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SHERI S. TEPPER DOPO IL LUNGO SILENZIO (After Long Silence, 1987) CAPITOLO PRIMO Quando Tasmin allungò la mano per prendere la sfoglia d'oro, scoprì che la scatola era vuota. La lettera iniziale ornata della partitura dell'Enigma era già accuratamente cosparsa di colla che entro qualche minuto si sarebbe asciugata, diventando del tutto inutile. Per lo spazio fugace di un attimo ebbe voglia di imprecare, ma si accontentò di ruggire: «Jamieson!» con un tono che era a tutti gli effetti una imprecazione vera e propria. «Mastro Ferrence?» La faccia da ragazzo incorniciata nella porta aveva gli occhi sgranati, nell'espressione del più convinto: «Chi, io?», e i capelli biondo scuri ricadevano furbescamente su una fronte appena aggrottata, come a dire: «Ho molto da fare, che diavolo vorrà adesso?» Niente affatto turbato da tutto ciò, Tasmin agitò la scatola e ringhiò: «Un minuto, Jamieson. Forse meno.» Evidentemente il novizio lesse in modo giusto l'espressione di Tasmin, poiché si allontanò di corsa simulando un atteggiamento attentamente studiato di panico misto ad alacrità. La sfoglia d'oro era conservata in un deposito, una rampa di scale più su, e il ragazzo, correndo a perdifiato, poteva presumibilmente farcela entro il tempo limite. Ritornò ansimante e, per una volta, in silenzio. Grato di ciò, Tasmin rinviò ad altra occasione la ramanzina che si era preparato. «Continua pure a fare ciò che stavi facendo.» «Non era importante, Mastro.» «Se ciò che stavi facendo non era importante, allora avresti dovuto controllare il mio corredo. Solo l'urgenza di un lavoro indilazionabile poteva scusarti per non averlo fatto.» «In fondo credo che fosse importante,» rispose Jamieson mostrando un tic all'angolo della bocca unico segno del fatto che era stato incastrato ben bene. Richiuse silenziosamente la porta alle sue spalle e Tasmin sorrise tristemente. Il ragazzo non si chiamava Reb Jamieson per niente. Si ribellava ad ogni cosa, compresa la disciplina di un novizio, quasi per convinzione. Se non avesse avuto quasi sempre ragione sulle cose, e se non avesse avuto la voce di un angelo... Tasmin scacciò il pensiero mentre sistemava il tampone di feltro sopra la
sfoglia d'oro e la strofinò facendo cadere la doratura sulla colla, poi spazzolò l'oro in eccesso raccogliendolo nel recipiente di recupero. Era sua abitudine non fare mai la lettera iniziale di una copia matrice finché il resto della partitura e del libretto non fosse completo. Adesso poteva ritoccare uno o due accenti rossi che richiedevano di essere lucidati, togliersi le vesti da lavoro e indossare abiti civili, e fare una copia fotostatica della partitura da studiare comodamente a casa... possibilità non esattamente consentita dai regolamenti, ma sulla quale in genere si chiudeva un occhio, almeno finché la partitura rimaneva in mano sua. Il manoscritto finito, la matrice, sarebbe stato poi sottoposto al rituale della rilegatura e inviato a Jaconi. Avrebbero parlato per qualche minuto dell'eterno cavallo di battaglia del Mastro Bibliotecario, la sua teoria del linguaggio, poi Tasmin avrebbe preso in prestito una vettura silenziosa dal garage della Cittadella e avrebbe guidato lungo i piccoli insediamenti di Terrafonda Cinque, diretto verso casa, e verso Celcy. «Tutta questa faccenda della castità è semplice superstizione,» disse lei imbronciata, come Tasmin aveva previsto. «Un residuo delle vecchie idee religiose dei tempi di Erickson. Noi le abbiamo superate. Non c'è ragione per cui tu non debba tornare a casa la sera, anche se stai copiando una partitura.» Le frasi erano prese a prestito, l'argomento non era nuovo, né lo fu la sua risposta. «Può anche essere vero. Forse tutti i riti sono superstizione e sciocchezze, Celcy, amore mio. Forse è solo tradizione del tutto priva di significato, ma io ho giurato di osservarla in ogni più piccolo aspetto, ed è onorevole mantenere i giuramenti.» «Il tuo stupido giuramento è più importante di me.» A Tasmin venne in mente il verso di un poeta pre-dispersione, nel quale si diceva che chi non ama l'onore non può amare nessuno, ma non lo citò. Celcy detestava le citazioni. «No. amore, non è più importante di te. Ho fatto dei giuramenti anche su di te, e sono altrettanto intenzionato a mantenerli. Cose come amarti, e prendermi cura di te, e via dicendo.» Le piegò la testa all'indietro, tentando di blandirla con un sorriso, infelicemente consapevole delle implicazioni di ciò che aveva appena detto ma confidando che Celcy, presa dal problema dei suoi stessi sentimenti, non se ne accorgesse. A volte, come adesso, Tasmin aveva la sensazione di stare insieme a lei più per obbligo che per desiderio, ma quando gli veniva quel pensiero si ricordava dell'altra Celcy, quella che, quando le cose andavano per il verso
giusto, sembrava prendere magicamente il posto di questa Celcy. Non si comportava sempre in quel modo. Era come se certe situazioni la facessero emergere. «Di certo non mi sento amata,» disse lei di malumore. Tasmin sospirò, mezzo sollevato. Forse le ci sarebbe voluto più di un giorno per perdonarlo di essere stato lontano da lei per i diciassette giorni che gli erano occorsi per orchestrare e copiare la partitura dell'Enigma - anzi, per la precisione, la partitura putativa dell'Enigma, visto che ancora non era stata verificata sull'Enigma, e forse non lo sarebbe mai stata - ma alla fine sarebbe tornata a lui. E nulla che lui poteva fare avrebbe accelerato il processo. Se la ignorava, la cosa sarebbe durata ancora più a lungo, perciò si predispose ad essere amabile, ricordandosi della condizione di lei, cercando di pensare alle piccole cose che potevano farla felice. «Che succede al Centro? C'è qualcosa che ti piacerebbe vedere? Qualche buon olo?» «Niente di buono. Sono andata a vederne uno nuovo di cui mi aveva parlato Jeanne Gentrack, ma era orribile.» Rabbrividì. «Gente sulla Sporgenza che moriva di fame e cercava di passare attraverso gli Intercettori dopo che i loro Cantori erano stati assassinati da qual pazzo fanatico.» «Lo sai che non ti piacciono queste cose, Celcy. Perché ci sei andata?» «Oh, era qualcosa che dovevo fare.» Era andata da sola, naturalmente. Celcy non aveva amiche ed era troppo tradizionale per farsi accompagnare da un uomo, anche se lo stesso Tasmin non avrebbe avuto nulla da obbiettare. «Avevo sentito dire che parlava dei Cantori, e ho pensato che se ci fossi andata ti avrebbe fatto piacere.» Adesso lo stava stuzzicando, maliziosamente imbronciata, il labbro inferiore proteso all'infuori, desiderosa di essere cullata e vezzeggiata, con Tasmin a farle da papà. Lui avrebbe provato a baciarla, lei si sarebbe sottratta, e per un po' avrebbero continuato quel gioco. Quella sera Celcy sarebbe stata "troppo stanca", come punizione per la sua trascuratezza e poi, l'indomani verso mezzogiorno, avrebbe cominciato a mostrare i segni di quella ragazza gioiosamente radiosa della quale lui si era innamorato, la Celcy che aveva sposato. Optò per un sorriso di comprensione. «È splendido che tu volessi conoscere qualcosa di più sul mio lavoro, amore, ma forse vedere un film così drammatico sulla carestia della Sporgenza non era il modo migliore per farlo.» Naturalmente lei non era interessata al suo lavoro, anche se Tasmin non se ne era reso conto che un anno o due dopo il loro matrimonio. Cinque anni prima, quando Celcy aveva diciotto anni, i suoi amici erano stati i
figli di operai e impiegati, e lei aveva pensato che fosse un bel colpo sposare un Cantore. Allora gli aveva prestato ascolto, gli occhi scintillanti, mentre lui le raccontava di questo trionfo o di quella sconfitta. Ormai tutti i loro amici erano gente della Cittadella, e Tasmin era semplicemente uno dei tanti, niente di speciale, niente di cui vantarsi, solo un uomo impegnato in noiose attività che lo costringevano a lasciarla da sola per lungo tempo Poteva anche condividere il suo risentimento. Il suo lavoro, almeno in parte, annoiava anche lui. «Non è solo una questione di noia, Tas,» gli aveva detto sua madre, cercandogli a tastoni la mano attraverso la nebbia perenne in cui la cecità aveva trasformato il suo mondo. «I suoi genitori sono morti nel corso di una spedizione. L'ha allevata suo zio, ma aveva dei figli anche lui. e non sarebbero stati normali se non avessero provato fastidio per la sua presenza. Poi, mentre erano diretti verso Terrafonda Cinque, ci fu un disastro, un carro andò completamente perduto e molte persone subirono ferite gravissime. La povera piccola Celcy aveva solo otto o nove anni, e dopo che la ebbero recuperata non dormì per diverse settimane. L'idea di essere abbandonata la spaventa a morte, e anche le Presenze.» Lui era rimasto sbalordito. «Non lo sapevo! Tu come fai a saperlo?» Lei aveva aggrottato la fronte, mentre gli occhi ciechi frugavano nei ricordi. «Mi sembra che mi abbia raccontato quasi tutto lo zio di Celcy. Al tuo matrimonio.» «Mi chiedo perché non me ne abbia mai parlato.» aveva riflettuto Tasmin a voce alta. «Perché lei non vuole riconoscerlo o ricordarsene,» aveva risposto sua madre con quella voce appena sopra le righe che riservava per le occasioni in cui Tasmin. o suo padre prima di lui, erano insolitamente tardi di comprendonio. Tasmin ricordava suo padre, Miles Ferrence. come un uomo austero e pio, che parlava poco e si aspettava molto, a causa di imprevisti accessi di rabbia contro il mondo e la sua famiglia, alternati ad altrettanti impreviste crisi di acuta depressione. Miles aveva affrontato il pericolo ed era morto ai piedi della Torre Nera l'anno dopo... be', l'anno dopo che il fratello maggiore di Tasmin aveva... Non importa. Tasmin era rimasto sorpreso nel rendersi conto di quando gli fosse difficile piangere suo padre, e poi si era preoccupato della sua stessa sorpresa. Celcy stava ancora parlando dell'olodramma, la voce che si era fatta agitata e querula. «Non capisco perché non abbiano costruito delle barche e non siano semplicemente andati alla deriva verso la spiaggia. Perché han-
no tentato di passare attraverso gli Intercettori?» Lui chiuse gli occhi, cancellando ogni altro pensiero e ricordo, e visualizzando la mappa della Sporgenza. L'estrema zona nordoccidentale di Jubal, un'area chiamata New Pacifica. Una penisola di spessi sedimenti terrosi che si protendeva in una baia poco profonda. All'estremità continentale di questa Sporgenza c'erano due grandi promontori di cristallo, gli Intercettori... non semplici promontori ma Presenze. In mezzo ad esse c'era un passaggio stretto e ripido che collegava la Sporgenza alla massa continentale di New Pacifica e al resto di Jubal, mentre verso la baia, come i denti snudati di un grosso carnivoro, si affollavano i rampolli più piccoli - ma pur sempre possenti - degli Intercettori, i Piccoli Intercettori. «I Piccoli Intercettori,» disse Tasmin. «Spuntano dall'acqua dovunque. Credo che non ci sia un solo varco superiore ai cento metri tra nessuno di essi. Agli Sporgenti sarebbe servito un Cantore per attraversarli, così come avevano fatto per passare In mezzo agli Intercettori.» «Oh. Be', nell'olo nessuno dei personaggi diceva niente del genere. Continuavano semplicemente a morire di fame, fino a ridursi alla disperazione.» Il suo viso era molto pallido e sulla fronte si vedevano goccioline di umidità. «Poi hanno tentato di passare di corsa attraverso gli Interc... le Presenze, e qualcuno ha provato con il canto ma non ha funzionato, e tutti sono stati schiacciati e fatti a pezzi... insomma, lo sai. C'era tanto sangue ed era orribile.» La sua voce si ridusse a un gorgoglio strozzato. Be', certo che è orribile, disse una voce interna. Come avresti dovuto ben sapere, sciocchina. L'avvicinò a sé e zittì severamente la voce, contrariato con se stesso. L'isterismo di Celcy era reale. Il dramma l'aveva veramente sconvolta. Esigeva comprensione, e non quell'impazienza sempre più abituale. «Ehi, lascia perdere. È tutta storia passata, e storia di tanto tempo fa'. Adesso che sei incinta, hai bisogno di influenze più gioiose.» Le sventolò davanti la sua sorpresa. «Prendi,è qualcosa che ho scelto per te.» «Oh, Tasmin!» Fece scivolare il nastro di lato e strappò la carta, estraendo il giocattolo dall'involto e stringendo la pelliccia grigioverde dell'animaletto dagli occhi grandi. «È così grazioso. Guardalo. Un bambolotto viggy. Lo adoro. Grazie.» Accarezzò le antenne piumate, schioccando un bacio sul vellutato naso verde. Tasmin represse i commenti di gioia che stava per esprimere. Il giocattolo doveva essere per il bambino, un simbolo di attesa. Non avrebbe detto nulla in proposito prima che lei lo aprisse. O forse no. Nessun bambino avrebbe gradito quel dono come lei.
Tentò con un altro regalo. «A parte un viaggio da precettore il prossimo mese, ho detto al Mastro Generale che non sarò più disponibile per alcun incarico di lunga durata fino alla nascita del bambino. Che te ne pare?» «Vorrei che fosse già il mese prossimo,» disse lei seguendo i suoi pensieri. Non lo era quasi stato a sentire. «Perché? Che succede il mese prossimo?» «Verrà Lim Terree a tenere un concerto. Mancano meno di tre settimane. Non voglio proprio mancare...» Lim Terree. Lui sentì il nome, poi scelse di non sentirlo. Di non averlo sentito. Si ritrovò, invece, ad esaminare il volto liscio e senza rughe di Celcy, a fissare le sue labbra piene, i suoi grandi occhi luminosi, che i loro cinque anni di matrimonio non avevano minimamente cambiato. Lei era così minuscola, intonò per se stesso nel suo rituale privato, così minuscola, come una bambola. La sua pelle era morbida come velluto. Quando facevano l'amore lui poteva racchiudere nella mano una delle sue natiche, una collinetta sericea. Quando facevano l'amore il suo mondo esplodeva in fiamme stupende. Lei era la sua dolce ragazza. Lim Terree. Adesso aspettava un bambino. Un incidente. Il dottore aveva detto che non poteva rimanere incinta se non prendeva gli ormoni che le aveva prescritto, ma lei non aveva voluto prenderli. Non posso, aveva detto. La facevano stare male. Era impossibile che fosse incinta, eppure lo era. «A volte ci sbagliamo,» aveva detto il dottore. «A volte queste cose succedono.» Un miracolo. Tasmin si era stupito della sua stessa gioia, e si era meravigliato della sua abilità di imbonitore nel convincerla che sarebbe stata una bella cosa avere un bambino tutto loro. Era ancora troppo presto per fare un esame, ma lui sperava in un maschio. A Celcy non interessava che lui desiderasse un maschio, ma probabilmente non le sarebbe piaciuto dividere suo marito con una bambina. «Ha paura di dividerlo.» si disse lui, ricordando le parole di sua madre. «Non odio, ma paura.» Tossì, quasi soffocando. Non poteva continuare semplicemente a fissare sua moglie ignorando ciò che aveva detto. Doveva risponderle. «Quando dovrebbe venire?» «Ci sono dei grossi manifesti giù al Centro. "Lim Terree. L'idolo degli spettacoli di Jubal. Reduce dal suo giro trionfale sulla Costa di Terrafonda". Ho preso il suo ultimo cubo ed è straordinario. Non capisco perché tu
non possa fare delle versioni concertistiche. Tasmin. La tua voce è splendida quanto la sua. Anche lui ha cominciato come Cantore, lo sai.» Lui ignorò le implicazioni di quell'affermazione. Non era la prima volta che Celcy alludeva alla scarsa importanza della sua professione: una cosa che chiunque poteva fare se era abbastanza sciocco da volerlo. Semplice Cantore, era quello che sottintendeva il suo tono, se non le sue parole, rivelando un'ignoranza condivisa da una parte significativa della popolazione laica di Jubal. Però lei si sbagliava su Lim. Non era stato un Cantore, semplice o meno. Lim Terree. «Lo conosco,» disse Tasmin, con la voce che risuonò tirata e innaturale. «È mio fratello.» «Dai, non prendermi in giro,» disse lei, di nuovo quell'espressione imbronciata sul viso. Per un attimo Celcy si era dimenticata del suo recente abbandono. «È una cosa molto strana quella mi dici, Tasmin.» «Ho detto che è mio fratello. Lo é. Il mio fratello maggiore. Il suo vero nome è Lim Ferrence. Ha lasciato Terrafonda Cinque circa quindici anni fa.» «Proprio quando sono venuta io! Lui era un Cantore qui?» Non proprio, avrebbe voluto risponderle. «Tu eri appena una scolaretta quando se ne andò. E sì, ha fatto qualche viaggio da qui.» «Veramente ha fatto l'Enigma? Tutti dicono che lo ha fatto.» Era diventata improvvisamente ansiosa, gli occhi accesi dalla curiosità. Era difficile tener fuori il risentimento dalla voce. «Celcy, io non so chi siano questi "tutti". Naturalmente Lim non ha cantato l'Enigma. Nessuno è mai uscito vivo dall'Enigma.» Lei drizzò la testa, riflettendo sulla sua risposta. «Oh, non sempre la gente racconta la verità sulle cose. I Cantori sono gelosi l'uno dell'altro. Magari ci è andato con un piccolo gruppo e ce l'ha fatta a passare, ma nessuno l'ha registrato.» Tasmin fece un gesto secco con la mano, come a troncare bruscamente il discorso, un gesto che lei detestava, ma non se ne rese conto finché non la vide in volto. «Lim Terree non ha fatto nessun viaggio all'Enigma. Per quanto mi ricordo ha guidato due carovane verso oriente attraverso i Misteri Minori, una fino alla Mezza Luna e ritorno, e l'altra lungo il Deserto Strisciante fino a Splash Uno sulla Costa di Terrafonda, tutto lì. E da quello non ha fatto ritorno.» «Quattro spedizioni?» Gli rivolse uno sguardo scettico, atteggiando la
bocca a un'espressione di dileggio. «Quattro spedizioni? Andiamo, Tasmin. Questa è rivalità tra fratelli, ci scommetto. Sei geloso di lui!» Poi Celcy cercò di lenire in tutta fretta un po' della rabbia che lui si rese conto di aver tradito con il volto. «Non che possa biasimarti. È così bello. Scommetto che le ragazze gli danno la caccia.» Non proprio, avrebbe voluto dirle di nuovo. Quasi tutti, almeno quelli della sua età, lo conoscevano per ciò che era, un uomo che... meglio non pensarci. Tasmin non era nemmeno sicuro che fosse ancora vero. Il padre aveva alzato la voce e lo aveva minacciato con pugno, chiamando Lim lurido e depravato. Era poi così? Depravato? Qualcosa del genere, ma era stato dopo che Lim se ne era andato. Tasmin aveva appena sedici anni, diciassette alla partenza di Lim. Lim era più vecchio di cinque anni. Non sempre il ricordo aderiva alla realtà, specialmente quando qualcuno se ne era andato via. Forse niente di ciò che lui pensava di ricordare era veramente accaduto. «Non ricordo,» rispose ambiguamente. «Ero solo un ragazzo, avevo appena finito la scuola di base. Ma se vuoi andare a questo concerto, amore, scommetto che lui ha dei biglietti disponibili... per la sua famiglia.» Quella sembrò la chiave di volta giusta, perché Celcy smise di tenere il broncio e parlò con lui, e quando giunse la notte disse che era troppo stanca ma dopo che lui l'ebbe baciata si arrese. Il loro rapporto, però, fu tutt'altro che soddisfacente. Celcy sembrava pensare ad altro, come se ci fosse qualcosa che voleva dirgli o qualcosa di cui voleva parlargli, ma senza riuscirci. Era il suo modo di comportarsi quando aveva speso del denaro che non aveva, o stava per farlo, o quando si infilava in un vicolo cieco e usava tutte le sue moine perché lui la aiutasse ad uscirne. Tasmin sapeva perché lei faceva quelle cose, lo metteva alla prova, gli richiedeva la dimostrazione di essere amata. Se lui le chiedeva che cosa la preoccupasse prima che lei fosse pronta a dirglielo, avrebbe ottenuto l'unico risultato di sentirsi accusare di non avere fiducia in lei. Un giorno o l'altro avrebbero dovuto affrontare e sistemare la questione. Un giorno o l'altro Tasmin avrebbe dovuto avvalersi dell'aiuto di un professionista invece di continuare in eterno a recitare il ruolo del papà nell'attesa che lei crescesse. Si era già da tempo impegnato con se stesso. Ma in un modo o nell'altro sembrava che non ci fosse mai il tempo di mantenere quell'impegno... il tempo, o l'energia necessaria per affrontare l'inevitabile reazione negativa. Guardando il suo viso addormentato, Tasmin si rese conto che lei lo avrebbe considerato un tradimento.
Sospirando, incapace di prendere sonno, portò sul tetto il suo stato d'animo malinconico e in parte ostile. Era lì che esorcizzava i suoi demoni. Quasi ogni casa di Terrafonda Cinque aveva un rialzo o una torretta da cui si poteva osservare l'avvicinarsi delle carovane o spiare la Presenze attraverso un telescopio. Tre anni prima ne aveva regalato uno di ottima qualità a Celcy. in occasione del suo compleanno, ma lei non lo aveva mai usato. Non le piaceva guardare le Presenze, cosa di cui Tasmin si sarebbe dovuto rendere conto già prima di acquistare il regalo. Allora era ancora convinto che ciò che interessava a lui dovesse interessare anche a lei. «Un errore tipicamente maschile,» gli aveva detto sua madre ridendo quando lui le aveva confessato tristemente la cosa. «Tuo padre era fatto allo stesso modo.» Poi, quasi con rimpianto, aveva aggiunto: «Regalale qualcosa che la faccia sentire gratificata. La prossima volta regalale dei gioielli, Tas.» Da quel momento le aveva regalato gioielli, ma si era tenuto il telescopio. Lo orientò verso sud. A trenta chilometri scarsi di distanza la mostruosa sagoma dell'Enigma tremolava oscuramente contro la Luna Vecchia, un enorme pilastro spaccato in due proprio di fronte alla muraglia che separava l'interno dalla costa meridionale. La nuova partitura era davvero una chiave d'accesso per superare la Presenza? O sarebbe stato soltanto l'ennesimo tentativo fallito, destinato a concludersi nel sangue e nella morte? L'Enigma non offriva commenti, continuava semplicemente a tremolare, occultando visibilmente le stelle con la sua estremità, in un continuo, altalenante scintillio. Girò con un ampio arco verso ovest, scorrendo, una dopo l'altra, le Presenze che si affollavano lungo l'orizzonte. L'Enigma, il Martello del Cielo, la Scure d'Ambra, la Dozzina Letale, il Raccoglitore di Nuvole, la Torre Nera, i Piccoli Osservatori Lontani, poi il massiccio occidentale delle Presenze, accalcate e quasi tutte senza nome. Poco più a sud c'erano gli Osservatori Gemelli. La partitura dell'Osservatore era una delle prime chiavi d'accesso che lui avesse mai imparato... un canto semplicissimo, con fonemi abbastanza facili da pronunciare. «Arndaff duh-roomavah,» cantò sottovoce, «sindir dassalam awoh,» chiedendosi, come faceva di tanto in tanto, se in quei suoni ci fosse davvero un significato. La dottrina ufficiale insegnava che non ce n'era, che i suoni, quando correttamente cantati e sostenuti dalla giusta orchestrazione, si limitavano a smorzare la vibrazione nelle Presenze di cristallo, consentendo così alle carovane di passarvi attraverso senza essere distrutte. O smembrate. O spazzate via dai frammenti
cristallini scagliati via. Fin dai tempi di Erickson, tuttavia, non erano mancati coloro che credevano implicitamente nella teoria del linguaggio. Ancora adesso c'era qualche bastian contrario come Chad Jaconi, il Mastro Bibliotecario, il quale era convinto che i suoni dei libretti fossero veramente parole, e lo affermava apertamente. Jaconi aveva trascorso gli ultimi quarant'anni a compilare un dizionario dei fonemi dei Cantori, acquistando nuovi traduttori da fuori sistema e cercando di dimostrare che le partiture della chiave d'accesso erano in realtà una forma di linguaggio. Ogni volta che il vecchio Jaconi si convinceva di aver dimostrato qualcosa, tuttavia, capitava sempre qualcuno con un nuovo libretto che lo contraddiceva. C'erano ancora in giro Esploratori forniti di registratori, sintetizzatori e computer, accucciati appena al di fuori della portata delle diverse Presenze, che tentavano infinite combinazioni per vedere quella che poteva funzionare, e che anche dopo tanti anni riuscivano ogni tanto a fornire nuova materia di studio. Tasmin aveva effettivamente ascoltato il cubo originale realizzato cent'anni prima da Ben Erickson, il primo Esploratore capace di oltrepassare i Piccoli Osservatori Lontani per penetrare all'interno di Terrafonda, una conquista stupefacente e del tutto misteriosa, se non addirittura mistica. Com'era possibile che qualcuno fosse giunto, solo a furia di tentare, sbagliare e ritentare, a quella particolare combinazione di fonemi ed effetti orchestrali? Sembrava impossibile. «Dev'essere stata chiaroveggenza,» rifletté Tasmin. «Una sfera di cristallo e una bella voce.» Erickson si era aperto il passaggio con il canto attraverso le Presenze per quasi quindici anni, prima di diventare l'ennesima vittima dell'Enigma. Nel corso di quegli anni aveva garantito l'immortalità al suo nome ed aveva fondato l'Ordine dei Cantori e l'Ordine degli Esploratori. Risultati niente male, per un uomo solo. Tasmin si sarebbe tranquillamente accontentato di realizzare un quarto di ciò. «Tassy?» un bisbiglio triste, appena accennato, dalle scale. «Mi sono svegliata e tu non c'eri più.» «Stavo solo prendendo un po' d'aria, amore.» La raggiunse in cima alle scale e la accolse fra le braccia. Lei vi si rannicchiò, allungandosi per accarezzargli il viso, sussurrandogli all'orecchio piccole parole segrete, lasciandosi avviluppare dal battito del suo cuore e dalla stretta delle sue braccia, come se dovesse restare per sempre così. Mentre la sollevava per portarla verso il basso, lei si voltò a guardare verso il profilo delle Presen-
ze, che si stagliavano irregolari contro le stelle. «Stavi guardando quelle cose. Le odio. Tasmin. Davvero.» Era la prima volta che diceva di odiare le Presenze, e Tasmin fu sorpreso dall'improvviso accesso di appassionata partecipazione che lo travolse. Fecero l'amore di nuovo, teneramente, e dopo lui la coccolò finché Celcy non cadde addormentata, sempre parlottando del concerto. «Veramente è tuo fratello? E sul serio ci procurerà i biglietti?» «Sono sicuro che lo farà.» Il mattino dopo Tasmin si domandò se Lim fosse davvero in grado di fargli avere dei biglietti per lo spettacolo, come aveva promesso a sua moglie. Tanto per non correre rischi ne acquistò un paio, sbalordito e infuriato per un prezzo così alto da potersi definire quasi indecente. Le strade di Splash Uno rigurgitavano di gente in cerca di cibo e operai edili, di militari e bande di aggressivi Cristalliti, per non parlare della processione di pellegrini stralunati, ciascuno alla prese con le proprie necessità, nessuno dei quali era disposto a lasciare spazio agli altri. Gretl Mechas si faceva strada a brutto muso in mezzo alla calca, domandandosi come diavolo le fosse passata per la testa la decisione di venire fino a Splash Uno a pagare direttamente il suo debito. Avrebbe potuto inviare una nota di credito dal Priorato di Northwest City, tramite messaggero, tramite comfax, o tramite autobus da trasporto... perché mai aveva scelto di venire di persona? «Paura,» salmodiò in risposta una voce di cui conservava il ricordo. «Un debito è una cosa tenibile, Gretl. Cerca di non farne mai.» Era la voce di suo padre, una voce che Gretl non avrebbe mai dimenticato per tutta la sua vita. «Per te è facile dirlo,» ringhiò lei. È facile per chiunque. Difficile da mettere in atto, però, quando la tua unica sorella ti ha inviato una richiesta di aiuto urgente dal Mondo di Heron, nel quale ti dice che ha perso un braccio in un incidente e non è in grado di pagare la propria rigenerazione. In anticipo, naturalmente. Nessuno fa più rigenerazione a meno di essere pagato in anticipo. E nello stesso modo, naturalmente, se si ha bisogno di rigenerazione, nessuno ti presta più dei soldi se non a condizioni da estorsione che possono anche condurre a una involontaria schiavitù. La piccola idiota non aveva pensato che le potesse occorrere un'assicurazione per la rigenerazione. Certo che no, se c'era Gretl a cui rivolgersi. «Merda,» disse lei, convinta, mentre continuava a farsi strada in mezzo
alla folla minacciosa verso la porta del palazzo della BDL, ignorando gli sguardi che la seguivano. Tutti avevano sempre guardato Gretl, fin da quando aveva cinque anni, gli uomini in particolare. Forse era per via della sua carnagione, simile ad avorio brunito. Forse a causa dei suoi capelli, un trionfo di mogano che sembrava dotato di vita propria. O forse per la sua figura, o per il volto, o magari soltanto per qualche espressione di vivo, insaziabile interesse in quegli occhi grandi e neri. Comunque Gretl non si voltò a guardare. Il suo cuore era con un uomo del Mondo di Heron, dove lei sarebbe tornata al più presto, appena concluso il contratto. «Com'era quel nome?» le domandò l'impiegata dell'ufficio crediti, confusa. «Su, mi faccia vedere il suo elenco.» Gretl glielo porse. Su Jubal ci si abituava a questo. Importare materie lavorate costava così caro che ogni cosa veniva usata ben oltre il punto di non ritorno. Niente funzionava mai come doveva... «È stato pagato,» disse l'impiegata con un'espressione di consapevole complicità. «Pagato?» ripeté lei fra i denti, sbalordita, senza nemmeno avere ascoltato la frase per intero. «Che intende dire, pagato?» «Il suo debito è stato interamente coperto,» disse l'impiegata, scrutandola con sospetto da sotto le ciglia. «Non lo sapeva?» «Certo che no, ci può giurare. Chi lo ha pagato?» L'impiegata armeggiò sui tasti, aggrottò la fronte, poi scosse la testa. «Allora?» «Justin,» bisbigliò l'impiegata. «Chi?» «Oh, andiamo, signora.» Il bisbiglio era rabbioso. «Le ho chiesto chi è stato. Per l'amor di Dio, ragazza, me lo dica. Sono su questo pianeta solo da pochi mesi, e non ho la più pallida idea...» L'impiegata annuì, un cenno leggerissimo, verso l'alto e sulla destra. Gretl alzò gli occhi. Non vide altro che gli uffici separati da vetrate della Brou Distribution Ltd., o BDL. la gerarchia. In uno di essi una tenda svolazzò. «Lui,» disse l'impiegata con un filo di voce, improvvisamente pallida come un cencio. «Harward Justin.» «Il Direttore Planetario?» disse Gretl, poi tacque, provando uno sgradevole senso di disagio. Lo aveva già incontrato, quando era venuta per chiedere il prestito, e solo di passaggio. Lui si era fermato al tavolo dove Gretl era in attesa, si era presentato e la aveva invitata a pranzo. Lei aveva rifiutato.
Un uomo senza collo, si ricordò. Rotoli di grasso dalla mascella alle spalle, occhi che sembravano fanghiglia mezza ghiacciata, che la osservavano da sotto palpebre rigonfie, una bocca sensuale, piegata all'ingiù. Umida, ricordò. Non faceva che umettarsi le labbra. All'improvviso domandò: «Ha una busta?» L'impiegata le rivolse un'occhiata incuriosita mentre le passava la busta. Gretl vi mise dentro la somma che avrebbe dovuto versare, scarabocchiò qualche parola sull'esterno poi la restituì all'impiegata. «Non mi piace che qualcun altro paghi i miei debiti,» disse. «Ho intenzione di estinguere il mio prestito secondo i termini stabiliti. Si accerti che il signor Justin riceva questa busta.» Si voltò e si allontanò a passo sostenuto, mentre il disgusto lasciava posto allo sbalordimento e alla rabbia. «Aspetta che lo venga a sapere Don Furz! Incredibile! Quello sfacciato!» Era quasi giunta alla porta quando la mano si abbatté sulla sua spalla. Era un uomo alto, un uomo senza espressione, un uomo disinteressato Non la guardò come tacevano di solito gli altri uomini. Disse pochissimo, ma non la lasciò finché non lo ebbe detto. «Mi chiamo Spider Geroan. Lavoro per Harward Justin e lui vuole vederla. Adesso.» CAPITOLO SECONDO Durante la lezione di effetti orchestrali di Tasmin ci si accorse che la pompa dell'aria era stata manomessa in modo da emettere rumori simili a scoregge, sempre buoni per farsi una risata. L'esercitazione dei neofiti si interruppe con un fremito mentre Tasmin smontava il congegno. «Questo particolare suono è utilizzato, a quanto mi risulta, solamente nella volata attraverso l'Intestino Cieco.» fece notare alla classe. «L'unica cosa istruttiva a proposito di questo inconveniente è che ci sono dei suoni che funzionano meglio se prodotti strumentalmente invece che sintetizzati, il che spiega il motivo per cui abbiamo tamburi, campane, pompe e altri attrezzi del genere.» «Stai camminando pericolosamente verso l'espulsione, Jamieson,» ringhiò poi Tasmin, quando la lezione fu finita. «Tutta questa faccenda è opera tua.» «Alcuni degli esordienti sono un po' tesi,» rispose il ragazzo, tutt'altro che turbato dalla minaccia. «Ho pensato che qualche risata avrebbe potuto
far bene.» C'era qualcosa di vero, in quella affermazione, al punto che Tasmin lasciò cadere l'argomento. Come succedeva sempre, Jamieson aveva infranto le regole per una buona causa. Così vicini a indossare la tonaca e a partire per il loro primo viaggio, molti dei neofiti diventavano nervosi e trovavano difficile concentrarsi. «Sabotare l'attrezzatura non è proprio una buona idea,» lo riprese Tasmin con un tono piuttosto blando. «Un idiota di ragazzino una volta si è messo ad armeggiare con un tamburo da Intercettore, per vedere se riusciva a suonarlo come un cantante della Costa, e lo hanno preso e sbattuto su due piedi in un carro da viaggio. Devo raccontarti che cosa è successo?» «No, signore.» Appena arrossito ma, per quanto poteva vedere Tasmin, niente affatto pentito, Jamieson annuì. «Me ne ricordo.» «Bene, allora fai un controllo incrociato su quella pompa, e prima di andartene accertati che faccia esattamente ciò che ci si aspetta che faccia.» Jamieson si spostò e cambiò argomento. «Portiamo fuori qualcuno degli esordienti, Mastro?» «Sì, alla prima Luna Nuova Ce ne sono solo tre per i quali io sono un precettore neutrale, tre che non ho avuto nella mia classe... vediamo. James, Refnic, e la ragazza, Clarin, con quella voce straordinaria...» «Renna. Renna Clarin.» Jamieson drizzò la testa, pensieroso «Giusto. C'è qualcosa che dovrei sapere?» «James avrà un cedimento, senza il minimo dubbio nel caso di un contatto, ma probabilmente lo avrà comunque. Passa metà del suo tempo a inumidirsi i pantaloni e l'altra metà ad asciugare se stesso, chiedendosi se qualcuno se ne è accorto. Refnic è affidabile. Più le cose diventano difficili, più lui migliora. Di Renna Clarin non so molto, se non che è calva in modo strano. Viene da fuori.» Tasmin ignorò l'impudenza, come Jamieson aveva ben previsto. «Evidentemente a Northwest non vengono rasate le teste dei neofiti femmina, e quando qui lo hanno fatto per lei è stato uno shock. Aveva delle ottime referenze personali. Le sue registrazioni del coro della scuola di Terrafonda Sette erano molto buone.» Jamieson alzò le spalle in modo eloquente, in una movenza da balletto che cominciava dalle spalle e finiva sulla punta delle dita, appena piegate, a mostrare tutto il loro disprezzo per le buone registrazioni. Le raccomandazioni delle migliori scuole corali potevano significare ben poco, magari semplicemente che un candidato aveva una voce accettabile o andava d'ac-
cordo con il Mastro di Coro. Lo stesso Jamieson aveva avuto voti pessimi alla scuola di coro e c'era un intero registro di note di demerito a suo nome, e sapeva bene che Tasmin ne era perfettamente a conoscenza. Cambiò di nuovo discorso. «Qual è l'itinerario?» «Oh. penso che percorreremo il solito anello del mio primo viaggio. Oltre gli Osservatori sul lato agevole, giù attraverso i Falsi Zelanti, poi lungo la Catena della Liberazione fino ai Sussulti. Quindi verso Armonia attraverso il passo, ci fermiamo per la notte lì, e gli facciamo dare una bella occhiata alla Torre, di quelle che spaventano, mentre tu ed io Li facciamo attraversare cantando, infine si torna attraverso i Piccoli Osservatori Lontani.» «Se fossi io a decidere,» disse Jamieson, molto audacemente, «utilizzerei James sui Sussulti. Gli piace molto quella partitura, e lì non può combinare grandi danni.» «Basta solo che passi, eh? E poi che cosa succederà quando ci sarà qualche carovana che per passare dipenderà da lui?» «Oh, pensavo solo che magari un po' più di esperienza...» La voce di Jamieson si interruppe, imbarazzata. Era chiaro che non aveva riflettuto. A questo punto arrossì e chinò la testa in un gesto esplicito di scusa, una concessione accordata a Tasmin e a pochissimi altri. «Pensaci,» gli raccomandò Tasmin, saggiando l'assetto finale della pompa dell'aria. Quindi si mise a sedere, riflettendo. «Jamieson.» «Signore?» «Tu hai un'età in cui si può prestare attenzione ai cantanti della Costa. Che cosa sai di Lim Terree?» «Ehi, è il massimo. Ai primi posti nelle classifiche. I suoi cubi, gli ultimi tre usciti, sono dei best-seller. Le ragazze vanno in estasi per lui.» «Che genere di musica fa?» Jamieson si soffermò un attimo a pensare. «È un po' difficile da dire. C'è un bel po' di roba da Cantori, ma lui se ne discosta parecchio. Naturalmente tutti i cantanti della Costa spacciano la loro produzione per chiavi d'accesso autentiche, ma con quelle non si va da nessuna parte. Almeno, credo che non sia possibile.» «Che cosa vuoi dire?» Tasmin era davvero incuriosito. Aveva detestato così intensamente gli abusi che Lim aveva fatto del materiale delle chiavi di accesso da trascurare del tutto il culto dei cantanti della Costa, anche se sapeva che era molto diffuso e che grondava denaro da tutti i pori. «Che cosa intendi dire, che con quelle non si va da nessuna parte?»
Jamieson corrugò le labbra, gesticolò in direzione di una sedia e Tasmin lo autorizzò con cenno del capo a mettersi seduto. «Tu conosci la partitura per gli Osservatori? Introduzione in chiave minore, due corni, e un tamburo in accordo. Tlin, tlin, tlin con gli archi secondo uno schema ritmico, poi entra la voce solista con la PG, Petizione e Giustificazione, d'accordo? Una linea melodica piuttosto semplice, diretta, non come le alternanze di chiave e di tempo nelle sequenze degli Intercettori, va bene? Ecco, da questo Lim Terree esegue una specie di stacco. Usa la melodia della PG, ehm, della Petizione e Giustificazione, ma in qualche modo... insomma, ci ricama sopra. Trilli e piccoli gorgheggi e svolazzi e note aggraziate. Ciò che tu canti come "Arndaff duh-roomavah" diventa "Arn-daffa-daffa-daffa-du-uh-uhuhduhroo-dohrooma-vah-ah-ah".» Era un suono stupendo, che veniva fuori ribollendo come una cascata. Jamieson aveva una bella voce Tasmin tentò rapidamente e senza successo di convincersi che stava ascoltando un'oscenità. La frase aveva avuto un effetto ipnotico. «E va avanti così?» «La frase "sindir dassalam awoh" dura circa tre minuti con tutte le cadenze e le ripetizioni ritmiche e via dicendo. Se tu l'avessi provata sugli Osservatori... be', non credo che saresti arrivato molto lontano. Avrebbero reagito e tu avresti fatto una brutta fine.» «Capisco che cosa vuoi dire. Ma allora che cosa c'è di così attraente?» «Be', è grande musica. Sul serio. Gran parte dei rumori e di ciò che fanno sul palcoscenico è molto erotico. Lui indossa qualcosa che assomiglia molto a una tonaca da Cantore, solo che è più fantasiosa, e aperta sul davanti fino praticamente all'altezza dell'inguine.» Jamieson balzò in piedi, e gesticolò come se sì sciogliesse da una posizione raccolta, rivelando potenza e aggressività nello stesso tempo, e facendo capire a Tasmin ciò di cui stava parlando «Anche la parte orchestrale è frenetica. Percussioni a martello e un impianto elettrico ad alta potenza.» Tornò ad accasciarsi sulla sedia, poggiando la samba sul bracciolo. «E tutto questo non si potrebbe usare in un viaggio vero e proprio.» «No. a meno di avere un carro delle dimensioni di vagone costiero da trasporto che possa contenere il generatore di corrente.» «E allora come farà a tenere un concerto qui? Non riuscirebbe mai a far passare tutta quell'energia attraverso le Presenze. E anche se le Presenze lo lasciassero passare, cosa che non farebbero, la pista più larga sulla Catena della Liberazione consente al massimo il transito di un carro standard per il
brou.» «In gran parte sono probabilmente olo. Lui si esibirà dal vivo davanti a un'immagine registrata, con al massimo uno o due musicisti che lo accompagneranno.» «Perché dovrebbe disturbarsi a venire fin qui? Se sulla Costa di Terrafonda le cose sono così grandiose perché spingersi verso l'interno?» Il novizio alzò le spalle, una torsione appena accennata del busto. «Non riesco ad immaginarlo. Forse la sua immagine è un po' troppo abusata? Qualche volta leggo le riviste degli appassionati. C'è una grande rivalità fra coloro che essi chiamano i Sei Grandi. Terree è. ehm, al terzo posto, mentre un anno fa era al primo o al secondo. Questo nuovo ragazzo, Chantry, è un protetto della cricca del Governatore, ed è schizzato verso l'alto come un pallone. Magari Terree è convinto che quando tornerà dal suo viaggio all'interno verrà considerato una novità.» «Il Cantore Lim Terree,» citò Tasmin da un manifesto immaginario. «Di ritorno da un giro di sei mesi alla guida di carovane disperate dirette verso l'interno...» Jamieson ridacchiò. «Qualcosa del genere, già. Come mai tutto questo interesse. Mastro Ferrence?» «Oh.» Tasmin si limitò a dire. «Un tempo lo conoscevo, molti anni fa. È originario di queste parti.» «Non stai scherzando, vero? Be', allora scommetto che sarà come ritrovare un vecchio amico.» «Non proprio. Non lo conoscevo così bene.» «Mi chiedo perché non mi abbia fatto sapere che veniva qui.» La madre di Tasmin lo fissò con stupore, anche se da anni Thalia Ferrence, attraverso i suoi grandi occhi, non vedeva altro che profili indistinti. «Mi sembra strano che non mi abbia avvisato.» La sua voce era dolente, perduta, con un uno straziante rigurgito di dolore familiare, reso strano solo dalla rinnovata intensità. Probabilmente non sapeva che eri ancora viva, pensò Tasmin senza dirlo. «Probabilmente Lim era troppo imbarazzato, madre. O forse non sapeva che papà era morto e pensava di non essere il benvenuto.» «Suo padre lo avrebbe perdonato. Miles sapeva che non era poi così una cosa così grave.» Scosse la testa, sorridendo. Sembrava fermamente intenzionata a ricostruire Miles Ferrence nel ricordo, a ricreare un padre amorevole e indulgente laddove Tasmin ricordava soltanto ostilità e giudizi inflessibili.
Non sono solo i suoi occhi che non possono vedere, rifletté Tasmin. Anche il suo cuore non può vedere. Forse è parte dell'essere madre e moglie, avere un cuore cieco. E se è cieca alle colpe di Lim, allora lo è anche alle mie. Cercò di considerare con generosità il trasporto di sua madre nei confronti di Lim, ma non ci riuscì. C'era qualcosa che lo faceva stare male. Rivalità fraterna? Quella sarebbe stata la semplice risposta che Celcy dava ad ogni cosa. No, era l'insensato dispendio di emozione verso qualcuno che non lo meritava, a disturbarlo. O la gelosia. Poteva anche essere così. Lai poteva essere geloso di Lim. Sarebbe stato bello doversi preoccupare solo di se stesso, invece di palleggiarsi tre o quattro tipi di responsabilità. Celcy. Il lavoro. Sua madre, la cui cecità poteva essere curata in uno dei centri medici della costa, se solo lui fosse riuscito a portarla fin là e a sostenere le spese. Da quando Miles Ferrence era morto la BDL le aveva tagliato ogni forma di assistenza medica. Non che lei lo rimproverasse per questo. «Tua moglie viene per prima, Tas. Basta che appena puoi vieni a trovarmi. Quando lo fai sono così felice.» Si chinò verso di lui per prendere la sua mano e accarezzarla. «Partirai presto per un viaggio?» «Alla prima Luna Nuova, mamma. È la prima uscita per alcuni Cantori che hanno appena indossato la tonaca. Ce la caveremo in un paio di giorni. Non mi piace lasciare sola Celcy troppo a lungo, non nelle sue condizioni.» «Non è ancora incinta, vero?» «Ecco...» cominciò a dire Tasmin, «certo che lo è,» ma sentì che le parole gli morivano in gola. «Perché hai pensato che non lo fosse?» «Oh, non lo so.» Di nuovo quell'espressione penetrante, come se la mente vedesse ciò che gli occhi non potevano. «Mi è sembrato un po' improbabile. Dille che la accoglierò a braccia aperte, quando sarai fuori.» Tasmin diede un colpetto affettuoso sulla mano di sua madre: sapeva benissimo che lei sapeva che lo avrebbe riferito a Celcy e che a Celcy non sarebbe importato affatto. La rivalità fraterna non era l'unico tipo di rivalità di cui fosse a conoscenza. Il primo giorno della Luna Nuova Tasmin guidò una piccola carovana all'esterno del cancello cerimoniale della Cittadella, pregustando quasi fisicamente il passaggio dalla realtà alla meraviglia. Terrafonda Cinque era la realtà. Celcy, che un tempo era stata del tutto meravigliosa, in quei gior-
ni era in gran parte la realtà. Il lavoro era la realtà in tutto. Anche se la Cittadella si sforzava di evocare un senso di incantesimo e di mistero, il suo ritualismo elaborato si era trasformato nel corso degli anni in qualcosa di sempre più scontato e concreto. Chad Jaconi definiva le continue cerimonie "penosamente barocche", a paragone con il senso del meraviglioso che aveva permeato la Cantoria quanto lui era giovane. Forse era qualcosa che si poteva sentire solo quanto si era giovani. Quando era all'interno della Cittadella. Tasmin non la sentiva affatto. La meraviglia, il mistero - e quasi sempre l'esaltazione - nascevano quando lasciava la zona di terreno profondo. Lui pregustava il momento con una specie di bramosia, senza mai sapere con esattezza quando sarebbe successo, ma sempre certo che sarebbe successo. Condusse il gruppo attraverso il territorio scarsamente popolato ad occidente della Cittadella, oltre campi densamente coltivati di brou euforico, l'unica pianta coltivata che Jubal potesse esportare. Alle loro spalle c'era la Cittadella, i campi coltivati, gli insediamenti, la cappella aconfessionale, il Centro servizi e divertimenti. Alle loro spalle c'era Terrafonda Cinque: molto normale, molto reale, molto quotidiano... E tutto intorno a loro c'era il paese del sogno. Si fermarono sul limitare di un campo di brou per mettere ai muli dei ferri morbidi, mentre Tasmin sceglieva i baccelli per ognuno di loro, un privilegio che la Brou Distribution Ltd. concedeva solo ai "Cantori autorizzati diretti verso il pericolo". La pomposità della frase non mancava mai di divertirlo. Qualsiasi ragazzo sufficientemente rapido di gambe era in grado di sottrarre il brou sotto il naso delle guardie campestri, e spesso lo faceva. In ultima analisi, comunque, per quanto pomposa fosse l'organizzazione, tutti lavoravano per la BDL, la BDL che manteneva le cittadelle e finanziava le carovane, i Cantori e gli Esploratori, nonché i contadini che facevano crescere il cibo di cui tutti loro si nutrivano, e tutte le infrastrutture che tenevano in movimento l'intero sistema. Cantori, Esploratori, addetti ai muli, impiegati dei centri di servizi, centinaia di migliaia di persone, tutti lavoravano, in fin dei conti, per la BDL. «Che possiamo ottenere il passaggio e un ritorno sicuro,» salmodiò Tasmin nel rispetto del cerimoniale, mentre distribuiva i baccelli. «Amen.» Un coro balbettante di tutti gli esordienti, frammisto al rumore secco dei baccelli che si rompevano. Cominciarono tutti a masticare e divennero decisamente più allegri. L'ebbrezza da brou sarebbe scomparsa nel momento in cui fossero giunti in prossimità di una Presenza.
Ben presto ai terreni coltivati si sostituirono delle pianure incolte in leggera salita verso un massiccio che formava una parete perpendicolare tra la sacca di sedimenti terrosi di Cinque e tutte le aree di terra bassa che la circondavano. Gli alberi tozzi importati lasciarono il posto a vegetazione più alta, fantasticamente soffice e slanciata, più simile alle piume di qualche enorme uccello che ad alberi veri e propri. Emanavano un debole profumo di spezie e di resina, l'odore dello stesso Jubal. In mezzo alle piante crescevano cespugli più piccoli simili a code di pavone, grandi ventagli di foglie lanuginose multicolori, che lentamente voltavano la faccia verso il sole. In mezzo alla prateria, isolati o a gruppi, si stagliavano Osservatori Minori di ridottissime dimensioni, non più alti di un uomo. Scintillavano come vetro colorato, squittendo e mormorando al passaggio del carro. Tasmin ne notò uno o due che stavano crescendo così vicini alla strada da costituire un pericolo. Non si era portato appresso l'attrezzatura da demolizione, e in ogni caso scelse di prenderne nota e di lasciare che se la sbrigassero gli esperti. Scarabocchiò degli appunti in tutta fretta, scrutando l'orizzonte. Il carro provvisto di pneumatici era tranquillo. I muli indossavano zoccoli flessibili provvisti di cuscinetti. Non c'era clangore di catene o scricchiolio di cuoio. Più di una spedizione era andata incontro a un tragico destino a causa dell'equipaggiamento rumoroso... o così almeno si presumeva. Procedevano in silenzio, Jamieson sul sedile del carro, Tasmin e gli studenti sui loro animali dalle zampe silenziate. Il senso del mistero proveniva in parte da questa calma piena di tensione, in parte dagli odori che sembravano sempre intensificare la percezione che Tasmin aveva del mondo attorno a lui. In parte derivava invece dall'intrinseca inverosimiglianza di ciò che essi si accingevano a fare. Questa inverosimiglianza divenne evidente quando giunsero, dopo una salita tortuosa, in cima al possente bastione nord-sud e abbassarono lo sguardo verso ciò che li attendeva. A un gesto di Tasmin si radunarono in silenzio, raggruppando i muli l'uno di fianco all'altro. «Quello che vedete davanti a voi, gente.» disse Tasmin con un filo di voce, «è il cosiddetto lato agevole degli Osservatori.» Non si dilungò ulteriormente sull'argomento. L'unica cosa di cui avevano bisogno era una bella occhiata a ciò che appariva in lontananza, dall'altra parte del sentiero. Di fronte a loro la strada precipitava bruscamente verso il basso, curvando verso sinistra attorno all'Osservatore Meridionale. Qualche decina di Piccoli Osservatori Meridionali si ergeva sul ciglio della strada, monoliti
affusolati di un verdeazzurro trasparente, con le linee di frattura che penetravano nell'interno in un labirinto di luce rifratta: il più piccolo era alto cinque volte Tasmin. Dietro i Piccoli Osservatori cominciava la base dell'Osservatore Meridionale vero e proprio, una torre imponente di smeraldo e zaffiro con protuberanze simili a foglie che sporgevano da innumerevoli cornici, incoronata da uccelli volteggianti che si levavano in una nuvola turbinosa simile a fumo attorno alla sommità, centocinquanta metri più in alto. Sul lato a nord della strada uno sciame di Piccoli Osservatori Settentrionali brillava con sfumature color ametista e grigio scuro, e subito alle loro spalle torreggiava la mole massiccia dell'Osservatore Settentrionale, una falesia formata da pietra di luna e quarzo cinerino, benché chimici e geologi obbiettassero che la struttura dell'Osservatore non era né dell'una né dell'altro. Tasmin, dentro di sé, continuava a dire "zaffiro", "pietra di luna" e "smeraldo". Che i chimici discutessero pure sulla sua vera essenza: per lui, si trattasse di Presenze la cui altezza si misurava a centinaia di metri, o Piccole Presenze, di dimensioni nell'ordine delle decine di metri, o Minime Presenze, non più alte di un uomo, era pur sempre bellezza pura e semplice. In mezzo agli Osservatori, sparsi fra i Piccoli, c'erano i relitti di numerosi carri e un cimitero di scheletri umani e animali, spolpati e sbiancati da tempo. Dietro gli Osservatori, tanto a nord quanto a sud. si stendeva l'interminabile linea di Presenze con e senza nome che costituiva il contrafforte occidentale di Terrafonda Cinque, e che la tagliava fuori dal resto del continente, con l'esclusione di quello e di altri passi analoghi per i quali esistevano chiavi d'accesso sperimentate. Jamieson ostentava la sua noia sdraiato sul sedile del carro, anche era già uscito solo due volte. Refnic, James e Clarin erano appollaiati sui loro muli come copricapi nuovi alla festa di primavera, equipaggiati così di recente dal Mastro di Viaggio della cittadella da sembrare quasi artificiali, come manichini decorati. «Abbassate i cappucci,» li avvisò con calma Tasmin. «Tirate su maniche e legatele con le fasce. È a questo che servono le fasce, così da avere le mani scoperte nel momento del bisogno. So che le maniche sono rigide, ma col tempo si ammorbidiranno.» Le tonache di Tasmin erano ormai diventate sofficissime dopo ripetuti lavaggi e rammendi. I polsini ricamati ricadevano in morbide pieghe dalle fasce e il cappuccio aveva perso da tempo la sua fodera rigida. «Mettete le redini nel gancio della sella, in modo da avere le mani libere. Tutto qui.»
Con la testa e le braccia che fuoriuscivano dalle tonache da Cantori, gli studenti avevano un aspetto più umano e più vulnerabile, e il loro cranio sembrava quasi fragile sotto i capelli corti che essi avevano avuto l'autorizzazione a far ricrescere in previsione della loro vestizione, ma solo per in paio di centimetri, o giù di lì. Non riuscivano a distogliere lo sguardo dagli Osservatori, reazione più che normale. Anche i carovanieri più smaliziati a volte restavano seduti per un'ora o più semplicemente a contemplare una Presenza, come se fossero incapaci di credere ai loro occhi. La maggior parte dei passeggeri viaggiava all'interno dei cani schermati, spesso dopo aver ingerito dei tranquillanti per evitare l'isterismo e il conseguente, fatale rumore. Questi studenti si trovavano a guardare per la prima volta le Presenze a distanza ravvicinata. Le loro teste si muovevano lentamente, esaminando i mostruosi cristalli, da quelli che avevano davanti a tutti gli altri che si stagliavano più piccoli contro l'orizzonte. Verso sud, al limite del raggio visivo, una folla di pilastri appiattita dalla distanza indicava il sito dei Minimi Osservatori Lontani, con la mostruosa Torre Nera che si stagliava subito dietro, l'itinerario che essi avrebbero percorso al ritorno. Sapevano che lì, come qui, il terreno copriva appena i cristalli. Ogni cosa intorno a loro vibrava della frenetica cacofonia di gemiti, ronzii, scricchiolii che si era fatta sempre più forte da quando avevano cominciato a dirigere verso la dorsale. Gli Osservatori sapevano che essi erano lì. «Devo presumere che voi abbiate già deciso come volete affrontare tutto questo.» Di solito Tasmin lasciava che i novizi alla prima uscita scegliessero da soli chi doveva cantare, e che cosa, almeno finché ciascuno di essi si prendeva la sua parte di responsabilità. «D'accordo, datevi da fare. O vi esibite o vi ritirate, l'una o l'altra. Le Presenze cominciano ad irritarsi.» Tasmin tenne a freno la sua impazienza. Avrebbero potuto muoversi un po' più rapidamente, ma almeno non erano paralizzati. Aveva scortato più di un gruppo che si era fatto prendere dal panico assoluto al solo vedere una Presenza per la prima volta, e almeno in un'occasione un neofita, paralizzato dalla paura, si era lanciato contro di essa. «Canterà Clarin, signore, se per te va bene. James e io faremo gli effetti orchestrali.» Refnic era un po' pallido, ma composto. Clarin sembrava quasi ipnotizzata, le sopracciglia scure tirate in un cipiglio di concentrazione, due profonde cavità sulle guance mentre le risucchiava all'interno, umettandosi la lingua. «Allora datevi da fare.»
I muli legati al carro erano addestrati a tirare con passo regolare, qualsiasi cosa succedesse. Refnic si arrampicò sul carro e si sistemò alla consolle, mentre James si accucciava alla batteria. Clarin incitò il suo animale ad avanzare, le redini fissate al gancio della sella, le braccia protese all'infuori. «Tanta tara.» I primi suoni di corno dal carro, sintetizzati ma non registrati. In qualche modo le Presenze già conoscevano la differenza. Le Chiavi d'accesso registrate provocavano una reazione quasi immediata. Entrò il tamburo, un ritmo lento, empatico ma rispettoso. Duma duma duma. Poi gli archi. «Arndaff duh-roomavah,» cantò Clarin con la sua voce straordinariamente profonda, limpida e sincera come una campana. «Arndaff duhroomavah.» Con le prime note il suo volto si rilassò, e divenne del tutto partecipe della musica, in una concentrazione cieca. Il ronzio gracchiante sotto i loro piedi scemò gradualmente fino a tacere del tutto. I muli continuavano ad avanzare, lentamente, disinvoltamente, sui loro zoccoli silenziosi, emettendo un suono ovattato quasi inaudibile. Impeccabili, i suoni degli archi andarono in crescendo. Poi di nuovo la batteria, i corni, quindi una campana, dolcemente, e ancora la voce di Clarin. «Sindir, sindir, sindir dassalam awoh.» I muli mantenevano il loro passo costante, Clarin in testa subito seguita da Tasmin, quindi il carro sulle sue ruote con pneumatici, e in coda i due animali senza cavaliere. Il sintetizzatore produceva solo i suoni che doveva produrre. Le ruote e gli zoccoli protetti erano tollerati dalle Presenze mentre un qualsiasi rumore di motore, per quanto sommesso, non lo era. Nessun veicolo meccanico terrestre o aereo poteva muoversi su Jubal se non sul suolo spesso di Terrafonda, dove cinquanta metri e più di soffice terreno proteggevano le Presenze cristalline dal rumore che si produceva sopra di loro. Poiché queste sacche di terreno erano solitamente separate tra loro da imponenti catene di Presenze ravvicinate, sul pianeta non esisteva in effetti alcun sistema di trasporto meccanico se non lungo le aree costiere e per mare. «Dassalom awoh,» cantava Clarin mentre percorrevano la curva sulla sinistra. «Bondars delumin sindarlo.» Poche donne erano in grado di gestire le vocali delle chiavi di accesso di cui ci si serviva su Terrafonda Cinque, anche se Tasmin aveva sentito dire che nel Northwest c'erano un bel numero di Cantori femmina. Le rivolse un sorriso di incoraggiamento e le indicò a gesti di continuare, anche se ormai erano in territorio sicuro. Se insieme
ad essi ci fosse stata una carovana, a questo punto i Cantori e il loro carro si sarebbero fatti da parte e avrebbero proseguito con le variazioni della Petizione e Giustificazione finché non fosse passato l'ultimo veicolo. Tasmin ritenne che per Clarin sarebbe stato comunque un utile esercizio. Clarin attaccò la prima variazione. Se c'era qualcosa che si era appreso sulle Presenze, era che si annoiavano piuttosto facilmente. Le stesse frasi ripetute più di qualche volta portavano in genere ad una reazione violenta. Al termine della seconda variazione, Tasmin indicò che era il momento dell'affermazione conclusiva, l'Espressione di Gratitudine. Clarin la cantò. Poi vi fu silenzio. Si allontanarono dagli Osservatori senza dire una parola. Uno rombo di tuono squarciò il silenzio alle loro spalle, uno scoppio rovinoso echeggiò sulle creste più lontane in raffiche via via più deboli. Tasmin si voltò di scatto sulla sella, inorridito, pensando che forse il carro non era passato del tutto, ma si trovava a dieci metri buoni dal punto in cui giacevano sparpagliati a terra i frammenti fumanti di cristallo. Alle loro spalle uno dei Minimi Osservatori aveva riversato con violenza la sua sommità nella loro direzione. «È uno scherzo,» borbottò Jamieson. «Ah, ah.» Clarin, pallidissima, tremava come una foglia. «Perché?» domandò, con gli occhi pieni di spavento. «Perché? Non ho sbagliato una nota!» «Shhh.» Tasmin, sopraffatto dallo stupore, per un attimo fu incapace di parlare. Le prese il braccio e la sentì tremare sotto la mano, rigida in ogni muscolo. La tirò a sé, chiamò a raccoltagli altri con un'occhiata e con ampi cenni delle mani, parlò alla ragazza a bassa voce e in questo modo si rivolse a tutti. «Clarin, non ho mai sentito la partitura dell'Osservatore cantata meglio. Non sei stata tu. Quello che devi ricordare è che le Presenze... be', loro sono imprevedibili. Fanno cose strane.» Accarezzò il collo della ragazza, simile a una bambina con i capelli corti. «Uno scherzo,» ripeté Jamieson, sempre a bassa voce. «Stava ridendo di noi.» «Jamieson, possiamo fare benissimo a meno delle tue interpretazioni antropomorfe!» gracchiò Tasmin, faticando a tenere basso il tono della voce. Non aveva nessuna voglia di parlare, non voleva essere costretto a parlare, voleva solo sentire l'adrenalina scorrere dentro di lui di fronte alla sconvolgente meraviglia delle Presenze. Si concentrò con uno sforzo sui giovani esordienti. «Questi sono cristalli, cristalli molto complessi Certe combinazioni sonore li stimolano a smorzare i loro stessi segnali ed a bloccare la loro attività elettrica. È una questione complicata, che l'uomo non ha anco-
ra compreso a fondo, ma non c'è niente di soprannaturale.» «Non stavo pensando a qualcosa di soprannaturale.» obbiettò Jamieson, l'eterno ribelle. «La risata non è soprannaturale!» «Lo è se la fa una montagna di cristallo,» replicò Tasmin in tono definitivo, consapevole della dicotomia fra ciò che diceva e ciò che provava. Ciò che diceva era dottrina, sì, ma era la verità? Lui non lo sapeva e dubitava che lo sapessero con certezza tutti coloro che avevano divulgato quella posizione. Tuttavia non si poteva occupare una posizione ben retribuita nella gerarchia accademica e permettere che concetti inaccettabili venissero sbandierati di fronte a dei novizi, o che si speculasse apertamente in loro presenza, soprattutto quando il manuale della BDL esprimeva con parole molto chiare la posizione ufficiale. Era nell'interesse della BDL che le Presenze venissero considerate dei semplici... minerali. E ciò che era nell'interesse della BDL era anche nell'interesse di Tasmin. Si accontentò di incenerire Jamieson con un'occhiataccia, alla quale il ragazzo rispose con uno sguardo di blanda incomprensione. Il problema era che lui e Jamieson si capivano fin troppo bene. Diede una scrollatina a Clarin, poi una pacca sulla spalla, e quindi la guardò con approvazione quando lei si drizzò a sedere sul mulo e si deterse il volto. Era pallidissima, ma composta. I suoi capelli erano un'ombra nera sul cranio, e la pelle sopra gli zigomi alti, splendidamente modellati, rivelava un leggerissimo rossore. Si era ripresa rapidamente. «Oh, tutto questo mi sconvolge,» disse con voce stridula. «Mi piacerebbe...» «Distruggere qualcuna delle Presenze, giusto? Conosco questo stato d'animo. Guardale, invece, Clarin! Guarda laggiù!» Indicò verso il lungo pendio, proprio di fronte a loro, dove si stagliavano i Falsi Zelanti. Lei seguì il suo sguardo. Le luci scintillavano dagli Zelanti in arcobaleni circolari, corruschi e risplendenti, una rapsodia sinfonica di colore, con gli stormi di uccelli volteggianti che volavano in circolo attorno ad essi, un rivestimento turbinante di fumo mutevole. «Vorresti distruggere una cosa del genere?» le domandò. «No,» rispose lei alla fine. «Proprio non vorrei.» «Per non parlare delle disposizioni assolutamente contrarie del CSP.» osservò seccamente Jamieson. «Le restrizioni del Consiglio per lo Sfruttamento Planetario proibiscono la demolizione di qualunque cosa a meno che non invada lo strato più profondo di terreno.» «Quelli piccoli,» sospirò Clarin. «I piccoli o i minimi. Niente del gene-
re.» «Niente del genere,» convenne Tasmin «Ora, vorrei che prestassi attenzione all'aspetto degli Osservatori da questa direzione.» Adottò il tono asciutto da conferenza, cercando di indirizzare il loro interesse verso qualcosa che era al di là di ogni possibilità di annientamento totalmente arbitrario. «La partitura è diversa poiché proviene da ovest, naturalmente, e sì tratta di un pendio da risalire, il che significa da un punto di vista musicale una portata più lunga. Si chiama il "lato difficile", anche se la partitura del versante occidentale è in effetti più semplice, sia vocalmente che come effetti orchestrali. Io proporrei di muoverci. Ci aspettano i Falsi Zelanti, i Sussulti, la Catena della Liberazione, e dobbiamo superarli entro oggi prima di discendere fino ad Armonia attraverso il passo sul terreno solido.» Gli esordienti si alternarono alla musica lungo la strada sinuosa che costeggiava gli Zelanti, un canone ripetitivo su un unico tema piuttosto semplice. James cominciò abbastanza bene, ma poi peggiorò man mano che il viaggio procedeva. Refnic cantò con grande disinvoltura mentre attraversavano i Sussulti. Come Jamieson aveva previsto, James si bloccò nel bel mezzo della PG davanti alla Catena della Liberazione durante una serie di motivi da cappella senza effetti orchestrali che coprissero i momenti di quiete. Vi fu un attimo di orribile silenzio. Il terreno cominciò a tremare sotto i loro piedi, ma proprio mentre Tasmin apriva la bocca per riprendere il canto vocale, Jamieson cominciò a cantare senza sbagliare nemmeno una sillaba, con la voce che si librava senza sforzo apparente Il terreno sotto di loro tornò tranquillo. Quando furono passati dall'altra parte Tasmin li bloccò e distribuì gli occhiali da campo, indicando i relitti di carri che giacevano in un cumulo informe eroso dagli agenti atmosferici. Era difficile fare il punto della situazione parlando a bassa voce, ma Tasmin non poteva più aspettare. «James, questo è ciò che succede a chi soffre di scarso apprendimento, di eccessiva presunzione, di cattiva preparazione, ed ai Cantori che si bloccano. Non c'è niente di male nell'essere un buon elemento di sostegno. Gli effetti orchestrali sono importanti quanto quelli vocali. Se non puoi fare affidamento su te stesso per quelli vocali, per l'amor di Erickson, non mettere a repentaglio la tua vita e quella degli altri.» James era pallidissimo per la vergogna e la frustrazione. Si era preso un bello spavento con l'esplosione ai piedi degli Osservatori, ma la stesso era capitato a tutti. Jamieson aveva un'espressione melliflua, ma era troppo intelligente per rimarcare anche indirettamente il io-lo-avevo-detto. Al termine del viaggio, Armonia si rivelò un luogo beatamente noioso,
una piccola sacca di terreno profondo interamente sfruttato a fini agricoli. Il cibo e i letti, poi. erano ottimi, e Tasmin dedicò una buona mezz'ora ad una visita di convenienza a Betuny, sorella di sua madre, una donna con cui non aveva abbastanza confidenza da chiamarla zia. Suo marito era morto di recente, e Tasmin le consegnò una lettera di sua madre. Dopo questa visita dovuta, fece ritorno alla Casa dei Viaggiatori, dove trovò Renna Clarin che lo aspettava sulla veranda Si era avvolta intorno alla testa una sciarpa dai colori brillanti e indossava una tunica in tinta, a strisce vivaci. Lui si rese conto per la prima volta di quanto fosse graziosa, un pensiero che lo colpì per la sua stranezza Non era abituato a pensare ai neofiti come '"graziosi". «Volevo ringraziarti, signore.» «Di che cosa, Clarin? Hai fatto un ottimo lavoro, lassù.» «Di... di non essermi saltato addosso quando mi sono spaventata.» Era in piedi sulla veranda, appena sopra di lui, una ragazza alta, dai modi calmi e attenti alle sfumature. Senza la tonaca da Cantore sembrava più magra, più aggraziata, e lui si ricordò il profumo del suo corpo quando l'aveva avvicinata a sé. Un comportamento abituale, in caso di pericolo, ma Tasmin si rese conto arrossendo che lei era la prima studentessa di cui avesse mai fatto il precettore. «E così eri spaventata?» le domandò a bassa voce. «Davvero spaventata?» «Davvero spaventata.» Fece una risatina nervosa, provando un certo imbarazzo nell'ammetterlo. «Lo ero anch'io. Lo sono sempre. Dopo un po'... non vedrai l'ora che ti capiti. Quando si è veramente spaventati, l'intero mondo sembra... illuminarsi.» Clarin rifletté su quelle parole, perplessa. «È difficile crederlo.» «Fidati di me. Succede. O succede oppure dovrai dedicarti a qualche altro genere di lavoro.» Lei avvampò, lo ringraziò di nuovo e si diresse verso la propria stanza. Tasmin giacque sveglio sul suo letto, consapevole delle torreggianti creste che circondavano l'intera città, Presenze raggruppate, così tranquille che si potevano sentire i cori dei viggy che cantavano in mezzo alle colline. Echi di quel rigurgito di emozione che lo aveva colpito quella mattina erano ancora dentro di lui, un'apprensione sempre viva, in parte piacevole in parte terrificante. Raramente gli capitava in modo così forte, e raramente gli durava così a lungo. Rimase lì sdraiato, mentre il suo corpo si imbeveva di tutte le sensazioni, ascoltando il canto dei viggy fin quasi a mezzanotte.
Svegliò i suoi esordienti e si mise in viaggio con loro appena ci fu un minimo di luce. Fissarono tutti la Torre Nera abbastanza a lungo da convincersi dell'assoluta impossibilità di essa, mentre Tasmin, con Jamieson subito alle spalle, leggeva a bassa voce le preghiere dei morti. I resti di Miles Ferrence giacevano da qualche parte in quel disordine di frammenti cristallini ai piedi della Torre Dopo la morte di Miles Ferrence, Tasmin aveva recuperato gli appunti originali dell'Esploratore e aveva composto una nuova partitura della Torre Nera, dedicata alla memoria di suo padre. In effetti lo aveva fatto per far piacere a sua madre, ma fino ad ora nessuno che l'avesse utilizzata era morto. Oggi li avrebbe fatti passare cantando egli stesso, con Jamieson di sostegno. Dopo la Torre Nera, i Piccoli Osservatori Lontani apparvero una faccenda da scuola elementare, un buon allenamento, ma senza nulla di particolarmente interessante. James chiese di essere scusato. Il senso di timore reverenziale e di mistero che si era man mano disvelato scomparve del tutto quando raggiunsero l'ultimo dei Piccoli Osservatori Lontani e scorsero Terrafonda Cinque che li attendeva in fondo al lungo pendio. Di nuovo nella realtà. Tasmin inspirò a fondo. Sarebbe stato a casa in tempo per la cena. «Come se la sono cavata i tuoi ragazzi?» gli chiese Celcy, sfiorandogli il volto con la mano e allungandosi per essere baciata. «Hanno cantato con la loro bella voce spaventata?» «Tutti tranne uno, sì.» Non aveva proprio voglia di parlare di James. O, per qualche motivo, di Clarin. «Oh, poverino. E se l'è data a gambe?» «Celcy, non è divertente. Ed è anche di cattivo gusto.» La allontanò bruscamente da se, pentendosene subito. Ma il suo buonumore non ne risentì. «Scusami, Tasmin. Sul serio. Ho parlato senza riflettere. Naturalmente non se l'è squagliata, visto che c'eri tu. E a questo che servi, no? A proteggere i ragazzi.» «Fra le altre cose.» «Mi sei mancato. Mi sei mancato moltissimo.» Gli aprì la tonaca e vi si infilò dentro, premendosi contro di lui e dandogli dei colpetti sulle costole con i pugni. «Mi hai sentito, tu?» «Ti ho sentito.» Tasmin rise, improvvisamente allegro. «Ti ho sentito, Celcy.» «Meno male. E allora fai qualcosa.»
La stanchezza lo abbandonò. Il rilassamento post-viaggio poteva aspettare. Lei era eccitata e giocherellona come una bambina felice, ansiosa di compiacerlo e la sera trascorse in un miscuglio di sesso e di spensierato festeggiamento. «Non ho fatto che cucinare per tutto il giorno,» annunciò Celcy a un certo punto, porgendogli il terzo bicchiere di vino. «Per tutto il giorno, senza interruzioni.» Tasmin si strofinò lo stomaco appesantito. Se non l'avesse sposata per tutt'altre ragioni, avrebbe potuto farlo per la sua cucina. «Sei molto buona con me.» «È per questo.» disse lei, facendo scorrere le mani sotto la sua camicia. «Per questo.» Vi fu un interludio. Poi, in pieno sonno: «Tassy, tesoro, ha chiamato.» «Chi?» Sul momento non riuscì a immaginare di chi stesse parlando Celcy, poi capì, con una violenza quasi fisica. «Lim? È qui?» Doveva già trovarsi a Terrafonda Cinque, altrimenti non avrebbe potuto chiamare. «È alla centrale elettrica. Ha detto che si accampano lì un giorno o due per sistemare l'attrezzatura. Poi verranno in città Abbiamo parlato moltissimo, ed è un uomo fantastico! Tassie, non mi avevi mai detto quanto fosse meraviglioso. Ha voluto sapere tutto di te e di me, di come ci siamo incontrati e tutto il resto.» Tasmin sentì come un groppo freddo e duro alla base della gola. Tentò di deglutire, ma non servì a niente. «Che altro voleva?» «Darci i biglietti per lo spettacolo, naturalmente. E dopo cenare insieme a noi.» «Ti ha chiesto di mamma?» Era una domanda sbagliata. L'umore di Celcy cambiò all'istante. «Sì. Mi ha chiesto se lei e tuo padre erano ancora vivi e abitavano nello stesso posto, e io gli ho detto che tuo padre è morto, ma che lei era ancora lì. È strano che non sapesse di tuo padre, Tassy. Immagino che si farà vivo anche con lei.» Tasmin ne dubitava molto. Quando Lim aveva lasciato Terrafonda Cinque se ne era andato senza una parola. Solo quattro anni più tardi erano venuti a sapere che era ancora vivo e in buona salute sulla Costa di Terrafonda, dove teneva concerti di canti di viaggio nei locali notturni, seduceva giovani donne e faceva quattrini a palate. Dopo la morte di suo marito, la
madre di Tasmin avrebbe potuto utilizzare un po' di quel denaro, ma Lim non le aveva mai dato niente, nemmeno dopo che Tasmin gli aveva scritto... Buffo. Nella lettera gli aveva detto che la madre aveva bisogno di denaro, ma non gli aveva detto che suo padre era morto. Aveva supposto che Lim già lo sapesse. Eppure, come avrebbe mai potuto saperlo? «Che altro gli hai detto?» «Oh, solo che volevamo i biglietti. Gliene ho chiesti un bel po', così potremo portarci anche i nostri amici...» I tuoi amici, pensò Tasmin. I tuoi amici e le loro mogli. Celcy aveva una quantità di amici, quasi tutti sposati. Semplici amici, nulla di cui essere geloso o per cui prendersela. Solo amici, ma nessuna amica. Tutte le donne erano rivali, non importa se giovani o vecchie. Povera, cara Celcy. «Hai detto a cena?» «Dopo lo spettacolo, ha detto lui. Vuole parlarci.» Jaconi lo incastrò a pranzo, pieno della sua più recente teoria. «Sono convinto di aver trovato una sequenza ripetitiva. Tas! Una caratteristica ricorrente che emerge in oltre il dieci per cento di tutte le Petizioni e Giustificazioni di successo.» «Non fare il pedante, Jacky. Chiamale PG, come fanno tutti.» Il vecchio arrossì e fece scorrere le dita sulla barba grigia come se volesse setacciarla. «È l'abitudine. Cerco di conservare la dignità di fronte agli studenti. Diavolo, tu sei stato un mio studente.» «Me lo ricordo. E tu sei stato un buon insegnante. Avresti dovuto continuare a insegnare invece di assumere la direzione della biblioteca.» «Be', mi offre il tempo di... lo sai. So che lo chiami il mio cavallo di battaglia, Tas, ma non è solo quello. Certi giorni penso di essere così vicino.» Accostò l'indice e il pollice fin quasi a farli toccare. «Così vicino. Lo so che in realtà stiamo parlando a delle cose! Ma mi sembra quasi di capire che cosa le parole ..» «Finché non viene fuori qualcun altro don una nuova PG?» «No, questo è stato il problema fino ad ora. Ho ipotizzato che tutte le... le PG debbano avere un elemento comune, giusto? E se invece Erickson avesse ragione? Se si trattasse veramente di un linguaggio?» La voce di Jaconi si ridusse a un bisbiglio da cospiratore, e lui si guardò attorno per accertarsi che nessuno stesse ascoltando. «Voglio dire, noi non diciamo sempre le stesse cose, in circostanze analoghe. Immagina che io ti pesti un dito. Potrei dire "Accidenti, mi dispiace", o "scusami", oppure "che sbada-
to" o ancora "oh, merda", o almeno una decina di altre cose, tutte ugualmente adatte alla circostanza.» «Questo è vero.» Tasmin era interessato suo malgrado. «Prima ero sempre in cerca di elementi identici. In tutti quei traduttori che ho comprato cercavo sempre parole o frasi o effetti che fossero uguali e che avessero conseguenze analoghe. Ma se non diciamo sempre la stessa cosa per esprimere la stessa emozione, allora forse non lo fanno nemmeno le Presenze e quindi quello che io devo cercare è un gruppo. Chiaro?» «Sembra logico.» «Bene, infatti è proprio ciò che sto cercando adesso. E può darsi anche che ne abbia trovato qualcuno. Ci sono elementi simili in almeno il dieci per cento di tutte le PG.» «Che cosa intendi dire, con simili?» «Progressioni tonali di suoni vocalici, soprattutto. Con orchestrazioni analoghe. Corni e batteria. C'è la percussione nel novantacinque per cento dei gruppi e ci sono i corni in oltre l'ottanta per cento, e il restante venti ha effetti di organo che sono molto simili ai suoni del corno.» La descrizione di Jaconi aveva messo in moto una catena di ricordi nella mente di Tasmin, e lui la colse al volo, detergendosi la fronte. «Jacky, ti ho portato la nuova partitura dell'Enigma una settimana fa, più o meno.» «Povero ragazzo, l'ho guardata dopo che te ne sei andato ed era uno strazio.» «Be' sì, era complessa, ma non così male, a dire il vero. Gli appunti dell'Esploratore erano eccellenti: non ne ho mai visti di migliori. Aveva una lunga sequenza all'inizio della PG, però, una quantità di progressioni vocaliche in terzi e quinti, e percussioni e corni.» «Chi è che l'ha tirata fuori?» «Un esploratore che di solito lavora verso nordovest. Don Furz? Ti dice niente?» «Le Variazioni di Furz sulla Torre Vagabonda. La Suite di Furz sul Deserto Strisciante. Il Canone di Furz per i Piccoli Denti.» Lo pronunciava "Farz". «Ah, Farz. Avrei dovuto immaginarlo.» «Per quanto è in programma il collaudo?» «Non lo è. Il Mastro Generale l'ha voluta in archivio, tutto qui.» «Nessun volontario?» «È una battuta che non fa ridere, Jacky. Sono almeno cento anni che stiamo provando con l'Enigma, e a che punto siamo? Enigma, circa ottanta
partiture. Cantori zero. Non avremo mai un volontario, a meno che sia un candidato al suicidio.» Celcy aveva trascorso la settimana precedente il concerto nella realizzazione di un nuovo abito. Non si poteva dire che Terrafonda Cinque fosse un luogo di gran moda, e spesso lei si confezionava i vestiti da sola, ricopiando ciò che vedeva sugli olo provenienti dalla Costa, dove le influenze delle navi stellari che atterravano e ripartivano da Splash Uno e Splash Due rendevano lo stile sempre mutevole. Al momento stava lavorando a un capo color arancio vivo, particolarmente appariscente sui suoi capelli neri e sulla carnagione abbronzata, soprattutto per il fatto che lasciava scoperti frammenti di quella stessa pelle nei punti più improbabili. «Sei splendida,» le disse Tasmin, sapendo che non aveva creato quel modello solo per lui. Celcy dava per scontato che lui ammirasse la sua bellezza fisica. «Davvero, non ti pare?» Celcy piroettò davanti allo specchio, provando diversi capi di gioielleria, e scegliendo alla fine gli orecchini di selce che lui le aveva regalato per il loro quinto anniversario, dopo aver messo da parte i risparmi per almeno un paio d'anni. Ogni volta che glieli vedeva indossare provava ancora un po' di senso di colpa. Quel denaro gli sarebbe stato utilissimo, aggiunto a quello che cercava di risparmiare per le cure mediche di sua madre, ma Celcy li aveva desiderati con tutte le sue forze, e quando riusciva ad avere ciò che desiderava diventava entusiasta come un bambino nel giorno del suo compleanno Tasmin la amava anche per quello, per come figurava con i gioielli addosso. Anch'essi scintillavano con vivaci fiammate arancioni. Tasmin era alle spalle di Celcy, e insieme formavano una coppia perfetta: lui alto, con il volto magro e i capelli biondi, simile a una candela pallida, lei minuscola e splendente come una fiaccola bruna. Anche in un'affollata sala da concerti, una volta spente le luci, Celcy sembrava ardere di una luce interna. Lui si era detto che quella musica non gli sarebbe piaciuta, e fece di tutto per odiarla, soprattutto quando riconobbe frammenti di chiavi d'accesso, parale e frasi per ottenere le quali erano state pagate vite umane, qui esibite solo per fare effetto, usate per suscitare eccitazione Qui, in una città fortificata dei Cantori, Lim aveva abbastanza buon senso da non spacciare nulla per musica da Cantori, da non vestire come un Cantore, e da tenersi lontano da quel genere molto familiare che ci si aspettava fosse noto a chiun-
que. A parte queste opportune precauzioni, lui utilizzava ciò che gli piaceva, mescolando materiale derivato da autentiche chiavi d'accesso a poesie in un linguaggio molto semplice. Anche se Tasmin conosceva gran parte del materiale, provava ancora un fremito e un'emozione che cresceva dentro di lui, un aumento di consapevolezza, un'eccitazione interna che aveva poco o nulla a che fare con il materiale plagiato. La musica era semplicemente buona. Detestava ammetterlo, ma era così. Accanto a lui Celcy avvampava e sfolgorava come se avesse bevuto o avesse fatto l'amore. Quando il concerto fu finito, i suoi occhi erano spalancati, e tutt'altro che limpidi. «Sbrighiamoci,» disse lei. «Voglio conoscerlo.» Lim aveva riservato un tavolo nel migliore ristorante locale. Nessuno di essi poteva essere definito lussuoso, secondo gli standard della Costa di Terrafonda, ma l'attenzione che ricevettero dagli altri convitati fece pavoneggiare Celcy, che si accese come una stella. Lim li accolse come se non se ne fosse mai andato, come se li avesse visti appena il giorno prima, come se li conoscesse benissimo, una sorta di disinvolta bonomia che irritò Tasmin, pur costretto ad ammirarla. Tutto ciò che faceva, bene o male, lo faceva con semplicità e con gusto. Tasmin trovò una possibile spiegazione in occhi molto dilatati, e in un trasporto febbrile. Lim era chiaramente sotto l'effetto di qualcosa, palesemente sovreccitato. Forse bisognava esserlo, per tenere il genere di concerto che essi avevano appena ascoltato. Tasmin si guardò le mani mentre ordinavano da mangiare, sorpreso di vederle tremare. Allora strinse i pugni, costrinse il suo corpo ad assumere un portamento apparentemente rilassato e si concentrò per essere socievole. Celcy non lo avrebbe perdonato facilmente se lui fosse stato impettito e sgradevole. «Questo posto non è cambiato,» stava dicendo Lim. «Il solito vecchio Centro. Credevo che a quest'ora avessero già costruito un nuovo auditorio.» Tasmin se la cavò con una risposta di convenienza. «Be'. è sempre l'antico problema, Lim. Le carovane hanno già grosse difficoltà a portare i generi di prima necessità. Sarebbe difficile convincere l'amministrazione della BDL a ricostruire una struttura che è già perfettamente idonea, anche se devo ammettere che non c'è una grande atmosfera.» «Puoi dirlo forte, fratello. L'acustica là dentro è orribile. Me ne ero dimenticato.» «Io proprio non riesco a credere che tu sia di Terrafonda Cinque,» gor-
gogliò Celcy. «E poi non assomigli per niente a Tasmin. Siete davvero fratelli carnali? Avete gli stessi genitori?» Gli occhi di Lim tradirono una fuggevole espressione di dolore, che svanì subito. «Ah, bene,» disse ridendo. «A me è toccata la bellezza, a Tasmin il buon senso.» Il suo sguardo ammirato e un po' troppo insistito trasformò la frase in un complimento rivolto a Celcy, e lei non mancò di apprezzarlo. «Oh, no,» disse, sempre più luminosa. «Ci vuole buon senso per avere il successo che hai tu, Lim.» «E bisogna ammettere che Tasmin è piuttosto carino, altrimenti non lo avresti sposato.» Stavano recitando l'uno per l'altra, un passo avanti e uno indietro, come in un balletto. Celcy era sempre così con le nuove conoscenze maschili. Non proprio una forma di amoreggiamento, si diceva a volte Tasmin, almeno non nelle intenzioni. Lei gli raccontava sempre quando gli uomini le facevano la corte, senza negare che un poco le faceva piacere, ma non troppo, e qualche volta fingeva di essere risentita, anche quando Tasmin si era accorto benissimo che era lei a tenere sulle spine qualche povero cristo. Bene. Lim non sarebbe rimasto nei paraggi molto a lungo, il che le avrebbe dato qualcosa da ricordare, qualcosa di cui parlare all'infinito. «Gli sono piaciuta davvero, non è così, Tas? Mi ha trovata bellissima...» «A proposito di successo,» disse Tasmin in tono blando, sollevando un bicchiere per attirare l'attenzione di Lim. «Adesso che sei sulla cresta dell'onda, non potresti offrire qualcosa per nostra madre, Lim? Non è priva di risorse, ma vorrei farla curare sulla Costa. I medici dicono che lì la sua vista potrebbe migliorare molto, ma costa più di quanto io possa permettermi. E adesso, con Celcy che aspetta un bambino...» Lei gli rivolse un'occhiataccia, e Tasmin trattenne il respiro. «Scusami, tesoro. Ma Lim fa parte della famiglia, dopotutto.» «Non voglio discutere in pubblico le nostre questioni private. Tas. Se non ti dispiace.» «Scusami.» La sua rabbia era irragionevole ma comprensibile. Contraddittoria com'era quanto a desiderare o meno un figlio, naturalmente, lo sarebbe stata anche sul fatto di essere incinta o di farlo sapere a Lim. Tasmin decise di ignorarla. «Quanto a mamma, Lim? Hai intenzione di andarla a trovare finché sei qui, non è vero?» Lim fu evasivo; i suoi occhi balenarono, poi si spensero. «Vorrei davvero, Tas. Forse domani. E vorrei anche aiutarla. Magari alla fine della stagione potrò fare qualcosa. Tutti pensano che questo genere di attività sia
molto redditizio, ma c'è molta concorrenza e la maggior parte di ciò che guadagno lo spendo in attrezzatura. Ma se tu mi aiuterai in una mia piccola richiesta, però, le cose dovrebbero migliorare molto per me e io sarò in grado di mettere da parte un bel gruzzolo per lei.» Era di nuovo attento, chino in avanti, con la mano allungata in una posa che Tasmin riconobbe fin troppo bene. Il polso proteso era avvolto in un bracciale di platino con sette pietre preziose. Non le selci color giallo arancio, che erano tutto ciò che Tasmin era stato capace di permettersi con Celcy, ma gemme blu porpora, che valevano almeno cinque volte il suo salario annuo. Tasmin avvertì la familiare ondata di risentimento che premeva per uscire. Lascia perdere, si disse. Per l'amor di Dio, lascia perdere. «Quale richiesta?» Celcy, gli occhi sgranati, desiderosa di sapere, diede una piccola gomitata al marito. «Quale richiesta, Lim? Che cosa possiamo fare per te?» «Mi risulta che esista una nuova partitura di Don Furz per l'Enigma.» «Esatto,» disse Tasmin, guardingo. «E so che tu puoi avere accesso ad essa.» «La copia originale l'ho fatta io. E con ciò?» Il volto di Lim era concentrato, i suoi occhi fissi su quelli di Tasmin. «Mi serve qualcosa che gli altri non hanno, Tas. Qualcosa di drammatico. Qualcosa che faccia saltare sulla sedia ogni fan della Costa e lo faccia urlare fino a non poterne più. Tutti sanno che l'Enigma uccide e tutti sanno che Don Furz ha trovato alcune chiavi d'accesso sorprendenti. Voglio costruire il mio nuovo spettacolo sulla partitura dell'Enigma.» Per un lungo momento Tasmin fu incapace di replicare, non riuscì semplicemente a formulare una risposta. «Oh, com'è eccitante! Non è eccitante, Tas? Un nuovo spettacolo di Lim Terree realizzato su qualcosa che viene da Terrafonda Cinque. È un'idea splendida!» Celcy sorseggiò il suo vino, felice come Tasmin non la vedeva da settimane. E non voleva rovinarle quello stato d'animo. Per un bel po' non disse nulla, cercando senza riuscirci di trovare un modo per cavarsela. «Temo che sia fuori discussione,» disse alla fine, sorpreso di scoprire che la sua voce era piacevolmente calma, anche se le mani erano strette in modo quasi convulso per tenere a freno il tremito. «Per un po' di tempo hai vissuto nella Cittadella. Lim. Lo sai che i manoscritti non collaudati non sono di libera consultazione. È proibito divulgarli.» «Oh, al diavolo, uomo, io non lo userò così com'è. Sarebbe una noia
mortale. Ho solo bisogno... me ne basta solo una parte, per l'autenticità» «Ma in ogni caso non sarà del tutto autentico, quindi non ti serve affatto. Inventati qualcosa.» «Non posso farlo e usare il nome di Furz. Le disposizioni giuridiche sono molto chiare in proposito. Devo avere fra le mani qualcosa che Furz abbia elaborato di persona.» Lim abbassò gli occhi. Tasmin, sorpreso, notò un tremito nelle braccia e nelle mani del fratello. Nervi? «Comunque questa è solo l'introduzione. C'è qualcos'altro.» Lim trangugiò il vino e tornò a guardarsi intorno come se temesse che qualcuno potesse ascoltare. «Ho incontrato una persona, Tas. Una persona che mi ha indirizzato verso qualcosa che potrebbe farci finire nei libri di storia insieme ad Erickson. Non sto scherzando, Tas. Tu e Celcy potete far parte di qualcosa di assolutamente sconvolgente, qualcosa che rivoluzionerà lo stesso Jubal...» «Oh, non fare il pignolo, Tas.» Celcy adesso lo supplicava, facendogli delle moine. «Lui fa parte della famiglia, ed è tutto così eccitante! Fagliela avere.» «Celcy.» Tasmin scosse la testa, impotente, pregando che lei capisse. «Io sono un Cantore. Mi è stata concessa un'autorizzazione soggetta a un codice etico. Anche se ignorassi i rischi per il mio lavoro e per il nostro benessere, io ho giurato di difendere quel codice. Non mi permetterebbero di fare ciò che Lim vuole, mi dispiace.» «Diavolo, sono stato un Cantore anch'io, fratello,» disse Lim con un tono duro, esigente. «Non mi devi forse un piccolo favore professionale? Nemmeno per procurare un bel gruzzoletto alla nostra vecchia madre, eh?» Lo disse con quel sorriso disinvolto, con una specie di sogghigno, un sogghigno che lui ricordava bene. Il riferimento alla madre fu la goccia che fece traboccare il vaso. «Quello che hai speso per quel bracciale che porti al polso sarebbe stato sufficiente per far recuperare la vista a nostra madre e sistemarla per tutta la vita,» disse Tasmin con voce piatta. «Non venirmi a raccontare tutte quelle stronzate che spendi tutto in attrezzatura perché so che è una bugia. Tu non sei mai stato un Cantore. Hai infranto ogni regola, ogni giuramento che hai fatto. Ti sei servito di quell'idiota di Ran Connel perché ti aiutasse a far finta di compiere il tuo primo viaggio, poi, quando hai avuto l'autorizzazione, hai guidato quattro viaggi, e in tutti e quattro hai avuto bisogno dell'uomo di sostegno per passare. Sei andato avanti a scuola rubando. Hai rubato testi, hai rubato risposte, hai rubato il lavoro di altri, compreso il mio. Quando qualcuno aveva ciò che ti serviva, tu te lo prendevi. E quando
non potevi più restare qui. hai rubato il denaro degli amici di papà e te ne sei andato sulla Costa. Il motivo per cui devo occuparmi io di nostra madre così come della mia famiglia è che papà si è speso quasi tutto quello che aveva per rimborsare il denaro che ti eri preso tu. Tu non hai mai saputo che cosa fossero le regole, fratello maggiore, e hai sempre fatto affidamento su quel tuo sorriso incantevole e su quella tua voce dannatamente meravigliosa!» Celcy lo fissava a occhi spalancati, bianca in volto per lo shock. Lim era pallido, la bocca serrata. Tasmin posò sul tavolo il tovagliolo. «Mi dispiace. Non ho fame. Celcy, ti dispiace se ce ne andiamo via?» Lei deglutì, rivolgendo a Lim un viso stravolto. «Sì, mi dispiace Sto morendo di fame. Ho intenzione di cenare con Lim perché lui ci ha invitato, e se tu sei così ignorante da rivangare ancora le tue infantili recriminazioni...» La sua voce cambiò, divenendo rabbiosa. «Di certo non verrò via con te. Vai pure a casa. Vai da tua madre. Forse lei sarà d'accordo con te. ma io certamente no.» Tasmin non ricordò di aver lasciato il ristorante. Non ricordò nulla di ciò che era successo finché non si ritrovò in un cubicolo nel dormitorio della Cittadella, seduto sul bordo del letto, tremando tutto come se non volesse fermarsi più La situazione era degenerata dal niente, o forse da ogni cosa. Tutto ciò che da quindici, vent'anni era compresso, sepolto dentro di lui... Da più di vent'anni Quando aveva sette anni, e Lim dodici, suo padre gli aveva regalato un viggy per il suo compleanno. Erano animali rari, in cattività, e Tasmin era rimasto senza parole per la felicità. Quella notte Lim lo aveva preso dalla gabbia e lo aveva portato per strada, dove era stato ucciso, a detta di Lim, da una vettura silenziosa di passaggio. Quando Tasmin aveva otto anni, a scuola aveva vinto una medaglia per la musica. Lim se l'era presa in prestito e l'aveva persa. Quando aveva sedici anni, Tasmin si era innamorato follemente, e senza speranza, di Chani Vincent. Lim, sei anni più grande di lui, l'aveva sedotta, messa incinta, poi abbandonata per mettersi in viaggio verso la Costa di Terrafonda, da cui non sarebbe più ritornato. I Vincent si erano trasferiti ad Armonia, e da lì Dio solo sapeva dove, e suo padre era stato informato da diversi suoi amici che Lim aveva rubato loro del denaro... una somma piuttosto consistente. Restituirla era stata per lui una questione di onore. Onore. Venti anni. «Oh, Signore, perché non gli ho detto semplicemente che ci avrei pensato sopra, per poi magari spiegargli che non potevo avere accesso a quella
dannata partitura?» Non si rese conto di averlo detto ad alta voce finché udì una voce sommessa dalla porta. «Mastro?» Era Jamieson. con un'espressione sul viso che Tasmin non riuscì a decifrare chiaramente. Sorpresa, di certo. E interesse? «Posso esserti utile, signore?» «No,» latrò Tasmin. «Sì. Chiedi al farmacista se può farmi avere qualche pillola per dormire, ti dispiace? Ho un... un problema familiare.» Quando si svegliò, prima dell'alba, aveva la testa che gli girava, la bocca come imbottita di cotone e una sensazione di inadeguatezza che credeva di essersi ormai lasciata indietro da tempo. Aveva rovinato la grande serata di Celcy. E lei non gli avrebbe neanche permesso di dimenticarsene tanto presto. Sarebbe stata probabilmente una di quelle crisi emotive che richiedevano mesi per passare, e con lei incinta diventava davvero un atteggiamento imperdonabile. Più lontano restava da casa, peggio sarebbe stato. «Infantile bastardo.» si rimproverò allo specchio «Stupido!» La faccia dai capelli biondo chiari e il naso diritto lo fissava, con la bocca larga e serrata ridotta a una fessura inespressiva. Sarebbe stato logico essere irritato con Celcy, si disse di malumore, ma che beneficio poteva arrecargli? Tenere il broncio a Celcy offriva ben poche soddisfazioni. «Idiota,» si disse in tono accusatorio. «Puoi farti strada con il canto attraverso qualsiasi Presenza di questo mondo, ma non riesci a cavartela in una situazione sociale delicata!» I suoi occhi erano così neri da sembrare quasi ammaccati. Prese in prestito una vettura silenziosa dal parcheggio della Cittadella e guidò lentamente verso casa, preoccupato al pensiero dell'arrivo. Quando giunse a destinazione trovò la porta chiusa a chiave. Poca gente chiudeva la porta di casa a Terrafonda Cinque, ma Celcy lo faceva sempre. Dovette cercare la chiave di riserva sepolta sotto uno degli alberelli importati, e nel farlo si punse un dito con una spina. Celcy non era in casa Guardò in camera da letto, nello studio, in cucina. Fu solo quando andò in bagno per fasciarsi il dito ferito dalla spina che vide lo scritto appeso sullo specchio. "Tasmin, sei stato così sgarbato con tuo fratello che ancora non riesco a crederci; gli ho dato la partitura che voleva perché sapevo che tu ti saresti vergognato di te stesso dopo una notte di sonno, e lui ne aveva davvero bisogno. Sul serio, Tas. È sbagliato quello che gli hai detto sul fatto che non sia un Cantore, perché ciò che lui ha scoperto ci renderà famosi e adesso siamo diletti verso l'Enigma in modo che lui possa esserne sicuro. Sarai orgoglioso di noi. Sarebbe stato meglio insieme a te, dice Lim, ma dovre-
mo sbrigarcela da soli "Sei stato meschino a rovinare tutto, dopo che io avevo deciso di portare avanti la gravidanza ed avere il bambino solo perché tu lo desideravi mentre io non lo volevo, e sono davvero infuriata con te." E così ecco quello che gli aveva detto. E quello che gli aveva nascosto. Il desiderio di interrompere la gravidanza, di non portarla avanti. Le lettere del biglietto erano irregolarmente inclinate, come se ci avessero soffiato sopra dei venti variabili. «Ubriachi,» pensò Tasmin in un'ondata di gelida rabbia e di commiserazione. «Lei e Lim sono rimasti al ristorante, a piangere su se stessi, e si sono ubriacati.» Nel lavandino c'erano delle gocce d'acqua scintillanti. Non potevano essere andati via da molto tempo. Andò nel suo studio e frugò in mezzo ai documenti che si era portato a casa per studiarli. La partitura dell'Enigma era sparita. Di certo Lim non lo avrebbe fatto. Senza il minimo dubbio. Per quanto potesse avere bevuto o essersi ingozzato di brou, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non aveva tendenze suicide. Non poteva essersi dimenticato la sua abissale pochezza come Cantore: non avrebbe tentato l'Enigma. Era troppo soddisfatto di sé. Non ci potevano essere dubbi, su questo. Tasmin schizzò via da casa. Era possibile giungere con la vettura a circa quattro o cinque chilometri dall'Enigma, ma il terreno compatto terminava improvvisamente in quel punto. Da lì in poi i viaggiatori proseguivano a loro rischio e pericolo. Controllò con fredda efficienza tutta l'attrezzatura. Le batterie gli garantivano di potere andare e tornare. Nel vano portaoggetti c'era un binocolo da campo standard. Dopo pochi minuti Tasmin aveva già raggiunto i campi coltivati, e si ritrovò in mezzo agli sterminati filari di brou accuratamente sorvegliati. Quindici chilometri, venti. Territorio della BDL. Chilometri e chilometri. La BDL. che controllava ogni cosa, che non avrebbe gradito quell'approccio non autorizzato all'Enigma. E che avrebbe voluto la sua testa se lui avesse rovinato la loro vettura, si disse Tasmin, mettendo bene a fuoco un Minimo Enigma alto un metro e mezzo che era spuntato improvvisamente dal nulla, quasi a lato della strada, a grande distanza dalla sua zona di competenza. A volte quelle dannate cose sembravano crescere nell'arco di una notte! Quando erano così piccole, della classe dei Minimi, non era difficile occuparsene, e qualcuno si sarebbe certamente preso cura di quella. Ma quando giungevano alla dimensione della classe dei Piccoli, la faccenda era molto diversa e assai più
complicata. Poteva già distinguere chiaramente i picchi dell'Enigma. La grande Presenza era biforcata fin quasi alla base, e si ergeva al di sopra della pianura come una minacciosa forchetta a due punte. Altri otto chilometri. Al termine della strada trovò la sua vettura parcheggiata contro la barricata. Sentì il terreno tremare quando vi appoggiò i piedi, e si tolse subito le scarpe, prendendo il binocolo dal comparto. Fin dove avrebbe osato spingersi Lim? Fin dove lo avrebbe seguito Celcy, e fin dove si sarebbe spinto lui stesso? Il mondo fremeva sotto i suoi passi, dimenandosi come il dorso di un mulo alle prese con una mosca cavallina. Voleva che lui si allontanasse, che se ne andasse via. Per di più voleva che se ne andassero anche gli altri. Tasmin si umettò le labbra e proseguì. Erano cinque chilometri di marcia fino alla sommità dalla quale si potevano effettivamente vedere le facce dell'Enigma vero e proprio, piani frammentati di scarlatto acceso, che si confondevano in una parete estesa verso est e verso ovest fin dove era stato possibile giungere, una imponente montagna gemella sfaccettata che si stagliava in mezzo a una foresta sterminata di Piccoli Enigmi, e che torreggiava minacciosa sulle pianure lungo la deserta costa meridionale. Tasmin si arrampicò, poi si fermò, ansimando appena, quindi riprese a salire. Sulla sua sinistra un pilastro di cristallo sanguigno emise un cigolio, poi un gemito, infine tremolò e si schiantò in frammenti. Tasmin gridò mentre un pezzo di cristallo si piantava in una parete a trenta centimetri dalla sua testa. Uno dei frammenti più piccoli dovette ferirlo. Si ripulì il sangue dagli occhi. Altri pilastri si misero a gemere anch'essi. Tasmin controllò il tremito del suo corpo e avanzò. Di certo Celcy non sarebbe andata avanti, non con la paura che aveva delle Presenze. Si sarebbe fermata. A meno di non avere altra scelta. Lim si era sempre preso ciò che voleva. Forse adesso si stava semplicemente prendendo Celcy, perché la voleva. Giunse in cima ad un'alta cresta che sì diramava in direzione est-ovest, dalla quale poteva osservare attraverso un crepaccio la salita successiva. Una faccia allungata di cristallo scarlatto scintillava sulla sinistra del crepaccio e un'altra sulla destra, i picchi gemelli dell'Enigma. Da una certa distanza più avanti, Tasmin sentì una voce... Era Lim, che cantava. Aveva con sé un sintetizzatore portatile, di ottima qualità. Tutto intorno a Tasmin il tremito cessò e cadde la quiete. Si arrampicò disperatamente sulla parete, mani e piedi, trovando lo stretto sentiero quasi per istinto. Qualcosa aveva viaggiato fin là per tenere sgombro
il tracciato. Non persone, qualcosa. La voce crebbe di tono, sempre più sicura. Il terreno era silenzioso. C'era una quiete assoluta. Tasmin si sforzò di controllare il respiro; ogni volta che ansimava gli sembrava che costituisse una minaccia. Poi fu in cima. Il sentiero scendeva serpeggiando fino ad una piccola radura in mezzo alle facce gemelle dell'Enigma. Celcy era seduta su una pietra proprio nel mezzo di essa, pallida ma composta, le mani serrate davanti a sé come per evitare che tremassero, il volto rigido per la concentrazione. Lim era in piedi di lato, con le mani che volavano sul sintetizzatore sistemato di fronte a lui, e cantava, con la testa rivolta verso l'alto. Appoggiata sul leggio del sintetizzatore, la partitura dell'Enigma svolazzava al soffio di un vento leggero. Tasmin si prese la testa fra le mani. Non osò interromperlo. Non osò scendere lungo il sentiero. Non osò chiamare o fare gesti con la mano. Si limitò a starsene immobile, aspettando. In silenzio cantò insieme a Lim. La Petizione e Giustificazione. Dio. quell'uomo aveva talento. Ci volevano almeno tre uomini per ottenere quegli effetti, e lui lo stava facendo da solo, suonando e cantando a prima vista. Anche se aveva impiegato parecchie ore a rivedere la partitura prima di venire lassù, era pur sempre una esibizione quasi miracolosa. Doveva aver preso qualcosa per accelerare i suoi tempi di reazione e per intensificare le sue percezioni. Altrimenti non c'era nessun modo in cui un uomo potesse fare quello che stava facendo lui... «Cominciate a scendere,» li incalzò Tasmin, sempre silenziosamente. «Per l'amor del cielo, cominciate a scendere. Dirigete verso la pianura. Uscite dal suo raggio d'azione.» Gli occhi di Celcy erano enormi, fissi su Lim come se stesse assistendo a un concerto. Attraverso il binocolo Tasmin riuscì a distinguere l'ovale del suo viso, immobile, quasi fosse preda di un incantesimo o fosse stata ipnotizzata. Non sembrava proprio se stessa, soprattutto nello sguardo. Forse Lim le aveva dato un po' della droga che aveva assunto anche lui? Scendi lungo il sentiero, Celcy. Mentre lui canta, scendi giù. O torna su da me. Ma Lim non poteva averle detto di andarsene. Lim non poteva sapere come se la sarebbe cavata cantando, suonando il sintetizzatore e leggendo la musica, tutto nello stesso tempo. Forse Celcy poteva suonare la musica al posto suo. Lim attaccò la Prima Variazione. «Muovetevi,» li implorò Tasmin, mordendosi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. «Oh, per l'amor di Dio, Lim, muoviti, da una parte o
dall'altra.» Lim gli rivolgeva la schiena; adesso le mani di Celcy erano separate, abbandonate in grembo. Il volto era più rilassato. Respirava profondamente; Tasmin poteva vedere il leggero alzarsi e abbassarsi dei seni. Seconda Variazione. La voce di Lim si librò. E L'Enigma rispose! Incapaci di trattenersi, gli occhi di Tasmin abbandonarono le piccole figure umane e si librarono insieme alla voce, lungo i fianchi dell'Enigma, di balza in balza, fremendo della gloria che si manifestava in quel momento. Non aveva mai visto prima una Presenza reagire in quel modo. La luce gli si frammentava addosso da fratture all'interno del cristallo, che sembravano correre dentro l'enorme monolito come fiumi infuocati, rabbrividendo. Sussultando. Un suono appena udibile riportò i suoi occhi verso il basso. Celcy era stata scossa da un sussulto, fissando la torre che li sovrastava, aveva ansimato e si era alzata in piedi. Tasmin udì appena il rumore di quel breve respiro, ma Lim reagì immediatamente. Si voltò, in modo troppo rapido perché si trattasse di una reazione normale, distogliendo lo sguardo dalla musica. Tasmin distinse il volto di Lim mentre rivolgeva a Celcy uno sguardo sfavillante, gli occhi simili a lanterne. Oh. sì. era preso da qualcosa, qualcosa che disturbava anche il suo senso della realtà. Reagendo al movimento di Celcy, Lim abbandonò la partitura di Furz e sì mise ad improvvisare. «Non farlo, Lim!» urlò Tasmin. Il mondo si schiantò rovinosamente, si ridusse in pezzi e vacillò, scagliando i suoi frammenti come dadi impazziti. Tasmin si ancorò al terreno che si sollevava e cessò di avere conoscenza. Il rumore era enorme, troppo forte per sentirlo, troppo mostruoso per crederlo o capirlo. Il movimento dei cristalli sotto di lui e intorno a lui era troppo complesso perché lo si potesse comprendere. Si limitò a restare lì aggrappato come una pulce, aspettando che il tempo infinito passasse. Quando tornò in stesso, il mondo era tranquillo. Sotto di lui la piccola radura non c'era più. Non ne rimaneva nulla. Ciecamente, senza preoccuparsi della sua incolumità, scese giù incespicando fino al punto in cui pensava si fosse trovata la radura. Niente. Un cumulo di frammenti, che riluceva dolcemente sotto il sole di mezzogiorno. Silenzio. Lontanissimo, il suono dei viggy che cantavano. Ai suoi piedi un frammento risplendente, un orecchino di oro e ambra. «Per ricordarmi di lei,» urlò senza voce. «Uno scherzo.» Voleva gridare ma non lo fece. Il mondo rimase tranquillo. C'era di nuovo sangue nei suoi occhi; vide il mondo attraverso una nebbia scarlatta.
