aveva risolto la cosa guardando l'orologio e dichiarando che intendeva andare a coricarsi. Cotter si era eclissato. Sapendo che non sarebbe riuscito a prendere sonno, era rimasto nello
studio cercando di occupare la mente con una rivista scientifica mentre le ore passavano e lui aspettava l'arrivo di Deborah. La parte saggia di lui ripeteva che un loro incontro, adesso, non aveva senso. La parte sciocca si struggeva dal desiderio, in un tumulto di sentimenti. Che idiozia, si disse, continuando a risalire le scale. Ma, come se il suo corpo volesse contraddire il raziocinio, si diresse non alla sua stanza ma a quella di Deborah, all'ultimo piano. L'uscio era aperto. Era un locale piccolo, invaso da mobili. Un vecchio armadio di rovere, amorosamente lucidato. Sul tavolino da toeletta, un vaso Belleek a bordi rosa. Un tappeto dai colori un tempo vivaci, fatto dalla madre di Deborah solo dieci mesi prima della sua morte, disegnava un ovale sul pavimento. Presso la finestra, il letto di ottone dove Deborah aveva dormito sin dall'infanzia. St. James non aveva mai messo piede in quella stanza nei tre anni in cui lei era stata via. E adesso vi entrò con riluttanza, dirigendosi alla finestra spalancata, con le tendine bianche mosse dalla brezza. Anche da quell'altezza poteva cogliere il profumo dei fiori nel giardino. Era lieve, come uno sfondo discreto sull'affresco della notte. Mentre aspirava quella sottile fragranza un'auto color argento svoltò l'angolo della Cheyne Road per andare a fermarsi davanti al vecchio cancello del giardino. St. James riconobbe la Bentley e l'uomo al volante che ora si girò verso la ragazza al suo fianco prendendola tra le braccia. Il chiaro di luna illuminava l'interno dell'auto. Sotto lo sguardo di St. James, incapace di staccarsi dalla finestra anche se l'avesse voluto - e non lo voleva - la testa bionda di Lynley si chinò su Deborah. Lei sollevò le braccia toccandogli prima i capelli e poi il volto, attirandolo a sé. St. James si costrinse a spostare lo sguardo dall'auto al giardino. Gli occhi gli bruciavano. Perfino la pelle pareva dolergli. Ascoltò i battiti del proprio cuore. Conosceva Deborah dal giorno in cui era nata. Era cresciuta lì, nella palazzina di Chelsea, come parte integrante della famiglia, figlia dell'uomo che per St. James era infermiere, maggiordomo, cameriere personale, amico. Nel periodo più buio della sua esistenza lei gli era rimasta costantemente vicino e la sua presenza lo aveva salvato dai neri baratri della disperazione. Ma adesso... Aveva fatto la sua scelta, rifletté, e cercò di convincersi, di fronte a questo fatto, di non provare nulla, di poter accettare la cosa, di potersi rasse-
gnare, di poter andare avanti. Attraversò il pianerottolo e passò nel laboratorio dove accese una lampada che proiettò un cerchio di luce su un referto tossicologico. Trascorse alcuni minuti a sforzarsi di leggere quelle pagine - miserevole tentativo di darsi una parvenza di normalità - prima di sentire il motore dell'auto che veniva riacceso, e poco dopo i passi di Deborah nell'anticamera. Accese un'altra luce e andò alla porta provando un'ansia improvvisa, il bisogno di trovar qualcosa da dire, una giustificazione per il fatto di essere ancora in piedi, vestito di tutto punto, alle tre del mattino. Ma non ebbe il tempo di riflettere perché Deborah salì le scale quasi con la stessa rapidità di Sidney ponendo così fine alla loro separazione. Raggiunse l'ultimo pianerottolo e vedendolo ebbe un sussulto. — Simon! Al diavolo la rassegnazione. Tese una mano e lei gli andò tra le braccia. Era perfettamente naturale. Quello era il suo posto. Lo sapevano entrambi. Senza altri pensieri St. James abbassò il capo cercandole la bocca e incontrando invece la massa dei capelli di lei. Vi si attardava ancora l'aroma inconfondibile delle sigarette di Lynley, a rammentargli duramente cos'era stata e cosa era diventata Deborah. Quell'odore lo riportò alla realtà, e si staccò da lei. Si accorse che il tempo e la lontananza lo avevano indotto ad attribuirle requisiti fisici che non possedeva, e ammise ciò che aveva sempre saputo. In base ai criteri convenzionali Deborah non era bella. Non possedeva la figura levigata, aristocratica di Helen. Né aveva i lineamenti interessanti di Sidney. Era invece un amalgama di calore umano e affettività, intuito e umorismo, qualità che si rispecchiavano nell'espressione animata, nella massa caotica dei capelli ramati, nelle lentiggini spruzzate sul naso. Ma erano sopravvenuti dei cambiamenti. Era dimagrita e sotto l'atteggiamento controllato parevano esserci inesplicabili, illusorie vene di rimpianto. Ma gli si rivolse come sempre. — Hai lavorato fino a tardi? Non sarai rimasto ad aspettarmi? — Era l'unico sistema per convincere tuo padre ad andare a letto. Pensava che Tommy potesse rapirti questa notte stessa. Deborah si mise a ridere. — Sì, c'è da aspettarselo da papà. Lo pensavi anche tu? — Una sciocchezza, da parte di Tommy, non farlo. St. James si stupì della perfetta falsità delle loro parole. Con un semplice, rapido abbraccio avevano messo elegantemente in disparte i motivi veri
per cui Deborah aveva lasciato l'Inghilterra, come avessero stabilito di comune accordo di recitare il loro rapporto di un tempo, a cui, entrambi lo sapevano, non avrebbero mai potuto tornare. Per il momento, tuttavia, anche un'amicizia spuria era meglio del distacco. — C'è una cosa per te. La precedette attraverso il laboratorio e aprì la porta della camera oscura. La mano di lei cercò l'interruttore e St. James avvertì il suo ansito di sorpresa alla vista del nuovo ingranditore per la stampa a colori al posto del precedente, per il bianco e nero. — Simon! — Si mordicchiava la parte interna del labbro. — È... Che pensiero gentile... ma non dovevi... e mi hai perfino aspettata alzato... — Sul suo volto comparvero macchie di rossore a rammentargli che Deborah non aveva mai avuto dalla sua espedienti o artifici a cui ricorrere nei momenti di confusione. La maniglia, sotto le sue dita, era scivolosa e fredda. St. James aveva creduto che, nonostante gli avvenimenti passati, sarebbe stata Jieta di quel regalo. Invece no. Era costernata. Come se con quell'acquisto lui avesse inavvertitamente oltrepassato una tacita linea di confine tra loro. — Volevo darti il benvenuto — mormorò. Lei non disse nulla. — Ci sei mancata. Deborah passò una mano sull'ingranditore. — Prima di partire ho fatto una mostra, a Santa Barbara. Lo sapevi? Tommy te ne ha parlato? Gli ho telefonato per dirglielo perché, be', è una di quelle cose che si sognano sempre, ti pare? Gente che arriva, e apprezza... addirittura compra.... ero così emozionata. Per le stampe mi ero servita di un ingranditore della scuola, e continuavo a chiedermi come avrei fatto a comperare l'attrezzatura che mi serviva... E tu hai pensato a tutto! — Si guardò attorno: le bottiglie delle soluzioni, le scatole delle varie carte da stampa, le bacinelle per i bagni di sviluppo e fissaggio. Si portò le dita alle labbra. — L'hai rifornita di tutto. Oh, Simon, è più di quanto... davvero, non mi sarei mai aspettata una cosa del genere. C'è... assolutamente tutto quel che può servirmi. Grazie. Sul serio. Prometto che tornerò qui ogni giorno a lavorare. — Tornerai...? — St. James si interruppe, rendendosi conto che avrebbe dovuto intuire come sarebbero andate le cose quando li aveva visti insieme nell'auto. — Non lo sai? — Deborah spense la luce e passò nel laboratorio. — Ho un appartamentino a Paddington. Me l'ha trovato Tommy, in aprile. Non te l'ha detto? Neanche papà? Mi ci trasferisco domani.
— Domani? Vuoi dire... subito? Oggi? — Hai ragione, è già oggi. Saremo in pezzi se non ci facciamo qualche ora di sonno. Buonanotte, allora. E grazie, Simon. Grazie infinite. — Premette brevemente la guancia contro quella di lui, gli diede una piccola stretta alla mano e se ne andò. E così è finita, pensò St. James, seguendola con sguardo inespressivo. Poi si avviò alle scale. Nella sua stanza, lo sentì salire. A neppure un metro dalla sua porta chiusa, Deborah ne ascoltò 1 passi. Era un suono che aveva scolpito nella memoria, che l'avrebbe accompagnata fino alla tomba. Il posarsi leggero della gamba sana, il tonfo sordo di quella senza vita. Il movimento della mano, contratta e sbiancata, lungo la ringhiera. Il respiro trattenuto nello sforzo di mantenere un equilibrio precario. E tutto ciò con un volto che non tradiva nulla. Attese fino a che sentì richiudersi la porta al piano di sotto prima di allontanarsi dalla sua, poi si accostò - come aveva fatto lui poco prima, ma lei non poteva saperlo - alla finestra. Tre anni, pensò. Come era possibile che fosse ancora più magro, più scarno e malato; un volto sciupato, segnato, angoloso che recava incisa una stona di sofferenze. I capelli sempre troppo lunghi. Ne rammentava la morbidezza, sotto le sue dita. Occhi tormentati che le parlavano anche quando lui non diceva nulla. La bocca che si posava teneramente sulla sua. Mani sensibili che seguivano la linea della sua guancia, che l'attiravano tra le sue braccia. — No. Basta. Deborah sussurrò in tono calmo queste parole all'alba imminente. Volse le spalle alla finestra, allontanò la sopraccoperta dal letto e si stese, completamente vestita. Non pensarci, si ordinò. Non pensare a niente. 2 Era sempre lo stesso terribile sogno: una passeggiata da Backbarrow a Greendale Tarn, sotto una pioggia così fresca e pura da poter essere solo magica. Risalire le rocce affioranti, correre agilmente attraverso l'aperta brughiera, a scivoloni giù per il declivio fino ad arrivare, senza fiato e ridente, all'acqua in basso. L'euforia, quell'esuberanza di energie, il pulsare
della vita a fluirgli in tutto il corpo e che avvertiva - l'avrebbe giurato - anche nel sonno. E poi destarsi, con un improvviso nodo allo stomaco, in pieno incubo. Disteso nel letto a fissare il soffitto, a imporsi di ignorare la desolazione. Ma mai del tutto capace di relegare il dolore nell'indifferenza. La porta venne aperta e comparve Cotter con il vassoio del tè. Lo depose sul tavolino accanto al letto e lanciò una breve occhiata a St. James prima di andare ad aprire le tende. La luce del mattino fu come una scarica elettrica dagli occhi al cervello. St. James sentì il proprio corpo sussultare. — Vado a prenderle la medicina — disse Cotter. Si trattenne quanto bastava per riempire una tazza di tè, poi scomparve nel bagno attiguo. Rimasto solo, St. James si sollevò faticosamente a sedere, trasalendo ai rumori assurdamente amplificati dal martellio che avvertiva nella testa. Il richiudersi dell'armadietto dei medicinali fu come uno sparo di fucile, l'acqua che scorreva della vasca un ruggito di locomotiva. Cotter ricomparve con un flaconcino in mano. — Due di queste la rimetteranno in sesto. — Consegnò le compresse e non aggiunse altro fino a che St. James non le ebbe buttate giù. Poi, noncurante: — Ha visto Deb, poi, stanotte? E, come se la risposta non gli stesse veramente a cuore, tornò nel bagno dove, St. James lo sapeva, avrebbe controllato la temperatura dell'acqua che andava riempiendo la vasca. Era una finezza del tutto superflua, un gesto inteso a dar credibilità al tono in cui Cotter aveva posto la domanda. Recitava la parte del cameriere personale, con parole e gesti che dovevano stare a indicare un disinteresse che non provava. St. James mise lo zucchero nel tè e ne bevve alcuni sorsi. Poi si addossò al cuscino in attesa che l'analgesico facesse effetto. Cotter riemerse dalla stanza da bagno. — Sì. L'ho vista. — Un po' cambiata, non trova? — Era prevedibile. È stata via parecchio. — St. James aggiunse altro tè alla tazza e si costrinse ad affrontare quegli occhi in attesa. L'espressione di Cotter gli fece capire che il non aggiungere altro equivaleva a incoraggiare apertamente rivelazioni che avrebbe preferito lasciare nell'ombra. Ma Cotter non si mosse. Erano giunti a un punto morto. St. James cedette. — Di che si tratta?
— Lord Asherton e Deb! — Cotter si passò una mano sui radi capelli. — Sapevo che prima o poi Deb si sarebbe scelta un uomo, signor St. James. So come va la vita. Ma sapendo anche quel che ha sempre provato per... be', probabilmente mi figuravo che... — la sua sicurezza parve venir meno. Indugiò a togliersi un peluzzo dalla manica. — Sono in pensiero. Cosa può volere da Deb un uomo come lord Asherton? Sposarla, è chiaro. La risposta si presentò immediata, ma St. James non la pronunciò pur sapendo che in tal modo avrebbe dato a Cotter la pace che desiderava. Si scoprì invece con la voglia di metterlo in guardia contro Lynley, di descrivergli il suo vecchio amico come una specie di Dorian Gray. Una tentazione che lo disgustò. Si limitò a dire: — Non quel che pensa lei, probabilmente. Cotter fece scorrere le dita lungo lo stipite, come per controllare eventuali tracce di polvere. Annuì, ma la sua espressione restò poco convinta. St. James afferrò le stampelle e si mise in piedi facendo qualche passo con la speranza che Cotter, di fronte a tale iniziativa, considerasse chiusa la conversazione. Ma il piano fallì. — Deb si è presa un appartamento a Paddington. Gliel'ha detto? Lord Asherton la mantiene, come fosse una donnaccia. — Lo escludo — ribatté St. James infilando la vestaglia che Cotter gli reggeva. — E che denaro ha, Deb? — replicò Cotter. — Chi provvede all'affitto, se non lui? St. James entrò nel bagno dove lo scroscio dell'acqua lo avvertì che Cotter, agitato com'era, si era scordato che la vasca stava rapidamente riempiendosi. Chiuse il rubinetto e cercò una strada per metter fine alla discussione. — Allora deve discuterne con lei, Cotter, se è questo che pensa. Così si mette l'animo in pace. — Se è questo che penso io? È quel che pensa anche lei, signor St. James. Glielo leggo chiaro in faccia — Cotter andava infervorandosi. — Ho cercato di parlare con Deb, ma è stato impossibile. Se n'è uscita con lui prima che potessi affrontare l'argomento. E questa mattina di nuovo. — Di già? Con Tommy? — No. Da sola, stavolta. È andata a Paddington. — La raggiunga, allora. Le parli. Magari a Deb farà piacere stare un po' a quattr'occhi con suo padre. Cotter l'oltrepassò e cominciò a disporre, con scrupolo eccessivo, l'oc-
corrente per radersi. St. James lo sogguardava, intuendo che il peggio era da venire. — Un bel discorso a cuore aperto, sicuro. Proprio quel che ho in mente. Ma non è opportuno che affronti io la ragazza. Un padre è troppo legato. Lei mi capisce. Eccome. — Non avrà in mente... — Deb le è molto affezionata. Da sempre. — Il volto di Cotter esprimeva chiara la sfida sottintesa. Non era tipo da tirarsi indietro di fronte al ricatto emotivo se questo lo avviava nella direzione in cui, a suo parere, e in compagnia di St. James, doveva viaggiare. — Se solo la mettesse in guardia. Non chiedo altro. Metterla in guardia? E come? Ascolta, Deborah, vedi di non aver nulla a che fare con Tommy. Altrimenti, Dio ti protegga, potresti anche rischiare di diventare sua moglie. Neanche da pensarci. — Basterebbe una parola — insistette Cotter. — Deb ha fiducia in lei. Come me. St. James ricacciò un sospiro rassegnato. Al diavolo la totale fedeltà di Cotter durante gli anni della sua malattia. Accidenti al fatto che gli dovesse tanto. Viene sempre il giorno della resa dei conti. — Va bene. Magari quest'oggi troverò un momento libero, se ha l'indirizzo. — Certo che l'ho. Vedrà: Deb le sarà grata di quel che potrà dirle. Come no, commentò sarcastico tra sé St. James. L'edificio in cui si trovava l'appartamento di Deborah si chiamava Shrewsbury Court Apartments. St. James lo trovò abbastanza facilmente in Sussex Gardeas. Restaurato da poco, era una costruzione alta con la facciata di immacolata pietra Portland, una cancellata sul davanti e uno stretto passaggio di cemento che, superando come un ponte lo spazio dell'accesso agli appartamenti al di sotto del livello stradale, conduceva alla porta d'ingresso. St. James premette il pulsante accanto al nome Cotter. L'apriporta scattò permettendogli di entrare nel piccolo atrio dal pavimento in piastrelle bianche e nere. Come l'esterno dell'edificio, era scrupolosamente pulito e un vago odore di disinfettante dichiarava che tale intendeva restare. Non c'erano arredi di sorta, solo un corridoio che portava agli appartamenti del piano terra, una porta con un cartello discreto che recava, scritta a mano, la parola concierge - quasi che un vocabolo straniero potesse garantire la ri-
spettabilità del palazzo - e un ascensore. Deborah abitava all'ultimo piano. Mentre vi saliva, St. James meditava sull'assurdità della posizione in cui Cotter l'aveva messo. Deborah era una persona adulta ormai. Difficilmente avrebbe gradito un'intromissione nella sua vita personale. E men che mai da parte sua. Bussò e lei aprì immediatamente, come avesse trascorso tutto il pomeriggio solo in attesa del suo arrivo. Ma il sorriso di benvenuto lasciò il posto a un'espressione attonita. — Simon! Non immaginavo... — Tese la mano, poi cambiò idea e la lasciò ricadere. — È una vera sorpresa. Aspettavo... è proprio... e tu... Ma che vado cianciando? Entra, ti prego. La definizione "appartamento" era eufemistica: la sua nuova abitazione si riduceva a un piccolo monolocale, ma era stato fatto parecchio per renderlo accogliente. Le pareti erano state tinteggiate di un verde pallido, fresco e primaverile. A una era addossato un divano-letto di vimini coperto da una vivace stoffa multicolore e cuscini ricamati. A un'altra era appesa una serie di foto scattate da Deborah, che St. James non conosceva e che evidentemente rappresentavano il risultato di quegli anni di studio in America. Dallo stereo accanto alla finestra veniva una musica sommessa. Debussy. Prelude à l'après-midi d'un faune. St. James si volse per fare qualche commento sulla stanza - ben diversa dall'eclettismo adolescente di quella di Cheyne Row - e scorse un piccolo vano sulla sinistra della porta: un cucinino con un minuscolo tavolo preparato per il tè. Due tazze. Avrebbe dovuto immaginarlo appena l'aveva vista. Non era da lei starsene con le mani in mano, a metà pomeriggio, con indosso un morbido abito estivo invece dei soliti jeans. — Aspetti visite. Scusami. Avrei dovuto telefonare. — Non mi hanno ancora dato la linea. Non importa. Davvero. Che te ne pare? Ti piace? Quel monolocale era in tutto e per tutto ciò che voleva essere: un luogo di quiete e femminilità dove un uomo avrebbe desiderato sdraiarsi accanto a lei, cancellando le seccature della giornata nel piacere di fare l'amore. Ma non era certo quella la risposta che Deborah si aspettava da lui. Per evitare di pronunciarsi si avvicinò alle fotografie. Per quanto fossero più di una decina, erano raggruppate in modo che lo sguardo fosse attratto da un interessante ritratto in bianco e nero: un uomo che volgeva le spalle all'obiettivo, il volto di profilo, i capelli e la pelle in
controluce spiccavano con un alone incandescente contro lo sfondo color ebano. — Tommy è fotogenico. Deborah si accostò. — Sì, vero? Cercavo di renderne la muscolatura. Ma non ne sono del tutto convinta. La luce mi pare fiacca. Non so. Un momento mi piace e subito dopo lo trovo penetrante quanto una foto segnaletica. St. James sorrise. — Sempre severa con te stessa, Deborah. — Sì, lo riconosco. Mai soddisfatta di nulla. È il mio destino. — Io dicevo che una certa foto era bella. Tuo padre era d'accordo. Chiamavamo Helen per avere un terzo parere. Dopo di che tu festeggiavi il successo gettandola via e dichiarando che non avevamo il minimo occhio. Lei si mise a ridere. — Almeno non andavo in cerca di complimenti. — No. Non l'hai mai fatto. — Si volse nuovamente alla parete e il breve piacere di quello scambio di battute si dissolse. Accanto al ritratto in bianco e nero c'era uno studio di tutt'altro genere. Di nuovo Lynley, nudo, seduto su un vecchio letto di ferro, un lenzuolo spiegazzato a coprirgli la parte inferiore del torso. Con una gamba ripiegata e un braccio appoggiato sul ginocchio, guardava in direzione della finestra dove c'era Deborah, in piedi, la schiena voltata all'obiettivo, la luce del sole che scivolava lungo la curva del fianco destro. Una tenda gialla ondeggiava, gonfia e spumeggiante, e sicuramente nascondeva lo scatto flessibile di cui si era servita. La foto sembrava perfettamente spontanea, come se lei si fosse svegliata al fianco di Lynley e avesse approfittato di quella luce particolare, del contrasto fra tenda e cielo mattutino. St. James fissò quell'immagine, fingendo di poterla valutare come opera d'arte e vedendola come la conferma che Cotter aveva capito tutto dei rapporti tra Deborah e Lynley. Nonostante l'atteggiamento in cui li aveva visti insieme a bordo dell'auto, la sera prima, St. James sapeva di essersi tenuto aggrappato a un inconsistente filo di speranza. Che adesso si era spezzato sotto i suoi occhi. Guardò Deborah. Due chiazze di colore erano comparse sui suoi zigomi. — Santo cielo, che pessima padrona di casa, vero? Gradisci qualcosa da bere? Gin e tonic? Oppure c'è del whisky. E tè. C'è il tè. In abbondanza. Stavo per... — No. Nulla. Stai aspettando qualcuno. Vado via subito. — Rimani a prendere il tè. Prendo un'altra tazza — e passò nel cucinino. — No, Deborah. Davvero — disse in fretta St. James, raccapricciando all'idea di accettare una tazza di tè e tre o quattro biscotti mentre Deborah e
Lynley lo intrattenevano in compita conversazione desiderando solo che se ne andasse per la sua strada. — Non è giusto. Deborah, presso l'armadietto, con una tazza e un piattino in mano, si fermò. — Non è giusto? Che vuoi dire? È semplicemente... — Senti, passerotto — voleva solo dire quel che doveva dire, fare il suo spiacevole dovere, mantenere la promessa fatta a Cotter, e sparire. — Tuo padre è preoccupato per te. Con studiata attenzione Deborah depose il piattino e, ancor più cautamente, vi appoggiò sopra la tazza. Li sistemò a filo con il bordo del ripiano. — Capisco. Sei qui in veste di suo emissario. Non credevo che avresti accettato una simile parte. — Gli ho detto che ti avrei parlato, Deborah. Al che - forse per via del tono cambiato - vide le macchie di colore sulle guance di lei farsi più intense. Deborah serrò le labbra. Si diresse al divano-letto, sedette e intrecciò le mani. — D'accordo. Fai pure. St. James scorse l'inequivocabile guizzo di collera nella sua espressione. Ne colse i primi accenni nella voce. Ma preferì ignorarli, deciso a procedere nel suo compito. — Tuo padre è in pensiero per te e Tommy — cominciò, in quello che gli pareva un tono ragionevole. — E tu? — replicò lei, pronta. — Anche tu stai in pensiero? — Io non c'entro affatto. — Ah. Avrei dovuto immaginarlo. Be', adesso che mi hai vista e hai visto anche casa mia... hai intenzione di tornare a casa e confermargli i motivi di ansia? O devo fare qualcosa per passare l'ispezione?. — Hai frainteso. — Vieni qui a fare il segugio per controllare la mia condotta. Cosa avrei frainteso, di grazia? — Non si tratta della tua condotta, Deborah — era sulla difensiva, nettamente a disagio. Non era così che doveva andare, quel colloquio. — È solo che i tuoi rapporti con Tommy... Lei si alzò con decisione. — Ritengo che non siano fatti tuoi, Simon. Proprio no. Mio padre può essere poco più di un domestico, nella tua vita, ma io no. Non lo sono mai stata. Come ti è venuta l'idea di poter piombare qui a ficcare il naso nella mia esistenza? Chi ti credi di essere? — Uno che ti vuole bene. E lo sai perfettamente. — Uno che... — Deborah si interruppe. Serrò le mani come per impedir-
si di dire altro, ma fu inutile. — Uno che mi vuole bene? E saresti tu? Tu, che non ti sei mai curato di scrivermi neanche due righe in tutto il tempo che sono stata via? Avevo diciassette anni. Puoi immaginare com'è stato? Ne hai una vaga idea visto che mi vuoi tanto bene? — Si diresse all'altro capo della stanza, a passi irregolari, come se non avesse altro da aggiungere. Ma poi di nuovo si volse. — Ogni giorno, per mesi e mesi, ero là ad aspettare come un'idiota, una piccola maledetta idiota... a sperare in una parola da parte tua. Una risposta alle mie lettere. Qualsiasi cosa! Un biglietto. Una cartolina. Due righe accluse a una lettera di mie padre. Non importa cosa purché venisse da te. E invece niente. Non sapevo perché. Non riuscivo a capire. E alla fine, quando mi sono schiarite le idee, ho semplicemente aspettato la notizia che avevi sposato Helen. — Sposato Helen? — ripeté St. James incredulo. Non indugiò chiedersi come o perché quella conversazione stava rapidamente degenerando in uno scontro. — Ma come diavolo ti è venuto in mente? — Cos'altro dovevo pensare? — Avresti almeno dovuto avere il buon senso di tenere presente quel che c'era tra noi prima che tu abbandonassi l'Inghilterra. Di colpo gli occhi le si riempirono di lacrime, ma Deborah le ricacciò battendo le palpebre con forza. — Oh, l'avevo presente eccome. Ogni sera, ogni mattina ci pensavo, Simon. Distesa a letto, a cercare di tirar fuori anche un solo buon motivo per andare avanti. Vivere in un vuoto. In un inferno. Ti fa piacere sentirmelo dire? Sei soddisfatto? Mi mancavi tanto, ti volevo con me. Era una tortura. Una malattia. — E Tommy è stato la cura. — Proprio. Grazie a Dio. Tommy è stato la cura. Quindi vattene da qui. Subito. Lasciami in pace. — Me ne vado, stai tranquilla. Non sarebbe simpatico farmi trovare qui nel nido d'amore quando arriva Tommy a pretendere quel che ha pagato. Il tè preparato con garbo. Musica in sottofondo. E la signora, pronta e desiderosa. Capisco bene che sarei di troppo. Soprattutto se lui ha una certa premura. Deborah fece un passo indietro. — Quello che ha pagato? Per questo sei qui? È questo quel che pensi? Che io sia troppo incapace e stupida per mantenermi da sola? Che questo appartamento sia di Tommy? E io chi sarei, allora, Simon? Chi sarei io, maledizione? La sua mantenuta? La sua sgualdrina? — Non aspettò la risposta. — Fuori da casa mia. Non ancora, decise lui. Non ancora, perdio. — Hai fatto un bel discor-
setto a proposito di tortura, vero? Come diavolo credi che siano stati questi ultimi tre anni per me? E cosa pensi che abbia provato ieri sera, ad aspettarti, ore e ore, dopo tre schifosissimi anni, sapendo che tu intanto eri qui con lui? — Me ne frego di quel che provavi! Qualunque cosa fosse non poteva avvicinarsi neppure lontanamente alla disperazione che mi hai dato tu. — Che bel complimento per il tuo amante! Vuoi dire che non colma certi vuoti? — Tutto si riconduce sempre a quello, vero? Il sesso, la trave portante. Chi si scopa Deborah? Be', hai l'occasione buona, Simon. Coraggio. Prendimi. Rifatti del tempo perduto. Lì c'è il letto. Andiamo. — Lui non aprì bocca. — Su, scopami. Fatti una sveltina. È quel che vuoi, no? Non è così, maledizione? Di fronte al silenzio di St. James, Deborah, fuori di sé, agguantò il primo oggetto che le venne per le mani e lo scaraventò nella sua direzione, con tutte le sue forze: andò a frantumarsi contro il muro, a poca distanza dalla testa di lui. Entrambi si avvidero, troppo tardi, che nella sua rabbia Deborah aveva distrutto il regalo che lui le aveva fatto per un lontano compleanno: un cigno di porcellana. Quel gesto pose fine alla collera. Deborah accennò a dire qualcosa, un pugno premuto contro la bocca, come cercasse le prime inorridite parole di scusa. Ma St. James non se la sentiva di ascoltare altro. Abbassò lo sguardo sui frammenti a terra e li schiacciò col piede, riducendoli in polvere. Un'azione rapida, decisa, che dimostrava come l'amore, al pari della creta, possa essere miseramente friabile. Con un'esclamazione soffocata Deborah corse a raccogliere i cocci fuori dalla portata di lui. — Ti odio! — E adesso lacrime roventi le rigavano le guance. — Ti odio! Proprio quel che potevo aspettarmi da te. Logico, visto che tutto in te è storpiato. Tu credi che lo sia solo la tua stupida gamba, vero, ma tu sei storpio dentro ed è molto peggio, perdio. Quelle parole pugnalarono l'aria, tutti gli incubi presero vita. St. James sussultò sotto il colpo e si diresse alla porta. Era stordito, sfibrato, e soprattutto era consapevole dell'atroce goffaggine del suo passo, quasi fosse amplificata mille volte sotto gli occhi di lei. — Simon! No! Perdonami!
Gli tendeva le mani e lui notò con interesse che si era tagliata con il bordo aguzzo di uno dei pezzi di porcellana. Un filo sottile di sangue correva dal palmo al polso. — Non pensavo quel che ho detto. Simon, lo sai. Si stupì che ogni traccia del tumulto di poco prima si fosse spenta in lui. Niente più contava, salvo il bisogno di allontanarsi. — Lo so, Deborah. Aprì la porta. Che sollievo andarsene. Il sangue gli pulsava nella testa come acque in piena a preannunciare come sempre fitte di dolore intollerabile. Seduto nella sua vecchia MG, davanti agli Shrewsbury Court Apartments, St. James si sforzò di respingerle, sapendo che se si fosse lasciato andare anche solo per un istante lo spasimo sarebbe diventato tale da non consentirgli di tornare a Chelsea per conto proprio. Una situazione assurda. Davvero sarebbe stato costretto a telefonare a Cotter per averne aiuto? E perché, poi? Per un colloquio di un quarto d'ora con una ragazzina di ventun anni? Lui, che ne aveva undici di più, e tanta più esperienza, sarebbe ben dovuto uscire vincitore da quell'incontro. E certo non ritrovarsi come si sentiva al momento: sfinito, a pezzi, dolorante. Fantastico. Chiuse gli occhi per sottrarsi alla luce del sole, un'incandescenza che gli bruciava i nervi, che non esisteva in realtà ed era solo, lo sapeva, prodotto del suo cervello oppresso. Considerò con sprezzante ironia il coacervo tormentato di muscoli, ossa e tendini che da otto anni era la sua prigione, il suo tribunale, la condanna ultima per il delitto di essere stato giovane e ubriaco su una tortuosa strada del Surrey, tanto tempo prima. L'aria era torrida e greve dell'odore di nafta, ma ugualmente l'aspirò a fondo. Controllare il dolore ai suoi esordi era la cosa più importante, e non si soffermò a considerare che in tal modo avrebbe avuto lo spazio per analizzare le accuse che Deborah gli aveva scagliato addosso e, peggio ancora, riconoscerne l'esattezza. Era vero, in quei tre anni non si era mai fatto vivo, non una lettera, non un minimo cenno. E la cosa maledetta era che non poteva spiegare o giustificare il suo comportamento in modo comprensibile per Deborah. E anche se avesse capito, a che poteva servirle sapere adesso che in tutti quei giorni lontano da lei si era sentito scivolare sempre più verso il niente? Poiché mentre lui si lasciava morire a poco a poco, Lynley si era addentra-
to nella dolce sfera della vita di Deborah e là si era mosso nel suo solito modo, calmo, garbato, perfettamente sicuro di sé. Al pensiero dell'altro, St. James si costrinse all'azione e trasse di tasca le chiavi dell'auto, deciso a non farsi trovare, con l'aria dell'adolescente mogio, davanti all'abitazione di Deborah quando Lynley fosse arrivato. Si allontanò dal marciapiede infilandosi nel traffico dell'ora di punta che scorreva lungo Sussex Gardens. Quando il semaforo passò al rosso, all'angolo tra la Praed e London Street, St. James frenò e lasciò vagare lo sguardo sentendosi molto sperduto e depresso. Poco distante, sotto l'insegna bianca e azzurra della metropolitana, c'era una giovane donna. Stava acquistando dei fiorì da un carrettino. La ragazza scosse il capo dai corti capelli neri, raccolse un fascio di fiorì e rìse di qualcosa che il venditore aveva detto. Riconoscendola, St. James maledì la propria imperdonabile idiozia. Ecco chi faceva visita a Deborah, quel pomeriggio. Non Lynley ma Sidney, sua sorella. I colpetti alla porta cominciarono subito dopo che Simon se n'era andato, ma Deborah non vi fece caso. Rannicchiata presso la finestra teneva in mano il frammento d'ala e lo serrava nel pugno con tanta forza da far sgorgare nuovo sangue. Prima solo qualche goccia, dove il bordo era più tagliente, e poi, quando aumentò la pressione, un vero rivolo. Ti racconto una cosa a proposito dei cigni, le aveva detto. Quando si scelgono un compagno è per sempre. Imparano a vivere insieme in armonia, passerotto, accettandosi a vicenda così come sono. Potremmo imparare qualcosa da loro, vero? Deborah fece scorrere le dita su quella piccola forma delicata, tutto ciò che restava del dono di Simon, e si chiese come avesse potuto compiere un simile tradimento. Quale vittoria ne aveva tratto, salvo una breve e cieca vendetta che si concludeva con la totale umiliazione di lui? E cosa aveva dimostrato, alla fin fine, quella spaventosa scenata tra loro? Solo che le sue convinzioni di adolescente - dichiarate con tanta sicurezza a Simon quando aveva diciassette anni - non avevano saputo reggere alla prova di una separazione. Ti amo, gli aveva detto. Niente potrà alterare quel che provo. Mai. Un'affermazione che si era rivelata erronea. Le persone non sono come i cigni. E lei men che meno. Si alzò, asciugandosi ruvidamente le guance con la manica del vestito, senza badare ai tre bottoni del polsino che potevano graffiarle il volto, anzi
quasi sperandolo. Andò in cucina a prendere un canovaccio che avvolse attorno alla mano. Ripose in un cassetto il frammento d'ala. Era un gesto inutile, lo sapeva, compiuto nell'assurda speranza che un giorno il cigno potesse sanarsi. Andò alla porta, dove i colpetti continuavano, chiedendosi come avrebbe giustificato il proprio aspetto a Sidney St. James. Si asciugò le guance un'altra volta, girò la maniglia cercando di sorridere ma con scarso risultato. — Che disastro. Sono veramente... — Non andò oltre. Sulla soglia c'era una bruna vestita in modo stravagante ma piuttosto bella. Teneva in mano un bicchiere pieno di un liquido opaco, verdino, che le porse senza note introduttive. Deborah, un po' sconcertata, lo prese. L'altra annuì brevemente ed entrò. — Tutti uguali, gli uomini. — La voce era un po' roca, con un accento regionale che si voleva dissimulare. La donna avanzò, a piedi nudi, fino al centro del locale e continuò a parlare come se lei e Deborah si conoscessero da anni. — Bevi. Io me ne faccio almeno cinque al giorno. Ti fa sentire un'altra, giuro. E sa il cielo che ne ho proprio bisogno dopo ogni... — Si interruppe con una risata che rivelò dei denti straordinariamente bianchi e regolari. — Mi capisci. Era difficile non capire cosa intendeva. Avvolta in un'ampia vestaglia di raso nero, con gran pieghe e volant, era il manifesto vivente della sua scelta di vita. Deborah sollevò il bicchiere che le era stato consegnato. — Che cos'è? Il cicalino suonò, indicando la presenza di qualcuno giù in strada. La donna andò a premere il pulsante dell'apriporta. — Qui c'è un via vai da stazione ferroviaria. Accennò al bicchiere, trasse un foglietto dalla tasca della vestaglia e lo tese a Deborah. — Solo succo di frutta e vitamine. Con l'aggiunta di qualche verdura. Un piccolo corroborante. Ho scritto qui la ricetta. Spero che mi perdoni l'intrusione, ma a giudicare da come sono andate le cose oggi ne avrai bisogno in dosi ingenti. Bevilo. Coraggio. — Attese che Deborah si portasse il bicchiere alle labbra prima di avvicinarsi alle foto. — Molto belle. Fatte da te? — Sì. — Deborah lesse l'elenco degli ingredienti. Tutti perfettamente innocui, a parte il cavolo che lei aveva sempre detestato. Posò il bicchiere sul ripiano e passò le dita sul telo che le fasciava il palmo. Poi si toccò i capelli scarmigliati. — Devo avere un aspetto atroce. L'altra sorrise. — Anch'io sono un disastro fino a sera. Non ci bado
granché, di giorno. A che serve, dico io. Comunque, a parer mio, tu sei un'autentica visione. Ti piace quella roba? — Ha un sapore assolutamente nuovo. — Straordinario, vero? Dovrei produrlo su scala industriale. — Già. Be', è buono. Molto buono. Grazie. Mi spiace moltissimo per la scenata. — E stata magnifica. Non ho potuto evitare di sentire... i muri sono quel che sono... e per un po' ho creduto che finisse a botte. Io abito qui accanto — col pollice accennò a sinistra. — Tina Cogin. — Deborah Cotter. Mi sono trasferita qui ieri sera. — Ecco il perché di tutto quel tramestio — Tina sorrise. — E pensare che avevo pensato a una concorrente. Be', è escluso. Non hai proprio l'aria di essere della partita, no? Deborah si sentì arrossire. Non era certo il caso di dire grazie. Tina, che evidentemente non aspettava una risposta, studiò la propria immagine riflessa nel vetro che copriva una delle foto. Si ravviò i capelli, controllò i denti e passò una lunga unghia tra due incisivi. — Come sono conciata. Il trucco non può fare miracoli, vero? Dieci anni fa mi bastava appena un tocco di fard. E adesso? Ore davanti allo specchio e quando ho finito ancora faccio spavento. Bussarono alla porta. Sidney, pensò Deborah. Si chiese cos'avrebbe detto la sorella di Simon di quell'inattesa ospite che al momento esaminava la fotografia di Lynley come considerandolo una fonte di futuri introiti. — Vuoi trattenerti per il tè? — chiese Deborah. Tina si volse inarcando un sopracciglio. — Tè? — lo disse come se tale bevanda non le avesse mai sfiorato le labbra da che era adulta. — Molto gentile, Deb, ma è meglio di no. Non è consigliabile essere in tre in una simile situazione. Puoi credermi. Ci ho provato. — Tre? — balbettò Deborah. — Ma si tratta di un'amica. — Oh, no — rise Tina. — Mi riferivo al tavolo, tesoro. È un po' piccolo, capisci, e io sono un po' maldestra con il tè. Tu finisciti quella roba e mi restituirai il bicchiere poi. D'accordo? — Sì. Grazie. D'accordo. — E così ci faremo quattro chiacchiere. Con un cenno di saluto Tina aprì la porta, oltrepassò Sidney St. James rivolgendole un sorriso abbagliante e scomparve nel corridoio. 3
Peter Lynley non aveva scelto l'alloggio in Whitechapel per le sue piacevolezze o la posizione. Le prime erano del tutto assenti, salvo che si vogliano considerare quattro pareti e una finestra, peraltro impossibile da aprire, elementi di forte attrattiva. Quanto alla seconda, effettivamente c'era la vicinanza a una stazione della metropolitana, ma la costruzione in sé era di epoca previttoriana, attorniata da altre del medesimo periodo, e negli ultimi trent'anni non era stato fatto nulla per ripulire o riattare edifici e quartiere. Comunque l'alloggio e la sua posizione si adattavano alle esigenze di Peter, che erano poche. E, cosa ancor più importante, al suo portafoglio che al presente era quasi vuoto. Secondo i suoi calcoli potevano tirare avanti per altri quindici giorni se ci andavano con prudenza e si limitavano a cinque dosi a sera. D'accordo, diciamo sei. Poi, di giorno, si sarebbero messi a cercare lavoro sul serio. Lui come venditore. E un ingaggio per Sasha. Lui aveva il cervello e la personalità giusta per vendere. E Sasha aveva in mano il suo mestiere. Poteva sfruttarlo a Soho. Era quel che ci voleva, laggiù. Cribbio, probabilmente non avevano mai visto un numero come il suo, a Soho. Sarebbe stato proprio come a Oxford: un palcoscenico spoglio, un solo riflettore, e Sasha su una sedia, a lasciare che gli spettatori le tagliassero via di dosso gli indumenti, sfidandoli a tagliar via tutto, a scoprire com'erano dentro e cosa provavano, a dire quel che desideravano. E lei sempre sorridente, sempre superiore, sempre l'unica in tutto il locale a saper essere orgogliosa di chi e cosa era. La testa alta, sicura di sé, le braccia lungo i fianchi. Io sono io, dichiarava il suo atteggiamento. Io sono io. Sono io. Ma dov'era adesso, si chiese Peter. Guardò l'orologio. Era un brutto Timex di seconda mano che riusciva ad avere un'aria poco attendibile con il semplice fatto di esistere. Aveva venduto il Rolex poco tempo prima e si era accorto che aspettarsi una certa precisione da quel sostituto era assurdo quanto aspettarsi che Sasha andasse a procurarsi della roba per conto suo senza agganciare per sbaglio un informatore. Evitò di soffermarsi su quel pensiero scuotendo nervosamente il polso e scrutando nuovamente l'orologio. Ma si erano mosse quelle dannate lancette, nell'ultima mezz'ora? L'accostò all'orecchio, lanciò un insulto scettico a quel sommesso ticchettio. Possibile che fossero passate solo due ore da quando era uscita? Parevano secoli.
Si alzò, irrequieto, dal divano sformato, uno dei tre mobili di quarta mano presenti nella stanza, se non si contavano gli scatoloni in cui tenevano i loro vestiti o la cassetta da verdura, rovesciata, su cui era poggiata l'unica lampada. Il divano si trasformava in un letto bernoccoluto. Sasha se ne lamentava tutti i giorni dicendo che le rovinava la schiena e che da almeno un mese non riusciva a farsi un'ora di sonno decente. Ma dove era finita? Peter si accostò a una finestra e tirò indietro il lenzuolo sommariamente trasformato in tenda grazie a una bacchetta infilata nell'orlo. Guardò al di là del vetro che era lurido dentro quanto fuori. Mentre scrutava la strada cercando la ben nota figura di Sasha con la vecchia borsa a tracolla, di stoffa, che usava sempre, sfilò dalla tasca dei jeans un fazzoletto sudicio e si soffiò il naso. Era un gesto automatico. E il breve lampo di dolore che ne seguì scomparve in un attimo e quindi liquidato come insignificante. Senza guardarlo né esaminare le nuove macchie color ruggine che vi erano rimaste, lo mise via e cominciò a mordicchiarsi l'indice, di lato. Lo rosicchiava come un coniglio. Tanti piccoli morsini in successione, i denti contro la carne. In lontananza, all'imboccatura della stretta viuzza dove abitavano, i pedoni percorrevano Brick Lane, pendolari di ritorno a casa alla fine della giornata. Peter cercò di concentrarsi su di loro impegnandosi in un gioco deliberato: riuscire a individuare Sasha tra quelle teste ondeggianti provenienti o dirette alla stazione di Aldgate East. Dovrebbe prendere la Northern e poi passare sulla Metropolitan, si disse. Ma dove era finita? Cosa c'era di tanto difficile nel comperare un po' di roba? Consegni i quattrini e ti prendi la merce. Perché ci metteva tanto? Rimuginò su questo interrogativo. Perché Sasha ci metteva tanto? In fondo, cosa impediva a quella mignotta di filarsela con i suoi soldi, comperarsi la roba per conto suo e non farsi più vedere? In realtà, perché prendersi la briga di tornare? Per avere quel che voleva. Ecco perché continuava a stargli attorno. Peter respinse l'idea: impossibile. Sasha non l'avrebbe mai lasciato. Né adesso né mai. Giusto la settimana prima gli aveva detto che non se l'era mai fatta tanto bene come con lui. Lo supplicava, praticamente, tutte le sere, no? Soprappensiero, si asciugò il naso col dorso della mano. Quando l'avevano fatto l'ultima volta? La sera prima, no? Lei rideva come una pazza e lui l'aveva bloccata contro il muro e... era la sera prima, vero? Sammy, sull'altro lato del corridoio, era venuto a picchiare contro la porta e a dire che
la piantassero di far casino e Sasha che guaiva e graffiava e ansimava... solo che non emetteva gemiti di piacere: rideva... e la sua testa continuava a picchiare contro il muro e lui non era arrivato alla fine, non c'era riuscito, ma al momento non contava perché erano tutti e due tra le nuvole. Proprio così. La sera prima. E una volta avuta la roba sarebbe tornata. Tirò con i denti una pellicina vicino all'unghia. Giusto. Ma se non fosse riuscita a comperare la merce? Quel pomeriggio aveva fatto tante chiacchiere a proposito di Hampstead e di una casa vicino al parco dove era facile procurarsi quel che si voleva se si avevano i quattrini, e allora cosa stava combinando e quanto ci metteva ad andare e tornare, e dove diavolo si era cacciata? Peter fece una smorfia e sentì il gusto del sangue lì dove si era lacerato la pelle. Meglio controllarsi, si disse. Aspirò a fondo. Stirò i muscoli. Si toccò la punta dei piedi. E comunque non aveva importanza. Non ne aveva veramente bisogno. Poteva smettere in qualsiasi momento. Lo sapevano tutti che si può smettere quando si vuole. Eppure con quella roba si sentiva un altro. Reggeva lui tutti i fili, era il re del mondo. La porta alle sue spalle si aprì, lui si girò di scatto e vide che Sasha era tornata. Ferma sulla soglia si scostò dal viso i capelli spioventi e gli lanciò un'occhiata circospetta. L'atteggiamento era quello di un animale braccato. — Dov'è? Sul volto di lei balenò qualcosa. Chiuse la porta con un calcio, raggiunse il divano e sedette sui logori cuscini marrone voltandogli il dorso, la testa china. Peter sentì contro la pelle le dita scheletriche di un presagio. — Dov'è? — Non l'ho... non ho potuto... — Le spalle di lei cominciarono a tremare. L'autocontrollo svaporò in un attimo. — Non hai potuto... cosa? Che diavolo è successo? — Si lanciò verso la finestra e ne scostò appena la tenda. Cristo, si era fatta scoprire? Era stata pedinata dai piedipiatti? Sbirciò in strada. Tutto normale. Niente auto anonime della polizia con a bordo dei tizi a tener d'occhio la casa. Nessun furgoncino fermo in divieto di sosta. Nessun poliziotto in borghese ad aspettare sotto il lampione. Nulla di nulla. Si girò nuovamente verso Sasha che lo guardava, voltata a mezzo. I suoi occhi - di uno strano color giallo-bruno, come quelli di un cane - erano lacrimosi, arrossati. Le labbra tremavano, umiliate.
— Gesù Cristo! — Guizzò verso il divano, la spinse da parte e afferrò la borsa rovesciandone il contenuto sul divano esaminandolo in fretta. Le mani erano malferme, la frenetica ricerca inutile. — Dove diavolo...? Dov'è la roba, Sasha? Dov'è? Dove? — Non sono... — E allora dove sono i quattrini? — Delle sirene gli risuonavano in testa. Le pareti si inclinavano verso di lui. — Cosa cazzo ne hai fatto della grana? Lei andò in furia e scattò via dal divano. — Ah, è così? — urlò. — "Cosa cazzo ne hai fatto della grana?" Non "Dove sei stata?". Non "Ero preoccupato". Ma "Cosa cazzo ne hai fatto della grana?". — Tirò indietro la manica del golf coperto di macchie. Dei graffi profondi solcavano la pelle giallastra. Dei lividi cominciavano ad affiorare. — Guarda qui! Sono stata scippata, figlio di puttana! — Scippata? Sei stata scippata? — Il tono era carico di incredulità. — Non rifilarmi palle. Che ne hai fatto dei miei soldi? — Te l'ho detto! — strepitò lei. — Me li hanno fregati sulla schifa banchina della schifa metropolitana. E io ho passato le ultime due ore a far amena conversazione con la schifa polizia di Hampstead. Telefona pure se non mi credi. — Si mise a singhiozzare. Non riusciva a crederci. Non poteva. Si rifiutava di crederci. — Cristo, ma non riesci proprio a combinare niente, eh? — No, infatti. E neanche tu. Se te la fossi procurata per conto tuo venerdì scorso, come avevi detto... — Te l'ho spiegato, maledizione. Quante volte devo ripetertelo? È andata buca. — E così hai costretto me a provvedere, no? — Ti ho costretta? — Proprio. E lo sai benissimo! — Il suo volto era pieno di acrimonia. — Eri terrorizzato all'idea che ti beccassero, sì o no? Così mi hai passato la patata bollente. E non piantarmi tutte 'ste grane perché mi è andata male. Peter aveva solo una gran voglia di picchiarla, di vederle buttar sangue. Si allontanò, prendendo tempo, cercando di calmarsi, di riflettere su quel che si poteva fare. — Gesù, che bell'atto di accusa, tutto in ordine e a puntino. — Andava benissimo se anche arrestavano me, vero? Che differenza faceva? Sasha Nifford. Nessuno. I giornali non ne avrebbero neanche parlato, no? Ma che figura se il nobile Peter Lynley si fosse fatto cogliere in
flagrante! — Non toccare questo tasto. — Smerdando così l'onorato nome di famiglia! — Finiscila! — Mandando all'aria tre secoli di Lynley rispettosi della legge! Sconvolgendo mammà. E il fratello maggiore, del CID di Scotland Yard! — Maledizione, piantala! Qualcuno del piano di sotto batté contro il soffitto, gridando di far silenzio, ma Sasha continuava a fissarlo con occhi di fuoco, l'atteggiamento e l'espressione che lo sfidavano a smentirla. Lui non poteva. — Vediamo di trovare una soluzione — mormorò. Si accorse che le mani gli tremavano, e le articolazioni cominciavano a gonfiarsi. Se le cacciò in tasca. — C'è sempre la Cornovaglia. — La Cornovagha? — Il tono di Sasha era incredulo. — E perché diavolo... — Qui non ho abbastanza quattrini. Lo fissò, sbalordita. — Figuriamoci. Se sei al verde, fatti dare un assegno da tuo fratello. Lui ci nuota nella grana. Lo sanno tutti. Peter tornò alla finestra, mordicchiandosi il pollice. — Ma non sei disposto a farlo, vero? — continuò Sasha. — Non hai il coraggio di chiedere un prestito a tuo fratello. Dovremmo trascinarci fino in Cornovaglia perché tu hai una paura verde di lui. Ti si gela il sangue all'idea che Thomas Lynley scopra i tuoi altarini. E se anche fosse? Cos'è lui, il tuo custode? Ma è solo un riverito gentiluomo laureato a Oxford! Gesù, sei un tale smidollato che... — Chiudi il becco! — Neanche per sogno. Cosa cavolo c'è in Cornovaglia che dobbiamo andarci? — Howenstow — fu la secca risposta. Sasha restò a bocca aperta. — Howenstow? Facciamo una visita alla mamma? Cribbio, proprio quel che potevo aspettarmi da te. O quello o startene lì col pollice in bocca. O farti seghe. — Maledetta schifosa! — Vai avanti! Picchiami, bamboccio che non sei altro. Ci muori dalla voglia da quando ho varcato quella porta. Lui serrava e apriva il pugno. Dio, quanto gli sarebbe piaciuto. Al diavolo gli anni di buona educazione e codici di galateo. Voleva pestarle la faccia, vedere il sangue che le usciva dalla bocca, romperle i denti e il naso,
farle gli occhi neri. Invece si precipitò fuori. Sasha Nifford sorrise. Tenne d'occhio la porta chiusa contando scrupolosamente i secondi che occorrevano a Peter per scavallarsi giù. Trascorso un tempo sufficiente, scostò il lenzuolo che nascondeva la finestra e aspettò di vederlo guizzar fuori e puntare verso il pub all'angolo. Non la deluse. Lei ebbe una risatina. Facilissimo liberarsi di Peter. Le sue reazioni erano prevedibili come quelle di uno scimpanzé ammaestrato. Tornò al divano. Dal contenuto sparpagliato della sua borsa prese un portacipria scheggiato e l'aprì. Ripiegato dietro lo specchio c'era un biglietto da una sterlina. Lo sfilò, l'arrotolò, infilò due dita nella scollatura a V del golf. Molte le funzioni di un reggiseno, pensò con ironia. Ne trasse una bustina di plastica con la coca che aveva acquistato a Hampstead. Al diavolo la Cornovaglia, si disse con un piccolo sogghigno. Le venne l'acquolina in bocca mentre versava un pizzico di droga sullo specchietto e lo sfarinava rapidamente con un'unghia. L'aspirò avidamente, servendosi della banconota arrotolata. Che paradiso, si disse abbandonandosi contro lo schienale. Indicibile estasi. Meglio del sesso. Meglio di qualsiasi cosa. Pura beatitudine. Thomas Lynley era al telefono quando Dorothea Harrìman entrò nell'ufficio tenendo in mano un foglio da corrispondenza interna. Lo tese con un significativo cenno del capo e gli strizzò l'occhio con aria complice. Al che Lynley concluse in fretta la conversazione con il tecnico delle impronte digitali. La Harriman attese che riappendesse. — È andata, ispettore investigativo — annunciò, sciorinando con la solita allegra ostinazione la sua qualifica completa. Non chiamava mai nessuno signore o signora o signorina se poteva invece mettere insieme un buon numero di sillabe, come stesse annunciando il nome di un teste in tribunale. — O gli astri sono in posizione favorevole, o il commissario Webberly ha vinto al totocalcio. Ha firmato senza fiatare. Vorrei essere altrettanto fortunata io quando voglio una giornata libera. Lynley prese il foglio. Sul fondo c'era la firma del suo superiore, a mo' di benestare, accompagnata da un appunto a malapena leggibile: "Sii prudente se prendi l'aereo, ragazzo", sette parole a telegrafare come Webberly
avesse intuito esattamente la sua intenzione di andare a trascorrere un lungo weekend in Cornovaglia. Lynley non aveva dubbio che il commissario avesse indovinato anche il motivo di quel viaggio. Dopotutto Webberly aveva visto e commentato la foto di Deborah sulla sua scrivania e, per quanto scapolo, il commissario era sempre il primo a congratularsi quando uno dei suoi uomini si sposava. Al momento la segretaria del commissario stava a sua volta esaminando la foto. Socchiudeva gli occhi per metterla a fuoco, rifuggendo una volta di più dagli occhiali che, Lynley lo sapeva, teneva chiusi in un cassetto. Gli occhiali smorzavano la netta somiglianza tra la Harriman e la principessa del Galles, somiglianza che lei tendeva ad accentuare. Quel giorno portava una replica del vestito azzurro con cintura nera che la principessa aveva indossato in occasione della visita alla tomba del Milite Ignoto, in America, e che metteva in risalto la linea agile di Sua Altezza. La Harriman, per contro, appariva un po' marcata di fianchi. — Corre voce che Deb sia tornata a Londra — osservò la ragazza, rimettendo al suo posto la foto e contemplando accigliata il disordine della scrivania. Raccolse un ventaglio di messaggi telefonici, li assicurò con un fermaglio, mise in pila esatta cinque pratiche. — È tornata da più di una settimana — replicò Lynley. — Ecco il perché del suo cambiamento, allora. I miracoli delle nozze imminenti. Da tre giorni le brillano gli occhi. — Davvero? — Sembra che cammini sulle nuvole, non esagero. Se questo è l'effetto che fa l'amore, ne gradirei una porzione doppia. Lui sorrise, frugò tra le cartellette e gliene tese due. — Prenda queste, invece. Webberly le sta aspettando. La Harriman tirò un sospiro. — Io cerco amore e lui mi rifila... — diede un'occhiata — ...risultati di analisi con fibre ottiche riguardanti un assassinio a Bayswater. Molto romantico. Ho sbagliato lavoro. — Ma è un nobile lavoro, Harriman. — Proprio quel che avevo bisogno di sentirmi dire. — Si allontanò ordinando a qualcuno di rispondere al telefono che stava squillando in un ufficio vicino, privo del suo occupante. Lynley ripiegò il foglio e aprì l'orologio da taschino. Le cinque e mezzo. Era in servizio dalle sette. C'erano almeno altre tre pratiche in attesa di esame, ma la sua concentrazione andava assottigliandosi, cosa che lo infastidì un poco. Era ora che la raggiungesse, decise. Avevano bisogno di par-
lare. Uscì dall'ufficio, scese nell'atrio e raggiunse le porte girevoli che davano su Broadway. Risalì il fianco dell'edificio - un insieme così poco affascinante di vetro, pietra grigia e impalcature protettive - verso lo spiazzo verde. Deborah era ancora nel punto in cui l'aveva scorta dalla finesta dell'ufficio, in un angolo di quello sbilenco trapezio di prati e alberi. Scrutava la sommità del Suffragette Scroll, poi la studiava attraverso la macchina fotografica montata sul cavalletto. Ma, qualsiasi cosa volesse cogliere attraverso l'obiettivo, pareva che le sfuggisse: Lynley la vide arricciare il naso, alzare le spalle delusa, e cominciare a smontare l'attrezzatura riponendola in una solida custodia di metallo. Lynley protrasse quel momento prima di raggiungerla, osservandone con piacere i gesti, assaporando la sua presenza. Non apprezzava affatto la tenera angoscia esistenziale dell'amare una donna che si trovava a diecimila chilometri di distanza. Di conseguenza l'assenza di Deborah gli aveva fatto passare un periodo tutt'altro che facile e lui ne aveva trascorso la maggior parte col pensiero fisso su quando l'avrebbe rivista in occasione del prossimo breve viaggio in California. Ma adesso era tornata. Era con lui. E Lynley era decisissimo a mantenere stabile tale situazione. Attraversò il prato disperdendo i piccioni che sbecchettavano attorno in cerca delle briciole rimaste dai rapidi spuntini dell'ora di pranzo. Quando si levarono in volo Deborah alzò lo sguardo. I capelli, trattenuti indietro da qualche pettinino infilato a casaccio, scelsero la libertà. Lei borbottò qualcosa, esasperata, e cominciò a rimetterli a posto. — Sai — disse a mo' di saluto — ho sempre desiderato essere come quelle donne di cui si dice che hanno capelli serici. Sai cosa intendo. Tipo Estella Havisham. Sai, Grandi speranze. — Estella Havisham aveva capelli serici? — Le scostò la mano per esaminare quella massa aggrovigliata. — Per forza. Ti par possibile che il povero Pip si innamorasse di qualcuno che non avesse capelli di seta? Figuriamoci. — Mi prendi in giro? — Un pochino. Ma sul serio, non è una pena? Io vivo la mia vita e i miei capelli un'altra. — Be', adesso sono sistemati. Più o meno. — Molto incoraggiante.
Si misero a ridere e cominciarono a raccogliere gli attrezzi sparsi sul prato. Deborah era venuta con cavalletto, macchina fotografica, un sacchetto contenente tre frutti, un vecchio, comodo pullover e la borsa a tracolla. — Ti ho vista dal mio ufficio — disse Lynley. — A cosa stai lavorando? Un omaggio alla signora Pankhurst? — A dir la verità aspettavo che la luce colpisse la sommità del cartiglio. Avevo in mente di creare un effetto di diffrazione. Tentativo sbaragliato dalle nubi, purtroppo. E quando si sono decise ad andarsene, altrettanto aveva fatto il sole. — Fece una pausa meditabonda, grattandosi la testa. — Che atroce manifestazione di insipienza. La natura, intendo. — Frugò nella borsa e ne trasse una caramella che scartò e mise in bocca. Tornarono verso Scotland Yard. — Sono riuscito ad avere libero questo venerdì — raccontò Lynley. — E anche il lunedì. Così possiamo andare in Cornovaglia. O almeno, io sono libero. E se non hai altri progetti, pensavo che potevamo... — si interruppe chiedendosi perché si mostrava tanto incerto. — In Cornovaglia, Tommy? — Il tono di Deborah non era mutato, facendo quella domanda, ma teneva il volto girato dall'altra parte così che lui non poteva scorgerne l'espressione. — Sì. Cornovaglia. Howenstow. Mi sembra opportuno, non credi? So che sei appena tornata e magari è un voler affrettare le cose. Ma dopotutto non hai ancora conosciuto mia madre. Deborah si limitò a un: — Ah. Già. — E se tu venissi a Howenstow sarebbe l'occasione giusta perché anche tuo padre la conoscesse. È ora che si incontrino. Lei fissò accigliata le proprie scarpe consunte e non rispose. — Deb, non si può rimandare in eterno. So quel che pensi. Appartengono a mondi diversi. Non avranno nulla da dirsi. Ma non è vero. Si saranno simpatici. Credi. — È l'ultima cosa che lui vorrà, Tommy. — Ci ho già pensato. E ho trovato la soluzione. Ho chiesto a Simon di venire anche lui. Anzi, è già tutto sistemato. Non aggiunse i particolari del suo breve incontro con St. James e lady Helen Clyde, al Ritz, prima che loro andassero a una cena di lavoro e lui a un ricevimento a Clarence House. E neppure accennò all'evidente riluttanza di St. James e alla pronta scusa di lady Helen. Una quantità enorme di lavoro arretrato, aveva detto, che probabilmente li avrebbe tenuti occupati
in tutti i weekend per un mese almeno. La giustificazione di Helen era stata troppo immediata per essere credibile, e la rapidità con cui l'aveva tirata fuori, unita al deliberato sforzo di non guardare St. James, avevano fatto capire a Lynley quanto tenevano entrambi a starsene lontani dalla Cornovaglia. Sapeva cosa significava. Ma aveva bisogno della loro presenza per via di Cotter e l'accenno al possibile disagio di questi era stato ciò che li aveva convinti. St. James non avrebbe mai lasciato che Cotter affrontasse da solo un penoso weekend come ospite d'onore a Howenstow. E Helen non avrebbe mai abbandonato St. James in quelli che chiaramente visualizzava come quattro giorni di completo sconforto. E Lynley ne aveva approfittato. Per il bene di Cotter, si diceva, rifiutandosi di considerare i motivi secondari, ancor più impellenti, per cui desiderava presentarsi a Howenstow con una brigata di amici. Deborah stava fissando le lettere d'argento sull'insegna girevole di Scotland Yard. — Simon viene? — E Helen. E anche Sidney. — Lynley attese la reazione. Ma ci fu solo un breve cenno del capo, e così concluse che finalmente erano abbastanza vicini a quell'unica area di discussione che tanto a lungo avevano evitato. Si allargava tra loro, intatta, favorendo il potenziale radicarsi di dubbi che dovevano invece essere estirpati una volta per tutte. Ed era decisissimo a farlo. — Lo hai visto, Deb? — Sì. — Passò il cavalletto da una mano all'altra. Non aggiunse altro, lasciando a lui ogni iniziativa. Lynley trasse di tasca portasigarette e accendino. — È una cosa che va definita, Deb. No, non è esatto. Dobbiamo definirla insieme. — L'ho visto la sera che sono tornata, Tommy. Mi aspettava alzato, nel laboratorio. Con un regalo per festeggiare il mio rientro. Un ingranditore. Voleva mostrarmelo. E poi il pomeriggio seguente è venuto a Paddington. Abbiamo parlato. Tutto qui, fu la tacita conclusione. Lynley gettò via la sigaretta, in collera con se stesso, chiedendosi cosa voleva in realtà sentirle dire, chiedendosi perché si aspettava che cancellasse un rapporto che aveva occupato tutta la sua vita, chiedendosi se mai ci sarebbe riuscita. Non gli piaceva il pensiero logorante che il ritorno di Deborah a Londra potesse in qualche modo annullare tutte le parole e gli
atti d'amore che c'erano stati tra loro negli ultimi anni. Forse, nascosto sotto i suoi sentimenti più inquietanti, era il vero motivo per cui voleva a tutti i costi la presenza di St. James a Howenstow: dimostrargli in modo definitivo che Deborah apparteneva a lui. Un pensiero spregevole. — Tommy. Si riscosse: Deborah lo stava fissando. Desiderava toccarla, stringerla a sé. Voleva dirle quanto amava le pagliuzze d'oro che punteggiavano i suoi occhi verdi, e la pelle e i capelli che gli ricordavano l'autunno. Ma sembrava tutto molto ridicolo in quel momento. — Io ti amo, Tommy. Voglio diventare tua moglie. E quello, stabilì Lynley, non era per niente ridicolo. PARTE TERZA Un fatto di sangue 4 Nancy Cambrey strascicava i piedi lungo il vialetto inghiaiato che si snodava dalla foresteria di Howenstow alla grande villa, e sollevava sottili sbuffi di polvere simili a minuscole nubi temporalesche. Era stata un'estate insolitamente asciutta, fino ad allora, e una patina grigiastra copriva le foglie dei rododendri che fiancheggiavano il sentiero; gli alberi che si allargavano su in alto più che dare ombra sembravano trattenere sotto i rami l'aria greve e secca. Negli spazi aperti il vento proveniente dall'Atlantico sibilava attorno Gwennap Head per addentrarsi nella Mount's Bay. Ma lì dove camminava Nancy l'aria era immobile come la morte, e vi si coglieva l'odore di foglie riarse dal sole. Forse, si disse, quello sgradevole senso di pesantezza che le opprimeva i polmoni non era affatto dovuto all'aria. Forse nasceva dalla paura. Si era ripromessa di parlare a lord Asherton la prima volta che fosse venuto per una delle sue rare visite in Cornovaglia. Adesso stava per arrivare. Doveva vederlo. Si passò le dita tra i capelli sentendoli sfibrati e secchi. Negli ultimi mesi aveva cominciato a portarli raccolti con un semplice elastico, ma quel giorno se li era lavati lasciando che si asciugassero per conto loro, sciolti e lisci, tagliati senza grazia attorno al viso e le spalle. Non li sentiva a posto. Sapeva che erano sciupati, non le donavano, mentre un tempo erano stati fonte di timido orgoglio.
Che capelli lucenti hai, Nance. Già. Allora. Un suono di voci, più avanti, la indusse a fermarsi e a sbirciare attraverso le piante. Delle figure si muovevano presso un tavolo sistemato sul prato, dove una vecchia quercia forniva un'ampia ombra. Là stavano affaccendandosi due delle domestiche a giornata di Howenstow. Nancy ne riconobbe le voci. Ragazze con cui era stata bambina, conoscenze che non erano mai diventate amicizie. Appartenevano a quella massa di umanità che viveva al di là della barriera che aveva separato Nancy dagli altri, lì alla tenuta; che le aveva impedito di stabilire un contatto con i piccoli Lynley e al tempo stesso con i figli degli affittuari, dei contadini, dei braccianti e dei domestici. Nancy senza patria, si definiva, e la sua esistenza era stata un continuo tentativo di scavarsi una nicchia che potesse considerare il suo mondo. Adesso l'aveva, magari solo in astratto, ma sicuramente suo, un mondo circoscritto da una bambina di cinque mesi, da Gull Cottage, e Mick. Mick. Michael Cambrey. Laureato. Giornalista. Viaggiatore del mondo. Uomo di idee. E marito di Nancy. Lo aveva voluto fin dal primo momento. Aveva desiderato abbandonarsi al suo fascino, deliziarsi del suo bel fisico, berne la conversazione e la risata spontanea, avvertirne lo sguardo su di sé e sperare di essere il motivo della loro animazione. Così quando si recava per la visita settimanale al giornale del padre di lui a tenerne la contabilità come faceva da due anni, e quando vi trovava Mick invece di suo padre, i suoi inviti a trattenersi un poco per fare due chiacchiere erano stati molto bene accetti. Quanto gli piaceva parlare. Quanto le piaceva ascoltarlo. Con poco da offrire, a parte l'ammirazione, com'era stato facile arrivare a convincersi che in qualche modo doveva contribuire maggiormente al loro rapporto. E l'aveva fatto: sul materasso nel vecchio mulino di Howenstow dove avevano trascorso un intero aprile a far l'amore, concependo la piccola che sarebbe nata in gennaio. Non aveva pensato a come poteva trasformarsi la sua vita. Non si era chiesta se Mick sarebbe rimasto com'era. Solo il presente esisteva, solo le sensazioni contavano. Le mani e la bocca di lui, il suo duro corpo maschile insistente e smanioso, il vago sapore salato della sua pelle e il gemito quando la prendeva. Il sapere che la desiderava aveva cancellato ogni riflessione sulle possibili conseguenze. Erano irrilevanti. Tutto diverso, adesso. — Possiamo riparlarne, Roderick? — aveva sentito dire da Mick. — Da-
ta la nostra situazione economica, una simile decisione da parte tua sarebbe un grosso peso. Discutiamone quando torno da Londra. Era rimasto ad ascoltare, aveva avuto una risatina, aveva messo giù il ricevitore e si era voltato scoprendola mentre si ritraeva dalla soglia, colta ad ascoltare di nascosto, il volto in fiamme. Ma non si era curato della sua presenza. L'aveva semplicemente ignorata tornando al suo lavoro, mentre nella camera da letto al piano di sopra la piccola Molly piangeva, senza nessuno a curarsi di lei. Nancy lo aveva osservato mentre batteva sui tasti del nuovo computer, borbottava qualcosa e prendeva il manuale d'istruzioni. Non si era accostata per parlargli. Si era limitata a torcersi le mani. Data la nostra situazione economica. .. Non erano i proprietari di Gull Cottage. L'avevano solo in affitto, e pagavano mese per mese. Ma erano a corto di denaro; Mick spendeva con troppa disinvoltura. Gli ultimi due mesi di pigione non erano stati versati. Se il dottor Trenarrow decideva di aumentare il canone, e quell'aumento andava ad aggiungersi a quanto già dovevano, sarebbero colati a picco. Lo sapeva bene. E poi, dove andare? Di certo non a Howenstow, dove sarebbero stati costretti a vivere alla foresteria, a dipendere dalla riluttante generosità di suo padre. Inaccettabile. — Questa tovaglia ha un buco, Mary. Ne hai portata un'altra? — No. Mettici sopra un piatto. — E chi diavolo si siede nel bel mezzo della tavola? Le risate giunsero fino a Nancy mentre le domestiche allargavano la tovaglia immacolata che si gonfiò sotto l'improvviso refolo di vento che era riuscito a penetrare l'egida degli alberi. Nancy gli offrì il volto ma quello catturò una frangia di polvere e foglie morte, sollevandole, e lei avvertì un gusto di terra. Sollevò una mano per passarsela sulla faccia ma quel gesto la svuotò di ogni forza. Con un sospiro continuò a trascinarsi verso la villa. Una cosa, naturalmente, era parlare di amore e di matrimonio a Londra. E ben altra avvertire tutto l'esercito di significati impliciti dietro quelle parole disinvolte, come quando se lo vide schierato dinanzi, in Cornovaglia. Quando scese dalla berlina che era andata ad accoglierli alla pista di Land's End, Deborah Cotter era decisamente stordita. E con lo stomaco sossopra. Non aveva mai frequentato l'ambiente di Lynley e, forse ingenuamente, non si era mai domandata cosa significava entrare a far parte della sua famiglia. Sapeva che era conte, certo. Era stata a bordo della sua Bentley,
aveva visto la sua casa di Londra, ne conosceva il domestico. Aveva mangiato nei suoi piatti di porcellana, bevuto dai suoi bicchieri di cristallo, lo aveva visto indossare abiti fatti su misura. Ma tutto ciò rientrava in una categoria di abitudini che lei aveva comodamente etichettato "Il modo di vivere di Tommy". Non aveva mai inciso sulla sua esistenza. Il vedere Howenstow dall'alto, però, mentre Tommy faceva compiere all'aereo due giri sopra la tenuta, era stato il segnale premonitore che la vita da lei condotta per ventun anni era di fronte a una potenziale e radicale trasformazione. La villa era un'enorme costruzione del rinascimento inglese che seguiva la forma di una E variegata e con il trattino centrale mancante. Una vasta ala secondaria si protendeva ortogonalmente dal segmento occidentale: subito dietro il dorso della E c'era una cappella. Alle spalle della villa si raccoglievaano diversi annessi e stalle e, oltre ancora, i terreni di Howenstow si estendevano verso il mare. Lì c'erano mucche che pascolavano tra il folto di sicomori altissimi, con occasionali ondulazioni a proteggerle dai venti a volte impetuosi. Lungo il perimetro un muretto delimitava la tenuta vera e propria ma non i confini delle proprietà degli Asherton che, Deborah lo sapeva, comprendevano allevamenti di mucche da latte, campi coltivati e miniere abbandonate che un tempo rifornivano di stagno la zona. Di fronte alla concreta, innegabile realtà che quella era la casa avita di Tommy - non più l'ambiente illusorio che nei weekend accoglieva ospiti numerosi di cui nel corso degli anni aveva tanto sentito parlare da St. James e lady Helen - Deborah si trovò posta davanti alla risibile immagine di se stessa: Deborah Cotter, figlia di un maggiordomo, che faceva spensieratamente il suo ingresso nella vita di quella villa come se tra quelle pareti ci fossero Manderley e Max de Winter in mesta attesa dell'amore di una semplice fanciulla che desse loro nuova giovinezza. Che diavolo ci faccio qui? Tutta quella situazione era come un sogno, con elementi chimerici a sovrapporsi. Il volo in aereo, la prima visione di Howenstow, la berlina e l'autista in uniforme in attesa vicino alla pista d'atterraggio, perfino il disinvolto saluto di lady Helen a quest'ultimo: — Jasper, mio Dio! Che splendido aspetto! L'ultima volta che sono venuta non si era neppur preso la briga di farsi la barba! — non placarono certo le sue apprensioni. Per fortuna durante il tragitto fino a Howenstow non ci si era aspettato nulla da lei, salvo l'ammirare il paesaggio. E aveva eseguito. Era una zona selvaggia di brughiere desolate, colline rocciose, insenature sabbiose con grotte nascoste che tanto tempo prima erano state il deposito segreto di
contrabbandieri, improvvisi boschi lussureggianti là dove il terreno affondava in avvallamenti, e dovunque viluppi di celidonie, papaveri e pervinche a dominare le strette stradine. Il viale d'accesso a Howenstow si diramava da una di queste, sotto un baldacchino di sicomori e bordato di rododendri. Oltrepassava la foresteria, costeggiava il parco, passava sotto un elaborato ingresso in stile Tudor, girava attorno a un roseto e terminava di fronte a una porta massiccia. Al di sopra di questa un cane da caccia e un leone lottavano fulgidi sullo stemma degli Asherton. Scesero dall'auto e Deborah lanciò alla casa una sola occhiata fuggevole. Pareva deserta. Avrebbe voluto che lo fosse davvero. — Oh. Ecco mia madre — disse Lynley. Voltandosi, Deborah si accorse che non stava guardando la porta d'ingresso, dove lei si aspettava di veder comparire una nobildonna di smodata eleganza, la candida mano tesa mollemente in saluto, ma in direzione dell'angolo sudorientale della villa. Deborah non sarebbe potuta essere più sorpresa alla vista di lady Asherton. Alta e snella, indossava una vecchia tenuta da tennis e si era gettata sulle spalle uno sbiadito asciugamano blu con cui si tergeva energicamente faccia, collo e braccia lucidi di sudore. Era seguita da tre grossi cani. Si fermò un attimo, prese la palla che uno di loro serrava tra i denti e la lanciò con gesto esperto verso il fondo del giardino. I tre sparirono rincorrendola freneticamente e lei si mise a ridere seguendoli brevemente con lo sguardo prima di raggiungere il gruppetto davanti all'ingresso. — Tommy — la voce era morbida — hai i capelli tagliati in modo un po' diverso, no? Mi piace. Molto. — Non lo toccò. Abbracciò invece lady Helen e St. James prima di rivolgersi a Deborah, continuando a parlare accennando al proprio abbigliamento: — Devi scusarmi, Deborah. Non è mia abitudine accogliere gli ospiti così poco agghindata, ma il fatto è che sono spaventosamente pigra e se non faccio un po' di allenamento ogni giorno alla stessa ora va a finire che trovo mille scuse per evitarlo del tutto. Non dirmi che sei uria di quelle terribili salutiste fanatiche che vanno a correre tutte le mattine all'alba. Di certo non era un classico benvenuta-nella-nostra-famiglia. Non era quel tipo di accoglienza che riesce a mescolare la cortesia d'obbligo con un'inequivocabile disapprovazione. Deborah non sapeva bene come intenderla. Come se capisse perfettamente e desiderasse aiutarli a superare nel mo-
do più liscio quei primi momenti, lady Asherton sorrise, strinse la mano a Deborah e si rivolse al padre di lei. Fino ad allora Cotter se n'era rimasto in disparte. — Signor Cotter — disse lady Asherton — posso chiamarla Joseph? Sono davvero felicissima che lei e sua figlia entriate a far parte della nostra famiglia. Ecco il saluto di prammatica. Con saggio intuito, la madre di Lynley lo aveva riservato alla persona che più ne aveva bisogno. — Grazie, milady! — Cotter intrecciò le mani dietro la schiena quasi temesse che una potesse guizzar via di sua volontà a serrare vigorosamente la destra di lady Asherton. Questa sorrise. Era il sorriso un po' sbieco di Tommy. — Mi chiamo Dorothy, anche se per qualche motivo che non ho mai capito i miei familiari e gli amici mi hanno sempre chiamata Daze. Meglio comunque di Diz che farebbe pensare a dizzy [stordito], e sarei stata costretta a respingere con forza un nome che arrivasse così pericolosamente vicino a descrivere la mia personalità. Cotter pareva sbigottito di fronte a tale chiaro invito a chiamare per nome la vedova di un conte. Ma dopo un attimo di riflessione annuì bruscamente e rispose: — D'accordo, Daze. — Bene — concluse lady Asherton. — Magnifico. Avete visto che splendide giornate? Fa un po' caldo, certo... oggi soprattutto, ma penso che nel pomeriggio si alzerà il vento. Sidney è già arrivata, a proposito. E ha portato con sé un giovanotto molto interessante. Un tipo cupo e malinconico. — Brooke? — domandò St. James. Si era rabbuiato. — Sì. Justin Brooke. Lo conosci, Simon? — Meglio di quanto vorrebbe, a dir la verità — intervenne lady Helen. — Ma lui si impegna a comportarsi bene, vero, Simon? Niente veleno nel porridge. Niente duelli all'alba. Niente zuffe in salotto. Perfetta correttezza per settantadue ore. Pace assoluta a denti stretti. — Ne godrò ogni istante — dichiarò St. James. Lady Asherton scoppiò a ridere. — Ne sono convinta. Quale amena riunione di amici sarebbe completa senza scheletri che sbucano dagli armadi e animi in ebollizione? Mi fa sentir di nuovo una ragazzina. — Prese Cotter sottobraccio e lo condusse in casa. — Voglio mostrarti una cosa di cui sono assurdamente fiera, Joseph — la sentirono dire mentre indicava il vestibolo a mosaico. — È stato fatto da artigiani locali dopo il grande incen-
dio del 1849. Non è da crederci ma, secondo la leggenda, il fuoco... — La voce svanì in lontananza. Dopo qualche istante giunse la risata di Cotter, sonora e convinta. Il nodo allo stomaco di Deborah si attenuò. Il cuore riprese un battito più normale. Il sollievo le pervase i muscoli come una molla che si allenta, facendole capire quanto era stata tesa nella prospettiva di questo incontro fra i due genitori. Sarebbe potuto essere un disastro. E lo sarebbe stato se la madre di Tommy non avesse avuto la capacità di cancellare ogni disagio con poche parole indovinate. — Benvenuta a Howenstow, tesoro. — Lynley le passò un braccio attorno alle spalle e la guidò all'interno dove il soffitto alto e il pavimento a mosaico mantenevano l'aria fresca e umida. Trovarono lady Asherton e Cotter nel salone a destra del vestibolo. Era un locale lungo, dominato da un caminetto di granito sormontato da una testa di gazzella. Soffitto decorato da stucchi e pareti rivestite da pannelli modanati. A questi erano appesi i ritratti a grandezza naturale dei conti e delle contesse di Asherton che contemplavano i loro discendenti nelle pose e negli abbigliamenti più diversi. Deborah si fermò davanti a un gentiluomo del diciottesimo secolo, in calzoni al ginocchio color crema e giacca rossa, appoggiato a un'urna sbreccata, un frustino in mano e uno spaniel ai piedi. — Tommy, santo cielo. È identico a te. — Lo sarebbe di sicuro se solo riuscissimo a indurre Tommy a indossare quelle deliziose brache — osservò lady Helen. Deborah sentì che la stretta del braccio di Lynley si accentuava. Dapprima credette che fosse una reazione alla risata che aveva accolto il commento di lady Helen, ma poi si accorse che la porta all'altro capo della sala si era aperta e un giovanotto alto, con dei logori jeans, stava avanzando a piedi nudi sul pavimento in parquet. Lo seguiva una ragazza dalle guance incavate. Pure lei scalza. Peter, si disse Deborah. A parte l'aspetto emaciato, aveva i medesimi capelli biondi, i medesimi occhi castani, gli stessi zigomi, naso e mascella ben disegnati visibili sui molti ritratti che tappezzavano le pareti. Ma a differenza dei suoi antenati su tela, Peter Lynley portava un orecchino. Una svastica appesa a una sottile catenella d'oro che gli sfiorava la spalla. — Peter. Come mai non sei a Oxford? — La domanda di Lynley rifletteva quel tipo di educazione che non permette di tradire l'irritazione di fronte agli ospiti.
Peter ebbe un rapido sorriso e alzò le spalle. — Siamo venuti in cerca di un po' di sole e abbiamo saputo che avevi avuto la stessa idea. Manca solo Judy a far completa la riunione di famiglia, vero? Rivolse un cenno a St. James e lady Helen e fece avanzare la sua compagna. Con un gesto che replicava quello di Lynley le passò un braccio attorno alle spalle. — Questa è Sasha. — Lei gli cinse la vita; le dita si insinuarono sotto la maglietta sudicia e all'interno della cinta dei jeans. — Sasha Nifford. — Senza aspettare che il fratello procedesse a un'analoga presentazione, Peter accennò a Deborah. — E questa è la futura sposa, immagino. Hai sempre avuto ottimo gusto in fatto di donne. L'hai ampiamente dimostrato nel corso degli anni. Lady Asherton si fece avanti. — È stata una vera sorpresa quando Hodge mi ha detto che erano arrivati Peter e Sasha. E poi mi è parsa una bellissima idea avere qui anche Peter a festeggiare il vostro fidanzamento. — Sono perfettamente d'accordo — replicò tranquillo Lynley. — Vorresti mostrare agli ospiti le loro stanze, mamma? Io mi trattengo qualche minuto con Peter. Per sapere gli ultimi avvenimenti. — Andremo a colazione tra un'ora. È una così bella giornata che abbiamo pensato di apparecchiare fuori. — Bene. Tra un'ora. E adesso, se vuoi pensare a... — Era molto più un ordine che una richiesta. Sentendo quel tono, Deborah si stupì. Guardò gli altri per valutarne le reazioni, ma in loro c'era solo la ferma volontà di ignorare la corrente ostile che vibrava nell'aria. Lady Helen stava esaminando una fotografia, in cornice d'argento, del principe di Galles. St. James ammirava il coperchio di una scatola orientale di tè. Cotter, davanti a una finestra, guardava il giardino. — Tesoro — stava dicendole Lynley — se non ti spiace... — Tommy... — Ti prego di scusarmi, Deb. — Da questa parte, mia cara — lady Asherton le sfiorò il braccio. Deborah non voleva andarsene. Intervenne lady Helen. — Daze, dimmi che mi hai assegnata quella meravigliosa stanza verde che dà sul cortile occidentale. Sai bene quale. Sopra la sala delle armi. Sono anni che sogno di trascorrervi una notte. Dormire con il timore esaltante che qualcuno possa accidentalmente polverizzare il soffitto con un colpo di fucile.
Infilò il braccio sotto quello di lady Asherton e insieme si avviarono alla porta. Non restava che seguirle. Deborah si rassegnò. Ma prima di uscire nel corridoio si volse a guardare Lynley e suo fratello. Stavano di fronte, circospetti, a squadrarsi, pronti a dar battaglia. Tutta l'atmosfera cordiale che quel weekend aveva potuto promettere in precedenza si gelò alla vista dei due e all'improvvisa consapevolezza delle grandi lacune presenti in ciò che sapeva dei rapporti di Tommy con la sua famiglia. Lynley richiuse la porta della sala da musica e seguì con lo sguardo Peter che si dirigeva, con passo attento e preciso, alla finestra dove si accomodò sul sedile cercando una posizione comoda sul cuscino di broccato verde. La tappezzeria alle pareti aveva un disegno di crisantemi gialli su fondo verde e quei colori, uniti alla luce intensa di mezzogiorno, davano a Peter un aspetto ancor più smunto. Adesso seguiva con un dito un'alterazione del vetro facendo il possibile per ignorare Lynley. — Che ci fai qui? Dovresti essere a Oxford. Avevamo trovato un insegnante che ti seguisse durante l'estate. Eravamo d'accordo che saresti rimasto là. — Lynley sapeva che il suo tono era freddo e malevolo, ma era rimasto scosso alla vista del fratello. Peter era scheletrico. Gli occhi segnati di giallo. La pelle attorno alle narici escoriata, coperta di piccole croste. Peter si strinse nelle spalle, imbronciato. — Ma insomma, si tratta solo di una breve visita. Non ho intenzione di trattenermi. Poi torno alla base. Va bene? — Perché sei qui? E non venirmi a raccontare che volevi goderti un weekend di sole perché non la bevo. — Non me ne importa granché di quel che ti bevi o no. Pensa quanto sono stato fortunato ad arrivare proprio adesso, Tommy. Se non fossi piovuto qui all'improvviso mi sarei perso i festeggiamenti. O forse era questa la tua intenzione? Volevi tenermi alla larga? Un altro sporco segreto di famiglia da tenere ben nascosto in modo che la piccola rossa non ne scopra troppi tutti insieme? Lynley attraversò la stanza e lo strappò via dal sedile. — Ti ho chiesto perché sei qui, Peter. Il fratello si sottrasse alla stretta. — Ho piantato tutto, va bene? È questo che volevi sapere? Ho mollato. D'accordo? — Sei impazzito? E dove abiti? — Ho casa a Londra. E non angustiarti: non intendo bussare a quattrini.
Ne ho in abbondanza. — Si scostò per oltrepassarlo andando al vecchio pianoforte Broadwood. Ne toccò i tasti traendone uno staccato dissonante e fastidioso. — Che assurdità. — Lynley cercò di avere un tono ragionevole ma era scoraggiato intuendo il vero significato delle parole di Peter. — E chi è quella ragazza? Da dove arriva? Come l'hai conosciuta? Peter, neanche si lava. Sembra una... Peter si volse di scatto. — Non permetterti simili commenti. È la cosa migliore che mi sia capitata in tutta la mia vita, sappilo. È l'unica cosa decente... che abbia incontrato negli ultimi anni. Questo era credibile. E rivelava anche il peggio. Lynley si avvicinò. — Hai ricominciato con la droga. Credevo che ne fossi fuori. Credevo che fossi tornato in sesto dopo quella cura in gennaio. Invece ci sei ricascato. E non sei stato tu a mollare l'università, vero? Ti hanno buttato fuori. È così, vero? È così? Peter non rispose. Lynley gli prese il mento tra l'indice e il pollice costringendolo a voltare la testa. Adesso erano vicinissimi. — A che punto sei, adesso? Stai provando con l'eroina? O resti fedele alla coca? Hai provato a mescolarle? E non vuoi tentare la stupenda esperienza mistica di iniettartele? Peter non aprì bocca. Lynley insistette. — Sempre alla ricerca del viaggio supremo, eh? Sei arrivato alla conclusione che la droga è tutto? E che mi dici di quella Sasha? State costruendovi un sano rapporto significativo? La coca dev'essere una meravigliosa base per l'amore. Con una tossicomane si può davvero stabilire un solido legame, non sei d'accordo? Ancora Peter si rifiutava di rispondere. Lynley trascinò il fratello fino allo specchio appeso alla parete, dietro l'arpa, e ce lo spinse vicino in modo che fosse costretto a vedere il proprio volto con la barba lunga. Era grigiognolo. Le labbra screpolate. Il naso colava. — Bello spettacolo, vero? — commentò Lynley. — E cosa racconterai a nostra madre? Che non ti fai più? Che hai semplicemente il raffreddore? Lasciato libero, Peter si strofinò il mento nel punto in cui le dita del fratello avevano lasciato un segno sulla pelle malsana. — Tira pure in ballo la mamma — sussurrò. — Tira in ballo quel che vuoi. Cristo, Tommy, come vorrei vederti crepare. 5
Sasha e Peter non si fecero vedere a pranzo e, come se si fossero messi d'accordo in precedenza, nessuno fece commenti in proposito. Tutti invece si diedero molto da fare a passare attorno i vassoi di insalata di gamberi, pollo in gelatina, asparagi e carciofi con gribiche senza far minimamente caso alle due sedie vuote che si fronteggiavano in fondo alla tavola. Lynley era ben lieto dell'assenza del fratello. Aveva bisogno di pensare ad altro. Un elemento di distrazione arrivò quando, cinque minuti dopo l'inizio della colazione, l'amministratore della tenuta aggirò a cavallo l'ala sud della villa dirigendosi alla grande quercia. Ma non pareva badare tanto al gruppo raccolto sotto quell'ombra: teneva lo sguardo rivolto verso una scuderia più in là, dove un ragazzo stava scavalcando agilmente il muretto a secco per poi lanciarsi in corsa attraverso il parco con lampi alterni di colore sotto il sole mentre scompariva ed emergeva dall'ombra degli alberi. Dal tavolo, Sidney gridò allegramente: — Suo figlio va magnificamente a cavallo, signor Penellin. Ci ha portati a fare una galoppata, stamattina, ma Justin e io non riuscivamo a stargli appresso. John Penellin si limitò a un breve cenno di assenso. I suoi lineamenti celtici erano tesi. Lynley lo conosceva abbastanza da capire quando faceva fatica a controllare la collera. — E Justin cavalca piuttosto bene... vero, tesoro? Ma Mark ci ha fatto mangiare la polvere. Brooke si limitò a un: — È in gamba, senz'altro — e tornò a occuparsi del pollo. Mark Penellin giunse sotto la quercia in tempo per sentire le ultime due osservazioni. — Ho solo una buona pratica — dichiarò con generosità. — Anche voi due ve la siete cavata ottimamente. — Si passò il dorso della mano sulla fronte madida. Era una versione addolcita e più snella di suo padre. I capelli neri, striati di grigio, di Penellin erano castani in Mark; i suoi lineamenti scabri erano ancora morbidi nel volto del figlio. Il padre segnato dagli anni e dalle preoccupazioni. Il ragazzo vitale, esuberante. — Peter non c'è? — chiese, passando lo sguardo sui presenti. — Strano. Mi ha telefonato poco fa, dicendomi di venire. — Per pranzare con noi, certo — disse lady Asherton. — Un'ottima idea. Questa mattina c'era un tale scompiglio che non ho pensato di chiamarvi io stessa. Scusatemi. Prego, accomodatevi — accennò ai posti che avrebbero dovuto essere di Sasha e Peter.
