CARLOS RUIZ ZAFÓN IL PRINCIPE DELLA NEBBIA (El Príncipe De La Niebla, 1993) Capitolo primo Dovrà passare molto tempo pr...
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CARLOS RUIZ ZAFÓN IL PRINCIPE DELLA NEBBIA (El Príncipe De La Niebla, 1993) Capitolo primo Dovrà passare molto tempo prima che Max dimentichi l'estate in cui scoprì, quasi per caso, la magia. Correva l'anno 1943 e i venti della Grande Guerra trascinavano il mondo nell'abisso, senza rimedio. A metà giugno, il giorno in cui Max compiva tredici anni, suo padre, orologiaio e inventore a tempo perso, riunì la famiglia nel salone per annunciare che quello sarebbe stato l'ultimo giorno che avrebbero passato nella casa in cui vivevano ormai da dieci anni. La famiglia si trasferiva sulla costa, lontano dalla città e dalla guerra, in una casa sulla spiaggia di un piccolo paesino sulle sponde dell'Atlantico. La decisione era definitiva: sarebbero partiti il giorno dopo all'alba. Nel frattempo avrebbero dovuto impacchettare tutti i loro averi e prepararsi per il lungo viaggio fino alla nuova magione. La famiglia accolse la notizia senza sorprendersi. Quasi tutti si erano già accorti che l'idea di abbandonare la città in cerca di un luogo più abitabile ronzava per la testa di Maximilian Carver da parecchio tempo. Tutti tranne Max. A lui la notizia fece lo stesso effetto di una locomotiva lanciata a folle velocità in un negozio di porcellane cinesi. Rimase di stucco, con la bocca aperta e lo sguardo assente. Durante la breve trance, fu fulminato dalla tremenda certezza che tutto il suo mondo, compresi i compagni di scuola, la piccola banda di strada e il negozio di fumetti dell'angolo, stava per svanire per sempre. In un colpo solo. Mentre gli altri membri della famiglia scioglievano la riunione per mettersi a fare i bagagli con aria rassegnata, Max se ne restava immobile a guardare suo padre. Il buon orologiaio si inginocchiò di fronte a suo figlio e gli posò le mani sulle spalle. Lo sguardo di Max era più eloquente di un libro. «Ora ti sembra la fine del mondo, Max. Ma ti assicuro che il posto in cui andremo ti piacerà. Ti farai nuovi amici, vedrai.» «È a causa della guerra?» domandò Max «È per questo che dobbiamo andarcene?» Maximilian Carver abbracciò suo figlio e poi, senza smettere di sorridergli, trasse dalla tasca della giacca un oggetto lucido che pendeva da una
catena e lo fece scivolare tra le mani del ragazzo. Un orologio da taschino. «L'ho fatto per te. Buon compleanno.» Max aprì l'orologio, forgiato in argento. Ogni ora era indicata dal disegno di una luna che cresceva e calava al passaggio delle lancette, formate dai raggi di un sole che sorrideva al centro del quadrante. Sul coperchio, incisa in bei caratteri, si poteva leggere la frase: La macchina del tempo di Max. La notte del suo compleanno Max non chiuse occhio. Mentre gli altri dormivano, attese l'inevitabile arrivo del giorno in cui avrebbe detto addio al piccolo universo che si era creato in tutti quegli anni. Passò le ore in silenzio, steso sul letto con gli occhi persi nelle ombre azzurre che danzavano sul soffitto della camera, quasi sperasse di vedervi un oracolo in grado di disegnare il suo destino a partire da quel giorno. Teneva in mano l'orologio che suo padre aveva fabbricato per lui. Le lune sorridenti del quadrante brillavano nella penombra della notte. Forse loro avevano la risposta a tutte le domande che aveva cominciato a collezionare da quel pomeriggio. Finalmente le prime luci dell'alba spuntarono sull'orizzonte azzurro. Max saltò giù dal letto e si diresse in salone. Maximilian Carver se ne stava sprofondato in una poltrona, vestito, con un libro in mano, nel cono di luce di un abat-jour. Max vide che non era l'unico ad aver passato la notte in bianco. L'orologiaio gli sorrise e chiuse il libro. «Che leggi?» chiese Max, indicando il grosso volume. «È un libro su Copernico. Sai chi è Copernico?» rispose l'orologiaio. «Guarda che io studio!» replicò stizzito Max. Suo padre aveva l'abitudine di fargli le domande come se fosse un bambino appena nato. «E che cosa sai di lui?» insistette. «Scoprì che la Terra gira intorno al Sole e non il contrario.» «Più o meno. E sai che cosa significò questo?» «Problemi» rispose Max. L'orologiaio gli rivolse un largo sorriso e gli porse il grosso libro. «Tieni. È tuo. Leggilo.» Max ispezionò il misterioso volume rilegato in pelle. Sembrava avere mille anni ed essere abitato dallo spirito di qualche vecchio genio incatenato alle sue pagine da un maleficio secolare. «Bene» tagliò corto suo padre «chi va a svegliare le tue sorelle?»
Max, senza alzare gli occhi dal libro, indicò con la testa che gli cedeva l'onore di strappare dal loro sonno profondo Alicia e Irina, le due sorelle rispettivamente di quindici e di otto anni. Poi, mentre suo padre andava a dar la sveglia a tutta la famiglia, si accomodò nella poltrona, aprì il libro e cominciò a leggere. Mezz'ora più tardi, la famiglia al completo attraversava per l'ultima volta la soglia della porta verso una nuova vita. L'estate era cominciata. Una volta Max aveva letto, in uno dei libri di suo padre, che certe immagini dell'infanzia rimangono impresse nell'album della memoria come fotografie, scene a cui, non importa quanto tempo sia passato, uno sempre ritorna col ricordo. Egli comprese il senso di quelle parole la prima volta che vide il mare. Viaggiavano in treno da cinque ore quando d'improvviso, all'uscita da una buia galleria, una lastra di luce e chiarore fantasmagorici si aprì davanti ai suoi occhi. L'azzurro elettrico del mare che risplendeva sotto il sole di mezzogiorno si impresse sulla sua retina come un'apparizione soprannaturale. Mentre il treno scivolava veloce a pochi metri dal mare, Max tirò fuori la testa dal finestrino e sentì per la prima volta sulla pelle il vento impregnato dall'odore salmastro. Si voltò a guardare suo padre, che lo osservava dalla parte opposta dello scompartimento con un sorriso misterioso, annuendo a una domanda che Max non aveva ancora formulato. Seppe allora che non importava quale fosse la meta di quel viaggio, né in quale stazione si sarebbe fermato il treno; da allora sarebbe sempre vissuto in un posto da cui ogni mattina al risveglio avrebbe potuto vedere quella luce azzurra e abbagliante che scendeva dal cielo come un vapore magico e trasparente. Era una promessa che faceva a se stesso. Mentre Max osservava la ferrovia che si allontanava dal marciapiede della stazioncina del paese, Maximilian Carver lasciò per alcuni minuti la sua famiglia ormeggiata con i bagagli di fronte all'ufficio del capostazione e andò a contrattare con i facchini locali un prezzo ragionevole per il trasporto di pacchi, persone e cianfrusaglie alla destinazione finale. Guardando la stazione semideserta e il lungo viale dove i tetti si sporgevano timidi sopra le chiome degli alberi, Max paragonò il paese a uno di quei modellini costruiti in miniatura per collezionisti di trenini elettrici, dove se uno si spingeva a camminare più del dovuto poteva cadere dal tavolo. A distoglierlo da queste riflessioni giunse la voce di sua madre. «E allora? Promosso o bocciato?»
«È presto per saperlo» rispose Max «sembra un modellino. Come quelli delle vetrine dei negozi di giocattoli.» «Forse lo è» sorrise lei. Quando sorrideva, Max poteva vedere nel suo volto un riflesso pallido della sorella Irina. «Ma non lo dire a tuo padre» continuò «eccolo che arriva.» Maximilian Carver tornò scortato da due robusti facchini con le classiche tute stampate di macchie di grasso, fuliggine, e qualche altra sostanza non meglio identificata. Entrambi ostentavano folti baffi e un berretto da marinaio, come se questa fosse l'uniforme della loro professione. «Questi sono Robin e Philip» spiegò l'orologiaio. «Robin porterà le valigie e Philip la famiglia. D'accordo?» Senza aspettare l'approvazione familiare, i due forzuti si diressero alla montagna di bauli e con gesti precisi li caricarono sul furgone senza il minimo cenno di sforzo. Max estrasse il suo orologio e guardò la sfera delle lune ridenti. Le lancette segnavano le due del pomeriggio. Il vecchio orologio della stazione segnava le dodici e mezza. «L'orologio della stazione va male» mormorò Max. «Lo vedi?» rispose suo padre, euforico «siamo appena arrivati e già abbiamo lavoro.» Sua madre sorrise debolmente, come sempre faceva di fronte alle espressioni di ottimismo radioso di Maximilian Carver, ma Max poté leggere nei suoi occhi un'ombra di tristezza e quella strana luce che, fin da bambino, lo aveva portato ad attribuirle la capacità di leggere nel futuro. «Andrà tutto bene, mamma» disse Max, sentendosi uno scemo un secondo dopo aver pronunciato quelle parole. Essa gli accarezzò la guancia e gli sorrise. «Certo, Max. Andrà tutto bene.» In quel momento Max ebbe la certezza che qualcuno lo stava osservando. Girò rapidamente lo sguardo e poté vedere come, tra le sbarre di una delle finestre della stazione, un grosso gatto tigrato lo fissava, come se potesse leggere i suoi pensieri. Il felino socchiuse gli occhi e, con un salto che rivelava un'agilità impensabile in un animale di quella taglia, si avvicinò alla piccola Irina e strofinò il dorso contro le sue caviglie bianche. La bimba si inginocchiò per accarezzare l'animale, che miagolava piano. Irina lo prese in braccio, e l'animale si lasciò cullare docilmente, leccando con delicatezza le dita della bambina, che sorrideva ammaliata dal fascino del felino. Irina, con il gatto in braccio, si avvicinò alla famigliola che stava
aspettando. «Non abbiamo fatto in tempo ad arrivare che già hai raccolto una bestia. Con tutte le schifezze che si porterà addosso» sentenziò Alicia con evidente fastidio. «Non è una bestia. È un gatto e lo hanno abbandonato» replicò Irina «Mamma?» «Irina, non siamo neppure arrivati a casa» cominciò sua madre. La bambina mise su un faccino rincresciuto, al quale contribuì il felino con un miagolio dolce e seduttore. «Può stare nel giardino. Per favore...» «È un gatto grasso e sporco» aggiunse Alicia. «Gliela darai vinta ancora una volta?» Irina lanciò a sua sorella maggiore uno sguardo penetrante e tagliente che prometteva una dichiarazione di guerra a meno che quest'ultima non chiudesse la bocca. Alicia sostenne lo sguardo qualche istante, quindi si voltò con uno sbuffo di rabbia, allontanandosi fin dove i facchini stavano caricando i bagagli. Durante il tragitto incrociò il padre, al quale non sfuggì la sua espressione infuriata. «Stiamo già litigando?» chiese Maximilian Carver. «E questo?» «È solo e abbandonato. Non lo possiamo tenere? Starà in giardino e me ne occuperò io. Lo prometto» si affrettò a spiegare Irina. L'orologiaio, perplesso, guardò il gatto e poi sua moglie. «Non so che cosa dirà tua madre...» «E che dici tu, Maximilian Carver?» replicò la moglie con un sorriso che sottolineava come la divertiva rilanciare il dilemma a suo marito. «Bene. Bisognerebbe portarlo dal veterinario e inoltre...» «Per favore...» frignò Irina. L'orologiaio e la moglie si scambiarono uno sguardo di intesa. «Perché no?» concluse Maximilian Carver, che non se la sentiva di cominciare l'estate con una lite in famiglia. «Ma te ne occuperai tu. Promesso?» Il viso di Irina si illuminò e le pupille del felino si strinsero fino a diventare aghi neri sulla sfera dorata e luminosa dei suoi occhi. «Su, andiamo! Il bagaglio è già caricato» disse l'orologiaio. Irina prese il gatto in braccio, correndo verso il furgone. Il felino, con la testa appoggiata sulla spalla della bimba, mantenne gli occhi fissi su Max, che pensò: "Ci stava aspettando". «Non rimanertene lì impalato, Max. In marcia.» ripeté suo padre in-
camminandosi verso il pulmino, mano nella mano con la madre. Il ragazzo li seguì. Fu allora che qualcosa lo fece girare inducendolo a guardare di nuovo il quadrante annerito dell'orologio della stazione. Lo osservò attentamente e si accorse che c'era qualcosa che non andava. Ricordava perfettamente che all'arrivo alla stazione l'orologio indicava che le dodici erano passate da mezz'ora. Adesso le lancette segnavano le dodici meno dieci. «Max!» risuonò la voce di suo padre, che lo chiamava dal furgone «Stiamo andando!» «Vengo» mormorò Max tra sé e sé, continuando a guardare il quadrante. L'orologio non era rotto; funzionava perfettamente, con un solo particolare: andava al contrario. Capitolo secondo La nuova casa dei Carver era situata all'estremo nord di una spiaggia che si allungava di fronte al mare con una distesa di sabbia bianca e luminosa, con piccole isole di erbe selvatiche che si agitavano al vento. La spiaggia formava un prolungamento del paese, costituito da piccole case di legno a due piani, le quali, per lo più dipinte con delicate tonalità pastello, col loro giardino e i muri di cinta bianchi, armoniosamente allineate, confermavano l'idea di casa di bambola che Max aveva avuto appena arrivato. Attraversarono l'abitato, la strada principale e la piazza del municipio, mentre Maximilian Carver illustrava le meraviglie del paese, con l'entusiasmo di una guida locale. Il posto era tranquillo e circonfuso dalla stessa luce che aveva affascinato Max quando aveva visto il mare la prima volta. La maggior parte degli abitanti usava la bicicletta per muoversi, o semplicemente andava a piedi. Le strade erano pulite e l'unico rumore che si sentiva, tranne qualche raro veicolo a motore, era il dolce infrangersi delle onde sulla spiaggia. Man mano che percorrevano il paese, Max poté vedere come i volti dei suoi familiari riflettevano i pensieri suscitati dalla visione di quel che sarebbe stato il nuovo scenario della loro vita. La piccola Irina e il suo alleato felino guardavano sfilare ordinatamente edifici e strade con serena curiosità, come se si sentissero a casa. Alicia, assorta in pensieri impenetrabili, sembrava essere a mille chilometri da lì, e questo non faceva che confermare la convinzione di Max di quanto poco sapesse della sorella maggiore. Sua madre guardava il paese con rassegnata accettazione, imponendosi di sor-
ridere per non rivelare l'inquietudine che, per qualche motivo che Max non riusciva a intuire, la opprimeva. Infine Maximilian Carver osservava con aria di trionfo il suo nuovo habitat, lanciando sguardi a ciascun membro della famiglia, che puntualmente rispondeva con un sorriso di consenso (qualunque altro atteggiamento avrebbe spezzato il cuore al buon orologiaio, convinto di aver portato i suoi cari nel nuovo paradiso). Alla vista di quelle stradine luminose e tranquille, Max pensò che il fantasma della guerra diventava lontano e perfino irreale e che, forse, suo padre aveva avuto un'intuizione geniale decidendo di trasferirsi in quel luogo. Quando i furgoni infilarono il sentiero che conduceva alla casa sulla spiaggia, Max aveva già cancellato dalla sua mente l'orologio della stazione e l'inquietudine che il nuovo amico di Irina gli aveva provocato al principio. Volse lo sguardo verso l'orizzonte e gli sembrò di distinguere la silhouette di un veliero, nera e sottile, tra la caligine che appannava la superficie dell'oceano. Pochi secondi dopo era scomparsa. La casa aveva due piani e si elevava a circa cinquanta metri dalla linea della spiaggia, circondata da un piccolo giardino recintato da una staccionata bianca che reclamava una mano di vernice. Era costruita in legno e, tranne per il tetto scuro, era dipinta di bianco e manteneva uno stato dignitoso, tenuto conto della vicinanza del mare e della corrosione cui il vento umido e pregno di salsedine la sottoponeva quotidianamente. Lungo il cammino, Maximilian Carver spiegò ai suoi che la casa era stata costruita nel 1928 per la famiglia di un prestigioso chirurgo di Londra, il dottor Richard Fleischmann, e sua moglie, Eva Gray, come residenza estiva sulla costa. A suo tempo la casa era sembrata un'eccentricità agli occhi degli abitanti del luogo. I Fleischmann erano una coppia senza figli, solitaria e all'apparenza poco disposta a familiarizzare con la gente del paese. Alla sua prima visita, il dottor Fleischmann aveva chiaramente ordinato che sia i materiali sia la mano d'opera fossero portati direttamente da Londra. Tale capriccio fece triplicare il costo della casa, ma le tasche del chirurgo potevano permetterselo. Gli abitanti osservarono scettici e diffidenti l'andirivieni, durante tutto l'inverno del 1927, degli innumerevoli operai e camion da trasporto mentre lo scheletro della casa alla fine della spiaggia si alzava lentamente, giorno dopo giorno. Finalmente, nella primavera del '28, gli imbianchini diedero l'ultima mano di vernice e, alcune settimane dopo, la coppia vi si installò per passarvi l'estate. La casa sulla spiaggia si trasformò presto in un tali-
smano che avrebbe cambiato la sorte dei Fleischmann. La moglie del chirurgo, che sembrava aver perso la capacità di concepire un figlio in un incidente di alcuni anni prima, era rimasta incinta in quel primo anno. Il 23 giugno del 1928, la moglie di Fleischmann diede alla luce, assistita dal marito sotto il tetto della casa sulla spiaggia, un bambino che avrebbe portato il nome di Jacob. Jacob fu la benedizione del cielo che cambiò il carattere amaro e solitario dei Fleischmann. Subito il dottore e sua moglie cominciarono a fare amicizia con gli abitanti del paese e diventarono personaggi popolari e stimati durante i nove anni di felicità che trascorsero nella casa sulla spiaggia, fino alla tragedia del 1936. Un mattino di agosto di quell'anno, il piccolo Jacob affogò mentre giocava sulla spiaggia proprio davanti a casa. Tutta l'allegria e la luce che il figlio tanto desiderato avevano recato alla coppia si spense quel giorno per sempre. Durante l'inverno del '36, la salute di Fleischmann si andò progressivamente deteriorando e i suoi medici si accorsero subito che non sarebbe arrivato a vedere l'estate del 1937. Un anno dopo la disgrazia, gli avvocati della vedova misero in vendita la casa, che rimase vuota e senza acquirenti per anni, dimenticata sulla punta estrema della spiaggia. Fu così che, per puro caso, Maximilian Carver ebbe notizia della sua esistenza. L'orologiaio stava tornando da un viaggio in cui aveva comprato pezzi e strumenti per il suo laboratorio, quando decise di pernottare nel paese. Durante la cena nell'alberghetto locale intavolò una conversazione con il proprietario, al quale Maximilian espresse l'antico desiderio di vivere in un posto come quello. Il proprietario dell'albergo gli parlò della casa e Maximilian decise di rimandare la partenza per vederla il giorno seguente. Nel viaggio di ritorno la sua mente rimescolava cifre e valutava la possibilità di aprire un laboratorio da orologiaio nel paese. Ci mise otto mesi per comunicare la notizia alla famiglia, ma in fondo al cuore aveva già preso la sua decisione. Il primo giorno nella casa sulla spiaggia avrebbe lasciato impressa nella memoria di Max una curiosa collezione di immagini insolite. Per cominciare, non appena i furgoni si fermarono di fronte alla casa e Robin e Philip cominciarono a scaricare i bagagli, Maximilian Carver riuscì inspiegabilmente a inciampare in un secchio dimenticato nel giardino e, dopo aver tracciato una traiettoria fatta di zompi vertiginosi, atterrò sulla staccionata bianca, distruggendone più di quattro metri. L'incidente si chiuse con le ri-
sate soffocate della famiglia e un grosso livido per la vittima, ma nulla di serio. I due robusti facchini portarono i colli del bagaglio fino al porticato della casa e, considerando conclusa la loro missione, scomparvero lasciando alla famiglia l'onore di issare i bauli su per le scale. Quando Maximilian Carver aprì solennemente la casa, un odore di chiuso sgusciò dalla porta come un fantasma che fosse rimasto imprigionato per anni fra le sue pareti. L'interno era inondato da una debole nebbiolina di polvere e di luce tenue che filtrava dalle persiane abbassate. «Dio mio» mormorò fra sé la madre di Max, calcolando le tonnellate di polvere che avrebbe dovuto pulire. «Una meraviglia» si affrettò a precisare Maximilian Carver «Ve l'avevo detto.» Max incrociò uno sguardo di rassegnazione con la sorella Alicia. La piccola Irina contemplava imbambolata l'interno della casa. Prima che qualche membro della famiglia potesse spiccicare parola, il gatto di Irina saltò giù dalle sue braccia e con un sonoro miagolio si lanciò su per le scale. Un attimo dopo, seguendo il suo esempio, Maximilian Carver entrò nella nuova dimora familiare. «Almeno a qualcuno piace» mormorò Alicia, o almeno così parve a Max di aver sentito. La prima cosa che la madre ordinò di fare fu di spalancare porte e finestre e ventilare la casa. Poi, per cinque ore, tutta la famiglia si dedicò a rendere abitabile il nuovo alloggio. Con la precisione di un esercito specializzato, ogni membro intraprese un compito specifico. Alicia preparò le stanze e i letti. Irina, piumino in mano, fece saltare nuvole di polvere dai loro nascondigli e Max, seguendo la sua scia, si incaricò di raccoglierla. Intanto, la madre distribuiva il bagaglio e prendeva mentalmente nota di tutti i lavori che molto presto sarebbero stati da fare. Maximilian Carver dedicò i suoi sforzi a ottenere che l'impianto idraulico, la luce e gli altri marchingegni tecnici della casa riprendessero a funzionare dopo un letargo di anni e anni di disuso, compito che non risultò facile. Alla fine, la famiglia si riunì sotto il porticato e tutti, seduti sugli scalini della nuova abitazione, si concessero un meritato riposo mentre ammiravano la tinta dorata che il mare stava prendendo al calar del sole. «Per oggi, basta così» concesse Maximilian Carver, completamente coperto di fuliggine e di altri misteriosi residui. «Un paio di settimane di lavoro e la casa comincerà ad essere abitabile»
aggiunse la madre. «Nelle stanze sopra ci sono dei ragni» spiegò Alicia. Enormi. «Ragni? Wow!» esclamò Irina «E come sono?» «Assomigliano a te» rispose Alicia. «Non cominciamo, d'accordo?» interruppe la madre sfregandosi la punta del naso «Max li ucciderà.» «Non vedo perché ucciderli; basta prenderli e metterli in giardino» suggerì l'orologiaio. «A me toccano sempre le missioni eroiche» mormorò Max. «Si può aspettare fino a domani per lo sterminio?» «Alicia?» intercesse sua madre. «Non ho nessuna intenzione di dormire in una stanza piena di ragni e di chissà quante altre bestiacce» dichiarò Alicia. «La signorina...» sentenziò Irina. «Max, prima che scoppi una guerra, falla finita con questi ragni» disse Maximilian Carver con voce stanca. «Li uccido o mi limito a minacciarli? Potrei storcergli una gamba...» suggerì Max. «Max!» tagliò corto sua madre. Il ragazzo si stirò ed entrò in casa pronto a farla finita con i suoi antichi inquilini. Si infilò per le scale che portavano al piano superiore dove c'erano le stanze da letto. Dall'alto dell'ultimo scalino, gli occhi brillanti del gatto di Irina l'osservavano fissi, senza battere le palpebre. Max passò davanti al gatto, che sembrava sorvegliare il piano superiore come una sentinella. Non appena si diresse verso una delle stanze, l'animale seguì i suoi passi. Il pavimento di legno scricchiolava molto debolmente sotto i suoi piedi. Max cominciò la caccia e la cattura di ragni dalle stanze che davano a sudest. Dalle finestre si poteva vedere la spiaggia e la parabola discendente del sole verso il tramonto. Esaminò attentamente il suolo in cerca dei piccoli esseri pelosi e corridori. Dopo la corvée, il pavimento di legno era rimasto abbastanza pulito e Max ci mise un paio di minuti per individuare il primo membro della famiglia di aracnidi. Da uno degli angoli, osservò un ragno di notevoli dimensioni avanzare in linea retta verso di lui, come se si trattasse di un bravaccio mandato da quelli della sua razza per intimorirlo. L'insetto doveva misurare circa mezzo pollice e aveva otto zampe, con una macchia dorata sul corpo nero.
Max allungò la mano verso una scopa che riposava appoggiata al muro e si preparò a catapultare l'insetto nell'altra vita. "Tutto questo è ridicolo", pensò fra sé mentre maneggiava la scopa con cautela, come se fosse un'arma mortale. Stava cominciando a calibrare il colpo letale, quando all'improvviso il gatto di Irina si avventò sull'insetto e, aprendo le sue fauci da leone in miniatura, inghiottì il ragno e lo masticò con forza. Max lasciò la scopa e guardò attonito il gatto, che gli restituì uno sguardo malevolo. «Accidenti al gattino» sussurrò. L'animale trangugiò il ragno e uscì dalla stanza, presumibilmente in cerca di qualche parente del suo aperitivo. Max si avvicinò alla finestra. La famiglia si trovava ancora sotto il portico. Alicia gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Io non mi preoccuperei, Alicia. Credo che non vedrai più un ragno.» «Assicurati bene» insistette Maximilian Carver. Max annuì e si diresse verso le stanze che davano sul retro della casa, verso nord-est. Sentì miagolare il gatto lì vicino e suppose che un altro ragno fosse caduto nelle grinfie del felino sterminatore. Le stanze della parte posteriore erano più piccole di quelle sulla facciata principale. Da una delle finestre, contemplò il panorama che vi sì poteva osservare. La casa aveva sul retro un piccolo cortile con un capanno per riporre mobili o perfino un veicolo. Un grande albero, la cui chioma svettava sui lucernari della soffitta, si alzava al centro del cortile e, dal suo aspetto, Max immaginò che fosse lì da più di duecento anni. Oltre il cortile, delimitato dal muro di cinta che circondava la casa, si estendeva un campo di erbacce e, a una distanza di circa cento metri, si elevava una specie di piccolo recinto circondato da un muro di pietra biancastra. La vegetazione aveva invaso quel luogo e lo aveva trasformato in una piccola jungla dalla quale emergeva qualcosa che a Max sembravano delle figure: delle figure umane. Le ultime luci del giorno scivolavano sul campo e Max dovette sforzare lo sguardo. Era un giardino abbandonato. Un giardino di statue. Max osservò ipnotizzato lo strano spettacolo delle statue braccate dalla sterpaglia e imprigionate da quel recinto, che faceva pensare a un minuscolo cimitero di paese. Un portale di lance di metallo sigillate da catene impediva l'entrata. In cima alle lance, Max riuscì a distinguere uno scudo formato da una stella a sei punte. Lontano, oltre il giardino di statue, si ergeva il profilo di un folto bosco che sembrava prolungarsi per molte miglia.
«Hai scoperto qualcosa?» la voce della madre alle sue spalle lo distolse dallo sbigottimento provocato da quella visione «Cominciavamo a pensare che i ragni avessero avuto la meglio su di te.» «Sapevi che lì dietro, vicino al bosco, c'è un giardino di statue?» Max indicò il recinto di pietra e sua madre si affacciò al davanzale. «Sta facendo notte. Tuo padre e io andiamo in paese a cercare qualcosa per la cena, poi domani faremo provviste. Vi lasciamo soli. Sta' attento a Irina.» Max annuì. La madre lo baciò delicatamente sulla guancia e scese le scale. Il ragazzo fissò nuovamente lo sguardo verso il giardino di statue, le cui sagome si fondevano poco alla volta con la bruma del crepuscolo. L'aria cominciava a rinfrescarsi. Chiuse la finestra ed eseguì la sua missione nelle altre stanze. La piccola Irina lo raggiunse nel corridoio. «Erano grossi?» chiese affascinata. Max esitò un attimo. «I ragni, Max. Erano grossi?» «Come il pugno di una mano» rispose con aria importante. «Wow!» Capitolo terzo Il giorno dopo, poco prima dell'alba, a Max sembrò di sentire una figura avvolta nelle brume notturne sussurrargli parole all'orecchio. Saltò su di colpo, respirando a fatica, mentre il cuore gli batteva forte. Era solo nella stanza. L'immagine di quella vaga figura che gli aveva mormorato in sogno si dissolse in pochi secondi. Allungò la mano al comodino e accese l'abat-jour che Maximilian Carver aveva aggiustato la sera precedente. Attraverso la finestra filtravano le prime luci del giorno sopra il bosco. Una nebbiolina scorreva lentamente sul campo di erbacce selvatiche e la brezza apriva degli squarci dai quali si intravedevano i profili del giardino di statue. Max prese l'orologio da tasca dal comodino e lo aprì. Le sferette con le lune sorridenti brillavano come lamine d'oro. Mancavano pochi minuti alle sei del mattino. Si vestì in silenzio e scese le scale con circospezione, per non svegliare il resto della famiglia. Si diresse verso la cucina dove sulla tavola di legno c'erano ancora i resti della cena della sera prima. Aprì la porta della cucina che dava sul cortile posteriore e uscì. L'aria fresca e umida dell'alba pizzicava la pelle. Max attraversò silenziosamente il cortile fino alla porta del
muro di cinta e, chiudendosela alle spalle, si addentrò nella nebbia in direzione del giardino di statue. La passeggiata attraverso la nebbia gli parve più lunga del previsto. Dalla finestra della stanza, il recinto di pietra sembrava trovarsi a un centinaio di metri dalla casa. Invece, mentre camminava fra le erbacce, ebbe l'impressione di aver percorso più di trecento metri quando, dalla bruma, emerse il portale di lance del giardino di statue. Una catena arrugginita circondava le sbarre di metallo annerito, chiusa da un vecchio lucchetto sbiadito dal tempo. Max appoggiò il viso fra le lance della porta ed esaminò l'interno. La sterpaglia con gli anni aveva invaso tutto il terreno e conferiva al luogo l'aspetto di una serra abbandonata. Max pensò che probabilmente nessuno aveva più messo piede lì dentro da molto tempo e che chiunque fosse stato il guardiano di quel giardino di statue doveva essere scomparso già da molti anni. Si guardò intorno e trovò una pietra grossa come la sua mano vicino al muro del giardino. La impugnò e colpì più volte, con forza, il lucchetto che teneva i capi della catena, fino a quando il vecchio anello non cedette. La catena si aprì, dondolando lungo le sbarre come trecce di una capigliatura metallica. Max spinse con forza le sbarre e le sentì cedere pigramente verso l'interno. Quando il varco fra le due ante della porta fu sufficiente per lasciarlo passare, riposò un attimo ed entrò nel recinto. Una volta dentro, si accorse che il recinto era più grande di quanto avesse creduto. A prima vista avrebbe giurato che ci fossero una ventina di statue seminascoste fra la vegetazione. Fece alcuni passi e si addentrò nel giardino selvaggio. Apparentemente le figure erano disposte a cerchi concentrici e Max si rese conto per la prima volta che tutte erano rivolte verso ovest. Le statue sembravano far parte di uno stesso gruppo e rappresentavano qualcosa di simile alla troupe di un circo. Man mano che avanzava in mezzo a loro, distinse più nitidamente le figure rappresentate: un domatore, un fachiro dal naso aquilino con il capo sormontato da un turbante, una donna contorsionista e via via tutta una galleria di personaggi scappati da un circo fantasma. Al centro del giardino di statue riposava su un piedistallo una grande figura che rappresentava un pagliaccio sorridente con i capelli ricci. Aveva un braccio teso e con il pugno, chiuso in un guanto enorme e sproporzionato, sembrava volesse colpire un oggetto invisibile nell'aria. Ai suoi piedi, Max vide una grande lastra di pietra sulla quale si intuiva un disegno in rilievo. Si mise ginocchioni e spostò l'erbaccia che ne copriva la fredda su-
perficie, scoprendo una grande stella a sei punte circondata da un cerchio. Riconobbe il simbolo, identico a quello che c'era sulle lance della porta. Guardando attentamente la stella, Max capì che la disposizione delle statue, che all'inizio gli era sembrata a cerchi concentrici, in realtà riproduceva l'immagine della stella a sei punte. Ognuna delle figure del giardino si ergeva nei punti dove le linee ideali da cui era formata la stella si intersecavano. Max si alzò e osservò lo spettacolo spettrale che lo circondava. Percorse con lo sguardo ognuna delle statue avvolte nel fusto di erbacce che si agitavano al vento, per poi fermarsi di nuovo sul grande pagliaccio. Un brivido lo scosse, e fece un passo indietro. La mano della statua, che pochi attimi prima aveva visto stretta in un pugno, era aperta con il palmo teso in segno di invito. Per un secondo Max sentì l'aria fredda del mattino bruciargli la gola e le pulsazioni del cuore rimbombargli con forza nelle tempie. Lentamente, come se avesse paura di svegliare le statue dal loro sonno eterno, rifece il cammino fino alla grata del recinto continuando a guardarsi alle spalle a ogni passo. Una volta attraversata la porta gli sembrò che la casa sulla spiaggia fosse molto lontana. Senza pensarci due volte si lanciò di corsa e questa volta non si guardò indietro finché non fu giunto al muro di cinta del cortile posteriore. Quando si voltò, il giardino di statue era sommerso di nuovo nella nebbia. Il profumo di burro e di pane abbrustolito inondava la cucina. Alicia guardava svogliata la sua colazione mentre la piccola Irina versava un po' di latte al gatto appena adottato in un piatto che il felino si guardò bene dal toccare. Max osservò la scena pensando fra sé che le abitudini alimentari dell'animale erano di tutt'altro tipo, come aveva potuto constatare il giorno prima. Maximilian Carver teneva in mano una tazza fumante di caffè e contemplava euforico la sua famiglia. «Stamattina presto ho fatto una ricognizione nel garage» cominciò a dire, adottando un tono da "qui arriva il mistero" che era solito usare quando voleva che gli altri pendessero dalle sue labbra. Max, ormai, sapeva leggere nei pensieri del padre come in un libro aperto. «E che cosa hai trovato?» gli concesse. «Non ci crederai» rispose il padre, anche se Max pensava "figuriamoci". «Due biciclette.» Il ragazzo inarcò le sopracciglia in modo interrogativo.