Sotto i suoi piedi si sentiva solo un fremito leggero, come se, chiunque vivesse lì. volesse fargli sapere che era ancora vivo. «Me ne vado.» gemette. «Me ne vado.» Così una pulce poteva separarsi da un cane gigantesco. Così un parassita poteva essere incoraggiato ad abbandonare un grande palazzo. «Me ne vado.» Mentre si voltava inciampò su qualcosa e lo raccolse senza pensare. Il sintetizzatore di Lim. Miracolosamente intatto. Tasmin lo mise sotto un braccio e procedette barcollando lungo la cresta, poi giù per gli interminabili pendii fino al punto in cui aveva lasciato la vettura Non un solo pilastro gemette o si frantumò «Uno scherzo,» ripeté a se stesso. «Uno scherzo» Poi fu a bordo, chino in avanti per proteggersi da altro dolore, ansimando in cerca d'aria che non voleva venire, e che non venne. CAPITOLO TERZO Udì la voce di sua madre come attraverso l'acqua, una cosa liquida gorgogliante che poco a poco si trasformò nel suono del suo stesso sangue dentro le orecchie. «Quel tuo novizio? Jamieson? Era in pensiero per te, così mi ha chiamato, e siamo andati a casa tua e abbiamo trovato il biglietto che ti aveva lasciato, Tas.» La mano di sua madre era secca e fragile, eppure in qualche modo confortevole in quel freddo, efficiente ospedale dove i medici si muovevano in mezzo ai novizi della loro arte. «Ha subito organizzato una squadra di soccorso e ti hanno trovato nella vettura, poco fuori dell'Enigma. Eri stato colpito alla testa in modo piuttosto serio. Avevi diverse schegge e altra roba dentro la testa.» Gli aveva sempre parlato così, dicendogli le cose peggiori con una voce calma, priva di paura. «Guarirai presto, hanno detto i dottori.» «Celcy?» aveva chiesto Tasmin, già conoscendo la risposta. «Figliolo, la squadra di soccorso non si è spinta fino all'Enigma. Non potevi aspettartelo, no? Scatteranno delle fotografie ravvicinate al prossimo passaggio del satellite, è il massimo che possono fare.» Stava piangendo, i suoi occhi ciechi stillavano lacrime silenziose. «Non troveranno niente.» «Immagino di no. È andata lassù con Lim. vero?» Lui annuì, travolto dall'ondata di dolore che gli causava ogni più piccolo movimento.
«Non capisco. È una cosa che non avrei mai pensato che facessero, nessuno dei due! Celcy? Con quello che provava nei confronti delle Presenze? E Lim! Non era coraggioso, lo sai, Tas. Piuttosto che lottare scappava sempre via. Sai, quando era un bambino era dolcissimo. Di ottimo carattere, e molto bello! Tutti dicevano che era il più bello fra i bambini. Tu lo adoravi. Voi due eravate inseparabili. Fu verso i dodici anni, quando entrò nel coro della scuola, che in qualche modo cominciò a guastarsi. Non ho mai capito il perché. Gli successe qualcosa, o forse era già dentro di lui, in attesa che accadesse.» «Avevi ragione sul fatto che Celcy non voleva il bambino.» mormorò Tasmin, nuovamente addolorato col riemergere del ricordo. Non era solo Celcy ad essere morta. «Io credevo che l'idea la eccitasse, ma lei proprio non lo voleva.» «Oh, be', figlio caro, io lo sapevo.» disse lei con grande partecipazione. «E lo sapevi anche tu. Una ragazza come lei non vuole mai realmente avere bambini. Era poco più che una bambina lei stessa. Così graziosa e piena di se stessa, piena anche di terribili paure e di orrori. Aveva paura che tu la lasciassi come avevano fatto i suoi genitori. Si aggrappava a te. Non voleva dividerti con niente e con nessuno. Non voleva dividerti con un figlio. Ti voleva tutto per sé. Quando ho letto il suo scritto mi sono chiesta se sarebbe stata capace di andare fino in fondo. Mi dispiace, Tas, ma questa è la verità.» Suonava come la verità. Tutto ciò che sua madre aveva detto era vero, il che rendeva semplicemente la confessione scribacchiata di Celcy ancora più coraggiosa. «Era disposta ad avere il bambino perché io lo volevo. Ha fatto cose per me che nessuno... di cui nessuno ha mai saputo niente.» Respirò a fondo, lasciando che il dolore venisse lavato via. «Quando non aveva paura... non era affatto simile alla Celcy che hai sempre visto. Io volevo che non fosse costretta ad essere così... così dipendente, ma l'amavo. Qualche volta sono stato impaziente, ma spesso era colpa mia. Non ho mai passato con lei il tempo che avrei dovuto, il tempo necessario per farla cambiare. Io l'amavo, davvero!» Gli venne fuori come uno strozzata richiesta di comprensione, e sua madre gli rispose nell'unico modo in cui potesse fargli capire che sapeva esattamente ciò che lui intendeva dire, la voce gonfia di un dolore così grande da mettere a tacere la sua stessa agonia. i «Lo so, Tasmin. Io amavo anche Lim.»
Date le circostanze il Mastro Generale preferì lasciare da parte la disciplina. «Non voglio ulteriori rimozioni non autorizzate di manoscritti. Tasmin. Lo so che si fa spesso, ma c'è una regola che parla chiaro. Non ti si può attribuire esattamente la colpa, ma la responsabilità sì. Sei già stato punito dalla tragedia che ti ha colpito. Aggiungere qualcos'altro sarebbe gratuitamente crudele.» Tasmin tacque per un tempo adeguato. Non era ancora arrivato al punto di poter provare qualcosa. Era certo che sarebbe giunto il momento in cui la verità di ciò che aveva detto il Mastro Generale gli sarebbe apparsa in tutta la sua evidenza. «Mastro.» «Sì, Tasmin.» «Io mi trovavo proprio sull'Enigma quando è esploso.» «Così mi è stato riferito. Hai il diavolo dalla tua parte, Tasmin.» «Sì, signore. Il fatto è, signore, che mio fra... che Lim Terree stava cantando la partitura di Furz. Aveva un sintetizzatore portatile, giurerei che fosse un modello da Esploratore, ed è stato magnifico, signore. È stato davvero in gamba. Non ho mai sentito qualcosa di così...» «Se stai tentando di giustificare...» «No, signore, tu mi hai frainteso. La partitura funzionava. E l'Enigma è esploso solo quando lui ha perso il controllo di se stesso e ha cominciato a improvvisare.» «Funzionava!» «Si, signore. Non c'era il minimo tremito. Ha eseguito la prima variazione ed era a buon punto della seconda quando ha deviato dalla partitura. Se fossero discesi dal lato più lontano se la sarebbero cavata senza un graffio.» Ridacchiò, ricordando il volto di Celcy mentre guardava estasiata il cantante. «Senza un graffio, signore. Proprio così.» Seguì un lungo silenzio. «Sono affascinato, Tasmin. E per dirla in tutta franchezza, sono sorpreso e stupefatto. Ricordo Lim quando era qui, e non avrei mai detto che tutto ciò fosse nelle sue corde. Tua moglie era una ragazza molto attraente. Non potrebbe... ecco, averlo stimolato lei, per così dire?» Tasmin scosse la testa. «No, signore. Le Presenze la terrorizzavano. Non voleva nemmeno guardarle attraverso il telescopio.» «E allora come lo spieghi?» «Non lo spiego, signore. Proprio non ci riesco.»
«Ma la partitura funzionava, era una vera e propria chiave d'accesso.» «Sì, signore. Credo di sì, signore.» «Bene. Grazie per avere portato la cosa alla mia attenzione, Tasmin. Sono sinceramente dispiaciuto per la tua perdita.» «Grazie, signore.» Poi a casa di nuovo. Un congedo per motivi di salute. Vertigini e nausea e una costante sensazione di malinconia. Jamieson faceva un salto da lui tutte le sere per tenerlo aggiornato sulle novità. Un Jamieson stranamente titubante e insolitamente gentile. «James ha abbandonato la Cantoria. Vuole specializzarsi in effetti orchestrali.» «Bene.» «Refnic si trasferirà sulla Sporgenza. Hanno una grossa carenza di Cantori, da almeno... quanti saranno, sei anni? Io credo che molti Cantori abbiano paura dei fanatici Cristalliti. Comunque Refnic sta andando là.» «Buon per lui.» «Clarin rimane a Terrafonda Cinque. Quando finirò il mio anno di noviziato credo che ti piacerà averla con te. Anche a lei piacerebbe lavorare con te. Lo sai, Mastro Ferrence, ha molte qualità.» Era come se Jamieson gli stesse offrendo qualcosa che lui non riusciva a vedere. Tasmin cercò di replicare ma non ne fu capace. A quel punto Jamieson se ne andò. Il sintetizzatore era poggiato sul tavolo dello studio dove lo aveva lasciato la squadra di medici. C'erano anche le foto scattate dal satellite. Il Mastio Generale sapeva che Tasmin avrebbe voluto vederle, anche se non mostravano che un groviglio di cristalli ammonticchiati. Il sintetizzatore era il migliore che Tasmin avesse mai visto, se non proprio un modello da Esploratore qualcosa che gli assomigliava molto. Aveva una specie di circuiti di trasposizione che gli erano del tutto sconosciuti. Ci armeggiò sopra per più di un'ora prima di riuscire a farlo funzionare, e ciò che ne venne fuori fu un guazzabuglio che doveva essersi accumulato nell'arco di settimane o di mesi. La voce di Lim, delle prove, poi di nuovo la voce di Lim che imprecava contro un tecnico. «Accidenti a te, te l'ho detto venti volte che voglio...» Poi ancora: «Stavolta fallo bene o lascia perdere questo lavoro.» Frammenti di musica. Cantoria vera e propria, pura come l'aria. Le im-
provvisazioni di Lim. La partitura dell'Enigma. La voce di Celcy. «... Tasmin ne sarà così orgoglioso! Tutti sapranno chi siamo, non è vero? Tu, e Tasmin, e anch'io.» Poi di nuovo la sessione di registrazione. Ancora la voce di Lim. «Sarebbe logico pensare che dopo tutto questo tempo potrebbero dire qualcosa di significativo ... come sei irascibile ... io mi arrabbio quando non capiscono chi sono...» E alla fine grandi folate di musica, un concerto completo, ore ed ore di musica di Lim, indomabile e trionfale. Quando fu finito Tasmin rimase seduto nel silenzio della casa per gran parte della notte, fissando il nulla. «Non sei stato tu, Tas. Non è stata colpa tua.» La madre di Tasmin piangeva, agonizzando il suo senso di colpa. «In un certo senso lo è stata. Se la partitura dell'Enigma non fosse stata in casa lei non avrebbe potuto darglielo. E se lui non lo avesse avuto, loro non sarebbero andati là.» Le prese la mano e la strinse nella sua, desiderando che potesse vederlo. «Tassy, è stato lui che l'ha chiesta, e lei che gliel'ha data. Tutto ciò che hai fatto tu è stato...» Sua madre guardò nella sua direzione, intimidita dal suo silenzio. «Tutto ciò che ho fatto è stato infrangere una regola. Proprio io, che non facevo che ripeterle quanto fossero importanti i giuramenti. Quello che parlava sempre di onore.» «Ciò che hai fatto è stato commettere un errore, e nemmeno un errore così disonorevole. Tu volevi solo studiare la partitura. È stato solo uno sbaglio, non una faccenda di onore...» «Madre, a me suona come una faccenda di onore. Non riesco a spiegarlo. Io so che non sono colpevole, nel senso che non avevo intenti cattivi. So che non sono colpevole di nulla che sia perverso o detestabile, ma non posso cavarmela così. Se avessi rispettato le regole non ci sarebbero stati errori. Celcy sarebbe ancora viva. E anche Lim.» «D'accordo,» replicò lei, secca, quando l'antica rassegnazione decennale lasciò finalmente il posto a qualcosa di vivo e furente. «E così hai fatto qualcosa di sbagliato. Che Dio ti impedisca di fare mai qualcosa di sbagliato. Possono farlo tutti, ma non tu. Tu sei ben al di sopra degli errori. Sei così dannatamente bravo. E adesso hai intenzione di punirmi perché hai commesso un errore.» Cominciò a piangere sommessamente, con le la-
crime che le scendevano a rivoli lungo il volto, da quegli occhi grandi e ciechi. «Tu sei tutto ciò che mi rimane!» «Il denaro che ricaverò dalla vendita della casa servirà per tutte le tue esigenze,» disse alla fine Tasmin, incapace di opporre al dolore di lei altro che quella fredda consolazione. «Ho sottoscritto una rendita con la BDL e ho scritto a Betuny. Mi ha risposto con l'ultima carovana Sta venendo qui da Armonia. Finché non sarà arrivata uno dei laici della Cittadella si prenderà cura di te.» «Non ci siamo mai frequentate.» «Adesso lo farete. È tua sorella, ed è ben felice di avere un posto in cui vivere dopo che è morto suo marito.» «Lei pensa che io sia pazza.» Lo disse con una mezza risata. «Lascia che pensi ciò che vuole. E io non starò via per sempre.» «Vorrei tanto capire perché devi andartene via.» Tasmin avrebbe voluto dirglielo, ma sarebbe servito solo a confonderla di più, così come confondeva lui, perciò non disse nessuna delle cose alle quali pensava da giorni. Invece mormorò: «Devo sapere perché, madre. Non posso tornare alla mia vita di prima senza sapere perché. Adesso come adesso riesco solo a pormi domande senza risposta. Ti prego... se non vuoi concedermi la tua benedizione, almeno dimmi che va tutto bene.» Tasmin non voleva piangere. Aveva già pianto abbastanza «Va tutto bene,» disse lei, asciugandosi gli occhi sulla manica. «Va tutto bene, Tasmin. Se senti di doverlo fare, penso sia meglio che tu lo faccia. Vorrei solo che ti perdonassi, e dimenticassi. Tutti possiamo biasimarci perché la gente muore. Io l'ho fatto per tuo padre. E per Lim.» «So che è così. Ma questa è una cosa che devo fare, tutto qui.» «Va bene.» Tormentò il fazzoletto fra le mani, stringendolo, poi passandoselo sotto gli occhi umidi. «Accertati solo di portare con te degli abiti caldi. E una scorta di cibo...» Rise fra sé e sé. «Sembravo così... materna. Non ci libereremo mai di tutto questo. Continueremo solo a consumarci.» «Lo farò, madre. Prenderò tutto ciò che mi serve.» Tasmin uscì e salì a bordo della vettura silenziosa, troppo stanco per muoversi subito, pensando ad alta voce tutte le cose che avrebbe voluto dire e che non aveva detto. «Sono sempre stato il tuo bravo ragazzo, madre. Tuo e di papà. Non ho mai posto domande. Ho sempre fatto ciò che mi sì diceva di fare. Se ho infranto qualche regola, si è sempre trattato di regole insignificanti, e l'ho fatto per ragioni che a me sembravano giuste. Ho amato una persona, an-
che se sapevo che lei mi amava in modo diverso. Desideravo un figlio, e lei voleva essere come un figlio, per me. Eppure l'ho amata davvero, e a volte... oh. a volte tutto quell'amore mi tornava indietro centuplicato. E io pensavo che se avessi continuato ad essere buono, la vita sarebbe stata sempre così. Qualcosa di allegro e musicale, qualcosa di tremendo e meraviglioso sarebbe capitato proprio a me. Come il viggy che mi regalò papà quando avevo sette anni, come la medaglia che vinsi a scuola. Come Celcy, quando a volte era in quel certo modo. Qualcosa di gioioso. «E invece c'è questa cosa conficcata nella gola che non riesco a mandar giù. Due persone morte, e non so perché. Una l'amavo, l'altra la odiavo, o forse amavo anche lei, non lo so. O magari era tutto il contrario. Tutto ciò che credevo di desiderare... adesso non lo capisco più... credevo che Celcy fosse tutto per me, eppure non ho mai trovato il tempo per far sì che le cose crescessero fra noi. Credevo di amarla, ma proprio nel momento finale io stavo pensando all'Enigma! Perché? Perché pensavo alla musica invece di pensare a lei? «Che cosa sapeva o pensava Lim, che fosse così importante per lui? Che cosa stava cercando di dimostrare? Che cosa l'ha spinta ad andare con lui? Perché è morta?» «Celcy,» gridò Tasmin come se lei avesse potuto rispondergli, perdonarlo. «Perché, Celcy?» L'Enigma ascoltava, poi ha smesso di farlo. Jamieson ha chiamato uno "scherzo" ciò che hanno fatto i Piccoli Osservatori durante il nostro ultimo viaggio. Stavano ridendo di noi. Forse era davvero uno scherzo. Lim ha detto che sapeva qualcosa, qualcosa che avrebbe scosso Jubal dalle fondamenta... Mise in moto la vettura. C'era una cavalcatura che lo aspettava alla Cittadella. Le cose che avrebbe portato con sé erano già lì, impacchettate dalle stesse mani del Mastro di Viaggio in due sacche da mulo e fissate alla sella di Tasmin. Tutte le provviste di cui un Cantore aveva bisogno per viaggiare da solo, cosa piuttosto rara e sulla quale il Mastro Generale era stato alquanto evasivo, prima di accordargli il permesso. Sul sedile accanto a lui c'era un'altra sacca che Tasmin aveva preparato da solo. C'era dentro il suo olo preferito da Celcy, e il biglietto che gli aveva lasciato, e l'orecchino che l'Enigma aveva risparmiato. C'era anche il piccolo bambolotto viggy. Tasmin non sapeva bene perché lo portasse con sé, a parte che non poteva venderlo insieme alla casa e non sopportava l'idea di lasciarlo libero.
Posò la mano sulla sacca. Sotto il pesante tessuto il sintetizzatore di Lim formava una massa dura e spigolosa. Dentro quella massa c'era un rompicapo, conservato per lui. La musica di suo fratello. Inattesa e gloriosa, non ciò che lui avrebbe pensato che fosse, non una musica che il Lim che credeva di conoscere avrebbe mai potuto creare. L'altro rompicapo era dentro di sé. in un posto dove Tasmin non poteva arrivare, qualcosa che lui doveva toccare, e non avrebbe avuto pace finché non l'avesse toccato... Perché Celcy era andata lì? Nonostante la sua paura? Quale plausibile ragione poteva esserci? E di chi era la colpa? Perché, in fin dei conti, lei e il bambino erano morti? CAPITOLO QUARTO Il fiume Ron scorreva placidamente lungo una dolce valle di suolo compatto che digradava da nord verso Terrafonda Cinque. Nella valle il terreno era ampio non più di un chilometro e mezzo in ogni punto, meno che nella maggior parte dei posti. Lungo il fiume c'erano delle fattorie isolate, con dei campicelli concessi in uso a tipi eremitici molti dei quali impegnati nella ricerca agraria per conto della BDL. Quasi tutti facevano ricerca sul brou, ma qualcuno era impegnato a migliorare l'onnipresente e preziosissimo cespuglio del colono, una pianta indigena che era stata ripetutamente manipolata dai bioingegneri, una pianta da cui dipendevano sia i muli che gli umani durante i lunghi viaggi e della quale, si diceva, si nutrivano anche i viggy ed altra fauna locale. Tasmin venne accolto in modo diverso nel corso del suo cammino, a volte con amicizia altre volte con sgarbo. Rispose ad ogni saluto con la mano alzata e un sorriso remoto. Non aveva voglia di fermarsi a parlare. Non c'era niente di cui parlare. Certamente non del tempo o del paesaggio. Il tempo era com'era sempre in questa parte di Jubal, assolato, virtualmente arido. Quanto al paesaggio, ce n'era ben poco. Il vento cantava sui cavi elettrici che correvano dal bacino idrico a Terrafonda Cinque; il lontano impianto idroelettrico, schiacciato come un mattone caduto, risaltava appena in cima a una collinetta; ogni insediamento era in ottime condizioni di manutenzione. Come una fila regolare di blocchi, con le linee che si incrociavano ad angolo retto. Perfino al Ron erano state raddrizzate le anse più pronun-
ciate, e risanate le sponde. Pochi cristalli. Niente canti. Niente alberi a coda di pavone rivolti verso il sole. Anzi, niente alberi di nessun tipo. Una squadra di demolizione era al lavoro in un punto della strada, intenta a posizionare un pesante cono reticolato sopra un Piccolo che aveva invaso il tracciato. Una scatola da rumore diresse una forte raffica di suono a bassa frequenza contro il cristallo ingabbiato, e il pilastro esplose in mille pezzi all'interno del cono protettivo. Tasmin trascorse diversi minuti osservando la squadra che raccoglieva i frammenti affilati come coltelli e li trasportava a bordo di un camion a qualche centinaio di metri di distanza, in una zona vuota della prateria ben lontana dalla strada. In breve tempo ciascuna scheggia avrebbe generato un Minimo e sarebbe cresciuta una nuova foresta di cristalli. Dal colore di quello distrutto, Tasmin ritenne che potesse trattarsi di un Piccolo Osservatore, probabilmente della zona degli Osservatori Settentrionali. Quella particolare sfumatura cinerina era rara altrove Come fosse giunto fin lì era la domanda che probabilmente si ponevano tutti. Forse un frammento infilato in una ruota o schizzato in un carro. Una gemma scintillante finita dentro una sacca e poi incautamente gettata via Quindi l'umidità della notte aveva dissolto minuscole quantità di minerale nel terreno e il cristallo era cresciuto, ma il fatto che fosse riuscito a raggiungere le dimensioni di un Piccolo senza essere prima demolito era una colpevole svista di qualcuno. Quella cosa era alta quasi quattro metri! A sera Tasmin aveva oltrepassato l'impianto idroelettrico e l'argine, aggirato il lago rilucente e raggiunto la cima della lunga cresta che si levava alle spalle del bacino. Qui la flora era più tipica di Jubal e gli alberi a forma di ventaglio si rilassavano al sole morente nel loro aspetto notturno di fontane. Tasmin si riempì i polmoni di quell'aria debolmente profumata di spezie che amava tanto. Aveva quasi deciso di accamparsi in una piccola radura in mezzo a un boschetto di alberi piumati quando sentì una voce alle sue spalle. «Mastro Ferrence? C'è un campo già pronto da questa parte, signore.» «Jamieson? Che diavolo ci fai da queste parti?» Si girò e vide il ragazzo che stava in piedi accanto a una tenda ad arco, così ben nascosta tra gli alberi che attraversando il boschetto lui non l'aveva affatto notata «Il giuramento del novizio, Mastro.» «Non essere ridicolo! Il giuramento del novizio si applica solo all'interno della Cittadella.» «Non secondo il Mastro Generale, Mastro Ferrence. Egli sostiene che ti
sono ancora debitore di quasi un anno, e perciò dove vai tu vado anch'io. Così dice il Mastro Generale con una certa veemenza.» Il ragazzo aveva l'aria abbattuta, non dimostrava l'abituale sicurezza. «Come facevi a sapere quale itinerario avrei percorso?» «Tu e il Mastro di Viaggio ne avete discusso. Lui lo ha detto al Mastro Generale e il Mastro Generale lo ha detto a me. Sono partito qualche ora prima di te.» «Immagino che sarebbe inutile chiederti di tornare indietro e dire che non sei riuscito a trovarmi.» «Il Mastro Generale mi manderebbe alla tua ricerca. Lo ha già detto.» Il ragazzo si voltò, indicando la pila di legna accanto a lui e la pentola appesa sopra. «C'è un po' di carne fresca.» Tasmin lo seguì, stupito e contrariato nello stesso tempo. Non era certo stata sua intenzione viaggiare in compagnia, e se proprio avesse dovuto averne una, non sarebbe stata quella di Jamieson. Ma era proprio così? «Il Mastro Generale non mi ha detto niente.» «Non voleva discutere con te. Ci ha detto di renderci utili e di non invadere la tua intimità.» «Vi ha detto?» «A me e a Clarin, signore.» «Clarin!» «Sì, signore?» La ragazza spuntò dalla tenda, si toccò il seno in segno di rispetto, e rimase lì in piedi silenziosa, aspettando. «Tu non hai il giuramento del novizio come pretesto,» ringhiò Tasmin, sgomento. Clarin! «Il Mastro Generale ha detto che potevo averlo, signore. Se il tuo viaggio oltrepassa l'anno di Jamieson, allora comincerà il mio.» «Non ho nemmeno mai detto che ti avrei presa come novizia!» «Be', ma non hai detto che non lo avresti fatto, signore, così il Mastro Generale...» Tasmin scosse il capo e non disse altro. Era troppo stanco e troppo colpito per discutere ancora la faccenda. Le schegge nella sua testa avevano scatenato una dissonante pulsazione al solo vedere Jamieson, e lui si domandò perversamente se il Mastro Generale sarebbe stato così generoso con i novizi sapendo l'effetto che essi avevano sulla sua testa ferita. Era stato tranquillo, si era immerso nelle meraviglie di Jubal, e si era abbandonato al suo fascino. E adesso... Dannazione! Si mise a sedere accanto al fuoco e guardò Jamieson e Clarin che si da-
vano da fare nel campo per renderlo più accogliente. Il suo novizio sembrava depresso, e Tasmin era in grado di capirne il motivo. Un viaggio quasi solitario nelle zone più selvagge di Jubal non poteva certo fare presa sulla natura gregaria di Jamieson. Anche se a lui non interessava semplicemente il contatto sociale. Il ragazzo preferiva andare a caccia di ragazze piuttosto che mangiare, ma preferiva anche cantare piuttosto che andare a caccia di ragazze, e quando lo faceva gli piaceva avere un pubblico. Il pensiero del disagio e dell'infelicità di Jamieson riempì lo stesso fastidio di Tasmin con un minimo di partecipazione. Ovviamente, non era stata quella l'idea del ragazzo. Clarin trasportò il mulo di Tasmin verso la coltivazione di cespugli del colono, appena oltre gli alberi. Adesso il mulo avrebbe mangiato; loro invece avrebbero potuto mangiarne più tardi... le radici e gli steli erano in grado di sostentare i viaggiatori umani, anche se nessun metodo di preparazione poteva fare molto per migliorare il sapore. Clarin fece ritorno, lasciando il mulo che ruminava soddisfatto. «Ma perché, in nome di Dio...» borbottò Tasmin. Clarin lanciò un'occhiata interrogativa in direzione di Jamieson, che la evitò accuratamente. «Io credo che il Mastro Generale abbia ritenuto opportuno che tu non restassi solo, signore.» Era rispettosa ma decisa. «Che cosa pensava che avrei fatto? Che mi sarei gettato ai piedi di una Presenza, come qualche novizio isterico o qualche pazzo Cristallita, gorgheggiando fino alla morte?» Jamieson si rifiutava ancora di guardarla. C'era qualcosa che gli nascondevano, ma Tasmin era troppo stanco per approfondire la questione. «Non lo so, signore. Secondo me lui era semplicemente convinto che tu avessi bisogno di compagnia.» Tasmin sbuffò. Non voleva nessuna compagnia. Voleva sprofondare da solo in Jubal. Respirarlo, sentirlo, sguazzarci sopra, come un bantigon in una pozzanghera. Voleva essere solo. Il che non era una cosa sana. Se ne rendeva conto anche nel suo attuale stato di mente. Bene, allora aveva bisogno di compagnia? Certamente in tre si sarebbe viaggiato meglio. C'erano degli itinerari che un singolo cantante poteva percorrere, soprattutto se era un buon cantante... e Tasmin lo era, glielo dicevano i suoi colleghi e il suo stesso senso dei valori. Comunque due o tre cantanti potevano fare meglio, e muoversi più rapidamente. «Il Mastro di Viaggio ha forse rivelato a qualcuno di voi dove avevo intenzione di concludere questo viaggio?» chiese loro rassegnato.
«No, signore.» Jamieson stava scaldando qualcosa sul fuoco, ancora titubante. «La Costa di Terrafonda.» Dove aveva vissuto Lim Terree. Dove lui aveva parlato con la gente, dove aveva lasciato indizi. Il territorio di Lim. «Che cosa?» Jamieson si girò, quasi facendo cadere tutto, senza accorgersi che Clarin gli lanciava un'occhiataccia mentre raddrizzava la pentola e la rimetteva al posto suo. «Non è uno scherzo? Evviva! Ho sempre desiderato andare là!» La sola idea lo aveva improvvisamente ravvivato. «Siamo molto lontani. Sono settimane di viaggio.» «Sì, signore. Lo so.» «Che itinerario seguiremo?» chiese Clarin, agitando la pentola senza guardarla, mentre la luce si rifletteva sui suoi capelli. Le erano cresciuti in piccoli riccioli, notò Tasmin, e lei aveva un aspetto più femminile di quanto ricordasse. Nel suo modo più misurato sembrava eccitata quanto Jamieson. «L'unico sistema per strappare al Mastro Generale l'autorizzazione a partire è stato quello di offrirmi di fare alcuni rilevamenti lungo la strada. Ho con me alcune vecchie partiture che lui mi ha chiesto di verificare. Roba piccola, per lo più. Il Canyon della Sfida. La Strega Maledetta dell'Occidente. La Gola della Follia.» Jamieson adottò la sua espressione intransigente. «I rilevamenti spettano agli Esploratori. E poi nessuno viaggia in quel modo.» «È proprio per questo che non può farlo fare a un Esploratore. Hanno cose più importanti da fare. Per qualche ragione il Mastro Generale vuole che le partiture vengano verificate. Sono dieci o vent'anni che nessuno va più in quella zona. E da almeno cinquant'anni nessuno usa più la chiave d'accesso della Gola della Follia. In effetti per trovare una copia della partitura ho dovuto fare una ricerca a tappeto. Non abbiamo la più pallida idea se le chiavi d'accesso funzionino ancora.» Sembrava poco credibile anche a Tasmin, eppure il Mastro Generale era stato chiarissimo. C'era sotto dell'altro? Tasmin avrebbe scommesso la sua cena che la gerarchia dell'Ordine stava appresso a qualcosa. Jamieson era nuovamente caduto vittima della sua depressione. «Sembra che debba durare una vita,» disse in tono consapevolmente drammatico. «Non una vita. Solo qualche settimana, il che è ciò che ho detto, tanto per cominciare. Un ottimo esercizio per voi due.» «Immagino di sì.» Il ragazzo farfugliò qualcosa fra sé e sé, e Clarin replicò con un borbottio.
«Non mi sembri così contento.» Jamieson grugnì. «Adesso come adesso... mi dispiace Non dovrei parlare di questioni personali.» «Parlane pure.» Tasmin si sdraiò sul sacco a pelo, frugando nella sacca in cerca della fiaschetta di broundy che portava sempre con sé. «Al momento la cosa che mi interessa di più è se Wendra Gentrack sarà ancora libera quando tornerò a Terrafonda Cinque. Ha perso letteralmente la testa quando le ho detto.. le ho detto che dovevo andare via.» «Ah,» mormorò Tasmin. Wendra Gentrack era una ragazza molto socievole. Era la figlia di Jeannie, un'amica di Celcy, e di Hom Gentrack. uno dei dirigenti della Sezione Agricoltura della BDL. «Hai un accordo con lei?» «Avevo qualcosa che consideravo un accordo, sì. Quanto a lei, sembra che le interessi avere tutto ciò che in ogni dato giorno le possa procurare il massimo del divertimento.» «Ho detto a Jamieson che si era sbronzato con il brou,» intervenne Clarin dal suo posto accanto al fuoco. «Wendra è virtualmente priva di cervello.» Jamieson attizzò rabbiosamente il fuoco, tirò fuori il pentolino e preparò tre ciotole. «Adesso sei pronta a mangiare?» domandò a Clarin in tono velenoso. «Riuscirà questa attività a tenere occupata la tua bocca in qualcosa che non sia darmi consigli che non ti ho chiesto?» Oh, magnifico, pensò Tasmin. Proprio quello di cui ho bisogno. Una rivalità fra giovani. Senza nemmeno pensarci, disse: «Esistono relazioni che agli altri sembrano sconvenienti, Clarin. ma che in realtà sono molto gratificanti per chi le vive.» La ragazza arrossì, e lui si rese conto quasi con violenza di quello che aveva detto. Si sentì arrossire a sua volta, ma continuò a tenere i suoi occhi fissi su quelli di Clarin. «È evidente che dovremo viaggiare insieme. E c'è un solo modo, a mio parere, in cui la cosa possa funzionare. Da questo momento voi avete l'identico status di novizi. Mi aspetto un comportamento rispettoso da Cittadella, fra voi due e nei miei confronti. Chiaro?» Essi annuirono. A Tasmin sembrò che Clarin avesse un'espressione di sollievo, anche se forse era più di sommesso divertimento. Divertimento? Per che cosa? Cocciutamente proseguì: «E, Jamieson, io capisco quello che provi per avere lasciato Terrafonda Cinque da poco tempo. Credimi, me ne rendo conto perfettamente. Se ci fosse un solo modo per farlo ti rimanderei indie-
tro.» E continuerò a pensarla in questo modo, si disse con torva convinzione. «Allora, che cosa avete preparato per cena?» Si distribuirono attorno al fuoco con le loro ciotole, un piatto saporito di verdure fresche e cereali serviti con pezzi di carne arrostita. Un vento leggero soffiava alle loro spalle scendendo dal pendio, e portando il profumo di Jubal e il suono dei viggy che cantavano. «Una volta ho avuto un viggy,» disse Tasmin meditabondo. «Per qualche ora.» «Davvero? Non sapevo che fosse possibile catturarli.» «No, è possibile. Solo che in cattività muoiono, tutto qui. Ma questo era un esemplare giovane che fu trovato con le zampe spezzate lungo il percorso della carovana. Qualcuno gliele immobilizzò con delle stecche e lo portò con sé, e il viggy sopravvisse. In seguito lo vendettero a mio padre.» «Cantava?» chiese Clarin a bassa voce. «Non finché è rimasto con me. Avrebbe potuto, ma.. se ne andò.» Vi fu un lungo silenzio, interrotto solo dal rumore della masticazione e dal tintinnio dei cucchiai sulle ciotole. «Mastro?» «Clarin.» «Tu sai che mi sono trasferita da Northwest.» «Sì. Ma non ne ho mai saputo il motivo.» «Oh.» Sembrò cercare una risposta che fosse adeguatamente impersonale. «La mia voce era troppo bassa per molte delle partiture che ci sono lassù. Nove su dieci sono da soprano, e io non sono un soprano. I Mastri hanno pensato che avrei avuto migliori possibilità di impiego stabile dalle parti di Cinque o anche a Northeast, più su di Undici. Fu solo quando giunsi a Cinque che sentii parlare dei Cristalliti. E poco fa tu hai parlato di loro. È vero che vogliono uccidere tutti i Cantori, o è solo un racconto dell'orrore?» «Be', ci fu quel famoso eccidio sulla Sporgenza, circa sei anni fa,» rispose Tasmin. «Sono sicuro che ne hai sentito parlare, anche se allora dovevi essere molto giovane. E non si tratta di una leggenda. Tutti i dodici Cantori che si trovavano nella locale Casa del Capitolo vennero uccisi da una banda di fanatici Cristalliti. La Sporgenza non ha risorse alimentari proprie I Cantori della Sporgenza effettuavano viaggi regolari per trasportare provviste con le carovane, ma c'era stato cattivo tempo e c'era una certa penuria di cibo. Furono uccisi proprio mentre erano sul punto di partire per una spedizione di rifornimento. C'erano un centinaio di persone e quando ten-
tarono di passare attraverso gli Intercettori morirono tutti tranne due. Abbiamo il loro resoconto di quanto accadde, più altri ritrovati sulla Sporgenza, scritti da gente che morì...» «E i Cristalliti?» «Riuscirono a passare illesi. Per quanto mi risulta nessuno ha mai capito come abbiano fatto. Devono essere stati aiutati, questo è certo. Aiutati dall'esterno, in qualche parte. In ogni caso questa fu la prima occasione in cui tutti sentirono parlare dei Cristalliti.» «Io non li capisco!» «Pare che abbiano aderito alle idee di Erickson e le abbiano portate all'estremo in modo ridicolo,» disse Tasmin. «Erickson era convinto che le Presenze fossero esseri senzienti, e con quel termine intendeva consapevoli, capaci di comprensione. Credeva che quando facciamo una PG in realtà ci serviamo di parole significative, anche se quel significato non lo conosciamo. Fu lui a trasformare i Cantori in una specie di ordine religioso - il Venerabile Ordine dei Cantori - e ancora ci rimane molto dell'antico vocabolario religioso e del cerimoniale. «I Cristalliti fecero propria la convinzione che le Presenze fossero esseri senzienti e vi ricamarono sopra. Nel loro schema religioso le Presenze non sono semplicemente senzienti, ma hanno qualità divine. I Cristalliti credono o che la Cantoria è diabolica o che tutti i Cantori sono eretici. Non so esattamente quale delle due. In tutta franchezza la loro teologia non sembra molto consistente o ben meditata. A volte ho la sensazione che due o tre persone l'abbiano semplicemente inventata là per là, senza nemmeno buttare giù una bozza dottrinale. In ogni caso sembrano convinti che parlare con le Presenze sia assolutamente blasfemo, soprattutto così da vicino. Chi lo fa sfida gli dèi i quali, se diventano abbastanza agitati, possono distruggere ogni cosa.» Tasmin le rivolse un sorriso. Detto così sembrava sciocco, ma ai piedi della Torre Nera, con gli occhi verso l'alto, sembrava spesso alquanto ragionevole. «Che vogliono che facciamo, i Cristalliti?» Jamieson rispose con una voce sarcastica, cantilenante. «Vogliono che restiamo sulla Costa, che costruiamo cattedrali, che bruciamo incenso, che cantiamo preghiere tutti i giorni e che facciamo venire pellegrini da tutto l'universo conosciuto. Pellegrini che spendano quattrini solo per guardare le Presenze da un telescopio, o per farsi accompagnare a qualche chilometro da una di esse. Tutto qui.» «Detto con l'abituale disprezzo di Jamieson per la complessità,» lo rim-
brottò scherzosamente Tasmin, «ma sostanzialmente vero. Hanno costruito sul pellegrinaggio un vero e proprio impero commerciale. E, triste a dirsi, pare che sia stata proprio l'emergenza Cristalliti che ha spinto la BDL a rivedere la sua posizione riguardo alle Presenze.» Clarin rifletté su quella affermazione. «Oh, ma certo! Se la gente è veramente convinta che le Presenze siano esseri senzienti, e se anche il Consiglio per lo Sfruttamento Planetario la pensa così, allora probabilmente la BDL perderebbe i diritti di sfruttamento su Jubal. Potrebbe essere espulsa e non credo che la cosa gli farebbe molto piacere. Ma, se la BDL definisce le Presenze come non senzienti...» «Non se,» la corresse Jamieson. «Da quando. Sono cinquant'anni che la BDL sostiene questa posizione. Anche se tutti noi sappiamo che sono..» «Jamieson!» Il ragazzo alzò le braccia, dicendo in tono dialettico: «Be', è così, Mastro Ferrence. Io non conosco un solo Cantore che le ritenga non senzienti. Qualunque cosa dica in pubblico, dentro di sé lui ne è convinto.» «Lui o lei,» osservò Clarin con aria paziente. «Ci sono anche delle donne, lo sai.» Evidentemente non era la prima volta che lo ricordava a Jamieson. Tasmin sospirò. Era davvero disposto ad impegnarsi in quel viaggio, aderendo alla linea della BDL? Voleva quel continuo braccio di ferro con Jamieson? Il quale era, ricordò Tasmin, uno dei cantanti più ricchi di talento che a Tasmin fosse mai toccato di dover plasmare in una forma accettabile. Reb Jamieson? L'eterno ribelle? Che cantava come cantava almeno in parte poiché era convinto che le Presenze ascoltassero e comprendessero ciò che cantava? E Clarin. Che cosa dire di lei? La guardò, ma il suo viso era rivolto verso il basso e lui vide soltanto il profilo levigato della sua fronte e il frenetico lavorio delle mani sui lacci degli stivali. Scelse la pace. «D'accordo Jamieson, dì pure ciò che vuoi in questo viaggio. Dillo a me, dillo a Clarin; lei sembra avere buon senso. Dì pure che la BDL tenta da cinquant'anni di ridefinire le Presenze come non senzienti in modo da non dover correre il rischio di essere espulsa. Dì pure che molti di noi Cantori ed Esploratori la pensano in modo opposto. Dillo qui, accanto al fuoco. Ma non dirlo ad alta voce, per l'amor di Dio. nella nostra Cittadella quando torneremo, o in qualsiasi altra Cittadella dove possiamo fermarci. Non me la prenderò con te. se riuscirai ad essere discreto.» Con sua grande sorpresa si lasciò andare a un enorme sbadiglio. Il ragazzo annuì, il volto color rosso vivo al bagliore del fuoco. «Anche
se tutti sappiamo che sono senzienti, non è la stessa cosa che esserne sicuri. Voglio dire, se qualcuno avesse potuto dimostrarlo, il CSP avrebbe già impacchettato e buttato via la BDL. perciò la BDL farà di tutto perché ciò non accada.» «La BDL significa anche te e me,» disse Tasmin con un sospiro. «Se vogliamo essere onesti, nessuno di noi vuole che questa accada. Perciò cerca di essere il più discreto possibile.» «Non è una forma di ipocrisia?» chiese Clarin sommessamente. Jamieson scosse la testa in direzione della ragazza, in un gesto ammonitore. «È interessante,» rifletté Clarin. «Non avevo mai prestato molta attenzione a tutta questa faccenda dei Cristalliti. A Northwest siamo molto isolati, e siamo più vicini alla costa che all'interno. Però sulla Costa di Terrafonda ci sono alcuni templi dei Cristalliti. Lo so.» «Ce ne sono molti,» confermò sonnacchiosamente Tasmin. «E ci vengono anche molti pellegrini. Affari contro affari. La Brou Distribution Ltd. contro i Cristalliti.» «E noi nel mezzo,» disse Jamieson annuendo. «È ora di dormire,» disse Tasmin alzandosi e dirigendosi verso la tenda fatta di foglie di trifoglio. All'interno i bagagli erano stati separati e sistemati ciascuno in un punto diverso, ed era stata semiabbassata la cortina divisoria. Il sacco a pelo di Tasmin era stato srotolato. La mano di Clarin Clarin? Una persona complessa, pensò Tasmin. Ci voleva una bella dose di coraggio per attraversare mezzo Jubal e venire come straniera in una nuova Cittadella in un'area in cui le donne non erano bene accette come Cantori quanto lo erano a Northeast. Bene. Senza dubbio sarebbe arrivato a capirla fino in fondo Sospirò, si infilò nel sacco a pelo e abbassò del tutto la cortina, ripensando a tutta la questione dei Cristalliti e della BDL. «E noi nel mezzo,» ripeté, intonando la frase di Jamieson come se fosse una specie di preghiera della sera, più che l'invocazione di una problematica verità. CAPITOLO QUINTO La Casa del Capitolo degli Esploratori nel Priorato di Splash Uno compensava con l'eleganza ciò che le mancava in termini di comodità domestica. O almeno così aveva sempre pensato Donatella Furz. Costruita nella
prima entusiastica ondata di sfruttamento del pianeta - molto prima che la BDL si rendesse conto di quanto sarebbe stato limitato l'accesso a Jubal era una sinfonia di legni rari intarsiati con corallo di Jubal, tozze colonne di terra vetrificata ed enormi finestre di vetro molato che davano sul mare e sulla città. La stanza di Donatella ne aveva tre, era un piccolo ambiente che sporgeva su tre direzioni, provvisto di un tavolino elegante e di due comode sedie. Fare colazione in quella specie di veranda era un'esperienza che comprendeva tanto il vedere quanto l'essere visti. Metà Splash Uno sembrava consapevole che fra i suoi cittadini comuni aveva personaggi più o meno famosi, e un buon numero di persone sembrava sapere dove lei abitava. Quella mattina, quando Donatella si era svegliata, sul marciapiede c'erano già cinque o sei sfaccendati in attesa. Si erano radunati di fronte a un edificio fatiscente, che assomigliava per metà a un saloon e per metà a qualche altra cosa, entrambi minacciati da imminente rovina. «Guarda guarda, Don Furz, il Cavaliere Esploratore,» dicevano i loro gesti, anche se non gridavano, cosa che lei apprezzò. Quando si sedette a fare colazione, le stesse persone, o forse dei loro sostituti, erano ancora lì, gesticolando e dandosi gomitate l'un l'altro. In mezzo ad essi, si mise in guardia la donna tra sé e sé, poteva essercene uno con una pistola laser o con una antiquata garrotta o magari con un semplicissimo coltello d'acciaio. L'ultimo aveva avuto proprio un coltello. Donatella lo conservava ancora nella sua valigetta da Esploratore, avvolto in una camicia insanguinata, e sul, braccio sinistro aveva ancora una ferita non del tutto rimarginata che le ricordava il prezzo pagato per un entusiasmo troppo ingenuo. Bevve il suo tè ai baccelli di brou. posò la tazza con la decisione di chi ha finito e si pulì le labbra. Alzati. Sii all'altezza della situazione. Sorridi alla gente. Salutali con la mano. Torna nella stanza in cui in ti possono vedere. Ma non chiudere, ti ripeto, non chiudere le tende. Solo chi ha qualcosa da nascondere chiuderebbe le tende. Perché mai, in nome del cielo, aveva deciso di fermarsi alla Casa del Capitolo? Non si era ricordata che fosse così esposta al pubblico. E perché mai, in nome del cielo, avevano costruito quello stupido Priorato proprio in mezzo alla città? Quando 1" addetto ai servizi venne a prendere i piatti gli rivolse la domanda. «Credo che la città sia cresciuta intorno ad esso, signora. Alcuni degli edifici vicini sono stati costruiti nel corso dell'ultimo anno. Sessanta o settant'anni fa, mi pare, il Priorato era praticamente isolato.» Sistemò il tavo-
lino e diede una rapida occhiata alla stanza. Mentre se ne andava si fermò sulla porta per dire: «A proposito, ho il compito di chiederle se ha qualche desiderio particolare durante la sua visita. Un cibo, una bevanda, un divertimento particolare?» Donatella sapeva che il genere di lavoro di quell'uomo includeva divertimenti di svariato e ben specifico tipo ma. nonostante fosse una persona ricca di fascino e di intelligenza, a lei non interessava se non come fonte d'informazione. Se proprio avesse avuto bisogno di avvalersi delle prestazioni sessuali di un addetto, avrebbe scelto Zimmy. «Che ne dici di un concerto?» gli domandò, in apparenza riuscendo questa volta a convogliare il suo consueto entusiasmo pericolosamente naif, anzi servendosene a suo vantaggio. «Chantry o Pit Paragon... uno dei due.» Gli rivolse uno sguardo ansioso di attesa. «Non è considerato...» L'uomo aggrottò la fronte, mentre il suo viso decisamente bello esprimeva una disapprovazione accuratamente mescolata a un adeguato grado di ossequiosità, con il petto appena proteso verso di lei, ad offrire in modo impeccabile rispetto e buoni consigli. Oh, era in gamba, il tipo. «Al diavolo, uomo, so bene com'è considerato. Una disonorevole scorreria, giusto? Una cosa poco dignitosa? Perché un Cavaliere Esploratore dovrebbe ascoltare qualche rivoluzionaria scopiazzatura della sacra vocazione?» L'uomo fece una smorfia, e a lei piacque improvvisamente di più. «Stammi a sentire, come ti chiami?» «Blanchet, signora.» «D'accordo, Blanchet, noi non daremo scandalo agli indigeni apparendo in pubblico così come siamo. Oggi farai la spesa per me. Comprami una parrucca. Vediamo... qualcosa di rosso, direi.» Si girò per cogliere un'occhiata rapida di se stessa nello specchio, ravviandosi con una mano la massa bionda e rigonfia di capelli tagliati corti. Occhi azzurro scuro. Naso diritto, che lei aveva sempre considerato un po' troppo lungo. Il fatto di doversi continuamente arrampicare aveva mantenuto snella la sua figura, o quel che se ne vedeva. Con una parrucca rossa poteva cavarsela tranquillamente. «Portano ancora le maschere negli spettacoli pubblici, da queste parti? Bene, compramene una piccola che mi nasconda gli occhi e il naso. E un vestito. Ho bisogno di un vestito di un blu vivace.» Adesso l'uomo rideva apertamente. «Quale misura, signora?» «Uno di quegli affari avvolgenti, con le fascette adesive che lo tengono
fisso. Sono di misura unica, capisci ciò che intendo? Elastici quanto basta e se occorre facili da sfilare.» L'uomo annuì. «È tutto, signora?» «I biglietti per il concerto. Andrà bene uno qualsiasi dei sei grandi, e dovrai tenere la bocca ben chiusa, se ti è permesso farlo. Non c'è nessun motivo di disturbare il tuo Priore o il mio... o il Re Esploratore.» «So essere discreto.» «Se lo sarai mi troverai molto generosa.» Lui si inchinò e se ne andò con i piatti della colazione, quasi certamente diretto a fare rapporto a qualcuno del Dipartimento dell'Esplorazione. Forse al Priore locale, il quale era certamente interessato a conoscere che cosa passasse per la testa di quel cavaliere in visita. Che facesse pure rapporto: il Cavaliere Esploratore aveva una predilezione per la vita notturna; il Cavaliere Esploratore voleva un vestito nuovo; il Cavaliere Esploratore non voleva essere riconosciuto. Tutte cose appena a margine delle convenzioni, e tutte cose perfettamente innocue. Le convenzioni avrebbero richiesto che lei sfilasse in una processione rituale, vestita con stivali alti e abito di pelle consumato da Esploratore, evitando spettacoli discutibili e firmando autografi con un sorriso leggermente distaccato. In teoria avrebbero dovuto sospettare maggiormente di lei se fosse stata più ortodossa. Di certo qualcuno che avesse intenzione di tradire non si sarebbe messo in ghingheri per il concerto di un cantante della Costa. Digrignò i denti per la concentrazione. Dal momento che qualcuno aveva tentato di ucciderla lei doveva presumere che tutto ciò che faceva fosse controllato, e che tutto ciò che diceva fosse ascoltato. Stabilire il contatto toccava al suo amico fidato. Tutto ciò che lei doveva fare era trovarsi in pubblico, in modo che l'incontro potesse svolgersi senza dare nell'occhio. La Casa del Capitolo sarebbe stata tenuta d'occhio in attesa del segnale convenuto: una parrucca rossa e un vestito blu. Volesse Dio che il suo amico fidato avesse organizzato ogni cosa secondo i piani. E volesse Dio che si fosse accordato con Lim Terree. Quando giunse la sera decise che quella parrucca rossa le piaceva, perché ispirava un'allegria quasi temeraria, in nessun modo diminuita dalla maliziosa mezza maschera con le sopracciglia piumate. Quanto al vestito blu, che le aderiva perfettamente, anche quello era un successo, perché distoglieva l'attenzione dalla sua faccia. Naturalmente Blanchet l'avrebbe accompagnata. I Cavalieri Esploratori, maschi o femmine, avevano sempre almeno una persona di scorta quando si trovavano nelle grandi città costie-
re, se non altro per tenere a bada i cacciatori di celebrità. Se lei e Blanchet erano fortunati sarebbero stati scambiati per una delle tante coppie in giro per la città, turisti di Serendipity o magari addirittura di fuori sistema: oppure funzionari minori della BDL provenienti da qualche lurida città di una delle sacche di Terrafonda. Avrebbero cenato, visto gli spettacoli, seguito il concerto e avrebbero fatto ritorno alla Casa del Capitolo. Dove lei avrebbe o no invitato Blanchet a dividere il proprio letto per la notte Era un uomo abbastanza attraente, ma non era Link. E non era nemmeno Zimmy. Si versò un drink e si mise a sedere sul divano situato di fronte alle stravaganti finestre, sufficientemente arretrato da impedire che la potessero vedere. Adesso all'esterno c'erano almeno dieci curiosi. Tutti con lo sguardo fisso verso l'alto come ipnotizzati. Fra pochi minuti lei si sarebbe affacciata alla finestra, li avrebbe salutati con la mano e avrebbe detto: «Salve, come va? Gran bella serata, non è vero?» Tenendo d'occhio qualsiasi movimento nella sua direzione, qualsiasi arma. Qualunque cosa che potesse celare un altro assassino. Anche se non era detto che ce ne fosse un altro. Non ancora. Chiunque avesse inviato il primo assassino poteva non essere stato informato che l'aspirante omicida era morto. Per quanto ne sapeva il mandante l'assassino poteva essere vivo e vegeto, e pronto a tentare di nuovo. Riuscì a dirsi quella frase, "tentare di nuovo", con la massima calma, quasi senza paura. Fu solo dopo, quando sviluppò il pensiero in "tentare di nuovo di uccidere Don Furz" che lo stomaco le si contrasse e un rigurgito di bile le bruciò la gola. "Tentare di nuovo di uccidere Don Furz perché Don Furz sa qualcosa che non dovrebbe sapere". Non che avesse fatto nulla per venirla a sapere. Se ne stava seduta nella grande biblioteca sotterranea della Casa del Capitolo, tre piani più in basso di dove si trovava adesso, e studiava alcuni vecchi documenti in cerca di materiale sulla Gola della Follia. Il suo Priore riteneva che potessero esserci alcuni commenti dei primi Esploratori in grado di suggerire un nuovo metodo di approccio. Al momento la Gola era insuperabile, e la BDL voleva renderla superabile. Così Donatella Furz, che credeva di ricordare di aver letto qualcosa sull'argomento diversi anni prima, si era immersa in quelle carte polverose e in quella corrispondenza incomprensibile: si annoiava a morte, non faceva che sbadigliare e non vedeva l'ora di andare a mangiare. Stava scorrendo il carteggio fra un Esploratore virtualmente dimenticato del terzo decennio e il suo Priore quando
si era imbattuta in una pagina vergata con una scrittura del tutto diversa. L'ennesimo sbadiglio le era morto a metà, mentre fissava incredula il documento. Non aveva avuto bisogno di leggere la firma per sapere di chi si trattava: Erickson! L'aveva vista riprodotta migliaia di volte, e aveva anche letto quella scrittura centinaia di volte, alla Biblioteca Erickson di Northwest City, una biblioteca che si supponeva conservasse ogni frammento sopravvissuto del materiale originale di Erickson. E invece eccola lì, una lettera autografa del maestro! Ovviamente era stata archiviata per errore ed era rimasta lì, non letta, per oltre settant'anni. Archiviata per errore da chi? La lettura della lettera aveva chiarito il mistero. Dallo stesso Erickson. Era una lettera indirizzata al futuro, concepita in termini così sottili ed evasivi che solo un Esploratore - per di più uno con una particolare disposizione mentale - era in grado di comprenderla. Accennava a delle eventualità che Donatella Furz trovò sbalorditive nelle loro implicazioni. «Ho già trattato di questa materia.» si concludeva la lettera. «Vedi i miei documenti sul Deserto Tremante, archiviati nella Casa del Capitolo del Priorato di Northwest.» Era la sua Casa di appartenenza. Completata fruttuosamente la ricerca sulla Gola della Follia, troppo eccitata per soffermarsi ancora su di essa, Donatella era tornata a Northwest City e aveva trovato i documenti di cui parlava Erickson. Aveva dovuto fare qualche ricerca perché non erano inclusi affatto nel materiale di Erickson. Si trovavano invece sepolti in mezzo a uno sterminato elenco di permutazioni usate nel Deserto Tremante, un'area del tutto fornita di chiavi d'accesso da almeno ottant'anni e che quindi non rivestiva più nessun interesse. «Sepolti nella noia,» si era detta. «Erickson ha scelto due luoghi ignorati per decenni da tutti e li ha nascosti là.» Gli appunti relativi erano stati presi su due pagine di permacarta. Donatella li aveva ripiegati e nascosti nella fodera della giacca, poi aveva trascorso ore ed ore a studiarli nell'intimità della sua stanza. Aveva portato via le carte con la sensazione di salvarle, anche se il protocollo avrebbe richiesto che ne facesse immediatamente menzione al Priore. In seguito aveva approfondito i motivi del suo comportamento, scoprendo diverse cose che la avevano disturbata, ma giungendo infine alla conclusione di essere convinta che esse sarebbero state più al sicuro in suo possesso che al Dipartimento dell'Esplorazione. Si era comunque premurata di lasciare altre innocue carte nella sua stan-
za per spiegare i motivi del suo studio, nel caso qualcuno la tenesse d'occhio, o si ponesse delle domande. Erickson non si era aspettato che il suo eventuale lettore gli credesse in assenza di prove. In effetti alla fine diceva: «Se vuoi verificare questa teoria, fai questo e questo con qualche Presenza priva di chiave d'accesso. Se lo fai bene, capirai che cosa intendo dire.» Don aveva scelto di tentare con l'Enigma. Ci avevano provato tutti, compreso il suo mulo preferito, ed era praticamente impossibile ottenere il permesso di avvicinarsi. Aveva impiegato sei mesi prima di riuscire ad abbordare l'Enigma dalla costa meridionale. Aveva fatto ciò che suggeriva Erickson... e anche di più! Aveva fatto ritorno con i cubi registrati e con gli appunti per la partitura dell'Enigma, stordita ed eccitata per quanto aveva appreso. Erickson aveva scoperto appena la metà della cosa. Se avesse avuto un sintetizzatore come quelli attuali... Aveva tenuto l'informazione per sé, vantandosene. Solo Donatella Furz conosceva l'intera verità, la verità su Jubal. Nessun altro la conosceva. Nessuno! Solo più tardi si era resa conto che in settant'anni poteva esserci stato qualcuno che sapeva o sospettava, ma in quel caso era stato brutalmente eliminato... se ne era resa conto solo dopo che qualcuno aveva cercato di ucciderla. Al suo ritorno aveva fatto in modo di far pervenire gli appunti sull'Enigma a una Cittadella di Cantori perché venissero trascritti e orchestrati: li manderò a quell'uomo di Terrafonda Cinque, si era detta. A Tasmin Ferrence, il Cantore che aveva realizzato la grande partitura della Torre Nera. Poi aveva accennato al Priore della sua Casa del Capitolo che c'era la possibilità di una grossa scoperta, ma lo aveva tatto con la dovuta circospezione, in un linguaggio pieno di "forse" e di "potrebbe essere". Aveva fatto tutte le mosse giuste nel giusto ordine; nessuna di essere avrebbe dovuto suscitare il minimo sospetto. Se solo fosse riuscita ad andare avanti così! Ma quali che fossero i suoi movimenti, e per quanto si schermisse ogni volta che qualcuno si congratulava con lei, non riusciva a tenere a freno la sua euforia Dentro di sé ribolliva per ciò che sapeva, per ciò che pensava, per ciò che voleva dimostrare, che aveva già dimostrato. Non era stata così sciocca da parlarne con tutti - si trattava chiaramente di un'informazione che qualcuno aveva tutto l'interesse a sopprimere - ma non era nemmeno stata così accorta da riuscire a nascondere del tutto la sua eccitazione. Chi avrebbe potuto notare quell'eccitazione?
Gli Esploratori Martin e Ralth. una sera mentre erano a cena con lei. «Toccatemi, ragazzi, perché verrà un giorno in cui racconterete in giro di avermi conosciuta prima che diventassi famosa.» «Che cos'hai fra le mani, Don?» aveva chiesto Martin, con l'aria annoiata. «Un'altra nuova variazione per il Deserto Strisciante? Non abbiamo già abbastanza variazioni per il Deserto Strisciante?» «Molto di più,» aveva detto lei con una risata. «Molto di più.» «Hai una partitura per il Bastione di Gemme che funziona veramente,» aveva buttato lì Ralth. «O un itinerario infallibile per attraversare le Pazzie.» «Perché no?» aveva ribattuto lei con una risatina. «Quale dei due?» «Perché non entrambi? Perché non tutto?» Si erano messi a ridere senza crederci. Avevano ordinato dell'altro vino. I tre Esploratori avevano riso e discusso e si erano congratulati per la partitura dell'Enigma. Be', che altro aveva detto quella notte? Niente, assolutamente niente. Una frase un po' spaccona. «Perché non tutto?» C'era stato abbastanza in quella conversazione da far venire a qualcuno l'idea che Donatella Furz sapesse qualcosa che sarebbe stato meglio non sapesse? Non proprio. Si poteva giustificare tutto con l'eccitazione. Anche una partitura mai collaudata per una Presenza famosa come l'Enigma poteva contribuire sensibilmente alla sua notorietà. In effetti non aveva detto proprio niente. Con chi altro aveva parlato? Con Zimmy. Un addetto ai servizi. Un uomo della Casa del Capitolo di Northwest. Non dissimile da questo tipo, questo Blanchet, solo che Zimmy apparteneva a Don. Era solo suo, continuava a dire lui, e lo era ormai da diversi anni, desideroso di compiacerla, abile nel soddisfare i suoi bisogni di comodità e di affetto. Zimmy. Ripensò a lui con orgoglio e con piacere. Che cosa aveva detto a Zimmy? Niente di particolare. «Oh, Zimmy. se sapessi quello che so io.» Qualcosa del genere. Lui non le aveva nemmeno prestato troppa attenzione. Chi altro? La donna di Northwest City che di solito le tagliava i capelli. Don aveva la testa china in avanti mentre la donna le depilava la parte posteriore del cranio, con un taglio molto alto in modo che il caschetto di capelli biondi finisse proprio sotto le orecchie. «Ma come fai?» chiacchierava la donna. «Tutta sola in mezzo alla Presenze. Io me la farei sotto dalla paura, davvero, signora cavaliere, me la farei sotto.» «Non è così pericoloso come la gente pensa.»
«No, lo è di più, So che deve esserlo. Sentire i Grandi che parlano, e tentare di pacificarli. Oh, è terribile, signora cavaliere, proprio terribile.» L'uso della definizione "i Grandi" da parte della donna avrebbe dovuto mettere in guardia Donatella. Era quella usata dai Cristalliti per riferirsi alle Presenze, ma Don semplicemente non ci aveva fatto caso. «Non ci vorrà molto prima che siamo tutti in grado di muoverci senza pericolo in mezzo alle Presenze. Manca davvero poco.» Don aveva rialzato la testa, vedendo l'immagine di se stessa e quella della donna riflesse nello specchio. «Oh. tu pensi a qualche grande scoperta? A qualche meraviglia?» La donna la osservava nello specchio, gli occhi neri che scintillavano per qualcosa di avido e disperato. A quel punto Donatella si era resa conto di ciò che stava dicendo, e aveva deviato subito il discorso. «No, nessuna scoperta, nessuna meraviglia, Sophron. Il semplice accumularsi della conoscenza..» Con chi altro aveva parlato? Chase Random Hall, il Re Esploratore. C'era qualcosa che lei aveva detto, nel refettorio della Casa del Capitolo, in quel momento informale del giorno in cui tutti si trattavano confidenzialmente, c'era qualcosa che poteva essere stata interpretata come qualcosa di veramente minaccioso? «Randy, pensi che verrà mai un giorno in cui tutti noi saremo senza lavoro?» «Modera il tuo modo di esprimerti, sciocchina. Non essere oscena.» «No, voglio dire non sarebbe tremendo se trovassimo la Chiave d'Accesso? La "Chiave d'Accesso" era l'apoteosi di Jubal e lo era da almeno un secolo. Qualcosa come "il Millennio" o "il Secondo Avvento", una fine terribile che si diceva devotamente auspicata da alcuni, la singola partitura che avrebbe aperto ogni passaggio e consentito di viaggiare liberamente dovunque. «Penso che sia un'idea disgustosa, e gradirei che non venisse più sollevata in mia presenza.» Randy era stato effeminato in gioventù e lo era ancora, ma i suoi successi non potevano essere messi in discussione. Adesso si lisciò i baffi elegantemente acconciati e le rivolse il suo miglior sorriso del tipo mostro-che-divora-una-ragazza: occhi accesi in un viso scurissimo con i denti terribilmente bianchi, denti che ti facevano vacillare le gambe anche quando ti facevano tremare, pregustando baci voraci. Erano inevitabili, quei denti, come la morte. «Ti piace vivere pericolosamente, stupida ragazza?» «È pericoloso fare speculazioni sulla Chiave d'Accesso?» Lo aveva detto
in tono casuale, senza il minimo dubbio. «Una piccola speculazione oziosa qui nella Casa del Capitolo, davanti a un bicchiere di vino, forse no. Qualsiasi altra lo è decisamente. Bastava che ci riflettessi un attimo, se sei capace di riflettere. Pensaci, sciocchina. Se tu avessi la Chiave d'Accesso, ci sono almeno venti persone di cui posso farti il nome che ti ucciderebbero perché il segreto non venga divulgato.» Lei si era resa conto in quel momento di aver cambiato faccia, e di avere espresso un senso di orrore, al ricordo. Persone che l'avrebbero uccisa! Le era tornata alla mente la sua amica Gretl Mechas. Anzi, il corpo di Gretl come lo aveva visto quando aveva dovuto identificarlo. Nel ricordarlo aveva distolto lo sguardo. Ne aveva abbastanza di quella conversazione. Poi invece lui le aveva chiesto: «Verresti a letto con me, Donatella?» «Io sono a disposizione del Re Esploratore.» aveva detto lei, rigidamente, rifugiandosi in una risposta di convenienza. Era una mossa inattesa. «Senza troppo entusiasmo, vero?» «Io... ho altri affetti, Randy.» «Lo sappiamo tutti. I tuoi affetti sono la chiacchiera della Casa e sono molto indegni di te. Ma visto che parliamo di pericoli, stupidina, che novità ci sono sulla Gola della Follia?» E così avevano parlato di lavoro, mentre lei gli esponeva in dettaglio i suoi tentativi di trovare una chiave d'accesso per attraversare la Gola, prima di affrontare altri argomenti. Perché aveva accennato all'idea di andare a letto insieme? Tutti sapevano che Randy preferiva gli uomini, benché avrebbe tranquillamente posseduto anche una donna, se ne avesse avuto un tornaconto. Aveva forse ritenuto che lei potesse essergli utile? E tuttavia non utile abbastanza? Aveva fatto una mossa falsa quando aveva parlato di uomini che uccidono altri uomini? Era interessato a vedere la sua reazione? O era solamente un modo molto efficace per cambiare argomento? Era stata una conversazione strana, molto strana. Con la sua memoria bene addestrata a ricordare le parole e le frasi esatte, i toni e le sfumature precise, era in grado di ricostruirla nella mente nei minimi particolari, ma non aveva più senso adesso di quando ne avesse avuto allora. Le sue riflessioni vennero interrotte da qualcuno che bussava alla porta. Entrò Blanchet, ricoperto fino alla punta dei piedi da un abito a lustrini in un solo pezzo, con un cappello di piume e una catena multipla di coralli di Jubal intorno al collo. Donatella fece un fischio di compiacimento. «Sei stupendo.»
«Quel poco che posso fare non sarà mai abbastanza, signora.» Le rivolse uno sguardo ammirato. «Questo completo ti sta benissimo.» «Purché non diventi tutt'uno con me,» replicò lei ridendo. «Dopo esserci entrata potrebbe essere difficile uscirne. Il completo e io potremmo diventare inestricabili. Sarà meglio che questa sera non mi chiami Don. Potrebbe rovinare la nostra marachella. Chiamami Tella. Mio fratello mi chiamava sempre così.» «Molto bene, Tella. Il mio nome è Fyne Iron Blanchet, e i miei amici più intimi mi chiamano Fibe. O Fibey.» «Fyne Iron?» «Sono entrambi nomi di famiglia. Non credo che mia madre si sia nemmeno mai domandata che cosa significhino.» «Be', suona quasi... metallurgico.» «Infatti mi sono sempre sentito così.» Le offrì il braccio e tutti e due scesero con l'ascensore fino al livello del terreno, dove una vettura cittadina li attendeva. I curiosi erano ancora intendi a guardare la sua finestra. Nessuno di essi sembrò fare caso a lei. «Guido io?» «Ti prego. Tu conosci Splash Uno molto meglio di me. Non fa che crescere! Ogni volta che sono venuta mi sono sempre irrimediabilmente perduta.» Lui si adeguò all'umore di Donatella, non parlando semplicemente per fare conversazione ma concentrandosi sulla guida. Splash Uno era cresciuta in modo esplosivo negli ultimi mesi, a tal punto che la concentrazione era diventata una necessità. Lei si trovò ad osservare una città grezza e goffa nella sua fiorente adolescenza. Metà delle strade erano interrotte da scavi, l'altra metà bloccate da barriere, anche se nessuno sembrava preoccuparsene minimamente. Nuovi, rigidi palazzi di mattoni rinforzati, dagli angoli squadrati, si ergevano a fianco di quelli vecchi curvilinei, di terra compatta, e il marrone bruciato dei secondi strideva con il grigio pallido dei primi. I vecchi edifici erano pieni di insegne che pubblicizzavano divertimenti, attrezzatura usata, abiti nuovi e di seconda mano, appartamenti, camere in affitto. La maggior parte del personale di stanza nella vicina base militare appena fuori dalla città aveva dipendenti che risiedevano qui a Splash Uno, e lo spazio a domicilio era assai richiesto. Gli edifici più nuovi erano tappezzati di piccoli cartelli indicatori sugli ingressi: uffici governativi, dipartimenti della BDL, agenti commerciali, rappresentanti di fornitori, laboratori di ricerca. Ogni marciapiede straripa-
va di gente, da ogni finestra si sporgevano almeno un paio di persone che salutavano e parlavano con quelli che si trovavano in strada. Alcuni di questi erano impegnati in un commercio inequivocabile, e Don sgranò tanto d'occhi, allibita. «Prostitute?» domandò, spezzando il suo silenzio preoccupato. Su Jubal non c'erano mai state prostitute. Almeno non se ne erano mai viste in pubblico. Blanchet annuì. «Importazioni recenti. Dicono che qualcuno molto in alto ha pagato.» Non ebbe bisogno di specificare chi fosse quel qualcuno. La voce che circolava fra gli impiegati della BDL era che il Governatore avesse le mani dappertutto, il che era irritante. Si supponeva che i governatori nominati dal CSP fossero irreprensibili, e c'era da domandarsi fino a che punto fosse arrivato il marcio. In fondo a una stradina laterale si profilava un palazzo che brillava come oro e che culminava in un'alta cupola elaborata e tondeggiante. Attraverso le sue enormi porte entrava e usciva una marea di persone. «E quello che diavolo è?» chiese Donatella, piegandosi per vedere al di sopra della spalla. «Il Tempio dei Cristalliti.» «Ma è immenso!» «È immenso e ce ne sono almeno altri quattro come quello lungo la Costa. Ancora non ne avete, a Northwest City?» «No. E spero proprio che non ne avremo mai. Da dove tirano fuori tutti quei soldi?» «Dai pellegrini. Dalle offerte. Se non hai mai visto uno dei cubi evangelici che la gerarchia dei Cristalliti manda in giro ti sei persa davvero qualcosa. Tutto molto ben congegnato, Tella. Il denaro affluisce a fiumi. E quelli che stanno in alto sono molto diversi da quelli che vedi scorrazzare lungo le strade. Gli assassini, i fanatici, e i ribelli sono un manipolo di straccioni, ma quelli che si occupano dei templi sono tutt'altra cosa. Gente raffinata. Dovresti vederli.» La sua bocca si ridusse a una linea fredda e risoluta. «Be', allora vediamoli. Non abbiamo fretta, no?» Blanchet le rivolse un'occhiata sorpresa, ma obbedì e fermò la vettura, accompagnando Donatella a piedi verso il cortile del Tempio. L'area pavimentata era affollata da gruppetti di pellegrini, ciascuno dei quali portava un nastro arancione annodato che identificava la sua posizione; ogni gruppo era accompagnato da una guida che indossava una tonaca molto sobria.
Senza dare nell'occhio Blanchet si accodò insieme a Donatella ad un gruppo sparpagliato che seguiva all'interno della grande struttura quelli che avevano il nastro arancione. Solo con difficoltà Donatella riuscì a trattenere un'esclamazione. Attorno a loro c'erano dei pilastri giganteschi, altissimi soffitti a volta e fontane abbaglianti di luce e di fumo. «Ma da dove prendono tutta questa roba?» domandò in un bisbiglio. «Come fanno a procurarsi questo genere di materiali quando noi siamo a corto di forniture mediche e di oggetti elementari come computer o ascensori?» Blanchet si baciò il palmo in un gesto di derisione e lei lasciò perdere. Evidentemente avevano corrotto qualcuno. Perché mai se ne sorprendeva? Si voltò quando Blanchet le diede una leggera gomitata, indicando in modo discreto tre figure che avevano appena raggiunto una piattaforma sopraelevata in cima a un'ampia scalinata. Due uomini e una donna Gli uomini potevano essere fratelli, entrambi con vistose criniere di capelli bianchi, alti e ben piazzati, vestiti con abiti sfavillanti a strisce verticali e con in testa delle corone a cupola. La combinazione di abbigliamento e posizione li faceva sembra alti almeno tre metri e mezzo. La donna, d'altro canto, era anche lei vistosa in tutt'altro senso. I suoi seni erano esibiti sotto sfolgoranti collane di pietre preziose, e la sua gonna lavorata sembrava intessuta di fili d'oro: si portava dietro il lungo strascico come il corpo di un grosso serpente. Anche lei aveva una corona e delle piume. «Chantiforfh Bins e Myrony Clospocket,» le disse a bassa voce Blanchet. «Fratellastri, per quanto ne so, con una lunga ed ambigua storia alle spalle. Adesso Supremo Pontefice e Alto Sacerdote. Lei è l'Alta Sacerdotessa, Aphrodite Sells. Tutti e tre costituiscono il vero potere occulto dei Cristalliti di Jubal.» «Costituiscono anche il potere dietro gli omicidi? E dietro il terrorismo?» «Sostengono di no. Anche se dicono di "comprendere" la frustrazione che porta i loro seguaci a commettere atti del genere.» Sull'alta piattaforma la donna scintillante pronunciò una breve frase, e la congregazione tacque immediatamente. Aveva una voce affilata come un coltello, e tagliente come una scheggia di cristallo. Don osservò per un poco le tre figure splendenti che avevano dato inizio a un rituale ovviamente familiare alla maggioranza dei presenti, i quali stavano urlando le risposte con grande vivacità. «Ho visto abbastanza,» disse poi. «Andiamocene via di qui.»
Tornarono alla vettura senza dirsi una parola e ripresero il giro interrotto, oltrepassando il mercato agricolo, un'animata enclave di camion, carri per muli, file di bancarelle piene di prodotti, venditori di macinati, acquirenti e semplici curiosi, il tutto a formare una calca vorticante e rumorosa. Dalla parte opposta del mercato c'erano i chioschi del pesce, una lunga fila di baracche proprio di fronte agli stagni recintati delle locali industrie ittiche, che emanavano un intenso odore di mare. Oltre gli stagni si vedevano gli alberi maestri ondeggianti della flotta mercantile. Don fece un'osservazione sul numero delle imbarcazioni. «Ci sono più navi private che della BDL!» Blanchet annuì solennemente. «La BDL non è più l'unica potenza di Splash Uno e Due. Almeno così si dice da queste parti. Più della metà del traffico dell'anno scorso è stato di carattere non commerciale. In gran parte militare, più tutto il movimento dei pellegrini. Hanno dovuto aggiungere del personale nell'ufficio del Governatore.» Don fece per dire: «Ma è stupido, lui non fa niente,» poi ritenne opportuno astenersi. Il suo amico Link era stato assunto proprio in quell'ufficio. Si limitò a chiedere: «Perché?» «Per il Massacro della Sporgenza.» «Ma è successo sei anni fa!» «Be', lo sai quanto impiega il Consiglio per lo Sfruttamento Planetario a mettersi in moto.» «Non mi risulta che il CSP si sia mai messo in moto. A quanto ne so si limita ad esistere basta, come le Stelle del Nucleo.» Poteva dirlo senza temere, perché era ciò che pensava molta gente. «Il fatto è che quel massacro li ha toccati sul vivo. Qualche grosso papavero ha avuto un figlio o un nipote fra le vittime, e così hanno cominciato a prendere sul serio i Cristalliti. Lo sai che hanno anche riaperto la questione dell'intelligenza delle Presenze, no?» Donatella ritenne prudente non dire nulla. «Guarda quel palazzo,» esclamò stupita. «Tutto a sei piani. È una vera e propria fortezza!» L'enorme struttura grigia sembrava un monolito, quasi senza finestre, circondato da alte mura munite di feritoie. «Lo hai già visto, ma forse non da questa angolatura. C'era una piazza aperta, proprio sul confine occidentale della città. È il Quartier Generale della BDL. Alle sue spalle c'è la Cittadella dei Cantori, e laggiù c'è la residenza ufficiale del Governatore.» Indicò un edificio imponente e terrazzato che sorgeva in mezzo ai giardini. «Il motivo per cui hanno aumentato il
personale del Governatore è che devono far fronte a questa imminente inchiesta del CSP. E hanno anche rafforzato la presenza dei militari, nel caso di ulteriori minacce da parte dei Cristalliti, anche se tutti si domandano a che servano veramente tanti soldati. Pian piano hanno trasformato Jubal in un vero e proprio presidio fortificato dell'intero sistema. Tutti pensano che ci sia dietro un caso di corruzione perché la base di Serendipity è stata chiusa e trasferita qui. I militari hanno portato con sé mogli e figli, e gli amici più intimi. E tutti hanno bisogno di case e servizi e cibo. La città è un gran casino.» «Non c'è dubbio,» annuì lei. «Splash Due non sta molto meglio, per quanto sento dire. E nemmeno alcune delle città più piccole. Si ritiene che la popolazione delle città costiere sia in eccedenza di due milioni. Visto che non abbiamo le risorse per costruire in altezza, ci allarghiamo. Mi hanno detto che a questo ritmo di crescita in pochi anni avremo occupato tutto lo spazio di terreno compatto. I contadini già protestano per il costo della terra, e noi abbiamo bisogno di tutte le fattorie per nutrire la popolazione. Tutta la faccenda è assurda.» «Incredibile,» mormorò lei, scuotendo la testa. «Semplicemente incredibile. Prima di venire qui pensavo che Northwest City fosse una grande città. Ma siamo al riparo da tutta questa crescita, e non posso dire di non esserne contenta. Che cos'è quella confusione laggiù?» «Hmmm. È in corso una dimostrazione dei Cristalliti. Be', hai già visto il tempio, tanto vale che tu veda anche l'altra faccia della medaglia. Lo senti questo canto?» Donatella udiva un gemito monotono, non qualcosa che un Cantore o un Esploratore avrebbero considerato canto «Che cosa vogliono?» «Guiderò abbastanza piano in modo che tu possa vedere, ma metti la maschera sulle ginocchia e non guardarli. Queste sono le truppe d'assalto, e non sono contrarie al disordine civile. Tirano oggetti addosso alle persone che hanno l'aria di divertirsi alle loro spalle. Per quanto li riguarda, chiunque si diverta, su Jubal, è bollato come eretico!» La vettura si mosse lentamente lungo la strada, e Don osservò la folla con la coda dell'occhio. Una mezza dozzina di figure cadaveriche vestite solo di sandali e perizomi stava arringando una fila scarna e irregolare di turisti. Don riuscì a cogliere le frasi "blasfema impertinenza", "il giorno del giudizio sta per arrivare" e "nessuno ci può fare cambiare idea!". Mentre la vettura si avvicinava alla folla, una delle figure salmodianti accese una torcia, le tenne issata per un momento, poi la riabbassò. Oltre la folla le fiamme si levarono
in un rovente cono azzurrino. La gente urlò e scappò via, e Don fissò, incredula, la figura umana a gambe incrociate che bruciava sul marciapiede, i grandi occhi bianchi che brillavano in mezzo alle fiamme nell'estrema agonia. «Mio Dio,» esclamò, presa da conati di vomito. «Mio Dio. Stanno bruciando un uomo!» «Un'immolazione?» chiese Blanchet. la bocca tirata in una smorfia di orrore e di disgusto. Accelerò per far scostare la gente. «Mi dispiace. È passata almeno una luna dall'ultima volta che hanno fatto una cosa del genere, in città. Magari ci sono anche i soldati?» Lei guardò indietro. Figure in divisa si muovevano con decisione in mezzo alla folla, e uno di essi brandiva un estintore. «Sì, ci sono i soldati. Ma perché si danno fuoco?» «Per far vedere alle autorità che non hanno paura della morte, o del dolore, o della tortura, o della prigionia. Per mostrare che non possono essere tenuti a bada con semplici metodi polizieschi. Abbiamo fra le mani una guerra santa su piccola scala, ma sembra che a livello governativo non se ne sia ancora reso conto nessuno. La gente scommette se il Governatore è stato pagato per non intervenire. Queste immolazioni pubbliche sono già abbastanza brutte, ma le uccisioni rituali segrete sono ancora peggio...» «Uccisioni rituali?» Donatella fu colta da un attimo di panico, temendo ciò che lui le avrebbe detto. «Uccisioni con la tortura. Donne massacrate...» «Blanchet, basta così, ti prego! Una di loro era una mia amica, Gretl Mechas. È stata fatta a pezzi. Hanno detto che ha impiegato delle ore prima di morire. Ho dovuto riconoscere il suo corpo, e non sono riuscita a riconoscere altro che gli abiti. Oh, Signore, nessuno a Northwest lo ha chiamato omicidio rituale.» «Forse non lo è stato. Mi dispiace. Tella, la tua amica non è stata la sola. Ci sono state altre vittime. Sempre donne o ragazzi.» L'orribile visione di quel sacrificio umano, il ricordo della sua amica e i commenti di Blanchet sull'attuale scena politica le avevano fatto passare la voglia di mangiare o di divertirsi. Oh. Gretl! Cara, dolce, tenera Gretl. Perché? Ma stasera non poteva perdere tempo a compiangere Gretl. Doveva ricordare che c'erano altre, più urgenti ragioni per trovarsi in giro per la città. «Dove andiamo a mangiare?» domandò, con il tono di voce più disinvolto possibile e senza preoccuparsi di quale sarebbe stata la risposta. «Al Magico Viggy,» le rispose, scuotendo la testa. «Lo avevo già preso
in considerazione per portarci una persona con i capelli rossi e un vestito azzurro. Ma adesso temo che ti sembrerà un po' volgare.» Sembrava volgare. Consumarono cibi importati a un prezzo spropositato. Bevvero, ma con parsimonia. Blanchet sarebbe stato ben felice di riempirle il bicchiere più spesso, ma Don lo lasciò pieno a tre quarti per quasi tutta la serata. Non aveva bisogno di deprimersi ulteriormente, cosa che alla fine il vino le avrebbe provocato. Parlarono del più e del meno. Anche se Blanchet era un compagno interessante e bene informato, lei ebbe difficoltà, in seguito, a ricordare di che cosa avessero parlato. Maghi e pagliacci si muovevano in giro, facendo trucchi e distribuendo omaggi. Il tavolo vicino era occupato da una piccola folla rumorosa di turisti anziani. C'era una gran confusione. Quando furono pronti ad andarsene, Don non ritrovò la borsa, poi si accorse che era caduta a terra ed era seminascosta da un mazzo di fiori che un mago aveva estratto dai suoi capelli. «È come un circo,» commentò la donna. «Come un carnevale.» «È il posto più popolare della città,» annuì lui. «Adesso, ho dei biglietti per Chantry.» «Non per Lim Terree?» chiese lei, raddrizzando la testa. «L'ultima volta che sono stata qui mi è piaciuto molto.» «Oh, ma non hai saputo?» le chiese Blanchet. «Era sui giornali qualche giorno fa. Lim Terree è morto.» Donatella fece un'adeguata espressione di costernazione, senza permettere che il suo viso tradisse lo sconvolgimento. Si sentì raggelare e impallidire, ma le luci tremolanti del locale nascosero la cosa. Quando raggiunsero la strada, lei aveva recuperato il pieno possesso delle sue facoltà, e riuscì ad andare al concerto di Chantry ed a far finta di divertirsi. Quando fu finito chiese a Blanchet di riaccompagnarla alla Casa del Capitolo e, una volta lì, si disse stanca e volle rimanere sola, anche se Blanchet espresse rammarico per quella decisione mentre lei lo congedava con un sorriso. Com'era desiderabile stare da sola! A parte, si ricordò, tutti i congegni di ascolto e di osservazione che senza dubbio erano piazzati in qualche parte della stanza. Frugò nel borsellino come se cercasse il fazzoletto, e le sue dita incontrarono qualcosa che frusciava come una foglia secca. La nascose nel fazzoletto, si soffiò il naso e poi, mentre abbassava le coperte del letto, infilò il biglietto sotto il cuscino. Adesso il rituale di tutte le notti, si disse. L'intero programma con tutte le variazioni. Farsi la doccia. Spazzolarsi i capelli e lavarsi denti. Infilarsi la camicia da notte. Sistemare il corredo di e-
mergenza sul comodino accanto al letto. Nessun Esploratore sarebbe mai andato a dormire senza avere il suo corredo di emergenza a portata di mano. Poi prendere il compendio delle nuove esplorazioni, infilato sotto la porta in sua assenza, e leggere per un po' le novità professionali. Una nuova teoria sulla variazione. Che poi non era nuova. Uno sbadiglio. Lasciare che gli occhi si chiudano. Agitarsi leggermente. Spegnere la luce. Lasciò trascorrere un po' di tempo, poi in silenzio infilò il corredo di emergenza sotto le coperte e accese la sua luce a raggio ridotto. Il biglietto che aveva infilato nel borsellino prima di andarsene, per informare il suo amico che qualcuno aveva cercato di ucciderla, non c'era più. Al suo posto ce n'erano altri due. Le lettere erano minuscole, e si leggevano appena. «Terree informato e rifornito per quanto riguarda i nostri piani. Si sta procurando la partitura nell'Enigma a Cinque. Impiegherà un po' di tempo per organizzare il giro. Dovrebbe tornare alla fine della Luna Vecchia.» Questo era datato diverse settimane prima ed era stato scritto su un minuscolo foglio di carta, non più grande di un quarto della sua mano. Ripiegato all'interno di esso c'era un altro biglietto, ancora più piccolo, che risaliva a pochi giorni prima. «Notizia ricevuta due giorni fa. Lim Terree morto sull'Enigma. Sto tentando di scoprire che cosa è successo. Mi metterò in contatto.» Entrambi erano firmati con una linea contorta che ritornava su se stessa a formare tre maglie di una catena. Lei spense la luce, risistemò il suo corredo sul comodino, poi ridusse metodicamente i due foglietti in pezzettini minuscoli e li mangiò. Nell'ufficio del Priore, Fyne Blanchet concluse il suo rapporto con uno sbadiglio a mo' di commento. «Non capisco che senso abbia tutta questa agitazione Lei è a posto. Ho parlato delle cose di cui tu mi avevi detto di parlare, ma lei non ha detto gran che. Non c'è nessuna prova che sappia qualcosa che io non so. Non ha abboccato al discorso della corruzione, né ha detto che aveva intenzione di uccidere il Governatore o roba del genere; ha fatto solo qualche osservazione di convenienza, come fanno tutti.» «Non ti ha chiesto di restare con lei.» «Molti non lo fanno. Diavolo, sta insieme a quel tizio del Capitolo di Northwest da... da cinque anni? Come si chiama, Zimble? No, no, lei è monogama. Molte donne lo sono. E poi quell'uomo che si è dato fuoco l'ha proprio sconvolta. Ha assistito all'intera scena. Non ha mangiato molto, ed è stata pallidissima per tutto il concerto.»
Il Priore grugnì, pensieroso. Dopo un po' disse: «Qui a Splash Uno ci sono delle persone che lei normalmente va a trovare.» «E con questo?» «Normalmente dovrebbe aver voglia di vederle.» «E allora?» «E allora se non vuole andarle a trovare, neanche una. potrebbe significare qualcosa.» Blanchet sbadigliò di nuovo. Sentiva che il Priore si stava attaccando alle pagliuzze. Donatella Furz non era tipo di cui preoccuparsi. E perché mai il Priore era invece così preoccupato? Blanchet, che sapeva tenere a freno la curiosità quando era il caso di farlo, si disse che in effetti non lo sapeva. O che non gli interessava saperlo. «Fibey.» disse lei la mattina dopo mentre consumava la sua colazione a base di pesce, «in città abitano tre miei vecchi amici. Mi piacerebbe andarli a trovare finché mi trovo qui. Puoi organizzarmi la cosa?» «Certo, signora. Qualche ordine particolare? Devo fissare dei tavoli per pranzo o per cena?» «No, niente di particolare. Quello che va bene a loro. C'è una vecchia amica di famiglia, in effetti una specie di cugina di mia madre. Si chiama Cyndal Prince, e l'ultima volta che sono stata qui abitava nella zona sud della città, lungo la baia. Poi c'è Link Emert. Lavora ancora per la BDL ma di recente è stato distaccato nell'ufficio del Governatore, per ragioni di non so quale genere. E infine c'è mia nipote, Fabian Furz.» «La figlia di tuo fratello?» «Sì, la mia unica nipote. Bart è morto cinque anni fa a causa di una di quelle malattie devastanti di cui nell'interno nessuno sa niente, e quando siamo riusciti a portarlo sulla Costa era troppo tardi per fare qualcosa. Si dovrebbe pensare che a questo punto la struttura medica delle città di Terrafonda dovrebbe essere un po' migliorata, non credi?» «Penso che sia solo una questione di attrezzatura, signora.» «Oh, lo so, lo so. Non c'è nessun modo di trasportare le grandi macchine diagnostiche, e i sistemi di sostegno vitale. Merda. Tutto quello che gli fa comodo lo fanno arrivare, se è necessario a pezzi piccolissimi, con un'intera squadra di meccanici pronti a rimontarlo. Oh, be' , adesso è inutile prendersela per questo. Bart è morto da tanto tempo, e lamentarmi non lo riporterà in vita. Comunque vedi se puoi metterti in contatto con queste persone e fissarmi degli appuntamenti per oggi pomeriggio o domani mattina. Lo
apprezzerei molto. Ti chiamerò prima di mezzogiorno, se per te va bene.» «Hai altri programmi per questa mattina?» «Andrò a fare il mio solito controllo medico annuale. Blanchet. È per questo che sono venuta qui. Ordini dall'alto.» Al centro medico di Splash Uno non c'è penuria di attrezzature diagnostiche, né di tecnici, pensò Don mentre la stimolavano, le davano dei colpetti, le prelevavano il sangue ed altri campioni per la decima volta in altrettanti minuti. «Questo è l'ultimo,» disse l'individuo anonimo vestito di bianco, con almeno una parvenza di calore umano. «Ti puoi rivestire.» Il medico, che aveva l'aria infastidita e preoccupata, scorse due volte l'incartamento prima di guardare Don con un'espressione corrucciata. «L'ultima volta non avevi questa ferita sul braccio. Nella tua cartella medica non ce n'è traccia, mentre dovrebbe esserci. Quindi si tratta evidentemente di una ferita recente.» «Infatti è recente.» «A quando risale? E come te la sei procurata?» «Oh, circa dieci giorni fa. Sono caduta. È esplosa la sommità di un Piccolo mentre mi trovavo su uno stretto sentiero, e sono caduta contro un bordo aguzzo. Ho fatto rapporto al Priore appena tornata alla Casa del Capitolo. Dovrebbe essere negli aggiornamenti.» «Oh, capisco. Sì. Be', dovevo controllare. Sta guarendo bene, no?» «Sì, sembra che stia guarendo bene.» «Vuoi che la cicatrice venga rimossa?» «Magari in seguito. Ancora ci vogliono due o tre settimane di trattamento rigenerativo per rimuovere le cicatrici, vero?» «Con le macchine piccole, che sono le uniche disponibili, sì. Più o meno.» «Be', adesso non ho proprio tempo. Devo effettuare parecchie esplorazioni per la BDL prima che finisca la Luna Vecchia. Però la prossima Luna Morta dovrei prendere dei giorni di licenza. Magari lo farò allora.» «Come preferisci. Se vuoi farlo a Northwest City non andare a quel centro medico della BDL. A buon intenditor... Vai da questa donna. Dovrai pagare ma avrai un servizio migliore.» Il medico le porse un foglio di carta con un nome sopra. Don espresse rumorosamente il suo sollievo, sia per l'informazione sia perché aveva temuto che le rivolgessero troppe domande sulla ferita Non che fosse poi tanto diversa dalla dozzina di altri tagli da cristallo che aveva accumulato nel corso degli anni. Poteva essere benissimo una ferita provo-
cata da un cristallo. Ma non lo era. Poco dopo il suo ritorno a Northwest dall'Enigma si era un po' calmata e aveva cominciato a rendersi conto di quanto potesse essere pericolosa la sua posizione. A questo era seguito un periodo di indecisione durante il quale aveva trovato una scusa per fare una rapida puntata a Splash Uno, formalmente solo per partecipare a un ricevimento nella residenza governativa. Nel corso del ricevimento era riuscita a far perdere le sue tracce nei pressi del bagno delle signore quel tanto che bastava per avere una lunga conversazione a bassa voce in un ufficio buio e presumibilmente vuoto, che il suo amico garantiva privo di occhi e orecchie non desiderati. «Immagino che non servirebbe a niente consigliarti di dimenticare tutto, vero?» le aveva mormorato il suo amico. «Ti ho già spiegato perché sarebbe inutile,» aveva detto lei. «Questa informazione deve circolare. Deve essere resa pubblica.» Lo sapevano entrambi. L'amico di Don aveva lavorato un tempo per un'agenzia di informazioni e si rendeva conto benissimo che questo era il genere di informazione che doveva essere comunicata a tutti. Una volta resa pubblica non sarebbe stata più un pericolo per nessuno. Finché rimaneva segreta era una trappola mortale. E le conseguenze per il pianeta, se la notizia fosse rimasta celata, erano troppo spaventose perché lui o lei avessero voglia di prenderle in considerazione. «Alla BDL non piacerà.» «È proprio per questo che non posso farlo io,» aveva detto Don con un filo di voce. «Mi controllano. So benissimo che il mio Priorato redige rapporti sui posti in cui vado e su tutto quello che faccio. Io proprio non posso. Nessun Esploratore può farlo. No. Dev'essere qualcun altro a farlo. Qualcuno che la BDL non controlli.» Avevano architettato insieme un piano in tutta fretta, ogni fase del quale rendeva il pericolo sempre più evidente. Si erano lasciati come complici nella cospirazione. Gli ingranaggi erano già in movimento, ingranaggi molto segreti. Donatella aveva fatto ritorno a Northwest con un senso di sollievo mescolato a preoccupazione, e si era rifugiata nel lavoro di tutti i giorni, nelle normali attività quotidiane. Il suo amico, rimasto a Splash Uno, avrebbe continuato a tenere in movimento le cose. C'era stato un problema. Lei aveva dovuto compilare un rapporto di "attrezzatura persa o rubata", per giustificare la mancanza del sintetizzatore che aveva portato con sé a Splash Uno e che non aveva restituito. Ma in fin
dei conti non era successo niente. Niente di niente, nemmeno nelle settimane successive. Fino a dieci giorni prima, quando l'avevano incaricata di un effettuare un normalissimo viaggio di due giorni per esplorare una sacca di terreno compatto dietro un costone germogliato dalla Catena dei Denti Rossi Anche allora era sembrato un incarico strano. Il germoglio, il Piccolo Dente Rosso, era a solo mezza giornata di viaggio da Northwest. Le chiavi d'accesso a una buona parte della catena erano opera della stessa Donatella, e molte di esse facevano parte del repertorio da quasi un decennio. Tutto ciò che le avevano chiesto, questa volta, era qualche variazione minima che avrebbe consentito il passaggio dei carri attraverso i Piccoli Denti lungo una direzione leggermente diversa da quella seguita in precedenza, una modifica di itinerario che agli occhi di Don non costituiva una giustificazione sufficiente: un lavoro che avrebbe potuto svolgere praticamente qualunque apprendista Esploratore. Però un incarico assegnato dal proprio Priore era un incarico che non si poteva mettere in discussione. Lei ricordava di essere stata molto presa dal suo problema personale, un problema che l'aveva ossessionata per tutto il tempo del viaggio a dorso di mulo. Il piano dipendeva da troppe variabili, da tante piccole cose che lei non poteva prevedere. Aveva riflettuto a lungo, cercando di decidere se doveva recarsi di nuovo a Splash Uno o se a questo punto era troppo tardi per fare qualcosa che non fosse andare avanti secondo il programma. L'indecisione non era una cosa comune, per Donatella: la irritava. Gli Esploratori non potevano essere indecisi, e quelli che lo erano non duravano a lungo. Il viaggio effettuato di mattina, per di più, non aveva affatto chiarito la questione, e verso mezzogiorno lei aveva raggiunto il punto di pericolo, e aveva dovuto far forza su se stessa per mettere da parte il problema. Si era detta che ci avrebbe ripensato quella notte, davanti al fuoco dell'accampamento. Aveva impiegato quasi tutto il pomeriggio lavorando sul sintetizzatore e sul computer, provando le permutazioni di qualche frase che sembrava adatta, prima di completare una nuova partitura sulla scatola armonica che otteneva un buon effetto calmante. Era una variazione semplicissima di una partitura che conosceva bene, e sulla quale si sentiva così sicura da scegliere di cantarla lei stessa, tanto per provare, cosa che certamente non era richiesta a un Esploratore; si era mossa a sera già inoltrata. Aveva scelto di passare per una stretta sporgenza che correva lungo una facciata torreggiante e che sovrastava uno strapiombo a picco su un blocco
di cristallo vivente. Il blocco risplendeva di luci color ambra e arancio cupo che pulsavano dentro la massa trasparente. L'intera Catena dei Denti Rossi era color sangue, e aveva un aspetto minaccioso almeno quanto l'Enigma, anche se era molto più semplice attraversarla. Quella sporgenza così stretta non avrebbe consentito il passaggio di una carovana, ma le era utile per raggiungere la sacca di terreno compatto, dopo di che sarebbe certamente riuscita a trovare qualche pista che i carri fossero in grado di percorrere. Mentre percorreva la sporgenza cantando, si era detta che l'inferno doveva assomigliare molto a quel blocco sotto di lei. Più il sole si abbassava, più sembrava che all'interno di esso ci fosse il fuoco. Si era mossa senza fretta, e solo in seguito si era resa conto che era assolutamente probabile che qualcuno l'avesse seguita fin dal punto di pericolo. E di certo quel qualcuno non era del tutto digiuno di Cantoria, poiché l'attaccò era avvenuto nel momento esatto in cui lei era uscita dalla zona pericolosa Una forma vestita di nero, con una maschera nera, appena visibile nell'oscurità, era sbucata da un lato e l'aveva aggredita alle spalle. Se non fosse stato che lei si era voltata proprio in quel momento per reazione a un piccolo rumore, se non fosse stato che il sole aveva fatto riflettere la lama del coltello proprio mentre si voltava, Don non avrebbe nemmeno visto il suo aggressore. Comunque lei si era lasciata subito cadere a terra, si era girata su se stessa, aveva proteso le gambe per proteggere la pancia e le braccia per proteggere la gola, poi aveva sentito un dolore bruciante e momentaneo sul braccio ed aveva fatto leva con entrambe le gambe, vedendo la figura volare sopra di lei e precipitare giù per il burrone. Aveva reagito senza pensare, così come le avevano insegnato e come si era esercitata un migliaio di volte nei corsi di autodifesa che ogni Esploratore, dopo il Massacro della Sporgenza, era stato costretto a seguire. Il coltello era caduto rumorosamente sul costone sporgente, ma l'aggressore era precipitato senza un suono per un tempo che le era sembrato infinito. Per un po' di tempo dopo l'attacco Don era stata così impegnata a curare il braccio ferito con il suo corredo di emergenza che non aveva avuto il tempo di farsi domande sull'aggressore. Dopo aver fermato il sangue aveva acceso un piccolo fuoco, terrorizzata all'idea che l'assassino non fosse stato solo. Poi, visto che non c'erano state altre aggressioni, aveva cominciato a domandarsi perché fosse stata attaccata. Alle prime luci del giorno aveva tentato di scendere fino al punto in cui
si trovava il corpo, così in basso da essere virtualmente invisibile. Se avesse scoperto chi era, avrebbe scoperto anche il motivo. Dopo un'ora o due aveva rinunciato Ci si poteva calare nel burrone con un paracadute o con un pallone, ma sarebbe stato impossibile tornare su. Da allora era rimasto un mistero. Qualcuno aveva cercato di ucciderla. Lei non sapeva chi, e non era sicura del perché. Non un'uccisione sotto tortura come quella di Gretl; non c'era nulla di strano, solo un esplicito tentativo di omicidio! Un assassino Cristallita? Ecco perché gli Esploratori studiavano l'autodifesa, dopotutto, a causa della minaccia rappresentata dai fanatici. Poteva anche essere. In quel caso la vittima designata poteva non essere Don Furz in persona, ma semplicemente un Esploratore. Comunque si diceva gli assassini Cristalliti gridassero slogan religiosi durante gli attacchi. Di certo lo avevano fatto durante il Massacro della Sporgenza e in molti altri omicidi in precedenza. Questo invece, maschio o femmina che fosse, era rimasto silenzioso. Era qualcuno che sapeva ciò che Don aveva scoperto? Uno di quei venti che aveva menzionato il Re Esploratore? In tal caso come aveva fatto a venirne a conoscenza? Che cosa sapevano? Era qualcuno della BDL? Che ne avrebbe pensato il suo amico fedele? Fino a ieri non era riuscita a fargli sapere l'accaduto. In quel momento si accorse che il dottore la guardava in modo strano, ovviamente sorpreso di vederla così assorta. «Stavo solo cercando di immaginare un modo per far rimuovere adesso la cicatrice,» disse a mo' di spiegazione. «Ma non si può fare. Proprio non c'è tempo. A parte la ferita, come sto?» «Sei una donna di trentatré anni in perfetta salute e in splendida forma, senza il minimo indizio di qualsiasi malattia. Hai i muscoli di uno scaricatore e il tempo di reazione di un campione di tiro a segno. Che altro posso dirti? Ecco una copia del tuo rapporto. Il duplicato verrà inserito nella tua cartella.» Alzò la testa e la fissò con aria interrogativa. Don fece una smorfia. Per quanto si dicesse sempre che era un atteggiamento stupido, affrontava regolarmente l'esame medico annuale con il sospetto che le potessero diagnosticare qualche malattia grave. Ogni volta il rapporto dissipava la sua preoccupazione, ma anche adesso lei prese il foglio con la sensazione che si trattasse solo di un rinvio. Chiamò Fyne Blanchet da una cabina nell'atrio del centro medico.