Era ovvio che John Penellin non intendeva metter da parte ciò che lo angustiava semplicemente sedendosi a tavola con i suoi datori di lavoro e i loro ospiti. Quella per lui era una giornata lavorativa come le altre e non era venuto lì a segnalare il suo scontento per vedersi escluso da un pranzo a cui comunque non desiderava affatto partecipare. Chiaramente era lì per intercettare il figlio. Grandi amici d'infanzia, Mark e Peter avevano la stessa età. Avevano trascorso anni insieme, condividendo balocchi, giochi e avventure lungo la costa della Cornovaglia. Insieme avevano nuotato, erano andati in barca, erano cresciuti. Solo gli studi erano stati diversi: Peter era andato a Eton, come tutti i maschi di famiglia prima di lui, e Mark aveva frequentato le elementari a Nannurel e in seguito le secondarie a Penzance. Ma quella separazione scolastica non era riuscita a dividerli. La loro amicizia era rimasta salda a dispetto del tempo e della lontananza. Ma non più, se Penellin poteva impedirlo. Lynley avvertì un senso di perdita ancor prima che John Penellin aprisse bocca. Ma era comprensibile che volesse proteggere il suo unico figlio maschio tentando ogni possibile strada per evitare che fosse influenzato dai cambiamenti avvenuti in Peter. — Nancy ha bisogno di te a casa — comunicò Penellin a Mark. — Non è il caso che aspetti Peter. — Ma ha telefonato... — Non mi interessa se anche ha telefonato. Torna alla foresteria. — Ma potreste mangiare un boccone, John... — tentò lady Asherton. — La ringrazio, milady. Non è il caso — ripeté e guardò il figlio con occhi impenetrabili. — Andiamo, ragazzo. — E a Lynley, dopo un cenno di saluto agli altri: — Mi scusi, signore. Girò sui tacchi e tornò verso la villa. Il figlio lo seguì. Fu lady Helen a rompere il gelo lasciato dai due. — Avete idea — cominciò infilzando un gamberetto — di cosa significhi assurgere al trono... non saprei definirla altrimenti... della camera della bisnonna Asherton in occasione del proprio fidanzamento? Considerando come tutti ci passavano davanti in punta di piedi con aria riverente, ogni volta che sono stata qui, ho sempre pensato che fosse riservata alla regina, caso mai fosse capitata da queste parti. — Ah, sì — annuì Sidney. — Con quel letto terrificante. Tutto a panneggi. La testata gremita di demoni e mostri come un incubo di Gringling Gibbons. Quella sarà la vera prova d'amore, Deb. — Come la principessa sul pisello — aggiunse lady Helen. — Ti è mai
capitato di dormirci, Daze? — La bisnonna era ancora viva quando sono venuta qui la prima volta. Non ho mai occupato quel letto; ci ho passato diverse ore seduta accanto, a leggere la Bibbia. Ricordo che la bisnonna nutriva una vera passione per certi brani decisamente foschi del Vecchio Testamento. Approfondite indagini su Sodoma e Gomorra. Perversioni sessuali. Lussuria e lascivia. Ma non si curava molto di come Iddio puniva i colpevoli. "Che sia il Signore a decidere" diceva, e poi mi faceva cenno: "Continua, piccola". — E tu continuavi? — volle sapere Sidney. — Naturale. Avevo solo sedici anni. Credo di non aver mai letto nulla di più travolgente in vita mia. — Ebbe una risata incantevole. — Considero la Bibbia in gran parte responsabile della vita peccaminosa... — abbassò improvvisamente lo sguardo e giocherellò con il tovagliolo. Il sorriso svanì, poi riapparve con una certa sfumatura decisa. — Tu ti ricordi della bisnonna, Tommy? Lynley era concentrato sul suo bicchiere di vino, sull'impossibilità di definire il colore di un liquido a mezza strada fra il verde e l'ambra. Non rispose. Deborah gli sfiorò la mano, un contatto così breve da essere quasi inesistente. — Quando ho visto quel letto mi sono chiesta se sarebbe stato molto scortese da parte mia dormire sul pavimento — confessò. — In realtà quasi ci si aspetta che quella mostruosità prenda vita al primo calar della notte — convenne lady Helen. — Ma ugualmente muoio dalla voglia di provarlo. L'ho sempre desiderato. Perché non mi è mai stato concesso? — Non sarebbe poi tanto atroce, a non essere da soli. — Sidney guardò Justin inarcando un sopracciglio. — Con un altro corpo a dare sicurezza. Un corpo caldo e vivo, intendo. Se la bisnonna Asherton avesse intenzione di aggirarsi per la villa, preferirei che non venisse da me per riscaldarmi. Quanto a voi altri, basta che bussiate due volte. — Con la speranza che qualcuno sia meglio accolto di altri — commentò Justin Brooke. — Solo se si comporta a dovere — rimbeccò Sidney. St. James passò lo sguardo dalla sorella al suo amante, senza dir nulla. Prese un panino e lo spezzò. — Ecco quel che succede a parlare del Vecchio Testamento a colazione — osservò lady Helen. — Basta un accenno alla Genesi e ci si trasforma in una manica di reprobi.
La risata generale fece superare il momento. Lynley li vide disperdersi in direzioni diverse. Sidney e Deborah tornarono verso la villa. Sidney, saputo che Deborah aveva con sé la sua attrezzatura, aveva annunciato che intendeva indossare qualcosa di ammaliante per ispirare a Deborah nuove vette fotografiche. St. James e lady Helen si avviarono verso l'accesso della tenuta e il bosco che si stendeva oltre; lady Asherton e Cotter si allontanarono diretti all'ala nordorientale dove, nascosta in un folto di faggi e tigli, la cappelletta di St. Petroc accoglieva la tomba del padre di Lynley e degli altri Asherton; Justin Brooke borbottò qualcosa circa il volersi trovare un albero sotto cui fare un sonnellino, dichiarazione che Sidney accolse con un gesto di disgusto. Dopo pochi istanti Lynley si ritrovò solo. Un soffio di vento catturò un lembo della tovaglia. Lui vi passò sopra una mano, scostò un piatto e contemplò i resti del pranzo. Era tenuto ad andare da John Penellin dopo una così lunga assenza. L'amministratore se l'aspettava: di certo era in attesa nel suo ufficio, pronto a esaminare con lui i registri e i conti. Lynley paventava quell'incontro. La sua esitazione non aveva nulla a che vedere con la possibilità che Penellin accennasse alle condizioni di Peter e al suo dovere di far qualcosa in proposito; né stava a indicare una mancanza di interesse per l'andamento della tenuta. Il vero scoglio era qualcosa di più sotterraneo: un ritorno, per quanto breve, a Howenstow. Questa volta l'assenza di Lynley era stata particolarmente lunga, quasi sei mesi. Era abbastanza onesto con se stesso da sapere che cosa cercava di evitare recandosi a Howenstow così di rado. Era esattamente ciò a cui si era sottratto per tanti anni o non presentandosi affatto o portando con sé una squadra di amici, come se la vita lì fosse un gran ricevimento all'aperto con lui al centro, a ridere, chiacchierare e versare champagne. Quel weekend non era diverso da tutte le altre visite fatte in Cornovaglia negli ultimi quindici anni. Si era semplicemente servito della scusa di voler circondare Deborah e suo padre di volti familiari per non essere costretto ad affrontare da solo quell'unico volto che non riusciva ad accettare. Era una cosa più forte di lui e al tempo stesso si rendeva conto che il tempestoso rapporto con sua madre doveva in qualche modo placarsi per quei giorni. Ma non sapeva come fare. Ogni parola che lei diceva, per quanto innocua, era come una draga che sollevava emozioni rifiutate e faceva emergere ricordi che desiderava cancellare, imponeva gesti che non aveva l'umiltà
o il coraggio di compiere. Era un nodo fatto di orgoglio, insieme a rancore e senso di colpa e bisogno di incolpare. Sapeva, razionalmente, che suo padre sarebbe morto comunque, ma non era mai stato capace di accettare questo semplice fatto. Molto più facile pensare che una persona e non una malattia lo aveva ucciso. Con un sospiro si costrinse ad alzarsi. Dal punto in cui si trovava poteva vedere che nella stanza adibita a ufficio le veneziane erano state chiuse, a riparo dal sole pomeridiano, ma era sicuro che dietro di esse c'era John Penellin in attesa, ad aspettarsi che lui facesse la sua parte di ottavo conte di Asherton, per quanto poco gradisse la cosa. Si incamminò verso la villa. Il locale dell'amministrazione era stato scelto tenendone presente lo scopo. Situato al pianterreno, di fronte al salotto da fumo e attiguo alla stanza del biliardo, era facilmente accessibile per tutti gli abitanti della casa oltre che per i fittavoli che venivano a versare il dovuto. L'ufficio non rivelava la minima ostentazione. Una stuoia di canapa bordata di verde, invece della moquette, copriva il pavimento. Una mano di pittura, non pannelli o carta, alle pareti a cui erano appese vecchie foto e mappe della tenuta. Dal soffitto disadorno pendevano, sospese a catene di ferro, due lampade con paralumi bianchi, e sotto queste dei semplici scaffali di pino ospitavano decenni di libri contabili, qualche atlante, mezza dozzina di periodici. Lo schedario di rovere, in un angolo, mostrava i segni di una lunga usura, così come la scrivania e la sedia girevole che vi stava dietro. Questa però al momento non era occupata da John Penellin, che svolgeva la maggior parte delle sue mansioni in quell'ufficio. Al suo posto abituale c'era invece una figura esile, rannicchiata come avesse freddo, il volto appoggiato a una mano. Giunto sulla soglia, Lynley si accorse che nell'ufficio c'era Nancy Cambrey. Sebbene la sua presenza lì, invece di suo padre, gli fornisse la scusa che gli serviva per passare oltre e rimandare a tempo indeterminato l'incontro con l'amministratore, si trovò a esitare di fronte alla figlia di questi. Nancy era molto cambiata. I capelli, un tempo di un castano biondo che riluceva sotto il sole, avevano perso gran parte della luminosità e tutta la bellezza: le spiovevano smorti attorno al viso, senza linea. La pelle, un tempo rosea e liscia, con una spruzzata di lentiggini che le formavano una simpatica maschera da bandito sul naso e gli zigomi, adesso era slavata. Tutto l'aspetto di Nancy dava un'impressione di disfacimento. Era sbiadita, spenta, logorata. E questo valeva anche per quanto indossava. Un abituccio informe inve-
ce delle camicette, i golf, gli stivali all'ultima moda che portava una volta. E quel vestito: le pendeva addosso, floscio. Si fermò, la fronte aggrottata. Aveva sette anni più di Nancy, e la conosceva da quando era nata, le era affezionato. Era rimasta incinta, lo sapeva. C'era poi stato un matrimonio riparatore con Mick Cambrey, di Nannurel, e la cosa si era risolta. O almeno così raccontava la lettera di sua madre. Poi, qualche mese dopo, aveva ricevuto l'annuncio della nascita dalla stessa Nancy. Lui aveva mandato il debito regalo e non ci aveva pensato più. Fino a quel momento. Si chiese se una simile trasformazione poteva essere dovuta alla maternità. Un altro desiderio esaudito, pensò con agra ironia: un altro elemento di distrazione. Entrò nell'ufficio e lei balzò in piedi, le mani dietro la schiena. — È venuto a cercare papà — disse. — Lo immaginavo. Dopo pranzo. Speravo appunto di incontrarla, milord. Lynley provò il solito senso di imbarazzo a quell'ultima parola. A volte gli sembrava di avere impiegato buona parte degli ultimi dieci anni a sforzarsi di evitare tutte le situazioni in cui rischiava di sentirla pronunciare. — Aspettavi me? Non tuo padre? — Sì. Infatti. — Girò attorno alla scrivania avvicinandosi alla sedia che si trovava sotto una mappa della proprietà, e sedette. Le mani in grembo, serrate a pugno. In fondo al corridoio la porta esterna sbatté contro il muro, come se qualcuno l'avesse spinta con troppa forza. Dei passi risuonarono sul pavimento di piastrelle. Nancy si addossò allo schienale della sedia, quasi volesse nascondersi da chiunque fosse entrato. Ma invece di dirigersi verso l'ufficio, giunti all'altezza della dispensa quei passi piegarono a sinistra e svanirono oltre la stanza della servitù. Nancy emise un sospiro quasi impercettibile. Lynley andò a prender posto dietro lo scrittoio. — Mi fa piacere vederti. Sono lieto che sia passata di qui. Lei mosse i grandi occhi grigi verso le finestre, rivolgendosi a esse più che a lui. — Devo chiederle una cosa. Ma non so... come cominciare. — Non sei stata bene ultimamente? Sei molto dimagrita, Nancy. Forse il tuo bambino... — Si interruppe, mortificato nel rendersi conto che non aveva idea del sesso della creatura. — No. Molly sta bene. — Continuava a non guardarlo. — Ma sono preoccupatissima. — Di che si tratta?
— Per questo sono venuta. Ma... — Di colpo gli occhi le si riempirono di lacrime che però non traboccarono. L'umiliazione le chiazzava il volto. — Papà non deve venire a saperlo. Assolutamente. Non deve. — Qualsiasi cosa sia, rimarrà fra noi. — Lynley trasse di tasca il fazzoletto e glielo passò. Lei lo serrò tra le mani ma senza servirsene, controllando le lacrime. — Hai difficoltà con tuo padre? — Non io. Mick. Non sono mai andati d'accordo. A causa della piccola. E mia. E di come ci siamo sposati. Ma adesso va ancora peggio. — Posso essere utile in qualche modo? Se non vuoi che intervenga presso tuo padre, non vedo che altro... — Lasciò in sospeso la frase perché fosse lei a completarla. Vide che irrigidiva i muscoli, come raccogliendo le forze prima di spiccare un salto nel vuoto. — Può aiutarmi, sì. Economicamente. — Rabbrividì ma continuò con coraggio. — Io continuo a fare la contabile a Penzance. E a Nannurel. E di sera lavoro all'Anchor and Rose. Ma non basta. Le spese... — Quali spese? — Il giornale, capisce. Il padre di Mick ha dovuto sottoporsi a un intervento cardiaco l'inverno scorso... lo sapeva?... e da allora è Mick a mandare avanti il giornale. Ma vuole rinnovare gli impianti. Vuole nuovi macchinari. Non se la sente proprio di passare il resto della sua vita a Nannurel in un settimanale con rotative che vanno a pezzi e macchine per scrivere antiquate. Ha dei progetti. E buoni. Ma c'è il fatto dei quattrini. Lui spende tanto. Non ce n'è mai abbastanza. — Non sapevo che fosse Mick a dirigere lo Spokesman. — Non è quel che voleva. Quel che sognava. Lui intendeva restarci solo per qualche mese, fino a che suo padre si fosse rimesso. E invece non si è ristabilito in fretta come si pensava. E così io... Lynley si era fatto un quadro abbastanza chiaro. Quello che probabilmente per Mick Cambrey era iniziato come un diversivo - un modo per rendere meno noioso e molesto il periodo da trascorrere presso il giornale di suo padre, a Nannurel - si era trasformato in un impegno a vita con una moglie e una figlia per le quali senza dubbio provava un attaccamento molto limitato. — Ci troviamo in una situazione disastrosa — proseguì Nancy. — Ha comperato dei computer. Due stampanti. Apparecchi da tenere in casa. Apparecchi per l'ufficio. Un mucchio di cose. Ma i soldi mancano. Siamo andati a stare a Gull Cottage ma adesso ci vogliono aumentare l'affitto. Non riusciamo a pagarlo. Siamo già in ritardo di due mesi, e se ci buttano
fuori... — la voce le venne meno ma si riprese — ...non so come ce la caveremo. — Gull Cottage? — Era l'ultima cosa che si aspettava. — Ti riferisci alla vecchia casa di Roderick Trenarrow, a Nannurel? Nancy lisciò il fazzoletto che aveva disteso su una gamba, tirò via un piccolo filo che spuntava dalla A ricamata nell'angolo. — Mick e papà non se la sono mai intesa bene, capisce? E avevamo bisogno di un'altra abitazione, quando è nata la bambina. Così Mick si è messo d'accordo con il dottor Trenarrow perché ci desse il cottage. — E adesso vi trovate scoperti. — Dobbiamo pagare mensilmente. Ma negli ultimi due mesi Mick non ha versato il canone. Il dottor Trenarrow gli ha telefonato, ma lui non si preoccupa affatto. Ha risposto che siamo un po' a corto, che ne avrebbero parlato al suo ritorno da Londra. — Londra? — Un'inchiesta a cui sta lavorando. L'occasione che aspettava per affermarsi come giornalista specializzato. La sua grande aspirazione. È convinto di poterla piazzare, come indipendente. Magari addirittura cavarne un servizio televisivo. E allora arriveranno quattrini in abbondanza. Ma al momento non ce n'è e io ho una gran paura di ritrovarmi sulla strada. O di dover andare a vivere nella sede del giornale. Quella stanzetta sul retro, con una branda. Non possiamo tornare qui, papà si rifiuterebbe. — Mi par di capire che tuo padre non sa niente di queste faccende. — Oh, no! Se sapesse... — si portò una mano alla bocca. — Non ti preoccupare, Nancy. — Era un sollievo per Lynley scoprire che si trattava solo di una faccenda di denaro e non del bisogno di confidarsi e sentirsi compresa. — Ti darò quel che ti occorre e me lo restituirai con tutto comodo. Ma non capisco perché tuo padre non deve essere al corrente. Le spese di Mick per rinnovare le strutture del giornale sono del tutto ragionevoli. Qualsiasi banca sarebbe... — Ma non le sta dicendo tutto — dichiarò John Penellin, sulla soglia. — Solo la vergogna le impedisce di tirar fuori il resto. Pura e semplice vergogna. Tutto ciò che ha avuto da Mick Cambrey. Nancy balzò in piedi con un'esclamazione soffocata, pronta a fuggire. Lynley si alzò per intervenire. — Papà. — Allungò un braccio verso di lui. Tono e gesto chiedevano pace. — Racconta anche il resto — continuò suo padre. Avanzò nell'ufficio
chiudendo la porta dietro di sé, a bloccare l'uscita a Nancy. — Visto che hai sciorinato i tuoi panni sporchi di fronte a Sua Signoria, tira fuori anche il resto. Hai chiesto denaro, vero? Allora raccontagli il resto in modo che capisca che razza di uomo si godrà l'investimento. — Non è come pensi. — Ah, no? — Penellin guardò Lynley. — Mick Cambrey fa delle spese per il giornale, d'accordo. In parte è vero. Ma il resto se lo scialacqua con le sue amichette. E si tratta del denaro di Nancy, sì o no, ragazza? Quattrini che guadagna lei con il suo lavoro. Quanti lavori fai, Nancy? Tutte le varie contabilita a Penzance e Nannurel. E poi tutte le sere all'Anchor and Rose. Con la piccola Molly in un canestro sul pavimento della cucina del pub perché suo padre deve scrivere e non può badare a lei mentre Nancy lavora per mantenerli tutti. Solo che lui non è solo occupato a scrivere, vero? Ha tutte le sue donne. Quante sono adesso, Nance? — Non è vero — replicò Nancy. — Quelle sono cose passate. Si tratta delle spese per il giornale, papà. Nient'altro. — Non aggravare la tua vergogna con una bugia. Mick Cambrey non vale niente e non varrà mai niente. Oh, sì, saprà anche togliere gli abiti di dosso a una ragazzina inesperta e metterla incinta. Ma non sarà mai capace poi di assumersi delle responsabilità a meno di esserci costretto. E guardati, Nance, che magnifica dimostrazione sei del bene che quell'uomo ti vuole. Guarda come sei vestita. Guarda la tua faccia. — Non è colpa sua. — Guarda come ti ha fatto diventare. — Non sa neppure che sono qui. Non mi permetterebbe mai di chiedere... — Ma il denaro lo prenderà, vero? Senza mai domandare da dove arriva. Basta che gli copra le sue necessità. E quali sono le sue necessità, adesso? Ne ha una nuova per le mani, Nancy? O magari due o tre? — No! — Nancy lanciò un'occhiata disperata a Lynley. — È solo che... io... — Scosse il capo, sommersa dall'infelicità. Penellin si accostò con passo greve alla mappa appesa al muro. Era terreo in volto. — Guarda come ti ha ridotta — disse. E poi, a Lynley: — Guardi come quel Mick Cambrey ha ridotto mia figlia. 6
— Vedrai che vengono anche Simon e Helen — affermò Sidney. Pochi istanti prima aveva sfilato un abito color corallo dall'arruffio di vestiti sparpagliati per la stanza. Una tinta che non faceva per lei ma in quel caso la moda aveva il sopravvento. Adesso era uno spumeggiare di chiffon dalle spalle al ginocchio, simile a una nube al tramonto. Lei e Deborah stavano attraversando il giardino verso il parco dove St. James e lady Helen passeggiavano sotto gli alberi. — Venite a vedere Deb che mi scatta le foto — gridò Sidney. — Alla caletta. La bella sirena. Ci state? — Considerando la quantità di inviti diramati dovrebbe esserci una vera folla, tutti in attesa di vedere che tipo di sirena hai in mente — rispose St. James quando li raggiunsero. — Hai ragione — rise Sidney. — Le sirene non usano vestiti, vero? Oh, be'. Al diavolo. Tutta invidia, la tua, perché una volta tanto sono io il soggetto di Deb, e non tu. Ma, lo confesso, l'ho costretta a giurare che non avrebbe puntato l'obiettivo su di te. Che bisogno ha di altre tue foto? Ne avrà già almeno un migliaio. Una documentazione completa di Simon sulle scale, Simon in giardino, Simon in laboratorio. — Non mi pare di aver mai potuto decidere se prestarmi o no. Sidney scrollò il capo e si avviò nuovamente, precedendoli. — Misera scusa. Tu hai già avuto la tua occasione di farti immortalare, Simon. Quindi guardati bene quest'oggi dal rubarmi la scena. — Penso che riuscirò a controllarmi — replicò asciutto lui. — Mi rincresce, ma io non posso impegnarmi in questo senso — l'avvertì lady Helen. — Ho tutte le intenzioni di battermi senza il minimo scrupolo per comparire in primo piano in tutte le foto che Deborah potrà fare. Sono convinta di avere un futuro come modella, in attesa di essere scoperta sui prati di Howenstow. Sidney, più avanti, scoppiò a ridere e continuò la sua marcia in direzione del mare. Sotto gli enormi alberi del parco, dove l'aria era satura dell'odore fertile del terriccio, trovò miriadi di fonti d'ispirazione. Seduta su un grosso ramo spezzato da una burrasca invernale, diventava un malizioso Ariel, liberato dalla servitù. Con un fascio di fiori tra le braccia era Persefone che emergeva dall'Ade. Addossata a un tronco, con un serto di foglie sui capelli, si trasformava in Rosalinda spersa nel sogno dell'amore di Orlando. Dopo aver esplorato tutte queste possibili variazioni di identità, Sidney corse avanti raggiungendo il margine del parco e sparendo al di là di un vecchio cancelletto che si apriva nel muro di pietra. Dopo qualche istante il
vento trasportò la sua esclamazione di gioia. — È arrivata al mulino — disse lady Helen. — Vado a controllare che non finisca in acqua. Senza aspettare una risposta e senza neppure un'occhiata per gli altri due, si allontanò in fretta. Un attimo dopo anche lei aveva superato il cancello. Deborah fu lieta di restare a tu per tu con Simon. C'erano tante cose da dire. Non l'aveva più visto dopo quel loro scontro e, quando aveva saputo da Tommy che sarebbe stato della partita in quel weekend, si era resa conto che avrebbe dovuto dire o fare qualcosa che potesse in qualche modo riparare. Ma adesso che se ne presentava l'occasione si accorse che era impensabile toccare argomenti che non fossero rigorosamente impersonali. Capiva che a Paddington aveva reciso gli ultimi legami tra loro e non c'era modo di cancellare le parole che avevano effettuato quel taglio chirurgico. Proseguirono nella direzione presa da Helen, lentamente come imponeva l'andatura di Simon. Nel silenzio sempre più greve, interrotto solo dalle strida incessanti dei gabbiani, l'irregolarità dei passi di lui sembrava amplificarsi. Deborah cercò nel passato un ricordo che li unisse. — Quando mia madre è morta tu hai riaperto la casa di Chelsea. Lui le lanciò un'occhiata incuriosita. — È stato tanto tempo fa. — Non eri tenuto a farlo. Allora non capivo, avevo sette anni e mi pareva perfettamente normale. Ma tu non avevi nessun dovere. Non so come mai solo adesso me ne rendo conto. St. James districò il piede da un ciuffo di trifoglio. — Non c'è modo, in realtà, di alleviare una simile perdita, vero? Ho fatto quel che potevo. Tuo padre aveva bisogno di un posto dove poter dimenticare. O almeno continuare a vivere. — Ma tu non avevi nessun obbligo. Avremmo potuto trasferirci presso uno dei tuoi fratelli. Stavano tutti e due a Southampton, ed erano tanto più adulti. Sarebbe stato ragionevole. Tu avevi... possibile che avessi solo diciott'anni? Come ti è venuto in mente di assumerti una simile responsabilità ad appena diciotto anni? Perché l'hai fatto? E come mai i tuoi genitori ti hanno lasciato fare? — Era giusto così. — Perché? — Tuo padre aveva bisogno di qualcosa che riempisse quel vuoto. La ferita doveva sanarsi. Tua madre era morta da appena due mesi, e lui era
distrutto. Eravamo molto preoccupati per lui. Se avesse compiuto un gesto disperato... Tu avevi già perso tua madre. Naturalmente ci saremmo sempre stati noi a prenderci cura di te, ma non sarebbe stata la stessa cosa, no? — Ma c'erano i tuoi fratelli, a Southampton. — Se fosse andato a Southampton si sarebbe sentito un di più in una casa già organizzata, un inutile oggetto di pietà. Nella vecchia casa di Chelsea avrebbe avuto delle cose da fare. — St. James le sorrise. — Non ricordi in che condizioni era la casa, vero? Ci sono volute tutte le sue energie, e anche le mie, per renderla abitabile. Non ha più avuto il tempo di tormentarsi. Ha dovuto lasciare che il dolore cominciasse ad attutirsi, riaffrontare la vita. E c'eravamo noi due. Deborah giocherellò con la cinghia della macchina fotografica. Era nuova, rigida, ben diversa da quella piacevolmente consunta della vecchia Nikon ammaccata che aveva usato per tanti anni prima di andare in America. — Per questo sei venuto qui, vero? Per papà. St. James non rispose. Un gabbiano volò sopra di loro, così basso che Deborah poté cogliere il fruscio delle ali che tagliavano l'aria. — L'ho capito stamattina. Come sei generoso, Simon. Volevo dirtelo da quando siamo arrivati. — La generosità non c'entra, Deborah. — Perché no? — Non c'entra e basta. Proseguirono oltrepassando il pesante cancello di faggio e addentrandosi nella fitta vegetazione del declivio che scendeva verso il mare. Sidney, più avanti, gridò qualcosa, ridendo. — Hai sempre detestato l'idea che ti si potesse considerare una persona di cuore, vero? Come se la sensibilità fosse una specie di lebbra. E se non è stata la generosità a farti arrivare qui con papà, di che si tratta? — Solidarietà. Lo fissò. — Verso un domestico? Gli occhi di lui si fecero cupi. Deborah aveva completamente dimenticato gli improvvisi mutamenti di colore che vi si potevano scorgere quando era preso da un'emozione. — Verso uno storpio? — replicò. Quelle parole la sconfissero, riportando entrambi al punto di partenza. Dal masso su cui era seduta, presso il torrente, lady Helen vide St. James procedere cauto tra la vegetazione. Ne spiava la comparsa da quando De-
borah aveva disceso a passo rapido il sentiero, poco prima. Sotto di lei, Sidney sguazzava nell'acqua, le scarpe in una mano e l'orlo dell'abito che si bagnava, dimenticato. Poco più in là Deborah, la macchina fotografica già pronta, studiava la ruota del mulino abbandonato, immobile sotto un intrico di edera e clematide. Poi si inerpicò tra le rocce lungo l'argine, un braccio allargato per tenersi in equilibrio. Sebbene gli elementi pittoreschi della vecchia costruzione di pietra fossero evidenti anche all'occhio inesperto di lady Helen, c'era un'intensità eccessiva nel modo in cui Deborah lo scrutava, come avesse deciso di impegnarsi totalmente nel compito di stabilire le giuste angolazioni e profondità di campo. Quando St. James la raggiunse sul masso, lady Helen lo scrutò incuriosita. Ombreggiato dagli alberi, il suo volto non tradiva nulla, ma lo sguardo seguiva Deborah lungo l'argine, e ogni suo gesto era brusco. Naturale, si disse lady Helen, e non per la prima volta si chiese a quali risorse interiori di buona educazione avrebbero dovuto attingere per arrivare alla fine di quell'interminabile weekend. La passeggiata si concluse in una radura di forma irregolare che risaliva verso un promontorio. Quindici metri sotto di loro, raggiungibile grazie a un ripido sentiero tra rocce e sterpaglia, la caletta di Howenstow scintillava nel sole, meta perfetta di un pomeriggio estivo. Dalla rena fine dell'esigua spiaggia si alzavano visibili vibrazioni di calore. Le rocce di calcare e granito lungo la riva accoglievano ampie pozze animate da minuscoli crostacei. L'acqua era così integralmente cristallina che, se le onde non avessero deciso altrimenti, poteva sembrare coperta da una lastra di vetro. Non era consigliabile andarci in barca, dato il fondo roccioso e il lontano sbocco sul mare aperto, protetto da scogliere, ma era il posto ideale per i bagni di sole. E tre persone stavano sfruttandolo a tale scopo. Sasha Nifford, Peter Lynley e Justin Brooke sedevano su una mezzaluna di scogli sul margine dell'acqua. Brooke era in maniche di camicia. Gli altri due erano nudi. Le costole di Peter sporgevano, senza fasci di muscoli o tracce di grasso a rivestirle. Sasha era più consistente ma molle e flaccida, soprattutto i seni che ondeggiavano penduli quando si muoveva. — Certo, è la giornata adatta per prendere il sole — osservò un po' incerta lady Helen. St. James lanciò un'occhiata a sua sorella. — Forse è meglio...
— Aspetta — lo interruppe Sidney. Brooke tese a Peter Lynley un piccolo oggetto da cui questi fece cadere della polvere sul palmo della mano. Accostò il volto con tale spasmodica bramosia che perfino dall'alto della rupe si poteva vedere il torace che si sollevava nello sforzo si aspirarne ogni particella. Si leccò la mano, la succhiò, infine alzò la faccia al cielo come per ringraziare un dio invisibile. Restituì il flacone a Brooke. Sidney esplose. — Avevi promesso! — urlò. — Maledizione a te. Avevi promesso! — Sid! — St. James l'afferrò per un braccio e avvertì l'irrigidirsi degli esili muscoli sotto l'effetto dell'adrenalina. — Sidney, calma! — No! — Si liberò dalla stretta, buttò via le scarpe e cominciò a discendere il sentiero, scivolando nella polvere, impigliandosi l'abito, continuando a imprecare violentemente contro Brooke, coprendolo di insulti. — Oddio — mormorò Deborah. — Sidney! Giunta in basso, Sidney superò a precipizio la stretta lingua di spiaggia fino agli scogli da dove i tre la guardavano sbalorditi. Si buttò contro Brooke e il suo impeto lo trascinò giù sulla sabbia. Lei gli fu sopra, martellandogli la faccia di pugni. — Avevi detto che potevo stare tranquilla! Bugiardo! Schifoso, lurido, maledetto bugiardo! Dammela, Justin. Dammela. Subito! Lo artigliava, mirando agli occhi. Brooke sollevò le braccia per respingerla e con quel gesto espose la cocaina. Sidney gli morse il polso strappandogli il flacone di mano. Brooke lanciò un urlo quando lei si rimise in piedi, e si buttò ad afferrarla per le gambe, facendola cadere, ma Sidney aveva già raggiunto l'acqua e, aperto il flacone, lo aveva lanciato lontano, con forza rabbiosa. — Ecco là la tua roba — urlò. — Vai a riprendertela. Affoga. Crepa. Sullo scoglio, sopra di loro, Peter e Sasha ebbero una risatina inane mentre Justin scattava in piedi e, tirata su Sidney, cominciava a trascinarla in acqua. Lei gli graffiò il volto e il collo aprendovi quattro solchi sanguinanti. — Lo dirò a tutti — stridette. Brooke le afferrò le braccia imprigionandogliele brutalmente dietro la schiena. Sidney ebbe un grido e lui la costrinse in ginocchio, poi la buttò in avanti e, calcandole un piede contro la spalla, le cacciò la testa sott'acqua. Quando lei si divincolò cercando aria, Brooke la spinse nuovamente giù. St. James sentì che lady Helen si voltava verso di lui. Era gelato dall'or-
rore. — Simon! Giù in basso, Brooke aveva risollevato Sidney. Con le braccia adesso libere lei gli si buttò contro, indomita. — Ti... ammazzo... — Era scossa dai singulti. Provò inutilmente a colpirlo in faccia, tentò una ginocchiata all'inguine. Lui le agguantò i corti capelli fradici, le arrovesciò il capo all'indietro e le tirò un pugno, e poi altri ancora. Sidney si dibatteva, cercando di difendersi, e riuscì a serrargli le mani attorno alla gola. Brooke si strappò via, bloccandole nuovamente le braccia. Ma questa volta lei fu più svelta: girò il capo e gli affondò i denti nel collo, di lato. — Cristo! — Brooke la lasciò, indietreggiò barcollando e si lasciò cadere sulla sabbia. Premette una mano sul punto dove Sidney lo aveva morso e quando la ritrasse era rossa di sangue. Adesso libera, Sidney uscì dall'acqua. L'abito le aderiva come una seconda pelle. Tossiva, si passava le mani sugli occhi e sulle guance. Aveva esaurito le forze. Brooke balzò in piedi con una rauca imprecazione, l'afferrò, la buttò a terra. Poi le fu sopra. Afferrò una manciata di sabbia e gliela sfregò contro il viso e i capelli. Dal loro scoglio, Peter e Sasha assistevano interessati. Sidney si contorceva, tossendo, gridando, sforzandosi vanamente di spingerlo via. — Vuoi far sul serio, eh — ansimò, premendole un braccio sul collo. — Vuoi proprio fare sul serio. Benissimo, allora. Si slacciò i pantaloni. Cominciò a lacerarle il vestito. — Simon! — gridò Deborah. Si girò verso di lui. Non aggiunse altro. St. James comprese perché. Era stordito, fiacco, incapace di muoversi. Furibondo. Senza paura. Ma soprattutto storpio. — Questa discesa — ansimò. — Helen. Per l'amor di Dio. Non posso affrontare questa discesa. 7 A lady Helen bastò una rapidissima occhiata al volto di St. James. Poi toccò il braccio di Deborah. — Svelta! Deborah era paralizzata. Continuava a fissare St. James, impotente, e, quando lui si volse a guardarle, allungò una mano, come volesse toccarlo.
— Deborah! — Lady Helen le prese l'apparecchio fotografico e lo lasciò cadere a terra. — Non c'è tempo. Andiamo! — Ma... — Presto! Il suo tono frenetico riscosse Deborah che scattò verso il sentiero appresso a lady Helen. Si lanciarono giù per quell'aspra discesa verso la cala senza far caso al polverone soffocante che si sollevava come una cortina di fumo. Sulla spiaggia, Sidney si batteva con le rinnovate forze che nascono dal terrore, ma Brooke stava avendo la meglio e la furia precedente andava trasformandosi in un misto di eccitazione sessuale e piacere sadico. Chiaramente, ai suoi occhi, Sidney stava ottenendo ciò che desiderava. Lady Helen e Deborah lo raggiunsero contemporaneamente. Lui era piuttosto robusto ma non in grado di tener testa a quelle due, soprattutto considerando che lady Helen era animata da una buona carica di rabbia. Gli si scagliarono addosso e in meno di un minuto lo scontro si risolse con Brooke a terra boccheggiante, a gemere per un certo numero di calci ben piazzati alle reni. Sidney, in lacrime, si trascinò via imprecando e stringendosi nell'abito a brandelli come per nascondere l'umiliazione. — Ehi. Oh, accidenti — biascicò Peter Lynley. Cambiò posizione appoggiando il capo sul ventre di Sasha. — Sono arrivati i rinforzi, eh, Sasha? Proprio quando cominciavamo a divertirci. Lady Helen alzò il capo di scatto. Era senza fiato, impolverata e tremava da capo a piedi tanto da dubitare di riuscire a camminare. — Ma cos'hai in testa, Peter? — disse in un sussurro rauco. — Che ti ha preso? Questa è Sidney. Sidney! Peter ebbe una risata. Sasha sorrise. Si misero più comodi a godersi il sole. Lady Helen accostò l'orecchio alla massiccia porta della camera di St. James, ma senza udire nulla. Non sapeva bene cosa si aspettasse. Conoscendolo, poteva immaginare che si fosse isolato in cupa solitudine, ma il silenzio al di là dell'uscio era tale che se non lo avesse accompagnato lei stessa in quella stanza due ore prima, avrebbe giurato che era deserta. Be', adesso si era autoflagellato abbastanza. Bisognava tirarlo fuori. Sollevò una mano per bussare, ma prima che potesse completare il gesto, Cotter aprì la porta, la vide, uscì nel corridoio. Diede una breve occhiata dietro di sé - lady Helen poté notare che le tende erano chiuse - e ri-
chiuse. Poi intrecciò le braccia. Fosse stata in vena di fare paragoni mitologici, lady Helen lo avrebbe immediatamente identificato con Cerbero. Ma non era nello spirito adatto: raddrizzò le spalle e giurò che St. James non sarebbe riuscito a tenerla alla larga. — Si è alzato, no? — Tono disinvolto, una domanda rivolta a un amico, trascurando il fatto che la stanza immersa nell'ombra stava a indicare che St. James non si era affatto alzato e non aveva intenzione di farlo di lì a poco. — Tommy ci ha proposto un colpo di vita a Nannurel, stasera. Simon non vorrà perderselo. — Mi ha incaricato di fare le sue scuse. Non si sente tanto bene, questo pomeriggio. Emicrania. Sa com'è. — No. Cotter batté le palpebre. Lady Helen l'afferrò per un braccio conducendolo verso la fila di finestre a vetri piombati, sull'altro lato del corridoio, che si affacciavano su un cortile secondario. — Cotter, per favore. Non lo lasci fare così. — Lady Helen, dobbiamo... — Si interruppe. Il tono paziente stava a indicare che desiderava convincerla. Lei non voleva saperne. — Sa cos'è accaduto, vero? Cotter evitò di rispondere prendendo di tasca un fazzoletto, soffiandosi il naso e poi fissando l'acciottolato e la fontana nel cortile. — Cotter — insistette lady Helen. — È al corrente? — Sì. Deb mi ha raccontato. — E allora si rende conto che non bisogna lasciare che continui a tormentarsi. — Ma mi ha ordinato... — Al diavolo gli ordini. Migliaia di volte lei li ha ignorati agendo di testa sua, se riteneva che fosse per il bene di Simon. E sa bene che adesso è per il suo bene. — Lady Helen si interruppe per escogitare un piano accettabile. — Ecco. L'aspettano nel soggiorno, per un aperitivo. Lei non mi ha visto in tutto il pomeriggio e non poteva essere qui a impedirmi di piombare sul signor St. James. D'accordo? Non l'ombra di un sorriso sfiorò le labbra di Cotter, ma ci fu un breve cenno di assenso. — Va bene. Lady Helen attese che fosse arrivato in fondo al corridoio prima di tornare alla porta ed entrare. St. James era steso sul letto ma si mosse un poco quando lei richiuse l'uscio, quindi non stava dormendo.
— Simon, tesoro — esordì — se te la senti di passar sopra l'atroce allitterazione, siamo invitati a un risveglio della nostra coscienza culturale collettiva con una sortita a Nannurel, stasera. Avremo un gran bisogno di corroborarci con sette o otto robusti sherry, sempre che uno sherry possa essere robusto, se vogliamo sopravvivere. Credo che Tommy e Deborah siano già sulla buona strada in proposito, quindi sarà bene che ti sbrighi se vuoi rimetterti in pari. Era andata alla finestra per aprire le tende. Ne accomodò con grazia i panneggi - più che altro per prendere tempo - e quando non ci fu più modo di continuare a lisciarle, si volse e vide che St. James la stava osservando. Aveva l'aria divertita. — Come sei trasparente, Helen. Lei ebbe un sospiro di sollievo. Non aveva mai pensato che potesse piangere su se stesso, certo. Detestarsi, piuttosto. Ma si accorse che anche quello poteva essersi esaurito nei momenti trascorsi insieme sulla scogliera, dopo che Deborah aveva portato via Sidney riaccompagnandola a casa. Brooke l'avrebbe uccisa o solo violentata, aveva chiesto St. James, mentre io me ne stavo quassù a guardare come inutile voyeur? Al sicuro, senza immischiarmi. Senza correre rischi. Sempre così, per me. Non c'era stata rabbia contenuta, in quelle parole. Solo umiliazione. Che era infinitamente peggio. Gli aveva gridato: È una cosa che non conta! Per nessuno! Solo per te! Era la pura verità, ma non poteva cancellare il fatto che quel tormento senza requie era una ferita sempre aperta sulla fragile superficie del suo amor proprio. — Di che si tratta? — le chiese adesso. — Un torneo di freccette all'Anchor and Rose? — No. Molto meglio. La rappresentazione di Molto rumore per nulla, di sicuro raccapricciante, messo in scena dalla filodrammatica locale. Anzi, stasera è uno spettacolo speciale in onore del fidanzamento di Tommy. Almeno così, stando a Daze, ha dichiarato il pastore quando si è presentato quest'oggi con i biglietti omaggio in mano. — Non sarà lo stesso gruppo... — Che si è esibito in L'importanza di chiamarsi Ernesto due estati fa? Sicuro, mio caro. Proprio quello. — Buon Dio. Come potrà rivelarsi all'altezza di quel grandioso omaggio a Oscar Wilde? Il reverendo Sweeney che dispiega tutta la sua forza espressiva nel ruolo di Algernon mentre le tartine al cetriolo gli si incastra-
no nella dentiera. Per non parlare delle focaccine. — Che ne dici allora della signora Sweeney nei panni di Benedick? — Solo un pazzo ci rinuncerebbe. — St. James afferrò le stampelle, si mise in piedi, trovò il giusto equilibrio e chiuse meglio la vestaglia. Lady Helen evitò di guardarlo trovando la scusa di raccogliere tre petali di rosa caduti da un vaso di fiori posto su una mensola vicino alla finestra. — Qualcuno ha visto Tommy? Lady Helen capì perfettamente il significato della domanda. — Non è al corrente. Siamo riusciti a tenerci alla larga. — Anche Deborah? — È rimasta con Sidney. L'ha aiutata a lavarsi, l'ha messa a letto, le ha portato del tè. — Ebbe una risatina secca. — Il tè è stato il mio prezioso contributo. Non so quale benefico effetto dovesse avere. — E Brooke? — Possiamo avere l'ardire di sperare che ci abbia liberati dalla sua presenza tornandosene a Londra? — Ne dubito. E tu? — Io pure. St. James era fermo accanto al letto. Lady Helen sapeva che sarebbe dovuta uscire per permettergli di vestirsi, ma qualcosa nel suo atteggiamento - un autocontrollo troppo teso per essere credibile - la indusse a restare. Conosceva bene St. James, meglio di qualsiasi altro uomo. Negli ultimi dieci anni aveva potuto osservare da vicino il suo totale impegno nelle analisi e ricerche di laboratorio in collaborazione con la polizia, la sua determinazione a costruirsi una fama di esperto. Si era adeguata alla sua inesorabile introspezione, al suo perfezionismo, al suo atteggiamento autopunitivo quando non riusciva a ottenere quanto si era prefisso. Avevano sempre parlato di tutto: a pranzo e a cena, nello studio di lui con la pioggia battente contro le finestre, durante il tragitto all'Old Bailey, sulle scale, in laboratorio. Ma l'argomento mai toccato era rimasto la sua invalidità. Questa aveva sempre rappresentato una sorta di regione polare dove non erano concesse esplorazioni. Fino a quel giorno, in cima alla rupe. E anche allora, quando finalmente le aveva dischiuso quella breccia tanto attesa, la sua reazione era stata inadeguata. Cosa poteva dirgli ora? Non lo sapeva. Una volta di più si chiese che tipo di legame avrebbe potuto stabilirsi tra loro se lei, otto anni prima, non fosse uscita dalla sua stanza d'ospedale semplicemente perché lui gliel'aveva chiesto. E ubbidirgli, in quel momento, era stato molto più facile del
rischiare di affrontare l'ignoto. Ma non poteva allontanarsi, adesso, senza tentare di dire qualcosa che anche in misura minima - lo restituisse a se stesso. — Simon. — La mia medicina è sul ripiano sopra il lavabo, Helen — disse St. James. — Me ne prendi due compresse? — Medicina? — Lady Helen ebbe un brivido di apprensione. Non pensava di avere frainteso i motivi per cui lui aveva voluto chiudersi in camera sua, quel pomeriggio. E non sembrava che avesse un'emicrania, nonostante quanto aveva detto Cotter. — Semplice misura cautelativa. Sopra il lavabo. — Un breve sorriso, subito scomparso. — È un sistema che adotto certe volte: prima invece che durante. Funziona. E se devo reggere a una serata con il signor Sweeney a calcare la scena, sarà bene che mi fortifichi. Lei si mise a ridere e ubbidì commentando: — Non è una cattiva idea, in effetti. Se la recita di stasera è al livello dell'altra, prima che lo spettacolo sia finito ci saremo tutti imbottiti di analgesici. Forse dovremmo portarci appresso il flacone. Rientrò in camera con le compresse. Lui si era accostato alla finestra ed era proteso in avanti, sulle stampelle, a guardare fuori. Ma osservandone il profilo lady Helen capì che la sua mente era lontana. Un'espressione che smentiva le sue parole, la sua cortese disponibilità, il tono leggero. Si rese conto che perfino il sorriso era stato un espediente per escluderla mentre lui continuava la sua esistenza, come sempre, in solitudine. Non era disposta ad accettarlo. — Saresti potuto cadere — sottolineò. — Simon, ti prego. Quel sentiero era troppo ripido. Avresti potuto lasciarci la pelle. — Verissimo — fu la risposta. L'enorme soggiorno di Howenstow non aveva caratteristiche che mettessero a suo agio chi vi entrava. Le dimensioni erano quelle di un campo da tennis; i mobili - un assemblaggio di pezzi antichi raggruppati in unità salottiere - erano disseminati su una moquette di ciniglia. Con vari Constable e Turner alle pareti, e una schiera di ottime porcellane in mostra, era il tipo di stanza dove non ci si avventura senza apprensione. Da sola, Deborah avanzò cautamente verso il pianoforte a coda per osservare le fotografie che vi erano allineate.
Presentavano le ultime generazioni dei Lynley nel pieno ruolo di conti di Asherton. La quinta contessa, in posa altera, la fissava con l'espressione scarsamente amichevole così diffusa nelle fotografie dell'Ottocento; il sesto conte in sella a un poderoso baio guardava dall'alto una muta turbolenta di cani da caccia; l'attuale lady in abito da cerimonia per l'incoronazione della regina; Tommy e i suoi fratelli attraverso una giocosa giovinezza di opulenza e privilegi. Solo il padre di Tommy, il settimo conte, era assente. Mentre notava la cosa, Deborah si rese conto di non averne incontrato l'immagine in tutta la casa, in fotografia o in dipinto, circostanza che le parve decisamente strana considerato che ne aveva visto diverse foto nella casa di Tommy, a Londra. — Promettimi di sorridere, quando poserai per unirti a loro. — Lady Asherton veniva verso di lei, un bicchiere di sherry in mano. Era fresca e luminosa nel morbido abito bianco. — Io volevo sorridere, ma il padre di Tommy ha dichiarato che assolutamente non era cosa da farsi e io ho ceduto senza battermi. Ero così, da giovane. Spaventosamente malleabile. — Sorrise, prese un sorso di sherry e si allontanò dal piano per andare a sedersi nel vano della finestra subito dietro. — Ho trascorso un bellissimo pomeriggio con tuo padre, Deborah. Ho chiacchierato senza sosta e lui è stato di una cortesia squisita, ascoltando come se tutto quel che dicevo fosse il massimo dello spirito e del buon senso. — Rigirò il bicchiere sul palmo con l'aria di osservare i riflessi di luce nel cristallo tagliato. — Tu sei molto legata a tuo padre. — Sì. — Succede spesso quando si perde un genitore, vero? Nella disgrazia si trova qualche conforto. — Certo, ero molto piccola quando mia madre è morta — osservò Deborah, cercando di giustificare il distacco che aveva inevitabilmente colto tra Tommy e sua madre. — Ed è stato naturale che tra me e papà si stabilisse un vincolo molto profondo. Lui doveva assolvere due funzioni: fare da padre e da madre a una bambina di sette anni. E non avevo fratelli. Be', c'era Simon, ma lui era... non so bene. Uno zio? Un cugino? Il compito di allevarmi è toccato soprattutto a mio padre. — E di conseguenza siete molto uniti. Una vera fortuna. Deborah non avrebbe definito il rapporto con suo padre frutto di un colpo di fortuna. Era piuttosto il risultato di anni di pazienza paterna, di volonterosa comunicazione. Con la responsabilità di una figlia dal carattere
impetuoso, radicalmente diverso dal suo, Cotter era riuscito a adattare la propria mentalità nello sforzo continuo di comprendere quella di lei. Il loro attaccamento di adesso era dovuto solo agli anni in cui i semi di un futuro rapporto erano stati piantati e coltivati. — C'è qualcosa che non va tra te e Tommy, vero? — chiese. Lady Asherton sorrise, ma aveva l'aria molto affaticata. Per un attimo Deborah pensò che la stanchezza potesse avere la meglio sul riserbo e indurla ad accennare a quanto stava alla base della frattura tra lei e il figlio. Invece si limitò a dire: — Tommy ti ha accennato allo spettacolo di stasera? Shakespeare sotto le stelle. A Nannurel. — Delle voci giunsero dal corridoio. — Lascio che te ne parli lui, d'accordo? — Quindi si volse verso la finestra da cui giungeva, portato dalla brezza, l'odore salmastro del mare. — Se ci corroboriamo a sufficienza forse riusciremo a sopravvivere a questa prova con una parvenza di lucidità mentale. — Lynley entrò ridendo, si diresse a un tavolino e versò tre sherry. Porse un bicchiere a lady Helen, uno a St. James e vuotò d'un sorso il proprio prima di scorgere Deborah e sua madre all'altro capo della sala. — Hai detto a Deborah di stasera? Lady Asherton sollevò appena una mano dal grembo. Come il sorriso, quel gesto sembrava gravato dalla fatica. — Mi è parso più opportuno lasciare a te questo compito. Lynley riempì di nuovo il bicchiere. — Giusto. Be' — rivolse un sorriso a Deborah — c'è una recita a cui dobbiamo presenziare, tesoro. Vorrei poterti dire che ci andremo sul tardi e ce la svigneremo nell'intervallo, ma il reverendo Sweeney è un vecchio amico di famiglia e ci resterebbe malissimo se non assistessimo a tutto lo spettacolo. — Per quanto atroce, come sicuramente sarà — aggiunse lady Helen. — Volete che faccia qualche foto, già che ci siamo? — propose Deborah. — Dopo la rappresentazione, voglio dire. Se il signor Sweeney è un caro amico, forse gli farà piacere. — Tommy con gli attori — commentò lady Helen. — Il reverendo non starà in sé dalla gioia. Che idea meravigliosa! Ho sempre sostenuto che sei un animale da palcoscenico, vero; Tommy? Lynley si mise a ridere, replicò con una battuta. Lady Helen continuò a chiacchierare. Nel frattempo St. James prese il suo bicchiere e si diresse verso due grandi vasi cinesi ai lati della porta che dava nella lunga galleria elisabettiana, a un'estremità del soggiorno. Fece scorrere le dita sulla liscia porcellana seguendone il complesso disegno a smalto. Sembrava impegna-
tissimo a non guardare nessuno. Deborah non si aspettava nulla di diverso, dopo quel pomeriggio. Anzi, se il far finta di non esserci lo aiutava a dimenticare l'accaduto, era disposta a seguire la stessa linea di condotta pur sapendo che, per quanto la riguardava, non sarebbe riuscita a scordare molto presto. Era stato abbastanza orribile strappar via Brooke da Sidney, sapendo che le azioni di lui non erano dettate da passione o desiderio ma dalla violenza e dal bisogno di schiacciare la volontà della ragazza. Ma ancor peggio era stato aiutare Sidney a risalire la scogliera, sentirne i singhiozzi isterici, sorreggerla per evitare che cadesse. Il volto le sanguinava e già cominciava a gonfiarsi. Le parole che balbettava erano incoerenti. Tre volte si era fermata, rifiutandosi di proseguire, piangendo a dirotto. Un incubo. Ma giunte in cima aveva visto Simon, addossato a un albero, che le seguiva con lo sguardo: il volto era seminascosto e la mano destra si afferrava alla corteccia con tale forza che i tendini sporgevano. Deborah avrebbe voluto andargli vicino. Non avrebbe saputo dire perché, a che possibile scopo. Il suo unico pensiero razionale in quel momento era che non poteva lasciarlo solo. Ma quando aveva mosso un passo verso di lui lady Helen l'aveva fermata, sospingendola con Sidney lungo il sentiero che conduceva alla villa. Quel tragitto era stato un altro incubo. Lo ricordava vividamente, immagine dopo immagine. Incontrare Mark Penellin nel bosco; cercare affannosamente scuse assurde per le disastrose condizioni di Sidney; avvicinarsi alla casa con il timore crescente che qualcuno potesse vederle; sgusciare oltre la sala delle armi e l'ex stanza della servitù in cerca delle scale che stando a Helen si trovavano vicino alla dispensa; e, giunte in cima, sbagliare direzione e ritrovarsi nell'ala occidentale, in disuso; e sempre con il terrore che Tommy le intercettasse e cominciasse a fare domande. E nel frattempo Sidney era passata dall'isterismo alla rabbia, alla disperazione e infine al silenzio. Ma era un silenzio inebetito che aveva spaventato Deborah ancor più dell'esagitazione di prima. Un'esperienza che aveva messo a dura prova i suoi nervi, e quando Justin Brooke comparve nel soggiorno, vestito di tutto punto e con l'aria di non aver mai tentato di violentare nessuno di fronte a cinque testimoni, poche ore prima, Deborah si trattenne a malapena dallo scagliarsi contro di lui con un urlo. 8
— Santo cielo, che ti è successo? — Il tono di Lynley era così sorpreso che St. James interruppe il suo studio del vaso Kang H'si per voltarsi e vedere Justin Brooke che accettava con perfetta disinvoltura il bicchiere che gli veniva offerto. Cristo, pensò St. James, quel tipo aveva sul serio la faccia tosta di unirsi a loro, nella compiaciuta certezza che fossero tutti troppo civili per far parola dell'accaduto finché Lynley e sua madre erano presenti. — Sono caduto, nel bosco. — Brooke si guardò attorno, sfidandoli uno dopo l'altro a smentirlo. St. James si accorse di serrare i denti per trattenere quel che avrebbe voluto dire e notò, con una soddisfazione atavica che non si negò, i notevoli danni apportati da sua sorella al volto di Brooke. Le guance erano rigate da graffi. Su una mascella si scorgeva un livido. Il labbro inferiore era gonfio. — Caduto? — Lynley stava osservando i segni infiammati del morso sul collo, solo in parte nascosto dalla camicia. Girò sugli altri un'occhiata indagatrice. — Dov'è Sidney? Nessuno rispose. Un bicchiere tintinnò su un tavolino. Un colpetto di tosse. Ci furono dei passi in corridoio e Cotter entrò nel soggiorno fermandosi due passi oltre la soglia come se avesse colto al volo la situazione e ora nutrisse qualche incertezza. Mosse lo sguardo verso St. James, una reazione automatica che chiedeva istruzioni, e lo vide distaccato dalla scena. Rimase dov'era. — Dov'è Sidney? — ripeté Lynley. Lady Asherton si alzò. — È successo...? Deborah intervenne in fretta. — L'ho vista mezz'ora fa, Tommy. — Era arrossita e quel colore contrastava con il fuoco dei capelli. — È rimasta troppo al sole, quest'oggi, e preferiva... ecco, ha detto che voleva riposare. Sì. Un po' di riposo. Prega di scusarla e... sai com'è Sidney. Sempre così frenetica. Brucia le energie come se... Comprensibile che sia esausta. — Si sfiorava la gola con le dita, quasi la mano volesse chiuderle le labbra a impedire che quelle bugie diventassero ancor più evidenti. Suo malgrado, St. James sorrise. Rivolse un'occhiata al padre di Deborah che scosse leggermente il capo a riconoscere quanto entrambi sapevano benissimo. Helen avrebbe potuto farcela. Lei sì sarebbe stata capace di inventare disinvolte spiegazioni che placassero acque agitate, ma Deborah era assolutamente negata per quel genere di artifici mondani. L'ingresso di Peter Lynley risparmiò agli altri di dover ricamare sulla
versione di Deborah. A piedi nudi ma con una camicia pulita, portata fuori dai pantaloni, era seguito da Sasha in un abito verde azzurro che faceva risultare ancor più giallastro il suo colorito. Lady Asherton si diresse verso di loro come volesse intervenire in quello che vedeva come scontro imminente. Peter non fece il minimo caso a sua madre. Anzi, ignorò tutti i presenti. Si passò il dorso della mano sotto il naso e raggiunse il mobile bar. Si versò un whisky, che buttò giù in fretta, poi un secondo per sé e uno per Sasha. Se ne restarono a portata di mano dalle bottiglie, isolati dagli altri. Lynley depose il bicchiere. Lady Asherton prese a dire: — Ho incrociato Nancy Cambrey oggi pomeriggio, Tommy. Sono un po' preoccupata per lei. L'ho trovata molto dimagrita. Per caso l'hai incontrata? — L'ho vista. — Lynley fissava il fratello e Sasha. La sua espressione era indecifrabile. — Mi è parsa terribilmente in pena per qualcosa. Credo che riguardi Mick. Sta lavorando a un'inchiesta che lo ha tenuto spesso lontano da casa negli ultimi mesi. Te ne ha parlato? — Abbiamo fatto due chiacchiere. — E ti ha accennato all'inchiesta, Tommy? Perché... — Ha detto qualcosa, sì. Lady Helen intervenne con una manovra diversiva. — Che abito delizioso, Sasha. Come vorrei poter indossare anch'io questi cotoni stampati indiani, ma su di me hanno un effetto disastroso. Vi ha trovati, poi, Mark Penellin? Simon e io l'abbiamo incontrato nel bosco e stava cercandovi. — Mark? — Peter passò una mano sui capelli di Sasha. — No, non l'abbiamo visto. Lady Helen diede uno sguardo a St. James. — Ma noi sì. Non vi ha trovati alla caletta? Oggi pomeriggio? Peter ebbe un pigro sorriso soddisfatto. — Non eravamo alla caletta, oggi pomeriggio. — Non eravate... — Voglio dire, in un certo senso c'eravamo, ma di fatto no. Quindi se fosse venuto a cercarci ci avrebbe visti ma non avrebbe visto noi. O forse è stato dopo che siamo andati in acqua. E allora non ci ha visti affatto. Troppo lontani. Meglio così. Che ne dici, Sasha? Ebbe una risatina e fece scorrere le dita lungo il naso della ragazza, poi sulla labbra. Lei le leccò, come un gatto.
Magnifico, si disse St. James. E siamo solo a venerdì. Nannurel era la riuscita combinazione di quelli che sarebbero dovuti essere due ambienti separati: un antico villaggio di pescatori e un moderno centro turistico. Costruita a semicerchio attorno a un porto naturale, le sue case si inerpicavano sul fianco della collina punteggiata di cedri, cipressi e pini, costruite con la pietra grigio-bruna proveniente dalle cave della zona, in alcuni casi intonacata e in altri lasciata al naturale. Le strette vie permettevano il passaggio di una sola auto e seguivano uno strano tracciato sinuoso dettato dall'andamento delle alture più che dalle esigenze delle macchine. Le barche da pesca affollavano il porto, cullate dalla marea e protette da due lunghi moli ricurvi. Lungo i margini dell'insenatura si accovacciavano fabbricati di forme curiose: cottage, botteghe, locande, ristoranti; un passaggio irregolare, in acciottolato, che correva lungo la banchina permetteva agli abitanti l'accesso all'acqua. Centinaia di uccelli marini stridevano dai comignoli e dai tetti di ardesia, e altre centinaia volteggiavano tracciando cerchi sul porto e inoltrandosi nella baia dove, in lontananza, il monte St. Michel si profilava nella luce morente della sera. Una folla notevole si era raccolta sui prati delle scuole elementari là dove il reverendo Sweeney e sua moglie avevano fatto erigere un umile teatro all'aperto. Consisteva di soli tre elementi: una robusta piattaforma come palcoscenico; una schiera di sedie pieghevoli d'anteguerra per il pubblico; e in fondo al giardino, nelle vicinanze della strada, il chiosco dei rinfreschi dove già si vendevano buone quantità delle bevande fornite dal maggiore pub del paese, l'Anchor and Rose. Nancy Cambrey, notò Lynley, riempiva i boccali. Il pastore in persona accolse il loro gruppo sul cancello, il volto carnoso illuminato da un estatico sorriso di benvenuto e coperto da uno spesso strato di cerone attraverso cui sprizzava il sudore. Già in costume di scena, offriva un ben incongruo spettacolo, in farsetto e calzamaglia, e la testa calva che riluceva sotto i festoni di luce che si incrociavano sopra lo spiazzo. — Mi metterò una parrucca, naturalmente — assicurò il signor Sweeney con amabile autoironia. Salutò St. James e lady Helen con l'espansività di un vecchio amico e poi chiese entusiasticamente di essere presentato a Deborah, formalità che subito mise in disparte prorompendo in un: — Mia cara, siamo così felici di averla qui stasera! Lei e il futuro sposo. Davvero
magnifico! — ancor prima che Lynley potesse aprir bocca. E si sarebbe forse anche esibito in un profondo inchino se la precaria abbottonatura della brachetta non avesse vietato qualsiasi brusco movimento. — Vi abbiamo sistemati in prima fila, così non vi perderete niente. Perdersi qualcosa, perdersi parecchio, perdersi l'intera rappresentazione sarebbe stato troppo sperare considerato che da tempo la filodrammatica di Nannurel era nota per il carattere stentoreo delle sue interpretazioni più che per la sensibilità artistica. A ogni modo, sotto la guida del signor Sweeney - la cui consorte presentava una Beatrice tracagnotta che sfoggiava un rimarchevole palpitar di seno nel pronunciare le sue battute in toni molto più infiammati di quanto richiedesse la parte - il dramma procedette con vibrante entusiasmo fino all'intervallo. A quel punto il pubblico scattò in piedi come un solo uomo e puntò verso la baracchetta con funzioni di bar per concedersi una pausa ristoratrice a base di birra bionda o scura. L'unico vantaggio dell'essere gli ospiti d'onore si rivelò nella rapidità con cui Lynley e i suoi amici poterono raggiungere il chiosco dei rinfreschi. La folla, che qualche attimo prima avanzava compatta verso la meta agognata, si aprì docilmente concedendo loro pronto accesso a quel luogo di salvezza. L'unico altro personaggio ad approfittare di tale varco in quella massa che si spingeva e si accalcava fu un tipo alto, di mezz'età, che riuscì a toccare per primo il traguardo. Adesso si volse reggendo un vassoio carico di bicchieri e l'offrì a Lynley. — Prego, milord. Lynley fissò incredulo Roderick Trenarrow e il vassoio. L'intento di quel gesto a cui non poteva sottrarsi era inequivocabile: una pubblica dimostrazione di cordialità. Come sempre, Trenarrow aveva saputo scegliere magistralmente l'occasione. — Roderick. Molto gentile da parte tua. Trenarrow sorrise. — La fortuna di avere un posto qui vicino. — Strano. Non avrei pensato che Shakespeare fosse il tuo genere. — A parte Amleto, vuoi dire? — replicò tranquillo l'altro. Poi volse lo sguardo sugli altri, aspettando chiaramente di venire presentato. Lynley eseguì senza tradire il minimo sconcerto per quell'incontro inaspettato. Trenarrow si aggiustò sul naso gli occhiali dalla montatura d'oro e si rivolse al gruppo: — La signora Sweeney mi ha colto di sorpresa sull'autobus mentre venivo da Penzance e prima ancora che me ne rendessi conto avevo acquistato un biglietto per la recita di stasera e avevo giurato che sa-
rei stato presente. Ma il cielo ha avuto pietà: siedo nell'ultima fila e se lo spettacolo dovesse rivelarsi ancor più sconvolgente posso farmi altri sei o sette boccali e obnubilarmi. — Esattamente il nostro pensiero — affermò lady Helen. — Ogni estate impariamo meglio la lezione, con la nostra filodrammatica — continuò Trenarrow. — Prevedo che l'anno prossimo parecchi vorranno i posti in fondo. Finirà che nessuno vorrà più occupare le prime file e la signora Sweeney sarà costretta ad allestire le rappresentazioni all'interno del chiosco se vorrà incatenare la nostra attenzione. Gli altri si misero a ridere. Lynley, no. Lo infastidiva, anzi, che cedessero così facilmente al fascino di Trenarrow, e osservò l'altro come se un'analisi delle sue caratteristiche fisiche potesse rivelargli a cosa era dovuto il suo ascendente. Come sempre non vedeva l'insieme ma i particolari. Folti capelli castani che finalmente mostravano i segni degli anni nei fili argentei che si dipartivano dalle tempie; un abito di lino, non nuovo ma di taglio impeccabile; mascella decisa, senza ombra di flaccidità nonostante i cinquanta fossero vicini; la risata calda, spontanea; le sottili rughe attorno agli occhi; e gli occhi, scuri e pronti a valutare e intuire. Lynley catalogò tutti questi dati senza un metodo particolare: solo una serie di impressioni fuggevoli. — Ho visto che Nancy Cambrey si è messa a lavorare per l'Anchor and Rose, oltre al resto — osservò. Trenarrow, presso al banco, si volse a mezzo. — Già, così pare. Mi stupisce, visto che adesso ha anche la bambina. Non deve essere facile per lei. — Ma l'aiuterà a risolvere i problemi economici, non credi? — Lynley prese una sorsata di birra. Non era abbastanza fresca per i suoi gusti e avrebbe preferito versarla ai piedi della palma lì accanto. Ma Trenarrow avrebbe letto dell'animosità in quel gesto. — Senti, Roderick — riprese bruscamente — ho intenzione di coprire io i debiti che ha con te. Queste parole e il tono in cui le pronunciò interruppero la conversazione degli altri; Lynley colse il disagio di Deborah, al suo fianco, e l'espressione perplessa di Trenarrow. — Coprire i debiti? — Non voglio che Nancy sia costretta a supplicare. Al momento non possono permettersi un aumento di affitto e... — Affitto? Queste blande ripetizioni erano più che irritanti. Trenarrow voleva esasperarlo, fargli alzare la voce. — Ha paura di perdere Gull Cottage. Le ho
detto che avrei pensato io a saldare il dovuto. E adesso lo dico a te. Trenarrow si portò lentamente la birra alle labbra osservando Lynley al di sopra del boccale. — Il cottage. Capisco — rivolse un'occhiata meditabonda al chiosco. — Non è il caso che Nancy si preoccupi. Mick e io troveremo un accordo. Non avrebbe dovuto ricorrere a te. Non si smentiva mai, pensò Lynley. L'animo nobile. E scaltro, anche. Sapeva quel che faceva. Tutto quello scambio rientrava nei duelli verbali che li avevano visti di fronte innumerevoli volte nel corso degli anni, saturi di parole a doppio taglio e di sottintesi. — Ho detto che me ne occuperò io e lo farò — Lynley cercò di smorzare la durezza del tono se non dell'intenzione dietro le parole. — Non è assolutamente il caso che tu... — Ci perda? — Trenarrow lo fissò calmo prima di rivolgergli un sorriso studiato. Vuotò il boccale. — Molto cortese da parte di Sua Signoria. E adesso, se vuoi scusarmi, temo di avere approfittato già troppo del vostro tempo. Mi pare che ci siano altre persone che desiderano essere presentate. — Si congedò con un breve cenno del capo. Lynley lo seguì con gli occhi, riconoscendo come sempre il tempismo di Trenarrow. Una volta di più era uscito dalla comune piantandolo lì come un babbeo. Aveva daccapo diciassette anni. Di fronte a Trenarrow lui avrebbe sempre avuto diciassette anni. La voce animata di lady Helen venne a colmare quella pausa. — Santo cielo, che splendido uomo, Tommy. Fa il medico? Di sicuro le donne del paese faranno tutti i giorni la fila davanti al suo ambulatorio. — Non è un internista — precisò automaticamente Lynley. Rovesciò la birra che restava nel boccale contro il tronco della palma e la vide formare una piccola pozza sul terreno asciutto e indurito. — Si occupa di ricerche mediche, a Penzance. Ecco il motivo per cui era arrivato a Howenstow, giovane medico di appena trent'anni, chiamato come ultima risorsa a visitare il conte che stava morendo. Nessuna speranza. Aveva spiegato, con quei suoi modi seri, che non si poteva far altro che andare avanti con la chemioterapia, che non c'era una cura nonostante quel che si leggeva sulle riviste e a cui si desiderava tanto credere, che c'erano decine di tipi diversi di cancro, che quello era solo un termine generico, che il corpo stava morendo a causa della sua incapacità di arrestare la proliferazione di cellule, che gli specialisti non ne sapevano abbastanza, che gli studi e i tentativi continuavano ma ci sarebbero voluti anni, decine di anni... Aveva espresso il suo rincrescimento.
Aveva mostrato profonda comprensione e pietà. E così il conte aveva continuato nel suo lento e doloroso declino e infine era morto. E la famiglia lo aveva pianto. E il circondario lo aveva pianto. Tutti, salvo Trenarrow. 9 Nancy Cambrey sistemò in uno scatolone gli ultimi boccali che dovevano essere riportati all'Anchor and Rose, a poca distanza giù per la discesa. Era stanchissima. Per fare in tempo ad arrivare lì e preparare tutto quanto aveva saltato la cena e quindi si sentiva anche un po' stordita. Era un vero sollievo che la serata si fosse finalmente conclusa. Lì vicino la padrona - la temibile signora Swann - controllava l'incasso della serata con la sua solita passione per tutto ciò che era denaro. Muoveva silenziosamente la labbra contando monete e banconote, annotando cifre sul suo registro rosso con le pagine dagli angoli sgualciti. Poi annuì soddisfatta. Buoni affari, lì al chiosco. — Allora vado — disse Nancy, un po' esitante. Non sapeva mai bene quali reazioni aspettarsi dalla signora Swann ben nota per i suoi mutamenti di umore. Nessuna barista aveva mai resistito più di sette mesi con lei. Nancy era decisa a essere la prima. Quel che conta è il denaro, bisbigliava dentro di sé ogni volta che era investita da uno dei violenti scoppi d'ira della signora Swann. Puoi sopportare tutto, finché ti pagano. — Va bene, Nancy — mormorò la padrona, con un cenno della mano — vai pure. — E mi scusi di nuovo per la telefonata. L'altra sbuffò. — D'ora in avanti telefona a tuo padre fuori dall'orario di lavoro. Non a spese del pub. E non a spese mie. — Sì. Senz'altro. — Bisognava essere concilianti. Nancy serrava con forza il ripiano per riuscire a placare la signora Swann e al tempo stesso non tradire la sua avversione. — Io imparo in fretta, signora Swann. Vedrà. Non è mai necessario dirmi le cose due volte. La signora le lanciò uno sguardo penetrante. I suoi occhietti da topo la valutarono. — E impari abbastanza in fretta da quel marito che ti ritrovi, ragazza? Chissà quante cose nuove, mi immagino. Giusto? Nancy diede un colpetto a un baffo di polvere sulla sbiadita camicetta rosa. — Vado — mormorò come tutta risposta, e si chinò per passare sotto il ripiano.
Sebbene le luci fossero ancora accese lo spiazzo era ormai deserto a parte il gruppo dei Lynley e i componenti della filodrammatica. Nancy diede un'occhiata: St. James e lady Helen erano in attesa tra le sedie vuote mentre Lynley posava con gli attori e la sua fidanzata scattava foto. I lampi del flash illuminavano i volti sorridenti fissandone le espressioni sulla pellicola. Lynley si prestava con la sua solita buona grazia chiacchierando con il pastore e sua moglie, ridendo alle battute di lady Helen Clyde. Come gli è tutto facile, pensò Nancy. — Non è diverso essere uno di loro, mia cara. Sembra soltanto. Nancy trasalì a quelle parole, alla loro penetrante acutezza. Si volse di scatto e vide il dottor Tre-narrow seduto nell'ombra, presso il muro di cinta. Lo aveva evitato per tutta la sera, tenendosi sempre fuori dal suo campo visivo quando si avvicinava al chiosco per bere. Adesso però non poteva più evitarlo: lui si era alzato e avanzava verso la luce. — Sei in ansia per il cottage. Non ci pensare. Non ti metterò in mezzo alla strada. Sistemeremo le cose, con Mick. Nonostante quelle parole rassicuranti avvertì un senso di freddo alla nuca. Era l'incubo che temeva, trovarsi faccia a faccia con lui, essere costretta a parlare della sua situazione, dover tirar fuori delle giustificazioni. E, peggio ancora, la signora Swann, neanche tre metri più in là, aveva alzato il capo evidentemente incuriosita sentendo fare il nome di Mick. — Il denaro ci sarà — balbettò. — Riuscirò a procurarmelo. Davvero. — Non devi angustiarti, Nancy — insistette Trenarrow. — E non avresti dovuto andare a chiedere aiuto a lord Asherton. Bastava che ti rivolgessi a me. — No. Vede... — Ma non poteva spiegarsi senza offenderlo. Impossibile per lui rendersi conto che un prestito da parte di Lynley non comportava il peso di un aiuto concesso di malavoglia perché dava senza emettere giudizi ma con amicizia e solidarietà. E da nessun altro Nancy avrebbe potuto aspettarsi un simile favore disgiunto dalla conclusione che Mick era un fallito, che il suo matrimonio era fallito. Già adesso percepiva la critica del dottor Trenarrow. Il suo compatimento. — Un aumento dell'affitto non è... — Mi scusi. — Lo oltrepassò in fretta, con un piccolo gemito soffocato, per attraversare il prato fino a raggiungere la strada. Sentì che il dottor Trenarrow la chiamava, ma non si fermò. Sfregandosi le braccia indolenzite, discese a passo rapido Paul Lane ver-
so l'imbocco di Ivy Street che conduceva nell'intrico di vicoli e passaggi tortuosi che costituiva il cuore del paese. Strette discese in acciottolato e stradine contorte troppo anguste per le auto. Di giorno i villeggianti estivi venivano a fotografare le vecchie costruzioni pittoresche con i giardinetti variopinti e i tetti di ardesia. Di notte invece quella zona era illuminata solo dalle finestre dei cottage. Immersa nell'ombra e abitata da generazioni di gatti cresciuti sui pendii più alti della collina e che con il buio venivano a cercare cibo nei bidoni delle immondizie, non era posto dove soffermarsi. Gull Cottage era addentro in quel labirinto di viuzze. Situato all'angolo di Virgin Place, sembrava una scatola di fiammiferi intonacata, con una striscia azzurra attorno alle finestre e una fucsia in pieno rigoglio che affondava le radici accanto alla porta d'ingresso. Quando fu più vicina al cottage, Nancy rallentò per un attimo il passo. Sentiva gli urli a tre case di distanza. Molly piangeva, strepitava anzi. Guardò l'orologio: quasi mezzanotte. A quell'ora Molly doveva avere già mangiato e doveva dormire profondamente. Perché diavolo Mick non si stava occupando della piccola? Esasperata al pensiero che suo marito potesse essere così egoisticamente sordo al pianto di sua figlia, Nancy fece il resto della strada di corsa, spalancò il cancello, si precipitò alla porta. — Mick! — chiamò. Dall'unica stanza da letto al piano di sopra le giungevano le grida di Molly. Ebbe un brivido di panico immaginando il suo faccino rosso di rabbia, il minuscolo corpo teso e vibrante. Spalancò il battente. — Molly! Si lanciò su per le scale, due gradini alla volta. In casa faceva un caldo insopportabile. — Piccola! Tesoro! — Si precipitò alla culla, prese in braccio la figlia e si accorse che era bagnata fradicia e puzzava di urina. Il corpicino scottava. Le fragili ciocche di capelli ramati aderivano umide alla pelle. — Amore, amore mio piccolo. Sono qui, adesso. Sono qui — mormorò, e poi chiamò di nuovo: — Michael! Mick! Reggendo Molly contro la spalla, discese ancora da basso e i suoi passi risuonarono sull'assito spoglio mentre si dirigeva alla cucina sul retro. Per primissima cosa diede da mangiare alla piccola, ma ugualmente si concesse una piccola esplosione di collera. — Ho bisogno di parlarti — dichiarò seccamente passando davanti alla porta chiusa del soggiorno. — Michael! Hai sentito? Ho qualcosa da dirti.
Immediatamente! Si accorse che la porta era solo accostata. La spalancò col piede. — Michael, potresti anche degnarti di rispondere quando... Si sentì accapponare la pelle delle braccia. Lui era steso a terra. O quanto meno qualcuno lo era, dato che poteva vedere una gamba. Una sola. Non due. Il che era strano, a meno che si fosse addormentato con una gamba ripiegata e l'altra distesa. Ma, come faceva a dormire? Faceva un tale caldo. E le urla di Molly... — Mick, stai cercando di farmi uno dei tuoi scherzi idioti? Nessuna risposta. Il pianto di Molly si era ridotto a un guaiolio sfinito. Nancy fece un passo avanti. — Sei tu, vero, Mick? Nulla. Ma era Mick di sicuro. Riconosceva la scarpa: una frivola scarpa da ginnastica, rossa, con una lista di metallo attorno alla caviglia. Uno dei suoi recenti acquisti, una cosa di cui non aveva bisogno, che costava parecchio, che consumava soldi necessari per la bambina, che dissanguava ulteriormente il conto in banca. Sì, era senz'altro Mick. E adesso capiva le sue intenzioni: far finta di dormire in modo che lei non potesse dirgliene quattro perché non si era occupato della piccola. Eppure, non era da lui non balzare in piedi ridendo perché era riuscito a metterle paura con un altro dei suoi scherzi. E lei aveva davvero paura. C'era qualcosa che non andava. Il pavimento era invaso da fogli di carta: ben più del solito disordine di Mick. I cassetti della scrivania erano spalancati. Le tende chiuse. Di fuori un gatto miagolava ma lì in casa c'era un silenzio totale e nell'aria torrida c'era un tanfo di feci e sudore. — Mickey? Molly si agitò tra le sue braccia. Nancy si costrinse ad avanzare. Una spanna. Un'altra. Un intero passo. E poi capì perché suo marito non aveva udito le grida di Molly. Era a terra, immobile, gli occhi aperti ma vitrei e fissi e una mosca stava camminando sulla superficie di un'iride azzurra. Quell'immagine pareva ondeggiare nella calura. Ma dovrebbe muoversi, pensò Nancy. Come riesce a stare così fermo? Non si accorge della mosca? Poi vide le altre. Sei o sette. Non di più. Di solito stavano in cucina a infastidirla mentre preparava da mangiare. Ma adesso ronzavano attorno ai fianchi di Mick, dove i pantaloni erano aperti e strappati giù brutalmente per esporre... per permettere di tranciare...
Correva senza sapere in che direzione, senza una meta chiara. L'unico pensiero era allontanarsi. Fuori di casa, oltre il cancelletto e in Virgin Place. La bambina che serrava tra le braccia aveva ricominciato a piangere. Inciampò in un ciottolo e quasi cadde ma fece tre passi barcollando, urtò contro un bidone dei rifiuti e riprese l'equilibrio afferrandosi a una grondaia. L'oscurità era totale. La luce lunare inondava i tetti e i fianchi delle case, ma queste tracciavano lunghe ombre sulla via, creando pozze scure che lei attraversava senza curarsi del fondo irregolare, dei piccoli roditori che facevano scorrerie nella notte. Più avanti vide l'uscita di Ivy Street e vi si precipitò cercando la sicurezza di Paul Lane. — Mio Dio. — Le labbra formarono le parole ma lei non ne udì il suono. E poi, al di sopra del rantolo aspro dei polmoni, le giunsero risate e voci allegre provenienti da Paul Lane. — D'accordo, ti credo. Cerca Orione, allora — disse una piacevole voce maschile. E poi: — Oh, santo cielo. Saprai almeno individuare l'Orsa Maggiore, Helen. — Ma insomma, Tommy, devo pure orientarmi. Hai la pazienza di un bambino di due anni. Riesco a... Dio ti ringrazio. Li raggiunse, finì loro addosso, cadde sulle ginocchia. — Nancy! — Qualcuno le afferrò un braccio, l'aiutò a rialzarsi. Molly piangeva. — Che c'è? Cos'è successo? La voce di Lynley. Il suo braccio attorno alle spalle. Le parve la salvezza. — Mick! — boccheggiò afferrandogli i risvolti della giacca. E dopo essere finalmente riuscita a dirlo cominciò a urlare: — Mick! Mick! Nelle case vicine cominciarono ad accendersi delle luci. St. James e Lynley entrarono insieme, lasciando le tre donne presso il cancelletto. Il cadavere di Mick Cambrey era sul pavimento del soggiorno, a non più di sei metri dalla porta d'ingresso. Si avvicinarono fermandosi a guardarlo, momentaneamente gelati dall'orrore. — Buon Dio — mormorò St. James. Aveva visto parecchi spettacoli macabri durante il periodo trascorso nella squadra scientifica di New Scotland Yard, ma lo scempio compiuto sul corpo di Cambrey lo sconvolse: era la mutilazione che apparteneva alle paure più profonde dell'uomo. Distolse lo sguardo e si accorse che qualcuno aveva messo all'aria tutta la stanza: cassetti tirati fuori dallo scrittoio;
lettere, buste, fogli e carte di ogni genere sparpagliati attorno; cornici di foto spaccate e a cui era stato strappato il fondo; e, vicino a un logoro divano blu, una banconota da cinque sterline, accartocciata. Fu una reazione automatica, nata dalla sua breve carriera nel corpo di polizia e alimentata dal lavoro di laboratorio. — Avremo bisogno di Deborah. Lynley, accosciato presso il cadavere, scattò in piedi e bloccò St. James sulla porta d'ingresso. — Ti ha dato di volta il cervello? Non vorrai chiederle... È pazzesco. Dobbiamo chiamare la polizia, lo sai quanto me. St. James aprì il battente. — Deborah, ti spiace... — Resta dove sei, Deborah — intervenne Lynley. Si rivolse all'amico. — Non te lo permetto. Dico sul serio. — Che c'è, Tommy? — Deborah fece un passo avanti. — Nulla. St. James gli lanciò un'occhiata stupita. — Ci vorrà solo un minuto, Tommy — insistette. — Credo che sia meglio. Non so come siano i poliziotti di qui. Potrebbero anche chiedere il tuo intervento. Quindi scattiamo addirittura delle foto, poi potrai telefonare. — Si volse a mezzo. — Potresti portare la tua macchina fotografica, Deborah? Lei si avvicinò. — Certo. Eccola... — Deborah, non ti muovere. A St. James era parso di avere dato una spiegazione ragionevole, ma la reazione di Lynley, precipitosa e allarmata, era incomprensibile. — Ma... l'apparecchio? — domandò lei. — Ti ho detto di non muoverti! Deborah sollevò una mano in gesto interrogativo, passando lo sguardo da Lynley a St. James. — Tommy, ma cosa...? Lady Helen l'interruppe toccandole il braccio, poi si accostò ai due. — Cos'è accaduto? — Helen, portami la macchina fotografica di Deborah — rispose St. James. — Mick Cambrey è stato ucciso e voglio fotografare la stanza prima di chiamare la polizia. Non aggiunse altro fino a che non ebbe l'apparecchio in mano. E anche allora, mentre lo esaminava attentamente, studiandone i meccanismi nel silenzio che si faceva sempre più greve e spiacevole, non aprì bocca. Si disse che la maggior preoccupazione di Lynley era che Deborah non vedesse il cadavere. Aveva frainteso le intenzioni di St. James. Aveva creduto che
volesse incaricarla di fare le foto. Ma quel malinteso era degenerato in lite. E sebbene buona parte di quella disputa fosse rimasta sottaciuta, il fatto che fosse esplosa caricava l'atmosfera di animosità. — Forse è meglio che resti qui fino a che ho terminato — disse all'amico. E rientrò in casa. St. James inquadrò la scena da ogni angolatura, spostandosi cautamente attorno al cadavere, fermandosi solo quando ebbe esaurito la pellicola. Poi uscì dal soggiorno riaccostando la porta dietro di sé e raggiunse gli altri all'esterno. Si era raccolta una piccola folla di vicini che formavano un capannello quieto a breve distanza dal cancelletto, le teste ravvicinate in bisbigli interrogativi. — Accompagnate dentro Nancy — disse St. James. Lady Helen la guidò attraverso il giardinetto e oltre la soglia dove esitò solo un attimo prima di sospingere Nancy verso la cucina, un locale lungo e stretto con un curioso soffitto spiovente e il pavimento rivestito di consunto linoleum grigio. La fece accomodare su una sedia accanto al tavolo. Si accosciò per scrutarla in volto, le prese il polso tastandolo. — Tommy — disse, con calma notevole — chiama il dottor Trenarrow. Credo che sia sotto shock. Lui saprà cosa fare, no? — Prese la bambina dalle braccia di Nancy e la consegnò a Deborah. — Deve esserci il suo latte, nel frigorifero. Scaldagliene un po'. — Molly... — sussurrò Nancy. — Ha fame... — Sì — la rassicurò lady Helen. — Ce ne occupiamo noi. Nell'altra stanza Lynley stava parlando al telefono. Poi formò un altro numero e disse solo qualche breve frase, ma il tono diverso, formale fece capire che stava parlando con la polizia di Penzance. Pochi minuti dopo ricomparve in cucina con una coperta che ravvolse attorno alle spalle di Nancy, nonostante il caldo. — Mi senti? — le chiese. Le palpebre di Nancy vibrarono, rivelando solo il bianco degli occhi. — Molly... latte. — È qui con me — disse Deborah. — Il latte si sta scaldando, tra un attimo glielo do. Che bella bambina, Nancy. Proprio molto graziosa. Erano le parole che ci volevano. Nancy si rilassò. St. James rivolse un cenno di gratitudine a Deborah e tornò alla porta del soggiorno. La spinse e rimase sulla soglia. Vi restò a lungo, guardandosi attorno, riflettendo, valutando ciò che vedeva. Infine lady Helen lo raggiunse. Anche da lì si po-
teva scorgere il caos che regnava nella stanza. Taccuini, documenti, fogli scritti, fotografie. St. James risentiva le parole di lady Asherton a proposito di Mick Cambrey. Ma quel tipo di omicidio non collimava con le conclusioni che avrebbe normalmente tratto in base a simili accenni. — Che ne pensi? — chiese lady Helen. — Faceva il giornalista. È morto. Le due cose dovrebbero essere collegate. Ma le condizioni del cadavere dicono no mille volte. — Perché? — L'hanno castrato, Helen. — Buon Dio. È quella la causa della morte? — No. — E qual è, allora? Dei colpetti alla porta impedirono la risposta. Lynley uscì dalla cucina per andare ad aprire a Roderick Trenarrow che entrò senza dir parola. Passò lo sguardo da Lynley a St. James a lady Helen e poi al pavimento del soggiorno dove, anche dal punto in cui si trovava lui, il cadavere di Mick Cambrey era parzialmente visibile. Per un istante parve che volesse accostarsi, nel tentativo di salvare la vita a un uomo per il quale non c'era più nulla da fare. — Ne siete certi? — chiese. — Certissimi — rispose St. James. Le sue labbra ebbero una contrazione. — Dov'è Nancy? — E senza attendere la risposta si diresse alla cucina illuminata dove Deborah continuava a parlare di bambini nella speranza di riuscire a tenere Nancy ancorata al presente. Trenarrow rialzò il capo di Nancy per esaminarle gli occhi. — Datemi una mano a portarla di sopra. Presto. Suo padre è stato avvertito? Lynley si diresse al telefono. Lady Helen aiutò Nancy ad alzarsi e a lasciare la cucina, preceduta dal dottor Trenarrow. Deborah li seguì con la bambina. Poco dopo dalla camera da letto al piano di sopra giunsero la voce di Trenarrow che faceva domande in tono gentile e le risposte tremanti di Nancy. Le molle del letto cigolarono. Una finestra venne aperta. Il legno secco del telaio stridette. — Alla foresteria non risponde nessuno — annunciò Lynley. — Chiamo Howenstow. Forse è andato là. — Parlò con lady Asherton ma ne ebbe una risposta negativa. Lynley guardò accigliato l'orologio. — Mezzanotte e mezzo. Dove può essere andato a quest'ora? — Non c'era alla recita, vero?
— John? No. Escludo che la filodrammatica di Nannurel eserciti qualche fascino su di lui. Di sopra, Nancy ebbe un grido. Come in risposta a quel suono angosciato si sentì bussare alla porta d'ingresso. Lynley fece passare la polizia locale, rappresentata da un agente in divisa, grassoccio e ricciuto, caratterizzato da ampie mezzelune di sudore sotto le ascelle e una macchia di caffè sui calzoni. Doveva essere sui ventitré anni. Non stette a sprecare tempo in presentazioni o altre formalità inerenti a un'indagine su un omicidio. Fu subito chiarissimo che, data la presenza di un cadavere, era assolutamente entusiasta di trovarsi lì. — È qui che hanno ammazzato qualcuno? — chiese in tono discorsivo, come se gli omicidi fossero cosa di tutti i giorni, a Nannurel. E, forse per confermare tanta disinvoltura, tolse l'involucro a una gomma da masticare e se la cacciò in bocca. — Dov'è la vittima? — Chi è lei? — volle sapere Lynley. — Squadra investigativa? L'agente sorrise. — T. J. Parker — annunciò. — Thomas Jefferson. Mia madre va pazza per gli americani. — Si fece largo fino al soggiorno. — Ma è o no dell'investigativa? — insistette Lynley mentre quello col piede buttava da parte un taccuino. — Per la miseria, non sposti niente! — Non si agiti — replicò l'agente. — L'ispettore Boscowan mi ha mandato a far la guardia. Lui arriva appena ha finito di vestirsi. Allora, come stanno le cose? — Diede una prima occhiata al cadavere e masticò più in fretta la gomma. — Qualcuno gli ha fatto la pelle, senz'altro. Poi si mise a girellare per la stanza, toccò diversi oggetti sulla scrivania. — Per l'amor di Dio — sbottò Lynley. — Lasci tutto com'è, per la scientifica. — Furto — dichiarò Parker come se Lynley non avesse aperto bocca. — Ladro colto sul fatto, direi. Una colluttazione. E poi ci si è divertiti con le cesoie. — Senta un po', maledizione. Non può... Parker agitò l'indice. — Questo è lavoro della polizia, amico. Le sarò grato se vorrete ritirarvi in corridoio. — Hai il tuo tesserino? — chiese sottovoce St. James a Lynley. — Quello di sicuro metterà tutto a soqquadro se non fai qualcosa per impedirglielo. — Non posso. Sono fuori della mia giurisdizione. Il dottor Trenarrow stava scendendo le scale. Parker, nel soggiorno, si volse, notò la valigetta da medico e sorrise.
