ROBERT BLOCH IL REGNO DELLA NOTTE (Night-World, 1972) 1 Il sole andava a morire a occidente. Il suo sangue macchiava il ...
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ROBERT BLOCH IL REGNO DELLA NOTTE (Night-World, 1972) 1 Il sole andava a morire a occidente. Il suo sangue macchiava il cielo. Sarei potuto diventare un poeta, pensò. Uno scrittore. Ma il suo talento sarebbe stato sprecato. Uno scrittore ha vita breve, vive solo sulla carta stampata e nella memoria dei suoi lettori. La carta è fragile, ben presto si riduce in polvere e i vermi divorano i ricordi. Ma chi divora i vermi? Il tempo. Il nemico è il tempo. Il tempo divora i vermi, divora la carta, il tempo divora il sole. E il tempo stava divorando anche lui, un po' alla volta, brano a brano, giorno dopo giorno. Il tempo lo consumava di notte, lì, in quella miserabile stanzetta. La chiamavano stanza, invece era una vera e propria cella. Una cella con le finestre sbarrate da una rete metallica attraverso cui un moribondo poteva osservare il sole agonizzare. Gli avevano detto che era lì per il suo bene e che la porta era chiusa a chiave per proteggerlo dagli altri pazienti. Ma la porta chiusa non poteva proteggerlo dal tempo che lo consumava, notte dopo notte, impedendogli di dormire. Non poteva proteggerlo dai suoi stessi protettori. Loro avevano la chiave. A qualsiasi ora del giorno o della notte potevano venire a ghermirlo, a prendere quello che era avanzato dopo che il tempo aveva finito di banchettare e di succhiargli il sangue. Per sottoporlo a dei test, gli avevano detto. Si aspettavano forse che ci credesse? Aveva già capito con chi aveva a che fare, gente che voleva la sua linfa vitale per mantenersi in vita. Avevano lasciato i mantelli neri per indossare i camici bianchi, e succhiavano il loro nutrimento con aghi e siringhe anziché con denti appuntiti, ma rimanevano sempre vampiri. Peggio dei vampiri. Perché si stavano nutrendo anche del suo cervello. E così via. Elettroterapia convulsivante. Questo è il termine scientifico per elettroshock che a sua volta è un eufemismo per dire che ti legano e ti sparano scariche elettriche nel cervello per succhiarti via la mente. Si erano impadroniti del suo corpo e l'avevano imprigionato in quella cella, avevano succhiato il suo sangue e l'avevano messo in una provetta e avrebbero
voluto prendere anche il suo cervello per inserirlo in una macchina. Ma non c'erano riusciti. Era ancora in grado di ricordare il passato e poteva fare piani per il futuro. Una notte insonne dopo l'altra, lì, nella sua stanza, continuava a escogitare piani. Il suo piano era la perfezione, la purezza, la poesia assoluta, ma non l'avrebbe messo per iscritto. Istruzioni per ciechi. Si prega di leggere attentamente. Nessuno doveva scoprire ciò che aveva progettato, nessuno doveva sospettare nulla. Aveva nascosto tutto in un luogo segreto. Nel posto più misterioso del mondo, il suo cranio. Ogni cosa è al sicuro dentro il tuo cranio. Perché è protetto da una maschera chiamata volto che reagisce esattamente come gli altri vogliono che reagisca. Sorride agli scherzi, è seria davanti alle situazioni spiacevoli, assume un'aria rispettosa in presenza dell'autorità. E questo volto possiede una bocca che dice esattamente quello che il dottore vuole sentire. Ma non si lascia sfuggire nemmeno una parola sul piano. "Sì dottore, mi sembra di stare molto meglio. Comincio a sentirmi di nuovo quello di un tempo." Nessuno si aspetta che tu dica esattamente le cose come stanno. Vogliono solo che tu dica le cose che loro si aspettano di sentirti dire. Un paziente modello: tranquillo, disponibile, che dimostra chiari segni di miglioramento. E la bocca sa bene come darglielo a intendere. E così facendo dà una mano alla riuscita del piano. Il dottore non lo sa, l'infermiera non ha sospetti e l'inserviente non ha nemmeno una prova. Finché il volto è rilassato e la bocca pronuncia le parole esatte, nessuno può intuire la verità. E cioè che la bocca è solo una parte della maschera, e dietro la maschera c'è un cranio, e nel cranio... Nel cranio c'è di tutto. Capovolgilo, rovesciane il contenuto come faresti con uno zaino o con una borsetta. Cos'hai trovato? Ce n'è per tutti. Misticismo. Il mio oroscopo dice dì non credere nell'astrologia. Scienza. L'ornitologia parla di uccelli. Letteratura. La pornografia crea insoliti compagni di letto. Filosofia. Un gesto è più efficace di una parolaccia. Sapeva già quello che il dottore gli avrebbe detto. Gliel'aveva ripetuto tante volte durante le loro sedute. «Lei usa le parole come uno scudo. L'ambiguità è un meccanismo di difesa. Lei parla per evitare di dire qualcosa». Che cosa si aspettava? Se avesse raccontato al dottore che stava pensando a Jimmy Savo, probabilmente al dottore quel nome non avrebbe detto niente.
Jimmy Savo. Un comico del passato. Un piccoletto che si esibiva in pantomime che ai critici ricordavano Chaplin. Come quella che interpretò in uno sketch trasmesso alla televisione a tarda notte. Jimmy Savo, che cantava sempre quella vecchia canzone: Fiume, stai lontano dalla mia porta. Avrebbe dovuto spiegare queste cose al dottore. E poi avrebbe dovuto anche spiegargli perché Jimmy Savo gli ricordava i famosi maniaci omicidi passati alla storia. Quelli sì che sono famosi, naturalmente. La gente con ogni probabilità non saprebbe dirti chi era il presidente della repubblica francese cinquant'anni fa, invece conosce bene il nome di Landra. Chi si ricorda che Gilles de Retz cavalcava al fianco di Giovanna D'Arco? Ma certo nessuno dimentica che Gilles de Retz era Barbablù. E ci sono persone che si domandano ancora chi fosse veramente il massacratore di Cleveland. E non molto tempo fa la stampa ha fatto un gran baccano riguardo all'ipotesi che Jack lo Squartatore fosse davvero un esponente della nobiltà britannica. Lo era, naturalmente. In un mondo di vittime i veri aristocratici sono gli assassini. Questa è la prima lezione della storia: il vero eroe va sempre a braccetto con la morte. Il re degli animali è il leone, non l'agnello. E secondo me Jimmy Savo cantava un'altra canzone: Squartatore, stai lontano dalla mia puttana. Ma non puoi raccontarlo al dottore. Certo non proprio a lui, quel guaritore incallito che si autodichiara amante dell'umanità! Siamo tutti amanti dell'umanità, naturalmente, ognuno di noi lo è. Ma quello che la maggior parte di noi dimentica, è che ognuno uccide ciò che ama. Il vigliacco lo fa lasciando cadere una bomba da un aereo a otto chilometri di altezza, il coraggioso usa il coltello, a dodici centimetri dalla sua vittima. Ora stammi a sentire, dottore. State a sentire voi tutti, re, imperatori, presidenti, ammiragli, generali, comandanti in capo. Ascoltate le parole che non possono essere pronunciate: "Non ucciderò perché mi avete ordinato di uccidere; perché mi avete fornito un'uniforme, un'arma e un reggimento. Questa è una frode. "Non ucciderò per quello che è avvenuto tra me e mia madre, mio padre, mia sorella, mio fratello, mia moglie. Questo è Freud, anche questa è una frode. "Ucciderò perché sono un uomo coraggioso. E un uomo coraggioso si mantiene fedele alla sua natura. "È nella natura dell'uomo essere libero, non tollerare d'essere recluso. È nella natura dell'uomo lottare contro l'ipocrisia e l'ingiustizia. Ucciderò in
nome di tutto il genere umano ingiustamente e ipocritamente confinato in orfanotrofi, penitenziari, ospedali, case di riposo. Ucciderò in nome di quelli che sono stati puniti per il coraggio dimostrato nell'affrontare a viso aperto la società. In nome di quelli che sono classificati diversi e disadattati. In nome dei bastardi seppelliti in un orfanatrofio e dei milioni di moribondi abbandonati e dimenticati, rinchiusi in un istituto unicamente perché hanno commesso il crimine d'invecchiare. "Credo nei princìpi della democrazia. Un uomo, un voto. E il mio è un voto di protesta, un voto che verrà registrato e ricordato. Gli assassini di massa sono famosi. "Paroloni? Ma se non ho fiatato! Neanche quelli che mi aiuteranno nel piano immaginano lontanamente le mie intenzioni o il vero significato del ruolo che svolgeranno nella sua esecuzione". Esecuzione. Questa è la parola... Questa era la parola. Stava calando la notte e ora il piano si sarebbe realizzato. Rimase a osservare il sole che moriva, pensando a tutto quello che presto sarebbe morto. Molto presto. 2 Dopo aver pranzato Karen tornò in ufficio. Non fece caso allo smog perché c'era sempre smog nel centro di Los Angeles, o almeno quasi sempre. Solo se la giornata è lìmpida vi accorgete che avete bisogno dell'oculista. L'ufficio di Karen si trovava in un grattacielo di proprietà di una società di depositi e prestiti. Negli ultimi anni, in tutta la città era sorta una miriade di edifici uguali a quello, e se ci fosse stato un altro terremoto sarebbero crollati uno addosso all'altro come un castello di carte. Karen accettava questa eventualità come accettava lo smog. Non era compito suo pensarci. E nemmeno dell'ufficio dove si stava dirigendo. Il nome sulla targa della porta dell'appartamento al decimo piano era: AGENZIA DI PUBBLICITÀ SUTHERLAND. Karen aprì la porta e attraversò la sala d'attesa facendo un cenno a Peggy che stava oltre la vetrata. Come tutte le receptionist, Peggy era stata scelta per il suo aspetto. Bella e stupida, un bell'oggetto sotto vetro. Peggy le rispose con un sorriso professionale di benvenuto, uno di quelli
di seconda classe, e premette il pulsante che apriva la serratura di una porta in fondo alla sala d'attesa. Karen girò la maniglia e si addentrò nel corridoio. Di colpo si trovò in un altro mondo. Suther Land, la terra di Suther, come lei la chiamava nella geografia segreta della sua mente. Il lungo corridoio sembrava l'autostrada di uno strano regno segreto. Dietro la grande porta di quercia a doppio battente c'era la sala del trono di Carter Sutherland III, il capo. La cosa singolare era che nella stanza non c'era una scrivania. Nel regno degli affari il simbolo della supremazia è un ufficio privo di quell'aggeggio squallido necessario solo a chi deve sfacchinare. Tutto quello di cui un capo moderno ha bisogno è un comodo e vistoso angolo bar, un citofono e un dittafono. "Dettatore", ecco il vero ruolo di Sutherland. Naturalmente un capo non passa molto del suo tempo nella sala del trono e quindi un'altra cosa strana era che la stanza più grande dell'Agenzia di Pubblicità Sutherland era quasi sempre vuota. Nei quattro anni che aveva lavorato lì, Karen aveva visto il capo solo un paio di volte e comunque mai da quando, sei mesi prima, lui aveva avuto un attacco di cuore mentre si trovava sul suo yacht. Da allora gli affari dell'agenzia erano aumentati del venti per cento, ma poteva essere solo una coincidenza. Karen passò oltre le porte di quercia a un solo battente degli uffici meno spaziosi. Erano cinque, per i cinque account executives, i responsabili dei rapporti con i clienti. Gli account avevano le scrivanie, ma in omaggio al loro rango il piano della scrivania era vuoto, salvo che per un telefono. Pile di fogli erano ammassate sulle scrivanie più piccole delle loro segretarie personali. Come nel caso del loro diretto superiore, gli account erano raramente nei loro uffici, benché le segretarie fossero in grado di raggiungerli in ogni momento e di intercettare le chiamate delle loro mogli. Più lontano, in fondo al corridoio, c'era la zona dell'Art Director, del Media Director e del Copy Director. Gli uffici, che avevano in comune una sala riunioni, erano più piccoli ma sempre gremiti di gente. Le porte delle stanze si aprivano e chiudevano continuamente al passaggio di tipografi, stampatori, agenti di vendita, fattorini e impiegati di terz'ordine che andavano e venivano portando promemoria e appunti. Talvolta le riunioni e le discussioni traboccavano sul corridoio e Karen si era abituata ad aggirare i capannelli che minacciavano di bloccarle la strada. Svoltò l'angolo del corridoio e oltrepassò una fila di cubicoli senza porta allineati sui due lati; una serie di celle con una finestra, appena sufficienti a
contenere uno schedario, due sedie e una piccola scrivania o un tavolo da disegno. Piuttosto anonimi, ma i disegnatori e i copywriter non dovevano far colpo su nessuno, loro svolgevano solo il lavoro creativo, quello che teneva in piedi l'agenzia. Al termine del secondo corridoio Karen entrò nella sua nicchia, infilò la borsa in un cassetto della scrivania, scostò il telefono e si lasciò cadere sulla sedia. Prese in mano il bozzetto, già approvato e siglato, di un annuncio in bianco e nero a pagina intera destinato ad apparire sulle riviste di moda elencate nel promemoria e nella scaletta di lavoro allegati. Lanciò un'occhiata alle annotazioni e ai suggerimenti poi osservò il bozzetto appena schizzato cercando di visualizzare il lavoro finito. In primo piano, un giovanotto dall'aria torva con le braccia conserte sul petto nudo in atteggiamento di sfida, i capelli arruffati sulla fronte, lo sguardo a fessura sotto le palpebre pesanti da consumatore di acido. Pantaloni a righe, aderenti all'inguine. Dietro di lui, una ragazza spigolosa, le mani sui fianchi e le gambe aperte. Due bande di capelli lunghi e lisci a incorniciarle il viso dagli zigomi esageratamente alti e la bocca imbronciata. Una giovane strega che soffriva la fame o la fama come in un film di Andy Warhol. Fra i due, un chopper o un motorino. Non una motocicletta, solo i polli montano motociclette, noi montiamo le pollastrelle. Karen prese mentalmente nota della differenza: i polli fanno schifo, le pollastrelle sono buone. Poteva servirgli per il testo. D'altra parte l'annuncio riguardava i pantaloni a righe e quindi era meglio che concentrasse la sua attenzione sulla merce. Cominciò a pensare alcune frasi, cancellandole mentalmente a mano a mano che le formulava. "Andare matto, eccitante, non puoi fare senza, te la puoi fare..." espressioni fuori moda, roba vecchia. La Generazione di Oggi era diventata ora la Bella Gente. I vestiti erano heavy metal o funky. Bardature... attrezzature... Karen afferrò un taccuino e una matita e buttò giù un abbozzo di didascalia. Attrezzato per l'azione. Non doveva stare lì a preoccuparsi di descrivere effettivamente i pantaloni, nessuno compra pantaloni a righe, quello che si acquista è un look. E il look era... era che cosa? Penetrante. Spinto. Duro. Il lessico moderno delle frasi in voga era adatto a descrivere le prestazioni in un bordello. Ma in fondo chi era lei per permettersi di giudicare? Anche l'agenzia dove lavorava era un bordello, si disse Karen, un bordello che sfruttava le voglie dei giovani. E il suo lavoro equivaleva a quello di una prostituta.
L'anno seguente sarebbero state di moda parole nuove, ma lei sarebbe rimasta comunque una prostituta. A meno che non si fosse licenziata e avesse cominciato a fare un lavoro onesto, per esempio la puttana. Ma aveva bisogno di soldi... Bruce aveva bisogno di soldi... e quindi era meglio, che si mettesse a scrivere il testo senza perdere altro tempo. Squillò il telefono. Karen alzò il ricevitore. — Dolcezza? Riconobbe la voce, e il tono, del suo capo. — Sì, signor Haskane. — Hanno appena telefonato dalla Girnbach. Quando verranno questo pomeriggio per esaminare il bozzetto vogliono vedere anche il testo. — Ci sto lavorando proprio ora. Mi dia ancora venti minuti. — Splendido! Da me o da te? — Glielo porto su appena avrò terminato. — Non perdere tempo a bussare. Ho già preparato lo champagne ghiacciato e un materasso morbido. Karen lasciò la battuta senza una risposta. Povero Haskane, lo capiva fin troppo bene, lui e le sue fissazioni. Un tracagnotto che stava perdendo i capelli, intrappolato nella mezza età. Un coglione che non aveva abbastanza coglioni per farsi. Doveva essere doppiamente penoso per Haskane lavorare gomito a gomito con chi gli ricordava continuamente quello che si stava perdendo, circondato da foto di ragazze in hot pants senza mai riuscire a vederne e a toccarne qualcuna in carne e ossa. Era geloso degli account dell'agenzia che si facevano un viaggio per seguire i servizi fotografici e mettevano in conto spese una settimana a Cannes per fotografare una modella nuda e una lampadina che, come la ragazza che la teneva in mano, era a "doppio uso". Haskane ci metteva le parole, loro si facevano i fatti. Non c'era da meravigliarsi se si permetteva di essere insolente al telefono. Karen si domandò cosa sarebbe successo se lei una volta avesse accettato le sue avances verbali. Era sicura che quel poveretto sarebbe morto stecchito sulla strada per il motel. Ma poteva anche riservare delle sorprese. Peggio, era lei che poteva riservare delle sorprese, perfino a se stessa. Dopo tutto ne era passato del tempo dall'ultima volta che aveva gustato champagne ghiacciato e un materasso morbido; come poteva quindi essere così sicura di quale sarebbe stata la sua reazione? Non era vittima anche lei delle stesse tensioni per le quali compiangeva Haskane? Vendere sesso e non comprarlo mai, fare sempre la damigella d'onore e mai la sposa. An-
che Karen era stata una sposa, una volta: la signora Karen Raymond. Adesso era una moglie, una moglie solo di nome. Non è così che si dice? Al diavolo. E al diavolo anche Ed Haskane e le sue proposte di rotolarsi sul letto. Probabilmente anche lei era un tipo squallido. Non era vecchia, non era brutta, ma si comportava all'antica. Karen scosse la testa per scacciare quei pensieri. Si voltò verso la scrivania e infilò tre fogli bianchi e due di carta carbone nella macchina per scrivere. Per i venti minuti seguenti si concentrò sull'immagine del giovanotto seminudo con l'espressione torva e della sua compagna scarmigliata, ignorando giudiziosamente l'impulso di mettere come didascalia Io Tarzan Tu Cita. Il ticchettio della portatile elettrica accompagnava i borbottii di Karen mentre il foglio si andava riempiendo di una prosa incalzante che celebrava la gloria ineffabile di un paio di pantaloni a righe, piena di espressioni "corpose" scritte in uno stile molto "aderente". Karen tolse i fogli dalla macchina, mise una copia carbone nel cassetto della scrivania, poi spillò l'originale e la seconda copia del bozzetto. Si alzò in piedi dirigendosi verso la porta. In quel momento squillò il telefono. Tornò verso la scrivania, sollevò il ricevitore e restò in attesa. — La signora Karen Raymond? — In persona — rispose. — Un attimo, prego. Poi si udì un'altra voce. Karen ascoltò e disse "sì" e ancora "sì, e molte grazie". La sua voce non tradiva nessuna emozione. Ma quando riattaccò il ricevitore quasi non riuscì a trovare la forcella del telefono perché la mano le tremava violentemente. Mentre percorreva il corridoio verso l'ufficio di Haskane aveva l'impressione di camminare sott'acqua; quando arrivò alla porta e girò la maniglia, la mano le tremava ancora. Riuscì ad aprire la porta, entrò nell'ufficio di Haskane e scambiò con lui battute senza senso sull'annuncio pubblicitario. Haskane parlava a voce bassa, i suoi lineamenti tondeggianti erano acquosi e deformati come quelli di un pesce luna che nuota dietro i vetri di un acquario. Karen riuscì a capire che il testo gli piaceva e che il suo capo voleva che fosse ribattuto a macchina per presentarlo al cliente nel tardo pomeriggio. Le dispiaceva restare a portata di mano e partecipare alla riunione nel caso che il cliente volesse suggerire qualche cambiamento? Karen stava annegando, stava sprofondando sott'acqua per la terza volta,
ma all'ultimo momento riuscì a tornare a galla e cercò di respirare. Haskane la guardò con aria preoccupata: — Cosa ti succede? — Se non le dispiace, preferirei evitare la riunione. Oggi vorrei uscire prima. — Mal di testa? — Sì. — Karen inghiottì una boccata d'aria. — Va bene. Non credo che ci saranno problemi. Vai pure. — Grazie. — Karen gli lanciò uno sguardo pieno di gratitudine, poi si voltò. Peccato che non potesse dirgli la verità. Ma non se la sentiva di vedere l'espressione del viso di Haskane mentre gli diceva: "Mi dispiace ma devo correre a Topanga Canyon. Mi hanno appena detto che mio marito può uscire dal manicomio". 3 Secondo il defunto Edgar Cayce, la zona nota come California del sud in un prossimo futuro potrebbe abbassarsi sotto il livello del mare. Normalmente Karen evitava di pensare a questa previsione così come evitava di preoccuparsi dello smog e del terremoto, ma ora non si sentiva più tanto sicura di sé. Mentre sfrecciava lungo la Hollywood Freeway si domandava se, per caso, quella previsione non si fosse già avverata, dal momento che lei si stava muovendo di nuovo sott'acqua. Alla sua destra le alte colline ondeggiavano, alla sua sinistra tremolava la torre del Campidoglio e davanti a lei la strada era una macchia scura e indistinta. Solo la velocità dell'auto le dava la sensazione rassicurante di essere ancora avvolta dall'elemento aria. A mano a mano che cercava di schiarirsi le idee, Karen sentiva il respiro farsi più frequente. Il buon senso le consigliava di accostarsi al margine della strada, oppure di abbandonare l'autostrada all'uscita successiva, ma non c'era tempo. Perché Bruce stava per essere dimesso. Se stava per essere dimesso. Karen intravide in lontananza una rampa d'uscita e si buttò sul lato destro della carreggiata per portarsi nella corsia che l'avrebbe immessa sulla Ventura Freeway. Il traffico pomeridiano si stava intensificando e Karen cercò di concentrare l'attenzione sulla strada. La vista le si schiarì, ma c'era ancora una zona oscura nella sua mente, una presenza tenace nel suo io più profondo. Aveva l'impressione che tutta la sua vita le passasse davanti agli
occhi. Vita? Che vita era quella che valesse la pena di ricordare? Un tempo c'era stata una bambina, una bambina che andava a Disneyland con la mamma e col papà. Ma mamma e papà erano morti e improvvisamente la bambina si era trasformata nella bionda dalle gambe lunghe dell'University College di Los Angeles, corso di laurea in giornalismo. Karen cercò di visualizzare il campus, ma le onde cominciarono a sollevarsi freneticamente oscurando la vista all'occhio della sua mente. Poi, accanto a lei, apparve Bruce e cominciarono a camminare mano nella mano, muovendosi lentamente sotto la spinta dell'acqua, bollitine di risa si sollevavano dalle loro labbra finché quelle stesse labbra non si unirono per un istante, per un solo istante... e Karen era di nuovo sola, lavorava all'agenzia e stava cercando di lasciarsi l'uragano alle spalle, di non complicarsi la vita... Per l'amor di Dio, basta!, si disse Karen. Smettila di giocare con le parole. Non stai scrivendo un testo pubblicitario e non stai neppure annegando, salvo che nell'autocommiserazione. Karen si riscosse dalle sue fantasticherie e si avvicinò al lato destro della carreggiata che conduceva sulla San Diego Freeway in direzione nord. Basta con i giochi di parole. Sapeva quello che stava facendo e dove stava andando. Arrivò in vista della rampa d'uscita nel momento in cui un aereo virava rombando sopra la sua testa e iniziava la sua discesa proprio sopra la superstrada. Karen lo perse di vista quando imboccò la rampa d'uscita e girò a sinistra per immettersi nella strada sottostante. Diminuì la velocità di guida e all'improvviso si trovò avvolta dall'aria calda e soffocante della San Fernando Valley. Era appena emersa dal suo immaginario regno subacqueo per approdare in un vero e proprio deserto. Una volta, non molto tempo prima, la valle era una distesa desolata di sabbia. Poi un milione di intrepidi pionieri l'avevano invasa, avevano piantato quegli arbusti rinsecchiti e avevano costruito Je loro case così simili a scatole di cartone. E anche adesso, nonostante tutti i supermarket, i campi di bowling, le autofficine, i cinema drive-in, i chioschi degli hamburger drive-in, le pompe funebri drive-in, la San Femando Valley restava comunque una landa desolata. E la sabbia continuava a spazzare parcheggi dei centri commerciali dove i figli di quegli intrepidi pionieri acquistavano pantaloni a righe identici a quelli che Karen aveva immortalato nel suo testo pubblicitario.
Karen si diresse a occidente verso il sole; al semaforo svoltò verso nord e lasciò sulla destra l'aeroporto, dove l'aereo si stava preparando all'atterraggio. Karen entrò nel terzo cancello e si fermò accanto ad alcuni piccoli velivoli a motore raggruppati vicino a un hangar con il tetto di lamiera come api metalliche, immobili davanti al loro alveare vuoto. Vicino all'hangar c'era un piccolo edificio rettangolare, un parallelepipedo rivestito di assi di legno con la scritta: SERVIZI CHARTER RAYMOND. Sopra la porta aperta c'era una piccola targa con la dicitura: UFFICIO. In piedi sulla soglia, con gli occhi socchiusi per il sole, Rita Raymond guardava Karen avvicinarsi. Scorgendola, Karen si ripeté per la centesima volta, è identica a Bruce. E per la centesima volta si accorse di avere un attimo d'esitazione prima d'avvicinarsi a lei, perché sapeva che, nonostante la straordinaria somiglianza che li univa, Rita e Bruce erano profondamente diversi. Rita era alta, con i capelli scuri e il viso abbronzato con intensi occhi castani; indossava stivali, un paio di Levis e una camicia sbiadita con le maniche corte. Questa tenuta metteva in risalto la pienezza delle sue cosce e i seni gonfi e maturi; il naso e la bocca potevano anche essere quelli di Bruce, ma il corpo era proprio quello di Rita. Per quanto Karen sapeva, il corpo di Rita era sempre stato proprietà inviolabile, dal momento che non aveva mai visto la sorella maggiore di Bruce in compagnia di un uomo. E se anche Rita aveva un'attività sessuale, la teneva nascosta quanto invece metteva bene in mostra i suoi attributi. Eppure Rita era capace di una profonda e affettuosa dedizione: amava gli aerei, amava dedicarsi con trasporto alla loro manutenzione, amava volare, amava suo fratello... Ma non ama me, si disse Karen e provò ancora un attimo d'esitazione mentre avvertiva lo sguardo di Rita puntato su di lei. Le costò fatica avvicinarsi e abbozzare un sorriso e un saluto. — Allora sai già la novità — disse Rita. — Sì — rispose Karen, incerta. — Hanno chiamato anche te? — Il dottor Griswold mi ha telefonato ieri sera. — Ieri sera? Karen non riuscì a nascondere il suo stupore. Ma Rita rimase impassibile, si fece da parte e con un cenno le disse: — Su, entra. Karen entrò nell'ufficio e Rita le fece segno di accomodarsi accanto al grande ventilatore elettrico. Appena seduta Karen fu avvolta dal potente ronzio e dal soffio d'aria che faceva vibrare le carte di volo appese alla parete. — Immagino che tu abbia intenzione di andare là — disse Rita.
— Sì, è proprio là che sono diretta. — Adesso? Vuoi dire questa notte? — Ho lasciato l'ufficio subito dopo aver ricevuto la telefonata. — Karen si voltò, infastidita dallo sguardo penetrante di Rita, e l'aria fresca del ventilatore le scompigliò i capelli. — Credevi forse che avrei perso tempo? Rita scosse la testa. — No. L'ho detto anche a Griswold che saresti andata subito. — Puoi dirlo. Volevo andare subito... invece ho aspettato più di sei mesi. Non pensi che abbia il diritto di vedere mio marito? — Non è una questione di averne il diritto — replicò Rita. — È un problema medico. — Il dottor Griswold mi ha detto che potevo andare. Anzi, vuole che Bruce mi veda. Questo non te l'ha spiegato? La reazione di Bruce lo aiuterà a decidere se può essere dimesso o no. — Lo so. — Rita si accese una sigaretta e l'aspirò profondamente. — Stavo solo pensando all'ultima volta che vi siete incontrati. — Ma a quel tempo Bruce era malato... lo sai anche tu. E adesso sta di nuovo bene. Me l'hai detto tu stessa... Rita soffiò fuori il fumo. L'aria del ventilatore lo trasformò in un alone grigiastro che per un istante le incorniciò il viso. — Ti ho detto che mi era sembrato del tutto normale. E di settimana in settimana mi sembrava che ci fossero dei miglioramenti. — L'alone scomparve e Karen poté scorgere ancora quello sguardo penetrante. — Comunque devi ricordare una cosa. Io sono sua sorella. Bruce non ha mai avuto alcun motivo per avercela con me. — Cosa vorresti dire? — Karen sentì le mascelle irrigidirsi e le tempie pulsare furiosamente. — Stai forse cercando di dire che sono responsabile di quello che è successo? L'unica risposta fu il ronzio acuto del ventilatore. Karen pensò nasconde il suo odio dietro i buoni consigli, cerca di farmi sentire colpevole. Sentì il sangue pulsarle nelle tempie e le mascelle così rigide che quasi non riusciva a parlare. Ma infine disse: — D'accordo, la responsabilità è mia se Bruce sta in una casa di cura. Tu sei andata a trovarlo ogni settimana, a me l'hanno impedito, e io ho obbedito. Sono stata sei mesi senza vederlo. Ma ora ho l'autorizzazione dei medici, e non mi lascerò scappare l'occasione. Perché se Bruce è pronto per essere dimesso, be', mi prendo anche questa responsabilità... e voglio assicurarmi che Bruce non rimanga là neppure un momento più del necessario.
Rita spense la sigaretta. — Un'ultima cosa. — Distolse lo sguardo dal posacenere e con gli occhi socchiusi disse: — E se Bruce non è ancora pronto? E se vedendoti perdesse di nuovo il controllo? Sei disposta ad assumerti anche questa di responsabilità? Adesso fu Karen a non rispondere, e l'eco di quella domanda riempì il silenzio. — Perché Griswold ha telefonato prima a te che a me? — domandò infine Karen. — Perché in questi sei mesi io ho visto Bruce e il dottore voleva sentire anche la mia opinione prima di procedere. — E tu gliel'hai data, vero? — disse Karen in un soffio. — Gli hai detto che secondo te Bruce non era pronto a incontrarmi, non è così? — Gli ho solo detto la verità — rispose Rita. — Gli ho detto che secondo me stava correndo un grosso rischio a permetterti d'incontrare Bruce faccia a faccia, senza preavvisarlo. Griswold mi ha risposto che ci avrebbe pensato meglio. — Allora se oggi mi ha telefonato significa che ne è davvero convinto. — Karen si alzò in piedi. — Se ha deciso di correre il rischio, io sono pronta. — Non siete tu e Griswold a correre il rischio — disse Rita. — È Bruce. Non lo capisci? Karen si avviò verso la porta, ma Rita si alzò in piedi di colpo e la bloccò afferrandola con forza per un braccio. — Ti avverto... stai lontano da mio fratello... Karen divincolò il braccio. — È mio marito — le disse. — E lo rivoglio con me. — No... non andare... La voce brusca di Rita si mescolò al ronzio acuto del ventilatore, Karen le passò accanto e si affrettò a uscire dall'ufficio. Rita rimase immobile, ma quando Karen entrò nell'auto le sembrò di sentire la voce della cognata che la chiamava. Il rombo del motore le impedì di distinguere bene le sue parole, e la penombra del crepuscolo di vedere l'espressione del suo viso. Karen voltò l'auto verso il sole morente e si diresse velocemente verso il cancello d'uscita, poi girò a destra. Puntò a nord, verso l'oscurità. E in un attimo fu immersa nella notte. 4
La luna si stava alzando sulle colline quando Karen lasciò l'autostrada e prese una via secondaria che si addentrava nella foresta. In lontananza si vedevano ancora le luci del locale dove si era appena fermata per fare benzina e mangiare un panino; le vide brillare per un attimo e poi scomparire. Stava calando la nebbia, Karen abbassò i fari e ridusse la velocità al minimo mentre l'auto si inerpicava lungo i tornanti sui fianchi delle colline. Non c'era traffico e nei boschi non si notava alcun segno di vita. La luna era ormai alta nel cielo e da qualche parte in lontananza un coyote le innalzò il suo lugubre omaggio. Quando arrivò al bivio, la nebbia era ormai fitta, ma Karen riconobbe la piccola targa bianca poco visibile con la scritta STRADA PRIVATA, e s'inoltrò sul viottolo ghiaioso che serpeggiava fra gli alberi d'alto fusto. La luna scomparve, nascosta dal fogliame, e Karen non vedeva altro che la fioca luce dei fari che illuminava la ghiaia grigia. Due piccoli occhietti gialli brillarono per un attimo davanti a lei sul lato della strada, poi scomparvero nella boscaglia. Karen era sola. D'un tratto le si parò davanti un'alta recinzione. La strada terminava in quel punto. Era una recinzione imponente che si incurvava ai due lati di un cancello altrettanto alto e scompariva nel buio. Karen non ne fu sorpresa perché sapeva a quale scopo serviva. Si meravigliò invece nel vedere che il cancello era completamente spalancato. Per un attimo rimase interdetta poi si ricordò che era attesa. Oltrepassò il portale metallico e s'inoltrò lungo il sentiero. Quando gli alberi si diradarono riapparve la luna che illuminava la sagoma scura della casa. Era qualcosa più di una casa, pensò Karen. Chi l'aveva costruita aveva realizzato il sogno di una dimora immersa in una splendida solitudine. Una costruzione a due piani di mattoni, con una facciata imponente da cui si dipartivano due ali, la dimora di un milionario quando un milione di dollari rappresentava ancora una cifra favolosa. Adesso era una casa di tipo diverso, una casa di riposo, per dirla con un eufemismo, e i suoi occupanti, seppure non milionari, non si potevano certo definire poveri. Come Karen sapeva bene, bisognava disporre di un bel po' di denaro per essere ricoverato nella casa di cura privata del dottor Griswold. Non c'era quindi da meravigliarsi se i pazienti non erano mai più di sei o sette per volta. Girò sul piazzale e fermò l'auto davanti all'entrata principale. La magio-
ne non era più una sagoma scura perché s'intravedeva la luce filtrare attraverso le pesanti tende che chiudevano le finestre e il suo riflesso sul terreno formava la trama di una rete metallica. Karen aprì la portiera per accendere la luce interna. Si guardò un attimo nello specchietto retrovisore. I capelli erano in ordine e il trucco intatto, l'aveva rinfrescato nella toilette del bar quando si era fermata. Aveva però un aspetto un po' stanco, teso. Da quando aveva lasciato Rita si era sforzata di non pensare alla loro conversazione, ma alcune frasi le risuonavano ancora nella mente. E se non è ancora pronto? Se vedendoti perdesse di nuovo il controllo? È un grosso rischio, ti avverto... Bene, era ancora in tempo. Poteva richiudere la portiera, girare l'automobile e dirigersi verso casa. Casa? Il suo appartamento vuoto? Si era trascinata in giro per quelle stanze per sei mesi, sola, e adesso non ne poteva più. Cercò di sorridere, uscì dall'auto, si avvicinò all'entrata e suonò il campanello. Nessuno rispose. Schiacciò di nuovo il pulsante e udì lo squillo risuonare smorzato nel silenzio. Erano passate da poco le nove e per quanto si rendesse conto che il personale era scarso, sicuramente non potevano essere già tutti a letto. Karen allungò la mano per scuotere la maniglia. Il pomello girò docilmente. La porta era aperta. Fece qualche passo nell'atrio illuminato da una luce fioca. Il soffitto alto, il pavimento a mosaico, le pareti ricoperte di pannelli di legno su cui si aprivano varie porte e, di fronte, un ampio scalone. Ai piedi della scala, una lampada a stelo accanto al tavolo della reception. Seduta dietro il tavolo c'era una donna in uniforme bianca, l'infermiera di notte. Karen esitò in attesa di un cenno di saluto. Ma l'infermiera non aprì bocca, sì limitò a guardarla. Mentre le si avvicinava Karen si accorse che non solo la donna la guardava, ma aveva gli occhi fissi su di lei. Karen si sforzò di continuare a sorridere mentre si avvicinava al tavolo. La luce della lampada brillava e si rifletteva in quegli occhi sporgenti. Occhi sporgenti... e un cordone marrone stretto intorno al collo della donna. Karen trattenne il respiro, senza riflettere allungò una mano e toccò l'infermiera sulla spalla. La figura rigida cadde a faccia in avanti sul ripiano del tavolo. Inutile gridare. Inutile usare il telefono sulla scrivania visto che il filo era stato strappato e usato come cappio per strangolare la donna.
