D. W. BUFFA IL GIUDIZIO (The Judgement, 2001) Per mio padre Harold David Buffa che raccontava sempre storie che desidera...
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D. W. BUFFA IL GIUDIZIO (The Judgement, 2001) Per mio padre Harold David Buffa che raccontava sempre storie che desideravo non finissero mai. 1 Ho passato anni a difendere i peggiori individui al mondo, ma l'uomo più malvagio che abbia mai conosciuto non è mai stato accusato di alcun crimine. Non c'era nulla, nemmeno la curiosità, che avrebbe potuto convincermi a partecipare al suo funerale se fosse morto nel sonno o per un incidente, ma Calvin Jeffries era stato assassinato e io, da professionista del sistema penale, sentivo l'obbligo di assistere alla cerimonia funebre dell'unico giudice di un tribunale di prima istanza che fosse rimasto vittima di un omicidio. Circondato da sconosciuti, mi sedetti nella chiesa affollata e ascoltai l'elogio funebre di un individuo che non riconoscevo. Vennero pronunciate parole sulla giustizia e sul servizio pubblico e sull'impegno e sull'onore e sulla buona volontà, parole sulla famiglia e sulle amicizie e su quanto l'onorevole giudice Jeffries sarebbe stato rimpianto, parole che facevano sentire tutti meglio, poiché la menzogna è molto più comoda della verità. Alla fine, quando non restava più nulla da dire, la vedova di Calvin Jeffries posò una rosa sul feretro avvolto nella bandiera, attese che i portatori fossero pronti, si voltò e s'incamminò in testa alla processione lungo la navata centrale. Nemmeno la luce che si riversava dalle finestre di vetro colorato riusciva a penetrare lo spesso velo nero che le copriva il volto, e quando mi passò accanto mi chiesi quali emozioni vi si celassero dietro. Fuori, sotto un cielo di un azzurro inclemente, i convenuti rimasero a guardare mentre la bara veniva caricata sul retro di un carro funebre lussuoso e scintillante. La vedova del giudice venne aiutata a salire sulla prima di una mezza dozzina di limousine e qualche istante dopo, preceduto da due poliziotti in motocicletta, il corteo cominciò il lungo, lento viaggio fino al cimitero. Il vento pungente di marzo mi tormentava le guance e mi faceva lacri-
mare gli occhi. Mi chiusi il cappotto sulla gola e mi feci largo giù dagli scalini della chiesa. Avevo fretta di andarmene. Ora che era tutto finito, volevo dimenticare il compianto Calvin Jeffries. Quando svoltai sul marciapiede, per poco non andai a sbattere contro Harper Bryce. «Qualche commento, signor Antonelli?». Bryce, che seguiva la cronaca giudiziaria per il suo giornale da prima ancora che io cominciassi a esercitare, mi si parava davanti. La cravatta gli sventolava fuori dalla giacca abbottonata e le raffiche sempre più intense gli facevano strizzare gli occhi. Mi limitai a scuotere la testa, e arrancammo insieme sul marciapiede finché Bryce mi chiese se avessi voglia di bere qualcosa. «È un po' presto, non trovi?». Nell'isolato successivo, in uno dei vecchi edifici con la data di costruzione incisa sulla pietra sopra l'ingresso, un bar ristorante stava aprendo i battenti. Ordinammo da bere al banco deserto e portammo i nostri bicchieri a un tavolo di legno accanto a un muro di mattoni polverosi ricoperto dagli autografi di personaggi un tempo famosi e importanti ma ormai dimenticati. Emettendo un respiro lento e sonoro, Harper accostò la sedia di quel poco che il suo ampio ventre gli permetteva, incurvò le spalle in avanti e posò le braccia sul bordo del tavolo. «Al giudice Jeffries», disse levando il bicchiere al cielo. Quando ebbe finito di bere, inclinò il capo nell'attesa che gli spiegassi perché non mi ero unito al suo brindisi. «A molti piaceva», mi rammentò. Annuii, bevvi un sorso e feci una smorfia quando il liquore mi bruciò in gola. «Qualsiasi cosa pensassi di lui, glielo devi concedere», insistette Harper. Le parole gli uscivano di bocca un poco alla volta, punteggiate dal respiro sibilante del petto che pompava come un mantice. «Ha scritto gran parte delle leggi, gran parte delle norme procedurali di questo stato. Aveva una brillante mente legale, questo lo devi ammettere». Il liquore aveva raggiunto il mio stomaco, e mi fece ricordare che non avevo mangiato nulla. «Glielo devi concedere», stava ancora insistendo Harper quando mi alzai dal tavolo. Giunto al banco, mi feci dare una tazza di caffè al posto del liquore e ordinai uova e pancetta. «Faccio colazione», lo informai tornando a sedere. «Vuoi qualcosa?». Cominciò a scuotere il capo, poi cambiò idea. «Lo stesso per me», gridò
nel locale vuoto. «Non pensi che avesse una mente legale di prim'ordine?», domandò quindi, incuriosito dalla mia riluttanza a mostrarmi d'accordo. «Vuoi che ti racconti come l'ho conosciuto?», chiesi, sorpreso dalla chiarezza con cui ricordavo un episodio a cui non pensavo da anni. «In realtà non è esatto», mi corressi. «Non lo conobbi nel vero senso della parola. Comparvi in tribunale di fronte a lui, per un processo che non era nemmeno un vero processo. Era un procedimento concordato». Era successo anni prima, all'inizio della mia carriera, ma era come se fossi appena uscito da quell'aula. Risi della rabbia che ancora mi suscitava, e Harper mi scoccò un'occhiata interrogativa. «Sai cos'è un procedimento concordato? È un patteggiamento che consente all'imputato di ottenere una sentenza più favorevole. Ed è quello che stavamo facendo. Io esercitavo da non più di sei mesi, e avevo questo ragazzo accusato di furto d'auto. Cercai di far annullare la sua confessione, ma persi. Il viceprocuratore era uno di quelli bravi; credeva che fosse un rischio, e che dovesse essere una corte d'appello a decidere». Harper non scordava mai di essere un giornalista. «Fu Jeffries a respingere la tua mozione?». «No, era stato un altro giudice. Jeffries non era il tipo la cui decisione poteva essere rovesciata in appello. Quanto meno, non in quel modo». Sollevai la tazza con entrambe le mani e sorseggiai il caffè scuro, ricordando l'aspetto di Jeffries mentre aspettava che cominciassi, intrecciando le pallide dita davanti a sé. Non aveva ancora raggiunto la quarantina, ma i capelli ondulati che gli ricadevano sulla fronte erano già color argento. «McDonald, il viceprocuratore, illustrò i fatti. L'imputato, di cui ho scordato il nome, era in piedi accanto a me con i polsi ammanettati. Era penetrato in casa della sua ex, le aveva preso le chiavi dell'auto e gliel'aveva rubata. Era un caso semplice, chiaro, banale. McDonald terminò e Jeffries si rivolse a me. "L'imputato si dichiara d'accordo con questa versione dei fatti?", domandò. Il ragazzo annuì e io dissi di sì perché venisse messo a verbale. Era il primo procedimento concordato che affrontavo, ma McDonald ne aveva fatti a decine. Era pura routine. «Jeffries drizzò la schiena e guardò McDonald negli occhi. "Molto bene. Sulla base di questi fatti, dichiaro l'imputato non colpevole". Non colpevole! Impossibile. Eppure era così. Jeffries continuò a fissare McDonald, sfidandolo ad aprire bocca». Alzai gli occhi fino a incontrare quelli di Harper. «Per quanto ne so, so-
no l'unico avvocato difensore ad aver mai vinto un procedimento concordato, e l'ho vinto soltanto perché Jeffries era profondamente corrotto». «Il tuo cliente l'aveva pagato?». «Il mio cliente non c'entrava niente. Era peggio di una semplice bustarella: era una questione di potere. Quella stessa settimana, McDonald si era presentato in aula in ritardo. Jeffries, che da parte sua non era mai puntuale, era andato su tutte le furie. Gli aveva detto che nessuno arrivava in ritardo nella sua aula, e faceva sul serio». Il barista ci servì la colazione, e Harper cominciò a tagliare le uova con forchetta e coltello. «Tutti dicevano che fosse molto severo», osservò portandosi la forchetta alla bocca. «Lo dicevano anche del capitano Bligh», replicai cominciando a mangiare. Le uova erano poco cotte e la pancetta carbonizzata. Ne presi un paio di bocconi, poi scostai il piatto e mi dimenticai del cibo. La mia mente era affollata dalle immagini di cose accadute, e le più lontane nel tempo scacciavano le altre come se la chiarezza sopravvenisse soltanto dopo che un ricordo era rimasto sepolto per anni. «Jeffries lo rividi circa un mese dopo. Avevo un caso che sarebbe andato in giudizio. A Jeffries piaceva incontrare i legali nel suo ufficio. Quando arrivammo al mio caso, si rilassò sulla poltrona con un gran sorriso sul volto e disse: "Informi il suo cliente che se si dichiarerà colpevole otterrà la libertà vigilata, ma se andrà al processo finirà in galera"». Guardai Harper stringendo la tazza calda fra le mani. «Ero giovane, inesperto, più interessato a dire qualcosa di spiritoso che a fare qualcosa di saggio. Non riuscii a resistere. "Anche se verrà prosciolto?", chiesi. Dio, avresti dovuto essere lì. La stanza era piena di avvocati. Ridevano tutti, tutti tranne Jeffries. Lui mi guardava con un'espressione glaciale e sospettosa. Poi, senza aggiungere altro, passò al caso successivo». Harper raccolse il tuorlo giallo con un pezzo di pane tostato e se lo cacciò in bocca. Si pulì le labbra con un tovagliolo di carta, quindi domandò: «Che cosa fece per pareggiare i conti?». «Pareggiare i conti?», ripetei con una risata amara. «A Jeffries non bastava mai pareggiarli, nemmeno lontanamente». La porta del locale si aprì e un refolo d'aria fredda mi colpì la nuca. Un uomo anziano con una giacca di tweed e una donna china su un bastone si sedettero a un tavolo sul lato opposto della sala. «Qualche settimana dopo c'era un mio caso nell'elenco delle cause penali a ruolo, e Jeffries presiedeva. Il mio cliente era in arresto, e tutto quello
che dovevamo fare era presentare una dichiarazione di non colpevolezza. Una faccenda di non più di un paio di minuti. Le udienze preliminari per gli imputati in stato d'arresto erano fissate per le otto e mezza. Mi presento alle otto e venticinque. Jeffries arriva con dieci minuti di ritardo. Succede così spesso che non si prende il disturbo di chiedere scusa. Il procedimento comincia quando arriva lui, gli avvocati possono aspettare. «Di solito è il viceprocuratore ad annunciare le cause a ruolo, ma non nell'aula di Jeffries e non quel giorno. Jeffries le annunciò lui stesso, in ordine alfabetico, tutte tranne quella del mio cliente. Quando arrivò alla sua, passò al nome successivo sull'elenco e proseguì fino alla fine. Stavo aspettando da tre ore e mezza, mancavano cinque minuti alle dodici e il mio cliente era l'unico rimasto. A quel punto, Jeffries si alza dal seggio e se ne va a pranzo». Harper sembrava divertito. Se fosse accaduto a qualcun altro, o se fosse stata l'unica volta che era successo a me, avrei potuto trovarci anch'io un che di umoristico. «E così ti ha fatto aspettare fino a dopo pranzo». «È rientrato nel pomeriggio, e senza degnarmi di uno sguardo ha annunciato che poiché il calendario delle cause civili era insolitamente folto, le cause penali rimaste sarebbero state prese in esame il giorno dopo». «Il potere giudiziario», osservò Harper con un sorriso ironico. Il suo sguardo divenne distante, come se cominciasse a rammentare altre occasioni in cui era stato testimone dei torti inflitti dai giudici agli avvocati che non incontravano il loro favore. «È passato molto tempo», disse tornando in sé. «Perché ti infastidisce ancora così tanto?». «Probabilmente non lo farebbe, se le cose fossero finite lì», spiegai. «Ma quello fu soltanto l'inizio». Un'altra raffica d'aria fredda mi colpì la nuca. Un gracile uomo di mezza età teneva la porta aperta mentre un uomo più alto e dalle spalle larghe, con capelli bianchi come la neve e freddi occhi azzurri, gli passava davanti. Non appena ci videro, si diressero verso il nostro tavolo. «Ciao, Joseph», disse sommessamente l'uomo anziano mentre mi alzavo. Asa Bartram aveva quasi settant'anni, ma esercitava ancora la professione legale. Arrivava tardi la mattina e se ne andava presto il pomeriggio, ma non saltava mai un giorno. Gli altri legali dello studio che lui aveva fondato prima ancora che molti di loro venissero al mondo parcheggiavano nel garage sotterraneo, ma Asa, che era il proprietario dell'intero edificio, posteggiava la sua Cadillac in strada, sotto un cartello di sosta vietata che gli
garantiva sempre il posto libero. «Tu conosci Jonah», mi disse voltandosi per stringere la mano a Harper. Piccolo, con due occhi scuri e un tic nervoso che gli socchiudeva perennemente l'occhio sinistro, Jonah Micronitis non mi prestò la minima attenzione. Scostò una sedia per l'uomo più anziano e attese che si accomodasse. «Come va?», disse finalmente con un cenno del capo affrettato, portandosi sul lato opposto del tavolo e prendendo posto sulla quarta sedia. Harper e io ci scambiammo una rapida occhiata mentre Micronitis si sporgeva sul tavolo e chiedeva ad Asa che cosa desiderava. Sfregandosi le grosse mani ossute, il vecchio rifletté per un istante. «Solo un caffè». Micronitis fece un cenno del capo, poi alzò gli occhi e li fece dardeggiare verso il barista. «Caffè», ordinò in tono perentorio. «Eri al funerale?», domandò Asa. «Sì». Era un uomo grande e grosso, con una fronte alta e zigomi sporgenti, e malgrado l'età aveva un portamento rigido e sveglio. Mi guardò aggrottando le sopracciglia bianche e cespugliose, gli occhi accesi da un segreto divertimento. «È sempre bello sopravvivere ai propri nemici», disse alla fine. Troppo impaziente per attendere, Micronitis andò al banco a prendere il caffè. Ne riportò due tazze e ne posò una davanti ad Asa. Cercai di essere diplomatico. «Non vedevo Jeffries come un nemico. Non siamo mai andati d'accordo, tutto qui». Non c'era nulla di ostile nel modo in cui Asa mi guardò. I suoi occhi rimasero amichevoli, anche se leggermente distanti, ma la mia risposta l'aveva chiaramente divertito. «Jonah», disse senza distogliere gli occhi, «come descriveresti ciò che il giudice Jeffries provava per Antonelli?». Tornando a sedersi, Micronitis rivolse una rapida occhiata prima a me e quindi a Bartram. Un sorrisetto compiaciuto gli percorse la bocca piccola e sottile. «Puro e semplice odio». La sua voce piatta e leggermente nasale tradiva la stessa emozione che avrebbe dimostrato se gli avessero chiesto l'ora. La sua risposta parve accrescere il divertimento del vecchio. «È più difficile non parlar male dei morti quando i morti parlavano così male dei vivi, non trovate?». Scrollai le spalle e cercai di sviare la conversazione. «Come ho detto, per qualche ragione non siamo mai andati d'accordo. Ma tu eri un suo buon amico, giusto?».
Asa mi tolse gli occhi di dosso e mescolò il caffè nella tazza davanti a sé. Posò il cucchiaio sul piattino, si portò la tazza alle labbra e per la forza dell'abitudine vi soffiò sopra prima di bere. Quando deglutì, la pelle molliccia e chiazzata della sua gola ebbe un tremito. «Eravamo compagni di studio alla facoltà di legge. L'anno accademico...». La sua voce si affievolì, e al primo segno di incertezza Micronitis, sempre pronto a venirgli in aiuto, gli rammentò la data. «Calvin non avrebbe voluto studiare legge», proseguì Bartram guardando prima Harper e poi me, sicuro che avremmo trovato le sue parole non solo sorprendenti, ma anche interessanti. «Calvin voleva fare il dottore. Fece domanda per la facoltà di medicina, e loro ne furono più che felici. E ne avevano ragione. Calvin era una mente brillante. Ma quando spiegò che avrebbe dovuto lavorare a part-time mentre studiava, perché doveva aiutare a mantenere sua madre, non lo accettarono. Gli dissero che la specializzazione in medicina era troppo difficile, che nessuno poteva farcela con un lavoro, anche parttime...». «Non ti conveniva difendere un medico in un caso di negligenza professionale nel quale lui era il giudice», intervenne Micronitis. «Odiava i dottori». Bartram, concentrato su quello che voleva dire, non aveva smesso di parlare. «Cominciammo insieme, aprimmo un nostro studio. Rischiammo di morire di fame. Non che Calvin se ne accorgesse. Non gli importava niente del lato economico. Quello l'ha sempre lasciato a me. Era troppo occupato a studiare i casi, ad ascoltare gli altri avvocati che presentavano le loro argomentazioni. Si metteva in macchina e andava giù a Salem soltanto per poter assistere ai dibattimenti presso la corte suprema dell'Oregon». Stringendo il manico della tazza fra il pollice e la nocca nodosa dell'indice, se la portò alle labbra e bevve un sorso di caffè fissando davanti a sé. «Non sarebbe mai dovuto diventare avvocato. Non ne aveva il temperamento. Devi trattare la gente con rispetto. Devi quanto meno fingere che valga la pena di ascoltare quello che ha da dire il tuo cliente. Devi rimetterti di buona grazia a quello che il giudice decide di dire. E Calvin non ci riusciva». Non appena lo disse, si corresse. «No, non è vero. Ci riusciva, e lo faceva, quanto meno con i giudici; ma lo odiava. Lo trovava avvilente». Esitò con espressione vacua, come se avesse perso il filo dei propri pensieri. «Avvilente», gli rammentò Micronitis.
Il sottile velo di vaghezza si dissolse, e gli occhi di Bartram si rimisero a fuoco. «Calvin Jeffries», disse nel tono di chi ricorda un amico perduto da tempo, «era baciato, o forse dovrei dire afflitto, dalla notevolissima capacità di assorbire simultaneamente entrambi i lati di una questione». Una scintilla di malizia comparve nei suoi occhi pallidi. «Suppongo che avrei dovuto dire "distinguere le pecche" di entrambe le parti in causa. Aveva la mente più analitica che abbia mai conosciuto». Esitò per un istante, e subito Micronitis aprì la bocca. Ma il vecchio lo fermò con un cenno di diniego più simile a un brivido sfuggente. «C'era qualcosa di distruttivo in quel suo modo di smantellare qualsiasi argomentazione. Divenne un'ossessione. Era così concentrato nel dimostrare a tutti quanti che non erano all'altezza, che a volte perdeva completamente di vista la differenza fra meglio e peggio. Nella sua mente irrequieta, ogni cosa era ridotta all'uguaglianza assoluta dell'imperfezione». Quel momento di lucidità parve esaurire le sue facoltà critiche. La sua testa si abbassò sul petto e, armeggiando con la tazza, la sua mano tremò per un istante. «Be'», soggiunse guardandoci a turno, «per essere uno che non era interessato al denaro, se l'è cavata piuttosto bene». I suoi occhi si fermarono su Micronitis. «Grazie a noi stava decisamente bene, non è vero?». Si potevano quasi scorgere gli elettroni che saettavano nell'agile cervello di Jonah Micronitis mentre questi calcolava, senza dubbio fino all'ultimo centesimo, il patrimonio dell'amico defunto di Asa Bartram. «Un uomo alquanto ricco», disse. Capì il significato dell'occhiata che ci scambiammo io e Harper. «Cominciò molti anni fa», spiegò. «Prima che arrivassi allo studio. Asa ha sempre avuto naso per gli investimenti. Aveva proposto al giudice alcuni acquisti, soprattutto sul mercato immobiliare, che ai tempi non erano troppo dispendiosi». Il vecchio intervenne con una risata amara: «Ma chiunque l'ha ucciso non ha ottenuto un bel niente. Con Calvin si poteva sempre contare su una cosa: il denaro che aveva in tasca non era mai sufficiente a pagare il conto». «L'assassino voleva probabilmente la macchina», suggerì Harper. «È lì che è stato pugnalato, accanto alla sua auto nel parcheggio del tribunale». Asa abbassò gli occhi con una smorfia. «Terribile, terribile», mormorò. «L'hanno lasciato lì a morire, ed è riuscito chissà come a trascinarsi fino al suo ufficio. Deve aver strisciato per gran parte del percorso». Micronitis consultò il suo orologio. «Ci conviene andare», disse.
Asa non diede alcun segno di averlo udito. Sollevò invece il capo e mi rivolse un gran sorriso. «Jonah ha ragione, Calvin ti odiava sul serio». Gli posai la mano sull'avambraccio e lo guardai negli occhi invecchiati. «E tu, Asa? Mi odi anche tu?», domandai in tono gentile. In un primo momento trasalì, ma poi si rese conto che non stavo parlando di me stesso. «No, certo che no», rispose dandomi una serie di colpetti sulla mano. «Calvin odiava un po' tutti». Sembrò colto da un brivido e atteggiò la bocca a una smorfia. Abbassò lo sguardo sul tavolo e scosse il capo. Poi si fermò, posò entrambe le mani sui braccioli della sedia e si drizzò. «Era l'uomo più brillante e il più malvagio figlio di puttana che abbia mai conosciuto. L'ho arricchito, e lui mi ha sempre trattato come se concedendomi di farlo mi stesse facendo un favore». «Ma allora perché lo faceva?», chiese Harper. Asa non capiva. «Perché facevo cosa?». Harper non ebbe la possibilità di rispondere. Prima che la seconda parola uscisse dalle labbra del vecchio, Micronitis aveva cominciato a spiegare. «Perché l'hai arricchito, se ti trattava in quel modo?». Asa sbuffò e scrollò il capo. «Lo sapessi. L'ho fatto e basta». Fece una pausa, e il suo sguardo opaco venne illuminato da una nuova idea. «Era come un matrimonio. Con il passare del tempo ti adagi in una sorta di routine, e alla fine non riesci a ricordare il perché. Quando cominciammo a esercitare insieme, io mi occupavo del lato commerciale. Divenne uno dei miei compiti, e continuai a svolgerlo anche dopo che era diventato giudice». Posò i gomiti sul tavolo, mise una mano sopra l'altra e vi appoggiò il mento. I suoi occhi erano ridotti a due fessure, e un sorrisetto astuto danzava agli angoli dell'ampia bocca. «Quando facevi qualcosa per Calvin Jeffries, smetteva di essere un favore e diventava un'aspettativa. Non mi ha mai ringraziato, nemmeno una volta in tutti questi anni». Incrociò le braccia sul petto e tornò ad adagiarsi contro lo schienale. «Credo che non gli fossi nemmeno simpatico», soggiunse, quindi strinse le labbra riflettendo sul significato di ciò che aveva ottenuto in cambio dei suoi sforzi. Si rischiarò in volto e si girò verso di me. «Io non gli ero simpatico, ma per te provava un vero odio». Micronitis si tratteneva a stento. «Già, un vero odio», ripeté, la sua voce un allegro eco. Distolsi lo sguardo da Asa e mi voltai verso Micronitis. «Tu sai perché mi odiava?», domandai irritato.
Spostò gli occhi da me ad Asa, poi li posò di nuovo su di me. Si agitò sulla sedia. L'angolo della bocca ebbe una leggera contrazione. «No», ammise infine. «So solo quello che ha fatto». Harper scostò il piatto ormai vuoto della sua colazione. «Tu lo sai, il perché?», domandò guardandomi negli occhi. «Fu per via del caso Larkin», spiegò Asa. Harper si voltò incuriosito. «Il caso Larkin ha reso celebre il nostro amico Joseph», soggiunse Asa indicandomi con un cenno del capo. «Ogni avvocato famoso è diventato tale grazie a un singolo caso. E il caso Larkin è stato il tuo, vero?». Gli occhi di Harper ebbero un lampo. «Ora ricordo. È successo anni fa. Non me ne potei occupare, mi era già stato assegnato un processo per omicidio che si teneva nello stesso periodo». Gli venne in mente qualcosa. «Non fu il caso in cui il giudice ti mandò al fresco per oltraggio alla corte?». All'improvviso capì cos'era accaduto. «Ah», esclamò in tono improvvisamente pacato. «Jeffries». Per un istante, nessuno aprì bocca. Poi, rivolto ad Asa, Harper domandò: «Cosa c'era in quel caso che lo portò a odiare Antonelli?». Aggrottando la fronte, Asa cercò di ricordare. Alla fine scosse la testa. «A dire il vero non lo so. Non ho mai prestato grande attenzione a ciò che succedeva in tribunale. Tutto quello che so è che fu per via del caso Larkin». Rivolse un sorriso di scuse a Harper e mi guardò. «Dicci cosa accadde, Joe. Il processo Larkin». Micronitis fece per protestare. Picchiettò con l'unghia sul vetro dell'orologio, cercando di rammentare ad Asa che doveva andare da qualche parte. «Coraggio, Joe», insistette Asa. «Sono sempre stato curioso». Harper approvò la proposta. «Anch'io», disse. Scoccò un'occhiata di traverso a Micronitis, quindi aggiunse: «E fa' con calma. Non tralasciare nulla». 2 Il caso Larkin. Non appena me lo fecero tornare in mente ricordai ogni cosa; il modo in cui le donne che lavoravano in tribunale facevano di tutto per farmi sapere che cosa terribile aveva fatto l'imputata; la rigida certezza che era colpevole; il fastidio di sapere che qualunque fosse stata la sentenza, sarebbe stata meno severa di ciò che meritava. Forse in parte era dovuto al fatto che il suo aspetto era molto simile al loro, quello di una donna normale e poco appariscente che si truccava di rado e non esitava a portare
lo stesso vestito due giorni di seguito. Ma in gran parte, naturalmente, era dovuto al fatto che suo marito aveva già confessato di aver fatto con la figlia quello che lei era accusata di aver fatto con il figlio. Era quello, forse, l'aspetto più intrigante di tutti, e ancora oggi non posso fingere di capire come mai le reazioni contro di lei furono tanto più feroci di quelle contro il marito. Quell'uomo aveva avuto rapporti sessuali con sua figlia per tre anni e mezzo. E non era una figlia adottiva, ma il sangue del suo sangue. È difficile immaginare una colpa peggiore, eppure dal momento in cui sua moglie era stata accusata di avere rapporti sessuali con il figlio minore, lei era diventata un mostro di depravazione e lui... lui non era diventato un bel niente. Faceva parte dello sfondo, era una comparsa, uno che aveva compiuto degli atti indicibili, ma non diversi dalle cose imperdonabili commesse da migliaia di altri uomini. Il biasimo per ciò che aveva fatto a sua figlia era stato come diluito dalla frequenza con cui quegli atti erano già stati compiuti prima di lui. Edward Larkin era un predatore sessuale di cui ci si sarebbe occupati nel normale esercizio del diritto penale; ma ciò che aveva fatto Janet Larkin andava al di là delle esperienze di chiunque. Nessuna donna aveva rapporti sessuali con il figlio; era un atto innaturale che oltrepassava i confini non soltanto deh le convenzioni, ma anche degli istinti. Era l'estremo tabù, e per questa ragione doveva essere vero. Non era il genere di cosa che qualcuno, specialmente un bambino, avrebbe inventato. «Ottenni il caso per la semplice ragione che era il mio turno. Stavo ancora lavorando come difensore d'ufficio, e quando Janet Larkin venne chiamata per l'udienza preliminare e venne annunciato che non aveva i mezzi per pagare un suo legale, il mio nome era il primo della lista. È strano come spesso le cose più importanti che ci accadono siano dettate dal caso, e come spesso al momento non ce ne rendiamo conto. Di sicuro io non lo capii. Quando mi recai nell'ufficio del procuratore distrettuale per ritirare la cartella del caso, l'impiegata, una donna alta sui quarantotto anni con lunghi orecchini colorati e penzolanti mi suggerì di inventare una scusa per tirarmene fuori. "Ha saputo del libro?", mi chiese, scuotendo la testa disgustata. "Parla di ragazzi nello stesso letto dei genitori. È una depravazione", soggiunse dandomi le spalle. Ero giunto alla porta dell'ufficio quando Spencer Goldman mi afferrò per un braccio. Piccolo, con irsuti baffi castani e capelli ispidi, parlava come si muoveva, a scatti bruschi ed esplosivi.
"In questo caso non ci saranno patteggiamenti", annunciò nascondendo a fatica la sua ostilità. Nei suoi occhi c'era un'espressione trionfale, come se fosse certo di avere appena inflitto una ferita mortale. Ci eravamo già affrontati in qualche caso, e sapeva che io non temevo di andare al processo. Lo facevo ogni volta che potevo. Era la sola ragione per cui ero diventato avvocato: affrontare i casi in aula. Goldman non stava cercando di mettermi paura; stava cercando di farmi capire quanto era sicuro della colpevolezza di Janet Larkin e del fatto che sarebbe stato in grado di provarlo. E c'era qualcos'altro, un senso di indignazione morale per ciò che era successo. Lo provavano anche altri, naturalmente, ma credo che lui lo sentisse più di tutti». «Era il suo caso», suggerì Asa a mo' di spiegazione. «Non era soltanto questo. Era una faccenda personale. Non fra lui e me», mi affrettai ad aggiungere. «Fra lui e il ragazzino. Goldman gli credeva, credeva a ogni parola del suo racconto. Non aveva alcun dubbio, e in effetti era la storia più straordinaria che si fosse mai udita». Feci una pausa e abbassai gli occhi sul tavolo, rammentando lo sguardo di sfida con cui Goldman mi aveva detto che sapeva che il ragazzino stava dicendo la verità. «Suppongo che crediamo a ciò che vogliamo credere, o a quello che pensiamo di dover credere. Qualunque fosse la ragione, Goldman gli credeva, e giunse a pensare che l'unico modo per far sì che il ragazzino superasse le cose terribili che gli avevano fatto era fargli capire che gli credevano tutti. La madre doveva ammettere le sue colpe, altrimenti ci sarebbe stato un processo per rivelarle al mondo intero. Goldman voleva punire la madre, certamente; ma più che altro voleva salvare il figlio». Scossi la testa. «Il figlio! Era il più furbo fra tutti coloro che furono coinvolti in quel caso. Non c'era dubbio, era proprio figlio di suo padre. Forse la cosa più importante da capire è che Edward Larkin, il padre, non era mai stato scoperto. Abusava di sua figlia da anni e nessuno lo sapeva. La ragazza non l'aveva mai detto ad anima viva. Una volta, a dire la verità, aveva cercato di rivelarlo a qualcuno, a una sua compagna di classe, ma aveva fatto finta di parlare di un'altra persona. Non era riuscita ad ammettere la verità. Era un segreto, e sarebbe potuto restare un segreto se suo padre non avesse deciso lui stesso di parlarne. Cercate di immaginare, se potete, ciò che accadde a Edward Larkin. Per anni aveva avuto rapporti sessuali con sua figlia. Non posso dirvi che provava senso di colpa, rimorso o dispiacere per ciò che faceva. Non posso nemmeno dirvi che lo trovava sbagliato. Ovviamente doveva sapere che
gli altri lo giudicavano sbagliato; doveva sapere che era il genere di cose per cui la gente finiva nei guai seri. Quello che è certo è che non ne aveva mai fatto parola con nessuno. Finché un giorno, o almeno così disse, vide una trasmissione televisiva, un dibattito sull'incesto, e decise che doveva parlarne con qualcuno. Non lo so, potrebbe essere vero. È più facile ammettere di aver fatto qualcosa quando è un qualcosa che fanno anche altri. Ed è ancora più facile se è un qualcosa che può essere visto come una malattia, di cui non sei responsabile e che può essere curato. Larkin cominciò a vedere uno psicologo, e lo psicologo lo convinse di rivolgersi alla polizia. Larkin confessò ogni cosa. Venne incriminato, ma essendosi fatto avanti di sua volontà ed essendo già in cura si dichiarò colpevole di abuso sessuale e venne messo in libertà vigilata. Ed essendo il padre in cura, anche il resto della famiglia dovette sottoporsi alla terapia. Era ovvio che la ragazza ne aveva bisogno, e lo stesso la madre, che aveva appena scoperto quello che suo marito faceva con sua figlia. Si pensava che il ragazzino avesse bisogno di assistenza per affrontare quello che era accaduto al resto della sua famiglia. Gerald Larkin aveva undici anni, e d'un tratto il suo intero mondo era stato distrutto. Prima che chiunque altro potesse spiegargli l'accaduto fu suo padre a metterlo al corrente, anche se nessuno sapeva di preciso che cosa gli avesse detto. Ma sarebbe stato naturale, da parte sua, suggerire che ciò che aveva fatto non era poi così grave o riprovevole, per farlo soffrire il meno possibile e fargli capire che tutto sarebbe tornato alla normalità. Due mesi dopo l'inizio della sua terapia, il ragazzo rivelò che mentre suo padre abusava di sua sorella, sua madre aveva abusato di lui. Non spiattellò tutto in un colpo solo. In un primo tempo ricordò soltanto due mani che lo toccavano. Poi, gradualmente, sollecitato dalle domande dello psicologo, riuscì a rammentare sempre di più fino ad averne un ricordo chiaro e completo. Sua madre, insisteva, l'aveva ripetutamente costretto ad avere rapporti sessuali con lei. Gli credettero tutti: lo psicologo, la polizia, l'ufficio del procuratore. Il suo racconto offriva alcune spiegazioni. Com'era possibile che il padre facesse certe cose senza che la madre se ne accorgesse? La risposta, ovviamente, era che la madre lo sapeva, ma non ci badava. Per questo tutti la consideravano un mostro. E naturalmente sembrava spiegare il significato di quel libro. Il quale libro non faceva altro che sostenere che i genitori facevano meglio a lasciare che i figli andassero a letto con loro quando erano
spaventati o insicuri piuttosto che costringerli a dormire soli. Non so se sia un buon consiglio oppure no, ma non c'era niente di sinistro in quello che il libro sosteneva. Questo, tuttavia, non potevi dirlo a coloro che ne avevano semplicemente sentito parlare. Per quanto li riguardava, era un manuale di depravazione scritto dal diavolo in persona, e non un volume che avresti potuto trovare in qualsiasi libreria. Tutti sapevano che quella donna era colpevole, e il suo continuo insistere sulla propria innocenza sembrava soltanto provare il suo disprezzo per il decoro. Non soddisfatta di aver rovinato la vita a suo figlio costringendolo ripetutamente all'incesto, ora era decisa a trasformarlo nello zimbello di tutti trascinandolo nell'affronto di un processo. Janet Larkin ispirava qualcosa di molto vicino all'odio universale, ed essendo io il suo avvocato gran parte di quell'odio si riversava su di me. Quasi ogni giorno nel mio ufficio arrivava una nuova infornata di lettere che esprimevano, con un linguaggio spruzzato di oscenità, l'indignazione dei loro anonimi autori. Perfino i miei conoscenti cominciavano a girarsi dall'altra parte quando m'incrociavano nei corridoi del tribunale. Decisi che nell'interesse della mia cliente dovevo chiedere che il processo venisse spostato il più lontano possibile da Portland, e così presentai una richiesta di cambio di sede. Fu il mio primo grave errore. A quei tempi, ovviamente, ero molto più giovane, e ancora agli inizi. Eppure mi riesce difficile credere di essere stato tanto ingenuo. Jeffries era già il presidente della corte circoscrizionale, e poteva assegnare il caso al giudice che voleva. Lo assegnò a se stesso. Voleva quel processo, e non aveva alcuna intenzione di mollare. La mia mozione non aveva alcuna possibilità di passare, ma il prezzo che pagai per averla presentata non aveva niente a che fare con ciò. Qualcuno ha detto che è il caso a governare l'universo. Non so se sia vero, ma so che ci sono occasioni in cui può cambiarti la vita, e questa, come il fatto che il caso fosse stato assegnato a me, era una di quelle occasioni. Feci una prima stesura della mozione e poi quella definitiva. Normalmente l'avrei spedita alla corte per raccomandata o semplicemente lasciata nell'ufficio del cancelliere, ma avevo fretta, e volevo un'udienza il più presto possibile. Non volevo attendere che percorresse tutti i soliti canali burocratici. E così la portai direttamente all'ufficio di Jeffries. Non c'era nessuno. L'ufficio esterno, dove si trovava la scrivania della sua assistente, era deserto. Mancavano pochi minuti all'una, e immaginando che l'assistente stesse rientrando dal pranzo mi sedetti e attesi. Nemme-
no dieci secondi dopo, la porta dell'ufficio di Jeffries si aprì e l'assistente emerse dal buio. Scalza e scarmigliata, si stava raccogliendo i capelli sulla nuca quando mi vide con la coda dell'occhio. Si arrestò, paonazza per l'imbarazzo. Io mi alzai e andai direttamente alla sua scrivania, fingendo di non aver notato alcunché di strano. Posai la mozione davanti a lei e ne diedi una breve spiegazione formale. Lei scoccò un'occhiata al documento e senza aprire bocca tornò ad alzare uno sguardo interrogativo su di me. Non mi stava chiedendo se avessi capito che cosa stava facendo - no, di quello era certa - ma se ne avrei parlato. "Gradirei avere un'udienza non appena il giudice trova un momento libero nel suo calendario", dissi continuando a fingere che nella mia mente vi fosse soltanto la mozione che ero andato a consegnare. "C'è qualcuno lì fuori?", domandò Jeffries mentre mi voltavo e uscivo dall'ufficio. Ci sono poche cose al mondo che ci fanno sentire più vulnerabili del sospetto che qualcuno sappia di noi qualcosa che non vogliamo che sappia. Era una sensazione che Jeffries non gradiva, e alla prima occasione mi fece capire che era in suo potere procurarmi quella stessa sensazione, ma moltiplicata per dieci. Accadde il primo giorno del processo. La richiesta di cambio di sede venne negata. Non vi fu alcuna udienza, alcuna argomentazione orale, niente: soltanto un'ordinanza di due semplici frasi: "L'imputata ha richiesto un cambio di sede. La richiesta dell'imputata è stata negata". Il processo ebbe inizio tre settimane dopo, un giovedì pomeriggio. Non appena Jeffries prese posto sul seggio, rinnovai la mia mozione. "La richiesta è stata negata", rispose lui. Ero incorreggibile e, ancora peggio, ne andavo alquanto fiero. "Se non fosse stata negata", ribattei, "non avrebbe molto senso rinnovarla, giusto?". Jeffries mi fissò con durezza. "Negata di nuovo". "Perché prima di negarla non ci accorda un'udienza?", suggerii con un'arroganza che nemmeno la mia giovane età poteva scusare. "In questo modo, dopo aver ascoltato le argomentazioni della richiesta, potrebbe essere in grado di motivare la sua decisione". Jeffries alzò il capo e lo inclinò leggermente di lato, studiandomi con attenzione. Trasse un respiro lento e profondo, e in quel momento le sue narici si allargarono e gli angoli della bocca si piegarono all'ingiù. Per diversi lunghi istanti non pronunciò parola. "Farà bene a ricordarsi, signor Antonelli", disse infine, "che lei è qui per
far vincere la causa alla sua cliente, non per far perdere la pazienza a me". La sua voce, che non era mai stata profonda, era più acuta di quanto l'avessi mai sentita, come se riuscisse a stento a non strillare. "E sì, signor Antonelli", proseguì, "quando prendo una decisione la motivo, ma soltanto quando tale motivazione non è ovvia e soltanto quando il legale che ha presentato la mozione è davvero in grado di capirla". Non c'era niente che potessi fare. Mi ero già spinto troppo in là. Mi rifugiai dietro una maschera di rigida formalità e feci la parte dell'avvocato, nascondendo il mio risentimento e annuendo per esprimere la mia sottomissione alle sue dure parole. "Grazie, vostro onore", dissi quando ebbe terminato, memore del fatto che fra tutte le tirannie mai istituite sul pianeta terra l'aula di un tribunale è l'unica in cui l'abuso deve essere sempre seguito dall'apprezzamento. Credevo che fosse finita lì, ma era soltanto l'inizio. Avevo appena cominciato a interrogare il primo giurato nel corso degli esami preliminari quando Jeffries mi si scagliò contro un'altra volta. "Questa domanda non è pertinente alla valutazione dell'imparzialità del giurato", mi informò. Avevo appena chiesto alla donna quali classi frequentavano i suoi figli. "Il questionario compilato dal giurato le dice quanti figli ha e quanti anni hanno. Non ha bisogno di sapere altro". Fu lo stesso con la domanda successiva, e con quella dopo. Nulla di ciò che chiedevo andava bene, tutto ciò che chiedevo era sbagliato. M'interrompeva così spesso che cominciai a esitare a metà domanda, aspettandomi che lo facesse di nuovo. Mi stava facendo fare la figura dell'impacciato, dell'indeciso, di quello che non sapeva ciò che faceva. Mi stava facendo fare la figura dello stupido di fronte alle persone di cui, se volevo vincere la causa, dovevo guadagnare la fiducia. E lo stava facendo di proposito. In qualche modo, malgrado i suoi continui tormenti e le sue incessanti correzioni, andai avanti. Poi rivolsi all'ottavo giurato la domanda che avrei dovuto fare a tutti, la domanda che da quel giorno ho fatto a ogni giurato in ogni singolo processo penale che ho affrontato: "Anche se crede che probabilmente l'imputata sia colpevole, se l'accusa non sarà in grado di provarlo al di là di ogni ragionevole dubbio voterà per un verdetto di non colpevolezza?". Jeffrey schizzò praticamente dalla sedia. "Questa domanda non è ammissibile. Non può chiedere a un giurato come potrebbe votare sul verdetto finale del caso. Non rifarà più la domanda, signor Antonelli. Non a questo giurato, non agli altri. Ci siamo capiti?".
Era il tardo pomeriggio del secondo giorno, venerdì, e io avevo subito già abbastanza. Tornai a rivolgermi al giurato e, più lentamente di prima, gli rifeci la stessa domanda. "Questo è un buon momento per concludere la giornata", disse Jeffries prima che potessi ottenere una risposta. "Riprenderemo lunedì mattina alle nove e mezza". Attese che l'ultimo probabile giurato lasciasse l'aula. I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio. "Le era stato detto di non farlo. Le avevo detto che quella domanda non era permessa, ma lei l'ha rifatta immediatamente. Si è deliberatamente fatto beffe di questa corte e io non posso fare altro che considerarlo un oltraggio alla corte". Me l'aspettavo, e a dire la verità ne ero quasi felice. Provavo disprezzo, certo, non per la corte ma per lui, per il modo in cui stava cercando di minare la mia abilità di erigere una difesa. Ricambiai la sua occhiata senza aprire bocca. "La condanno a tre giorni di detenzione". Fece cenno all'ufficiale giudiziario di condurmi via. "Verrà rilasciato lunedì mattina, in tempo per il processo", soggiunse raccogliendo i suoi libri e le sue carte dalla scrivania. "Vostro onore", risposi sforzandomi di non urlare, "lei può accusarmi di oltraggio alla corte ma non mi può imprigionare. Non in queste circostanze, e non prima di un processo". Sapeva che avevo ragione, e sapevamo entrambi che non aveva importanza. L'ufficiale giudiziario mi posò la mano sul braccio e mi avvertì sottovoce di non dire altro mentre Jeffries si alzava dal seggio e scompariva nel suo studio. "Avrebbe aggiunto qualche altro giorno", mi spiegò l'ufficiale giudiziario. "Gliel'ho visto fare spesso. Lo guardi storto e ti ritrovi con il massimo della pena". Venni accompagnato nella prigione di contea e scoprii che cosa significava diventare uno di coloro che cessano di esistere. Mi ritirarono il portafogli, l'orologio, le chiavi della macchina, tutto ciò che avevo in tasca e mi guardarono come se fossi pazzo quando domandai se potevo tenere la mia cartella di lavoro. Nel timore apparente che potessi usare la cravatta per strangolare qualcuno o per impiccarmi, me la fecero consegnare. Poi mi presero le impronte digitali, afferrandomi ciascuna mano e premendo i polpastrelli con un movimento rotatorio sul foglio di carta. Quando ebbero finito mi misero in posa, i piedi su una striscia di nastro adesivo, facendomi guardare l'obiettivo e poi girare di quarantacinque gradi per il profilo.
Mi avevano preso le impronte digitali, le foto segnaletiche e tutto ciò che possedevo al momento dell'arresto. Ma la cosa più importante era che avevano preso me, e non mi piaceva affatto. Fui un modello di tatto e diplomazia. Quando ebbero terminato di registrarmi, uno degli agenti mi afferrò per una spalla e mi diede una spinta. Ripresi l'equilibrio e mi girai verso di lui. «Rimettimi le mani addosso, figlio di puttana, e ti farò passare il resto della vita in tribunale». Era un uomo grande e grosso, con due mani piccole e grassocce. Non avrei mai immaginato che potesse muoversi con tale rapidità. Prima che mi rendessi conto di cosa stava succedendo, mi ritrovai con il volto appiattito contro il muro e le braccia dietro la schiena. Sentii il freddo del metallo attorno ai polsi e lo scatto con cui serrava le manette. "Qui non siamo in aula, avvocato", mi rammentò l'agente. Poi mi afferrò per la stessa spalla di prima e con una spinta decisa mi fece volare. Avanzava a passi regolari, e ogni volta che mi raggiungeva ripeteva l'operazione finché non giungemmo davanti a una porta di metallo priva di finestrelle. Quando l'aprì puntai i piedi, aspettando la spinta con cui mi avrebbe fatto ruzzolare nella cella. Ma lui mi fece voltare e mi slacciò le manette. "Niente di personale", disse. Aveva quel sorriso stupido che immagineresti di vedere sulla faccia del bullo della scuola dopo che ha appena steso uno scricciolo occhialuto, balbuziente e incapace di reagire. Era la prima volta che vedevo quell'espressione in vita mia. Codardo fin dalla culla, avevo imparato a evitare quel genere di guai. Suppongo che ciò che mi spinse a fare ciò che feci in quel momento fu la paura di essere smascherato per quello che ero in realtà. Usando entrambe le mani, gli diedi uno spintone con tutte le mie forze. Lui non si mosse di un centimetro. Era come se avessi provato a spostare la parete. Mi fissò con sguardo vacuo, come se non capisse fino in fondo che cosa stavo facendo. Poi, rapidissimo, mi sferrò un colpo sotto la mandibola con il dorso della mano, mi fece indietreggiare nella cella e mi sbatté la porta in faccia. Ero chiuso in uno stanzino di un metro e ottanta per un metro e venti in cui c'era soltanto una panca di legno agganciata alla parete con due catene. Non c'era finestra, e l'unica fonte di luce era una singola, fioca lampadina appesa al soffitto e riparata da una rete metallica. Senza alcun mezzo per misurarlo, il tempo si fermò. Dopo quelli che sapevo dovevano essere pochi minuti, avevo già la sensazione di essere lì seduto a fissare il vuoto da ore. Mi alzai e cominciai a camminare avanti e indietro, tre passi in una direzione e tre nell'altra, contando a voce alta. Mi
dava una strana soddisfazione, il suono della mia voce che segnava il passaggio del tempo, la prova tangibile che non ero imprigionato in un eterno presente. Era un modo di proteggermi contro la paura che aveva già cominciato a rodermi la coscienza, il panico incipiente di essere rinchiuso in uno spazio angusto, il terrore che aveva sempre accompagnato il pensiero di essere sepolto vivo. Dopo un po' smisi di contare e cominciai a concentrarmi sul processo. Cercai di riflettere su ciò che avrei detto in apertura, dopo la selezione della giuria. Mi sedetti sulla panca di legno e rievocai con tutta l'attenzione possibile i volti dei giurati con cui avevo già parlato, riflettendo su chi tenere e chi scartare. Udii un suono fuori dalla cella. La porta si aprì e un altro secondino mi fece cenno di seguirlo lungo un diverso corridoio. Gli chiesi che ore erano. Ero rimasto in cella meno di quindici minuti. Immaginavo che mi stesse portando in mensa, o magari a indossare la divisa da detenuto. Si fermò e aprì una porta, e io venni costretto a strizzare gli occhi da una luce abbagliante. Ero su una sorta di palcoscenico, in piedi accanto ad altri quattro o cinque uomini davanti a un muro con degli strani segni. Da qualche parte al di là della fonte di luce una voce ci disse di girarci a sinistra. A quel punto capii. Era un confronto all'americana. Non appena compresi dov'ero e cosa stavano facendo, mi convinsi che stavano cercando il colpevole di un omicidio o di uno stupro e che il testimone mi avrebbe riconosciuto per errore. Ne ero sicuro, e cercai di assumere le sembianze di una persona diversa. Curvai le spalle fino a ingobbirmi come un raccoglitore nei campi. Chinai la testa e mi feci sprofondare il mento sul petto. Non sapevo niente del crimine che era stato commesso, eppure credevo di avere qualcosa da nascondere. Quando fu tutto finito e venni fatto uscire insieme agli altri, mi sembrava quasi di averla passata liscia. Invece di riportarmi in cella, il secondino mi condusse alla fine di un altro corridoio e mi fece entrare in quello che un tempo chiamavamo il serbatoio. Era un ampio locale di circa nove metri per sei, con pareti percorse da lunghe panche. Su un lato, due luride finestre, talmente alte che non riuscivi a toccarle con la mano e men che meno a guardare fuori, lasciavano entrare una luce grigia e tetra. Il locale era affollato da trenta, quaranta uomini. Molti erano chini in avanti, intenti a fissare il pavimento di cemento, oppure appoggiati con la schiena al muro, le mani abbandonate lungo i fianchi o intrecciate attorno a un ginocchio piegato, gli sguardi assenti e persi nel vuoto. Alcuni giacevano a terra con le braccia incrociate sul pet-
to, immersi nel sonno del doposbornia. Nell'aria stagnante gravava un odore di urina e sudore. Passando sopra ai corpi distesi sul pavimento, trovai un posto sulla panca direttamente sotto la finestra. Quando i miei occhi si abituarono alla luce, distinsi la figura di un uomo accovacciato in un angolo. Impiegai un minuto a capire che aveva i pantaloni abbassati e che era seduto sull'unico gabinetto disponibile. Distolsi il volto, disgustato. Poi, convinto di essermi sbagliato, tornai a guardare. L'uomo era seduto sulla tazza, i capelli neri appiccicati sulla fronte, il grosso collo e le braccia enormi e carnose, e si stava masturbando. In un istante balzai in piedi e mi lanciai verso il lato opposto della stanza. Inciampai sul corpo di un ubriaco che si svegliò per il tempo sufficiente a cercare di falciarmi con una manata, riuscii a raggiungere la porta e vi picchiai con tutte le mie forze. "Quanto avete intenzione di tenermi qui dentro?", domandai quando il secondino aprì lo sportello. "Silenzio", gridò lui richiudendomelo in faccia. Ripresi a picchiare alla porta e a sbraitare, anche se sapevo che non era altro che un vuoto gesto di sfida. Nessuno mi avrebbe aiutato, e l'unica cosa che potevo fare era accettare la mia situazione senza altre lamentele. Passai quel fine settimana, tre giorni che parvero tre anni, circondato da ubriachi, derelitti, gente che si reggeva in piedi a malapena, uomini che avevano perduto la capacità di distinguere ciò che era successo quarant'anni prima, quando ancora non erano drogati e alcolizzati, da quello che stava accadendo davanti ai loro occhi. Erano le vittime di una follia che si erano inflitti da soli. Sulla panca accanto a me, un vecchio dagli occhi cisposi si grattava la barba grigia e ispida sulle guance cercando di ricordare dove si trovava. Aprì la bocca sdentata, alzò lo sguardo su di me e cominciò a parlare, un monologo rapido e insensato. Riuscivo a capire al massimo una parola su tre o quattro del suo sproloquio, interrotto di tanto in tanto da un'improvvisa esplosione di lucidità: "Capisci?". Aspettava che gli facessi un segno, un cenno del capo, una scrollata di spalle, un sorriso, qualcosa che gli mostrasse che avevo capito, che condividevo ciò che mi stava dicendo, e poi tornava a perdersi nelle sue incoerenze. Blaterava di continuo, fermandosi ogni tanto per vedere se lo stavo ascoltando, un monologo infinito che significava qualcosa soltanto per lui. La sua voce veniva gradualmente meno, come se stesse perdendo i sensi. "Capisci?", domandò a un tratto, improvvisamente sveglio. Poi, senza attendere la mia risposta, chiuse gli occhi e un istante dopo si mise a russare.
Mi fece scivolare la spalla sul petto finché la sua testa, con i capelli unti incollati al cranio bianchiccio, si fermò direttamente sotto il mio mento. Facendo attenzione a non farlo cadere, mi alzai e lo lasciai accasciato sulla panca, un povero vecchio innocuo che, quando non era aggrappato alla bottiglia, veniva sbattuto in una cella. Mi ritrovai a chiedermi che storie pensava di raccontarmi con quel torrente di frasi incomprensibili. Trovai posto sul lato opposto della cella, il più lontano possibile dal tanfo che veniva dal gabinetto chiazzato di escrementi. Le finestre in alto erano buie, e la fioca luce gialla dell'unica lampadina conferiva a tutto una qualità spettrale che sarebbe stata fastidiosa anche alla luce del giorno. Com'era possibile che degli esseri umani si fossero ridotti volontariamente in quelle condizioni? Com'era possibile che l'unica risposta che riuscivamo a dare al problema era arrestarli, sbatterli in prigione per qualche giorno o qualche settimana e poi rimetterli in strada perché rifacessero le stesse cose? Quel vecchio che avevo lasciato disteso sulla panca nel buio avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni ubriaco o rinchiuso, e nessuno sembrava darsene pensiero. Fu la prima volta che cominciai a pensare che la giustizia stessa potesse essere il peggiore dei crimini. Mi resi conto di essere osservato. A qualche decina di centimetri da me, seduto con la schiena ritta appoggiata alla parete di cemento e le mani posate sulle ginocchia, un uomo magrissimo mi stava fissando. Non appena vide che lo guardavo, mi si avvicinò e si sedette accanto a me nella stessa posizione di prima. "Grazie per essere venuto, signor Steelhammer", disse fissando dritto davanti a sé. Lo ignorai e feci per allontanarmi. "Noi abbiamo un appuntamento, signor Steelhammer", fece lui voltandosi verso di me. "L'aspetto da ieri, quando mia moglie l'ha chiamata". Scossi il capo per fargli capire che si sbagliava. "Lei è il mio avvocato", insistette. "Il processo comincia domani". "Non sono il signor Steelhammer. Non sono il suo avvocato". "Un attimo", disse in tono serio. "Lo domando a mia moglie". Socchiuse le palpebre e cominciò a muovere le labbra in silenzio, come se stesse formando le parole di un libro che stava leggendo. Le sue labbra smisero di muoversi, i suoi occhi si spalancarono. "Sì, ora capisco!". Fece dardeggiare gli occhi da una parte all'altra della cella, poi si piegò verso di me e bisbigliò: "Mi ha detto che lei non vuole usare il suo vero nome qui dentro. Come devo chiamarla?".
"Ha appena parlato con sua moglie?", chiesi. "E dove si trova?". "A Roma. È una suora", rispose. "È la figlia del Papa", soggiunse, entusiasta di mettermi al corrente di quella prova della sua importanza. La follia ha una sua logica, ed era inutile insistere sulle regole della ragione che ogni persona normale segue inconsciamente. "Non sono il suo avvocato", dissi. "Sono stato mandato qui per sincerarmi che stesse bene. Il signor Steelhammer verrà domani, o forse il giorno dopo. Nel frattempo", lo avvertii come se fosse una questione della massima importanza, "lei non dovrà parlare con nessuno di questa storia". Seguì ogni mia parola con occhi obbedienti. "Il silenzio è la chiave di tutto", insìstetti. "Il silenzio è la chiave di tutto", ripeté annuendo fra sé. Senza aggiungere altro tornò a sedersi sulla panca, tese le mani sulle ginocchia e, perfettamente soddisfatto, ricominciò la sua infinita attesa di qualcuno che non sarebbe mai venuto. Se quella notte dormii, fu solo pochi minuti per volta. Inseguiti dagli incubi, gli uomini strillavano come bambini, soli e impauriti, oppure si svegliavano di soprassalto gridando oscenità o sferrando pugni alla cieca contro chiunque pensavano avesse disturbato il loro sonno. Rimasi in quella cella comune, in quella segreta, per tutto il fine settimana, vivendo una morte al rallentatore. Non mi trasferirono mai in una cella singola; non mi permisero di fare la doccia o di cambiarmi. Il lunedì mattina mi rilasciarono, ma non prima delle nove. A quel punto, come mi ricordò il secondino restituendomi la mia cartella, avevo soltanto mezz'ora per presentarmi in tribunale. "Perché non sono stato rilasciato due ore fa? È l'orario regolare, giusto? Le sette del mattino?". Il secondino era restio a rispondere, ma alla fine cedette. "Non è dipeso da me", mi spiegò svuotando una busta marroncina. Raccolsi le mie chiavi e il mio portafogli. "È stato il giudice Jeffries a firmare l'ordine". Esitò, guardandomi con aria interrogativa. "Non avrà intenzione di andare in tribunale in quelle condizioni, vero?". Non mi radevo da venerdì mattina. Non mi ero più lavato i denti, la faccia o le mani. I capelli mi sembravano creature vive, infestate da milioni di famelici microbi. Qualsiasi superficie del corpo mi prudeva. Il mio abito era in rovina, sgualcito, spiegazzato, lercio di sudore e Dio solo sapeva cos'altro. Le mie scarpe nere inglesi erano sporche e consumate. Una era scolorita da una macchia lasciata da uno degli ubriachi seduti accanto a me
quando si era urinato nei pantaloni. Più il secondino mi guardava, più diventava comprensivo. Si offrì di aiutarmi. "Ho qualcosa sul retro. Un rasoio, uno spazzolino di riserva". "Grazie", risposi voltandogli le spalle, "ma credo che il giudice meriti di vedermi così come sono"». 3 Il bicchiere in mano, Harper Bryce lasciò vagare lo sguardo per il locale. Altri avventori erano entrati mentre parlavamo, annunciati ogni volta da un refolo di vento invernale, fino a riempirlo a metà. Era uno di quei locali che resistono per anni, raramente vuoti ma mai affollati. La nostra tavola era stata sparecchiata e il caffè si era raffreddato, ma nessuno si sentiva in dovere di andarsene. Se avessimo voluto ci saremmo potuti trattenere tutto il giorno a chiacchierare senza pensarci due volte. Tirandosi su la manica della camicia di quel tanto che bastava a dare un'occhiata al suo orologio, Jonah Micronitis fece per dire qualcosa, ripetendo che si stava facendo tardi e che lui e Asa avevano da fare. Il tempo era denaro, e il denaro, per Jonah Micronitis, era sempre stato tutto. Asa Bartram lo ignorò. Con un leggero movimento del capo e un movimento ancora meno percettibile della mano lo fermò prima che potesse profferire parola. «Ti sei davvero presentato in aula, nell'aula di Calvin, in quelle condizioni?», domandò incoraggiandomi a proseguire. Le sue braccia incrociate erano appoggiate sul tavolo. Un vago sorriso gli guizzava agli angoli dell'ampia bocca. C'era un'espressione nostalgica nei suoi occhi anziani, come se le mie parole gli avessero ricordato qualche sua imprudenza, qualche gesto di sfida che era diventato troppo prudente per commettere ma a cui guardava ancora con orgoglio. «Non passai nemmeno in bagno a pettinarmi e lavarmi la faccia. Ero furente. Credo che in tutta la mia vita non mi fossi mai sentito tanto virtuoso». Asa sapeva esattamente che cosa intendevo. «Non avere nulla da perdere è una sorta di liberazione, vero?». «Avresti pensato che stessi guidando una ribellione di schiavi. Tre giorni in quel postaccio, e in un certo senso ero diventato ancora più demente delle povere anime che vi avevo trovato. Avrei potuto uccidere Jeffries e affrontare l'esecuzione convinto che ciò che avevo fatto era pienamente giu-
stificato. Ovviamente non lo uccisi, ma non appena prese posto sul suo seggio cercai di fulminarlo con un'occhiata. Non mi sarei dovuto disturbare: quando vide com'ero conciato, per poco non ci rimase secco. Ero seduto al banco degli avvocati facendo finta di niente, le gambe accavallate e il braccio sinistro che penzolava dietro lo schienale della sedia. Con il pollice e l'indice mi carezzavo il mento come un damerino elegante annoiato a morte da tutti coloro che lo circondano. La signora Larkin, seduta accanto a me, non sapeva cosa pensare. Il viceprocuratore distrettuale, che stava leggendo la sua cartella, alzò il capo come un animale che avesse appena fiutato qualcosa. I giurati si agitavano a disagio sulle loro sedie, dandosi di gomito per sincerarsi che tutti stessero vedendo la stessa cosa. "Signor Antonelli!", gridò Jeffries, il volto paonazzo di rabbia. Mi ero già voltato verso la stessa giurata che stavo interrogando venerdì. "Grazie, vostro onore", risposi senza guardarmi indietro. "Ora mi dica", proseguii come se il tempo si fosse fermato, "anche se crede che probabilmente l'imputata sia colpevole, se l'accusa non sarà in grado di provarlo al di là di ogni ragionevole dubbio voterà per un verdetto di non colpevolezza?". Non scorderò mai l'espressione che si dipinse sul volto della giurata. La povera donna non sapeva che fare. Era disposta a rispondere alla mia domanda, ma temeva di aprire la bocca. "Signor Antonelli!", gridò Jeffries dal suo seggio. Con una rapidità che sorprese perfino me stesso, balzai in piedi. "Vuole smetterla di interrompermi!", gridai di rimando. "Mi sono guadagnato il diritto di fare questa domanda". Non credo di aver mai visto nessuno così furioso. "Lo sa a chi si sta rivolgendo, avvocato?", chiese stringendo i denti con tanta forza che il suo volto sembrò tremare. Ho sempre avuto un debole per quel genere di avvocato inglese di cui leggevamo nei vecchi romanzi, quello che era in grado di starsene in piedi con la mano su un fianco e distruggere un avversario con un semplice cambio di tono e una singola frase ben tornita. Non so dove andai a pescare quello che dissi... dovevo averlo letto da qualche parte. Di sicuro non me lo inventai, ma all'improvviso me ne ricordai e prima di rendermi conto di cosa stavo facendo le parole mi uscirono di bocca. "Vostro onore, non ne sono sicuro. Perché vede, sono come il buddhista al cospetto del suo idolo: so che lei è orrendo, ma sento che è grande". La giuria, l'ufficiale giudiziario, il cancelliere, tutti quanti s'immobilizza-
rono, e i loro sguardi si posarono su Jeffries in attesa della sua reazione. Gli avevo detto che era orrendo e che era grande. Non poteva contestare un'affermazione senza contestare l'altra. Mi fissò intensamente, ma dietro quello sguardo penetrante stava riprendendo il controllo, calcolando che cosa avrebbe potuto fare. Giunse le mani, abbassò il capo e arricciò le labbra. Quindi rialzò gli occhi e annuì lentamente con espressione pensierosa. "Molto abile, signor Antonelli", disse in un tono di voce sommesso e rassicurante. Dall'aula sorse un sospiro di sollievo quasi percepibile. "Davvero molto abile", soggiunse prima di rivolgersi ai giurati. "Il signor Antonelli", li informò con un sorriso solenne, "è stato evidentemente sottoposto a una forte tensione. Sono sicuro che dopo una notte di riposo tornerà in sé. Nell'interesse di tutti, penso sarebbe meglio sospendere il procedimento e aggiornarci a domani mattina". Tornai dritto a casa, gettai i miei indumenti sul pavimento del bagno e feci una lunga doccia calda. Poi mi infilai a letto, crogiolandomi nel puro lusso delle lenzuola pulite. Dormii tutto il giorno e mi alzai dal letto soltanto per cenare. Il mattino dopo, con una camicia pulita e un abito nuovo, mi sedetti al banco degli avvocati e ripresi a interrogare la stessa giurata come se non l'avessi mai vista prima di allora. "Alla conclusione di questo processo, dopo aver esaminato tutte le prove e aver concluso che l'imputata è probabilmente colpevole, emetterà comunque un verdetto di non colpevolezza se sarà convinta che l'accusa non sia riuscita a provarlo al di là di ogni ragionevole dubbio?". Istintivamente, lo sguardo della giurata guizzò verso il seggio del giudice. Jeffries era chino in avanti, intento a leggere qualcosa. "Sì", rispose la giurata tornando a guardarmi. Sbrigammo rapidamente gli esami preliminari, ed entro la fine della mattinata avevamo una giuria. Quel pomeriggio affrontammo le nostre dichiarazioni di apertura, e il giorno dopo l'accusa chiamò il suo primo teste, Edward Larkin. Avrebbe potuto essere chiunque, il padre del ragazzino del tuo stesso isolato, il marito della tua collega di lavoro, un uomo ben vestito e dall'aspetto gradevole, uno con cui chiacchieravi con piacere aspettando l'autobus. Parlò della relazione sessuale con sua figlia come se fosse uno psicologo che descriveva le azioni di uno dei suoi pazienti. Era questo che bisognava capire di lui: aveva imparato ad analizzare il suo comportamento passato con un distacco quasi clinico. Certo, per anni aveva avuto rapporti sessuali con sua figlia. Certo, capiva che era qualcosa che non avrebbe do-
vuto fare. Ma adesso era in terapia, e stava imparando ad affrontare il suo problema. Interessante, il modo in cui poche parole sono in grado di modificare il nostro modo di pensare. Il suo problema! A un tratto era diventato qualcosa di privato, una cosa sua, che in ultima analisi riguardava gli altri soltanto nella misura in cui essi lo potevano aiutare. Non era più colui che aveva inflitto un torto imperdonabile che avrebbe dovuto essere punito per dare l'esempio, ma un oggetto di curiosità professionale per coloro che avevano gli strumenti per trattare questa particolare malattia. Larkin testimoniò al processo della moglie come se fosse un esperto chiamato a deporre su un caso che non lo riguardava nel modo più assoluto. Ammise ogni cosa; non diede alcun segno di provare imbarazzo e ancor meno vergogna per ciò che aveva fatto. Per rispondere alle domande che gli venivano poste descrisse il modo in cui diverse volte alla settimana era uscito dalla camera che condivideva con la moglie ed era entrato in quella di sua figlia in fondo al corridoio. Disse che aspettava sempre che sua moglie si fosse addormentata, ma lo disse in un modo che suggeriva che non poteva esserne sempre sicuro. L'accusa cercò di assicurarsi che il concetto fosse chiaro a tutti. "Dunque è possibile", domandò Spencer Oldman, "che nel corso degli anni sua moglie avesse scoperto quello che lei faceva con sua figlia?". Era un appello alla congettura se mai ne è esistito uno, e prima ancora che Goldman finisse di formulare la domanda balzai in piedi con la mia obiezione. Ma se avevo pensato che Jeffries avesse finito di tormentarmi, scoprii rapidamente quanto mi potevo sbagliare. "Respinta!", latrò facendomi segno di sedermi. "Vostro onore", insistetti ancora in piedi, "l'accusa sta...". "Sta cercando di stabilire che la madre doveva sapere quello che faceva il padre", m'interruppe Jeffries scoccandomi un'occhiataccia. "E lo sta facendo per dimostrare che la madre stessa doveva avere qualcosa da nascondere. Giusto, signor Goldman?". Rimasi ammutolito. Ciò che aveva fatto non aveva precedenti. Il giudice si era sostituito all'accusa, e il suo obiettivo ero io. "Giusto, signor Goldman?", chiese di nuovo Jeffries senza distogliere gli occhi dai miei. Sbalordito da quello che aveva appena fatto il giudice, Goldman faceva fatica ad aprire bocca. "Sì, vostro onore", disse infine. "Obiezione, vostro onore", dissi costringendomi a mantenere la calma. Jeffries credeva che stessi ripetendo la precedente. "L'ho già respinta",
rispose distogliendo il volto. "La mia obiezione è diretta al commento della corte. È stato gratuito, non pertinente e totalmente pregiudizievole. Chiedo che la corte lo ritiri e ordini alla giuria di non tenerne conto". "Cosa chiede?", esplose Jeffries. Poi, rendendosi conto di essere al cospetto di un'aula affollata, si interruppe prima di aggiungere qualcosa di cui si sarebbe potuto pentire. "Lei ha fatto un'obiezione, signor Antonelli, e io ho preso una decisione in merito. Lei l'ha rifatta, e io le ho spiegato le ragioni della mia decisione". "Le ragioni della sua decisione, vostro onore?", ribattei. "Oppure le ragioni per cui pensa che la giuria dovrebbe condannare l'imputata?". Jeffries era livido di rabbia, lo si vedeva chiaramente. Ma eravamo in un processo a porte aperte. "Spero che non stia mettendo in dubbio l'integrità di questa corte, signor Antonelli", disse con un'occhiata minacciosa. "Lungi da me, vostro onore, negare a chiunque il diritto di sperare", risposi con un rapido, irritante sorriso. Avesse avuto una pistola, credo che mi avrebbe sparato. Invece, tutto ciò che poteva fare era cercare di ignorare le mie parole. Scosse la testa come se non fossi degno della sua attenzione e invitò Goldman a continuare l'interrogatorio del suo testimone. Quando giunse il mio turno, attaccai. "Non ha mai visto sua moglie abusare di suo figlio, vero?", domandai prima ancora di alzarmi del tutto dalla sedia. Larkin rimase impassibile. "No", disse in tono inespressivo. "Sua moglie non ha mai ammesso di aver fatto alcunché di indecente con suo figlio, giusto?". "No". "E lei non ha mai visto o sentito nulla che le facesse credere che stava succedendo qualcosa di strano, non è vero?". "No". Mi fermai davanti al banco degli avvocati e lasciai scorrere lo sguardo dal testimone al giudice. "E malgrado quello che è stato suggerito poco fa, sua moglie Janet Larkin non ha mai detto o fatto nulla che le abbia fatto pensare che sospettasse di ciò che faceva con sua figlia, vero?". Jeffries teneva la testa china e fingeva di essere occupato, malgrado sapesse perfettamente che i miei occhi erano fissi su di lui e non sul teste. "Sicché tutti i riferimenti a ciò che sua moglie doveva sapere, a ciò che
doveva nascondere, non sono altro che congetture, non è così?". Jeffries alzò la testa di scatto con un'espressione rabbiosa dipinta sul volto. Ma prima che potesse aprire bocca feci un passo verso il testimone e chiesi: "Non è vero, signor Larkin, che suo figlio non ha mai accennato a questa storia prima di venire a vivere con lei?". Larkin fece per rispondere, ma io gli diedi sulla voce avvicinandomi di un altro passo. "E non è forse vero, signor Larkin, che sua figlia non è l'unica della sua progenie con cui avrebbe voluto avere rapporti sessuali?". Jeffries sollevò il martelletto, Goldman balzò in piedi e dall'aula sorse un fragore assordante. Non udii ciò che disse Goldman né il suono del martelletto. I giurati, che per la forza dell'abitudine avevano ormai quasi dimenticato ciò che Larkin aveva fatto con la figlia, rimasero storditi dall'enormità di ciò che avrebbe voluto fare con il figlio. L'unico che sembrava indifferente alla mia accusa era lo stesso Edward Larkin. Se ne stava seduto al banco dei testimoni con le mani giunte davanti a sé, impassibile, come se tutto quel trambusto non avesse niente a che vedere con lui. Jeffries non aveva capito meglio di me l'obiezione di Goldman, ma non aveva importanza. Batté il martelletto sovrastando il clamore morente e gridò: "Accolta!". "Nega di aver confessato a sua figlia di nutrire fantasie su suo figlio?", chiesi con tale rapidità che le parole si accavallarono fra loro. "Obiezione!". Goldman era schizzato di nuovo in piedi, e mulinava le braccia come se cercasse di fermare un treno. "Accolta", disse Jeffries, fuori di sé dalla rabbia. "Nega di aver avuto fantasie, fantasie sessuali, su suo figlio?". Jeffries aveva accolto l'obiezione prima ancora che Goldman terminasse di formularla. Voltai le spalle al testimone. "Su quali basi?", pretesi di sapere come se ne avessi il diritto. Per un attimo, Jeffries non seppe cosa dire. Non era abituato a sentirsi rispondere per le rime, specialmente da un giovane avvocato. "Non è pertinente, vostro onore", riuscì a intervenire Goldman. "Invece lo è, vostro onore. Serve a stabilire la credibilità del testimone". Guardandomi torvo, Jeffries mi disse di passare ad altro. "L'obiezione è stata accolta". "Mi dica, signor Larkin", ripresi tornando a rivolgermi al teste, "quando suo figlio le disse che aveva avuto rapporti sessuali con la madre, le spiegò come mai non ne aveva mai parlato prima di venire a vivere con lei?". Larkin scosse la testa. "È venuto fuori solo dopo che ha cominciato la te-
rapia". "Allora ci dica questo, signor Larkin. Finché suo figlio non ha rivelato questa storia, lei non ha mai sospettato che stesse succedendo, vero?". "No". "E chi meglio di lei avrebbe potuto avvertire i segni di un simile rapporto?". Goldman obiettò, e le obiezioni di Goldman ormai si accoglievano praticamente da sole. Senza rivolgere nemmeno un'occhiata a Jeffries, agitai la mano come per far capire quanto li trovassi tediosi e passai alla domanda successiva. Se potessi scegliere un momento in cui la mia vita è cambiata, indicherei quello. Non parlo della domanda. Non sono nemmeno sicuro di ricordare quale fu. Intendo dire quell'istante, quel punto del processo in cui senza rendermene bene conto avevo compiuto il passo decisivo che determina per sempre chi sei. Fino a quel momento era stato tutto preparazione, istinto, quella combinazione di fattori che fa sì che tu reagisca, che ti adatti a ciò che ti succede intorno. Facevo l'avvocato da circa tre anni, ed ero bravo... o quanto meno pensavo di esserlo. Perdevo di rado, e quello era il criterio che tutti sembravano adottare: la vittoria o la sconfitta. Ma in quel momento, per la prima volta, sapevo cosa stavo facendo. Ero consapevole di me stesso, dell'effetto che avevo, del modo in cui tutti coloro che erano coinvolti in quel processo reagivano a me. Non era egocentrismo, anche se sono sicuro di averne avuto in abbondanza; era qualcosa di più. Ai tempi non sarei stato in grado di spiegarlo, e probabilmente non ci riuscirei nemmeno adesso, ma all'improvviso capivo cosa stavano facendo tutti gli altri e perché. Capivo le ragioni delle cose. In quel processo imparai ad avere fiducia in me stesso e a non badare a quello che gli altri potevano pensare. L'alternativa era lasciare che Jeffries aiutasse l'accusa a condannare una donna che non aveva mai fatto niente di male per il peggior crimine di cui una madre potesse essere accusata. Dopo aver concluso con Edward Larkin, l'accusa chiamò a testimoniare lo psicologo del ragazzo, che gli aveva creduto e aveva informato le autorità. Poi convocò il poliziotto che aveva raccolto la deposizione del ragazzo e che sosteneva di credergli. "Quanti anni ha?", domandai all'agente nel controinterrogatorio. "Trentotto", rispose lui. "È sposato?". Quando disse di sì, gli chiesi se aveva figli. Ne aveva tre, e ne era pale-
semente orgoglioso. Raccolsi la copia del suo rapporto dal banco e trovai la pagina che volevo. "È stato lei a redigere questo?". Sollevai il rapporto con il braccio teso e un sorriso perplesso sul volto. L'agente non capiva dove volessi andare a parare. "Sì", rispose. Lo guardai per un altro istante, come se non fossi sicuro se credergli o no. "Capisco", dissi avvicinandomi il documento al volto. Dopo qualche istante alzai gli occhi. "Ha scritto lei questa parte?". Lessi: "'Secondo il ragazzo, i rapporti sessuali con la madre duravano dall'ora e mezza alle due ore'". Sollevai le mani e scrollai le spalle. "Dall'ora e mezza alle due ore?", domandai in tono scettico. Non parve capire la domanda. "Non le è sembrato, come dire, insolito?". "È quello che ha detto il ragazzo", rispose l'agente come se fosse stata quella la mia domanda. Guardai i giurati maschi uno per uno. "Fra l'ora e mezza e le due ore". Ripetei la frase come uno spettatore sbalordito. "Ha una domanda, signor Antonelli?", ringhiò Jeffries. "Oh, credo proprio di sì, vostro onore", risposi allegro tornando al banco degli avvocati. "Ma non per questo teste". Era incredibile, il modo in cui tutti erano stati incantati dalla storia di quel ragazzino. Capiamo tutti come può verificarsi uno stupro. Possiamo comprendere come qualcuno, spinto dagli stessi impulsi che ci governano, possa diventare così deviato, così violento da aggredire una donna. È molto più difficile capire come si possa fare violenza a un bambino, e praticamente impossibile immaginare come una madre possa fare una cosa simile a suo figlio. Ed era proprio questo, ne sono convinto, a dare al suo racconto una strana sorta di credibilità. Era così strano, talmente al di là di qualsiasi esperienza comune che tutti avevano timore di metterlo in dubbio. L'unico modo in cui riuscivano a prendere le distanze da un atto così assolutamente osceno era denunciandolo, e l'unico modo per farlo era credere che fosse veramente accaduto. Il ragazzo era il testimone chiave dell'accusa, e dal momento in cui si sedette al banco Spencer Goldman lo trattò come una vittima. E ci credeva, ci credeva appassionatamente. Si vedeva come il protettore del ragazzo. Quando avevo chiesto un incontro preprocessuale con il figlio della mia cliente, Goldman me l'aveva negato seccamente. "Non vuole parlare con te", aveva detto come se avessero accusato me di abusi sessuali. Gerald Larkin era equilibrato, perfino troppo per la sua età. Se ne stava seduto con la schiena ritta, le mani in grembo e le gambe giunte. Attende-
va che Goldman formulasse le sue domande e dava le sue risposte senza un attimo di esitazione, risposte dirette, concrete, senza una parola fuori posto. E ogni volta che lo faceva, guardava la giuria. Descriveva i modi in cui sua madre gli provocava un'erezione nel tono in cui qualsiasi altro ragazzino avrebbe descritto la propria estate al campeggio. I bambini dovrebbero piacerci sempre, ma lui non mi piaceva. Avevo creduto a sua madre fin quasi dall'istante in cui l'avevo conosciuta; e dalla prima risposta che lui diede seppi che mentiva. Gli era stato semplicemente chiesto di dire come si chiamava e di sillabare il cognome. Il modo in cui lo fece mi rivelò tutto ciò che avevo bisogno di sapere. Era un ragazzino che sosteneva che sua madre aveva abusato di lui non una, non due, ma innumerevoli volte nel corso di diversi anni, ed era entrato in tribunale come se fosse di sua proprietà. Un bambino che ha subito abusi sessuali non gradisce parlarne, e non ti guarderà mai negli occhi mentre lo fa. Gerald Larkin era come un attore che s'impossessava della scena. Nel mio controinterrogatorio gli chiesi se ricordasse ciò che aveva detto all'agente e se fosse tutto vero. Mi guardò negli occhi e rispose di sì. "Hai detto che la prima volta che è successo abitavate in Roanoke Avenue. È così?". Non esitò un istante. "Sì". "Capisco". Accarezzandomi il mento, fissai il pavimento. "Ne sei sicuro?", domandai alzando gli occhi. "Assolutamente sicuro?". "Sì". "Dopodiché la tua famiglia si trasferì in Arlington Street, giusto?". "Sì". "E ai tempi tu stavi cominciando la prima elementare, avevi solo sette anni, esatto?". Non afferrò il significato della domanda. "Sì", rispose. "Sicché ci stai dicendo che avevi sette anni quando cominciasti ad avere rapporti sessuali con tua madre. È questo che stai dicendo?". Non distolse lo sguardo. "Sì". "E che andò avanti finché non lasciasti la casa in cui vivevi con tua madre e tua sorella e ti trasferisti nell'appartamento di tuo padre. È così?". "Sì". Ero a poche decine di centimetri da lui. Mi voltai, mi avvicinai al banco della giuria e posai le mani sulla balaustra. "E all'agente di polizia hai detto che ogni volta che accadeva durava dall'ora e mezza alle due ore?". Guardai ciascuno dei giurati negli occhi. "E durava sempre così tanto, dall'ora e
mezza alle due ore, fin dall'inizio?". "Sì", lo udii rispondere. "Fin da quando avevi sette anni", soggiunsi sondando lo sguardo dell'ultimo giurato. Tornai alla mia sedia e mi sedetti accanto alla madre del ragazzino. Lui era in grado di guardarmi negli occhi, poteva fare lo stesso con il viceprocuratore e riusciva perfino a guardare in faccia i dodici giurati mentre rispondeva alle domande; ma non voleva saperne, e oserei dire che non ne aveva la forza, di guardare sua madre. Scostai la sedia dal banco, mi piegai in avanti, posai i gomiti sulle ginocchia e alzai gli occhi su di lui. "Cos'è che vuoi di preciso?", gli chiesi. Per la prima volta esitò, e in quel momento, guardandolo negli occhi, scorsi la scintilla del dubbio, come se si fosse reso conto che le cose forse non sarebbero andate come aveva immaginato. "Quando tuo padre se ne andò", ripresi in tono più comprensivo, "ti disse che un giorno le cose sarebbero tornate com'erano un tempo?". Abbassò gli occhi sulle sue mani. "Sì". "Quando tuo padre se ne andò, ti disse che la causa era quello che aveva fatto con tua sorella?". Non rispose, limitandosi ad annuire. "Quello che vorresti più di ogni altra cosa al mondo è che i tuoi tornassero insieme e ogni cosa fosse com'era un tempo, non è vero?". Sollevò il capo di quel poco che bastava a vedermi. "Sì". "Ed è questa la ragione per cui hai detto quelle cose su tua madre? Perché se non ci fosse stata alcuna differenza fra loro, se tutti avessero pensato che tua madre aveva fatto la stessa cosa, tuo padre sarebbe potuto tornare?". Per un attimo credetti che avrebbe risposto. Penso che lo desiderasse. Ma le cose erano andate troppo in là. Forse pensò che sarebbe stato un tradimento nei riguardi del padre, o forse aveva semplicemente paura di ciò che gli sarebbe successo. Fatto sta che non riuscì ad ammettere la sua menzogna». 4 «Come mai non finì tutto lì?», chiese Asa Bartram. Riflettendo sulla sua stessa domanda aggrottò la fronte, e nei suoi occhi azzurro pallido si dipinse un'espressione inquieta. «Avrai presentato la mozione. Viene quasi sempre respinta, ma in questo caso, dopo ciò che aveva detto il ragazzi-
no...». La sua voce si spense mentre gli veniva in mente un'altra cosa. «Calvin la respinse, vero? Ma perché?». Un attimo dopo aver formulato la domanda, il suo sguardo brillò e la sua testa cominciò a fare su e giù. «Credeva ancora che tu potessi perdere, giusto?». Asa conosceva bene il suo vecchio amico, e aveva ragione. Il ragazzo avrebbe potuto ammettere di essersi inventato tutto e Jeffries avrebbe potuto ugualmente respingere una mozione di proscioglimento al termine dell'esposizione del caso da parte dell'accusa. Ma non era andata così. «Non presentai la mozione», ammisi. Asa credette che stessi scherzando. «La presentano tutti. Farlo è un dovere». «Incompetenza professionale», osservò Jonah Micronitis come se avesse passato del tempo in un'aula di tribunale. Harper Bryce ridacchiava fra sé. «E l'imputata, se avesse perso, avrebbe ottenuto un nuovo processo». Micronitis lo fissò con sguardo vacuo, poi si rivolse ad Asa per ottenere una spiegazione. Asa mi studiò con un'occhiata penetrante. «È per questo che non presentasti la mozione?». Avrei voluto rispondere di sì, ma al momento del processo Larkin non ero così lungimirante. L'unico pensiero nella mia mente era la pura e semplice provocazione. «Non appena l'accusa concluse la sua esposizione, balzai in piedi e chiamai il primo testimone per la difesa. "Signor Antonelli", m'interruppe Jeffries. "Non c'è prima una questione che vorrebbe sollevare con la corte?". Era diventata una guerra privata, e non avevo intenzione di dargli la soddisfazione di prendere un'altra decisione ai miei danni. "No, vostro onore, non c'è", risposi. In quel momento, tutto ciò a cui riuscivo a pensare era far sedere Janet Larkin al banco dei testimoni. Aveva atteso a lungo l'occasione di rispondere direttamente alle cose terribili che erano state dette su di lei e alla tremenda accusa che le era stata mossa. Meritava di averla. Era l'unica cosa che sapevo di poter fare per lei: darle quella possibilità. Anche dopo tutti questi anni, non credo di avere mai avuto un caso in cui un imputato sia stato messo in condizioni peggiori delle sue. Sotto molti aspetti, è più facile essere condannati che essere semplicemente accusati. La verità è che era più facile essere Edward Larkin che Janet Larkin. Lui
aveva fatto qualcosa e l'aveva ammesso, e quel qualcosa era diventato un fatto tangibile, gestibile, che dava una sorta di concretezza a tutto il resto. Lei invece era accusata, e non c'era nulla che potesse fare. Era indifesa, impotente. Nessuno più dell'innocente si lascia impregnare dal senso di colpa. È un terribile shock. Se hai fatto qualcosa di sbagliato e vieni smascherato, quando ti senti accusare non è una sorpresa. Ma quando non hai fatto nulla, quando non avresti mai pensato di fare ciò di cui ti accusano, diventa un tormento. Ti senti in colpa. Credi che tutti coloro che ti guardano, tutti quelli che incroci per strada non stiano pensando ad altro che a ciò che si presume tu abbia fatto. Il mondo intero ti osserva, convinto che sei colpevole. I tuoi amici, quelli che si fanno ancora vedere, sostengono di crederti, ma tu non sei sicuro che sia vero; non sei sicuro che non si considerino delle vittime, intrappolate fra i loro obblighi nei tuoi confronti e l'imbarazzo che cominciano a provare ogni volta che ti si avvicinano. Nessuno ti crede, e anche tu cominci a chiederti se sia davvero il caso di credere a te stesso. Potresti forse aver fatto qualcosa di orrendo e poi averlo cancellato dalla mente? Non ci credi veramente, ma devi ammettere che, per quanto possa sembrare impossibile, potrebbe essere vero. Ci si rende davvero conto di quando si comincia a impazzire? Jane Larkin conviveva con pensieri simili da quasi un anno. Era un miracolo che conservasse ancora un pizzico di sanità mentale. Quando la chiamai come prima testimone per la difesa aveva l'espressione di chi non era del tutto sveglio, del tutto sicuro che non fosse solo un brutto sogno. Sbagliò ogni mossa. Quando rispondeva a una domanda, guardava me e non la giuria. Quando negava di aver mai fatto alcunché di sconveniente con suo figlio, parlava in un tono di voce timido e sommesso che invece di manifestare lo sdegno che ci si sarebbe potuti aspettare da una donna accusata ingiustamente dava l'impressione che nemmeno lei ne fosse del tutto sicura. In un primo tempo non rispose alla domanda. Dovetti porgergliela in modo esplicito: "Signora Larkin, ha mai avuto rapporti sessuali con suo figlio Gerald Larkin?". L'aula era piena di gente. Le panche erano affollatissime. Senza che Jeffries sollevasse obiezioni, quelli che non erano riusciti a sedersi si trattenevano in piedi lungo la parete posteriore. Tutti quegli occhi fissi su di lei la spaventavano, e dall'istante in cui si sedette al banco dei testimoni rifiutò di distogliere lo sguardo da me. Finché non le rivolsi quella domanda. A quel punto, nei suoi occhi si dipinse un'espressione di assoluta disperazio-
ne. Curvò le spalle e si guardò le mani. Cominciò a strofinarsele come se stesse cercando di lavarle. Fu solo quando ripetei la domanda che smise e rialzò gli occhi. "No", disse scuotendo la testa e sgranando gli occhi tristi. "Non ho mai fatto del male ai miei figli". Dovevo sgombrare il campo da ogni possibile ambiguità. "Non ha mai avuto rapporti sessuali con suo figlio?". Si morse il labbro e venne percorsa da un brivido. "No". Le feci ripercorrere l'intera vicenda, quello che suo marito aveva fatto alla figlia e quando lei l'aveva scoperto. Le feci descrivere come aveva aiutato la ragazza e come aveva cercato di aiutare il figlio. "Un giorno mi disse che non pensava che suo padre dovesse vivere da solo. Io gli risposi che poteva andarlo a trovare, ma che aveva bisogno di vivere a casa sua". "Dopo aver formulato le sue accuse, suo figlio le è stato tolto ed è stato affidato al padre, esatto?". Andammo avanti così per ore, spiegando tutto ciò che era accaduto, e finalmente arrivammo alla fine. Mi restava soltanto una domanda da fare. "Lei crede che sia colpa sua, non è vero? Quello che è accaduto a sua figlia e poi ciò che ha portato suo figlio a raccontare una storia simile?". Non so quanto tempo, quanti giorni avessimo trascorso insieme, sviscerando ogni dettaglio della sua vita coniugale, ma non avevamo mai parlato di questo. Nemmeno una volta. Glielo chiesi perché all'improvviso mi parve l'unica domanda sensata. Mi guardò come se avessi appena tradito un segreto. Cominciò a tremarle la bocca, e gli occhi le si riempirono di lacrime. Dovette costringersi a rispondere. "Sì. Avrei dovuto saperlo", disse seppellendosi il volto fra le mani. "È colpa mia. Avrei dovuto saperlo". Spencer Goldman aveva sempre creduto al ragazzino, perciò non aveva alcuna comprensione per la madre. "Sta cercando di dirci che suo marito aveva rapporti sessuali con sua figlia, che la cosa è andata avanti per anni sotto il suo naso e che lei non ne sapeva nulla?". I suoi modi erano freddi, caustici, e la martellava con le sue domande a una tale velocità che lei riusciva a malapena ad accennare a una risposta prima che lui gliene gridasse una nuova. Ogni volta che lo faceva io obiettavo, e ogni volta Jeffries respingeva la mia obiezione. Andammo avanti nel nostro botta e risposta come due marionette. "Obiezione". "Respinta".