— Un bel carnaio, qui, dottore. Mai visto qualcosa di simile? Dia un'occhiata, se vuole. — Agente — Lynley si sforzava di avere un tono paziente. Trenarrow parve capire quanto era inopportuno l'invito del poliziotto. Sussurrò a Lynley: — Forse posso evitare che combini dei guai — e si avvicinò al cadavere. Mise un ginocchio a terra e lo esaminò rapidamente: controllò il polso, valutò la temperatura, ne fletté un braccio per verificare l'entità del rigor mortis. Poi si spostò sull'altro lato chinandosi a studiare il profondo squarcio. — Che massacro — borbottò, quindi alzò gli occhi e chiese: — Avete trovato armi? — Si guardò attorno, tastando tra le carte e i frammenti più vicini al cadavere. St. James rabbrividì davanti a quell'alterazione della scena del delitto. Lynley imprecò tra i denti. L'agente non batté ciglio. Trenarrow accennò all'attizzatoio a terra presso il camino. — Potrebbe essere quella l'arma? L'agente Parker sogghignò facendo scoppiare la bolla di gomma. — A combinare questo lavoretto? — osservò ridacchiando mentre Trenarrow si rialzava. — Non lo direi abbastanza tagliente, le pare? Trenarrow non condivideva tanta gaiezza. — L'arma del delitto, intendo — ribatté. — Cambrey non è morto in seguito alla castrazione. Qualsiasi imbecille lo capirebbe. Parker non parve toccato. — Ah. Non l'ha ucciso. Be'. Diciamo allora che ha posto fine alla sua carriera. Trenarrow si trattenne a fatica dal replicare a tono. — E da quanto ha tirato gli ultimi? — si informò l'agente in tono ameno. — Due o tre ore, a occhio e croce. Ma di sicuro ci sarà un esperto a stabilirlo. — Oh, sicuro. Quando la signora arriverà, col resto della squadra. — Oscillò sui talloni, fece scoppiare un'altra bolla e diede un'occhiata all'orologio. — Due o tre ore, ha detto? Quindi... tra le nove e mezzo e le dieci e mezzo. Be' — aspirò a fondo e si sfregò le mani con evidente piacere — è un punto di partenza, no? E nel lavoro di polizia fa sempre comodo averne uno. PARTE QUARTA Indagine
10 Dal momento in cui si fermarono davanti alla dipendenza di Howenstow, alle due e un quarto del mattino, gli avvenimenti presero ad accavallarsi. Non che non avessero già cominciato ad affastellarsi in un groviglio troppo intricato per essere subito assimilabile. A questo aveva provveduto l'ispettore Edward Boscowan pochi istanti dopo il suo arrivo a Gull Cottage insieme alla squadra scientifica di Penzance. Aveva dato una breve occhiata all'agente Parker che se ne stava comodo in poltrona a un metro e mezzo dal cadavere di Mick Cambrey; poi un'altra a St. James, Trenarrow e Lynley raccolti nel piccolo atrio; a Deborah in cucina; a lady Helen e Nancy di sopra; alla piccola nella sua culla, sua faccia era passata dal bianco al cremisi. Poi finalmente aveva tirato fuori la voce, ma rivolgendosi unicamente a Parker. E con un autocontrollo così forzato che non c'era stato bisogno di altra manifestazione del suo furore. — Siamo a un tè, agente? A dispetto delle sue convinzioni lei non è il Cappellaio Matto. O forse nessuno ancora l'ha informato della cosa? — L'agente ebbe un sorrisetto incerto. Si tirò in piedi grattandosi un'ascella e annuendo come in spirito di concordia. — Questa è la scena di un delitto — sbottò Boscowan. — Cosa diavolo ci fa qui tutta questa gente? — C'erano già quando sono arrivato. — Ah, sì? — replicò l'ispettore con un sorriso a lama di coltello. E, quando Parker glielo restituì, tranquillizzato da quella che aveva erroneamente interpretato come bonarietà, latrò: — Be', li sbatta fuori! Ed è quello che avrebbe dovuto fare subito! Lynley era d'accordo. E sapeva che anche St. James la pensava così. Ma nella confusione dovuta all'attacco isterico di Nancy, al marasma nel soggiorno e alla vista del cadavere di Cambrey, entrambi avevano trascurato o dimenticato o semplicemente mandato al diavolo un dogma fondamentale: non avevano messo sotto sigillo la scena del delitto. Pur non avendo toccato nulla erano rimasti lì; anche Trenarrow era entrato nel soggiorno; Helen, Deborah e Nancy erano andate in cucina e poi al piano di sopra. Lasciando segni, tracce, impronte digitali dappertutto. Un vero incubo per la scientifica. E lui, un poliziotto, non aveva fatto nulla di costruttivo per impedirlo. Una condotta imperdonabile e non poteva giustificarsi con il fatto che essendo molto vicino alle persone implicate era rimasto disorientato: c'erano stati casi precedenti in cui conosceva gli interessati e non aveva mai perso la testa. Quella volta no. Le idee gli si erano confuse nel momento in cui
St. James aveva accennato a Deborah. Boscowan non aveva lanciato altri anatemi. Si era limitato a prendere le loro impronte digitali e li aveva spediti in cucina mentre lui e un sergente salivano di sopra per parlare con Nancy, e la scientifica si metteva all'opera nel soggiorno. Era rimasto quasi un'ora con Nancy, esaminando e rivedendo pazientemente con lei quanto era accaduto. Saputo quel poco che Nancy aveva da raccontare, l'aveva rimandata a casa con Lynley. A casa di suo padre. Adesso Lynley diede un'occhiata alla foresteria. La porta d'ingresso era chiusa. Le finestre pure e le tende tirate. Era avvolta nel buio e le rose rampicanti che racchiudevano il portico e incorniciavano le finestre del piano terreno erano una macchia nera nitidamente delineata. — Entro anch'io — disse Lynley — nel caso che tuo padre non sia ancora tornato. Nancy, sul sedile posteriore, tra lady Helen e St. James, con la piccola addormentata tra le braccia, si riscosse. Il dottor Trenarrow le aveva dato un blando sedativo che per il momento la isolava dal trauma. — Papà sta solo dormendo — mormorò appoggiando la guancia contro la testina di Molly. — Gli ho parlato al telefono, dopo l'intervallo. Alla recita. È andato a letto. — Ma non era in casa quando ho telefonato, a mezzanotte e mezzo — replicò Lynley. — E potrebbe non essere ancora rientrato. In tal caso preferirei che tu e Molly veniste alla villa con noi piuttosto che restare qui da sole. Possiamo lasciargli un biglietto. — Sta solo dormendo. Il telefono è nel soggiorno e la sua stanza è di sopra. Probabilmente non ha sentito. — Però Mark l'avrebbe sentito, ti pare? — Mark? — Nancy esitò. Evidentemente non aveva preso in considerazione il fratello. — No. Mark ha il sonno pesante. E certe volte ascolta musica. Ma di sicuro sono tutti e due di sopra, a dormire. — Si mosse per scendere. St. James aprì la portiera. — Ora vado. Vi ringrazio molto. Non so cosa avrei fatto se non vi avessi trovati in Paul Lane. La voce era sempre più impastata. Lynley scese e con St. James aiutò Nancy a mettersi in piedi. Non aveva la minima intenzione di lasciarla senza essersi assicurato che in casa ci fosse qualcuno. Nelle parole di Nancy aveva colto l'inequivocabile sfumatura di tensione che di solito accompagna una bugia. Non era impossibile che avesse parlato col padre durante la serata, ma Penellin non era a casa quando lui aveva
telefonato a Gull Cottage un'ora e mezzo prima. E quell'insistere che padre e fratello non si sarebbero svegliati allo squillo del telefono non solo era assurdo ma indicava che voleva nascondere qualcosa. La sorresse lungo il vialetto lastricato fino al portico dove le rose riempivano di fragranza la tiepida aria notturna. All'interno, un'occhiata nelle varie stanze confermò i suoi sospetti. La casa era deserta. Mentre Nancy passava nel soggiorno e si accomodava nella poltrona a dondolo ninnando la figlia, lui tornò alla porta d'ingresso. — Non c'è nessuno — comunicò agli altri. — Preferisco aspettare John piuttosto che portare Nancy alla villa. Voi volete proseguire? St. James decise per tutti. — Entriamo anche noi. Raggiunsero Nancy nel soggiorno. Nessuno disse parola: si interessavano invece agli oggetti che affollavano la stanza rispecchiando la vita e le personalità della famiglia che da venticinque anni occupava la foresteria. Alcune ceramiche spagnole, la passione della madre di Nancy, accumulavano polvere su una spinetta. Una collezione di farfalle sotto vetro occupava una parete e, insieme a un buon numero di trofei di tennis, testimoniavano l'ampia gamma di interessi coltivati da Mark. Nel vano di una finestra una schiera di cuscini sbiaditi ricamati a piccolo punto e con mano incerta davano l'impressione, con i loro ranghi serrati, che li avessero cacciati lì tanto per toglierli di mezzo. Sul televisore in un angolo c'era l'unica fotografia presente: Nancy, Mark e la loro madre in occasione di un Natale, poco prima che un incidente ferroviario troncasse la vita della signora Penellin. Dopo alcuni minuti trascorsi ad ascoltare il ticchettio della pendola, il frinire dei grilli e il canto di un usignolo che entravano dalla finestra aperta da Lynley, Nancy si alzò dicendo: — Molly si è addormentata. La porto di sopra. Quando sentirono i suoi passi al piano superiore, fu lady Helen a formulare la domanda che aveva continuato a rigirare nella mente di Lynley. Si espresse nel suo solito modo diretto. — Tommy, dove può essere John Penellin, secondo te? E credi che davvero Nancy abbia parlato con lui durante lo spettacolo? Perché mi pare che ci sia qualcosa di decisamente strano nella sua insistenza. Lynley, seduto sullo sgabello della spinetta, toccò leggermente tre tasti traendone una sommessa dissonanza. — Non saprei — rispose. Ma anche se poteva lasciar cadere l'osservazione di lady Helen non poteva dimenticare il colloquio avuto con Nancy quel pomeriggio, né l'avver-
sione con cui il padre di lei aveva parlato di Mick Cambrey. La pendola batté la mezz'ora. Nancy rientrò. — Non riesco a capire dove possa essere papà — mormorò. — Non è necessario che vi tratteniate. Non ho bisogno di nulla. — No, restiamo — dichiarò Lynley. Lei spinse indietro i capelli. — Dev'essere uscito da poco. Lo fa, a volte, quando non riesce a prendere sonno. Un giretto qui attorno. E spesso anche prima di andare a letto. Nel parco. Di sicuro è lì che è andato. Nessuno rilevò l'alta improbabilità che John Penellin stesse godendosi una passeggiatina nella tenuta alle due e mezzo del mattino. E non fu neppure necessario perché gli eventi congiuravano per dimostrare che Nancy mentiva. Proprio allora le luci di un'auto spazzarono le finestre del soggiorno. Un motore tossicchiò. Una portiera venne aperta e richiusa. Dei passi risuonarono sul selciato e, dopo pochi istanti, sul portico. Lei corse alla porta. La voce di Penellin giunse chiara. — Nancy? Come mai qui? È accaduto qualcosa a Mark? Dov'è Mark? Nancy allungò una mano e lui la prese, comparendo sulla porta. — Papà. — La voce oscillava tra incertezza e cautela. D'un tratto lui notò la presenza degli altri e la sua espressione si fece allarmata. — Cos'è successo? — chiese. — Perdiana, cos'ha combinato quel bastardo stavolta? — È morto — disse Nancy. — È stato... — Non riuscì a dir altro. Penellin la guardò fisso. Poi, inspiegabilmente, fece un passo verso le scale. — Nancy, dov'è tuo fratello? Lei non aprì bocca. Nel soggiorno, Lynley si alzò lentamente. — Ditemi cos'è successo — ripeté Penellin. — Nancy ha trovato Mick al cottage, dopo la recita — spiegò Lynley. — Il soggiorno era tutto all'aria. Forse Mick ha sorpreso qualcuno che stava rovistando tra le sue carte. O mentre rubava. Anche se sembra improbabile. Nancy si aggrappò a questa idea. — Certo, un furto. Di questo si tratta, è chiaro. Quando sono uscita, stasera, Mick stava preparando le buste paga per i dipendenti del giornale — si volse a mezzo per lanciare un'occhiata a Lynley. — Il denaro c'era ancora? — Ho visto solo un biglietto da cinque sterline, sul pavimento — rispose St. James. — Ma di sicuro Mick non pagava il personale in contanti — osservò
Lynley. — Sì, invece — ribatté Nancy. — Si è sempre fatto così al giornale. È più comodo. Non c'è una banca, a Nannurel. — Ma se si è trattato di furto... — È stato sicuramente un ladro — affermò Nancy. Lady Helen intervenne in tono mansueto a far notare lo specifico particolare che escludeva quell'ipotesi: — Ma, Nancy, il corpo di Mick... — Non aggiunse altro. — Il corpo? — ripeté Penellin. — L'hanno castrato — spiegò Lynley. Ci fu lo squillo stridulo del campanello della porta e tutti trasalirono. Penellin, ancora nell'ingresso, andò ad aprire. Sulla soglia c'era l'ispettore Boscowan e, dietro la Rover con cui il gruppetto era arrivato da Nannurel, era posteggiata un'auto impolverata. — John — disse Boscowan a mo' di saluto. E Lynley d'un tratto si rammentò che non solo Boscowan e Penellin erano coetanei ma che, come tanti abitanti di quel remoto angolo della Cornovaglia, erano andati a scuola insieme ed èrano amici da una vita. — Edward, hai saputo di Mick? — chiese Penellin. — Sono qui per parlartene. Nancy si aggrappò al pilastrino delle scale. — A papà? E perché? Lui non ne sa niente. — Solo qualche domanda, John — disse Boscowan. — Non capisco — ma il tono stava a indicare che capiva fin troppo bene. — Posso entrare? Penellin si volse e Boscowan seguì il suo sguardo. — Ancora qui, milord? — Sì. Stavamo... — Lynley si interruppe. Stavamo aspettando il ritorno di John, sarebbe stata la conclusione. Ma era un'accusa implicita da cui si sarebbe ben guardato. — Papà non ne sa niente — ripeté Nancy. — Papà, diglielo che non sai nulla di Mick. — Posso entrare? — chiese di nuovo Boscowan. — Nancy e la bambina sono qui — mormorò Penellin. — Possiamo parlare a Penzance? Alla stazione di polizia? Chiedere di andare altrove non faceva parte dei diritti di un indiziato. E che John Penellin fosse tale fu dimostrato dalla frase successiva di Bosco-
wan. — C'è un avvocato a cui vuoi telefonare? — Un avvocato? — ripeté Nancy con voce stridula. — Nance. Non fare così. Penellin le posò una mano sulla spalla ma lei si ritrasse. — Papà era qui. Boscowan pareva rincresciuto. — Mi dispiace, Nancy. Dei vicini l'hanno visto a casa tua verso le nove e mezzo. Alcuni hanno anche sentito un alterco. — Era qui. Gli ho parlato al telefono dopo l'intervallo. Papà, diglielo anche tu che ti ho chiamato dopo l'intervallo — afferrò il braccio del padre, scuotendolo con foga. Penellin le fece allentare le dita. — Su, bambina. Tu resta qui. Occupati di Molly. Aspetta Mark. A Boscowan non sfuggì la nota pressante nell'ultima esortazione di Penellin. — Mark non è qui? — Penso che sia fuori con gli amici. A St. Ives o St. Just. Sai come sono i ragazzi. — Diede un colpetto alla mano di Nancy. — Possiamo andare, Edward. Rivolse un cenno agli altri e uscì. Qualche istante dopo il motore dell'auto di Boscowan venne acceso. Quel suono aumentò mentre uscivano dal vialetto in retromarcia, poi svanì in direzione di Penzance. Nancy si volse di scatto verso il soggiorno. — Lo aiuti! — esclamò rivolta a Lynley. — La prego. Non è stato lui a uccidere Mick. Lei è un poliziotto. Può aiutarlo. Deve. — Torceva tra le dita un lembo del vestito. Lynley le si accostò, pensando che poteva fare ben poco. Non aveva alcuna autorità in Cornovaglia. Boscowan sembrava sapere il fatto suo e difficilmente avrebbe avuto bisogno dell'aiuto di New Scotland Yard. L'investigativa di Penzance era perfettamente competente e il caso doveva restare nelle loro mani. Ma sapeva di dover fare qualcosa, anche se l'unico risultato sarebbe stato quella specie di catarsi che viene dal rivivere un incubo. — Raccontami cos'è successo stasera. — La ricondusse alla poltrona a dondolo. Deborah si alzò e avvolse le spalle di Nancy nel plaid posato sullo schienale del divano. Nancy riferì faticosamente: doveva andare a lavorare al chiosco, lasciando la bambina a Mick; Mick era alla scrivania, aveva le buste paga per il personale da preparare; lei aveva messo Molly nel box lì accanto e alle sette era uscita. — Quando sono tornata al cottage ho sentito la piccola che piangeva.
Ero furibonda con Mick che non se ne occupava. E sono entrata chiamandolo. — La porta non era chiusa a chiave? — domandò St. James. — Sì, era chiusa. — Non hai visto il corpo di Mick? Nancy scosse il capo stringendosi nel plaid. — La porta del soggiorno era chiusa. — E quando l'hai aperta cos'hai notato come prima cosa? — Lui. Mick. Sul pavimento... — Deglutì e respirò a fondo. — E poi, tutt'in giro, carte, taccuini, cose così. — Come se la stanza fosse stata perquisita — mormorò St. James. — Succedeva che Mick lavorasse ai suoi articoli a casa? Nancy era ben lieta di seguire questa nuova direzione. Annuì con forza. — Spesso, sì. Al computer. Non se la sentiva di tornare in ufficio dopo cena, così lavorava a casa. Teneva un mucchio di appunti per i suoi servizi, al cottage. Fai un po' d'ordine, Mick, gli dicevo. Non possiamo tenere qui tutta questa roba. Ma lui non voleva perché poteva capitargli di dover controllare qualche piccolo dettaglio su un taccuino o la sua agenda. Non posso gettare via niente, Nance, mi diceva. La prima cosa che butto è sicuramente quella che mi serve un attimo dopo. E così c'erano sempre carte dappertutto. Foglietti volanti. Appunti su tovaglioli di carta o bustine di fiammiferi. Forse cercavano... oppure il denaro. Il denaro. Non dobbiamo dimenticarlo. Provavano tutti un certo disagio ascoltandola. Per quanto i fatti fossero significativi - il materiale sparso a terra, le prove di una ricerca affrettata non pareva che il loro collegamento con la professione di Mick Cambrey fosse il primo pensiero di sua moglie, nonostante lei cercasse di dare quest'impressione. Sembrava invece preoccupata per qualcosa che non aveva nulla a che fare con quella perquisizione, e che era legato anche alla presenza di suo padre a Nannurel. E lo confermò concludendo: — Ho davvero parlato con papà, dopo l'intervallo. Verso le dieci e mezzo. Da una cabina. Nessuno rispose. Nancy accennò ad alzarsi ma non ce la fece. — Ho telefonato. Ho parlato con papà. Era qui. Molte persone devono avermi visto nella cabina. Chiedetelo alla signora Swann. Lei sa che ho parlato con mio padre. E lui era qui. Ha detto di non essersi mosso per tutta la serata. — Ma Nancy — fece notare Lynley — tuo padre è per forza uscito. Non era qui quando l'ho chiamato. È arrivato solo pochi minuti dopo di noi.
Perché menti? Di che cosa hai paura? — Lo chieda alla signora Swann. Lei mi ha vista, nella cabina. Vi dirà che... Una raffica di musica rock sopraffece i sommessi suoni notturni di fuori. Nancy balzò in piedi. La porta venne aperta ed entrò Mark Penellin. Reggeva sulla spalla uno grosso stereo portatile che strepitava My Generation con furibonda nostalgia. Mark vi univa la propria voce ma si interruppe bruscamente scorgendo il gruppo nel soggiorno. Annaspò tra i comandi e Roger Daltry per un istante ruggì ancor più forte prima che il ragazzo riuscisse a spegnere. — Scusate. — Posò a terra l'apparecchio che aveva lasciato un segno sulla morbida giacca di pelle e Mark, senza aver bisogno di guardare, vi passò sopra una mano per cancellarlo. — Che succede? Come mai qui, Nance? Dov'è papà? Dopo tutto quello che era già successo l'improvvisa comparsa di suo fratello e le sue domande parvero distruggere le fragili difese che Nancy era riuscita a erigere per sottrarsi alla realtà della condotta di suo padre, quella sera. Ricadde sulla sedia a dondolo, la coperta scivolò a terra. — È colpa tua! — gridò. — La polizia è venuta a cercare papà. L'hanno portato via e lui non dirà niente per proteggerti. — Cominciò a piangere e prese la borsa rimasta sul pavimento. — E cosa gli combinerai ancora, Mark? Cosa? Dimmelo. — Aprì la borsa, vi frugò dentro e ne trasse un fazzoletto di carta. — Mickey. Oh, Mick — singhiozzò. Immobile sulla soglia del soggiorno, Mark si sforzava di capirci qualcosa. Deglutì e girò lo sguardo sugli altri prima di riportarlo sulla sorella. — È successo qualcosa a Mick? Nancy continuò a piangere. Mark respinse indietro i capelli e si passò una mano lungo la guancia. — Nancy, papà ha fatto qualcosa a Mick? Lei scattò in piedi e il contenuto della borsa si sparse a terra. — Non dire una cosa del genere! Non te lo permettere! Ci sei tu alla base di questa faccenda. Lo sappiamo, papà e io. Lo sappiamo. Mark indietreggiò verso la scala e batté il capo contro la ringhiera. — Io? Ma cosa stai dicendo? È pazzesco. Sei ammattita. Che diavolo è successo? — Mick è stato ucciso — disse Lynley. Mark si fece pallido. Si voltò verso la sorella. — E credi che sia stato io? È questo che pensi? Che abbia ucciso mio cognato? Tuo marito? — Ebbe
una risata stridula. — Perché prendermi il fastidio visto che da un anno papà sta cercando il modo di farlo fuori? — Non dirlo! Non ti azzardare! Sei stato tu! — D'accordo. Pensala come ti pare. — Non è che mi pare. Lo so! E lo sa anche papà. — Va bene, papà sa tutto. Una bella fortuna per lui. Agguantò lo stereo e corse su per alcuni gradini. Lo fermò la voce di Lynley. — Mark, dobbiamo parlare. — No! — E poi, mentre riprendeva a salire: — Quel che ho da dire lo dirò ai maledetti poliziotti. Non appena mia sorella mi denuncia. Una porta venne richiusa con violenza. Molly cominciò a vagire. 11 — Conosci bene Mark Penellin? — chiese St. James alzando gli occhi dal foglio su cui nell'ultimo quarto d'ora aveva annotato le loro osservazioni congiunte. Lui e Lynley si trovavano nello studiolo adiacente al soggiorno di Howenstow, immediatamente sopra il vestibolo della casa. C'erano due lampade accese, una sul piccolo scrittoio di mogano a cui sedeva St. James, l'altra sul tavolinetto intarsiato, sotto le finestre, a emanare un alone dorato contro lo sfondo dei pannelli in ombra. Lynley tese a St. James un bicchiere di brandy e tenne il proprio contro il palmo facendovi rigirare il liquore, soprappensiero. Si accomodò sulla poltrona di fronte allo scrittoio, allungò le gambe e si allentò la cravatta. Prima di rispondere bevve un sorso. — Non a fondo. Ha l'età di Peter. Da quel poco che ho sentito dire di lui negli ultimi anni mi par di capire che si è rivelato una delusione per la famiglia. Soprattutto per il padre. — Sotto che aspetto? — Il solito modo in cui i giovani deludono i padri. John voleva che andasse all'università. Mark ha frequentato Reading per qualche mese poi ha mollato. — Combinava poco? — Non gli interessava. Dopo Reading è andato a fare il barista a Maidenhead. Poi è passato a Exeter, se ben ricordo. Mi pare che facesse il bat-
terista con un gruppo. Ma le cose non sono andate come sperava... niente fama, niente successo, e soprattutto neanche l'ombra di un vantaggioso contratto con una casa discografica. Dopo di che è venuto a lavorare qui, alla tenuta, almeno nell'ultimo anno e mezzo. Non mi è mai parso che il lavoro di gestione lo interessasse, ma forse adesso ha in mente di subentrare come amministratore di Howenstow quando suo'padre andrà in pensione. — Ne avrebbe concretamente la possibilità? — Non è escluso, ma prima dovrebbe darci dentro e farsi un'esperienza molto più ampia di quella che gli può venire dai lavoretti secondari che ha sbrigato finora. — Penellin si aspetta che il ragazzo prenda il suo posto? — Non direi. John ha frequentato l'università. Quando lascerà il suo incarico, e manca ancora parecchio tempo, non pretenderà certo che lo affidi a qualcuno che si è limitato a spalare letame dalle stalle di Howenstow. — Tutta qui, l'esperienza di Mark? — Be', ha lavorato per qualche tempo in un paio di allevamenti. E si è anche occupato dei lavori agrìcoli. Ma mandare avanti una tenuta è tutt'altro paio di maniche. — È pagato bene? Lynley rigirò tra le dita lo stelo del bicchiere. — Non particolarmente, ma questa è una decisione di John. Mi ha fatto capire che Mark non si dimostra abbastanza in gamba da meritare un buon salario. Direi anzi che la paga di Mark è motivo di un certo attrito fra loro. — Se è tenuto a stecchetto, il denaro che c'era a Gull Cottage poteva essere una grossa tentazione. Conosceva abbastanza bene le abitudini del cognato da sapere che stasera avrebbe preparato gli stipendi? Direi che vive al di sopra dei propri mezzi se, come dici, guadagna poco. — Al di sopra dei propri mezzi? In che senso? — Lo stereo che aveva con sé stasera dev'essere costato parecchio. E la giacca pareva un acquisto recente. Non ho potuto veder bene gli stivali, ma mi parevano di pelle di serpente. Lynley si accostò a una finestra e l'aprì. L'aria delle prime ore del mattino era umida e fresca, e il silenzio amplificava la voce lontana del mare. — Non posso credere che Mark abbia ucciso suo cognato per impadronirsi di quel denaro, St. James; non escluderei però che, trovato Mick cadavere e viste le banconote sulla scrivania, se le sia intascate. Mark non è tipo da commettere un delitto. Un opportunista, questo sì.
St. James riguardò i suoi appunti. — Dunque potrebbe essere andato al cottage per tutt'altro motivo, scoprendo che Mick era stato ucciso? E, visti i soldi, potrebbe averli presi? — Forse. Non ce lo vedo Mark a progettare il furto. Sa benissimo cosa poteva significare per sua sorella e, nonostante lo scontro di stasera, Mark e Nancy si sono sempre voluti molto bene. — Comunque, probabilmente sapeva delle buste paga, Tommy. — Come tutti. Non solo i dipendenti del giornale ma anche gli abitanti del villaggio. Nannurel non è grande e non credo che sia cambiato molto da quando ero ragazzo, e a quell'epoca ti assicuro che c'erano ben pochi segreti di cui l'intera popolazione non fosse al corrente. — In tal caso, chi altri poteva sapere degli appunti che Mick teneva in casa? — Il personale dello Spokesman, direi. Il padre di Mick, di certo, e se lo sapeva lui perché non anche tutti gli altri? Lo Spokesman non ha molti dipendenti, in fondo. — Chi sono? Lynley tornò alla poltrona. — Non li conosco, a parte Julianna Vendale. Sempre che ci lavori ancora. Rivedeva i testi e si occupava delle notizie d'agenzia. Qualcosa nel suo tono fece alzare lo sguardo a St. James. — Julianna Vendale? — Sì. Una donna a posto. Divorziata, con due figli. Sui trentasette. — A Mick poteva piacere? — Probabile. Ma dubito molto che Mick potesse interessare a Julianna. Non nutre grande simpatia per gli uomini da quando suo marito l'ha lasciata per un'altra, una decina di anni fa. E da allora nessuno ha mai combinato nulla con lei — diede un'occhiata a St. James ed ebbe un mezzo sorrisetto. — L'ho imparato a mie spese a ventisei anni, mentre ero qui in vacanza e mi sentivo molto sicuro di me. Inutile dire che Julianna non è rimasta minimamente colpita. — Ah. E il padre di Mick? Lynley riprese il suo brandy. — Harry fa parte del colore locale. Gran bevitore, gran fumatore, gran giocatore. Si esprime come un portuale. Stando a Nancy, ha subito un intervento al cuore l'anno scorso, e quindi forse ha cambiato abitudini. — Legato a Mick? — Un tempo, sì. Adesso non saprei. Mick ha cominciato lavorando allo
Spokesman prima di lanciarsi come giornalista indipendente. — Tu lo conoscevi bene, Tommy? — Praticamente da sempre. Avevamo la stessa età. Anni fa frequentavo molto Nannurel, e così ci vedevamo durante le vacanze. — Amici? — Più o meno. Bevevamo insieme, andavamo in barca a vela e a pesca, andavamo a caccia di ragazze a Penzance. Da adolescenti. Non l'ho più visto molto dopo che sono andato a Oxford. — Che tipo era? Lynley sorrise. — Gli piacevano le donne, le polemiche e gli scherzi, più o meno nella stessa misura. O almeno quando era giovane. Ma non credo che fosse molto cambiato. — Forse da lì può venire il movente. — Forse. — Lynley lo mise a parte degli accenni fatti da Penellin quel pomeriggio alle attività extramatrimoniali di Mick. — Questo potrebbe spiegare le condizioni del cadavere — osservò St. James. — Un marito che si vendica sull'uomo che gli ha messo le corna. Ma non spiega il soggiorno buttato all'aria, no? — St. James prese la penna per annotare qualcosa ma la rimise giù senza scrivere nulla. La stanchezza cominciava ad avere la meglio. Ma c'era un ricordo che gli sfuggiva, una cosa che era stata detta e che doveva far riemergere. Cambiò posizione, intravide il pianoforte nel soggiorno e gli tornò alla mente lady Asherton, là in piedi, qualche ora prima. — Tommy, tua madre ha detto qualcosa a proposito di un'inchiesta a cui Mick stava lavorando. Non era stata Nancy a parlargliene? — Ne ha parlato anche a me. — Allora... — È una possibilità. Ho avuto l'impressione che secondo Mick fosse un pezzo significativo. Molto più degli articoli che lo Spokesman pubblica di solito. Anzi, credo che non intendesse affatto passarlo allo Spokesman. — E suo padre poteva esserne irritato? — Non al punto da ammazzarlo. E tanto meno castrarlo. — Sempre che uccisione e castrazione siano opera della stessa persona — fece notare St. James. — Hai visto anche tu che la castrazione è avvenuta dopo la morte, Tommy. Lynley scosse il capo. — Non mi torna. Prima un assassino... poi un macellaio. St. James dovette ammettere che non tornava molto neppure a lui. —
Perché Nancy mente a proposito della telefonata, secondo te? — Non attese la risposta di Lynley e continuò: — Il fatto che l'abbiano visto dalle parti del cottage non depone a favore di John Penellin. — John non ha ucciso Mick. Non avrebbe mai potuto farlo. — Non intenzionalmente. — In nessun caso. — Il tono di Lynley era più che convinto. — È già successo che delle ottime persone si siano lasciate andare ad atti di violenza, lo sai bene. Senza premeditazione... un gesto improvviso dettato dalla collera. Quanti delitti sono dovuti a un momento di furia, più che a una vera intenzione? John si trovava lì, Tommy. E questo deve significare qualcosa. Lynley si alzò stiracchiandosi con movimento elastico. — Ne parlerò con John domattina. Ci sarà una spiegazione. St. James lo guardò, senza lasciare la sedia. — E se la polizia si convince di aver trovato il colpevole? Se i risultati di laboratorio giustificano un arresto? Capelli di Penellin sul cadavere, le sue impronte nella stanza, una goccia del sangue di Mick sul risvolto dei pantaloni o la manica della giacca. Se è entrato in quella stanza, stanotte, ci saranno delle tracce a dimostrarlo, ancor più della testimonianza dei vicini che l'hanno visto e che hanno sentito un alterco. Che farai, allora? Boscowan sa che sei del CID? — Non è cosa a cui faccio gran pubblicità. — Chiederà l'aiuto di Scotland Yard? — No, se ritiene che il colpevole sia John Penellin — rispose Lynley con evidente riluttanza, esprimendo anche il parere di St. James. — Che motivo ne avrebbe? — Trasse un sospiro. — È una situazione maledetta, e Nancy si aspetta che aiuti suo padre. Bisognerà andarci cauti, St. James. Non possiamo permetterci di pestare i piedi alle autorità. — E se succede? — A Londra me la faranno scontare. — Salutò con un cenno e uscì. St. James tornò ai suoi appunti. Prese un altro foglio di carta e per diversi minuti lavorò impostando colonne e categorie in cui inserì i pochi dati di cui disponevano. John Penellin. Harry Cambrey. Mark Penellin. Marito sconosciuto. Dipendenti del giornale. Potenziali moventi. Arma del delitto. Ora del decesso. Scrisse, elencò, rilesse. Le parole cominciarono a ondeggiare. Si premette le dita contro gli occhi. Da qualche parte una finestra cigolò e nel medesimo istante la porta del soggiorno venne aperta e richiusa. Lui rialzò il capo di scatto. Nell'ombra c'era Deborah. Indossava una vestaglia di un tessuto diafano, color avorio, che la faceva
sembrare uno spettro. I capelli le ricadevano sciolti sulle spalle. St. James spinse indietro la sedia, alzandosi. Era in equilibrio precario per via della posizione scomoda della gamba e ne sentì tutto il peso. Deborah si guardò attorno. — Tommy non è con te? — È andato a letto. Lei aggrottò la fronte. — Mi era parso di sentire... — Era qui poco fa. — Oh. Capisco. St. James si aspettava che se ne andasse e invece Deborah entrò nello studiolo accostandosi allo scrittoio. Una ciocca dei suoi capelli gli sfiorò la manica e lui ne colse il profumo fresco. Fissò gli appunti e sentì che lei faceva altrettanto. — Hai intenzione di occupartene? — chiese lei dopo un momento. Lui si chinò a scrivere qualche parola volutamente illeggibile sul margine del foglio. I taccuini sul pavimento del cottage. La posizione della cabina telefonica. Una domanda per la signora Swann. Quel che capitava. Non aveva importanza, pur di fare qualcosa. — Darò una mano, se posso — rispose — anche se questo tipo di indagine è fuori dal mio campo e quindi non so come potrò essere utile. Stavo solo riesaminando le cose discusse con Tommy. Nancy. La sua famiglia. Il giornale. — Scrivendole. Sì. Ricordo i tuoi appunti. Decine di fogli, sparsi ovunque. — In laboratorio. — E grafici, e tabelle. Non ho mai dovuto sentirmi in colpa per la valanga di fotografie che sparpagliavo per tutta la casa mentre tu eri in laboratorio a lanciare freccette contro il tuo guazzabuglio di carte, esasperatissimo. — Si trattava di un bisturi, per la precisione — disse St. James. Scoppiarono a ridere ma fu solo un breve momento che cedette al silenzio, prima da parte di lui poi di Deborah. Sapeva bene il motivo: ridere insieme risvegliava troppo nitidamente una folla di ricordi; solo il silenzio poteva far tacere il dolore. — Non avevo idea che Helen lavorasse con te in laboratorio — riprese Deborah. — Papà non me ne ha mai accennato nelle sue lettere. Strano, no? L'ho saputo da Sidney oggi pomeriggio. È molto brava in tutto, vero? Anche al cottage. Io me ne stavo là come un'idiota mentre Nancy crollava e quella povera bambina piangeva, e Helen invece sapeva benissimo come far fronte alla situazione.
— Sì — annuì St. James. — Ci sa fare. Deborah non aggiunse altro. Lui desiderava solo che se ne andasse. Aggiunse qualche altra nota. Rilesse, accigliato, fingendo di riflettere. E poi, quando non poté più evitarlo, quando insistere in quell'atteggiamento lo avrebbe apertamente rivelato come il codardo che fingeva di non essere, alzò lo sguardo. Fu la particolare luce diffusa dello studiolo ad annullare le sue difese. Gli occhi di Deborah risultavano più scuri e più luminosi. La pelle più morbida, le labbra più piene. Gli era troppo vicina e lui sentì che aveva solo due scelte: poteva andarsene oppure prenderla tra le braccia. Non c'erano vie di mezzo, non ce ne sarebbero mai state. Pura illusione credere che sarebbe venuto il giorno in cui sarebbe stato immune da ciò che provava adesso ogni volta che si trovava con lei. Raccolse le carte, mormorò un formale buonanotte e si avviò. Era arrivato al soggiorno quando gli giunse la voce di Deborah. — Simon, io ho visto quell'uomo. Si volse, perplesso. — L'uomo ucciso. Mick Cambrey. L'ho visto. Ero venuta per dirlo a Tommy. Tornò indietro, posò i fogli sullo scrittoio. — Dove? — Non sono assolutamente certa che si tratti della stessa persona. C'è una foto del matrimonio, con lui e Nancy, nella loro camera da letto. L'ho vista quando ho portato di sopra la bambina, e sono quasi convinta che sia lo stesso che ho visto uscire dall'appartamento accanto al mio, stamattina... be', ieri mattina, ormai... a Londra. Non ho voluto farne cenno, prima, per via di Nancy — si toccò i capelli. — Ecco, nell'appartamento accanto ci sta una certa Tina Cogin. E a me sembra... non posso esserne sicura, naturalmente, ma da come parla e si veste e dagli accenni alle sue esperienze con gli uomini... ho avuto l'impressione... — Che sia una prostituta? Deborah lo ragguagliò in fretta: Tina Cogin aveva sentito la loro lite, a Londra; era comparsa portandole una cosa da bere, un intruglio che lei stessa beveva dopo avere ricevuto visite maschili. — Ma non abbiamo parlato molto perché è arrivata Sidney e Tina se n'è andata. — E Cambrey? — È stato per via del bicchiere che era rimasto da me e solo stamattina mi è venuto in mente che dovevo restituirlo. Stava dirigendosi alla porta di Tina, spiegò Deborah, e Cambrey ne u-
sciva in quel momento. Rendendosi conto di trovarsi dinanzi a un "cliente", lei era rimasta un po' incerta, non sapendo se era il caso di consegnargli il bicchiere pregandolo di darlo a Tina, o se passare oltre fingendo di non badargli, o se tornare in casa sua senza dir niente. Lui aveva risolto la cosa augurandole il buongiorno. — Non era per niente imbarazzato — osservò Deborah ingenuamente. St. James osservò tra sé che di rado gli uomini provano imbarazzo per i loro incontri erotici, ma non fece commenti. — Gli hai parlato? — L'ho solo pregato di dare il bicchiere a Tina e di dirle che partivo per la Cornovaglia. Mi ha chiesto se doveva chiamarla ma ho risposto di no. Non volevo vederli insieme. Mi pareva talmente imbarazzante, Simon. — Deborah ebbe un breve sorriso. — Non me la cavo bene in circostanze del genere, vero? A ogni modo lui è rientrato nell'appartamento. — La porta era aperta? Deborah distolse lo sguardo, soprappensiero. — No. Aveva la chiave. — Lo avevi mai visto prima? O solo ieri? — Solo ieri. Lui è rientrato e ha parlato con Tina — arrossì. — Gli ho sentito dire qualcosa a proposito di una concorrente coi capelli rossi, lì accanto. Deve avere pensato... be', non ne aveva motivo. Probabilmente scherzava. Ma lei deve avergli fatto credere che ero del giro perché quando è ricomparso mi ha riferito che Tina l'aveva incaricato di dirmi che avrebbe pensato lei a fare buona accoglienza ai miei amici, mentre io ero via. E poi si è messo a ridere. E mi ha squadrata ben bene. Lì per lì ho creduto che avesse preso sul serio Tina, ma poi mi ha strizzato l'occhio, sorridendo, come se volesse essere solo una battuta. — Deborah rifletté su quanto aveva raccontato e si rischiarò in volto traendo le sue conclusioni. — Allora probabilmente non è una prostituta, ti pare? Se Mick aveva la chiave... Le prostitute di solito non danno in giro le chiavi di casa, no? Voglio dire, se uno arrivasse mentre un altro... — Ebbe un piccolo gesto incerto. — Si verrebbe a creare una situazione imbarazzante. — Quindi forse non è una prostituta. È possibile che la mantenesse, Simon? O la nascondesse? La proteggesse da qualcuno? — Sei certa che si trattasse di Mick? — A me pare proprio lui. Se dessi un'altra occhiata alla foto potrei essere più sicura. Ma ricordo i capelli perché erano di un castano ramato, esattamente come ho sempre desiderato averli io. E ho pensato che un colore così era proprio sprecato in un uomo che probabilmente non ci teneva affatto.
St. James tamburellò le dita sullo scrittoio e rifletté ad alta voce: — Non sarà difficile procurarci una foto di Mick. Se non al cottage, altrove. Suo padre ne avrà di certo. — Esaminò la mossa logica successiva. — Potresti tornare a Londra per parlare con questa Tina? Oh, buon Dio, ma che idee mi vengono? Non puoi certo andartene da qui nel bel mezzo del weekend. — Sì, invece. C'è una cena in programma, per domani sera, ma poi non abbiamo altri impegni. Tommy può riportarmi a Londra domenica mattina. Oppure posso prendere il treno. — Devi solo mostrarle la foto e vedere se lo riconosce. Ma non dirle che è morto. Ci penseremo Tommy e io — St. James ripiegò i fogli e li infilò nella tasca della giacca. — Se Mick aveva una relazione con lei, Tina potrebbe dirci qualcosa che faccia luce sulla sua uccisione, qualcosa che lui le ha raccontato. Gli uomini si rilassano, dopo un rapporto sessuale. Si sentono più importanti. Abbassano la guardia. — Si interruppe e passò in fretta ad altro, senza guardare Deborah. — Helen potrebbe venire con te. Io cercherò di raccogliere dati, qui. Tommy vorrà partecipare. E poi ti raggiungiamo quando... Accidenti! Le fotografie! Ho lasciato la pellicola nella tua macchina fotografica. Se la sviluppiamo avremo dei... Temo di averla usata tutta. Lei sorrise. St. James sapeva perché: stava reagendo esattamente come lei. — Vado a prenderla, è in camera mia — e uscì. Lui andò alla finestra dello studio contemplando il giardino immerso nella notte. Le piante erano semplici ombre. I sentieri, mute strie grigie. St. James considerò i frammenti sconnessi della vita e della morte di Mick Cambrey così come erano emersi quella sera. Mick stava parecchio lontano da casa, aveva detto lady Asherton. Lavorava a un'inchiesta, a Londra. Una faccenda grossa. St. James si domandava quali legami potevano esserci tra quell'inchiesta e Tina Cogin. Si poteva pensare che fosse l'amante di Mick, che lui la mantenesse a Londra per i suoi piaceri clandestini. Tuttavia Deborah, che possedeva un intuito notevole, aveva concluso da una prima impressione, un breve colloquio, un incontro fortuito con Mick, che Tina fosse una prostituta. Se così stavano le cose, il collegamento con l'inchiesta era logico e inevitabile: Mick la manteneva a Londra non per il suo piacere ma per proteggere la sua fonte di informazioni in vista di un servizio giornalistico che si sarebbe conquistato titoli su molte colonne e avrebbe portato il suo nome in primo piano. Non sarebbe certo stata la prima volta che una prostituta risultava
implicata in una vicenda scottante, né la prima volta che a causa di una prostituta delle teste saltavano e delle carriere venivano bruciate. E adesso, con la morte di Mick e il saccheggio del suo materiale - forse nella speranza di trovare l'indirizzo londinese di Tina Cogin - i vari elementi potevano andare a comporre il disegno più impensato. — Simon! — Deborah arrivò di corsa e, volgendosi, lui la vide tremante, le braccia allacciate attorno al corpo come se avesse freddo. — Che succede? — Sidney. C'è qualcuno con Sidney. Ho sentito una voce maschile. L'ho sentita gridare. Forse Justin... St. James non attese che terminasse la frase. Uscì in fretta avviandosi lungo il corridoio che portava all'ala nordoccidentale. A ogni passo ansia e collera aumentavano. Di nuovo tutte le immagini di quel pomeriggio gli passavano nella mente. Sidney in acqua. Sidney sulla sabbia. Brooke che le stava addosso, tempestandola di pugni e lacerandole il vestito. Ma adesso, per fortuna, non c'era una rupe a separarlo da Justin Brooke. Solo la lunga consuetudine con sua sorella indusse St. James a fermarsi sulla porta invece di precipitarsi dentro. Deborah lo raggiunse mentre lui ascoltava, l'orecchio contro il legno. Sentì il piccolo grido di Sidney, la voce di Brooke, il gemito di lei. Maledetto inferno, pensò. Prese Deborah per il braccio, conducendola via. — Simon! — sussurrò Deborah. Lui non aprì bocca fino a che non furono nella sua camera, la porta chiusa alle loro spalle. — Non è nulla — disse. — Non preoccuparti. — Ma... l'ho sentita. — Va tutto bene, Deborah. Credimi. — Ma... — Di colpo lei comprese e volse il capo, con un ansito. — Pensavo... — poi rinunciò, concludendo: — Perché sono così stupida? Lui avrebbe voluto dirle qualcosa, dissipare il suo imbarazzo, ma sapeva che qualsiasi commento non avrebbe fatto che peggiorare le cose. Frustrato, adirato con le trasformazioni avvenute nelle lóro esistenze che sembravano paralizzarlo, si guardò attorno come se quella stanza potesse offrirgli una risposta. Osservò i pannelli di quercia alle pareti, lo stemma degli Asherton sulla cappa del caminetto, l'alto soffitto a botte che si perdeva nell'ombra. Un enorme letto a quattro colonne dominava il pavimento, la testata scolpita con volti grotteschi che si dipanavano tra fiori e frutta. Che posto orribile, pensò. Pareva una tomba. — Non è mai stato facile capire Sidney — si risolse a dire. — Devi ave-
re pazienza, Deborah. Non potevi immaginare. Va tutto bene. Sul serio. Con sua sorpresa, lei si ribellò. — Non va per niente bene. Proprio no, e tu lo sai. Come può far l'amore con lui dopo quel che è successo oggi? Non capisco. È pazza? È pazzo lui? La domanda e la risposta insieme. Perché era in realtà follia, follia pura, accecante, indecente, una follia che annientava ogni possibile ostacolo. — È innamorata di lui, Deborah — mormorò infine. — Non si è tutti un po' pazzi quando si è innamorati? Lei si limitò a fissarlo, deglutendo. — La pellicola — disse poi. — Ora te la do. 12 L'Anchor and Rose godeva della posizione più favorevole di tutta Nannurel. Non solo le sue ampie finestre sporgenti offrivano una completa veduta del porto, tale da soddisfare i più esigenti ricercatori di atmosfera tipica, ma si trovava anche situato proprio di fronte all'unica fermata d'autobus e di conseguenza era il primo edificio su cui si posava lo sguardo del viaggiatore assetato. Le pareti erano di granito rozzamente tagliato e il tetto di ardesia. Era un vecchio pub, con travature corrose dalle burrasche e dall'aria salsa e, proprio sotto lo spiovente principale, un bizzarro orologio che segnava immutabilmente le otto e un quarto. Quando St. James e lady Helen entrarono, poco dopo l'ora d'apertura del mattino, si trovarono con l'unica compagnia di un grosso soriano disteso nel vano di una finestra e della donna dietro il banco, occupata ad asciugare innumerevoli boccali. Dopo un breve cenno di saluto questa continuò nel suo compito, sbirciando lady Helen che andava ad accarezzare il gatto. — Stia attenta — raccomandò. — C'è il rischio che graffi. È un dispettoso quando vuole. Come per dimostrare che era pura calunnia, il gatto sbadigliò, si stiracchiò e offrì un robusto ventre alle attenzioni di lady Helen. La signora prese nota, sbuffò e continuò a impilare boccali. St. James si diresse al banco riflettendo che, se quella era la signora Swann, doveva essere rimasta bloccata nella fase di brutto anatroccolo: nulla di cignesco era riscontrabile in lei. Era atticciata e solida, con occhietti piccoli e crespi capelli grigi. — Cosa posso servirle? — Be', è un po' presto, per me — rispose St. James. — Siamo venuti per
parlare con lei. Se è la signora Swann. — E con chi ho l'onore? St. James presentò se stesso e lady Helen che si era accomodata vicino al gatto. — Di sicuro ha saputo che Mick Cambrey è stato ucciso. — Lo sa tutto il paese. E così Mick ha avuto il fatto suo. Gli hanno fatto sparire il suo giocattolo preferito, eh? Sai che baldoria stasera quando i mariti del posto verranno a festeggiare. — Vuol dire che Mick aveva a che fare con qualche signora di Nannurel? La signora Swann seguitò a strigliare con vigore. — Mick Cambrey aveva a che fare con chiunque gli desse retta. — Si rivolse agli scaffali vuoti alle sue spalle e cominciò ad allineare i boccali. Il messaggio era inequivocabile: non aveva altro da aggiungere. — A dir la verità, signora Swann — intervenne lady Helen — siamo venuti qui soprattutto per via di Nancy Cambrey. La schiena perse parte della sua rigidezza ma la signora non si volse. — Quella stupida di Nance. Sposata con un simile cialtrone — scosse i ricci, sprezzante. — Già. E adesso si trova in una situazione spaventosa, le pare? Non solo le hanno ucciso il marito ma il padre viene interrogato dalla polizia. Questo accese subito l'interesse della signora Swann. Si girò a guardarli, i pugni sui fianchi. Aprì la bocca e la richiuse. Poi: — John Penellin? — Proprio. Nancy ha cercato di convincere la polizia che ha parlato con suo padre al telefono, ieri sera, e che quindi lui non poteva essere qui a Nannurel a uccidere Mick. Ma... — Ed è vero — dichiarò la signora. — È andata proprio così. Si è fatta dare dieci pence da me per la telefonata. Non aveva un soldo nella borsa, grazie a Mick. — E si diffuse in merito: — La prosciugava regolarmente. Sempre in caccia di grana, per farsi la bella vita. — È sicura che Nancy abbia parlato con suo padre? — insistette St. James. — Non con qualcun altro? La signora Swann si risentì. Puntò l'indice. — Certo che era suo padre — affermò. — Mi sono talmente seccata di doverla aspettare... è rimasta via dieci o quindici minuti buoni... che sono andata alla cabina telefonica a cavarla via. — Dov'è la cabina? — Appena fuori della scuola. In Paul Lane. — E l'ha vista formare il numero? Poteva vedere la cabina?
La signora Swann mise insieme i due interrogativi e giunse in fretta alla conclusione. — Non avrà in mente che Nancy abbia fatto fuori Mick? Che se la sia filata a casa di nascosto, gli abbia fatto la festa e poi sia tornata qui fresca come una rosa a distribuire birra? — Signora Swann, è possibile vedere la cabina dal giardino della scuola? — No. E con ciò? Sono andata io stessa a prenderla. Piangeva. Ha detto che suo padre era arrabbiato perché lei aveva chiesto dei soldi in prestito, e adesso lei cercava di far pace. — La signora serrò le labbra come se non intendesse dir altro, ma una bolla di collera parve gonfiarsi ed esplodere. Riprese, veemente: — E posso ben capirlo, il padre di Nancy. Sapevano tutti dove finiva il denaro che Nance dava a Mick. Dritto alle sue amichette, no? Così pieno di sé, quel piccolo verme. Si è montato la testa con l'università. E poi ancora di più con la faccenda del giornalismo. Convinto di poter fare tutto quel che gli pareva. Proprio qui, negli uffici del giornale. Ha avuto quel che si meritava. — Negli uffici del giornale? — ripeté St. James. — Faceva venire donne in ufficio? La signora accennò al soffitto con un brusco movimento del capo. — Proprio qui sopra. C'è una stanzetta sul retro, con un lettino e tutte le comodità. E come si gloriava delle sue imprese. Fiero come un gallo. Si teneva anche i trofei. — Trofei? La signora Swann si protese in avanti, depositando sul banco il cospicuo seno: — Come le chiamerebbe lei delle mutandine da donna? Due paia, proprio nella scrivania. Le ha trovate Harry. Suo padre. Uscito dall'ospedale da neanche sei mesi, poveretto, e si trova davanti quella roba: nel primo cassetto della scrivania di Mick, e neanche erano pulite. Oh, le urla che ho sentito. — Nancy le ha scoperte? — Era Harry a urlare, non Nance. Tra poco ti nasce un figlio, diceva. E il giornale! La famiglia! Non contano niente? Solo quel che fa comodo a te? E ha dato una botta tale a Mick che ho creduto che fosse rimasto secco da come l'ho sentito cadere. E si è fatto un taglio in testa contro lo spigolo di un armadietto. Ma dopo un paio di minuti è arrivato giù a precipizio con suo padre che gli tempestava appresso. — E quando è stato? — domandò St. James. La signora Swann alzò le spalle. Il suo sdegno pareva esaurito. — Glielo
potrà dire Harry. È di sopra. John Penellin arrotolò la mappa, la fermò con un elastico e l'infilò nel vecchio portaombrelli del suo ufficio, insieme ad alcune altre. Il sole dal tardo mattino entrava a fiotti dalle finestre rendendo afosa la stanza. Aprì i vetri e regolò le veneziane mentre osservava: — È stata una buona annata, milord. E se lasciamo a maggese i campi a nord per un'altra stagione la terra avrà solo da guadagnarci. — Riprese il suo posto dietro la scrivania ma, come se ci fosse un ordine del giorno da rispettare a tutti i costi con la speranza che non venissero affrontati altri argomenti, non attese la risposta di Lynley e continuò: — Possiamo parlare di Wheal Maen? Non era stata intenzione di Lynley esaminare i registri o impegnarsi in una particolareggiata discussione sull'andamento della tenuta con Penellin che la mandava tranquillamente avanti da un quarto di secolo. Tuttavia si adeguò sapendo che la pazienza gli avrebbe conquistato la confidenza dell'amministratore molto più di una domanda diretta. E tutto il suo aspetto stava a indicare che Penellin avrebbe avuto un gran bisogno di sfogarsi. La faccia era tirata. Indossava ancora gli abiti della sera prima, ma erano abbastanza in ordine e facevano pensare che Penellin non si fosse neppure coricato. E c'erano altre tracce a indicare cosa gli avesse impedito di dormire: le dita erano ancora macchiate dell'inchiostro con cui gli avevano preso le impronte digitali alla stazione di polizia di Penzance. Considerando tutto ciò, Lynley accantonò per il momento il vero scopo della sua presenza e accettò l'argomento proposto da Penellin. — Ancora ci crede, John? In Cornovaglia le miniere sono ormai morte da più di cent'anni. Lo sa meglio di me. — Non pensavo affatto di riaprire Wheal Maen. Anzi, bisogna sigillarla. Gli impianti sono in rovina. Il pozzo principale è allagato. Troppo pericoloso lasciarla in queste condizioni — fece ruotare la sedia e accennò alla grande mappa appesa alla parete. — La miniera è visibile dalla strada di Sennen. La si raggiunge attraversando un breve tratto di brughiera. Secondo me dovremmo demolire completamente il castello di estrazione e chiudere l'accesso al pozzo prima che a qualcuno venga in mente di andare in esplorazione e si faccia male. O peggio. — Quella strada non è mai molto frequentata. — Ci passano pochi turisti, è vero — replicò Penellin — ma la gente di qui se ne serve abitualmente. E io mi preoccupo dei ragazzini. Sa cosa sono capaci di combinare quando giocano, e non vorrei proprio che ci tro-
vassimo con la tragedia di un bambino che cade là dentro. Lynley si alzò per esaminare la mappa. Già, la miniera si trovava a meno di cento metri dalla strada, e ne era separata solo da un muro a secco che non rappresentava certo una barriera invalicabile in una regione dove innumerevoli sentieri attraversavano le proprietà private, la brughiera e le vallette, collegando i vari paesini. — Certo, ha ragione. — E, quasi tra sé, aggiunse meditabondo: — Come sarebbe dispiaciuto a mio padre veder chiudere la miniera. — I tempi cambiano — fece notare l'altro. — Suo padre non era tipo da aggrapparsi al passato. — Andò allo schedario e ne prese tre incartamenti che portò alla scrivania. Lynley si avvicinò. — Come sta Nancy, stamattina? — Si fa forza. — A che ora è rientrato? — Verso le quattro e mezzo. — Tutto definito, allora? — Per il momento. Lynley esitò, combattuto tra la promessa fatta a Nancy e il rendersi conto che Penellin non desiderava aggiungere altro. Non voleva aiuto. Era chiarissimo. Eppure, sotto quel riserbo, Lynley avvertiva una corrente di inquietudine, e cercò di scoprirne l'origine in modo da poterla alleviare per quanto poteva. Dopo tanti anni in cui aveva potuto far affidamento sulla forza e la lealtà di Penellin desiderava offrirgli a sua volta appoggio e lealtà. — Nancy mi ha detto di averle parlato al telefono, ieri sera. — Sì. — Ma qualcuno l'ha visto in paese, stando alla polizia. Penellin non rispose. — Senta, John, se ci sono delle difficoltà... — Nessuna difficoltà, milord. — Penellin trasse a sé gli incartamenti e ne aprì uno. Era un gesto di congedo, il più esplicito che si sarebbe mai permesso. — È come ha detto Nancy, milord. Abbiamo parlato al telefono. Se qualcuno mi ha visto in paese, che ci posso fare? Il rione è buio. Poteva essere chiunque. È come ha detto Nance. Mi trovavo alla foresteria. — Maledizione, eravamo lì presenti quando lei è rientrato alle due passate! Lei è andato a Nannurel, vero? Ha visto Mick. Né lei né Nancy state dicendo la verità. John, sta cercando di proteggere sua figlia? O Mark? Perché neanche lui era a casa. E lei lo sapeva, vero? Era andato a cercare
Mark? Il ragazzo era in contrasto con Mick? Penellin prese un documento dalla cartelletta. — Avevo già iniziato la procedura burocratica per la chiusura di Wheal Maen. Lynley fece un ultimo tentativo. — Lei è qui da venticinque anni. Voglio pensare che si rivolgerebbe a me in caso di bisogno. — Non ho bisogno di nulla — dichiarò l'altro in tono fermo. Lynley lasciò l'ufficio. Richiusa la porta dietro di sé, si fermò nel corridoio: la porta che dava sull'esterno era spalancata e il sole si riversava dal cortile. Qualcuno si mosse sull'acciottolato, poi uno scroscio d'acqua. Di fuori trovò Jasper - in parte autista, in parte giardiniere, in parte stalliere, e chiacchierone a tempo pieno - occupato a lavare la Lana Rover. Aveva i pantaloni arrotolati, i piedi nudi, e la camicia bianca aperta sul magro torace coperto di peluria grigia. Rivolse un cenno a Lynley. — Allora ha saputo? — chiese dirigendo il getto sul parabrezza. — Saputo cosa? Jasper sbuffò. — È tutta la mattina che se ne parla. Il delitto e la polizia e John portato via dalla Omicidi — sputò a terra e passò uno straccio sul cofano della Rover. — Con John a Nannurel e Nancy che racconta frottole su trottole... chi l'avrebbe mai immaginato? — Nancy racconta frottole? E come fa a saperlo, Jasper? — Naturale che lo so. Sono andato alla foresteria verso le dieci. Ho fatto il giro dal mulino. E mica c'era nessuno a casa. Lo so ben io che conta storie. — Il giro dal mulino? Quello nel bosco? C'entra in qualche modo il mulino con la morte di Mick Cambrey? L'espressione di Jasper si chiuse davanti a quell'attacco frontale. Troppo tardi Lynley si ricordò che al vecchio piaceva condurre i suoi racconti sul filo del sottinteso. — E John mica le ha detto dei vestiti che Nance ha fatto a striscioline, eh? — No. Non mi ha parlato di vestiti — rispose Lynley, e poi lanciò l'esca: — Ma immagino che non abbiano importanza, altrimenti ne avrebbe accennato. Jasper scrollò foscamente il capo di fronte a tanta stolida cecità. — Era là che li riduceva a brandelli. Proprio dietro il loro cottage. E l'abbiamo colta sul fatto, io e John. E lei ha cacciato uno strillo da gallina quando ci ha visti. E a me sembra abbastanza importante.
— Ma non ha spiegato? — Ha detto niente. Quei bei vestiti eleganti e Nance che li faceva a fettine. John gli ha preso la furia e voleva entrare in casa per vedersela con Mick. Ma Nance l'ha fermato. Gli si è aggrappata addosso tanto da fargli perdere il fiato, a John. — Dunque erano i vestiti di un'altra — mormorò Lynley. — Jasper, nessuno sa chi fosse la donna di Mick? — Donna? — Uno sbuffo sdegnoso. — Donne, piuttosto. A decine, da quel che racconta Harry Cambrey. Arriva lì all'Anchor and Rose, si siede e chiede in giro cosa ci si può fare se Mick cerca di spassarsela. "Lei non gli dà abbastanza" spiega Harry. "E cosa deve fare uno quando la sua donna non gli dà abbastanza?" — Jasper ebbe una risatina sprezzante, si scostò di qualche passo e innaffiò una ruota anteriore della Rover. L'acqua gli inondò le gambe. — A sentire come la conta Harry, Nance tiene le braccia e le gambe incrociate da quando è nata la bambina. Con Mick che soffre e smania e non sa trovar pace. "Cosa deve fare un uomo?" chiede Harry. E la signora Swann, quella sì che gliel'ha detto, ma... — Jasper parve ricordarsi d'un tratto di chi aveva come interlocutore. Si fece serio, raddrizzò le spalle e si tolse il berretto passandosi una mano tra i capelli. — Be', mi sembra chiaro. Mick non aveva nessuna voglia di mettersi tranquillo. Sputò ancora come per mettere un punto fermo alla discussione. St. James e lady Helen sentirono Harry Cambrey prima di vederlo. Mentre risalivano le strette scale - abbassando il capo per evitare le travi sporgenti - a un rumore di mobili spostati lungo un pavimento di nudo legno fece seguito lo sbattere di un cassetto, poi una bestemmia. Quando bussarono all'interno scese il silenzio. Poi dei passi; la porta venne aperta e Cambrey li squadrò. Loro fecero altrettanto. St. James si rammentò che l'anno prima aveva subito un intervento chirurgico. E non pareva che la cosa gli avesse giovato granché. Era molto magro, con il pomo d'Adamo sporgente e la clavicola che si congiungeva in due punte nodose subito sotto. Il colorito giallastro faceva pensare a disturbi di fegato. Non si era fatto la barba e la frangia di capelli grigi attorno al cranio formava dei cernecchi ispidi, come se si fosse svegliato poco prima e non avesse avuto il tempo di pettinarsi. Quando Cambrey fece un passo indietro per lasciarli entrare, St. James notò che si trovavano in un ampio locale con diversi box lungo una parete e quattro strette finestre affacciate sulla strada che risaliva la collina. Non
c'era nessun altro, circostanza abbastanza insolita trattandosi di un ufficio, e soprattutto della sede di un giornale. Ma almeno una delle ragioni dell'assenza del personale era visibile sui banchi di lavoro, le scrivanie, le sedie. Dappertutto erano sparsi fogli, incartamenti, agende. Harry Cambrey era impegnato in una ricerca. Vi si dedicava da alcune ore e senza un particolare metodo, a giudicare dallo stato dello stanzone. I cassetti di una fila di schedari verdini erano aperti e vuotati a mezzo; accanto a un computer acceso si trovava una pila di dischetti; su un banco d'impaginazione l'ultima edizione del giornale era stata spinta da parte per far posto a tre fasci di fotografie; i cassetti di tutte e cinque le scrivanie presenti erano stati sfilati dalle loro sedi. Nell'aria si avvertiva l'odore di carta vecchia e, con le luci centrali spente, regnava una penombra dickensiana. — Cosa volete? — chiese Harry Cambrey. Fumava una sigaretta che si toglieva dalla bocca solo per tossire. Se si preoccupava degli effetti del fumo sul proprio cuore, non lo dava a vedere. — C'è solo lei, qui? — domandò St. James mentre con lady Helen si faceva strada in quel marasma. — Ho dato giornata libera. — Nel frattempo esaminava lady Helen dalla testa ai piedi. — Il motivo della vostra visita? — Nancy ci ha chiesto di cercare di scoprire cosa c'è dietro la morte di Mick. — Volete svolgere delle indagini? Voi due? — Adesso scrutava St. James, prendendo nota della gamba chiusa nell'apparecchio, con la stessa insolenza mostrata nell'ispezionare lady Helen. — Andare a caccia di notizie è una professione pericolosa, vero, signor Cambrey? — osservò lady Helen dalla finestra a cui era giunta. — Se suo figlio è stato assassinato per via di un articolo che stava mettendo insieme, che differenza fa chi consegna il colpevole alla giustizia? A queste parole la baldanza fittizia di Cambrey si dissolse lasciando solo una profonda desolazione e rivelando Cambrey per quello che era: un uomo anziano che aveva perso il figlio ammazzato con atroce violenza. — È una faccenda grossa — mormorò, le braccia abbandonate lungo i fianchi. — Lo so. Lo sento. Mi trovo qui da quando mi hanno detto l'accaduto, a cercare gli appunti del ragazzo. — Trovato nulla? — chiese St. James. — Ho pochi elementi in mano. Cerco di ricordare quel che ha detto e fatto. Non è una storia che riguardi Nannurel. Impossibile. Ma non so al-
tro. — Ne è certo? — Visto come si è mosso negli ultimi mesi, è da escludere che ci sia di mezzo Nannurel. Continuava ad andare e venire, a seguire piste, fare ricerche, intervistare quello, rintracciare quell'altro. No, non è una storia di paese. Ci giurerei. — Scrollò il capo. — Sarebbe stata la fortuna del giornale, poterla pubblicare. — Dove andava? — A Londra. — Ma non ha lasciato appunti? Non è strano? — Appunti ce n'è eccome. Eccoli. Li vede. — Accennò al caos circostante. — Ma niente che possa avere causato la morte del mio ragazzo. Un giornalista non muore perché intervista dei militari, il deputato locale, invalidi inchiodati al letto o allevatori. Un giornalista muore perché ha informazioni che giustificano il fatto di ammazzarlo. E Mick non ha lasciato niente del genere qui. — Nulla di insolito tra il suo materiale? Cambrey buttò a terra la sigaretta e la schiacciò col piede. Al tempo stesso girò lo sguardo in direzione di una scrivania. St. James lesse la risposta in questo atto involontario. — Ha trovato qualcosa? — Non lo so. Può anche dare un'occhiata. Io non ne cavo nulla. — Cambrey si accostò alla scrivania e da sotto il telefono trasse un foglietto che tese a St. James. — Era cacciato in fondo a un cassetto. Un tovagliolino di carta con il nome "Talisman Café", macchiato di grasso, che evidentemente era servito per avvolgerci un sandwich. La luce scarsa e i punti in cui l'unto non aveva permesso alla carta di assorbire l'inchiostro rendevano difficile la lettura, ma St. James vide che si trattava soprattutto di cifre. 1 kg 9400 500 g 55 cad. 27500-M1 Fornitura / Trasporto 27500-M6 Finanziamento St. James alzò gli occhi. — È la grafia di Mick? Cambrey annuì. — Se c'è una qualsiasi traccia, è questa. Ma non so di che si tratti né cosa significhi.
— Ma devono pur esserci altri appunti in cui compaiono gli stessi numeri — osservò lady Helen. — M1 e M6. Si riferiscono sicuramente alle autostrade. — Se ci sono, io non li ho trovati. — Quindi sono scomparsi. — Rubati? — Cambrey accese un'altra sigaretta, aspirò, tossì. — Ho saputo che il cottage è stato frugato. — Ha notato delle tracce di effrazione, cui? — domandò St. James. Cambrey si guardò attorno, poi scosse il capo. — Boscowan ha mandato un agente a dirmi di Mick verso le quattro e un quarto. Sono andato al cottage ma avevano già portato via il corpo e non mi hanno lasciato entrare. Così sono venuto qui. E ci sono sempre rimasto. Nessuna effrazione. — Nessun segno di ricerche? — Niente. — Cambrey contrasse le narici. — Voglio scoprire il bastardo che ha ammazzato Mick. E voglio portare in fondo la sua inchiesta. Niente me lo impedirà. In questo paese abbiamo libertà di stampa: il mio ragazzo viveva per il giornalismo, e per quello è anche morto. Ma non sarà morto invano. — Sempre che sia morto per via di determinate notizie — puntualizzò St. James a mezza voce. Cambrey si fece scuro in volto. — È morto per un'inchiesta. Perché altro, se no? — Le sue donne. Cambrey si tolse la sigaretta di bocca con gesto lento, studiato, come un attore. Poi ebbe un piccolo cenno di assenso. — È questo che si dice in giro di Mick, eh? Be', perché dovrei dubitarne? Gli uomini erano gelosi del suo successo, e le donne pure se lui non le guardava. — La sigaretta ricomparve tra le labbra e Cambrey socchiuse gli occhi nel fumo. — Era un uomo, Mick. Un vero uomo. E un uomo ha le sue necessità. Sua moglie ha un pezzo di ghiaccio tra le gambe. E quel che lei gli negava, lui se lo cercava altrove. Se qualcuno ne ha colpa, è Nancy. Respingi un uomo e lui se ne troverà un'altra. Niente di male in questo. Era giovane, doveva sfogarsi. — Ce n'era qualcuna in particolare che frequentava? Che fosse qualcosa di più di una delle tante? Si era messo con una nuova? — Non saprei. Mick non era tipo da andare in giro a raccontarlo quando ne trovava una. — Andava a letto con donne sposate? — volle sapere lady Helen. — Donne di qui?
— Un mucchio di donne andavano a letto con lui — Cambrey spinse di lato le carte che ingombravano la scrivania, sollevò il vetro che la copriva, prese una foto che stava sotto e gliela tese. — Guardi lei. È il tipo a cui direbbe di no se le chiedesse di allargare le gambe, signorina? Lady Helen aspirò in fretta, pronta a rispondere a tono, ma poi con ammirevole autocontrollo non ne fece nulla. Né guardò la foto che passò a St. James. Vi si scorgeva un giovanotto a torso nudo, a bordo di una barca a vela, una mano sul boma mentre sistemava il cordame. Aveva un volto ben disegnato, piacevole, ma era snello come suo padre: non aveva il fisico o i lineamenti aggressivi che vengono in mente quando si sente la definizione "un vero uomo". St. James girò il cartoncino. Cambrey si prepara per la Coppa d'America - il ragazzo va forte, era la scritta scherzosa, tracciata con la stessa grafia vista sul tovagliolino. — Aveva senso dell'umorismo — osservò. — Tutto, aveva. — Posso prendere questa foto? E anche l'appunto? — Faccia quel che vuole. Per me non hanno valore, senza Mick. — Cambrey si guardava attorno, le spalle un po' curve, l'espressione sconfitta. — Avevamo un futuro. Lo Spokesman sarebbe diventato il primo giornale della Cornovaglia. Non più un semplice settimanale. Io ci tenevo. Mick ci teneva. Eravamo sulla strada buona. Tutti noi. — Mick andava d'accordo con il personale? Tutto liscio? — Lo adoravano. Lo ammiravano. Si era fatto strada da solo. Era tornato qui. Un eroe ai loro occhi. Quello che avrebbero voluto essere. — La voce si fece più incisiva. — Neanche da pensarci che qualcuno della redazione volesse ucciderlo. Nessuno in questo ufficio avrebbe torto un capello a mio figlio. Non ne avevano motivo. Stava trasformando il giornale. Stava lanciandolo. Stava... — Preparandosi a licenziare qualcuno? — E chi? Chi, maledizione? St. James diede un'occhiata alla scrivania più vicina alla finestra. C'era una foto di due bambini, in cornice. — In che rapporti era con la signora che rivedeva i testi? Julianna Vendale, no? — Julianna? — Cambrey si tolse la sigaretta di bocca, si passò la lingua sulle labbra. — Era una delle sue amiche? Una ex amante? O una tentata conquista che stava per essere buttata fuori in quanto poco comprensiva riguardo a certe impellenti necessità di Mick?
Cambrey ebbe una breve risata, senza reagire al modo in cui St. James aveva usato le sue stesse parole per arrivare a un movente più terra terra e meno affascinante per il delitto. — Mick non se ne faceva di niente di Julianna Vendale — spiegò Cambrey. — Non aveva bisogno di andare a elemosinare con tutta la merce che aveva a disposizione dovunque si girasse. Usciti nuovamente in strada, si diressero al posteggio dove lady Helen aveva lasciato la Rover. St. James la sbirciava. Negli ultimi minuti trascorsi al giornale lei non aveva detto nulla, anche se la tensione del corpo e il volto inespressivo esprimevano la sua opinione sulla vita e sulla morte di Mick Cambrey - per non parlare del padre - molto più di qualsiasi parola. Ma come si trovarono all'aperto diede sfogo al disgusto e alla rabbia. Marciava a lunghi passi verso il posteggio e St. James riusciva a malapena a tenerle dietro. Coglieva solo frasi monche della sua furiosa polemica. — Bel tipo di campione del sesso... un segnapunti più che un padre... e quando trovava il tempo di mandare in stampa il giornale con tutte quelle necessità da soddisfare?... tutte le donne di Cornovaglia... non mi stupisco affatto, ma proprio per niente, che gli abbiano tagliato... pronta a farlo io stessa... — era a corto di fiato quando arrivarono all'auto. E anche lui. Vi si appoggiarono offrendo la faccia al vento che recava l'odore pungente di alghe e di pesce. Nel porto, immediatamente sotto di loro, centinaia di gabbiani tracciavano cerchi sopra una piccola barca da pesca con il suo carico che riverberava sotto il sole. — È quello che pensavi di me? — chiese di punto in bianco lady Helen. St. James rimase del tutto sconcertato. — Helen, per amor del cielo... — È così? — insistette lei. — Dimmelo. Voglio saperlo. Perché in tal caso puoi prepararti a tornare a piedi a Howenstow. — E allora come posso risponderti? Se ti assicuro di no, tu puoi ribattere che lo dico solo per non dovermi fare tutta la strada. Tanto vale che mi avvii zoppicando. — Oh, avanti, sali — sospirò lei. Ubbidì prima che lei cambiasse idea. Helen si mise al volante ma non avviò subito il motore. Osservava attraverso il parabrezza polveroso i fianchi incrostati del molo. Vi passeggiava una famigliola, la madre con un piccolo sistemato su un passeggino azzurro, e il padre che teneva per mano un marmocchio. Sembravano assurdamente giovani per avere dei figli. — Continuavo a dirmi di tenere presente la situazione — raccontò infine lady Helen. — Mi ripetevo: ha appena perso il figlio, non si rende conto di
quel che dice, non ha idea dell'effetto che può fare. Ma credo di essere andata fuori di me quando mi ha chiesto se non avrei allargato le gambe per Mick. Mi ero sempre chiesto cosa significa "veder rosso". Adesso lo so. Volevo solo saltargli addosso e strappargli tutti i capelli. — Non che ne avesse molti. Questo sciolse la tensione. Lei ebbe una risatina rassegnata e accese il motore. — Che ne pensi di quell'appunto? St. James lo trasse dal taschino e lo girò sul lato dove era stampato, in diagonale, il nome. — Talisman Café. Chissà dov'è. — Non lontano dall'Anchor and Rose. Poco più avanti, in Paul Lane. Perché? — Perché non può averlo scritto al giornale: assurdo usare un tovagliolino da sandwich, con tanta carta a disposizione. Quindi l'ha scritto altrove. Nel bar o chissà dove se si è portato via il sandwich. A essere sincero speravo che il Talisman Café fosse a Paddington — e le raccontò di Tina Cogin. Lady Helen annuì. — E pensi che questa tizia c'entri? — Sì, in qualche modo, se Deborah ha ragione ritenendo che fosse Mick Cambrey quello che ha visto uscire dall'appartamento vicino al suo. Ma, se il Talisman Café si trova a Nannurel, allora Mick aveva qui i suoi punti di riferimento. — Con una fonte di informazioni locale? E un assassino del posto? — Può darsi. Ma non è detto. Andava e veniva da Londra, su questo tutti sono d'accordo. Non credo che sarebbe stato difficile seguirne le mosse fino in Cornovaglia, soprattutto se viaggiava in treno. — Se davvero aveva un informatore qui, questo adesso potrebbe trovarsi in pericolo, chiunque sia. — Sempre che il movente del delitto sia questa famosa inchiesta. — St. James rimise in tasca l'appunto. — A me sembra più verosimile l'altro: saldare il conto per una moglie sedotta. — Lady Helen infilò la Lamorna Road che saliva dolcemente tra i villini turistici volgendo a est sopra la distesa di mare scintillante. — Mi pare più concreto, come motivo, considerando quel che sappiamo di Mick. Perché... cosa proverebbe un uomo trovandosi di fronte alla prova innegabile che la donna amata si dà a un altro? St. James si volse a guardare l'acqua. Un peschereccio si dirigeva verso Nannurel, e anche a quella distanza erano visibili le nasse da aragoste che pendevano ai fianchi. — Una terribile voglia di uccidere, immagino — ri-
spose. Sentì che lei gli dava un'occhiata intuendo come aveva preso quella frase. Probabilmente voleva dire qualcosa, alleviare quel momento. Ma lui preferì passare ad altro. — Quanto all'altra domanda, Helen... a proposito di noi, e di quel che pensavo quando eravamo amanti... Certamente no. Lo sai. Spero che tu l'abbia sempre saputo. — Sono anni che non ci vado — raccontò Lynley mentre con St. James superava il cancello di legno nel muro che cintava Howenstow e affrontavano la discesa nel bosco. — Non so in che condizioni lo troveremo, magari è in completa rovina. Qualche anno di abbandono e i tetti cedono, le travi marciscono, i pavimenti crollano. È stata una sorpresa venire a sapere che è ancora in piedi. Chiacchierava solo nella speranza di sconfiggere le legioni di ricordi in attesa sulla pianura della sua coscienza, pronte all'attacco; ricordi strettamente connessi al mulino e legati a un periodo della sua vita che si era chiuso alle spalle giurando caparbiamente di non ripensarci mai più. Già adesso, mentre si avvicinavano e poteva scorgere tra gli alberi il colmo del tetto, avvertiva le prime incerte scorrerie di una reminiscenza: la figura di sua madre che avanzava nel bosco. Ma era una semplice immagine che cercava di penetrare nella sua corazza protettiva, e la respinse fermandosi ad accendere con calma una sigaretta. — Siamo passati di qui, ieri — stava dicendo St. James. Aveva proseguito di qualche passo per poi arrestarsi quando si era accorto che l'amico era rimasto indietro. — La ruota è coperta di vegetazione. — Lo immagino. È sempre stato un problema, quello. — E Jasper ritiene che qualcuno si serva del mulino. E per far che? Dormirci? — Non l'ha detto. St. James annuì, parve riflettere, si avviò nuovamente. Lynley lo seguì: impossibile temporeggiare ulteriormente con chiacchiere futili e la scusa di una sigaretta. Si accorse che, stranamente, il mulino non era molto cambiato dall'ultima volta che era stato lì; come se qualcuno se ne fosse preso cura. L'esterno aveva bisogno di un'imbiancata - c'erano larghe chiazze in cui l'intonaco era venuto via lasciando scoperta la pietra - e le assi mostravano larghe fessure, ma il tetto era perfettamente in ordine e, a parte un vetro mancante nell'unica finestra al piano superiore, nel complesso la costruzione sembrava abbastanza solida da potersi reggere per altri cent'anni.
Risalirono i gradini di pietra. La porta, con la vernice ormai scomparsa, era semiaperta. Il legno deformato dalle piogge non le permetteva più di tornare nella sua giusta sede. Cedette cigolando quando Lynley la spinse. Entrarono e si fermarono guardandosi attorno. Il locale al piano terra era quasi vuoto, illuminato da sottili lame di sole che penetravano dalle fessure delle imposte. Contro la parete di fronte c'erano dei sacchi in disfacimento vicino a delle cassette di legno accatastate. Sotto una finestra un mortaio di legno e un pestello raccoglievano ragnatele e da un piolo pendeva un rotolo di corda che sembrava star lì da mezzo secolo. In un angolo si scorgeva un fascio di vecchi giornali che St. James andò a esaminare. — Lo Spokesman — annunciò raccogliendone uno. — Mick Cambrey conosceva questo posto, Tommy? — Ci siamo venuti qualche volta da ragazzi. Immagino che se ne ricordasse. Ma quei giornali sembrano vecchi... — Hmm. Sì. Sono dell'aprile dell'anno scorso. Ma qualcuno è stato qui più di recente. — Indicò sul pavimento polveroso delle impronte che andavano alla scala a pioli con cui si raggiungeva il piano superiore e gli ingranaggi che azionavano la macina. St. James esaminò la scala saggiandone la solidità e cominciò a salirla faticosamente. — Non è che facciano molto al caso mio, questi affari — commentò con rammarico. Lynley seguì con lo sguardo la sua lenta ascesa, sapendo benissimo che doveva seguirlo, che non poteva evitarlo. Né riusciva più a respingere i ricordi che il mulino, e ancor più il locale soprastante, suscitava. Dopo ricerche infinite lei lo aveva scoperto lassù, dove si era nascosto da lei e dalla scoperta che gli si era presentata all'improvviso. Stava attraversando di corsa il giardino, venendo dal mare, e aveva intravisto una sagoma maschile che passava davanti a una finestra del primo piano. Solo per un attimo, ma aveva colto una figura alta che indossava la vestaglia cashmere di suo padre e in quell'attimo non si era fermato a riflettere quanto era impensabile che suo padre, così malato, potesse anche solo essere sceso dal letto, e figuriamoci arrivare in camera della mamma. Non ci aveva pensato affatto, aveva solo provato un fiotto luminoso di gioia mentre nella mente gli risuonavano le parole guarito, guarito, guarito, e saliva di corsa le scale, a rotta di collo, chiamandoli, e si era precipitato nella stanza di sua madre. O almeno aveva tentato. Ma la porta era chiusa a chiave. E, mentre la chiamava, l'infermiera di suo padre era comparsa sul pianerottolo, reggendo un vassoio, e lo aveva rimproverato dicendo che avrebbe svegliato l'infermo. E lui era riuscito a dire solo: — Ma
papà... — e poi aveva capito. E dopo l'aveva chiamata con una tale furia selvaggia che lei aveva aperto la porta e lui aveva visto tutto: Trenarrow con la vestaglia del papà, il letto in disordine, i vestiti sparsi a terra. E solo uno spogliatoio e una stanza da bagno li separavano dalla camera in cui suo padre stava morendo. Si era scagliato alla cieca contro Trenarrow. Ma era solo un esile ragazzo di diciassette anni, non poteva competere con un uomo di trentuno. Trenarrow l'aveva colpito solo una volta, una sberla in piena faccia, come si fa per calmare le donne isteriche. Sua madre aveva gridato: — Roddy, no! — e poi era tutto finito. Lo aveva ritrovato al mulino. Dalla finestrella del locale di sopra l'aveva vista arrivare attraverso il bosco, alta ed elegante, appena quarantun anni. E così straordinariamente bella. Avrebbe dovuto riuscire a mantenere la calma. Avere la forza e la dignità di dirle che doveva tornare a scuola per prepararsi agli esami. Non contava se lei non gli credeva. L'unica cosa importante era andarsene, subito. Ma era rimasto a guardarla pensando invece a quanto suo padre l'amava, alla sua voce che la chiamava: — Daze! Daze! Tesoro! — ogni volta che arrivava a casa; viveva per renderla felice e adesso era immobilizzato a letto, ad aspettare che il cancro finisse di consumarlo mentre lei e Trenarrow... Aveva bloccato il pensiero. Lei aveva risalito la scala, chiamandolo. Era più che preparato ad affrontarla. Puttana, aveva urlato. Ma sei pazza? O solo talmente in fregola che ti va bene chiunque? Perfino uno che ha in mente solo di sbatterti a dovere e poi farci su una risata con gli amici al pub! E a te va bene, baldracca? Sei fiera di queste scopate? Quando l'aveva colpito lui era stato colto completamente di sorpresa perché fino a quel momento lei era rimasta ferma di fronte a lui, immobile, ad accettare i suoi insulti. Ma a quell'ultima domanda lo aveva colpito con tale forza, con un manrovescio, che lui era barcollato all'indietro, fino al muro, il labbro spaccato dall'anello di brillanti. E la faccia di lei era immutata. Inespressiva, scolpita nella pietra. Te ne pentirai! aveva sbraitato mentre lei ridiscendeva la scala. Te ne farò pentire io! Ve ne farò pentire tutti e due! Vedrete! E c'era riuscito, tante volte. Eccome, se c'era riuscito. — Tommy? Lynley alzò il capo e vide St. James che lo guardava dall'alto.
— Dovresti venire a dare un'occhiata. — Sì. Certo. Salì la scala. Erano bastati pochi istanti a St. James per farsi un'idea della situazione. L'albero del mulino, la ruota dentata, la macina occupavano parecchio spazio, ma quello che restava offriva la muta testimonianza di come era stato utilizzato quel locale negli ultimissimi tempi. Al centro c'erano un tavolino rugginoso e una sedia pieghevole. Su questa era buttata una logora maglietta, mentre sul tavolo si trovava una vecchia bilancia da ufficio postale che indicava il peso di un cucchiaino annerito e di due sudicie lamette da barba. E, accanto, una scatola aperta di bustine di plastica. Un vetusto pagliericcio, sotto la finestrella, era stato sventrato e il contenuto sparso su buona parte del pavimento riempiva l'aria di odore di muffa. Un sottile materasso addossato al muro mostrava macchie orlate di giallo e una serie di piccole bruciature dovute forse a sigarette o ai mozziconi di candele infilati in barattoli, a terra. St. James restò immobile mentre Lynley lo raggiungeva ed esaminava il locale. — Mick è stato qui più di recente dell'altro aprile, Tommy. E direi che le sue visite non avevano nulla a che vedere con lo Spokesman. — Sfiorò la bilancia, osservò il movimento della lancetta. — Forse adesso abbiamo un'idea più chiara del perché l'hanno ammazzato. Lynley scosse il capo. — Qui Mick non c'entra — dichiarò in tono cupo. 13 Quella sera, alle sette e mezzo, St. James bussò alla porta di Deborah. Entrato, la vide di fronte allo specchio della toeletta, la fronte un po' aggrondata mentre esaminava il proprio aspetto. — Be' — mormorò dubbiosa — non saprei. — Toccò i due fili di perle che aveva al collo, poi la mano scese alla scollatura e tastò incerta il tessuto dell'abito. Pareva seta, ed era di uno strano misto di verde e grigio, come l'oceano sotto un cielo nuvoloso. In netto contrasto con il colore dei suoi capelli. L'effetto era sensazionale ma lei pareva non rendersene conto. — Perfetta — dichiarò St. James. Deborah sorrise all'immagine riflessa di lui. — Sono nervosissima. Con-
tinuo a dirmi che è solo una cenetta con i familiari di Tommy e qualche loro amico, ma poi mi vedo a combinare guai con la maledetta batteria di posate. Simon, perché si finisce sempre con quest'angoscia? — Il peggior incubo dell'alta società: che forchetta devo usare per i gamberetti? Tutti gli altri problemi della vita appaiono insignificanti al confronto. — Cosa dirò a tutta quella gente? Tommy mi aveva avvertita che ci sarebbe stata una cena ufficiale, ma al momento non ci ho pensato più che tanto. Se solo fossi come Helen, capace di chiacchierare spiritosamente di mille e un argomento, andrebbe tutto via liscio. Ma io non sono come Helen. E lo vorrei tanto. Solo per stasera. Magari lei potrebbe farsi passare per me e io scomparire nello sfondo. — Non credo che Tommy ne sarebbe felice. — Sono riuscita a convincermi che incespicherò giù per le scale, o mi rovescerò addosso un bicchiere di vino o mi impiglierò nella tovaglia trascinando a terra i piatti, quando mi alzo. Ieri notte ho sognato che avevo tutta la faccia piena di brufoli e orticaria e la gente diceva in tono funereo: "È questa la fidanzata?" St. James si mise a ridere e si avvicinò per osservare il volto di lei nello specchio. — Neanche un brufolo. Né ombra di orticaria. Certo, quelle lentiggini... Anche lei ebbe una risata: un suono così puro, una tale gioia sentirlo. St. James si scostò. — Sono riuscito... — trasse di tasca la foto di Mick Cambrey e gliela porse. — Dai un'occhiata. Lei ubbidì, esponendola alla luce. — È lui — dichiarò dopo qualche istante. — Ne sei certa? — Direi di sì. Posso tenerla per mostrarla a Tina? Lui ci aveva ripensato. La sera prima gli era parso del tutto innocuo mandare Deborah a verificare la presenza di Mick a Londra ricorrendo a Tina e alla fotografia. Ma dopo la conversazione avuta quel giorno con Harry Cambrey, dopo aver visto quelle enigmatiche annotazioni sul tovagliolino del Talisman Café, dopo aver considerato i possibili retroscena del delitto e la parte che vi poteva avere Tina Cogin, aveva dei dubbi sull'opportunità di coinvolgere Deborah. Lei parve intuire la sua esitazione e lo mise di fronte a un fait accompli. — Ne ho già parlato a Tommy. E anche a Helen. Penseremmo di pren-
dere un treno domattina, Helen e io. Così già nel pomeriggio potremmo sapere qualcosa di più preciso. Credo che ti sarebbe utile. Certo, era innegabile, ma... — D'accordo, allora — concluse lei. E chiuse la foto nel cassetto del comodino, con gesto definitivo. In quel momento la porta venne aperta ed entrò Sidney che teneva un braccio ripiegato al di sopra di una spalla, armeggiando con la lampo del vestito. — Accidenti alle cameriere di Howenstow — borbottava — piombano in camera mia... con tutte le migliori intenzioni, certo... e dopo non riesco più a trovare niente. Simon, per favore... santi numi, sei meraviglioso con quell'abito, è nuovo? Vedi un po': non riesco a tirar su quest'accidenti — presentò il dorso al fratello e, mentre lui terminava l'opera rimasta a mezzo, guardò Deborah. — E tu sei uno schianto, Deb. Vero, Simon, che è eccezionale? Oh, lascia perdere. Inutile chiederlo a te che trovi eccezionali solo le tracce di sangue scoperte al microscopio, o magari un frammento di pelle individuato sotto l'unghia di un cadavere — si volse, ridendo, e gli diede un buffetto alla guancia prima di dirigersi al tavolino da toeletta dove si studiò nello specchio e prese in mano una bottiglia di profumo. — Dicevo, le cameriere hanno fatto ordine — riprese continuando il discorso iniziale — e adesso naturalmente non trovo più nulla. Il mio profumo è sparito... posso prendere una goccia del tuo, Deb?... e figurati dove sono finite le mie scarpe! Quasi pensavo di farmene prestare un paio da Helen, ma poi le ho trovate: ficcate in fondo all'armadio come se avessi deciso di non metterle mai più. — Strano posto per delle scarpe — convenne St. James. — Lui ride, Deb — protestò Sidney — ma se non ci fosse tuo padre a imbrigliarlo so benissimo come finirebbe. Il caos più completo. Assoluto. Totale. — Si chinò accostando il volto allo specchio. — Il gonfiore è sparito, grazie a Dio, anche se questi graffi fanno spavento. Per non parlare del livido sotto l'occhio. Sembro una teppista. Pensate che qualcuno farà domande in proposito? O saremo tutti concentrati a tener duro e a esibire maniere impeccabili? Sì, insomma, occhi fissi in avanti e niente brancicar ginocchi sotto il tavolo. — Brancicar ginocchi? — strillò Deborah. — Simon, non me ne avevi fatto parola. E io che mi preoccupavo per l'argenteria! — L'argenteria? — Sidney si volse a mezzo. — Oh, forchette e coltelli. Bah, a meno che qualcuno cominci a lanciarli attorno non hai da angustiarti. — Non richiesta, diede qualche colpetto ai capelli di Deborah, arretrò di
un passo, aggrottò la fronte, fece un altro piccolo intervento. — Sapete dov'è Justin, per caso? Sono secoli che non lo vedo. Probabilmente ha paura che possa azzannarlo di nuovo. Non riesco a capire perché ha reagito in quel modo, ieri. Mi è capitato altre volte di morderlo, ora che ci penso, ma le circostanze erano molto diverse, certo. — Fece una risatina. — Be', dovessimo farci un'altra rissa, stasera, speriamo che succeda a tavola. Con tutti quei coltelli e forchette avremo armi in abbondanza a portata di mano. Lynley trovò Peter nella sala da fumo al piano terreno. Una sigaretta tra le dita, era davanti al caminetto in contemplazione di una volpe rossa sistemata in una teca di vetro sopra la mensola. Un pietoso tassidermista l'aveva atteggiata in posizione di fuga, come a pochi centimetri da una tana che le avrebbe offerto scampo. Altri trofei volpini non avevano però avuto un'altrettanto felice sistemazione. Le loro teste sporgevano dalle basi di legno, alternate a fotografie, appese alle pareti e sotto la luce del lampadario proiettavano lunghe ombre accusatorie a sottolineare una passione per gli sport sanguinali che nessuno in famiglia aveva più nutrito fin dai primi del secolo. Senza voltarsi, scorta l'immagine del fratello riflessa nel vetro, Peter chiese: — Come mai, secondo te, nessuno ha mai fatto sparire questo orrore? — Credo che sia stata la prima preda del nonno. — Perché fargli il battesimo del sangue quando puoi dargli in premio la sventurata bestia? — Qualcosa del genere. Lynley notò che suo fratello si era tolto l'orecchino con la svastica sostituendolo con una piccola borchia d'oro. Indossava pantaloni grigi, camicia bianca e cravatta. E scarpe. Si chiese se era il caso di affrontare il fratello e prima o poi doveva farlo - proprio quando il suo abbigliamento stava a indicare un atteggiamento conciliatorio. Peter buttò la sigaretta nel focolare e aprì un piccolo ripostiglio nascosto nella mensola, sotto la volpe. — Uno dei segreti della mia adolescenza — ebbe una risatina mentre tirava fuori una bottiglia e si versava del whisky. — Jasper me l'ha fatto scoprire quando ho compiuto diciassette anni. — Anche a me. Un rito di transizione, immagino. — Pensi che la mamma fosse al corrente? — Immagino di sì.
— Che delusione. Credersi furbo e scoprire il contrario. — Per la prima volta si girò alzando il bicchiere in un allegro brindisi. — Alla tua, Tommy. Sei stato proprio fortunato a incontrarla. A quel punto Lynley vide gli occhi del fratello: avevano una lucentezza innaturale. Provò un brivido di apprensione ma lo controllò, rispose con un grazie e osservò il fratello che si dirigeva allo scrittoio presso il vano dell'ampia finestra. Là giocherellò con gli oggetti allineati sul sottomano di pelle facendo ruotare il tagliacarte dall'impugnatura d'avorio, sollevando il coperchio del calamaio vuoto, spostando il portapipe. Sempre sorseggiando il whisky prese in mano una foto dei nonni e, con uno sbadiglio, ne esaminò i volti. Lynley riconobbe la manovra: un tentativo di erigere una barriera di indifferenza, e capì che era inutile rimandare. — Vorrei chiederti del mulino. Peter rimise a posto la foto. — Il mulino? — Te ne stai servendo, vero? — Non ci vado da secoli. Ci sono passato accanto, certo, per arrivare alla caletta. Ma non sono entrato. Perché? — Lo sai benissimo. Il volto di Peter rimase inespressivo ma un piccolo muscolo vibrò all'angolo della bocca. Andò verso una fila di fotografie di giovani in toga e tocco, lungo una parete e passò dall'una all'altra studiandole come se le vedesse per la prima volta. — Tutti i Lynley degli ultimi cent'anni, sotto le forche caudine di Oxford — commentò. — Sono proprio una pecora nera. — Giunse a uno spazio vuoto e vi poggiò il palmo della mano. — Anche papà c'è andato, vero, Tommy? Ma naturalmente non starebbe bene tenere qui la sua foto. Non si può permettergli di contemplare, dall'alto di una parete, le nostre esistenze perverse. Lynley non si lasciò provocare. — Vorrei parlare del mulino. Peter scolò il whisky che restava, posò il bicchiere su un tavolinetto, si fermò davanti alla foto più recente e diede un colpetto con l'indice all'immagine di suo fratello. — E anche tu, Tommy. Fedele alla tradizione. Un Lynley di cui essere fieri. Un autentico aristocratico. Lynley provò un'oppressione al petto. — Non posso intervenire sul genere di vita che ti sei scelto a Londra — disse sforzandosi di avere un tono ragionevole e sapendo che non ci riusciva bene. — Hai piantato Oxford? Bene. Hai una tua abitazione? Bene. Ti sei messo con questa... con Sasha?