Inutile anche perdere tempo. Doveva andarsene subito di lì, la porta era ancora aperta. Karen si voltò e fu in quel momento che vide il fumo. Filtrava dalla fessura sotto la porta dall'altra parte del tavolo della reception. Karen ricordava quella porta, era quella dell'ufficio del dottor Griswold. Si avvicinò, afferrò la maniglia e spalancò il battente. Per un momento Karen tenne gli occhi chiusi, poi li aprì lentamente per vedere cosa c'era oltre la soglia. Con suo grande sollievo vide che la stanza era vuota e non c'era nessun incendio. Il fumo veniva dal camino sulla parete di fondo, il fumo e l'odore penetrante e sgradevole di carta che bruciava ammucchiata sui tizzoni ardenti. Sul pavimento giacevano pezzi di carta strappata e un certo numero di cartellette vuote. Altre cartellette vuote erano sparse sul ripiano della scrivania e dai cassetti aperti dello schedario laggiù nell'angolo spuntavano fogli di carta. Adesso Karen percepiva un altro odore... qualcosa che era stato versato nel camino per far bruciare le carte? Non era benzina e non era cherosene, era un puzzo acre che non riusciva a identificare. Karen fece ancora qualche passo verso la cappa con gli occhi fissi sui pezzi di carta anneriti. Non c'era nulla che indicasse l'origine di quell'odore e da dove proveniva quel sibilo che risuonava insistente alle sue orecchie. Il sibilo... Karen si voltò e vide una luce filtrare da sotto la porticina dall'altra parte della stanza. Il sibilo proveniva di lì. Prima di rendersene conto si era avvicinata alla porta e l'aveva aperta. Nel centro della stanzetta dalle pareti bianche c'era una sedia, una sedia particolare con i braccioli imbottiti e un poggiatesta, una sedia con un apparato di fili elettrici ehe la facevano rassomigliare a una tela di ragno. Karen la riconobbe per quel che era, un macchinario per la terapia dell'elettroshock. Il sibilo proveniva dalla cabina dietro la sedia da cui partivano i fili elettrici. Tutti i fili terminavano con elettrodi fissati al cranio, alle tempie, al collo e ai polsi della figura legata con le cinghie alla sedia. Karen la riconobbe. — Dottor Griswold! Griswold non rispose. Stava lì seduto e la corrente sibilava attraverso il suo corpo rigido che di tanto in tanto era scosso da un fremito. Gli elettrodi erano fissati da pezzi di cerotto, ma non c'era nessuna garza che proteg-
gesse la pelle. Karen comprese qual era l'altro odore che aveva sentito. Era puzzo di carne bruciata. 5 Mentre Karen si allontanava correndo dalla casa di cura il suo unico pensiero era quello di trovare una via di fuga. Non era neppure un proposito espresso razionalmente ma un semplice istinto, cieco come il panico che l'aveva provocato, cieco come la nebbia che le venne incontro lungo la strada tortuosa che dal bosco l'avrebbe ricondotta alla superstrada costringendola a rallentare per non sbandare. In un certo senso la difficoltà della guida la costringeva a concentrarsi sul volante aiutandola a vincere la paura. Quando giunse al bivio Karen si era quasi del tutto tranquillizzata. La stazione di servizio, debolmente illuminata, era chiusa per la notte, ma scorgendo la cabina telefonica esterna realizzò che doveva fermarsi e fare una chiamata. Dopo aver riappeso il ricevitore Karen non si ricordava cos'aveva detto di preciso alla polizia. Non il suo nome certamente, ma aveva promesso di rimanere lì fino al loro arrivo. Naturalmente non aveva nessuna intenzione di mantenere la promessa, lo aveva deciso ancor prima di fare la telefonata. Una volta ricevuta l'informazione, era la polizia che doveva occuparsi del problema, si disse. Quali erano le parole di Bruce a proposito del servizio militare? Fare il proprio dovere, rimanere in riga e non offrirsi mai come volontario. Bene, lei aveva compiuto il suo dovere e ora toccava a loro. Non poteva rimanere lì perché rischiava di trovarsi coinvolta e di coinvolgere Bruce. E questo era da evitare, dati i suoi precedenti. Così interruppe la comunicazione e salì di nuovo in auto. Era convinta che quando la polizia fosse arrivata lei sarebbe stata lontana e non sarebbe stato possibile rintracciarla. Ma quel che Karen non poteva immaginare era che non sarebbe riuscita a mettere in moto l'auto. Non era un problema di benzina né di carburatore né di motore. Le mani le tremavano talmente che non riusciva a girare la chiave d'accensione. Rimase lì, del tutto calma e cosciente, ma assolutamente incapace di controllare il tremore che la scuoteva. Non provava nulla, solo una sensazione di intorpidimento. Sei in stato di shock, si disse.
Se fosse riuscita a piangere o a urlare, allora forse sarebbe stata anche capace di muoversi. Ma da quando aveva annaspato con la chiave, non aveva fatto altro che tremare incessantemente e il suo tremore le riportava alla mente l'immagine del corpo di Griswold che pulsava scosso dai sussulti. Guardò nello specchietto retrovisore e vide gli occhi del cadavere fissi su di lei. Karen chiuse le palpebre, strinse le mani in grembo e continuò a tremare. Quando l'auto della polizia emerse dalla nebbia, Karen era ancora lì seduta. Nell'auto c'erano tre uomini. Il sergente Cole fu molto gentile e delicato, attese pazientemente finché lei riuscì ad aprire la borsetta e a mostrargli la patente di guida. Karen non riusciva ancora a controllare il tremore alle mani, ma la sua voce era stranamente ferma. Da principio si rifiutò con decisione di accompagnarli nella casa di cura, ma il sergente Cole le disse che uno dei suoi uomini avrebbe guidato la sua auto e che lei non sarebbe stata obbligata a vedere di nuovo i cadaveri. L'agente che si mise al volante era un uomo di mezz'età, tozzo e corpulento, di nome Montoya. Il suo collega, Hyams, più giovane e slanciato, si sedette accanto a Karen sul sedile posteriore. Karen non si aspettava una doppia scorta e per un attimo restò confusa finché non si rese conto che si trattava di una misura precauzionale. Il pensiero la colpì come una mazzata facendole dimenticare l'angoscia precedente e sostituendo uno shock con un altro. Era sospettata d'omicidio. Con i nervi tesi si muoveva inquieta sul sedile in attesa che uno dei due agenti rompesse il silenzio e cominciasse l'interrogatorio. Ma non ci furono domande. Montoya continuava a masticare chewinggum senza perdere d'occhio la strada, mantenendosi a breve distanza dall'auto della polizia per non rischiare di perderla nella nebbia. Hyams sembrava tranquillo, semiaddormentato sul sedile accanto a lei, ma quando Karen fece per prendere un fazzoletto dalla borsetta, lui appoggiò di scatto una mano sul sedile, a pochi centimetri di distanza dal calcio della pistola che spuntava dalla fondina. Karen incrociò il suo sguardo e l'agente le sorrise ma continuò a tenere la mano in quella posizione per tutto il resto del tragitto. Quando parcheggiarono l'auto davanti all'ingresso della grande casa, Hyams rimase seduto accanto a lei.
— Aspetta qui — gli disse Cole e poi fece un cenno a Montoya e aggiunse: — Andiamo. La porta d'ingresso era socchiusa - in quel momento Karen si rese conto di averla lasciata aperta quando se n'era andata - e i due uomini scomparvero dentro l'edificio. Karen li seguì con lo sguardo, stringendo il fazzoletto tra le dita. Hyams non parlava, ma Karen sapeva che con lo sguardo seguiva ogni suo movimento. Quando il sergente Cole ricomparve le sembrò che fosse passata un'eternità. Cole si avvicinò a grandi passi all'auto della polizia, aprì la portiera e si allungò sul sedile anteriore. Un istante dopo Karen sentì gracchiare la ricetrasmittente. Non riuscì a decifrare quello che stava dicendo, ma il messaggio era molto lungo. Karen si domandò se per caso Cole avesse visto qualcun altro del personale della clinica o dei pazienti, e se sì, cos'aveva scoperto. Poi il sergente Cole si avvicinò alla sua auto e fece cenno a Hyams di tirar giù il finestrino dal suo lato. — Potrebbe venir dentro anche lei, per favore? La domanda era rivolta a Karen, ma fu Hyams ad annuire. Sempre molto gentili, sempre molto corretti. E se Karen si fosse rifiutata? In modo altrettanto gentile e corretto l'avrebbero trascinata di peso dentro l'edificio. Ma forse era ingiusta nei loro confronti, perché quando entrarono nell'atrio il sergente Cole la precedette per farle da scudo e proteggerla dalla vista del banco della reception. Karen capì che stava mantenendo la sua promessa di non costrìngerla a vedere di nuovo i cadaveri. — Da questa parte — disse Cole indicando alla sua sinistra una porta aperta. Mentre Hyams le faceva strada, Karen intravide Montoya che scendeva i gradini dello scalone sul lato opposto dell'atrio. Nonostante la luce soffusa Karen ebbe l'impressione che il suo viso bruno fosse stranamente pallido, ma forse era colpa solo della sua immaginazione. Il sergente Cole fece un cenno a Montoya che, nel frattempo, s'era avvicinato. — Fra poco saranno qui. Quando arrivano voglio che procedano, P.O.S. e tutto il resto. Io li raggiungerò appena possibile. A meno che non salti fuori qualcosa che ci è sfuggito, di' a tutti che non voglio essere disturbato. — Va bene — disse Montoya. Cole si fece da parte indicando a Karen la porta, poi la seguì nella stanza con Hyams. Era evidente che si trattava di uno studio perché due delle pareti erano
interamente ricoperte da scaffali pieni di libri. Sulla terza parete le finestre erano nascoste da tende e sulla quarta, all'estremità opposta, erano appesi attestati e diplomi preziosamente incorniciati. Karen lanciò un'occhiata alla scrivania e alle due massicce poltrone di pelle un po' fuori moda, e si rese conto di aver già visto quella stanza. Era stata in quello studio con Bruce in occasione dell'incontro che aveva preceduto il suo ricovero. Adesso era il sergente Cole che si stava sedendo dietro la scrivania, e accanto a lei questa volta c'era Hyams, non Bruce. Il dottor Griswold era morto e Bruce era... Dove sarà? Dove sarà in questo momento? Chiuse gli occhi e soffocò quell'urlo silenzioso. — Si sente bene, signora Raymond? — Il tono della voce di Cole era pieno di sollecitudine. Karen aprì gli occhi e incontrò il suo sguardo. — Si sieda, la prego. Mentre prendeva posto nella poltrona Karen avvertì la presenza di Hyams accanto a lei. Cole le sorrideva con aria tranquilla tenendo in mano una penna a sfera con la punta appoggiata a un taccuino aperto. Si comportavano con discrezione e disinvoltura, ma quegli uomini sapevano esattamente quello che stavano facendo. Karen ripensò con quale naturalezza Hyams aveva portato la mano alla fondina della pistola quando si trovavano ancora nell'auto. P.O.S. Procedura Operativa Standard. Interrogatorio del testimone. Testimone... o indiziato? Doveva stare attenta, molto attenta. — E ora, signora Raymond, vorremmo che lei ci raccontasse quel che è accaduto... Mentre parlava, Karen scoprì di essere stranamente tranquilla. Aveva previsto che Cole le avrebbe chiesto perché Bruce si trovava in quella casa di cura e si era preparata la risposta, ma non aveva certo previsto che non ci sarebbe stata nessuna richiesta di spiegare cosa intendeva dire parlando del "crollo nervoso" di Bruce. Quando Karen comprese che la sua spiegazione era stata accettata senza obiezioni, non ebbe difficoltà a proseguire. Raccontò della telefonata che Griswold le aveva fatto in ufficio e, su richiesta del sergente Cole, precisò l'ora in cui l'aveva ricevuta. Specificò anche l'ora della sua visita a Rita e quando Cole glielo chiese, Karen gli dette il suo indirizzo e il numero di telefono.
Fin qui tutto bene. Ma ora era arrivato il momento di parlare della conversazione che aveva avuto con la sorella di Bruce: il fatto che Rita l'aveva messa in guardia dall'andare da Bruce e che aveva dubbi che lui fosse realmente in condizione di essere dimesso... No, questi erano argomenti da evitare a ogni costo. Ma in che modo? A soccorrerla arrivò dall'esterno un suono di sirene spiegate. Poi, attraverso la porta, Karen sentì provenire dalla sala un rumore di passi e un mormorio di voci. Il sergente Cole aggrottò le sopracciglia e fece segno a Hyams: — Digli di smetterla. Hyams si alzò e si diresse verso la porta. Quando l'aprì il frastuono divenne più forte, poi Hyams uscì chiudendo il battente alle sue spalle. Poco dopo il fracasso diminuì considerevolmente e Hyams fece ritorno nello studio. Non appena l'agente ebbe richiuso la porta e preso di nuovo posto accanto alla scrivania, Cole si rivolse a Karen: — Stava dicendo... Non le fu difficile riprendere il racconto dal punto in cui aveva lasciato Rita e si era diretta a sud e fornire a Cole anche l'orario dettagliato dei suoi spostamenti in modo che lui potesse prenderne nota sul taccuino. La sosta per fare rifornimento, il panino, il tragitto nella nebbia, il suo arrivo alla casa di cura. — Ha detto alle nove? — Più o meno. Forse qualche minuto più tardi. Ancora il rumore di passi smorzati, questa volta sopra le loro teste. Cole alzò gli occhi al soffitto, senza proferire parola. Con un cenno esortò Karen a proseguire. Karen cominciò a balbettare, non perché volesse tenere qualcosa nascosto, ma per l'angoscia che le provocava parlare di quello che aveva visto. Le domande di Cole la guidarono passo dopo passo lungo il suo percorso fino all'ingresso della casa di cura. Ma cos'era accaduto dopo che aveva suonato il campanello?... Come aveva fatto a scoprire che la porta non era stata chiusa a chiave?... Qual era stata la prima cosa che aveva notato entrando? Poi le domande la condussero all'interno della casa. Quando aveva notato l'infermiera?... Qual era stata la sua reazione alla scoperta che l'infermiera era morta?... Non le era venuto in mente di cercare un telefono in un'altra stanza per chiamare la polizia? È uno scambio reciproco, pensò Karen. Lui le forniva le domande e lei
le risposte. Ma le domande si facevano sempre più incalzanti, e Karen si domandava se le sue risposte fossero sufficientemente chiare. Quando gli raccontò del fumo, Cole volle sapere cos'aveva notato prima... qualcosa che aveva visto o qualcosa che aveva avvertito con l'olfatto? Karen accennò alla sua sorpresa nel vedere l'ufficio dì Griswold, e Cole la esortò a descrivere dettagliatamente il locale e quello che c'era, dentro. Poi arrivò il momento peggiore: quando Karen aveva deciso di avventurarsi nella stanza adiacente e aveva scoperto il corpo di Griswold. Karen non riusciva a soffermarsi a lungo in quella stanza, neppure col pensiero. Il ricordo di quell'immagine e di quell'odore le fece venir voglia di fuggire. La giovane donna accelerò il ritmo del racconto fino ad arrivare al momento in cui era veramente corsa via. Cole sollevò la penna dal taccuino e, con un gesto, interruppe quel flusso di parole. — Mi scusi, signora Raymond. Ha detto che è ritornata nell'atrio passando ancora per l'ufficio del dottor Griswold? — Sì. — Cos'ha fatto dopo? — Sono andata alla porta d'ingresso. — Direttamente? — Sì. La penna del sergente si arrestò sulla pagina. Cole le sorrise. — In quel momento lei doveva essere piuttosto sconvolta... o mi sbaglio? — Sconvolta? Ero terrorizzata... Cole annuì. — Ci pensi ancora un attimo. Forse ha dimenticato qualcosa... è successo qualcos'altro? Karen scosse la testa. — No, non mi sembra. — È salita al primo piano? — mormorò Cole. — No. — Ha detto che era terrorizzata, quasi sotto shock. Non pensa che avrebbe potuto fare qualcosa, qualcosa dì cui in quel momento non si rendeva conto? Karen aggrottò le sopracciglia. — Sono corsa via, fuori dalla casa — disse. — È sicura di non essere salita di sopra prima di... in un qualsiasi momento prima di fuggire? — Perché avrei dovuto farlo? In quel momento la porta si aprì e Montoya fece il suo ingresso nello
studio. Karen si voltò mentre Cole lanciava un'occhiata all'agente fermo sulla soglia. — Spiacente d'interromperla, sergente. Cole gli fece un cenno. — Cosa c'è? — Con Griswold e l'infermiera hanno finito — disse Montoya. — Ma prima di andar via pensano che lei voglia dare un'altra occhiata ai corpi che abbiamo trovato su al primo piano. 6 Nell'ufficio di polizia le luci erano molto forti. Karen riusciva a vedere le minuscole gocce di sudore che si formavano sulle tempie grigie del sergente Cole e ogni ruga nel viso preoccupato dell'altro poliziotto, il tenente Barringer, che li aveva da poco raggiunti. Strano. In genere è il sospettato che si agita, inquieto, durante gli interrogatori. Karen invece si sentiva del tutto tranquilla, erano gli altri che sudavano per il nervosismo. Date le circostanze non gliene faceva una colpa. Un'infermiera strangolata alla sua scrivania, Griswold morto e due altri cadaveri al piano superiore. Adesso Karen sapeva di chi si trattava: un inserviente di nome Thomas e un'anziana paziente. L'inserviente era stato pugnalato a morte e la donna in apparenza era stata stroncata da un attacco cardiaco, ma naturalmente non c'era ancora niente di sicuro. Tutto quello che si sapeva era che quattro persone erano morte: tre componenti il personale della clinica e una paziente. Al piano superiore c'erano altre cinque stanze che erano state sicuramente occupate. Quindi, nella casa di cura, dovevano esserci stati altri cinque pazienti, ma erano spariti. Erano scomparsi e tutta la documentazione che li riguardava e che poteva servire a identificarli era andata in fumo nel caminetto di Griswold. Cinque pazienti che soffrivano di disturbi psichici si erano volatilizzati. Svaniti nel nulla. Solo di uno, Bruce, si conosceva il nome. E tutto lasciava supporre che uno di loro, o forse anche più di uno, fosse un maniaco omicida. Ma chi erano? Dove potevano essere andati? Non c'era da sorprendersi se il tenente Barringer la guardava accigliato mentre Karen scuoteva la testa e diceva: — Mi dispiace, non so i loro no-
mi e non mi è mai capitato di vederli. Le ho già detto che non sono mai andata a trovare mio marito durante la sua degenza nella casa di cura. — Perché non è mai andata? — Il dottor Griswold mi ha detto che era meglio così. Bruce sembrava così agitato che... — Agitato? Barringer aveva colto al volo la parola che Karen non aveva potuto fare a meno di pronunciare. Non c'era nessuna ragione di evitare l'argomento e poi anche se lei lo avesse fatto, lo avrebbero comunque saputo da Rita. — Certo. È questa la ragione per cui era in cura, aveva un esaurimento nervoso. Da quando è tornato dal Vietnam... — Si faceva? — Non ha mai avuto niente a che fare con la droga. — Ne è sicura? — Certo. Sono sua moglie... se avesse fatto qualcosa del genere me ne sarei accorta. — Perché allora era agitato? — Mah, era giù di nervi... — La prego, signora Raymond, la gente non passa sei mesi in una casa di cura se prima non è stata fatta una diagnosi. Sono sicuro che il dottor Griswold le ha detto qualcosa di più preciso. Quali erano i sintomi? Cos'ha fatto suo marito per convincerla a farlo ricoverare... — Ma non sono stata io a farlo ricoverare! È stato lui a volerlo! Karen sentì il suono acuto della propria voce e comprese di essere vicina a una crisi isterica. Se voleva aiutare Bruce doveva mantenere il controllo di sé. Calma. Osservò Barringer che si accomodava su una sedia dall'altra parte del tavolo. Il tenente lanciò un'occhiata a Cole, poi si voltò di nuovo verso di lei. — Mi dispiace, signora Raymond. Comprendo benissimo come si deve sentire. — Davvero? — Sì, certo. Lei è sotto shock, è stanca e non le piace sentirsi fare tutte queste domande. — Barringer sospirò. — E le assicuro che anche per noi non è un lavoro piacevole. Il guaio è che ci servono alcune risposte. E in questo momento lei è l'unica persona che può aiutarci. — Le ho detto la verità. — E io le credo.
— Allora cosa vuole ancora da me? — Il resto della verità. La parte che ancora non mi ha raccontato. — Ma io le ho detto tutto. Barringer lanciò un'altra occhiata a Cole. Cole non disse una parola. Non doveva dire niente, nessuno dei due doveva. Dovevano solo restarsene seduti ad aspettare che lei crollasse e dicesse quello che volevano. Prima o poi ci sarebbero riusciti e se ci riuscivano, per Bruce era finita. A meno che... — Un momento. — Karen fece un profondo respiro. I due uomini alzarono gli occhi per guardarla. — Mi è venuto in mente qualcosa. Questa volta fu Cole a lanciare un'occhiata a Barringer, un'occhiata che diceva "te l'avevo detto, ci siamo, sta per cedere". Ma Barringer rimase imperturbabile e continuò il gioco d'attesa in cui era un vero esperto. Posò lo sguardo su Karen. — Vada avanti. — Telefonavo in clinica tutte le settimane per avere notizie di Bruce e in genere parlavo con il dottor Griswold. Ma quando lui era occupato mi passavano la sua infermiera. Quella che faceva il turno di giorno. Sono sicura che, se parlate con lei, potrà dirvi i nomi degli altri pazienti. Barringer si chinò in avanti. — Come si chiama? — Dorothy. Dorothy Anderson. Il sergente Cole stava scarabocchiando sul suo taccuino. — Non sa dove abita? — Non ne sono proprio sicura... — Karen esitò un attimo. — Mi sembra di ricordare che una volta l'ho sentita dire che stava traslocando. Sì, proprio così... stava traslocando in un appartamento a Sherman Oaks. 7 È storicamente accertato che William Tecumseh Sherman non ha mai messo piede a Sherman Oaks. Era troppo occupato a marciare attraverso la Georgia. Dorothy Anderson lo invidiava. Da quel che si ricordava d'aver letto sui libri di scuola, la marcia attraverso la Georgia non era stata esattamente una gita; doveva essere stata più un inferno, ma certamente niente a che vedere con la temperatura del suo monolocale al primo piano. E il frastuono che quei soldati erano stati co-
stretti a sopportare non era niente al confronto di quello che lei doveva sorbirsi ogni weekend quando quelle due hostess aprivano la casa al loro esercito privato di volontari reclutati nello Swinging Singles, il bar di Magnolia Boulevard. Dorothy non aveva mai visto alcun albero di magnolia a Magnolia Boulevard. Pensandoci bene non aveva mai neppure visto una quercia a Sherman Oaks così da giustificare il nome. La sola ragione per cui Dorothy aveva preso in affitto quell'appartamento era la comodità. Si trovava a un passo dalla superstrada e a meno di mezz'ora d'auto dalla casa di cura. Dorothy aveva calcolato che, per le sei e mezzo di sera, sarebbe stata a casa, libera. Di questi tempi non si può pretendere granché da una casa da centocinquanta dollari al mese. Quella notte, per esempio, nonostante il respiro affannoso del condizionatore d'aria appeso alla parete, la stanza sembrava un forno, se riuscite a immaginarvi un forno arredato con mobili in stile anni cinquanta. Libera, libera di far cosa? Libera di andare a fare la spesa al supermarket, di trasportare i pacchi fino a casa, di aprirli, di prepararsi la cena sulla vecchia stufa, di sedersi davanti a un piatto surgelato e di condirlo con una deliziosa salsina naturale riscaldata al punto giusto grazie ai miracoli del gas naturale. Questo era quello che, comunque, diceva la pubblicità. Così, tanto per saperlo, Dorothy si domandava come sarebbe stato cenare con una salsa artificiale, cotta con gas artificiale. Cercò di dirigere altrove la sua mente. Se non stava attenta correva il rischio di parlare come quei mentecatti della casa di cura. Dorothy sparecchiò la tavola e lavò i piatti, che era già molto più di quello che quei mentecatti dovevano fare, perché loro non si potevano certo dire poveri. Erano ricchi, o almeno lo erano le loro famiglie; dovevano esserlo, viste le tariffe del dottor Griswold. Ma, in cambio del loro denaro, erano trattati con i guanti. Si godevano quella bella casa e quel delizioso parco. Sì, c'era una recinzione tutt'intorno, ma, al giorno d'oggi, tutti abbiamo una recinzione intorno a noi. E se non ci credete provate ad andare in giro senza documenti, a fare un viaggio all'estero senza passaporto o a svoltare in una strada a senso vietato. Provate a vedere quanta strada riuscite a percorrere marciando attraverso la Georgia prima che uno sceriffo zotico vi metta dentro per vagabondaggio. Anzi, non c'è bisogno di muoversi per andare a sbattere contro una recinzione... c'è la rete a maglie sottili rappresentata da una città, da una contea, da uno stato, dai moduli per le
tasse federali, dalle denunce all'assicurazione, dalle bollette di pagamento spedite dalle società delle carte di credito. Quei poveri mentecatti non dovevano preoccuparsi di queste cose; non dovevano cucinare e mangiare cibi surgelati, né lavare i piatti di plastica subito dopo aver cenato. Forse in fondo non erano poi tanto mentecatti; forse sapevano qualcosa che lei ignorava. Per esempio come fare i propri comodi e fregarsene di quello che pensava la gente. Forse era lei la mentecatta, che passava la vita a occuparsi di loro. Non è necessario essere matta per lavorare qui, ma è comunque d'aiuto. Dorothy impilò i piatti di plastica sulla mensola di plastica della credenza, poi compì sei passi e si trovò nel soggiorno dove cominciò a giocherellare con le manopole di plastica del televisore portatile. Non c'era nessun programma che volesse vedere in particolare, ma il suono la distraeva o almeno le serviva da antidoto al fracasso che faceva lo stereo delle vicine. Poteva uscire, certo, ma per andare dove? Al cinema riproponevano due commedie classiche: una parlava di un tipo arrabbiato che andava in giro indossando un costume da gorilla, e l'altra di un tipo tranquillo a cui piaceva avere rapporti sessuali con un maialetto. Per quanto belli, interessanti e acclamati dalla critica potessero essere questi poemi epici, Dorothy sapeva che non avrebbero fatto altro che ricordarle i suoi pazienti. Come alternativa c'era lo Swinging Singles, il bar preferito dalle due ragazze volanti del piano di sopra. Ma, si ripeté Dorothy, non era un posto adatto a una donna di trentanove anni (e va bene... quarantaquattro!). Le era capitato troppe volte di andare lì o in posti simili e concludere la serata con un seduttore. Il mondo - o almeno il mondo dei locali notturni - è pieno di seduttori. Uomini brillanti, ben vestiti, abbronzati, di trentanove anni (quarantaquattro?), appena brizzolati sulle tempie, con i capelli tinti o il parrucchino, tutti alla guida di auto sportive di seconda mano che non hanno ancora finito di pagare. E sono anche in arretrato con gli alimenti all'ex moglie, ma tu non lo sai finché non scopri che quella seducente abbronzatura termina appena sotto la linea del colletto e che la loro linea perfetta scompare appena si sfilano i pantaloni attillati. Fascino. È buffo quante poche persone conoscono il vero significato di questa parola. Una formula magica, un incantesimo creato per ammaliare. Qualcosa usato dai maghi per dare un'illusione. Dorothy aveva imparato a
diffidare dei seduttori, aveva imparato a sue spese a leggere cosa nascondevano i loro sorrisi facili e le loro adulazioni. Questo non gliel'avevano insegnato le avventure di una notte, ma il suo lavoro di ogni giorno. Perché la maggior parte di quelli che finivano nella casa di cura di Griswold erano dei seduttori dalla parlantina facile, specializzati in sincerità e sentimentalismo, facili al rimorso, ai sensi di colpa e alle promesse di pentimento dopo ogni misfatto. E dietro quella loro artificiosa abilità di manipolare gli altri, dietro quella ben calcolata tattica dell'imbroglio, si nascondeva sempre un bamboccione che non era mai cresciuto, perché non aveva mai avuto bisogno di crescere; col papà e la mamma sempre pronti a dirgli quant'era carino e a tirarlo fuori dai guai. In seguito c'era sempre pronta una Dorothy o una come lei; una tontolona disposta ad ascoltarlo, a pagargli le rate e a sopportare le bugie e le sue manie di grandezza. Fino a quando, naturalmente, il bamboccione non si trovava di fronte a qualche problema che il suo fascino non poteva risolvere. Allora andava in pezzi e finiva a scalciare e a urlare, chiuso a chiave in uno stanzino o nella cella di una prigione. Oppure, se poteva permetterselo, nella casa di cura del dottor Griswold. Dorothy non voleva più avere a che fare con seduttori perché aveva sempre davanti agli occhi il bamboccione dentro di loro... il bamboccione incapace di amare veramente qualcosa o qualcuno all'infuori di se stesso, che placava le sue frustrazioni facendo a pezzi i gatti con un coltello da macellaio. Dorothy accese il televisore e si mise a guardare seduttori di professione che interpretavano una pantomima su un in-su-pe-ra-bi-le e raffinato detective privato che dava prova della sua abilità come criminologo scientifico sferrando un pugno sulla mascella del cattivo e stendendolo con un colpo di karate. Altri due spettacoli dello stesso livello e poi ecco il telegiornale della notte, che certo non aveva lo stesso fascino. Perciò Dorothy abbassò il volume del televisore, ma non lo spense. Voleva continuare a sentire il rumore delle voci, come per essere rassicurata che, in fondo, non era proprio sola. A trentanove anni - o quarantaquattro - nessuno desidera essere solo, quando arriva mezzanotte. Andò in camera e scostò il copriletto. Tirò fuori la camicia da notte dall'armadio a muro e l'appese nella stanza da bagno. Da quel momento in poi, ogni suo movimento divenne totalmente automatico, dettato da anni d'abitudine.