"Obiezione". "Respinta". Alla fine balzai in piedi per l'ennesima volta e invece di obiettare dissi: "Forse vostro onore vuole prestare il suo martelletto al signor Goldman cosicché ci risparmi l'onere di un processo e le strappi una confessione a suon di botte?". Non è mai esistita espressione più rabbiosa di quella di Jeffries in quel momento. "Vuole essere punito un'altra volta per oltraggio alla corte?". "Se non altro sarebbe una decisione che ci vedrebbe d'accordo, vostro onore", dissi con studiata indifferenza. Non poteva fare niente. Malgrado ciò che diceva, non mi avrebbe fatto trascinare fuori dall'aula per la seconda volta. Eravamo troppo avanti nel processo, e a parte questo c'erano troppi spettatori. Jeffries abusava del suo potere troppo spesso per non sapere che era meglio farlo in privato. La sua unica risposta, quanto meno per il momento, fu un'occhiata fulminante appena prima di riportare la sua attenzione sull'accusa. "Prego, signor Goldman, continui". Proseguii a muovere obiezioni, non perché pensassi che potessero essere accolte, ma semplicemente per dare a Janet Larkin il tempo di ricomporsi. Goldman non riuscì a farla crollare. Lei rispose a ogni domanda con la verità. Era tutto quello che le restava. Suo marito le aveva tolto tutto il resto. Le aveva preso la figlia e il figlio, e non si era limitato a ciò: in modi diversi li aveva derubati della loro innocenza e li aveva rovinati. Temendo di sbagliare, consapevole del fatto che centinaia di occhi la stavano osservando, formulava ogni singola parola di ogni singola risposta con la ponderata attenzione di una madre che insegna le prime lettere dell'alfabeto a suo figlio. Goldman, sempre pronto con la domanda successiva, riusciva a stento a trattenersi. Quando cercava di metterle fretta, lei lo ignorava; quando provava a interromperla, lei proseguiva a parlare come se si fosse dimenticata della sua presenza. Lui continuò a martellarla, ripetendo più volte le stesse domande, cercando di farle ammettere quello che lui sapeva aveva fatto o a farle cambiare la testimonianza per poter poi usare le contraddizioni contro di lei. Le scagliava addosso le sue domande con incredibile ferocia. Se avesse potuto, l'avrebbe lapidata. Ma non servì a niente. Lei rimase lì seduta come un automa dallo sguardo vitreo, tornando all'inizio della risposta e ripetendola. Frustrato oltre misura, alla fine Goldman si arrese. "Può negarlo all'infinito, signora Larkin, ma sappiamo entrambi che ha violentato suo figlio!". Con quell'accusa che echeggiava nell'aria, scoccò un'ultima occhiata
all'imputata e si voltò. "La difesa chiama Amy Larkin", annunciai prima ancora che Goldman avesse raggiunto la sua sedia. Fino all'ultimo non avevo avuto la certezza che si sarebbe presentata. Aveva detto che forse non l'avrebbe fatto. Sapeva quant'era importante per la difesa di sua madre - su quel punto ero stato molto chiaro - ma mi aveva fatto sapere che la decisione spettava a lei e che nessuno l'avrebbe costretta. Le avevo fatto consegnare un mandato di comparizione, ma non faceva alcuna differenza. Se Amy avesse deciso di non testimoniare, nessuno avrebbe potuto farci nulla. Era testarda, ma non insolente. Non contestava l'autorità che avrebbe potuto trascinarla di fronte a un giudice e mandarla in prigione per oltraggio alla corte. Non era questo. Era solo che non avrebbe fatto quello che non desiderava fare. Mai più. Non l'ho più vista dal processo di sua madre, e non ho mai cercato di scoprire che ne è stato di lei. Forse non volevo sapere. Forse preferivo il conforto dell'illusione, la vaga speranza che in qualche modo ogni cosa fosse andata a posto. Tutto quello che so per certo è che era più matura della sua età, ma che la sua non era il genere di saggezza che porta a quella che consideriamo felicità. Non mi passò mai per la testa che stessi facendo qualcosa di sbagliato. Amy era una teste, per quanto mi riguardava, importantissima e doveva deporre. Se qualcuno avesse suggerito che stavo compiendo un atto osceno quanto quello del padre, l'avrei accantonato come il commento ignorante di un individuo che non sapeva nulla di un processo penale. Ma quel qualcuno avrebbe avuto ragione. Tutte le detestabili cose che le erano state fatte erano avvenute in privato; erano un vergognoso segreto che lei non era mai stata in grado di condividere con nessuno. Confessando, il padre l'aveva tradita per la seconda volta. Aveva violato l'obbligo fondamentale di un genitore e poi aveva detto al mondo ciò che aveva fatto. Chiamata a testimoniare per il bene di sua madre, Amy era costretta a dire a centinaia di sconosciuti quello che per anni aveva nascosto a persone a cui avrebbe potuto affidare la propria stessa vita. Che diritto avevo, che diritto aveva chiunque di farle questo? Ma allora non ci pensavo. Tutto ciò che mi importava era che Amy era in quell'aula, e teneva la mano alzata mentre ascoltava il cancelliere che recitava il giuramento. Non sembrava affatto nervosa, ma quanti testimoni lo sembrano? Si siedono a quel banco con il cuore che batte all'impazzata e la mente invasa da
mille timori, chiedendosi se saranno in grado di aprire bocca quando arriverà il momento di rispondere e se quando lo faranno ne uscirà qualche parola. Ma in superficie sembrano perfettamente controllati, indossando la maschera che crediamo il mondo desideri vedere. Cominciai con la domanda che era al centro delle accuse. "Nel periodo in cui accadeva, tua madre sapeva che avevi rapporti sessuali con tuo padre?". Amy scosse il capo con forza. "No. Non lo lasciavo entrare in camera mia, se mia madre era ancora sveglia". Rimasi colpito dal modo in cui si era espressa. "Non lo lasciavi entrare in camera?". "Gli feci promettere che lei non l'avrebbe mai saputo. Non volevo che soffrisse". Aveva sedici anni, e parlava come una donna che aveva avuto una relazione con il marito della sua migliore amica. "Come fai a essere sicura che non lo sapesse?". Accantonò sommariamente la domanda. "Non si sarebbe tenuta dentro una cosa simile. Avrebbe fatto qualcosa". Mi rivolsi alla giuria. "L'accusa sostiene che non ha fatto nulla perché aveva con tuo fratello lo stesso tipo di rapporto che tuo padre aveva con te". "È ridicolo", sbottò piena di disprezzo. "Gerald e mia madre! Sta solo cercando di vendicarsi". Goldman balzò in piedi. "Obiezione. Chiedo che la frase venga cancellata". Jeffries non esitò. "Accolta", tuonò. "La giuria non terrà conto dell'ultima dichiarazione della teste". La sua voce stava ancora echeggiando nell'aula quando domandai: "E tuo fratello ti ha mai suggerito che ci fosse qualcosa che non andava nei rapporti con sua madre?". "No, mai. Gliel'ho detto. Sta solo cercando di vendicarsi". Jeffries non attese di udire l'obiezione di Goldman. Si sporse verso il banco dei testimoni. "Signorina, so che ha sofferto molto. Ma la sua testimonianza deve limitarsi a ciò che ha visto o sentito. Non può fare congetture su quello che qualcuno avrebbe o non avrebbe potuto fare o sul perché abbia detto qualcosa. Ha capito?", domandò in tono fermo. Amy era una sedicenne diversa da tutte le altre. L'età per lei non significava nulla. "Ho capito", rispose. "E non sto facendo congetture. È stato
Gerald a dirmi che voleva vendicarsi". Scese un silenzio di tomba. Continuando a fissarla, Jeffries si ritrasse aggrottando la fronte. "Non le è mai venuto in mente che potesse vendicarsi, come lei si è espressa, per quello che gli era stato fatto?". Amy non cedette. "Non gli è stato fatto niente", rispose. "Ha altre domande per questa testimone, signor Antonelli?", chiese Jeffries, ansioso di sbarazzarsene. Annuii con gli occhi a terra, riluttante a cominciare la serie di domande che sapevo sarebbe stata molto diversa da ciò che chiunque in quell'aula avesse mai udito, domande le cui risposte avrebbero potuto infrangere le nostre illusioni su ciò che eravamo e ciò su cui potevamo confidare. "Amy, quanti anni avevi quando tuo padre cominciò a farti certe cose?". "Undici", disse lei senza esitare. "Fu allora che cominciò a toccarmi. La prima volta che lo facemmo avevo dodici anni". Aveva sedici anni, capelli biondi o castani a seconda della luce e una quantità di efelidi sul volto sufficiente a darle l'aspetto, malgrado il vestito, del maschiaccio in grado di correre più forte di tutti i suoi compagni di classe. "Quando la cosa cominciò", domandai, "come mai non lo dicesti a tua madre? Come mai non le chiedesti di farlo smettere?". "Era mio padre", spiegò. "Mi disse che era il suo modo di dimostrarmi quanto mi amava. Mi disse che doveva essere il nostro segreto". "Ma non era l'unica ragione, vero?". Teneva gli occhi fissi sui miei, e non aprì bocca. Avevamo già sviscerato l'argomento. Sapevamo entrambi cosa stava per dire. Continuò a fissarmi, e all'improvviso compresi cosa stava facendo. Stava aspettando me, aspettando di essere sicura che fossi pronto. La prima volta che me l'aveva detto aveva visto l'incredulità e l'imbarazzo sul mio volto, e non voleva che accadesse di nuovo. Le era diventato naturale trattare gli adulti come se fossero dei bambini. Le sorrisi e ripetei la domanda. "Non era l'unica ragione, vero?". "No. La vera ragione era che non volevo che finisse. Mi piaceva. È quello che tutti si scordano. Il sesso è piacevole". Il silenzio nell'aula era tale che avreste potuto sentire battere i cuori, se foste riusciti a distogliere lo sguardo da quella donna-bambina seduta al banco dei testimoni. "Ma malgrado ciò c'erano dei momenti in cui avresti voluto che finisse, non è vero?".
Amy esitò, e sotto quell'aria di mondana sicurezza si intravide la prima traccia di un dubbio. No, di una certezza. Sapeva che era sbagliato, e sapeva, o credeva di sapere, che avrebbe potuto farlo smettere. "Sì", disse abbassando lo sguardo sulle sue unghie corte da studentessa. "A volte gli chiedevo di non farlo". Era come penetrare nel terreno del male, formulare quelle domande. Avevo la strana sensazione di abbandonarmi a una qualche segreta depravazione. "E lui come si comportava, quando gli chiedevi di non farlo?". Amy alzò la testa, e nei suoi occhi c'era un'espressione smarrita. "Se ne andava". Eravamo nel buio, io e lei soli, e precipitavamo in un buco nero senza fondo. "E a quel punto cosa succedeva?". "Tornava". "E poi?". "Si sedeva sul bordo del letto e mi diceva che sapeva che in realtà lo volevo, e che non c'era problema perché molta gente lo faceva; e che lui mi voleva bene, e che non c'era da preoccuparsi perché sarebbe sempre stato il nostro segreto. E che non avrebbe mai fatto nulla contro la mia volontà". "E poi?". "Facevo quello che voleva". "Ma soltanto dopo che lui ti aveva fatto credere che eri tu a volerlo". "Sì". "E tu pensavi che fosse sbagliato?". Con un gesto quasi identico a quello di sua madre, si morse il labbro e annuì. "Sì". "Ma lui ti diceva che non c'era problema?". Annuì di nuovo. "Sì". Sotto certi punti di vista era peggio dell'omicidio, peggio di quello che normalmente consideriamo uno stupro. Non l'aveva mai presa con la forza; aveva fatto qualcosa di molto peggio. L'aveva resa complice della sua stessa rovina. Le aveva fatto credere di essere colpevole della propria corruzione. Le aveva insegnato il piacere. E così facendo l'aveva derubata della sua innocenza. Le aveva fatto desiderare ciò che lei credeva soltanto lui potesse darle. L'aveva corrotta, il sangue del suo sangue, e per quanto ne sapessi non ci aveva pensato due volte. Tutta la terapia del mondo non avrebbe cambiato quel dato di fatto. Tutti i membri di quella famiglia erano in cura da uno psicologo, e due degli specialisti avevano addirittura testi-
moniato. Ma nessuno di loro sapeva cos'era veramente successo a quella ragazza. Blateravano all'infinito di 'rapporti disfunzionali' e descrivevano i meccanismi grazie ai quali tutti loro sarebbero alla fine riusciti ad accettare l'accaduto, ma non avevano nulla da dire sull'animo umano o sulla malvagità dell'incesto. Nemmeno una parola. C'era della follia in tutto ciò; follia in quello che il padre aveva fatto; follia in ciò che quei sedicenti esperti del comportamento umano avevano fatto, o meglio non erano riusciti a fare. Io non sono un credente, ma sono sicuro che si possa trovare più saggezza nella Genesi che in qualsiasi altro testo erudito. Quella ragazza era stata costretta da suo padre a mangiare il frutto dell'albero della conoscenza, era stata costretta a lasciare il giardino dell'Eden e l'innocenza fiduciosa dell'infanzia. Ancora peggio, era stata portata a credere che fosse colpa sua, che fosse stata lei a commettere il peccato originale. Di sicuro credeva che la propria consapevolezza di quello che era suo padre la rendeva responsabile di ciò che era successo a suo fratello. "Tuo padre ha mai fatto o detto qualcosa per farti credere che avrebbe potuto importunare Gerald?". "Mi disse che a volte lo eccitava". "Gerald?". "Sì". "E ricordi cosa gli rispondesti?". "Gli dissi che se l'avesse toccato, avrei detto alla mamma quello che combinava con me. E lui mi promise che non l'avrebbe mai fatto". "Gli credesti?". Amy non rispose direttamente. "Cercai di prendermi cura di Gerald. Passavo molto tempo con lui. Me lo portavo dietro, anche quando i miei amici non volevano bambini. Cercai di fargli capire in tutti i modi che avrebbe potuto parlare con me di qualsiasi cosa, che non ero soltanto sua sorella ma la sua migliore amica. Gli dissi che non sempre i genitori capiscono i problemi dei figli". "E Gerald ti ha mai detto nulla per farti pensare che stava facendo quello che adesso sostiene di aver fatto con sua madre?". "No, certo che no. Mi diceva tutto, ma non ha mai accennato a quelle cose finché...". "Finché?". Si grattò l'angolo dell'occhio, poi strinse i braccioli della sedia e si raddrizzò, comprimendo le labbra in una linea diritta. "Finché non è andato a vivere con mio padre". Fece un sorrisetto amaro e aggiunse: "Mio padre è
molto bravo a sedurre i bambini e a far credere loro quello che vuole che credano". Spostò gli occhi su sua madre, seduta sulla sedia accanto alla mia, come se volesse sincerarsi che stesse bene. Era lo sguardo di un genitore che controlla come sta suo figlio. Goldman non era uno stupido. Quasi tutto il suo controinterrogatorio fu breve e concreto, affrontato con ostentata riluttanza. "Dopo tutte le cose terribili che sono accadute, dev'essere bello poter contare sul sostegno di tua madre". Amy era troppo intelligente per cascarci. Non disse nulla. Lo guardò, aspettando la domanda. Goldman le scoccò un sorriso suadente. "Sai cosa significa, vero? Non essere in grado di rivelare a nessuno, nemmeno a tua madre, quello che ti è stato fatto?". Avrebbe dovuto mostrare più buon senso, ma malgrado tutto ciò che aveva udito pensava ancora di avere a che fare con una persona troppo giovane, troppo inesperta per sapere che spesso le domande hanno significati che vanno oltre l'interrogativo che pongono. "Non potevo dirlo a mia madre", rispose Amy fissandolo con un'occhiata sprezzante, "perché l'avrebbe ferita in modo irreparabile. Ma Gerald avrebbe potuto dirmelo, l'avrebbe fatto, perché non aveva ragione di credere che mi avrebbe ferito". Goldman non distolse lo sguardo da lei, ma s'irrigidì dalla testa ai piedi sentendosi osservato dall'intera aula. Cercò di coprire la risposta di Amy con un'altra domanda, ma lei fu troppo rapida. "Io lo proteggevo. Gerald sapeva che non avrei permesso che gli accadesse qualcosa. E non è successo niente, finché non gli hanno permesso di andare a vivere con mio padre". Il volto di Goldman era più teso di una pelle di tamburo. "Mentiresti per proteggere tua madre, non è vero?". È una domanda che non funziona mai, e l'ho udita mille volte. "Non è necessario", rispose calma Amy». Tacqui e feci scorrere lo sguardo sui tre uomini seduti a tavola con me. Harper, che stava fissando il suo bicchiere vuoto, alzò gli occhi su di me. Micronitis picchiettò con il dito sul vetro dell'orologio per ricordare ad Asa che erano già in ritardo, ma il vecchio non gli badò. Tolse le mani da sotto il mento e le schiuse, grandi, morbide e rosee come quelle del ventre di un neonato. «E poi cosa accadde?», domandò in tono sommesso e ben disposto. Mi-
cronitis riabbassò il polsino della camicia sull'orologio e tornò ad abbandonarsi sulla sedia. Potevo vederla nella mia mente, sentirla nell'animo, tutta l'accorata, emozionante retorica che molti anni prima avevo riversato su quella giuria di sconosciuti quando avevo cessato di fare ciò che ci si aspettava che facessi e mi ero lanciato in qualcosa che mi era stato suggerito da una voce nel profondo della mia coscienza. «Citai Euripide», dissi ad alta voce, sorprendendo perfino me stesso. «Nell'arringa finale». Micronitis batté le palpebre e scivolò in avanti, posando i gomiti sul tavolo. La sua espressione imbronciata e impensierita venne immediatamente rimpiazzata da un improvviso interesse. «Quale tragedia?», domandò con un sorriso pieno d'aspettativa sulla minuscola bocca. Ricordavo non soltanto la citazione, ma intere sezioni di un'arringa finale di quasi due ore. Ci avevo lavorato diversi giorni, scrivendola a mano, riscrivendola, rileggendola così spesso che mi echeggiava nella mente quando cercavo di dormire; l'avevo letta così tante volte che aveva finito per perdere ogni familiarità e si era trasformata in qualcosa che non avevo mai visto. Ero sicuro che non me ne sarei ricordato nemmeno una parola quando mi fossi alzato dal banco, ma avevo deciso che anche in quel caso non avrei letto, non al cospetto di una giuria e di un'aula affollata. No, doveva sembrare un discorso spontaneo, qualcosa in cui credevo al punto che le parole mi uscivano di bocca di propria iniziativa. E in realtà fu così. Quando cominciai a rivolgermi a quella giuria, dimenticai tutto ciò che avevo scritto, provato e cercato di imparare a memoria. Dimenticai tutto, e non ne scordai nemmeno una parola. Lo avevo imparato così bene che era diventato una parte di me, qualcosa che era penetrato al di sotto della mia coscienza. Aveva acquisito tutta la forza della passione. Ma a distanza di anni la passione era svanita, e restavano soltanto le parole. Ripeterle ora senza il fuoco di un tempo, senza la fede virtuosa in ciò che esprimevano, mi sembrava inelegante e addirittura imbarazzante. Asa notò la mia esitazione. «Coraggio», mi incitò. «Potresti essere l'unico a riderne». «"Oh, dove sono la nobile paura del pudore o la forza della virtù, ora che la bestemmia è al potere e gli uomini si sono dimenticati della giustizia, ora che l'unica legge è l'illegalità e che nessuno condivide..."». Micronitis concluse la citazione per me. «"E che nessuno condivide il
timore degli dei". Ifigenia in Aulide. L'hai davvero citata in tribunale?», chiese, guardandomi con un rispetto tutto nuovo. Strofinandosi il labbro inferiore con un dito, Asa mi osservò per un istante. «Era il segreto di Antonelli», disse con la tipica espressione penetrante negli occhi azzurro pallido. Nella sua voce c'era una sfumatura malinconica, la nostalgia del rimpianto. «Gli avvocati commettono lo sbaglio di credersi in dovere di spiegare le cose ai giurati nei termini più semplici. E così si rivolgono a loro come se fossero dei bambini. Antonelli, invece, si è sempre rivolto alle giurie come se almeno un membro sapesse del caso più di quello che sapeva lui stesso. Usava il tono che useresti al cospetto delle dodici persone più serie sulla faccia della terra. È per questo che hai sempre vinto, vero? Perché hai capito che le persone non devono essere necessariamente intelligenti per riconoscere l'intelligenza». Scossi la testa e mi strinsi nelle spalle come se fosse una cosa su cui non mi ero mai soffermato. «Credo che Jeffries avesse probabilmente un'interpretazione diversa». Asa era troppo anziano e troppo perspicace per assecondare una menzogna, anche il genere di bugia che nelle conversazioni educate spacciamo per preoccupazione nei riguardi del prossimo. «Credeva che tu fossi un individuo pericoloso, che fossi in grado di convincere i giurati a fare cose che non avrebbero dovuto fare, che corrompessi il sistema». Harper Bryce sgranò gli occhi guardando Asa e poi me. «Quanti processi hai affrontato con lui?», domandò. Fu Asa a rispondere per me. «Soltanto quello. Il caso Larkin». Tornò a rivolgersi a me. «Quanto tempo impiegò la giuria a decidere?». «Venticinque minuti». Quando Harper scoppiò a ridere, il suo ventre sbatté contro il bordo del tavolo. «Ci credo che era convinto che tu corrompessi il sistema. Ma come mai fu l'unico processo in cui vi affrontaste?». Asa conosceva Jeffries da una vita, e conosceva me fin dagli inizi della mia carriera. La storia apparteneva tanto a lui quanto a me. «Il caso Larkin fu quello che rese famoso Antonelli, e in parte accadde a causa di ciò che aveva fatto Calvin. L'aveva spedito in galera per oltraggio alla corte; si era schierato con l'accusa ogni volta che Antonelli aveva mosso un'obiezione. Ha sentito cosa disse alla ragazza durante la sua testimonianza, e cioè che se suo fratello aveva voluto vendicarsi, era a causa di ciò che gli aveva fatto sua madre. L'unica cosa che non aveva fatto era dire al-
la giuria che avrebbe dovuto emettere un verdetto di colpevolezza. Calvin aveva esagerato. Forse non avrebbe avuto importanza se Antonelli avesse perso, ma Antonelli vinse, e l'impressione fu che Calvin fosse stato sconfitto. E quella era una cosa che Calvin non poteva perdonare. Lui doveva vincere sempre. Antonelli sarebbe stato un pazzo ad affrontarlo di nuovo». Spinse indietro la sedia e si alzò. «Be', ora se n'è andato», soggiunse. «Aveva una mente brillante, una delle migliori menti legali che abbia mai conosciuto. Peccato che non sopportasse il prossimo». Diede un'occhiata al suo orologio. «Perché non mi hai detto che si stava facendo così tardi?», chiese scoccando un'occhiata a Micronitis prima di strizzarmi l'occhio. Quando se ne furono andati, Harper si sporse verso di me con un'espressione ironica sul volto. «Forse questo spiega come mai Jeffries ti odiasse, ma tu perché continui a odiarlo ancora adesso? Ti ha spedito in galera per un paio di giorni, ma ti stava facendo un favore. Non si parlava d'altro, allora, del fatto che tu ti fossi presentato in aula direttamente dalla prigione, lercio come un barbone, e avessi insistito a ripetere la stessa maledetta domanda. A causa di quello che ti ha fatto sei diventato una leggenda. E anche se tu non fossi intelligente come credo tu sia, è successo troppo tempo fa per provare ancora rancore». Mi osservò per un istante prima di aggiungere: «Non si tratta del caso Larkin, vero? È successo qualcos'altro, c'è un altro motivo per cui non riesci a smettere di odiarlo anche dopo la sua morte». 5 Non appena la vidi aprire il corteo funebre uscendo dalla chiesa, il volto nascosto dietro il velo nero vedovile, seppi che dovevo andare a trovarlo. Ne avevo sempre avuto l'intenzione. Dio sa quanto spesso ci avevo pensato, soprattutto subito dopo l'accaduto, quando tutto era crollato; ma sembrava sempre che avessi qualcos'altro da fare, un altro caso, un altro processo, qualche ostacolo che s'intrometteva. Continuavo a promettere a me stesso che ci sarei andato, e dopo qualche tempo la promessa stessa era in grado di rassicurarmi sulle mie buone intenzioni. Alla fine ero riuscito ad allontanare il pensiero dalla mente, tranne nelle occasioni in cui sentivo fare un nome che mi rammentava il suo e tornavo a convincermi che stavolta ci sarei andato. Se non l'avessi fatto ora, non l'avrei fatto più. Non solo perché Jeffries era morto e perché Elliott Winston un tempo era stato sposato con la sua
vedova. Se non fossi andato a trovarlo in quel momento non sarei più riuscito a superare il senso di colpa, la sensazione che quello che gli era capitato dipendesse in parte da me. In realtà non era colpa mia, ovviamente; quanto meno, non direttamente. Ma mi biasimavo per non essere stato in grado di capire cosa stava accadendo prima che fosse troppo tardi. Sapevo meglio di chiunque altro di cosa era capace Calvin Jeffries. Credo che Elliott Winston mi piacesse perché mi ricordava com'ero agli inizi, quand'ero giovane ed entusiasta e convinto dell'importanza di ciò che facevo. Ma suppongo che non sia del tutto vero. Io sembravo innocente, Elliott lo era sul serio. Forse è per questo che mi piaceva tanto: mi ricordava quello che avrei voluto essere. Nessuno voleva assumerlo, almeno nello studio legale di cui ai tempi ero uno dei soci anziani. Non c'era nulla di personale. Elliott aveva lavorato come mio assistente l'estate precedente il suo ultimo anno di specializzazione. Piaceva a tutti, e tutti pensavano che sarebbe diventato un ottimo avvocato; ma non aveva frequentato le migliori facoltà di giurisprudenza del paese, e questa, per la maggioranza dei dodici soci che si erano dati convegno nella sala riunioni dello studio, era un ostacolo insormontabile. «Elliott Winston vuole diventare un penalista», cercai di spiegare. «È il mio lavoro, e non ho mai avuto un cliente, o se per è questo un giudice, che mi abbia chiesto dove ho studiato». «Hai studiato a Harvard», osservò uno dei soci. «E quando mi sono laureato, dell'esercizio della professione legale sapevo meno di chiunque abbia mai frequentato le scuole serali. Di sicuro ne sapevo meno di Elliott». «Può darsi», disse il socio aggrottando la fronte, «ma Harvard ti ha insegnato a pensare come un avvocato». Lo guardai con un sorriso ironico. «Da che parte stai, in questa controversia?». Nessuno lo trovò divertente. Avevano tutti studiato nelle scuole migliori e si erano tutti laureati fra i primi dieci, o cinque, o addirittura due o tre dei rispettivi anni accademici. Erano ciò che erano, parte di una gerarchia, di un'aristocrazia legale dedita a preservare la propria identità con una rigida politica di esclusione. Indicando la catasta di curriculum sul tavolo, li sfidai. «Trovatemi una persona in quella pila che potrà diventare un avvocato migliore - un penalista migliore - di Elliott Winston». «In quella pila non c'è una persona che non si sia laureata nei più presti-
giosi istituti del paese». «Non vi ho domandato questo», insistetti. «Abbiamo una reputazione da mantenere», obiettò un altro socio. "La reputazione di uno studio in cui tutti non fanno che ripetersi quant'erano bravi prima di essere ammessi all'ordine", avrei voluto ribattere. Invece mi appigliai alla sua affermazione e finsi di essere d'accordo. «È esattamente quello che cerco di fare, mantenere la reputazione dello studio come quello in cui tutti vorrebbero lavorare perché assume soltanto i migliori. Credo di sapere qualcosa sulle qualità di un penalista. Ho passato in rassegna tutti quei curriculum», dissi indicando la pila di fogli con un cenno del capo. «Sono notevoli, ma non c'è nessuno che preferirei a quel ragazzo. Lo conosco. So cosa è in grado di fare; ha lavorato per me. È il miglior assistente che abbia mai avuto. Lavorava di più, aveva più iniziativa, più energia e più immaginazione, cose che non si possono insegnare in un'aula scolastica, di gran parte dei nostri associati». Diedi il meglio di me, ma non ebbe alcun effetto. Elliott Winston non era andato a Harvard, a Yale, a Stanford, alla Michigan o in nessuno di quegli istituti il cui prestigio, a quanto sembrava, sarebbe stato minacciato dalla sua presenza. Messa ai voti, la sua candidatura venne respinta dieci a uno. Michael Ryan, che aveva fondato lo studio costruendolo dal nulla, non disse una parola e non votò. Giocherellando costantemente con le mani e digrignando i denti, osservò la scena con sguardo malevolo. «Abbiamo preso Antonelli perché avevamo bisogno di un penalista, e lui vuole prendere Winston come associato. Credo che la decisione spetti a lui». Il suo sguardo percorse rapido prima un lato del tavolo, poi l'altro. Nessuno lo ricambiò. «Bene, Elliott è assunto. Passiamo ad altro». Ogni socio aveva il diritto di voto, ma quello di Ryan era l'unico voto che contava. Elliott non riusciva a crederci. Dopo che gliel'avevo detto per la seconda volta, me lo fece ripetere di nuovo per essere sicuro di aver sentito bene. «Credevo di non avere possibilità», gridò. «Non prendono mai nessuno che non venga da una delle migliori facoltà del paese. Aspetta solo che lo dica a mia moglie!», esclamò prima di riagganciare. Dubito di aver notato, al momento, che la sua reazione sembrava dimostrare che avevo torto e che gli altri soci avevano ragione. C'erano persone che provavano riverenza per i luoghi in cui avevano studiato. D'altra parte Elliott era giovane, e uno dei rischi della giovinezza è quello di lasciarsi impressionare dalle cose sbagliate per le ragioni sbagliate.
Pur senza ammettere apertamente di aver sbagliato, dopo sei mesi non c'era uno dei soci che avevano votato contro di lui che non avrebbe votato a suo favore. Fra tutti gli associati che assumemmo quell'anno, Eliott era il preferito dell'intero studio. Faceva sentire tutti importanti, e nel suo atteggiamento non c'era nulla di insincero. Lo pensava davvero. Erano andati nelle migliori facoltà di giurisprudenza del paese, mentre lui non aveva mai passato più di due giorni di fila fuori dall'Oregon. Ogni volta che poteva chiedeva loro che cosa si provasse a frequentare un luogo che lui aveva soltanto sognato. Malgrado la loro ipocrita insistenza sul fatto che gli avvocati migliori fossero quelli che tenevano i loro clienti fuori dalle aule e i loro nomi fuori dai giornali, l'unica cosa che preferivano di più del parlare di loro stessi era avere una platea che ascoltava le loro parole come fossero le rivelazioni di un profeta. Quando ci ritrovammo in sala riunioni per prendere le decisioni finali sul gruppo di associati da assumere per l'anno successivo, si udirono molte lamentele sul fatto che la commissione per le assunzioni non fosse stata in grado di trovare altri candidati come Elliott Winston. Non ho mai visto nessuno lavorare più sodo di lui. Era sempre il primo ad arrivare in ufficio al mattino e l'ultimo a uscirne la sera. Quando passavo durante un fine settimana, di solito lo trovavo in biblioteca, i piedi appoggiati sul bracciolo della poltrona vicina, una voluminosa raccolta dell'Oregon Reporter aperta in grembo. Faceva tutto ciò che gli chiedevi, che si trattasse di correre al palazzo di giustizia a presentare una mozione al cancelliere o di svolgere una ricerca sulle più recenti opinioni della Corte Suprema degli Stati Uniti, e lo faceva con tale gioioso entusiasmo che ti faceva pensare di avergli fatto un favore. In un certo senso, suppongo che dovesse sembrargli proprio così. Per quanto incredibili fossero i suoi orari di lavoro, non erano affatto più lunghi, ed erano di sicuro più interessanti, dei turni di notte in magazzino che aveva fatto mentre si stava specializzando. Con una moglie e due figli piccoli, era l'unico modo in cui poteva permettersi gli studi. Sarebbe stato meglio per lui, per i bambini e perfino per lei se non ci avesse mai provato, o se avesse deciso che non ce la faceva. Quant'è facile dirlo adesso, come se qualcuno avesse potuto sapere cosa sarebbe accaduto. Ancora non so come sia successo. Non c'era niente di inevitabile, nulla di predeterminato. Elliott avrebbe potuto godere di un'intera carriera senza conoscere Calvin Jeffries salvo che per un'occasionale comparizione in tribunale. Non l'avrebbe mai nemmeno conosciuto, se non fosse stato per sua
moglie. A volte, di sabato, quando sapeva che in ufficio non ci sarebbe stato nessuno, Elliott portava con sé i due figli. Il maschio aveva più o meno cinque anni, la sorellina quattro. Erano straordinariamente educati. Si sedevano al tavolo della sala riunioni e disegnavano sul retro dei fogli delle minute delle memorie che il padre aveva recuperato dai cestini della carta straccia, restando in perfetto silenzio mentre lui studiava le anticipazioni delle più recenti decisioni della corte d'appello. La prima volta che li vidi, Elliott mi spiegò che la loro madre faceva l'infermiera e a volte era impegnata nei fine settimana. In seguito seppi che lavorava in un piccolo ospedale di Gresham, pochi chilometri a est di Portland. Il direttore era uno dei pochi amici intimi di Calvin Jeffries. Fu così che cominciò tutto, fu così che si conobbero, che le orbite di quelle tre vite giunsero a intersecarsi. Era tutto ciò che sapevo, e lo sapevo soltanto perché Elliott un lunedì disse che quel fine settimana aveva cenato con il "giudice Jeffries". Dovette accorgersi della mia espressione confusa. «Mia moglie lo conosce. Non benissimo», soggiunse. «Ogni tanto passa dall'ospedale. Il direttore è un suo buon amico». Ero curioso. «E così vi ha invitati a cena?». «No, non esattamente. È stato il direttore, Byron Adams, a invitarci. Ci saranno state una decina di persone. Ha detto a Jean che magari avrei avuto piacere di conoscere il giudice». Lo trovava un pensiero insolitamente premuroso. «E tu?». «Io cosa?». «Hai avuto piacere di conoscere Jeffries?». «È stato grande», rispose Elliott traboccante di entusiasmo. «Mi ha detto di interpellarlo ogni volta che ho bisogno di un chiarimento. Quando vuoi, ha detto». Il sorriso svanì dal suo volto. Esitò, come se non fosse sicuro che avrebbe dovuto dire ciò che un istante prima era ansioso di condividere. La sua espressione mi diceva che era qualcosa che Jeffries aveva detto di me. «Coraggio», gli dissi. «Non me la prendo, stai tranquillo». «Mi ha raccontato di quando ha dovuto mandarti in galera per oltraggio alla corte». Il modo in cui lo disse lo faceva sembrare uno scherzo fra studenti, un aneddoto talmente divertente da raccontare da adulto che valeva la pena di averne sofferto da ragazzo.
«È questo che ha detto? Che ha dovuto mandarmi in galera per oltraggio alla corte?». Elliott era troppo lieto di non aver fatto nulla di male riferendomi ciò che aveva detto Jeffries per prestare attenzione al mio tono. «Ti ha raccontato del processo?», chiesi. «No», rispose lui. «Che processo era?». Feci per dirglielo, poi ci ripensai. Perché avrebbe dovuto schierarsi in una guerra che non lo riguardava? «Non importa», dissi accantonando l'argomento. Mentre Elliott si voltava per andarsene, mi udii soggiungere: «Fai attenzione, con Jeffries». Mi guardò da sopra la spalla, aspettando una spiegazione. Mi limitai a scuotere il capo. «Fai attenzione». Che cosa poteva significare per lui, un giovane idealista, un avvocato convinto di poter aiutare il prossimo a cui veniva presentato un leggendario giudice che mostrava interesse per lui? Prima uno studio legale che non assumeva mai nessuno che non provenisse dalle scuole migliori, ora un giudice che non degnava della sua attenzione nemmeno i migliori avvocati della città. Elliott Winston era al settimo cielo. Era indistruttibile, e tutto quello che io ero riuscito a dirgli era di "fare attenzione". Doveva aver pensato che fossi uscito di senno. E poteva anche aver ragione. Lavorava sodo, più di qualsiasi associato avessi mai visto, ma aveva anche una vita al di fuori della legge. Aveva due figli bellissimi e sani e una bella moglie, e la sua carriera era cominciata meglio di quanto avrebbe potuto immaginare. Io non ero sposato e non avevo figli, e sebbene conoscessi centinaia di persone ce n'erano soltanto due o tre che potevo considerare amiche. Circondato dai volti anonimi di chi frequentava le aule di tribunale, trascorrevo le mie giornate a fare il possibile per diventare il conoscente più intimo dei dodici sconosciuti che formavano la successiva giuria che avrei dovuto persuadere. Ogni sera facevo ritorno in una casa deserta, e soltanto di rado ci trovavo qualcosa di sbagliato. Giovane e affabile, brillante e correttamente ambizioso, Elliott Winston stava vivendo il Sogno Americano mentre io vivevo da solo ed ero ancora alla ricerca di qualcosa che non riuscivo mai a definire. Se avessi saputo che un giorno uno di noi due si sarebbe ritrovato a percorrere la strada su cui mi trovavo in quel momento, avrei ritenuto più probabile che fosse lui. Elliott non avrebbe atteso così a lungo prima di farlo. Agiva sempre con rapidità, senza esitazioni, senza quei ripensamenti restrittivi che i codardi
definiscono prudenza e che usano per giustificare la loro mancanza assoluta d'iniziativa. Era uno dei vantaggi di un'esistenza priva di qualsiasi macchia. Elliott non aveva mai dovuto interrogarsi sulle proprie motivazioni o fare esami di coscienza. Poteva fare quello che decideva di fare con la consapevolezza di essere nel giusto. Forse, dopo tutto, era più verosimile che fossi io ad andare a trovarlo e non il contrario. Ero sincero quando mi ero ripromesso di farlo, ma il mio calendario era pieno. C'era un processo che durò un'intera settimana invece dei tre giorni previsti. C'era una memoria da scrivere su un complesso argomento rispetto al quale non si trovavano due corti che fossero d'accordo. C'era una dozzina di cause che avrei dovuto preparare e un'altra dozzina dopo di queste. C'erano mille cose da fare e non c'era il tempo per farle. Avevo un milione di ragioni per non andare da Elliott, e continuavo a inventarne di nuove. Avevo paura di quello che avrei potuto trovare, di ciò che avrei potuto provare. Mi posi come scadenza l'ultimo giorno di marzo e cercai di convincermi che aspettare fino ad allora era il modo più razionale di procedere e non una semplice, ennesima scusa per rimandare la cosa. Il mattino del trentuno mi misi al volante dell'auto e partii, dicendomi che avrei sempre potuto cambiare idea e tornare indietro. Era la seconda settimana di primavera, e la giornata era fredda come quelle che avevamo avuto quell'inverno. Nuvole grigio ardesia attraversavano un cielo rabbioso, fuggendo al cospetto di un cumulonembo nero e torreggiante. Cominciò a cadere una pioggia leggera che presto si trasformò in un implacabile acquazzone. Poi cessò all'improvviso. Nell'aria non si avvertiva un suono né un alito di vento; c'era soltanto una strana calma fiocamente illuminata. Un grosso granello di ghiaccio rimbalzò sul parabrezza, seguito da un secondo e da un terzo, poi la grandine cominciò a martellare come una raffica di mitragliatrice. Le auto sbandavano sulla strada mentre i conducenti accendevano i fari e frenavano e alcuni di loro cercavano di accostare e fermarsi. Durò soltanto pochi minuti. Un raggio di sole squarciò le nubi e donò una lucentezza serica alla strada bagnata. Sul lato occidentale della valle, le basse colline lungo la costa erano coperte di nubi. Prima che riuscissi a percorrere altri otto chilometri, il cielo era ridiventato nero. Mezz'ora dopo lasciai l'autostrada alla terza uscita di Salem e mi fermai al semaforo. Sul lato opposto della strada, un vecchio dalla pelle avvizzita strizzava gli occhi guardando davanti a sé mentre avanzava verso l'ingresso di una pancake house. Appena dietro di lui, una donna grassottella dai
corti capelli grigio ferro gesticolava con la mano e parlava a raffica. Lui le tenne la porta aperta con un'espressione vacua sul volto, annuendo mentre la donna gli passava davanti. Attraversai un quartiere di villette a schiera di legno costruite negli anni Cinquanta e Sessanta, case a un piano ammucchiate una accanto all'altra, con praticelli verdi sul davanti e giardinetti squadrati e protetti da steccati sul retro. Quando erano ancora nuove, i bambini potevano andare in bicicletta per strada e nessuno pensava a chiudere a chiave le porte durante la notte. Ora c'era troppo traffico e ognuno chiudeva a chiave tutto ciò che possedeva. Finalmente giunsi in Center Street e trovai quello che cercavo. Non c'era bisogno di sapere la data in cui era stato eretto; non appena lo vedevi capivi che apparteneva al diciannovesimo secolo. Doveva aver suscitato un certo orgoglio quando era stato completato, la convinzione che era stato fatto qualcosa di spettacolare. È difficile immaginare che aspetto avessero i vecchi edifici quando erano nuovi. Anche quando viene spesa una fortuna per restaurarli, è come vedere una donna anziana vestita con abiti costosi: potrà anche essere elegante, ma non sembrerà mai giovane. Le stesse fotografie scattate all'epoca sono vecchie, bianchi e neri sgranati di pietre, marmi e mattoni, un enorme edificio pubblico che sorge nel mezzo di un luogo che a quei tempi aveva pochissimi abitanti. E sempre e ovunque le persone che erano state ritratte fissavano l'obiettivo con espressioni serie, cupe, come se conservassero nell'anima il segreto della loro dannazione. Si poteva vedere la stessa cosa nei tribunali di tutto lo stato, vecchie foto ingrandite che mostravano i primi coloni dai volti torvi e dagli sguardi spenti in piedi accanto ai carri coperti che li avevano portati lì attraverso le praterie e le montagne. Le donne sembravano ancora più cattive degli uomini, e gli uomini avevano l'aspetto dei dementi; i bambini erano vecchi quanto i genitori, e i genitori parevano già morti. La mia immaginazione viaggiava troppo. Tutto, in quel luogo, mi rammentava la morte, e cose peggiori della morte stessa. I grossi olmi privi di foglie che fiancheggiavano la strada, con le loro grottesche forme nere stagliate su un cielo color piombo, sembrava fossero stati divelti dal terreno e messi a testa in giù per far morire le radici nell'aria gelida e inclemente. Ma più di qualsiasi altra cosa era l'edificio stesso a darmi quella terribile sensazione di vuoto e disperazione, quella sensazione che nulla avesse alcun significato. Percorreva il bordo della strada a non più di sei metri di distanza dalla carreggiata per l'equivalente di due isolati cittadini, una fortezza di mattoni alta due piani con un tetto di metallo dalle giunture so-
vrapposte come quelle dei vecchi edifici parigini. La tinteggiatura gialla si era in alcuni punti sbiancata e in altri scrostata, rivelando i mattoni su cui si stagliavano chiazze fra il viola e il marrone ricoperte di muffa e muschio. Sostenuti da grossi puntelli a tre elementi, i cornicioni di legno marcio allungavano il tetto oltre i muri. Batterie di strette finestre verticali, alcune delle quali erano alte due metri e non più larghe di una cinquantina di centimetri, lasciavano penetrare la luce esterna attraverso una dozzina di piccoli pannelli di legno. Alla fine dell'edificio, sotto una collinetta erbosa, svoltai nel lungo vialetto circolare. All'ingresso c'erano due cartelli, uno per ciascuna delle due strade asfaltate che si allontanavano in direzioni opposte: Bluebird Lane e Blue Jay Lane. Dalla cima della collinetta una terza strada scendeva fino alla base del versante opposto, oltre una macchia di abeti imponenti e due campi da tennis situati uno dopo l'altro e separati da una rete metallica arrugginita. Le reti erano sfilacciate, e una si era incurvata fino a una trentina di centimetri dal terreno. Grosse pozzanghere d'acqua si erano formate nelle fenditure del cemento. La strada, poco più di un sentiero, penetrava in un'altra macchia d'alberi e ne usciva poco più in là, davanti a una serie di case di assicelle di legno dotate di abbaini. La strada si chiamava Bobolink Way. Mi chiesi chi avesse dato a quelle stradine dei nomi di uccelli, e cosa gli stesse mai passando per la mente. Parcheggiai in cima alla collina davanti all'ingresso dell'edificio principale che avevo appena aggirato. A differenza del resto, quella parte della costruzione, a tre piani invece di due, era stata ridipinta di un giallo acceso con finiture marrone chiaro. In cima c'era una cupola con quattro false finestre. Era impossibile dire se le avessero verniciate o se vi fossero sempre stati pannelli di legno al posto dei vetri. La cupola era sovrastata da un tetto a punta, e sulla punta c'era un pennone con in cima una sfera di metallo. Tinteggiato di fresco, il tetto lasciava già filtrare la ruggine. Chiusi la portiera dell'auto e diedi un'ultima occhiata al tetto. Un piccione era appollaiato sul pennone. All'improvviso, spinto dal desiderio di sottrarsi al maltempo, spiccò il volo. Per un attimo pensai di risalire in macchina e tornare a casa. Mi fermai davanti ai gradini, riparati da un'ornata tettoia di ferro battuto, e lessi il cartello affisso discretamente accanto all'ingresso. Cascade Hall. Aveva un che di gradevolmente nord-occidentale, quel nome. Mi voltai e attraversai il parcheggio diretto all'edificio sul lato opposto, eretto, a giudicare dall'aspetto, alla metà del ventesimo secolo quando l'unico criterio va-
lido per un'opera pubblica era il suo costo. Era un rettangolo di mattoni con finestre quadrate e pavimenti di linoleum, e doveva essere costato meno della cifra stanziata. Controllai di essere nel posto giusto. Siskiyou Hall. Era il palazzo della direzione dell'ospedale dove avevo il mio appuntamento. Quando feci per salire i gradini, venni sbilanciato da una fitta acuta alla gamba. Ripresi l'equilibrio, e il dolore scomparve con la stessa rapidità con cui era venuto. Erano anni che la gamba non mi dava fastidio. Sembrava una strana coincidenza che fosse successo proprio in quel momento. Esitai davanti alla porta e lessi la scritta dipinta con cura. Anche dopo tutto quel tempo, mi riusciva ancora difficile credere che Elliott Winston fosse un paziente del manicomio criminale dell'Oregon. 6 Il dottor Friedman avrebbe avuto qualche minuto di ritardo. Mi sedetti su una poltroncina imbottita, sfogliai una rivista di informatica, diedi un'occhiata all'inizio di un articolo in cui si sosteneva che la pagina scritta sarebbe diventata un anacronismo e l'accantonai chiedendomi se il direttore ne avesse colto l'ironia. Udii una voce: «Signor Antonelli?». Mi voltai e mi ritrovai sotto lo sguardo deciso e acuto di un uomo sulla quarantina dai folti capelli castani e dal volto rotondo e perfettamente simmetrico. Indossava una giacca di tweed e teneva sottobraccio una cartelletta portablocchi. Dopo che ci fummo stretti la mano, mi condusse nel suo studio e indicò con gesto vago le due sedie senza braccioli che fronteggiavano la scrivania di metallo fornita dal governo. Nell'ufficio c'erano due librerie di acciaio, una sulla parete di fronte a me e l'altra sotto la finestra dietro la scrivania. «Dottor Friedman, io...». Aveva cominciato a concentrarsi sulla prima pagina assicurata alla cartelletta. Alzò gli occhi, mi rivolse un sorriso spiccio e alzò la mano. «Sarò da lei fra un minuto», disse tornando a dedicarsi alla sua lettura. Cercai di non arrabbiarmi e mi sforzai di rilassarmi. Friedman voltò pagina e continuò a leggere. Un attimo dopo passò a quella successiva, quindi, apparentemente soddisfatto, annuì due volte e scostò la cartelletta. Abbandonandosi sulla poltroncina girevole, accavallò le gambe e cominciò a giocherellare con una matita che teneva in grembo. «Come posso aiutarla, signor Antonelli? È venuto a trovare uno dei no-
stri pazienti, vero?». «Elliott Winston». «Elliott. Sì, lo so». La matita andava avanti e indietro di continuo, compiendo ogni volta un quarto di giro. I suoi occhi, ora che si erano spostati sui miei, non li abbandonavano più. «C'è qualche problema?», domandai, chiedendomi per quale ragione avessi dovuto parlare con lui prima di vedere Elliott. «Perché non me lo dice lei?». La voce di Friedman aveva un tono caldo e monotono, e stava cominciando a mettermi a disagio. E non si trattava soltanto della sua voce. Era un osservatore esperto, sempre alla ricerca di sintomi di anormalità, e che se ne rendesse conto o no mi stava studiando con lo stesso distacco clinico con cui immaginavo diagnosticasse regolarmente le diverse forme di psicosi. «Non sono sicuro che sia un vero problema», osservai. Guardai fuori dalla finestra alle sue spalle. «Ma quand'ero molto giovane, ogni notte facevo due sogni. In uno uccidevo mio padre, nell'altro andavo a letto con mia madre». I miei occhi tornarono a fissarlo. «Ma è una delle normali componenti della crescita, vero?». Per un istante mi credette, e anche quando si rese conto che scherzavo non era preparato a riderne. Fu il mio turno di studiarlo. «C'è una domanda che ho sempre desiderato fare». «Sì?», rispose con cautela. «Ha presente quella vecchia battuta che dice che se sei tu a parlare con Dio va tutto bene, ma se è Dio a parlare con te sei nei guai?». Esitò, non sapendo bene dove volessi arrivare. «Sì», disse infine strascicando il monosillabo. «Che succede a chi conclude che lui deve essere Dio, visto che ogni volta che prega si ritrova a parlare fra sé?». Inarcò le sopracciglia. «Questa è buona, me la dovrò ricordare. Ma alla resa dei conti è la stessa cosa, non trova? Che sia Dio a parlare con lui o lui a credere di essere Dio, in entrambi i casi è chiaramente affetto da manie di grandezza». «Un folle?». Scrollò le spalle. «Sì, naturalmente». «Il che ci lascia con un problema interessante, non trova? O Mosè ha mentito nel sostenere che Dio gli aveva dato le tavole dei Dieci Comandamenti, oppure era affetto da manie di grandezza. Un folle, secondo la
sua analisi. Il risultato, ovviamente, è che l'intera ossatura morale e legale della civiltà occidentale o si basa su una menzogna oppure fa parte del delirio di un folle. Per quale delle due ipotesi propende?». «Mi piacerebbe pensare che non si tratti né di una cosa né dell'altra, signor Antonelli», rispose in quel suo tono di voce esperto e modulato. «Stiamo parlando di un disturbo mentale che affligge gli individui normali, ordinari. Stiamo parlando del genere di cosa che è accaduta a Elliott Winston», soggiunse cercando di riportare la conversazione su un terreno più sicuro. «Elliott parla con Dio?», chiesi incuriosito. Friedman arricciò le labbra, socchiuse gli occhi e fissò un punto in lontananza. Poi riprese a far ruotare la matita avanti e indietro fra le dita. «Intende dire se Dio parla con lui», mi corresse. I suoi occhi tornarono a posarsi su di me. «La risposta è che non ne sono sicuro. A volte sente delle voci, certamente, ma di chi...?». L'interrogativo aleggiò nel silenzio senza trovare risposta, e nel vedere l'espressione dubbiosa di Friedman presupposi che non l'avrebbe mai trovata. Una scintilla di speranzoso incoraggiamento gli comparve negli occhi. «Se prende i farmaci, tutto sembra sotto controllo». Tese la mano e prese una cartella da un contenitore di metallo situato in un angolo della scrivania. Chino sui fogli, fece scorrere il dito indice dall'alto in basso; poi, scuotendo il capo, passò alla pagina successiva. «Al suo arrivo in questo istituto, gli somministrarono cose tremende. Torazina, soprattutto». Chiuse la cartella. «Be', dodici anni fa era quello che c'era», cercò di spiegare. «Non deve dimenticare che Elliott era considerato violento. Senza andare troppo per il sottile, lo imbottirono di farmaci. Ha mai visto nessuno a cui sia stata somministrata una dose pesante di quella roba?», chiese con espressione disgustata. «Sono come zombi. Riescono a malapena ad assolvere le funzioni primarie. Io non l'avrei mai fatto, anche se fosse stato violento... e ho i miei dubbi che lo fosse. Non ho alcun dubbio sul fatto che fosse malato di mente. Lo è tuttora. Ma da quando è diventato mio paziente, da poco più di tre anni, non ho visto alcuna prova di una predisposizione alla violenza. «Inizialmente era stato diagnosticato come un paranoide schizofrenico. Era la diagnosi che era stata fatta prima che venisse ricoverato qui, quando era stato stabilito che soffriva di una malattia mentale ed era stato affidato all'ospedale di stato invece che ai normali canali del sistema giudiziario. "Colpevole ma pazzo" è l'espressione che si usa», cominciò a spiegare.
«Oh, mi perdoni», si scusò subito dopo. «Lei è avvocato, vero? Probabilmente sa tutto di queste cose». Rammentai l'uomo che mi era rimasto seduto accanto per qualche minuto la prima notte della mia reclusione per oltraggio alla corte, quello convinto che stessi lavorando in incognito per lui poiché era ciò che gli aveva detto la voce nella sua testa. «Ne so qualcosa», risposi. Non gli dissi che cosa mi era successo in prigione; gli dissi ciò che avevo visto in tribunale. La pioggia aveva ripreso a cadere, un diluvio insistente di grigia depressione che striava le finestre e distorceva tutto ciò che si vedeva al di là in forme strane e mostruose. «Per un certo periodo mi sono occupato di casi da ricovero. Bisognava stabilire se fossero un pericolo per gli altri o per se stessi. Ci riunivamo attorno a un tavolo, a volte in una sala riunioni, a volte attorno al banco degli avvocati nell'aula. Chiunque stesse presentando la richiesta di ricovero spiegava le sue ragioni. Poi, visto che la legge richiedeva la presenza di due dottori e visto che era impossibile trovare due internisti disposti a dedicarci un'ora del loro tempo in cambio di quel poco che si guadagnava, di solito intervenivano un giovane medico generico e uno psicologo». Friedman si era ritirato dietro il velo dei suoi occhi. Mi ascoltava allo stesso modo in cui qualcuno ascolta una radio o una televisione in sottofondo mentre legge il giornale o parla con qualcun altro. «Quello che imparai subito», proseguii guardandolo negli occhi, «è che i dottori non facevano mai le domande giuste». Potei quasi udire il suono liquido del velo che abbandonava i suoi occhi. «E così decisi di farle io. Il mio cliente sosteneva di sentire costantemente tre voci nella sua testa. Era tutto ciò che i dottori avevano bisogno di udire. Il giudice mi chiese se avessi domande da fare. "Queste voci che sente, sa di chi sono?". Lui mi guardò, illuminandosi in volto. "Sì", rispose entusiasta, grato che finalmente gliel'avessero chiesto. "Sono Linda Ronstadt, Roy Orbison e Conway Twitty"». Lo sguardo clinico di Friedman si era rimesso a fuoco su di me. «Molto divertente. Ma che differenza fa di chi erano le voci che udiva? Le sentiva, dopo tutto». «È quello che disse uno dei dottori. Al che io gli risposi che mentre non potevo dire di aver mai udito gli altri due, Linda Ronstadt la sentivo cantare abbastanza spesso nella mia testa, e che sarei rimasto sorpreso se non l'avesse sentita anche lui. E a dirla tutta, a seconda della canzone c'erano
situazioni in cui non riuscivo a togliermi la sua voce dalla mente. Anche in questo momento, se mi concentro, la posso sentire. Una volta che ha cominciato è impossibile farla smettere con quel suo "I've been cheated, been mistreated", non trova? Ora mi dica, dottor Friedman, posso vedere Elliot Winston oppure dovrò prima farmi ricoverare insieme a lui?». Per un attimo credetti che avrebbe preso in considerazione la cosa. «No», disse quindi battendo rapidamente le palpebre e affrettandosi a scoccarmi un sorriso nervoso. «Elliott vuole vederla. È questo che mi preoccupa». Si corresse immediatamente. «No, non mi preoccupa, mi interessa. Vede, signor Antonelli, lei è il primo visitatore che abbia mai avuto». Attese la mia reazione. Avevo la sensazione che stesse cercando di scoprire se sapevo qualcosa di quello che era successo a Elliott prima che venisse ricoverato, qualcosa che gli potesse rivelare qualche nuovo elemento sul suo paziente. Espressi un rispettoso dubbio con un sorriso. «Elliott ha figli, genitori, parenti e moltissimi amici. Qualcuno sarà di sicuro venuto a trovarlo». Carezzandosi il mento, Friedman mi scoccò un'occhiata prudente. «Avrei dovuto dire che lei è la prima persona che Elliott ha accettato di ricevere. Altri hanno provato a venire, anche se è ormai da molto che non si presenta più nessuno. Ma lei è l'unico che lui ha voluto vedere. Non vede l'ora, a dire il vero. Quale crede sia la ragione?». Gli girai la domanda. «Lui cosa le ha detto?». «Ha detto che lei era un socio dello studio legale in cui lavorava, che era stato lei a procurargli quell'impiego e che per molto tempo aveva pensato di volerla emulare». Friedman fece una pausa. «Sono sicuro che è sincero, ma sono anche abbastanza sicuro che non è la vera ragione per cui vuole vederla», soggiunse candidamente. «C'è dell'altro. Forse lo stesso motivo per cui lei vuole vedere Elliott». Me lo chiese esplicitamente. «Non è mai venuto prima, signor Antonelli. Perché proprio adesso?». Nella sua voce non c'era traccia di rimprovero, non c'era alcuna insinuazione che avessi fatto qualcosa di male aspettando tutto quel tempo. Era semplicemente una domanda rivoltami da qualcuno che ritenevo stesse cercando di essere d'aiuto. «Avrei sempre voluto farlo», spiegai. «Ho sempre pensato che avrei dovuto. Circa un mese dopo il suo ricovero, mi misi in viaggio. Non avevo avvertito nessuno, avevo semplicemente deciso di venire. Giunto a metà strada, cambiai idea. Mi dissi che avrei avuto bisogno di prendere un appuntamento, ma era soltanto una scusa».
Friedman mosse la testa leggermente verso destra, abbastanza da creare l'impressione che mentre l'occhio sinistro continuava a studiarmi quello destro si stesse ritirando, come se dovesse osservare qualcos'altro. «Mi sono sempre sentito in parte responsabile di ciò che accadde». «Di ciò che accadde?». La sua voce era calma, rassicurante, piena di ragionevole incoraggiamento. «Sì. Lo vidi succedere, passo dopo passo. Ma non capii cosa significava se non alla fine, quando ormai era troppo tardi. Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto fare qualcosa prima che si arrivasse a quel punto, anche se ancora oggi non sono sicuro di cosa avrei potuto fare». Non disse nulla. Non mi chiese spiegazioni. Rimase lì seduto, osservandomi e aspettando che proseguissi. «Ha mai letto Sallustio?», domandai. «Uno degli storici romani», aggiunsi quando lui non rispose. «Oh», fece lui con una risatina sommessa, la spontanea ammissione della propria ignoranza. «Ma lei deve averlo letto. Ho sempre invidiato chi fa letture serie. Un giorno, magari. Quando ci sarà più tempo». Sorrise e aspettò. «Prima di un anno fa non l'avevo letto neanch'io. E mi ha ricordato, o meglio mi ha spiegato, l'accaduto perché descriveva quello che qualcuno, ne sono quasi certo, ha fatto a Elliott Winston. Sallustio parla di quella che lui definisce la conversione al complotto criminale del fanatico e dell'innocente. Prima di tutto ti fanno dire una bugia innocente, una menzogna innocua che non può far del male a nessuno e forse potrebbe aiutare qualcuno. Poi ti portano a mentire in modo più sostanziale. Hai già mentito, e dopo tutto si tratta soltanto di una differenza di gradazione». Friedman, l'osservatore passivo, mi ascoltava con attenzione, catturato dalla logica insidiosa del male. «Una volta che ti hanno portato a dire menzogne di quel tipo, menzogne di rilievo, menzogne che se venissero scoperte potrebbero metterti nei pasticci, non è così difficile condurti ad atti violenti. Non ai danni di chiunque, capisce, ma di qualcuno che ha fatto qualcosa di terribilmente sbagliato, di un nemico, di chi ha preso parte a un complotto diretto contro tutto ciò in cui tu credi. Salvo poi scoprire, a fatti avvenuti, che la vittima è la persona sbagliata, che era stata accusata ingiustamente. Hai commesso un terribile errore, e adesso dev'essere insabbiato. Devi proteggere la tua reputazione, ma non puoi farlo da solo. Ti dicono, questi amici che ti hanno insegnato a mentire, che ti hanno convinto a commettere un atto violento,
che tutti possono sbagliare. Ti dicono, questi amici, che faranno ciò che bisogna fare affinché nessuno venga a sapere quello che hai combinato. Dopo tutto, gli amici devono proteggersi a vicenda. E alla fine, quando questi amici hanno fatto qualcosa che tu non avresti mai sognato di fare, qualcosa che non è stato un tragico errore, bussano alla tua porta e ti rammentano di averti aiutato nel momento del bisogno». Friedman mi fissò. «Qualcuno gli ha fatto questo?». «Credo di sì. Non c'è stata alcuna violenza. Quella è arrivata dopo, quando Elliott è crollato. Ma prima di quell'episodio, sì, credo di sì. Credo che sia stato pilotato passo per passo finché non si è reso conto di essere diventato qualcuno che non voleva essere e non ha più saputo come uscirne». «Ma chi avrebbe fatto una cosa simile? Chi avrebbe potuto farla? Elliott Winston era un avvocato, in fin dei conti. Doveva capire quando qualcuno gli stava chiedendo di fare qualcosa di sbagliato». Come siamo infantili e ingenui al di fuori del campo limitato della nostra esperienza! Il dottor Friedman, lo studioso del comportamento umano, credeva veramente che la legge fosse un sistema di regole infrangibili. Cominciai a sentirmi più sicuro della mia analisi. «C'era un giudice», cominciai a spiegare. «Un uomo molto più anziano». Friedman annuì con decisione. «I genitori di Elliott divorziarono quando lui era piccolo. Fu sua madre ad allevarlo. Suo padre lo vedeva di rado. Era sempre attratto da uomini più anziani di lui come figure guida e fonti d'ispirazione. Anche per lei provava quel tipo di attrazione. Lei era l'avvocato più maturo e di successo, il modello di ciò che voleva diventare. Ma non era solo questo, ovviamente. Aveva bisogno che le persone che ammirava lo incoraggiassero e lo approvassero. Si sarebbe assoggettato a chiunque gli avesse dato tutto questo. E un giudice... be', è la fonte del tipo di approvazione più importante per un avvocato, giusto?». Pensavo si sbagliasse rispetto a come mi vedeva Elliott, ma ero quasi certo che avesse ragione sul modo in cui si era legato a Jeffries. «E lei crede che questo giudice abbia abusato della fiducia di Elliott?». Era una domanda che poteva fare soltanto chi non aveva mai conosciuto Calvin Jeffries. «Come le ho detto, erano cose che al momento non sembravano gravi». Mentre lo dicevo, cominciai a dubitare che ora si sarebbero rivelate più importanti. Forse le avevo sopravvalutate. «Poco dopo il loro primo incontro, Elliott non rispettò una scadenza. O
quanto meno fu quello che gli dissero. Mi sembra strano. Elliott era sempre organizzatissimo. Quando eserciti la professione legale», spiegai per inciso, «hai limiti temporali su ogni cosa. Dieci giorni per presentare questa mozione, venti giorni per rispondere a quella, ogni cosa ha una sua tabella di marcia, e se non la rispetti le conseguenze possono essere fatali: la tua mozione viene respinta, devi pagare i costi alla controparte, perdi la causa. Elliott lo sapeva. Quando mi raccontò cos'era successo, era pallido come un cadavere. Ma quando lo rividi il giorno dopo, aveva l'espressione riconoscente e imbarazzata di chi è stato appena salvato dalle conseguenze della propria stupidità. Il giudice, mi spiegò, aveva semplicemente detto al suo cancelliere di retrodatare il documento. Per quanto se ne sarebbe mai saputo, Elliott non aveva commesso alcuno sbaglio». Il dottor Friedman fece dondolare la sedia giungendo le dita tese. «Le regole erano state allentate a causa di ciò che lui era, e perché il rapporto che c'era tra loro andava al di là di quello fra giudice e avvocato. Un rapporto che era diventato ancora più stretto perché insieme avevano fatto qualcosa che dovevano tenere segreto. Sì, capisco. Certo». «Qualche mese dopo accadde di nuovo, o meglio, accadde di nuovo e io lo venni a sapere. Non so quante altre volte fosse successo nel frattempo. Elliott era al lavoro su una mozione, e venne nel mio ufficio per parlarmene. L'argomento era interessante, e più ne discutevamo più mi convincevo che aveva trovato la strada giusta, che aveva una concreta possibilità se non di vincere la causa, quanto meno di rivolgersi alla corte d'appello e dare un contributo per la formulazione di una nuova legge. Ne parlammo per un paio d'ore, e alla fine Elliott mi ringraziò e mi disse che gli avevo dato qualche nuova idea che voleva approfondire. Gli domandai quando avrebbe dovuto presentare la mozione. Mi rispose che la scadenza era il mattino dopo, ma che pensava di lavorarci nel fine settimana e presentarla lunedì. Dovetti mostrare il mio allarme, perché scoppiò a ridere e mi assicurò che non c'era nulla di cui preoccuparsi. "Mi concedono sempre qualche giorno in più, se ne ho bisogno", disse. "Ma non puoi farlo", sbottai, infuriato all'idea che accantonasse in modo così spensierato l'obbligo di rispettare le regole. "Perché no?", domandò lui. "Non faccio del male a nessuno". Fu questa la sua risposta, e ricordo che rimasi colpito non tanto dalle sue parole quanto dall'indifferenza quasi cinica con cui le aveva pronunciate. Era come se le regole fossero state create per gli altri, per quelli che non sapevano come funzionavano veramente le cose, gente, sembrava pensare Elliott, da cui non ci si poteva aspettare che facesse la cosa giusta di propria
iniziativa. E c'era qualcos'altro, qualcosa che ancora oggi non riesco bene a definire ma che mi suggeriva che Elliott fosse convinto che io appartenevo a quella categoria di persone. «Dopo quella sera non lo vidi più con la stessa frequenza di prima. Era un associato dello studio, e probabilmente lo incontravo diverse volte al giorno, ma non parlavamo più come un tempo. Ma se allora mi avesse chiesto se c'era stato un cambiamento nel nostro rapporto, probabilmente le avrei risposto di no. Era impercettibile, una di quelle cose che accadono senza che te ne accorgi finché un bel giorno ti rendi conto che tutto è cambiato. E nel caso di Elliott, naturalmente, non vi fu alcun dubbio su quale fosse quel giorno». Friedman sapeva cosa intendevo, o credeva di saperlo. «Il giorno della sparatoria». «No», dissi scuotendo il capo. «La sparatoria avvenne più tardi. E non ci sarebbe mai stata, se qualcuno fra noi avesse mostrato un briciolo di intelligenza. Ci pensi. Lo vediamo di continuo, ma quando succede a uno di noi è l'ultima cosa a cui pensiamo. Elliott era stanco, lavorava troppo ed era esaurito, dunque per forza di cose la colpa doveva essere dello stress. Concediamogli una vacanza, facciamogli fare un po' di terapia e tutto andrà a posto. Nessuno voleva essere il primo a dire che Elliott Winston era uscito di senno e aveva bisogno di essere ricoverato. «I dodici giurati del caso che stava affrontando quel giorno non avrebbero esitato un istante. Elliott aveva appena concluso l'interrogatorio di un teste della difesa. Si sedette grattandosi il polso. Mentre l'accusa cominciava a fare le domande preliminari del suo controinterrogatorio, le unghiate di Elliott diventarono più rapide e violente. I giurati cominciarono a guardarlo. Elliott si stava lacerando la pelle, scavandola fino a sanguinare. Una giurata lanciò un grido e, mentre tutti si voltavano a guardarlo, Elliott balzò in piedi e puntò il dito rosso di sangue contro il suo stesso testimone. "C'è dentro anche lei, vero?", gridò. "Ho visto il modo in cui guardava il pubblico ministero. Vi ho visti mentre vi mandavate messaggi con gli occhi!". Girò su se stesso e se la prese con la giuria. "E ho visto il modo in cui voi lo guardate, e le occhiate che vi scambiate!". Si rivolse al giudice, uno degli uomini più equi tra tutti i magistrati. "Non creda che non sappia cosa sta succedendo! Qual è il numero di questo caso?", chiese. «La domanda lasciò tutti di stucco. Nessuno sapeva cosa intendesse. "È il mio anno di nascita", annunciò Elliott come se ciò provasse ogni cosa. "C'è dentro anche lei, non è vero?".