«Ho fissato un appuntamento a pranzo con la tua anziana parente,» le disse. «È un po' dura d'orecchio, perciò spero che abbia capito bene.» «Dove e quando, Blanchet?» «Alle tredici alla Casa del Pesce, su Bayside Street Tra le altre cose mi ha detto che non mangia carne rossa.» «E chi può permettersela? Io no di certo.» Il terreno da pascolo era rigidamente limitato su Jubal, e la carne rossa era considerata sinonimo di lusso sfrenato. Il pollo era più comune, e il pesce più comune ancora. «Sto ancora aspettando una risposta da tua nipote, mentre Link Emert sarebbe ben felice di prendere un cocktail con te dopo il lavoro. Ha detto alle diciassette al Salone dei Piccoli Cristalli, proprio lungo l'isolato dove si trova il suo ufficio.» «Bene. Ti richiamo dopo pranzo.» Il pranzo alla Casa del Pesce fu prevedibile come qualsiasi pasto insieme a Cyndal. Un attento esame del menù per vedere se ci fosse qualcosa che non poteva mangiare. Ogni pietanza letta a voce alta. Una petulante tirata sull'immoralità di chiunque mangiasse quella data pietanza. Un'attenzione ancora più pignola nell'ordinare copiosamente fra i cibi che poteva mangiare. E, infine, l'ingestione avida di quei cibi, fino a ripulire il piatto con il pane, mentre faceva commenti sul sapore di ogni boccone. Don si augurò che qualcuno avesse l'orecchio puntato su Cyndal, in modo da poter godere appieno di quell'esperienza. «Molto bene, Donatella. È molto generoso da parte tua. Che mi dici della tua cara madre?» «Le solite cose, cugina Cyndal. È ancora molto impegnata con il locale gruppo di giardinaggio, a Terrafonda Dodici. Mi ha chiesto di porgerti i suoi saluti.» «Una donna deliziosa, tua madre.» Donatella, che aveva tutt'altra opinione di sua madre, sorrise e non disse nulla. Quando lasciò il ristorante il cameriere le corse appresso con la borsetta che lei, come di consueto, aveva dimenticato. «Blanchet? Sei riuscito a contattare Fabian?» «A cena stasera o a colazione domattina, come tu preferisci.» «Oh, facciamo a cena stasera. Così avrò la mattina libera per dormire e godermela prima di ripartire per Northwest. Dille... dille di scegliere un posto e io la raggiungerò lì alle venti. Voglio fare un po' di spese prima di vedermi con Link Emert. Grazie, Blanchet.»
Quando giunse al Salone dei Piccoli Cristalli trovò Link già sprofondato dietro un tavolo, che nascondeva la sua carrozzina. Di solito lui arrivava sempre prima in modo da rendere meno evidente la sua invalidità. «Donatella!» Si alzò a metà, facendo leva con le braccia per dare l'impressione di uno con le gambe a posto, poi tornò a sedersi e le porse la mano. Lei non si chinò per baciarlo. Link le aveva detto molto chiaramente che la cosa lo faceva soffrire, e lei non lo fece. Per di più si era appiattita e pettinata all'indietro i capelli, e indossava un vestito piuttosto indecoroso che le faceva sembrare informi il petto e le gambe. «Non voglio più provare desiderio per te,» le aveva detto una volta, con le parole gli sibilavano fra i denti serrati. «Non capisci, Don? Mi fa male desiderarti. Mi fa male desiderare qualunque cosa!» Perciò lei si era acconciata nel modo meno desiderabile possibile, entro i limiti di ciò che poteva essere accettabile in un luogo che aveva la sfrontatezza di chiamarsi il Salone dei Piccoli Cristalli. Come prevedibile era decorato con riproduzioni di Piccoli, cristalli di plastica che andavano dal pavimento al soffitto. Dagli altoparlanti uscivano variazioni su temi dei Cantori. «Un posto interessante,» disse lei, gesticolando con disprezzo. «Da quanto tempo esiste?» «Oh, da meno di un anno. È una spaventosa trappola per turisti, detta senza peli sulla lingua, ma le bevande non sono male» «Turisti! Buon Dio. È una parola che ho letto da qualche parte ma non avrei mai pensato di sentirla pronunciare su Jubal. Link. Turisti!» «Ogni volta sempre di più, Don C'è anche un tipo di Bay City che pubblicizza escursioni nell'interno per turisti, con tanto di partitura e Cantori.» «Ma è uscito di senno!» «No. Li porta fino alle Teste Vuote, li fa passare cantando dei motivi raffazzonati, poi gli fa dare un'occhiata alle Pazzie, fa esplodere "accidentalmente" qualche Piccolo, e si riporta indietro i turisti tutti eccitati, convinti di essere veramente stati in pericolo.» «E lo fa alla luce del sole?» «Così pare. Che bevi, Donatella, amore mio? È quasi un anno che non ci vediamo, lo sai?» Disse "amore mio" in tono casuale, quasi non avesse importanza, ma il cuore della donna ebbe un sussulto a quelle parole, come succedeva sempre Link si era dimagrito, e i suoi occhi erano infossati. Quel viso un tempo pieno di vita adesso era pallido, e anche le labbra avevano perso il colore. Lei si scosse e sorrise, fingendo di non vedere niente Ordinarono da bere. Parlarono. Di cose da niente, irrilevanti. Le ultime
esplorazioni. Il lavoro di Link come uomo di collegamento con gli Esploratori presso l'ufficio del Governatore. Il recente annuncio che la Commissione CACCIA stava venendo a Jubal. «Che diavolo è la Commissione CACCIA?» chiese lei. «Il Consiglio per lo Sfruttamento Planetario ha nominato una nuova commissione che dovrà decidere una volta per tutte se su Jubal esiste una vita indigena senziente.» «Oh, lo sapevo, solo che non ricordavo il nome. Me ne ha parlato ieri sera l'addetto ai servizi. E qualcuno ne aveva accennato anche in quel ricevimento al quale sono andata l'ultima volta.» Il vero motivo della sua venuta a Splash Uno aveva tenuto occupata la mente di Donatella al punto che lei non era stata capace di concentrarsi sui riti sociali. «Per quanto ricordo, in quell'occasione avevo dimenticato chi fosse la moglie del Governatore e l'ho presentata a qualcuno come Gereny Vox.» «Donatella!» Sembrava sinceramente colpito. In nessun modo si poteva scambiare la notissima allevatrice di muli, né come faccia né come figura, per Honeypeach Thonks. Gereny era una persona assolutamente genuina, se pure un po' spigolosa, e di notevole fascino. Lady Honeypeach era invece un congegno autogenerato e inquietante. «È stato un lapsus. Sapevo benissimo che stavo sbagliando, e non ho fatto che scusarmi per tutta la serata. Lei è stata molto dolce, in quel suo modo velenoso.» Don rise senza convinzione. Era stata una gaffe tenibile, di cui avrebbe sentito parlare in seguito dal Re Esploratore e che forse aveva contribuito a far passare in secondo piano ciò che aveva intenzione di fare a Splash Uno. «Be', come hanno intenzione di affrontare la questione dell'intelligenza indigena?» «Per qualche settimana faranno delle audizioni, proprio come cinquant'anni fa; che altro possono fare?» «Ricordami che cosa significa la sigla CACCIA.» «Commissione per l'Accertamento, il Controllo e la Certificazione dell'Intelligenza Aliena.» «Non dovrebbero prima cercare di dimostrare l'intelligenza umana?» Fece una risatina priva di allegria. «Di recente ho avuto una discussione proprio su questo tema. Avrei già qualche candidato per confermarne la mancanza. A cominciare dal Governatore.» «Calma, figliola. Stai facendo delle affermazioni sovversive. Il presidente della commissione è il figliastro del Governatore. Ymries Fedder. È lui che ha scelto i componenti, immagino.»
«Oh, sì. Il figlio di Honeypeach.» Sembrava più prudente non aggiungere altro e Don si contentò di strizzare l'occhio a Link, che ammiccò a sua volta, e lei sospirò. Come sempre si capivano al volo. Come sempre lei desiderava stringerlo a sé. Come sempre soffriva per lui. lo desiderava. E come sempre esibiva un'espressione allegra e non lasciava trapelare niente di tutto ciò. Erano cinque anni che stava su quella carrozzina, fin dal giorno di un viaggio nel corso del quale una Presenza non esplorata era esplosa proprio davanti a Link. Lui sarebbe dovuto morire, e sarebbe morto se non fosse stato per Don In seguito lei si era sentita accusare di averlo condannato alla prigione a vita, e si era offerta di aiutarlo ad uscirne. Nessun Esploratore avrebbe potuto fare di meno, nessun amante di più. L'offerta era ancora valida, ma l'uomo non le aveva ancora chiesto di metterla in atto. Grazie a Dio. E, come sempre quando lo vedeva, la sua mente diventava frenetica nel tentativo di escogitare un modo in cui un modesto impiegato del Dipartimento dell'Esplorazione potesse mettere le mani su qualcosa come centomila crediti. Che era più o meno quanto sarebbe costato portare Link a Serendipity e pagare la rigenerazione delle sue gambe. Con la metà di quella somma avrebbe potuto farsi applicare una serie di bioprotesi, il che gli avrebbe almeno consentito di camminare. Era inutile pensarci. Ci aveva già pensato fin troppo. Dieci anni di stipendio. All'inferno la BDL e le loro priorità! Per prima cosa veniva il brou, poi tutto il resto. E il Re Esploratore, che avrebbe dovuto impegnarsi perché l'assistenza medica fosse inserita nel contratto, sembrava accontentarsi di perdere tempo a discutere se il ricovero in ospedale doveva essere in camera singola o doppia. Don conservò un'espressione calma, urlando dentro di sé. Trascorsero due ore e lei guardò l'orologio che portava al polso. «Devo scappare, Link. Fra un'ora ho un appuntamento con mia nipote, te la ricordi? Fabian? Dell'Ufficio per il Benessere Planetario.» «L'ho vista appena la settimana scorsa. È venuta nell'ufficio del Governatore per qualcosa... Ah, adesso mi ricordo. Sta lavorando a un progetto di collocamento degli emarginati che rimangono abbandonati quando il personale militare viene trasferito fuori sistema.» «Emarginati?» «Ecco... come si può dire. Dipendenti non ufficiali. Consorti senza contratto. Li portano con sé i militari. Poi, quando quelli se ne vanno, decidono per un motivo o per l'altro di liberarsene.»
«Un divorzio non ufficiale.» «Per così dire. Anche dei bambini, naturalmente.» «Bastardi,» disse lei con convinzione. «Link, grazie per le bevande.» Gli prese la mano nella sua. quasi per caso, la strinse solo per un attimo, sorrise e si alzò. «Donatella!» la richiamò. «Hai dimenticato la borsa.» Tornò alla Casa del Capitolo per fare una doccia e cambiarsi d'abito, entrando dalla porta posteriore e scivolando lungo le scale mentre nessuno la vedeva, non in modo furtivo, ma semplicemente come qualcuno che avesse fretta. Non aveva nessuna voglia di spiegare a qualcuno il motivo del suo abbigliamento così poco attraente. Men che meno a Blanchet. Quando lui arrivò con il drink che gli aveva ordinato, lei si era già lavata e vestita per andare a cena, anche se in modo meno vistoso della sera precedente. «Sei stata bene con i tuoi amici?» «La cugina Cyndal non è affatto un'amica,» gli confessò con tutto il candore che le fu possibile. «La cugina Cyndal è un tormento inenarrabile, ma se non la vado a trovare quando sono qui mia madre non me lo perdona. Anche vedere Link è un tormento, ma di tutt'altro genere. Continuo a ricordarlo com'era prima dell'incidente.» «Ah.» Blanchet era molto partecipe. «Be', forse la serata sarà più divertente.» «Oh, Signore,» replicò lei. «Lo spero. È sempre un piacere vedere Fabian. È uno spasso.» Infatti lo fu. Raccontò storie sugli "emarginati" che fecero ridere o piangere Don, a seconda dei casi; ebbe dei furiosi scambi di battute con i camerieri che servivano le loro croccanti verdure cotte, splendidamente guarnite con striscioline di pesce e pollo alla griglia: e concluse la serata con ricordi e chiacchiere varie. Mentre lasciavano il ristorante, Don disse: «Dannazione, ho dimenticato di nuovo la borsa,» e Fabian rise. «Te la dimentichi sempre, ogni volta che siamo insieme, perciò l'ho presa io. Eccola qui.» Poi di nuovo nella sua stanza, dopo aver fatto il proprio dovere. La stessa procedura della notte prima con il borsellino. Era la prima occasione che aveva di farlo. Il biglietto era nella borsa. Lesse le lettere minuscole sotto le coperte. «Appunto ricevuto. Pare che il fratello di Tenee, Tasmin Ferrence, sia diletto verso la Costa Ha la scatola armonica. Ti contatterò. Sii prudente» E poi quella linea ricurva che costituiva la firma. Una catena, o CATENA, se si voleva essere precisi. Il braccio investigativo ed esecutivo del
CSP Donatella si ritrovò per un futile momento a desiderare che la CATENA fosse davvero presente su Jubal. in forze, e non fosse semplicemente rappresentata da un ex impiegato senza quasi nessun potere. Tornò al biglietto. Sii prudente. Che voleva dire? Prudente. Certo che era prudente. Eppure quella parola in fondo al biglietto la mise a disagio. Invece di addormentarsi immediatamente come faceva di solito - come facevano tutti gli Esploratori se volevano essere opportunamente concentrati sul lavoro da svolgere ogni giorno - Don si agitò senza posa nell'oscurità piena di rumori, fissando le luci che provenivano dal parco di divertimenti proprio di fronte. Rifratte dal vetro molato delle finestre, le luci creavano linee color porpora lungo il letto. Si sentiva un rumore di folla provenire dall'esterno, seppure un po' attutito dalle finestre chiuse. Il fruscio della gente che passeggiava lungo la strada, grida di baldoria e di litigi, risposte, risate, minacce o sproloqui. Come facevano quei fanatici. Gli tornò alla mente il Cristallita arso vivo, con i globi oculari che sfrigolavano dietro una cortina di fiamme, e respinse il pensiero con un brivido. Pensa a qualche altra cosa. Pensa a Link. Link con il suo viso così accuratamente controllato. Niente accuse. Nemmeno una, in tanti anni Eppure avrebbe mentito a se stessa, se avesse pensato che si era adattato. Certo che non si era adattato. Era sempre lo stesso Link, intrappolato, intrappolato per sempre, e lei lo era insieme a lui. Se solo avesse avuto quei centomila. Se solo avesse potuto procurarglieli. Se lo meritava. La BDL glielo doveva. Non riuscì a riposare. Non aveva nemmeno sonno. Se fosse stata anche solo assopita forse non avrebbe sentito il rumore, un rumore debolissimo, un clic laddove non avrebbe dovuto esserci nessun clic. Alla finestra nel bagno. Che si apriva su un condotto di ventilazione, ricordò. Che giungeva fino al terzo piano. Non aspettò che il clic si ripetesse. Gli Esploratori non aspettano. Quelli che aspettano muoiono. Al contrario rotolò giù dal letto, ammucchiando le coperte dietro di lei in modo da formare un ammasso simile a un corpo, e si piazzò in piedi dietro la porta aperta del bagno. Non aveva armi. Un inventario mentale degli oggetti contenuti nella stanza non rivelò nulla di adatto alla circostanza. E adesso il bagno. Lì c'erano diversi oggetti utili. Bombolette spray per vari usi: per lavaggio a secco, deodorante, depilatoria. Visualizzò il punto esatto in cui le aveva lasciate: quella per il lavaggio a secco l'aveva messa da parte sul bordo della vasca, perché lì a Splash
Uno c'era abbondanza di acqua e quindi era abbastanza inutile. Il deodorante era nell'armadietto. La bomboletta depilatoria era alla spalle del water, dove si era seduta per depilarsi le gambe e la parte posteriore del collo. Una bomboletta quasi piena. Il clic si ripeté, questa volta accompagnato da un distinto rumore secco, come se qualcosa avesse ceduto. Senza dubbio il chiavistello della finestra. Don cominciò a respirare con regolarità, a fondo. Chiunque stesse per entrare avrebbe fatto caso a quel particolare. Respira. A fondo. Con regolarità. La figura uscì dal bagno in modo così silenzioso che per poco non le sfuggì. Fu il passaggio attraverso le righe luminose a tradirla. In modo altrettanto silenzioso lei scivolò oltre la porta e si infilò nel bagno, cercando a tastoni la bomboletta con la massima circospezione in modo da non fare rumore. La trovò e la strinse cautamente nella mano, mentre con gli occhi continuava a guardare verso la stanza, cercando di vedere qualcosa alla luce livida e intermittente che veniva dall'esterno. La figura era accanto al letto. Si piegò in avanti e allungò la mano. Niente coltello, questa volta. Qualcos'altro. Un grugnito animalesco quando si rese conto che lei non era lì. Si girò verso l'interruttore e all'improvviso la stanza fu piena di luce. La figura incappucciata girò su se stessa, la vide e puntò verso di lei; Don gli scaricò lo spray depilatorio direttamente negli occhi, gettandosi contemporaneamente di lato. L'altro non emise nessun suono, a parte uno sputo di disgusto. Continuò ad avanzare alla cieca, allungando la mano verso il punto in cui lei si era spostata. Molto più grosso di lei. E più forte, con ogni probabilità. Era come un gioco mortale a mosca cieca. La creatura non poteva vederla, ma poteva sentirla. Don oltrepassò come poteva il Ietto e uscì dalla porta nel corridoio, lasciandola aperta. La tromba delle scale era proprio davanti a lei. Gridò ansimando: «No, no, non farlo,» a voce abbastanza alta da farsi sentire, poi si spostò di lato e si inginocchiò accanto alla parete. Quando la figura impazzita corse appresso alla sua voce, lei protese un piede e l'altro vi inciampò, precipitando a capofitto lungo le scale. Don rientrò come un fulmine nella stanza e richiuse la porta. Tutto quel fracasso fece uscire colleghi ed ospiti nel corridoio. Don li raggiunse con l'aria assonnata, legandosi la cinta della vestaglia. «Che cos'era quel rumore? Lo avete sentito? Che è successo?» Anche dal basso provenivano voci incredule ed eccitate. Un uomo. Deve essere caduto per le scale. No, un cadavere. È morto.
Che ci faceva nella Casa del Capitolo? Qualcuno lo conosceva? Perché era vestito in quel modo? Un ladro? Ma chi sarebbe andato a rubare in una Casa del Capitolo? Gli Esploratori non hanno mai con sé oggetti di valore. L'eccitato scambio di commenti andò avanti, mentre Don si sporgeva dalla ringhiera fissando il fagotto scuro sul piano inferiore Qualcuno gli aveva sfilato la maschera, e un volto vacuo e anonimo le puntava addosso i suoi occhi morti e irritati. Uno che sapeva dov'era lei, e che sapeva che era sola. Un bel colpo di fortuna, per qualcuno, che l'intruso si fosse spezzato il collo. Nessuno avrebbe potuto chiedergli chi lo aveva mandato. CAPITOLO SESTO Tre persone a dorso di mulo che si avvicinavano a Splash Uno una mattina presto provenendo dalla direzione della Gola della Follia sarebbero state più che sufficienti per attirare l'attenzione dei locali. Tre persone a dorso di mulo seguite da un piccolo sciame di Cristalliti che urlavano, imprecavano e lanciavano fango furono più che sufficienti non solo ad attirare l'attenzione, ma a mettere rapidamente in moto il più vicino distaccamento militare. I Cristalliti vennero opportunamente sistemati con la faccia nel fango che avevano usato come munizioni, e con mani e piedi legati dietro le spalle, mentre le pistole tranquillanti operavano senza posa sulle diverse parti esposte del loro corpo. «Sono spiacente.» disse a Tasmin il capitano al comando del plotone, offrendogli un fazzoletto pulito preso dal carro antisommossa. «Diventano sempre più aggressivi. Se il Governatore non si muove subito, probabilmente lo farà il nostro ufficiale comandante, il colonnello Lang. Spero che non sarà troppo tardi.» «Quanto tardi deve essere perché sia troppo tardi?» domandò Clarin in tono piccato, cercando senza successo di togliersi la terra dai capelli ricci. «Dentro l'ultima palla di fango c'era un sasso.» Sulla sua fronte stava crescendo un grosso bernoccolo delle dimensioni di un uovo; aveva l'aria scarmigliata, oltre che infuriata. «Il nostro Mastro, qui, ha preferito che non usassimo le fruste su di loro.» «Vi ho visto arrivare,» disse Tasmin all'ufficiale con voce conciliante. «Pensavo che avremo potuto lasciarli indietro prima del vostro arrivo.» Jamieson stava fissando con aria vendicativa le figure accasciate a terra, agitando il frustino di cuoio fra le mani. I muli da Cantori erano così bene
addestrati che sarebbe stato impensabile usare il frustino con loro; si trattava semplicemente di un accessorio che faceva ormai parte dell'abbigliamento. Malgrado ciò, le intenzioni di Jamieson gli si leggevano in faccia. «Sarebbero ben felici se tu usassi la frusta su di loro,» disse il capitano, autorizzandolo a farlo con un gesto. «Fallo pure, se ti fa sentire meglio. Lo considerano un vero e proprio marchio di santità, essere picchiati. È per questo che noi usiamo le pistole tranquillanti. Lo detestano. Tenerli buoni per almeno una decina di giorni, costringerli a mangiare, e liberarli più grassi di prima. Tutto questo li manda in bestia.» Sputò di riflesso, mentre Jamieson, senza farsene accorgere, sistemava il frustino fuori vista. L'ufficiale allungò la mano. «Mi chiamo Jines Verbold.» Tasmin gliela strinse. «È un piacere conoscerti, capitano Verbold. Io sono il Cantore Tasmin Ferrence, e questi sono i miei due novizi, Reb Jamieson e Renna Clarin.» Il capitano li salutò con un cenno della testa «Mi sbaglio, Mastro Ferrence, o voi tre venite proprio dalle colline della Gola della Follia?» «Infatti. C'è qualcosa che non va?» «Non sapevo che qualcuno potesse attraversare la Gola.» Tasmin lo guardò con un'aria stupita. «Ho usato una chiave d'accesso molto vecchia, capitano. Immagino che sia andata perduta, anche se è difficile crederlo. È conservata nella mia biblioteca fin dalla nascita di mio padre, e forse dalla nascita di mio nonno. Credo che sia una chiave originale di Erickson. Sono sempre stato convinto che la conoscessero tutti.» «Be', questa notizia farà felice qualcuno che so io. Non ha fatto che mandare persone a fare tentativi nella Gola, avanti e indietro, per tutto l'anno scorso.» «Sono quegli assurdi spostamenti di toni nella PG.» disse pensierosa Clarin mentre si frugava in tasca Qualcosa si mosse sotto le sue dita e lei lo grattò con affetto. «E quei suoni di tromba così acuti. Tutta roba a cui normalmente non si pensa.» «E Dio solo sa come abbia fatto a pensarci Erickson.» aggiunse Tasmin ridendo. Provò un improvviso senso di esultanza Nonostante quei fanatici che lanciavano fango, l'incidente era un presagio, un presagio di buon auspicio. Le cose sarebbero andate bene a Splash Uno. Avrebbe scoperto tutto ciò che voleva sapere. Il peso del mistero si sarebbe alleggerito. Non ci sarebbero state più domande. Si girò verso i novizi, chiedendosi se anche loro provavano la sua stessa sensazione di essere giunti alla fine del viaggio.
Evidentemente Jamieson provava qualcosa. Il volto del ragazzo era raggiante mentre osservava la città. Il viaggio sembrava aver cancellato un po' della sua preoccupazione a proposito della ragazza lasciata a Cinque, mentre aveva intensificato l'interesse per la loro destinazione e la loro missione. O forse era stata la ragazza che li accompagnava, anche se Tasmin non aveva notato alcun comportamento evidente che testimoniasse un interesse di Jamieson per Clarin. Eppure... la loro vicinanza. Un rimedio eccellente per le amicizie perdute, la vicinanza... benché fosse difficile stabilire se Jamieson era stato incoraggiato o no, visto che Clarin era così riservata. Non perdeva mai il controllo di se stessa... Tasmin avrebbe scommesso che adesso aveva un topo dei cristalli nella tasca destra, uno che aveva sorpreso a rubare cibo nell'accampamento. Era amichevole e sempre assorta, ma fredda. Tasmin era giunto ad apprezzarla nel corso del viaggio Approvava i suoi modi misurati, il suo comportamento calmo e accomodante, ma lo faceva senza considerare che cosa implicasse una tale approvazione. «Ho detto.» ripeté l'ufficiale, interrompendo i pensieri di Tasmin. «Ho detto, dove avete intenzione di risiedere?» «Nella Cittadella,» rispose lui, quasi senza pensare. In quale altro posto sarebbe potuto andare un Cantore, se non fra i suoi simili? «Se c'è posto per noi.» «Sapete come arrivarci?» «Non proprio. Sono già venuto a Splash Uno, ma è stato anni fa, quando feci numerosi viaggi verso la Costa.» Questa città non assomigliava affatto a quella ben più piccola che lui ricordava. Questa città brulicava, ribolliva, eruttava ondate di cittadini, e tremava per il rumore. «Ringraziamo Dio per i cento metri di terreno solido.» mormorò quasi ad alta voce, intercettando lo sguardo eccitato di Clarin. «Straordinario, vero?» convenne lei. «L'ho vista due anni fa mentre mi trasferivo da Northwest a Terrafonda Cinque. Credo che da allora si sia raddoppiata.» «Be', è cambiata a tal punto che vi assegnerò un uomo per farvi da guida,» disse loro il capitano. «Ci sono Cristalliti anche in città, e considerano chiunque indossi abiti da Cantore come un bersaglio da non mancare. Ho il comando di una prigione piena di agitatori, e vi posso garantire che quelli sono meno pericolosi di questi dannati fanatici. Vi consiglio di lasciare i muli nella stalla della Cittadella e di indossare abiti civili. Finché restate in città. Non vi garantirà al cento per cento, perché qualcuno potrebbe sempre riconoscervi, ma starete più tranquilli.»
«Che cosa possiamo fare,» domandò Jamieson, «per proteggerci?» «Qualsiasi dannata cosa sappiate fare,» rispose il capitano. «Compreso farne fuori qualcuno. Come ho già detto, quando il Governatore deciderà di usare il pugno di ferro, verrà emanata l'ordinanza di rastrellamento e la faremo finita con loro.» «Ordinanza di rastrellamento?» chiese Clarin. «A garanzia dell'ordine pubblico, sì, signora. Il campo di accoglienza è già pronto, lungo la Costa, a circa quindici chilometri dalla città Un campo dotato di reticolati elettrici e a prova di evasione. Li sbatteremo là e lasceremo che si scannino fra loro, se proprio non possono farne a meno. Tutti sanno che è una cosa da fare. Ciò che trattiene sua eccellenza è al di là della nostra comprensione... della comprensione di tutti. C'è qualcosa di ambiguo, senza dubbio.» Fece una smorfia, come a richiedere la loro complicità. Non era stata una battuta politicamente saggia, la sua «Che si dice di questo ritardo?» chiese Jamieson. «Oh, se ne dicono tante,» rispose il capitano, voltandosi di scatto. Aveva già detto troppo. Per di più loro già sapevano che cosa si diceva: il Governatore intascava una quota sui proventi del pellegrinaggio. I fanatici lo avevano corrotto. Tasmin scosse la testa in direzione di Jamieson, e il ragazzo lasciò perdere... Tasmin non aveva nessuna intenzione di mettersi a discutere di politica planetaria o del CSP proprio in pubblico, circondato da soldati che potevano riferire, fedelmente o meno, qualsiasi cosa venisse detta. Il capitano aveva scelto di parlare solo di ciò che era di sua competenza, ma Tasmin era ormai abituato da tempo a comportarsi con prudenza Si protese dalla sella per stringere di nuovo la mano dell'ufficiale. «Grazie, capitano. Riferirò al Mastro Generale della Cittadella quanto tu ci sia stato utile.» Il Mastro Generale della Cittadella di Splash Uno era anche il Gran Mastro dell'Ordine dei Cantori, Thyle Vowe. Essere favorevolmente citati presso di lui era un favore non da poco, e il capitano non riuscì a trattenere un sorriso mentre faceva un passo indietro e li salutava. Giunsero alla cittadella senza ulteriori incidenti, venne loro dato il benvenuto, e poi vennero lodati quando si seppe che Tasmin proveniva dalla Gola della Follia con una chiave d'accesso ormai dimenticata. Il bibliotecario della Cittadella li accolse inizialmente con un bonario fastidio, seguito da risposte un po' meno bonarie, poi vennero loro assegnate le stanze dei viaggiatori, prelevati gli abiti sporchi da lavare, e forniti indumenti più anonimi da indossare in città. Il Gran Mastro Thyle Vowe, a quanto pareva, si trovava nella Cittadella di Northwest e non sarebbe tornato prima di
qualche giorno. Tasmin gli lasciò un appunto nel quale inserì alcune parole di elogio per il capitano Verbold. probabili simpatie politiche comprese. Quando finì di sbrigare tutti i dettagli era ormai pomeriggio inoltrato e Tasmin poté finalmente andarsene. I due novizi oziavano nel cortile, evidentemente in attesa di lui; Clarin. come era prevedibile, aveva con sé un topo dei cristalli dal pelo grigio così chiamato perché il suo habitat naturale era proprio in mezzo alle presenze cristalline - che le correva su e giù per la spalla. «Devo sbrigare degli affari personali,» disse Tasmin, sforzandosi di mostrarsi più contrariato di quanto lo fosse realmente. Adesso che era giunto il momento provava un certo nervosismo a fior di pelle, e l'ostentata ostilità della sua voce suonò falsa alle sue stesse orecchie. «No, signore.» disse Clarin, apparentemente impassibile mentre si rimetteva il topo in tasca. «Tu ci hai raccontato tutto, e noi dobbiamo venire con te. Possiamo aiutarti a trovare l'impresario o l'agente di Lim Terree, o quel che diavolo è.» Diceva semplicemente la verità. Nelle lunghe sere trascorse accanto al fuoco ciascuno di essi aveva appreso sugli altri molto più di quanto sarebbe mai stato possibile nella società stratificata della Cittadella. Erano diventati quasi una famiglia... con tutte le responsabilità che ne derivavano Tasmin, improvvisamente consapevole di quelle responsabilità, scoprì che la cosa lo rendeva irritabile. «Posso farlo da solo.» Poteva davvero? Voleva farlo? «Potresti avere dei problemi, Mastro. Ci siamo informati. È meglio che i Cantori vadano in giro insieme, così ha ordinato il Mastro Generale.» Jamieson si espresse in tono concreto e un po' brusco, evitando lo sguardo di Tasmin. Quest'ultimo ebbe un'intuizione improvvisa, si rese conto che Jamieson non parlava solo per senso del dovere e che se lui avesse rifiutato, il ragazzo ne sarebbe rimasto ferito. Cercò rifugio a suo volta in un tono brusco. «Spero che voi due non abbiate spifferato tutto.» «Mastro Ferrence!» Il ragazzo era addolorato nel sentirsi accusare di avere la lingua lunga. Lo sconforto di Jamieson fece vergognare Tasmin per la sua mancanza di cortesia. «Hai trovato una vettura?» gli chiese fra i denti. «Sì, signore. È quella verdolina laggiù.» «Ha l'aria piuttosto malconcia, no?» Sembrava che la vettura fosse stata usata per trasportare l'erba, o forse animali da fattoria; era bassa sul terre-
no, e il tettuccio a bolla era scrostato, di un grigio opaco. «Be', ce n'erano disponibili solo due, e l'altra era rosa.» Jamieson lo guardò in tralice, buttando lì un sorriso di complicità, ma sempre con quell'espressione addolorata sul viso. Tasmin avvampò. Aveva il diritto di rifiutare l'amicizia quando gli veniva offerta? Era così fissato sul suo dolore da procurare dolore agli altri pur di continuare a recitare la parte di chi soffre più di tutti? Allungò il braccio e cinse la spalla di Jamieson. includendo anche Clarin nel suo sguardo «Se siete così dannatamente decisi a rendervi utili..» Tasmin aveva già fatto qualche chiamata dalla sua stanza, contattando uno degli uomini di supporto che Lim aveva con sé a Terrafonda Cinque e facendosi dire il nome dell'agente di Lim. «Stiamo cercando un uomo di nome Larry Porsent, ed è probabile che lo troviamo nel Palazzo Bedlowe, tra l'Undicesima Strada e il Viale della Giubilazione.» Le strade erano butterate da nuovi scavi, in parte ricoperti: il palazzo che stavano cercando era in costruzione, e i primi due piani erano già occupati, nonostante il trambusto del cantiere. Per salire le scale che portavano al secondo piano dovettero evitare cazzuole da muratore, mucchi di mattoni e campioni di almeno mezza dozzina di attrezzi da costruzione. «Quando pensate che cominceranno a mettere degli ascensori in questi palazzi?» si lagnò Jamieson. «In questa città non si fa altro che salire scale. Hanno piazzato me e Clarin in un dormitorio al quinto piano.» «Metteranno gli ascensori quando gli ascensori saranno considerati essenziali,» osservò indifferente Tasmin. Gli avevano dato un bell'appartamento al secondo piano della Cittadella, che guardava su un giardino recintato da mura. «O quando ci sarà abbastanza richiesta da fabbricarli in loco. Al momento sono solo al decimo posto, dietro un bel po' di altri apparecchi necessari, come l'attrezzatura medica, le macchine agricole e i computer. Ecco l'ufficio.» Il nome era dipinto in lettere sbilenche su una porta nuovissima, ancora da verniciare. All'interno trovarono il titolare accucciato sul pavimento, impegnato a montare una scrivania. Era un uomo basso e grassoccio, con la faccia rosa e liscia che scintillava di sudore e di fastidio mentre provava a inserire un pezzo in una fessura che ovviamente non era la sua. «Larry Porsent,» si presentò, rimettendosi in piedi con qualche difficoltà. «Cosa posso fare per voi?» «Io sono Tasmin Ferrence.» «Sì.» Non vi fu nessun segno che l'uomo avesse riconosciuto il nome.
«Sono il fratello di Lim Terree.» L'ometto aggrottò la fronte. «Che mi prenda un accidente. Davvero? Non sapevo che avesse un fratello. Anzi, non sapevo che avesse parenti. A parte sua moglie, naturalmente, e il bambino.» «Moglie!» «Be', sì. Vuoi dire che non lo sapevi? Certo, evidentemente non lo sapevi, altrimenti non saresti così stupito, è chiaro. Oggi sono un po' tardo di riflessi. Non è la mia giornata. Non è la mia stagione, se vuoi la verità. È un momentaccio. La morte di Lim mi ha dato proprio il colpo di grazia.» «Era un cliente importante?» «Accidenti a lui, era il mio unico cliente. Ha voluto tutto il mio tempo e io gliel'ho concesso. E la cosa sarebbe andata a gonfie vele, se non gli avesse dato di volta il cervello. Voglio dire, dal momento che voi siete parenti... questi sono i tuoi figli? Proprio dei bei ragazzi. Perché mai, dico io, un uomo dovrebbe prendere fino all'ultimo credito che ha risparmiato in dieci anni e spenderli tutti per organizzare un giro di concerti nelle città più luride! Non si può pretendere che abbia successo. Lo sanno tutti. Gliel'avevo detto, poi l'ho detto anche a sua moglie, Vivian, e lei glielo ha riferito.» Si passò entrambe le mani sui capelli radi, poi le protese in avanti quasi a implorare comprensione. «Perché mai un uomo dovrebbe fare tutto questo?» «Intendi dire che la tournée a Terrafonda Cinque non è stata un successo?» «Diavolo, uomo, nessuna tournée in città da quattro soldi può essere un successo. Ci si rimette sempre. Ci si va solo quando la BDL ti finanzia. Voglio dire, tutti noi, agenti e artisti. La BDL se ne fa carico di tanto in tanto, solo per buona volontà, ma laggiù non c'è pubblico. Quanto ci puoi guadagnare, con quello che ti costa solo trasferirti fin lì?» «Ci stai dicendo,» chiese Jamieson, «che Lim Terree ha utilizzato il suo denaro per finanziare la tournée?» «Tutto quello che aveva. Fino a vendersi la casa e prendersi i risparmi di suo figlio. E visto che tu sei suo fratello, ti posso mostrare qualche conto da pagare, se hai intenzione di preservare il suo buon nome.» Tasmin scosse la testa, stordito da quel fiume di informazioni inattese. «Quando l'ho visto l'ultima volta Lim aveva al polso un orologio molto costoso.» «È vero, lo aveva. E adesso vorrei averlo io. Era un regalo, quello. Indovina da chi? Da Honeypeach in persona. La moglie del Governatore.» Pro-
nunciò la parola quasi sputando. «Il povero vecchio Lim non poteva venderlo, altrimenti era morto. Non poteva perderlo o era morto. Poteva solo indossarlo e cercare di restare fuori dal suo letto. La gente che da' fastidio a Honeypeach finisce sottoterra. È un topo dei cristalli, quella. Ha i denti come un Piccolo Intercettore, e se lo voleva mangiare.» «La moglie di Terree.» disse Clarin, affettuosamente partecipe della confusione di Tasmin. «Dove possiamo trovarla?» «La troverete a casa, se si può chiamare casa, giù a sud, oltre il mercato ittico. Oppure al mercato, a sventrare e squamare pesci. Lei e il bambino devono mangiare, e di certo Lim l'ha lasciata in braghe di tela. Lei ha rinunciato a un impiego fisso all'archivio centrale dell'Esplorazione per avere il figlio di Lim, e certo non la riprenderanno indietro...» «Potrei avere altre domande da rivolgerti.» disse Tasmin scuotendo la testa. «Adesso sono frastornato da tutte le cose che mi hai detto. Di giorno ti troviamo sempre qui?» «Se sopravvivo ai prossimi giorni, sì. Ho fra le mani dei nomi nuovi. Uno di loro dovrebbe andare in orbita. Però nessuno di loro è Lim Terree, te lo dico io. Lui era un genio, un maledetto genio. Riusciva a fare più lui con una scatola armonica che tre persone messe insieme. Se scopri che cosa lo ha fatto impazzire, ti prego di farmelo sapere.» Si piegò sulle ginocchia e ricominciò a lavorare sul montaggio della scrivania, senza nemmeno accorgersi quando loro se ne andarono. Nella vettura c'era un silenzio circospetto. Tasmin stava tentando di inquadrare ciò che aveva appena saputo all'interno di una struttura che aveva costruito per postulato, e non ci riusciva. Un Lim Terree senza un centesimo. Un uomo che aveva detto la verità quando aveva affermato di non avere il denaro per aiutare Tasmin a soddisfare le esigenze della loro madre. Perché? «Sai dov'è il mercato ittico. Reb?» Il ragazzo arrossì di piacere. Raramente Tasmin lo chiamava con quel nomignolo. «Clarin e io abbiamo studiato per un po' la pianta della città. Credo che riuscirò ad arrivarci.» Ci arrivò, dopo diverse deviazioni, anche se trovare un parcheggio per la vettura fu tutt'altra cosa Il mercato era lungo e stretto, e si stendeva per tutta la lunghezza delle industrie ittiche e dei moli commerciali. I prodotti in mostra comprendevano pesci sia indigeni che pesci allevati fuori sistema, con le pinne, con la conchiglia e con la pelle senza squame. Benché Jubal avesse una fauna terrestre alquanto ridotta - qualche animale come i viggy,
e poche creature simili a uccelli o a insetti - i suoi oceani poco profondi brulicavano di specie, che erano in grado di soddisfare gran parte dei bisogni proteici dei residenti umani. I tre si fecero strada in mezzo alla calca verso l'estremità meridionale del mercato, chiedendo di Vivian Terree a tutti quelli che incontravano. Tasmin la riconobbe appena la vide. Assomigliava così tanto alle vecchie fotografie di sua madre che avrebbe potuto essere una sua stretta parente. Lo stesso viso triangolare, la stessa bocca profondamente incurvata e dalla forma strana, dove il labbro superiore sembrava grande la metà di quello inferiore, il che le conferiva un curioso aspetto esotico. Gli stessi lunghi capelli argentati, anche se Vivian li portava intrecciati e fermati con una spilla perché non le ricadessero sugli occhi. Lim doveva essere stato attratto da quella incredibile somiglianza. «Vivian?'» la chiamò Tasmin. La donna si ravviò una ciocca di capelli con il polso, protendendo le dita insanguinate. Con l'altra mano brandiva un coltello ricurvo. «Sì?» «Vorrei parlarti, se hai un minuto da dedicarmi.» «Non ho un minuto. Non ho affatto tempo. A loro non piace che ci mettiamo a chiacchierare quando dovremmo lavorare.» Il viso e la voce erano così pieni di sofferenza e di preoccupazione da non lasciare nessun margine alla curiosità. «Non posso aspettare che tu abbia finito di lavorare. Mi chiamo Tasmin Ferrence. Sono il fratello di Lim.» Lei lo fissò, mentre gli occhi le si riempivano pian piano di lacrime. La mano con il coltello tremava, come se cercasse di compiere qualche altro gesto ancora più energico. «Accidenti a te.» disse in un bisbiglio rauco. «Accidenti a te, maledetto.» Paralizzato dallo shock, Tasmin non riuscì a muoversi. Clarin avanzò e si mise fra i due, quasi avesse studiato il movimento. «Non dire così, Vivian. Io non so perché tu lo dica. Tasmin era solo un ragazzo quando Lim se ne andò di casa, e non c'è un solo motivo per cui tu debba parlargli in questo modo. Guardalo. Guarda il suo viso. Lui non sa niente. Di qualunque cosa si tratti, lui non sa niente.» La donna stava piangendo, e le sue spalle erano scosse da tremiti. Tasmin si raddrizzò, si guardò attorno e incontrò lo sguardo di un tipo importuno dalla faccia bovina che si stava dirigendo verso di loro con aria minacciosa. Gli andò incontro a sua volta. «Sei tu il supervisore, qui?» L'uomo cominciò a inveire. Tasmin lo fronteggiò. «Sono il Cantore Ta-
smin Ferrence, in missione ufficiale pel la Cittadella. Devo parlare a questa donna, Vivian Terree e intendo farlo. O collabori, oppure riferirò la tua mancanza di collaborazione alla Cittadella. Sta a te scegliere.» Gli improperi si trasformarono in un mugolio, il mugolio in una servile compiacenza. Tasmin lo lasciò a metà del suo inchino. «Clarin, trova un posto in cui possiamo parlare.» Vivian li accompagnò fuori dal mercato, girando sul retro fino a una rampa di scale malmesse che li portarono al secondo piano. Il piccolo appartamento era scrostato e malridotto come le scale, con strette finestre che non riuscivano a ventilare il bilocale miseramente arredato né a mitigare l'insopportabile odore di pesce. Il bambino giocava tranquillamente dentro un lettino con le sponde alte Un maschio, sui due anni o poco più. Quando entrarono si girò a guardarli con curiosità e protese le braccia verso la madre. «Bumba.» «Il figlio di Lim?» «Di Lim. Naturalmente.» La donna riempì una tazza e la avvicinò alle labbra del bambino. «Il piccolo Miles.» Quel nome fu come un colpo al cuore. Lo aveva chiamato come suo padre? Come il padre di Lim e di Tasmin? «Lim non viveva qui?» annaspò Tasmin. «Noi non vivevamo qui. Avevamo una casa, una bellissima casa, sulla scogliera sopra la baia. C'era anche una piccola spiaggia dove Miles poteva giocare. Lim se l'è impegnata.» Miles? «L'hai persa?» «Credo di non averla mai veramente avuta.» Si voltò verso di lui, con gli occhi che avvampavano. «L'avremmo avuta se non avesse fatto quella pazzia. Si è impegnato anche la casa. Si è impegnato tutto quello che avevamo. Una cambiale a cento giorni. In scadenza alla Luna Vecchia. Ma per allora era già morto.» Si chinò sul bambino, piangendo sommessamente. Tasmin rivolse un'occhiata implorante a Clarin. «Lascia che porti un po' fuori il bambino,» disse!a ragazza a Vivian. «Tu e Tasmin dovete parlare.» Uscì insieme a Jamieson, e lui la sentì cantare una nenia infantile sui gabbiani che strillano mentre si atterra. «Vivian. Io non... io non so perché Lim lo abbia fatto. Me lo ha detto il suo agente, ma io non lo capisco.» «Doveva venire da te.» «Da me? Ma se erano quindici anni che non lo vedevo! Gli ho scritto e lui non mi ha mai risposto!»
«Gli hai scritto per chiedergli del denaro. Perché avrebbe dovuto mandarti del denaro?» Tasmin si controllò, e represse la risposta che gli veniva spontanea. «Vivian, io non lo so il perché. Nostra madre aveva bisogno, e io pensavo che Lim ne guadagnasse in abbondanza.» «Non poteva occuparsene il tuo dannato padre?» «È morto. Molti anni fa. Poco dopo che Lim se ne andò.» Dopo la partenza di Lim, Miles Ferrence aveva dato quasi l'impressione di volere inseguire la rovina. Lei stava tremando. «Morto?» Si alzò in piedi, andò nell'altra stanza. Tasmin sentì scorrere l'acqua Dopo un attimo ritornò. Si era lavata il viso e le mani, si era ripulita dal sangue dei pesci. «Morto?» chiese di nuovo. «Che importanza ha?» «Immagino che non ne abbia, adesso. Tutto quello che ha affrontato... solo per dimostrare a se stesso che era all'altezza di quel vecchio disgustoso!» «Se non lo conoscevi nemmeno!» «So tutto di lui.» Riprese a gemere. «Era... era terribile. Oh, Dio, ha fatto così male a Lim.» «Be', anche Lim ha fatto del male a lui.» «Dopo. Lim gli ha fatto del male dopo Ci ha provato più tardi, per pareggiare un po' le cose. Perché non sembrava avere importanza. Povero Lim.» «Non capisco.» «Quanti anni hai?» gli chiese all'improvviso, con gli occhi che sembravano volerlo fulminare. «Trentadue.» Lei contò mentalmente, scuotendo la testa. «Lim ne aveva trentasette, quasi trentotto. Quando successe ne aveva appena dodici. Quindi tu ne avevi solo sei o sette. Forse non lo sapevi. Immagino di no.» Si piegò in avanti, e pianse ancora. «Vivian, ti prego. Parlami. Io non so che cosa sia successo. Non so di che cosa tu stia parlando. Sì, a volte mio padre era una persona molto sgradevole. Sì, penso che sia stato più duro con Lim che con me perché lui era più grande.» «Duro! Se fosse stato solo duro lo avrei già perdonato.» «Non so di che stai parlando. Vorrei capire, ma non ci riesco. Proprio non ci riesco.»
«Davvero non lo sai?» «Non lo so, te lo giuro.» Lei si rialzò, sì asciugò gli occhi e si mise a passeggiare per la stanza, prendendo degli oggetti e rimettendoli subito giù. Andò alla porta e diede un'occhiata al figlio, seduto sulle ginocchia di Jamieson mentre Clarin gli dava un biscottino. Il topo era nuovamente sulla sua spalla e il bambino non riusciva a decidersi se guardare le mani di Clarin o l'animaletto. «Quando Lim aveva dodici anni,» cominciò Vivian, «fu mandato alla scuola di coro.» Tasmin annuì. Tutti i Cantori e gli aspiranti Cantori andavano alla scuola di coro «C'era quest'uomo, l'assistente del Mastro di Coro. Lim mi ha detto che si chiamava Jobson. Martin Jobson.» «Il nome non mi dice niente, Vivian.» «Probabilmente era già andato via da diverso tempo quando tu... Insomma, era uno di quegli uomini che... come li definisci?» Fece una pausa, pallidissima in volto. «Un uomo che fa sesso con i ragazzi?» Tasmin fece scorre la lingua in una bocca improvvisamente secca. «Vuoi dire un pedofilo?» «Lo ha fatto con Lim.» «Oh, signore. Che cosa orribile...» «Avrebbe potuto superarla, credo. Avrebbe potuto davvero. Ha detto che avrebbe potuto farcela e io gli ho creduto. Ma Lim andò a casa e lo raccontò a suo padre, a tuo padre.» Tasmin chiuse gli occhi, visualizzando l'incontro. Non c'era bisogno che Vivian andasse avanti. Sapeva già che cosa avrebbe detto. «Tuo padre gli disse che doveva essere stata colpa sua, di Lim. Tuo padre disse che doveva averlo chiesto lui, che lo aveva invitato a farlo. Che in qualche modo aveva sedotto quell'uomo. Tuo padre gli disse che era rovinato, corrotto. Questo è il termine che Lim usava sempre, corrotto. Disse a Lim che era sporco, un pervertito, e che non poteva più volergli bene.» «No.» mormorò Tasmin, sapendo che era la verità. «Oh, no.» «Tuo padre aveva questo viggy che stava per dare a Lim, e invece lo diede a te Perché tu eri un bravo ragazzo. Puro, disse.» «Il mio viggy...» «Lim lo liberò. Se non poteva averlo, non voleva che lo avessi nemmeno tu. Perse la testa, mi disse. Sentiva il viggy che cantava per lui, parole che lui riusciva a capire, come un sogno. Ebbe delle allucinazioni. Poi.. poi
non gli importò più niente di quello che faceva. Era già rovinato È questo che pensava...» «Perciò quando se ne andò...» «Cominciava appena a ritrovare un po' di equilibrio. Un minimo.» «Ah.» Fu un grugnito. Come se gli avessero dato un calcio nello stomaco. Tasmin si alzò e andò alla porta, passeggiò un poco lungo la stretta veranda e si appoggiò alla ringhiera. Il blu porpora della baia si stendeva da una parte e dall'altra fino ai due promontori, e oltre la baia, fino all'oceano. Riuscì a distinguere, lontanissime, le torreggianti boe della piattaforma di Splash, dove atterravano le astronavi. La smisurata massa oceanica proteggeva il pianeta dal loro rombo devastante. Le navi andavano e venivano, ma le fondamenta di quel mondo non ne venivano nemmeno sfiorate. Diversamente dagli uomini, le cui fondamenta tremavano quando venivano a conoscenza di cose nuove. Diversamente dai fratelli, quando scoprivano che quello amato e disprezzato non era affatto da disprezzare, e non era stato amato abbastanza. «Dio,» esclamò. Era una preghiera. «Mastro?» Jamieson era accanto a lui, la mano protesa, il volto contratto per la preoccupazione. «Sto bene.» Tornò nella squallida stanzetta. «Vivian, Io ti aiuterò. Ti aiuterò in ogni modo che mi sarà possibile. Te e il bambino.» «In che modo?» «Non lo so. Non adesso, ma vi aiuterò. Verresti a Terrafonda Cinque? Mia madre ti accoglierebbe a braccia aperte... No! Non fare quella faccia! Lei non sapeva. Te lo giuro, non lo sapeva Mio padre... per molti versi è stato un uomo crudele, Vivian, ma né io né mia madre sapevamo niente di ciò che mi hai raccontato. Lim non ci ha mai detto niente.» La cinse con le braccia. «Amava ancora suo padre,» disse lei, piangendo. «E si vergognava.» Giunse Clarin con dei bicchieri di tè bollente acquistati da un venditore nel trambusto del mercato. Jamieson uscì e tornò poco dopo con dei pezzi di croccante pesce fritto mentre il bambino, appollaiato sulle sue spalle, gridava: «Pesse, pesse caddo.» I due novizi rivolsero a Tasmin un'occhiata inquisitoria, quasi a cercare segni di danno o di malattia, e lui tentò di sorridere per rassicurarli. Ma i due ragazzi non si sentirono affatto rassicurati. Si misero a sedere per un po'. Alla fine Vivian disse qualcosa a proposito del bambino, e mentre lo diceva il suo volto si addolcì. Tasmin le domandò: «Lo sai che cosa stava facendo Lim, Vivian? E per-
ché lo faceva?» «Doveva raggiungerti,» rispose la donna. «È tutto quello che so di preciso. Gli serviva qualcosa da Don Furz, e tu l'avevi. E mi ha detto che fosse riuscito ad averla, noi saremmo diventati ricchi. La sua famiglia sarebbe stata orgogliosa di lui, e avremmo avuto tanti soldi.» «Nient'altro? Solo questo?» «Tutto qui. Era un segreto, ha detto. Un segreto terribile.» Non sapeva altro. La lasciarono lì promettendole di ritornare. Tasmin le diede tutto il denaro che aveva con lui, sufficiente per qualche giorno. «Non tornare al mercato,» le disse. «Non hai bisogno di fare quel lavoro.» Mentre andavano verso la vettura Tasmin si infilò la mano in tasca e tirò fuori l'orecchino di Celcy. Rimase in piedi accanto alla vettura, fissandolo a lungo. Tutto ciò che gli era rimasto di lei. Tutto lì. «Jamieson.» «Signore?» «Tu sei un tipo in gamba, Reb. Da qualche parte, in questo guazzabuglio, ci sarà pure qualcuno che acquista pietre preziose. Un paio di questi mi sono costati quattrocento crediti. Le pietre di selce sono più preziose qui che nell'interno. Dovresti riuscire a ricavare almeno cento crediti da quest'orecchino, il valore delle pietre. Sono sufficienti per acquistare un passaggio per una donna e un bambino, no?» Fu Clarin a rispondere. «Sì, signore. Più che sufficienti.» C'era una nota di dolore nella sua voce, ma Tasmin non ci fece caso. La ragazza stava lottando per impedirsi di gettargli le braccia al collo, ma lui non si accorse nemmeno di quello. Il suo viso era così stanco e pallido che lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per confortarlo. La cosa migliore che poteva fare era non dire niente. «Puoi fare anche quello?» chiese Tasmin a Jamieson. «Trovare un passaggio? Un viaggio che parta prima possibile, con qualcuno che sia affidabile. Per l'Itinerario Meridionale, direi. È più lungo, ma da molto tempo non si verificano incidenti.» «Sì, signore.» Jamieson e Clarin si scambiarono un'occhiata che ormai Tasmin aveva imparato a riconoscere. «Sto bene. Voi avete sentito tutto dalle scale, lo so. È... ecco, è orribile scoprire che qualcuno che hai...» «Odiato?» Clarin piegò la testa di lato, fissandolo con occhi compassionevoli. «Immagino di sì. È orribile scoprire che qualcuno che hai odiato non lo
meritava. È come se quel sentimento negativo ti si ritorcesse contro.» «Non è stata colpa tua. come non lo fu di Lim,» disse Clarin, guardandolo di sottecchi. «Scusami, signore, ma tuo padre dev'essere stato proprio un bastardo.» «È vero.» Tasmin sospirò. «Lo è stato sotto molti aspetti, Clarin.» «E adesso che facciamo?» chiese Jamieson. «Ritorniamo indietro per la stessa strada?» «Tornare indietro?» Tasmin scosse la testa, domandandosi per un attimo di che cosa stesse parlando il ragazzo. «A Terrafonda Cinque? Naturalmente no, Jamieson. Il mistero non è stato ancora svelato, non è così? Io ancora non so che cosa stesse facendo Lim. Ancora non so perché Celcy è morta!» «E allora dove si va, signore?» «Da Don Furz. È l'unico indizio che ci resta.» Donatella Furz fece ritorno alla Casa del Capitolo di Northwest nel tardo pomeriggio del giorno concordato, dopo aver raggiunto la Costa in una piccola nave da trasporto della BDL, e poi da lì verso l'interno su un carro di vettovaglie. Zimmy l'aspettava, e aveva certamente organizzato qualcosa di speciale, a metà fra la cena e il divertimento. Don aveva bisogno di lui. aveva bisogno di parlargli. Gli avvenimenti degli ultimi tre giorni erano stati tanto spaventosi quanto sconcertanti. Continuava a pensare a Gretl, anche se ciò che era successo a lei era niente, rispetto a ciò che era successo alla sua amica, a parte la stessa atmosfera di spietata minaccia Nel momento del pericolo Don non aveva avuto il tempo di spaventarsi. Solo dopo, ripensandoci, ricordando quanto avesse sfiorato la morte in entrambe le occasioni, si era sentita invadere da un sudore freddo e da una stretta allo stomaco. Adesso doveva confidarsi con qualcuno. Con qualcuno che le fosse molto vicino. E chi poteva essere se non Zimmy? Si scoprì a prepararsi la conversazione che avrebbe avuto con lui, e già immaginava le sue esclamazioni preoccupate. Lui già sapeva di Gretl... avrebbe capito la sua paura. La sola idea di parlarne con lui già la faceva sentire meglio, come se il semplice fatto di poter dividere con qualcuno le sue paure e i rischi che correva rendessero il tutto in qualche modo più sopportabile. Se c'era qualcuno di cui poteva fidarsi, quello era Zimmy. Anche se ancora non gli aveva detto niente, adesso lo avrebbe fatto. Doveva riuscire a parlare con qualcuno!
Zimmy, comunque, non la stava aspettando. Lei non voleva offrire all'uomo uno spettacolo indecoroso di se stessa in fondo era un addetto ai servizi, e il Re Esploratore aveva già espresso chiaramente il suo parere sull'argomento - perciò si fece una doccia, si cambiò e si recò in sala riunioni per un drink e per fare le solite quattro chiacchiere. Chase Random Hall era al solito posto, una sedia dallo schienale alto che assomigliava inconfondibilmente a un trono Don fece un cenno nella sua direzione e ne ricevette un cenno in risposta. «Tutto bene, Don?» la salutò, attirando su di lei gli sguardi di tutti i presenti. Accidenti a lui. «Tutto bene, Randy,» gli rispose con un sorriso smagliante. «Il dottore dice che sopravviverò.» Gironzolò qua e là, scambiando i pettegolezzi di Splash Uno con quelli di Northwest. Venne annunciato il pasto della sera, e ancora non c'era nessuna traccia di Zimmy. Adesso cominciava a preoccuparsi, appena un po'. Si era dimenticato la data del suo ritorno? In tal caso si sarebbe profuso in scuse e costernazioni, prendendosi in giro da solo. O gli era successo qualcosa? Allontanò il pensiero. Era già abbastanza che qualcuno cercasse di uccidere lei; di certo non c'era nessun motivo perché qualcuno volesse uccidere Zimmy. Naturalmente poteva sempre capitare qualche imprevisto. «Non vedo in giro Zimmy,» disse alla sua vicina di tavolo. «Zimmy? Ho, è andato via. Dunque, l'ho visto uscire dal cancello piccolo a metà pomeriggio. Mi ha detto che andava a fare spese, e poi a uno spettacolo di dilettanti con gli amici.» «Ah.» Mantenne il tono della voce attentamente casuale. «Dopo quello che ho visto a Splash Uno, mi preoccupo subito se non vedo più qualcuno in giro» La conversazione si spostò su Gretl Mechas, e lei cambiò subito discorso. Parlarono dei Cristalliti, sospetti e palesi, ma Don non riusciva a spiegarsi la cosa. Doveva essersene dimenticato, anche se di solito Zimmy non dimenticava. Non dimenticava mai nulla. Era il tipo d'uomo capace di ricordare ogni singola parola di conversazioni avute anni prima; il tipo d'uomo che inviava biglietti d'auguri per gli anniversari più sconosciuti; il tipo d'uomo che faceva fare affari ai negozi di oggetti da regalo. Aveva un piccolo taccuino con tutte le date di nascita delle persone. Questo suo talento minore, o vizio, avrebbe fatto di lui un semplice pignolo portato all'adulazione, se non fosse stato per il suo fascino e per il suo senso dell'umorismo. No, lei non riusciva ad immaginare Zimmy che dimenticasse qualcosa.
Quando ritornò lei era nel salotto, in un angolo, seminascosta dai suoi compagni di tavolo. Lo vide nell'atrio che controllava la tabella dei messaggi. Ralth era nel bel mezzo di una storia complicata che lei preferì non interrompere, perciò non chiamò, né fece gesti con la mano, ma si limitò a fissarlo da sotto le palpebre abbassate. Zimmy si girò, il volto mutevole piegato in un'espressione sorridente all'osservazione di qualcun altro. E la vide. Don chiuse gli occhi, atterrita per ciò che aveva sorpreso sul suo viso. Una violenta emozione, e un grande stupore. Non si aspettava di vederla lì. Non si aspettava di vederla affatto. Lei boccheggiò e si mise una mano sulla gola, senza alzare gli occhi. Era qualcosa di difficile da mandare giù. Deglutì. «Don? Che ti succede?» Ralth la stava guardando con una certa preoccupazione. «Mi è andato qualcosa di traverso. Ero così presa dal tuo racconto che ho respirato male.» Fece una risata e alzò gli occhi. Eccolo lì. Zimmy. Adesso la guardava raggiante. La salutava con la mano. Se non lo avesse notato in quella frazione di secondo, sarebbe stata certa che lui era contento di vederla. Gli restituì il saluto, come se non avesse nessun problema al mondo. Dentro, una parte di lei si mise a gridare. Se non si aspettava di vederla, allora doveva aspettarsi che non fosse lì. Che non fosse da nessuna parte. Che fosse morta. Zimmy. Proprio così. Proprio così, Donatella. È un uomo della Casa del Capitolo. Un impiegato. È qui per il tuo benessere e per il tuo piacere. Pensavi che l'amore cambiasse tutto questo? Pensavi che ti amasse solo perché affermava di amarti? Un impiegato è un impiegato, cioè un uomo che lavora per denaro, ama per denaro. Chi lo aveva pagato? La storia di Ralth si concluse con un generale e divertito scetticismo. Lei si scusò e andò a salutare Zimmy nascondendo il suo tormento interiore, facendo finta di niente. «Zimmy! Signore, è bello essere tornata. Splash Uno è un manicomio.» Aveva la gola stretta, ma la sua voce aveva un tono normale. «Sei pallida, tesoro Perché non te ne vai di sopra e non ti metti comoda, così ti farò un bel massaggio sulla schiena?» Le rivolse un'occhiata obliqua e maliziosa, un segno in codice con qualche allusione erotica. No, oh no. «Andiamo su,» disse. «Ma solo per qualche minuto. Sono distrutta dalla
stanchezza. A Splash Uno non sono riuscita a chiudere occhio. È troppo rumorosa.» Lo precedette e cominciò a salire le scale, sempre parlando. «Zimmy, lo sai che ho visto?» Gli descrisse l'immolazione del Cristallita. rabbrividendo in modo drammatico. Giunta nella stanza si mise a sedere su una sedia e si sfilò le scarpe, indicandogli l'altra sedia. «Non ti va un bel massaggio? Dormiresti meglio.» «Zimmy. vecchio amico mio, ti rivelerò l'assoluta verità. Alla Casa del Capitolo di Splash Uno c'era un uomo incredibile.» Gli descrisse Blanchet, accentuando certi suoi attributi che erano solo frutto di congetture, e accennando a qualche eccesso sessuale, poi concluse: «Perciò l'unica cosa che ho voglia di fare è andare a letto. Da sola.» Il mento di Zimmy tremava davvero. Le lacrime gli scendevano dagli angoli degli occhi. Dio, quell'uomo meritava un premio per l'interpretazione. Donatella si costrinse a protendersi in avanti e a dargli una pacca sulla spalla. «Oh, Zimmy. Andiamo. Non significava niente per me. Non era come fra noi. Però sono stanca. Adesso vai. E non farti vedere da Randy così sconvolto o ti farà una ramanzina in pubblico.» Sbadigliò, gli aprì la porta nonostante le sue deboli proteste, e la richiuse a chiave quando fu abbastanza lontano da non sentire. Dio. Era in gamba. Gli aveva quasi creduto. Se non fosse stato per quella frazione di secondo... Avrebbe scommesso qualsiasi cosa che se anche non era direttamente responsabile degli attentati alla sua vita, era però coinvolto nella faccenda. Per chi lavorava? In quella casa lavorava per il direttore dei servizi. Il direttore dei servizi lavorava per il Priore. Il Priore lavorava per il responsabile della BDL presso il Dipartimento dell'Esplorazione... come si chiamava? Era un uomo nuovo. Bard Jimbit. Bard Jimbit lavorava per Harward Justin, Direttore Planetario. Tutti loro lavoravano per la BDL. O forse Zimmy lavorava per il Re Esploratore, in via non ufficiale, perché la posizione di Randy era più onoraria che altro, e non implicava alcuna vera autorità. Era giunto a quella posizione, unico fra i tre o quattro attuali Esploratori delle diverse parti di Jubal a riuscirci, per elezione da parte dei suoi pari. I Re venivano eletti per rappresentare gli Esploratori nei rapporti con la BDL, per condurre le trattative dei contratti e per dipanare le dispute. Un Re doveva essere in teoria apolitico, anche se tutti sapevano che un processo molto politico di acquisizione di favori portava poi all'elezione. Faceva parte di tutto quell'insensato rituale di cui Erickson aveva caricato l'ordine. Teoricamente Don doveva fedeltà al Re, e per fedeltà si
intendeva un mucchio di cose, dal cedergli il posto a tavola fino all'andarci a letto, se lui glielo chiedeva. Chase Random Hall era troppo intelligente per provocare risentimenti chiedendo qualcosa. Otteneva ciò che voleva senza nemmeno doverlo chiedere. Anche lui la voleva morta? Chi la voleva morta? Come era morto veramente Lim Terree? In un incidente? O era rimasto vittima di qualche figura con il cappuccio nero che era spuntata dalla notte? Don si alzò e andò a controllare la serratura, poi si aggirò per la stanza esaminando senza darlo a vedere le pareti e il soffitto. C'erano forse congegni di ascolto nelle pareti? C'erano degli occhi? Qualcuno l'aveva spiata nella sua stanza mentre studiava gli appunti di Erickson? E quegli appunti erano al sicuro dove li aveva nascosti, dentro lo sgabuzzino, all'interno della fodera degli stivali? Era una strana, sconvolgente sensazione, quella di andare in cerca di spie proprio lì a Northwest. Si era aspettata che ci fossero occhi e orecchie a Splash Uno, ma non avrebbe mai pensato che potessero essercene anche lì. E perché no? Perché era casa sua. Chi, qui a casa sua, aveva pagato Zimmy? Chi, qui a casa sua, la voleva morta? Quando riuscì a prendere sonno era quasi l'alba. Nel lussuoso appartamento di rappresentanza del palazzo della BDL di Splash Uno, Chase Random Hall era ospite a cena da Harward Justin, Direttore Planetario della BDL. A quanto si sapeva non erano amici, ma Justin aveva affermato qualche volta di trovare il Re Esploratore una compagnia arguta e piacevole, le cui vedute sulle necessità e sui desideri degli Esploratori erano molto apprezzate dall'amministrazione. Almeno questa era la spiegazione ufficiale che Justin forniva per i loro incontri occasionali. La base occulta dei loro rapporti, invece, era quella dell'interesse reciproco. Proprio in quel momento stavano discutendo il negoziato per l'imminente contratto della Corporazione degli Esploratori. «Cominceremo gli incontri per il nuovo contratto la settimana prossima,» disse Randy, annusando il suo bicchiere di broundy. «Probabilmente vorrai che ti illustri le istanze.» «Ho sentito quella vecchia sciocchezza, che gli Esploratori richiederanno un'assistenza medica più estesa,» disse Justin con la sua voce pesante, priva di umorismo. Justin era un uomo massiccio, dall'aspetto imponente, dotato di una calma sinistra. In pubblico non si concedeva mai un atteg-
giamento che turbasse quell'immagine, anche se i suoi piaceri privati erano un po' meno controllati. I suoi piaceri li concedeva solo a se stesso, mentre qualcun altro doveva sopportare la sua collera, in genere il suo agente, Spider Geroan. «Un'assistenza medica piuttosto costosa» Il Re Esploratore cercò ispirazione nel fondo del bicchiere. «La stanno prendendo molto sul serio, Justin.» «Chi?» «Parecchi. La nostra piccola amica Don Furz, tanto per fare un nome. Il suo amante è ancora sulla carrozzina, lo sai. Da cinque anni.» «È una persona sola.» «Ce ne sono altre.» «Non molte. Tu devi sottoporgli di nuovo la proposta del ricovero in camera singola. È dannatamente più conveniente pagare qualche addetto ai servizi in più che trasferire qualcuno a Serendipity e sostenere la spesa della rigenerazione. Riferiscigli dei progressi che abbiamo già fatto. Adesso c'è una forma di rigenerazione minore disponibile anche qui su Jubal.» «Abbiamo solo macchinali per parti come occhi e dita, e per rimuovere le cicatrici. Non servono a molto, se hai perso un braccio o una gamba.» Justin aggrottò la fronte. «Il contratto degli Esploratori non dovrà cambiare di una virgola. Hall! Falla finita con queste richieste.» La minaccia nella sua voce era tangibile. «Sbandieragli davanti la camera singola e non preoccuparti del resto.» «Così non ci sarà nessuna variazione,» disse il Re. «Il che significa...» «Il che significa che non devi fare troppe domande. Hall, e che devi lasciar perdere ogni speculazione.» La voce di Justin era melliflua e insinuante, ma il Re fece finta di non accorgersene. «Il Governatore sta rinviando pericolosamente la faccenda.» «Agire contro i Cristalliti, vuoi dire?» Justin fece un sorrisetto cinico. Il Governatore stava facendo esattamente ciò che Justin gli aveva detto di fare. «Magari aspetta un incidente più clamoroso.» «Lo avrà. È inevitabile.» «Può darsi che voglia avere fra le mani qualcosa di irrefutabile, di indiscutibile. Un omicidio eccellente, forse. Qualcosa che giustifichi l'intervento forzato dei militari.» Justin agitò il bicchiere e trangugiò l'ultimo goccio di broundy, poi premette il bottone per avvisare uno dei camerieri sordi e muti che servivano nell'appartamento di rappresentanza. «È possibile che la Commissione CACCIA non possa iniziare le sedute finché i Cristalliti non saranno stati trasferiti nel campo di concentramen-
to?» «Verranno trasferiti in tempo, subito prima che la commissione sia pronta a riunirsi. Ymries Fedder, il figliastro del Governatore, ne sarà il presidente» Justin non era del tutto soddisfatto di quella nomina, ma si era trattato di un favore necessario, deciso nelle alte sfere del CSP. Il Governatore Wuyllum Thonks aveva delle amicizie, al CSP, anche se Justin non riusciva a capire come facesse. Il Re rifletté. «Immagino che le conclusioni siano già decise. La Commissione scoprirà che non c'è nessun motivo di credere nell'esistenza di una vita senziente nelle Presenze...» «Dopo di che,» disse Justin con un sorriso gelido e spietato, «scopriremo di avere una maggiore penetrazione economica all'interno di quella che abbiamo adesso.» Seguì un silenzio significativo. «I Cantori si infurieranno,» disse il Re. «Per non parlare degli Esploratori.» «Ti preoccupa davvero?» chiese Justin, cautamente. «Ogni volta che controllo il mio conto in banca su Serendipity mi preoccupa di meno.» Tracciò dei cerchi sul tavolo con il bicchiere. Hall riteneva che il broundy fosse un liquore sopravvalutato. L'effetto era piacevole, ma il sapore lasciava molto a desiderare. Lui preferiva i liquori a base di frutta, quelli d'importazione. «Il conto è arrivato a una cifra considerevole. Per cui sono non posso che continuare ad offrire tutto il mio impegno. Il che mi riporta a Donatella Furz.» «Ne hai già parlato. Che cosa vuoi insinuare, Randy? Che abbia scoperto chissà quali segreti? Che abbia trovato la Chiave d'Accesso? Che sia giunta a qualche verità fondamentale che a tutti noi è sfuggita?» Justin scosse la testa e si appoggiò allo schienale della sedia, accettando un bicchiere pieno da un cameriere assolutamente inespressivo. «Oh, lascia perdere, Justin. Tu sai benissimo che cosa mi preoccupa. Se ha scoperto qualcosa di basilare per quanto riguarda il linguaggio e l'intelligenza delle Presenze, siamo finiti. Tu. io, l'intera BDL.» Harward sollevò una narice. Povero sciocco, convinto che i suoi piccoli crucci non siano già stati anticipati da persone molto più intelligenti e potenti di lui. Povero, insignificante sciocco. Il suo tono, però, fu di comprensione. «Ha detto qualcosa, che ti faccia credere una cosa del genere?» Il Re rifletté per un attimo, poi scosse la testa con riluttanza. «No. Ho un uomo che le è molto vicino, e secondo lui ha qualcosa fra le mani, ma è stata molto prudente. Non ha nessuna prova, ancora.»
«E allora?» Harward si concesse un piccolo ghigno. «In uno degli ultimi viaggi è stata ferita. Una brutta ferita sul braccio.» «Non è una novità, per un Esploratore. I cristalli infranti sono come affilati come rasoi, a quanto mi risulta.» «Scommetterei che è stato un coltello. Qualcuno ha cercato di farla fuori.» «Ah. E questo ti rende sospettoso?» «Perché, tu non lo saresti?» «Io invece sarei portato a chiederti, Randy, come mai la cosa ti interessi così tanto.» Randy ringhiò. «L'Enigma è stato tentato e ritentato più di una volta. Non può essere andata fin là ed averlo risolto tutto da sola, con quella piccola scatola armonica.» «Erickson lo ha fatto.» «Non l'Enigma!» «Voglio dire che Erickson ha scoperto diverse chiavi d'accesso tutto da solo, con la sua piccola scatola armonica. Perché sei così convinto che Furz non possa averlo fatto?» «La conosco. So come funziona la sua mente. Non ne è capace. È in gamba, ma non è come Erickson.» Questa è semplice gelosia, pensò Justin. Chase Random Hall era uno degli Esploratori politicamente più astuti di Jubal, ma non uno dei più dotati. «Be', per quanto ne sappiamo, la partitura potrebbe anche non funzionare. Mi risulta che non è neanche programmata per il collaudo. Potrebbe essere un bidone completo.» Il Re scosse la testa, una smorfia d'ingordigia all'angolo della bocca, le sopracciglia ben formate incurvate verso l'alto in un'espressione di disapprovazione. «Non è un bidone. Il Priore precedente della nostra Casa del Capitolo ha ricevuto un comunicato dal Mastro Generale della cittadella di Terrafonda Cinque. La cosa funziona.» «E allora?» «Se Donatella se ne uscisse proprio adesso con una scoperta di tipo linguistico, sarebbe il momento peggiore, no?» «Proprio il momento peggiore. Se venisse fuori. D'altra parte, Hall, sarebbe il momento peggiore anche se dovesse succederle qualcosa di spiacevole. È importante che la decisione della Commissione sia inattaccabile. Don Furz è uno dei testimoni più importanti da convocare. Un incidente sospetto potrebbe sollevare un bel po' di interrogativi, e noi non lo vogliamo.»
«Pensavo solo...» «Non farlo. Non pensare, Randy.» Justin non voleva subalterni che lavorassero di testa loro. Avrebbe trovato lui stesso una soluzione definitiva per Donatella Furz. Una che avrebbe agevolato i suoi piani. Donatella era un Cavaliere Esploratore molto conosciuto. Il suo assassinio avrebbe indubbiamente sollevato un gran polverone. Justin guardò Hall con una smorfia ironica. «Lei non ti piace, vero?» «Donatella?» Randy scoppiò a ridere, una risata chioccia e stridula, senza allegria. «Come puoi dire una cosa del genere? È una donna affascinante. Adorabile, intelligente, devota.» «Non ti piace, vero?» ripeté il Direttore Planetario, ancora divertito. «Mio caro Justin,» sogghignò Hall. «Come hai fatto a capirlo?» Harward Justin gli mostrò i denti, un atteggiamento che il Re Esploratore conosceva fin troppo bene. Quando parlò, lo fece con sinistra dolcezza. «Non lasciare che la tua avversione prevalga sul buon senso, Hall. Ti ho già detto che in questo momento non voglio che le accada niente di sgradevole. Spider Geroan lavora sempre per me. Sarà meglio che non te ne dimentichi.» Il Re Esploratore sorrise. Gli occorse tutto l'autocontrollo di cui era capace per inventarsi quel sorriso. Aveva incontrato Spider Geroan solo una volta, e non aveva la minima intenzione di rivederlo ancora. CAPITOLO SETTIMO Sua eccellenza il Governatore Wuyllum Thonks se ne stava beato insieme alla moglie e alla figlia nella piccola sala riservata della Residenza Governativa, dopo aver mangiato bene e bevuto ancora meglio. «Wully,» gli disse Lady Honeypeach Thonks, tamburellando sul tavolo con i suoi copriunghie ingioiellati mentre scorreva un elenco stampato. «Devo proprio invitare quella orribile Vox alla serata? Puzza come un cavallo.» «Non sarebbe una buona mossa politica escluderla,» rispose una voce tranquilla dalla stanza accanto, in cui Maybelle Thonks alzò gli occhi dal suo libro per proseguire il rimprovero. «Soprattutto se inviti la crema della BDL al completo.» «Ma gli altri non puzzano come lei. E poi non sono affari tuoi, Mayzy. Di solito non ti fai nemmeno vedere.» «Vorrei che non mi chiamassi Mayzy, Peachy. È un nome che detesto.»
Maybelle si accigliò e tornò a leggere. Riprendere Honeypeach, la sua cosiddetta matrigna, era un passatempo pericoloso e Maybelle si proponeva sempre di non farlo. Però continuava a farlo. Era come una bolla che si doveva grattare. Accidenti a quella donna! La matrigna sollevò un piede e non rispose. C'era una serva inginocchiata che strofinava energicamente il suo piede, le cui condizioni sembravano di preminente interesse. «Non mi piace il colore di quel lucido, ragazza. Prova quello rosa.» Si chinò in avanti per passare la mano sulla parte esterna di un grosso pollice. «Lì c'è ancora un po' di callosità. Strofina un altro po'.» Tornò all'elenco. «Ho invitato il colonnello Roffles Lang per te, Mayzy.» «Ha almeno cinquant'anni. Perché non uno dei funzionari più giovani, se lo hai fatto per me?» In realtà Maybelle si era già organizzata per avere un accompagnatore, anche se rivelarlo sarebbe stato molto pericoloso. «Dovevo invitarlo comunque.» E vuoi i più giovani per te. pensò Maybelle tornando al suo libro. Alcuni dicevano che il padre di Maybelle, il Governatore, era un esperto nell'inazione eccellente, frase in codice per dire che era ben pagato per non fare niente. Di certo nel caso della moglie la sua inazione era leggendaria. Maybelle sì domandò se fosse eccellente. Forse a lui piaceva guardare Honeypeach che aspettava sdraiata la sua preda? O godeva quando alla fine lei la catturava? Ed era ancora lì a guardare, al momento dell'uccisione? Maybelle rabbrividì e cercò di seppellirsi della Storia del Sistema di Jubal, capitolo secondo: "Serendipity e Jubal, i pianeti gemelli." «Ti piacerebbe se invitassi qualche Cavaliere Esploratore, Wully?» «Quella carina di Northwest,» grugnì lui. «La conosci.» «Donatella Furz?» Honeypeach sorrise dolcemente, tornando ad esaminarsi il piede e approvando il colore della lacca che le era stata applicata sulle unghie. «Chiunque, ma non lei, amore. Ha ucciso il mio dolce Limmie, è stata lei.» «Su, siamo onesti.» Maybelle posò il libro e abboccò all'amo. «Non è stata lei. Lim Terree è morto sull'Enigma mentre cantava una nuova partitura che aveva creato Don, tutto qui. Lui non era un Cantore, per l'amor di Dio. Non avrebbe mai dovuto provarci. Era drogato e si è ammazzato da solo. Don non c'entra niente. La conosco, è grande.» «Dove hai saputo tutte quelle cose?» le domandò suo padre, in qualche modo minaccioso nel suo inatteso interesse, come un grosso rettile assonnato che si fosse risvegliato in preda all'ira. «Tutte quelle cose su Terree?
Erano informazioni riservate che l'ufficio del Gran Mastro ha comunicato al mio. Non ho reso mai pubbliche quelle informazioni.» «Be', ne parlavano tutti i tuoi dipendenti,» rispose Maybelle, rifiutandosi di farsi intimidire. «Erano tutti naturalmente interessati. Tutti sapevano che Lim Terree era uno dei protetti di Honey.» Che è, concluse la ragazza fra sé e sé, un eufemismo per porre fine a tutti gli eufemismi. Anche se, ripensandoci bene, era parso che Terree mantenesse le distanze. Diversamente da qualche altro. Chantry, per esempio. Chantry avrebbe finito col farsi divorare vivo. Di lui sarebbero rimasti solo i denti. Gli uomini che si avventuravano nella tana di Honeypeach ne uscivano come carogne. Lady Honeypeach notò quella parola, "'protetto", e appose una tacca mentale nel suo libro nero. Maybelle aveva un bel numero di tacche accanto al suo nome, ma non era la sola. Insieme a lei c'era anche Donatella Furz. «Non inviterò Furz.» disse a Wuyllum. «Non mi piace. Ha ucciso il mio Limmie e poi è stata sgarbata con me al ricevimento del CSP. Ma inviterò i nuovi arrivati. Quelli che hanno la chiave d'accesso per la Gola della Follia.» «Se intendi il Cantore e i due novizi di Terrafonda Cinque, è troppo tardi,» mormorò Maybelle. «Partono domani per Northwest.» Honeypeach fece una smorfia. Dal palazzo del Governatore spesso usava il telescopio per curiosare nel cortile della Cittadella. Il Cantore biondo assomigliava molto al suo povero Limmie. Tutta quella massa di capelli argentati, quel viso bello e stretto, e quelle sambe così lunghe e dritte. Molto appetibile. Molto, molto appetibile. CAPITOLO OTTAVO Tasmin e i novizi decisero di trasportare i loro muli a Northwest. Andarci a dorso di mulo non era una cosa sensata. Il viaggio avrebbe richiesto da sei a dieci giorni, durante i quali potevano inviare Don Furz dovunque. Un camion che rimorchiasse un carro di muli ce la poteva fare in un giorno o due, a seconda delle prenotazioni del traghetto. «Possiamo prendere a prestito dei muli nella Cittadella di Northwest,» ricordò loro Tasmin per la terza volta. «Non c'è bisogno che ci portiamo i nostri.» «Io voglio bene a Jessica,» disse Clarin. «Le voglio molto bene e preferirei non lasciarla qui, se non ti dispiace.»
Tasmin non ebbe niente da obbiettare. Il rapporto di fiducia fra Cantore e cavalcatura doveva essere assoluto. Gentili, mansueti, sensibili... i muli dei Cantori erano tutti così, oltre ad essere sterili, come esigevano le disposizioni del CSP. Gli asini e le giumente, sulla costa, venivano tenuti in recinti rigidamente separati, e le femmine ingravidate con l'inseminazione artificiale. Analoghe precauzioni venivano prese per la riproduzione dei pesci e del pollame. Finché non ci fosse stata una dichiarazione definitiva sull'esistenza o meno di una vita indigena senziente, sui pianeti controllati dal CSP non era ammessa la libera riproduzione delle creature importate. Esseri umani esclusi, naturalmente, partendo dal presupposto che se fosse stato necessario evacuare il pianeta, ogni umano sarebbe stato deportato. La maggior parte del bestiame, pollame e pesci sarebbe stato ucciso prima della partenza degli umani. Con l'eccezione dei muli, perché si riteneva generalmente che i Cantori non lo avrebbero permesso, e comunque entro una generazione sarebbero tutti morti. Gli alberi e gli arbusti importati erano sterili. Le piantagioni sarebbero state eliminate, con l'esclusione del cespuglio del colono, che era una specie indigena con miglioramenti di scarsa importanza. Se la nuova commissione di cui avevano sentito parlare avesse dichiarato che su Jubal esisteva una vita autoctona intelligente e avesse imposto lo sgombero, Jubal poteva essere lasciato così com'era prima della venuta della razza umana. Solo che la BDL non voleva che ciò accadesse. «Tieniti Jessica,» disse Tasmin. «Tieni pure il tuo mulo, Clarin. Confesso anch'io di avere un debole per Biondine.» «Io no,» grugnì Jamieson, accarezzando le orecchie del suo mulo. «Questo vecchio animale dalle orecchie lunghe non ha un briciolo di buon senso.» Il mulo si girò e gli rivolse un'occhiataccia indagatrice, che il ragazzo ripagò con una manciata di frutta spezzettata. «Vedrò quello che riesco a rimediare come mezzo di trasporto.» «Clarin e io impacchetteremo l'attrezzatura,» disse Tasmin. Avevano già organizzato il viaggio di Vivian a Terrafonda Cinque su un convoglio di carri che partiva quasi subito. Tasmin aveva inviato in anticipo un messaggio a sua madre, anche se sapeva che forse non sarebbe giunto a destinazione prima di Vivian. I messaggi venivano trasmessi per mezzo di ripetitori eliografici attraverso le zone più lontane del pianeta, ma i posti di segnalazione erano gestiti solo sporadicamente da personale umano. Il ripetitore satellitare funzionava solo se la stazione trasmittente si trovava proprio sulla verticale della stazione ricevente, ma entrambe andavano spesso
in avaria, fatta eccezione per quelle poste in mare aperto o sulla costa. Le Presenze non sopportavano l' attività elettromagnetica entro una ragguardevole distanza da loro, tutto qui, e parecchi piloti lo avevano appreso tragicamente sulla propria pelle nei primi anni della colonizzazione. Clarin aiutò Tasmin a impacchettare tutta l'attrezzatura, controllandola pezzo per pezzo. «Questa scatola non l'avevi lasciata così, vero?» gli chiese, indicando il sintetizzatore di Lim che stava aperto sul tavolo. «I servi,» esclamò Tasmin a bassa voce. «Mettono le mani dappertutto. Il fatto è che la BDL paga per qualsiasi informazione. Probabilmente nove servi su dieci della Cittadella vendono notizie anche insignificanti agli informatori della BDL per racimolare denaro.» Lei arrossì. «Qualcuno me lo aveva detto. Me n'ero dimenticata. Sembra così sciocco. Lavoriamo tutti per la stessa gente.» «Non proprio,» replicò Tasmin, sempre a bassa voce. «Se mi domandi per chi lavoro, ti risponderò che lavoro per il Mastro Generale della mia Cittadella, e in ultima analisi per il Gran Mastro dell'Ordine. Gli Esploratori lavorano per i loro Priori. Io so che in fin dei conti è la BDL che paga, ma non mi sento di dire che lavoro per la BDL. Forse lavoro per me stesso. Nella BDL ci sono molte cose che proprio non mi vanno giù.» La ragazza sembrava pensierosa, e Tasmin attese la domanda che sentiva essere imminente, domandandosi quale sarebbe stata questa volta. Lei aveva rivelato una curiosità spiccata, anche se manifestata con molta delicatezza, per la vita di Tasmin, ma a questo punto non c'era quasi più niente da raccontare. «Perché lo chiamano Reb?» domandò. «Chi?» Sorpreso, Tasmin tardò a capire. «Jamieson. Perché lo chiamano Reb?» «Perché è un ribelle. Era un ribelle alla scuola di coro ed è un ribelle alla Cittadella. Si trova più spesso in mezzo ai guai di quanto riesca a tenersene fuori.» Tasmin sorrise ricordando alcuni episodi personali. La ragazza sedette sul letto e si frugò in tasca, tirando fuori il piccolo topo grigioverde dei cristalli, che le annusò le dita con il lungo naso espressivo, mentre gonfiava la sacca sonora per emettere una specie di cinguettio soffocato. «Lo sapevi che Jamieson non è stato mandato sulle tue tracce dal Mastro Generale?» «Davvero?» «Ha chiesto lui di venire. Perché pensava che tu avessi bisogno di lui.» Tasmin era sbalordito. «E tutta quella storia sulla ragazza che ha lascia-
to?» «Solo fumo negli occhi. Ce la siamo inventata noi. Perché tu non pensassi che era stata un'idea sua. Lui pensava che in questo caso ci avresti rimandato indietro.» Tasmin si lasciò cadere su una sedia, fuori di sé per lo stupore. «E tu come ci sei finita dentro?» «È stato il Mastro Generale! Ha detto che se Jamieson aveva ragione, tu avevi bisogno di qualcuno, qualcuno oltre a lui, perché una dieta solo a base di Jamieson sarebbe stata troppo per chiunque.» Arricciò la bocca mentre accarezzava il topolino, che adesso se ne stava raggomitolato nel palmo, intento a pulirsi. Tasmin la fissò a bocca aperta. Quel ragazzo. Quel moccioso. Quel... i suoi occhi avvamparono. Rendendosene conto, Clarin si voltò e riprese il discorso interrotto. «Ma se creava tutti questi problemi, perché non lo hanno espulso dall'Ordine?» «Perché il più delle volte ha ragione. E perché è un ottimo musicista, naturalmente.» E perché ama Jubal, pensò Tasmin. Forse lo ama quanto me. «Ha ragione su... sulle Presenze?» Questa era ovviamente la domanda che voleva rivolgergli fin dall'inizio. «Tu che ne pensi?» «Non è questione di che cosa ne pensi. Io sento che ha ragione. Anzi, in qualche modo so che ha ragione. Ma se ha ragione, questo rende tutto il resto...» «Un'ipocrisia?» le suggerì Tasmin. «Mi sembra che tu abbia già usato questa parola.» Si sedette a sua volta, osservandola da vicino. Gli occhi della ragazza erano fissi sui suoi. Per lei l'argomento era importante, e Tasmin decise di dedicarle tutta la sua attenzione. «Be', suppongo che sia un'ipocrisia. Immagino che noi, noi Cantori, facciamo ciò che la BDL ci richiede perché questo ci rende possibile continuare a fare ciò che ci piace. Superficialmente, in pubblico, fingiamo di credere che le Presenze non siano una vita senziente perché questa affermazione ci permette di muoverci su Jubal. Interiormente invece, noi siamo convinti che esse siano senzienti, ed è questa convinzione che ci rende degno muoverci su Jubal! Noi accettiamo l'ipocrisia perché non ci sembra che faccia poi così tanta differenza. Credo che sia perché vediamo che la nostra falsa adesione alla teoria della non intelligenza non ha conseguenze particolari. Non cambia niente. Continuiamo a rispettare le regole stabilite da Erickson, tutto quell'armamentario semireligioso e molto rispettoso che
lui ci ha imposto, e così se da una parte affermiamo che non sono intelligenti, dall'altra ci comportiamo come se lo fossero. Dobbiamo farlo. Altrimenti potremmo perdere Jubal, e Jubal ci è entrato nel sangue.» Clarin sedeva proprio di fronte a lui, seria in volto. «È una sensazione ho provato anch'io, lo sai. Per te com'è?» Tasmin si sdraiò sul letto, facendo dondolare un calzino con la mano, e riflettendo. Com'era per lui? «È come andare in paradiso,» rispose. «Andare verso il pericolo, diciamo noi, ma io ho sempre ritenuto che il paradiso deve essere molto pericoloso. Qualsiasi cosa bella, che si appropria del tuo cuore e lo scuote... è pericolosa. A volte il pericolo si impossessa di te prima ancora di partire. Vedi il cancello cerimoniale che si apre. Tutto è calmo dentro di te. Cominci a cavalcare, con i campi coltivati che ti scorrono accanto, mentre pian piano si trasformano nelle distese di Jubal. Senti il profumo degli alberi di Jubal e mentre segui il sentiero quelli si girano, quasi ti stessero seguendo, quasi volessero guardarti. Il terreno comincia a fremere, appena un po', poi sempre più. Qualcosa sta parlando nel terreno, qualcosa di enorme...» «Lo so,» lo interruppe Clarin con un filo di voce. «Vai avanti e le parole pronunciate dal terreno diventano sempre più grandi finché non ti riempiono la testa. Finché non vedi la Presenza scintillante davanti a te. Da essa si irradia una luce, come tanti pugnali, come tante spade. Ti trafiggono e tu cominci a cantare... è come sanguinare musica, invece che sangue.» Lui annuì. Lei sapeva. O, sì, certo che sapeva. «E se canti bene ritorna la calma,» concluse Tasmin per lei. «Qualcosa ti ascolta.» C'era una dolorosa comprensione, fra loro, un'affinità che era quasi un'agonia. Tasmin arrossì e chiuse gli occhi, travolto da un'emozione che non voleva concedersi di provare. Mentre Clarin parlava lui aveva avuto voglia di stringerla fra le braccia, come quando l'aveva stretta, scossa dal tremito, lungo il sentiero sotto gli Osservatori. Digrignò i denti per scacciare il pensiero. Ogni volta che provava una di quelle fuggevoli sensazioni gli sembrava di tradire la memoria di Celcy. Dopo un poco Clarin si rimise in tasca il topo e disse: «Logicamente, se qualcosa ti ascolta, qualcosa ti può anche rispondere.» Lui scosse la testa, sorridendo senza allegria. «È quello che sostiene Chad Jaconi. Ha passato quarant'anni tentando di trovare un senso alle partiture delle chiavi d'accesso. Non so quanti cosiddetti traduttori universali
abbia acquistato da fuori sistema.» «Ha mai ottenuto niente?» «Niente di significativo.» «E per quanto riguarda l'altro verso della conversazione? Dalla parte delle Presenze?» «Roba incomprensibile. Sono decenni che la gente registra i suoni che emettono le Presenze. Hanno provato con ogni congegno di traduzione possibile e immaginabile. Ma tutto ciò che ottengono è sempre e solo una forma di rumore, a quanto dice Chad. Rumore bianco, o rumore bruno o qualcosa del genere. Squittii, grugniti, brontolii, gorgoglii. Niente di utile. Niente che abbia un significato.» «E i viggy? Loro cantano. Magari sono senzienti.» «Molti hanno cercato di dimostrarlo. I primi anni sono stati catturati numerosi viggy; venivano trattati bene, almeno per quanto ne sapevamo, eppure sono morti quasi tutti... a volte nel giro di una notte. Pare che pochissimi siano sopravvissuti in cattività. Quello che avevo, quello che Lim liberò, era capace di pronunciare qualche parola, a quanto si diceva, come "piccolo viggy" e "viggy vuole biscotto", ma non esiste alcuna registrazione atta a documentare ciò che il CSP richiede quando si tratta di stabilire l'intelligenza o meno di una creatura. Nessuna capacità di costruire utensili. Nessuna prova dell'esistenza di un linguaggio. Nessuna sepoltura dei defunti. E, naturalmente, non c'è la possibilità di andare in mezzo a loro a studiarli come piacerebbe ai nostri naturalisti. Sono animali notturni, sfuggenti, muoiono quando vengono catturati e non parlano. Perciò tanti saluti all'intelligenza dei viggy...» Si sentì bussare alla porta e Jamieson infilò dentro la testa. «Ho trovato un camion per il brou che parte senza carico fra mezzora per Northwest.» «Bene,» approvò Tasmin. alzandosi in piedi. «Basta con questa roba, Clarin. Io finisco di fare i bagagli. Voi due indossate i vostri abiti.» Vi fu un breve ritardo per trovare l'attacco adatto al rimorchio che Tasmin aveva preso in prestito dall'allevamento dei muli. Poiché nella cabina dell'autocarro c'era posto solo per due persone, Jamieson scelse di viaggiare insieme ai muli. Partirono nel primo pomeriggio. Per prima cosa attraversarono gli abitati periferici della città, case di fango, negozi di fango, giardini pieni di erbacce, ciascuno di essi separato dall'altro da vasti tratti di strada pavimentata, affiancata da edifici. «Impianti militari,» urlò l'autista per superare il rumore. «Qualcuno ha deciso che ci volevano strade migliori per gli spostamenti dei militari. È per que-
sto che c'è tanta penuria di mattoni. Per pavimentare la strada hanno requisito tutte le fornaci solari che ci sono nei paraggi.» Oltrepassarono diverse di quelle fornaci, enormi specchi fissati a complesse strutture sempre puntate sul sole, che ne concentravano i raggi. Dietro le fornaci la superficie stradale era calda e fumante, di un colore dal rosso al nero. Una volta superata la zona abitata, anche se la strada si fece stretta e sconnessa, tutti si sentirono sollevati. Viaggiavano accanto a campi di grano, e ad appezzamenti più stretti di radici commestibili. Ogni tanto si vedevano penne di qualche volatile o piccoli animali da carne, chig o bantigon, onnivori indigeni di Serendipity. Tasmin si sentì venire l'acquolina in bocca. Aveva un desiderio irresistibile di bantigon alla griglia. Di bantigon fritto. Di pasticcio di bantigon. Su quel pianeta povero di carne, Tasmin era un carnivoro incallito. Clarin se ne accorse e gli rivolse un'occhiata di comprensione. Anche lei adorava la carne fresca. Giunsero a un fiume ampio e poco profondo e vennero traghettati dall'altra parte. Oltrepassarono una cittadina sulla destra, poi altri campi e fattorie, e un'altra cittadina sulla sinistra. Si stavano allontanando dal mare, puntando verso l'interno più elevato. Di fronte a loro c'erano le uniche colline di terreno profondo che fossero mai state scoperte su Jubal, grandi dune sabbiose ammonticchiate dal vento marino e ricoperte da cespugli del colono e da alberi piumati. Attraversarono le colline seguendo un tracciato serpeggiante, e spaventando la piccola fauna locale che svolazzava sulla strada; a un certo punto sorpresero un gruppo di viggy che venne loro incontro a gran velocità, e poi si voltò a guardare con gli enormi occhi privi di pupille, agitando le orecchie e puntando le antenne piumate verso il camion. In cima alla collina il viggy più grosso gonfiò la sacca canora ed emise un rimbombo di rimprovero prima che il gruppo scomparisse alla vista. «Non pensavo che si avvicinassero così tanto ai terreni coltivati,» disse Tasmin mentre osservava le forme grigioverdi che si dileguavano. In tutti i suoi viaggi aveva visto i viggy solo cinque o sei volte, anche se li aveva sentiti cantare quasi ogni notte. «Lungo la costa si vedono sempre,» disse l'autista. «Sei, anche otto per volta. Una volta qui ho avuto un guasto al motore. Mi sono dovuto fermare e passare la notte sulla strada. Li ho sentiti cantare vicinissimi. Devono essere andati avanti per tutta la notte. E qui intorno c'erano anche un mucchio di altri animali. Alcuni piuttosto difficili da vedere.»