Bene. Ma non qui, Peter. Non tollero simili faccende a Howenstow. Chiaro? Peter si volse, inclinando un po' la testa. — Non tolleri? Cali su di noi un paio di volte l'anno ad annunciare che cosa vuoi o non vuoi, eh? E questa è una di tali solenni occasioni. — Non ha nessuna importanza quante volte vengo qui. Io ho la responsabilità di Howenstow e di tutti quelli che vi abitano. E non intendo accettare simili luridi... — Ah, ho capito. Al mulino c'è qualche giro di droga e tu mi ci hai piazzato al centro, da perfetto ispettore di polizia quale sei. Bene. Ottimo lavoro. Hai rilevato le impronte? Trovato una ciocca dei miei capelli? Un po' di sputo da far analizzare? — Peter scosse il capo con sprezzo. — Sei uno stupido. Se ho voglia di farmi non vado certo fin laggiù al mulino. Non ho niente da nascondere. A te o a chiunque altro. — Non si tratta semplicemente di farsi, e lo sai. Ci sei dentro fino al collo. — Sarebbe a dire? La malafede di quella domanda mandò fuori dai gangheri Lynley. — Che ti fai arrivare la droga qui alla tenuta. Che la tagli al mulino. Ecco cosa sarebbe a dire. E poi la porti a Londra. Per farti. Per spacciarla. Sono stato abbastanza chiaro? Cristo, Peter, se la mamma lo scoprisse le verrebbe un colpo. — E non ti farebbe comodo? Avresti finito di angustiarti all'idea che ti copra di disonore scappandosene con Roderick. O di mangiarti il fegato chiedendoti quanto tempo passa a letto con lui. Se avesse il garbo di schiattare per causa mia tu potresti anche festeggiare rimettendo al loro posto le foto di nostro padre. Ma sarebbe dura, eh, Tommy? Perché saresti costretto a piantarla di darti tante arie del cazzo, e quando mai ci riusciresti? — Non cercare di cambiare discorso. — Oh, mio Dio! Scantonare. Quale ignobile reato! Un altro peccato da me commesso. Una turpe macchia sulla mia anima. — Staccò dal muro la foto gettandola al fratello: finì rumorosamente contro la gamba di una sedia. — Tu invece sei puro e incontaminato, vero? Perché non riesco a seguire il tuo fulgido esempio? — Non ho intenzione di litigare, Peter. — Stupendo. Sul serio. Droga, adulterio e fornicazione. Tutto nella stessa famiglia. Chissà cos'altro ci troveremmo per le mani se ci fosse anche
Judy qui con noi. Dopotutto anche lei ci ha sguazzato un po' nell'adulterio, no, Tommy? Tale madre, tale figlia. Proprio. E tu? Troppo nobile per fartela con la moglie di un altro, se ti salta il ticchio? Troppo virtuoso? Non ci credo. — Non stiamo approdando a nulla. — Che tragedia dobbiamo essere per te, noi che siamo pappa e ciccia con i sette peccati capitali e ce li godiamo tutti. Per che cosa siamo più deleteri? Il tuo bel titolo nobiliare o la tua preziosa carriera? — Saresti disposto a dire qualsiasi cosa se avessi la certezza di ferirmi, vero? Peter sbottò a ridere ma serrava con forza le dita attorno allo schienale di una poltrona. — Ferire te? Lo credi davvero? Ma pensa un po'. Per quel che mi risulta la terra continua a girare attorno al sole, non a te. O non te ne sei accorto? Ti assicuro: ci sono delle persone a questo mondo che si fanno la loro vita senza darsi il minimo pensiero di come la loro condotta può incidere sull'ottavo conte di Asherton. E io sono tra queste, Tommy. Io non sto ai tuoi comandi. Non l'ho mai fatto e mai lo farò — il volto gli si contrasse in una smorfia carica di rancore. — Quello che trovo straordinario è che tu sembri davvero interessarti a qualcos'altro oltre a te stesso. Howenstow. La mamma. Me. Che ne fregherebbe a te se l'intera tenuta venisse rasa al suolo da un incendio? Se noi altri due morissimo tra le fiamme? Ti saresti liberato di noi. Non dovresti più preoccuparti di recitare la tua parte. Il figlio rispettoso. Il fratello affettuoso. Mi dai la nausea. — Peter si frugò in tasca e ne trasse un pacchetto di sigarette, ma le mani gli tremavano al punto che lo lasciò cadere e il contenuto si sparse sul pavimento. — Peter — disse Lynley — Peter, lascia che ti aiuti. Non puoi andare avanti in questo modo. Lo sai. — E se anche crepo? Allora dovresti vedertela solo con la mamma e con Roderick. L'ha invitato a cena, sai? Quale insulto per il signor conte! Credo proprio che la mamma sia arrivata alla dichiarazione di indipendenza. — Loro non contano. Lo sai. Lascia che ti aiuti. Per favore. — Aiutarmi? Tu? — Peter si chinò a raccogliere le sigarette. Poi dovette fare quattro tentavivi prima di riuscire ad accenderne una. — Insozzeresti la tua specchiata reputazione per salvare la mia? Ma senti senti! Che te ne importa di quel che mi succede finché il tuo nome resta senza macchia? — Sei mio fratello. Peter aspirò una lunga boccata prima di schiacciare la sigaretta nel posa-
cenere. — Al diavolo i tuoi vincoli di sangue — e si avviò alla porta. Lynley lo trattenne afferrandolo per un braccio. — È facile per te, eh? Al diavolo i vincoli di sangue. Al diavolo tutti. Naturale, assumerti un obbligo verso gli altri ti costringerebbe a staccarti dalla droga. E a tanto di certo non arriveresti. — E vieni a parlare a me di obblighi? Lurido ipocrita. Quando mai ti sei sentito in obbligo verso qualcuno che non fosse te stesso? Lynley non si lasciò distrarre. — Entrare in quel mulino, quest'oggi, è stata una rivelazione. Puoi proprio essere fiero di quel che sei diventato. — Un trafficante! Uno spacciatore! Un tossicomane! Che bella nota a pié di pagina nella storia di famiglia! Che vile reprobo! Che canaglia! — La voce andava in crescendo. Peter si strappò via dalla stretta. — E fammi arrestare, allora. Meglio ancora, arrestami tu. Trascinami al comando. Farà molto comodo alla tua carriera denunciare il tuo stesso fratello. Tieni — offrì i polsi, riuniti — ammanettami. Portami dentro stasera e domani avrai la promozione. Lynley osservava le emozioni che si avvicendavano sul volto di Peter. Cercò di dirsi che quello scontro era dovuto alle condizioni del fratello, ma sapeva che anche il suo atteggiamento, il suo caparbio orgoglio, il suo bisogno di punire avevano portato inevitabilmente a quella nauseante scenata. Si trattenne dall'esplodere a sua volta. — Ma ti rendi conto di quel che stai dicendo? Guarda come ti riduci. Guarda quel che sei diventato. — Io non sono diventato niente! — urlò Peter. — Ero così fin dall'inizio. Sono sempre stato così. — Ai tuoi occhi, forse. Non a quelli degli altri. — Agli occhi di tutti, invece! È da quando sono al mondo che mi sforzo di essere all'altezza, e mi va sempre buca. È chiaro? Ho fallito in tutto e sono soddisfattissimo così. Quindi sei pregato di lasciarmi in pace. Tornatene alla tua bella e rispettabile casetta in città, alla tua vita perbenino. Fatti il tuo bravo matrimonio rispettabile con una mogliettina ammodo e perbene e metti al mondo dei bravi ragazzini che perpetuino il tuo buon nome e lascia in pace me! Basta che non mi rompi le scatole! — Era paonazzo in faccia e tremava. — Sì. Mi accorgo che è l'unica. — Lynley si volse e vide che sulla soglia, pallidissima, c'era la loro madre. Impossibile dire da quanto tempo fosse lì.
— Mia cara! Mia cara! È stato semplicemente divino! — La signora Sweeney divise in due l'ultima parola lasciando una pausa drammatica tra le sillabe come nella speranza di risvegliare nel suo pubblico un acceso interesse per il finale dell'aggettivo. Che poteva essere semplicemente vino. Sedeva di fronte a St. James, più o meno al centro del tavolo ammantato di lino attorno a cui erano raccolti i diciotto commensali. Questi costituivano un'interessante rappresentanza di parenti dei Lynley, notabili della regione e membri della comunità locale che conoscevano la famiglia da anni. Il reverendo Sweeney e sua moglie appartenevano a quest'ultima categoria. La signora Sweeney si protese in avanti e la luce delle candele riverberò sulla stupefacente distesa del petto ampiamente rivelato da una considerevole scollatura. St. James si chiese distrattamente quale giustificazione potesse aver escogitato la signora per indossare un simile abito nella presente occasione: il modello non era certo di quelli che normalmente si possono prevedere addosso alla moglie di un uomo di chiesa, e al momento lei non impersonava Beatrice. Poi notò gli sguardi umidi, bramosi e turbati che il reverendo Sweeney - tre posti più in là, a tentare di intrecciare amabile conversazione con la consorte del deputato di Plymouth - gettava in direzione della sposa. Allora mise a tacere quell'interrogativo. Reggendo a mezz'aria una forchetta su cui era infilzato un pezzetto di pasticcio di salmone, la signora Sweeney continuò: — Mia cara, la compagnia era assolutamente deliziata delle foto. Possiamo sperare che diventi una tradizione? — si rivolgeva a Deborah, seduta alla destra di Lynley, a capotavola. — Ci pensi. Una raccolta annuale delle foto di scena insieme a lord Asherton. Ogni volta in costume diverso — ebbe una risatina trillante. — Gli attori, intendo. Non lord Asherton. — Perché non mettere in costume anche Tommy? — suggerì lady Helen. — Sarebbe ben ora che si unisse alla filodrammatica di Nannurel e la finisse di tener nascosto il suo talento sotto il moggio. — Oh, non oseremmo mai aspettarci... — Il reverendo Sweeney riuscì a distogliere la propria attenzione dalle grazie della moglie quanto bastava per recepire l'idea. — Già me lo vedo — rise Sidney. — Tommy nelle vesti di Petruccio. — Gliel'ho detto e ripetuto che era un errore sprecare tempo a Oxford — rincarò lady Helen. — Ha sempre avuto l'istinto dell'attore. Vero, Tommy? — Davvero potremmo... — Il signor Sweeney si interruppe, combattuto tra l'evidente canzonatura degli amici di Lynley e la segreta speranza che
potesse esserci un margine di realtà nelle parole di lady Helen. — Abbiamo spesso invitato il dottor Trenarrow a unirsi a noi sulla scena — raccontò come se la cosa potesse rappresentare un indubbio stimolo per Lynley. — Un piacere che purtroppo devo negarmi — mormorò il dottor Trenarrow. — E quelli che non ti neghi? Era stato Peter Lynley a formulare la domanda, passando lo sguardo attorno al tavolo con l'espressione maliziosa di chi si aspetta che gli scheletri di famiglia emergano dagli armadi. Versò del vino bianco per sé e per Sasha ed entrambi bevvero; poi Sasha sorrise al proprio piatto come per un pensiero segreto. Nessuno dei due aveva toccato il salmone. La conversazione subì una breve battuta d'arresto e Trenarrow intervenne a rompere il silenzio. — La pressione alta mi costringe a rinunciare a molte cose. Sono gli inconvenienti della mezza età. — Lei non ha l'aria di soffrire di molti inconvenienti — commentò Justin Brooke. Lui e Sidney tenevano le mani intrecciate sulla tavola. St. James si chiedeva come riuscissero a mangiare. — Tutti ne abbiamo — replicò Trenarrow. — Alcuni hanno la fortuna di riuscire a nasconderli meglio di altri. Ma tutti ne abbiamo. È inevitabile. Hodge, scortato dalle due domestiche a giornata che erano state pregate di trattenersi oltre l'orario, comparve mentre il dottor Trenarrow pronunciava queste ultime parole e l'arrivo della seconda portata assorbì l'attenzione generale. Se Peter Lynley aveva voluto creare dell'imbarazzo con quella domanda allusiva, il cibo si rivelò molto più interessante. — Non avrai davvero intenzione di sigillare Wheal Maen! — Quest'esclamazione gemebonda veniva da lady Augusta, zia nubile di Lynley. La sorella di suo padre aveva sempre seguito con occhio attento le vicende di Howenstow. Così dicendo lei lanciò un'occhiata carica di sdegno a John Penellin, seduto alla sua destra, che fino ad allora non aveva partecipato alla conversazione. St. James era rimasto sorpreso nel vederlo tra gli invitati. Un lutto in famiglia sarebbe stato motivo sufficiente per sottrarsi a una cena che, era chiaro, gli interessava poco. Tuttavia, da quel che St. James aveva visto e sentito la sera prima, era chiaro che Penellin non nutriva grande attaccamento per il genero e quindi forse era questa indifferenza che lo aveva indotto ad accettare l'invito. O forse era stato un atto di doverosa cortesia verso i Lynley. Lady Augusta continuava a dissertare. — Mio padre di sicuro si rivolterà nella tomba. Non ne capisco proprio il motivo, signor Penellin.
Questi alzò lo sguardo dal bicchiere. — La miniera è troppo vicina alla strada. Il pozzo principale è allagato. Bisogna chiuderlo per ragioni di sicurezza. — Assurdo — affermò lady Augusta. — Quelle miniere sono opere d'arte. Sa quanto me che almeno un paio dispongono di macchinali perfettamente intatti. E ci potrebbe essere un pubblico interessato, anche disposto a pagare per vederli. — Dei giri guidati, zia? — domandò Lynley. — Esattamente! — Tutti con in testa quei deliziosi elmetti con la lucina sul davanti — aggiunse lady Helen. — Sì, naturale — lady Augusta batté seccamente la forchetta sul tavolo. — Non vorrete che quelli del National Trust arrivino qui a metterci sopra le mani cacciando via tutti quanti, no? Certo che no — ebbe un brusco cenno di assenso, senza aspettare risposta. — Bene. E come altrimenti possiamo tenere lontani quegli individui se non avviando noi un impianto turistico? Bisognerà fare delle opere di ripristino, riaprire le miniere, organizzare le visite. I ragazzini saranno entusiasti, vorranno a tutti i costi scendere nelle gallerie, non daranno pace ai genitori. — È un'idea interessante — ammise Lynley — ma la prenderò in considerazione solo a un patto. — Quale patto, mio caro? — Che tu gestisca la saletta da tè. — Che io... — In cuffietta bianca — continuò Lynley. — O magari vestita da pastorella. Lady Augusta si lasciò andare contro lo schienale della sedia e sbottò in una risata, riconoscendosi battuta. Almeno per il momento. — Furfante — disse, prendendo il cucchiaio. Per il resto della cena la conversazione si svolse normalmente. St. James ne colse solo alcuni brani distaccati. Lady Asherton e Cotter che parlavano di un grosso cavallo d'ottone, fiero e ingualdrappato, posto contro una parete; lady Helen che raccontava al dottor Trenarrow un divertente episodio di scambio di persona avvenuto molto tempo prima a un ricevimento a cui aveva partecipato suo padre; Justin Brooke e Sidney che ridevano a un commento di lady Augusta circa l'infanzia di Lynley; il deputato di Plymouth e la signora Sweeney persi in un labirinto in cui lui sottolineava la necessità di uno sviluppo economico e lei si effondeva sulla prospettiva
di trasferire l'industria cinematografica in Cornovaglia; il reverendo Sweeney che mormorava vaghe risposte alla moglie del deputato che dissertava sui suoi nipotini. Solo Peter e Sasha parlottavano tra loro a bassa voce, le teste accostate, assorti l'uno nell'altra. Così il convito procedette verso il suo epilogo annunciato dalla comparsa del pudding. Dopo che questo fu debitamente servito e divorato, Lynley si levò in piedi allontanandosi i capelli dalla fronte con gesto da ragazzo. — Già lo sapete — cominciò — ma desidero rendere ufficialmente noto, questa sera, che Deborah e io ci sposeremo a dicembre — nel mormorio di congratulazioni che seguì lui le sfiorò i luminosi capelli. — Quel che invece ancora non sapete, in quanto lo abbiamo deciso solo oggi pomerigio, è che verremo ad abitare stabilmente a Howenstow. Per trascorrere qui la nostra vita, e qui avere i nostri figli... vicino a voi. Era un annuncio che, a giudicare dalle reazioni, nessuno si aspettava. E meno di tutti St. James. Sentì vagamente delle esclamazioni di sorpresa attorno a sé e registrò una serie di immagini: lady Asherton che pronunciava il nome del figlio, solo il nome; Trenarrow che si voltava bruscamente verso la madre di Lynley; Deborah che accostava la guancia alla mano del fidanzato, in un gesto così breve che forse nessun altro lo colse; e poi Cotter che lo fissava con un'espressione dal significato inequivocabile. Lui aveva sempre previsto quel ritorno in Cornovaglia, intuì St. James. Mancava il tempo di riflettere su ciò che questa decisione comportava, cosa avrebbe provato sapendo Deborah a quasi cinquecento chilometri dalla casa che era sempre stata la sua. Già si stava distribuendo lo champagne e il reverendo Sweeney approfittò del momento. — Allora devo dire... — prese goffamente il bicchiere — ...permettete che vi offra il mio brindisi. Avervi qui, tra noi, ricongiunti a Howenstow, sapervi... — rinunciò al tentativo di manifestare l'appropriato sentimento e si limitò ad alzare il calice gorgogliando: — Semplicemente meraviglioso — prima di rimettersi seduto. A quel punto la cena avrebbe potuto risolversi in un gran dispiego di benevolenza, ma Peter Lynley decise di impedirlo. Si levò in piedi, reggendo il bicchiere a braccio teso all'indirizzo del fratello. — Un brindisi, dunque — cominciò, un po' a fatica. Poggiò una mano sulla spalla di Sasha, per sostenersi. Lei lanciò un'occhiata furtiva a Lynley e poi bisbigliò qualcosa ma Lynley non le diede retta. — Al fratello perfetto — riprese Peter — fortunosamente riuscito, dopo aver cercato in terre vicine e lontane... e non senza avervi fatto sosta per saggiare una
certa quantità dei prodotti locali, vero, Tommy?... a trovare la fanciulla perfetta al cui fianco potrà adesso condurre una vita perfetta. Che razza di fortuna boia ha lord Asherton — scolò rumorosamente il bicchiere e ricadde sulla sedia, la faccia distorta da un sogghigno. Ci siamo, pensò St. James. Volse il capo per vedere come avrebbe reagito Lynley ma lo sguardo gli si fermò invece su Deborah che, il volto contratto, stava abbassando il capo, umiliata. Non era giusto, non era il caso considerando da chi venivano quelle parole, ma ugualmente lei ci soffriva e questo lo indusse ad agire. Spinse indietro la sedia alzandosi. — Il concetto di perfezione è sempre aperto al dibattito — prese a dire — e io non possiedo un'eloquenza che mi permetta di approfondirlo in questa sede. Bevo invece alla felicità di Tommy, il mio più vecchio amico, e di Deborah, la mia più cara compagna d'esilio. Considero la mia esistenza molto più ricca avendo avuto voi due a farne parte. Questa dichiarazione fu accolta dal sollevato consenso generale e subito dopo il deputato di Plymouth prese il calice e riuscì a trasformare il brindisi in un discorso che puntualizzava i suoi stessi successi e la sua salda, per quanto poco fondata, fede nella rinascita dell'industria mineraria in Cornovaglia, argomento su cui lady Augusta si diffuse poi con acceso entusiasmo per diversi minuti. E alla fine fu chiaro che, qualsiasi rappresaglia Peter Lynley avesse tentato, i presenti erano ben decisi a ignorarla. A differenza della sala da pranzo, con i candelabri d'argento e le applique dalle luci discrete, il soggiorno era vivamente illuminato dai due lampadari. Con una tazzina di caffè in mano, St. James si diresse a un divanetto Hepplewhite situato verso il centro della sala, e sedette posando la tazza sul tavolino di lato. In realtà non aveva nessuna voglia di berlo e non capiva perché l'avesse preso. — Mia cara... — Lady Augusta aveva agganciato Deborah nei paraggi del pianoforte a coda — sono molto curiosa di sapere dei cambiamenti che intendi apportare a Howenstow. — Cambiamenti? — ripeté Deborah, incerta. — Le nursery hanno uno spaventoso bisogno di essere riattate, già lo saprai. — A dire il vero non ho ancora avuto modo di pensarci. — Sì, so che hai questo piccolo simpatico hobby della fotografia... Daze me ne parlava la settimana scorsa... ma sono lieta di poter dire che non sembri affatto il tipo che aspetta a mettere al mondo figli per via della professione — e come a cercar conferma fece un passo indietro esaminandola
come un allevatore che valuti il potenziale di una giumenta. — Ma io sono una fotografa professionista — fece notare Deborah sottolineando garbatamente l'aggettivo. Lady Augusta lo liquidò con il gesto di chi allontana una mosca. — Comunque non lascerai che questo abbia la precedenza sui bambini. Il dottor Trenarrow, che passava lì accanto, andò in soccorso di Deborah. — I tempi sono cambiati, Augusta. Non viviamo più in un'epoca in cui il merito è determinato dalle capacità riproduttive. E ringraziamone il cielo. Pensa alle possibilità illimitate offerte dall'evitare la procreazione. Finito l'impoverimento dei bacini dei geni di famiglia. Un futuro senza emofilia. Scomparso il ballo di San Vito. — Oh, sciocchezze, voi medici — fu la risposta di lady Augusta, ma era abbastanza sconcertata da andare a cercarsi un'altra preda e si mosse in direzione di John Penellin che era vicino alla porta della galleria, un bicchiere di brandy in mano. St. James si accorse che Deborah era nei pressi. — No, non alzarti. — Sedette accanto a lui. Non stava bevendo nulla. — Ce l'hai fatta — osservò St. James sorridendo. — Anche con le posate. Neanche un piccolo sbaglio, per quel che ho potuto notare. — Sono stati tutti più che gentili — mormorò lei. — Be', quasi tutti. Peter è... — si guardò attorno come cercandolo ed ebbe un sospiro di sollievo accorgendosi che lui e Sasha si erano dileguati. — Avevo l'aria stravolta quando sono scesa? Penso di sì. Tutti mi trattavano come una fragile porcellana, prima di cena. — Per nulla — St. James prese la tazza ma si limitò a rigirarla sul piattino. Si chiedeva perché Deborah fosse venuta da lui. Il suo posto era accanto a Lynley che, con Justin Brooke e Sidney, conversava con il deputato. Al suo fianco, Deborah non diceva nulla. Improbabile che l'avesse raggiunto per godersi la sua compagnia o fare una rapida disamina degli avvenimenti della serata. Eppure anche quella reticenza non era da lei. Alzò lo sguardo dall'anello di fidanzamento - un grosso smeraldo circondato di brillanti - e si accorse che lei stava scrutandolo con tale intensità da fargli provare un senso di calore al volto. Questa improvvisa perdita del suo abituale distacco era sconcertante quanto l'innaturale riserbo di lei. Che bella coppia, commentò tra sé. — Perché mi hai definita in quel modo, Simon? Al brindisi. Ecco il perché di tanta esitazione. — Mi è parso appropriato. Dopotutto è la verità. Ti ho sempre avuta accanto, te e tuo padre.
— Capisco. — Una mano era vicina a quella di lui. La mosse, sfiorandolo appena, un contatto innocente che fece crollare le sue difese. Non significava nulla, prometteva ancor meno. St. James lo sapeva benissimo. Ma nonostante ciò le sue dita afferrarono quelle di lei e non le lasciarono. — Vorrei sapere perché l'hai detto — insistette Deborah. Era inutile. Non avrebbe condotto a nulla. O, peggio, poteva portare a una sofferenza straziante che non voleva affrontare. — Simon... — Come posso risponderti? Cosa posso dire che non ci faccia stare male entrambi, e poi magari litigare di nuovo? Non lo voglio. E neanche tu, credo. Si ripeté che avrebbe mantenuto fede a tutte le decisioni prese nei confronti di Deborah. Si disse che lei era legata a un altro. Si disse che doveva trovare conforto nel fatto che, col tempo, forse sarebbero tornati amici come in passato, lieti della reciproca compagnia, senza desiderare altro. Si raccontò decine di bugie su ciò che era giusto e possibile nella loro situazione, sul dovere, la responsabilità, gli impegni, l'amore, sulle ancore dell'etica e della morale che frenavano entrambi. Eppure voleva parlare perché la verità era che qualsiasi cosa, anche arrabbiarsi e rischiare una frattura, era meglio del nulla. Un improvviso trambusto sulla porta del soggiorno glielo impedì. Hodge, piuttosto agitato, stava dicendo qualcosa a lady Asherton mentre Nancy Cambrey gli si afferrava al braccio come volesse trascinarlo nuovamente fuori, nel corridoio. Lynley si accostò. Altrettanto fece St. James. Nel silenzio calato sui presenti risuonò la voce di Nancy. — Non può. Non adesso. — Che succede? — domandò Lynley. — L'ispettore Boscowan, milord — rispose Hodge in tono sommesso. — È in fondo al corridoio. Vuole parlare con John Penellin. Solo parte dell'affermazione di Hodge si rivelò esatta perché in quel momento Boscowan varcò la soglia del soggiorno come se prevedesse qualche difficoltà. Il suo sguardo passò sugli invitati, con espressione di scusa, e si fermò su Penellin. Era chiaro che motivi professionali lo costringevano a disturbare il ricevimento. Ed era chiaro altresì che la cosa non gli faceva minimamente piacere. Erano tutti immobili. Poi John Penellin si diresse verso il gruppetto e nel passare consegnò il bicchiere al dottor Trenarrow. — Edward — mormorò rivolgendo un cenno a Boscowan. Nancy era
comparsa nel corridoio e, appoggiata a un cassettone, osservava la scena. — Possiamo andare nell'ufficio della tenuta? — Temo di no, John. Mi spiace. Il significato di quelle parole era evidente. L'ispettore non si sarebbe mai presentato a Howenstow in quel modo se non fosse stato convinto che era necessario. — Mi arresti? — Il tono di Penellin era rassegnato e stranamente tranquillo, come se fosse preparato fin dall'inizio a quell'eventualità. Boscowan si guardò attorno. Tutti gli occhi erano fissi su di loro. — Usciamo, per favore — disse. Penellin, St. James e Lynley lo seguirono. Un poliziotto in borghese attendeva in cima alle scale: massiccio, li osservava circospetto, le braccia conserte. Boscowan si girò verso Penellin. Con quanto disse poi oltrepassò la linea di confine che separa la polizia dai civili, infrangendo ogni regola. Ma la cosa non pareva turbarlo: le sue parole erano dettate dall'amicizia più che dal dovere. — Hai bisogno di un avvocato, John. Abbiamo ricevuto i primi risultati di laboratorio. Le cose non si mettono bene. — E poi di nuovo, in tono che non lasciava dubbi sulla sua sincerità: — Mi spiace davvero. — Impronte, fibre, capelli? Cos'avete trovato? — Tutto. — Papà è venuto spesso a casa nostra — sottolineò Nancy. Boscowan scosse il capo. St. James sapeva cosa significava quel cenno: le impronte di Penellin nel cottage potevano senz'altro essere spiegate con le visite precedenti, ma se Boscowan disponeva di fibre e capelli con tutta probabilità questi erano stati rinvenuti sul cadavere di Mick Cambrey. In tal caso Penellin aveva effettivamente mentito circa i suoi movimenti della sera prima. — Se vogliamo andare — riprese Boscowan, in tono più formale. Fu un segnale per l'altro poliziotto che venne a mettersi al fianco di Penellin prendendolo per un braccio. Arresto compiuto. Mentre si allontanavano giù per le scale, Nancy Cambrey svenne. Lynley riuscì a sostenerla prima che si afflosciasse a terra. — Vai a chiamare Helen — disse a St. James. Quando lady Helen li ebbe raggiunti trasportarono Nancy fino al salotto di lady Asherton, nell'ala orientale della villa, che aveva il doppio vantaggio di essere isolato e accogliente. Nancy si sarebbe sentita meglio in quel-
l'ambiente familiare e rassicurante, rifletté Lynley. E si concesse un breve pensiero grato per sua madre che avrebbe continuato senza di lui a svolgere il ruolo di padrona di casa. St. James aveva avuto la previdenza di portare una caraffa di whisky e adesso ne offrì un dito a Nancy. Lady Helen le sostenne la mano. Lei ne aveva preso appena un sorso quando ci fu un colpetto alla porta seguito, inspiegabilmente, dalla voce di Justin Brooke. — Permesso? — Ma non attese risposta: socchiuse l'uscio, si affacciò e con lo sguardo cercò Lynley. — Potrei parlarti? — Parlarmi? — replicò questi, sbalordito. — Che diavolo... — È importante — affermò Brooke. Scrutò gli altri, come per averne aiuto, e lo trovò nella persona da cui meno se lo sarebbe atteso. — Riaccompagno Nancy alla foresteria, Tommy — intervenne lady Helen. — Non è il caso di trattenerla qui. Ha bisogno di essere vicina a sua figlia. Lynley attese che le due donne fossero uscite prima di rivolgersi a Brooke che, senza invito, era andato verso una sedia, l'aveva girata e vi si era seduto a cavalcioni, le braccia appoggiate allo schienale. Lynley era in piedi accanto allo scrittoio di sua madre. St. James rimase presso il caminetto. — Che vuoi? — domandò Lynley. Era irritato da quell'intervento inatteso, e troppo preoccupato per darsi la pena di nasconderlo. — Si tratta di una faccenda piuttosto riservata, riguarda la tua famiglia — Brooke accennò a St. James lasciando intendere il suggerimento che il colloquio si svolgesse senza testimoni. St. James accennò ad andarsene. — No, rimani — lo fermò Lynley, deciso a non permettere a Brooke di affermare la sua volontà. C'era qualcosa che non gli piaceva in quell'uomo: una tranquilla disinvoltura smentita da un guizzo maligno nell'espressione. Dal tavolinetto rotondo vicino alla sua sedia Brooke prese il bicchiere di Nancy e la caraffa del whisky. Se ne versò un poco. — Come preferisci. Ho bisogno di bere qualcosa. E voi? — Offrì la caraffa prima a Lynley e poi a St. James. Non c'erano altri bicchieri nel salotto e quindi l'offerta non aveva senso, come Brooke di certo sapeva. Prese un sorso, commentò: — Ottimo — e se ne versò dell'altro. — Abbiamo capito tutti, in soggiorno, che Penellin è stato arrestato. Ma non è possibile che abbia ucciso lui Mick Cambrey. Non era certo il tipo di affermazione che Lynley si aspettava. — Se sai qualcosa devi informare la polizia. La faccenda mi riguarda solo indiretta-
mente. — No, molto più direttamente di quel che credi. — A cosa ti riferisci? — A tuo fratello. Il ticchettio dell'orologio sull'angoliera parve aumentare di volume. Solo il tintinnio della caraffa contro il bicchiere risultò più sonoro, quando Brooke si versò dell'altro whisky. — In soggiorno stavano dicendo, poco fa, che Cambrey ha avuto un alterco con Penellin, prima di morire. Che questo è il principale motivo dei sospetti. Qualcuno ha sentito chiacchiere in paese, oggi. — Non vedo cosa c'entri mio fratello. — C'entra eccome, temo. Mick Cambrey non ha avuto nessuna lite con Penellin. O, se l'ha avuta, è stata niente al confronto di quella tra lui e Peter. Lynley lo guardò fisso. Provava l'improvvisa smania di sbattere fuori quel tipo e si rendeva conto che tale desiderio era legato a una paura latente e al fatto che quella notizia in fondo non lo coglieva di sorpresa. — Ma che stai dicendo? Come fai a saperlo? — Ero con lui — spiegò Brooke. — Ed è accaduto dopo la visita di Penellin. Così ha detto Cambrey. Lynley prese una sedia. — Comincia dal principio, per favore — disse con voluta cortesia. — D'accordo. Sid e io ci eravamo accapigliati, e ieri sera lei mi teneva a distanza. Così sono andato in paese con Peter. — Perché? — Tanto per far qualcosa. Peter era in bolletta e voleva farsi prestare qualcosa. Ha detto che sapeva di un tale che quella sera aveva per le mani dei quattrini, così ci siamo andati. E si trattava di Cambrey. Lynley socchiuse gli occhi. — Perché gli serviva denaro? Prima di rispondere Brooke lanciò un'occhiata in direzione di St. James, come si aspettasse una reazione. — Voleva della coca. — E ti ha portato con sé? Non è stato un po' imprudente da parte sua? — Ma no. Sapeva di poter stare tranquillo. — Poi evidentemente si rese conto che ci voleva qualche spiegazione in più. — Capisci, io ne avevo una scorta con me e gliene avevo data. Ma poi è finita in acqua e siamo rimasti a secco. Ma io ero a corto quanto lui, e così cercavamo una soluzione. Volevamo farci un bel viaggio. — Chiaro. Hai stretto amicizia molto in fretta con mio fratello, in questi
pochi giorni. — Quelli che hanno interessi in comune fanno in fretta a capirsi. — Naturale. Sì — Lynley represse la voglia di mollargli un pugno. — E Mick gli ha prestato quattrini? — Non ci pensava nemmeno. È così che hanno cominciato a far baruffa. C'erano quelle mazzette di banconote sulla scrivania, e le vedevamo benissimo, Peter e io. Ma quello non voleva sganciare neanche un paio di sterline. — E poi cos'è successo? Brooke fece una smorfia. — Be', io manco lo conoscevo, quel tale. Quando hanno attaccato a discutere me ne sono andato. Mi avrebbe fatto comodo un po' di roba, certo. Ma non avevo voglia di essere preso in mezzo in una rissa. — E poi che hai fatto? — Ho gironzolato un po' attorno finché non ho trovato il pub. Ho bevuto qualcosa e poi mi sono trovato un passaggio fin qui. — Un passaggio? E da chi? — Un allevatore e signora... a giudicare dal puzzo — rispose Brooke con un sogghigno. — E Peter? — L'ho lasciato a brigare con Cambrey. — E dov'era Sasha, nel frattempo? — Qui. Peter aveva ancora in sospeso una promessa che le aveva fatto a Londra: provvedere lui a trovare un po' di neve. E immagino che lei stesse aspettando i risultati. — A che ora hai lasciato il cottage? — chiese St. James, impassibile. Brooke esaminò la cornice di stucco che correva poco sotto il soffitto. Riflettendo, cercando di ricordare, o facendo finta. — Erano le dieci quando sono arrivato al pub. Lo so perché ho guardato l'orologio. — E hai rivisto Peter, in seguito? — No, fino a stasera — di nuovo un sogghigno, che questa volta sottintendeva un che-resti-tra-noi-ragazzi, tutta complicità maschile. — Sono tornato qui, ho fatto la pace con Sid e ho trascorso la notte in camera sua, a darmi da fare. Parecchio da fare, anzi. Sid è fatta così — si alzò e concluse: — Mi è parso più opportuno dire a te di tuo fratello, piuttosto che alla polizia. Pensavo che tu avresti saputo cosa bisognava fare. Ma se ritieni che debba mettermi in contatto con quelli... Lasciò la frase in sospeso. Tutti sapevano che non significava nulla. Poi
uscì, dopo un breve cenno di saluto. Quando la porta si fu richiusa, Lynley si frugò in tasca alla ricerca del portasigarette, ma quando l'ebbe tirato fuori ne fissò lo scintillio sotto la luce chiedendosi come mai gli era venuto per le mani. Non aveva nessuna voglia di fumare. — Cosa devo... — la voce era rauca. Provò di nuovo. — Cosa devo fare, St. James? — Parlane a Boscowan. Che altre possibilità hai? — Si tratta di mio fratello. Devo fare la parte di Caino? — Vuoi che me ne occupi io? Lynley guardò l'amico e ne vide l'espressione inesorabile. Capì che non c'erano alternative. Già lo sapeva mentre ne cercava. — Dammi tempo fino a domattina — mormorò. 14 Deborah diede una rapida occhiata attorno per controllare di non avere dimenticato nulla. Chiuse la valigia e la posò sul pavimento dicendosi che tutto considerato era contenta di partire. Durante la notte il tempo era cambiato e il cielo che il giorno prima era di un abbagliante cobalto quella mattina era color ardesia. Raffiche di vento si abbattevano a intervalli contro le finestre, e da una che aveva lasciato socchiusa giungeva l'odore inconfondibile della pioggia imminente. A parte l'occasionale risuonare dei vetri e il cigolio dei rami del faggio poco lontano dalla casa, non si udivano altri rumori: gli striduli gabbiani e i cormorani, riconosciuto l'avvicinarsi del temporale, erano scomparsi andando a cercare rifugio nell'entroterra. — Signorina? Sulla soglia c'era una delle cameriere, una ragazza con una nube di capelli neri che le oscuravano il volto triangolare. Caroline, ecco come si chiamava, si rammentò Deborah, e come l'altra domestica a giornata non portava uniforme ma semplicemente una gonna blu con camicetta bianca e scarpe a tacco basso. Aveva un aspetto curato, in ordine, e reggeva un vassoio a cui accennò sollevandolo leggermente. — Sua Signoria ha pensato che le avrebbe fatto piacere mangiare qualcosa prima di partire — spiegò, posando il suo carico su un tavolino presso il caminetto. — Nessun altro è ancora alzato. Il conte dice che ha solo mezz'ora di tempo. — Lady Helen lo sa? È sveglia?
— Certo, si sta vestendo e facendo colazione. Quasi a conferma, lady Helen comparve impegnata in tre attività distinte e simultanee. Avanzava a piedi nudi, ancorché con le calze, sgranocchiava una fetta di pane tostato e reggeva due paia di scarpe. — Non riesco a decidere — annunciò osservando queste ultime con aria critica. — Quelle scamosciate sono più comode, ma queste verdi sono deliziose, vero? Ho provato prima queste e poi quelle almeno una decina di volte. — Consiglierei quelle scamosciate — dichiarò Caroline. — Hmmm — Lady Helen ne lasciò cadere a terra una, vi infilò il piede; poi fece lo stesso con una dell'altro paio. — Guarda bene, Caroline. Sei proprio convinta? — Sì — fu la conferma. — Quelle scamosciate. E se vuole darmi le altre gliele metto in valigia. Lady Helen si esaminò allo specchio all'interno dell'anta dell'armadio. — Sì, capisco. Ma guarda il colore di queste. Anche nella gonna c'è una sfumatura di verde. Il fatto è che ho la borsetta che si accompagna a queste scarpe, e muoio dalla voglia di sfoggiarle. È atroce dover ammettere che l'acquisto impulsivo di scarpe e borsetta coordinate è stato del tutto inane. Deborah, tu che ne dici? — Quelle scamosciate. — Spinse la valigia verso la porta e andò al tavolino da toeletta. Lady Helen trasse un sospiro. — La maggioranza vince. — Seguì con lo sguardo Caroline che usciva. — Mi piacerebbe rubarla a Tommy. Le è bastata un'occhiata alle scarpe e ha subito deciso. Santo cielo, Deborah, mi farebbe guadagnare ore di vita. Non dovrei più starmene in eterno davanti al guardaroba cercando di decidere cosa mettere la mattina. Che liberazione. Deborah ebbe un mugolio vago e fissò perplessa lo spazio vuoto accanto al tavolino. Si diresse all'armadio e scrutò all'interno; non provava sconcerto o sgomento, solo confusione. Lady Helen continuava a cicalare. — Sono una masochista. Mi basta sentire la parola "saldi" riferita a Harrod's e perdo la testa. Scarpe, cappelli, golf, abiti. Ho perfino comperato un paio di stivaloni di gomma, una volta, semplicemente perché erano della mia misura. Stupendi, mi sono detta, proprio quel che ci vuole per andare a zappettare nel giardino della mamma — diede un'occhiata alla colazione di Deborah. — Lo mangi, il pompelmo?
— No, non ho per niente fame. — Deborah passò nel bagno, ne uscì. Si inginocchiò sul pavimento per guardare sotto il letto, cercando di ricordare dove aveva messo la custodia. Di sicuro era sempre rimasta lì in camera. L'aveva vista la sera precedente e quella prima ancora, no? Se lo chiese più volte e dovette riconoscere che non ricordava. Inconcepibile che l'avesse dimenticata in giro, e allora poteva solo significare che... — Ma che stai facendo? — chiese lady Helen mentre scavava allegramente nel pompelmo. Non era neanche sotto il letto: Deborah cominciò ad avvertire un senso di panico e si rialzò sudata in volto. Il sorriso di lady Helen svanì. — Che c'è? Che succede? In un'ultima, futile ricerca Deborah tornò all'armadio e tirò fuori i cuscini e le coperte di riserva. — Gli apparecchi — mormorò. — Helen, le mie macchine fotografiche. Non ci sono più. — Le macchine fotografiche? Non ci sono più? Che vuoi dire? — Scomparse. Proprio così, scomparse. Erano nella custodia. L'hai vista. L'ho portata con me da Londra. Non c'è più. — Ma è impossibile, Deborah. Devono pur essere da qualche parte. Di sicuro qualcuno... — No, non ci sono più. Era tutto nella custodia. Apparecchi, obiettivi, filtri. Tutto quanto, Helen. Lady Helen depose la coppetta del pompelmo sul vassoio e si guardò attorno. — Sei sicura? — Naturale che sono sicura! Non dire... — Si controllò a fatica e riprese: — Erano nella custodia, vicino al tavolino da toeletta. Guarda. Sparita. — Chiediamo a Caroline — suggerì lady Helen. — O a Hodge. Magari l'hanno portata giù, in auto. O forse Tommy è passato prima e l'ha presa. È l'unica spiegazione. Non posso credere che qualcuno possa aver... — non riuscì a pronunciare la parola "rubato". — Non mi sono mossa da questa camera da ieri notte. Sono andata solo in bagno. Se Tommy avesse preso gli apparecchi mi avrebbe avvertita, ti sembra? — Vado a chiedere — mormorò lady Helen. E uscì. Deborah si lasciò cadere sullo sgabello davanti alla toeletta. Il disegno a fiori e foglie della moquette si sfocò dinanzi ai suoi occhi mentre contemplava quella perdita. Tre macchine fotografiche, sei obiettivi, decine di filtri, tutti acquistati con i proventi della sua prima mostra di successo, in America; i ferri del mestiere che stavano a dimostrare ciò che era diventata
in tre anni di lavoro. Una professionista indipendente, senza legami, doveri, obblighi. Una donna con un futuro. Tutte le decisioni prese in quegli anni in America erano state legittimate dal possesso di quell'attrezzatura. Poteva guardare senza rammarico o pentimento a tutte le conclusioni e le convinzioni a cui era giunta, le iniziative prese: lei ne era emersa con una professione in mano, una professione in cui sapeva autenticamente il fatto suo. Non cambiava nulla che avesse dovuto rinunciare dolorosamente a una parte della sua vita - una parte che avrebbe potuto trattenere, amare, alimentare. Anzi, aveva riesaminato tutto ciò che aveva perso ed era arrivata a stabilire che non aveva concretezza. Ogni cosa era diventata accettabile e giusta e giustificata in quanto lei aveva raggiunto la sua meta. E aveva in mano tutti i simboli e le prove di tale successo. Lady Helen rientrò. — Ho parlato con Caroline e Hodge — disse in tono rammaricato. Non aveva bisogno di precisare ulteriormente. — Senti, Deborah. Tommy... — Non voglio che lui mi regali degli altri apparecchi! — esplose Deborah. Sul volto di lady Helen passò un breve lampo di sorpresa, subito cancellato. — Intendevo dire che Tommy deve essere informato immediatamente. Vado a cercarlo. Tornò dopo pochissimi minuti, con Lynley e St. James. Il primo si accostò a Deborah. L'altro rimase vicino alla porta. — Non ci mancava altro — mormorò Lynley passandole un braccio attorno alle spalle e stringendola brevemente a sé prima di accosciarsi per guardarla. Aveva la faccia segnata dalla stanchezza, pareva che non avesse dormito affatto quella notte. Deborah sapeva quanto era in pensiero per John Penellin e si vergognò un poco di causargli altre preoccupazioni. — Deb, tesoro. Mi dispiace molto. Dunque era convinto anche lui che gli apparecchi erano stati rubati. Non avanzò neppure l'ipotesi che la custodia fosse stata dimenticata chissà dove. — Quando li hai visti l'ultima volta, Deborah? — chiese St. James. Lynley le accarezzò i capelli spingendoli all'indietro. Deborah colse l'odore fresco e pulito della sua pelle. Se fosse riuscita a concentrare i pensieri su Tommy tutto sarebbe andato per il meglio.
— C'erano, ieri sera? — insistette St. James. — Erano qui ieri mattina. Me ne ricordo perché ho messo via l'apparecchio con cui ho scattato le foto dopo la recita. Era tutto qui, vicino al tavolino. — E non ricordi di averli visti in seguito? Non li hai usati durante la giornata? — No, non li ho toccati. E sono venuta qui solo quand'è stata l'ora di prepararmi per la cena. Potrei aver notato la custodia. Dovrei, anzi. Dopotutto ero qui, davanti al tavolino da toeletta. Ma non me ne ricordo affatto. E tu, Simon? Lynley si rialzò passando lo sguardo da Deborah a St. James con aria perplessa, ma niente di più. — Sono sicuro che c'erano — rispose St. James. — Era la tua vecchia custodia di metallo, vero? Sì, era proprio lì accanto. — Qui accanto — mormorò tra sé Lynley, guardando il punto indicato. Diede un'occhiata a St. James. Poi al letto. — Quando, St. James? — Una domanda tranquilla, due semplici parole. Ma il fatto di averle pronunciate e il tono deliberato diedero un altro clima alla conversazione. — Tommy, dobbiamo prendere il treno — intervenne lady Helen. — Quando hai visto la custodia, St. James? Ieri sera? Ieri notte? Quando? Eri da solo? O c'era Deborah... — Tommy! — esclamò lady Helen. — No. Lascia che risponda. St. James non aprì bocca. Inorridita, Deborah toccò il braccio di Lynley e lanciò un'occhiata supplichevole a lady Helen. — Tommy — riprese lady Helen — non è... — Lascia che risponda, ho detto. Passarono alcuni istanti, una piccola eternità di inferno prima che St. James desse una fredda esposizione dei fatti. — Ieri Helen e io ci eravamo fatti dare una foto di Mick Cambrey da suo padre, Tommy. E l'ho portata a Deborah prima di cena. È stato allora che ho visto la custodia. Lynley lo fissò. Poi emise un lungo sospiro. — Cristo — mormorò. — Cristo, mi spiace. Che idiota sono. Non so cosa mi è venuto in mente. St. James avrebbe potuto sorridere, liquidare l'implicito insulto in quanto errore comprensibile. Non fece nulla, non disse nulla. Si limitò a guardare Deborah, e solo per un attimo. Come per alleviare quella situazione intollerabile, lady Helen chiese: —
Erano molto preziosi, Deborah? — Valgono centinaia di sterline. — Deborah andò alla finestra ponendosi in controluce, il viso in ombra. Provava una grande oppressione al petto e aveva solo voglia di piangere. — Allora sperano di venderli. Ma non in Cornovaglia, o almeno non da queste parti, dove sarebbe facile rintracciarli. Magari a Bodmin, o Exeter o addirittura a Londra. E in tal caso devono averli presi ieri sera, durante il ricevimento, direi. Dopo l'arresto di John Penellin c'è stato un po' di scompiglio, no? Un continuo andirivieni per il resto della serata. — E comunque non tutti erano in soggiorno — fece notare Deborah. Stava pensando a Peter Lynley, a quel suo brindisi crudele. Chi più di lui poteva volerle fare del male? Quale sistema migliore per colpire Tommy attraverso lei? St. James guardò l'orologio. — Dovresti accompagnare Helen e Deborah al treno — disse a Lynley. — Non c'è motivo che restino, ti pare? Possiamo occuparci noi di questa storia. — È la cosa migliore — convenne lady Helen. — Tutt'a un tratto mi è venuta una gran nostalgia dello smog di Londra — si diresse alla porta dando una piccola stretta alla mano di St. James mentre lo oltrepassava. St. James accennò a seguirla ma Lynley disse: — Simon. Scusami. Non ho giustificazioni. — Salvo tuo fratello e John Penellin. Stanchezza e ansia. Non ha importanza, Tommy. — Ne ha, invece. Sono un perfetto imbecille. St. James scosse il capo ma l'espressione era chiusa. — Non è nulla. Davvero. Non pensarci più. St. James sentì sua sorella che sbadigliava sulla soglia della sala da pranzo. — Dio, che serata — brontolò lei entrando e prendendo posto a tavola. Appoggiò il viso a una mano, prese il bricco del caffè, se ne versò una tazza e aggiunse lo zucchero con gesto che riuniva liberalità e somma indifferenza. Come non si fosse presa la briga di guardare fuori dalla finestra prima di decidere come vestirsi, indossava dei calzoncini corti azzurri profusamente guarniti di rutilanti stelline d'argento, e un top. — Brindisi offensivi, incursioni della polizia, un arresto su due piedi. Un miracolo se siamo sopravvissuti. — Guardò la fila di vassoi, coperti, sulla credenza e alzò le spalle: troppa fatica spingersi fin là, evidentemente. Prese invece dal piatto del fratello una fetta di pancetta e l'adagiò su una fetta di pane tostato.
— Sid... — Hmmm? — Sbirciò il giornale. — Cosa stai leggendo? St. James non rispose. Stava esaminando lo Spokesman. Era un giornale di provincia e trattava soprattutto cronaca locale. E per quanto Mick Cambrey fosse strettamente legato allo Spokesman, St. James non vi trovava nulla a cui poter far risalire la sua uccisione. Le notizie andavano da una festa di matrimonio tenuta a Lamorna Cove, all'arresto di un borsaiolo di Penzance, alle innovazioni apportate in un allevamento di vacche da latte poco lontano da St. Buryan. C'era un servizio sulla rappresentazione di Molto rumore per nulla, compreso un profilo dell'attrice che interpretava Ero. La cronaca sportiva consisteva in un articolo su un torneo locale di tennis, e l'incaricato della cronaca nera era riuscito a scovare solo un incidente sorto da una questione di precedenza tra un camionista e una mucca. Solo la pagina delle opinioni prometteva qualcosa, ma riguardava più il futuro del giornale che un possibile movente per l'assassinio di Mick Cambrey. C'erano due articoli e sette lettere. Il primo, scritto da Cambrey, era un pezzo ben articolato sulla necessità di arginare l'importazione di armi nell'Irlanda del Nord. Il secondo, firmato da Julianna Vendale, trattava l'assistenza all'infanzia. Le lettere, inviate da abitanti di Nannurel e Penzance, si riferivano a precedenti articoli sull'espansione urbana e sui voti sempre più bassi che si riscontravano agli esami delle medie superiori. Tutte cose che rispecchiavano gli sforzi di Mick Cambrey per fare dello Spokesman qualcosa di più di un giornale di pettegolezzi di paese, ma nulla che potesse giustificare un omicidio. Harry Cambrey, rifletté St. James, riteneva che suo figlio stesse lavorando a un'inchiesta che avrebbe fatto la fortuna dello Spokesman. Mick invece, a quanto sembrava, voleva per il suo pezzo un pubblico più vasto di quello che poteva offrirgli quel remoto angolo della Cornovaglia. Cambrey poteva avere scoperto che suo figlio stava sottraendo tempo, denaro e lavoro allo Spokesman per qualcosa di cui il suo giornale non avrebbe assolutamente beneficiato. E in tal caso, come avrebbe reagito? Poteva aver avuto una crisi di rabbia, come già gli era accaduto alla sede del giornale? Tutti gli interrogativi in merito al delitto si imperniavano sul decidere tra premeditazione e accesso di furia. Il fatto che ci fosse stata una lite, e la mutilazione del cadavere, suggerivano la seconda ipotesi. Ma altri particolari - le condizioni del soggiorno, il denaro scomparso - indicavano la premeditazione. Probabilmente neanche l'autopsia avrebbe fornito in-
dicazioni precise. — Dove sono tutti quanti, stamattina? — Sidney lasciò la tavola portandosi la tazza del caffè alla finestra dove si rannicchiò sul sedile ricoperto di velluto. — Che giornata grigia. Pioverà. — Tommy ha accompagnato Deborah e Helen al treno per Londra. Non ho visto altri. — Anche Justin e io dovremo partire, immagino. Lui deve lavorare, domani. L'hai visto? — Non questa mattina. — St. James non se ne doleva affatto. Meno vedeva Brooke meglio stava. Poteva solo sperare che sua sorella avesse un attacco di buon senso e cancellasse quell'uomo dalla propria vita. — Magari vado a stanarlo da camera sua — disse Sidney, ma non si mosse e stava ancora sorseggiando il caffè quando lady Asherton li raggiunse. Dal suo abbigliamento era chiaro che non era venuta per fare colazione: indossava dei jeans arrotolati sopra le caviglie, una camicia maschile, di cotone e un berretto da baseball. Stringeva in mano un paio di guanti da giardiniere che batteva enfaticamente contro il palmo. — Oh, eccoti qui, Simon. Bene. Puoi venire con me un momento? Si tratta delle macchine fotografiche di Deborah. — Le hai trovate? — chiese St. James. — Trovate? — ripeté Sidney, interdetta. — Oltre a tutto il resto, Deb ha perso i suoi apparecchi? — Scrollò il capo e tornò al tavolo a prendere il giornale. — In giardino — disse lady Asherton, e insieme uscirono nel vento salmastro che stava rapidamente trascinando dal mare un banco di tempestose nubi grigie. Uno dei giardinieri stava aspettandoli all'estremità dell'ala meridionale. Stava accanto a un faggio, le cesoie in mano e un logoro berretto di lana tirato sulla fronte. Salutò con un cenno del capo quando i due lo raggiunsero e indicò a St. James la grande pianta di tasso vicinissima alla casa. — Un vero peccato — commentò. — Un grosso danno, povera pianta. — La stanza di Deborah è proprio qui sopra — sottolineò lady Asherton. St. James esaminò il tasso e vide che il lato dalla parte della casa era stato rovinato, i rami spezzati e schiantati da un oggetto presumibilmente fatto cadere dall'alto. Il guasto era recente, le lacerazioni fresche. Dai rami smozzicati veniva il profumo caratteristico delle conifere. St. James fece un passo indietro e guardò le finestre rivedendo mentalmente la disposizione delle stanze. Al piano terra c'era la sala da biliardo e,
immediatamente sopra, la camera di Deborah. Ben lontane dalla sala da pranzo e dal soggiorno dove si era svolto il ricevimento della sera prima. Per quel che gli risultava, nessuno era andato a giocare a biliardo e quindi nessuno poteva avere sentito il rumore della custodia di metallo che precipitava facendo quello scempio. Lady Asherton mormorò qualcosa al giardiniere che si rimise all'opera tagliando i rami rovinati e raccogliendoli nel sacco di plastica che teneva sotto il braccio. — C'è un aspetto positivo in questa storia, Simon. Almeno sappiamo che non è stato qualcuno di casa a rubare gli apparecchi. — Come fai a dirlo? — Mi sembra improbabile che uno di noi li abbia presi e buttati di fuori. Molto più facile nasconderli nella propria camera e portarli via in seguito, non credi? — Più facile, sì. Ma non più saggio. Soprattutto se si voleva far pensare che fosse stato un estraneo a compiere il furto. Ma neanche quello sarebbe stato saggio. Perché, a rigore, chi erano gli estranei ieri sera? I signori Sweeney, il dottor Trenarrow, tua cognata e il deputato di Plymouth. — John Penellin — aggiunse lei. — Le domestiche a giornata. — Non ce li vedo a rubare macchine fotografiche. — Capiva, dalla sua espressione, che lady Asherton aveva già riflettuto parecchio sulla custodia scomparsa, dove poteva essere finita, chi poteva averla presa. Ma ciò che disse poi seguiva un filo diverso. — Quel che non riesco a capire è perché le abbiano rubate. — Valgono parecchio. Si possono vendere, se si ha bisogno di denaro. Il volto di lei si contrasse, ma solo per un attimo. St. James ebbe pietà. — La casa era aperta, durante il ricevimento. Qualcuno potrebbe essere penetrato mentre eravamo a cena. Non sarebbe stato difficile arrivare fino alla stanza di Deborah. — Ma perché prendere quegli apparecchi, Simon, se era per bisogno di quattrini? Perché non portare via altre cose, anche più preziose? — E cosa? Tutto il resto è fin troppo ricollegabile a Howenstow. Argenteria, posate e il resto: su tutto c'è lo stemma di famiglia. Non vorrai certo pensare che qualcuno si arraffi un quadro nella speranza che non se ne noti la mancanza fino al giorno dopo. Lei mosse il capo per guardare il parco, gesto che voleva solo nascondere il volto. — Non per denaro — disse, torcendo i guanti tra le mani. — È impossibile, Simon. Lo sai. — Allora forse la signora Sweeney non voleva che la sua foto circolasse.
Lady Asherton ebbe un sorrisetto fiacco ma si adeguò a quel tentativo di distrarla. — Dici che potrebbe essersi allontanata come per andare in bagno, dopo cena, per poi battere tutta la villa alla ricerca della stanza di Deborah? La sua stessa domanda la pose di fronte all'inevitabile realtà. Chiunque si fosse impadronito della custodia sapeva anche qual era la camera di Deborah. — Tommy ha parlato con Peter, stamane? — chiese St. James. — Peter non si è ancora alzato. — Dopo cena è scomparso, Daze. — Lo so. — E sai dov'è andato? Dov'è andata Sasha? Lei scosse il capo. — A fare una passeggiata qui attorno, o alla caletta, o un giro in auto. Magari alla foresteria, a trovare Mark Penellin. — Trasse un sospiro. Pareva stanchissima. — Non posso credere che abbia preso gli apparecchi di Deborah. Ha venduto quasi tutto quel che aveva, lo so. Faccio finta di non saperlo ma lo so. Non è possibile che arrivi a rubare. No. Non posso crederci. In quel momento un grido venne dal parco. Qualcuno stava correndo verso la casa, un uomo che si premeva una mano contro il fianco e con l'altra agitava un berretto. E continuava a gridare. — È Jasper, milady — disse il giardiniere. — Ma che ha? — Quando l'uomo fu più vicino lady Asherton alzò la voce. — Smetta di gridare in quel modo, Jasper. Ci sta spaventando a morte. Jasper arrivò, affannato e boccheggiante. Pareva non trovare il fiato per mettere insieme una frase coerente. — È lui — ansimò. — Alla caletta. Lady Asherton guardò St. James. Stavano pensando la stessa cosa. Lei fece un passo indietro, come per sottrarsi a una notizia che non voleva ascoltare. — Lui, chi? — domandò St. James. — Chi c'è alla caletta, Jasper? Il vecchio si piegò in due, tossì. — Alla caletta! — Per amor del cielo... Jasper si raddrizzò, si guardò attorno e puntò un dito nodoso verso la porta d'ingresso dove Sidney era comparsa per scoprire il motivo di quel baccano. — Il suo amico — rantolò. — Giù alla caletta, morto.
15 Quando finalmente St. James la raggiunse, sua sorella era già arrivata alla caletta, molto prima di tutti gli altri. Nella sua corsa forsennata attraverso il parco e il bosco era caduta e il sangue le rigava un braccio e una gamba. Dall'alto della rupe lui la vide precipitarsi verso la figura di Brooke, sollevarlo come se con quel gesto potesse dargli vita. Respirava affannosamente. La testa di Brooke ricadde con un'angolazione assurda che rivelava come era morto. Sidney lo adagiò sulla sabbia, gli aprì la bocca coprendola con la sua in un inutile tentativo di respirazione artificiale. Anche dall'alto della roccia St. James poteva sentire i suoi piccoli gemiti soffocati. Gli premette ritmicamente le mani sul torace. Gli aprì la camicia, si stese contro di lui, serrandolo come per ridestargli i sensi nella morte così come ci riusciva in vita. Era un'insensata, macabra pantomima di seduzione. St. James si sentì raggelare. La chiamò, a voce sempre più alta. Infine Sidney levò lo sguardo verso la rupe e lo vide. Alzò un braccio verso di lui, in gesto di supplica, e poi cominciò a piangere. Erano ululati terribili, fatti di strazio e disperazione impotente che sgorgavano da una fonte primordiale e senza tempo. Coprì di baci il volto contuso di Brooke, poi abbassò il capo poggiandolo sul petto di lui. E continuò a piangere, con dolore, rabbia, furia. Afferrò il cadavere per le spalle, sollevandolo e scuotendolo, urlando il suo nome. Come tutta risposta quel capo privo di vita oscillò mostruosamente dal collo spezzato. St. James, immobile, si costrinse a non distogliere lo sguardo da lei, imponendosi di essere testimone del momento peggiore della sua angoscia, accettando la cosa come giusta e dovuta punizione per il fatto di avere un fisico così menomato da non permettergli di andare in aiuto di sua sorella. Paralizzato, imprecando tra sé con una ferocia crescente che si avvicinava sempre più al panico, ascoltò il lamento funebre di Sidney. Si volse con uno scatto animalesco quando si sentì toccare un braccio. Lady Asherton era lì accanto, e dietro di lei il giardiniere e altre cinque o sei persone di casa. — Strappala via da lui. — Riuscì a dirlo con uno sforzo immenso, ma quelle parole ebbero il loro effetto. Dopo avergli dato un'ultima occhiata ansiosa, lady Asherton affrontò a passo cauto la discesa. Gli altri la seguirono con coperte, una barella im-
provvisata, un rotolo di corda. In tre raggiunsero simultaneamente Sidney e lady Asherton l'allontanò dal corpo che lei continuava a scuotere con vana frenesia. Sidney si dibatté per buttarsi nuovamente su Brooke e lady Asherton si volse a mezzo gridando qualcosa che St. James non distinse. Uno degli uomini le passò una boccetta aperta. Lei trasse a sé la ragazza, l'afferrò per i capelli e le mise il flacone sotto al naso. Sidney arrovesciò il capo, si portò una mano alla bocca, balbettò qualcosa e lady Asherton le indicò la rupe. Sidney cominciò a risalirla, aiutata dal giardiniere e poi da altri, attenti a evitare che inciampasse o cadesse. E pochi minuti dopo St. James la prendeva tra le braccia. La strinse a sé, premendo la guancia contro il capo di lei e lottando contro una reazione emotiva che minacciava di sopraffarlo. Quando i singhiozzi cominciarono a placarsi, cominciò a guidarla verso la casa, reggendola con entrambe le braccia come temendo che, lasciandola, lei venisse presa da un'altra crisi isterica, cercasse di tornare al suo amante, sulla spiaggetta. Avanzavano nel bosco e St. James quasi non se ne rendeva conto. Né era consapevole di quanto avevano attorno: il fruscio del torrente, il profumo intenso della vegetazione, il morbido terreno argilloso sotto i loro piedi. Nell'aria si avvertiva l'imminente temporale quando arrivarono al muro di cinta di Howenstow e superarono l'entrata. Le foglie stormivano sotto il vento che le agitava; uno scoiattolo corse su per il tronco di un frassino cercando rifugio tra i rami. Sidney sollevò il capo. — Sta per piovere, Simon — disse. — Si bagnerà. St. James la strinse più forte, le baciò la fronte. — No, non ti preoccupare. — Cercava di avere il tono del fratello maggiore che lei conosceva, quello che un tempo aveva respinto i mostri dei suoi incubi, che riusciva a cancellare i suoi brutti sogni. Ma non questo, Sid. — Stanno occupandosi di lui. Stai tranquilla. Grossi goccioloni pesanti colpirono le foglie. Sidney rabbrividì. — Come ci ha sgridati la mamma! — bisbigliò. — Sgridati! Quando? —Tu hai aperto tutte le finestre della nursery per vedere quanta acqua riusciva a entrare. E lei ci ha sgridato terribilmente. Ti ha anche picchiato. — Fu scossa da un singhiozzo. — Non ho mai potuto tollerare che la mamma ti picchiasse. — La moquette era rovinata. Me lo meritavo. — Ma l'idea era stata mia. E ho lasciato che punissero te. — Si portò
una mano al volto. Il sangue le aveva striato le dita. Ricominciò a piangere. — Mi dispiace. Lui le accarezzò i capelli. — Stai tranquilla, tesoro. Non me ne ricordavo neanche più. Davvero. — Ma come ho potuto farti una cosa del genere, Simon? Eri il mio fratello preferito, quello a cui volevo più bene, Nancy diceva che era brutto che ti volessi più bene che ad Andrew o David, ma io non potevo farci niente. Era così e basta. E poi ho lasciato che le prendessi mentre era colpa mia, e non ho mai detto niente. — Il volto era bagnato di lacrime che, St. James lo sapeva, in realtà non avevano nulla a che vedere con le loro dispute infantili. — Voglio dirti una cosa, Sid. Ma devi promettere che non ne farai mai parola con David o Andrew. Anche tu eri la mia preferita. Lo sei ancora, anzi. — Davvero? — Sicuro. Quando giunsero al giardino il vento si rafforzò, sferzando le rose e disperdendo una pioggia di petali sul viale. La pioggia cominciò a investirli aggressivamente, ma non affrettarono il passo. Quando arrivarono alla porta d'ingresso erano entrambi silenziosi. — La mamma adesso ci sgriderà — mormorò Sidney mentre lui richiudeva l'uscio. — Dobbiamo nasconderci? — Per il momento siamo al sicuro. — Non voglio che te le dia. — Certo, Sid. Lo so. — La condusse verso le scale, prendendole la mano quando lei esitò guardandosi attorno, palesemente confusa. — Su. Vieni con me. In cima alle scale, Cotter andò loro incontro con un piccolo vassoio tra le mani. St. James inviò un pensiero grato al cielo per le doti telepatiche del vecchio amico. — Vi ho visti arrivare — spiegò Cotter accennando al vassoio. — È brandy. Le farà... — si interruppe e aggrottò la fronte guardando Sidney. — Tra poco starà bene. Se vuole darmi una mano, Cotter. A differenza della stanza di Deborah, quella di Sidney non era né cavernosa né sepolcrale. Si affacciava su un piccolo giardino cintato, sul retro della villa; la tappezzeria era bianca e gialla e la moquette aveva un disegno floreale, in colori pastello. St. James fece sedere Sid sul letto e andò a chiudere le tende mentre Cotter versava del brandy e le accostava il bic-
chiere alle labbra. — Ne prenda un sorsetto, signorina — mormorò sollecito. — La riscalderà. Lei ubbidì docilmente. — La mamma lo sa? Cotter lanciò un'occhiata a St. James. — Su, ancora un poco — aggiunse incoraggiante. St. James frugò in un cassetto, alla ricerca di una camicia da notte. La trovò sotto una stratificazione, tipica di Sidney, di golf, gioielli e calze. — Devo toglierti quella roba fradicia — le disse. — Cotter, andrebbe a prendere un asciugamano? E qualcosa per medicare i graffi? Cotter annuì e rivolse uno sguardo attento a Sidney prima di uscire. Rimasto solo con la sorella, St. James la spogliò lasciando cadere sul pavimento gli indumenti bagnati, e le infilò la camicia da notte. Lei non diceva nulla, pareva non rendersi conto della sua presenza. Quando Cotter tornò con asciugamano e cerotti, St. James le sfregò energicamente i capelli, disinfettò gambe e braccia, ripulì i piedi infangati. Poi la distese sul letto rimboccandole le coperte. Lei lasciò fare come una bambina, come una bambola. — Sid — sussurrò lui, toccandole una guancia. Avrebbe voluto chiederle di Justin Brooke. Voleva sapere se erano stati insieme quella notte. E quando Brooke era andato alla rupe. E soprattutto perché. Lei non reagì. Fissava il soffitto. Qualsiasi cosa potesse dirgli, bisognava aspettare. Lynley posteggiò la Rover in fondo al cortile ed entrò nella villa dalla porta nordoccidentale, tra l'armeria e la stanza della servitù. Aveva visto la fila di auto sul viale - due macchine della polizia, una berlina e un'ambulanza con il tergicristallo ancora in funzione - quindi non era impreparato quando Hodge lo fermò mentre attraversava in fretta l'ala dei domestici. — Che è accaduto? — chiese al vecchio maggiordomo. Si sforzò di non tradire il panico, di avere solo un tono ragionevolmente preoccupato. Davanti a quelle auto sotto la pioggia battente il suo pensiero era andato immediatamente a Peter. Hodge rispose con parole volutamente vaghe e impersonali. Si trattava di Brooke. Adesso si trovava nella vecchia aula. Se il modo in cui Hodge gli aveva dato quell'informazione era stato abbastanza tranquillo da farlo sperare, ogni speranza svanì quando Lynley, poco dopo, mise piede nella vecchia aula. Il corpo era disteso, avvolto in coperte, su quel medesimo lungo tavolo coperto di graffi, al centro della
stanza, su cui diverse generazioni di piccoli Lynley avevano svolto i primi compiti. Attorno c'era un gruppetto di persone che discutevano in toni sommessi e tra questi notò l'ispettore Boscowan e il sergente in borghese che era venuto con lui, la sera prima, ad arrestare John Penellin. Boscowan stava dando istruzioni a due uomini della scientifica. Questi avevano i pantaloni infangati e le giacche mostravano larghe chiazze umide. Con loro c'era il patologo della polizia, la "signora" a cui aveva accennato l'agente Parker, riconoscibile dalla tipica borsa che aveva vicino, sul pavimento, chiusa. Non pareva avere intenzione di procedere a un esame preliminare del cadavere. Né quelli della scientifica sembravano pronti a mettersi all'opera. Il che portò Lynley all'unica conclusione possibile: dovunque Brooke fosse morto, non era accaduto lì. Scorse St. James, presso una finestra, intento a guardare quel che si poteva vedere del giardino attraverso il vetro frustato dalla pioggia. — Jasper l'ha trovato alla caletta — raccontò a mezza voce St. James, senza voltarsi, quando Lynley lo raggiunse. Anche i suoi vestiti erano umidi, notò Lynley, e la camicia mostrava tracce di sangue che la pioggia aveva diluito in pennellate di acquerello. — Sembrerebbe un incidente. Certi segni in cima alla rupe fanno pensare che Brooke sia scivolato — lanciò una breve occhiata al gruppo presso il morto e riportò lo sguardo su Lynley. — Almeno questa è la spiegazione che Boscowan accetta ora come ora. St. James non formulò la domanda intuibile dietro quelle ultime parole circospette e Lynley fu grato all'amico di quell'attimo di tregua, per quanto potesse essere breve. — Come mai il cadavere è stato rimosso, St. James? Chi l'ha fatto portare qui? Perché? — Tua madre. Era cominciato a piovere. Sid è arrivata alla spiaggia prima di tutti gli altri. Purtroppo nessuno riusciva a pensare con chiarezza, al momento. Io meno di tutti. — Sotto l'impeto del vento, un ramo strusciò contro la finestra. La pioggia tamburellava rapida. St. James fece un passo avanti levando lo sguardo verso il primo piano dell'ala di fronte all'aula, verso la stanza d'angolo attigua a quella di Lynley. — Dov'è Peter? La tregua era stata breve davvero. Lynley provò l'improvvisa necessità di mentire, di proteggere in qualche modo suo fratello, ma non poteva. — Sparito. — Sasha? — Pure.
— Dove sono andati? — Non lo so. St. James mormorò una sola parola, più che altro un sospiro. — Magnifico. — Poi: — Da quando? Ha dormito nel suo letto? E lei? — No. — Lynley non aggiunse che aveva scoperto la cosa verso le sette e mezzo, quando era andato a cercare suo fratello per parlargli. Non disse di avere mandato Jasper a cercare Peter, alle otto meno un quarto. Né raccontò l'orrore provato quando, di fronte alle auto della polizia e all'ambulanza schierate davanti a Howenstow, aveva pensato che suo fratello fosse morto, e avvertito una sorta di vago sollievo dietro allo spavento, nella sua reazione a quell'idea. Vide che St. James osservava soprappensiero il corpo coperto di Brooke. — Peter non c'entra — dichiarò. — È stata una disgrazia. L'hai detto tu stesso. — Sto chiedendomi se Peter sapeva che Brooke aveva parlato con noi, ieri sera — mormorò St. James. — È possibile che Brooke gliel'abbia detto? E in tal caso, perché? Lynley intuì il ragionamento che determinava quegli interrogativi. Era il medesimo che stava facendo lui. — Peter non è un assassino. Maledizione, lo sai quanto me. — Allora sarà bene che tu lo rintracci. Assassino o no, ha alcune spiegazioni da fornire, ti sembra? — Jasper è andato a cercarlo già stamattina presto. — Mi chiedevo infatti che ci faceva alla spiaggia. Pensava che Peter fosse laggiù? — Là. O al mulino. Ha cercato dappertutto. Anche fuori dalla tenuta. — Le cose di Peter sono ancora qui? — Ecco... no. — Lynley sapeva benissimo quale sarebbe stato il ragionamento successivo di St. James. Se Peter si era allontanato in fretta e furia da Howenstow sapendo che la sua vita era in pericolo, con tutta probabilità avrebbe lasciato lì i suoi bagagli. Se invece se n'era andato dopo avere commesso un delitto che, lo sapeva, sarebbe stato scoperto solo dopo diverse ore, avrebbe avuto tutto il tempo per mettere in valigia quel che aveva portato con sé e quindi sparire nella notte senza che nessuno se ne accorgesse fino al momento in cui il cadavere di Brooke fosse stato scoperto. Sempre che lo avesse ucciso. Sempre che si trattasse di un delitto. Lynley si costrinse a tenere presente che ancora la consideravano una disgrazia. Poche ore prima, l'idea che Peter avesse rubato le macchine fotografiche di Deborah per rivenderle e potersi procurare della cocaina era
stata ripugnante e inaccettabile. Adesso era addirittura gradita: possibile, infatti, che Peter fosse implicato sia nella scomparsa degli apparecchi sia nella morte di Justin Brooke? Se il suo primo pensiero era stato il bisogno di droga, perché perdere tempo a eliminare Brooke? Conosceva la risposta, naturalmente. Ma questa collegava Peter alla morte di Cambrey, una morte che nessuno considerava accidentale. — Portiamo via il cadavere, ora. — Il sergente in borghese si era avvicinato. Lynley rispose con un cenno di assenso. Aveva una gran voglia di bere qualcosa per distendere i nervi. In quel momento la porta si aprì e sua madre entrò spingendo un carrello carico di due grossi bricchi, tre bottiglie di liquori e diversi piatti di biscotti. I jeans e le scarpe erano infangati, la camicia strappata, i capelli scompigliati, ma lei evidentemente non se ne curava affatto. — Non pretendo di conoscere i vostri regolamenti, ispettore — esordì rivolta a Boscowan — ma mi sembra ragionevole che possiate bere qualcosa per riscaldarvi un poco. Caffè, tè, brandy, whisky, quello che volete. Servitevi, prego. Boscowan ringraziò e, di fronte a questo implicito permesso, i suoi uomini si avvicinarono al carrello. L'ispettore raggiunse Lynley e St. James. — Beveva, milord? — Non lo conoscevo bene. Comunque ieri sera beveva. Come tutti. — Ubriaco? — Non direi. Almeno quando l'ho visto l'ultima volta. — Ossia? — Al termine del ricevimento. Verso mezzanotte. Forse poco dopo. — Dove? — Nel soggiorno. — E beveva? — Sì. — Ma non era ubriaco. — Poteva anche esserlo, non lo so. Ma non si comportava come tale. — Lynley capiva benissimo il significato implicito di quella domanda. Se ubriaco, Brooke poteva essere morto cadendo dalla roccia. Altrimenti era stato spinto. — Ubriaco o no, era la prima volta che veniva qui. Non conosceva bene i paraggi. Boscowan assentì, ma poco convinto. — L'autopsia ce lo dirà. — Era buio. Quella rupe è alta.
— Era buio se è uscito di notte, milord — fece notare Boscowan. — Ma potrebbe essere accaduto stamani. — Come era vestito? Boscowan alzò leggermente le spalle, come a riconoscere l'acutezza della domanda. — In smoking. Ma potrebbe darsi che sia rimasto in piedi fino all'alba con uno degli invitati. Finché non sarà stabilita l'ora del decesso non potremo essere certi di nulla. Salvo che è morto. E questo è sicuro. — Si congedò con un breve cenno e raggiunse gli uomini attorno al carrello. — Mille domande che non fa, St. James — osservò Lynley. L'amico le elencò: — Chi l'ha visto per ultimo? Manca nessun altro, qui alla villa? Chi era presente alla cena? Chi altri c'era alla tenuta? C'erano motivi per cui qualcuno potesse volerlo eliminare? — Perché non lo chiede? — Aspetta il risultato dell'autopsia, credo. Gli farebbe comodo che fosse un incidente. — Perché? — Pensa di avere già in mano il colpevole dell'uccisione di Cambrey. E John Penellin non può avere ammazzato Brooke. — Stai dicendo che c'è un nesso? — Certo. Per forza. — Un movimento sul viale attrasse la loro attenzione. — Jasper — disse St. James. Il vecchio avanzava tra le pozzanghere, diretto all'ala occidentale. — Andiamo a sentire cos'ha da dirci — propose Lynley. Lo trovarono davanti alla porta della stanza dei domestici. Stava scrollando un malconcio cappello d'incerata, poi fece lo stesso con un vetusto impermeabile e li appese a un piolo prima di sfilarsi gli stivaloni di gomma incrostati di fango. Rivolse un cenno a Lynley e a St. James e, quando fu pronto, li seguì nella sala da fumo dove accettò un whisky. — Non l'ho trovato da nessuna parte — riferì. — Ma la vostra barca è scomparsa da Lamorna Cove. — Cosa? Ne è sicuro, Jasper? — Naturale che sono sicuro. Non c'è più. Lynley fissò la volpe sopra la mensola del caminetto, cercando di capire, ma gli si presentavano solo dei particolari che rifiutavano di saldarsi. Lo sloop di dieci metri era attraccato a Lamorna. Peter andava in barca a vela da quando aveva dieci anni. Da ore tirava aria di burrasca. Nessuno con un briciolo di buon senso o di esperienza sarebbe uscito in mare. — Potrebbero essersi spezzati gli ormeggi.
Jasper ebbe uno sbuffo sprezzante, ma il suo volto era inespressivo quando Lynley si girò nuovamente. — Dove altro ha cercato? — Dappertutto. Fra Nannurel e Treen. — Trewoofe? St. Buryan? Nell'entroterra? — Sì. Per un tratto. Non c'era bisogno di andare lontano, milord. Se il ragazzo era a piedi qualcuno l'avrebbe visto. E invece no. — Jasper si passò una mano sulla guancia ispida. — Secondo me, o lui e la signorina si nascondono qui attorno o hanno trovato un passaggio appena usciti da Howenstow. Oppure hanno preso la barca. — Non l'avrebbe mai fatto. Se ne intende, non è completamente... — Lynley si interruppe. Non voleva rivelare a Jasper i suoi peggiori timori. Di certo il vecchio già li conosceva ma, ugualmente, i preferiva non ammetterli apertamente. — Grazie, Jasper. Ora vada a mangiare qualcosa, mi raccomando. Il vecchio annuì e si diresse alla porta, ma sulla soglia si fermò. — Ho saputo che sono venuti a prendere John Penellin, ieri sera. — Sì. Jasper mosse le labbra come se volesse aggiungere dell'altro ma esitasse. — Che c'è? — chiese Lynley. — Non dovrebbe prendersi delle colpe, ecco — borbottò Jasper uscendo. — Secondo te Jasper sa qualcosa? — domandò St. James quando furono soli. Lynley stava fissando la moquette, soprappensiero. — No, nulla, direi — disse, riscuotendosi. — È solo la sua opinione. — Riguardo a John? — Sì. E riguardo a Peter. Se ci sono delle colpe, Jasper sa a chi vanno attribuite. — Lynley non si era mai sentito così incapace di agire o decidere. Gli pareva che tutta la sua esistenza sfuggisse al controllo e lui non potesse far altro che stare a guardarne i vari frammenti che si disperdevano disordinatamente. Riuscì a dire soltanto: — Non avrebbe mai preso la barca. Con questo tempo. E per andar dove? E perché? Sentì che St. James si avvicinava e alzando gli occhi lesse la compassione sul suo volto. — Forse è ancora qui alla tenuta, Tommy. Forse non sa neppure quel che è successo e la sua sparizione non ha nulla a che vedere con Justin Brooke. — E con le macchine fotografiche?
— Neppure. Lynley passò lo sguardo sulle foto alla parete: tutte quelle generazioni di Lynley che avevano rispettato la tradizione, che avevano studiato a Oxford, che avevano svolto il loro compito a Howenstow senza mai fiatare. — Non ci credo, St. James. Neanche per un attimo. E tu? L'altro trasse un sospiro. — Sinceramente? No. 16 — Mio Dio, come siamo cadute in basso! — gemette lady Helen. Depose la valigia con un sospiro e lasciò penzolare la borsa dalla punta delle dita, desolatamente. — Pranzare alla stazione di Paddington. Un'iniziativa talmente riprovevole che non capisco come mi ci sia lasciata trascinare. — Ma è stata tua l'idea, Helen. — Deborah mise giù il bagaglio e si diede un'occhiata attorno con un sorriso soddisfatto. Era magnifico essere di nuovo a casa, anche se si trattava solo di un monolocale. Però era suo. — Confesso la mia colpa. Ma quando si spasima per la fame, quando lasciarsi determinare dai propri gusti sofisticati può significare il decesso, che altro si può fare se non fiondarsi verso il primo bar che si avvista? — Rabbrividì al ricordo di quanto si era trovata nel piatto. — Riesci a pensare a qualcosa di più orrendo di una salsiccia? Deborah si mise a ridere. — Posso offrirti qualcosa? Una tazza di tè? Ho perfino la ricetta per un beverone salutista che magari ti piacerebbe. Me l'ha data Tina. Un corroborante, ha detto. — E di sicuro ne aveva bisogno dopo un incontro con Mick Cambrey, se vogliamo prestar fede al padre — commentò lady Helen. — Ma rinuncerò a questo piacere, per il momento. Andiamo a mostrarle la foto? Deborah la prese dalla sua borsa a tracolla e uscì per prima. Il corridoio era stretto, con porte che si aprivano su entrambi 1 lati, c'era l'odore tipico della moquette nuova. Deborah bussò leggermente all'uscio di Tina. — Tina... be', è un animale notturno, immagino — spiegò a lady Helen. — Potrebbe non essersi ancora alzata. Evidentemente era così, perché non ci fu risposta. Deborah bussò di nuovo, più forte. Poi una terza volta, chiamando: — Tina? Si aprì invece la porta di fronte e una signora anziana sbirciò fuori. Sulla testa portava un foulard a scacchi, annodato sotto il mento come una babushka, che serviva a occultare i capelli grigi strettamente ravvolti attorno a un'infinità di bigodini.
— Non c'è. — La signora si stringeva sul petto una leggera vestaglia a fondo viola con degli strazianti fiori arancione e vaste foglie verdi che erano quel che ci voleva per far decidere di non visitare mai dei paesi tropicali. — Manca da due giorni. — Che seccatura — mormorò lady Helen. — Sa per caso dove sia andata? — Piacerebbe anche a me saperlo — fu la risposta. — Si è fatta prestare il mio ferro da stiro e mi farebbe comodo riaverlo. — Capisco benissimo — convenne lady Helen con assoluta comprensione, come se l'abbigliamento della signora fosse dovuto interamente all'assenza di quell'elettrodomestico. — Vediamo se possiamo fare qualcosa in merito — si rivolse a Deborah: — Chi si occupa del palazzo? — C'è un custode, al pianterreno — spiegò Deborah, poi aggiunse a mezza voce: — Ma, Helen, non puoi... — Allora faccio un salto giù, d'accordo? — fece un piccolo gesto con la mano e si diresse all'ascensore. L'anziana signora aveva seguito quello scambio con aria sospettosa. Adesso scrutò Deborah da capo a piedi. Lei sorrise nervosamente, cercando qualcosa da dire sulla casa, sul tempo, su qualsiasi cosa che potesse impedire all'altra di chiedersi come mai lady Helen era così amabilmente disposta a recuperare un ferro da stiro per una perfetta sconosciuta. Non le venne in mente nulla e rinunciò, ritirandosi nel suo appartamentino dove lady Helen la raggiunse dopo nemmeno dieci minuti, vittoriosa e in possesso della chiave dell'abitazione di Tina. Deborah era stupefatta. — Come diavolo ci sei riuscita? Lady Helen scoppiò a ridere. — Non mi trovi plausibile come l'unica sorella di Tina che ha fatto tutto il viaggio fin da Edimburgo per trascorrere qualche giorno a scambiar notizie e pettegolezzi? — E sei riuscita a convincerlo? — Ho sfoderato tutto il mio talento. Quasi quasi mi convincevo anch'io. In marcia? Tornarono all'uscio di Tina. Deborah provava un po' di vertigini di fronte ai chiarì intenti di lady Helen. — Sono certa che è illegale — bisbigliò. — Non è violazione di domicilio con scasso? — Violazione di domicilio, può darsi — replicò lady Helen infilando la chiave nella serratura senza ombra di esitazione. — Ma scasso proprio no. Abbiamo la chiave. Ah, ecco fatto. Neanche un cigolio a mettere in allar-
me i vicini. — Io veramente sono a tutti gli effetti una vicina. — Tanto meglio. L'appartamento era identico a quello di Deborah, ma c'erano più mobili, e tutti evidentemente molto costosi. Niente divano e due poltrone per Tina Cogin; niente tavoli di seconda mano; niente stampe da quattro soldi alle pareti. Legni pregiati e lucenti: rovere e mogano, palissandro e betulla. Sul pavimento un tappeto tessuto a mano e alle pareti una tappezzeria evidentemente opera di un artigiano esperto. Era chiaro che all'occupante piaceva il lusso. — Be' — commentò lady Helen prendendo nota di tutto — ci sono dei vantaggi nella professione che si è scelta. Ah, ecco qui il ferro da stiro. Non dimentichiamo di prenderlo, quando usciamo. — Non ce ne andiamo subito? — Tra un attimo, tesoro. Prima diamo un'occhiatina in giro tanto per farci un'idea della ragazza. — Ma non possiamo... — Dobbiamo pur aver qualcosa da dire a Simon, quando gli telefoniamo. Ora come ora, se Tina non rientra prima di sera, possiamo solo riferirgli che abbiamo bussato e che non ci è stato aperto. Uno spreco di energie per tutti. — E se Tina arriva e ci trova qui? Helen, ti prego! Sempre con le orecchie tese paventando il ritorno di Tina e chiedendosi cosa avrebbero potuto dirle se le avesse scoperte a ficcanasare in casa sua, Deborah, con la morte in cuore, seguì lady Helen che passava in cucina e apriva tranquillamente gli armadietti. Ce n'erano solo due e contenevano solo i generi strettamente necessari e nelle confezioni più piccole presenti sul mercato: caffè, sale, zucchero, condimenti, un pacchetto di cracker, un barattolo di minestra, uno di ananas a pezzetti, uno di cereali. Inoltre, due piatti, due fondine, due tazze e quattro bicchieri. Sul ripiano immediatamente sotto, una bottiglia di vino già aperta e piena per tre quarti. A parte una minuscola caffettiera, una padella malconcia e un bollitore, nel cucinino non c'era altro. E quel che era presente forniva ben poche indicazioni in merito a Tina Cogin. Lady Helen le riassunse. — Direi che non si prepara da mangiare. Ci sono decine di negozi di cibi pronti in Praed Street, e può darsi che si serva lì. — Ma se ha ospiti? — Giusto. Dunque, c'è la bottiglia di vino. Magari si limita a offrire
quello prima di passare agli affari. Vediamo il resto. Lady Helen andò all'armadio-guardaroba e l'aprì: una fila di abiti da sera e da cocktail, qualche soprabito, una pelliccia e, sotto, una schiera di scarpe a tacco alto. Diverse cappelliere, sullo scaffale in alto; su quello di mezzo: una pila di vestaglie ben ripiegate. Quello in basso era vuoto ma non c'erano tracce di polvere e dava la sensazione che abitualmente ci fosse qualcosa. Lady Helen si picchiettò la guancia con un dito, poi passò a fare una rapida ispezione della cassettiera. — Solo biancheria — comunicò a Deborah dopo una breve occhiata. — Seta, parrebbe, ma non mi spingo a frugare. — Richiuse i cassetti e si appoggiò al mobile, a braccia conserte, fissando accigliata il guardaroba. — Deborah, c'è qualcosa... un attimo. Fammi vedere. — Andò nel bagno e suggerì: — Perché non dai un'occhiata allo scrittoio? L'aprirsi di un'antina, lo scricchiolio di un cassetto, uno scatto metallico, dei fruscii. Lady Helen mormorava tra sé. Deborah diede un'occhiata all'orologio. Non erano trascorsi neppure cinque minuti da quando erano entrate lì. Sembrava un'ora. Andò allo scrittoio. Sul piano c'era solo il telefono, la segreteria telefonica e un blocchetto di fogli che Deborah, sentendosi molto ridicola nell'imitare i gesti di certi investigatori da film ma non sapendo che altro fare, girò verso la luce per controllare se vi restavano le tracce di eventuali scritti precedenti: vide solo il minuscolo incavo di un punto fermo, o forse di un puntino su una i. Esaminò i cassetti. I primi due erano vuoti, nel terzo c'erano un libretto di risparmio, una cartelletta e un cartoncino da schedario. Lo prese. — Strano — osservò lady Helen, sulla porta del bagno. — Stando alla vicina è via da due giorni, eppure ha lasciato qui tutto l'occorrente per il trucco. Non ha preso abiti da sera, ma manca tutto quel che ci si mette normalmente. E qui c'è una serie completa di quelle spaventose unghie finte, quelle che si incollano. Perché poi se le è tolte? È un tale strazio appiccicarsele. — Forse sono quelle di scorta. Magari è andata in campagna. Potrebbe essere in un posto dove non occorre mettersi in ghingheri. Dove le unghie finte darebbero solo fastidio. La Regione dei Laghi. O a pesca in Scozia. O a trovare dei parenti in una fattoria. — Deborah si accorse di dove portava quel filone e lady Helen lo condusse in porto. — In Cornovaglia. — Accennò alla scheda. — Che c'è scritto?
Deborah la guardò. — Due numeri di telefono. Uno, forse, è di Mick Cambrey. Li copio? — Sicuro. — Lady Helen si accostò. — Comincio ad ammirarla. Personalmente tengo tanto alle apparenze che non mi passerebbe neppure per la mente di andare da qualche parte senza portarmi appresso un beauty-case zeppo di cosmetici. Vedi invece questa: tutto o niente. O casual al massimo oppure... — non terminò la frase. Deborah alzò gli occhi. Aveva la bocca arida. — Helen, è impossibile che l'abbia ucciso lei. — Ma già in quel momento il senso di disagio cresceva. In fondo, che ne sapeva di Tina? Tra loro c'era stata solo una breve conversazione da cui era emersa una certa frequentazione di uomini, una tendenza alla vita notturna e il cruccio per il passare degli anni. Ma ugualmente di certo si avverte il male negli altri, per quanto cerchino di mascherarlo. Si intuisce la potenziale violenza. E lei non aveva colto nulla del genere in Tina. Tuttavia, considerando la morte di Mick Cambrey e la sua concreta presenza nella vita di Tina Cogin, Deborah doveva ammettere molte incertezze. Prese la cartelletta, quasi sperando che potesse confermare l'innocenza di Tina. C'era scritto, in stampatello: Possibilità e, all'interno, dei fogli tenuti da un fermaglio. — Di che si tratta? — Nomi e indirizzi. Numeri di telefono. — L'elenco dei clienti? — Non mi pare. Guarda. Almeno un centinaio di nomi. Donne e uomini. — Un indirizzario? — Può darsi. C'è anche un libretto di risparmio — Deborah lo aprì. — Su, dimmi — l'incoraggiò lady Helen. — È un'attività proficua? Devo cambiare lavoro? Deborah diede una scorsa ai versamenti, sfogliò all'indietro le pagine fino al nome dell'intestatario ed ebbe un sussulto. — Non è di Tina. È di Mick Cambrey. E di qualsiasi cosa stesse occupandosi era più che proficua. — Il signor Allcourt-St. James? È davvero un piacere. — La dottoressa Alice Waters si alzò congedando con un cenno l'assistente di laboratorio che aveva accompagnato St. James nell'ufficio. — Mi pareva di averla riconosciuta, stamattina, a Howenstow. Ma non era il momento adatto per le presentazioni. Come mai arriva nella mia tana?
Una definizione ben scelta perché l'ufficio del medico legale della polizia di Penzance era poco più di una cella, senza finestre e letteralmente straripante. Due pareti erano occupate da librerie zeppe; inoltre c'erano uno scheletro che indossava un elmetto da poliziotto e una maschera antigas risalente alla seconda guerra mondiale; pile di riviste scientifiche, incartamenti, pratiche, corrispondenza. Lo spazio praticabile si riduceva a un angusto passaggio che andava dalla porta alla scrivania a serranda. Di fronte a quest'ultima c'era una poltroncina intagliata con un motivo di fiori e uccellini molto più consona a una casa di campagna che allo studio di un patologo. — Prego, si accomodi sul trono — disse lei dopo aver scambiato con St. James una breve ma salda stretta di mano. — Milleseicentosettantacinque circa. Un discreto periodo, se non si ha nulla contro certe elaborazioni eccessive. — È un'appassionata? — Serve a distrarre. — Si accomodò nuovamente sulla sedia rivestita di pelle raggrinzita e fessurata e frugò tra le carte che ingombravano la scrivania fino a disseppellirne una scatola di cioccolatini. L'offrì e osservò con interesse la scelta dell'ospite, poi ne prese uno a sua volta e l'addentò con il piacere di chi se ne intende. — Proprio la settimana scorsa ho letto il suo articolo sui secretori A-B-O — riprese. — Non immaginavo proprio che avrei avuto il piacere di fare la sua conoscenza. È qui per quanto è accaduto a Howenstow? — Per il delitto Cambrey, in realtà. Dietro l'ampia montatura degli occhiali, le sopracciglia della dottoressa Waters si inarcarono. Poi lei finì di mangiare il cioccolatino, passò le dita sul bavero del camice e sfilò una cartella da sotto il vaso di una violetta d'Africa che pareva invocare acqua da mesi. — Per settimane non succede assolutamente niente e poi di colpo, nel giro di ventiquattr'ore, mi ritrovo per le mani due cadaveri. — Aprì la cartelletta, lesse per qualche momento, la richiuse. Prese un cranio sogghignante posato su uno scaffale e ne trasse dall'orbita un fermaglio. Si trattava evidentemente di un oggetto dimostrativo usato più volte perché era cosparso di segni a penna e una grande X rossa era tracciata sulla sinartrosi squamosa. — Due colpi al cranio. Il più violento sulla regione parietale. Con conseguente frattura. — Ha un'idea dell'arma? — Non parlerei di arma. Ha urtato contro qualcosa cadendo.