«Molto tempo dopo l'accaduto, mesi dopo la sparatoria, lessi gli atti del processo per cercare di capire l'accaduto. Non riuscii a credere a ciò che vedevo. Il giorno prima, Elliott sembrava perfettamente normale». «Non è sorprendente», mi assicurò Friedman. «È un caso tipico. Schizofrenia acuta, l'improvvisa comparsa di sintomi in un individuo che fino a quel momento sembra normale. Le fissazioni che lei descrive sono esattamente ciò che ci si aspetterebbe. Si verifica un improvviso, forse anche lieve cambiamento nella composizione chimica del cervello. Non ci vuole altro, temo. Di solito viene accelerato proprio dal tipo di crisi che lei ha appena descritto, un trauma emotivo da cui il soggetto non vede via di scampo». Si alzò dalla sua sedia. «Ci conviene andare. Elliott la sta aspettando». Fuori la pioggia era martellante e cadeva con tale forza che rimbalzava sull'asfalto. I tuoni brontolavano in lontananza e il cielo era rischiarato dai fulmini. Ci riparammo la testa con le giacche, ci piegammo in avanti e attraversammo di corsa il parcheggio verso l'ospedale sul versante opposto. «Mi dica», riprese Friedman quando fummo entrati. «F evidente che lei nutre un profondo interesse per ciò che è accaduto a Elliott. Ha letto gli atti del processo perché voleva sapere cos'era successo al momento del primo episodio, quello che lei chiama il suo crollo. Cosa sa della sparatoria, il crimine per cui è stato ricoverato?». Mi fermai e lo guardai, sondando i suoi occhi finché mi resi conto che davvero non sapeva. Poi mi voltai e riprendemmo a percorrere il lungo, grigio corridoio. «Io sono quello a cui sparò», spiegai. 7 La voce del dottore stava pronunciando il suo nome, ma il volto che vedevo apparteneva a qualcuno che non conoscevo. Erano passati dodici anni, ma i cambiamenti che scorgevo non erano stati prodotti soltanto dal tempo. L'Elliott Winston che conoscevo io era perspicace, sveglio, accomodante e sempre affabile; l'uomo che mi si parava davanti in attesa che il dottor Friedman aprisse il cancelletto della spessa rete metallica era teso, ansioso, impaziente. Indossava un vecchio abito troppo stretto. Si era abbottonato la giacca, e il petto ne deformava i risvolti. Una cravatta a tinta unita penzolava storta dal collo, e una delle punte del colletto della lurida camicia bianca era piegata verso l'alto. Teneva le mani allacciate dietro la
schiena e i piedi divaricati all'altezza delle spalle. Malgrado mi trovassi a pochi passi di distanza, aveva lo sguardo fisso davanti a sé come se non ci fosse nessuno nei paraggi. Entrammo, e Friedman richiuse il cancelletto scorrevole. Elliott non si mosse. Se ne stava lì dritto, immobile, rigido. «Elliott», disse Friedman in un tono di voce calmo e paziente, «ricordi Joseph Antonelli, non è vero?». Non vi fu alcuna reazione, nessun movimento, nemmeno un lieve battito di ciglia. Mi chiesi se fosse sprofondato in uno stato catatonico in cui non poteva udire nulla. «A volte fa così», spiegò Friedman. «Quando sta pensando a qualcosa». Scrollò le spalle in un gesto di resa e soggiunse: «Gliel'ho visto fare per ore. Quando accade, temo che non ci sia niente...». Non riuscì a terminare la frase. Elliott si voltò verso di me e mi tese la mano. «Joseph Antonelli. Sapevo che un giorno o l'altro saresti venuto». Gli presi la mano nella mia, ma quando lo guardai in faccia dovetti costringermi a non lasciare la presa. Mi stava scrutando con una tale concentrazione che temetti di essere trapassato da parte a parte dai suoi occhi. La sua presenza emanava una forza straordinaria. «È stato gentile a portare il signor Antonelli», soggiunse spostando lo sguardo sopra la mia spalla. «La ringrazio, dottor Friedman». Lo disse come ci si sarebbe potuti rivolgere a un subordinato, non in tono di comando ma con quella benevolenza che sottolinea la distanza fra colui che la elargisce e colui che la riceve. Senza dubbio abituato alle stranezze del suo paziente, Friedman non sembrò badarvi. Rivolse un cenno a un inserviente in camice bianco di guardia all'estremità più lontana dell'ampia corsia. «Il signor Antonelli terrà compagnia a Elliott per qualche minuto», disse quando l'inserviente si avvicinò. «Si assicuri che abbia tutto ciò di cui ha bisogno». Dopo che Friedman se ne fu andato, Elliott e io ci sedemmo a un tavolo di legno quadrato davanti a una finestra ricoperta da una rete metallica a un lato della sala. Più avanti, in un angolo, tre pazienti vestiti con magliette dal collo a V e ampi pantaloni retti in vita da una cordicella sedevano in semicerchio su alcune sedie di plastica. Uno di loro teneva una gamba piegata sotto l'altra e reggeva in mano una rivista, continuando a voltarla prima su un lato e poi sull'altro, all'infinito. Un altro paziente, piccolo e stempiato, con dita grosse e tozze, faceva scattare prima una mano e poi l'altra,
serrandola a vuoto e poi ritraendola e schiudendo le dita per controllare ciò che aveva catturato. Il terzo si muoveva a malapena. Se ne stava chino in avanti, lo sguardo velato, e borbottava fra sé. Elliott mi sorprese a guardarli. «Stai a vedere», bisbigliò. «Chester!». Il borbottio cessò, e il terzo uomo alzò la testa con un'espressione confusa sul volto. «Quanto fa 3182 per 5997?». L'uomo batté le palpebre. «19.082.454», rispose, e poi batté nuovamente gli occhi. «Ora gli faccio una domanda difficile», disse Elliott sottovoce. «Chester», chiamò. «Quanto fa 8,105698 per 10,00787?». Chester batté le palpebre. «81,120771», rispose. E poi tornò ad ammiccare. «Chester, chi è il presidente degli Stati Uniti?». Questa volta, Chester non batté gli occhi. Fece un sorriso, un sorriso folle e straziante. «George Washington». «Bravo», disse Elliott scoccandogli un'occhiata di approvazione. «Ora, se Lincoln ha liberato gli schiavi, cos'ha fatto Washington?». «Ha liberato i ciliegi», rispose Chester con un sorriso infantile. «Grazie, Chester», disse Elliott con la stessa suprema sicurezza di sé che aveva mostrato licenziando il dottor Friedman. «Chester era professore di storia al liceo», mi spiegò. «Nell'altro mondo». «L'altro mondo? Intendi dire prima che si ammalasse, nel mondo reale?». Quell'ultima frase parve infastidirlo. Un'ombra gli attraversò il volto. «L'altro mondo», insistette. Poi il suo umore mutò di nuovo. «E penso che la insegnasse in questo modo», disse ridendo. La risata cessò all'improvviso. «Non è vero. Nell'altro mondo insegnava storia come la insegnano tutti, e non riusciva a far quadrare i conti sul libretto degli assegni. Poi, quando è rinsavito, ha scordato i nomi, le date e tutte le altre cose superflue di cui ti imbottiscono, e non appena la sua mente si è schiarita sapeva tutto dei numeri». Mi guardò per un istante. «Non mi credi. Coraggio, chiedigli quello che vuoi, qualsiasi combinazione, qualsiasi calcolo. Riesce a farli all'istante, mentalmente. Io lo so bene. Sono anni che cerco di coglierlo in fallo». «Come faresti ad accorgertene?», domandai senza riflettere. Elliott sembrava dispiaciuto per me. «Non hai capito? Sbaglia soltanto
quando non batte le palpebre». Mi sbagliavo. Non era dispiaciuto, non nel modo che credevo. Stava giocando con me. Glielo potevo leggere negli occhi. «Ma è proprio così, vedi?», domandò. «Ogni volta che la risposta è giusta, batte le palpebre prima di darla. Non è un perfetto esempio di ragionamento che risale dall'effetto alla causa?». Non sapevo che dire. In realtà non c'era nulla che potessi dire. Cercai di cambiare discorso. «Sei molto cambiato, Elliott. Non sono sicuro che ti avrei riconosciuto». Un rapido sorriso gli percorse il volto. «Non mi hai riconosciuto. Credevi che fossi qualcun altro». Sembrava divertito da un piccolo scherzo segreto. «Saranno i baffi. Non li avevo, quando mi conoscevi. Avevo la barba», ammise con quella che mi parve un'espressione contrita. «E i capelli lunghi. Temo che qui dentro ci fosse qualcuno che cominciava a pensare che somigliassi a Gesù Cristo. A Gesù Cristo! Te l'immagini? Poi alcuni di loro hanno cominciato a pensare che fossi Gesù Cristo. Non sarebbe stato poi così male. Se non altro, avrei potuto salvare il cristianesimo da se stesso. Ma qui c'era qualcuno - non qui, in una delle altre corsie - che credeva davvero di essere Gesù Cristo. E per quanto ne so, poteva anche esserlo», aggiunse con lo sguardo acceso dal divertimento. «Non volevo che nessuno cominciasse a mettere in dubbio la propria identità a causa mia, e così me ne sono sbarazzato, della barba voglio dire, mi sono tagliato i capelli e per poco non mi sono tagliato anche i baffi, ma poi ho cambiato idea, o sono state le mie idee a cambiare me. In ogni caso, li ho tenuti. Come te la sei passata?». Era difficile decidere se essere più sbalorditi dalla mitragliante lucidità del suo discorso o dalla bruschezza con cui l'aveva concluso. «Io me la sono passata molto bene», riprese prima che io riuscissi a capire cosa avrei dovuto dire o come, ora che mi trovavo davanti a lui, avrei dovuto dirlo. Elliott sembrava percepire ogni mio dubbio, ogni esitazione, ogni lieve indecisione. «Dico sul serio», continuò assumendo un tono sommesso e tranquillo. «Qui sto molto meglio». Feci correre lo sguardo nella sala dai muri grigiastri, assorbendo i mobili a buon mercato, lo smorto pavimento lucidato e le tubature dipinte appese al soffitto con sostegni di metallo; l'inserviente assonnato che leggeva una vecchia rivista; i tre pazienti seduti all'altro tavolo, ognuno dei quali era a malapena consapevole dell'esistenza degli altri due; e un quarto paziente che non avevo notato prima e che camminava come un sonnambulo lungo
il corridoio che collegava la sala comune al resto della corsia. Gli occhi di Elliott mi aspettavano al varco. «Un giorno ti ho scritto una lettera. Tanto tempo fa». «Non l'ho mai ricevuta». «Non l'ho mai spedita. Sapevo cosa volevo dire. Avevo finalmente capito cos'era successo, tutto quanto. La mia mente ragionava chiaramente, più chiaramente che mai. In un istante ero riuscito a vedere tutto quello che c'era da vedere. Ero riuscito a comprendere tutto, tutte le relazioni, tutte le sfumature, tutti i significati più sottili», spiegò. Gli brillavano gli occhi. «Ma quando mi sono messo a scrivere è svanita ogni cosa. Tutto ciò che riuscivo a ricordare era che avevo perduto qualcosa che pensavo fosse indimenticabile. Non è stata l'ultima volta che mi è successo. Alla fine ho rinunciato completamente a scrivere. Nulla corrispondeva a ciò che intendevo, o era veramente ciò che volevo dire». Ascoltandolo, accennai a un sorriso. Stava descrivendo quello che io stesso avevo provato molto spesso: l'incapacità di collegare il pensiero alla parola. «Ma questo non è...», sbottai prima di rendermi conto di cosa stavo dicendo. «Non è un segno di follia?», domandò lui inarcando un sopracciglio. «E cosa lo è?». L'espressione ironica che si era impossessata dei suoi lineamenti si spense. «In ogni caso, non ero in grado di scrivere quella lettera come avrei voluto scriverla», «Che cosa volevi dirmi?». Il suo sguardo sembrò perdere un po' della propria intensità, come se si stesse facendo introspettivo. Quando ripetei la domanda si ritrasse ancora più in se stesso, fissando il tavolo con l'aria preoccupata di chi sta cercando la risposta a un indovinello. Finalmente risollevò il capo, ma invece di guardarmi prese a fissare un punto davanti a sé. «Quando ho cercato di ucci...». Rimase a bocca aperta, e tutto il suo corpo si contrasse. E poi cominciò: un balbettamento stridulo e staccato, una parola dopo l'altra in un profluvio di rime senza senso. «Ucci... pucci... lucci...». Il suo volto si irrigidì, poi cominciò a tremare come se stesse per esplodere. I suoi occhi divennero due enormi orbite vuote e nere. «... ciucci... tucci... mucci». Pronunciava le parole con affanno, e ognuna richiedeva uno sforzo maggiore della precedente. Poi, come se non fosse successo niente, la vita tornò nei suoi occhi e l'espressione sul suo volto. «Volevo scriverti di quando ho cercato di ucciderti», disse in un tono di voce perfet-
tamente normale. Che fosse ignaro di ciò che aveva appena fatto, o che fosse ormai talmente abituato da presupporre che venisse accettato come un dato di fatto da chiunque aveva a che fare con lui, scambiò il mio silenzio per un segno di disagio riguardo al tentato omicidio di cui ero stato vittima. Era stato quello il suo capo d'accusa, ed era quello il motivo per cui era stato rinchiuso lì dentro, nel reparto criminale dell'ospedale di stato, in quanto paranoide schizofrenico pericoloso per gli altri e probabilmente per se stesso. «E l'avrei fatto, se tu non mi avessi strappato la pistola di mano». Lo disse con una sorta di allegra indifferenza, allo stesso modo in cui qualcuno potrebbe spiegarti come avrebbe vinto l'ultimo set di un incontro di tennis se tu non avessi risposto al suo servizio in modo ridicolmente fortunoso. Aspettavo da tempo l'occasione di dirgli che si sbagliava. «Non credo che tu abbia mai avuto intenzione di uccidere me o nessun altro. Eri malato, Elliott. Non sapevi quello che facevi. Quel giorno sei entrato in ufficio e hai cominciato ad andare avanti e indietro per i corridoi, gridando minacce che nessuno riusciva a capire. Poi sei entrato nel mio ufficio brandendo la pistola. La verità è che se io mi fossi limitato a parlarti, a tranquillizzarti invece di lanciarmi su quella pistola, il colpo non sarebbe mai partito, non mi avrebbe ferito alla gamba e avremmo potuto procurarti tutto l'aiuto di cui avevi bisogno. Ascoltami. Nessuno mi aveva mai puntato contro una pistola. Ero spaventato, più di quanto Io fossi mai stato in vita mia. Non ho ragionato, ho semplicemente reagito. Avrei dovuto mostrare più buon senso, e me ne dispiace. So che non hai mai avuto intenzione di farmi del male». Avevo rimandato quel chiarimento per dodici anni, anche se inconsciamente sapevo che mi avrebbe tolto un gran peso dalle spalle. Elliott tese la mano attraverso il tavolo e me la posò sulla spalla come se volesse consolarmi per ciò che avevo passato. Un attimo dopo la ritrasse. «Andavi a letto con mia moglie», disse con un lampo negli occhi. «La conoscevo appena», sbottai in tono improvvisamente difensivo. «Che cosa ti ha fatto pensare...? Chi ti ha fatto credere...?». Mi guardò con un sorrisetto distaccato e leggermente ironico sulle labbra, divertito dalla violenza con cui negavo una cosa che non avevo mai fatto. «Lo so che non era così», disse annuendo per rassicurarmi. «Ma allora ne ero convinto, ed è trascorso molto tempo prima che mi rendessi conto di essermi sbagliato. Perfino dopo il divorzio non sapevo com'erano andate
veramente le cose. Ma cos'altro poteva fare Jean? Io ero rinchiuso qui dentro. Non ci si poteva aspettare che rimanesse sposata con un pazzo, con un pazzo criminale, giusto? È stato soltanto quando si è risposata che i pezzi sono andati tutti a posto. È stato soltanto allora, alla fine, per così dire, che ho capito cos'era successo, che ho capito tutto fin dall'inizio. Non sto dicendo che l'avessero pianificato in ogni dettaglio», soggiunse con una rapida occhiata dolente. «Non potevano sapere cosa mi sarebbe successo. Anche se per loro non avrebbe fatto alcuna differenza». Incassò la testa fra le spalle e fissò lo sguardo su un punto appena sotto il mio mento. «Mi avevi messo in guardia su di lui, ricordi?». «Su Jeffries?». I suoi occhi si fecero ancora più sottili. «Un tempo credevo che fosse malvagio. Mi sbagliavo. Era soltanto indecente. Gli individui malvagi compiono gesti interessanti. Ma Jeffries non aveva niente di interessante». Lentamente, senza alcun movimento della testa, i suoi occhi risalirono il mio volto fino a incrociare i miei. «Sapevi che Jeffries è morto?», chiesi. Levò il capo e aprì gli occhi accesi dalla rabbia. «Morte e tradimento, le fortunate circostanze della mia vita». «Le fortunate circostanze della tua vita?», ripetei confuso. Fece per accantonare la mia domanda con un rapido movimento della mano e una strana occhiata di trionfo. «Non riesco a spiegarlo bene. Tutto quello che ti posso dire è che a volte l'unico modo per affrontare quello che ti succede è non soltanto accettarlo, ma farlo tuo». Parve pentirsi di essersi sbottonato fino a quel punto, anche se ciò che aveva detto non era sufficiente a farmene capire il significato... sempre che ne avesse uno. «Non mi interessa vedermi come una vittima», precisò. Il suo sguardo guizzò sull'altro tavolo. «La vuoi smettere di girare quella dannata rivista?», strillò con una voce acuta che mi fece rabbrividire. Senza nemmeno alzare gli occhi per vedere da dove provenisse il grido, il paziente cessò di voltare la rivista e la resse perfettamente immobile davanti ai suoi occhi. Era rovesciata. «Dunque Jeffries è morto», osservò Elliott in tono compassato, guardandomi come se l'idea di alzare la voce non gli avesse mai sfiorato la mente. Era successo così in fretta, ed Elliott era così diverso da quello che era stato appena prima e aveva ripreso a essere subito dopo, che fui costretto a
chiedermi se fosse sempre consapevole di ciò che faceva. «Com'è morto?». «Davvero non lo sai? È stato sulle prime pagine dei giornali per settimane». «Ho lasciato scadere il mio abbonamento», disse in tono ironico. Poteva anche non avere accesso ai giornali, ma un televisore diffondeva la sua luce tremula da una piattaforma di compensato fissata a metà parete nell'angolo più lontano della sala comune. «Non la guardo mai», spiegò Elliott, sorpreso che qualcuno potesse pensare che lo faceva. «Dimmi com'è morto», insistette con avida curiosità. «È stato assassinato a pugnalate a notte fonda fuori dal suo ufficio, mentre si dirigeva verso la sua auto». «Hanno cambiato la definizione di omicidio?», domandò annuendo con fare pensoso. «L'uccisione illegale di un essere umano?». «No, è sempre la stessa». «Allora non è stato un omicidio, non è stato un assassinio». Lo disse come se fosse sicuro che avrei capito immediatamente e che non avrei mai potuto dissentire dalla sua conclusione. «Intendi dire», suggerii esitante, «che non è stato un atto illegale perché doveva avere una sorta di giustificazione? Legittima difesa, per esempio?». «No, intendo dire che non può essere stato un omicidio perché un omicidio è l'uccisione illegale di un essere umano, e qualsiasi cosa fosse Calvin Jeffries, di sicuro non era un essere umano. No, non è stato un omicidio». Non sapevo cosa dire, e nemmeno cosa pensare. «Vuoi che ti dica cos'hanno fatto, il compianto Calvin Jeffries e la mia irreprensibile mogliettina Jean?». Si voltò come se si fosse sentito chiamare. «Jeffries è morto», disse rivolto a nessuno. Gli angoli della sua bocca si tesero all'indietro fino a tirare i tendini del collo. E poi ricominciò, quella folle cantilena ritmata come lo stridente scampanio di una chiesa lontana. «Jeffries è morto... porto... torto». I suoi occhi fissavano un punto davanti a loro, vuoti come la mente cosciente che si celava appena dietro. «Sorto... corto... orto». Si stava strozzando sulle sue stesse parole come se avesse perduto l'istinto di prendere fiato, come se nella confusione del panico fosse convinto di dover espellere l'aria invece di inspirarla. Poi la crisi passò, e anche il suo ricordo. «Jeffries è morto», disse pronunciando ogni singola sillaba con scintillante chiarezza. «Assassinato. E
poi dicono che i lieti fini non esistono. Vuoi che ti dica cosa mi hanno fatto, il grande giudice e la moglie amorosa?». Distolse lo sguardo, e nei suoi occhi incavati c'era un'espressione malinconica, l'espressione che a volte si vede sul volto di uomini molto più anziani di Elliott Winston, l'espressione che assumono quando cominciano a ripensare non soltanto alla loro giovinezza ormai svanita, ma al modo in cui vedevano il mondo quand'erano ancora giovani. «Io avevo fiducia in lui. Avevo fiducia in entrambi. Adoravo Jeffries. Per me era un onore stargli accanto. Sapeva tutto. Poteva fare qualsiasi cosa. Non esisteva alcun aspetto del diritto che lui non conoscesse». Mi guardò con una scintilla di entusiasmo negli occhi. «Lo sai che è l'autore di gran parte delle nostre norme procedurali?». Distolse di nuovo lo sguardo. «Mi spiegava come aveva fatto e perché e mi diceva molte altre cose che gli erano accadute quand'era un giovane avvocato come me, desideroso di farsi un nome. Passavamo lunghe serate insieme... a volte tutti e quattro, Jeffries, sua moglie Adele, Jean e io, ma più spesso soltanto noi tre. Sua moglie era inferma». Un sorriso strano, quasi sinistro gli strisciò sulle labbra. «Inferma! Era drogata». Avevo visto Adele Jeffries soltanto nelle rare occasioni mondane in cui incontravo suo marito. Si diceva avesse cinque o sei anni più di lui, e li dimostrava tutti. Invece di nasconderlo, il trucco sembrava sottolineare l'effetto delle rughe profonde che le attraversavano la fronte e la pelle floscia delle guance. Ma i suoi occhi erano svegli e vivaci, osservatori divertiti del suo stesso triste deterioramento. Su di lei giravano voci da anni, il genere di insinuazioni sommesse e garbate che erano diventate parte indelebile di ciò che la gente pensava di lei. Nessuno era in grado di spiegare cosa di preciso avesse fatto, ma tutti sapevano che non era del tutto a posto, che beveva troppo e aveva bisogno di costanti cure mediche. «Povera Adele», stava dicendo Elliott. «Scommetto che a Portland non esiste un solo dottore che non abbia ricevuto una delle sue famose telefonate. In un certo senso mi piaceva», aggiunse per inciso, «anche se sapevo che doveva essere pazza». Avvertì l'ironia di ciò che gli era appena sfuggito, distolse gli occhi e poi li riportò nuovamente su di me, scrollando le spalle e levando le mani al cielo. «Lo era veramente», insistette facendosi serio. «Scorreva le Pagine Gialle alla voce "medici". Un giorno gliel'ho visto fare. Era seduta su uno sgabello in cucina e percorreva la lista con un dito rugoso, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco il nome. Non appena rispondevano, si schiariva
la gola e con la solennità con cui avrebbe presentato il presidente degli Stati Uniti annunciava che la signora giudice Jeffries (era così che si faceva chiamare) desiderava parlare con il dottor Dolittle o chi per lui. E loro glielo passavano sempre. Poi lo rifaceva, presentandosi come la signora giudice Jeffries e chiedendo al dottore se sarebbe stato così gentile da farle una nuova ricetta per il Percodan, il Demerol o un altro delle due dozzine di farmaci che le facevano passare i dolori, le intorpidivano la mente, le uccidevano i nervi, le alteravano il cervello, le miglioravano l'umore e le occludevano la coscienza mattina, pomeriggio e sera». Elliott ansimava, fulminandomi con lo sguardo come se la dipendenza della signora giudice Jeffries fosse in qualche modo colpa mia. Poi, all'improvviso, rovesciò la testa all'indietro e scoppiò a ridere. «Non aveva niente. Non l'aveva mai avuto. Anni prima aveva subito un piccolo incidente, una distorsione alla caviglia. Me lo raccontò un giorno, in una delle sue rare parentesi di lucidità. Dopo quell'episodio, ogni volta che aveva un dolorino, un lieve fastidio, Jeffries le dava qualcosa per farglielo passare. E così Adele aveva finito per non poter più fare a meno delle pillole e dell'alcol. A Jeffries non dispiaceva. Anzi, la incoraggiava. Perché sopportare il dolore? Era un modo di sbarazzarsi di lei. Adele era sempre lì, ma in realtà non c'era mai. Lui l'aveva sposata per i soldi. Adesso è in una casa di riposo chissà dove. Probabilmente non sa nemmeno lei dove si trova. Jeffries aveva organizzato tutto. La fece dichiarare incapace di intendere e di volere quand'erano ancora sposati, mise tutti i suoi averi in un fondo fiduciario e se ne nominò amministratore. Ti ho detto che sapeva tutto della legge». Spalancò gli occhi, trasse un profondo respiro e poi lo rilasciò con un'espressione di disgusto. «E sai a chi fece redigere i documenti? Sai a chi chiese di occuparsi della faccenda?». Non volevo crederci, ma sapevo che doveva essere vero. «Fosti tu a farlo?». «Non volevo. Davvero, non volevo. Gli dissi che pensavo che Adele non stesse così male, che forse mettendola in cura da un dottore sarebbe riuscito a farle smettere di bere e di prendere tutti quei farmaci. Lui mi rispose che tutti i medici a cui si era rivolto gli avevano detto la stessa cosa, che era troppo tardi, che i danni erano permanenti, che Adele aveva bisogno di attenzioni costanti. Continuava a non sembrarmi giusto. Lui insistette: conosceva sua moglie molto meglio di quanto la conoscessi io, ed era sorpreso e deluso, sì, più deluso di quanto fosse in grado di esprimere a parole, dal fatto che io potessi rifiutare di fargli il favore che mi aveva chiesto.
Avevo scordato quelli che lui aveva fatto a me, il modo in cui aveva infranto la legge quando non avevo rispettato la scadenza di una mozione o avevo avuto bisogno di tempo? Poi mi disse una cosa che non mi aveva mai detto prima. Mi disse che a volte aveva approvato le mie mozioni soltanto perché credeva che io fossi mosso dalle intenzioni giuste, e che se qualcuno fosse venuto a saperlo, se lui si fosse lasciato sfuggire ciò che aveva fatto, sarebbe finito nei pasticci e io con lui. Dovevamo avere fiducia l'uno nell'altro, disse. Certo non pensavo che volesse fare qualcosa che andava contro gli interessi di sua moglie, vero? Non potevo sapere quanto soffriva per quella situazione, e come l'unico modo in cui pensava di poterla superare era sapere che veniva gestita da una persona che sia lui che Adele avevano cominciato a vedere come un figlio». Elliott digrignò i denti, e gli occhi rischiarono di schizzargli fuori dalle orbite. «Durante l'udienza Adele era seduta al mio fianco e rimase docile e passiva fino alla fine. A quel punto si sporse verso di me, ancora con quel suo sorriso vacuo sulle labbra, e mi disse con voce perfettamente chiara: "L'hai aiutato a sbarazzarsi di me, ma non sono l'unica di cui si vuole sbarazzare". Poi scoppiò a ridere, una risata terribile, da far gelare il sangue nelle vene, che andò avanti aumentando di volume finché non fui costretto a tapparmi le orecchie nel timore che mi spaccasse il cranio. A volte, se non sto attento, vedo ancora la sua faccia in sogno e sento quella voce, quel lugubre avvertimento a cui non badai. Al momento rimasi semplicemente a osservare le guardie che la portavano via mentre la sua orribile risata echeggiava per il tribunale. L'unico pensiero che avevo era che Jeffries aveva visto giusto, che i danni erano troppo gravi, che non c'era niente da fare se non ricoverarla in un istituto in cui avrebbe potuto godere delle cure costanti di cui aveva bisogno. Adele aveva cercato di avvertirmi, ma ciò malgrado continuavo a credere in Jeffries. E come avrei potuto fare altrimenti?», domandò con un'occhiata furba. «L'avevo appena aiutato a sbarazzarsi di sua moglie. Ognuno vuole credere che ciò che sta facendo ha una giustificazione. Sono sicuro che Jeffries pensava di essere giustificato». Elliott era estremamente pronto, in un modo quasi sovrannaturale, e avvertì immediatamente il barlume del dubbio nei miei occhi. «Certo che lo credeva. Passo dopo passo, per tutti gli anni che aveva vissuto insieme a lei. Pensaci! Adele ha un piccolo incidente. Soffre, ma i farmaci funzionano. Smette di lamentarsi. Lui deve averlo notato immediatamente. Finalmente! Una liberazione dalle sue chiacchiere costanti e
per lui prive di senso. Dopo quell'episodio, ogni volta che lei accennava a un dolorino, ecco il farmaco. Lui era sempre in grado di procurarseli. Aveva le conoscenze giuste. Conosceva dottori. Conosceva bene... oh, sì, quanto bene lo conosceva... il primario dell'ospedale in cui lavorava la mia cara, amorosa, fedele mogliettina Jean. «Fu così che si conobbero. Fu in questo modo che cominciò tutto. Sulle prime fu una cosa innocente. Di solito è così, non è vero? Innocente, voglio dire. Malgrado tutti i pensieri luridi e odiosi che cominciavano a strisciare nelle loro menti come vermi che divorano un cadavere, o meglio come il parassita che infesta i sifilitici, in superficie non erano che due persone civili e compassionevoli, che pensavano al benessere della moglie del grand'uomo. Al momento non lo notai», aggiunse in tono confidenziale, «ma ripensandoci sono quasi sicuro che ci fosse un odore particolare, una specie di tanfo, quando mi trovavo insieme a loro». Esitò. «Credi che me lo stia inventando, che sia la mia immaginazione?», domandò scoccandomi un'occhiata di traverso. «Di due persone che provano attrazione l'una per l'altra non si dice forse che fra loro c'è una certa chimica? Da bambino non hai mai mescolato sostanze chimiche per vedere quale sarebbe stato il peggior odore che riuscivi a ottenere? Ma hai ragione», ammise agitando la mano davanti al volto. «Al momento non notai nulla». Il suo volto mostrava un'espressione leggermente sbalordita. «Non c'era niente da notare. Noi parlavamo sempre di legge, e lei non faceva che chiedere notizie di sua moglie. La prima volta che mi accorsi di qualcosa fu una sera a cena. Eravamo solo noi tre. Sua moglie, be', hai presente, "non si sentiva molto bene". Jean dovette lasciarci prima del caffè. Era di turno all'ospedale. Dopo che se fu andata, Jeffries sembrò ritrarsi in se stesso, come se qualcosa l'avesse infastidito. Alla fine riuscii a convincerlo a parlare, e lui mi chiese se Jean stava per caso facendo un doppio turno. Quando risposi di no, che Jean aveva il turno di notte per tutta la settimana, fece un'espressione angosciata. Quel pomeriggio era andato a salutare il suo amico primario dell'ospedale, spiegò. Aveva visto Jean percorrere un corridoio; era troppo lontana perché potesse attirare il suo sguardo o salutarla, ma era sicuro che fosse lei. «Feci del mio meglio per minimizzare. "Sarà stata convocata per un'emergenza", dissi. "Ogni tanto succede". Lui finse di accettare la spiegazione, ma potevo vedere che non ci credeva». Elliott si chinò in avanti e si massaggiò la nuca. «È una tattica alquanto abile, non trovi? Suggerire a qualcuno che sua moglie potrebbe essere
coinvolta in qualcosa di illecito? In questo modo diventi l'ultima persona al mondo di cui lui sospetterà. Dopo tutto, Jeffries era un uomo davvero brillante». Esitò, quindi soggiunse: «O almeno era ciò che pensavo allora». I suoi occhi brillavano di malizia. «Quando sono arrivato qui avevo trentatré anni, come Cristo quando è morto. La sai la cosa migliore che sia mai stata detta su Cristo?». Per un breve istante la sua espressione si fece incerta. «È stata detta, oppure me la sono inventata? Non importa». Il suo volto si rischiarò. «"Se Cristo avesse continuato a vivere, avrebbe cambiato idea". È quello che è successo a me, capisci? Ho continuato a vivere, e ho cambiato idea. Credevo in lui, pensavo che non potesse fare nulla di sbagliato. E quando mi sono reso conto di cosa aveva fatto, di quant'era corrotto nel profondo, ho capito che la mia stessa esistenza non era stata che una menzogna». I suoi occhi ebbero un guizzo, e un sorriso gli si aprì sulle labbra. «Ci sono dei vantaggi nel perdere la ragione». 8 Chester, il paziente che poteva fare qualsiasi cosa con i numeri e niente di niente con i semplici fatti storici, si era fermato davanti al nostro tavolo e tremava dalla testa ai piedi. «Elliott», disse traendo un gran respiro, «ho bisogno di andare in bagno. Cosa devo fare?». Chiuse la bocca allungando il labbro superiore sopra quello inferiore. Elliott gli posò la mano sulla spalla e, sorprendentemente, il tremito cessò. «Andrà tutto bene», disse in tono calmo e consolante. Indicò con un cenno del capo l'inserviente immerso nella lettura di un logoro tascabile all'estremità opposta della sala. «Ti accompagna sempre il signor Charles, ricordi? Digli che devi andare». Tolse la mano dalla spalla di Chester, e il tremito ricominciò. Tornò a posarla con delicatezza, e Chester si calmò. «Non mi credi?», domandò Elliott guardandolo negli occhi. «Sì, ma ho paura», insistette Chester. «Non avrai paura del signor Charles, vero?», domandò Elliott in tono pacato. «Si prende sempre cura di te». «Ho paura di farmela addosso», rispose Chester con una vocetta infantile. Abbassò gli occhi a terra, troppo imbarazzato per reggere lo sguardo di Elliott. «Guardami», disse Elliott. Chester obbedì. «Va tutto bene. Non succederà, te lo prometto. Ora vai a dire al signor Charles cosa devi fare». Gli die-
de un colpetto sulla spalla e poi tolse la mano. Il tremito non ricomparve. «Grazie, Elliott», disse Chester voltandosi. Aveva fatto sì e no tre passi quando si arrestò e gridò a pieni polmoni: «Signor Charles, devo pisciare subito!». Guardai l'inserviente staccare gli occhi dal suo libro e alzarsi lentamente. «Sembra innocuo», osservai. «Come mai è finito qui dentro?». «Troppa storia», spiegò Elliott. Aspettai che proseguisse, ma lui non aggiunse altro. «Troppa storia? Non capisco». «Sì, esattamente troppa storia», rimuginò. «Ha passato tanto di quel tempo a studiarla che il passato è diventato la sua unica realtà. Se avesse studiato la storia della musica, forse sarebbe andato in giro sostenendo di essere Beethoven. Invece studiava la guerra del Vietnam, e un bel giorno ha deciso che era in guerra, circondato dai Vietcong. Si è allacciato una bandanna sulla testa, si è coperto la faccia di grasso e si è nascosto sopra le condutture del riscaldamento nel garage sotterraneo del condominio in cui viveva. Nessuno sa quanto ci sia rimasto, stringendo la baionetta che aveva comprato in un negozio di residuati bellici. Potrebbe aver aspettato per giorni l'arrivo dei Vietcong. E alla fine sono arrivati, in giacca e cravatta e con una valigetta. Chester ha creduto che fosse un ricognitore mandato in avanscoperta perché scoprisse la sua posizione. È saltato giù dalle tubature, è atterrato sull'auto di quel poveraccio, un agente assicurativo, gli ha tagliato la gola e l'ha lasciato lì a morire dissanguato, correndo via alla ricerca di altri Vietcong. Ma hai ragione, è innocuo. Non farebbe male a una mosca. Non qui dentro, quanto meno». Erano arrivati diversi altri pazienti, e avevano preso posto sulle sedie di plastica sparse per l'ampia sala comune. Camminavano lentamente e quando si sedevano restavano immobili, tradendo soltanto uno spasmo o un sobbalzo occasionale. Non parlavano, e il silenzio gravava sulla sala spezzato soltanto da un breve gemito o da un singhiozzo subito represso. L'ambiente mi fece pensare a una vecchia stazione ferroviaria o a una stazione dei pullman nel mezzo della notte, luoghi di affollata solitudine in cui gli sconosciuti trascorrono ore interminabili in attesa che arrivi il momento di partire. «Diventano stanchi, quando comincia a farsi tardi», spiegò Elliott. «È l'effetto dei farmaci». Lui non sembrava affatto stanco. Se mai, la sua energia e la sua intensità aumentavano con il passare dei minuti. Pensai che ciò fosse dovuto all'ec-
citazione che provava per aver ricevuto una visita dal mondo esterno. Feci per alzarmi. «Forse dovrei andare. Possiamo proseguire un'altra volta». Mi afferrò per un polso e non mollò la presa. «No», ribatté deciso. «Non c'è ragione perché te ne vada. Non ti ho ancora spiegato perché credevo che avessi una relazione con mia moglie. Non lo vuoi sapere?». Mi rimisi a sedere e lui lasciò la presa. «Non è vero», dissi chiedendomi per quale ragione mi sentissi spinto a ripetere il diniego. Forse perché l'idea mi aveva sfiorato la mente e mi sentivo in colpa per il pensiero, se non per l'azione? L'occhiata che Elliott mi scoccò era inquietante. Mentre mi penetravano, cercando di trapassarmi il cranio da parte a parte, i suoi occhi sembravano al tempo stesso guardare in ogni direzione. Era come osservare un'eclissi di sole. Al centro c'era un punto scuro, profondo, impenetrabile che per il momento rimaneva fisso, circondato da abbacinanti fuochi d'artificio di luci danzanti. «Una sera, a una festa, ti ho visto che parlavi con lei. Lo faceva sempre, parlava sempre con gli uomini più attraenti. Le piaceva pensare che gli uomini, gli uomini più belli, fossero attratti da lei. Era importante, per lei. Era una componente della sua identità: una donna che piaceva agli uomini». Me la ricordavo bene, slanciata, superba e tenace, con capelli castano dorato e occhi scuri e senza fondo. Mentre parlava non distoglieva mai lo sguardo dal tuo, e ti calamitava, ti faceva sentire un prediletto al punto che quasi non ti accorgevi del modo in cui i suoi occhi vagavano senza posa per la stanza non appena arrivava il suo turno di ascoltare. Non potevi fare a meno di notare le sue mani, le dita lunghe e ossute che sembravano sempre in attesa di ghermire qualcosa, di chiudersi su un oggetto, di afferrare ciò che potevano. Non mi piaceva, e questo avrebbe potuto accrescere il mio desiderio se non fosse stata sposata con un associato del mio studio di cui mi sentivo in un certo senso responsabile. «Era una donna molto attraente», mi sentii dire. «Sapeva che tu lo pensavi. Dopo quella serata, a volte mi provocava. Mi diceva quanto le piacessero gli uomini più maturi». Elliott avvertì la mia reazione prima ancora che me ne rendessi conto io stesso. «A quei tempi avevi più o meno l'età che io ho adesso», osservò. «Lei mi disse che se avesse mai deciso di tradirmi, probabilmente l'avrebbe fatto con un uomo come te».
È la vanità, non la speranza, l'ultima a morire. Per quale ragione, altrimenti, avrei cercato di far sì che un malato di mente mi assicurasse che una dozzina d'anni prima ero ancora giovane? «Un uomo più anziano?», domandai inarcando un sopracciglio. Elliot non stava pensando a me. «Era sempre stata ambiziosa. Io volevo insegnare, lei voleva che facessi l'avvocato. Mi convinse che avrei dovuto farlo, mi disse di essere convinta che sarei stato bravissimo, mi disse quanto credeva in me. E io credetti alle sue parole, perché credevo in lei». Per un istante mi guardò, riflettendo su qualcosa a cui aveva chiaramente già pensato. «Mi sono sempre modellato sull'immagine che gli altri avevano di me, coloro di cui mi fidavo, coloro in cui credevo. Non è quello che fanno un po' tutti? Vedersi a seconda di come gli altri pensano che tu sia o che dovresti essere? Il pericolo, naturalmente, è che un bel giorno scopri che non puoi più credere in loro, che non c'è nulla in cui puoi credere, che tutto ciò in cui hai creduto finora è una menzogna. E a quel punto non sai più chi sei. Ti ritrovi solo, abbandonato a te stesso, senza niente a cui fare ritorno e senza nulla a cui mirare». Un sorriso furbo e cinico gli comparve sulle labbra. «E così gente come me finisce in manicomio, perché dopo tutto quello che mi è accaduto può essere soltanto una sorta di aberrazione, una malattia mentale, una tara. Ma che fortunatamente può essere curata, o quanto meno controllata, con il giusto regime di terapia e farmaci. Controllata! Sai cosa intendono? Obbedienza assoluta, docile accettazione. Sei d'accordo con qualsiasi cosa ti dicono, fai tutto quello che ti ordinano, credi a tutto quello che ti fanno credere. Diventi pazzo come chiunque altro là fuori. Non sei costretto a credere in Dio, ma ti conviene credere nel golf!». «Come?», domandai, sorpreso più dalla luce fanatica che gli era penetrata negli occhi che dalle sue parole. «Nel golf?». Mi guardò come se fossi impazzito. «Sì, nel golf. La ricreazione fa bene; andare d'accordo con gli altri fa bene. Prendere la vita come un gioco fa bene. Non lasciarsi turbare dalla follia del mondo, questo fa bene. Tutti credono nel golf». Il suo sguardo si infiammò, e la sua testa cominciò a dondolare da una parte e dall'altra. «A Jean piaceva il golf, e il tennis, e il nuoto, e l'equitazione». Si fermò mentre l'ombra del dubbio gli calava sugli occhi infervorati. «Credo che l'eccezione fosse il bowling. Non che il gioco in sé non le piacesse, capisci. Jean credeva nei giochi. Pensava solo che quello fosse giocato dalla gente sbagliata. Il bowling a un estremo, gli scacchi all'altro.
Troppo intellettuali, pensava. Qualsiasi altra cosa fosse, Jean era sempre stata rampante. A dire il vero, penso...». Accadde di nuovo, quella stessa crisi terrificante che s'impossessava di lui come una forza diabolica, scuotendogli le membra come uno straccio mentre si sforzava disperatamente di trovare la rima giusta che avrebbe fatto scattare la serratura, liberandolo. «Penso... tenso... denso...». Strabuzzò gli occhi, e il suo volto divenne paonazzo. «Fenso... benso... menso... nenso». E poi finì. La vita tornò nei suoi occhi, la sua carnagione ridivenne pallida e dal suo tono di voce avresti creduto di essere al cospetto di un uomo assolutamente normale. «Di cosa stavamo parlando?», chiese come se si fosse momentaneamente scordato ciò che stava dicendo. «Ah, sì», esclamò non appena glielo rammentai. «Jean. Voleva il successo, e quando conobbe Jeffries e capì quanto lui la desiderava, non credo che l'idea di resistergli la sfiorò. Sarebbero passati anni prima che io avessi avuto la possibilità di diventare socio dello studio. Perché aspettare per qualcosa che poteva avere subito?». Mi guardò con un'espressione capricciosa negli occhi. «Nel tuo mondo, nel mondo dei sani di mente, non è forse l'immediata gratificazione ciò che tutti vogliono? «Ovviamente, ai tempi non ne sapevo nulla. Credevo ancora che Jeffries fosse mio amico. Ne avevo la prova. Fra tutti coloro che conosceva, fra tutti gli avvocati a cui avrebbe potuto chiederlo, aveva scelto me quando si era trattato di far dichiarare incapace sua moglie. E dopo, quand'era ormai rimasto solo, avevamo cominciato a passare ancora più tempo insieme». Sembrava ormai perfettamente calmo, quasi rilassato, come se ci stessimo scambiando pettegolezzi su una vecchia conoscenza comune. «Cosa ti fece pensare che Jean avesse una relazione con me?», chiesi. «Cominciò a mentirmi. Una sera tornò a casa due ore dopo la fine del suo turno e mi disse che un'infermiera del turno successivo si era data malata. Ma io mi ero preoccupato, avevo chiamato l'ospedale e avevo saputo che Jean era uscita all'orario regolare. Lei farfugliò qualche scusa, una storiella sul fatto che era successo all'ultimo momento e che il centralino non ne era stato informato. Io le credetti, ma cose simili cominciarono ad accadere sempre più spesso. Ogni volta lei aveva una scusa, e ogni volta io le credevo, o quanto meno ci provavo. I miei interrogatori divennero più violenti, più convulsi, e lei cominciò a sostituire l'analisi alle spiegazioni. Insisteva di essere preoccupata per me. Immaginavo le cose, rischiavo di di-
ventare paranoico. Alla fine, quando arrivò a casa tardi e si inventò una scusa assurda, l'accusai di avere una relazione. «"E con chi l'avrei, questa relazione?". Mi guardava con tale sdegno, con tale disprezzo. Mi ero innamorato di lei fin dal primo istante in cui l'avevo vista. Ci eravamo sposati sei mesi dopo esserci conosciuti. Non avevo mai amato nessun'altra. E il modo in cui mi guardava! Mi parve che qualcuno mi avesse squarciato le budella. Avrei voluto morire in quel momento; desideravo soltanto smettere di respirare. «"Non posso vivere in questo modo", mi disse. "Ho bisogno di stare lontana per qualche giorno. Ho bisogno di tempo per riflettere". «Rimase via tre giorni, l'intero fine settimana. Lunedì mattina chiamò dall'ospedale per parlare con i bambini. Disse che sarebbe stata a casa per cena. Più tardi, durante una pausa del processo, andai a trovare Jeffries. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, e lui era l'unico di cui potevo fidarmi per una questione come quella. «Riesco a vederlo con chiarezza, seduto alla sua scrivania che mi guarda da sopra gli occhiali. "Sabato dobbiamo esserci sfiorati", disse. Non sapevo di cosa stesse parlando. "Sulla costa, a Salishan, alla conferenza dell'ordine. Ho visto Jean nell'atrio dell'albergo mentre parlava con Antonelli. Ti stavano aspettando, evidentemente. Non mi sono potuto trattenere, c'erano delle altre persone con me". Non sono del tutto sicuro di cosa sia accaduto dopo. Non ricordo nulla del pomeriggio in aula, ricordo solo che riuscivo a pensare soltanto a tornare a casa, vedere Jean e cercare di convincere me stesso che lei mi avrebbe convinto che non c'era niente di vero. Quando arrivai a casa, Jean non c'era e nemmeno i bambini. Qualche minuto dopo suonò il campanello, e quando andai ad aprire la porta uno sconosciuto mi consegnò la citazione. Jean aveva chiesto il divorzio». Il gomito sul tavolo, Elliott appoggiò lo zigomo sul pollice e l'angolo della fronte sull'indice e rimase immobile, immerso nei suoi pensieri. «Il giorno dopo», continuò poco dopo con espressione assente, «ebbi il crollo. Ero in tribunale, nel bel mezzo del processo, quando accadde. È quello che mi hanno detto, in ogni caso. In realtà non ricordo». Il suo sguardo si rimise a fuoco. «Per questo cercai di ucciderti. Era l'unica cosa a cui riuscivo a pensare, ucciderti per quello che mi avevi fatto». Un sorriso misterioso gli fluttuò sulle labbra. «Sono sicuro che Jeffries ci rimase male, quando scoprì che non c'ero riuscito. Mi parlava sempre di te, di come avresti fatto qualsiasi cosa pur di vincere, di come un giorno l'avresti pagata. Mi diceva che eri la persona più amorale che avesse mai co-
nosciuto, e che se fosse stato costretto a rifare tutto daccapo ti avrebbe dato trenta giorni di reclusione per oltraggio alla corte, non soltanto tre. A quel punto, qualcun altro avrebbe dovuto assumere la difesa in quel caso che secondo lui non avresti mai dovuto vincere». Rammentò qualcos'altro. «Un giorno mi disse che c'erano alcuni, nello studio, che non ti avrebbero voluto, persone che lui conosceva, persone che sarebbero state liete se io fossi stato l'unico penalista dello studio. Capisci cosa stava facendo? Non si lasciava mai sfuggire l'occasione di agitare le acque, di creare risentimento, di farmi credere che senza di te avrei potuto avere tutto ciò che volevo. Tu eri il socio anziano, l'avvocato con la grande reputazione, e come se non bastasse eri anche quello che si stava portando via mia moglie». Elliott tornò a sorridere, quella stessa espressione enigmatica che suggeriva che dietro il significato letterale di ciò che diceva c'era sempre qualcos'altro, un senso più profondo. Si passò le dita sui baffi, ripetendo il gesto più volte e in modo sempre più rapido, poi smise all'improvviso. «Forse Jeffries sapeva che avrei avuto un esaurimento, sapeva quello che sarebbe successo». Era facile lasciarsi trasportare da ciò che diceva. Non era soltanto il fatto che aveva una sorta di logica; come molte cose esotiche, Elliott esercitava una strana specie di attrazione. Più mi trattenevo lì, più mi era difficile ricordare che mi trovavo in un ospedale psichiatrico e che stavo parlando con un malato di mente. «C'è un interrogativo ovvio, Elliott», dissi con un sorriso imbarazzato. «Lasciamo perdere quello che Jeffries diceva di me. Perché tutti quegli inganni? Perché tua moglie non si limitò a chiedere il divorzio? Perché farti credere che fossi coinvolto anch'io?». Elliott rispose senza la minima esitazione, come se non potesse esserci alcun dubbio sulla verità. «Non potevano permettersi uno scandalo. I giudici non dovrebbero andare a letto con le mogli degli avvocati che esercitano nelle loro aule. Avrebbe reso più difficile ottenere l'altra cosa che volevano. Jeffries non voleva soltanto mia moglie, ma anche i miei figli. Non ne aveva mai avuti di suoi». Lo disse come se fosse un fatto non soltanto ovvio, ma anche del tutto estraneo a lui. Era il modo in cui descriveva quasi tutto ciò che era accaduto prima del suo esaurimento. Avevo ovviamente già sentito individui che parlavano di se stessi con un certo distacco, giudicando il loro stesso comportamento, ma mai a quel livello. Per Elliott c'era una cesura temporale,
netta come quella con cui dividiamo la storia in ciò che è accaduto prima e dopo Cristo. Quando parlava di ciò che era accaduto prima del suo ricovero forzato non c'era alcun collegamento fra quello che era adesso e quello che era stato allora. Il vecchio Elliott era morto, e per quanto potessi capire il nuovo Elliott non ne sentiva affatto la mancanza. I suoi occhi scintillavano d'ilarità. «Se tutto questo ti sembra un po' paranoico... be', è quello che sono. Paranoide. O quanto meno è quello che mi dicono. Certo, qui dentro è quello che dicono a tutti. Schizofrenia paranoide. Cercano sempre di aggiungere un piccolo dettaglio, qualcosa che faccia credere che sanno cosa stanno dicendo. Tipo I o Tipo II, manie di questo o manie di quello, acuta o meno acuta. E lo dicono sempre con tale gravità, con tale enorme serietà e con gesti così tetri e lenti, la testa china, le mani allacciate dietro la schiena, le spalle ingobbite. Penseresti che siano in chiesa, che stiano per fare la comunione. Schizofrenia paranoide». Il suo sguardo s'indurì e la sua voce si riempì di sdegno. «Quella frase nasconde la loro ignoranza. Dà loro un senso di potere. Sono loro i veri malati di mente». In fondo alla sala, l'inserviente si alzò e stiracchiò le braccia. Tutt'intorno a lui, i pazienti accennarono a muoversi. «L'ora della lezione», spiegò Elliott. Il disprezzo era svanito, i suoi modi erano quasi scherzosi. «Lo staff la chiama terapia di gruppo, noi la chiamiamo lezione. Ci sono lezioni diverse. La mia preferita è quella sulla "gestione dei farmaci". Impariamo i sintomi della nostra malattia e come controllarli». I suoi occhi traboccavano di allegria, e dovette socchiuderli per impedirsi di scoppiare a ridere. «Pensaci», disse in un sussurro rauco. «Spieghi a qualcuno che è un paranoide schizofrenico. Poi, come se per lui fosse una novità, gli dici quali sono i sintomi. Gli riveli che questi sintomi possono essere tenuti sotto controllo dai farmaci e che il segreto è prendere la dose giusta nel preciso istante in cui li riconosci. In altre parole, gli spieghi che è pazzo e poi gli elenchi tutte le cose perfettamente ragionevoli che può fare per non darlo a vedere». Non sembrava esserci alcuna transizione graduale fra i suoi stati d'animo. Era una cosa e poi l'altra. Poco prima era allegro e ironico, ora sembrava serissimo. «La cosa strana è che sembra funzionare. Alcuni diventano bravi. Imparano a gestire la loro malattia, a controllarla e forse perfino a usarla. Alcuni di loro, penso, imparano perfino a nascondersi dietro». Non sapevo cosa intendesse dire con quell'ultima frase. «Nascondersi
dietro?», ripetei. La scintilla divertita ricomparve nel suo sguardo. «Tutti imparano a dire quello che gli altri vogliono sentire, o a mostrare quello che gli altri vogliono vedere, non è così?». Feci per rivolgergli un'altra domanda, ma all'improvviso il suo sguardo guizzò via e il suo volto perse qualsiasi espressione. Prima che potessi voltarmi per vedere la causa di quel cambiamento, Elliott si alzò e s'immobilizzò. Il cancello di rete metallica sferragliò mentre il dottor Friedman faceva scattare la serratura con la sua chiave. C'era una cosa che dovevo sapere, anche se in quel momento non avrei saputo spiegare il perché. Forse era soltanto una sensazione, o forse era qualcosa di più, la percezione che non mi avesse rivelato tutto di quella storia. «Elliott», dissi afferrandolo per un braccio, «chi ti ha rappresentato al processo? Chi era il tuo avvocato difensore?». Il dottor Friedman aveva varcato il cancello e aspettava a qualche passo di distanza. Elliott mi guardò e si strinse nelle spalle. «Non ricordo. L'aveva trovato Jeffries». Ci salutammo, e io mi voltai. «Joseph», mi chiamò lui. Era l'unica volta che aveva usato il mio nome. «Mi faresti un favore?». «Ma certo», risposi. Infilò la mano nella tasca della giacca, e in quel momento mi resi conto che l'abito era probabilmente lo stesso che aveva indossato l'ultima volta che si era trovato in tribunale, il giorno che era stato mandato in manicomio. Mi porse una busta e mi chiese di farla avere ai suoi figli. Mi parve una strana richiesta. «Non la vuoi spedire?». «Non posso. Non so dove abitano. Non so nemmeno come si chiamano». Non ero sicuro di aver udito bene. «Non sai come si chiamano?», ripetei. Ma era troppo tardi. Elliott si stava già allontanando. «Ha idea di cosa volesse dire?», domandai al dottor Friedman mentre uscivamo. Diedi un'occhiata alla busta. Sul davanti c'era soltanto la parola "Ragazzi", senza un nome o un indirizzo. «Credo di sì», rispose Friedman. «Un bel po' di tempo fa, prima che arrivassi io, i suoi figli sono stati adottati dal nuovo marito della moglie». «Ma è impossibile», protestai. «Lo si può fare soltanto con il consenso dei genitori». E all'improvviso capii. «Oh, mio Dio. Ma certo! Che stupido
sono stato a non pensarci». «A cosa?». «Si sono rivolti al tribunale, la moglie e il nuovo marito, e la corte ha cancellato i diritti parentali di Elliott. Agli occhi della legge, lui non ha figli. Ecco cosa intendeva dicendo che non sa come si chiamano. Non li conosce, o meglio non li vuole conoscere, con il loro nuovo cognome: Jeffries». Friedman annuì con garbo. «Sì, suppongo sia possibile», disse in tono neutrale. «È difficile saperlo, con Elliott. È un caso difficile. Interessante, ma difficile». Avevamo raggiunto la porta a vetri all'ingresso. Friedman fece per aprirla, ma poi, senza staccare la mano dal vetro, ingobbì le spalle, chinò il capo e fissò il pavimento di linoleum. «Elliott è un paranoide schizofrenico», disse in tono serio rialzando gli occhi su di me. «Perché sorride?», domandò confuso. Non me n'ero accorto. «Mi perdoni», dissi con una punta d'imbarazzo. «È per qualcosa che ha detto Elliott». Prese la mia spiegazione alla lettera. Era abituato a individui le cui menti erano assalite da molte cose allo stesso tempo. «Come le stavo dicendo, Elliott è un paranoide schizofrenico, e a differenza di alcuni pazienti che mostrano soltanto alcuni sintomi, lui sembra averne una gran quantità». «Uno di questi è bloccarsi su una parola e recitare una serie di rime?». «Sì. Succede qualcosa nel cervello, viene inviato il messaggio sbagliato e invece di fornire la sequenza di parole con cui completare il pensiero il processo si ribalta ed è la parola stessa, in un certo senso, a dover essere completata. È un sintomo abbastanza comune, e francamente non particolarmente grave. Elliott ha problemi molto più seri. A volte non parla per giorni interi. Si ritira in se stesso, e quando questo accade è impossibile ristabilire un contatto. Ha visto la sua espressione quando è arrivato, quello sguardo fisso come se fosse in trance. Altre volte comincia a parlare a una velocità furiosa, e quello che dice non ha alcun senso oppure pronuncia le parole così rapidamente che non riesci a capire se ce l'abbia o meno. E altre volte ancora è completamente razionale e notevolmente intelligente». Friedman esitò e mi guardò negli occhi. «È come se lo ricordava, almeno in parte?». Dovetti riflettere prima di rispondere. Non era affatto lo stesso di un tempo, ma ora che l'avevo rivisto con dodici anni in più sulle spalle, rin-
chiuso in un manicomio criminale, ora che mi ero fatto un'idea più chiara di ciò che gli era successo, mi chiedevo se ciò che ricordavo di lui non fosse più un prodotto della mia immaginazione che qualcosa di reale. 9 Aveva smesso di piovere, ma le nubi erano ancora così scure che malgrado fossero le tre del pomeriggio era già sceso il buio. Lungo la strada i fari delle auto di passaggio diffondevano un misterioso bagliore giallastro nella nebbia scura. Al termine del vialetto che usciva dal parcheggio, qualcuno balzò fuori dal buio e mi costrinse a frenare di botto. Il volto contorto dalla rabbia, agitò il pugno nella mia direzione e gridò un'imprecazione che non udii. Mi chiesi se fosse un paziente o soltanto una persona normale che sfogava la sua rabbia. Durante il viaggio di ritorno a Portland pensai a Elliott Winston, e ci pensai anche nei giorni successivi, ogni volta che leggevo o sentivo qualcosa che mi provocava un'esplosione mentale di parole dal suono simile. Un giorno, mentre pranzavo con un collega, lo feci ad alta voce. Dissi la parola "mangiare" e poi mi udii aggiungere "appoggiare... assaggiare... torreggiare". «Non ti capita mai?», chiesi, divertito da ciò che avevo appena fatto. «Di ascoltare il suono delle parole e farle rimare?». Lui disse di no, e io mi chiesi se avrei dovuto credergli. Una considerazione portò all'altra. «È il principio fondamentale della poesia, vero? Il suono, la rima?». Mi venne in mente un'altra cosa. «Prima della scrittura, era un modo per ricordare ciò che veniva detto». Il mio collega non dissentì, ma non mostrò nemmeno un particolare interesse. Ci eravamo incontrati per parlare di una questione legale, e in quello c'era pochissimo spazio per la poesia. Per le settimane successive non vi fu spazio per molto altro. Affrontai una serie ininterrotta di processi, e avrei potuto smettere del tutto di pensare a Elliott se la ricerca dell'assassino di Calvin Jeffries non avesse continuato a rimanere sulle prime pagine dei giornali. Ogni volta che mi veniva ricordato l'omicidio, qualcosa di Elliott, un'osservazione, un gesto, il suo sguardo straordinariamente penetrante, mi balenava davanti agli occhi. Quei due uomini, uno morto, l'altro vivo ma in un mondo tutto suo, erano ormai perennemente collegati nella mia mente in un'immagine bifronte come Giano, il bene e il male, la ragione e la follia, con le mie simpatie
che propendevano decisamente verso la pazzia. Forse non per tutte le forme di pazzia, mi dissi mentre mi vestivo per una cena a cui non avevo alcun desiderio di partecipare. Ero andato al suo funerale spinto dal senso del dovere. L'omicidio di un giudice, perfino di un giudice come Jeffries, era un attacco alla legge, e la legge, malgrado tutte le mie delusioni e disillusioni, era l'unica cosa in cui ancora credevo. Ero come un prete che aveva perso la sua fede nella Chiesa ma che, forse proprio per questo, si aggrappava con più forza a Dio. Ero dovuto andare al funerale, ma non avevo alcun dovere di partecipare a quella cena. La ragione per cui avevo accettato l'invito era un mistero. Probabilmente non era niente più del vago desiderio di osservare uno dei modi in cui cerchiamo di migliorare il futuro raccontandoci menzogne sul passato. Una fotografia di Calvin Jeffries era già stata appesa al palazzo di giustizia, e il suo busto avrebbe ora occupato una nicchia sulla parete della nuova biblioteca della facoltà di giurisprudenza. Sarebbe diventato l'ultimo di una serie di giuristi apparentemente brillanti e onorevoli al cui nome veniva dedicata una cattedra. Aveva lasciato il denaro per istituirla, settecentocinquantamila dollari, nel suo testamento, e nessuno, specialmente la facoltà, era propenso a indagare sulle sue origini. In parte, ovviamente, proveniva dal denaro che Jeffries, con l'aiuto di Elliott Winston, aveva rubato alla sua prima moglie. Ma non aveva importanza. Nessuno badava al passato. L'importante era quel gesto davvero meraviglioso di generosità civica. E nessuno sembrava trovare strano il fatto che la condizione del dono fosse che la cattedra venisse chiamata "Cattedra Calvin Jeffries di Procedura Penale". La vanità non è sempre l'ultima a morire: a volte non muore mai. Con un gran sorriso sul faccione roseo, Harper Bryce si sbracciava da un tavolo in seconda fila appena sotto il palco. Mi feci strada chiedendo scusa nei passaggi intasati fra i tavoli e raggiunsi il mio posto, l'ultima sedia libera accanto a quella di Harper. Il mio amico giornalista era in piedi, intento a esaminare la folla. «Un bel pienone», disse. «Ci saranno settecento, ottocento persone». Un sorriso ostile gli attraversò il volto. «Prima il funerale, adesso questo. Jeffries riesce davvero a mobilitarli». Seguii il suo sguardo attraverso la sala invasa da uomini ben vestiti e donne eleganti, dai sorrisi scintillanti e dai gioielli colorati. C'era un gran fracasso di bicchieri che tintinnavano, sedie che si muovevano e voci, centinaia di voci che parlavano all'unisono, un chiasso assordante e incom-
prensibile che ti ruggiva nelle orecchie come un migliaio di pensieri che vociavano per attirare la tua esclusiva attenzione. Poi, a sovrastarli tutti, un verso simile a quello di uno stormo di oche canadesi seguito dal soffio del ciccione della scuola nella sua tuba. Mi voltai. Harper Bryce aveva sepolto la faccia in un fazzoletto di lino e si stava soffiando il naso. «Ogni aprile, maledizione», brontolò disgustato. Ripiegò il fazzoletto e se lo rimise nel taschino dell'abito scuro. Eravamo seduti al tavolo del giornale di Harper. L'editore, Otto Rothstein, e sua moglie Samantha erano alla sinistra di Harper. Rothstein era piccolo e tarchiato, con un grosso collo e due occhi implacabili. Mentre parlava ti guardava in faccia come se stesse cercando di prenderti le misure. Sua moglie era tutta braccia e gambe, con un petto concavo e niente di niente dove si sarebbero dovuti trovare i fianchi. Aveva due grandi occhi beffardi e il sorriso di una donna che era sempre in grado di pensare a un posto dove avrebbe preferito trovarsi in quel momento. Quando eri con lei era difficile non condividere il suo stato d'animo. Il nuovo direttore del giornale, Archie Bailey, allegro, modesto e a sentire Harper uno dei migliori giornalisti che avesse mai conosciuto, era venuto con la moglie, Rhoda, incinta di sette mesi del loro primo figlio. Dopo che li ebbi salutati mi venne presentato un uomo più anziano dai capelli grigi, dalla fronte rugosa, dalle folte sopracciglia e dal naso lungo e diritto. Una carnagione olivastra si tendeva dagli zigomi arrotondati al mento stretto e solcato da una fossetta. «Cesare Orsini», disse Harper in tono improvvisamente formale. «Il professor Orsini insegna all'università di Bologna», aggiunse mentre mi sporgevo sul tavolo per stringergli la mano molle e arrendevole. «È il più grande esperto di letteratura rinascimentale italiana. È venuto a tenere una serie di conferenze sponsorizzate dal giornale». «Il signor Bryce esagera con i riconoscimenti», osservò il professore con una scintilla divertita negli occhi. «Sono solo un vecchio che ama leggere cose scritte da individui morti da tempo. Mi fa sentire giovane». Il suo inglese era impeccabile, e lasciava trapelare soltanto la vaga traccia di un accento. Accanto a Orsini era seduta una donna attraente dallo sguardo tranquillo e dai capelli castani lunghi fino alle spalle. Aveva l'aspetto atletico di chi trascorreva molto tempo sui campi di golf o di tennis. Lisa Laughlin, spiegò Harper, era la responsabile della cronaca mondana. «Molto lieto di conoscerla», dissi. C'era qualcosa in lei, qualcosa nel
modo in cui mi guardava, che mi ammutolì. «Non si preoccupi, signor Antonelli», disse lei ridendo. Cercai di capire perché ridesse, e provai la strana sensazione che si trattava di qualcosa che avrei dovuto sapere. «Joseph», la corressi. Ottenni l'unico risultato di farla ridere ancora di più. «Joseph? Ma certo», disse lei quando le sue risate si spensero. «Ma vedi, Joseph, quando avevo tredici anni ed ero così cotta di te che stavo male, tutti ti chiamavano Joe. Tranne mia sorella, che odiavo, che ti chiamava Joey». Non avevo ancora capito, e lei fu mossa a compassione dalla mia ignoranza. «Il mio nome da nubile era Frazier». Sarei potuto sprofondare attraverso il pavimento. D'un tratto tornai ad avere diciott'anni, un taglio di capelli alla militare, due strisce grigie sulla manica del mio maglione da atleta con le iniziali della scuola, scarpe bicolori e pantaloni a tubo; tornai a essere il capitano della squadra di football del liceo, con un sorriso sfacciato ma con un'insicurezza così patetica che non portavo camicie con le maniche corte nemmeno nei giorni più caldi dell'anno perché ero convinto di essere troppo magro e temevo che tutti ridessero di me. Finché un bel giorno Jennifer Frazier, la ragazza più bella della scuola e quindi la ragazza più bella del mondo, aveva accettato di uscire con me ed ero diventato un novizio nell'arte dell'insuccesso romantico. Ricordavo tutto come se fosse appena accaduto. Eravamo andati a una festa, e mentre tutti gli altri mangiavano, bevevano e chiacchieravano, ci eravamo rintanati in un angolo buio di un'altra stanza, ballando come se la notte fosse eterna. Lei era alta e magra, con grandi occhi a mandorla che mutavano colore con la luce, assumendo diverse sfumature di marrone per arrivare, nei momenti di grazia, al giallo. Era bellissima, e io ero innamorato di lei prima ancora di baciarla e condannato quando l'avevo finalmente fatto. L'avevo accompagnata a casa dopo la mezzanotte, e lei si era trattenuta fra le mie braccia e con un'occhiata dolceamara che non ho mai scordato mi aveva detto che mi avrebbe invitato a passare la notte con lei, ma che a sua madre non sarebbe piaciuto. Dopo Jennifer avevo pensato che non mi sarei più potuto innamorare. Mi ci era voluto molto tempo per dimenticare Jennifer Frazier, e in quel momento, mentre guardavo la sua ex sorellina ormai cresciuta e sentivo il sangue salirmi al volto in un'ondata di maldestro imbarazzo, capii che non l'avevo mai fatto.
«Eri soltanto una bambina», mi sentii dire. «Una bambina con le trecce fissate con gli elastici e l'apparecchio ai denti, una bambina magra come un chiodo a cui piaceva giocare con le rane. Mi dicesti che odiavi i ragazzi». Lisa mi sorrise e annuì. «Non sono affatto cambiata», disse. «E nemmeno tu». Nel chiasso ronzante, decine di camerieri in giacca bianca spostavano i loro sguardi dai grandi vassoi color peltro ai punti dei tavoli in cui avrebbero dovuto posare la portata successiva e si affaccendavano di qua e di là nella sala cavernosa. Alla fine di una trascurabile cena a base di cibo tiepido, i piatti vennero portati via e fu servito il caffè. Il professor Orsini sembrava immerso nei suoi pensieri, tamburellando lentamente le dita sulla tovaglia. Quando alzò gli occhi e incrociò il mio sguardo arrossì come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa di illecito. «Stavo pensando ai Borgia», spiegò. I suoi occhi castano scuro brillarono, e le sue mani presero a gesticolare. «È stato detto di loro che sono venuti al mondo come una dichiarazione di guerra contro la moralità attraverso l'incesto e l'adulterio». Ciascuno dei nostri commensali smise di fare ciò che stava facendo. Orsini fece scorrere lo sguardo su di loro. «Uno dei Borgia divenne papa, Alessandro VI. Suo figlio, che si chiamava Cesare come me», osservò con un sorrisetto furbo, «era quello che Machiavelli ammirava tanto... o quanto meno sembrava ammirare. Sì, sì, lo so», si affrettò ad aggiungere, «è spiacevole, ma è vero. I papi non sono sempre stati dei santi. Alessandro aveva anche una figlia, Lucrezia, e nemmeno lei era particolarmente retta». Con un sorriso aprì le mani in un gesto di supplica. «Aveva relazioni con diversi membri della sua stessa famiglia. Oggigiorno, ovviamente, i Borgia sarebbero considerati una famiglia con dei grossi problemi e sarebbero senza dubbio costretti ad affrontare un lungo processo di terapia psicologica. È una questione interessante, non trova, signor Antonelli? Parlo della connessione, o forse dovrei dire della tensione, fra la morale convenzionale e la disponibilità ad assumersi grossi rischi, a inventare quelli che Machiavelli chiamava nuovi costumi e nuovi sistemi». Lasciò aleggiare la domanda per un istante, poi, distogliendo gli occhi da me, proseguì nel suo discorso. «Voi americani venite a una cena come questa, in cui un importante uomo politico sta per fare un discorso, e vi divertite immensamente. Nel mio paese, e in particolare a Firenze, nessuno voleva essere invitato a cena dai
Borgia. Rifiutare era sempre pericoloso, e accettare poteva essere fatale». Socchiuse gli occhi, guardò in basso, sul tavolo, e scosse la testa. «Avevo sempre pensato che ci fosse un'enorme differenza fra l'Italia di quei tempi e l'America d'oggi», riprese, alzando di nuovo lo sguardo. «Ma dopo questa cena, non ne sono più così sicuro». «Non ha nulla di cui preoccuparsi, professore», lo rassicurò la moglie di Rothstein con un sorriso cadaverico. «In questo paese non avveleniamo il prossimo, gli spariamo». «O lo accoltelliamo», intervenne Harper con noncuranza, alludendo alla morte di Calvin Jeffries. La moglie di Archie Bailey si passò protettivamente la mano sul ventre gonfio che ospitava il nascituro. Ebbe un brivido e scosse il capo in un cupo silenzio. Harper si pentì immediatamente di ciò che aveva detto, ma prima che potesse chiedere scusa Otto Rothstein gli rivolse una domanda. «Cosa sai delle indagini? Hanno scoperto qualcosa?». Harper fece per rispondere, ma poi chiuse la bocca e arricciò il naso. Lo contrasse più volte, quindi fece tre corti, sibilanti respiri. Non servì a niente. Si portò al naso il fazzoletto e soffiò. «No, niente», rispose tirando su col naso. «Ogni singolo poliziotto dello stato ci sta lavorando, ma non hanno in mano niente». Esitò piegando il fazzoletto, e i suoi occhi arrossati si accesero di furbizia. «O se ce l'hanno, non si sbottonano. Sono sotto pressione. È il caso più importante a cui molti di loro abbiano mai lavorato». Rothstein aggrottò la fronte. «Sono passati quasi due mesi. L'abbiamo tenuto in prima pagina il più a lungo possibile. Se non combinano qualcosa al più presto, tornerà alla cronaca cittadina». Si fermò e mi guardò. «Lei che ne pensa? È un esperto di comportamenti criminali. Cosa crede sia accaduto? Si tratta di omicidio premeditato?». «L'unico motivo per cui lo si pensa è l'identità della vittima. Se si fosse trattato di qualcun altro, di un individuo il cui nome non era mai finito sui giornali, non ci sarebbe stata alcuna ragione di ipotizzare qualcosa di diverso da un omicidio casuale, una rapina degenerata». Rothstein era uno a cui piaceva discutere. Amava far parlare la gente. Se condividevi ciò che diceva, era capace di cambiare posizione soltanto per vedere se eri disposto a mantenere la tua. «Molta gente viene assassinata di proposito. E nella maggioranza dei casi non sono persone famose».
«E vero. Ma se programmi di uccidere qualcuno, di solito non usi un coltello. Troppe cose possono andare storte. Ti devi avvicinare alla vittima, che quindi ha la possibilità di lottare; e potresti non essere in grado di finirla in un colpo solo». Scoccai un'occhiata ai Bailey. Stavano parlottando fra loro, senza prestarci la minima attenzione. «Jeffries non è morto sul colpo. È quasi riuscito a tornare nel suo ufficio. Se avesse avuto un cellulare, avrebbe potuto chiamare il 911. Se avesse avuto una pistola, avrebbe potuto sparare. Sarebbero potute succedere molte cose, ognuna delle quali avrebbe potuto salvargli la vita o portare alla cattura del suo assassino. Se qualcuno avesse avuto l'intenzione di ucciderlo, probabilmente avrebbe usato una pistola». Scrollai le spalle. «Detto questo, bisogna ammettere che molti assassini non sono gli individui più intelligenti del mondo. È possibile che qualcuno volesse la morte di Jeffries e abbia deciso che quel momento non fosse né peggio né meglio di qualunque altro, specialmente se era drogato». «Se non sono così intelligenti», volle sapere Samantha Rothstein, «come mai è così difficile catturarli?». «Se non si tratta di omicidio premeditato, se è stato un qualcosa di casuale, se non esiste alcuna prova concreta come impronte digitali o DNA, allora non c'è nulla che possa collegare l'assassino alla vittima. Questi sono i casi più difficili da risolvere, e quasi sempre vengono risolti solo perché l'assassino ha confidato a qualcuno ciò che ha fatto». Orsini aveva seguito ogni parola della discussione. «Mi dica, signor Antonelli, non ha mai conosciuto un assassino di grande intelligenza?». Nessuno me l'aveva mai chiesto. Lo guardai negli occhi, chiedendomi se la sua domanda fosse stata dettata dalla semplice curiosità o se nascondesse qualcos'altro. «No. D'altro canto, ho a che fare soltanto con quelli che vengono catturati. Cesare Borgia, se ricordo bene, morì nel proprio letto». Orsini sgranò gli occhi, poi li socchiuse fino a ridurli a due fessure. «È stato un caso eccezionale, anche se sotto questo aspetto non credo sia stato l'unico. Io penso, signor Antonelli, che esistano tre tipi di individui: quelli che rispettano la legge, quelli che la infrangono e vengono puniti e quelli, come i Borgia, che seguono una legge tutta loro e cercano di imporla agli altri». Fece una breve pausa, poi aggiunse: «A proposito, i Borgia amavano i coltelli. Svolgono il loro compito in silenzio». Le luci si abbassarono, e quando qualcuno accese un microfono il rumo-
re di una scarica statica attraversò il salone. Se Jeffries fosse morto nel sonno e di cause naturali, a lodare le sue qualità e ignorare i suoi vizi in pubblico sarebbe stato molto probabilmente un altro giudice. Ma la sua morte gli aveva procurato una fama postuma, e al posto di qualcuno che l'aveva conosciuto era stato il governatore ad afferrare al volo l'occasione di onorare la memoria di un uomo che non era nemmeno sicuro di avere mai incontrato. William Jackson Collins aveva vinto le elezioni per il suo primo mandato grazie a un margine così stretto che era stato necessario un nuovo conteggio dei voti. Due anni dopo, quasi tutti si erano convinti che fosse imbattibile. Non diceva mai la verità e non sembrava badare al fatto che anche coloro che erano d'accordo con lui lo trovassero un bugiardo. Dava la sua parola a chiunque gliela chiedesse, e quando non la manteneva si giustificava aggrappandosi a cavilli talmente difficili da seguire che era più semplice lasciar perdere. A quel punto lui lo rifaceva, e per quante menzogne ti avesse raccontato in passato, quando ti guardava con quei suoi occhioni fanciulleschi avevi la certezza che stavolta ti stava dicendo la verità. Nel profondo, tuttavia, saresti rimasto deluso se ti avesse detto il vero, poiché il tuo istinto ti diceva che fin da subito ti aveva mentito perché non voleva perdere un amico. Tutti quelli che lo conoscevano pensavano che avrebbe puntato ancora più in alto. Quando si alzò per parlare, Collins fece ciò che fanno tutti i politici, pronunciò la stessa litania rituale che in un modo o nell'altro fa capire al pubblico quant'è meraviglioso e quanto l'oratore è felice di trovarsi lì. Scoccai un'occhiata al mio orologio nella speranza che Collins la facesse breve. Con un sorriso educato e rispettoso, lui rivolse un cenno del capo alla vedova Jeffries, seduta tre posti più in là sul palco, e accennò doverosamente al suo lutto. A giudicare dalla grave espressione del suo volto, era una perdita che nessuno sentiva più di lui. Feci scivolare il polsino della camicia da sopra il mio orologio, decisi che doveva essersi fermato e presi a caricarlo prima di rammentarmi che era al quarzo. Quando rialzai gli occhi, Collins aveva abbassato i suoi sul podio. Il sorriso timido era svanito. Tornò a sollevare lo sguardo e drizzò la schiena. Ruotò il capo da una parte e dall'altra, osservando gli ospiti. Cominciò a parlare, tendendo il dito per sottolineare i concetti, alzando e abbassando la voce in una cadenza ipnotizzante. L'omicidio di Calvin Jeffries non era soltanto l'omicidio di un essere umano, per terribile che fosse. Non era soltanto l'omicidio di un giudice insigne. Era nientemeno che l'as-
sassinio della ragione stessa. La legge era l'ancora della civiltà, l'unica cosa che ci separava dalla peggiore barbarie, l'unica cosa che ci manteneva al sicuro e in libertà. La legge ci proteggeva tutti, e tutti avevamo il dovere morale di proteggere la legge. Mi guardai intorno nel salone. Ogni volto era levato verso Collins, ogni sguardo era fisso su di lui mentre il governatore conduceva il suo pubblico da un'emozione all'altra, attizzando la sua eccitazione finché non poté fare a meno di esplodere. Alla fine il governatore si trattenne sul podio con un sorriso trionfale, sbracciandosi in direzione del buio in tumulto, al centro di ogni pensiero ed emozione. Aveva tenuto un discorso sulla legge e sulla ragione, e per il momento aveva privato il suo pubblico di qualunque raziocinio. Guardai il modo in cui continuava a salutare la folla come se non potesse sopportare l'idea di farne a meno. All'improvviso ricordai quando avevo visto due occhi bruciare con quella stessa intensità. Era accaduto quando avevo trovato Elliott Winston ad attendermi nell'ospedale psichiatrico, imprigionato in una fissità catatonica. La fine del discorso del governatore segnò la conclusione della serata. Mentre le luci si riaccendevano, l'enorme salone venne invaso da un brulichio di suoni. Salutando Harper rivolsi un'occhiata al podio, dove una piccola folla si era riunita attorno al governatore. La vedova di Jeffries era al suo fianco. Mi ero dimenticato della lettera. Era l'unica cosa che Elliott mi aveva chiesto di fare, e si trovava ancora nel cassetto della scrivania nel quale l'avevo riposta. Mi ripromisi di occuparmene come prima cosa il lunedì mattina. Lisa Laughlin mi posò una mano sul braccio. «È stato bello rivederti dopo tutti questi anni. A proposito», soggiunse mentre si voltava, «Jennifer è tornata a Portland da qualche mese». Disse qualcos'altro, ma la folla l'aveva ormai risucchiata lontano e io non la udii. Fuori, una nebbiolina grigia e umida aleggiava nell'aria fresca della sera. Una lunga fila di limousine intasava la strada davanti all'albergo. Donne in attillati abiti da sera i cui strascichi spuntavano dalle pellicce alla moda chiacchieravano fra loro o se ne stavano in disparte, distanti e impassibili, in attesa delle loro auto. Uomini dall'aria agitata si sbracciavano e gridavano rivolti ai loro autisti come se ciò sveltisse le cose. Nel mezzo di quel caos, un uomo sollevava una mano per fermare le auto, tenendo la testa alta e stringendo un fischietto fra i denti. Indossava un cappotto lurido e malconcio e un paio di guanti divorati dalle tarme, e i suoi capelli svolazzavano in ogni direzione mentre, ignaro di qualsiasi altra cosa, obbediva a
ciò che la voce nella sua testa gli diceva di fare. Mi fermai sul bordo del marciapiede, stringendomi alla gola il colletto del mio cappotto blu di cashmere e osservando quella strana apparizione con il suo sguardo vacuo e i suoi movimenti meccanici. Ripeteva sempre gli stessi gesti, soffiando nel fischietto, tendendo il braccio all'infuori e facendo ruotare l'altro braccio al di sotto in un'ampia curva. Se avesse indossato un'uniforme da poliziotto, tutti avrebbero rispettato i suoi ordini, grati della sua presenza. Vestito com'era, si limitavano a distogliere lo sguardo, quasi pensassero, in una parodia della sua stessa follia, che smettendo di guardarlo sarebbero chissà come riusciti a farlo scomparire. Il freddo mi penetrò come un coltello. Infilai le mani nelle tasche del cappotto e mi allontanai a piedi. Avevo lasciato l'auto nel garage del mio studio, a pochi isolati di di' stanza. Oltrepassai il palazzo di giustizia e tagliai in diagonale attraverso lo stretto parco sul lato opposto. Riflettendosi nell'aria densa e fredda, le luci fioche che provenivano dagli edifici circostanti diffondevano un bagliore bianco cenere. Sentii una fitta di dolore alla gamba e fui costretto a fermarmi. Erano anni che non la sentivo, e ora sembrava infastidirmi di continuo. Qualche secondo dopo, il dolore era passato. Feci qualche passo di prova, e avevo appena ripreso la mia normale andatura quando li vidi stagliarsi nella nebbia davanti a me. Due uomini dai capelli grigi arruffati e dalle barbe aggrovigliate, con berretti di maglia calati sulle orecchie, uno davanti e l'altro dietro a un carrello del supermercato ed entrambi intenti a fissare davanti a loro, come la vedetta e il capitano di una nave che veleggia silenziosa sul mare ammantato di nebbia, erano fermi accanto a un cestino dell'immondizia. Senza una parola, senza un gesto, quello dietro il carrello aspettava mentre l'altro sollevava il coperchio e allungava la mano all'interno. Ne estrasse una lattina di alluminio, la posò sul sentiero asfaltato, si raddrizzò, tirò in avanti il carrello e si fermò di nuovo. Senza una parola o uno sguardo, l'altro, l'ombra del primo, posò il piede sulla lattina e la schiacciò. Si chinò, la raccolse e la mise nel carrello. Non sprecavano un movimento, non perdevano tempo; erano la perfetta espressione dell'efficienza meccanica che, alla resa dei conti, aveva permesso a quelle due anime erranti di sopravvivere vagando per la città alla ricerca di rifiuti con cui guadagnare qualche centesimo. Li osservai mentre raggiungevano il cestino successivo e ripetevano gli stessi gesti. Poi li vidi scomparire nella notte vasta e impenetrabile. Presi l'ascensore per il garage sotterraneo in cui avevo lasciato la mia auto. Una luce gialla implacabile illuminava il marciapiede centrale e proiet-
tava le ombre di tutto ciò che si muoveva sulle fredde pareti. Con l'odore del cemento bagnato nelle narici, ascoltai l'eco dei miei stessi passi, un suono secco e staccato. Ma era davvero un eco? Mi arrestai e rimasi immobile, ascoltando l'eco che si spegneva. Niente. Feci un altro passo e mi fermai di nuovo. Mi sembrava di aver sentito un secondo suono che seguiva a ruota il primo. Mi voltai e feci scorrere lo sguardo in lontananza. Non c'era nessuno, quanto meno in apparenza. Raggiunsi rapidamente la mia auto, chiusi le sicure dall'interno e la misi in moto. Quando inserii la marcia, controllai nuovamente nello specchietto. Due occhi dall'espressione folle e malevola mi stavano fissando. C'era qualcuno sul sedile posteriore, proprio dietro di me. Mi voltai di scatto. Il sedile era vuoto. Gli occhi erano dietro l'auto, non a bordo. Calai il piede sull'acceleratore, strinsi il volante con entrambe le mani e diedi un'ultima occhiata nello specchietto. Non vidi niente: il garage era deserto. Ma c'era stato qualcuno, ne ero certo. L'avevo visto con i miei occhi. Ma quando giunsi in strada non ero più sicuro di ciò che avevo veduto, e cominciai a pensare di avere immaginato tutto. La mente fa strani scherzi mentre il sole dorme. 10 Quando aprii gli occhi erano quasi le dieci del mattino. Per qualche minuto rimasi disteso, chiedendomi se sarei riuscito a riaddormentarmi. Alla fine mi trascinai giù dal letto e barcollai in bagno con gli occhi velati di sonno. In piedi davanti al gabinetto, osservai le increspature diffondersi sull'acqua finché non ebbi finito. Poi entrai nella doccia e cambiai lentamente la temperatura dell'acqua da calda a tiepida a gelida. Quando ero giovane e avevo bevuto troppo lo facevo per superare una sbornia; ora lo facevo semplicemente per costringermi a svegliarmi. Indossai una maglietta blu e un paio di jeans, entrai scalzo in cucina e mi preparai un caffè. Avevo quasi finito di leggere il giornale della domenica quando suonò il campanello. Nessuno aveva citofonato dal cancello in fondo al vialetto, e non aspettavo visite. Infastidito dall'intrusione, aprii la porta. «Sì?», domandai in tono irritato. Una donna alta, slanciata, dai capelli neri e due grandi occhi all'ingiù mi si parava davanti. Indossava un vestito giallo, con un maglione bianco gettato sulle spalle. Teneva il mento inclinato da una parte, e sulla sua bocca
aleggiava un sorrisetto ironico. Conoscevo quello sguardo, e malgrado dovesse essere cambiato in tutti gli anni che erano passati, conoscevo quel volto. «Sì?», ripetei con l'accenno di un sorriso. «Ti sei dimenticato di me, Joey?», chiese lei, provocandomi con gli occhi. Pronunciò il mio nome in un tono dolce, sommesso, cantilenante, come se volesse trattenerlo. Era il modo in cui lo pronunciava sul suo portico dopo la mezzanotte un centinaio di anni prima, quando eravamo ragazzi e io ero innamorato di lei come non sarei mai più stato innamorato di nessuno. Ci guardammo, non sapendo bene cosa dire. Il suo sguardo si staccò dal mio, e tutta la sua allegra, solare sicurezza parve sul punto di voltarle le spalle e fuggire. Le cinsi la vita e lei mi mise un braccio attorno al collo, e per un minuto ci stringemmo l'uno all'altra. «Ieri sera ho visto tua sorella, e mi ha detto che...». «Mi ha telefonato stanotte», spiegò Jennifer mentre ci staccavamo dall'abbraccio. «Un suo amico, un collega, Harper qualcosa, le ha dato il tuo indirizzo». «Entra, entra», dissi facendomi da parte. «Come hai fatto a superare il cancello?», chiesi mentre lei si guardava intorno in salotto. «Era aperto». All'improvviso ricordai. «Ieri sera mi sono dimenticato di richiuderlo». Era una menzogna. Non me n'ero scordato. Non l'avevo chiuso perché temevo che ci fosse qualcuno in agguato nel buio e non volevo scendere dall'auto. Non la vedevo da anni, ma continuavo a non volere che sapesse che ero coraggioso soltanto quando credevo di essere osservato. Percorse la sala come se ci fosse già stata e si stesse sincerando che tutto fosse ancora uguale a come se lo ricordava. Facendo strisciare la mano dietro di sé a sfiorare le coste dei volumi sugli scaffali, percorse la libreria che occupava un'intera parete. Giunta alla fine si voltò. «Ricordi quando ti dissi che eri troppo serio per me? Hai sempre saputo esattamente quello che volevi fare. Hai sempre avuto grandi progetti. Io, invece, non andavo al di là del fine settimana successivo». Fece una risatina, e gli angoli della sua bocca si piegarono all'ingiù in un modo dolce e triste. «Forse, se fossi stata più simile a te, le cose sarebbero andate in modo diverso». Non appena lo disse scosse il capo imbarazzata, poi rise di nuovo. «Non sono venuta a lamentarmi della mia vita, giuro. Sono venuta a chiederti se
ti andava di fare una gita. Come ai vecchi tempi», soggiunse. Non mi sarebbe mai passato per la mente di rifiutare, ma mi sentivo in qualche modo maldestro e stupido, come qualcuno che non sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare. Non potevo sapere quanto Jennifer fosse cambiata, e potevo soltanto chiedermi quanto io stesso fossi diverso dal modo in cui lei doveva ricordarmi. «Dove vorresti andare?», chiesi in tono rigido, formale e pomposo. Tornò a rivolgermi quel sorrisetto quasi canzonatorio, quell'occhiata che mi aveva sempre fatto capire che sapeva di me più di quanto io stesso avrei mai saputo. «Ha importanza?». «No», ammisi con una risata. «Non ha alcuna importanza». Mi cambiai il più velocemente possibile, indossando un paio di pantaloni e una camicia di cotone Oxford. Quando ridiscesi trovai Jennifer in biblioteca. Si allungava sulla punta dei piedi, scrutando una fila di libri rilegati in pelle verde e oro sullo scaffale più alto. «Le opere complete di Bacone», disse quando si accorse della mia presenza. «Hai davvero letto tutte queste cose?». Mi appoggiai alla porta incrociando le braccia sul petto e scossi il capo. «Non solo non le ho lette, ma non sono nemmeno mie. Mi sono state donate insieme alla casa. Un giudice, l'uomo più gentile e intelligente che abbia mai conosciuto, me li ha lasciati in eredità alla sua morte. Credo pensasse che sarei stato in grado di imparare qualcosa». Jennifer mi sorrise dal lato opposto della sala. «E l'hai fatto? Hai imparato qualcosa?». «Sì», risposi. «Sposa la prima ragazza di cui ti innamori. Non ci sarà mai niente di più bello». Fuori, sui gradini del portico, Jennifer lasciò vagare lo sguardo sul prato verde, sulle aiuole di azalee e più in là sulla macchia di abeti lungo lo steccato. «Mi ricorda quella canzone», disse fermandosi accanto alla sua auto, la mano già sulla portiera. Arricciò il naso e scosse la testa. «Il matto che vive sulla collina». «Il vecchio matto che vive sulla collina», dissi salendo sulla sua scintillante Porsche nera decappottabile. «Bella macchina», osservai minimizzando di proposito. Jennifer infilò la mano nel vano fra i due sedili e prese un paio di occhiali da sole. «Brutto matrimonio, ottimo divorzio», commentò inforcandoli.