Usciti dalla zona collinare il sole era alle loro spalle, e scendeva lentamente nel mare. «Passeremo la notte a Barrville,» li informò l'autista. «C'è un'agristazione della BDL. Credo che vi accetteranno.» Infatti Sandy Chivvle, la direttrice locale, li accettò, felice di avere compagnia e ansiosa di mostrare a qualcuno quello che si stava facendo con l'onnipresente brou. Insistette perché i semi di un lotto venissero confrontati con i semi di un altro, e quando fu loro servita la cena nessuno si preoccupò veramente di ciò che mangiava. La serata trascorse all'insegna di un'allegra confusione. Carichi di rapporti da consegnare a Jem Middleton, responsabile della Divisione Agricoltura della BDL, partirono di buon mattino, con la testa dolorante e lo spirito un po' meno sollevato. L'autista offrì loro del tè bollente da una fiasca termica, e si incamminarono attraverso interminabili distese di brou, dove il grigioverde pallido dei campi appena piantati si alternava al grigioverde carico delle messi già mature, incontrando file di camion carichi che puntavano nella direzione opposta. Giunsero a Northwest City poco dopo mezzogiorno. Scaricarono i muli e poi chiesero dove si trovasse il più vicino centro della BDL, per andare da Jem Middleton. Lo trovarono nelle viscere dell'edificio in una stanza lontanissima dove era in svolgimento una partita a carte. Almeno sul tavolo c'erano carte da gioco e pile di banconote, anche se la presenza di cartelle di documenti aperte da una parte facevano supporre il precedente svolgimento di un'altra attività. Con grande sorpresa di Tasmin, o forse con suo grande sgomento, uno dei presenti era il Gran Mastro dell'Ordine dei Cantori, Thyle Vowe. «Tasmin Ferrence! Quanto è vero che vivo e canto, ecco la meraviglia di Terrafonda Cinque! E ci sono anche i tuoi novizi. Bene, questa sì che è una sorpresa. Ho sentito che eri diretto a Splash Uno, ma non pensavo proprio di incontrarti qui. Ho saputo della faccenda della Gola della Follia. Mi fa sentire come un perfetto idiota. Avrei dovuto controllare i vecchi archivi in qualche posto che non fosse Splash Uno, ma non mi è mai passato per la mente. Vediamo, tu devi essere Jamieson, vero? Ho sentito molto parlare di te.» E il Mastro dai capelli bianchi diede una bella pacca sulla spalla del ragazzo, rivolgendogli una specie di sorriso amichevole. «E tu sei Clarin, la piccola ragazza con la straordinaria voce da basso, non è così? Ho sentito parlare anche di te. Corre voce che Tasmin Ferrence si scelga sempre i più scorbutici... in gamba ma scorbutici.» Clarin si liberò dalla carezza paterna del Gran Mastro con quella che a
Tasmin parve una ammirevole pazienza. Era quasi come se lo conoscesse, o sapesse di lui. «Tasmin, vieni a conoscere un po' di gente! Conosci già Gereny Vox, no? La migliore allevatrice di muli che abbiamo mai avuto, e io ne ho visti passare sei.» La donna dal viso anonimo e dagli occhi grigi protese una mano lungo il tavolo, facendo un cenno a Tasmin mentre gliela stringeva e farfugliando un saluto. Il Gran Mastro proseguì. «Questo qui è Jem Middleton. Jem è il responsabile dell'Agridivisione della BDL, proprio un bravo ragazzo, e anche un buon giocatore. Osservalo, se mai vuoi giocare a carte. E quest'altro tipo è Rheme Gentry. Rheme fa parte da poco del personale del Governatore, viene da fuori mondo e non ha ancora smaltito lo shock di Jubal. Bel ragazzo, vero? Signore, se avessi avuto i denti e i capelli che ha lui, avrei fatto il vuoto fra le donne. Ma Rheme no, lui è un tipo molto serio.» L'uomo magro e oscuramente bello a cui si riferiva scrollò il capo, stordito da quella presentazione, e rispose al saluto di Tasmin con un cenno dolente del capo. «Allora, vuoi giocare anche tu? Che ne diresti di qualcosa da mangiare? Che cosa posso offrirti da bere?» Tasmin non poté evitare un sorriso forzato. Il Gran Mastro faceva quell'effetto sulle persone. «Grazie, no, signore. Sono qui solo per consegnare alcuni documenti a Jem Middleton dalla sua direttrice di Barrville.» «Accidenti a quella donna,» grugnì Middleton, unendo le grosse sopracciglia in una linea compatta lungo la fronte massiccia e solcata da rughe. «Non fa che mandarmi i suoi dannati rapporti. Adesso dovrò mettermi a lavorare.» «Però visto che ti trovi qui a Northwest, signore,» disse Tasmin al Gran Mastro, «forse puoi fornirmi una presentazione. Per un Cavaliere Esploratore di nome Don Furz.» Nella stanza cadde il silenzio, ma durò solo un attimo, non come quei silenzi spaventosi che a volte si verificano nelle riunioni sociali a seguito di qualche gaffe, ma pur sempre abbastanza lungo da far domandare a Tasmin se per caso non avesse fatto una mossa sbagliata. La sua giustificazione già pronta non poteva comunque aggiungere alcunché di male. «Volevo esprimerle la mia ammirazione per il modo lodevole in cui ha stilato gli appunti dell'Enigma. Ho avuto l'onore di redigere la copia originale delta partitura...» Il silenzio si interruppe. Thyle Vowe era di nuovo la cordialità fatta per-
sona. «Non hai mai incontrato Don Furz?» «No. signore. Non ho avuto questo piacere.» «Be', allora vediamo di sapere in che modo si può trovare. Gereny, ti dispiacerebbe interessartene?» La donna dai capelli grigi, vestita in modo vistoso, gli rivolse un'occhiata interrogativa e andò verso il comunicatore a parete. Dopo qualche frase smozzicata ritornò con un'espressione perplessa, quasi rabbiosa. «Don ha ricevuto l'incarico di effettuare un'escursione rapida alla Catena del Dente Rosso, e dovrebbe tornare stasera. Pare che dovesse percorrere un itinerario alternativo.» Scambiò una rapida occhiata sia con Vowe che con Middleton. Thyle Vowe, che sembrava piuttosto colpito dalla notizia, sì mise a frugare in mezzo alle carte sul lato del tavolo. «Stammi a sentire, Tasmin. Il Dente Rosso è solo a qualche ora da qui. Perché tu e i tuoi giovani amici non vi fate una cavalcata fin lì e non andate incontro a Don? Ti darò una mappa in modo che non sbagliate strada.» Frugò ancora, poi porse a Tasmin una piccola carta geografica, indicandola con un dito grassoccio, impeccabilmente curato. «Prendete la strada dietro la Cittadella, proseguite dritti verso est per circa ottocento metri, poi prendete questa strada che va verso nord, seguitela e arriverete proprio ai piedi del canyon del Dente Rosso al calare della sera, se non incontrate prima Don lungo la strada. È meglio che partiate subito.» Li stava sospingendo verso la porta. Jem Middleton intervenne. «Solo un minuto, Ferrence. Non vorrei che aveste qualche problema che non siete in grado di affrontare, su quella strada. La cosa più rara su Jubal, dopo la carne rossa, è l'orso dei cristalli, ma non posso non mettervi in guardia che ne è stato avvistato uno proprio dalle parti del Dente Rosso. Sarà bene che portiate con voi un fucile per stordire, nel caso dovesse servire.» Si alzò in piedi, prese un fucile da un armadio alto e lo lanciò fra le mani di Tasmin. «Me lo restituirai quando tornerai.» Poi si ritrovarono tutti e tre nuovamente nel corridoio, e la porta venne richiusa decisamente alle loro spalle. «Ma che diavolo va raccontando?» chiese Jamieson. indignato. «Orsi dei cristalli? Sono almeno cinquant'anni che non se ne vede più uno.» «Shhh,» gli fece Clarin. «Qui sta succedendo qualcosa, Reb. Tieni la bocca chiusa e gli occhi aperti. Ti fidi del Gran Mastro, Mastro Ferrence?» Tasmin le rivolse un'occhiata riconoscente di approvazione. Lì stava veramente succedendo qualcosa. «Fidarmi del Gran Mastro dovrebbe essere la mia inclinazione,» rispose poi, tanto per dire qualcosa. Le quattro perso-
ne dentro quella stanza stavano forse giocando anche a carte, ma quelle cartelle aperte piene di documenti indicavano che essi facevano anche qualche altra cosa. Così come il fatto che fra i gruppi di carte disposti sul tavolo a faccia in giù ce n'erano alcuni da sei e altri da quattro. Quanto al fucile, Tasmin ne aveva usato uno per stordire solo durante le prove annuali di abilità. Non venivano più nemmeno forniti in dotazione alle carovane, anche se fino a vent'anni prima facevano parte del corredo standard. La storia dell'orso dei cristalli era una sciocchezza. Erano decenni che nessuno avvistava più un orso dei cristalli. E c'era anche chi dubitava che fossero mai stati avvistati, sostenendo che si trattava di creature mitiche, e in quella stanza lo sapevano tutti. A meno che... non si sostituisse Cristallita a orso dei cristalli. Nel qual caso gli avevano detto qualcosa senza dirgli un bel niente... «Sì,» disse alla fine, con risoluta convinzione. «Mi fido di lui.» «Be', allora fidiamoci anche noi. Facciamo quello che ci ha suggerito.» Clarin fissò sgomenta il fucile. «Non andremo in giro portandoci appresso quell'affare.» «Mettilo sotto la tonaca, Clarin. La tua è più rigida della mia. Puoi aspettare al cancello mentre Jamieson e io andiamo a prendere i muli.» Tasmin scosse la testa fra sé e sé mentre si affrettava attraverso il recinto, voltandosi per guardare Clarin che se ne stava appoggiata distrattamente a una parete, con il fucile nascosto dietro di lei. I muli erano ansiosi di cavalcare, dopo tutto il tempo passato sul rimorchio. Quando si furono allontanati a sufficienza dalla città, in modo che il fucile non fosse più occasione di commenti, Tasmin lo fissò agli anelli della sella, tentando due volte prima di trovare la posizione giusta. Buon Dio, ormai nessuno se non i militari usava più i fucili. «Orsi dei cristalli,» continuava a borbottare Jamieson, sempre furibondo. «Ma per chi ti ha preso, Mastro? Per Everts della Pattuglia dell'Alba?» Era il protagonista dell'olodramma preferito dai bambini di Jubal. «Quand'è che è stato visto per l'ultima volta un orso dei cristalli?» «Ci sono anche forti dubbi che esista veramente, per la verità,» disse asciutto Tasmin. «Roba da favole per bambini. I primi Esploratori affermavano di aver trovato un sacco di roba, nella regione dei cristalli. L'orso era solo uno degli animali del serraglio. Alcuni tra i primi Esploratori sostennero addirittura che i viggy parlavano e i topi cantavano.» «Be', possono farlo,» obbiettò Clarin, accarezzandosi la tasca. Come risposta giunse un cinguettio soffocato. «Più o meno. Chissà perché Jem
Middleton aveva un fucile proprio nel suo ufficio,» aggiunse poi. «Già,» ribatté Tasmin. «Perché?» Attraversarono terreni in salita, e campi sparsi di colture piantate dall'uomo che poi lasciarono il posto al territorio di Jubal, e scorsero davanti a loro i primi contrafforti del Dente Rosso mentre il sole calava alle loro spalle e la strada diventava sempre più stretta e buia. Dopo l'ultima fattoria non videro più nessuno. «Niente Don Furz,» disse Jamieson, dando voce all'evidenza. «Non avete avuto la sensazione che il Gran Mastro e gli altri ne avessero paura?» chiese Clarin. «La strada raggiunge un crinale poco più avanti,» fu la risposta di Tasmin, la voce volutamente priva di emozione. «Probabilmente da lì potremo dare un'occhiata al canyon del Dente Rosso.» Dalla sommità del crinale la strada scendeva verso un avvallamento circondato su tre lati da affioramenti di pietre miste e sul quarto da Piccoli e Minimi del Dente Rosso, poi curvava sulla destra intorno a un pilastro di pietra dalla cima piatta. Sul pilastro c'era qualcuno! La figura vestita di grigio correva da una parte all'altra, facendo cadere rocce lungo i fianchi ripidi. Anche da quella distanza potevano sentire il suo respiro ansimante per lo sforzo, e il rumoroso precipitare delle pietre l'una sull'altra. Ai piedi del pilastro una mezza dozzina di sagome indistinte stava tentando di scalare le pareti rocciose. L'intento degli attaccanti era chiaro, e nella persona che si muoveva in cima al pilastro c'era un che di disperato. Mentre osservavano, una delle pietre colpì in pieno uno degli aggressori e lo scagliò sul mucchio di pietrisco in fondo alla parete quasi verticale. Gli altri raddoppiarono gli sforzi per raggiungere il loro bersaglio. Senza un attimo di esitazione Jamieson si mise a gorgheggiare fratello, fratello, fratello, e quel richiamo di identificazione guadagnò forza crescente dagli echi che si moltiplicavano al suo passare, schiantando il silenzio del canyon, e facendo appello ad ogni Cantore o Esploratore a portata di suono perché si identificasse. Dalla cima del pilastro giunse un grido di risposta, che fece loro capire da che parte dovevano stare. Tasmin scese dal mulo, sfilò il fucile dal fodero e si precipitò al riparo di una roccia dalla quale poteva vedere senza essere visto. Aveva sempre sparato meglio dalla posizione prona e così si contorse, schiacciandosi a terra, mise il dito sulla leva e accostò l'occhio al mirino sporgente, tutto nello
stesso tempo, puntando la piccola luce rossa contro il fianco della torre di pietra. Quando incontrò una delle figure che salivano premette la leva una volta, due volte, poi ne puntò un'altra. Una pressione era sufficiente a stordire un uomo, due pressioni lo stordivano più a lungo. Continuò a puntare e premette di nuovo. Jamieson e Clarin stavano scendendo spericolatamente al galoppo lungo il sentiero, in direzione del pilastro, con gli zoccoli non protetti dei muli che creavano una cascata di echi, un tuono senza fine. Il gorgheggio fratello, fratello, fratello, che saltava di ottava in ottava e cominciava a provocare una pericolosa vibrazione fra i Piccoli circostanti, si aggiunse al rombo crescente della frana che sembrava l'incedere di un drappello a cavallo. Alla base del pilastro gli assalitori si dispersero e cominciarono a correre via. Tasmin puntò una figura che scappava, premette la leva, poi ne puntò un'altra e premette di nuovo prima che fossero tutte scomparse dietro una foresta di colonne di cristallo. Cristalliti? Troppo tranquilli per essere Cristalliti. Quando Jamieson e Clarin raggiunsero il pilastro, tutti gli aggressori erano fuggiti. Tasmin sì alzò in piedi, togliendosi dei sassolini dal petto e dalla pancia, e ripose il fucile nel suo fodero, notando con rabbioso ma in qualche modo distaccato stupore che la manopola dell'intensità era su "uccisione". Non l'aveva regolata lui. Non l'aveva toccata affatto. La regolazione standard era sempre su "stordimento". Sempre. Ai piedi della scarpata tre persone si muovevano in mezzo alle vittime. Clarin, Jamieson e la figura indistinta che dalla cima del pilastro era scesa giù per unirsi ai novizi. Tasmin montò sul mulo e si diresse verso di loro. Mentre si avvicinava vide che si trattava di una donna, e che stava girando uno dei corpi caduti a faccia in giù con un gesto di rabbia o di sgomento. Venne verso di lui, i capelli dorati che svolazzavano alla brezza leggera, gli occhi blu puntati irosamente su di lui. «Vorrei tanto che non ti fossi messo in testa di ucciderli tutti!» strepitò. Poi, con aria stupita: «Tu sei Tasmin Ferrence, non è vero? Il tuo novizio ha detto Ferrence, ma non avevo colto la connessione.» E ancora, sorprendentemente: «Spero proprio che tu abbia ricevuto la mia scatola armonica.» Tasmin la stava fissando a bocca aperta quando Jamieson disse: «Mastro,» con il tono di un adulto che interrompa il gioco dei bambini. Stava guadando sopra le loro teste nella direzione in cui erano scomparsi gli aggressori in fuga. «Detesto riprendere l'argomento, ma il rumore dietro quei Piccoli indica che non se ne sono andati. Ce n'erano almeno dieci, signore,
e con il dovuto rispetto tu ne hai abbattuti solo quattro.» «Pensi che stiano tornando indietro?» «Non credo che tutto quel vociare indichi una partenza imminente.» «L'Esploratore ti esprime i suoi ringraziamenti, Cantore,» disse la donna «Il mio mulo è dietro quella roccia, e il posto migliore per noi è all'interno della fascia d'influenza, subito.» Corse verso il mulo e i tre la seguirono, sentendo il rumore che cresceva alle loro spalle. «Quei bastardi mi hanno attaccato appena uscita dalla fascia,» gridò al di sopra del rumore. «All'inizio erano solo quattro, ma poi sembravano spuntare dalle rocce come uccelli volteggianti. Ho fatto appena in tempo ad arrampicarmi su quel pilastro. Altri due minuti e mi avrebbero preso. E se voi foste arrivati qualche minuto dopo, mi avrebbero preso comunque.» Solo quando furono a mezza strada Tasmin notò il tipico abbigliamento da Esploratore che caratterizzava l'animale e il cavaliere, e si rese conto di chi fosse la donna. «Tu sei Don Furz?» le domandò. Lei gli rivolse un'occhiata fugace. «Tu che ne pensi?» «Non sapevo che Don Furz fosse una donna.» «Non lo rimarrà a lungo se non ci sbrighiamo a raggiungere la catena. I vostri muli non hanno gli zoccoli protetti. Ci fermeremo appena entrati.» Spronò l'animale con un calcio e gli altri la seguirono, penetrando nel campo d'azione di due torri color sangue che ronzavano e sussurravano sinistramente. «Non ci fate caso,» gridò Don. «Se ci sbrighiamo non esploderanno!» Proseguì al galoppo, facendo una brusca svolta sulla destra, poi sulla sinistra, infine bloccandosi in una nuvola di pietrisco. «Presto, rivestite gli zoccoli dei muli,» disse, togliendo il coperchio alla scatola da Esploratore e aprendo i pannelli intorno alla vita e sulle cosce. «Dirigiamo verso quel canyon sulla sinistra. La chiave d'accesso è nuova. L'ho elaborata solo oggi pomeriggio.» «Allora quelli non potranno seguirci,» disse soddisfatto Jamieson mentre applicava dei calzari morbidi agli zoccoli dei muli. «Possono provarci,» lo contraddisse Clarin. «Prima non facevano nessun rumore, mentre adesso ne fanno un bel po'.» Una cacofonia di urla, canti e slogan religiosi echeggiava nel canyon alle loro spalle. «Prima non c'erano testimoni,» disse Don. «Adesso c'è il rischio che possiamo tornare indietro a raccontare questa storia. Vogliono farci credere che sono Cristalliti.» «Non credi che lo siano veramente?» «Non erano abbigliati come Cristalliti, e non erano macilenti come quel-
li che ho visto,» rispose con impazienza Don. «Avete finito? Bene, venitemi dietro e io vi farò passare.» Avanzò lungo un canyon che si ramificava, sfiorando con la mano la scatola armonica. La sua voce era buona, non all'altezza di quella di un Cantore, naturalmente, ma d'altra parte non c'era bisogno che lo fosse. Era raro che gli Esploratori si facessero strada attraverso le Presenze cantando, e in ogni caso non era poi così difficile far passere una persona e un mulo, in quasi tutti i luoghi. Tasmin notò con piacere che Clarin stava registrando appunti sulla sua scatola mentre avanzavano. Notò la sua espressione, affascinato. C'era la musica sul suo viso. I suoi occhi si mossero, si aprirono, si chiusero, girarono da una parte e dall'altra come se vedesse le note. La sua bocca si increspò, si aprì, si allargò, tornò a incresparsi, quasi assaggiasse la musica. La sua mano scattò verso l'alto, poi di fianco, quindi tornò giù, il tutto in modo automatico. Era come guardare qualcuno che lottava... forse per mettere al mondo qualcosa? O per conquistare qualcosa, per possedere qualcosa. O per essere posseduto da qualcosa! Quella era probabilmente la definizione più vicina alla verità, e Tasmin si chiese che cosa esprimeva il proprio volto quando cantava. Be', se Don Furz non li faceva passare, poteva farlo Clarin. E anche Jamieson, naturalmente, senza appunti, pure avendo sentito il canto solo una volta, benché il suo viso non rivelasse nulla di ciò che avveniva dentro di lui. La partitura era abbastanza efficace, in qualche caso un po' troppo esile. C'erano parecchi piccoli fremiti, ma niente di serio. Tasmin vide Clarin che riarrangiava la sua scatola, decidendo lì per lì quali effetti fossero necessari per rinforzare le note e per adattarle alle esigenze di un Cantore. Era più rapida di Jamieson nell'orchestrazione. Comunque, era improbabile che potessero mai avere bisogno di quella partitura, perché il canyon sembrava proprio un vicolo cieco. Sopra di loro torreggiavano i pilastri color sangue della catena, quasi neri al crepuscolo, con il profilo spezzato del Dente Rosso proprio alle loro spalle. Non erano Piccoli Denti, quelli che stavano attraversando. Erano troppo grossi, e Tasmin si domandò fuggevolmente se fosse stato loro dato un nome e se la stessa chiave d'accesso fosse valida per tutti. Il suono degli inseguitori si affievolì alle loro spalle. Giunsero fuori pericolo, fuori della zona dei cristalli, in una sacca di suolo profondo: un centinaio di metri quadrati di alberi e cespugli di Jubal raccolti attorno a una piccola sorgente che formava una pozza d'acqua in cui si rifletteva la luce
delle stelle. Smontarono con cautela, senza la minima intenzione di preparare l'accampamento. «Quanto siamo al sicuro qui?» chiese Tasmin. Don si asciugò la fronte con una manica già sporca. «Be', se trovano un cantante o due che li aiutino, potrebbero inseguirci entro qualche ora. Ma è più probabile che utilizzino l'itinerario classico e che ci aggirino verso est, per poi puntarci addosso. Se hanno a disposizione una serie di carte satellitari di questa zona, non ci metteranno molto a trovare la via più breve.» Guardò indietro, verso la strada che avevano percorso, sentendosi le spalle e la schiena rigide per la tensione. «Quindi è meglio che non restiamo qui.» «Quel tanto che basta per far riposare gli animali e procurarci qualcosa da mangiare.» Era ancora in piedi, sempre rigida e tesa. Tasmin le pose una mano sul braccio. Lei si voltò lentamente, fissandolo con occhi rabbiosi e disperati. «È la terza volta che ci provano,» disse. «La terza volta. Le prime due volte mi hanno quasi ucciso.» Allontanò la mano di Tasmin. «Quello lì è il mio sintetizzatore. Te lo ha dato Lim. vero? Tu sei suo fratello. Non sapevo che...» Parlava con voce spezzata, a scatti, incapace di tenere a freno l'emozione. «Calma.» disse Tasmin con decisione. «Riprendi il controllo di te stessa. Esploratore. Clarin sta preparando il tè. Propongo di metterci tranquilli a sedere, mentre tu ci spieghi tutta questa storia.» Lei scosse la testa, in un gesto inconscio di rifiuto. «Ti abbiamo salvato la vita,» disse Jamieson con voce cadenzata, alzando lo sguardo dalla sua posizione accanto al fuoco, il volto sporco di fuliggine, dove stava soffiando su una fiamma piuttosto riluttante per cuocere delle strisce essiccate di cespuglio del colono. «So che non ti fidi di nessuno. Probabilmente non so che ti capiterà adesso, ma noi siamo dei bravi ragazzi, davvero.» Don scoppiò a ridere, una risata con una leggera sfumatura isterica. «Continuo a cavarmela per il rotto della cuffia. Come se avessi un angelo custode un po' incompetente. Ma come mai. in nome del cielo, siete spuntati fuori proprio in quel momento?» «Ho la sensazione che qualcuno ti ritenesse in pericolo,» le disse Tasmin, frugandosi in tasca in cerca del messaggio del Gran Mastro e spiegando in breve come fossero capitati dalle parti del Dente Rosso. «Ci hanno dato il fucile proprio prima che ce ne andassimo.»
«Con un pretesto molto trasparente.» commentò Jamieson. «Ed era regolato per uccidere,» concluse Tasmin. «Sono stato molto irresponsabile a non controllarlo prima di sparare, ma...» «Ma avevamo un po' di fretta,» concluse Jamieson, nel suo modo esuberante. «Jamieson!» esclamò Clarin pazientemente. «Piantala.» «Non vi comportate da assassini.» Donatella sospirò mentre apriva il messaggio. «Ma nemmeno Zimmy.» Si accasciò al suolo, accanto al fuoco. «Non capisco che cosa significhi tutto questo.» «Che dice?» Lei dispose il piccolo foglio di carta su una roccia vicino al fuoco e ne lesse il contenuto a voce alta. «Il Gran Mastro è al corrente. Che significa?» «Di certo è molto prudente, non vi pare?» disse Tasmin «Credo che ci voglia dire che sa qualcosa, ma non vuole lasciare sul biglietto alcuna traccia che possa incriminarlo. Torniamo a te, Esploratore Furz. Tu sei stata attaccata, ma ti sei salvata Sei ancora viva. D'alta parte, mio fratello è morto. Mia moglie è morta...» «Tua moglie! Che cosa aveva a che fare con...» «Lasciamo perdere, per il momento. Evidentemente la ragione per cui sono morti ha qualcosa a che fare con te. È per questo che sono qui. I novizi sono con me perché uno di loro è presuntuoso e l'altro si è fatto trascinare per le orecchie.» Jamieson arrossì, e Tasmin continuò: «Io dico che questo è il momento giusto per scoprire da che parte stiamo.» «Non so da dove cominciare,» disse la donna, disperata. «Dall'inizio,» propose Clarin. «Dove è cominciato tutto questo?» «Nella biblioteca del Priorato di Splash Uno,» rispose calma Don. «Quando ho scoperto una lettera che Erickson aveva scritto...» Mezzora più tardi smise di parlare, mentre gli altri la fissavano ancora, sbalorditi. Nella sua storia c'erano delle lacune. Lei lo sapeva e lo sapevano anche loro Però avevano almeno il contorno generale. «Vediamo se ho capito bene,» disse Clarin. «Tu hai trovato dei documenti di Erickson che indicano un metodo per dimostrare che le Presenze sono senzienti.» Don annuì. «Hai fatto dei passi, non ancora specificati, per verificare questa informazione e come conseguenza di questa verifica sei riuscita a realizzare la partitura dell'Enigma.»
Don annuì di nuovo, lentamente. «E a questo punto hai deciso che dovevi rivelare a qualcuno ciò che sapevi.» «No,» sospirò Don. «A questo punto non ho fatto che gorgogliare per un po' come zucchero bollito, mentre tutti mi facevano i complimenti, poi ho ritrovato un minimo di buon senso e ho tenuto la bocca chiusa.» «Questo non lo avevi detto!» protestò Jamieson, mentre Tasmin gli gettava un'occhiata obliqua. «È stata una decisione presa sul momento,» spiegò lei. «Immagina la situazione, novizio. Se mi capita fra le mani la prova di una vita intelligente, qualcuno deve pur fare qualcosa. Il Consiglio per lo Sfruttamento Planetario deve muoversi, no? Io credo che una volta provata l'esistenza di una vita intelligente, gli umani se ne debbano andare via, non solo da Jubal ma da qualsiasi pianeta.» «Non dovunque. E non sempre,» disse Tasmin. «No, non dovunque e non sempre, ma quelle sono eccezioni rare. Perciò perché dovrei buttare a mare il carrozzone? Io mi guadagno da vivere qui, proprio come voi. I miei amici sono qui, la mia vita è qui. E poi... si tratta di Jubal! È casa mia! Non voglio andarmene da qui. Perciò quando mi si è snebbiata la testa, la prima cosa che ho deciso di fare è stata quella di tenere chiusa la mia stupida bocca. Naturalmente questo è successo dopo che per diversi giorni non avevo fatto altro che andare in giro ridacchiando come un'idiota. Chiunque mi abbia visto avrà pensato che probabilmente avevo scoperto qualcosa.» Sospirò di nuovo, passandosi le mani sporche sulla faccia e lasciandovi lunghe righe di polvere. Clarin passò le tazze di tè bollente e commentò: «Presumo che dopo un po' tu abbia cambiato idea.» «Dopo avere avuto la possibilità di rifletterci sopra, sì. Sappiamo tutti che la Commissione CACCIA si riunirà molto presto. E sappiamo tutti che è manipolata. Buon Dio, il presidente della commissione è il figliastro del Governatore, e tutti sanno che il Governatore è un fantoccio nelle mani della BDL. Dunque è quasi sicuro che la conclusione delle sedute sia già decisa in anticipo. E tutti sappiamo quale vuole che sia la BDL. Inesistenza di vita senziente. E allora ho cominciato a pensare a quello che succederà dopo che la Commissione avrà concluso il suo lavoro.» «E cioè?» chiese impaziente Jamieson. «E cioè che la BDL non pagherà più Esploratori e Cantori, perché non avrà più bisogno di farlo.»
Jamieson la guardò con aria perplessa. «Non capisco.» Tasmin annuì. Ciò che Don aveva appena detto confermava alcuni suoi sospetti. «Se la Commissione CACCIA sancisce l'inesistenza di una vita intelligente, le restrizioni del CSP verranno abolite. Sono le consuete restrizioni imposte dal CSP su ogni pianeta in cui la vita indigena senziente sia ancora in dubbio.» «Protezione dell'ambiente,» citò Clarin. «Qualcosa del genere.» «Proprio così,» disse Tasmin, annuendo. Jamieson aveva ancora l'aria di non capire. «Se le restrizioni vengono abolite,» gli spiegò Clarin, «allora la BDL potrà distruggere tutto ciò che vorrà.» Jamieson spalancò la bocca. «Non lo farebbero! Le Presenze sono assolutamente uniche!» «Questo non ha mai fermato gli umani, in precedenza,» disse Tasmin, ripensando alle storie che aveva letto nella Cittadella. Fiumi trasformati in fogne. Montagne ridotte a spianate di pietrisco. Tutto per gli interessi dei grandi cartelli industriali. «Non laddove ci sia profitto. Pensa quanto potrebbe guadagnare la BDL se non dovesse più ricorrere ai Cantori, o agli Esploratori, o alle carovane. Pensa a quanto brou si potrebbe trasportare in volo.» «La cosa mi puzza,» disse Clarin con fervore. «È vero, puzza,» convenne Donatella. «Ma se ci pensi sopra diventa evidente. Perciò, in modo piuttosto egoistico, all'inizio ho deciso di tenere la bocca chiusa, ma poi mi sono resa conto che non sarebbe servito a niente. Con ogni probabilità ero destinata a perdere il lavoro ed a lasciare il pianeta comunque andassero le cose, e così tutti quelli che conoscevo. A quel punto decisi di fare ciò che avrei dovuto fare fin dall'inizio. Per il bene di Jubal, non per il mio.» «Diffondere l'informazione,» proseguì Clarin. «Comunque hai sospettato che se ti fossi limitata a parlare ti avrebbero subito ridotto al silenzio.» «Immagino che sia un'ipotesi realistica,» ammise Don, indicando con un gesto della mano il punto da cui erano venuti. «Li hai visti.» Clarin si appoggiò all'indietro su un braccio e continuò a ricapitolare. «A questo punto la storia si fa un po' confusa, per me. Tu hai contattato un amico, del quale non ci hai fatto il nome...» «Nell'interesse stesso di questo mio amico,» annuì Don. in parte piccata. «Voi mi dite che siete dei bravi ragazzi, ma come diavolo faccio ad esserne sicura?»
«D'accordo. Ci avrei giurato. Così ti metti in contatto con questo amico e tutti e due elaborate un piano. Decidete di lasciare che sia uno dei Sei Grandi Cantanti della Costa a diffondere la notizia per voi. Fornirete a questo cantante una certa informazione che verrà utilizzata come base per uno spettacolo.» «Parte di questa informazione era nella partitura dell'Enigma e a quel punto io ero l'unica ad averla. Abbiamo cercato di escogitare un modo in cui il cantante potesse ottenere la partitura senza che poi si potesse risalire fino a me. Allora il mio amico mi disse che Lim Terree poteva avere la partitura da suo fratello a Terrafonda Cinque, il Cantore Tasmin Ferrence, perché io te la avevo già mandata per elaborarla musicalmente...» Le mancò la voce. «Non sapevo che tu fossi suo fratello, e mi sembrò meno colpevole ottenerla da te. Pensavo che nessuno si sarebbe sorpreso se Lim l'avesse avuta da uno della sua famiglia. Non aveva l'aria di...» «Di una specie di cospirazione,» concluse per lei Tasmin. «Non avrebbe suscitato i sospetti della BDL.» Lei annuì, riconoscente. «Pensavo di no. Il nostro piano era semplice: prima o poi la BDL avrebbe cominciato a capire quello che stava succedendo, ma a quel punto tutti su Jubal avrebbero parlato dello spettacolo. Oh, la gente non avrebbe ritenuto un'informazione vera e propria quella che trovava nello spettacolo, ma essa si sarebbe comunque diffusa. A tal punto che sarebbe stato impossibile fermarla. E lo spettacolo stesso avrebbe dovuto attirare l'attenzione del CSP, che ci credessero o no. A quel punto sarebbero stati realizzati e distribuiti degli olocubi. La cosa non si sarebbe più potuta controllare, perché troppa gente ne sarebbe stata a conoscenza.» Clarin domandò: «Non faceva parte del vostro piano che Lim Terree giungesse fino all'Enigma?» «Signore, no! Lui non era un Cantore. E la partitura non era stata nemmeno verificata. Lui doveva solo procurarsi la partitura da suo fratello in un modo che apparisse naturale e non minaccioso, e poi riportarla a Splash Uno.» «E non era vostra intenzione che dovesse spendere fino all'ultimo centesimo per raggiungere Terrafonda Cinque? Perché lo ha fatto, lo sai. Sua moglie e suo figlio sono ridotti in miseria.» Clarin sorseggiò ciò che rimaneva del suo tè, fissando il volto di Don. «Non lo sapevo.» Don si piegò in avanti, nascondendosi la testa fra le mani. «È andato tutto storto, eh? Non pensavo che facesse una cosa del
genere. Ha organizzato tutto il mio amico. Non avrei mai dovuto...» «Lascia perdere, Don,» le disse dolcemente Tasmin. «Non è stata colpa tua. Non più di quanto sia stata mia o di mio padre o dello stesso Lim. Lui stava cercando disperatamente di dimostrare qualcosa a se stesso. Ha messo in questa cosa tutto ciò che aveva... anche di più. L'unico errore del tuo amico è stato quello di fare troppo affidamento su qualcuno che era divorato dai suoi stessi demoni. Possiamo trovare colpe in tutti, se vogliamo, ma tu non sei fra quelli che ne ha di più.» «Nel frattempo,» disse Clarin, riprendendo il suo sommario, «sono stati organizzati due attentati alla tua vita. Uno proprio qui, nella Catena del Dente Rosso, e uno più tardi nella Casa del Capitolo di Splash Uno. Ma tu affermi di non sapere chi stia cercando di ucciderti.» «È vero. Non lo so. Non ho fatto che ripensare in continuazione a tutto quello che ho detto all'inizio, e a chi l'ho detto. Come vi ho spiegato, nei primi giorni ho attraversato un momento di eccitazione, ma non ho mai detto niente di veramente significativo. Forse qualcuno ha potuto avere il sospetto che sapessi qualcosa che non dovevo sapere, ma nessuno può averne la certezza.» «Per certa gente il sospetto è già abbastanza.» osservò Tasmin. «Più che abbastanza. Per i Cristalliti, tanto per fare un esempio. Anche se penso che accetterebbero ben volentieri una prova dell'intelligenza dei cristalli» Aspettò un commento da Don, ma lei tacque. «Senza dubbio sospetterai di qualcuno.» «Qualcuno della BDL, è ovvio,» disse lei, a disagio. «Tutti sappiamo quanto siano privi di scrupoli. Lui lo è.» «E chi sarebbe questo lui?» «Justin. Più rende Jubal, più gli si ingrossa il portafoglio. Almeno così ho sentito dire.» «Il suo e quello del governatore. Qualcuno dice che anche il CSP ci guadagna.» «L'idea non mi piace,» disse stancamente Don. «Ma il punto è, che cosa devo fare adesso?» Si alzò in piedi e camminò intorno al piccolo fuoco, agitando le braccia, ruotando la testa e sciogliendo la tensione dei muscoli. «Non so dove andare, e che cosa fare. Tutto quello che mi viene in mente è usare la rete di comunicazioni per informare tutti quelli a cui posso arrivare, sperando che la cosa diventi di dominio pubblico prima che mi mettano le mani addosso.» «Dubito che ci lascino il tempo di uscire da qui e di fare una cosa del
genere.» osservò Clarin. «Siamo imbottigliati.» «Oh, possiamo uscire benissimo,» disse Don. «Conosco questa catena come le mie tasche. Anche se ci trovano ci sono una quantità di piccoli canyon e crepacci laterali che non sono nemmeno segnati sulle carte satellitari. Ma ammesso che usciamo da qui, poi che facciamo?» «Io sto ancora cercando di immaginare quello che può succedere,» disse Jamieson con voce perplessa. «Ci sono dei pezzi che sembrano non incastrarsi bene.» «Che cosa intendi dire?» «Ecco, quando stavamo entrando a Splash Uno abbiamo incontrato un ufficiale, e lui ci ha detto che molto presto avrebbero rinchiuso in un campo tutti i Cristalliti, nell'interesse dell'ordine pubblico. Fanno una gran confusione, quelli, ma non sono poi così tanti. Poi, mentre venivamo verso Northwest, l'autista ci ha parlato dei militari e delle strade. Hanno chiuso la base di Serendipity e hanno trasferito qui la guarnigione di settore. La Costa di Terrafonda è già sovraffollata. Ormai Jubal fatica a sostentare la sua popolazione, mentre a Serendipity c'è sovrabbondanza di provviste. Tutto questo non ha senso, dal punto di vista economico. E quello che mi chiedo è a che servano tutti quei soldati.» «È quasi come se si aspettassero grossi disordini, non vi pare?» chiese Tasmin con una voce ingannevolmente blanda. Non aveva fatto che guardare in continuazione oltre le alture, mentre pian piano il sospetto prendeva corpo dentro di lui. «Che tipo di disordini? Contro chi verrebbero usati tutti questi militari?» «Be', considerando che probabilmente la BDL comincerà a distruggere le Presenze subito dopo che la Commissione CACCIA avrà emesso la sua decisione, direi che i soldati verranno usati contro di noi,» rispose Tasmin. «Contro di noi?» «Noi Cantori, noi Esploratori. Tutti i dipendenti e il personale periferico. Tutti coloro che lavorano per noi, i magazzinieri, i contadini e gli allevatori di muli. Migliaia di persone, Reb. Se dovessero vedere la distruzione di qualche Presenza, molti di noi potrebbero dimenticare di essere al servizio della BDL. Potremmo diventare violenti.» «Dannazione, diventeremmo violenti,» affermò il ragazzo. «Io credo che la BDL lo sappia. Se fossi Harward Justin, programmerei la distruzione di un bel po' di Presenze solo qualche minuto dopo la pubblicazione del rapporto della Commissione. Prima che si possa scatenare una ribellione generale. Poi userei i soldati per mantenere l'ordine.»
«E allora che dobbiamo fare?» chiese di nuovo Don. «Restarcene qui seduti e morire? Cercare di uscire? Per fare che cosa?» «Un'idea,» disse Clarin, decisa. «Dobbiamo farci venire un'idea, Don. Ma ci sarebbe di grande giovamento se tu cominciassi a fidarti un po' più di noi.» Donatella scosse la testa come se non capisse. «Oh, andiamo. Don. Hai parlato per ore. Ci hai detto che hai trovato questa prova. Ci hai detto che l'hai verificata. Ci hai detto che hai un'informazione solida, concreta. Ci hai detto tutto...a parte quale sia il metodo e quale sia la prova. Non vedo come possiamo aiutarti se non lo sappiamo.» Il Cavaliere Esploratore si alzò di nuovo, si allontanò dal fuoco e restò in piedi a qualche distanza, voltando loro le spalle, rigida come l'avevano vista all'inizio. Le fiamme disegnavano luci irregolari sulla sua schiena, facendo scintillare i suoi capelli biondo chiaro. «Se qualcuno lo venisse a sapere mi ucciderebbe,» disse. «Stanno cercando lo stesso di ucciderti. Non siamo noi a costituire una minaccia. È una minaccia che esiste già. Non credo che si accaniranno di più, se anche dovessero conoscere l'informazione.» Don tornò verso il fuoco, gli occhi sgranati come una creatura feroce dal viso sporco inchinata davanti al un altare primitivo, mentre le fiamme guizzanti rendevano il suo viso ancora più smunto. «Non ci credereste,» disse alla fine. «Io non ci ho creduto.» «Prova a dircelo,» insistette Jamieson. «Ho parlato all'Enigma,» disse lei. «E quello mi ha risposto.» Un silenzio incredulo, totale. «Stai scherzando!» esclamò Jamieson con voce strozzata. «Ve l'ho detto che non mi avreste creduta.» «Parlato? A parole?» «A parole. Parole vere e proprie. E l'Enigma mi ha risposto. A parole.» Di nuovo silenzio. Silenzio che si prolungò in attimi interminabili, mentre tutti si guardavano, incerti, incapaci di credere... Alla fine la voce di Tasmin. «C'era un traduttore nella scatola!» «Uno nuovo,» ammise lei con un filo di voce. «Molto potente. Me l'ha procurato il mio amico. Ho tolto io stessa l'etichetta.» «Pensavo che fosse un programma di trasposizione.» «Non potevi sapere che era un traduttore. Ma la traduzione è lì dentro, nella scatola. Una conversazione vera e propria fra un essere umano e una
Presenza. Una conversazione che ha anche un certo senso, il che è notevole considerando che è la prima del genere. È questo che volevamo dare a Lim Terree. Ecco perché lui si è spinto così avanti per avere la partitura da te, Ferrence. Sapeva ciò che aveva in mano.» «Dio!» Ancora un silenzio sconvolto. «Perciò,» riprese la donna, «capite che dobbiamo fare qualcosa. E non mi viene in mente altro se non quello che vi ho detto prima. Diffondere l'informazione il più ampiamente possibile, presumendo che riusciamo ad avere accesso alla rete di comunicazione, e poi nasconderci finché la tempesta è passata.» «Non funzionerebbe,» disse Jamieson. «Non capisco.» «Non conta niente il fatto che tu sappia che le Presenze sono senzienti. Non hai testimoni. L'informazione che hai avuto potrebbe essere un falso. Visto che la Commissione CACCIA è destinata ad emanare un rapporto di non intelligenza, la BDL può fare affidamento sui militari per far valere quella decisione, quale che sia la verità. Ai soldati non importa niente. Se anche tu lo raccontassi in giro e qualcuno ti credesse, sarebbe tutto inutile. La BDL li metterebbe a tacere.» «Forse no,» disse Clarin. Jamieson la fissò con aria di sfida. «No, sul serio, Reb. Tu non hai ancora afferrato bene. Hai sentito ciò che ha detto questa donna? Lei ha parlato all'Enigma, e ne ha ricevuto una risposta. Se davvero riusciamo a comprendere le parole delle Presenze, allora qui su Jubal ci sono delle voci molto potenti che non possono essere semplicemente messe a tacere!» CAPITOLO NONO Nuvola di Uccelli, Strato d'Argento, Luce del Sole, Stella della Montagna, Bambino della Gloria azzurra della Dodicesima Generazione, che ascolta nella quiete della sera... A: Bondri Gesel dalle grandi orecchie. Messaggero delle Presenze. Bondri che canta, insieme alla sua compagnia in un'armonia in quattro parti, alla parte esterna di Strato d'Argento, la pelle, come a dire, della grande Presenza: «Pace, calma di vento, scorrere d'acqua, dolcezza di foglie d'albero che ruotano, gioia del sole, appagamento della luna e della stella.»
Il che non servì. Strato d'Argento, Nuvola di Uccelli, Stella della Montagna e via dicendo restituirono il canto in una serie di dolorose disarmonie: «Discontinuità. Lontano: tuono sulla spiaggia. Vicino: sussurro di cambiamento. Proliferazione di Coloro che cantano ad alta voce. Disturbo dei propri margini e frammenti. Prurito alle dita. Rumori nell'aria e nella terra. Disagio nelle radici. Confusione. Domanda a Bondri: determinare la causa? Bondri dalle Grandi Orecchie, che aveva viaggiato cinquanta giorni con la sua compagnia per portare un messaggio all'interno di Strato d'Argento, adesso fece una pausa, la sua sacca canora in flaccide pieghe, scosso fin nel centro del suo essere. Favel il Primo Sacerdote, chino e tremante sulle sue povere vecchie gambe, bisbigliò: «È mai successo prima?» Bondri agitò le orecchie in atto di negazione, segnalando calma alla compagnia. «Nessun Grande ha mai rivolto simili domande, prima d'ora. Nessun Grande è sembrato veramente rendersi conto di noi, prima d'ora, o vegliardo. Che cosa devo cantare?» «Resta sull'ambiguo,» suggerì il Primo Sacerdote. «Non dire nulla di preciso. Riferisci a Strato d'Argento che cercherai le ragioni.» Bondri cantò in forma canonica, il che consentì alla compagnia di seguire la sua guida. Arrivato a un certo punto. Bondri concluse: «Causalità attualmente sconosciuta. Chi sa che cosa pensano Coloro che cantano ad alta voce? Chi può sentire l'odore della luce del sole? Chi può assaggiare il vento? I messaggeri accerteranno.» Non aveva ancora pronunciato nessuna parola del messaggio interno che era stato lì lì per recapitare, anche se era molto breve: «Uccello Rosso alla vetta della Montagna d'Argento.» Gran parte dei messaggi interni che i viggy trasportavano non erano più lunghi di quello, che proveniva dal Grande Dente Azzurro, Colui che Scruta l'Orizzonte, la Possente Mano, la Presenza che il genere umano chiamava Intercettore Occidentale. Il Primo Sacerdote Favel. che aveva appreso il linguaggio umano quando da giovane era stato prigioniero di Coloro che cantano ad alta voce, era orgoglioso di chiamare i Grandi con nomi umani, di usare parole umane che secondo lui, proprio per la loro imprecisione, stimolavano il pensiero. Era sembrato inutile tentare di trasmettere il messaggio che aveva inviato l'Intercettore Occidentale. L'interno di Strato d'Argento non lo avrebbe nemmeno ascoltato, finché la sua pelle tremava in quel modo o finché si svolgeva quello strano interrogatorio, anche se il secondo sembrava cessato, almeno per il
momento. «Devo tentare di rasserenarlo per il messaggio?» chiese Bondri al sacerdote, in un canto a bocca chiusa. Come risposta ricevette un gesto: perché no? Bondri gonfiò la gola in un grande pallone rosato e cantò ancora alla pelle, cantò la serenità, segnalando alla compagnia di iniziare un'antifona sul tema della sera, una composta da un antenato di Bondri in un periodo di incessante e pericolosa agitazione. Era uno fra i più efficaci canti di superficie. La compagnia si sistemò per la proiezione migliore e ululò armoniosamente, le gole rigonfie in una sonora rotondità, mettendovi tutta l'energia che avevano a disposizione, ma con scarsi risultati. L'aria stessa (fremeva per il fastidio. Nuvola di Uccelli, Strato d'Argento, Luce del Sole, Stella della Montagna e via dicendo - quello che gli uomini conoscevano come Osservatore Settentrionale - non era tranquillo e non lo sarebbe diventato. «Cacofonia, dissonanza, le linee melodiche che vanno in pezzi,» sussurrò a Bondri uno dei responsabili canori. «Il Grande Nuvola di Uccelli è irritato con i suoi messaggeri.» Il Primo Sacerdote Favel se ne stava da un lato, ricurvo e in attesa, senza fare commenti, anche se Bondri gli lanciò un'occhiata nervosa. Era tutto inutile. Bondri sì piegò in avanti e cinguettò una frase in staccato. «Da queste parti c'è pericolo di rovina, una minaccia per il popolo dei viggy, andate e state lontani, lontani un bel po', presto, presto.» Si rivolse al vecchio sacerdote. «Dovete muovervi subito, vostra percettività.» Questo era il senso del messaggio di Bondri, anche se le parole non erano proprio così. Le parole avevano altri significati - il capo alla compagnia, il cantante esperto ai novizi in presenza di un Primo Sacerdote del popolo - e c'erano riferimenti all'ora del giorno e alla stagione, modificazioni del linguaggio richieste dal luogo in cui le parole venivano pronunciate. Quando uno dei Compagni degli Dèi ne citava un altro, chi ascoltava non aveva bisogno di chiedere quando, o per chi, le parole fossero pronunciate, o in quale tempo o in quale circostanza. Le parole da sole dicevano tutto. La parola taroo - vai - veniva cantata nel primo mattino. A metà mattinata diventava tarou e a mezzogiorno tarouu. Cantata alla luce del sole era itaroo, e nella nebbia era etaroo. Atawuualayum dava l'idea di una coppia unita senza giligee che a mezza mattina, sull'onda della pioggia, dirigeva a nord delle Scogliere Ombreggiate... in primavera. Così adesso le parole di Bondri richiamavano l'immagine di una fredda serata autunnale in prossimità dell'Osservatore Occidentale, durante la
quale una compagnia di viggy della stessa famiglia - maschi, femmine, giligee e giovani, tutti, a parte le più recenti figlie di scambio, partecipi degli stessi schemi di pensiero - accostava il Grande per trasmettere un messaggio ma non riusciva a oltrepassare la pelle per consegnarlo e rischiava di cacciarsi in una situazione di pericolo se non sì muoveva di lì. Bondri si sentì costretto a ritrasmettere l'avvertimento, a cui il Primo Sacerdote Favel non aveva ancora dato ascolto. «Vostra (raffreddata dall'autunno ma ancora molto apprezzata) percettività? La (possente ma non del tutto affidabile) Presenza nelle cui (arbitrarie e a volte semplicemente vendicative) decisioni noi abbiamo fiducia diventa (pericolosamente e maliziosamente) sempre più agitata. Meglio (imperativo) andarsene.» Il sacerdote agitò i gomiti in segno di approvazione, e Bondri fece il segnale dell'ala, uno ad uno, agli apripista fratelli di marsupio della compagnia, i quali scivolarono all'improvviso lungo un percorso quasi invisibile lungo il fianco dell'Osservatore Occidentale. Era un percorso sperimentato che consentiva il movimento senza mettere in allarme il Grande. La struttura cristallina al di sotto non aveva fratture, né spazi vuoti, né dislocazioni, né difetti planari o interstiziali - nessuna delle deviazioni dalla struttura cristallina uniforme che nelle Presenze esercitava la funzione rappresentata nelle creature di carne dai neuroni e dai neurotrasmettitori. Non che i viggy, o, come si definivano, gli etaromini, lo sapessero. Essi sapevano che il percorso era concreto, invariabile e privo di sensazione. In poche centinaia di metri li avrebbe condotti ad una sacca di terreno solido dove un boschetto offriva un luogo in cui recuperare le energie. Il Primo Sacerdote era molto anziano e aveva bisogno di assoluto riposo. «È abbastanza lontano?» ronzò uno della compagnia «Strato d'Argento può fare grande distruzione, anche a distanza.» Bondri non era affatto sicuro che fosse abbastanza lontano, ma la distanza era quella che il Primo Sacerdote era presumibilmente in grado di percorrere, visto lo stato delle sue gambe. Se le era rotte in gioventù e non erano mai guarite completamente. Mentre erano rotte, era stato catturato da Coloro che cantano ad alta voce e tenuto prigioniero abbastanza a lungo da apprendere il loro linguaggio. Molto più tardi uno di Coloro che cantano ad alta voce, un giovane, siano sempre benedetti i suoi famigliari schemi di pensiero, aveva gentilmente restituito Favel al suo popolo. Il suo nome era Lim Ferrence, e suo era uno dei nomi d'onore i cui schemi venivano ricordati dalla compagnia di Bondri nei tempi della reminiscenza.
Dietro di loro, sul pendio, parecchi dei Grandi esplosero le sommità con un fragore seguito dal tintinnio del vetro che si infrangeva. «Piccoli,» mormorò Favel, dando alle dita il loro nome umano. «Piccoli.» Nessuno dei frammenti cadde vicino ai viggy, e Bondri emise un sospiro di sollievo. I Grandi non erano sempre ragionevoli nell'assegnare le colpe. Se un viggy faceva qualcosa che li disturbava, le loro pelli o le dita potevano anche uccidere un altro viggy per ritorsione. Era quasi come se le pelli non conoscessero la differenza fra un individuo e l'altro. O non sapessero affatto che ci fosse una differenza. La stessa cosa succedeva con Coloro che cantano ad alta voce. A volte i Grandi covavano il fastidio per un tempo molto lungo, esercitando la vendetta molto dopo che il responsabile originale se ne era andato o era morto. Almeno così sembrava a Bondri, anche se il Primo Sacerdote gli diceva che le cose non stavano così. «È la differenza fra il loro interno e il loro esterno,» ansimò il Primo Sacerdote, facendo capire a Bondri che si era espresso a voce alta. «Le superfici delle loro menti sono poco profonde e facili all'irritazione. Ci colpiscono non appena ci avviciniamo, senza pensarci. Nelle Profondità, dove i grandi pensieri si spostano verso le radici delle montagne, essi sono più lenti a ragionare e, credo, quasi del tutto inconsapevoli della nostra presenza. Ho sempre ritenuto che c'è poca connessione fra le due parti.» «A parte il modo in cui si è comportato stasera Strato d'Argento,» cantò Bondri. «Stranamente.» «Stranamente davvero! Sembrava ben consapevole di noi, non è vero? Come se si fosse ridestata qualche metà della mente.» Era sembrato proprio strano, infatti, un pensiero davvero sgradevole. «Che siano benedette (tutte le Presenze, grandi e piccole, le loro dita e le parti di pelle),» disse Bondri, le antenne erette e piegate in avanti sulla testa, allontanando ogni disgrazia che l'osservazione del sacerdote poteva altrimenti attirare su di loro. «Oh, certamente.» sospirò Favel. «Sì.» «Posso assistere vostra (canuta e inferma e troppo raggelata) percettività?» «Magari tu fossi così (grazioso in questa stagione) gentile, giovanotto. Divento più scricchiolante ad ogni luna che passa.» «Sarebbe un onore trasportarvi.» «Non è necessario che tu arrivi a questo. Una spalla a cui appoggiarsi sarà la benvenuta.»
La compagnia si affrettava lungo il percorso, muovendosi quanto più velocemente possibile senza trascurare la dovuta cautela. Spostare frammenti abbandonati di cristallo spesso faceva molto irritare i Grandi, soprattutto se veniva fatto in modo rumoroso. I pezzi dovevano essere raccolti con dolcezza e messi da una parte, e ciò richiedeva tempo, ma la lunga esperienza aveva reso la compagnia silenziosa ed efficiente. Quando cadde l'oscurità avevano raggiunto il boschetto di alberi. «Dove siamo?» chiese il Primo Sacerdote, accasciandosi su una soffice sacca di terra e arruffandosi il pelo per mantenere il calore corporeo. «Non riconosco questo itinerario.» «Sul versante posteriore di Strato d'Argento,» rispose Bondri. «Subito ad oriente dei Cantanti di Tineea, Coloro-Che-Salutano-Senza-Volerlo, che Coloro che cantano ad alta voce chiamano Falsi Zelanti. Un transito facile, vostra percettività.» «Forse domani, un transito facile. Al momento è un transito impossibile. Non poso andare oltre. Abbiamo del cibo?» «Cibo bagnato e asciutto. Mettetevi comodo mentre lo preparo» Preparare il cibo richiese poco tempo. C'erano steli commestibili da pelare, ciuffi di grano da battere, qualche baccello di semi da aprire con un osso appuntito. Non un osso di viggy. Le ossa dei viggy erano fragili e leggere, e in ogni caso il rituale dell'eliminazione rendeva le ossa di viggy indisponibili per qualsiasi scopo utile. D'altra parte le ossa dure e resistenti di Coloro che cantano ad alta voce e dei loro animali venivano spesso trovate ai piedi dei Grandi, ed erano molto apprezzate. Per generazioni i viggy avevano studiato i cadaveri degli umani e dei muli, e c'era ben poco che non sapessero sull'anatomia umana. I giligee, in particolare, erano interessati a questa conoscenza. A volte in mezzo agli avanzi di Coloro che cantano ad alta voce, animali e cara si trovavano anche frammenti di metallo. Oggetti di questo materiale con le punte aguzze o dentellate erano ancora più ricercati. Nel marsupio vestigiale. subito sotto la sacca canora. Bondri portava diversi pezzetti di metallo, dono del suo popolo, per lo più recuperati ai piedi di Sua Altezza Oscura. Signore degli Uccelli Volteggianti, Padrone del Fumo, quello che gli umani chiamavano Torre Nera. Il Primo Sacerdote masticò rumorosamente gli steli pelati di cespuglio del colono e fece una conversazione garbata, come si conveniva al tempo della divisione del cibo. «Si possono quasi perdonare gli umani (gente di terre lontane, bizzarri stranieri che dicono cose irriferibili e disgustose con parole che non sono vere, perciò incorrendo nel tabù) per essere venuti nel-
la Nostra-Terra-Degli-Dèi.» cantò. «Hanno portato ottimo cibo.» «Una parte di esso, sì,» ammise Bondri, la cui compagnia aveva preso solo di recente l'abitudine di razziare i campi e i giardini degli umani. «I piccoli semi in cima ai lunghi steli sono buoni, anche se maturano solo in una stagione dell'anno. E le diverse grosse radici e le foglie dolci sono buone, e quei bulbi succosi che crescono sugli alberi. I grossi baccelli invece non sono buoni. Li chiamano brou.» «Non credo che usino i grossi baccelli come cibo.» «L'ho sentito cantare,» ammise Bondri. «Ho sentito che schiacciano i grossi baccelli in un luogo vicino al mare, li schiacciano e li mettono nei contenitori, e poi li mandano via su barche. Il nostro parente-pescatoreche-corre-dal-mare-portando-pesce dice che i baccelli schiacciati vanno a finire fuori mondo.» «Questo è vero,» riconobbe il Primo Sacerdote in chiave minore. «Durante la mia prigionia l'ho visto con i miei occhi. Coloro che cantano ad alta voce mangiano il brou per sentirsi allegri.» «A noi, invece, non ci rende allegri. I grossi baccelli sono molto pericolosi.» «È una pianta che si chiama gigaro,» annuì il Primo Sacerdote, mentre la sacca sotto la gola si gonfiava e si afflosciava per la tristezza. «Grazie ad essa ho perso un'intera nidiata di fratelli di marsupio. Il loro capo si diresse verso i campi di Coloro che cantano ad alta voce. Era in quell'età in cui assaggiano tutto, e i suoi fratelli la seguirono. Un solo assaggio e... il disastro. Non fu possibile fare niente.» Rimase seduto in silenzio, gemendo. Quando una coppia unita e il giligee potevano generare un piccolo da marsupio solo ogni sei o sette anni, la perdita di un intero gruppo di figli di marsupio era dura da sopportare. La prossima volta il giligee prescelto si sarebbe inoltrato ben dentro il territorio per incubare, assai lontano dal terreno profondo. E il giligee sarebbe rimasto lì finché le sue figlie non avessero raggiunto un'età ragionevole, superando quella fase di curiosità in cui ci si mette in bocca di tutto. Era difficile vivere lontano dal terreno profondo, ma qualcuno dei piccoli più cresciuti poteva andare insieme al giligee, per dare una mano. E se non altro c'era sempre l'erba degli etaromini. chiamata da Coloro che cantano ad alta voce cespuglio del colono. «Vostra percettività?» «Sì, Bondri.» «Non mi avete detto dove desiderate andare.» «Gli dèi sono addolorati. Lo vedi da solo, Bondri, Primo Cantante, Capo
della Compagnia. Così come l'Osservatore Settentrionale - Strato d'Argento e via dicendo - rabbrividisce e fa esplodere le sue dita, così fanno altri dei Grandi. Sua Altezza Oscura, Signore degli Uccelli Volteggianti, Maestro del Fumo, che gli umani chiamano Torre Nera, è stato particolarmente afflitto. E adesso tutti questi interrogativi, questo tumultuoso lamentarsi. Chi sono le creature consapevoli? Ci sono tre possibilità. Gli stessi dèi. O Coloro che cantano ad alta voce. O noi. Solo noi tre siamo creature consapevoli, che possono essere causa di cose. Può esserci un'altra risposta?» Bondri ammise che non poteva essercene un'altra. Il Sacerdote masticò pensierosamente, strofinandosi le gambe con le dita ossute. «Vado ad un luogo di riunione. Vi converranno Primi Sacerdoti da nord e da sud. Parleremo di questa cosa. È molto fastidioso. Non si sa quale sia la verità.» Bondri strascicò i piedi avanti e indietro nella polvere. «È possibile, vostra percettività, che siano gli dèi stessi?» Il Primo Sacerdote agitò le orecchie in segno di diniego. «Nulla è certo. Può essere che questa confusione emani dal Folle. Corre musica che il Folle abbia parlato a uno di Coloro che cantano ad alta voce.» Dai viggy. che avevano educatamente abbassato le orecchie e che ogni tanto canticchiavano una frase antifonale per indicare la loro attenzione, si levò un profondo sospiro. Una Presenza aveva infranto il bando! Aveva parlato a uno di Coloro che cantano ad alta voce! Aveva fatto ciò che a tutti i viggy era proibito fare! «Come? Se Colui che canta ad alta voce non aveva le parole di serenità per la pelle e le parole di saluto per l'interno?» «Si dice,» cantò Favel, «che Colui che canta ad alta voce, una femmina, avesse le parole.» «Come ha fatto ad averle?» L'intera compagnia trattenne il fiato, attendendo la risposta a quella domanda. Il vecchio viggy sospirò. «Non chiedere ciò che già sai essere vero. Se le aveva, le aveva avute da noi. Non siamo forse noi etaromini, Coloro che si muovono fra gli Dèi? Gli alberi si sono messi improvvisamente a cantare?» Il vecchio sacerdote aveva usato il modo umoristico, che richiedeva una risata di apprezzamento, anche se vi aveva aggiunto un'intonazione che esigeva un filo di pudore, e questo provocò un'imbarazzata cadenza nella compagnia. Adesso agitò le orecchie verso di loro, un gesto di ammonimento. «Sarà meglio che ridacchiamo (melodicamente) adesso. In seguito
potrà esservi solo occasione di (disarmonico) dolore.» «È stato in quell'occasione,» intonò Bondri, con le parole che evocavano un'epoca di circa cinquant'anni prima, nella primavera dell'anno, quando una compagnia era stata sorpresa da una (straniera, misteriosa, di fuori mondo) creatura. «Aveva una (creatrice di rumore, ladra di musica, abominevole) macchina.» «Vive ancora qualcuno che ricordi quel tempo?» salmodiò la compagnia all'unisono, con profonda reverenza. «Nessuno.» inneggiò il sacerdote, chiudendo la litania delle reminiscenze. «Solo le sacre parole ricordano.» Le parole erano più che sufficienti, naturalmente. Anche se i singoli viggy morivano, le parole erano immortali. Le parole e le melodie e la dolce matematica dell'armonia, quelle erano le cose eterne, le cose degli dèi. Finché venivano ricordate con cura - e i Primi Sacerdoti avevano il compito di ricordarle tutte - ogni cosa poteva essere ricostruita così come era avvenuta a quel tempo. La sorpresa. La fuga. Il ritorno strisciante per vedere che cosa stesse facendo quella strana creatura. L'orrore nel sentire il canto rubato, prigioniero della macchina, il tentativo di liberarlo... senza nessun risultato. Parecchi erano morti nel tentativo, ma il canto era ancora prigioniero. Prigioniero, senza dubbio, fino a quello stesso giorno. E adesso, forse, quello stesso canto (per cui ci si era rattristati e si era provato dolore) era stato usato contro la sua volontà per parlare al Folle, la Presenta Senza Interiorità, l'Assassino Senza Causa, chiamato, da Coloro che cantano ad alta voce, Enigma. «Povere (predestinate al dolore, condannate, segnate dal destino) creature,» salmodiò un giovane giligee, in un assolo vocale. «Se il Folle ha fatto questa cosa, la prossima volta ucciderà. Il Folle parla sempre una volta, e la volta successiva uccide. Coloro (colui) che cantano (canta) ad alta voce moriranno (morirà) certamente.» La voce del giligee si librò in alto e Bondri chiuse gli occhi in segno di apprezzamento, anche se le parole lo facevano rabbrividire. «È vero,» intonò con voce tremula il vecchio sacerdote, mordendo un consolante pezzo di frutta. «Se chiunque di Coloro che cantano ad alta voce tenterà di nuovo di cantare all'Enigma, senza dubbio l'Enigma lo ucciderà.» CAPITOLO DECIMO Nel suo tugurio alla periferia di Splash Uno, Fratello minore Jeshel. co-
lui che aveva il privilegio di maneggiare la frusta dei Cristalliti, Adoratori dei Sacri, degli Dèi Incarnati di Jubal, terminò di picchiare la sua serva e si guardò intorno in cerca di qualcun altro che potesse aver bisogno di ammonimento. Fratello Jeshel era quasi sicuro che gli Dèi Incarnati gli avessero parlato in sogno. Gli sembrava di ricordare qualcosa del benevolo avvenimento e aveva detto alla sua serva di non interromperlo, certo che alla fine lo avrebbe riportato alla memoria abbastanza chiaramente da riferirlo ai Tre, riuscendo magari a farsi ammettere a fare da testimone a una visione nel tempio. Sorella Sophron giaceva sul pavimento, seminuda e piangente. «Alzati,» le ringhiò. «E non mi svegliare più in quel modo.» «È venuto un messaggero,» singhiozzò la donna. «Da lei. Non sapevo che altro fare.» «Il messaggero poteva aspettare. Copriti. Sei disgustosa, conciata così.» Visto che Sorella Sophron non si era tolta la gonna, l'accusa era ingiusta. Tuttavia si tirò su la maglia lacera per coprire la schiena e le spalle e cercò di sistemarla anche sul davanti, notando di sfuggita che molte delle cuciture erano strappate. Fratello minore Jeshel si era svegliato di pessimo umore. «Che cosa vuole?» «Il messaggero?» «Di chi altri stiamo parlando, sgualdrina? Ma certo, il messaggero.» «Dice che viene da parte di lei, della moglie.» «Ah, digli che gli parlerò fra poco. Vatti a vestire. Devi tornare in città, al tuo lavoro.» Con andatura strascicata, tenendosi la gonna sulla vita, Sorella Sophron lasciò la stanza. Quando gli riferì i rimproveri di Jeshel non guardò in faccia gli occhi del messaggero, né si voltò indietro per vedere la sua reazione. Al momento le interessava solo correre in bagno prima di vomitare. Non era giusto che Jeshel la picchiasse quando lei era in quelle condizioni. Aveva pensato che su Jubal le cose sarebbero andate meglio, ma non erano migliorate, nemmeno un po'. Fratello minore Jeshel non era diverso dal compagno ribelle Jeshel. Usava solo parole leggermente diverse, tutto qui. Su Serendipity Jeshel diceva "rivolta" e "la Causa" e "la fottuta direzione con tutti i suoi leccaculo"; adesso diceva "le Presenze" e "Evangelismo" e "la fottuta BDL con tutti i suoi tirapiedi" - Cantori ed Esploratori inclusi ma continuava a strillare e a bruciare e a uccidere gente alle spalle. Sophron si ricordava ancora di come lei si guadagnava la vita mentre Jeshel
cospirava. Si ricordava ancora che lui compiva azioni sanguinose, e lanciava bombe, e la picchiava quando era incinta. Vomitando abbondantemente, Sorella Sophron maledisse il Fratello minore Jeshel e maledisse il momento in cui gli aveva riferito ciò che le aveva detto il Cavaliere Esploratore quando era andata a farsi tagliare i capelli. Dietro di lei, nel corridoio lurido, Rheme Gentry fece una smorfia e continuò a canticchiare tranquillamente. Era molto stanco, essendo tornato da Northwest solo la sera prima molto tardi, ma si guardava bene dal sedersi. Non c'era niente di pulito su cui sedersi. Alla fine Jeshel si sarebbe fatto vedere, sporco e spettinato, probabilmente anche infestato dai pidocchi, anche se su quel pianeta era difficile. Non c'erano parassiti umani. Forse Jeshel aveva evitato la quarantena per potersi imbarcare prima. Rheme non aveva ancora mai incontrato Fratello minore Jeshel, ma ne aveva sentito parlare: un funzionario di rango inferiore nella gerarchia dei Cristalliti, ma ritenuto responsabile di un buon numero di atti terroristici e di grave turbamento all'ordine pubblico. Dopo aver mandato Tasmin Ferrence a trovare, e si sperava anche ad assistere, Don Furz, i quattro cospiratori, Vowe e Vox, Middleton e Gentry, avevano discusso su diversi Cristalliti come possibile fonte di informazione, e Fratello Jeshel era stato la loro scelta unanime. Avevano deciso che Rheme, con un semplice travestimento e con un nome falso, si sarebbe presentato da lui per interrogarlo. Rheme si divertì a pensare a che cosa avrebbe detto suo zio di tutto ciò. Il direttole della CATENA non avrebbe apprezzato il rischio, questo era sicuro. Mise da parte quel pensiero sgradevole e prese in considerazione diversi nomi per il gruppo che si stava formando su Jubal. Potevano chiamarlo la Cospirazione dei Quattro. O magari la Connivenza del Gioco di Carte. Il titolo più adatto poteva essere forse Quattro Contro la Marea. Anche se, secondo Thyle Vowe, sarebbero diventati molto più di quattro, quando i Cantori avessero capito ciò che stava succedendo... quelli che non lo sospettavano già. Inoltre era sbagliato pensare ad essa come a una cospirazione. Una controcospirazione, piuttosto. Un gruppo di controinformazione. Il che suggeriva qualche altro nome. Operazione Jubal. Quel nome gli piacque molto. «Che vuoi?» La voce era ostile e sgarbata Gentry si voltò e vide il Cristallita in piedi dietro a lui, i capelli lisci e sciolti, la barba corta e ispida, il corpo maleodorante, esattamente come glielo avevano descritto. «Mi chiamo Basty Pardo,» lo informò Gentry. «La moglie del Governatore è interessata a sapere come sta andando il suo piccolo progetto.» Una
volta si chiamava Basty Pardo, e luì era sicuro che la moglie del Governatore era interessata a molte cose. Quando poteva, Rheme cercava di evitare le menzogne. Fratello Jeshel grugnì. Gentry era il tipo che odiava istintivamente. Pulito e impeccabile, con denti regolari. Uomini del genere non erano di nessuna utilità, per quanto riguardava Fratello Jeshel, ma non poteva insultarlo. Non adesso. Non ancora. Scelse di tenersi sul vago. «Sono interessato a sapere come sta andando il mio piccolo progetto! L'altro giorno dei soldati hanno preso alcuni dei miei uomini. Stavamo guardando verso i Grandi, e abbiamo visto degli eretici che venivano proprio da lì, e quando li abbiamo puniti sono arrivati i soldati. Lei aveva detto che avrebbe tenuto i militari lontani da noi» Rheme assunse il tono freddo e autoritario. «Se ti riferisci a! vostro attacco al Cantore e ai suoi novizi che tornavano dalla Gola della Follia, è stato sciocco da parte dei tuoi uomini interferire. Il Governatore può tenere i soldati lontani da voi finché non aggredite la gente, Jeshel, ma se incominciate a lanciare oggetti, i soldati devono entrare in azione. Nessuno può fermarli.» Jeshel lo fissò sbalordito. Quel bel ragazzo era capace di parlare duro, allora. «Il Governatore può comandarli.» «Non quando è un caso di ordine pubblico. Per situazioni come quella hanno ordini prefissati. Il Governatore può impedire alle truppe di fare una retata - almeno per un po' - ma non può garantirvi l'immunità, lo sai.» Tutto il discorso aveva un bel piglio molto autoritario e Theme si domandò per un attimo se stava dicendo cose vere o efficaci per la particolare situazione. In molte situazioni esprimersi in modo autoritario era già sufficiente. Jeshel grugnì di nuovo. L'aggressione al Cantore era stato un rischio calcolato. Non aveva mai pensato che sarebbero riusciti a catturarlo, ma i suoi uomini cominciavano ad essere irrequieti, ed erano ansiosi di un confronto vero e proprio. Occorreva un incidente, subito, qualcosa di grosso, altrimenti qualcuno di loro avrebbe cominciato a fare marcia indietro. «La moglie del Governatore vuole sapere quello che succede,» ripeté Rheme con aria impaziente, sperando che l'uomo avrebbe risposto. Era pericoloso trattenersi troppo a lungo o parlare più di quanto avesse già fatto. Una parola sbagliata e quel lurido fanatico si sarebbe, aggrappato al fatto che Rheme non sapeva quasi nulla, e che stava solo andando a tastoni in cerca di notizie.
«Non lo so. È stato solo ieri. Ho mandato qualcuno, ma ancora non è tornato indietro.» Nemmeno Donatella Furz era tornata ancora indietro, almeno non quando Rheme aveva lasciato Northwest City. E non era tornato neanche il bel Cantore con i suoi novizi, per dirla tutta. «Hai mandato qualcuno dei tuoi seguaci?» Questa sembrava una domanda senza rischi. «No. Non sono dei membri veri e propri. Qualcuno che conosco.» «Pensi... ehm... che questa volta ce la faranno?» «Ne ho spediti diversi. Quattro. Se l'hanno mandata ieri, come avevano promesso, dovrebbero averla incontrata verso sera.» «Santo cielo» Rheme prese il fazzoletto e si pulì nervosamente le mani e la fronte, decidendo di correre il rischio. «Per un solo Esploratore dovrebbero bastare, no? Però dobbiamo ricordare che hai già fallito una volta.» «Che vuoi dire, una volta?» Jeshel guardò a brutto muso l'uomo più piccolo di lui, mentre un'espressione sospettosa gli attraversava le labbra. «Non c'è stata nessun'altra volta. Questa è la prima.» «La prima? Be', può darsi. La moglie del Governatore si serve anche di altre persone. Bene, le recapiterò il tuo messaggio. Nel frattempo dì ai tuoi uomini di tenersi fuori dai guai, Jeshel. Che si brucino pure quanto vogliono, ma che la smettano di lanciare pietre? D'accordo?» Una volta in strada, Rheme aprì la macchina di fronte a venti Cristalliti urlanti che si erano materializzati da tutte le baracche e le stamberghe del vicolo, stando bene attento a non fissare nessuno di essi. Era il genere di animali che si sentivano minacciati da un'occhiata diretta. Si allontanò in mezzo al fracasso e al lancio di oggetti di ogni genere, ma fu ben felice di essersela cavata così a buon mercato. Anche se il suo ufficio temporaneo era presso la Residenza Governativa si diresse verso il Quartier Generale della BDL e parcheggiò nello spazio posteriore, non nel cortile. Il cortile, come quello della Cittadella adiacente, era sotto la sorveglianza continua della stessa Honeypeach, alla quale piaceva sapere chi andava e chi veniva da Splash Uno. All'interno del palazzo scese furtivamente una rampa di scale sul retro e raggiunse un corridoio con uffici vuoti. Lo percorse tutto e giunse di fronte a una porta senza indicazione. Bussò piano, secondo uno schema ripetuto più volte. «Gentry?» bisbigliò qualcuno. «Io.» disse lui, infilandosi attraverso la porta che si aprì appena. «Santo cielo, è proprio necessario continuare a muoversi come ladri e parlare a bassa voce?»
Gereny Vox sollevò un sopracciglio. «In questa stanza non ci sono occhi né orecchie, Rheme. È forse l'unica stanza del palazzo della BDL di cui si possa dire questo. Il motivo per cui non ci sono occhi è che qui si conservano gli archivi degli allevatori di muli. A chi diavolo possono interessare gli archivi degli allevamenti di muli, giusto? Io ho una ragione per trovarmi qui, tu no. Perciò sarà meglio che ti sbrighi a parlare e te ne vada al più presto.» Lui sospirò, asciugandosi di nuovo la fronte. «Fai sapere a Thyle che avevi ragione. Honeypeach ha fatto uno scambio di favori con Fratello Jeshel perché uccidesse Don Furz. Lui ha mandato quattro uomini, ma è la prima volta che lo fa.» Continuò ad asciugarsi la fronte e fece scorrere il dito sotto il colletto, alto e stretto. «Gereny, quaggiù fa più caldo che sulle Stelle del Nucleo.» «Impedisce alle carte di fare la muffa. Hai saputo altro?» «No. Come hai fatto a sapere di Honeypeach, a proposito?» Lei sputò ritualmente, senza saliva. «Grazie a due idioti di stallieri, in una stalla di Splash Uno, che stavano lì a spettegolare mentre avrebbero dovuto spalare merda. Non si sono accorti di me, che ero andata a controllare una zampa di Tinkerbell. Erano tutti e due una mezza specie di Cristalliti. Non quelli più incalliti, dei semplici tirapiedi. Uno di loro aveva un fratello e ha raccontato che suo fratello era stato spedito a Northwest insieme ad altri tizi. Per sistemare un Cavaliere Esploratore, diceva. Erano tutti ben pagati. Ha detto che il cavaliere era stato incaricato di una missione e che potevano ucciderla sulla via del ritorno, perché la moglie del Governatore la voleva morta.» Sputò di nuovo.«L'ho riferito a Thyle e lui ha convocato te e Jem per un incontro. Sei arrivato tardi, ma il resto l'hai sentito. Abbiamo ipotizzato che si trattasse di Don Furz, perché è l'unica che da queste parti sia molto in vista, ma finché non ho chiamato il Priorato non ci siamo resi conto che tutto stava avvenendo così in fretta.» «Potrei provare a scoprire qualcosa di più, perché qui ancora non mi conoscono, e nessuno a parte noi quattro sa che lavoro per il CSP. Siete arrivati a qualche conclusione?» «Stiamo facendo due più due.» «Secondo Jem sembra che in passato ci siano stati due attentati alla vita dell'Esploratore, più quello di ieri,» rifletté Gentry. «Che cosa gli ha fatto sospettare che qualcuno avesse già tentato di uccidere Don Furz?» «Jem ha un uccellino da qualche parte della Divisione Esploratori della BDL.»
«Un uccellino?» «Una piccola spia. Qualcuno molto in basso, a cui nessuno presta attenzione. Probabilmente qualche addetto ai dati o qualche impiegato delle comunicazioni. Jem non ne ha fatto il nome, e noi non glielo abbiamo chiesto. Bene, l'uccellino dice che l'ordine di mandare Don Furz al Dente Rosso la prima volta non era in regola. Mancava la firma di qualcuno, insomma c'era qualcosa che non andava. E Jem ha scoperto oggi che anche l'ordine di rimandarcela quest'ultima volta non era più regolare del primo. Erano entrambi balordi.» «Balordi?» «Falsi! C'è qualche topolino che striscia fuori di notte e falsifica gli ordini. Chi pensi che sia? Il Re Esploratore? Ci metterei le mani sul fuoco. Una conclusione abbastanza facile. Hai le conoscenze adatte, Gentry. Cerca di scoprire se Chase Random Hall ha un conto su Serendipity. Se ha del denaro lassù, possiamo essere quasi certi che sia lui topolino che spedisce il suo Esploratore verso la morte.» Il viso della donna si corrugò un attimo all'idea del tradimento. Rheme Gentry prese un rapido appunto. «Non fare conto su di me per scoprire qualcosa, Gereny. La posta per Serendipity viene censurata, oppure va perduta, anche il materiale diplomatico del Palazzo Governativo. La BDL controlla le navi e. a parte qualche eccezione, i messaggi non passano.» «Come fai a saperlo?» «Avevo elaborato dei segnali di riconoscimento, impiantati nel sistema di informazioni al di fuori della rete della BDL, e non ce n'è più traccia. Stanno imprigionando Jubal, Gereny. Vedrò quello che posso fare con Hall, ma io non correrei subito alla conclusione che sia lui. Potrebbe essere qualcun altro. Hall è un personaggio un po' troppo in vista. Io punterei su qualcuno meno evidente.» «Povera Donatella.» disse pensosa Gereny. «Una brava ragazza. L'ho incontrata tre o quattro volte, e sono sempre stati incontri piacevoli. Non ha la puzza al naso come qualche altro Esploratore. Spero che stia bene.» «Be', speriamo che Tasmin Ferrence sia arrivato in tempo per aiutarla. Jeshel dice che ha mandato quattro sicari, ma se sono della qualità di quelli che ho visto bazzicare il quartiere cristallita, il fucile per stordire dovrebbe avere aumentato le probabilità in nostro favore. Piuttosto mi preoccupano quei due attentati precedenti. Fratello Jeshel sostiene di non avere nessuna...»
«Anche se si trattasse del Re Esploratore, scommetto che non agisce di sua iniziativa. Mi piacerebbe sapere chi è che impartisce gli ordini.» Price Zimble sedeva ai piedi del Re Esploratore, massaggiandogli delicatamente le ginocchia e i polpacci. Chase Random Hall, che pure gradiva quella sensazione, faceva finta di non notare quell'intimità. «E allora che cosa hai fatto?» chiese il Re. «Quando Donatella è tornata da Splash Uno?» «Sono rimasto nei paraggi,» rispose Zimmy. «L'ho tenuta d'occhio per giorni.» «Da allora non ha più chiesto di te?» «Nemmeno una volta.» «Hai frugato nella sua stanza?» «Spessissimo. Non c'è niente, Chase. Qualche carta senza importanza e cose a cui lavora, e poi i suoi effetti personali. Tutto qui.» «Nessun messaggio?» «Niente che non sia di ordinaria amministrazione. Sai, Ralth che le chiede di fare cena con lei, o Martin che la invita a bere qualcosa, o roba del genere. Un biglietto di ringraziamento dalla sua cugina di Splash Uno.» «Potrebbe essere in codice.» «In codice! Per l'amor del cielo, Randy. Diceva: "Carissima Donatella, grazie per l'ottima cena. Salutami tua madre Con amore, tua Cugina Cyndal." Se pensi di poter tirare fuori un messaggio in codice da quel...» Il Re fece una smorfia di irritazione, piegando sgradevolmente!a bocca. «Niente di nuovo su quell'uomo di Splash Uno, quello che è morto nella Casa del Capitolo?» «Niente. Nessuno sa chi sia o chi lo abbia mandato. A meno che lo sappia tu.» «Non essere sciocco, Zimmy. Lo ha mandato Justin. Chi altri?» La sua voce non era così sicura come le sue parole. «Che cosa vuoi che faccia adesso?» «Nell'improbabile eventualità che lei faccia ritorno da quel viaggio al Dente Rosso...» «Improbabile eventualità?» Zimmy spalancò gli occhi, in un'espressione di ingenua sorpresa. «Qualcuno ha fatto in modo di mandarcela, idiota, e non sono stato io. Ho visto l'ordine! Era falso. E poi perché l'autorità costituita doveva spedirla al Dente Rosso? Lì non c'è niente di veramente interessante da fare.»
«L'autorità costituita?» Zimmy era il ritratto del candore. Il Re Esploratore aveva l'aria irritata. Alcuni pezzi del rompicapo non si incastravano. A lui, al Re, era stato detto di non fare niente a Donatella, ma qualcuno stava tentando di farle qualcosa. Chi? E perché? Non si soffermò a guardare Zimmy. Se lo avesse fatto forse avrebbe colto sul suo viso un barlume di divertimento. «Non fare domande, Zimmy. Meno ne sai e meglio è. E se lei torna indietro, trovati là e non fare la faccia sorpresa.» «Be', ma certo. Randy,» disse Zimmy, con l'aria offesa. «Ci arrivo da solo, a capirlo.» Maybelle Thonks sentì la matrigna che cantava, e dentro di sé si fece piccola piccola. Honeypeach cantava soltanto quando era al culmine dell'esaltazione, e Maybelle detestava indovinare quali corpi inerti e insanguinati la moglie di suo padre calpestasse in quel momento, in modo così poco melodico. «Problemi?» chiese Rheme Gentry. Era appena uscito dall'ufficio del Governatore con una pila di carte che sistemò sulla scrivania. «C'è qualcosa che l'aiutante del Governatore può fare per esserti utile?» «Honeypeach sta cantando.» «Eh?» «Probabilmente significa che ha appena ucciso qualcuno.» «May Bee.» Lo disse a bassa voce, ma con un tono di inequivocabile rimprovero. «Be', è così.» L'uomo sospirò. «Forse, ma è meglio non dirlo. Non all'interno della Residenza Governativa. Non in qualsiasi posto dove qualcuno possa sentirci, d'accordo?» La prese per mano e la condusse sull'ampia terrazza, che si estendeva lungo due lati dell'edificio, ben lontana da ingannevoli cespugli o da sporgenze del tetto. Quando furono del tutto fuori dal palazzo, lei disse: «Rheme, come fai a sopportarlo?» «Be', confesso di essere rimasto piuttosto sgomento, quando sono venuto a ricoprire l'incarico di aiutante di tuo padre e ho capito esattamente che cosa significava questo per la moglie di tuo padre.» «Come hai fatto a rimanere fuori dalle sue grinfie?» «Le ho detto che avevo contratto un'infezione virulenta e sessualmente trasmissibile su Rentree Quattro, che al momento era in remissione ma an-
cora contagiosa, e che i sintomi della malattia, nelle donne, includevano la completa atrofia delle mammelle e di altre parti genitali.» «Rheme! Sul serio? L'hai fatto davvero. Mio Dio, non avrei mai... che cosa splendida.» «Inoltre le ho detto che non doveva preoccuparsi per la sua figliastra perché trovavo poco attraenti le donne del tuo tipo. Le ho detto che non mi piacevano i capelli castano chiaro e gli occhi color nocciola perché mi Incordavano la mia cattiva zia, l'incubo della mia infanzia.» «Brutto animale.» «Come risultato lei non si è preoccupata e a noi è consentito di frequentarci tranquillamente. Naturalmente può darsi che ti tenga d'occhio in cerca di sintomi di atrofia. Non si sa mai.» «Non hai risposto alla mia prima domanda. Come fai a sopportare tutto questo? Lo sai che sta combinando papà.» «Certo che lo so. Sta cercando di costruirsi una grossa fortuna prima che qui su Jubal vada tutto a picco. Prende soldi dai Cristalliti con una mano e dalla BDL con l'altra. Quando la BDL farà ciò che ha in mente di fare, cosa che ancora non ho capito del tutto bene, ci saranno dei grossi problemi, ai quali seguirà probabilmente un'inchiesta. Ma subito prima dell'inchiesta tuo padre rassegnerà le dimissioni per godersi la pensione su Serendipity o su Utopia o su New Havah-eh o in qualche posto del genere.» «È vergognoso.» «Una parola che tuo padre usa poco, Maybelle. Una cosa che devo confessare di non capire è come mai tu sei ciò che sei mentre lui è ciò che è.» «Perché ho avuto mia madre con me per vent' anni. Ma mio padre voleva Honeypeach. Lei corrompe la gente. Non che lui avesse tanto bisogno di essere corrotto. È stato con Honeypeach da quando lei aveva quindici anni. Ci crederesti? Suo figlio, Ymries Fedder, è anche figlio di mio padre. Mia madre lo ha lasciato per questo, quando alla fine ha scoperto tutto.» «E tu sei qui solo perché tua madre è morta.» «Io sono qui perché non avevo nessun posto in cui andare. La famiglia di mamma l'ha ripudiata quando lei ha sposato l'onorevole Wuyllum. L'onorevole Wuyllum le faceva avere un sussidio per il mio mantenimento, ma l'ha interrotto quando lei è morta. Lei e io vivevamo su Serendipity, ma poiché provenivo da fuori mondo non riuscivo nemmeno ad avere un permesso di lavoro.» «Potresti lavorare qui.» «Per fare che cosa?»
«Tuo padre potrebbe mettere una buona parola con la BDL. Dovrebbe esserci qualche lavoro fisso disponibile.» «Non lo farebbe mai. L'ho supplicato. Non vuole che abbia delle risorse a parte quelle che mi fornisce lui. È un uomo tenibile, Rheme. Lui possiede la gente. Mia madre mi aveva detto qualcosa, ma io non avevo la più pallida idea di chi fosse veramente finché non sono venuta qui. Non fa niente per la gente, gli piace possederla. Ogni tanto dà una tiratina alla catena per essere sicuro che sia ancora attaccata.» Si voltò, mordendosi il labbro per trattenere le lacrime. «Potresti sposarmi.» «Sì, potrei. È anche un'idea molto allettante, ma sarebbe la fine del tuo lavoro qui, credimi. Dovremmo lasciare tutto.» «Non sarebbe la fine del mondo, May Bee.» «Non se ce ne andassimo. Ma non potremmo, Rheme. So che tu sei convinto che io esageri, ma succedono strane cose a coloro che non fanno ciò che vogliono papà o Honeypeach. A volte hanno degli incidenti e muoiono. A volte semplicemente scompaiono.» «Ah,» disse lui, senza discutere. Dopo il suo colloquio con Fratello Jeshel non aveva più motivo di dubitare di lei... seppure ne aveva mai avuto. «Sono così... così arrabbiata. Io amo questo posto... non la Residenza Governativa, ma Jubal. Ho conosciuto un Esploratore, Donatella Furz, a uno dei ricevimenti. Le ho detto che non avevo mai visto l'interno, e lei mi ha portato nel paese dei cristalli. È bellissimo, molto strano e mistico. È evidente quello che sta per succedere. Verranno distrutti. Da mio padre. Dalla BDL. Continuo a pensare che deve pur esserci qualcosa che posso fare.» «Tu ed io,» disse lui in modo meditabondo, fissando il palazzo attraverso la porta che avevano lasciato aperta dietro di loro. Honeypeach Thonks era sulla soglia e fissava la figliastra con l'espressione con cui un uccello affamato avrebbe potuto guardare un pezzo di carogna saporita. Rheme fece un inchino nella sua direzione, un po' più profondo di quanto l'etichetta richiedesse. Quando rialzò la testa lei non c'era più. «Sì.» disse ancora sottovoce, in modo che solo Maybelle potesse sentirlo. «Bisogna proprio fare qualcosa.» Sul tetto del Tempio dei Cristalliti di Splash Uno, proprio accanto all'alta cupola di mattoni decorata d'oro plastificato, c'era un comodo appartamento cui si giungeva tramite una scala a chiocciola nascosta all'interno di uno
dei massicci pilastri che sostenevano il soffitto a volta. Era accessibile solo a pochi servi ed ai tre residenti: Chantiforth H. Bins, Myrony Clospocket e Aphrodite Sells. il cuore e l'anima della religione Cristallita di Jubal. Era il luogo in cui trascorrevano la maggior parte del tempo fra un servizio e l'altro, se si eccettuavano le rare e ben camuffate sortite nella vita notturna di Splash Uno, assai meno invitante. «Jeshel sta nuovamente agitando quella fottuta teppaglia,» osservò Myrony, la cui testa calva scintillò alla luce del tardo pomeriggio mentre posava il quadro comandi e usciva attraverso le porte a vetri su una spaziosa terrazza. «Il nostro uomo alla BDL mi ha riferito che qualche giorno fa ha assalito un fottuto Cantore. Vorrei che gli dessi una bella strigliata, Bins. Tu sei il Supremo Pontefice, e lui dà retta solo a te. Finirà col provocare Thonks a fare qualcosa di sciocco prima che siamo pronti.» La folla sarebbe rimasta sorpresa nel vedere il loro Alto Sacerdote a casa sua, la testa lucida senza la parrucca, la voce stentorea ridotta alla volgare cadenza della sua giovinezza. Myrony era nato ed era stato allevato in mezzo alla feccia di Zenith, un mondo di divertimenti noto più per la sua depravazione che per la sua devozione alla teologia Il fatto che fosse riuscito a sollevarsi da quell'esordio cencioso fino a livelli quasi divini stava a dimostrare tutta la sua tenacia e la sua crudeltà, anche se non la sua coscienza. «Il vecchio dolce Wuyllum non farà niente finché non siamo pronti,» mormorò Aphrodite con labbra e denti perfetti, atteggiando la bocca come se volesse baciare qualcuno mentre scrutava nello specchio e ammirava soddisfatta il luccichio del nuovo girocollo di pietre preziose. Era stata compagna di Myrony su una dozzina di mondi e lo conosceva meglio di chiunque altro. «Thonks sa bene di chi è la mano che gli riempie il portafoglio.» «Non è detto, Affy,» la corresse Chantiforth Bins con un suadente tono da vecchio zio. Anche se la sua frequentazione con gli altri due era più recente di quanto lo fosse quella fra Myrony e Aphrodite, aveva da tempo adottato con entrambi un atteggiamento familiare e confidenziale. «Il Governatore potrebbe essere costretto a muoversi. Myrony ha ragione. Dobbiamo intervenire con Jeshel, a meno che Wuyllum ci dica che ha bisogno di un incidente. E poi dobbiamo dividerci subito e trovarci lontani dal pianeta quando succederà.» «Harward Justin non permetterà che ci accada nulla,» osservò Aphrodite, dimenandosi con movenze da gran donna mentre maneggiava le pietre
preziose. Il girocollo era un regalo di Justin, e lei aveva le sue buone ragioni per ritenere che il capo della BDL si sarebbe preso cura di loro. Il suo ego era così forte che non aveva mai preso in considerazione l'idea di un diverso sviluppo della loro relazione. Anche se la donna non se ne rendeva conto, la sua compiacenza era un tratto della personalità che Justin apprezzava molto, perché gli dava la sensazione che lei fosse del tutto prevedibile. E le sue osservazioni non avrebbero fatto che confermare questa opinione. «Justin è molto soddisfatto del lavoro che abbiamo fatto per lui,» disse, sorridendo al suo stesso riflesso nello specchio mentre accarezzava ancora una volta il gioiello. A lei non piaceva ricordare come se lo era guadagnato, ma il fatto di averlo la ricompensava ampiamente. «È la prima volta che ci assumono per creare una religione, lo sai? È una cosa che si potrebbe definire interessante.» «Visto che ci hanno dato mano libera, non è andata male,» ammise Chantiforth. «È stato un lavoro di merda finché Justin non ci ha consegnato quei due carichi di spazzatura da Serendipity,» osservò Myrony. «Fino ad allora non avevamo nemmeno un convertito. Bisogna riconoscere i meriti idi Justin. Ha capito perfettamente il genere di persone che ci voleva. Jeshel e la sua banda di straccioni sono proprio perfetti.» «Jeshel e la sua banda di straccioni si metteranno a strillare come aquile quando verranno internati insieme a tutti gli altri,» obbiettò Chantiforth. «Allora forse a Justin non farà piacere averli sul groppone.» «Lascia che Jeshel strilli quanto vuole. Lascia che dica quello che gli pare. Lui non ha la minima idea di chi siamo noi veramente, e soprattutto di chi saremo. A Jeshel ci penserà l'esercito.» Chantiforth Bins si alzò e si diresse verso le alte finestre che guardavano sulla città. «Questo posto mi mancherà.» «A me no,» disse Aphrodite. «Il cibo è schifoso, il rumore insopportabile, e l'unica musica che hanno è quel dannato mugolio dei Cantori. Preferisco la Costa Speziata su Dipity.» «Credo che siamo tutti d'accordo che comunque ne valeva la pena.» Bins si voltò dalla finestra con un sorriso, strofinando significativamente le dita. «È la cosa più grossa che abbiamo fatto insieme. Non è vero che tutti quei pellegrini hanno portato soldi a palate?» Aphrodite corrugò la fronte. «Peccato che quando la BDL butterà tutto all'aria non ci saranno più pellegrini. E hai ragione, Chants. Dobbiamo separarci ben prima della crisi. È impossibile prevedere ciò che potrebbe
combinare alla fine un qualsiasi tirapiedi del CSP. Potrebbe esserci un cambiamento dell'ultimo minuto che magari ci blocca dove non dovremmo essere. Quando arriverà quella Commissione CACCIA dovremo cominciare a muoverci. Un paio di mesi? Forse meno, da quanto sento dire. E dobbiamo anche tenere d'occhio i nostri soldi. Anche se si trovano sui Serendipity, qualcosa potrebbe andare storto. Ormai saranno circa sei milioni. Diviso per tre, Chants amore mio, fa due milioni a testa. Che non è poi malaccio per tre anni di lavoro a tempo ridotto.» «Sono più di tre fottuti anni, in totale,» grugnì Myrony. «Chanty e io abbiamo dovuto organizzare il Massacro della Sporgenza, te lo ricordi? Non è stata una passeggiata. Non mi ha fatto molto piacere trovarmi così vicino a quelle maledette Presenze. E anche prima di allora c'erano già diverse chiacchiere su di noi.» Aphrodite alzò le spalle. «Non vi ha richiesto un impegno a tempo pieno, Myrony. Tu e Chanty siete anche riusciti a trovare il tempo di mettere il naso in quella storia del Mondo di Heron. Mi avete fatto quasi impazzire, lo sapete? Che sono, una specie di cespuglio del colono rinsecchito, che non potevate portarmi con voi?» Si alzò in piedi e fluttuò pigramente verso la finestra, guardando oltre il basso parapetto verso il rumoroso disordine della città. «Non eri disponibile,» ringhiò Myrony rivolgendole un'occhiataccia. «Avevi da fare. Mi pare di aver sentito che erano scomparsi alcuni documenti diplomatici.» «Lasciamo perdere,» disse la donna, mentre si girava verso di lui e gli agitava addosso le mani, facendo finta di schizzarlo. «Non voglio ricordarlo.» Sotto di loro, nel santuario a volta, un campanello risuonò con insistenza; quel ding misurato sembrò solidificare la stessa atmosfera che li circondava. «I servizi della sera,» disse Chantiforth, alzandosi e dirigendosi verso l'attaccapanni dove erano appesi la sua tunica e la sua corona. «Dannazione. Mi comincio a stufare. All'inizio era anche divertente, ma adesso ne ho proprio le scatole piene.» «Devi solo avere un aspetto impressionante,» osservò Myrony. «Questa sera il sermone tocca a me.» «E a me le rivelazioni,» aggiunse Aphrodite. «Credo che indosserò quel nuovo mantello con le piume blu. Quale sarà stasera il messaggio dalle Presenze?»
«Lavorate perché la fottuta ora sta per giungere,» propose Myrony con un ghigno tutt'altro che pretesco mentre allungava la mano per prendere la parrucca tutta bianca che si trovava su una mensola accanto alla porta. «Pentitevi perché il giorno è vicino,» ridacchiò Chantiforth. «Che cosa pensate che dicano veramente?» chiese la donna, stiracchiandosi. «Le Presenze, intendo. Ci avete mai pensato?» I due uomini, alti, con la testa bianca e l'aria benevolente come santi, le rivolsero due occhiate prive di espressione, quasi si domandassero se fosse impazzita. «No,» sospirò lei. «Credo proprio che non ci abbiate mai pensato.» Don Furz guardava verso la valle del Dente Rosso da un alto passo, la testa appena sollevata oltre il livello delle prominenze cristalline che ruotava con lentezza mentre esaminava il bassopiano con un binocolo di ottima qualità. Ogni tanto si soffermava e fissava qualcosa con grande scrupolo, mettendo a fuoco l'immagine, poi proseguiva l'osservazione. Quando ebbe perlustrato tutta la valle ridiscese a zig zag lungo il pendio raggiungendo Tasmin e i suoi novizi, che erano sdraiati a lato del sentiero e giocherellavano con il topolino dei cristalli di Clarin. «Sono là,» disse la donna in tono secco. «Ce ne sono almeno due gruppi.» «Gli stessi di ieri sera?» chiese Tasmin, restituendo il topo a Clarin e rialzandosi in piedi. «Sembrano gli stessi. Chi lo sa? Un gruppo si trova proprio in fondo al sentiero, come se ci stessero aspettando. L'altro si sta spostando lungo il centro della valle, quasi non sapesse nemmeno che il primo gruppo è già qui.» «Hai visto tonache? Tonache da Cantori?» «Fra quelli che si muovono lungo la valle sì. Ce ne sono due. Fra gli altri no.» «Dove è diretto il gruppo con i Cantori?» «C'è un percorso fornito di chiave d'accesso appena ad est di loro. Posso raggiungerli alle spalle del Dente Rosso. Circa otto chilometri da qui, in direzione sudest.» Tasmin aggrottò la fronte. «Possiamo aspettare finché il gruppo con i Cantori non entra nella catena, poi attraversare il sentiero alle loro spalle senza farci vedere da quelli che seguono.» «Conosco una strada,» disse Don annuendo. «Se riusciamo a passare
dietro il gruppo con i Cantori posso condurvi lungo un corridoio che procede in direzione nord-sud.» Tasmin annuì a sua volta. «Poi, quando saremo abbastanza a sud da evitare problemi immediati, potremo dividerci. Bisogna che qualcuno di noi avvisi Thyle Vowe. Vorrei che il suo messaggio fosse stato appena un po' meno enigmatico, che ci avesse detto quello che sapeva, ma dobbiamo muoverci partendo dal presupposto che lui sappia. O che almeno sospetti ciò che sta succedendo. D'altra parte, che lo sappia o no, abbiamo bisogno d'aiuto e non possiamo trovarlo da nessun'altra parte.» «Non ho mai avuto l'intenzione di coinvolgere qualcun altro,» protestò Donatella. «Mi fa sentire odiosamente responsabile.» «A noi non ci hai coinvolti. Non di proposito. I novizi ed io ne abbiamo parlato, Esploratore.» Si alzò e si stirò, mentre le maniche della tonaca gli scendevano fino alle spalle mentre allungava le mani verso il cielo. Poi si girò verso di lei, risistemandosi l'abito. «Noi... anzi, dovrei dire, io ho iniziato questo viaggio per risolvere un paio di misteri personali... cose che avevo bisogno di sapere su Lim, su mia moglie. Cerco ancora le risposte a quei misteri, ma per il momento ci sono cose più importanti.» Si voltò. Sembrava una profanazione interrompere la sua ricerca della causa della morte di Celcy, eppure non poteva fare diversamente. «Le cose più importanti per prime,» disse Clarin in tono incoraggiante, riempiendo il silenzio e dandogli tempo per riprendersi. Si era rimessa in tasca il topolino e adesso stava sistemando l'attrezzatura. «Giusto,» annuì Tasmin, tentando un sorriso piuttosto fiacco. «Ne abbiamo parlato e vogliamo aiutarti a fare esattamente ciò che stavi cercando di fare. A prima vista, far sapere a tutti gli abitanti di Jubal che le Presenze sono intelligenti è la cosa più importante che possiamo fare adesso.» Clarin annuì, facendo scorrere le dita lungo i capelli corti e ricci. «Noi siamo d'accordo. In ogni caso Tasmin e Jamieson e io... tutti sentiamo la necessità di essere prudenti. Quando la Commissione CACCIA si sarà riunita e avrà emesso il suo rapporto non ci sarà più tempo per altri tentativi. Dobbiamo avere fra le mani qualcosa di inoppugnabile, dobbiamo riuscire a dimostrare quello che affermiamo. E fino ad ora, come ha detto Jamieson, abbiamo solo la tua parola. Potrebbe esserci un'altra spiegazione per gli attacchi che hai subito, e questa è l'unica cosa che abbiamo visto con i nostri occhi.» Si caricò il pacco sulle spalle e si diresse verso il mulo in attesa. «Ma vi ho detto...» Donatella non finì la frase.
«Tu ci hai detto,» intervenne deciso Jamieson, «che hai avuto degli accordi con Lim Terree, ma potrebbe esserci un'altra spiegazione anche per questo.» Risalì il sentiero per caricare il mulo. «Vi ho mostrato il cubo dell'Enigma!» protestò la donna, rivolta a Tasmin. «Non c'è nessun testimone che abbia assistito alla realizzazione di quel cubo, e potrebbe essere un falso,» rispose Tasmin con un tono di comprensione. «E in tutta franchezza è... insomma, è misterioso.» Vedendo l'espressione di lei, si affrettò ad aggiungere: «Noi ti crediamo! Hai ragione, sono parole, e sono parole in sequenza. Solo che non sembrano sostanzialmente rispondere a ciò che stavi dicendo. O che credevi di dire.» «Ero spaventata a morte,» ammise lei. «Mi sono affrettata più del necessario. C'erano quei tremiti continui. E le parole dell'Enigma suonavano... ecco, suonavano un po' ostili.» Tasmin annuì. «Lo pensiamo anche noi, il che è proprio uno degli argomenti più validi contro la falsità di questa faccenda. Probabilmente un falso avrebbe fatto un effetto migliore e sarebbe stato più suadente. Per quanto riguarda la registrazione, noi ti crediamo. Ma non è detto che ti credano gli altri. Ci vuole una prova. Dovrà diventare ovvio per la gente così come lo è per te.» Si diresse verso i muli dove Clarin e Jamieson aspettavano, ascoltando con attenzione. «Abbiamo bisogno di qualcosa di più della tua parola. Dobbiamo essere testimoni.» Donatella Furz fissò indecisa e arrabbiata i tre volti in attesa. «Come pensate che possa...» «Oh, è semplicissimo,» disse Jamieson con un sorriso radioso. «Andremo a parlare all'Enigma anche noi.» CAPITOLO UNDICESIMO L'abitazione di Harward Justin si trovava in un lussuoso appartamento all'ultimo piano del palazzo della BDL. A un certo punto lui aveva preso in considerazione l'idea di vivere da qualche altra parte, ma poi ci aveva rinunciato. Era comodo ricorrere al personale addetto ai servizi quando aveva bisogno di un cuoco, o di una massaia, o di qualcuno per fare le pulizie. Con gli impiegati della BDL non doveva preoccuparsi di vitto, disciplina o remunerazione, benché qualche volta intervenisse anche in quei settori. Justin credeva più nel bastone che nella carota, e l'insistenza idiota dell'ufficio personale nel pagare la gente più di quanto meritasse spesso non gli
andava proprio giù. Però usare gli addetti ai servizi della BDL andava più che bene per soddisfare le sue esigenze quotidiane. Dal momento che non vivevano con lui non doveva passare loro da mangiare, e quando se ne andavano poteva disporre di tutta l'intimità che voleva. Ed era nell'intimità che indulgeva ai bisogni per i quali erano richiesti altri e ben più speciali servitori. Uno spazio adiacente e senza finestre era stato murato, e ne erano stati ricavati due corridoi con appartamenti e celle. Questa specie di conigliera era collegata alle sue stanze attraverso una porta chiusa a chiave e sorvegliata. Lì vivevano i servitori personali di Justin... quelli che gli procurava Spider Geroan. Molta gente temeva e detestava Spider Geroan. Justin lo trovava nello stesso tempo interessante e ammirevole. Trovava nei modi di Geroan una sorta di affinità. Gli piaceva perfino la sua faccia, anche se gli faceva sempre venire in mente quella di un cadavere morto da poco, già privo di vita pur se non ancora corrotto in modo evidente. Vi vedeva un riflesso di se stesso come voleva essere, remoto e implacabile. Trovava in Geroan un abisso di silenziosa comprensione che nessun altro essere umano gli aveva mai dato. Justin sospettava che gli altri - "loro", il mondo nel suo insieme considerassero infantile il suo divertimento, come tormentare un animale o terrorizzare i più piccoli, le cose che facevano i ragazzi e che poi. crescendo, non facevano più. Comunque Geroan non sembrava ritenerlo immaturo per i suoi piaceri. Geroan sapeva tutto sugli alloggi dei servitori. Geroan aveva reclutato la gran parte dei loro abitanti. Geroan sapeva esattamente perché Justin li voleva. O perché ne voleva uno solo, come capitava qualche volta. Quella sera Justin stava pensando a uno in particolare, mentre aspettava accanto alla porta di collegamento che la guardia la aprisse. Dopo quella porta, sulla sinistra, un'altra porta conduceva agli appartamenti dei servitori professionisti: il medico, la massaggiatrice, le quattro cortigiane di società che facevano le hostess quando Justin dava un ricevimento, ciascuno di essi con il proprio alloggio privato e provvisto di tutto. Sulla destra c'erano le celle, minuscoli cubicoli dotati solo dei minimi accessori sanitari. A un certo punto aveva pensato di riempire quel corridoio, ma poi non lo aveva fatto. Molte porte erano aperte, rivelando stanze vuote. Si diresse verso una porta chiusa, la terza sulla sinistra e la spalancò. Aveva il numero sei e sì apriva solo dall'esterno. L'occupante era rannicchiata contro il muro.