— Non potrebbe essere stato colpito? Lei scrollò il capo, prese un altro cioccolatino e indicò il cranio. — La frattura sarebbe qui. L'uomo non era particolarmente alto... tra l'uno e settantadue e l'uno e settantacinque... ma doveva essere seduto perché lo si potesse colpire in quella zona con forza tale da ucciderlo. — E se l'assassino gli fosse arrivato alle spalle di sorpresa? — Lo escludo. Il colpo non è stato inferto dall'alto. E anche se lo fosse stato, per colpire in questo punto l'assassino avrebbe dovuto assumere una posizione tale che Cambrey l'avrebbe scorto con la coda dell'occhio e avrebbe tentato in qualche modo di evitare l'attacco e ce ne sarebbero le tracce sul cadavere. Contusioni o abrasioni. E non ce n'è. — L'assassino potrebbe essere stato tanto rapido da non lasciargliene il tempo. La dottoressa girò il cranio. — Può darsi. Ma allora non si spiega l'altra lesione. Un seconda frattura, meno grave, alla regione frontale destra. Stando alla sua ipotesi, l'assassino avrebbe dovuto colpire la vittima alla nuca, poi chiederle cortesemente di voltarsi e colpirla alla fronte. — Si tratterebbe di un incidente, quindi? Cambrey che inciampa e cade, e in seguito qualcun altro arriva al cottage, trova il cadavere e lo mutila per il puro piacere di castrarlo? — Poco verosimile. — Rimise a posto il cranio e si addossò allo schienale. La luce che pioveva dall'alto faceva scintillare gli occhiali e si rifletteva sui capelli che erano corti, lisci e di un nero-blu artificiale. — Eccole la mia ricostruzione. Cambrey è in piedi, sta parlando con l'assassino. Il colloquio degenera in lite. La vittima riceve un violento pugno alla mascella... c'è una vasta ecchimosi alla mandibola, l'unica significativa riscontrabile sul cadavere... che lo fa cadere all'indietro contro un oggetto che si trova a circa un metro e mezzo d'altezza. St. James ripensò al soggiorno di Gull Cottage. Anche la dottoressa Waters c'era stata. Doveva aver proceduto sul posto a un primo esame del cadavere, il venerdì notte. E per quanto decisa ad aspettare l'esito dell'autopsia prima di formulare un'opinione, già allora doveva avere cominciato a trarre delle conclusioni. — La mensola del caminetto? Lei annuì. — Ne consegue la prima frattura. Poi, dalla mensola, cade ancora, ma girato leggermente di lato, questa volta. E la regione frontale urta contro qualcos'altro. — Il focolare? — Molto probabilmente. La seconda lesione è meno profonda, ma que-
sto non cambia niente. Cambrey è morto quasi all'istante, in seguito alla prima. Emorragia intracranica. Impossibile salvarlo. — La mutilazione è stata attuata dopo il decesso, naturalmente — mormorò St. James, soprappensiero. — Quasi non c'era fuoruscita di sangue. — Ma pur sempre un bel casino — fu il delicato commento della dottoressa Waters. St. James cercò di visualizzare l'episodio secondo la ricostruzione della dottoressa. Il colloquio che si trasforma in alterco, la collera, la furia, il pugno. — Secondo lei, quanto tempo ha richiesto la mutilazione? Il responsabile era fuori di sé, doveva andare in cucina a cercare un coltello... o magari già l'aveva... — Non era fuori di sé, mi prenda in parola. Almeno quando ha eseguito quel bel lavoro. — Evidentemente colse la perplessità di lui e prevenne le ovvie domande. — Una persona fuori di sé tende a dar colpi alla cieca, più e più volte. Sa cosa intendo: le classiche sessantacinque coltellate. Ma in questo caso si è trattato solo di un paio di tagli netti. Come se si volesse semplicemente fare un'esplicita dichiarazione sul corpo di Cambrey. — E che tipo di arma? Lei allungò di nuovo la mano verso la scatola dei cioccolatini, esitò e infine allontanò la tentazione con aria rammaricata e decisa al tempo stesso. — Un qualsiasi oggetto tagliente. Da un coltello da macellaio a un robusto paio di forbici. — Ma non è stato trovato nulla? — Gli uomini della scientifica stanno ancora passando in rassegna la casa. Tipi fantasiosi, quelli. Controllano tutto: dai coltelli da cucina alle spille da balia usati per i pannolini della bimba. E stanno setacciando anche il paese, frugando nei bidoni della spazzatura e nelle aiuole, tanto per guadagnarsi lo stipendio. Uno spreco di tempo. — Perché? La dottoressa accennò dietro di sé col pollice, come se si trovassero a Nannurel e non a Penzance, a diversi chilometri di distanza. — Dietro abbiamo la collina e davanti il mare. Una costa crivellata di grotte. Miniere abbandonate. Un porto zeppo di pescherecci. Insomma, abbiamo un'infinità di posti dove si potrebbe nascondere un'arma da taglio senza che nessuno riesca più a scovarla per decenni. Pensi solo ai coltelli da pescatore. Quanti ce ne saranno in giro? — Dunque l'assassino potrebbe essere andato là già preparato all'opera. — Forse. O forse no. Impossibile dirlo.
— E Cambrey non era stato legato? — Stando alla scientifica, nulla sta a indicarlo. Nessun frammento di canapa, nailon o altro. Ed era in ottima forma, tra l'altro. Cosa che non si può dire del cadavere trovato stamattina a Howenstow. — Droga? Lei si mostrò subito molto interessata. — Non potrei dire. Ho compiuto solo un esame preliminare. Lei sa se... — Cocaina. La dottoressa prese un appunto. — Non mi stupisce. Le porcherie che certa gente è disposta a cacciarsi in corpo... razza di imbecilli. — Per qualche istante parve considerare cupamente la piaga della droga. Poi riprese: — Abbiamo controllato la presenza di alcol nel sangue. Era ubriaco. — In sé o no? — Ne risentiva gli effetti ma era in sé. Abbastanza da arrivare fin là e ruzzolare giù. Quattro vertebre fratturate. Midollo spinale troncato. — Si tolse gli occhiali per sfregarsi i lati del naso dove erano rimasti due segni rossi. Adesso il viso appariva stranamente indifeso e in un certo senso privo di maschera. — Fosse sopravvissuto sarebbe stato un tetraplegico. Forse potremmo dire che è stato fortunato a morire. — Diede un'occhiata involontaria alla gamba rigida di St. James ed ebbe un attimo di sconcerto. — Mi scusi. Ho lavorato troppo. Una vita menomata o niente vita. L'interrogativo era sempre quello, e di certo St. James se l'era posto molte volte negli anni trascorsi dall'incidente. Si limitò a ignorare quelle ultime parole. — È caduto o l'hanno spinto giù? — Stanno esaminando cadavere e indumenti per appurare se c'è stata colluttazione. Ma per quel che posso dire al momento si tratta di semplice caduta. Era ubriaco. Si trovava in cima a una rupe pericolosa. L'ora del decesso dovrebbe aggirarsi attorno alla una del mattino. Quindi era buio. E ieri notte il cielo era coperto di nubi. Direi che la si può considerare una caduta accidentale. Che sollievo per Lynley, si disse St. James. Eppure, già mentre la dottoressa Waters esprimeva il suo parere, lui provava una strana riluttanza ad accettarlo. Certo, tutte le apparenze suggerivano una disgrazia, ma il fatto che Brooke si trovasse in cima a quella rupe nel cuore della notte ai suoi occhi stava a indicare un incontro segreto che si era poi concluso con un omicidio.
Quello che la mattina era stato un temporale estivo stava trasformandosi adesso in una burrasca, con violenti turbini di vento che ululavano attorno alla villa e la pioggia che sferzava i vetri con scrosci rabbiosi. Le tende della sala da pranzo erano tirate e smorzavano i rumori, ma ogni tanto una raffica particolarmente impetuosa si abbatteva contro le finestre traendone scricchiolii sinistri che non era possibile ignorare. In quei momenti i pensieri di St. James si strappavano dalla morte di Mick Cambrey e Justin Brooke per tornare alla sparizione della Daze. Sapeva che Lynley aveva trascorso il resto della giornata nell'inutile ricerca del fratello. La costa era scoscesa e difficile da raggiungere via terra. Se Peter aveva riparato la barca in una baia per sottrarsi alla fase peggiore della burrasca, Lynley non era riuscito a trovarlo. — Non ho pensato a modificare il menu — stava dicendo lady Asherton riferendosi alle numerose portate che erano giunte in tavola. — Sono successe tante cose che mi è uscito di mente. Avremmo dovuto essere almeno in nove. Dieci, se Augusta si fosse trattenuta. Meno male che è tornata a casa sua ieri sera. Fosse stata qui, stamattina, quando Jasper ha trovato... — infilzò una cimetta di broccoli come accorgendosi d'un tratto dell'inanità di quei suoi commenti. La luce delle candele creava un gioco d'ombre sul suo abito color turchese e ammorbidiva i segni della tensione che, con il trascorrere delle ore, si erano accentuati sempre più sulla fronte, e dal naso agli angoli della bocca. Non aveva più fatto il nome di Peter da quando l'avevano informata che era scomparso. — Bisogna pur mangiare, Daze — osservò Cotter, sebbene a sua volta avesse appena toccato il cibo. — Ma non ne abbiamo una gran voglia, vero? — Lady Asherton gli sorrise ma la sua ansia era palpabile e si rivelava nei movimenti bruschi, nelle rapide occhiate che gettava al figlio maggiore seduto lì vicino. Lynley era rientrato solo dieci minuti prima della cena e aveva trascorso quell'intervallo nell'ufficio della tenuta, a fare telefonate. St. James sapeva che non aveva parlato di Peter con sua madre, e non aveva l'aria di volerlo fare adesso. Forse lady Asherton se ne rese conto perché si rivolse a St. James: — Come sta Sidney? — Adesso dorme. Vuole tornare a Londra domani mattina. — Ti sembra opportuno, St. James? — chiese Lynley. — Comunque lei pare molto decisa. — Tu l'accompagni? Lui scosse il capo e passò le dita sullo stelo del suo bicchiere ripensando
alla breve conversazione avuta con la sorella, appena un'ora prima. Soprattutto aveva in mente il suo rifiuto di parlare di Justin Brooke. Non chiedermi niente, non costringermi, Simon, aveva detto. Il volto era disfatto, i capelli fradici dal sudore di un incubo febbrile. Non posso, non posso. Non costringermi, Simon. Ti prego. — Sostiene che sarà perfettamente in grado di viaggiare da sola. — Forse vuole parlare con la famiglia di lui. La polizia si è messa in contatto? — Non so se abbia dei familiari. In realtà so ben poco di Brooke. — A parte il fatto, aggiunse tra sé, che è morto e io ne sono ben contento. Per tutta la giornata la coscienza gli aveva chiesto quell'ammissione; fin dal momento in cui aveva stretto sua sorella fra le braccia, in cima alla rupe, guardando il cadavere di Justin Brooke, giù in basso, e aveva provato un brivido di esultanza che nasceva dal suo bisogno di vendetta. Ecco, giustizia è fatta, aveva pensato. Il giusto castigo. Forse la nemesi non si era abbattuta immediatamente dopo che Brooke aveva aggredito Sidney, sulla spiaggia. Ma tanta feroce violenza richiedeva una punizione. E c'era stata, in pieno. E lui ne gioiva. Era un gran sollievo sapere che Sidney era finalmente libera da quell'uomo. E l'intensità di quel sollievo - così radicalmente estraneo a quella che lui aveva sempre considerato la reazione civile alla scomparsa di un essere umano - lo turbava. Sapeva con assoluta certezza che, ne avesse avuto l'opportunità, sarebbe stato pronto a eliminare di persona Justin Brooke. — A ogni modo — riprese — probabilmente è bene che si allontani. Non l'hanno invitata a trattenersi. La polizia, intendo. — Gli altri avevano capito benissimo. Boscowan non aveva chiesto di poter parlare con Sidney. Per il momento la morte di Brooke era considerata accidentale. La porta della sala venne aperta e comparve Hodge. — Una chiamata per il signor St. James. — Il tono pareva annunciare una sorte segnata: il fato al telefono, Ecate in linea. — All'apparecchio dell'ufficio. Lady Helen Clyde. St. James si alzò subito, lieto di potersi allontanare. L'atmosfera della sala da pranzo era gravida di domande inespresse, di questioni da discutere. Ma parevano tutti decisi a evitare le analisi, preferendo la crescente tensione al rischio di affrontare verità potenzialmente dolorose. Seguì il maggiordomo verso l'ala occidentale, giù per il lungo corridoio che portava all'ufficio. Sulla scrivania una lampada accesa creava un ovale di luce al centro del quale era posato il ricevitore. Lo prese.
— È scomparsa — raccontò lady Helen quando sentì la sua voce. — Direi che è partita per una vacanza poco impegnativa perché mancano gli abiti di tutti i giorni e restano i vestiti da sera. E non ci sono valigie. — Sei entrata nell'appartamento? — Un po' di faccia tosta e di chiacchiere convincenti, e ho avuto in mano la chiave. — Hai sbagliato professione, Helen. — Lo so, tesoro. Avrei fatto faville come truffatrice. Lo devo all'aver trascorso l'adolescenza in scuole di perfezionamento invece che all'università. Lingue moderne, arti decorative, musica e menzogna. Ero certa che mi sarebbe tornato tutto utile, prima o poi. — Non hai idea di dove possa essere andata? — Ha lasciato l'occorrente per il trucco e le unghie, quindi... — Le unghie? Helen, che razza di storia è questa? Lei si mise a ridere e spiegò la faccenda delle unghie finte. — Non è roba che ci si mette per andare in gita, capisci. O per sarchiare. O fare scalate, andare in barca a vela o a pesca o analoghi. Quindi riteniamo che abbia cercato la pace della vita campestre. — In Cornovaglia? — È stata la prima cosa che abbiamo pensato anche noi, e direi che ci sono elementi piuttosto concreti a confermarlo. Aveva in casa il libretto di risparmio di Mick Cambrey... che rivela dei depositi alquanto sostanziosi, tra parentesi... e abbiamo trovato due numeri di telefono. Uno di Londra. Abbiamo chiamato e ha risposto la segreteria telefonica di una certa ditta Islington, segnalando l'orario d'ufficio. Controllerò domattina. — E l'altro numero? — Cornovaglia, Simon. Abbiamo tentato due volte ma senza avere risposta. Pensiamo che potrebbe essere quello di Mick Cambrey. St. James prese una busta dal cassetto della scrivania. — Hai chiesto al servizio informazioni? — Per controllare se è davvero di Cambrey? Purtroppo è un numero riservato. Ora te lo do. Forse tu potrai combinare qualcosa di più. St. James lo trascrisse sulla busta che poi mise in tasca. — Sid torna a Londra domani — e la mise al corrente dell'accaduto. Lady Helen ascoltò in silenzio senza fare domande o commenti fino a che lui ebbe finito. St. James non tralasciò nulla, poi concluse: — E adesso anche Peter è sparito. — Oh, no. — In sottofondo si sentiva della musica sommessa. Un concerto per flauto. Avrebbe molto voluto trovarsi nel soggiorno di lei, in On-
slow Square, a chiacchierare pigramente, col solo pensiero di analisi di sangue, di particene o peli, collegate a persone che non conosceva e mai avrebbe conosciuto. — Povero Tommy. Povera Daze — mormorò lady Helen. — Come stanno? — Affrontano la situazione. — E Sid? — L'ha presa male. Puoi occuparti di lei, Helen? Domani sera, quando sarà di ritorno? — Ma naturale. Non preoccuparti. Stai tranquillo — esitò brevemente. Di nuovo giunse quella musica delicata, elusiva, simile a un lieve profumo. Poi: — Simon, non è stato il desiderarlo a farlo accadere. Come lo conosceva bene. — Quando l'ho visto sulla spiaggia, quando ho capito che era morto... — Non essere così spietato con te stesso. — Sarei stato capace di ammazzarlo, Helen. Sa Dio quanto lo volevo. — Chi può dire di non aver mai provato lo stesso impulso? Non significa nulla. Hai bisogno di riposare. Ne abbiamo bisogno tutti. Abbiamo vissuto momenti spaventosi. Lui sorrise al suo tono. Madre, sorella, amica affettuosa. Accettò l'effimera soluzione che gli offriva. — Certo, hai ragione. — Vai a dormire, allora. Voglio pensare che non succederà altro prima di domattina. — Speriamolo. — Riagganciò e per qualche istante rimase a osservare il temporale. La pioggia scrosciava contro i vetri, il vento aggrediva gli alberi. In lontananza una porta venne aperta e richiusa. Uscì dall'ufficio. Avrebbe voluto risalire la scala sudoccidentale per trascorrere il resto della serata in camera sua. Si sentiva svuotato di energie, incapace di riflettere e restio ad affrontare l'obbligo di quella garbata conversazione che deliberatamente evitava gli argomenti che occupavano i pensieri di tutti. Peter Lynley. Sasha Nifford. Dov'erano finiti. Che avevano fatto. Ma sapeva che Lynley aspettava di sapere cosa gli aveva detto Helen. Così tornò indietro verso la sala da pranzo. Si fermò mentre si avvicinava alla cucina, sentendo delle voci provenienti dal corridoio di nord-ovest. Nei paraggi della stanza dei domestici, Jasper stava parlottando con un tipo robusto avvolto in un ruscellante impermeabile di incerata. Scorto St. James, Jasper gli fece cenno di avvicinarsi. — Bob ha trovato la barca — comunicò. — Andata a sfasciarsi contro
Cribba Head. — È la Daze di sicuro — aggiunse l'altro. — Non c'è da sbagliarsi. — C'è qualcuno... — A bordo non sembra esserci nessuno. E non sarebbe possibile, visto com'è ridotta. 17 St. James e Lynley seguivano con la Land Rover la malandata Austin del pescatore. I fari illuminavano i danni causati dalla burrasca che continuava a imperversare: i rododendri lungo il viale erano smembrati e le ruote dell'auto passavano su un fitto tappeto di fiori rossi. Un grosso ramo di sicomoro, strappato dal tronco, ostruiva parzialmente la strada. Foglie e ramoscelli volavano in tutte le direzioni mentre raffiche furibonde sollevavano la ghiaia scagliandola come proiettili contro le auto. Alla foresteria, le imposte sbattevano contro i muri di pietra. L'acqua fiottava e gorgogliava giù per le gronde. Le rose rampicanti, strappate dai graticci, si ammucchiavano a terra, inerti e fradicie. Lynley frenò e Mark Penellin uscì correndo verso di loro. Sulla porta d'ingresso Nancy Cambrey, avvolta in uno scialle e con le vesti svolazzanti, gridò qualcosa che si perse nel vento. Lynley abbassò di qualche centimetro il finestrino mentre Mark saliva sul sedile posteriore. — Notizie di Peter? — Nancy si afferrò alla porta. Con la sua voce giunse debole il pianto della bambina. — Devo fare qualcosa? — Resta vicino al telefono — gridò Lynley in risposta. — Forse avrò bisogno che tu vada alla villa. Da mia madre. Lei annuì, salutò con la mano e chiuse il battente. Lynley ingranò la marcia e l'auto infilò il viale sobbalzando tra le pozzanghere e la fanghiglia. — Si trova a Cribba Head? — chiese Mark Penellin. Spinse indietro i capelli zuppi di pioggia. — Per quel che ne sappiamo — annuì Lynley. — Che ti è successo? Mark si toccò il cerotto alla fronte. Il dorso e le nocche della mano erano coperti di abrasioni. Alzò le spalle. — Cercavo di assicurare le imposte... la piccola era agitata. E a momenti finivo ko. È sicuro che si tratti della Daze? — Parrebbe. — E non si sa nulla di Peter?
— Niente. — Razza di idiota — borbottò Mark. Tirò fuori un pacchetto di sigarette, l'offrì a Lynley e a St. James che rifiutarono; se ne accese una ma la spense dopo qualche boccata. — Quando è stata l'ultima volta che hai visto Peter? — Venerdì pomeriggio. Alla caletta. St. James si volse a guardarlo. — Peter ha detto di non averti visto. Mark inarcò un sopracciglio, trasalì un poco e di nuovo si toccò il cerotto. — Mi ha visto, invece — e, dopo un'occhiata guardinga a Lynley, aggiunse: — Magari se n'è dimenticato. La Rover proseguì lungo la strada di campagna, dietro la Austin. A parte le loro luci e l'occasionale baluginio di un cottage o una fattoria, l'oscurità era totale. Erano costretti ad avanzare lenti tra le siepi che si protendevano verso la strada sotto la pioggia torrenziale. Dovettero fermarsi un paio di volte per sgombrare il passaggio e impiegarono cinquanta minuti a coprire un percorso che normalmente ne richiedeva quindici. Poco prima di Treen infilarono la sterrata che portava a Cribba Head fermandosi poi a una ventina di metri dal sentiero che scendeva a Penberth Cove. Dal sedile posteriore Mark Penellin tese a Lynley un impermeabile di incerata che questi infilò sopra il vecchio maglione grigio. — Meglio che tu aspetti qui, St. James. — Anche nel riparo dell'auto dovette alzare la voce per farsi sentire al di sopra del vento e del ruggito del mare che si abbatteva contro la costa sotto di loro. La Rover oscillava minacciosamente, come un giocattolo. — È una brutta discesa. — Arriverò fin dove posso. Lynley annuì. Uscirono nella bufera e St. James si accorse di dover far forza con tutto il proprio peso per richiudere la portiera dopo che Mark Penellin fu guizzato fuori. — Cribbio, è proprio scatenato — gridò il ragazzo andando ad aiutare Lynley che stava tirando fuori corde, giubbotti di salvataggio e salvagente. Più avanti, il pescatore aveva lasciato accesi i fari che illuminavano il tratto che li separava dagli scogli. Cortine di pioggia, obliqua sotto l'impeto del vento, attraversavano il fascio di luce. Il pescatore si avviò tra le erbacce che gli si aggrappavano attorno ai pantaloni. Aveva con sé una fune arrotolata. — È quaggiù, nella baia — gridò volgendosi a mezzo quando gli altri gli furono più vicini. — A una cinquantina di metri dalla riva, contro gli scogli, con la prua rivolta a nord-est. Albero, picco e boma sono andati.
Piegati per ripararsi dal vento avanzarono a fatica verso il margine della scogliera: là un sentierino reso sdrucciolevole e pericoloso dalla pioggia scendeva ripido fino a Penberth Cove dove, presso la riva, si trovavano alcune casette di pietra dalle finestre illuminate. Le luci di alcune torce elettriche oscillavano vicino al ciglio dell'acqua dove gli abitanti abbastanza coraggiosi da affrontare la burrasca guardavano lo sloop che andava sfasciandosi. Non c'era modo di raggiungerlo. Anche se un'imbarcazione fosse riuscita a superare le onde di risacca, gli scogli che stavano distruggendo la Daze non l'avrebbero risparmiata. E comunque i frangenti che si abbattevano contro quello sprone di granito sollevando alti spruzzi avrebbero impedito qualsiasi intervento. — Non ce la faccio, Tommy — gridò St. James quando scorse il viottolo. — Aspetto qui. Lynley sollevò un braccio, in risposta, e affrontò la discesa. Gli altri lo seguirono cercando appigli e punti d'appoggio tra i massi. St. James li vide sparire in una macchia d'ombra impenetrabile prima di voltarsi, lottando con la pioggia e il vento, per tornare all'auto, ostacolato dal fango e dai grovigli di erbacce che si impigliavano nella staffa dell'apparecchio ortopedico. Quando giunse alla Rover era senza fiato e il fianco destro gli doleva. Aprì la portiera e si buttò dentro. Finalmente al riparo, si liberò della goffa incerata e del maglione bagnato; scrollò i capelli zuppi di pioggia. Rabbrividì, desiderando degli indumenti asciutti, e rifletté su quanto aveva detto il pescatore. Lì per lì aveva creduto di aver sentito male. Contro gli scogli, con la prua verso nord-est. No, non poteva essere. Solo un pescatore conosce a menadito i punti cardinali, e quel che lui stesso aveva potuto intravedere dello sloop confermava il fatto. Nessun errore, dunque. Così stando le cose, allora, o quella non era la Daze oppure dovevano rivedere tutte le loro ipotesi. Trascorsero quasi trenta minuti prima che Lynley ricomparisse, tallonato da Mark, il pescatore poco indietro. Le spalle curve sotto la pioggia, rimasero per qualche minuto vicino alla Austin, a parlare con il pescatore che faceva vari cenni. Lynley annuì, guardò verso sud-ovest e dopo un breve commiato si diresse alla Rover, seguito da Mark Penellin. Scaricarono tutto l'armamentario nel retro dell'auto e poi praticamente si catapultarono a bordo. Erano fradici. — È distrutta — Lynley ansimava. — Tra un'ora non ne rimarrà più niente. — È la Daze?
— Nessun dubbio. Davanti a loro la Austin si mise in moto in retromarcia, eseguì la curva e si allontanò lasciandoli in cima alla scogliera. Lynley fissò il buio al di là del parabrezza battuto dalla pioggia. — Hanno potuto raccontarti qualcosa? — Ben poco. L'hanno vista arrivare verso il crepuscolo. A quanto pareva quello sciocco cercava di passare tra gli scogli per raggiungere la baia e farsi tirare in secca, come le altre barche. — Qualcuno l'ha vista andare a sbattere? — Cinque uomini stavano lavorando attorno all'argano, sullo scivolo. Quando si sono accorti di quel che stava succedendo hanno chiamato gente e sono andati a vedere se potevano far qualcosa. Sono pescatori, non lascerebbero mai che qualcuno vada a incagliarsi senza cercare di dare una mano. Ma quando sono arrivati nelle vicinanze non c'era nessuno a bordo. C'erano due spiegazioni possibili, e St. James le vide chiaramente ancor prima che Lynley e Mark gliele offrissero. — Un'ondata può trascinare in mare — osservò Mark. — Se non si è prudenti, se non ci si aggancia al cavo di sicurezza, se non si ha esperienza... — Peter ha esperienza da vendere — l'interruppe Lynley. — Si può essere presi dal panico, Tommy — disse St. James. Per qualche istante Lynley tacque, come esaminando l'idea. Fissava, al di là del finestrino, il viottolo dilavato che conduceva all'insenatura. Un rivolo d'acqua gli scendeva dai capelli lungo la fronte. L'asciugò con la mano. — Potrebbe essere andato sottocoperta. Ed esserci ancora. Potrebbero esserci tutti e due. Non era un'ipotesi del tutto assurda, si disse St. James, ed era abbastanza coerente con la posizione in cui la Daze si era incagliata. Se Peter era sotto l'effetto della droga quando aveva deciso di uscire in mare - come indicava chiaramente il fatto che avesse preso la barca nonostante la burrasca imminente - di certo non ragionava in modo lucido. Anzi, la cocaina probabilmente l'aveva fatto sentire invincibile, superiore agli elementi, padrone del mondo. E il maltempo non gli sarebbe apparso come un pericolo concreto e reale ma piuttosto fonte di emozione, un magnifico viaggio. E d'altra parte prendere la barca poteva essere stato un gesto dettato dalla disperazione. Se davvero Peter aveva bisogno di fuggire, di evitare di farsi interrogare a proposito di Mick Cambrey e di Justin Brooke, poteva avere concluso che l'unica via di scampo era il mare. Sulla terraferma qualcuno
avrebbe potuto notarlo. Non aveva un mezzo di trasporto. Sarebbe stato costretto a chiedere un passaggio. E con lui c'era Sasha. L'eventuale automobilista si sarebbe ricordato benissimo dei due quando e se la polizia si fosse presentata a chiedere informazioni. Peter era abbastanza sveglio da saperlo. Eppure c'era qualcosa nel naufragio e nella posizione della barca che faceva pensare a qualcosa di diverso. Lynley mise in moto. — Domani radunerò degli uomini — dichiarò. — Bisognerà andare a controllare. Sua madre andò loro incontro nel corridoio nordoccidentale, dove i due stavano appendendo ai pioli le incerate grondanti e i maglioni. Era pallidissima e Lynley osservò che, per la prima volta a sua memoria, dimostrava tutti i suoi cinquantasei anni. — C'è del caffè pronto per voi, in salotto. Lynley notò che lo sguardo di St. James passava da lui a sua madre. Ne previde la decisione. Era giunto il momento in cui doveva dirle il peggio, circa Peter. Doveva prepararla a quel che l'immediato futuro poteva riservare. E non poteva farlo in presenza di St. James, per quanto desiderasse averlo al proprio fianco. — Vado a vedere come sta Sidney — mormorò St. James. — Vi raggiungo poi. La scala di nord-ovest era nei pressi, subito dopo l'armeria, e St. James scomparve in quella direzione. Rimasto solo con sua madre, Lynley si limitò a un cortese: — Ottima idea, un caffè. Grazie. Lei lo precedette. Testa alta, spalle erette. Giunsero all'estremità orientale del corridoio che percorreva il corpo centrale della villa. La porta del salotto era chiusa e, quando lady Asherton l'aprì, l'unica persona presente si alzò spegnendo la sigaretta nel portacenere. — Avete trovato qualcosa? — domandò Roderick Trenarrow. Lynley, sulla soglia, esitò. D'un tratto si rese conto dei propri indumenti bagnati. La lana umida dei pantaloni gli faceva prudere le gambe; la camicia gli si appiccicava al petto e alle spalle e il colletto bagnato gli premeva contro il collo. Avrebbe voluto andare a cambiarsi, ma si costrinse ad avanzare verso il carrello di legno curvato presso lo scrittoio di sua madre. Su questo c'era la caffettiera. Si riempì una tazza, aspirando quel profumo intenso, tostato,
che parlava di normalità. — Tommy? — disse sua madre. Era seduta sulla poltrona meno comoda. Lynley si diresse al divano, reggendo la tazza. Trenarrow rimase dov'era, accanto al caminetto. Il fuoco era acceso ma il suo calore non dissipava quella fastidiosa, greve sensazione di umidiccio. Rivolse un'occhiata a Trenarrow rispondendo con un cenno alla sua domanda, ma non disse nulla. Avrebbe voluto che quell'uomo se ne andasse. Inconcepibile parlare di Peter di fronte a lui. Ma sapeva che se avesse fatto intendere di voler avere un colloquio a quattr'occhi con sua madre, entrambi avrebbero frainteso. Evidentemente, come la sera prima, Trenarrow si trovava lì dietro invito di lei. Quindi non aveva scelta. Si passò una mano sulla fronte, scostandone i capelli bagnati. — A bordo non c'era nessuno — prese a dire. — O quanto meno i pescatori non hanno visto nessuno. Però potevano essere sottocoperta. — Hanno chiamato qualcuno? — Soccorsi, intendi? — Scrollò il capo. — Sta disintegrandosi. Ora che arrivano, non esisterà più. — Pensi che sia finito in acqua? Stavano parlando di suo figlio ma pareva che stessero amenamente conversando a proposito del riassetto del giardino dopo quel disastro. Era stupito della calma di sua madre. Ma durò poco. — Non c'è modo di dirlo. Può darsi che fosse sottocoperta con Sasha. Può darsi che siano finiti entrambi in acqua. Non ne sapremo niente finché non se ne ritroveranno i corpi. A queste parole lei chinò il capo nascondendo il viso tra le mani. Lynley si aspettava che Trenarrow le si accostasse. Ne avvertiva l'impulso come una corrente elettrica che facesse vibrare l'aria. Ma lui non si mosse. — Non torturarti — disse invece. — Non si sa nulla per certo. Non abbiamo neppure la sicurezza che sia stato Peter a prendere la barca. Dorothy, per favore. Ascoltami. Lynley rammentò. Con una fitta dolorosa che sorse e declinò. Trenarrow era sempre stato l'unico a chiamare sua madre con il suo vero nome. — Sai bene che ha preso lui la barca — sussurrò lei. — E sappiamo il motivo. Ma io ho ignorato tutti i segni, vero? È stato ricoverato perché si disintossicasse, quattro volte, e io volevo convincermi che ne fosse fuori ormai. Invece no, l'ho capito non appena l'ho visto, venerdì. Ma non ce la
facevo ad affrontare l'idea che fosse daccapo, così ho semplicemente fatto finta di niente. Ho addirittura cominciato a pregare perché Peter riuscisse a trovare da solo la sua via d'uscita dato che io non so più come intervenire per aiutarlo. Non l'ho mai saputo. Oh, Roddy... Non avesse pronunciato il suo nome, probabilmente Trenarrow si sarebbe tenuto a distanza. Così, invece, la raggiunse, le toccò il volto, i capelli, bisbigliò "Dorothy". Lei lo cinse con le braccia. Lynley distolse lo sguardo. Si sentiva tutto indolenzito, pesante come il piombo, voleva allontanarsi. — Non capisco — stava dicendo lady Asherton. — Qualsiasi intenzione avesse, prendendo la barca, deve aver pur visto come si metteva il tempo. Deve avere capito che era pericoloso. Non poteva essere così fuori di sé. — E poi, allontanando gentilmente Trenarrow: — Tommy? — Non lo so — Lynley cercò di mantenere un tono impersonale. Sua madre si levò in piedi, si accostò al divano. — C'è dell'altro, vero? Qualcosa che non mi hai detto. No, Roddy — Trenarrow aveva mosso un passo verso di lei — sto meglio, adesso. Dimmi di che si tratta, Tommy. Dimmi quello che non vuoi farmi sapere. Hai avuto un alterco con lui, ieri sera. Vi ho sentiti. Lo sai bene. Ma c'è dell'altro, no? Dimmelo. Lynley alzò lo sguardo. Sua madre era di nuovo incredibilmente calma in volto, come avesse trovato una nuova fonte a cui attingere forza. Riabbassò gli occhi sulla tazza del caffè che sentiva tiepida sul palmo della mano. — Peter è andato da Mick Cambrey, venerdì sera, dopo che c'era stato John Penellin. In seguito Mick è morto. Me l'ha raccontato Justin dopo l'arresto di John, ieri sera. E poi — la guardò — Justin è morto. Lei aveva socchiuso le labbra ma non aveva mutato espressione. — Non puoi pensare che tuo fratello... — Non so cosa pensare — gli faceva male la gola. — Per l'amor del cielo, dimmi tu cosa devo pensare. Mick è morto. Justin è morto. Peter è scomparso. Che dovrei pensare, secondo te? Trenarrow si accostò, come per deflettere l'urto delle parole di Lynley, ma al tempo stesso lady Asherton si mosse andando a sedersi sul divano accanto al figlio e passandogli un braccio attorno alle spalle. Premette la guancia contro il volto di lui e gli sfiorò con le labbra i capelli umidi. — Carissimo Tommy — sussurrò. — Tesoro mio. Perché mai sei convinto di dover reggere tu tutto il fardello? Era la prima volta che lo toccava da più di dieci anni.
18 L'arco sereno del cielo sotto cui una fascia di nubi spumose scivolava verso l'entroterra pareva voler negare il temporale del giorno prima; così come gli uccelli marini che di nuovo riempivano l'aria con i loro gridi striduli, insistenti. Ma la terra sotto di loro confermava la furia che l'aveva spazzata e dalla finestra della sua camera St. James, con una tazza di tè in mano, ne osservava le conseguenze. Tegole d'ardesia erano disseminate sul viale che portava alla corte meridionale su cui la stanza si affacciava. In mezzo a queste si scorgeva una banderuola contorta evidentemente strappata dal tetto di uno dei fabbricati che formavano la cinta del cortile. Viluppi di fiori devastati disegnavano chiazze colorate: campanule violette, begonie rosa, interi fasci di speronelle, e dovunque petali di rosa. Sull'acciottolato si accendevano i barbagli di frammenti di vetro e una piccola lastra curiosamente intatta copriva una pozzanghera come un velo di ghiaccio. Giardinieri e addetti già erano all'opera per riparare i danni e St. James ne sentiva le voci provenienti dal parco, sommerse ogni tanto dallo stridio di una sega elettrica. Due secchi colpetti alla porta annunciarono Cotter. — Ecco qui. Una piccola sorpresa, direi — osservò, avvicinandosi per consegnargli la busta che la sera precedente St. James aveva preso dalla scrivania nell'ufficio durante la conversazione telefonica con lady Helen Clyde. — È il numero del dottor Trenarrow. — Davvero? — St. James depose la tazza sulla mensola. Prese la busta e la rigirò tra le mani, soprappensiero. — Non ho neppur dovuto chiedere all'informazioni — spiegò Cotter. — Hodge l'ha riconosciuto subito. È un numero che ha formato spesso, pare. — Ha comunque chiamato per accertarsene? — Certo. È proprio del dottor Trenarrow. E sa che siamo in arrivo. — Notizie di Tommy? — Daze dice che ha telefonato da Pendeen — Cotter scosse il capo. — Non ha trovato niente. St. James aggrottò la fronte, in dubbio circa la validità del piano di Lynley, piano che escludeva cocciutamente la partecipazione della guardia costiera e della polizia. Era uscito prima dell'alba, con sei uomini delle fattorie vicine, per ispezionare la costa da St. Ives a Penzance. Si servivano di due lance, una che partiva dal porto di Penzance e l'altra dalla penisola di
St. Ives. Erano abbastanza piccole da potersi tenere abbastanza vicino alla riva e abbastanza veloci da completare in poche ore una rapida ricerca. Se non avesse dato frutti avrebbero proceduto a un'altra ricognizione via terra. E questa avrebbe richiesto giorni interi e, che a Lynley piacesse o no, era impossibile organizzarla senza includervi la polizia locale. — Che giornate maledette — mormorò Cotter rimettendo la tazza di St. James sul vassoio posato sul comodino. — Sono contento che Deborah sia a Londra, lontano da questo pasticcio. Sperava evidentemente in una risposta che incoraggiasse un ulteriore scambio in proposito, ma St. James non ne aveva alcuna intenzione. Cotter diede una scrollata alla vestaglia di St. James e l'appese nell'armadio. Assestò qualche piccolo tocco alla fila ordinarissima di scarpe. Ravvicinò alcuni attaccapanni di legno e chiuse le serrature della valigia posta sullo scaffale in alto. Poi non si tenne più. — Ma che razza di vita farà quella ragazza? Non c'è la minima affettuosità tra questa gente. Neanche un filo. Non è per niente come nella sua famiglia, signor St. James. Oh, sono ricchi, ricchi sfondati, ma a Deb non interessano i soldi. Lo sa anche lei. Lei sa bene che cosa piace a Deb. Bellezza, risate, riflessione, i colori del cielo, una nuova idea improvvisa, la vista di un cigno. Lo sapeva, l'aveva sempre saputo. E aveva bisogno di dimenticarlo. La porta si aprì e comparve Sidney, ma l'anta spalancata dell'armadio la nascondeva e Cotter non si accorse che lui e St. James non erano più soli. — E non mi dica che lei non prova niente — riprese Cotter con forza. — Glielo vedo scritto in faccia, la conosco da anni. — Disturbo? — chiese Sidney. Cotter richiuse bruscamente l'armadio, passando lo sguardo dall'uno all'altra. — Vado a occuparmi dell'auto — disse, e uscì in fretta. — Di che si trattava? — si informò Sidney. — Nulla. — Non pareva. — Nulla, ti dico. — Va bene. Rimase sulla porta, la mano sul pomolo. St. James la guardò e provò una certa inquietudine. Aveva l'aria stordita, assente, e le ombre violacee sotto gli occhi spiccavano nel volto terreo. Gli occhi inespressivi che parevano riflettere più che assorbire la luce. Indossava una gonna jeans e un ampio
golf. I capelli erano scomposti. — Io vado — disse. — Daze mi accompagna alla stazione. Quel che gli era parso ragionevole la sera prima sembrava improponibile adesso che vedeva sua sorella alla luce del giorno. — Perché non rimani, Sid? Torneresti poi con me. — No, è meglio così. Desidero andarmene, davvero. È la cosa migliore. — Ma poi alla stazione... — Prenderò un taxi. Non avrò bisogno di niente. — Il volto le si contrasse come per una fitta dolorosa. — Ho sentito che Peter è scomparso. — Sì. — St. James le raccontò quanto era accaduto dopo che l'aveva accompagnata in camera sua, la mattina prima. Sidney ascoltava senza guardarlo e lui avvertì la sua tensione e intuì che nasceva dalla rabbia. Dopo l'atteggiamento docile, causato dallo shock, che le aveva visto, non si aspettava la reazione che ne venne, pur sapendo che era naturale, pur comprendendo il bisogno di colpire, di ferire, di far provare ad altri almeno una parte di quel che soffriva lei. Il momento peggiore, dopo una morte, è sempre quello in cui ci si rende conto che per quanto altri possano condividere il nostro dolore - i familiari, gli amici, o addirittura un'intera nazione - non esistono due persone che possano provare le medesime sensazioni. Sembra sempre che lo si viva da soli. E tanto più per Sidney che effettivamente era la sola a soffrire, la sola a piangere Justin Brooke. — Molto comodo — osservò quando lui ebbe terminato. — Schifosamente comodo. — Che vuoi dire? — Che lui me l'ha raccontato. — Raccontato? — Sì, Justin. Mi ha raccontato tutto. Di Peter che è andato a casa di Mick Cambrey. Della lite che c'è stata. Mi ha detto ogni cosa, hai capito? Sono stata chiara? — Non si mosse dalla porta. Si fosse precipitata dentro come una furia, avesse cominciato a lacerare tende e lenzuola, avesse scaraventato a terra il vaso di fiori, St. James sarebbe rimasto meno sgomento. Quello sarebbe stato senz'altro in carattere con Sidney. Il suo contegno di adesso non lo era affatto. Solo il tono di voce tradiva in parte il suo stato d'animo, discostandosi appena dall'essere perfettamente controllata. — Gli ho detto che doveva riferirlo a te o a Tommy — continuò. — Dopo l'arresto di John Penellin gli ho detto che doveva parlare, che non poteva starsene zitto. Era suo dovere, doveva dire la verità. Ma lui non voleva mettercisi in mezzo, sapeva che avrebbe cacciato nei guai Peter. E io ho insistito.
Ho detto: "Se qualcuno ha visto John Penellin al cottage, allora avranno notato anche te e Peter". Meglio tirar fuori tutta la storia prima che la polizia venga a saperla da qualche vicino. — Sid... — Ma lui era preoccupato perché aveva lasciato Peter con Mick. E Peter voleva a tutti i costi trovarsi della coca. E lui non sapeva cosa era successo dopo che se n'era andato. Ma l'ho convinto a parlarne con Tommy, e lui l'ha fatto. E ora è morto. Maledettamente comodo per Peter essere riuscito a sparire proprio quando avremmo tante cose da chiedergli. St. James le si avvicinò e chiuse la porta. — Secondo la polizia la morte di Justin è stata accidentale. Non c'è nulla a indicare che si tratta di omicidio. — Non ci credo. — Perché? — Non ci credo e basta. — Era con te sabato notte? — Certo che era con me. — Rialzò il capo e dichiarò, come fosse un punto d'onore: — Abbiamo fatto l'amore. L'ha voluto lui. È venuto lui da me, non sono stata io a chiederglielo. È venuto lui a cercarmi. — E come ha giustificato il fatto di andarsene, dopo? — Mi amava, Simon. Mi desiderava. Stavamo bene insieme. Ma tu non riesci ad accettarlo, vero? — Sid, non voglio... — È così o no? Nel corridoio due domestiche stavano discutendo su chi dovesse passare l'aspirapolvere o pulire i bagni. Le voci si alzarono brevemente, poi si allontanarono. — A che ora ti ha lasciata? — Non lo so. Non ho guardato. — Non ha dato spiegazioni? — Era irrequieto. Ha detto che non riusciva a dormire. Gli succede a volte. Gli succedeva. Facciamo l'amore e dopo è tutto teso. E capita che voglia rifarlo subito dopo. — Ma non sabato notte? — Ha detto che forse avrebbe dormito meglio in camera sua. — Si è vestito? — Se si è...? Sì, si è rivestito. — Arrivò da sola alla conclusione. — Dunque doveva incontrarsi con Peter. Altrimenti perché farlo dato che la
sua stanza è proprio di fronte alla mia? E si è rivestito da capo a piedi, Simon. Calze, scarpe, pantaloni e camicia. Tranne la cravatta. — Passò una mano sulla gonna. — Il letto di Peter era intatto, l'ho saputo stamattina. Justin non è caduto. Lo sai anche tu che non è caduto. St. James non disse nulla. Stava riflettendo sulle possibilità suggerite dal semplice fatto che Brooke si fosse rivestito. Se Peter Lynley avesse voluto semplicemente parlare con Brooke, sarebbe stato ragionevole che il colloquio avvenisse in casa. Se invece intendeva toglierlo di mezzo, molto più opportuno farlo in un posto dove la cosa potesse sembrare una disgrazia. Ma in tal caso, perché mai Justin avrebbe accettato di incontrarsi da solo con Peter? — Sid, non ha senso. Justin non era uno stupido. Perché acconsentire a trovarsi con Peter alla scogliera? E nel cuore della notte? Dopo quanto aveva riferito a Tommy, per quel che ne sapeva, Peter poteva avercela a morte con lui. — Poi gli venne in mente l'episodio del venerdì, alla spiaggia. — A meno che, naturalmente, Peter l'abbia attirato là con una scusa. Con un'esca. — Quale? — Sasha? — Assurdo. — Cocaina, allora. Erano andati insieme a cercarne, a Nannurel. Poteva essere questa l'esca. — Non avrebbe funzionato. Justin era deciso a smettere. Dopo quel che è successo sulla spiaggia mi ha chiesto scusa. Ha detto che la faceva finita. Basta per sempre. St. James era scettico e la sua espressione lo tradì. — Me l'ha promesso, Simon — disse Sidney con voce che cominciava a tremare. — Tu non lo conoscevi quanto me. Non puoi capire. Ma se faceva una promessa mentre facevamo l'amore... soprattutto quando... c'erano certe cose che gli piacevano... — Buon Dio, Sidney. Lei si mise a piangere. — Naturale. Buon Dio, Sidney. Che altro puoi dire? Sei proprio l'ultimo che riuscirebbe a capire. Non hai mai provato niente per nessuno, tu. Che bisogno ne avresti? Tu hai il tuo laboratorio, a che ti serve la passione? Con tutto quel che hai da fare: ricerche, saggi, conferenze e lezioni per tutti quei futuri patologi che vengono a prosternarsi ai tuoi piedi. Ecco che riemergeva il bisogno di far del male, già riconosciuto prima.
Ma lo colse di sorpresa, non vi era preparato. E, che il colpo fosse andato a segno o no, si accorse di non saper reagire. Sidney si passò una mano sugli occhi. — Io vado. Di' al caro Peter, quando lo troverai, che ho parecchie cose da discutere con lui. Non vedo l'ora, credi. La casa di Trenarrow era facilmente individuabile in quanto si trovava quasi in cima a Paul Lane, un poco arretrata rispetto alla strada, ai margini del paese, ed era la costruzione più grande. Rispetto a Howenstow era un'abitazione modesta ma, in confronto ai villini addossati l'uno all'altro lungo il pendio sottostante, era una villa superba con ampie finestre aggettanti che davano sul porto e lo sfondo di un pioppeto contro cui le mura di pietra e le travature di legno chiaro spiccavano con grande effetto. A bordo della Rover guidata da Cotter, St. James scorse la villa quando, superata l'ultima salita della strada costiera, cominciarono a scendere verso Nannurel. Superarono il porto, le botteghe, le abitazioni dei villeggianti. All'altezza dell'Anchor and Rose svoltarono in Paul Lane. Lì l'asfalto butterato era invaso dai residui della burrasca: rifiuti, cartacce, lattine, un cartellone pubblicitario sbrindellato. La strada si inerpicava serpeggiante e, superato il cuore del villaggio, era cosparsa di foglie e ramoscelli strappati a siepi e arbusti. Pozze d'acqua piovana riflettevano il cielo. All'imbocco di una secondaria che si diramava da Paul Lane c'era una segnalazione discreta: La Villa. Il vialetto era fiancheggiato da fucsie che si appoggiavano a un muretto a secco oltre il quale un giardino terrazzato occupava buona parte del pendio, e si snodava fino alla casa seguendo un tracciato studiato con cura, tra aiuole di flox e nemesie, campanule e ciclamini, terminando poi oltre una curva che aggirava un grande biancospino. Cotter fermò l'auto sotto quest'ultimo, a pochi metri dall'ingresso principale incorniciato da un portico con colonne in stile dorico. Ai lati c'erano due enormi vasi di gerani scarlatti. St. James esaminò la facciata. — Vive qui da solo? — chiese. — Sembra di sì — rispose Cotter. — Ma quando ho telefonato mi ha risposto una donna. — Una donna? — St. James pensò a Tina Cogin che aveva presso di sé il numero di Trenarrow. — Sentiamo cosa può dirci il dottore. Non fu Trenarrow ad aprire la porta ma una giovane giamaicana e, dall'espressione di Cotter, St. James capì che non poteva essere stata Tina Cogin a rispondere al telefono. Dovunque si trovasse, Tina non si nascondeva
in casa di Trenarrow. — Il dottore non riceve nessuno qui — dichiarò subito la donna, passando lo sguardo dall'uno all'altro. A giudicare dal tono era una frase più volte ripetuta, e non sempre con amabilità. — Il dottor Trenarrow sa del nostro arrivo — specificò St. James. — Non si tratta di una visita professionale. — Ah. — Lei sorrise rivelando grandi denti che spiccavano candidi nel volto color caffè, e spalancò il battente. — Entrate, allora. Sta occupandosi dei fiori. Tutte le mattine in giardino prima di andare a lavorare. Sempre cosi. Vado a chiamarlo. Li accompagnò nello studio dove Cotter, rivolta un'occhiata significativa a St. James, mormorò: — Io pure gradirei fare due passi in giardino — e seguì la ragazza. St. James sapeva che avrebbe appurato tutto quel che c'era da sapere sul conto di lei. Rimasto solo, si guardò attorno. Era il tipo di studio che più apprezzava: con un lieve odore di cuoio vecchio, scaffali stipati, il caminetto pronto per essere acceso. Nel vano della finestra affacciata verso il porto si trovava una grande scrivania ma, come a evitare che il panorama diventasse una distrazione, era rivolta verso l'interno. Sul ripiano c'era una rivista aperta con una penna posata al centro come se chi la leggeva fosse stato interrotto a metà di un articolo. Incuriosito, St. James si avvicinò per dare un'occhiata. Ricerche sul cancro, un periodico americano. In copertina c'era la foto di una dottoressa in camice bianco appoggiata a un banco di lavoro dominato da un enorme microscopio elettronico. "Istituto Scripps, La Jolla - Ai limiti della bioricerca" era la dicitura. Tornò all'articolo, un saggio molto tecnico su una proteina matrice extracellulare chiamata proteoglicano. Nonostante la sua solida preparazione scientifica, ci capì ben poco. — Non quella che si può definire una lettura di svago, vero? St. James alzò gli occhi: sulla soglia c'era il dottor Trenarrow che indossava un tre pezzi di ottimo taglio con un bocciolo di rosa all'occhiello. — Di certo va oltre le mie cognizioni. — Notizie di Tommy? — Ancora nulla, purtroppo. Trenarrow scosse il capo sfregandosi il mento. Richiuse la porta e invitò con un gesto St. James ad accomodarsi in poltrona. — Caffè? — chiese. — Mi sono accorto che è una delle poche specialità
di Dora. — No, grazie. È la sua governante? — Se vogliamo usare questo termine nel senso più vago. — Ebbe un breve sorriso freddo. Se aveva cercato di offrire una nota lieve, subito dopo vi rinunciò. — Tommy ci ha raccontato, ieri sera, che Peter è andato da Mick Cambrey, la sera dell'omicidio. E ci ha detto anche di Brooke. Non so che posizione abbia lei in questa storia, ma conosco quel ragazzo da quando aveva sei anni. Non è un assassino. È incapace di atti violenti, e soprattutto del genere perpetrato su Mick Cambrey. — Conosceva bene Mick? — Direi di no. Gli avevo solo affittato Gull Cottage. — Quanto tempo fa? Trenarrow stava per rispondere automaticamente, poi si accigliò come chiedendosi il motivo di quella domanda. Infine rispose: — Circa nove mesi. — E chi ci abitava, prima? — Io. — Trenarrow si mosse sulla poltrona, un gesto che indicava irritazione. — Non sarà venuto a fare una visita mondana a quest'ora del mattino, signor St. James. È stato Tommy a mandarla qui? — Tommy? — Lei di sicuro sa benissimo che da anni tra noi corre cattivo sangue. Viene a chiedermi di Cambrey, del cottage: queste domande sono idea sua o di Tommy? — Mia. Ma lui sa che sono venuto qui. — Per via di Mick? — No, per la verità. Tina Cogin è scomparsa e secondo noi può essere qui, in Cornovaglia. — Chi? — Tina Cogin. Shrewsbury Court Apartments. Paddington. Era in possesso del suo numero di telefono. — Non ho la più pallida... Tina Cogin, ha detto? — Non è una sua paziente? O una ex paziente? — Non ho pazienti. Oh, mi può capitare ogni tanto un caso terminale che si presta come volontario per la sperimentazione di un farmaco. Ma se Tina Cogin appartiene a questa categoria ed è scomparsa. .. mi scusi la battuta, ma c'è un solo posto dove può essere finita, e non è la Cornovaglia. — Allora potrebbe averla incontrata in tutt'altre vesti. — Mi scusi? — Trenarrow pareva perplesso.
— Forse si tratta di una prostituta. Gli occhiali dalla montatura d'oro scivolarono di qualche millimetro giù per il naso del dottore che li spinse indietro. — E tra le sue carte c'era il mio nome? — No, solo il numero di telefono. — Il mio indirizzo? — Neanche quello. Trenarrow si alzò dalla poltrona, andò alla finestra dietro la scrivania. Per alcuni istanti guardò assorto il panorama, poi si volse nuovamente a St. James scrollando il capo. — È almeno un anno che non vado a Londra. Forse di più. Ma immagino che non significhi nulla se questa donna è venuta in Cornovaglia. Forse presta servizio a domicilio — ebbe un sorrisetto sbieco. — Lei praticamente non mi conosce, signor St. James, quindi non ha modo di sapere se le sto dicendo la verità, ma le assicuro che non ho l'abitudine di pagare certe cose. Altri, lo so, non hanno remore in proposito, ma io ho sempre preferito evitare rapporti mercenari... stabilire il prezzo, versare denaro, no, non rientra nelle mie abitudini. — Rientrava in quelle di Mick? — Mick? — L'hanno visto uscire dalla casa di questa donna, a Londra, venerdì mattina. Potrebbe essere stato lui a darle il suo numero di telefono. Magari per un consulto. Trenarrow toccò delicatamente i petali strettamente chiusi del bocciolo di rosa che portava all'occhiello. — Forse — disse soprappensiero — anche se di solito è il medico curante che propone un consulto. Ma è possibile, se la situazione è grave. Mick sapeva che io mi occupo di ricerche sul cancro. Mi aveva fatto un'intervista poco dopo avere assunto la direzione dello Spokesman. Non è da escludere che possa averle dato il mio nome. Ma... Cambrey e una prostituta? Non avrebbe giovato al suo nome. Da almeno un anno suo padre va parlando in giro delle avventurette del figlio e, mi creda, non ha mai accennato al fatto che Mick dovesse pagare i favori delle sue conquiste. Stando a Harry, erano tante e tante le donne che gli si gettavano ai piedi che quel poveretto faceva appena in tempo a tirarsi su i calzoni che ne arrivava un'altra a implorarlo di cavarseli di nuovo. Se la morte di Mick dovesse essere collegata a un suo legame con una prostituta, sarà un vero colpo per Harry. Lui vuole solo pensare che sia stata la conseguenza di uno scontro con dieci o venti mariti gelosi. — O con una moglie gelosa?
— Nancy? — chiese Trenarrow, incredulo. — A parte il fatto che lei era in adorazione di Mick, qualsiasi cosa succedesse tra loro, non ce la vedo proprio a far fuori qualcuno. E anche se fosse arrivata al limite della sopportazione... e non era certo un segreto che Mick se la intendesse con altre... quando avrebbe commesso il delitto? Non poteva essere in due posti contemporaneamente, no? — È rimasta lontana dal chiosco dei rinfreschi per almeno dieci minuti, forse più. — Il tempo di correre a casa, liquidare il marito in quel modo, e ricomparire come se nulla fosse? Mi sembra grottesco, considerando la ragazza. Qualcun altro forse avrebbe potuto farlo e mantenere il sangue freddo, ma non Nancy. Se avesse ammazzato suo marito nel corso della serata non credo proprio che sarebbe riuscita a nasconderlo. C'erano diversi elementi ad avvalorare l'affermazione di Trenarrow. Le reazioni di Nancy erano parse del tutto genuine. Lo shock, il dolore inebetito, poi l'esagitazione: non vi si era avvertita la minima traccia di artificiosità. Difficile pensare che fosse corsa a casa sua, avesse ucciso il marito e in seguito avesse finto l'orrore. E i possibili indiziati? John Penellin era andato al cottage, quella sera, e così Peter Lynley e Justin Brooke. Forse anche Harry Cambrey si era recato là. I movimenti di Mark Penellin erano ancora ignoti. Eppure non si scorgeva un chiaro movente per il delitto, tutto restava molto nebuloso. E il movente doveva essere individuato in modo ben definito se si volevano comprendere le circostanze della morte di Mick Cambrey. St. James scorse Harry Cambrey quasi nel momento in cui Cotter imboccava nuovamente Paul Lane: avanzava verso di loro e agitò un braccio, la sigaretta che teneva fra le dita tracciò un arabesco di fumo nell'aria. — Chi è quello? — domandò Cotter mentre rallentava. — Il padre di Mick Cambrey. Sentiamo che vuole. Cotter accostò al ciglio della strada e Harry Cambrey si accostò al finestrino di St. James affacciandovisi. Era ancora circondato dall'odore di tabacco e birra, ma il suo aspetto era migliorato rispetto a quando St. James e lady Helen l'avevano visto, il sabato mattina. Gli abiti erano in ordine, i capelli pettinati e, a parte qualche ispido pelo grigiastro che spuntava qua e là, il volto era per lo più rasato. — A Howenstow mi hanno detto che lei era qui — ansimava e parlava a fatica. — Venga al giornale. Ho qualcosa da mostrarle.
— Ha trovato degli appunti? Cambrey scosse il capo. — Però ho capito qualcosa. — St. James aprì la portiera e lui salì rivolgendo un cenno a Cotter. — Si tratta di quei numeri, quelli che ho trovato nella sua scrivania. Ho continuato ad arrovellarmici e adesso so cosa significano. Cotter rimase al pub, a chiacchierare amabilmente con la signora Swann di fronte a un boccale di birra. Mentre St. James seguiva Harry Cambrey verso le scale che portavano all'ufficio, lui stava dicendo: — Non mi dispiacerebbe un uovo sodo. A differenza della volta precedente, quella mattina il personale dello Spokesman era al lavoro; tutte le luci erano accese e creavano un'atmosfera ben diversa, e tre o quattro box erano occupati da persone che scrivevano a macchina o parlavano al telefono. Un giovanotto dai capelli lunghi esaminava una serie di foto a un banco. Lì accanto un impaginatore stava preparando l'edizione successiva su un tavolo da disegnatore: teneva tra i denti una pipa spenta e picchiettava una matita contro una scatola di fermagli. Una donna lavorava al computer vicino alla scrivania di Mick Cambrey: aveva morbidi capelli scuri pettinati all'indietro, occhi intelligenti, ed era molto attraente. Julianna Vendale, concluse St. James. E si chiese se e in che modo le sue mansioni al giornale erano cambiate in seguito alla morte di Mick Cambrey. Harry Cambrey lo guidò verso uno dei box. L'arredamento era scarso e tutto stava a indicare che non solo quell'ufficio era il suo ma che non aveva subito la minima trasformazione durante il suo periodo di convalescenza dopo l'intervento chirurgico. Era evidente che, per quanto Harry Cambrey potesse desiderarlo, suo figlio non aveva avuto intenzione di occupare il suo ufficio o la sua carica. Diversi ritagli di giornale in cornice, ingialliti dal tempo, parevano rappresentare i servizi meglio riusciti del vecchio: un disastroso tentativo di salvataggio in mare in cui venti soccorritori erano annegati; un incidente in cui un pescatore del posto era rimasto dilaniato; il recupero di un bambino caduto nel pozzo di una miniera; una rissa durante una sagra a Penzance. Ed erano corredati da foto, gli originali di quelle che erano state pubblicate insieme agli articoli. Sulla vecchia scrivania c'era l'ultima edizione dello Spokesman, aperta alla pagina delle opinioni, e il pezzo scritto da Mick era cerchiato di rosso. Sulla parete di fronte era appesa una carta geografica della Gran Bretagna.
Cambrey l'indicò a St. James. — Ho continuato a pensare a quei numeri — cominciò. — Mick era molto meticoloso. Non avrebbe conservato quell'annotazione se non fosse stata importante. — Trasse un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia, ne prese una e l'accese prima di continuare. — Sto ancora lavorandoci su, ma sono a buon punto. St. James notò che vicino alla carta Cambrey aveva fissato un foglietto su cui aveva trascritto in stampatello parte dell'enigmatico messaggio trovato nella scrivania del figlio. 27500-M1 Fornitura I Trasporto e, sotto, 27500-M6 Finanziamento. Sulla carta, due autostrade erano state segnate con un evidenziatore rosso: la M1 che da Londra andava verso nord, e la M6 che si dirigeva a nord-ovest passando sotto Leicester verso il Mar d'Irlanda. — Guardi: la M1 e la M6 passano a sud di Leicester. La M1 arriva solo fino a Leeds mentre la M6 prosegue e finisce a Carlisle. A Solway Firth. St. James non fece commenti. — Guardi, guardi bene — riprese Cambrey in tono agitato. — Con la M6 si raggiunge Liverpool, no? E quindi a Preston, a Morecambe Bay. E da tutti questi dannati posti... — Si può raggiungere l'Irlanda — finì St. James, ripensando all'articolo che aveva letto la mattina precedente... Cambrey si accostò alla scrivania e ripiegò il giornale. — Sapeva di qualcuno che contrabbandava armi per l'IRA. — E può essersi imbattuto in una storia del genere? — Imbattuto? — Cambrey si tolse la sigaretta di bocca, eliminò un filo di tabacco che gli era rimasto sulla lingua e batté il giornale contro la scrivania. — Il mio ragazzo non si imbatteva casualmente nelle notizie. Era un giornalista, non uno stupido. Ascoltava. Parlava con la gente. Sapeva seguire le piste. — Si volse di nuovo verso la carta geografica indicando i vari punti con il giornale ripiegato. — Anzitutto le armi devono arrivare qui in Cornovaglia o, se non proprio qui, in un porto a sud. Inviate da sostenitori... in Nord Africa, o Spagna, o addirittura in Francia. Vengono scaricate in un qualche porto della costa meridionale: Plymouth, Bournemouth, Southampton, Portsmouth. Arrivano smontate; vengono trasportate a Londra e rimontate. Poi viaggiano lungo la M1 fino alla M6, e infine giungono a Liverpool o Preston o Morecambe Bay. — Perché non spedirle direttamente in Irlanda? — domandò St. James, ma subito gli balenò la risposta. Una nave straniera attraccata a Belfast a-
vrebbe destato sospetti molto più di una nave inglese; avrebbe subito accurati controlli mentre una nave inglese sarebbe stata accettata tranquillamente: perché mai gli inglesi avrebbero dovuto inviare armi in appoggio a un movimento di rivolta proprio contro di loro? — Non c'era scritto solo M1 e M6 su quel tovagliolino — osservò St. James. — Quegli altri numeri devono pur significare qualcosa. Cambrey assentì. — Dei numeri di registrazione, secondo me. Potrebbero riferirsi alle navi usate, o al tipo di armi fornite. Magari si tratta di un codice. Ma una cosa è certa: Mick stava per metterci sopra le mani. — Non ha trovato altri appunti? — Quel che ho trovato mi basta. Conosco mio figlio. So a cosa stava lavorando. St. James guardò la carta geografica ripensando ai numeri annotati da Mick, e al fatto che l'articolo sul traffico d'armi era stato pubblicato la domenica, più di trenta ore dopo la morte di Mick. Se le due cose erano collegate, l'assassino conosceva il contenuto di quel pezzo prima che comparisse sul giornale. Si chiedeva se la cosa fosse verosimile. — Tenete qui i numeri arretrati? — chiese. — Cosa c'entrano i numeri arretrati? — Non lo so ancora. Ne ha? — Qualcuno. Cambrey lo precedette fino a un armadietto sulla sinistra delle finestre, e lo aprì: i ripiani erano stipati di giornali. St. James diede una rapida occhiata e ne prese l'ultimo fascio, poi guardò Cambrey. — Può procurarmi le chiavi di Mick? Cambrey era sorpreso. — Io ne ho una del cottage. — No, tutte le sue chiavi, intendo. Doveva averne un mazzo: auto, casa, ufficio. Potrebbe procurarmele? Penso che le abbia Boscowan, quindi dovrà trovare una scusa. Mi servono per qualche giorno. — Perché? — Il nome Tina Cogin le dice qualcosa? — Cogin? — Sì. Una tale che sta a Londra. Pare che Mick la conoscesse. Forse lui aveva la chiave del suo appartamento. — Mick aveva la chiave di mezza dozzina di appartamenti, se ben lo conosco. — Cambrey si accese una sigaretta e lo lasciò ai suoi giornali. Un'ora di ricerche sui numeri degli ultimi sei mesi gli fruttò solo abbondanti tracce di inchiostro da stampa sulle mani. Per quel che risultava a St.
James l'ipotesi di Harry Cambrey circa il contrabbando d'armi poteva costituire un movente per l'uccisione di suo figlio esattamente come qualsiasi altro materiale offerto dallo Spokesman. Trasse un sospiro e richiuse l'armadietto. Quando si volse incontrò lo sguardo di Julianna Vendale che stava portandosi una tazza alle labbra. Si era allontanata dal computer per raggiungere il bricco del caffè che gorgogliava rumorosamente lì nei pressi. — Trovato nulla? — Depose la tazza e si allontanò dalla spalla una ciocca dei lunghi capelli. — Tutti sembrano convinti che stesse lavorando a un'inchiesta — osservò St. James. — Mick lavorava sempre a qualcosa. — E le sue idee si trasformavano spesso in articoli? Lei aggrottò le sopracciglia e una piccola ruga si disegnò sulla fronte. Per il resto il volto era perfettamente liscio. Dato quel che gli aveva raccontato Lynley, St. James sapeva che Julianna Vendale era sui trentacinque anni, forse qualcuno di più, ma non li dimostrava affatto. — Non saprei — rispose. — Non sempre mi informava di quel che aveva in mente, ma è possibile che abbia cominciato a occuparsi di qualcosa per poi piantar lì. Spesso scappava via convinto di essere sulla strada giusta per mettere insieme un servizio da vendere a Londra, ma poi non ne cavava niente. St. James se n'era già accorto esaminando i numeri arretrati. Il dottor Trenarrow aveva detto che Mick l'aveva intervistato, ma lui non aveva trovato traccia di un articolo che potesse vagamente collegarsi a una conversazione tra i due. Ne accennò a Julianna Vendale. Lei si versò dell'altro caffè. — Non mi sorprende. Probabilmente Mick contava di tirarne fuori un pezzo tipo "Il ricercatore che dedica la vita a salvare quella degli altri" e poi si è accorto che il dottor Trenarrow non è sulla strada della santità più degli altri comuni mortali. O forse, pensò St. James, la faccenda dell'articolo era solo una scusa per poter parlare con il dottor Trenarrow, averne informazioni e poi magari passarle, unitamente al numero telefonico di Trenarrow, a un'amica in difficoltà. — È sempre andata più o meno così, da quando è tornato allo Spokesman — continuò lei. — Secondo me cercava il colpo giornalistico che gli desse la possibilità di andarsene. — Non voleva stare qui?
— Era un passo indietro, per lui. Aveva lavorato come giornalista indipendente e se l'era cavata abbastanza bene. Poi suo padre è stato male e lui ha dovuto mollare tutto per tornare qui a tenere in piedi la baracca. — Non avrebbe potuto occuparsene lei? — Sì, certo. Ma Harry voleva che fosse Mick a dirigere il giornale. E soprattutto, direi, voleva che tornasse definitivamente a Nannurel. St. James vide con sufficiente chiarezza come avrebbero dovuto mettersi le cose, secondo Harry Cambrey, una volta che suo figlio fosse tornato alla base. Ma ugualmente chiese: — E la sua posizione? — Harry ha fatto in modo che lavorassimo fianco a fianco il più possibile, e poi, immagino, sperava che tutto andasse per il meglio. Aveva grande fiducia nel fascino di Mick. — E lei? Julianna Vendale reggeva la tazza con entrambe le mani, come per scaldarle. Le dita lunghe erano prive di anelli. — Non mi interessava affatto. Quando Harry se n'è reso conto ha cominciato a far venire qui Nancy Penellin, a tenere la contabilità, nelle ore d'ufficio invece che nei weekend. — E quanto al dare una nuova impronta al giornale? Lei accennò al computer. — Mick ci ha provato. Ha cominciato comperando nuove attrezzature. Voleva che fossimo al passo con i tempi. Ma poi ha perso interesse, direi. — Quando? — Più o meno quando Nancy è rimasta incinta — ebbe una piccola, aggraziata alzata di spalle. — Dopo il matrimonio era molto spesso via. — In caccia di notizie? Lei sorrise. — In caccia. Percorsero la viuzza che conduceva al porto. La marea era bassa e sull'esigua spiaggetta c'erano cinque bagnanti e dei bambini giocavano sulla battigia lanciando strilli quando l'acqua andava a lambirli. — Ha trovato quel che cercava? — domandò Cotter. — Solo dei frammenti, ma non si incastrano. Non riesco a stabilire un collegamento tra Mick e Tina Cogin, tra Tina Cogin e Trenarrow. Pure illazioni. — Forse Deb si sbaglia. Forse non è Mick quello che ha visto a Londra. — No. Si tratta proprio di lui, tutto sta a confermarlo. Mick conosceva Tina Cogin. Ma come e perché proprio non lo so. — Il come e il perché sembrerebbero la parte più facile, stando alla si-
gnora Swann. — Non è una grande ammiratrice di Mick, vero? — Lo odiava a morte, per la precisione. — Cotter guardava i bambini che sguazzavano e sorrise quando una piccolina di tre o quattro anni cadde sul didietro spruzzando d'acqua gli altri. — Ma se è vero quel che dice di Mick Cambrey e delle sue avventure, allora a me sembra che debba essere stato John Penellin. — Perché? — C'è di mezzo sua figlia, signor St. James. Un padre non permette che qualcuno faccia soffrire sua figlia, se può impedirlo. Uno fa quel che può. St. James riconobbe la trappola e capì che per Cotter la loro conversazione di quella mattina non era ancora chiusa. Ma non aveva bisogno di porre la domanda che ovviamente doveva conseguire al suo commento: E lei cosa farebbe? Già conosceva la risposta. Chiese invece: — Ha saputo niente dalla governante? — Dora? Qualcosa. — Cotter si appoggiò al parapetto, puntando i gomiti sulla sbarra di metallo. — Nutre grande stima per il dottore che si ammazza di lavoro, dedica la sua vita alla ricerca. E quando non fa ricerche va a visitare gente in una casa di cura poco fuori St. Just. — Tutto qui? — Pare. St. James trasse un sospiro. Una volta di più doveva ammettere che il suo campo era il lavoro di laboratorio, l'analisi di particelle e frammenti trovati sul luogo di un delitto, l'interpretazione dei risultati, la stesura dei referti. Non aveva la minima esperienza di indagini che richiedevano soprattutto fiuto, intuito. E neppure ci era tagliato. Più si inoltrava in quella palude di ipotesi, più si sentiva frustrato. Trasse dalla tasca della giacca il tovagliolino che Harry Cambrey gli aveva dato il sabato mattina. Come strada da imboccare valeva quanto un'altra. Se ti sei perso, puoi prendere la direzione che vuoi, si disse ironicamente. Cotter si avvicinò a dare un'occhiata. — PM — mormorò. E poi: — Membro del Parlamento? St. James alzò lo sguardo. — Come ha detto? — Quelle lettere, PM. — PM? No... — St. James espose il foglio alla luce e vide quel che la penombra dell'ufficio e le sue idee preconcette gli avevano impedito di notare prima. La penna, che non aveva lasciato tracce di inchiostro sulle
macchie di unto, aveva slittato anche subito prima delle parole Fornitura / Trasporto mancando così di tracciare l'occhiello di una P. Quindi non si trattava di un 1. E, di conseguenza, il 6 doveva essere invece una frettolosa C. — Buon Dio. — Esaminò accigliato le altre cifre. Cancellata ogni idea di contrabbando di armi, Irlanda e altro, non gli ci volle molto per vedere ciò che gli si offriva chiaramente. 500. 55. 27500. L'ultima cifra era il prodotto della moltiplicazione dei primi due numeri. E allora riconobbe il primo nesso con le circostanze della morte di Mick Cambrey. La posizione della Daze gli aveva fornito il primo indizio: contro gli scogli, la prua verso nord-est. Avrebbe dovuto tenersi stretto a quel dato che gli indicava la giusta strada. Rivide mentalmente la costa della Cornovaglia. Sapeva che gli uomini radunati da Lynley avrebbero perlustrato ogni insenatura da St. Ives a Penzance: fatica quasi inutile, così come lo era stata negli ultimi due secoli per i doganieri che pattugliavano la zona. La costa era disseminata di grotte, frastagliata di baie e calette, St. James lo sapeva. Non aveva bisogno di arrampicarsi tra massi e calarsi giù per dirupi; sapeva quel che vi si poteva trovare: un paradiso per i contrabbandieri. Sempre che sapessero manovrare un'imbarcazione tra gli scogli. Potevano arrivare da qualsiasi parte, si disse. Da Portgwarra a Sennen Cove. Perfino dalle Scilly. Ma c'era un solo modo per accertarsene. — E adesso? — chiese Cotter. — Dobbiamo metterci in contatto con Tommy. — Perché? — Per interrompere le ricerche. 19 Lo rintracciarono, dopo quasi due ore, a Lamorna Cove. Era accosciato sulla banchina, intento a parlare con un pescatore che aveva appena attraccato e stava risalendo i gradini con tre rotoli di funi bisunte appesi alla spalla: si fermò ascoltando Lynley, scosse il capo, si riparò gli occhi per scrutare le altre imbarcazioni nel porto e, dopo aver fatto un cenno vago in direzione degli edifici alle spalle del molo, riprese a salire. In cima alla strada che calava verso il porto, St. James scese dall'auto. — Vada pure a Howenstow — disse a Cotter. — Io torno con Tommy. — Devo dire qualcosa a Daze?
St. James rifletté brevemente. Qualsiasi notizia avesse mandato alla madre di Lynley, l'avrebbe tranquillizzata per certi versi e innescato nuove ansie per altri. — No, nulla. Attese che Cotter fosse ripartito nella direzione da cui erano venuti, poi cominciò a scendere verso Lamorna col vento che soffiava attorno a lui e il sole a scaldargli il viso. Giù in basso l'acqua cristallina della baia rifletteva il colore del cielo e la piccola spiaggia risplendeva nitida. Le case lungo il pendio, costruite da gente del luogo che da generazioni conosceva il clima della Cornovaglia, avevano superato senza danni la burrasca che aveva fatto naufragare la Daze. Lì pareva non fosse accaduto nulla. St. James seguì con lo sguardo Lynley che percorreva il molo a capo chino, le mani affondate nelle tasche: un atteggiamento che indicava chiaramente il suo stato d'animo. Il fatto che fosse solo faceva pensare che avesse interrotto la ricerca o che gli altri l'avessero proseguita per conto loro. Visto che erano trascorse già diverse ore, St. James optò per la prima ipotesi. Chiamò l'amico che alzò lo sguardo e lo salutò col braccio ma non disse nulla fino a quando si trovarono all'inizio della banchina. La sua espressione era tetra. — Niente. — Rialzò il capo e il vento gli scompigliò i capelli. — Abbiamo completato il giro. Come ultimo tentativo ho chiesto a tutti quelli che ho incontrato, qui. Pensavo che forse qualcuno poteva averli visti mentre prendevano il mare, o sul molo, o in un negozio a comperare provviste. Nessuno ha visto niente. Solo la proprietaria del caffè ha notato la Daze, ma ieri. — Quando? — Poco dopo le sei di mattina. Stava aprendo il suo locale e l'ha vista lasciare il porto. — Ed è stato ieri? Non il giorno prima? — Ricordava benissimo che era ieri perché si è chiesta come mai c'era gente che usciva in mare quando si prevedeva burrasca. — Ed era mattina presto? Lynley gli lanciò un'occhiata ed ebbe un sorriso stanco ma grato. — So cosa stai pensando. Peter si è allontanato da Howenstow l'altro ieri sera e quindi è meno probabile che sia stato lui a prendere la barca. Sei gentile, St. James. Non credere che non ci abbia pensato anch'io, ma di fatto lui e Sasha sarebbero potuti arrivare qui a Lamorna durante la notte, avere dormito a bordo, e poi essere ripartiti all'alba.
— Questa signora ha visto qualcuno a bordo? — Solo una figura al timone. — Una sola? — Non credo che Sasha sappia manovrare le vele, St. James. Probabilmente era sottocoperta, a dormire. — Lynley si voltò a guardare la baia. — Abbiamo seguito tutta la costa. Niente, nessuna traccia. — Prese il portasigarette e l'aprì. — St. James, devo assolutamente trovare qualcosa da riferire a mia madre. St. James stava riunendo diversi pezzi del mosaico e, i pensieri altrove, non colse tanto le parole di Lynley quanto la desolazione che tradivano. E volle subito cancellarla. — Peter non ha preso la Daze — affermò. — Ne sono certo. Lynley volse lentamente il capo verso di lui. — Che stai dicendo? — Dobbiamo andare a Penzance. L'ispettore Boscowan li condusse nella mensa. — Il sottomarino giallo — la definì, e il nome era indovinato: pareti gialle, linoleum giallo, tavoli col ripiano di formica gialla, sedie di plastica gialla. Solo i piatti erano di un colore diverso, un rosso cremisi, e l'effetto globale non incoraggiava il pensiero di attardarsi a pranzo con i propri colleghi. Né dava l'idea di poter consumare un pasto senza farsi venire un feroce mal di capo. Si portarono una teiera a un tavolino da cui si poteva contemplare un mesto frassino che cercava di sopravvivere in un pezzetto di terriccio color granito. — Progettata e arredata da un pazzo scatenato — fu l'unico commento di Boscowan mentre agganciava col piede una sedia per accostarla al loro tavolo. — Lo scopo dovrebbe essere quello di distrarre dal lavoro. — Lo raggiunge in pieno — osservò St. James. Boscowan versò il tè mentre Lynley apriva tre pacchettini di biscotti e li faceva scivolare su un piatto: ne venne un piccolo crepitio di mitraglia. — Appena usciti dal forno — disse in tono caustico l'ispettore prendendone uno e inzuppandolo nel tè. — John ha parlato con un avvocato, stamattina. Mi ci è voluto del bello e del buono per convincerlo. Ho sempre saputo che è un tipo testardo, ma non immaginavo fino a questo punto. — Ha intenzione di accusarlo? Boscowan esaminò il suo biscotto, lo inzuppò di nuovo. — Non ho scelta: si trovava là e l'ammette. Ci sono prove a conferma. Dei testimoni l'hanno visto. Altri testimoni hanno sentito l'alterco. — Boscowan addentò il biscotto, annuì soddisfatto, si pulì le dita nel tovagliolino di carta e spin-
se il piatto verso gli altri due. — Non male. Fidatevi del te — attese che si fossero serviti prima di proseguire. — Se John si fosse trovato lì, semplicemente, sarebbe ben diverso. Non ci fosse stata quella maledetta lite che metà del vicinato pare avere sentito... — E il movente? — chiese St. James. — Nancy, direi. Cambrey si sentiva in trappola, odiava il suo matrimonio e non ne faceva un segreto. Tutti quelli con cui ho parlato l'hanno confermato. — E perché l'ha sposata, allora? Perché non rifiutarsi, semplicemente... insistere perché lei abortisse? — Stando a John la ragazza non voleva saperne di abortire. E Harry Cambrey pretendeva che Mick la sposasse. — Mick era maggiorenne. — Ma con un padre malato che rischiava di lasciarci la pelle. — Boscowan vuotò la tazza. — Harry Cambrey ha saputo manovrare la cosa anche perché voleva che il figlio restasse a Nannurel. Ed è riuscito a incastrarlo. Così Mick ha cominciato a correre la cavallina. Lo sanno tutti, compreso John Penellin. — Non crederà davvero che John... — disse Lynley. Boscowan sollevò rapidamente una mano e la lasciò ricadere sul tavolo. — Io conosco i fatti, e su quelli devo lavorare. Il resto non conta e lei lo sa benissimo. Che differenza fa che John Penellin sia mio amico? Suo genero è stato ucciso e di questo devo occuparmi, che mi faccia comodo o no. — Si interruppe, come imbarazzato dalla sua reazione. Poi riprese a voce più bassa: — Mi sono offerto di lasciarlo in libertà provvisoria, ma ha rifiutato. Sembra quasi che ci tenga a restare in prigione, a venire processato. — Prese un altro biscotto ma invece di mangiarlo lo sbriciolò tra le dita. — Come se fosse stato lui. — Possiamo vederlo? — chiese Lynley. Boscowan esitò. Lanciò un'occhiata ai due, poi guardò fuori dalla finestra. — Non è regolare. Lo sapete. Lynley tirò fuori il suo tesserino ma Boscowan lo respinse con un gesto della mano. — So chi è lei. Ma qui Scotland Yard non c'entra, e io devo tenere presenti le sensibilità del mio capo. Niente visite tranne i familiari e l'avvocato quando si tratta di omicidio. Questa è la regola a Penzance. — Una tale che Mick Cambrey conosceva è scomparsa da Londra — disse Lynley. — Forse John Penellin potrebbe dirci qualcosa di utile. — Un caso a cui sta lavorando?
Lynley non rispose. Una ragazza con un grembiule bianco coperto di macchie venne a ritirare i piatti dal tavolino accanto impilandoli fragorosamente su un vassoio di metallo. Un avanzo di purea di patate finì sul pavimento. Boscowan ne seguì distratto le mosse. — Oh, al diavolo — borbottò poi. — Venite. In qualche modo farò. Li lasciò in una sala colloqui, all'altro capo dell'edificio. C'erano solo un tavolo e cinque sedie, oltre a uno specchio a una parete e una plafoniera presso cui un ragno stava industriosamente tessendo una tela. — Pensi che lo ammetterà? — chiese Lynley, mentre aspettavano. — Non ha scelta, in realtà. — Sei sicuro del fatto tuo? — È l'unica spiegazione ragionevole. Un agente in divisa fece entrare John Penellin che, vedendoli, fece un passo indietro come volesse andarsene. Ma la porta si era già richiusa alle sue spalle. Nel battente c'era uno spioncino: Penellin lo guardò, come avesse l'intenzione di far cenno al poliziotto di riportarlo in cella. Poi invece si avvicinò al tavolo che oscillò sulle gambe instabili quando lui sedette poggiandovi le braccia. — Cos'è successo? — chiese in tono cauto. — Justin Brooke è caduto dalla scogliera, domenica mattina — raccontò Lynley. — La polizia ritiene che si tratti di morte accidentale. Può anche darsi, ma in caso contrario o c'è un secondo assassino in giro oppure lei è innocente e l'assassino è uno solo. Lei che ne dice, John? Penellin cominciò a rigirare il bottone di un polsino della camicia. La sua espressione non mutò salvo il breve guizzo di un muscolo sotto l'occhio destro. — Ieri mattina presto la Daze è stata portata via da Lamorna, ed è andata a sfasciarsi contro gli scogli di Penberth Cove, ieri sera. Il bottone cadde a terra. Penellin lo raccolse. — Secondo me si tratta di un'operazione in tre fasi — continuò St. James — con un fornitore e diciamo cinque o sei rivenditori. Il traffico di cocaina può avvenire in due modi: o i rivenditori vanno a ritirarla dal fornitore, magari alle Scilly, e poi tornano indietro, oppure il fornitore fissa l'incontro in una delle tante grotte lungo la costa. Per esempio dalle parti di Porthgawarra: la spiaggia è facilmente accessibile, il paese è troppo arretrato rispetto alla costa perché gli abitanti possano notare degli andirivieni sospetti. La scogliera è tutta un susseguirsi di grotte e anfratti adattissimi per la consegna della merce se dovesse sembrare troppo rischioso farla in
mare aperto. Comunque sia, una volta che ha ritirato la partita, il rivenditore torna a Lamorna con la Daze e di là porta la cocaina al mulino di Howenstow dove la confeziona. Senza che nessuno si accorga di nulla. — Allora lo sa — mormorò Penellin. — Chi sta cercando di proteggere? — domandò St. James. — Mark o i Lynley? Penellin trasse di tasca un pacchetto di Dunhill. Lynley gli offrì l'accendino e Penellin lo guardò al di sopra della fiamma. — L'uno e gli altri, direi — proseguì Lynley. — Finché lei sta zitto riesce a evitare che Mark venga arrestato. Ma conservargli la libertà significa anche che Peter può continuare a ricorrere a lui, a meno che lei sappia come tenerli lontani. — Mark è la rovina di Peter — disse Penellin. — E sarà la sua morte se non faccio qualcosa. — Justin Brooke ci ha detto che Peter intendeva comperarsi della coca, qui — riprese St. James. — Mark era il suo fornitore, vero? Per questo lei cercava di impedire che i due si incontrassero, venerdì, a Howenstow. — Temevo che Mark potesse vendere quella roba a Peter e alla ragazza. È un po' che sospetto che traffichi in droga e mi sono detto che se fossi riuscito a scoprire come si procurava la merce, dove preparava le bustine... — Penellin rigirava la sigaretta tra le dita. — Pensavo di poterlo fermare. L'ho tenuto d'occhio per settimane, pedinandolo quando potevo. Non immaginavo che facesse quel lavoro proprio lì, alla tenuta. — Era tutto ben organizzato — osservò St. James. — Servirsi della Daze per ritirare la cocaina, e del mulino per tagliarla e confezionarla. Per un verso o per l'altro tutto si collegava a Howenstow. E dato che Peter era, ed è, il tossicomane ufficiale di Howenstow, se qualcosa fosse andato storto il capro espiatorio sarebbe stato lui. Naturalmente si sarebbe protestato innocente. Avrebbe accusato Mark, se messo alle strette. Ma chi gli avrebbe creduto? Anche ieri abbiamo dato subito per scontato che fosse stato lui a prendere la barca. Nessuno ha pensato a Mark. Furbo da parte loro. A quell'ultima parola, Penellin sollevò lentamente il capo. — Sa anche questo. — Mark non disponeva del capitale per impiantare tutto il giro — fece notare St. James. — Gli occorreva un finanziatore, e immagino che si trattasse di Mick. Nancy era al corrente, vero? Lo sapevate tutti e due. — Lo sospettavamo. Lo sospettavamo soltanto. — Per questo è andato da lui, venerdì sera?
Penellin tornò a fissare la sigaretta. — Volevo delle risposte. — E Nancy doveva sapere che lei sarebbe andato al cottage. Così quando si è trovata di fronte al cadavere di Mick ha temuto il peggio. — Cambrey si era fatto fare un prestito dalla banca per dare una struttura più moderna al giornale — raccontò Penellin — ma in realtà ci aveva speso poco. Poi ha cominciato ad andare continuamente a Londra. E a lamentarsi dei quattrini con Nance: non ne aveva, era con l'acqua alla gola, troppi costi. Stavano andando a picco, secondo Mick. Ma i conti non tornavano: lui disponeva di denaro. Aveva avuto quel prestito. — Che investiva abbondantemente in cocaina. — Nancy non voleva credere che lui si fosse messo in quel traffico. Diceva che Mick non faceva uso di droga e non si convinceva che per venderla non c'è bisogno di essere tossicomani. Dovevo darle delle prove concrete. — Ed era queste che cercava quando è andato al cottage, venerdì sera. — Mi ero dimenticato che era il venerdì in cui doveva preparare le buste paga. Pensavo che non fosse in casa e che avrei potuto dare una buona occhiata attorno. E invece era là, e c'è stata una discussione. St. James trasse di tasca il tovagliolino del Talisman Café. — Cercava questo, immagino — disse, tendendolo a Penellin. — Si trovava al giornale. Harry l'ha trovato nella scrivania di Mick. Penellin diede un'occhiata e lo restituì. — Non so cosa cercassi — rispose con una mezza risata amara. — Una confessione scritta, forse. — Già, questo è un abbozzo di contratto più che una confessione — riconobbe St. James. — Cosa significano quei numeri? — Solo Mark potrebbe confermare, ma secondo me si tratta della prima definizione dell'accordo tra i due. 1 kg 9400 dovrebbe indicare il costo d'acquisto della cocaina. Un chilo a 9400 sterline. Poi si sarebbero spartiti il ricavato della vendita, come indica la seconda riga. 500 grammi a testa per 55 sterline al grammo ricavandone appunto 27.500 sterline ciascuno. E accanto al guadagno sono indicate le specifiche mansioni dei due contraenti, MP, ossia Mark, avrebbe provveduto alla fornitura e al trasporto della merce, servendosi della Daze. MC, ossia Mick, avrebbe finanziato l'impresa con il prestito ottenuto dalla banca, somma che in teoria avrebbe dovuto essere destinata all'ammodernamento del giornale. E Mick si è parato le spalle acquistando in effetti dei nuovi apparecchi in modo da non destare sospetti.
— E poi è andato tutto a monte — mormorò Penellin. — Può darsi. Forse la vendita non ha reso quanto si aspettavano e Mick ha perso dei quattrini. Forse tra i due sono sorti dei contrasti. O può esserci stato un doppio gioco, da una delle due parti. — D'accordo. Continui. — Per questo lei si trova qui, vero, John? — chiese Lynley. — Per questo non ha voluto aprire bocca e si lascia accusare. — Deve essersi reso conto di quanto era facile — disse Penellin. — Non aveva più bisogno di Mick una volta fatto l'acquisto iniziale, no? Che bisogno c'era di tenersi un socio con cui dividere gli introiti? — Ma buon Dio, John, non può assumersi la responsabilità dell'uccisione di Mick. — Mark ha solo ventidue anni. — Ugualmente, non è stato... Penellin l'interruppe rivolgendosi a St. James. — Come ha capito che si trattava di Mark? — Per via della Daze. Pensavamo che Peter se ne fosse servito per allontanarsi da Howenstow, ma la barca aveva la prua rivolta a nord-est quando si è incagliata negli scogli di Penberth Cove. Quindi stava andando verso Howenstow, e non viceversa. E si trovava là da diverse ore quando noi siamo arrivati sul posto, quindi Mark aveva avuto tutto il tempo di abbandonarla, tornare a Howenstow, e farsi trovare pronto per venire con noi alla ricerca di Peter. — Non avrebbe dovuto abbandonarla — mormorò Penellin come stordito. — Aveva ottime ragioni per farlo, invece. Se qualcuno, da Penberth, avesse chiamato la guardia costiera lui si sarebbe trovato in guai seri. Meglio rischiare la vita buttandosi in acqua vicino alla riva che rischiare il carcere facendosi beccare con un chilo di cocaina a bordo. — John — disse Lynley in tono pressante — lei deve raccontare a Boscowan come stanno le cose. Dirgli di questa faccenda. Di ciò che è successo venerdì sera. Penellin lo guardò dritto in faccia. — E Mark? — replicò. Lynley tacque di fronte a quel volto contratto dall'angoscia. — Non posso fare quel che mi chiede. Non posso. Si tratta di mio figlio. Nancy, davanti alla foresteria, stava raccogliendo con un rastrello le foglie, i fiori, i rametti spezzati che il vento aveva spinto contro la casa, e lì
accanto Molly faceva dei versini tranquilli mentre allungava le mani verso gli anatroccoli variopinti sospesi a un filo sopra la carrozzina. Quando Lynley fermò l'auto sul vialetto andò loro incontro. — Notizie di Peter? — Mark è qui, Nancy? Lei rimase interdetta. Il fatto che Lynley non avesse risposto alla sua domanda le faceva evidentemente presagire qualcosa di sgradevole. Attirò a sé il rastrello tenendolo ritto. — Mark ti ha agganciato le imposte, ieri sera? — Le imposte? Quella risposta era sufficiente. — È in casa? — domandò St. James. — Credo che sia uscito da poco. Ha detto che voleva... Un'esplosione di musica rock la smentì. Nancy si portò alla bocca una mano stretta a pugno. — Abbiamo parlato con tuo padre — le comunicò Lynley. — Non sei più tenuta a proteggere Mark. È ora che dica la verità. Entrarono in casa e, seguendo lo strepito di chitarre e batterie che proveniva dalla cucina, trovarono Mark seduto al tavolo occupato a sintonizzare lo stereo. Come già gli era accaduto nella notte tra il venerdì e il sabato, dopo la scoperta dell'uccisione di Mick Cambrey, St. James colse certi particolari. In precedenza gli avevano suggerito la possibilità che il ragazzo si fosse impadronito del denaro, a Gull Cottage, dopo avere rinvenuto il cadavere del cognato. Adesso andavano a confermargli la parte che aveva avuto nel traffico di cocaina: una catenella d'oro massiccio attorno al polso destro; un orologio ultramoderno al polso sinistro; jeans e camicia firmati; stivali di pelle di serpente; e lo stereo. Non certo oggetti che si potessero acquistare con il salario che il padre gli versava per i lavoretti svolti alla tenuta. Sul tavolo c'era un sandwich di prosciutto, mangiato a mezzo, una bottiglia di birra e un sacchetto di patatine a cui Mark stava attingendo. Il giovane sollevò lo sguardo e li scorse sulla porta. Ridusse il volume dello stereo e si alzò lasciando cadere le patatine sul piatto. — Successo qualcosa? — domandò. — Peter? Tutto bene? — No, non si tratta di mio fratello — disse Lynley. Mark aggrottò la fronte. — Di che, allora? Nancy ha telefonato a tua madre ma lei non aveva notizie. Avete... se posso fare qualcosa... — Tese la mano in gesto solidale.
St. James si chiedeva come avrebbe reagito Lynley ed ebbe la risposta quando questi spazzò via dal tavolo lo stereo con tale impeto da mandarlo a sbattere per terra contro gli armadietti, intaccandone il legno. — Ehi! Lynley lo costrinse sulla sedia e la testa di Mark urtò contro la parete. — Ma che diavolo... — Puoi vuotare il sacco qui o alla stazione di polizia di Penzance. Come preferisci. Negli occhi di Mark si accese un breve guizzo di comprensione ma il giovane si sfregò la nuca limitandosi a dire: — Dai i numeri? Lynley buttò sul tavolo il tovagliolino del Talisman Café. — E questo che sarebbe? Su, rispondi. Mark diede un'occhiata alle cifre, alle annotazioni, alle proprie iniziali, impassibile. Poi ebbe una breve risata secca. — Sei nella merda fino al collo con la morte di Brooke, vero? Pronto a fare qualsiasi cosa per impedire che la polizia ci vada a fondo. Deciso a tenerne fuori Peter. — Peter non c'entra affatto. — Oh, già. Immagino. Non tiriamo in ballo Peter altrimenti potrebbe venir fuori la verità. Be', non puoi farmi arrestare. Non hai niente di niente in mano. — Hai preso la Daze a Lamorna. L'hai mollata a Penberth. Secondo me il motivo si trova proprio qui, in questa casa. O forse al mulino. Possiamo parlare di furto. Ma anche di traffico illecito. Possesso di narcotici. Possiamo scegliere. Scommetto quel che vuoi che Boscowan sarà dispostissimo a prendere in considerazione qualsiasi cosa che possa far uscire di galera tuo padre mentre dubito che sia altrettanto sentimentale nei tuoi confronti. Vogliamo dargli un colpo di telefono? O ne discutiamo qui? Mark distolse lo sguardo. Sul pavimento, lo stereo emetteva una serie di gracidii. — Cosa vuoi sapere? — Il tono era astioso. — Chi rivende la cocaina? — Io. Mick. — Ti servivi tu del mulino? — L'idea è stata di Mick. La primavera scorsa era sempre là, a spassarsela con Nancy. Sapeva che nessuno ci andava mai. — E la Daze? — Trasporto gratis. Niente spese a incidere sul guadagno. — Quale guadagno? Nancy dice che erano senza un soldo.