Avviò il motore, poi mi rivolse un sorriso innocente e birichino mentre si slacciava il nastro con cui si era raccolta i capelli. «Pronto?». Mi appoggiai alla portiera, incrociai mollemente le braccia sul petto e scrollai le spalle. «Certo, perché no?». Non appena lo dissi, Jennifer abbassò la testa, calò il piede sull'acceleratore e inserì la marcia. Mi aggrappai con una mano al fianco del sedile e con l'altra al cruscotto mentre l'auto si lanciava giù per il vialetto e sulla strada. I lunghi capelli neri di Jennifer svolazzavano attorno al volto e sulle spalle, intrecciati e agitati dal vento. I suoi occhi erano fissi sulla strada davanti a lei. Teneva una mano sul volante e l'altra sulla leva del cambio. Zigzagando nel traffico senza prendersi il disturbo di segnalare le sue manovre o addirittura di controllare, lasciava che fossero gli altri a togliersi di mezzo. Mi sporsi verso di lei e gridai per sovrastare il ruggito lamentoso del motore: «Sei ancora la peggior automobilista che abbia mai conosciuto!». Lei si fece scivolare gli occhiali scuri sulla punta del naso e mi scoccò un'occhiata. «Ti eri dimenticato», replicò gridando, «che un tempo guidavo così!». Strinse il volante con entrambe le mani, chiuse gli occhi e rise come se fossero anni che non si divertiva così tanto. Mi impadronii del volante e lo tenni fermo. «Stavo scherzando. Sei sempre stata una gran guidatrice». «Ricordi la MG? Quella verde? A quei tempi non ti dispiaceva il modo in cui guidavo». «Quando avevo diciotto anni ero convinto di vivere in eterno». Mi misi a ridere. «Ovviamente, a quei tempi credevo che "in eterno" significasse al massimo quarantacinque anni». «Mi piaceva, quella MG», disse lei guardando davanti a sé a testa alta. «Era sicura». Mi scoccò un'occhiata, poi tornò a guardare la strada. «Non aveva un sedile posteriore». Raggiungemmo la costa e proseguimmo verso sud, attraverso promontori boscosi e alte scogliere di roccia erosa dal mare. Attraversammo a passo d'uomo cittadine costiere, fermandoci alle strisce pedonali per lasciar passare i turisti e i gitanti desiderosi di visitare i negozietti pieni di dolciumi e oggetti di legno intagliato o i caffè e le gelaterie sul lato opposto della strada. Il sole di aprile batteva a picco dal cielo sereno, asciugandoci sulla pelle l'aria fresca e salata. Mentre Jennifer guidava, chiusi gli occhi e mi abbassai sul sedile fino a posare la nuca sulla parte superiore dello schienale. La brezza era pungente, ma il mio volto era riscaldato dal sole e mi fa-
ceva sentire assonnato come quando ero un ragazzino e dormivo con una coperta di lana sollevata fin sotto il mento e i piedi che spuntavano fuori dalla parte opposta. Ci rivolgevamo a malapena la parola. Non ci eravamo nemmeno detti dove stavamo andando. Non riuscivo a contare le volte che eravamo andati in quei posti, sulla costa, nel fine settimana, fermandoci dove ci andava, di rado due volte nello stesso posto. Prendevamo sempre la sua auto, e guidava sempre Jennifer. Le piaceva, non si stancava mai del brivido ipnotico che le provocava superare una curva in cima a un promontorio e sfrecciare lungo un tratto rettilineo. Io guardavo il movimento fluido e costante delle sue mani, delle sue braccia, dei suoi polsi, lo sguardo fisso e deciso dei suoi occhi, il modo in cui rideva quando aveva portato la macchina al massimo delle sue possibilità. Nel silenzio comune di quelle gite giornaliere mi sentivo più vicino a lei di quanto mi fossi mai sentito, o mi sarei sentito in seguito, nei riguardi di chiunque altro. Jennifer svoltò su un promontorio affacciato sul mare e parcheggiò di fronte a un ristorante che per quanto ricordavo era sempre stato lì. Era un edificio di legno basso e lungo che sembrava un luogo di ristoro autostradale, il genere di locale che un tempo vedevi al cinema, in cui donne dalle gambe lunghe se ne stavano sedute in fondo al bar fissando con gli occhi languidi e socchiusi il fumo di sigaretta che danzava nell'aria a ogni loro provocante respiro. Ci sedemmo in un séparé accanto a una finestra affacciata su una piccola insenatura. Sotto di noi, nella baietta riparata dalle rocce, i bambini correvano verso il mare agitando le braccia e poi, quando il livello dell'acqua raggiungeva le loro ginocchia, arrancavano di nuovo all'asciutto. «Te lo ricordi, questo posto?», domandò Jennifer esaminando il menu. «Ci fermammo qui la prima volta che venimmo sulla costa». Mi rivolse un'occhiata da sopra la lista. I suoi occhiali scuri erano posati sul tavolo. Quando sorrise, le rughe agli angoli degli occhi, che prima si notavano a malapena, si fecero più diffuse e profonde. «Non è cambiato, vero?». Seguii il suo sguardo nella sala affollata. Un uomo sulla trentina era seduto a un tavolo con la moglie e i tre figli biondi, intento a parlare con qualcuno al cellulare. Uno dei bambini stava giocando con un videogame portatile. In fondo al ristorante, accanto ai gradini che portavano al bar, un uomo barbuto e corpulento sedeva da solo sorseggiando caffè e battendo lentamente le grosse dita sulla tastiera di un sottile computer portatile. «Il ristorante non è cambiato», risposi.
«E nemmeno il menu», disse Jennifer studiando la superficie plastificata e incrinata della copertina art déco. La cameriera, una donna vicina alla cinquantina con una bocca da Cupido e il sorriso pronto, si sfilò una corta matita gialla dai capelli biondo grigi e prese nota della nostra ordinazione su un taccuino di fogli verdi, fogli che poi sarebbero finiti infilzati accanto alla cassa. La guardai allontanarsi. «Penso che ci abbia servito l'ultima volta che siamo stati qui. Me la ricordo. Una graziosa liceale bionda». I miei occhi tornarono a posarsi su Jennifer. «Tua sorella mi ha detto che eri tornata a Portland da qualche mese. È davvero la responsabile della cronaca mondana? È difficile a credersi, non penso di averla mai vista con un abito elegante». Ero partito in mille direzioni diverse. Mi fermai e scrollai le spalle in segno di resa. «Perché non mi hai chiamato?», chiesi piano. «Hai presente quanto tempo è passato? Non ero nemmeno sicura che ti ricordassi ancora di me. Se ieri sera Lisa non mi avesse telefonato per dirmi che ti aveva incontrato e che vivevi da solo, non so se avrei mai...». «Non puoi credere che avrei potuto dimenticarti. Ero innamorato di te. Lo ero sempre stato». La cameriera ci servì i nostri piatti, e per un po' parlammo soltanto dei banali dettagli della vita quotidiana, come due vecchi amici che non si erano mai separati per più di qualche mese. «Perché non ti sei mai sposato?», chiese Jennifer scostando il suo piatto. Aveva a malapena toccato il cibo. Cercai di metterla sul ridere. «Hai rovinato la piazza a tutte le altre». «No, sul serio», disse lei cercando i miei occhi. «In un certo senso è vero. Per molto tempo non ho più provato le stesse emozioni. Mi è ricapitato soltanto qualche anno fa», aggiunsi guardando fuori dalla finestra. Il mare si stendeva in lontananza e poi, all'orizzonte, si perdeva nel cielo. «C'è stato qualcuno che avrei voluto sposare». «Che cosa è successo?», domandò Jennifer in tono comprensivo. «Niente», risposi tornando a guardarla. «Lei non mi amava. Abbiamo vissuto insieme per qualche tempo, ma poi se n'è andata». Non volevo parlarne, nemmeno con lei. «E tu?». Stavolta fu lei a distogliere lo sguardo, portandolo sui bambini che giocavano in spiaggia. «Ricordi l'estate dopo il tuo primo anno di università, l'estate successiva alla mia maturità? Ricordi quell'agosto, la sera prima che partissi per l'Europa, quando restammo svegli fino alle tre del mattino a parlare di quello
che volevamo fare?». Stava ancora fissando fuori dalla finestra, e il suo sguardo si era fatto distante. «Ricordi quando mi chiedesti di sposarti? Ricordi cosa ti risposi?». «Che non eri ancora pronta, ma che forse un giorno, quando fossi stata più matura...». «Sì, ma ricordi la lettera che ti scrissi il giorno dopo appena prima di partire, la lettera...». «Quale lettera? Non ho mai ricevuto alcuna lettera». Il suo sguardo sembrò raggelarsi, e poi, lentamente, abbandonò la finestra. «La lettera che lasciai a casa tua. La lettera che chiesi a tua madre di darti». «Mia madre non mi ha mai... Cosa diceva? Cosa mi avevi scritto?». «Che avevi ragione, che non c'era alcun motivo di aspettare, che ero innamorata di te e che avremmo dovuto sposarci». «Non l'ho mai avuta», ripetei scuotendo la testa per l'incredulità. «Mia madre non me l'ha mai data. Per quale ragione non l'ha fatto?». Conoscevamo entrambi la risposta. Mia madre aveva sempre cercato di controllare ciò che facevo. Era una delle ragioni per cui avevo deciso di andare a studiare così lontano da casa. «Credeva che ti avrei rovinato la vita. Si aspettava che tu facessi grandi cose». «Già, era fatta così. Ha sempre cercato di controllare la mia vita, ma non riesco a credere che abbia potuto...». Mi fermai e feci una risatina ironica. Sapevo che era vero, e ciò malgrado avevo provato lo strano, irrazionale impulso di dire qualcosa in difesa di mia madre. «No, ci credo. È proprio quello che avrebbe fatto. E ha funzionato, no? Non ho mai ricevuto la lettera. Tutto ciò che sapevo quando ti ho lasciato quella notte era che tu avresti riflettuto su ciò che ci eravamo detti. Ma non ho mai più avuto tue notizie. Sono tornato a scuola e sono rientrato a casa soltanto l'estate successiva al mio ultimo anno, l'estate prima che cominciassi la specializzazione. Lo sai perché non sono più tornato? Perché sapevo che se l'avessi fatto avrei cercato di rivederti, e sapevo, credevo di sapere, che ciò non avrebbe fatto che peggiorare le cose». Ci stavamo guardando e stavamo pensando a noi stessi, a tutti gli effimeri eventi delle nostre esistenze, chiedendoci quanto le cose sarebbero potute andare diversamente, sbalorditi dalla scoperta che tutto ciò che era accaduto era stato una sorta di finzione basata su una menzogna. «Forse tua madre aveva ragione», disse Jennifer. «Forse ti avrei rovinato
la vita. Ero egoista, a volte perfino crudele. Ed eravamo così giovani! Se ci fossimo sposati, quanto credi sarebbe durato? E a quel punto, che cosa sarebbe successo?». Tornai a sentire l'enorme senso di vuoto di quell'anno che avevo trascorso lontano da casa, l'orribile sensazione che non ci fosse più nulla di importante e che fossi diventato lo spettatore riluttante della mia stessa insensata esistenza. «Sarebbe durato», risposi, sicuro che era vero perché ogni altra cosa era stata così falsa. Jennifer sorrise e mi sfiorò la mano. «È carino che lo pensi ancora». La cameriera portò via i piatti e ci servì il caffè. Erano le due passate, e nel ristorante era rimasta poca gente. La luce del sole entrava obliqua dalla finestra, costringendomi a girarmi di sbieco nell'angolo del séparé per evitare di restarne accecato. «È così che ti sedevi sempre. Non stavi mai dritto. Ti stravaccavi sempre in quel modo e mi guardavi con quei tuoi occhioni castani, imbronciato per qualche ragione». Jennifer esitò, come se ci fosse qualcosa che voleva dirmi ma non fosse sicura di doverlo fare. «Mi è capitato di innamorarmi di qualcuno perché aveva occhi come i tuoi, occhi castani che sembravano attraversarmi da parte a parte». «È l'uomo che hai sposato?». Le ci volle qualche istante per ricordarsi che non sapevamo quasi nulla di come avevamo vissuto le nostre vite. «No. A quei tempi ero sposata, ma non con lui. Lo conobbi a una cena in un country club. Ci avevano invitato dei nostri amici dell'università, e avevano portato un amico che era venuto a trovarli da Chicago. Aveva i tuoi occhi. Credo di essermi innamorata di lui ancora prima che finissero di presentarci...». La sua voce si affievolì, e il suo sguardo si spostò sull'oceano che giaceva immobile sotto il sole. «Stavamo ballando», riprese continuando a fissare fuori dalla finestra. «Eravamo nel mezzo della pista da ballo». Diede un'ultima occhiata al mare, poi tornò a guardarmi. «Un attimo prima stavamo ballando, l'attimo successivo ci siamo fermati mentre attorno a noi tutti gli altri proseguivano. "Vieni via con me, adesso", ha detto lui. "Andiamocene via dalla pista da ballo e non torniamo più indietro"». Mi guardò come se si fosse appena confessata e stesse aspettando che la giudicassi. «E tu lo volevi? Andare via con lui e non tornare mai più?». «Più di qualsiasi altra cosa al mondo».
«E perché non l'hai fatto?». «Perché mi dispiaceva per mio marito, perché non l'avevo mai amato». «Non l'avevi mai amato?», domandai confuso. «Ma allora perché l'avevi sposato?». «Perché lui mi aveva violentata», rispose semplicemente. «Sai come andavano le cose a quei tempi. Tutti bevevano troppo e poi la usavano come scusa per fare cose che avrebbero voluto fare comunque. Non fu un vero e proprio stupro, non nel senso che gli diamo normalmente. Eravamo stati alla festa di un'associazione studentesca e avevamo bevuto troppo. Eravamo a bordo della sua auto e ci stavamo baciando, tutto qui. Poi lui cercò di andare oltre, e io gli dissi di no, e quando non mi diede retta lo spinsi via e gli dissi di riaccompagnarmi a casa». Abbassò gli occhi, e mescolò lentamente il caffè nella tazza con fare pensoso. «Non mi riaccompagnò a casa», disse, portandosi la tazza alle labbra con entrambe le mani. Bevve un sorso di caffè, poi ripose la tazza sul piattino. «Per farla breve, rimasi incinta e ci sposammo. È così che andava a quei tempi, ricordi?», domandò con lo sguardo acceso da una momentanea scintilla di sfida. «Ma perché non...». «Abortii? L'avevo già fatto una volta. Non avevo intenzione di rifarlo». I suoi occhi tornarono a fiammeggiare, ma subito dopo vennero seguiti da un triste sorriso di scusa. «È successo tanto tempo fa, Joey. Eravamo ragazzi». Uscimmo dal ristorante e ci sedemmo su una panchina sul ciglio della scogliera, accanto a una scalinata di legno che conduceva alla spiaggia. Ascoltammo le grida dei bambini che sovrastavano il rombo sordo dell'oceano e cercammo di non pensare troppo a ciò che avrebbe potuto essere. Dopo un po' risalimmo in macchina e ripercorremmo la strada costiera come due vagabondi privi di un luogo che potessero chiamare casa. «Abbiamo vissuto a Los Angeles fino a quattro anni fa, quando abbiamo divorziato e lui è tornato a Seattle. Mio figlio Andrew è un produttore televisivo. Ha fatto carriera. Sono una nonna, per l'amor del cielo. Ho due nipoti, un maschio e una femmina di otto e sei anni». Era ciò che ogni genitore voleva pensare, che suo figlio avrebbe fatto carriera. I miei l'avevano pensato per me, e immaginavo che i genitori di Jennifer avessero pensato la stessa cosa per lei. Era, immaginavo, uno di quegli istinti che sviluppavi quando avevi un figlio, la capacità di limitare la tua memoria a ciò che potevi vedere sotto la luce migliore.
«L'hai più rivisto?». I suoi occhi non si distolsero dalla strada. «L'uomo del country club?». Arricciò il naso. «L'uomo!». Rise al pensiero di quanto sembrasse tutto assurdo. «Non poteva avere più di venticinque, ventisei anni. Era soltanto un ragazzo. E io ne avevo solo ventiquattro, una bambina». Il sorriso si trattenne per qualche istante sulle sue labbra, poi si spense. «Sì», disse alla fine. «O meglio, no. Non l'ho più rivisto. Mi telefonò, lasciandomi il suo numero. Nel caso cambiassi idea, disse. Lo conservai per un po', ma poi lo gettai via. Se l'avessi tenuto più a lungo, avrei finito per cambiare idea». Sulla via del ritorno ci fermammo e guardammo il sole scivolare nel cielo e dissolversi in un liquido incendio arancione che si diffuse all'orizzonte a mano a mano che faceva scendere il buio sull'orlo del mare. Poi ripartimmo, e i fari della Porsche squarciarono il buio lungo la strada stretta che varcava la catena montuosa costiera e ci riportava in città. «Che ne dici di cenare insieme, domani sera?», chiesi nel modo più casuale possibile quando mi lasciò davanti a casa. «Chiamami domani». Jennifer si sporse verso di me e mi baciò sulla guancia. La guardai allontanarsi e pensai a tutti gli anni che avevo perso, a tutte le cose che sarebbero potute succedere. Non appena rientrai in casa presi il telefono e composi il numero. Non rispose nessuno, ma io attesi. Finalmente lei sollevò la cornetta e udii la sua vocetta fragile. «Sono io, Joseph», dissi in tono brusco. «Oh, ciao, caro. Stavo dormendo. Va tutto bene?». Avevo scordato le tre ore di differenza fra Portland e la North Carolina, dove mia madre viveva con il suo secondo marito in una comunità di pensionati. «Ti ricordi di Jennifer Frazier?», domandai. La rabbia che si era accumulata dentro di me lasciò improvvisamente il posto a una stanchezza impotente. «No», rispose mia madre. «Non mi sembra. Era una tua amica?». «Non importa», dissi piano. «Ti ho chiamato per sapere come stavi. Mi dispiace, avevo dimenticato che lì è già tardi». Mia madre aveva trattenuto la lettera di Jennifer cambiando definitivamente due esistenze, e se n'era dimenticata come una questione di scarsa importanza. Probabilmente era meglio così. Se l'avesse ricordato, di certo avrebbe sostenuto che aveva avuto ragione.
11 Udii la notizia alla radio il mattino dopo mentre mi recavo in ufficio. La polizia aveva effettuato un arresto per l'omicidio del giudice Calvin Jeffries. Il portavoce del dipartimento aveva dichiarato che nessun altro dettaglio, nemmeno il nome del sospetto, sarebbe stato reso noto prima di una conferenza stampa ufficiale, provvisoriamente fissata per le cinque di quel pomeriggio. La scelta dei tempi era tutt'altro che casuale. Vi avevo assistito molto spesso: il breve annuncio preliminare seguito da una giornata di attesa, le voci diffuse e poi negate in modo da far sembrare certo che erano vere, la corsa frenetica fra i giornalisti per aggiudicarsi la storia prima ancora che ci fosse una storia da raccontare, e finalmente la conferenza stampa programmata in un orario nel quale le stazioni televisive non potevano che trasmetterla in diretta. Il capo della polizia, quello della polizia di stato, il responsabile delle indagini, chiunque avesse svolto un ruolo importante nella ricerca dell'assassino si sarebbe presentato davanti alle telecamere, circondato da tutti i politici che fossero riusciti ad arrivare sul palco a forza di bluff o di lusinghe, e avrebbe illustrato in tono sommesso l'efficienza con cui le autorità avevano acquisito ed esplorato migliaia di indizi diversi finché la loro scrupolosa pazienza non aveva dato i suoi frutti. Era l'equivalente poliziesco di una parata militare. Osservandola, tutti si sentivano al sicuro, protetti da una forza ben addestrata ed equipaggiata di uomini e donne dediti alla loro missione. Avevano catturato un assassino e la chiamavano una vittoria; ma qualcuno era stato ucciso, e nessuno si domandava mai se quella non fosse una sconfitta. Quando arrivai in ufficio trovai ad aspettarmi il mio investigatore Howard Flynn, nascosto dietro un giornale. «Accomodati, Howard», gli dissi senza fermarmi. Flynn si divincolò dai braccioli di una sedia dallo schienale rigido, si alzò e mi seguì. Mentre mi sistemavo sulla sedia di pelle dietro la scrivania, lui si calò ansimando nella poltrona azzurra direttamente di fronte. Sembrava l'anziano buttafuori di uno di quei bar in cui i drink sono annacquati e gli avventori troppo ubriachi per curarsene. Era alto più di un metro e ottanta e pesava ben più di cento chili, e la pelle sulla parte posteriore del suo collo corto e grosso formava grossi rotoli densi, come se un boia avesse deciso che un cappio solo non sarebbe mai bastato a reggerlo. Il suo volto era macchiato come un esantema. I capelli castano-rossicci, brizzola-
ti sui lati, erano pettinati all'indietro dalla sua fronte piatta e formavano una serie di piccole, nette ondulazioni. Indossava quello che indossava sempre, una giacca marrone a quadretti e una cravatta marrone a tinta unita. Il lembo sinistro del colletto inamidato della camicia si arricciava sulla punta, e il filo del primo bottone aveva cominciato ad allentarsi. Senza dire una parola estrasse di tasca un pacchetto di Camel e se ne accese una. «Hai smesso di bere», osservai mentre davo una prima occhiata al mucchio di carte che la mia segretaria mi aveva lasciato sulla scrivania. «Non credi che sia giunto il momento di smettere anche con quelle?». «E fare due volte lo stesso errore?», chiese Flynn con voce rauca. Aspirò una lunga boccata, poi soggiunse come se ciò esaurisse l'argomento: «Sono cattolico». Le scuse che offriva diventavano sempre più bizzarre. «Cosa?», chiesi sbalordito. «Che intendi dire? Che la ragione per cui non smetti è che sei cattolico?». Scrollò le spalle. «Sono cattolico, dunque credo nell'aldilà». Fece una pausa come se fosse un sottile argomento teologico. «Questo significa che non sono un dannato fanatico salutista che si preoccupa soltanto di quanto siano belli e rosei i suoi polmoni». Aggrottando la fronte, scossi la testa e lo studiai socchiudendo gli occhi. «Dovevi farti prete. Con questo tipo di logica saresti potuto diventare cardinale». Sulle sue labbra marcate si formò la traccia di un sorriso. «Sono diventato un avvocato. Si può essere più gesuitici di così?». Ci scambiammo un'occhiata, una silenziosa ammissione di ciò che entrambi capivamo e di cui non parlavamo mai. Flynn distolse lo sguardo e si mise a fissare fuori dalla finestra facendo dondolare la sigaretta fra le dita carnose. In lontananza, oltre il fiume, la neve sulla cima del monte Hood riluceva rosea al sole del mattino. «A dire il vero, ho rischiato di farmi prete. Era quello che voleva mia madre». Captò la mia reazione con la coda dell'occhio. «No, davvero», insistette. «Non me lo sto inventando. Sono stato un chierichetto, è la verità. Per quasi un anno». Si portò la mano al volto e aspirò dalla sigaretta che teneva incastrata fra le dita come un chiodo in un'asse di legno. «Ma un bel giorno il dannato prete ha deciso che gli piacevo». Credevo di sapere che cosa intendesse. «Che gli piacevi?». «Già. Ha cercato di mettermi le mani addosso, e io non ci sono più tornato. Mia madre non si è più riavuta dal dispiacere».
«Per quello che aveva fatto il prete?». «No. Non gliel'ho mai detto. Ne sarebbe rimasta distrutta. Era devota come pochi». Mi sporsi in avanti e sondai i suoi occhi stanchi e cerchiati di rosso. «Non gliel'hai mai detto? Nemmeno più avanti?». Il filo di fumo che si levava dalla sigaretta si era disteso a formare una foschia grigia. Flynn la fissò, smarrendosi nelle forme cangianti di qualcosa che non aveva un piano, uno scopo, che era governato soltanto dalla forza libera del caso. Fece un ultimo tiro e soffiò il fumo dritto davanti a sé, osservandolo come se fosse un fiume che sfociava nel mare. «No», disse alla fine tornando a guardarmi. «A cosa sarebbe servito?». «Alcuni ti direbbero che cose simili vanno denunciate; che se vuoi procedere con la tua vita devi parlare di ciò che ti è accaduto da bambino». Arricciando le labbra secche, Flynn annuì pensieroso. «Ti dimostra che non capiscono un cazzo, non credi?». Un sorriso velenoso gli percorse le labbra mentre faceva ruotare i polsi all'infuori e schiudeva le grosse dita. «Voglio dire, ne ho appena parlato con te, e detesto dirtelo ma non mi sento diverso da prima. E a parte questo, dimentichi una cosa. Per essere un prete, quel tizio non era poi così brutto». Scossi il capo e ruotai la sedia finché non giunse a essere perpendicolare rispetto alla scrivania. L'occhio mi cadde sul piccolo orologio che tenevo nell'angolo. Erano soltanto le sette e mezzo del mattino. «Che cosa ci fai qui a quest'ora? Dovevi passare nel pomeriggio». Conoscevo Flynn da anni, e non una volta era stato puntuale. Se si presentava con meno di un'ora di anticipo o di ritardo, pensava che tu non avessi di che lamentarti. Se il ritardo era superiore, scrollava le spalle e ti guardava con quei suoi occhi distrutti che sembravano fare la cronistoria di secoli di disastri, fornendoti la stessa scusa che mi stava offrendo in quel momento. «Seguo il programma da più di quindici anni. Faccio quello che mi dicono di fare. Affronto la vita giorno dopo giorno. Ma a volte faccio un po' fatica a tenere il conto del tempo». Non aveva alcun senso, eppure sapevo perfettamente che cosa intendeva. «Dimmi una cosa», ripresi guardandolo negli occhi e reclinando la testa all'indietro e di lato. «Com'è che non ti ho licenziato?». «Probabilmente perché non mi hai mai assunto». «Sicuro?». «No, non proprio. Ho cominciato a fare questo lavoro dopo che mi han-
no espulso dall'albo, ma prima di smettere di bere». «Allora devo averti assunto». Flynn si strinse nelle spalle. «Forse. O magari un bel giorno mi sono presentato nel tuo ufficio. Perché, mi vuoi licenziare?». Esitai come se volessi rifletterci. «No», dissi alla fine. «Probabilmente mi faresti causa, e per quello che ricordo eri un ottimo avvocato». Il sorriso si spense sul suo volto. Chinò la testa e lentamente contrasse più volte la mascella. «Non ero male, suppongo», disse alzando gli occhi. Poi cambiò repentinamente argomento. «Ho finito le ricerche su quei due casi». Tese la mano verso il basso e aprì la valigetta nera che aveva posato per terra accanto a sé. Le cuciture delle maniglie di cuoio erano sfilacciate, e una delle cerniere si era staccata. Mi porse due cartelle contrassegnate con cura, contenenti i risultati del lavoro che aveva svolto su due casi a cui mancavano ancora dei mesi prima di arrivare in tribunale. Da parte mia, ero più interessato a quello che pensava dell'arresto per l'omicidio Jeffries. Non ne sapeva nulla, e quando glielo dissi non mostrò alcuna reazione. Mi chiesi se fosse perché nel profondo aveva sperato che chiunque avesse ucciso Jeffries la facesse franca. Era un sentimento che non ero del tutto sicuro di non aver nutrito io stesso, in qualche angolo segreto della mia coscienza. Era un pensiero malvagio e fuggevole, il genere di pensiero che nessuno avrebbe ammesso di avere, ma sarebbe stato infinitamente più scusabile nel caso di Flynn che nel mio. Senza volerlo, Jeffries mi aveva aiutato a farmi un nome come avvocato; ma nel caso di Flynn, aveva fatto sì che non esercitasse mai più la professione legale. «Non hai sentito niente riguardo alla direzione in cui stavano indagando?», domandai, ansioso di sapere gli ultimi pettegolezzi. «Non hai idea di chi potrebbe essere?». Flynn si studiò le mani che teneva in grembo, quindi sollevò la testa, sondò il mio sguardo per un istante e si voltò. Quando tornò a guardarmi, nei suoi occhi c'era una luce nuova, non riuscii a capire se maliziosa o divertita. «Se stessi ancora bevendo», osservò in tono sarcastico, «avrebbero sospettato di me». Si drizzò con uno sforzo sulla sedia. «No, non è vero. Ai tempi sarebbe potuto accadere, ma non adesso», soggiunse scuotendo il capo come se volesse liberarsi di un brutto ricordo. «In realtà Jeffries mi ha fatto un favore». «Un favore?», chiesi, incredulo e leggermente irritato. «Solo perché è
morto, credi di doverlo perdonare e dimenticare? Dopo quello che ha fatto?». Flynn posò le braccia sul bordo della scrivania e si piegò in avanti. «E tu cosa mi suggeriresti di fare? Andare al cimitero e prendere a calci la terra sulla sua tomba? È accaduto quindici... no, sedici anni fa. Tu non c'eri. Hai la minima idea di quanto fossi ubriaco o di cosa gli dissi?». Era più forte di lui. Il ricordo di ciò che aveva fatto e di ciò che aveva detto tornò a farsi chiaro, e una parte di lui era ancora felice di averlo fatto. «Mi ero talmente stufato di farmi umiliare, del modo in cui mi interrompeva per correggermi, a volte soltanto per come pronunciavo qualcosa. Il bastardo era implacabile. Gli piaceva. Avresti dovuto vedere i suoi occhi. Ricordi quegli occhi? Il modo in cui ti penetravano. E quel suo sorrisetto compiaciuto. E tutto quello che potevi fare era startene lì in piedi e rispondere: "Sì, vostro onore", "No, vostro onore". Era come essere di fronte a tuo padre dopo che ti aveva preso a cinghiate e ammettere di aver fatto qualcosa di male e di meritare tutto ciò che avevi subito. Non ne potevo più». Esitò, strinse i denti e scosse la testa. «Non ne potevo più di tutto», soggiunse con una luce di amarezza negli occhi. «Mi ubriacai. Dio, se ero sbronzo! Entrai a passo di marcia nella sua aula e lo coprii di tutti gli insulti possibili e immaginabili. Diavolo, molti non li ricordo nemmeno». Fece una risata rassegnata. «Ma non dimenticherò mai la sua faccia. "Con chi crede di avere a che fare?", domandò. Era paonazzo in volto. Gli occhi gli stavano schizzando fuori dalle orbite». Gli venne in mente qualcosa. «Quando sei ubriaco, ma veramente ubriaco, c'è un angolo della tua mente in cui ti osservi mentre fai la figura dell'idiota e lo trovi divertente. Hai presente? Be', quando sentii Jeffries pronunciare quella frase, "Con chi crede di avere a che fare?", avevo pronto un intero discorso, ma l'unica parte che venne fuori fu: "Ho il privilegio, vostro onore, di avere a che fare con il più grosso stronzo del mondo occidentale". Credo di essermi perfino inchinato». «Ti inchinasti eccome», dissi. Flynn mi guardò con aria interrogativa. «Divenne parte della leggenda», spiegai. «Fu la prima cosa che raccontarono i due vicesceriffi che ti trascinarono fuori dall'aula. "Gli ha dato dello stronzo e poi si è inchinato". È così che la storia è stata tramandata. Dopo quel giorno, per mesi, ogni volta che un avvocato appariva di fronte a Jeffries, non appena terminava, lo ringraziava e si voltava, sussurrava al collega che lo seguiva: "E poi si è inchinato". Così, tanto per vedere se fosse riuscito a farlo ridere davanti a Jeffries».
«E io che ho sempre pensato che la mia breve carriera legale fosse stata un fallimento», disse Flynn con voce strascicata mentre si alzava. Rimase in piedi davanti alla scrivania con un'espressione pensosa sul volto. «La polizia è venuta a trovarmi, per questa faccenda». Non riuscivo a crederci. «Per il suo assassinio?». «Già. Solo qualche domanda di routine. Ma sapevano tutto ciò che era successo. Sapevano che ero stato espulso dall'albo e che era avvenuto per colpa di Jeffries». «E come lo sapevano?». «Erano sotto pressione, e così avranno controllato ogni singolo caso con cui Jeffries aveva avuto a che fare. E poi io ero una leggenda, giusto? Non appena hanno cominciato a fare domande al palazzo di giustizia su chi poteva avere un conto in sospeso con lui, su chi poteva aver provato il desiderio di ucciderlo, il mio nome sarà saltato fuori per forza». «Con me non hanno mai parlato», obiettai. «Forse dovresti far loro causa per diffamazione». «E cosa volevano sapere? Dov'eri quella sera?», domandai. Sorridevo, poiché sapevo dove passava quasi tutte le sue serate. «Sì. Gli ho risposto che ero a un incontro degli Alcolisti Anonimi. L'idiota, un pivellino, mi domanda se sono un alcolista. No, gli rispondo, ci vado perché è l'unico posto in cui posso ancora fumare». Fece vagare lo sguardo per l'ufficio, passando in rassegna i diplomi con i sigilli dorati e le lauree incorniciate, le centinaia di volumi dalla rilegatura identica che contenevano migliaia di decisioni della corte d'appello, i grossi trattati sul codice penale e sul diritto probatorio e gli innumerevoli manuali aggiornati e sistemati in ordine alfabetico sul diritto penale: tutti i libri che ogni avvocato possiede e che raramente si cura di leggere. «Mi piaceva fare l'avvocato», disse in tono assorto. Trasse un profondo respiro ed emise un lungo, accorato sospiro. Tornò a guardarmi e mi scoccò un sorriso di scusa. «Ma Jeffries aveva ragione. Non ne avevo alcun diritto. Non in quelle condizioni». «Avevi bisogno di aiuto, tutto qui. Non avrebbero nemmeno dovuto sospenderti. Avrebbero dovuto inserirti in un programma di assistenza a domicilio. È ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro giudice». Flynn non ne era convinto. «A volte devi toccare il fondo. Dico sul serio, Jeffries mi ha fatto un favore. La legge era tutto ciò che mi restava, e quando me l'hanno portata via...». Mentre il pensiero si completava da solo, gli venne in mente un'altra cosa. «Una volta gli scrissi una lettera di
scuse. Fa parte della terapia. Devi scrivere a tutti coloro che hanno sofferto per il fatto che tu bevevi. E io scrissi a Jeffries e lessi la lettera davanti a tutti. Ed ero sincero, dall'inizio alla fine. Ero veramente pentito». Mi alzai da dietro la scrivania e lo accompagnai all'ascensore. «E Jeffries ti hai mai risposto?». Flynn mi posò una mano sulla spalla. «Gli avevo scritto per sentirmi male, non perché lui si sentisse bene. Non gliel'ho mai spedita», disse con un sorriso ironico. «Che andasse affanculo». Mi ricordai della lettera che si trovava ancora nel cassetto della mia scrivania, la lettera che mi ero dimenticato di spedire. «Perché non prendi tu il caso?», chiese Flynn mentre l'ascensore arrivava al piano. Non sapevo di cosa stesse parlando. «Quale caso?», domandai l'istante in cui lui entrava nella cabina. «Il caso di chi verrà accusato dell'omicidio di Jeffries», rispose tenendo la porta aperta con una mano. «Chiunque sia stato, probabilmente aveva un'ottima scusa». Qualche minuto dopo, alle otto precise, la mia segretaria, Helen Lundgren, appese il suo soprabito nell'armadio e con la sua consueta efficienza entrò nel mio ufficio reggendo qualcosa in ciascuna mano. «Hai finito con quelli?», domandò indicando con un cenno del capo la pila di fascicoli che mi aveva lasciato venerdì pomeriggio. Prima che potessi rispondere, mi depose davanti un'altra cartella. «È quella di cui hai bisogno per l'udienza di questa mattina. Lo Stato contro Anderson. In calendario per le nove e mezza». Mi posò la mano sinistra ormai libera sul braccio per impedirmi di muoverlo mentre sistemava una tazza di caffè fumante accanto alla cartella. Cominciò a mulinarmi intorno sistemando i fascicoli e dandomi istruzioni, uno scheletro di donna dai gomiti appuntiti, dalle gambe sottili come lame di rasoio, dalla voce acuta e stridula e dagli occhi neri che guizzavano di continuo da una cosa all'altra come se non riuscisse a decidere quale emergenza affrontare per prima. Le dissi che dovevo spedire una lettera, e prima ancora che avessi terminato la frase lei era sul lato opposto della scrivania, appollaiata sul bordo della sedia, la matita sull'attenti appena sopra il taccuino aperto sulle ginocchia ossute. Le porsi la busta che Elliott Winston mi aveva affidato e le dissi di trovare l'indirizzo di casa di Calvin Jeffries e spedirla alla moglie. Poi le dettai un breve messaggio in cui spiegavo le circostanze in cui l'avevo ricevu-
ta e concludevo esprimendole le mie condoglianze. La mano dalle vene bluastre di Helen volava sulla pagina. «Nient'altro?», chiese richiudendo di scatto il taccuino e alzandosi. Mentre la domanda riecheggiava ancora nell'aria, si voltò e si allontanò a passo rapido verso la sua scrivania. «No, suppongo di no», dissi alla sedia vuota. Quando giunse il momento di andare, la trovai china sulla tastiera del suo computer, intenta a fissare lo schermo mentre le sue dita dalle unghie laccate di rosso aggiungevano nuove parole a un vecchio formulario. «Vado in tribunale», annunciai con la mano già sulla maniglia della porta. Un sorrisetto furtivo le piegò gli angoli della bocca. «Fa un po' freddo, fuori. Ti conviene prendere il cappotto», disse in tono asciutto senza distogliere gli occhi dallo schermo. Feci per aprire la porta e lei smise di battere. «Ti dispiace imbucare questa nella cassetta accanto all'ascensore?». Mi porse una grossa busta. «È la lettera che mi hai chiesto di spedire alla signora Jeffries». I furgoncini delle televisioni erano parcheggiati su entrambi i lati del parco che separava il palazzo di giustizia della contea dal dipartimento di polizia in attesa di tutte le notizie che potevano ottenere dalla polizia o dall'ufficio del procuratore distrettuale. Era stato effettuato un arresto, ma non si era parlato di incriminazioni. Ogni giornalista in città aveva una domanda che moriva dalla voglia di fare, ed era disposto a rivolgerla a chiunque potesse fornirgli una risposta. Un inviato armato di microfono era appostato sul marciapiede davanti all'ingresso del tribunale e chiedeva a chiunque passasse che cosa pensava della notizia che l'assassino di Calvin Jeffries era stato arrestato. Bloccò una giovane bionda dagli occhi azzurri, talmente attraente che tutti si fermarono a guardarla. Fissandola dall'alto in basso, si sistemò la cravatta e le chiese quale, secondo lei, sarebbe dovuta essere la sorte dell'assassino del giudice Jeffries. «Di chi?», replicò lei con un sorriso radioso e vacuo che per un attimo fece dimenticare la domanda allo stesso inviato. «Taglia», disse lui scuotendo il capo e lasciando penzolare il microfono dal cavo che stringeva fra le dita. All'interno del palazzo di giustizia, i giornalisti si aggiravano per i corridoi parlando con gli ufficiali giudiziari e con chiunque potesse sapere qualcosa che loro ignoravano. Al primo piano, mentre mi facevo largo ver-
so l'aula alla fine del corridoio dove il presidente della corte circoscrizionale si occupava delle mozioni preliminari presentate prima di un processo, venni raggiunto da Harper Bryce. Prima che potesse farmi una domanda, alzai entrambe le mani. «Non è vero, Harper. Non mi hanno arrestato, non sono fuori su cauzione e non credo nemmeno di essere sospettato». Guardai prima da una parte e poi dall'altra. «Ma in confidenza, che rimanga fra noi, sono stato io. Avevo giurato che gliel'avrei fatta pagare, e l'ho fatto». Alzò gli occhi al cielo. «Sei strano, oggi. Non avevo intenzione di chiederti dell'omicidio Jeffries. So chi l'ha ucciso. O meglio, so chi hanno arrestato», precisò rammentandosi della presunta suscettibilità dei penalisti riguardo alla distinzione fra colpevolezza e accusa. «Lo sai?», chiesi mentre arrivavamo davanti all'aula. «Hai qualcosa da fare lì dentro?», domandò Harper indicando la porta. La mia mano era già sulla maniglia. «Ti ci vorrà molto?». «Per quello che devo fare non ci vorranno più di due o tre minuti. Ma dipende da quanto dovrò aspettare». Entrammo insieme e ci sedemmo in fondo all'aula. Sul davanti, Quincy Griswald, che aveva preso il posto di Jeffries nella carica di presidente della corte circoscrizionale, stava cercando di non perdere la pazienza. Griswald era lungi dall'essere brillante come il suo predecessore, e la consapevolezza che non sarebbe mai stato in grado di dominare un procedimento giudiziario con la pura e semplice forza del suo intelletto lo divorava lentamente e dolorosamente come un verme. «Come si chiama?», domandò in tono perentorio, con una smorfia di disprezzo sul volto macilento. Il giovane viceprocuratore distrettuale s'interruppe a metà frase, esitò il tempo necessario a sincerarsi che Griswald facesse sul serio e poi, con un'espressione leggermente stupefatta nello sguardo, rispose: «Cassandra Loescher, vostro onore». «Glielo chiedo», osservò Griswald in un tono traboccante di sarcasmo, «perché credo che sia meglio cominciare con qualcosa che potrebbe sapere». L'occhiata che lei gli scoccò mise in chiaro che non era la prima volta che subiva i suoi soprusi. Gettò sul banco davanti a sé la mozione che aveva appena cominciato a leggere, incurvò le ampie spalle, divaricò le gambe e si piantò le mani sui fianchi. «Guardo sempre con gioia all'opportunità di imparare», disse con gelido distacco.
Griswald socchiuse le palpebre e rispose con un'occhiataccia alla provocazione. «Allora impari questo», disse in un tono che grondava minaccia. «Una volta che ho preso una decisione, è finita. La risposta era no quando ha presentato la sua mozione la settimana scorsa, ed è no anche oggi. Non ci sarà alcun rinvio. Il processo avrà inizio domani mattina come previsto». La Loescher si rese conto del suo errore. Con un sorriso rispettoso, cercò di fare appello al lato migliore del giudice. «Ma vostro onore, si tratta di un caso insolitamente complesso, con tre imputati diversi, e la signora Hall, la responsabile dell'inchiesta fin dal primo arresto quasi un anno fa, è ancora in ospedale, e...». Griswald la interruppe. «Non è la prima volta che un pubblico ministero è inabile. Alcuni esercitano la loro professione in quelle condizioni. Qualcuno la può sostituire». La licenziò con un gesto secco della mano, abbassando gli occhi sull'elenco delle cause a ruolo, pronto a chiamare la successiva. La Loescher trasse un profondo respiro e si erse in tutta la sua altezza. «Come stavo dicendo, vostro onore, l'accusa rinnova la sua richiesta di rinvio sulla base...». Griswald fece un balzo in avanti agitando il dito teso nell'aria. «Quante volte devo dirle di no? Ora se ne vada», gridò a pieni polmoni, «prima che la faccia cacciare dall'ufficiale giudiziario!». Il viceprocuratore arrossì. «Sì, vostro onore», disse a denti stretti. Fremendo di rabbia, raccolse la mozione dal banco e rivolse al giudice un'occhiata furente. Sollevò il mento come un vessillo di battaglia. «Grazie, vostro onore», soggiunse. Poi ruotò sui tacchi e uscì a passo di marcia dall'aula. Mi sporsi verso Harper. «Cosa diceva il governatore l'altra sera? Che la legge ha soltanto la ragione a proteggerla?». Mentre Harper alzava gli occhi al cielo, mi diressi verso il banco degli avvocati. Griswald aveva appena chiamato il mio caso. «Sì, signor Antonelli?», domandò prendendo un appunto su un fascicolo. Attesi che alzasse gli occhi, quindi scrollai le spalle e feci scattare la testa di lato. «Non ci crederà, vostro onore, ma...». «Di quanto tempo ha bisogno?». «Un mese. Abbiamo un problema con un testimone. L'accusa non si oppone alla richiesta», dissi. Annuì. «Il caso è rinviato di un mese secondo la richiesta della difesa»,
decretò consegnando la cartella al cancelliere. Non appena fummo usciti dall'aula, Harper pretese una spiegazione. «È semplice. Griswald ha cominciato come viceprocuratore distrettuale. A quei tempi erano in pochi, e venivano pagati meno profumatamente di adesso. E così Griswald si è convinto che lavorano troppo poco, che sono pagati troppo e che nessuno di loro è bravo quanto lui. Non si lascia mai sfuggire l'occasione per rendere loro la vita difficile, specialmente se sono giovani com'era quella di prima. Perché? Credi che ci fosse qualche interessante differenza legale fra i due casi? Frequenti il tribunale da quando lo frequento io. Credi che se ci fosse stata una differenza Griswald l'avrebbe notata? Non legge un libro di giurisprudenza dai tempi in cui studiava, e probabilmente non li leggeva neanche allora», brontolai. «Probabile che si sia laureato copiando». Mi ero lasciato coinvolgere da ciò che stavo dicendo del nuovo presidente della corte circoscrizionale al punto di dimenticare che Harper avrebbe dovuto dirmi chi aveva ucciso il vecchio. «Chi hanno arrestato?», domandai voltandomi fino a mettermi di fronte a lui. «Chi ha ucciso Calvin Jeffries?». 12 Potevi quasi udire il movimento simultaneo di centomila mani che afferravano il telecomando per cambiare canale. Innamorati della morte, gli americani erano in grado di piangere collettivamente per vittime che non avevano mai conosciuto quando degli studenti venivano massacrati dai loro compagni di classe, trasformando quell'evento nell'argomento centrale dei notiziari nazionali. Erano capaci di trasformarsi all'improvviso in esperti di ogni tedioso dettaglio di un processo seguito per sentito dire quando a essere accusato di omicidio era un personaggio famoso. Calvin Jeffries, tuttavia, era stato ucciso da un uomo che nessuno aveva mai sentito nominare, un uomo senza nome, uno delle orde anonime di senzatetto che, come nel caso di altre realtà sgradevoli, ci addestriamo a non vedere. Il palloncino si era sgonfiato. Per otto, lunghe settimane la polizia aveva subito enormi pressioni perché eseguisse un arresto. Si era arrivati al punto che gli opinionisti chiedevano che si indagasse sulle indagini. Lesti a prevenire gli umori mutevoli dell'elettorato, i politici si erano messi in fila per offrire le loro opinioni su chi doveva essere considerato responsabile e su quello che si sarebbe dovuto fare. Il governatore, secondo alcuni tardiva-
mente, aveva suggerito che si facesse intervenire l'FBI. All'interno delle forze coinvolte nelle indagini, dove i doppi turni e i fine settimana di lavoro erano diventati la norma, i nervi erano tesi e gli stati d'animo preoccupati mentre ci si chiedeva chi avrebbe fatto le spese della caccia all'assassino. Ora l'assassino era stato catturato, e all'improvviso la cosa non sembrava più così importante. Era scritto sui loro volti mentre fissavano l'occhio vacuo della telecamera descrivendo l'arresto. Dopo tutte le innumerevoli voci sui possibili complotti, sui moventi nascosti e sulle rivelazioni riguardo a personaggi importanti, voci che erano sembrate conferire una logica all'assassinio di un importante funzionario pubblico, veniva fuori che il denaro, il potere e il sesso non c'entravano nulla. Si era trattato di un atto casuale di violenza, commesso da un povero, patetico essere umano che non avrebbe saputo distinguere Calvin Jeffries dal proverbiale uomo sulla luna. Malgrado i lunghi elenchi di fatti e cifre intesi a dimostrare quanto esauriente fosse stata l'indagine, la polizia fu costretta ad ammettere che era stata una telefonata anonima a condurre all'assassino. Il suo nome, o quanto meno il nome che fornì, era Jacob Whittaker. Stavano cercando di ottenere un'identificazione sicura attraverso le impronte. Qualunque fosse la sua vera identità, non c'era alcun dubbio che era l'assassino. Avevano trovato il coltello, e il sospetto, dopo che gli erano stati illustrati i suoi diritti, aveva confessato. Le gambe appoggiate sull'angolo della scrivania, le caviglie accavallate, guardavo il piccolo televisore sistemato su una mensola nel mio ufficio e seguivo il processo grazie al quale l'omicidio di Calvin Jeffries diventava una notizia vecchia. Quando la polizia concluse il suo rapporto, i giornalisti rivolsero domande ordinarie, banali; chiesero se sul coltello fosse stato trovato del sangue e in caso affermativo quali esami sarebbero stati condotti; s'informarono sulle condizioni del prigioniero e sull'ora e il luogo della sua chiamata in giudizio. Dopo ciascuna domanda scendeva un silenzio di tomba prima che qualcuno pensasse alla successiva. Gli stessi inviati che avevano lottato per guadagnare la prima fila, convinti che quello non fosse che l'inizio di uno dei casi più eclatanti di cui si sarebbero mai occupati, se ne stavano rilassati con le gambe accavallate e un braccio ciondoloni dietro lo schienale della sedia, seguendo ciò che veniva detto con una scrollata di spalle e uno sbadiglio e prendendo sporadici appunti per quello che senza dubbio sarebbe stato l'ultimo articolo da prima pagina su una vicenda ormai priva di interesse. Mentre i toni piatti dell'ennesima domanda si spegnevano in sottofondo,
l'annunciatrice del telegiornale riapparve sullo schermo, fece un superficiale riassunto di cinque secondi di ciò che tutti avevano visto e passò alle altre notizie del giorno. L'omicidio di Calvin Jeffries era ormai relegato alla vasta oscurità di un caso finalmente risolto e rapidamente dimenticato. Premetti il tasto sul telecomando. Helen fece capolino dalla porta per salutarmi. «Una certa Jennifer ha chiamato per farti sapere che non era troppo tardi se volevi uscire a cena con lei». Inarcò le sopracciglia nere dipinte. «Be'?», chiese quando non dissi nulla. «Uscirai a cena con lei oppure no?». «Aspettavo che me lo dicessi tu». Gli angoli della sua bocca si piegarono all'ingiù. «Sono le cinque passate, e dopo le cinque puoi fare quello che vuoi». Mentre si voltava le venne in mente una cosa. «Bada soltanto a essere puntuale al mattino». «Grazie», dissi dopo che si fu chiusa la porta alle spalle. Sollevai la cornetta per chiamare Jennifer, ma poi riagganciai. Era tutto il giorno che ci pensavo, e ancora non sapevo cosa volevo dirle. Un minuto ero sicuro di volerla rivedere, il successivo non ero sicuro di niente. Mi ci erano voluti dieci anni per dimenticarla. C'erano stati momenti, specialmente nel corso di quel primo anno, in cui avevo avuto la certezza che non esisteva nient'altro per cui valeva la pena di vivere. A volte credo che l'unica cosa che mi mantenne in vita fosse la consapevolezza che non avrei dovuto vivere in eterno. Mi dava una sorta di distacco da me stesso, facendomi diventare una sorta di osservatore della mia stessa disperazione. Alla fine avevo cessato di soffrire, ma quello che era successo mi aveva cambiato per sempre. Capivo e accettavo quello che ero, un eterno estraneo, un individuo che attraversa le esistenze altrui senza lasciare alcun segno. Ripresi in mano la cornetta e mi rividi davanti a un telefono pubblico del college, mentre vi infilavo monete da venticinque centesimi e al suono dell'ultima moneta decidevo che non ce la facevo. Mi ero detto che era una questione di orgoglio, ma sapevo che in realtà avevo troppa paura di risentire la sua voce, di scoprire quanto avrei sofferto nell'udirla, visto che sapevo cosa mi avrebbe detto. Un giorno l'avevo sentita, la sua voce. Era appena prima di Natale, e la neve cadeva fitta e pesante nell'aria gelida della sera. Jennifer aveva risposto al telefono, e io l'avevo ascoltata dire "pronto", farsi silenziosa e poi pronunciare il mio nome come una domanda, ma poi avevo riagganciato. Ero rientrato nella mia stanza, mi ero coricato sul letto e avevo sperato di addormentarmi per non svegliarmi mai più. Composi il numero, e quando Jennifer rispose provai per un istante la stessa paura di soffrire.
«Joey?», chiese lei quando non dissi nulla. Abbassai gli occhi sulla scrivania. «Sì», dissi schiarendomi la gola. «Sono io. Vuoi ancora uscire a cena?». Ci incontrammo in uno sconosciuto ristorantino nella zona ovest della città e trascorremmo le due ore successive a cercare di ricordarci quello che eravamo stati. Lei mi chiese dei miei studi di specializzazione e della mia carriera di avvocato, e io mi sorpresi a parlare di cose che erano accadute a distanza di anni come se avessero avuto luogo nello stesso momento. Le domandai che cosa aveva fatto dopo il matrimonio, e prima ancora che sapessi che per un certo periodo aveva vissuto a New York lei cominciò a raccontarmi della sua carriera di stilista. Cominciavamo a parlare di una cosa per poi tornare indietro su un'altra. La storia delle nostre vite divenne un ampio cerchio che poteva essere percorso da qualsiasi punto ti andasse di cominciare. «Dopo che mi hai lasciato a casa, ieri sera, ho chiamato mia madre». Jennifer parve allarmata. «Non avresti dovuto farlo». Tese la mano sul tavolo e mi cinse il polso con le dita. «A cosa poteva servire?». «Ero arrabbiato, ma non appena ho sentito la sua voce mi sono reso conto che non se ne sarebbe ricordata. Non se ne sarebbe ricordata nemmeno dopo una settimana», soggiunsi. «Sai quante volte mi sono sentito dire che voleva soltanto il mio bene?». Ritrasse la mano e se la posò in grembo. «Credo sia uno dei motivi per cui sono diventato un avvocato. Lei voleva che facessi il dottore». «Come tuo padre». «No, non come lui. Non voleva che diventassi un medico generico che amava il suo mestiere. Voleva che diventassi un medico di successo, un chirurgo, il capo del personale di un ospedale. Mia madre non sapeva un bel niente di medicina, ma era in grado di dare una sola occhiata alla pista da ballo di un country club e capire all'istante la posizione di una coppia nella scala sociale». Di fronte a me era seduta una donna con dei nipoti, e io le stavo dicendo cose di me stesso che non avevo mai detto a nessuno. Mi chinai sul piatto, mi portai la forchetta alla bocca e la riabbassai prima che mi sfiorasse le labbra. «La cosa peggiore è quanto le assomiglio». Jennifer mi guardò con quei suoi bellissimi occhi ovali che un tempo mi avevano ispirato così tanti pensieri romantici e sogni erotici, e un istante
dopo scoppiò a ridere. «Mi riesce molto difficile immaginarti a un ballo in un country club. E non credo nemmeno per un istante che tu abbia mai prestato attenzione alla posizione sociale di qualcuno. Non ti piaceva nemmeno ballare», disse stuzzicandomi con gli occhi. «Ricordo che mi piaceva ballare con te», risposi sorridendo. Il colore sulle sue guance s'intensificò. «Quello non era ballare. Non facevamo che pomiciare in piedi». Mi sfidò a negarlo, ma io la guardai come se non avessi la minima idea di cosa stava dicendo. «Continui a farlo, vero?», domandò con una scintilla nello sguardo. «Hai ancora quell'occhiata, quell'espressione da ladro sul volto, come se ti fossi presentato alla porta annunciando che stai per derubare tutti quanti e dando una tale impressione di sincerità da guadagnarti la fiducia generale. È così, no?». Pronunciai ogni falso diniego a cui riuscii a pensare per farle sapere che speravo avesse ragione e che ero ancora il ragazzo che ricordava. «A volte mi sembra di somigliare a mia madre quando mi sento elargire consigli ai miei clienti. Non ho mai il minimo dubbio di sbagliarmi». Era un'affermazione troppo sfacciata e non era vera. «No, mi capita quando mi sorprendo a dar fuori di matto perché qualcosa non è perfetto. Per mia madre ogni cosa doveva sempre essere sotto controllo. Niente che fosse fuori posto, che potesse farti notare per le ragioni sbagliate. Siediti dritto, cammina bene, pronuncia ogni parola nel modo corretto, sii educato, non perdere mai la pazienza. Posso ancora sentire le sue dita che mi tolgono un pezzetto di lanugine dai pantaloni o che mi scostano un ciuffo di capelli dalla fronte. Era sempre affaccendata attorno a me. E lo fa ancora adesso». Mi interruppi, e cercai di spiegarmi con una risatina imbarazzata. «La scorsa estate è venuta a trovarmi. È rimasta una settimana. Ogni mattina al risveglio», ammisi un po' a disagio, «rifacevo il letto, riponevo ogni cosa e mi assicuravo che la mia stanza fosse in perfetto ordine prima di scendere a fare colazione». Aggrottai la fronte e soggiunsi: «E insiste ancora per sapere quando mi sposerò». C'era qualcosa che volevo sapere, qualcosa che volevo sentirle dire, ma avvertivo una certa riluttanza da parte sua. Finalmente, mentre sorseggiavamo il caffè, glielo chiesi. «Perché sei tornata qui? Cos'è successo?». Un breve sorriso le attraversò le labbra e scomparve. Distolse lo sguardo, tornò a fissarmi e si voltò di nuovo. Si mordicchiò il labbro, cercò di sorridere ma non ce la fece. Per diversi secondi si fissò le mani, e quando
finalmente rialzò gli occhi la sua espressione tradiva un riserbo che prima non avevo mai visto. «Sette anni fa mi ammalai gravemente. Non riuscivo più a far niente. Non ero in grado di lavorare, non ero in grado di tirare avanti». Sospirò, poi mi rivolse quel tipo di sorriso pieno di fiducia che un tempo mi faceva sentire come se fossimo le uniche due persone al mondo. «Ebbi un esaurimento nervoso. Rimasi diversi mesi in ospedale. Sono maniaca depressiva. Me ne stavo seduta in camera mia per giorni interi, fissando le pareti. A volte non riuscivo nemmeno a vestirmi. Per molto tempo credetti che fosse una semplice depressione, di quelle che ogni tanto capitano a tutti. Ma poi cominciai ad avere strani pensieri, idee senza senso, vere e proprie fissazioni. Credevo di essere seguita. Se qualcuno mi guardava per la strada, credevo che lo facesse per farmi capire che mi stava tenendo d'occhio. Credevo che le cose che venivano dette in televisione fossero messaggi segreti destinati a me». Vide la mia espressione e tese istintivamente la mano carezzandomi il volto. «Adesso sto bene. Quando hanno finalmente capito che era uno scompenso chimico nel cervello, mi hanno prescritto il litio». Sorseggiò il caffè con un'espressione pensierosa sul volto, quindi posò lentamente la tazza sul piattino. Con il dito medio ne percorse il bordo compiendo un giro completo. «Quattro anni fa ho divorziato. Ti ho detto che mi dispiaceva per lui, perché non l'ho mai amato. Ed è vero, non l'ho mai amato nel modo in cui credi di poter amare, nel modo in cui ho amato te; ma avevamo un figlio, non importa come l'avevamo avuto, e avevamo una vita insieme. È stato brutto, molto brutto. Lui ha fatto il possibile, ha affrontato la cosa meglio che poteva, e credo che abbia sempre pensato che la mia malattia fosse colpa sua. Ma lo faceva impazzire quanto me. Era depresso, e rabbioso, e nemmeno la sua vita sembrava andare per il verso giusto, e... Be', è andata così. Sono impazzita e ora sto meglio, e un tempo ero sposata e ora non lo sono più». Lottando con le proprie emozioni, si costrinse a sorridere. «Vedi quanti problemi ti avrei dato?». Fu come se la vedessi per la prima volta, e mi scoprissi ancora più innamorato di lei che in passato. Non c'era nessun altro posto in cui volevo essere, nessun altro con cui volevo stare e nulla che desideravo se non fare ciò che potevo per assicurarmi che non provasse più paura o infelicità. Quando uscimmo dal ristorante e raggiungemmo la sua auto parcheggiata alla fine dell'isolato, Jennifer mi prese per mano. La serata era fresca e
serena, e in strada non c'era nessuno. La trassi a me, e sentii la sua mano scivolarmi attorno al collo. Ci baciammo nel modo in cui penso dovevamo esserci baciati la prima volta, un tocco breve, tremante e impacciato, e poi lei mi si strinse alla spalla e io sentii il suo fiato caldo sul collo e il profumo dei suoi capelli simile alla brezza mattutina che penetra dalla finestra quando sei ancora nel dormiveglia. «Devo andare», sussurrò. «È presto», dissi. Quando mi sfilò il braccio dal collo, non lasciai la presa sulla sua mano. «Te l'ho detto, domattina ho un volo molto presto». Mi baciò sulla guancia e percorremmo gli ultimi metri fino alla sua macchina. Non volevo lasciarle andare la mano. Lei armeggiò con il portachiavi finché non trovò la chiave giusta. Ridendo, riuscì ad aprire la portiera, e non appena lo fece l'attirai di nuovo a me. «Non ti piacerebbe andare a ballare?». Stava ancora ridendo sommessamente. «Tantissimo, ma non stasera». La lasciai andare e le tenni aperta la portiera mentre saliva al volante. «Quanto tempo starai via?». Avviò il motore e accese i fari. Con una mano sul tettuccio di tela e l'altra sul finestrino, la guardai allacciarsi la cintura. Alzò gli occhi su di me e giocherellò con la mia cravatta. «Solo una settimana. Ti chiamo appena arrivo». «Non trovi curioso il fatto che alla nostra età devi ancora lasciarmi a causa di tua madre?». Sulle prime non capì, ma poi ricordò e i suoi occhi scintillarono di quella stessa seduzione da scolaretta che aveva usato su di me quella sera sui gradini della casa dei suoi genitori. Poi la scintilla scomparve, e io mi chinai e ci baciammo sulla guancia come i due vecchi amici che eravamo. Guardandola allontanarsi mi sentii svuotato e solo, e all'improvviso l'autosufficienza della mia vita solitaria mi parve pretenziosa e falsa. Era ancora presto, e l'ultimo posto in cui desideravo tornare era quel luogo estraneo che chiamavo casa. Vagai a lungo per le strade di quel quartiere sconosciuto. La gamba cominciò a farmi male; mi parve curioso, poiché doveva essere un dolore psicosomatico. Per anni non mi aveva infastidito. Il proiettile l'aveva trapassata senza causare veri e propri danni. Non c'era alcuna ragione per cui dovesse farmi male proprio adesso. Ogni cosa sembrava cospirare per farmi ripensare al passato, per farlo addirittura sembrare ancora più reale del presente. Continuavo ad andare e
venire con la mente, ripensando al passato e tornando all'inizio di tutto, quando mi ero innamorato per la prima volta di Jennifer, quando avevo cominciato a disprezzare Calvin Jeffries, quando Elliott mi aveva puntato contro quella pistola; tornando all'inizio per vedere com'erano andate le cose, osservandole come se le vedessi per la prima volta, come se avessi il dono della chiaroveggenza e potessi scorgere il futuro e tutto ciò che sarebbe accaduto. La gamba mi faceva un male terribile. Oltrepassai la porta aperta di un ristorante affollato da cui proveniva un fracasso accogliente. Entrai e trovai un posto libero al bar. Il barista tolse un tovagliolino accartocciato e un bicchiere di ghiaccio sciolto, pulì il banco con uno straccio e se lo drappeggiò sulla spalla. Mi guardò il tempo sufficiente a farmi capire che era pronto a rispondere alla domanda che non aveva bisogno di fare. «Scotch e soda», dissi in un grido sussurrato. Posai un biglietto da venti dollari sul banco e osservai il barista prenderlo con una mano mentre con l'altra mi serviva da bere. Mentre registrava la vendita in una vecchia cassa di bronzo rimodernata poche decine di centimetri più in là, mi curvai sul banco e feci scorrere le dita lungo la base del bicchiere. Il barista posò il resto davanti a me e con la stessa silenziosa domanda prese l'ordinazione di un altro avventore. Alzai gli occhi e intravidi me stesso nello specchio sull'altro lato del bar. Intorno a me la gente sembrava divertirsi, chiacchierando, raccontandosi storie, scherzando e ridendo alla minima occasione. Ero più vecchio della maggioranza, e molto più vecchio di alcuni. Mi sentivo solo e fuori posto. Quando ebbi finito il mio drink ne ordinai un altro, poi un altro ancora. Era passato molto tempo dall'ultima volta che ero entrato in un bar da solo e avevo passato la serata a bere. Avevo quasi dimenticato la meravigliosa indulgenza dell'autocommiserazione, la caduta libera nel pieno godimento di ogni singola emozione, il puro lusso di non preoccuparsi di quello che sarebbe potuto succedere, l'appassionata convinzione di poter mandare tutti affanculo e subito dopo ottenere il loro amore. Bevvi un altro scotch, poi un altro ed eccola lì a portata di mano, la lucida follia dell'ubriachezza. Scorsi la mia immagine riflessa nello specchio e mi vidi più vecchio di quello che ero stato soltanto pochi minuti prima, e tutti quelli che mi circondavano sembravano ancora più giovani. Un tempo mi faceva impressione la vista di un uomo di mezz'età seduto da solo in un bar, quand'ero ancora giovane e sicuro che niente del genere mi sarebbe mai capitato. Abbassai gli occhi sul bicchiere mezzo vuoto davanti a me e lo scostai con
il dorso della mano. Infilai la mano nella tasca interna della giacca, ne estrassi il mio portafogli di pelle e passai in rassegna le banconote finché non ne trovai un'altra da venti. Posai la mano sul banco, scesi dallo sgabello e mi alzai. «C'è un telefono, qui?», domandai nel baccano mentre ritiravo il resto e contavo la mancia. Era sul retro, appena fuori dalla porta dei bagni. «Sono io», dissi in tono brusco nella cornetta. Avevo posato la testa contro la parete e mi fissavo la punta delle scarpe. Avevano bisogno di una lucidata. «Sono in un bar. Ho bevuto troppo. Ce la fai a venire?». Un quarto d'ora dopo, Howard Flynn mi trovò seduto a un tavolo in un angolo, intento a sorseggiare un caffè scuro. «Grazie», dissi imbarazzato. «Ordina qualcosa, ti offro la cena». Prese posto sulla sedia di fronte a me e scosse la testa. «Diavolo, credevo mi avessi chiamato perché volevi bere in compagnia». Fissai il suo volto impassibile e carnoso e cercai di sorridere. «Dimmi una cosa. Quanto tempo è passato prima che ti rendessi conto che AA non significava "avanti, ancora"?». «È stata una delle più grandi delusioni della mia vita», rispose con un gran sorriso. Le sue grosse braccia tendevano le maniche della camicia bianca che portava abbottonata sui polsi e sbottonata sul collo. «Sei stato bravo», disse nel suo tipico modo lento e metodico. «Bravo? E perché? Perché sono venuto qui e ho cominciato a ubriacarmi?». «Perché non ti sei ubriacato. Non fino in fondo. E perché hai avuto l'intelligenza di capire che non saresti riuscito a tornare a casa da solo». Mi guardò con gli occhi socchiusi. «Oltretutto, non è che tu sia entrato in un emporio e ti sia preso una bottiglia di Thunderbird». Mi girava la testa. Sollevai la tazza di caffè con entrambe le mani per assicurarmi di non rovesciarlo. «Quanta gente hai visto sul marciapiede con una bottiglia di Chivas Regal nel sacchetto di carta?». «Lì è dove finisci, non dove inizi», replicai. Fingendosi spazientito, Flynn agitò la grossa mano rossa e gonfia. «Sicuro di non essere mai stato a un incontro degli Alcolisti Anonimi? Hai già tutte le risposte giuste. Ascolta. Non sono venuto a tenerti per mano. Sono venuto perché, a giudicare dal tuo tono di voce, se ti avessi lasciato solo avresti continuato a bere, magari per tutta la notte, magari ancora più a
lungo. Sono qui per assicurarmi che tu non lo faccia, va bene? Ora finisci il caffè e andiamocene». I suoi occhi sonnolenti percorsero il bar affollato da una parte all'altra. «Non sopporto la gente quando si diverte troppo». Scostò la sedia, si alzò e aspettò che lo seguissi. Ci facemmo largo a spallate attraverso la folla chiassosa e superammo il barista con la sua camicia bianca inamidata e il suo cravattino nero, intento a riempire i bicchieri e svuotare le tasche di tutti coloro che si mettevano in fila per la possibilità di sentirsi meglio di quanto già si sentivano. Fuori, Flynn mi cinse le spalle con il grosso braccio. «Dicevo sul serio. Non abbatterti. Sei stato bravo. Hai saputo quando fermarti». Mi accompagnò a casa. Stringeva la parte inferiore del volante con tre dita della mano sinistra e teneva il braccio destro appoggiato oltre lo schienale del sedile. Ogni volta che l'auto passava su una gobba della strada, vibrava come un'asse di legno che colpiva l'asfalto dopo una caduta di sei metri. Flynn non sembrava farci caso, visto che i contraccolpi venivano assorbiti dalle pieghe dei muscoli attorno al collo. Ma io non ero altrettanto fortunato. Ogni volta che accadeva mi piegavo in avanti di qualche altro centimetro, chiedendomi quanto sarebbe durata la nausea. «Lo sai perché giro con questa macchina, vero?», chiese lui nell'apparente convinzione che una spiegazione mi avrebbe fatto sentir meglio. «Non è soltanto perché non voglio spendere per comprarmene una nuova». Conoscevo la ragione. Me l'ero sentita spiegare da ogni singolo ex alcolista che avevo conosciuto. Faceva parte della lista, dei dodici passi verso la temperanza. «Fa bene alla mia umiltà», soggiunse Flynn senza distogliere gli occhi dalla strada. Era soltanto una parola, ma il suo suono, ripetuto così spesso, era diventato parte di un testo sacro, secolare; eppure sembrava privo di contesto o di profondità. C'era qualcosa di ipnotico nel modo in cui veniva usato, come il borbottio di un catechismo in una lingua sconosciuta. Aveva un non so che di deprimente, qualcosa che ti rammentava quant'erano vuote le cose quando una risposta così semplice veniva considerata sufficiente. Oppure la mia era una forma di snobismo, di altezzosità intellettuale? Avevo chiamato Flynn non solo perché sapevo che non avrei dovuto guidare, ma perché non volevo stare da solo. Quelle formulette apparentemente stupide che lui seguiva come se fossero i suoi dieci comandamenti personali l'avevano reso il genere d'uomo pronto a uscire di casa in piena notte per aiutare qualcun altro a tenersi lontano dalla bottiglia che un tempo gli aveva
quasi rovinato l'esistenza. «Ovviamente, l'umiltà è relativa», stava dicendo. «Nel nostro gruppo c'è uno che l'ultima volta si è alzato e ha dichiarato di essersi sentito molto umile sbarazzandosi della sua Mercedes e prendendo in cambio una Lincoln. Be', basta che funzioni». Continuò a guidare, e i miei giramenti di testa cominciarono a diminuire; le palpebre mi si fecero sempre più pesanti finché riuscii a stento a tenerle aperte. Eravamo quasi arrivati. Il cancello in fondo al vialetto apparve dal buio. «Mi dispiace per l'assassino di Jeffries», disse Flynn. Aggiunse qualcos'altro, qualcosa che mi spinse a fargli una domanda, ma non riuscii a trovare le parole. Poi, malgrado mi sforzassi di ascoltare, non capii nulla di ciò che diceva. Un istante dopo non udii più niente, tranne una voce nella mia testa che mi diceva che qualcosa non andava. 13 Mi svegliai di soprassalto, rizzandomi a sedere e scrutando nel buio, chiedendomi se fossi veramente sveglio, circondato da un sogno che sembrava più reale di qualsiasi pensiero cosciente. La ragazza dal corpo liscio e nudo che avevo appena sposato dormiva raggomitolata attorno a me, un sorriso tenero e sereno le aleggiava sulle labbra e l'alito tiepido della vita la percorreva come un dono misterioso. Chiusi gli occhi e cercai di toccarla un'ultima volta prima che svanisse nella luce morbida e grigia dell'alba. Tornai a coricarmi sulla schiena ed ebbi la sensazione di essere caduto in mare. Le lenzuola attorcigliate erano fradicie e fredde di sudore. Scostai le coperte, feci scivolare le gambe oltre il bordo del letto e mi alzai. Mi pulsava la testa. Vi posai sopra la mano per farla smettere, ma la ritrassi quando toccò i capelli fradici. Attraversai la stanza familiare a passi lenti e circospetti e raggiunsi la porta del bagno. Accesi la luce e socchiusi gli occhi nel bagliore accecante. Qualche minuto dopo tornai in camera e aprii le imposte per far entrare la luce del mattino. Dopo la doccia, mi coprii con un accappatoio di spugna e scesi in cucina. Il profumo di caffè appena fatto aleggiava nell'aria. Cercai di ricordare se la sera prima avessi inserito il dispositivo automatico della macchina del caffè, ma non riuscivo a rammentare nulla. La testa mi doleva ancora, e le mie palpebre sembravano carta vetrata. Chino sul tavolo in cucina, intento a leggere il giornale come se avesse
tutto il tempo che voleva e non avesse un modo migliore di trascorrerlo, c'era Howard Flynn. Senza alzare lo sguardo tese il braccio verso il banco. «Ho preparato il caffè», disse voltando pagina. Mi riempii una tazza e mi sedetti dall'altro lato del tavolo. Attraverso la finestra aperta udii il suono di un picchio che martellava con il becco una quercia nel giardino sul retro della casa. Reggendo la tazza con entrambe le mani, sorseggiai il caffè nero fumante e cercai di capire che cosa ci facesse Flynn a casa mia. Flynn ripiegò il giornale, pareggiando attentamente ogni pagina finché non tornò a essere com'era quando l'aveva portato in casa. «Qualcosa di interessante?», domandai quando ebbe finito. «Pagina tre», rispose facendo scivolare il giornale verso di me. «Hanno tralasciato la maggior parte dei dettagli». Capì che non avevo idea di cosa intendesse. «Tutto bene?», domandò sorridendo. «Ti ho accompagnato a casa, nel caso non lo ricordassi». La serata cominciò a tornarmi in mente. Rammentavo il bar e i sobbalzi a bordo dell'auto di Flynn, ma nient'altro. «Sono riuscito a portarti di sopra», mi spiegò. «Abbiamo lasciato la tua macchina in centro. Ho pensato che questa mattina avresti avuto bisogno di un passaggio». Infilò una mano nel taschino della camicia e ne estrasse una minuscola scatoletta di latta. L'aprì con l'unghia del pollice e prese una pillola verde di forma oblunga. Con un unico, fluido movimento, senza usare le mani come appoggio, si alzò dalla sedia. Raggiunse il lavandino con l'andatura molleggiata di chi era stato addestrato a rendere il più efficace possibile ogni movimento. Gettò via il resto del caffè e riempì la tazza d'acqua fresca. «Da' un'occhiata a pagina tre», disse mettendosi la pillola in bocca. Bevve un sorso d'acqua, rovesciò il capo all'indietro e deglutì. «Sarebbe stato interessante capire perché l'ha fatto», soggiunse. Guardando fuori dalla finestra, si passò il dorso della mano sulla bocca. Posò l'altra mano sul bordo del lavandino e si voltò verso di me. «Se l'ha fatto». Avevo quella vaga sensazione che provi quando qualcuno ti dice una cosa che dovresti già sapere. Presi il giornale e andai a pagina tre. Feci scorrere lo sguardo sulle notizie al di sopra della piega, poi la trovai nell'angolo inferiore destro. Non era un articolo lungo, una colonna di una decina di centimetri al massimo, la breve notizia di un suicidio. Quando alzai gli occhi, Flynn aveva abbassato i suoi a terra, e serrava le
dita con forza sul bordo del lavandino. Stringeva i denti con tale forza che i muscoli delle mascelle gli segnavano il volto. «Stai bene?». Riuscì ad accennare di sì con la testa, poi alzò di nuovo il capo, trasse un profondo respiro e sembrò rilassarsi. «Sì, non è niente», disse con un'espressione che era in parte un sorriso e in parte una smorfia. Si picchiettò il petto con la mano destra. «Un po' di angina, tutto qui. Che ne pensi?», chiese indicando il giornale. «È tutto un po' troppo facile, non trovi?», soggiunse prima che potessi rispondere. «Trovano l'assassino di Jeffries e lui ha ancora il coltello con cui l'ha ammazzato. Invece di negare confessa ogni cosa senza nemmeno chiedere un avvocato e poi, come se non si fosse reso già abbastanza utile, si uccide in cella prima ancora di trascorrere la prima notte in prigione». All'improvviso mi tornò in mente ogni cosa. «Me l'hai detto ieri sera, non è vero?». «L'hanno annunciato al telegiornale delle undici. Si è ucciso fra le otto e mezza e le nove. Ieri sera non hanno detto altro, e nemmeno sul giornale si dilungano. Dicono solo che si è ucciso. Non spiegano come». «Si sarà impiccato», ipotizzai. Flynn tornò a sedersi a tavola. Si sporse in avanti sulle braccia e torse le labbra prima da una parte e poi dall'altra. «Ho parlato con qualcuno». Abbassò gli occhi e mosse il dito avanti e indietro seguendo una linea immaginaria davanti a sé. «Non si è mai visto un suicidio come questo. Il tizio è salito sul letto a castello della cella. Nella cella di fronte c'era un altro detenuto, ma non gli ha prestato molta attenzione. All'improvviso il letto a castello ha cominciato a tremare, facendo un gran fracasso, e l'altro detenuto ha cominciato a imprecare dicendogli di piantarla. Il tizio era in piedi sul lettino superiore, e continuava a saltare. L'altro detenuto non credeva ai suoi occhi. Ha fatto per dire qualcosa, ma prima che se ne rendesse conto il tizio si è buttato». «Buttato?», chiesi in tono piatto. «Si è tuffato dal letto a castello, e si è sfondato la testa sul pavimento di cemento. Ma il fatto è che non si è limitato a buttarsi. Teneva le braccia allacciate dietro la schiena, le ha tenute così mentre si tuffava di testa verso il pavimento. Come puoi fare una cosa simile, tenere le braccia dietro la schiena senza mai staccarle? Non metteresti le mani avanti, all'ultimo istante, per cercare di assorbire il colpo? E perché si è ammazzato in quel modo? Perché non si è limitato a impiccarsi? Non sarebbe stato difficile.