«Sono vecchiotte, però con un po' di grasso sulle catene possono trasformarsi in due bolidi» spiegò Maximilian Carver. «E c'era anche qualcos'altro. Vero che non immaginate che cosa ho trovato?» «Un formichiere» mormorò Irina, senza smettere di guardare il suo gatto. A soli otto anni, la figlia piccola dei Carver aveva già sviluppato una tattica capace di abbattere il morale di suo padre. «No» rispose l'orologiaio, evidentemente infastidito. «Nessuno prova a indovinare?» Max si accorse con la coda dell'occhio che sua madre aveva osservato la scena e, dato che nessuno sembrava molto interessato alle imprese da investigatore del marito, stava per lanciarsi in suo soccorso. «Un album di fotografie?» suggerì Andrea Carver con il suo tono di voce più dolce. «Quasi quasi» rispose l'orologiaio, di nuovo eccitato. «Max?» Sua madre lo guardò di sottecchi. Max annuì. «Non so. Un diario?» «No. Alicia?» «Mi arrendo» rispose Alicia, visibilmente assente. «Bene bene. Preparatevi» cominciò Maximilian Carver. «Ho trovato un proiettore. Un proiettore di film. E una scatola piena di pellicole.» «Che tipo di pellicole?» tagliò corto Irina, alzando lo sguardo dal suo gatto per la prima volta da un quarto d'ora. Maximilian Carver strinse le spalle. «Non so. Pellicole. Non è affascinante? Abbiamo il cinema in casa.» «Sempre che il proiettore funzioni» insinuò Alicia. «Grazie per l'incoraggiamento, figlia, però ti ricordo che tuo padre si guadagna da vivere aggiustando macchinari guasti.» Andrea Carver appoggiò le mani sulle spalle del marito. «Mi fa molto piacere sentire questo, signor Carver» disse «perché sarebbe opportuno che qualcuno scambiasse qualche idea con la caldaia in cantina.» «Lasciala a me» rispose l'orologiaio, alzandosi da tavola. Alicia seguì il suo esempio. «Signorina» interruppe Andrea Carver, «prima la colazione: non l'hai toccata.» «Non ho fame.» «Potrei mangiarla io» suggerì Irina. Andrea Carver escluse drasticamente tale eventualità.
«Non vuole ingrassare» sussurrò maliziosa Irina al suo gatto. «Non posso mangiare con intorno questo coso che agita la coda e perde peli» brontolò Alicia. Irina e il felino la guardarono con lo stesso disprezzo. «Scema» sentenziò Irina, uscendo in cortile con l'animale. «Perché gliela dai sempre vinta? Quando io avevo la sua età, non me ne lasciavi passare neppure la metà» protestò Alicia. «Vogliamo cominciare un'altra volta con questa storia?» disse Andrea Carver con voce calma. «Non ho cominciato io» replicò la figlia maggiore. «Va bene. Mi rincresce.» Andrea Carver accarezzò leggera i capelli di Alicia, che piegò la testa per schivare il gesto conciliante. «Però finisci la colazione. Per favore.» In quel momento un frastuono metallico risuonò sotto i loro piedi. Tutti si guardarono. «Vostro padre è entrato in azione» mormorò Andrea Carver mentre finiva la sua tazza di caffè. Con gesto abitudinario, Alicia cominciò a masticare la sua fetta tostata mentre Max cercava di togliersi dalla testa l'immagine di quella mano tesa e lo sguardo fuori dalle orbite del pagliaccio che sorrideva nella nebbia del giardino di statue. Capitolo quarto Le biciclette che Maximilian Carver aveva recuperato dal limbo del piccolo garage erano in uno stato migliore di quanto Max si aspettasse. Di fatto, sembrava quasi che non fossero mai state usate. Armato di un paio di panni e di un liquido speciale per pulire metalli, che sua madre si portava sempre dietro, Max scoprì che sotto la crosta di sudiciume e di muffa le due biciclette erano nuove e splendenti. Con l'aiuto del padre, lubrificò catena e pignoni e gonfiò le ruote. «È probabile che si debbano cambiare le catene» spiegò Maximilian Carver «ma per il momento si può già andare.» Una delle biciclette era più piccola dell'altra e, mentre le puliva, Max continuava a domandarsi se il dottor Fleischmann avesse comprato quelle biciclette anni prima con la speranza di andarci a passeggiare con Jacob lungo la spiaggia. Maximilian Carver lesse nello sguardo del figlio l'ombra di un senso di colpa.
«Sono sicuro che il vecchio dottore sarebbe stato felice che tu prendessi la bicicletta.» «Non ne sono così sicuro» mormorò Max. «Perché le avranno lasciate qui?» «I ricordi brutti ti perseguitano senza bisogno di portarseli dietro» rispose Maximilian Carver. «Credo che nessuno le abbia più usate. Dai, sali. Andiamo a provarle.» Misero le biciclette a terra e Max sistemò il sellino all'altezza voluta, provando anche la tensione dei cavi dei freni. «Bisognerebbe mettere ancora un po' di grasso ai freni» dichiarò Max. «Lo supponevo» confermò l'orologiaio, e si mise all'opera. «Senti, Max.» «Sì, papà.» «Non pensarci troppo a questa cosa delle biciclette, d'accordo? Quello che successe a quella povera famiglia non ha nulla a che vedere con noi. Non so se ho fatto bene a raccontarvelo» confessò l'orologiaio con un'ombra di preoccupazione sul volto. «Non importa.» Max tese nuovamente il freno. «Così è perfetto.» «E allora va.» «Non vieni con me?» chiese Max. «Questo pomeriggio, se ne avrai ancora la forza, ti darò una lezione che non dimenticherai. Ma alle undici devo vedere in paese un certo Fred, che mi darà un locale per il mio negozio. Bisogna occuparsi degli affari.» Maximilian Carver cominciò a raccogliere gli attrezzi e a pulirsi le mani con uno degli straccetti. Max osservò suo padre chiedendosi come doveva essere stato alla sua età. Era un luogo comune, in famiglia, dire che loro due si assomigliavano, o che Irina assomigliava alla madre; uno di quegli sciocchi luoghi comuni che nonne, zie e tutta quella serie di cugini insopportabili che apparivano ai pranzi e alle cene di Natale ripetevano anno dopo anno come pappagalli. «Ecco Max in una delle sue tipiche trance» commentò sorridendo Maximilian Carver. «Lo sapevi che vicino al bosco dietro casa c'è un giardino di statue?» rispose ad effetto Max, lui stesso sorpreso di sentirsi pronunciare la domanda. «Immagino che ci siano molte cose da queste parti che non abbiamo ancora visto. Anche il garage è pieno di scatole e stamattina ho visto che la cantina della caldaia sembra un museo. Ho l'impressione che se vendessi-
mo tutti i ferrivecchi di questa casa a un antiquario, non dovrei neppure aprire il negozio; vivremmo di rendita.» Maximilian Carver rivolse uno sguardo interrogativo al figlio. «Senti un po', se non la provi, quella bicicletta finirà per ricoprirsi di nuovo di muffa e si trasformerà in un fossile.» «Lo è già» disse Max, dando il primo colpo di pedale alla bicicletta che Jacob Fleischmann non aveva avuto il tempo di inaugurare. Max pedalò sulla strada lungo la spiaggia verso il paese, costeggiando una lunga fila di case molto simili alla sua, che sboccava proprio nella piccola baia del porto dei pescatori. Ancorate ai vecchi moli c'erano solo quattro o cinque barche, quasi tutte piccole imbarcazioni di legno che non superavano i quattro metri di lunghezza e che i pescatori locali utilizzavano per battere la costa con vecchie reti, a un centinaio di metri dalla spiaggia. Max si destreggiò con la bicicletta nel labirinto di barche in riparazione sui moli e tra le pile di casse del mercato del pesce. Puntando dritto al piccolo faro, si infilò sul muraglione curvo che chiudeva il porto come una mezzaluna. Giunto all'estremità, appoggiò la bicicletta vicino al faro e si sedette a riposare su una delle grandi pietre sull'altro lato della diga, rosicchiate dai flutti. Da lì poteva contemplare l'oceano distendersi come una lastra accecante di luce all'infinito. Era lì seduto di fronte al mare da pochi minuti quando vide un'altra bicicletta guidata da un ragazzo alto e magro che si avvicinava al molo. Il ragazzo, che secondo Max doveva avere sedici o diciassette anni, portò la bicicletta fino al faro e la lasciò vicino a quella di Max. Poi, lentamente, si tirò indietro i capelli dal volto e si diresse verso di lui. «Ciao. Tu sei uno della famiglia che è andata ad abitare nella casa in fondo alla spiaggia?» Max annuì. «Sono Max.» Il ragazzo, dalla pelle molto abbronzata dal sole e con gli occhi verdi e penetranti, gli tese la mano. «Roland. Benvenuto nella città della noia.» Max sorrise e strinse la mano di Roland. «Come va la casa? Vi piace?» chiese il nuovo arrivato. «Ci sono opinioni contrastanti. Mio padre è entusiasta. Il resto della famiglia la pensa diversamente» spiegò Max.
«Ho conosciuto tuo padre qualche mese fa, quando era venuto in paese» disse Roland. «Mi era sembrato un tipo divertente. Orologiaio, vero?» «È un tipo divertente,» confermò Max «a volte. Altre volte si mette in testa strane idee come quella di trasferirsi qui.» «Perché siete venuti a vivere in paese?» chiese Roland. «La guerra» rispose Max. «Mio padre pensa che non sia un buon momento per vivere in città. Immagino che abbia ragione.» «La guerra» ripeté Roland, abbassando gli occhi. «Io verrò reclutato a settembre.» Max rimase muto. Roland si accorse del suo silenzio e sorrise di nuovo. «Ci sono anche i lati positivi» disse. «Forse è la mia ultima estate in paese.» Max ricambiò timidamente il sorriso, pensando che tra pochi anni, se la guerra non fosse finita, anche lui sarebbe stato arruolato nell'esercito. Persino in un giorno così luminoso come quello, l'invisibile fantasma della guerra avvolgeva il futuro in un manto di nebbie. «Immagino che tu non abbia ancora visto il paese» disse Roland. Max confermò. «Bene, pivellino. Prendi la bici. Cominciamo la visita turistica su due ruote.» Max doveva faticare per tenere il ritmo di Roland, e dopo aver pedalato per appena duecento metri dalla punta del muraglione cominciò a sentire le prime gocce di sudore scivolare sulla fronte e sui fianchi. Roland si voltò con un sorriso ironico. «Ti manca l'allenamento, eh? La vita di città ti ha fatto perdere la forma» gli gridò senza rallentare. Max seguì il compagno lungo la strada che seguiva la costa per poi inoltrarsi per le vie del paese. Quando stava per restare indietro, Roland diminuì la velocità per poi fermarsi vicino a una grande fontana di pietra al centro di una piazza. Max pedalò fin lì e lasciò la bicicletta a terra. L'acqua sgorgava deliziosamente fresca dalla fontana. «Te lo sconsiglio» disse Roland, leggendogli nel pensiero. «Prendi fiato.» Max fece un profondo respiro, poi mise la testa sotto il getto di acqua fredda. «Andremo più piano» concesse Roland. Max restò sotto la doccia della fontana qualche secondo, poi si appoggiò
alla pietra, con la testa che sgocciolava sui vestiti. Roland gli sorrideva. «A dire il vero non me l'aspettavo che resistessi tanto. Questo» e indicava tutto intorno «è il centro del paese. La piazza del municipio. Quell'edificio è il tribunale, ma ormai non è più usato. La domenica ci fanno il mercato. E di notte, in estate, proiettano film sulla parete del municipio. Di solito vecchie pellicole e con le bobine in ordine sparso.» Max annuì appena, mentre recuperava il fiato, poi riuscì con fatica a chiedere: «E che cosa si può fare qui, oltre che andare in bici?» «Buona domanda, Max. Vedo che cominci a capire. Continuiamo?» Max sospirò e tornarono tutti e due alle biciclette. «Però adesso lo do io il ritmo» pretese Max. Roland si strinse nelle spalle e cominciò a pedalare. Per un paio d'ore Roland guidò l'amico su e giù per il piccolo paese e i dintorni. Videro le scogliere dell'estremo sud, e Roland gli rivelò che quello era il posto migliore per nuotare sott'acqua, vicino a una vecchia nave affondata nel 1918 e che ora si era trasformata in una jungla sottomarina ricoperta dai i più strani tipi di alghe. Roland gli spiegò che, durante una terribile tormenta notturna, l'imbarcazione si era incagliata nelle pericolose rocce che giacevano pochi metri sotto la superficie. La furia del temporale e l'oscurità della notte, rotta solo dalle saette dei lampi, avevano provocato la morte di tutti i membri dell'equipaggio, affogati nel naufragio. Tutti eccetto uno. L'unico sopravvissuto di quella tragedia fu un ingegnere, di cui una famiglia del paese si prese cura finché non si fu ristabilito. Successivamente, grato alla provvidenza che lo aveva risparmiato, l'uomo volle costruire un faro in cima alle ripide scogliere che dominavano quel tratto di mare. Del faro egli divenne poi il guardiano, incarico che ricopriva tuttora. Qualche anno più tardi la coppia di sposi che lo aveva ospitato trovò la morte in un incidente stradale. L'ingegnere prese allora con sé il loro unico figlio, divenendo per lui il "nonno adottivo". Quel bimbo, di appena un anno, altri non era se non lo stesso Roland. Roland viveva con lui nella casa del faro, anche se passava la maggior parte del tempo nella capanna che si era costruito sulla spiaggia, ai piedi della scogliera. Il guardiano del faro era a tutti gli effetti il suo vero nonno. La voce di Roland tradì una certa amarezza mentre riferiva tali avvenimenti, che Max ascoltò in silenzio senza fare domande. Dopo il racconto del naufragio,
camminarono per le vie intorno fino alla vecchia chiesa dove Max conobbe alcuni paesani, gente affabile che si affrettò a dargli il benvenuto. Finalmente, Max, esausto, decise che non era necessario conoscere tutto il paese in una sola mattina: se, come sembrava, doveva trascorrere lì alcuni anni, avrebbe avuto tutto il tempo di scoprirne i misteri, ammesso che ve ne fossero. «Anche questo è vero» concordò Roland. «Senti, quasi tutte le mattine in estate io vado a fare immersioni alla nave affondata. Vuoi venire con me domani?» «Se ti immergi come vai in bicicletta, io affogherò» disse Max. «Ho maschere e pinne in abbondanza» spiegò Roland. L'offerta era davvero tentatrice. «D'accordo. Devo portare qualcosa?» Roland disse di no. «Porterò tutto io. Bene... a pensarci meglio, porta tu la colazione. Passo a prenderti alle nove a casa tua.» «Nove e mezza.» «Non dormire troppo.» Quando Max incominciò a pedalare di ritorno alla casa sulla spiaggia, le campane della chiesa annunciavano le tre del pomeriggio e il sole andava a nascondersi dietro uno strato di nuvole scure che lasciavano presagire pioggia. Mentre si allontanava, Max si girò un attimo a guardarsi dietro. In piedi vicino alla bicicletta Roland lo salutava con la mano. La burrasca si rovesciò sul paese con una furia sinistra e violenta. In pochi momenti il cielo si trasformò in una volta di piombo e il mare assunse un colore metallico e opaco, come un'immensa zattera di mercurio. I primi fulmini arrivarono accompagnati da violente folate di vento che spingevano la tormenta dal mare. Max si mise a pedalare con forza, ma l'acquazzone lo raggiunse in pieno quando si trovava ancora a cinquecento metri dalla casa sulla spiaggia. Quando arrivò alla cinta bianca, era già inzuppato come se fosse appena uscito dal mare. Corse a lasciare la bicicletta nel capanno del garage ed entrò in casa dalla porta del cortile posteriore. La cucina era deserta, ma un appetitoso profumo aleggiava nella stanza. Sulla tavola Max trovò un vassoio con dei panini, delle cotolette e una brocca di limonata fatta in casa. Di fianco al vassoio, un bigliettino scritto con la grafia stilizzata di Andrea Carver: Max, questo è il tuo pranzo. Tuo padre e io staremo in paese tutto il po-
meriggio per questioni di casa. NON usare il bagno di sopra. Irina viene con noi. Max lasciò la nota e si portò il vassoio in camera. La maratona ciclistica della mattina lo aveva lasciato esausto e affamato. La casa sembrava vuota. Alicia non c'era o si era chiusa nella sua stanza. Il ragazzo salì, si cambiò i vestiti e si stese sul letto per gustarsi gli squisiti panini lasciati dalla madre. Fuori la pioggia picchiava con forza e i tuoni facevano tremare le finestre. Accese la piccola lampada sul comodino e prese il libro su Copernico che gli aveva regalato Maximilian Carver. Dopo aver letto per quattro volte, distrattamente, lo stesso paragrafo, si accorse che moriva dalla voglia di andare a immergersi con Roland nelle acque che ricoprivano la nave affondata. Si sbafò i panini in meno di dieci minuti e poi chiuse gli occhi, ascoltando solo il picchiettio della pioggia e il suono dell'acqua che scivolava giù dalle grondaie che correvano lungo il bordo del tetto. Quando pioveva forte, Max aveva l'impressione che il tempo si fermasse. Era come un momento di tregua durante il quale egli poteva interrompere qualunque cosa e mettersi semplicemente alla finestra a contemplare per ore lo spettacolo di quell'infinito velo di lacrime del cielo. Lasciò di nuovo il libro sul comodino e spense la luce. Lentamente, avvolto dal suono ipnotico della pioggia, si abbandonò al sonno. Capitolo quinto Le voci dei familiari al piano di sotto e le corsette di Irina su e giù per le scale svegliarono Max. Faceva già scuro, ma egli poté vedere che la tormenta era passata lasciandosi alle spalle un tappeto di stelle nel cielo. Lanciò uno sguardo all'orologio e si accorse di aver dormito quasi sei ore. Stava per alzarsi quando sentì dei colpi alla porta. «È ora di cena, bella addormentata» ruggì la voce allegra di Maximilian Carver dall'altra parte. Per un momento, Max si chiese perché mai suo padre fosse adesso così contento. Poi si ricordò dell'appuntamento cinematografico promesso quella stessa mattina a colazione. «Adesso scendo» rispose, con in bocca ancora il sapore pastoso dei panini di carne. «Sarà meglio» disse l'orologiaio, mentre scendeva al piano di sotto. Anche se non aveva il minimo appetito, Max scese in cucina e si sedette
a tavola insieme al resto della famiglia. Alicia guardava assente il piatto, senza toccarlo. Irina divorava con gusto la propria razione e mormorava incomprensibili parole al suo odioso gatto, che la fissava immobile. Cenarono con calma mentre Maximilian Carver spiegava come avesse trovato in paese un locale perfetto per montarvi la sua orologeria e cominciare di nuovo il lavoro. «E tu che cosa hai fatto, Max?» chiese Andrea Carver. «Sono stato in paese.» Il resto della famiglia lo guardò, aspettandosi maggior particolari. «Ho conosciuto un ragazzo, Roland. Domani andiamo a fare immersione.» «Max si è già fatto un amico» esclamò Maximilian Carver trionfante. «Ve lo avevo detto o no?» «E com'è questo Roland, Max?» chiese Andrea Carver. «Non so. Simpatico. Vive con il nonno, il guardiano del faro. Mi ha fatto vedere un mucchio di cose del paese.» «E dove andate a fare immersione?» chiese il padre. «In una spiaggia a sud, dall'altra parte del porto. Secondo Roland, lì ci sono i resti di una nave affondata molti anni fa.» «Posso andare?» interruppe Irina. «No» tagliò corto Andrea Carver. «Non sarà pericoloso, Max?» «Mamma...» «D'accordo» concesse Andrea Carver «però sta attento.» Max annuì. «Io, da giovane, ero bravo nelle immersioni» cominciò a dire Maximilian Carver. «Adesso no, tesoro» lo anticipò sua moglie. «Non dovevi farci vedere dei filmini?» Maximilian Carver fece spallucce e si alzò, preparandosi a mostrare la propria abilità come cineoperatore. «Dai una mano a tuo padre, Max.» Per un attimo, prima di fare quanto gli veniva chiesto, il ragazzo guardò di sbieco sua sorella Alicia, che era rimasta zitta per tutta la cena. Il suo sguardo assente voleva lasciar chiaramente intendere quanto lontano fosse da lì, ma per un qualche motivo che Max non riusciva a capire nessuno se ne accorgeva o preferiva non accorgersene. Alicia gli restituì un istante l'occhiata. Max cercò di sorriderle. «Vuoi venire con noi domani?» le propose. «Roland ti piacerà.» Alicia sorrise debolmente e, senza dir parola, annuì mentre una scintilla
di luce si accendeva nei suoi occhi scuri e profondi. «È tutto pronto. Via le luci» disse Maximilian Carver mentre finiva di infilare la bobina del film nel proiettore. La macchina sembrava della stessa epoca di Copernico e Max aveva i suoi dubbi sulla possibilità che funzionasse. «Che cosa guardiamo?» chiese Andrea Carver, cullando fra le braccia Irina. «Non ne ho la minima idea» confessò l'orologiaio. «C'è una scatola in garage con decine di pellicole senza nessuna indicazione. Ne ho prese un po' a caso. L'emulsione delle pellicole si rovina molto facilmente e dopo tutti questi anni la cosa più probabile è che si sia sciolta.» «Che cosa vuol dire?» lo interruppe Irina. «Non vedremo niente?» «C'è solo un modo per accertarsene» rispose Maximilian Carver mentre girava l'interruttore del proiettore. In pochi secondi il rumore da vecchia motocicletta del macchinario prese vita e il fascio lampeggiante dell'obiettivo attraversò la sala come una lancia luminosa. Max concentrò lo sguardo sul rettangolo proiettato sulla parete bianca. Era come guardare dentro una lanterna magica, senza sapere con certezza quali visioni ne sarebbero venute fuori. Trattenne il respiro e dopo qualche istante la parete si riempì di immagini. Bastarono pochi secondi a Max per capire che quel film non arrivava dal magazzino di nessun vecchio cinema. Non si trattava della copia di nessun film famoso, e non era neppure un rullo sparso di qualche serie muta. Le immagini sfumate e graffiate dal tempo denunciavano l'evidente dilettantismo di colui che le aveva riprese. Non era altro che un filmino casalingo, girato probabilmente anni prima dall'antico padrone della casa, il dottor Fleischmann. Max pensò che anche tutti gli altri rulli trovati dal padre nel garage vicino al vecchio proiettore dovessero essere la stessa cosa. L'illusione di Maximilian Carver di ritrovarsi un cineclub privato si era spenta in meno di un minuto. Il film riproduceva goffamente una passeggiata in quello che si sarebbe detto un bosco. La pellicola era stata girata mentre l'operatore camminava lentamente fra gli alberi, e l'immagine procedeva spezzata, con bruschi cambi di luce e messe a fuoco che non lasciavano riconoscere il luogo in cui stava avvenendo quella strana passeggiata. «Ma che roba è?» esclamò Irina, evidentemente delusa, guardando suo padre che osservava perplesso la strana e, almeno a giudicare dal primo
minuto di proiezione, noiosissima pellicola. «Non so» mormorò Maximilian Carver, abbattuto. «Non mi aspettavo una cosa così...» Anche Max aveva cominciato a perdere interesse per il film, quando qualcosa in quel caotico ammasso di immagini richiamò la sua attenzione. «E se provassi con un altro rullo, tesoro?» suggerì Andrea Carver, cercando di salvare dal naufragio l'illusione del marito rispetto al supposto archivio cinematografico del garage. «Aspetta» l'interruppe Max, riconoscendo un profilo familiare nel film. Adesso la cinepresa era uscita dal bosco e avanzava verso quello che sembrava un recinto chiuso da un muro di pietra e da un alto portone di lance. Max conosceva quel luogo; era stato lì il giorno prima. Affascinato, Max osservò come la macchina da presa inciampasse leggermente per poi addentrarsi nel giardino di statue. «Sembra un cimitero» mormorò Andrea Carver. «Che cos'è?» La macchina da presa percorse qualche metro dentro il giardino di statue. Sulla pellicola, il posto non dava la sensazione di abbandono in cui l'aveva trovato Max. Non c'era segno delle erbacce selvatiche e il pavimento di pietra era pulito e levigato, come se un giardiniere molto attento si preoccupasse di mantenere intatto il recinto giorno e notte. La ripresa si fermava su ognuna delle statue disposte nei punti cardinali della grande stella che si poteva distinguere chiaramente ai piedi delle figure. Max riconobbe i volti di pietra bianca e i loro costumi da gente di circo ambulante. C'era qualcosa di inquietante nella tensione e nella posizione adottate dai corpi di quelle figure spettrali e nelle smorfie teatrali dei loro visi mascherati dietro un'immobilità che sembrava solo apparente. Il film mostrò i componenti della banda circense senza nessun taglio. La famiglia osservò quella visione sinistra in silenzio, senza altro rumore che il lamentoso scoppiettio del proiettore. Infine, la macchina da presa si diresse al centro della stella tracciata sul suolo del giardino di statue. L'immagine mostrò la sagoma in controluce del pagliaccio sorridente, sul quale convergevano tutte le altre statue. Max fissò con attenzione i lineamenti di quel volto e sentì di nuovo lo stesso brivido che gli era sceso lungo il corpo quando lo aveva avuto di fronte. C'era qualcosa nel film che non coincideva con quanto ricordava della sua visita al giardino delle statue, ma la mediocre qualità della pellicola gli impedì di avere una chiara visione d'insieme della statua che gli permettes-
se di capire che cos'era. La famiglia Carver rimase in silenzio mentre gli ultimi metri di pellicola scorrevano sotto il fascio di luce del proiettore. Maximilian Carver spense la macchina e accese la luce. «Jacob Fleischmann» mormorò Max. «Queste sono le filmine casalinghe di Jacob Fleischmann.» Suo padre annuì senza parlare. La proiezione era finita e Max sentì per un attimo che la presenza di quell'invitato invisibile che quasi dieci anni prima era affogato a pochi metri da lì, sulla spiaggia, occupava ogni angolo di quella casa, ogni gradino della scala, e lo faceva sentire quasi un intruso. Senza cercare altre parole, Maximilian Carver cominciò a smontare il proiettore e Andrea Carver prese Irina in braccio e la portò sopra per metterla a letto. «Posso dormire con te?» chiese Irina, abbracciando forte la madre. «Lascia stare» disse Max a suo padre «finisco io di mettere a posto.» Maximilian sorrise al figlio e lo lasciò fare, dandogli una pacca sulla schiena. «Buona notte, Max;» poi, rivolto alla figlia, «Buona notte, Alicia.» «Buona notte, papà» rispose Alicia osservando suo padre che si avviava su per le scale con l'aria stanca e delusa. Quando i passi dell'orologiaio si spensero, Alicia fissò il fratello. «Promettimi che non dirai a nessuno quello che ti sto per raccontare.» Max annuì. «Promesso. Che cos'è?» «Il pagliaccio. Quello del film» cominciò Alicia. «L'avevo già visto. In un sogno.» «Quando?» chiese Max, mentre il ritmo delle pulsazioni accelerava. «La notte prima di venire in questa casa» rispose sua sorella. Max si sedette di fronte ad Alicia. Era difficile leggere su quel viso le emozioni, però Max intuì un'ombra di timore negli occhi della ragazza. «Spiegami» insistette Max. «Che cosa hai sognato esattamente?» «È strano, però nel sogno era, non so, diverso» disse Alicia. «Diverso?» chiese Max. «In che senso?» «Non era un pagliaccio. Non so» rispose stringendo le spalle, come per togliere importanza alla cosa, anche se la voce tremante tradiva i suoi pensieri. «Credi che voglia dire qualcosa?» «No,» mentì Max «probabilmente no.» «Immagino di no» confermò Alicia. «Quella cosa di domani, l'immer-
sione... siamo sempre d'accordo?» «Certo. Ti sveglio io?» Alicia sorrise al fratello minore. Era la prima volta che Max la vedeva sorridere da mesi, forse da anni. «Sarò sveglia» rispose Alicia mentre si avviava alla sua stanza. «Buona notte.» «Buona notte» rispose Max. Max aspettò di sentire la porta della stanza di Alicia che si chiudeva, poi andò a sedersi sulla poltrona della sala vicino al proiettore. Da lì poteva ascoltare i genitori che parlavano sottovoce nella loro stanza. Il resto della casa fu avvolto dal silenzio notturno, rotto solo dal suono delle onde sulla spiaggia. Max si accorse che qualcuno lo stava guardando dal fondo delle scale. Gli occhi giallognoli e brillanti del gatto di Irina lo spiavano fissi. Max restituì lo sguardo al felino. «Via!» gli ordinò. Il gatto restò lì ancora qualche istante per poi perdersi nell'ombra. Max si alzò e cominciò a riporre il proiettore e la pellicola. Pensò di riportare tutto nel garage, ma l'idea di uscire fuori in piena notte l'attirava ben poco. Spense le luci della casa e salì in camera. Attraverso la finestra sbirciò in direzione del giardino di statue, invisibile nell'oscurità della notte. Si distese sul letto e spense la lampada del comodino. Contrariamente a quanto si aspettava, l'ultima immagine che sfilò per la sua mente prima di cedere al sonno non fu l'inquietante passeggiata cinematografica nel giardino di statue, ma l'inatteso sorriso di sua sorella Alicia pochi minuti prima, in sala. Era stato un gesto apparentemente insignificante, però, per qualche motivo che non riusciva a capire, Max intuì che fra di loro si era aperta una porta e che, da quella notte in poi, non avrebbe mai più visto sua sorella come una sconosciuta. Capitolo sesto Poco dopo l'alba, Alicia aprì gli occhi e si accorse che dietro il vetro della finestra due profondi occhi gialli la guardavano fissi. Si alzò immediatamente e il gatto di Irina, senza fretta, si ritirò dal davanzale della finestra. Detestava quell'animale, il suo atteggiamento altero e quell'odore penetrante che lo precedeva e che rivelava la sua presenza prima ancora di entrare in una stanza. Non era la prima volta che lo sorprendeva a guardarla di nascosto. Dal momento in cui Irina era riuscita a portare quell'odioso felino
nella casa sulla spiaggia, Alicia si era accorta che spesso l'animale restava fermo alcuni minuti, vigile, spiando i movimenti di qualche membro della famiglia dal vano di una porta o nascosto nell'ombra. In segreto, Alicia avrebbe desiderato che qualche cane di strada ne facesse giustizia sommaria durante una delle sue escursioni notturne. Fuori il cielo stava perdendo il color porpora che sempre accompagnava l'alba, e i primi raggi di un sole intenso si profilavano sopra il bosco che si estendeva oltre il giardino di statue. Mancavano ancora almeno due ore prima che l'amico di Max passasse a prenderli. Tornò ad avvolgersi nelle coperte e, benché sapesse che non sarebbe più riuscita ad addormentarsi, chiuse gli occhi e si mise ad ascoltare il suono lontano delle onde che si rompevano sulla spiaggia. Un'ora dopo, Max bussò piano alla sua porta. Alicia scese le scale in punta di piedi. Max e il suo amico aspettavano fuori, sotto il portico. Prima di uscire si fermò un istante nell'entrata e ascoltò i due ragazzi chiacchierare. Fece un respiro profondo e aprì la porta. Max, appoggiato alla ringhiera del portico, si voltò e le sorrise. Vicino a lui c'era un ragazzo dalla pelle molto abbronzata e con i capelli paglierini che superava il fratello di un palmo. «Questo è Roland» intervenne Max. «Roland, ti presento mia sorella Alicia.» Roland le fece un cenno cordiale per poi sviare lo sguardo subito alle biciclette, ma a Max non sfuggì il gioco di occhiate che in una frazione di secondo si erano scambiati il suo amico e Alicia. Sorrise fra sé e pensò che la cosa sarebbe stata ancora più divertente di quanto si fosse aspettato. «Come facciamo?» chiese Alicia. «Ci sono solo due biciclette.» «Penso che Roland possa portarti sulla sua» rispose Max. «Vero, Roland?» Roland fissò per terra. «Certo» mormorò. «Però tu porti l'attrezzatura.» Max legò sul portapacchi della bicicletta l'attrezzatura da immersione che Roland aveva portato. Sapeva che sotto la tettoia del garage c'era un'altra bicicletta, però lo divertiva l'idea che l'amico portasse sua sorella. Alicia si sedette sulla sbarra della bicicletta e si attaccò al collo di Roland. Max si accorse che, sotto la pelle abbronzata, Roland lottava per non arrossire. «Pronta» disse Alicia. «Spero di non pesare troppo.»