«Alzati,» le ordinò. La donna sembrò non averlo nemmeno sentito. Imprecando, Justin la tirò su e lei barcollò verso il muro, quasi cadendo. Indossava dei veli luridi che le lasciavano i seni e il pube scoperti. Una volta avrebbe cercato di coprirsi, ma adesso non lo faceva più. Non ne aveva più bisogno. Il suo corpo un tempo voluttuoso, le sue gambe un tempo perfette erano adesso un'ossuta caricatura di se stessi. Quella che era stata una cascata di capelli nerissimi era ridotta a un groviglio untuoso che penzolava in filacci flosci e stopposi. «A letto,» le disse, una parola in codice, una parola che lei aveva imparato a temere. Non vi fu risposta. Non il minimo movimento negli occhi spenti. Non la più piccola reazione sul volto. Justin imprecò di nuovo, la colpì e lei cadde contro la parete, accasciandosi a terra immobile. «Non ti verranno a cercare, lo sai!» le gridò. «Pensano tutti che tu sia morta. Lo pensano da mesi. La stessa notte in cui ti ho portato qui, avevamo già pronto un corpo che Geroan ha sistemato per bene e ha lasciato davanti al Priorato con addosso i tuoi vestiti. Tutti sono convinti che fossi tu!» Non vi fu il minimo accenno di reazione. Harward uscì di corsa dalla stanza, lasciando che la porta si richiudesse alle sue spalle. Imboccò l'altro corridoio. L'appartamento del dottore era il secondo sulla destra. Questa volta Harward fece finta di bussare svogliatamente, prima di entrare. I servitori professionali funzionavano meglio se gli si offriva una parvenza di intimità. L'uomo all'interno si alzò dalla sedia in cui era seduto, infilando il dito nel libro che stava leggendo. Era un uomo dal volto grigio, sui trent'anni, che indossava in modo impeccabile la livrea di Justin. «Sì, signor Justin,» mormorò. «Stanza numero sei,» ordinò Justin. «Che diavolo le prende?» Una parte dei compiti del dottore consisteva nel prendersi cura di tutti coloro che abitavano i due corridoi. «Gretl?» «Numero sei,» sibilò Justin. «Sta morendo,» disse il dottore, con la voce tremante. Quel tremito irritò Justin. Se stava morendo era colpa sua. Voleva fare di lei una delle sue
cortigiane, ma lei si era rifiutata di compiacerlo. «Perché? Che cosa le succede?» La voce del dottore divenne calma e del tutto priva di emozione. Lo tradiva solo il tremito delle mani. «È allo stremo delle forze. È stata violentata e maltrattata più volte, e vuole morire.» «Impedisciglielo.» «Temo che non ci sia nulla che posso fare. Posso nutrirla a forza, se vuoi, o se preferisci posso farle un trattamento a base di droga euforica. Potrebbe sopravvivere, magari per un po', ma non tornerà mai più quella di prima.» Justin piegò il labbro per l'irritazione. Naturalmente non voleva che la donna subisse un trattamento di euforizzanti. Non era la felicità di quella donna che aveva in mente. «Liberatene,» disse. «Io non... io non posso...» «Tu puoi. Oppure qualcuno farà visita a tua moglie, dottor Michael. Forse ti piacerebbe che andasse a finire nella stanza numero sei?» Il dottore tacque. Justin si voltò e fece per andarsene. «Signor Justin...» «Che c'è?» «Sono qui da un anno.» «E con questo?» «Tu mi hai detto che dopo un anno avresti preso in considerazione l'idea di farmi vedere i miei figli...» Adesso il volto tradiva l'uomo. Un certo sguardo liquido degli occhi. Un fremito all'angolo della bocca. Il labbro di Justin si piegò di nuovo, questa volta con una profonda, durevole soddisfazione. «Sì,» ammise in modo suadente, quasi amorevole. «Lo farò certamente, dottore. Lo prenderò senza dubbio in considerazione.» Il volto dell'uomo cedette del tutto. «Stanno... stanno tutti bene?» «Perché mai non dovrebbero?» «Ti prego, signore...» «Dottore!» La parola fu come un colpo di frusta. L'uomo chinò la testa, senza dire una parola. «Il fatto che tu ti comporti bene,» disse Justin, leccandosi le labbra, «è ciò che mantiene la tua famiglia così com'è.» Non vi fu replica. Justin lo lasciò lì a tremare in modo impercettibile,
con il dito ancora infilato nelle pagine del libro. Justin parlò fra sé e sé, calmo e convinto. Tanto valeva liberarsi di quella donna. Era stata una delusione, dunque meglio dimenticarla. Il suo scopo era stato quello di dimostrare qualcosa, e ci era riuscito. Nessuno poteva dire di no ad Harward Justin e passarla liscia. Quando al dottore, gli avrebbe offerto una piccola speranza. Niente di eccessivo, solo un minimo. Gli avrebbe fatto credere che la vita della sua famiglia dipendeva da lui, da come si comportava. Lo avrebbe convinto che era così. Magari gli avrebbe mostrato un olo della moglie e dei bambini. Un falso, naturalmente. Visto che non era proprio il caso di avere in mezzo ai piedi una moglie che facesse domande sconvenienti, la moglie del dottore era morta il giorno stesso in cui Geroan aveva catturato suo marito. Quanto ai bambini... Le sue riflessioni vennero interrotte dal mormorio di una voce ben nota che giungeva via segnalatore dalla sala ricezione, quattro piani più in basso. Justin trasalì e imprecò. Parli del diavolo e spuntano le corna. La voce che usciva dal segnalatore era quella di Spider Geroan. Stava salendo. «Bene, Spider.» Justin lo salutò con un sorriso bieco e con un'espressione amichevole negli occhi acquosi da rospo. «È un bel pensiero, quello di venire da me a comunicarmi che il lavoro è compiuto.» «Sfortunatamente no.» Vi fu un silenzio, più imbarazzato che minaccioso. Spider Geroan non temeva la delusione di Justin. Un'anomalia fisica lo rendeva immune al dolore, e lui non riusciva a ricordare di avere mai provato affetto o temuto la morte. Era a prova di qualsiasi minaccia. I suoi unici piaceri erano nello stesso tempo misteriosi e strazianti per gli altri: la sua unica ragione di vita era una limitata ma persistente curiosità. Il suo volto impassibile non tradiva il minimo interesse in ciò che aveva appena detto, ma d'altra parte non tradiva mai il minimo interesse per niente. Era una delle cose di Geroan che a Justin piacevano particolarmente. E così Justin gli si rivolse con il tono di partecipazione che si potrebbe usare quando ci si informa sulla salute di un caro amico ammalato. «Mi dispiace sentirlo, Spider. Che cosa è successo?» «Sei stato tu a volere che l'assassinio di Don Furz apparisse come la conseguenza di un attacco dei Cristalliti?» «Sono stato io, sì. Lei è molto nota, una personalità che è quasi un oggetto di culto. La sua uccisione sarà l'oltraggio finale che spingerà il Governatore a bloccare i Cristalliti.» L'assassino annuì. «Ho mandato un gruppetto di uomini bene addestrati,
armati di coltelli. Il tuo uomo al Priorato ha manipolato una serie di ordini, come avevi disposto tu, e ha fatto in modo di spedire l'Esploratore al Dente Rosso. I miei uomini erano pronti ad attaccarla non appena si trovasse in un punto tale da non consentirle più di rifugiarsi fra le Presenze. Mentre attendevamo il momento giusto sono arrivati degli altri che la cercavano. Erano in quattro. I miei uomini si sono uniti a loro, ma poi è sopraggiunto un gruppetto di Cantori armati e li hanno messi in fuga.» «Cantori? Armati? Quanti erano?» «I miei uomini hanno detto sei, ma probabilmente erano solo in tre. Dalle descrizioni uno di loro poteva essere Tasmin Ferrence, di Terrafonda Cinque. Si trovava a Northwest City solo qualche ora prima e parlando con un autista ha detto che voleva incontrare Furz. Insieme a lui c'erano due novizi, probabilmente i suoi. Avevano almeno un fucile. Non so ancora come e perché fossero armati, ma lo scoprirò.» Impaziente, Justin fece un rumore risucchiando l'aria fra i denti. «E poi che è successo?» «Parecchi dei miei uomini sono stati uccisi, gli altri sono scappati. Furz e i Cantori si sono rifugiati nella Catena del Dente Rosso.» «È sfuggita di nuovo!» «Sono sfuggiti.» Lo disse con un tono leggermente enfatico. Geroan era stato pagato per catturare la donna, ma adesso li voleva tutti. «Solo temporaneamente.» «Hai mandato qualcuno al loro inseguimento?» «Ma certo Tu hai pagato per liberarti di lei, ed avrai ciò per cui hai pagato, Justin. È ridicolo che la cosa debba richiedere tutto questo impegno. Ho già spedito alcuni dei miei uomini verso il Dente Rosso, insieme ad un paio di Cantori assoldati.» «Se prendi Furz dovrai uccidere anche Ferrence, e i Cantori non accetteranno che vengano uccisi dei loro colleghi.» «Non gli chiederemo l'autorizzazione.» La sua voce era quasi stanca, come se l'argomento lo annoiasse. Non muoveva nemmeno un muscolo della faccia, e Justin trovò ammirevole quella glaciale freddezza. Tuttavia insistette. A volte Justin sognava di suscitare un minimo di sorpresa su quella faccia, magari solo una volta. «Potrebbero attaccare i tuoi uomini.» «Se lo faranno ce ne sbarazzeremo.» «Ma poi i tuoi uomini non saranno capaci di uscire!» Geroan gli volse le spalle. Dunque gli uomini non erano in grado di usci-
re. Erano vittime designate. Justin rinunciò. «Chi erano gli altri uomini?» «Uno di loro è sopravvissuto per un po'. Gliel'ho domandato.» «E allora?» «Ha detto di avere avuto i soldi dai Cristalliti, ma chi aveva pagato era Honeypeach Thonks.» «La baldracca del Governatore? Perché mai Honeypeach dovrebbe volere uccidere Donatella Furz?» Geroan si era posto la stessa domanda ed era stato curioso quel tanto da assumere qualche informazione. «Pare che la moglie del Governatore si fosse invaghita di uno dei Sei Grandi della Costa.» «Sciocchezze, uomo. Cavolo, Honeypeach era ed è invaghita di tutti e sei, e di qualsiasi altro uomo, donna o mulo di ogni tempo e di ogni luogo. Ti riferisci a Lim Terree? Quello che è morto? Comunque in parte hai ragione. È morto mentre usava una partitura di Furz. Però non è un po' azzardato pensare che il motivo sia quello?» «Forse. Potrebbe trattarsi di una semplice ripicca. Durante un importante ricevimento a Splash Uno, alcuni mesi fa, Donatella ha presentato Honeypeach come Gereny Vox.» Anche Justin riuscì ad apprezzare l'umorismo della cosa. «E con questo?» latrò. «Un lapsus? I tuoi uomini riferiscono anche i lapsus?» Scosse la testa, perplesso. Spider Geroan era il migliore sul mercato, e si sapeva che il suo successo si basava su indagini approfondite e dettagliate, ma davvero poteva dare qualche credito a sciocchezze del genere? «Forse il suo amor proprio per lei è importante quanto lo sono per te i tuoi segreti, Justin.» Justin sbuffò. Già gli riusciva difficile immaginare come avesse fatto una ex ballerina erotica e prostituta a tempo perso del Mondo di Heron a farsi mettere incinta da un ambizioso burocrate, a dargli un figlio e poi a soppiantare la beneducata moglie del Governatore per diventale la First Lady di un pianeta nemmeno troppo piccolo. Ma che quella stessa donna ci tenesse poi così tanto alla propria reputazione era cosa da non credere. «Non credo che sia una questione di amor proprio, Geroan. È una questione di vanità, pura e semplice. Honeypeach è convinta che su Jubal la conoscano tutti: o la ammirano, o la invidiano, o tutte e due le cose. Se non è così, devono farlo per forza A lei non gliene frega niente del suo passato. È del presente e del futuro che si interessa, e il fatto che gli uomini la guardino per lei è importante. Ecco perché i cantanti della Costa sono quasi una
sua proprietà privata... è solo vanità È per questo che costringe l'onorevole Wuyllum a tenere sotto controllo la deliziosa figlia... anche se sto tentando di tirarla fuori da quella situazione.» Justin si umettò le labbra. «Quella donna non vuole rivali. A volte bisogna costringerla a concedere qualcosa» «Be', elimineremo al più presto qualsiasi forma di rivalità possa costituire Furz per lei. Se i miei uomini non riescono a prenderla entro i prossimi due giorni, andrò io stesso. Non riesco a ricordare un'occasione in cui qualcuno mi sia sfuggito per tre volte. Non posso permetterlo. Il mio senso della convenienza impedirà che succeda ancora.» Le parole erano come gocce d'acqua che cadessero sulla pietra, prive di emozione, senza particolare forza, eppure la volontà dietro quelle parole avrebbe continuato a corrodere, come le gocce, se necessario per l'eternità. Se mai Geroan rimuginava qualcosa, cosa di cui Justin dubitava, forse lo stava facendo in quel momento. «Tanto per soddisfare la mia curiosità, Justin, come hai fatto a scoprire che quella donna costituisce un pericolo per te?» «Tu hai le tue fonti di informazione, Geroan, io ho le mie.» L'assassino attese, immobile, e il suo implacabile silenzio mise a disagio Justin. «Oh, va bene. Qualcuno le ha procurato un programma traduttore da fuori mondo. L'impiegato addetto alla fornitura ha visto la voce su una bolla di carico e me lo ha riferito. Io ho una lista ristretta di voci sulle quali mi viene sempre fatto rapporto quando spuntano fuori, e i traduttori sono in cima alla lista. Poi Donatella ha denunciato la scomparsa del suo sintetizzatore a Splash Uno, e il Priore di lì mi ha riferito la cosa attraverso i canali ufficiali. L'attrezzatura "perduta" è un'altra delle cose di cui mi interesso, per ovvie ragioni. Questi due fatti hanno attirato la mia attenzione su Donatella Furz. Poi l'uomo addetto ai servizi nel suo Priorato ha detto al Re Esploratore che era eccitata ed euforica per qualcosa, e lei si è lasciata sfuggire un paio di accenni che indicavano un interesse non transitorio per la Chiave d'Accesso Universale. Inoltre se ne è uscita con una partitura dell'Enigma. Metti insieme tutte queste combinazioni, che conclusione ne puoi trarre, Geroan?» L'assassino si limitò a fissarlo, senza dire niente per un po'. Geroan era pressoché incapace di provare sorpresa, ma Harward Justin era appena riuscito a sorprenderlo. Geroan lo aveva sottovalutato. La rete di informazioni di Justin doveva essere quasi allo stesso livello di quella sua. L'unico indizio che Spider aveva e che Justin non aveva citato era l'informazione alquanto equivoca di cui lo aveva messo al corrente Sophron, la pettinatrice. Quando Geroan se ne fu andato, Harward trascorse alcuni minuti impre-
cando inutilmente. Donatella Furz sembrava baciata dalla fortuna. Lui non riusciva a capire come avesse fatto a scampare a due attentati. Entrambi gli assassini erano stati procurati dallo stesso Geroan, ma era inutile prendersela con lui. E anche se Justin si sarebbe sentito molto più sicuro se la donna fosse stata uccisa, forse era già sufficiente averla confinata all'interno della zona montuosa, tagliata fuori da ogni possibilità di comunicazione con la Costa. Era improbabile che potesse creare qualche problema prima che arrivassero Ymries e la Commissione CACCIA. Una volta iniziate le sedute, che male avrebbe potuto fare? Per sistemare i Cristalliti si sarebbe trovata qualche altra scusa. Chanty Bins poteva far piazzare! una bomba o qualcosa del genere da uno dei suoi terroristi in erba, così la marmaglia Cristallita sarebbe stata deportata e messa in condizioni di non nuocere. Naturalmente Chanty Bins e i suoi compari avrebbero avuto bisogno di qualche giorno di preavviso per lasciare il pianeta prima del rendiconto generale. Avevano fatto un buon lavoro, organizzando tutta l'operazione Cristallita. e Justin avrebbe potuto servirsi di loro da qualche altra parte... A meno che... a meno che decidesse di non farli partire affatto, il che alla lunga sarebbe anche stato più sicuro, per Justin Ormai quei tre dovevano avere accumulato un credito notevole su Serendipity... quattro milioni se non di più, calcolò Justin da ciò che sapeva delle entrate dei templi. Non era difficile bloccare quel conto, se ci si fosse messo di impegno, soprattutto se Bins e compagni non gli fossero capitati fra i piedi mentre lo faceva. Quattro milioni erano proprio un bel gruzzolo. Ci rifletté per un po', e pensò anche ai Cantori armati, senza riuscire a decidere che cosa fare in un caso e nell'altro. La delusione per i suoi servitori speciali era passata in secondo piano. Corse voce dall'abitazione di Spider Geroan, in cima ad uno degli edifici più antichi di Splash Uno, che il ragno stava tirando la sua tela. I fili di quella tela, posti in alto e in basso, vibrarono nervosamente domandandosi se qualcosa di ciò che avevano catturato sarebbe stato di qualche interesse per il ragno. Anche se a volte era meglio non avere nulla di interessante piuttosto che solo una parte di ciò che Spider Geroan desiderava ferocemente. Una delle reti di Geroan tremolò quasi subito. «È Price Zimble, Spider, Signore. Corre voce che tu voglia delle informazioni. Non ho nulla di nuovo che ti possa essere utile, onorato signore.»
«Di certo hai parlato con il Cavaliere Esploratore dopo il suo ritorno, addetto ai servizi.» «Solo di sfuggita, onorato Geroan. Da quando è tornata non mi ha più fatto chiamare.» Una lunga pausa, per riflettere. «Non avrai detto o fatto qualcosa, prima della sua partenza, che le possa aver suggerito che ci interessavamo di lei, vero. Zimmy?» «Mai, onorato Geroan. Certo che no. Non sono stato io a fare la spia, se pure qualcuno lo ha fatto. È stato qualcosa che è accaduto a Splash Uno.» «Strano,» mormorò Spider. «In che senso, onorato Geroan?» «Alcuni dei miei uomini sono andati al Dente Rosso, Zimmy, in cerca del Cavaliere Esploratore. L'hanno anche trovata, proprio come avevi organizzato per il nostro amico Justin. Naturalmente tu non hai organizzato niente per Justin senza averne parlato prima con me, vero? Perché la tela del ragno lavora solo per Spider, non è così? Non è che all'esterno si lavora contro il centro, eh, Zimmy? Giusto?» «Giusto, Spider, Signore. Non ho fatto nulla finché tu non mi hai detto di muovermi, Signore. Poi ho preparato gli ordini che voleva Justin. Erano perfetti, assolutamente perfetti. Sembravano proprio ufficiali, davvero, Signore.» Zimmy sembrava più nervoso delle altee volte in cui parlava con Geroan. «Strano.» Silenzio. «I miei uomini hanno anche trovato altra gente. Alto gente che cercava il Cavaliere Esploratore. Altra gente che sapeva benissimo dove cercare.» «Lei... deve aver detto a qualcuno dove stava andando. Lei...» «Oh, non credo che sia stato l'Esploratore a dirglielo,» lo interruppe Spider. «Strano, proprio strano.» Geroan si scollegò senza salutare. Donatella Furz si era salvata dal suo assassino a Splash Uno. Forse quel tentativo era fallito perché Zimmy le aveva detto qualcosa per metterla in guardia? E Zimmy aveva venduto l'informazione a Honeypeach Thonks? Un'informazione che avrebbe dovuto appartenere esclusivamente a Geroan? Forse Zimmy non gli serviva più a nulla. Ma d'altra parte... Zimmy era un ottimo filo della ragnatela nel Priorato di Northwest. Un ottimo filo anche per arrivare a Chase Random Hall. Tutto considerato era un elemento ancora prezioso. Forse aveva solo bisogno
di un po' di disciplina. Spider Geroan era convinto che un filo di disciplina spesso faceva meraviglie. Rifletté per un po' sulla cosa, decidendo quale tipo di disciplina, e in quale quantità, potesse essere più efficace, finché un altro filo della ragnatela non si mise a rapporto. Si trattava di mediatore di gemme che lavorava in prossimità del mercato del pesce, il quale voleva parlargli di un giovanotto che aveva venduto un orecchino con una pietra di selce. «Pietre color arancio, niente di speciale ma graziose. Ho dato al ragazzo un centoventi per l'orecchino. Ho delle altre pietre quasi uguali, che vanno bene per un altro orecchino. Per la coppia ricaverò un cinquecento, senza problemi.» «Ragazzo?» chiese con pazienza Geroan. «Quale ragazzo?» «Un ragazzo Cantore. Come lo chiamano, un novizio. Uno di quelli giovani, che ancora non viaggiano da soli, lo sai.» E proseguì descrivendo Jamieson in ogni particolare. «Da dove?» «Non l'ha detto. Però ha detto che gli serviva il denaro per un passaggio a Terrafonda Cinque. Per una donna e un bambino. Solo chiacchiere, lo sai come fanno quando vogliono vendere qualcosa.» «Quale donna? Quale bambino?» Il mediatore esitò. «Io... io potrei tentare di scoprirlo, onorato Geroan. Potrei provare. Anche se non so bene da dove cominciare.» «Perché il novizio è venuto da te?» Il mediatore farfugliò: «No... non lo so.» «Perché ha visto il tuo negozio, testone. Questo significa che si trovava da quelle parti.» «Fo... forse voleva solo mangiare qualcosa. Un sacco di gente viene al mercato per mangiare del pesce, lo sai.» «Forse per il pesce. Ma forse per cercare qualcuno. E magari lo ha trovato. Comincia a chiedere se dalle tue parti c'era un Cantore che cercava una donna e un bambino.» Un altro dei fili di Geroan era una donna delle pulizie nella Cittadella di Splash Uno. Venne di persona, disperatamente piena di notizie sconnesse e frammentarie, augurandosi che qualcuna di esse potesse soddisfare il ragno. «Il Cantore di Terrafonda Cinque aveva due serie di capi di abbigliamento con sé, e così anche ciascuno dei due novizi, Spider, Signore. Biancheria, tuniche, calzini, stivali e stivali di ricambio. Piuttosto consumati.
Come se avessero vissuto fuori città per diverso tempo. Muli pelle e ossa, come capita quando si nutrono a lungo di cespugli del colono. Le macchine dei novizi avevano l'etichetta di Terrafonda Cinque. Anche la sua macchina, ma stranamente ne aveva due.» «Due di che?» «Due macchine. Macchine musicali, quelle che portano con sé per i loro canti. Ne aveva due. Una simile a quelle che avevano i ragazzi... uguale alle normali scatole armoniche dei Cantori, con l'etichetta della Cittadella e l'avviso contro l'uso non autorizzato, lo sai... e un'altra differente. L'ho osservata, ma non aveva nessuna etichetta.» «Descrivimela,» disse Geroan, che sentiva crescere l'interesse. Tutto questo si adattava alla perfezione con i sospetti di Justin. «Era verdastra invece che grigia. Aveva due maniglie sui lati invece che una sulla parte superiore. Le chiavi e i quadranti e tutto il resto si aprivano su un pannello piegato verso il basso, con tre piegature. Quelle normali ne hanno solo due, e si piegano verso l'alto. E gli altoparlanti si aprivano all'insù, e non sui lati, come nelle macchine regolali.» «Nient'altro? Niente parole, marchi di fabbrica, cartellini del fabbricante?» La donna scosse la testa. «E dove sono andati?» «Northwest City. Il novizio, il ragazzo, ha trovato un camion che era diretto là. Stavo pulendo la sala e l'ho sentito che lo diceva» Geroan le rivolse un cenno di ringraziamento e la donna se ne andò, sollevata. Non si aspettava alcuna ricompensa ed era felice semplicemente perché per un po' di tempo sarebbe stata lontana da Spider Geroan. Dopo di che Geroan si mise a sedere, le mani incrociate sulla pancia, i pollici che si muovevano in cerchi senza fine l'uno attorno all'altro, mentre pensava, faceva progetti, e pensava ancora. Era pomeriggio inoltrato quando giunse la successiva telefonata, da parte del mediatore di gemme. «Il Cantore stava cercando una donna di nome Vivian Terree. Ha un figlio, un bambino. Li vuoi?» «Scopri dove abitano. Cerca di sapere se hanno in programma di lasciare Splash Uno, poi fammi sapere.» Vi furono altre chiamate, in arrivo e in partenza, mentre il ragno muoveva altre ragnatele e l'informazione scorreva lungo i fili, e il tutto culminò nell'ultima chiamata, quella ad Harward Justin.
«Sembra che il sintetizzatore da Esploratore di cui Donatella Furz ha denunciato la scomparsa sia finito nelle mani di Tasmin Ferrence.» «Un Cantore?» «Aveva un modello da Esploratore, verde, due maniglie, con un pannello a tre piegature. Almeno lo aveva quando è arrivato a Splash Uno. Adesso non so dove sia.» Harward prese nota della cosa, insieme al fatto che il Cantore era andato in cerca di una donna e di un bambino ben precisi. Poi si mise a sedere, facendo collimare tutte le informazioni. Donatella Furz aveva avuto una scatola da Esploratore con uno speciale traduttore aggiunto. Adesso quella scatola era in possesso di un Cantore di Terrafonda Cinque. Lim Terree era morto dalle parti di Terrafonda Cinque. Tasmin era venuto in cerca della moglie e del figlio di Terree. Tasmin si era fatto vivo, armato, giusto in tempo per aiutare Donatella Furz a sfuggire ad una trappola molto bene organizzata. Connessioni. Nove su dieci, era più sicuro presumere una complicità quando esistevano delle connessioni. Il momento si stava avvicinando rapidamente. Justin poteva concepire un'unica fonte di minaccia ai suoi piani. Non gli Esploratori. Quelli erano sotto controllo. I Cantori, invece, potevano costituire un problema. Fino ad ora c'era solo quest'uomo.. Tasmin Ferrence. Solo uno Ma se ce n'erano degli altri... Qualsiasi cosa facesse, Justin doveva farla subito Si era già fidato troppe volte dei suoi sottoposti. E anche Spider Geroan. E poi c'era tutto quel denaro su Serendipity. Convocò una segretaria fidata. «Mettiti in contatto con Chantiforth Bins e fissami un appuntamento con lui per domani mattina presto. Poi chiama Spider Geroan e chiedigli di essere qui a quell'ora» La sua ultima chiamata della notte fu alle squadre di sorveglianza del satellite Al mattino avrebbe saputo con precisione quasi assoluta dove trovare Donatella Furz e i suoi nuovi amici. CAPITOLO DODICESIMO A Terrafonda Cinque Thalia Ferrence si era adattata ragionevolmente bene alla presenza della sorella Betuny, che era arrivata da Armonia con i suoi miseri averi. Fin dal suo arrivo, tuttavia. Thalia aveva preso l'abitudine di fare spesso una passeggiata, soprattutto al crepuscolo, fino al basso
muretto che separava il giardino cespuglioso di casa sua da una stradina stretta e dai campi di brou al di là di essa. Quando si era trovata da sola a lungo, aveva sofferto per la mancanza di compagnia. Adesso che sua sorella era venuta a tenerle compagnia, desiderava stare sola. Betuny era a posto. Cucinava abbastanza bene, vecchie ricette della loro infanzia che Thalia gradiva sia per la nostalgia che evocavano sia per il loro gusto leggermente sgradevole. Betuny teneva anche bene la casa, stando molto attenta a sistemare ogni cosa nel posto consueto, in modo che Thalia non inciampasse o cadesse per la presenza di ostacoli non previsti. Ma Betuny chiacchierava, facendo continui commenti su ogni cosa, e Thalia scoprì di non sopportare la voce della sorella, di non volere nulla, né cibo o casa pulita o compagnia, così tanto come il silenzio. Betuny aveva una teoria sulla morte di Lim. Betuny era convinta di comprendere il carattere di Celcy. Betuny considerava sconveniente il fatto che Tasmin se ne fosse andato in quel modo. Betuny filosofeggiava sulle Presenze. Betuny conosceva un sistema per procurarsi il denaro con cui guarire gli occhi di Thalia... ogni giorno un nuovo commento di un nuovo piano, ciascuno più strampalato del precedente, ogni giorno la stessa voce, che parlava e parlava e parlava in continuazione. Così Thalia aveva espresso il suo bisogno di qualche momento di riflessione, di tanto in tanto, insaporendo l'affermazione con un pizzico di fervore religioso, e Betuny era abbastanza educata da accettarla, anche se con riluttanza, pur se non era seriamente in grado di rispettarla. Era arrivata comunque al punto di trascinare una vecchia sedia fino all'angolo del muretto, dove Thalia potesse trovarla facilmente. Thalia poteva sedersi lì per un'oretta ogni volta, a riflettere, la testa appoggiata sulle braccia unite in cima al muretto, ascoltando i suoni attutiti delle porte che si aprivano e si chiudevano, delle donne che chiamavano i bambini per la cena o per andare a letto, il passaggio appena avvertito delle vetture, e più spesso del previsto un coro di viggy che risuonava molto più vicino di quanto lei ricordasse di averlo sentito quando poteva vedere. C'erano pochi suoni forti o aggressivi, e la voce che le giunse dall'altra parte del muretto una sera la colse di soprassalto, anche se lei aveva sentito sulla ghiaia il lento calpestio di piedi che si avvicinavano dalla strada. «Sei tu Thalia Ferrence?» Lei annuì, indecisa. Era una voce fredda e dura, una voce del tutto ignota, e lei era molto brava a riconoscere le voci. «La madre di Tasmin Ferrence?»
Lei annuì di nuovo, paralizzata dalla paura. Era successo qualcosa a Tasmin? Cominciò a fare domande, ma la voce proseguì implacabile. «Sei cieca?» Thalia si risentì. «Non è una bella cosa da...» «Lascia stare. Vedo che lo sei, per tua fortuna. Hai una nuora? Un nipote?» «No,» rispose lei. «Mia nuora è morta, e con lei il bambino che portava in grembo.» «Non la moglie di Tasmin. L'altra. Quella che ha cambiato nome. La moglie di Lim.» Sopraffatta dalla curiosità, dalla gioia, dall'incredulità, Thalia riuscì a parlare con fatica. «Lim aveva una moglie? E un figlio?» «Non lo sapevi?» «No. Non lo sapevo. Dove sono?» L'uomo sbuffò, più di fastidio che di divertimento. «Era proprio ciò che volevo chiederti» Poi il rumore di piedi che si allontanavano sulla ghiaia. «Aspetta,» gridò Thalia. «Aspetta! Chi sei? Come fai a saperlo?» Nessuna risposta. Nulla se non i soliti rumori, il coro lontano dei viggy. Si alzò e tornò lungo il sentiero verso casa. In fondo era la vedova e la madre di un Cantore. C'erano certi favori che la Cittadella doveva essere in grado di farle. Dopo avere attentamente riflettuto su ciò che doveva domandare, anzi esigere, compose il numero sul comunicatore e chiese di parlare con il Mastro Generale della Cittadella. Trovò strano che. malgrado non sapesse nulla della moglie e del figlio di Lim, il Mastro Generale le rivolgesse però tante domande sull'uomo che l'aveva informata del fatto. La compagnia di Bondri Gesel si era allontanata dai contrafforti dell'Osservatore Occidentale - Strato d'Argento e tutti i relativi titoli onorifici quando il giligee anziano si avvicinò a Bondri intonando le frasi preliminari di un lamento funebre. Date le circostanze le parole erano praticamente inutili. Il vecchio Primo Sacerdote riusciva appena a muoversi barcollando, e anche quando lo trasportavano dovevano scuoterlo, per evitare che gli si strozzasse il respiro in gola. «Bondri, Capo della Compagnia, Messaggero degli Dèi, uno fra noi reclama la liberazione dello spirito-del-cervello.» Così cantò il giligee. Bondri acconsentì. «Il Primo Sacerdote Favel,» vocalizzò a bocca chiusa. Il giligee agitò le orecchie in segno di assenso. Be', non c'era altro da
fare se non fermarsi per un po'. Il Primo Sacerdote lo meritava, quanto meno. Ogni viggy aveva bisogno di un periodo di riposo per calmare la mente e preparare lo spirito-del-cervello. «Ci fermiamo qui,» cantò Bondri, capo della compagnia che non ammetteva contraddizioni. Il giligee era già in mezzo agli altri, comunicando l'informazione a coloro che non avevano l'intelligenza per capirlo da soli. «Sono lieto di un po' di riposo,» gorgheggiò il Primo Sacerdote, ansimando. «Lieto, Bondri Gesel.» «Lo siamo tutti,» rispose dolcemente Bondri. «Guardate, i giovani vi hanno preparato un comodo giaciglio.» Aiutò il vecchio viggy a raggiungere il basso sedile di fronde, sparse dai giovani sopra un gradino di terra che guardava la vallata sottostante. Da quel punto di osservazione si poteva guardare indietro verso i Cantanti di Tineea, Coloro-Che-Salutano-SenzaVolerlo, stagliati contro il cielo, quasi equidistanti l'uno dall'altro e troppo vicini perché si potesse passare in mezzo a loro senza pericolo. I Cantanti si erano guadagnati il loro nome in tempi immemorabili; nessun viggy degno della sua corteccia di cespuglio grattato si sarebbe azzardato ad aprirsi il passaggio fra loro con il canto, anche se a volte i più giovani si sfidavano l'un l'altro a provare. Il canto che funzionava per uno non funzionava per il successivo, ed essi erano troppo vicini per separare i suoni. I Cantori avevano un sistema per attraversarli, ma per i viggy l'unico modo sicuro per passare era quello di aggirarli. «Coloro Che,» disse il Primo Sacerdote Favel, meditabondo. «È una generazione che non vengo più qui. Avevo dimenticato quanto fossero splendidi.» Bondri li guardò, e trasalì nel percepirli come se li vedesse per la prima volta. In verità, se non li si considerava una barriera, erano davvero splendidi. Pilastri di diamante illuminati dalla luce dell'arcobaleno, di altezza e conformazione diverse, e raggruppati in un modo tale che chi li vedeva all'alba o al tramonto rimaneva senza fiato per la meraviglia. «Sono magnifici,» convenne Bondri. «Ma perversi. Non ci rispondono in modo onesto.» «Come una giovane femmina,» sospirò Favel «Che canta la civetteria.» Bondri ne rimase sorpreso. «Civetteria?» «Sì. È ancora troppo giovane per accoppiarsi, in realtà non ha niente da offrire, ma canta la civetteria. I Cantori hanno un termine. Corteggiamento. Canta il corteggiamento.» «Tineea,» intonò sottovoce Bondri. «I canti della verginità.» «Quelli Che sono Simili. Ti incantano, ti corteggiano, cantano i tineea
per adescarti. Ma non hanno niente da offrirci. Forse un giorno lo avranno.» «Questo è vero,» sussurrò Bondri. Appena risvegliato alla bellezza, restò in piedi accanto al vecchio sacerdote ancora per lungo tempo, domandandosi se Quelli Che fossero in grado di percepire la loro stessa bellezza. «Godetevi la vista, o vegliardo,» gli disse mentre tornava dagli altri della compagnia. «È in pace?» domandò il giligee mentre grattava laboriosamente la corteccia setolosa sulle fronde d'albero acerbe intersecate fra loro, usando una mascella di topo dei cristalli come grattugia. Una volta riempite di corteccia grattugiata, le fronde sarebbero state ripiegate, poi strizzate per ricavarne il rinfrescante succo di corteccia, una bevanda che sarebbe stata divisa fra tutta la compagnia. Venivano usate la mascella del topo e le foglie d'albero nel pieno rispetto della legge dei viggy sugli attrezzi da usare. Gli attrezzi dovevano essere naturali, invisibili, non rintracciabili, così come gli stessi etaromini. «Il Primo Sacerdote ammira Quelli Che,» trillò Bondri, osservando il primo succo che sgocciolava dentro una coppa degli antenati. «Portagli da bere,» disse il giligee. «È la coppa del tuo giligee, Bondri. Un buon auspicio.» Bondri prese la coppa e la guardò. Era una buona coppa, pulita e di forma gradevole. Era proprio un buon auspicio, e gli riportò alla mente molti ricordi del suo giligee. Ne divise qualcuno con la compagnia poco lontana, prima risalire nuovamente la collina. «Di chi è questa coppa?» domandò educatamente Favel, consentendo a Bondri di identificarla e di cantare molte piccole storie che riguardavano il suo giligee. Il tempo in cui si arrampicava sull'alto albero delle fronde e non riusciva a ridiscendere... era successo prima ancora che Bondri entrasse nel marsupio per la prima volta. Il modo in cui drizzava un orecchio, facendo ridere tutti. Bondri sorrideva quando lasciò il vecchio sacerdote e Favel, rimasto solo a sorseggiare il suo succo di corteccia, era anche lui soddisfatto. Era bello dividere i ricordi della compagnia. Il ricordo era una strana cosa. Un viggy faceva esperienza di una cosa e la ricordava. Un altro viggy faceva esperienza della stessa cosa e la ricordava anche lui. Eppure i due ricordi non erano gli stessi. In una notte di vento e di ombre un viggy poteva cantare di aver visto lo spirito del suo giligee che lo chiamava da un albero di Jubal. Un altro viggy poteva cantare di aver visto solo il vento che muoveva un velo di fronde secche. Che cosa
avevano visto, uno spettro o le fronde? Dov'era la verità, nel ricordo? Da qualche parte tra lo spettro e il vento, pensò Favel. Quando la compagnia viaggiava lungo pendii tortuosi, uno ricordava gioia, l'altro dolore. Dopo un accoppiamento uno avrebbe ricordato ciò che aveva ricevuto, l'altro ciò che aveva perso. Nessuna delle due visioni avrebbe detto la verità di ciò che era accaduto, perché la verità si trovava sempre al centro di molte possibilità «Molte visioni producono la verità,» salmodiò Favel per se stesso, a voce bassissima. Questo era il primo comandamento del Primo Canto. Solo quando un evento era stato cantato dalla compagnia, cantato in tutte le sue diverse forme e percezioni, solo allora si poteva giungere alla verità. Allora era possibile armonizzare la dicotomia, ammorbidire l'opposizione, e condurre all'allineamento fra loro le diverse visioni, in modo che venissero cantati tutti gli aspetti della verità. Non solo la visione di Favel, ma la visione di tanti, la visione di tutti i membri della compagnia, se si aveva una compagnia. Oh, bisognava averla. Bisognava avere una compagnia. Favel benedisse il momento in cui era stato adottato dalla compagnia di Bondri. Come maschio avrebbe dovuto vivere la sua vita nella compagnia in cui era stato allevato, ma la continuità della sua vita era stata interrotta quando era stato infranto il secondo comandamento del Primo Canto. Il secondo comandamento era quasi un corollario del primo. «Molte visioni producono la verità,» diceva la prima parte del Primo Canto. «Perciò, non essere solo,» diceva la seconda. Favel era stato solo. Era stato solo per un tempo molto lungo, il che significava che nel suo ricordo della sua vita c'erano falle aperte, che non erano la verità. Quando cantava quelle parti della sua vita non c'erano altre visioni che potessero correggere ed equilibrare la sua... nessun gioioso contrappunto che gli lenisse il dolore, nessuna voce di speranza o di curiosità che alleviasse il suo spaventoso orrore. Favel era stato un interrotto... interrotto e abbandonato. Era successo tanto tempo prima... quanto tempo? Quindici anni? Venti? Una vita. Favel era allora un giovane maschio, quasi nell'età dell'accoppiamento, e aveva da tempo rinunciato a seguire le tracce del suo giligee per diventare un avventuriero, come si definivano i giovani. Faceva parte della compagnia di marsupio di Bondri. la compagnia di Nonfri Fermil, Nonfri dai denti radi con la bellissima voce, ed era sulla figlia di scambio di Nonfri, Trissa, che Favel aveva diretto il suo canto.
Lei non era rimasta a lungo nella compagnia, solo quel tanto da affrontare il primo dolore della separazione, solo quel tanto da imparare qualcuno dei ricordi della compagnia, in modo da non dover sedere del tutto silenziosa durante i canti notturni. Per Favel era Trissa dalle orecchie increspate, perché i bordi delle sue larghe orecchie erano arruffate come fronde novelle, del morbido color ambra dell'alba, appena più leggere della sua sacca canora. I suoi occhi erano grandi e lucenti, ma tutti li avevano così. La sua voce... ah, quella Favel la ricordava bene, ma doveva cantare solo per sé, perché nessuno della compagnia di Bondri l'aveva mai conosciuta. «Dolcemente risonante,» cantava a bassa voce, «sonora nelle ore quiete, si levava come quella del topo della musica a trillare verso il cielo.» Ah, Trissa. Lei aveva cantato i tineea e gli aveva turbato l'animo. Un piccolo gruppo di giovani era uscito una sera a raccogliere cespugli. Alcuni degli anziani avevano una preferenza per la linfa di corteccia, e i più giovani erano in cerca di un bel cespuglio succoso. Favel era il più anziano fra loro, e troppo vergognoso dei suoi sensi risvegliati per invitare il suo gruppo ad accompagnarlo, così aveva infranto il secondo comandamento del Primo Canto, ed era andato da solo. Solo in mezzo al sottobosco per guardare Trissa, ascoltare Trissa. Solo per immaginarsi unito a lei in un accoppiamento. Il gruppo di lei stava tornando indietro con un bel carico di succosi cespugli. Favel, nascosto ai piedi di un Piccolo, aveva aspettato che passassero. Uno di essi, uno stupido giovane maschio, aveva lanciato un pezzo di cristallo contro un Piccolo, proprio contro il Piccolo dietro il quale era sdraiato Favel. in mezzo all'erba. Il Piccolo era irascibile, ed era esploso. Al suo risveglio c'era del sangue sulla sua testa, e le sue gambe erano rotte sotto i frammenti del Piccolo. Si era trascinato fino al punto in cui si trovava la sua compagnia, ma quella era già partita. Erano trascorsi giorni e notti, e poi era passata una carovana di Cantori. Dopo di che fu grande dolore, mentre il Cantore cercava di sistemargli le gambe, poi meno dolore e finalmente solo l'agonia disarmonica della solitudine, mentre attendeva di morire. «Perché non siete morto, Favel?» gli aveva chiesto in seguito Bondri. «Ero troppo malato per morire,» aveva risposto lui. «Il mio spirito-delcervello non poteva decidersi.» Ed era vero. Malgrado il bando, malgrado i tabù, Favel non era morto. Forse la curiosità lo aveva tenuto in vita. Favel aveva appreso il linguaggio dei Cantori. Era un modo come un altro per passare il tempo, e non era così difficile. Una parola serviva per di-
versi significati. Nessuna parola era particolarmente precisa. I Cantori non facevano alcun tentativo per trovare la verità, e ciascuno si limitava ad affermare la sua visione personale della storia. «Io lo ricordo così,» diceva uno in modo sgarbato. «Ti sbagli, è andata così,» diceva un altro, e Favel rabbrividiva per la rude arroganza di queste affermazioni. L'uomo si chiamava Mark Anderton, e teneva Favel in una gabbia fatta di una sostanza che Favel non era in grado di mordere. Dopo avere riflettuto sulla questione dei tabù, alla fine Favel si era sentito autorizzato a cinguettargli frasi e parole, per averne in cambio del cibo. «Guardate la mia piccola scimmia rospo,» aveva detto Anderton. «Sembra una specie di pappagallo che dondola.» «Che cos'è un pappagallo?» domandava sempre qualcuno. «Un uccello terrestre. Parla proprio come noi,» rispondeva lui sghignazzando. «Ho trovato un pappagallo di Jubal.» «Com'è grazioso il viggy,» salmodiavano tutti, infilando pezzetti di carne in mezzo alle sbarre. «Com'è grazioso il viggy.» «Grazioso viggy.» ripeteva Favel in tono piatto, afferrando la carne, mentre i Cantori si allontanavano ridacchiando. Lui stava infrangendo il tabù per non morire, ma non lo infrangeva perché pronunciava parole. Essi non sapevano che lui capiva ciò che dicevano. «È la cosa più brutta dei sei mondi.» aveva detto uno. «Grazioso un corno.» Favel non si era mai domandato se fosse grazioso o no. Era una cosa considerata in genere non importante. Gli alberi erano belli, naturalmente. Le Presenze, gran parte di esse, erano belle. Le voci erano belle, alcune di più, alcune di meno. Ma i viggy? Era un pensiero nuovo, che lo lasciava perplesso. Aveva forse pensato che Trissa era bella? Dopo averci pensato a lungo riconobbe con se stesso di averlo fatto. Sì, la vista di lei aveva rallegrato il suo canto. Lei era bella. Col tempo Mark Anderton si era stancato di avere un viggy e aveva venduto Favel a un altro uomo, che a sua volta lo aveva rivenduto a Miles Ferrence, e quest'ultimo ne aveva fatto dono al suo figlio maggiore. C'erano due figli - e com'era sembrato incredibilmente strano, a Favel, che qualcuno potesse avere dei figli - e una donna e un uomo nella compagnia di Miles Ferrence, e a quel punto Favel aveva capito come facessero i Cantori a cavarsela senza giligee. C'era qualcosa di strano nella compagnia di Ferrence, qualcosa di sbagliato. Certi giorni c'era una tale bruttezza nelle loro voci che Favel nascondeva la testa sotto le braccia, cercando di non
sentire. La gabbia di Favel era rimasta per un po' di tempo nascosta su un alto scaffale. Poi lo avevano dato al ragazzo più piccolo, ma una notte il fratello maggiore aveva preso la gabbia e lo aveva liberato. «Io sono Lim Ferrence.» aveva detto a Favel. «Non sono corrotto. Sono Lim Ferrence e so cantare bene come tutti, meglio di tutti, e non sono corrotto, e se non posso averti, allora non ti avrà nessuno, perciò torna da dove sei venuto...» Non appena era stato abbastanza lontano dalla gabbia da rendere praticamente impossibile che lo ritrovassero, Favel si era proteso in avanti e aveva cantato i suoi ringraziamenti a Lim Ferrence, vedendo l'ovale indistinto del volto del ragazzo che fissava nel buio, quasi non credendo a quel torrente di musica. «Ho un debito con te,» aveva cantato Favel. «Ho un debito con te fino alla decima generazione...» Lo aveva cantato nella lingua dei Cantori, infrangendo il tabù. Un debito di onore aveva la precedenza su qualsiasi tabù, ma in seguito lui aveva dubitato che il giovane Cantore lo avesse nemmeno sentito. Il debito avrebbe dovuto essere pagato da molto tempo. Perché non era stato pagato? Favel rimase a pensare, ascoltando i suoni ovattati del giligee che stava grattando la corteccia, i giovani che spremevano la linfa, le raccoglitrici femmine che stavano uscendo dai loro marsupi di semi e radici. Il suono di una compagnia. Quanto a lungo aveva vagato prima di trovare di nuovo una compagnia, una compagnia che lo accettasse? A lungo, gli disse la memoria. «A lungo, da solo,» cantò, e la sua voce si librò sopra il canto della compagnia giù in basso, così che gli altri attenuarono le loro voci e cantarono insieme a lui. facendogli sapere che conoscevano la verità di ciò che lui cantava. A lungo, da solo e vagando. Non aveva pagato il debito, allora, perché non poteva farlo. Non ne aveva i mezzi. Finché aveva incontrato la compagnia di Bondri Netti, che lo aveva preso con loro, e aveva imparato i suoi ricordi come se fosse una giovane figlia di scambio. Poiché aveva un'ottima memoria e conosceva il linguaggio dei Cantori, Fave] era diventato sacerdote, poi Primo Sacerdote. Adesso c'erano numerose compagnie che sapevano parti del linguaggio dei Cantori e viggy di molte compagnie che condividevano i ricordi di Favel, il quale era consapevole della lunga solitudine della prigionia... anche se essi non ne avrebbero mai conosciuto la verità, perché nemmeno Io stesso Favel la conosceva. A volte Favel avrebbe voluto cantare a Lim Ferrence, e a Miles. e al più giovane. Tasmin, e a quella strana donna, Thalia. Forse essi
avevano visto abbastanza di ciò che era veramente accaduto da essere in grado di farne un racconto veritiero. Adesso Bondri Netti non c'era più. Il suo erede era Bondri Gesel. E anche se lui aveva cercato la compagnia di Nonfri Fermil. in tutti quegli anni i loro sentieri non si erano mai incrociati. Non c'era mai più stata qualcuna come Trissa, con i bordi ondulati delle orecchie e il canto che fermava il cuore. A quel pensiero vi fu come un tremito nella sua anima. Un tremito appena avvertibile, quasi qualcosa fosse intrappolato dentro di lui. All'improvviso capì, senza alcun sospetto preliminare, perché la compagnia si era fermata e perché gli era stato preparato quel comodo giaciglio su cui riposare. Più in basso, dove i membri della compagnia rosicchiavano e bevevano, il giligee udì un silenzio provenire dal luogo in cui giaceva il Primo Sacerdote. Sollevò lo sguardo verso l'alto per guardarlo. «Riferisci a Bondri Gesel che il Primo Sacerdote ritiene che sia tempo di dipartire.» disse Favel, tentando con tutta la sua anima di ricordare ogni cosa, assolutamente ogni cosa che avesse fatto. Bondri sentì. In quel luogo così remoto non sarebbe stata una dipartita completamente rituale, ma avrebbe richiesto lo stesso una grande cura. Bondri non era il tipo da trascurare i particolari, né avrebbe permesso la minima negligenza alla compagnia. In pochi momenti alcuni dei giovani saltellavano qua e là in cerca di fronde per il Giaciglio della Dipartita, e prima ancora che fossero di ritorno, agitando le fronde sopra di loro, il vecchio sacerdote aveva sospirato, si era ripiegato e aveva chinato la testa nell'atto della sottomissione. Quando le fronde furono sistemate, lui si diresse a passo incerto verso di esse, sdegnando l'aiuto che i membri della compagnia volevano offrirgli. «Spero che quel tuo giligee sia almeno un po' capace,» canticchiò a bocca chiusa a Bondri mentre si sdraiava. «E che non faccia confusione.» «È capacissimo, vegliardo. L'ho scelto non molto tempo fa. È abile. Voi stesso avete bevuto dalla sua coppa.» «Bene, ne sarò felice. Ai miei tempi ne ho visti alcuni piuttosto pasticcioni.» «Non temete, Primo Sacerdote. Il giligee di Bondri Gesel vi renderà onore.» «Possa io trovare onore e sostegno nella tua compagnia, Bondri Gesel.» «Ve ne sono grato, vegliardo.»
Il giligee si aggirava al margine delle cose, un po' nervosamente, ma giunse di corsa quando Bondri gli fece un gesto, e la compagnia attaccò gli Ultimi Canti, come se recitassero. Be', in un certo senso era così. Li avevano cantati diverse volte non molto tempo prima. Bondri si inginocchiò per le Direttive Finali. «Ricorda il linguaggio dei Cantori che ho insegnato alla compagnia, Bondri. Il mio spirito mi dice che ne avrete bisogno. Ve ne faccio dono.» «Lo ricorderò, vostra percettività. Ricorderò il linguaggio così come ricorderò il vostro nome, recitandoli entrambi nelle ore dell'alba.» «Ho un debito con qualcuno,» proseguì il sacerdote in un bisbiglio. «Un debito con la persona, o con la compagnia, del Cantore Lim Ferrence, che mi liberò dalla prigionia. Ti lascio questo debito, Bondri Gesel.» «Il debito è assicurato e garantito,» cantò la compagnia, le voci argentine, le sacche canori che rimbombavano. «E avrà la precedenza su ogni cosa. Assicurato fino alla decima generazione.» «No, niente decima generazione,» riprese il Primo Sacerdote, con un accenno di agitazione. «L'ho già mandata troppo per le lunghe. Voglio che sia pagato subito, Bondri. Altrimenti rimarrà sulla mia coscienza. Potrebbe impedire il mio sviluppo.» «Lo soddisferò immediatamente,» cantò Bondri, mentre il resto della compagnia seguiva il suo capo. Cantato in quel modo, era più che un giuramento. Diventava un impegno sacro, che travalicava qualsiasi tabù. E "immediatamente" significava prima di fare qualsiasi altra cosa. Favel proseguì con un paio di altre richieste minori, nulla di difficile, sprofondando infine in un silenzio ad occhi chiusi. Bondri prese la testa di Favel fra le mani e fece un gesto con le orecchie. Il giligee si fece avanti e si inginocchiò, avvicinando i denti alla parte posteriore del collo del Primo Sacerdote. Bondri gonfiò al massimo la sacca canora. Al suo segno la compagnia esplose a piena voce, soffocando i gridi fiochi che il vecchio sacerdote emetteva nel dipartire Quando il giligee posò sulle fronde lo spirito-del-cervello ben leccato e messo a nudo, la compagnia fu testimone del suo trasferimento nel marsupio del giligee, poi tutti assistettero alla pulizia del cranio delicato di Favel. Ne ricavò una coppa degli antenati di notevole delicatezza e di piacevole forma. Le cavità oculari erano maniglie di deliziosa eleganza. Bondri bevve per primo, cantando certi ricordi che divideva con Favel, poi lo stesso fece ciascun membro della compagnia. Mentre cantavano i ricordi, gli apprendisti del sacerdote accesero il fuoco un processo molto laborioso, messo in atto solo in occasione di una dipar-
tita - e tutti presero parte al rogo cerimoniale dei resti di Favel. In quel luogo non c'era abbastanza legna per garantire che non rimanessero ossa, ma si poteva fare affidamento sulle mosche delle ferite e sugli uccelli volteggianti perché provvedessero al resto. Quando ogni cosa fu compiuta nel miglior modo possibile, stando bene attenta a non voltarsi per evitare che si formassero ricordi impropri, la compagnia cominciò a correre verso sud. Avevano un debito da soddisfare immediatamente, e il luogo di soddisfazione aveva inizio nel posto che i Cantori Terrafonda Cinque. Aphrodite Sells, a cavallo di un mulo chiamato Lilyflower, maledisse il mulo, il sentiero, la compagnia e la direzione in cui stavano andando. «Chiudi il becco.» la riprese Myrony Clospocket. «Un altro fottuto strillo da parte tua, Affy, e ti giuro che ti taglio la gola.» Si toccò col dito il coltello che portava alla vita, e quel gesto le ricordò l'uomo che lei aveva conosciuto anni prima, un essere primitivo la cui ottusa violenza sembrava palpitare proprio sotto la sua pelle. «Non piace nemmeno a te,» si lagnò la donna. «Avremmo dovuto dividerci subito. My.» «Avremmo dovuto farlo una settimana fa, un mese fa, prima che Justin ci desse la caccia. Ho deciso che ha in mente qualcosa di brutto. Saremo già fottutamente fortunati se riusciremo a lasciare Jubal.» «Justin ha appena detto che ha bisogno di noi proprio perché ci prendiamo cura di questa cosa Ha detto che siamo gli unici di cui si può fidare, noi e Spider.» La donna non riuscì a convincere nemmeno se stessa. Quando Justin aveva impartito loro i suoi ordini non aveva il consueto atteggiamento adulatorio. «Dev'essere importante, My. Altrimenti non avrebbe mai rischiato un volatore per farci andare fin là.» «Rischiato un cavolo! Ha fatto saltare una mezza dozzina di fottute Presenze e poi ha mandato il volatore nel luogo dove si trovavano fino a poco prima. Prega Dio che nessuno venga a sapere quello che ha fatto prima che la Commissione CACCIA pubblichi il suo fottuto rapporto.» «Se Justin lo ha fatto, lo ha fatto in modo che nessuno lo sapesse. E deve essere importante.» «Questo è ciò che ha detto, e sul momento gli ho creduto anch'io. Justin è fatto così. È capace di farti credere che la merda sia un dolce Può metterti davanti un'erba del mulo e giurare che si tratta di bantigon arrostito, fino a farti venire l'acquolina in bocca. Oh, già, allora mi ha convinto, ma questo è successo prima che mi trovassi in questa fottuta regione su questo
fottuto mulo da cinque giorni.» «Non sarà poi una cosa così nuova, per te. Hai detto che eri alla Sporgenza, quando ci fu il massacro.» «Chiudi il becco, ti ho detto. Vuoi che quei dannati Cantori ti sentano mentre parli del massacro?» «Sono quasi un chilometro davanti a noi, My. Sei troppo nervoso.» «Spider Geroan non è davanti a noi. È alle nostre spalle, e giuro su Dio che quell'uomo è capace sentire un viggy a un chilometro di distanza.» Myrony Clospocket si spostò sopra il mulo, sostituendo una fascia di muscoli doloranti con un'altra. «E poi quando Chanty e io eravamo sulla Sporgenza è stato solo per un paio di giorni, e ci siamo andati con una barca silenziosa e quando tutto è finito abbiamo attraversato di corsa gli Intercettori con l'aiuto di un Cantore. Ha organizzato tutto il colonnello Lang. Quello stesso colonnello che adesso se la spassa a Splash Uno mentre noi rischiamo la pelle qui.» «Sarei dovuta andare con Chanty,» mugugnò la donna, asciugandosi il sudore dietro le orecchie e sulla fronte. «Almeno per andare verso sud c'è un itinerario consolidato.» «Sei tu che non sei volta andare con Chanty,» ringhiò lui, imitandola volgarmente. «Oh, no, la piccola Affy non voleva avere niente a che fare con rapimenti di bambini e uccisioni di donne.» «Non mi piacciono le uccisioni,» disse lei con una certa dignità. «Non mi sono mai piaciute. Tu e Chantiforth Bins lo sapete benissimo, Myrony. Non ho mai lavorato con voi, quando c'era qualcuno da uccidere, e non ho mai ucciso nessuno. Inoltre per me rapire i bambini è una cosa orrenda. E poi perché questa donna e il suo bambino sono così importanti?» «Justin pensa che possano essere importanti per quel Cantore di Terrafonda Cinque, tutto qui. Abbastanza importanti, forse se ne servirà come merce di scambio» «Piuttosto improbabile,» disse lei con voce cadenzata e adottando il tono da pulpito. «È piuttosto improbabile che un uomo corra dei rischi per salvare una donna, soprattutto una donna che non è sua moglie o altro.» Si deterse nuovamente il sudore e fissò sgomenta il fazzoletto, impiastricciato con la polvere appiccicosa del sentiero. «E poi credevo che tu e Geroan andaste ad occuparvi del Cantore e dell'Esploratore. Se e quando riusciremo a prenderli, voglio dire.» «Se, non quando. Secondo Justin sono stati localizzati. Localizzati un accidente. Quando arriveremo lì, quelli si saranno spostati Dio sa dove.
Noi dovevamo arrivare lì di sorpresa, farli a pezzi da lontano con quei nuovi fucili e poi tornarcene a Splash Uno, pronti a dividerci. Oh, certo, Justin ha programmato tutto.» «Non mi avevi detto "farli a pezzi", My. Avevi detto "occuparci di..."» «Che cavolo pensavi che intendessimo, Affy? Che li invitassimo a prendere un tè? Che li convincessimo a trasformarsi in buoni, piccoli Cristalliti?» Per un po' lei rimase in silenzio, poi chiese, con almeno una parvenza di sottomissione: «Be', quando li raggiungeremo, e tu ti occuperai del Cantore, allora la donna e il bambino non saranno più così importanti, no?» «Un'assicurazione,» bofonchiò l'uomo, quasi sottovoce, sentendo che il calpestio degli zoccoli diminuiva la distanza fra loro e Spider Geroan. «La donna e il bambino sono semplicemente un'assicurazione, Affy, e tieni a freno la tua fottuta lingua.» All'interno di una delle massicce pareti del palazzo della BDL, una figura magra e impolverata sollevò sopra la testa di lei un secchio pieno di terra e sentì che il peso si spostava dalle mani della donna mentre veniva trascinato via. «Basta per adesso,» disse una voce dall'alto, bisbigliando. «Torna su, Gretl.» Si sentì il suono di acqua che scorreva. Il fango scavato dai mattoni della parete era stato eliminato, gettato nelle fogne di Splash Uno. Gretl Mechas fece per obbiettare, poi si piegò contro il muro del pozzo verticale, incapace di chiamare a raccolta le energie per muoversi. Non era in grado di continuare, nonostante l'altro la incitasse. La mazza e lo scalpello di fortuna le caddero dalle mani. «Gretl?» «Arrivo,» disse lei alla fine, poggiando il piede sul primo dei pioli laboriosamente inseriti nel muro che formavano una scala a spirale lungo il condotto a forma di camino. Quando giunse in cima Michael, il dottore, allungò la mano verso di lei e la tirò su, come un tappo da una bottiglia. Si trovavano in quella che era stata la cella di Gretl quando era viva. Adesso che era morta - per la seconda volta - era presumibilmente vuota, almeno per il momento. Michael sistemò un pezzo di tavolato ricoperto di fango sufficientemente vicino all'apertura, poi spostò all'indietro la branda, quasi a ricoprirla. «Quanto dobbiamo ancora scendere?» sospirò lei. Lui fece scorrere fra le mani la corda in tutta la sua lunghezza, misuran-
do i metri. «Forse altri sei metri. Dovremmo arrivare alle cantine.» Lasciò cadere il secchio e il rotolo di corda dentro il pozzo. «Stanotte posso scavare più o meno un altro mezzo metro, quando sarò sicuro che è addormentata» «Sei sicuro che c'è una galleria?» Gli rivolse la domanda per la ventesima volta e lui le diede la stessa risposta che le aveva dato in precedenza. «A quanto ho sentito dire dalle guardie, sì. È stata costruita insieme al palazzo. Corre verso est, attraverso la zona agricola. A un certo punto c'è una porta, ma a quanto dicevano le guardie è così ben nascosta dall'esterno che non è nemmeno chiusa a chiave.» «Dovremmo lavorare più in fretta, adesso che sono morta,» disse la donna con voce atona, ripulendosi la polvere dagli occhi. «Non dovrò stare tutti i minuti in ascolto dietro quella maledetta porta, domandandomi se è lui che sta venendo lungo il corridoio.» Il dottore annuì, e andò a prendere un panno umido nel gabinetto annesso, in modo che la donna potesse pulirsi il viso dalla polvere. «In questo corridoio non c'è più nessuno vivo, Gretl. A meno che porti qualcun altro. Io penso che tu sia al sicuro. E da quanto dicono le signore, in questo momento lui è in pensiero per altre cose.» «Signore,» disse lei, sbuffando debolmente. «Lo odiano esattamente come te. Solo che hanno un punto di rottura più basso, tutto qui.» Le accarezzò i capelli. «Hai fatto la tua parte molto bene. Sembrava proprio che stessi morendo.» «Avevi ragione. Quando non poteva più avere alcuna reazione da me, non mi ha voluta più. Non è stato difficile non mostrare niente, Michael. Oh, Dio, eppure lo odio.» «Lo so.» «È come odiare l'uomo nero,» disse lei, quasi bisbigliando. «È come odiare un cartone animato. La gente... tutta la gente che ho conosciuto, compresa me, è stata un po' buona, un po' cattiva, un po' in un modo, un po' nell'altro, Justin... Justin è solo una cosa. Non è affatto una persona a tre dimensioni. È... piatto, orribilmente piatto» Michael la cinse con le braccia e la tenne stretta mentre lei era scossa dai brividi. «Justin vuole il potere. Il potere sulla gente, sulle cose, sulle situazioni. Sapere cose che gli altri non conoscono è potere, e così si accerta di avere sempre un sistema per scoprire le cose. Il denaro è potere, e lui lo accumula. Far fare alla gente ciò che lui vuole è potere - soprattutto a quelli che lo combattono - e lui lo fa. Intorno a lui nessuno vive troppo a lungo.
È quasi come se avesse paura che il suo potere possa consumarsi, possa diluirsi. Usare la gente, imporre loro la propria volontà e poi disporne a suo piacimento, questo è potere, e lui lo fa. «Io l'ho combattuto. Tutte le tre donne che si trovavano in questo corridoio l'hanno combattuto. Adesso che abbiamo smesso, lui probabilmente si sbarazzerà di noi e si troverà qualcun altro. Io non so perché Justin è come è. Non so se sia nato così o lo sia diventato. Mostra alcuni sintomi di disordine mentale. Ma l'unica volta in cui gli ho appena accennato l'idea di sottoporsi a qualche esame del cervello, mi ha fatto chiudere per tre giorni senza acqua né cibo... «Non so che cosa dica a se stesso di ciò che fa. Tutto ciò che vedo è ciò che vedi anche tu. e hai ragione, lui è l'uomo nero.» «Come sei riuscito a far credere a Justin che ero morta?» «Nello stesso modo in cui lui ha fatto credere agli altri che eri morta. Justin aveva altra gente, in queste stanze lungo il corridoio: alcuni di loro sono morti, ma nessuno si è mai preoccupato di portar via i corpi. Ormai sono quasi mummificati. Io non ho fatto altro che prendere il cadavere di una donna e darlo alle guardie con i tuoi abiti addosso. Non si sono nemmeno presi la briga di controllare. Gli era stato detto di portare via un corpo e loro hanno portato via un corpo. Questo posto è pieno di cadaveri, pieno di morte.» Fu scosso da un tremito, e quando riprese a parlare la sua voce tremava. «Non solo qui. È morta anche la mia famiglia Lo so. Ho sperato di sbagliarmi, ma l'ho letto nei suoi occhi l'ultima volta che è stato qui.» «Perché uccidere la tua famiglia?» «Perché poteva farlo. Perché uccidere la gente e passarsela liscia fa sentire potenti. Come Dio. Non voleva che qualcuno facesse domande su di me, e così la mia famiglia è semplicemente scomparsa, tutti quanti. Madre, padre, figli, tutti scomparsi. Tutti andati.» Fece un passo indietro e si asciugò il volto con un braccio. «Un atto di Dio.» «Perché ha scelto proprio te?» «La stampa storica aveva pubblicato un articolo su di me. Avevo sviluppato un nuovo trattamento per le malattie dell'invecchiamento utilizzando prodotti biologici che avevo scoperto qui su Jubal. Niente di veramente significativo, ma la stampa ci ha ricamato sopra. Justin mi chiese di lavorare per lui a tempo pieno come suo medico personale. Io pensai che era una cosa ridicola e così...» «Una volta Justin mi ha detto che nessuno può dirgli di no.» «Anche a me ha detto la stessa cosa. "Nessuno può farla franca dicendo
di no ad Harward Justin" e "Ciò che è mio resta mio".» «Ciò che è suo resta morto,» disse lei con un filo di voce. «Credeva che avresti potuto tenerlo in vita per sempre o qualcosa del genere?» «Chi lo sa che cosa credeva. Io non sono in grado di prolungare la sua vita, in nessun modo. Fino ad ora sono stato fortunato. Non sì è mai ammalato. E naturalmente, quando il pozzo di fuga sarà finito...» Drizzò la testa e rimase in ascolto. «Sento qualcosa. È meglio che me ne torni nel mio alloggio, nel caso venisse a farmi visita.» Si infilò a testa in giù dentro il buco, piegò il corpo a U e riemerse da un'analoga apertura dalla parte opposta del muro, dietro un divano del suo appartamento. Alle sue spalle Gretl indugiò, in attesa di un rumore di mobili spostati. Dopo qualche attimo lo sentì bisbigliare: «Falso allarme. Hai cibo a sufficienza? Se ne hai bisogno ho qualcosa per te.» «Non ho fame,» mormorò Gretl. «Devi averne.» le disse lui. «Entrambi dobbiamo averne. Ci serve energia. Energia per essere morti. Energia per uscire da qui.» «Va bene,» disse la donna, allungando la mano al di là della spessa parete per prendere il pacchetto incartato. Poi sistemò il tavolato sopra il foro e spostò la branda per ricoprire il tutto. Quando il dottore era venuto per "sistemarla", aveva lasciato il chiavistello sporgente in modo che la porta non si richiudesse. In seguito, mentre lei si trovava in fondo al pozzo che scavavano da mesi, Michael aveva consegnato alle guardie il suo "corpo". Le guardie non erano troppo vigili, e di certo nemmeno troppo intelligenti. Lei scivolò fino all'estremità del corridoio e si infilò un una stanza vuota, accertandosi di lasciare il chiavistello aperto, mentre la saliva la riempiva la bocca al sentire il profumo del pacchetto che teneva in mano. Avrebbe fatto un bagno. Poi avrebbe mangiato. Poi un bel sonno, quindi si sarebbe fatto notte, e avrebbe ricominciato a scavare. Thalia Ferrence sedeva nella sua sedia accanto al muretto, e sognava un nipote. Il Gran Mastro l'aveva chiamata per dirle che aveva preso informazioni sulla donna, e che sia lei sia il bambino erano diretti verso casa sua. Il figlio e la moglie di Lim, Vivian. Thalia non lo aveva ancora detto a Betuny. Betuny ne sarebbe stata sconvolta, per timore che Thalia non avesse più bisogno di lei Forse Thalia non avrebbe avuto veramente più bisogno di lei, ma avrebbe affrontato la questione più tardi. Per il momento era troppo bello pregustare, sognare, immaginare tutte le cose splendide legate all'arrivo di una figlia e di un nipote. E ripensare anche ai vecchi tempi. Di
recente lo aveva fatto molto spesso. Si era concessa un bicchiere di broundy per celebrare l'avvenimento, qualcosa che faceva di rado, e adesso se ne stava seduta nella sedia all'estremità del giardino, le braccia incrociate sul basso muretto, con il sole calante in pieno viso, tanto da poterne sentire il dolce tepore mentre quasi in sogno riviveva i vecchi tempi ormai passati, desiderando di poter vedere ancora una volta i campi di brou e le torreggianti Presenze. In un certo senso le poteva vedere, ma esse erano così grandi nella visione indotta dal ricordo che Thalia si domandò se non fosse stata lei a crearle. Lei voleva verificare la realtà a dispetto del ricordo, e per una lunga ora era rimasta lì a vagheggiare, come se la verità fosse qualcosa alla quale doveva arrivare per forza... la chiave di qualche immaginazione futura che non si poteva ottenere altrimenti. Non poteva più essere sicura di ciò che era vero, di ciò che era veramente successo. Quale era stava la verità su Lim, su Miles? E Tasmin era davvero ciò che lei riteneva che fosse? E lo era stata Celcy? E quella donna che stava arrivando sarebbe diventata parte della sua vita? Quel mondo era il mondo che lei ricordava, o era soltanto un sogno che si era inventato? Come poteva saperlo? La voce, quando giunse, anche se le rivolse una domanda simile, non era la stessa voce che l'aveva interrogata la volta precedente. Questa era così dolce e insinuante che avrebbe potuto essere parte del sogno da lei covato. «Sei tu la madre di Lim Ferrence?» Il broundy le scorreva nelle vene. «Si faceva chiamare Lim Terree,» rispose, quasi cantilenando, mentre un mezzo sorriso le incurvava le labbra. «Ma ero sua madre, sì.» La voce che le aveva parlato era una voce strana, quasi come quella di un bambino, ma con un accento curioso. Poteva essere una voce di sogno. Di certo non sembrava vera. Vi fu un momento di silenzio, come se lei avesse detto qualcosa di poco chiaro. «Eri?» le chiese infine la voce. «Intendi dire in un tempo più antico? Non adesso?» «È morto,» disse la donna. «Morto. È morto sull'Enigma.» Una leggerissima costernazione di suoni. Le ricordò il canto degli uccelli, quel rumore cinguettante, stridulo, ma dopo un attimo tornò a parlare la voce del bambino, quasi cantando. «Quale parente ha lasciato?» «Pensavo che avesse lasciato solo me. sai. Credevo di essere la sua unica vera parente, la sola che ancora lo amava, e ricordava, e soffriva Oh, c'è
Tasmin, naturalmente. Suo fratello, ma da lui non ci si può aspettare che soffra. Sì, credevo di essere l'unica, ma pare che avesse una moglie e un figlio. Stanno venendo qui. Fra poco. Qualcuno è venuto a chiedermi di loro, e poi quando ho domandato alla Cittadella, si sono informati per me..» Il suo sogno fece spazio a un acuto spasimo di ansia «Spero che non gli sia successo nulla.» Di nuovo quella pausa da sogno. Qualcosa le sfiorò il volto, come una piuma, qualcosa di soffice, fresco e infinitamente gentile. Poi la voce. «Perché dovrebbe succedergli qualcosa?» «Non lo so. È quell'uomo che è venuto, la sua voce. Non mi ha detto il suo nome. Ha detto che ero fortunata ad essere cieca. Voleva sapere dove fosse la moglie di Lim, e suo figlio. Io gli ho detto che non sapevo che Lim avesse una moglie e un figlio. L'uomo non era educato. Non mi ha nemmeno salutato.» Ancora una volta la piccola costernazione di suoni. «Tu pensi che fosse una minaccia nei riguardi della moglie di tuo figlio?» «Mi è sembrato strano che volessero sapere dov'era. Mi è sembrato strano che qualcuno volesse saperlo. Che cosa poteva rappresentare lei, per chiunque? Il Mastro Generale ha detto che è solo una donna, senza posizione, senza famiglia. Che lavorava al mercato del pesce. E il bambino solo un bambino.» Thalia meditò sulla stranezza di una donna e di un bambino che erano semplicemente quello. Non Cantori. Non persone che avessero problemi o sentimenti tali da poter costituire una minaccia per qualcuno, ma persone e basta. Una donna. Un bambino. Poi di nuovo la voce, dolce come un velo, così dolce che lei non riuscì quasi a distinguere da quale direzione provenisse, inconsapevole che proveniva da tutt'intorno a lei, da due dozzine di gole, soffice come un sospiro. «Da quale parte sta venendo da te, Madre di Lim Ferrence?» «Per la rotta meridionale. A sudovest dell'Enigma. Verso la Torre Nera.» I suoi occhi si riempirono di lacrime. Quella rotta l'aveva sempre preoccupata. Miles era morto sulla Torre Nera. Il suo pianto nascose il suono quasi inaudibile di coloro che partivano. Nella luce grigia del crepuscolo nessuno li aveva visti arrivare e nessuno li vide andare via. Ad ovest di Terrafonda Cinque la compagnia di Bondri Gesel trovò un sentiero attraverso i Piccoli Osservatori Lontani, chiamati dai viggy Coloro che Emergono Gioiosamente. Anche se stretto, era un sentiero a bassa sen-
sibilità, che richiedeva poco canto e lungo il quale ci si poteva muovere molto in fretta. «Avevamo ragione sull'Enigma,» stavano cantando parecchi membri della compagnia. «Il Folle ha ucciso di nuovo. Lim Ferrence, onorato sia il suo nome, non può essere ripagato poiché l'Enigma lo ha ucciso. Oh, com'è sciocco tentare il canto con l'Enigma.» Bondri sibilò per l'irritazione, e il loro canto morì. In quel momento lui non voleva pensare all'Enigma. Se Favel fosse stato ancora lì a cantare con loro, forse sarebbero arrivati a qualche conclusione, ma quella era in verità una faccenda per i sacerdoti. Trasmise quel concetto con il canto, in modo succinto, ottenendone uno squillante coro di assenso. «Come possiamo essere sicuri che Colei che canta ad alta voce e suo figlio siano in pericolo?» intonò uno dei giovani viggy, una attraente femmina sulla quale Bondri aveva messo per un po' di tempo gli occhi come idonea figlia di scambio con la compagnia di Chowdri, verso sud. «La madre di Lim Ferrence non ne era sicura,» ammise Bondri. «Lei sospettava solamente che ci fosse un pericolo. Tuttavia non ha occhi, e...» «Contraddizione,» cantò il giligee anziano. «Ce li ha, gli occhi, oh Bondri Gesel dalle grandi orecchie. I suoi occhi non sono in buone condizioni, è vero, ma possono essere aggiustati. Chi ti canta, provvisto di marsupio, può aggiustarli.» Bondri emise un debole rumore, che indicava sia la costernazione per essere stato interrotto sia un certo grado di dubbio. Non sapeva di alcun caso in cui un giligee avesse operato su un Cantore. «In verità, oh Bondri Gesel. Chi ti canta ha già aperto molte volte i loro corpi. La madre di Lim Ferrence, onorato sia il suo nome, ha solo una piccola disfunzione. Si può sistemare.» Il giligee aveva toccato la madre di Lim Ferrence con le sue antenne. Se il giligee aveva detto che una cosa del genere si poteva fare, allora si poteva fare. «Ricorda ciò che hai detto,» intonò Bondri, domandandosi fino a che punto potesse spingersi un viggy nell'infrangere i tabù. «Se non troviamo il bambino, forse dovremo pagare il nostro debito in questo modo.» «Ho interrotto il Capo della Compagnia,» cinguettò il giligee. «Ti prego di tornare al tuo canto.» «La donna non può vedere,» gorgheggiò Bondri, questa volta in modo condizionale. «I nostri antenati dicono di coloro senza occhi che lo spirito deve vedere ciò che la carne non può vedere, non è così?» «Veramente, queste sono le parole,» cantò la compagnia.
«Perciò le sue orecchie le hanno detto che l'uomo costituiva una minaccia, anche se forse le sue parole non comunicavano la sua vera intenzione.» «Bestemmia,» sospirò la compagnia. «Oscenità.» Per i viggy le parole che non comunicavano la verità erano peggiori della mancanza di parole. Una volta stabilita questa tendenza di Coloro che cantano ad alta voce a cantare il falso, era stato invocato il tabù. Come potevano i viggy cantare con coloro che non si curavano della verità? «Pietà per loro,» intonò Bondri. «Poiché essi sono persi nell'oscurità dell'insignificante.» Fece una pausa, una battuta obbligatoria, poi riprese: «Così la madre di Lim Ferrence ritiene che la compagna di suo figlio, e il suo figlio diretto, siano in pericolo. Non si rende nemmeno conto di sentirlo, ma le sue parti interne lo sanno. Se questo pericolo esiste veramente e può essere prevenuto, allora il debito del Primo Sacerdote Favel sarà soddisfatto anche se Lim Ferrence è morto.» Vi fu un mormorio di approvazione, seguito da un'esplosione di esultanza puramente ricreativa Dopo un po' si fermarono per ripulirsi e per mangiare. Bondri approfittò della sosta per dare una sbirciata nel marsupio del giligee che lo aveva onorevolmente corretto. L'esserino rosa che squittiva nel suo nido di viticci aveva un aspetto molto vitale. Lo spirito-delcervello del Primo Sacerdote Favel stava crescendo bene. «Ci stanno seguendo,» disse Jamieson scendendo dal mulo con un'esclamazione di dolore e di fastidio mentre si toccava la caviglia. «Dannazione! Continuo sempre a sbatterci.» «Shhh,» disse Clarin. «Te lo avevo detto, ieri sera, che era meglio fasciarla.» «Non ne avevo bisogno.» «Ne avrai, se continui a sbatterci ogni volta che sali e scendi dal mulo, Reb. Per l'amor del cielo!» «Oh, va bene. Allora mettici sopra una specie di imbottitura, se ti fa sentire meglio.» «Io? Sei tu che continui a sbatterci.» «Basta così,» disse Tasmin stancamente, mentre srotolava il materassino da notte gonfiabile. «Piantatela, voi due, d'accordo? Dici che ci seguono?» «Sono tornato indietro e mi sono arrampicato sul punto più alto che ho potuto, Mastro Ferrence, poi ho guardato lungo il sentiero che avevamo percorso, come tu hai suggerito. Erano lì, sei cavalieri. L'unica ragione per
cui sono riuscito a vederli è che stavano scendendo per quel lungo passaggio trasversale lungo il costone, dove ci trovavamo ieri mattina. Più o meno a mezza strada, verso il basso, il sentiero si divide, ti ricordi? Proprio in quel punto uno di loro è sceso e ha controllato in giro in cerca di tracce del nostro passaggio. Poi hanno imboccato la strada che abbiamo percorso noi.» «Hai idea di chi fossero?» «Due Esploratori, Mastro. Un po' più avanti, come se non volessero mischiarsi agli altri.» «E quelli dietro?» «Cavalcavano a coppie. Un uomo e forse una donna, e molto più lontani altri due uomini, credo» «Immagino che tu non sia riuscito a vedere chi fossero.» «Sono riuscito a vedere le piume degli Esploratori. La donna sembrava portare qualcosa di scintillante sui capelli, forse delle perle. Magari non è nemmeno una donna, ma quella è l'impressione che mi ha fatto.» «Be', tanto era solo questione di tempo, prima che qualcuno si mettesse alle nostre calcagna.» Tasmin imprecò silenziosamente, domandandosi chi potessero essere. Domandandosi perché. Domandandosi come avessero trovato quel sentiero. Era stato facile far perdere le tracce al gruppo che li aveva inseguiti all'inizio, e tutti loro avevano sperato che non ci sarebbero stati altri inseguimenti. Adesso, invece, ecco questi altri. Il lungo corridoio nord-sud fra i due contrafforti di Presenze che Donatella Furz aveva trovato per loro aveva semplificato di molto il viaggio, e lo aveva reso più rapido, visto che non era stato necessario aprirsi la strada con il canto. Adesso avrebbero dovuto muoversi ancora più rapidamente. Don emerse dal folto di alberi dove erano state piantate le loro piccole tende, il volto arrossato per il fastidio, o per la rabbia, o forse per un miscuglio di entrambi. «Ho sentito che qualcuno ci sta seguendo, mi sbaglio?» Tasmin annuì. Lei fece una smorfia, poi si voltò per prendere una carta ripiegata dal fagotto sul terreno, la aprì su una lastra rocciosa e ci si inginocchiò sopra. «Dannazione! Non pensavo che qualcuno ci potesse trovare qua dentro.» «Probabilmente hanno seguito il nostro percorso fino dal Dente Rosso, e ci hanno rintracciato, Don. Nel gruppo ci sono due Esploratori.» Lei scosse la testa. «Be', questo corridoio l'ho scoperto io, ma immagino che sarebbe arrogante, da parte mia, ritenere che nessun altro abbia la ca-
pacità di trovarlo.» «Hai mai parlato con qualcuno di questo passaggio?» «Probabilmente sì. Devo anche averlo annotato nelle mappe d'archivio in camera mia. Credo di averlo detto a Ralth. All'inferno, per quanto ne sappiamo Ralth potrebbe anche essere uno di quegli Esploratori.» «Chiunque siano, probabilmente non sanno che stanno inseguendo te, Don. Chi li ha mandati deve aver raccontato loro qualche frottola» Lei esaminò attentamente la carta, mordicchiandosi le labbra. «Vuoi ancora che ci dividiamo?» Clarin fece un'espressione come per dire no, ma Tasmin rispose: «Sì.» Ne era fermamente convinto. Stava cominciando ad aprire gli occhi con Clarin. Lei sembrava essere sempre al suo fianco, pronta a soddisfare ogni suo minimo bisogno. O forse era lui che le stava sempre accanto, non era facile dirlo. Tasmin si era accorto di propendere verso di lei, di esserne quasi dipendente. Se fosse dipeso da lei non li avrebbe mai lasciati, ma Tasmin aveva intenzione di non farsi condizionare. Sia da Clarin che da Jamieson. Era l'unica cosa sensata da fare. Tasmin soffocò le sensazioni che si agitavano dentro di lui. Poteva anche essere una separazione definitiva, e lo sapevano tutti. La cosa era sopportabile solo se lui non lo avesse riconosciuto a se stesso. «Voglio che Jamieson e Clarin facciano il possibile per raggiungere Splash Uno.» Don indicò la carta. «La strada migliore per tornare sulla Costa di Terrafonda è prendere la scorciatoia della Valle Urlante, a circa mezza giornata di cammino da qui.» «Perché vuoi che vada a Splash Uno?» chiese Clarin in tono sottomesso, ma con una punta appena accennata di ribellione. «Devi andare da Vowe,» rispose Tasmin. «Voglio che gli racconti tutto quello che sappiamo, tutto quello che sospettiamo, tutto ciò che abbiamo pensato anche solo di sfuggita. Abbiamo bisogno di tutta la protezione che può offrirci. Deve essere pronto per qualsiasi cosa facciamo, e se non vai da lui non c'è altro modo per informarlo.» «Voglio anche che gli consegni una registrazione di tutta quella storia dell'Enigma,» aggiunse Donatella. «Ieri sera ho fatto una copia del cubo. Terrò la mia scatola, quella con il traduttore dentro. Tu prenderai quella nuova.» «Abbiamo i sintetizzatori,» obbiettò Clarin. «Lo so, ma le scatole degli Esploratori sono diverse. Sono programmate per tentare delle variazioni. Tu te ne stai seduta a un chilometro da una
Presenza e cominci con qualcosa che quasi funziona, o che ha funzionato da qualche altra parte. Poi tenti delle variazioni finché non ne trovi una che non fa muovere l'ago, capisci. Non facciamo tanta pubblicità, ma è così che vanno le cose, per lo più.» «Credevo che le Presenze reagissero sempre in modo aggressivo alle registrazioni,» osservò sospettoso Jamieson. «Lo fanno, se si è troppo vicini. Ma a una certa distanza sembra che le solletichi appena. È come una risposta inconsapevole, non se ne rendono nemmeno conto. Quando trovi una variazione che non fa muovere l'ago, allora continui a suonarla finché non la impali abbastanza da aprirti la strada con il canto, o quanto meno avvicinarti e tentare l'approccio diretto.» Accarezzò la scatola quasi fosse un mulo. «Spesso funziona, per quelle piccole. Non per l'Enigma, naturalmente.» «Tu non ci hai mai detto quale era l'indizio di Erickson per giungere alla partitura dell'Enigma, vero?» chiese Clarin. Donatella scosse la testa. «E non ho intenzione di dirvelo. Non ancora. È meglio che non lo sappiate. Se vedete che state per essere fatti prigionieri, distruggete il cubo. Così non saprete nulla che possa essere di aiuto a qualcuno.» «Ma sapremo dove siete diretti tu e Tasmin.» «Sì,» disse Tasmin. «E se vi prendono, ditegli tutto quello che vogliono sapere. Ditegli dove stiamo andando. Sapremo badare a noi stessi. Voi sapete solo che Don Furz è convinta di avere parlato con una Presenza e sta andando verso l'Enigma per averne la conferma. Ditegli questo.» «Ve la caverete benissimo,» disse Don. «Dentro la scatola ci sono delle chiavi di accesso sperimentate per quasi tutto ciò che si trova ad ovest di qui, e sulle carte è indicato tutto. Dovrete aggirare le Unghie del Gigante. Non potete avvicinarlo senza un intero carro pieno di effetti ma se deviate verso sud c'è una strada che gli passa proprio dietro.» «Voi due dove andrete, dopo aver lasciato l'Enigma?» chiese Clarin. «Dipende da ciò che troviamo. O a Terrafonda Cinque oppure torniamo alla Costa di Terrafonda.» rispose Tasmin Silenzio. Il volto di Clarin era calmo, ma lui notò i suoi occhi addolorati e ribelli. Oh, Clarin, Clarin. «Clarin.» Più di ogni altra cosa Tasmin voleva alleviare quel dolore. Lei era così giovane da poter essere quasi sua figlia. «Sì.» «Ascoltami. Almeno uno di noi deve andare con Don come testimone.
Io sono la persona più logica perché sono abbastanza anziano, comunque più di te e di Reb, da godere di una reputazione che mi garantisce una certa credibilità. Inoltre per tornare a Splash uno in occasione delle sedute della Commissione occorrerà aiuto. Io posso ottenerlo dalla Cittadella di Terrafonda Cinque, e posso portare più carico di te e di Reb.» «Potrei venire con te e Don.» «Allora Jamieson resterebbe solo. E se quelli che ci seguono, chiunque siano, decidono di dividersi e mandano qualcuno al suo inseguimento, o se c'è qualcuno che ha intenzione di intercettarci da ovest, le possibilità di Jamieson diminuirebbero.» «Hai ragione,» disse la ragazza. «Scusami.» «E quando saremo da Vowe?» domandò Jamieson, anche lui convinto. «Ditegli tutto. Mettetevi nelle sue mani. Lui saprà che cosa fare. Se c'è qualcosa che può fare. Pregate Dio che vi creda.» «Oh, mi crederà.» disse Clarin. «Crederà ad ogni parola che gli dirò.» «Tu lo conoscevi da prima,» disse Tasmin. «Ho avuto questa impressione, quando ci siamo incontrati a Northwest.» «Lui... lui è un vecchio amico di famiglia,» disse lei. «Non lo ha detto perché rende tutto più... difficile.» «Basta così.» disse Don. «Prendiamoci qualche minuto per farvi familiarizzare con questa scatola, poi mettiamoci in marcia. Secondo quanto ha detto Jamieson. sono solo a un giorno di distanza.» «Hai qualche idea di chi siano, Donatella?» La donna scosse il capo. «Dimenticate gli Esploratori. Potrebbero essere chiunque. Da Northwest o da qualunque altra parte. Potrebbero anche essere miei amici. Quanto agli altri, non ne ho la più pallida idea. L'unica donna che ho offeso è Honeypeach Thonks, ma non riesco a vederla su un mulo che mi insegue in questo territorio così selvaggio.» Chiamò a raccolta i due novizi e cominciò una rapida, dettagliata spiegazione della scatola armonica. Jamieson e Clarin non tardarono a comprendere le sottigliezze del congegno. Era diverso dai sintetizzatori dei Cantori solo nei particolari, e al termine di un'ora essi dimostrarono una notevole competenza, a tal punto che Don annuì in segno di approvazione. «Piuttosto bene. Adesso sarà meglio che ci muoviamo subito.» Tasmin aveva già sistemato il carico sulla sella dei muli, e in pochi minuti cancellarono i rimasugli del fuoco. Non che servisse a molto. Se gli inseguitori erano in grado di trovare le tracce del loro passaggio sul sentie-
ro pietroso sotto la cordigliera, non avrebbero faticato a scoprirle anche lì. Diressero verso sud, con gli zoccoli scoperti dei muli che creavano un clop-clop musicale, quasi ipnotico. Se fossero stati in viaggio per tutt'altre questioni, se avessero marciato senza inseguitori alle spalle, Tasmin sentiva che avrebbe potuto apprezzare quello strano corridoio che Don Furz aveva scoperto in mezzo alle torreggianti Presenze. Erano su tutti i lati, e sembravano guardare in basso, verso la valle, in cui cavalcava il gruppo, color ocra e violetto, rubino e zaffiro, smeraldo e cinerino... un migliaio di giganti raggruppati, che di tanto in tanto facevano vibrare l'aria con i loro colloqui borbottati sottovoce. «Chissà che si stanno dicendo,» disse Tasmin. «Niente, per quanto mi risulta.» «Il tuo nuovo traduttore non converte le parole?» «Lo ha fatto, sull'Enigma, e in risposta a ciò che cantavo! Ma questo borbottio non si traduce in niente. Il traduttore si limita a russare, ringhiare e gemere.» «Lo hai provato di nuovo, in seguito? Una volta? Più di una volta?» «L'ho provato per ore ed ore nel corso di ogni viaggio, dopo l'Enigma. Niente di niente.» «Allora queste Presenze qui intorno non sono intelligenti?» In qualche modo quella non sembrava una premessa appropriata. «Mi sembra una conclusione un po' affrettata,» osservò Clarin. «Forse non stanno parlando, tutto qui.» «O non parlano affatto,» aggiunse Jamieson. «Io ancora aspetto la prova.» «Eri così sicuro che fossero intelligenti,» obbiettò Clarin. «Questo non significa necessariamente che ci debbano parlare,» ribatté lui. «Se tu fossi una di loro, lo faresti?» Tutti sollevarono lo sguardo verso le Presenze. Dirupi di un rosa corrusco. Torri di ambra scintillante. Possenti contrafforti di zaffiro risplendente, animati di luce rifratta. Pareti di grigio spruzzate d'argento. Barriere di fiamme sfavillanti. «Ahhhh.» Il suono venne da Clarin, il suono di qualcuno ferito, o il suono di un amplesso amoroso, un suono estatico, ascendente, ma smorzato. L'espressione sul suo viso era quella che aveva a volte quando cantava. Le mani di Tasmin, desiderose di protendersi verso di lei, tremarono sulle briglie. «Non possiamo perdere tempo,» le disse con la voce più asciutta che aveva. «Vieni, non possiamo fermarci.» Donatella lo fissava in modo
strano, e Tasmin evitò i suoi occhi. Sentiva il suo intero essere come tirato, allungato in un filo sottilissimo, tanto da abbracciare il mondo. Un atto di autoipnosi, lo avvisò la sua mente razionale. Una cosiddetta esperienza religiosa. Resta tranquillo e passerà. E infatti passò, lentamente, nelle successive lunghe ore a dorso di mulo. Giunsero alla biforcazione del sentiero. Donatella esaminò le carte che portavano gli altri, controllò un'ultima volta la macchina, poi si sedette accanto a Tasmin mentre Jamieson e Clarin si allontanavano al piccolo trotto, piccole figure che diventarono sempre più piccole, senza mai guardarsi indietro, e tremolando lungo il canyon che puntava ad ovest, diretti verso le città della Costa di Terrafonda e forse... che cosa? «È improbabile che qualcuno cerchi proprio loro,» disse Donatella, cercando di essere confortante, e convincente con se stessa. «Senza di noi corrono meno rischi, Tasmin. Su, cerchiamo di fare il possibile per cancellare le loro tracce.» «Prego che sia così,» disse Tasmin, affranto per il dolore di una perdita che non credeva di poter provare di nuovo, dopo così poco tempo. Era come la perdita di Celcy, eppure diversa. Questa volta era come se se ne fosse andata una parte di se stesso. «Prego che sia così.» Rheme Gentry, mentre in apparenza era molto occupato a sbrigare le faccende private del Governatore, era in effetti impegnato in due attività ugualmente delicate. Da una parte forniva a Thyle Vowe ogni elemento di informazione disponibile, per aiutarlo nel suo tentativo di farla in barba a "quel bastardo della BDL". Dall'altra stava cercando disperatamente di escogitare un modo per far pervenire un messaggio di vitale importanza fino a Serendipity e di salvare la vita di Maybelle Thonks, o quanto meno la sua salute e la sua sanità mentale, nell'ordine. Su Jubal gli avvenimenti stavano per giungere al loro punto culminante. L'onorevole Wuyllum era sempre più preoccupato di far trasferire su Serendipity certi oggetti di personale - e anche pubblica - proprietà, e ciò richiedeva una buona quantità di documenti falsi, dal momento che la BDL aveva bloccato tutte le spedizioni fuori pianeta, con l'esclusione di quelle che trasportavano brou. Far viaggiare nello spazio qualcosa che non fosse brou richiedeva un bel daffare, anche se Rheme stava diventando un esperto in materia. Justin non aveva del tutto tagliato i favori all'ufficio del Governatore. Non ancora. Chantry, il giovane cantante, era stato imbarcato su una nave la settimana prima, dietro insistenza di Honeypeach, balbettante,
semisvenuto e piuttosto suscettibile di restare in quelle condizioni. La rigenerazione non funzionava tanto bene sul sistema nervoso. «Il mio povero Chantry ha avuto un collasso,» diceva ogni tanto Honeypeach. «Per il troppo lavoro, poverino.» Per le droghe, pensava Rheme. Droghe e stimolanti - di cui ogni uomo aveva bisogno se se la doveva vedere con Honeypeach - e richieste eccessive per un sistema nervoso che era. dopotutto, semplicemente biologico e normale, non fatto di transistor e parti metalliche. Ad Honeypeach non interessavano le persone normali, o la biologia normale, o il sesso normale, tutto qui. Honeypeach amava le fruste e le droghe e i più svariati congegni elettronici. Honeypeach amava il sesso a tre. a quattro, a decine. Honeypeach amava guardare mentre gli altri soffrivano e si dimenavano, spesso persone a proposito delle quali Honeypeach affermava di godere nel vederle accoppiate con altre persone che non le piacevano affatto. Rheme era in grado di riconoscere i segni premonitori. Honeypeach aveva una certa espressione negli occhi quando doveva scegliere il prossimo, e Maybelle era in lista d'attesa per una partecipazione obbligata. Bastava quello a fargli capire che il Governatore e sua moglie stavano contando i giorni che mancavano alla partenza. Honeypeach non avrebbe messo gli occhi su Maybelle se ancora poteva fare qualche differenza ciò che faceva o che la vedevano fare. L'onorevole Wuyllum non aveva ancora dato segno di rendersi conto della cosa, né di esserne sconvolto. Evidentemente non considerava la figlia della sua prima moglie una proprietà di così grande valore. Rheme Gentry stava cercando di cambiare la situazione. «Il Governatore ha preso in considerazione ciò che gli piacerebbe fare quando sarà andato in pensione?» gli chiese nel tono più blando possibile. «Perché mai avrei dovuto pensare a una cosa del genere?» grugnì insospettito Wuyllum. «È giunta alla mia attenzione un'opportunità su Serendipity,» rispose Rheme con la sua voce più mielosa. «Un'opportunità alla quale il Governatore potrebbe essere interessato. Un nucleo familiare molto facoltoso, che è in cerca di un'alleanza di mutuo profitto, e che ha un figlio in età da matrimonio...» «Un figlio?» Wuyllum era un po' tardo a capire, e Rheme si diede dello sciocco, assumendo immediatamente un'espressione disinteressata. «Più o meno dell'età di Maybelle,» aggiunse. «Posso parlare con franchezza» Wuyllum lo fissò per un secondo o due prima di grugnire un sì. Rheme
sentì il sudore che cominciava a scolargli dal collo lungo la schiena e sotto le braccia. «Non si può non notare che tua figlia e la sua matrigna non vanno molto d'accordo,» disse, sempre con quel tono disinteressato che assumeva da anni in fondo al giardino, lontano da orecchie indiscrete. «È anche del tutto comprensibile, visto che tua moglie è così giovane e così attraente. Sia per l'età, tuttavia, che per il livello di esperienza sociale, tua figlia è ormai pronta a prendere marito. La si potrebbe raccomandare per parecchie famiglie facoltose in cerca di alleanze di vario genere, molte delle quali sarebbero anche vantaggiose per il Governatore. Inoltre un simile matrimonio rimuoverebbe una fonte di fastidio per la moglie del Governatore.» Wuyllum grugnì di nuovo, mentre una debole luce di comprensione cominciava a spuntare sul suo volto. «Potrei prendere in considerazione la cosa,» disse alla fine. «Se il Governatore volesse considerare una simile possibilità nel suo stesso interesse, la signorina potrebbe essere inviata a Serendipity in modo da potersi completamente adattare alla società del luogo. È mia opinione che abbia lasciato Serendipity quando era ancora troppo giovane per partecipare attivamente alla vita sociale.» «Aveva ventidue anni,» sbuffo il Governatore. «Sentiva il profumo del sesso quanto lo può sentire un mulo.» Rheme fece finta di non aver sentito. «Poiché le famiglie di cui stiamo parlando sono interessate alla riproduzione, esse preferiscono donne che siano... diciamo ingenue e intatte. Educate in modo conservatore, si potrebbe dire La figlia del Governatore dà quest'impressione... adesso.» Si accese una luce. «Bisogna fare in modo che rimanga così, vero? È questo che intendi dire, eh? Che è meglio tenerla lontana dai festini di Honeypeach, non è così?» Il volto del Governatore si contorse in un ghigno cattivo. «E immagino che tu voglia accompagnarla su Serendipity. Come una specie di chaperon, eh?» «Preferirei di no. Signore, se non ti dispiace» Rheme si concesse una fugace espressione di disgusto, domandandosi se per caso non stesse eccedendo. Wuyllum non era uno sciocco, naturalmente. Aveva l'insensibilità e la lentezza di movimenti di un rettile primordiale a sangue freddo, ma quando si trattava del suo personale interesse rivelava un genio assoluto nel comprendere le implicazioni di tutto ciò che avveniva intorno a lui. «Qui abbiamo molto da fare e davvero preferirei non andare.» Che credesse pure che Rheme era stanco delle attenzioni della ragazza. Che credesse
quel che diavolo voleva, purché Rheme riuscisse ad allontanare Maybelle da Jubal e dalle grinfie di Honeypeach Thonks. «Posso procurarmi il nome di qualche signora che faccia al caso suo su Serendipity...» Il Governatore grugnì di nuovo, mentre il sospetto si allontanava dalla sua mente, poi rivolse la sua attenzione ad altre faccende. Quella sera, nell'appartamento privato di Sua Eccellenza, vi fu una discussione animata. Rheme, che stava confabulando con Maybelle nell'angolo più lontano del giardino, ripetendole il messaggio che intendeva farle portare su Serendipity, sentì le voci e ne fu felice. «Che diavolo ti sei messa in testa di fare con Maybelle, eh?» chiese a sua moglie il Governatore, la cui voce giungeva perfettamente attraverso le tende tirate. «Mayzy non mi piace nemmeno,» gli confidò sua moglie. «Ha passato troppo tempo con quella donna latte e miele, per essere interessante.» «Se stai parlando della mia prima moglie, donna, sarà meglio che tu ti ficchi bene in testa chi era. Lei era la figlia dell'Ambasciatore a vita di Gerens, e proveniva da una delle famiglie più ricche del Mondo di Heron.» «E quanto ti ha sposato l'hanno lasciata senza il becco di un quattrino, Wuyllum, non dimenticarlo.» «Non ha importanza. Maybelle è stata allevata da sua madre. Lei è materia pregiata, secondo gente che la conosce.» «Materia che? Quella è buona come la farina di cespuglio del colono. Non vale niente, Wully. È smidollata come sua madre. Non vale proprio niente. Non capisco nemmeno perché Justin voglia rivederla.» «Adesso stammi a sentire Honeypeach. Te lo dico una volta, e una volta sola Ho intenzione di mandare Maybelle su Serendipity. Sistemarla lì con un bel posticino tutto suo, eh? Assumere una matrona che le stia appresso e introdurla in società. E tra ora e il momento in cui partirà, non voglio che sia toccata, ci siamo capiti, eh?» Seguì un silenzio imbarazzato, rotto da un gemito di dolore. Honeypeach era abituata a procurare dolore, non a provarne. «E chi vuole toccarla? E poi, se anche fosse, tu che faresti?» «Chiederei ad Harward Justin i servigi di Spider Geroan, donna. Tu hai le tue abitudini. Non m'importa un accidente di quello che fai, basta che non mi pesti i piedi. Prova a farlo e ti fisserò un appuntamento con Spider Geroan, così uscirai di casa con la pelle a rovescio. Mi hai capito?» La voce era inespressiva, priva di rabbia, ma la risposta piagnucolosa fece capire
a chi ascoltava che aveva capito benissimo. Nel giardino Maybelle rabbrividì fra le braccia di Rheme. «Dio, che cosa gli hai detto?» «Che sei in età da marito, ragazza mia. Pensa che splendida, fertile mamma potresti essere per qualche famiglia di Serendipity che cerca una discendenza.» In realtà Rheme era piuttosto preoccupato per la conversazione che aveva origliato. Non gli era piaciuto che la donna avesse fatto il nome di Justin, e nemmeno che il Governatore avesse fatto quello di Spider Geroan. C'erano implicazioni per la sua stessa sicurezza che Rheme trovò davvero minacciose. «Adesso ascoltami bene, May Bee, e ricorda quello che ti dico. Quando sarai su Serendipity dovrai andare direttamente da quelle persone di cui ti ho parlato. Dirai che vieni da parte di Basty Pardo. Trasmetti loro il messaggio così come te l'ho dato. Loro capiranno chi lo manda e ti metteranno al sicuro.» «Non sopporto l'idea di lasciarti,» singhiozzò la ragazza. «Dio. Rheme. qui potrebbe scoppiare una guerra.» «Oh, certo che scoppierà una guerra,» disse lui, serio. «E io me la caverò molto meglio se saprò che sei al sicuro.» «Questo tuo messaggio così importante, a chi è diretto?» Rheme rimase in silenzio, chiedendosi se dovesse dirle qualcos'altro, oltre a quello che già sapeva. Notando la sua espressione ribelle, si rese conto che Maybelle aveva bisogno di saperne di più, in modo da potersi sentire più partecipe. Maybelle era molto giovane, sia come atteggiamento che come personalità. Quando l'aveva descritta come una ragazza intatta, aveva detto semplicemente la verità. Eppure lei aveva una vivida percezione di ciò che era giusto e sbagliato, e sarebbe stato ingiusto, da parte sua, servirsene senza che lei nemmeno sapesse il perché. «Sono anni che l'attività del Consiglio per lo Sfruttamento Planetario è corrotta,» rispose alla fine. «Ci sono di mezzo una quantità di investimenti finanziari che provengono da cartelli di sfruttatori. In realtà la corruzione non riguarda tanto i membri del CSP, ma piuttosto coloro che sono stati così compiacenti da far finta di non vedere. Comunque il Massacro della Sporgenza ha fatto agitare qualche lingua, perché una delle vittime era il figlio di uno dei membri del Consiglio, una donna. Costei ha radunato alcuni dei membri più giovani e più recenti e ha cominciato a darsi da fare perché ci fosse un'inchiesta. Tu sai che il CSP ha una struttura di sostegno, la CATENA, chiamata così senza un motivo particolare. Se le lettere significano qualcosa, nessuno lo sa. Per quanto mi risulta di persona, la CA-
TENA è del tutto incorruttibile. A capo c'è una vecchia volpe di nome Pardo...» «Qualche parentela con Basty Pardo?» chiese lei. «È uno zio, in effetti. Bene, il Generale - adesso è in pensione, ma tutti lo chiamano ancora così - ha consigliato alcuni dei membri del CSP, e il Consiglio è riuscito a votare a maggioranza un ordine del giorno per l'apertura di un'inchiesta. La CATENA ha cominciato assoldando qualche investigatore, pochi altri come me, amore, ma abbastanza per scoprire quello che sta succedendo veramente.» «E così tu sei un agente del CSP! Io credevo che scherzassi. Allora si può ancora sperare.» Il suo viso si irradiò di quell'espressione luminosamente infantile che lui aveva imparato ad amare. Si fece forza per tenere le mani lontane da lei. Non aveva senso rendere le cose ancora più difficili. «Si può ancora sperare , purché questo messaggio possa uscire dal pianeta e raggiungere le persone giuste, May Bee. Ma Justin ha sigillato Jubal. Non me lo aspettavo. Sono stato imprevidente, ma proprio non me lo aspettavo. Tutte le comunicazioni sono monitorate. Niente e nessuno può partire senza un certificato di priorità, e non viene rilasciato nessun certificato di priorità, con l'eccezione di quei pochi che ha autorizzato Justin in persona o quelli che siamo riusciti ad ottenere attraverso l'ufficio del Governatore. Tu sei la figlia del Governatore, e si sa che sei inguaribilmente ingenua e goffa, e lontana dalle cose che contano. Non prendi nemmeno parte alla maggior parte degli avvenimenti sociali. Tutti ti ritengono strampalata e per diverso tempo mi hanno anche fatto capire che ti credono un po' sciocca. Tu sei semplicemente la persona meno sospettabile che io conosca.» Le sfiorò la guancia, sorridendo, senza farle capire quanto fosse disperato il bisogno che provava. Tutto quello che stava accadendo su Jubal diceva a Rheme che solo la forza avrebbe funzionato eppure, per quanto ne sapeva, nessuno nella CATENA aveva preso in considerazione il problema. Il Governatore avrebbe lasciato il pianeta con suo comodo, e le autorità del CSP gli avrebbero dato il benvenuto su Serendipity o dovunque fosse atterrato. Ma Justin non se ne sarebbe andato, né avrebbe dato le dimissioni, né avrebbe obbedito agli ordini del CSP. No, Justin avrebbe puntato i piedi. Justin avrebbe scatenato una guerra su Jubal piuttosto che farsi sbattere in galera. Sarebbe stato necessario stanarlo con la forza, o disintegrarlo, o porre Jubal sotto assedio. E una volta finito l'assedio, poteva essere troppo tardi per milioni di per-
sone. E per Jubal stesso. CAPITOLO TREDICESIMO Era pomeriggio inoltrato. Rimasti soli, Tasmin e Donatella si erano spinti verso sud e avevano lasciato una serie di falsi indizi che speravano avrebbero confuso i loro inseguitori. «Da qui in avanti la valle diventa più stretta,» disse Don. «Non potremo sfuggirgli, Tasmin, se non continuando a tenerli lontani. Che stai facendo con quei coprizoccoli?» Tasmin sollevò gli occhi dai coprizoccoli per muli con cui stava armeggiando. «Li ho presi dagli animali di Clarin e Jamieson,» disse. «Il disegno di ogni serie è leggermente diverso. Se li montiamo su un paio di zampe di ognuno dei nostri muli, forse penseranno che siano ancora con noi.» «Credi che la berranno?» gli chiese Donatella, sollevando dubbiosa un sopracciglio mentre lui infilava i coprizoccoli alle zampe dei muli, come pantofole. «Pensi davvero che crederanno che ci siano ancora quattro muli?» «Può darsi. A meno che siano più in gamba della media, sì.» Azzardò una risata priva di allegria. «Ho appena inventato il trucco, Esploratore. Mi ha fatto sentire come se stessi facendo qualcosa. Probabilmente mi inganno, ma o si fa qualcosa o ci si fa prendere dal nervosismo. E il nervosismo mi fa male allo stomaco. Forse non si renderanno nemmeno di quanto siamo ricchi di inventiva.» La donna dichiarò il suo assenso con debole sorriso, appena venato di ironia. «Potrebbe funzionare. Non ricordo di aver mai sentito parlare troppo di gente che sappia inseguire una traccia, su Jubal. Non c'è niente da inseguire. Sul Mondo di Heron lo fanno, naturalmente. Lì si va molto a caccia.» «Sei mai stata sul mondo di Heron?» «Certo che no, Cantore. Sono nata qui. Mia madre ha avuto un bonus per me, a dirla tutta. Ero la sua terza figlia.» «Se si può produrre in loco si risparmiano le spese di viaggio,» ribatté Tasmin. «Grazie tante. Cantore.» «Senza offesa, Don. Mi domandavo solo come tacessi a sapere tante cose del Mondo di Heron.» «È roba appresa sui libri. Romanzi d'avventura.»