Basta fare un cappio con la camicia o con i pantaloni: è così che si uccidono quasi tutti i detenuti. Mai sentito un sistema simile. È strano. L'intera faccenda è strana, se lo chiedi a me». Mi versai un'altra tazza di caffè. In fondo al prato, uno scoiattolo si lanciò dalla quercia che sovrastava la palizzata appuntita sull'ombrellone che ombreggiava un tavolo di cristallo all'estremità del patio di mattoni. Scivolò sulla tela azzurra, riprese l'equilibrio appena prima di raggiungerne il bordo, saltò sulla sdraio e si allontanò a rapidi balzi sul prato. «Che cosa c'è di strano?». Mi voltai reggendo la tazza in mano e attesi che Flynn alzasse gli occhi su di me. «Un omicidio casuale viene perpetrato da un individuo probabilmente demente o drogato, che poi viene catturato e decide di ammazzarsi invece di passare i prossimi dieci o dodici anni in cella in attesa della propria esecuzione. Ammetto che il modo in cui si è ucciso non è stato proprio normale, ma...». «Non è stato casuale», m'interruppe Flynn. «Come?». «Non è stato casuale», ripeté. «Te l'ho detto, ho parlato con qualcuno. Ha confessato. Sapeva chi aveva ucciso». «Allora l'avrà fatto per vendicarsi. Jeffries prima o poi doveva averlo spedito in prigione». Flynn scrollò le spalle. Le rughe sulla sua fronte si fecero più profonde. Si mise la mano in tasca, ne estrasse un pacchetto di sigarette spiegazzato e infilò il dito indice nell'apertura. Con un'espressione di disgusto accartocciò il pacchetto vuoto fra le dita e se lo rimise in tasca. «Non lo so. Non ha voluto dire perché l'ha fatto. Jeffries doveva avergli combinato qualcosa, per portarlo a uccidere. Sarebbe stato interessante sapere cosa, ma adesso non lo sapremo mai più». «No?». Scosse la testa. «Le indagini sono finite. Ci vorrà un po' di tempo per i risultati dell'esame del DNA sul coltello insanguinato, ma il sangue sarà quello di Jeffries», disse con assoluta certezza. «Hanno il coltello, hanno la confessione e come se non bastasse adesso hanno anche il suicidio. La gente non si ammazza per qualcosa che non ha fatto. Non c'è alcun dubbio, è stato lui. E adesso è morto. Il caso è chiuso». Più tardi, nel pomeriggio, dopo essermi messo in pari con il lavoro che, come Helen mi rammentò ripetutamente, avrei dovuto svolgere quella mattina, chiamai Harper Bryce per vedere se ne sapeva più di Flynn. Harper non conosceva i dettagli del suicidio ed era all'oscuro di ciò che aveva con-
fessato l'assassino. Quando gli dissi che non era stato un omicidio casuale, che l'assassino aveva voluto uccidere Jeffries, espresse il suo rammarico per il suicidio. «Sarebbe stato un processo interessante, dopo tutto», osservò. Sembrava soltanto cinismo, ma la valutazione professionale di Harper era corretta. L'omicidio di Calvin Jeffries aveva catturato l'attenzione pubblica per l'identità della vittima e per il mistero che circondava la sua morte. Ma quando l'assassino era stato preso e sembrava che il fattaccio fosse un atto casuale di violenza commesso da un uomo abbastanza disperato da uccidere per pochi dollari, era diventato praticamente indistinguibile dalle migliaia di morti accidentali che si verificavano ogni anno. Gli automobilisti ubriachi uccidevano persone che non conoscevano, e gli individui senza nome che vivevano in mezzo alla strada potevano decidere in qualsiasi momento di accoltellare chi non gli dava ciò che chiedevano. Era una delle sventure della vita metropolitana, e malgrado fosse comunque da condannare non aveva il fascino dell'omicidio deliberato e intenzionale di qualcuno di cui avevi motivo di volere la morte. Era questo che portava la gente a leggere i giornali e a seguire i processi; non il fatto che qualcuno fosse stato ucciso, ma il fatto che qualcun altro avesse compiuto quell'ultimo, irrevocabile passo e che avesse ucciso con premeditazione. Ero d'accordo con Harper: sarebbe stato un processo interessante. E adesso non si sarebbe mai tenuto. Sui quotidiani del giorno dopo c'era un articolo sull'ennesimo scandalo politico, ma non si accennava all'omicidio di Calvin Jeffries. C'erano articoli sull'economia e su ciò che accadeva nell'emisfero opposto del globo, ma nemmeno una riga sul suicidio del suo assassino. C'erano nuove cose da leggere, nuove cose di cui parlare, e dopo un altro giorno o due gli unici che continuavano a pensare a Calvin Jeffries erano coloro che l'avevano conosciuto, e forse nemmeno tutti. Venerdì mattina trovai Helen che mi aspettava al varco. «Ha appena chiamato l'ufficio del giudice Pritchard», disse seguendomi nella mia stanza. «Fammi indovinare», dissi sedendomi. «Vogliono spostare l'udienza per la mozione Burnett». Helen si sedette sul bordo della sedia davanti alla mia scrivania, stringendo in mano una pila di messaggi telefonici scarabocchiati su dei foglietti rosa. «Mercoledì non sarà in città. Vogliono spostarla alle due di martedì
prossimo. Non hai altri impegni». «Gli hai detto che non ne avevo?». «No, ho detto che avrei dovuto parlarne con te». «Brava. Richiamali. Di' alla cancelleria di Pritchard che nelle prossime settimane non ho nemmeno un buco; di' che questa dannata udienza è già stata spostata due volte, che l'imputato ha il diritto di presentare la sua mozione e poi che se il giudice voleva prendersi i mercoledì di vacanza avrebbe dovuto fare il dottore!». Nulla di ciò che facevo o dicevo la turbava. «Bene», disse lentamente, prendendo nota di chiamare la cancelleria e di chiedere con la massima educazione se fosse possibile ottenere l'udienza un giorno qualsiasi della settimana successiva. «Cos'altro c'è?», chiesi guardando fuori dalla finestra. Squillò il telefono. «Lo prendo io», disse Helen scattando in piedi. «Rispondi da qui», dissi porgendole la cornetta e premendo il tasto lampeggiante sul quadro. Helen si premette la cornetta sull'orecchio e con l'altra mano si mise a giocherellare con il cavo del telefono. «Ufficio dell'avvocato Joseph Antonelli», annunciò con un tono di voce che riusciva a essere sia amichevole che frettoloso. «Temo che il signor Antonelli sia in riunione e non possa essere disturbato». Era la tipica menzogna per tutte le stagioni, pronunciata così spesso che Helen avrebbe potuto superare l'esame del poligrafo ogni volta che la ripeteva. Stavo passando in rassegna i messaggi che aveva posato sulla scrivania, e in un primo momento non mi accorsi che aveva cominciato a scribacchiare qualcosa su un pezzo di carta. «Sì, capisco», disse. «Desidera lasciare un messaggio?». Tese la mano e mi sventolò il foglietto sotto il naso. «Può restare il linea un istante?». Lessi il nome che aveva scritto. Mi ci volle un istante prima di essere sicuro di chi era. Helen mi passò la cornetta e mi lasciò solo, chiudendosi la porta alle spalle. Mi rizzai a sedere e posai entrambi i gomiti sulla scrivania. «Sono Joseph Antonelli», dissi con il massimo della formalità. «Cosa posso fare per lei?». Mossi la testa avanti e indietro al ritmo di ciò che udivo. «Sì», risposi. «Ne sarei lieto. Alle sei va benissimo». Mi guardai intorno finché trovai una penna. «Le dispiace ripetere? Sì, so dov'è», dissi prendendo nota dell'indirizzo. «Ci vediamo lì. Grazie della te-
lefonata, signora Jeffries». Non so perché avessi accettato. Forse era il semplice desiderio di vedere con i miei occhi come viveva e com'era in realtà. Forse era qualcos'altro, un istinto che mi diceva che dietro la morte di suo marito c'era più di quello che sapevo. L'indirizzo che mi aveva dato si trovava nel West Side, a pochi minuti dal centro, e corrispondeva a un alto edificio costruito dopo la seconda guerra mondiale. Era una sorta di punto di riferimento cittadino, e una delle abitazioni più costose della città. Un uomo corpulento dal volto butterato e dallo sguardo spento sedeva dietro a una piccola scrivania di legno appena dentro l'atrio dal soffitto alto. Attesi che sollevasse una cornetta nera che sembrava in uso fin dal giorno in cui l'edificio era stato inaugurato e che annunciasse: «C'è un certo signor Antonelli». Annuì in silenzio e riagganciò. «Sedicesimo piano». Puntò un dito tozzo verso la parete ricoperta da pannelli di noce sul lato opposto dell'atrio. «L'ascensore è subito dietro l'angolo». C'era soltanto una cabina. Premetti il tasto di ottone annerito e udii un cicalino echeggiare ai piani alti. L'ascensore scese sferragliando e si fermò con un tonfo. La porta si aprì cigolando e un vecchietto con una giacca che gli pendeva dalle spalle curve e una camicia di due taglie troppo grande per il suo collo aggrinzito mi si parò davanti con la mano pallida posata sulla leva di comando. «Che piano?», rantolò. Giunsi le mani davanti a me e appoggiai la schiena alla parete posteriore della cabina decorata di specchi e laminature d'oro. Con uno scricchiolio da far accapponare la pelle, l'antico ascensore cominciò la tediosa ascesa verso l'ultimo piano. Sul pianerottolo si affacciavano due porte, una di fronte all'altra. Sul muro opposto all'ascensore, un grande vaso azzurro pieno di crisantemi gialli appena colti campeggiava su uno stretto tavolino dal piano di granito davanti a uno specchio dalla cornice dorata. I fiori sembravano fin troppo perfetti, e ne toccai uno per sincerarmi che fossero veri. Stavo per sfilarmi di tasca il foglietto di carta per controllare il numero dell'appartamento quando la porta del 16A si aprì. L'avevo vista da lontano alla cena e avevo osservato la sua fotografia sui giornali dopo l'omicidio di Jeffries, ma in quel momento il suo aspetto mi ricordava più quello di quando era giovane ed era ancora sposata con il suo primo marito. Indossava una calzamaglia nera, una dolcevita nera che le aderiva al busto e le scendeva fino a metà coscia e un paio di normali scarpe basse. I suoi lucenti capelli castani erano raccolti sulla nuca in una coda
di cavallo. Mi porse la mano tendendo il braccio direttamente dalla spalla. «Grazie di essere venuto, signor Antonelli». La sua voce sembrava forzata, artificiale. Non appena ci fummo stretti la mano, si scostò dalla soglia. «Prego, si accomodi». L'appartamento era un capolavoro orientale. Tappeti lavorati a mano rosso sangue e blu notte erano sparsi sul pavimento di legno. Armadietti di teak e di mogano pieni di vasi di delicata porcellana si susseguivano lungo le pareti. Nell'angolo dell'ampio salotto, un Mandarino d'avorio alto un metro e mezzo stringeva una pergamena nelle dita sottili. La signora Jeffries indicò un divano azzurro sul lato opposto alla finestra. «Posso offrirle qualcosa?», chiese togliendo il tappo da una caraffa di cristallo che occupava insieme ad altre un vassoio d'argento sul tavolino. «No, la ringrazio». Qualunque cosa lei stesse bevendo, vi aggiunse soltanto qualche cubetto di ghiaccio. Si sedette, ma un attimo dopo balzò di nuovo in piedi e prese a tamburellare le dita sulla parte superiore di una sedia di bambù. Era alta e magra, ma aveva due spalle larghe e dita estremamente lunghe con grosse nocche deformi. Erano le dita che ti saresti aspettato di vedere sulle mani di una bracciante, di una donna che passava le sue giornate china in mezzo ai campi a raccogliere le verdure dalla terra o tesa in punta di piedi in un frutteto a staccare i frutti dagli alberi. Erano sempre in movimento, serrandosi e schiudendosi, afferrando e rilasciando, oppure, come in quel momento, tamburellando a raffiche veloci e irregolari, prima di fermarsi di scatto e cominciare qualche altra attività. Fissando un punto davanti a sé, continuando a tamburellare con le dita sulla superficie rigida della sedia, prese un sorso del suo drink e poi tornò a sedersi. «Davvero non posso offrirle nulla?», domandò. Reggeva il bicchiere con entrambe le mani, i polsi a contatto delle ginocchia unite. I suoi occhi guizzarono da una parte all'altra e infine si posarono sul basso tavolino cinese laccato di nero. «Chiedo scusa», soggiunse all'improvviso alzando lo sguardo su di me. «Le ho chiesto se desiderava qualcosa?». «Niente, grazie». Mi sporsi in avanti e cominciai a tratteggiare una figura invisibile sulla superficie scintillante del tavolino. «Sono molto dispiaciuto per quanto è successo a suo marito, signora Jeffries», esordii titubante. «Se c'è qualcosa che posso fare...».
Nei suoi occhi fiammeggiò il genere di disprezzo che si dispensa agli stupidi. «Mi crede un'idiota? Crede che non sappia cosa sta succedendo?». Premette le labbra finché non persero quel poco di colore che avevano, balzò in piedi, bevve un altro sorso del suo drink e cominciò a camminare avanti e indietro per la sala. «Quello che voglio sapere è perché lo fa. So che odiava mio marito. E sì, signor Antonelli, mi ricordo di lei, fin dai tempi in cui ero ancora sposata con Elliott e lui venne a lavorare per il suo studio. Posso capire perché provi dispiacere per lui, rinchiuso dov'è. Ma Elliott è pazzo. È folle. Per quale ragione lo voglia aiutare a tormentarmi, dopo quello che ho dovuto sopportare, francamente non lo capisco, signor Antonelli, e penso che mi debba una spiegazione». Feci per alzarmi. «Forse dovrei andare. Non so davvero cosa dire». Mi rivolse un'occhiata penetrante, poi abbassò lo sguardo. «No, non se ne vada», disse dopo aver fatto un profondo respiro. «Mi dispiace. Ho tratto conclusioni affrettate». Tornò a sedersi, e malgrado avesse bevuto meno della metà del suo drink tese la mano verso la caraffa. Quando ebbe finito di riempire il bicchiere mi guardò. «Sa cosa c'era nella lettera che mi ha spedito?». «Non ne ho la minima idea», risposi. «Gliel'ho mandata per le ragioni che ho spiegato nel mio messaggio». Cominciò a tamburellare con le dita sul bordo del tavolino, ma in modo lento e rilassato, privo della rigida, metallica precipitazione di poco prima. «Davvero non lo sa?». «Tutto ciò che so è che sono andato a visitarlo. Volevo farlo da molto tempo, in realtà, fin dal giorno che...». «Che cercò di ucciderla». «Non credo affatto che avesse intenzione di uccidermi, signora Jeffries. Se non avessi provato a strappargli la pistola di mano, non penso che avrebbe premuto il grilletto». Con un'occhiata fredda e sagace mi assicurò che mi sbagliavo. «L'avrebbe uccisa senza pensarci due volte. Conoscevo Elliott. Era pazzo, signor Antonelli», disse accelerando il picchiettio delle unghie. «Dopo la crisi, dopo quello che fece quel giorno in aula, scaricò tutta la colpa su di lei. Era un'ossessione. Credeva che lei stesse cercando di rovinarlo. Pensava...». «Che andassi a letto con sua moglie». Le dita smisero di tamburellare. Il suo mento si sollevò. «Gliel'ho detto, era diventato paranoico. È una fortuna che lei sia ancora vivo».
«Forse. Ma mi dica, per quale ragione pensava che lei avesse una relazione con me? Per quale ragione, in generale, pensava che avesse una relazione?». Le sue dita lunghe e contorte ripresero a muoversi, lentamente, silenziosamente. «Le cose fra noi non avevano mai funzionato, signor Antonelli. Elliott era sempre difficile, esigente. Era costantemente sotto pressione. Era convinto di dover provare qualcosa perché non aveva frequentato le migliori scuole del paese. E me ne faceva una colpa. Continuava a ripetere quanto tutto sarebbe stato più facile per lui se non avesse avuto una moglie e dei figli che lo frenavano». Non le credevo. «Adorava i suoi bambini, e devo dirle che ho sempre avuto l'impressione che adorasse anche lei». «Perché? Perché teneva la mia foto in ufficio e ogni tanto portava con sé i bambini quando andava a lavorare il sabato e la domenica? Erano le uniche volte che li vedeva». Un'espressione sdegnata le attraversò il volto. «Non mi fraintenda. Non sto dicendo che Elliott non amasse i suoi figli. Penso che abbia amato perfino me... per un certo periodo. Ma ogni volta che le cose non andavano per il verso giusto - e per Elliott tutto doveva sempre essere perfetto - doveva scaricare la colpa sugli altri». Non aveva ancora risposto alla mia domanda. «Ma come mai era convinto che lei avesse una relazione con me?». Per un attimo mi fissò; poi prese il suo bicchiere, tornò ad alzarsi e cominciò ad aggirarsi per la sala. A ogni passo sembrava farsi più agitata. I cubetti di ghiaccio tintinnavano contro il vetro, e quando il liquore dorato si rovesciò oltre l'orlo e le colò sulla mano non sembrò notarlo. «Non ha mai avuto a che fare con una persona impazzita, signor Antonelli? Non ha mai vissuto con qualcuno che era completamente, e dico completamente, irrazionale?». Cercò di calmarsi. Smise di camminare avanti e indietro e si appoggiò alla sedia; poi, visto che non funzionava, si portò al centro della sala e si fermò incrociando un piede sull'altro e infine ruotandolo di lato. «La cosa più difficile è cercare di aggrapparsi alla propria sanità mentale. Quello che accadde quel giorno in tribunale, quando dovettero riportarlo a casa, bolliva in pentola da mesi. Elliott aveva già cominciato a parlare di complotti. Continuava a spiegarmi come ogni evento apparentemente innocente ne fosse in realtà una componente. Sa cos'è veramente folle? Il fatto che molte delle cose che diceva erano sensate. "Supponi, per un attimo solo, che io abbia ragione", mi diceva. Mi chiedeva continuamente di
farlo. Logorava le mie resistenze. Alla fine gli davo retta, e se supponevi che lui avesse ragione, che ci fosse veramente un complotto ai suoi danni, tutto ciò che diceva era perfettamente logico. Una donna che spingeva il carrello al supermercato dove lui si fermava a prendere il pane lo stava seguendo; una macchina fotografica sul sedile posteriore di un'auto parcheggiata era stata messa lì appositamente per fargli sapere che era sorvegliato. Ogni elemento combaciava, perché una volta che accettavi l'esistenza di un complotto tutto ciò che accadeva poteva essere spiegato come una sua componente, o addirittura diventava una prova ulteriore che lui aveva ragione». Bevve un sorso del suo drink ripensando a ciò che era accaduto, o a quello che voleva farmi credere che fosse accaduto. «Ma io non ci stavo», soggiunse tornando a guardarmi. «Non gli concedevo, nemmeno per un istante, la possibilità che avesse ragione, che davvero ci fosse questa terribile congiura ai suoi danni. Temevo che se l'avessi fatto non sarebbe mai guarito, e che mi avrebbe trascinato nella sua follia. Perché capisce, se avessi detto di sì ogni cosa avrebbe avuto un suo senso, una sua spiegazione, e io non avrei più avuto alcun punto di vista da mantenere, alcun modo di distinguere ciò che era vero da ciò che non lo era. La follia è insidiosa, signor Antonelli. Ti attira a sé, e poi ti chiude la porta alle spalle, e dopo un po' i tuoi occhi si adattano al buio e non pensi più che sia buio». Si avvicinò alla finestra e guardò fuori, oltre le luci tremule della città e il grande fiume, verso la montagna sulla quale la neve riluceva azzurra, violacea e dorata mentre il sole scivolava nella sera. «Elliott vedeva il mio rifiuto come un tradimento, e nella sua mente malata quel tradimento poteva significare soltanto che anch'io facevo parte del complotto. Ma non solo. No, io ero quella che l'aveva cominciato». Si voltò di quel poco che bastava per vedermi. Tradiva un senso di stanchezza, come se nulla avesse più molta importanza, come se tutto ciò che poteva succedere nella sua vita fosse già accaduto. «Allora non sapevo quant'era malato. Sembrava tutto un brutto sogno, qualcosa che non stava accadendo sul serio. A volte, quando andavo a letto, riuscivo quasi a convincermi che al mio risveglio ogni cosa sarebbe stata come un tempo. Altre volte pensavo che fosse Elliott che stava facendo un brutto sogno, e che se l'avessi afferrato e scosso con tutte le mie forze si sarebbe svegliato e sarebbe tornato normale. Non riuscivo a credere che stesse succedendo quello che stava succedendo».
Si sedette su una sedia di bambù e posò il bicchiere sul tavolino. Incrociò le braccia sul petto, appoggiò la schiena all'indietro, tese le gambe e appoggiò una caviglia sull'altra. «Si poteva quasi sentire uno scatto, quando incastrava fra loro gli elementi del complotto. Una volta deciso che io ne ero l'ispiratrice, doveva esserci una ragione. E ovviamente poteva essercene soltanto una: un altro uomo». La sua voce divenne sommessa, controllata, come se stesse raccontando la storia di qualcun altro. «Non può immaginare fino a dove arrivassero la sua rabbia e il suo odio. Mi urlava contro come non avevo mai sentito urlare in vita mia. Cominciai a rispondere a tono. Era autodifesa, è l'unico modo in cui riesco a spiegarlo. Mi accusava di qualsiasi colpa immaginabile, cose oscene, e io rispondevo provocandolo con quello che diceva di me, rispondendogli che era tutto vero, ridendone. Mi stava facendo del male come mai nessuno mi aveva fatto, e in quel momento ero pazza quanto lui. E fu allora che glielo dissi, che aveva ragione, che volevo rovinarlo, che avevo fatto tutto quello di cui mi accusava, che avevo una relazione, che andavo a letto con un altro, che andavo a letto con il suo grande amico Joseph Antonelli». «Ma per quale motivo?», domandai sbalordito da ciò che aveva fatto. «Perché volevo fargli del male a mia volta. Lui la idolatrava. Voleva essere come lei. E perché non credevo che ci avrebbe creduto. Credevo che gli avrei fatto capire quanto era folle quello che stava succedendo, che era tutto nella sua testa e che aveva bisogno di aiuto. Invece non feci che convincerlo che aveva ragione». Osservandola raccontarmi con apparente sincerità una storia che la scagionava da qualsiasi responsabilità per ciò che era accaduto al suo primo marito, mi domandai se fosse la verità o se, dopo anni di sottili reinterpretazioni, fosse giunta a credere che era andata proprio come aveva appena detto. Se era una donna perfettamente disposta a mentire, era anche una donna che non avrebbe mai ammesso, nemmeno o specialmente a se stessa, di essere una bugiarda. «Non può sapere come mi sentii male quando Elliott cercò di ucciderla. Continuavo a ripetergli che non era vero, che non avevo alcuna relazione, che nemmeno la conoscevo. Malgrado tutto ciò che era successo fino allora, non avrei mai creduto che sarebbe stato capace di fare una cosa simile». Mi guardò in cerca di comprensione. Se non avessi mai conosciuto Elliott, o magari se non avessi mai conosciuto Calvin Jeffries, avrei potuto
concedergliela. «Elliott crede ancora che avesse una relazione, ma con il giudice Jeffries». Il suo sguardo divenne freddo. «Pensava che non lo sapessi? Non appena io e Calvin ci sposammo, Elliott cominciò a spedirci lettere, lettere strane e spaventose, accusandomi e minacciando di vendicarsi. Dopo un po' cominciai a rimandarle al mittente senza nemmeno aprirle. Per questo le ha chiesto di consegnare quella lettera. Non era perché non aveva l'indirizzo. Era perché sapeva che altrimenti non l'avrei aperta, e che non avrei mai permesso che i ragazzi la leggessero». Ebbe un'esitazione, e le tremarono le labbra. Lentamente, metodicamente, riprese a tamburellare con le dita sul bracciolo della sedia. «Lo sa cosa ha scritto? Cosa voleva che i suoi figli leggessero? "Vostra madre è una puttana, e voi siete due volte orfani". Ecco cosa ha scritto, signor Antonelli. Ecco il genere di messaggio che vuole dare ai suoi figli. Per questo non ho mai permesso che loro lo visitassero. Per questo li ho mandati lontano, in una scuola privata: perché lui non li potesse trovare». «Dunque non è vero?», chiesi alzandomi. «Non aveva una relazione con lui?». «Neanche per sogno», rispose accompagnandomi alla porta. «Calvin era come un padre, per me. E trattava Elliott come un figlio. Ha cercato di aiutarlo in tutti i modi. Quando Elliott si è ammalato, Calvin ha fatto il possibile. Sapeva com'era difficile per me. Aveva passato qualcosa di simile con sua moglie. Non so cosa avrei fatto, se non ci fosse stato lui. Se non fosse stato per lui, Elliott sarebbe andato in prigione per aver cercato di ucciderla. È stato Calvin ad assicurarsi che venisse ricoverato all'ospedale di stato, dove avrebbero potuto aiutarlo». Eravamo arrivati nell'ingresso. «È stato il giudice Jeffries a farlo ricoverare?». «Non di persona», disse aprendo la porta. «Ma ha fatto sì che accadesse». La salutai e mi voltai per andarmene. «Ma non è servito a niente», soggiunse lei. «Elliott mi odia ancora, ed è ancora pazzo. Se non sapessi che è rinchiuso in quell'istituto, giurerei che è stato lui a uccidere Calvin soltanto per farmela pagare». «L'assassino l'hanno preso, signora Jeffries», dissi girandomi. Lei annuì con due cenni del capo. «L'uomo che si è ucciso? Ne è sicuro, signor Antonelli? È sicuro che sia stato uno come lui a uccidere mio mari-
to?». 14 Lo lessi sul giornale il mattino dopo, un articolo in prima pagina firmato Harper Bryce. Era stato ucciso un altro giudice. Mentre parlavo con la vedova di Calvin Jeffries, Quincy Griswald, il nuovo presidente della corte circoscrizionale, era stato assassinato in modo praticamente identico al precedente omicidio. Come Jeffries, anche Griswald era stato accoltellato e, come Jeffries, era stato ucciso nel parcheggio in cui entrambi tenevano l'auto. Jeffries era riuscito a trascinarsi fino al suo ufficio; Griswald era stato trovato morto nel garage, accasciato accanto alla portiera della sua Buick ultimo modello. Più tardi, quando andai in ufficio, mi portai il giornale. Il sabato era il giorno in cui cercavo di mettermi in pari con i miei casi. Passando davanti al palazzo di giustizia, notai che la bandiera era di nuovo a mezz'asta. Nessun giudice era mai stato assassinato nella storia dell'Oregon, e adesso, nel giro di poco più di due mesi, ne erano stati uccisi due, entrambi presidenti della corte circoscrizionale al momento della morte. Mi tornò in mente ciò che aveva detto la vedova di Jeffries, il dubbio che l'uomo che aveva confessato di aver ucciso suo marito potesse essere veramente colpevole. Se Whittaker non fosse stato scoperto e se non avesse confessato, si sarebbe immediatamente pensato che entrambi i giudici fossero stati uccisi dalla stessa persona. Ma l'assassino di Calvin Jeffries era stato catturato, e aveva confessato, e poi, come se ciò non fosse stato sufficiente a provare la sua colpevolezza, si era tolto la vita. Eppure non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero che l'intera faccenda fosse qualcosa di più che una semplice coincidenza. Chiamai Howard Flynn a casa sua. «Non mi stai telefonando da un bar, vero?», chiese nel suo solito tono brusco. «Sai se la polizia ha già ottenuto i risultati dell'esame del DNA?». «Sul coltello usato dall'assassino di Jeffries? No, non so nulla. Ma saranno positivi, vedrai. Il sangue è quello di Jeffries». Vi fu un breve silenzio, e dall'altro capo del filo mi giunse il respiro forzato di Flynn. «Devi aver letto il giornale. Ma l'assassino di Jeffries è morto. Questo è un altro». Volsi lo sguardo fuori dalla finestra, osservando il cielo coperto che si scuriva. «E se i risultati non corrispondono?». Flynn preferiva attenersi ai fatti. «Sarebbe una situazione interessante.
Ma a me l'omicidio di Griswald sembra opera di un imitatore. Qualcuno ce l'ha con Griswald per averlo spedito al fresco. Viene a sapere di quello che hanno fatto a Jeffries e decide di provarci anche lui. Non stiamo parlando di pensatori originali». «Cosa sanno dell'uomo che ha confessato di avere ucciso Jeffries? Era stato mandato in prigione da lui?». «Non lo so», disse Flynn. «Vuoi che lo scopra?». Nulla di tutto ciò mi riguardava. Non stavo difendendo nessuno che fosse collegato con l'omicidio di Calvin Jeffries o con quello di Quincy Griswald. Inoltre, a Flynn avevo già chiesto fin troppo. Eppure in quel quadro c'era qualcosa di sfuggente, e io volevo sapere di che si trattava. «Se riesci a farlo senza che diventi un problema, allora sì, mi piacerebbe sapere cosa riesci a scoprire». Quando ebbi riagganciato, cercai di rintracciare Harper Bryce. Non era né al giornale né a casa. Gli lasciai un messaggio sulla segreteria in redazione e rivolsi la mia attenzione ai casi che avrei dovuto esaminare. Cominciai a rileggere i rapporti di polizia su una rapina a mano armata il cui processo era fissato per la settimana a venire. Ne avevo lette poche righe quando mi sorpresi a scandagliare la mia memoria alla ricerca di un collegamento fra i due omicidi. Al momento della morte erano entrambi presidenti della corte circoscrizionale. Se qualcuno avesse cercato di dire la sua sulla magistratura o sul sistema giudiziario nel suo insieme, l'assassinio di due giudici sarebbe stato di certo un sistema per farlo. Con uno sforzo tornai a dedicarmi ai rapporti. A quel punto mi venne in mente l'ovvio, e cioè che tanto Jeffries quanto Griswald erano giudici del tribunale di prima istanza, e che infliggevano di continuo pene a criminali violenti. Ma ciò valeva per qualsiasi giudice del tribunale di prima istanza, e nessun altro era stato ucciso. Riabbassai gli occhi, trovai il punto dove mi ero interrotto, lessi qualche altra parola e tornai ad alzare lo sguardo. C'era una differenza. Tanto Jeffries, spinto dalla convinzione di essere più intelligente di chiunque altro, quanto Griswald, mosso dal timore di non esserlo, facevano di tutto per far capire a un prigioniero che erano convinti si meritasse la pena che stava per subire e che provavano soddisfazione nell'infliggergliela. Erano entrambi facili da odiare. Scossi la testa nel futile tentativo di scacciare quei pensieri, giunsi in fondo alla prima pagina del rapporto e la girai. Le parole si confusero fra loro. Un omicidio poteva essere spiegato per una sentenza comminata dall'uno o dall'altro, ma quante probabilità c'erano che lo stesso uomo fos-
se stato mandato in galera sia da Jeffries che da Griswald e avesse deciso che entrambi i giudici dovevano morire soltanto dopo essere stato rilasciato per la seconda volta? E anche se fosse stato possibile, la confessione era assolutamente inspiegabile. Doveva avere ragione Flynn. L'unico collegamento concepibile fra i due omicidi era che il primo avesse ispirato qualcuno a commettere il secondo. Mi tolsi quei pensieri dalla mente, se non altro per il tempo sufficiente a concludere la lettura dei rapporti di polizia. Avrei avuto altro lavoro da svolgere, ma non riuscivo a concentrarmi che per pochi minuti alla volta. Mi alzai dalla scrivania, mi dissi che era quasi ora di pranzo e uscii. Il cielo color zinco era attraversato da turbolente nubi nere, e nell'aria pulita e umida della primavera si era diffusa una gran quiete. Sentii un piccolo schizzo sul volto e accelerai il passo. Ero a pochi isolati dalla mia destinazione, ma l'istante successivo la pioggia cominciò a martellare, riversandosi sull'asfalto in scrosci rapidi e violenti come schegge di un proiettile esploso. I passanti armati di ombrelli lottavano per aprirli. Una donna mi piroettò accanto tenendosi giù la gonna con una mano. Mi riparai sulla soglia di una piccola drogheria d'angolo e attesi che l'acquazzone si placasse. Nel giro di qualche minuto il peggio era passato e ripresi il cammino tenendomi rasente gli edifici. Mezzo isolato dopo adocchiai la libreria sull'altro lato della strada. Schivando il traffico l'attraversai di corsa e mi fermai un istante davanti alla vetrina a osservare le serie di libri usati che vi erano esposte. Davanti ai volumi rilegati in tela delle opere complete di Puskin, un cartoncino riportava un prezzo che non sembrava più così esagerato come quando era stato esposto anni prima. Quando aprii la porta di legno e vetro sentii suonare un campanello. Anatoly Chicherin era seduto su una semplice sedia di legno dietro il banco. Lunghe file di scaffali non dipinti si allungavano verso il retro del negozio, formando tre stretti corridoi. L'aria era stagnante, appesantita dalla polvere stantia di libri che erano stati abbandonati ad ammuffire quasi altrettanto a lungo delle ossa dei loro autori per lo più dimenticati. Un metro e sessantotto di altezza, con un volto pieno da barbagianni e una boccuccia flaccida, Anatoly Chicherin portava occhiali così spessi che i suoi occhi, distorti dalle lenti, sembravano schizzare fuori dalle orbite. Al suono del campanello li alzò con un sorriso sul volto. Con un'agilità sorprendente per un uomo della sua età balzò in piedi e aggirò il banco per darmi il benvenuto.
«Sei in anticipo», disse con una voce che quando la udivi per la prima volta ti faceva pensare che dovesse appartenere a qualcun altro. Era calda e risonante, una voce che sembrava provenire dal profondo della terra. Voltò il cartello appeso alla porta a vetri in modo che all'esterno si leggesse CHIUSO, quindi abbassò una tendina imbrattata da centinaia di ditate. «Così avremo più tempo per la partita», disse. «Ho già preparato la scacchiera». Mi condusse oltre due file di volumi in russo fino al magazzino fiocamente illuminato sul retro. Ai miei occhi ignoranti, i caratteri cirillici sui dorsi dei volumi sembravano lettere dell'alfabeto inglese riflesse in uno specchio. Due sedie di legno dallo schienale rigido si fronteggiavano sui lati di un tavolino quadrato al cui centro era sistemata una scacchiera. Una nuda lampadina, screziata da minuscoli resti di insetti morti e retta da un cavo ricoperto di tessuto, pendeva dal soffitto intriso di sugna. Quando Chicherin chiuse la porta, sulle pareti calarono ombre simili a tende nere. Sull'angolo anteriore di una semplice scrivania di metallo, accanto a una catasta di registri segnati da orecchie, c'era un bollitore elettrico ammaccato che Chicherin collegò alla presa a parete. «Ci vorrà solo qualche minuto», disse sedendosi davanti a me. Sfregandosi le mani, occhieggiò avidamente le pedine degli scacchi. «Cominciamo, oppure aspettiamo il tè?». «Aspettiamo il tè», risposi reprimendo a fatica un sorriso. «Mi piace rimandare il più possibile la sconfitta». «Giochiamo solo da sei mesi. Credevi di vincere così in fretta?». «Perdo ogni volta che giochiamo, e abbiamo giocato a sufficienza da farmi capire che potremmo andare avanti per anni senza che riesca a batterti». Emettendo un gemito laborioso come qualcosa che fosse stato costretto a rinascere contro la sua volontà, il bollitore cominciò a sfrigolare, e un istante dopo l'acqua prese a bollire. «Non dovresti pensare queste cose», disse Chicherin mentre versava l'acqua in una teiera di porcellana. «Ora giochi molto meglio di quando abbiamo cominciato». Posò la teiera su un lato del tavolino e vi aggiunse una tazza e un piattino per ciascuno. «Ha bisogno di stare qualche minuto in infusione», soggiunse sedendosi. Ingigantiti dalle lenti spesse degli occhiali appollaiati sulla punta del suo
piccolo naso camuso, i suoi occhi sembravano in grado di attirarmi come una calamita. «Hai solo bisogno di rallentare un po'. Tu vedi una mossa e la fai. Ma a volte, quando ti concentri a quel modo su quella che sembra la linea d'attacco, non riesci a vedere, per così dire, quello che sta per aggredirti ai fianchi. Bene», disse versando il tè. «Cominciamo». La partita era finita quasi prima che il tè si fosse raffreddato a sufficienza per poterlo bere, l'ennesima delle mie sconfitte. «Molto meglio», osservò Chicherin versando le pedine restanti in una scatola e piegando la scacchiera. Prese la teiera, riempì la mia tazza e poi la sua. Sorseggiò il tè reggendo in mano il piattino e guardandomi attentamente. «Dimmi, che ne pensi di quel secondo giudice assassinato? C'è forse un collegamento?». All'improvviso i miei sospetti mi parvero privi di fondamento, e mi ritrovai a ripetergli quello che mi aveva detto Flynn. «Il primo omicidio potrebbe aver suggerito l'idea a qualcun altro. A parte questo, no. L'assassino del giudice Jeffries ha confessato e poi si è ucciso, non può essere responsabile di entrambi gli omicidi». Lo dissi come se fosse lapalissiano, ma Chicherin aveva istinti troppo acuti e avvertì i miei dubbi. «Non sei del tutto convinto che l'uomo che ha confessato stesse dicendo la verità?». «Non ne sono sicuro», ammisi. «Non c'è ragione di dubitarne. Non si è limitato a confessare, si è addirittura ucciso. Perché l'avrebbe fatto, se avesse confessato un omicidio che non aveva commesso?». Guardandomi in faccia, Chicherin si fece scorrere più volte il dito sul labbro inferiore. «Mio padre avrebbe potuto risponderti», disse infine. «Lui confessò un crimine che non aveva commesso». «In Russia?», domandai restituendogli l'occhiata. «Di che crimine si trattava?». Il suo sguardo si perse in lontananza, e la sua bocca si contrasse in una smorfia. Cominciò a scuotere lentamente la testa, dandomi la sensazione che non ci fosse molto del passato che aveva voglia di ricordare. «Tradimento», rispose bevendo un altro sorso di tè. «Tradimento della rivoluzione. Mio padre faceva parte della generazione che divenne adulta durante la Rivoluzione d'Ottobre del 1917, la generazione che credeva in Lenin e pensava che il partito comunista fosse lo strumento prescelto dalla Storia». Un sorriso malizioso gli percorse la piccola bocca umida. «Il comunismo era la religione degli intellettuali. Ci credevano come un vero cattolico
crede nella Chiesa, senza dubbi né condizioni. «Il problema, naturalmente, era che alla morte di Lenin giunse al potere Stalin, e a Stalin interessavano soltanto quelli che erano fedeli a lui. Si sbarazzò di tutti coloro che avevano guadagnato posizioni di potere con Lenin. Stalin era molto furbo. Invece di farli fucilare, cosa che li avrebbe trasformati in martiri, li accusò di crimini contro l'Unione Sovietica; disse che erano spie delle potenze capitaliste che avevano inviato i loro eserciti per sconfiggere l'Armata Rossa dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Erano falsità, ma molti degli accusati confessarono, compreso Bukharin, il più famoso di loro. Nel corso di un processo a porte aperte, Bukharin confessò colpe che non aveva». Cicherin si sporse verso di me, mi rivolse un'occhiata intensa e calò tre volte le nocche sul tavolino. «Non confessò per sfuggire alla morte. Sapeva che una volta che avesse confessato sarebbe stato giustiziato. La sua confessione fu un suicidio. Non la rese per salvarsi la vita. Lo fece perché credeva che senza di essa la sua vita non avrebbe avuto alcun significato. «Bukharin credeva, lo credevano tutti, all'infallibilità del partito. Il partito era al servizio della Storia, e la Storia», disse Chicherin con fare dolente, «era l'unico vero Dio. Se avessero rinnegato il partito, avrebbero rinnegato l'unico Dio che avevano. Bukharin venne messo nella seguente posizione: credeva nel partito, ma il partito insisteva sulla sua colpevolezza. L'unico modo in cui poteva negarla era affermando che il partito aveva torto. Ma il partito, e cioè Dio, come poteva sbagliarsi? E così Bukharin scelse di continuare a credere. Confessò e venne condannato a morte». Si rilassò contro lo schienale della sedia e incrociò le braccia sul petto. Abbassò gli occhi, poi si pose una mano sull'incavo della nuca. Continuò a lungo a fissare il pavimento con una smorfia meditabonda sulle labbra. Alla fine piegò la testa da una parte quel poco che bastava a guardarmi con la coda dell'occhio. «Non hai mai rappresentato qualcuno che ha confessato un crimine che non aveva commesso spinto da qualcosa in cui credeva?», domandò. «Ho avuto qualcuno che ha confessato il falso, ma sempre per proteggere un'altra persona. Non mi è mai capitato che lo facesse per fede». Si tolse gli occhiali, chiuse gli occhi e si strinse il setto nasale. «Perdonami», disse quando riaprì gli occhi. Nella sua voce c'era una punta di stanchezza. «Quello che hai detto mi ha fatto pensare a quanto è cambiato il mondo. Trovi perfettamente ragionevole che qualcuno sia disposto ad addossarsi la colpa di qualcosa che non ha commesso per proteggere la
persona amata. Ricordo un tempo in cui milioni di persone erano innamorate di un'idea, di una causa più grande di loro, ed erano pronte a morire per essa, che si chiamasse comunismo, fascismo o democrazia. Prima è morto Dio, poi il fascismo e infine il comunismo, e adesso noi per cosa possiamo morire? Il mondo è diventato meno folle o lo è ancor più di prima?». Arricciò le labbra e annuì lentamente. Poi si raddrizzò sulla sedia e si rimise gli occhiali. «Coloro che processarono mio padre poterono usare entrambe le cose, la causa in cui credeva e coloro che amava». «Che cosa gli accadde?», domandai dopo che Chicherin era sprofondato in un altro lungo silenzio. Lui sollevò le mani con le palme rivolte al cielo. «Confessò tutto; avrebbe confessato qualsiasi cosa. Aveva una moglie e un figlio. Era l'unico modo per proteggere mia madre e me dalla Siberia o da qualcosa di peggio». «Mi dispiace», dissi in tono solidale. Chicherin sorrise. «È passato molto tempo. Io ero un bambino. Fu soltanto anni dopo che capii cos'era successo. Mia madre non me lo disse mai. Diceva che era rimasto ucciso in un incidente». Terminò di bere il suo tè e balzò in piedi. «C'è qualcosa che ti dovrei dare, qualcosa che penso dovresti leggere». Quando aprì la porta del negozio, la debole luce dissolse le ombre che si erano stese sui muri. Seguii Chicherin lungo i passaggi fra i libri. Lui sollevò la tendina e voltò il cartello alla porta per segnalare che aveva riaperto. Dandomi la schiena cominciò a perlustrare gli scaffali dietro il banco. Da molti dei libri spuntavano strisce di carta su cui erano riportati i nomi di coloro che li avevano ordinati o a volte gli indirizzi a cui dovevano essere spediti. In più di un'occasione Chicherin mi aveva spiegato che gran parte dei suoi guadagni proveniva dai libri rari per cui i collezionisti erano disposti a sborsare grosse cifre. La sua specialità erano le prime edizioni in russo. «Eccolo», annunciò picchiettando con il dito sul dorso di un piccolo volume sul secondo scaffale dall'alto. Mise la scaletta in posizione e lo sfilò. «I demoni di Dostoevskij. L'hai letto?», domandò porgendomelo attraverso il banco. «Ho letto I fratelli Karamazov e Delitto e castigo, ma no, questo non
l'ho letto. Forse l'ho cominciato, una volta». Come se fosse preda di un impulso improvviso, la sua testa sussultò leggermente. Un attimo dopo un lieve sorriso gli si aprì sulle labbra. «In un certo senso», disse, «è un'opera complementare a Delitto e castigo. Raskolnikov uccide la vecchia con un'ascia perché vuole il suo denaro e perché non crede in nulla che possa fermarlo. Ha respinto ogni considerazione etica e religiosa; è un nichilista, uno per cui non esiste nulla di più importante di se stesso. I demoni sono invece il racconto di ciò che può succedere quando individui come lui si uniscono e decidono di distruggere non un solo essere umano ma ogni cosa, poiché non credono in nulla al di là della suprema importanza di sostituire tutto con una realtà di loro invenzione. Credono di poter creare un mondo migliore perché non credono in quello esistente». Stavo ancora pensando al reo confesso dell'omicidio di Calvin Jeffries, cercando di ricondurlo a ciò che mi stava dicendo Chicherin. «E questo come spiega un individuo che confessa un crimine che non ha commesso e poi si uccide?». «È quello che fece Bukharin, ed è quello che fece mio padre», mi rammentò lui. «Questo libro», proseguì indicando con un cenno del capo il volume che reggevo in mano, «dice alcune cose straordinarie sul fatto che coloro che non credono più nella religione o nella morale, che si sentono traditi da quelle convinzioni, non provano più nulla se non il desiderio di distruggere tutto ciò che vi è connesso. Dostoevskij conosce il vuoto dell'anima, ma crede che possa essere riempito soltanto dalla fede in un Dio cristiano. Qualsiasi altra cosa è nichilismo. E chissà, magari lo è, ma lo stesso processo che conduce alcuni a credere al Dio di Dostoevskij porta altri a credere a cose diverse, cose per cui a volte sono disposti a morire». Chicherin si sedette dietro il banco e sospirò. Si tolse gli occhiali, li appannò con l'alito e li pulì sulla manica della camicia grigia. «Pensa allo stesso Dostoevskij. Ebbe la straordinaria esperienza di essere testimone della propria esecuzione. Arrestato da giovane con l'accusa di essere un attivista di organizzazioni socialiste, venne condannato a morte. Venne messo contro un muro e bendato. Poté udire l'ordine di puntare e quello di mirare. Nel silenzio di quel primo mattino, poté udire gli scatti dei fucili che venivano armati». Mi guardò. «Cosa credi gli sia passato per la mente in quel momento? Credi sia stato quello che la gente sostiene che accade quando stai per morire, credi che la sua intera esistenza gli sia passata davanti agli occhi?». Incrociò le braccia sul petto, accavallò le gambe
e cominciò a dondolarsi avanti e indietro. «C'è stato un periodo della mia vita in cui pensavo a queste cose: a cosa si sarebbe provato aspettando la propria esecuzione». Mi scoccò un'occhiata rassicurante. «A quei tempi ero in Russia, ed era soltanto una possibilità, mai niente di imminente. Ma quando ci pensavo, e quando penso a ciò che Dostoevskij ha passato e ad alcune delle cose che poi ha scritto, credo sia più probabile che uno veda la propria esistenza come un nulla, come una cosa priva di significato, come un puro e semplice preludio a quel momento, l'ultimo momento cosciente». Abbassò gli occhi sulle mani pallide, riflettendo su un altro pensiero. «Affascinante, no?», chiese inclinando la testa verso di me. «Il modo in cui chi sta per essere giustiziato se ne sta lì in piedi come se perfino in quel momento non ci sia niente di più importante dell'impressione che sta facendo e di quello che pensano di lui quelli che stanno per togliergli la vita. Non crolla in ginocchio, quanto meno nella maggioranza dei casi; non striscia, non cerca d'implorare pietà. Potrebbe anche essersi sempre considerato un codardo, ma adesso, quando la morte è l'unica alternativa possibile, la guarda tranquillo negli occhi. Chi può sapere qual è la causa? Coraggio, senso di sfida o nient'altro che buone maniere, la convinzione che è così che ci si dovrebbe comportare, non diversa in linea di principio dal sapere cosa dire ai tuoi anfitrioni quando togli il disturbo. Nemmeno nella morte vogliamo fare brutta impressione». Sul suo volto si fece strada il disgusto. «A mio padre, naturalmente, questa possibilità non venne concessa. Gli spararono in cella, un colpo alla nuca». Per un istante fissò un punto davanti a sé, ma poi la sua espressione tornò a cambiare. Quando mi guardò, i suoi occhi, o quello che riuscivo a vederne attraverso le lenti, sembravano allegri e vispi. «A volte mi sono chiesto cosa può aver pensato mio padre nel sentire l'acciaio freddo della rivoltella contro la nuca. Ha pensato a mia madre, a me? Ha cercato di farci sapere che il suo pensiero finale era rivolto a noi? E Bukharin? Il suo pensiero finale era rivolto a quella rivoluzione che amava al punto da essere pronto a confessare di averla tradita? «I fucili erano carichi e puntati, e l'unico ordine che restava era quello di fare fuoco. Dostoevskij sapeva che la parola successiva sarebbe stata l'ultima che avrebbe mai udito. Ma non giunse mai. Nessuno diede l'ordine di sparare. I prigionieri restarono lì bendati, le mani legate dietro la schiena, aspettando, interrogandosi, cercando di costringersi a non sperare. Poi, gradualmente, si resero conto che era finita, che non ci sarebbe stata alcuna
esecuzione, che erano stati schierati contro quel muro perché imparassero cosa avrebbero provato se fossero stati condannati a morte un'altra volta. Alcuni di loro impazzirono, altri finirono in Siberia. Dostoevskij divenne profondamente religioso. Invece che nella rivoluzione, ora credeva nell'importanza e nel potere della redenzione». Grattandosi il mento, Chicherin aprì un cassetto e ne estrasse un logoro foglio di carta da lettera. Con lenti e tediosi svolazzi del pennino guidò la sua stilografica avanti e indietro lungo il foglio. «L'aspetto fondamentale di Dostoevskij», aggiunse mentre scriveva, «è questa sua sbalorditiva capacità di fede, questo bisogno di credere in qualcosa che spieghi il mondo». Quando ebbe finito di scrivere, tolse il cappuccio dall'estremità posteriore della penna e lo rimise al suo posto, piegò il foglio in due, mi fece cenno di dargli il libro che reggevo in mano, vi inserì la lettera e me lo restituì. Mentre ci stringevamo la mano, rivolse un cenno del capo verso il libro. «Sto solo suggerendo che non è affatto impossibile che un individuo confessi qualcosa che non ha fatto e poi si uccida. Non è assolutamente impossibile». Fu soltanto quando ebbi percorso qualche isolato che ricordai il foglio che Chicherin aveva infilato nel libro. Credevo che mi avesse prestato il volume, ma quando lessi quello che aveva scritto seppi che si trattava di un regalo. "Per Joseph Antonelli, che ha capito che prima o poi tutti devono perdere. Dal suo buon amico Anatoly Chicherin". L'aria si era fatta improvvisamente fredda. Rimisi il foglio all'interno del libro e accelerai il passo. 15 Howard Flynn poteva essere in anticipo, ma non era mai puntuale. Lo sapevo benissimo, ma quando mi aveva chiesto di incontrarlo davanti al mio ufficio alle due e un quarto il pensiero che fosse in ritardo non mi aveva sfiorato. Ora erano le due e mezza, e di lui non c'era ancora alcuna traccia. Mi allentai il nodo della cravatta e slacciai il colletto della camicia perlustrando con lo sguardo il marciapiede. Il cielo era di un bianco abbagliante, e nell'aria c'era odore di bruciato. Era la prima giornata calda dell'anno, una giornata che ti faceva credere di non dover sopportare un al-
tro mese di pioggia prima che il clima secco e sereno dell'estate si stabilisse. Continuavo a guardare il marciapiede, nella speranza di far comparire Flynn con la semplice forza di volontà. Mi stavo concentrando a tal punto che potevo quasi vedere il suo volto paonazzo che gocciolava sudore mentre arrancava su per la strada. «Da questa parte», gridò qualcuno. Mi voltai distrattamente. Flynn era al volante della sua macchina, fermo in mezzo alla strada, e agitava il braccio mentre gli automobilisti dietro di lui strombazzavano insistenti. «Dovevamo incontrarci davanti all'ufficio», mi lamentai dopo essermi tuffato a bordo dell'auto. «Questo è il davanti», borbottò lui a denti stretti accelerando per passare con il rosso a un semaforo. Sterzò appena in tempo per schivare un'auto che era partita con il verde. «Impara a guidare!», gridò quando il conducente protestò agitando il pugno. «Hai il finestrino chiuso», gli rammentai alzando gli occhi al cielo. «Non ti può sentire, stai sprecando il fiato». Tenendo entrambe le mani sulla parte superiore del volante e gli occhi concentrati sulla strada, Flynn rallentò accontentandosi di seguire il flusso del traffico. Un sorriso stanco gli increspò gli angoli delle labbra. «Non importa che non mi senta. Non è questo il punto». Conoscevo quel sorriso e la logica contorta che di solito lo accompagnava. «E allora quale sarebbe?». «Il punto è che io posso sentirmi. E francamente, mi sono piaciuto. Tu che ne pensi?», domandò guardandomi con la coda dell'occhio. «Avrei potuto mostrargli il dito medio, ma diavolo, oggigiorno lo fanno tutti. Avrei potuto gridare una parolaccia, ma anche quella è una cosa che fa chiunque. E poi, reazioni simili mostrano soltanto rabbia. Io stavo cercando di rendermi utile», spiegò. «Gli ho detto di imparare a guidare. Era il mio dovere civico e io l'ho svolto», soggiunse con finto orgoglio. «E lei, avvocato, cos'ha fatto di recente per il suo paese?», domandò con un sorriso rubicondo. Lo ignorai e fissai gli edifici che sfilavano fuori dal finestrino. «Dove stiamo andando?». «C'è una persona che ti voglio presentare. Era uno dei responsabili delle indagini sull'omicidio Jeffries. Ha interrogato l'assassino. L'ha sentito confessare». Quando mi aveva chiamato, Flynn mi aveva anticipato che avrei dovuto
fare due chiacchiere con qualcuno che era informato sull'omicidio di Calvin Jeffries. Ma non mi aveva detto che era un poliziotto. «Ma so già tutto della confessione», replicai cercando di non mostrare la mia agitazione. «L'unica cosa che non so è se corrispondeva alla verità, e non lo saprò finché non conoscerò i risultati dell'esame del DNA». «Ho scordato di dirtelo. Il sangue sul coltello è quello di Jeffries». «Gli esami del DNA lo provano? Allora non serve altro. Avevi ragione tu. Chiunque sia stato a uccidere Griswald, si tratta di un imitatore». «Per questo ho pensato che avresti voluto parlare con questo tizio. La questione potrebbe non essere così semplice». «Non è stato un imitatore?». Tenendo gli occhi fissi sulla strada, Flynn scosse la testa. «No. Credo ancora che sia andata così. È l'omicidio di Jeffries a non essere così semplice». Eravamo usciti dalla città ed eravamo diretti a sud sull'autostrada. «Perché non lo vediamo alla stazione di polizia?». Flynn staccò la mano destra dal volante e si massaggiò la spalla muovendo la testa da parte a parte per stirarsi i muscoli del collo. «Non voleva essere costretto a spiegare come mai stesse parlando in privato con un penalista». Ero abbastanza sicuro di conoscere già la risposta alla mia successiva domanda, ma la feci comunque. «Come lo conosci?». Flynn scrollò le spalle. «Dagli incontri». Era così che faceva quasi tutte le sue conoscenze, gli incontri a cui partecipava, a volte sette sere alla settimana, in cui gli alcolisti raccontavano a turno la storia della loro dipendenza. Era sorprendente quanti avvocati, giudici e poliziotti frequentassero quegli incontri. O forse non lo era affatto. Quando arrivavo a conoscerle bene, molte delle persone che incontravo rivelavano di avere i loro problemi, che si trattasse di alcol, di droga, di figli difficili o di mogli infedeli. La follia esiste in tutte le forme e dimensioni. Pochi minuti dopo avevamo lasciato l'autostrada e avanzavamo lungo una strada stretta e tortuosa. Grossi cartelli dai colori vivaci, sostenuti da tergo da lunghe assi di legno, annunciavano un complesso residenziale dietro l'altro. Villette a due piani in diversi stadi di costruzione con tetti di assicelle di legno e facciate di pietra massiccia si ergevano così vicine l'una all'altra che sembravano invadersi a vicenda. Erano ovunque, su entrambi i lati della strada fin dove arrivava lo sguardo, nuove case per nuove fami-
glie con camere da letto per ciascuno dei bambini e garage abbastanza ampi da accogliere tutte le auto. La loro uniformità aveva un non so che di deprimente, e non fece che accrescere la mia irritazione. «Non potevi dirmelo?», chiesi mentre l'auto sobbalzava con violenza sull'ennesima cunetta. «Di che ti lamenti? Non trovi che sia una bella giornata per una gita in campagna?». «Non ho niente a che fare con il caso Jeffries». Non appena lo dissi feci una smorfia. Non ero coinvolto nel caso, ma nemmeno lo era Flynn, ed ero stato io a chiedergli di scoprire quello che poteva. Flynn non prestò attenzione alle mie parole, facendomi sentire ancora peggio. «Scusami», borbottai. Superammo l'ultima area edificata con la sua dozzina di vessilli rossi che sventolavano da una dozzina di pali bianchi, curvammo sotto i rami di una quercia e proseguimmo in aperta campagna. Dopo poco meno di un chilometro, Flynn svoltò in un vialetto di terra battuta che scendeva fino a una costruzione in stile ranch nei pressi di un fiume in fondo a cinque acri di terreno recintato. Al termine del vialetto, di fronte alla casa, un uomo stava spazzolando un vivace cavallo baio in un piccolo recinto accanto a una stalla con due box. Era sulla quarantina, con capelli scuri e corti con la scriminatura su un lato, e indossava jeans scuri e stivali. Non era molto alto, ma aveva spalle e braccia muscolose. Quando udì l'auto accarezzò il muso del cavallo, fece un passo indietro e gli diede una pacca sul fianco. Il cavallo sbuffò, scrollò la testa e si allontanò con un balzo sollevando una nuvola di polvere con gli zoccoli. L'amico di Flynn si chiuse il cancello del recinto alle spalle e attese che scendessimo dall'auto. Lo riconobbi immediatamente. Quando Flynn fece per presentarci, lo interruppi. «Il detective Stewart e io siamo vecchi amici». «Ma probabilmente è la prima volta che ci stringiamo la mano», osservò lui in tono amabile. Si muoveva lentamente, parlava piano ed emanava una sorta di reticente autorità che ti faceva pensare di poterti fidare di lui. «Ci siamo incontrati in diversi processi», spiegai a Flynn. «Diversi processi che preferirei non ricordare», commentò Stewart ridacchiando fra sé. «Prendiamo qualcosa da bere», soggiunse dandomi una pacca sulla spalla. Ci sedemmo a un tavolo di legno davanti alla casa, sorseggiando limonata. La brezza faceva ondeggiare i rami della quercia che ci sovrastava, e le
ombre si muovevano sulle nostre mani mentre parlavamo di quanto erano cambiate le cose e cercavamo di ricordare il primo processo in cui lui era un testimone d'accusa e io l'avvocato della difesa. Dopo qualche minuto vi fu un lungo silenzio. Guardai Stewart sul lato opposto del tavolo e attesi. «Howard mi ha detto che è interessato al caso Jeffries». «Sì, ma non sono sicuro del perché», ammisi. Stewart rise. «Se avesse sbattuto me in galera per oltraggio alla corte, sarei interessato al suo omicidio». C'era qualcuno che non era al corrente di ciò che mi aveva fatto Jeffries? Stewart lesse negli occhi la mia muta domanda. «Tutti pensavano che fosse un eroe, quando lo fece». «Non io». «Tutti i poliziotti», spiegò, anche se sapeva che non era necessario. Ero al corrente di cosa pensavano i poliziotti, o la maggior parte di loro, di noi penalisti. «Tutti i poliziotti che non avevano passato molto tempo nella sua aula», soggiunse. Mi rivolse un sorriso d'intesa, poi scosse il capo. «Mi dispiaceva per gli avvocati. Jeffries doveva essere l'uomo più malvagio del pianeta. È questo che rende così incomprensibile il suo omicidio». «Avrei pensato il contrario», dissi senza rifletterci. Poi capii che Stewart non parlava del fatto che Jeffries era stato ucciso, ma di qualcosa di molto diverso. «Con tutti quelli che lo odiavano e senza dubbio si auguravano che crepasse, è un po' strano che il suo assassino non avesse alcuna ragione di odiarlo». Rifletté sul significato di ciò che aveva appena detto, poi aggiunse: «Nessuna ragione che siamo riusciti a scoprire, quanto meno». «Sta dicendo che è stato veramente un omicidio casuale, una rapina che è degenerata?». Esitò, quindi scosse la testa. «No, non è stato casuale. Quell'uomo voleva uccidere Jeffries». Tradì un'altra esitazione. «O quanto meno voleva uccidere qualcuno. Lo aspettava nel garage, nascosto dietro la sua macchina». Eravamo seduti al sole del pomeriggio, circondati dall'odore di fieno e di cavalli, agitando ogni tanto le mani per scacciare qualche grossa mosca di passaggio, ma la nostra conversazione mostrava comunque i vizi tipici di un interrogatorio in aula: io, l'avvocato, scomponevo tutto ciò che lui, il testimone, diceva, allo scopo di formulare domande sempre nuove. «Era nascosto dietro l'auto di Jeffries. Sapeva che era la sua?». «Non lo so. Può essere stata una coincidenza. A quell'ora c'erano poche
altre macchine nel garage. Poteva essersi nascosto lì dietro per aspettare Jeffries, ma poteva anche essere in attesa della prima persona che passava». «Ma era la parte del garage in cui possono parcheggiare soltanto i dipendenti del tribunale, vero?». Stewart annuì. «Voleva uccidere un qualcuno che avesse a che fare con il tribunale, e da un paio di cose che ha detto sono abbastanza sicuro che volesse uccidere un giudice. Ma che volesse ammazzare proprio Jeffries...». Le parole gli si spensero sulle labbra, e il suo sguardo vagò sul piccolo recinto dove il suo cavallo stava sgranocchiando avena da un secchio. «Non aveva alcun motivo di farlo», disse di lì a poco. «Jeffries non l'aveva mai mandato in galera?», chiesi ripetendo il presupposto che era sembrato spiegare ogni cosa. «No, e se era mai stato nell'aula di Jeffries non ci era entrato da imputato. Questo lo sappiamo per certo». «Ma ha confessato. Non ha detto se intendeva uccidere proprio lui?». «Ha detto che intendeva uccidere chi ha ucciso». Stewart mi osservò, aspettando di vedere se prendevo la frase alla lettera come lui l'aveva intesa. «È quello che ha detto, quasi testualmente. "Intendevo uccidere chi ho ucciso". L'avrà detto una mezza dozzina di volte prima che cominciassi a chiedermi se aveva la minima idea di chi fosse la sua vittima». Con l'indice tracciò un volto sulla condensa che si era formata sulla caraffa piena di limonata e ghiaccio. «Non credo che sia stato lui», soggiunse ripercorrendo con cura il cerchio. «Ma ha appena detto che intendeva uccidere qualcuno, che fosse Jeffries o no». Il suo dito si fermò e i suoi occhi si alzarono dalla caraffa. «No, penso che l'abbia ucciso lui». «Pensa che l'abbia ucciso lui, ma crede che non sia stato lui?». Riprese a guardare il proprio dito che riprendeva a muoversi, allargando il tratteggio del volto fino a farlo scomparire. «Esatto», disse afferrando la caraffa e rabboccandoci i bicchieri. «È stato lui, ma non è stato lui». Quando ebbe finito di versare posò la caraffa su un lato del tavolo, al di fuori della sua portata. «Tutti gli elementi combaciano. Non c'è dubbio che è stato Whittaker a uccidere il giudice Jeffries. L'abbiamo trovato e lui ha confessato. Ha descritto ciò che aveva fatto nei dettagli: come impugnava il coltello, come ha atteso che Jeffries aprisse la portiera dell'auto, come gli si è avvicinato da dietro, l'ha afferrato per il collo e gli ha affondato il col-
tello nel ventre. Seguire la sua descrizione era come guardare un film: potevi vedere ogni cosa esattamente com'era accaduta». Inarcò le sopracciglia. «Era come se stesse guardando anche lui; come se guardasse se stesso, osservando ogni cosa e assicurandosi di non lasciarsi sfuggire niente. Ha descritto il modo in cui il coltello era penetrato nello stomaco di Jeffries fino all'impugnatura come se avesse fronteggiato la scena da spettatore, come se non avesse afferrato Jeffries da tergo. Ci ha rivelato dettagli che soltanto l'assassino poteva conoscere. E non è stato soltanto quello che ci ha detto: aveva il coltello. Non ha neanche cercato di nasconderlo. Di nasconderlo! Non aveva nemmeno cercato di pulirlo! Whittaker l'abbiamo trovato sotto il ponte di Morrison Street, era uno dei senzatetto che vivono lì. Era circondato, non aveva alcuna via di scampo, ma si è comportato come se ci stesse aspettando. C'era una dozzina di agenti con le armi spianate e puntate contro di lui, o meglio contro un gruppo di quattro o cinque senzatetto che si scaldavano intorno a un fuoco. Uno qualsiasi di loro avrebbe potuto corrispondere alla descrizione che ci aveva fornito l'informatore. E sa cos'ha fatto non appena si è sentito chiamare? Si è alzato, ha levato le braccia al cielo... e ha sorriso. Ha sorriso! Riesce a crederci? Era come se stesse aspettando che qualcuno lo trovasse... non come un fuggitivo, ma come un uomo che si era smarrito nel bosco e attendeva i soccorsi. Non appena gli agenti l'hanno ammanettato, ha rivelato dove avrebbero trovato il coltello. E loro non gli avevano chiesto niente. Ha indicato con un cenno del capo un lurido rotolo di coperte e lenzuola pochi passi più in là. "Il coltello è lì sotto". Così. È l'unica prova materiale che può collegarlo all'omicidio, e lui la consegna senza che gliel'abbiano nemmeno chiesta». Flynn, che era rimasto in silenzio fin da quando ci eravamo seduti, aveva una domanda. «Se era tanto ansioso di rendersi utile, perché non si era costituito?». «Non lo so, Howard. Niente di ciò che faceva era sensato. Forse era una componente del gioco». «Del gioco?», ripetei. Stewart accolse la domanda con un cenno del capo, un modo per rimandare la risposta. Una volta che aveva cominciato a seguire il filo di un ragionamento, non voleva perderlo. Flynn aveva la stessa abitudine, causata, suppongo, dal timore che se non si fossero concentrati su una cosa alla volta avrebbero potuto dimenticare un elemento importante così come se ne dimenticavano quando non facevano che pensare al prossimo bicchiere e a quello successivo.
«Tutti gli elementi combaciano. Whittaker aveva il coltello, e le sue impronte erano le uniche sull'impugnatura. Il sangue, adesso ne siamo sicuri, è quello di Jeffries. E lui stesso ha descritto l'omicidio dicendo cose che nessun altro avrebbe potuto sapere». «E poi si è ucciso», mi intromisi. Stewart mi scoccò un'occhiata strana. «Se crede a ciò che ha detto il tossico che occupava la cella di fronte alla sua». «Cosa sta suggerendo? Che non si è ucciso? Che qualcun altro...?». Divenne cauto. «Non sto suggerendo niente. Ma tutto ciò che sappiamo per certo è che Whittaker è stato trovato nella sua cella con la parte superiore del cranio sfondata, e che l'unico testimone oculare è un tossicomane capace a malapena di leggere e scrivere che non riesce nemmeno a ricordare quand'è stata l'ultima volta che ha detto la verità su qualcosa». «Sta dicendo che pensa che la polizia, o qualcun altro...?». Sollevò entrambe le mani e girò la testa di lato. «Non sto dicendo niente, ma è uno strano modo di uccidersi». Serrò la mandibola e batté i denti producendo un suono secco. «Il motivo stesso per cui mi sembra che in questo caso ci sia qualcosa di più strano che negli altri è già di per sé un mistero», soggiunse ragionando ad alta voce. Si sporse in avanti e posò le braccia conserte sul tavolo. «Ho interrogato migliaia di sospettati, ho ascoltato centinaia di confessioni, ma questa è stata diversa. Non aveva alcun rimorso. E non sto parlando soltanto di ciò che aveva fatto, del fatto che aveva ucciso un altro essere umano. Non aveva alcun rimorso, non provava alcun dispiacere per ciò che era successo: né per la cattura, né per la prigione, né per quella che doveva sapere sarebbe stata la sua sorte. Mi sono chiesto diverse volte se avesse già deciso di uccidersi - sempre che si sia veramente ucciso - mentre parlava con me. Era, o almeno sembrava, assolutamente indifferente a qualsiasi cosa. No, non è vero. Non era indifferente, non nel modo che normalmente intendiamo. Era contento. Sì, proprio così: contento, soddisfatto, direi quasi sereno. «Gli chiedevo perché l'aveva fatto, e lui rispondeva: "Non posso dirlo". Lo ripeteva ogni volta che glielo domandavo: "Non posso dirlo". Ma il significato sembrava cambiare. Non era chiaro se non sapesse perché l'aveva fatto oppure - e so che sembra incredibile, ma è quello che ho cominciato a pensare al momento - se si rendesse perfettamente conto del perché l'aveva fatto, ma per qualche ragione pensasse di non poterlo dire. «Non appena ho capito che le sue parole potevano essere interpretate in due modi, mi sono reso conto che lui lo sapeva e che le aveva scelte deli-
beratamente. E ho cominciato a osservarlo meglio. Sulle prime pensavo che stesse giocando con noi, che ci stesse prendendo in giro. Nello stanzino c'erano altri due detective, e ci davamo il cambio con le domande. La sua espressione di base non è mai cambiata; sempre la stessa aria soddisfatta, quella di qualcuno che sa qualcosa che tu ignori, qualcosa di così incredibilmente importante che gli dispiace non parlartene, qualcosa che sa benissimo che tu non riuscirai mai a capire da solo». Stewart si morse il labbro, socchiuse gli occhi e scosse il capo, sforzandosi di afferrare un pensiero così sfuggente che si allontanava sempre più ogni volta che era sicuro di averlo afferrato. Scrollò un'ultima volta la testa e si arrese. «Avevo già visto quell'espressione». Ruotò le spalle e indicò con il braccio le querce sparse attorno a noi. «Mia moglie adorava questo posto. Vent'anni fa era aperta campagna. C'erano soltanto alberi, prati verdi e il fiume. Potevi cavalcare per chilometri senza vedere una casa o un'automobile. Era un magnifico posto in cui vivere, perfetto per crescere i tuoi figli». Scambiò un'occhiata con Flynn. «Ma io cominciai a bere. Più bevevo, più lei si faceva coinvolgere dalla sua parrocchia. Io divenni un ubriacone, lei una cristiana rinata. Fu allora che vidi per la prima volta quell'espressione, sul volto di mia moglie: una specie di luce negli occhi. Non so se sia pace o gioia; ma di qualsiasi cosa si tratti, è lì, è reale, e una volta mi faceva diventare matto». Serrò i denti, mortificato al pensiero di ciò che era stato. «Feci cose orribili», soggiunse poco dopo. «Ma credo che avrei potuto ucciderla e che lei mi avrebbe comunque perdonato. Era proprio questo che mi faceva impazzire di rabbia, la sua assoluta certezza di conoscere la verità e il dispiacere che provava per la mia ignoranza. Era questo il tipo di espressione che aveva Whittaker». Si fermò, e come aveva fatto prima si morse il labbro, scosse la testa e socchiuse gli occhi. «Sapete come sono coloro che finiscono nelle maglie della giustizia: ottusi, cupi, apatici, stimolati soltanto dalla rabbia. Ma lui era diverso. Si muoveva molto, era vivace, pieno di vita. I suoi occhi non stavano mai fermi, continuavano a schizzare da una parte all'altra. La sua faccia aveva mille espressioni, tutte caratterizzate da quell'aria di... come dovrei chiamarla...? Allegria? Sembra strano definire così l'espressione di un assassino, ma era proprio questo. Non aveva alcun rimorso per ciò che aveva fatto e nessun timore di ciò che gli sarebbe accaduto. In questo senso, quanto meno, era come rinato anche lui, ripulito dai suoi peccati, sicuro che il paradiso lo aspettava a braccia aperte». Sondò il mio sguardo. «La
differenza è che sono convinto che non vedesse quello che aveva fatto a Jeffries come un peccato. Credo che fosse convinto di aver compiuto un gesto lodevole, qualcosa che aveva il dovere di fare. E le dirò un'altra cosa», soggiunse sollevando il mento. «Se non fosse morto in prigione, non sarebbe mai stato condannato». Ciò che sosteneva era irrazionale, non aveva alcuna logica, alcun senso. Gli rammentai quello che aveva appena finito di dirmi: la polizia aveva in mano una confessione e tutte le prove materiali di cui avrebbe avuto bisogno un pubblico ministero. Gli occhi di Stewart brillarono di una nuova luce. C'era qualcosa che non mi aveva ancora detto. Ripensai alle sue parole iniziali, quell'osservazione apparentemente paradossale sul fatto che l'assassino fosse colpevole e allo stesso tempo non colpevole. Flynn spostò il suo sguardo da me al suo amico. «Digli dell'altro omicidio». «L'altro omicidio?», ripetei. Stewart annuì. «Non era la prima volta che uccideva; Jeffries non è stato la sua prima vittima». Ero confuso. Quell'ultima informazione sembrava fornire il movente che Stewart sosteneva di non essere riuscito a trovare. «È sicuro, assolutamente sicuro che non era stato Jeffries a mandarlo in prigione per il primo omicidio?». Stewart mi rivolse un'occhiata inespressiva. «Non era mai andato in prigione», disse in tono pacato. «Aveva ucciso ma non era mai stato in prigione?», domandai con aria scettica. «Quando aveva diciotto anni aveva ucciso suo padre. Il padre era un ubriacone», disse Stewart scambiando un'altra occhiata con Flynn. «E quando si ubriacava di brutto prendeva a botte la moglie, la madre del ragazzo. L'aveva spedita all'ospedale un paio di volte. Una sera il ragazzo tornò a casa, lo trovò che la massacrava a suon di calci e lo uccise. Ma non si limitò a farlo fuori. Gli fece quello che il padre aveva fatto a lei, lo pestò a sangue. Poi, quando era ormai a terra e quasi privo di sensi, cominciò a sfondargli la faccia a calci. Quando finì, della faccia non era rimasto un bel niente. «Lo accusarono di omicidio colposo e fecero una perizia psichiatrica. Qualcosa in lui si era spezzato, non si sa se per quello che aveva visto fare da suo padre o per quello che lui stesso gli aveva fatto. Qualunque fosse la
causa, non era idoneo a subire un processo». Sapevo già com'era finita. «Lo rinchiusero nel manicomio criminale. Quando ne è uscito?». «Poche settimane prima dell'omicidio. È fuggito. Sarebbe venuto fuori tutto, naturalmente. Ma quando è morto in prigione, è sembrato inutile far sapere al mondo che Jeffries era stato ucciso da un paziente dell'ospedale psichiatrico». «Quanti ne sono al corrente?», domandai. «Soltanto un paio di noi. Quando l'abbiamo arrestato non lo sapevamo, e quando siamo riusciti a confrontare le sue impronte e controllare i suoi precedenti, Whittaker era già morto. L'indagine si era conclusa». «Ma siete sicuri che sia stato lui? Non può aver confessato un delitto che non ha commesso? Le prove materiali potrebbero essere state inserite sulla scena, e se era davvero così folle...». «No», rispose Stewart con enfasi. «Ci ha descritto il modo in cui l'ha ucciso. Soltanto l'assassino poteva saperlo. Sono dettagli che non abbiamo mai diffuso». «Jeffries è stato pugnalato», dissi, ripetendo ciò che tutti sapevano per averlo letto sul giornale. «Pugnalato e poi sventrato». Non riuscivo a crederci. «Mi sta dicendo che Jeffries è riuscito a tornare strisciando nel suo ufficio con le budella fuori?». Terminammo la limonata e ci salutammo. Mentre ce ne andavamo, mi voltai e vidi Stewart che accarezzava il muso del cavallo e lo conduceva nella stalla. «Che ne è stato di sua moglie?», chiesi a Flynn mentre sobbalzavamo sul vialetto e ci immettevamo sulla strada. «Non lo so. L'ha lasciato molto tempo fa. Ha preso i figli e se n'è andata. Lui ha smesso di bere subito dopo». Passammo accanto allo stesso complesso residenziale che avevamo visto all'andata e agli stessi cartelli dai colori vivaci, alcuni dei quali ritraevano famiglie felici in procinto di impossessarsi della loro fetta di sogno americano. «Dimmi una cosa», ripresi mentre Flynn fissava la strada davanti a sé. «Credi che Elliott Winston apprezzerebbe l'ironia? Che dopo tutto quello che gli ha fatto, Calvin Jeffries sia stato ucciso da un paziente del manicomio?».