— Abbiamo reinvestito in una seconda partita gli incassi della prima, in marzo. Un quantitativo più consistente, stavolta. — Ebbe un sorriso che non si curò di nascondere. — Grazie al cielo la merce era in un pacco sigillato, altrimenti adesso si troverebbe in acqua a Penberth Cove, a mandare in visibilio i pesci — versò sul piatto altre patatine. — Peccato che Mick non potrà prendersi la sua parte. — Molto comodo per te che sia morto. Mark non si impressionò. — E dovrei sbiancare di paura all'idea di quel che ne consegue? Ehilà, questo povero idiota si è trovato da solo il movente? — Addentò il sandwich, masticò lentamente, prese un sorso di birra. — Lasciamo perdere i drammi. Io ero a St. Ives venerdì sera. — E di sicuro hai qualcuno prontissimo a farsi avanti per confermare la cosa. Mark mantenne l'atteggiamento spavaldo. — Certo. Non c'è problema. — Gli spacciatori sono solidali, eh? — Bisogna conoscere gli amici. — Peter era tuo amico, una volta. Mark si esaminò le unghie. Lo stereo gracchiò. St. James lo spense. — Vendevi roba a mio fratello? — Quando aveva quattrini. St. James vide che Lynley si irrigidiva. — Quand'è stata l'ultima volta che l'hai visto? — intervenne. — L'ho già detto e la mia versione non cambia. Venerdì pomeriggio alla caletta. Aveva telefonato qui, prima, dicendo che aveva bisogno di vedermi e ho dovuto andare a cercarlo. Cribbio, non so perché mi sono preso la briga. — Cosa voleva? — Al solito: merce a credito. — Sapeva che ti servivi del mulino? — volle sapere Lynley. Mark ebbe una risata sarcastica. — Pensi che gliel'avreì detto per poi vedermelo capitare di continuo tra i piedi a sdilinquirsi per avere dei campioni gratuiti mentre ero là a lavorare? Potevamo anche essere amici d'infanzia, ma a tutto c'è un limite. — Dov'è? — chiese Lynley. Mark non rispose. Lynley picchiò un pugno sul tavolo. — Dov'è mio fratello? Mark ritrasse il braccio. — Non lo so, chiaro? Non ne so un accidenti. Sarà crepato da qualche parte con un ago in una vena.
— Tommy. L'ammonimento di St. James arrivò troppo tardi. Lynley aveva già tirato in piedi il ragazzo. Lo sbatté contro il muro premendogli il braccio sul collo, inchiodandolo. — Maledetto verme schifoso — disse tra i denti. — Ma non finisce qui. — Si scostò bruscamente e lasciò la stanza. Mark rimase dov'era per qualche istante, massaggiandosi la gola, poi si diede una lisciata al colletto come per cancellarvi ogni traccia della breve aggressione di Lynley. Si chinò, raccolse lo stereo, lo rimise sul tavolo e cominciò a manovrarne i comandi. St. James se ne andò. Trovò Lynley a bordo dell'auto, le mani contratte sul volante, il respiro affannoso. Nancy e la bambina erano scomparse. — Noi siamo le vittime — Lynley fissava il viale chiazzato d'ombre che andava serpeggiante verso la villa. Il vento faceva danzare le foglie di sicomoro sparse a terra. — Siamo tutti le loro vittime. Io quanto gli altri, St. James. No. Io più degli altri, perché faccio parte della polizia. St. James intuì i conflitti che lo tormentavano. I legami di sangue, il senso del dovere. La responsabilità verso la famiglia, il tradire se stesso. Aspettò che Lynley, sempre profondamente onesto, li esponesse. — Avrei dovuto dire a Boscowan che Peter è andato al Gull Cottage, venerdì sera. Dirgli che Mick era ancora vivo quando John se n'è andato. Avrei dovuto metterlo al corrente della lite. Di Brooke. Di tutto. Ma, Dio mi perdoni, non ne ho avuto la forza, St. James. Che mi sta succedendo? — Hai di fronte una serie di problemi: Peter, Nancy, John, Mark. E stai cercando di tappare tutte le falle, Tommy. — Sta franando tutto. — Troveremo una soluzione. Solo allora Lynley lo guardò, e i suoi occhi scuri erano velati. — Lo credi davvero? — Devo pur credere in qualcosa. — Si tratta di una ditta farmaceutica — disse lady Helen, all'altro capo della linea. — La Islington-London è la ragione sociale. St. James stava osservando il tratto di giardino ancora visibile nell'ombra che si andava infittendo. Si trovava nello studiolo attiguo al soggiorno, e alle sue spalle lady Asherton, Lynley e Cotter stavano bevendo il caffè che era stato servito dopo cena. — Deborah e io ci siamo andate stamattina — continuò lady Helen. In
sottofondo St. James udì la voce di Deborah seguita dalla sua risata, morbida e leggera. — Sì, d'accordo, tesoro — le disse lady Helen, e poi di nuovo a St. James: — Deborah non mi perdonerà mai il fatto che mi sia messa la pelliccia di volpe. Be', forse era effettivamente un po' eccessiva ma tutto l'insieme lanciava un preciso messaggio, secondo me. E poi, se si deve compiere una missione in incognito, bisogna fare le cose per bene. Non credi? — Senz'altro. — Ed è andata magnificamente. La receptionist mi ha perfino chiesto se ero lì per il posto di direttore capo del controllo progetti. Mi sembra assolutamente divino. Tu che dici, avrei un avvenire assicurato? St. James sorrise. — Dipende dal genere di progetti, penso. E hai appurato che rapporti ha Tina Cogin con questa ditta? — Proprio nessuno, sembra. L'abbiamo descritta alla segretaria... ed è stata una fortuna che ci fosse Deborah che ha un occhio straordinario per i particolari, senza parlare della memoria. Ma la ragazza non ha saputo dirci niente. Non ricordava nessuno del genere. — Lady Helen si interruppe mentre Deborah aggiungeva qualcosa. Poi riprese: — Considerando l'aspetto di Tina, è difficile che la si possa dimenticare. Comunque la receptionist ha chiesto se poteva trattarsi di una laureata in biochimica. — Direi che ci vuole della fantasia. — Hmmm. Sì. Solo che Deborah mi ha raccontato di un certo beverone inventato da Tina. Un intruglio salutista. È possibile che sperasse di vendere la ricetta alla ditta farmaceutica? — Mi sembra poco verosimile. — Sì, penso anch'io. L'avrebbe proposto a una casa produttrice di bibite, no? — Già più probabile. Se ne sono avute notizie? È tornata? — Non ancora. Oggi pomeriggio sono andata a bussare a tutti gli appartamenti del palazzo per vedere se qualcuno sapeva dove potesse essere andata. — Senza esito, mi par di capire. — Infatti. Pare che nessuno fosse in amicizia con lei. Anzi, sembrerebbe che Deborah sia l'unica con cui abbia avuto contatti, a parte una bizzarra signora che sta nell'appartamento di fronte e che le ha prestato il ferro da stiro. Diverse persone l'hanno incrociata, naturalmente... è da settembre che abita lì... ma nessuno ha mai scambiato due chiacchiere. A parte Deborah.
St. James annotò settembre sul suo foglio, poi vi tracciò un cerchio attorno. E sul cerchio disegnò una crocetta. Il simbolo femminile. Poi ci fece sopra dei ghirigori. — E adesso? — chiese lady Helen. — Controlla se ha lasciato presso il custode un indirizzo in Cornovaglia — suggerì St. James. — E potresti cercare di scoprire chi paga l'affitto. — Certo. Avrei dovuto pensarci prima. Ma in fondo, perché poi? Stiamo cavando qualche ragno dal buco? St. James ebbe un sospiro. — Non lo so. Hai parlato con Sidney? — Lì c'è un problema, Simon. Ho chiamato il suo numero, ma non ho avuto risposta. Ho tentato all'agenzia: non ne sanno nulla. Ti ha accennato alla possibilità di andare da amici? — No. Ha detto che voleva tornare a casa. — Allora riproverò. Non ti preoccupare. Potrebbe essere andata a Cheyne Row. St. James lo riteneva poco probabile e avvertì una certa inquietudine. — Dobbiamo trovarla, Helen. — Farò un salto a casa sua. Forse preferisce non rispondere al telefono. Dopo avere riagganciato, St. James rimase nello studiolo, fissando l'intrico di linee sopra la parola settembre. Voleva che significasse qualcosa. Sapeva che probabilmente aveva un significato, ma non sapeva proprio quale. Lynley lo raggiunse. — Novità? St. James gli riferì quanto lady Helen era riuscita a mettere insieme quel giorno e notò che l'espressione dell'amico mutava. — La Islington di Londra? — ripeté. — Sei sicuro, St. James? — Helen c'è andata. Perché? Ti dice qualcosa? Lynley lanciò un'occhiata verso il soggiorno. Sua madre e Cotter stavano chiacchierando a bassa voce guardando un album di fotografie. — Tommy? Di che si tratta? — Roderick Trenarrow. Lavora alla Islington di Penzance. PARTE QUINTA Identità 20 — Allora deve essere stato Mick a lasciare quei due numeri di telefono
nell'appartamento di Tina Cogin — osservò St. James. — Quello di Trenarrow e quello della Islington. Così si spiega come mai Trenarrow non sapesse niente di Tina. Lynley rispose solo dopo avere svoltato in Beaufort Street, puntando verso Paddington. Poco prima avevano lasciato Cotter in Cheyne Row e davanti alla palazzina di mattoni il maggiordomo aveva avuto una reazione da figliol prodigo, precipitandosi dentro con le due valigie, evidente sollievo e passo elastico. Era la una e dieci di pomeriggio. Il tragitto dall'aeroporto nel Surrey era stato rallentato da diversi ingorghi nel traffico dovuti a una qualche fiera estiva dalle parti di Buckland che a quanto pareva aveva attratto un pubblico da record. — Pensi che Roderick sia implicato in questa faccenda? St. James colse non solo il tono impersonale di Lynley ma anche il fatto che aveva deliberatamente evitato di pronunciare la parola omicidio. E al tempo stesso notò come l'amico si concentrava sulla guida: le mani ben salde sul volante, lo sguardo sulla strada. Dei rapporti tra Lynley e Trenarrow conosceva solo alcuni particolari essenziali che stavano a indicare una generica antipatia dovuta alla persistente relazione tra lady Asherton e il medico. Lynley doveva trovare qualcosa che compensasse la sua ostilità, se Trenarrow era anche solo marginalmente coinvolto in quelle oscure vicende, e pareva che avesse scelto la strada di una scrupolosa imparzialità per controbilanciare quell'astio. — Immagino di sì, anche se solo inconsapevolmente. — St. James gli diede i particolari del colloquio avuto con Trenarrow raccontando anche dell'intervista che Mick Cambrey gli aveva fatto. — Ma se Mick stava lavorando a un'inchiesta che poi ha portato alla sua uccisione, Trenarrow potrebbe avergli semplicemente indicato una pista, magari il nome di qualcuno della Islington-London in grado di dare le informazioni che Mick cercava. — Ma se, come dici, al giornale non c'erano appunti riguardanti un articolo che si collegasse a Trenarrow... — Lynley frenò a un semaforo rosso. Sarebbe stato naturale che desse un'occhiata a St. James, ma non lo fece. — Tu che ne concludi? — Non ho detto che non c'erano appunti, Tommy, ma che non sono stati pubblicati articoli in cui comparisse il suo nome. O che trattassero le ricerche oncologiche. È ben diverso. Potrebbero esserci appunti a bizzeffe per quel che ne sappiamo. È stato Harry Cambrey a ispezionare gli schedari di Mick, non io.
— Dunque degli elementi significativi potrebbero trovarsi ancora là, e Harry Cambrey non sa riconoscerne l'importanza. — Certo. Ma l'inchiesta di per sé, qualsiasi cosa trattasse, e anche se è direttamente collegata alla morte di Mick, potrebbe non aver nulla a che vedere con Trenarrow direttamente. Lui potrebbe essere stato solo una fonte di informazioni. Adesso Lynley si volse a guardarlo. — Hai preferito non telefonargli, St. James. Perché? St. James osservò una signora che attraversava spingendo una carrozzina. Un marmocchio le si aggrappava alla gonna. Il semaforo diventò verde. Auto e camion si rimisero in moto. — Mick poteva avere per le mani delle notizie che scottavano. Non è certo il caso di far sapere in giro che forse noi stiamo seguendo la medesima traccia. — Dunque secondo te Roderick è implicato. — Non necessariamente. Forse non lo è per nulla. Ma poteva involontariamente mettere sull'avviso qualcuno che lo è. Perché correre un simile rischio telefonandogli? Pareva che Lynley non avesse ascoltato. — Se Roderick è dentro questa storia... — Svoltò a destra in Fulham Road e passarono davanti alle boutique, gli antiquarii, i night e i ristoranti della Londra chic. — Non abbiamo ancora in mano tutti i dati, Tommy. È inutile che ti ci tormenti, adesso. Di nuovo le parole di St. James parvero cadere nel vuoto. — Sarebbe una tragedia per mia madre — mormorò Lynley. Giunsero a Paddington. Deborah, che era scesa ad aspettarli nel piccolo atrio degli Shrewsbury Court Apartments, aprì la porta prima che avessero il tempo di suonare il campanello. — Papà ha chiamato per avvertimi che stavate arrivando. Tommy, come stai? Ho saputo che non si sa ancora nulla di Peter. Lynley si limitò a pronunciare il suo nome con un sospiro, poi l'attirò a sé. — Che orribile weekend è stato per te. Mi spiace tesoro. — Non ti preoccupare. Non importa. St. James si costrinse a guardare altrove. Il cartello concierge era stato scritto a mano ma con grafia incerta e il puntino sopra la i era sbavato. Meditò sulla cosa, studiando tutte le lettere, tenendo gli occhi fissi sul cartoncino fino a che non udì la voce di Deborah. — Helen è di sopra. — E, al fianco di Lynley, si diresse all'ascensore.
Trovarono lady Helen al telefono. Non stava dicendo nulla, era solo in ascolto: dall'occhiata che gli lanciò e dalla sua espressione quando riagganciò il ricevitore, St. James intuì chi aveva cercato di chiamare. — Sidney? — chiese. — Non riesco a trovarla, Simon. La sua agenzia mi ha fornito un elenco di nomi di suoi amici. Ma nessuno ne sa nulla. Ho appena ritentato a casa sua. Nulla. Ho chiamato anche tua madre, ma non risponde nessuno. Continuo a provare? Un brivido gelato percorse la schiena di St. James. — No. Starebbe in ansia. — Ho cominciato a riflettere sulla morte di Justin Brooke — riprese lady Helen. Non aveva bisogno di dir altro: St. James sapeva che piega avevano preso i suoi pensieri. Anche a lui era balenata la stessa idea quando aveva saputo che sua sorella non era rientrata. Di nuovo si maledì per aver lasciato che Sidney partisse da sola. Se era finita in una brutta situazione, se le era accaduto qualcosa... Si accorse che stava serrando spasmodicamente le mani e si costrinse a rilassarle. — Tina Cogin è tornata? — Non ancora. — Allora è il caso che controlliamo le chiavi. — Si rivolse a Lynley. — Le hai portate? — Chiavi? — domandò perplessa lady Helen. — Harry Cambrey è riuscito a farsi dare da Boscowan il mazzo di chiavi di Mick — spiegò Lynley. — Vogliamo vedere se c'è quella dell'appartamento di Tina. Li tenne in sospeso solo per il tempo necessario a raggiungere la porta accanto, inserire e girare la chiave giusta. Spalancò la porta ed entrarono tutti. — Va bene, aveva la chiave — convenne lady Helen — ma questo dove ci porta, Tommy? Non è certo una sorpresa, già sapevamo che era stato qui. Ce l'ha detto Deborah. Dunque adesso sappiamo solo che per Tina Cogin era un amico abbastanza speciale da meritare un permesso d'accesso permanente. — Cambia la natura dei loro rapporti, Helen. Qui evidentemente non si tratta di una squillo e di un cliente. Le prostitute di solito non distribuiscono le chiavi di casa loro. St. James, presso il cucinino, stava esaminando il locale. Il mobilio era
costoso ma diceva poco circa la proprietaria. E non si vedevano in giro oggetti personali: niente fotografie, souvenir, piccole collezioni. Anzi, quel monolocale aveva l'aria di essere stato studiato da un arredatore di alberghi, con il preciso scopo di tenere il più possibile celata la personalità dell'occupante. Si diresse allo scrittoio. La spia della segreteria telefonica lampeggiava, a indicare che c'erano state delle chiamate. Premette il pulsante. Una voce maschile disse: — Colin Sage. Telefono per l'annuncio — seguiva il numero da richiamare. Il secondo messaggio era molto simile. St. James trascrìsse i due numeri e diede il foglio a lady Helen. — Un'inserzione? Possibile che si serva di questo sistema? — osservò lei. — Hai detto che c'era un libretto di risparmio. Deborah si avvicinò. — Eccolo. E c'è anche questa. — Trasse da un cassetto il libretto e la cartelletta. St. James esaminò prima quest'ultima, e diede una scorsa all'elenco di nomi e indirizzi ordinatamente scritti a macchina. Quasi tutti di Londra, notò. Il più lontano era a Brighton. Dietro di lui, Lynley stava esaminando il contenuto del cassettone. — Di che si tratta? — mormorò St. James tra sé. — Lì per lì abbiamo pensato a una lista di clienti — rispose Deborah. — Ma non è possibile, ci sono dei nomi femminili. E anche non ce ne fossero è difficile pensare che qualcuno riesca a... — Si interruppe. St. James alzò lo sguardo. Le guance di lei si erano fatte rosee. — Ad accontentare tanta gente? — Be', e poi ha scritto che sono solo delle possibilità. Così dapprima abbiamo pensato che si servisse di questo elenco per... ma poi abbiamo guardato meglio e... insomma, come fa una prostituta a costruirsi una clientela? Passando parola? — E allora secondo te che se ne faceva di questi indirizzi? Spediva pieghevoli pubblicitari? Deborah si mise a ridere. — Sono un disastro in queste faccende, vero? Tutto un esercito di indizi che fanno il possibile per saltare all'occhio e io manco li vedo. — Mi pareva avessi concluso che non si trattava di una squillo. Che fossimo tutti d'accordo su questo. — Era solo il suo modo di esprimersi, e l'aspetto. — Forse possiamo lasciar perdere quel che le apparenze stavano a indicare — osservò Lynley.
Era di fronte all'armadio aperto, accanto a lady Helen. Aveva preso dallo scaffale superiore le quattro cappelliere e le aveva aperte disponendole in fila sul pavimento. Adesso era chino su una e separava i fogli di carta velina. Ne trasse una parrucca: lunghi capelli neri con una leggera frangia morbida. Deborah la fissò a bocca aperta. Lady Helen ebbe un sospiro. — Fantastico — disse. — Davvero porta una parrucca? Allora quel che sappiamo di lei... compresa la descrizione di Deborah... non vale praticamente nulla. Una chimera. Unghie finte. Capelli finti. — Diede un'occhiata al cassettone ed evidentemente le venne un'idea: andò ad aprire un cassetto e frugò tra la biancheria. Ne trasse un reggiseno nero. — Finto anche tutto il resto. St. James si avvicinò, prese la parrucca, la portò alla finestra aprendo le tende, e l'esaminò alla luce naturale. Era chiaro che si trattava di capelli veri. — Sapevi che portava una parrucca, Deb? — chiese Lynley. — No, naturalmente. Come facevo a saperlo? — È di ottima qualità — disse St. James. — Difficile riconoscerla per quello che è. — L'esaminò più attentamente, passando le dita sulla retina interna, e incontrò un capello. Lo staccò per studiarlo. Non apparteneva alla parrucca: era più corto. — Cos'è, Simon? — volle sapere lady Helen. Non rispose subito. Fissava il capello che teneva tra le dita cominciando a intuirne il significato. C'era una sola spiegazione possibile, l'unica che si accordasse con la scomparsa di Tina Cogin. Ma doveva fare una verifica. Prese un foglio dal cassetto superiore della scrivania, vi pose il capello e lo riportò alla luce. — È rosso. Diede un'occhiata a Deborah e ne vide mutare l'espressione. — È possibile? — le chiese. Era l'unica che avesse visto entrambi e quindi era l'unica che potesse dare conferma. — Oh, Simon. Non valgo niente in queste cose. Come faccio a dirlo? Non lo so. Proprio non lo so. — Ma l'hai vista. E venuta qui. Ti ha portato quella cosa da bere. — Oh, già. — Si precipitò fuori e qualche attimo dopo sentirono la porta d'ingresso del suo appartamento sbattere contro il muro. — Ma che succede? — domandò lady Helen. — Non penserai che Deborah abbia a che vedere con questa storia! Quella donna si travestiva per
assumere un'identità diversa, tutto qui. Voleva nascondersi, non farsi riconoscere. St. James posò sullo scrittoio il foglio su cui aveva messo il capello. Già, Tina Cogin non voleva farsi riconoscere. Era lì in incognito. Aggiungiamoci un tocco classicheggiante, intonato con la personalità femminile: incognita. Già, incognita. Che bello scherzo. — Mio Dio. E lo diceva a tutti. Tina Cogin. Tina Cogin. Un magnifico anagramma. Deborah rientrò di corsa tenendo in una mano la fotografia che aveva portato con sé dalla Cornovaglia, e nell'altra un foglietto. Consegnò entrambi a St. James. — Guarda sul retro. Era superfluo. Lui già sapeva che la calligrafia sarebbe stata la medesima. — È la ricetta che mi ha dato, Simon. E dietro la foto di Mick... Lynley si accostò, si fece dare da St. James foglio e fotografia. — Dio onnipotente. — Ma insomma, di che si tratta? — chiese lady Helen. — Del motivo per cui Harry Cambrey ce la metteva tutta per costruire attorno a Mick un'aura di vero uomo, direi — rispose St. James. Deborah riempì la teiera di acqua bollente e la portò al piccolo tavolo che avevano trasportato nella zona soggiorno. Vi si accomodarono attorno: Deborah e Lynley sul divano, lady Helen e St. James sulle sedie. St. James prese il libretto di risparmio che si trovava tra gli altri oggetti legati alla vita e alla morte di Mick Cambrey: la cartelletta con la dicitura possibilità; il cartoncino con il numero della Islington-London, il tovagliolino del Talisman, la sua foto, la ricetta data a Deborah il giorno in cui era comparso sulla sua porta nelle vesti di Tina Cogin. — Queste dieci uscite — fece notare lady Helen indicando le cifre — corrispondono a quello che Tina... Mick Cambrey, cioè, versava per l'affitto. E le date tornano, Simon: da settembre a giugno. — Da parecchio prima che lui e Mark cominciassero a trafficare in cocaina — osservò Lynley. — Allora il denaro per l'affitto non gli veniva da quello? — chiese Deborah. — No, se dobbiamo dare retta a Mark. Lady Helen fece scorrere il dito lungo la colonna dei versamenti. — Ma per un anno ha fatto dei depositi ogni due settimane. Da dove gli arrivava-
no i quattrini? — Evidentemente aveva un'altra fonte di reddito. Le somme versate variavano parecchio, notò St. James. A volte erano di una certa consistenza, altre volte quasi modeste. Il che escludeva la seconda possibilità che gli si era profilata osservando la regolarità dei depositi. Non poteva trattarsi di ricatto. I ricattatori tendono ad aumentare le loro pretese, il denaro facile rende avidi. — E inoltre — sottolineò Lynley — Mark ha detto che avevano investito il ricavato in un'altra partita, più ingente. E il fatto che sia uscito con la Daze, domenica, starebbe a confermarlo. Deborah versò il tè. Lady Helen prese la cartelletta. — Secondo me Mick cercava di piazzare la sua quota di cocaina a Londra. Avesse cercato di smerciarla a Nannurel qualcuno l'avrebbe scoperto. La signora Swann, per esempio. Non credo proprio che un maneggio del genere le sarebbe sfuggito. — Sono d'accordo — convenne Lynley. — Aveva un nome come giornalista, da quelle parti. Non l'avrebbe certo messo a repentaglio smerciando cocaina là quando poteva altrettanto facilmente piazzarla qui. — Ma mi era parso di capire che fosse conosciuto anche a Londra — obiettò St. James. — Lavorava qui, no?, prima di fare ritorno in Cornovaglia? — Ma non come Tina Cogin — fece notare Deborah. — Di sicuro spacciava sotto la sua identità femminile. — È diventato Tina in settembre, quando ha preso in affitto l'appartamento qui accanto. E ha cominciato a vendere nel marzo successivo. Tutto il tempo necessario per mettere insieme una lista di potenziali acquirenti — disse lady Helen battendo un dito sulla cartelletta. — Ci chiedevamo cosa significassero queste possibilità, no? Forse ora lo sappiamo. Vogliamo andare a vedere che possibilità offrono, di fatto, queste persone? — Se si tratta di potenziali acquirenti di cocaina, non andranno di certo a raccontarlo — disse Lynley. Lady Helen sorrise. — Alla polizia no di sicuro, Tommy. St. James sapeva cosa significava quell'aria angelica. Se c'era qualcuno capace di estorcere informazioni da un perfetto sconosciuto, tale persona era lady Helen. Lo scambio amabile e amichevole che induceva ad aprire il cuore era la sua specialità, come aveva già dimostrato con il custode degli Shrewsbury Court Apartments. L'elenco dei potenziali clienti rappresentava un'impresa leggermente più impegnativa, ma nulla di difficile. Poteva
trasformarsi in sorella Helen, membro dell'Esercito della Salvezza, oppure in Helen redenta grazie all'opera di un centro assistenza per tossicomani, o Helen frenetica, alla ricerca di una dose. Ma in qualche modo, alla fine, sarebbe riuscita a scovare i fatti. — Se Mick spacciava a Londra, un cliente avrebbe potuto seguirlo fino in Cornovaglia — rifletté St. James. — Ma se si presentava nelle vesti di Tina, come facevano a sapere chi era in realtà? — ribatté Deborah. — Forse è stato riconosciuto. Magari qualcuno che lo conosceva come Mick l'ha visto travestito. — E gli è stato appresso fino in Cornovaglia? E perché? Per ricattarlo? — Un ottimo sistema per procurarsi della cocaina gratis — fece notare St. James. — Ma forse Cambrey non voleva rovinarsi la piazza cedendo a un ricatto. Così è nata una baruffa. Mick si è preso un pugno, è caduto battendo il capo ed è morto. L'altro ha arraffato il denaro che si trovava nel soggiorno. Uno che ha assoluto bisogno di droga e che ha appena ammazzato qualcuno non si fa certo degli scrupoli di fronte a dei quattrini lì a disposizione. Lynley si alzò, andò alla finestra aperta e si appoggiò al davanzale guardando giù in strada. Troppo tardi St. James riconobbe il ritratto che aveva tracciato con le sue ipotesi. — È possibile che sapesse di Mick? — chiese. Nessuno rispose, al momento. Si udiva il rumore del traffico sempre più intenso che scorreva in Sussex Gardens. Lynley ripeté la domanda, senza muoversi. — È possibile che mio fratello sapesse? — Può darsi, Tommy — disse St. James e, quando Lynley si volse bruscamente a guardarlo, aggiunse: — Faceva parte della rete di spacciatori di Londra. Sidney l'ha visto poco tempo addietro, a Soho. Di notte, in un vicolo. — Si interruppe, ripensando alle parole della sorella, alla sua descrizione della donna che Peter stava picchiando. Tutta abbigliata in nero, con lunghi capelli corvini. Anche a lady Helen venne in mente quel particolare, evidentemente, perché cercò di alleviare l'ansia di Lynley facendo notare: — La morte di Mick potrebbe avere tutt'altra motivazione. È stata la prima cosa che si è pensata e non credo che dovremmo metterla da parte adesso. Era un giornalista, dopotutto. Se lavorava a un'inchiesta può darsi addirittura che si imperniasse sui travestiti. St. James scosse il capo. — No, non si interessava ai travestiti per motivi
professionali. Era lui un travestito. Lo dice chiaro il costo dell'appartamento. Il mobilio. Gli abiti. Non avrebbe avuto bisogno di arrivare a tanto solo per raccogliere le informazioni che gli servivano per un articolo. E le mutandine che Harry Cambrey ha trovato nella scrivania di Mick, al giornale. Per non parlare della lite tra i due. — Harry lo sapeva? — Direi che l'ha intuito. Lady Helen sfiorò il tovagliolino del Talisman. — Però Harry era convintissimo che stesse preparando un pezzo. — Può darsi. Ci resta ancora la pista della Islington-London. — Forse Mick stava raccogliendo notizie su qualche farmaco — suggerì Deborah. — Magari un prodotto non ancora in commercio. Lady Helen raccolse quell'idea. — Che abbia effetti collaterali. Già a disposizione dei medici. Con la casa produttrice che minimizza le possibili conseguenze. Lynley tornò al tavolo. Si guardarono riconoscendo la plausibilità di tale vaga ipotesi. Il talidomide. Minuziosi controlli, sperimentazioni e restrizioni avevano fino ad allora impedito il ripetersi di un altro incubo teratogenetico. Ma l'uomo è avido quando si tratta di guadagni rapidi. — Forse, mentre faceva ricerche su tutt'altro argomento, Mick si è imbattuto in qualcosa di sospetto — ipotizzò St. James. — Ha seguito la traccia qui. È andato a parlare con qualcuno della Islington-London. E per questo è stato ucciso. Lynley non era convinto. — E la castrazione? — Sedette sul divano passandosi una mano sulla fronte. — Non abbiamo niente che possa spiegarla. Lo squillo del telefono. Deborah andò a rispondere e un attimo dopo Lynley scattò in piedi. — Peter! Ma dove sei?... Come?... Non capisco... Peter, per favore... Chi hai chiamato?... Aspetta, è qui. Lynley afferrò il ricevitore. — Maledizione, dove ti sei cacciato? — sbraitò. — Lo sai che Brooke... Fai silenzio e stammi a sentire, una volta tanto, Peter. Brooke è morto... non me ne importa niente di quel che hai bisogno... Cosa? — Lynley si interruppe, raggelato. Di colpo il tono cambiò. — Ne sei certo?... Ascolta, Peter, ora cerca di calmarti... lo capisco, ma non devi toccare niente. Chiaro, Peter? Non toccare nulla. Non muoverla... dammi l'indirizzo... Va bene. Sì, ho capito. Arrivo subito. Depose il ricevitore e trascorsero alcuni lunghi istanti prima che si voltasse.
— È successo qualcosa a Sasha. — Credo che sia sotto l'effetto di qualcosa — disse Lynley. Il che spiegava come mai aveva insistito perché Deborah e Helen restassero dov'erano, si disse St. James. Non voleva che vedessero suo fratello in quelle condizioni, soprattutto Deborah. — Cos'è accaduto? Lynley si immise in Sussex Gardens, imprecò quando un taxi gli tagliò la strada, e puntò verso Bayswater Road infilando delle secondarie per evitare il traffico dell'ora di punta. — Non lo so. Continuava a gridare che Sasha era a letto e non si muoveva e che doveva essere morta. — Perché non gli hai detto di chiamare il pronto soccorso? — Cristo, magari sono allucinazioni, St. James. Sembrava in preda al delirium tremens. Maledetto questo traffico! — Dov'è, Tommy? — Whitechapel. Impiegarono quasi un'ora ad arrivarci, avanzando faticosamente in un ingorgo quasi continuo di auto, camion, autobus e taxi. Lynley conosceva bene la città e riusciva a districarsi tra vicoli e stradine poco frequentate ma ogni volta che arrivavano a un'arteria principale si trovavano nuovamente bloccati. Quando furono a metà di New Oxford Street disse: — La colpa è mia. Ho fatto tutto il possibile per lui, tranne comperargli la droga. — Non essere assurdo. — Volevo che avesse il meglio. Non ho mai preteso che si reggesse sulle proprie gambe. E guarda cos'è diventato. E colpa mia, St. James. Il vero male è il mio. St. James guardò fuori dal finestrino cercando una risposta. Pensava a tutte le energie che le persone consumano nello sforzo di evitare le cose che più avrebbero bisogno di affrontare. Riempiono le loro esistenze di pretesti e scappatoie solo per scoprire al momento cruciale che non c'è modo di sottrarsi indefinitamente. Da quanto tempo Lynley era impegnato a svicolare? E da quanto lui stesso faceva la medesima cosa? Era diventata per entrambi un'abitudine. Evitando scrupolosamente le cose che più avrebbero avuto bisogno di dirsi avevano imparato a adottare il sistema dell'evasione in tutti gli aspetti significativi delle loro vite. — Non hai tu la responsabilità di tutto ciò che accade, Tommy. — Mia madre mi ha detto virtualmente la stessa cosa, l'altra sera.
— Aveva ragione. Tu ti accusi anche quando ci sono altri con pari responsabilità. Non farlo adesso. Lynley gli scoccò una rapida occhiata. — E l'incidente. C'è anche quello da considerare, no? In tutti questi anni ti sei sempre sforzato di togliermi quel fardello dalle spalle, ma non ci riuscirai mai, non completamente. Ero io al volante, St. James. Per quanto ci possano essere delle attenuanti, questo fatto sostanziale resta. Ero io a guidare, quella sera. E io ne sono uscito intero. Tu no. — Non te ne ho mai fatto una colpa. — Non è necessario, ci penso io. — Lasciò New Oxford Street per imbucarsi di nuovo in un dedalo di viuzze che li avvicinò alla City e a Whitechapel. — Ma se non voglio impazzire devo impedirmi di sentirmi colpevole di quanto sta accadendo ora a Peter. E la cosa migliore che posso fare in questo senso è giurarti che qualsiasi cosa ci troviamo davanti quando arriviamo là, sarà responsabilità sua e non mia. La loro destinazione era in una stradina angusta che si diramava da Brick Lane. Dei vocianti ragazzini pachistani stavano giocando con un pallone mezzo sgonfio; per segnare le porte si erano serviti di quattro sacchi di plastica delle immondizie, ma uno si era squarciato e il contenuto era sparso attorno, calpestato e spiaccicato. La comparsa della Bentley interruppe bruscamente la partita. St. James e Lynley, scendendo, si trovarono circondati da faccette curiose. L'aria era greve non solo dell'inquietudine derivante dalla comparsa di sconosciuti in un rione chiuso in se stesso ma anche dell'odore di fondi di caffè, verdure putride, frutta marcia. — Chi sono? — mormorò uno. — Boh — rispose un altro. — Mica male l'auto, eh? Un terzo, più intraprendente, si fece avanti. — Gliela tengo d'occhio io, signore. Li faccio stare lontani, questi — assicurò accennando al resto della ciurma. Lynley si limitò a un cenno della mano che il ragazzino chiaramente interpretò come un assenso visto che si piazzò con una mano sul cofano, l'altra sul fianco e un piede sul paraurti. Avevano posteggiato proprio di fronte alla casa di Peter: una costruzione stretta, di cinque piani. In origine i mattoni erano stati tinteggiati di bianco ma gli anni, la fuliggine e l'incuria li avevano fatti diventare di un grigiastro repellente. Finestre e porta d'ingresso erano dimenticate da decenni: della verniciatura azzurra che un tempo aveva fatto da piacevole contrasto
sui muri bianchi restavano solo delle tracce squamose. Le fresie in vaso su un davanzale del terzo piano non riuscivano ad attenuare il senso generale di squallore e abbandono. Risalirono i quattro scalini che conducevano all'ingresso. La porta era spalancata e, immediatamente sopra, qualcuno aveva scritto, con vernice spray rossa: ultimi giorni. Il giusto epitaffio. — Al primo piano, ha detto — mormorò Lynley dirìgendosi alle scale. Il misero linoleum che le ricopriva era ormai consunto e scavato fino alla trama di supporto, e i lembi che ne restavano erano incrostati di cera vecchia e sporcizia recente. Vaste macchie scure e unticce chiazzavano le pareti segnate dai fori lasciati da corrimano ormai scomparsi. Nel vestibolo c'era un polveroso passeggino tutto sbilenco su tre sole ruote, attorniato da sacchetti di roba da buttare, due secchi, uno spazzolone e un paio di stracci luridi. Un gatto inagrissimo, con le costole sporgenti e una piaga ulcerosa sulla fronte, sgusciò oltre quando cominciarono a salire, aggrediti dal tanfo di aglio e orina. Al pianerottolo del primo piano la casa cominciò a dare segni di vita. Televisione, musica, voci che disputavano, lo strillo improvviso di un bambino: i rumori discordi della vita quotidiana. Non così nell'alloggio di Peter che trovarono all'estremità del ballatoio dove una finestra sudicia lasciava a malapena entrare la fiacca luce proveniente dalla strada. La porta era appena accostata e quando Lynley bussò si schiuse lentamente rivelando un locale la cui finestra, chiusa e celata da un lenzuolo, sembrava rinserrare gli odori di tutto l'edificio mescolati con il puzzo ancora più intenso di corpi non lavati e indumenti lerci. Sebbene la stanza non fosse più piccola del miniappartamento che avevano lasciato poco prima, a Paddington, il contrasto dava i brividi. Qui in pratica non c'era arredamento. A terra, tra giornali e riviste sparpagliati, tre grandi cuscini coperti di macchie; né armadio né cassettone, ma un'unica sedia su cui erano buttati in qualche modo degli indumenti, e quattro scatoloni con altri capi di vestiario. Delle cassette da frutta, rovesciate, fungevano da piani d'appoggio e la luce era fornita da una lampada a stelo priva di paralume. Lynley non aprì bocca. Per un attimo rimase immobile sulla soglia, come a raccogliere le forze per chiudere la porta e affrontare la realtà. Non allucinazioni, non delirium tremens ma la verità più bieca. Accostò il battente per avere una visione completa. Contro la parete: un divano malconcio, aperto così da trasformarlo in letto; e su questo, par-
zialmente coperta, una forma immobile. Sull'altro lato, a terra, rannicchiato in posizione fetale, le braccia piegate attorno alla testa, c'era Peter. — Peter! — Lynley lo raggiunse, si accosciò, pronunciò di nuovo il suo nome. Peter si riscosse con un ansito, rabbrividì, poi mise lo sguardo a fuoco sul fratello. — Non si muove. — Si posò una mano sulla bocca, come per impedirsi di urlare. — Sono rientrato e l'ho trovata lì, e non si muove. — Cos'è successo? — Non si muove, Tommy. Sono tornato a casa e lei era lì. E non si muove. St. James si avvicinò al divano. Scostò il lenzuolo che copriva quasi tutto il corpo. Sasha, nuda, era distesa sul fianco, un braccio disteso e la mano che penzolava oltre il bordo del letto. I capelli ricadevano in avanti nascondendole il volto. Poggiò le dita sul polso di quel braccio allungato pur sapendo che era pura formalità. Aveva fatto una certa esperienza con la scientifica di Scotland Yard; non era la prima volta che si trovava di fronte a un cadavere. Lanciò un'occhiata a Lynley, scrollando il capo. L'altro si rialzò e lo raggiunse. St. James scostò i capelli e sollevò il braccio inerte per controllarne il rigor mortis, ma arretrò leggermente scorgendo l'ago della siringa conficcato nella carne. — Overdose — mormorò Lynley. — Cosa si è iniettata, Peter? Tornò dal fratello mentre St. James restava presso il cadavere. La siringa era vuota, la morte doveva essere stata rapidissima. Si guardò attorno cercando tracce della droga. Sulla cassetta da imballaggio presso il divanoletto c'era solo un bicchiere che conteneva un cucchiaio annerito e mostrava dei residui di polvere bianca attorno al bordo. Fece un passo indietro scrutando il pavimento. Ebbe un brivido. A terra, rovesciato, quasi nascosto, c'era un flaconcino d'argento da cui era uscita della polvere bianca, evidentemente la stessa rimasta sul bordo del bicchiere, la medesima sostanza che aveva posto fine alla vita di Sasha Nifford. Il cuore cominciò a martellargli in petto. Non riusciva a crederci. Quel flaconcino apparteneva a Sidney. 21
— Cerca di controllarti, Peter — stava dicendo Lynley. Prese il fratello per il braccio facendolo alzare. Peter gli si aggrappò, singhiozzando. — Cos'ha preso? St. James fissava il flaconcino. Risentiva la voce di Sidney con assoluta chiarezza, come fosse lì con lui. "Abbiamo riaccompagnato Peter a casa sua" aveva detto. "Uno squallido appartamentino dalle parti di Whitechapel." E poi, in seguito, ancor più terribile e del tutto innegabile: "Di' al caro Peter, quando lo troverai, che ho parecchie cose da discutere con lui. Non vedo l'ora, credi". Alla luce della lampada il flaconcino mandava fievoli barbagli ammiccanti, come chiedendo di essere riconosciuto. Da dove si trovava, St. James scorgeva una parte delle iniziali incise, ed era stato lui stesso a scegliere il disegno, quattro anni prima: il regalo che aveva fatto a Sidney quando aveva compiuto ventun anni. "Eri il mio fratello preferito, quello a cui volevo più bene." No, non poteva concedersi il tempo di valutare le possibili alternative e soppesarne la moralità. Poteva solo agire o lasciare che Sidney venisse interrogata dalla polizia. Decise di agire e si chinò allungando un braccio. — Bene, l'hai trovato — disse Lynley, raggiungendolo. — Sembra... — D'un tratto parve comprendere il significato di quel gesto. Doveva aver letto qualcosa nel volto di St. James, improvvisamente impallidito. — Non cercare di proteggerlo in nome della nostra amicizia — mormorò. — Adesso basta. Dicevo sul serio, in auto. Se si tratta di eroina, posso aiutare Peter solo lasciando che affronti le conseguenze. Vado a telefonare alla polizia. Il gelo che aveva pervaso St. James fu cancellato da un senso di calore opprimente. Dimentico di Peter che, appoggiato alla parete, piangeva, la faccia tra le mani, si accostò alla finestra e scostò il lenzuolo per aprirla, ma si accorse che era incastrata. Nella stanza si soffocava. Neanche ventiquattr'ore, si disse. Sul flacone c'era la punzonatura dell'orefice, un piccolo stemma ornato impresso sul fondo: la polizia non ci avrebbe messo molto a risalire al negozio di Jermyn Street. Poi si sarebbe trattato solo di esaminare i registri, controllare le ordinazioni, confrontarle con le caratteristiche della bottiglietta, telefonare ai clienti e poi svolgere qualche ricerca discreta presso i medesimi. Il massimo in cui poteva sperare erano ventiquattr'ore. Udiva la voce soffocata di Lynley che parlava all'apparecchio sul pianerottolo e, più vicini, i singulti di Peter. E, al di sopra di questi suoni, un respiro aspro, affannoso. Si avvide che era il suo.
— Stanno arrivando! — Lynley richiuse la porta dietro di sé. — Tutto bene, St. James? — Sì, certo — e per confermarlo si scostò dalla finestra: gli ci volle uno sforzo di volontà. Lynley aveva liberato dalla pila di indumenti l'unica sedia sistemandola ai piedi del letto, con lo schienale rivolto al cadavere. — La polizia sarà qui tra poco — e con fermezza accompagnò il fratello alla sedia facendolo accomodare. — Lì sul pavimento, vicino al divano, c'è una bottiglietta piena di qualcosa che probabilmente ti farà arrestare, Peter. Abbiamo solo pochi minuti a disposizione. — Non ho visto nessuna bottiglietta. Non è mia — Peter si asciugò il naso col braccio. — Dimmi cos'è successo. Dove sei stato da sabato in poi? Peter aggrottò la fronte e socchiuse gli occhi come se la luce gli desse fastidio. — Da nessuna parte. — Non raccontarmi storie. — Storie? Ma ti sto... — Dovrai cavartela da solo, questa volta. Riesci a capire? Da solo. Quindi puoi dire a me la verità o vedertela con la polizia. Per me, francamente, è la stessa cosa. — Ma ti sto dicendo la verità. Siamo stati qui e basta. — Da quando? — Da sabato. Domenica. Non lo so. Non ricordo. — A che ora siete arrivati? — Dopo l'alba. — A che ora? — Non so che ora fosse! Che differenza fa? — Tutta la differenza sta nel fatto che Justin Brooke è morto. Ma al momento ti va bene perché la polizia sembra convinta che si tratti di disgrazia. Peter fece una smorfia. — E pensi che l'abbia ucciso io? E Mick? Mi accusi anche di quello, Tommy? — La voce gli si incrinò pronunciando il nome del fratello. Riprese a piangere, il corpo emaciato scosso dai singhiozzi. Si portò le mani al viso: erano sudicie, con le unghie rosicchiate. — Pensi sempre il peggio di me, vero? St. James intuì che Lynley si preparava a una battaglia verbale e intervenne. — Ti faranno una quantità di domande, Peter. Tutto considerato ti sarebbe più facile rispondere a Tommy, che magari potrebbe aiutarti, piuttosto che a degli estranei.
— Impossibile. Non mi ascolta. Non sono niente per lui. — Come puoi dirlo? — sbottò Lynley. — È così, e lo sai. Tu mi dai quattrini e basta. È quel che hai sempre fatto. Eri lì a disposizione con il libretto d'assegni perché era la cosa più facile. Te ne restavi al di fuori. Ma non sei mai stato disponibile, neanche una volta, per altro. — Si piegò in avanti, le braccia strette contro lo stomaco. — Avevo sei anni quando lui si è ammalato, Tommy. Ne avevo sette quando tu te ne sei andato. Ne avevo dodici quando è morto. Hai idea di cosa è stato? E l'unico che avevo vicino... l'unico, maledizione... era il povero Roderick. Che tentava il possibile per farmi da padre. Quando le circostanze lo permettevano. Ma sempre di nascosto perché c'era il rischio che tu lo scoprissi. Lynley lo costrinse a raddrizzarsi. — Così tu ti sei buttato sulla droga e sarebbe tutta colpa mia? Non accusare me, non te lo sognare neppure. — Io non ti accuso di niente. Io ti disprezzo! — E credi che non lo sappia? L'unica cosa che desideri è danneggiarmi. Hai persino portato via le macchine fotografiche di Deborah per farmi dispetto, no? — Ah, questa è magnifica, Tommy. Per favore, vattene. Lascia che me la veda con la polizia. St. James si costrinse a intervenire di nuovo. — Che cosa si è iniettata, Peter? — chiese in tono pressante. — E come se l'è procurata? Peter si passò sulla faccia un lembo della maglietta, logora e sbiadita. — Non lo so. Ero fuori. — Fuori dove? — volle sapere Lynley. Peter gli lanciò un'occhiata carica di risentimento. — A comperare pane e uova — accennò alla borsa a rete buttata a terra presso il muro. — Poi continuò rivolto a St. James. — E al ritorno l'ho trovata così. Lì per lì ho pensato che dormisse. Ma poi ho capito... ho visto. — La voce cedette, le labbra tremavano. — Ho chiamato l'ufficio di Tommy, ma mi hanno detto che non c'era. Ho telefonato a casa sua, e Denton ha detto che si trovava in Cornovaglia. Ho chiamato Howenstow e Hodge ha risposto che era tornato a Londra. Io... — Perché hai cercato me? — domandò Lynley. Peter lasciò ricadere le mani e fissò il pavimento. — Sei mio fratello — rispose con voce sorda. Dall'espressione di Lynley pareva che gli stessero strappando il cuore dal petto. — Perché fai queste cose, Peter? Perché? Perché, buon Dio?
— Che importa? St. James udì le sirene. Ci avevano impiegato poco. Ma dopotutto loro avevano il vantaggio di potersi fare largo nel traffico. Parlò in fretta, deciso a sapere il peggio. — C'è un flaconcino d'argento accanto al letto. Potrebbe essere di Sasha? Peter ebbe una breve risata. — Penso proprio di no. Avesse avuto un qualcosa d'argento, l'avrebbe venduto da un pezzo. — Non te l'ha mai mostrato? Non l'hai mai visto tra le sue cose? Non ti ha mai detto da dove veniva? — Mai. Non c'era tempo per altro. Le sirene della polizia ulularono in crescendo, poi si interruppero di colpo. St. James andò alla finestra e scostò la tenda: due Panda, due auto senza contrassegni e un furgone stavano fermandosi dietro la Bentley. Occupavano quasi tutta la strada. I ragazzini erano scappati via. Mentre un agente in uniforme rimaneva a guardia da basso, il resto del gruppo entrò. St. James ne riconobbe diversi: due della squadra omicidi, gli uomini della scientifica, un fotografo, il medico legale. Era abbastanza insolito che arrivassero tutti contemporaneamente, quindi senza dubbio sapevano che a telefonare era stato un collega. E quello doveva essere il motivo per cui Lynley aveva chiamato Scotland Yard e non la stazione locale, Bishopsgate, nella cui circoscrizione rientrava Whitechapel. Pur volendo che Peter affrontasse tutte le conseguenze che potevano derivare dalla morte di Sasha Nifford non intendeva lasciarlo completamente solo. Una cosa era rifiutarsi di spalleggiarlo in una faccenda di droga, ma tutt'altra abbandonarlo al suo destino in un caso che poteva assumere connotazioni ben diverse. Perché se Peter sapeva che c'era della droga in casa, o se era stato lui a darla a Sasha, se addirittura l'aveva aiutata a prepararla con l'intenzione di iniettarsela a sua volta quando fosse rientrato... tutte possibilità che Lynley aveva perfettamente presenti, St. James lo sapeva, e che potevano determinare la formulazione di un'accusa di omicidio. Lynley comprensibilmente voleva che l'indagine fosse condotta da persone di cui poteva fidarsi. St. James si chiese chi al momento, in Victoria Street, stesse telefonando alla stazione di Bishopsgate per spiegare come mai Scotland Yard avesse sconfinato. Gli uomini risalivano le scale con passi pesanti. Lynley andò ad accoglierli sulla soglia. — Angus — disse all'uomo che capitanava il gruppo. L'ispettore investigativo Angus MacPherson, un robusto scozzese, gli ri-
volse un cenno di saluto e si avvicinò al letto. Una donna poliziotto lo seguì prendendo un taccuino dalla borsa a tracolla e sfilando una biro dal taschino della camicia. Il sergente investigativo Barbara Havers, assistente di MacPherson. St. James li conosceva entrambi. — Che è successo? — chiese MacPherson a mezza voce. Toccò il lenzuolo e volse il capo mentre gli altri si affollavano nella stanza. — Non hai toccato niente, vero, Tommy? — Solo il lenzuolo. Era coperta quando siamo arrivati. — L'ho coperta io — spiegò Peter. — Pensavo che dormisse. La Havers inarcò un sopracciglio. Annotò qualcosa. Passò lo sguardo da Lynley al fratello di questi, al cadavere. — Ero sceso a comperare delle uova. E del pane — aggiunse Peter. — Quando sono rientrato... Lynley gli posò una mano sulla spalla: bastò a calmarlo. La Havers lanciò loro un'altra occhiata. — Quando è rientrato...? — chiese senza una particolare inflessione di voce. Peter guardò il fratello, come per averne aiuto. Si passò la lingua sul labbro superiore, poi lo mordicchiò. — Era così — bisbigliò infine. Le dita di Lynley si sbiancarono nella stretta ed evidentemente la Havers se ne accorse: ebbe un piccolo sbuffo. Non provava simpatia né solidarietà per Thomas Lynley. Guardò di nuovo il letto, MacPherson cominciò a dire qualcosa in un rapido mormorio e lei prese appunti. Terminata l'ispezione preliminare, l'ispettore si spostò verso l'angolo opposto della stanza conducendo con sé Peter e Lynley. Il medico legale si accostò, infilando i guanti di gomma: toccò, tastò, controllò. Dopo pochi minuti aveva finito. Disse qualcosa alla Havers e poi lasciò il posto agli uomini della scientifica. St. James li osservò, acutamente consapevole della presenza del flaconcino di Sidney sul pavimento, mentre quelli si mettevano all'opera. Il bicchiere sulla cassetta da frutta venne riposto in un sacchetto ed etichettato. Idem il cucchiaio. Un piccolo residuo di polvere, che a lui era sfuggito, venne accuratamente raccolto con un pennello e messo in un contenitore. Poi la cassetta fu scostata e il flaconcino raccolto. Quando anche questo fu chiuso in un sacchetto le ventiquattro ore ebbero inizio. St. James accennò a Lynley che intendeva andarsene e l'amico gli si avvicinò. — Porteranno via Peter. Vado con lui. — E poi, quasi temesse che l'in-
tenzione di accompagnare il fratello smentisse la precedente decisione di lasciare che Peter se la cavasse per conto suo, aggiunse: — Almeno questo, St. James. — Naturale. — Ti spiace avvertire Deborah? Non so quanto mi ci vorrà. — Stai tranquillo. — St. James esitò brevemente, chiedendosi come formulare la sua domanda: Lynley poteva trarne una conclusione che l'avrebbe indotto a dargli una risposta negativa. Ma lui aveva bisogno di sapere i particolari e doveva ottenerli senza che Lynley ne sapesse il motivo. — Mi puoi passare delle informazioni? Non appena si sa qualcosa? — Quali informazioni? — Circa l'autopsia. Tutto quel che riesci a sapere. — Non penserai che Peter... — Cercheranno di sbrigare tutto al più presto, Tommy. Per te. È tutto quel che possono fare, in fondo, e lo faranno. Mi metterai al corrente? Lynley diede un'occhiata al fratello che aveva cominciato a tremare. MacPherson frugò tra il mucchio di indumenti a terra, trovò una felpa e la tese alla Havers che la esaminò con voluta lentezza prima di consegnarla a Peter. Lynley trasse un sospiro, si sfregò il collo. — D'accordo. A bordo del taxi che filava verso St. Pancras, St. James cercò inutilmente di cancellare Sidney dai propri pensieri per formulare un qualche piano di azione: nella mente gli si affollava una miriade di ricordi, tutti molesti, tutti a chiedergli di salvarla. Aveva fatto una breve sosta a Paddington per comunicare a Deborah il messaggio di Lynley e da là aveva chiamato il numero di sua sorella, dell'agenzia, di casa propria, sapendo che stava ripetendo i tentativi già fatti da lady Helen ma senza curarsene, senza riflettere, con l'unica idea di rintracciarla. Vedeva solo il flaconcino d'argento su cui erano incise, in ricci e volute, le iniziali che lo indicavano come appartenente a Sidney. Era consapevole della vicinanza di Deborah, che lo guardava e lo ascoltava. Erano soli nell'appartamentino: Helen era uscita per raccogliere tutti i dati possibili in merito ai messaggi trovati sulla segreteria telefonica di Mick e all'elenco delle possibilità. Ne leggeva l'espressione ansiosa mentre lui continuava a formare numeri, a chiedere di sua sorella senza mai approdare a nulla. Si accorse che, più di qualsiasi altra cosa, voleva tenerle celati i suoi timori più profondi. Deborah sapeva della morte di Sasha e ri-
teneva che lui si preoccupasse solo della sicurezza immediata di Sidney. St. James era ben deciso a mantenerla in questa convinzione — Niente? — chiese Deborah quando lui infine si allontanò dall'apparecchio. St. James scrollò il capo e si accostò al tavolo su cui era rimasto il materiale preso dall'appartamento di Mick Cambrey. Lo raccolse facendone una mazzetta ordinata e l'infilò nella tasca della giacca. — Posso fare qualcosa? — chiese Deborah. — Mi sento così inutile... vorrei aiutarti. — Era sgomenta, spaventata. — Non riesco a credere che qualcuno possa davvero voler fare del male a Sidney. Deve essersi semplicemente rintanata da qualche parte, non credi, Simon? Sta soffrendo per Justin. Cerca la solitudine. Colse la penultima frase e capì che era proprio così. Era stato testimone del dolore di Sidney, in Cornovaglia; aveva avvertito la sua rabbia impotente. Eppure, quando sua sorella aveva deciso di partire, lui l'aveva lasciata fare. Quanto poteva essere accaduto adesso a Sidney era in gran parte sua responsabilità. — Non c'è nulla che tu possa fare — dichiarò avviandosi alla porta. Sapeva che Deborah non avrebbe capito una simile reazione alla sua offerta. L'avrebbe letta come una ripulsa o forse come una puerile vendetta per quanto era accaduto tra loro dal momento in cui era tornata. Ma non poteva evitarlo. — Simon. Ti prego. — Non si può fare niente di più. — Ma io posso fare qualcosa. Lo sai. — Non è il caso, Deborah. — Lascia che ti aiuti a ritrovarla. — Resta qui ad aspettare Tommy. — Ma io non voglio... — si interruppe. Una vena le pulsava alla gola. Lui attese ma Deborah non terminò la frase: aspirò a fondo, senza distogliere lo sguardo. — Andrò in Cheyne Row. — È inutile. Sidney non può essere là. — Non importa. Ci vado ugualmente. St. James non aveva né il tempo né la voglia di stare a discutere, quindi se ne andò imponendosi di seguire il programma originario, con la speranza che una visita alla Islington-London potesse fornirgli elementi che facessero luce sull'uccisione di Mick Cambrey. E augurandosi inoltre che quel terzo decesso, a Whitechapel, fosse legato agli altri due perché in tal
caso Sidney sarebbe stata scagionata. E se una connessione c'era bisognava seguire le tracce del fantasma di Mick, e lui era deciso a dare forma concreta a quel fantasma. La Islington-London forse ne offriva un'ultima possibilità. Ma, a bordo del taxi, St. James si rese conto che stava perdendo la battaglia contro quelle immagini che aggredivano il suo equilibrio, costringendolo a tornare a momenti e a luoghi che credeva di essersi lasciato alle spalle per sempre. E rivide tutti loro così come gli erano apparsi all'ospedale, volti distorti che emergevano dalle nebbie prodotte dall'alternarsi di fasi di coscienza e dallo stupore dei narcotici che smorzavano i dolori più immediati. David e Andrew a consultare i medici in toni sommessi; sua madre e Helen, straziate; Tommy, impietrito dal senso di colpa. E Sidney. Diciassette anni appena, un taglio di capelli inverosimile e orecchini che sembravano satelliti per telecomunicazioni. Sidney tutta argento vivo che gli leggeva la cronaca nera sganasciandosi sugli aspetti più macabri e piccanti. Sempre lì, mai un giorno che non si presentasse, sempre presente a impedirgli di sprofondare completamente nella disperazione. E poi in seguito, in Svizzera. Ricordava l'amarezza con cui guardava le Alpi dalla sua finestra d'ospedale, detestando il proprio corpo, disprezzandone la menomazione, per la prima volta di fronte all'inesorabile realtà: mai più sarebbe stato in grado di camminare agilmente su per quelle montagne, o altre. Ma Sidney gli era accanto a incitarlo, sfidarlo, costringerlo a riprendere forza, cocciutamente decisa a non permettergli di morire anche se lui ogni sera invocava la morte. Questi ricordi contrastavano con altri fatti, più vicini, che lo assillavano: la presenza di Sidney a Soho; le radici della sua relazione con Justin Brooke; il facile accesso alla droga dato il tipo di vita che faceva, le persone che frequentava, il suo lavoro... e pur cercando di convincersi che non poteva avere conosciuto Mick Cambrey e di conseguenza era impensabile che fosse implicata nella sua morte, non riusciva a dimenticare che Sidney aveva incrociato Tina Cogin quel giorno, a casa di Deborah. Ed era stata proprio Sidney a riferirgli di avere visto Peter, a Soho, mentre picchiava una donna che corrispondeva esattamente alla descrizione di Tina. E per quanto tenue era pur sempre un punto di contatto che non poteva ignorare. E quindi, mentre venticinque anni di vita condivisa richiedevano che lui la rintracciasse prima della polizia, St. James si chiedeva dove fosse e cosa avesse fatto Sidney.
La Islington-London aveva sede dalle parti di Gray's Inn Road, in un edificio dall'aria anonima e funzionale, due qualità molto apprezzate dagli architetti durante la rivoluzione industriale. Leggermente arretrato rispetto alla strada, aveva sul davanti un piccolo spiazzo cintato occupato da alcune auto e un furgoncino con la scritta ISLINGTON sopra la sagoma della Gran Bretagna con diverse stelle bianche sparse qua e là a indicare evidentemente l'ubicazione delle varie filiali. In tutto erano dieci e andavano da Inverness, a nord, a Penzance, a sud. Un'azienda di una certa entità. Nell'atrio il rumore della strada era attutito da muri spessi, moquette soffice e musica di sottofondo: un arrangiamento per archi di Lucy in the Sky of Diamonds. Contro una parete adorna di tele sullo stile di David Hockney c'erano alcuni piacevoli divani. Una receptionist che aveva tutta l'aria di avere piantato a mezzo di recente le superiori pestava sulla tastiera di un computer sfoggiando unghie di lunghezza assurda e color magenta. I capelli erano in tinta. Doveva avere scorto St. James con la coda dell'occhio, perché non distolse lo sguardo dallo schermo ma agitò vagamente le dita in direzione di una pila di stampati sulla scrivania e fece scoppiare una bolla di gomma da masticare prima di dire: — Prenda un modulo di richiesta. — Non sto cercando un impiego. La ragazza non ebbe reazioni e St. James si accorse che portava una cuffia, di quelle che di solito sono collegate a un registratore o per scrivere sotto dettatura o per ascoltare musica fracassona risparmiando il prossimo. Ripeté il suo annuncio, a voce più alta e lei alzò lo sguardo togliendosi in fretta la cuffia. — Mi scusi — attirò verso di sé un'agenda. — Ha un appuntamento? — Di solito chi viene qui ha un appuntamento? La ragazza masticò per qualche istante la sua gomma, meditabonda, e lo scrutò come cercando di individuare significati reconditi. — Di solito sì. — Quindi nessuno viene per acquisti? La gomma ebbe uno schiocco. — Ci pensano i venditori ad andare dai clienti. Capita ogni tanto un'ordinazione telefonica, certo, ma qui non è come in farmacia. St. James trasse di tasca il mazzetto di carte, ne sfilò la foto di Mick Cambrey e gliela porse. Le fulgide unghie inverosimili gli sfiorarono la pelle. Su quella dell'anulare era fissata una piccola nota musicale d'oro. — Questa persona ha mai avuto appuntamento con qualcuno?
La ragazza esaminò la foto e sorrise. — Sì, è stato qui. — Di recente? Lei fece tamburellare le unghie sulla scrivania, riflettendo. — Hmmm. Un po' difficile rispondere. Qualche settimana fa, direi. — E sa chi ha visto? — Il nome? — Mick... Michael Cambrey. — Vediamo — aprì l'agenda e ne esaminò diverse pagine, cosa che le permise di esibire nel modo migliore quei gioielli di unghie facendole scorrere lungo le colonne di nomi. — Tenete nota di tutti quelli che vengono? — Ora d'entrata e d'uscita, sì. Motivi di sicurezza, capisce. — Sicurezza? — Qui si fanno ricerche su vari farmaci e bisogna star molto attenti. Ah, ecco qui. Controllo Progetti, Reparto Venticinque. — Sfogliò ancora all'indietro. — E anche qui. Stesso reparto, stessa ora. Poco prima di pranzo. — Passò in rassegna altre pagine. — Sì, viene spesso. — Sempre lo stesso reparto? — Pare di sì. — Potrei parlare con il direttore del reparto? La ragazza chiuse l'agenda. — Sarà un po' difficile — spiegò, rammaricata. — Capisce, non ha appuntamento. E il povero signor Malverd deve barcamenarsi con due reparti. Vuole lasciare il suo nome? St. James non intendeva mollare. — Questa persona, Mick Cambrey, è stata uccisa venerdì scorso. Subito il volto della receptionist si accese d'interesse. — Lei è della polizia? — e poi, speranzosa: — Scotland Yard? Quanto sarebbe stato più facile se Lynley fosse stato lì, rifletté St. James. Tese alla ragazza il suo biglietto da visita. — Agisco per mio conto. Lei guardò il biglietto, lo lesse muovendo le labbra, poi lo girò come se sul retro potessero esserci altre notizie. — Un delitto — bisbigliò. — Vediamo se riesco a trovarle il signor Malverd. — Premette tre pulsanti del centralino e mise via il biglietto da visita. — Nel caso avessi bisogno di lei — spiegò ammiccando. Dopo una decina di minuti una porta si aprì e comparve un tizio che tese brevemente la mano a St. James presentandosi come Stephen Malverd. Indossava un camice da laboratorio che gli arrivava sotto il ginocchio evi-
denziando i piedi: non portava scarpe ma sandali, e pesanti calzini scozzesi. Era molto preso, spiegò, poteva dedicargli solo qualche minuto. Se il signor St. James voleva seguirlo... Si addentrò a passo rapido nel cuore dell'edificio: i capelli lunghi e scompigliati ondeggiavano e il camice si apriva come un mantello. Rallentò accorgendosi dell'andatura di St. James, ma scoccò alla gamba rigida un'occhiata carica di accusa: anche quella contribuiva a sottrargli momenti preziosi. Non disse nulla fino a quando furono in ascensore, diretti al terzo piano. — Da qualche giorno la situazione è caotica — raccontò. — Ma sono lieto che sia venuto. Anch'io ho pensato subito che ci fosse dietro qualcosa. — Allora ha presente Michael Cambrey? Il viso di Malverd si fece inespressivo. — Michael Cambrey? Ma mi è stato detto... — corrugò la fronte. — Di che si tratta? — Negli ultimi mesi un certo Michael Cambrey è venuto spesso qui, al Controllo Progetti, Reparto Venticinque. Ed è stato ucciso venerdì scorso. — Non vedo come potrei esserle utile — disse Malverd, perplesso. — Io in realtà non c'entro con il Reparto Venticinque, me ne occupo solo temporaneamente. Che cosa vuole sapere? — Qualsiasi cosa lei, o qualcun altro, mi possa dire del motivo per cui Cambrey veniva qui. Le porte dell'ascensore si aprirono ma Malverd non uscì subito. Pareva stesse cercando di decidere se accordare un colloquio a St. James oppure congedarlo subito e tornare al suo lavoro. — La morte di questo Cambrey ha a che vedere con la Islington? Con un nostro prodotto? — Non ne sono sicuro. Per questo mi trovo qui. — Polizia? — Perito della scientifica — rispose St. James tirando fuori un altro biglietto da visita. Malverd si mostrò già più interessato. Quanto meno trattava con un collega, diceva la sua espressione. — Vediamo cosa posso fare. Da questa parte. Precedette St. James lungo un corridoio rivestito di linoleum su cui si aprivano diversi laboratori con un notevole andirivieni di gente. Malverd scambiò qualche saluto, a un certo punto trasse di tasca un appunto, controllò l'orologio, affrettò il passo e, infilato un secondo corridoio, aprì una porta.
— Questo è il Venticinque — annunciò. Si trattava di un grande laboratorio rettangolare vivamente illuminato da luci al neon, gremito di apparecchi e personale. Sul banco che correva lungo una parete c'erano, distanziate, almeno sei stufe termostatiche e, tra queste, alcune centrifughe spente o in funzione. E inoltre banchi di lavoro disseminati di strumenti e armadietti a vetro stipati di sostanze chimiche, contenitori, cilindri graduati, provette, pipette. E ovunque tecnici al lavoro. Alcuni alzarono lo sguardo al loro ingresso ma persero ogni interesse quando Malverd condusse St. James alla porta che si apriva nella parete di fronte. Al loro ingresso la segretaria si volse. Stava controllando delle schede, attorniata da scrivania, computer e stampante laser. — Per lei, signor Malverd — disse consegnandogli dei messaggi telefonici tenuti insieme da un fermaglio. — Non so che dire a tutta questa gente. Malverd diede una rapida occhiata e rimise i foglietti sulla scrivania. — Sono occupato per tutti. Non ho tempo da perdere in telefonate. — Ma... — Qui si tiene un registro degli appuntamenti, signora Courtney? Siete arrivati a tale punto di evoluzione o è pretendere troppo? Lei si costrinse a sorridere, come per prendere in scherzo la frase, anche se il tono di Malverd rendeva difficile la cosa, e aprì un cassetto. — Certamente, signor Malverd — rispose consegnandogli un volume rilegato in pelle. — Vedrà che è tutto perfettamente in ordine. — Lo spero. Sarebbe la prima volta. Gradirei una tazza di tè. Lei? — si rivolse a St. James, che scrollò il capo. — Ci pensa lei, per favore? — domandò alla signora Courtney. Questa gli scoccò un'occhiata di potenza nucleare prima di allontanarsi. Malverd passò in una seconda stanza, un poco più grande ma non meno stipata. Era evidentemente l'ufficio del direttore: vecchie scaffalature di metallo accoglievano libri di chimica organica, farmacodinamica, farmacologia e genetica contendevano lo spazio a collezioni rilegate di riviste, un lettore di microfilm, un antiquato microscopio e una serie di bilance. Almeno una trentina di quaderni rilegati occupavano il ripiano più a portata di mano rispetto alla scrivania e quelli, immaginò St. James, dovevano contenere i risultati degli esperimenti condotti in laboratorio. C'era una grande scrivania di rovere con un piano estraibile su cui era piazzato un computer e, alla parete, un lungo diagramma che, con tracciati in verde e
in rosso, segnava l'andamento di qualcosa. Immediatamente sotto, in quattro bacheche, una raccolta di scorpioni. Malverd prese posto alla scrivania lanciando un'occhiata significativa al suo orologio. — Mi dica cosa posso fare per lei. St. James liberò da un fascio di dattiloscritti l'unica altra sedia presente e si accomodò lanciando una breve occhiata al diagramma. — A quanto pare Mick Cambrey, che era un giornalista, è venuto qui diverse volte negli ultimi mesi. — Ed è stato ucciso, ha detto. E secondo lei c'è qualche legame tra la sua morte e la Islington? — Alcune persone ritengono che stesse svolgendo un'inchiesta. Potrebbe esserci un legame tra questo fatto e la sua morte ma ancora non lo si sa per certo. — Lei non fa parte della polizia, se ho ben capito. — Infatti. St. James si aspettava che Malverd se ne servisse come scusa per chiudere lì il colloquio, ma il fatto che lavorassero nel medesimo campo evidentemente aveva un suo peso visto che Malverd annuì e aprì il registro. — Bene. Cambrey. Vediamo. — Cominciò a leggere facendo scorrere il dito lungo le pagine. — Smythe-Thomas, Hallington, Schweinbeck, Barry... chissà poi cosa voleva, questo... Taversly, Powers... Ah, ecco qui. Cambrey, undici e mezzo — diede un'occhiata alla data — il venerdì di due settimane fa. — La receptionist ha detto che era stato qui anche in precedenza. Compare altre volte il suo nome? Malverd girò altre pagine; prese un foglietto, vi trascrìsse delle date e quando ebbe terminato lo porse a St. James. — Sì, veniva con buona regolarità — confermò. — Ogni terzo giovedì del mese. — Che periodo copre quel registro? — Da gennaio in poi. — Si potrebbe vedere quello dell'anno precedente? — Vado a chiedere. Dopo che Malverd fu uscito, St. James esaminò più attentamente il diagramma alle spalle della scrivania. L'ordinata, vide, era definita crescita tumorale e l'ascissa tempo post iniezione. Due tracciati indicavano l'andamento di due sostanze: una, contrassegnata farmaco, calava rapidamente; l'altra, soluzione salina, era in costante ascesa. Malverd rientrò con una tazza di tè e un'altra agenda. Richiuse la porta
spingendola col piede. — È stato qui anche l'anno scorso — annunciò. E di nuovo copiò le date interrompendosi ogni tanto per prendere un sorso di tè. Nel laboratorio e nell'ufficio regnava un silenzio quasi disumano: si sentiva solo il fruscio della matita contro la carta. — Niente prima dello scorso giugno — dichiarò poi alzando gli occhi. — Il due di giugno. — Più di un anno — mormorò St. James. — Ma non c'è nulla a indicare la ragione di queste visite? — Niente. Non ne ho la minima idea — Malverd riunì la punta delle dita e guardò il diagramma. — A meno che fosse per l'oncozima. — L'oncomet? — Si tratta di un farmaco che il Reparto Venticinque sta sperimentando da più di diciotto mesi. — Che tipo di farmaco? — Per il cancro. Subito St. James ripensò all'intervista fatta da Cambrey a Trenarrow. Il legame tra quell'incontro e i viaggi di Mick a Londra finalmente non era solo una pura e vaga ipotesi. — Una forma di chemioterapia? Come agisce? — Inibisce la sintesi delle proteine nelle cellule tumorali — spiegò Malverd. — La speranza è che impedisca la replicazione delle cellule oncogene, i geni che causano il cancro. — Accennò al grafico e indicò la linea rossa che scendeva bruscamente in una diagonale che segnalava la percentuale di crescita inibita rispetto al tempo trascorso dalla somministrazione del farmaco. — Come vede, sembra promettente. Nei topi si sono ottenuti risultati straordinari. — Non è stata ancora usata su soggetti umani? — Mancano ancora anni per quello. Gli studi tossicologici sono appena iniziati. Conosce la questione: quale può essere un dosaggio sicuro? Quali sono gli effetti biologici? — Gli effetti collaterali? — Certo. Dovremo controllarli accuratamente. — Se non emergessero effetti collaterali, se nulla venisse a indicare una qualsiasi perìcolosità dell'oncomet, che succede? — Immettiamo il farmaco sul mercato. — Con guadagni notevoli, immagino. — Questo è certo — confermò Malverd. — Sarebbe un farmaco rivoluzionario. E sono portato a ritenere che questo Cambrey stesse davvero pre-
parando un articolo sull'oncomet. Ma in che modo questo possa avere condotto alla sua uccisione... proprio non saprei. A St. James invece pareva di intuirlo. Poteva essersi trattato di una notizia raccolta casualmente, un'idea passata da qualcuno che avesse accesso a informazioni riservate. — Cosa mi può dire della Islington di Penzance? — È una delle nostre sedi di ricerca. Ne abbiamo diverse in tutto il paese. — Si addossò allo schienale. — In genere ciascun laboratorio si occupa di una specifica patologia. Il morbo di Parkinson, la corea di Huntington, e ora ce n'è uno nuovo impegnato sull'AIDS. Ci creda o no — aggiunse con un sorriso — ne abbiamo perfino uno che lavora sul raffreddore. — E Penzance? — È una delle tre sedi che fa ricerche sul cancro. — E per caso produce l'oncomet? Malverd lanciò un'altra occhiata pensierosa al grafico. — No. La produzione è affidata al laboratorio di Bury, nel Suffolk. — E presso queste filiali non si fanno sperimentazioni? — Non approfondite come qui da noi. Be', i test iniziali, si intende. Altrimenti come farebbero a sapere cos'hanno ottenuto? — Ed è possibile che qualcuno presso uno di questi laboratori abbia accesso ai risultati? Non solo quelli locali ma anche quelli di Londra? — Certamente. — E questa persona potrebbe avere notato un'incongnienza? Magari un particolare trascurato nella fretta di immettere sul mercato un nuovo prodotto? L'espressione amichevole di Malverd si alterò. — È assolutamente escluso, signor St. James. Questo è un laboratorio di ricerca non un romanzo di fantascienza. — Si alzò. — Adesso devo tornare al mio lavoro. Fino a che non troveremo un nuovo direttore per il Venticinque io mi troverò nelle peste. Sono certo che può capire. St. James passò con lui nell'ufficio attiguo dove Malverd consegnò le due agende alla segretaria. — Erano in perfetto ordine, signora Courtney. Mi congratulo. Lei prese i due registri e rispose freddamente: — Il signor Brooke era molto preciso, signor Malverd. St. James ebbe un soprassalto di sorpresa. — Il signor Brooke? — chiese. Gli pareva impossibile. Malverd confermò mentre riattraversavano il laboratorio. — Justin Brooke. Il biochimico responsabile di questo reparto. Pensi un po', è morto
proprio in questo weekend, in Cornovaglia. Un incidente. Avevo pensato, lì per lì, che questo fosse il motivo della sua visita. 22 Prima di far cenno all'agente di aprire la porta, Lynley, che reggeva un vassoio di plastica con tè e panini imbottiti, diede un'occhiata attraverso lo spioncino. Seduto al tavolo, a capo chino, suo fratello si tormentava le pellicine attorno alle unghie. Indossava ancora la felpa a righe che gli aveva dato MacPherson, a Whitechapel, ma ormai non era più sufficiente. Peter tremava da capo a piedi: braccia, gambe, testa, spalle. Quando lo avevano fatto passare in quel locale, mezz'ora prima - da solo, a parte un agente, fuori, a controllare che non commettesse gesti inconsulti - Peter non aveva detto nulla. Né domande, né affermazioni, né richieste. Se n'era rimasto lì, semplicemente, le mani poggiate sullo schienale di una sedia, a guardare quella stanza impersonale. Un tavolo, quattro sedie, pavimento di linoleum di un beige spento, due plafoniere di cui una sola funzionante, un portacenere rosso, di alluminio, molto acciaccato. Prima di sedersi si era limitato a dare un'occhiata a Lynley e ad aprire la bocca, come per parlare, l'espressione supplichevole. Ma non aveva detto nulla. Pareva stesse rendendosi conto solo adesso dell'irreparabile frattura che aveva provocato nei rapporti con il fratello. Se riteneva che i vincoli di sangue tra loro costituissero un legame insolubile, e che gli fosse ancora possibile farvi appello per salvarsi, non pareva che intendesse farvi cenno. L'agente richiuse la porta dopo che Lynley fu entrato. Il rumore aspro e secco della chiave che faceva scattare la serratura risuonò tetro e definitivo all'orecchio di Lynley. Non aveva previsto la sua reazione di adesso. Non si era aspettato di provare quel desiderio, quel bisogno esigente di proteggere e salvare il fratello. Per qualche motivo illusorio Lynley aveva davvero creduto che quando Peter si fosse concretamente trovato di fronte alle conseguenze del tipo di vita che si era scelto anni prima, la saracinesca si sarebbe definitivamente abbassata. Ma ora che la mano della giustizia era calata su Peter si accorgeva di non sentirsi affatto compiaciuto per essere quello dei due che aveva scelto la strada della rettitudine e della probità. Gli pareva invece di essere un ipocrita e sentiva al di là di ogni dubbio che il vero colpevole era lui: quello che aveva avuto di più e che aveva sprecato di più. Peter alzò gli occhi, lo fissò brevemente, distolse lo sguardo. Ma la sua
espressione non era ostile; vi si mescolavano invece confusione e paura. — Ci farà bene mangiare qualcosa — osservò Lynley sedendo di fronte al fratello e posando tra loro il vassoio. Visto che Peter non si muoveva, prese un panino e cominciò a liberarlo dall'involucro. Il cellofane diede un curioso suono crepitante, come di legno che brucia. — Qui il cibo è abominevole. Segatura o sbobba. Questi li ho ordinati in un bar qui davanti. Assaggia il roastbeef, non è male. — Peter non reagì. Lynley versò del tè. — Non ricordo quanto zucchero ci metti, me ne sono fatto dare alcune bustine. E c'è anche del latte, se vuoi. — Mescolò, svolse un altro panino. Che idiozia, rifletté. Un comportamento da chioccia, come se il cibo potesse risolvere tutto. — Non ho fame — disse Peter. Aveva le labbra screpolate, escoriate: nella mezz'ora che era rimasto solo aveva continuato a mordicchiarsele, e in un punto avevano cominciato a sanguinare, ma adesso il sangue si era raggrumato formando una piccola macchia scura. Altre tracce di sangue, piccole crostine secche, gli orlavano l'interno delle narici, e le ciglia erano incrostate di cispa. — Per prima cosa va via l'appetito — continuò Peter. — Poi il resto. Non ti accorgi di niente. Ti pare di stare benissimo, al meglio. Ma non mangi. Non dormi. Studi sempre meno e poi niente del tutto. Prendi coca e basta. Il sesso. Certe volte hai voglia di far l'amore ma alla fine non fai neanche quello. Molto meglio la coca. Lynley depose il panino, intatto, sull'involucro di cellofane. D'un tratto non provava più appetito. E avrebbe voluto non provare neppure altro. Chiuse le mani attorno alla tazza di plastica assorbendone il tepore. Si sentiva gelato ma era un freddo che veniva da dentro. Come i brividi di Peter, era di natura psicologica. — Voglio aiutarti. Peter gli afferrò la mano sinistra, ma senza rispondere. — Non posso cambiare il fratello che ero quando avevi bisogno di me — continuò Lynley. — Posso solo offrirti quello che sono adesso, per quanto poco sia. Peter parve rattrappirsi. Forse era il freddo, esterno e interno, a produrre quella reazione per conservare le energie, economizzare le forze che gli restavano. Quando rispose mosse appena le labbra. — Volevo essere come te. — Come me? E perché? — Tu eri perfetto. Eri il mio modello. Volevo diventare come te. E
quando mi sono accorto che non ci riuscivo, ho rinunciato. Se non potevo essere come te non volevo essere niente. Parole terribilmente definitive. Non solo sembravano chiudere un colloquio che era appena iniziato, ma parevano escludere ogni possibilità di accomodare le cose tra loro. Lynley cercò qualcosa... parole, immagini, un'esperienza comune... che gli permettesse di superare quel baratro di quindici anni e tornare accanto al ragazzino che aveva abbandonato a Howenstow. Ma non trovò nulla. Non c'era modo di cancellare il tempo, di riparare. Gli pareva di essere di piombo. Trasse di tasca portasigarette e accendino, li posò sul tavolo. L'astuccio era appartenuto a suo padre, e la grande A ornata incisa sul coperchio si era consumata, certi tratti erano quasi scomparsi, ma quell'oggetto gli era caro e non gli sarebbe mai venuto in mente di sostituirlo con uno nuovo. Lo fissava: un piccolo simbolo rettangolare di tutto ciò da cui era fuggito, di tutti i settori della sua esistenza che aveva deciso di negarsi, del tumulto di emozioni che aveva rifiutato di affrontare. E trovò le parole. — È stata la scoperta che andava a letto con Roderick mentre papà era ancora vivo. Non potevo accettarlo, Peter. Non contava che si fossero innamorati, che non fosse una cosa premeditata ma semplicemente accaduta. Non contava che Roderick avesse tutte le intenzioni di sposarla quando lei fosse stata libera. Non contava che lei ancora volesse bene a nostro padre... e so che gli voleva bene perché ho visto come si comportava con lui anche dopo avere iniziato la relazione con Roderick. Io non capivo, non riuscivo a capire come potesse amare entrambi. Come faceva a essere devota a uno... assisterlo, lavarlo, aiutarlo a nutrirsi, fargli compagnia, stargli accanto ora dopo ora e giorno dopo giorno... e andare a letto con l'altro? E come faceva Roderick a presentarsi a mio padre, parlare della sua malattia... sapendo che subito dopo sarebbe andato con la mamma? Incomprensibile. Non vedevo come fosse possibile. Volevo che la vita fosse semplice e lineare, e invece no. Sono dei selvaggi, mi dicevo. Non hanno alcun senso morale. Non è così che ci si comporta. E devono impararlo. Glielo insegno io. Gliela farò vedere io. Li punirò. — Lynley prese una sigaretta e spinse l'astuccio verso il fratello. — Il fatto che me ne sia andato da Howenstow, che ci tornassi così di rado, non aveva nulla a che vedere con te, Peter. Tu sei stato la vittima del mio bisogno di vendicare qualcosa di cui probabilmente nostro padre non ha mai saputo nulla. Per quel che vale... e Dio sa che è molto poco... ti chiedo scusa. Peter prese una sigaretta ma si limitò a tenerla tra le dita, come se accen-
derla fosse spingersi troppo in là. — Desideravo tanto che fossi lì con me, e non c'eri — sussurrò. — Nessuno voleva dirmi quando saresti tornato, e ho creduto che volessero tenere il segreto, per qualche motivo. Poi alla fine mi sono reso conto che non me lo dicevano perché nessuno lo sapeva. E allora ho smesso di chiederlo. E dopo un po' ho smesso di desiderare che ci fossi. Quanto tornavi a casa era più facile odiarti, così quando ripartivi... e ripartivi sempre... non aveva tanta importanza. — Tu non sapevi della mamma e Trenarrow? — No, l'ho scoperto dopo parecchio tempo. — In che modo? Peter accese la sigaretta. — In collegio. In un giorno di visita. Sono venuti tutti e due e allora dei compagni me l'hanno detto. "Quel Trenarrow si fa tua madre, Pete. Sei tanto scemo che non lo sai?" — Alzò le spalle. — Io ho fatto l'indifferente, come se lo sapessi già. Ho continuato a dirmi che prima o poi si sarebbero sposati. E invece no. — Sono stato io a impedirlo. Volevo che soffrissero. — Ma non avevi modo di imporre la tua volontà. — Sì, invece. Anche adesso. La mamma non sarebbe mai venuta meno a certi obblighi. Io lo sapevo e ho fatto leva su quello. Peter non chiese spiegazioni. Depose la sigaretta sul portacenere e ne osservò la sottile voluta di fumo. Lynley scelse con cura le parole per avventurarsi in un territorio che avrebbe dovuto essere noto e familiare e invece risultava sconosciuto. — Forse riusciremo a venir fuori insieme da questa faccenda. Non possiamo tornare indietro, certo. Ma cercare di andare avanti. — Una riparazione da parte tua? — Peter scosse il capo. — Non mi devi niente, Tommy. Oh, so quel che pensi. Ma mi sono scelto io la mia strada. Tu non sei responsabile di me. — E poi, come se quell'ultima affermazione gli sembrasse scostante: — Davvero. — Qui non si tratta di senso di responsabilità. Io desidero aiutarti. Sei mio fratello. Ti voglio bene. A quella semplice constatazione Peter ebbe un sussulto e le labbra gli tremarono. — Mi dispiace — bisbigliò infine. E poi: — Tommy. Lynley non aggiunse altro fino a quando Peter ritrasse la mano. Erano soli nella stanza dei colloqui solo grazie all'ispettore MacPherson. Il sergente Havers aveva protestato energicamente quando Lynley aveva chiesto quei pochi minuti. Aveva invocato norme, regolamenti, procedure, diritto civile fino a che MacPherson l'aveva messa a tacere con un semplice: —
Conosco anch'io la legge, se permetti — e l'aveva mandata di guardia al telefono ad aspettare i risultati dell'analisi della sostanza trovata nell'abitazione di Peter. Dopo di che MacPherson si era allontanato a sua volta lasciando Lynley davanti a quella porta e volgendosi a mezzo per dire: — Solo venti minuti. — Così, nonostante tutto quel che avrebbero avuto bisogno di dirsi circa quegli anni in cui si erano fatti del male a vicenda, c'era appena il tempo di mettere in chiaro certi fatti. Il resto doveva aspettare. — Ho bisogno di sapere di Mick Cambrey — disse Lynley. — E anche di Brooke. — Tu credi che li abbia uccisi io. — Non ha importanza quel che penso io, ma come la vede la polizia di Penzance. Peter, capisci bene che non posso lasciare accusare John Penellin della morte di Mick. Peter aggrottò la fronte. — Hanno arrestato John? — Sabato sera. Avevi già lasciato Howenstow quando sono venuti a prenderlo, dunque? — Ce ne siamo andati subito dopo cena. Non ne sapevo nulla. — Toccò con un dito il panino che aveva davanti e lo spinse da parte con una smorfia di disgusto. — Ho bisogno di sapere la verità — insistette Lynley. — È l'unica cosa che può aiutarci. E l'unico modo per far rilasciare John, che non intende far nulla per salvarsi, è dire alla polizia cosa è successo esattamente venerdì sera. Peter, hai visto Mick Cambrey dopo che John Penellin ha lasciato Gull Cottage? — Mi accuseranno. Mi processeranno. — Non hai niente da temere se sei innocente. Se ti fai avanti a dire la verità. Peter, sei andato là? O Brooke ha mentito? La via d'uscita era lì, facilissima, aperta dall'ultima domanda di Lynley. Sarebbe bastato negare, sostenere che Brooke aveva inventato tutto. Addirittura escogitare un qualsiasi motivo per cui Brooke poteva averlo fatto, tanto ormai Justin non poteva più controbattere. Oppure poteva decidere di andare in aiuto di una persona che da sempre faceva parte della cerchia familiare. Peter si passò la lingua sulle labbra aride. — Sì, sono andato là. Lynley non sapeva se provava sollievo o disperazione. — Che è successo? — Credo che Justin non si fidasse a lasciare che me la sbrigassi per conto mio. O forse smaniava.