«Romanzi d'avventura?» Tasmin rise. «Dopo che fai l'Esploratore su Jubal?» «Sai bene che non è sempre così eccitante,» disse lei. «A volte è tutto il contrario.» «Per esempio?» Lei aveva delle storie, le sue storie, le storie di altri, racconti di sconfitta e di dolore. Non erano le storie che gli Esploratori si raccontavano fra loro, e non sapeva perché le raccontasse a Tasmin, a parte che erano storie che andavano raccontate e poteva anche non avere un'altra occasione per farlo. Durante il viaggio aveva saputo tutto di lui e di Celcy. Adesso voleva parlargli di lei e di Link. «Alcune cose le seppellisci,» disse. «Io sono d'accordo nel seppellire molte cose. Non negare che siano accadute, cerca di capire, ma semplicemente liberarsi di esse. Metterle via, da qualche parte, in modo che non ci inciampi sopra ogni giorno. Ma con Link.. non c'è modo di seppellirla. Di solito io mi deliziavo, di fronte alle Presenze, ma da quando una di esse ha quasi ucciso Link... da quel momento non mi piacciono più così tanto.» Tasmin rifletté su quell'affermazione, domandandosi come mai non si applicasse a lui. Celcy era morta sull'Enigma eppure lui, Tasmin, ancora provava nei confronti delle Presenze la stessa sensazione che aveva sempre provato. Forse le donne erano diverse. Sua madre gli aveva sempre detto che lo erano. «E da allora sei rimasta sola?» le domandò. «Non proprio sola. Ho dei buoni amici. E a Northwest City c'era un addetto ai servizi piuttosto dotato. Qualche volta il suo buonumore mi ha consolato. Naturalmente Zimmy mi stava spiando, come avrei dovuto capire. Quando sono tornata da Northwest ho visto la sua faccia. Bisogna conoscere Zimmy perché la cosa abbia senso, ma lui non si aspettava che io tornassi.»! Quando gli ebbe spiegato come aveva fatto a capirlo, Tasmin commentò «Non è un gran che per esprimere una condanna. Solo l'espressione sul viso di un uomo.» «Ti ho detto che bisogna conoscerlo, Zimmy. Credimi, lui era sicuro che non mi avrebbe più rivisto.» Gli occhi di Tasmin si restrinsero e la sua bocca si allungò in una smorfia silenziosa. «Chi è che ha dato gli ordini, Don? Chi lo ha assunto?» L'uomo che aveva assunto Zimmy aveva assunto l'assassino. L'uomo che aveva assunto l'assassino era l'uomo che aveva spinto Don nella clandestinità e che l'aveva portata a cospirare insieme a Lim. E quell'uomo era in
ultima analisi responsabile della morte di Lim e di Celcy. «I vertici della BDL, molto probabilmente. Harward Justin è un uomo crudele. Lo so per certo.» «Non ho mai incontrato Harward Justin.» Ma probabilmente era proprio a lui che si doveva fare risalire la responsabilità ultima. Tasmin se ne convinse da solo. Se c'era una colpa, era proprio lì che si trovava. La donna fu scossa da un brivido. «Io l'ho visto una volta. Per fortuna ero appena tornata da un viaggio e sembravo un viggy fradicio.» «Perché per fortuna?» «Mi hanno detto che sono una bella donna. E mi hanno anche detto che Justin ha una particolare predilezione per le belle donne. E non accetta che gli dicano di no.» Per un attimo Tasmin pensò che lei avrebbe aggiunto qualcosa, ma Don cadde in un silenzio dolente e preoccupato che a lui sembrò inopportuno interrompere. Nel tardo pomeriggio avevano cominciato a salire di nuovo e prima di notte avevano raggiunto una cresta di colline costellate da una fila di minuscoli Minimi color ambra, non più alti del loro ginocchio. In lontananza, verso oriente, si stagliava la Presenza dorata dalla quale erano originati questi piccoli cristalli. «Il letto di un antico ruscello,» gli spiegò Donatella. «Ha trascinato via le gemme dei cristalli lungo una linea quasi diritta. Credo che molti dei contrafforti, in origine, si siano formati così. Un milione di anni fa qui non c'era altro che un fiume. Adesso c'è una catena montuosa.» «Ci stiamo muovendo su un terreno elevato,» disse Tasmin. «Se ci riesco voglio dare un'occhiata dietro di noi.» Smontò e si sdraiò accanto alla sfilata di Minimi, osservando con il binocolo il sentiero alle loro spalle. Alla fine le individuò, figure in movimento bene all'interno della sua visuale. «Eccoli. Continuano a seguirci, e hanno oltrepassato la biforcazione dove Clarin e Jamieson hanno deviato.» «Quanti sono?» «Tutti e sei. Nessuno è andato dietro ai ragazzi. Non so se esserne contento o dispiacermene.» «Sono più vicini di quando li ha visti Jamieson, vero? Sono solo a due o tre ore da noi.» «Direi di sì.» «Se solo avessimo una luna potremmo marciare fino a tardi, stasera, smontando e portando i muli per le redini.»
«Credo che lo farebbero anche loro,» disse lui, esaminando con il binocolo il sentiero che avevano percorso. C'era qualcosa di implacabile, nell'inseguitore che era alla testa, qualcosa di inesorabile nell'angolatura del corpo. «Dannazione!» esclamò Tasmin. Anche lei guardò con il binocolo e per la prima volta notarono, in coda al gruppo, uno stalliere che teneva una corda a cui erano legati diversi animali senza carico. «Hanno cavalcature fresche,» disse Don con un filo di voce «Non c'è da stupirsi che si muovano così rapidamente. Se ci prendono prima che abbiamo raggiunto l'estremità meridionale della valle...» «Non possiamo andare più veloci di loro,» disse Tasmin. «Dovremo farci venire qualche idea.» Ripresero a cavalcare, e Tasmin rifletté, fermandosi un paio di volte per staccare dei ciuffi di verdi cespugli del colono, che poi tagliava di pari lunghezza. «Che diavolo stai facendo?» gli chiese Donatella. «Cerco ancora di metterci un po' di fantasia, Donatella. Ti farò sapere se funziona,» rispose lui, sforzandosi di mostrarsi più fiducioso di quanto fosse in realtà. Mezz'ora più tardi aveva quattro dischi piatti di cespuglio del colono, spirali intrecciate di rametti sottili fatti per incastrarsi perfettamente nelle scarpe da mulo. Glieli mostrò. «Li legheremo ai nostri piedi, appena troveremo un punto in cui possiamo nascondere i muli. Poi proseguiremo, lasciando una falsa traccia di muli, finché non troveremo un posto per nasconderci anche noi... un posto piccolo, dove non gli verrà in mente di cercare, perché cercheranno uomini e muli, non uomini e basta.» «Nascondere i muli? E dove?» «Non lo so. Speriamo di trovare un posto adatto» Trovarono un posto adatto, oltre un piccolo torrente e su per una salitella, un fitto boschetto di alberi di Jubal all'interno di uno stretto canyon dalla parte opposta della valle, rispetto al sentiero. Fecero spostare gli animali lungo il torrente, lasciando una traccia molto chiara, e lasciandoli abbeverare con calma. Poi li condussero su per la roccia, ben dentro il boschetto, e li legarono. Al ritorno cancellarono tutte le tracce, poi si infilarono ai piedi le false zampe di mulo e dal torrente ritornarono fino al sentiero, lasciando impronte chiare ma irregolari. «Torneremo a prenderli quando gli inseguitori ci avranno sorpassato,» affermo Tasmin, senza che il minimo dubbio gli alterasse la voce.
Donatella si fermò sul sentiero per asciugarsi la fronte e per fissare le cinghie dello zaino. Avevano lasciato la maggior parte dell'attrezzatura insieme ai muli, portando con sé solo lo stretto necessario per la sopravvivenza. «E se non abbiamo ripulito bene le tracce che portano a quel boschetto? Se non ci cascano? Se trovano quella salitella?» «In tal caso avranno due muli in più e gran parte della nostra attrezzatura. Ma non ci avranno ancora preso. Adesso dobbiamo lasciare quante più tracce possibile prima di sera.» Camminare sulle false zampe di mulo non fu né facile né rapido. Nell'ora successiva controllarono due volte gli inseguitori, che si stavano avvicinando pericolosamente. La seconda volta Donatella li vide distintamente e abbassò il binocolo con un'espressione di inorridita sorpresa che non si degnò di spiegare. Tasmin non le disse nulla. Tentare di camminare come un mulo e contemporaneamente tenersi in equilibrio su false zampe di mulo richiedeva la più totale concentrazione. Non si erano ancora allontanati così tanto da tranquillizzarlo quando cominciò a farsi buio. «Non possiamo proseguire di molto, Donatella. Il terreno si sta abbassando. Se continuiamo ad avanzare ci potremmo trovare su un pendio scoperto quando ci raggiungeranno. Vorrei tanto sapere che cosa intendono fare. Farebbe una certa differenza...» Il suo cupo silenzio si interruppe con un fiume di parole. «Lo so io che cosa intendono fare. Uccidere. Torturare. Uno di loro è un uomo che conosco di fama, Tasmin. L'ho visto con il binocolo, l'ho visto chiaramente. Ho già visto quella faccia prima. So chi è.» La sua voce si spense, come se quel nome non si potesse pronunciare. «Dimmi,» le ordinò Tasmin. «Si chiama Geroan,» rispose lei. «Lavora per la BDL, per Harward Justin. È un assassino. Un assassino prezzolato.» «Come fai a saperlo?» «Lo ha conosciuto un mio amico. Lui mi ha parlato di Spider Geroan.» Donatella si era sbiancata in volto, per qualcosa di più che il semplice ricordo di ciò che le aveva detto un amico. Tasmin attese che proseguisse, ma lei si morse le labbra e rimase in silenzio. «Abbiamo il fucile,» le ricordò. «Non oseremmo servircene. Nel momento in cui lo usiamo, lui sarà certo che siamo qui. E ne abbiamo uno solo. Quelli probabilmente ne hanno sei o sette.» «È vero,» annuì Tasmin. «Hai ragione. Non possono sapere che siamo
qui. Non ancora. Non con certezza.» «È molto tempo che non vengo più da queste parti, ma non credo che davanti a noi ci sia qualcosa che può esserci d'aiuto. La valle diventa sempre più sterile man mano che si va avanti, e sempre più stretta. Sui lati non c'è nessuna via d'uscita, solo precipizi senza passi che li colleghino. Le uniche vie d'uscita sono alle nostre spalle, da dove siamo venuti, proprio dove sono adesso gli inseguitori, oppure all'estremità meridionale...» Il punto in cui si trovavano sembrava abbastanza brullo, un pendio di dura roccia ignea che sembrava non essere cambiata dal momento in cui era consolidata, a parte dei pochi e radi crepacci riempiti dal terreno. C'erano pochi alberi nani di Jubal, le cui larghe foglie tremolavano al vento pungente. Di tanto in tanto si vedevano delle venature di pietra più morbida e più chiara che correvano parallele al sentiero: pallidi strati sedimentari, il fondo di qualche antico mare, schiacciate fra gli strati di roccia più dura che si erano formati nel corso dei cicli geologici, aggiungendosi l'uno all' altro. Mentre avanzavano, queste venature si piegavano verso una parete sulla destra, dapprima bassa, poi sempre più alta, un affioramento striato e ondulato che si era formato nel punto in cui gli strati più soffici erano stati erosi, lasciando delle sacche di terreno in mezzo ai gradini di roccia più dura levigata dal vento. Mentre i suoi occhi e la sua mente cercavano un luogo in cui nascondersi, Tasmin meditò su quello che aveva detto Donatella, a proposito dell'uomo che lì stava inseguendo. La sua voce aveva tradito la paura, una paura assoluta, più di quanta sarebbe stato lecito attendersi al solo sentire ciò che aveva detto. Non si trattava solo del fatto che quell'uomo era un assassino. Tasmin fu lì lì per farle qualche domanda, poi si trattenne. Donatella era ancora impaurita, e parlarle in quel momento le avrebbe solo fatto peggio. Rivolse la sua attenzione alla pietra, concentrandosi su di essa, cercando qualcosa che il suo istinto di viaggiatore gli suggeriva dovesse esserci, da qualche parte... «Ferma,» gridò. Il sentiero curvava sulla destra attorno al pendio dove il vento aveva lavorato profondamente tra gli strati, formando crepacci orizzontali scuri e profondi. Uno di questi, leggermente al di sopra delle loro teste, era quasi del tutto nascosto da frammenti caduti dal costone soprastante. «Là,» indicò. Su un lato del costone si apriva un foro più grosso dei loro corpi, al quale si accedeva attraverso una scalinata di rocce franate.
Tasmin era già a metà strada sulle rocce quando Don ebbe una reazione sufficiente per andargli dietro ed era dentro la fenditura prima che lei avesse raggiunto il costone. «Vieni dentro,» le bisbigliò, preoccupato degli echi che la sua voce avrebbe potuto produrre. «Digrada verso l'interno, allontanandosi dal sentiero. Delle rocce sono rotolate fin qui. Aiutami a spingerne qualcuna verso l'uscita, in modo da restringere l'apertura.» Spostò una delle rocce verso Donatella, che si fece di lato per sospingerla più avanti. Dopo qualche minuto si erano ricavati uno spazio ristretto con sporgenze di roccia al di sopra e al di sotto, e frammenti di pietrisco tutt'intorno a loro. Il vento si infilava attraverso le fessure con gemiti striduli e l'ultima luce del giorno filtrava obliquamente creando una specie di spettrale disegno reticolare che illuminava il volto pallido e i grandi occhi angosciati di Don. «Quando arriveranno qui sarà buio,» disse Tasmin, stringendole la spalla con una mano. «Adesso esco e vado a creare delle altre tracce di muli, lungo la curva e anche più avanti. Potrebbero usare delle lampade per vedere il sentiero, ma nell'oscurità questa parete sembrerà compatta, come se il crepaccio fosse pieno di pietre.» Scivolò fuori e tornò al sentiero, cercando piccole chiazze di terreno sulle quali lasciare nitide impronte dei falsi zoccoli. Quando ebbe percorso quasi un chilometro giunse a una diramazione del sentiero e la seguì fino a dove moriva in mezzo alle rocce, che continuavano ad estendersi a perdita d'occhio verso sud. Quindi si mise in tasca i falsi zoccoli, si arrampicò lungo la parete e tornò strisciando fino al crepaccio, stando bene attento a non lasciare tracce visibili, ringraziando il vento che probabilmente aveva già cancellato quelle poche che ancora rimanevano. Lei lo aspettava con le pietre in mano, pronta a richiudere l'apertura alle sue spalle. Aveva già gonfiato i due materassini sulla pietra leggermente ondulata. «Grazie a Dio esistono i materassini gonfiabili,» mormorò. «Dovremo rimanere in silenzio, e sarà più facile con qualcosa di morbido sotto di noi.» La sua voce si ruppe in un singhiozzo ansimante. Tasmin la avvicinò a sé, quasi con violenza. «Sei stata strana fin da quando li hai visti,» le disse. «Fin da quando hai visto quell'uomo. Ci deve essere qualcosa di più che non mi hai detto.» Si distese sul suo materassino e la fece sdraiare accanto a sé, fissandola in volto. Un occhio era illuminato da un ultimo raggio di sole, un occhio lucido, pieno di lacrime. «Raccontami tutto» Lei ansimò, digrignando i denti. Tasmin vide il muscolo all'angolo della mascella tirato come una fionda.
«Devi dirmi tutto,» insistette. «Non credi che abbia il diritto di sapere?» «Avevo un'amica,» disse Don. «Una buona amica. Si chiamava Mechas, Gretl Mechas. Veniva dal Mondo di Heron. con un contratto del Dipartimento dell'Esplorazione. Non era un Esploratore, si occupava di approvvigionamento e contabilità. Era stata ospitata nel Priorato di Northwest perché lì c'era spazio disponibile. Ci siamo conosciute e siamo diventate amiche...» Tasmin attese, attese ancora, poi disse: «Vai avanti.» «Gretl venne a sapere che sua sorella, sul Mondo di Heron, aveva bisogno di qualcosa. Non mi ha mai raccontato di che cosa si trattasse. Sembrava un po' infastidita, anzi, di come quella ragazzina si fosse cacciata in qualche guaio Comunque aveva bisogno di denaro da mandare a casa. Allora andò a Splash Uno, al centro crediti della BDL. Avrebbe potuto sistemare tutto via comunicatore, ma Gretl era fatta così. Le piaceva fare le cose di persona.» «Sì.» «Quando tornò indietro mi raccontò che aveva incontrato Harward Justin. Si era fermato accanto al bancone mentre lei era lì ed aveva insistito molto per invitarla a pranzo. Mi disse che aveva rifiutato, e che lui non l'aveva presa bene. Avresti dovuto conoscere Gretl, Tasmin, per visualizzarla com'era. Era una donna che ti lasciava senza fiato. Gli uomini la corteggiavano, ma lei non li prendeva sul serio perché era innamorata di qualcuno, su a Heron. Quando me lo raccontava ne rideva. Disse che Justin assomigliava a un pesce rospo di Jubal, grasso e unto, e con degli occhietti terribili.. «Comunque, quando andò ad effettuare il suo primo pagamento le dissero che Justin aveva già pagato tutto al posto suo. Era debitrice a lui, di persona. Gli lasciò il denaro in una busta ma mentre se ne stava andando, quell'uomo - quello Spider Geroan - l'avvicinò e le disse che Justin la voleva vedere.» «Sì.» «Aveva una volontà molto forte, Gretl. Indomabile. Spider Geroan la portò nell'ufficio di Justin, nel palazzo della BDL. Justin le disse voleva essere rimborsato, e lei gli rispose che avrebbe pagato il suo debito nei termini pattuiti quando lo aveva stipulato, nient'altro. «Quando tornò era fuori di sé. Non l'avevo mai vista così infuriata prima. E mi raccontò quello che le aveva detto Justin. Le aveva detto che aveva saldato il conto, e che lei adesso gli era debitrice. E aveva aggiunto
che i suoi debitori dovevano ripagarlo, in denaro o in altro modo. Aveva anche detto che se lei non era interessata a lui, allora Geroan si sarebbe interessata a lei. E nel dirlo era scoppiato a ridere. «Mi raccontò tutto scuotendo la testa infuriata, ma incapace di credere a quell'uomo. Fece rapporto all'Ufficio del Priore e al Re Esploratore, sia di persona che per iscritto. Tecnicamente si trattava di una violazione del contratto di unione. Il contratto non ammette molestie sessuali... «Due giorni dopo fu ritrovata nel vicolo sul retro del Priorato, a Northwest, con la pelle tagliata a striscioline. La testa, il viso, ogni parte del corpo. I suoi abiti e gli effetti personali erano stati ammucchiati sopra la parte superiore del corpo. Solo gli abiti hanno consentito l'identificazione. Mi sono sforzata di credere che si trattasse di qualcun'altra, ma i vestiti erano i suoi. Nessuno avrebbe potuto riconoscerla. Chiunque fosse stato aveva strofinato qualcosa sulle ferite per impedirle di morire subito dissanguata. E poi l'aveva scaricata lì. Quasi fosse un messaggio.» «E tu pensi che sia stato Geroan.» «Ne sono certa. Sono andata dal reggente che indagava sulla sua morte e l'ho implorato di scoprire il responsabile. Gli ho detto che Harward Justin aveva cercato di ricattarla, e che l'aveva minacciata. Il reggente mi fece uscire dall'ufficio, mi portò a fare un giro e mi disse che se non volevo che la stessa cosa accadesse anche a me avrei fatto meglio a tenere la bocca chiusa. Era spaventato, Tasmin. Era fuori di sé per la paura. Mi ha detto che sapevano chi era il colpevole, che faceva quelle cose da anni, ma che non potevano toccarlo perché c'erano delle persone pronte a giurare che lui si trovava a Splash Uno nel momento in cui era avvenuto il delitto. Mi ha anche mostrato delle foto dell'uomo. Si chiamava Spider Geroan, mi disse, e lavorava per Harward Justin. Allora mi ricordai ciò che mi aveva detto Gretl. Non aveva voluto dare a Justin quello che lui voleva, così Justin aveva detto a Spider che poteva prendersela...» «Immagino che sia stata violentata,» disse Tasmin, a cui il dispiacere faceva ribollire lo stomaco. «No,» rispose Don con voce strozzata. «Niente di così normale come quello. A Geroan non interessa il sesso. Non gli interessa nemmeno dominare, che è poi il motivo per cui si commettono le violenze sessuali. No, il reggente ha detto che Geroan ha qualcosa che non funziona nel suo sistema nervoso. Non è in grado di provare dolore, e questo lo affascina. Guardare la gente che soffre è l'unico piacere che ha...» Donatella scoppiò in singhiozzi, scossa dal tremito, e Tasmin la prese fra
le braccia, avvolgendo entrambi con la coperta. Vi fu un rumore e i due si irrigidirono, tendendo le orecchie. Poi un altro rumore. Giù lungo il sentiero, da dove erano venuti, qualcuno stava gridando. Avevano trovato i muli? Tasmin rabbrividì. Perché altro avrebbero dovuto strillare così? Ascoltando quel suono. Tasmin provò solo paura, sentì la paura di lei, condivisa, il tremito di entrambi, i loro corpi freddi sotto la copertura frettolosa, i loro sensi tesi a cogliere il primo alito di suono che avrebbe preannunciato l'arrivo dell'avversario, del nemico, forse di Geroan, che si sarebbe servito di loro per un arcano e tenibile piacere, o forse di qualcun altro che era interessato semplicemente alla loro morte, e non alla particolare maniera in cui essa sarebbe stata procurata. Era stato preso dalla storia che lei gli aveva raccontato di Spider Geroan. Che cosa poteva pensare, o sentire, o ricordare un uomo del genere? Umiliava e degradava le sue vittime in modo da poterle disprezzare, facendo apparire il delitto una fine meritata piuttosto che una disprezzabile corruzione? Provava qualche sentimento nei loro riguardi? Ne conservava memoria? Provava un piacere fisico? Ed era temporaneo? Si verificava forse un tranquillo orgasmo mentale che sostituiva il piacere dei sensi? Dal momento che non poteva provare dolore, poteva però provare qualcosa? Come si faceva a comunicare con qualcuno che non provava niente? Sarebbe stato, pensò, come essere uccisi lentamente da una macchina. Supplicare sarebbe stato inutile. Il congegno era programmato per infliggere dolore, e non si sarebbe preoccupato di ciò che la vittima poteva dire o fare. Tasmin strinse forte i denti per impedirsi di tremare. Aveva sempre temuto il dolore. La sola prospettiva del dolore lo riempiva di orrore. Immaginava sangue, ferite profonde intrusioni negli organi e nelle ossa. La bile gli riempì la gola e lui deglutì, poi riuscì a dominarsi. Il suo modo di rapportarsi all'orrore era quello di non pensarci. Aveva visto studenti folli di paura per le Presenze correre direttamente verso di esse, e si chiese che cosa ci sarebbe voluto per sconvolgergli la mente e farlo comportare come loro. Aveva imparato a dominare pensieri del genere, e adesso lo stava facendo, li cancellava, si concentrava solo sulla quiete e sull'oscurità. Donatella ripensò al corpo della sua amica e si domandò se avrebbe avuto il colaggio di togliersi la vita prima di cadere nelle mani di Geroan. Il suo coltello era sotto il materassino, a portata di mano. Si strinse a Tasmin, pensando che gli avrebbe chiesto di aiutarla, di non permettere che cadesse prigioniera di quell'uomo. Il terrore si condensò in uno spasimo di tremore,
poi scomparve, lasciandola come svuotata. Il viso di lei era sepolto nella spalla di Tasmin, contro la sua pelle nuda, nel punto in cui la camicia si era slacciata sotto la tonaca da Cantore. La guancia era premuta sul suo petto, il respiro andava su e giù dolcemente nell'incavo del suo braccio facendogli fremere i peli, come al! soffio di un vento delicato. Quell'alito leggero giunse in un momento di vuoto che Tasmin aveva evocato, giunse come un ricordo, una collina d'estate, l'erba sotto di lui. gli alberi di Jubal lungo il costone, e lui stesso sdraiato con le braccia attorno a Celcy e la calda, umida brezza estiva che gli rinfrescava le ascelle. La testa di Celcy era sul suo petto, le sue labbra sulla sua pelle. Adesso, come allora. Tasmin sentì i peli muoversi in una danza tutta loro e rispose alla minuscola sollecitazione come aveva fatto allora, girandosi appena, e tirando ancora più a sé il corpo di Don, abbracciandola più forte. Una delle gambe di lei si infilò fra le sue, un'improvvisa, inattesa pressione erotica, e lui sollevò una gamba per la sorpresa, ponendola in intimo contatto con lei. La donna ansimò, e si irrigidì, e Tasmin avvertì il repentino calore fra di loro. Respiravano insieme, le labbra di Don che gli sfioravano la pelle, la mano che si muoveva per sfilare la camicetta. Poi la pelle dei suoi seni fu nuda contro quella di Tasmin, e i suoi capezzoli gli solleticarono il petto quando lei si tirò su armeggiando con la fascia che le cingeva la vita. Tasmin sentì che qualcosa gli sfiorava il ventre, mentre la fascia sericea che teneva fermi i pantaloni attorno al corpo snello della donna scivolava giù. Tasmin la intravide, con gli occhi semichiusi, un nastro scarlatto. Poi non vi fu più nulla fra la sua gamba e la collinetta pelosa del sesso di lei, a parte il tessuto dei suoi calzoni. Il sangue gli pulsava nelle orecchie. Chiuse gli occhi, non volendo vedere né pensare, desiderando essere capace di chiudere anche le orecchie e lasciare che quella sensazione crescente gli scorresse addosso nella silenziosa oscurità, con solo il prato illuminato dal sole che riempiva tutto lo spazio intorno a lui. Lei rimase in silenzio, si limitò a farsi un poco di lato per consentirgli di liberarsi dai vestiti, ma solo quel tanto che era necessario, senza dire niente. Non c'era tempo per altro che non fosse quello, non c'era tempo per altro, fra loro, che non fosse quella necessità, non c'era tempo per confessioni, né domande e nemmeno parole. Essi esistevano separatamente, in un luogo lontano dal tempo e dall'evento. I loro corpi scivolarono insieme in una spinta continua, a singulti, poi giacquero uniti, muovendosi appena, quasi non avvertendo la necessità di
spostarsi, mentre il più piccolo movimento, come se per droga o per capriccio, si amplificava fra di essi in un cataclisma di sentimenti. Solo lei spinse un poco, una sollecitazione minima del corpo, avanti e indietro, e i due si ritrovarono ad ansimare, privi di controllo, inesorabilmente prigionieri di un tremito ininterrotto che li sballottò su un'onda immensa di sensazioni, per lasciarli poi in balia della risacca, con il sangue che gli martellava nelle orecchie. «Ahhhh.» gemette lei in un bisbiglio quasi inudibile. «Ahhhh.» «Shhh,» Tasmin bisbigliò a sua volta. «Celcy...» La paura era scomparsa. Il suo corpo era smembrato. Provava un acuto dolore dietro le orecchie per gli spasmi che gli avevano serrato il collo e la mascella in una morsa smisurata, ma anche quello sembrò remoto e privo di importanza. Poi vi fu il suono di una voce, il rumore di pietre schiacciate, e la visione di prati devastati, mentre i suoi occhi si riaprivano di scatto. Ciò che sentivano era il calpestio degli zoccoli, e una voce che imprecava monotonamente. I loro corpi giacevano flaccidi, senza ossa, come due esseri impastati in un'unica creatura, una creatura appena cosciente. Attraverso una fessura fra i sassi ammucchiati, socchiudendo gli occhi, Tasmin poteva vedere un tratto buio del sentiero che si estendeva nella direzione in cui erano venuti. Una fila di muli. Due Esploratori, uno dei quali a piedi, intento ad esaminare il sentiero con una lampada, poi l'uomo che Donatella aveva detto essere Spider Geroan, con un altro cavaliere subito dietro, scuro e silenzioso come un'ombra. Quindi la colonna di muli senza carico. Passarono in uno strascinare di piedi e di zampe, facendo scricchiolare il pietrisco. Ancora più indietro, a una certa distanza, avanzavano un uomo calvo e una donna stanca, con il trucco sfatto. Gli ultimi zoccoli si avvicinarono, sfiorarono il costone con un rumore secco di pietre infrante e fatte rimbalzare fra loro, poi proseguirono verso sud. La voce che avevano sentito prima imprecò di nuovo, in modo insistito. La donna rispose, in tono secco e lamentoso, brontolando col suo compagno sulla durezza del cammino. Le loro voci si persero oltre il contrafforte roccioso. Il dolore nella testa di Tasmin era scomparso, lasciando dietro di sé una specie di vuoto. Il corpo di Don aderiva al suo come una mano chiusa a pugno, e lui sì mosse di nuovo, questa volta lentamente, languidamente, sollevandola e sostenendola con le braccia mentre scivolava via da lei, poi la rigirò, si voltò a sua volta e la tenne stretta mentre le montava sopra e la
penetrava. L'ondata venne di nuovo, alta e spumeggiante, trascinandoli entrambi con sé negli abissi oscuri di uno strano oceano. La prima volta era stata Celcy. Questa volta non fu nessuno. Tasmin cercò un nome e non riuscì a trovarne uno, mentre gli venivano in mente parole senza senso, rime balbettanti, suoni infantili. Forse il nome che cercava era una parola esotica in qualche lingua straniera, una domanda senza risposta. «Mmmm,» sospirò lei. Non sapeva chi fosse. Chi fosse lei e nemmeno chi fosse lui stesso. Dormirono come li aveva lasciati il loro momentaneo appetito, svestiti, abbracciati l'uno all'altra, muovendosi piano mentre la notte lasciava il posto all'alba, che li trovò ancora vicini, ma separati. Quando Tasmin si svegliò provò una strana dicotomia, una pace del corpo che non sentiva ormai da mesi unita a un'angoscia che sul momento non riuscì a spiegarsi. Quando vide chi giaceva accanto a lui, sia il corpo che la mente ebbero la risposta. Don aprì gli occhi e vide quelli di lui che la fissavano con aria di rimprovero. «Non siamo morti,» disse la donna in risposta all'accusa inespressa. «Pensavo che questa mattina sarei stata morta.» La prima reazione di Tasmin fu un fremito di avversione, un sentimento molto simile al senso di colpa, ma passò mentre ripeteva a se stesso il nome di Donatella, lasciandosi dietro solo un debole residuo di dolore. «Pare che ti dispiaccia,» mormorò, sentendo che una risata isterica gli nasceva dentro. «Ah. Donatella, mi sembri un po' delusa.» Lei avvampò. «Non è quello. È solo che...» Tasmin ebbe un empito di partecipazione. «Non avresti voluto... lo so. Neanche io. Eravamo convinti che stavamo per morire. O forse lo erano i nostro corpi. Be'... è successo. Dimenticalo.» Vi fu silenzio. Lei sembrò riflettere su quelle parole. «Sì Credo che tu abbia ragione. Non importa ciò che ho fatto. Non avrò mai bisogno di spiegarlo, non a me stessa, non a chiunque altro, perché non ci sarà domani...» Tasmin non riuscì ad impedirsi un'obiezione irrazionale. «Non vorrei sembrarti petulante, ma ti ci voleva proprio quello per convincerti a fare l'amore con me?» Tentò di sorridere per smussare il senso di ciò che aveva appena detto, ma l'offesa alla sua vanità rimase. Incredibile! Era offeso perché una donna che conosceva appena sentiva di dover spiegare il senso
del suo comportamento con lui. «Tu lo sai bene,» gli disse a brutto muso. «Soprattutto tu! Non mi ci voleva quello per convincermi a fare l'amore con te. Non abbiamo veramente fatto l'amore, Tasmin, e insieme a me non c'eri tu. Erano anni che non facevo più l'amore. Non l'ho più fatto da quando...» «Da quando?» «Da quando c'era Link.» Don si mise a sedere, avvolgendosi nella coperta mentre cercava a tastoni i vestiti sparsi dappertutto, accucciandosi per darsi una sistemata alla meglio. Trovò la camicetta e la tirò a sé, poi cercò la fascia. «Non eravamo amanti occasionali, Link e io. Eravamo entrambi Esploratori. Colleghi. Amici. Per lui non c'è niente di più, e nemmeno per me. Davvero, non c'è.» «Mi sembra che tu abbia parlato di quell'uomo, come si chiama? Quell'addetto ai servizi?» «Zimmy? Zimmy era solo... come andare dal parrucchiere. Quando le cose ti girano storte. Quando c'è qualcosa che non va. Era bravissimo per questo, Zimmy. Con lui non è stato amore, ma mestiere. Tecnica. Non era come fare l'amore.» «E nemmeno ieri sera.» «In un certo senso lo è stato.» «Solo in un certo senso?» Il suo orgoglio irrazionalmente ferito stava cedendo alla curiosità. Donatella gli rivolse una lunga, decisa occhiata. «In un certo senso perché mi sono dimenticata che non sei Link. Tu non sei Link, Tasmin. Tu sei un bell'uomo e, credo, un caro amico, ma non sei Link.» «E tu non sei Celcy,» replicò luì, desideroso di penetrare in quel meccanismo di autodifesa, forse di ferirla, appena un po'. «Celcy è morta,» disse Don con voce piatta. «Devi dimenticarla. Una parte di te lo sa, Tasmin. Per quanto tempo ancora rimarrai sposato con Celcy? Mi hai chiamato con il suo nome, lo sai. Per quanto tempo continuerai a permetterti di fare l'amore solo fingendo che sia con Celcy? C'è qualcun altro, lo sai. Clarin, per esempio. È innamorata di te.» «Non essere ridicola,» disse lui, facendosi strada in mezzo alle pietre che li avevano nascosti. «È solo una bambina.» «Una bambina un cavolo. Quanti anni ha? Diciotto, diciannove?» Scivolarono verso il sentiero, sistemandosi le scarpe e le cinghie. «E tu quanti ne hai? Hai la mia età, più o meno? Sulla trentina?» «Trentadue.»
«Non è una bambina,» mugugnò Donatella. Lui rifiutò quel discorso. Non aveva nessuna intenzione di dimenticare Celcy! «Non hai bisogno anche tu di dimenticare Link e di continuare a vivere?» «No!» Il grido le uscì incontrollato, le mani si disposero in un gesto di difesa, quasi a chiedergli che ritirasse ciò che aveva detto. «È vivo. Se solo potessi portarlo su Serendipity, se potessi permettermi la spesa, potrebbe essere sottoposto alla rigenerazione. Tutto quello che ha reso Link ciò che è, è ancora lì dentro. È il suo corpo che non gli permette di uscire. Non è la stessa cosa che se fosse morto!» Tasmin provò un'ondata di trasporto. «Denaro? È tutto lì, il problema. Ecco a che cosa si riduce l'amore, a volte. Ci vuole una fortuna per trasportarlo su Serendipity, e tu non l'avrai mai. Ci vuole una fortuna anche per portare mia madre cieca a Splash Uno e pagarle la cura, e io non ho quel denaro. Così il tuo Link ne sta su una sedia a rotelle e mia madre non può vedere niente.» Non aveva più voglia di parlarne. «Ti è mai passato per la mente che se ce la faremo, se riusciremo a dimostrare che le Presenze sono senzienti, probabilmente verremo trasferiti su Serendipity? Per poi andare da qualche altra parte, se non altro. Tutti noi, tutti gli esseri umani di Jubal. Compreso il tuo amico Link, no? E mia madre.» Lei sembrò colpita. «Io... non ci avevo mai pensato.» «Dovremo sempre pagare la cura, ma almeno ci troveremo in un luogo in cui è disponibile.» Rise, in modo un po' rauco ma non senza soddisfazione, nel vedere che l'espressione di Donatella, che prima dimostrava interesse per lui, mutava rapidamente in confusione e sgomento, e infine in aperta irritazione. «Oh, Dio, Tasmin, ma che ne parliamo a fare?» «Proprio così,» mormorò lui fra sé e sé, lieto di abbandonare quell'argomento di discussione. Clarin! Fra tutte le sciocchezze... «Non ce la faccio ad affrontare tutto questo,» continuò Donatella. «Forse domattina non saremo nemmeno più vivi. Dobbiamo raggiungere l'Enigma e Terrafonda Cinque. Ci vorrà mezza giornata per andare a riprendere i muli e tornare dove eravamo, e adesso loro sono davanti a noi.» Alzò le braccia e si infilò lo zaino, poi si mise in cammino lungo il costone roccioso. «Sì, ma ancora non lo sanno,» disse Tasmin, seguendola un passo indietro. «Il che ci dà un vantaggio sia pur minimo, Donatella. Credo che sia
venuto il momento di lasciare questa valle e puntare dritti sull'Enigma.» «Dobbiamo comunque tornare indietro a prendere i muli, e verso est ci sono degli itinerari. Però non sarà un passaggio facile. Non esistono chiavi d'accesso per gran parte di questa regione, verso est. Lascia che ci rifletta sopra.» Si strofinò la fronte. «Quando avremo recuperato i muli darò un'occhiata alle carte.» Lui annuì, sistemandosi le cinghie dello zaino in una posizione più comoda. Il sentiero scendeva verso il punto in cui avevano nascosto i muli. E i muli sarebbero stati riposati. Se andavano verso est... «Speriamo che Jamieson e Clarin riescano a contattare Thyle Vowe.» «Tu stai riponendo una grande speranza in una coppia di ragazzini,» gli disse lei sarcasticamente. «Clarin non è una ragazzina,» rispose Tasmin in modo assente, rendendosi conto solo dopo di ciò che aveva detto. In quel momento Clarin e Jamieson stavano rientrando nella valle, con l'aria sconfitta e avvilita. Clarin piangeva apertamente, lacrime di stanchezza e di frustrazione, e il volto di Jamieson tradiva un'emozione simile, anche se più controllata. «Non li raggiungeremo mai,» disse lei, disperata. «E adesso gli inseguitori sono fra noi e loro.» «Noi sappiamo dove stanno andando,» ribatté Jamieson. «Perciò li incontreremo là. Oppure arriveremo a Terrafonda Cinque e chiederemo al Mastro Generale di aiutarci in qualche modo. Non lo so, Clarin. Vorrei tanto che smettessi di piangere.» «Sono stanca! Non abbiamo mai dormito, da quando abbiamo lasciato Tasmin e Don, ed è inutile far finta che sia fresca e riposata e di buonumore. Ho anche paura. Dio, Jamieson, con quello che abbiamo scoperto, non ne hai anche tu? Piangerò ancora un po' e scaccerò la paura dal mio sistema nervoso. Un buon pianto vale quasi quanto una buona notte di sonno.» «Per me è molto difficile controllarmi, se fai così. Mi accorgo che vorrei abbracciarti.» «Abbraccia il muso di un uccello volteggiante,» replicò lei con durezza, asciugandosi il volto con le mani sporche. «E da quando?» «Oh, non lo so,» rispose lui, tenendosi sul vago. «Sei un tipo abbracciabile.» «Non da te, Jamieson.» Lui si girò, in modo che Clarin non potesse vederlo in faccia. «Stai pensando ancora a lui, vero?»
«Non so di che cosa tu stia parlando.» «Lo sai benissimo, invece. Stai sprecando il tuo tempo, Clarin. Lui stravedeva per la sua mogliettina quando era viva, e stravede ancora per lei.» Clarin sospirò e si pulì il viso sulla manica. «Va bene, Reb. Detto fra noi, è vero, ho perso la testa per quell'uomo. È un po' rigido, non ha un gran senso dell'umorismo, e certe volte penso che al posto della pulsione sessuale abbia una partitura da Cantore. Ma quando parla è come se mi leggesse la mente.» «Tu sei ciò che lui avrebbe voluto avere, Clarin. Ma non ha avuto. Invece aveva una ragazza che non capiva mai quello che gli passava per la testa. Tu non l'hai mai conosciuta, ma io sì.» «Com'era?» «Era come... assomigliava molto a Wendra Gentrack. Appetibile. E dolce. Come un cucciolo di animale, morbida e giocherellona. Un po' paurosa. Non si interessava di molte cose. Era una buona cuoca, ed era molto bella. Conosceva un solo modo di comportarsi, con gli uomini, faceva la civetta. Niente di serio, però. Si pavoneggiava pure con me, e io non sono nessuno.» «Non direi proprio,» obbiettò lei dolcemente. Jamieson scosse la testa per falsa modestia, e proseguì: «Ciò che voglio dire è che c'era tutto questo impellente desiderio di prendersi cura di lei, anche quando non ne aveva bisogno. Ti faceva una risatina o un sospiro, come un bambino, e tu ti sentivi il petto rigonfio di fervore protettivo.» Si mise a ridere. «Non come te, Clarin. Non era indipendente.» «No, io non mi sono mai sentita accorta di suscitare alcun fervore protettivo.» «Lei non era capace di avere un buon rapporto con le donne... stava sempre con gli artigli snudati. E quella era paura, secondo me. Vedeva in ogni donna dagli otto agli ottanta anni una potenziale avversaria. Il povero Mastro Ferrence doveva uscire di nascosto per andare a trovare la madre, approfittando di un momento in cui lei era distratta. Io sono sempre stato contento che a Terrafonda Cinque non ci fossero Cantori donne, perché gli avrebbe reso la vita un inferno.» «Adesso è morta.» disse Clarin. «Sembra brutto, ma è la pura verità. Reb. È morta. E non farà ritorno dal fondo dell'Enigma. Non c'è più. E lui alla fine se ne renderà conto. Se pure c'è qualche possibilità. Continuo a dimenticarmi che potrebbe non esserci...» «Hai in mente di essere con lui quando gli succederà?»
«Se qualcuno di noi sarà ancora vivo, ti ci puoi giocare i cosiddetti che lo voglio.» Riuscì a sorridere tristemente, poi si irrigidì. I suoi occhi avevano colto un movimento impercettibile, giù in fondo alla valle. «Dammi il binocolo,» gli disse con un gesto imperioso. «Presto!» Andò in cerca della radura in cui aveva notato quel movimento. «Sono loro,» disse, incredula. «Tasmin e Don.» «Da soli?» «Da soli. E a piedi. Stanno tornando da questa parte. Devono aver nascosto i muli. O forse li hanno persi. Oppure lassù la strada è bloccata come lo era la nostra.» Incitò il suo mulo stanco al piccolo trotto. «Vieni con me, novizio. Non siamo soli come credevo.» Il rapporto di Jamieson a Tasmin sul loro tentativo di trovare un passaggio libero verso occidente rese chiaro che essi non avevano altra scelta se non quella di tornare indietro. «Eravamo circondati,» spiegò rabbiosamente Jamieson. «Abbiamo tentato tre strade verso ovest, e in tutte e tre abbiamo trovato accampamenti di soldati. Guardie, sentinelle e tutto il resto. Avevano anche dei rivelatori di persone di qualche tipo. Per poco non ci hanno scoperto!» «Ogni soldato era armato fino ai denti,» aggiunse Clarin. «Abbiamo immaginato che Justin avesse l'esercito in mano, e adesso ne siamo sicuri. Metà della guarnigione è accampata fra noi e la Costa di Terrafonda. C'erano anche degli Esploratori, con loro. Ieri sera Jamieson ha spiato un gruppo.» «Stavano parlando di mettere sotto scorta gli itinerari che portano alle Presenze.» disse Jamieson. «Con l'eccezione delle carovane regolari di brou, chiunque diriga verso occidente pare che verrà fermato. I soldati discutevano con gli Esploratori se fosse o meno accettabile, in tutta l'operazione, qualche saccheggio e qualche violenza. Gli Esploratori erano davvero molto tesi, se ne stavano seduti uno vicino all'altro, e si vedeva che in qualche modo erano turbati. Lì qualcuno ci rimetterà la pelle!» «Come mai gli Esploratori si sono lasciati coinvolgere in tutta questa storia?» «Ho avuto l'impressione che non sapessero bene ciò che stava succedendo, Mastro Ferrence. Sono stati assoldati per accompagnare i soldati perché non c'erano Cantori disponibili.» «Non c'erano Cantori disponibili!» L'esclamazione di Tasmin fu un puro riflesso. I Cantori erano sempre disponibili!
Clarin sospirò. Sembrava esausta, e i riccioli umidi le contornavano le guance e la fronte. «Ovviamente Thyle Vowe ha fatto sapere a tutte le cittadelle che i Cantori non devono collaborare con l'esercito. Forse la voce non è ancora giunta all'interno, ma Vowe ha avuto tutto il tempo per bloccare la Costa.» «Questo spiegherebbe ciò che è successo,» convenne Tasmin, pensieroso. «Ascoltami, Tasmin.» disse Clarin con voce tremante. «Ancora non ti abbiamo detto il peggio. I soldati non facevano che parlare dell'attrezzatura che avevano con loro.» «Attrezzatura da demolizione,» spiegò Jamieson. «Proiettori di rumore bianco ed esplosivi chimici con diversi congegni di propulsione. Ho curiosato un po' in giro mentre Clarin cantava lungo un canyon per allontanarli. Sembrava proprio di sentire venti Cantori in un viaggio di tirocinio attraverso le Pazzie. I soldati hanno creduto che ci fossero almeno una dozzina di Cantori femmina, e così quegli stupratori putativi si sono subito lanciati all'inseguimento.» «Clarin!» esclamò Tasmin. «Che cosa è successo?» «Sono finiti addosso ad alcuni Piccoli e circa la metà di loro sono morti,» rispose la ragazza con una calma che contrastava con il tremito delle mani e le labbra esangui. «Io mi trovavo proprio sopra di loro, su una specie di balaustra alla quale ero arrivata usando la macchina di Don.» «Questo mi ha consentito di avere molto tempo a disposizione,» riprese Jamieson, che non riusciva a frenarsi. «Ho esaminato con attenzione l'attrezzatura che avevano con loro, e sono anche riuscito a portare via una copia della loro mappa.» La sfilò da una delle profonde tasche della tonaca e la aprì sul terreno di fronte a loro. Era una mappa satellitare dell'area che si stendeva da Terrafonda Cinque verso est fino alla Costa di Terrafonda, e in direzione ovest e sud, lungo il profilo costiero, fino alla Sporgenza. «Justin non ha intenzione di perdere tempo,» disse Clarin indicando i contrassegni sulla mappa. Gli Osservatori, i Sussulti, Il Deserto Strisciante, la Gola della Follia - e la lista poteva continuare all'infinito - erano tutti segnati per essere distrutti, con una linea di marcia che correva da un luogo di demolizione al successivo man mano che la strada veniva ripulita. Non ci sarebbe più stato bisogno di Cantori! Non ci sarebbe stato più niente, sulla loro strada! Tasmin rabbrividì. Sentì improvvisamente freddo, come se qualcuno avesse programmato anche la distruzione del suo stesso corpo. Non appena
rese note le conclusioni della Commissione, Justin si sarebbe messo subito in movimento! Don interruppe rabbiosamente le sue riflessioni. «Ho riconosciuto la voce di quella donna sul sentiero, ieri sera. Si chiama Sells. È una specie di pezzo grosso, fra i Cristalliti. L'ho sentita una volta nel loro tempio di Splash Uno. Che ci farà insieme a Geroan?» «Be',» rispose lui, «lo sai che Geroan lavora per Justin. Credo se ne possa dedurre che anche i Cristalliti lavorano per Justin. Forse lo hanno sempre fatto.» «I Cristalliti!» «Immagino che Harward Justin abbia organizzato l'idea della Commissione ancora prima del Massacro della Sporgenza,» disse, «Il massacro è stato semplicemente lo sparo d'apertura nella guerra della BDL, l'"incidente" drammatico di cui aveva bisogno per riaprire la questione dell'intelligenza.» «È un mostro! Tutta quella gente...» «Credi che a Justin gliene importi qualcosa? Dopo tutto quello che mi hai detto di lui?» «È lui in cima alla lista?» «Su Jubal certamente sì.» Anche alla mia lista personale, pensò Tasmin. «Il che per il momento non ci aiuta.» Fece un cenno a Jamieson e a Clarin. «Avete fatto un buon lavoro. Non siate così scoraggiati.» «Adesso non so più che fare,» sospirò Clarin, poi sospirò ancora, posandosi la mano sulla tasca, e mettendosi a piangere come una bambina. «E ho perso anche il mio topolino.» Alzò lo sguardo verso Tasmin, desiderando in quell'istante che fosse capace di farlo reagire come evidentemente aveva saputo fare Celcy. Un po' di conforto, un po' di protezione le avrebbero fatto davvero bene. Tasmin fece per allungare la mano verso di lei, poi si fermò, prendendosela con se stesso, e con Donatella. Adesso non poteva abbracciare Clarin, non dopo quello che aveva detto Don. L'intera faccenda era ridicola. Non c'era posto nella sua vita per Clarin, non adesso, non quando un mondo intero era sull'orlo del disastro. Clarin si voltò, confusa dall'espressione sul volto di Tasmin, un rifiuto che lei non aveva fatto nulla per provocare. Ricacciò indietro le lacrime e si allontanò da loro, notando appena l'ironica piega delle labbra di Donatella. Jamieson la seguì, restandole accanto mentre guardava indietro lungo la valle, nella direzione dalla quale erano venuti.
«Hai bisogno di un po' di sonno, signora.» Clarin non fece nemmeno caso al volto desideroso del ragazzo, si limitò a rispondere alle sue parole «Amen, Reb. Sonno. E due o tre altre piccole cose che mi vengono in mente.» Alle loro spalle la voce di Tasmin le giunse con la consueta intonazione pragmatica, come se fra loro non ci fosse un turbine di sentimenti in ebollizione, come se non ci fosse crisi, nessuna minaccia imminente, nessun assassino alle loro calcagna, nessuna mappa delle distruzioni, niente di niente che contasse qualcosa. «Riposatevi un po', voi due. Nei prossimi giorni sarà difficile riposarsi. Don e io abbiamo scelto un itinerario per uscire da questa valle. Dopo quello che ci avete detto non possiamo perdere altro tempo. Dovremo puntare subito sull'Enigma.» CAPITOLO QUATTORDICESIMO L'ufficio del Gran Mastro nella torre della Cittadella di Splash Uno era una specie di zona disastrata... o così pensò Thyle Vowe, guardandosi intorno. «Non si potrebbe togliere un po' di questa roba?» chiese lamentosamente da sopra il mucchio di cubi, appunti manoscritti e pacchi di lettere ammucchiate alla meglio. Gereny Vox alzò gli occhi dalla scatola che stava impacchettando. «Certo che si può, se non sei interessato ad avere documenti sui quali basare in seguito un processo. Anzi, possiamo benissimo bruciare tutta la stanza e liberarcene.» «Comunque è tutto nei computer,» ribatté lui, dubbioso, senza davvero crederci. «Ne sei sicuro? Sei sicuro che Justin non abbia una talpa, qui nella Cittadella, da qualche parte, che cancelli ogni informazione indesiderata per evitare che venga fuori in futuro? Ascoltami, Thyle. Se io ho scoperto dei Cristalliti che lavoravano nelle mie stalle, ci possono benissimo essere una o due talpe, qui nella Cittadella, che riferiscono tutto. Credimi. In ogni caso ho quasi finito.» «Dove avete deciso, tu e Jem, di sistemare la roba?» «Abbiamo trovato un magazzino vuoto per il brou, nella zona portuale di Tallawag. È abbastanza a nord di Splash Uno per non dare nell'occhio, e abbastanza vicino da poterci nascondere là per un po', se sarà necessario» «Un magazzino vuoto? Sono più rari della carne rossa! Come hai fatto a
trovarlo?» «Be', è successo che qualcuno che sta dalla nostra parte ha un po' pasticciato con le registrazioni di qualche archivio. Secondo quanto risulta dall'archivio dei beni mobili della BDL, il posto è pieno di attrezzatura obsoleta. Secondo quanto risulta dall'elenco dell'attrezzatura, è pieno di brou secco. Per quanto riguarda l'archivio con la lista delle spedizioni di brou, è stato svuotato dopo l'ultimo carico. Entro un paio d'anni forse i contabili riusciranno a mettere un po' d'ordine, ma a quel punto non avrà più molta importanza. In questo momento c'è l'archivio del mio allevamento di muli, quello dell'Agridivisione di Jem, e altre cose che lui o Rheme Gentry ritengono importante tenere al sicuro - comprese almeno sei copie di tutte le prove di cui Rheme è riuscito a impossessarsi nell'ufficio del Governatore - insieme ai fucili per stordire che abbiamo sottratto dall'armeria e a tutti i cubi di credito che siamo stati capaci di stornare dallo stanziamento per le truppe. Là fuori ci sono persone potenti e corruttibili, Thyle. È triste vedere come si è ridotto il mondo.» «Sei in gamba, Gereny,» disse lui, ammirato. «Proprio in gamba. Tu e Jem siete una bella coppia. E la BDL vi ci paga pure sopra.» «Siamo una coppia di vecchi muli, ecco quello che siamo,» ribatté la donna, rilassata. «Solo perché la BDL ci passa la pagnotta, non significa che non possiamo prenderla a calci nel sedere, se se lo merita. Forse non riusciremo a trovare la prova che le Presenze sono senzienti, e sono convinta che Don stia proprio tentando di fare questo, ma quant'è vero Dio dimostreremo la corruzione. A proposito, sai niente di Don?» «Quel poco che basta per essere preoccupato.» «Quella tua ragazza ti ha passato qualche informazione?» «Nemmeno una parola. No, ho mandato un paio di Cantori su per la via del Dente Rosso il giorno dopo che ci abbiamo spedito Tasmin Ferrence. Hanno trovato dei corpi, più di quanti avrebbero dovuto essercene, ma nessuno di cui ci dovessimo preoccupare. Hanno trovato anche delle tracce, dirette proprio verso la Catena. Le tracce di quattro persone. Immagino significhi che Don Furz è in buona compagnia.» «Renna compresa.» «Sono un po' in pena per lei,» le confessò Thyle. «Be', e allora perché hai imbarcato proprio tua figlia in un'impresa folle come quella?» «Perché era insieme a Tasmin e all'altro suo novizio, e perché secondo te c'erano solo tre o quattro Cristalliti di cui preoccuparsi, e non una dozzina
di assassini, come è risultato dalle tracce lasciate, e perché Renna e io eravamo d'accordo che nessuno avrebbe dovuto sapere che è mia figlia. Pare che le renda la vita più difficile. Le ho dato la mia parola. Ha cominciato a farsi chiamare Clarin e si è trasferita da Northwest, dove la gente la conosceva. Clarin si chiamava sua madre, la mia Principessa. Hai visto che cosa hanno fatto ai suoi capelli quei pagani, giù a Terrafonda Cinque? Aveva i capelli più belli...» «Se non vuoi che taglino i capelli ai novizi, tutto ciò che devi fare è dirlo ai responsabili delle cittadelle. Pensi che le sia successo qualcosa?» «No,» rispose lui di malavoglia. «No, non lo penso. Tasmin è intelligente. E quel Jamieson è più intelligente di due Tasmin messi insieme. Sarebbe capace di aprirsi la strada con il canto fino alla Torre Nera in piena notte e con un vento furioso. E anche Renna non è una sciocca. No, penso che si siano stati costretti a penetrare nella Catena e che siano imbottigliati là dentro. Ma alla fine riusciranno a raggiungere una Cittadella. Spero che abbiano il buon senso di restare lì finché tutto questo non sarà passato.» Vowe si immerse in una silenziosa comunicazione con i suoi pensieri, spostando carte da una pila all'altra finché Gereny gli domandò: «Lo sapevi che il carcere militare è stato trovato vuoto e che gli elementi più pericolosi sono scomparsi insieme alla maggior parte delle truppe regolari e a un grosso carico di armi?» «Sì, me lo ha detto il capitano Jines Verbold. È venuto a casa mia, quasi furtivamente per non farsi vedere da nessuno, e ha detto che era successo senza che lui lo sapesse né avesse collaborato, e io gli credo. Verbold sostiene che i suoi uomini sono gli unici rimasti in zona, e che gli bastano appena per tenere a bada i Cristalliti... cosa che aveva appunto ordine di fare. Il colonnello Lang sta mostrando la sua vera faccia, Gereny.» «E allora, che cosa hai intenzione di fare?» «Ho messo in allarme ogni Cittadella. Ho sospeso tutti i Cantori, in modo che nessuno possa servirsene per andare in qualsiasi luogo. Il problema è, Gereny, che sui Cantori non c'è stata nessuna pressione. Il che significa...» «Il che significa che Justin immagina di non averne bisogno, giusto?» «Non ne ha bisogno e non li vuole. È così che la vedo, sì. Perciò ho spedito Cantori un po' qua e un po' là, quelli con i migliori punteggi alle esercitazioni di tiro, e ho anche fatto distribuire dei proiettori di rumore. La mia opinione è che questa è una regione molto impervia, e che quei soldati non fanno azioni militari da moltissimo tempo Un uomo che sappia spara-
re bene dovrebbe riuscire a farne fuori un bel po', non credi? A fare esplodere qualche Piccolo proprio sopra di loro. In modo da frenarli.» «Frenarli può darsi, ma non credo che riuscirai a fermarli.» «No, Gereny, nemmeno io. Per riuscirci avremo bisogno di aiuto.» «Il tuo capitano ti ha detto che le truppe avevano degli Esploratori con loro?» Il Gran Mastro aggrottò la fronte. «Chase Random Hall ha le mani legate da un bel po' di tempo. Probabilmente ha richiamato qualcuno alla lealtà, gli ha raccontato qualche bugia. Alcuni sciocchi, fra gli Esploratori più giovani, pensano che la lealtà conti più del buon senso.» Thyle fece scorrere le mani sui capelli bianchi e sospirò. «Hall è da anni il loro rappresentante, li ha venduti su quasi tutte le richieste, eppure continuano a votarlo ed a pagargli il tributo di fedeltà. C'è da chiedersi che cos'abbia certa gente al posto del cervello.» «Rheme sta cercando di inviare un messaggio fuori sistema per chiedere l'invio di una nave con armamento pesante, è vero?» «Altrimenti perché ci staremmo preparando ad evacuare la Cittadella, Gereny? Mettiamo che il CSP decida di avere prove sufficienti sulla corruzione, tali da farsi venire lo scrupolo di chiedere le dimissioni di Justin e del Governatore. Fino a non molto tempo fa, Rheme non ha fatto che raccogliere una quantità di informazioni, e immagino che a questo punto il CSP possa ritenere di avere prove in abbondanza. Mettiamo che Justin o Wuyllum o tutti e due diano ordine all'esercito di difenderli, e che si rifiutino di andarsene. Sarebbe sciocco da parte loro, ma comunque potrebbero farlo.» «Non il Governatore. Rheme dice che si sta preparando a partire. Può farlo da un momento all'altro.» «Bene, allora diciamo Justin. Mettiamo che Justin si barrichi e non voglia andarsene. Sarebbe da lui. Mettiamo poi che il CSP decida di spazzare via la BDL. tanto per dare una dimostrazione. Se dovesse succedere, io non voglio trovarmi qui nella Cittadella, praticamente porta a porta, a fissarmi l'ombelico prima di tirare le cuoia.» «Non è un brutto ombelico,» osservò Gereny, con aria sarcastica. «Ce ne sono altri, che mi piacerebbe guardare.» ribatté lui. dandole un pizzicotto. «Vecchio sporcaccione,» disse lei, scherzosamente. «Be', se vuoi passare qualcuno dei tuoi anni di vecchiaia dando la caccia alle donne, sarà meglio che tu finisca di sistemare questa pila di carte e mi dica che cosa dobbiamo
tenere.» Infilò in una scatola un'altra cartella e la scrollò per sistemarne il contenuto. «E sarà meglio che cominci a pensare a delle scuse davvero buone, se vuoi spostare tutti senza che Honeypeach si insospettisca. Lei tiene d'occhio questo posto come se fosse un uccello volteggiante, e da tre giorni noi siamo morti.» «Lo so che lo fa,» disse lui sconsolato. La stretta sorveglianza che Honeypeach esercitava sulla Cittadella di Splash Uno era da sempre una delle sue maggiori preoccupazioni. «Pensavo che per quando dovremo spostarci lei se ne sarà già andata. E che dovremo muoverci proprio all'ultimo minuto. Ammesso che ci sarà un ultimo minuto.» Vivian Ferrence giaceva sul materassino gonfiato sopra uno strato di cassette di legno, sul fondo di un carro di brou, con il piccolo Miles che le rimbalzava sullo stomaco. Il viaggio durava da molti giorni, e le angosce di Splash Uno cominciavano a lasciare il posto a sensazioni meno dolorose, pur se in un modo irregolare e imprevedibile. Non doveva più preoccuparsi ogni giorno per il pasto di Miles. Il cibo fornito dal cuoco era monotono ma sufficiente. Pane schiacciato. Fagioli o formaggio, o formaggio di fagioli. Pesce secco o carne. Una piccola razione di verdure e frutta fresca. Ogni quattro o cinque giorni un pezzetto di carne arrosto, quando veniva macellato uno dei bantigon trasportati in una cassa sul retro del carro cucina. C'era anche il latte per Miles, artificiale e ricostituito, ma tuttavia ricco delle giuste sostanze minerali. E poi c'erano i biscotti. Brunny, il cuoco di viaggio, aveva una particolare predilezione per bambini, e i biscotti sembravano materializzarsi dal nulla ogni volta che Miles zampettava intorno al carro cucina dopo pranzo, o durante le soste serali. Durante la notte c'erano le pacifiche stelle e il sonno, migliore di quanto fosse mai stato negli ultimi tempi. Di giorno si intonavano canti e si inneggiava alla gloria delle Presenze. Vivian non aveva avuto paura. Anche considerando come era morto Lim, lei non aveva avuto paura. La sua accettazione era quasi fatalistica, si rese conto. Se fosse morta nel corso di quel viaggio avrebbe almeno avuto quel periodo di pace, e cibo a sufficienza, e un letto caldo. E ricordi. Tanti ricordi. Due notti prima, al crepuscolo, avevano visto uno scintillio rosso sull'orizzonte occidentale, due spirali gemelle di scarlatto iridescente. «Quello è l'Enigma,» aveva annunciato il Mastro di Viaggio. «Sarebbe bello se esistesse un passaggio per quella via. Taglierei di almeno ottanta chilometri.
Invece dobbiamo puntare verso nord, e passare attraverso Armonia e la Torre Nera. Puoi vedere la punta del Vecchio Nero, che spunta laggiù sopra quel picco purpureo. Poi c'è Terrafonda Cinque, a qualche giorno di viaggio.» Terrafonda Cinque. Il senso di pace venne meno, e Vivian si sentì di nuovo ansiosa. Perché? Aveva accettato ciò che Tasmin le aveva detto. Lui non sapeva, sua madre non sapeva. Anche se lei pensava che avrebbero dovuto sapere, non poteva condannarli per qualcosa che era successo fra Lim e suo padre. Oppure poteva condannarli ma aveva scelto di non farlo. Aveva scelto, invece, di fare in modo che il piccolo Miles avesse una famiglia... e magari la sue mente si fosse fermata lì. E invece no, andava sempre avanti. "Fare in modo che il piccolo Miles avesse una famiglia, anche se essa aveva tradito il suo papà e aveva finito con l'ucciderlo." Non importava quanto spesso si dicesse che non li condannava, tanto finiva sempre col fare esattamente quello. Tradimento, si diceva piangendo. Uccisione. Accuse violente contro persone che nemmeno conosceva. Ogni volta arrivava a quel punto, nella sua agonia circolare, piangeva amaramente, poi si diceva di nuovo che non erano stati loro a farlo. Tasmin aveva sette anni quando era successo, e appena sedici o diciassette quando Lim se ne era andato. Poteva davvero ritenere responsabile un ragazzo di sedici o diciassette anni? E Thalia, la madre di Tasmin... aveva cominciato a perdere la vista proprio allora. Forse quello era stato il solo trauma che fosse in grado di sopportare. Suo marito non poteva esserle di nessun aiuto. Ma forse non era stata capace di vedere niente. Così, di volta in volta accusando e perdonando, Vivian aveva trascorso le ultime ore tirandosi fuori pian piano dal turbine emotivo e immergendosi in qualcosa che si avvicinava alla calma. Adesso, con la fine del viaggio alle porte, quella calma si era disintegrata, e tutti i sentimenti di dolore e di rabbia avevano cominciato a ridestarsi. «Devo fermare tutto questo,» bisbigliò quasi ad alta voce. «Devo fermarlo.» «Femmallo,» disse Miles. «Femmallo, mamma.» «Lo farò,» promise, ridendo con gli occhi piedi di lacrime. «Lo farò. Vuoi farti dare i biscottini dal signor Brun?» «Biccottini,» confermò Miles con un cenno della testa. «Biccottini alle noci.» «Dove pensi che prenda le noci, il signor Brun?» gli domandò, con finto stupore.
«Noci di viggy,» canticchiò Miles. Era una storia che gli aveva raccontato Brunny, sui viggy che portavano le noci in cambio di caramelle. In effetti su Jubal non esistevano noci, e quelle gocce dure e dolci che Brunny metteva nei biscotti erano semplicemente pezzetti di protofarina cotta e zuccherata, ma a Miles piaceva credere alla storia dei viggy. «Proprio così.» Rise insieme a lui, tirandosi su mentre il carro rallentava fino a fermarsi. «È quasi ora di cena.» Quella sera aveva fame. Si era accorta che nel corso dell'ultima settimana o giù di lì il suo appetito era aumentato notevolmente. Era un fatto positivo. Al mercato del pesce aveva perso diversi chili, comprando cibo per Miles e non per sé perché non c'era denaro sufficiente per tutti e due. Era diventata così secca che Lim non l'avrebbe riconosciuta, e non le avrebbe fatto piacere che la madre di Lim la vedesse ridotta così. «Ma non fa poi tanta differenza,» disse fra sé e sé. a bassa voce. La madre di Lim era cieca. Non poteva vedere, perciò che importanza aveva? «Tutti a terra. I muli a bere,» gridò il Mastro di Viaggio. «Muli a bele,» scimmiottò Miles, «Tutti a tella.» «Va bene, tesoro. Scendiamo giù.» Cercò in giro le scarpe sue e di Miles, trovandole in mezzo a due cassette, e quando il Mastro di Viaggio si affacciò dal retro del carro era ancora impegnata ad allacciare le stringhe. «Tutto bene, signora Ferrence?» «Tutto a posto, Mastro.» «Brunny vuole che gli porti il bambino per la cena.» La fissò curiosamente con gli occhi pallidi, quasi incolori. Lui le aveva detto di avere conosciuto Lim Ferrence, molto tempo prima, alla scuola di Terrafonda Cinque. Senza aspettare che le rivolgesse domande indiscrete, era stata lei stessa a raccontargli ciò che era successo a Lim quando era ancora un ragazzo. Raccontarlo era per lei come una specie di catarsi. Il Mastro di Viaggio non aveva detto nient'altro, da quel momento, non su Lim, ma era sempre stato molto premuroso con lei e con il bambino. «Ancora un paio di giorni e saremo arrivati. Sei ansiosa di arrivare?» «Sì, lo sono,» rispose lei, una mezza bugia. «Non conosco la madre di Lim.» «È cieca, lo sai.» «Lo so. Me l'ha detto Tasmin.» «Peccato. Me la ricordo, quando ancora non era cieca, voglio dire. Una delle donne più belle che abbia mai visto. Lim se ne vantava sempre. Tu le assomigli, sai. Mi ricordi lei com'era allora»
Vivian ne fu colpita. «Non lo sapevo!» «Oh, sì. La stessa forma del viso. Stessi occhi e bocca, stessi capelli. Potresti essere sua figlia.» Si allontanò a grandi passi, lasciandola a bocca aperta. «Biccottini,» protestò Miles. Vivian scese dal carro e si diresse verso il carro cucina, mentre Miles la seguiva zampettando sulle gambette robuste. Quando il bambino ebbe avuto i suoi biscotti Vivian rimase insieme a lui mentre li mangiava, fissando il terreno leggermente digradante color grigio spento che li circondava. Campagna aperta. Boschi di alberi di Jubal, rivolti verso il sole calante, e con le piume aperte a ventaglio. Più lontano, sulla sommità del versante occidentale, notò qualcosa che si muoveva, una macchia all'orizzonte, a chilometri di distanza, che si stagliava contro le nuvole accese dal bagliore del tramonto. «Cavalieri.» indicò. Il cuoco seguì il dito puntato, aggrottando la fronte. «Io non vedo niente.» «Erano lassù.» insistette Vivian. «Dei cavalieri.» «Sarà meglio dirlo al Mastro di Viaggio,» la consigliò Brun. «Da queste parte non dovrebbe esserci nessuno, oltre a noi.» Quando glielo disse, il Mastro di Viaggio emise un grugnito, e sembrò un po' preoccupato. «Problemi?» gli chiese Vivian, ansiosa. «C'è qualcosa che non va?» «Oh, no. No. Credo proprio di no. È solo che c'è stato un bel po' di... oh, chiamiamola agitazione, su questa Commissione CACCIA, soprattutto. Con la gente che prendeva posizione e i Cristalliti che diventavano sempre più cattivi.» Lei rabbrividì. «Qualche volta faccio dei brutti sogni sui Cristalliti.» «Li facciamo tutti. Be', non mi piace la gente che se ne va in giro intorno a me, se non so chi sono.» L'uomo si allontanò e lei e il bambino tornarono al loro carro. Vivian poteva dormire o nel carro in cui aveva viaggiato, o sotto di esso, o in una tenda, se lo preferiva. In questa regione di Jubal pioveva poco. L'unica umidità proveniva dalla costa in nebbioni densi che apparivano la sera e si dissolvevano con le prime luci dell'alba, lasciando gli alberi fradici di rugiada accumulata. Quando si faceva giorno, ogni fronda si sollevava, incanalando la preziosa umidità lungo le venature a forma di canalini fino a dei contenitori cavi posti nel sottosuolo. Più di un viaggiatore si era salvato la vita bevendo quel liquido amaro quando non aveva acqua a disposizione,
anche se nessuno lo avrebbe bevuto per scelta. Quando c'era nebbia era meglio dormire in tenda, ma quella sera non c'erano tracce di nebbia. «Mettiamo tenda?» chiese Miles. «Credo di no,» rispose lei. «Penso che metteremo i nostri materassini in quel grosso bosco di alberi di Jubal, ragazzo mio. Gli alberi di Jubal hanno un buon profumo.» E ci sarebbe anche stata un po' più di intimità. Vivian sentiva il bisogno di lavarsi per bene tutto il corpo, e di darsi una sistemata ai capelli. «Buon plofumo,» annuì Miles. «Albeli di Giubal buon plofumo.» Vivian raccolse le loro cose sparpagliate qua e là. Avevano così poco che entrava in uno zaino a spalla. I pochi vestiti in più e i libri si trovavano dentro una scatola in fondo al carro. Lo zaino e il materasso non erano un carico pesante e lei li portò fino al bosco, non lontano dai carri. Miles la aiutò trascinandosi dietro il suo materassino di formato ridotto, che poi lasciò cadere accanto a quello della madre. Quando faceva buio, gli alberi cambiavano dalla forma a ventaglio alla forma a fontana, più efficace per trattenere la nebbia, riteneva Vivian, così come quella a ventaglio era più efficace per raccogliere la luce del sole. Il risultato era un boschetto ombroso che non assomigliava per niente a quello del giorno. «Plofumo, mamma,» disse Miles, saltellando sul materassino e aspettando che gli alberi modificassero il loro aspetto. Il sole divenne una palla, poi una mezza sfera, infine un arco sottile contro l'orizzonte. Poi niente, e gli alberi cedettero con un sospiro frusciante, un prolungato sciaguattare. Le fronde ricaddero dal centro verso l'esterno, e quelle che erano state forme a due dimensioni divennero nuvole piumate che raccoglievano l'oscurità sotto di loro. «Andiamo subito a cena,» disse Vivian al figlio «Poi torneremo e guaderemo le stelle che spuntano.» C'erano i viggy che cantavano, quando finirono di mangiare e aiutarono Brun a sparecchiare ed a riporre piatti e posate. «Dove vi sistemate per la notte?» chiese loro il Mastro di Viaggio. «In quel boschetto di Jubal? Sembra un bel posto, se non c'è nebbia. E stanotte non c'è molto rischio di nebbia.» Alzò gli occhi verso il cielo limpido, sempre stringendo in mano il registro di viaggio. «Dormite bene.» Quando tornarono ai materassi sotto gli alberi di Jubal le prime stelle cominciarono a tremolare nel cielo ad oriente. «Hai bisogno di andare dietro un cespuglio?» chiese Vivian a Miles. «Già andato,» rispose il piccolo. «Tutto da solo.»
«Bravo. E adesso dormirai tutta la notte senza svegliarti, vero?» «Tutta la notte,» rispose lui annuendo, e accoccolandosi sul materassino. «Lacconta a Miles una favola.» Gli raccontò una favola finché non gli si chiusero gli occhi e il suo respiro non divenne lento e regolare. Poi raccontò una favola a se stessa, mentre si passava lentamente una spugna fredda su tutto il corpo, si spazzolava e intrecciava i capelli, e mentre le stelle spuntavano formando una banda diagonale scintillante attraverso il cielo. Una favola del domani, del futuro. Si accoccolò anche lei sul materasso, la testa poggiata su un braccio, e si abbandonò a un sonno che andava e veniva. Una luce improvvisa e un grido dalla direzione dei carri suonarono come una vera e propria intrusione. «Mastro di Viaggio!» Un muggito. Un muggito studiato, con una voce modulata. Vivian aveva già sentito prima quella voce. Miles si agitò nel sonno e lei allungò una mano, pronta a tacitarlo se si fosse svegliato. Perché? Perché il Mastro di Viaggio aveva detto che non gli piaceva avere gente intorno senza sapere chi fosse e che cosa volesse. Perché aveva detto qualcosa a proposito dei Cristalliti. e quella voce aveva a che fare con i Cristalliti! La voce di Brunny, balbettante e assonnata, poi quella del Mastro, strascicata dal sonno. «Bene bene, abbiamo qui quel lazzarone di Chantiforth Bins, Alto Pontefice o qualcosa del genere, eh? Che diavolo ci fai qui nella regione delle Presenze, in nome di tutto che è sacro? Credevo che voi Cristalliti ci teneste a restarne lontani.» «Infatti lo facciamo,» disse la voce. «A parte quando qualcuno dei nostri è in difficoltà, Mastro di Viaggio. E ho ragione di credere che sia proprio così.» «È la verità? E chi sarebbe?» «Un membro della nostra congregazione. Ha avuto un bambino in condizioni non santificate, ha passato dei momenti difficili e ha contratto un vincolo di servitù con quei maledetti della BDL. Sono venuto per riscattare il suo vincolo e riportarla a casa.» Vi fu silenzio. Vivian taceva, perplessa. Quella storia non aveva senso. Non c'era nessuna donna in quel viaggio che si fosse venduta alla BDL. «Credo di non sapere di chi stai parlando,» disse il Mastro. «Non ci sono passeggeri su questo viaggio.» «Oh, andiamo, Mastro di Viaggio. Lo so che la BDL ti paga lo stipen-
dio, ma io sono disposto ad essere più generoso di quanto immagini. La donna si chiama Vivian. Vivian Ferrence, ed ha un bambino con sé.» Vivian stava urlando silenziosamente sulla sua mano, lottando per restare in silenzio e immobile nel boschetto. Il Mastro di Viaggio aveva detto che non c'erano passeggeri. Perché? «Be', sei in ritardo di qualche settimana, Bins. Per un po' di tempo abbiamo avuto con noi quella donna e il bambino, ma ci ha lasciato al bivio di Terrafonda Dodici. C'era una carovana che dirigeva sull'itinerario settentrionale, che aveva donne e bambini, e lei ha scelto di andare con loro. Si sentiva un po' sola, poveretta, aveva perso da poco il marito. Voleva avere intorno altre donne, e io non posso biasimarla... A proposito, quel tizio insieme a te ha il fucile per stordire puntato proprio in questa direzione. Ha in programma di spararmi o che?» Il Mastro di Viaggio aveva parlato a voce molto alta, così alta che nessuno nell'accampamento poteva aver perso una sola parola. Una risata fragorosa. «È solo che è un po' diffidente, Mastro. Lui ha il sospetto che tu stia mentendo.» «Be', è abbastanza facile da provare,» tuonò il Mastro di Viaggio. «Ci sono io, con il mio Cantore di sostegno; poi ci sono sei guidatori, incluso il cuoco, e ci sono sei carri. Puoi guardare in tutti e sei.» Vivian rimase in silenzio, pensando freneticamente. Si era lasciata indietro qualcosa? Un giocattolo? Una scarpina? Una coperta o qualche capo di vestiario? Si è messo al sicuro, disse fra sé. Il Mastro ha detto che per un po' siamo stati con la carovana. Se ho lasciato qualcosa, è stato allora. Resta immobile, Vivian. Resta immobile. E così restò immobile, anche se non era nemmeno in grado di identificare la minaccia. Lei non aveva mai avuto qualcosa a che fare con i Cristalliti. Aveva sentito Chantiforth Bins nel tempio, ma tutti andavano al tempio. Era una delle grandi attrazioni di Splash Uno. Che ci faceva lì? Perché li stava cercando, lei e il bambino? E perché lei tremava dalla paura al solo pensiero che la trovasse? Resta immobile, si ordinò. Abbi fiducia nel Mastro di Viaggio. Non ti muovere. Chantiforth Bins stava parlando di nuovo, mentre rovistava rumorosamente e confabulava con il suo uomo... o con i suoi uomini? Più di uno. Due, forse tre. «Non la troverò di sicuro, Mastro. Bene, dal momento che ti ha lasciato così tanto tempo fa. tu non avrai niente in contrario se ti ac-
compagniamo fino a Terrafonda Cinque, non è vero? Possiamo aspettarla lì.» «Fai come ti pare, Bins. Ma rimettete quei fucili nel fodero. Avremo già i nostri problemi per attraversare la Torre Nera, senza che vi ci mettiate anche voi a renderci nervosi.» Si sentirono diversi scatti mentre i fucili venivano riposti nei foderi. Quegli uomini restavano. Restavano. E al mattino, al sorgere del sole, gli alberi di Jubal avrebbero trasformato le loro foglie in ventagli e si sarebbero rivolti verso oriente. Miles poteva metterei a chiacchierare, e lui non sarebbe riuscita a impedirglielo. Allora l'avrebbero trovata. Il Mastro di Viaggio si stava allontanando dai vagoni. La voce di Bins lo richiamò. «Dove stai andando. Mastro?» «Sto andando a fare quello che devo fare, Bins. Vuoi venire con me?» Bins fece un cenno a uno dei suoi uomini, il quale trotterellò dietro al Mastro fino a un piccolo folto di alberi, tutto a nord rispetto a quello in cui si trovava Vivian. Il Mastro aveva con sé una vanga per latrine. Dopo un po' tornarono ai carri. Seguì una conversazione su argomenti casuali. La luce del falò divenne fioca, e cadde il silenzio. Forse c'era qualcuno di guardia, forse no. Vivian non poteva dirlo con certezza. Anche altri guidatori si recarono al boschetto. L'ultimo che ci andò lo fece senza accompagnatore. Prima di sposare Lim, Vivian lavorava alla Divisione Esplorazione, certamente un impiego modesto ma almeno sicuro, che richiedeva concentrazione e precisione nel trascrivere i rapporti dei Cantori e degli Esploratori per la biblioteca generale della BDL. Altri che lavoravano con lei non leggevano nemmeno quello che trascrivevano, erano le loro dita che facevano il lavoro da sole. Vivian, invece, ne aveva letti parecchi e si era nutrita di ogni parola. Aveva dentro la testa le esperienze di una buona metà dei Cantori e degli Esploratori di Jubal. Sapeva quali errori avessero commesso, quali errori di giudizio, e sapeva anche quando erano stati in gamba. Adesso, seduta con la testa appoggiata sulle mani intrecciate, si domandò che cosa avrebbe fatto uno di quelli in gamba. Dopo un po' il suo viso si illuminò e lei tolse la valvola al suo materasso, lasciando che l'aria fuoriuscisse, così lentamente che sembrò metterci un secolo, ma senza fare il minimo rumore. Poi fece lo stesso con il materassino di Miles, lentamente, molto lentamente. Lui continuò a dormire. Miles era un buon dormitore. Lo sollevò e lo prese fra le braccia, con il materassino vuoto sotto di lui, poi si infilò nel boschetto, allontanandosi dai carri. Aveva bisogno di un
declivio, anche il minimo avvallamento, e doveva spingersi più lontano, verso est. Qualcuno tossì alle sue spalle, e lei si fermò, terrorizzata. Tornò il silenzio e lei riprese ad avanzare, su per il lungo pendio, verso est. Camminava lentamente, evitando di fare rumore con i piedi, metro dopo metro. Quando si voltò a guardare, il fuoco in mezzo ai carri era solo una stella appena visibile. Accanto a lei c'erano due alberi di Jubal, i più esterni di un gruppo considerevole, e dietro di essi il terreno digradava in un piccolo avvallamento. Giunta in fondo posò a terra Miles, e lentamente, molto lentamente, rigonfiò il suo materassino. Lo avvolse bene nella coperta, poi tornò sui suoi passi, misurando la distanza voltandosi spesso a guardare. Al suo ritorno aveva lo zaino in spalla e trascinava il materasso dietro di lei, per cancellare le impronte che sapeva di aver lasciato. Quando si sistemò nella cavità vicino al bambino, lui mormorò nel sonno. Esausta, Vivian giacque accanto a lui con gli occhi aperti fissi sull'orizzonte orientale. Alla fine giunse la luce, risvegliandola all'improvviso. Nonostante la preoccupazione, era riuscita ad appisolarsi. Da dove si trovava non riusciva a vedere l'accampamento. Lasciò Miles ancora profondamente addormentato, si arrampicò lungo il pendio e sporse la testa dietro le fronde più basse di un albero di Jubal. I carri erano ancora lì, molto più lontani di quanto avesse immaginato La gente si muoveva intorno ad essi. Chantiforth Bins andava di qua e di là, frugando dappertutto e perlustrando ogni boschetto nei paraggi. Pochi minuti dopo il sorgere del sole raggiunse il boschetto in cui aveva dormito Vivian, lo attraversò e ne uscì risalendo il pendio per sbirciare dall'altra parte. «Nessuna traccia?» gridò a qualcuno. «Ci sono stati i viggy,» rispose una voce. «Ci sono tracce dappertutto. Nient'altro.» Viggy! Vivian rimase senza fiato per il sollievo. Allora le sue impronte erano state cancellate. Brunny si agitava sul carro cucina, con la casacca sciolta che gli ondeggiava intorno. Dopo un po', si allacciò la casacca e si recò nello stesso boschetto che il Mastro di Viaggio aveva usato la notte prima, portando anche lui una vanga per latrine. Nessuno si offrì di accompagnarlo. Miles si mosse. Vivian andò ad accucciarsi accanto a lui, pronta a mettergli una mano sulla bocca, se fosse stato necessario. Forse non sarebbe
stato necessario. A volte Miles dormiva più profondamente, di mattina... Lo fece anche questa volta. Al suo risveglio, i carri erano già lontani. Quando non riuscì più a vederli, Vivian si convinse che anche dai carri non potevano vederla e si diresse verso il luogo dell'accampamento, sperando che qualcuno avesse trovato il modo di lasciarle cibo e acqua. Il posto era pulito come tutti i campi che i Mastri di Viaggio lasciavano dietro di sé. «No biccottini?» domandò Miles, affamato. «Dov'è Blunny?» Gli occhi di Vivian si riempirono di lacrime. Che cosa sperava di fare, il Mastro? Sperava forse di lasciarsi scortare dagli intrusi fino a Terrafonda Cinque per poi tornare a prenderla? O intendeva mandare qualcuno da Armonia? Quanto ci sarebbe voluto, come minimo? Tre giorni? Cinque? Di certo doveva avere... Mise a terra Miles con un'esclamazione e corse verso il boschetto dove erano andati sia il Mastro di Viaggio che Brunny. Lo trovò quasi subito, una specie di piccolo monticello. Scavò a casaccio con una fronda secca. Escrementi. Arricciò il naso, disgustata. Be', naturalmente. Tolse le feci quasi disseccate e continuò a scavare. Nel fondo della buca trovò una bottiglia d'acqua, una pacchetto di razioni alimentari, e un sacchettino di plastica. Dentro c'era un biglietto per lei e qualcosa per Miles. «Torneremo a prenderti,» aveva scritto Brunny. «Resta qui.» «Biccottini,» disse Miles, tutto contento. Restare lì non fu un problema, per tutta la mattinata. Il pomeriggio fu meno piacevole, con un forte vento da meridione che portava sabbia. Vivian lasciò Miles al riparo di un albero di Jubal e andò in giro in cerca di un rifugio. Verso nordovest c'erano i primi contrafforti delle Presenze, giallo pallido e grigio-azzurro per le foreste di Piccoli raccolti alla loro base, e che si snodavano in direzione sud quasi fino al sentiero. Dritto a nord c'era il passo per Armonia, un lungo pendio costellato di Piccoli, quasi privo di vegetazione. Nei paraggi, boschetti di alberi di Jubal e prati di erba alta fino al ginocchio costeggiavano il sentiero su entrambi i lati. Più a est c'era un altro contrafforte, prima color ambra, poi arancio, poi rosso vivido, che all'ultimo culminava nelle pareti scarlatte dell'Enigma. Questo era quanto Vivian conosceva, aveva letto o era venuta a sapere sbirciando di
sfuggita le carte geografiche. Verso sud i boschetti di alberi di Jubal diventavano sempre più radi fino a scomparire del tutto laddove prendeva il sopravvento la roccia sedimentario del deserto costiero, e solo qualche Presenza torreggiante spezzava la piatta monotonia del territorio fino all'orizzonte. La roccia era piena di cavità di origine carsica. Dopo pochi minuti Vivian ne aveva già individuate una decina, nessuna delle quali più grande della sua testa. Addentrandosi nel deserto le buche diventavano più grosse, e a circa quattrocento metri dal sentiero, in mezzo a una distesa di sabbia finissima, la donna ne trovò una che aveva i lati a gradini, il fondo sabbioso e una sporgenza verso l'estremità meridionale... un riparo perfetto contro il forte vento del sud. Era anche caldo, dentro la buca. Le pareti di pietra raccoglievano i raggi del sole e mantenevano il calore, ricedendolo molto lentamente, anche al freddo della notte. Restarono seduti per tutto il giorno sulla sabbia in fondo alla buca, mentre Vivian fabbricava piccoli carri con i cartoni delle razioni alimentari e strisce di stoffa. Miles scavava strade nella sabbia, e tutti e due si ritraevano sotto la sporgenza quando il vento soffiava più freddo. Era un nascondiglio migliore del boschetto, e dal bordo della buca si poteva vedere chiunque stesse arrivando quando era ancora lontano qualche chilometro. Vivian non pensò al fatto che qualcuno si potesse avvicinare al buio o nella nebbia. Non aveva nemmeno mai visto uno dei famosi nebbioni della costa meridionale. Quando giunse non c'era molto da vedere. Il primo sintomo fu l'improvviso risveglio a causa dell'umidità delle coperte, che erano diventate fradice e fredde quando già si era fatto buio. Lei aveva raccolto delle fronde secche per avere un fuoco a disposizione, in caso di necessità, e allora ne accese un mucchietto con l'accendino che faceva parte del corredo di sopravvivenza. Bruciarono con un fumo denso che irritava gli occhi e che non si sollevò al di sopra del bordo, e Vivian fu costretta a gettare della sabbia sui rami ardenti, maledicendoli. Meglio sentire freddo che morire asfissiati, pensò, senza sapere quanto potesse fare freddo. Quando se ne rese conto mise Miles sul materasso grande e sgonfiò a metà quello piccolo in modo da creare una specie di tenda che li ricoprisse, sistemando con cura una borraccia sotto un angolo ripiegato e ascoltando il plop plop della nebbia che si condensava e cadeva dentro la borraccia. Lo aveva fatto un Cantore, una volta, e lei lo aveva letto nel suo rapporto. Restò seduta a gambe incrociate, con Miles in grembo, facendo da paletto con il corpo e
la testa, e con le coperte avvolte intorno a loro. Dopo un tempo interminabile riuscì anche ad appisolarsi. Furono le voci che la risvegliarono. Voci soffocate nel buio che la chiamavano. Ma non per nome. All'inizio la stranezza della cosa non la colpì. Solo quando si risvegliò del tutto, quelle voci le sembrarono strane e misteriose. Fino a quel momento erano state solo un elemento del dramma. «Cerchiamo la moglie di Lim Ferrence,» dicevano le voci. Anzi intonavano, Cantavano. «Lim Terree,» corresse un'altra voce con un curioso gorgheggio da soprano. «La madre ha detto che si faceva chiamare Lim Terree.» «Infatti,» cantarono le voci. «Cerchiamo la moglie di Lim Terree.» La donna non rispose, non avrebbe potuto rispondere. Quelle erano voci spettrali provenienti da un mondo di spiriti e di fantasmi, un mondo infantile di irragionevole paura. «Forse ha paura,» disse la seconda voce. Sembrava la voce di una donna, o di un bambino. Non era la voce di un uomo. Il cuore di Vivian si mise a martellare. Doveva dire qualcosa. Forse erano venuti per aiutarla. Per aiutare Miles. «Che cosa volete?» gridò. La sua voce era un urlo flebile ai margini del terrore. «Non avere paura, per favore,» cantarono le voci. «La madre di Lim Terree pensava che tu fossi in pericolo. Siamo qui per aiutarti.» «Sono venuti degli uomini.» gridò lei. «Cercavano me, e il mio bambino.» «Ah,» cantarono le voci. «Puoi muoverti? Puoi camminare? Ti senti bene?» «Sì, sì. Sto bene.» Le voci mormorarono in qualche altro linguaggio. All'inizio poche, poi molte di più. Un coro. Qualunque cosa stessero cantando, lo fecero parecchie volte finché non ne furono soddisfatti. In qualche strano modo lo fu anche Vivian. Quando smisero di cantare fu perché avevano raggiunto una decisione. Se ne rese conto anche lei. «Abbiamo cantato questa difficile situazione,» le spiegarono le voci. «Non puoi camminare nel buio. Non ne hai i mezzi come noi. Potreste farvi male, tu e il piccolo. Allora, quando farà giorno, devi dirigerti verso le montagne rosse. Noi ti seguiremo e cancelleremo le tue impronte.» «Le montagne rosse? L'Enigma!»
«Sì. Voi le chiamate così.» «È dove è morto Lim,» esclamò lei. «Non voglio andarci!» «Non proprio lì,» mormorarono le voci. «Solo nei pressi. Lì non c'è pericolo. Nessuno di Coloro che cantano... nessun umano viene lì.» «Io volevo andare a Terrafonda Cinque.» gridò Vivian. «La madre di Lim si trova lì.» «Noi riteniamo che ci siano anche gli uomini che ti stavano cercando. Lì non sei al sicuro. Ti ci porteremo in seguito.» La nebbia divenne nuovamente silenziosa. Dopo un po' Vivian pensò di aver sognato, ma quando infine giunse la luce seppe che non era stato un sogno. Sulla sabbia fina tutt'intorno al bordo della buca c'erano le impronte a quattro dita dei piedi dei viggy. Non sapeva che fossero in grado di parlare. Alla luce del giorno ancora non riusciva a credere che avessero veramente parlato. L'incredulità la immobilizzò, e le avrebbe impedito di muoversi se non fosse stato per la luce che pioveva abbagliante dal sentiero per Armonia. Era giunto il mattino, e la nebbia si era lentamente dissolta; lei aveva visto le impronte e se ne era stupita, non sapendo ancora se incuriosirsi o spaventarsi. Nessuno aveva mai affermato che i viggy potessero essere pericolosi. I pochi esemplari che erano stati catturati nei primi anni dello sfruttamento erano morti tutti, la maggior parte piuttosto presto. Non c'era mai stata nessuna voce che gli avesse attribuito atti di violenza. Erano virtualmente invisibili, una presenza costante per le orecchie, ma per il resto un elemento del tutto irrilevante. Ma nessuno aveva mai detto che potessero parlare. Era questo che la rendeva sospettosa. E se non fossero stati affatto dei viggy? «Ma erano qui,» si disse. «Proprio qui, non a qualche metro da me. Se avessero voluto avrebbero potuto catturarmi o uccidermi, o farmi ciò che volevano.» Eppure non riusciva a decidersi. Poi, mentre dava un'occhiata tutt'intorno dal bordo della buca, vide un bagliore luminoso provenire dal sentiero che portava ad Armonia. Un lampo, poi un altro. Guardò a lungo, fino a vederne diversi. Riflessi sulle lenti dei binocoli. In fondo a quel sentiero, al limite della visuale, qualcuno stava guardando nella sua direzione. Lo avevano fatto anche il giorno prima? Vivian scivolò nella buca e cominciò a impacchettare le loro poche cose. A breve distanza verso est c'era uno stretto costone che correva parallelo al sentiero. Se fosse riuscita a raggiungerlo ed a mettersi al riparo di esso,
nessuno avrebbe potuto vederla dal sentiero. Osservò attentamente finché non vide i lampi più volte. Poi, ai primo intervallo, uscì dalla buca e corse verso est con Miles che le sgambettava accanto. Giunta nei pressi di un boschetto di alberi di Jubal lo prese in braccio e ci si infilò di corsa, nascondendosi dietro una pianta. Da lì tenne d'occhio il sentiero verso Armonia. Dopo un po' un lampo, poi altri. Questa volta corse con Miles in braccio fino al successivo boschetto. Cominciava a capire. Qualcuno controllava col binocolo ogni quarto d'ora. Ci vollero altre quattro corse da un gruppo di alberi all'altro per raggiungere il costone. In un attimo fu alle spalle di esso. «Ancola gioco,» propose Miles, che cominciava a provare gusto nel nascondersi dietro agli alberi. «Non adesso, ragazzo mio,» gli rispose la madre. «Adesso dobbiamo fare una lunga passeggiata. Te la senti?» Lui annuì, la bocca increspata nell'espressione di chi vuole fare uno scambio. «Biccottini?» «Quando ci fermiamo a mangiare ti darò un biscottino, va bene?» «Bene.» Molto prima di fermarsi per mangiare, Miles era crollato e si era addormentato sulla spalla di Vivian. Molto prima di giungere alle montagne rosse, quando ancora erano a diversi chilometri di distanza, anche lei era allo stremo delle forze. La sera li sorprese raggomitolati dentro un circolo di cespugli del colono, intenti a mangiare le razioni fredde ed a bere meno acqua di quanto avrebbero voluto. Poi caddero entrambi in un sonno esausto. «Vieni,» disse la voce, quasi dentro l'orecchio di Vivian. «Non puoi dormire adesso. Gli uomini ti stanno cercando. Vieni.» Questa volta li vide, nel bagliore indistinto della Luna Nuova, ridotta dall'ombra di Serendipity a una sottile falce d'argento. Erano coperti di pelliccia e avevano grandi occhi, con orecchie ampie e mobili. I colli erano increspati da pieghe pendenti di pelle chiara striata di rosso, ambra e arancio, e le teste erano fornite di lunghe antenne piumate che assomigliavano molto alle fronde degli alberi di Jubal. Erano tutti intorno a lei e cantavano, cantavano nel loro linguaggio, e lei non li temeva. «Dove sono gli uomini?» bisbigliò Vivian. «Quanto sono lontani?» «Ti hanno visto venire da questa parte,» cantarono i viggy. «Anche se abbiamo ripulito tutte impronte dei tuoi piedi, stanno ancora cercando.»
«Che cosa dobbiamo fare?» «Ti porteremo dove essi non possono andare, donna di Lim Terree, onorato sia il suo nome.» La guidarono. Lei portava Miles, e due di essi si misero al suo fianco, appoggiando le mani sulle sue cosce, spingendola o tirandola dolcemente in modo da mantenerla lungo la strada giusta. Bondri si era presentato, e mentre camminavano le aveva detto il nome di tutti i membri della compagnia. A volte rallentavano, per dare il tempo ad alcuni viggy di sgombrare il sentiero davanti a loro, oppure per consentire lo scambio fra quelli che cancellavano le impronte alle loro spalle e quelli che stavano più avanti. Cantavano in continuazione, qualche volta nella loro lingua, qualche volta in quella di Vivian. Così lei apprese la storia di Favel, lo zoppo, e della sua liberazione da parte del bambino che cantava ad alta voce. Le venne da ridere, poi fu lì lì per piangere. Lim non lo aveva fatto per generosità, non lo aveva fatto nemmeno perché mosso da tenerezza per il povero viggy. Lo aveva fatto per rabbia, per l'orgoglio ferito, per gelosia e per dolore. Cercò di spiegarlo a Bondri, e lui l'ascoltò con un orecchio ripiegato all'indietro per sentire. «Bene,» disse alla fine. «Questo è ciò che voleva Favel. Un'altra visione, che rende più vero il canto.» Per lei non aveva senso. Lo aveva solo il fatto che la stavano salvando, lei e Miles. Quello aveva senso. Diressero verso oriente fino alla fine del costone, poi verso nord, nella catena cristallina. Adesso i viggy cantavano soltanto nella loro lingua, per calmare la terra che tremava sotto di loro, aprendo vie che sarebbero state chiuse per coloro che li seguivano. Alcuni della compagnia si arrampicarono sui picchi e gorgheggiarono nella notte, mentre tutti gli altri sotto spalancavano le orecchie, ascoltando. «Che stanno facendo?» chiese la donna a Bondri. «La compagnia di Chowdri è in movimento intorno a noi. Continuano a tenere d'occhio il Folle, quello tu chiami Enigma. Io ho una figlia da scambiare con Chowdri, e canteremo la morte di Favel, così che la notizia si diffonda verso est e verso sud.» Disse tutto questo in un unico respiro, una specie di recitativo, e lei scosse la testa per lo stupore. Lim era stato un abile musicista, forse un genio, ma Bondri poteva fare cose con la sua voce che Lim non avrebbe nemmeno mai tentato. Naturalmente non aveva una sacca canora sul collo che gli consentisse di trattenere enormi quantità d'aria.
All'alba si fermarono. L'Enigma torreggiava sopra di loro, un po' spostato verso oriente, come due spade insanguinate puntate verso il cielo. Da sud arrivarono numerosi viggy, stanchi, ma non di cantare. «Gli uomini sono tornati indietro per la strada da cui sono venuti, senza smettere di cercare. Non hanno trovato alcuna traccia della donna o del bambino. Hanno detto che torneranno a Terrafonda Cinque, e che anche la donna tornerà alla fine a Terrafonda Cinque.» Vivian aveva lasciato alcuni dei suoi miseri averi nel carro, dentro una scatola. Senza dubbio, chiunque inseguisse lei e Miles li aveva trovati. «Non possono venire fino a qui,» disse Bondri. «La tua gente non ha le parole per penetrare in questo luogo.» «Ma io non posso restare per sempre con il tuo popolo, Bondri dalle Grandi Orecchie. Un giorno dovrò tornare dalla mia gente.» «Un giorno è un giorno. Lo canteremo più. tardi. Per il momento mangiamo.» Miles si svegliò. Osservò i viggy con un'espressione di totale meraviglia, poi offrì educatamente a Bondri il suo ultimo biscotto. Bondri lo prese, serio, e ne mangiò una metà, restituendo l'altra. In cambio Bondri gli offrì una coppa di linfa di corteccia, che Miles divise con la madre. Quando ebbe vuotato la coppa, Vivian la guardò con attenzione, impallidendo mentre lo faceva. «Che... che cos'è?» «Una coppa degli antenati,» rispose Bondri. «Questa apparteneva a Favel, che ha onorato il nome di tuo marito. Favel che ha trasmesso a noi il suo debito, che al bene si risponda con il bene.» Vivian posò delicatamente la coppa. Nulla, nei rapporti dei Cantori, l'aveva preparata a questo, e la buona educazione di fondo fece ciò che la conoscenza non poteva fare. «Sono onorata,» disse in un sussurro, ascoltando attentamente mentre Bondri intonava diversi canti sulla vita di Favel. Poi si unì alla compagnia nel mangiare il cespuglio del colono, anche se Miles fece colazione con le ultime razioni, alle quali era più abituato. Quando ebbero finito, si unì alla compagnia anche nell'intonare il canto sulla sua stessa liberazione. Il fatto che lei avesse poca voce, anzi quasi nulla, non sembrò disturbare i viggy. C'era Miles che bastava e avanzava, per sostituirla. «Ha una bella voce, tuo figlio,» le cantarono. «Quando crescerà, sarà un capo di compagnia.» «Se sopravviverà,» disse lei con un filo di voce. Un giligee le diede una
pacca sulla schiena e le cantilenò nell'orecchio. A metà mattina giunsero notizie dalla compagnia di Chowdri, ed essi cominciarono ad avanzare verso est, sempre più vicini all'Enigma. «Non è pericoloso?» chiese Vivian a Bondri. «Non corriamo rischi?» «Niente rischi,» cantò lui. «Non sul giaciglio del Folle. Siamo solo al margine della pelle, dove i canti lo tengono tranquillo.» «Pelle?» chiese lei, che non era affatto sicura di aver capito. «La parte esterna,» le spiegò Bondri, frugando nel suo limitato vocabolario dei Cantori. «La scorza, la pelliccia, la...» «Della Presenza?» «Sì. La parte che si limita a piegarsi e ad agitarsi, come la tua pelle, compagna di Lim, quando una mosca delle ferite vi cammina sopra. La pelle del Folle non è folle. Solo il suo cervello lo è, e noi ne resteremo lontani.» Verso sera si erano avvicinati all'Enigma più di quanto Vivian avrebbe voluto, eppure la compagnia di Bondri Gesel non mostrava il minimo disagio. Sei fra i viggy furono incaricati di eseguire canti di serenità alla pelle, e questi venivano rimpiazzati ogni tanto da altri sei, che entravano e uscivano dal coro uno dopo l'altro in modo che il canto non si interrompesse mai. La musica era suadente, soporifera. Vivian si trovò a sbadigliare, mentre Miles si rannicchiò sotto un albero di Jubal e si addormentò profondamente, anche senza avere mangiato. «Dovresti restare sveglia,» le suggerì Bondri. «Chowdri sta giungendo qui. Ha una buona lingua. Insieme canteremo bene.» La compagnia di Chowdri si unì a loro dopo il tramonto, ma prima che facesse notte. Vi furono sfide e risposte corali, esercizi di contrappunto, passaggi lunghi e lenti cantati dai due capi delle compagnie insieme, e alla fine un vivace canto processionale durante il quale i cantanti picchiarono sulle sacche canore per ottenere un suono di tamburi. Chowdri aveva portato da mangiare, e si stupì nel vedere Vivian più di quanto Bondri immaginasse, il che diede vita a qualche discussione. «Ne abbiamo uno anche noi,» cantò Chowdri, dandosi importanza. «Uno molto piccolo, non ancora uscito dal marsupio.» «Un piccolo di Coloro che cantano ad alta voce?» Bondri non riusciva a crederci. «Un vero piccolo di Coloro che cantano ad alta voce?» «L'ha trovato il mio giligee anziano dentro un corpo,» cantò Chowdri «Una femmina che era stata uccisa dall'Enigma. Il mio giligee era andato subito in cerca di ossa, prima che arrivassero gli uccelli volteggianti, e ha
trovato questo piccolo dentro la donna, come crescono loro. Non più grande di un dito. Abbiamo cantato che il tabù non si applica agli umani così piccoli.» «Che cosa ha detto?» chiese Vivian. Bondri glielo tradusse. «Non capisco,» disse lei. «Che cosa intende dire?» Bondri fece un cenno al suo giligee, il quale si fece avanti e consentì a Bondri di aprire il suo marsupio e di indicare dentro. «Là,» cantò Bondri. «Nel marsupio. Quello è lo spirito-del-cervello di Favel. Là crescono anche i piccoli dell'accoppiamento. Le nostre femmine li portano dentro solo per poco, non come voi che cantate ad alta voce. Favel mi ha raccontato tutto.» «Spirito-del-cervello?» ripeté lei. in tono esitante. «Scusami, Chowdri,» cantò Bondri. «La mia ospite ha una difficoltà che devo correggere prima che continuiamo a cantare insieme.» «I maschi e le femmine si accoppiano,» le cantò. «Mi capisci?» Vivian dovette lottare per ricacciare giù una risatina isterica e gli disse di sì, che lo capiva, e che anche Coloro che cantano ad alta voce facevano la stessa cosa. «Dopo pochi giorni la femmina sceglie il giligee e lascia cadere il piccolo, come un minuscolo verme. Il giligee accoglie il piccolo nel suo marsupio. I viticci del marsupio gli si chiudono intorno e gli forniscono il nutrimento. Vive e cresce lì dentro. Quando è grande, viene deposto dal marsupio. È una femmina.» «Sempre?» chiese la donna. «Sempre,» rispose lui, deciso. «Sappiamo che da voi non è così, ma da noi è sempre una femmina. La femmina vive e viene scambiata come figlia con un'altra compagnia, poi si accoppia e genera altre femmine. Poi giunge il momento in cui il suo spirito-del-cervello reclama la liberazione. Il giligee estrae a morsi lo spirito-del-cervello e lo depone ancora nel marsupio. Quello cresce di nuovo. Questa volta è maschio.» «Sempre,» aggiunse lei, stupita, con un cenno della testa. «Sempre. In ogni femmina c'è un maschio che aspetta di crescere. Cresce, si accoppia e genera maschi. E quando il suo spirito-del-cervello reclama la liberazione, il giligee lo riprende con sé. E questa volta, l'ultima volta, crescendo diventerà un giligee.» «E quando il suo spirito-del-cervello reclama ancora la liberazione?» «In un giligee non c'è nessuno spirito-del-cervello. Essi diventano molto
vecchi e alla fine muoiono. Poi ne ricaviamo una coppa degli antenati, come facciamo con tutti, e li collochiamo accanto a una Presenza e cantiamo i loro canti.» «Così il giligee di Chowdri ha un bambino umano dentro di sé? Tu lo sai chi è quel bambino, non è vero? È il figlio di Tasmin Ferrence, il fratello di Lim. La donna dev'essere stata sua moglie Celcy. E Lim era là. Lim era sull'Enigma. Forse non è morto!» Bondri si voltò in tutta fretta e diede il via ad un'esplosione di musica, alla quale si unì la sua compagnia, poi quella di Chowdri, e i due gruppi cominciarono a rimandarsi reciprocamente ogni canto, come se stessero compilando un'enciclopedia musicale. Quando alla fine la melodia cessò e Bondri tornò da Vivian, aveva un'aria molto triste e vecchia, e la sua sacca canora penzolava floscia. «È morto davvero. Mi dispiace, compagna di Lim, ma è proprio morto. Il giligee ha preso alcune delle sue ossa per farne un grattacorteccia. Vuoi la sua coppa degli antenati? So che Coloro che cantano ad alta voce non hanno questa usanza, ma se la vuoi il giligee può fartela.» Lei scosse il capo, piangendo sommessamente. Per un attimo si era sentita piena di una speranza irrazionale. Bene. Miles era vivo, e lei era viva, e sembrava che anche il figlio di Tasmin fosse vivo. «Per quanto tempo lo terrà, il giligee?» chiese in un sussurro. «Finché non sarà pronto,» cantò Bondri, alzando le spalle. «Ancora non è del tutto completo.» «Il... il giligee lo restituirà a noi, alla famiglia di Tasmin, quando sarà pronto?» Bondri sembrò riflettere su quella domanda. «Credo di sì. Mi impegnerò con la compagnia di Chowdri perché sia così. In tal modo il debito di Favel sarà stato ripagato alla famiglia di Lim Terree. Abbiamo salvato sua moglie e suo figlio e il figlio di suo fratello. È un ottimo modo di saldare un debito.» «Ripagato in pieno,» cantò la compagnia. «Ripagato subito, come voleva Favel. Orgogliosa è la compagnia di Bondri per aver saldato un debito d'onore.» CAPITOLO QUINDICESIMO Maybelle Thonks si accovacciò sul suo bagaglio nella piccola imbarcazione e guardò gli ottocento metri di oceano increspato che la dividevano
dalla torre d'acciaio a travi incrociate a cui era ancorata la massa annerita del Broumaster, pronto a spiccare il volo. La barchetta nella quale si trovava era piena zeppa di pacchi e scatoloni di cartone, ciascuno dei quali era stato controllato dagli uomini della sicurezza della BDL prima che venisse caricato a bordo. Era stata controllata anche Maybelle. «Per la tua stessa protezione, signora,» aveva detto con un sogghigno la guardia femmina. «A volte qualcuno impianta cose su qualcun altro» «Come diavolo pensi che qualcuno possa avere impiantato qualcosa lì?» le aveva sibilato all'orecchio Maybelle, sconvolta. «Per amor del buon senso, donna!» «È la procedura,» aveva replicato la guardia, improvvisamente consapevole di chi fosse la persona che stava oltraggiando. «Hai ispezionato il mio bagaglio, i miei vestiti, i miei cosmetici. Hai avvicinato ogni parte del mio corpo, come un fastidioso eritema. Che diavolo pensi che abbia addosso, una bomba?» «È la procedura,» aveva farfugliato di nuovo la guardia, porgendo a Maybelle uno dei suoi capi di biancheria. Schiumando rabbia, Maybelle si era data una sistemata e si era poi messa a controllare i suoi oggetti personali, che erano adesso in uno stato di totale disordine. Aveva fatto un rapido inventario della cassettina dei gioielli. Mancavano un paio di orecchini di discreto valore. La guardia della sicurezza aveva usato solo una mano per compiere la sua ispezione. L'altra le era indubbiamente servita per sgraffignare i gioielli. Maybelle aveva accarezzato l'idea di denunciare la donna. A che cosa le sarebbe servito? Solo a ritardare la partenza. Cosa che lei non voleva, e che poteva anche essere il vero motivo del furto. Fai finta di non essertene accorta, si era detta. Probabilmente anche adesso sei sotto osservazione, perciò richiudi la cassettina e fingi di non essertene accorta. Cosa che aveva fatto, appena in tempo perché il facchino trasportasse i bagagli fino all'imbarcazione. Adesso solcava con grandi scossoni l'oceano purpureo di Jubal; era quasi giunta alla rampa di lancio ed era per di più, almeno in apparenza, l'unico passeggero per Serendipity. Be', era quello che aveva detto Rheme. In quei giorni nessuno poteva lasciare Jubal. Niente e nessuno. A parte il brou. E le cose che l'onorevole Wuyllum aveva rubato. E le cose che Honeypeach aveva rubato. E quelle poche scatole di cartone accanto ai suoi piedi, che secondo il cartellino appartenevano ad Aphrodite Sells.