16 La morte di Quincy Griswald era stata in un certo senso la sfortunata imitazione della sua vita. Aveva trascorso anni sotto il dominio intellettuale di Calvin Jeffries, che gli rammentava di continuo le proprie manchevolezze di giudice e non gli permetteva mai di scordare quanto fosse modesta la sua mente. Finalmente liberato dal peso di quell'odioso confronto, era stato ucciso neanche due mesi dopo Jeffries. Se l'ordine fosse stato invertito, e Griswald fosse stato ucciso mentre Jeffries era ancora in vita, la ricerca del suo assassino sarebbe stata condotta sotto l'attento scrutinio dell'opinione pubblica e le richieste insistenti di ottenere dei risultati immediati. Invece, anche se nessuno era disposto a dirlo apertamente, dopo l'assassinio di un giudice la morte violenta di un altro non aveva niente di speciale. Anche nel modo in cui era morto, Quincy Griswald non era riuscito a sottrarsi all'ombra invadente di Calvin Jeffries. La stampa trattava il suo omicidio come il gesto di un imitatore, e io non avevo ragione di essere in disaccordo. I due erano stati uccisi allo stesso modo, o meglio nel modo in cui la polizia sosteneva pubblicamente che Jeffries fosse stato ucciso. Entrambi erano stati accoltellati a morte, ma Jeffries era stato anche sventrato. La somiglianza fra i due delitti era troppo netta per essere accidentale, e le differenze troppo marcate per corroborare l'ipotesi che entrambi fossero opera di cospiratori che si erano dati il cambio in una guerra privata contro la magistratura. Sembrava chiaro che chiunque avesse ucciso Griswald aveva saputo dell'omicidio di Jeffries e per ragioni tutte sue aveva deciso di agire allo stesso modo. Non vi furono altre voci di possibili complotti, nessuna delle vaghe allusioni a nemici potenti che erano state fatte durante il primo omicidio di un giudice della corte dell'Oregon. La gente poteva tirare il fiato. Quincy Griswald era stato ucciso da un individuo privo di originalità, e Calvin Jeffries da un uomo che non contava nulla. Avrebbe potuto essere un gesto di violenza casuale che, potendo capitare a chiunque, non era più temibile di qualsiasi altro evento determinato dal caso. Si sarebbe potuto rivelare un po' più sconcertante se la gente avesse saputo che Jeffries era stato ammazzato da un malato di mente che aveva già ucciso in precedenza. Avrebbe potuto sollevare qualche interrogativo sulle modalità della sua fuga dall'ospedale psichiatrico. Avrebbe potuto suscitare qualche discussione su quanti dei senzatetto che dormivano nei vicoli e sotto i ponti, quante di quelle creature in rovina la cui presenza cercavamo in tutti i modi di igno-
rare, fossero state ricoverate in un ospedale psichiatrico a causa di un disturbo mentale o, ancora peggio, vi si sarebbero dovute trovare tuttora, invece di vagare per le strade senza che nessuno si prendesse cura di loro. Sotto un solo aspetto l'omicidio di Quincy Griswald ebbe un effetto più drammatico di quello di Calvin Jeffries. Finché a essere ucciso era stato un singolo giudice, l'evento era un'eccezione, qualcosa di unico che proprio a causa della sua straordinarietà non richiedeva alcuna seria modifica delle regole che governavano il palazzo di giustizia in cui la vittima lavorava e in cui era stata ammazzata. Ma l'assassinio di un secondo giudice significava che nessuno poteva sentirsi al sicuro. Quasi dalla sera al mattino, attorno al garage del tribunale venne eretta una rete d'acciaio e l'accesso venne consentito soltanto a chi aveva un lasciapassare ufficiale. Le misure di sicurezza vennero incrementate anche all'interno del palazzo. Chiunque vi entrava doveva svuotare le tasche, aprire le valigette e superare i metal detector. Guardie in uniforme pattugliavano i corridoi, e i piani a cui il pubblico non aveva diritto di accedere vennero isolati. Per la prima volta, quando uno sconosciuto entrava in un'aula lo notavano tutti. Gliela si poteva leggere negli occhi, quella paura improvvisa e dissimulata a malapena, il terrore che l'assassino di Quincy Griswald fosse tornato per fare altre vittime. Ci furono anche altri, più sottili cambiamenti. Il cancelliere che spuntò il mio nome dall'elenco di coloro che quel mattino dovevano presentarsi davanti alla corte mi guardò addirittura in faccia e mi salutò. Quando un vicesceriffo scortò in aula il mio cliente, incatenato ai polsi e alle caviglie, sembrava muoversi più lentamente del solito, come se avesse cessato di avere fretta. Il viceprocuratore distrettuale che era venuto a discutere la mia mozione di annullamento mi salutò con un cenno educato del capo quando presi posto al banco degli avvocati. Invitandomi a cominciare, il giudice aveva una voce calma, controllata, un mero sussurro nel silenzio grave dell'aula. Si trattava di una normale argomentazione su un punto in discussione delle leggi bizantine sulle perquisizioni e i sequestri, e mentre riassumevo ciò che avevo scritto nelle dieci pagine della mia interrogazione sapevo che il giudice l'avrebbe respinta, e sapevo che lo sapeva anche lui. La difesa presentava la mozione, l'accusa vi si opponeva e il giudice, dopo che entrambe le parti avevano consegnato i loro documenti scritti e svolto le loro argomentazioni orali, la respingeva. Era così che si metteva in moto la macchina legale grazie alla quale, magari di lì a cinque o sei anni, la Corte
Suprema degli Stati Uniti avrebbe potuto decidere che le leggi esistenti non erano valide, o che non lo era il modo in cui tali leggi erano state interpretate. Era ciò che teneva insieme l'intero sistema, questa consapevolezza che, nel centro di New York come in una ventosa, polverosa cittadina dell'Oregon orientale, nessuno avesse il potere del giudizio finale. Ti potevi appellare una volta, due volte, potevi andare avanti finché ne avevi la possibilità, una possibilità che ti si poteva presentare una volta sola nella vita, la possibilità di portare il tuo caso al cospetto dei nove giudici dell'unica corte di fronte alla quale non valeva alcun appello. Se prendevi seriamente il tuo lavoro, se prendevi seriamente te stesso, scrivevi ogni mozione e affrontavi ogni argomentazione orale come se fossi già al cospetto della Corte Suprema. Scattavi in piedi in un'aula vuota, di fronte a un giudice che a volte sospettavi non avesse nemmeno dato un'occhiata al documento che avevi presentato, un giudice che poteva esserti amico o nemico, qualcuno con cui avresti potuto giocare a carte nel tempo libero, e cominciavi sempre con le stesse parole: «Piaccia alla corte». L'udienza procedette come un orologio. Io presentai la mia richiesta, l'accusa la discusse e io risposi all'accusa. Il giudice non aveva domande; consegnando la cartella al suo cancelliere pronunciò in tono freddo e ponderato la frase che avevo sentito talmente spesso che mi si era ormai scolpita nella mente: «Dopo aver ascoltato le argomentazioni della difesa ed essere stata informata delle premesse, questa corte stabilisce che l'imputato non è riuscito a dimostrare il motivo per cui le prove a cui si allude debbano essere soppresse. La mozione è pertanto respinta». Raccolsi le mie carte, le feci scivolare nella valigetta e mi voltai rassegnato. Fu come cadere in una buca. Il peso che la mia mano avrebbe dovuto reggere non c'era. Un'estremità della maniglia di pelle si era strappata dalla valigetta e mi penzolava dalla mano come uno scalatore aggrappato a una corda. Mi chinai, raccolsi la valigetta e me la strinsi al fianco passando una mano sotto il fondo. «È stato molto bravo, signor Joseph Antonelli». Sapevo chi era ancora prima di guardare; era la voce che ascoltavo nel mezzo della notte quand'ero ancora giovane, la voce che ora riusciva a farmi ricordare cose che credevo di aver dimenticato. Seduta da sola alla fine della panca più vicina alla porta, Jennifer rise della sorpresa che non ero riuscito a nascondere. «Cosa ci fai qui?», chiesi mentre mi si avvicinava. Tenendo le mani davanti a sé e gli occhi a terra, fece scivolare prima un piede e poi l'altro con
un'espressione allegra sul volto. Rimasi a guardarla, chiedendomi quale furberia le stesse passando per la mente. «Quando sei tornata?». «Un paio di giorni fa», disse alzando gli occhi. Non appena mi guardò, la sua espressione mutò. «Che c'è? Perché fai quella faccia?», chiese inclinando il capo. «Stavo ripensando ai tormenti di insicurezza e sospetto che avrei passato - che ero solito passare - quando te ne andavi e non ti facevi sentire appena tornavi». Mi cinse un braccio con le dita e strinse dolcemente. Poi lasciò la presa, il sorriso da gatta tornò ad aprirsi sulle sue labbra e gli occhi ripresero la loro danza allegra. «Ti ho mai detto che prima ancora che tu mi chiedessi di uscire, prima ancora che ti accorgessi che esistevo, sognavo te, sognavo cosa fare perché tu mi notassi, perché ti mettessi con me e mi amassi come già sapevo che ti avrei amato?». Tornò a posarmi la mano sul braccio, strinse le dita e scosse la testa. «E io ti ho mai detto che facevo esattamente lo stesso, che sognavo cosa fare perché tu ti mettessi con me, perché ti innamorassi disperatamente come io ero innamorato di te?», chiesi. La porta laterale dell'aula si aprì e il cancelliere si affrettò a raccogliere qualcosa che aveva dimenticato sul suo banco. «Come facevi a sapere che ero qui?», domandai a Jennifer mentre uscivamo dall'aula. «Ti ho chiamato in ufficio e la tua segretaria mi ha detto che questa mattina eri in tribunale. Ho pensato che sarebbe stato divertente assistere». Mi passai la valigetta sotto l'altro braccio e le tenni la porta aperta. «È stato interessante. Sembravi cosi serio. Eri tu, ma non eri tu. È strano. Un tempo mi chiedevo come saresti stato da adulto, e adesso, osservandoti, continuo a pensare a com'eri da ragazzo». Cercando di trattenere il pensiero, Jennifer si fermò e si voltò verso di me. «Ti vedo com'eri, e poi comincio a vederti come sei adesso. Ti sembra sensato? Vederti allo stesso tempo in due modi, come se il tempo non fosse passato? Come se tu fossi sempre stato quello che eri e quello che sei?». Giunti all'esterno, ci fermammo indecisi alla luce della tarda mattinata. «Ho parcheggiato in fondo alla strada», disse lei. «Non devo tornare subito in ufficio», risposi. «Voglio dire, se hai tempo», soggiunsi dopo una pausa imbarazzata. Cominciammo a passeggiare senza una meta precisa. La mia mano sfiorava la sua, e una o due volte Jennifer mi afferrò la manica della giacca, ti-
randola dolcemente per sottolineare un punto. Passammo davanti a un caffè, notammo che era semideserto e senza dirci una parola entrammo e prendemmo posto in un séparé sul retro. Una cameriera dalle spalle curve e dallo sguardo opaco prese le nostre brevi ordinazioni contraendo un angolo della bocca. Senza dire una parola, lo sguardo fisso nel vuoto, tornò con due tazze color sabbia e una caffettiera sporca di grasso. Posò le tazze una accanto all'altra sul bordo del tavolo, le riempì e se ne andò con la caffettiera senza spostarle. Incrociai gli occhi e feci una smorfia spostando una tazza verso Jennifer e facendo scivolare l'altra verso di me. Lei cominciò a ridere, poi si coprì la bocca con una mano. Bevvi un sorso di caffè e posai la tazza. Aveva un sapore stantio e amaro, e avrei voluto riportarlo al banco e chiederne un altro più fresco. Jennifer mi posò la mano sul polso. «Va bene così», disse dopo averne bevuto un sorso. «Non è male». Scossi la testa per esprimere il mio dissenso, scostai la tazza e appoggiai i gomiti sul tavolo. «Come sta tua madre?». «Bene. Le ho detto che ci siamo visti». Esitò, divertita da qualcosa. «Le ho raccontato il nostro primo appuntamento, e quello che mi dicesti quando mi accompagnasti a casa». Tenne lo sguardo su di me voltando leggermente la testa. «Ha detto che la prossima volta che avessi voluto invitarti a passare la notte da me non avrei dovuto chiederle il permesso». Il suo sguardo s'illuminò per un istante, poi si abbassò sulla mano che mescolava la panna nel caffè. «E tu cos'hai fatto mentre ero via?». «Niente di speciale. La sera che siamo usciti a cena e te ne sei dovuta andare presto mi sono ubriacato al punto che ho dovuto chiedere aiuto a qualcuno. Howard Flynn, un amico che ha una sua storia alle spalle, mi ha accompagnato a casa, mi ha messo a letto e il mattino dopo è venuto a prendermi e mi ha accompagnato in ufficio». «Ti sei ubriacato?», chiese Jennifer con una scintilla di allarme negli occhi. «Ci sono andato vicino. Per la prima volta in tanti anni». «Ma perché?». Da qualche parte, sotto la superficie della mia coscienza, conoscevo la risposta, ma non ero pronto a esprimerla a parole e non sapevo se lo sarei mai stato. Dopo tutto quel tempo, una vita, Jennifer era tornata, e cose che io credevo morte erano rinate. Quanto meno mi sembrava che lo fossero, oppure stavo soltanto immaginando che non era cambiato nulla, che l'amavo ancora perché l'avevo amata allora, tanti anni prima, quando credevo
che non l'avrei più rivista e che la mia vita fosse finita? Quella sera a cena mi era sembrato di innamorarmi di lei come la prima volta, ma poi, dopo che se n'era andata, avevo cominciato a chiedermi quanto di quel sentimento fosse dovuto a ciò che era già accaduto, alla sensazione che finalmente tutto sembrava dare un senso alle cose e un significato a un cuore spezzato. Se ci fossimo appena conosciuti, due estranei di mezz'età, ci sarebbe stata attrazione fra noi? Oppure avremmo entrambi goduto la reciproca compagnia senza preoccuparci troppo se ci saremmo rivisti? Non volevo parlarne. Era troppo complicato. «Non avevo intenzione di ubriacarmi», dissi con una scrollata di spalle. «È successo, tutto qui». Jennifer mi guardò negli occhi mentre un sorriso dolce e comprensivo le aleggiava sull'ampia bocca. «Non c'è problema, Joey. Non sei costretto a innamorarti di me». Il pensiero formulato a voce alta, formulato da lei, che potessi non amarla più mi diede una strana sensazione di vuoto, come se la stessi perdendo un'altra volta allo stesso modo in cui l'avevo già perduta. «No», insistetti con foga, «non è questo. Io sono innamorato di te. È solo che non lo capisco del tutto». Per qualche istante non dicemmo nulla. Restammo lì seduti, vedendoci come eravamo un tempo, come nessun altro ci aveva mai visti, e in quel momento capimmo che qualsiasi altra cosa fosse successa, c'era una parte di noi che non era mai cambiata. Poi cominciai a parlare, ma non di noi. Le dissi ciò che avevo fatto mentre era via. Le raccontai la mia visita alla vedova di Calvin Jeffries e ciò che Jeffries, con il suo aiuto, aveva fatto a Elliott Winston. «È chiuso da dodici anni in manicomio?», chiese lei inorridita. «Ti ho detto cosa mi è successo. Sono rimasta sei mesi in ospedale, e non era un manicomio criminale ma una clinica privata in cui ognuno è molto discreto e ha una sua camera privata». Scosse il capo. «Ma dodici anni! In un posto simile!». La sua voce divenne chiara e tranquilla. «Dopo un po' cominci a cambiare», proseguì. «Anche quando ci rimani per un periodo relativamente breve. Sulle prime non te ne accorgi, e forse se resti dentro per un lungo periodo non te ne rendi mai conto. Hai il tuo particolare problema, il problema che ti ha portato lì, ma anche tutti quelli che ti circondano, tutti gli altri pazienti, hanno i loro problemi. Fra te e gli altri non c'è la stessa differenza che ci sarebbe fuori. Ognuno ha un disturbo mentale, e cominci a vederlo come il normale stato delle cose».
Per quanto mi sforzassi di evitarlo, continuavo a vederla com'era un tempo. Mi era quasi impossibile pensare che fosse stata ricoverata per una depressione. Invece di scavare in ciò che aveva detto, invece di farle domande su quello che vedeva come il significato ambiguo di normalità, rifiutai l'idea che fosse stata gravemente malata. «Ma adesso stai bene. Elliott Winston, invece, probabilmente non guarirà mai». Jennifer fece per dire qualcosa, sembrò ripensarci e si rifugiò in un sorriso di circostanza. Per qualche istante sorseggiò il suo caffè, poi mi chiese come avevo trascorso il fine settimana. «Niente di speciale. Sabato mattina sono andato in ufficio, poi ho giocato a scacchi con un rifugiato politico russo il cui padre venne giustiziato da Stalin nel nome della Storia». Non era sicura che le stessi dicendo la verità. «Anatoly Chicherin è un libraio. Mi ha convinto a giocare a scacchi con lui, anche se non so il perché: potrei sfidarlo per i prossimi cent'anni senza mai vincere». «Suo padre è stato ucciso da Stalin?». Mi appoggiai alla parete e sollevai il ginocchio sul divanetto. «L'ironia è che Anatoly è diventato un pubblico ministero. Se n'è andato quando l'Unione Sovietica si è autodistrutta. Gli piace parlare di casi penali. È così che abbiamo fatto amicizia. È affascinato dal nostro sistema». Tamburellai con le dita sul tavolo, osservando il modo in cui Jennifer non distoglieva gli occhi da me. «Ci considera dei pazzi. Dice che qui tutti vogliono vincere, che a nessuno interessa la giustizia. Sostiene di non aver mai incriminato un sospettato se non era assolutamente sicuro della sua colpevolezza. Te l'immagini? Operava nel sistema giudiziario più corrotto del mondo, e non voleva saperne di incriminare qualcuno se pensava che esistesse la minima possibilità di innocenza». Mi stavo facendo bello, parlando di cose importanti, pur sapendo perfettamente che la cosa non avrebbe avuto alcun effetto, che non avrebbe cambiato nulla. Che parlassi, che restassi zitto, che dicessi qualcosa di vagamente interessante o che facessi la figura dell'idiota, il modo in cui lei mi guardava non sarebbe cambiato. «Sabato è stata la prima volta che mi ha detto di suo padre. Stavamo parlando dell'omicidio Jeffries. Venerdì sera è stato ucciso un altro giudice, Quincy Griswald, e ritenevo possibile che l'assassino fosse lo stesso». «E adesso non lo pensi più?».
«No. L'uomo che hanno arrestato per l'omicidio di Jeffries era colpevole, ma per un po' non ne sono stato sicuro. Cercavo di capire come qualcuno potesse uccidersi per qualcosa che non aveva fatto. È stato questo che ha portato Anatoly a parlarmi di suo padre». Abbassai gli occhi sul tavolo e li risollevai lentamente. «Mi guardi come un tempo». Si illuminò in volto. «Bene. Dimmi di suo padre». Tesi la gamba, sollevai l'altro ginocchio e lo afferrai fra le dita intrecciate. «Suo padre credeva nel comunismo. Ma voleva anche proteggere la sua famiglia. Venne accusato di tradimento. Era una falsa accusa, ma lui confessò pur sapendo che si trattava di una condanna a morte. In effetti fu un suicidio, e lo fece a causa di ciò che credeva e di coloro che voleva proteggere». Volsi la testa verso di lei e un attimo dopo mi drizzai a sedere e mi sporsi in avanti. «Un terrorista arabo si lancia contro un edificio con un camion carico di esplosivi e si fa saltare in aria. Noi pensiamo che sia pazzo, ma lui crede di morire per Allah e di andare in paradiso. Quanti cristiani vennero arsi vivi durante l'Inquisizione perché altri cristiani li giudicavano eretici? Gli atei morivano per il partito comunista perché credevano di agire nell'interesse del nuovo Dio, la Storia. Li consideriamo tutti pazzi, ma noi in cosa crediamo? Per cosa siamo disposti a morire?». «Una madre morirebbe per i propri figli», disse Jennifer con naturalezza. Ero sicuro che aveva ragione. Probabilmente spiegava come mai tutte le religioni fossero state fondate da uomini. Jennifer infilò la mano in tasca e ne estrasse una boccetta di plastica arancione. Con la precisione gestuale che viene dall'abitudine ne svitò il coperchio, si versò una capsula bianca sul palmo della mano, se la mise in bocca e la ingoiò con un sorso d'acqua. Non appena ebbe deglutito, riavvitò il cappuccio e rimise in borsa la boccetta. «Litio», spiegò. «Stamani mi sono scordata di prenderlo». Mi chiesi se l'avesse veramente dimenticato o se avesse deciso di aspettare per vedere come reagivo. Non era passato molto tempo da quando chi era affetto da una grave depressione veniva rinchiuso e passava il resto dei suoi giorni a fissare una parete, privato di qualsiasi volontà di muoversi o del potere di parlare. Ora mandavi giù una pillola e ti domandavi se la gente ti vedesse davvero alla stessa stregua di un diabetico che assume l'insulina oppure, nel profondo, pensasse che non saresti mai potuto guarire. Usciti dal caffè, Jennifer mi prese per mano mentre camminavamo verso la sua auto. Sembrava rilassata, perfettamente a suo agio, quasi fanciulle-
sca. Voltandosi verso di me, mi prese in giro per la valigetta che reggevo sottobraccio. «Ti ha mai detto nessuno», disse tendendo una mano davanti a me per dare un colpetto sul cuoio crepato, «che probabilmente te ne servirebbe una nuova?». «È l'unica che abbia mai avuto», risposi. «Insieme ne abbiamo passate di cotte e di crude». I suoi grandi occhi, tinti di giallo dal sole alto nel cielo, fecero la loro lieve danza, prendendosi gioco del mio rigido attaccamento alle abitudini. «Sì», replicò, «ma tu sei sopravvissuto». «La si può riparare», provai a insistere, ma lei si limitò a ridere. Proseguimmo tenendoci per mano, mescolandoci alla processione di corpi senza volto, un'altra coppia di mezz'età che non meritava l'attenzione di nessuno, un'anonima componente di una grande massa vorticante. «Qui», disse Jennifer in quel suo tono di voce sommesso e velato che pareva sempre sull'orlo di una risata. «Dove?», chiesi stupidamente, riemergendo bruscamente dai miei pensieri. Guardai gli edifici che ci circondavano, chiedendomi se Jennifer stesse parlando di loro o di qualcos'altro. «Qui», ripeté lei prendendosi gioco della confusione nel mio sguardo. «La mia macchina è qui». Eravamo davanti all'ingresso di un garage. Udimmo un colpo di clacson, e ci scostammo per lasciar passare una bionda riccioluta al volante di una Lexus. «Se vuoi ti accompagno in ufficio». Se fossi andato a piedi ci avrei impiegato meno del tempo necessario a uscire dal garage con la macchina. «Magnifico», risposi. Raggiungemmo la Porsche, e io osservai affascinato il modo in cui Jennifer aggrediva la rampa a spirale che scendeva in strada. I suoi occhi, vitrei per l'eccitazione, fissavano un punto appena davanti all'auto mentre le sue labbra si muovevano al ritmo silenzioso di un discorso segreto. «Hai ancora intenzione di morire come Isadora Duncan, con la sciarpa attorcigliata ai raggi della tua Bugatti?», chiesi seccamente quando superammo l'ultima curva e ci fermammo allo sportello della cassa. «No», rispose lei pagando. «Quella era una fantasia da scolaretta. Ormai sono cresciuta». Rivolse una rapida occhiata a sinistra e svoltò a destra. «Voglio morire a letto», soggiunse accelerando per evitare il semaforo rosso a un incrocio. «Di surmenage». Si fermò sul lato della strada opposto a quello del mio ufficio, appoggiò
una spalla al finestrino e sorrise. «Sono felice di essere venuta. Mi è piaciuto guardarti in tribunale». Aprii la portiera e feci per scendere. «Ti andrebbe di cenare insieme?», chiesi tornando a voltarmi verso di lei. Jennifer sorrise, e io seppi quale sarebbe stata la risposta, ma soprattutto seppi che ora la risposta non sarebbe mai cambiata. La guardai ripartire facendo stridere le gomme e allungando la mano fuori dal finestrino per un ultimo saluto. Attraversando di corsa la strada rammentai il passato, quando potevo correre all'infinito senza stancarmi e senza immaginare che mi sarei mai stancato. Quando entrai in ufficio, Helen mi stava aspettando. Mi seguì a passo di marcia, stringendo in mano un mucchietto di messaggi telefonici. «Prima che cominciamo», dissi lasciandomi cadere sulla mia sedia, «posso chiederti un favore?». Aprii la valigetta, ne tolsi il contenuto e gliela porsi. «Potresti farla riparare? Ha bisogno soltanto che le ricuciano il manico». Helen guardò la valigetta e poi me. «Sicuro di non volerne una nuova?». «Niente di importante?», domandai. «C'è una telefonata di Howard Flynn», rispose porgendomi i messaggi. Flynn rispose al primo squillo. «Stewart mi ha chiamato un'oretta fa. Ha pensato che forse saresti stato interessato. Hanno fatto un arresto per l'omicidio Griswald». «È stato gentile a chiamare», dissi chiedendomi come mai si fosse preso il disturbo. Se la notizia non era già stata resa pubblica, lo sarebbe stata entro la fine della giornata. «Non l'ha fatto per questo», soggiunse Flynn. «Immaginava che saresti stato interessato perché il tizio che hanno arrestato è un altro malato di mente». 17 John Smith, poiché era questo il nome con il quale lo conobbi, soffriva di una seria disfunzione mentale, ma non esisteva alcuna traccia ufficiale di un suo ricovero in un ospedale psichiatrico. Sarebbe stato sorprendente se si fosse trovata: John Smith non esisteva. Non risultava a nessun livello; non c'era nemmeno un certificato di nascita. Era stato trovato sotto un ponte, lo stesso dove era stato arrestato l'assassino di Calvin Jeffries e dove viveva nello squallore di cartone di un accampamento di senzatetto. Quando la polizia era arrivata, Smith era accovacciato e stava scavando il terreno
con la punta di acciaio del coltello che si sarebbe rivelato l'arma che aveva ucciso Quincy Griswald. La polizia aveva estratto le pistole e gli aveva intimato di posarlo, e Smith si era alzato, se l'era stretto al petto e aveva ripetuto più volte una sola parola: «Mio». Non aveva opposto resistenza quando gliel'avevano tolto, ma non appena aveva smesso di stringerlo era scoppiato a piangere. L'avevano condotto alla stazione di polizia, e quando gli avevano chiesto se il coltello era suo lui aveva risposto allo stesso modo. Alla domanda se avesse ucciso Quincy Griswald, aveva borbottato la medesima parola. Gli avevano spiegato che si sarebbe sentito meglio ammettendo ciò che aveva fatto, ma lui non aveva dato alcun segno di aver capito. Soltanto quando gli avevano chiesto dove avesse preso il coltello nei suoi occhi era balenata una scintilla di riconoscimento e dalle sue labbra era uscito qualcosa di simile a una risposta chiara: «Billy». Tutto qui. Soltanto quel nome. Nessun cognome, nessuna descrizione dello sconosciuto, nessun dettaglio sul dove o sul perché gli avesse dato il coltello. La polizia aveva trovato Smith nel luogo indicato da un informatore anonimo, e aveva recuperato l'arma del delitto. Non aveva una confessione, ma si convinse rapidamente di non averne bisogno, visto oltretutto che il sospettato era talmente fuori di sé che la sua deposizione non avrebbe mai retto in tribunale. Quello che nell'assassino di Calvin Jeffries non era stato così palese era impossibile da ignorare in quello di Quincy Griswald: quell'uomo era un senzatetto ed era un folle. Non confessava perché non ricordava. Non riusciva a ricordare nulla, nemmeno il proprio nome. Il fatto che rammentasse il nome, e apparentemente nient'altro, di colui che gli aveva dato il coltello era il genere di contraddizione che serviva soltanto a sottolineare i meccanismi irrazionali di quel poco di cervello che gli restava. L'unico a nutrire seri dubbi sulla sua colpevolezza era il detective Stewart, il quale si tenne per sé la propria opinione. La confidò soltanto a Flynn, chiedendogli di mettermene al corrente. La sera dopo ero seduto al volante della mia auto. Sul lato opposto della strada c'era un edificio di mattoni a un piano accanto a un magazzino sulla riva orientale del fiume. Qualche minuto dopo la porta si aprì e Flynn e Stewart apparvero in una foschia giallastra e uscirono dalla sala affollata e piena di fumo. Tirando boccate dalle loro sigarette, salirono sull'auto di Flynn e mi fecero segno di seguirli. Ci fermammo un paio di isolati più in là ed entrammo in una taverna. Un paio di vecchi e una vecchia sedevano ingobbiti al banco. Al tavolo da bi-
liardo sul davanti del locale, una donna dai capelli chiari come acqua dei piatti e dai vacui occhi azzurri passava il gessetto sulla punta di una stecca mentre un uomo con un sorriso compiaciuto sulle labbra e unti capelli neri raccoglieva le palle per un'altra partita. Nel locale aleggiava il tanfo inerte di birra stantia e nicotina. Ci sedemmo in uno dei séparé sul retro e ordinammo tre caffè. «Questo posto è orribile», dissi. Flynn scambiò un'occhiata con Stewart, seduto accanto a lui. «Veniamo sempre qui dopo un incontro». Fece ruotare la testa sul grosso collo come un ex pugile intento a seguire un combattimento sul ring. «Nel caso avessimo scordato com'è affascinante la vita che ci siamo lasciati dietro». «Io non sarei venuto in questo posto da ubriaco», replicai. «Dipende da quanto sei ubriaco», disse Flynn con la sicurezza di chi sapeva di cosa stava parlando. «Una volta mi sono ritrovato con un abito a tre pezzi, seduto per terra a parlare con dei tizi in un cantiere. Era lunedì mattina, e l'ultima cosa che ricordavo era successa venerdì sera. Certo che saresti venuto in questo posto da ubriaco. Avresti piantato la tenda all'ingresso aspettando che aprissero, grato di lasciarti dietro la luce del giorno e rientrare nel buio». Nell'istante in cui mi portavo la tazza di caffè alle labbra, uno schianto secco e sonoro mi colpì l'orecchio con una forza tale che chinai il capo e posai la tazza sul tavolo. «Cosa...?». «Stronza!», gridò una voce in tono ardente. Flynn scosse il capo e alzò gli occhi al cielo, poi guardò Stewart. «Non ci sono andato io, l'ultima volta?». Stewart scrollò le spalle. «Sei più vicino». «Cristo», borbottò Flynn alzandosi dal suo posto in fondo al séparé. Mi voltai e lo seguii con lo sguardo mentre si avvicinava al tavolo da biliardo. L'uomo aveva afferrato la donna per il collo e l'aveva immobilizzata contro il muro, coprendola di insulti e brandendo la stecca con la mano libera. «Lasciala andare e metti giù la stecca», gli ordinò Flynn in tono irritato. Senza togliere la mano dal collo della donna, l'uomo si voltò, ritrasse le labbra in un sorriso omicida e ringhiò con fare incredulo: «Hai intenzione di fare qualcosa, vecchio?». «Ho intenzione di farti un culo così, ecco cos'ho intenzione di fare». Con un unico movimento, l'uomo proiettò la donna da una parte, impugnò la stecca con entrambe le mani e la fece roteare con tutte le sue forze.
Ma Flynn aveva già fatto un mezzo passo avanti, e con una mano afferrò la stecca a mezz'aria. Ruotò di scatto il polso verso il basso e portò la stecca dietro le spalle dell'uomo fino a fargli mollare la presa, poi afferrò l'avversario per una spalla e per il cavallo dei pantaloni. Fece due rapidi passi e lo scagliò con tutte le sue forze contro la porta. Per un attimo l'uomo rimase immobile a terra, e temetti che Flynn l'avesse ucciso. Ma poi si mosse, e un istante dopo si mise in ginocchio. «Cosa vuoi fare, ammazzarlo?», gridò la donna spingendo via Flynn, inginocchiandosi e cingendo con un braccio le spalle del suo compagno, che un attimo prima era stato sul punto di sfondarle la trachea. Sistemandosi la giacca, Flynn tornò al nostro tavolo. «Un tempo non era una porta oscillante?», domandò scivolando sul divanetto accanto a Stewart. «Sei un vanto per la nobile razza irlandese», dissi. «Vai ancora in giro a salvare le damigelle in pericolo». Abbassò il mento e alzò gli occhi. «Non mi sembra il tipo della damigella. Me ne sarei dovuto fregare». Stewart rise. «No, hai fatto la cosa giusta. Se non fossi intervenuto, lei l'avrebbe ammazzato». «Ma perché stavano litigando?», chiesi. Reggendo la tazza con entrambe le mani, Flynn sorseggiò il suo caffè. «Non lo so. Forse lei gli aveva scolato la birra mentre lui stava tirando il suo colpo». Il suo volto aveva un'espressione ironica. «Può essere una cosa seria, togliere da bere a un ubriacone». All'improvviso la gamba riprese a farmi male. Abbassai la mano e la massaggiai. La fitta di dolore si placò, rimpiazzata da un sordo indolenzimento. Presto anche quello scomparve, e io mi ritrovai a chiedermi quanto di quel dolore fosse vero e quanto invece fosse frutto della mia immaginazione, un fenomeno sul quale il mio controllo cominciava a sembrarmi scarso se non nullo. «Mi parli di questo John Smith», dissi a Stewart. «Non è convinto che sia stato lui a uccidere Griswald?». «Sono convinto che non sia stato lui», rispose. Esitò, poi aggiunse: «È solo una sensazione. Non ho alcuna prova». «Come la sensazione che ha provato nel caso di Whittaker?». «Non esattamente. Sapevo che Whittaker aveva ucciso Jeffries, ma semplicemente non capivo perché. Whittaker era pazzo, e non dimentichi che aveva già ucciso. Non c'era alcun dubbio che fosse capace di commettere
un omicidio. Ma non credo che John Smith, o qualunque sia il suo vero nome, sia in grado di far del male a nessuno». Rifletté su ciò che aveva appena detto. «Se si trovasse con le spalle al muro, o se fosse spaventato, forse allora potrebbe farlo. Ma non credo possibile che si sia messo in agguato e abbia ucciso qualcuno a coltellate», concluse scuotendo la testa. Sembrava sicuro di sé, ma dalla sua espressione si capiva che c'era dell'altro, qualcosa di cui non era altrettanto certo. «Non è il mio caso», spiegò. «Ma da quando l'assassino di Jeffries si è ucciso, se è quello che ha fatto», soggiunse suggerendo di nuovo la possibilità che non si fosse trattato affatto di suicidio, «continuo a chiedermi cosa l'abbia portato a farlo. Quando ho saputo che era stato effettuato un arresto per il secondo omicidio e che tutto sembrava essersi svolto allo stesso modo, dalla telefonata anonima al fatto che il sospettato era un altro senzatetto che viveva sotto lo stesso ponte, dal coltello al fatto che era ancora in suo possesso, ho voluto controllare se ci fosse qualche altro collegamento fra i due omicidi o i due assassini. Per questo, quando l'hanno portato alla stazione, ho assistito al suo interrogatorio». Si passò lentamente un pollice sull'altro. La sua fronte era solcata da rughe lunghe e profonde. Le sue sopracciglia erano corrugate. Qualcosa gli aveva lasciato un cattivo sapore in bocca. «L'hanno portato nello stanzino e l'hanno fatto sedere. Aveva piovuto; Smith era fradicio, e le sue scarpe e la parte inferiore dei pantaloni erano incrostate di fango. Era lurido. Meglio non chiedersi quando fosse stata l'ultima volta che si era fatto un bagno; Dio solo sapeva quand'era stata l'ultima volta che si era cambiato. Indossava un vecchio cappotto verde oliva, logoro, lacero, ridotto a brandelli, e sotto un maglione che aveva più buchi che lana. Aveva capelli lunghi fino alle spalle e una barba incolta». Rabbrividì, e un'espressione di disgusto gli attraversò il volto. «Non potevo capire con esattezza quanti anni avesse, ma era giovane, probabilmente sotto la trentina, e aveva due occhi che posso soltanto definire innocenti. Quando lo guardavi, e lui ricambiava la tua occhiata, pareva che ti stesse chiedendo di dirgli cosa fare, che non avrebbe mai pensato di avere qualche ragione per non fidarsi di te. Sembrava indifeso. «È stato allora che l'ho notato, quando mi ha guardato con quegli occhioni infantili. Sulle prime credevo che il suo aspetto fosse dovuto al fatto che era fradicio. Quando l'avevano portato alla stazione, i capelli gli aderivano al cranio e la barba al volto. Ma adesso stava cominciando ad asciugarsi, e i capelli e la barba si tendevano all'infuori. E all'improvviso ho ca-
pito, abbiamo capito tutti: era pieno di pidocchi, di schifosi parassiti. Potevo soltanto immaginare, e al tempo stesso non volevo immaginarlo, cosa vivesse sotto i suoi vestiti. È stato come assistere a un'eruzione: i pidocchi sbucavano da tutte le parti ma lui continuava a rivolgerci la stessa occhiata di prima, priva di emozioni, priva di qualsiasi segno che sapesse di essere mangiato vivo da quell'indescrivibile infestazione. La cosa peggiore è che non credo che se ne rendesse conto; vi si era abituato, allo stesso modo in cui lei o io potremmo abituarci a qualche traccia di terra sotto le unghie dopo aver lavorato in giardino». «Cos'avete fatto?», domandai, sbalordito da ciò che aveva visto. «Ce ne siamo accorti tutti nello stesso momento, e abbiamo reagito tutti allo stesso modo. Siamo schizzati in piedi dal tavolo, temendo che alcuni di quegli esseri avessero già fatto in tempo a infestarci. Nessuno voleva toccarlo, e abbiamo cominciato a gesticolare come una banda di idioti in preda al panico, indicando la porta. Alla fine sono riusciti a portarlo fuori di lì e farlo arrivare alle docce in fondo al corridoio. L'hanno spogliato e hanno bruciato i suoi indumenti. L'hanno spidocchiato, l'hanno rasato e gli hanno tagliato i capelli. Ma prima di farlo, quando l'hanno visto nudo, hanno chiamato un dottore. Aveva le gambe e le natiche coperte di cicatrici. Erano bruciature di sigarette, ha detto il dottore, e probabilmente erano lì fin da quand'era bambino. Il giorno dopo è stato interrogato di nuovo». «Senza un avvocato?», domandai. Stewart alzò la testa. «Esatto. Gli era stato detto che ne aveva il diritto», soggiunse anticipando la mia successiva domanda. «Be', non esattamente». I suoi occhi sembrarono sgranarsi, il suo sguardo si ripiegò su se stesso. «Gli hanno recitato il cartoncino che portiamo tutti, gliel'hanno letto in quel loro tono piatto e inespressivo. Poi il detective ha messo giù il cartoncino, si è chinato verso di lui e gli ha posato una mano sul braccio. "Oppure preferisci parlare con me?", gli ha chiesto come se si stesse rivolgendo a un amico. È una vecchia tecnica». «E lui non ha voluto un avvocato?». Mi scoccò un'occhiata sarcastica. «Non sa nemmeno cos'è un avvocato. Avremmo dovuto capirlo fin dall'inizio, dal modo in cui parlava, dall'espressione del suo sguardo. Senza la barba, senza quei vestiti lerci, non potevi non vedere quello che era in realtà. Non erano più soltanto i suoi occhi. Lo vedevi dal modo in cui la bocca gli pendeva da una parte, dall'impaccio con cui si muoveva quando dava le sue risposte di una o due parole, da come queste gli uscivano dalle labbra: approssimative, strascicate, sen-
za una fine precisa. Il nostro sospettato, l'uomo che stamattina è stato accusato formalmente dell'omicidio del giudice Griswald, è un ritardato mentale, e Dio solo sa fino a che punto. Non ci sono cartelle cliniche. Non ha un'identità. Se gli hanno mai fatto un esame, di certo noi non lo sappiamo». Mi studiò per un istante socchiudendo gli occhi, poi li abbassò sulle proprie mani e riprese a passarsi un pollice sull'altro. «È una farsa», soggiunse senza alzare lo sguardo. «E io non posso farci niente. Ogni cosa è stata fatta secondo le regole. Smith aveva l'arma del delitto coperta dalle sue impronte, e viveva sotto il ponte.» La testa ancora china sulle proprie mani, alzò gli occhi su di me. «Sono le somiglianze. Un senzatetto malato di mente ha ucciso Jeffries con un coltello. Griswald viene assassinato a coltellate, e un altro senzatetto malato di mente è in possesso dell'arma. Non ha confessato, ma questo non è un problema perché si vede a occhio nudo che è così fuori di testa che potrebbe non ricordarsi ciò che ha fatto. Inoltre, questo è un problema altrui. La polizia ha fatto il suo lavoro. Ha trovato le prove e ha arrestato qualcuno. Gli ha letto i suoi diritti e l'ha portato in tribunale. È così che funziona il sistema, giusto? Saranno gli avvocati a districare la matassa». «Non c'è niente di cui preoccuparsi», osservò Flynn massaggiandosi il retro del grosso collo. «Avrà il miglior difensore d'ufficio che riusciranno a trovare», aggiunse con un'espressione ironica. «Probabilmente farà sì che si dichiari colpevole di due omicidi, tanto per sbarazzarsene prima». Appoggiai la testa sullo schienale del séparé, spostando lentamente lo sguardo avanti e indietro da Flynn a Stewart. Il loro era un complotto, ed entrambi sapevano che l'avevo finalmente capito. «Tutto quello che ti chiediamo», disse Flynn mentre il suo complice si concentrava sul cucchiaio con cui aveva cominciato a mescolare il caffè, «è di pensarci». «Pensarci?», ripetei con una risata. «Voi non volete che ci pensi. Volete che lo faccia». Flynn non si arrendeva mai. «Cos'hai da perdere? Perché fai l'avvocato, se non per casi come questo? Il ragazzo è ritardato, per l'amor del cielo; e quand'era piccolo qualcuno l'ha torturato per puro divertimento. Te l'immagini? Un bambino ritardato e qualcuno ha il coraggio di torturarlo!». Ingobbendosi sul tavolo, Flynn lo colpì tre volte con le dita tozze. «Vive sotto un ponte, è infestato dai pidocchi. Se non aiuti uno come lui, chi diavolo aiuti?».
Stewart teneva lo sguardo incollato sulla sua tazza, ipnotizzato dal movimento del cucchiaio. «Le darò una mano», disse. Cambiò direzione e cominciò a mescolare in senso antiorario. «Le procurerò tutto ciò che abbiamo». Smise di muovere la mano, e per un istante sembrò irrigidirsi. «Su entrambe le indagini», soggiunse guardandomi dritto negli occhi. «Non sta correndo un rischio?». Scosse il capo. «E allora? Lasci che le dica una cosa: io ero uno dei responsabili delle indagini sul caso Jeffries. C'erano troppe pressioni, troppa gente che aveva troppo da perdere. Non appena Whittaker ha confessato, non appena si è ucciso, tutti ne hanno approfittato per chiudere la pratica. Nessuno ha voluto andare più a fondo, nessuno ha voluto sentirne più parlare. Sappiamo chi è stato. Che differenza può fare il perché? Be', io voglio saperlo. Forse c'è un collegamento fra i due delitti. Forse Griswald non è stato ucciso da un semplice imitatore. L'unico modo in cui potremo saperlo è catturando l'assassino. Quel ragazzo è innocente. Vada a vederlo con i suoi occhi, e poi mi dica se pensa che possa aver ucciso qualcuno». Non accettai il caso; non accettai nemmeno di andare a vedere con i miei occhi, come si era espresso Stewart, se John Smith fosse capace di uccidere. Ciò che accettai di fare fu di parlare con il difensore d'ufficio a cui era stato assegnato il caso; e due giorni dopo, quando finalmente trovai un momento libero nella mia agenda, vi passai appena prima di mezzogiorno. Tenendo la cornetta incastrata fra il mento e la spalla, la telefonista alzò gli occhi su di me senza smettere di limarsi le unghie. «Aspetta un attimo», disse nel ricevitore. «Che caso ha detto?», domandò allungando la mano verso una sottile cartella grigia. Era giovane, sui diciannove o al massimo vent'anni, con lunghi capelli castani e occhi che non stavano mai fermi. Sul banco davanti a lei, una cannuccia imbrattata di rossetto sbucava da un bicchiere di Pepsi-Cola pieno di ghiaccio. Le dissi il nome dell'imputato e lei esitò il tempo sufficiente a decidere che ero serio. Il suo sguardo seguì il dito mentre scorreva un elenco scritto a mano di casi e degli avvocati che vi erano stati assegnati. «Lei penserà che potrebbero mettere tutto su un computer», osservò con una smorfia. Il dito si fermò. «William Taylor», disse alzando gli occhi. Agitò una mano mentre con l'altra riprendeva la cornetta. «Terza porta a sinistra». Percorsi un corridoio formato da cubicoli delle medesime dimensioni e
arredati in modo identico. Seduto alla scrivania in maniche di camicia e con la cravatta dal nodo allentato, William Taylor accartocciò un foglio, si appoggiò all'indietro e lo lanciò verso un cestino della carta straccia accanto a uno schedario sul lato opposto del suo stanzino. La pallina colpì il bordo del cestino e rimbalzò a terra. Taylor sospirò, si alzò da dietro la scrivania di metallo e la raccolse. Io ero in piedi sulla soglia dell'ufficio, a pochi passi di distanza, ma era come se fossi invisibile. Taylor tornò alla sua scrivania, si appoggiò all'indietro come prima e riprovò il tiro, con lo stesso risultato. «Il signor Taylor?», dissi mentre lui si chinava a raccogliere il pezzo di carta. Non mi guardò. «Sì?», chiese riprendendo la sua posizione e preparandosi a un altro tiro. «Ha un minuto?», domandai in tono paziente. Il foglio accartocciato rimbalzò dal lato dello schedario nel cestino, ma l'umore di Taylor non migliorò. Mi rivolse un'occhiata imbronciata e insolente. «Dipende», rispose aprendo il cassetto della sua scrivania e cominciando a rovistarvi. Era sulla trentina, alto e magro, con sottili capelli castani e una carnagione pallida. Aveva l'espressione arcigna di un moralista, di chi non sarebbe mai riuscito ad ammettere che tutto ciò su cui aveva una rigida opinione possedesse un lato nascosto. Era il genere di avvocato che va in crisi apoplettica per la pena di morte ma che di rado dimostra la stessa passione per un caso specifico. Decisi di ricominciare da capo. «Mi chiamo Joseph Antonelli. Sono interessato a un caso di cui si sta occupando. L'imputato si chiama John Smith». Continuò a rovistare nel cassetto. «So chi è. Perché le interessa?». Qualunque cosa cercasse, se stava effettivamente cercando qualcosa, finalmente ci rinunciò. «Lei non rappresenta quel poveraccio». Ero ancora in piedi sulla soglia dell'ufficio, deliberatamente ignorato. Taylor tese il braccio e agitò la mano verso la sedia davanti alla sua scrivania in un riluttante invito ad accomodarmi. «No, grazie. Non voglio farle perdere altro tempo. Cosa mi può dire di John Smith?». Il tono brusco della mia voce catturò la sua attenzione, ma non ottenne altro. «Non posso parlare di un cliente», rispose, sottintendendo che avrei dovuto avere abbastanza buonsenso da non chiederglielo. «Ascolti, signor...». Ruotai la testa finché riuscii a leggere il nome sulla
porta. «Signor Taylor. Voglio soltanto sapere se ha intenzione di affrontare il processo». Non mi avrebbe risposto finché non l'avessi fatto io. «Perché le interessa?», domandò con un tono di voce che grondava fatica. «Perché mi è stato chiesto di occuparmi del suo caso». «Credevo che fosse un senzatetto». «Ha qualche amico», fu la mia vaga risposta. «Ha qualche amico? È un senzatetto e ha amici che possono permettersi di pagarla?». Ne avevo avuto abbastanza. «Ci conosciamo? C'è qualche ragione per cui non le piaccio, oppure si rivolge in questo modo a chiunque?». La mia domanda non lo turbò. Si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo. Poco dopo si alzò, estrasse una cartella da uno schedario sull'angolo della scrivania e diede un'occhiata alla prima pagina. «Abbiamo presentato una dichiarazione di non colpevolezza», disse richiudendola. «Ma non si arriverà a un processo. Abbiamo ordinato una perizia psichiatrica. L'imputato non è in grado di affrontare un processo», disse con sicurezza. Si rilassò sulla sedia, accavallò le gambe e intrecciò le dita dietro la nuca. «Menomale che è matto», soggiunse con un'occhiata cinica. «È l'unica cosa che lo può salvare dalla pena di morte». «Dunque pensa che sia stato lui?». «Probabile», disse in tono indifferente. «Ma non ha importanza. Come le ho detto, ci sarà una perizia psichiatrica. Non si terrà alcun processo. L'imputato non può collaborare alla propria difesa», soggiunse usando la formula che fornisce uno dei criteri secondo i quali la corte valuta le capacità mentali di un imputato. Senza attendere un altro invito, mi sedetti di fronte a lui. «Lei sa cosa gli succederà a quel punto, non è vero?». I suoi occhi fiammeggiarono. «Affronto più casi io in una settimana che lei in un anno. Crede che non sappia cosa succederà? Cosa dovrebbe succedere? Quell'uomo non è responsabile delle proprie azioni. È un malato di mente. Dovrebbe essere ricoverato in ospedale, non rinchiuso nel braccio della morte!». «Ha parlato con lui?». «Con John Smith? Non gli si può parlare. È proprio questo che le sto dicendo. Non capisce niente. Non ha idea di quello che succede». «Ne sapeva abbastanza da dire ai poliziotti che qualcuno gli aveva dato il coltello».
Taylor si limitò a guardarmi, e a quel punto mi resi conto che era all'oscuro di tutto. A quanto pareva, la polizia non si era presa il disturbo di includere quel piccolo dettaglio nel rapporto. «Non lo sapeva, vero?». «Questo non cambia nulla. È incapace di intendere e di volere». «Ed è innocente. Crede davvero che un uomo innocente dovrebbe essere rinchiuso in manicomio per qualcosa che non ha fatto?». «Non è capace di intendere e di volere», ripeté lui. «E tutte le prove sono contro di lui. Se affrontasse un processo, verrebbe condannato. Non crede che starà meglio in un ospedale psichiatrico? E anche se venisse giudicato innocente, che cosa gli resterebbe? Altre notti sotto un ponte?». Mi alzai dalla sedia e guardai Taylor, chiedendomi se, viste le alternative, non avesse ragione lui. «Gli innocenti devono essere scagionati», risposi. «Se ha bisogno di aiuto, ci sono altri modi di ottenerlo». Prima che Taylor potesse chiedermi quali erano, mi udii annunciare una decisione che non sapevo di aver preso. «Mi occuperò del caso. Le farò avere l'ordine di sostituzione dal mio ufficio». Feci una pausa. «Sempre che le stia bene, ovviamente». Anche se avesse voluto tenerlo, non avrebbe potuto. Il difensore d'ufficio poteva soltanto difendere clienti che non erano in grado di avere un loro legale. Ma Taylor era lieto di sbarazzarsi di quel caso. Perdere non gli importava: i difensori d'ufficio c'erano abituati. Quello che gli importava, quello che non poteva sopportare, era la possibilità che un suo cliente potesse essere condannato a morte mentre avrebbe potuto trascorrere il resto della sua esistenza nel relativo conforto delle lenzuola candide e sicure di un manicomio. Era un rischio che non avrebbe mai corso; era un rischio che credeva fossi matto a correre per qualcun altro. 18 Jennifer si rifiutava di credere che il rischio esistesse; e anche se c'era, non vedeva altra scelta. «Se non è stato lui...», disse, lasciando che il pensiero si concludesse da solo mentre sondava il mio sguardo. Eravamo al bar del ristorante, in attesa di un tavolo. Jennifer sedeva su uno sgabello di pelle tenendo le gambe accavallate, l'orlo del suo vestito appena sopra il ginocchio. Io ero in piedi, imprigionato dalla gente che affollava il bar formando due o tre file davanti al banco. Jennifer disse qual-
cosa, ma il fracasso era così assordante che non la udii. Mi chinai verso di lei, e mentre lo facevo la sua morbida mano scivolò nella mia. Rideva con gli occhi. «Quand'è stata l'ultima volta che hai perso una causa?». Feci per rispondere, scordai cosa volevo dire e sentii il mio volto farsi inesplicabilmente rovente. «Stai arrossendo. Perfetto», disse lei stringendomi la mano con dolcezza. «Non è vero», risposi cercando di minimizzare. «Ti ho solo sbirciato sotto il vestito e mi sono eccitato». Arricciò il naso e scosse il capo. «Sei un tale bugiardo. Perché non lo ammetti? Sei arrossito». Mi guardò con la coda dell'occhio portandosi alla bocca il bicchiere di vino e bevendone un sorso. Avevamo vissuto due vite separate, eppure continuava a conoscermi meglio di chiunque altro. «Ero un bugiardo anche allora?», chiesi fingendo che fosse passato troppo tempo e che mi fossi dimenticato quasi tutto ciò che era successo. Jennifer scivolò giù dallo sgabello e mi prese per un braccio: il cameriere ci stava chiamando. «Ogni volta che ti dicevo di non farlo, e tu rispondevi che non lo eri?», mi sussurrò nell'orecchio. Il cameriere le scostò la sedia e io presi posto su quella di fronte. Mentre lui le porgeva il menu, dissi in tono noncurante: «Allora mentivamo entrambi, giusto?». Jennifer ringraziò il cameriere e aprì il menu. «Un tempo mi chiedevo come mai ci mettessi tanto a capirlo». Alzò gli occhi sui miei. «Lo stai facendo di nuovo», disse con uno sguardo innocente. «Stai diventando rosso». Il cameriere tornò e prese nota delle nostre ordinazioni. Jennifer sorseggiò il suo vino con aria pensierosa. «Che tipo è?». Posò il bicchiere sul tavolo. «L'hai visto oggi in prigione?». Ricominciai a spiegarle come avessi deciso di occuparmi del caso non appena avevo scoperto quanto poco avrebbe fatto il difensore d'ufficio, ma lei non mi ascoltava. «Un tempo pensavo che sarebbe accaduto a me», disse. Mi stava guardando, ma i suoi pensieri erano rivolti a se stessa. «Temevo che sarei diventata come quelli che vagano con lo sguardo perso nel vuoto, spingendo carrelli del supermercato con dentro tutto quello che possiedono, quelli che dormono sotto coperte ricavate dalle scatole di cartone». Il suo sguardo si rimise gradualmente a fuoco. «Da quanto vive in quelle condizioni? Senza
una casa?», domandò. «Davvero pensavi che sarebbe successo anche a te?», chiesi con una punta di scetticismo. «Credi che la gente nasca senza una casa?». «Sto cominciando a pensare che a John Smith sia successo proprio questo», dissi quasi come una divagazione. «No, non penso che la gente nasca senza una casa. Ma non credo nemmeno che molti di quelli che rimangono senza provengano dal ceto medio. Per la maggior parte sono alcolizzati, drogati, malati di mente, individui che dovrebbero essere in ospedale». «Come John Smith?». Scossi la testa. «Le condizioni di Smith non sono maniacali. Non sente voci». «Io le sentivo», ammise lei in tono pratico. «Forse non proprio nel modo che intendi tu. Credevo che le cose che venivano dette da gente che non conoscevo, per esempio i personaggi televisivi, avessero uno speciale significato soltanto per me». Cominciai a spiegare quale credevo fosse la differenza. «Non farlo», mi interruppe posandomi la mano sinistra sul polso. «Puoi fare tutte le distinzioni che vuoi, ma il fatto è che non vuoi credere che sia mai stata cosi malata». Alzò la testa e la volse prima da una parte e poi dall'altra. «Guardati intorno», soggiunse quando i suoi occhi tornarono sui miei. «E dimmi cosa vedi». Il ristorante era strapieno, con decine di persone pigiate davanti al bar. Gli uomini erano incravattati, le donne sfavillavano. «Tutti dipendono dal loro aspetto, da come si vestono, dalla macchina che guidano, dalla casa che possiedono. È così che giudichiamo il prossimo, è così che valutiamo noi stessi: a seconda del nostro successo, della nostra consapevolezza di ciò che ci succede attorno, del nostro essere pazzi oppure no». Mi fissò un altro istante, sfidandomi a smentirla. Poi, improvvisamente conscia della propria veemenza, si lasciò prendere dall'imbarazzo. «Scusami», aggiunse ridendo sommessamente di sé. «Non volevo fare un comizio». «È colpa mia», risposi. «Non avrei dovuto minimizzare tanto in fretta quello che dicevi. Ma mi riesce difficile pensare a te in quei termini...». «Come una malata di mente», continuò lei al posto mio. Il cameriere ci servì la cena, e per un po' parlammo del più e del meno. In realtà, ciò di cui parlavamo aveva poca importanza. L'unica cosa che
contava era il suono della sua voce. Era il suono di casa, del posto dove volevi tornare, del posto in cui, per quanto fossi stato lontano, eri sempre il benvenuto, eri sempre desiderato. «Non mi hai ancora risposto», disse Jennifer a metà della cena. Non sapevo cosa intendesse. «Riguardo al ragazzo, a John Smith. Che tipo è?». La domanda mi fece sorridere. Molti di coloro che comparivano come imputati nelle cause penali erano uomini dai venti ai trent'anni, ma per Jennifer chi aveva quell'età era ancora un ragazzo. «Ricordi come ci sentivamo quando un adulto, qualcuno dell'età dei nostri genitori, ci chiamava ragazzi? Una delle cose che ho imparato è che ogni generazione pensa che la precedente sia nata vecchia e incompetente e che la successiva morirà giovane e inesperta». Jennifer si sporse in avanti con un'espressione da uccellino sbalordito dipinta sul volto. «E una delle cose che ho imparato io è che ogni generazione pensa di avere inventato il sesso». Fece una pausa, e nei suoi occhi color bronzo si diffuse una luce maliziosa. «Si dà il caso che io sappia, tuttavia, che il sesso è stato inventato una tarda sera di agosto sul sedile posteriore di una Chevy mentre Johnny Mathis cantava "Chances Are" alla radio». Esitò di nuovo e si aprì in un candido sorriso. «E ho un testimone... a meno che non se ne sia dimenticato». «Ricordo la macchina», dissi vagamente. Jennifer alzò gli occhi su di me, aprì la bocca e mi scoccò un sorriso provocante. «Posso capire che te ne sia dimenticato. Finì prima ancora di cominciare». Levai le mani al cielo. «Prima di quella sera, in un certo senso era sempre finito prima di cominciare... per così dire». «Lo sapevo che ero la prima», disse ostentando un'aria trionfale. Poi, mentre ci guardavamo circondati da sconosciuti ma in qualche modo soli, il sorriso radioso si dissolse lentamente in un sorrisetto triste e agrodolce. «Vorrei tanto che tu fossi stata l'ultima», sussurrai con un sospiro. «Anch'io», disse lei con un'occhiata di smarrimento. «Avremmo avuto una bella vita, credo. So che sarei stata felice, se ti avessi sposato. Pensi che...?». Era l'unica cosa nella mia vita che avesse avuto un minimo di senso. Potevo quasi sentire come sarebbe stato trovarsi seduto lì con lei, in uno dei ristoranti più costosi della città, in occasione del suo compleanno, o del nostro anniversario, o soltanto perché, malgrado fossimo sposati da anni, lei era ancora la più bella donna che conoscevo.
Prima di rispondere la guardai un altro istante. «Conosci meglio di me la risposta», dissi alla fine. Jennifer abbassò gli occhi sulle proprie mani e si costrinse a sorridere. «Adesso», insistette drizzandosi a sedere e fingendo che andasse tutto bene, «parlami di John Smith». Esitai. In realtà non volevo parlare di John Smith. Volevo parlare di noi. Ma Jennifer scosse il capo. «Avanti». Esitai di nuovo, stavolta perché non sapevo bene da dove cominciare. «Ti fa venir voglia di credere all'intrinseca bontà degli esseri umani». Jennifer inclinò la testa. «E tu non ci credi?». «Che siamo nati innocenti e che è stata la civiltà a corromperci? No. Penso che molti individui nascano malvagi. Credo che Calvin Jeffries fosse uno di questi. Jeffries aveva una mente brillante ed era probabilmente il peggior essere umano che abbia mai conosciuto. John Smith è un ritardato mentale e non farebbe del male a nessuno. I suoi genitori, chiunque essi fossero, non l'hanno voluto, e chiunque l'abbia cresciuto gli ha inflitto torture volontarie e indescrivibili che devono avergli causato incredibili sofferenze». Feci per descrivere quello che gli era stato fatto, quello che potevamo capire che gli era stato fatto dalle cicatrici sul suo corpo, ma mi trattenni appena in tempo. «È stato trattato come un animale», dissi invece. «Hai mai conosciuto nessuno che ha fatto una cosa simile, che ha maltrattato un animale? A volte la povera bestia diventa feroce, altre volte terrorizzata e paurosa. È difficile capire il perché della differenza: forse è un fatto di natura. John Smith è esattamente questo: spaventato da chiunque, impaurito dalla propria ombra, e al tempo stesso muore dalla voglia di ricevere una gentilezza. Ti guarda con due occhioni da orfano, l'espressione bisognosa di un bambino innocente, e in questo hai ragione: non è che un ragazzo, un ragazzo che vorrebbe che qualcuno lo portasse a casa con sé. Quando pensi a cosa gli hanno fatto, ti fa soffrire ancora di più. Devono avergli fatto credere che fosse colpa sua, che la ragione di tutto era che lui non aveva fatto quello che doveva fare. Quanto dev'essersi sforzato di capire che cosa doveva fare; quanto difficile dev'essere stato cercare di comprendere il significato degli insulti che sicuramente gli gettavano addosso». «Dunque hai deciso», disse Jennifer. «Lo difenderai?». In un primo tempo credetti di udire la voce poco familiare della mia coscienza; poi ricordai che le parole che mi echeggiavano in testa erano una semplice variante di ciò che Howard Flynn mi aveva detto in faccia: «Se
non lo aiuto, a cosa servo?». Era il tipo di sentimento che Jennifer avrebbe di sicuro approvato, e una delle cose che non sembravano essere cambiate in tutti gli anni della sua assenza era il mio profondo desiderio della sua approvazione. Quando avevo diciott'anni, o diciannove, o ventuno, o ventidue, avrei pronunciato quelle parole, parole che qualcun altro mi aveva rivolto, e in presenza di Jennifer avrei creduto che dicessero la verità su di me. Sarei stato Clarence Darrow o Don Chisciotte o entrambi allo stesso tempo, a seconda di ciò che pensavo lei volesse da me. «È stato Howard Flynn a dirmelo», ammisi. «Cerca di essere la voce della mia coscienza». Jennifer posò il suo caffè e si pulì le labbra con il tovagliolo bianco. «Non stai accettando questo caso perché qualcun altro pensa che dovresti farlo. Lo stai accettando perché lo pensi tu». Porsi una carta di credito al cameriere, e quando si allontanò tornai a guardare Jennifer negli occhi carichi di aspettativa. «Lo sto accettando perché quel giovane difensore d'ufficio è un individuo imbarazzante». Stavo cercando di sembrare duro e cinico, e fallii così miseramente che scoppiai a ridere. «Lo sto prendendo per te, maledizione». «Per me?». «Sì. So cosa penseresti di me se non lo facessi». Mi guardò a lungo senza dire nulla. «Davvero?», domandò alla fine. Cercai di essere assolutamente sincero. «È possibile», ammisi scostandole la sedia. Fuori, nell'aria nebbiosa della sera, mi strinse il braccio con entrambe le mani mentre camminavamo lungo la strada. I suoi tacchi a spillo picchiettavano leggeri sul marciapiede, e i nostri fiati formavano bianche nuvole trasparenti nel buio. Le nostre fronti si sfioravano, e avevamo appena svoltato nella strada in cui avevamo parcheggiato quando all'improvviso un carrello di metallo comparve dal nulla e per poco non ci travolse. La mia mano scattò in avanti appena in tempo per afferrarlo. Tirai Jennifer dietro di me e mi feci da parte per far passare il carrello. Una vecchia, o quella che sembrava una vecchia, lo stava spingendo come se nulla fosse, come se non ci avesse visti. Indossava un lacero cappotto e una sciarpa verde di lana. Il suo volto era grasso e rosso, con due minuscole fessure al posto degli occhi e un naso carnoso e scentrato. Portava un berretto di lana calato fin sopra le orecchie e quelli che sembravano dei luridi bendaggi che le coprivano le mani ma le
lasciavano libere le dita. Teneva la bocca aperta, e quando ci passò accanto il suo respiro emise un raschio stridulo. Le mancava un incisivo, e da un neo appena sopra il labbro superiore crescevano tre lunghi peli bianchi. Il carrello era pieno di gonfi sacchi neri della spazzatura, ma non c'era modo di sapere se contenessero tutto ciò che possedeva o soltanto dei rottami che aveva raccolto per venderli o barattarli. Le rotelle posteriori erano difettose e ondeggiavano di lato mentre il carrello sferragliava nella notte. Presi Jennifer per mano e mi voltai per allontanarmi, ma lei si era immobilizzata. Poi, prima che potessi fare qualcosa, lasciò la presa e si mise a correre. Quando la raggiunsi, si era fermata accanto alla donna che ci aveva quasi travolti. Infilò la mano nella sua borsa e le porse una manciata di denaro. Gli occhi della vecchia non diedero alcun segno di riconoscimento; la loro espressione rimase velata, vacua, incapace di intendere. Jennifer le infilò il denaro nella tasca del cappotto, si fece da parte e la guardò allontanarsi. «Hai buon cuore», dissi mentre raggiungevamo la macchina. Mi guardò. «No. Solo brutti ricordi». Quando raggiunsi la portiera destra dell'auto il motore era già acceso, e la Porsche aveva cominciato a muoversi prima ancora che me la fossi chiusa dietro. «Di cosa credi che parlino?», chiese Jennifer, lo sguardo fisso sulla strada. «Vagano per le strade come se fossero in trance. Li hai mai osservati?», domandò scoccandomi un'occhiata. «Sembrano uniti, non trovi? Li vedi seduti tutti insieme sul marciapiede, in un vicolo, in un parco. È una comunità separata, forse addirittura una nazione separata. Cosa credi che si dicano?». Stringeva il volante con entrambe le mani e teneva la testa alta con un'espressione vibrante ed eccitata, quasi troppo vivace, come se anche ciò che li aveva ridotti in quelle condizioni non fosse del tutto normale. «Non sarebbe interessante se fossimo circondati da una vera e propria civiltà senza nemmeno saperlo? Una specie di universo parallelo che c'è e non c'è?». Abbassò il finestrino e sollevò il volto all'aria fresca della sera, che parve spazzar via l'ansia e l'eccitazione. Un sorriso sognante percorse la lunga curva della sua bocca dolce e triste. «Vuoi sentire un po' di musica?», chiese accendendo la radio. Non appena udì le note, il sorriso cominciò a danzarle sulle labbra e il suo sguardo tornò a ravvivarsi. Poi rise, nel modo in cui rideva quand'era una ragaz-
za e ancora non sapeva cosa significava essere infelici. Rideva, e io sapevo perché. «È un caso che tu abbia acceso la radio mentre Johnny Mathis cantava "Chances Are"?». Abbassò la mano fra i sedili. «Ho barato un po'», ammise estraendo la custodia di un CD. La risata si disperse nella notte e la scintilla nei suoi occhi divenne un bagliore caldo e luminoso. «È sabato sera», dissi mentre svoltavamo sulla strada che seguiva il corso del fiume al limitare della città. «Cosa vorresti fare?». «Niente», rispose assorta. «Stare con te. E tu, cosa vorresti fare?». «Sposarti». Non si voltò a guardarmi e la sua espressione non tradì alcun cambiamento al di là di un lieve tremore all'angolo della bocca. «Ti amo, Joey. Ti ho sempre amato. Ti amerò sempre». Non disse altro. Non disse sì, non disse no, e quando mi prese la mano non sembrava avere alcuna importanza. Viveva in un condominio in riva al fiume a meno di un chilometro dalla città. Avevamo appena chiuso la porta alle nostre spalle che me la ritrovai fra le braccia. Mi baciò sulla bocca, poi mi condusse per mano in salotto. Mise su della musica e si tolse le scarpe con un calcio. Uscimmo sul balcone e osservammo le luci della città riflesse sull'acqua nera del fiume, ascoltando i mille suoni che tambureggiavano nella notte di vetro e acciaio. Richiudemmo la porta scorrevole, tornammo in salotto e cominciammo a ballare abbracciati. Ci muovevamo lentamente al ritmo della musica, poi ancora più lenti. «È come la prima volta», mormorò Jennifer sollevando il volto verso il mio. Dormii fino a tardi, e al mio risveglio per qualche minuto credetti di essere ancora nel profondo del sonno. In un primo tempo non capii dove mi trovavo; poi, quando ricordai, mi chiesi se fossi stato abbandonato. Trovai i miei indumenti ordinatamente appoggiati sul bracciolo di una poltrona imbottita nell'angolo della camera da letto e mi infilai i pantaloni. Poi mi misi la camicia bianca, mi allacciai un bottone e arrotolai le maniche. Andai in bagno, mi lavai la faccia e cercai di fare qualcosa per i miei capelli. Entrai in salotto a piedi nudi e con la camicia fuori dai pantaloni e attraverso le tende di garza vidi Jennifer seduta sul balcone. Appoggiai una spalla alla porta a vetri e socchiusi gli occhi al sole. «Co-
sa stai leggendo?», chiesi. Jennifer posò il romanzo tascabile sul tavolo nero di metallo accanto alla tazza di caffè, si alzò dalla sdraio e mi baciò sulla guancia. «Vado a prenderti un caffè», disse ridendo del mio aspetto. Rimasi lì con la mia camicia spiegazzata e i miei pantaloni sgualciti, gli occhi cisposi e il volto non rasato, osservandola allontanarsi linda e fresca, vestita con una maglietta bianca di seta e un paio di pantaloncini il cui risvolto si allargava appena sopra le ginocchia sottili. Quando scomparve in cucina, uscii sul balcone e mi sedetti sull'altra sdraio di legno. Presi il libro che Jennifer stava leggendo e guardai la copertina. Una donna con un abito dalla scollatura generosa era semisvenuta, stretta alla vita sottile da un Mister Muscolo dai capelli più lunghi dei suoi. «Scommetto che in quella tua biblioteca non puoi trovare niente del genere», disse Jennifer porgendomi una tazza di caffè. «È bello?». Scoppiò a ridere. «Quello? No di certo. Ma temo di leggerne pochi, di bei libri. Lo faccio per evadere». Si sedette sull'orlo della sua sdraio, stringendo le ginocchia. Non riusciva a smettere di ridere. «Scusami, ma sembri uno che è stato sorpreso mentre cercava di uscire di soppiatto da una camera d'albergo». Si alzò, mi tolse di mano la tazza e mi tese la mano. «Vieni», ordinò. «Prendi il resto delle tue cose. Ti accompagno a casa a cambiarti e poi andiamo da qualche parte». «Dove?», domandai barcollandole dietro. «Da qualsiasi parte. Non ha importanza, è una bellissima giornata. Andiamo e basta». Mi accompagnò a casa e attese in biblioteca mentre mi cambiavo. Quando rientrai era seduta in poltrona, si era messa gli occhiali e studiava con attenzione le pagine di un volume rilegato in pelle. «Sicché se fossimo sposati», disse alzando gli occhi su di me, «ce ne staremmo qui seduti ogni sera, io a leggere i miei romanzi spazzatura e tu...». Tornò alla pagina del titolo. «Storia d'Italia di Francesco Guicciardini». «Devo ancora leggerlo», risposi prendendola per mano. «A scuola ho passato troppo tempo a correre dietro alle ragazze». «E da quel che so ne hai presa qualcuna». «Menzogne, tutte menzogne». Risalimmo sulla Porsche e Jennifer l'accese. «Sì», disse l'istante in cui calava il piede sull'acceleratore e l'auto sfrecciava giù dal vialetto e s'im-
metteva in strada. «Sì?», ripetei puntando la mano sul cruscotto. «Ti sposerò». «Quando?». «Fra un anno, se ancora vorrai». Dal momento in cui poche settimane prima si era presentata alla mia porta e dopo una vita eravamo tornati in gita sulla costa, ciò che volevo o non volevo erano diventate domande che non potevo più fare. Non avevo mai vissuto con qualcuno per più di pochi mesi di fila, e l'ultima volta che era successo avevo sofferto così tanto che l'idea di rifarlo non mi aveva mai sfiorato la mente. Poi Jennifer era apparsa sulla mia soglia, e prima ancora di raggiungere la costa mi ero reso conto che non era più una questione di scelte. Ora ci stavamo tornando. La capote era abbassata e il vento ci veniva incontro mentre l'auto sfrecciava a precedere il sole verso il mare a occidente. Incrociai le braccia sul petto, mi abbandonai sul sedile e chiusi gli occhi, e in quel momento capii con più chiarezza di quanta ne avessi mai avuta su qualsiasi altra cosa che lei mi apparteneva e che io appartenevo a lei. Non eravamo altro che due parti diverse della stessa persona. Era come se fossimo stati sposati fin dalla nascita. 19 Fu una semplice casualità. Uno qualsiasi fra una dozzina di viceprocuratori distrettuali avrebbe potuto vedersi assegnare il caso lo Stato contro John Smith. Malgrado tutta la pubblicità, malgrado gli opinionisti insistessero sul fatto che avrebbe dovuto essere il procuratore in persona a occuparsi del primo processo per omicidio in cui la vittima era un giudice della corte circoscrizionale, il processo venne trattato come un qualsiasi altro omicidio. Che la vittima fosse un senzatetto il cui corpo massacrato veniva trovato dietro i bidoni della spazzatura in un vicolo o un membro della magistratura di stato accoltellato a morte accanto alla sua auto, la macchina burocratica del sistema penale trattava tutti con la stessa rigida parità mortuaria. I casi della medesima categoria venivano assegnati a rotazione fra i viceprocuratori di quella divisione. Senza pensarci due volte, un anonimo cancelliere scrisse il nome di Cassandra Loescher, e con quel semplice gesto la rese famosa. Quando il procuratore distrettuale annunciò che sarebbe stata Cassandra Loescher a sostenere l'accusa contro l'assassino del giudice Quincy Gri-
swald, si profuse in tali lodi nei suoi confronti che sarebbe stato difficile dubitare che la Loescher fosse stata una sua scelta. Con l'innocente sincerità che aveva contribuito a farlo eleggere, la definì uno dei pubblici ministeri più esperti e preparati del suo ufficio. Fronteggiando le telecamere con un sorriso sicuro sul volto abbronzato, disse che era "un avvocato tenace e brillante che in aula se la sa sbrogliare", come se qualcuno avesse potuto pensare il contrario. Una rapida occhiata furtiva a un cartoncino venne seguita dall'osservazione che "nell'intero stato non ci sono più di tre o quattro procuratori in grado di uguagliare il suo novantasei per cento di condanne". Poi si voltò verso la donna che gli stava accanto con aria alquanto confusa, le strinse la mano, rivolse un ultimo sorriso e un ultimo saluto alla folla di giornalisti che invadeva il corridoio e si ritirò nel suo ufficio. Battendo le palpebre sotto le luci dei riflettori, Cassandra Loescher si ritrovò da sola a ripetere le solite insulse banalità che era troppo intelligente per non aver mai ridicolizzato sentendole pronunciare da altri. È sempre interessante il modo in cui le parole di cui ci prendiamo gioco quando provengono da altre labbra non sembrino più insincere quando siamo noi stessi a usarle. La Loescher era sincera nel dire che era determinata ad assicurare l'assassino alla giustizia; era sincera nel sostenere di avere la più profonda fiducia che la giuria avrebbe fatto la cosa giusta. Era ormai talmente convinta dell'importanza di un verdetto di colpevolezza nel processo contro John Smith che aveva probabilmente dimenticato il giorno in cui, sotto i miei occhi, aveva cercato di rispondere agli insulti di Quincy Griswald e poi se n'era uscita a passi rigidi dalla sua aula augurandogli di schiattare. L'occhiata che allora aveva scoccato a Griswald era la stessa che ora stava rivolgendo a me. Era infastidita dal dover ripetere la chiamata in giudizio con un nuovo avvocato, e ancora più irritata dal fatto che non eravamo puntuali. L'udienza era stata fissata per le dieci, ma ormai le dieci erano passate da sette minuti. La Loescher sedeva a uno dei due banchi riservati agli avvocati, tamburellando con le dita e facendo battere i denti, ascoltando i mormorii dei drappelli di giornalisti e spettatori sparsi sulle panche di legno che attraversavano l'aula dal soffitto basso alle nostre spalle. Il cancelliere entrò, fece due passi, si fermò e batté il piede a terra. «In piedi», ordinò. Trascinandosi dietro la sua lunga toga nera, il giudice Morris Bingham entrò a passo svelto nell'aula in cui, nel corso di una lunga permanenza in carica, aveva udito quasi ogni lamentela e ogni scusa che la sofferenza potesse creare o la doppiezza inventare. Sui cinquantacinque anni, con occhi
azzurri attenti e vivaci, Bingham aveva soltanto una sfumatura di grigio nei corti capelli castani. Malgrado non fosse un serio studioso della materia giuridica, aveva una mente lucida e il tipo di giudizio equilibrato che nasce dall'esperienza. Nessuno, nemmeno i criminali a cui a volte aveva dovuto comminare pene severe, si era mai lamentato del modo in cui Bingham l'aveva trattato. Era cortese, a volte fin troppo, ma i suoi modi impeccabili, un riflesso sincero della sua correttezza di base, gli fornivano anche una barriera contro qualsiasi eccessiva vicinanza. I legali che avevano a che fare con lui lo amavano senza conoscerlo; i giudici che lavoravano con lui non lo stimavano perché lui stesso non aveva alcun interesse a conoscerli. Non c'era alcun movimento sprecato in ciò che Bingham faceva, nessuna sensazione che avesse problemi di tempo. Si sedette, giunse le mani sul seggio, si sporse in avanti e si rivolse al viceprocuratore distrettuale. Con una semplice occhiata carica di aspettativa le fece capire ciò che voleva. «Siamo qui per il caso lo Stato contro John Smith, vostro onore». Bingham rivolse un'occhiata al vicesceriffo in piedi accanto alla porta laterale. L'agente capì. Senza distogliere gli occhi dal giudice, aprì la porta e chiamò il prigioniero. Quando John Smith comparve sulla soglia, gli posò una mano sul braccio e gli fece attraversare la sezione anteriore dell'aula. Imprigionato dalle catene, il giovane - il ragazzo - conosciuto soltanto come John Smith avanzò strascicando i piedi, tenendo i polsi ammanettati davanti al busto e ciondolando lentamente la testa. Quando mi giunse vicino, mi rivolse un'occhiata confusa. Avevo trascorso un'ora insieme a lui nel tardo pomeriggio di venerdì, soltanto tre giorni prima, ma non ero sicuro che se ne ricordasse. Il vicesceriffo lo condusse accanto a me e poi indietreggiò fino alla ringhiera di legno a qualche passo di distanza alle nostre spalle. Bingham mi guardò e inarcò le sopracciglia. «Vostro onore, il mio nome è Joseph Antonelli. Ho accettato di rappresentare l'imputato conosciuto come John Smith. Il signor Smith, come la corte sa, è già stato ufficialmente accusato di omicidio di primo grado. Al momento di tale chiamata in giudizio, il signor Smith era rappresentato da un difensore d'ufficio. È stata inoltrata una dichiarazione di non colpevolezza, la difesa ha richiesto un esame psichiatrico per determinare se il signor Smith fosse nelle condizioni di subire un processo e il caso è stato assegnato a questa corte per le ulteriori procedure legali». Si trattava di una di quelle comparizioni di routine che, pur essendo de-
testate e considerate uno spreco di tempo dalla maggior parte degli avvocati, erano fra le mie cose preferite. Mi sentivo come un attore che ha soltanto cinque battute ma che sa che sono importanti quanto tutte le altre. Ero in piedi con le spalle diritte e le mani intrecciate dietro la schiena, il busto leggermente piegato in avanti, le gambe divaricate. Pronunciai rapidamente le mie frasi, mi rizzai di scatto all'ultima parola, la lasciai echeggiare e poi ripresi. «Ho presentato alla corte un ordine di sostituzione, firmato dal precedente avvocato e da me. Con l'approvazione della corte, vorrei cominciare chiedendo il ritiro della richiesta di esame psichiatrico. L'imputato non desidera evitare il processo su queste basi. L'imputato, vostro onore, desidera stabilire una volta per tutte che è innocente, che chiunque abbia ucciso l'onorevole giudice Quincy Griswald è ancora a piede libero e...». Morris Bingham alzò il mento, e con quell'unico gesto mi interruppe. Avevo cominciato a esibirmi per i giornalisti e questo non l'avrebbe accettato. Trattenne un altro istante il suo sguardo su di me, e credetti di intravedervi qualcosa di simile a un sorriso. Poi si rivolse a Cassandra Loescher, che conosceva la domanda in anticipo e non aveva alcun dubbio sulla risposta. «L'accusa non ha obiezioni», disse non appena il giudice inarcò il sopracciglio. Con un rapido sorriso e un cenno del capo ancora più veloce, Bingham diede un'occhiata all'incartamento, lo chiuse e annuì una seconda volta. «Signor Smith», disse sporgendosi in avanti. Non udii alcuna risposta. Mi voltai e rimasi sorpreso nel vedere John Smith che guardava il seggio del giudice in attesa di udire ciò che questi aveva da dire. «Lei capisce cosa stiamo facendo in quest'aula?». Smith non disse nulla, ma la sua espressione era di profonda attenzione. Il giudice sembrava attirarlo in un modo che non avevo mai visto prima. Forse era il suono della voce di Bingham: sommessa, pacata, la voce di qualcuno di cui ti potevi fidare, di qualcuno che non ti avrebbe mai fatto del male. «Il signor Antonelli ha indicato di volerla rappresentare. Vuole che sia il suo avvocato, signor Smith?». Mi girai di novanta gradi per osservare meglio, sperando che Smith facesse qualcosa, desse qualche segno grazie al quale avremmo potuto soddisfare se non altro il requisito di base, che cioè l'imputato sapeva di essere
stato incriminato e di avere il diritto a essere rappresentato da un legale. Con mia profonda sorpresa, Smith rispose ad alta voce, con una singola parola di due lettere che parve allungarsi all'infinito, un lungo grido tremulo che fino alla fine non sapevi se avrebbe avuto la forza di concludere. Era come la prima vera parola di un bambino, pronunciata e subito dopo sottoposta all'approvazione degli adulti. Mordicchiandosi il labbro, Bingham fissò lui e poi me, come se ci fosse qualcosa che avrebbe voluto sapere. «Bene», disse subito dopo. «La precedente richiesta di perizia psichiatrica viene ritirata. C'è altro, signor Antonelli?». «Sì, vostro onore. Chiedo che l'imputato venga rilasciato dietro sua garanzia». Riscuotendosi di scatto, Cassandra Loescher balzò in piedi. «Vostro onore», farfugliò riuscendo a malapena a contenersi. «L'imputato è accusato di omicidio di primo grado. E anche se non lo fosse, non ha un lavoro, una famiglia, un legame con la comunità. In realtà, vostro onore», proseguì posandosi una mano sul fianco, «non ha nemmeno un nome. La polizia l'ha chiamato John Smith perché doveva dargliene uno. Hanno controllato le sue impronte, ma non è risultato niente. Non c'è alcuna documentazione. Non sappiamo chi sia, e se venisse rilasciato non ci sarebbe alcun modo di ritrovarlo». Mi rivolse un'occhiata e aggiunse in tono caustico: «Forse il signor Antonelli può dire alla corte chi è il suo cliente. Qualcuno l'ha incaricato di rappresentarlo». Attesi che gli occhi di Bingham si staccassero da lei e si spostassero su di me. «I termini con i quali ho accettato di rappresentare il signor Smith sono una questione riservata fra me e il mio cliente». Bingham non aveva bisogno che gli si dicesse ciò che già sapeva. Il volto inespressivo, attese che proseguissi. «La corte avrà notato che la signorina Loescher non ha detto che il signor Smith ha dei precedenti penali. Che non ha detto che il signor Smith ha dei precedenti di violenza. Potremmo anche non sapere chi sia, ma se avesse dei precedenti, se fosse stato arrestato, la signorina Loescher l'avrebbe saputo perché glielo avrebbero detto le sue impronte. Abbiamo, vostro onore, un uomo senza nome; un uomo, per quello che posso capire, con scarsa capacità di memoria; qualcuno che quasi certamente non ha mai fatto del male a un altro essere umano, che è stato accusato di un crimine per cui si è dichiarato innocente e che viene tenuto in isolamento per qualcosa che non ha fatto».