Mentre si stava svestendo l'annunciatore disse qualcosa, che Dorothy non riuscì a capire, a proposito della situazione in Asia. Il resoconto della manifestazione e dei disordini a Washington fu soffocato dal rumore degli spruzzi dell'acqua mentre Dorothy era sotto la doccia. Dopo essersi asciugata e infilata la camicia da notte, Dorothy lanciò un'occhiata attraverso la porta del bagno. Sullo schermo una coppia di mezz'età di una, bruttezza incredibile guardava con aria falsamente deliziata una tazza di caffè istantaneo. Era quasi ora del bollettino meteorologico che l'avrebbe aiutata a scegliere quali vestiti preparare per il mattino successivo; spalancò la finestra per far uscire il vapore dalla stanza da bagno e ritornò in soggiorno per non perdere il bollettino. L'annunciatore stava leggendo qualcosa a proposito di un comunicato straordinario: "I pazienti di una casa di cura privata a Topanga Canyon, sono fuggiti questa notte lasciandosi quattro morti alle spalle". Dorothy rimase a bocca aperta e alzò immediatamente il volume. "...vittime di quello che apparentemente sembra essere stato un improvviso attacco omicida sono state identificate come il dottor Leonard Griswold, cinquantuno anni, proprietario e direttore della casa di cura, la signora Myrtle Freeling e Herbert Thomas, membri del personale...". — Oh, mio Dio! — esclamò Dorothy. Poi squillò il telefono. Corse in camera da letto e sollevò la cornetta. — La signorina Anderson? Parla il tenente Barringer del dipartimento di polizia di Los Angeles. Con il televisore in sottofondo Dorothy non riusciva a sentire bene quello che il tenente stava dicendo a proposito del ritrovamento dei corpi. — Lo so — gli disse Dorothy. — L'ho appena sentito al telegiornale. L'arietta fresca che entrava dalla finestra del bagno non arrivava fino a lei, ma Dorothy sentiva freddo e tremava. Perse alcune parole del tenente e si sforzò d'ascoltare il resto. — ...potrebbe essere una paziente, e noi abbiamo bisogno del suo aiuto per identificarla. È una donna anziana, di circa sessantacinque anni, piccola di statura, piuttosto magra, portava occhiali senza montatura... — La signora Polacheck — disse Dorothy. — Frances Polacheck. P-OL-A-C-H-E-C-K. No, non lo so. Era vedova. Credo che vivesse con sua sorella a Huntington Park. — Quanti erano gli altri pazienti ricoverati nella casa di cura? — Cinque. — Non c'era corrente, eppure Dorothy stava tremando. —
Per l'amor di Dio, mi dica cos'è accaduto... — Può dirmi i loro nomi, per favore? — Sì. — Dorothy tirò un lungo respiro. Sentiva una leggera corrente d'aria. Si girò e vide aprirsi l'anta dell'armadio a muro in camera da letto. Dorothy cominciò a urlare, ma era già troppo tardi. Dopo un momento nell'appartamento c'erano quattro cose aperte. La finestra del bagno, l'anta dell'armadio a muro, il cassetto in cucina da cui era stato estratto il coltello da macellaio, e la vena giugulare della gola di Dorothy. Dal soggiorno l'annunciatore televisivo le assicurava che domani sarebbe stata una giornata calda e serena. 8 La luce del sole che entrava attraverso la finestra alle spalle del dottor Vicente, creava un alone intorno alla sua testa calva. Karen, seduta di fronte a lui dall'altra parte della scrivania, batté le palpebre. Aveva sonno e gli occhi le bruciavano. Si appoggiò allo schienale della sedia per evitare il riverbero, ma non aveva modo di evitare lo sguardo deciso dello psichiatra della polizia, né le sue domande altrettanto decise. — Perché suo marito era ricoverato in una casa di cura? — La prego. — Karen scosse la testa. — Ho già spiegato tutto al tenente Barringer ieri sera. Non può leggere i suoi appunti? — Ho qui davanti ai miei occhi la trascrizione delle sue risposte. — Il dottor Vicente lanciò una rapida occhiata ai fogli dattiloscritti sul ripiano della scrivania. — Ma sarebbe molto utile se lei potesse darmi qualche informazione in più. — Le sorrise. — Per esempio lei ha parlato dell'esaurimento nervoso di suo marito. Questo non mi dice molto. Può descrivermi meglio il suo comportamento? Karen spostò la sedia un po' a sinistra per cercare di evitare che il sole le battesse sugli occhi. — Veramente non c'è molto da dire. Posso solo aggiungere che sembrava molto tranquillo. Troppo tranquillo. — Chiuso in se stesso? — Credo che si potrebbe anche dire così. Passava molto tempo seduto. Ma non leggeva, né guardava la televisione... stava solo seduto senza fare nulla. Non gli interessava incontrare i nostri amici né uscire a cena o assistere a qualche spettacolo. E poi aveva preso l'abitudine di rimanere a letto
fino a mezzogiorno. — Si lamentava di essere stanco? — No. Bruce non si lamentava mai. Non diceva mai come si sentiva. — Di cosa parlava? — Be', da principio diceva che avrebbe mandato il suo curriculum a qualche società per trovare un impiego... prima di andare sotto le armi aveva lavorato nel settore dell'informatica. Ma non credo che l'abbia mai fatto veramente. — Lei non gli ha mai posto delle domande? — No. Mi ero resa conto che c'era qualcosa che non andava, anche se lui si rifiutava di confidarmi che cosa lo tormentava. — Ma dovrà pur averne parlato prima di prendere la decisione di farlo ricoverare. Karen si sforzò di guardare il dottor Vicente negli occhi. — È stato Bruce a prendere questa decisione, perché si rendeva conto di avere dei problemi e voleva guarire. — Capisco. — Il dottor Vicente si appoggiò allo schienale. — Da quanto ho sentito, la casa di cura era molto costosa e certo lei sapeva che suo marito poteva essere curato gratuitamente dall'Associazione Veterani e Reduci. — Per carità... Bruce rifiutava l'idea di andare in un ospedale del genere... — E perché? — Diceva che i reparti psichiatrici somigliano a una prigione, anzi, sono peggio di una prigione. Non sopportava l'idea di stare in gabbia come un animale... Il dottor Vicente abbassò il tono della voce. — Suo marito è mai stato ricoverato nel reparto psichiatrico di un ospedale per reduci, signora Raymond? Il bruciore scomparve dagli occhi di Karen che si riempirono di lacrime. — Non parli di Bruce in questo modo! Le ho già detto che si è fatto ricoverare di sua volontà e che il dottor Griswold aveva detto che ora poteva essere dimesso. Non è pazzo... non lo è mai stato! Solo in seguito Karen si rese conto che il tenente Barringer doveva aver seguito la sua conversazione col dottor Vicente attraverso un circuito televisivo interno, ma in quel momento, quando lo vide entrare nella stanza, le sembrò solo un uomo stanco che aveva bisogno di radersi. — Disturbo? — chiese il tenente.
Il dottor Vicente scosse la testa. Karen si asciugò gli occhi con un fazzoletto che aveva tirato fuori dalla borsetta. Barringer si avvicinò alla scrivania. — Volevo informarla che stiamo mandando in onda un appello che sarà trasmesso da radio e televisione per tutto il giorno. Chiediamo alle famiglie delle persone scomparse di mettersi in contatto con noi per aiutarci a identificare i loro familiari e darci qualsiasi informazione su dove possono trovarsi in questo momento. Il dottor Vicente sospirò. — Se fossi in te non conterei molto sul loro aiuto. — E perché? — Temo che quella gente la pensi esattamente come la signora Raymond. Non vogliono, cioè, correre il rischio d'incriminare il marito, la moglie, un figlio o una figlia. Tieni presente che quelli che stiamo cercando erano stati ricoverati proprio per tenere segrete le loro condizioni. Questi omicidi non fanno altro che rafforzare il desiderio delle famiglie di proteggere i loro cari da eventuali accuse. — Mi rendo conto che è solo una remota possibilità — disse Barringer guardando Karen. — È per questo che speravo che la signora Raymond desse ascolto alla ragione. Karen gli lanciò una rapida occhiata. — Siete voi a non essere ragionevoli. Il semplice fatto che Bruce fosse un paziente di quella clinica non significa che sia coinvolto negli omicidi. Perché avrebbe dovuto uccidere quelle persone e fuggire se stava per essere dimesso? — Lei sta traendo conclusioni affrettate... — E lei? — Karen affrontò Barringer con decisione. — Questa mattina ha detto che Dorothy Anderson è stata uccisa per impedirle di parlare. Che prove ha? Tanta gente viene uccisa ogni giorno... forse è stata solo una coincidenza. Il tenente Barringer si strinse nelle spalle. — Ieri sera la macchina di Griswold era scomparsa. L'abbiamo ritrovata un'ora fa, parcheggiata in una stradina laterale, a un isolato di distanza dalla casa di Dorothy Anderson. Karen girò il viso da una parte, ma Barringer non le concesse tregua. — La considera ancora una coincidenza, signora Raymond? — Le ho detto che Bruce non farebbe male a nessuno... — Noi non abbiamo accusato suo marito. — Il dottor Vicente si alzò e si avvicinò a Karen. — Quello che stiamo dicendo... tutto quello che sappiamo finora è che suo marito è uno dei cinque pazienti scomparsi dalla casa di cura. E sulla base dei fatti a noi noti, è stato uno, o più d'uno, dei pazien-
ti scomparsi a commettere quegli omicidi. — Però lei ammette anche di non sapere chi — disse Karen. — Certo. — Vicente strinse le labbra. — Ma tutto ci fa credere che si tratti di uno psicopatico con tendenze asociali. Qualcuno che apparentemente si comporta in modo del tutto razionale, che può agire quasi sempre con molta intelligenza, ma che diventa spietato quando scatta la violenza dentro di lui. "Non si lasci ingannare, chiunque abbia ucciso quelle persone sa esattamente quello che fa e perché. Sta cercando di distruggere qualsiasi prova che possa portare alla sua identificazione, qualunque cosa e chiunque. Questo significa che anche lei è in pericolo". — Quello che dice è veramente assurdo... — Lo crede davvero? — Il tenente Barringer l'interruppe con aria accigliata. — I giornali del mattino riportano a grandi titoli la notizia del massacro e il suo nome è citato negli articoli. Karen non disse una parola, ma le sue mani si strinsero più forte intorno alla borsetta. — Per favore non mi fraintenda. Non vogliamo allarmarla. Ma spero che ora comprenda l'importanza di una sua collaborazione a tutti i livelli. Si tratta anche della sua incolumità. Qualsiasi cosa lei ci dica che possa portare alla cattura dell'omicida... Le dita di Karen affondavano nelle pieghe della borsetta, ma lei continuava a scuotere la testa. — Le ho già detto tutto quello che so. — Va bene, allora — disse il tenente Barringer. — Penso che sarà meglio andare. — Andare dove? Barringer fece un cenno con la testa. — Ho deciso di tenerla in custodia cautelare. — No... — Karen balzò in piedi. — Mi dispiace. Lei è un testimone importante. — Ma io ho già fatto la mia deposizione. — Se ci saranno ulteriori sviluppi del caso, potremmo aver bisogno ancora di lei. — Ma non c'è bisogno di tenermi dentro! Non ho intenzione di lasciare la città. Io lavoro qui e potete rintracciarmi a qualunque ora del giorno e della notte. — Lo stesso può fare la persona che ha commesso gli omicidi. — Il tenente Barringer scosse la testa. — Noi siamo responsabili della sua inco-
lumità. — Ma la cosa può andare avanti per settimane! Perderò il lavoro... — Ma avrà salva la vita. — Per favore! Ci dev'essere qualche altra soluzione — disse Karen in preda all'agitazione. — Perché non mi assegna una guardia del corpo? — Ha idea di quanti uomini lavorano già a questo caso? Siamo a corto di agenti e quello che lei chiede richiederebbe almeno tre uomini in turni di otto ore ciascuno. E non si tratta solo di un problema di personale, dobbiamo anche pensare a spender bene i soldi dei contribuenti. — Anch'io sono una contribuente. Si tratta, quindi, anche dei miei soldi. E se perdo il mio impiego all'agenzia... — Karen sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime e cerco di ricacciarle indietro. — Per favore, lei non può farmi una cosa simile! Barringer lanciò un'occhiata al dottor Vicente. — Va bene — disse. — Ma desidero che lei abbia ben chiare alcune cose. Nessuna dichiarazione alla stampa, nessuna intervista alla televisione. Deve seguire assolutamente gli ordini di chi le sarà assegnato come guardia del corpo. — Lo prometto. — Ci pensi bene, perché non sarà facile. Non disporrà di nessuna intimità... non passerà un momento da sola, notte e giorno. E se le accade qualcosa... — Non mi accadrà nulla — disse Karen svelta. — Vedrà. Mentre parlava guardava fissa i due uomini cercando di leggere sui loro volti se le credevano. Non che importasse molto. Nemmeno lei credeva a quello che stava dicendo. 9 Il bollettino meteorologico aveva mantenuto la sua promessa. A Los Angeles era una giornata calda e serena. Ma la gente non si preoccupava del tempo. Erano tutti troppo impegnati a leggere le notizie sulla prima pagina del Times e ad ascoltare le prime notizie del mattino. E per quanto facesse caldo, un brivido collettivo percorreva la città. Cominciarono a venire a galla i ricordi. C'era stato uno strangolatore a Boston, assassini che uccidevano a sangue freddo nella prateria, un pazzo armato di fucile su una torre nel Texas,
un maniaco omicida a Phoenix, un killer di lavoratori immigrati che aveva riempito oltre due dozzine di fosse sparpagliate intorno alle fattorie della California. Da qualche parte, vicino alla Bay Area, un giovane assassino uccideva per pura megalomania vantandosi del suo bottino di vittime con lettere ai giornali che firmava sotto lo pseudonimo di Zodiaco. E lì, nella calda e serena Los Angeles, la gente non aveva ancora dimenticato la famiglia Manson. Tutti gli uomini sono fratelli... ma chi di loro si chiama Caino? Una domanda scorretta, forse, e un paragone scorretto. Perché Caino uccise Abele per ragioni personali, inaccettabili, ma comprensibili. Invece non c'era niente di personale in questi omicidi. Caino ora si è trasformato in un maniaco omicida che colpisce selvaggiamente e a casaccio. In tempi biblici Dio marchiò Caino, ma non lo uccise e Caino andò a dimorare nella terra di Nod. Oggi, il surrogato di Dio, lo psicoterapeuta, marchia Caino, etichettandolo come maniaco asociale, psicopatico, affetto da schizofrenia multipla, personalità cicloide... e Caino è spedito a dimorare in un manicomio. E ora cinque potenziali assassini erano in libertà. La loro scia sanguinosa da quel canyon lontano conduceva direttamente nel cuore della città. Il cuore cominciava a pulsare perché si rendeva conto di quanto fosse vulnerabile. I telefoni squillavano e le donne si scambiavano domande con voce stridula. "Hai letto i giornali, hai guardato la televisione, pensi che scopriranno di chi si tratta, credi che li prenderanno?" Appuntamenti disdetti col parrucchiere e programmi per lo shopping improvvisamente abbandonati. "Quella povera Dorothy Anderson... ti ricordi di quelle infermiere a Chicago? Oggi non esco da casa". Solo gli uomini uscivano da casa, erano loro a fare la spesa. Prima di andare al lavoro si fermavano dal ferramenta a comprare serrature e sistemi d'allarme del tipo fai-da-te. E più la giornata si faceva calda, più i bambini piagnucolavano dietro alle porte chiuse a chiave. "Perché non posso uscire, mammina? Voglio giocare. Mi avevi promesso che potevo andare in piscina, ti ricordi?". Mammina li chiude dentro. Li chiude dentro casa, dietro le porte chiuse, isolati da tutto e da tutti, perfino dal postino. Il sole di mezzogiorno era alto nel cielo, ma Los Angeles era chiusa in casa ad ascoltare le ultime notizie... che non c'erano. Alle sezioni di polizia di West Valley, di Van Nuys, di Hollywood e alla
centrale, arrivavano i rapporti dai ragazzi del laboratorio. Ancora una volta non c'era niente di nuovo. L'assassino era stato attento a non lasciare impronte. Aveva indossato i guanti. Nell'appartamento della Anderson come nell'automobile di Griswold non era stata ritrovata nessuna traccia, e non avevano scoperto niente neppure nella casa di cura, ma una squadra era ancora là, al lavoro. Fino a quel momento non c'era alcun indizio, e neppure una telefonata che fornisse qualche informazione. — Le solite chiamate di mitomani — disse il tenente Barringer al dottor Vicente. Ingollò l'ultimo sorso di caffè e rimase a fissare la tazza con aria accigliata. — Perché c'è sempre qualcuno che chiama, Doc? Perché c'è sempre qualche matto in città che prende il telefono a qualsiasi ora del giorno o della notte... false confessioni, balle su tipi nascosti sotto il letto, vecchie pettegole che parlano delle loro storie? — Se tocchi un nervo ci sarà una reazione — disse il dottor Vicente. — La violenza scatena sempre una reazione violenta, che può assumere una varietà infinita di forme. La gente tende a drammatizzare i propri sensi di colpa, a fantasticare sulle proprie paure. — Risparmiati per le conferenze all'università — disse il tenente Barringer scuotendo la testa e facendo un profondo sbadiglio. — Me ne vado a dormire. Il dottor Vicente ebbe un attimo d'esitazione. — Vorrei dirti qualcosa prima che te ne vada. — Va' avanti. — Questa mattina ho chiamato Sawtelle. Il Centro dell'Associazione Veterani ha in archivio una scheda su Bruce Raymond. — È stato ricoverato? — No, non lì. È un certificato medico di congedo, prima di terminare il suo servizio Raymond è stato sotto controllo psichiatrico. È tutto quello che mi hanno saputo dire per telefono, ma ci faranno avere una copia della scheda questo pomeriggio. — Bene. — Davvero? — L'espressione del dottor Vicente era pensierosa. — Non so cosa scopriremo in quella scheda, ma un fatto è certo. Qualunque disturbo Bruce Raymond avesse, non era del tutto guarito. Per questa ragione si è fatto ricoverare nella casa di cura. — Non mi stai dicendo niente di nuovo — disse Barringer. Il dottor Vicente lo guardò di traverso. — E sapendo questo hai lasciato
che la signora Raymond tornasse a casa? — Sì, ma protetta ventiquattr'ore su ventiquattro. — Suo marito potrebbe essere pericoloso. — Abbiamo già predisposto una registrazione di tutte le telefonate che arriveranno al suo appartamento. Se Bruce Raymond cerca di mettersi direttamente in contatto con sua moglie, ci sarà qualcuno pronto a riceverlo. — Speri che si faccia vivo, eh? Ecco perché l'hai lasciata andare... per usarla come esca. — No comment. — Sono io ad avere qualche commento da fare. Sono convinto che corra un maledetto rischio. — L'ha voluto lei, ricordi? Noi le abbiamo garantito ogni protezione. — Se avessi davvero voluto proteggerla, avresti fatto in modo di tenerla qui. — Non rompere, Doc. — Barringer si alzò in piedi. — Certo, per lei sarebbe stato meglio se l'avessimo trattenuta alla centrale. Ma questo è solo un aspetto della situazione. Ci sono tre milioni di persone là fuori che non hanno nessuna protezione, né il telefono sotto controllo, né guardie del corpo a difenderle. Anche loro hanno diritto a essere protetti... e nessuno di loro potrà considerarsi al sicuro finché non incastriamo l'autore di questi omicidi. Il dottor Vicente si strinse nelle spalle. — Parli come se tu fossi l'unico a occuparti del caso. Tra il Dipartimento di Polizia di Los Angeles e l'Ufficio dello Sceriffo, quanti sono gli uomini che stanno lavorando con noi a questo caso? Saranno a centinaia... — E non hanno nessuna traccia da seguire. — Barringer scosse la testa. — Sono d'accordo con te, lasciar andare la donna è un maledetto rischio. Ma se questo può portarci a Bruce Raymond o agli altri indiziati, è un rischio che dobbiamo correre. — Va bene. — Il dottor Vicente si avvicinò alla porta insieme a Barringer. — Cerca di riposarti. — Puoi contarci — disse Barringer. E mantenne la parola. Karen sedeva sovrastata dal ronzio del condizionatore d'aria del suo appartamento, fissando alternativamente il telefono e Tom Doyle. Il telefono era nero, tozzo e silenzioso. Tom Doyle era bianco, slanciato ma ugualmente silenzioso.
Il telefono era sul tavolo. Tom Doyle era sul divano, e durante l'ultima ora sembrava essersi trasformato in un elemento dell'arredamento come il telefono... poteva essere considerato un altro impianto fisso. Dopotutto era stata lei a richiedere la sua presenza, pensò Karen. Non aveva nessun motivo per lamentarsi della sua presenza. Ma non avrebbe mai pensato che l'avrebbe tenuta d'occhio così da vicino. È qui per proteggerti, è il suo mestiere. Cerca d'essere ragionevole. Più facile a dirsi che a farsi. Doyle stava leggendo una rivista e Karen gli lanciò un'occhiata indagatrice con la coda dell'occhio. Alto e magro, con i capelli biondo rossi, la carnagione pallida e il viso lentigginoso. Sui trentacinque anni, probabilmente. Abito grigio estivo, con i risvolti della giacca non troppo larghi. Camicia a righe bianche e grigie, cravatta azzurro pallido. Tipo tradizionale. Non aveva l'aspetto di un detective. Karen s'interruppe e aggrottò le sopracciglia. Che aspetto deve avere un detective? Ho visto troppi film alla televisione, pensò. Tutti quei telefilm dove l'ex star del cinema fa la parte dell'anziano, del duro che usa il cervello, e l'altro, il giovane sorridente che usa i muscoli, è interpretato da un ex benzinaio. I due guidano auto sportive a tutta birra su e giù per le colline di San Francisco mentre la colonna sonora manda raffiche di musica rock. Doyle non era alla guida di un'auto sportiva, e non si sentiva musica rock in sottofondo, solo il ronzio del condizionatore d'aria. Eppure era un detective; appena era arrivato aveva esaminato la porta d'ingresso per verificare che la serratura non fosse stata forzata dall'esterno. Poi aveva perlustrato tutto l'appartamento con la pistola in mano, tenendo Karen a debita distanza mentre lui apriva e chiudeva gli annadi ed esaminava le finestre. La finestra del bagno era socchiusa, e, se Karen non avesse immediatamente provveduto a dirgli che era stata lei a lasciarla così il mattino precedente prima di recarsi in ufficio, con ogni probabilità Doyle avrebbe telefonato subito a Barringer e l'avrebbe ricondotta alla centrale. Era un detective, non c'erano dubbi in proposito. Karen si allungò nella sedia e cominciò a battere il piede sinistro come un metronomo. Doyle la guardò. — Non è obbligata a tenermi compagnia, signora Raymond. Se vuole andare a riposarsi un po'... — Non riuscirei a dormire. — Karen evitò il suo sguardo e si mise a fissare il telefono. Bruce, lo so che sei da qualche parte, là fuori. Per l'arnor di Dio, perché non telefoni?
La voce di Doyle era gentile. — Non si preoccupi, non ho intenzione di toccare il telefono. Se dovesse squillare mentre lei sta dormendo, verrò a svegliarla perché risponda lei stessa. Era un detective, d'accordo. Oppure era davvero così facile leggerle in faccia quello a cui stava pensando? Karen si alzò e cercò di sorridere. — Grazie, magari mi sdraio per qualche minuto. — E si avviò verso la porta del bagno. — Signora Raymond... — Sì? — È meglio che non chiuda la porta. Karen andò in camera da letto. Non chiuda la porta. Fantastico. E se avessi avuto bisogno di andare in bagno? Karen attraversò la camera da letto e andò proprio in bagno, lasciando la porta socchiusa. Dal soggiorno Doyle non sarebbe riuscito a vederla, a meno che non avesse deciso di seguirla. Era peggio che essere in prigione. Ora riusciva a comprendere come doveva essersi sentito Bruce nella casa di cura, sotto continua sorveglianza, con qualcuno che non lo perdeva di vista un momento. Dove sei, Bruce? So che sei stato qui. Ne era certa perché aveva mentito a proposito della finestra del bagno. Infatti, quando il giorno prima era andata in ufficio, l'aveva chiusa bene. Si avvicinò silenziosamente alla finestra, con cautela, tenendo le orecchie tese a ogni rumore che rivelasse che Doyle si era alzato. Facendo attenzione, apri la finestra lentamente, per poter vedere i solchi paralleli sulla vernice scrostata. Era stata forzata dall'esterno. Quando aveva visto la finestra del bagno socchiusa, Karen aveva capito che Bruce era passato da lì, perché lei non usciva mai di casa senza prima aver controllato che tutto fosse ben chiuso. E se non avesse avuto la presenza di spirito di dire a Doyle che era stata lei a lasciarla socchiusa, se non avesse avuto la prontezza di anticiparlo, Doyle avrebbe fatto quello che stava facendo lei in quel momento, e avrebbe avuto la conferma dei suoi sospetti. Karen tirò un profondo respiro. Conferma di cosa? Che Bruce era stato lì? Era quello che aveva pensato da principio. Ecco perché aveva mentito a Doyle. Ma ora che osservava la serratura forzata, doveva ammettere che non ne era più tanto sicura. Dopotutto Bruce aveva la chiave per entrare nell'appartamento. A meno che, naturalmente, non l'avesse lasciata alla casa di
cura. Probabilmente Griswold aveva riposto tutti gli effetti personali di Bruce per custodirli, e così lui non aveva avuto modo di recuperare la sua chiave. Anche in questo caso però, perché Bruce avrebbe corso il rischio di entrare nell'appartamento in quel modo? L'assassino di Dorothy Anderson è entrato dalla finestra del bagno... Forse non era stato Bruce a forzare la serratura. E se a entrare fosse stato l'assassino? Karen si voltò e si diresse verso la camera da letto. Avrebbe fatto bene a parlarne a Doyle. O no? Rallentò e si fermò davanti alla specchiera del bagno. Non poteva dirlo a Doyle; avrebbe significato ammettere di aver mentito, e appena l'avesse saputo Doyle l'avrebbe portata giù alla centrale... e lei sarebbe stata obbligata a restare là seduta, dietro le sbarre, all'oscuro di quel che stava accadendo, senza la possibilità di ricevere notizie da Bruce, senza che lui si potesse mettere in contatto con lei. Ma se lui ci fosse riuscito? E se fosse veramente Bruce che la stava cercando... che la cercava per ucciderla? No, Bruce non l'avrebbe mai fatto. Oppure sì? Karen incrociò nello specchio il suo stesso sguardo perplesso. L'avrebbe fatto? Questa era la vera domanda, la domanda che fino a quel momento aveva cercato di evitare. Ma era ora di guardare in faccia la realtà, proprio come stava guardando la sua immagine riflessa allo specchio. Sapendo quel che era accaduto, sapendo quel che lei sapeva di Bruce:.. pensava che Bruce potesse essere colpevole? Lentamente Karen ripercorse i suoi passi fino alla finestra e l'aprì. In questo modo Doyle non avrebbe capito com'erano andate le cose. Ma questo non rispondeva alla sua domanda. Bruce era davvero colpevole? Karen non era in grado di dirlo. E ora, mentre guardava dalla finestra spalancata il vialetto deserto, era terrorizzata all'idea di scoprire la verità. 10 Niente nuove, buone nuove. Non per un giornalista, però.
Quel giorno il Dipartimento di Polizia di Lòs Angeles non aveva dichiarazioni ufficiali da fare e così lo sceriffo. Il tenente Barringer non c'era, rintanato chissà dove a prendersi un meritato riposo e il capitano Runswick, a nome della sezione omicidi, poteva dare solo consigli. — Non create allarmismi — raccomandò. — È vero, stiamo ricevendo un gran numero di telefonate e le stiamo controllando tutte. Non appena scopriremo qualcosa, ve lo faremo sapere. Ma, fino a quel momento, è inutile mettere in giro chiacchiere. Ad alcuni isolati di distanza altri giornalisti non erano molto più fortunati con l'Agenzia Sutherland. Ed Haskane, che pure era dispostissimo a parlare, non aveva niente da dire. Sì, era il capo di Karen, ma non aveva mai conosciuto suo marito. No, lei non gliene aveva mai parlato, a eccezione del giorno in cui era stato congedato. All'epoca Karen sembrava molto eccitata perché lui tornava a casa. In seguito Haskane aveva dato per scontato che le cose tra loro filassero lisce. Era rimasto scioccato nel sapere che Bruce Raymond era ricoverato in una casa di cura. Com'era la signora Raymond? Una ragazza molto sveglia, molto brava nel suo lavoro e che scriveva buoni testi pubblicitari. Nessuno dubitava che fosse vero, ma da queste notizie non se ne poteva ricavare certo un buon testo per un articolo. A metà del pomeriggio Tom Doyle chiuse la porta in faccia a certi tipi che volevano intervistare Karen e che dovettero accontentarsi dei vicini di casa che, però, non avevano molto a dire. Solo alcune donne che prendevano il sole nella piscina del palazzo riuscirono a ricordare di aver visto Bruce Raymond, ma nessuna aveva avuto l'occasione di parlargli durante il suo breve soggiorno in quella casa più di sei mesi prima. Dalle loro parole risultava che Karen era un tipo solitario, non aveva amici che la venissero a trovare e non scendeva mai in piscina. Quando Bruce se n'era andato, molti inquilini non avevano nemmeno notato la sua assenza. I pochi che lo avevano fatto, avevano pensato che i due si fossero separati o avessero divorziato. Verso sera un'unità mobile della TV si presentò alla casa di cura di Griswold. Erano già venuti la mattina ma avevano scoperto che l'accesso all'edificio era vietato e ora la situazione non era cambiata. Alcune auto della polizia stazionavano ai cancelli; il sergente Cole stava impartendo istruzioni a una squadra investigativa all'interno dell'edificio. Se la polizia aveva scoperto qualcosa, non aveva ancora intenzione di divulgarla al pubblico. Gli operatori televisivi avevano già filmato l'esterno della clinica durante la mattinata, quindi, era del tutto mutile ripetere le riprese. Girarono
qualche scena di un gruppo di giovani con i capelli lunghi che stavano ammassati dall'altro lato della strada, ma visto e considerato che le osservazioni di questi curiosi si limitavano a borbottii del tipo "sbirri fottuti" e simili, l'uscita si era risolta in una perdita di tempo e di materiale. Si stava facendo buio quando, sulla strada del rientro in città, l'unità mobile si fermò all'Agenzia di Servizi Charter Raymond. Anche quì quelli della TV non approdarono a niente, perché le macchine della polizia bloccavano l'ingresso e un agente in divisa si rifiutò cortesemente di farli entrare. Discussero per un po' tra loro se era consigliabile restare nei paraggi fino a quando la polizia se ne fosse andata, ma si stava facendo tardi, il notiziario delle dieci non poteva aspettare e non sarebbero riusciti a mandare in onda il servizio in tempo utile. Rita Raymond lanciò un'occhiata fuori dalla finestra dell'ufficio proprio nel momento in cui l'unità mobile della televisione si allontanava, ma non fece commenti. Stava cercando di parlare il meno possibile. Non era facile, specialmente con il sergente Galpert che continuava a tempestarla di domande. Non ce l'aveva con lui, il sergente si comportava come un cane terrier intorno a un osso. — È sicura che suo fratello non abbia cercato di mettersi in contatto con lei? — Può darsi che l'abbia fatto, ma non dev'esserci riuscito. Galpert aggrottò le sopracciglia. — Vuol dire che può essere venuto qui? — Io non l'ho visto. — Rita accese una sigaretta e tornò a rivolgere lo sguardo fuori dalla finestra. — E nemmeno i suoi uomini, mi sembra. — Soffiò fuori il fumo subito trasformato in una ragnatela dal ventilatore alle sue spalle. — Mi dica, sergente, di regola non occorre un mandato di perquisizione quando si fanno operazioni di questo genere? Le sembrò che Galpert stesse per ringhiare, come se lei avesse tentato di portargli via l'osso. — Lei ci ha permesso di entrare qui di sua spontanea volontà. Ma se ora vuole tirar fuori le questioni tecniche... — Io non voglio tirar fuori niente. — Rita cercò di controllarsi; un suo atteggiamento ostile non avrebbe fatto altro che provocare un irrigidimento da parte della polizia. — Deve credermi, io sono ansiosa come voi di riuscire a sapere dove si trova Bruce. Ma ve l'ho già detto... io non l'ho visto. — Quando ha incontrato suo fratello per l'ultima volta? — È stato ricoverato lo scorso inverno, come lei sa. Galpert annuì. — Ma lei è andata a trovarlo. — Chi gliel'ha detto?
— Sua cognata. Rita represse un'espressione contrariata. Naturalmente Karen aveva parlato delle visite, e lei avrebbe dovuto prevedere che il sergente poteva esserne informato. Non era quindi possibile negare. — Quando ha visto suo fratello per l'ultima volta? — Giovedì pomeriggio. Non andavo mai a trovarlo durante i fine settimana perché in quei giorni qui c'è molto lavoro... — Giovedì scorso. — Galpert si chinò in avanti, il terrier ora teneva ben stretto il suo osso e non era disposto a mollare la presa. — Cos'è successo? — Niente. — Rita schiacciò il mozzicone di sigaretta. — Era una bella giornata. Abbiamo fatto una passeggiata lì intorno. — Voi due soli? Non c'era anche un infermiere con voi? — Non era necessario. Ormai Bruce stava bene. — E prima? Rita esitò. — Andavo a trovarlo nella sua stanza. — Scosse la testa. — Senta, se sta cercando di farmi dire che era squilibrato... — Lo era? — Certo che lo era, da principio. È per questo che è andato lì. Ma non è mai stato violento e non ha mai sragionato come gli altri pazienti, nemmeno all'inizio. A Galpert non bastava il suo osso, voleva anche il midollo. — Lei ha visto gli altri pazienti? — No, mai. Il dottor Griswold era convinto della necessità di rispettare la loro privacy. — Allora come fa a sapere che gli altri erano violenti e sragionavano? — Me lo ha detto Bruce. Ma non tutti, solo qualcuno. — Chi, per esempio? Rita aggrottò la fronte. — Sto cercando di ricordare se Bruce mi ha mai detto il nome di qualcuno di loro. — Ci pensi bene. — Be', mi ha parlato di uno, un po' di tempo fa. Era ricoverato per disintossicarsi. — Un alcolizzato? — Sì. Bruce me ne ha parlato perché quell'uomo svolgeva la sua attività in un certo modo... aveva un'agenzia immobiliare. — Qui in città? — A Los Angeles. Culver City... da quelle parti. — Come si chiama?