«I topi abbandonano la nave che affonda,» citò lei, senza avere un'idea chiara di come fossero fatti i topi. Qualcosa di piccolo e scaglioso, con denti disgustosi, che saliva a bordo delle navi solo per poi lasciarle; navi come quelle di Serendipity, basse e dolcemente ricurve, con lunghe vele triangolari. «Ci mancherai, Mayzy,» aveva detto Honeypeach. «Non hai idea di quanto ci mancherai.» C'era una minaccia, in quelle parole, che Maybelle aveva finto di non sentire. «Sistemati per bene,» le aveva consigliato suo padre. «Scegli la zona migliore della capitale e prendi in affitto un appartamento lussuoso. Rheme ti ha già trovato una donna che ti assisterà; ti dirà lui come si chiama.» Era tutto quello che l'onorevole Wuyllum aveva avuto da dire sull'argomento, ma d'altra parte era già troppo impegnato a strizzare Jubal di ogni possibile ricchezza nei pochi giorni o settimane che ancora rimanevano. «Strano,» disse il marinaio. «La rampa di carico non è calata.» «Che significa?» chiese lei, mentre un senso di nausea le risaliva dallo stomaco fino al fondo della gola, e restava là come se non avesse nessuna intenzione di muoversi. «Significa che non possiamo salire a bordo della nave,» borbottò l'uomo. «Merda.» Premette un pulsante sul pannello di controllo e una sirena risuonò al disopra del rumore del mare e del vento. Maybelle si mise le mani sulle orecchie. La sirena continuò a urlare per un po'. Quando smise, dalla rampa giunse in risposta una specie di ululato. «Tornate al porto. La nave parte entro un'ora e non si accettano altri passeggeri o altro carico. Ordine del comandante della rampa.» «Digli chi c'è a bordo,» suggerì Maybelle al marinaio, sentendosi le labbra secche. «Lo sanno,» mugugnò il marinaio con voce sgarbata. «Pensi che non lo sappiano?» Però si mise il megafono davanti alla bocca e riferì alla rampa chi c'era a bordo. «Tornate al porto,» strepitò di nuovo la rampa. «La nave parte entro un'ora...» Maybelle si lasciò andare contro il sedile. C'era stato qualcosa di perverso nel tono della voce di Honeypeach, quando l'aveva salutata. Qualcosa di bramoso, di lascivo e sfottente. Se c'era qualcuno capace di organizzare quell'imprevisto, era proprio Honeypeach. Bastava solo che chiamasse Justin... «Dobbiamo tornare indietro,» disse il marinaio. «Se restiamo qui quando
parte, finiremo fritti.» Maybelle non poté dire nulla. Che cosa c'era da dire? Che cosa avrebbe fatto, una volta tornata al porto? Sarebbe fuggita? Per andare dove? Si sistemò meglio sul sedile, dimenticando il fracasso della rampa e gli schizzi fangosi delle onde, immersa nei suoi pensieri. Quando giunsero in prossimità del porto Maybelle vide le divise color nero e oro delle guardie della Residenza Governativa. Qualcuno l'aveva mandata a prendere. Qualcuno sapeva che lei non sarebbe partita. Il rumore di una voce che la salutava la distolse dalle sue meditazioni. Un piccolo peschereccio si era accostato di prua. La figura grassoccia al timone stava gridando verso di loro. Il marinaio rallentò e lasciò che la barca si fermasse. «La signorina Maybelle Thonks?» chiese il timoniere. Grassoccio, capelli grigi. Le sembrò di averlo già visto da qualche parte, anche se non riusciva a distinguerne bene il volto dietro gli occhialoni e la sciarpa arrotolata intorno al collo. «Sì,» annuì Maybelle, pietrificata dalla paura. «Il signor Gentry ci ha chiesto di venirti a prendere, signorina, se non hai niente in contrario.» Le sorrise con un'aria da nonno. Lei rivolse una rapida occhiata verso il porto. Le guardie governative erano ancora lì, e in mezzo a loro c'era qualcun altro. Qualcuno con un cappello vistoso e dei veli multicolori svolazzanti. Honeypeach. Oh, sì, proprio lei. «Vado con quest'uomo, marinaio.» disse allora con quel suo tono imperativo che usava così di rado, trasformando la paura in una simulazione di arroganza. «Tieni accostate le imbarcazioni, in modo che possa trasferire il mio bagaglio.» Saltò da una barca all'altra, sentendo grida di rabbia provenire dal porto, al di sopra dello sciabordio delle onde. Solo quando fu nel peschereccio, insieme a tutti i suoi bagagli, si rese conto che qualcuno poteva essersi servito del nome di Rheme. Ma ormai era troppo tardi per i ripensamenti. La scia dell'imbarcazione della BDL stava scomparendo in direzione del porto, mentre la barca in cui si trovava dirigeva rapidamente a nord lungo la spiaggia. CAPITOLO SEDICESIMO Tasmin, Donatella, Clarin e Jamieson lasciarono la valle tagliando in di-
rezione sudest attraverso un varco che le carte identificavano con il nome di Scalinata dell'Orco. Non esisteva chiave d'accesso, ed ebbero qualche problema per oltrepassare la Presenza. Donatella era convinta di avere una chiave d'accesso da potere adattare, ma l'Orco non era in vena di favori. Stavano quasi per arrendersi, infuriati e delusi, quando Clarin li fermò. «Lasciate fare a me,» disse, aprendo la scatola armonica e sollecitando il mulo col ginocchio per farlo orientare in direzione della Presenza. «Aiutami, Tasmin.» Toccò le chiavi e cominciò a cantare. Tasmin impiegò solo un attimo a capire che cosa stava facendo. Già un paio di volte, in precedenza, i tentativi di Don erano sembrati placare la Scalinata. Clarin aveva preso quelle brevi frasi e le aveva mescolate, amplificando ed estendendo la melodia, collegandole a una linea armonica di una partitura del tutto diversa e poi orchestrando il tutto man mano che andava avanti. Tasmin raccolse la linea armonica e cominciò a cantare anche lui, e le due voci si levarono all'unisono. Non aveva mai cantato insieme a lei, prima di allora. Fu sensuale come toccarla. Di più. Fu come fare l'amore. Lui lo sapeva, lo capiva, e lo mise da parte, rifiutandosi di pensarci, anche quando la sua voce continuava a librarsi. La musica aveva la sua logica, così come fare l'amore. La sua logica e i suoi imperativi. Non era necessario pensare o spiegare. La cosa era perfetta in sé. I muli cominciarono a muoversi in avanti di loro volontà. Don e Jamieson li seguirono a bocca aperta. Jamieson non riusciva a credere a ciò che sentiva. Aveva] cantato con Clarin, ma non era mai stato così. La voce di Clarin aveva un'estensione quasi da baritono-contralto, dolce nei toni più bassi come un organo a canne, pura in quelli più alti come un flauto di legno. La voce di Tasmin aveva un'estensione più ridotta e una tonalità più bassa, ma la qualità era più ricca, più vellutata. Le due voci si fondevano alla perfezione, come se fossero una sola. Quando giunsero al termine della melodia iniziale, Clarin salì di un'ottava e cominciò una variazione. Tasmin la seguì senza sforzo. Sotto di loro la Scalinata dell'Orco era immobile. Giunsero al passo sulle ali di un accordo sublime, interminabile, che si levò alto nel cielo, trasformandosi in nulla. La Scalinata era alle loro spalle. Mentre se ne allontanavano restituì loro il canto, tre toni di smisurato interrogativo.
Tasmin e Clarin continuarono ad avanzare, senza farci caso, senza ascoltare, dimentichi del mondo che li circondava. Don non aveva acceso il traduttore. «Buon Dio,» ansimò, guardando verso Jamieson, sorpresa di trovarlo pallido e tremante, con gli occhi pieni di lacrime. «Jamieson,» mormorò. Clarin e Tasmin cavalcavano silenziosi, senza guardarsi. «Jamieson?» «Solo una volta,» farfugliò il ragazzo. «Solo una volta. Se solo potessi...» Lei annuì, comprendendo. Non c'era niente che potesse dire. Povero Jamieson. Troppa affinità. Gli strinse la spalla, in segno di partecipazione. Lui amava la ragazza, lei amava Tasmin, e Tasmin amava... che cosa? Celcy? Jubal? Quando giunsero in fondo al pendio, Clarin era di nuovo se stessa. Aveva tirato fuori dalla tasca un pacchetto di dolci e li offrì agli altri. «La gente che ci insegue sa che siamo diretti a sud. E visto che l'unica cosa che hai fatto per sollevare i loro sospetti è stata quella di uscirtene con la partitura dell'Enigma, possono dedurne che siamo diretti proprio lì.» Don annuì. «Quando usciranno dalla valle che abbiamo appena lasciato, incroceranno una importante via di comunicazione commerciale nord-sud, e non avranno praticamente più nessun problema.» «Noi dobbiamo semplicemente arrivare per primi,» disse Tasmin, sollevando la zampa di un mulo e fissandola come affascinato. Era ancora perso dietro la musica, ancora non riusciva a collegarla con la realtà. «Abbiamo perso un po' di tempo con l'Orco, ma per quel che deduco dalle carte penso che potremo attraversare abbastanza tranquillamente gli Accecatori, verso est rispetto a noi, ed immetterci anche noi in una delle principali vie di collegamento nord-sud.» «Quella che viene da Terrafonda Due. Sei, Otto e Nove?» chiese Jamieson con una voce quasi normale. «È un itinerario facile. Ne conosco ogni chiave d'accesso.» «Buon per te, Reb. E Nove è proprio al di là della Catena Mistica, rispetto ad Armonia.» Tasmin diede una pacca al mulo e strinse il sottopancia, poi prese un dolce da Clarin e si sedette accanto a lei. «Dobbiamo muoverci rapidamente. Justin ha già chiuso tutto l'interno, e non lo avrebbe fatto se non fosse stato certo che la Commissione CACCIA arriverà da un momento all'altro. Appena emetterà il suo verdetto, Justin darà ordine alle truppe, e tutto ciò che abbiamo da dire diventerà assolutamente inutile.»
Jamieson annuì. «Quanto tempo pensi che ci rimanga, nella migliore delle ipotesi? Pochi giorni? Poche settimane? E questo, al massimo, se abbiamo intenzione di mostrargli qualcosa finché sono ancora qui. Dobbiamo raccogliere le nostre prove e poi tornare alla Costa di Terrafonda come razzi.» Con la situazione così delineata, inesplicabilmente si sentirono tutti meglio. La situazione era effettivamente preoccupante come l'avevano immaginata, e su questo erano tutti d'accordo, il che li sollevava dal problema di doversene preoccupare a livello individuale. Don riuscì addirittura a fare un sorrisetto furbo mentre osservava Clarin che cercava di trovare un sostituto al suo topolino dei cristalli adescando con un dolce un altro animale, nuovo ed elusivo. Ma quello non si lasciò catturare, e. allora tutti e quattro risalirono sui muli dirigendo di buon passo verso gli Accecatori. Dopo di che, per diversi giorni, praticamente non si fermarono più. Dormirono per brevi periodi, quando proprio erano esausti, sentendosi al risveglio meno riposati di prima, arrangiarono tutti i pasti e limitarono al minimo le soste per il riposo. Jamieson li condusse attraverso gli Accecatori, trovando stavolta una straordinaria energia chissà dove, e lasciandoli tutti a bocca aperta. Oltrepassarono l'ultima delle torri cristalline verso sera, quando la luce rifratta dal sole calante rendeva quasi impossibile vedere qualcosa in qualsiasi direzione, e si ritrovarono sulla larga via che conduceva a Terrafonda Due, con chiavi d'accesso molto semplici che li separavano da quella città della fascia terrosa. Giunti a Due, Tasmin requisì quattro muli di scorta dalla Cittadella, lasciando i loro animali a camminare senza carico per quasi tutti i giorni successivi, quando incontrarono una carovana diretta verso est e si unirono ad essa, restandovi per tutta la strada fino a Terrafonda Sei. La carovana riposò per otto ore, ma Tasmin e compagni ne dormirono solo cinque, alzandosi quando era ancora buio per riprendere il cammino, calcolando di giungere alle prime Presenze significative verso l'alba. Clarin catturò un topo dei cristalli in mezzo ai Piccoli, dalle parti di Terrafonda Otto. Lo aveva quasi addomesticato quando raggiunsero Nove, nutrendolo di briciole e cantandogli melodie ripetitive, che fecero sognare gli altri mentre cavalcavano. Jamieson aprì la strada con il canto attraverso i Sussulti, spianando la strada per Armonia, verso occidente. Quella notte decisero di dormire nel caravanserraglio. Ad Armonia non c'era una Cittadella, ma il gestore del
caravanserraglio fece in modo di rendersi utile quanto poteva, fornendo loro cibo, salviette e altre stranezze assortite con la massima pignoleria. «È bello avere di nuovo qui un gruppo di Cantori,» disse, con i numerosi menti e i rotoli del ventre che ballonzolavano per la felicità. «Ce n'è stata una banda da non crederci, poco tempo fa.» «Problemi con i Cantori?» domandò Tasmin, incredulo. «Non mi risulta che abbiamo mai creato problemi a qualcuno, di recente.» «Nooo. il Mastro di Viaggio era a posto, lui e i suoi assistenti. E anche quelli dei carri erano a posto. Il cuoco mi ha anche dato una mano a mettere insieme un pasto per tutti. No, erano quegli altri che stavano insieme a loro.» «I passeggeri?» Il ciccione scosse la testa, mentre prima i menti e poi la pancia dondolavano come onde generate da una causa comune, in qualche parte attorno alle orecchie. «Non credo, no. Quattro uomini con muli propri, che inseguivano la carovana in cerca di una donna e di un bambino. Il Mastro ha detto che la donna li aveva lasciato dalle parti di Dodici. Una pazza, se è andata da quella parte. Da lì è molto più lungo. Deve attraversare Tredici e Quattordici per arrivare a Sei, poi rifare il percorso che avete fatto voi. È almeno il doppio di strada.» «Non ti è capitato di sentire chi stessero cercando, eh?» gli chiese Tasmin, che si sentiva la bocca secca. «La donna si chiamava Terree. Come quel cantante della Costa che si è ammazzato sull'Enigma...» «E per caso questi uomini non hanno detto chi erano?» domandò Donatella. «Oh, per uno di loro non ce n'era bisogno. Bins, si chiamava. Chantiforth Bins. Mia moglie compra ogni cubo che quei dannati Cristalliti tirano fuori. Lei è una vera credente, almeno fino a quando non si renderà conto che la prendono per il sedere e che butta via i suoi quattrini. Tutte le volte che entro nella sua stanza c'è quel cubo che strilla e strepita come un bantigon col mal di testa. Quell'uomo l'ho visto tante di quelle volte che non ne posso più. E l'ho anche sentito, e visto da vicino non è meglio che visto dentro il cubo. Ho capito che mentiva nel momento stesso in cui ha cominciato a parlare.» «Però non ha trovato la donna.» «No. Lei se n'era andata molto prima. Da come la vedo, quel Mastro l'ha nascosta da qualche parte»
«Nascosta!» «Proprio così. L'ha nascosta in mezzo agli alberi o in una buca del terreno, così che quei tipacci non la trovassero e non le facessero del male. Né a lei né al bambino.» «La risposta a tutti i nostri problemi,» disse Jamieson sottovoce, piegandosi verso Clarin. «L'ha nascosta in una buca del terreno.» «Io ci nascondo te, in una buca del terreno, se non stai attento,» mormorò Clarin, sorridendogli. «E adesso dov'è il Mastro di Viaggio?» chiese Tasmin, cercando di rimproverarli con lo sguardo, ma riuscendo solo ad esprimere una grande stanchezza. «È andato a Cinque. Prima di partire mi ha chiesto di andare là e di aiutarla. Me l'ha detto in un orecchio, praticamente, quel Mastro.» «Quando è successo?» chiese Tasmin, pericolosamente paziente. «È stato ieri. Il problema è che io non ci posso andare finché quelli non vanno via.» «Il Mastro ti ha detto dove hanno accostato la carovana, Bins e la sua banda?» «Oh, sì. Sono arrivati al bivio dove c'è una strada che porta quassù ad Armonia, e l'altra va verso est ma finisce poco dopo. Mi pare che sia proprio così. Certo, dovreste chiederlo a loro. Dormono tutti là dentro.» E indicò una delle sale dormitorio, a metà del lungo corridoio. «La cercavano ma non l'hanno trovata. Hanno detto che andranno a Terrafonda Cinque, domani mattina presto.» «Sono armati?» domandò Jamieson. Il gestore del caravanserraglio scosse la testa. «Non mi pare. Io non ho visto armi.» «Scommettiamo che non si dorme?» disse Donatella, ma la sua era una domanda retorica. «Scommettiamo che hai ragione,» replicò Tasmin. «Hai del tè di Bormil? O di Tsamp?» chiese al gestore. «Qualcosa che ci tenga svegli per un po'?» «Diamine, quale caravanserraglio non ha lo Tsamp?» disse l'altro, annuendo. «Ma certo che ce l'ho. Lo volete in polvere, o cotto con qualcosa?» Si accordarono per uno Tsamp in brodo, e ne bevvero tanto che i loro sensi erano dolorosamente all'erta, quando lasciarono Armonia diretti verso sud.
Al sorgere del sole si ritrovarono al bivio, con un lungo costone che correva verso est, e boschetti di alberi di Jubal sparpagliati nel terreno basso fra il sentiero, che puntava ad occidente, e le Presenze. Nessun segno di Vivian o del bambino Chiamarono e cercarono per un'ora, poi per un po' di tempo usarono le macchine per inviare richiami sonori e infine, presi da una specie di fatalistica spossatezza, voltarono verso est e puntarono sull'Enigma. Tasmin lo aveva già visto prima, dal versante settentrionale, in mezzo alle guglie gemelle, in mezzo alle due spade insolenti di ghiaccio sanguigno. Aveva guardato in basso, verso la piccola radura che si trovava fra quelle spade come un fazzoletto macchiato di sangue, e aveva visto quel fazzoletto avvolgersi intorno a Celcy, attorno a Lim, spazzando via coloro che erano così arroganti da sfidare l'Enigma. Adesso vedeva lo stesso luogo dal basso. Una levigata rampa di cristallo serpeggiava verso l'alto fino a quella stessa piccola radura. Era stata ripulita di tutti i frammenti grandi e piccoli, e scintillava come vetro molato, come rubino o granato scuro, con i bordi più pallidi, quasi che il suo sangue si fosse coagulato in alcuni punti e fosse scorso come acqua in altri, macchie scure e tinte sfumate mescolate insieme dove qualcosa sanguinava nel mare del grande cristallo, sanguinava in eterno e in eterno veniva ripulito... All'interno delle nervature sanguigne scintillava la rete della frattura, il delicato intarsio di dislocazione, di piani inclinati e bordi mancanti, tremolante alla luce dell'alba. «Dove sei andata l'altra volta, Don?» chiese Tasmin. «Quando gli hai parlato?» «Lassù,» rispose Donatella. «Era una giornata grigia e buia, con l'aria piena di nebbia. Non come oggi. Io... io non ricordo di avere avuto paura, allora.» «E adesso ne hai?» «Signore, certo, perché tu no? Quella cosa ci sta fissando.» «Pensavo di avere paura, ma sono stato qui solo una volta, e la mia esperienza è stata del tutto diversa dalla tua.» «Che facciamo?» domandò Clarin. «Adesso puoi dircelo, Donatella. Qual era il tuo indizio? Che cosa ti ha dato Erickson, che ti ha portato fin quassù?» Donatella si voltò e sistemò la sua scatola armonica, trovando una rego-
lazione particolare e suonandola così piano che gli altri la sentirono appena: una melodia ammaliante, che cresceva e diminuiva in una quieta ripetizione, come l'acqua che sgocciola sulla pietra, erodendola. «An-darououm, an-dar-ououm.» Era la partitura dell'Enigma, eppure non era né il sintetizzatore né una voce umana. «Viggy?» chiese Jamieson. «Sono viggy?». «Adesso inserisco il traduttore.» disse lei. «Ascoltate.» La stessa melodia, tradotta. «Lascia che i bordi dormano. Lascia che una metà dorma,» cantò il traduttore. «Lascia che dorma in pace, lascia che riposi, lascia che riposi, lascia che l'acqua scorra dentro, lascia che i bordi crescano, lascia che la via divenga chiara, facile, facile, lascia che le dita dormano, lascia che una metà dorma.» Spense la macchina. «E c'è dell'altro. Non altre parole, ma molta più musica, e molto ripetitiva. E questo che mi ha suggerito Erickson... che io registrassi un gruppo di viggy vicino a una Presenza senza chiave d'accesso. Be', sono stata fortunata. Mi sono nascosta, li ho sentiti cantare di notte, e ho registrato quella prima cosa. «Comunque il traduttore ha potuto fornirmi solo qualche parola. Credo che qualsiasi traduttore, fino ad ora, non sarebbe riuscito a fare nemmeno quello. Mi ha detto che gli serviva di più, molto di più. Così sono rimasta nascosta dentro una buca in quel costone lassù per più di una settimana, registrando i canti dei viggy e le loro conversazioni, e descrivendo ciò che stavano facendo finché il traduttore non ha avuto materiale a sufficienza da cominciare a restituirmelo in modo comprensibile. Abbiamo trovato subito le parole per acqua, dita e sonno, ma per avere il resto c'è voluto un po' di tempo. La lingua dei viggy è più complessa di quanto tu immagini. Una volta avuta la traduzione ho imparato le parole, poi sono venuta qui e ho eseguito il canto. Ecco che cosa ho usato. L'ho cantato all'Enigma, tutto intero, per circa un'ora. Non ho molta voce, ma non è stato difficile. L'hai sentito. È semplice.» «E registravi tutti i suoni che emettevano le Presenze?» «Naturalmente. All'inizio solo rumore. Tutti i diversi tipi di rumore che si trovano. Come nella valle come nella maggior parte dei posti, solo una gran confusione, sibili, stridori, sbuffi e scricchiolii. Ma mentre cantavo quei suoni si acquietavano. Mi ero già preparata le domande da rivolgere, tipo C'è un nome con cui ti chiami che vorresti che io usassi? Pensavo che sarebbe stato un bel modo per cominciare. E così, appena tutto fu calmo, cantai quella domanda. Ad atta voce.»
«E la risposta fu, da ciò che ricordo di quando ce l'hai fatto sentire, I messaggeri sanno a chi essi vengono, giusto?» chiese Jamieson. «Giusto. Non fu una risposta vera e propria, ma aveva un senso. Perciò ho pensato che a quel punto era il caso di fornire qualche informazione, e ho cantato Io non sono uno dei soliti messaggeri.» «E la risposta fu Nessuno di essi lo è,» disse Clarin. «Proprio così. Fino a quel momento tutto era stato molto tranquillo. Poi andai avanti con la domanda successiva. Nell'attimo in cui cominciai, esso tremò. Appena un poco, e solo da un lato, ma io pensai... insomma pensai che, diavolo, ne avevo abbastanza. Non sono una linguista, né una filologa o un'esperta in comunicazione aliena. E se ne avessi provocato la rottura, senza rendermene conto? Così tornai al canto iniziale, quello sull'acqua calma, e continuai a cantarlo mentre retrocedevo.» «Dunque la tua intenzione è quella di ripetere la sequenza?» chiese ancora Clarin, alzando gli occhi verso l'alto. «Con noi come testimoni.» «Perché non l'abbiamo provata su qualche altra Presenza, magari più vicina a dove ci trovavamo?» voleva sapere Jamieson, anche lui con gli occhi all'insù. C'era qualcosa di sinistro nell'aria sanguigna che emanava dall'Enigma, qualcosa di minaccioso, in quella luce guizzante e cangiante. «Ho provato la musica dei viggy su qualcuna e non ha funzionato. Evidentemente è specifica per questa Presenza. E non ho avuto il tempo di registrare altri canti dei viggy e provarli da qualche altra parte.» «Tu credi che i viggy siano senzienti?» chiese Clarin. «Prima non lo credevo,» rispose Don. «Ho cominciato a pensarlo, naturalmente, quando il traduttore ha trasformato il loro incomprensibile balbettio in parole di senso compiuto. Nessuno ha mai seriamente affermato che lo siano. Sono così sfuggenti che sarebbe comunque difficile dimostrarlo. Ma, sì, quando il traduttore ha cominciato a tirar fuori parole dalle loro canzoni, mi sono convinta che siano senzienti. Di certo non si sono offerti di parlarmi per darmene la prova.» «Adesso il punto non è questo,» intervenne Tasmin. «Qualcuno vuole restare quaggiù?» Fissò Jamieson dritto negli occhi. «Dovresti restare tu, lo sai, Reb. Resta qui con Clarin e il traduttore. Da qui dovresti essere in grado di sentire, pur restando fuori pericolo. Così se succede qualcosa a me o a Don voi due potrete comunque divulgare la notizia.» «Mastro Ferrence.» «Sì, Reb.» «Con tutto il dovuto rispetto, signore. Fra noi due sono più veloce io.
Sono d'accordo che qualcuno di noi debba rimanere qui. Tu, signore, e Clarin.» Mentre parlava i suoi occhi erano limpidi. Non guardò verso Clarin, anche se Donatella sapeva che avrebbe voluto farlo. «Ha ragione,» convenne Donatella. «Tu sei bravo, Tasmin, ma lui è meglio.» «Ah, la fiducia dei giovani,» disse Tasmin, sorridendo debolmente. Naturalmente avevano ragione loro. Doveva essere capace di accettarlo senza che gli facesse male ma, dannazione, faceva male e come. Jamieson non aveva mai avuto paura di provare le cose, anche quelle proibite, anche quelle più sciocche. E si vedeva. Aveva imparato, aveva imparato ai margini della vita, dove Tasmin si era sempre impedito di arrivare. «Buona fortuna Reb,» disse alla fine, mordendosi il labbro. «Vai pure.» «Coloro che cantano ad alta voce,» ansimò uno della compagnia di Chowdri. arrivando freneticamente al galoppo nel campo, con le antenne che ondeggiavano. «Sono sul Folle.» «Chi osa?» esclamò Chowdri. «Chi di Coloro che cantano ad alta voce osa? Il Folle non ne ha uccisi abbastanza?» «La stessa dell'altra volta,» salmodiò il messaggero, senza fiato. «La femmina. E uno che si chiama Tasmin, e poi altri due che si chiamano uno Reb e l'altra Clarin.» «Tasmin!» strillò Bondri, trafiggendo le orecchie a tutta la compagnia che gli si era fatta intorno, mentre Vivian era alle sue spalle. «Tasmin Ferrence?» «Hanno imprigionato un canto dentro una scatola,» gridò il messaggero. «L'ho sentito. Ce l'ha la femmina.» Le compagnie levarono le voci in un solo accordo. «Non posso permettere che Tasmin Ferrence si faccia del male,» intonò Bondri. «Egli è parte del debito.» «Né il canto può restare prigioniero,» aggiunse Chowdri, mostrando i denti. «Lasciate che gli parli io,» esclamò Vivian. «Farò in modo che capisca, Bondri. Non c'è nessun bisogno di ricorrere alla violenza.» «Sbrighiamoci, allora,» cantò Bondri. «Presto. Io prendo il bambino» «Laggiù,» disse Chantiforth Bins, indicando un costone lungo il fianco dell'Enigma. «Li vedi, Myrony? E tu, Spider? Subito a sinistra di quella grossa scheggia.»
Da Armonia Chantiforth Bins aveva raggiunto Terrafonda Cinque, e lì aveva trovato Myrony e Spider Geroan... insieme ad Aphrodite Sells e due infelici Esploratori. Gli Esploratori erano partiti per la Costa. Affy era rimasta a Terrafonda Cinque insieme all'uomo di Spider, Chanty, Myrony e Spider avevano deciso di raggiungere l'Enigma per fare un ultimo tentativo prima di ripartire anche loro per la Costa. Dopotutto dove altro potevano puntare, le loro diverse prede, se non lì? Adesso si trovavano più meno dove si era trovato Tasmin quando aveva visto morire Lim e Celcy, e guardavano in basso verso la zona fra le due torri dell'Enigma, su! versante nord. Sotto di loro il terreno era scosso da un tremito incessante. «Li vedo.» ammise nervosamente Myrony. «E adesso che si fa?» «Li facciamo fuori e ce ne torniamo a Splash Uno,» rispose Chantiforth, sollevando il fucile. «No,» disse Spider Geroan. «Che significa, no,» obbiettò Myrony. «Siamo venuti per questo, Geroan. Per sbarazzarci del Cantore e dell'Esploratore, ed eccoli tutti e due lassù vicino a quella scheggia.» «È quello sbagliato,» disse Spider Geroan. «È solo un novizio. Dov'è quello giusto? Ferrence?» «Ah,» fece Myrony. «È vero. Eccolo, il fottuto Cantore. Vedo la sua tonaca, là in basso, insieme alla ragazza. È fuori portata.» «E allora facciamo fuori quei due, poi scendiamo e prendiamo gli altri due. Qual'è il problema?» Chantiforth aveva fretta. A Terrafonda Cinque le cose stavano evolvendo rapidamente, e ciò poteva mettere in pericolo il suo compenso per quel lavoro, se non fosse arrivato in tempo per proteggere i suoi diritti. Sollevò di nuovo il fucile. «No,» disse nuovamente Geroan. «Se colpisci qui due lassù, gli altri vedranno tutto dal basso, e fuggiranno, probabilmente si rifugeranno di nuovo nella Catena, dove non possiamo raggiungerli.» Spider socchiuse gli occhi, concentrandosi sul problema. «Te lo avevo detto che avremmo dovuto portare con noi quei due Esploratori.» «A che ci sarebbero serviti?» Come sempre, la voce di Spider era del tutto priva di espressione. «Hanno detto che non esisteva alcun modo per portarci all'Enigma, e tutti a Terrafonda Cinque erano d'accordo. Non si può usare un fuscello per colpire un bantigon, Bins. In un modo o nell'altro le cose si sistemeranno.»
«Mi prenda un colpo se so come. Quel fottuto di Cantore è fuori portata.» «La donna è quella che ha tirato fuori la partitura dell'Enigma,» osservò Chantiforth. «Ha intenzione di eseguirla adesso, non credete? Senno' perché mai sarebbe venuta fin qui? Questo ci concede un po' di tempo.» Spider annuì. «Mentre sono occupati, noi strisceremo giù fino a quei Piccoli. Tu e Myrony nascondetevi lì, il più vicino possibile all'Esploratore e al novizio. Io scenderò e cercherò di essere a portata di Ferrence prima che facciate fuori quei due.» «E la ragazza che è con Ferrence?» «La prenderò io,» rispose Spider, fingendo di non notare l'espressione disgustata che attraversò il volto di Bins. Era stato un viaggio molto lungo, e lui da tempo non si concedeva il minimo svago, non provava quella particolare eccitazione che gli derivava dall'osservare l'unica cosa che non aveva mai sperimentato. Esaminò Clarin con il binocolo. Ottima. Gli piaceva il tipo, e l'età. Un'età in cui si è forti e agili, capaci di contorcersi e supplicare a lungo, prima di morire. «Ci farai un gorgheggio quando sei pronto?» chiese Myrony. «Non mi piace l'idea di rimanere troppo a lungo in mezzo a queste dannate Presenze.» Si diressero verso il crepaccio nel cristallo attraverso il quale Tasmin aveva assistito alla morte di Celcy e di Lim. «Un attimo!» «Che ti prende?» domandò Chantiforth. «Prima becchiamo quei due, poi scendiamo dove si trova Spider, e lui sistema il Cantore, poi questa Presenza si mette a scuotersi e a sussultare, e noi come facciamo a tornare quassù, per poi andarcene in città? Lì c'è Affy che ci aspetta.» «Ha ragione, lo sai.» disse Bins a Geroan. «I nostri muli sono rimasti a Terrafonda Cinque, insieme a tutti i nostri bagagli. Io non ho nessuna intenzione di tornarmene sulla Costa attraversando questa regione. E anche non volendo andare sulla Costa, da qui è comunque un bel viaggio, passando per Armonia.» Spider rifletté. «Va bene. Apporterò un piccolo cambiamento al nostro piano. Fate come vi ho detto. Voi scendete un po' e mettetevi a portata di tiro di quei due, nel caso ci fosse qualche imprevisto. Scenderò anch'io e farò fuori per primi il Cantore e la ragazza. Non dovrebbero accorgersi di me: saranno impegnati con le loro scatole. Poi tornerò indietro, e ci incontriamo quassù, infine andremo tutti insieme a sistemare il novizio e l'Esploratore. Mi secca un po', ma faremo così.» Anche se non gli si leggeva
in faccia, Spider era contrariato. Lui non tollerava la contrarietà, e solo sostituendo l'immagine mentale di Aphrodite Sells a quella di Clarin nei suoi programmi per i giorni successivi riuscì a ritrovare un minimo di serenità. Gli altri non sollevarono obiezioni. Rimasero fermi in attesa, controllando le armi e aspettando che la terra smettesse di tremare. «Là,» cantò Bondri. «Quello è Tasmin Ferrence. Il Primo Sacerdote Favel ha detto che aveva i capelli di quel colore.» «Sì,» assentì Vivian. «Quello è proprio Tasmin. Tieni d'occhio il bambino, Bondri, ti dispiace?» Vivian uscì dalla macchia di cespugli del colono e si diresse verso Tasmin e Clarin. Dietro di lei il ricomparve il messaggero viggy che aveva portato la notizia all'inizio. «Ce ne sono altri, di Coloro che cantano ad alta voce,» annunciò cantando alle compagnie riunite. «Sul retro del Folle. Alti contro il cielo.» «Pronto?» chiese Donatella, le dita posate sulla scatola armonica. «Pronto,» annuì Jamieson, con una smorfia. Guardò intorno a sé, la piccola radura in mezzo ai torreggianti picchi scarlatti. Voleva ricordarla com'era. Si sentiva la mente come se ci fossero delle fiamme che vi guizzavano dentro, fiamme festanti. Ricordava ogni partitura che avesse mai cantato, e anche tutte quelle che aveva solo visto. «Pronto,» ripeté, esultante. Le loro mani partirono all'unisono e la musica ebbe inizio. «Gli uomini in cima al Folle hanno delle armi,» disse il messaggero. «Le stanno puntando contro gli amici di Tasmin Ferrence.» «Tasmin,» gridò Vivian. «Tasmin. devi fare venire via i tuoi amici da lassù. Ti prego!» «Muovetevi adesso,» ordinò Spider Geroan. Il tremito del suolo era diminuito abbastanza da consentire una marcia senza rischi. «Agire rapidamente, e tenetevi fuori vista.» «Che le compagnie di Bondri e Chowdri circondino gli uomini con le armi,» disse Bondri con un tono di urgenza nella voce. «C'è un debito di onore che rischia di non essere rispettato.» «Non è il nostro debito,» disse Chowdri, esitando.
«È il debito del Primo Sacerdote Favel,» trillò Bondri. «I Primi Sacerdoti sono di tutte le compagnie.» Per qualche momento le compagnie discussero la questione con il canto, in diverse variazioni. Nessuno poteva negare che la cosa fosse vera, anche se qualcuno osservò che un debito contratto da un viggy prima ancora di diventare Primo Sacerdote poteva non essere impegnativo per tutte le compagnie, ma fu soltanto una voce di minoranza, che alla conclusione si trasformò in una disarmonia ossessiva, ma isolata. «Andate allora,» ordinò Chowdri, un po' di malavoglia. «Andate verso il Folle, la Presenza Senza Interiorità, l'Assassino Senza Causa, chiamato da Coloro che cantano ad alta voce Enigma. Che il debito venga soddisfatto.» «Vivian! Come hai fatto ad arrivare qui?» «Mi hanno portato i viggy, Tasmin. Ascoltami, non c'è tempo per le domande. I viggy affermano che l'Enigma ucciderà chiunque tenti di placarlo con il canto. L'Enigma è pazzo.» «Donatella l'ha già fatto, una volta.» «Non esattamente. Non era sveglio, e lei ha appena cominciato, poi ha smesso prima che l'Enigma si svegliasse, tutto qui. Oggi è completamente sveglio. Tasmin, portala via da lì.» Mentre Tasmin stava ancora fissando Vivian, cercando di trovare un senso in ciò che gli aveva appena detto, Clarin non attese. Le parole di Vivian avevano fatto emergere in lei un senso già presente di acuta preoccupazione, e la ragazza si mise a correre a perdifiato su per il pendio, lasciando Tasmin a guardarla impotente dal basso, senza nemmeno poterla seguire perché Vivian gli si era aggrappata alle braccia. «Tasmin, tu hai la registrazione di un canto dei viggy? Tasmin! Ce l'hai?» Lui cercò di mettere a fuoco la domanda. «Sì. Donatella l'ha suonata poco fa.» «Devi restituirglielo, Tasmin.» «Restituirglielo!» «Cancellalo. Fai qualcosa. Cercheranno di riprenderselo. Tasmin, e alcuni di loro potrebbero restare uccisi. Mi hanno salvato, e hanno salvato Miles. Hanno con sé il bambino di Celcy, Tasmin! Oh, non mi chiedere come o perché. Non mi fare domande, dimmi solo che lo farai.» La musica cresceva lentamente in uno schema ritmico, con la voce di Jamieson che si levava dolcemente, ondeggiando come il vento. Sotto il
suono l'Enigma restava tranquillo, e il suo fremito tendeva a scemare. Però tremava ancora. «L'ultima volta mi ci è voluta quasi un'ora,» disse Donatella a bassa voce. Jamieson annuì, senza perdere la linea melodica. I suoi occhi passavano dall'una all'altra delle due torri dell'Enigma. Proprio nel corso di quell'andirivieni visivo scorse Clarin che risaliva il sentiero. Ha una fretta dannata, si disse, sempre cantando. Giù in basso c'era qualcuno insieme a Tasmin, che indicava e faceva grandi gesti... «Trema ancora un poco,» bisbigliò Myrony. «Be', allora aspetta finché non smette,» replicò Chantiforth. Avanzavano faticosamente verso i pilastri che costeggiavano la radura dove Jamieson stava cantando. Spider era partito prima di loro e già era a mezza strada verso le scarpate di pietrisco in cui si trovava Tasmin. «Qualcuno sta salendo,» disse Chanty in un sibilo. «Mettiti giù e resta immobile.» Sbirciarono tra i frammenti ammonticchiati di cristallo videro Clarin che scalava la montagna verso di loro, ansimante, ma senza perdere velocità. Giunta appena sotto di loro la ragazza si fermò, si appoggiò a un pilastro e cercò di riprendere fiato. Che diavolo, pensò Jamieson, senza interrompere il canto nemmeno per un attimo. Clarin gli stava facendo dei gesti imperiosi. Allora iniziò una ripetizione, una frase che si iterava in continuazione, e sentì la voce di Clarin che cantava insieme a lui. «An-dar-ououm,» intonò Jamieson. «Fraa-tel-lo,» cantò lei, in terze minori, limpida come un suono di campana. Il richiamo del pericolo! Il richiamo di identificazione! Jamieson si voltò, e si guardò intorno. Niente! «An-dar-ououm,» cantò di nuovo, spiegando la voce. «Fraa-tel-lo,» sempre in terze minori. Jamieson fece un cenno a Donatella e cominciò a discendere, lontano, sempre più lontano da quel terreno sanguigno in mezzo alle guglie, verso Clarin, senza mai smettere di cantare. «An-dar-ououm,» ripeté per la terza volta, librando la voce. «An-dar-ououm,» giunsero un centinaio di voci da tutt'intorno a lui.
Viggy! Poteva vederne gli occhi, all'ombra del cristallo, che rilucevano dietro i globi paonazzi delle loro sacche canore. «An-dar-ououm. An-darououm.» Poi lui e Donatella furono accanto a Clarin, tutti e tre diretti verso il basso, rapidamente, mentre i viggy proseguivano il canto. «Che succede?» chiese Donatella. «Perché hai gridato fratello?» «Risparmia il fiato. Don. Pensa solo a scendere e ad allontanarti da quest'affare. Secondo i viggy sta per esplodere.» «Esplodere? È tranquillo come una tomba, e man mano che passa il tempo diventa sempre più tranquillo.» Donatella si fermò e si voltò, come se volesse tornare verso la montagna. «Quelli che cantano sono viggy?» «Cercano di darci il tempo per metterci fuori pericolo. Noi e loro stessi. Sbrigati, dai.» Clarin afferrò il braccio di Donatella e la fece voltare bruscamente. «Muoviti. Se ci stiamo sbagliando puoi sempre tornare quassù...» Giunsero in fondo al pendio e corsero verso Tasmin e Vivian e Miles e una dozzina di giovani viggy che stavano fissando l'Enigma con gli occhi sgranati e le bocche spalancate, e si scambiavano occhiate frenetiche, paralizzati da quello spettacolo straordinario. Un fremito. Un fremito minimo, come se qualcuno gli sfilasse un tappeto da sotto i piedi. Il canto si perdeva lontano, moltiplicandosi fra le montagne al di sopra di un'ondata di viggy in fuga. Il tappeto si mosse di nuovo, questa volta in modo più sensibile. Donatella barcollò. I viggy si gettarono a terra, facendo grandi gesti e gridando nella lingua di Coloro che cantano ad alta voce: «Giù, giù, tenetevi forte, sta per esplodere.» Poi giunse il tuono, mentre la montagna si sollevava e le guglie mandavano bagliori, dando l'impressione di piegarsi e oscillare mentre tutto intorno a loro i pilastri più piccoli si schiantavano con fragore. Frammenti rotearono per il cielo, schegge scintillanti di luce rosso sangue affilate come rasoi. Detriti piovvero dalla cima dei Piccoli, rimbalzando, frantumandosi e schizzando via in traiettorie sibilanti. I denti gemelli dell'Enigma urlarono verso il cielo, una cascata fragorosa di minaccia e di pericolo. Il traduttore, regolato al massimo del volume, ruggì. «Sarebbe logico pensare che dopo tutto questo tempo avreste potuto dirlo giusto.» La voce di Donatella divenne la voce di un gigante. Poi: «Come sei irascibile.» Di nuovo la voce mostruosa di Donatella.
E ancora: «Io mi arrabbio quando non capiscono chi sono.» Sempre la voce di Donatella. Che la volta precedente era stata quella di Lim. Due figure, una delle quali imbracciava un fucile, spuntarono barcollando sulla cima. Una scheggia vagante mozzò la testa a quella con il fucile, una scheggia non più rossa del sangue che zampillò per un attimo dal corpo. L'altra figura cadde e scomparve in una fontana danzante di frammenti cristallini acuminati. Nel punto in cui Tasmin e gli altri cercavano di ancorarsi al suolo, la terra si sollevò e li colpì in faccia, riabbassandosi poi sotto di loro, e continuando a tremare incessantemente. Poi silenzio. Vivian, Miles, Donatella, Tasmin, Clarin, Jamieson. I viggy erano spariti. Vivian, Miles, Donatella, Tasmin, Clarin... «Dov'è Jamieson?» domandò Tasmin con voce roca. «Dov'è?» «Era proprio dietro di me,» singhiozzò Clarin. «Proprio alle mie spalle.» Si rialzò faticosamente, barcollando. «Laggiù.» Laggiù c'era solo un cumulo di cristalli. Da dietro un ammasso di vetro color sangue una cosa impolverata si alzò in piedi, il volto maliziosamente radioso, i denti snudati in una smorfia di odio. Puntò un'arma verso di loro e ringhiò, attraverso il sangue che gli macchiava la faccia: «Restate fermi dove siete.» «Devo trovare Jamieson,» disse stupidamente Tasmin. «Devo trovarlo.» «Ho detto fermi dove siete! O vi uccido tutti.» «Spider Geroan,» esclamò Donatella con un filo di voce. «Oh, Dio. Spider Geroan.» «Vieni qui,» disse Spider facendo un gesto con l'arma in direzione di Clarin. «Vieni qui o uccido gli altri su due piedi, cominciando da lui!» Come ipnotizzata. Clarin si mosse verso di lui. «Clarin! No!» la voce di Tasmin. Lei si voltò. «Continua ad avanzare, ragazza, o lo faccio fuori. Giuro che lo farò.» Lei riprese a camminare. Quando fu alla sua portata, Spider l'afferrò, girandola verso di loro, e tenendole un braccio intorno alla gola, mentre con l'altro agitava minacciosamente un coltello vicino alla sua guancia. «E adesso.» disse Spider Geroan. «Chi è stato a farlo?» «Chi... chi è stato a fare che?» chiese Donatella. «Chi ha fatto esplodere quel coso?»
«Nessuno,» rispose lei. «È esploso da solo.» Il coltello sul viso di Clarin si mosse appena, e lei gridò, mentre un sottile rivolo di sangue scuro le colava lungo la guancia. «Non è vero!» latrò Spider. «È stato qualcuno a farlo.» Tasmin lottò per calmare la voce. L'uomo di fronte a loro era pazzo. Forse lo era sempre stato. «Clarin è andata da Jamieson e Don a dirgli che l'Enigma non si comporta razionalmente,» gli spiegò. «È stata Vivian a informarci. Prima non lo sapevamo...» «Così vi siete spaventati e siete scappati, e quello lo ha fatto,» affermò Geroan, con un altro movimento del coltello. Clarin gridò di nuovo, un grido acuto, privo di vigore. «Lo stava già facendo,» disse Don. «Non te ne sei accorto? Il tremito non è mai cessato del tutto.» Spider respirò pesantemente per un attimo. In primo luogo voleva fare i conti con chiunque gli avesse combinato quella cosa. Poi voleva lavorarsi la ragazza. Infine... ci avrebbe pensato in seguito. Nel frattempo mosse di nuovo il coltello, quasi di riflesso, e ascoltò il grido di dolore provando qualcosa che si avvicinava molto al piacere. Lo stomaco di Tasmin si strinse, e lui dovette mordersi la lingua per impedirsi di urlare. «Distrailo,» gli disse Don. «Pensa a qualcosa.» «Devo trovare Jamieson,» ripeté freneticamente Tasmin. «Altrimenti nessuno di noi andrà via di qui.» Spider alzò gli occhi, smettendo di agitare il coltello. «Che cosa vuoi dire?» «Lascia che lo trovi,» urlò Tasmin. «È come un figlio.» Nell'ombra delle rocce. Bondri Gesel. «Come suo figlio? Che significa? Lascia perdere.» Lo disse a un giligee che gli stava tamponando il sangue da una ferita alla spalla. «Lascia perdere, devo trovare quel Jamieson. È uno della compagnia di Tasmin Ferrence, e il debito non è stato ancora ripagato.» «Potrebbe anche essere tuo figlio e non avrebbe nessuna importanza,» ringhiò Spider sollevando la mano con il coltello per ripulirsi gli occhi. Non provava dolore per i tagli sul volto e sul collo, ma il sangue era una seccatura e lo rendeva irascibile. «Potrebbe essere tuo fratello o tua madre e non avrebbe nessuna importanza. Tu sei stato un fastidio, Cantore. Tu e quell'Esploratore là. Io sono venuto per porre fine a questo fastidio.» Si strinse al petto Clarin con la mano che brandiva il coltello, e tornò a
imbracciare il fucile. Ce n'erano troppi con cui divertirsi. Ne avrebbe risparmiato uno solo. La ragazza. Clarin. Anche se non ne aveva una gran voglia. Forse gli sarebbe venuta in seguito. All'ombra delle rocce. Bondri Gesel. «Quell'uomo sta per ucciderli,» ruggì gonfiando al massimo la sua sacca vocale. «Il debito rischia nuovamente di non essere soddisfatto; liberiamoci di Colui che canta ad alta voce con l'arma in mano.» Qualcosa afferrò il coltello di Spider e lo allontanò di scatto dal viso di Clarin. La ragazza si divincolò e scappò via, e quando Spider si lanciò per afferrarla incespicò su qualcosa e cadde. Era una cosa pelosa, e non voleva togliersi dalla sua strada. Un'altra cosa pelosa si era appesa all'estremità del fucile e lui non riusciva a sollevarlo. Qualcosa gli afferrò le gambe, e gli affondò nelle cosce i denti aguzzi come chiodi. Non vi fu dolore, ma la cosa era rimasta attaccata a lui, e gli impediva i movimenti. Un'altra cosa si aggrappò al fucile, poi ancora altre due, e glielo strapparono dalle mani. Le cose avvinghiate alle sue gambe lo fecero cadere di nuovo. Gli si sedettero sopra a decine. Una lo fissò dritto negli occhi, sfiorandogli la fronte con delle lunghe protuberanze piumate che gli crescevano sulla testa. Spider lottò, ma erano in troppi. «Questo è difettoso,» disse il giligee anziano. «Bondri Gesel, quest'uomo è difettoso. Non ha la sensazione del dolore. Forse è per questo che si comporta così.» Bondri guardò Colui che canta ad alta voce con dispetto. Il Primo Canto esigeva che al bene si rispondesse col bene e che, per quanto possibile, si rispondesse col bene anche quando si era ricevuto del male, come esempio per gli altri. Comunque il canto disponeva anche che ci si sbarazzasse di coloro che uccidono senza una buona ragione, in modo che gli altri potessero vivere tranquilli. Poi c'era la questione del tabù. Non c'era un buon motivo per infrangere il tabù a causa di quest'uomo. Bondri abbassò lo sguardo sugli occhi inespressivi di Spider Geroan e tentò di applicare il Canto. «Puoi sistemarlo?» cantò. «Puoi sistemarlo in modo che sia in grado di sentire?» «Semplice,» gorgheggiò il giligee. «Be', allora sistemalo,» disse Bondri con un senso di soddisfazione che non tentò nemmeno di comprendere. «E quando avrai finito dì alla compagnia che possono mangiarselo.»
Quando da Spider Geroan provennero le prima grida sbalordite, Tasmin e gli altri avevano trovato Jamieson e lo avevano trasportato abbastanza lontano dall'Enigma da evitargli ulteriori danni. Giunti a una distanza tale da non udire più nessun rumore, si accasciarono sul terreno piatto e immobile, osservando quasi istupiditi un giligee che rovesciava il marsupio sul viso ferito di Clarin e cominciava a ricucirlo. Jamieson giaceva poco lontano, circondato da numerosi giligee. Secondo Bondri aveva qualcosa di rotto, ma i giligee avevano detto che si poteva sistemare. Uno di questi, dietro suggerimento di Vivian, aveva mostrato a Tasmin ciò che portava nel suo marsupio. «Non è ancora finito,» si era scusato il giligee. «Ma sta crescendo bene. Colei che canta ad alta voce ha detto che è tuo.» Ciò che si trovava lì dentro era molto piccolo, ma anche molto rosa e vivace. «Non riesco a crederci.» continuava a ripetere Tasmin. «Non riesco a crederci.» Bondri non capiva perché non riuscisse a crederci. L'aveva visto, come tutti. E glielo avevano cantato due o tre volte. Bondri stava diventando impaziente. Non aveva sollevato la questione del canto prigioniero, ma ogni tanto faceva dei cenni a Vivian, finché alla fine lei si schiarì la gola. «Tasmin, Bondri chiede che tu liberi il canto che hai fatto prigioniero.» «È l'unica prova che ho,» obbiettò Donatella. «Nessuno crederà solo a quello,» disse Clarin. «Non abbiamo niente, Don. L'Enigma è esploso, e non ti ha parlato.» «L'ha fatto prima,» gridò lei. Bondri gonfiò la sacca. Quella gente non cantava in modo ordinato. Non mettevano le cose in fila e non le armonizzavano adeguatamente; non facevano che saltare da una cosa all'altra, in continuazione. «Ti prego,» tuonò. «Una cosa per volta. Per prima, il canto prigioniero, poi tutte le altre che interessano.» «La registrazione della musica dei viggy non ci serve a niente,» disse Tasmin. «Andiamo, Don. Ci hanno salvato la vita.» «Va bene,» acconsentì lei, in un urlo. «Non m'importa. Mi ero comunque illusa, in ogni caso.» Tasmin aprì la macchina. «Vuoi che la cancelliamo noi?» «Cancellarla? Voglio che la liberiate!» Vivian si avvicinò alle mani di Tasmin per manovrare i comandi. «Lasciala suonare, Tas. Poi brucia il cubo. È così che fanno con i loro morti.
Allora il cubo sarà morto, e il canto libero.» «È così.» Bondri fece un cenno di approvazione. «Ci uniremo al canto.» Mentre il sintetizzatore suonava la musica i viggy cantarono insieme ad esso. An-dar-ououm. Un canto di quiete. Quando fu finito Tasmin gettò il cubo nel fuoco, dove si consumò in una vampata di scintille. «È così,» sospirò Bondri. «Perché l'Enigma è esploso?» chiese Tasmin a Bondri. in musica. «Perché egli è il Folle, che ha due menti. L'hai sentito, sulla tua macchina.» «Sulla macchina?» «Sulla tua macchina. Che parla nella lingua di Colui che canta ad alta voce con la voce di lei.» Indicò Donatella. Tasmin si strinse la testa. «Usa la tua voce, Don?» «Usa la voce di chiunque lo sta usando. Quando l'aveva Lim usava la sua.» «Allora quella specie di muggito dal traduttore non eri tu?» «Era il Folle,» rispose Bondri. «Era arrabbiato perché non ti sei rivolta a lui chiamandolo per nome. Tu, femmina di Coloro che cantano ad alta voce,» disse, indicando Don, «gli avevi chiesto prima qual'è il suo nome, ma non ti ricordavi...» «Non capisco,» disse lei con un filo di voce. Chowdri era infastidito. Questa gente non capiva nulla! «Bondri ed io te lo canteremo,» disse in musica. «Ascolta.» «Tu sei già venuta dall'Enigma in precedenza. Mesi fa. Hai usato un canto rubato per placare la pelle dell'Enigma, non è così? È così. Poi gli hai rivolto una domanda. Gli hai chiesto quale nome usasse per se stesso.» Donatella annuì. Tasmin si scosse dal suo autoisolamento e si mise ad ascoltare. Anche Clarin si tirò su a sedere, facendo grugnire di disapprovazione il giligee che sì trovava accanto a lei. «L'Enigma ha risposto,» cantò Chowdri. «Lo abbiamo sentito. Ha cantato I messaggeri sanno a chi essi vengono» «Era una risposta?» intonò Tasmin. «Era il nome con cui l'Enigma chiamava se stesso. I messaggeri sanno a chi essi vengono. Forse l'Enigma crede di essere un messaggero per tutte le Presenze, e così dice questa cosa assurda.» «Poi la femmina gli ha replicato qualcosa come Io non sono uno dei soliti messaggeri e l'Enigma ha risposto a sua volta Nessuno di essi lo è. Per l'Enigma non esistono soliti messaggeri. I messaggeri non vanno dall'E-
nigma. Pensare a questo lo ha reso furioso e tu, tu femmina di Coloro che cantano ad alta voce, saggiamente te ne sei andata molto in tutta fretta. Non è questo un canto di verità?» «È un canto di verità,» rispose Donatella in musica, con un tono rassegnato. «È ciò che è successo.» «Questa volta,» cantò Bondri, «sei tornata di nuovo e hai placato la pelle. È una giornata assolata, molta luce penetra nell'Enigma, rendendolo più caldo. L'Enigma è sveglio ed irritabile. Si aspettava che tu ti rivolgessi a lui con il suo nome. Te lo aveva detto, ma tu non lo hai chiamato per nome. Non hai fatto che continuare a placare la pelle, anche se l'Enigma era sveglio. Ciò lo ha fatto irritare...» «Vuoi dire che la stessa cosa è successa con Lim? Anche lui si è comportato così?» Tasmin rimase a bocca aperta. «Non è stato perché aveva smesso di cantare la partitura?» «Quando la Presenza si sveglia bisogna chiamarla per nome,» cantò Chowdri, e Bondri insieme a lui, seguito poi dalle due compagnie in coro. «Lo sanno anche i più piccoli!» Silenzio, mentre ci pensavano sopra. Alla fine fu Clarin a porre la domanda. «Allora tutto quello che dovevamo fare era rivolgerci a lui con quello che ci aveva detto essere il suo nome? I messaggeri sanno a chi essi vengono?» «Forse,» cantò Chowdri, in assolo. «A parte il fatto che l'Enigma è pazzo.» «Che significa?» «Che cambia il modo in cui si fa chiamare. A volte ogni ora, ogni giorno. A volte non così spesso! E a volte non dice a nessuno qual è il suo nome.» «E così,» disse Don, «si è arrabbiato ed è esploso.» «Ha proteso le dita verso di te,» cantò Chowdri. «E noi avevamo appena finito di pulire, dall'ultima volta.» «Ha gridato,» disse Tasmin. «Ha gridato che dopo tanto tempo avremmo potuto essere capaci di dirlo bene.» «Una metà di esso ha cantato così,» riconobbe Bondri. «Poi l'altra metà ha detto Come sei irascibile.» «È vero. L'altra metà è meno irritabile, e protesta con la prima metà. Ma è stata la prima a dire Io mi arrabbio quando non capiscono chi sono. L'Enigma ha detto queste cose a Lim Terree. Il Folle a volte dice le stesse cose più di una volta. Noi crediamo che il Folle sia pazzo perché ha due metà
che sono in parte separate e in parte tutt'uno fra loro.» «L'ho sempre avuto sotto il naso,» disse Tasmin. «Avevo già sentito quelle parole, ma pensavo che fosse stato Lim a pronunciarle.» «Avresti potuto chiedercelo,» osservò Bondri, in modo un po' irrazionale. «Gli altri Grandi non sono pazzi. Alcuni sono sciocchi, ma quasi nessuno è pazzo. Però adesso sono tutti molto irritati, e dev'essere per via delle cose che stanno facendo Coloro che cantano ad alta voce.» «Ma voi non ci avete mai parlato,» cantò Clarin. «Perché?» «Perché voi non cantate la verità,» salmodiò Bondri, mentre la compagnia si univa a lui per rendere manifesta l'affermazione. «Cantare a coloro che non cantano la verità, questo è tabù.» «Però voi avete infranto questo tabù.» «Lo abbiamo fatto a causa del debito con il Primo Sacerdote Favel, perché tuo fratello lo liberò dalla prigionia, tanto tempo fa. Un debito di onore ha la precedenza su ogni tabù.» Si tirò su, raccogliendo attorno a sé la sua compagnia. «Adesso noi andiamo, e il tabù è di nuovo come dovrebbe essere. Ho pagato il debito del Primo Sacerdote Favel. Vivian e il bambino sono in salvo. Tu, Tasmin Ferrence, sei in salvo. Il tuo figlio non nato è in salvo anche lui, o lo sarà quando sarà cresciuto. Ho restituito bene in cambio di bene.» Don emise un grido strozzato, un no implorante. Tasmin pensò con tristezza a ciò che attendeva Jubal, cercando freneticamente un modo per impedire che i viggy se ne andassero. «C'è ancora un debito,» disse ansimando. «Un debito contratto da Bondri Gesel.» Bondri si raddrizzò, snudando i denti. «Quale debito?» «Quando mio fratello liberò il Primo Sacerdote Favel dalla prigionia, venne contratto un debito, è giusto?» «È giusto.» «E un canto non è importante quanto un Primo Sacerdote?» Bondri alzò la testa. Era una questione che non aveva preso in considerazione. Un giligee trillò una risposta, una femmina riprese il ritornello, poi due maschi in controcanto. Alla fine Bondri rispose: «Un canto è importate quasi quanto un Primo Sacerdote.» «Io non ho liberato un canto dalla prigionia, Bondri Gesel? Non mi sei dunque debitore?» Questa volta il canto andò avanti per quasi un'ora intera. Tasmin si diresse dove era sdraiato Jamieson, facendo scorrere le mani sul volto e sul
corpo del ragazzo. «Vivrà?» domandò in un sussurro ai giligee intenti a curarlo. «Oh, sì,» gorgheggiò in risposta uno di loro. «Vivrà. Credo che abbiamo quasi finito di sistemarlo. Domani, forse, camminerà.» Il giligee era seduto con il marsupio rovesciato, e Tasmin ritrasse lo sguardo da quella massa di filamenti sottili che erano penetrati nel corpo di Jamieson ed erano all'opera su di esso, facendo cose incredibili. Andò a sedersi accanto a Clarin. Le ferite sul suo viso si erano rimarginate. Si era avvolta in una coperta, e ogni tanto era scossa da un brivido. Tasmin appoggiò la mano sulla coperta, sopra il collo di lei. Clarin si ritrasse. «Shhh,» disse Tasmin. «Va tutto bene, Clarin. Tutto bene.» La ragazza cominciò a piangere, e lui la strinse fra le braccia. «Shhh.» Quel pianto gli fece sussultare il cuore. «Nessuno mi aveva mai fatto del male prima. Non di proposito.» «Era una macchina, Clarin. Fai finta che fosse una macchina. Non qualcosa che valga la pena di odiare. È morto.» «Lo hanno mangiato!» Scossa da conati di vomito, Clarin girò la testa dall'altra parte. «È un pianeta povero di carne, Clarin. Secondo Vivian essi mangiano pochissima carne. Mangiano pesce fresco quando si trovano sulla costa, o quando i loro consimili pescatori penetrano nell'interno con un po' di prede, e allora le seccano per portarle via con sé. Non mangiano carogne, né mangiatori di carogne.» «È solo che... che è difficile abituarsi all'idea. E adesso che cosa facciamo?» «Te lo dirò quanto i viggy avranno smesso di cantare.» Quando finirono fu per annunciare che la liberazione del canto comportava indubbiamente la contrazione di un debito. Nessuno dei capi della compagnia ne fu felice. Tasmin si domandò quanta parte delle decisione fosse stata presa per via della curiosità dei viggy riguardo a Coloro che cantano ad alta voce. Forse le compagnie non desideravano tornare immediatamente al tabù. Non parlò di questo. Invece aiutò Clarin ad alzarsi, la sostenne finché non smise di tremare e poi disse: «Bondri Gesel, capo della compagnia, grande cantante. Io ti chiedo un favore. Io ti chiedo che mi ascolti mentre tento di cantarti la verità. Io e questa persona che è qui con me.» Fece un cenno a Clarin. «Jamieson canta più verità di me, ma adesso egli non può
cantare. Vuoi ascoltarmi mentre ci provo io?» Bondri, seccato, confabulò con la compagnia. La compagnia era molto più disponibile di lui. «Che cosa dobbiamo cantare?» bisbigliò Clarin, mentre le sue guance riacquistavano un minimo di colorito. «Canteremo la distruzione di Jubal,» rispose Tasmin. «Se non troviamo un po' d'aiuto qui, tutto ciò che temiamo è sempre più destinato ad avverarsi.» Negli anni successivi le compagnie di viggy che si spostavano dai pilastri degli Intercettori verso le torri dell'est cantarono di nuovo, in occasione delle celebrazioni, il Primo Canto di Verità di Coloro che cantano ad alta voce. Non si trattò di un'esibizione eccessivamente raffinata, ma si espresse con una passionale precisione che i viggy apprezzarono molto. Naturalmente erano solo in due a cantare, con un minimo di sostegno musicale da parte di un terzo, così che si sarebbe anche potuta mettere in dubbio la verità ultima del canto, se non fosse stato per la verifica offerta dagli avvenimenti successivi. Tuttavia i viggy ricordarono quella notte. Tasmin si alzò in piedi e cantò la storia del CSP, dello sfruttamento di numerosi pianeti da parte dell'uomo. Cantò il Primo Canto degli umani, e la disobbedienza rivelata da molti nei confronti di quel Canto. Clarin - i viggy diedero per scontato che fosse la sua compagna, tanto i due cantavano bene insieme - cantò l'avidità e l'orgoglio, concetti che in qualche modo i viggy riuscirono a comprendere. Cantò la menzogna, che essi non capirono ma che accettarono come atto di fede. Poi cantarono insieme di ciò che sapevano, delle bugie che si raccontavano sulle Presenze, della grande distruzione che di certo era lì lì per arrivare. A questo punto i viggy si unirono al canto, secondo lo schema domanda e risposta, in modo sempre più incalzante finché il canto stesso non divenne più vero. «Se,» cantavano i viggy, «allora?», e Tasmin rispondeva. «E se,» insistevano, «allora?» e rispondeva Clarin. Cantarono della brava gente, di Jamieson che giaceva ferito con i giligee all'opera su di lui, di Thyle Vowe, Gran Mastro dei Cantori, che adorava la verità - fu Clarin a cantarlo, con grande sorpresa di Tasmin - dei Cantori e degli Esploratori, e di tutti quegli uomini di pace che coltivavano la terra e amavano Jubal. A tutti costoro non sarebbe stato concesso di restare, se ne sarebbero andati via in ogni caso, ma essi non volevano che Jubal venisse
distrutto. E infine, cantarono i nomi dei cattivi. Spider Geroan, il quale era stato guarito dalla sua malattia e quindi mangiato. I Cristalliti, che erano dei bugiardi. I soldati che bloccavano la strada verso oriente. E per finire Harward Justin, Direttore Planetario, che avrebbe distrutto le Presenze, molto presto, se non si riusciva a fare qualcosa. Il canto terminò. Seguì un lungo silenzio, che nessuno osò infrangere. Nessuno dei membri si azzardò a cantare qualcosa. Alla fine fu il giligee anziano, colui che portava dentro di sé lo spirito-del-cervello del Primo Sacerdote Favel, fornito di una limpida voce da soprano, ad intonare una musica che si librò su di loro come un uccello volteggiante. «Vieni, Capo della Compagnia. Dobbiamo andare da Sua Altezza Oscura, Signore degli Uccelli Volteggianti, Padrone del Fumo, quello che gli umani chiamano Torre Nera, a chiedergli che cosa fare.» CAPITOLO DICIASSETTESIMO Giunsero alla Torre Nera il giorno successivo. Jamieson non era in grado di cavalcare, e Tasmin lo portò davanti a sé sulla sella, cullandolo come un bambino mentre dormiva. Le compagnie di Bondri e di Chowdri seguirono i loro sentieri, più rapidi di quelli percorsi dagli umani. Quando giunsero Donatella e Clarin, qualche centinaio di metri prima di Tasmin, di Jamieson e dei muli senza carico, trovarono le compagnie già lì, che cantavano. Gli umani montarono le tende. Non mangiavano da parecchio tempo e il cibo, pur se non desiderato, era una necessità. Il profumo delle razioni riscaldate ridestò lo stesso Jamieson. «Credevo di essere morto,» disse con stupore. «Mi è proprio venuto addosso.» «Forse saresti morto davvero,» gli disse Tasmin a bassa voce, sollevando la testa del ragazzo fino all'altezza della coppa. «Se non fosse stato per i giligee.» «Per che cosa?» Seguì una lunga spiegazione, che non era ancora finita quando Bondri Gesel giunse al campo, scuotendo la testa. «Abbiamo cantato alla Torre Nera,» salmodiò in un tono strano e monotono. «Non ha voluto ascoltare. Era contrariata e irritata. È peggio di
quando ci trovavamo davanti a quello che voi chiamate l'Osservatore. Non è la pelle che parla, non le parti più profonde. È una parte nel mezzo che ci è nuova, una parte piena di domande e di rabbia. È accaduto qualcosa che l'ha resa così irritata, Tasmin. Le Presenze sono state infastidite!» «Infastidite?» ripeté Tasmin, incerto su ciò che intendesse dire il viggy. «Verso nord sono giunti Coloro che cantano ad alta voce. Hanno fatto rumore e infranto le dita di molte Presenze, passando nell'aria con grande confusione. Le Presenze hanno tardato a ridestarsi, ma adesso sono in pieno risveglio. Lo sono in tutto il mondo.» «Quelli che ci seguivano,» disse Don «Mi chiedevo come avessero fatto a raggiungerci così presto. Sono venuti via aria!» Bondri proseguì «Abbiamo cantato a Sua Altezza Oscura, gli abbiamo riferito tutto ciò che sappiamo. Poi gli abbiamo cantato quello che tu hai cantato a noi. Adesso è lui che vuole cantare a te.» «A me?» chiese Tasmin. «A te? E all'Esploratore, e alla giovane femmina e a questo qui. A tutti voi.» Jamieson si mise faticosamente in posizione seduta. «Non credo proprio di farcela a cantare» Fissava il viggy con grande attenzione, poi si voltò verso Tasmin. «Chi hai detto che è?» Tasmin fece le presentazioni. «Bondri, questo è Jamieson, mio amico. Bondri Gesel, capo dei viggy.» Il giovane e il viggy fecero un leggero cenno della testa esattamente nello stesso momento, e con la stessa angolazione. Evidentemente le buone maniere non conoscevano differenze di razza. Tasmin soffocò un grugnito di leggero divertimento. «Portalo lo stesso,» disse il viggy. «La Torre Nera vuole vederlo.» «Vedermi?» Jamieson ebbe un attimo di esitazione. «Possono vedere?» «Non con gli occhi,» ammise Bondri. «Ma vedono, sì. Quando vogliono.» «E tu gli hai riferito tutto ciò che sta accadendo, compresa la BDL e tutto il resto?» «Noi non siamo sicuri che Sua Altezza Oscura, Signore degli Uccelli Volteggianti, Padrone del Fumo capisca, perché noi stessi non capiamo. È per questo che vuole vedervi.» E Bondri si girò con sussiego, la testa alta e la sacca canora mezza afflosciata. «È contrariato,» disse Jamieson, intimorito. «Lo è,» convenne Tasmin mentre si rialzava in piedi e si univa agli altri
in una processione sparsa diretta verso la Torre Nera, la scatola armonica con il suo programma di traduzione pronta all'uso. «Com'è mai,» domandò la Torre dopo che si fu conclusa una laboriosa introduzione, «voi non avete proclamato (cantato, annunciato) la nostra intelligenza prima... se è vero come affermate che ne eravate consapevoli (ne avevate concepito l'idea)?» Bondri tradusse nella lingua di Coloro che cantano ad alta voce, poi fecero una verifica con il traduttore. Il viggy e la macchina erano più o meno in sintonia. Bondri attendeva con una certa impazienza la risposta degli umani. Tasmin rivolse a Clarin un'occhiata impotente. Erano raggruppati così vicino al mostruoso monolito da avere quasi l'impressione che volesse ripiegarsi su di loro. I suoni che provenivano da esso sembravano provenire da dovunque. Non erano localizzati in un punto preciso. Non era come trovarsi di fronte a un volto umano, o di viggy. Non esisteva un modo semplice per rispondere alla domanda, e non c'era tempo per giri di parole, per risposte diplomatiche, evasive. Quelle erano le prime parole fra due razze di esseri senzienti completamente diverse fra di loro. Anche se non dovevano usare il linguaggio dei viggy, che potevano dire solo la verità, Tasmin sentì la necessità assoluta, disperata, di provare. Clarin gli fece un cenno di assenso, gli occhi inchiodati sui suoi. «Parla,» gli disse. «Digli la verità. Trova le parole, in qualche modo, e digli tutta la verità.» «Che cosa vuoi che canti?» bisbigliò Bondri. «È una domanda molto importante, quella che ha rivolto il Dio.» «Non voglio che canti tu.» gridò Tasmin. «Voglio dirglielo io stesso. Io, e Clarin, e Jamieson. Voglio dirgli esattamente ciò che abbiamo intenzione di dirgli!» «Coloro che cantano ad alta voce hanno le parole?» «No, Bondri. Tu sai che non abbiamo le parole. Ci vorrà un po' di tempo, prima di avere le parole.» «Allora riferirò a Sua Altezza Oscura che Colui che canta ad alta voce sta preparando una risposta.» La compagnia cantò una breve frase, ripetendola per tre volte, e dalla Torre si riversò una cascata di suoni. «Egli capisce la difficoltà insita nella domanda,» spiegò Bondri. «Il Grande ha scoperto delle affascinanti alternative mentre la codificava dal punto di vista linguistico e ne ha dedotto che possono esserci possibilità
diverse di risposta. Vi concede del tempo.» Scuotendo la testa, sforzandosi di credere che stavano vivendo qualcosa di reale, e non un sogno, si radunarono tutti attorno al sintetizzatore di Donatella. Tasmin si chinò sulla tastiera e prese rapidi appunti mentre il traduttore gli forniva il concetto di ogni chiave. Clarin era accanto a lui. Jamieson si tirò su a fatica, barcollando, e Vivian accorse per sorreggerlo. «Sdraiati, ragazzo. Non puoi ancora stare in piedi.» Jamieson fece un sorriso fiacco. «Credi che lascerò tutto il canto a quel vecchio, Vivian?» Vacillò un poco. «Se mi muovo riacquisterò un po' di energie.» Andò a sbirciare sopra le spalle di Tasmin. Quest'ultimo alzò gli occhi, scosse la testa in segno di disapprovazione, poi tornò ad armeggiare con la macchina. Dopo un po' Jamieson si piegò verso di lui per aiutarlo. Di tanto in tanto il traduttore ronzava, schioccava, e si rifiutava di dare una risposta. Quando avveniva, Tasmin si rivolgeva a Bondri e gli domandava: «Come si dice...» oppure «Che termine usate per...». Bondri gli suggeriva una parola o una correzione, e Tasmin tornava al lavoro. Di quali concetti poteva disporre la Torre Nera? Di certo non concetti legati alla materia organica. Non si poteva parlare di cuore, di sangue, di dolore. Le Presenze provavano dolore? Avevano il concetto dell'onore? Comprendevano la verità? Esistevano molti titoli onorifici, dunque esse avevano una vaga cognizione di gloria e di potere, ma che cosa significavano esattamente per loro? Capivano la bellezza, questo era abbastanza evidente. Non c'era frase cantata dai viggy che non fosse legata all'idea di bello, e la cosa non poteva essere occasionale. Non c'era una sola frase o parola in ogni chiave d'accesso che non fosse anch'essa legata alla bellezza, e questo doveva dir loro qualcosa. Anche se magari diceva semplicemente che i viggy e gli umani avevano estetiche analoghe. Era venuto fuori che le Presenze non avevano il concetto della loro stessa cristallinità. La loro mente esisteva all'interno del grande cristallo così come la mente degli umani esisteva all'interno delle sue cellule. La mente umana era consapevole della sua natura cellulare, o dei suoi neuroni o recettori? Quel tipo di consapevolezza veniva solo dall'esterno. E che cos'erano le menti delle Presenze, in fondo, se non enormi assortimenti di dislocazioni, vuoti molecolari, catene di autoriproduzione e difetti planari che generavano energia lungo infinitesime linee di faglia, neuroni molecolari piuttosto che biologici, atomi di cromio invece che di dopamina, con interruzioni nella griglia infinita che fungeva dà banco di cellule ricettrici?
Eppure essi sapevano. Conoscevano l'interno dall'esterno. Parlavano dal loro universo ad un altro universo che era all'esterno di se stessi. Era sufficiente... come punto di partenza. Lentamente le linee della notazione musicale presero forma sotto le mani di Tasmin. Più lentamente vennero scelte anche le parole. «Non posso cantarla,» sospirò Jamieson, indicando una linea di vocalizzazione molto acuta. Adesso si reggeva in piedi da solo, e si muoveva senza provare eccessivo fastidio. O almeno così diceva a se stesso, rifiutandosi di ammettere quanto della sua attuale capacità fosse semplice adrenalina. Però non poteva eseguire quel canto... «Posso farlo io,» disse Clarin. La sua voce era concreta, senza espressione, ma i suoi occhi erano lucidi per la concentrazione. «Sì, sarà meglio che la canti Clarin. Tu prendi l'altra parte. Questa è la tua, Clarin,» mugugnò Tasmin facendo scorrere la penna di notazione sul pentagramma, con le note che sbocciavano sulla sua scia. «Eccone un'altra per te, Clarin. Il tema principale è mio. A voi due lascio le parti ornamentali.» Jamieson grugnì qualcosa in risposta, emettendo delle note dalla sua macchina, e subvocalizzando certe frasi per imprimersele nella mente. Tasmin aggrottò la fronte, cancellò, annotò ancora. «Questa cadenza qui, prendila piano, senza fretta. Estendi questa sillaba più che puoi, è la base, e costruisci su di essa, non perderla. Attacca il vibrato a bassa voce, poi fallo crescere, e lascialo tremolare...» «Aspetta un attimo,» borbottò Clarin, prendendo la penna e puntandola verso lo schermo. «Qui, e qui fai in questo modo.» Le note e le parole tremolarono e cambiarono.» Tasmin rifletté. Sì, era meglio. Ma era sufficiente? Non rimaneva che provare, e lo avrebbe saputo. «Non capisco questo pezzo,» disse Jamieson. «Non dovrebbe essere in minore, ta-daroo, così? Lo hai messo nella sillaba successiva...» «No. funziona. Tu inizia la linea armonica e Clarin entra qui, e poi io qui.» «Che stanno facendo?» chiese Bondri a Donatella, a bassa voce. «Non lo so certezza,» rispose l'Esploratore. «Non ho mai visto nessuno fare qualcosa del genere.» «Come fanno a creare un canto senza cantarlo?» «È una cosa che loro sanno fare,» rispose lei. Trascorse un'ora, poi quasi un'altra. Parole e frasi vennero sostituite da altre che venivano prima o dopo, e ad alcune vennero apportate minime
modificazioni nell'enfasi o nella chiave. Cantarono a Bondri a voce bassissima, frase dopo frase, e lui annuì, stupito per la stranezza di tutto ciò. Che ne avrebbero fatto, i Grandi, di quel concetto di diversità? Di predominanza di un gruppo sull'altro? Per loro i viggy erano tutti uguali, allo stesso livello. I Grandi sembravano ignorare l'idea stessa di individualità. Che ne avrebbero pensato? Che cosa avrebbero fatto? Bondri si rivolse al giligee anziano per averne sostegno. «Tutto sarà come sarà,» cantò il giligee, citando il quinto comandamento del Primo Canto. «Stai tranquillo, Bondri dalle Grandi Orecchie.» «Per te è facile cantare così,» borbottò Bondri, citando Jamieson. Questo linguaggio umano aveva in sé delle cose interessanti. Il sarcasmo, per esempio. E l'ironia. Bondri era molto attratto da entrambi. «Va bene,» esclamò infine Tasmin. «Fate attenzione, classe. Con la lettura praticamente ci siamo, perciò non perdete la concentrazione. Partite bene fin dall'inizio, perché potremmo non avere una seconda possibilità. Donatella, aiutaci con questi effetti... su questa linea qui...» «Tu ti aspetti che li esegua a vista?» esclamò lei, incredula. «Puoi farlo,» affermò Clarin a labbra strette. «Serviranno tutte e quattro le scatole,» disse Jamieson. «È Tasmin che guida.» «Pronuncia di nuovo quella parola,» stava dicendo Tasmin a Bondri. «Dooo-vah-loo-im.» Fece un'ultima notazione di un accento sulla tastiera «Hai aggiornato le altre scatole, Jamieson?» «Tutto meno l'ultima correzione. A posto.» Si misero in piedi a una certa distanza l'uno dagli altri, con le scatole ben sistemate sui loro sostegni retrattili. Tasmin eseguì i primi suoni che aveva inserito nella partitura, un basso cupo, profondo, che pulsava al di sotto delle parole che lui cantava, le parole che lui pensava. Non sarebbe stato sufficiente cantare delle sillabe senza senso. Lo avevano fatto per generazioni Questa volta doveva sapere che cosa stava dicendo. Il basso si trasformò in un accordo poderoso di puro suono non strumentale, poi si spense fino a morire del tutto mentre Tasmin cominciava a cantare. «Qui in questo magnifico mondo,» cantò, «noi abbiamo vissuto sulle menzogne.» Quella era una frase che Bondri lo aveva aiutato a comporre: una condizione non reale, una parola pervertita. «Menzogne,» cantarono Clarin e Jamieson, trasformando il termine in una dissonanza, che per un attimo palpitò, poi si risolse in un suono armo-
nico di attesa. «I potenti ci consentivano di muoverci per queste terre solo a condizione che noi mentissimo.» Tasmin avrebbe voluto il termine "libertà", ma né Bondri né il traduttore erano riusciti a produrre nulla. I Grandi concepivano l'idea di libertà? Come avrebbero potuto? «Se avessimo detto la verità, essi ci avrebbero costretti (la parola equivaleva a fare a pezzi, o demolire) ad allontanarci da queste terre gloriose. Le nostre voci sarebbero state tacitate, i nostri canti di lode ridotti al silenzio. Le menzogne che essi hanno messo nelle nostre bocche sono queste...» Donatella si piegò freneticamente sulla sua scatola armonica, facendo un gran rumore di campane. Sotto le dita di Jamieson gli squilli di tromba crebbero fino a creare incredibili cascate sonore. Le mani di Clarin crearono un vibrante sottofondo di batteria. Tre voci si levarono all'unisono, separandosi in distinte scie musicali che salirono a spirale verso l'alto. «Ci hanno costretto a dire che non c'erano Presenze (grandi esseri, possenti creature non mobili). Ci hanno costretto a dire che i Grandi non erano altro che pietre vuote.» Silenzio. Un esitante suono di flauto. «Perché? Perché hanno fatto questo?» La voce di Jamieson raggiunse un apice cadenzato, domandando, cercando, roteando come un uccello volteggiante, facendo acrobazie nell'aria; una domanda che si spostava così rapidamente da non potere essere afferrata, né negata. «Perché?» Dalla compagnia di Bondri Gesel un'antifona, mai recitata, spontanea come una cascata d'acqua pura. «Perché? Quale creatura potrebbe fare una cosa del genere?» Un ritorno alla sinistra base musicale, la batteria come preannuncio. «Le leggi dell'uomo (questa piccola, mobile creatura, non fatta come sono fatti i Grandi, diversa anche dai messaggeri degli dèi) sono chiare,» cantò Tasmin. «Dove già si trovano creature senzienti (esseri come i Grandi, che sanno pensare e costruire concetti) gli umani non possono andare, a meno che quelle stesse creature lo consentano.» Una frase soffocata, cantata all'unisono, riecheggiata dalla compagnia di Bondri Gesel. «Noi cantanti rispettiamo (obbediamo, onoriamo) la legge.» «Ma i potenti non rispettano la legge,» annunciò Clarin con squilli di tromba. Silenzio. Un tocco di cembalo, un suono come di xilofono, come un'inesorabile goccia d'acqua. «Noi, noi le creature che cantano, le creature che parlano, noi rispettia-
mo la legge eppure abbiamo mentito...» Tre voci in una, levale in un solo grande accordo melodico. «Perché i nostri concetti verrebbero infranti se abbandonassimo i Grandi. Lo abbiamo fatto per paura, per speranza, per amore.» Voci che si spengono, fino al silenzio. Suoni liquescenti di flauto che sgocciolano via. Un ultimo debole richiamo di tromba accorata, quasi originata da un lontano contrafforte, e abbandonata a se stessa. Un ultimo tocco di batteria che muore lentamente. Poi la quiete. Che perfetta definizione dell'ipocrisia, pensò Clarin, quasi istericamente. Una sinfonia sulla mendacia dell'uomo. Dalla Torre Nera nemmeno un fremito. I quattro alzarono lo sguardo verso la cima del gigante, i volti tesi per la concentrazione del canto, ma già più rilassati, quasi abbandonati. Jamieson barcollò e si accasciò a terra, facendo appena in tempo a rivolgere un sorriso di scusa verso Donatella prima di perdere i sensi. I giligee si affollarono nuovamente intorno a lui, cinguettando rabbiosamente. Tasmin si domandò debolmente se fossero riusciti a trasmettere le parole nel modo corretto. La parola per amore, ad esempio Bondri l'aveva pronunciata in quel modo, ma lo stesso Bondri aveva avuto una strana espressione sul volto, mentre Tasmin la diceva. Tasmin fece per chiedere a Bondri se la parola fosse mai stata usata con le Presenze. Il canto proveniente dalla Torre Nera lo mise quasi in ginocchio. Non ne comprese nemmeno una parola. Il traduttore squittì e gorgogliò, mentre le parole scorrevano veloci sullo schermo, subito sostituite da altre. Si accumularono, e i significati multipli vennero esaminati e scartati. Il significato mancante venne aggiunto sulla base di un processo speculativo, le parole fra parentesi sembrarono ribollire, poi scomparvero. Altre ne presero il posto. «Interessante! (parlando di intelligenza). Più interessante (anche dell') esercizio (divertimento, occupazione) in cui noi siamo stati (impegnati). Le piccole creature mobili (che hanno tali) concetti non sono state (considerate). I nostri messaggeri non ci hanno (disturbato con, annunciato) concetti. Le entità (parti?) settentrionali trovano questo (affascinante). Le entità (parti?) meridionali proprio adesso cominciano a (discutere) i concetti connessi. Le sezioni (parti? entità?) sepolte in profondità dove la (grande acqua giace) includono anche se stesse. Magnifico! Davvero magnifico! Imperativo: Spiegare l'amore. Spiegare la speranza. Spiegare la paura.» Solo nel caso che non avessero capito, la Torre Nera lo cantò altre due
volte, con variazioni. Il traduttore confrontò le versioni due e tre con la prima, e ne ricavò un unico messaggio. Bondri si era avvicinato a Clarin, e i due stavano elaborando una spiegazione dell'amore che avesse senso per un essere cristallino. Un duo piuttosto improbabile per fare una cosa del genere, pensò all'inizio Tasmin ma poi, ricordando certe cose che Bondri e Clarin avevano fatto in passato, ritenne che forse erano proprio loro i migliori per quell'incarico. Bondri parlava di amore dei germogli, dei buoni giligee, della compagnia. Clarin non parlò a lungo con il viggy. Usò il traduttore e cominciò a cantare la speranza e la paura, con la compagnia di Bondri Gesel come sostegno. «Quelli di noi che vivono poco,» vocalizzò in una linea di melodia estesa, «molto si dolgono per la fine, per il divenire nulla. Questo dolore è la paura. Quelli di noi che hanno corpi fragili, che possono rompersi, molto si dolgono di quella rottura. Anche questo dolore è la paura. Noi abbiamo paura del finire e del rompersi. Noi abbiamo paura della fine di coloro che consideriamo come parti di noi stessi. Altri sono coloro che non si rompono con noi o non finiscono con noi. Pensare agli altri come parte di se stessi si chiama amore. «Così nelle nostre menti noi creiamo schemi nei quali non c'è paura. Questi schemi si chiamano speranza...» Donatella era sdraiata al suolo. Ascoltava, semplicemente, il volto lontano e sognante. Quando vide Tasmin che la guardava, osservò: «Fa sembrare tutto così semplice, Tasmin. Probabilmente la capiranno anche loro. Te lo avevo detto che parlavano, Tasmin. Te lo avevo detto. Dio, come vorrei che Link fosse qui...» Più tardi, distrutti dalla stanchezza, cercarono di dormire, ma Bondri Gesel continuava a tenerli svegli. «Il Grande desidera che Colui che canta ad alta voce gli spieghi ancora una volta il dolore.» «Il Grande richiede che tu gli parli di nuovo della differenza fra bene e male.» «In risposta a una domanda precedente, tu hai usato certe parole di Coloro che cantano ad alta voce che il Grande non capisce. Il Grande desidera sapere qualcosa di più sulle "procedure commerciali correnti".» «Il Grande vuole sapere se voi avete qualcosa come lo hoosil. Io gli ho spiegato che è la rabbia, ma lui vuole che sia tu a dirglielo. Ha cantato espressamente il tuo nome. Questo significa che adesso il Grande sa che ognuno di noi è una creatura distinta, Tasmin Ferrence. Non ci aveva mai pensato, prima. Nessuno di essi ci aveva mai pensato.» Tasmin accettò tutto questo, attraverso un velo di stanchezza. «Ho nota-
to che il traduttore ha avuto qualche problema a scegliere fra parti ed entità. Come se la Presenza non fosse del tutto sicura delle relazioni fra le cose.» «Lo hanno notato anche i viggy, Tasmin Ferrence.» «Mi sembri stupito, Bondri Gesel.» «Io sono... com'è quella parola che mi ha insegnato Jamieson? Sono sbalordito, Tasmin Ferrence. Sono abituato al silenzio.» Bondri saltellò via, ovviamente eccitato, solo per tornare poco più tardi, risvegliandoli tutti con qualche risposta, o rispondendo lui stesso a qualche domanda. «Com'era quella storia della parti settentrionali e meridionali, Bondri? Non l'ho capita bene,» chiese Jamieson. «Quello che chiamate la Torre Nera tocca quelli che chiamate gli Osservatori, molto in profondità nel terreno. Verso occidente tocca quello che chiamate la Gola della Follia. Quest'ultimo tocca i Falsi Zelanti e il Raccoglitore di Nuvole e tutte le Presenze della Catena del Dente Rosso. Nel sottosuolo, Tasmin Ferrence, tutte le Presenze si toccano. O forse non proprio tutte. Forse esse sono parte di un'unica cosa, una cosa che è dovunque, sotto la Terrafonda, molto in profondità, addirittura sotto gli oceani. Noi pensiamo che sia così. O forse essi si limitano a parlare fra loro. È per questo che noi viggy crediamo che il Grande non sia così certo dei limiti delle cose. La Torre Nera non è sicura di dove finisca, e di dove comincino altre cose. Non è pazzia, come nel caso dell'Enigma, ma semplice stranezza...» Mattino. Donatella, sempre trionfante, a Jamieson: «Te lo avevo detto che parlavano.» «Non mi avevi detto che parlavano in continuazione.» Jamieson non era ancora in grado di alzarsi, e nessuno gli permetteva nemmeno di provarci. Eppure sembrava lucido, con la cognizione chiara di ciò che stava succedendo. «E adesso che facciamo?» domandò a Tasmin. «Abbiamo prove a sufficienza per la Commissione?» «Ancora non gli abbiamo parlato di quello che Justin ha intenzione di...» «Di quello che ha già fatto,» lo interruppe Don seccamente. «Almeno in parte.» Questo richiese l'intera mattinata. Alcune cose vennero capite quasi subito. La Torre Nera comprendeva la distruzione. Non comprendeva la "massimizzazione dei profitti", però, e Tasmin ebbe il suo da fare per tradurre il concetto, anche se per farlo si servì del termine terrestre. Quando alla fine la Torre assimilò il concetto di costi e di benefici ebbe un attacco
di hoosil, e tutti dovettero allontanarsi dalla zona per più di un'ora. Alla fine quel concetto venne distribuito per tutta l'enorme rete, e fu loro risposto che non solo le Presenze avevano capito, ma che ne erano anche piuttosto seccate, per quanto le riguardava. Per loro ciò che entrava doveva sempre equivalere a ciò che usciva. Prendere più di quanto uscisse, o viceversa, era immorale, non matematico e illogico. In quel modo le cose non avevano un loro equilibrio. «Naturalmente hanno del tutto ragione,» disse Donatella. «Vogliamo parlare di sistemi aperti e sistemi chiusi? Forse possono aspettare.» «Dovranno aspettare per forza,» le disse Tasmin. «Siamo tutti arrivati al punto di non avere più voce.» «E adesso?» intonò Bondri Gesel, in tono stanco ma indomabile. La compagnia aveva trascorso l'intera mattinata a raccontarsi ciò che era avvenuto, tanto per la documentazione, ma non era riuscita a pervenire a un canto definitivo. Alcune delle parole sembravano non essere del tutto precise o vere. Il giligee anziano la stava prendendo molto male. I giligee erano comunque conservatori, e questo in particolare portava lo spirito-delcervello del Primo Sacerdote Favel, il che lo rendeva ancora più consapevole della necessità di fare le cose per bene. «Detesto chiederlo, Bondri, ma pensi che possiamo insegnare alla Torre Nera a parlare un po' di terrestre? La lingua degli umani? Ci sono delle parole che sono molto scomode da tradurre.» «Per loro dovrebbe essere facilissimo imparare la lingua per intero,» cantò Bondri. «Il Grande ci ha già chiesto di iniziare a farlo.» Bondri sembrava offeso. «La vostra lingua è molto superiore,» ammise Tasmin, in tono conciliante. «Davvero.» «Oh, sappiamo che lo è. Più accurata. Più specifica.» «Proprio così.» «La vostra lingua, d'altra parte, ha una gran quantità di parole che noi non abbiamo. C'è più spazio, dentro di essa.» «Questo è vero.» «È ciò che dice il Grande. Il Grande afferma che è una buona lingua per i giochi di parole, perché una parola può avere significati diversi.» «I Grandi amano i giochi di parole, vero?» «Hanno fatto giochi e indovinelli per milioni di anni, Tasmin Ferrence. Si sono divisi in parti. Potresti chiamarle squadre. Si sono serviti di noi per spostare le varie mosse di un rompicapo da una parte all'altra, in modo che
la squadra avversaria non sapesse quale mossa avevano fatto. Hanno usato noi viggy, per questo, o almeno così dice il nostro Primo Canto. Adesso voi siete il loro nuovo rompicapo, Tasmin Ferrence. Tu e tutti Coloro che cantano ad alta voce. Noi viggy riteniamo che sarebbe interessante vederli mentre risolvono il vostro problema.» «Voglio che parlino il terrestre per un solo motivo, Bondri Gesel.» «Lo sappiamo,» disse il capo della compagnia. «Quando parleranno ai vostri potenti non dovrà esserci alcun equivoco su quello che diranno.» Adesso era Tasmin ad essere sbalordito. «Essi hanno intenzione di parlare ai nostri potenti?» «Sì, Tasmin Ferrence. Non appena tu gli avrai dato tutte le parole della tua lingua e gli avrai detto dove si possono trovare questi potenti» «Tutte le parole?» «Non si trovano forse da qualche parte nella macchina? La femmina, Clarin, ha detto che sono dentro la macchina.» «Il dizionario! Certo, nel traduttore.» «Può essere suonato per i Grandi?» «Immagino di sì.» Ci avevano pensato le Presenze da sole? Be', di certo avrebbe risparmiato le voci umane. «Credevo che le cose registrate fossero inaccettabili per loro.» «Sono irritanti per la pelle, sì, Tasmin Ferrence. Ma se sono svegli possono sopportarle.» Tasmin scambiò un'occhiata interrogativa con Clarin, che disse: «Prima che parlino ai potenti, Bondri Gesel, vuoi chiedere alla Torre se hanno intenzione di parlare, con molta calma, ai responsabili delle cittadelle dei Cantori?» «Lo faranno, anche se dicono che la vostra lingua è brutta, Clarin. Ci sono dei suoni piuttosto sgradevoli.» «Saranno capaci di accettare delle scuse?» «Lo sanno già. Dicono che siete una razza giovane, che non ha avuto il tempo di ammorbidirsi... Siete ancora molto disuguali.» Bondri atteggiò il volto a una specie di sorriso, mostrando i denti all'angolo della bocca, con un pizzico di malizia, o almeno così sembrò a Tasmin, prima di proseguire. «La vostra lingua è disuguale, ed è ovvio che anche alcune delle vostre persone sono individualmente disuguali, ed hanno bisogno di essere appianate. O forse mangiate.» Bondri si leccò le labbra, godendo nel vedere Clarin che non riusciva a reprimere del tutto un brivido di repulsione. «Senza dubbio ce ne sono tanti, di umani così. Ma essi trovano interessante anche
questo. Non c'è limite all'interesse di cui i Grandi possono disporre.» Jamieson non era in grado di viaggiare. I giligee non glielo avrebbero comunque permesso. Tasmin si inginocchiò accanto a lui. poggiandogli la mano sulla spalla, guardando il lento sollevarsi e abbassarsi del suo petto, il battere delle ciglia, che si muovevano all'unisono con il sogno nel quale si trovava. La pressione della mano di Tasmin lo ridestò dal suo sonno. «Mastro Ferrence,» disse Jamieson, risvegliandosi tutto insieme. «Reb.» «Mi dispiace di pesarvi in questo modo proprio adesso.» «Non avrei dovuto permetterti di cantare alla Torre.» «E chi avrebbe potuto fermarmi? Tu, e chi altri?» «Poco tempo fa qui c'è stato un Cantore di Terrafonda Cinque, Reb. Avevano sentito la Torre che brontolava e hanno mandato qualcuno a controllare ciò che stava succedendo. Gli ho chiesto di mandare qualcuno per farti compagnia, a te e alla Torre. I giligee resteranno con te almeno fino ad allora...» «Fate buon viaggio, Mastro Ferrence. Buono e rapido.» «Lo faremo. Mi dispiace che tu non possa essere con noi per vedere la fine, comunque finisca.» «Finirà anche qui, in un modo o nell'altro.» Jamieson gli rivolse un sorriso stentato, poi respirò a fondo, come se avesse provato dolore nel sorridere. «Mastro Ferrence.» «Sì, Reb.» «Ricordi, una volta ti ho detto che Clarin aveva un desiderio. Signore. Ti ho detto che voleva lavorare con te.» «Be'... lo ha fatto.» «Ma lei voleva qualcosa di più, Signore. Tasmin.» Di nuovo quel respiro palpitante. «Lei ti ama. Me lo ha confessato. Vorrei che in qualche modo tu te ne ricordassi. Come un favore personale.» A Tasmin non venne in mente niente da dire. Strinse ancora una volta la spalla di Jamieson e se ne andò. Una carovana carica di brou si muoveva verso occidente da Terrafonda Cinque. Era diretta verso gli Osservatori. Il Cantore tirò indietro il cappuccio e si arrotolò le maniche. Dentro il carro dei Cantori l'uomo di sostegno si chinò in avanti per toccare il sintetizzatore.
Suoni di tromba. Un battito di tamburi. «Arndaff-du-roomavah,» intonò il Cantore. «Fratello, fratello, fratello,» rispose l'Osservatore Meridionale. «Ritorna alla Cittadella e riferisci al Mastro Generale che questa Presenza è suo fratello e desidera parlargli.» I carri si fermarono. Il Cantore tacque, stordito e stupefatto, del tutto incredulo. Non un Piccolo si mosse. Il terreno era silenzioso. «Sei sordo?» tuonò L'Osservatore Settentrionale. «Fai quello che dice tuo fratello.» Al largo della Sporgenza un'altra carovana dirigeva verso est lungo la strada della Costa. Puntava sugli Intercettori. I Cantori si stavano preparando, un po' nervosamente come capitava sempre dopo il massacro. Il terreno era tranquillo, sospettosamente tranquillo. Essi non sapevano che cosa fare, e si guardarono l'un l'altro, a disagio. Le prima note si levarono dal carro dei Cantori, solo per essere soffocate da tutta un'altra musica. «Fratello, fratello, fratello,» cantarono gli Intercettori in accurata armonia. «Cantore, ritorna alla tua Cittadella e dì al tuo Mastro Generale di controllare l'armeria e di tenersi pronto alla lotta. Digli anche di restare tranquillo finché non avrà nostre notizie.» Presso la Catena del Dente Rosso un Cantore solitario era seduto in quota, sotto il bagliore infuocato dei pilastri schierati, inondato dalla luce color arancio. Stava per calare la sera, e lui non aveva ancora visto nessuno di coloro ai quali era interessato il Gran Mastro. Correva voce che la stessa figlia del Gran Mastro si trovasse da quelle parti, ma se pure era vero ancora non ne aveva trovata traccia. Sospirò, infilò il binocolo nella sacca e cominciò a scendere. Mentre entrava nella zona di pericolo selezionò i comandi della scatola e cantò la chiave d'accesso con voce passabile, un po' stanca. Era rimasto seduto al passo per tutto il giorno, ed era stata una giornata strana. Una giornata spettrale, assolutamente tranquilla, senza il minimo movimento da parte delle Presenze. Il Cantore sbadigliò, poi colse le prime parole, e rimase a bocca aperta. Qualcun altro stava cantando... «Fratello, fratello, fratello,» vocalizzò la Presenza accanto a lui in toni morbidi, flautati. «Cantore, vai a dire al Mastro Generale della tua Cittadella che avvisi il Gran Mastro dell'Ordine Venerato che io, il Dente Rosso, voglio parlare con lui.»