Bingham allargò le mani schiudendo le dita, inclinò la testa e mi guardò in attesa. Risposi alla sua silenziosa domanda con lo stesso gesto. «Lo so», ammisi. «Volevo soltanto sottolineare l'ingiustizia». «Alla luce della gravità del capo d'accusa, dell'assenza di una residenza stabile e di qualcuno che se ne assuma la responsabilità, l'imputato rimarrà in prigione», disse Bingham in tono riluttante. «Il processo è fissato per...». Abbassò lo sguardo sul cancelliere e attese che lei trovasse la prima data libera sul suo calendario. «Ci vediamo più tardi», dissi al mio cliente scandendo bene le parole mentre la guardia gli posava una mano sulla spalla e lo conduceva via. Howard Flynn mi aspettava in corridoio con un'espressione solenne sulla bocca dai tratti ruvidi. Feci per chiedergli come mai non fosse entrato, poi ricordai. «Ti infastidisce ancora, non è vero?», domandai mentre ci dirigevamo verso l'ascensore. «Non so bene perché», rispose scuotendo la testa. «Ci vengo abbastanza spesso». Nell'ascensore c'era altra gente, e scendemmo in silenzio. Fuori, il sole della tarda mattinata che filtrava dal fitto fogliame degli alberi spargeva una foschia giallastra sul marciapiede del parco. Ci sedemmo su una panchina davanti a una statua di bronzo ormai tinta di verde dall'età dedicata ai caduti della prima guerra mondiale. «Cos'hai scoperto?», chiesi. Flynn allargò le gambe e posò i gomiti sulle ginocchia. «Niente», rispose in tono cupo. «Niente di niente, maledizione. È come se quel ragazzo non esistesse. Ho sfruttato più o meno tutti i contatti che ho. La polizia non sa chi sia. I servizi sociali non hanno niente». Si drizzò a sedere, sollevò i gomiti sul bracciolo della panchina, rovesciò la testa all'indietro e perlustrò il cielo in cerca di una risposta. «Alle agenzie per le adozioni non risulta. Resta soltanto una possibilità. Hai mai sentito parlare di uno psicologo chiamato Clifford Fox? Era testimone d'accusa in un tuo caso, un paio d'anni fa». «Quel figlio di puttana?», gridai sollevando il ginocchio sulla panchina e guardando Flynn dritto in faccia. «Quello che si è specializzato nei cosiddetti ricordi repressi, e che ha testimoniato che la nipote del mio cliente si era ricordata quindici anni dopo il fatto che lo zio abusava di lei quand'era piccola? La giuria non gli ha creduto», gli rammentai. Flynn gonfiò il petto e sbuffò. «Già, tu saresti l'ultimo al mondo in grado
di convincere una giuria a scagionare un colpevole». Socchiuse gli occhi e scosse il capo. «Non ha importanza. Stammi a sentire. Qualsiasi cosa abbia sostenuto al processo, Fox stava dicendo la verità, o almeno quella che lui pensava fosse la verità. Non è un bugiardo». Esitò il tempo necessario a formare il sorriso burbero che di solito introduceva uno dei suoi lapidari commenti sulle debolezze umane. «Quanto meno quando non beve, e sono anni che non tocca la bottiglia». Avrei dovuto saperlo. Flynn aveva amici ovunque, e ognuno di loro era un alcolista. «Cosa stai suggerendo? Cosa può fare Fox per aiutarci a scoprire qualcosa su John Smith? Non penso che abbiamo a che fare con un caso di memoria repressa, e tu?». Flynn storse la bocca da una parte. «L'unico a sapere qualcosa di John Smith è John Smith. Ti sbagli sul conto di Fox. La sua specialità non sono i ricordi repressi, ma i bambini handicappati. Se c'è qualcuno che è in grado di penetrare nella mente di quel ragazzo, quel qualcuno è lui». Consultai il mio orologio. «Devo tornare in ufficio», dissi alzandomi. «Oggi pomeriggio vedrò John Smith. Vieni anche tu, visto che hai comunque bisogno di parlargli. Poi decideremo sul tuo amico psicologo». Prima di voltarmi per andare, lo guardai e risi. «Prima Stewart, adesso Fox. Se non stiamo attenti, avremo una squadra formata da tutti gli ubriaconi della città». Flynn mi fissò con gli occhi socchiusi. Un sorrisetto ironico e mesto gli increspò le labbra. «Potrebbe andare molto peggio», disse con una scrollata di spalle. Quando entrai in ufficio, Helen mi porse una grossa, pesante busta marroncina. «È appena arrivata», mi spiegò. «È la lista dei casi del giudice Griswald». Le dissi di non passarmi alcuna telefonata e cominciai a esaminare, allegato per allegato, tutti i casi penali che erano stati presieduti dall'onorevole Quincy Griswald. Erano migliaia fra processi, udienze preliminari e casi di ogni genere, distribuiti nei suoi lunghi anni di servizio come giudice. Dovevo aver sfogliato centinaia di pagine, ognuna delle quali riportava riga dopo riga il nome dell'imputato e il crimine di cui era accusato. Non c'era niente, nulla che poteva fornire un movente per il suo omicidio od offrire un vago indizio su chi poteva averlo ucciso. Mi ci dedicai per ore, e mi restavano ancora centinaia di pagine. Cominciai a leggere più velocemente,
scorrendo le parole e facendo scivolare il dito lungo le pagine. Avevo una tale fretta di finire che me lo lasciai sfuggire, e mi resi conto di ciò che avevo visto soltanto a metà della pagina successiva. Tornai indietro e lo fissai a lungo, chiedendomi come avessi fatto a non capirlo prima. Avevo saltato il pranzo e avevo proseguito nel pomeriggio fino a perdere il senso del tempo. «Chiama l'archivio del tribunale e richiedi il fascicolo dello Stato contro Elliott Winston», dissi a Helen mentre uscivo. «È un vecchio caso di una dozzina di anni fa. Il giudice era Quincy Griswald. Non conosco il numero. Poi chiama l'ospedale psichiatrico e avverti il dottor Friedman che vorrei vederlo prima possibile». 20 Quando rivelai a Flynn che cosa avevo scoperto e che cosa pensavo, mi guardò come se fossi io a dover essere ricoverato in manicomio. «Cosa stai suggerendo: che Elliott Winston abbia ucciso prima Jeffries e poi Griswald?». «No», obiettai. «Non sto affatto suggerendo questo. Sto dicendo che i due omicidi sembrano in qualche modo collegati. Tutto quello che so di sicuro è che Jeffries era riuscito a far uscire di senno Elliott e che Griswald era il giudice che l'ha fatto rinchiudere». «In ospedale», mi rammentò Flynn. «Non in prigione. Winston aveva cercato di ucciderti. Griswald gli ha fatto un favore». «Davvero?», mi chiesi a voce alta. «Elliott non aveva precedenti penali. Credeva che io avessi una relazione con sua moglie, e io avrei testimoniato che aveva soltanto intenzione di spaventarmi. Il colpo era partito mentre lottavamo. Anche se fosse stato mandato in prigione senza la condizionale, ormai sarebbe fuori da anni». Flynn scosse la testa dubbioso. «Griswald ha semplicemente fatto il suo lavoro. Non aveva scelta. Quando un imputato finisce in ospedale psichiatrico, tutto viene fatto secondo la legge». Eravamo davanti alla prigione di contea. Erano le quattro passate da pochi minuti, e stavamo aspettando di vedere John Smith. Gli alberi del parco al di là della strada proiettavano le loro ombre sul marciapiede a mano a mano che il sole calava a occidente. Una giovane donna tarchiata con una borsa a tracolla, due bambini tenuti per mano e un paio di jeans aderenti scese di fretta i gradini dell'edificio.
«In ogni caso, non importa», proseguì Flynn socchiudendo le palpebre. «Sappiamo già chi ha ucciso Jeffries». Io non ero così sicuro che lo sapessimo, né che sapessimo qualsiasi altra cosa. «D'accordo», si arrese tradendo una punta di esasperazione. «Poniamo di non sapere chi ha ucciso Jeffries; poniamo di ignorare la confessione, il suicidio e tutto il resto. Elliott Winston è rinchiuso nel manicomio criminale. Mi sembra un ottimo alibi». «Te l'ho detto», ribattei più seccamente di quanto intendessi, «non sto suggerendo che sia stato Elliott a uccidere. Non sto suggerendo che abbia avuto qualcosa a che fare con i due delitti». Flynn mi fissò confuso. «E allora cosa stai suggerendo?». Non ne ero sicuro. Avevo la sensazione impotente di cercare di afferrare qualcosa di vago e indefinibile, qualcosa che per un attimo credevi di capire ma che all'improvviso, non appena dovevi spiegarlo, scompariva alla vista. «Non lo so», ammisi, cercando ancora di afferrare quel qualcosa. «Hai ragione. Non può essere stato Elliott, ma non sembra possibile che si tratti di una pura coincidenza». Flynn abbassò lo sguardo a terra accarezzandosi il mento. «Cos'altro potrebbe essere?», domandò alzando gli occhi fino a incontrare i miei. «L'uomo che ha confessato di avere ucciso Jeffries e che si è ucciso era un paziente del manicomio». «E allora?». «E allora, sarebbe interessante sapere se Elliott lo conosceva». «L'ospedale di stato ha centinaia di pazienti. Ma anche se lo conosceva, cosa significa?». «A quel punto avremmo un'altra coincidenza, no?». Flynn mi posò una mano sulla spalla mentre ci incamminavamo verso l'ingresso. «Tutto quello che avresti è che un paziente del manicomio che un tempo conosceva la vittima di un omicidio conosceva anche il paziente che ha commesso il delitto. Va' all'ospedale, parla con il dottore, parla con Elliott. Cerca di scoprire tutto quello che puoi su Jacob Whittaker. Forse c'è un collegamento fra la morte di Jeffries e quella di Griswald, forse c'è un collegamento fra i due assassini... ma Elliott Winston? Se non sapessi quello che gli ha fatto Jeffries, quello che gli ha fatto sua moglie, non ci penseresti nemmeno». Aveva ragione, naturalmente, e a livello cosciente lo sapevo. Accantonai tutte le mie vaghe fantasie e i miei oscuri sospetti e cercai di concentrarmi sul motivo della nostra visita.
«Lo psicologo ha accettato di vedere Smith?», chiesi quando fummo sulla soglia della prigione. «Accetterà», rispose Flynn con sicurezza. «Non l'ho ancora chiamato. Prima volevo capire cosa potevamo fare». Non potevamo fare molto. John Smith venne accompagnato nella piccola saletta colloqui priva di finestre. La sua testa era china e ciondolava da una parte e dall'altra, mentre i suoi occhi dallo sguardo velato restavano sempre fissi sullo stesso punto. Il secondino lo condusse al banco in cui Flynn e io sedevamo in attesa, lo aiutò a sedersi, si inginocchiò accanto a lui e gli tolse le manette. Era un uomo muscoloso, dalla mascella squadrata e dalle spalle ampie e larghe, e gli diede un colpetto sulla spalla. «Andrà tutto bene», disse con dolcezza. «Questo è il tuo avvocato, il signor Antonelli. Era in tribunale con te stamattina. Te lo ricordi?». La testa di Smith cessò di muoversi. Un sorriso timido gli comparve sulle labbra e poi svanì. I suoi occhi mi guardarono ancora per un istante, poi la testa si riabbassò e cominciò a ondeggiare prima da una parte e poi dall'altra. Mi rivolsi a lui con il tono di voce che avrei usato con un bambino. «John, questo è il signor Flynn. Ci aiuterà con il tuo caso. Vuoi salutarlo?». Se mi udì, non lo diede a vedere. La sua testa ondeggiava come un pendolo, facendo una curva lenta, esitando un istante quando giungeva alla fine e poi tornando indietro per fermarsi all'estremità opposta. Flynn sembrava innervosito. Malgrado fosse contro il regolamento, il secondino se n'era andato. Estrasse una sigaretta dalla tasca e aprì con il pollice la linguetta di una confezione di fiammiferi. Fece un suono appena percettibile, ma John Smith lo udì e si bloccò. Mi voltai verso Flynn, ma era troppo tardi. Sfregò il fiammifero, e quando la capocchia prese fuoco John Smith fece un balzo all'indietro, rovesciando la sedia di metallo. «No!», gridò. «No! No fuoco! No male! No male!». Si accovacciò nell'angolo della saletta, il più lontano possibile da noi, incrociando le braccia davanti al volto e tremando di paura. Flynn era in piedi, con la sigaretta ancora spenta fra le labbra e il fiammifero acceso fra le dita. «Scusami», disse cercando di sembrare calmo. Si tolse la sigaretta di bocca. «Vedi? Me la stavo semplicemente accendendo. Non volevo farti del male». Fece un cauto passo avanti. Il ragazzo, perché non era altro che questo, piegò ancora di più le ginocchia e le strinse fra le braccia. Flynn fece un altro passo avanti e posò un ginocchio a terra, reg-
gendo il fiammifero davanti a sé. «Guarda», disse. «Adesso lo spengo». Le parole non significavano nulla. Alla vista del fiammifero, John Smith riprese a gridare: «No, ti prego, no!». Flynn non scostò il fiammifero mentre la fiamma cresceva, poi lo spense lentamente fra il pollice e l'indice. Doveva essere doloroso, ma non lo si sarebbe mai capito dalla sua espressione. Il ragazzo sgranò gli occhi sbalordito e i suoi tremori cominciarono a placarsi. «Scusami», ripeté Flynn. Si alzò e gli tese la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi. Il ragazzo lo guardò, ma non smise di abbracciarsi le ginocchia. «Non c'è problema», gli disse Flynn in tono sommesso. «Fa' pure con calma. Vieni da solo quando sei pronto», soggiunse raddrizzandosi. «Nessuno ti farà del male. Proveremo ad aiutarti». Smith seguì Flynn con lo sguardo, e non lo abbandonò nemmeno mentre si rialzava, rimetteva in piedi la sedia e vi prendeva posto. Ho visto individui, dotati in modi che potevo soltanto immaginare, comunicare con cani, gatti e perfino cavalli, ma fino a quel giorno non avevo mai visto nessuno farlo con un altro essere umano. Howard Flynn si sedette di fronte a quella povera anima e fra loro passò qualcosa, una componente ineffabile che portò il ragazzo a rispondere, non a parole e nemmeno a gesti, ma con una semplice espressione, un'espressione che nessuno, dopo averla vista, avrebbe potuto scordare. Era l'espressione di chi non ha alcuna coscienza di sé, l'espressione di chi non si è separato per sempre, come il resto di noi, dal mondo che lo circonda. Sgombrate la mente da qualsiasi pensiero, sbarazzatevi di qualsiasi emozione, di qualsiasi timore apparente finché ciò che rimane è quella parte essenziale di voi che è il vostro essere, e potrete cominciare a capire ciò che accadde. La parola inespressa, il pensiero che è silenzioso perfino a se stesso, che non ha bisogno di essere articolato per sapere cos'è: era questa la comunicazione che si stava stabilendo davanti ai miei occhi. «Cosa ci puoi dire di Billy?», chiese finalmente Flynn. «Amico», fu la risposta. «È stato Billy a darti il coltello?». Smith annuì. «E Billy dov'è andato?», domandò Flynn. «Via. Billy andato via». «Dove?». «Via». «Ma via dove?».
«Fiume». Rivolsi un'occhiata a Flynn, ma lui era troppo concentrato per accorgersene. Le braccia conserte sul tavolo, si sporse in avanti, inclinò il capo e sorrise. «Come ti chiami?». Il ragazzo ricambiò il sorriso. «Danny». «Qual è il tuo cognome, Danny?». Nella saletta c'era un tale silenzio che credetti di udire il battito del mio stesso cuore. Senza cambiare espressione, il ragazzo guardò Flynn e rispose: «Danny». Flynn annuì paziente. «Danny è il tuo nome di battesimo. Ma ne hai un altro. Il mio nome di battesimo è Howard». «Howard», ripeté il ragazzo. «Esatto. Il mio nome è Howard, il mio cognome è Flynn. Il tuo nome è Danny. E il tuo cognome?». Il ragazzo ebbe una scintilla di riconoscimento negli occhi, la luce che appare quando ci si rende conto per la prima volta che una cosa non è dove dovrebbe essere e che potrebbe essere stata smarrita. Ma poi scosse il capo. «Danny», ripeté. Era l'unico nome che conosceva, e forse l'unico nome che aveva. Per mezz'ora feci da spettatore interessato mentre Howard Flynn ce la metteva tutta per scoprire da dove veniva Danny e cosa sapeva dell'uomo che gli aveva dato il coltello. Flynn fu il più dolce e paziente possibile, ma non fece alcuna differenza: Danny non sembrava sapere nulla del proprio passato. Innocente come il bambino che era, viveva nel momento, un momento che per lui non aveva inizio né fine. Si ricordava di me, e ricordava che eravamo stati insieme in una stanza, ma non avrebbe saputo dire se fosse successo quella mattina o un anno prima. Quando Flynn aveva acceso quel fiammifero, non gli aveva semplicemente rammentato le bruciature di sigaretta che gli erano state inferte su tutto il corpo: aveva ripetuto l'evento stesso. Il tempo non esisteva. Tutto ciò che accadeva, tutto ciò che gli succedeva, era adesso. Malgrado nessuna delle nostre domande avesse trovato risposta, avevamo scoperto come si chiamava, ed era pur sempre un inizio. Avevamo ottenuto anche un'altra cosa: la consapevolezza che si trattava di un caso che dovevamo vincere. È sempre più difficile difendere qualcuno che sei convinto sia innocente: se perdi, non ti puoi consolare con il pensiero che giustizia è stata fatta. Ma quel caso era peggio. Danny non era soltanto innocente: era indifeso. Noi eravamo tutto ciò che aveva, e quella consapevo-
lezza colpì Flynn più a fondo di me. Quando ce ne andammo, era infuriato come non l'avevo mai visto. «Dovrebbero impiccarla gente simile», ringhiò mentre ci dirigevamo verso l'uscita principale. «E non sto parlando di un semplice cappio al collo». Credevo di sapere di chi stava parlando, ma per essere sicuro glielo chiesi: «Quelli che l'hanno bruciato con le sigarette?». «Sì», borbottò lui sottovoce. Fece scattare il braccio davanti a sé e colpì la porta con tale forza che temetti di vedere la mano sfondare il vetro. Si fermò quasi nello stesso punto in cui ci eravamo trattenuti a parlare prima di entrare. «Dimentichiamoci di quel figlio di puttana di Jeffries e del tizio che l'ha ucciso», disse scuotendo la testa spazientito. «Dimentichiamoci del fatto che poteva conoscere Elliott Winston e dell'ospedale psichiatrico. Se non troviamo l'uomo che ha dato il coltello al ragazzo, non abbiamo in mano niente». Si fermò e mi fissò. «Devi scoprirlo, e ci resta soltanto un modo per farlo». La gente ci sciamava intorno. Erano le cinque e qualche minuto, e i marciapiedi si stavano affollando di impiegati statali diretti a passi rapidi verso i parcheggi in cui avevano lasciato le auto o verso la stazione della ferrovia qualche isolato più in là. «Credi che lo psicologo riuscirà a fargli dire più di quello che ha detto a te?». Flynn annuì, ma la sua mente era altrove. «Gli farà dire alcune cose, forse molte». Mosse avanti e indietro la mascella, si fermò e si grattò il mento con un'espressione distante negli occhi. «Ma non scoprirà niente sul coltello. Il ragazzo non ne sa nulla». «Ma allora chi?». Il suo sguardo si rimise a fuoco. «La gente con cui viveva». «Sotto il ponte?». «Sì». «Be', possiamo provarci», dissi in tono scettico. «Ma metà di loro saranno malati di mente, e il resto tossici o ubriaconi». D'altro canto, non avevamo niente da perdere. «D'accordo», mi arresi, «se credi che ne valga la pena. Quando vuoi andarci?». Per la prima volta da quando eravamo usciti dalla prigione, Flynn parve rilassarsi. Rispose alla mia domanda come se avessi appena infranto il mio stesso record mondiale di idiozia. Riuscì a malapena a non roteare gli occhi e a non scoppiare a ridermi in faccia. «Ma certo, perché no? Andiamoci
adesso, in giacca e cravatta». Ora capivo che cosa aveva in mente... o almeno così credevo. «Vuoi infiltrarti fra loro, fingere di essere un senzatetto?». «No», disse Flynn distogliendo gli occhi e strascicando il monosillabo. «Non esattamente». Per qualche istante non dicemmo niente, e a un tratto capii. «Vuoi che vada io...?». «Io non posso farlo», disse Flynn tornando a guardarmi. Scosse il capo con forza. «Non posso. Non posso passare tre o quattro notti da solo con gente che beve. Non potrei passarne nemmeno una. Mi dispiace. Non ce la farei». Abbassò gli occhi sul marciapiede e sospirò. «Ma se vuoi ci proverò». Diceva sul serio, e io lo sapevo, e sapevo anche che non avrei potuto permetterlo. «E va bene», dissi con un'occhiata dolente. «Lo farò. Ma soltanto dopo che lo psicologo avrà visitato Danny». «Lo farà come prima cosa domattina». «Avevi detto che non gli avevi ancora parlato». «È vero», disse Flynn come se fosse una risposta esauriente. «Farai una magnifica esperienza», soggiunse allegro. S'incamminò con me e tornò a cingermi la spalla con il braccio. «Ricordi quando Jeffries ti spedì in galera per il weekend? Prendila in questo modo: potrà anche non piacerti troppo, ma pensa a tutte le storie che potrai raccontare». Ci ripensai dopo che ci fummo salutati all'angolo, tornando verso l'ufficio: non a come sarebbe stato farmi passare per un senzatetto, ma a com'era stato trascorrere tre notti in prigione. Tre notti, e non le avevo mai scordate! Un weekend di molti anni prima, e il ricordo era ancora vivido come se fosse accaduto una o due settimane prima. Tre notti! Quante notti c'erano in dodici anni, il periodo che Elliott Winston aveva trascorso rinchiuso in un manicomio criminale? Potevo ordinare le cifre e fare una stima approssimativa del risultato, ma non ero in grado di fare la moltiplicazione nella mia testa, non senza un calcolatore o quanto meno carta e matita. Se fossi stato all'ospedale psichiatrico avrei potuto chiedere aiuto all'amico di Elliott, l'ex professore liceale di storia a cui la follia aveva chissà come elargito il dono della matematica. Alle mie spalle una voce mi chiamò. Mi fermai e mi voltai, ma nella folla di volti che mi sfilavano accanto non riconobbi nessuno. La voce mi chiamò di nuovo, ma ancora una volta non riuscii a individuarla. «Qui!», disse Jennifer ridendo. Era seduta al volante della sua macchina,
parcheggiata accanto al marciapiede a pochi passi di distanza. La capote era abbassata. «Sembravi in trance. Sei un sonnambulo?». «No», risposi imbarazzato. Feci un passo verso la macchina, poi mi fermai e mi guardai alle spalle. Eravamo direttamente di fronte al mio ufficio. Se Jennifer non mi avesse chiamato, forse l'avrei oltrepassato senza accorgermene. «Mi avevi detto di passarti a prendere alle cinque e un quarto», disse mentre salivo in macchina. «Te n'eri scordato?». «No, stavo pensando a una cosa». Mentre ci allontanavamo, ricordai l'espressione quasi catalettica che aveva Elliott all'inizio della mia visita. «Non ti capita mai?», chiesi a Jennifer. «Non pensi mai a qualcosa al punto da scordarti dove ti trovi?». Jennifer mi guardò di traverso con aria perplessa. «Non intendevo dire quand'eri malata», soggiunsi carezzandole il collo. Ma mi resi conto che era esattamente ciò che intendevo. «È così che ci si sente? Non si sa dove ci si trova?». Jennifer non distolse lo sguardo dal traffico del centro. Vestita con una camicetta bianca a maniche corte e una gonna di cotone verde e blu aveva un aspetto giovane e grazioso, come se avesse di nuovo diciott'anni ed entrambi fossimo sicuri che non ci sarebbe mai successo niente di male. La scintilla di un sorriso le guizzò sulla bocca. Sollevò la testa e si morse il labbro, poi si voltò verso di me e sembrò chiedermi perdono con gli occhi. «Non posso», mormorò. Riprese a guardare la strada, e con un rapido movimento del polso scalò la marcia e attraversò col giallo l'incrocio appena prima del ponte. Cercai di distrarla dal passato. «Stiamo passando sopra la mia nuova casa», dissi in tono allegro. Lei si passò il dorso della mano sugli occhi e si schiarì la gola. «Cosa?», domandò costringendosi a sorridere. «È la verità», risposi con un sorriso impudente. «È la mia nuova dimora. Proprio là sotto», precisai tendendole un dito davanti al volto. «Sotto il ponte. È un'idea di Flynn». Jennifer mi ascoltò con attenzione mentre le spiegavo quello che avrei fatto e come mai non sembrava esserci altra scelta. La sua risposta mi colse impreparato. Invece di cercare di dissuadermi, di dirmi quanto sarebbe stata in pensiero per me, di rammentarmi che ero un avvocato e non un investigatore privato, la trovò un'idea magnifica e cercò di autoinvitarsi. «Se ti presenti così di punto in bianco, per quanto ti possa travestire da
vagabondo sarai sempre uno sconosciuto, e non si fideranno di te. Ma se fossimo in due, una coppia di senzatetto, la cosa avrebbe più senso. Succede di continuo. Si vedono un sacco di coppie con i cartelli di cartone che chiedono lavoro in cambio di cibo. Potremmo essere come loro», disse entusiasta. Superato il ponte, si guardò intorno, si immise sull'autostrada e si portò sulla corsia che poco più in là si collegava con la strada che conduceva a est lungo il corso del Columbia. Era fuori questione. Non sarebbe venuta con me. «È troppo pericoloso», dissi piano, e subito risi del mio tono protettivo e sicuro di sé, come se l'idea fosse stata mia e non di Flynn. Jennifer attese che smettessi di ridere. «Sicché preferisci che ci vada da sola?». «È stato Flynn a dirmi che dovevo farlo. A proposito, dove stiamo andando?». «Non lo so. Pensavo che avremmo potuto fare una gita lungo il fiume, magari addentrandoci un po' nella gola». Seguimmo il corso del grande fiume tranquillo che penetrava fra le pareti alberate della gola cambiando colore da grigio ad argento per tingersi infine, mentre il sole calava nella quiete del crepuscolo oltre il lontano orizzonte, di un viola scuro venato d'oro. Il fiume proseguiva all'infinito attraverso le rocce rosse e scabre del deserto spazzato dal vento, attraverso i campi di frumento che ondeggiavano sotto il sole giallo, i cieli sereni e le notti stellate in luoghi in cui non era mai cresciuto un albero, attraverso alte montagne che erano sorte dalla terra migliaia di anni dopo che le sue acque avevano cominciato a scorrere verso il mare, attraverso le pianure e le colline basse dove si univa a un altro fiume e dove una città era stata costruita e generazioni avevano vissuto ed erano morte. Sempre cangiante e sempre uguale a se stesso, il fiume ci riportava indietro e ci spingeva avanti, dandoci la sensazione che anche se non saremmo mai riusciti a esprimerlo a parole sapevamo qualcosa di importante, qualcosa di valore. Ci fermammo in un ristorante che dava su uno stretto ponte di acciaio e sulle colline verdi e nere dello stato di Washington sul versante opposto. Mangiammo hamburger serviti in cestini di plastica rossa coperta di carta cerata bianca, versammo ketchup sulle patatine fritte e bevemmo CocaCola da bicchieri con la cannuccia. A intervalli di qualche minuto, Jennifer allungava la mano e mi puliva la bocca con un tovagliolino di carta. «Sicura di volerlo fare? Di sposarci fra un anno?».
Reggeva il suo hamburger con entrambe le mani, e vi aveva appena affondato i denti. «Perché?», domandò, rischiando di soffocare mentre deglutiva e si sforzava di non ridere. «Ci hai ripensato?». «Ripensato? Non ci ho nemmeno pensato. È tutta la vita che sono innamorato di te, ma finché non sei tornata ci pensavo di rado. È come respirare. Il più delle volte non ti rendi nemmeno conto di farlo». Teneva le mani in grembo e mi rivolgeva un'occhiata canzonatoria mentre sorseggiava la Coca con la cannuccia. Scolò il bicchiere ma continuò a succhiare, ridendo con gli occhi del suono che faceva e aspettando di vedere la mia reazione. Segnalai alla cameriera di portargliene un'altra. «Hai una moneta?», chiese Jennifer. Ne trovai una in tasca e lei andò al vecchio jukebox accostato alla parete opposta. La guardai picchiettare il piede a terra mentre cercava una canzone che voleva sentire. Poi tornò al tavolo e mi tese la mano. Mi guardai intorno con fare esitante. «Coraggio», insistette lei. «"Chances Are"?», chiesi, ridacchiando sommessamente mentre cominciavamo a ballare sul pavimento di linoleum davanti al jukebox. Ci muovevamo all'unisono con la musica, qualche passo da una parte e qualche passo dall'altra. Jennifer mi lasciò andare la mano e mi mise le braccia al collo, e io le cinsi la vita. Due ragazzini seduti in un séparé poco distante si diedero di gomito. Le ragazze con cui erano li ammonirono con gli occhi di non ridere e poi, poiché erano giovani e sentimentali e sognavano ancora che l'amore potesse durare, si voltarono a guardarci. Quando la canzone finì, Jennifer andò alla cassa, si fece cambiare un dollaro e la selezionò di nuovo. Voleva farlo per la terza volta, ma io la trascinai via. Tornammo al nostro tavolo, e lei riprese a bere la sua Coca e a provocarmi con i suoi grandi occhi ridenti. «Per me non era come respirare», disse abbassando lo sguardo sul bicchiere e muovendo la cannuccia nel ghiaccio tritato. «Ti pensavo molto più spesso di così. Ti pensavo molto quand'ero in ospedale». Alzò gli occhi fino a incontrare i miei. «Cercavo di capire perché mi trovavo lì. Mi avevano detto che la causa era uno scompenso chimico nel cervello, che sarebbe potuto succedere a chiunque. Ma non era successo a chiunque: era successo a me, e continuavo a pensare che forse non mi sarebbe accaduto se la mia vita fosse stata diversa, se fossi stata sposata con qualcuno che amavo. Come avrei potuto essere depressa se fossi stata felice?». Fece una pausa, tese la mano attraverso il tavolo e mi fece scorrere le dita sul volto. «Continuavo a pensare che se fossi stata sposata con te non sarei finita in
quell'orribile posto». Alzò lentamente il capo e rimase seduta perfettamente dritta e immobile. «È questo che vuoi, Joey?», domandò seriamente. «Dopo tutto questo tempo? Sei sicuro che è questo che vuoi? Stare con me?». Indicai il suo bicchiere semivuoto con un cenno del capo. «Bevi la tua Coca. Dobbiamo andare, la strada è lunga». Attesi che chinasse la testa e si infilasse la cannuccia fra le labbra. «Te lo chiedo una volta sola. Mi vuoi sposare? Non l'anno prossimo o il mese prossimo. Soltanto questo: mi vuoi sposare?». Cominciò a sorridere prima ancora di alzare gli occhi dal bicchiere. Poi mi guardò. «Sì». Fu tutto ciò che ci dicemmo, tutto ciò che avevamo bisogno di dirci. Restammo seduti qualche altro minuto mentre Jennifer finiva la sua Coca e io mi chiedevo come mai il matrimonio, e non la semplice idea di vivere insieme, avesse assunto tanta importanza nella mia mente. Non avevamo più l'età in cui sposarsi significava avere figli. Forse era un modo di lanciare una sfida a tutti i lunghi anni che avevamo vissuto separati. Suppongo che avrebbe anche messo il punto finale alla frase che agli estranei sembrava spiegare le nostre esistenze: "Ci siamo innamorati, e poi ci siamo sposati". Jennifer finì la sua Coca e io l'aiutai ad alzarsi da tavola. «Possiamo sempre dire che abbiamo avuto un lungo fidanzamento», disse con un sorriso. All'improvviso la sua testa ebbe un tremito e nei suoi occhi balenò una scintilla di dolore. Mi strinse la mano con tutte le sue forze. «Sto bene», disse cercando di scusarsi. «È solo stanchezza, mi ha preso un po' all'improvviso». Quando arrivammo all'automobile sembrava essersi ripresa, ma non sollevò obiezioni alla mia decisione di guidare fino a casa. Mentre avanzavamo nel buio mi si accoccolò accanto e si addormentò prima ancora che avessimo percorso due chilometri. Il mattino dopo, come al solito, Helen mi seguì nel mio ufficio producendosi nel suo tip-tap di tacchi alti accompagnato da sonore istruzioni su ciò che avrei dovuto fare. «Sono finalmente riuscita a parlare con l'ufficio del dottor Friedman all'ospedale psichiatrico. Questa settimana è fuori città, non sarà di ritorno prima di lunedì. Ho detto che avremmo richiamato». Helen controllò il suo taccuino e trovò il successivo argomento. «Ha telefonato l'impiegata dell'archivio del tribunale. Il dossier sul caso Elliott Winston è arrivato. Lo
puoi consultare quando vuoi». I suoi occhi tornarono sul taccuino. «Mi sposo, Helen». «Un certo...». Alzò il volto confuso e per un istante sondò il mio sguardo. Le minuscole rughe agli angoli degli occhi e della bocca parvero svanire. Si lasciò cadere sulla sedia e si portò una mano sul cuore. «Davvero?», chiese. Le scintillavano gli occhi, e un gran sorriso le attraversò il volto. «Con la ragazza che volevi sposare anni fa, la tua compagna di liceo?». Non ricordavo di averle mai parlato di Jennifer, ma il fatto che lo sapesse non mi sorprendeva. Fece per dire qualcosa, ma poi cambiò idea, fece il giro della scrivania e mi baciò sulla guancia. Seguì un silenzio imbarazzato, dopodiché, visto che quel bacio aveva detto tutto quello che c'era da dire, Helen mi rivolse le sue congratulazioni e io risposi con i ringraziamenti di rito. «Oggi ho molto da fare», dissi alla fine. «Non so se avrò il tempo di dare un'occhiata al dossier. Ti dispiace chiamare l'impiegata dell'archivio e chiederle se possono tenerlo in sospeso per qualche giorno?». Pochi minuti dopo udii Helen al telefono. C'era una cosa che: potevo fare senza andare a leggere il fascicolo al palazzo di giustizia. Presi la linea e chiesi all'impiegata dell'archivio il nome dell'avvocato che aveva difeso Elliott Winston. Quando lei me lo disse, glielo chiesi di nuovo per sincerarmi di aver sentito bene, e un'altra volta perché ancora non ci credevo. «Ma Asa Bartram non è mai stato un penalista», dissi come se fosse una cosa che l'impiegata avrebbe dovuto sapere o considerare importante. «Mi perdoni», soggiunsi più sconcertato che mai da quello che era accaduto e più sicuro che mai che in qualche modo spiegava ogni cosa. 21 Visto che presto sarebbe diventata mia moglie, Jennifer si trasferì da me e passammo cinque giorni in perfetta solitudine cercando di non parlare troppo di ciò che avevamo perduto. Ormai maturi, lasciatoci l'incanto alle spalle, demmo fondo alla passione che ci era rimasta e imparammo i sentimenti più dolci dell'amore. Nel tardo pomeriggio della domenica successiva uscimmo dalla casa in cui non avrei più vissuto da solo, salimmo in macchina, percorremmo il lungo vialetto in discesa e varcammo il cancello che dava sulla strada. Jennifer non riusciva a smettere di ridere. «Hai un aspetto orribile!».
«È così che mi guadagno da vivere», risposi impassibile. «La legge è una nobile professione». «Prova a entrare in tribunale conciato così». «L'ho fatto, una volta», dissi. Jennifer annuì. «Quando sei finito in galera. Io non c'ero, ma fidati, stavolta hai un aspetto molto peggiore. Probabilmente verrai arrestato e rispedito al fresco». Mi accompagnò in città e mi lasciò in un angolo buio nei pressi di un piccolo parco, a un isolato di distanza da una missione presso la quale i senzatetto potevano a volte ottenere un pasto e un giaciglio. «Sei abbastanza coperto?», mi chiese mentre aprivo la portiera. «C'è un'arietta frizzante, stanotte farà freddo». Mi fissò sgranando gli occhi malinconici. «Ma guardati! Viviamo insieme da meno di una settimana e hai già cominciato a non raderti, a vestirti come un barbone e a inventare le scuse più assurde per passare la notte fuori casa». «Starai bene?», chiesi sporgendomi verso di lei per baciarla. Jennifer mi tenne stretto a lungo, ridendo sommessamente della ruvidezza del mio volto chiazzato dalla barba di cinque giorni e dicendo che avevo un odore troppo buono per farmi passare per un senzatetto. Quando fu certa che non avevo alcuna voglia di andare, finse di non darvi importanza e mi licenziò con un ultimo bacio. Le mani infilate nelle tasche di un vecchio, malconcio cappotto troppo ampio, la guardai ripartire; poi, quando fu scomparsa, mi girai e mi addentrai lentamente nella sera. In un primo momento ci fu la sensazione dell'avventura, come se fossi appena salpato per una traversata, quando il pericolo e le difficoltà sembrano ancora qualcosa di romantico e la fame e la sete sono cose di cui si parla a stomaco pieno. Stavo facendo tutto questo per scoprire ciò che potevo su chi aveva ucciso Quincy Griswald e poi aveva dato il coltello a qualcuno che non sarebbe stato in grado di spiegarne la provenienza. Ma nel profondo volevo anche sapere cosa si provava a vivere in quel modo: senza casa e abbandonato, circondato da cose che non potevi avere e da gente che quando ti vedeva avvicinare attraversava la strada. Il buio non era ancora sceso del tutto. Un uomo e una donna provenienti dalla direzione opposta mi videro e si spostarono il più lontano possibile sul marciapiede. Puntai dritto su di loro e tesi la mano. «Moneta?», chiesi arrochendo la voce. Girai la testa di lato e abbassai il mento sul petto. «È tutto il giorno che non mangio», soggiunsi con uno sguardo implorante.
L'uomo fece quello che probabilmente avrei fatto anch'io. Cinse la donna con un braccio e cercò di proteggerla con la spalla. Lei era graziosa e benvestita, e mentre si allontanavano di gran fretta mi rivolse un'occhiata carica d'odio e disgusto. Non ero stato scoperto, e provai un brivido di eccitazione. «E va bene», gridai con la mia voce normale, «se non avete moneta, che ne dite delle chiavi della Bmw?». L'uomo mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla e accelerò il passo temendo che li seguissi. Attraversai la strada verso la missione e proseguendo fino all'angolo osservai gli sguardi spenti degli uomini che ne aspettavano l'apertura scompostamente sparpagliati lungo il muro di mattoni accanto all'ingresso. Alberghi economici dalle finestre sporche e dai bar fiocamente illuminati attraversati da ombre lente; prostitute dagli abiti corti e attillati e tossicomani dai sorrisi vaghi e furbi e dai volti butterati; grassoni con grassi portafogli pronti a pagare per divertirsi e donne stanche e macilente che nessuno voleva e che cercavano di dimenticare che a casa non avevano nessuno ad aspettarle: era questo il mondo in cui ero entrato abbandonando il mio. In un vicolo alle spalle di una libreria per adulti rovistai fra i bidoni della spazzatura, osservai coloro che entravano e uscivano dal negozio e mi resi conto di essere diventato invisibile. Una ragazza con una minigonna di pelle nera condusse fuori un uomo tozzo e panciuto, lo guardò con occhi calcolatori mentre contava il denaro, si infilò le banconote sotto il reggiseno, si inginocchiò davanti a lui e fece quello che era stata pagata per fare. Quando ebbe finito, lo osservò percorrere nervosamente il vicolo verso il marciapiede e poi si voltò verso di me, sorprendendomi mentre ero ancora impegnato a rovistare fra l'immondizia a meno di tre metri di distanza. «Scommetto che piacerebbe anche a te», disse con una smorfia prima di scomparire all'interno. Mi ero appena piegato in avanti per controllare il contenuto del bidone successivo quando all'improvviso venni scaraventato al di sopra e atterrai dall'altra parte, sepolto sotto l'immondizia che mi crollò addosso. Mi girai, sollevai la testa e cercai di rimettermi in piedi, ma ricevetti un'altra spinta. Un gigantesco relitto d'uomo, con un alito pestilenziale e una bocca bavosa che sembrava generare putrefazione, agitava il braccio verso di me e si puntava il dito al petto. «È roba tua?», domandai spostandomi di lato per sfuggirgli. «Tua?», chiesi annuendo. Continuai a muovermi e a ripetere la stessa domanda, fa-
cendogli sapere che il mio sconfinamento era del tutto involontario. «Scusami», dissi quando fui abbastanza lontano da rischiare di rimettermi in piedi. Indietreggiai fino alla strada continuando a chiedere scusa, poi, quando fui al sicuro, mi girai e mi allontanai il più in fretta possibile. Più tardi, quella sera, raggiunsi il ponte di Morrison Street. Mi trascinai dietro qualche pezzo di cartone marcito che avevo trovato fra i cespugli e mi infilai sotto quella coperta di fortuna. Il terreno era duro e sassoso, e ogni volta che mi giravo provavo soltanto qualche istante di sollievo prima che qualche altro punto cominciasse a dolermi. Quella notte dormii a malapena, e mai per lunghi periodi di tempo. Malgrado al mio arrivo ne avessi visti pochi con chiarezza, avvertivo la presenza dei corpi che mi respiravano attorno. Erano passati anni, ma il ricordo delle notti passate in prigione era ancora vivido nella mia mente. Questa era un'altra cosa. Nessuno gridava; nessuno gemeva, imprecava o si lamentava; non c'era un rumore, eccetto il suono pesante e regolare di individui che dormivano nei loro letti, negli unici letti che conoscevano. Non credevo di aver chiuso occhio, ma quando li aprii il sole era già sorto e il traffico sul ponte era assordante. La mia bocca sembrava piena di colla e mi facevano male i denti. Uscii da sotto la coperta di cartone e mi guardai intorno. In riva al fiume, due uomini orinavano uno accanto all'altro. Poco più in là, un altro uomo accovacciato sui talloni immerse la sua camicia nell'acqua e poi la strizzò. All'ombra dei piloni ce n'erano altri quattro raccolti attorno a un piccolo fuoco e intenti a scaldarsi le mani mentre dell'acqua bolliva in un pentolino blu di alluminio. Nessuno si scostò per farmi passare, e io mi fermai a qualche metro di distanza. L'uomo che aveva lavato i suoi indumenti nel fiume tornò stringendo in mano la camicia. «Fatelo sedere», disse sistemandosi nel cerchio. «Coraggio», insistette quando non mi mossi. Gli altri mi fecero posto e io mi accomodai. Nessuno disse nulla, e guardando le loro espressioni ottuse e apatiche mi chiesi quanti di loro fossero in grado di parlare. «È il miglior caffè della città», disse l'uomo invitandomi a berlo. Guardai il fiume, ma lui scosse il capo. «L'acqua viene da una fontana. Ci riempio la borraccia». Mi chiesi se con quell'occhiata sconsiderata mi fossi tradito. Cercai di dissimulare l'errore con uno sguardo vacuo, come se non sapessi perché aveva creduto necessario spiegare una cosa così ovvia. Continuando a fissarlo bevvi un sorso di caffè, il cui sapore rancido per poco non mi fece
vomitare. L'uomo mi guardò un altro istante, poi abbassò lo sguardo sorridendo fra sé. Nessuno parlava, né con me né con gli altri. Restavano seduti in cerchio bevendo quel terribile caffè preparato, come scoprii in seguito, con i resti trovati nell'immondizia di uno dei miei ristoranti preferiti. Poi, qualche minuto dopo, come per un segnale silenzioso che mi era sfuggito, si alzarono e si allontanarono in direzioni diverse senza dire una parola. L'uomo che mi aveva offerto il caffè si trattenne. «Tornerai qui, stasera?», domandò. Gli feci capire con un'occhiata che non erano fatti suoi. Se lui prese la mia belligeranza come una minaccia, non lo diede a vedere. Infilò la mano nella tasca del cappotto, ne estrasse una bottiglia da un quarto di litro di whisky e me la offrì. «Come vuoi», disse quando rifiutai. Svitò il tappo, ne bevve un piccolo sorso e si asciugò la bocca con il retro di una manica sporca e cenciosa. «Aiuta a tenere giù il caffè», spiegò rimettendo in tasca la bottiglia. Feci per allontanarmi. «Puoi venire con me, se vuoi», disse lui. Mi fermai e mi guardai indietro. Si era già voltato e stava percorrendo un sentiero che passava sotto il ponte e risaliva dall'altra parte. Lo seguii, e quando arrivammo in cima lui scostò un cespuglio e ne estrasse un carrello arrugginito e carico di sacchi neri della spazzatura pieni fino all'orlo. Allungò il collo e strizzò gli occhi guardando il cielo di un bianco accecante. Premette le labbra e le mosse avanti e indietro cercando di decidersi. Alla fine aprì il sacco in cima alla pila e ne tirò fuori una giubba verde militare. Si tolse il cappotto, lo arrotolò, lo infilò il più a fondo possibile nel carrello e indossò la giubba. Cominciammo ad attraversare la città, fermandoci a ogni cestino della spazzatura. Presto fra maestro e apprendista si stabilì una divisione dei compiti: io spingevo il carrello, e ogni volta che ci fermavamo lui svolgeva una ricerca minuziosa, decidendo cos'era inutile e cosa valeva. Trovava sempre qualcosa, una bottiglia, una lattina, un oggetto qualsiasi che poteva essere convertito in denaro. Quando giungemmo al parco dietro il palazzo di giustizia, ricordai i due uomini che avevo visto a tarda sera intenti a fare quello che noi stavamo facendo adesso, prefigurando con la loro apparizione quella che sarebbe stata la mia vita. Sul marciapiede davanti all'ingresso del tribunale, temendo di essere riconosciuto, lasciai solo il mio nuovo amico a rovistare nei cestini di rete metallica. Mi tenni in disparte, accanto a un lampione, osservando persone
che come minimo conoscevo di vista entrare e uscire dalle porte. Incurvai le spalle e abbassai le falde del berretto sulle orecchie. Mi passai le dita sulla barba e mi sentii un po' più sicuro che da una certa distanza nessuno avrebbe potuto capire che ero io. Il mio amico finì di esaminare il cestino e si guardò intorno per vedere dov'ero. Stavo per raggiungerlo quando qualcuno mi urtò da dietro. Istintivamente mi girai e mi ritrovai faccia a faccia con Cassandra Loescher, il viceprocuratore distrettuale assegnato al mio caso. Stava parlando con qualcuno senza badare a dove metteva i piedi, e quando mi aveva urtato aveva rovesciato un po' di caffè dal bicchiere di carta che reggeva in mano. «Maledizione!», esclamò allungando la mano con la tazza davanti a sé. Fece per scusarsi, ma non appena mi vide riuscì a pensare soltanto ad allontanarsi. Tesi la mano per aiutarla, ma lei lasciò cadere il bicchiere di carta sul marciapiede e salì rapidamente la scalinata del palazzo di giustizia. Incoraggiato dall'episodio, presi posizione accanto ai gradini, tesi la mano lercia e studiai i diversi modi in cui coloro a cui chiedevo denaro distoglievano gli occhi e cercavano di non rispondermi. Due giudici per altri versi equanimi mi trattarono con aperto disprezzo, e uno dei due protestò a gran voce che il fatto che cose simili succedessero nei giardini pubblici era già un male, ma che era una vergogna che venissero permesse davanti a un edificio pubblico. Quando chiedevo di aiutare un indigente, i penalisti si voltavano dall'altra parte con un sogghigno. Harper Bryce, il taccuino che gli spuntava dalla tasca della giacca, mi passò davanti lemme lemme, diretto verso il suo ennesimo processo. Si fermò, si voltò, infilò la mano nella tasca dei pantaloni, mi diede tutta la moneta che aveva e scomparve all'interno senza nemmeno guardarmi. Schiusi le dita, contai settantotto centesimi e mi sentii ricco. Raggiunsi il mio nuovo amico un isolato più in là e ripresi il mio lavoro, spingendo il carrello non appena lui finiva di rovistare in un cestino. Proseguimmo così per tutto il giorno, vagando da una strada all'altra, prendendo ciò che nessuno voleva, finché il carrello cominciò a gemere sotto il peso dei rifiuti e a muoversi soltanto con l'ausilio di una spallata. Non ho mai saputo cosa ne facesse il suo proprietario. Giunti a un angolo nei pressi della missione ne assunse il controllo e mi disse di aspettare mentre lo spingeva in un vicolo. Quando ricomparve, qualche minuto dopo, aveva svuotato il carrello di tutto ciò che aveva raccolto durante il giorno. Estrasse di tasca un vecchio borsellino e mi diede tre biglietti da un dollaro, la
paga dell'aiutante di uno spazzino. Richiuse il borsellino con uno scatto, se lo rimise in tasca e tirò fuori la bottiglia di whisky. Me la offrì, la resse davanti a me finché non scossi la testa, poi rovesciò la testa all'indietro e ne scolò una sorsata. Fece schioccare le labbra mentre riavvitava il tappo e rimetteva in tasca la bottiglia. Tornammo al ponte attraverso stradine secondarie e vicoli, spingendo il carrello e fissando il vuoto inebetiti. Avevo trascorso soltanto una notte e un giorno senza un tetto e già i contorni della mia esistenza sembravano essersi confusi. I miei sensi erano intorpiditi, e le uniche cose che contavano erano le semplici necessità della sopravvivenza. Mi stavo rendendo conto che essere un senzatetto non significava soltanto non possedere una casa: significava non avere nulla di tuo. Nessun amico, nessun famigliare, nessuno con cui parlare, nessuno di cui poterti fidare. Io potevo tornare a casa quando volevo, e potevo soltanto immaginare che cosa si provasse a sapere di non averne la possibilità. «Da quanto lo fai?», chiesi quando il mio compagno ebbe finito di nascondere il suo carrello nel cespuglio su un versante del ponte. Mi studiò con sguardo sospettoso. «Da quanto basta». Si voltò e s'incamminò sul sentiero che conduceva sotto il ponte, sovrastato dal pulsare sordo del traffico. I pezzi di cartone che avevo usato come giaciglio erano ancora dove li avevo lasciati, e l'istinto del possesso è così forte che provai sollievo nel vedere che nessuno aveva preso ciò che ormai consideravo mio. Non c'era nessuno nei paraggi, e dopo essere andato in riva al fiume, essersi tolto le scarpe e aver lavato le calze, il mio compagno risalì a piedi nudi fino al punto in cui mi ero seduto. Prese posto accanto a me, si cinse le ginocchia con le braccia e guardò scorrere l'acqua lenta e marrone del fiume. «Sei uno sbirro?», chiese in tono piatto, come se la cosa non gli importasse. Aveva sbagliato a identificarmi, ma il fatto stesso che ci avesse provato mi fece capire che avevo fallito. «No», risposi. «Quando sei arrivato qui, ieri sera, gli altri volevano alleggerirti». «Alleggerirmi?». «Sì. Darti una botta in testa e rubarti quello che avevi. Gli ho detto che era meglio di no, che potevi essere uno sbirro». Abbassai gli occhi sulle mie scarpe. Uno scarafaggio stava attraversandomi la punta della scarpa e scendendo dall'altra parte. La ghiaia cedette e l'insetto rotolò sul dorso, agitando impotente le zampette nel vuoto. Lo
raddrizzai con un'unghia e lo osservai mentre si portava in salvo. «Quando vivi in strada, sai che non è il caso di arrivare in un posto quando è buio». Il mio compagno infilò la mano in tasca per prendere la bottiglia di whisky. «E poi non ti muovi nel modo giusto: sei troppo svelto, troppo agile. Non sei uno di noi». Bevve un sorso e mi offrì la bottiglia. La presi, pulii l'apertura con la base della mano e me la portai alle labbra. Il liquore mi scese in gola come fuoco e acido, e per un attimo credetti che mi avesse bruciato la laringe e tolto il dono della parola. Una seconda ondata mi bruciò le narici e mi fece avvampare le orecchie. «Grazie», dissi stringendo i denti e restituendogli la bottiglia. «E grazie per ieri sera. Ma non sono un poliziotto. Per quale ragione un poliziotto dovrebbe venire in questo posto?», chiesi colpendo il terreno. «Non sei uno sbirro? E come mai i tuoi vestiti sono così nuovi?». «Perché non badi ai fatti tuoi?», scattai fingendomi infuriato. «Non hai voluto dirmi da quanto vivi in questo modo, e io dovrei? Chi diavolo sei?». Non rispose. Si limitò a passarmi di nuovo la bottiglia. Non avevo scelta, se volevo che continuasse a parlare con me. Bevvi un altro sorso, e stavolta bruciò di meno. «Ogni tanto vengono a cercare la droga. Una settimana fa sono venuti in forze, ci sono piombati addosso. Non stavamo facendo niente. Hanno arrestato un tizio perché aveva un coltello. Dicevano che aveva ucciso qualcuno. Sono tutti pazzi». Si grattò una guancia e mi tolse di mano la bottiglia. Non restava molto whisky, e la scolò con una sorsata. «Stasera devo procurarmene un'altra», affermò in tono pratico. Altri due senzatetto apparvero sul versante opposto del ponte e scesero fino al fiume. «Questa notte non ti conviene restare», mi avvertì il mio compagno. «Meglio che trovi un altro posto». «Se mi va ci resto», insistetti lanciando un'occhiata carica di disprezzo ai due in riva al fiume. «Il tizio con il coltello non ha ucciso nessuno?», chiesi cercando di sembrare indifferente. Il mio compagno si picchiettò la tempia. «Ritardato. Facevamo del nostro meglio per badare a lui. Non era nemmeno suo, il coltello». Guardando la riva opposta del fiume, raccolsi un sasso e lo lanciai in acqua. Ne presi un altro. «E allora di chi era?», domandai facendolo volare. Non udii alcuna risposta e mi voltai. Il mio compagno mi fissava con un ghigno grottesco sul volto. «Sicuro di non essere uno sbirro?». Trovai un altro sasso. «Vaffanculo», grugnii lanciandolo. Tornai a guardarlo e attesi.
«Di un piccoletto con lo sguardo da matto. È rimasto con noi un paio di giorni, e ha fatto amicizia con il ritardato. Una sera l'abbiamo beccato, però. Gli aveva calato i pantaloni e stava cercando, hai presente, di fargli delle cose. L'abbiamo cacciato». «Cacciato?». «Già, l'abbiamo scaraventato nel fiume». «Che ne è stato di lui, dopo che l'avete gettato nel fiume?». Mi guardò e scrollò le spalle. «Non so. Non l'ho visto risalire». Lottai contro l'ondata di panico che mi sorgeva nel profondo. Colui che aveva dato il coltello a Danny era scomparso e probabilmente era morto. Non sapevamo nemmeno come si chiamava, e l'unico che poteva testimoniare sulla sua esistenza era un ubriacone senzatetto che probabilmente l'aveva ucciso. «Eravamo abbastanza stufi di quel cretino, in ogni caso», gli udii dire. «Se ne andava sempre in giro a borbottare, e ogni volta che doveva pisciare veniva a chiedermi il permesso. Te l'ho detto, era matto. Era matto lui, sono matti gli sbirri, sono tutti matti. Devo andare a prendere un'altra bottiglia», disse senza fare una pausa. Si alzò a fatica. «Vuoi venire?». Lo accompagnai fino a una bottiglieria e prima che entrasse gli dissi di prendere qualcosa anche per me. Gli misi in mano qualche biglietto piegato e dissi che l'avrei aspettato fuori. Mentre mi allontanavo, mi chiesi che cosa avrebbe comprato quando avesse scoperto che invece di due dollari gli avevo dato due biglietti da venti. Malgrado si definisse città, Portland, o almeno quella parte che era rimasta sullo stesso versante del fiume, non era più grande di un quartiere di New York. Potevi attraversarla a piedi in meno di venti minuti, e io raggiunsi l'abitazione di Howard Flynn in meno di dieci. Le tende erano scostate, ma l'appartamento era buio. Flynn viveva da solo e non usciva mai, se non per andare a un incontro degli Alcolisti Anonimi o per aiutare un amico bisognoso. Salii i ripidi gradini che conducevano alla porta d'ingresso immersa nel buio e d'un tratto, per la prima volta dall'inizio di quella giornata, mi sentii stanco. Posai la fronte sulla pesante porta di legno e suonai il campanello. Staccai il dito, attesi e quando non udii alcun suono dall'interno lo premetti di nuovo. Non vi fu risposta. Feci un ultimo breve affondo sul pulsante, mi scostai dalla porta e mi lasciai cadere sul primo gradino, appesantito dalla stanchezza. In un primo momento credetti che fossero i fari di un'auto di passaggio, e chiusi gli occhi per evitarne il bagliore. Poi udii il chiavistello che girava,
mi aggrappai alla ringhiera sopra di me e mi alzai a fatica. In piedi sulla soglia, le gambe pelose che gli spuntavano da sotto una logora vestaglia di flanella chiusa da una cintura di cotone di un colore diverso, Howard Flynn batté le palpebre alla luce abbagliante dell'ingresso. Mi diede una occhiata e scosse il capo. «Come hai fatto a sapere che ero io?», domandai mentre lui mi richiudeva la porta alle spalle. Flynn accese la luce nel piccolo atrio e mi squadrò da capo a piedi. «Come mai me lo chiedi?», replicò con una scrollata di spalle. «Soltanto perché non porti la cravatta?». «Per quale ragione ci hai messo tanto ad aprire?», domandai irritato seguendolo in cucina. «Speravo che la piantassero di suonare e se ne andassero». Flynn esitò e si schiarì la gola. «A dire il vero, stavo guardando la televisione e sulle prime non ti avevo sentito», confessò. «Come puoi non sentire quell'affare? Fa lo stesso fracasso di una sedia elettrica, per l'amor del cielo», brontolai. «Per essere un senzatetto sei alquanto esigente. Siediti», mi ordinò lui. «Ti preparo un caffè. Hai l'aria di averne bisogno». Mentre Flynn versava diligentemente tre cucchiai di caffè macinato nel filtro di carta, attesi seduto a un tavolino di formica affacciato su un atrio quadrato. Al centro del tavolo, come sempre, c'era una ciotola di vetro colma di frutta artificiale: banane di cera gialla, mele rosse, uva verde e viola. Un morso su una delle mele, lasciato dai denti del figlio deluso di un amico ormai dimenticato, aumentava l'effetto realistico. Flynn riempì d'acqua la macchina del caffè e l'accese. «Il mio amico, lo psicologo, ha visitato Danny», disse. Fissò il contenitore di vetro della macchina, osservando le gocce che cominciavano a formarsi e a cadere spargendo il liquido scuro e denso sul fondo. «È venuto fuori che non è ritardato, non nel senso classico. Fox crede che abbia ventitré, ventiquattro anni. Non può esserne sicuro, perché Danny non lo sa. Viveva da qualche parte in campagna, nei pressi di un fiume. Fox pensa che possa venire dalla zona di Roseburg o Grants Pass». Il caffè continuava a scendere, aumentando gradualmente velocità fino a diventare un rivolo sottile. «È possibile che sua madre fosse ritardata. Non era sposata, Danny non aveva un padre vero e proprio, ma per casa girava sempre qualche uomo. Abusavano di lui, probabilmente fin da quando era piccolo: abusi sessuali,
abusi fisici, atti malvagi, depravati, terribili. Fox pensa che le bruciature di sigaretta siano solo un dettaglio». Flynn si girò, posò le mani sul banco dietro di sé, mi guardò con aria cupa e poi abbassò gli occhi a terra. «Non è mai andato a scuola, non è mai andato da nessuna parte. Quando non era chiuso in una stanza, era incatenato in cortile come un cane». Alzò lo sguardo. «La madre non ne ha colpa. Non hai mai conosciuto una ragazza di quel genere, da giovane, una ragazza un po' lenta di comprendonio, un po' ritardata, di cui i maschi sapevano sempre come approfittarsi? Probabilmente era il suo caso: una giovane ritardata priva di genitori che si ritrova incinta, partorisce a casa, vive alla giornata e diventa la vittima di ogni singolo malvivente della contea, finché un bel giorno uno di quegli stronzi non comincia a divertirsi con il bambino». All'improvviso, come se fosse sbucato dal nulla, un gatto arancione con un orecchio dilaniato e un grosso mozzicone al posto della coda mi balzò in grembo e da lì sul tavolo. Con la velocità di un pugile, Flynn fece scattare in avanti la mano, afferrò il gatto per la collottola e lo proiettò fuori dalla cucina. «Nomo ha il divieto di salire sul tavolo», spiegò versandomi il caffè. Era difficile decidere se mostrarsi più sorpresi dalla velocità dei movimenti di Flynn o dal volo che il gatto aveva fatto prima di atterrare senza un lamento in corridoio. «Nomo?», domandai. Flynn mi porse una tazza di caffè e prese posto sull'altra sedia. «Sì. È un diminutivo di Nomellini. Ricordi Leo Nomellini? Giocava nei San Francisco 49ers negli anni Cinquanta. Leo "Leone" Nomellini?». Non lo ricordavo, sempre che l'avessi mai saputo, ma non mi sorprendeva che Flynn lo conoscesse. «Hai dato il nome di Nomellini al tuo gatto perché somiglia a un leone?». Flynn roteò gli occhi. «No, perché è grosso e stupido». Per l'avvocato che era in me, ogni risposta era un invito a una nuova domanda. «Come fai a sapere che Nomellini era grosso e stupido?». «Era un difensore», spiegò pazientemente. «Lo era per definizione, grosso e stupido». «Non giocavi anche tu in difesa?». Annuì. «Significa che so quello che dico», tagliò corto alzandosi. Lo seguii lungo un breve, stretto corridoio fino alla più piccola delle due
camere da letto, quella che da quando lo conoscevo fungeva sia da studio che da camera degli ospiti. Gli unici mobili erano una scrivania, una sedia, un televisore e un divano-letto beige. Flynn spense la televisione, si sedette alla scrivania e prese a sfogliare un fascio di cartelle marroncine. Si era allentato la cintura della vestaglia. Sedendosi sulla sedia dietro una scrivania che non era altro che una porta di legno posata su due blocchi di cemento, i lembi della malconcia vestaglia si erano afflosciati sulla moquette rosa. Flynn portava una maglietta bianca e un paio di mutande a calzoncino a righe bianche e azzurre. Le pieghe intorno ai suoi occhi erano gonfie come quelle di un pugile anni dopo che ha abbandonato il ring. La sua bocca si muoveva in silenzio mentre leggeva i nomi dei dossier. «Era qui», borbottò. «Ah, eccolo», disse sfilando un sottile rapporto le cui pagine erano raccolte da una graffetta di plastica blu e porgendomelo. «Per la maggior parte sono supposizioni, ma non credo che siano molto lontane dalla verità. Il ragazzo non è mai andato a scuola, non ha mai avuto un amico, mai nessuno con cui parlare. Non è ritardato, non dal punto di vista clinico. La sua mente è perfettamente a posto. È socialmente ritardato; è quello che ti aspetteresti se chiudessi un bambino in una stanza per i primi quattordici o quindici anni della sua vita e lo lasciassi uscire soltanto per maltrattarlo. Eccetto che per una cosa», aggiunse scuotendo la testa con una punta di meraviglia. «In lui non c'è nulla di malvagio. È un innocente. È come un cane che continua a tornare malgrado tutti lo prendano a calci, nella speranza che magari stavolta qualcuno lo tratti con un po' di gentilezza», disse usando la stessa analogia che io avevo adottato con Jennifer quando avevo cercato di descriverle il ragazzo. Inspirò profondamente ed espirò con fare stanco. Nell'udire il suo respiro tornai a sentire la mia stanchezza. Abbandonandomi nell'angolo del divano tesi le gambe finché non vidi le mie scarpe luride e incrostate di fango. «Scusami», dissi tirandomi su. Immerso nei suoi pensieri, Flynn non mi udì. Il mio sguardo vagò alle sue spalle, posandosi su una fotografia che si scorgeva a malapena sullo scaffale dietro la sua sedia. Come la ciotola di frutta artificiale in cucina, la cornice d'argento ossidato era sempre nello stesso posto. «Quanti anni avrebbe?», domandai in un tono di voce che era più simile a un sussurro. Flynn non si voltò, e io mi chiesi se guardasse ancora quella fotografia, il ritratto del bambino dallo sguardo allegro fra le braccia possenti del suo giovane padre.
Un sorriso maldestro gli fece capolino sul volto, svanì e comparve di nuovo. «Ventinove il mese scorso. Difficile a credersi, vero? Dove se n'è andato il tempo?». Fece vagare lo sguardo in lontananza. Poi si alzò, si allacciò la cintura in vita e aprì la porta dell'armadio a muro. «Ho qualcosa che puoi metterti. Fatti una doccia e datti una sistemata, poi ti accompagno a casa. È meglio che non ti presenti in queste condizioni», disse con una risatina sommessa. Eravamo giunti a metà del vialetto quando la luce sul portico si accese e Jennifer, vestita con una vestaglia di cotone lunga fino alle ginocchia, corse fuori e cominciò a sbracciarsi. Quando Flynn accostò davanti alla casa, il fascio dei fari la illuminò di passaggio. Jennifer scese scalza i gradini immersi nel buio e mi si gettò fra le braccia mentre scendevo dall'auto. «Credevo che saresti rimasto via chissà quanti giorni». Tendendosi in punta di piedi e cingendomi il collo con un braccio, mi carezzò la guancia con una mano. «Ti sei fatto la barba». «Di' ciao ad Howard Flynn», dissi aprendo la portiera posteriore dell'auto. Le mani giunte dietro la schiena, Jennifer spostò lo sguardo sul sedile di sinistra. «Ciao, Howard Flynn. Grazie per aver riportato a casa il mio derelitto». Tesi la mano nell'abitacolo e raccolsi il grosso fagotto degli indumenti che avevo indossato nel mio breve soggiorno fra i senzatetto. Con la coda dell'occhio vidi Flynn arrossire leggermente, diventando formale e impacciato nel tentativo di fare il gentile. Cingendo la vita di Jennifer con un braccio, risalii i gradini del portico e osservai le luci di posizione dell'auto allontanarsi lungo il vialetto e oltre il cancello. Giunti in casa, Jennifer mi tolse di mano il fagotto, lo lasciò cadere a terra e mi baciò sulla bocca. La presi in braccio e salii le scale che portavano in camera da letto. Lei scivolò sotto le lenzuola e cominciò a canzonarmi sui miei enormi indumenti in prestito; poi, quando me li fui tolti, spense la luce. Facemmo l'amore con un'intensità tutta nuova, e alla fine, distesi al chiaro di luna che si riversava dalla finestra, lei posò la sua mano nella mia. «L'unica cosa che desidero è vivere con te e morire con te, vivere insieme, morire insieme, io e te soli, come ci dicevamo che sarebbe stato. Ricordi?». Ricordavo quando l'avevamo detto per la prima volta e ripetei le stesse
parole, le stesse promesse; ma non era la stessa cosa. Avevamo vissuto esistenze separate, e sapevamo che ciò che ci eravamo giurati, che da soli non saremmo mai sopravvissuti, era stata non tanto una menzogna quanto una cosa non vera. Nell'innocenza della nostra giovinezza avevamo creduto che amore e morte fossero le uniche alternative, ma avevamo imparato che la vita non era né così semplice né così clemente. Aggrappandomisi al collo, Jennifer mi strinse più forte che poté. «Amami e basta, amami per sempre, ti prego». La cinsi con un braccio e le schiusi le dita sulle reni, cercando di alleviare la tensione che la irrigidiva. Il suo respiro affannoso e singhiozzante cominciò a rallentare, e dopo un po' fui a malapena in grado di avvertire il battito del suo cuore; poi la sua mano lasciò la presa sul mio collo e il suo braccio mi scivolò sulla spalla. La guardai dormire a lungo, pensando a come le cose più importanti sembrino capitare per caso, chiedendomi se il caso non fosse altro che una parola dietro la quale ci nascondiamo quando non vogliamo credere che ogni cosa è stata decisa dal fato. Il mattino dopo trovai Jennifer che danzava in cucina, canticchiando fra sé mentre con una mano riponeva i piatti puliti e con l'altra sciacquava una pentola. Senza smettere di muovere le mani mi diede un bacetto sulla guancia e mi ordinò di sedermi a tavola. La guardai socchiudendo gli occhi ancora gonfi di sonno, barcollai fino alla macchinetta del caffè e mi riempii una tazza. Lei rimase a guardare con divertita indulgenza mentre mi trascinavo fino al tavolo e crollavo su una sedia. Si sedette su quella di fronte e bevve un sorso di caffè con espressione pensierosa. «Parlami di Howard Flynn», disse poco dopo. «Flynn? È un investigatore privato. Molto tempo fa era un avvocato», risposi facendo scorrere lo sguardo per la cucina fino alle finestre che facevano entrare la luce gialla del mattino. «Mi hai detto che è stato espulso dall'albo perché si era presentato ubriaco in tribunale e aveva detto cose che non avrebbe dovuto dire». I miei occhi tornarono su Jennifer. Sembrava non dimenticare nulla, qualunque cosa fosse e per quanto si perdesse nel passato. «Che cosa gli è successo?», domandò. Spostai di nuovo lo sguardo sulla finestra e scossi il capo. «È una storia terribile», dissi, riluttante ad aggiungere altro. «Non sei costretto a raccontarmela, se non vuoi». «Non è questo», dissi cominciando a mescolare il caffè. «È veramente terribile, il genere di storia che non ha una fine».
«Esiste forse qualche storia che ce l'ha?». La sua voce era come un lungo, lento sospiro che ti faceva provare il desiderio di trattenerti ad ascoltarla. «La nostra storia non ce l'aveva». Riflettei su ciò che aveva detto. «No», osservai poco dopo. «La nostra storia non è finita, anzi è diventata più bella, ma quello che è successo a Flynn... «Howard Flynn era un grande atleta, uno dei migliori giocatori di football che si fossero mai visti al liceo. Era alto un metro e novanta, pesava centoventi chili, aveva un collo enorme e la testa come un barilotto ed era veloce come un gatto. Ogni college lo voleva; tutti gli assicuravano che sarebbe diventato uno dei migliori giocatori d'America. E lo divenne, nel corso del secondo anno di università fu seconda riserva nella selezione nazionale. Ma Flynn non giocava a football perché gli piaceva; giocava perché era bravo e per pagarsi gli studi. Se fosse venuto da una famiglia benestante, non credo che avrebbe mai cominciato. Flynn voleva diventare avvocato, l'aveva voluto fin da quand'era ragazzo. «Studiava sempre, non usciva quasi mai. In campo aveva la potenza di una squadra di demolitori, ma quand'era in mezzo agli altri era tranquillo, timido, sempre educato. Non lo so per certo, ma sarei sorpreso se scoprissi che al liceo era uscito con qualche ragazza. Ma all'università era uno dei migliori giocatori d'America, e le stesse ragazze che non l'avrebbero degnato di uno sguardo volevano stare con una celebrità. Ce n'era una in particolare: piccola, meno di un metro e sessanta, con brillanti occhi neri e un sorriso grazioso. Si chiamava Yvonne Montero, e lei e Flynn cominciarono a frequentarsi. Tutti volevano un gran bene a Flynn, e tutti erano contenti che avesse finalmente una ragazza. Non importava che lei se la fosse fatta con la metà degli studenti del college. Flynn non ne sapeva niente, e a parte questo non facevano che uscire insieme. Nessuno pensava che fosse una cosa seria, ma naturalmente lo era. Per la prima e unica volta nella sua vita, Howard si era innamorato, allo stesso modo in cui io mi ero innamorato di te. Si sposarono il giorno dopo la laurea di Flynn, e lei probabilmente cominciò a tradirlo il giorno successivo». Cercai di controllare la rabbia con un profondo respiro. «Se vogliamo essere giusti, lei accettò di lavorare mentre Howard si specializzava. Tre anni dopo, Howard superò l'esame di ammissione all'ordine e ottenne un buon impiego in un ottimo studio legale. Qualche mese dopo nacque il loro bambino, Howard Flynn Junior. Il giorno in cui vide per la prima volta suo figlio fu il più felice della vita di Howard, forse l'ultimo giorno veramente felice che abbia avuto».
Intrecciai le dita sopra la testa e presi a fissare fuori dalla finestra dondolandomi sulla sedia. «Cosa accadde?», domandò Jennifer riscuotendomi dai miei pensieri. «Un giorno, circa due anni dopo, mentre Flynn era in tribunale, sua moglie era a letto con un altro uomo, con cui aveva una relazione da più di un anno. Il bambino dormiva in camera sua. Si svegliò e andò in salotto in cerca della madre. La porta a vetri che dava sul giardino posteriore era stata lasciata aperta. Quando accadde la madre era in camera da letto e stava facendo l'amore. Non lo udì cadere in piscina, non lo udì chiamare aiuto, non udì nulla se non i suoni che faceva lei stessa mentre tradiva il marito. «Il bambino annegò, e quel giorno morì anche Howard. Se ne faceva una colpa. Strano, no, che dopo quello che aveva fatto sua moglie Howard incolpasse se stesso? Pensava che avrebbe dovuto capire prima che era tutto troppo bello perché potesse durare. Sua moglie sta facendo sesso con un altro uomo nel loro stesso letto, suo figlio annega a causa di ciò e Howard si convince che avrebbe dovuto sapere di sua moglie e allora avrebbe potuto salvare il bambino». «E la madre, la moglie di Howard? Non si sentiva in colpa?». «Non credo fosse in grado di sentirsi in colpa. Se ne andò subito dopo. L'ultima volta che Howard la vide fu al funerale. Aveva organizzato tutto lui, tutto da solo. Per un po', per qualche mese, mantenne la solita routine. Ogni giorno andava in ufficio e svolgeva il suo lavoro, tenendosi dentro il suo dolore. Ma un bel giorno accadde qualcosa, immagino una sorta di reazione ritardata. Cominciò a bere e non si fermò. E poi Jeffries prese a tormentarlo, a ridicolizzarlo, a umiliarlo di fronte a tutti. Alla fine, Flynn mandò tutto al diavolo e disse a Jeffries quello che pensava. Era ubriaco quando lo fece, ma dentro di sé aveva una tale rabbia e un tale dolore che probabilmente l'avrebbe fatto anche se fosse stato lucido. La questione non era se sarebbe esploso, ma quando, e Jeffries era così incredibilmente facile da odiare». Jennifer piegò le ginocchia sotto il mento e le cinse con le braccia. «È per questo che si è affezionato a quel Danny? A causa di ciò che è successo a suo figlio?». Sulle prime non capii, ma poi, guardandola negli occhi, cominciai ad afferrare ciò che intendeva. «Non ci avevo pensato», ammisi, «ma mi sa che hai ragione. Sono sicuro che se ne fa ancora una colpa; forse pensa di poter riparare almeno in parte aiutando qualcun altro». Il sorriso triste sulla sua ampia bocca sembrava quello di una bambina a
cui fosse stato spezzato il cuore. «Forse, in un certo senso, vede quel ragazzo come suo figlio. Mi hai detto che Danny è un bambino di tre anni in un corpo da adulto. È quello che sarebbe il figlio di Howard se non fosse annegato, se fosse semplicemente scomparso e fosse stato ritrovato dopo tutti questi anni». Mi guardò con gli occhi socchiusi. «Lo facciamo tutti, non è vero? Immaginiamo che una persona che non vediamo da tanto tempo non sia veramente cambiata, non nel profondo, malgrado gli anni che sono passati per entrambi». Mi chiesi se stesse parlando di noi, e mentre guardavo un'espressione agrodolce formarsi sul suo volto sentii un nodo allo stomaco, temendo di averla delusa, temendo di essere cambiato più di quanto lei avesse immaginato. Il suo sguardo divenne ancora più distante mentre le sue braccia stringevano le ginocchia al petto. «Va tutto bene?», chiesi. In un primo momento pensai che non mi avesse udito, ma un istante dopo batté due volte le palpebre come per liberarsi da una ragnatela e si drizzò a sedere. Con un'espressione allegra negli occhi aggirò il tavolo, mi si sedette in grembo e mi cinse il collo con le braccia. «Ti amo, Joseph Antonelli, e ti sposerò quando vuoi. Domani, se ti va». Lasciò la presa sul mio collo, e con l'ombra di un sorriso sulle labbra fragili e vulnerabili mi guardò come se stesse fissando la sua immagine riflessa e ormai quasi dimenticata. Senza dire una parola, senza emettere un suono, si alzò lentamente, mi prese nella sua mano morbida e mi ricondusse di sopra. 22 Il dottor Friedman mi stava aspettando. Un sorriso nervoso gli comparve sulle labbra, svanì e stava per riemergere quando mi lasciò andare la mano, spostò lo sguardo e indicò la sedia senza braccioli di fronte alla scrivania di metallo. «Cominciavo a pensare che non volesse vedermi», dissi. Aveva appoggiato la caviglia su un ginocchio e intrecciato le mani in grembo. Strinse ripetutamente i denti e batté rapidamente le ciglia. Mi chiesi se mi avesse sentito. «Perché vuole rivedere Elliott?», domandò subito dopo, concentrando l'attenzione sui repentini movimenti dei suoi pollici. Avrebbe potuto rivolgermi quella domanda in qualsiasi momento delle
ultime tre settimane. Helen l'aveva cercato ogni giorno al telefono, e ogni giorno c'era stata una nuova scusa, una nuova ragione per cui il dottor Friedman non aveva potuto richiamare. «Non m'interessa rivedere Elliott». Ruotai la mano destra e finsi di esaminarmi le unghie. «Sono venuto a parlare con lei». Smise di battere le palpebre e sollevò lentamente gli occhi su di me. «È venuto a parlare con me?». Mi esaminai le unghie con più attenzione. «Sì, con lei». Serrai le dita a pugno e abbassai la mano accanto alla gamba. «Ricorda un paziente di nome Jacob Whittaker?». Fece ruotare la sedia girevole e posò entrambe le mani sulla scrivania. «Parla del paziente che ha ucciso il giudice?». «Sì, il giudice Calvin Jeffries, il giudice che ha sposato la moglie di Elliott Winston. Si ricorda? Ne abbiamo discusso l'altra volta». Tamburellando con le dita sul tavolo, mi scoccò un'occhiata intesa a suggerire che aveva troppo da fare per ricordare quello che potevamo aver discusso. «Si ricorda», ripetei, ricambiando la sua occhiata e facendogli capire che non gli credevo. «Sì, naturalmente. Mi ero scordato il nome», disse minimizzando. «Cosa vorrebbe sapere di lui? Temo di non poterle dire molto. Non era uno dei miei pazienti». «Di chi era?». «Non lo so. Dovrei controllare». «Non lo conosceva affatto?». «No, non direttamente. Deve capire, signor Antonelli, che noi abbiamo centinaia di pazienti, e ne arrivano continuamente di nuovi». Mi sporsi in avanti e lo guardai negli occhi. «Ma sapeva che era fuggito?». «No, a dire il vero non lo sapevo. Vede, a rigor di termini non è fuggito. Era uscito in permesso, e in quel caso non era rientrato». «In quel caso? Intende dire che era già uscito in precedenza?». Friedman parve sorpreso che l'avessi chiesto. «Certamente. Whittaker era con noi da anni. Era stabile, a patto che assumesse i suoi farmaci. Il suo reinserimento nella comunità era in pieno svolgimento». Esitò, poi soggiunse: «Non stava andando tutto liscio. Per un certo periodo aveva avuto un appartamento e un impiego come lavapiatti in un ristorante. Ma non voleva seguire le regole. Ciò succedeva un paio d'anni fa. Da allora le sue u-
scite erano state abbreviate a pochi giorni, e invece che in un appartamento tutto suo era stato sistemato in un centro di reinserimento». «Quali regole?», chiesi. «Cos'aveva fatto per provocare un altro ricovero?». Friedman si rilassò sulla sedia e scrollò le spalle. «Non lo so di preciso. Come le ho spiegato, non era un mio paziente. So soltanto quello che le ho detto, perché dopo ciò che è accaduto il suo caso è stato l'argomento di una riunione dello staff». «E...?». Inarcò le sopracciglia. «E cosa?». «Qual è stato il risultato della riunione?». «Tutto era stato fatto correttamente, sulla base delle sue condizioni», rispose abbassando gli occhi. «Era ricoverato qui perché aveva ucciso il padre, se ricordo bene. Malgrado ciò viene lasciato uscire, uccide un giudice, o forse dovrei dire lo massacra, e secondo voi è tutto regolare?». Sospirò. «Ascolti, signor Antonelli», disse alzando lo sguardo di quel poco che bastava a scoccarmi un'occhiata di traverso, «noi facciamo del nostro meglio. Sono il primo ad ammettere che il nostro meglio non è sempre sufficiente. Ma cosa vuole che facciamo?». Agitò la mano verso la finestra alle sue spalle. La luce radiosa della giornata estiva dipingeva un bagliore opaco sul vetro lurido. «Cerchiamo di far guarire la gente perché possa vivere là fuori. Non siamo una prigione, siamo un ospedale. A volte i nostri pazienti sono più malati di quanto pensiamo; altre volte migliorano per poi riammalarsi. Quello che è accaduto è terribile. Ma se mi domanda se sulla base della stessa diagnosi, dello stesso trattamento e degli stessi risultati dei farmaci che il paziente stava assumendo, darei il mio assenso al programma di reinserimento, le risponderei di sì. Assolutamente. Sarei del tutto sicuro che il paziente non rischia una ricaduta, un episodio psicotico? No, non lo sarei. So che none particolarmente soddisfacente, ma le cose stanno così. È quello che facciamo, qui. Curiamo i malati». Fece per rilassarsi sulla sedia, ma gli venne in mente qualcos'altro. «Lei difende individui accusati di aver commesso dei crimini. Non ha mai fatto scagionare qualcuno che poi ha infranto di nuovo la legge? Non ha mai ottenuto l'assoluzione per un assassino che poi ha ucciso ancora? E questo ha forse significato che lei non l'ha rifatto? Che non ha difeso qualcuno pur sapendo che se avesse vinto il suo caso, e l'avesse fatto assolvere, avrebbe potuto fare del male al prossimo?».