— Me l'ha detto, ma non riesco a ricordare... — Cosa le ha raccontato suo fratello di questa persona? — Che aveva inventato un nuovo modo di assicurarsi degli immobili a buon mercato. Ma non credo che a lei interessi sentir parlare di agenzie immobiliari. — Prosegua. — Be', immagini di avere una casa da vendere e di andare da un agente e di dirgli quanto vuole realizzare dalla vendita della proprietà. L'uomo le dice che è interessato all'affare solo se lei gli dà l'esclusiva. Ed è interessato davvero. Dopo un paio di giorni arriva con una simpatica coppia di mezza età, molto rispettabile e degna di fiducia, con un'automobile nuova fiammante. I due visitano la casa e la donna dice che le piace e che è proprio nella zona che loro desideravano. Ma l'uomo non è d'accordo. Se non c'è una piscina, l'uomo dice che voleva una casa con la piscina. Se c'è la piscina, lui ne voleva una senza. Il garage non è abbastanza grande oppure lui avrebbe preferito che le tubazioni fossero in piombo... insomma roba del genere. Quando ha finito con tutte le sue critiche le offre una somma molto inferiore a quella che lei aveva chiesto, una cifra assolutamente ridicola. "Così lei rifiuta e la coppia se ne va. Ma l'agente immobiliare le dice di non preoccuparsi perché ci sono molte altre persone interessate alla casa. "Infatti, dopo pochi giorni torna con un'altra coppia. Hanno un'automobile di vecchio modello e sono un po' male in arnese, ma nessuno dei due ha obiezioni da fare. L'uomo le dice che è proprio il genere di casa che avevano in mente, ma che c'è solo un piccolo problema economico. Ha appena perso l'impiego nell'industria aerospaziale e per concludere l'affare lei dovrebbe concedergli di pagarla a rate molto dilazionate. "Quando se ne vanno, l'agente la rassicura di nuovo e le dice di avere pazienza. E dopo circa una settimana arriva con un'altra coppia. Sono chicanos o negri con un mucchio di bambini piccoli. Questa volta lei perde le staffe... non perché sia razzista, ma perché scopre che quella gente non è affatto interessata all'acquisto della casa e vorrebbe solo affittarla con un contratto rinnovabile su base mensile. "A questo punto lei è un po' scoraggiato e l'agente sfodera tutto il suo talento professionale. Dice che forse in questo periodo il mercato non tira e le cose non vanno molto bene, ma che comunque le case si vendono e che lui è convinto di riuscire a scovare un compratore se però lei è disposto ad abbassare il prezzo a una cifra ragionevole. Forse a questo punto avete an-
che una discussione, ma lui ha comunque l'esclusiva per novanta giorni. Metà del periodo è ormai passata, e lei è costretto a stare calmo e ad aspettare che l'agente trovi altri possibili acquirenti. "L'agente la tiene sulla corda ancora per qualche settimana. Se lei lo chiama al telefono le dice di stare calmo e che sta facendo tutto il possibile. Finalmente si presenta con un'altra coppia. Una coppia giovane alla guida di un pullmino, capelli lunghi e così via. Quelli le dicono ehi, che bella tana!, solo che loro non hanno la grana e che ne dice dell'idea che loro vengano qui a custodirle il posto intanto che lei trova qualcuno disposto a comprarla? "Quando se ne vanno lei si mette seduto e aspetta. E aspetta e aspetta. E quando chiama l'agente immobiliare, lui non c'è mai e si guarda bène dal richiamarla. Fino a che un giorno arriva da lei tutto trionfante con un tipo, un dirigente d'azienda o giù di lì, molto elegante, accompagnato da sua moglie. I due girano per la casa senza dire una parola. Alla fine l'uomo le chiede il prezzo e lei glielo dice, magari tirando giù qualche migliaio di dollari. L'uomo non pronuncia una parola, dà un'occhiata a sua moglie e se ne vanno. "Lei aspetta ancora. Magari passa un altro mese senza che succeda nulla, quando finalmente le arriva una telefonata dal marito della prima coppia, quei due dall'aria tanto per bene con la macchina nuova. Dice che lui e sua moglie hanno continuato a pensare alla casa e se è ancora in vendita sarebbero disposti a darle il prezzo che le avevano offerto, in contanti. "Ci può scommettere che se lei aveva veramente bisogno di vendere la casa, è la volta che accetta. E, subito dopo, i due arrivano accompagnati dall'agente immobiliare con il contratto pronto, l'affare è fatto e lei ha venduto la sua casa a un prezzo ridicolo. "Quello che non verrà mai a sapere è che ha venduto la casa proprio all'agente immobiliare, perché i due che formavano quella coppia così perbene non sono altro che impiegati dell'agenzia e gli altri, la coppia malmessa, la coppia di colore, i bambini, il dirigente d'azienda... erano attori". — Attori? — Proprio così. Attori professionisti pagati a giornata per interpretare la parte di potenziali acquirenti. Tutta una commedia per riuscire a comprare case a un prezzo molto inferiore a quello di mercato, per poi rivenderle con un guadagno sostanzioso. — Rita alzò la testa. — Che ne dice? Non c'è da meravigliarsi che sia diventato tanto ricco. — Chi?
— Lynch. Galpert le lanciò uno sguardo. — Si chiama così, ne è sicura? Rita scosse la testa. — No, non è Lynch. Si chiama... Lorch. Jack Lorch. Galpert le sorrise. Poi prese il suo osso e uscì dalla stanza. Rita rimase in piedi sulla porta a guardarlo andar via. Dopo un momento si voltò e rientrò nel suo ufficio. Senza far rumore, con movimenti cauti, Bruce Raymond uscì dal suo nascondiglio all'interno della carlinga di un aereo fermo all'esterno dell'hangar e scomparve nel buio. 11 Jack Lorch camminava lungo la strada, lentamente, perché gli dolevano i piedi e non se la sentiva di correre. Gli sembrava di aver camminato per una vita intera. Difficile credere che non erano neppure trascorse ventiquattr'ore da quando... Ma non voleva pensare a quello. Non voleva pensare a quando aveva lasciato la casa di cura, o alla fuga sull'auto di Griswold, o a quello che era accaduto dopo che avevano parcheggiato nell'oscurità di quella strada senza uscita a Sherman Oaks. Strada senza uscita. Vicolo cieco. Punto morto... No, non voleva pensare neppure a quello. La cosa più importante era ricordare d'esser fuggito... all'inizio correndo, e poi rallentando il passo, man mano che si rendeva conto di essere finalmente libero. Libero? Lorch fece una smorfia. Come può essere libero uno che fugge dalla giustizia? È libero piuttosto chi fugge dall'ingiustizia. Era ricercato da tutta la maledettissima polizia. Ai loro occhi - dallo sguardo gelido e professionale - lui era un pazzo evaso e sospettato d'omicidio. Lorch si fermò sotto un lampione in Washington Boulevard e si mise a fissare la vetrina di un negozio di ferramenta. Osservò attentamente la sua immagine riflessa sul cristallo, domandandosi cos'avrebbe visto un poliziotto se l'avesse fermato. Un uomo di mezz'età in un vestito blu scuro che, per fortuna, era ancora in buono stato, dal momento che la notte precedente era stato attento a non sgualcirlo quando aveva dormito fra i cespugli della scarpata sotto la su-
perstrada. Aveva il viso gonfio e congestionato e aveva bisogno di farsi la barba, ma questo non poteva certo considerarsi un crimine... non ancora almeno. Per la strada c'era un'infinità di uomini di mezz'età che avrebbero avuto bisogno di una rasatura. E il suo vestito era dignitoso, anche se non indossava la cravatta. Se l'avessero fermato l'unico problema era che non possedeva nessun documento. "Favorisca la patente, prego". Era la prima cosa che dicevano. E se uno non ce l'aveva, non aveva scampo. Cosa poteva dire al giudice? Vostro Onore, dichiaro d'essere innocente perché sono un pedone. D'accordo, stava drammatizzando le cose, si sarebbero accontentati delle carte di credito, della tessera di previdenza sociale. Ma lui non aveva con sé nessuno di questi documenti. Non che la sua situazione non fosse buona; diamine, possedeva ancora la compagnia, il denaro continuava a entrare abbondantemente, perfino alla casa di cura riceveva costantemente i resoconti finanziari che gli spediva il suo contabile. Blix era un ottimo impiegato e badava personalmente ai suoi affari. Ma forse Blix era un po' troppo abile. Se Lorch avesse dato retta al suo primo impulso e si fosse rivolto a Blix per chiedergli aiuto, quel bastardo sarebbe stato ben felice di gettarlo nelle fauci del leone. Grazie a Dio era riuscito a capirlo in tempo e a stargli alla larga. Così non si era messo in contatto con lui. Aveva trascorso la giornata camminando... fermandosi a riposare nei parchi che trovava lungo la strada. Non si era mai reso conto prima di quel momento della distanza che c'era tra la San Fernando Valley e Culver City, soprattutto se uno doveva andare su e giù a piedi per quelle ripide colline. Non c'era da stupirsi che non ci fossero più tanti pedoni in giro. Il sole brucia tutte le energie, e nel tempo che uno impiega ad arrivare in città, si sente stanco, affamato e con la gola secca. Era stata proprio la gola secca a costringerlo a proseguire. Lorch si allontanò dalla vetrina e riprese a camminare. Non c'era molto traffico, anche se erano ancora le prime ore della sera. Probabilmente molte persone avevano deciso di starsene chiuse in casa, per via di quello che era accaduto. Be', non le biasimava. Ma nulla di quello che avevano ascoltato o letto poteva eguagliare la realtà. Lo sguardo dell'infermiera quando il cordone andava stringendosi intorno alla sua gola, le urla acute di Griswold, il suo odore quando la corrente aveva rag-
giunto il massimo voltaggio. Ma non era il momento di pensare a quelle cose. Doveva continuare a camminare. Ancora qualche altro isolato. Sentiva i piedi bruciargli, la gola ardergli, ma si forzò a proseguire il suo cammino. Tutti uffici e nessuna abitazione, meglio così. La gen te che avrebbe potuto riconoscerlo se n'era già andata, e durante la notte i negozi erano chiusi. Lorch attraversò la strada... ancora un ultimo isolato e sarebbe stato al sicuro, a casa. Per quanto lo riguardava il suo ufficio era la sua casa. Non poteva pensare di andare veramente a casa sua, perché la stavano tenendo di certo sotto controllo. Ma a quell'ora l'ufficio poteva considerarsi un posto sicuro. Meglio per lui che fosse così perché altrimenti non sarebbe riuscito a fare molta strada. In ufficio avrebbe trovato del denaro contante, un rasoio elettrico e un cambio d'abito. Forse anche un altro paio di scarpe, ma non ne era proprio certo. Con un po' di soldi in tasca avrebbe potuto fare qualche piano. Fare piani, era questa la sua carta vincente. Lo era sempre stata. Quando uno cresce in un orfanotrofio, impara a badare a se stesso. E quando lascia l'orfanotrofio sa cavarsela da solo. Scopre, nel modo più duro, che i genitori non servono, quindi perché preoccuparsi di avere amici? Lui aveva percorso molta strada dall'orfanotrofio fino all'Agenzia Lorch, e aveva compiuto quel viaggio tutto da solo. Era stata proprio la sua capacità di architettare piani che l'aveva tirato fuori dall'anonimato, l'aveva aiutato ad aggirare il fisco e l'associazione degli agenti immobiliari e tutti quegli altri tipi che avevano cercato di mettergli i bastoni fra le ruote. Chi sa parlare sa vendere... era questo il grande segreto. Se uno racconta a un allocco quello che vuole sentire, poi riesce a vendergli quello che non vuole comprare. Ecco come aveva fatto ad arrivare a possedere una propria agenzia, ogni anno una nuova Cadillac, le camicie col monogramma, il taglio di capelli da quaranta dollari, e tutto il resto. A un certo punto aveva cominciato ad avere qualche piccolo problemino con l'alcol, ma riusciva a tenerlo sotto controllo. Nessuno l'aveva costretto ad andare nella casa di cura, aveva calcolato da solo anche quella mossa. E aveva funzionato. I suoi piani funzionavano sempre. Lorch proseguì lungo la strada, diretto verso l'ufficio al limitare dell'isolato. Passò davanti alle vetrine illuminate del negozio di liquori. Strano, un paio di mesi prima quel negozio non c'era. L'immobile era proprietà di Schermerhorn, se non si sbagliava. Prima c'era un negozio di biciclette, poi era rimasto sfitto per molto tempo. Lorch aveva insistito col
vecchio Schermerhorn perché gli affidasse la commessa, ma quel taccagno bastardo aveva respinto la sua proposta dicendo che la proprietà aveva troppo poco valore per pagare anche una percentuale sulla vendita. Così aveva concluso l'affare per conto suo ed era riuscito ad affittarlo, LIQUORI MORTLAKE, si leggeva nella scritta rossa al neon. Lorch si fermò per cercare di scorgere, attraverso la pubblicità in vetrina, l'interno del negozio illuminato. Rimase a fissare le mensole piene di bottiglie da mezzo litro, i banconi zeppi di bottiglie da un quarto di litro, i ripiani fitti di bottigline mignon, pile di bottiglioni e piramidi di lattine. Il riverbero della luce brillava su decine di migliaia di bottiglie, s'irradiava da quella di rum, riluceva su quella di gin, e ravvivava la chiarezza cristallina della vodka. Lorch si riempì lo sguardo di tutti i colori dell'arcobaleno e sentì ancora una volta la gola ardergli. Era la conseguenza di ventiquattr'ore di digiuno. La conseguenza di una giornata intera senza mangiare e di due mesi e mezzo senza toccare neppure un goccio. Lorch intravide il proprietario del negozio seduto dietro il banco, accanto alla cassa. Un vecchiettino con una camicia bianca a maniche corte fuori dai pantaloni. Bastava dargli un'occhiata per capire che camminava trascinando i piedi. E non avrebbe fatto nemmeno in tempo ad alzarsi se Lorch fosse scivolato dentro, avesse afferrato una bottiglia dal ripiano più vicino e fosse di nuovo sgusciato fuori. Sarebbe stato facile. A. meno che, naturalmente, il vecchietto non avesse una pistola sotto il banco. O che qualcuno passasse lì davanti proprio mentre Lorch usciva. In ogni caso, comunque, il vecchietto avrebbe azionato l'allarme, e Lorch avrebbe dovuto darsela a gambe levate. No, non era certo quella la soluzione. Non aveva certo trascorso due mesi e mezzo di purgatorio e una notte d'inferno solo per mettersi a correre. Certo non adesso che si trovava a un passo dalla salvezza. Soltanto qualche portone più in giù c'era l'agenzia immobiliare, e là avrebbe trovato una risposta. La risposta al suo piccolo problema con l'alcol si trovava dietro la sua scrivania, nel grande mobile bar. Problema poco importante, mobile bar molto fornito. Griswold diceva che il whisky l'avrebbe ucciso, ma Griswold era uno sciocco. Lorch riprese a camminare, affrettando il passo. Non avere troppa fretta. Tieni a freno la mente, non perdere il controllo solo perché ti brucia la gola. Devi ricominciare a fare piani. S'inoltrò sul vialetto che conduceva al piccolo edificio di legno che ospi-
tava l'agenzia. Era assurdo passare dall'entrata principale; le luci erano spente, l'ingresso di notte era chiuso e Lorch non poteva certo tentare di forzare la serratura sotto agli occhi di tutti. Lorch si guardò intorno. Nessuno in vista. Costeggiò l'edificio, oltrepassò il segnale di legno sul prato e s'inoltrò nell'ombra. Sbucò sul vialetto deserto dove si affacciava l'entrata di servizio, ma Lorch non tentò nemmeno di passare da quella parte perché anche quella porta era senz'altro chiusa a chiave. La sua idea era di penetrare dalla finestra. Si avvicinò lentamente alla finestra che si trovava dall'altro lato dell'edificio. Non riusciva a ignorare quel bruciore alla gola. Le tende erano sollevate e riusciva a intravedere, nell'oscurità, il suo ufficio privato. Scorgeva la sua scrivania, ma non il mobile bar, perché questo si trovava nella zona in ombra. Comunque sapeva che era là e che a dividerli c'era solo una sottile lastra di vetro. Non gli ci voleva molto a trovare una pietra nel viottolo... No. Devo pensare a un piano migliore. Lorch scosse la testa e tirò un profondo respiro. I vetri rotti avrebbero fatto troppo rumore. Se avesse trovato qualcosa per forzare la finestra... Lorch allungò i palmi umidicci per saggiare la resistenza del battente. Adesso gli tremavano le mani, era perfettamente conscio della necessità di muoversi velocemente. Le dita gli scivolarono sul legno. La finestra si stava aprendo. Si stava aprendo. Non era bloccata! Dannazione a Blix e alla sua efficienza. Abile negli affari ma troppo stupido per ricordarsi di chiudere bene una finestra! Appena lo vedeva gliene avrebbe dette quattro... Ma non adesso. Era questo il punto. Non doveva incontrare nessuno. Doveva prendere i soldi e andarsene con calma, senza correre. La finestra era completamente aperta. Jack Lorch si appoggiò al davanzale e si dette una spinta per salire sul bordo. Aveva la fronte imperlata di sudore, il rosario della fatica. Rimase per un momento seduto sul davanzale, ansante, con gli occhi fissi sul viottolo e le orecchie tese a ogni rumore. L'oscurità e il silenzio lo rassicurarono, e il respiro tornò a farsi regolare. Ma aveva ancora la gola secca. Così arida... Giù dal davanzale e dentro l'ufficio. La scrivania prese forma nell'ombra. C'era una lampada da tavolo, ma Lorch non l'accese. Troppo rischioso, e poi non aveva bisogno della luce. Conosceva ogni metro di quell'ufficio, ogni centimetro. Poteva muoversi anche a occhi chiusi; il mobile bar era
giusto a cinque passi sulla sinistra, lungo la parete dietro la scrivania. Tutti quei chilometri e ora ancora solo cinque piccoli passi. Lorch si avvicinò a tentoni alla scrivania. I soldi dovevano essere nel primo cassetto sulla destra. Sopra pochi spicdoli e qualche banconota di piccolo taglio. Poi una cassetta di metallo per gli assegni e i tagli più grossi. Una cassetta chiusa a chiave, naturalmente, ma la chiave era sempre stata lì, sotto il tampone di carta assorbente appoggiato sulla scrivania. Doveva solo allungare una mano per prenderla, aprire la cassetta... la combinazione era quaranta a sinistra, cinquantasette a destra, venti a sinistra... e mettere il denaro nel portafoglio. Ma non c'era fretta. Non era il portafoglio che gli bruciava. Prima le cose più importanti. Prima un goccio, poi il denaro, poi il piano. Era sempre stato quello il suo modo di procedere, seduto dietro la scrivania, si rilassava con un goccio di whisky mentre progettava la mossa successiva. E così avrebbe fatto anche adesso. Uno, due bicchieri al massimo, non di più. Non a stomaco vuoto. Non aveva nessuna intenzione di ricadere nella vecchia abitudine; con l'alcolismo aveva chiuso, aveva pagato il suo debito. Ma adesso aveva davvero bisogno di un bicchiere. Adesso. Al diavolo Griswold e le sue balle, tutte quelle chiacchiere sull'erotismo allo stadio orale, tutta quella solfa sulla voglia infantile di ciucciare il latte dal capezzolo. Una volta che avesse avuto il denaro in tasca si sarebbe potuto permettere tutte le ciucciate che voleva. Centinaia di tette, quante ne voleva... dopo quel bicchiere. Lorch si avvicinò all'angolo della stanza, muovendosi nel buio. I suoi movimenti dovevano essere più rapidi di quanto pensasse, perché dopo quattro passi picchiò la fronte contro lo spigolo del mobile bar incassato nella parete. Il colpo non era stato molto forte, ma il dolore bastò a rendergli la lucidità. Sobrio. Strana parola. Strana sensazione. Proprio quella che sentiva in quel momento mentre apriva l'anta del mobile dei liquori. Perché capiva che fino ad allora era stato come ubriaco. All'asciutto per due mesi e mezzo, ma ubriaco fradicio. L'ubriachezza è uno stato d'animo. Proprio così. Ma perché non l'aveva capito prima? La causa dell'alcolismo non è la bottiglia, è la sete. Poche dita d'alcol bastavano a scacciare la sofferenza della realtà, ma... per Dio, il vecchio Griswold aveva ragione! La sofferenza è soggettiva. Proprio come tutte quelle idiozie che gli erano passate per la mente davanti al negozio di liquori. Un alcolista è ubriaco ancor prima di cominciare a bere. Si crea da solo le sue fantasie, e i suoi
pensieri cominciano a vacillare molto prima delle sue gambe. Lorch aprì l'anta e provò a metterne a fuoco il contenuto. C'erano tre profondi ripiani carichi di bottiglie. Gin, vodka, vermouth e gli amari nel primo ripiano... whisky irlandese, canadese e scotch in quello di mezzo e, nell'ultimo, eccellente bourbon. Alcune bottiglie erano mezzo vuote, richiuse con tappi di sughero, e Lorch sentiva il profumo del loro contenuto. Quelle esalazioni acute gli riempivano le narici e gli arrivavano in gola. La sua mano si allungò automaticamente verso il ripiano più alto, esitò per un attimo e poi tornò verso di lui, e solo a quel punto Lorch si accorse che la gola aveva smesso di bruciargli. Strano. Tutta quella sete era scomparsa e Lorch avvertiva un'altra sensazione. Una reazione immediata: era affamato. Non aveva sete. Non aveva bisogno di bere. Oh, un goccio magari se lo sarebbe anche fatto, inutile negarlo, ma non ne aveva bisogno. Quello di cui aveva veramente bisogno era mangiare. Un buon pasto sostanzioso. E poi avrebbe saputo cosa fare. Non era necessario architettare. Adesso che era sobrio, veramente sobrio, capiva che non era mai stato necessario un piano. Ubriacarsi per cercare di trovare una via d'uscita per sfuggire la realtà... questa sì che era un'idea da ubriaco. Ma non avrebbe funzionato, non poteva funzionare. Dove poteva andare e per quanto tempo poteva riuscire a non farsi prendere? Prima o poi avrebbero scoperto che era coinvolto anche lui; Blix l'avrebbe certamente detto alla polizia, e sarebbe diventato un eroe. Perciò la sola cosa da fare era di portar via la palla a Blix e chiamare lui stesso la polizia. Raccontargli esattamente quello che era successo, subito, al telefono, fare i nomi degli altri, collaborare. Certo, doveva chiarire il suo ruolo nella faccenda, e ne avrebbe ricavato un mucchio di pubblicità. Tanta pubblicità... buona per lui e per gli affari. È incredibile come tutto diventa semplice se uno smette di pensare da ubriaco. In piedi, al buio, Lorch cominciò a chiudere lo sportello del mobile bar e in quel momento s'accorse che c'era uno spazio vuoto proprio nel mezzo del ripiano più alto. Una delle bottiglie di bourbon era sparita. Blix non beveva, chi poteva averla presa? La risposta venne dall'ombra alle sue spalle. Jack Lorch si voltò giusto in tempo per vedere la sagoma della bottiglia che si avvicinava per spaccargli il cranio. Poi cadde e l'armadietto addosso a lui; i vetri si frantumarono a terra e gli penetrarono nella carne. Nel buio il sangue e il bourbon si confondevano e il pensiero di Lorch - il suo ultimo pensiero - fu che Griswold aveva
ragione. Era stato proprio l'alcol a ucciderlo, dopotutto. 12 L'agente del turno di notte si chiamava Lubeck. Arrivò all'appartamento di Karen poco prima delle dieci e scambiò due chiacchiere con Doyle nel corridoio. Poi Doyle smontò e Lubeck prese servizio. Era di qualche anno più vecchio del collega che l'aveva preceduto e una decina di chili più pesante. La sua stazza era molto rassicurante. Come aveva fatto Doyle, perlustrò l'appartamento e controllò tutti gli armadi, le porte e le finestre. — Ha intenzione di tenere acceso il condizionatore d'aria tutta la notte? — domandò. — Bene. Allora non c'è bisogno di lasciare le finestre aperte. — Lubeck tornò in soggiorno e mise la catenella alla porta. Karen lo osservava dalla camera da letto. — Le dispiace se uso il telefono? — disse l'agente. — Voglio chiamare la centrale. — Faccia pure. Karen rimase sulla porta mentre Lubeck formava il numero. Provava un certo imbarazzo a stare lì mentre lui telefonava, ma forse poteva riuscire ad ascoltare la conversazione. Rimase delusa. Lubeck parlava a bassa voce e il rumore del condizionatore copriva i suoi bisbigli. Karen scosse la testa. Perché si comportava in quel modo? Aveva paura a stare nel suo soggiorno? Non era mica prigioniera. O invece sì? Un uomo chiuso in un'armatura è prigioniero della sua stessa armatura. Lo aveva detto Robert Browning in Herakles. Karen non era mai riuscita a spiegarsi perché quella citazione le fosse rimasta impressa nella mente per tutti quegli anni, ma, all'improvviso, realizzava che la realtà era proprio così. Siamo tutti chiusi in un'armatura e siamo tutti prigionieri. La presenza di Lubeck faceva di lei una prigioniera, prigioniera del suo stesso bisogno di essere protetta. E Lubeck, chiuso nella sua armatura, rappresentata dal distintivo e dalla pistola di ordinanza, era anche lui prigioniero, prigioniero di un sistema che lo obbligava a dipendere dai suoi superiori. E i suoi superiori erano prigionieri dei politici, e i politici erano prigionieri della gente, e la gente come lei scontava una condanna a vita cercando di proteggere se stessa dal resto del mondo. Alcuni di loro erano condannati a
morte e la sentenza poteva essere eseguita da un momento all'altro. Karen scacciò il pensiero e si obbligò a entrare nel soggiorno proprio mentre Lubeck riattaccava il ricevitore. — Qualche novità? — chiese la giovane donna. — Dovrò fare rapporto almeno un paio di volte durante la notte. Così, se lei si sveglia, e mi sente parlare al telefono non deve preoccuparsi. — Ma se ne starà lì seduto per tutta la notte? — Proprio così. Non la disturberò a meno che non sia strettamente necessario. Ma tenga aperta la porta della camera. E se sente qualcosa lanci un grido. — Lubeck sorrise. — So cosa prova in questi momenti, è un po' seccante ma non si lasci demoralizzare. — No, no, certo — mentì Karen. — Ah, ancora una domanda. Prende qualcosa prima di andare a letto? Sedativi, sonniferi? — No. — Meglio così. Karen non ne era altrettanto sicura, ma non lasciò trapelare quest'opinione. In quel momento avrebbe desiderato prendere qualcosa che la mettesse fuori combattimento. Mentre si spogliava, in bagno, si sentiva fin troppo sveglia, fin troppo consapevole di quell'estraneo nella stanza accanto. Non sarebbe riuscita ad addormentarsi con quell'uomo lì vicino, ma, d'altra parte, non sarebbe ugualmente riuscita a dormire se lui se né fosse andato. Un uomo chiuso in un'armatura è prigioniero della sua armatura. Karen tolse la sovraccoperta dal letto e senza accendere la luce s'infilò dentro le lenzuola. Non sarebbe riuscita a dormire, ma almeno avrebbe riposato. La luce del soggiorno illuminava debolmente il corridoio. Chiuse gli occhi per non vederla ed entrò nel ciclo alfa trenta secondi dopo aver appoggiato la testa sul cuscino. All'improvviso Bruce apparve nei suoi sogni. Indossava un'armatura e impugnava una spada. Una spada rossa di sangue. 13 Louise Drexel fu la prima a sentirlo. Roger era nello studio, assorto nella sua collezione di francobolli, e lei era in biblioteca. Louise aveva sempre amato molto leggere, ma mai come in quegli ultimi tempi. La loro era, con ogni probabilità, l'unica casa di Bel
Air sprovvista di un televisore, e, a dire il vero, Louise ne avrebbe tanto desiderato uno, ma Roger era irremovibile. «Perché imbottirsi le orecchie con quella robaccia?», e Louise sapeva che era veramente convinto delle sue asserzioni, perché non gli capitava spesso di usare un linguaggio del genere. Era sempre tentata di ricordargli che, un tempo, non solo aveva guardato assiduamente la televisione, ma aveva addirittura sponsorizzato un programma; solo dopo essersi ritirato dagli affari aveva cambiato idea. Quand'era andato in pensione aveva anche smesso di comprare il giornale. «Sono un uomo di sessantacinque anni e ho diritto a un po' di pace e di tranquillità», le diceva. «Abbiamo già abbastanza problemi, non possiamo preoccuparci anche di quelli degli altri». Quando accennava al fatto di avere dei problemi, si riferiva a Edna, ma nessuno dei due aveva voglia di discutere ancora l'argomento. Avevano fatto del loro meglio, ora dipendeva dai medici. Edna stava ricevendo ottime cure e loro due non potevano fare di più per aiutarla. E dopo l'ultimo attacco di cuore, era assolutamente sconsigliabile turbarlo insistendo a parlare di cose spiacevoli. Da principio Louise aveva provato dei sensi di colpa... dopotutto Edna era sua figlia, e non è piacevole far finta di non preoccuparsi della propria figlia... ma in seguito si era resa conto che il suo primo dovere era verso suo marito. Durante la lunga convalescenza di Roger avevano diradato gli inviti, e un po' alla volta avevano perso di vista quasi tutti i loro amici. Da allora nessuno dei due aveva fatto nulla per riprendere i contatti sociali. E anche questo a causa di Edna... nessun altro, all'infuori del dottore e della domestica a ore, sospettava quello che era accaduto a Edna o dove si trovasse in quel momento. Sarebbe stato imbarazzante spiegare come stavano realmente le cose. Per un certo periodo Louise si era sentita un po' sola, ma dopo qualche tempo si era resa conto che Roger aveva ragione. Per come andavano oggi le cose era meglio avere a che fare il meno possibile col mondo esterno. Da appassionato di filatelia Roger collezionava frammenti e pezzetti di mondo che incollava nei raccoglitori. Da buona lettrice Louise raccoglieva dai libri frammenti e pezzetti di mondo che avrebbe incollato nella sua mente. Quella sera per esempio stava leggendo la storia di Khumaraweh. In un grande palazzo dalle mura incastonate di lapislazzuli e oro, cinto da alberi con i tronchi e i rami rivestiti di rame dorato, viveva Khumaraweh, circondato da leoni che gli tenevano compagnia. Zouraik, il suo preferito, a-
veva gli occhi blu. Per combattere l'insonnia Khumaraweh fece costruire, nel giardino del suo palazzo, un grande lago artificiale e lo fece riempire di mercurio. Dormiva lì, sdraiato su di un materasso di pelle gonfio d'aria, cullato dal movimento del mercurio. Sembrava una favola e invece stava leggendo una storia vera... Khumaraweh regnò davvero in quella che è diventata la città del Cairo, più di millecento anni fa. E, proprio come Roger, tutto quello che Khumaraweh desiderava era pace e tranquillità. Louise aveva appena cominciato a leggere il brano del libro che descriveva la stanza di Khumaraweh affollata di statue dorate, quando la pace e la tranquillità furono infrante da quel rumore. Non era molto forte, ma era insistente, e sembrava provenire dal retro della casa. Per prima cosa Louise pensò che uno degh scuri battesse contro una finestra della cucina. Un po' indispettita ripose il libro e si avviò per il corridoio. Già prima di entrare in cucina si accorse che gli scuri di tutte le finestre erano chiusi. Il rumore era prodotto da qualcuno che stava bussando alla porta sul retro. Louise si domandò se fosse il caso di prendere la pistola - tutti nel vicinato tenevano in casa una pistola, da quando quella gente del cinema che abitava poco distante era stata derubata - ma la rivoltella si trovava nel cassetto della scrivania dello studio e per prenderla avrebbe dovuto disturbare Roger. Nessuna emozione, si era raccomandato il dottore. Louise ebbe un attimo d'esitazione. La porta era chiusa a chiave e assicurata col catenaccio. Forse, se avesse sollevato lentamente il telefono per chiamare la polizia... I colpi alla porta erano diventati frenetici e Louise sentì una voce. — Fatemi entrare! Fatemi entrare!... Louise attraversò velocemente la stanza e annaspò col catenaccio e la chiave. Quando aprì la porta Edna le si gettò tra le braccia. — Mamma... — Era senza fiato, singhiozzava, aveva i capelli stopposi e arruffati e il viso sudicio, striato dalle lacrime. — Cos'è successo? Edna la guardò scuotendo la testa. Poi si voltò di scatto per chiudere la porta della cucina. Louise continuava a guardarla. Edna girò la chiave, fece scorrere il catenaccio e girò l'interruttore per spegnere le luci esterne del patio e della piscina.
In quel momento Louise si rese conto di quello che Edna aveva indosso... una specie di camicione macchiato... e nient'altro. Era senza calze e i piedi nudi erano gonfi dentro i sandali. La fronte scottata dal sole era scorticata e arrossata. Edna fece un cenno col capo. — Presto, portami via di qui prima che venga... Louise sollevò una mano. — Calma. Tuo padre è nello studio. È stato molto malato. Non dobbiamo agitarlo. — Non sono agitato. Louise si voltò. Roger era in piedi sulla porta, e le stava fissando. — Papà? — Edna era nervosa. Ricominciò a piangere, avvicinandosi a Roger a braccia aperte. Roger si ritrasse. — Smettila — le disse. — Sei una donna adulta, Edna. Hai quarantadue anni. Credo che tu debba a me e a tua madre delle spiegazioni... Sembrava distaccato, crudele, ma Louise sapeva quel che suo marito stava facendo, e perché. «Dovete smetterla di trattarla come una bambina», aveva detto il dottor Griswold. «È l'unico modo per impedirle di nascondersi dietro alle sue fantasie». Naturalmente il dottor Griswold era stato molto più prolisso, ma Louise riusciva a malapena ad accettare quei suggerimenti. Tutto quello che lei e Roger avevano sempre fatto era cercare di proteggere la ragazza da qualsiasi influenza esterna e dannosa, di tenerla lontana da cattive compagnie e assicurarsi che non finisse tra le mani di qualche cacciatore di dote. L'idea che la loro preoccupazione di proteggerla era stata la causa della sua paranoia era semplicemente assurda, e quello che Griswold aveva detto a proposito della repressione sessuale era a dir poco indecente. Comunque non avevano nulla di cui lamentarsi per il modo in cui alla clinica si prendevano cura di Edna, e il dottor Griswold era noto per la sua discrezione. — Prova a raccontarci quello che è accaduto — stava dicendole Roger. Edna scosse la testa. — Lui potrebbe sentire... Louise fece per replicare, ma l'espressione di Roger la zittì. — Bene, andiamo nello studio — disse. Si voltò e le precedette nel corridoio. Louise notò che Edna zoppicava malamente, ma riusciva a controllarsi; quel tic nervoso che le era venuto negli ultimi mesi prima del ricovero, era scomparso. E una volta nello studio, sprofondata nella poltrona, sembrò una bambina con un vestito troppo grande per lei, una bambina spaventata, con qualche capello grigio.