«Andiamo» sentenziò Max e cominciò a pedalare lungo la spiaggia seguito da Roland e Alicia. Quasi subito Roland lo superò e, ancora una volta, Max dovette accelerare per non restare indietro. «Tutto bene?» chiese Roland ad Alicia. Alicia annuì e guardò la casa sulla spiaggia scomparire in lontananza. La spiaggia sulla punta sud all'altro lato del paese formava una mezzaluna lunga e desolata. Non era sabbiosa, ma ricoperta di piccoli sassolini levigati dall'acqua, di conchiglie e di residui marini che la le onde e la marea lasciano lì a seccarsi al sole. Dietro la spiaggia, quasi a perpendicolo, si alzava una muraglia di scogliere scoscese e in cima, scura e solitaria, si ergeva la torre del faro. «Quello è il faro di mio nonno» indicò Roland mentre lasciavano le biciclette vicino a uno dei sentieri che scendevano fra le rocce fino alla spiaggia. «Vivete tutti e due lì?» chiese Alicia. «Più o meno» rispose Roland. «Col passare del tempo mi sono costruito una piccola capanna qui sotto, sulla spiaggia, e potrei quasi dire che è la mia casa.» «Una capanna tutta tua?» indagò Max, mentre la cercava con gli occhi. «Da qui non puoi vederla» chiarì Roland. «In effetti era una vecchia tettoia di pescatori abbandonata. L'ho aggiustata e adesso non è male. La vedrete.» Roland li guidò fino alla spiaggia e una volta lì si tolse i sandali. Il sole era alto nel cielo e il mare brillava come una lamina d'argento fuso. La spiaggia era deserta e una brezza impregnata di salnitro soffiava dall'oceano. «Attenti a queste pietre. Io ci sono abituato, ma è facile perdere l'equilibrio se non sei pratico.» Alicia e suo fratello seguirono Roland attraverso la spiaggia fino alla capanna. Si trattava di una piccola cabina di legno colorata di blu e rosso. La capanna aveva un piccolo portico e Max notò un fanale arrugginito che pendeva da una catena. «È della nave» spiegò Roland. «Ho preso un mucchio di roba là sotto e l'ho portata nella capanna. Che ve ne pare?» «È fantastica» esclamò Alicia. «Dormi qui?» «A volte, soprattutto in estate. D'inverno, a parte il freddo, non mi piace
lasciare solo il nonno lassù.» Roland aprì la porta e fece passare Alicia e Max. «Avanti. Benvenuti nel mio palazzo.» L'interno della capanna di Roland sembrava uno di quei bazar di vecchi oggetti marini. Il bottino che Roland aveva sottratto al mare nel corso di anni risplendeva nella penombra come un museo di misteriosi tesori da leggenda. «Sono solo cianfrusaglie» disse Roland, «ma le colleziono. Magari oggi troviamo di meglio.» Il resto dell'arredamento era composto da un vecchio armadio, un tavolo, qualche sedia e un pagliericcio sopra il quale c'erano alcuni scaffali con dei libri e una lampada a olio. «Mi piacerebbe molto avere una casa come questa» mormorò Max. Roland sorrise, scettico. «Si accettano offerte» scherzò poi, visibilmente orgoglioso per l'impressione suscitata dalla capanna nei suoi amici. «Bene, adesso andiamo in acqua.» Arrivati al bordo della spiaggia, Roland cominciò a disfare il fagotto che conteneva l'attrezzatura da immersione. «La barca si trova a circa venticinque o trenta metri dalla riva. Questa spiaggia è più profonda di quello che sembra; a tre metri non si tocca già più. Il relitto è a una profondità intorno ai dieci metri» spiegò Roland. Alicia e Max si scambiarono un'occhiata eloquente. «Sì, la prima volta non è raccomandabile cercare di arrivare fin giù. A volte, quando c'è mare grosso, si formano correnti e può essere pericoloso. Una volta mi sono spaventato a morte.» Roland porse gli occhiali e delle pinne a Max. «Però, ho equipaggiamento solo per due. Chi scende per primo?» Alicia indicò Max. «Grazie» sussurrò questi. «Non ti preoccupare, Max» lo tranquillizzò Roland. «Il difficile è cominciare. La prima volta che sono sceso per poco non mi viene male. C'era un'enorme murena in una delle due ciminiere.» «Una che?» esclamò Max. «Niente» rispose Roland. «È uno scherzo. Non ci sono animali di nessun tipo là sotto. Te lo giuro. Ed è strano, perché di solito le navi affondate sono una specie di zoo marino. Ma questa no. Credo che ai pesci non piaccia. Senti un po', non ti farai prendere dalla paura proprio adesso, vero?»
«Paura?» disse Max. «Io?» Per quanto impegnato a mettersi le pinne, Max notò come Roland stesse facendo una meticolosa radiografia a sua sorella mentre si toglieva il vestito di cotone e restava con il suo costume da bagno bianco, l'unico che aveva. Alicia entrò nell'acqua fino alle ginocchia. «Ehi» gli sussurrò, «è mia sorella, non un pasticcino. D'accordo?» Roland gli rivolse uno sguardo di complicità. «Sei tu che l'hai portata, non io» rispose con un sorriso sornione. «In acqua» tagliò corto Max. «Ti farà bene.» Alicia si girò e li squadrò bardati da sommozzatori con una smorfia ironica. «Che buffi!» si disse senza riuscire a trattenere il riso. Max e Roland si guardarono attraverso gli occhiali da immersione. «Un'ultima cosa» precisò Max, «io non l'ho mai fatta prima. L'immersione, voglio dire. Ho nuotato in piscina, certo, ma non sono sicuro di saper...» «Non temere, è facile» lo incoraggiò Roland. «Fate attenzione» raccomandò Alicia. «Senti, Max, sei sicuro che sia una buona idea?» «Non capiterà niente» assicurò Roland, e si girò verso l'amico con una pacca sulle spalle. «Prima lei, Capitan Nemo.» Max si immerse per la prima volta in vita sua sotto il pelo dell'acqua, e ai suoi occhi attoniti si scoprì un universo di luci e di ombre che superava ogni sua immaginazione. I raggi del sole filtravano disegnando cortine di sfumata lucentezza che ondeggiavano lentamente, e la superficie del mare si era trasformata ora in uno specchio opaco e fluttuante. Trattenne il respiro ancora qualche secondo e riemerse per prendere aria. Roland, a un paio di metri da lui, lo controllava attentamente. «Tutto bene?» chiese. Max annuì, entusiasta. «Vedi? È facile. Nuotami vicino» gli raccomandò Roland prima di immergersi di nuovo. Max rivolse un'ultima occhiata alla riva e vide Alicia che lo salutava, sorridente. Le restituì il saluto e si affrettò a nuotare vicino al suo compagno, al largo. Roland lo condusse fino a un punto dal quale la spiaggia sembrava lontana, per quanto Max sapesse che la distanza fosse solo di una trentina di metri. Una volta in acqua, le distanze crescevano. Roland
gli toccò il braccio e gli fece segno verso il fondo. Max prese aria e mise la testa sotto l'acqua, sistemandosi gli elastici degli occhiali da immersione. I suoi occhi ci misero un paio di secondi ad abituarsi alla debole penombra sottomarina. Solo allora poté ammirare lo spettacolo della carcassa della nave affondata, poggiata su di un lato e avvolta dalla magica e spettrale luce. Il battello doveva misurare circa cinquanta metri, forse più, e una profonda breccia si apriva dalla prora fino alla sentina. La falla sembrava una ferita nera e senza fondo inflitta da artigli affilati di pietra. Sulla prora, sotto una cappa rossastra di ruggine e alghe, si poteva leggere il nome della nave, Orpheus. Dall'aspetto l'Orpheus doveva essere stato ai suoi tempi una nave merci, non passeggeri. L'acciaio crepato del battello era ricoperto di piccole alghe, però, come già aveva detto Roland, non c'era neppure un pesce che vi nuotasse intorno. I due amici lo esaminarono tutto per bene dalla superficie, fermandosi ogni sei o sette metri per osservare nei particolari i resti del naufragio. Roland aveva detto che il relitto si trovava a una decina di metri di profondità, ma a Max quella distanza sembrava infinita. Si chiese come avesse fatto Roland a recuperare tutti quegli oggetti che avevano visto nella capanna sulla spiaggia. Il suo amico, come se gli avesse letto nel pensiero, gli fece segno di aspettare in superficie e si immerse battendo con forza le pinne. Max osservò Roland scendere fino a toccare la carcassa dell'Orpheus con la punta delle dita. Una volta lì, tenendosi con prudenza alle sporgenze dello scafo, scivolò fino alla piattaforma che era stata il ponte di comando. Dalla sua postazione, Max poteva ancora distinguere la ruota del timone e altri strumenti nell'interno. Roland nuotò fino alla porta scardinata del ponte, ed entrò. Max sentì una fitta d'inquietudine al vedere il suo amico scomparire all'interno del battello affondato. Non staccò gli occhi da quella porta, chiedendosi che cosa avrebbe potuto fare per aiutarlo, in caso di bisogno. Dopo pochi secondi, Roland emerse di nuovo dal ponte e salì rapidamente verso di lui, lasciandosi alle spalle una ghirlanda di bollicine. Max tirò fuori la testa dall'acqua e respirò profondamente. Il volto di Roland comparve a un metro dal suo, con un sorriso che andava da un'orecchia all'altra. «Sorpresa!» esclamò. Max vide che teneva qualcosa in mano. «Che cos'è?» chiese, indicando lo strano oggetto metallico che Roland aveva ricuperato dal ponte.
«Un sestante.» Max inarcò le sopracciglia. Non aveva la minima idea di che cosa si trattasse. «Il sestante è uno strumento che si usa per calcolare la posizione in mare» spiegò Roland, con la voce tagliata dallo sforzo compiuto per trattenere il respiro per quasi un minuto. «Vado di nuovo giù. Tienimelo.» Max abbozzò una protesta, ma Roland si tuffò di nuovo senza dargli il tempo di aprir bocca. Inspirò profondamente e buttò giù la testa per seguire l'immersione di Roland. Questa volta il suo compagno nuotò lungo lo scafo fino alla poppa. Max si spinse con le pinne seguendone la traiettoria. Lo vide avvicinarsi a un fanale e cercare di guardare dentro la nave. Max trattenne il fiato fino a quando sentì i polmoni bruciare, e soffiò allora tutta l'aria, pronto a riemergere e respirare. Ma proprio in quell'ultimo istante, vide qualcosa che lo lasciò di sasso. Attraverso la nebbiolina sottomarina, ondeggiava una vecchia bandiera marcia e sfilacciata attaccata a uno dei pennoni sulla poppa dell'Orpheus. Max la osservò attentamente e vi riconobbe il simbolo quasi sbiadito che si poteva però ancora distinguere: una stella a sei punte su di un cerchio. Sentì un brivido percorrergli la schiena. Aveva già visto quella stella, sulla grata di lance del giardino di statue. Il sestante di Roland gli sfuggì dalle dita e affondò nell'oscurità. Preso da un incontrollabile timore, Max nuotò affannosamente verso la riva. Mezz'ora dopo, seduti all'ombra del portico della capanna, Roland e Max guardavano Alicia raccogliere vecchie conchiglie fra le pietre sulla riva. «Sei sicuro di aver già visto quel simbolo, Max?» Max annuì. «A volte sott'acqua le cose sembrano diverse da quello che sono» cominciò a dire Roland. «So che cosa ho visto» replicò Max. «D'accordo?» «D'accordo» gli concesse Roland. «Hai visto un simbolo che secondo te c'è anche in quella specie di cimitero dietro casa vostra. E allora?» Max si alzò e si mise di fronte all'amico. «E allora? Devo ripetere tutta la storia?» Max aveva passato gli ultimi venticinque minuti a spiegare a Roland tutto quello che aveva visto nel giardino di statue, compresa la filmina del dottor Fleischmann. «Non ce n'è bisogno» rispose secco Roland.
«E perché allora non mi credi? Pensi che mi sia inventato tutto?» «Non ho detto che non ti credo, Max» disse Roland con un leggero sorriso verso Alicia che era tornata dalla sua passeggiata sulla riva con una piccola borsa piena di conchiglie. «Sei stata fortunata?» «Questa spiaggia è un museo» rispose Alicia facendo tintinnare la borsa con le sue prede. Max, impaziente, storse gli occhi. «Mi credi, allora?» insistette secco, piantando lo sguardo su Roland. L'amico sostenne lo sguardo e restò in silenzio qualche istante. «Ti credo, Max» mormorò spostando la vista verso l'orizzonte, senza riuscire a nascondere un'ombra di tristezza sul viso. Alicia avvertì questo cambiamento nell'aspetto di Roland. «Max dice che tuo nonno viaggiava su quel battello la notte in cui affondò. È vero?» domandò la ragazza, poggiando la mano sulla spalla di Roland. Questi annuì con un gesto vago. «Fu l'unico sopravvissuto» rispose. «Che cosa era successo?» chiese Alicia. «Scusami, forse non ti va di parlarne.» Roland sorrise ai due fratelli. «No, non me ne importa» Max lo guardava, in attesa. «E non è che non creda alla tua storia, Max. Però è la prima volta che qualcuno mi parla di quel simbolo.» «Chi altri lo ha visto?» chiese Max, stupefatto. «Chi te ne ha parlato?» Roland sorrise. «Mio nonno. Da quando ero un bambino.» Roland indicò l'interno della capanna. «Comincia a far fresco. Entriamo; vi racconterò la storia di questa nave.» All'inizio Irina credette di sentire la voce di sua madre al piano di sotto. Andrea Carver spesso parlava da sola mentre gironzolava per la casa, e nessun membro della famiglia si sorprendeva di questa abitudine materna. Quasi subito, però, Irina vide dalla finestra sua madre salutare Maximilian Carver che si accingeva ad andare in paese insieme a uno dei facchini che li avevano aiutati a portare i bagagli dalla stazione il giorno prima. Irina, in quel momento, si trovava da sola in casa e dunque la voce che le sembrava di aver sentito doveva essersela sognata. Così credette fino a quando non sentì nuovamente, e questa volta proprio nella sua stanza, una specie di
sussurro che attraversava le pareti. La voce sembrava provenire dall'armadio e sembrava un mormorio lontano di cui era impossibile distinguere le singole parole. Per la prima volta da quando era arrivata nella casa della spiaggia Irina ebbe paura. Piantò gli occhi sulla porta scura dell'armadio e si accorse che nella serratura c'era una chiave. Senza pensarci un secondo, corse verso l'armadio e girò affannosamente la chiave fino a che la porta non fu chiusa del tutto. Fece due passi indietro e respirò profondamente. Sentì allora di nuovo quel suono e capì che non era una voce, bensì più voci che sussurravano insieme. «Irina?» chiamò sua madre dal piano di sotto. La voce calda di Andrea Carver la scosse dalla trance in cui era caduta. Una sensazione di tranquillità l'avvolse. «Irina, se sei su, scendi un momento ad aiutarmi.» Da mesi Irina non aveva avuto tanta voglia di aiutare sua madre, qualunque fosse il compito che l'aspettava. Stava per scaraventarsi giù dalle scale quando, dopo aver sentito un soffio gelato accarezzarle il volto e attraversare improvvisamente la stanza, la porta si chiuse di colpo. Irina corse verso la porta e cercò di forzarne la maniglia, che sembrava bloccata. Mentre lottava inutilmente per aprire, vide che la chiave dell'armadio girava lentamente nella serratura. Le voci misteriose ora ridevano. «Quando ero piccolo,» spiegò Roland «mio nonno mi raccontò così tante volte questa storia che per anni l'ho sognata. Tutto cominciò quando venni a vivere qui molti anni fa, dopo aver perso i miei genitori in un incidente d'automobile.» «Mi rincresce, Roland» interruppe Alicia che intuiva come al loro amico richiamare quei ricordi risultasse più difficile di quanto volesse far vedere, nonostante il sorriso gentile e la disponibilità a raccontar loro la storia del nonno e della nave. «Io ero molto piccolo. Quasi non me ne ricordo» disse Roland evitando lo sguardo di Alicia, che non si lasciò ingannare da quella piccola bugia. «Che successe allora?» insistette Max. La sorella lo fulminò con gli occhi. «Il nonno si fece carico di me e mi installai con lui nella casa del faro, di cui era il guardiano. Il municipio gli aveva concesso il posto per tutta la vita, dopo che lui lo aveva costruito praticamente con le sue mani nel 1919. È una storia curiosa, ve ne accorgerete. «Il 23 giugno del 1918 mio nonno si era imbarcato nel porto di Sou-
thampton a bordo dell'Orpheus, in incognito. L'Orpheus non era una nave passeggeri, era un mercantile dalla cattiva fama. Il capitano era un olandese ubriacone e corrotto fino al midollo, che lo usava come battello in affitto al miglior offerente. I suoi clienti preferiti erano i contrabbandieri che volevano attraversare la Manica. L'Orpheus era così famoso che persino le cacciatorpediniere tedesche lo riconoscevano e, per pietà, non lo affondavano quando lo incrociavano. In ogni caso, verso la fine della guerra, gli affari cominciarono ad andar male e l'olandese errante (così l'aveva soprannominato il nonno) dovette cercarsi traffici ancora più loschi per pagare i debiti di gioco che aveva accumulato negli ultimi mesi. «Sembra che, in una delle notti di sorte avversa, che erano la maggior parte, il capitano avesse perduto anche la camicia in una partita con un certo Mister Cain. Questo Mister Cain era il padrone di un circo ambulante. Come pagamento, Mister Cain pretese dall'olandese che imbarcasse lui stesso e tutta la troupe del circo e li trasportasse in incognito dall'altra parte della Manica. In realtà Mister Cain nascondeva nel suo losco circo qualcosa di più che semplici baracconi da fiera, e voleva sparire quanto prima e naturalmente in modo clandestino. L'olandese accettò. Che cos'altro poteva fare? O lo faceva o perdeva la nave.» «Un momento» lo interruppe Max. «Che cosa c'entrava tuo nonno con tutto questo?» «Adesso ci arrivo» proseguì Roland. «Come vi dicevo, questo Mister Cain (non era il suo vero nome) nascondeva molte cose. Mio nonno era sulle sue tracce da molto tempo. Avevano un conto in sospeso e mio nonno pensò che se Mister Cain fosse riuscito ad attraversare la Manica le sue possibilità di incastrarlo sarebbero sfumate per sempre.» «È per questo che si era imbarcato come clandestino sull'Orpheus?» chiese Max. Roland annuì. «C'è una cosa che non capisco» disse Alicia. «Perché non avvisò la polizia? Lui era un ingegnere, non un gendarme. Che tipo di conto in sospeso aveva con Mister Cain?» «Posso finire la storia?» chiese Roland. Max e sua sorella dissero insieme di sì. «Bene. Sta di fatto che si imbarcò» continuò Roland. «L'Orpheus salpò a mezzogiorno e sarebbe dovuto arrivare a destinazione a notte fonda, ma le cose si complicarono. Una tormenta si scatenò dopo la mezzanotte e riportò la nave verso la costa. L'Orpheus si schiantò contro le rocce della sco-
gliera e affondò in pochi minuti. Mio nonno sopravvisse perché si era nascosto in una scialuppa di salvataggio. Gli altri affogarono.» Max inghiottì la saliva. «Vuoi dire che i corpi sono ancora là sotto?» «No» rispose Roland. «All'alba del giorno seguente una fitta cortina di nebbia ricoprì la costa per ore. I pescatori locali trovarono mio nonno in stato di incoscienza proprio su questa spiaggia. Quando la nebbia si dissolse, numerose barche di pescatori rastrellarono la zona del naufragio. Non fu mai trovato un cadavere.» «Ma allora...» interruppe Max, a voce bassa. Roland gli fece segno di lasciarlo continuare. «Portarono mio nonno all'ospedale del paese dove delirò per diversi giorni. Quando si riprese, decise, come ringraziamento per il trattamento ricevuto, di costruire un faro in cima alla scogliera per evitare che si ripetesse una tragedia come quella. Con il passare del tempo, lui stesso divenne il guardiano del faro.» I tre amici rimasero in silenzio per quasi un minuto dopo aver ascoltato il racconto di Roland. Poi questi scambiò un'occhiata con Alicia e quindi con Max. «Roland,» disse Max sforzandosi di trovare parole che non ferissero l'amico «c'è qualcosa che non funziona in questa storia. Credo che tuo nonno non ti abbia raccontato proprio tutto.» Roland tacque ancora qualche istante. Poi, con un debole sorriso sulle labbra, guardò i due fratelli e annuì più volte, molto lentamente. «Lo so» mormorò. «Lo so.» Irina sentì le mani irrigidirsi nell'inutile sforzo di sbloccare la maniglia. Senza fiato, si girò e si strinse con tutte le proprie forze contro la porta della stanza. Non riuscì a non fissare gli occhi sulla chiave che girava nella serratura dell'armadio. Infine, la chiave si fermò e, spinta di dita invisibili, cadde sul pavimento. Molto lentamente la porta dell'armadio cominciò ad aprirsi. Irina cercò di gridare, ma sentì mancarle il fiato anche solo per sussurrare. Dalla penombra dell'armadio emersero due occhi brillanti e familiari. Irina sospirò. Era il suo gatto. Era solo il suo gatto. Per un attimo aveva creduto che le si sarebbe fermato il cuore dal panico. Si inginocchiò per sollevare l'animale, e si accorse allora che dietro di lui c'era qualcun altro. Il felino aprì le fauci ed emise un sibilo basso e inquietante, come quello di
un serpente, andando poi a perdersi di nuovo nell'oscurità. Un sorriso di luce si accese allora nelle tenebre, e altri due occhi brillanti come oro fuso si posarono sui suoi mentre quelle voci pronunciarono all'unisono il suo nome. Irina gridò con tutte le sue forze e si lanciò contro la porta, che cedette sotto la spinta facendola cadere a terra nel corridoio. Senza riprendere fiato si scaraventò giù per le scale, sentendo sulla nuca un soffio freddo. In una frazione di secondo Andrea Carver, paralizzata, vide sua figlia saltare dalla cima delle scale con il viso acceso dal terrore. Gridò il suo nome, ma era troppo tardi. La piccola cadde rotolando come un peso morto fino all'ultimo scalino. Andrea Carver si lanciò ai piedi della bambina e le prese la testa fra le braccia. Una lacrima di sangue le scendeva sulla fronte. La tastò e sentì che aveva il polso debole. Lottando contro un attacco isterico, la donna sollevò il corpo della figlia e cercò di pensare a che cosa dovesse fare in tale situazione. Mentre con estenuante lentezza trascorrevano i cinque secondi più drammatici della sua vita, Andrea Carver alzò gli occhi in cima alle scale. Dall'ultimo scalino il gatto di Irina la scrutava fissamente. Sostenne per una frazione di secondo quello sguardo crudele e irridente, poi, sentendo pulsare il corpo della figlia tra le sue braccia, reagì e corse al telefono. Capitolo settimo Quando Max, Alicia e Roland arrivarono alla casa della spiaggia, la macchina del medico era ancora lì. Roland rivolse un'occhiata interrogativa a Max. Alicia saltò dalla bicicletta e corse verso il portico, sentendo che era successo qualcosa di brutto. Maximilian Carver, con gli occhi vitrei e pallido in volto, la ricevette sulla porta. «Che cosa è successo?» mormorò Alicia. Suo padre l'abbracciò. Alicia lasciò che le braccia di Maximilian Carver l'avvolgessero e sentì che gli tremavano le mani. «Irina ha avuto un incidente. È in coma. Stiamo aspettando l'ambulanza per portarla all'ospedale.» «Mamma sta bene?» gemette Alicia. «È dentro. Insieme a Irina e al medico. Qui non si può fare altro» rispose l'orologiaio con voce vuota e stanca. Roland rimase zitto e immobile ai piedi del portico. «Guarirà?» chiese Max, pensando subito alla stupidità della domanda in quella situazione.
«Non lo sappiamo» mormorò Maximilian Carver, cercando inutilmente di sorridere e rientrando in casa. «Vado a vedere se tua madre ha bisogno di qualcosa.» I tre amici rimasero inchiodati sotto il portico, zitti come tombe. Dopo qualche secondo, Roland ruppe il silenzio. «Mi rincresce...» Alicia annuì. Poco dopo l'ambulanza apparve nella strada e si avvicinò alla casa. Il medico le uscì incontro. Nel giro di pochi minuti i due infermieri entrarono in casa e ne portarono fuori Irina su di una barella, avvolta in una coperta. Max colse al volo l'immagine del volto della sorella, bianco come la calce e si sentì gelare dentro. Andrea Carver, con la faccia contratta e gli occhi gonfi e arrossati, salì sull'ambulanza rivolgendo un'ultima occhiata disperata ad Alicia e a Max. Gli infermieri corsero ai loro posti. Maximilian Carver si avvicinò ai due fratelli. «Non mi piace che restiate qui da soli. C'è un piccolo albergo in paese. Forse...» «Non ci succederà nulla, papà. Non ti preoccupare di questo, ora» lo rassicurò Alicia. «Vi telefonerò dall'ospedale e vi lascerò il numero. Non so quanto staremo fuori. Non so se c'è qualcosa che...» «Vai, papà» lo interruppe Alicia, abbracciandolo. «Andrà tutto bene.» Maximilian Carver abbozzò un ultimo sorriso fra le lacrime e salì in ambulanza. I tre amici guardarono in silenzio le luci dell'ambulanza che si perdevano lontano mentre gli ultimi raggi di sole languivano sul manto di porpora del crepuscolo. «Andrà tutto bene» ripeté Alicia per se stessa. Dopo essersi procurati dei vestiti asciutti (Alicia prestò a Roland dei vecchi pantaloni e una camicia di suo padre), i ragazzi si cambiarono e rimasero ad aspettare notizie dall'ospedale. L'attesa divenne interminabile. Le lune sorridenti delle sfere dell'orologio di Max indicavano che mancavano solo pochi minuti alle undici della notte quando suonò il telefono. Alicia, seduta fra Roland e Max sui gradini del portico, si alzò di scatto e corse dentro la casa: prima del secondo squillo prese la cornetta e guardò Max e Roland, accennando con la testa di sì. «D'accordo» disse dopo pochi secondi. «Come sta la mamma?» Max poteva sentire il mormorio della voce del padre attraverso il telefono.
«Non ti preoccupare» disse Alicia. «No. Non ce n'è bisogno. Sì, staremo bene. Chiamaci domani.» Alicia fece una pausa e poi annuì. «Lo farò» assicurò. «Buona notte, papà.» Infine attaccò il telefono e guardò il fratello. «Irina è in osservazione» spiegò. «I medici hanno detto che si tratta di una commozione cerebrale. È ancora in coma, ma dicono che guarirà.» «Hanno davvero detto così?» replicò Max. «E mamma?» «Puoi immaginarlo. Per ora, passeranno la notte lì. Mamma non vuole andare in albergo. Richiameranno domani alle dieci.» «E adesso che facciamo?» chiese timidamente Roland. Alicia si strinse nelle spalle e cercò di abbozzare un sorriso tranquillizzante. «Qualcuno ha fame?» chiese ai ragazzi. Max si accorse con sorpresa di essere affamato. Alicia sospirò e accennò un sorriso di stanchezza. «Ho l'impressione che farebbe bene a tutti e tre mangiare qualcosa» concluse. «Voti contrari?» In pochi minuti, Max preparò dei panini mentre Alicia spremeva i limoni per fare una bibita. I tre amici cenarono sulla panchetta del portico, alla fioca luce del fanale giallognolo che ondeggiava alla brezza notturna, avvolto da una nuvola danzante di piccole farfalle notturne. Di fronte a loro, il disco luminoso della luna piena si alzava sul mare e dava alla superficie dell'acqua l'apparenza di un infinito lago di metallo incandescente. Cenarono in silenzio, osservando il mare e ascoltando lo sciacquio delle onde. Liquidati i panini e la limonata, i tre amici si scambiarono un'occhiata di complicità. «Non credo che stanotte riuscirò a dormire» disse Alicia, alzandosi e scrutando il riflesso freddo della luna sul mare. «Credo che nessuno di noi dormirà stanotte» confermò Max. «Ho un'idea» disse Roland con un sorriso furbo sulle labbra. «Avete fatto qualche volta il bagno di notte?» «È uno scherzo?» trasalì Max. Senza una parola, Alicia guardò i due ragazzi, con occhi brillanti e misteriosi, e si avviò tranquillamente verso la spiaggia. Max guardò attonito sua sorella avviarsi sulla sabbia e, senza voltarsi, liberarsi del vestito di cotone bianco.
Alicia si fermò qualche istante sulla riva, con la pelle pallida e brillante sotto la luce evanescente e azzurrata della luna, e poi, lentamente, si immerse in quella immensa pozza di luce. «Non vieni, Max?» disse Roland, seguendo Alicia sulla sabbia. Max rifiutò senza parlare, e osservò l'amico tuffarsi nell'acqua mentre le risa della sorella si mescolavano al sussurro del mare. Rimase lì in silenzio, cercando di decidere se quella palpabile corrente elettrica che vibrava fra Roland e sua sorella, un legame che sfuggiva alle sue definizioni e al quale si sapeva estraneo, lo rendeva triste o meno. Mentre li vedeva giocare nell'acqua Max seppe, probabilmente prima ancora che loro stessi se ne accorgessero, che fra i due si stava creando un vincolo che li avrebbe uniti in un destino ineluttabile per tutta l'estate. Pensando a questo, gli vennero in mente le ombre della guerra che si agitava così vicino ma forse tanto lontano da quella spiaggia, una guerra senza volto che presto avrebbe rapito l'amico Roland e, forse, anche lui. Pensò anche a tutto quello che era successo durante il giorno, dalla visione fantasmagorica dell'Orpheus sul fondo marino, al racconto di Roland nella capanna sulla spiaggia, all'incidente di Irina. Lontano dalle risa di Alicia e Roland, una profonda inquietudine si impadronì del suo cuore. Sentiva che, per la prima volta nella sua vita, il tempo trascorreva più rapidamente di quanto lui desiderasse, e che non poteva più rifugiarsi nei sogni come negli anni passati. La ruota del destino aveva cominciato a girare e, questa volta, i dadi non li aveva tirati lui. Più tardi, intorno ad un improvvisato falò sulla sabbia, Alicia, Roland e Max parlarono per la prima volta di quello che stava passando per le loro teste da qualche ora. La luce dorata del fuoco si rifletteva sui volti umidi e brillanti di Alicia e Roland. Max li osservò attentamente e si decise a parlare. «Non so come spiegarlo, però credo che stia succedendo qualcosa» cominciò. «Non so cosa, ma ci sono troppe coincidenze. Le statue, quel simbolo, la nave...» Max sperava che gli altri due lo contraddicessero o lo tranquillizzassero dimostrandogli che le sue inquietudini erano solo il frutto di una giornata troppo lunga, in cui erano successe troppe cose che lui aveva preso troppo sul serio. Ma non successe nulla di tutto questo. Alicia e Roland annuirono in silenzio, senza staccare gli occhi dal fuoco.