Poi, quasi un ripensamento. «Stai registrando, giovanotto? Il tuo Mastro Generale potrebbe volere una prova.» La Commissione CACCIA sì insediò a Splash Uno e condusse le sedute in programma con notevole sfarzo. In mezzo al pubblico c'era un certo numero di personaggi importanti, qualcuno di Jubal, ma la maggior parte compresi rappresentanti della stampa storica e di quella contemporanea, consiglieri e cosiddetti osservatori neutrali del CSP - di fuori pianeta. Quelli di Jubal comprendevano l'onorevole Wuyllum Thonks, non ancora partito perché non aveva il modo di andarsene, e la sua meno che onorevole signora, presente per la stessa ragione, anche se non capiva per quale motivo Wuyllum fosse così preoccupato. L'unica cosa che aveva disturbato Honeypeach da lunghissimo tempo era stata la scomparsa di Maybelle. Justin la voleva, e sì era davvero incattivito. Honeypeach si leccò gli angoli della bocca e provò ad immaginare quello che avrebbe fatto una volta trovata la ragazza. Prima o poi Maybelle sarebbe venuta fuori dal suo nascondiglio. Il Gran Mastro Thyle Vowe era anche lui fra i presenti, benché mancassero molti dei suoi amici e colleghi. Gereny, per esempio, e Jem. E la ragazza di Rheme, la figlia del Governatore, proprio quella che Vowe in persona aveva prelevato dalla barca prima che cadesse nelle grinfie di Honeypeach Thonks. Per fortuna Rheme gli aveva consigliato di organizzare una via di fuga alternativa, nel caso che Maybelle non riuscisse a partire. Loro tre, insieme a qualcun altro, avevano allestito una specie di rifugio all'interno del magazzino vuoto nel villaggio di pescatori di Tallawag. Che fosse un luogo improbabile da scegliere come nascondiglio era testimoniato dai numerosi tirapiedi di Honeypeach che avevano continuato a cercare Maybelle fin da quando Vowe l'aveva portata via. Fino a quel momento non si erano nemmeno avvicinati. Vedere Honeypeach fumare di rabbia aveva dato a Vowe abbastanza soddisfazione da fargli superare la noia mortale delle udienze. Lui era dell'opinione che le udienze fossero state volutamente programmate per essere noiose e del tutto prive di interesse. Uno dopo l'altro si susseguirono diversi testimoni che illustrarono i diversi tentativi di trovare un senso ai rumori delle Presenze; alcuni di essi erano filologi che si espressero in un gergo molto tecnico, incomprensibile ai più. Nessuno menzionò i viggy. Nessuno fu nemmeno sfiorato dal pensiero dei viggy, e Vowe se ne mera-
vigliò, perché aveva sempre nutrito qualche sospetto su di essi. Harward Justin se ne stava acquattato in un angolo della sala delle udienze, basso e tarchiato come un rospo, gli occhi acquosi che roteavano da una parte all'altra della sala, la bocca sottile atteggiata a una smorfia riconoscente ogni volta che un testimone faceva un intervento particolarmente significativo. Nonostante la noia, la sala era affollatissima e la concentrazione al massimo. Così quando qualcuno diede un colpetto al Gran Mastro, lui non rispose subito. Ci vollero due gomitate sulle costole prima che abbassasse gli occhi e vedesse il biglietto nella mano di un anonimo spettatore, il quale guardava dappertutto meno che nella direzione del Gran Mastro. «Emergenza. Cittadella di Northwest, urgentissimo.» Il nome apposto sotto era quello di Jasum Porlees, Mastro Generale della Cittadella di Northwest City. Da ragazzi lui e Thyle Vowe avevano frequentato la stessa scuola di coro. Il Gran Mastro fece passare un po' di tempo, poi si infilò in mezzo alla folla e si diresse verso la porta. Subito al di là dei gradini c'era lo stesso anonimo spettatore che lo attendeva guardando la città e che gli parlò senza quasi muovere le labbra. «C'è un velivolo che ti aspetta alla rimessa, Gran Mastro. Il tuo amico ha detto di fare presto.» Solo quando fu a metà strada verso la rimessa Thyle Vowe si rese conto che l'uomo che gli aveva parlato era Rheme Gentry. «Tua figlia sta bene.» disse il Mastro Generale di Northwest City, appena Thyle Vowe fu arrivato. Gli versò una tazza di tè e attese l'inevitabile domanda. «Dove si trova, Jasum?» «Da qualche parte nei paraggi della Torre Nera. O forse a questo punto è già sulla strada per venire qui. Probabilmente arriverà presto, visto che non devono aprirsi la strada con il canto.» «Non devono che cosa? Ma di che diavolo stai parlando?» «Se ti dicessi chi me lo ha detto non mi crederesti, Thyle. La cosa migliore e che tu lo veda con i tuoi occhi. Sei pronto per un breve viaggio a dorso di mulo fino al Dente Rosso?» La Commissione ascoltò testimonianze per dieci giorni e per parte dell'undicesimo. Alla fine si sciolse per un giorno o due, prima di riunirsi nuovamente e tirare le somme. Alcuni dei membri approfittarono di questa
interruzione per vedere qualcosa di Jubal, finché c'era ancora qualcosa da vedere, almeno secondo quanto affermava uno dei suoi componenti. Molti di essi si rendevano perfettamente conto che alla loro decisione sarebbe seguita la distruzione, anche se fra questi non c'era il figliastro di Honeypeach, il presidente Ymries Fedder, che fin dal suo arrivo si era ubriacato con il brou ed era rimasto nel suo appartamento; la Commissione era stata presieduta dal suo vice, un burocrate sempre in giro a spese del governo, originario del Mondo di Heron. Harward Justin si ritirò nel palazzo della BDL per occuparsi di alcuni dettagli. Lì lo attendeva Wuyllum Thonks. «Che diavolo ci fai qui, Thonks?» «È quello che mi piacerebbe sapere. Che ci faccio qui? Honeypeach e io avremmo dovuto lasciare questo pianeta almeno da una settimana.» «Quando verranno rese note le decisioni, Governatore, salirai a bordo della prima nave in partenza. Insieme ai membri della Commissione. Ho dovuto bloccare tutto per evitare problemi dell'ultim'ora.» «E quando partirà la prima nave?» «Fra tre o quattro giorni. Forse cinque se vogliono fare una buona impressione. Al momento alcuni di essi stanno facendo un giro turistico. Possono guadagnarsi uno o due giorni extra.» «Prevedi qualche difficoltà?» «Io prevedo sempre difficoltà, Thonks. È per questo che non mi preoccupo mai.» Justin sorrise, uno scivolare di labbra sui denti irregolari, facendo venire in mente a Wuyllum un serpente che strisciasse su una roccia. «Le difficoltà sono solo un'altra cosa da mettere in conto, Governatore.» Wuyllum rabbrividì senza un comprensibile motivo. «Lo dirò a Honeypeach.» «A proposito della tua affascinante moglie.» Justin sorrise di nuovo, un sorriso da rettile più di prima. «Honeypeach mi aveva promesso di presentarmi la tua deliziosa figlia, ma a quanto pare è scomparsa. Sei riuscito a trovarla?» «Non ancora.» Wuyllum non si soffermò sulla domanda, rifiutandosi di prendere in considerazione le implicazioni di ciò che Justin aveva appena detto. «Maybelle aveva programmato di tornare su Serendipity. Lei è nata lì, lo sai. Visto che non è potuta partire, probabilmente è andata a stare con degli amici. Si farà viva, non c'è dubbio. Bene. Allora restiamo in attesa di posti sulla prima nave in partenza. Ce lo farai sapere tu.» «Ricorda alla tua affascinante moglie quello che ho detto all'inizio,
Thonks. Io voglio assolutamente conoscere tua figlia prima che tu parta. La residenza del Governatore è qui a due passi. Chiamami quando l'avrai trovata.» Il Governatore se ne andò, bianco come un cencio. Non si curava tanto di quello che poteva accadere a Maybelle, ma si scoprì invece improvvisamente preoccupato di non riuscire a trovarla. Justin, per qualche suo imperscrutabile motivo, aveva appena fissato il prezzo per la partenza di Wuyllum. Quando fu rimasto solo, Justin chiamò al comunicatore il colonnello Lang, comandante dell'esercito di Jubal. Le truppe e le attrezzature erano pronte Appena la Commissione avesse annunciato le sue conclusioni, si sarebbero fatte strada spazzando via ogni città della fascia terrosa ad oriente della Costa. «Colonnello Lang?» «Direttore Justin.» «Mi viene in mente, colonnello, che potrebbe esserci qualche dimostrazione quando la Commissione renderà pubbliche le sue decisioni.» «Davvero, Signore? Sembra tutto molto tranquillo.» Justin fece una smorfia. L'uomo era tardo a capire. «Be', le decisioni non sono state ancora annunciate, no?» «È per questo che mi domando come mai debbano esserci dei disordini, Signore. Se non sappiamo quali sono le conclusioni, allora non possiamo sapere nemmeno quale sarà la reazione, no?» La voce dell'ufficiale era stata secca, quasi insolente, e Justin se la prese con se stesso. Accidenti all'impudenza di quell'uomo! Però aveva ragione. Qualsiasi azione preventiva, soprattutto finché i componenti della Commissione si trovavano ancora sul pianeta, poteva essere interpretata esattamente per ciò che era. «Comunque tu sei pronto per qualunque eventualità, colonnello.» «Oh, certamente. Signore. Sempre pronto per qualunque eventualità.» Il colonnello Lang chiuse la comunicazione. Ogni compagnia di soldati che si spostava verso est aveva allestito alle proprie spalle una catena di stazioni ricetrasmittenti. Nell'arco di qualche ora potevano essere impartiti gli ordini lungo quelle catene. Appena rese note le conclusioni della Commissione, le truppe avrebbero ricevuto senza alcun ritardo l'ordine di procedere alla distruzione e il colonnello Lang non aveva nessuna intenzione di perdersi lo spettacolo. In ogni caso, tanto per evitare eventuali problemi
futuri, il colonnello non intendeva impartire quell'ordine prima che la decisione della Commissione fosse stata formalmente annunciata. In un'altra postazione militare a Splash Uno il capitano Jines Verbold mise giù l'auricolare sintonizzato sulla linea del colonnello. «Harward Justin,» disse al suo ospite, anche se non era necessario. «Lo immaginavo.» disse Rheme Gentry. «Si sta innervosendo, adesso che siamo vicini al gran finale.» «Ma quando avrà luogo, questo gran finale?» «Quando la Commissione tornerà a riunirsi per prendere una decisione definitiva, ma prima che essa venga resa pubblica. Quando gli osservatori si troveranno ancora qui, è inutile dirlo. Probabilmente domani.» «Sarebbe stato meglio avere un po' più di preavviso,» disse il capitano in tono dimesso. «Non che mi lamenti, capisci. È solo una considerazione.» «Mi dispiace, capitano. Noi stessi lo sappiamo solo da un giorno o due. Abbiamo trovato degli alleati inattesi. È stata... be', è stata una sorpresa, come minimo.» «Non vorresti dirmi...» «Non posso. Sono legato al segreto. Lo saprai quando avverrà.» «Puoi dirmi almeno dove?» «Lo sai dove alloggiano i membri della Commissione, capitano?» «Justin li ha sistemati in un edificio residenziale della BDL, alla periferia orientale della città.» «Proprio così. Se fossi in te lo terrei d'occhio.» «Come posso rendermi utile?» «Capitano, sarebbe utile se su Jubal ci fossero delle truppe di cui Justin non possa disporre per un po'. Solo nel caso che giunga qualche ordine molto importante, capisci? Un ordine che sovverta l'attuale gerarchia di comando. Dal momento che ti è stato assegnato l'incarico di mantenere l'ordine qui in città, tu sei uno dei papabili. Naturalmente sono state notate anche le tue opinioni.» «Non so tenere la bocca chiusa,» mormorò il capitano. «Diciamo che hai lasciato trasparire quali fossero le tue simpatie. Be', come ho detto, sarebbe una bella cosa se da qualche parte si potesse fare affidamento su un buon contingente di soldati. Da qualche parte, ma non troppo lontano da qui. Diciamo, ecco, a un'oretta di cammino, se possibile. Non c'è bisogno di dirlo, ma dovrebbero essere pronti a mettersi in azione o a ricevere ordini.» «Da chi... ehm, da chi dovrebbero aspettarsi di ricevere ordini?»
«Da qualcuno molto in alto, capitano. Qualcuno che sopravanza di molto il colonnello.» «Ammettendo che si tratti dei miei uomini, io sarei dalla parte del giusto?» «Oh, sì, capitano. Saresti dalla parte del giusto. Anzi, meglio ancora. La tua collaborazione con l'autorità legittima verrebbe tenuta in grande considerazione.» «Se riesco a rimanere fuori dalle grinfie del colonnello Lang fino ad allora.» «Sì. Questo è vero.» «Non sono così sicuro che i miei uomini mi appoggerebbero in un ammutinamento aperto.» «Mi rendo conto del problema.» Verbold si accigliò, tamburellando sul tavolo con le dita mentre rifletteva sulla situazione. «Lo sai, Justin ha le sue forze di sicurezza, gli uomini della BDL. Sono sparpagliati dappertutto, tengono d'occhio tutti e riferiscono ogni cosa alla centrale. Immagino che tu sappia che Justin non si fida di nessuno. Quel pugno di uomini è gente dura e senza scrupoli e io non vorrei proprio avere a che fare con loro.» «Hmmm. Dannazione, me ne ero dimenticato. Puoi fare qualcosa perché si trovino con certezza in un posto in cui non ti creino problemi? Diciamo al Quartier Generale della BDL.» «Ah.» Il capitano Jines Verbold rimase per un po' in silenzio a pensare, strofinandosi il mento. «Se le forze di sicurezza sono all'interno del palazzo allora abbiamo tutti i pesci nella stessa vasca, no? Potrei chiamare Justin e dirgli di accertarsi che i suoi uomini restino a guardia della BDL perché...» «Perché hai sentito voci di... uhm... di un tentativo di omicidio da parte di... di Cristalliti in incognito,» suggerì Rheme. «Che non sono stati confinati insieme agli altri. Gente che lui non è in grado di identificare, perché non sono fra quelli che ha assoldato all'inizio. Degli autentici convertiti, dei veri fanatici religiosi.» «Oh, sì. Cristalliti in incognito. Be', non è la prima volta che sento parlare di questa storia dell'omicidio da parte di Cristalliti non identificati. Sì, devo farlo sapere a Justin. Lui farà venire i suoi uomini e poi credo che stasera metterò in movimento i miei. Oh, ma li terrò a disposizione in zona.» «Fai così,» annuì Rheme, asciutto. «Però accertati che io abbia un modo
per tenermi in contatto con te.» Durante la notte giunse la nebbia. Allo spuntare del mattino c'erano nuvole cotonose che nascondevano alla vista buona parte di Splash Uno. Nell'edificio della BDL alla periferia della città, adattato alle nuove esigenze, i membri della Commissione CACCIA e diversi osservatori del CSP si alzarono, guardarono dalle finestre e sospirarono. Molti di essi non avevano dormito troppo bene. C'erano stati strani tremori nella notte, fremiti e sordi muggiti. Non tanto da suscitare il panico, ma abbastanza per svegliare qualcuno e provocare brutti sogni in qualcun altro. Di solito la prima colazione veniva servita in terrazza. In una mattinata nebbiosa come quella, però, probabilmente sarebbe stata scelta la triste sala da pranzo, lasciando tutti insoddisfatti. In preparazione di questo evento, e di altri che sarebbero seguiti, i membri si lavarono, si pulirono i denti, si grattarono e si impegnarono in altre, più personali pratiche di risveglio. Alcuni rifletterono sulle conclusioni dei lavori, altri non se ne preoccuparono affatto. In quest'ultimo caso qualcuno aveva già pagato per quelle conclusioni, e quindi non c'era motivo di rifletterci sopra. Fra il personale ausiliario, c'era un gentiluomo alto, con i baffi, dal portamento inconfondibilmente militaresco, che era uno degli ultimi ad arrivare su Jubal e che portava un cartellino di identificazione di osservatore del CSP. Nella sua borsa da viaggio, dentro un compartimento nascosto, c'era un altro fascio di carte, del tutto diverso. Quella mattina, come parte della sua preparazione per la giornata, questo osservatore tolse le carte dal nascondiglio e le trasferì in una tasca della giacca, dove sarebbero state subito disponibili. Sull'angolo inferiore sinistro c'erano le ellissi incrociate che erano il simbolo della CATENA. Fuori dalla città, su una bassa collina, Tasmin smontò dal mulo e aiutò Clarin a fare altrettanto. Donatella non era ancora arrivata, ma la aspettavano a minuti. «C'è nebbia,» disse Clarin. «Lui ha detto che ci sarebbe stata.» «Perché lo chiami lui?» chiese la ragazza. «Voglio dire, perché ti riferisci ad esso dicendo lui?» «Non lo so. Aveva una voce profonda. Credo sia soprattutto per questo.» «Credo che anch'io l'ho fatto per lo stesso motivo. Poi, dopo averlo fatto, mi sono data della scema.»
«Pensi che il nuovo sia pronto?» «Lui... esso... la Torre Nera ha detto che lo sarebbe stato.» «Come si chiama?» «Non lo sa nessuno. Penso che glielo chiederemo.» «Dov'è Bondri?» chiese Tasmin. «Potrebbe essere dovunque. Anzi, è molto probabile che sia da qualche parte intorno a noi. Si farà vivo quando lo chiamerò. Così dice.» «Io continuo a credere che i viggy avessero intenzione di ripristinare il tabù.» «Non dopo che i Grandi gli hanno detto di non farlo. Secondo Bondri la nostra intera tribù è diventata un debito di onore, Tasmin.» «Tribù?» «I Cantori. Gli Esploratori. Noi. Noi siamo i buoni.» «Però le armi ce le hanno tutte i cattivi.» Stava fissando la città di fronte a lui. con un'espressione pensierosa dipinta sul viso. «A che stai pensando?» «All'amante di Donatella, Link. Ha parlato di lui ai giligee. Forse possono guarirlo.» «Chissà se il debito arriva così lontano.» «No. Ne hanno cantato per un bel po' e hanno deciso che si trattava di una questione privata. Hanno un termine per le questioni private, riproduttive o affettive, ma non mi ricordo più qual'è. Comunque. Donatella dovrà pagare, per questo.» «In che modo?» «Con carne. Bantigon. credo. Hanno detto che gli piace la carne di bantigon. E anche a me, se è per questo.» «Guarda. La nebbia si sta diradando,» disse Clarin. Videro gli strati di nebbia che si sollevavano lentamente. Donatella giunse proprio in quel momento e si unì a loro nell'osservazione. «Eccolo.» disse Clarin. «Dove?» «Laggiù. Una specie di ombra verdastra fra noi e il palazzo in cui alloggia la Commissione.» «Dio! È così grande che non lo avevo nemmeno visto.» «Con la sommità nascosta dalla nebbia sembra un enorme edificio, o qualcosa del genere.» Mentre la nebbia si alzava, la nuova Presenza si rivelò chiaramente alla vista. Verde come erba nuova sotto quella luce smorta, diventava sempre
più color smeraldo man mano che la nebbia si diradava. Era alto sessanta metri, forse più. Una stretta torre di cristallo vivente sulla quale la luce danzava e giocava. «Non l'avranno fatto crescere così in fretta!» «No, è sempre stato lì, in profondità. Lo hanno solo sollevato dal basso, a quanto dice Bondri.» Donatella sbadigliò, scuotendo la testa. «Senza provocare un terremoto?» «Secondo Bondri ci sono stati solo pochi fremiti.» «Dove lo hai visto, Bondri?» «È là dietro,» disse Donatella, indicando con la mano. «Dice che verrà fuori più tardi. Per il momento lui e la sua compagnia vogliono osservare e cantare, in modo da poterlo ricordare bene.» Quando divenne evidente che la nebbia si stava diradando, il direttore dell'albergo disse al responsabile di sala di servire la colazione in terrazza, come al solito. Il responsabile apparecchiò i tavoli e preparò il buffet, senza mai alzare gli occhi dal livello dei piatti e delle posate. I membri della Commissione e gli osservatori, quando giunsero, andarono in cerca di compagnia e di bevande calde. La nebbia aleggiava ancora pigramente sopra di loro, un basso soffitto di bambagia velata che impediva di scorgere il panorama da qualsiasi parte. Ci vollero parecchi minuti prima che il gentiluomo dal portamento militare, che era in qualche modo più anziano e meno socievole degli altri, domandasse in tono sbalordito: «Quello c'era, ieri?» Gli altri distolsero lo sguardo, poi lo sollevarono, e videro una struttura massiccia poco lontana, la cui cima era ancora nascosta dalla nebbia. Continuarono a fissarla mentre la debbia si dissolveva, sperimentando per la prima volta la visione di una torre di cristallo. Non era un palazzo, come aveva affermato qualcuno di loro quando si era accorto inconsciamente del massiccio, e il giorno prima non si trovava lì. Alcuni dei membri, coloro che erano stati pagati per emettere una sentenza certa e predeterminata, cominciarono a nutrire orribili sospetti. Un attimo dopo i loro sospetti trovarono conferma. «Buon giorno, membri della Commissione CACCIA e osservatori del Consiglio per lo Sfruttamento Planetario.» intonò la gigantesca torre verde in quinti armonici impeccabilmente modulati. «Per vostra comodità potete rivolgervi a me come a Sua Eminenza di Smeraldo. Sono qui per testimoniare di fronte a voi in merito all'intelligenza delle Presenze di Jubal.»
Tutti, compresi gli osservatori del CSP, in seguito riconobbero che quando sulla terrazza fecero la loro apparizione i viggy, tutti in coro su libretto in lingua terrestre, la loro palese intelligenza fu una vera e propria doccia fredda. Pochi secondi dopo la prima comparsa della nuova Presenza Justin ne era già informato. L'edificio sede degli alloggi della Commissione CACCIA era stato ben fornito di occhi e orecchie. Justin non era il tipo da lasciare niente al caso. In quel momento stava fissando con furioso sbigottimento il piccolo olocubo sulla sua scrivania. L'immagine di Sua Eminenza di Smeraldo appariva piccola e insignificante, e lui udì le parole che provenivano da essa con incredulità mista a rabbia repressa. Non era preparato a una cosa del genere. Nessuno gli aveva mai nemmeno vagamente prospettato che si potesse verificare. Era un trucco! Doveva esserlo. Bisognava presentarlo ai membri della Commissione come un volgare trucco. In qualche modo era necessario trovare una spiegazione... E non aveva tempo da perdere! Prese il comunicatore e chiamò il colonnello Lang. «Impartisci l'ordine di distruzione,» ringhiò. «La decisione della Commissione non è stata ancora emessa,» osservò il colonnello, stizzosamente. Anche lui disponeva di occhi e orecchie personali. «Puoi impartire l'ordine alla truppe e scusarti in seguito, dicendo che eri convinto che la Commissione avesse già deciso. Oppure puoi rifiutarti, nel qual caso ho certi documenti da trasmettere ai tuoi ufficiali superiori entro un'ora. Credo che questi documenti chiarirebbero il mistero del Massacro della Sporgenza, con soddisfazione di tutti. Nessuno ha mai saputo come abbiano fatto gli assassini a lasciare la Sporgenza... fino ad oggi.» La voce del colonnello Lang crepitava di rabbia. «Saresti coinvolto anche tu, Justin!» «Credi che la cosa mi preoccupi? Io mi impadronirò di questo pianeta, Lang. Né prenderò possesso. Lo libererò da tutti i blocchi stradali e diventerà tutto mio. Quando avrò finito non ci saranno più domande sull'intelligenza o meno dei suoi abitanti, ed ho anche degli amici molto in alto. Allora, che cosa hai intenzione di fare?» Vi solo un attimo di riluttante silenzio. «Impartirò l'ordine alle truppe.»
«Bene. Fallo subito.» Da qualche parte del palazzo provenne del rumore. Justin andò alla porta dell'ufficio e prestò ascolto al frastuono che veniva dall'ingresso giù in basso. Voci alterate, una stridula, l'altra più profonda. Honeypeach e Wuyllum. E così anche loro avevano visto la Presenza che parlava alla Commissione ed erano venuti in cerca di rifugio. Justin mostrò i denti. Che venissero pure. Si poteva anche arrivare al punto di aver bisogno di due paia di mani in più per ricaricare un fucile. Justin convocò il capo della sicurezza e gli abbaiò una mezza dozzina di ordini frettolosi. Grazie al puntuale avviso di Verbold sul tentativo di assassinio, i suoi uomini erano tutti a disposizione. C'erano forze e armi a sufficienza, entro le mura del palazzo della BDL, per difenderlo contro qualsiasi cosa il pianeta potesse scatenargli addosso. E inoltre il palazzo aveva anche qualche sgradita sorpresa in serbo, che lo stesso Justin aveva a suo tempo organizzato, anche se non aveva mai ritenuto seriamente di doversene servire. Una volta che avesse finito - prima con le Presenze poi con Jubal - qualsiasi potere gli si fosse opposto sarebbe stato spazzato via! A mezza via lungo il pozzo verticale che penetrava lungo i sei piani di mura esterne del palazzo, Gretl Mechas piegò la testa contro la parete e ascoltò. Il fondo del pozzo era ormai a pochi centimetri dalla meta. Gli ultimi pochi secchi pieni di mattoni sbriciolati erano stati sollevati e gettati via. Adesso la donna sentiva un gran frastuono provenire dall'interno, grida e calpestio di piedi in tutte le direzioni. Respirò a fondo e cominciò a salire la scala a pioli fino agli alloggi dei servi, circa trenta metri più in alto, dove attendeva Michael. Era giunto il momento. CAPITOLO DICIOTTESIMO Da quando Jamieson e Clarin li avevano incontrati per la prima volta, trovandosi bloccata la strada verso occidente, i militari erano metodicamente penetrati all'interno della zona montuosa. Anche se inizialmente guidati dagli Esploratori, gran parte dei gruppi avevano poi perso le loro guide. Quando le intenzioni dei soldati erano diventate chiare, gli Esploratori erano scomparsi La cosa non aveva disturbato più di tanto gli ufficiali, che erano stati bene istruiti dal colonnello Lang. anche se aveva provocato un certo disagio fra le truppe, che adesso sobbalzavano al minimo rumore
e tendevano a scappare via da qualsiasi cosa rassomigliasse vagamente a una Presenza. «Voi non capite,» stava rampognando i suoi uomini un giovane ufficiale. «Quando ci verrà impartito l'ordine, li faremo saltare per aria. E se saltano in aria non potranno farci niente!» Ogni tanto una figura indistinta, nascosta dall'oscurità, si avvicinava a un gruppetto di soldati innervositi, rivolgendogli domande come: «Quanto di essi pensate che sia visibile? Gran parte della Presenza è sotto terra. Se facciamo esplodere la sommità, che farà la parte sepolta?» Poi la figura indistinta scivolava via, lasciando gli uomini a passarsi la domanda l'un l'altro. Non sapevano chi l'avesse rivolta... qualcuno, e basta. L'ufficiale, rendendosi conto che l'isterismo aveva superato il livello confacente alla disciplina, cercava di scoprire questo qualcuno senza successo, e il Cantore che aveva propalato la voce si spostava lungo la Catena meditando qualche altra domanda ugualmente problematica. Questo tipo di imbarazzo, che ormai era assai diffuso fra le truppe, fece sentire un po' meglio i Cantori che lo avevano creato, ma servì a ben poco per ridurre il pericolo che correvano le Presenze. I militari continuavano a muovere verso oriente, e quando gli ordini del colonnello Lang cominciarono a raggiungerli c'erano corpi di uomini bene equipaggiati che si gingillavano ad appena poche ore di marcia da almeno venti fra le più importanti Presenze del pianeta. L'ex sergente Halky Bend era stato incaricato di guidare a passo sostenuto un gruppetto di uomini, accompagnati da un reticente Cavaliere Esploratore, lungo un itinerario circolare fino agli Osservatori. Non era un percorso adatto ai carri o ai muli, ma gli uomini a piedi potevano farcela. Bend era stato liberato dalla prigione militare e messo a capo del gruppo perché si sapeva che era in grado di muoversi con rapidità, aveva fama di essere molto coraggioso, e si trovava in carcere solo perché aveva spaccato quasi tutte le ossa del viso di una donna, e non per qualche grave infrazione alla disciplina militare. Quando giunse l'ordine, Halky, i suoi uomini e l'Esploratore - che marciavano ormai da alcuni giorni ed erano allo stremo delle forze - si trovavano ancora a diversi chilometri di distanza dagli Osservatori. «Vediamo di muoverci,» disse Halky all'Esploratore, sia a parole che a gesti. «Secondo questa mappa abbiamo ancora otto chilometri da percorrere!»
Il suo discorso venne interrotto dal ritorno di un uomo mandato in avanscoperta, che correva lungo un costone gridando: «S'gente, s'gente,» come se avesse appena scoperto una miniera di diamanti. Giunti in cima al costone tutti capirono facilmente perché. Sotto di loro c'erano i Falsi Zelanti, toni affiancate di gemme risplendenti. Le labbra di Halky si aprirono in un sorriso lascivo. Se le umettò con la lingua improvvisamente secca, poi spiegò la mappa per vedere se qualcuno avesse già identificato quell'opportunità. Le guglie scintillanti degli Zelanti erano considerate uno degli spettacoli più belli da vedere di tutto l'universo conosciuto; non erano indicate sulla mappa come bersaglio, perché non costituivano una minaccia per nessuna via commerciale. Nessuno aveva mai pensato di difendersi da esse. Per Halky Bend, però, costituivano un richiamo irresistibile. Halky aveva lasciato il Mondo di Heron un attimo prima che giungesse la polizia planetaria. Non aveva rubato niente di importante, non aveva ucciso nessuno che contasse qualcosa, e non era stato coinvolto in alcun imbroglio o ricatto su larga scala. Spesso i delitti di Halky non erano affatto motivati da esigenze di profitto. Semplicemente gli piaceva distruggere le cose. I suoi anni giovanili erano stati resi felici dalla distruzione. Il suo primo orgasmo era stato accompagnato dall'incomparabile fragore di enormi finestre che si infrangevano davanti a una raffica di sassate. Lui e parecchi suoi amici adolescenti erano riusciti per ben due volte a ridurre in frantumi le vetrate di cristallo decorato, vecchie di millenni, di un'antica chiesa, ed a svignarsela impuniti, anche se in seguito, per via di altre bravate più ambiziose con tanto di congegni incendiari ai danni di grossi edifici pubblici, Halky si era ritrovato la polizia alle calcagna. Ben consapevole di questo, si era arruolato nell'esercito e si era imbarcato, lasciando il pianeta. Adesso, mentre fissava lo stupendo scintillio degli Zelanti, tornò a sentire nella mente il tintinnio e lo schianto del cristallo spezzato, quell'impatto appagante che si provava nel colpire qualcosa che non si piegava, non veniva attraversato e non colpiva di rimbalzo. Con una sensazione non poi tanto diversa dal piacere sessuale, annunciò un'esercitazione di tiro al bersaglio. I soldati tirarono fuori i loro semplici mortai e spararono qualche colpo per mettere a punto la mira. Cristalli di migliaia di anni volarono via in frantumi e ricaddero al suolo. Torri di diamante tremarono e si schiantarono in frammenti scintillanti. Dal terreno provenne come un gemito di sofferente rimprovero, e nel sentirlo i soldati urlarono ed esultarono, pun-
tando i mortai contro i pochi Cantanti di Tineea che erano ancora intatti. Dopo un'ora gli Zelanti non esistevano più. Mentre tutti si divertivano, l'Esploratore fuggì. Entro l'ora successiva ogni Presenza su Jubal seppe che gli Zelanti erano stati distrutti. Lo riferirono a tutti i Cantori ed a tutti i viggy a portata di voce. Appena l'Esploratore incontrò degli amici, ogni Presenza, ogni Cantore ed ogni viggy conobbe il nome di Halky Bend. Una numerosa compagnia al comando del colonnello Roffles Lang in persona venne trasportata da un volatore costiero fino alla costa meridionale e da lì quanto più verso l'interno fu possibile. La compagnia dovette percorrere ancora solo un breve tratto verso nord per raggiungere l'Enigma e cominciare ad aggredirlo. I Cantori di Terrafonda Cinque combatterono in difesa della Presenza urlante insieme a una dozzina di Cavalieri Esploratori, ma non riuscirono ad avvicinarsi abbastanza ai militari bene armati da procurare loro qualche serio danno. L'Enigma rabbrividì, gridò con due voci, e alla fine si accasciò in una montagna di vetro scarlatto, una ferita sanguinante sulla pelle di Jubal. I Cantori retrocedettero verso nord e si rifugiarono nella Cittadella di Terrafonda Cinque, rendendosi conto che avrebbero dovuto difenderla ancora a lungo. Il colonnello Lang considerò con soddisfazione i risultati dell'azione e si sedette a consultare la mappa. C'erano altri bersagli in programma sulla loro tabella di marcia: il Martello del Cielo, la Scure d'Ambra, la Dozzina Letale, il Raccoglitore di Nuvole e infine il più importante, la Torre Nera. Le Presenze erano così fittamente raggruppate che Lang era convinto di poterle distruggere tutte entro un giorno. In effetti poteva lasciare i bersagli più vicini e meno importanti a qualche ufficiale subalterno e puntare a tappe forzate con un gruppo di soldati selezionati proprio sulla Torre Nera, per prendersene cura di persona. Un gruppo di cannonieri diretto verso gli Intercettori fece sosta nella Catena del Dente Rosso e saturò la zona di cariche esplosive. Quando ebbero finito rimasero solo macerie... macerie e il canto lontano dei viggy che piangevano. All'esterno di Splash Uno i membri della Commissione CACCIA, che avevano tutti visto e sentito sia Sua Eminenza di Smeraldo che i viggy, insistettero ostinatamente nel discutere le loro conclusioni in quel che rimaneva del giorno. «Un trucco.» affermò un uomo col doppio mento dagli occhi guizzanti e
sospettosi, il quale era stato ben pagato per far parte della Commissione e si era già speso tutto il denaro. Era convinto che avrebbe dovuto ridare indietro la somma se non avesse fatto ciò per cui lo avevano pagato, e non aveva più niente da restituire. «È stato un trucco.» ripeté con convinzione, con gli occhi che saettavano da sinistra a destra. «E i viggy?» domandò qualcuno per la decima volta? I viggy erano al di là di qualsiasi discussione. Se ne stavano seduti lì, rimbalzando ogni tanto sulle loro comode sedie, dimostrandosi molto interessati e rivolgendo domande. Un certo numero di membri della Commissione, tuttavia, rimase aggrappato alle proprie convinzioni al punto che solo a notte fonda ci si accordò sull'esatta formulazione della sentenza. Visto però che era troppo tardi, la Commissione si ritirò senza annunciarla pubblicamente. Nelle viscere del palazzo della BDL, Harward Justin soffiò via la polvere da un vecchio taccuino malconcio che aveva tirato fuori dal fondo di un cassetto chiuso da lungo tempo e ne scorse le pagine per cercarvi l'elenco che vi aveva scritto anni prima. Mentre lo leggeva, una voce dopo l'altra, attraversò la stanza e si diresse verso un quadro comandi chiuso a chiave; vi armeggiò per qualche secondo, stupidamente impaziente, prima di accorgersi che le chiavi erano nella sua tasca. Erano almeno dieci anni che non veniva in quella stanza, e non aveva mai seriamente pensato che sarebbe giunto il momento in cui ne avrebbe avuto bisogno. Sentì un rumore di passi barcollanti lungo le scale si allontanò dal quadro comandi, digrignando i denti e furioso per l'interruzione. Wuyllum Thonks stava scendendo rumorosamente le scale come se fosse a casa sua, nei giardini della Residenza Governativa. Honeypeach era dietro di lui, ed entrambi avevano un'espressione di rabbioso disprezzo. «Justin,» si lagnò Honeypeach. «Abbiamo appena visto delle truppe che sono arrivate da chissà dove. Ci hanno circondato. Non credo che siano gli uomini del colonnello Lang. Non l'ho visto. Ma hanno armi e tutto il resto, e non riesco a mettermi in contatto con Ymries. Ci ho provato più volte...» Wuyllum aggiunse le sue considerazioni. «Sarebbe il caso di uscire da qui e farsi vedere. Mostriamo loro la nostra faccia migliore. Justin. Facciamogli vedere che siamo innocenti. Non potranno mai condannarci, né tu né noi, con gli amici che abbiamo e con il denaro di cui possiamo disporre per la difesa. Se restiamo qui potrebbero assalire il palazzo! E potrebbero ucciderci tutti!»
«Chiudi il becco,» rispose Justin in un ringhio. «Tu e la tua baldracca levatevi dai piedi, Wuyllum. Vi ho assegnato le stanze degli ospiti. Andate là e restateci.» Ignorando l'insulto alla sua signora, Wuyllum insistette: «Almeno dì ai tuoi uomini di lasciarci uscire. Se tu non vuoi arrenderti, d'accordo...» «Justin!» gridò Honeypeach, «Insomma, come hai potuto dire una cosa così orribile...» Justin si voltò, allungò un braccio e la colpì in pieno viso con tutta la forza che aveva, mandandola a sbattere contro il muro. «Ti ho detto di portare fuori di qui quella puttana,» ordinò a Thonks. «Ho ancora una possibilità, se riesco a buttare giù in tutta fretta un bel po' di quei maledetti cristalli, e non ho nessuna intenzione di perdere tempo con te o con la tua sgualdrina. Se volete sopravvivere, tenetevi lontani da me.» Si girò, senza nemmeno preoccuparsi di controllare se Wuyllum portava via Honeypeach. che sanguinava vistosamente. L'installazione davanti a lui controllava una batteria di razzi chimici, privi di componenti elettronici, e sui quali non c'era nulla che potesse essere alterato o distrutto dai misteriosi interventi di Jubal. Gli Osservatori, la Gola della Follia, l'Enigma, la Torre Nera ed un'altra cinquantina di Presenza erano già state scelte come bersagli di quei razzi. Anche se le truppe di Lang avevano probabilmente già spianato alcune, o forse molte, di quelle Presenze, il fatto che adesso i militari avessero circondato il palazzo della BDL significava che qualcuno aveva già revocato l'ordine di distruzione. Justin non poteva fare affidamento sui soldati per ripulire le vie di comunicazione di Jubal... Ma se non i soldati, potevano farlo i razzi. Bastava farli partire e tutte le strade per le diverse città del pianeta sarebbero state sgombre. Non sarebbe più rimasta nessuna Presenza, su quella parte di Jubal! Anche se avesse dovuto restare nascosto per un po', poteva sempre tornare a rimettere insieme i cocci. Con tutto il denaro su Serendipity - il suo e quello che avevano messo da parte i suoi amici Cristalliti - aveva tutta la disponibilità necessaria per ricominciare da capo. E anche se per un po' di tempo avesse dovuto lasciare Jubal... Con l'abbondanza di congegni che aveva allestito per evitare imprevisti, gli ci sarebbe voluta un'ora di lavoro per impostare le sequenze di lancio. Una volta impostate, comunque, lui poteva anche andarsene. Quando il palazzo della BDL era ancora in costruzione. Justin aveva fatto scavare un rifugio sotterraneo, una galleria che in apparenza era un canale di scolo delle
acque, e in fondo alla quale c'era un ampio garage, con una vettura silenziosa a disposizione. Verso oriente, a circa due ore di macchina, c'era un altro rifugio che si era fatto preparare anni prima. Poteva nascondersi là finché non avesse potuto lasciare il pianeta per andare a prendersi il denaro che poi gli avrebbe consentito di tornare e ricominciare da capo. Aveva messo in preventivo anche i problemi. Justin lo faceva sempre. Esattamente come aveva messo in preventivo Jubal! I suoi progetti su Jubal non sarebbero stati intralciati da qualche cristallo parlante e da una commissione ribelle. Le labbra tirate all'indietro in un ringhio animalesco, Justin si mise al lavoro. «Scacco matto,» disse Rheme Gentry a Tasmin. «Justin è rintanato nel palazzo della BDL. Sono un po' preoccupato di ciò che può avere lì dentro. Secondo logica dovremmo occupare subito l'edificio, ma non abbiamo le armi per espugnarlo... tutta l'artiglieria pesante del pianeta ce l'hanno i soldati di Lang. Non ci basterebbero nemmeno gli uomini per assalirlo prima dell'arrivo di Lang, ammesso che arrivi. Tutto quello che possiamo fare è tenere bloccati Justin e i suoi uomini dentro il palazzo finché il Generale non riuscirà ad ottenere degli aiuti da fuori pianeta.» «Il Generale?» «Mio zio. Zorton Pardo. È il comandante della CATENA. e se tu non sai che cos'è, non lo sa nessuno. E il braccio silenzioso, quasi invisibile del CSP. Diciamo che io lavoro per loro. È giunto qui come uno degli osservatori del CSP e ha preso il comando delle truppe di Jubal. Ma il mio messaggio non è mai uscito dal pianeta e con la sua tipica mancanza di previdenza lui non ha pensato a portare con sé delle armi pesanti.» «Ha bloccato la distruzione?» «Gli ordini sono stati revocati. Forse ci vorrà un po' prima che ne siano informati tutti. Lo sai, Cantore.» il volto di Rheme era chiazzato e grigio per la stanchezza. «E se Justin farà ciò che penso abbia intenzione di fare, non avrà alcuna importanza.» Tasmin si prese la faccia fra le mani. L'Enigma era andato. Il Dente Rosso era andato. Gli Zelanti erano andati. Tutte le Presenze avevano annunciato a gran voce la distruzione degli Zelanti. Lui ricordò di averli attraversati insieme a Clarin, la prima volta in cui si era reso conto della sua esistenza. Ricordò di essere poi tornato a casa da Celcy, quando Celcy era ancora viva. I ricordi turbinarono e si mescolarono fino a diventare una cosa sola nella sua mente, un unico ricordo intrecciato simile a un bastoncino
candito, infinitamente dolce, disgustosamente triste, un dolore che gli lacerava le viscere come un cancro, che lo divorava - donne e Jubal, amore e amore - l'uno distrutto, l'altro distrutto. La sua donna, le donne, quel luogo. Tutto ciò che amava. Quest'uomo, si disse con furia cieca, sta distruggendo, ha distrutto ogni cosa. Harward Justin! «Che cosa pensi che abbia là dentro?» domandò Tasmin con voce rotta. «Lo sappiamo quello che ha. Ho rintracciato alcuni degli operai che lavorarono alla costruzione del palazzo e sono stati ben felici di raccontarci tutto quello che sapevano. Ci sono un centinaio di razzi chimici già puntati sul bersaglio, che non hanno alcun congegno elettronico. Niente congegni di ricerca automatica, niente dispositivi di identificazione. Sono puntati come si punterebbe un fucile a proiettili, regolando la mira dei tubi di lancio.» «E ha intenzione di lanciarli,» affermò Tasmin, sicuro che fosse così. «Potrebbe farlo.» «Non potrebbe, lo farà. È esattamente ciò che farà. È come un animale quando si sente chiuso in un angolo. Continuerà a lottare con tutto ciò che ha.» La testa di Tasmin turbinava, scossa da vertigini. Sapeva di aver percepito con precisione le intenzioni di Justin. «La teoria di Justin sarebbe quella che può sempre tornare a raccogliere i pezzi. Può frantumare Jubal a suo piacere, tanto nessuno se ne preoccuperà, poi tornerà a recuperare quello che è rimasto. O forse ha pensato che se anche dovesse eccedere nella distruzione, può sempre svignarsela approfittando della confusione. In ogni caso, Rheme, lancerà quei razzi.» «Come possiamo fermarlo?» chiese Rheme, impotente. Tasmin si concentrò, arricciando il naso come un animale. «Evacuate l'area attorno al palazzo della BDL.» disse in tono imperioso. «Presto. Muovetevi subito. Allontanate le truppe da lì.» «Che cosa...» Rheme si interruppe quando si accorse che stava parlando alla schiena di Tasmin. Era schizzato via come un fulmine, verso l'Eminenza. Soffocando un'imprecazione, Rheme si accinse a fare ciò che aveva detto Tasmin. Tasmin trovò Don e Clarin accanto all'Eminenza, insieme a Bondri Gesel. Li salutò quasi senza voce. Due riconoscimenti verbali, un canto gorgheggiato e un cupo tono musicale che era in qualche modo interrogativo. Riferì ciò che gli aveva detto Rheme, ciò che lui stesso sospettava, ripetendolo più volte con voce spezzata e cercando di far capire a Bondri e
all'Eminenza il concetto di proiettili, ciò che erano e ciò che potevano fare. «La!» indicò col dito. «Dietro il muro del palazzo della BDL.» «Altra distruzione?» domandò l'Eminenza, la cui voce possente fremeva e vibrava. Di paura? Di preoccupazione? Di rabbia? Era stato proprio lui che aveva annunciato la distruzione degli Zelanti, dell'Enigma, della Scure d'Ambra... una lista che era sembrata infinita. «Possiamo fermarlo, se riesci a spostare i razzi. O a distruggere le installazioni in cui si trovano. O a guastare i comandi che li manovrano...» Silenzio. Poi una voce quasi gentile, che pronunciò parole che Tasmin non fu in grado di capire. «Il Grande desidera sapere se accanto a quel luogo ci siano degli individui... delle persone.» tradusse Bondri. Dal punto in cui si trovavano potevano spaziare con lo sguardo verso la città. Rheme aveva preso Tasmin sul serio. L'area intorno al palazzo della BDL e alla Residenza Governativa era stata evacuata da tutti i civili quando i militari l'avevano circondata. Adesso anch'essi si stavano ritirando, muovendosi con rapidità, e trascinando con sé alcuni civili che si erano rifiutati di andarsene. «Riferisci al Grande che laggiù non c'è nessuno a parte i cattivi che hanno provocato la distruzione,» disse Tasmin a Bondri. «Il Grande ha usato il nostro linguaggio perché aveva bisogno di sapere che cosa è vero,» si scusò Bondri. «Puoi dire al Grande che lo capisco.» Seguì un'ulteriore conversazione nella lingua dei viggy, poi Bondri fece un gesto in direzione della lunga altura che sovrastava la città. «Le Presenze tenteranno di impedire altra distruzione. Puoi assistere da lassù,» gli suggerì. «Quel posto dovrebbe essere al sicuro.» Tasmin si mosse nella direzione che gli aveva indicato Bondri. Si sentiva vuoto, bruciato dentro, come se le sue percezioni formassero un guscio sottile attorno al vuoto. Clarin e Don erano dietro di lui, e trainavano i loro muli e il suo. Gli animali avevano pascolato ai piedi dell'Eminenza, senza preoccuparsi più di tanto delle sue dimensioni o del rumore che emetteva, così come non si preoccupavano mai di tutto ciò che esisteva su Jubal. Era quasi l'alba. Appena un giorno da quando l'Eminenza si era sollevata dal suolo crepitante di Terrafonda. Un giorno da quando erano scomparsi gli Zelanti. Tasmin imprecò. Alle sue spalle Clarin allungò una mano, poi la lasciò cadere. Nessuno poteva dirgli niente, in un momento del genere. Da quando aveva saputo degli Zelanti, Tasmin si era abbattuto, quasi come gli
era successo dopo la morte di Celcy. Era come se tutto ciò che era accaduto si fosse focalizzato in qualche punto all'interno del suo essere. E per lui, in quel momento, contava solo quel punto. Giunsero a una sporgenza rocciosa distante circa ottocento metri dalla periferia della città. Verso ovest c'era una stretta linea di fattorie, poi una strada corta costeggiata da magazzini, un'altra strada con piccoli negozi e infine il muro che segnava il confine orientale delle tre grandi strutture: la Residenza Governativa, la Cittadella ormai vuota, e il palazzo della BDL. Attorno a quel muro le truppe del capitano Verbold avevano formato in precedenza un solido cordone, ben protetto dietro barriere costruite in tutta fretta Adesso le barriere erano state abbandonate, e i soldati si trovavano sui tetti delle case e agli angoli delle strade, a distanza di sicurezza. Lo spazio intorno alle tre strutture era completamente sgombro. Tasmin fissò il muro come se fosse un nemico personale. Dietro quel muro c'era Harward Justin. Se fosse successo qualcosa a quel muro, se esso fosse crollato, Harward Justin sarebbe corso via. Sarebbe scappato. Tasmin si leccò le labbra, stupito che quel pensiero gli procurasse un tale piacere: il piacere di vedere Justin che scappava, che schizzava da una parte all'altra come un topo dei cristalli, che andava di qua e di là tentando di sottrarsi alla cattura, ma che alla fine veniva fatto prigioniero. Oh, il momento della cattura. I suoi muscoli si tesero, come se lui fosse sul punto di saltare. L'adrenalina gli si riversò nelle vene, e Tasmin ne sentì il gusto, assaporò il pensiero di fare qualcosa lui stesso, invece di restarsene seduto oziosamente mentre tutto e tutti erano in azione. Oh, sì, Justin sarebbe scappato. E in tal caso, non poteva che farlo nella sua direzione. Tasmin si guardò intorno, perlustrando lo spazio fra la città e il punto in cui si trovava, esaminando il territorio, con la testa che si muoveva senza posa e gli occhi che mandavano bagliori. «Perché sei così sicuro che verrà da questa parte?» gli chiese Clarin. Lui si voltò, stupito. Don si era allontanata in direzione dei viggy, mentre Clarin se ne era rimasta seduta tranquilla sul suo mulo, i capelli neri che le incorniciavano il viso acqua e sapone, in quel momento inespressivo. «Stai aspettando le mosse di Justin. vero?» «Come fai a saperlo?» «Perché le nostre menti sono simili, Tasmin. Perché è con lui,» aggiunse poi, «che puoi prendertela per tutto quello che è successo.» «Hai qualcosa da ridire?» ribatté lui, in tono irragionevolmente rabbioso.
La ragazza scosse il capo, conservando la calma ed ignorando la sua rabbia. «Come fai ad essere così sicuro che verrà da questa parte?» «La città è isolata,» rispose in un ringhio, senza rendersi conto di esprimere il suo pensiero ad alta voce. «Se ha una galleria, non può andare in direzione della città. Continuano a costruire fondamenta, strade sotterranee e canali di scolo. Non è possibile che esista una galleria diretta verso la città e che sia rimasta nascosta. Dovrà per forza venire in questa direzione.» Clarin sorrise, incurvando appena le labbra sottili. «Straordinario, Tasmin. Mio padre mi aveva detto che eri in gamba.» «Tuo padre?» «Thyle Vowe è mio padre. Ma non importa. E così sei convinto che Justin verrà qui.» «Se può muoversi verrà qui.» «Potresti essere ferito. Ucciso.» Lo disse con calma, come se non avesse nessuna importanza. Lui non la sentì nemmeno. Il distaccamento del colonnello Lang giunse alla Torre Nera di primo mattino, stanco ma ancora in piena efficienza. Qualcuno dei suoi uomini era stato ucciso, caduto sotto il fuoco dei cecchini Cantori o fatto a pezzi per essersi avvicinato troppo a un Piccolo irascibile, ma il numero delle vittime non era superiore a quello che il colonnello aveva messo in preventivo. Si era preoccupato più che altro di non perdere le armi, e infatti era riuscito a salvarle quasi tutte. Adesso inviò i suoi uomini a circa quattrocento metri di distanza dalla Torre e fece sistemare loro i mortai. Jamieson, ormai quasi del tutto ristabilito dalle ferite riportate sull'Enigma, giaceva su un costone da un lato della Torre. Negli ultimi giorni aveva vissuto intensamente la sua resurrezione, come se si trovasse in Paradiso e gli fosse stato concesso il privilegio di parlare con Dio. Lui e la Presenza avevano trascorso lunghe ore in conversazione, ore di estasi come non ne aveva mai vissute. Adesso se ne stava lì, circondato da Cantori venuti da Terrafonda Cinque, ben deciso a difendere la Presenza da qualsiasi minaccia. Gli uomini erano equipaggiati con armi che l'armiere della Cittadella - che ci aveva lavorato sopra freneticamente per giorni e giorni aveva garantito loro avere una portata più che doppia rispetto a quella dei normali fucili per stordire. Sotto la Torre Nera, Sua Altezza Oscura eccetera, due giligee che erano rimasti con Jamieson si stavano preparando a partire. Però se la stavano prendendo comoda e Jamieson li avvisò che l'attac-
co era imminente. «Andatevene di qui,» gli ordinò. «Mettetevi al riparo.» «Siamo rimasti per accertarci che tu guarissi del tutto.» cantarono i giligee, con voce soffusa. Si erano affezionati a Jamieson. Lui aveva una voce migliore della maggior parte dei viggy, ed era bravissimo a cantare. Ascoltare Jamieson e la Torre Nera era stato edificante. Al loro ritorno avrebbero avuto molte cose da cantare alla compagnia. «Lo so,» intonò il ragazzo. «Ve ne sono grato. Ma dovete muovervi adesso. Quei soldati laggiù stanno preparando il mortaio.» I giligee non avevano mai visto mortali, né li avevano cantati. Non avevano la più pallida idea di ciò che stesse dicendo Jamieson, ed avevano fin troppe parole nuove in lingua terrestre con cui confrontarsi. Educatamente, ma senza fretta, si avviarono su per il sentiero verso il punto in cui si trovava Jamieson. Sulla spianata giù in basso il colonnello Lang calcolò la distanza della Torre e ordinò al servente di sparare un colpo di prova. Il proiettile colpì appena sotto i giligee, facendoli cadere a terra semisepolti dalle schegge. Jamieson balzò in piedi con un urlo e corse giù per il sentiero, mettendosi a scavare freneticamente per liberare i giligee che erano rimasti illesi, e trascinandoli poi fino a un costone sporgente che proseguiva all'interno della Catena. «Presto!» gridò. Correte!» «Minaccia!» cantò la Torre Nera con voce smisurata. «Distruzione!» Jamieson inspirò a fondo e cantò: «Non temere. Noi proteggeremo...» A fianco della Torre un Cantore provò il suo nuovo fucile sul servente, aprendogli un foro netto da parte a parte. Il colonnello Lang bestemmiò, modificò l'alzo del mortaio e vi inserì un nuovo proiettile. Jamieson stava rassicurando la Torre Nera, cantando tutto il suo amore e la sua determinazione, e in quel momento solenne la sua voce era più gloriosa che mai. Vide il proiettile arrivare con la coda dell'occhio. Quando colpì stava ancora cantando. Nei paraggi del palazzo della BDL Tasmin sentì un tremito sotto i piedi. Clarin scese subito di sella e si mise a sedere, avvicinando a sé i muli. Essi si accovacciarono obbedienti, con i lunghi colli appoggiati sul terreno, «Mettiti giù, Tasmin.» «Che succede?» «Qualsiasi cosa l'Eminenza desidera che succeda.» Il tremito si trasfor-
mò in un rollio, poi il suolo si sollevò e si riabbassò. Di fronte a loro la lunga fila di case di mattoni franò in un mucchio di macerie. «Non basta,» ansimò Clarin. «Non basta ancora.» Cominciò di nuovo, dapprima una leggera increspatura, poi un'onda, la seconda che rinforzava la prima, vibrazioni armoniche che si amplificavano ad ogni successiva ondata. Il muro attorno alla Residenza Governativa cominciò a piegarsi e a incrinarsi. Ma ancora non era abbastanza. Poi di più! Ampi movimenti ondulatori che li scossero prima da una parte, poi dall'altra, mentre gli alberi danzavano una pavana selvaggia nella prateria confinante, ondeggiando e piegandosi, e i palazzi della città tremavano e sussultavano. Il mondo era così saturo di rumore, forte e profondo, che tutti ne rimasero assordati; ad ognuno di loro sembrò che la distruzione avvenisse in un silenzio sinistro. La cupola dorata del tempio si squarciò e cadde in frammenti irregolari che sembrarono impiegare un tempo interminabile prima di giungere a terra Tasmin si domandò se ci fossero dentro dei pellegrini, adoratori dei Grandi. Quegli stessi Grandi che gli stavano facendo crollare la città sopra la testa. Poi di nuovo quello scuotimento poderoso, l'armonia di un'unica, enorme oscillazione seguita da altre via via più forti. Una torre di spigolo del palazzo della BDL si ripiegò su se stessa come carta bagnata. Un angolo dell'edificio principale si inclinò e cadde. La zona all'interno delle mura fremette e sussultò, mentre le pietre rimbalzavano sul terreno come gocce di pioggia su una padella. Tasmin si mise il binocolo davanti agli occhi, poggiando i gomiti a terra e regolando freneticamente le lenti. Nel cortile del palazzo della BDL c'era del movimento, si vedeva qualcuno nel cortile del palazzo della BDL, accanto al cancello che lo separava dalla Residenza Governativa. L'onorevole Wuyllum, tutto solo. No. Insieme al Governatore c'era qualcun altro che barcollava, afferrandosi a lui! Honeypeach? Clarin masticò un'imprecazione. Anche lei vedeva Honeypeach Thonks, coperta di sangue per una ferita sul viso. L'onorevole Wuyllum si girò e le diede un calcio, poi si mise a correre mentre la moglie gli andava dietro attraverso il cancello, lungo le vaste terrazze e dentro la Residenza. Gli crollò addosso. All'improvviso. Come se il pianterreno fosse stato strappato via. All'interno delle pareti perimetrali non c'era più niente. Né mura, né frammenti di angoli, né camini. Poi crollarono anche le pareti esterne.
E alla fine rovinò anche il palazzo della BDL, accartocciandosi su se stesso nella marea tremolante di movimento, quasi fosse stato un semplice castello di sabbia. «La Cittadella...» ansimò Tasmin. «È vuota,» disse Clarin. «Mio padre mi ha detto che è stata evacuata.» Videro entrambi, nello stesso momento, l'apertura nera nel terreno. La terra tremava ancora quando la ragazza sollevò il braccio, indicando in quella direzione, e Tasmin si rialzò in piedi e montò sul mulo. L'apertura si allargò. Una porta camuffata, molto ad est rispetto alla zona colpita. E da essa emerse un uomo corpulento in una piccola vettura silenziosa, che guidava a tutta velocità verso oriente, verso di loro, verso il punto in cui lo aspettavano. «Clarin...» «Sì.» «Vai via. Sarà armato.» «Io vorrei...» «Se ti succedesse qualcosa non potrei sopportarlo. Mi ucciderebbe. Ce ne sono state già abbastanza, di morti. Ti prego, Clarin.» Lei non aggiunse altro. Più che vederla, la sentì andar via. Tasmin non distolse lo sguardo dall'uomo che era davanti a lui. Era l'alba. La luce del mattino picchiava dritta negli occhi di Harward Justin, accecandolo. Solo quando fu a qualche metro da Tasmin si accorse delle due immagini dell'uomo e del mulo stagliate contro il sole, e notò anche il profilo di un fucile al fianco dell'uomo. Il terremoto lo aveva distolto dalla sua abituale concentrazione. Senza pensarci sopra tirò la leva di guida per fare subito marcia indietro, non fermandosi nemmeno quel tanto che gli sarebbe bastato per capire che il fucile era ancora dentro il fodero e che avrebbe potuto tranquillamente sorpassare il mulo. Tasmin si piegò in avanti e diede un colpo di sproni sul fianco del mulo. Non sperava di raggiungere l'uomo... non poteva sperarlo, anche se lo avrebbe voluto. Per mettere le mani sul suo collo tozzo, per rompere quel cranio spesso, pieno di olio, per schiacciarlo come una noce. La vettura prese velocità. Justin armeggiò con la mano sul sedile accanto ma l'arma che vi aveva messo era scivolata sul pavimento quando la macchina aveva effettuato quella svolta brusca. La vettura traballava, rischiando di capovolgersi, e lui rinunciò a cercare l'arma e preferì invece puntare diritto verso la galleria segreta dalla quale era uscito poco prima. Proprio
di fronte a lui. sul sentiero appena visibile, c'era l'entrata della caverna nascosta, con la porta ancora aperta. Attorno a quella porta c'era una vasta area sgombra. Una volta raggiunta quell'area lui avrebbe potuto rigirare la vettura, e recuperare l'arma. La macchina piombò nell'oscurità, seguita da Tasmin a non molta distanza. Qualcosa sfiorò il fianco di Tasmin. Qualcuno, che lo raggiunse di lato e lo fece cadere dal mulo. Qualcuno che gridava. «Tasmin, Tasmin, per l'amor di Dio sta per saltare tutto, non andare là dentro dietro a lui, sta per esplodere...» La terra si squarciò come si era squarciata prima sull'Enigma, solo che questo non era l'Enigma, questo era Terrafonda, solido come la roccia, eterno come la pietra, adesso infranto e lacerato, con il fuoco che eruttava verso il cielo mentre un centinaio di grossi razzi tentava di lanciarsi e scoppiava sotto innumerevoli tonnellate di roccia frammentata. Le pietre caddero addosso a loro in un fragore assordante. Qualcuno gridò per il dolore. Ciò che rimaneva del piccolo regno del capo di Splash Uno tremolò in una polvere microscopica sollevata da un vento al calor bianco. La nuvola ribollì, torreggiò, si accumulò nel cielo oscurando il sole e provocando un'ombra simile a quella del crepuscolo. Tasmin giaceva a terra sulla schiena e la fissava. Qualcuno accanto a lui stava gemendo. Clarin. Che si stringeva il braccio e piangeva per il dolore e lo spavento. «Credo che sia rotto,» disse fra le lacrime. «Mi è caduta addosso una roccia...» Tasmin si alzò, controllando anche lui se il suo corpo era ancora tutto intero. Dalla collina alle sue spalle provenne un trillo, poi un inno armonioso. Bondri Gesel e la sua compagnia, che avevano capito in anticipo ciò che stava per succedere, avevano intonato un canto di avvertimento e adesso lo stavano tramutando in canzone vera e propria da tramandare. Quando Tasmin si volto a guardare Clarin, il giligee era già al lavoro sul suo braccio. «Per te sta diventando un'abitudine, quella di farti male,» le cantò il giligee, mentre fissava Tasmin con occhi rabbiosamente interrogativi. Tasmin scosse la testa. Da qualche parte sotto quelle macerie c'era un uomo che avrebbe voluto uccidere. Che ancora voleva uccidere. Il vuoto nella sua anima non era stato riempito. Nessuno poteva sopravvivere là sotto, e dunque Justin doveva essere morto. Però lui, Tasmin, non era del tutto soddisfatto.
Le truppe che avevano appena raggiunto il Grande Dente Azzurro, Colui che Scruta l'Orizzonte, la Mano Possente, la Presenza che gli uomini chiamavano Intercettore Orientale, non avevano ricevuto alcun ordine che revocasse quello originale. Puntarono e spararono diversi proiettili ben mirati che distrussero alcune parti non piccole dell'Intercettore. Gli uccelli volteggianti si sollevarono in una nuvola turbinosa e agitata. Il terreno tremò. Gli uomini si rallegrarono. L'Intercettore si rallegrò a sua volta, mentre la sua enorme voce cresceva di volume e di tono. I soldati si ritrovarono a strisciare per terra, le mani sulle orecchie, urlando contro quel frastuono, che non terminò finché tutti loro non ebbero smesso di muoversi. La rabbia aveva portato l'Intercettore a questa ritorsione non prevista. Una quieta malizia lo spinse a comunicare il successo della tattica a tutte le altre Presenze. Ai piedi della Torre Nera uno dei giligee che Jamieson aveva salvato raggiunse, correndo a perdifiato, i Cantori e gli Esploratori le cui azioni da cecchino erano riuscite con successo a tenere a bada i soldati. «Sua Altezza Oscura desidera che vi spostiate,» gli squittì nelle orecchie, così eccitato dall'azione da non riuscire più a mantenere calmo il suo canto. «La Torre Nera vuole che vi muoviate in fretta e che vi allontaniate subito.» «Lo distruggeranno,» disse con voce roca uno dei Cantori, pulendosi il sangue dalla fronte nel punto in cui un frammento vagante di cristallo lo aveva ferito. Erano riusciti a tenere a bada i serventi ai pezzi. Ne avevano ucciso un buon numero. Il colonnello che aveva lanciato il proiettile che aveva ucciso Jamieson se n'era andato da un bel po', dirigendo frettolosamente verso sud con un pugno di uomini, ma ne aveva lasciati indietro un numero sufficiente da fare a pezzi la Torre, solo che fossero riusciti ad avvicinarsi abbastanza. «No. La Torre Nera non glielo consentirà. Ormai sa come fare, ma voi dovete andarvene. Subito. Verso est, verso la zona montuosa. Andate via, e copritevi le orecchie.» I difensori se ne andarono, coprendosi le orecchie come era stato loro detto. Il suono cominciò quasi immediatamente, un suono intenso e doloroso, e loro aumentarono la velocità per portarsi il più lontano possibile. Mentre si allontanavano il suono crebbe e continuò a crescere, diventando
a volte quasi insopportabile, e gli uomini non smisero di correre. I soldati, ai quali non era stato consentito di andare via, si ritrovarono ben presto del tutto indifesi. Alcune delle armi esplosero da sole, in modo del tutto innocuo per quanto riguardava la Torre, anche se non si poté dire altrettanto per i militari, accasciati al suolo ormai privi di sensi. Dopo di che non vi furono altre distruzioni. La Commissione CACCIA, i cui lavori erano stati ritardati dalle esplosioni nella città, che fecero tremare l'edificio in cui si trovavano i componenti e li riempirono di polvere, si radunò in ritardo a mezzogiorno, al solo scopo di annunciare le proprie decisioni. Intelligenza: di due tipi. I residenti umani, compreso il bestiame e le colture, sono autorizzati a rimanere su Jubal solo dietro esplicito invito delle specie senzienti. I membri della Commissione si rilassarono. Era fatta. In un angolo della sala l'uomo dal doppio mento si morse silenziosamente le labbra, sollevato all'idea che ormai non aveva più bisogno di restarsene da solo. Se qualcuno rivoleva indietro il suo denaro, avrebbe dovuto fare un fischio per riaverlo. Lui non ne aveva più. Uno dopo l'altro, i membri cominciarono a dirigersi verso le porte. Ciò che desideravano, adesso, era solo lasciare il pianeta al più presto. Sotto il mucchio di macerie del palazzo della BDL, Harward Justin si risvegliò in un'oscurità quasi totale, un vuoto cavernoso ed echeggiante in cui le ombre si muovevano e si affollavano. Dopo un confuso periodo di semicoscienza, cominciò a concentrarsi sulla luce. Dal punto in cui si trovava poteva distinguere parecchi bagliori, luci danzanti che risplendevano lungo il pavimento e le pareti. Fuochi. Piccoli fuochi. Niente di pericoloso. Niente di minaccioso. Cercò di sollevarsi e si accorse di avere un braccio incastrato. La vettura si era rovesciata, ma il suo corpo era libero, a parte il braccio. Lottò per liberarsi e quasi svenne per il dolore che gli invase la spalla e il petto. Doveva esserci qualcosa di rotto... Sono nel garage, si disse. Era tornato nel garage, e poi i razzi erano esplosi, ma il garage era intatto. Naturalmente Justin aveva fatto costruire la struttura in modo che fosse in grado di sopportare quasi tutto... a parte un attacco nucleare, forse. Fissò le luci tremolanti. Forse erano provocate
dall'elettricità. Dimenandosi un poco riuscì a vedere una fila stretta e irregolare di luci in una direzione... le ampie porte attraverso le quali aveva guidato la vettura, che adesso si erano chiuse ed erano in parte sepolte dai detriti. Nella direzione opposta c'era solo un buco oscuro, un'apertura buia di forma ellittica. Era la galleria che portava verso il palazzo ormai crollato. La guardò, senza rendersi conto subito che i rumori che sentiva provenire da lì erano voci. Voci. Gli unici che si trovavano all'interno del Quartier Generale, oltre a lui, erano gli uomini della sicurezza. Quelli nei piani più bassi dovevano essere fuggiti. «Ehi!» gridò. «Sono quaggiù.» Vi fu silenzio, poi un bisbiglio. Quindi ancora silenzio. «Sono incastrato sotto la macchina,» gridò Justin di nuovo. «Muovete il culo e venitemi a liberare.» Adesso udì nuovamente le voci, e un rumore soffocato di passi. La vettura gli impediva la visuale. Non riusciva a vedere chi fosse, sentiva solo il calpestio dei piedi, piedi nudi. Perché mai gli uomini della sicurezza dovevano camminare a piedi nudi? Poi un altro rumore di passi, stavolta di piedi che calzavano scarpe. Si rilassò. Non solo due, però. Ce n'erano altri... «Signor Justin,» disse una voce femminile accanto alla vettura.. «Harward Justin?» Una voce femminile? Si voltò, lottando contro il dolore, sollevando gli occhi verso l'alto quanto più gli fu possibile per vedere chi fosse. Una donna. Una donna macilenta, dagli occhi brucianti. «Numero sei,» disse lui, incredulo. «Numero sei.» «Gretl,» lo corresse la donna dolcemente, gli occhi accesi dalla follia. «Gretl Mechas. Insieme a qualcuno dei tuoi amici...» Fu solo in tarda serata che Rheme Gentry si recò della stanza del Generale per salutare suo zio. «La distruzione si è fermata?» chiese il Generale. Rheme Gentry annuì stancamente. «Ci risulta di sì. Ma non è merito nostro. Le Presenze hanno trovato un modo per difendersi da sole.» «Ce l'hanno con noi?» «No. Non secondo Tasmin Ferrence e il suo gruppo. Sono diventati i nostri portavoce, loro e i viggy.» Rheme scosse la testa, sorpreso di rendersi conto che le lacrime gli stavano rigando le guance. «Quei dannati militari hanno distrutto gli Zelanti,» gridò. «E il Dente Rosso!»! «Stai piangendo,» gli disse suo zio, colpito.
«Oh, Generale... tu non sei stato qui abbastanza a lungo.» «No. È evidente.» «In effetti non so nemmeno che cosa ti abbia portato qui.» «Ci sono due cose che mi hanno portato qui. Rheme. La prima è stata il non avere tue notizie. Considerando la tua verbosità persistente e spesso irrilevante, mi è sembrata una cosa piuttosto sospetta. L'altra cosa è stata che l'ho saputo da qualcun altro. Ho ricevuto una lettera, qualche settimana fa, evidentemente appena prima che Justin bloccasse del tutte le comunicazioni. Era di un mio vecchio dipendente, una donna notevole che era allora il capo della divisione criptoanalisi. Cyndal Prince. Cyndal è andata in pensione e si è trasferita qui su Jubal, dove si trovavano i suoi unici parenti ancora in vita. Una sorella, mi pare, una nipote e un nipote. Tutte le lettere che ricevevo da Cyndal le mandavo subito in criptoanalisi, per abitudine. Lei aveva delle cose piuttosto interessante da dire, come sempre, splendidamente codificate, perché non avrebbe potuto inviare quel tipo di informazioni attraverso i normali canali, superando la censura di Justin. Ho messo insieme le due cose e ne ho dedotto che la mia presenza qui poteva essere utile.» Guardò con affetto l'uomo davanti a lui con il volto rigato di lacrime. «Ora, se riesci a mettere da parte le emozioni per un attimo, gradirei la tua opinione su ciò che c'è da fare adesso.» Rheme si asciugò il volto. «Hai riconvocato i membri come commissione d'inchiesta?» «Sì. È sembrato opportuno anche a loro. Ci sono diversi elementi a carico di Justin, del Governatore, di sua moglie, e di una bella sfilza di altri cattivi minori. Molti dei quali, temo, hanno evaso la giustizia morendo più presto di quanto volessimo.» «Lang è ancora vivo. Parecchi militari, compreso lo stesso Lang e il plotoncino che ha distrutto i Falsi Zelanti, si sono rifiutati di consegnarsi, come era stato loro ordinato.» «Come fai a saperlo?» «Viggy. Cantori. Sentono le cose, poi le riferiscono a una Presenza, e Sua Eminenza di Smeraldo lo viene a sapere subito.» «E allora?» «E allora dobbiamo radunare le truppe che sono rimaste fedeli e andarli a prendere. Non possiamo permettere che se ne vadano in giro come briganti.» «Non pensi che se ne prenderanno cura i viggy e le Presenze?» «Sono sicuro che lo faranno, alla fine. Però agli occhi del CSP sembrerà
più bello e più onorevole se lo facciamo noi.» «Dove si trova adesso il colonnello Roffles Lang?» «Da qualche parte a sud di dove c'era prima l'Enigma. insieme a circa duecento soldati. Si è proclamato comandante di tutti gli umani di Jubal.» «Ah, davvero?» fece il Generale, meditabondo, tirando su col naso. «Bene! Sono d'accordo che è meglio se ce la sbrighiamo da soli. E dal momento che potremmo dover lasciare Jubal molto presto, bisogna farlo subito. Ho promosso colonnello il capitano Verbold e l'ho nominato comandante della guarnigione con effetto immediato. Scegli fra i soldati che hai a disposizione e fra quelli che arriveranno. Lavora insieme a lui e vedi di organizzare tutto.» La faccenda venne organizzata la mattina successiva, e il colonnello Verbold risaltava vistosamente in mezzo alle truppe che cominciavano a radunarsi fuori dalla città. Donatella Furz, che era stata avvisata sia da Clarin che da Rheme. si aggirò in mezzo agli uomini che stavano formando lo schieramento, con le lunghe gambe che percorrevano a grandi passi il terreno, mentre si guardava intorno in cerca di un uomo in particolare. Alla fine lo trovò, gli occhi iniettati di sangue, ovviamente in qualche modo sotto l'effetto del brou. seduto all'ombra del suo mulo, intento a pulire il fucile. «Tasmin,» gli disse con calma. «Ti stavo cercando.» Lui le rispose con un grugnito. «Che cosa credi di fare?» «Vado insieme ai soldati,» borbottò Tasmin. «A sistemare le ultime cose.» «La morte di Justin non ti è bastata?» Lui le rivolse un'occhiata bruciante. «Non so di che stai parlando.» Don si sedette accanto a lui. «Sto parlando di vendetta. Tasmin. Clarin ha detto che volevi davvero uccidere Justin. Questo posso capirlo. Ti è praticamente scivolato fra le dita...» «Bastardo,» grugnì Tasmin. «Ma questo non rende la cosa più sensata.» La donna indicò con un gesto della mano le truppe radunate. «Il colonnello Verbold ha detto che potevo andare.» Sembrava un bambino capriccioso di cinque anni. «No, ha detto soltanto che non poteva impedirti di seguirlo. Anzi, ha fatto presente la sua contrarietà a Rheme, che lo ha riferito a Clarin. Poi tutti
e due lo hanno detto a me.» «Devo...» Cercò le parole, senza riuscire a trovarle. «Devi toglierti un peso dal cuore,» concluse Donatella al posto suo. «Celcy.» farfugliò Tasmin. «Lei è morta.» «Sì, è morta. E sono morti anche i Falsi Zelanti, e l'Enigma, e il Dente Rosso, e una ventina di altre Presenze. Non posso dire che ti biasimo perché volevi uccidere Justin e per aver fatto tutto il possibile per riuscirci, anche se hai rischiato dannatamente di lasciarci la pelle tu stesso. Però Justin aveva molto meno a che fare con la morte di Celcy che con quella di Gretl, tanto per dirne una, ma io non ho un fucile fra le mani regolato sulla massima potenza, e non ho nessuna intenzione di fare qualcosa che i soldati possono fare molto meglio di noi due.» «Gretl non era tua moglie. Celcy era mia moglie.» Donatella squadrò l'uomo ostinato che era di fronte a lei con un misto di pietà e di irritazione. In parte era anche colpa sua. Se non gli avesse raccontato i suoi fatti personali, se non gli avesse fatto voltare le spalle a Celcy, se non lo avesse reso consapevole dell'attrazione che provava per Clarin. creandogli dunque un senso di colpa, forse le cose si sarebbero sistemate da sole e lui pian piano se ne sarebbe dimenticato. Dannazione! «Tasmin, pensi che la nostra amicizia sia abbastanza importante da potere andare in quella taverna a bere un bicchiere insieme? Del broundy, magari? O del tè caldo?» «Non mi farai cambiare idea.» «Dopo che avremo parlato farai ciò che vorrai, Tasmin. Non tenterò di fermarti, te lo prometto.» Riluttante. Tasmin si mise l'arma in spalla e seguì Donatella attraverso i gruppetti di soldati. Quando furono seduti sul retro del locale quasi vuoto, con le bevande fumanti di fronte a loro, lei lo fissò pensierosa, cercando di trovare la chiave per quella porta chiusa, sbarrata che era il volto di Tasmin. Era ubriaco, esausto, agitato e pallido. Jamieson e Clarin avevano notato entrambi che aveva perso peso dopo la morte di Celcy, e Don riteneva che ne avesse perso ancora di più dopo il loro primo incontro Non aveva un aspetto rassicurante. Era ossessionato, forse. Più probabilmente cocciuto. O forse si sentiva semplicemente in colpa. «Perché hai scelto lei, Tasmin? Fra tutte le donne di Terrafonda Cinque. Perché hai scelto Celcy?» Fra le molte domande che la donna avrebbe potuto rivolgergli, quella gli
giunse del tutto inattesa. Il suo atteggiamento di testardo rifiuto non gli sarebbe servito a niente. «Be'... non l'ho scelta, non esattamente L'ho incontrata. Lavorava all'ufficio del Commissario. Stava ammirando un ciondolo e io gliel'ho comprato. Ho fatto qualche battuta sul fatto di regalare un bell'oggetto a una bella ragazza...» Cercò di mettere a fuoco Don, non senza difficoltà, ma la sua voce era chiara. «E poi?» «Be', da cosa nasce cosa, lo sai.» «Raccontami.» «La volta dopo l'ho invitata a pranzo. Lei mi ha parlato della sua famiglia, di come viveva. Sembrava... un po' avvilita.» «E tu provavi dispiacere per lei?» «In un certo senso. Era prigioniera di quella vita, una vita piuttosto limitata.» «E naturalmente era una ragazza molto sexy.» Tasmin arrossì. «Questi sono affari miei, non credi?» «Io credo che abbiamo condiviso abbastanza di noi stessi da poterne parlare, Tasmin. Diamolo per scontato. Era sexy. Ti ha fatto sentire... potente. Protettivo.» «Immagino di sì.» «L'hai mai guardata veramente. Tasmin? Ti sei mai domandato seriamente quanto di lei ti piacesse Hai fatto una scelta consapevole, basata sul fatto che stavate bene insieme? L'hai mai confrontata con altre donne?» Lui fece un gesto di impazienza, che Don interpretò subito, e nel modo giusto. «Non c'erano altre donne. Tu eri completamente preso da te stesso e dal tuo lavoro, e non cercavi qualcuno che potesse vivere una vita felice insieme a te. Celcy era graziosa e sexy, e faceva un lavoro umile, che tu consideravi con aristocratico distacco. Era lì, aveva bisogno di qualcuno, e tu hai risposto all'appello.» «Penso di sì.» disse lui, arrossendo di nuovo. «Tu la presenti come una cosa superficiale, ma tutta quella faccenda della scelta consapevole mi suona tanto come un comportamento a sangue freddo, non ti pare?» «Davvero? Non lo so, Tasmin. Non sono mai stata sposata. Tutto ciò che so, vista la tua natura, è che tu probabilmente curi molto il tuo abbigliamento da Cantore. Probabilmente eri molto selettivo nella scelta di un mulo nelle stalle. So che sei molto scrupoloso nel controllare il tuo sintetizzatore, perché ti ho visto all'opera. In fondo queste cose, per te, sono impor-
tanti ed essenziali. Ma a quanto sembra non hai posto quella stessa cura nella scelta di una moglie. L'hai semplicemente trovata, come un frammento di cristallo lungo il sentiero. Hai lasciato che si abituasse a te, le hai insegnato a dipendere da te senza nemmeno deciderlo a livello consapevole. Poi, dopo averlo fatto, ti sei accorto che la tua coscienza ti impediva di lasciarla.» Tasmin la guardò. Niente di ciò che lei aveva detto era del tutto sbagliato, eppure le sue parole lo avevano fatto infuriare. «Sei ammirevole sotto molti aspetti. Tasmin. E onorevole. Ma a volte sei così cocciuto da togliere il fiato.» «Non hai il diritto di dirlo,» sbottò lui. «Ho lasciato Terrafonda Cinque per capire perché era morta. Ho percorso Dio solo sa quanti chilometri cercando di scoprire il motivo della sua morte. Una cosa mi ha portato ad un'altra, e tutte mi hanno portato ad Harward Justin... a lui e ai suoi compari. Tu sostieni che Justin non è così responsabile? Allora spiegami perché è morta.» «Forse è morta, Tasmin, perché sapeva che tu eri deluso di lei, voleva fare qualcosa che approvassi in pieno...» «Stai dicendo che l'ho uccisa io...» «Sto dicendo che quando chiunque di noi stabilisce un rapporto interpersonale nel quale uno dei due dipende totalmente dall'altro, noi uccidiamo qualcosa. Noi stessi, forse. O tutti e due.» «Noi andavamo d'accordo!» «Ma certo! Buon Dio, Tasmin, fra te e Jamieson ho saputo tutto della vostra vita. Tu eri innamorato di Jubal, e lei ne era spaventata a morte. Tu eri affascinato dalla Presenze, e lei ne aveva un terrore sacrosanto. E tu la perdonavi sempre per questo, trovavi sempre delle scuse, la trattavi sempre con condiscendenza. Forse Celcy è morta perché voleva vivere secondo le tue aspettative, Tas. O magari era sotto l'effetto del brou, almeno spero, così da non rendersi conto di ciò che stava succedendo... forse nella sua mente annebbiata ha deciso di fare una cosa straordinaria, che non avresti potuto non ammirare.» Lui la fissò a bocca aperta, incapace di trovare le parole per replicare. «È vero. Tu sei responsabile come chiunque altro. Ma tutto quello che ti viene in mente di fare è di prendertela con qualcuno per sentirti meglio. All'inizio Lim, ma era morto. Poi io, ma hai deciso che non era colpa mia. Poi Harward Justin, ma è stato ucciso senza il tuo intervento, o quasi. Adesso a chi toccherà? A qualche soldato ammutinato che non è in grado di
distinguere una Presenza da un cristallo di sale?» Donatella stava piangendo, in parte per se stessa. «Smettila di cercare qualcuno con cui prendertela, Tasmin, e pensa alla tua vita...» Comprendeva benissimo i sentimenti di Tasmin. Ci era passata anche lei, con Link. Si alzò e lo lasciò lì, a fissare il vapore che saliva dalle coppe che aveva di fronte. Quando i soldati si misero in marcia. Tasmin non andò con loro. Era fuori dalla città, ai piedi di Sua Eminenza di Smeraldo, e cantava insieme a Bondri Gesel. «Lo ha detto Donatella,» cantava, «ma non è vero...» Se ne stavano seduti alla dolce luce del sole mentre le macchine rombavano nella città, portando via le macerie, scavando corpi, e trovandone ogni tanto qualcuno ancora in vita. Tasmin non era in grado di capire ciò che gli stava succedendo, quella specie di freschezza che arrivava, come se qualcuno avesse aperto una finestra dentro di lui dalla quale giungeva un vento freddo e puro. Faceva male. Era molto freddo e faceva male. «Non è stata tutta la verità quella che ha detto Donatella.» Tasmin ansimò di nuovo. «Lo sai, Bondri. Noi... ognuno di noi vede la verità a modo suo. dal suo punto di vista del tutto egocentrico, e insiste che è così. Come i bambini quando litigano. Sei stato tu. No, io no. E invece si. Voi viggy non avete questo tipo di discussioni. Quando cantate, la cosa viene fuori in questo modo: "Egli si sentiva ferito perché lei sembrava fare questo, e lei era ferita dalla sua mancanza di considerazione, ma nessuno dei due aveva in mente una conclusione del genere...".» «Sì, tu ci percepisci in modo corretto,» cantò Bondri Gesel. «La canteremmo così, più o meno.» «Immagino che una volta che le parole della memoria si sono fissate nelle nostre menti in un modo ben preciso, è allora che noi ricordiamo. Non possiamo ricordare la cosa mentre avviene, ricordiamo solo le parole che ci siamo detti sull'argomento. Una volta ho detto a mia madre che non volevo una donna cieca come madre, e lei se ne è ricordata per anni. E ogni volta si metteva a piangere. Diceva che era cieca comunque, e che se io avevo detto ciò che avevo detto allora significava che non la volevo. Non credo fosse ciò che intendevo, eppure è la verità. Aveva ragione. Non c'era modo di separare ciò che era dalla sua cecità. Dovevo accettare la cecità, se volevo accettare lei. Non si possono fare a pezzi le persone, e scegliere solo i pezzi che ci piacciono. Se i viggy avessero cantato di lei. il loro canto non l'avrebbe offesa, perché avrebbero cantato tutto, non solo una par-
te... Comincio a credere che parlo a me stesso solo per placare la pelle, Bondri. Ciò che dico non è necessariamente ciò che intendo dire. E non è nemmeno la verità. E questo mi fa...» «Ah,» sospirò Bondri Gesel. «È così importante per te? Davvero vuoi cantare la tua Celcy, Tasmin Ferrence? Vuoi cantare la tua Celcy come noi canteremmo uno dei nostri?» Tasmin si prese la testa fra le mani, bagnandosi i palmi di lacrime. «Sì. Vorrei cantarne la verità, Bondri. Perché come posso sapere ciò che le è successo finché non so chi era veramente? Non posso credere che sia andata là per causa mia...» Bondri scosse il capo, in un gesto straordinariamente umano. «Don Furz non avrebbe dovuto tentare di cantarla da sola, Tasmin Ferrence, perché lei non la conosceva. Anche tu non dovresti cantarla da solo, Tasmin Ferrence. Chi altro c'era? Da quanto dici, i vostri maschi hanno visto solo la sua qualità di tineea. Voi avete un termine, corteggiamento. È la stessa cosa. È una piccola danza che eseguono le femmine quando sono troppo giovani per accoppiarsi. Il tineea. Ti dice, ammirami, lusingami, canta delle piccole cose per me. Non aspettarti niente, perché ancora non ho niente da dare. È questa qualità di tineea che io sento, nel canto che tu fai di lei.» «In lei c'era ben più di questo!» «Sì. C'è sempre di più.» «Portava in grembo il mio bambino.» «È difficile o pericoloso, fra gli umani?» «Non particolarmente, no. Ma lei non lo voleva. Lo faceva solo per me.» «Ah. Allora dovremmo cantare il canto di un bambino che ha incominciato a crescere con riluttanza per l'amore che lei portava al suo compagno. È già un canto migliore del solo tineea.» «Lei è andata all'Enigma, anche se era terrorizzata dalle Presenze.» «Parli spesso di terrore, quando parli di lei. Si spaventava spesso?» «Era sempre spaventata. I suoi genitori morirono quando era ancora una bambina. Venne abbandonata. La allevò suo zio, che però aveva dei figli propri. Io sono stata la prima persona che abbia mai conosciuto alla quale lei appartenesse... e anche che le appartenesse. Aveva paura di perdermi, era terrorizzata... ecco, di ogni cosa.» «Ah, bene. Questa è una faccenda differente. Adesso canteremo il suo valore, il suo coraggio, il fatto che aveva tanta paura eppure cercava lo stesso di essere coraggiosa.» «Ha dato a Lim ciò che gli serviva quando io mi ero rifiutato di farlo.»
«Canteremo la generosità.» «Mi amava. Se Don ha ragione, è morta perché mi amava.» «Canteremo la devozione.» Coraggio. Generosità. Devozione. Non erano parole che avrebbe mai scelto per Celcy, eppure non poteva dire che non fossero vere. «Continuavo a dire a me stesso che dovevo trovare il tempo per stare di più con lei, il tempo necessario per rassicurarla che non mi avrebbe perduto, perché lei potesse cominciare a crescere. Sarebbe potuta diventare una persona del tutto diversa da quella che gli altri vedevano.» «Canteremo le possibilità, Tasmin Ferrence. Canteremo ciò che sarebbe potuta diventare, se ne avesse avuto il tempo.» Tasmin sospirò, un sospiro che lo riempì completamente, e che altrettanto completamente lo lasciò consapevole della verità. «Cantare ciò che sarebbe potuta diventare. Ecco. Ecco la parte che fa male. Che non le abbia concesso il tempo per diventarlo, prima di morire.» «Così noi canteremo.» Tasmin gridò, poi rise, debolmente, asciugandosi le lacrime. «È vero ciò che canti. Bondri? I vostri canti sono veri?» «Verità è quello che cantiamo, Tasmin Ferrence.» Sul braccio di Tasmin si erano posate le dita del viggy, quattro, tre più un pollice, e lo accarezzavano. «Non la conoscevi abbastanza bene, Tasmin Ferrence. Poi è morta. Tutte le cose muoiono. Non la conoscevi come avresti dovuto, come avresti voluto. E adesso non puoi cantarla. Te la prendi con te stesso, e questo diventa il tuo canto. Puoi cantare che ce l'hai con te per non esserti preso quel tempo. La compagnia di Bondri ascolterà e ti aiuterà a cantare. "Egli ce l'ha con se stesso", canteremo, ma non è colpa sua. Ha fatto ciò che ha potuto." Non si tratta di colpa. È un debito che tu hai assunto. Non puoi pagarlo a lei, ma suo figlio vive. Puoi imparare a cantare quel figlio. E per quel figlio, se canterai la devozione e il coraggio e la generosità abbastanza a lungo, anche quello sarà vero. Se canterai ciò che sarebbe potuta diventare, allora il bambino crescerà conoscendo tutte queste cose di sua madre. E ciò che inizia adesso come un canto pieno di tempo che non c'è mai stato, col tempo diverrà la verità.» Tasmin ci pensò sopra, annuendo lentamente. Così. Così. Così. Ciò che inizia come una partitura dell'Enigma diventa la verità. «Pensaci, Tasmin Ferrence.» «Ci penserò, Bondri. Quando Jamieson tornerà gliene parlerò. Lui conosceva Celcy. E conosce anche me, molto bene...»
Il viggy ansimò come se fosse stato ferito. Un suono molto umano, pieno di durevole, profondo dolore. «Tasmin, amico mio. Questa mattina mi è stato riferito qualcosa di molto triste e penoso che adesso devo cantarti...» Thyle Vowe chiese a Tasmin di parlare a nome dei Cantori nel negoziato con le Presenze. Donatella fu invitata dai suoi colleghi a rappresentare gli Esploratori. Dopo averci pensato un po', Don rifiutò. «Che sia Tasmin a rappresentarci,» disse ai suoi colleghi. «Io non posso fare nulla per voi che lui non sappia fare. E c'è qualche altra cosa di cui devo occuparmi.» Appena vennero rimessi in funzione i servizi, lei ritirò una buona parte dei suoi risparmi dall'ufficio crediti della BDL e li spese tutti nell'acquisto di bantigon, che poi offrì ai cinque giligee della compagnia di Bondri. Voleva che si mettessero all'opera su due suoi amici. Link, naturalmente. E Gretl Mechas. che era ricomparsa come uno spettro dalla polvere dei detriti, seminuda e del tutto fuori di sé. Dopo la sorpresa e lo shock iniziale nel rivedere Gretl, Don le aveva rivolto qualche domanda. Mesi prima aveva identificato un corpo martoriato come quello di Gretl Mechas, e lo aveva fatto perché aveva indosso i suoi abiti, non perché ne avesse realmente riconosciuto qualche parte. Adesso, anche se Don si rendeva conto che si era trattato del corpo di qualche povera creatura, messo lì in modo che nessuno cercasse Gretl, capiva anche che forse Gretl avrebbe preferito che quel corpo anonimo fosse il suo, che lei era in pratica ugualmente andata, morta, finita. Don aveva accettato il fatto, ma si era messa d'accordo con i giligee. «Tu vuoi che io informi la tua famiglia, no?» le aveva suggerito, evitando accuratamente di parlare dell'amante di Gretl. «Sul Mondo di Heron.» Gretl era stata lì lì per dire no, poi aveva fatto cenno di sì. «Sì. Dì a mamma che sono viva. Non ancora pronta a tornare, non subito, forse mai, chissà. Ma viva.» Viva, diceva la sua mente, desiderando convincerne anche l'anima. Aveva acconsentito di farsi curare dai viggy perché Don glielo aveva proposto e perché non sapeva che altro decidere. Dopo quello che lei e gli altri avevano fatto ad Harward Justin, non sapeva se sarebbe mai stata capace di fare ancora qualcosa di normale e di umano. Eppure, alla fine era stata Gretl che aveva convinto gli altri a lasciarlo morire. Link non aveva accettato subito l'offerta di Don. Ma alla lunga si era persuaso a recarsi fra i monti insieme a Don e Gretl per passare un po' di
tempo con i giligee. Trascorsi dieci lunghi giorni, i giligee non avevano ancora fatto per Gretl ciò che speravano di riuscire a fare, prima o poi. Gretl restò con loro. Link invece, nonostante i suoi dubbi, fu un problema piuttosto semplice. Tornò a Splash Uno con Don. debole e claudicante, ma sulle sue gambe. Migliorò di giorno in giorno e Don seguì la sua guarigione domandandosi come mai non provasse quell'euforia che si sarebbe aspettata; alla fine se ne rese conto, ma non gliene parlò mai. Adesso che Link era nuovamente in grado di andare in esplorazione, sembrava piuttosto probabile che non ci fosse niente da esplorare. Il sogno si era avverato, ma la ragione di quel sogno non c'era più. L'ironia della cosa non sfuggì a nessuno dei due. Trascorsero molto tempo insieme, facendo dolcemente l'amore e volutamente parlando poco, come se le loro emozioni fossero una foresta di Piccoli attraverso i quali dovevano aprirsi la strada con molta attenzione. Dopo diversi giorni Donatella trovò il tempo di andare a pranzo insieme alla cugina Cyndal. «Mi è dispiaciuto così tanto, quando ho saputo della moglie e del figlio di Lim,» disse la cugina Cyndal con un'aria di chi ne sapesse più degli altri, senza degnare di un'occhiata il menù. «Quando Lim e io abbiamo organizzato tutta la faccenda, lui non mi ha detto niente dell'aspetto finanziario. Mi sento responsabile.» «Tu non sei responsabile. Guardati indietro, Cyndy, e ti accorgerai che la responsabilità di tutto si può ascrivere al caso e ai demoni personali di ognuno di noi. A parte Harward Justin, non si può parlare di colpa specifica per nessuno. Io avrei potuto scegliere qualunque altra Presenza, per mettere in pratica i suggerimenti di Erickson, ma avevo più ego di quanto fosse giusto, e siccome era più grande e più difficile, ed aveva sconfitto tutti gli esperti, ho scelto l'Enigma. Se lo avessi fatto con una qualsiasi delle altre - con la Torre Nera, con gli Osservatori, anche con gli Intercettori sarebbe andato tutto bene. Quindi dovrei biasimare anche me stessa.» «È inutile.» «Lo so. È solo appena meglio che biasimare qualcun altro.» «Come sta Link?» «Si sta riabituando ad essere tutto intero.» «Resterete insieme?»! «Non abbiamo ancora deciso. Poiché nessuno di noi due sa che tipo di vita ci aspetta, e nemmeno quando cominceremo a viverla, è una decisione ancora po' prematura.»
«Mio Dio, come sei logica.» «Mi sono informata in materia.» Donatella si ricordò della discussione con Tasmin e cambiò argomento. «Nessuno ha mai sospettato di te, Cyndal?» «Della tua vecchia cugina Cyndal? Di quella vecchietta un po' strampalata? Certo che no. Su Jubai nessuno sa che mestiere facevo, prima di venire qui. Il fatto che sia vecchia non significa che sia rammollita, ma loro non lo sanno.» Donatella arrossì. «E adesso,» disse la cugina Cyndal, «vediamo se c'è qualcosa su questo menù che posso mangiare.» «E così i Piccoli fanno parte della pelle delle Presenze, vero?» chiese borbottando Thyle Vowe a sua figlia. «Sia i Piccoli, che i Minimi e la stessa superficie dei cristalli più grossi,» gli rispose Clarin. «E in tutti questi anni noi non abbiamo fatto altro che cantare ninne nanne, no?» Vowe emise un grugnito di disgusto. «Mi dispiace, papà, ma è più o meno quello che abbiamo fatto. Ninne nanne molto complicate, naturalmente. Il motivo per cui non siamo mai riusciti a tradurre i rumori emessi dalle Presenze è che si trattava di rumori e basta. Grugniti, cigolii e grattate. Come facciamo noi quando dormiamo: ci capita di tossire, di starnutire, o di grattarci. Nelle centinaia di anni da che siamo qui, non siamo mai riusciti a cogliere le Presenze abbastanza sveglie da parlarci.» «Merda,» sbottò il Gran Mastro. «Viene da domandarsi che senso abbia la vita.» «Sì,» convenne Clarin, ripensando a Jamieson e a quanto avesse voluto parlare con le Presenze, a quanto grande fosse stato il suo desiderio di comunicare con esse. «Sì. Viene proprio da domandarselo.» Venne il tempo in cui ogni cosa fu detta innumerevoli volte, in cui i negoziati furono conclusi, in cui le navi furono partite ed altre navi furono arrivate, in cui il momento peggiore del dolore fu alle spalle, in cui i morti furono sepolti - almeno coloro di cui vennero ritrovati i corpi, e fra questi non c'era Harward Justin - in cui tutta la faccenda che aveva avuto inizio con l'Enigma si poté considerare quasi conclusa. Quando giunse quel tempo Tasmin andò in cerca di Clarin.
La trovò nella biblioteca della Cittadella di Splash Uno. Stava leggendo le relazioni di vecchi viaggi, molti dei quali risalenti agli albori della colonizzazione, pieni del mistero e della meraviglia che era stato Jubal. I capelli le erano cresciuti abbastanza da caderle sulla fronte, ombreggiandole gli occhi. Tasmin non riuscì ad interpretare la sua espressione. «Cercavo di ricordare com'era prima che sapessimo come stavano le cose,» disse la ragazza. «Tu e Jamieson e io parlavamo di ciò che provavamo. La meraviglia. Il senso di aspettativa.» «Ci sono ancora,» disse lui. «Non per noi,» replicò Clarin, posando il libro e alzando lo sguardo verso Tasmin, con quel suo modo di guardare intensamente, da pari a pari, che era così tipico di lei. «Perché dici così?» «Oh, Tasmin, sai bene quanto me quali sono le conclusioni.» «Allora non hai parlato con tuo padre. L'ho avvertito stamattina.» «No, non ci ho parlato.» «Se lo avessi fatto ti avrebbe detto che non ce ne andremo. Almeno io e lui non ce ne andiamo. E così la maggior parte dei Cantori.» «Vuoi dire che vogliono... che le Presenze vogliono davvero che restiamo?» «Ci trovano interessanti, Clarin. Trovano interessante soprattutto la percezione che abbiamo di loro. Ci vedono molto come io comincio a vedere i viggy. I viggy - o almeno i giligee - possono penetrare nei nostri corpi e dirci tutto di essi. Cose che non conosciamo. Noi possiamo fare la stessa cosa con le Presenze. Non avevano il minimo concetto di se stesse, prima che arrivassimo noi a dirglielo.» «È vero. Hai negoziato con loro.» «Le Presenze non vedono nessun motivo per cui dobbiamo andarcene, finché abbiamo un buon rapporto con Jubal. Non hanno intenzione di tenere svegli per tutto il tempo i loro mezzi cervelli - evidentemente la loro vita filosofica, giù nel profondo, assorbe gran parte dei loro interessi - e dicono che hanno ancora bisogno di noi per evitare di rotolarci addosso durante il sonno. Quelli che sono stati distrutti stanno già ricrescendo, piuttosto rapidamente. Le loro radici sono ancora lì. Dicono che fra qualche decennio ci sarà un altro Dente Rosso. E un altro gruppo di Zelanti.» «Ma che cosa faremo, per guadagnarci da vivere?» «Esiste ancora un mercato per il brou. Naturalmente non ci sarà più la BDL a commercializzarlo fuori pianeta, ma ci sono dei gruppi che ne
prenderanno il posto. L'organizzazione provvisoria che ci siamo dati lascerà il posto al nostro governo planetario. I viggy vogliono che restiamo perché gli forniamo del buon cibo. E abbiamo bisogno anche degli Esploratori. Nemmeno un quarto della superficie di Jubal è stata cartografata.» Respirò a fondo, con gli occhi che gli brillavano. «Clarin, c'è tanto di quel territorio là fuori! Ci sono delle Presenze che ancora non conosciamo! Cose che non abbiamo mai visto! Tutti quei magnifici...» Si accorse che la ragazza lo fissava non un'espressione assente e sospirò. «Le Presenze hanno anche chiesto il nostro consiglio sui viggy.» «Sui viggy?» «C'è il problema che ogni tanto si nutrono di carne umana. Pare che una compagnia di viggy dell'interno abbia catturato e mangiato un soldato di nome Halky Bend. Io non so il perché, ma la Presenza ha detto che c'era un buon motivo. Cose come questa preoccupano un poco le Presenze. Esse sanno che noi non mangiamo i nostri simili, né i viggy. Sanno anche qualcosa sui tabù. Ne hanno anche loro...» La sua voce si spense. Clarin non reagiva. «Insomma,» concluse stancamente, «abbiamo un sacco di cose da fare.» «Non sono sicura di voler essere studiata,» disse la ragazza, cambiando discorso. «Studiata?» «Ma certo. Jubal si riempirà di scienziati. Pensaci un po'! Le prime forme di vita intelligente non organica!» «Forse verranno, ma non saranno capaci di cantare per avvicinarsi ad esse,» replicò Tasmin. «Avranno bisogno di noi, Clarin.» «Oh, lo so. Ma non voglio essere materia di studio, per loro.» «Tu?» «Noi. Oh, sì. Ci studieranno insieme alle Presenze, noi e i viggy. Scriveranno dissertazioni erudite sul tema "Interazioni fra intelligenze umane e intelligenze non organiche".» «E con questo?» «È solo che...» Le sue obiezioni suonavano speciose, anche a lei. Clarin arrossì e si esaminò attentamente le mani. Tasmin le mise un pacchetto in grembo. «È una cosa che ho trovato.» Lei lo fissò con aria interrogativa, poi lo aprì. Il batuffolo morbido grigioverde la fissò a sua volta. «Un bambolotto viggy,» disse Clarin con un filo di voce. «Per il tuo bambino, Tasmin.» Gli ci volle un attimo prima di rispondere. «Sì, per il bambino. Mi chie-
devo come chiamarlo.» «Credo che ci sia un unico nome possibile. Chiamalo Lim Jamieson.» «Lim.» Tasmin si voltò verso la finestra, mentre le lacrime gli inondavano gli occhi. «Jamieson.» «Hai un debito con loro, e l'unico modo per pagarlo è quello di onorare i loro nomi. Di prenderti cura delle loro compagnie. È questo che ha detto Bondri.» «E Celcy?» le domandò, guardandola intensamente in volto. «A lei che cosa devo?» «Hai già pagato il tuo debito con Celcy,» rispose lei. «Non le hai mai fatto del male, almeno non di proposito. Tutti quelli con cui ho parlato sostengono che era felice e soddisfatta di essere sposata con te, almeno per quanto le era possibile esserlo. E adesso non c'è più.» «Don dice che è morta perché voleva fare un'unica cosa del tutto degna di ammirazione.» «È possibile,» rispose Clarin, con calma. «Ma ci sono delle altre possibilità, Tasmin. Un numero infinito. E per certe cose non importa ciò che è vero.» «Io credevo che per me importasse.» «Solo perché ti sentivi in colpa. Volevi qualcosa che ti sgravasse dal peso. O forse qualcosa per canonizzarla. Poi, quando hai scoperto la verità su Lim. ti sei sentito ancora peggio. Nulla di tutto ciò è stata opera tua, Tasmin.» Lui fece una risatina soffocata. «Ho detto qualcosa di divertente?» «No. Tu canti una canzone, e Don ne canta un'altra, e Bondri una terza, e io un'altra ancora. Immagino che potremmo comprenderci anche mia madre. E Jeannie Gentrack, e gli altri amici che avevamo a Terrafonda Cinque. A quel tempo la morte di Celcy mi sembrò così stupida, così inutile, così priva di significato. Mi fece arrabbiare. E anche adesso, quando ci ripenso, sono più arrabbiato che triste. Ho desiderato così tanto sapere perché è morta, e non ne so di più di quando avvenne.» «E vuoi sapere una cosa ancora più strana, Tasmin? Se tu potessi riportare in vita Celcy e chiederlo a lei, non saprebbe darti una risposta.» «È vero,» ammise lui, improvvisamente ravvivato. «Probabilmente non saprebbe darmela.» «Non importa. Non cambierebbe niente, sulla base della comprensione che tu hai di ciò che le è accaduto. Quello che importa è che tu fra poco
avrai un bambino, il suo bambino. E che vivrai qui su Jubal. E anche tua madre, e Vivian, e il figlio di Lim.» «E anche tu.» «Non ho ancora deciso.» «Clarin, una volta hai detto a Jamieson che mi amavi?» I suoi occhi si riempirono. «Sì, gliel'ho detto. E lui non avrebbe dovuto dirtelo.» «È stata l'ultima cosa che mi ha detto, Clarin. Mi ha chiesto di ricordarlo, per amor suo.» Lei pianse. «Tutte queste conversazioni che ho avuto con la gente, Clarin... non mi hanno insegnato niente che già non sapessi. Solo due persone, in questo viaggio, mi hanno insegnato qualcosa. Io non me ne ero reso conto. Tu e Jamieson. Non credevo che qualcuno potesse provare per Jubal quello che provavo io, che fosse capace di preoccuparsene come me. Mi ero del tutto isolato dalle persone, mi ero chiuso in una classe dove c'ero solo io.» Rise senza allegria. «Don mi ha chiesto perché avevo scelto Celcy, perché non ho cercato di trovare qualcuno che fosse più adatto a me. Il motivo era molto semplice. Non mi era mai venuto in mente che potesse esistere qualcuno di cui io avessi bisogno. Ero un eletto, Clarin. Un solitario nel suo mistico splendore, Credevo di essere l'unico. Jamieson ha dovuto fare forza su di me per insegnarmi che non avevo il monopolio della meraviglia. Jamieson... e tu.» Le lacrime sgorgarono copiose. «Mi manca,» disse lei con un filo di voce. «Anche a me. Hai ragione. Se sono debitore con Lim lo sono anche con Jamieson. Mi ha spiegato dov'era il mio cuore.» «Stai tentando di dirmi che mi ami?» «Sto cercando di dirti che vi amo entrambi. Ho amato lui e amo te. Non nel modo in cui credevo di amare Celcy. È qualcosa di completamente diverso da...» «Io non voglio essere la tua bambina.» «No. Non ho mai pensato che lo volessi. E non lo voglio neanch'io.» «Non farai un po' di confusione su chi sono veramente, Tasmin?» Lui ci rifletté. Era così facile confondersi su chi fosse veramente la gente. Ogni persona era tante persone. Si poteva solo provare. La sollevò dalla sedia e la strinse forte a sé. Lei si sentì come si era sentita quella volta ai piedi dell'Osservatore, tremante. Aveva lo stesso profumo. Tasmin ricordò
le loro voci che si libravano insieme mentre salivano la Scalinata dell'Orco. Due voci in una. Così per lui. Conoscendo se stesso avrebbe conosciuto lei. Conoscendo se stesso... «Se farò confusione,» promise Tasmin, «chiederò a Bondri di aiutarmi a cantarti, Clarin.» FINE