— Posso portarti qualcosa, tesoro? — chiese Louise. — Un bicchiere di latte... — No, mamma. Louise fissò i piedi della figlia. — Lascia almeno che ti aiuti a sfilare i sandali. — Fece per chinarsi, ma Roger le si pose dinanzi sorridendo a Edna. — Prima le cose importanti — disse. — Prima di proseguire voglio che tu sappia che io e tua madre siamo felici di averti di nuovo a casa. — Davvero? — Naturalmente. Sono certo che capirai che la nostra sola preoccupazione è che tu stia bene. Ma tu lo sai, non è così? — Sì. — Edna aveva la voce incerta, e non lo guardava. — Bene. — Roger annuì soddisfatto. — Allora capirai anche che abbiamo provveduto a farti ricoverare nella casa di cura perché il dottore aveva detto che quello era l'unico modo per aiutarti. E ti hanno aiutato, non è così? — Sì, papà. Roger non aveva mai smesso di sorridere. — Allora perché sei fuggita? — disse. Edna alzò di colpo lo sguardo. — Non sono fuggita! Mi hanno preso... — Chi ti ha preso? — Gli altri. Sono stata costretta a seguirli, non potevo restare là, dopo quel che era successo! Siamo venuti via con l'auto di Griswold, ieri notte... — E il dottore ti ha lasciato andare? Edna scosse la testa. — Il dottor Griswold è morto. Roger aveva smesso di sorridere. Guardò Louise con aria perplessa, poi si rivolse ancora a Edna. — Continua — disse sottovoce. Edna proseguì, ma non riuscì a controllare la sua voce che divenne acuta, quasi isterica, e lacerò il sottile velo della sua calma. Louise ascoltava e le tornavano alla mente le grida deliranti che aveva sentito prima che portassero via Edna. In quei lunghi mesi quelle grida si erano affievolite fino a trasformarsi in echi sommessi, perfino l'immagine di Edna si era sbiadita ed era diventata una presenza invisibile che la ossessionava solo durante i suoi sonni agitati. Adesso quella voce era di nuovo reale, Edna era reale. Ma quello che stava dicendo... Il dottor Griswold era morto, l'infermiera di notte era morta, anche Herb Thomas, l'inserviente, era morto. Lui aveva programmato tutto, lui li aveva uccisi, e ora lui aveva detto che erano tutti liberi. Era stato lui a prendere
l'auto e a dirgli che li avrebbe condotti in città, che li avrebbe portati dove volevano, ma poi si era fermato a un certo punto, nella San Fernando Valley. Gli aveva detto di restare nell'auto, poi era sceso e aveva dato a Tony la pistola dicendogli di non farli allontanare finché lui non fosse tornato. A quel punto Edna aveva capito che stava mentendo, che non li avrebbe mai lasciati andare, che li avrebbe uccisi tutti. Anche gli altri sembravano averlo compreso, perché avevano cominciato a lottare con Tony nel sedile posteriore. Così lei era saltata fuori dall'auto e si era messa a correre. Quella notte si era nascosta dalle parti di Beverly Glen e poi aveva preso stradine secondarie per arrivare fino a Bel Air. Avrebbe voluto arrivare prima, ma, verso mezzogiorno, aveva cominciato ad avere l'impressione d'essere inseguita e sapeva che lui era sulle sue tracce. Così aveva dovuto aspettare che facesse buio e si era mossa con cautela perché se lui l'avesse raggiunta... — Chi? — chiese Roger. — Come si chiama? — Non... non so come si chiama. — Non lo sai? Edna scosse la testa. Lanciò un'occhiata alle tende tirate alle finestre. — Adesso potrebbe essere là fuori — sussurrò. — Se sentisse che ve lo dico, ucciderebbe anche voi... — Ma è assurdo... — Un'occhiata di Roger bastò a Louise per riprendere il controllo. Edna si raggomitolò come se stesse cercando di nascondersi nella grande poltrona. — Il suo sguardo — disse. — Posso sentire il suo sguardo. Come una pugnalata. È pazzo, capite? Gli altri sono solo malati, ma lui è davvero pazzo. Gli basta guardare una persona per fargli fare quello che vuole. È per questo che Tony l'ha aiutato. È riuscito perfino a ingannare il dottor Griswold. Gli basta guardarti per dirti a cosa stai pensando. Ha bruciato tutto nel camino, ma prima ha scoperto i nostri indirizzi, perché così se scappavamo lui sapeva dove trovarci. Perché lui vuole che nessuno sappia quello che è successo. Se riuscirà a trovarmi... La guancia sinistra di Edna cominciò a contrarsi; il tic era tornato. Roger le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla. — Non riuscirà a trovarti, te lo prometto — disse. — Potremmo fuggire — disse Edna. — Potremmo scappare subito con la tua auto. — È un'idea. — Roger guardò Louise. — Portala al piano di sopra e dalle dei vestiti decenti. Non può viaggiare conciata a quel modo. — Ma Roger...
— Fa' come ti dico. — Strizzò l'occhio. — Vi raggiungo fra un momento. Roger si voltò, sorrise a Edna e uscì nel corridoio. Dopo un attimo Louise sentì la porta dello studio chiudersi silenziosamente. — Su, Edna, andiamo di sopra — disse. Edna scosse la testa. — No. — Cosa c'è che non va? — Non mi ha creduto. — Certo che ti ha creduto. — Louise allungò una mano e afferrò Edna per il polso. Aveva la mano sudicia e le unghie rosicchiate fino alla carne. Louise sentì il polso di Edna battere forte quando la costrinse ad alzarsi in piedi. — Ti prego. Dobbiamo sbrigarci ed essere pronte quando tuo padre ci raggiungerà. — Tu mi credi, mamma? — Sì. — Louise condusse sua figlia verso la porta. — E ora vieni. Ti farai una bella doccia calda e poi sceglieremo un bel vestito da metterti. — Louise cominciò a parlare e passando davanti alla porta della biblioteca alzò la voce per distrarre l'attenzione di Edna. — Ti ricordi di quel completo tanto carino che ti comprasti poco prima di andar via? È ancora appeso nel tuo guardaroba... Ho conservato tutte le tue cose linde e pinte. Dietro la porta della biblioteca sentì la voce soffocata di Roger che parlava al telefono. — ...emergenza. Mi passi la polizia... Edna divincolò il polso. Louise fu colta di sorpresa e riuscì solo a pensare a quanto Edna fosse forte. Sentì quella forza colpirla alla tempia, la testa battere contro la parete, e poi... più niente. Quando finalmente Louise riprese i sensi, aprì gli occhi e vide Roger chino su di lei, che la scuoteva per le spalle. Mentre ritornava in sé la figura dietro a Roger prese lentamente forma, un'uniforme azzurra e tutto il resto. — ...la polizia ...è già qui? — mormorò. — È un quarto d'ora che cerco di farti rinvenire — disse Roger. — Stai calma... non muoverti! — Sto bene. — Appena Louise cercò di sollevarsi avvertì una fitta lancinante alla nuca nel punto in cui aveva battuto contro la parete. Quando l'aiutarono ad alzarsi si rese conto di essere in grado di stare in piedi da sola. Roger le appoggiò un braccio intorno alle spalle. — Dov'è Edna? — chiese Louise. Nessuno rispose. Non ce n'era bisogno. Guardò in fondo al corridoio
verso la cucina e vide che la porta che dava sul retro era spalancata. I riflettori erano accesi e in lontananza altre figure in uniforme azzurra si muovevano avanti e indietro intorno alla piscina. Louise strizzò gli occhi per mettere a fuoco le immagini. — Ti ha sentito ed è corsa via — mormorò Louise. — Perché non vanno a cercarla? — Cercò di liberarsi dall'abbraccio di Roger, ma lui continuò a tenerla stretta. — Non andare fuori — le disse. Non c'era bisogno di andare fino là perché gli uomini in uniforme azzurra stavano entrando in casa, procedendo lentamente; Louise vide cosa stavano trasportando. Tutto le divenne molto chiaro, chiaro come le gocce che cadevano dall'abito bianco inzuppato d'acqua e dai capelli stopposi. Edna. Era fuggita in preda al panico. Era caduta in piscina... era annegata... Per un momento Louise si sentì nuovamente venir meno. Ma non le lasciarono vedere il corpo, la riportarono nello studio, la fecero distendere e Roger le versò un brandy. Passò molto tempo prima che le dicessero che Edna non era caduta nella piscina. L'avevano trovata lì accanto, riversa sul bordo. Anche se aveva la testa nell'acqua, non era morta per annegamento. Edna era stata strangolata. 14 In Sunset Strip le vibrazioni erano buone. Davanti al locale a luci rosse i maniaci di film porno erano in attesa dello spettacolo di mezzanotte, una pellicola piena di squinzie nude sulle disavventure di una ragazza indiana di nome Cagna Spaccata. In fondò alla strada, i tavoli all'aperto dei chioschi di hamburger erano affollati di clienti che si dividevano equamente hamburger e spinelli. All'angolo di Laurel Canyon Boulevard, Tony Rodell era immobile come una statua, completamente flippato. Si sentiva al centro di tutto e vedeva ogni cosa dall'esterno. Il grande adesivo sul fuoristrada con la scritta FOTTITI. Il tipetto in un completino di Christian Dior che strillava rivolto al suo amichetto: "Come fa un ragazzo come te a innamorarsi di Ronald? È abbastanza vecchio da essere tua madre!". Una pollastrella con i capelli stile afro che urlava a qualcuno: "Sabato
vieni alla messa nera? La organizza una ditta specializzata". Oh, uauu! Questa sì che era vita! Era contento dì essere di nuovo lì. Il più grande spettacolo del mondo, dappertutto un gran movimento, la strada piena di cowboy di mezzanotte e sugli enormi pannelli pubblicitari le facce luminose degli dei: The Up Yours, The Wall-to-Wall Sewer, Stockyard Slim and the Pigs. L'anno prima anche Tony stava su quei cartelloni. Era successo in occasione dell'uscita del disco e il suo gruppo era stato ingaggiato per suonare a Tahoe. Poi tutto era andato a rotoli, la prima sera c'era stata un'irruzione della polizia ed era stata proprio sua madre, quella spaccapalle di sua madre, che l'aveva fregato. Era stata una vera e propria rapina e da principio Tony aveva dato fuori di matto, solo dopo si era reso conto che sua madre doveva aver saputo in anticipo dell'irruzione e aveva stretto un patto con la polizia: lei avrebbe incastrato il gruppo se la polizia avesse fatto cadere le accuse contro di lui. Ma quelli avevano detto che si poteva fare solo se lei s'impegnava a tenere Tony pulito. Questa era la ragione per cui la vecchia lo aveva spedito in quella casa di cura. Aveva speso un sacco di grana per toglierlo di mezzo e se le cose per lei e Griswold fossero andate nel verso giusto, probabilmente Tony sarebbe rimasto lì a farsi le seghe per sempre, o perlomeno ci sarebbe rimasto fino a quando non fosse finito il gruzzolo. Ma prima del gruzzolo si era esaurito Griswold e quello non si sarebbe ripreso mai più. No di certo! Adesso non aveva né peli né barba e nemmeno sua madre lo avrebbe riconosciuto. E, comunque, sarebbe stato troppo tardi... Tardi. Era già mezzanotte passata e non si era visto nessuno. Tony spostò il peso del corpo da un piede all'altro e guardò su e giù per osservare il traffico sulla Sunset Strip. A mezzanotte in punto di fronte a Schwab, così aveva detto lui, e Tony era lì ad aspettare da più di venti minuti. Le vibrazioni stavano peggiorando e gli tornava alla mente la conversazione della sera precedente. Era successo dopo che lui era tornato all'auto parcheggiata e aveva scoperto che tutti se n'erano andati e che Tony stava sul sedile posteriore messo ko dal calcio della pistola con cui avrebbe dovuto tenere a bada gli altri. L'aveva schiaffeggiato, fino a quando era tornato in sé e a quel punto Tony aveva avuto un po' di paura perché si era reso conto di cosa lui fosse capace quando s'infuriava.
«Non ce l'ho fatta», continuava a ripetere. «Mi sono saltati tutti addosso all'improvviso. Se mi avessi permesso di mettere i proiettili nella pistola...». «Per ammazzare qualcuno e metterci nei guai?», lui aveva sospirato e aveva lanciato a Tony uno dei suoi strani sguardi. Poi aveva detto una di quelle sue frasi dal significato oscuro. «Ah, come ti odio, non so dirti quanto...» e aveva fatto quella strana risata che significava che tutto andava bene. «Non ti preoccupare, non pensavo di riuscire a tenerli tutti insieme ancora a lungo. Forse ora che si sono divisi sarà più facile... a meno che uno di loro non venga preso prima.» «Prima di cosa?», aveva domandato Tony. Ma lui era scoppiato in un'altra risata e si era messo in tasca la pistola. «Lascia stare. Adesso muoviamoci.» «Vuoi che guidi io?» Lui aveva scosso la testa. «La macchina la lasciamo qui.» «Perché?» «Per la stessa ragione per cui mi libererò di questa», aveva risposto battendo la mano sulla tasca dove c'era la pistola. «Da questo momento in poi faremo perdere le nostre tracce. Una buona regola di strategia militare, come direbbe Von Clausewitz.» «Von chi?» «Un mio amico.» Lo aveva aiutato ad alzarsi e a uscire dall'auto. «Mi sembra che tu stia meglio», aveva detto. «Pensi di poter camminare?» «Certo. Ero solo un po' intontito.» «Bene, allora cammina.» «Ma tu non vieni con me?» Lui aveva scosso la testa. «Chi viaggia solo arriva prima, dice il proverbio.» Aveva continuato a fissarlo e si poteva quasi sentire il rumore degli ingranaggi che si muovevano dentro la sua testa. Tony si domandava se qualcuno era mai riuscito a entrare in quella testa, forse Griswold. Ma Griswold era arrostito su quella macchina e Tony non voleva fare la stessa fine. «Domani sera», lui aveva detto, ed era stato allora che gli aveva dato l'appuntamento. «Ma perché non posso stare con te?», aveva domandato Tony. «Perché no. Pensa se qualcuno degli altri viene preso e dà la nostra descrizione. È difficile identificare qualcuno sulla base di un identikit, ma se le persone sono due e stanno insieme e ci sono due descrizioni che collimano, allora è molto più facile, non ti sembra? E poi ho da fare alcune co-
se. » «Vuoi dire che me ne devo stare da solo in giro per ventiquattr'ore?» «No, te ne starai chiuso da qualche parte.» Gli aveva dato un po' di soldi, presi probabilmente dal portafoglio del vecchio Griswold. «Vai in un motel e fatti una dormita. Domani prenditi qualcosa da mangiare, ma rimani in camera il più possibile fino a quando non fa buio.» «Ma perché non me ne posso andare a casa mia?» «Perché se la polizia scopre chi sei, quello è il primo posto dove andranno a cercarti. Dobbiamo starcene nascosti fino a quando torna la calma.» «E poi che facciamo?» «Non ti preoccupare. Ti ho mai deluso?» Tutti e due conoscevano la risposta. Se non fosse stato per lui e il suo piano, Tony sarebbe stato ancora a fare da cavia a quello strizzacervelli, invece gli aveva dato retta e adesso era lì. Valeva quindi la pena di andare fino in fondo. Così lui si era incamminato verso ovest, Tony verso est e si era rintanato in un motel di quarta categoria dalle parti di Ventura, dove nessuno si preoccupava del bagaglio. Tutti e due indossavano abiti civili invece dei camici della clinica e questo li aiutava a non dare nell'occhio. Tony non era riuscito ad addormentarsi facilmente perché appena chiudeva gli occhi rivedeva tutte quelle immagini. Tony non aveva visto né Griswold né l'infermiera, ma aveva assistito alla morte di Herb. La scena non era stata molto divertente nemmeno allora e il replay era ancora peggiore, anche se Tony continuava a ripetere a se stesso che ormai era tutto finito. Non valeva la pena di preoccuparsi degli altri. Anche loro avevano tutte le intenzioni di farla franca e cercavano di passare inosservati. Lui sapeva quello che faceva e aveva sempre mantenuto la parola. Aveva detto che sarebbero tornati in libertà e c'erano riusciti, adesso aveva detto che tutto sarebbe andato per il meglio. Tony era riuscito ad addormentarsi che era quasi l'alba e al mattino si sentiva già meglio. Era saltato su un autobus che portava in Hollywood Boulevard, si era infilato in uno di quei locali dove proiettavano spettacoli non stop e si era visto due film. Nella prima pellicola la cavalleria americana - tutti uomini di mezz'età in divisa azzurra - sventrava giovani pellerossa che non avevano fatto male a nessuno; nel secondo film la polizia tutti uomini di mezz'età in divisa azzurra - sventrava giovani ribelli che non avevano fatto male a nessuno. Era rimasto lì dentro tutto il giorno e quando si era fatto buio era uscito per comprarsi un paio di hot-dog. Non
era stata una buona idea perché la pelle degli hot-dog gli aveva fatto venire in mente le budella che aveva visto nei film. Ma quelli erano solo film ed erano classificati Per Tutti. Nessuno si sarebbe sognato di classificare gli hot-dog. Tony cominciò a camminare lungo il Boulevard, davanti alle vetrine delle librerie (Latrine storiche del Vecchio West) e ai negozi di dischi (Canzoni sempreverdi degli anni 70). Si domandò se il suo disco fosse ancora in vendita, ma preferì non entrare per dare un'occhiata in giro. Meglio camminare. Camminare accanto a quelli "giusti" che curiosavano intorno al Grauman Chinese Theatre, (Guarda mamy, è un vero hippie quello?) lungo La Brea verso Sunset Boulevard e poi lungo Sunset Boulevard oltre i localini di cibi integrali per i maniaci della salute e i bar frequentati da gay. E poi di nuovo sulla Strip, dall'altra parte di Fairfax. Perché diavolo lui non arrivava? Qualcuno dette un colpo di clacson e Tony voltò la testa perché aveva riconosciuto il suono. Logico, era la sua automobile. Era la sua MG, e lui era al volante accanto al marciapiede, nella corsia di destra. — Svelto — gli disse, anche se era inutile visto che tutti erano fermi al semaforo rosso. Tony saltò su e quando fu data via libera, l'MG svoltò e si diresse verso Laurel Canyon. — Ehi! Dove hai preso il mio triciclo? Lui sorrise. — Da quella bella gente che ti ha tradito come Giuda. Aveva un abito nuovo, giacca e pantaloni scuri. Grazie al portafoglio di Griswold, pensò Tony. Il suo sorriso diceva che tutto andava per il meglio. — Sei stato nella mia tana? — disse Tony. Lui annuì. — Volevo controllare per essere sicuro che non ci fossero problemi. — E gli sbirri? — Se fossero ricchi quanto sono incapaci, sarebbero miliardari. — Nessuno ha dato l'allarme? — Non c'era anima viva. — Si fermò all'incrocio di Hollywood Boulevard poi parti a razzo appena venne la luce verde. — Niente male la tua casa. — Te l'avevo detto che è una reggia. — Sì, però non mi aspettavo tutta quella sciccheria. A un certo punto l'architetto deve aver deciso di tentare il tutto per tutto e si è buttato sul ba-
rocco. — Prima la casa era di un produttore cinematografico. Il mio agente l'ha comprata a buon prezzo l'anno scorso. Ha detto che era un vero affare. — Hai incaricato il tuo agente di controllare la casa mentre tu eri via? — No, abbiamo sciolto il contratto quando sono stato ricoverato. La mia vecchia va a dare un'occhiata un paio di volte alla settimana. Fa andare un po' il motore della macchina per non far scaricare la batteria, tiene in ordine la casa e dà da mangiare ai cani. — Tony fece una risata. — Cosa mi dici dei miei cani? — Me la sono fatta addosso. Quando mi sono arrampicato sul muro e hanno cominciato ad abbaiare, sono stato tentato di rinunciare. — Girò a sinistra a Lookout Mountain. — Meno male che tua madre li tiene legati alla catena. — Non se ne può fare a meno con i dobermann. Su in collina è consigliabile avere cani da guardia. Naturalmente tutti e due i cani mi conoscono, e si sono abituati anche alla mia vecchia, ma se qualche estraneo gira intorno alla casa... si salvi chi può! — Hanno continuato a guaire per tutto il tempo che sono rimasto lì. Ho pensato che forse avevano fame e così ho preso una scatola di cibo in cucina e gliel'ho dato. Però non mi sono avvicinato troppo, naturalmente. — Se ci vedono insieme non ti daranno fastidio. Come dico sempre a tutti, con me e la mia vecchia sono dei cuccioloni. Adesso l'MG si stava arrampicando sulla Lookout, superò l'Horseshoe Canyon verso la scuola e poi il bivio verso Wonderland Avenue. Anche al buio Tony riconosceva la strada e all'improvviso, per la prima volta, sentì l'emozione di tornare a casa. Capì quanto gli fosse mancata la sua tana e quanto gli fossero mancati Tiger e Butch. — Hai detto che tua madre viene qui durante la settimana? — Non ti preoccupare, non verrà fino a giovedì. — Come lo sai? — Te l'ho detto, ha telefonato alla clinica l'altro ieri per dire che stava andando a Las Vegas per un paio di giorni. — E se rimane al verde? Può darsi che torni prima. — Ma non è andata per giocare! Quando al Flamingo c'è qualche congresso importante, lei va e lavora ai tavoli. Fa la cameriera. — Tony scosse la testa. — Se la vedi non diresti mai che ha un figlio grande. Figurati che un paio d'anni fa ha lavorato in un western senza il... come-si-chiama? Il pezzo di sopra.
— Io una volta ho visto una cameriera davvero senza il pezzo di sopra — disse lui. — Davvero senza il pezzo di sopra? — Proprio così. — Sorrise. — Qualcuno le aveva tagliato la testa. Anche Tony sorrise, benché la battuta fosse vecchia. Ma era una battuta? Con quel tipo non si poteva mai dire. Un momento stava scherzando e un momento dopo si lanciava in una dissertazione filosofica. Ma era l'unico che ci sapeva fare, e questo era ciò che contava. L'MG voltò verso Wonderland Park, e continuò a salire. La strada era diventata stretta e buia, più salivano più la strada diventava buia e stretta. Nessuna luce né davanti né dentro le case sulla collina. Sembrava impossibile che fossero a solo dieci minuti di strada dalla Strip. Vivere qui significava proprio starsene nascosti. Il più delle volte la nebbia non arrivava fin lassù e si stava bene, meglio che in città. E anche la gente che ci abitava era gente bene, per questo gli era piaciuto il posto. Era bello tornare a casa, anche se per poco tempo. Certo, per poco tempo, perché, nel momento in cui gli sbirri si fossero messi in moto, quello non sarebbe stato più un posto tanto tranquillo. Tony guardò il suo compagno. — E poi che facciamo? — Ho qualche idea in testa. Aspetta fino a quando arriviamo a casa e ci mettiamo comodi. Tony si accorse che l'MG aveva rallentato e faceva le curve che portavano alla casa a passo di lumaca. Lui stava attento a ogni ombra, a ogni auto parcheggiata, e si assicurava che nessuno li vedesse. Aveva ragione, non era questo il momento di parlare di quello che avrebbero fatto dopo. Era necessario improvvisare, suonare a orecchio. E adesso il suo orecchio gli diceva che i cani avevano sentito l'auto avvicinarsi e stavano uggiolando dietro il muro. L'MG si fermò davanti all'entrata col motore acceso. Lui mise una mano in tasca e tirò fuori un mazzo di chiavi. — Non hai bisogno di scalare il muro — disse. — Le ho trovate in un cassetto della tua scrivania. Tony aprì la portiera e uscì dall'auto. Sentiva Tiger e Butch che uggiolavano e mugolavano e con i loro unghioni graffiavano e grattavano il muro eccitati. Anche Tony si sentiva eccitato nel vedere la sua casa dopo tutto quel tempo. Gli era mancata più di quanto avesse immaginato. Rivolse un'occhiata al suo compagno che stava ancora seduto al volante. — Tu non entri?
— Prima metto la macchina in garage. Se la vedono parcheggiata in strada possono insospettirsi. Buona idea. Tony unì il pollice all'indice per dire che era d'accordo e lui annuì. — Va' avanti e vedi di calmare i cani. Tony si avvicinò al cancello e l'aprì. Anche il gesto di girare la chiave nella serratura gli dava una sensazione di piacevole familiarità. Entrò nel patio e chiuse il cancello alle sue spalle. I cani ringhiavano. Sentì il motore dell'MG accelerare e allontanarsi. Tony si voltò e vide Tiger e Butch. Si rese conto in un lampo che non erano legati alla catena e si stavano lanciando su di lui, con le zanne bianche e gli occhi rossi che brillavano nel buio. I cani gli si avventarono contro e il buio esplose come un fuoco d'artificio. Tony urlò e cercò di fuggire, ma era troppo tardi. 15 La Terra ruota intorno al suo asse in ventitré ore e cinquantasei minuti. Orbita intorno al sole alla velocità approssimativa di ventinove chilometri e mezzo al secondo e contemporaneamente ruota nello spazio a più di mille e seicento chilometri all'ora. Il tenente Franklyn Barringer accettava queste affermazioni solo perché erano gli scienziati a dirlo. Le accettava, ma non ne era veramente convinto. Seduto dietro la scrivania, con i piedi saldamente poggiati a terra, non riusciva proprio a capire come potesse in quello stesso momento girare in cerchio su una palla che, simultaneamente, ruotava intorno a un'altra sfera a tutta velocità e che nello stesso tempo vibrava su e giù, di qua e di là. Ma continuava a ripetersi è proprio quello che sta succedendo, è un fatto dimostrato, anche se sembra incredibile. Accettava il fatto e cercava di non stare a ragionarci su. Il guaio era che c'erano altri fatti ugualmente incredibili a cui era costretto a pensare. Per esempio le cartelle che quella mattina erano impilate sulla sua scrivania: gli appunti delle telefonate, le trascrizioni dei nastri registrati, i rapporti. — Va bene — mormorò. — Devo accettare i fatti. Eppure mi sembrano ancora incredibili... — E vuoi che io ti convinca, non è così? — disse il dottor Vicente. — No, non si tratta di questo. — Barringer si versò una tazza di caffè.
— Tu hai già esaminato tutto questo materiale... Voglio sapere il tuo parere. — In altre parole, un'ipotesi attendibile. — Vicente afferrò il bricco del caffè e si riempì di nuovo la tazza. — Tanto per cominciare, può un uomo solo aver commesso tutti questi omicidi nell'arco di circa quattro ore? A certe condizioni, la risposta è un sì con riserva. — Quali condizioni? — Che lui sapesse i nomi e gli indirizzi delle vittime, il nostro uomo potrebbe averli saputi direttamente da loro, o averli letti negli schedari di Griswold prima di bruciarli. Che avesse un mezzo di trasporto... e, dalle tracce degli pneumatici, noi sappiamo che era alla guida dell'auto di Tony Rodell, o comunque di un'auto che aveva stazionato nel garage di Rodell. E infine che avesse buone ragioni per credere che queste persone ieri sera sarebbero tornate alle loro case o ai loro posti di lavoro in momenti diversi. — Edna Drexel ha raccontato ai suoi genitori che, vicino a Sherman Oaks, erano riusciti tutti a fuggire, prendendo direzioni diverse. — Ha detto anche di aver avuto l'impressione d'essere inseguita. — Non dimenticare che Jack Lorch era stato ucciso solo due ore prima a Culver City. — Da Culver City a Bel Air c'è solo mezz'ora d'auto. — Ma come poteva immaginare che Edna Drexel sarebbe tornata a casa? — Per lo stesso motivo per cui sapeva che avrebbe trovato Jack Lorch nel suo ufficio. Queste persone non avevano altro posto dove andare. Niente soldi e niente da mangiare. — Mi sembra proprio che il nostro uomo abbia fatto un po' troppo affidamento sulla sua buona stella. — Non aveva altra scelta. Penso che, da principio, avesse programmato di occuparsi di loro en masse, la notte in cui si trovavano tutti a bordo dell'auto di Griswold. Stando al racconto della Drexel, aveva lasciato a Tony Rodell il compito di tenerli a bada con la pistola puntata. Forse aveva in mente di condurli tutti a casa di Rodell e farli fuori con l'aiuto dello stesso Rodell. Ma loro hanno mandato all'aria il suo piano e, a quel punto, ha deciso di seguire una alla volta le loro tracce e rischiare. — Continui a dire lui. Non dimenticare che sono ancora due gli uomini in giro. — Lo so. Ma sappiamo anche che uno dei due faceva parte del gruppo che è scappato, e ora si nasconde da qualche parte. A meno che il nostro
uomo non l'abbia già trovato e noi non ne abbiamo avuta ancora notizia. — Non sappiamo un accidente, a eccezione del fatto che ci sono due uomini in libertà e che uno dei due si chiama Bruce Raymond. Raymond a questo punto potrebbe essere l'assassino oppure una potenziale vittima. Sta a te decidere. Vicente inghiottì l'ultimo sorso di caffè e posò la tazza sul piano della scrivania. — Per quel che ne sappiamo, Raymond potrebbe essere tranquillamente l'uno o l'altro. Ho letto il rapporto dell'Associazione Veterani. Marcata instabilità, disponibilità a collaborare, reazione positiva alla terapia... una serie di frasi poco chiare allo scopo di trovare una giustificazione per dimetterlo e dare il suo letto a un altro paziente. Nessuna prognosi sicura, soltanto un pezzo di carta che è servito a proteggere le spalle del medico che ha preso quella decisione. — Chi si era occupato del caso? — Un certo maggiore Fairchild. Ieri ho provato a cercarlo, ma se n'è andato da tempo. Mi hanno dato il suo indirizzo di Seattle... un posto chiamato Clinica del Lavoro... ma quando ho telefonato mi è stato detto che era partito per una vacanza in Giappone. Potresti provare a contattarlo attraverso... — Non c'è tempo. — Barringer scosse la testa. — E poi come diavolo può dirci un medico dell'esercito in vacanza in Giappone se uno dei suoi vecchi pazienti è diventato pazzo furioso qui, a Los Angeles? — Non può, e nemmeno io posso. — Il dottor Vicente spinse indietro la sedia. — Ma sono in grado di dirti qualcosa a proposito del tipo che ha commesso questi omicidi. — Un'altra ipotesi attendibile? — No, non proprio. Ci sono alcuni fatti su cui basarci. Primo, come ti ho già detto si tratta indubbiamente di un maniaco con tendenze asociali... — Puoi ripetermelo lasciando da parte i termini tecnici? — Va bene, eviterò qualsiasi espressione poco chiara. — Vicente sorrise, poi tornò serio. — Per riassumere, quel che sappiamo è che il nostro uomo non è immediatamente riconoscibile come pazzo. Ha l'aspetto e il comportamento di una persona sana di mente. Finge, non c'è dubbio, ma è comunque molto convincente... possiamo esserne certi perché è riuscito a organizzare la fuga dalla casa di cura senza sollevare i sospetti del personale e neppure degli altri pazienti. Anzi, è riuscito a convincerli ad accompagnarlo. Probabilmente è abituato al comando, a impartire ordini... — Raymond era un ufficiale.
— Lo so. — Vicente annuì. — E un'altra cosa. Dalla natura dei crimini possiamo dedurre che abbiamo a che fare con qualcuno che possiede grande forza fisica. Anche se accettiamo l'idea che Tony Rodell fosse suo complice, è evidente che, in tutti i casi, hanno giocato sia l'elemento sorpresa sia la forza fisica. Griswold è stato legato a una sedia, Jack Lorch è stato colpito alla testa, un inserviente è stato pugnalato, due donne strangolate, a Dorothy Anderson è stata tagliata la gola... — Questa è un'altra cosa che mi dà da pensare — disse Barringer. — Ogni omicidio è stato commesso in modo diverso. Di solito c'è uno schema che si ripete. — Non abbiamo a che fare con un assassino che agisce sotto un impulso ossessivo. Non c'è nessuna componente manifesta di sadomasochismo o feticismo. — Vicente rimase un attimo in silenzio, perché si era accorto di essere scivolato di nuovo nelle espressioni tecniche. — A livello conscio quest'uomo uccide solo per far perdere le sue tracce, e usa qualunque mezzo può essergli utile in un dato momento. A livello inconscio, invece, è un'altra storia. Chiunque architetti un tipo di morte come quella che è toccata a Tony Rodell... — Non sappiamo se è stato lui ad architettarla — l'interruppe Barringer. — Potrebbe essersi trattato di una morte accidentale. Certo, quei dobermann erano feroci, ma conoscevano il loro padrone. — Anche noi. — Il dottor Vicente scartabellò tra le carte della scrivania di Barringer. — Questa mattina sei andato a parlare con sua madre, no? — E non ne ho ricavato un bel nulla. — Barringer scosse la testa. — Se escludiamo il fatto che ha identificato suo figlio come uno dei pazienti scomparsi, tutto il resto di quello che ci ha detto è falso. Per esempio che Tony era un bravo ragazzo, forse un po' strano, ma niente di più. — È la madre, cosa ti aspettavi che dicesse in questa circostanza? — Non importa. Abbiamo la sua scheda. — Questa volta fu Barringer a frugare fra i documenti sulla scrivania finché non estrasse un foglio che scorse rapidamente: — Ritirato dalle scuole superiori. Accusato di aver rubato un'auto a sedici anni, sospensione e libertà condizionata. Sua madre giura che era pulito, ma qui vedo due accuse per uso di stupefacenti. — Prima o dopo aver messo insieme quel gruppo rock? — Dopo. Sembrava che stesse facendosi strada nel mondo della musica... almeno quanto basta per comprare quella casa e mantenerla. La madre ha ammesso di non aver visto suo figlio per quasi un anno prima del suo ricovero nella casa di cura, ma si è rifiutata di rivelare il motivo del suo ri-
covero. Io credo che si sia fatto ricoverare perché c'era dentro fino al collo. Strafatto di amfetamine. — Hai qualche prova? — Un'infinità. — Barringer ingollò l'ultimo goccio di caffè. — Due flaconi pieni zeppi di capsule di amfetamine nascosti fra i pacchi di carne nel frigorifero. Li hanno trovati questa mattina durante la perquisizione della casa di Rodell. Un flacone era sigillato, l'altro era aperto. Il dottor Vicente lo fissò negli occhi. — E questo cosa ti fa pensare? — Che Rodell e l'assassino sono arrivati insieme, magari con l'intenzione di trascorrervi la notte. Forse avevano l'auto di Rodell... per quel che sappiamo sono rimasti sempre insieme durante la serata in cui sono stati commessi gli omicidi. — Credi che Tony Rodell sia implicato negli omicidi? — Forse sì. Specialmente se si era rifornito di capsule prima, quando erano andati a prendere l'auto. Non c'è bisogno che ti dica cosa è capace di fare uno che si fa di amfetamine quando è imbottito di pillole. — Barringer posò la tazza sulla scrivania. — Ammettiamo che quando ritornarono a casa fosse ancora un po' fuori di testa. Fuori quanto basta per maltrattare i suoi cani che lo hanno attaccato; il suo compagno si è spaventato ed è fuggito in macchina. — Qualche segno di maltrattamento sui cani? I tuoi hanno per caso ritrovato un bastone o una frusta sulla scena del delitto? — No, solo l'involucro di uno di quei pacchi di carne surgelata. Forse stava solo stuzzicandoli mostrando loro la carne e poi nascondendola e cose del genere. — Barringer alzò le spalle. — Quando hai a che fare con uno fatto, ogni ipotesi diventa possibile. — Atteniamoci ai dati certi — suggerì il dottor Vicente. — Hai detto che in questi omicidi non è stato seguito uno schema. Quel che intendevi dire è che non c'è un metodo. Ma lo schema è chiaro se esaminiamo la motivazione. L'assassino sta uccidendo una alla volta tutte le persone che potrebbero identificarlo. Sappiamo che Tony Rodell avrebbe potuto identificare l'assassino e questo spiega perché anche la sua morte fa parte dello schema. — Come ha fatto l'assassino a far massacrare Rodell dai cani? — Non lo so. — Il dottor Vicente si alzò in piedi. — E nemmeno tu sai se, quando è morto, Rodell era sotto l'effetto dell'amfetamina oppure no. — Ma intendo scoprirlo. — Barringer aggrottò le sopracciglia e prese in mano il telefono.