«Tu lo hai sognato quel pagliaccio, vero?» chiese Max. Alicia disse di sì. «C'è qualcosa che non vi ho ancora detto» proseguì Max. «Ieri notte, quando tutti siete andati a dormire, sono tornato a vedere la filmina che Jacob Fleischmann aveva girato nel giardino di statue. Ci sono stato, in quel giardino, due giorni fa. Le statue erano in una posizione diversa, non so... è come se si fossero mosse. Quello che io ho visto è diverso da quanto appariva nella filmina.» Alicia guardò Roland, che contemplava incantato la danza delle lingue di fuoco. «Roland, tuo nonno non ti ha mai parlato di tutto questo?» Il ragazzo sembrò non aver ascoltato la domanda. Alicia posò la sua mano su quella di Roland e questi alzò lo sguardo. «Ho sognato quel pagliaccio ogni estate da quando ho cinque anni» disse con un filo di voce. Max lesse sul suo viso la paura. «Credo che dovremmo parlare con tuo nonno, Roland» disse Max. Roland annuì debolmente. «Domani» promise con una voce che non si riusciva quasi a sentire. «Domani.» Capitolo ottavo Poco prima dell'alba, Roland risalì sulla bicicletta e si avviò di ritorno verso la casa del faro. Mentre percorreva la strada della spiaggia, una pallida luminosità ambrata cominciava a tingere le basse nuvole che si addensavano sotto la volta del cielo. La sua mente ardeva di inquietudine e di eccitazione. Accelerò al massimo, con la vana speranza che la fatica fisica placasse i mille interrogativi e timori che gli si agitavano nell'animo. Una volta attraversata la baia del porto e avviatosi lungo la salita che portava al faro, fermò la bicicletta e riprese fiato. In cima alla scogliera, il fascio luminoso del faro perforava le ultime ombre della notte come un coltello di fuoco attraverso la nebbia. Sapeva che suo nonno era ancora lì, vigile e silenzioso, e che non avrebbe lasciato il suo posto fino a che l'oscurità non fosse del tutto scomparsa nella luce dell'alba. Per anni Roland aveva convissuto con quella insana ossessione del vecchio senza chiedersi la ragione né il senso del suo comportamento. Era semplicemente qualcosa che aveva assimilato da bambino, uno dei molti aspetti della vita quotidia-
na cui aveva imparato a non dare importanza. Ciò nonostante, con il passare del tempo aveva cominciato a prendere coscienza del fatto che la storia del vecchio faceva acqua. Ma fino a quel giorno non aveva mai capito così chiaramente che il nonno gli aveva mentito o, per lo meno, non gli aveva detto tutta la verità. Non dubitava per nulla dell'onestà del vecchio. Infatti, anno dopo anno il nonno gli aveva svelato a poco a poco nuovi pezzi di quello strano rompicapo che aveva il suo nodo centrale, lo capiva adesso in modo chiaro, nel giardino di statue. A volte con parole pronunciate nel sonno; altre volte con risposte incomplete alle domande che Roland gli faceva. Intuiva in qualche modo che se il nonno lo aveva tenuto ai margini del suo segreto, era per proteggerlo. Quello stato di grazia sembrava però essere giunto alla fine, e sapeva che l'ora di affrontare la verità si stava avvicinando. Riprese il cammino mentre cercava di allontanare per il momento quei pensieri. Era sveglio da troppe ore, e il suo fisico cominciava ad accusare la fatica. Una volta giunto alla casa del faro, lasciò la bicicletta appoggiata alla cinta ed entrò senza preoccuparsi di accendere la luce. Salì le scale fino alla sua stanza e piombò sul letto come un peso morto. Dalla finestra della stanza poteva vedere il faro che si ergeva a una trentina di metri dalla casa, e il profilo del nonno ritagliato dietro le vetrate del suo posto di sentinella. Chiuse gli occhi e cercò di conciliare il sonno. Gli avvenimenti di quella giornata cominciarono a sfilargli nella mente, dall'immersione all'Orpheus all'incidente di Irina. Roland pensò a quanto fosse strano e insieme consolante accorgersi come così poche ore trascorse insieme avessero unito tanto strettamente lui, Alice e Max. Pensando adesso nella solitudine della sua stanza ai due fratelli, sentiva che erano diventati da quel giorno i suoi due amici più intimi, i compagni con i quali avrebbe condiviso tutti i suoi segreti e le sue inquietudini. Poté constatare che il solo fatto di pensare a loro gli trasmetteva una sensazione di sicurezza e di compagnia, e che, a sua volta, egli provava una profonda lealtà e gratitudine per quel patto invisibile che sembrava averli uniti quella notte sulla spiaggia. Quando finalmente la stanchezza prevalse sull'eccitazione accumulata durante tutta quella giornata, gli ultimi pensieri di Roland mentre scivolava in un sonno profondo e ristoratore non furono rivolti all'indefinibile mistero che li sovrastava, né alla minacciosa possibilità di essere arruolato in autunno. Quella notte, Roland si addormentò placidamente fra le braccia di una visione che lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita: Alicia,
avvolta solo dal chiarore della luna, che immergeva la sua pelle bianca in un mare di luce argentea. Il giorno si aprì sotto una cappa di nubi scure e minacciose che si stendevano fin oltre l'orizzonte e lasciavano filtrare una luce smorta e nebbiosa che faceva pensare a una fredda mattina d'inverno. Appoggiato alla ringhiera metallica del faro, Victor Kray contemplò la baia ai suoi piedi e pensò che tutti quegli anni gli avevano insegnato ad apprezzare la strana e misteriosa bellezza appassita di quei giorni plumbei e vestiti di tormenta che preannunciavano la fine dell'estate sulla costa. Dalla sua postazione il paese assumeva l'aspetto curioso di un modellino meticolosamente costruito da un collezionista. Più in là, verso nord, si estendeva la spiaggia come una linea bianca e interminabile. Nelle giornate di sole intenso, dallo stesso luogo da dove ora Victor Kray stava scrutando, si poteva chiaramente distinguere sul fondo del mare lo scafo dell'Orpheus, simile a un enorme fossile meccanico incagliato nella sabbia. Quella mattina, però, il mare dondolava come un lago scuro e senza fondo. Mentre osservava l'impenetrabile superficie dell'oceano, Victor Kray pensò agli ultimi vent'anni trascorsi in quel faro da lui stesso costruito. Guardandosi indietro, sentiva ognuno di quegli anni come un pesante macigno sulle spalle. Con il passare del tempo, la segreta angoscia di quell'attesa interminabile gli aveva fatto pensare che forse quella storia era stata tutta un'illusione e che la sua ostinata ossessione lo aveva trasformato nella sentinella di una minaccia esistita solo nella sua immaginazione. Ma ancora una volta i sogni erano tornati. Finalmente, i fantasmi del passato si erano svegliati da un lungo sonno e tornavano a percorrere i meandri della sua mente. E con loro, era tornata la paura di essere ormai troppo debole per affrontare il vecchio nemico. Da molti anni non dormiva più di due o tre ore per notte; il resto del tempo lo trascorreva praticamente da solo nel faro. Suo nipote Roland aveva l'abitudine di dormire spesso nella capanna sulla spiaggia e non era insolito che a volte, per più giorni, passassero insieme solo pochi minuti. Quell'allontanamento dal nipote al quale Victor Kray si era condannato volontariamente gli procurava almeno una certa tranquillità di spirito, perché aveva la certezza che il dolore che sentiva per non poter condividere quegli anni con il ragazzo era il prezzo da pagare per la sicurezza e la futura felicità di Roland.
Nonostante tutto, ogni volta che dalla torre del faro vedeva il giovane tuffarsi nelle acque della baia vicino allo scafo dell'Orpheus gli si gelava il sangue nelle vene. Non aveva mai voluto che Roland se ne accorgesse e fin dalla sua infanzia aveva risposto alle domande sulla nave e sul passato cercando di non mentire e, insieme, di non raccontargli tutta la verità. Il giorno prima, mentre guardava Roland e i suoi due nuovi amici sulla spiaggia, si era chiesto se forse non era stato un grave errore. Questi pensieri lo trattennero al faro più tempo del consueto, quella mattina. Di solito tornava a casa prima delle otto. Victor Kray guardò l'orologio e si accorse che erano già passate le dieci e mezza. Scese lungo la spirale metallica della torre per poi incamminarsi verso casa e approfittare delle poche ore di sonno che il suo fisico gli concedeva. Lungo la strada, vide che la bicicletta di Roland era lì e che il giovane era venuto a passare la notte a casa. Quando entrò, cercando di non fare rumore per non disturbare il sonno del nipote, scoprì che Roland lo stava aspettando, seduto in una delle vecchie poltrone della camera da pranzo. «Non riuscivo a dormire, nonno» disse Roland, sorridendogli. «Ho dormito un paio d'ore come un sasso e poi mi sono svegliato di colpo senza più riuscire ad addormentarmi.» «So di che cosa parli» rispose Victor Kray, «ma io conosco un rimedio infallibile.» «Quale?» chiese Roland. Il vecchio sfoggiò un sorriso furbo, che sembrava ringiovanirlo di sessant'anni. «Mettersi a cucinare. Hai fame?» Roland ci pensò un attimo. Certo che l'immagine di fette abbrustolite con burro, marmellata e uova in camicia gli solleticava lo stomaco. E senza più esitare, annuì. «Bene» disse Victor Kray. «Tu mi farai da sguattero. Andiamo.» Roland seguì il nonno in cucina e si preparò a seguirne le istruzioni. «Visto che l'idea è stata mia,» spiegò Victor Kray, «io friggerò le uova. Tu prepara il pane.» In pochi minuti, nonno e nipote riuscirono a riempire la cucina di fumo e a impregnare tutta la casa dell'irresistibile aroma di colazione appena pronta. Poi, si sedettero l'uno di fronte all'altro alla tavola della cucina e brindarono con i rispettivi bicchieri colmi di latte fresco. «Ecco la colazione per le persone che devono crescere» scherzò Victor
Kray, attaccando con finta voracità la sua prima fetta tostata. «Ieri sono stato nella nave» disse Roland lentamente, abbassando gli occhi. «Lo so» rispose, continuando a sorridere e a masticare. «Qualche novità?» Roland esitò un istante, posò il bicchiere di latte e guardò il vecchio che cercava di conservare un aspetto allegro e spensierato. «Credo stia succedendo qualcosa di brutto, nonno» riuscì finalmente a dire, «qualcosa che ha a che fare con delle statue.» Victor Kray sentì formarsi un grumo di acciaio nello stomaco. Smise di masticare e lasciò a metà la fetta tostata. «Questo amico, Max, ha visto delle cose» continuò Roland. «Dove vive il tuo amico?» chiese il vecchio, con voce tranquilla. «Nella vecchia casa dei Fleischmann, sulla spiaggia.» Victor Kray annuì lentamente. «Roland, raccontami tutto quello che tu e i tuoi amici avete visto. Per favore.» Roland si strinse nelle spalle e riferì gli avvenimenti degli ultimi due giorni, da quando aveva conosciuto Max fino alla notte appena trascorsa. Quando ebbe terminato il racconto, guardò suo nonno, cercando di leggerne i pensieri. Il vecchio, imperturbabile, gli rivolse un sorriso consolante. «Finisci la tua colazione, Roland» lo invitò. «Ma?...» protestò il ragazzo. «Poi, quando avrai finito, va' a prendere i tuoi amici e portali qui» spiegò il vecchio. «Abbiamo molte cose di cui parlare.» Alle 1.34 di quella mattina, Maximilian Carver telefonò dall'ospedale per comunicare ai figli le ultime novità. La piccola Irina continuava a migliorare, molto lentamente, ma i medici non potevano ancora assicurare che fosse fuori pericolo. Alicia si accorse che la voce del padre rifletteva una certa calma, e che il peggio era ormai passato. Cinque minuti dopo, il telefono squillò di nuovo. Questa volta era Roland, che chiamava dal caffè del paese. A mezzogiorno si sarebbero incontrati al faro. Quando Alicia attaccò il telefono, gli tornò alla mente lo sguardo stregato che Roland le aveva rivolto la notte prima sulla spiaggia. Sorrise fra sé e uscì nel portico per comunicare a Max le novità. Distinse il profilo del fratello seduto sulla sabbia, a guardare il mare. All'orizzonte, i
primi lampi di un temporale si accesero nella volta del cielo. Alicia camminò fino alla riva e si sedette vicino a suo fratello. L'aria fredda di quella mattina le mordeva la pelle, e avrebbe desiderato essersi portata dietro una buona maglia. «Ha chiamato Roland» disse Alicia. «Suo nonno vuole vederci.» Max annuì in silenzio, senza distogliere lo sguardo dal mare. Un fulmine che cadeva sull'oceano spezzò la linea del cielo. «Ti piace Roland, vero?» chiese Max, giocherellando con un pugno di sabbia fra le dita. Alicia pensò qualche istante alla domanda del fratello. «Sì» rispose. «E credo di piacergli anch'io. Perché, Max?» Max si strinse nelle spalle e lanciò un pugno di sabbia verso la linea dove si rompeva il flusso delle onde. «Non so» disse Max. «Pensavo a quello che Roland ha detto sulla guerra, tutto qui. Al fatto che forse dopo l'estate verrà reclutato... Non importa, non credo che siano affari miei.» Alicia si girò verso suo fratello e ne cercò lo sguardo evasivo. Inarcava le ciglia proprio come Maximilian Carver, e i suoi occhi grigi riflettevano, come sempre, un mare di nervi trattenuti a fior di pelle. Alicia circondò con le braccia le spalle di Max e lo baciò sulla guancia. «Rientriamo» disse, scuotendo la sabbia che le si era attaccata al vestito. «Qui fa freddo.» Capitolo nono Giunti ai piedi del sentiero che saliva al faro, Max sentì che i suoi muscoli si sarebbero trasformati in burro nel giro di pochi secondi. Prima di partire, Alicia si era offerta di prendere l'altra bicicletta che dormiva ancora all'ombra della rimessa, ma Max aveva rifiutato, offrendosi di portarla lui come aveva fatto il giorno prima Roland. Un chilometro dopo, il ragazzo aveva cominciato a pentirsi della sua bravata. Come se il suo amico avesse intuito la sofferenza della lunga marcia, Roland li aspettava con la bicicletta all'inizio del sentiero. Non appena lo vide, Max si fermò e lasciò scendere sua sorella. Respirò profondamente e si massaggiò le cosce, indolenzite dallo sforzo. «Credo che tu ti sia rattrappito di quattro o cinque centimetri» disse Roland. Max decise di non sprecare fiato per rispondere alla battuta. Senza una
parola, Alicia salì sulla bicicletta di Roland e si avviarono lungo il sentiero. Max aspettò ancora qualche istante prima di riprendere a pedalare sulla salita. Sapeva già in che cosa avrebbe speso il suo primo stipendio: in una motocicletta. Il piccolo tinello della casa del faro odorava di caffè caldo e di tabacco da pipa. L'ambiente e le pareti erano di legno scuro e, a parte un'immensa libreria e alcuni oggetti marinari che Max non seppe identificare, non aveva altro arredo. Un camino per bruciare la legna e una tavolo coperto da un panno di velluto scuro con intorno vecchie poltrone di pelle scolorita erano tutto il lusso di cui Victor Kray si era circondato. Roland accennò ai suoi amici di sedersi sulle poltrone, e prese posto su una sedia di legno fra i due. Aspettarono cinque minuti, senza scambiare una parola, mentre si sentivano i passi del vecchio al piano di sopra. Finalmente il vecchio guardiano del faro fece la sua comparsa. Non era come Max se lo immaginava. Victor Kray era un uomo di media statura, di carnagione chiara e con un'abbondante massa di capelli grigi che incorniciavano un volto che non rispecchiava la sua vera età. I suoi occhi verdi e penetranti si soffermarono lentamente sul volto dei due fratelli, come se cercassero di leggere i loro pensieri. Max sorrise nervoso di fronte allo sguardo scrutatore del vecchio. Victor Kray gli rispose con un sorriso affabile che gli illuminò l'espressione. «Questa è la prima visita che ricevo da molti anni» disse il guardiano del faro, prendendo posto in una delle poltrone. Dovrete scusare i miei modi, ma non formalizziamoci, quando ero un bambino, pensavo che tutte quelle regole del galateo fossero una gran stupidaggine. E lo penso ancora. «Noi non siamo bambini, nonno» disse Roland. «Chiunque sia più giovane di me è un bambino» rispose Victor Kray. «Tu devi essere Alicia. E tu, Max. Non c'è bisogno di essere molto furbi per capirlo, vero?» Alicia sorrise cordialmente. Non lo conosceva che da due minuti, ma l'atteggiamento sornione del vecchio l'aveva già conquistata. Da parte sua, Max studiava il viso del vecchio, cercando di immaginarlo chiuso in quel faro da decenni, custode del segreto dell'Orpheus. «So che cosa state pensando» spiegò Victor Kray. «È vero tutto quello che abbiamo visto o crediamo di aver visto negli ultimi giorni? Per essere sincero, non pensavo che sarebbe mai giunto il momento in cui avrei dovuto parlare di questo argomento con qualcuno, neppure con Roland. Però
succede sempre il contrario di quello che ci aspettiamo, non è così?» Nessuno rispose. «E va bene. Andiamo ai fatti. Raccontatemi tutto quello che sapete. E quando dico tutto intendo proprio tutto, compresi i particolari che vi possano sembrare insignificanti. D'accordo?» Max guardò i suoi compagni. «Comincio io?» suggerì. Alicia e Roland annuirono. Victor Kray gli fece cenno di cominciare il suo racconto. Nella mezz'ora successiva, Max riferì senza interruzioni tutto quello che si ricordava, di fronte allo sguardo attento del vecchio, che ascoltò le sue parole senza il minimo segno di incredulità né, come invece si aspettava Max, di stupore. Quando Max ebbe finito la sua storia, Victor Kray prese la pipa e la preparò metodicamente. «Non male» mormorò, «non male.» Il guardiano del faro accese la pipa e una nube di fumo dall'aroma dolciastro inondò la stanza. Victor Kray assaporò lentamente una boccata di quella trinciatura speciale e si rilassò sulla poltrona. Poi, guardando negli occhi ognuno dei tre ragazzi, cominciò a parlare... "Quest'autunno compirò settantadue anni e, anche se mi consola il fatto di non dimostrarli, ognuno di questi anni mi pesa addosso come un macigno. L'età ti fa capire certe cose. Per esempio, adesso so che la vita di un uomo si divide fondamentalmente in tre periodi. Nel primo, uno non pensa neppure che invecchierà, né che il tempo passa, e che fin dal primo giorno, quando nasciamo, camminiamo verso un unico e identico fine. Passata la prima giovinezza, comincia il secondo periodo, nel quale uno si rende conto della fragilità della propria vita, e quello che in principio è una semplice inquietudine va crescendo nell'animo come un mare di dubbi e incertezze che ti accompagnano durante il resto dei tuoi giorni. Per ultimo, alla fine della vita, si apre il terzo periodo, quello dell'accettazione della realtà e, di conseguenza, quello della rassegnazione e della speranza. Lungo la mia vita ho conosciuto molte persone che sono rimaste agganciate a uno di questi stadi senza mai riuscire a superarli. È qualcosa di terribile." Victor Kray si accorse che i tre ragazzi l'osservavano attentamente e in silenzio, ma che ognuno di quegli sguardi sembrava chiedersi di che cosa
stesse parlando. Si fermò ad assaporare una boccata di fumo e sorrise al suo piccolo pubblico. "È un cammino che ognuno di noi deve imparare a percorrere da solo, pregando Dio di aiutarlo a non perdersi prima di arrivare alla fine. Se tutti fossimo capaci di comprendere all'inizio della nostra vita questa cosa, che sembra così semplice, buona parte delle miserie e delle pene di questo mondo scomparirebbero. Però, e questo è un incomprensibile paradosso, ci viene concessa questa grazia solo quando è troppo tardi. Fine della lezione. Vi chiederete perché vi spiego tutto questo. Ve lo dirò. A volte, ma una volta su un milione, succede che qualcuno, molto giovane, capisce che la vita è una strada senza ritorno e decide che questo gioco non fa per lui. È come quando decidi di barare in un gioco che non ti piace. La maggior parte delle volte ti scoprono e il trucco finisce. Però altre volte il truffatore ce la fa. E quando invece di giocare con i dadi o con le carte si gioca con la vita e con la morte, quel truffatore diventa una persona molto pericolosa. Moltissimo tempo fa, quando io avevo la vostra età, la vita mise sulla mia strada uno dei più grandi truffatori di questa terra. Non sono mai riuscito a conoscere il suo vero nome. Nel povero quartiere dove vivevo, tutti i ragazzi della strada lo conoscevano come Cain. Altri lo chiamavano il Principe della Nebbia perché, stando alle chiacchiere, sbucava sempre da una densa nebbia che ricopriva i vicoli notturni per scomparire di nuovo nelle tenebre prima dell'alba. Cain era un uomo giovane e di bell'aspetto, e di lui nessuno conosceva le origini. Tutte le notti, in uno dei vicoli del quartiere, egli riuniva i ragazzi cenciosi e ricoperti della fuliggine e del sudiciume delle fabbriche e proponeva loro un patto. Ognuno poteva formulare un desiderio e lui lo avrebbe trasformato in realtà. In cambio, Cain chiedeva solo una cosa: l'assoluta fedeltà. Una notte, Angus, il mio miglior amico, mi portò a una di queste riunioni. Lo strano personaggio si vestiva come un cavaliere uscito dall'opera e sorrideva sempre. I suoi occhi sembrava cambiassero colore nella penombra, e la sua voce era grave e lenta. Secondo i ragazzi, Cain era un mago. Io, che non avevo creduto a una sola parola di tutte le storie che circolavano su di lui nel rione, ero andato quella sera con l'intenzione di farmi quattro risate sul sedicente mago. Ricordo però che in sua presenza ogni cenno di burla svanì. Non appena lo vidi, l'unica cosa che sentii fu paura e, ovviamente, mi guardai bene dal pronunciare anche solo una parola. Quella notte molti dei giovani della strada espressero i loro desideri a Cain. Quando tutti ebbero finito, questi diresse il suo sguardo di ghiaccio
verso l'angolo dove stavamo il mio amico Angus e io. Ci chiese se noi non avessimo desideri da esaudire. Io restai di pietra, ma Angus, con mia sorpresa, parlò. Suo padre aveva perso quel giorno il lavoro. La fonderia in cui lavorava la gran parte degli adulti del quartiere stava licenziando il personale e lo sostituiva con macchinari che funzionavano ininterrottamente e non aprivano la bocca. I primi a trovarsi sulla strada erano stati i capi più battaglieri fra i lavoratori. Il padre di Angus aveva tutti i numeri per vincere quella lotteria, e infatti quel pomeriggio era stato licenziato. Da quel momento, mantenere Angus e i suoi cinque fratelli che si ammassavano in una miserabile casa di mattoni marci per l'umidità sarebbe diventata un'impresa impossibile. Angus, con un filo di voce, manifestò la sua richiesta a Cain: che suo padre venisse riassunto alla fonderia. Cain annuì e poi, così come mi avevano preannunciato, camminò di nuovo verso la nebbia, scomparendo. Il giorno dopo, il padre di Angus fu inspiegabilmente richiamato a lavorare. Cain aveva mantenuto la sua parola. Due settimane più tardi, Angus ed io stavamo tornando a casa di notte dopo essere andati a un fiera ambulante fuori città. Per non fare troppo tardi, decidemmo di prendere una scorciatoia e seguire il sentiero della vecchia ferrovia abbandonata. Camminavamo alla luce della luna per quei paraggi sinistri, quando ci accorgemmo che dalla nebbia stava emergendo una figura avvolta in un mantello su cui campeggiava una stella a sei punte inscritta in un cerchio d'oro. La figura stava avvicinandosi a noi, fermi in mezzo alla strada abbandonata. Era il Principe della Nebbia. Si avvicinò e, con il suo solito sorriso, si rivolse ad Angus. Gli spiegò che era giunto il momento di restituirgli il favore. Angus, visibilmente terrorizzato, annuì. Cain disse che la sua richiesta era semplice: un piccolo regolamento di conti. In quel periodo il personaggio più ricco del quartiere, l'unico ricco in realtà, era Skolimoski, un commerciante polacco padrone del magazzino di alimentari e di abbigliamento dove andava a comprare tutta la gente del posto. Il compito di Angus era di dare fuoco al magazzino di Skolimoski: il lavoro doveva essere effettuato la notte successiva. Il mio amico avrebbe voluto protestare, ma non riuscì a dire una parola. C'era qualcosa negli occhi di Cain che faceva capire molto chiaramente come non fosse disposto ad accettare altro che un'obbedienza assoluta. Il mago se ne andò come era venuto. Ci mettemmo a correre, e quando lasciai Angus davanti alla porta di casa sua, lo sguardo di terrore che gli riempiva gli occhi mi strinse il cuore. Il giorno dopo lo cercai per le vie, ma non c'era traccia di lui. Cominciavo a
temere che si fosse proposto di compiere la criminosa missione impostagli da Cain, e decisi di montare la guardia di fronte al magazzino di Skolimoski non appena scese la sera. Angus non si fece vedere e, quella notte, il negozio del polacco non bruciò. Mi sentii colpevole per aver dubitato del mio amico e pensai che la cosa migliore da fare fosse quella di tranquillizzarlo. Conoscendolo bene, immaginavo che dovesse essersi nascosto in casa, tremante di paura al pensiero della possibile rappresaglia dello spettrale mago. La mattina successiva mi avviai a casa sua. Non era lì. Con le lacrime agli occhi la madre mi disse che era stato fuori tutta la notte e mi pregò di cercarlo e di riportarlo a casa. Con lo stomaco chiuso, andai avanti e indietro per il quartiere senza tralasciare nessuno dei suoi più puzzolenti e reconditi angoli. Nessuno lo aveva visto. Al tramonto, stanco morto e senza sapere ormai dove cercarlo, fui assalito da un'oscura intuizione. Tornai lungo il sentiero della ferrovia abbandonata e seguii i binari che brillavano debolmente sotto la luna nell'oscurità della notte. Non dovetti camminare a lungo. Trovai il mio amico steso sulla via, nello stesso punto dove due notti prima Cain era emerso dalla nebbia. Cercai di sentirgli il polso, ma le mie mani non trovarono pelle in quel corpo. Solo ghiaccio. Il corpo del mio amico si era trasformato in una grottesca figura di ghiaccio blu e fumante che fondeva lentamente sui binari abbandonati. Intorno al collo, una piccola medaglia portava lo stesso simbolo che ricordavo di aver visto impresso sul mantello di Cain, la stella a sei punte dentro un cerchio. Rimasi vicino a lui fino a quando i tratti del suo viso non svanirono per sempre in una pozzanghera di lacrime gelate nell'oscurità. Quella stessa notte, mentre io scoprivo inorridito il destino del mio amico, il magazzino di Skolimoski fu distrutto da un terribile incendio. Non ho mai parlato a nessuno di quello che i miei occhi avevano visto quel giorno. Due mesi dopo, la mia famiglia si trasferì a sud, lontano da lì, e molto presto, con il passare dei mesi, cominciai a credere che il Principe della Nebbia fosse solo un ricordo amaro degli oscuri anni vissuti all'ombra di quella povera, sporca e violenta città della mia infanzia... Fino a quando non lo vidi di nuovo, e allora capii che quello non era stato che l'inizio." Capitolo decimo "Il mio successivo incontro con il Principe della Nebbia si svolse la notte in cui mio padre, che era stato promosso a capo tecnico di un'officina tessi-
le, ci aveva portato tutti a una grande fiera di giostre montata su un molo di legno che si addentrava nel mare come un palazzo di cristallo sospeso nel cielo. Al calare dell'oscurità, lo spettacolo di luci multicolori delle giostre sul mare era stupefacente. Io non avevo mai visto nulla di così bello. Mio padre era euforico: aveva sottratto la sua famiglia a quello che sembrava dover essere un futuro di miseria al nord e adesso era un uomo in vista, rispettato e con denaro sufficiente perché i suoi figli potessero godere degli stessi divertimenti di qualunque ragazzo della capitale. Avevamo cenato presto e poi mio padre aveva dato a ciascuno di noi alcune monete perché le spendessimo in quello che più ci piaceva, mentre lui e mia madre passeggiavano sottobraccio in mezzo alle persone del luogo vestite a festa e a boriosi turisti. Io ero affascinato da una gigantesca ruota che girava ininterrottamente a uno dei capi del molo e i cui riflessi si potevano vedere per molte miglia in tutta la costa. Corsi a mettermi in coda e, mentre aspettavo, mi cadde l'occhio su uno dei baracconi lì a pochi metri. Fra tombole e tiri al bersaglio, un'intensa luce porpora illuminava il misterioso baraccone di un certo dottor Cain, indovino, mago e veggente, come recitava un cartello sul quale un disegnatore di infimo grado aveva raffigurato la faccia di Cain che guardava minaccioso i curiosi che si avvicinavano alla nuova tana del Principe della Nebbia. Il cartello e le ombre porporine conferivano alla baracca un aspetto macabro e lugubre. Una tenda con la stella a sei punte bordata di nero velava l'entrata. Stregato da quella visione, mi allontanai dalla coda della giostra e mi avvicinai all'entrata della baracca. Stavo cercando di sbirciare dentro attraverso la stretta fessura, quando la tenda si aprì di colpo e una donna vestita di nero, con la pelle bianca come il latte e occhi scuri e penetranti mi fece segno di entrare. All'interno riuscii a distinguere, seduto dietro una scrivania alla luce di un lume a petrolio, quell'uomo che avevo conosciuto molto lontano da lì con il nome di Cain. Ai suoi piedi, un grande gatto di colore scuro e dagli occhi dorati si leccava il pelo. Senza pensarci due volte, entrai e mi avvicinai al tavolo dove mi aspettava il Principe della Nebbia, sorridente. Ricordo ancora la sua voce grave e lenta, mentre pronunciava il mio nome sullo sfondo della musica ipnotica di un organetto di una giostra che sembrava molto, molto lontana da lì." «Victor, amico mio» sussurrò Cain «se non fossi un indovino, direi che il destino vuole riunire le nostre strade.»