— Per la coca? — Ne aveva portata con sé una scorta. — Peter riferì brevemente la zuffa tra Sidney e Justin Brooke, alla spiaggia. — Lei l'ha scaraventata in acqua e quindi addio. Avevo già telefonato a Mark per farmene dare ma non avevo abbastanza quattrini e lui non intendeva farmi credito, neanche per qualche giorno. — E così ti sei rivolto a Mick? — Una risposta affermativa sarebbe stata la prima crepa nella versione di Brooke. — Non per la coca — dichiarò Peter, confermando inconsapevolmente la prima parte del racconto di Justin. — Per chiedergli del denaro. Mi sono ricordato che a venerdì alterni preparava le buste paga. — Sapevi anche che Mick si travestiva? Peter ebbe un mezzo sorriso da cui traspariva una riluttante ammirazione: un'ombra del ragazzino di un tempo. — Ho sempre saputo che saresti diventato un ottimo investigatore. Lynley non stette a spiegargli quanta poca abilità da parte sua avesse concorso alla scoperta della doppia vita di Mick Cambrey a Londra. Si limitò a chiedere: — Da quanto tempo lo sapevi? — Un mese, circa. Mi è capitato di comperare da lui, a Londra, quando gli altri spacciatori erano a secco. Ci trovavamo a Soho. C'è un vicoletto, vicino alla piazza, dove si trattano questi affari. Ci incontravamo in un night da quelle parti. Me ne passava un grammo, o mezzo, o anche meno. A seconda della grana che avevo. — Mi sembra maledettamente rischioso. Perché non a casa tua? O sua? Peter gli lanciò un'occhiata. — Neanche sapevo che avesse una casa. E poco ma sicuro non volevo che vedesse la mia. — E come vi mettevate in contatto? Come prendevate appuntamento? — Ti ho detto. Capitava che i miei fornitori fossero sprovvisti e allora gli telefonavo, a Nannurel. E se lui aveva in programma di venire a Londra ci mettevamo d'accordo per trovarci. — Sempre a Soho? — Sempre nello stesso posto. Quel night. È là che ho scoperto la storia del travestimento. — E come? Peter raccontò, arrossendo leggermente: aveva aspettato per un'ora che Mick Cambrey comparisse al Kat's Kradle; poi una tale lo aveva abbordato quando era andato al bar a cercare dei fiammiferi; avevano bevuto qualche bicchiere; poi erano usciti insieme. — C'è una specie di rientranza dove si
resta nascosti, più o meno. A quel punto ero parecchio sbronzo. Non mi rendevo conto di quel che facevo e non me ne fregava niente, così quando quella ha cominciato a sfregarmisi addosso mi sono eccitato e mi andava benissimo. Poi, arrivati a un certo punto, lei si è messa a ridere. Rideva e rideva come una pazza. E solo allora mi sono accorto che si trattava di Mick. — Non avresti potuto riconoscerlo, prima? Peter scrollò il capo. — Era perfetto, Tommy. Non so proprio come facesse ma era una magnifica donna. Molto sexy. Sarebbe riuscito a farci cascare anche suo padre. Io di sicuro ci sono cascato. — E quando hai visto che era Mick? — Volevo ammazzarlo di botte, ma ero troppo brillo. Gli ho mollato un pugno e siamo caduti tutti e due. O quanto meno so che ci siamo ritrovati entrambi a terra. E poi, figurati, tutt'a un tratto è comparsa Sidney St. James... da non credersi. Ed era con Brooke che mi ha strappato via da Mick, e Mick se l'è filata. Non l'ho più rivisto fino a venerdì sera, a Nannurel. — E come hai scoperto che Mick smerciava cocaina? — Me l'ha detto Mark. — Ma non hai mai cercato di averne da lui, a Nannurel? — Spacciava solo a Londra. — Ma non era sempre a Londra, no? Chi erano i suoi clienti? — C'è tutto un giro, Tommy. Fornitori, acquirenti... si conoscono tutti. Ti passano un numero, chiami, fissi un appuntamento. — E se per caso chi si mette in contatto è uno della squadra narcotici? — Allora sei fregato. Ma se sei furbo e sai organizzare il tuo giro non succede. E Mick sapeva giostrarsi. Come giornalista sapeva individuare le fonti di informazione; quando ha cominciato a spacciare non ha fatto altro che cercarsi delle fonti di altro tipo. Lui conosceva centinaia di persone. Verissimo, pensò Lynley. Sarebbe stato facile per uno nella posizione di Mick Cambrey. — E cos'è successo venerdì sera? I vicini hanno sentito un litigio. — Avevo assoluto bisogno di roba e Mark, quel pomeriggio, l'ha capito e ne ha approfittato per tirare su il prezzo. Io ero all'asciutto, così sono andato da Mick per chiedergli un prestito. Ma non ha voluto saperne. Ho giurato che glieli avrei resi entro una settimana. — In che modo? Peter si fissò le unghie rosicchiate e Lynley capì che stava battagliando per decidere fino a che punto vuotare il sacco e soppesando le conseguen-
ze. — C'è l'argenteria di Howenstow — mormorò infine. — Pensavo di poterne vendere qualche pezzo a Londra, senza che nessuno se ne accorgesse. Per un po', almeno. — Questa era la ragione principale per cui sei andato in Cornovaglia? — Lynley attese la risposta cercando di restare indifferente all'idea che, solo per soddisfare il bisogno di droga, suo fratello volesse vendere oggetti che da generazioni appartenevano alla loro famiglia. — Non te lo so dire. Non c'era un ragionamento chiaro. A un certo momento pensavo che dovevo andarci per farmi dare roba da Mark. E subito dopo avevo in mente l'argenteria da vendere a Londra. E poi c'era l'idea di ottenere dei soldi da Mick. Succede così. Dopo un po' non sai più cos'hai in testa. Diventa tutto confuso. — E quando Mick si è rifiutato di farti un prestito? — Ho dato i numeri. Ho minacciato di far sapere a tutto il paese quel che lui combinava a Londra, fra droga e travestimenti. — Ma non è bastato a fargli sganciare qualche sterlina? — Proprio no. Si è fatto una risata. Ha detto che se volevo spillargli quattrini dovevo minacciare la sua vita, inutile ricattarlo. Per salvare la pelle la gente è disposta a tirar fuori molto di più che non per conservare un segreto, diceva. È da lì che intaschi soldi. E continuava a ridere, come se volesse provocarmi. — E Brooke che faceva? — Cercava di placare le acque. Capiva che ero fuori di me, forse aveva paura che la situazione degenerasse. — Ma non vi siete calmati? — Mick mi sfidava. Ha detto che se intendevo sciorinare i suoi panni sporchi lui era pronto a fare la stessa cosa con i miei. E tu e la mamma avreste trovato molto interessante la notizia che ero da capo con la droga. Ma quello non mi faceva né caldo né freddo — Peter si dava dei piccoli morsetti nervosi attorno all'unghia di un pollice. — Se anche veniva a dirtelo che importanza aveva? Tu comunque già lo immaginavi. E la mamma... a me interessava solo farmi un viaggio. Tu non sai cosa significhi essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di arraffarsi della coca. Era un'ammissione molto pericolosa. Lynley ringraziò il cielo che né MacPherson né la Havers fossero lì a sentirla. Il primo forse l'avrebbe considerata come un semplice modo di dire. Ma l'altra ci si sarebbe buttata sopra come un cane affamato su un osso. — E a quel punto sono esploso — continuò Peter. — L'alternativa era
strisciare. — È stato allora che Brooke se n'è andato? — Ha cercato di convincermi a venir via ma io mi sono rifiutato. Ho detto che volevo sistemare la faccenda con quello schifoso travestito. Di nuovo una scelta di parole a dir poco infelice. Lynley provò un brivido. — E poi? — Ho scaricato addosso a Mick tutti gli insulti che mi venivano in mente. Urlavo, farneticavo, davo i numeri e soprattutto avevo assoluto bisogno... — Peter afferrò la tazza e ne prese una lunga sorsata. Un rivolo di tè gli scese lungo il mento. — Alla fine imploravo e supplicavo che mi allungasse cinquanta sterline. Lui mi ha buttato fuori. La sigaretta di Peter si era consumata, mai toccata, nel portacenere trasformandosi in un cilindro di cenere grigia che lui toccò con l'indice: si dissolse in un mucchietto inconsistente. — Il denaro era ancora lì quando me ne sono andato, Tommy. Puoi anche non crederci, ma era lì. E Mick era vivo. — Ti credo. — Lynley si sforzò di avere un tono convinto, come se quella sua persuasione bastasse a reintegrare Peter nell'ambito sicuro della famiglia. Ma era pura fantasia perché, così stando le cose, una volta riferita alla polizia di Penzance questa versione dei fatti, Peter sarebbe stato sicuramente messo sotto accusa, soprattutto quando si fosse saputo che era un tossicomane. Peter parve rassicurato, come se quel tenue legame nato tra loro adesso gli concedesse di aprirsi. — Io non le ho toccate, Tommy. Non mi sarei mai sognato. — E, di fronte all'espressione interrogativa del fratello, spiegò: — Le macchine fotografiche di Deborah. Non le ho prese io. Davvero. Te lo giuro. Il fatto che Peter si fosse tranquillamente disposto a vendere l'argenteria di famiglia rendeva un po' dubitabile che avesse avuto improvvise resipiscenze di fronte alle proprietà di Deborah. Lynley preferì non approfondire. — A che ora hai lasciato Mick, venerdì? Peter rifletté brevemente. — Sono andato all'Anchor and Rose e mi sono bevuto una birra — rispose poi. — Dovevano essere circa le dieci meno un quarto. — Non le dieci? O più tardi? — No, quando ci sono arrivato. — Ed eri ancora là alle dieci? — E al cenno di conferma di Peter,
Lynley aggiunse: — Allora come mai Justin ha fatto l'autostop per tornare a Howenstow? — Justin? — Perché non è rientrato con te? Non era lì al pub? Peter gli lanciò un'occhiata perplessa. — No. Lynley provò una specie di guizzo interiore. Era il primo elemento favorevole, e il modo in cui era emerso - chiaramente Peter non si rendeva conto di quanto fosse importante - lo convinse che suo fratello questa volta stava dicendo la verità. Era un dato da controllare, una discrepanza con la versione di Brooke, la vaga possibilità che l'accusa contro di lui potesse essere smantellata in tribunale. — Quel che non capisco — riprese — è il motivo per cui te ne sei andato da Howenstow così all'improvviso. È stato per via della nostra discussione nella sala da fumo? Peter ebbe un breve sorriso. — Considerando tutti gli scontri che abbiamo avuto, uno di più non mi avrebbe certo messo in fuga, ti pare? — Distolse lo sguardo. Al primo momento Lynley pensò che stesse inventando, poi vide che suo fratello arrossiva e capì che era imbarazzato. — È stato per via di Sasha. Non mi dava pace, voleva a tutti i costi tornare a Londra. Nella sala da fumo mi ero intascato un portafiammiferi d'argento, quello che sta sulla scrivania... e quando ha saputo che non ero riuscito ad avere soldi da Mick né droga da Mark voleva tornare subito in città per venderlo. Non si teneva più, aveva bisogno di coca. Ne sniffava parecchia, Tommy. Di continuo. Più di me. — E ci sei riuscito? È così che ti sei procurato quel che si è iniettata oggi? — Macché. Non mi è stato possibile venderlo, capivano subito che era roba rubata. La chiave girò nella serratura, ci fu un colpetto secco contro la porta che subito dopo venne spalancata da MacPherson. Era in maniche di camicia, la cravatta allentata e gli occhiali spinti sopra la fronte. Dietro di lui il sergente Havers, che non si curava di nascondere un sorrisetto compiaciuto. Lynley si alzò facendo cenno al fratello di restare dov'era. MacPherson accennò al corridoio e Lynley uscì con lui richiudendo l'uscio. — Ha un avvocato? — chiese MacPherson. — Certo. Non ci siamo messi in contatto ma... — Guardò il volto grave dell'ispettore. — Dice che non ne sa niente del flaconcino, Angus. E di sicuro potremo trovare dei testimoni a confermare che era fuori a comperare
pane e uova quando lei si è iniettata quella roba. — Si sforzava di avere un tono calmo e ragionevole, di tenerli concentrati sulla morte di Sasha Nifford. Impensabile che MacPherson e la Havers avessero in qualche modo collegato Peter ai fatti accaduti in Cornovaglia. Ma quell'accenno a un avvocato era indicativo. — Ho parlato con quelli della scientifica, prima di venire qui. Pare che sulla siringa ci siano solo le impronte di Sasha, e che sul flaconcino non compaiano quelle di Peter. Per un'overdose di questo genere... L'espressione di MacPherson si fece ancora più cupa. Interruppe Lynley sollevando una mano. — Già, per un'overdose. Ma qui abbiamo per le mani una faccenda diversa. — Sarebbe a dire? — Havers, spiega tu. Lynley fece una certa fatica a distogliere lo sguardo da MacPherson per fissare la faccia rincagnata del sergente che mostrava di nuovo quel sorrisetto condiscendente, saputo, soddisfatto. La Havers aveva un foglio in mano. — Il referto tossicologico dichiara che si tratta di chinino e di un prodotto chiamato ergotamina. Mescolati nelle opportune proporzioni hanno oltre che l'aspetto anche il sapore dell'eroina. E la ragazza evidentemente pensava che si trattasse di eroina quando se l'è iniettata. — Ma che vorreste dire? — Lo sai quanto noi — rispose MacPherson. — Si tratta di omicidio. 23 Deborah aveva mantenuto fede alla sua parola. Quando St. James rientrò a casa, Cotter gli comunicò che lei era arrivata un'ora prima. Con una valigetta, aggiunse in tono significativo. — Dice che ha parecchie cose da fare, foto da stampare... ma secondo me è decisa a restare qui fino a che non si avranno notizie della signorina Sidney. Deborah, come aspettandosi che St. James cercasse di farle cambiare idea, si era chiusa subito nella camera oscura e la lucina rossa accesa sopra la porta segnalava che non poteva essere disturbata. Quando lui bussò, chiamandola, rispose allegramente: — Arrivo subito — e fece un po' di tramestio, con energia eccessiva. Lui scese nel suo studio e formò un numero di telefono. Il dottor Trenarrow era in casa e, non appena lui ebbe detto chi era, gli
chiese di Peter col tono volutamente calmo di chi si aspetta il peggio ma finge che tutto sostanzialmente vada nel modo migliore. St. James ne arguì che lady Asherton fosse presente e che Trenarrow volesse in tutti i modi arginarne le preoccupazioni. Di conseguenza si limitò a fornirgli solo le notizie essenziali. — Lo abbiamo trovato dalle parti di Whitechapel. Al momento Tommy è con lui. — Tutto bene? St. James lo rassicurò in modo molto vago, tralasciando i particolari, rendendosi conto che l'esposizione completa dei fatti - a Trenarrow o a chiunque altro - spettava a Lynley. Poi lo mise al corrente della vera identità di Tina Cogin. Dapprima l'altro parve sollevato nell'apprendere che il suo numero telefonico era stato in mano di Mick Cambrey e non di una sconosciuta squillo londinese. Ma fu sollievo passeggero che si trasformò in disagio e infine in pietà quando afferrò il pieno significato della doppia vita di Mick. — Naturalmente non ne sapevo nulla, chiaro che doveva tenere ben nascosta la cosa. Lasciar trapelare una faccenda del genere in un paesino come Nannurel sarebbe stata la morte... — si interruppe bruscamente e St. James intuì benissimo il filo dei suoi pensieri. — Abbiamo appurato che aveva dei contatti con la Islington-London — continuò. — Lei sapeva che Justin Brooke lavorava là? — Alla Islington? No. — Mi chiedevo se le visite di Mick alla ditta potevano derivare in qualche modo dall'intervista che le ha fatto tempo addietro. St. James udì un tintinnio di porcellana, il gorgoglio sommesso di un liquido versato. Trascorse qualche istante prima che Trenarrow rispondesse. — Può darsi, certo. Stava preparando un articolo a proposito delle ricerche sul cancro. Gli ho parlato del mio lavoro e di certo ho raccontato delle ricerche che si svolgono presso la Islington di Penzance, quindi avrò accennato anche alla sede di Londra. — È possibile che abbia accennato anche all'oncomet? Altra pausa. — Oncomet? Allora sa... — Un fruscio di carte. Il ronzio di un timer subito fermato. — Accidenti, un attimo solo. — Una sorsata di tè. — Ma sì, per forza. Ricordo che discutevamo di tutti gli ultimi ritrovati, dagli anticorpi monoclonali ai chemioterapici più avanzati. L'oncomet rientra in quest'ultima categoria. Non credo proprio che l'avrei tralasciato. — Dunque lei già era al corrente dell'oncomet quando Mick l'ha intervi-
stata? — Tutti sapevano dell'oncomet, alla Islington. È stato messo a punto presso i laboratori della Bury St. Edmunds. — Cosa può dirmi in proposito? — Si tratta di un anti-oncogeno. Inibisce la replicazione del DNA. Come lei sa, il cancro consiste di una riproduzione anarchica di cellule che uccidono attraverso una dose massiccia dei prodotti delle funzioni stesse del corpo, funzioni letteralmente impazzite. — E gli effetti collaterali di un antioncogeno? — È quello il problema. La chemioterapia ha sempre effetti secondari. Perdita di capelli, nausea, dimagrimento, vomito, febbre. — Comunque rientrano nella norma, no? — Sì, ma non per questo sono meno fastidiosi. Spesso pericolosi. Mi creda, signor St. James, se si riuscisse a elaborare un farmaco privo di disturbi collaterali sarebbe un progresso rivoluzionario. — E se si presentasse un prodotto efficace come antioncogeno ma che al tempo stesso provocasse disturbi più gravi? — Cos'ha in mente? Disfunzioni renali? Deperimento organico? Qualcosa del genere? — Magari peggio. Un'azione teratogena, per esempio. — E presente in un prodotto chemioterapico. Non potrebbero mai essere utilizzati in donne in gravidanza. — Qualcosa che possa danneggiare le cellule germinali? Seguì una pausa molto protratta e infine Trenarrow si schiarì la voce. — Lei sta riferendosi a un farmaco che provochi tare genetiche a lungo termine in uomini e donne. Non vedo come sia possibile. I farmaci sono sottoposti a controlli accuratissimi. Qualcuno avrebbe sicuramente individuato la cosa. Non si sarebbe potuto tenerla nascosta. — Poniamo invece che sia successo — insistette St. James. — Mick avrebbe potuto scoprirlo? — Forse. Si sarebbe evidenziato come anomalia nei risultati dei test, ma lui come avrebbe fatto a procurarseli? Anche alla sede di Londra, chi glieli avrebbe passati? E perché? St. James riteneva di conoscere la risposta a entrambi questi interrogativi. Deborah stava facendo uno spuntino quando entrò nello studio dieci minuti più tardi. Aveva diviso una mela in otto spicchi disponendoli su un
piatto insieme ad alcuni pezzetti di formaggio. Visto che c'era di mezzo roba da mangiare, Peach e Alaska - rispettivamente la cagnolina e il gatto di casa - la tallonavano da presso. Peach passava sguardi intensi da Deborah al piatto ma Alaska, che non intendeva sminuire la propria dignità felina con umili richieste, balzò sulla scrivania di St. James per passeggiare tra penne, matite, libri, riviste e corrispondenza. Alla fine si accoccolò vicino al telefono, come aspettasse una chiamata. — Terminato, con le foto? — chiese St. James. Sedeva nella sua poltrona rivestita di pelle, presso il caminetto spento, dove se n'era rimasto a riflettere dopo il colloquio con Trenarrow. Deborah sedette a gambe incrociate sul divano di fronte, il piatto in equilibrio su un ginocchio. I jeans e la camicia bianca mostravano diverse macchie delle soluzioni usate in camera oscura. — Per ora. Mi sto concedendo una pausa. — È venuta fuori tutt'a un tratto questa tua esigenza di stampare foto. — Sì, in effetti — confermò lei, placida. — Hai in mente una mostra? — Forse. Probabile. — Deborah. — Sì? — Alzò lo sguardo allontanandosi i capelli dalla fronte. Teneva in mano una fettina di formaggio. — Nulla. — Ah. — Porse un bocconcino a Peach che lo fece sparire, dimenò la coda, abbaiò chiedendone un altro. — Mi ci sono voluti due mesi per farle perdere quest'abitudine, dopo che sei partita. Deborah passò all'interessata un altro pezzetto di formaggio, le diede un colpetto affettuoso sulla testa, ne accarezzò le orecchie seriche e alzò gli occhi con espressione del tutto candida. — Chiede solo quel che desidera. Che male c'è? Lui colse la provocazione celata. Si alzò. Aveva parecchie telefonate da fare riguardanti sua sorella, Brooke, l'oncomet; e in laboratorio c'erano ad attenderlo diverse pratiche che non avevano nulla a che vedere con la morte di Cambrey, di Brooke e di Sasha; e aveva mille altre ragioni per andarsene. Invece rimase. — Ti spiace togliere quel dannato animale dalla mia scrivania? — Si diresse alla finestra. Deborah andò a prendere Alaska depositandolo sulla poltrona.
— Altro? — chiese. St. James diede un'occhiata al gatto che saggiava entusiasticamente con le zampe la morbidezza della poltrona e cercava poi di farsi il giusto nido per un soggiorno protratto. Si accorse anche che Deborah cercava di trattenere un piccolo sogghigno. — Impudente — disse. — Ragazzino capriccioso — ribatté lei. Giù in strada sbatté la portiera di un'auto. Lui guardò dai vetri. — C'è Tommy — annunciò. Deborah uscì per andargli incontro. St. James capì subito che Lynley non portava buone notizie: i suoi movimenti erano lenti, pesanti. Deborah lo raggiunse di fuori, scambiarono qualche parola, lei gli toccò un braccio e lui scosse il capo prendendole una mano e premendosela contro la guancia. St. James si allontanò dalla finestra dirigendosi alla libreria. Ne prese un volume a caso e l'aprì altrettanto a caso. "Voglio che tu sappia che sei per me l'ultimo sogno" lesse. "Pur nel mio abbrutimento, il vederti con tuo padre, e vedere questa casa da te trasformata in una vera casa, ha animato antiche ombre..." Buon Dio. Lo richiuse bruscamente. Le due città. Magnifico, pensò acidamente. Rimise il libro al suo posto e passò lo sguardo sugli altri. Via dalla pazza folla poteva essere interessante: un'egregia crisi di angoscia insieme a Gabriel Oak. — ...e dopo ho parlato con mia madre — diceva Lynley mentre entravano nello studio. — Non l'ha presa bene. St. James per prima cosa gli offrì un whisky che l'amico accettò con gratitudine, poi sedette sul divano e Deborah si appollaiò sul bracciolo più vicino. — Sembra che Brooke abbia detto la verità — cominciò Lynley. — Peter è stato a Gull Cottage dopo che John Penellin se n'è andato. E ha litigato con Mick. — Riferì quanto aveva saputo da Peter, compreso l'episodio di Soho. — Sì, avevo pensato che potesse trattarsi di Cambrey — annuì St. James quando Lynley ebbe terminato. — Sidney mi aveva raccontato di averli visti in quel vicolo, e la descrizione concordava — aggiunse rispondendo alla domanda inespressa che si era disegnata sul volto di Lynley. — Quindi se Peter ha riconosciuto Cambrey, è probabile che l'abbia riconosciuto anche Justin Brooke. — Brooke? E perché? Certo, era lì presente con Sidney, ma che c'entra?
— Si conoscevano, Tommy. Brooke lavorava alla Islington. — St. James li mise al corrente di quanto era venuto a sapere. — E che posizione ha Trenarrow in tutta questa storia, St. James? — Tutto ha preso inizio da lui: ha dato a Cambrey delle informazioni chiave accennando all'oncomet e Cambrey ha seguito la pista. — E poi Mick è morto. E Trenarrow era nelle vicinanze, quella sera. — Ma non ha un movente, Tommy. Justin Brooke, invece, sì. — St. James illustrò la teoria che aveva elaborato poco prima, in quei minuti di solitudine nello studio. Cocaina in cambio di informazioni sostanziali, da fonte anonima, su cui costruire un'inchiesta di scottante interesse circa un farmaco potenzialmente pericoloso. Un accordo tra Cambrey e Brooke che però si era incrinato dissolvendosi poi la sera in cui Brooke si era recato con Peter a Gull Cottage. — Ma questo non spiega la morte di Brooke. — Che fin dall'inizio la polizia ha considerato accidentale. Lynley trasse il portasigarette dalla tasca della giacca e lo fissò, soprappensiero. — Il pub — mormorò. — Peter ha detto che Brooke non era all'Anchor and Rose venerdì sera, St. James. — Dopo che è venuto via da Gull Cottage? — Sì. Peter è arrivato al pub alle dieci meno un quarto e c'è rimasto per un po'. E Brooke non è comparso. — Quindi quadrerebbe. Deborah intervenne. — Justin Brooke sapeva che Peter stava portandolo da Mick Cambrey? Peter ha fatto il nome di Mick prima che andassero in paese, o ha detto semplicemente che voleva vedere un tale, a Nannurel? — È escluso che lo sapesse — dichiarò St. James. — Non si sarebbe certo aggregato se avesse avuto idea che Mick Cambrey era la persona da cui Peter voleva farsi prestare dei quattrini. Non avrebbe certo corso il rischio di farsi scoprire. — Direi che questo rischio lo correva molto di più Mick — osservò Deborah. — Cocaina, travestimento, doppia vita a Londra. E Dio sa cos'altro che ancora non sappiamo. Lynley accese la sigaretta. — E inoltre c'è Sasha Nifford. Se è stato Brooke a uccidere Cambrey, per poi morire a sua volta accidentalmente, come sono andate le cose per Sasha? St. James avvertì la tensione dell'amico e si costrinse a chiedere: — Cos'ha detto in proposito la polizia? — Si trattava di chinino ed ergotamina — Lynley sfilò una busta dalla
tasca interna e la tese a St. James. — Secondo loro Sasha credeva che fosse eroina. St. James, col cuore in gola, lesse il breve referto incontrando una certa difficoltà ad assimilare quel linguaggio specialistico che avrebbe dovuto essergli perfettamente familiare. Lynley proseguì dicendo cose che St. James conosceva a menadito da anni. — In dose massiccia provoca una vasocostrizione arteriosa. I vasi sanguigni cerebrali si rompono e la morte è immediata. L'abbiamo visto, no? Aveva ancora l'ago nel braccio. — Ma la polizia esclude la fatalità. — Già. Stavano ancora interrogando Peter quando me ne sono venuto via. — Se fosse così — mormorò Deborah — allora significa... — Che c'è un secondo assassino — concluse Lynley. St. James si diresse nuovamente agli scaffali. Era certo che i suoi movimenti legnosi lo tradissero. — Ergotamina — mormorò. — Non so bene... — Si sforzava di mostrarsi incuriosito ma paura e certezza stavano invadendolo. Prese un volume. — È un farmaco che richiede la ricetta medica — stava dicendo Lynley. St. James sfogliò le pagine con dita malferme. E poi fissò le parole stampate senza vederle. — A che serve? — chiese Deborah. — Più che altro per l'emicrania. — Davvero? Emicrania? — St. James intuì che lei si voltava a guardarlo, sperò con tutte le forze che non dicesse nulla. E invece, in tutta innocenza: — Simon, tu lo prendi per le tue emicranie? Certo, naturale. Lei lo sapeva. Tutti lo sapevano. Non contava mai le compresse, e il flacone era grande. E così Sidney era andata in camera sua, aveva preso quelle che le servivano. Le aveva ridotte in polvere aggiungendo poi il chinino. E aveva consegnato quel veleno destinato a Peter. Invece aveva ucciso Sasha. Doveva dire qualcosa, abbandonare quell'argomento, riportare il discorso su Cambrey e Brooke. Lesse ancora per qualche istante, annuendo, come profondamente assorto, poi chiuse il libro. — Dobbiamo tornare in Cornovaglia — dichiarò. — Alla sede del giornale dovremmo trovare gli elementi che forniscano un preciso nesso tra Brooke e Cambrey. Harry cercava il materiale per un pezzo clamoroso:
contrabbando d'armi nell'Irlanda del Nord; ragazze squillo in intimità con ministri. Cose così. Non avrebbe fatto caso a un accenno all'oncomet. — Non aggiunse il resto. Non spiegò che partendo da Londra l'indomani avrebbe guadagnato tempo: la polizia non l'avrebbe trovato quando fossero andati a interrogarlo circa una bottiglietta d'argento acquistata in Jermyn Street. — Io non ho difficoltà — annuì Lynley. — Webberly è stato tanto gentile da lasciarmi qualche altro giorno libero. E Peter sarebbe scagionato. Vieni anche tu, Deb? St. James si accorse che lei stava scrutandolo. — Sì — disse lentamente. Poi: — Simon, c'è...? Non poteva lasciarle formulare quella domanda. — Adesso scusatemi ma ho parecchi referti da esaminare, in laboratorio. Bisogna che ne sbrighi almeno qualcuno, prima di domani. Non era sceso per cena. Alle nove passate Deborah e suo padre si erano risolti ad andare a tavola, loro due soli. Sogliola, asparagi, patatine e insalata. Un poco di vino. E, dopo, il caffè. Quasi non parlarono, ma Deborah si accorse che suo padre le lanciava frequenti occhiate. Da quando era tornata dall'America il rapporto tra loro era mutato. In precedenza avevano sempre parlato con piena disinvoltura, confidenza e fiducia: adesso erano guardinghi. C'erano argomenti che non si toccavano. Ed era lei a volerlo. Si era affrettata a lasciare la casa di Chelsea appunto per evitare discorsi a cuore aperto con suo padre. Perché lui la conosceva meglio di chiunque altro. Ed era la persona che avrebbe cercato, partendo dal presente, di analizzare il passato. C'era in gioco parecchio, per lui: era molto legato a entrambi. Spinse indietro la sedia e cominciò a raccogliere i piatti. Anche Cotter si alzò. — È bello averti qui stasera, Deb. Come ai vecchi tempi. Noi tre. — Noi due — lo corresse con un mezzo sorrìso. — Simon non è venuto a cena. — Noi tre in questa casa, intendevo dire — Cotter prese dalla credenza il vassoio e glielo passò. Lei vi ammonticchiò i piatti. — Lavora troppo, il signor St. James. Si logora, dico io. Si era spostato verso la porta e lei non poteva sgusciar via con disinvoltura. Decise di stare al gioco. — In effetti è dimagrito, vero, papà? Me ne sono accorta anch'io. — Ah, sicuro. — Approfittò dell'occasione. — Questi ultimi tre anni
non sono stati facili per lui, Deb. Tu non te ne rendi conto, vero? — Be', si capisce, ci sono stati dei cambiamenti per tutti. Probabilmente solo dopo che sono partita si è accorto che non ero più qui a girare per la casa. Ma ci si è abituato. È chiaro che... — Sai, tesoro — l'interruppe il padre — non sei mai stata ipocrita con te stessa. Mi spiace vedere che cominci adesso. — Ipocrita? Ma che sciocchezze. Perché dovrei? — Lo sai benissimo. Secondo me tu e il signor St. James lo sapete perfettamente. Basterebbe solo che uno dei due avesse il coraggio di dirlo e che l'altro avesse il coraggio di smetterla con le finzioni. Posò i bicchieri vuoti sul vassoio e glielo prese di mano. Deborah aveva ereditato l'altezza da sua madre, lo sapeva, ma aveva dimenticato che questo particolare rendeva più facile al padre fissarla negli occhi, come adesso. L'effetto fu sconcertante: l'indusse a una confessione che desiderava ardentemente evitare. — So quello che vorresti — disse — ma non è possibile, papà. Devi accettarlo. Le persone cambiano. Maturano. Si allontanano. La lontananza modifica molte cose. Il tempo fa sbiadire l'importanza dell'altro. — A volte. — E comunque questa volta. — Lo vide interdetto di fronte al suo tono fermo. Le stoviglie sul vassoio tintinnarono. Deborah cercò di smussare gli spigoli. — Ero solo una ragazzina. Lui era come un fratello. — Già, infatti. — Cotter si fece in disparte per lasciarla passare. Lei si sentì un po' abbandonata. Avrebbe tanto voluto che lui capisse, ma non sapeva come spiegargli la situazione senza distruggere il suo sogno più caro. — Papà, ti prego: con Tommy è diverso. Io non sono una ragazzina per lui. Non lo sono mai stata. Mentre con Simon... sarò sempre... Il sorriso di Cotter era affettuoso. — Non hai bisogno di convincere me, Deb. Ti assicuro. — Raddrizzò le spalle e il tono divenne sbrigativo. — Be', bisognerà fargli mangiare qualcosa. Glielo porti tu? È ancora nel laboratorio. Era il minimo che potesse fare. Scesero in cucina dove lui preparò un vassoio con formaggio, prosciutto, pane e frutta. Deborah salì nel laboratorio dove St. James sedeva a uno dei banchi di lavoro, davanti a una serie di foto di proiettili. Teneva in mano una matita ma pareva averla dimenticata. C'erano diverse luci accese che creavano zone luminose alternate a pozze d'oscurità in quel grande locale invaso da attrezzature. Il volto di lui era in gran parte in ombra.
— Papà vuole che tu mangi qualcosa — annunciò Deborah, sulla soglia. Si fece avanti e depose il vassoio sul tavolo. — Ancora al lavoro? Non lavorava affatto. Dubitava che avesse combinato qualcosa in tutte quelle ore. Accanto a una delle foto c'era un referto: pagine senza la minima grinza, evidentemente neppure toccato. Sul blocco di fogli non c'era nulla di scritto. Puro riflesso condizionato: il lavoro come via di fuga. E tutto si imperniava su Sidney. Deborah gliel'aveva letto in faccia quando lady Helen aveva detto di non essere riuscita a rintracciarla. E di nuovo quando era arrivato da lei e aveva fatto una telefonata dopo l'altra cercando a sua volta di scoprire dove fosse sua sorella. Tutto ciò che aveva fatto in seguito: la visita alla Islington-London, la discussione con Tommy circa la morte di Mick Cambrey e il tentativo di ricostruire in base ai fatti noti quanto poteva essere accaduto, la sua necessità di rifugiarsi in laboratorio... tutto per sottrarsi al pensiero angoscioso di Sidney. Si chiese cos'avrebbe fatto St. James, cos'avrebbe provato se qualcuno avesse fatto del male a sua sorella, se anche Sidney fosse morta. Un'eventualità raccapricciante. E il pensiero di come avrebbe reagito St. James era ancora peggio. Ancora una volta Deborah si trovò a desiderare di poterlo aiutare, di dargli pace. — Solo un poco di prosciutto e formaggio — lo incoraggiò. — E pane. E frutta. — Diceva cose ovvie: il vassoio era lì davanti. — Tommy se n'è andato? — Da un pezzo. È tornato da Peter — accostò uno sgabello e sedette di fronte a lui. — Mi sono dimenticata di portarti qualcosa da bere. Cosa preferisci? Vino? Acqua minerale? O magari un caffè? — No, grazie. Va bene così. — Ma non toccò nulla. Si raddrizzò sfregandosi la schiena. Nell'ombra il suo volto si trasformava: i lineamenti angolosi si ammorbidivano, le rughe sparivano, gli anni e i segni del dolore fisico si cancellavano. Appariva più giovane, molto più vulnerabile e raggiungibile. Tornava a essere l'uomo a cui un tempo Deborah raccontava tutto, senza timore di sentirsi derisa o respinta, sicura di averne sempre comprensione. — Simon — mormorò. E attese che lui sollevasse lo sguardo dal cibo che, lo sapeva, non avrebbe toccato. — Tommy mi ha raccontato quello che hai cercato di fare per Peter, oggi. Lui si accigliò. — Quello che ho cercato... Deborah posò la mano sulla sua. — Ha detto che stavi per prendere quella bottiglietta, per farla sparire prima che arrivasse la polizia. Tommy
è rimasto molto colpito. Un vero atto di amicizia. Avrebbe voluto dirtelo, quando eravamo nello studio, ma te ne sei andato senza lasciargliene il tempo. Vide che stava fissando l'anello che le aveva dato Tommy. Sotto la luce lo smeraldo scintillava come una profonda acqua verde. La mano di lui era fredda; poi sentì che la chiudeva a pugno e la scostava. Si ritrasse in fretta, come se le avesse dato uno schiaffo: qualsiasi tentativo di offrirgli amicizia era evidentemente destinato a fallire. St. James si girò di lato e le ombre sul suo volto si fecero più cupe. — Dio — bisbigliò. Di fronte alla sua espressione Deborah capì che il gesto di poco prima non aveva nulla a che vedere con lei. — Che c'è? — chiese, sentendo la morsa della paura. — Deborah... come dirlo? Non sono l'eroe che tu credi. Non ho fatto nulla per Tommy. Non pensavo a lui. E nemmeno a Peter. — Ma... — Quella bottiglietta appartiene a Sidney. Deborah ebbe un sussulto. Socchiuse le labbra ma per un lungo momento poté solo fissarlo, incredula. Infine: — Cosa? — Sidney è convinta che Peter abbia ucciso Justin Brooke. Voleva fargliela pagare. E invece di Peter... — Ergotamina — sussurrò lei. — Tu la prendi, vero? Per le tue emicranie. St. James spinse da parte il vassoio ma fu l'unica reazione che si concesse. — Mi sento un idiota — disse in tono controllato. — Non so cosa fare per aiutare mia sorella. Non riesco neppure a scoprire dov'è. È grottesco. Sono perfettamente inutile e in tutto quest'oggi non ho fatto che dimostrarlo. — Non ci credo — dichiarò Deborah. — Sidney non avrebbe mai... non ha... Simon, mi rifiuto di pensare che tu ne sia davvero convinto. — Helen ha cercato dappertutto, telefonato dappertutto. Io pure. Senza risultato. Ed entro ventiquattr'ore scopriranno di chi è quella bottiglietta. — Ma come? Anche se ci fossero le sue impronte... — Le impronte non c'entrano. È la sua bottiglia del profumo e viene da un negozio di Jermyn Street. Nessuna difficoltà per la polizia. Entro le quattro di domani si presenteranno qui, puoi scommetterci. — Il profumo... Simon, Sidney non c'entra! — Deborah guizzò giù dallo sgabello e un attimo dopo gli fu accanto. — Sidney non c'entra — ripeté.
— Ascoltami. Ricordi che è venuta in camera mia la sera del ricevimento? Ha usato il mio profumo. Ha detto che non trovava più il suo. Le avevano messo in ordine la stanza e non trovava più niente. Rammenti? Per qualche istante lui rimase stordito. La fissava ma pareva che non la vedesse. — Come? — sussurrò. E poi, a voce più alta e sicura: — Sabato sera. Ed è stato prima che Brooke morisse. Qualcuno aveva in mente di uccidere Peter già allora. — O Sasha — fece notare Deborah. — Qualcuno sta cercando di incriminare Sidney. — Lasciò lo sgabello, arrivò in fondo al banco, si volse, tornò indietro. E poi di nuovo, più in fretta e con crescente agitazione. — Qualcuno si è introdotto nella sua camera. Può essere stato chiunque. Peter, se la vittima predestinata era Sasha. O Trenarrow, o uno dei Penellin. Buon Dio, perfino Daze. D'un tratto era tutto chiaro, tutto coerente. — No — dichiarò Deborah. — È stato Justin. — Justin? — Non ha mai avuto senso per me che lui andasse da Sidney, venerdì sera, dopo quel che era successo nel pomeriggio alla spiaggia. Justin ce l'aveva con Sidney: la cocaina, la zuffa, Peter e Sasha che ridevano di loro, ma soprattutto di lui. — Così è andato in camera sua — disse lentamente St. James — ha fatto l'amore con lei e si è impossessato della bottiglietta. Dev'essere andata per forza così. Dio lo maledica. — E sabato, quando Sidney non l'ha visto per ore... ricordi che ce l'ha detto?... deve essere andato a procurarsi l'ergotamina e il chinino. Ha preparato il miscuglio e l'ha dato a Sasha. — Un chimico — mormorò St. James. — Chi meglio di un chimico? — Ma chi voleva eliminare? Peter o Sasha? — Peter. Di sicuro. — Per via della visita a Mick Cambrey? — Il soggiorno era stato rovistato. Il computer era acceso. Taccuini e fotografie sparsi a terra. Peter deve avere visto qualcosa mentre si trovava là con Brooke. Qualcosa di cui si sarebbe ricordato, dopo la morte di Cambrey. — Ma allora perché dare quella roba a Sasha? Morto Peter, lei avrebbe detto alla polizia come l'aveva avuta. — No. Doveva morire anche lei, su questo puntava Brooke. Sperava che lei e Peter se l'iniettassero insieme, a Howenstow. Quando ha visto che il
piano non aveva funzionato ha cercato di liberarsi di Peter con un altro sistema: venendo a raccontarci di essere andato con lui da Cambrey. Così Peter sarebbe stato arrestato e tolto di mezzo. Non poteva prevedere che Sasha e Peter si sarebbero allontanati da Howenstow prima che si arrivasse all'arresto. E non sapeva che Sasha aveva bisogno di droga ancor più di Peter. E soprattutto non poteva immaginare che lei avrebbe nascosto quella sostanza per godersela da sola. Né si aspettava che Peter andasse all'Anchor and Rose dove almeno una decina di persone l'avrebbero visto e sarebbero state in grado di fornirgli un alibi per l'ora della morte di Cambrey. — E così è stato Justin. Tutta opera sua. — Io sono stato accecato dal fatto che lui è morto prima di Sasha. Non mi è mai venuto in mente che potesse averle passato la droga in precedenza. — Ma come è morto, Simon? — Accidentalmente. — Perché? In che modo? Che ci faceva alla scogliera nel cuore della notte? St. James mosse lo sguardo e vide che sopra la porta della camera oscura la lucina rossa era rimasta accesa e lanciava un bagliore sanguigno contro il soffitto. Quella gli diede la risposta. — Le tue macchine fotografiche. Ecco come se n'è liberato. — Per quale motivo? — Stava cancellando ogni traccia dei suoi rapporti con Cambrey. Prima Cambrey. Poi Peter. Poi... — La pellicola — lo interruppe Deborah. — Le foto che hai scattato al cottage. Quello che poteva avere visto Peter, tu l'hai fotografato. — Il che significa che le condizioni di quella stanza erano una semplice mascheratura. Non aveva fatto nessuna ricerca. Non aveva preso niente. Quel che gli interessava era troppo ingombrante per poterlo portare via. — Il computer? — chiese Deborah. — Ma ugualmente, come poteva sapere che avevi fatto delle fotografie? — Sapeva che avevi con te il tuo apparecchio, venerdì sera. La signora Sweeney ha ampiamente dissertato in proposito durante la cena. Sapeva anche qual è la mia attività: Sidney gliene ha di certo parlato. E non poteva ignorare che Tommy è di Scotland Yard. Poteva anche sperare che, arrivati sul luogo del delitto, noi ci limitassimo a chiamare la polizia. Ma perché correre dei rischi se in quella stanza, e quindi sulla pellicola, c'era qualcosa che poteva ricollegarlo a Cambrey?
— Ma prima o poi la polizia l'avrebbe trovato, no? — Il presunto colpevole era stato arrestato. Penellin non muoveva un dito per discolparsi. L'unica cosa che Justin poteva temere era esattamente quel che è accaduto a meno di ventiquattr'ore dalla morte di Cambrey, ossia che qualcuno che non faceva parte della polizia locale non accettasse l'idea che l'assassino fosse Penellin. C'eravamo noi a ficcare il naso, a far domande in giro. Doveva fare qualcosa per proteggersi. — Ma perché tutta la mia attrezzatura? Perché non ha preso solo la pellicola? — Gliene mancava il tempo. Era più semplice agguantare la custodia, buttarla dalla finestra e poi correre giù a raccontare a Tommy e a me tutta la faccenda di Peter. In seguito ha portato la custodia alla caletta. È arrivato fino agli scogli e ha scaraventato tutto in acqua. Poi ha risalito la rupe e da là è caduto. Deborah era quasi fiacca dal sollievo e, a giudicare dall'espressione, lui si sentiva alleggerito da un gran peso. — Ma si potrà dimostrarlo? — Senz'altro. In Cornovaglia. Prima alla caletta per recuperare i tuoi apparecchi; poi alla sede del giornale a cercare tutto quello che Mick Cambrey stava scrivendo sull'oncomet. Domani. — E la pellicola? Le foto? — Il tocco finale. — Vuoi che vada a svilupparla? — Te la senti? — Certo. — Allora subito all'opera, passerotto. Sistemiamo questo Justin Brooke. 24 Nella camera oscura Deborah lavorava con una serenità di cuore e di spirito che solo due ore prima avrebbe ritenuto impensabile. Si scoprì a canticchiare vecchie canzoni che le tornavano chissà da dove: i Beatles, Buddy Holly e perfino un lontano Cliff Richard che non sapeva neppure di conoscere. Fissò al telaio la pellicola impressionata e la immerse nel bagno di sviluppo con gesti ormai automatici. Non aveva bisogno di concentrarsi su quanto faceva, né si domandava per quale meccanismo tempo e circostanze parevano essere scivolati all'indietro consentendo, durante quel loro colloquio nel laboratorio, un rifiorire dell'affetto che, bambina, aveva provato per St. James. Era semplicemente lieta che la cosa fosse avvenuta, fe-
lice di poter sperare che i rancori tra loro finalmente si cancellassero. Aveva fatto bene a seguire l'istinto tornando a Chelsea per essere vicino a Simon, quella sera. E che felicità vedendo l'espressione di lui trasformarsi quando aveva capito che non doveva sospettare di sua sorella. Che piacere poterlo seguire, senza tensioni, in camera sua, e chiacchierare e ridere insieme mentre lui tirava fuori la pellicola. Di nuovo amici, a condividere i pensieri, ascoltarsi, discutere, riflettere. La gioia del poter comunicare apertamente, ecco cosa aveva sempre caratterizzato il loro rapporto prima che lei partisse per l'America. E quei minuti nel laboratorio, e poi nella stanza di lui, gliene avevano riportato il vivido ricordo se non la piena intensità della gioia stessa. Rivedeva ciò che Simon era stato per lei sotto forma di una serie di immagini che scorrevano sullo schermo della sua memoria. Dall'infanzia all'adolescenza: vaste zone di tempo vissute con lui. Simon aveva ascoltato le sue pene, ridimensionato le sue delusioni, guidato le sue letture. L'aveva seguita nel processo di crescita. E aveva visto i suoi lati peggiori: i capricci, l'orgoglio testardo, l'incapacità di accettare le sconfitte, il perfezionismo, la rigidezza nei confronti dei difetti altrui. Conosceva bene tutti questi aspetti e altri ancora, e non era mai stato meno che comprensivo. Poteva consigliare, esortare, raccomandare, rimproverare. Ma l'aveva sempre accettata totalmente. E lei l'aveva sempre saputo fin dal momento in cui, ragazzo di diciotto anni, le si era accosciato accanto, davanti alla fossa in cui avevano appena calato sua madre, dove lei si sforzava di essere coraggiosa e forte e di dimostrare che anche a sette anni poteva reggere allo spavento di una perdita terribile che riusciva a malapena ad afferrare, e lui l'aveva presa tra le braccia mormorandole cinque semplici parole che le avevano dato la libertà, per tutto il resto della sua vita, di essere chi e cosa era veramente: — Non aver paura di piangere. L'aveva aiutata a diventare grande, l'aveva incoraggiata in tutti i modi possibili, e l'aveva lasciata partire quando era giunto per lei il momento di allontanarsi. Ma era stato quell'ultimo gesto - come si era dimostrato pronto a lasciare che andasse per la sua strada, senza fare o dire nulla per trattenerla vicino a sé - a minare il loro rapporto, aprendo in lei una ferita che non si rimarginava. E di fronte a quell'atteggiamento di lui, così disposto ad accettare tre anni di separazione inaspriti dal silenzio, la parte più negativa di lei aveva preso il sopravvento lasciando che la gioia e l'affetto inaridissero, sostituiti dal bisogno di fargli del male. E c'era riuscita, si era vendicata. Ma adesso si accorgeva che quella vendetta si era ritorta su di
lei. Solo dicendo la verità poteva sperare di ricostruire la loro amicizia. Solo confessando, espiando e perdonando sarebbe stato possibile recuperare quella gioia. E Deborah voleva essere nuovamente serena con lui, poter chiacchierare come un tempo sentendosi la sorella minore, la compagna, l'amica. Nulla di più. Perché il nodo doloroso della separazione da Simon era stato il bisogno insoddisfatto di essere condotta nel suo letto per convincersi che lui davvero la voleva, e che quei lontani momenti in cui aveva potuto sentire il suo desiderio non erano pura fantasia. Ma tutte queste esigenze erano state cancellate dall'amore per Tommy. E Tommy adesso le avrebbe dato la forza di dire la verità. Alzò il negativo verso la luce, cercandovi le immagini di Gull Cottage, e vide anche quelle di Lynley che posava docilmente con gli attori della filodrammatica di Nannurel. Provò uno slancio di gratitudine e tenerezza osservando il modo in cui rialzava il capo ridendo, i capelli lucenti, il disegno della bocca. Sapeva che Tommy rappresentava la sua vita adulta, il futuro verso cui si muoveva, ma non poteva unirsi a lui con animo sgombro se prima non seppelliva il passato. Cominciò a stampare le foto scattate da St. James nel soggiorno di Cambrey. Ingrandimento, sviluppo, fissaggio, lavaggio. Ma pensava solo a ciò che gli avrebbe detto, e in che modo, e si chiedeva se spiegazioni e scuse sarebbero bastate a sanare la frattura tra loro. Era quasi mezzanotte quando terminò di riordinare la camera oscura. Radunò le foto, spense le luci e andò in cerca di St. James. Aveva sparso sul letto tutto il materiale pertinente al caso e lo stava studiando per stabilire cosa poteva servire per liberare da ogni sospetto non solo sua sorella e Peter Lynley ma anche John Penellin. Un movimento vicino alla porta lo riscosse da quell'esame. La camicia bianca di Deborah spiccava contro l'ombra del corridoio. Teneva in mano le foto. Lui sorrise. — Finito? — Sì. Mi ci è voluto un po' più del previsto. Non ho ancora la mano sull'ingranditore. Sai com'è. Venne avanti e si fermò ai piedi del letto, tenendo le foto contro un fianco e l'altra mano attorno a una colonnina scanalata. — Ho bisogno di parlarti, Simon. Qualcosa nel volto di lei gli rammentò una certa bottiglietta di inchiostro
rovesciata su una sedia della sala da pranzo e la confessione tremula di una ragazzina di dieci anni con le scarpe tutte graffiate. Ma il tono gli disse che per Deborah era giunto il momento di mettere le carte in tavola e si sentì afferrare dalla paura. — Sì? Di che si tratta? — Quella foto. Sapevo che un giorno o l'altro l'avresti vista, e volevo che la vedessi. Era importante per me. Volevo che tu sapessi che vado a letto con Tommy. Speravo che ci rimanessi male, che soffrissi. E io volevo farti soffrire, a tutti i costi. Volevo punirti. Volevo che ti tormentassi all'idea di noi due che facevamo l'amore. Volevo che fossi geloso. Volevo... Simon, è stato ignobile. Non me lo perdonerò mai. Quelle parole lo colsero talmente di sorpresa che rimase frastornato. Per un attimo, assurdamente, pensò di fingere di non capire. Ma di che stai parlando? Quale foto, Deborah? O, meglio ancora, liquidare la cosa con una risata indifferente. Be', lo scherzo non ti è riuscito. Ma già mentre radunava le forze per rispondere lei proseguì, rendendo inequivocabile il discorso. — Ero così innamorata quando sono partita per l'America. Ti amavo tanto ed ero convinta che tu mi amassi. Non come un fratello o uno zio o una specie di secondo padre: come uomo. Sai cosa intendo. — Le parole erano gentili, il tono quieto. Lui non poteva fare a meno di fissarla. Era pietrificato, incapace di muoversi anche se tutti i nervi del suo corpo gli comandavano di avvicinarsi a lei. — Difficile spiegarti, Simon. Ero così fiduciosa quando sono partita, così sicura di te e di me. E poi aspettare inutilmente che rispondessi alle mie lettere. Dapprima non capivo, ho addirittura pensato che ci fossero dei disguidi postali. E quando ti ho telefonato, dopo due mesi, ti ho sentito così distante. Il lavoro ti prendeva moltissimo, gli impegni si moltiplicavano, dicevi. Conferenze, seminari, articoli da scrivere. Avresti risposto alle mie lettere non appena possibile. E come va la scuola, Deborah? Ti trovi bene? Hai fatto amicizie? Sono convinto che ti farai onore. Sei in gamba. Ci sei tagliata. Hai un brillante futuro dinanzi a te. — Ricordo. — Non riuscì a dir altro. — Allora mi sono valutata. — Ebbe un breve, fragile sorriso. — Non abbastanza carina, non abbastanza intelligente, non spiritosa, non comprensiva, non affettuosa, non desiderabile... non abbastanza. — Non è vero. — Tante volte la mattina mi svegliavo disperata perché ero ancora al
mondo. E anche per questo mi disprezzavo: non ero neppure capace di uccidermi. Non valgo niente, mi dicevo. Stupida e brutta e del tutto inutile. Parole che facevano sempre più male. — Volevo morire. Pregavo di poter morire. E invece no. Sono andata avanti. Come tutti, immagino. — Certo: si va avanti. Si guarisce. Si dimentica. Lo so. — Sperava che quelle parole bastassero a fermarla, ma si accorse che Deborah era decisa a portare quel discorso fino in fondo. — Tommy dapprima è stato un modo per dimenticare. Quando veniva a trovarmi chiacchieravamo, ridevamo. La prima volta è arrivato con una scusa qualsiasi, ma in seguito non più. E non mi ha mai forzato la mano, Simon. Non ha mai chiesto nulla. Non parlavo di te ma credo che lui sapesse e volesse aspettare che fossi pronta ad accettarlo. Così scriveva, telefonava, costruiva solide basi. E quando mi ha portata a letto, io lo volevo. E alla fine ti ho cancellato. — Deborah, ti prego. Posso capirti. Non dire altro. — Smise di guardarla e volse il capo. L'unico movimento che riuscì a fare. Fissò le carte sul letto. Le palpebre gli facevano male. — Mi avevi respinta. Ero in collera. Ero ferita. E sono riuscita a non pensare più a te, ma dovevo farti sapere come stavano ormai le cose. Dovevo dimostrarti che se non mi volevi tu c'era qualcun altro che mi voleva. Così ho appeso quella foto in casa. Tommy non voleva, mi ha pregata di rinunciare. Ma io gli ho fatto notare la composizione, l'effetto delle tende e delle lenzuola, la forma delle nubi. È solo una fotografia, ho detto. Ti imbarazza quel che sottintende? Per qualche istante tacque. St. James pensò che avesse terminato e alzò gli occhi. Lei si premeva una mano contro la base del collo. — Ma gli ho mentito. In realtà volevo farti del male. Il più possibile. — Me lo meritavo. Anch'io ti ho fatto del male. — No. Non c'è giustificazione per una vendetta del genere. È puerile. Disgustosa. Rivela un mio aspetto ignobile. Me ne pento molto. Sinceramente. Ti prego, perdonami. Non è successo niente. Davvero. Dimentica, passerotto. Ma non riuscì a dirlo. Non riuscì a dire nulla. Il pensiero di averla spinta, con la sua codardia, tra le braccia di Lynley gli era intollerabile. Si disprezzava. E mentre la fissava, cercando parole che non conosceva, sentendosi dilaniato da sentimenti che non voleva possedere, lei depose le foto sulla sponda del letto. — Lo ami? — Come una pietra scagliata.
Lei aveva raggiunto la porta, ma si volse. — Rappresenta ogni cosa, per me. Lealtà, appoggio, affetto, calore umano. Mi ha dato... — Lo ami? — Questa volta la voce era scossa. — Puoi almeno affermare che lo ami, Deborah? Per un attimo pensò che sarebbe uscita senza rispondere, ma poi la forza di Lynley la pervase: testa alta, spalle erette, gli occhi lucidi di lacrime. Colse la risposta ancor prima che la pronunciasse. — Lo amo. Sì. Lo amo. Certo. — Poi scomparve. Disteso a letto fissava il gioco mutevole di ombre e fievoli luci sul soffitto. La notte era tiepida, la finestra e le tende aperte: poteva sentire le poche auto che passavano in Cheyne Walk, il rombo dei motori amplificato dall'ampia distesa del fiume. Il suo corpo sarebbe dovuto essere stanco, bisognoso di sonno, e invece era dolorante, i muscoli del collo e delle spalle spasmodicamente contratti, terminazioni nervose vibranti, una terribile oppressione al petto. La mente era un maelstròm in cui vorticavano frammenti di conversazioni, immagini nebulose e incomplete, cose che richiedevano di essere dette. Si sforzava di non pensare a Deborah. Un'analisi di fibre che doveva completare, una deposizione che doveva rendere di lì a due settimane, una relazione da presentare a un convegno, un seminario a Glasgow. Cercava di essere quello che era stato durante l'assenza di lei, il freddo scienziato che assolveva impegni e affrontava responsabilità, e invece vedeva l'individuo che era di fatto: il vigliacco che aveva colmato la propria vita di fughe e pretesti per evitare di esporre la propria vulnerabilità. Tutta la sua esistenza era una menzogna basata su nobili principi in cui lui per primo non credeva. Lasciarla libera. Darle modo di trovare la sua strada. Lasciarle scoprire un mondo di ampi orizzonti e affollato di persone in grado di presentarle doni ben più ricchi di quelli che lui, nella sua miseria, poteva offrirle. Permetterle di trovare l'uomo adatto con cui vivere appieno, un uomo non gravato dalla menomazione che condizionava lui. E queste speciose norme che avevano governato la sua condotta gli evitavano di dover guardare in faccia la verità sostanziale. La paura lo dominava togliendogli ogni forza. Qualsiasi strada avesse scelto avrebbe potuto portarlo di fronte a un rifiuto. Così aveva scelto di non scegliere, lasciando che il tempo trascorresse, convincendosi che alla lunga conflitti, difficoltà e smarrimenti si sarebbero risolti da soli. E infatti. Ma come risultato aveva perso Deborah.
Troppo tardi si rendeva conto di ciò che avrebbe dovuto sempre essergli chiaro. La sua vita con Deborah come un arazzo che era andato formandosi lentamente, e lei teneva tra le dita il filo, creava il disegno e alla fine ne era divenuta il tessuto stesso. Lei adesso se ne andava ed era una specie di morte nella quale non avrebbe trovato la pace del nulla ma un inferno di autoaccuse in cui avrebbe pagato per la sua meschina paura. Anni erano passati e non le aveva mai detto che l'amava. Adesso poteva solo ringraziare il cielo che Deborah e Lynley avessero deciso di stabilirsi in Cornovaglia. In quella lontananza ciò che restava della sua vita sarebbe stato quanto meno tollerabile. Mosse il capo sul cuscino per guardare le cifre luminose dell'orologio digitale. Le tre e mezzo. Inutile cercare di dormire, tanto valeva riconoscerlo. Accese la luce. Le fotografie erano sul comodino dove le aveva messe più di due ore prima: le prese. Un'altra deliberata fuga, se ne rendeva conto: un altro atto di vigliaccheria per il quale prima dell'alba si sarebbe disprezzato. E come se quel gesto potesse cancellare le parole di Deborah, come se la consapevolezza di quanto un tempo lei lo aveva amato non gli stesse lacerando l'anima, cominciò a esaminarle con distacco, circondato dal suo mondo in rovina. Senza emozione guardò quelle immagini del cadavere mutilato, la sua posizione vicino al divano. Osservò gli oggetti sparsi nella stanza: lettere e buste, penne e matite, taccuini, cartellette, fogli scritti, l'attizzatoio e le molle finiti a terra; il computer acceso e i dischetti sulla scrivania. E poi, vicino al corpo, un piccolo oggetto lucente, forse una moneta, mezzo nascosto da una gamba; la banconota da cinque sterline, con un angolo strappato, abbandonata a terra, a poca distanza da una mano; più sopra, la mensola contro cui Cambrey aveva battuto il capo e a destra il focolare che aveva urtato dopo. St. James passò più volte in rassegna le foto, cercandovi qualcosa che non avrebbe riconosciuto anche se l'avesse visto. Computer, dischetto, cartelle, taccuini, denaro, mensola. Pensava solo a Deborah. Rinunciò al gioco: impossibile trovare sonno o requie, neppure una momentanea distrazione. Poteva solo rendere un poco più vivibili le ore che mancavano all'alba. Allungò il braccio verso le stampelle e scese dal letto. Infilò la vestaglia annodando in qualche modo la cintura, e si diresse alla porta. Nello studio c'era del brandy. Non sarebbe stata la prima volta che vi cercava oblio. Si avviò giù per le scale. La porta dello studio era socchiusa e cedette senza rumore quando lui la
spinse. Un debole bagliore giallo-rosato proveniva dalle due candele che avrebbero dovuto trovarsi sulla mensola ed erano invece sul focolare. Le mani allacciate attorno alle ginocchia, Deborah sedeva sul grande pouf e ne fissava le fiammelle. St. James avrebbe voluto allontanarsi, si ordinò di farlo. Non si mosse. Lei diede un'occhiata alla porta e volse di nuovo in fretta il capo. — Non riuscivo a dormire — mormorò, come se sentisse il bisogno di giustificare la sua presenza nello studio, in vestaglia e pantofole, alle tre passate del mattino. — Non so come mai. Dovrei essere sfinita. E mi sento sfinita. Ma non riuscivo a prendere sonno. Troppe tensioni in questi ultimi giorni. Parole abbastanza disinvolte, ben scelte, anonime. Ma c'era un che di esitante nel tono, qualcosa che non riusciva a suonare sincero e, avvertendolo, St. James raggiunse il pouf e sedette accanto a lei. Un gesto che non aveva mai compiuto prima: il posto di Deborah era sempre stato il pouf mentre lui sedeva in poltrona o sul divano. — Neanch'io riuscivo a dormire — depose le stampelle a terra. — Pensavo di bermi un brandy. — Te lo prendo. — Accennò ad alzarsi. Lui le prese una mano, trattenendola. — No. Non importa. — Lei continuava a non guardarlo. — Deborah. — Sì? La voce era calma. La massa di capelli ricci le nascondeva il volto. Deborah ebbe un piccolo movimento, come se intendesse levarsi in piedi e andarsene, invece aspirò in fretta e lui si accorse con sorpresa che stava sforzandosi di non piangere. Le sfiorò i capelli, un gesto così lieve che lei non poteva assolutamente averlo sentito. — Che c'è? — Nulla. — Deborah... — Eravamo amici — bisbigliò. — Noi due. Eravamo alleati. Volevo che tornassimo a esserlo. Pensavo che se ti avessi parlato, stasera... ma non ho ritrovato quel clima. È scomparso. E io... è una cosa che mi fa tanto male. Se ti parlo, se ti vedo, ancora mi sento lacerata. Ed è una sensazione che rifiuto. Non voglio provarla di nuovo. — La voce si spezzò. St. James le passò un braccio attorno alle spalle, istintivamente. Non contava se vero o falso, ma doveva dire qualcosa per alleviare quel dolore. — Deborah, lo supereremo. Troveremo il modo di tornare indietro. Sa-
remo ancora quello che eravamo. Non piangere. — Le baciò goffamente la tempia prendendola tra le braccia, accarezzandole i capelli, cullandola, mormorando il suo nome. E di colpo si sentì invadere da un senso di pace. — Non è cambiato niente. Saremo sempre amici. È un qualcosa che non perderemo mai, te lo prometto. A queste parole le braccia di lei lo circondarono lentamente e lui sentì la morbida pressione del seno contro il petto, avvertì il pulsare del suo cuore e il martellio del proprio, e riconobbe di averle mentito ancora una volta. Non sarebbero mai stati amici. L'amicizia era impossibile tra loro se con un gesto così semplice - le braccia di lei a cingerlo - tutto il suo corpo si incendiava. Voci d'allarme gli risuonarono nella mente. Deborah apparteneva a Lynley. L'aveva già fatta soffrire abbastanza. Stava tradendo il suo più vecchio amico. C'erano tra loro limiti che non potevano essere superati. Aveva deciso di accettare. Non avrebbero mai potuto essere felici insieme. Non sempre la vita è giusta. Le ascoltò, si ordinò di andarsene, si impose di lasciarla e rimase dov'era. Averla tra le braccia solo per qualche istante, sentirla vicina, sentire il profumo della sua pelle. Soltanto quello, nulla di più... salvo toccarle di nuovo i capelli, allontanarglieli dal viso. Lei rialzò il capo per guardarlo. Ammonimenti, intenzioni, limiti, fermi propositi: tutto annullato. Esigevano un prezzo troppo alto. Non contavano. Nulla contava tranne quel momento, quel presente con lei. Le accarezzò la guancia, la fronte, le labbra. E lei bisbigliò il suo nome, poche sillabe che finalmente cancellarono il timore. Si chiese come avesse mai potuto aver paura di perdersi nell'amore per quella donna. Deborah era lui stesso. In lei si realizzava. Le coprì la bocca con la sua. Non esisteva altro che l'essere fra le sue braccia. Nulla importava tranne il calore della bocca di lui e il sapore della sua lingua. Era come se solo quel momento contasse: tutta lei stessa definita in quel bacio. Lui mormorò il suo nome e una precisa corrente passò fra loro, attingendo forza dal desiderio, disperdendo il passato e trascinando con sé ogni convinzione, ogni proposito, ogni aspetto della sua esistenza lasciando solo la precisa coscienza di volere Simon. Più della lealtà, più dell'amore, più della promessa di un futuro. Si disse che quel momento non aveva nulla a che vedere con la Deborah che apparteneva a Tommy, che divideva il letto di Tommy, che sarebbe diventata la moglie di Tommy. Quello poteva essere solo il giusto e necessario epilogo, un'ora in cui avrebbe misurato il proprio valore.
— Amore mio — sussurrò lui — senza di te... Deborah riaccostò la bocca alla sua, mordicchiandogli le labbra e sentì che sorrideva. Non voleva parole, solo sensazioni. I suoi baci sul collo, a scendere verso la gola; le sue mani sul seno, ad accarezzarla, sollecitarla, per poi scendere ad allentare la cintura, aprirle la vestaglia, farle scivolare dalle spalle la camicia da notte. Si levò in piedi e quel leggero indumento finì a terra. Le mani di lui sui suoi fianchi. — Deborah. Non voleva parole. Si chinò a baciarlo e sentì il proprio sospiro di piacere quando la bocca di Simon trovò il suo seno. Prese a toccarlo. A spogliarlo. — Ti voglio. Deborah, guardami. Ma lei non voleva. Non poteva. Vedeva il bagliore delle candele, la pietra che incorniciava il caminetto, le librerie, il baluginante riflesso sulla lampada d'ottone. Ma non gli occhi di lui, o il viso, o la bocca. Accettava i suoi baci, rispondeva alle sue carezze. Ma non lo guardava. — Ti amo — mormorò lui. Tre anni. Si aspettava un impeto di trionfo, ma non venne. Una delle candele tremolò, un rivolo di cera scese a formare una chiazza sul focolare, poi con la fiammella ebbe un ultimo guizzo e si spense. Dal lucignolo salì un filo di fumo dall'odore acre, fastidioso. St. James volse il capo a cercarne l'origine. Deborah lo guardò. La fiamma della seconda candela disegnava ombre palpitanti come ali su di lui. Il profilo, i capelli, la linea netta della guancia, la curva del collo, il movimento sicuro delle mani... Si levò in piedi e con mani tremanti infilò la vestaglia incontrando poi difficoltà con la cintura di raso che tendeva a sfuggire. Di colpo era fiacca, completamente snervata. No, non voglio parole, pensò. Qualsiasi cosa, ma non parole. — Deborah... Non poteva. — Deborah, ti prego, che succede? Che hai? Si costrinse a guardarlo. Il volto di lui mostrava un tumulto di emozioni. Appariva così giovane e vulnerabile. Pronto al colpo di grazia. — Non posso — disse a fatica. — Non posso, capisci. Gli volse le spalle e uscì. Corse su per le scale. Tommy, si ripeteva. Come se quel nome fosse una preghiera, un'invocazione che potesse proteggerla dal sentirsi immonda e spaventata.
PARTE SESTA Espiazione 25 La bella giornata aveva cominciato ad alterarsi quando l'aereo di Lynley toccò la pista di Land's End. Grevi nubi grigie avanzavano da sud-est e quella che a Londra era stata una brezza bonaria qui si trasformava in un vento teso foriero di pioggia. La perfetta metafora per le modifiche subite dal suo umore e dalle circostanze, si disse cupamente Lynley. Quella mattina era iniziata con uno slancio di speranza che nel giro di poche ore era stata oscurata da un senso angoscioso di apprensione. A differenza dell'ansia degli ultimi giorni, l'inquietudine di adesso non era legata a suo fratello. Anzi, dagli incontri con Peter era nato un senso di rinnovamento, di rinascita. E sebbene durante le sue protratte visite a New Scotland Yard l'avvocato di famiglia avesse esplicitamente dichiarato critica la posizione di Peter salvo poter dimostrare al di là di ogni dubbio che responsabile della morte di Mick Cambrey era Justin Brooke, Lynley e suo fratello erano riusciti a stabilire una fragile comunicazione in cui entrambi facevano i primi passi esitanti per arrivare a comprendere il comportamento dell'altro, indispensabile preludio al reciproco perdono. E Lynley si era d'un tratto reso conto che comprensione e perdono sono strettamente uniti, e sono indice di forza, non di debolezza. Era ormai tempo che venissero a portare distensione e armonia anche in un altro rapporto. Non sapeva ancora cosa le avrebbe detto, ma sapeva che era pronto a parlare a sua madre. Questo proposito - un pensiero che gli rendeva più agile il passo e più leggero il cuore - cominciò a sgretolarsi al suo arrivo a Chelsea. La mattinata era luminosa, gli uccellini chiacchieravano tra i rami dell'ontano davanti alla casa di St. James. Lynley risalì in fretta i gradini d'ingresso, bussò e si trovò faccia a faccia con le sue paure più irrazionali. St. James aprì la porta. Gli offrì un caffè e gli illustrò la sua teoria circa la colpevolezza di Justin Brooke nella morte di Sasha Nifford. In qualsiasi altra circostanza quei nuovi fatti avrebbero colmato Lynley dell'euforia che lo prendeva sempre quando sentiva che si avvicinava alla soluzione di un caso. Adesso invece udì appena quel che St. James gli diceva e ancor meno afferrò in che modo i vari elementi spiegavano tutto quanto era accaduto in Cornovaglia e a Londra negli ultimi cinque giorni. Notò invece il volto grigiastro e segnato dell'amico, avvertì la tensione nella voce che spie-
gava movente, strumento e opportunità. Un senso di gelo lo pervase mentre l'ottimismo e la sicurezza di prima perdevano rapidamente la battaglia con il crescente sgomento. Solo una, lo sapeva, poteva essere la causa del cambiamento sopravvenuto in St. James, e la vide scendere le scale neppure tre minuti dopo il suo arrivo. Quando, giunta nel vestibolo, poté guardarla bene in volto, Lynley vi lesse la verità e provò una specie di nausea. Avrebbe voluto sfogare la rabbia e la gelosia che lo invasero in quell'attimo, ma generazioni di buone maniere glielo impedirono. La pretesa di una spiegazione si trasformò in un saluto corretto e amabile inteso a far superare quel momento senza la minima increspatura. — Hai lavorato parecchio alle foto, tesoro? — chiese e, poiché anche la buona educazione ha i suoi limiti, aggiunse: — A guardarti si direbbe che non hai chiuso occhio. Sei stata in piedi tutta la notte? Hai finito? Deborah evitò di guardare St. James che passò nel suo studio dove si mise a frugare tra le carte sullo scrittoio. — Quasi. — Si accostò a Lynley, lo cinse con le braccia, sollevò il viso per baciarlo e sussurrò contro le sue labbra: — Buon giorno, tesoro. Mi sei mancato. La baciò, avvertendo l'immediata risposta di lei, e si chiese se tutti quei particolari che aveva colto non fossero frutto di un'assurda insicurezza. Se lo confermò. Ma ugualmente disse: — Se hai ancora delle cose da sbrigare non sei obbligata a venire con noi. — Ma lo desidero. Le foto possono aspettare. — Sorrise e lo baciò di nuovo. Teneva Deborah tra le braccia ed era acutamente consapevole di St. James, come non gli era mai accaduto prima. E durante tutto il volo verso la Cornovaglia fu continuamente teso a cogliere ogni sfumatura del loro atteggiamento. Esaminava ogni parola, ogni espressione, ogni gesto sotto lo spietato microscopio del sospetto. Se Deborah pronunciava il nome di St. James, nella sua mente questo si trasformava in una velata dichiarazione d'amore. Se St. James guardava Deborah, era un'esplicita conferma di desiderio. Quando fermò l'aereo sulla pista di Land's End, Lynley avvertì la tensione che gli si era accumulata nei muscoli del collo, dolorosamente. Ma era nulla a paragone del disgusto che provava per se stesso. Nello stato d'animo in cui si trovava era riuscito a dire solo poche banalità durante il tragitto in auto fino all'aeroporto e poi durante il volo. Nessuno dei tre era dotato, come lady Helen, della capacità di colmare le pause moleste con chiacchiere brillanti: la conversazione si era rapidamente
spenta e così quando finalmente giunsero in Cornovaglia l'atmosfera tra loro era carica di parole non dette. Lynley sapeva di non essere il solo a tirare un sospiro di sollievo quando, scesi dall'aereo, scorsero Jasper che li attendeva accanto all'auto. Il silenzio durante il viaggio fino a Howenstow fu interrotto solo da Jasper. Lady Asherton, raccontò, aveva ordinato che due salariati si trovassero alla caletta, "all'una e mezzo, come ha detto lei, milord". John Penellin era ancora trattenuto a Penzance ma era circolata la bella notizia che "il signor Peter era stato trovato". — Sua Signoria sembrava più giovane di dieci anni stamattina, sapendo che il suo ragazzo è sano e salvo — concluse Jasper. — Alle otto e cinque era là che dava racchettate alle palle da tennis. St. James esaminava le carte che aveva nella borsa; Deborah guardava il panorama; Lynley cercava di schiarirsi la mente. Non incontrarono anima viva, lungo le stradine di campagna, fino a quando non imboccarono il viale della tenuta. Nancy Cambrey era seduta sui gradini d'ingresso della portineria e teneva in braccio la piccola Molly che succhiava avidamente il poppatoio. — Fermi qui — ordinò Lynley a Jasper, e poi agli altri: — Nancy era al corrente dell'inchiesta a cui Mick stava lavorando. Forse potrà fornirci dei particolari se le diciamo quel che ci risulta. St. James pareva poco convinto: diede un'occhiata all'orologio e Lynley capì che avrebbe preferito andare senza indugio alla caletta e quindi alla sede del giornale. Ma non fece obiezioni. E neppure Deborah. Scesero tutti dall'auto. Nancy si alzò, li precedette in casa e, nell'ingresso, si volse a guardarli. — Mark non c'è? — chiese Lynley. — È andato a St. Ives. — Dunque tuo padre non ha detto ancora nulla all'ispettore Boscowan riguardo a lui, e Mick, e la droga? Nancy non finse di non capire. — Non lo so — rispose. — Non ho avuto notizie — e passò nel soggiorno dove posò il poppatoio sul televisore prima di sistemare la piccola nella sua carrozzina. — Ecco qui, adesso fai un po' di nanna, Molly, da brava — mormorò dandole qualche leggero colpetto. I tre la seguirono. Sarebbe stato naturale sedersi, ma non lo fecero e si disposero invece come attori impacciati che ancora non sappiano come devono muoversi sulla scena: Nancy con una mano chiusa attorno al manu-
brio della carrozzina; St. James con le spalle rivolte alla finestra; Deborah vicino alla spinetta; Lynley di fronte a lei, presso la porta. Nancy chiaramente prevedeva il peggio da quella visita inattesa e passava nervosamente lo sguardo dall'uno all'altro. — È venuto fuori qualcosa di nuovo — disse. Lynley e St. James le esposero fatti e supposizioni. Lei ascoltò senza fare domande o commenti, mostrò a volte qualche breve segno di dolore ma per lo più sembrava ormai insensibile a tutto. Era come se, già molto prima della loro venuta, si fosse anestetizzata per isolarsi non solo dalla morte del marito ma anche dagli aspetti meno encomiabili della vita di lui. — Non ti ha mai fatto il nome della Islington? — chiese Lynley. — O dell'oncomet? O di Justin Brooke, un biochimico? — No. Mai. — Era normale che fosse così riservato circa il suo lavoro? — No, prima che ci sposassimo. Allora mi parlava di tutto. Prima della bambina. — E dopo? — Andava via sempre più spesso. Per i suoi articoli. — A Londra? — Sì. — Sapevi che là aveva un appartamentino? Nancy scosse il capo e Lynley intervenne: — Ma quando tuo padre, John Penellin, parlava delle amichette di Mick non hai mai pensato che potesse mantenerne una a Londra? Sarebbe stata una conclusione logica, ti pare, considerando che ci andava di continuo? — No. Non aveva... — si interruppe. Chiaramente doveva scegliere tra lealtà e verità. E decidere se la verità in questo caso era davvero un tradimento. Poi rialzò il capo. — Non aveva nessuna amichetta. Era solo un'idea di papà e io gli ho lasciato credere che Mick avesse altre donne. Era più semplice. — Più semplice del far scoprire a tuo padre che a Mick piaceva travestirsi da donna? Questa domanda di Lynley parve liberarla dalla lunga prigionia del segreto. — Non lo sapeva nessuno — mormorò Nancy. — In tutto questo tempo c'ero solo io a saperlo. — Si lasciò cadere sulla poltrona accanto alla carrozzina. — Mickey — sussurrò. — Oddio, povero Mickey. — Come l'hai scoperto? Lei trasse di tasca un fazzolettino di carta. — Poco prima che nascesse
Molly. Ho trovato certe cose nel suo cassettone. Al momento ho pensato che avesse una relazione e non ho detto niente perché ero già di otto mesi e non ci era possibile... e così... Tutto perfettamente lineare quello che raccontò, con frasi smozzicate. Data l'avanzata gravidanza non poteva soddisfare il marito e quindi, se lui cercava altre donne, doveva rassegnarsi. Dopotutto era stato costretto a sposarla e se adesso la tradiva la colpa era solo sua. Quindi non poteva accusarlo ma solo accettare e sperare che alla fine Mick tornasse da lei. — E poi una sera sono tornata a casa, poco dopo che avevo cominciato a lavorare all'Anchor and Rose. E l'ho trovato. Aveva indosso dei vestiti miei. Era tutto truccato. Aveva perfino una parrucca. E io ho pensato che fosse colpa mia. Perché, ecco, mi faceva piacere comperarmi dei vestiti nuovi. Essere alla moda. Elegante. Pensavo che così lo avrei riconquistato. Al momento ho creduto che facesse la commedia per rinfacciarmi le mie spese. Ma poi ho capito... ho visto... che la cosa lo eccitava. — E che hai fatto poi? — Ho buttato via rossetto, matite... tutto. E ho fatto a brandelli i vestiti. Nel giardinetto sul retro. Con un coltello da cucina. Lynley ricordava il racconto di Jasper. — E tuo padre ti ha vista, vero? — Lui ha pensato che avessi trovato delle cose dimenticate da chissà chi. E si è convinto che Mick avesse delle altre donne, e io gliel'ho lasciato credere. Come facevo a dirgli la verità? E poi Mick mi aveva promesso che non sarebbe più accaduto. E io gli ho creduto. Ho fatto sparire tutti i miei vestiti più carini perché non avesse tentazioni. E lui ce l'ha messa tutta, sul serio, ma era più forte di lui. Ha cominciato a portare degli indumenti a casa, e io li scoprivo e cercavamo di parlare, di trovare una soluzione. Ma non c'era niente da fare. Andava sempre peggio, era come se non potesse fare a meno di travestirsi e una volta l'ha fatto addirittura negli uffici del giornale e suo padre l'ha scoperto. Ed è andato su tutte le furie. — Quindi Harry lo sapeva? — Gliene ha date tante e tante. Mick è tornato a casa tutto pieno di sangue. Bestemmiava e piangeva anche. E io ho creduto che avrebbe smesso. — E invece si è fatto una seconda vita a Londra. — Pensavo che gli fosse passata, che l'avesse superata. — Nancy si asciugò gli occhi. — Pensavo che saremmo potuti essere di nuovo felici, come prima di sposarci. Eravamo felici, allora. — E nessun altro sapeva? Mark? Qualcuno in paese? O al giornale? — Solo io e Harry. Nessun altro. Buon Dio, non bastava?
— Che ne dici, St. James? Jasper li aveva preceduti con l'auto. Stavano percorrendo l'ultimo tratto di viale che li separava dalla villa. Il cielo, abbandonate le ultime vestigia di azzurro, era ormai color peltro. Deborah camminava tra loro, un braccio infilato sotto quello di Lynley. — Le caratteristiche sono sempre state quelle di un delitto passionale — rispose St. James. — Un pugno che l'ha mandato a sbattere contro la mensola del caminetto. Impossibile premeditare un fatto del genere. Fin dall'inizio abbiamo ritenuto che fosse scoppiata una lite. — Ma abbiamo cercato di collegare la cosa alla professione di Mick. E chi ci ha orientati in quel senso? St. James annuì. — Harry Cambrey. — Ne aveva il modo e il motivo. — Perché il figlio si travestiva? — Avevano già avuto una baruffa violenta in proposito. — E c'erano anche altre questioni in ballo — osservò Deborah. — Mick doveva dare una nuova spinta al giornale. Aveva chiesto un prestito alla banca. Forse Harry voleva un preciso rendiconto. E quando ha scoperto che quel denaro veniva usato proprio per la cosa che più gli era intollerabile, quel bisogno morboso di travestirsi, non ci ha visto più. — E allora come spieghi le condizioni in cui si è trovato il soggiorno? — Una copertura — disse Lynley. — Per avvalorare la sua tesi secondo cui Mick era stato ucciso per via di un'inchiesta a cui stava lavorando. — Ma allora non si spiegano le altre due morti — fece notare St. James. — E inoltre Peter si troverebbe di nuovo sospettato. Se Brooke non è caduto accidentalmente, qualcuno gli ha dato una spinta, Tommy. — Già, si ritorna sempre a Brooke. — E questo deve farci pensare che. con tutta probabilità ha una parte importante in questa storia, per quanto la figura di Mick presenti dei lati oscuri. — La caletta e la sede del giornale, allora. St. James annuì. — È lì che scopriremo la verità, secondo me. Superarono l'ingresso in stile Tudor. Nel giardino si fermarono ad accarezzare uno dei retriever di lady Asherton che era corso loro incontro, con una palla da tennis in bocca. Lynley gliela prese e la tirò in direzione del cortile occidentale: il cane la seguì a grandi balzi, abbaiando allegramente. Come in risposta a quei latrati la porta d'ingresso si aprì e uscì lady Asher-
ton. — Il pranzo è pronto — annunciò a mo' di saluto, e aggiunse, rivolta a Lynley: — Ha telefonato Peter. Lo hanno rilasciato, per il momento, ma vogliono che rimanga a Londra. Chiedeva se poteva andare a Eaton Terrace. Ho fatto bene a dirgli che tu non avresti avuto nulla in contrario, Tommy? Non ero sicura che tu lo volessi in casa tua. — Va benissimo. — L'ho sentito molto diverso. Chissà se questa volta è davvero pronto a cambiare. Radicalmente. — Sì. Penso di sì. E anch'io. — Avvertì una certa trepidazione e guardò St. James e Deborah. — Se volete scusarci... I due passarono subito in casa. — Di che si tratta, Tommy? — chiese lady Asherton. — C'è qualcosa che non mi hai detto? Si tratta ancora di Peter? — Oggi vado a Penzance, per raccontare alla polizia come sono andati i fatti. — Vide sua madre impallidire e proseguì: — Non è stato lui a uccidere Mick, lo sappiamo. Ma venerdì è andato al cottage dopo che c'era stato John, e Mick era ancora vivo. La polizia deve essere informata. — E Peter sa... — Non riuscì a completare la frase. — Che intendo dirlo alla polizia? Sì. Ma St. James e io contiamo di poterlo scagionare oggi stesso, e Peter si fida. Lady Asherton si costrinse a sorridere. — Allora mi fiderò anch'io. — Si volse per rientrare. — Mamma. — Non sapeva se ce l'avrebbe fatta. Quasi sedici anni di rancore da parte sua avevano aperto tra loro un campo minato. Avventurarcisi adesso, tentare di attraversarlo richiedeva una forza d'animo che non era certo di avere. Lei si era fermata, la mano già posata sulla porta, e adesso aspettava. — Ho combinato dei grossi guai con Peter. E anche in tutto il resto. Lei inclinò il capo di lato, con un piccolo sorriso interrogativo. — Tu? Peter è mio figlio, Tommy. La responsabilità è mia. Non assumerti colpe che non ti riguardano. — È cresciuto senza un padre. Sarei potuto essergli più vicino e non l'ho fatto. Sarei dovuto tornare a casa, occuparmi di lui, ma mi era impossibile, così l'ho abbandonato a se stesso. Lei aveva intuito le intenzioni dietro quelle parole: lasciò ricadere la mano e tornò indietro. Lynley guardò lo stemma degli Asherton, in alto sulla facciata della villa. Non aveva mai considerato quel blasone altro che
un divertente anacronismo, adesso invece lo vedeva come una dichiarazione di forza. Il cane e il leone in lotta, il cane sopraffatto ma impavido. — Sapevo che amavi Roderick — disse. — L'ho visto. Volevo punirti. — Ma amavo anche te. Quello che provavo per Roddy non aveva nulla a che vedere con te. — No, non si trattava del tuo affetto per me. Era invece l'impossibilità di vederti e accettarti per quello che eri. — Perché avevo bisogno di avere vicino qualcuno oltre tuo padre? — Perché avevi ceduto a questa necessità mentre mio padre era ancora vivo. Mi era intollerabile. Non potevo sopportarlo. Lei guardò il cancello in fondo al giardino. — Ho ceduto — mormorò. — Sì. È vero. Vorrei aver posseduto la nobiltà d'animo o il coraggio di allontanare subito Roddy quando mi sono accorta di quanto l'amavo. Ma non avevo una simile forza, Tommy. Altre donne probabilmente sì, ma io ero debole, stremata. Mi sono chiesta che male poteva esserci visto che Roddy e io ci amavamo sinceramente. Quale gran peccato commettevamo venendo meno alle convenzioni sociali e seguendo la voce di quel sentimento? Per averlo e al tempo stesso conservare quello che ero ho diviso la mia vita in scomparti nettamente separati: in uno i figli, in un altro tuo padre, Roddy nel terzo. E io ero di volta in volta una persona diversa. Quel che non avevo previsto era che tu uscissi improvvisamente dal settore riservato a te e scoprissi la persona innamorata di Roddy. Non credevo che mi avresti mai vista per quello che ero. — Ma cos'eri in realtà, mamma? Nulla di più o di meno di un essere umano. E io non potevo accettarlo. — Sì, lo capisco. — Volevo farti soffrire. Sapevo che Roderick desiderava sposarti, e ho giurato che l'avrei impedito. Il tuo primo impegno morale era verso la famiglia e Howenstow. Sapevo che non ti avrebbe sposata se non gli avessi promesso di lasciare la tenuta. Così ti ho tenuta prigioniera qui, per tutti questi anni. — Non avevi un simile potere su di me. Ho scelto io di restare. Lynley scosse il capo. — Non appena mi fossi sposato, te ne saresti andata da Howenstow. — Dall'espressione di lei capì che non si sbagliava. — Lo sapevo, mamma. E me ne sono servito come arma. Sposandomi ti avrei lasciata libera. Così non mi sono sposato. — Non hai mai incontrato la donna per te. — Perché non vuoi che mi assuma i miei torti?
— Non voglio che tu soffra, tesoro. Non lo volevo allora e non lo voglio adesso. Niente avrebbe potuto risvegliargli un rimorso più profondo. Nessun rimprovero, nessuna recriminazione, nessun meritato castigo. Si sentì un verme. — A quanto pare sei convinto che le colpe siano solo tue. Sai, centomila volte ho desiderato che tu non ci avessi mai scoperti, e mi sono rammaricata di quello schiaffo, e di non aver fatto qualcosa, detto qualcosa per alleviare la tua disperazione. Ed era vera disperazione la tua, Tommy. Tuo padre stava morendo, proprio in questa casa, e io avevo distrutto la mia immagine di madre. Ma ero troppo orgogliosa per venirti vicino. Piccolo mostro presuntuoso, pensavo. Come si permette di condannarmi per qualcosa che non può nemmeno capire? Che se ne stia a covare la sua rabbia. Che pianga. Che schiumi. Ma chi si crede di essere. Poi gli passerà. E invece no. — Gli sfiorò la guancia con il dorso della mano, un attimo soltanto. — Non poteva esserci punizione peggiore della lontananza tra noi due. Anche se avessi sposato Roderick, questo dispiacere sarebbe sempre rimasto. — Ma almeno avresti avuto qualcosa. — Sì. È ancora possibile. Una certa intonazione della voce, tenerezza e speranza, gli fece intuire ciò che lei non aveva ancora detto. — Te l'ha chiesto di nuovo? Bene. Ne sono felice. È più di quel che merito. Lei gli posò una mano sul braccio. — Quel periodo è chiuso, Tommy. — Ecco di nuovo la sua generosità capace di cancellare di colpo i rancori di metà di una vita. — Così, semplicemente? — chiese Lynley. — Sì, tesoro, così. St. James camminava alcuni passi dietro agli altri due, approfittando del fatto che Lynley voleva raccontare a Deborah di sua madre. Così aveva lasciato che lo precedessero mentre attraversavano il parco, separati prima da un metro, poi due, poi tre, poi una decina. Li osservava, studiando la loro vicinanza, memorizzando i particolari del braccio di Lynley attorno alle spalle di Deborah, e di quello di lei che gli cingeva la vita, l'angolazione delle loro teste, il contrasto di colore dei capelli. Notava i loro passi dell'identica lunghezza, elastici e agili, in ritmo perfetto. Li osservava e cercava di non pensare alla notte precedente, all'improvvisa scoperta di non poter continuare a fuggire da lei e proseguire con la sua vita, al momento in cui
si era reso conto che comunque sarebbe stato costretto a farlo. Un uomo che l'avesse conosciuta meno a fondo avrebbe considerato il comportamento di lei un'abile manipolazione intesa a saldare un debito di sofferenza. La confessione del suo amore adolescente e del desiderio conseguente a quell'amore; un incontro in cui si mescolavano tutti gli elementi più intensi del sentimento e della passione; una brusca conclusione quando aveva avuto la certezza che lui non intendeva più fuggire. Ma anche se avesse voluto vederlo come una ripicca premeditata, non gli era possibile. Deborah non aveva modo di sapere che si sarebbe alzato raggiungendola nello studio, o che dopo anni di separazione e di ripulsa lui avrebbe infine abbandonato le sue paure più profonde. Non lo aveva invitato a raggiungerla, né a sedersi accanto a lei, né a prenderla tra le braccia. Era stato lui a oltrepassare il confine che lo separava dal tradimento, lui a credere nella frenesia del momento che anche lei fosse disposta a varcarlo. Le aveva forzato la mano, aveva preteso una decisione. E lei aveva scelto. Se doveva sopravvivere, d'ora in poi, avrebbe dovuto riuscirci da solo. Cercava di convincersi che quel pensiero, adesso insopportabile, diventasse col tempo più accettabile. Dèi propizi avevano trattenuto la pioggia anche se, quando giunsero alla caletta, il cielo andava oscurandosi rapidamente. Lontano, sopra il mare, il sole penetrava da uno squarcio nelle nubi gettando sull'acqua un fascio di luce dorata. Ma nessun pescatore si sarebbe lasciato ingannare da quella bellezza transitoria. Sotto di loro, sulla spiaggia, due ragazzi fumavano pigramente vicino agli scogli. Uno alto, massiccio, con folti capelli color carota; l'altro piccoletto, esile, con ginocchia protuberanti. Nonostante il tempo erano in costume da bagno. Avevano accanto degli asciugamani, due maschere, due boccagli. Il primo alzò lo sguardo, vide Lynley e agitò il braccio. L'altro si volse a mezzo e gettò via la sigaretta. — Secondo te da che punto Brooke ha gettato in acqua le macchine fotografiche? — chiese Lynley a St. James. — Venerdì pomeriggio era sugli scogli. Penso che si sia spinto avanti il più possibile per far sparire la custodia. Com'è il fondo? — Per lo più roccioso. — E l'acqua è limpida. Se la custodia è là, dovrebbe essere visibile. Lynley annuì e si avviò giù per la discesa, lasciando St. James e Deborah in cima alla rupe. Lo videro attraversare la breve spiaggetta e stringere la mano ai due ragazzi. Questi sorrisero, uno si passò le dita tra i capelli,
l'altro pesticciava la sabbia. Sembravano piuttosto infreddoliti. — Non è la giornata ideale per una nuotata — osservò Deborah. St. James non rispose. I ragazzi misero le maschere, sistemarono i boccagli e si diressero all'acqua, uno da una parte e uno dall'altra degli scogli. Lynley si inerpicò sulle rocce e avanzò verso l'estrema punta. La superficie dell'acqua era straordinariamente liscia in quella caletta riparata. Perfino dall'alto della rupe St. James riusciva a scorgere gli anemoni di mare e le alghe che ondeggiavano dolcemente. Sotto di loro si nascondevano i granchiolini. Quella caletta dove si alternavano rocce, sabbia e buche improvvise nel fondo non era il posto più adatto per una nuotata ma era l'ideale se si voleva far sparire un oggetto con la certezza che non venisse ritrovato per anni. Nel giro di qualche settimana la custodia degli apparecchi fotografici sarebbe stata ricoperta da piccoli molluschi, ricci e attinie; in pochi mesi la sua forma non sarebbe più stata riconoscibile e infine si sarebbe perfettamente mimetizzata con le rocce. Se anche era laggiù, i ragazzi incontravano difficoltà a rintracciarla. Più volte risalirono in superficie, nei pressi di Lynley, e scossero il capo. — Digli di andare più al largo — gridò St. James quando riaffiorarono per la sesta volta, a mani vuote. Lynley guardò in su, annuì, poi si accosciò per parlare con i ragazzi che si immersero di nuovo. Erano entrambi ottimi nuotatori e chiaramente sapevano cosa dovevano cercare. Ma non trovavano nulla. — Niente da fare, a quanto sembra — mormorò Deborah, più che altro tra sé. Ma ugualmente St. James rispose. — Hai ragione. Mi spiace, Deborah. Credevo di poterti far recuperare almeno qualcosa. Non era una sciocca, afferrò subito il significato nascosto di quelle parole. — Oh, Simon, ti prego. Non era possibile. All'ultimo ho sentito che non potevo. Puoi cercar di capire? — Sarebbero state comunque rovinate dall'acqua salata, ma almeno avresti avuto un ricordo dei tuoi successi americani. A parte Tommy, certo. — Lei ebbe un piccolo sussulto. St. James capì di essere riuscito a ferirla e provò un piccolo brivido di trionfo. E subito dopo un'ondata di vergogna. — Ti chiedo scusa. È stato ignobile. — Me lo merito. — No. Non te lo meriti. — Si scostò riportando l'attenzione sulla caletta. — Digli di smettere, Tommy — gridò. — Gli apparecchi non si trovano lì.