Il dottor Vicente non disse una parola e ascoltò il tenente che parlava al telefono con l'ufficio del sostituto del coroner. La conversazione era ermetica, ma l'espressione di Barringer, e il modo in cui abbassò il ricevitore, parlavano da soli. — Va bene, Doc — disse. — Il responso dell'autopsia non è ancora definitivo, ma i primi esiti degli esami del sangue e dello stomaco rivelano che Rodell era pulito al momento del decesso. — Nessuna traccia di amfetamine? Barringer scosse la testa. — Non nel corpo di Rodell. Ma avevi ragione... i cani non l'hanno assalito accidentalmente. Erano stati drogati. — Drogati? — Questa mattina i cani sono stati abbattuti. Ho chiesto che li esaminassero. Secondo il referto il loro stomaco era pieno di carne... e hanno scoperto che, con la carne, gli avevano propinato anche una mezza dozzina di capsule. — Non mi meraviglia che abbiano attaccato Rodell quando è entrato dal cancello. Avrebbero attaccato qualsiasi cosa in movimento. Qualcuno gli ha somministrato l'amfetamina per eccitarli. 16 Aveva trascorso tutta la notte nell'auto parcheggiata dentro un'area transennata - l'entrata di una superstrada ormai abbandonata - e aveva dormito al riparo dei cespugli che erano cresciuti tutt'intorno. Dormire per lui non aveva mai rappresentato un problema, chiudeva gli occhi e sprofondava nel buio. Un rifugio silenzioso e oscuro dove niente riusciva a penetrare, nemmeno i sogni. Erano anni che non sognava. — Anche lei sogna — gli diceva sempre il dottore. — Tutti sognano. Ma lei rimuove il ricordo del sogno perché è un incubo insopportabile. — Era questo che il dottore credeva, ma si sbagliava. Niente è tanto terribile da essere insopportabile. Lui lo aveva sperimentato al di là di ogni dubbio, non nella finzione del sogno ma nella realtà della vita. Nessuno aveva sofferto quanto lui, eppure era sopravvissuto. Era sopravvissuto mentre gli altri, i sognatori, erano morti. Quanto a lui, si limitava a dormire. Dormiva tranquillo, dormiva rilassato, dormiva con la certezza che si sarebbe destato. Perché io sono la resurrezione e la vita, nei secoli dei secoli. Amen. Il risveglio fu accompagnato da rombi e boati. Riprese immediatamente coscienza e si precipitò fuori dal nascondiglio
buio mentre cadevano le bombe... No, non erano bombe. Questo era successo molto tempo prima, in un altro posto. Poi capì dove si trovava, lì, nell'area transennata, e riconobbe la causa del rumore: una fila di autocarri della nettezza urbana che si muovevano nella solitudine del mattino diretti alla discarica. Appena comprese qual era la causa del rumore, il suo cuore smise di battere all'impazzata e le pulsazioni tornarono regolari. Si mise a sedere concedendosi un debole sorriso, non di sollievo ma di soddisfazione per essere riuscito a controllare così facilmente le sue reazioni. Quanti, nelle stesse condizioni, avrebbero saputo fare lo stesso? Nessuno. Perché non esisteva nessun altro, in realtà. Gli altri erano solo attori. Naturalmente nessuno di loro se ne rendeva conto, nemmeno il dottore. Pensavano di essere reali, ma erano soltanto finzioni della mente. Il mondo è solo una mia idea. Era stata la scoperta di questo segreto a rendergli tutto così facile. Da principio non ne era stato certo. Si era chiesto cosa sarebbe successo, si era domandato come sarebbe riuscito a, realizzare il progetto che aveva continuato a provare e riprovare nella sua mente. Aveva scritto il copione, ideato la regia, studiato la coreografia, scelto il cast, organizzato l'intera produzione. Conosceva la sua parte a perfezione, ma il dubbio che lo rodeva era rimasto: avrebbe saputo davvero recitarla? Ora conosceva la risposta. Non aveva avuto paura del palcoscenico. Grand Guignol, teatro della Crudeltà, chiamatelo come vi pare, era comunque Teatro dell'Assurdo. Sia la Commedia sia la Tragedia erano solo maschere da mettere e togliere a piacimento. Doveva solo ricordare che si trattava di una finzione. Il sangue era solo salsa di pomodoro, i contorcimenti e le smorfie, i pianti e le urla erano recitati da attori che ripetevano le battute del suggeritore e recitavano sopra le righe la loro scena madre, la scena della morte. Ma doveva fare molta attenzione, perché lui invece era reale, e il suo sangue non era salsa di pomodoro. Alla fine dello spettacolo tutti avrebbero invocato "Fuori l'autore! Fuori l'autore!", ma lui non sarebbe potuto venire alla ribalta per gli inchini di ringraziamento, doveva evitare a tutti i costi i riflettori. La cosa migliore era continuare a recitare ruoli diversi. Durante la sua vita ogni uomo interpreta molti ruoli. Il personaggio del paziente modello per il dottor Griswold e il personale della casa di cura, il capo onnipotente per gli altri pazienti. E poi, per un pubblico molto selezionato, composto da una sola persona, ho interpretato le parti senza dialo-
ghi. L'uomo nell'armadio per Dorothy Anderson, l'uomo nell'ombra per Jack Lorch, l'uomo in attesa nel giardino per Edna Drexel. La piscina, in questo caso, aveva rappresentato una scenografia eccellente, ma qualcosa nella sua mente gli aveva ricordato che stava plagiando un vecchio melodramma ambientato in oriente, Kismet. La vita imita l'arte. L'eliminazione dalla scena di Tony Rodell era stata invece il risultato di una brillante improvvisazione. Usare i cani in quel modo era stato un vero colpo di genio, forse era riuscito a ingannare completamente gli spettatori. Si chinò in avanti, accese la radio e cercò una stazione per ascoltare il notiziario del mattino. La voce dell'annunciatore gli portò le notizie che voleva sentire: "...l'agghiacciante serie di brutali omicidi è continuata con la scoperta, avvenuta questa mattina, della morte dell'ex stella della musica rock, Tony Rodell...". Rimase in ascolto fino a quando sentì che avevano scoperto la storia dei cani. Questo era importante. Non avevano però scoperto niente su di lui e questo era ancora più importante. Tutto il resto non erano che chiacchiere come la fissazione di appiccicare etichette tipo "maniaco omicida ancora in libertà" eccetera eccetera. Quelli che non capiscono niente di uno spettacolo ne parlano sempre male. Spense la radio e inserì il rasoio elettrico che aveva comprato il giorno prima. Usò lo specchietto retrovisore per togliersi il velo di barba dalle guance. Allungò una mano sotto il sedile e prese gli abiti nuovi. Fortunatamente nel portafoglio di Griswold c'erano abbastanza soldi per comprare degli altri vestiti. Con Dorothy Anderson era stato molto attento, aveva preso uno dei camici appesi nel bagno e se l'era infilato come un grembiule per proteggersi dagli schizzi di sangue, poi aveva buttato il camice macchiato in un fossato prima di prendere l'auto di Tony Rodell. Tutto lasciava supporre che non lo avessero ancora trovato, comunque non sarebbe stato loro di molto aiuto. Sbirciò la strada attraverso i cespugli. C'era il traffico del mattino, tutta gente che andava al lavoro, ma nessuno lo notò. Cercò comunque di scivolare sotto il volante per nascondersi il più possibile mentre si cambiava i vestiti. Magari correva il rischio che lo arrestassero per esibizionismo. No, non era stata solo una questione di fortuna. Ma non sarebbe successo... aveva avuto fortuna fin dal principio. Il saggio è artefice della propria fortuna e lui aveva già pianificato tutto. S'infilò i pantaloni, poi tolse gli spilli dalla camicia nuova. Dopo che
l'ebbe abbottonata cercò la cravatta e si rimise a sedere per annodarla guardandosi allo specchietto. Vuotò le tasche del vecchio vestito e contò i soldi che gli erano rimasti. Trentaquattro dollari. Non era una fortuna, ma sarebbero bastati per arrivare alla fine della giornata. Dopo ci sarebbero stati altri soldi, altri soldi e altro tempo. Per la prima volta permise che l'idea si facesse liberamente strada nel suo cervello. Era tanto che aspettava che tutto fosse pronto per lo spettacolo, perché allora limitarsi a una sola rappresentazione? L'idea gli era balenata quando era ancora nella casa di cura. E la notte precedente si era fatta più chiara. Presto ci sarebbe stato il gran finale e il sipario sarebbe calato, lo spettacolo si sarebbe concluso. Era davvero necessario che si concludesse? L'eliminazione dei testimoni era stata prevista come misura precauzionale, era stato questo il suo significato. Ma perché fermarsi? Il mondo era pieno di candidati all'oblio. Come quel somaro pieno di sé che alla radio ragliava del "maniaco omicida". E ce n'erano molti altri simili a lui. Davanti ai suoi occhi cominciò a sfilare un corteo guidato da una majorette seminuda dalle lunghe gambe che ancheggiava, tutta smorfiosa, nei suoi hot pants accarezzando un fallo argentato, tanto desiderato dalle cagne come lei. Si leccava le labbra lo drizzava in aria imitando il gesto di un uomo. Dietro di lei una stupida ragazza pompon, con le tette che ballonzolavano sotto la maglietta, saltellava facendo smorfie e gesticolando come una spastica mentre strillava con grande trasporto: "Dite con me ESSE... CI... ACCA... I... EFFE... O!" La seguiva uno scimmione in uniforme, tutto muscoli e trippa, con la faccia da pesce fradicio, gli occhi vitrei e i movimenti meccanici di un robot. Sua Maestà Militare, il sergente istruttore, che abbaiava di continuo come un pazzo il distillato di ogni stupidità: "Riposo!". E dietro tutti gli altri, milioni e milioni di persone che li seguivano, che accettavano senza reagire le ridondanti oscenità e le menzogne che gli annunciatori farfugliavano parlando di gente che non avevano mai visto e di prodotti che non avevano mai usato. Milioni di persone che applaudivano le majorettes considerandole molto carine perché facevano parte dello spettacolo. Lo spettacolo offerto da uno "sport sano e leale" praticato da una massa di cretini fracassoni che si prendevano a calci e spintoni. Milioni di persone che strillavano parole senza senso su comando delle ragazze pompon, senza la minima idea di cosa significasse l'espressione "ragazza
pompon". Milioni di persone che obbedivano, senza porsi domande, ai grugniti gutturali di quelle parodie semoventi a passo d'oca che li portavano verso il baratro. La parata era interminabile. Ma lui poteva porvi fine. Per un attimo avvertì la somiglianza simbolica che esisteva fra le immagini che stava evocando: ciascuna di loro era a suo modo una figura autoritaria. Se era effettivamente così, questo non faceva altro che rendere più forte il suo impulso di distruzione. Mentre era immerso in questi pensieri estrasse dallo scomparto per i guanti una manciata di fazzoletti di carta e li passò con cura sulla strumentazione del cruscotto, sul volante e infine sullo specchietto retrovisore. Fece un pacco dei vecchi vestiti utilizzando la carta che aveva avvolto quelli nuovi. S'infilò il pacco sotto il braccio, uscì dall'auto e pulì con cura la maniglia della portiera con un fazzoletto di carta. Osservò la strada nascosto dietro i cespugli. Aspettò che non passasse nessuna automobile, saltò sulla carreggiata e si mise in cammino. Quando arrivò all'incrocio, svoltò per una strada laterale e a metà dell'isolato si fermò davanti a una fila di cassonetti delle immondizie pronti per essere svuotati. Si guardò intorno per essere sicuro che nessuno lo stesse osservando, poi sollevò il coperchio, infilò il pacco di vestiti in un cassonetto e lo coprì di giornali vecchi. Lavoro disgustoso, ma il fine giustifica i mezzi, per quanto umilianti essi siano. Riprese a camminare. Ci doveva essere un bar da qualche parte nelle vicinanze del prossimo incrocio. Avrebbe mangiato qualcosa e poi si sarebbe messo a cercare un'altra automobile nelle stradine dietro i negozi dove i commessi e i proprietari parcheggiavano le loro auto, fino a che non ne trovava una il cui sbadato proprietario avesse lasciato la chiave di accensione nel cruscotto. Questo era un altro compito degradante, ma anche in questo caso doveva tenere presente il fine. Anzi la fine che avrebbe fatto fare agli altri. Cosa significava quell'irritante inazione predicata dagli hippies? Stile di vita? Un'espressione che maschera un'esistenza schifosa, da parassita, e assolutamente priva di stile. Lui era diverso. Il suo stile di vita era la morte. Tu non ucciderai. È uno dei comandamenti di Dio. Ma nessuno gli obbediva come nessuno obbediva a Lui. Il mondo era troppo incasinato. Se Dio si fosse presentato
per essere rieletto fidandosi delle sue credenziali, avrebbe sicuramente perso. Uccidere è molto più facile. Lo sanno tutti. Tutti quelli che con la mano schiacciano la mosca e con il piede calpestano lo scarafaggio. Alcuni si limitano a questo, ma altri fanno di più. Come la contadina che tira il collo alle galline o quelli che lavorano nei mattatoi che danno una botta in testa ai manzi e macellano i maiali urlanti. Il passo seguente è la guerra. Ma ora non voleva pensarci... la strage degli innocenti. Meglio pensare al legittimo sterminio dei colpevoli. La sua era solo una rappresentazione, dopotutto, uno spettacolo pieno di insegnamenti morali, uno spettacolo pieno di passione. Passione. Il verme si contorse divorandogli il ventre. All'improvviso, senza ragione, si ricordò di una lezione di biologia alla scuola superiore, la dissezione di una rana. Poteva ancora vedere il ventre bianco della creatura che a zampe allargate si contorceva sulla tavola mentre veniva infilzata da un coltello. Poi la tavola si trasformò in un letto e la rana in un principe... no, in una principessa. Una fanciulla con la pelle bianca, le gambe allargate, che si contorceva mentre veniva infilzata in altro modo. Sapeva bene chi era la fanciulla. L'avrebbe vista quel giorno stesso. 17 Quando Karen si fu vestita entrò in soggiorno e, con sua sorpresa, trovò Tom Doyle seduto sul divano. — Pensavo che non l'avrei rivista fino a questo pomeriggio — disse. — Qualcuno, giù alla centrale, ha fatto una gran confusione con gli incarichi. — Doyle scosse il capo. — Quello che doveva dare il cambio a Lubeck non si è presentato, così mi hanno chiesto se volevo cambiare turno e quindi ho rilevato direttamente Lubeck. — Lubeck se n'è andato? — Un'ora fa. Lei stava ancora dormendo. Non c'era motivo di disturbarla. Ho pensato che le facesse bene riposare un po'. Karen annuì e si avvicinò alla cucina. — Le va di mangiare qualcosa? — Prenderei volentieri una tazza di caffè. — Faccio in un attimo.
Karen accese il gas sotto il bollitore, preparò per sé un uovo fritto e mise due fette di pane nel tostapane, poi tirò fuori il succo d'arancia dal frigorifero. Erano gesti automatici e in un certo senso rassicuranti. Apparecchiare la tavola l'aiutava a credere che quello fosse un giorno come tutti gli altri. Doyle la osservava dalla soglia della cucina. — Ha un bell'aspetto stamane. — Infatti mi sento meglio. — Ed era vero. Dopo quel primo incubo Karen non si ricordava più niente. Aveva dormito. Il caffè era pronto. Karen ne riempì due tazze, prese il latte nel frigo, mise l'uovo su un piatto proprio mentre i toast saltavano fuori dal tostapane. La coreografia dell'abitudine, ogni cosa al momento giusto. Portò la colazione in tavola mentre Doyle prendeva posto davanti a lei. Il sapore del pane tostato e del succo d'arancia erano rassicuranti come la vista della luce del mattino che filtrava attraverso gli scuri. A un tratto le venne in mente qualcosa e fece per alzarsi. Doyle alzò gli occhi e la guardò. — Ha dimenticato qualcosa? — Il giornale. Me lo lasciano davanti alla porta. — L'ho già preso io. — Dov'è? — La prego, signora Raymond... si metta a sedere. — Doyle si mosse nervosamente. — Prima che lo legga sarebbe meglio scambiare due parole. Karen si sedette di colpo. — Cos'è successo? Prese in mano la tazza del caffè, ma non lo bevve. Perché nel frattempo Doyle glielo stava dicendo. Con molto garbo, come se il tono della sua voce potesse attenuare la gravità delle sue parole. Jack Lorch, Edna Drexel, Tony Rodell. Tre di loro, altri tre morti, mentre lei dormiva. — Oh, mio Dio — disse. — Cosa pensate di fare? — Tutto il possibile. L'ufficio dello sceriffo e la polizia di stato stanno collaborando con noi. — Doyle ebbe un attimo d'esitazione. — Se soltanto ci fosse un modo per trovare suo marito... — Le ho già detto che non so dov'è! — Karen non riusciva quasi a sentire il suono della propria voce tanto le tempie le pulsavano. — Non capisce che anch'io vorrei scoprirlo, non capisce che non ce la faccio più a sopportare tutto questo? — Si alzò in piedi. — Io non sono la polizia... cosa volete da me? — Soltanto che collabori. — Per un istante la voce di Doyle suonò ostile. Poi scosse la testa sconfortato. — Stiamo facendo del nostro meglio, ma non abbiamo nessun elemento in grado di aiutarci...
— Lo so. — Karen si era calmata. E qualcosa dentro di lei le suggeriva, "faresti meglio a dirglielo." Doyle la stava osservando intensamente. — Si sente bene? — Certamente. — "D'altra parte a cosa sarebbe servito dirglielo? Qualsiasi cosa avesse detto avrebbe avuto l'unico risultato di danneggiare Bruce, e lei non poteva permetterlo. Non le importava cosa sarebbe accaduto, non poteva dirglielo." — Ascolti — disse Doyle. — Oggi è meglio che lei non vada al lavoro. Dopo quel che è successo ieri notte farebbe bene a venire alla centrale. Ci sarà un'agente della polizia femminile a tenerle compagnia, non verrà chiusa in una cella. È solo una misura precauzionale... Karen scosse la testa. — Ho detto al mio capo che sarei andata. Ed è quello che intendo fare. Poco dopo era seduta in silenzio accanto a Doyle che procedeva con la sua auto a passo di lumaca attraverso il traffico della superstrada, con l'aletta parasole abbassata per proteggere gli occhi dal riverbero del sole. Mentre Doyle telefonava per avvisare alla centrale che stavano partendo, Karen era riuscita a dare un'occhiata al giornale... solo il titolo e parte dell'articolo, ma le era bastato. Peggio degli omicidi Tate-La Bianca, peggio di qualsiasi altro omicidio. Non c'era da stupirsi che regnasse il panico. Eppure... Eppure tutte queste persone sulla superstrada si stavano dirigendo in città. Lanciò un'occhiata agli occupanti delle auto intorno a lei. Un anziano signore su una Oldsmobile tirata a lucido con la radio sintonizzata sul primo bollettino finanziario. Una giovane mamma su un'utilitaria piena zeppa di marmocchi, sicuramente diretta verso le delizie di Disneyland. Una matrona alla guida di una station wagon bianca, probabilmente sulla strada verso un salone di bellezza, ma con vent'anni di ritardo. Un bel ragazzo di colore alla guida di una Triumph, con l'autoradio a tutto volume che trasmetteva il chiacchiericcio di un disc-jockey e la classifica delle Top Forty. Chi a lavorare e chi a divertirsi, come al solito. Anche lì sull'autostrada, nelle auto una in fila all'altra, la vita continuava. Un uomo giaceva col cranio fracassato in un lago di sangue e whisky, ma l'indice Dow-Jones continuava a registrare le variazioni di mercato. Una giovane donna lanciava un urlo soffocato dall'acqua, ma i marmocchi erano pronti per un giro sul sottomarino e per i fantastici trucchi della Casa degli Spettri. Un giovane veniva ridotto a brandelli dai suoi cani infuriati, il suo corpo dilaniato, le
sue mani lacerate, mentre un'anziana signora si domandava che mancia doveva dare alla manicure. E tutte quelle urla, quei lamenti, quei ringhi rabbiosi venivano soffocati dall'allegra voce del disc-jockey. Forse dentro di loro tutte queste persone avevano veramente paura, una paura che gli suggeriva sommessamente di stare in guardia, ma continuavano a sintonizzarsi sulla classifica delle Top Forty. Cos'altro potevano fare? E cos'altro poteva fare Karen anche se aveva paura? Andare al lavoro, nient'altro. Fingere, come il resto della gente, che quello fosse un giorno come tutti gli altri e che la notte non sarebbe mai arrivata. Voltarono sulla Harbor Freeway per imboccare la rampa d'uscita che immetteva nel labirinto delle vie del centro. — È qui che lavora? — le chiese Doyle, e Karen annuì. L'agente parcheggiò la macchina sul marciapiede. Fare il poliziotto non è certo un mestiere facile, ma almeno uno non deve preoccuparsi di cercare un posto dove parcheggiare. Mentre saliva in ascensore con Doyle, Karen ebbe una sensazione di malessere. Sentiva i muscoli dello stomaco contratti, ma non era colpa del movimento dell'ascensore. Una stretta allo stomaco. Un'altra di quelle stupide frasi fatte che detestava perché l'abuso ne faceva un'espressione priva di senso, però ora Karen riusciva a capirne il significato originale. Sentiva una pietra, una pietra fredda e dura che rotolava nel suo stomaco, una pietra di paura. Non era la paura di voltare le spalle a un assassino sconosciuto, ma la paura di trovarsi faccia a faccia con le persone che conosceva. Tutti quelli che la conoscevano e che ora sicuramente sapevano di Bruce. Doyle la guardava. — Nervosa? — mormorò. Karen si passò la lingua sulle labbra secche, scuotendo la testa. Sperava che la smettesse di guardarla, di chiederle se stava bene. D'altra parte, e lei lo sapeva, stava solo facendo il suo mestiere. E lei faceva il suo. Uscendo dall'ascensore si diressero verso la porta dell'agenzia che Doyle aprì lasciandola entrare per prima. La testa di Peggy spuntò da dietro il vetro divisorio della reception. — Oh... buongiorno. — C'era qualcosa di insolito nel tono della sua voce e nel breve sorriso che abbozzò spostando lo sguardo da Karen a Tom Doyle. Karen fece un cenno verso Doyle e disse: — Questo è il signor Doyle. È venuto...
— Sì, lo so già — l'interruppe Peggy frettolosamente. — Hanno telefonato al signor Haskane per comunicargli che qualcuno l'avrebbe accompagnata. Lo avverto che siete arrivati. — Non è necessario — disse Karen, ma Peggy si girò e premette il pulsante del centralino. Ma come, è più imbarazzata lei di me!, si disse meravigliata. Poi la porta del corridoio si aprì e comparve Ed Haskane. Era evidente che anche il suo capo si sentiva altrettanto imbarazzato. — Felice di vedervi — disse Haskane accogliendo Karen e presentandosi a Doyle con un gesto altrettanto sciocco e insolito per lui della frase che aveva pronunciato. — Naturalmente non era necessario che tu oggi venissi al lavoro. Te l'ho detto per telefono... — Ma io volevo venire — disse Karen. Ora stava meglio, niente più strette allo stomaco. — Non ha senso lasciare che il lavoro si accumuli. — Hai ragione. — Karen s'incamminò per il corridoio e Haskane lanciò un'occhiata a Doyle. — Immagino... ehm... che venga anche lei, vero? Doyle fece un cenno di assenso col capo e seguì Karen. I tre percorsero il corridoio, oltrepassarono gli uffici dalle porte in legno di quercia, quelli dei Media Director, degli Art Director e dei Copywriter. Karen aveva l'impressione che quelle porte si aprissero e chiudessero più velocemente del solito, ma non poteva esserne certa. Se qualcuno li stava seguendo con lo sguardo, lo faceva con molta discrezione, e Karen non ne era infastidita. Del resto cosa c'era d'interessante da vedere? Non era un mostro a due teste. Forse la stavano guardando per assicurarsi che avesse ancora la sua sul collo. Per togliersi quei pensieri dalla mente cominciò a parlare prima d'imboccare il secondo corridoio. — Com'è andata con quelli della Girnbach? Hanno approvato il testo? — Ah, quello... — Haskane abbozzò un mezzo sorriso. — Hanno detto che il tuo testo è ottimo. Ma il bozzetto non gli è piaciuto. Ho affidato il lavoro a Frisby che si sta scervellando per tirar fuori qualcosa di buono. Naturalmente questo significa che bisognerà ritoccare il testo, per adattarlo all'immagine... Sempre la stessa storia. Karen ripensò a quante volte aveva brontolato per queste stupide complicazioni, ma adesso ne era felice perché l'aiutavano a tenere occupata la mente. — Vuole farmi avere subito il materiale? — gli chiese. — Certo, se te la senti di cominciare immediatamente a metterci le mani.
— Sono pronta. — Karen entrò nel suo cubicolo e Doyle la seguì mentre Haskane si fermò esitante nel corridoio. — Okay — disse. — Allora te lo mando immediatamente. Ma se non te la senti... voglio dire, se c'è qualcosa che posso fare... — Non si preoccupi, signor Haskane — disse Karen. — Sto bene, grazie. Haskane scomparve. Karen sapeva cosa intendeva dire: avrebbe voluto parlare con lei di quello che era successo. Sapere come ci si sente ad avere un marito ricoverato in una casa di cura, andare là e trovare... Ma non sarebbe riuscito a fargli una domanda diretta, non ci sarebbe riuscito perché lei non gliene avrebbe dato l'occasione. Karen si voltò e si tolse la giacca. Il detective stava in piedi dietro di lei, una presenza scomoda in quello spazio ristretto. — Perché non si mette seduto lì? — disse Karen indicando una sedia. — Si tolga pure il soprabito se lo desidera. — Sto bene così — disse Doyle sedendosi. — Ci sono delle riviste nel primo cassetto dello schedario. Sono quasi tutte di moda, mi dispiace, ma almeno può leggere qualcosa. — Grazie. Ma Doyle non prese nessuna rivista. E quando il fattorino le consegnò il bozzetto con il suo vecchio testo spillato sopra, Doyle rimase a osservarla mentre lavorava. Se ne stava seduto tranquillo, fuori dalla sua visuale, ma il solo fatto di sapere che lui era lì la infastidiva. O forse la innervosiva il motivo della sua presenza lì? Comunque sia non le si prospettava una buona giornata. Il nuovo bozzetto era completamente diverso dal precedente. Questo significava che anche lo slogan doveva essere cambiato, e cambiato quello, il testo avrebbe dovuto subire la stessa sorte. Dopo alcuni tentativi inutili il cestino della carta straccia era pieno di fogli appallottolati che sembravano tante palline di popcorn. Poi, verso mezzogiorno, Karen giudicò soddisfacente il risultato dei suoi sforzi. Chiamò Haskane al telefono. — Bene — disse Haskane. — Senti, ho una colazione di lavoro alle dodici e mezzo. Diciamo che possiamo dargli un'occhiata insieme quando ritorno. — Come? La voce di Haskane si sentiva appena. — Cosa ne dici delle due e mezzo
nel mio ufficio? — Due e mezzo? — Esatto. A più tardi. Karen riappese e guardò Doyle. — Il telefono è controllato, vero? Doyle alzò le spalle. — È una misura precauzionale. Karen non fece alcun commento, si alzò e prese la giacca. — Dove sta andando? — chiese Doyle. — È ora di colazione. — Karen aprì la borsetta e si guardò nello specchio del portacipria. — Immagino che dobbiamo pranzare insieme. — Mi dispiace. — Doyle sorrise come per scusarsi. — Ho capito. — Karen ripose il portacipria. — È una misura precauzionale. Nel corridoio, davanti all'ascensore, un tipo dalla faccia rosea e i baffi biondo rossi appoggiato alla parete stava ripiegando le pagine delle inserzioni di un giornale. Non badò a loro finché Doyle non gli fece un cenno. — Stiamo andando a fare colazione — gli disse. L'uomo alzò appena lo sguardo. — Quanto tempo state via? Doyle guardò Karen con aria interrogativa. — Quarantacinque minuti. C'è una tavola calda al piano terra. L'uomo consultò il suo orologio. — Ti aspetto — disse a Doyle. Mentre scendevano con l'ascensore l'agente si schiarì la gola. — Non ha senso tenerglielo nascosto. Credo sia meglio che lei sappia cosa intendiamo per misure di sicurezza. Alla receptionist è stato detto che, se si presenta uno sconosciuto, prima di farlo entrare nell'ufficio deve consultare l'agente di guardia alla porta. — Immagino che ci sia qualche agente anche giù alla tavola calda. — In un luogo pubblico non è necessario. — Bene. — Karen sorrise. — Allora non cambia nulla se andiamo da qualche altra parte. — Cosa c'è che non va alla tavola calda? — Ci sono troppe persone del mio ufficio. Credo che mi sentirei più a mio agio nel locale in fondo alla strada. È solo un bar, ma non ci sarà nessuno che mi fissa mentre mangio. — Come preferisce. Karen prese un'insalata, un tè freddo e un cucchiaio di sorbetto al limone. Ma quando ebbero trovato un tavolo, non riuscì quasi a toccare cibo. — Credevo che fosse affamata — disse Doyle. — Infatti. Finché non ho visto quello. — Karen gli indicò il tavolo alla
sua destra dove un grassone con un giubbotto a righe stava seduto a leggere la prima edizione di un giornale della sera. Il titolo a caratteri cubitali era molto evidente: CANI DROGATI UCCIDONO TERZO EVASO DALLA CASA DI CURA. — È vero? — mormorò Karen. — Sì. Ci sono i referti del laboratorio. — Che cosa tremenda. — Karen afferrò con la mano il bicchiere del tè freddo. — Tony Rodell. Credo di aver sentito qualche sua canzone. Non sapevo che anche lui fosse ricoverato in quella casa di cura. — Suo marito non gliel'ha mai nominato? — Le ho già detto che non ho più visto Bruce da quando si è fatto ricoverare. — È vero, l'avevo dimenticato. — Doyle addentò il suo panino al prosciutto. Karen allentò la stretta intorno al bicchiere, ma continuò a sentire la mano fredda. — Non riesco a togliermi di mente quel ragazzo. Ma che razza di persona è stata capace di fare una cosa del genere? Doyle masticò il boccone e l'inghiottì. — Dipende. — So bene che è una domanda stupida. — Karen scosse la testa. — Le persone più disparate possono commettere un omicidio... immagino che le sarà capitato d'incontrarne molte. — Abbastanza. — Doyle si pulì la bocca col tovagliolo e poi lo posò sul tavolo. — No, mi correggo, ne ho incontrate parecchie. Come lei del resto. — Cosa intende dire? — Secondo le statistiche solo meno del cinquanta per cento degli omicidi commessi in questo paese si concludono con un arresto. E soltanto una piccola percentuale degli arrestati viene giudicata colpevole e condannata. — Ma se si leggono tanti articoli sui metodi d'investigazione scientifica... — Certo, ci sono le analisi di laboratorio, le analisi tecniche e tutti i più sofisticati tipi d'attrezzature. A volte funziona. E quando succede, riceviamo un bell'applauso. — Il sorriso di Doyle era pieno d'ironia. — Ma glielo dico chiaro e tondo. Nel novanta per cento dei casi d'omicidio che vengono risolti, il responsabile ci viene servito su un piatto d'argento. — Cosa vuol dire? — Che il colpevole si costituisce da solo, oppure ci viene segnalato da qualcuno. — Un informatore?