«Chi è lei?» riuscì ad articolare il giovane mentre osservava con la coda dell'occhio quella donna spettrale che si era ritirata nella zona d'ombra della stanza. «Il dottor Cain. Lo dice anche il manifesto» rispose Cain. «Sei venuto a divertirti un po' con la tua famiglia?» Victor inghiottì la saliva e annuì. «Questa è una buona cosa» proseguì il mago. «Il divertimento è come il laudano: ci libera dalla miseria e dal dolore, anche se per poco.» «Non so che cosa sia il laudano» rispose Victor. «Una droga, figliolo» rispose Cain stancamente, scivolando con lo sguardo all'orologio posto su una mensola alla sua destra. A Victor sembrò che le lancette avanzassero nel senso inverso. «Il tempo non esiste, per questo non bisogna sprecarlo. Hai già pensato al tuo desiderio?» «Non ho nessun desiderio» rispose Victor. Cain scoppiò a ridere. «Andiamo, su. Tutti abbiamo non uno, ma mille desideri. E quanto poche sono le occasioni che la vita ci offre per realizzarli!» Cain guardò l'enigmatica donna con un smorfia di compassione. «Non è vero, cara?» La donna, come se fosse un semplice oggetto inanimato, non rispose. «Però c'è chi ha fortuna, Victor» disse Cain, piegandosi sul tavolo, «come te. Perché tu puoi trasformare in realtà i tuoi sogni. Sai bene come.» «Come ha fatto Angus?» esclamò Victor, che in quel momento si rese conto di uno strano fatto da cui non riusciva a distrarsi: Cain non batteva le palpebre, mai. «Un incidente, amico mio. Un disgraziato incidente» disse Cain con tono addolorato e rincresciuto. «È un errore credere che i sogni si facciano realtà senza niente in cambio. Non ti sembra? Diciamo che non sarebbe giusto. Angus aveva voluto dimenticare i suoi doveri, e questo non è ammissibile. Ma il passato è passato. Parliamo del futuro, del tuo futuro.» «È quello che ha fatto Lei?» chiese Victor. «Ha realizzato il suo desiderio, trasformandosi nella persona che è adesso? Che cosa ha dovuto dare in cambio?» Il sorriso scomparve dal viso di Cain, che piantò i suoi occhi su Victor Kray. Il ragazzo temette per un istante che l'uomo si sarebbe slanciato su di lui per farlo a pezzi. Alla fine, Cain sorrise di nuovo e sospirò. «Un giovane intelligente. Mi piaci, Victor. Devi però imparare ancora molte cose. Quando sarai pronto, torna da me. Sai già come trovarmi. Spe-
ro di vederti presto.» «Ne dubito» rispose Victor mentre si rialzava e si avviava all'uscita. La donna, come una marionetta guidata da invisibili fili, riprese a camminare, accennando ad accompagnarlo. Quando si trovò a pochi passi dall'uscita, la voce di Cain risuonò alle spalle del giovane. «Ancora una cosa, Victor. A proposito dei desideri. L'offerta è sempre valida. Se non interessa a te, forse qualche membro della tua famiglia tiene nascosto un sogno inconfessabile. Sono la mia specialità...» Victor non si fermò a rispondere e uscì a respirare di nuovo l'aria fresca della notte. Respirò profondamente e si diresse a passi rapidi a cercare i suoi familiari. Mentre si allontanava, le risa del dottor Cain si persero alle sue spalle come il canto di una iena, confuse con la musica della giostra. Max aveva ascoltato incantato il racconto del vecchio, senza osare interromperlo con una delle mille domande che ribollivano nella sua mente. Victor Kray sembrò leggergli nel pensiero, rivolgendosi a lui con dito accusatore: «Pazienza, giovanotto. Tutti i pezzi andranno a posto al momento giusto. È proibito interrompere. D'accordo?» Anche se l'avvertimento era rivolto a Max, i tre amici annuirono all'unisono. «Bene, bene...» mormorò tra sé il guardiano del faro. "Quella stessa notte decisi di allontanarmi per sempre da quell'individuo, cercando di cancellare dalla mia testa qualunque pensiero riferito a lui. E non era facile. Chiunque fosse, il dottor Cain aveva la rara capacità di insinuarsi nelle persone come quelle schegge che, più cerchi di estrarle, più a fondo si infilano nella carne. Non potevo parlarne con nessuno, se non a rischio di essere scambiato per un pazzo, e non potevo rivolgermi alla polizia, perché non avrei saputo neppure da dove cominciare. Lasciai passare il tempo, che in questi casi è la cosa più prudente. Stavamo bene nella nostra nuova casa, ed ebbi l'opportunità di conoscere una persona che mi aiutò molto. Si trattava di un sacerdote che dava lezioni di matematica e fisica a scuola. A prima vista sembrava sempre con la testa fra le nuvole, ma era un uomo di grande intelligenza, paragonabile solo alla sua bontà. Era forse per nascondere queste qualità che cercava di recitare, in modo assai convincente, il ruolo dello scienziato matto del paese. Lui mi stimolò a studiare a fondo e mi fece scoprire la matematica. Non
c'è da stupirsi se, dopo alcuni anni sotto le sue cure, la mia vocazione per le scienze si fece sempre più chiara. All'inizio volevo seguire il suo esempio e darmi all'insegnamento, però il sacerdote mi inflisse una tremenda ramanzina e mi disse che quello che dovevo fare era andare all'università, studiare fisica e diventare il miglior ingegnere del paese. O così, o non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Fu lui che mi procurò la borsa di studio per l'università, avviandomi lungo il cammino che avrei volentieri percorso se non mi fosse stato poi sbarrato dal destino. Morì una settimana prima che io mi laureassi. Non mi vergogno più a dire che soffrii per la sua scomparsa quanto o forse più che per quella di mio padre. All'università mi successe di entrare in rapporto con colui che mi avrebbe nuovamente fatto incontrare il dottor Cain: un giovane studente di medicina che apparteneva a una famiglia immensamente ricca (o almeno così mi sembrava). Si chiamava Richard Fleischmann. Era in effetti il futuro dottor Fleischmann, quello che anni dopo avrebbe costruito la casa della spiaggia. Richard Fleischmann era un giovane vivace e portato a esagerare. Era abituato da tutta la vita al fatto che le cose dovevano andare come lui voleva, e quando, per un qualche motivo, qualcosa contrastava con le sue aspettative, andava su tutte le furie. Fu ironia del destino che diventassimo amici: ci innamorammo della stessa donna, Eva Gray, la figlia del più insopportabile e tirannico cattedratico di chimica del campus. All'inizio, uscivamo insieme tutti e tre e facevamo delle gite la domenica, quando quell'orso di Theodore Gray non ce lo impediva. Ma questo equilibrio non durò molto. La cosa più strana fu che Fleischmann ed io, invece di trasformarci in rivali, diventammo compagni inseparabili. Ogni notte, dopo aver riaccompagnato Eva alla tana dell'orco, facevamo insieme il cammino di ritorno, pur sapendo che prima o poi la felicità di uno dei due avrebbe significato l'infelicità dell'altro. In attesa che giungesse quel giorno, trascorremmo i due anni più belli che ricordi. Ma giunge una fine per tutto, prima o poi. Quella del nostro inseparabile trio giunse la sera in cui ci laureammo. Anche se avevo conseguito tutti i premi scolastici immaginabili, avevo l'umore a terra per la perdita del mio tutore; così Eva e Richard decisero, anche se io non bevevo, che quella notte mi avrebbero fatto ubriacare e avrebbero cercato ogni modo per scacciare la malinconia dal mio spirito. Non c'è neppure bisogno di dire che l'orco Theodore, che pur essendo sordo come una campana sembrava riuscire a sentire attraverso i muri, scoprì i nostri piani e la serata
finì con Fleischmann e io ubriachi fradici, in una lurida taverna, impegnati nell'elogio dell'oggetto del nostro amore, Eva Gray. Quella stessa notte, mentre tornavamo barcollando al campus, una fiera ambulante sembrò emergere dalla nebbia vicino alla stazione ferroviaria. Fleischmann e io, convinti che un giro in giostra sarebbe stata la cura infallibile per la nostra ubriacatura, ci addentrammo nel luna park e ci ritrovammo davanti al baraccone del dottor Cain, indovino, mago e veggente, come continuava ad annunciare il sinistro manifesto. Fleischmann ebbe un'idea geniale: saremmo entrati e avremmo chiesto all'indovino di svelarci l'enigma: chi di noi due avrebbe scelto Eva? Nonostante lo stordimento, mi era rimasto sufficiente buon senso per non entrare, ma mi mancò la forza per trattenere il mio amico, che si infilò deciso nella baracca. Suppongo di aver perso i sensi, perché non ricordo bene che cosa successe nelle ore seguenti. Quando mi ripresi, con un tremendo mal di testa, Fleischmann e io ci trovammo distesi su una vecchia panchina di legno. Stava albeggiando e i carrozzoni della fiera erano scomparsi, come se tutto quel mondo di luci, suoni e gente della notte passata fosse stato solo una visione delle nostre menti stordite dall'alcol. Ci alzammo e contemplammo il terreno desolato intorno a noi. Chiesi al mio amico se si ricordava qualcosa della notte precedente. Facendo un evidente sforzo, Fleischmann mi disse che aveva sognato di entrare nel baraccone di un indovino e che, alla domanda su quale fosse il suo desiderio più forte, aveva risposto di desiderare l'amore di Eva Gray. Poi si mise a ridere, scherzando sulla monumentale sbronza di cui stavamo pagando le conseguenze, convinto che non fosse accaduto nulla di tutto quello che mi aveva raccontato. Due mesi dopo, Eva Gray e Richard Fleischmann si sposarono. Non mi invitarono neppure al matrimonio. Non li avrei rivisti per venticinque lunghi anni." "Un giorno piovoso d'inverno, un uomo avvolto nel suo impermeabile mi seguì dall'ufficio fino a casa. Dalla finestra della sala da pranzo, vidi che quell'estraneo era ancora là sotto, come se volesse controllarmi. Esitai qualche istante, e poi scesi in strada con l'intenzione di smascherare la misteriosa spia. Era Richard Fleischmann, tremante di freddo e con il viso sciupato dagli anni. Gli occhi erano quelli di un uomo che avesse vissuto come inseguito per tutta la vita. Mi chiesi da quanto tempo il mio amico non dormisse. Lo feci salire in casa e gli offrii un caffè bollente. Non ero in vena di gentilezze, e gli domandai senza mezzi termini che
cosa avesse preteso Cain in cambio della realizzazione del suo desiderio. Fleischmann, con un'espressione confusa di paura e di vergogna, si inginocchiò di fronte a me supplicando fra le lacrime il mio aiuto. Non diedi retta ai suoi lamenti, e attesi la risposta. Che cosa aveva promesso al dottor Cain in cambio dei suoi servizi? «Il mio primo figlio» mi rispose: «gli ho promesso il mio primo figlio...»" "Fleischmann mi confessò che per anni aveva somministrato alla moglie, a sua insaputa, un farmaco che le impediva di concepire figli. Però, dopo due anni, Eva Fleischmann era caduta in una profonda depressione e l'assenza della tanto desiderata maternità aveva trasformato il matrimonio dei Fleischmann in un vero inferno. Richard aveva temuto che se Eva non avesse concepito un figlio, sarebbe presto impazzita o sarebbe stata travolta da una tristezza così profonda che la sua vita si sarebbe lentamente spenta come una candela senza l'aria. Mi disse che non aveva nessuno a cui rivolgersi, implorò il mio perdono e mi chiese aiuto. Alla fine, gli dissi che l'avrei aiutato, non per lui, bensì per il legame che ancora mi univa a Eva Gray in ricordo della nostra antica amicizia. Quella stessa sera congedai Fleischmann, poi lo seguii sotto la pioggia pedinandolo mentre attraversava la città. Mi chiesi perché lo stessi facendo. La sola idea che Eva Gray dovesse consegnare suo figlio a quel miserabile stregone mi rivoltava lo stomaco, ed era motivo sufficiente per indurmi ad affrontare nuovamente il dottor Cain, anche se la mia giovinezza era ormai sfumata ed ero sempre più convinto che prima o poi quel gioco sarebbe finito male. Il girovagare di Fleischmann mi portò fino alla nuova tana del mio vecchio conoscente, il Principe della Nebbia. Suo domicilio era adesso un circo ambulante e, con mia sorpresa, scoprii che aveva rinunciato al titolo di indovino e veggente per assumere una personalità nuova, più modesta ma più conforme al suo senso dell'umorismo. Adesso era un pagliaccio che recitava con la faccia dipinta di bianco e di rosso, anche se i suoi occhi di colore cangiante ne avrebbero tradito l'identità anche dietro decine di strati di trucco. Il circo di Cain aveva sempre la stella a sei punte in cima all'asta e il mago si era circondato ora di una sinistra corte di figuri che, sotto l'apparenza di gente da fiera itinerante, tradivano qualcosa di più sordido. Spiai per due settimane il circo di Cain e presto scoprii che il tendone logoro e giallognolo copriva una pericolosa banda di truffatori, criminali e ladroni
che si dedicavano al furto ovunque passassero. Verificai anche che i servi di Cain avevano lasciato alle loro spalle un'impressionante scia di crimini, sparizioni e rapine che non erano sfuggiti alla polizia locale, la quale annusava da vicino il puzzo di corruzione che esalava da quel circo fantasmagorico. Naturalmente, Cain era cosciente della situazione e aveva quindi deciso di sparire con i suoi amici dal paese, senza perdere tempo, ma in modo discreto e, preferibilmente, evitando scomodi rapporti con la polizia. Così, approfittando di un debito di gioco offertogli su un piatto d'argento dalla stupidità del capitano olandese dell'Orpheus, il dottor Cain riuscì una notte a imbarcarsi. Lo seguii. Io stesso non riesco a spiegare quanto successe in quella notte di tormenta. Una terribile tempesta trascinò l'Orpheus indietro verso la costa e lo scagliò contro le rocce, aprendo nello scafo una falla che in pochi secondi fece affondare il battello. Io ero nascosto in una delle scialuppe di salvataggio che si sganciò non appena la nave si arenò contro gli scogli e venne spinta sulla spiaggia dalle onde. Solo per questo riuscii a salvarmi. Cain e i suoi seguaci viaggiavano nella sentina, nascosti sotto delle casse per timore di possibili controlli militari sul canale durante la traversata. Probabilmente, quando l'acqua gelata inondò le viscere dello scafo, non si resero neppure conto di quello che stava accadendo..." «Però» interruppe a questo punto Max «non si trovarono i loro corpi.» Victor Kray scosse la testa. «Molto spesso, con temporali di questa natura il mare si porta via i corpi» precisò il guardiano del faro. «Però li restituisce, anche se dopo molti giorni» replicò Max. «L'ho letto.» «Non credere a tutto quello che leggi» disse il vecchio «, anche se in questo caso hai ragione.» «E allora, che cosa è successo?» chiese Alicia. «Per anni ho avuto in proposito un'idea cui io stesso non riuscivo a credere. Adesso invece tutto sembra confermarla...» "Ero l'unico sopravvissuto al naufragio dell'Orpheus. Subito, non appena ripresi conoscenza all'ospedale, capii che era successo qualcosa di strano. Decisi di costruire questo faro e di restare a vivere qui, ma questa parte della storia la conoscete già. Sapevo che quella notte non aveva significato
la definitiva scomparsa di Cain, ma solo un suo allontanamento temporaneo. Perciò sono restato qui tutti questi anni. Con il passare del tempo, quando i genitori di Roland morirono, io mi presi cura di lui, e lui, in cambio, è stato l'unico compagno del mio esilio. Ma non è ancora tutto. Negli anni, ho commesso un altro errore fatale. Mi misi in contatto con Eva Gray, non so nemmeno io perché. Così Fleischmann conobbe il mio rifugio e venne a trovarmi. Gli spiegai ciò che era successo e lui sembrò liberato da tutti i fantasmi che per anni l'avevano tormentato. Decise di costruire la casa della spiaggia e poco dopo nacque il piccolo Jacob. Furono gli anni più belli della vita di Eva. Fino alla morte del bambino. Il giorno in cui Jacob Fleischmann affogò, capii che il Principe della Nebbia non era mai scomparso. Era rimasto nell'ombra, aspettando senza fretta che una qualche forza lo riportasse nel modo dei vivi. E nulla è più forte di una promessa..." Capitolo undicesimo Quando il guardiano del faro ebbe concluso il suo racconto, l'orologio di Max segnava quasi le cinque del pomeriggio. Fuori, una debole pioggerella cominciava a cadere sulla baia e il vento che veniva dal mare batteva insistente sulle imposte delle finestre della casa del faro. «Si avvicina una tormenta» disse Roland, scrutando l'orizzonte plumbeo sull'oceano. «Max, dovremmo tornare a casa. Papà chiamerà tra poco» mormorò Alicia. Max annuì senza troppa convinzione. Aveva bisogno di ripensare attentamente a tutto quello che il vecchio aveva spiegato, per comporre i singoli pezzi del rompicapo. Victor Kray, sospeso in un silenzio apatico dopo lo sforzo fatto per ricordare la propria storia, guardava nel vuoto dalla sua poltrona, assente. «Max...» insistette Alicia. Max si alzò e rivolse un silenzioso saluto al vecchio, che lo ricambiò con un cenno del capo. Roland stette qualche secondo a guardare il guardiano del faro, quindi accompagnò fuori i suoi amici. «E adesso?» disse Max. «Non so che cosa pensare» affermò Alicia, stringendo le spalle. «Non credi alla storia del nonno di Roland?» chiese Max.
«Non è facile credere a una storia così» replicò Alicia. «Ci deve essere un'altra spiegazione.» Max rivolse uno sguardo interrogativo a Roland. «Neanche tu credi a tuo nonno, Roland?» «Vuoi che ti dica la verità?» rispose il ragazzo. «Non lo so. Vi accompagno prima che ci caschi addosso il temporale.» Alicia salì sulla bicicletta di Roland e, senza più parlare, i due si avviarono. Max si girò un istante a guardare la casa del faro e si chiese se gli anni di solitudine trascorsi su quella scogliera avessero potuto portare Victor Kray a costruire quella sinistra storia alla quale lui sembrava credere ciecamente. Lasciò che la pioggerella fresca gli bagnasse il viso e montò sulla bicicletta, giù per la discesa. La storia di Cain e di Victor Kray restava viva nella sua mente mentre sfilava lungo la strada che costeggiava la baia. Pedalando sotto la pioggia, Max cominciò a ordinare i fatti secondo l'unico senso che gli sembrava plausibile. Supponendo che tutto il racconto del vecchio fosse vero, il che non era certo facile da accettare, la situazione continuava a essere poco chiara. Un potente mago immerso in un lungo letargo sembrava tornare lentamente alla vita. La morte del piccolo Jacob Fleischmann sarebbe stato il primo segno del suo ritorno. Ciò nonostante, in tutta quella storia che il guardiano del faro aveva tenuto nascosta per così tanto tempo c'era ancora qualcosa che non quadrava nella mente di Max. I primi lampi tinsero il cielo scarlatto e il vento cominciò a sputare con forza pesanti gocce di pioggia contro la sua faccia. Si mise a pedalare più forte, anche se le sue gambe non avevano ancora recuperato la forza dopo la maratona del mattino. Gli restavano ancora un paio di chilometri per arrivare alla casa della spiaggia. Max si rese conto che le spiegazioni del vecchio non gli sarebbero bastate. La spiritata presenza del giardino di statue e gli avvenimenti di quei primi giorni in paese dimostravano che un meccanismo sinistro si era messo in movimento e che nessuno poteva prevedere che cosa sarebbe successo da quel momento in poi. Con o senza l'aiuto di Roland e di Alicia, Max era deciso a continuare le sue investigazioni per arrivare al fondo della verità, cominciando dall'unica cosa che sembrava portarlo direttamente al centro del mistero: le filmine di Jacob Fleischmann. Più rimuginava sulla storia, più si convinceva che Victor Kray non gli aveva raccontato tutta la verità. Assolutamente no. Alicia e Roland stavano aspettando sotto il portico della casa della spiaggia quando Max, fradicio di pioggia, lasciò la bicicletta sotto la tetto-
ia del garage e corse a ripararsi dal violento acquazzone. «È già la seconda volta dall'inizio della settimana» rise Max. «Di questo passo mi restringerò. Non vorrai tornare indietro adesso, vero, Roland?» «Ho paura di sì» rispose Roland osservando la densa cortina d'acqua che cadeva con furia. Non voglio lasciare da solo il nonno. «Prendi almeno un impermeabile. Ti prenderai una polmonite» insistette Alicia. «Non ne ho bisogno. Ci sono abituato. E poi, è un temporale estivo. Passerà subito.» «La voce dell'esperienza» scherzò Max. «Proprio così» replicò Roland. I tre amici si guardarono in silenzio. «Credo che la cosa migliore sia non parlare più di questa faccenda fino a domani» suggerì Alicia. «Una buona notte di sonno ci aiuterà a vederci più chiaro.» «E chi riesce a dormire, stanotte, dopo una storia così?» esclamò Max. «Tua sorella ha ragione» disse Roland. «Figurati!» tagliò corto Max. «Parlando d'altro: domani pensavo di tornare a fare immersione al battello. Forse riesco a recuperare il sestante che qualcuno si è lasciato scappare...» spiegò Roland. Max stava cercando una risposta tranciante per dire chiaro e tondo che non gli sembrava fosse una buona idea, andare di nuovo a immergersi all'Orpheus, ma Alicia lo prevenne. «Ci saremo» mormorò. Un sesto senso fece intuire a Max che quel plurale era solo una forma di cortesia. «A domani, allora» rispose Roland, con gli occhi brillanti rivolti ad Alicia. «Ci sarò anch'io» disse Max con voce cantilenante. «A domani, Max» disse Roland, avviandosi alla bicicletta. I due fratelli, guardando Roland che se ne andava sotto la pioggia, restarono al riparo del portico fino a quando il suo profilo non svanì lungo la strada della spiaggia. «Dovresti metterti qualcosa di asciutto, Max. Mentre ti cambi preparerò un po' di cena» suggerì Alicia. «Tu?» esclamò Max. «Tu non sai cucinare.» «E chi ti dice che voglio cucinare, signorino? Questo non è un albergo.
Dentro» ordinò Alicia, con un sorriso malizioso sulle labbra. Max decise di seguire i consigli della sorella ed entrò in casa. L'assenza di Irina e dei genitori accentuava quella sensazione di essere un intruso nella dimora di altri che la casa sulla spiaggia gli aveva ispirato fin dall'inizio. Mentre saliva le scale diretto alla sua stanza, si soffermò un istante a riflettere sul fatto che da un paio di giorni non aveva visto il repellente felino di Irina. Non gli sembrò una grande perdita e, così come gli era venuto alla mente, si dimenticò subito di quel particolare. Fedele alla parola data, Alicia non sprecò in cucina un secondo in più dello stretto necessario. Preparò delle fette di pane di segale con burro e marmellata e due bicchieri di latte. Quando Max vide il vassoio della cosiddetta cena, l'espressione del suo viso parlò da sola. «Non dire una parola» minacciò Alicia «Non sono qui per cucinare.» Cenarono in silenzio in attesa dello squillo del telefono e delle notizie dall'ospedale, ma non arrivò nessuna chiamata. «Forse hanno chiamato prima mentre eravamo al faro» suggerì Max. «Forse» mormorò Alicia. Max lesse la preoccupazione sul volto della sorella. «Se fosse successo qualcosa» ragionò Max «avrebbero chiamato di nuovo. Andrà tutto bene.» Alicia gli rivolse un sorriso sforzato, poi confermò: «Lo penso anch'io. Credo che andrò a dormire. E tu?» Max finì il bicchiere di latte e indicò la cucina. «Ci vado subito, ma prima mangerò ancora qualcosa. Sono affamato» mentì. Non appena sentì la porta della stanza di Alicia chiudersi, lasciò il bicchiere e si recò alla tettoia del garage, alla ricerca di altre filmine della collezione privata di Jacob Fleischmann. Max azionò il proiettore e il fascio di luce inondò la parete con l'immagine sfuocata di qualcosa che sembrava un insieme di simboli. Lentamente, la pellicola si mise a fuoco e Max capì che i presunti simboli erano solo delle cifre disposte in circolo e che stava vedendo la superficie tonda di un orologio. Le lancette erano immobili e proiettavano un'ombra precisa e definita, e da questo si capiva che la ripresa era stata girata in pieno sole o sotto una fonte luminosa. L'immagine procedeva così per alcuni secondi, fino a quando, dapprima molto lentamente e poi sempre più velocemente,
le lancette dell'orologio cominciarono a girare in senso contrario. La macchina da presa retrocedeva e l'occhio dello spettatore poteva allora accorgersi che quell'orologio pendeva da una catenella. Un ulteriore passo indietro di un metro e mezzo rivelava che la catenella pendeva da una mano bianca. La mano di una statua. Max riconobbe subito il giardino di statue apparso già nella prima filmina di Jacob Fleischmann, vista giorni prima. Ancora una volta, la disposizione delle statue era diversa da quella che Max ricordava. La macchina da presa cominciava di nuovo a muoversi da una figura all'altra, senza tagli né pause, proprio come nella prima filmina. Ogni due metri l'obiettivo si soffermava di fronte al viso di una delle statue. Max esaminò a uno a uno i volti congelati di quella sinistra banda circense, e ora poteva immaginarsi ognuno di loro mentre l'acqua gelata gli strappava la vita nell'oscurità assoluta delle stive dell'Orpheus. La macchina da presa si avvicinò infine lentamente alla figura che dominava al centro della stella a sei punte. Il pagliaccio. Il dottor Cain. Il Principe della Nebbia. Vicino a lui, ai suoi piedi, Max riconobbe la figura immobile di un gatto che allungava gli artigli contro il vuoto. Max, che non ricordava di averlo visto durante la sua visita al giardino di statue, avrebbe scommesso la camicia che l'inquietante somiglianza del felino di pietra con la mascotte che Irina aveva adottato fin dal primo giorno alla stazione non era frutto del caso. Al guardare quelle immagini mentre la pioggia batteva contro i vetri e la tormenta si allontanava verso l'interno, risultava molto facile credere alla storia che il guardiano del faro aveva raccontato quel pomeriggio. La sinistra presenza di quei minacciosi profili era sufficiente per mettere a tacere qualsiasi dubbio, per quanto razionale. La macchina da presa si avvicinò al viso del pagliaccio, si fermò a mezzo metro e rimase lì per diversi secondi. Max diede uno sguardo alla bobina e si accorse che la pellicola stava finendo e che ne mancavano ancora un paio di metri. Un movimento sullo schermo lo richiamò. Il viso di pietra si stava muovendo, anche se in modo quasi impercettibile. Max si alzò in piedi e si avvicinò alla parete dove stava proiettando la pellicola. Le pupille di quegli occhi di pietra si dilatarono e le labbra di pietra si inarcarono lentamente a formare un sorriso crudele, rivelando una lunga fila di denti affilati e allungati come quelli di un lupo. Il ragazzo sentì formarsi un nodo in gola. Pochi istanti dopo, l'immagine svanì e Max fu scosso dal rumore della bobina del proiettore che girava su se stessa. La filmina era finita.
Spense il proiettore e respirò a fondo. Adesso credeva a tutto quello che Victor Kray aveva detto, però non per questo si sentiva meglio, anzi. Salì nella sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Attraverso la finestra, lontano, poteva intravedere il giardino di statue. Ancora una volta, il contorno del recinto di pietra era immerso in una nebbia densa e impenetrabile. Quella notte, però, la coltre fluttuante non proveniva dal bosco, ma sembrava emergere dall'interno del giardino. Alcuni minuti dopo, mentre lottava per prendere sonno e allontanare dalla mente la faccia del pagliaccio, Max immaginò che quella nebbia non fosse altro che il fiato gelido del dottor Cain, che aspettava sorridendo l'ora del proprio ritorno. Capitolo dodicesimo La mattina dopo, Max si svegliò con la sensazione di aver la testa piena di gelatina. Da quello che si intravedeva dalla finestra, doveva essere una giornata splendida e soleggiata. Si alzò pigramente e prese l'orologio da tasca dal comodino. Pensò subito che l'orologio fosse rotto. Lo avvicinò all'orecchio, e verificò che funzionava benissimo: dunque era lui ad aver perso la bussola. Era mezzogiorno. Saltò giù dal letto e si lanciò giù dalle scale. Sulla tavola del tinello c'era un biglietto. Era la calligrafia fine di sua sorella: Buon giorno, bella addormentata. Quando leggerai questo biglietto, io sarò già sulla spiaggia con Roland. Ti ho preso in prestito la bicicletta, spero che non ti rincresca. Ho visto che stanotte sei "andato al cinema", e non ho voluto svegliarti. Papà ha chiamato presto e dice che non sanno ancora quando potranno tornare a casa. Irina è sempre nelle stesse condizioni, ma i medici dicono che probabilmente uscirà dal coma fra qualche giorno. Ho convinto papà a non preoccuparsi per noi (e non è stato facile). A proposito, non c'è niente per colazione. Ci trovi sulla spiaggia. Sogni d'oro... Alicia Max rilesse tre volte il biglietto, lo lasciò sul tavolo, corse sopra e si lavò la faccia in fretta e furia. Si infilò un costume da bagno e una camicia blu e andò alla tettoia per prendere l'altra bicicletta. Prima di arrivare al sentiero
della spiaggia, sentì il suo stomaco richiedere imperiosamente la sua dose mattutina. Arrivato al paese, deviò e si diresse al forno sulla piazza del municipio. I profumi che si sentivano a cinquanta metri di distanza e i conseguenti borbottii di approvazione del suo stomaco gli fecero capire di aver preso la decisione giusta. Tre cornetti e due tavolette di cioccolato più tardi, riprese la strada della spiaggia con un sorriso di beatitudine stampato sulla faccia. La bicicletta di Alicia riposava sul cavalletto al fondo del sentiero che portava alla spiaggia dove Roland aveva la sua capanna. Max lasciò la bicicletta vicino a quella di sua sorella e pensò che, anche se il paese non sembrava essere un covo di ladri, non sarebbe stato male comprare dei lucchetti. Si attardò a osservare il faro in cima alla scogliera, quindi scese alla spiaggia. Un paio di metri prima di lasciare il sentiero di erba alta che sboccava sulla piccola baia, si fermò. Sul bordo della spiaggia, a una ventina di metri dal punto dove si trovava Max, Alicia era distesa mezza nell'acqua e mezza sulla sabbia. Chino su di lei, tenendole una mano sul fianco, Roland la baciava sulle labbra. Max si tirò indietro e si nascose in mezzo all'erba, sperando di non essere stato visto. Rimase lì immobile qualche istante, interrogandosi sul da fare. Fare finta di niente e arrivare con uno stupido sorriso dando loro il buongiorno, o andarsene a fare una passeggiata? Max non si considerava una spia, ma non poté trattenersi dal guardare di nuovo attraverso i cespugli selvaggi verso Alicia e Roland. Poteva sentire le loro risa e vedere come le mani di Roland accarezzavano timidamente il corpo di Alicia, con un tremore che dimostrava come quella fosse la prima o al massimo la seconda volta che azzardasse un'impresa di tale importanza... Si chiese se anche per Alicia fosse la prima volta, e con sorpresa si accorse di non avere una risposta. Anche se aveva condiviso con lei tutta la vita sotto lo stesso tetto, sua sorella era per lui un mistero. Vederla così, stesa sulla spiaggia mentre baciava Roland era per lui una cosa sconvolgente e assolutamente inaspettata. Aveva intuito fin dall'inizio che fra Roland e lei si era creata una evidente e reciproca corrente, però una cosa era immaginarlo e un'altra, molto diversa, vederlo con i propri occhi. Si sporse ancora una volta per guardare, e sentì di non aver diritto a restare lì, perché quel momento apparteneva solo a sua sorella e a Roland. Silenziosamente, ritornò sui suoi passi fino alla bicicletta e si allontanò dalla spiaggia.
Si chiese se non fosse geloso. Forse la sua reazione era dovuta al fatto che aveva passato tanti anni con la sorella pensando che fosse solo una bambina grande, senza nessun segreto, e che non andasse in giro a baciare la gente. Per un attimo rise della propria ingenuità e poco per volta cominciò a essere contento di quello che aveva visto. Non poteva certo prevedere che cosa sarebbe accaduto la settimana successiva e neppure quali novità avrebbe portato la fine dell'estate, ma per quel giorno Max era sicuro che sua sorella si sentiva felice. Cosa che non si era certo potuta dire di lei negli ultimi anni. Max pedalò di nuovo fino al centro del paese e fermò la bicicletta vicino all'edificio della biblioteca comunale. All'entrata c'era una vecchia bacheca di vetro con gli orari e altre comunicazioni, compreso il cartellone mensile dell'unico cinema dei dintorni e una cartina del paese. Max si concentrò sulla cartina e la studiò attentamente. Il disegno del paese corrispondeva più o meno all'immagine mentale che si era fatto. La cartina mostrava nei particolari il porto, il centro urbano, la spiaggia nord dove i Carver avevano la loro casa, la baia dell'Orpheus e il faro, i campi sportivi vicino alla stazione e il cimitero comunale. Perché non ci aveva pensato prima? Guardò l'orologio e vide che erano le due e dieci. Prese la bicicletta e infilò il viale principale del paese, verso l'interno, verso il piccolo cimitero dove sperava di trovare Jacob Fleischmann. Il cimitero era un classico recinto rettangolare che si ergeva alla fine di un lungo sentiero in salita, fiancheggiato da alti cipressi. Niente di originale. I muri di pietra erano piuttosto invecchiati, e il luogo offriva l'aspetto abituale dei cimiteri dei piccoli paesi, dove a eccezione di un paio di giorni all'anno, e a parte i funerali, le visite sono molto scarse. Il cancello era aperto e un cartello di metallo tutto arrugginito diceva che l'orario per il pubblico era dalle nove alla cinque del pomeriggio in estate e dalle otto alle quattro d'inverno. Se anche c'era un guardiano, Max non riuscì a vederlo. Aveva pensato di trovare un posto lugubre e sinistro; invece il sole splendente di inizio estate conferiva alla costruzione l'aspetto di un piccolo chiostro, tranquillo e vagamente triste. Lasciò la bicicletta appoggiata al muro esterno ed entrò. Il camposanto era popolato da modesti mausolei che appartenevano alle famiglie locali, e tutto intorno si alzavano pareti di loculi costruiti di recente.