I due ragazzi stavano riemergendo ma questa volta uno di loro stringeva qualcosa nel pugno. Un oggetto lungo e sottile che ebbe un piccolo scintillio nella luce grigiognola quando venne consegnato a Lynley. Manico di legno, lama di metallo. Non mostrava segni di essere rimasto in acqua più di qualche giorno. — Cos'è? — chiese Deborah. Lynley lo tenne alto perché potessero vedere e St. James ebbe un brivido di emozione intuendo l'importanza di quel ritrovamento. — Un coltello da cucina — spiegò. 26 Quando arrivarono al posteggio vicino al porto, a Nannurel, cominciavano a cadere rade gocce di pioggia che non sembravano annunciare una libecciata ma piuttosto un breve acquazzone estivo preceduto da migliaia di gabbiani che arrivavano stridendo dal mare per cercare rifugio tra i comignoli, sulla banchina e sui ponti dei battelli ormeggiati. Lungo la stradina che costeggiava il porto oltrepassarono scafi rovesciati, pile sbilenche di reti impregnate dell'odore pungente del mare e i magazzini nelle cui finestre si specchiava il grigiore uniforme del cielo. Rimasero in silenzio fino a quando arrivarono al punto in cui la strada cominciava a risalire verso il centro del paese. Lynley notò che l'acciottolato era scivoloso per la pioggia e lanciò un'occhiata inquieta a St. James. Questi incontrò il suo sguardo. — Ce la faccio, Tommy. Non avevano parlato molto del coltello, si erano limitati a osservare che era evidentemente un attrezzo da cucina e che, se era stato usato su Mick Cambrey e se Nancy l'avesse riconosciuto come suo, sarebbe stato un'ulteriore prova che il delitto non era premeditato. Il fatto che fosse stato ritrovato alla caletta non assolveva certo Justin Brooke, semplicemente modificava la ragione per cui questi si era recato là: non per far sparire gli apparecchi di Deborah ma per liberarsi di un oggetto molto più incriminante. La scomparsa delle macchine fotografiche restava una tessera che ancora non si riusciva a inserire nel mosaico e tutti erano stati d'accordo nel ritenere ancora probabile che fosse stato Brooke a portarle via dalla stanza di Deborah. Ma cosa poi ne avesse fatto restava un punto interrogativo. Superato il negozio di argenteria antica all'angolo con Lamorna Road, videro che le stradine del paese erano deserte. La cosa non destava sorpresa in una regione dove le vicissitudini del tempo costringevano i villeg-
gianti a farsi dei programmi molto flessibili. Con il sole andavano a spasso, esploravano il porto, facevano foto sul molo; la pioggia di solito provocava l'improvviso desiderio di tentar la fortuna in vari giochi, di un'insalata di granchio, di un boccale di birra. Un pomeriggio di maltempo era sempre una gradita manna per i proprietari di sale giochi, ristoranti e pub. Questo valeva anche per l'Anchor and Rose. Il locale era gremito di pescatori costretti a terra e da turisti che cercavano riparo dalla pioggia. Si trovavano quasi tutti nel bar mentre la sala interna era quasi vuota. In altre circostanze due gruppi così dissimili, trovandosi alla medesima abbeverata, difficilmente si sarebbero mescolati. Ma la presenza di un ragazzo che pizzicava un mandolino, di un pescatore che ci sapeva fare con lo scacciapensieri e di un tizio, in calzoncini da jogging e con gambe di un biancore latteo, che provvedeva all'accompagnamento servendosi di cucchiai, aveva abbattuto le barriere di classe e di mestiere fondendo quegli elementi discordi in un tutto omogeneo. Una nube di fumo aleggiava e i boccali sgocciolanti di birra scura e chiara venivano passati al di sopra delle teste. E persone che in realtà non avevano nulla in comune chiacchieravano e ridevano come se si conoscessero da anni. Nel vano della finestra che dava sul porto, in controluce, un pescatore dalla pelle bruciata dal sole giocava a ripiglino con un bambinetto molto tirato a lucido: le mani callose offrivano al piccolo la cordicella tesa tra le dita mentre il volto abbronzato si apriva in un sorriso. — Coraggio, Dickie. Sai bene come si fa — incoraggiò la mamma. Dickie seguì l'esortazione e ci furono delle risate d'applauso. Il pescatore gli diede una pacca affettuosa. — Un buon soggetto per una foto, vero? — commentò Lynley rivolto a Deborah, mentre si soffermavano sulla soglia. Lei sorrise. — Una faccia straordinaria. E guarda l'effetto della luce radente. St. James si era già avviato su per le scale, diretto agli uffici del giornale. I due lo seguirono. — Sai — disse Deborah sostando brevemente sul pianerottolo — all'inizio ero un po' scettica circa le possibilità che avrei avuto, da un punto di vista fotografico, qui in Cornovaglia. Non domandarmi perché. Credo di essere molto abitudinaria e ho lavorato soprattutto a Londra. Ma questi posti mi piacciono moltissimo, Tommy. È tutto da fotografare. È magnifico, davvero. L'ho capito subito. Lynley si sentì allargare il cuore e al tempo stesso si vergognò dei pre-
cedenti sospetti. — Ti amo, Deborah. L'espressione di lei si intenerì. — E io amo te, Tommy. St. James aveva già spalancato la porta della sede del giornale. All'interno ferveva la normale attività: due telefoni squillavano; Julianna Vendale lavorava al computer; un giovane fotografo ripuliva alcuni obiettivi allineati su un tavolo; in uno dei box tre uomini e una donna erano riuniti a discutere: tra questi riconobbero Harry Cambrey. Pubblicità e distribuzione era scritto sulla porta a vetri. Dal piano terra giungevano i rumori soffocati del pub. Harry Cambrey li scorse e andò loro incontro. Indossava pantaloni scuri, camicia bianca e cravatta nera. Come se sentisse il bisogno di spiegarla disse subito: — C'è stato il funerale, stamattina. Alle otto e mezzo. Strano, pensò Lynley, Nancy non ne aveva fatto cenno. Ma in un certo senso spiegava la calma con cui aveva accettato la loro presenza. Un funerale è sempre conclusivo: non allevia il dolore ma pone di fronte a un fatto compiuto. — Almeno cinque o sei poliziotti a scrutare attorno, al cimitero — proseguì Cambrey. — La prima volta che si danno una mossa, dopo aver cercato di incastrare John Penellin. Bell'idea, eh? John che avrebbe ucciso Mick. — Forse un movente l'aveva — disse St. James consegnandogli le chiavi del figlio. — Il fatto dei travestimenti. Secondo lei è possibile arrivare ad ammazzare qualcuno per una faccenda del genere? Cambrey serrò le chiavi nel pugno, volse la schiena ai suoi dipendenti e chiese a voce bassa: — Chi altri lo sa? — Lo ha parato bene. Sono tutti convinti che Mick fosse esattamente come lo ha dipinto lei. Un vero uomo, un donnaiolo insaziabile. — Che altro avrei potuto fare? Maledizione, era mio figlio. Era un maschio. — Ma con la passione di vestirsi da donna. — Non sono mai riuscito a fargliela smettere. E ci ho provato. — Dunque non era un fatto recente? Cambrey mise in tasca le chiavi e scrollò il capo. — No, andava avanti da sempre, ma a periodi. Gliele suonavo. L'ho sbattuto nudo fuori di casa. L'ho legato alla sedia impiastricciandogli la faccia e facendo finta di essere deciso a tagliarglielo via. Tutto inutile. — Tranne la sua morte. Cambrey era abbastanza intelligente da capire che quelle sue ultime pa-
role bastavano a togliere credibilità a qualsiasi successiva protesta di innocenza. Ma non se ne curò. — Ho protetto il ragazzo come meglio potevo. Non l'ho ucciso. — È riuscito a proteggerlo, certo — convenne St. James. — Gli ha dato l'immagine che voleva. Ma alla fine non è morto perché si travestiva, ma per via di un'inchiesta, come pensava lei. — La faccenda delle armi, eh? — fece schioccare le dita. — L'avevo detto. St. James guardò Lynley come per averne un suggerimento o forse il permesso di aggravare il dolore di quell'uomo. Sarebbe bastato spiegare il significato di quell'appunto che Cambrey aveva trovato nella scrivania del figlio per rivelare quasi l'intera storia. Non solo il travestimento ma il traffico di droga. Il denaro sperperato non solo in frivolezze ma impiegato per condurre una doppia vita. Le false credenze sono destinate a essere distrutte. Costruire qualcosa, un rapporto o tutta un'esistenza, su una menzogna equivale a costruire sulla sabbia. Per un poco l'illusione di solidità può reggere ma alla fine il crollo è inevitabile. Restava solo da decidere quando l'errata immagine che Harry Cambrey aveva di suo figlio doveva essere abbattuta. Lynley guardò il vecchio: la faccia segnata dagli anni, dalle sconfitte e dalla salute malferma; il magro torace con le costole sporgenti, le dita macchiate di nicotina e deformate dall'artrite. Che sia qualcun altro a dirglielo, decise. Non sarò io a dargli il colpo finale. — Sappiamo che stava preparando un articolo su un farmaco chiamato oncomet — intervenne Lynley. St. James seguì il suggerimento. — Si recava spesso in una ditta di Londra, la Ishngton, a parlare con un biochimico che lavorava là, un certo Justin Brooke. Mick gliene ha mai fatto cenno? Cambrey scosse il capo. — Un farmaco, ha detto? — Stava ancora adeguandosi al fatto che la sua idea del contrabbando d'armi non aveva condotto a nulla. — Abbiamo bisogno di esaminare il suo materiale, qui e al cottage, se vogliamo dimostrare qualcosa — spiegò St. James. — L'uomo che ha ucciso Mick è morto a sua volta. Solo gli appunti di Mick possono fornirci il movente e delle prove. — E se l'assassino li avesse trovati e distrutti? Se li avesse portati via dal cottage, quella sera? — In tal caso non si sarebbero verificati molti altri fatti avvenuti in se-
guito. — Lynley riesaminò ancora una volta la spiegazione di St. James: Brooke aveva cercato di eliminare Peter per via di qualcosa che Peter aveva visto o sentito quella sera a Gull Cottage; aveva preso le macchine fotografiche di Deborah per impadronirsi della pellicola. Già solo questo stava a indicare con certezza che da qualche parte esisteva una prova concreta. E Brooke lo sapeva. — Teneva tutto in quegli schedari — accennò col capo — e c'è altra roba al cottage. La polizia ha terminato il suo lavoro, là, e posso darvi la chiave, quando vorrete andarci. Be', mettiamoci all'opera. C'erano tre schedari con quattro cassetti ciascuno. Mentre attorno a loro si continuava a preparare la nuova edizione del giornale, Lynley, St. James, Deborah e Cambrey cominciarono a esaminare il materiale servendosi dei piani d'appoggio disponibili: Deborah a una scrivania, St. James a un banco d'impaginazione, Lynley si accontentò di una sedia e Cambrey ricorse al pavimento. Ci interessa tutto quello che può riferirsi all'oncomet, aveva detto St. James. Il nome del farmaco, un accenno alle malattie tumorali, appunti sulle terapie, dichiarazioni di medici, ricercatori o pazienti. Dovettero passare in rassegna cartellette, taccuini, semplici fogli volanti e capirono subito che non sarebbe stato compito facile. Mick Cambrey non aveva usato un sistema logico d'archiviazione: era tutto messo via molto a casaccio. Ci sarebbero volute ore, forse giorni, per arrivare in fondo visto che bisognava leggere tutto, in caccia della minima allusione all'oncomet, al cancro, alle ricerche biochimiche. Stavano lavorandoci da più di un'ora quando Julianna Vendale disse: — Guardate che c'è anche il materiale registrato al computer — e aprì un cassetto della scrivania di Mick rivelando almeno due dozzine di dischetti. Non ci furono gemiti, ma Deborah ebbe un'espressione sgomenta e Harry Cambrey imprecò. Continuarono in quel lavoro di controllo fino a quando, poco dopo le quattro, furono interrotti da una telefonata. Un redattore, in uno dei box, si affacciò alla porta chiedendo: — C'è il signor St. James? — Forse siamo salvi — sospirò Deborah sfregandosi il collo. — Magari è qualcuno che vuole confessare. Lynley si raddrizzò, massaggiandosi la schiena, e andò alla finestra. Fuori la pioggerella continuava. Era ancora presto ma in un paio di case di fronte c'erano delle luci accese. Oltre le finestre scorse una famigliola che prendeva il tè, attorno a un tavolo, pescando biscotti da una scatola di metallo. E poi una ragazza che stava tagliando i capelli a un giovanotto: gli si
mise di fronte per controllare il risultato. Per qualche istante lui lasciò fare, paziente, poi l'attirò a sé baciandola con impegno. Lei si dibatté, scoppiò a ridere, cedette. Lynley sorrise e si volse. Vide St. James che lo guardava dal box in cui stava parlando al telefono. Era scuro in volto e si mordicchiava un labbro. Più che altro ascoltava e solo di quando in quando diceva qualche parola. Infine riappese, rimase per un lungo momento a guardare il telefono, sollevò il ricevitore come se volesse fare una chiamata ma poi lo rimise giù. Quindi raggiunse gli altri. — Deborah, puoi continuare per conto tuo? Tommy e io dobbiamo occuparci di una faccenda. Lei passò lo sguardo dall'uno all'altro. — Certo. Andiamo a Gull Cottage una volta terminato qui? — Se sei d'accordo. E senza aggiungere altro si diresse alla porta. Lynley lo seguì. Lungo le scale non si dissero nulla, oltrepassarono l'entrata dell'Anchor and Rose, uscirono in strada dove si rialzarono il bavero della giacca. — Che succede? — si informò Lynley. — Chi era al telefono? — Helen. — Helen? Ma che diavolo... — Ha scoperto qualcosa a proposito di quell'elenco di nomi che abbiamo trovato da Cambrey. E anche in merito ai messaggi registrati dalla segreteria telefonica. — Dunque? — Pare che abbiano tutti un elemento in comune. — A giudicare dalla tua faccia non si tratta di cocaina. — Infatti no. Cancro. — St. James si avviò verso Paul Lane, chino in avanti sotto la pioggia. Lynley diede un'occhiata al porto, alla banchina affollata di gabbiani in massa compatta, a proteggersi. Poi alle colline brumose, sopra il paese. — Dove stiamo andando? St. James si fermò brevemente, volgendosi a mezzo. — Dobbiamo parlare con il dottor Trenarrow. Non era stato semplice per lady Helen scoprire quello che stava dietro quell'elenco di nomi, raccontò St. James. Dalle prime telefonate non aveva ottenuto nulla, nessuna informazione su cui poter basare una qualsiasi ricerca. Le persone che aveva chiamato si erano rivelate fin dall'inizio poco disposte a parlare e ancor meno non appena lei faceva il nome di Mick
Cambrey. A giudicare dalle reazioni era certo che, in un modo o nell'altro, ne sapevano qualcosa ed erano tutti ben decisi a non far trapelare niente dei rapporti che potevano avere avuto con lui. Li aveva intervistati per un articolo? Cercava informazioni? Si era presentato a casa loro? Aveva scritto? Quale che fosse la sua tattica, comunque affrontasse l'argomento, non aveva mai colto nessuno in contropiede: come se la prima persona della lista avesse telefonato agli altri per metterli in guardia. Neanche la notizia della morte di Cambrey era servita a cavare da quella gente una qualsiasi ammissione. Anzi, le poche volte che si era servita del delitto come mossa di apertura spacciandosi per giornalista che intendeva scrivere un pezzo sulla morte di un collega, si era trovata di fronte a una reticenza ancor più ostinata di quella suscitata dagli altri pretesti. Solo quando era giunta al quindicesimo nominativo c'era stata una svolta in quelle infruttuose conversazioni. Si trattava di un certo Richard Graham. Ed era morto. E così pure il sedicesimo, Catherine Henderford. E il diciassettesimo, Donald Highcroft. Idem per il diciottesimo, il diciannovesimo e il ventesimo. Tutti morti di cancro. Ai polmoni, alle ovaie, al fegato, all'intestino. E tutti deceduti negli ultimi due mesi. — Sono tornata subito al primo nome dell'elenco — aveva raccontato lady Helen. — Naturalmente non potevo richiamarlo io, così sono andata a casa tua e ho chiesto a Cotter di fare la telefonata. Abbiamo inventato il nome di un'organizzazione. Ente ricerca cancro, qualcosa del genere. Volevamo informarci circa le condizioni del paziente, ha dichiarato Cotter. Dal primo all'ultimo, tutti malati di cancro. E quelli ancora vivi sono tutti in remissione, Simon. Anche i due che avevano lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica nell'appartamento di Mick Cambrey erano di fronte a problemi analoghi. La differenza era che erano dispostissimi a parlare. Avevano chiamato in seguito a un annuncio che da mesi veniva pubblicato sul Times della domenica: "POTETE combattere il cancro!" seguito da un numero telefonico. — Si tratta di mia moglie — aveva spiegato uno, quando lady Helen si era messa in contatto. — Alla fine si è disposti a qualsiasi cosa, capisce. Abbiamo tentato con le diete, la meditazione, la preghiera, la terapia di gruppo. Le forze interiori. Farmaci di tutti i tipi. Quando ho visto quell'inserzione mi sono detto: proviamo anche questa. Ma nessuno mi ha richiamato. Perché Mick non aveva ricevuto il messaggio. Perché Mick era morto.
— Ma cosa stava combinando, Mick? — aveva chiesto lady Helen, alla fine del suo resoconto. La risposta era semplice. Si era trasformato da giornalista in mercante di sogni. Vendeva speranza, vendeva la possibilità di vivere. Vendeva l'oncomet. — Aveva saputo dell'oncomet in occasione dell'intervista fatta a Trenarrow — raccontò St. James a Lynley mentre passavano davanti alla chiesa metodista, lungo Paul Lane. Il vento era aumentato, la pioggia gli imperlava i capelli. — È risalito fino alla Islington di Londra, dove Brooke gli ha fornito altri particolari. Immagino che abbiano elaborato insieme il piano. Era abbastanza semplice, e anche nobile a non guardare il fatto che con tutta probabilità ne cavavano lauti profitti. Fornivano ai malati di cancro il farmaco miracoloso, anni prima che il prodotto venisse approvato e messo in commercio. Pensa agli innumerevoli malati irrecuperabili che possono solo aggrapparsi alla speranza che qualcosa funzioni. Pensa a tutte le cose a cui la gente è pronta a ricorrere per ottenere una remissione: diete macrobiotiche, guaritori. Mick sapeva di avere un mercato aperto, con una clientela disposta a pagare qualsiasi prezzo. Aveva solo due problemi da risolvere. Il primo era assicurarsi una fornitura regolare di oncomet. — Justin Brooke — disse Lynley. St. James annuì. — Da pagarsi in contanti, inizialmente. E in cocaina in seguito, suppongo. Ma poi doveva trovare qualcuno che somministrasse il prodotto, stabilisse il dosaggio, valutasse i risultati. In cambio di una certa percentuale, si intende. Nessuno si imbarcherebbe in un'impresa del genere senza un tornaconto. — Buon Dio. Trenarrow. — La domestica ha raccontato a Cotter che Trenarrow dedica parecchio tempo a una casa di cura a St. Just. Al momento non ci ho pensato più che tanto, però Trenarrow aveva accennato al fatto che spesso sui pazienti irrecuperabili si sperimentano farmaci ancora in fase di studio. E vedi un po' come le due cose combaciano. Una piccola clinica a St. Just dove Trenarrow segue un gruppo selezionato di pazienti convogliati da Mick Cambrey. Una clinica non riconosciuta che viene spacciata come convalescenziario molto esclusivo, dove i ricoverati pagano fior di quattrini per farsi iniettare l'oncomet. E il ricavato viene diviso in tre: Cambrey, Brooke e Trenarrow. — I depositi in banca di Mick? — La sua parte. — E allora chi l'ha ucciso? E perché?
— Brooke. Possono essere nati degli attriti. Forse Mick voleva di più. O magari gli è sfuggito detto qualcosa in presenza di Peter, qualcosa che metteva tutti a repentaglio. E per questo Brooke voleva togliere di mezzo Peter. Lynley imprecò tra i denti e afferrò il braccio dell'amico. — Peter mi ha raccontato che Mick aveva fatto un commento... maledizione, non ricordo esattamente. Peter aveva minacciato di ricattarlo, sulla base del travestimento e della cocaina. Ma Mick non ha fatto una piega, invitando Peter a rivolgersi altrove. Ha detto che certa gente è disposta a pagare molto di più per restare viva che non per proteggere un segreto. — E Justin era presente, vero? Aveva paura che Mick sciorinasse tutta la faccenda. — Voleva andarsene subito, con Peter. — Capisci bene il motivo. Brooke ci avrebbe perso parecchio se Mick avesse parlato. Carriera, reputazione, il lavoro alla Islington. Sarebbe finito in galera se la cosa fosse saltata fuori. Deve essere tornato al cottage dopo che Peter se n'è allontanato. Ha affrontato la questione con Mick e gli animi devono essersi riscaldati... comprensibile che avessero i nervi tesi, con tutti i rischi che correvano. Justin gli ha tirato un pugno ed è successo quel che è successo. — E Trenarrow? — Lynley si fermò. Erano arrivati ai giardini delle scuole elementari. St. James guardò il palcoscenico del piccolo teatro all'aperto, pronto ad accogliere le altre rappresentazioni estive. Ma adesso il terreno era fradicio di pioggia. — Trenarrow è al corrente di tutto. Sarei pronto a scommettere che ha capito fin dal momento in cui ha visto Brooke a Howenstow, sabato sera. Secondo me non l'aveva mai incontrato, prima. Non ce n'era bisogno, con Mick che faceva da intermediario. Ma come li hanno presentati ha ricostruito tutto quanto. L'assassinio di Mick e tutto il resto. — Ma perché tacere? — Lo sai quanto me. Lynley alzò lo sguardo verso la collina. Solo il tetto della villa si stagliava contro il cielo plumbeo. — Anche lui rischiava la prigione. La clinica, l'oncomet, le somme versate dai pazienti. E la sua posizione. Il lavoro di ricerca. — E, ancor più importante? — Rischiava di perdere mia madre. — Devono essere stati i quattrini tirati fuori dai malati a consentirgli di
comperarsi quella villa. — La casa che voleva offrirle. — E quindi è stato zitto. Continuarono lungo la strada in salita. — Cosa pensi che intenda fare, adesso che Brooke e Cambrey non ci sono più? — Morto Brooke, gli è impossibile rifornirsi di oncomet. Dovrà chiudere con la casa di cura di St. Just e arrangiarsi con quel che è riuscito a mettere da parte finora. — E qual è il nostro compito, St. James? Lo consegniamo alla polizia? Raccontiamo tutto alla direzione del suo istituto di ricerca? Vogliamo rovinarlo? St. James gli lanciò un'occhiata. — È questo l'assurdo, vero, Tommy? Ti viene l'occasione di realizzare il peggiore dei tuoi desideri, e proprio quando l'hai ormai cancellato, se ho capito bene. — E lasci a me la decisione? — Abbiamo definito la posizione di Brooke e di Cambrey. Ci sono le ripetute visite di Mick alla Islington. Peter e Justin presenti insieme a Gull Cottage. Justin che ha mentito circa l'essere andato all'Anchor and Rose, poco dopo. E sappiamo che Justin prendeva la coca. Alla polizia può interessare solo che Mick lo riforniva, che è sorto un dissenso tra loro e che Justin l'ha ucciso. E così pure Sasha. Quindi, sì: il resto sta a te. Sei tu il poliziotto. — Anche se significa tenere nascosto il resto e parare le spalle a Roderick? — Io non intendo emettere giudizi. Tutto considerato, Trenarrow cercava di aiutare i suoi pazienti. Che si facesse pagare profumatamente è criticabile, ma in fondo voleva solo fare del bene. Percorsero in silenzio il resto della strada in salita. Quando imboccarono il vialetto che portava alla villa notarono che le luci al piano terra erano accese, come se fossero attese visite. Dora venne ad aprire. Era avvolta in un enorme grembiule rosso che mostrava abbondanti tracce di farina un po' dappertutto. — Il dottore è nello studio — annunciò alla loro richiesta. — Entrate. Non è il caso di bagnarsi fino al midollo. — Fece loro strada, bussò e li fece passare. — Ora porto il tè. Il dottor Trenarrow, seduto alla scrivania, si alzò rimettendosi gli occhiali che poco prima stava ripulendo. — Tutto bene? — domandò a Lynley.
— Peter è a Londra, a casa mia. — Grazie al cielo. Tua madre? — Penso che le farebbe piacere vederti stasera. Trenarrow batté le palpebre, evidentemente sconcertato. — Siete fradici — osservò. Si diresse al caminetto e accese il fuoco. St. James attendeva che fosse l'amico a parlare, chiedendosi se la sua presenza era opportuna. Non sarebbe stato facile per Tommy chiudere un occhio sulla parte che Trenarrow aveva avuto nella vendita illegale dell'oncomet, per quanto nobili potessero essere i suoi motivi. Più semplice se lui non fosse stato lì. Ma St. James aveva bisogno di veder definiti certi particolari e quindi rimase dov'era. Trenarrow tornò allo scrittoio mentre gli altri due si accomodavano in poltrona. La pioggia frusciava contro i vetri. Dora tornò con il tè, riempì le tazze e prima di uscire disse: — Si ricordi della sua medicina. — Trenarrow annuì. Quando furono di nuovo soli con il fuoco, il tè e la pioggia, Lynley cominciò: — Sappiamo dell'oncomet, Roderick, e della clinica a St. Just. Dell'annuncio che ti procurava i pazienti. Di Mick e Justin: Mick che faceva la cernita dei candidati per scegliere quelli che potevano pagarsi la cura, e Justin che forniva il farmaco. Trenarrow si scostò leggermente dalla scrivania. — È una visita ufficiale, Tommy? — No. — E allora come... — Avevi mai incontrato Brooke prima di sabato sera a Howenstow? — Gli avevo solo parlato per telefono. Ma era venuto qui venerdì notte. — Quando? — Era qui quando sono rientrato da Gull Cottage. — Perché? — Puoi immaginarlo. Voleva parlare di Mick. — E non lo hai denunciato. Trenarrow aggrottò la fronte. Cambiò posizione. — No — si limitò a rispondere. — Ma sapevi che l'aveva ucciso. Ti ha detto il motivo? Trenarrow passò lo sguardo da lui a St. James. Prese la tazza fissandone il contenuto. — Mick voleva aumentare il costo della terapia. Io già mi ero opposto. Evidentemente quella sera l'aveva fatto anche Justin. Hanno avuto una discussione. Justin è andato su tutte le furie.
— E quando sei arrivato al cottage, sapevi che era stato Justin Brooke a uccidere Mick? — Non avevo ancora visto Brooke. Non avevo la minima idea di chi potesse essere stato. — La stanza buttata per aria, il denaro scomparso? — Brooke voleva far sparire tutto ciò che poteva ricollegarlo a Cambrey. — Il denaro? — Non ne so niente. Potrebbe averlo preso lui, ma non l'ha ammesso. — Ma di averlo ucciso sì? — Sì. Quello sì. — E la mutilazione? — Per depistare la polizia. — Era un cocainomane, ne eri al corrente? — No. — Sapevi che Mick trafficava in cocaina? — Buon Dio, no. St. James ascoltava, avvertendo uno strano disagio. Qualcosa si agitava in fondo alla sua mente, come cercando di farsi notare, un elemento fuori posto. Gli altri due continuavano a parlare a voce bassa, poco più di un mormorio, al solo scopo di scambiarsi informazioni, definire i dettagli; decidere cosa fare. D'un tratto un piccolo rumore si inserì nella conversazione, un ronzio proveniente dal polso di Trenarrow. Questi premette un minuscolo pulsante sul lato dell'orologio. — La mia medicina — spiegò. — Pressione alta. Trasse di tasca una scatolina d'argento, piatta, e l'aprì. Conteneva delle pillole bianche. — Dora non me lo perdonerebbe mai se una mattina mi trovasse morto di un accidente. — Prese una pillola e la buttò giù con un sorso di tè. St. James lo fissava, inchiodato alla poltrona. Di colpo tutte le tessere andarono al loro posto. Come, chi, perché. Alcuni in remissione, aveva detto lady Helen, ma tutti gli altri erano deceduti. Il dottor Trenarrow posò la tazza sul piattino. St. James si maledì per tutti gli indizi che aveva trascurato, i particolari che gli erano sfuggiti, i dati che non aveva preso in considerazione perché non riusciva ad assegnare loro un posto logico nel mosaico del delitto. Una volta di più maledì il fatto che il suo campo era la ricerca di labora-
torio, non l'indagine. Lui si concentrava sugli oggetti e quanto potevano rivelare di un delitto. Si fosse concentrato sulle persone sicuramente avrebbe visto la verità. 27 Con la coda dell'occhio Lynley vide che St. James si piegava in avanti posando una mano sulla scrivania di Trenarrow. Quel gesto interruppe la conversazione. — Il denaro — disse. — Scusa? — Tommy, a chi hai detto del denaro? Lynley era perplesso. — Quale denaro? — Nancy ha detto che Mick stava preparando le buste paga. Che c'era del denaro in casa, quella sera. Tu e io ne abbiamo discusso in seguito, dopo che lei ce ne ha parlato, alla foresteria. Chi altri ne era al corrente? — Deborah e Helen erano presenti. John Penellin lo sapeva. — L'hai raccontato a tua madre? — No, certo. Che motivo c'era? — E allora come fa il dottor Trenarrow a saperlo? Lynley capì all'istante il significato di quella domanda. Lesse la risposta sul viso di Trenarrow. Si sforzò di mantenere un'indifferenza professionale ma fu inutile. — Gesù Cristo. Trenarrow non aprì bocca. Lynley riusciva a pensare solo no, comprendendo che quanto gli aveva detto in precedenza l'amico si stava verificando. Tutti i suoi peggiori desideri degli ultimi quindici anni stavano per realizzarsi appieno. — Che cosa intendi dire, St. James? — Ma conosceva già la risposta. — Che il dottor Trenarrow ha ucciso Mick Cambrey. Non ne aveva l'intenzione. C'è stato un diverbio. Gli ha tirato un pugno e Mick è caduto. C'è stata un'emorragia cerebrale. È morto in pochi istanti. — Roderick. — Lynley desiderava solo che quell'uomo riuscisse a discolparsi: da questo sarebbe dipeso anche il suo futuro. Ma St. James continuò, perfettamente calmo. Solo i fatti contavano, e continuò a illustrarli. — Quando ha capito che Mick era morto, ha agito in fretta. Non si è trattato di una ricerca. Anche se Mick fosse stato tanto sciocco da tenere in casa sua le prove del loro accordo, non c'era il tempo di rintracciarle. Poteva solo creare un'apparenza di ricerca, o di furto, o di un delitto passionale.
Ma non è stato niente di tutto ciò. Solo una lite a proposito dell'oncomet. Il viso di Trenarrow era di pietra. Quando parlò solo le labbra si mossero, per il resto era perfettamente immobile. E le sue parole non furono altro che un futile tentativo di diniego, senza convinzione. — Ero alla rappresentazione, venerdì sera. Lo sapete benissimo. — Una recita all'aperto nel giardino della scuola — sottolineò St. James. — Nessuna difficoltà ad assentarsi per un poco, soprattutto trovandosi nell'ultima fila. Immagino che sia andato da lui dopo l'intervallo, durante il secondo atto. Non è lontano... meno di tre minuti. Si è presentato da Mick. Voleva solo parlare dell'oncomet, e invece l'ha ucciso. E poi è tornato indietro. — E l'arma? — replicò Trenarrow. Ma la sua baldanza era fiacca. — Me la sarei portata a spasso per Nannurel, nella tasca della giacca? — La frattura del cranio non era dovuta a un'arma. La castrazione sì, certo. E si è portato via il coltello. — E con quello sarei tornato tra il pubblico? — Secondo me l'ha nascosto da qualche parte. In Virgin Place, o in Ivy Street. In un giardino o in un bidone delle immondizie. In seguito l'ha recuperato per liberarsene il sabato, alla caletta di Howenstow. Dove si è liberato anche di Brooke, direi. Perché quando ha saputo che Cambrey era stato ucciso, Brooke deve avere capito chi era stato. Ma non poteva denunciarla alla polizia senza compromettere anche se stesso. La faccenda dell'oncomet vi legava a filo doppio. — Pure supposizioni — affermò Trenarrow. — In base a quel che ha detto finora avevo più motivi per volere Mick vivo invece che morto. Se mi procurava pazienti, che vantaggio potevo trarre dalla sua scomparsa? — Non intendeva affatto ucciderlo. Lo ha colpito in un momento di collera. A lei interessava salvare delle vite, a Mick intascare denaro. Ed è stato questo a mandarla fuori dai gangheri. — Non ha prove, lo sa bene. Non può accusarmi di omicidio. — Dimentica le macchine fotografiche — fece notare St. James. Trenarrow lo fissò, senza mutare espressione. — Ha visto quella al cottage e ha immaginato che avessi scattato alcune foto del cadavere. Durante quei momenti di confusione, sabato, quando sono venuti ad arrestare John Penellin, ha buttato gli apparecchi giù dalla finestra di Deborah. — Ma allora perché non li ha portati alla caletta? — intervenne Lynley. — Perché non li ha fatti sparire là, insieme al coltello?
— Col rischio che qualcuno lo vedesse aggirarsi per la tenuta con la custodia? Non so come non mi sono reso conto prima che era un'idea assurda. Il coltello poteva nasconderlo sotto la giacca, Tommy. Se avesse incontrato qualcuno avrebbe potuto dire che stava facendo due passi per cancellare i fumi dell'alcol. Sarebbe stata una spiegazione plausibile, era un ospite abituale a Howenstow. Ma le macchine fotografiche? No. Probabilmente le ha nascoste altrove... nella sua auto, magari... in seguito. Portandole poi in un posto dove poteva essere relativamente sicuro che non sarebbero state ritrovate. Lynley rifletté, accettando la verità. Erano tutti riuniti a cena, avevano tutti sentito i discorsi che si facevano. Tutti avevano riso all'idea dei turisti che scendevano nella miniera. Ne disse il nome, due parole che indicavano l'accettazione di quello che in cuor suo sapeva essere un fatto incontrovertibile. — Wheal Maen. — St. James lo guardò, perplesso. — Sabato sera, a cena. Zia Augusta a sostenere che non bisognava chiudere Wheal Maen. — Congetture assurde — intervenne seccamente Trenarrow. — Vera follia. A parte il fatto dell'oncomet, non ha niente su cui basarsi se non quello che si sta inventando adesso. E una volta che le nostre precedenti vicende saranno di dominio pubblico, Tommy, chi crederà a questa storia? Sempre che tu davvero voglia far risapere i nostri precedenti. — Alla lunga si torna sempre a questo, vero? — mormorò Lynley. — Tutto comincia e finisce con mia madre. Per qualche attimo si concesse di trascurare ciò che la giustizia esigeva per pensare allo scandalo che sarebbe seguito. Avrebbe potuto ignorare l'impiego illegale dell'oncomet da parte di Trenarrow, il prezzo senza dubbio esorbitante che pagavano i pazienti. Poteva chiudere gli occhi e lasciare che sua madre non ne sapesse mai nulla. Ma un delitto era cosa ben diversa. Vide quello che avrebbero riservato i mesi a venire. Il processo, i dinieghi di Trenarrow, la tesi della difesa che avrebbe coinvolto lady Asherton quale motivo delle accuse mosse da lui, Lynley, all'amante della madre. — Ha ragione, St. James — disse con voce sorda. — Sono congetture. Anche se ritrovassimo gli apparecchi alla miniera, il pozzo è allagato da anni. La pellicola ormai è rovinata. St. James scosse il capo. — Questa è l'unica cosa che il dottore non sapeva. La pellicola non era nella macchina fotografica. Deborah l'aveva consegnata a me.
Lynley sentì il rapido ansito di Trenarrow. St. James continuò. — E la prova è là, vero? Il portapillole d'argento sotto la gamba di Mick Cambrey. Può spiegare tutto il resto, può sostenere che Tommy ha cercato di mettere insieme un atto di accusa a suo carico per allontanarla da sua madre. Ma non potrà mai giustificare il fatto che nella foto del cadavere sia ben visibile quello scatoolino. Lo stesso che ha tratto di tasca qualche minuto fa. Trenarrow guardò il panorama brumoso del porto. — Non dimostra nulla. — Compare sulle nostre foto ma non in quelle scattate dalla polizia. La pioggia picchiettava contro i vetri. Il vento risuonava nella canna fumaria. In lontananza si levò la voce di una sirena da nebbia. Trenarrow si volse nuovamente, serrando le mani sui braccioli della poltroncina, e non disse nulla. — Cos'è successo? — gli domandò Lynley. — Roderick, per amor del cielo, cos'è successo? Per un lungo momento Trenarrow non rispose. Il suo sguardo spento era fisso sullo spazio vuoto tra Lynley e St. James. Toccò la maniglia del primo cassetto della scrivania, giocherellandovi. — L'oncomet — disse infine. — Brooke non riusciva a procurarne abbastanza. Già era costretto ad alterare i registri d'inventario, alla Islington. E noi ne avevamo bisogno di più. Sapeste quanti telefonavano, e ancora telefonano, chiedendo disperatamente aiuto. Ma non ne avevamo a sufficienza. E Mick continuava a inviarmi nuovi clienti. — E Brooke ha cominciato a mandarle qualcosa che non era l'oncomet, vero? — disse St. James. — I primi pazienti erano andati in remissione, così come facevano prevedere i risultati delle ricerche condotte alla Islington. Ma dopo qualche tempo le cose hanno preso una piega ben diversa. — Brooke mi faceva avere il farmaco attraverso Mick. Quando il rifornimento è diventato impossibile e hanno capito che la clinica avrebbe dovuto chiudere, l'hanno sostituito con un altro prodotto. E i pazienti che sarebbero dovuti andare in remissione hanno cominciato a morire. Non da un momento all'altro, certo. Ma c'erano dei dati costanti e a me sono venuti dei sospetti. Ho analizzato il prodotto: una soluzione salina. — E da qui la lite. — Sono andato a parlargli venerdì sera. — Guardò il fuoco nel caminetto. Il bagliore delle braci si rifletteva nei suoi occhiali. — A Mick non importava nulla di quella gente: non erano persone, solo una fonte di guada-
gno. Ma senti, tieni in attività la clinica fino a quando non ci arriva dell'altro oncomet, diceva. Ne perdiamo qualcuno? E con ciò? Incassi fior di quattrini e non venire a raccontarmi che non ti piace. — Guardò Lynley. — Ho cercato di spiegargli, di farlo ragionare, Tommy. Inutile. Io continuavo a parlare e lui alzava le spalle. Alla fine... non ci ho visto più. — E quando si è accorto che era morto ha deciso di farlo passare per un delitto passionale — concluse St. James. — Mi risultava che fosse un donnaiolo. Poteva essere stato un marito che aveva saldato i conti. — E il denaro? — L'ho preso. E poi ho buttato tutto all'aria, ma per non lasciare impronte ho tirato fuori di tasca il fazzoletto e dev'essere stato allora che è caduto il portapillole. L'ho visto non appena mi sono inginocchiato vicino al cadavere, in seguito. Lynley si protese in avanti. — Per quanto atroce, la morte di Mick è stata accidentale. Una disgrazia. Ma... Brooke? Eravate complici, cos'avevi da temere da lui? Anche se si fosse convinto che avevi ucciso tu Mick, avrebbe dovuto tacere per non andarci di mezzo a sua volta. — Infatti non avevo nulla da temere da Brooke. — E allora perché... — Sapevo le sue intenzioni. — Quali intenzioni? — Voleva eliminare Peter. Era qui, venerdì sera, quando sono rientrato. Non ci eravamo mai conosciuti di persona ma non gli era stato difficile rintracciare casa mia. Ha detto che Mick si era lasciato sfuggire qualcosa in presenza di Peter. Voleva che intervenissi per chiudergli la bocca. — E lei aveva già provveduto — commentò St. James. Trenarrow non reagì. — Quando ha saputo del delitto, la mattina seguente, si è spaventato. È tornato da me. Secondo lui era solo questione di tempo: Peter avrebbe intuito il significato di quegli accenni di Mick e ne avrebbe parlato alla polizia oppure avrebbe cominciato a cercare la persona da ricattare. Peter doveva procurarsi la droga, non aveva quattrini e già aveva minacciato Mick. Brooke era deciso a toglierlo di mezzo e io non potevo permetterglielo. — Dio. Oddio. — Lynley provò una terribile fitta di rimorso. — Ha spiegato che non c'era pericolo, che la cosa sarebbe passata come un'overdose. Non sapevo cosa intendeva fare ma ho creduto di poterglielo impedire. Gli ho detto che avevo un piano migliore e che dovevamo tro-
varci alla rupe, dopo il ricevimento di sabato sera. — E l'hai ucciso? — Avevo con me il coltello, ma lui era ubriaco. È stato abbastanza semplice farlo precipitare, sperando che sembrasse una disgrazia. — Per qualche momento Trenarrow tacque fissando alcune cartellette, una rivista, tre foto, una penna, disposte sulla scrivania. — Non me ne pento affatto. — Ma lui aveva già passato quella roba a Sasha. Ergotamina e chinino. Dicendole di darla a Peter. — Sono sempre arrivato troppo tardi. Che disastro. Che orribile tragedia. — Radunò dei fogli, facendone un mazzetto ordinato. Poi si guardò attorno, con affetto. — La casa che volevo per lei. Non potevo certo proporle Gull Cottage. Inconcepibile. Ma qui sarebbe venuta. E l'oncomet me lo rendeva possibile. Un doppio beneficio, dunque. Puoi comprendermi? Delle persone che altrimenti erano destinate a morire, potevano guarire, sopravvivere. Tua madre e io saremmo stati finalmente insieme. In questa casa. — Aprì il secondo cassetto della scrivania. — Se allora l'oncomet fosse esistito, l'avrei salvato, Tommy. Senza esitazioni. Qualsiasi sentimento potessi provare per tua madre. Spero che tu mi creda. — Mise i fogli nel cassetto e vi posò sopra la mano. — Lei è al corrente? Lynley pensò a suo padre, devastato dal male. A sua madre, che cercava di sopravvivere. A suo fratello, cresciuto da solo. Pensò a Trenarrow. Parlare gli costava fatica. — Non sa nulla. — Dio ti ringrazio. — La mano scivolò all'interno del cassetto, poi ricomparve. Uno scintillio metallico. Stringeva una rivoltella. — Dio ti ringrazio — ripeté, puntando l'arma contro St. James. — Roderick. — Lynley fissava la rivoltella e pensieri disordinati, disarticolati, gli passavano nella mente. Un residuo del tempo di guerra. L'armeria di Howenstow. Avrebbe dovuto essere preparato a quel momento. Da giorni ne aveva visto i segnali. Le loro domande, i colloqui, le telefonate. — Roderick, per amor del cielo. — Sì — mormorò Trenarrow. — Penso che sia giusto. Lynley mosse rapidamente lo sguardo. Il volto di St. James non era mutato: non mostrava ombra di emozione. Fissò di nuovo la rivoltella: il dito di Trenarrow era pronto sul grilletto. E d'un tratto ebbe nuovamente di fronte quella possibilità, una ripetizione tematica che non poteva evitare. Tutti i suoi più biechi desideri avverati in pieno. Aveva solo un istante per decidere. Scegli, si disse con forza.
— Roderick, non puoi sperare... La detonazione troncò le sue parole. Deborah si massaggiò le reni per dar sollievo ai muscoli indolenziti. Nel grande ufficio tutti continuavano nelle loro mansioni. Squillo di telefoni, ticchettio di tastiere, cassetti aperti e chiusi, passi sul pavimento scricchiolante. Deborah aveva controllato tutto il contenuto di uno schedario ricavandone solo tre taglietti da carta e abbondanti tracce di inchiostro da stampa sulle mani. A giudicare dagli sbuffi, dai gemiti e dalle imprecazioni tra i denti, Harry Cambrey non aveva incontrato migliore fortuna. Soffocò uno sbadiglio, stanchissima. Aveva dormito solo per un paio d'ore, dopo l'alba, disturbata da sogni frammentali che l'avevano lasciata fisicamente ed emotivamente esausta. Lo sforzo di non ripensare alla notte precedente l'aveva provata. Adesso desiderava solo dormire, in parte per trovare riposo ma soprattutto per sottrarsi alla realtà. Già a quel pensiero si sentiva le palpebre grevi. Il tamburellare della pioggia era così soporifero, e quella stanza così calda, il mormorio delle voci così distensivo... Lo stridore delle sirene, di fuori, la riscosse bruscamente. Prima una, poi una seconda. Poco dopo una terza. Julianna Vendale lasciò la scrivania per andare alla finestra. Deborah la raggiunse mentre Harry Cambrey si levava in piedi. Un'ambulanza proveniente dalla direzione di Penzance stava infilando Paul Lane. Poco più avanti, dove la strada cominciava a inerpicarsi, due auto della polizia filavano sotto la pioggia. In quello stesso momento squillò un telefono e Julianna sollevò il ricevitore. Disse ben poco. — Quando?... Dove?... Morto?... Va bene. Sì. Grazie. Riappese e si rivolse a Cambrey. — Un colpo d'arma da fuoco a casa di Trenarrow. Deborah ebbe appena il tempo di avvertire un brivido di paura, di ripetere: — Trenarrow? — prima che Harry Cambrey si lanciasse verso l'uscita afferrando un impermeabile e due macchine fotografiche. Spalancò l'uscio e si volse a gridare a Julianna Vendale: — Resta vicino al telefono! Mentre si precipitava giù per le scale e raggiungeva la strada un'altra auto della polizia passò ululando. Incuranti della pioggia, i clienti dell'Anchor and Rose e diversi abitanti di Paul Lane si precipitarono fuori seguendone la scia. Harry Cambrey si trovò incastrato in quella piccola folla. Deborah guardava dalla finestra. Cercò vanamente una testa bionda e una bruna: ma dovevano essere lì, di sicuro avevano sentito fare il nome di
Trenarrow, dovevano essere diretti alla villa. Una voce giunse dalla strada: — Non so. Pare che sia morto. Quelle parole furono una scossa elettrica. Di colpo Deborah rivide Simon, l'espressione con cui aveva guardato Tommy, cupa e decisa, prima di condurlo via. Sono andati da Trenarrow, si disse con un brivido di orrore. Ebbe un'esclamazione soffocata e corse alla porta, volò giù per le scale, si fece largo a spintoni tra la calca all'ingresso del pub e incespicando arrivò in strada. La pioggia l'investì. Un'auto passò strombazzando e le ruote solcarono una pozzanghera sollevando alti spruzzi. Ma non se ne accorse. C'era solo la necessità di arrivare alla casa di Trenarrow. Il terrore di quel colpo esploso. In quegli ultimi tre anni Lynley le aveva solo lasciato intuire certe discordie in famiglia. E con piccoli fatti, non a parole. Il desiderio di trascorrere il Natale con lei invece che con i suoi; una lettera di sua madre lasciata, chiusa, per settimane sulla scrivania; un messaggio telefonico rimasto senza seguito. Ma quel pomeriggio, mentre andavano alla caletta, Tommy le aveva detto che era tutto risolto: l'inimicizia, i contrasti, i rancori, la collera. Che proprio ora accadesse qualcosa di irrevocabile era impensabile, inaccettabile. Morto. No. No. Queste parole l'accompagnarono su per la salita. Lo scroscio d'acqua che rigurgitava da una gronda l'investì in pieno, accecandola. Si fermò brevemente per asciugarsi il volto mentre altre persone avanzavano attorno a lei correndo verso quel lontano lampeggiare di luci azzurrine. L'aria fremeva di voci. Se c'era un cadavere da vedere, se c'era sangue da fiutare, ecco una popolazione pronta a fare gli onori. Al primo crocicchio fu spinta contro la vetrina appannata del Talisman Café da una donna che si trascinava appresso un bambinetto strepitante. — Ma guardi dove va! — sbraitò quella, furiosa. — Maledetti turisti. Vi credete i padroni? Deborah non rispose. Proseguì alla cieca. In seguito avrebbe ricordato quella lunga corsa attraverso il paese, su per la collina: un collage infinito. La porta di un negozio; la scritta cioccolata con panna rigata di pioggia; un grande girasole piegato su se stesso; fronde di palma in una pozza d'acqua; bocche che gridavano parole che non sentiva; la ruota di una bicicletta a terra, che continuava a girare. Ma al momento vedeva solo Tommy, in una serie infinita di immagini vivide che l'accusavano di tradimento. Ecco la sua punizione per quel momento di egoistica debolezza con Simon.
Mio Dio, ti prego. Se impegni e promesse potevano bastare, lei era pronta a giurare. Senza il minimo rimpianto. Quando arrivò alle ultime case del villaggio, un'altra auto della polizia l'oltrepassò sollevando schizzi d'acqua e di ghiaia. Non c'era più bisogno di suonare il clacson per avere via libera: scoraggiati dall'acquazzone, i meno ardimentosi avevano rinunciato al possibile brivido cercando rifugio in botteghe e in androni o infrattandosi nella chiesa metodista. Solo i più strenuamente curiosi erano arrivati in cima alla salita. Deborah si allontanò dal volto i capelli gocciolanti e li vide fermi dinanzi al vialetto d'accesso sorvegliato da un agente. Il silenzio saturo d'attesa era spezzato solo dalla voce di Harry Cambrey che chiedeva inutilmente di poter passare. Sul fondo si scorgeva la villa di Trenarrow, investita dalla pioggia. Le finestre erano tutte illuminate e i fari delle auto della polizia tagliavano l'ombra che gravava sullo spiazzo anteriore. — Degli spari, ho sentito dire — borbottò una voce. — Hanno portato fuori qualcuno? — No. Deborah si spinse avanti scrutando la villa. Non gli era accaduto nulla, stava bene, doveva essere là. Non riusciva a scorgerlo. Si aprì un varco tra i curiosi, la mente invasa da preghiere dell'infanzia. Faceva patti con Dio. Chiedeva di essere punita in qualsiasi altro modo. Implorò pietà. Riconobbe tutti i suoi peccati. — Alt, signorina! — ordinò il poliziotto che stava discutendo con Cambrey. — Ma è... — Indietro! Non siamo a teatro! Lei fece ancora qualche passo. Il bisogno di sapere aveva cancellato tutto il resto. — Ma dico! — Il poliziotto le andò incontro, pronto a respingerla, e Harry Cambrey ne approfittò per scattare via risalendo il vialetto. — Accidenti! — sbottò l'agente. — Ehi, lei! Cambrey! Fuggito il primo, non intendeva lasciarsi scappare l'altra e afferrò il braccio di Deborah facendo cenno a una Panda che era venuta a fermarsi sul ciglio della strada. — Portatela via — disse agli agenti che erano a bordo. — L'altro è riuscito a entrare. — No! — Deborah si divincolò furiosamente ma non riusciva a liberarsi. Più si dibatteva più la stretta diventava ferrea.
— Signorina Cotter? Si volse. Il reverendo Sweeney. Nessun angelo sarebbe stato accolto con altrettanto sollievo. Ammantato di nero, sotto un ombrello enorme, la guardava solennemente attraverso la pioggia. — Tommy è alla villa — ansimò. — La supplico, signor Sweeney. Il pio uomo aggrottò la fronte. — Santo cielo. — Per un attimo rimase incerto, riflettendo. — Oh, santo cielo. Sì. Capisco. — Evidentemente era giunto a una decisione. Si eresse in tutto il suo metro e sessanta e si rivolse al poliziotto che ancora teneva bloccata Deborah. — Lei conosce lord Asherton, no? — Il suo tono deciso avrebbe stupito i parrocchiani che non l'avessero mai visto sulla scena, con la faccia dipinta di nero, a ordinare a Cassio e Montano di incrociare le spade. — La signorina è la sua fidanzata. La lasci passare. L'agente considerò l'aspetto di Deborah, bagnata e scarmigliata. E dalla sua espressione era chiaro che stentava a capacitarsi di un qualsivoglia legame tra lei e uno dei Lynley. — La lasci passare — ripeté il signor Sweeney. — L'accompagno io. Forse dovrebbe preoccuparsi più di quel giornalista che della signorina. Il poliziotto diede un'altra occhiata scettica a Deborah che aspettava, torturata. — Va bene. Vada pure. — Venga qui, mia cara — disse il signor Sweeney. — Prenda il mio braccio. Il terreno è scivoloso, vero? Lei ubbidì, anche se solo una parte del suo cervello assimilava quelle parole. Il resto era un groviglio di incertezze e paure. — Ti prego, non Tommy — bisbigliò. — Non in questo modo. Per favore. Accetto qualsiasi altra cosa. Ma non Tommy. — Su, su, vedrà che non gli è accaduto nulla — mormorò agitato il signor Sweeney. — Stia tranquilla. Avanzarono a fatica tra le corolle delle fucsie sparse sul vialetto sinuoso che portava alla villa. La pioggia cominciava a diminuire ma Deborah era già fradicia e l'ombrello del signor Sweeney le serviva a ben poco. Si aggrappò al suo braccio, rabbrividendo. — Un fatto terribile, certo — disse il signor Sweeney, come in risposta a quel brivido. — Ma sono certo che va tutto bene. Ora se ne convincerà. Deborah sapeva che non era vero. Non c'era più speranza che tutto andasse bene. Nella vita il momento della resa dei conti giunge sempre quando meno ci si è preparati. E per lei quel momento era venuto. Nonostante i molti uomini presenti, regnava un silenzio innaturale quan-
do giunsero alla villa. Si udiva solo il crepitio di una radio della polizia. Sul viale che girava attorno al biancospino c'erano tre auto ferme, in posizioni disordinate, come se i guidatori ne fossero scesi di corsa senza badare a dove o come avevano posteggiato. Da una giungeva la voce di Cambrey che protestava sdegnato con un furibondo poliziotto. Scorgendo Deborah, si spinse verso il finestrino. — Morto! — gridò prima che l'altro lo tirasse indietro. Era accaduto. Deborah fissò l'ambulanza poco distante dall'ingresso. Serrò più forte il braccio del signor Sweeney, ammutolita, ma lui le indicò il portico. — Guardi. Deborah si costrinse a ubbidire. E lo vide. Stava parlando con l'ispettore Boscowan. Lo percorse freneticamente con lo sguardo, cercando segni di ferite. Ma era intatto, anche se terribilmente pallido. — Mio Dio, ti ringrazio — bisbigliò. In quel momento la porta si aprì. Lynley e Boscowan si fecero da parte per lasciar passare due uomini che reggevano una barella su cui era steso un corpo completamente coperto da un telo fissato con delle cinghie, come per proteggerlo dalla pioggia e dalle occhiate curiose. Solo quando lo vide, solo quando sentì la porta richiudersi con un rumore sordo e definitivo, Deborah comprese. Ma ancora si guardò disperatamente attorno: le finestre illuminate, le auto, l'ingresso. Continuò a cercarlo, come se così facendo potesse modificare la realtà. Il signor Sweeney disse qualcosa ma lei non sentì. Riudiva solo il suo voto. Accetto qualsiasi altra cosa. In un attimo tutta l'infanzia, tutta la sua vita le passarono davanti lasciandole, per la prima volta, non collera o dolore ma lucida comprensione. Quando ormai era troppo tardi. Si morse un labbro con tale forza che sentì il gusto del sangue, ma non bastò a soffocare il suo grido disperato. — Simon! — urlò precipitandosi verso l'ambulanza su cui era già stato caricato il cadavere. Lynley si girò di scatto. La vide correre alla cieca tra le auto, scivolare sul selciato viscido, rialzarsi continuando a gridare quel nome. Deborah si gettò contro l'ambulanza, afferrando la maniglia degli sportelli posteriori. Un poliziotto cercò di trattenerla, e poi un altro. Ma lei li respinse scalciando, graffiando. Uno la prese per un braccio. Lei lo morsicò. E continuava a urlare quel nome. Due sillabe alte e stridule che, lo sa-
peva, Lynley avrebbe riudito - quando meno lo desiderava - per tutto il resto della sua vita. Un terzo agente intervenne per cercare di fermarla, ma Deborah riuscì a divincolarsi. Col cuore stretto in una morsa, Lynley si volse per aprire la porta. — St. James. Era nell'atrio, con la domestica di Trenarrow che singhiozzava in un fazzoletto. Diede un'occhiata a Lynley e accennò a dire qualcosa ma si interruppe, accigliandosi, sentendo le grida, ora più rauche, di Deborah. Diede una piccola stretta alla spalla di Dora e venne sulla soglia fermandosi di botto nel vedere Deborah che si dibatteva forsennatamente mentre a forza veniva trascinata via dall'ambulanza. Guardò Lynley. — Per l'amor di Dio, va' da lei. È convinta che si tratti di te. — Non riusciva a guardare l'amico. Non voleva vederlo. Sperava solo che St. James si muovesse senza che dovessero scambiarsi altre parole. Non fu così. — No. È solo... — Vai, maledizione. Vai. Passò qualche istante prima che St. James si muovesse ma, quando infine si avviò, Lynley trovò l'espiazione che da tanto cercava. E si costrinse a osservare la scena. St. James girò attorno alle auto della polizia, dirigendosi verso il gruppetto. Camminava lentamente, con andatura irregolare, faticosa, che tradiva il dolore. L'andatura che lui stesso gli aveva dato, un omaggio alla loro amicizia, il segno del suo errore. St. James li raggiunse. Chiamò Deborah per nome. L'afferrò attirandola a sé, e lei lo respinse con violenza, piangendo e gridando, ma solo per un attimo. Poi vide chi era. E poi fu tra le sue braccia, scossa da singhiozzi terribili. — Non è successo nulla, Deborah — gli sentì dire Lynley. — Mi spiace che ti sia spaventata. Sono qui, amore mio. — E di nuovo: — Amore mio. Amore mio. La pioggia cadeva su di loro e gli agenti cominciarono ad allontanarsi. Ma loro due parevano consapevoli solo dell'essere l'uno tra le braccia dell'altra. Lynley si volse e rientrò nella villa. Qualcosa la destò. Aprì gli occhi e scorse un lontano soffitto a botte: lo fissò, confusa. Volse il capo e vide il tavolino da toeletta con le spazzole d'argento e il vecchio specchio basculante. La stanza della bisnonna Asherton. Come la riconobbe molte altre cose tornarono. Immagini della caletta,
dell'ufficio del giornale, la corsa su per la collina, la barella coperta dal telo. E al centro di tutto c'era Tommy. Un lieve rumore proveniente dall'altro lato della camera. Le tende erano chiuse, ma una lama di luce colpiva la poltrona presso il caminetto. Su questa era seduto Lynley, le gambe allungate. Sul tavolino accanto c'era un vassoio. Intravide una teiera. Al momento non disse nulla cercando invece di ricordare quanto era avvenuto dopo quei terrificanti momenti alla villa di Trenarrow. Rammentava un bicchiere di brandy, voci, lo squillo del telefono, poi un'auto. Non sapeva come fosse tornata a Howenstow, né come fosse arrivata in quel letto. Indossava una camicia da notte di seta azzurra che non riconosceva. Si sollevò a sedere. — Tommy? — Oh, ti sei svegliata. — Andò alla finestra e scostò un poco le tende per dare più luce alla stanza; socchiuse i vetri e le strida dei gabbiani e dei cormorani entrarono come rumore di sottofondo. — Che ore sono? — Circa le dieci. — Le dieci? — Hai fatto un lungo sonno, da ieri pomeriggio. Non ricordi? — Solo piccole cose. È molto che aspetti? — Un po'. Si accorse che indossava ancora gli stessi abiti del giorno prima, a Nannurel, che non si era fatto la barba e sotto gli occhi aveva ombre scure di stanchezza. Provò un'inspiegabile fitta dolorosa. — Mi hai vegliata tutta la notte. Lui non rispose. Rimase presso la finestra, stagliato contro il cielo di fuori, e i capelli biondi rilucevano sotto il sole. — Pensavo di riportarti in volo a Londra, stamattina. Quando sei pronta. — Accennò al vassoio. — È lì dalle otto e mezzo. Vuoi che ti faccia portare qualcos'altro? — Tommy — mormorò. — Non possiamo... c'è...? — Non riusciva a leggere la sua espressione e lui non raccolse quelle parole. — Hanno riaccompagnato John Penellin a casa — raccontò, cacciandosi le mani in tasca e guardando fuori della finestra. — E Mark? — Boscowan sa che è stato lui a prendere la Daze. Quanto alla cocaina...
— trasse un sospiro. — Sta a John decidere. Io non voglio intervenire. Non so cosa farà... forse ancora non se la sente di buttarlo a mare. Non so. — Tu potresti denunciarlo. — Sì, potrei. — Ma non lo farai. — Se qualcuno deve farlo è meglio che sia John. — Guardava il cielo, il viso rialzato. — È una giornata bellissima. Ottima per volare. — E Peter? È scagionato adesso? E Sidney? — St. James è del parere che Brooke si sia procurato l'ergotamina in farmacia, a Penzance. Ci vorrebbe la ricetta, in teoria, ma non sempre si è così fiscali. Di per sé è un prodotto abbastanza innocuo. Un cliente con un'emicrania atroce, l'aspirina non fa effetto, gli ambulatori sono chiusi, di sabato. — Non pensa che Justin abbia attinto al suo flacone? — Brooke non poteva sapere che St. James ne aveva. Gli ho detto che a questo punto la cosa non ha più importanza, ma lui è deciso a mettere assolutamente in chiaro la posizione di Sidney e di Peter. È andato a Penzance. — Non aveva da aggiungere altro. Deborah aveva un nodo alla gola. Lo vedeva così teso. — Tommy. Ti ho visto sotto il portico. Sapevo che eri sano e salvo. Ma quando hanno portato fuori quella barella... — Il peggio è stato mia madre — la interruppe lui. — Doverglielo dire. Vedere la sua faccia sapendo che ogni mia parola la uccideva. Ma non ha pianto. Non di fronte a me. Perché tutti e due sappiamo che in sostanza la colpa è mia. — No! — Se si fossero sposati anni addietro, se avessi permesso che... — Tommy, no. — Quindi non mi lascia vedere il suo strazio. Non mi permette di esserle vicino. — Tommy, tesoro... — È stato orribile. — Passò le dita lungo il telaio della finestra. — Per un attimo ho pensato che volesse sparare a St. James. Poi si è cacciato la canna della rivoltella in bocca. — Una breve pausa. — Non si è mai preparati a una cosa del genere. — Tommy. Lo conosco da sempre. Siamo legatissimi. Quando ho creduto che fosse morto... — Il sangue. La materia cerebrale schizzata contro la finestra. Lo rive-
drò finché vivo. Quello e tutto il resto. Un filmato a ripetersi all'infinito nella mia mente ogni volta che chiuderò gli occhi. — Tommy, ti prego — disse con voce rotta. — Ti prego. Vieni qui. Quegli occhi castani affrontarono i suoi. — Non basta, Deb. L'aveva detto con tale determinazione che lei ne ebbe paura. — Che cosa non basta? — Non basta che io ti ami. Che ti voglia. Un tempo pensavo che St. James era cento volte sciocco per non aver sposato Helen in tutti questi anni. Non ero mai riuscito a capire. Probabilmente l'ho sempre saputo, ma non volevo vedere la realtà. Deborah non raccolse quelle parole. — Ti va bene la chiesa di Nannurel, Tommy? O è meglio Londra? Che dici? — La chiesa? — Per il matrimonio, tesoro. Che ne pensi? Lui scosse la testa. — No, Deborah. Non per obbligo. Non ti voglio così. — Ma io lo desidero. Io ti amo, Tommy. — So che vuoi pensarlo. E non sai come vorrei esserne convinto anch'io. Fossi rimasta in America, non fossi mai tornata qui, ti avrei raggiunta, avremmo avuto qualche possibilità. Ma così... Si teneva a distanza e per lei era terribile. Protese un braccio. — Tommy. Tommy. Ti prego... Lui seguì il filo dei suoi pensieri. — La tua vita è legata a Simon, non a me. E tu lo sai. Lo sappiamo entrambi. — No, io... — non riuscì ad andare oltre. Avrebbe voluto respingere con tutte le sue forze quell'affermazione, ma Lynley aveva messo in evidenza una verità a cui lei si era sempre sottratta. Lui la fissò per qualche istante. — Puoi essere pronta tra un'ora? Deborah avrebbe voluto giurare, negare, ma all'ultimo si accorse che non le era possibile. — Sì. Tra un'ora. PARTE SETTIMA Dopo 28 Lady Helen ebbe un sospiro. — Ti sarei enormemente grata se ti spiegassi senza tanti giri di parole ambigue. Cosa starebbe a dimostrare, alla fin fine?
St. James sovrappose con cura alcuni lembi della giacca del pigiama in modo che i fori del punteruolo coincidessero. — L'imputato dichiara di essere stato aggredito mentre dormiva. Mostra una sola ferita al torace ma qui abbiamo tre buchi chiazzati del suo sangue. Come può essere andata, secondo te? Lei si chinò a osservare l'indumento. Le pieghe risultavano decisamente bizzarre. — Fa il contorsionista, nel sonno? St. James ebbe una risatina. — Diciamo invece che fa il bugiardo da sveglio. Si è ferito da solo e poi ha provveduto a questi buchi. — Si accorse che lei sbadigliava. — Ti sto annoiando? — Per niente. — Hai fatto tardi in compagnia di un uomo affascinante? — Magari. Una serata dedicata agli anziani parenti, ahimé. Il nonno ha russato per tutta la marcia trionfale dell'Aida. Avrei dovuto imitarlo. Sarà perfettamente vispo, stamattina. — Un omaggio alla cultura, ogni tanto, giova all'anima. — Detesto l'opera. Se almeno cantassero in inglese. È pretendere troppo? Sempre in italiano o in francese, invece. O in tedesco. Quella è la tragedia: se ne vanno attorno per il palcoscenico con quegli elmi muniti di corna... — Be', se fai la brava per un'altra mezz'ora poi ti porto fuori a colazione. Ho scoperto un localino dalle parti di Brompton Road. — Simon, che meraviglia! — esclamò lei illuminandosi. — Cosa posso fare per te, adesso? Si guardò attorno piena di volonteroso fervore, ma in quel momento la porta d'ingresso sbatté e giunse loro una voce. — È Sidney. — St. James lasciò il banco e raggiunse la porta nel momento in cui sua sorella arrivava trafelata sul pianerottolo. — Dove diavolo sei stata? — Nel Surrey. E poi a Southampton — rispose lei come fosse la cosa più logica del mondo. Buttò su uno sgabello la giacca di visone. — Mi hanno appioppato un'altra serie di foto di pellicce. Se non trovo alla svelta qualcosa di diverso uscirò pazza. Mettermi addosso le pelli di quelle povere bestie mi fa un'impressione atroce. E poi questa idea del nature. — Diede un'occhiata alla giacca del pigiama. — Ancora sangue? Ma come fai a reggerlo, subito prima di andare a tavola? Sono in tempo per il pranzo, vero? Non è neanche la mezza. Aprì la borsa e cominciò a frugarci. — Ma dov'è finita? Certo, capisco
benissimo che la pelle nuda ha un suo effetto. L'aura sensuale. La suggestione. Frescacce. Ah, eccola qua. — Tirò fuori una busta spiegazzata che tese al fratello. — Che è? — Mi ci sono voluti dieci giorni a cavarla dalla mamma. Ho perfino dovuto sobbarcarmi una settimana a casa di David per starle appresso e farle intendere che non demordevo. — Sei stata dalla mamma? — chiese sbalordito St. James. — E da David, a Southampton? Helen, ma non avevi... — Ho telefonato, una volta, senza avere risposta. Poi tu mi hai detto di non metterla in agitazione. Ricordi? — Mettere in agitazione la mamma? E perché mai? — volle sapere Sidney. — Per via di te. — E che motivo avrebbe avuto di agitarsi? — Ma non attese la risposta. — In effetti all'inizio trovava assurda l'idea. — Quale idea? — Come sei tardo, Simon. Ma alla fine l'ho spuntata. Su, avanti, aprila. Leggila ad alta voce, voglio che anche Helen partecipi. — Insomma, Sidney, voglio sapere... Gli afferrò il braccio, scuotendolo. — Leggi. Lui aprì la busta con malcelata irritazione. Mio caro Simon, a quanto sembra non avrò pace fino a che non ti avrò fatto le mie scuse, e tua sorella non si accontenterà mai di poche parole formali. — Ma che storia è, Sidney? Lei scoppiò a ridere. — Vai avanti! St. James riportò lo sguardo sul foglio intestato. Sono sempre stata convinta che l'idea di aprire la finestra della nursery fosse stata di Sidney, Simon. Ma quando tu non hai detto nulla di fronte a tanta accusa io non ho potuto far altro che punirti. Punire un figlio è sempre una cosa molto difficile e dolorosa per un genitore, e tanto più se si hanno dubbi circa il vero colpevole. Sidney ha messo in chiaro la cosa, come solo lei poteva fare, e per
quanto pretendesse una sonora lezione per aver lasciato che tu le buscassi in vece sua, io non me la sono sentita di sculacciare una donna di venticinque anni. Quindi ti chiedo di perdonarmi per avere riversato tanto biasimo sulle tue piccole spalle... quanti anni avevi, dieci?... con l'impegno di farla scontare a Sidney nell'occasione più opportuna. Ho trascorso giornate molto piacevoli, con tua sorella, e poi con David e i nipotini. Voglio sperare in una tua prossima venuta qui nel Surrey, insieme a Deborah. Cotter ha telefonato mettendoci al corrente. Povera piccola. Farai bene a tenerla sotto la tua ala finché non si sarà ripresa. Con affetto, la tua mamma Sidney rise di nuovo, allegrissima. — Non è fantastica? Ma quanto mi ci è voluto per convincerla. Se già non avesse avuto intenzione di raccomandarti Deborah dubito che sarei mai riuscita a indurla a scrivertela. St. James sentì su di sé lo sguardo di lady Helen. Intuiva cosa si aspettava che chiedesse, ma tacque. Da dieci giorni sapeva che era accaduto qualcosa tra i due. Al suo ritorno da Penzance, la sera dopo la morte di Trenarrow, Deborah aveva già lasciato Howenstow. Lynley gli aveva spiegato di averla riportata in aereo a Londra, ma senza aggiungere altro. E lui non aveva voluto interferire nel cupo silenzio di Cotter. Così neppure adesso fece domande. Ma lady Helen non aveva i suoi scrupoli. — Cos'è successo a Deborah? — Tommy ha rotto il fidanzamento — rispose Sidney. — Cotter non te l'ha detto, Simon? A sentire la cuoca della mamma, scagliava fulmini e saette al telefono. Furente. Quasi mi aspettavo che sfidasse a duello Tommy per averne soddisfazione. "All'alba a Speaker's Corner, spada o fuoco a piacer suo." Neppure Tommy te l'ha detto? Molto strano. A meno che tema che possa essere tu a chiedere soddisfazione, Simon. — Ebbe una risata, poi tornò seria. — Non sarà certo una questione di ceto sociale, vero? Considerando che Peter si era messo con una Sasha non penso che per i Lynley la differenza di classe sia un problema. St. James si rese conto che Sidney non sapeva nulla di quanto era accaduto a Howenstow dopo la sua partenza, la domenica mattina. Aprì un cassetto e ne trasse il flaconcino da profumo. Lei lo prese, felicissima. — Dove l'hai trovato? Non dirmi che era nell'armadio, a Howenstow. Le scarpe, passi, ma questo no. — L'aveva portato via Justin, Sid.
L'effetto di quelle poche parole fu immediato. Il sorriso scomparve. Lei cercò di trattenerlo, ma le labbra tremavano. Ogni vivacità l'abbandonò rivelando che tutto quell'atteggiamento sbarazzino era solo uno scudo con cui voleva proteggersi da una realtà che non aveva ancora accettato. — Justin? Perché? Non c'era un modo facile per dirglielo. La verità non avrebbe fatto altro che accrescere la sofferenza, eppure non c'era altro modo per aiutarla a seppellire i suoi morti. — Per farti accusare di omicidio. — Ma è assurdo. — Intendeva uccidere Peter Lynley. Invece ha fatto morire Sasha. — Non capisco. — Continuava a rigirare il flaconcino tra le mani. Poi chinò il capo e si passò le dita su una guancia. — L'aveva riempito di una sostanza che Sasha ha scambiato per eroina. — Sidney alzò lo sguardo. Quel particolare la costringeva ad accettare la realtà. — Mi dispiace, tesoro. — Ma Peter... Justin mi ha raccontato che Peter era andato da Cambrey. Che c'era stata una lite. Poi Mick è morto, e secondo lui Peter aveva dei motivi per ucciderlo. Non capisco. Peter doveva sapere che Justin aveva informato te e Tommy. Lo sapeva di sicuro. — Non è stato Peter a uccidere Justin, Sid. Neppure si trovava a Howenstow quando Justin è morto. — E allora perché? — Peter ha sentito dire una cosa di cui avrebbe potuto servirsi contro Justin, soprattutto dopo la morte di Mick Cambrey. E Justin era sulle spine. Sapeva che Peter aveva assoluto bisogno di denaro e di cocaina. Sapeva che era instabile. Non poteva fidarsi, doveva toglierlo di mezzo. St. James e lady Helen le raccontarono tutto. La Islington, l'oncomet, Trenarrow, Cambrey. La clinica e la terapia per il cancro. La sostituzione del farmaco e la conseguente morte di Mick. — Brooke era in pericolo — concluse St. James. — Doveva salvaguardarsi. — Ma... questa bottiglietta è mia. Non si è reso conto che mi avrebbe incriminata? — Serrava con tale forza il flaconcino d'argento che le nocche erano bianche. — Quel giorno alla spiaggia lui aveva subito una grave umiliazione, Sidney — le fece notare lady Helen. — Voleva punirti — aggiunse St. James.
— Ma mi amava. So che mi amava. St. James comprese il terribile significato di quelle parole, e avrebbe voluto rassicurare Sidney, ma non trovava le parole adatte. Lady Helen intervenne. — Quello che Justin Brooke era non si riflette su di te. Non devi valutarti in base a lui. Sidney ebbe un singhiozzo soffocato e St. James le si avvicinò. — Mi dispiace, tesoro — mormorò prendendola tra le braccia. — Avrei preferito che tu non sapessi. Ma a te non posso mentire, Sidney. E non mi dispiace che sia morto. Lei tossì, alzò lo sguardo e cercò di sorridere tra le lacrime. — Dio, ho una fame terribile — bisbigliò. — Andiamo a pranzo? Lady Helen sbatté la portiera della Mini. Più per darsi coraggio, come se quel gesto potesse confermare la validità della sua iniziativa, che per assicurarsi che fosse ben chiusa. Guardò la buia facciata dell'abitazione di Lynley, poi diede un'occhiata all'orologio. Quasi le undici, certo non l'ora più adatta a una visita, ma le dava un vantaggio a cui non intendeva rinunciare. Salì i gradini di marmo dell'ingresso. Da due settimane cercava di mettersi in contatto e ogni volta si era imbattuta in un ostacolo. Fuori per servizio, in riunione, in tribunale. Segretarie, assistenti e funzionari cortesissimi le avevano rifilato tutte le possibili varianti di scuse e giustificazioni legate al lavoro. Il messaggio implicito era sempre il medesimo: non era disponibile; era solo e voleva stare da solo. Be', quella sera non lo sarebbe stato. Premette il campanello e lo squillo risuonò stranamente, con un'eco di casa vuota. Per un attimo ebbe il dubbio che se ne fosse andato, per sottrarsi a qualsiasi presenza, ma poi la lunetta sopra la porta si illuminò, ci fu lo scatto della serratura, la porta venne aperta e comparve il maggiordomo di Lynley. In pantofole e vestaglia scozzese sopra il pigiama. Chiaramente sorpreso, cercava di valutare in fretta la situazione. Subito si fece impassibile, ma lady Helen aveva colto e interpretato esattamente la prima, rapida espressione: la figlia di un pari non si presenta a notte fonda all'abitazione di un gentiluomo, per quanto si sia nel ventesimo secolo. — Grazie, Denton — disse lady Helen in tono deciso. E passò nell'anticamera come fosse stata accolta dal più caloroso benvenuto. — Dica a lord Asherton, per favore, che desidero vederlo. — Si tolse il leggero soprabito
da sera e lo depose con la borsetta su una sedia. Ancora fermo presso la porta, Denton passò lo sguardo da lei alla soglia come cercando di ricordarsi quando l'aveva invitata a entrare. — Sua Signoria desidera... — Lo so — tagliò corto lady Helen. Le dispiaceva forzare la mano a Denton, fedele nume tutelare della pace di Lynley. — Mi rendo conto. Non vuole essere disturbato. In queste ultime due settimane tutte le mie telefonate sono rimaste senza seguito, quindi ho capito benissimo che vuole starsene per conto suo. Adesso che abbiamo messo in chiaro la cosa, gli dica per favore che desidero vederlo. — Ma... — Se necessario andrò direttamente nella sua camera da letto. Denton si arrese e chiuse la porta. — È in biblioteca. Vado ad annunciarla. — Non ce n'è bisogno, conosco la strada. Lasciò Denton a bocca aperta in anticamera, salì in fretta le scale fino al primo piano, percorse un corridoio, oltre una notevole collezione di peltri antichi e sotto gli occhi di diversi antenati. Sentì dietro di sé la voce di Denton: — Milady... Lady Helen... La porta della biblioteca era chiusa. Bussò, sentì la voce di Lynley, entrò. Era seduto alla scrivania, la fronte appoggiata a una mano, davanti ad alcune cartellette aperte. Alzò lo sguardo e lady Helen si accorse con sorpresa che portava gli occhiali. Li tolse, mentre si alzava, ma non disse nulla. Denton, alle spalle di lady Helen, era contrito al massimo. — Mi rincresce. Non ho potuto evitarlo. — Non è colpa sua — dichiarò lady Helen. — Sono entrata di prepotenza. — Si accorse che Denton aveva fatto un passo avanti, pronto a fermarla e a ricondurla alla porta. Difficilmente l'avrebbe fatto senza un esplicito ordine di Lynley, ma lei non voleva correre rischi. — Grazie, Denton. Adesso ci lasci, per favore. Il maggiordomo guardò Lynley, che annuì brevemente, e uscì. — Perché non mi hai mai richiamata, Tommy? — chiese lady Helen non appena furono soli. — Ti ho telefonato più volte, qui e a Scotland Yard. Sono venuta a cercarti di persona. Ero preoccupatissima. — Devi scusarmi — rispose lui in tono disinvolto. — Ho avuto un cumulo di lavoro che non mi ha lasciato un minuto libero. Bevi qualcosa? — Si diresse a un tavolino di palissandro su cui erano schierati bottiglie e bic-
chieri. — No, grazie. Lui si versò un whisky. — Accomodati, prego. — Preferisco di no. — Certo, come vuoi. — Le rivolse un mezzo sorriso e bevve un sorso. Poi rinunciò alla finzione e distolse lo sguardo. — Scusami, Helen. Avrei voluto richiamarti, ma proprio non ce la facevo. Pura vigliaccheria. La collera di lei si sciolse all'istante. — Non sopporto di vederti così. Chiuso qui dentro. Segregato. Trascorsero alcuni istanti prima che lui rispondesse. — Solo quando lavoro riesco a togliermela dalla mente. Così mi sono buttato nel lavoro. E nei momenti di pausa ho continuato a ripetermi che mi passerà, questione di settimane o mesi. — Ebbe una risatina amara. — Difficile convincersi. — Lo so. Ti capisco. — Dio, sì. Chi meglio di te? — E allora perché non mi hai telefonato? Lui fece qualche passo irrequieto verso il caminetto ma non c'era un fuoco acceso, così dedicò la propria attenzione alle porcellane di Meissen sulla mensola. — Sapevi che volevo parlare con te — insistette lady Helen. — Non ne sono stato capace. È una cosa troppo dolorosa, Helen. Non potevo nascondertelo. — E perché mai dovevi nascondermelo? — Mi sento completamente idiota. Dovrei avere la forza di superare questa faccenda, lasciarmela alle spalle e andare avanti. — Vorresti dirmi che non sei autorizzato a soffrire perché sei un uomo? — Era di nuovo furibonda. Aveva sempre disprezzato quel bisogno, tipicamente maschile, di sentirsi forti, superiori, invulnerabili. — No, non è questo. Sto solamente cercando di ritrovare la persona che ero tre anni fa. Prima di Deborah. — Non eri un uomo diverso da quello che sei oggi. — Tre anni fa non l'avrei presa così male. Le donne per me erano semplici compagne di letto. Niente di più. — Ed è questo che vuoi? Vivere in una fuga sessuale? Con l'unico pensiero delle tue prestazioni erotiche? — È più facile. — Certo che è facile. Un'esistenza del genere è sempre facile. Persone che compaiono e scompaiono dal tuo letto senza neanche una parola di ad-
dio. E se capita che una mattina ti risvegli accanto a qualcuna di cui non ricordi neppure il nome, va benissimo, vero? Fa tutto parte del gioco. — Rapporti che non comportavano dolore. Non ci mettevo niente di mio. — Questo è quel che ti fa comodo pensare, Tommy, ma non corrisponde ai fatti. Perché se quello che tu dici è vero, se la vita per te era solo un collezionare schiere di femmine, perché non ci hai mai provato con me? Lui rifletté su questa domanda. Tornò al tavolino su cui erano le bottiglie, si versò di nuovo da bere. — Non lo so. — Sì che lo sai. Dimmi perché. — Non lo so. — Che conquista sarei stata. Gettata via da Simon, la mia vita in pezzi. L'ultima cosa che volevo era un'altra relazione. Come hai potuto resistere a una simile sfida? Che magnifica occasione per dimostrare il tuo valore. Che pascolo per la tua vanità. Lui depose il bicchiere sul tavolo, facendolo rigirare. Lady Helen osservò il suo profilo scorgendo la fragilità dell'apparente controllo. — Forse perché eri diversa. — Nient'affatto. Avevo tutto quel che ci voleva. Ero esattamente come le altre: con istinti, desiderio, seni, cosce. — Non dire assurdità. — Ero solo una donna. Facilmente seducibile, soprattutto da un esperto. Ma non ci hai mai provato. Neanche una volta. Una simile reticenza non è spiegabile in un uomo il cui solo interesse per le donne si impernia su quanto hanno da offrirgli a letto. E io avevo qualcosa da offrire, no, Tommy? Oh, avrei resistito all'inizio. Ma poi ci sarei stata, e tu lo sapevi. Ma non ti sei mai fatto avanti. Si volse a guardarla. — Come potevo, dopo quello che ti era successo con Simon? — Pietà? Da parte di un uomo che cerca solo il piacere? Che importa la persona? Non eravamo tutte uguali? Lui tacque così a lungo da farle pensare che non avrebbe risposto, ma capiva che gli era difficile conservare la padronanza di sé. Voleva che parlasse, che ammettesse quel che provava dando forma e vita e sfogo al dolore. — Tu no — dichiarò infine. E gli era costato molto dirlo. — E neppure Deborah. — Cosa c'era di diverso?
— Mi sono innamorato. Lei avanzò in fretta per posargli una mano sul braccio. — Non capisci, Tommy? Non eri l'uomo che cerca solo il piacere. Vorresti pensarlo ma non lo eri. E neppure per chi si fosse dato il tempo di conoscerti. Di certo non per me, che non sono mai stata la tua amante. E non per Deborah, che lo era. — Con lei volevo qualcosa di diverso. — Aveva gli occhi arrossati. — Radici, legami, una famiglia. Ero disposto a essere qualcosa di diverso pur di ottenerlo. Ne valeva la pena. Deborah lo meritava. — Sì. E meritava... merita della sofferenza. — Oddio — sussurrò lui. — Tommy, mio caro, è giusto così. Lui scosse il capo, come per scacciare la terribile desolazione che l'opprimeva. — Morirò di solitudine, Helen. — E la voce gli si spezzò. — È intollerabile. Accennò a voltarsi, per tornare alla scrivania, ma lady Helen lo trattenne, gli si accostò, lo prese tra le braccia. — Non sei solo, Tommy — disse con molta dolcezza. Lui cominciò a piangere. Deborah spinse il cancelletto e proprio in quel momento il lampione si accese riversando brividi di luce sulla nebbiolina che avvolgeva il giardino. Per un istante si fermò a guardare i mattoni della palazzina, gli stucchi bianchi, la ringhiera di ferro battuto con i suoi punti rugginosi. Quella sarebbe stata sempre la sua casa, per quanto potesse starne lontana: tre anni, tre decenni o, come quella volta, un mese. Era riuscita a trovare mille scuse a cui suo padre, lo sapeva, non aveva creduto affatto. Sto cercando di farmi conoscere. Lavoro moltissimo. Impegni continui. Devo mostrare il mio materiale. Ci troviamo a cena da qualche parte? No, non posso venire a Chelsea. Lui aveva preferito accettare quelle giustificazioni piuttosto che avere un altro scontro. E neppure lei desiderava un ripetersi della lite scoppiata tra loro a Paddington, una settimana dopo il suo ritorno dalla Cornovaglia. Lui voleva che tornasse a casa. Lei non voleva saperne. Lui non capiva, gli sembrava così semplice: fai le valigie, lasci quest'appartamento, vieni in Cheyne Row. Tornare al passato, insomma. Per lei era impossibile. Aveva cercato di spiegare il suo bisogno di autonomia, di un periodo da dedicare solo a se
stessa. Lui aveva reagito addossando tutte le colpe a Tommy: l'aveva cambiata, l'aveva rovinata, aveva alterato tutta la sua scala di valori. E da lì il contrasto era dilagato. Alla fine gli aveva estorto la promessa di non accennare mai più ai suoi rapporti con Tommy. Si erano lasciati carichi di rancori e da allora non si erano più rivisti. Né aveva rivisto Simon, cosa che non desiderava affatto. In quei brevi, spaventosi momenti a Nannurel si era messa in una luce imperdonabile e nel mese successivo era stata costretta a riconoscere ed esaminare la menzogna in cui era vissuta negli ultimi due anni e mezzo. Amante di un uomo e legata da mille nodi a un altro. Ma al tempo stesso vincolata anche a Tommy sotto altri mille aspetti che non avrebbe mai potuto rivelargli. Non sapeva come sanare il male che aveva fatto a sé e ad altri. Così se n'era rimasta a Paddington, aveva trovato lavoro in uno studio fotografico di Mayfair, aveva trascorso un lungo weekend nel Galles e un altro a Brighton. E aveva atteso che nella sua vita scendesse una parvenza di pace. Ma non era accaduto. Così adesso si presentava a Chelsea, senza saper bene cosa poteva ottenere da quella visita ma rendendosi conto che più si teneva lontana più sarebbe stato difficile riconciliarsi con suo padre. Quanto a Simon, non aveva idee. Attraverso la bruma vide la luce che si accendeva in cucina. Suo padre che si avvicinava al fornello e poi si dirigeva al tavolo, scomparendo alla vista. Percorse il viottolo lastricato e discese i gradini. Alaska le venne incontro come se, con la particolare sensibilità dei felini, sapesse del suo imminente arrivo. Le si strusciò contro le gambe, la coda ben ritta. — Dov'è Peach? — gli chiese grattandolo tra le orecchie. Lui inarcò il dorso facendo le fusa. Dei passi provenienti dalla cucina. — Deb! Si raddrizzò. — Ciao, papà. Vide che cercava qualche segno di un ritorno definitivo: una valigia, uno scatolone, un oggetto facilmente trasportabile come una lampada. Ma si limitò a chiedere: — Hai cenato, piccola? Lo seguì nella cucina dove aleggiava un meraviglioso profumo di arrosto. — Sì. A casa. — Notò, allineate sul tavolo, quattro paia di scarpe, da lucidare. Erano particolarmente solide e fatte in modo che si adattassero all'apparecchio ortopedico. Il vederle le diede uno strano senso di tristezza. — Come va il lavoro? — si informò Cotter.
— Bene. Sto usando le mie vecchie macchine fotografiche, la Nikon e la Hasselblad: mancano di tanti automatismi e richiedono più tecnica da parte mia, ma ho scoperto che mi piace. Suo padre annuì mentre metteva un po' di lucido sulla punta di una scarpa. Non si lasciava trarre in inganno. — È tutto dimenticato, Deb. Fai quello che ritieni più opportuno. Lei provò un'ondata di gratitudine. Guardò le pareti bianche, la vecchia cucina economica su cui erano posate tre pentole, i ripiani un po' consunti, gli armadietti a vetro, il pavimento piastrellato. In un angolo c'era un cesto vuoto. — Dov'è Peach? — chiese. — Il signor St. James l'ha portata a fare una passeggiata. — Cotter diede un'occhiata all'orologio a parete. — Sempre distratto. La cena è pronta già da un quarto d'ora. — Dov'è andato? — Sul lungofiume, penso. — Vuoi che vada a cercarlo? La risposta fu perfettamente neutra. — Se hai voglia di fare due passi. Altrimenti non importa. — Gli vado incontro. — Si diresse alla porta ma sulla soglia si volse. — Papà, non sono tornata per restare. Lo sai, vero? — Le cose vanno come devono andare — fu la risposta. La nebbia avvolgeva i lampioni di una corona dorata e dal Tamigi si alzava un vento leggero. Deborah si rialzò il bavero del soprabito. C'era poco traffico. Attraversò la strada e lo scorse a poca distanza, i gomiti appoggiati sul parapetto, in contemplazione dell'Albert Bridge. Durante le estati della sua infanzia lo avevano spesso attraversato insieme, diretti a Battersea Park. Chissà se lui se ne ricordava. Quanta tenera pazienza aveva offerto alla bambinetta che lei era. Si fermò brevemente a osservarlo. Lui studiava il ponte; Peach, ai suoi piedi, mordicchiava placida il guinzaglio. Poi la cagnetta l'avvistò, mosse qualche passo, trattenuta, girò su se stessa, si impigliò nel guinzaglio, inciampò, abbaiò allegramente. St. James si riscosse, abbassò lo sguardo sulla bassottina e poi alzò gli occhi per individuare il motivo di quel desiderio di fuga. Scorgendo Deborah, la lasciò libera e Peach corse verso di lei, le orecchie al vento, con frenetico entusiasmo. Poi le fu addosso abbaiando felice, la coda in tripudio. Lei si mise a ridere, l'abbracciò, si lasciò leccare il naso. E pensò come
era tutto più semplice con gli animali che offrono tutto il loro affetto senza esitazioni o paure, senza pretendere nulla. Così facile amarli. Se anche le persone potessero essere così, non ci sarebbe sofferenza; non ci sarebbe bisogno di imparare a perdonare. St. James la vide avanzare nella luce dei lampioni, con Peach che le saltellava accanto. L'umidità sospesa nell'aria le imperlava i capelli di minute goccioline lucenti. Il bavero rialzato del soprabito le incorniciava il viso come una gorgiera elisabettiana. Era deliziosa, sembrava uscita da un ritratto del Cinquecento. Ma il volto aveva qualcosa di diverso, qualcosa di dolente e adulto. — La tua cena è pronta — gli disse quando lo raggiunse. — Un po' tardi per fare due passi, no? — Si appoggiò al parapetto. Pareva un incontro qualsiasi, come se nulla fosse accaduto tra loro, come se in quell'ultimo mese lei non fosse ricomparsa e di nuovo scomparsa dalla sua vita senza un saluto. — Non ho fatto caso all'ora. Sidney mi ha detto che siete andate insieme nel Galles. — Abbiamo passato un bellissimo weekend sulla costa. Lui annuì. Era rimasto a guardare a lungo una famiglia di cigni sull'acqua e avrebbe voluto farglieli notare: la loro presenza in quel tratto di fiume era molto insolita. Ma non lo fece. L'atteggiamento di Deborah era troppo distante. Ma lei li scorse, stagliati sul riflesso delle luci della riva opposta. — Non avevo mai visto cigni da queste parti — osservò. — E di sera, oltretutto. Stanno bene, secondo te? Erano cinque: due adulti e tre giovani, e nuotavano tranquilli presso i piloni del ponte. — Direi proprio di sì. — E trovò lo spunto per avviare il discorso. — Mi è dispiaciuto per il cigno che si è rotto quel giorno, a Paddington. — Non posso tornare a casa — disse lei in risposta. — Ho bisogno di riconciliarmi con te, trovare una strada che ci riporti a essere amici. Ma non posso tornare. Ecco cosa c'era di diverso. Aveva scelto quel voluto distacco che a volte ci si impone per proteggersi quando tra due persone avviene una frattura. Come lui, tre anni prima, quando Deborah era andata a salutarlo e lui aveva ascoltato senza parlare per paura che le dighe cedessero lasciando erompere tutto quel che provava in un'ondata umiliante di suppliche che il
momento e le circostanze l'avrebbero costretta a respingere. Il cerchio si era chiuso, a quanto sembrava, tornando all'addio. Mosse lo sguardo dal viso di Deborah alla mano posata sul parapetto. L'anello di Lynley non c'era più. Sfiorò il dito che l'aveva portato e lei non si ritrasse. Fu questo a indurlo a parlare. — Non lasciarmi di nuovo, Deborah. Si accorse che lei non si aspettava una simile risposta. Era arrivata senza una linea di difesa. Approfittò del vantaggio. — Tu avevi diciassette anni. Io ventotto. Cerca di capire. Da anni ormai mi impedivo di provare sentimenti, e tutt'a un tratto tu eri importantissima. Ti volevo. Ma ero convinto che se avessimo fatto l'amore... Lo interruppe in fretta. — Sono cose passate, non credi? Non contano più. Meglio dimenticare. — Mi sono detto che non potevo permettermi di fare l'amore con te, per un'infinità di motivi assurdi. Sarebbe stato un tradire la fiducia di tuo padre. Avrei distrutto la nostra amicizia. Anche se fossimo diventati amanti, tu non avresti potuto essere la mia compagna, e io volevo una compagna, e quindi non potevamo fare l'amore. Mi sono ripetuto migliaia di volte che avevi diciassette anni, e come potevo portarmi a letto una ragazza di quell'età? — Che importanza ha, ormai? È tutto superato. Dopo quanto è successo, che importa che non siamo andati a letto insieme, tre anni fa? — Non era fredda quanto cauta, come se vedesse in pericolo tutti gli argomenti che aveva esaminato prima di giungere alla decisione di lasciarlo. — Se vuoi che questo allontanamento sia definitivo... questa volta però devi sapere la verità. Ti ho lasciata partire perché avevo bisogno di ritrovare la pace. Volevo che te ne andassi. Mi dicevo che, una volta partita, non mi sarei più sentito così dilaniato. Avrei smesso di desiderarti e di sentirmi in colpa per il mio desiderio. Avrei cancellato quel pensiero dalla mia mente. E dopo neppure una settimana ho capito. — Non ha... — Credevo di poter esistere tranquillamente senza di te, e sono andato a sbattere contro la realtà. Volevo averti vicina. Volevo che tornassi. E ti ho scritto. Fino a quel momento Deborah aveva fissato l'acqua del fiume; adesso si volse a guardarlo. St. James non attese la sua domanda. — Non ho mai spedito quelle lettere. — Perché?
Adesso era arrivato al vero nodo. Tanto facile starsene in solitudine nel suo studio a ripetersi per un mese tutte le cose che da anni aveva bisogno di dirle. Ma adesso che aveva l'occasione di rivelargliele era di nuovo incerto e si chiedeva perché lo spaventava tanto l'idea che lei sapesse la verità. Aspirò a fondo. — Per lo stesso motivo per cui mi sono rifiutato di far l'amore con te. Avevo paura. Sapevo che avresti potuto avere qualsiasi uomo al mondo. — Qualsiasi uomo? — Va bene. Potevi avere Tommy. Come potevo pretendere che scegliessi me? — Te? — Uno storpio. — Ah, eccoci daccapo. Quale che sia il punto di partenza si arriva sempre allo storpio. — Già. È un fatto concreto e non possiamo ignorarlo. In questi ultimi tre anni ho pensato e ripensato a tutte le cose che non avrei mai potuto fare al tuo fianco e che qualsiasi altro uomo... Tommy... poteva fare senza fatica. — Ma a quale scopo? Perché tormentarti? — Perché dovevo superare questa cosa. È vero, non posso neppure abbracciarti senza questo maledetto apparecchio che mi sorregge, ma questo non doveva più avere importanza. E così il fatto che sono storpio. E tu devi saperlo, prima di andartene. Non conta più. Storpio o no. Uomo a metà. A tre quarti. Non mi interessa. Io ti voglio. — E poi, forse un po' slealmente ma senza pentimenti poiché non ci sono regole a governare gli affari di cuore: — Per sempre. L'aveva detto. Comunque lei potesse valutarle, quelle parole erano dette. Con tre anni di ritardo, ma dette. E anche se ora avesse deciso di lasciarlo, quanto meno avrebbe saputo il peggio e il meglio di lui. Gli sarebbe bastato. — Cosa vuoi da me? — Lo sai bene. Peach si mosse irrequieta. Una voce giunse dall'altro lato di Cheyne Row. Deborah fissava il fiume e St. James seguì il suo sguardo: i cigni avevano superato i piloni e continuavano a nuotare tranquilli verso Battersea. — Deborah — mormorò lui. Furono loro a darle la risposta. — Come i cigni, Simon? Era più che sufficiente. — Come i cigni, amore mio.
RINGRAZIAMENTI L'elaborazione di un romanzo comporta sempre un certo quantitativo di ricerche, ma io sono particolarmente obbligata nei confronti di diverse persone che mi hanno dato un preziosissimo aiuto fornendo dati essenziali per la stesura di questo libro: Il dottor Daniel Vallera, professore e direttore della Section of Experimental Cancer Immunology, Department of Therapeutic Radiology, presso la University of Minnesota, che ha risposto con estrema competenza a molte e protratte richieste telefoniche su innumerevoli aspetti della ricerca medica. Gli sono profondamente riconoscente per la sua disponibilità e capacità di spiegare l'inspiegabile in cento modi diversi e creativi. Il dottor L. L. Houston della CETUS Corporation di San Francisco, California, che con pazienza e grande scrupolo mi ha illuminata sulle varie fasi dello sviluppo di un farmaco, dalla "scoperta" iniziale all'immissione sul mercato. L'ispettore Michael Stephany, che mi ha passato le informazioni da lui raccolte presso l'Orange County Narcotics Squad. E Virginia Bergman, che per prima mi ha rivelato il potenziale impiego di un farmaco chiamato ergotamina. Oltre a queste persone voglio ringraziare Julie Mayer, il mio critico più attento e acuto; Vivienne Schuster, Tony Mott e Georgina Morley, che si sono impegnati valorosamente per mantenermi fedele all'argomento; Deborah Schneider, l'agente letterario più solidale che mai potrei desiderare; e Kate Miciak, mia curatrice e sostenitrice presso la Bantam. FINE