Doyle annuì. — Il vero lavoro della polizia comincia a questo punto... raccogliere prove per mandarlo in galera. Ma prima bisogna arrestare qualcuno. E nove volte su dieci ci riusciamo perché qualcuno ci passa l'informazione. — Doyle la guardava fisso. — Non mi riferisco a un informatore di professione o a un testimone. Il più delle volte è qualcuno vicino all'assassino... un amico, un membro della famiglia che sa, o sospetta. Da principio tendono a stare abbottonati, ma dopo un po', quando hanno avuto modo di pensarci meglio, capiscono che devono assolutamente dire quello che sanno. È loro dovere fare in modo che un fatto del genere non si ripeta. Riesce a seguirmi? — Certo, la seguo. — Karen rimase a fissarlo. — Parola per parola. Ma non alzo la mano. Se si aspetta che io le dica sì, Bruce è colpevole, se lo può scordare. E non perché è mio marito, ma perché non lo so. Capisce? Non lo so! — Signora Raymond... Karen si alzò in piedi. — È ora di tornare in ufficio. E queste furono le ultime parole che gli rivolse finché non ebbero raggiunto il suo cubicolo al decimo piano. Appena arrivati, Karen afferrò il bozzetto e il testo che aveva scritto e fece per uscire dalla stanza. — Adesso devo andare dal mio capo — gli disse. — Il suo ufficio è appena dietro l'angolo. — Vengo con lei. — Come vuole. — Prese il telefono e avvisò Haskane del suo arrivo. Doyle la seguì silenzioso fino alla porta dell'ufficio di Haskane. — Vada pure — le disse. — L'aspetterò qui. — Aprì la porta per farla entrare. — Senta, mi dispiace di aver esagerato in quel modo. Non intendevo dire... — So cosa intendeva dire. — Karen gli passò accanto e chiuse la porta. Ed Haskane era seduto dietro la sua scrivania. Sollevò lo sguardo e fece per aprire la bocca, ma Karen lo batté sul tempo. — Sto sempre bene — disse mettendo il bozzetto e il testo dattiloscritto sul piano della scrivania. — E penso che anche il testo sia ok. Anche se aveva le sue fissazioni, Haskane era, da sempre, innamorato delle parole; era stato il suo interesse per la semantica a fare di lui il capo dei copywriter. La sola vista di una parola dattilografata o stampata bastava a mettere in moto i suoi succhi gastrici e Karen comprese che aveva l'acquolina in bocca mentre fissava la sua attenzione su ciò che Karen gli stava mostrando. — Uhm, uhm... sì... mi sembra che funzioni. — Alzò lo sguardo, si sfre-
gò una guancia. — Solo una cosa, lo slogan. I ragazzini lo capiranno, ma per il grande pubblico l'espressione uno SCHIANTO che significato ha? — Non avevo pensato a questo aspetto. — Karen aggrottò le sopracciglia. — Beh, potresti trovare il modo di chiarirlo da qualche parte, dopo il primo paragrafo. — Haskane si alzò in piedi. — Scusami un momento, come diciamo in Messico, c'è Juan che mi chiama. Scomparve nel bagno privato chiudendo la porta. Nonostante l'aria condizionata in quell'ufficio faceva caldo, eppure Karen avvertì di nuovo lo stesso gelo che l'aveva assalita quando aveva saputo in che modo era morto Tony Rodell. Uno schianto. Per i teenagers era solo un'espressione forte, un'iperbole. Ma Haskane aveva ragione. Per un pubblico medio, più adulto, aveva un significato diverso. Ed era proprio quel significato che inconsciamente le aveva fatto scrivere quella parola. Schianto. Distruggere. Annientare. Uccidere. Una spia cominciò a lampeggiare all'apparecchio telefonico di Haskane. Automaticamente Karen sollevò il ricevitore, e parlò con tono professionale. — Ufficio del signor Haskane. — Karen. Karen non disse nulla. Non riusciva a parlare. — Karen... sai chi sono? — Sì. — Avevo chiesto il tuo numero, ma mi hanno passato la comunicazione lì. Sei sola? — Per il momento. — Allora ascolta. A che ora hai l'intervallo per il caffè? — Alle quattro. — Bene. Ti aspetto. Di sopra, sul tetto. — Non... non so se riesco ad allontanarmi... — Devi riuscirci. Ho bisogno di parlarti. Questa potrebbe essere l'unica occasione. Karen sentì il rumore smorzato dell'acqua dietro la porta del bagno. — Dove sei? — sussurrò. — Alle quattro sul tetto — mormorò la voce. Poi più nulla. 18
Quando Karen uscì dall'ufficio di Haskane, trovò Doyle ad aspettarla nel corridoio dove lo aveva lasciato. — Tutto bene? — domandò lui. Karen non ne poteva più di quella domanda, l'aveva sentita troppe volte negli ultimi due giorni. Era una domanda priva di senso come la sollecitudine che c'era dietro. Nessuno si aspettava veramente di ricevere una risposta, non più di quanto uno se lo aspetti quando chiede "Come sta?". Più di tutti, Doyle era quello che certamente doveva sapere che le cose per lei non andavano affatto per il verso giusto, ma non gliene importava granché. Stava solo facendo il suo lavoro e voleva essere sicuro che, per lui, non c'erano guai in vista. A Karen venne voglia di dirgli che le cose non potevano andare peggio. Ma quello che aveva in mente di fare la sconsigliava di provocare imbarazzo o sospetti nell'agente. Così Karen fece solo un cenno della testa e s'incamminò lungo il corridoio verso il suo cubicolo. — Posso usare il telefono? — chiese Doyle. — S'accomodi. Doyle chiamò la centrale mentre Karen sistemava il bozzetto e il testo scritto accanto alla macchina per scrivere. Fece finta di concentrarsi sul lavoro, ma non perdeva una parola dei borbottii di Doyle. Tutto era sotto controllo, sì, certo, aspettava Gordon per le cinque precise. Gordon era l'agente che avrebbe sostituito Doyle, pensò Karen, e avrebbe preso servizio per il turno successivo. Le cinque... questo significava che ci sarebbe stato di servizio Doyle quando lei andava sul tetto. Se andava sul tetto... Doyle finì la telefonata e abbassò il ricevitore. — Notizie? — domandò Karen. Doyle scosse la testa. — Hanno localizzato l'auto di Rodell. Se c'è qualcos'altro di nuovo, il dipartimento ancora non ne parla. — Nessuna notizia di mio marito? — Mi dispiace. Non mi hanno detto nulla in proposito. Karen voltò la testa. Niente nuove, buone nuove. Sarà poi vero? Se andava sul tetto... Erano quasi le tre. Aveva circa un'ora di tempo per decidere. — Devo riscrivere un testo — disse a Doyle. — Faccia pure. — Doyle aprì lo schedario, prese a caso una rivista e fece una smorfia alla vista della modella emaciata sulla copertina, la cui sta-
tura si prestava a una doppia interpretazione dell'espressione "alta moda". Seduta davanti alla macchina per scrivere, Karen prese un foglio di carta. Il problema era: come rendere comprensibile l'espressione "uno schianto"? Trovò la soluzione in poco meno di venti minuti inserendo due frasi ugualmente prive di senso dopo il primo paragrafo. Poi copiò il testo a macchina, lentamente, Concentrandosi sul problema reale. Il tetto... Non poteva tacere per sempre con la polizia, lo sapeva bene. Forse la cosa ragionevole sarebbe stata di parlare a Doyle e farla finita. Doveva lasciare che se ne occupasse la polizia, dopotutto era il loro mestiere. Nessuno la pagava perché sentisse il dovere di correre rischi. A meno che il solo fatto di essere sposata comportasse di per sé questo dovere. Secondo il Movimento Femminista non era certo così. Il primo dovere di una donna è verso se stessa e il matrimonio nella sua forma attuale è superato come il concetto di peccato originale. Ma non per lei. Razionalmente Karen si rendeva conto della necessità di un'emancipazione, emozionalmente era incapace di liberarsi. Ma in realtà non era questo il problema. Non aveva scelta. Doveva andare perché doveva scoprire la verità su se stessa, capire se aveva sbagliato. E se aveva sbagliato avrebbe scoperto la verità troppo tardi. Ma, in tal caso, per lei non avrebbe più avuto importanza. La cosa veramente importante adesso era riuscire ad andare sul terrazzo. Karen dette un'occhiata all'orologio da polso. Le quattro meno un quarto. Doyle stava sfogliando un'altra rivista di moda e scuoteva la testa davanti alle ultime ispirazioni geniali di Yves St. Laurent. Lasciato da solo sarebbe sicuramente rimasto seduto lì fino alle cinque, fino all'arrivo del collega. Il problema era proprio riuscire a lasciarlo da solo. Improvvisamente Karen ebbe un'idea. Scostò la sedia e si alzò in piedi. Doyle la guardò. — Dove andiamo? Karen prese la borsetta. — Non so lei, ma io vado alla toilette in fondo al corridoio. — Ah, certo. — Sorrise. — L'accompagno. — Fino alla porta, però. — Anche Karen sorrise. — Questa è un'agenzia seria. Le quattro meno dieci. L'intervallo per il caffè non era ancora iniziato e il corridoio era deserto.
I servizi degli impiegati erano appena dietro l'angolo, dopo il passaggio che portava alla sala d'attesa. Karen si fermò davanti alla porta con la scritta Signore, lanciò un'occhiata a Doyle stringendo la borsetta. — Mi ci vorrà un po' di tempo — disse. — Voglio rifarmi il trucco prima di uscire per andare a prendere un caffè. — Si prenda pure tutto il tempo che vuole Karen entrò nella toilette, ma non si rifece il trucco né prese tempo. Nel momento in cui fu sicura di essere sola, attraversò i locali e uscì da un'altra porta. Doyle non poteva sapere che c'era una seconda entrata. Uscì su un corridoio secondario, lontano dagli ascensori, così l'agente di guardia non fu in grado di vederla. Si diresse verso la pesante porta di ferro con la scritta USCITA. Karen l'aprì e vide le scale. Cominciò a salire lentamente per evitare che si sentisse il ticchettio dei tacchi sui gradini di ferro. Dopo due piani sentì la fronte imperlata di sudore e le labbra secche. Il respiro si era fatto più affannoso, ma non certo per lo sforzo. Cinque minuti alle quattro. Cinque minuti alle quattro. Era sul terrazzo. Sola. Non era la prima volta che veniva fin lassù. Molto tempo prima, quando era appena arrivata all'agenzia, alcune impiegate avevano l'abitudine di portarsi la colazione e di andare sul tetto a mangiare e a prendere la tintarella. Ma questa era la prima volta che ci veniva da sola, anche perché, da quando una comunicazione della direzione l'aveva proibito, nessuno era più salito lì in cima. Non era difficile immaginarsi il perché della proibizione. Infatti, a parte il lucernario in cima alla scala, il tetto era perfettamente piatto, non c'era né un muretto né una ringhiera che proteggessero dal vuoto. Andare lassù con un vento forte poteva essere molto pericoloso. Ma quel giorno non c'era vento, solo un sole rovente. La superficie del tetto bruciava sotto i suoi piedi. A ovest il sole pomeridiano stava declinando in direzione di Santa Monica. Karen gli volse le spalle e si mise a osservare le zone della città, ormai quasi completamente in ombra. Strano, pensò, questa è la prima volta che le vedo. Su, verso nord, si stendevano la Crescenta, La Canada, Altadena, nomi esotici di quartieri bruciati dal sole nascosti tra le colline. Karen non c'era mai andata. Un po' più vicino, Forest Lawn spuntava dallo smog che avvolgeva Glendale. Karen si voltò a guardare Boyle Heights e East Los Angeles e, più a sud, Watts. Anche questi erano per lei solo dei nomi, nomi che le portavano al-
la mente miseria e ribellione. Non erano posti piacevoli dove vivere, anche se la maggior parte della popolazione di Los Angeles era concentrata proprio in quelle zone. Quelli che potevano scegliere vivevano nei quartieri a ovest del centro cittadino; quando si parlava di Los Angeles, si parlava di Hollywood, Beverly Hills, Bel Air, Brentwood e perfino Malibu. Se si dovevano attraversare le zone a est e a sud della città, si prendeva la superstrada che sfiorava appena quella realtà per dirigersi verso una destinazione ben diversa, come Knott's Berry Farm, o i Japanese Gardens. Ma un milione di persone soffocava e soffriva in quelle topaie disseccate dal sole. Non c'era da meravigliarsi se lì regnavano l'odio e il rancore e se c'era sempre il pericolo di tumulti. Tutti parlavano del clima di violenza e discutevano delle sue cause, qualcuno era convinto che fosse colpa della guerra e altri delle armi giocattolo, alcuni accusavano l'estrema destra, altri l'estrema sinistra. Ma qui, sul tetto, la ragione del clima di violenza che aleggiava su Los Angeles era chiara: erano il caldo umido e l'odore acre che avvolgevano le zone ghetto della città. Le quattro. Karen si volse a guardare il lucernario. Sul tetto non c'era ancora nessuno. Cos'era successo? Perché non arrivava? Socchiuse gli occhi alla luce del sole e rivoletti di sudore le si formarono agli angoli degli occhi. Caldo. Troppo caldo. Il clima di violenza... Fu costretta a voltarsi per non guardare. Una nuvola coprì il sole e si alzò una leggera brezza. Sollevata, Karen si mosse in quella direzione avvicinandosi al margine del tetto verso est. Lanciò un'occhiata alla strada, vide il formicolio di tanti giocattolini a molla, quattordici piani più in basso. A un tratto ebbe come un capogiro e fece un passo indietro. All'improvviso la brezza si fece più forte e Karen si mosse per voltarsi. Una mano le afferrò il braccio. 19 L'uomo era alto, con le spalle robuste insaccate in una giacca di due misure più piccola. La pelle era bianchissima. Pallido come un fantasma, perché era un fantasma. — Bruce!
Karen lo guardò fisso sperando che pronunciare il suo nome avrebbe trasformato l'estraneo nell'uomo che lei ricordava. Ma sei mesi sono lunghi e lui non era più lo stesso. — Qualcuno ti ha visto salire fin qua? — mormorò. — No. — Sei sicura? Karen annuì. — È stata una fortuna che tu mi abbia parlato sulla linea di Haskane. Il mio telefono è sotto controllo, e io ho una guardia del corpo. — Dov'è adesso? Karen gli spiegò brevemente com'era riuscita a eludere la sorveglianza di Doyle. Mentre lei parlava, l'espressione preoccupata sul viso di Bruce si rilassò e così pure la sua stretta al braccio di Karen. — Allora possiamo parlare. — Perché hai aspettato tanto per metterti in contatto con me? Stavo diventando pazza... Karen si zittì realizzando il significato di quella frase. Ma Bruce scosse appena la testa, e non cambiò espressione. — Ho pensato che intercettassero le telefonate al tuo appartamento. — Ma dove sei stato? Cos'è successo? — Non c'è tempo per questo. — L'espressione di Bruce si fece di nuovo preoccupata. — Se si accorgono che gli sei sfuggita e cominciano a cercarti... — E allora? — Karen cercò di parlare in tono fermo. — Non puoi continuare a scappare per sempre... — Devo. — Bruce non smise un attimo di guardarla. — Loro sanno già che ero ricoverato nella casa di cura. Il secondo passo sarà quello di procurarsi la mia scheda di servizio e quella medica. Se a questo aggiungi quello che noi due sappiamo... — S'interruppe e per un attimo il suo sguardo vagò nel nulla. Poi riprese a fissarla, e proruppe in una raffica di parole. — Gli hai detto qualcosa? Gli hai detto di noi? Karen scosse la testa. — Bene. — Bruce si rilassò sollevato. — Era questo che volevo sapere. Perché se lo scoprissero sarebbe la fine per me, non credi? — È per questo che volevi vedermi? — Non riesci a capire, vero? — Bruce volse il viso da una parte, ma la sua voce continuò ad arrivarle con chiarezza. — Non immagini cosa significa stare lì seduto, giorno dopo giorno. Notte dopo notte, fino a che la notte e il giorno sembrano confondersi. No, non confondersi, è come se la
notte inghiottisse il giorno. Così vivi sempre nel buio. Sì... proprio nel buio. Ecco dove vivi, in un mondo notturno, dove ogni suono e ogni ombra diventano ostili. E tu pensi a quelli che ti hanno fatto questo, ai tuoi nemici. Poi pensi a quelli che non sono personalmente responsabili, ma che se ne fregano. Le persone che invochi, che non ascoltano la tua voce... e dopo capisci che anche loro ti sono nemici. Tutti fanno parte della congiura, una congiura di silenzio e d'indifferenza. Stanno tutti cercando d'incastrarti. Così pensi al modo d'incastrarli tu per primo. Di punirli per averti punito. E cominci a fantasticare queste cose, e la fantasia diventa un piano, e il piano diventa realtà. — Bruce, per l'amor di Dio... — Non si parla di Dio nella casa di cura. Si parla di qualcosa chiamato Es, di Ego e di Superego. Padre, Figlio e Spirito Santo, anch'essi invisibili. — Aveva un ghigno amaro. — Il vangelo secondo Griswold. Secondo lui niente accade per caso. La mente che fa di un uomo un assassino, che fa di un altro una vittima. — È questo che credi? — Certo che no. — Bruce sospirò. — Sto solo cercando di farti capire quello che pensa Griswold. Lo so perché anch'io i primi tempi ho provato queste sensazioni. Griswold mi ha aiutato a cambiare. Ma non è riuscito ad aiutare lui. — Chi? — L'uomo che stanno cercando. L'assassino. — Come si chiama? Bruce scosse la testa. — Se tu conoscessi il suo nome, verrebbe a cercarti. Vuoi diventare anche tu una delle sue vittime? — Io voglio aiutarti. — Allora dammi un po' di soldi... per scappare prima che lui riesca a trovarmi. È tutto quello che voglio. — Davvero? — No. — La prese fra le braccia, e la tenne così stretta a sé che Karen lo sentiva tremare. — Voglio te, ti ho sempre voluta, adesso lo so, ma è troppo tardi, dopo quel che è successo non posso biasimarti... — Ti amo. Ti ho sempre amato. Bruce aveva smesso di tremare, era teso. — Non sei mai venuta a trovarmi. — È stato Griswold a dirmi di non venire. Deve avertelo detto. — Sì, ma non gli ho creduto.
— L'altra notte ero venuta a trovarti. Griswold mi aveva detto che eri pronto per tornare a casa. — Se solo l'avessi saputo. — Bruce la lasciò e indietreggiò di un passo. — Non lo sapevi? — Credi che avrei seguito Cromer altrimenti? — Cromer...? — E va bene. — Bruce tirò un lungo respiro. — L'uomo che stanno cercando è Edmund Cromer. Non ha mai parlato di sé, ma, da quel poco che ho sentito, è l'unico figlio di una ricca famiglia di New York o del New Jersey, non so bene. L'hanno fatto ricoverare circa un anno fa. Dopo quel che è accaduto comincio a credere che l'avessero mandato fin qui perché forse laggiù era coinvolto in qualcosa di orribile. — Eri al corrente del suo piano? — Nessuno lo sapeva, a parte Rodell. E non credo che Rodell sapesse che aveva intenzione di uccidere tutti prima di fuggire. Ma di sicuro Cromer doveva aver programmato ogni cosa. E dopo che ha cominciato, non si è più fermato. — Com'è successo? — Non lo so con certezza. Ero nella mia stanza al primo piano, immediatamente dopo cena, e così pure gli altri, tutti tranne Cromer. Era andato a parlare al dottor Griswold. Deve aver ucciso lui per primo, nella stanza per l'elettroterapia, poi l'infermiera nell'atrio. Non ha fatto alcun rumore. Ci siamo accorti che era successo qualcosa solo quando abbiamo cominciato a sentire l'odore di fumo delle carte che bruciavano nel camino. — Non c'era nessuno di turno al primo piano? — Sì... Thomas. Stava giocando a scacchi con Tony Rodéll nella sua stanza. Penso che fosse tutto programmato per tenerlo occupato, perché Cromer non ha avuto nessuna difficoltà a trovarlo quando è arrivato col coltello... Bruce si zittì con espressione tesa. — Non voglio parlarne — disse. — Quando ci siamo precipitati fuori dalle nostre stanze, Thomas era già morto. La donna più anziana, la signora Freeling, ha visto Thomas ed è caduta a terra. Cromer ha detto che era morta. — Non hai controllato? — No. — Bruce scosse la testa. — E non ho neppure cercato di fermare Cromer, se è quel che ti stai chiedendo. Nessuno di noi ci ha provato. Perché Cromer aveva la pistola di Griswold e la teneva puntata su di noi. Non potevamo sapere che era scarica... sapevamo solo che Cromer aveva com-
messo un omicidio a sangue freddo ed era perfettamente capace di continuare. "Ha lasciato a noi la scelta: o andare con lui sull'auto di Griswold, o restare lì. Ma non ha detto se ci avrebbe lasciati vivi o morti. "Se avessimo avuto un po' di tempo per pensare, forse un paio di noi avrebbero potuto saltargli addosso. Ma prova a immaginare la nostra situazione... il panico, la confusione. Edna Drexel era in preda a un crisi isterica, Lorch era in stato di shock. Non avevo molta possibilità di farcela da solo contro Rodell e Cromer che era armato di pistola. Credo che tutti noi in quel momento abbiamo pensato che l'unica cosa che ci conveniva fare era andarcene di lì. "Cromer ci ha promesso di portarci in città. Prima di partire ha dato la pistola a Rodell e gli ha detto di servirsene se qualcuno tentava di andarsene. Ha preso la superstrada per Sherman Oaks. Poi è sceso dall'auto e ha detto che sarebbe tornato dopo qualche minuto e Rodell è rimasto sul sedile posteriore con la pistola in pugno. A quel punto, io gli sono saltato addosso e gliel'ho tolta di mano, ma mentre stavamo lottando, gli altri sono scappati. Quando sono riuscito ad avere la meglio su Tony, mi sono accorto che la pistola era scarica, ma non avevo nessun'idea di dove fosse andato Cromer, né se avesse davvero intenzione di tornare. E magari, se tornava, avrebbe avuto un'altra arma. Quel che avrei voluto fare, naturalmente, era allontanarmi con l'auto, ma Cromer si era portato via la chiave di accensione". La voce di Bruce era diventata un sussurro. — Così mi sono messo a correre, sono scappato. — Capisco. — Karen gli appoggiò una mano sul braccio. — Ma ora non devi più scappare. Bruce accennò un debole sorriso. — Vuoi dire che credi a quello che ti ho detto? — Certo che ti credo... — Ma tu non sei la polizia. — Bruce, devi andare a parlare con loro. Se gli racconti quello che hai appena detto a me... — A cosa servirebbe? Sono il sospettato numero uno. Non crederanno una sola parola a meno che io non abbia qualche prova da mostrargli. — Allora collabora con loro, aiuta la polizia a trovare questo Cromer. Tu sai che aspetto ha, puoi descriverglielo. — Certo che posso. — Bruce si strinse nelle spalle. — Ma questo non
significa che mi crederanno. — Fissò Karen negli occhi, e il debole sorriso si trasformò in una smorfia. — Magari Edmund Cromer non esiste, magari è una mia invenzione. — Ma non è così! Io lo so... e posso provarlo. — In che modo? Karen gli spiegò brevemente quello che aveva trovato nel suo appartamento e come aveva scoperto che qualcuno aveva tentato di forzare la finestra del bagno. — La polizia non lo sa? — Non ho voluto dirglielo. Ma ora posso farlo. Posso mostrargli i segni che ha lasciato nel tentativo di entrare. — Potrebbero dire che si tratta di una coincidenza. O che li hai fatti tu stessa. — Ma io e te sappiamo che non è vero. — Le dita di Karen si strinsero istintivamente al braccio di Bruce. — Non capisci? Qualcuno ha tentato di arrivare fino a me! Ed è ancora libero. E se decidesse di provare un'altra volta? Non sarò al sicuro finché tu non... Bruce esitò per un attimo. — Va bene. Cosa vuoi che faccia? — L'agente che mi fa da guardia del corpo... Tom Doyle. Devi parlare con lui. — E il suo collega, quello che hai detto che è di guardia fuori dall'ufficio? — Lui non sa niente di quel che ti ho detto, nessuno dei due lo sa. — Cosa credi che accadrà quando ti vedrà apparire dal nulla insieme a uno sconosciuto? — Bruce scosse la testa. — Con quello che è succèsso, avranno tutti il grilletto facile. Non voglio correre il rischio. — Non so niente dell'altro agente, ma Doyle sicuramente non è così. Puoi fidarti di lui. — Allora lascia che sia lui a fidarsi di me. — La voce di Bruce era cupa. — Se vuoi che parli a Doyle, digli di venire qui. E digli di venire solo. 20 — Credergli? — disse Doyle. — Dopo il tiro che lei mi ha appena giocato? Io non credo a nessuno dei due. Karen era faccia a faccia con l'agente nel corridoio davanti alla toilette. — Mi dispiace, ma non c'è altro modo. — Sì che c'è un altro modo. Adesso faccio una telefonata e in cinque
minuti l'edificio sarà circondato. Se qualcuno va sul tetto, ci sarà un'intera squadra a bloccarlo. Basta con i rischi. — E ì rischi che corre Bruce? — Karen cercò disperatamente di controllare il tono della voce. — Riesce a immaginare quello che ha passato in questi ultimi due giorni? È stato malato, lei lo sa bene. Nessuno può dire come reagirà se capisce d'essere stato tradito. Gli ho dato la mia parola. — Lo so — disse Doyle. — L'ha detto lei stessa: nessuno può dire cosa farà se si farà prendere dal panico. — Non succederà, se lei andrà solo. Io sono stata con lui e non mi ha fatto del male. Non ha con sé nessun'arma. — Karen parlava concitatamente. — Stia a sentire, Bruce è l'unica persona che può dirle come sono andate le cose. Lui c'era e ha visto tutto. Ha bisogno d'aiuto. Lei deve dargli una possibilità. Doyle le prese un braccio. — Venga con me. La guidò lungo il corridoio verso gli ascensori. L'uomo con i baffi rossi stava ancora appoggiato al muro con il giornale sotto il braccio. Doyle gli si avvicinò. — Ciao, Harry — disse. L'uomo alzò gli occhi. — Harry, questa è la signora Raymond. Signora Raymond, Harry Forbes. — Doyle non aspettò che i due si salutassero. — Ascolta, è successo qualcosa... Forbes lo ascoltava annuendo. — Va bene — disse. — Tu vai sul tetto e io porto la signora Raymond nel suo ufficio e rimango con lei. — Ebbe un attimo d'esitazione. — E chi rimane di guardia qui? — Mentre passi, di' alla ragazza della reception che non deve far entrare nessuno, intendo dire nessuno per nessuna ragione, fino a quando non glielo dico io. Chiunque arrivi deve aspettare. Ah, un'altra cosa. Doyle lasciò il braccio di Karen, si avvicinò a Forbes e gli mormorò qualcosa in un orecchio. Forbes annuì di nuovo. — Ho capito. — Si avvicinò a Karen. — Venga con me, per favore. Karen si voltò a guardare Doyle che stava già premendo il pulsante SALITA dell'ascensore. — Per favore — disse Karen — si ricordi quello che le ho detto. È sconvolto... — Non si preoccupi. Karen intravide sul suo volto un'ombra di sorriso mentre la porta dell'ascensore si apriva, poi Doyle entrò nella cabina. — Andiamo. — Forbes teneva aperta la porta dell'ufficio. Appena den-
tro si scostò da lei e si avvicinò a Peggy. Le mostrò il suo distintivo e le riferì le istruzioni di Doyle. Peggy annuì poi lanciò un'occhiata a Karen. Sembrò che stesse per dire qualcosa ma Forbes non gliene lasciò il tempo. Prese il braccio di Karen e si avviò verso il corridoio interno. Superata la porta accelerò il passo. — Perché così di fretta? — domandò Karen. — Devo fare una telefonata. Appena arrivarono al cubicolo di Karen, Forbes prese il telefono. Karen ascoltava e confusamente capiva che... Doyle le aveva mentito. Aveva fatto il doppio gioco. No, non le aveva mentito perché, in realtà, non le aveva fatto nessuna promessa. E non si trattava di doppio gioco, era solo un compromesso. Era andato sul tetto da solo, come lei gli aveva chiesto, ma allo stesso tempo aveva dato istruzioni a Forbes di far venire la squadra. Basta con i rischi. Ma allora perché non aveva aspettato che prima arrivasse la squadra? La risposta era ovvia: voleva essere sicuro che Bruce non avesse il tempo di scappare. Forbes si voltò verso di lei. — Signora Raymond? — Sì? — Vorrei che mi facesse una descrizione esatta di suo marito. Il suo aspetto fisico e i vestiti che indossa. Naturalmente, nel caso lui tentasse davvero di scappare. Il suo primo impulso fu quello di mandare Forbes all'inferno, ma a quale scopo? Doyle non avrebbe comunque permesso a Bruce di andarsene. Inoltre lei aveva già dato una descrizione di Bruce al tenente Cole quando era tornata nella casa di cura. Così Karen disse a Forbes quello che voleva sapere mentre lui lo ripeteva frase dopo frase al ricevitore del telefono. — Altezza, uno e novanta circa. Peso, ottanta chili. Occhi, grigi. Carnagione, chiara. Giacca blu, pantaloni grigi. Camicia a righe bianche e celesti, niente cravatta. Finirà così, pensò Karen. Nessun colpo di pistola, nessun lamento. Lo prendono, lo interrogano e poi... E poi cosa? Aveva detto a Bruce che gli avrebbero creduto, che le sue parole avrebbero aiutato la polizia a rintracciare l'assassino. Ma se la polizia era convinta che fosse lui il colpevole? Non seppe dare una risposta. Se Bruce era innocente e la polizia pensava
diversamente, allora lei lo aveva tradito. E se lui invece era colpevole, il consiglio di Karen equivaleva ugualmente a un tradimento. Qualunque fosse la verità, la situazione non avrebbe potuto essere peggiore. Ma si sbagliava. Gli avvenimenti precipitarono. Forbes terminò la sua conversazione al telefono. Mentre si voltava verso Karen, si fermò a guardare oltre le sue spalle. Karen seguì il suo sguardo in direzione della porta aperta. Si sentiva l'eco di voci in fondo al corridoio, un mormorio eccitato e il rumore di passi affrettati. Sulla porta apparve Ed Haskane, con gli occhi sbarrati e la bocca che si muoveva senza emettere suono. Forbes lo fissò. — Che succede? — È meglio che lei venga... — Dove? Ma Haskane si era già voltato ed era corso via. Forbes si alzò in piedi e fece un cenno a Karen. Insieme percorsero il corridoio, Haskane aveva già girato l'angolo quando lo raggiunsero. — Mi dica cos'è successo — disse l'agente. — Adesso glielo farò vedere — la risposta di Haskane quasi si perse nella confusione dei suoni che provenivano dal fondo del corridoio. — Dove? — La finestra... La finestra era quella alle spalle di Peggy. Era aperta e Peggy stava lì davanti, in mezzo a un gruppo d'impiegati in preda all'agitazione. Tutti guardavano di sotto. Forbes si fece strada e guardò anche lui, insieme a Karen. Laggiù sul selciato c'era un corpo. 21 Per un momento Karen sentì che la vista le si offuscava. Stava per perdere i sensi, poi avvertì la stretta di Forbes sul braccio. — Andiamo — disse Forbes. — Laggiù? No... non posso... — Venga con me. Karen sentì la pressione delle sue dita mentre si allontanavano dalla finestra. Era l'unica sensazione reale; per il resto, mentre usciva dall'ufficio e
scendeva in ascensore, le sembrava di galleggiare senza alcun punto di riferimento, come succede quando si è in caduta libera. Caduta libera. Un corpo precipita dal tetto e si sfracella sulla strada. Bruce... Il traffico era stato interrotto e dalle automobili bloccate veniva un concerto di clacson. La gente si ammassava sul marciapiede tenuta a distanza da una fila d'agenti. Karen sentì confusamente il suono delle sirene che giungeva da lontano, il lamento e lo stridio delle macchine della polizia seguito da quello di un'autoambulanza. Ma l'unica cosa reale era quel corpo che giaceva sul selciato a faccia in giù, come una bambola rotta con le membra piegate in maniera innaturale. Non voleva guardare, ma doveva farlo perché quella non era una bambola. Riconosceva i vestiti, i capelli... ogni particolare le era familiare. Non era una bambola e non era Bruce. — Doyle! — disse Forbes. — Oh, Cristo! Per un attimo Karen sentì un tale sollievo che ebbe voglia di gridare, ma un nodo le stringeva la gola. Il suono della sua voce si perse nel frastuono intorno a lei. La gente la sospingeva, qualcuno le dette una gomitata sulla schiena, ma Karen se ne accorse appena. Un grappo di uomini scese da una macchina della polizia che si era fermata accanto al marciapiede e Karen riconobbe tra loro il tenente Barringer. Anche Forbes lo vide. — Mi aspetti qui — disse. — Torno fra un attimo. Era una raccomandazione inutile perché tanto Karen non avrebbe saputo dove andare. Dopo quello che era successo scappare via di lì non sarebbe servito a nulla. Tutto quello che poteva fare era aspettare. Karen rimase a osservare Forbes che si avvicinava a Barringer. Vide Barringer alzare gli occhi mentre Forbes faceva un cenno verso di lei, poi per un breve momento gli addetti all'ambulanza che trasportavano la barella le impedirono la vista. Karen girò il viso per non vedere lo spettacolo degli infermieri chinarsi sul cadavere martoriato di Doyle. Ma la gente intorno non aveva distolto lo sguardo e Karen poté sentire i loro mormorili di raccapriccio. Subito dopo Forbes era di nuovo al suo fianco e le stringeva il braccio. Karen lo guardò con aria interrogativa. — Dove andiamo ora? — Il tenente Barringer desidera che lei aspetti in ufficio. Manderà qualcuno a raccogliere le sue dichiarazioni. Il sergente Gordon, ha detto. Sarà
lui a cercarla. — Dove mi porteranno? — Barringer non lo ha detto. Quando Gordon verrà da lei avrà le istruzioni. — Forbes si strinse nelle spalle. — Ora dobbiamo sgomberare la strada. È stato proprio un disastro col traffico all'ora di punta. Un disastro... ma il problema principale era quello di sgomberare la strada, così i paparini non sarebbero arrivati in ritardo per la cena. Karen scosse la testa. Ma Forbes aveva ragione, naturalmente. Bisogna pensare a chi vive, i morti non hanno più problemi. — Su, su, andate via... non c'è niente da vedere... sgomberate... — Una fila di agenti procedeva lungo il marciapiede ripetendo la cantilena. Forbes condusse Karen all'entrata dell'edificio dove altri agenti di polizia, disposti sui due lati, fermavano le persone che uscivano per controllare i documenti e fare domande. Karen riconobbe alcuni suoi colleghi che, in fila, erano in attesa al di là della vetrata. — Anche l'entrata dei garage è controllata — le disse Forbes. — Nessuno può entrare o uscire senza farsi riconoscere. Presentò il suo documento di riconoscimento a uno degli agenti all'entrata. — Con me c'è la signora Raymond — disse. — Ordine del tenente Barringer. Puoi incaricarti tu di farla arrivare al suo ufficio? Agenzia Sutherland, decimo piano. L'agente annuì e si voltò per chiamare un suo collega che stava controllando i documenti. Karen lanciò un'occhiata a Forbes. — Lei non viene? — Barringer vuole che rimanga qui. — Le lasciò il braccio. — Non si preoccupi, sarà in buone mani. Karen annuì poi si voltò e seguì la nuova scorta verso gli ascensori. Salirono in silenzio. Non facevano entrare nessuno nell'edificio e a quell'ora quasi tutti gli uffici erano deserti. L'agenzia Sutherland non faceva eccezione. Il posto di Peggy era vuoto e le stanze che si aprivano sul corridoio erano deserte e ridondanti di echi. Anche quei pochi impiegati che di solito si attardavano per fare l'ultima telefonata o terminare un incarico dell'ultimo minuto erano corsi in strada presi dall'eccitazione per quello che era successo. Eccitazione? Non c'era niente d'eccitante nella morte. Era la violenza ad attirarli. Si ricordò di quello che le aveva appena detto Bruce. Forse viviamo nel buio, forse ciascuno di noi ha un lato oscuro.