Max aveva preso in considerazione la possibilità che i Fleischmann avessero preferito sul momento sotterrare il piccolo Jacob lontano da lì, ma il suo sesto senso gli diceva che i resti dell'erede del dottor Fleischmann riposavano nello stesso paese che lo aveva visto nascere. Impiegò quasi mezz'ora per trovare la tomba di Jacob, a un capo del cimitero sotto l'ombra di due cipressi. Era un piccolo mausoleo di pietra al quale il tempo e le piogge avevano conferito un aspetto di abbandono e di oblio. La costruzione aveva la forma di una piccola casetta di marmo annerito e ammuffito, con una porta in ferro battuto fiancheggiata dalle statue di due angeli che alzavano uno sguardo addolorato al cielo. Fra le sbarre ossidate della porta c'era ancora un mazzetto di fiori secchi che doveva risalire a tempi immemorabili. Max sentì che da quel luogo emanava un'aura malinconica e, anche se era evidente che da molto tempo nessuno lo visitava, gli echi del dolore e della tragedia sembravano ancora recenti. Si spinse lungo il piccolo sentiero di piastrelle che portava al mausoleo, e si fermò sull'ingresso. La porta era accostata e un intenso odore di chiuso esalava dal suo interno. Fuori c'era un silenzio assoluto. Volse un ultimo sguardo agli angeli di pietra che custodivano la tomba di Jacob Fleischmann ed entrò, cosciente del fatto che se avesse aspettato ancora un momento si sarebbe allontanato di corsa da quel posto. L'interno del mausoleo era immerso nella penombra, ma Max riuscì a intravedere una traccia di fiori marci sul pavimento che finiva ai piedi di una lapide, sulla quale era stato scolpito il nome di Jacob Fleischmann. C'era però anche qualcos'altro. Sotto il nome, il simbolo della stella a sei punte sul cerchio segnava la pietra che custodiva i resti del bambino. Max sentì uno sgradevole formicolio lungo la schiena e per la prima volta si chiese perché mai si fosse recato da solo in quel luogo. Alle sue spalle, la luce del sole sembrò impallidire debolmente. Max tirò fuori l'orologio e controllò l'ora, con l'idea assurda di essersi trattenuto più del dovuto e che il guardiano del cimitero avesse chiuso le porte lasciandolo intrappolato dentro. Le lancette dell'orologio indicavano che erano passate da pochi minuti le tre del pomeriggio. Tirò un sospiro di sollievo e si calmò. Diede un ultimo sguardo e, dopo essersi assicurato che lì non ci fosse nulla che portasse nuova luce sulla storia del dottor Cain, si avviò verso l'uscita. Fu allora che si accorse di non essere solo all'interno del mausoleo, e che un profilo scuro si muoveva sul soffitto, avanzando silenziosamente come un insetto. Max sentì l'orologio scivolare dalle mani fredde di
sudore e alzò lo sguardo. Uno degli angeli di pietra che aveva visto all'entrata camminava capovolto sul soffitto. La figura si fermò e, guardando Max, mostrò un sorriso crudele e allungò un dito accusatore contro di lui. Lentamente, i tratti di quel volto si trasformarono lasciando affiorare la fisionomia familiare del pagliaccio dietro cui si celava il dottor Cain. In quegli occhi Max riuscì a leggere una rabbia e un odio ardenti. Avrebbe voluto correre verso la porta e fuggire, ma le sue membra non risposero. All'improvviso, la visione scomparve nell'ombra e Max rimase paralizzato per alcuni eterni secondi. Una volta ripreso fiato, corse verso l'uscita e inforcò la bicicletta slanciandosi senza guardarsi dietro, fino a quando si fu allontanato di cento metri dal cancello del cimitero. Pedalare senza fermarsi l'aiutò a recuperare il controllo dei nervi. Pensò di essere stato vittima dei suoi propri timori. Ma anche così, non prese neppure in considerazione l'idea di tornare alla tomba per riprendersi l'orologio. Recuperata la calma, Max si avviò di nuovo verso la baia. Ma questa volta non andava a cercare sua sorella Alicia e Roland, bensì il guardiano del faro, al quale voleva rivolgere alcune domande molto riservate. Il vecchio ascoltò con grande attenzione quanto era successo nel cimitero. Alla fine del racconto, annuì gravemente e indicò a Max di sedersi vicino a lui. «Posso parlarle con franchezza?» chiese Max. «Spero proprio che tu lo faccia, giovanotto» rispose il vecchio. «Coraggio.» «Ho l'impressione che lei ieri non ci abbia detto tutto quello che sa. E non mi chieda perché. È un'intuizione» disse Max. Il viso del guardiano del faro rimase imperturbabile. «E che altro pensi?» chiese Victor Kray. «Credo che questo dottor Cain, chiunque sia, stia per fare qualcosa. Molto presto» continuò Max. «E credo che tutto quello che sta succedendo in questi giorni non sia altro che un segnale di quello che sta per accadere.» «Quello che sta per accadere...» ripeté il guardiano del faro. «È un modo interessante di esprimersi, Max.» «Guardi, signor Kray» insistette Max, «mi sono appena preso una paura da morire. È già da diversi giorni che si stanno verificando cose molto strane, e sono sicuro che la mia famiglia, lei, Roland e io stesso stiamo correndo un grave pericolo. Non son più disposto a sopportare altri miste-
ri.» Il vecchio sorrise. «Così mi piaci. Diretto e aggressivo» rise senza convinzione Victor Kray. «Vedi, Max, se ieri vi ho spiegato la storia del dottor Cain, non l'ho fatto per divertirvi né per ricordare i vecchi tempi. L'ho fatto perché sapeste quello che sta succedendo e perché faceste attenzione. Tu sei preoccupato da qualche giorno; io sono qui in questo faro da venticinque anni con un unico scopo: sorvegliare quella bestia. Questo è l'unico scopo della mia vita. Anch'io sarò franco, Max. Non butterò via venticinque anni della mia vita solo perché un ragazzo appena arrivato ha deciso di giocare al detective. Probabilmente non avrei dovuto dirvi niente. Forse la cosa migliore è che tu dimentichi quello che ti ho detto e ti tenga lontano da quelle statue e da mio nipote.» Max voleva protestare, ma il guardiano del faro alzò la mano, facendogli segno di non aprire bocca. «Quello che vi ho raccontato è più di quello che avete bisogno di sapere» sentenziò Victor Kray. «Non forzare le cose, Max. Dimentica Jacob Fleischmann e brucia quelle filmine oggi stesso. È il miglior consiglio che possa darti. E adesso, giovanotto, via da qui.» Victor Kray osservò Max allontanarsi con la sua bicicletta. Aveva usato parole dure e ingiuste con il ragazzo, ma in fondo all'anima era convinto che fosse stata la cosa più prudente da fare. Era un giovane intelligente e non l'avrebbe potuto ingannare. Sapeva che gli stava nascondendo qualcosa, ma non avrebbe potuto capire l'importanza di quel segreto. Gli avvenimenti stavano precipitando e, dopo cinque lustri, la paura e l'angoscia per il nuovo ritorno del dottor Cain si stavano materializzando davanti a lui proprio al tramonto della sua vita, quando si sentiva più debole e solo. Victor Kray cercò di allontanare dalla mente l'amaro ricordo di tutta un'esistenza legata a quel sinistro personaggio, dal sordido rione della sua infanzia fino alla prigione del faro. Il Principe della Nebbia gli aveva portato via il migliore amico dell'infanzia, l'unica donna che aveva amato, e poi gli aveva rubato ogni minuto della sua lunga maturità, trasformandolo nella propria ombra. Durante le interminabili notti trascorse al faro era solito immaginare come sarebbe stata la propria vita se il destino non avesse deciso di far incrociare la sua strada con quella del potente mago. L'unica speranza consisteva adesso in Roland e nella ferma promessa fatta a se stesso di offrirgli un futuro lontano da quell'incubo. Mancava ormai poco tempo e le sue forze non erano più quelle che l'avevano soste-
nuto anni prima. Fra due giorni sarebbero stati i venticinque anni dalla notte in cui l'Orpheus era naufragato a pochi metri da lì, e a Victor Kray sembrava di sentire come Cain stesse recuperando le forze, di minuto in minuto. Il vecchio si avvicinò alla finestra e contemplò il profilo scuro dello scafo dell'Orpheus sommerso nelle acque blu della baia. Mancavano ancora alcune ore al tramonto del sole, e al calare di quella che poteva essere la sua ultima notte da sentinella al faro. Quando Max rientrò in casa, il biglietto di Alicia era ancora sulla tavola in tinello, segno che sua sorella non era tornata ed era rimasta insieme a Roland. La solitudine della casa si aggiunse a quella che sentiva in quel momento dentro di sé. Nella sua testa risuonavano ancora le parole del vecchio. Anche se il modo in cui lo aveva trattato gli aveva fatto male, non provava risentimento nei suoi confronti. Era sicuro che il guardiano del faro stesse nascondendo qualcosa, ma era anche sicuro che, se si comportava così, era perché aveva un motivo molto valido per farlo. Salì nella sua stanza e si distese sul letto, pensando che tutta quella faccenda era troppo grande per lui: le tessere del puzzle erano tutte sotto i suoi occhi, ma egli si sentiva incapace di metterle insieme. Forse avrebbe dovuto seguire i consigli di Victor Kray e dimenticarsi del problema, anche solo per poche ore. Guardò sul comodino e vide il libro di Copernico, ancora lì dopo quei giorni di abbandono, come un antidoto razionale contro tutti i misteri che lo circondavano. Aprì il libro nel punto in cui aveva lasciato la lettura e cercò di concentrarsi sulle disquisizioni rispetto al movimento dei pianeti nel cosmo. Forse, l'aiuto di Copernico sarebbe stato perfetto per sbrogliare la trama di quell'enigma; o forse, neppure il grande scienziato sarebbe riuscito a risolverlo. In un universo infinito, c'erano troppe cose che sfuggivano alla comprensione umana. Capitolo tredicesimo Qualche ora più tardi, quando Max aveva già cenato e gli mancavano solo più una decina di pagine per finire il libro, gli giunse all'orecchio il rumore delle biciclette che entravano nel giardino davanti alla casa. Per quasi un'ora sentì il mormorio delle voci di Roland e di Alicia che si intrattenevano sotto il portico. Verso mezzanotte, lasciò di nuovo il libro sul comodino e spense la luce. Finalmente, sentì la bicicletta di Roland allontanarsi
lungo la strada della spiaggia, e i passi della sorella che saliva lentamente le scale. I passi si fermarono un istante davanti alla sua porta. Poi ripresero per alcuni metri fino alla stanza di Alicia. La sentì buttarsi sul letto lasciando cadere le scarpe sul pavimento di legno. Si ricordò dell'immagine di Roland che baciava Alicia, quella mattina in spiaggia, e sorrise nella penombra. Per una volta, poteva stare sicuro che sua sorella avrebbe fatto molta più fatica di lui a prendere sonno. La mattina dopo Max decise di alzarsi prima del sole, e all'alba stava già pedalando verso il forno del paese, con l'intenzione di comprare una deliziosa colazione evitando così che Alicia preparasse qualcosa per lui. A quell'ora il paese era immerso in una calma simile a quella delle mattinate festive in città. C'erano solo alcuni passanti silenziosi nelle vie sprofondate nel sonno, e anche le case con le loro persiane socchiuse sembravano dormire. Lontano, oltre l'imboccatura del porto, le poche barche da pesca che formavano la flotta locale si stavano spingendo in mare aperto per non tornare fino al crepuscolo. Il panettiere e sua figlia, una ragazzina grassoccia dalle gote rubizze che era tre volte sua sorella Alicia, salutarono Max e, mentre gli mettevano sotto il naso un delizioso vassoio di dolci appena sfornati, chiesero come stava Irina. Le notizie volavano e, a quanto sembrava, il medico del paese non si limitava a provare la temperatura, nelle sue visite a domicilio... Max riuscì ad arrivare a casa che la colazione conservava l'irresistibile fragranza dei cornetti ancora fumanti. Senza il suo orologio non sapeva bene che ora fosse, ma calcolava che dovevano mancare solo pochi minuti alle otto. Di fronte alla prospettiva poco allettante di aspettare che Alicia si svegliasse, decise di adottare un astuto espediente. Così, con la scusa della colazione calda, preparò un vassoio con le paste, il latte e due tovaglioli, e salì alla stanza della sorella. Bussò alla porta con le nocche fino a quando una voce sonnolenta rispose con un brontolio incomprensibile. «Servizio in stanza» disse Max. «Posso entrare?» Spinse la porta ed entrò. Alicia aveva la testa sepolta sotto il cuscino. Max lanciò uno sguardo attorno e vide i vestiti appesi alle sedie e la galleria degli oggetti personali di Alicia. La stanza di una donna gli sembrava sempre un affascinante mistero. «Conto fino a cinque» disse Max, «e poi comincerò a mangiarmi la colazione.»
La faccia di sua sorella spuntò da sotto il cuscino, annusando l'aroma del burro nell'aria. Roland li stava aspettando sulla spiaggia, vestito con dei vecchi pantaloni ai quali aveva tagliato le gambe per servirsene come costume da bagno. Vicino a lui c'era una piccola barca di legno lunga non più di tre metri. Sembrava fosse rimasta al sole per trent'anni e il legno aveva preso una tonalità grigia che le poche macchie di vernice blu ancora rimaste facevano fatica a nascondere. Nonostante questo, Roland sembrava orgoglioso della sua barca come se si trattasse di uno yacht di lusso. E mentre con la sorella si avvicinavano alla riva posando i piedi sui sassi meno affilati, Max notò che Roland aveva scritto sulla prua il nome della nave, Orpheus II, con vernice fresca, probabilmente di quella stessa mattina. «Da quando possiedi una barca?» chiese Alicia, indicando il rachitico scafo sul quale Roland aveva già caricato l'equipaggiamento da immersione e un paio di ceste dal contenuto misterioso. «Da tre ore. Uno dei pescatori del paese la voleva sfasciare per farne legna, ma l'ho convinto e me l'ha regalata in cambio di un favore» spiegò Roland. «Un favore?» chiese Max. «Credo che glielo abbia fatto tu il favore.» «Se preferisci puoi restare a terra» replicò scherzando Roland. «Forza, tutti a bordo.» L'espressione "a bordo" suonava un po' impropria rispetto alla nave in questione, ma fatti quindici metri Max si rese conto che le sue previsioni di immediato naufragio non si sarebbero avverate. La barca navigava infatti sicura, avanzando ad ogni vogata che Roland imprimeva energicamente con il remo. «Ho portato una piccola invenzione che vi sorprenderà» disse Roland. Max guardò una delle ceste chiuse, e alzò di qualche centimetro il coperchio. «Che cos'è?» mormorò. «Una finestra sottomarina» chiarì Roland. «In effetti è una scatola con un vetro sulla base. Se l'appoggi sulla superficie dell'acqua, puoi vedere il fondo senza immergerti. È come una finestra.» Max si rivolse a sua sorella. «Così almeno potrai vedere qualcosa» insinuò con tono ironico. «Chi te lo dice che voglio restare qui? Oggi vengo sotto anch'io» rispose Alicia.
«Tu? Ma se non sai fare immersione!» esclamò Max, cercando di farla infuriare. «Se chiami immersione quello che hai fatto l'altro giorno, no» scherzò Alicia, rinunciando a impugnare l'ascia di guerra. Roland continuò a remare senza aggiungere zizzania alla discussione tra i due fratelli, e fermò la barca a una quarantina di metri dalla riva. Sotto di loro, l'ombra scura dello scafo dell'Orpheus si stendeva sul fondale come quella di un grande squalo immobile, in attesa. Roland aprì una delle ceste e tirò fuori l'ancora arrugginita legata con un cavo spesso e molto logoro. Alla vista di un così grosso arnese, Max arguì che tutti quegli aggeggi marinari dovevano far parte del corredo della misera imbarcazione. «Attenzione agli spruzzi!» gridò Roland mentre lanciava in acqua l'ancora, trascinata in verticale dal suo peso morto per quasi quindici metri, in mezzo a una piccola nuvola di bollicine. Roland lasciò che la corrente tirasse la barca per un paio di metri e legò il cavo dell'ancora a un piccolo anello che pendeva dalla prora. L'imbarcazione dondolò dolcemente alla brezza, e il cavo si tese, facendo scricchiolare le giunture dello scafo. «Non affonda, Max. Fidati» dichiarò Roland, tirando la finestra sottomarina fuori dalla cesta e poggiandola sull'acqua. «È la stessa cosa che disse il capitano del Titanic prima di salpare» replicò Max. Alicia si chinò per guardare attraverso la scatola e vide per la prima volta lo scafo dell'Orpheus che riposava sul fondo. «È incredibile!» esclamò di fronte allo spettacolo sottomarino. Roland sorrise compiaciuto e le tese degli occhiali da immersione e delle pinne. «E vedrai da vicino!» disse Roland, mentre si metteva il proprio equipaggiamento. La prima a tuffarsi fu Alicia. Roland, seduto sul bordo della barca, rivolse uno sguardo tranquillizzante a Max. «Non preoccuparti. La controllerò. Non le succederà niente» lo assicurò. Roland si tuffò e si avvicinò ad Alicia, che aspettava a pochi metri dalla barca. I due salutarono Max e, pochi istanti dopo, sparirono sotto la superficie dell'acqua. Sott'acqua, Roland strinse la mano di Alicia e la guidò con cautela verso i resti dell'Orpheus. La temperatura dell'acqua era leggermente scesa dall'ultima volta che si erano immersi e man mano che scendevano si sen-
tiva più freddo. Roland era abituato a quel fenomeno, che avveniva di solito nei primi giorni d'estate, specialmente quando le correnti fredde che venivano dall'alto mare fluivano con forza sotto i sei o sette metri di profondità. Vista la situazione, Roland decise subito che quel giorno era meglio che Alicia e Max non si immergessero con lui fino allo scafo: ci sarebbero state ancora molte giornate estive per provarci. Alicia e Roland nuotarono mantenendosi a una certa distanza dal battello affondato. Si fermavano ogni tanto per risalire a prendere fiato e guardare con calma la nave, che giaceva nella penombra spettrale del fondo. Roland intuiva l'eccitazione di Alicia di fronte allo spettacolo e non le staccava gli occhi di dosso. Sapeva che per immergersi con piacere e tranquillità, doveva farlo da solo. Quando si tuffava con qualcuno, soprattutto se novizi in materia come i suoi nuovi amici, non riusciva a evitare di assumere il ruolo di balia sottomarina. Ciò nonostante, gli dava un piacere particolare condividere con Alicia e suo fratello quel magico mondo che per tanti anni era appartenuto solo a lui. Si sentiva come la guida di un museo sommerso che accompagnasse dei visitatori increduli e timorosi. Il panorama sottomarino offriva comunque altre attrazioni. Gli piaceva osservare il corpo di Alicia mentre si muoveva sotto l'acqua. A ogni bracciata, poteva vedere i muscoli del torace e delle gambe tendersi, mentre la sua pelle diventava di un pallore azzurrato. Di fatto, si sentiva più a suo agio guardandola così, quando lei non si accorgeva di essere osservata. Salirono di nuovo a prendere aria e videro la barca e il profilo immobile di Max a più di venti metri. Alicia sorrise euforica. Roland ricambiò il sorriso, ma dentro di sé pensava che fosse meglio tornare alla barca. «Possiamo scendere fino al battello ed entrarci dentro?» chiese Alicia, con il respiro affannato. Roland vide che le braccia e le gambe della ragazza erano ricoperte di pelle d'oca. «Oggi no» rispose. «Torniamo alla barca.» Alicia perse il sorriso, intuendo un'ombra di preoccupazione nel compagno. «Succede qualcosa, Roland?» Roland sorrise tranquillo e disse di no. Non voleva per ora parlare dei pericoli costituiti dalle correnti sottomarine. In quel momento, mentre Alicia dava le sue prime bracciate verso la barca, Roland sentì un colpo al cuore. Un'ombra scura si stava muovendo sul fondo della baia, sotto i suoi
piedi. Alicia si girò per guardarlo. Roland le fece segno di proseguire senza fermarsi, e immerse la testa per ispezionare il fondale. Una sagoma nera, simile a quella di un grosso pesce, nuotava sinuosa intorno allo scafo dell'Orpheus. Per un attimo, Roland pensò che si trattasse di uno squalo, ma a un secondo sguardo si rese conto di essersi sbagliato. Continuò a nuotare dietro ad Alicia senza distogliere gli occhi da quella strana forma che sembrava seguirli. La sagoma serpeggiava all'ombra dello scafo dell'Orpheus, senza esporsi direttamente alla luce. Tutto quello che Roland riusciva a distinguere era un corpo allungato, simile a quello di un grande serpente, e una strana luce cangiante che l'avvolgeva come un mantello dai riflessi smorti. Roland guardò verso la barca e vide che mancavano ancora dieci metri. L'ombra sotto i suoi piedi sembrò cambiare direzione. Roland ispezionò il fondo e si accorse che quella strana figura stava salendo lentamente in superficie, verso di loro. Pregando che Alicia non l'avesse vista, afferrò la ragazza per il braccio e si mise a nuotare con tutte le sue forze. Alicia, allarmata, lo guardò senza capire. «Raggiungi la barca, presto!» gridò Roland. Alicia non capiva che cosa stesse succedendo, ma il viso di Roland rifletteva un panico tale che non si fermò a pensare o a discutere e fece come le era stato ordinato. Dalla barca, il grido di Roland aveva messo in allarme Max, che osservò il suo amico e Alicia nuotare disperatamente verso di lui. Un istante più tardi vide l'ombra scura che stava salendo dal fondo. «Dio mio!» mormorò paralizzato. In acqua, Roland spinse Alicia fino a quando la sentì toccare il bordo della barca. Max si affrettò a prendere la sorella sotto le ascelle e a tirarla su. Alicia batté le pinne con forza e con una spinta riuscì a cadere su Max dentro la barca. Roland tirò un sospiro di sollievo e si accinse a fare lo stesso. Max gli tese la mano, ma Roland poté leggere sul volto dell'amico il terrore per quello che stava vedendo dietro di lui. Roland sentì la sua mano scivolare sul braccio di Max ed ebbe l'impressione che non sarebbe più uscito vivo dall'acqua. Lentamente, un gelido abbraccio gli strinse le gambe e, con una forza irresistibile, lo trascinò verso il fondo. Dopo i primi momenti di panico, Roland aprì gli occhi e si rese conto di che cosa lo stesse portando verso l'oscura profondità del mare. All'inizio pensò a un'allucinazione. Quello che vedeva non era una forma solida, bensì una strana figura formata apparentemente di acqua concentrata ad al-
ta densità. Osservò quella delirante scultura mobile di acqua che cambiava continuamente forma, e cercò di sciogliersi dal suo abbraccio mortale. La creatura d'acqua assunse allora le sembianze di un volto da lui visto tante volte in sogno, il volto del pagliaccio. Il pagliaccio aprì le sue enormi fauci dai denti lungi e affilati come coltelli da macellaio, i suoi occhi si fecero grandi come un piattino da tè. Roland si sentì mancare l'aria. Quella creatura, fosse chi fosse, poteva plasmarsi l'aspetto a suo capriccio, e le sue intenzioni erano chiare: voleva portare Roland dentro il battello affondato. Mentre si chiedeva per quanto tempo sarebbe stato in grado di trattenere il fiato prima di cedere e di aspirare acqua, Roland si accorse che la luce stava sparendo tutto intorno. Era nelle viscere dell'Orpheus, e l'oscurità circostante era assoluta. Max trangugiò saliva mentre si metteva gli occhiali da immersione e si preparava a buttarsi in acqua alla ricerca dell'amico Roland. Sapeva che il tentativo di salvataggio era assurdo. Innanzitutto, lui non sapeva quasi immergersi, e anche nel caso che ne fosse stato capace, non voleva neppure immaginare che cosa sarebbe successo se una volta sott'acqua quella strana forma acquosa che aveva catturato Roland fosse venuta contro di lui. Ciò nonostante, non riusciva a restare tranquillamente seduto in barca lasciando morire l'amico. Mentre si metteva le pinne la sua mente gli suggerì mille spiegazioni razionali a quanto stava succedendo. Roland aveva avuto un crampo; un cambio di temperatura dell'acqua aveva provocato un attacco di cuore... Qualunque teoria era meglio che accettare come vera l'esistenza della creatura che aveva visto trascinare Roland sul fondo. Prima di tuffarsi scambiò un'ultima occhiata con Alicia. Sul viso di sua sorella si leggeva chiaramente la lotta fra la volontà di salvare Roland e il timore per la possibilità che suo fratello facesse la stessa fine. Prima che il buon senso li trattenesse, Max si buttò e si immerse nelle acque cristalline della baia. Sotto di lui, lo scafo dell'Orpheus si estendeva fin dove arrivava lo sguardo. Max si spinse con le pinne verso la prua del battello, il punto in cui aveva visto sfumare la sagoma di Roland sotto l'acqua. Attraverso le fessure dello scafo affondato, a Max sembrò di intravedere delle luci intermittenti uscire dalla breccia aperta dalle rocce venticinque anni prima nella sentina. Max si diresse verso l'apertura; era come se qualcuno, dentro l'Orpheus, avesse dato fuoco a centinaia di vele. Quando si trovò in verticale sopra l'entrata alla nave, salì in superficie a prendere aria e si immerse di nuovo senza fermarsi fino a quando non rag-
giunse lo scafo. Scendere quei dieci metri fu molto più difficile di quanto avesse immaginato. A metà strada cominciò a sentire una dolorosa pressione alle orecchie, ed ebbe paura che i timpani gli esplodessero sotto l'acqua. Quando raggiunse la corrente fredda, i muscoli di tutto il corpo si tesero come cavi d'acciaio, e dovette battere le pinne a tutta forza per evitare di essere trasportato via come una foglia secca. Max si aggrappò con forza al bordo dello scafo e lottò per calmare i nervi. I polmoni gli bruciavano e sapeva di essere a un passo dal lasciarsi prendere dal panico. Guardò verso la superficie e vide il minuscolo scafo della barca, infinitamente lontano. Capì che se non avesse agito subito, sarebbe stato inutile scendere fino lì. Il chiarore sembrava provenire da dentro le stive e Max seguì quella scia che svelava lo spettacolo spettrale della nave affondata e la rendeva simile a una macabra catacomba sottomarina. Percorse un corridoio nel quale brandelli di stoffa stracciata fluttuavano come meduse. In fondo al corridoio distinse una porta socchiusa, dietro la quale sembrava nascondersi la fonte di quella luce. Ignorando il raccapriccio per le carezze della stoffa imputridita sulla pelle, impugnò la maniglia della porta e tirò con tutte le forze che riuscì a riunire. La porta dava su uno dei depositi principali della stiva. Al centro, Roland lottava per liberarsi dall'abbraccio di quella creatura d'acqua, che adesso aveva assunto la forma del pagliaccio nel giardino di statue. E proprio da quegli occhi crudeli e sproporzionatamente grandi emanava la luce che Max aveva visto entrando. Max irruppe all'interno della stiva e la creatura alzò la testa e lo guardò. Egli sentì l'impulso istintivo di fuggire a tutta birra, ma la vista del suo amico intrappolato l'obbligò a sostenere quello sguardo di rabbia folle. La creatura cambiò volto e Max riconobbe l'angelo di pietra del cimitero locale. Il corpo di Roland smise di contorcersi e restò inerte. La creatura lo lasciò libero e Max, senza aspettare di essere attaccato, nuotò fino al suo amico e lo prese per il braccio. Roland aveva perso conoscenza. Se non lo avesse portato subito in superficie, sarebbe morto. Max trascinò il suo corpo fino alla porta. In quel momento, la creatura in forma di angelo ma con il viso da pagliaccio e con i lunghi denti si lanciò su di lui, con le sue fauci affilate. Max allungò un pugno che attraversò la faccia della creatura. Non era altro che acqua, così fredda che il solo contatto con la pelle produceva un intenso dolore. Ancora una volta, il dottor Cain stava esibendo i suoi trucchi. Max ritrasse il braccio e la visione scomparve, e con lei anche la sua lu-
ce. Poi, sfruttando il poco fiato che ancora gli rimaneva nei polmoni, tirò Roland lungo il corridoio della stiva fino all'esterno dello scafo. Giunti lì, i suoi polmoni sembravano sul punto di scoppiare. Incapace di contenere ancora solo un secondo il respiro, buttò fuori tutta l'aria che aveva trattenuto. Afferrò il corpo incosciente di Roland e spingendo con le pinne risalì alla superficie, convinto di perdere i sensi da un istante all'altro per la mancanza di aria. L'agonia di quegli ultimi dieci metri di ascesa si fece eterna. Quando finalmente emerse, era come se fosse nato di nuovo. Alicia si buttò in acqua e nuotò fino a loro. Max inspirò profondamente molte volte, lottando con il dolore pungente che sentiva in petto. Non fu facile tirar su nella barca Roland, e Max si accorse che Alicia, lottando per sollevare il peso morto del corpo, si era graffiata la pelle delle braccia contro il legno scheggiato della barca. Quando riuscirono a issare Roland a bordo, lo misero a bocca in giù e fecero ripetute pressioni sulla schiena per espellere l'acqua dai suoi polmoni. Alicia, coperta di sudore e con le braccia sanguinanti, strinse le braccia di Roland e cercò di forzarne la respirazione. Infine, inspirò profondamente e, tappando le narici del ragazzo, gli spinse energicamente in bocca tutta l'aria dei suoi polmoni. Fu necessario ripetere cinque volte l'operazione, fino a che il corpo di Roland, con una violenta scossa, reagì e cominciò a sputare acqua di mare e a dare in convulsioni, mentre il suo amico cercava di tenerlo fermo. Finalmente, Roland aprì gli occhi e il suo incarnato giallognolo cominciò a riprendere molto lentamente colore. Max l'aiutò a tirarsi su e a recuperare poco a poco il respiro normale. «Sto bene» balbettò Roland, alzando una mano per cercare di tranquillizzare i suoi amici. Alicia lasciò cadere le braccia e ruppe in pianto, gemendo come mai Max l'aveva sentita fare. Max aspettò un paio di minuti fino a che Roland non poté sostenersi da solo, prese i remi e fece rotta verso la spiaggia. L'amico lo guardava in silenzio. Gli aveva salvato la vita. Max si rese conto che quello sguardo disperato e pieno di gratitudine lo avrebbe accompagnato per sempre. I due fratelli appoggiarono Roland sulla branda della capanna e gli misero sopra delle coperte. Nessuno di loro aveva voglia di parlare dell'accaduto, almeno per ora. Era la prima volta che la minaccia del Principe della Nebbia si era resa così drammaticamente palpabile, ed era difficile trovare
le parole adatte a esprimere l'inquietudine che sentivano in quei momenti. Il buon senso lasciava intendere che la cosa migliore fosse badare ai bisogni immediati, e così fecero. Roland aveva una piccola farmacia nella capanna, e Max ne approfittò per disinfettare le ferite di Alicia. Roland si addormentò dopo pochi minuti. Alicia l'osservava con il viso alterato. «Starà bene. È sfinito, nient'altro» disse Max. Alicia guardò il fratello. «E tu? Gli hai salvato la vita» disse con una voce che tradiva la sua emozione. «Nessuno avrebbe saputo fare quello che hai fatto tu.» «Anche lui l'avrebbe fatto per me» rispose Max, che preferiva evitare l'argomento. «Come stai?» insistette la sorella. «Vuoi sapere la verità?» chiese Max. Alicia annuì. «Credo di stare per vomitare» sorrise Max. «Non sono mai stato così male in tutta la mia vita.» Alicia abbracciò forte il fratello. Max rimase immobile, con le braccia penzoloni, senza sapere se si trattasse di un'effusione di amore fraterno o di uno sfogo del terrore che sua sorella aveva provato poco prima, quando cercavano di rianimare Roland. «Ti voglio bene, Max» gli sussurrò Alicia. «Mi hai sentito?» Max rimase zitto, perplesso. Alicia lo liberò dall'abbraccio fraterno e si girò verso la porta della capanna, dandogli le spalle. Max si accorse che sua sorella stava piangendo. «Non dimenticarlo mai, fratellino» mormorò. «E adesso dormi un po'. Io farò lo stesso.» «Se mi addormento adesso, non mi alzo più» sospirò Max. Cinque minuti dopo, i tre amici erano addormentati profondamente nella capanna della spiaggia, e nulla al mondo avrebbe potuto svegliarli. Capitolo quattordicesimo Era il crepuscolo, quando Victor Kray si fermò a un centinaio di metri dalla casa della spiaggia, dove i Carver avevano fissato la loro nuova dimora. Quella era la stessa casa dove l'unica donna che lui avesse veramente amato, Eva Gray, aveva dato alla luce Jacob Fleischmann. Vedere di nuovo la facciata bianca della villa riaprì nel suo animo ferite che pensava rimarginate per sempre. Le luci erano spente e il luogo sembrava vuoto.
Victor Kray pensò che i ragazzi si trovassero ancora in paese con Roland. Il guardiano del faro percorse il tragitto fino alla casa e attraversò il muretto di cinta bianco che la circondava. La stessa porta e le stesse finestre che ricordava perfettamente luccicavano agli ultimi raggi di sole. Il vecchio attraversò il giardino fino al cortile posteriore e uscì nel campo che si estendeva dietro all'edificio. Lontano, si ergeva il bosco; e, al suo limitare, il giardino di statue. Non tornava da molto tempo in quel luogo, e si fermò a osservarlo da lontano, timoroso di quanto si nascondeva dietro i suoi muri. Una densa nebbia si stava diffondendo in direzione della casa attraverso le scure sbarre del cancello del giardino di statue. Victor Kray era spaventato e si sentiva vecchio. La paura che gli rodeva l'animo era la stessa che aveva provato decenni prima nei vicoli di quel suburbio industriale, dove per la prima volta aveva sentito la voce del Principe della Nebbia. Adesso, al tramonto della sua vita, quel cerchio sembrava chiudersi; e a ogni giocata, il vecchio sentiva che ormai non gli rimanevano assi per vincere la partita. Il guardiano del faro avanzò con passo deciso fino all'entrata del giardino di statue. Quasi subito la nebbia che sgorgava dall'interno lo coprì fino alla cintola. Victor Kray ficcò la mano tremante nella tasca del suo cappotto e tirò fuori un vecchio revolver, che aveva attentamente caricato prima di uscire di casa, e una potente torcia elettrica. Con l'arma in mano, si addentrò nel recinto, accese la pila e illuminò l'interno del giardino. Il fascio di luce rivelò un panorama insolito. Victor Kray abbassò l'arma e si stropicciò gli occhi, pensando di essere vittima di un'allucinazione. Qualcosa non funzionava, o almeno non era quello che si aspettava di trovare. Lasciò che il raggio della pila filtrasse di nuovo la nebbia. Non era un'illusione: il giardino di statue era vuoto. Il vecchio si avvicinò per osservare sconcertato i piedistalli vuoti e abbandonati. Mentre cercava di rimettere ordine nei suoi pensieri, percepì il brontolio lontano di una nuova tormenta che si avvicinava e alzò gli occhi verso l'orizzonte. Una nuvolaglia scura e minacciosa si estendeva nel cielo come una macchia di inchiostro in uno stagno. Un lampo spezzò in due il cielo e l'eco del tuono giunse sulla costa come il rombo premonitore di una tempesta. Victor Kray ascoltò la litania del temporale che stava montando al largo sull'oceano e, finalmente, ricordando di aver avuto già quella stessa visione a bordo dell'Orpheus venticinque anni prima, capì ciò che stava per succedere.
Max si svegliò madido di sudore freddo, e ci mise qualche istante a rendersi conto di dove si trovasse. Sentiva il cuore palpitare come il motore di una vecchia motocicletta. A pochi metri da lui, riconobbe un viso familiare: Alicia, addormentata vicino a Roland; e si ricordò di trovarsi nella capanna sulla spiaggia. Avrebbe giurato di aver dormito solo pochi minuti, anche se in realtà era passata quasi un'ora. Si alzò silenziosamente e uscì fuori in cerca di aria fresca, mentre andavano svanendo le immagini di un angosciante incubo in cui lui e Roland si trovavano intrappolati all'interno dello scafo dell'Orpheus, prossimi all'asfissia. La spiaggia era deserta e l'alta marea aveva portato al largo la barca di Roland, dove molto presto la corrente l'avrebbe trascinata con sé e il piccolo scafo si sarebbe definitivamente perso nella vastità dell'oceano. Max si avvicinò alla riva e si inumidì la faccia e le spalle con l'acqua fresca del mare. Poi si spostò fino alla piccola caletta e si sedette fra le rocce, con i piedi nell'acqua, con la speranza di recuperare la calma che il sonno non gli aveva saputo procurare. Max intuiva che dietro gli avvenimenti degli ultimi giorni doveva nascondersi un qualche significato logico. La sensazione di un pericolo imminente era palpabile nell'aria e, se ci si soffermava a pensare, era possibile tracciare una linea progressiva nelle apparizioni del dottor Cain. A ogni ora che passava, la sua presenza sembrava acquisire maggior forza. Agli occhi di Max, tutto faceva parte di un complesso meccanismo che stava assemblando i suoi pezzi a uno a uno, e il cui centro convergeva intorno all'oscuro passato di Jacob Fleischmann. Dopo quanto era successo quel giorno, Max capiva che non potevano permettersi il lusso di attendere un nuovo incontro con il dottor Cain per agire: era necessario anticipare i suoi movimenti e cercare di prevedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa. C'era solo un modo per scoprirlo: seguire la pista lasciata anni prima da Jacob Fleischmann nelle sue filmine. Senza preoccuparsi di svegliare Alicia e Roland, Max salì in bicicletta e si diresse verso la casa della spiaggia. Lontano, sulla linea dell'orizzonte, emerse dal nulla un punto scuro e cominciò a espandersi simile a una nube di gas letale. La tormenta cominciava a formarsi. Giunto a casa, Max infilò il rullino di pellicola nella bobina del proiettore. La temperatura era sensibilmente diminuita durante il suo tragitto in bicicletta, e continuava a scendere. I primi echi della tormenta si potevano già sentire fra le folate scomposte di vento che colpivano le persiane della
casa. Prima di dare il via alla proiezione Max salì nella sua stanza per indossare dei vestiti asciutti. La struttura di legno vecchio della casa scricchiolava sotto i suoi piedi e sembrava diventata vulnerabile agli attacchi del vento. Mentre si cambiava, Max si accorse dalla finestra della sua stanza che la tormenta, avvicinandosi, stava coprendo il cielo con un manto scuro che anticipava di due ore la notte. Assicurò la chiusura della finestra e scese di nuovo in sala per accendere il proiettore. Ancora una volta, le immagini presero vita sulla parete e Max si concentrò nella proiezione. Questa volta la cinepresa riprendeva una scena familiare: i corridoi della casa della spiaggia. Max riconobbe l'interno della sala dove si trovava in quel preciso momento a guardare la filmina. L'arredamento e i mobili erano diversi e la casa mostrava un aspetto lussuoso e opulento all'occhio della macchina cinematografica, che tracciava lenti cerchi e mostrava pareti e finestre della casa, come se avesse aperto una porta nella trappola del tempo che permettesse di visitare la stessa abitazione a quasi dieci anni di distanza. Dopo un paio di minuti la scena si spostava dal piano terra al piano superiore. Una volta giunti al corridoio, la cinepresa si avvicinava alla porta in fondo, che dava nella stanza occupata da Irina fino al momento dell'incidente. La porta si apriva e la cinepresa entrava nella stanza immersa nella penombra. La camera era vuota e la cinepresa si fermava di fronte alla porta dell'armadio incassato nella parete. Trascorsero vari secondi di film senza che succedesse nulla e senza che la cinepresa registrasse alcun movimento. Improvvisamente, la porta dell'armadio si aprì con forza e batté contro la parete, dondolando sui cardini. Max sforzò la vista per individuare che cos'era quello che si intravedeva all'interno dell'armadio scuro, e notò che una mano infilata in un guanto bianco stava emergendo dall'ombra, con un oggetto brillante che pendeva da una catena. Subito indovinò quello che stava per succedere: il dottor Cain usciva dall'armadio e sorrideva alla cinepresa. Max riconobbe l'oggetto rotondo che il Principe della Nebbia teneva in mano: era l'orologio che suo padre gli aveva regalato e che lui aveva perso dentro il mausoleo di Jacob Fleischmann. Adesso era in potere del mago, nella spettrale dimensione delle immagini in bianco e nero che uscivano dal vecchio proiettore. La cinepresa si avvicinò all'orologio e Max poté vedere nitidamente che le lancette si muovevano all'indietro a una velocità inverosimile e crescen-
te, fino a che fu impossibile distinguerle. Poco dopo, l'orologio cominciò a sprigionare fumo e scintille e infine si incendiò. Max osservò stregato la scena, incapace di staccare gli occhi dall'orologio ardente. Un secondo dopo, la cinepresa si spostava bruscamente fino alla parete della stanza e metteva a fuoco un vecchio comò sul quale si notava uno specchio. La cinepresa si avvicinò e si fermò per riflettere nitidamente sul vetro l'immagine di chi la stava usando. A Max si seccò la bocca. Finalmente si trovava viso a viso con colui che aveva girato quelle filmine anni prima, in quella stessa casa. Poteva riconoscere quel viso infantile e sorridente che stava filmando se stesso. Aveva qualche anno di meno, ma i tratti e lo sguardo erano gli stessi che aveva imparato a riconoscere negli ultimi giorni: Roland. La filmina si incastrò all'interno del proiettore e il fotogramma bloccato di fronte alla lente cominciò a fondersi lentamente sullo schermo. Max spense il proiettore e strinse i pugni per fermare il tremito che si era impossessato delle sue mani. Jacob Fleischmann e Roland erano la stessa persona. La luce di un lampo inondò la sala scura per una frazione di secondo, e il ragazzo sentì che da dietro la finestra una figura batteva contro i vetri con le nocche, facendo segno di voler entrare. Max accese la luce della sala e riconobbe il volto cadaverico e terrorizzato di Victor Kray, che sembrava aver assistito a una apparizione. Max corse alla porta e fece entrare il vecchio. Avevano molto di cui parlare. Capitolo quindicesimo Max gli porse la tazza di tè bollente e aspettò che il vecchio si riscaldasse. Victor Kray stava battendo i denti e Max non sapeva se attribuire quello stato al vento gelido che portava la tormenta o alla paura che il vecchio non riusciva più a nascondere. «Che cosa stava facendo là fuori, signor Kray?» chiese Max. «Sono andato nel giardino di statue» rispose il vecchio, mentre cominciava a calmarsi. Victor Kray sorseggiò il tè dalla tazza fumante e l'appoggiò sul tavolo. «Dov'è Roland?» chiese nervosamente. «Perché vuole saperlo?» rispose Max con un tono che non mascherava una certa diffidenza.
Il guardiano del faro sembrò intuire la sua ritrosia, e cominciò a gesticolare con le mani, come se volesse spiegarsi ma non trovasse le parole. «Max, stanotte succederà qualcosa di terribile, se non lo impediamo noi» riuscì finalmente a dire Victor Kray, sapendo che la sua affermazione non suonava molto convincente. «Devo assolutamente sapere dov'è Roland. La sua vita è in pericolo.» Max restò zitto e scrutò il volto implorante del vecchio. Non credeva a una parola di quanto questi gli aveva appena detto. «Quale vita, signor Kray: quella di Roland o quella di Jacob Fleischmann?» replicò, aspettando la reazione di Victor Kray. Il vecchio alzò gli occhi e sospirò, sfinito. «Credo di non capire» mormorò. «Io credo di sì. So che mi ha mentito, signor Kray» disse Max piantando uno sguardo accusatore sul suo viso. «E so chi è davvero Roland. Lei ci ha ingannato fin dal principio. Perché?» Victor Kray si alzò e camminò fino a una delle finestre, lanciando un'occhiata fuori, come se aspettasse una visita. Un nuovo tuono fece tremare la casa della spiaggia. La tormenta era sempre più vicina alla costa e Max poteva sentire il rumore delle onde che ruggivano sull'oceano. «Dimmi dov'è Roland» insistette ancora una volta il vecchio, continuando a controllare quello che succedeva all'esterno della casa. «Non c'è tempo da perdere.» «Non so se posso fidarmi di lei. Se vuole che l'aiuti, prima dovrà raccontarmi la verità» pretese Max, che non era disposto a permettere al guardiano del faro di lasciarlo ancora all'oscuro delle cose. Il vecchio si girò verso di lui e lo guardò con severità. Max non abbassò lo sguardo, facendogli capire che non lo temeva. Victor Kray sembrò capire la situazione e si lasciò cadere nella poltrona, sconfitto. «Va bene, Max. Ti svelerò la verità, se è proprio quello che vuoi» mormorò. Il ragazzo si sedette di fronte a lui e annuì, preparandosi di nuovo ad ascoltarlo. "Quasi tutto quello che vi ho raccontato l'altro giorno al faro era vero" cominciò a dire il vecchio. "Il mio amico Fleischmann aveva promesso al dottor Cain che gli avrebbe consegnato il suo primo figlio in cambio dell'amore di Eva Gray. Un anno dopo il matrimonio, quando io avevo già perso i contatti con loro, Fleischmann cominciò a ricevere le visite del dottor Cain, che gli ricordava i termini del loro accordo. Fleischmann cercò in
tutti i modi di evitare la nascita di quel figlio, rischiando addirittura di rovinare il suo matrimonio. Dopo il naufragio dell'Orpheus, mi sentii in dovere di scrivere loro e di liberarli da quella condanna che per anni li aveva resi dei disgraziati. Ero sicuro che la minaccia del dottor Cain fosse rimasta sepolta per sempre in fondo al mare. O almeno, fui così stolto da convincermene. Fleischmann si sentiva colpevole e in debito con me, e desiderava che noi tre, cioè Eva, lui e io tornassimo a stare insieme, come negli anni di università. Era una cosa assurda, certo. Erano successe troppe cose. Ciò nonostante, gli venne il capriccio di costruire la casa della spiaggia, sotto il cui tetto sarebbe poco dopo nato suo figlio Jacob. Il piccolo fu una benedizione del cielo, che restituì loro la gioia di vivere. O almeno così sembrava, perché fin dalla notte della nascita, io seppi che qualcosa non funzionava per il giusto verso. Quella stessa notte, infatti, sognai di nuovo il dottor Cain. Mentre il bambino cresceva, Fleischmann ed Eva erano così accecati dalla felicità da non riuscire a vedere la minaccia che pendeva su di loro. Entrambi dedicavano tutte le loro energie a procurare la felicità del figlio e a soddisfare tutti i suoi capricci. Jacob Fleischmann fu il bambino più viziato e amato del mondo. Però, a poco a poco, i segni della presenza di Cain cominciarono a farsi più evidenti. Un giorno, quando aveva cinque anni, Jacob si perse mentre giocava nel cortile posteriore. Fleischmann ed Eva lo cercarono disperati per ore, ma non ne trovarono la minima traccia. Al calare della sera, Fleischmann prese una pila e si addentrò nel bosco, temendo che il piccolo si fosse smarrito nel folto degli alberi e che gli fosse successo un incidente. Fleischmann ricordava che al limitare del bosco c'era un piccolo recinto chiuso e vuoto; si diceva che molto tempo prima avesse fatto parte di un antico canile, abbattuto all'inizio del secolo. Era il posto in cui si rinchiudevano gli animali che dovevano essere abbattuti. Quella notte, un'intuizione portò Fleischmann a pensare che forse il bambino vi fosse entrato e fosse rimasto intrappolato dentro. In parte era vero: ma là dentro non trovò solo suo figlio. Il recinto, che per tutti gli anni precedenti era rimasto deserto, adesso era popolato di statue. Jacob stava giocando in mezzo alle varie figure, quando suo padre lo trovò e lo portò fuori. Un paio di giorni dopo, Fleischmann venne a trovarmi al faro e mi spiegò quanto era successo. Mi fece giurare che, se fosse successo qualcosa a lui, io mi sarei fatto carico del piccolo. Quello fu solo l'inizio. Fleischmann nascondeva a sua moglie i piccoli inspiegabili incidenti che accadevano intorno al bambino, ma nel fondo del cuore sapeva che non c'era via d'uscita, e che presto o tardi il dottor Cain
sarebbe tornato a pretendere ciò che gli apparteneva." «Che cosa è successo, la notte in cui Jacob annegò?» lo interruppe Max, intuendo già la risposta, ma sperando che le parole del vecchio provassero che i suoi timori erano infondati. Victor Kray abbassò la testa e aspettò qualche secondo prima di rispondere. "Era lo stesso giorno di oggi, il 23 di giugno, e anche lo stesso giorno in cui l'Orpheus affondò: una terribile tormenta si scatenò sull'oceano. I pescatori correvano ad assicurare le barche e la gente chiudeva porte e finestre, proprio come avevano fatto la notte del naufragio. Il paese si trasformò in un villaggio fantasma sotto la tempesta. Io ero al faro, quando fui assalito da una terribile intuizione: il bambino era in pericolo. Attraversai le vie deserte e venni qui di corsa. Jacob era uscito di casa e stava camminando sulla spiaggia, vicino alla riva, dove le onde si rompevano con furia. Cadeva un violento acquazzone e non si vedeva quasi nulla; riuscii però a scorgere una sagoma lucente che spuntava dall'acqua e che tendeva verso il bambino le sue lunghe braccia, simili a tentacoli. Jacob sembrava camminare ipnotizzato verso quella creatura d'acqua, che riuscivo a vedere a fatica nell'oscurità. Era Cain, ne ero sicuro, ma sembrava quasi che tutte le sue identità si fossero fuse insieme in una figura che si trasformava di continuo... Faccio fatica a descrivere quello che vidi..." «Ho visto quella figura» lo interruppe Max, risparmiando al vecchio le descrizioni della creatura che lui stesso aveva visto solo poche ore prima. «Continui.» «Mi chiesi perché Fleischmann e sua moglie non si trovassero lì, perché non portassero via il bambino, e guardai verso casa. Una banda di figure circensi che sembravano corpi mobili di pietra li trattenevano sotto il portico.» «Le statue del giardino» completò Max. Il vecchio annuì. "In quel momento pensai solo a salvare il bambino. Quella cosa lo aveva preso fra le braccia e lo stava portando al largo. Mi lanciai contro la creatura e l'attraversai. L'enorme profilo d'acqua svanì nell'oscurità. Il corpo di Jacob era sprofondato. Mi immersi molte volte fino a quando non lo toccai nell'oscurità, e riuscii così a recuperare il corpo e a portarlo in superficie. Trascinai il bambino fin sulla sabbia, lontano dalle onde, e cercai di rianimarlo. Le statue erano scomparse insieme a Cain. Fleischmann ed Eva
corsero verso di me per soccorrere il bambino, ma quando arrivarono il cuore non batteva già più. Lo portammo dentro casa e cercammo inutilmente di rianimarlo: il bambino era morto. Fleischmann sembrava impazzito e uscì fuori, gridando contro la tormenta e offrendo a Cain la sua vita in cambio di quella del bambino. Pochi minuti dopo, inspiegabilmente, Jacob aprì gli occhi. Era in stato di shock. Non ci riconosceva e sembrava che non si ricordasse neppure il suo nome. Eva lo coprì e lo portò sopra, e lo mise a dormire. Quando poco dopo scese, si avvicinò a me e, molto serenamente, mi disse che, se il bambino avesse continuato a vivere con loro, sarebbe stato sempre in pericolo. Mi chiese di prendermi cura di lui e di allevarlo come se fosse mio figlio, come il figlio che avrebbe potuto essere il nostro, se il destino avesse preso una direzione diversa. Fleischmann non osò entrare in casa. Accettai la richiesta di Eva Gray e potei allora capire dai suoi occhi che stava rinunciando all'unica cosa che aveva dato senso alla sua vita. Il giorno dopo mi portai via il bambino. Non vidi mai più i Fleischmann." Victor Kray fece una lunga pausa. Max ebbe l'impressione che il vecchio cercasse di trattenere le lacrime, mentre nascondeva il volto fra le mani bianche e invecchiate. «Un anno più tardi venni a sapere che lui era morto, vittima di una strana infezione contratta per il morso di un cane randagio. E ancora oggi, non so se Eva Gray viva da qualche parte.» Max osservò l'espressione abbattuta del vecchio, e pensò di averlo giudicato male, anche se avrebbe preferito che fosse stato davvero un bugiardo piuttosto che dover affrontare la realtà delle sue parole. «Lei ha inventato la storia dei genitori di Roland, ha anche inventato il suo nome...» concluse Max. Kray annuì, ammettendo di fronte a un ragazzo di tredici anni, che aveva visto solo un paio di volte, il più grande segreto della sua vita. «Allora Roland non sa di essere chi è?» chiese Max. Il vecchio scosse la testa più volte, e Max si rese conto che finalmente sgorgavano lacrime di rabbia da quegli occhi consumati da troppi anni di osservazione dall'alto del faro. «Chi è sepolto allora nella tomba di Jacob Fleischmann al cimitero?» chiese Max. «Nessuno» rispose il vecchio. «Quella tomba non fu mai costruita, e non fu mai celebrato un funerale. La tomba che hai visto l'altro giorno apparve
nel cimitero una settimana dopo la tormenta. La gente del paese crede che Fleischmann l'abbia fatta erigere per il figlio.» «Non capisco» replicò Max. «Se non è stato Fleischmann, chi la costruì, e perché?» Victor Kray sorrise amaramente al ragazzo. Alla fine rispose: «Cain. Cain la collocò lì e da allora la tiene pronta per Jacob.» «Dio mio» mormorò Max, capendo che forse aveva sprecato del tempo prezioso obbligando il vecchio a confessare tutta la verità. «Bisogna portar via subito Roland dalla capanna sulla spiaggia...» Il riflusso delle onde che si rompevano sulla spiaggia svegliò Alicia. Era già scesa la notte e, a giudicare dall'intenso picchiettio dell'acqua sul tetto della capanna, una forte tormenta si era scatenata sulla baia mentre dormivano. Alicia si tirò su, ancora stordita, e controllò che Roland fosse ancora disteso sulla brandina: nel sonno, stava balbettando parole incomprensibili. Max non c'era, e Alicia pensò che fosse fuori, a guardare la pioggia sul mare; suo fratello era affascinato dalla pioggia. Si diresse verso la porta e l'aprì, lanciando un sguardo alla spiaggia. Una densa nebbia azzurrina serpeggiava dal mare verso la capanna, come uno spettro in agguato, e Alicia sentì provenire da quella nube fluttuante il sussurro di un coro di voci. Chiuse con forza la porta e vi si appoggiò contro, decisa a non lasciarsi prendere dal panico. Roland, spaventato dallo sbattere della porta, aprì gli occhi e si alzò faticosamente, senza capire molto bene come fosse arrivato fin lì. «Che cosa sta succedendo?» riuscì a mormorare. Alicia aprì le labbra per rispondere, ma qualcosa la trattenne. Roland contemplò stupefatto la densa nebbia che stava filtrando da tutte le fessure della capanna e avvolgeva Alicia. La ragazza gridò e la porta contro la quale era appoggiata volò violentemente fuori, scardinata da una forza invisibile. Roland saltò giù dalla brandina e corse verso Alicia, che si allontanava verso il mare avvolta dall'artiglio di quella nebbia vaporosa. Una figura bloccò la sua corsa, e Roland riconobbe lo spettro d'acqua che lo aveva trascinato sul fondo del mare. Il volto da lupo del pagliaccio si illuminò. «Salve, Jacob» soffiò la voce di quelle labbra gelatinose. «Adesso sì che ci divertiremo.» Roland colpì la figura acquosa, e la sagoma di Cain si dissolse nell'aria, lasciando cadere nel vuoto litri e litri d'acqua. Roland si precipitò fuori e ricevette il colpo della tormenta. Sulla baia si era formata una grande cap-
pa di nuvole spesse e rossastre. Dal suo vertice, un lampo accecante cadde su una delle cime della scogliera e polverizzò tonnellate di roccia, spargendo una pioggia di pagliuzze incandescenti sulla spiaggia. Alicia gridò, lottando per liberarsi dall'abbraccio mortale che la imprigionava, e Roland corse sulle pietre fino alla riva. Cercò di afferrarle la mano, ma un'ondata violenta lo fece cadere. Quando si rialzò, tutta la baia stava tremando sotto i suoi piedi, e Roland sentì una sorta di enorme ruggito che sembrava risalire dalle viscere della terra. Il ragazzo fece qualche passo indietro, lottando per mantenere l'equilibrio, e vide una gigantesca forma luminosa che saliva dal fondo del mare verso la superficie, alzando onde alte svariati metri in tutte le direzioni. Al centro della baia, Roland riconobbe la sagoma di un albero maestro che stava emergendo dalle acque. Lentamente, di fronte ai suoi occhi increduli, lo scafo dell'Orpheus uscì a galleggiare, avvolto da un alone spettrale. Sul ponte, Cain, avvolto da un mantello, alzò al cielo un bastone d'argento, e un nuovo lampo cadde su di lui, e tutto il battello si mise a sfolgorare. L'eco della risata crudele del mago inondò la baia, mentre l'artiglio spettrale posava Alicia ai suoi piedi. «Io voglio te, Jacob» sussurrò la voce di Cain nella mente di Roland. «Se non vuoi che lei muoia, vieni a prenderla...» Capitolo sedicesimo Max stava pedalando sotto la pioggia, quando l'esplosione del fulmine lo fece sobbalzare mostrandogli lo spettacolo dell'Orpheus, risorto dalle profondità marine e avvolto nella luminosità ipnotica che emanava dal suo stesso metallo. Il vecchio battello di Cain galleggiava nuovamente sulle acque infuriate della baia. Max spinse sui pedali a perdifiato, temendo di arrivare troppo tardi alla capanna. Si era lasciato dietro il vecchio guardiano del faro, che non poteva tenere il suo passo. Arrivato sul bordo della spiaggia, saltò dalla bicicletta e corse verso la capanna di Roland. Vide la porta sradicata di netto e individuò la figura paralizzata del suo amico sulla riva, che guardava stregato il vascello fantasma sulle onde. Max ringraziò il cielo e corse ad abbracciarlo. «Stai bene?» gridò nel vento che spazzava la spiaggia. Roland lo ricambiò con uno sguardo di terrore, come quello di un animale ferito e incapace di sfuggire ai suoi predatori. Max vide in lui quel
volto infantile che aveva tenuto la macchina da presa di fronte allo specchio, ed ebbe un brivido. «Ha catturato Alicia» disse finalmente Roland. Max sapeva che il suo amico non poteva capire che cosa stesse succedendo davvero, e intuì che cercare di spiegarglielo avrebbe solo complicato la situazione. «Qualunque cosa succeda» disse Max «tienti lontano da lui. Mi hai sentito? Sta' lontano da Cain.» Roland ignorò le sue parole ed entrò in acqua fino alla cintola. Max gli andò dietro e lo trattenne, ma Roland, più forte del suo amico, si liberò facilmente di lui e lo spinse con forza prima di lanciarsi a nuoto. «Aspetta!» gridò Max. «Tu non sai quello che sta succedendo! Cerca te!» «Lo so» rispose Roland senza dargli tempo di dire altro. Max vide il suo amico tuffarsi nelle onde ed emergere qualche metro più in là, nuotando verso l'Orpheus. La parte prudente del suo cuore gli gridava di tornare di corsa verso la capanna e di nascondersi sotto la brandina fino a quando non fosse finito tutto. Come sempre, Max diede retta all'altra parte e si lanciò dietro l'amico, sicuro che questa volta non sarebbe più tornato vivo a terra. Le lunghe dita di Cain, infilate in un guanto, si chiusero intorno al polso di Alicia come una tenaglia, e la ragazza sentì che il mago la tirava, trascinandola sulla coperta scivolosa dell'Orpheus. Alicia cercò di liberarsi dalla presa dibattendosi con forza. Cain si girò e, sollevandola in aria senza alcuno sforzo, avvicinò il suo viso a pochi centimetri da quello della sua prigioniera, fino a che essa poté vedere le pupille di quegli occhi ardenti di rabbia dilatarsi e cambiare colore, passando dall'azzurro al dorato. «Non te lo dirò una seconda volta» minacciò il mago con voce metallica e priva di vita. «Resta quieta, altrimenti te ne pentirai. Mi hai capito?» Il mago aumentò la pressione delle dita e Alicia sentì che, se non si fosse fermato, le avrebbe polverizzato le ossa del polso come se fossero di creta. Capì che era inutile opporre resistenza, e annuì nervosamente. Cain allentò la presa e sorrise. Non c'era compassione né cortesia in quel sorriso, ma solo odio. Il mago la lasciò andare e Alicia cadde di nuovo sul pavimento, battendo la fronte contro il metallo. Si sfregò la pelle e sentì il bruciore pungente del taglio provocato dalla caduta. Senza lasciarle un attimo di tregua, Cain la afferrò di nuovo per il braccio ammaccato e la trascinò ver-
so l'interno del battello. «Alzati» ordinò il mago, spingendola lungo il corridoio che si apriva dietro il ponte dell'Orpheus e che portava alle cabine di coperta. Le pareti erano annerite, ricoperte dalla ruggine e da una cappa vischiosa di alghe scure. L'interno dell'Orpheus era sommerso da un palmo di acqua putrida che emanava un odore nauseabondo. Mucchi di residui galleggiavano e ondeggiavano seguendo il dondolio dell'imbarcazione sul mare. Il dottor Cain afferrò Alicia per i capelli e aprì una porta che dava in una cabina. Si diffuse nell'aria la nube di gas e di acqua marcia che si era formata all'interno nei venticinque anni in cui il locale era rimasto sprangato. Alicia trattenne il fiato. Il mago la strattonò e la trascinò sulla soglia. «La miglior suite della nave, mia cara. La cabina del capitano per la mia invitata d'onore. Goditi la compagnia.» Cain la spinse dentro e si chiuse la porta dietro. Alicia cadde sulle ginocchia e tastò la parete alle sue spalle, cercando un punto d'appoggio. La cabina era immersa in una profonda oscurità, e l'unico barlume che riuscisse a farsi strada proveniva da un piccolo oblò che gli anni sott'acqua avevano ricoperto di una crosta unta e semitrasparente di alghe e di altri resti organici. I continui scossoni del battello nella tormenta la spingevano contro le pareti della cabina. Alicia si aggrappò a un tubo arrugginito e scrutò nella penombra, lottando per non pensare alla puzza penetrante che regnava in quel luogo. I suoi occhi impiegarono un paio di minuti ad abituarsi a quelle condizioni minime di luce, e a permetterle di esaminare la cella riservatale da Cain. L'unica uscita era la porta che il mago aveva sprangato andandosene. Alicia cercò disperatamente una sbarra di metallo o un altro oggetto contundente per cercare di forzarla, ma non trovò nulla di adatto. Mentre tastava nell'oscurità alla ricerca di uno strumento per liberarsi, le sue mani sfiorarono qualcosa appoggiato alla parete. Alicia si ritrasse, spaventata. I resti irriconoscibili del capitano dell'Orpheus caddero ai suoi piedi e Alicia comprese a chi si era riferito Cain parlando della sua compagnia. Il destino non aveva giocato a favore del vecchio olandese errante. Il frastuono del mare e del temporale affogarono le grida della ragazza. A ogni metro guadagnato da Roland verso l'Orpheus, la furia del mare lo trascinava sott'acqua e lo riportava in superficie dove l'onda si frangeva, travolgendolo nella schiuma di un vortice al quale non aveva la forza di resistere. Di fronte a lui, il battello lottava con le muraglie di onde che il temporale rovesciava contro lo scafo. Man mano che si avvicinava, la violenza del mare rendeva più difficol-
toso controllare la direzione, e Roland temette che un colpo improvviso delle onde lo sbattesse contro lo scafo dell'Orpheus facendogli perdere i sensi. Se fosse accaduto, il mare lo avrebbe ingoiato voracemente e non sarebbe mai più tornato in superficie. Roland si tuffò per evitare la cresta di un cavallone che si stava per rovesciare su di lui, e riemerse, mentre l'onda si allontanava verso la riva formando un avvallamento di acqua torbida e agitata. L'Orpheus si stagliava a meno di una dozzina di metri da dove egli si trovava, e guardando la parete di acciaio sfolgorante di luce incandescente, capì che gli sarebbe stato impossibile arrampicarsi fino alla coperta. L'unico cammino possibile era la breccia aperta dagli scogli nello scafo, quella stessa breccia che aveva provocato il naufragio venticinque anni prima. La falla si trovava sulla linea di galleggiamento, e appariva e scompariva sotto le acque ad ogni ondata. I brandelli di metallo della fusoliera intorno al buco nero sembravano le fauci di una grande bestia marina. La sola idea di infilarsi in quella trappola terrorizzava Roland, ma era l'unica possibilità per raggiungere Alicia. Lottò per non essere trascinato via dall'onda successiva e, una volta che la cresta fu passata sopra di lui, si lanciò verso il buco dello scafo e vi penetrò come una torpedine umana verso le tenebre. Victor Kray scavalcò senza più fiato le erbacce che separavano la baia dal sentiero del faro. La pioggia e il vento battevano con violenza e frenavano la sua corsa come mani invisibili che volessero trattenerlo. Quando riuscì ad arrivare sulla spiaggia, l'Orpheus, al centro della baia, navigava in linea retta verso la scogliera, avvolto da un alone di luce soprannaturale. La prua del battello rompeva i marosi che spazzavano la coperta e alzava una nuvola di schiuma bianca a ogni scossone dell'oceano. Un velo di disperazione scese sul suo volto: i suoi peggiori timori erano diventati realtà, e lui aveva fallito; gli anni avevano indebolito la sua mente e il Principe della Nebbia l'aveva ingannato ancora una volta. L'unica cosa che chiedeva ormai al cielo era che non fosse troppo tardi per salvare Roland dal destino che il mago gli aveva riservato. In quel momento, Victor Kray avrebbe volentieri dato la sua vita se ciò avesse potuto garantire a Roland anche una minima possibilità di fuga. Ma un'oscura premonizione gli faceva sospettare di aver mancato alla promessa fatta alla madre del bambino. Victor Kray si avviò alla capanna di Roland, con la vana speranza di trovarlo lì. Non c'era la minima traccia di Max né della ragazza, e la vista della porta sradicata sulla spiaggia lo confermò nei peggiori presagi. Una
scintilla di speranza si accese in lui nell'accorgersi che dall'interno della capanna proveniva una luce. Il guardiano del faro si affrettò verso l'entrata, gridando il nome di Roland. La figura di un lanciatore di coltelli con il corpo di pietra pallida e viva uscì a riceverlo. «È un po' tardi per lamentarsi, nonno» disse, e il vecchio riconobbe la voce di Cain. Victor Kray fece un salto all'indietro, ma alle sue spalle c'era qualcuno e, prima che potesse reagire, sentì un colpo secco sulla nuca. Poi, cadde l'oscurità. Max vide Roland entrare nello scafo dell'Orpheus attraverso il buco della fusoliera, e sentì le sue forze fiaccarsi a ogni urto delle onde. Lui non era un nuotatore bravo come Roland, e a fatica sarebbe riuscito a mantenersi a galla ancora per molto in mezzo a quella tormenta, a meno di trovare il modo di salire a bordo della nave. Per altro, a ogni minuto che passava si rendeva sempre più conto del pericolo che li aspettava dentro il battello, ed era sempre più evidente che il mago li stava portando sul suo terreno come mosche sul miele. Dopo aver sentito un frastuono assordante, Max si accorse di un'enorme parete d'acqua che dal lato di prora della nave si stava avvicinando a grande velocità. In pochi secondi, l'impatto dell'onda trascinò il battello fino alla scogliera, e la prua si incastrò tra le rocce, provocando una violenta scossa in tutto lo scafo. L'albero maestro che sosteneva le luci del ponte si abbatté sulla fiancata e la sua punta andò a cadere a pochi metri dal ragazzo, che si gettò sott'acqua. Max nuotò faticosamente fin lì, si aggrappò all'albero e riposò qualche secondo per recuperare il fiato. Quando alzò lo sguardo, vide che la posizione dell'albero maestro abbattuto gli tendeva un ponte fino alla coperta della nave. Prima che una nuova onda lo strappasse da lì e lo portasse via per sempre, cominciò ad arrampicarsi verso l'Orpheus: non si era accorto che, appoggiata alla balaustra di tribordo del battello, lo aspettava una figura immobile. La forza della corrente spinse Roland attraverso la sentina inondata dell'Orpheus, e il ragazzo si protesse la faccia con le braccia per avanzare tra i resti del naufragio. Si lasciò portare dall'acqua fino a quando uno scossone dello scafo lo lanciò contro la parete, dove riuscì ad aggrapparsi a una scaletta metallica che saliva verso la parte superiore dell'imbarcazione.