— Va tutto bene, signora Raymond? — domandò l'agente. Ecco di nuovo la stessa domanda e Karen pronunciò automaticamente la solita risposta. — Certo. L'agente chiuse la porta e la lasciò sola nell'ufficio. Ma lei non voleva più restare da sola, nemmeno per un attimo. Perché non era rientrato anche Forbes per farle compagnia mentre aspettavano? Karen conosceva la risposta, naturalmente. Barringer l'aveva trattenuto al pianoterra perché voleva sapere da lui cos'era successo. Voleva essere informato prima d'interrogarla, così, se ci fossero state delle contraddizioni, se lei avesse mentito, Barringer avrebbe potuto contestarle le risposte. Ma mentire non sarebbe servito a nulla. Non era mai servito a nulla. Se solo avesse detto la verità fin dall'inizio, tutta la verità. Karen s'incamminò verso la sua stanza, poi rallentò. L'eco dei suoi passi la fece fermare e rimase immobile. Sentì che stava tremando. Hai paura. Certo, ammettilo. Tutti hanno paura di questi tempi. Paura di guidare e di avere un incidente, paura di andare a piedi e di essere rapinato. Paura di perdere il lavoro e morire di fame, paura di trovare un lavoro e poi, da vecchio, avere una pensione da pochi soldi e morire di fame. Paura della bomba e della guerra batteriologica, del gas nervino e di tutti gli altri strumenti di distruzione inventati dall'uomo, paura dei disastri naturali, del terremoto, degli incendi e delle inondazioni. Non c'era da meravigliarsi se le generazioni più giovani si davano all'erba e all'eroina, e se i loro genitori si erano dati ai barbiturici, all'alcol e alle sigarette. «C'è una cosa da dire in favore del cancro... non c'è dubbio che ti fa dimenticare i tuoi guai.» Karen si ricordava Bruce mentre diceva questa frase. Era passato molto tempo. Era successo prima che si ricoverasse nella casa di cura, quando aveva la fissazione della morte. Aveva detto anche altre cose. Quando portano un cadavere all'obitorio, per identificarlo gli attaccano un cartellino all'alluce. Ma dove gli mettono il cartellino, se non ha più alluci? E poi che importanza ha? Un cadavere non ha più identità. Ne ho visti a centinaia laggiù e sono tutti uguali. Che gliene importa ai vermi del nome, del grado e del numero di matricola? Bruce era terrorizzato dalla morte e non c'era da meravigliarsene visto quello che aveva passato in Vietnam.
Ma era normale avere paura della vita? Karen si fermò dietro il banco della reception. Non aveva nessuna intenzione di andare fino al suo ufficio da sola. Laggiù sarebbe stata isolata, qui, invece, poteva tenere d'occhio la porta d'entrata. Si avvicinò alla finestra e notò che si stava facendo buio. Aveva forse paura anche di questo? No, il buio non la spaventava. Quello che la terrorizzava era la gente che si nascondeva nel buio. Gli abitatori della notte. Karen scosse il capo. Non perdiamo di vista la realtà. Il mondo, di giorno o di notte, non era poi così malvagio. Guardò fuori della finestra le luci della città. Molto tempo fa, prima che lei nascesse, Los Angeles era considerata una specie di paradiso terrestre, dove di giorno splendeva sempre il sole e di notte brillavano le stelle. Ora questa immagine era stata offuscata dalla tecnologia e forse per questo tanta gente disprezzava la città. Ma era veramente peggio di New York, Mosca o Pechino? Nonostante quello che aveva pensato mentre era sul tetto dell'edificio, doveva ricordare che lì vivevano milioni di persone e la maggior parte di loro le somigliava. Persone fondamentalmente oneste, perbene, degne di fiducia, che cercavano di adempiere ai loro impegni nei confronti della famiglia, degli amici e delle regole della società. Erano poche le persone che Karen temeva, e in fondo non le facevano nemmeno tanta paura se era in grado di riconoscerle. Per esempio i capelloni e i barboni. Non usava queste parole per pregiudizio, si disse, perché erano loro stessi che orgogliosamente si proclamavano "freaks", e freak non indica qualcosa di anormale? Ma questi individui si riconoscevano facilmente e quindi altrettanto facilmente si potevano evitare. Non c'era d'averne paura, bastava girare al largo. Il pericolo veniva dagli altri. Quelli veramente pericolosi erano gli altri. Quelli che ami. Quelli contro cui ti senti disarmata, che desideri, perché ne hai bisogno. Era chiaro quale era l'origine della sua paura. Nel suo intimo Karen sapeva che la sua paura era una sola e il suo nome era Bruce... — Signora Raymond? Karen si voltò di scatto. Un uomo stava entrando nell'ufficio. Le fece un cenno con il capo mentre si avvicinava al banco della reception. Mise una mano in tasca, tirò fuori il portafoglio e lo poggiò sul tavolo. — Sono il sergente Gordon.
Karen dette un'occhiata al documento di riconoscimento. Frank Gordon, Dipartimento di Polizia di Los Angeles, Sezione Omicidi. Spinse il portafoglio verso di lui cercando di sorridere. — Mi avevano avvisato del suo arrivo. — Nonostante tutto, ora che l'agente era lì con lei Karen provava uno strano senso di sollievo. Non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe salutato con gioia la presenza di un agente, ma qualsiasi cosa era meglio che restare sola. — Immagino che lei voglia farmi delle domande. — Proprio così. — Frank Gordon prese il portafoglio e dette un'occhiata in giro. Si sentiva un suono di passi nel corridoio esterno. Karen sentì che il sorriso le si gelava sulle labbra, ma Gordon la rassicurò con un cenno. — Non si preoccupi. Adesso ce ne andiamo. C'era nessuno qui quando lei è arrivata? — No... o almeno io non ho visto nessuno. — Stia tranquilla, la polizia controllerà ogni angolo. — Gordon guardò la borsetta di Karen appoggiata sul tavolo. — Appena lei è pronta possiamo andarcene. — Dove andiamo? — Ho l'ordine di riportarla a casa e raccogliere la sua deposizione. Quanto a dopo... — Gordon si strinse nelle spalle. — Il tenente Barringer ha accennato alla possibilità di portarmi alla centrale? — Mi ha detto di chiamarlo dal suo appartamento. — Le sorrise comprensivo. — In questo momento il tenente ha altro a cui pensare. Karen prese la borsetta e girò intorno al banco della reception. Il sergente Gordon le tenne aperta la porta dell'ingresso. Il suono dei passi si era fatto più forte. Karen vide due uomini in uniforme che si avvicinavano dalle due estremità del corridoio impugnando le pistole. — Si fermi — disse quello alla sua sinistra. — È tutto in ordine. — Gordon le si avvicinò e mostrò il suo documento. — Sto portando la signora Raymond a casa. Ordine di Barringer. — Allora andate pure. I due agenti rimasero con loro nel corridoio mentre aspettavano l'arrivo dell'ascensore e Karen notò che nessuno dei due riponeva la pistola nella fondina. Quando le porte dell'ascensore si riaprirono, altri due agenti li accolsero al piano terreno e Gordon mostrò di nuovo il suo documento. L'atrio era deserto e all'esterno il traffico era tornato regolare. A parte le macchine
della polizia parcheggiate lungo il marciapiede, niente lasciava immaginare quello che era successo poco tempo prima. Gordon le fece girare l'angolo. La sua auto era parcheggiata in fondo all'isolato. — Dove abita? — domandò mentre avviava il motore. Karen fu sorpresa che lui non lo sapesse, ma glielo disse e aggiunse: — È meglio non prendere la superstrada. A quest'ora è intasata. Gordon dette un'occhiata all'orologio sul cruscotto. — No, non credo, sono le sette. Karen corrugò la fronte. — È così tardi? Gordon annuì. — Non ha mangiato nulla? — No. — Possiamo fermarci a mangiare qualcosa lungo la strada. Le farò le domande mentre ceniamo. — Veramente non ho molta fame. — Era solo un'idea. — Ma Karen avvertì una nota di delusione nella sua voce. Probabilmente sta morendo di fame, pensò. — Potrei prendere un caffè. — Buona idea. — L'auto si immise nel traffico. — Andiamo verso casa sua e quando lasciamo la superstrada cerchiamo di trovare un posto dove fermarci. Gordon guidava in silenzio e Karen si domandò cosa stesse pensando. Probabilmente alla sua deposizione e alle domande che doveva porle. Da parte sua Karen continuava a ripassare le risposte. Il sergente Gordon doveva essere una nuova leva della polizia, si disse. Aveva buone maniere, parlava a bassa voce, ed era evidentemente molto più sveglio di Forbes o del povero Doyle. Le vennero in mente il sergente Cole e il tenente Barringer, la cui cortesia mascherava una fredda determinazione. Non doveva farsi intrappolare dai modi troppo gentili. Karen studiò il profilo di Frank Gordon. Capelli castani, occhi azzurri, lineamenti regolari. Si domandò se fosse sposato e, in caso affermativo, cosa pensasse sua moglie del fatto che passava la notte da solo con una donna sconosciuta. Ma questo faceva parte del suo lavoro: farle da guardia del corpo, interrogarla, cercare l'assassino... Se ci fosse riuscito, probabilmente sarebbe stato promosso e sua moglie sarebbe stata orgogliosa di lui. Ma che cosa ne sarebbe stato di Bruce?
22 Con le spalle al muro. La frase continuò a risuonargli nel cervello. Con le spalle al muro. Un'espressione stupida, un'espressione crudele, una battuta, un riferimento impietoso alla condizione di un'anima tormentata. Che ne sapeva la gente che blaterava di queste cose senza sapere di cosa stesse parlando... Nessuno poteva capire veramente. C'era solo un modo per riuscirci: stare nella cella di un manicomio, una notte dopo l'altra, ad ascoltare le urla, le proprie urla. Aveva imparato a controllare le proprie urla, naturalmente, a controllarsi e a controllare anche gli altri. Il piano aveva funzionato, no? Aveva giurato di tornare libero e c'era riuscito. Ma la strada era ancora sbarrata. Aveva sempre avuto questa sensazione. O solo quel giorno? Forse tutto era cominciato quando aveva visto l'espressione della faccia di Tom Doyle che cadeva, le braccia svolazzanti e il corpo che volteggiava nel vuoto. Sì, era stato necessario farlo. Come lo era stato invece risparmiare Karen. Solo per ora, naturalmente. Perché sarebbe toccato anche a lei. Presto. Risparmiare Karen faceva parte del piano. Aveva visto giusto e presto sarebbe tutto finito. Se lei faceva quello che lui immaginava, se andava dove lui immaginava che sarebbe andata, allora tutta la polizia del mondo non avrebbe potuto salvarla. Il conto dei cadaveri sarebbe aumentato. In quel momento era in una strada sbarrata. Ma presto le barriere sarebbero crollate. 23 Karen si meravigliò che il piccolo ristorante fosse quasi vuoto perché di solito era sempre molto affollato, specialmente da quando aveva cominciato a funzionare il piano bar. Forse la gente aveva paura di uscire di sera dopo quanto aveva letto sui giornali, e i notiziari della sera dovevano aver già riportato la notizia della morte di Tom Doyle. In fondo però era strano pensare che milioni di persone avessero paura di un uomo solo. Forse la loro paura era dovuta al fat-
to che se lo avessero incontrato non sarebbero stati in grado di riconoscerlo. La paura di Karen era invece dovuta al fatto che forse lei avrebbe potuto farlo. Gordon stava terminando il dolce. Durante la cena non aveva forzato la mano con le domande, ma ora, mentre lo vedeva scansare il piatto e appoggiarsi alla spalliera, Karen si rese conto che la tregua era finita. Gordon consultò l'orologio da polso. — Fra poco devo fare rapporto alla centrale — disse. — Forse hanno trovato suo marito. — O l'assassino — disse Karen. — Lei è una donna molto leale, vero, signora Raymond? — La lealtà non c'entra. — Karen avvertì una nota di autodifesa nella propria voce. — Secondo la legge, un uomo è innocente fino a quando la sua colpevolezza non viene provata. Frank Gordon sospirò. — Parliamoci chiaro, signora Raymond. Lei sta cercando di proteggere un uomo perché lei crede, o dice di credere, che sia innocente. E cosa dice allora di tutti gli altri, le vittime? Noi sappiamo per certo che erano innocenti, ma chi li ha protetti? Karen scosse la testa. — Io continuo a dire che Bruce non aveva alcun motivo per farlo. Perché avrebbe dovuto uccidere qualcuno per fuggire dalla casa di cura se stavano per dimetterlo? — Perché lui non sapeva che stavano per farlo. — Gordon parlava guardandola fisso negli occhi. Maledetto bastardo, pensò Karen. Il tenente Barringer non l'ha capito, lo psichiatra non lo ha scoperto, ma tu ci sei arrivato. Sì, è la verità. Gordon non si aspettava una risposta. Forse non ne aveva bisogno, forse gliel'aveva letta in faccia. — Posso comprendere il desiderio di una moglie di salvare il proprio marito, ma anche lei deve comprendere la nostra posizione. La polizia ha il dovere di proteggere i cittadini e finora non ci siamo riusciti. Dobbiamo pensare a quello che può accadere. L'uomo che sospettiamo essere l'autore degli omicidi è ancora in libertà e, a meno che non lo troviamo presto, abbiamo ragione di credere che altre persone moriranno. Altre persone innocenti. — Ma non c'è solo mio marito — disse Karen. — C'è un altro paziente che è scomparso... Edmund Cromer. — Chi? — Gordon si era irrigidito. — Perché non me lo ha detto prima? — Perché Bruce stava per dirlo a Doyle — la voce le mancò. — Poi, dopo quello che è successo, non ho avuto l'occasione...
— Allora me ne parli adesso. — Va bene. — E cominciò a raccontare. Gordon la osservava, facendo di quando in quando dei cenni col capo mentre lei ripeteva quello che Bruce le aveva detto. Gordon aveva un'espressione assente, controllata, e non aprì bocca finché lei non ebbe terminato il suo racconto. — È tutto? — chiese. — Sì. Almeno per quanto riesco a ricordare. — Non le ha fatto nessuna descrizione di quell'uomo? — Pensava di farla a Doyle. — O almeno così le ha detto. — Il tono della sua voce era incolore. — Lei non crede... — Che suo marito le abbia detto queste cose? — Gordon fece cenno di sì. — Ma la domanda è: perché? — Perché voleva far sapere alla polizia chi è l'assassino... — ...o perché sapeva che era un modo per attirare Doyle sul tetto e sbarazzarsi di lui. Così poi sarebbe stato libero di pensare a lei. — Ma non lo ha fatto. — Solo perché c'era un altro agente di servizio nel corridoio, e lui l'ignorava. Quando lo ha visto, ha avuto paura. — Ma questo non modifica quello che Bruce ha detto di Cromer — disse Karen. — Ragioniamo un po'. — Gordon parlava lentamente. — Suo marito ha accusato un altro paziente di essere l'assassino. Ma le ha detto qualcosa che può essere usata come prova? Come possiamo essere sicuri che le ha detto la verità? Come può essere sicura che il nome dell'altro paziente sia veramente Cromer? Karen non rispose. Dentro di lei sentì l'eco della voce di Bruce che lo faceva per lei. In piedi sul tetto con il suo sorriso tirato Bruce diceva: «Forse non esiste nessun Edmund Cromer. Forse è una mia invenzione.» L'eco di quelle parole svanì, la stanza cominciò a oscurarsi e fu solo il tocco della mano di Gordon sulla sua che riportò Karen alla realtà. — Signora Raymond... La realtà: questa mano e questa voce. Doveva smetterla di dare ascolto alle bugie, smetterla di mentire a se stessa. Karen sbatté le palpebre e spalancò gli occhi. — Si sente meglio ora? — Frank Gordon le lasciò la mano. Karen fece un cenno di assenso.
— Una cosa è certa: c'è un altro paziente. Ora dobbiamo controllare come si chiama e cercare di rintracciarlo. Ma lei si deve preparare all'eventualità che questa persona sia del tutto innocente. E se è così, è molto probabile che sia già morta. Gordon parlava a bassa voce, ma questo non toglieva nulla alla forza del suo ragionamento. Non era più possibile negare. — Ho pensato a quello che lei mi ha raccontato prima — disse. — C'è qualcosa che non mi convince, che mi sembra contraddittorio. — Contraddittorio? — Questi assassiniì rispondono a una logica, se ne sarà accorta. Anche se diamo per scontato che la persona responsabile di questi omicidi da un punto di vista medico è da considerarsi squilibrata, le sue azioni tuttavia rivelano un'intelligenza fuori dal comune. Questi non sono i soliti crimini commessi sotto una spinta emotiva o passionale. Ci troviamo di fronte a qualcuno che ha intenzione di uccidere chiunque sia in grado d'identificarlo. Il che ci porta diritti a lei. — Non capisco. — Se suo marito è responsabile di quello che è successo, perché mai dovrebbe considerarla pericolosa? Lei lo ha già indicato come uno dei pazienti della casa di cura. Quindi, anche se togliesse di mezzo lei, rimarrebbe comunque la sua testimonianza. Karen tirò un sospiro di sollievo. Forse c'era qualche speranza, forse non era tutto così scontato. — È quello che ho detto al tenente Barringer e agli altri — disse Karen. — Bruce non ha nessun motivo di farmi del male. — Dicendo così le sembrava quasi di poterci credere anche lei. — Ha ragione, c'è una contraddizione. — Una contraddizione apparente, però. — Il tono della voce di Gordon era ancora basso, ma Karen lo sentì fin troppo bene. — Ci dev'essere un'altra ragione. Se togliesse di mezzo lei, rimarrebbe la sua testimonianza, è vero, ma lui sarebbe sicuro che lei non potrebbe più avere la possibilità di modificarla o di aggiungere qualcosa. La fissò e Karen non lesse nessuna indulgenza in quello sguardo. — Signora Raymond, perché suo marito si è fatto ricoverare? Non le dava tregua, impossibile negare ancora. Troppe persone erano morte e chi poteva dire quanto sarebbe durata ancora la strage se non era lei a fermarla? — Abbiamo litigato. — Le parole le venivano alle labbra con violenza come se volesse vomitare qualcosa di orribile che doveva assolutamente
espellere. — Io gli ho detto che, da quando era tornato, non era più quello di prima e che aveva bisogno d'aiuto. Gli ho detto che volevo che lui andasse da un medico. — Come ha reagito? — Ha detto che ci avrebbe pensato. Poi si è tranquillizzato. Mi ha chiesto se volevo andare a fare un giro in macchina. Così siamo usciti e non abbiamo più toccato quell'argomento. Era come se averne parlato apertamente fosse stata una liberazione. Mi ricordo di aver pensato che forse avevo ingigantito le cose, forse lui era solo nervoso e preoccupato perché non aveva un lavoro. Siamo andati da Wright, come facevamo prima di sposarci, e quando siamo tornati a casa abbiamo fatto l'amore. Karen abbassò lo sguardo ma continuò a parlare. — Poi mi sono addormentata e quando mi sono svegliata stavo soffocando, non potevo respirare. Lui mi stava di nuovo sopra, mi teneva le mani intorno al collo e stringeva... stringeva... "Non so come, sono riuscita a respingerlo, l'ho colpito in faccia e lui ha abbandonato la presa. In quel momento ha aperto gli occhi che fino ad allora aveva tenuto chiusi. Dopo mi ha detto che stava dormendo, che era stato un incubo e che non sapeva cosa stesse facendo. Sembrava sotto shock. "Il giorno dopo ha telefonato al dottor Griswold". — Ha tentato di ucciderla — Gordon non le toglieva gli occhi di dosso. — E lei non l'ha mai detto a nessuno? — No, solo a Rita. — Rita? — Sua sorella. Lei non lo dirà mai... — Dov'è ora? Karen glielo disse. — Ma Rita ha già parlato con la polizia. Hanno perfino fatto una perquisizione per essere sicuri che Bruce non si nascondesse lì. — Le risulta che sua cognata abbia qualche tipo di protezione? — Una guardia del corpo? No, non credo. Ma anche se Bruce va da lei, Rita può stare tranquilla. Vuol bene a suo fratello e non lo tradirebbe mai. — E Bruce lo sa? Karen ebbe un attimo d'esitazione. Gordon si alzò in piedi. — Andiamo subito da lei. — disse. — E poi vi porto tutte e due alla centrale. Avreste dovuto essere sotto sorveglianza speciale fin dal primo momento. E lo sareste state, se lei ci avesse detto la
verità. — Ma sono sicura che Rita non corre nessun pericolo! — Sicura? — Gordon scosse la testa. — Tutto quello che lei può fare è pregare. E anche per questo può essere troppo tardi. 24 Quella notte i riflettori spazzavano il cielo. Il loro chiarore inondava l'Auditorium dove la Bella Gente si pavoneggiava davanti alle telecamere che registravano la loro presenza all'ennesimo gala di beneficenza. Altra gente, meno bella e i cui nomi non avevano l'onore di apparire sui giornali, scorgeva quello splendore da lontano, dalle finestre delle corsie di un ospedale dove stava morendo o partorendo o facendo quello che si fa ih quei posti orribili che non sono mai descritti nelle pagine di cronaca mondana. Fasci di luce sfrecciavano dal luogo della Grande Festa di Inaugurazione di un supermarket o danzavano leggeri sulle colline lontane, proiettati dagli elicotteri della polizia che sorvolavano la città. C'erano però anche luoghi oscuri. Cimiteri dove riposavano i morti e vicoli dove i vivi non potevano riposare, terrorizzati da quello che avevano letto sui giornali, ascoltato nei notiziari, immaginato nella loro mente, mentre se ne stavano rintanati dietro le porte chiuse a chiave. Catenacci e serrature non erano sufficienti a proteggerli contro l'invasione della paura. Pochi privilegiati riuscivano a far finta che niente fosse accaduto, ma, per la maggior parte della gente, c'era solo l'oscurità popolata di ombre. L'aeroporto era poco illuminato ma non completamente al buio. Una nebbiolina grigia si addensava a ovest, oscurando i raggi dei riflettori e inargentando le ombre. Karen si ricordò della nebbia di due notti prima. Quarantotto ore erano passate, ma sembrava che fosse trascorsa una vita. E, per alcune persone, era proprio così. Un'intera vita svanita per sempre, inghiottita dal grigio dell'oblio. Anche qui si vedevano delle luci, come quella proiettata dalla finestra dell'ufficio dell'Agenzia di Servizi Charter Raymond. Frank Gordon si fermò lungo il lato dell'edificio senza finestre e parcheggiò l'auto nella zona in ombra. Karen stava per aprire la portiera, ma Gordon le afferrò il braccio.
— Aspetti. Scrutò attraverso il parabrezza le piste dì atterraggio e la massa scura degli hangar che costeggiavano il campo dietro gli uffici. Tutto era immobile nella nebbia. — Ora. Karen scivolò fuori dal sedile, girò intorno all'automobile e si incontrò con Gordon che impugnava una pistola. — Stia dietro di me — le disse. — Dietro, ma spostata da un lato. S'incamminò verso gli uffici, rasente al muro, lontano dal ventaglio di luce che proveniva dalla finestra situata oltre la porta. Avanzarono nel buio fatto di ombra e nebbia appiccicosa. La porta era leggermente socchiusa. Quando la raggiunsero Gordon le fece cenno di fermarsi. — Indietro — mormorò. Alzò la pistola e sferrò un calcio alla porta. Per un momento che sembrò dilatarsi per l'eternità il poliziotto rimase immobile sulla soglia. A Karen parve che il tempo si fermasse, poi Gordon si voltò e disse: — Niente, non c'è nessuno. Lei si fece avanti ed entrò dietro di lui nell'ufficio vuoto. Il ventilatore era in funzione e il suo soffio faceva tremolare le carte appese alle pareti. Gordon lanciò un'occhiata al piano della scrivania. Cera la borsa di Rita appoggiata accanto al telefono. Poco distante, da un mozzicone di sigaretta schiacciato in un grosso portacenere, saliva un filo di fumo. Karen lo notò e fece un cenno con la testa. — Dev'essere appena uscita. Gordon corrugò la fronte. — Che cosa glielo fa credere? Non ho visto nessuna macchina quando siamo arrivati. — Rita ha una Volkswagen e di solito la mette dentro l'hangar. — Quello là dietro? — Sì, quello dietro, sulla destra. Gordon annuì e si voltò. Karen lo seguì fuori dall'ufficio. A destra dell'edificio di legno c'era un aereo bloccato a terra, un monomotore Cessna. Gordon si fermò all'ombra dell'aereo con gli occhi fissi sull'entrata dell'hangar. All'interno, nel buio, tremolava una debole luce. Karen fece qualche passo avanti, ma Frank Gordon scosse la testa. — Non ancora. Aguzzando gli occhi Karen riuscì a distinguere dentro l'hangar la sagoma tozza della Volkswagen. Dietro l'auto c'era un aereo e ancora più in fondo si vedeva un chiarore che sembrava provenire da una lanterna pog-
giata sul pavimento accanto a una cassetta per attrezzi. Poi, in controluce, apparve la figura di Rita. — È lei? — la voce di Gordon era solo un bisbiglio. — Sì. Grazie al cielo, è sola. — Bene. Senta cosa deve fare. Entri e le parli. — Lei non viene con me? Gordon fece un gesto con la pistola. — Non si preoccupi... se dovesse aver bisogno di me, sono pronto. Credo che sarà più facile per lei farla parlare se non si accorge della mia presenza. Le racconti quello che è successo... di Bruce e Tom Doyle. Io credo che finirà col dirle qualcosa. Forse Bruce è rimasto in contatto con lei e Rita sa dove si trova. — E se non mi dice nulla? — Allora intervengo io. Ma vale la pena che lei faccia un tentativo. — Gordon le appoggiò una mano sul braccio. — Si ricordi in ogni caso che anche Rita è in pericolo. Deve riuscire a convincerla di questo. — Ci proverò. Karen si mosse nella foschia verso l'oscurità più fitta dell'hangar, oltre l'entrata. E adesso non poteva più tornare indietro. Non poteva più tornare indietro: superò l'aereo, si avvicinò al chiarore tremolante della luce, Rita alzò gli occhi, la guardò e la riconobbe. Non poteva più tornare indietro. — Che ci fai qui? La sua voce aveva un tono di genuina sorpresa e sul viso in penombra si leggeva qualcosa di più che un'espressione di stupore. — Devo parlarti. Subito. Rita aveva in mano una grossa chiave inglese. Non la mise a terra, anzi, la strinse con più forza. — Hai scelto proprio un brutto momento. Non vedi che ho da fare? — Il momento non l'ho scelto io. Per favore, Rita, ascoltami.:. — È quello che sto facendo. E rimase in ascolto mentre Karen le raccontava della telefonata di Bruce, dell'incontro sul tetto e di quello che era successo dopo. Di tanto in tanto Karen esitava, ma non smise di parlare fino a quando non arrivò al momento in cui aveva guardato fuori dalla finestra e aveva visto il corpo sul selciato. Rita non si era mossa, il volto ancora nell'ombra, e non aveva pronunciato una sola parola durante tutto il racconto.
È difficile convincerla, si disse Karen, per convincerla devo trovare le parole giuste. Riuscì a trovarle. — Tu non hai visto quello che ho visto io, Rita. Tom Doyle sul selciato con la testa spaccata come un melone marcio. Griswold morto in una stanza pregna dell'odore della sua carne bruciata. Quella povera infermiera... — Che vuoi da me? — La verità. — Karen sentì che le dita le si piegavano contro il palmo e le unghie le si conficcavano nella carne. — Non si tratta di fiducia o lealtà... non più almeno. Dobbiamo cercare di fermare quello che sta succedendo. Se non hai detto tutto, se sai dove si nasconde Bruce... — Non lo sapeva. Era la voce di Bruce. Ed era proprio Bruce che usciva dall'ombra dietro l'aereo. Karen lo guardava venire verso di lei scuotendo la testa. — Sono arrivato qui l'altra notte — disse. — Ma Rita non lo sapeva. Non volevo coinvolgerla, come non volevo coinvolgere te. Avevo bisogno di un posto dove stare al sicuro e ho pensato di venire qui. Quando è arrivata la polizia per interrogarla mi sono nascosto in un aereo sul campo e non mi hanno trovato. Dopo che se ne sono andati mi sono allontanato anch'io. Sono tornato solo questa sera, mi sono fatto vedere e le ho raccontato quello che è successo. — Allora lei sa tutto... hai confessato... — Non ho niente da confessare. — Ma io ti ho visto sul tetto! Sono stata io a dire a Doyle di venire da te! — Doyle non mi ha trovato. — La voce di Bruce era bassa. — Dopo che te ne sei andata ho perso completamente la testa. Non avevo il coraggio di affrontarlo, avevo paura, così sono corso via. Credimi, Karen, giuro su Dio che ero già fuori dall'edificio prima che lui salisse sul tetto. — Ma allora chi l'ha ucciso? — Cromer... Non era un'affermazione, era un'esclamazione soffocata di meraviglia. Bruce fissava qualcosa oltre le spalle di Karen, fissava l'uomo che stava entrando nell'hangar con la pistola in pugno. Karen lo vide e si voltò verso Bruce: — Tu sei pazzo! — boccheggiò. — Questo è il sergente Gordon... è un agente di polizia... L'uomo sorrise. — Qui nessuno è pazzo. — Il tono della sua voce era tranquillo. — Non è pazzo suo marito e certamente non lo sono neppure
io. — Il suo sorriso aveva la stessa immobile fissità dell'arma che stringeva in pugno. — Sono rimasto ad aspettare fuori del palazzo dov'è il suo ufficio nella speranza che suo marito si mettesse in contatto con lei. Quando è salito sul tetto, l'ho seguito. Mi sembrava l'occasione buona per eliminare l'unica persona rimasta che potesse riconoscermi. Ero già riuscito a trovare tutti gli altri e adesso, seguendo un ragionamento logico, avevo trovato anche Bruce. Chinò la testa con gli occhi fissi su Karen. — Ho detto logico. Freddo, chiaro, logico. Ma il suo arrivo mi ha impedito di portare a termine il mio piano. Mi sono nascosto dall'altra parte del lucernario e sono rimasto in ascolto. Quando Bruce ha fatto il mio nome, ho capito che dovevo cambiare i miei piani. Perché ormai erano due le persone che conoscevano la mia identità, ma non potevo sbarazzarmi di tutti e due là sopra, non avevo nemmeno un'arma. — Così l'hai lasciata andar via e quando sono scappato hai aspettato Doyle — disse Bruce. — Esattamente. Ero dietro di lui quando è venuto fuori dall'uscita del lucernario... non si è nemmeno accorto di quello che è successo. Karen rabbrividì. — E Frank Gordon? — Quando è arrivato, io stavo aspettando in uno stanzino nel corridoio accanto al suo ufficio. Su un ripiano ho trovato un fermaporta di metallo. Il fermaporta lì dentro non c'è più, ma Gordon sì, a meno che a quest'ora non l'abbiano trovato. Ho preso la sua pistola, il suo distintivo e il suo documento d'identificazione. La macchina invece l'avevo già rubata questa mattina. — Quando è venuto nel mio ufficio, io ero sola — disse Karen. — E lei aveva la pistola. — Ragionamento logico. — L'uomo sorrise di nuovo. — Ma sarebbe stato pericoloso con la polizia fuori dalla porta che perquisiva l'edificio. La cosa più importante era portarla via di lì nella speranza che lei riuscisse a condurmi di nuovo fino a Bruce. Quando lei a pranzo mi ha raccontato tutto, ho capito che anche Rita rappresentava un problema. Ma adesso smettiamola con tutte queste chiacchiere. La mia intuizione era corretta. Ci siete tutti e tre. — Il suo sorriso era ancora fisso, ma il dito stringeva il grilletto. — Cromer, ascolta. — Bruce si piazzò davanti a quella faccia sorridente e alla canna della pistola. — Ho parlato con Rita prima del vostro arrivo e
le ho raccontato tutto. Lei mi ha detto che dovevo chiamare la polizia... e l'ho fatto... dal telefono dell'ufficio. Arriveranno a momenti... La voce di Cromer era gelida come il suo sorriso. — Per favore non offendere la mia intelligenza. Questa è una storiella che non si regge in piedi. Il suo sorriso s'irrigidì. In lontananza si era sentito il suono delle sirene. Lo avevano sentito tutti, ma fu Rita a muoversi per prima. Alzò il braccio che stringeva la chiave inglese e si slanciò contro la testa di Cromer. Lui si buttò di lato contro il fianco dell'aereo, l'attrezzo fischiò nell'aria e colpì con un suono sordo il pavimento. Cromer alzò la pistola e sparò. Subito dopo l'eco dello sparo Karen sentì Rita gridare. La vide cadere all'indietro tenendosi stretto il braccio con il sangue che le colava fra le dita. In un turbinio di fumo acre Karen vide Bruce che si gettava su Cromer. Cromer afferrò la pistola cercando di puntare la canna verso il petto di Bruce, ma Bruce gli sferrò un colpo sul polso costringendolo a mollare la presa. Per un attimo il fumo si diradò e Karen vide chiaramente Cromer. Il sorriso era scomparso e l'apparenza umana sembrava essersi dissolta, restava la furia bestiale degli occhi accesi e il ghigno sulla bocca... il volto nudo della violenza. Cromer cominciò a colpire il petto di Bruce con i pugni serrati forzandolo a indietreggiare. Poi si voltò e corse fuori dall'hangar in mezzo alla foschia e all'oscurità. Dalla strada continuava ad arrivare l'urlo delle sirene. Cromer cambiò bruscamente direzione e dall'interno dell'hangar Karen lo vide correre sul campo. All'improvviso una macchia scura nel cielo esplose in un fascio di luce abbagliante che roteava. Karen lanciò un urlo, ma la sua voce si perse nel frastuono delle pale dell'elicottero che vorticavano in direzione della figura in movimento. Quando, attraverso il fitto velo di nebbia, il pilota riuscì a distinguere Cromer, ormai era troppo tardi per evitarlo. L'elicottero si abbassò e ondeggiò mentre le pale metalliche sferzavano l'aria. Cromer cadde e restò immobile, ma la sua testa rotolò sul campo. 25 Cerano due ambulanze in attesa, una per Rita e una per Cromer. Appena arrivato, il tenente Barringer prese in mano la situazione.
Bruce rilasciò la sua deposizione e così Karen, e perfino Rita fu in grado di fare una prima dichiarazione mentre il chirurgo le fasciava il braccio per fermare l'emorragia. Andarono alla stazione di polizia di Van Nuys per le registrazioni e per firmare le trascrizioni. Sembrò che le pratiche dovessero continuare per l'eternità ma, naturalmente, a un certo punto, tutto terminò. Liberi, si disse Karen. Finalmente liberi. E uscì insieme a Bruce, verso il regno della notte. FINE