Roland si arrampicò lungo l'angusta scaletta e attraversò un boccaporto che sbucava nella scura sala macchine che ospitava i motori distrutti dell'Orpheus. Oltrepassò i resti dei macchinari fino all'andito di accesso alla coperta, e una volta lì attraversò di gran fretta il corridoio delle cabine per arrivare al ponte del battello. Roland riconosceva ogni angolo della sala e tutti gli oggetti che tante volte aveva visto facendo immersione. Da quel punto poteva osservare la coperta anteriore dell'Orpheus, dove le onde spazzavano la superficie andando a morire contro la piattaforma del ponte. Roland si accorse immediatamente che l'Orpheus era spinto in avanti da una forza inarrestabile e contemplò attonito le ombre della scogliera emergere di fronte alla prua del battello. Sarebbero andati a schiantarsi contro le rocce nel giro di pochi secondi. Si affrettò ad aggrapparsi alla ruota del timone e i suoi piedi scivolarono sulla patina di alghe che ricopriva il suolo. Rotolò per qualche metro fino a sbattere contro il vecchio impianto radio, e sentì la tremenda vibrazione dell'impatto dello scafo contro la scogliera. Passato il momento peggiore, si tirò in piedi e udì un suono vicino, una voce umana nel fragore della tormenta. Il suono si ripeté, e Roland lo riconobbe: erano le grida d'aiuto di Alicia che provenivano da qualche punto dell'imbarcazione. I dieci metri che Max dovette percorrere arrampicandosi lungo l'albero maestro fino alla coperta dell'Orpheus gli sembrarono più di cento. Il legno era marcio e così scheggiato che, quando raggiunse finalmente la murata dell'imbarcazione, le braccia e le gambe erano tutte piagate da piccole ferite che gli provocavano un forte bruciore. Max giudicò più prudente non soffermarsi a esaminare le proprie ammaccature e tese la mano verso il parapetto metallico. Si aggrappò con forza, poi saltò goffamente sulla coperta cadendo bocconi. Una forma scura passò davanti a lui e Max alzò gli occhi, sperando di vedere Roland. La figura di Cain aprì il suo mantello e gli mostrò un oggetto dorato che pendeva all'estremità di una catena. Max riconobbe il suo orologio. «Cercavi questo?» chiese il mago, inginocchiandosi vicino al ragazzo e facendo dondolare davanti ai suoi occhi l'orologio che Max aveva perso nella tomba di Jacob Fleischmann. «Dov'è Jacob?» chiese Max, ignorando la smorfia irridente che sembrava fissata sul volto di Cain come una maschera di cera. «Questa è la domanda dell'anno» rispose il mago, «e tu mi aiuterai a ri-
spondere.» Cain chiuse la mano sull'orologio e Max sentì lo scricchiolio del metallo. Quando il mago mostrò nuovamente il palmo aperto, del regalo di suo padre restava solo un irriconoscibile mucchietto di viti e di dadi schiacciati. «Il tempo, caro Max, non esiste; è un'illusione. Anche il tuo amico Copernico lo avrebbe indovinato se avesse avuto, appunto, più tempo. Che ironia, vero?» Max calcolò mentalmente quante possibilità avesse di saltare giù dal bordo della nave e sfuggire al mago. Il guanto bianco di Cain si strinse intorno alla sua gola prima ancora che potesse tirare un respiro. «Che cosa vuol fare di me?» gemette Max. «Che cosa faresti tu, se ti trovassi al mio posto?» chiese il mago. Max sentì la presa letale di Cain togliergli il respiro e annebbiargli il pensiero. «È una buona domanda, vero?» Il mago lasciò cadere Max sulla coperta. L'impatto contro il metallo arrugginito gli annebbiò la vista per qualche secondo e fu preda di uno spasmo di nausea. «Perché perseguita Roland?» balbettò Max, cercando di guadagnare tempo. «Gli affari sono affari,» rispose il mago. «Io ho già rispettato la mia parte del contratto.» «Ma che importanza può avere la vita di un ragazzo, per lei?» replicò Max. «Oltretutto, si è già vendicato uccidendo il dottor Fleischmann, non è vero?» Il volto del dottor Cain si illuminò, come se Max avesse appena formulato la domanda alla quale desiderava rispondere fin dall'inizio del dialogo. «Quando non si salda il debito di un prestito, bisogna pagare gli interessi. Ma questo non annulla il debito. È la mia legge» sibilò la voce del mago. «Ed è il mio cibo. La vita di Jacob, come quella di molti come lui. Sai quanti anni sono che vago per il mondo? Sai quanti nomi ho avuto?» «Me lo dica» rispose con un filo di voce, fingendo una terrorizzata ammirazione per il suo interlocutore. Cain sorrise euforico. In quel momento, successe quello che Max aveva temuto. In mezzo al fragore della tormenta, si sentì la voce di Roland che chiamava Alicia. Max e il mago scambiarono un'occhiata; l'avevano udita entrambi. Il sorriso scomparve dal viso di Cain, che assunse di nuovo l'espressione cupa di un predatore affamato e sanguinario.
«Molto furbo» mormorò. Max inghiottì saliva, preparato al peggio. Il mago tese una mano verso di lui, e il ragazzo, pietrificato, vide come ognuna delle sue dita si trasformasse in un lungo spillone. A pochi metri da lì, Roland gridò di nuovo. Cain si girò per guardarsi alle spalle e Max si slanciò verso la balaustra del battello. L'artiglio del Principe della Nebbia si strinse sulla sua nuca e lo fece lentamente girare fino a riportarlo faccia a faccia. «Peccato che il tuo amico non possegga neppure la metà della tua astuzia. Forse dovrei mettermi d'accordo con te. Sarà per un'altra volta» sputò fuori il mago. «Addio, Max. Spero che dall'ultima volta tu abbia imparato a nuotare sott'acqua.» Con la forza di un cannone, il mago lanciò in aria il corpo del ragazzo, che ricadde in mezzo alle onde, trascinato sotto da una forte corrente gelata. Max lottò per risalire e agitò braccia e gambe per sfuggire alla letale forza di risucchio che lo stava trascinando verso la nera oscurità del fondo. Nuotando alla cieca, sentì i polmoni sul punto di scoppiare, e finalmente emerse a pochi metri dalle rocce. Inspirò una boccata d'aria e, resistendo per rimanere a galla, riuscì a farsi portare lentamente dalla corrente fino alla parete rocciosa, dove riuscì ad aggrapparsi a una sporgenza e ad arrampicarsi per mettersi in salvo. Le schegge affilate delle pietre gli morsero la pelle. Max sentì che gli aprivano piccole ferite su gambe e braccia, così intorpidite dal freddo che quasi non provavano il dolore. Lottando per non svenire, si arrampicò per alcuni metri fino a trovare un anfratto fra le rocce fuori portata dalle onde. Solo allora poté distendersi sulla dura pietra e rendersi conto di essere così terrorizzato da non capacitarsi di essere riuscito a salvarsi la vita. Capitolo diciassettesimo La porta della cabina si aprì lentamente e Alicia, raggomitolata in un cantuccio buio, rimase immobile e trattenne il respiro. L'ombra del Principe della Nebbia si proiettò all'interno della stanza e i suoi occhi, incandescenti come la brace, cambiarono colore passando dal dorato al rosso vivo. Cain entrò nella cabina e le si avvicinò. Alicia lottò per nascondere il tremore che la scuoteva tutta, e affrontò il visitatore con uno sguardo di sfida. Il mago mostrò un sorriso canino di fronte a tale dimostrazione di arroganza.
«Dev'essere una caratteristica di famiglia. Avete tutti la vocazione dell'eroe» commentò con voce suadente il mago. «Cominciate a piacermi.» «Che cosa vuoi?» disse Alicia, cercando di imprimere alla voce tremante i toni di tutto il suo disprezzo. Cain sembrò riflettere sulla domanda, mentre si sfilava accuratamente i guanti. Alicia si accorse delle sue unghie lunghe e affilate come la lama di un pugnale. Cain gliene puntò contro una. «Dipende. Tu che cosa mi suggerisci?» le rispose mellifluo il mago, senza distogliere gli occhi dal viso della ragazza. «Io non ho niente da darle» replicò Alicia, lanciando furtivamente un'occhiata alla porta aperta della cabina. Cain scosse la testa, intuendo le sue intenzioni. «Non sarebbe una buona idea» suggerì. «Torniamo alla nostra questione. Perché non facciamo un patto? Un accordo fra persone adulte, diciamo.» «Quale patto?» rispose Alicia, sforzandosi di sottrarsi allo sguardo ipnotizzante di Cain che sembrava succhiarle la volontà con la voracità di un parassita di anime. «Così mi piace: parliamo di affari. Dimmi, Alicia. Ti piacerebbe salvare Jacob, scusa, Roland? È un ragazzo che vale, mi pare» disse il mago, assaporando con estrema delicatezza ogni parola della sua proposta. «Che cosa vuole in cambio? La mia vita?» esclamò Alicia, alla quale le parole uscivano di bocca senza neppure pensarci. Il mago incrociò le braccia e aggrottò le ciglia, pensieroso. Alicia si accorse che non batteva mai le palpebre. «Avevo pensato a un'altra cosa, mia cara» spiegò il mago accarezzandosi il labbro inferiore con il polpastrello dell'indice. «Che ne dici della vita del tuo primo figlio?» Cain si avvicinò lentamente e accostò il volto a quello della ragazza. Alicia sentì un intenso fetore dolciastro e nauseante emanare da lui. Sfidando il suo sguardo, Alicia gli sputò sulla faccia. «Vada all'inferno» disse, contenendo la rabbia. Le gocce di saliva evaporarono come se fossero cadute su una piastra di metallo ardente. «Mia cara bambina, vengo proprio da lì» replicò Cain. Lentamente, il mago tese la sua mano nuda verso il viso di Alicia. La ragazza chiuse gli occhi e sentì sulla fronte, per alcuni istanti, il contatto gelido delle sue dita e delle lunghe e affilate unghie. L'attesa sembrò interminabile. Finalmente, Alicia sentì i suoi passi che si allontanavano, e la porta
della cabina che si chiudeva di nuovo. La puzza di marcio filtrò dalle fessure del boccaporto della cabina, rendendo l'aria irrespirabile. Alicia sentì il bisogno di piangere e di picchiare contro la parete per placare la furia, ma si sforzò di non perdere il controllo e di mantenere la mente lucida. Doveva uscire di lì, e non le restava molto tempo. Andò verso la porta e tastò i contorni in cerca di qualche fessura o sporgenza per tentare di forzarla. Niente. Cain l'aveva sigillata in un sarcofago di alluminio arrugginito in compagnia delle ossa del vecchio capitano dell'Orpheus. In quel momento, una forte scossa fece tremare l'imbarcazione e Alicia cadde bocconi per terra. Dopo pochi secondi, un suono smorzato cominciò a farsi sentire dalle viscere del battello. Alicia appoggiò l'orecchio alla porta e ascoltò attentamente: era il fischio inconfondibile del fluire dell'acqua. Di grandi quantità d'acqua. Presa dal panico, capì che cosa stava succedendo: lo scafo stava per essere inondato, e l'Orpheus riprendeva ad affondare, cominciando dalle stive. Questa volta non riuscì a trattenere un grido di terrore. Roland aveva percorso tutta la nave alla ricerca di Alicia, senza successo. L'Orpheus si era trasformato in un labirinto sottomarino di interminabili corridoi e di porte incastrate. Il mago poteva averla nascosta in decine di posti. Tornò sul ponte e cercò di ragionare su dove potesse essere intrappolata. Il colpo che scosse il battello gli fece perdere l'equilibrio, ed egli cadde sul pavimento umido e scivoloso. Dall'ombra, all'improvviso, emerse Cain, come se la sua figura si fosse staccata dal metallo scheggiato del ponte. «Affondiamo, Jacob» spiegò il mago fingendosi preoccupato e indicando con un ampio gesto circolare ciò che accadeva intorno. «Non hai mai avuto il senso della prudenza, vero?» «Non so di che cosa stia parlando. Dov'è Alicia?» chiese con tono imperioso Roland, pronto a lanciarsi sul suo nemico. Il mago chiuse gli occhi e giunse le mani, come se stesse per intonare una preghiera. «Da qualche parte su questo battello» rispose tranquillamente Cain. «Se sei stato così stupido da venire fin qui, non rovinare tutto adesso. Vuoi salvarle la vita, Jacob?» «Il mio nome è Roland» lo interruppe il ragazzo. «Roland, Jacob... Che cosa vuoi che importi un nome piuttosto che un altro?» rise Cain. «Anch'io ne ho molti. Qual è il tuo desiderio, Roland?
Vuoi salvare la tua amica? È questo, vero?» «Dove l'ha nascosta?» ripeté Roland. «Dov'è, maledetto?» Il mago si fregò le mani, come se avesse freddo. «Sai quanto impiega un battello come questo ad affondare, Jacob? Non me lo dire. Un paio di minuti, al massimo. Sorprendente, vero?» rise Cain. «Lei vuole me» dichiarò Roland. «Bene, mi ha già nelle mani. Non fuggirò. Ma liberi Alicia.» «Come sei originale, Jacob» sentenziò il mago, avvicinandosi al ragazzo. «Il tuo tempo sta per finire, Jacob. Ancora un minuto.» L'Orpheus cominciò a sbandare lentamente a tribordo. L'acqua che inondava la nave ruggiva sotto i suoi piedi, e l'incrinata struttura di metallo vibrava tremendamente sotto la furia dei flutti che si aprivano la strada attraverso le viscere del battello. «Che cosa devo fare?» implorò Roland. «Che cosa vuole da me?» «Bene, Jacob. Vedo che si comincia a ragionare. Spero che tu sappia tener fede all'accordo che tuo padre non volle rispettare» rispose il mago. «Niente di più, niente di meno.» «Mio padre morì in un incidente, io...» cominciò a replicare Roland disperato. Il mago appoggiò paternamente la sua mano sulla spalla del ragazzo. Roland sentì il contatto metallico delle sue dita. «Mezzo minuto, piccolo. Un po' tardi per le storie di famiglia» tagliò corto Cain. L'acqua sferzava violenta il ponte, e Roland rivolse un'ultima occhiata implorante al mago. Cain si inginocchiò di fronte al ragazzo e gli sorrise. «Facciamo un patto, Jacob?» sussurrò il mago. Le lacrime sgorgarono sul volto di Roland, che lentamente annuì. «Bene, bene, Jacob» mormorò Cain. «Benvenuto a casa...» Il mago si alzò e indicò uno dei corridoi che dividevano il ponte. «L'ultima porta di questo corridoio. Ascolta però un consiglio. Quando riuscirai ad aprirla, saremo già sott'acqua e la tua amica non avrà aria da respirare. Tu sei bravo nelle immersioni, Jacob. Saprai cosa fare. Ricorda il nostro patto...» Cain sorrise un'ultima volta e, avvolgendosi nella tunica, svanì nell'oscurità mentre passi invisibili si allontanavano sul ponte e lasciavano tracce di metallo fuso sullo scafo della nave. Il ragazzo rimase paralizzato qualche secondo, finché un nuovo scossone del relitto non lo spinse contro la ruota pietrificata del timone. L'acqua era arrivata al livello del ponte.
Roland si lanciò nel corridoio indicato dal mago. L'acqua fluiva dai boccaporti e inondava il passaggio mentre l'Orpheus affondava pesantemente. Roland picchiò inutilmente la porta con i pugni. «Alicia!» gridò, pur sapendo che lei non avrebbe potuto sentirlo da dietro la porta d'acciaio. «Sono Roland. Trattieni il respiro! Vengo a tirarti fuori!» Roland impugnò la maniglia a ruota della porta e cercò con tutte le proprie energie di farla girare, graffiandosi il palmo delle mani nello sforzo, mentre l'acqua gelata lo copriva ormai già oltre la cintola e continuava a salire. La ruota cedette un paio di centimetri. Roland inspirò profondamente e forzò di nuovo la ruota, riuscendo faticosamente a girarla, fino a che l'acqua gelida non gli coprì la faccia inondando tutto il corridoio. L'oscurità s'impossessò dell'Orpheus. Quando la porta si aprì, Roland nuotò all'interno della cabina tenebrosa esplorandola a tentoni in cerca di Alicia. Per un momento ebbe lo spaventoso pensiero che il mago lo avesse ingannato e che lì non ci fosse nessuno. Aprì gli occhi sott'acqua e cercò di intravedere qualcosa in mezzo alla nebbia sottomarina, lottando con il bruciore che gli mordeva i polmoni. Alla fine, le sue mani sfiorarono un lembo di tela del vestito di Alicia che si dibatteva freneticamente fra il panico e l'asfissia. L'abbracciò, cercò di tranquillizzarla, ma la ragazza non poteva sapere chi o che cosa l'avesse afferrata nell'oscurità. Cosciente del fatto che gli restavano pochi secondi, Roland le circondò il collo e la trascinò verso l'esterno, nel corridoio. La discesa del battello verso il fondo continuava inesorabile. Sapeva che non potevano uscire dalla nave prima che lo scafo non avesse toccato il fondo, perché, se ci avessero provato, la forza di risucchio li avrebbe fatalmente travolti nella corrente sottomarina. D'altra parte, sapeva anche che erano già trascorsi almeno trenta secondi da quando Alicia aveva respirato per l'ultima volta, e che in queste condizioni e in preda al panico, avrebbe cominciato a inghiottire acqua. La salita alla superficie probabilmente avrebbe significato per lei andare verso una morte sicura. Cain aveva predisposto attentamente il suo gioco. L'attesa si fece infinita, e quando l'Orpheus toccò il fondo con un impatto pesante, parte del soffitto del ponte crollò sui due giovani. Roland sentì un forte dolore risalirgli lungo la gamba, e si rese conto che il metallo gli aveva imprigionato la caviglia. La luminaria dell'Orpheus si andava lentamente spegnendo nelle profondità. Roland lottò contro l'acuta sofferenza che gli attanagliava le gambe e
cercò il viso di Alicia nella penombra. Alicia aveva gli occhi aperti e si dibatteva ai limiti dell'asfissia. Ormai non sarebbe riuscita a trattenere il respiro neppure più un secondo, e le ultime bollicine di aria le sfuggirono dalle labbra come perle portatrici degli ultimi istanti di una vita che si stava estinguendo. Roland le prese il viso e cercò di fare in modo che lo guardasse negli occhi. I loro sguardi si unirono nelle profondità e lei capì subito quello che Roland le stava proponendo. Alicia negò con la testa, cercando di allontanarlo. Roland indicò la caviglia imprigionata dall'abbraccio mortale delle travi metalliche del soffitto. Alicia nuotò nell'acqua gelata fino alla trave caduta e cercò di liberare Roland. I due ragazzi si scambiarono un'occhiata disperata. Niente e nessuno avrebbe potuto smuovere le tonnellate di acciaio che trattenevano Roland. Alicia nuotò di nuovo verso di lui e l'abbracciò, sentendo svanire la propria coscienza per mancanza d'aria. Senza esitare un istante, Roland strinse il volto di Alicia e, poggiando le labbra sulle sue, espirò nella sua bocca l'aria che aveva tenuto per lei, proprio come Cain aveva previsto fin dall'inizio. Alicia aspirò l'aria dalle sue labbra e strinse con forza le mani di Roland, unita a lui in quel bacio di salvezza. Il ragazzo le rivolse un disperato sguardo d'addio e la spinse fuori dalla cabina, verso il boccaporto, dove lentamente Alicia iniziò la sua risalita verso la superficie. Quella fu l'ultima volta che Alicia vide Roland. Pochi secondi più tardi, la ragazza emerse al centro della baia e vide la tormenta allontanarsi lentamente verso l'alto mare, portandosi dietro le speranze che lei aveva riposto nel futuro. Quando Max vide affiorare il viso di Alicia dalla superficie, si tuffò nuovamente in acqua e nuotò velocemente verso di lei. Sua sorella si teneva a malapena a galla, e balbettava parole incomprensibili, tossendo violentemente e sputando l'acqua ingurgitata nella risalita dal fondo. Max le circondò le spalle e la trascinò fino a che poté tirarsi in piedi a due metri dalla riva. Il guardiano del faro, in attesa sulla spiaggia, corse a soccorrerli. Tirarono fuori insieme Alicia dall'acqua e la stesero sulla sabbia. Victor Kray cercò di sentirle il polso, però Max trattenne delicatamente la mano tremante del vecchio. «È viva, signor Kray» spiegò Max, accarezzando la fronte della sorella. «È viva.» Il vecchio annuì e lasciò Alicia alle cure di Max. Barcollando, come un
soldato dopo una lunga battaglia, Victor Kray camminò verso la riva ed entrò in acqua fino alla cintola. «Dov'è il mio Roland?» mormorò girandosi verso Max. «Dov'è mio nipote?» Max lo guardò in silenzio, vedendo come il coraggio e la forza che avevano sorretto il povero vecchio in tutti quegli anni in cima al faro si stavano dissolvendo come un pugno di sabbia fra le dita. «Non tornerà» rispose finalmente il ragazzo, con gli occhi pieni di lacrime. «Roland non tornerà più.» Victor Kray lo guardò come se non riuscisse a capire le sue parole. Poi annuì, ma rigirò lo sguardo al mare aspettando che suo nipote emergesse dalle acque per riunirsi a lui. A poco a poco, le acque si calmarono e una ghirlanda di stelle si accese all'orizzonte. Roland non tornò mai più. Capitolo diciottesimo Il giorno successivo alla tormenta che aveva devastato la costa nella lunga notte del 23 giugno 1943, Maximilian e Andrea Carver tornarono alla casa della spiaggia con la piccola Irina, che era ormai fuori pericolo, anche se avrebbe dovuto aspettare ancora qualche settimana per recuperare completamente la salute. I forti venti che avevano spazzato il paese fino a poco prima dell'alba si lasciarono dietro una scia di alberi e di pali telegrafici abbattuti, barche scaraventate dalla spiaggia fino al viale, e le finestre rotte di buona parte delle facciate del paese. Alicia e Max aspettavano in silenzio, seduti sotto il porticato, e Maximilian Carver, appena sceso dall'automobile che li aveva riportati dalla città, intuì dai loro volti e dai vestiti rovinati che era successo qualcosa di terribile. Prima ancora di poter formulare una domanda, lo sguardo di Max gli fece capire che le spiegazioni avrebbero dovuto aspettare un po', se pure fossero arrivate. Qualunque cosa fosse successa, Maximilian Carver comprese, senza bisogno di parole o di ragioni, che cosa significava lo sguardo triste dei suoi due figli: una tappa della loro vita era giunta al termine e non sarebbe mai più tornata. Prima di entrare nella casa della spiaggia, l'orologiaio guardò nel pozzo senza fondo degli occhi di Alicia, che osservava assente la linea dell'orizzonte, come se sperasse di trovare lì la risposta a tutte le domande, domande alle quali né lui né nessun altro avrebbero potuto ormai rispondere. Si
rese conto che sua figlia era improvvisamente e silenziosamente cresciuta, e che un giorno, non troppo lontano, avrebbe cominciato il suo cammino alla ricerca delle proprie risposte. La stazione ferroviaria era immersa nella nube di vapore che esalava dalla locomotiva. Gli ultimi viaggiatori si affrettavano a salire sui vagoni e a congedarsi dai familiari e amici che li avevano accompagnati fino al binario. Max osservò il vecchio orologio che lo aveva accolto in paese e si accorse che questa volta le lancette si erano fermate per sempre. L'inserviente del treno si avvicinò a Max e a Victor Kray, con la mano tesa e con l'evidente intenzione di ottenere una mancia. «Le valigie sono già sul treno, signore.» Il guardiano del faro gli tese qualche moneta e l'inserviente si allontanò, contandole. I due si scambiarono un sorriso, come se la situazione sembrasse loro divertente e come se quel congedo facesse parte di una scena abituale. «Alicia non è potuta venire perché...» cominciò a dire Max. «Non c'è bisogno. La capisco» lo interruppe il vecchio. «Salutamela. E prenditi cura di lei.» «Lo farò.» rispose Max. Il capostazione fischiò. Il treno stava per partire. «Non mi dice dove va?» chiese Max, indicando il treno che aspettava sui binari. Victor Kray sorrise e tese la mano al ragazzo. «Ovunque vada» rispose «non potrò mai allontanarmi da qui.» Risuonò un secondo fischio. Mancava solo Victor Kray. Il controllore lo aspettava alla porta del vagone. «Devo andare, Max» disse il vecchio. Max l'abbracciò con forza e il guardiano del faro lo strinse fra le braccia. «A proposito, ho qualcosa per te.» Max ricevette una piccola scatola dalle mani del vecchio, e la scosse dolcemente: dentro, qualcosa tintinnava. «Non vuoi aprirla?» chiese il vecchio. «Quando lei sarà partito» rispose Max. Il guardiano del faro si strinse nelle spalle. Victor Kray si diresse verso il vagone e il controllore gli tese la mano per aiutarlo a salire. Era già sull'ultimo scalino, quando Max si mise a correre affannato verso di lui.
«Signor Kray!» gridò. Il vecchio si volse a guardarlo, con aria divertita. «Sono contento di averla conosciuta» disse Max. Victor Kray gli sorrise per l'ultima volta e con l'indice si batté dolcemente il petto. «Anch'io, Max» rispose. «Anch'io.» Lentamente, il treno partì e la scia di vapore si perse per sempre nella distanza. Max rimase accanto al binario fino a quando fu possibile distinguere quel punto all'orizzonte. Solo allora aprì la scatola che il vecchio gli aveva consegnato e scoprì che conteneva un mazzo di chiavi. Max sorrise. Erano le chiavi del faro. Epilogo Le ultime settimane dell'estate portarono nuove notizie di quella guerra, che a detta di tutti era ormai agli sgoccioli. Maximilian Carver aveva inaugurato la sua orologeria in un piccolo locale vicino alla piazza della chiesa, e in poco tempo non c'era più un solo abitante del paese che non avesse fatto visita al piccolo bazar delle meraviglie del padre di Max. Irina si era ristabilita completamente e sembrava non ricordare nulla dell'incidente subito sulle scale della casa della spiaggia. Lei e sua madre facevano lunghe passeggiate sulla spiaggia cercando conchiglie e piccoli fossili, e con questi aveva cominciato una collezione di cui in autunno le sue nuove compagne di classe sarebbero state sicuramente invidiose. Max, fedele al compito assegnatogli dal vecchio guardiano, ogni sera andava in bicicletta fino alla casa del faro ed accendeva il fascio di luce che avrebbe guidato le barche fino all'alba successiva. Max saliva alla postazione di guardia e da lì contemplava l'oceano, proprio come Victor Kray aveva fatto per quasi tutta la vita. Durante una di queste sere al faro, Max si accorse che sua sorella Alicia aveva l'abitudine di tornare sulla spiaggia dove una volta sorgeva la capanna di Roland. Veniva da sola e si sedeva sulla riva, abbandonando lo sguardo al mare e lasciando passare le ore in silenzio. Ormai non parlavano più tra di loro come avevano fatto nei giorni che avevano condiviso con Roland, e Alicia non alludeva mai a quanto era successo quella notte nella baia. Max aveva rispettato il suo silenzio fin dal primo giorno. Spesso, mentre osservava sua sorella laggiù sulla spiaggia, egli ricordava le parole di Roland quando gli aveva confessato il timore che quella sa-
rebbe stata la sua ultima estate in paese, se lo avessero reclutato. Adesso, anche se i fratelli quasi non scambiavano una parola in proposito, Max sapeva che il ricordo di Roland e di quell'estate in cui avevano scoperto insieme la magia sarebbe rimasto in loro e li avrebbe uniti per sempre. FINE