Non ero dell'umore giusto per concedergli di rifugiarsi in una falsa analogia. «Il mio lavoro è erigere una difesa, il suo è sincerarsi che gli individui pericolosi per se stessi e per gli altri non facciano del male al prossimo». Sapeva di aver toccato un punto dolente, e ciò lo soddisfece abbastanza da convincerlo a non discutere. «Sono sicuro che facciamo entrambi del nostro meglio. Ha accennato a un altro caso?», chiese con un rapido sorriso professionale. Lo ignorai. «E va bene, non era un suo paziente. Elliott lo conosceva?». «Chi, Whittaker? Non lo so. È possibile». «Possibile? Non sapete chi si conosce, fra i vostri pazienti?». Friedman alzò il mento e socchiuse gli occhi. «È possibile che si conoscessero», ripeté. «Ci sono centinaia di pazienti nel manicomio criminale. E anche se l'avesse conosciuto, dove vuole arrivare? Qui dentro non significa la stessa cosa che là fuori», soggiunse con un cenno del capo verso la finestra e il mondo esterno. «Qui abbiamo individui che dormono uno accanto all'altro senza mai scambiarsi una parola. Abbiamo pazienti che non aprono mai bocca. Questo è un ospedale psichiatrico, signor Antonelli, non è una casa di cura privata per gente ricca e intelligente che non si sente troppo bene», disse con un'occhiata condiscendente. «E così, visto che alcuni di loro non sono in grado di parlare, non prestate attenzione a quello che si dicono gli altri?», chiesi in tono aspro. «Per quanto ne sapete, potrebbero passare il tempo libero a pianificare l'assassinio di metà degli abitanti di Portland». «Di nuovo, signor Antonelli, temo che lei confonda l'ospedale di stato con la prigione di stato. Noi forniamo le cure e un domicilio decoroso e sicuro a chi soffre di gravi turbe mentali». Pronunciò le parole della definizione ufficiale con cieca sicurezza. Sembravano rammentargli chi era, ricordargli i grandi vantaggi che aveva su chiunque non possedesse la sua istruzione. Mi guardò con una sorta di tolleranza e divenne, a suo modo, quasi rispettoso. «Le devo le mie scuse, signor Antonelli. So che il suo ufficio ha cercato a lungo di fissare un appuntamento. È solo che nell'ultimo periodo ho avuto molto da fare. E quando stamattina la sua segretaria ha telefonato per avvertire che lei era già in viaggio, mi sono un po' irritato... più che altro con me stesso, lei capisce». Congiunse i polpastrelli, fissò il suo sguardo attento su di me e attese dietro la sua maschera professionale. «Elliott è mai uscito in permesso come Whittaker?».
Scosse il capo. «No, mai. Magari un giorno accadrà, ma... Perché me lo chiede? Non immaginerà che abbia avuto a che fare con l'omicidio del giudice Jeffries? È per questo che voleva sapere se conosceva Whittaker?». Scosse nuovamente la testa, stavolta in modo più deciso. «È impossibile». «Per quale ragione è impossibile? Si sa di individui che hanno convinto altri a uccidere per loro. Perché dovrebbe essere impossibile? Lei non sa se Elliott conosceva Whittaker, e se lo conosceva di sicuro non sa cosa si dicevano». «È impossibile», insistette allargando le braccia. «Conosco Elliott. Lavoro con lui ormai da anni. Ricorda a malapena quello che gli è accaduto. È stato troppo traumatico». «Ricorda che voleva uccidermi, e ricorda il perché». «Sì, ma si rende conto che era malato e che quello che pensava allora aveva poche basi, se non proprio nessuna, nella realtà. Non incolpa nessuno per ciò che gli è successo. Sa che si tratta di una malattia. No, temo che lei si sbagli», disse guardandomi da sopra la punta delle dita mentre tornava a premerle fra loro. «E poi ha dimenticato una cosa. Anche se dopo tutto questo tempo avesse avuto intenzione di fare una cosa simile, come avrebbe potuto convincere Whittaker ad agire per lui? I casi di cui lei parla... non sono di solito omicidi commessi per denaro o per un sentimento amoroso fuorviato? Cosa aveva da offrire Elliott?», domandò con un sorriso irritante. «Dunque crede che sia una semplice coincidenza?». «Sì, perché no? Una coincidenza sfortunata», disse con espressione accigliata. «Un paziente uccide un uomo che non conosce. Il semplice fatto che un altro paziente, che potrebbe non avere mai conosciuto il primo, avesse avuto a che fare con la vittima una dozzina d'anni prima, prima di essere ricoverato... È un po' tirato, non trova?». «Ora è lei che dimentica qualcosa. È fuggito un altro paziente». «Cosa sta dicendo? Dopo Whittaker non è più scappato nessuno. Glielo posso assicurare, signor Antonelli». Vide la sorpresa sul mio volto. «Perché? Cosa le ha fatto pensare che sia successo di nuovo?». Doveva sbagliarsi, e mi chiesi se stesse mentendo. «Non è fuggito nessuno dal manicomio criminale? Nessun paziente uscito in permesso che non è rientrato?». Lo guardai negli occhi cercando di scoprire se vi fosse qualcosa che stava cercando di nascondermi. Se c'era, non lo diede a vedere. «No, gliel'ho detto, nessuno dopo Whittaker», insistette. «Glielo posso
assicurare, siamo ancora più prudenti di prima con le questioni di sicurezza». Premette le labbra in un breve sorrisetto burocratico e sottolineò la decisione che non c'era più niente da dire con un cenno secco del capo. L'istante successivo era in piedi, diretto a passi rapidi verso la porta, dove attese che lo raggiungessi rivolgendomi un altro sorriso stridente. «Mi dispiace di non avere più tempo. Se vuole vedere Elliott, l'accompagno». Attraversammo il parcheggio diretti verso l'edificio principale. Un uomo canuto e dalle spalle curve vestito con una camicia di cotone stava regolando i cespugli sotto le finestre del pianterreno con un paio di cesoie dalle lame di acciaio. Alzai la testa e socchiusi gli occhi alla luce del sole, guardando la sfera di metallo dipinto in cima al pennone sulla cupola. Era spoglia: l'uccello che avevo visto la prima volta aveva trovato un altro rifugio. Friedman percorreva l'ampio corridoio con fare compreso, ignorando le mie occasionali osservazioni come se fosse troppo preoccupato dai suoi impegni per sprecare altro tempo. Giunti alla rete metallica che delimitava l'area in cui veniva tenuto Elliott, si frugò in tasca alla ricerca della chiave. «Prima di andarmene vorrei dare un'occhiata al fascicolo di Elliott», dissi mentre apriva il cancello. Si fermò con entrambe le mani sul bordo. «Impossibile», rispose accigliandosi. «Le cartelle cliniche dei pazienti sono confidenziali. Sa bene che non posso permetterglielo». All'estremità più lontana della sala, un gruppo di pazienti era raccolto attorno a un tavolo accanto a una finestra sbarrata. Nell'udire la voce di Friedman, Elliott Winston alzò la testa e si guardò intorno. Subito sembrò irrigidirsi e ritrarsi in se stesso. I suoi compagni lo interpretarono come un segno e si allontanarono alla chetichella, guardandomi con occhi curiosi e sparpagliandosi in diversi punti della sala. Elliott fissava un punto in lontananza davanti a sé, e le sue fattezze pallide erano rigide come il ghiaccio. Era la stessa espressione, o forse dovrei dire la stessa maschera, che aveva assunto la prima volta che ero andato a trovarlo. L'interrogativo che aveva appena cominciato a prendere forma nella mia mente era se in quei momenti si perdesse in un mondo tutto suo oppure volesse mascherare un esame così attento che se fosse stato più esplicito avrebbe spinto il suo interlocutore a ritrarsi. Ci fermammo accanto al tavolo, trapassati dallo sguardo di Elliott. Friedman sembrava non sapere cosa fare. Alla fine si schiarì la gola e pronunciò il nome di Elliott. Quando non ebbe risposta, gli posò una mano
sulla spalla. «Elliott, il signor Antonelli è venuto a trovarti». Senza alcun preavviso, Elliott balzò in piedi dalla sedia e mi tese la mano con rigida formalità. Ogni suo gesto era angoloso: non c'era alcuna fluida transizione da un movimento all'altro. Era come osservare qualcuno che aveva studiato le maniere della gente educata ed elegante ma che non aveva mai avuto l'opportunità di farle sue, e che usandole le trasformava in una maldestra parodia. Friedman si congedò e ci lasciò soli. Sul lato opposto della corsia, vestito di bianco da capo a piedi, lo stesso inserviente di colore che avevo visto in precedenza guardava distratto lo schermo tremolante di un televisore stringendo in mano una rivista arrotolata. «Non mi avevano detto che venivi», disse Elliott quando ci sedemmo al tavolo di legno. Non indossava l'abito aderente e la camicia dal colletto troppo stretto che aveva durante la mia prima visita. Come gli altri pazienti, portava una maglietta bianca dal collo a V e un paio di pantaloni bianchi retti in vita da una cordicella. Mi ero seduto alla sua sinistra, e lui mi fissò con gli occhi socchiusi e poi spostò lo sguardo alle mie spalle. «Perché sei qui?», domandò. «Il giudice Jeffries, Calvin Jeffries, è stato ucciso...». «Me l'hai già detto l'altra volta», mi interruppe. Le sue mani erano posate sul tavolo, una sopra l'altra. Invertirono la loro posizione e poi lo fecero di nuovo, quasi avessero una vita propria e stessero lottando per avere la meglio una sull'altra. «Me l'hai già detto», ripeté Elliott spazientito. «Ucciso da un paziente di questo ospedale», terminai la frase. Eravamo seduti così vicini che potevo vedere le pieghe sottili e aggrinzite della pelle attorno al suo occhio. Un sorriso gli attraversò la bocca da una parte all'altra. «Sono stato io?». «No, temo di no». Un secondo sorriso percorse lo stesso tragitto del primo. «Dannazione! Sono sempre gli altri ad avere fortuna». I suoi occhi sembravano provocarmi, sfidarmi a capire che cosa stava pensando veramente. «È stato Jacob Whittaker. Lo conoscevi?». Rimase in silenzio. Non c'era nulla nella sua espressione, nulla nei suoi occhi che potesse darmi una risposta. «Non lo conoscevi, allora?», domandai osservandolo con attenzione. «Non è quello che non ho appena detto?». I suoi occhi brillarono divertiti dal gioco di parole, poi divennero duri. «Come faccio a sapere se l'ho
conosciuto? Sono un paziente di un manicomio». Eravamo così vicini che quando parlava il suo alito stantio mi invadeva le narici. Gli posai una mano sull'avambraccio e mi avvicinai ancora di più. «Esatto, Elliott, sei un paziente di un manicomio. Ma non sei pazzo, vero? Non lo sei mai stato. Jeffries e tua moglie hanno distorto ogni cosa. Ti hanno spinto fino al limite, ti hanno fatto impazzire, non come quelli che dovrebbero essere rinchiusi qui dentro, ma abbastanza da farti crollare. Hai avuto un esaurimento nervoso, ma non sei mai stato pazzo. Forse quando hai fatto irruzione nel mio ufficio agitando quella pistola non sapevi quello che facevi, ma non eri uscito di senno. Ricordi quand'eri un avvocato? Ricordi la definizione di malattia o disturbo mentale? L'incapacità di controllare le proprie azioni, di capire la differenza fra giusto e sbagliato. Tu non eri pazzo allora, e non sei pazzo adesso». Fece scivolare il braccio da sotto la mia mano, mi rivolse un'occhiata divertita e poi distolse lo sguardo. Quindi scosse la testa e cominciò a ridere. «E io che in tutti questi anni ho creduto di essere un malato di mente. Devo essere stato pazzo a pensarlo». Si grattò il mento, poi s'infilò un dito fra i denti e prese a mordicchiare la pellicina dell'unghia. Da dietro le palpebre semichiuse, i suoi occhi guizzarono da una parte all'altra. «Tu pensi di essere pazzo, Elliott?», domandai in tono equilibrato. Smise di muovere gli occhi e di mordicchiarsi il dito. Fece un profondo respiro, e all'improvviso parve meno agitato e confuso. Un'espressione ironica gli percorse le labbra. «Il dottor Friedman sostiene di sì. Schizofrenia paranoide: firmato, sigillato, consegnato. Uno svitato autenticato». «Non ti ho chiesto questo. Ti ho chiesto cosa ne pensi tu». Feci una pausa e lo guardai negli occhi per captare una scintilla, un barlume, un segno che forse avrebbe potuto decidere di fidarsi di me. «Tu credi di essere pazzo?». Alzò la testa e osservò i pazienti che bighellonavano per la vasta sala bianca. «C'è forse qualcuno che lo pensa? È un interrogativo interessante, non trovi? Tutti voi là fuori pensate di essere sani di mente, ma ciò significa forse che tutti noi qui dentro pensiamo di non esserlo? E che differenza fa, in ogni caso? Tutto quello che conta è che voi, quelli che ci hanno rinchiusi qui, quelli del vostro mondo, pensate che noi non lo siamo. Che non siamo sani di mente». I nostri sguardi si incontrarono. «Ne sei sicuro? Sei sicuro che è quello che pensavano quando ti hanno ricoverato qui?».
Vigile e speranzoso, Elliott attendeva una spiegazione, e io mi chiesi se ne avesse davvero bisogno. «Ho letto la pratica, Elliott: la cartella del caso, del tuo caso, quello in cui sei stato accusato di tentato omicidio, quello in cui ti sei dichiarato innocente ma incapace di intendere e di volere. Te ne ricordi? Ricordi di aver presentato quella dichiarazione? Ricordi qualcosa di quel giorno?». Mi fissò con espressione severa, poi ruotò il capo e spostò lo sguardo alle mie spalle. Sedeva in posizione eretta, rigido, e l'unica cosa che si muoveva di lui erano i folti baffi che frusciavano quando espirava dalle ampie narici. «Ricordi il tuo avvocato, quello che ti procurò Calvin Jeffries, Asa Bartram? L'altra volta mi hai detto che non sapevi chi fosse il tuo legale. Invece lo sapevi, non è vero? Dovevi saperlo, e dovevi anche sapere che Asa non si era mai occupato di diritto penale». I suoi occhi rimasero fissi nel vuoto, come se potesse ignorarmi a suo piacimento. Balzai in piedi come una furia, mi girai e mi sedetti sulla sedia direttamente di fronte a lui. Calai una manata sul tavolo con tutta la forza che avevo in corpo e avvicinai il più possibile il volto al suo. «Asa Bartram non era un penalista, e tu lo sapevi. Jeffries gli affidò il caso, e tu sapevi anche questo. Cos'altro sapevi? Cos'altro c'era sotto? Cosa ti dissero che ti sarebbe accaduto?». La severità del suo sguardo implacabile lasciò il posto a un'espressione di quasi divertito disprezzo. «Asa era già vecchio allora, adesso sarà un rudere. Dimmi, lo lasciano ancora parcheggiare sotto il cartello di sosta vietata davanti al suo stabile?». La domanda era poco importante, addirittura futile, ma che la ragione fosse un presentimento o un semplice istinto nato dal fatto che mi ero sempre tenuto le mie opinioni per me, non avevo intenzione di rispondergli. E poi ero venuto per ottenere risposte, non per darle. «Cosa ti disse Jeffries, che era tutto sistemato? Che saresti stato ricoverato qui e che saresti uscito nel giro di qualche mese?». Potevo immaginarmi Jeffries mentre rassicurava e faceva promesse con la sicurezza e il senso di inevitabilità con cui mascherava regolarmente i suoi inganni. «Ti disse che non c'era nulla di cui preoccuparsi, che si sarebbe preso cura di tutto?». Elliott parve raddolcire la sua espressione e ritrarsi in se stesso. Si abbandonò sulla sedia e intrecciò le dita. «Mi ero sempre fidato di Calvin
Jeffries», disse con un sorrisetto autoironico. «Anche quand'ero in me». Non aveva intenzione di aggiungere altro. Gli domandai del referto psichiatrico, quello senza il quale non avrebbero mai potuto ricoverarlo, ma sostenne di non ricordare nulla. «Non ricordi il dottore?». «No», rispose picchiettando i pollici uno contro l'altro. «Il suo nome?». «No». «Non ricordi niente di lui?». «No». «Dove ti visitarono?». «Mi trovavo in prigione». «Ti visitarono lì?». «Suppongo di sì». «Sei sicuro che ci sia stata una visita?». Si fermò e alzò la testa. «Hai letto la mia pratica». «Una parte è riservata». «Ah», disse ostentando indifferenza. «Sono venuto a parlare con te, Elliot, perché è stato ucciso un altro giudice. L'hai saputo?». Sollevò di nuovo il capo e lo ruotò di novanta gradi. «Certo che l'ho saputo. Sono sano di mente, no? So tutto. Quale giudice?». «Il giudice che ti ha mandato qui: Quincy Griswald. Te lo ricordi?». Mi osservava, aspettando di capire dove volessi andare a parare. O forse voleva vedere fin dove mi sarei spinto senza il suo aiuto? «Jeffries viene assassinato nel parcheggio del palazzo di giustizia, accoltellato da un paziente fuggito da questo ospedale. La polizia trova l'assassino grazie a una telefonata anonima. L'assassino confessa e la notte stessa si uccide sfondandosi il cranio contro il pavimento della sua cella». Mi sporsi in avanti, caricando il peso sulle braccia e guardando Elliott negli occhi. «Non esiste alcuna prova che conoscesse Jeffries. Forse è stato un atto casuale, ed è una semplice coincidenza che abbia passato anni in questo ospedale insieme a te». Non vi fu alcuna reazione, nulla che rivelasse cosa stava pensando, se stava pensando qualcosa. «Poi viene ucciso Quincy Griswald, nello stesso posto e quasi allo stesso modo. Tutti pensano sia opera di un imitatore, ma arriva un'altra telefonata anonima e viene effettuato un altro arresto nello stesso luogo del primo.
Solo che stavolta è stato arrestato l'uomo sbagliato, una persona che è in possesso dell'arma del delitto soltanto perché gliel'ha data il vero assassino. E il vero assassino, come quello di Calvin Jeffries, è un paziente fuggito dall'ospedale psichiatrico. Due omicidi, due assassini, entrambi usciti da qui, e l'unico elemento che collega tanto le vittime quanto gli assassini sei tu, Elliott, solo tu. «Jeffries ti ha tolto ogni cosa, e Griswald l'ha aiutato: è l'unico collegamento fra loro, l'unica cosa che fornisce un movente per un duplice omicidio. Tu sei l'unico che poteva volere la loro morte, e sei l'unico che poteva convincere quei due malati di mente a ucciderli». La sua espressione non mutò. Rimase lì seduto come un osservatore distaccato, perfettamente contento di ascoltare, come se nulla di ciò che avevo detto lo riguardasse. Scostai la sedia dal tavolo, sollevai un ginocchio e vi intrecciai attorno le dita. «Non so bene come tu ci sia riuscito, ma devo dirtelo», aggiunsi in tono ammirato. «È il piano più ingegnoso che abbia mai visto da quando faccio questo mestiere. Non è soltanto il delitto perfetto. È qualcosa di meglio. È la difesa perfetta: non puoi essere considerato responsabile di nulla. Sei pazzo, giusto? Lo dice lo stato. Non possono cambiare idea e sostenere che tu non lo sei: sei rinchiuso nel manicomio criminale». Elliott mi ascoltava con attenzione, strofinandosi il labbro inferiore con l'indice. «E perché avrei bisogno di difendermi? Quali crimini avrei commesso?». Credetti avesse dimenticato uno dei principi basilari della responsabilità penale. «L'istigazione a delinquere comporta la stessa pena del crimine stesso». Elliott inarcò le folte sopracciglia. «L'accusa di istigazione a delinquere vuole una richiesta specifica per un atto specifico». Lo guardai, incerto sul significato delle sue parole. «Oltretutto», proseguì, «i due assassini di cui parli sono entrambi malati di mente, giusto? Allora dimmi: come fai a convincere un pazzo a fare qualcosa?». Non ci avevo pensato, e lui lo intuì. Cambiò posizione e si sporse in avanti. «Hai mai pensato alla facilità con cui la gente si lascia convincere a credere in cose che non hanno alcun fondamento razionale, come la religione? E non una religione piuttosto che un'altra, ma tutte quante? Hai mai pensato al modo in cui certe persone vedono il male dove altre vedono il bene? O al modo in cui certi individui sono disposti a morire per ciò in cui credono mentre altri lo trovano ridicolo, a meno che non si parli di quello
in cui credono loro?». L'idea parve eccitare qualcosa nel suo profondo. Sgranò gli occhi ardenti, assunse una posizione rigida, eretta, e le vene del suo collo presero a pulsare. E poi accadde di nuovo, la stessa cosa che era successa la volta precedente, quel terrificante, inesplicabile sconfinamento nell'irrazionalità più assoluta. «Tutti devono credere... ledere... federe... cedere...». Si interruppe con gli occhi spalancati e le lunghe ciglia che battevano misurando il ritmo del suo silenzioso discorso. E subito dopo finì, con la stessa repentinità con cui era cominciato. «Cosa ti fa pensare che l'assassino di Griswald fosse un paziente di questo ospedale?», domandò senza alcuna consapevolezza apparente di quello che stava facendo qualche istante prima. Avevo in mente qualcos'altro, un pensiero con cui volevo lasciarlo. «Non trovi che sarebbe difficile portare a compimento un piano così ingegnoso e non farlo sapere a nessuno? Pensi davvero che possa bastare la consapevolezza di esserti vendicato in modo così brillante quando tutti ti consideravano un pazzo o una patetica vittima di un individuo molto più brillante?». Sollevò la testa di scatto e socchiuse gli occhi. «Lo sai perché la gente vuole vendicarsi? Non per pareggiare i conti o per sistemare le cose una volta per tutte, e nemmeno per punire. Lo fa per ottenere il risultato che tutti giudicano impossibile: cambiare il passato». Sgranò gli occhi. «Sì, per cambiare il passato. Pensi sia impossibile? Credi che non si possa mai modificare il passato?». Digrignò i denti, poi ritrasse le labbra con tre spasmi violenti. «Il passato è l'unica cosa che puoi cambiare. Distogli lo sguardo dalla prospettiva del presente, guardi al futuro e poi correggi quello che sarà il passato. È questo che ottieni con la vendetta. Puoi vederti come una vittima per quello che ti hanno fatto, oppure puoi vederti sotto una luce molto diversa per quello che tu hai fatto a loro». Inclinò il capo come se avesse udito un suono in lontananza. «Se fossi condannato a rivivere più volte la mia vita, sempre la stessa in eterno, cosa pensi che preferirei? Quello che mi ha fatto Jeffries oppure, in via del tutto ipotetica, quello che gli ho fatto io?». «In via del tutto ipotetica?», ripetei in tono scettico. «Ipotetica, perché cosa ti fa pensare che l'assassino del giudice Griswald fosse un paziente di questo ospedale?». «Il fatto che è l'unico modo in cui sarebbe potuto succedere». «Ah, l'unico modo se io fossi riuscito chissà come a persuadere due ma-
lati di mente a commettere due delitti. E dimmi, vecchio amico mio, chi sarebbe questo secondo assassino, questo secondo paziente che tu credi abbia mandato nel vostro mondo per ottenere questa piccola vendetta?». Friedman aveva negato che ci fosse stata un'altra fuga dopo quella di Whittaker, ma io non gli avevo creduto. «Il professore di storia, quello che fa magie con i numeri, quello che ha tagliato la gola a qualcuno perché credeva di essere in Vietnam, quello che deve chiedere il permesso per andare in bagno». Elliott spostò lo sguardo alle mie spalle, perlustrando la sala. «Intendi dire lui?», chiese mentre mi giravo per controllare cosa stava guardando. Sul lato opposto della sala, il paziente che ero sicuro fosse fuggito, quello che ero sicuro avesse ucciso Quincy Griswald e avesse dato il coltello a Danny, quello che ero sicuro fosse annegato nel fiume, era in piedi accanto all'inserviente e attendeva di essere accompagnato in bagno. 23 Dall'ospedale psichiatrico mi recai direttamente al ponte sotto il quale avevo vissuto per una notte e un giorno come un senzatetto, ma non trovai l'uomo che cercavo. L'unico che poteva testimoniare sull'identità e sull'esistenza stessa dell'uomo che aveva dato il coltello al mio cliente innocente se n'era andato, si era trasferito in un altro bivacco provvisorio, si era confuso in quella vasta migrazione che si verificava ogni notte e ogni giorno davanti ai nostri occhi. Ero così sicuro di sapere chi aveva ucciso Griswald e perché, ma ora, mentre ascoltavo la dichiarazione di apertura dell'accusa, mi chiesi se sapessi veramente qualcosa. Cassandra Loescher fu chiara e precisa, e ogni sua parola era così carica di indignazione che avresti pensato che l'imputato fosse accusato dell'omicidio della madre e non di un uomo che non conosceva. Avevo udito quelle frasi un centinaio di volte, e avevo visto quella scena in una dozzina di sogni. Da qualche parte doveva esserci un manuale le cui pagine segnate dalle orecchie descrivevano paragrafo per paragrafo ciò che ogni pubblico ministero avrebbe dovuto dire all'inizio di ogni processo per omicidio. Tutto seguiva una formula; ogni fatto che l'accusa avrebbe dovuto provare veniva inserito nella sua casella. Vestita con un semplice abito nero, calze scure e scarpe nere, la Loescher si fermò a qualche passo dal banco della giuria, cambiò tono e con voce sommessa e dignitosa recitò la lista dei testimoni che intendeva
chiamare e le deposizioni che si aspettava di ascoltare. «E quando avrete udito tutte le prove», disse alla fine mentre i suoi occhi castani ardevano di sicurezza, «so che converrete che l'accusa ha provato la colpevolezza di John Smith al di là di ogni ragionevole dubbio». Seduto accanto a me, l'imputato conosciuto come John Smith giocherellava con la sua cravatta. Non ne aveva mai indossata una, e ogni mattina, quando il vicesceriffo lo accompagnava in aula, ero io stesso ad allacciargliela. Ben rasato e con un taglio di capelli decente sembrava un giovane normale, tranne per il modo in cui a volte teneva la bocca aperta o faceva ciondolare la testa da una parte all'altra. Timido e addirittura terrorizzato dagli estranei, penso che fosse anche incuriosito da ciò che succedeva intorno a lui. Sulle prime non voleva saperne di alzare gli occhi dal banco, ma gradualmente, a mano a mano che si abituava a ciò che lo circondava e specialmente ai volti dei dodici giurati, cominciò a farlo. Guardò Cassandra Loescher dire alla giuria che avrebbe dovuto essere condannato per omicidio, e quando lei ebbe finito le sorrise come se avesse appena detto qualcosa di carino. La Loescher aveva tenuto avvinta l'aula per quasi un'ora, e quando terminò gli spettatori pigiati sulle dure panche di legno cambiarono posizione diffondendo un fruscio sommesso. Seduto scompostamente sulla sedia, gli indici giunti davanti alla bocca, stavo ancora cercando di decidere cosa dire quando mi sentii chiamare dal giudice. «Desidera fare una dichiarazione di apertura?», domandò Bingham. Sondai gli sguardi dei giurati. «Sì, vostro onore», risposi alzandomi. C'erano voluti quattro giorni per selezionare la giuria, e avevo trascorso la maggior parte di quel tempo a cercare di convincermi che si trovava in quell'aula non per stabilire cos'era successo la sera in cui Quincy Griswald era stato ucciso, ma per decidere se l'accusa avesse provato la colpevolezza dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. In centinaia di casi avevo persuaso i giurati a ignorare le idee dettate dal buon senso su ciò che era probabilmente accaduto e a concentrarsi sui fatti sicuri prima di pensare a un verdetto di colpevolezza. Ma stavolta era diverso. Se volevo avere qualche possibilità, avrei dovuto fare ben più che insistere sul ragionevole dubbio. Mi fermai in fondo al banco della giuria, posai una mano sulla balaustra e infilai l'altra nella tasca della giacca. Quella giuria era uguale a tutte le altre. Tre dei suoi membri erano laureati, uno o due avevano proseguito gli studi dopo il liceo, ma la maggioranza li aveva interrotti dopo la maturità.
Non c'erano dottori, avvocati, dirigenti d'azienda, e nessuno di loro deteneva un'importante carica pubblica. Quattro dei dodici membri erano pensionati, e delle sette donne tre erano nonne. Malgrado loro non fossero lo spaccato rappresentativo della comunità che avrebbero dovuto essere, in un altro senso erano il perfetto specchio di tutti noi. Erano individui che volevano fare la cosa giusta ed erano disposti a seguire chiunque sembrasse sapere qual era. Cominciai con una confessione. «Nella fase di selezione della giuria, quando ho avuto la possibilità di rivolgervi le mie domande, ci siamo soffermati a lungo sul significato dell'espressione "al di là di ogni ragionevole dubbio". La signora Loescher ha cercato di suggerire che non escludeva la possibilità che vi restasse qualche lieve perplessità, mentre io ho provato a farvi capire che sarebbe stato meglio non avere alcun dubbio prima di decidere per la colpevolezza di un imputato. Faccio questo lavoro ormai da una vita, e non cambia mai. Continuiamo a fare le stesse domande, continuiamo a cercare di convincervi del significato dei termini "ragionevole dubbio". Sapete perché?». Percorsi con lo sguardo la prima fila di giurati fino a posarlo su una giovane donna, Mary Ellen Conklin, seduta con le mani giunte in grembo. «Perché molto tempo fa ho imparato che il miglior modo per vincere era persuadere i giurati che il loro dovere era decidere non se l'imputato fosse colpevole, ma se l'accusa fosse stata in grado di provarlo... al di là di quel famoso ragionevole dubbio». Distolsi gli occhi dalla giovane madre di due bambini e trovai un ispanico di mezz'età, Hector Picardo, in seconda fila. «Voi non siete qui per stabilire qual è la verità; voi siete qui per stabilire se ciò che dice l'accusa è la verità, non credendole sulla parola ma valutando le sue affermazioni sulla base dei criteri più severi. Io voglio giurie che credono fermamente in questo, perché l'imputato ha il diritto di avere una giuria che ci crede fermamente; ed è per questo che continuo a domandare se trovate giusto che lo Stato abbia questo incredibilmente difficile onere, se trovate giusto, cioè, che l'accusa debba provare le sue tesi mentre la difesa non debba provare un bel niente». Mi allontanai dalla balaustra, incrociai le braccia sul petto e abbassai gli occhi sulla moquette. Sorridendo fra me scossi il capo, poi guardai di traverso la giuria. «La verità è che in molti casi non potremmo provare niente, perché in molti casi l'imputato è colpevole». Con la coda dell'occhio vidi che il giudice alzava lo sguardo di scatto. «È la ragione per cui i penalisti insistono
sempre con tanta energia sul fatto che l'onere della prova ricada interamente sull'accusa; è la ragione per cui in più casi di quanti ricordi mi sono assicurato che l'imputato non testimoniasse». Cassandra Loescher sedeva sul bordo della sedia, pronta a muovere un'obiezione non appena avesse capito su cosa obiettare. «Abbiamo questa famosissima direttiva alla quale il giudice Bingham si è riferito quando avete prestato giuramento e alla quale io stesso ho dedicato gran parte della fase preliminare: la giuria non può emettere un verdetto di colpevolezza se questa non è stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. C'è anche un'altra ferrea disposizione per i membri della giuria di cui non abbiamo parlato ma che deve essere seguita se la difesa lo richiede». Tornai al banco degli avvocati, aprii la cartella accanto al mio blocco di carta gialla e ne sfilai un foglio. «Eccola qui», dissi sventolandolo. «È la direttiva denominata: "L'imputato non depone". Vi intima di non fare commenti sull'impossibilità di testimoniare da parte dell'imputato, e di non tenerne conto nel vostro verdetto. Il giudice ha l'obbligo di dirvi che questa impossibilità non significa nulla. Ma in realtà significa tutto. Significa che l'imputato sa qualcosa che non vuole che voi sappiate. Non vuol dire necessariamente che sia colpevole, potrebbe soltanto significare che in passato ha commesso qualcosa di brutto: crimini gravi, crimini che riflettono una disonestà di fondo o una propensione alla violenza, atti che vi porterebbero a credere che, avendoli già commessi una volta, si sia probabilmente ripetuto. «Ci sono casi di questo genere, casi in cui l'imputato non depone perché, pur essendo innocente del crimine in questione, ha il genere di precedenti che renderebbe quasi impossibile credere che stia dicendo la verità. Ma più spesso, l'imputato non testimonia perché è colpevole. È colpevole, e poiché un avvocato non può far deporre un testimone sapendo che potrebbe commettere spergiuro, poiché l'unica testimonianza veritiera che l'imputato potrebbe rendere sarebbe una confessione, egli non depone. E alla giuria viene data questa direttiva». Sollevai il foglio di carta fino all'altezza della spalla e poi lo riabbassai. «Nessuno può costringere un individuo colpevole a testimoniare contro se stesso», proseguii scoccando un'occhiata a Cassandra Loescher. «E nessuno può impedire a un individuo innocente di dire ciò che sa». La Loescher balzò in piedi alzando la mano per attirare l'attenzione del giudice. «Obiezione, vostro onore», disse senza alzare troppo la voce. Era
una donna intelligente. Sapeva che era troppo presto per mostrare rabbia. Le mani intrecciate sotto il mento, Bingham le rivolse un sorriso educato. «Sì?». «Invece di fornire un'anticipazione di ciò che prevede di dimostrare, il signor Antonelli sta cercando di definire la credibilità dell'imputato». Il giudice mi rivolse lo stesso sorriso cortese. «Vostro onore, io credo che la giuria abbia il diritto di conoscere le circostanze nelle quali un testimone si troverà a deporre. Nel caso di un esperto, per esempio, le qualifiche di tale esperto...». «Sono illustrate durante l'interrogatorio», s'intromise la Loescher. «Ma la difesa non sta parlando delle qualifiche di un esperto, vostro onore. Sta cercando di aumentare la credibilità di un testimone invocando una direttiva alla giuria che, mi sembra ovvio, non ha alcuna pertinenza con il caso in questione». Era precisamente quello che stavo cercando di fare, e sapevamo entrambi che era ormai troppo tardi per impedirlo. Ciò che stava cercando di fare lei, invece, era comunicare alla giuria che io non stavo rispettando le regole e comunicare al giudice che lei avrebbe insistito sul rispetto di tali regole anche nel corso della dichiarazione di apertura. Era scaltra, e sarebbe rimasta sbalordita nel sapere quanto ne fossi felice. Bingham aveva sentito ciò che bastava. «Forse le istruzioni alla giuria dovrebbero essere discusse nelle arringhe finali», disse con quella sua cortesia grazie alla quale ogni decisione sembrava un utile consiglio. Non mi ero spostato dal punto in cui ero quando la Loescher aveva mosso la sua obiezione. Ora feci un passo avanti verso la giuria e ripresi da dove ero stato interrotto. «L'imputato di questo processo testimonierà, e vi dirà quello che sa, anche se tutto ciò che sa è che non ha ucciso Quincy Griswald e non ha mai fatto del male a nessuno in vita sua. Viveva sotto il ponte, un ponte che alcuni di voi forse percorrono ogni giorno per andare al lavoro; era uno dei senzatetto che vagano per la città raccogliendo rifiuti, cose che gli altri gettano via, cose che possono indossare, che possono usare, che possono scambiare con un po' di denaro o di cibo. Viveva sotto il ponte, solo e senza una casa, e qualcuno gli ha dato un coltello, il coltello con cui era stato ucciso Quincy Griswald. Lui l'ha preso e l'ha conservato, e quando la polizia è arrivata ha detto che era suo e ha spiegato come ne era entrato in possesso». Scrollai le spalle. «La polizia non gli ha creduto. E perché avrebbe dovuto? Si trovava esattamente dove un informatore anonimo aveva detto
di aver visto l'assassino; aveva il coltello; e poi, diciamolo chiaramente, sembrava pazzo». Mi fermai, posai entrambe le mani sulla balaustra, mi sporsi in avanti e cercai con lo sguardo gli occhi dei giurati. «Quando lo sentirete deporre, penserete anche voi la stessa cosa. Parla in modo strano, non sempre chiaro. Alcune delle sue parole sembrano allungarsi all'infinito. Rotea gli occhi, e a volte la sua bocca gli pende da una parte. L'ho visto addirittura sbavare». Mi voltai e spostai lo sguardo su di lui. Mi stava osservando con la testa leggermente inclinata all'indietro, la bocca semiaperta e un'espressione entusiasta e fiduciosa negli occhi chiari. «Ma uccidere?», chiesi tornando a rivolgermi alla giuria. «No, è l'ultima cosa di cui penserete possa essere colpevole. Non dopo che avrete sentito ciò che ha dovuto sopportare; non dopo che avrete udito la scandalosa, straziante storia di torture fisiche e abusi sessuali a cui è stato sottoposto fin da bambino, un figlio indesiderato di cui nessuno, nemmeno sua madre, si occupava e che nessuno proteggeva. Nessuno ha mai fatto nulla per lui: non l'hanno mai mandato a scuola, non gli hanno nemmeno dato un'identità. Non c'è alcuna traccia ufficiale della sua nascita e della sua vita. Lui non esiste. Lui non ha un nome». Gli rivolsi un'occhiata da sopra la spalla e tornai a parlare alla giuria. «John Smith? È il nome che gli ha dato la polizia al momento del suo arresto e della sua incriminazione quando ha scoperto che le sue impronte digitali non risultavano da nessuna parte. Il suo vero nome è Danny. Se ha mai avuto un cognome, Danny non se lo ricorda, e poiché la sua nascita non è mai stata registrata, non lo conoscerà mai. A tutti gli effetti, Danny è nato orfano. E sarebbe stato meglio per lui se non fosse nato affatto. No», soggiunsi cambiando idea, «sarebbe stato meglio se coloro che gli hanno fatto del male non fossero mai nati». In tono clinico e privo di emozioni descrissi alcune delle cose che gli erano state fatte: il modo in cui veniva incatenato al letto, in cui il suo corpo veniva coperto di piaghe e bruciature di sigarette. «L'accusa sosterrà che questi atti terribili l'abbiano trasformato in un animale privo di coscienza, un individuo in grado di uccidere senza un motivo. Quando lo sentirete testimoniare potrete decidere da soli se Danny è il malvagio assassino che ci dipinge l'accusa o uno degli esseri umani più innocui che abbiate mai visto». Mi infilai le mani in tasca e cominciai a passeggiare su e giù davanti al
banco della giuria. Poi aggrottai la fronte, mi fermai e alzai gli occhi. «L'hanno accusato di un omicidio, ma è assurdo. Avrebbero dovuto accusarlo di due». Il silenzio era assoluto; nell'aula non si sentiva volare una mosca. Era come se tutti stessero trattenendo il respiro in attesa di sentire cosa avrei aggiunto. «L'imputato è accusato dell'omicidio di Quincy Griswald, ma chiunque abbia ucciso Quincy Griswald aveva già ucciso in precedenza. Ci sono stati due delitti, non uno; sono stati uccisi due giudici della corte circoscrizionale, non uno. In quasi centocinquant'anni nessuno aveva mai ucciso un giudice in carica, e adesso, nel giro di pochi mesi, abbiamo assistito alla morte di due giudici assassinati esattamente allo stesso modo. Calvin Jeffries, il presidente della corte circoscrizionale, è stato accoltellato a morte nel garage dietro il palazzo di giustizia, dove aveva parcheggiato la sua macchina. Quincy Griswald, che alla morte di Jeffries era diventato il presidente della corte, è stato accoltellato a morte nello stesso luogo. Eppure l'imputato è accusato di uno dei delitti, ma non dell'altro. Perché? Perché le autorità sanno che non ha avuto nulla a che fare con la morte di Calvin Jeffries. Ma permettete che ve lo ripeta: chiunque sia il responsabile dell'assassinio di Calvin Jeffries, lo è anche di quello di Quincy Griswald. John Smith, Danny, non ha ucciso Calvin Jeffries, e non ha ucciso Quincy Griswald». Mi portai in fondo al banco della giuria, accanto a quello degli imputati, e spostai lo sguardo sull'aula affollata. Tutti gli occhi erano puntati su di me, tutti i volti erano il ritratto della concentrazione. In ultima fila, Jennifer osservava seria, attenta a ogni parola. «Voi ricorderete l'omicidio di Calvin Jeffries», ripresi tornando a guardare la giuria. «Per qualche tempo non si leggeva altro, non si parlava d'altro. Tutti quanti, dal governatore in giù, sembravano coinvolti in quel caso. Qualunque cosa la polizia facesse, non era mai sufficiente. Pretendevamo risultati, pretendevamo un arresto, pretendevamo che l'assassino venisse consegnato alla giustizia». Immobile, fissai Cassandra Loescher che prendeva appunti dietro il banco degli avvocati. Sentendo che avevo smesso di parlare, lei alzò il capo e ricambiò il mio sguardo. «Il responsabile di quel delitto non è mai stato catturato. La polizia non sa chi sia l'assassino, l'ufficio del procuratore ne è all'oscuro». Le ci volle un attimo per capire cosa stavo facendo, e anche allora non
riuscì a capacitarsene. «Vostro onore», disse scattando in piedi. «Possiamo avvicinarci?». Mi finsi indignato. «Vostro onore, è la seconda volta che l'accusa interrompe la mia dichiarazione d'apertura. Io non mi sono comportato così con la signorina Loescher, qualsiasi cosa pensassi di ciò che diceva». Bingham non disse una parola, limitandosi a farci cenno che voleva un colloquio riservato. Si alzò e scese sul lato del seggio più distante dalla giuria. «Qual è la sua obiezione, signorina Loescher?», domandò. Come sempre il suo tono era cortese, ma non riusciva a nascondere del tutto l'irritazione. Gli piaceva che tutto filasse liscio, e poteva già intravedere i problemi all'orizzonte. «Sta dichiarando il falso», protestò la Loescher. «Sa bene quanto me che ciò che ha detto non è vero. La polizia ha effettuato un arresto per il caso Jeffries. L'assassino ha confessato. E non è tutto, vostro onore», bisbigliò con trasporto. «Sta cercando di tirare in ballo il caso Jeffries per confondere la giuria. Quel caso non ha nulla a che fare con questo». Fissando il pavimento mentre ascoltava, Bingham si strinse il labbro inferiore fra pollice e indice. Quando la Loescher ebbe concluso, mi guardò. «Ho il diritto di esporre la mia teoria sul caso, vostro onore, qualsiasi teoria che spieghi i fatti. La signora Loescher dovrebbe ascoltare con più attenzione: non ho detto che la polizia non ha effettuato alcun arresto, ho detto che non ha mai preso il responsabile». Ci fronteggiavamo a pochi centimetri uno dall'altra. Alzai lo sguardo e la fissai. «Se lei pensa il contrario...». Livida di rabbia, la Loescher guardò il giudice, che aveva ripreso a fissarsi le scarpe. «Sa benissimo che non posso confutare la sua dichiarazione di apertura». «Certo che può», obiettai. «Si chiama arringa finale». Bingham alzò la testa. «La difesa ha il diritto di proporre una teoria alternativa, e l'accusa ha il diritto di addurre le prove per confutare tale teoria». Guardò me e poi lei. «Siete entrambi dei bravi avvocati. Fino a questo punto siete andati bene». Con un breve cenno del capo e un sorriso ancora più rapido, soggiunse: «Fate in modo che le cose non cambino». Era l'avvertimento più severo che fosse in grado di darci. La Loescher fece ritorno alla sua sedia e Bingham al suo seggio. «Prego, signor Antonelli», disse sistemandosi, «prosegua pure». Gli rivolsi un cenno del capo e mi voltai verso la giuria. «Prima viene
assassinato Calvin Jeffries, poi Quincy Griswald. Entrambi sono stati uccisi allo stesso modo e nello stesso luogo. Ma con quale movente? E chi avrebbe avuto motivo di uccidere non soltanto Calvin Jeffries, ma anche Quincy Griswald?». Mi posai una mano sul fianco e con l'altra mi massaggiai l'incavo della nuca. «È qui che risiede la grande difficoltà di questo caso: cercare di capire perché qualcuno avesse motivo di uccidere Quincy Griswald. Chiunque avesse conosciuto Calvin Jeffries può capire perché qualcuno potesse desiderare la sua morte: era uno degli individui peggiori che siano mai vissuti». Fu un'azione dettata dal puro e semplice istinto. Se avesse avuto il tempo di riflettere, forse avrebbe lasciato perdere. Ma che fosse stata spinta dalla sua correttezza o dalle sue convinzioni rispetto a ciò che le regole consentivano o vietavano, Cassandra Loescher balzò in piedi di slancio. «Obiezione, vostro onore». Stavolta, Bingham era d'accordo con lei. «Signor Antonelli...». Mi girai verso di lui con un'occhiata di sfida. «Il carattere di Calvin Jeffries fornisce il movente non soltanto per il suo omicidio, ma anche per quello della vittima del nostro caso. Tutto ciò che dirò sul giudice Jeffries verrà comprovato dai testimoni, vostro onore, testimoni che la difesa ha tutte le intenzioni di chiamare a deporre». Bingham increspò le labbra e picchiettò le dita fra loro. «Bene», disse poco dopo. «Ma cerchi di mantenersi entro i limiti della ragionevolezza». La sua raccomandazione mi parve gratuita. Tornai a rivolgermi alla giuria con un sorriso incongruo sul volto, divertito dalla rabbia che le parole del giudice mi avevano provocato. Rispettavo Bingham, ma anche lui, come chiunque altro, era prigioniero delle convenzioni. Non si doveva parlar male dei morti. «Io parlavo male del giudice Jeffries anche da vivo», spiegai alla giuria. «Lo facevo davanti a lui. Un giorno mi mandò in prigione perché durante un processo gli avevo detto in faccia quello che pensavo di lui. Probabilmente non avrei dovuto, e forse meritavo quello che mi fece. Ma che me lo meritassi o meno, ciò che Calvin Jeffries ha fatto a me non è nulla in confronto a quello che ha fatto a un uomo che conoscevo, a cui volevo bene, che credevo sarebbe potuto diventare uno dei migliori avvocati della città. Si chiamava Elliott Winston, e quello che gli ha fatto Calvin Jeffries è peggio dell'omicidio. «La legge è il giudizio collettivo della comunità, il tentativo di vivere
secondo le regole della ragione, lo sforzo di controllare i nostri impulsi e comportarci da esseri civili. Nessuno ha responsabilità maggiori di quegli uomini e quelle donne che indossano toghe nere e applicano la legge senza paura o favoritismi nei riguardi di chi si rivolge a loro per essere giudicato. Sarebbe impossibile pensare a un giudice più abile o più intelligente di Calvin Jeffries, e sarebbe impossibile pensare a qualcuno che meritasse meno di lui di essere chiamato onorevole. Calvin Jeffries era una vergogna. La legge non gli interessava, la giustizia non gli interessava. Per lui contava soltanto il potere e come usarlo per ottenere quello che voleva. E quello che voleva, signore e signori, quello che desiderava più di qualsiasi altra cosa, era la moglie - e non solo la moglie - di Elliott Winston. «Elliott era giovane, era brillante, era un gran lavoratore, era ambizioso, e aveva una moglie che amava e due bambini che adorava. Conobbe Calvin Jeffries e rimase lusingato dalle sue attenzioni. Divenne uno dei pochi amici del giudice, qualcuno con cui Jeffries discuteva di diritto, qualcuno che Jeffries voleva aiutare, o sosteneva di voler fare. Elliott si fidava ciecamente di lui, e non trovò alcuna ragione di dubitare delle parole di Jeffries quando questi prese a dirgli certe cose, cose non vere, sulla moglie. Elliott cominciò a sospettare che lei gli fosse infedele, ma non gli passò mai per la mente che lo stesse tradendo proprio con l'uomo che lui riveriva, con quell'uomo senza figli che lo trattava come un figlio. «Si misero al lavoro su di lui, il fidato amico e la moglie fedele. Alimentarono i suoi sospetti, gli riempirono la testa di false voci e di terribili menzogne fino a farlo crollare. Elliott venne accusato di tentato omicidio e rinchiuso, e sua moglie divorziò e sposò il giudice; poi, insieme a lui, riuscì a far dichiarare Elliott un genitore inidoneo così che il buon giudice Jeffries potesse adottarne i figli e dar loro il proprio nome». Posai una mano sulla balaustra e mi sporsi verso la giuria. «E questo cosa c'entra con John Smith, processato per omicidio? Ebbene, il giudice che, seguendo le istruzioni di Calvin Jeffries, fece sì che Elliott Winston venisse rinchiuso in un luogo da cui non poteva interferire con ciò che il suo ex amico e la sua ex moglie avevano intenzione di fare, era Quincy Griswald». Guardai i giurati. «Chi poteva volere la morte di Calvin Jeffries e di Quincy Griswald? Chi poteva avere un movente per ucciderli entrambi? C'è soltanto una risposta a queste domande, e non è John Smith», dissi scuotendo la testa e tornando al banco degli avvocati. Erano quasi le quattro del pomeriggio quando conclusi, e il giudice Bin-
gham decise di attendere il mattino successivo per chiamare il primo testimone dell'accusa. La giuria uscì in fila indiana dall'aula e mentre gli spettatori alle nostre spalle si riversavano nel passaggio centrale e si trascinavano lentamente verso la doppia porta in fondo all'aula, Cassandra Loescher attese paziente che il giudice potesse udirla. «Sì?», disse Bingham con un sorriso amabile per quanto formale. «Potremmo parlare nel suo ufficio, vostro onore?», chiese la Loescher includendomi con lo sguardo. «Ho una questione da sottoporre alla corte». L'ufficio del giudice Bingham era un singolo, stretto locale. Un'ampia finestra occupava gran parte della parete alle spalle della scrivania di legno chiaro. Era priva di tende, e le veneziane erano completamente sollevate. Degli scaffali anch'essi chiari reggevano la collezione completa dei casi dello stato su cui si era pronunciata la corte d'appello. Lungo la parete opposta, accanto alla porta che dava sull'ufficio del cancelliere, su una piccola credenza a tre livelli, c'erano le fotografie della moglie e delle giovani famiglie dei figli ormai cresciuti. Sullo scaffale più basso, nascosta in un angolo, c'era una statuetta di bronzo ormai annerito che ritraeva un tennista con la racchetta sollevata, il trofeo di un dimenticato torneo da country club. Nell'angolo dietro la scrivania, dove Bingham poteva afferrarlo senza alzarsi, era appoggiato un putter color peltro. Era vecchio e consumato, e il rivestimento dell'impugnatura aveva cominciato a disfarsi. Bingham si tolse la toga, l'appese con cura a un gancio sulla porta e indossò la giacca. Era sotto il metro e settantacinque, ma era magro e muscoloso, con un passo pieno di energia, e sembrava più alto. I suoi capelli erano corti e aderivano al cranio. Aveva volto e mani puliti e perfettamente ordinati, e denti bianchi e dritti. Era uno di quegli individui che potevano dormire vestiti e svegliarsi il mattino dopo ancora in ordine. Si sedette e si sistemò prima uno e poi l'altro polsino sotto la manica della giacca. Guardò la Loescher e inarcò le sopracciglia in attesa che parlasse. Poi, all'improvviso, mi rivolse un'occhiata. «Congratulazioni», disse inclinando leggermente la fronte liscia. «L'ho appena saputo». Tornò a voltarsi verso la Loescher. «Il signor Antonelli è fidanzato», le spiegò. «Quando sarà il matrimonio?», mi domandò in tono cortese. «Fra qualche settimana», risposi. «Al termine del processo». Ci conoscevamo a malapena, ma Cassandra Loescher mi posò una mano sul braccio, mi fece un gran sorriso e si congratulò. Poi, quasi senza interrompersi, tornò a dedicarsi all'impresa di distruggermi.
«Vostro onore», disse con una traccia di sorriso ancora sulle labbra, «nel corso della sua dichiarazione di apertura il signor Antonelli ha sollevato alcune questioni che francamente l'accusa non si aspettava. Per questa ragione troviamo necessario chiederle il permesso di modificare il nostro elenco di testimoni. In particolare, chiedo il permesso di chiamare un esponente del dipartimento di polizia a deporre sui risultati delle indagini sull'omicidio del giudice Jeffries». Fece una pausa e si rilassò sulla sedia. «Non era nelle nostre intenzioni, vostro onore. Sicuramente allungherà i tempi del processo, ma dopo ciò che è accaduto oggi in aula non vedo altra scelta». Bingham annuì e si rivolse a me. «Sono pronto ad acconsentire, a meno che lei non voglia provare a convincermi del contrario». «Chi chiamerete?», chiesi alla Loescher. Lei si strinse nelle spalle. «Uno degli investigatori responsabili, non so ancora quale». «A me va bene, vostro onore», dissi cercando di mostrarmi il più indifferente possibile. Bingham guardò la Loescher e poi me. «Bene», disse alzandosi, «sembra che passeremo qualche settimana interessante». L'aula era deserta. Danny era stato riportato in cella. Raccolsi i taccuini e i documenti sparsi per il banco e li rimisi nella mia cartella. La sollevai con cautela, sperando che la maniglia ricucita reggesse. Fuori, Howard Flynn leggeva il giornale con la schiena appoggiata alla parete del corridoio. Quando mi vide lo ripiegò, lo infilò in tasca e mi affiancò mentre mi dirigevo verso l'ascensore. «Gran bella esibizione. Pensi di poter provare che Elliott ha commesso entrambi i delitti?». «Provarlo? Ovviamente no. Voglio soltanto insinuare il dubbio che potrebbe averlo fatto. Provarlo? Non saprei da dove cominciare». Scendemmo al pianterreno. Mentre aggiravamo la zona dei metal detector attraverso cui dovevano passare tutti coloro che entravano, scoppiò un piccolo trambusto. Un uomo magro dalle spalle larghe, con lunghi capelli sporchi e una barba irregolare, vestito con gli indumenti lerci dei senzatetto, mulinava un braccio mentre due agenti in uniforme lo costringevano a terra. «Lasciatemi entrare, lasciatemi entrare», gridava isterico mentre le due guardie gli forzavano le braccia dietro la schiena e lo ammanettavano.
Fuori, in fondo alla scalinata, un carrello del supermercato pieno di sacchi di plastica e rottami giaceva su un fianco, con le rotelle che giravano ancora. Qualcuno spiegò che l'uomo aveva cercato di entrare, era stato respinto ed era tornato alla carica. Nessuno sembrava sapere il perché. Flynn e io ci scambiammo un'occhiata. «Non è niente», disse lui storcendo la bocca. «Solo un matto». Annuii senza troppa convinzione. «Stasera andrai a un incontro?», chiesi mentre ci allontanavamo. «Sì», rispose. Un sorriso furbo gli si diffuse sul volto. «A meno che tu non voglia propormi una bevuta». «Ci sarà anche Stewart?». «C'è sempre». «E dopo andrete al bar?». «Ci andiamo sempre». Mi guardò con la coda dell'occhio. «Ci sarai anche tu?». «Non si sa mai. È possibile». 24 Quando tornai in ufficio, trovai Jennifer che mi aspettava. Seduta di fronte alla mia scrivania, guardava fuori dalla finestra e non mi udì entrare. Potevo vedere le sue labbra muoversi leggermente, come quelle di una bambina che comincia ad afferrare il significato di una parola sconosciuta. Nella penombra silenziosa della stanza mi chinai e le baciai la fronte appena sotto la linea dei capelli soffici e sottili. Il suo sguardo rimase fisso dov'era, concentrato su qualcosa che soltanto lei poteva vedere. Smise di muovere le labbra, mi prese la mano e se la premette sulla guancia. «Dov'è Helen?», chiesi lasciando cadere la valigetta sulla scrivania e crollando sulla sedia. Esausto, intrecciai le mani dietro la nuca e mi stravaccai ancora di più. Jennifer mi scoccò un'occhiata interrogativa, poi fece un rapido cenno del capo, come se avesse appena capito la domanda. «Ha dovuto fare una commissione, sarà di ritorno fra un minuto. Ho risposto io al telefono», disse, e la sua voce divenne più vivace. Si sporse in avanti, posando le mani su un grosso pacco che reggeva in grembo. «Studio legale di Joseph Antonelli», recitò in tono formale. Sveglia e allegra, sollevò la testa. «Studio legale di Joseph Antonelli, futuro sposo», aggiunse con un sorriso malizioso. «Questa era la versione per le donne con una voce giovanile».
Stava per dire qualcos'altro, qualcosa per cui stava già ridendo, quando la sua mano scattò verso la tempia, i suoi occhi si serrarono e la sua testa venne scossa da un tremito violento. Ma prima che avessi il tempo di reagire rialzò il capo, si costrinse a fare un debole sorriso e riaprì gli occhi con cautela. «Sto bene», mi assicurò. «È solo un mal di testa. Ogni tanto mi vengono, ma adesso va meglio». Si morse il labbro e sgranò gli occhi, dispiaciuta di avermi fatto preoccupare. «Ti ho preso un regalo», esclamò eccitata come se l'avesse ricordato solo allora. Estrasse una scatola avvolta nella carta da regalo dal grosso pacco che reggeva in grembo e me la porse. «Spero che non ti dispiaccia», disse guardandomi lottare con il nastro. La sua voce era sommessa, ma appena sotto ribolliva l'entusiastica certezza di aver fatto la cosa giusta. Pensavo di sapere cosa fosse ancora prima di aprire il pacchetto, ma finché non la vidi non mi resi conto di cosa avrebbe significato per me: era una scintillante valigetta portadocumenti con il mio nome inciso su una piastrina di ottone appena sotto la maniglia. «So che l'altra ce l'hai da molto tempo, ma ho pensato...». La sua voce cominciò a perdersi nella vasta oscurità di ciò che poteva essere e non era stato; ma poi ricordò, ricordammo entrambi, che nulla ci avrebbe fatto pentire della nostra seconda occasione. Cenammo in città, e quando fummo rientrati a casa Jennifer si raggomitolò sul divano con un libro mentre io cercavo di abbozzare la storia che avrei tentato di raccontare attraverso i testimoni dell'accusa. Le prove del pubblico ministero erano totalmente indiziarie, ma se non le avessi contestate si sarebbero rivelate perfettamente convincenti. Ci sarebbero state le testimonianze della donna che aveva trovato il corpo, delle due guardie di sicurezza che aveva chiamato sul luogo del delitto, del primo poliziotto che era arrivato e aveva condotto le indagini iniziali, e tutti avrebbero descritto ciò che avevano visto e avevano fatto. Il medico legale avrebbe dichiarato di aver esaminato il corpo e di aver stabilito che la morte era stata causata da una o più ferite inferte con un'arma da taglio. Un altro poliziotto avrebbe detto alla giuria che l'imputato era stato trovato con in mano un coltello su cui si vedevano ancora tracce di sangue. Un esperto del DNA avrebbe prima illustrato la procedura con la quale il sangue sul coltello era stato confrontato con quello della vittima e poi, con grafici e tabelle, avrebbe calcolato la possibilità quasi infinitesimale che quel sangue appartenesse a qualcun altro.
«Ricordi T. E. Lawrence?», chiesi a Jennifer, che leggeva un tascabile distesa sul divano sul lato opposto della biblioteca. «I sette pilastri della saggezza?». Si posò il libro sullo stomaco e si voltò. «Ricordo T. S. Eliot. Assassinio nella cattedrale». «No, T. E. Lawrence, Lawrence d'Arabia». «Ho visto il film. Perché me lo chiedi? Stai pensando di fuggire nel deserto?». «Hai presente come fai qualcosa per tanto tempo senza sapere bene il perché, e poi all'improvviso lo capisci? In teoria dovrebbero esistere due regole per il controinterrogatorio: non farlo se proprio non devi, e non fare una domanda se non ne conosci già la risposta. Io non rispetto quasi mai la prima regola e infrango spesso la seconda. Anni fa ho letto I sette pilastri della saggezza. È un bellissimo libro, scritto molto bene, e mi ha insegnato una cosa che non ho mai dimenticato: il sistema per vincere è trasformare la più grande forza dell'avversario nella sua più grande debolezza. La più grande forza dell'esercito turco era una catena di fortezze dalle quali controllava le tribù arabe. Lawrence cominciò a far saltare in aria tutti i binari e tutti i treni che poteva. Poi, mentre i turchi si concentravano su come tenere aperte le loro linee di approvvigionamento, li abbandonò a loro stessi, prigionieri delle loro fortezze, e li aggirò con le sue forze di arabi irregolari. Il controinterrogatorio è la stessa cosa: lascia che la parte avversa si concentri su come solidificare ancora di più il punto di forza del suo caso e attaccala in un modo che non ha fatto in tempo a prevedere». Jennifer posò i piedi a terra e si sedette sul divano. Piantò i gomiti sulle ginocchia e posò il mento sul palmo della mano. «Ti impegni così tanto su ogni caso? Ogni sera lavori fino a mezzanotte passata e al mattino ti svegli prima delle sei». Chiusi il grosso fascicolo e lo scostai. «Questo caso mi preoccupa. So che il ragazzo è innocente. Non posso permettermi di perdere, e ho già commesso uno sbaglio: non mi sono garantito la testimonianza del senzatetto che avrebbe potuto dichiarare di aver visto qualcuno dare il coltello a Danny. E oggi potrei averne commesso un altro. La giuria si aspetta che dimostri quello che ho detto sul fatto che dietro le morti di Jeffries e Griswald c'è un'unica persona». «E tu non credi di poterlo fare?». «Dipende da cosa riesco a fare con Elliott». Nel dirlo mi resi conto che in realtà era vero l'opposto. «O meglio, da cosa Elliott decide di fare con
me». Diedi un'occhiata all'orologio e rammentai dove avrei dovuto essere in quel momento. «Devo vedere Flynn», spiegai alzandomi. Ero nell'atrio e stavo indossando la giacca quando ci ripensai. «Cos'hai detto quando ti ho chiesto di Lawrence?». Jennifer era appoggiata alla porta della biblioteca, e faceva ciondolare il tascabile da una mano. «Hai nominato il libro di Eliot, Assassinio nella cattedrale?». «Sì. L'hai letto anche tu?». «Tanto tempo fa», dissi baciandola. Prima di chiudermi dietro la porta, sporsi la testa all'interno. «Prometto che non farò tardi», soggiunsi con un sorriso ironico a segnalare la mia resa disonorevole alla vita coniugale e alle sue formalità quotidiane. «Ti aspetterò sveglia», rispose Jennifer con uno dei suoi sorrisi. Fuori pioveva a dirotto, e al volante dell'auto facevo fatica a vedere la strada. L'acqua scorreva nei canali di scolo e a ogni depressione del terreno gli schizzi si riversavano sul cofano dell'auto. Le luci della città striavano il parabrezza con una macchia multicolore, e i pochi pedoni che riuscii a scorgere sul marciapiede quando mi fermai a un incrocio erano vaghe sagome nere che svanivano rapidamente. Il ritmo attutito e regolare dei tergicristalli era l'unico suono che udivo, insieme allo scroscio solitario e desolato delle cortine di pioggia che si riversavano dal cielo sovraccarico come l'inizio di un diluvio che sarebbe caduto finché non ci fosse stata che acqua, infinite distese d'acqua in ogni direzione. Parcheggiai a poca distanza dal bar e abbassai l'ombrello controvento, stringendomi il colletto della giacca con l'altra mano e avanzando pochi passi per volta. Sotto l'insegna al neon del bar chiusi l'ombrello, lo scossi e cercai di asciugarmi la faccia con la parte posteriore della manica. Raggomitolato per terra contro il muro di mattoni, un berretto da baseball calato sulla fronte, un ubriaco si dondolava avanti e indietro senza alcuna apparente consapevolezza che stesse piovendo o che fosse notte e non giorno. Nel locale, un vecchio dalle mani rugose e dallo sguardo solitario sedeva in fondo al banco. Una donna sulla quarantina dai capelli neri laccati e dalle unghie dipinte di rosso scuro incastrò le scarpe con il tacco alto sul poggiapiedi dello sgabello di pelle dietro l'angolo, verso la metà del bar. Mi seguì con lo sguardo nello specchio mentre avanzavo nella luce sommessa e giallastra verso il séparé sul retro. Le palle del biliardo erano raccolte nel triangolo al centro nel tavolo, pronte per chiunque volesse fare una partita. Stanco e annoiato, il barista alzò gli occhi da un bicchiere che stava strofi-
nando. «Una birra», dissi da sopra la spalla mentre scivolavo nel séparé. Flynn e Stewart erano chini sul tavolo, e stringevano le loro tazze di caffè sorridendo cinicamente e guardandosi con occhi vissuti. «Entra in un bar e ordina un alcolico», disse Flynn a Stewart. Poi si voltò verso di me e domandò: «Che genere di posto credi che sia?». La mia faccia era ancora bagnata e il colletto della mia camicia era fradicio. L'acqua piovana mi colava giù dal collo. «Sono arrivato troppo tardi per vederti scagliare qualcuno contro il muro?». Flynn scosse il capo e scrollò le spalle. «È ancora presto». Il barista mi portò una birra in bottiglia e un piccolo, lurido bicchiere. Bevvi un piccolo sorso dalla bottiglia, poi la posai e guardai Stewart. «Ho bisogno di un favore. Ho bisogno che lei deponga». Quando non mi rispose, gli rammentai la sua offerta. «Mi aveva detto che se avessi accettato il caso mi avrebbe aiutato». Non se l'era dimenticato, e non aveva alcuna intenzione di rimangiarsi la parola. «Ma cosa posso dire? Non ho partecipato alle indagini. Ho assistito all'interrogatorio, come le ho detto, perché credevo che ci potessero essere dei collegamenti fra i due delitti». «È esattamente ciò che ho spiegato oggi alla giuria: che esiste un collegamento fra i due omicidi, e che il responsabile della morte di Jeffries lo è anche di quella di Griswald». «Howard me lo stava dicendo. Come lo proverà?», chiese. «Non devo provarlo, devo soltanto mostrare che è possibile», risposi ansioso di tornare al punto. «Ho detto che né la polizia né il procuratore distrettuale sanno chi ha ucciso Jeffries. A questo punto, la Loescher deve chiamare un testimone che dica alla giuria che la polizia ha trovato l'assassino di Jeffries, e che questi ha confessato. Chiamerà uno dei responsabili delle indagini, e questo dev'essere lei. Non voglio che deponga per la difesa. Voglio che lo faccia per l'accusa». Il suo addestramento, la sua esperienza, tutto ciò che sapeva gli aveva insegnato a non fidarsi mai delle parole di un penalista. Alzò la testa di scatto e mi guardò con fare minaccioso. «Ascolti», mi ammonì, «se crede che io...». «Menta? Non voglio che menta», affermai chinandomi verso di lui e afferrandogli un braccio. «Voglio che dica la verità. Ha presente: la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità».
«D'accordo», disse placandosi. «Ma che differenza c'è fra me e uno degli altri responsabili delle indagini?». Lasciai la presa sul suo braccio e mi abbandonai contro lo schienale di legno del séparé. «Una differenza enorme», risposi dopo aver bevuto un altro sorso di birra. «La questione è un'altra: può fare in modo di essere lei quello che l'accusa chiamerà a testimoniare?». Stewart ci rifletté un istante, ruotando la testa da una parte all'altra. «Sì», disse infine. «Eravamo in tre. Farò in modo di essere l'unico disponibile». Si guardò le mani, poi alzò gli occhi su di me. «A condizione che lei capisca una cosa: che risponderò a tutte le loro domande, e risponderò nel modo più veritiero possibile». «Mi aspetto che risponda allo stesso modo anche alle mie». Bevvi un altro sorso di birra, poi ne studiai l'etichetta e la riposi. «Mi piacerebbe stare con voi a bere ottimo liquore e a corteggiare splendide fanciulle», dissi indicando con un cenno del capo la donna al bar con le labbra imbrattate di rossetto. «Ma devo tornare a casa». Mentre scivolavo fuori dal séparé, Flynn rivolse un'occhiata a Stewart. «Non credevo che sarebbe successo, ma Antonelli si è fidanzato». Non conoscevo Stewart meglio di quanto conoscessi Cassandra Loescher, ma anche lui sembrava sinceramente lieto della notizia. «È magnifico», disse alzandosi e stringendomi la mano. «Congratulazioni». Li lasciai soli a finire i loro caffè e a continuare la lunga conversazione, fatta principalmente di un silenzio socievole, con cui ogni sera si incoraggiavano a vicenda a superare un altro giorno senza bere. Il vento sferzante era cessato, e la pioggia era ancora abbondante ma cadeva verticalmente, avvolgendo i sensi in un rombo attutito e senza fine. L'ubriaco sul marciapiede si era afflosciato su un fianco, e una bottiglia da mezzo litro di whisky sbucava vuota dalla tasca della sua giacca. Esitai, quindi lo afferrai per il bavero e lo trascinai nell'androne sotto l'insegna al neon. Lui aprì gli occhi e mi guardò, poi fece crollare la testa sul petto e cominciò a russare mentre l'acqua gli sgocciolava sul volto dal berretto. Percorsi le strade deserte e il ponte di Morrison Street, chiedendomi chi fossero quelli che dormivano al suo riparo quella notte e dove andassero quando si allontanavano, spostandosi da un luogo all'altro, cercando forse qualcosa di meglio come tutti noi e spesso trovando solo qualcosa di peggio. Cominciavo a sentirmi prigioniero di una profonda sensazione di futilità. Presi il telefono dell'auto e feci il numero di casa, ma quando Jennifer non rispose al terzo squillo riagganciai, sicuro che si fosse addormentata.
Mi ero lasciato dietro la città, e procedevo lungo la riva alberata del fiume attraverso la quale brillava qualche luce isolata. Il diluvio cominciò a scemare, rimpiazzato da una pioggerella grigia e nebulosa. I fari di un'auto apparvero dal nulla, poi un'ondata d'acqua si riversò sul mio parabrezza. Subito dopo abbandonai il fiume e seguii la stradina che serpeggiava attraverso le colline e sotto gli alberi, e su ogni cosa calò la solitudine nera e silenziosa di una notte senza stelle. Svoltai l'angolo, ansioso di rientrare a casa, e sulle prime credetti di avere la prima vera allucinazione della mia vita. In cima alla collinetta, alla fine del viale d'accesso, la casa sembrava in preda alle fiamme. Ogni luce doveva essere stata accesa, al piano superiore come a quello inferiore. Poi, mentre cercavo di convincermi di aver avuto una visione la sentii; si propagava lungo le ombre che danzavano sul verde prato ondulato: era la musica ritmata e scatenata di un pianista jazz le cui dita volavano sulla tastiera. Quando raggiunsi la porta di casa la musica si era fatta assordante, ed entrando dovetti tapparmi le orecchie. Scalza, indossando soltanto una camicia da notte rosa, Jennifer manovrava l'aspirapolvere sul tappeto del salotto, muovendo la testa a ritmo di musica. Mi precipitai verso l'impianto stereo e lo spensi. Il rumore del battitappeto si diffuse nella sala, e in un primo momento Jennifer non parve notare la differenza. Poi si drizzò e si guardò intorno. Quando mi vide fece un gran sorriso e fermò il battitappeto. «Ho pensato di fare un po' di mestieri mentre eri fuori», spiegò reggendo il cavo nero come se avesse intenzione di proseguire. «Ho pulito il bagno e la cucina, e quando avrò finito con il battitappeto...», soggiunse spostando lo sguardo sulla sala da pranzo alle mie spalle. «È un po' tardi per queste cose, non credi?», chiesi più delicatamente che potei. Le tolsi il cavo di mano e lo appesi sull'impugnatura. «Perché non andiamo a letto?». I suoi occhi erano accesi da una sorta di appassionata eccitazione, come se ci fosse qualcosa che non vedeva l'ora di dirmi. Mi posò una mano sulla guancia, poi me la portò dietro al collo e si sollevò in punta di piedi. «Sono tanto felice», mi bisbigliò all'orecchio. «Sono così felice che ci siamo ritrovati. Non mi sono mai sentita così bene». Mi lasciò il collo e mi prese per mano. «Vieni», disse guidandomi verso le scale. «Andiamo a letto». «Portami in braccio», disse quando giungemmo in cima alle scale. «Fa' l'amore con me», aggiunse quando fummo davanti alla porta della camera.
Crollammo sul letto insieme, strappandoci di dosso i vestiti, e perdemmo ogni senso del nostro essere due distinte persone nell'atto appassionato dell'amore. Alla fine, quando di me non restava più nulla, mi abbandonai fra le sue braccia calde e lisce e fissando il buio scivolai in un sogno silenzioso e privo di un inizio e di una fine. Mi destai di soprassalto e credetti di aver dormito troppo, ma fuori era ancora buio. Mi tirai le coperte sopra la spalla, mi girai su un fianco e tesi il braccio per cingere Jennifer. Era troppo lontana, e così mi avvicinai e ci riprovai. La mia mano ricadde sul suo guanciale e poi scivolò sul lenzuolo. Jennifer non c'era. La trovai in biblioteca, raggomitolata sullo stesso lato del divano con le gambe piegate sotto di sé e intenta a leggere lo stesso tascabile di qualche ora prima. Nell'udirmi arrivare balzò in piedi. «Che ore sono?», chiesi strofinandomi gli occhi. Jennifer era sveglissima. «Le tre e qualcosa. Ti ho svegliato? Ho cercato di far piano». Chiusi i lembi del mio accappatoio di spugna e guardai di sottecchi l'orologio sopra il caminetto per sincerarmi che fosse davvero notte fonda. «Non riuscivo a dormire», disse Jennifer prendendomi la mano nelle sue. Per qualche ragione lo trovai divertente. «Dopo quello che abbiamo fatto? Io ho dormito come un sasso. Quando mi sono svegliato e ho visto che era buio, sulle prime ho creduto di aver dormito un giorno intero». Ci sedemmo uno accanto all'altra sul divano. Sul tavolino, c'era una tazza vuota con la bustina del tè sul piattino. «Non hai chiuso occhio?». Jennifer era seduta sul bordo del divano con le mani in grembo, e indossava una vestaglia di seta azzurra. Fece correre gli occhi per la stanza, fissando prima una cosa e poi l'altra. Contrasse nervosamente gli angoli della bocca e cominciò a fregarsi le mani, un dito dopo l'altro, ripetutamente. «Da quanto va avanti questa storia?», domandai, improvvisamente preoccupato. «Non stai dormendo affatto, vero?». Jennifer si morse il labbro e mi afferrò la mano. «Sto bene», insistette. Mi guardò negli occhi e cercò di convincermi che era vero, ma prima che riuscisse ad aprire bocca cominciò a piangere. Feci del mio meglio per confortarla. «Andrà tutto bene», le promisi. «Non ti succederà nulla». Mi strinse a sé con tutte le sue forze, tesa e tremante, respirando affan-
nosamente fra i singhiozzi. Dopo qualche minuto allentò la presa, mi posò la testa su una spalla e riprese a respirare normalmente. «Scusami», disse drizzandosi a sedere e asciugandosi una lacrima. «Non so perché l'ho fatto. Mi sento bene, davvero». «Non è necessario che tu menta», le dissi. «C'è qualcosa che non va, e lo affronteremo. Devi farti vedere da un medico». L'aiutai ad alzarsi e la riaccompagnai a letto cingendole il fianco. Jennifer si addormentò con un braccio sul mio petto e il volto a sfiorarmi il collo, e fino alla prima luce dell'alba la tenni fra le braccia, ascoltando il suo respiro sommesso e sereno, senza chiudere occhio. Il mattino dopo, Jennifer mi accompagnò in tribunale poco prima delle nove sotto un perfetto cielo azzurro. Le strade erano stracolme di auto e i marciapiedi erano affollati da uomini e donne che camminavano spediti diretti al lavoro. L'aria era limpida e frizzante, invasa dal profumo solare dell'estate, e il monte Hood, a diversi chilometri di distanza, sembrava ergersi subito dopo il fiume. Jennifer oltrepassò il palazzo di giustizia, svoltò l'angolo e si fermò nei pressi del parco. Qualsiasi cosa le fosse accaduta durante la notte, doveva essere stata un'anomalia causata dalla stanchezza. Ora stava bene; non c'era niente di cui preoccuparsi. Mi guardò con quella scintilla sicura e maliziosa negli occhi e appoggiò la schiena alla portiera, aspettando che mi sporgessi verso di lei e la salutassi con un bacio. «Oggi andrai dal medico?», le rammentai mentre scendevo. Cercò di liquidare l'argomento con noncuranza, ma alla fine promise di sì. Rimasi a guardarla mentre ripartiva e mi sorpresi a chiedermi se l'avrebbe fatto sul serio. Era la prima volta che mi aveva detto qualcosa a cui non credevo fino in fondo. 25 Mentre il suo nome riecheggiava ancora nel silenzio dell'aula affollata, Morris Bingham salì rapidamente sul suo seggio. Sempre gentile ed educato, guardò me e poi Cassandra Loescher. Né la difesa né l'accusa avevano questioni da sottoporre all'attenzione della corte. Con un breve cenno del capo, il giudice comunicò al suo cancelliere che poteva far entrare la giuria. Mentre aspettavamo, mi volsi verso Danny, vestito con un completo blu e la cravatta, e ne ammirai l'aspetto. «Oggi sei molto elegante, Danny», lo
rassicurai. Era seduto con le spalle ingobbite e le mani ciondoloni fra le gambe. Mi rivolse un sorriso timido e trasse un profondo respiro. «Grazie», disse espirando. Sotto lo sguardo attento di alcune centinaia di sconosciuti, i giurati fecero il loro ingresso in aula ostentando espressioni solenni e dignitose, dodici persone normali che sembravano non avere alcuna esitazione nel decidere se un loro simile doveva vivere o morire. Alcuni di loro attesero in piedi che gli altri passassero e raggiungessero i loro posti dietro il banco. Abbassai lo sguardo e carezzai la liscia superficie di pelle della valigetta che Jennifer mi aveva regalato. «È molto bella», disse una voce alla mia destra. «Sembra nuova di zecca», soggiunse Cassandra Loescher. Si sporse verso di me. «Scommetto che so chi gliel'ha regalata». Quando i giurati furono seduti, Bingham li accolse ricordando loro dov'eravamo rimasti e cosa sarebbe seguito. «Buongiorno, signore e signori. Ieri abbiamo concluso le dichiarazioni di apertura. Lasciate che vi rammenti ancora una volta che ciò che gli avvocati dicono nelle loro dichiarazioni non prova alcunché. Le uniche prove che dovrete tenere in considerazione sono quelle che emergono dalle deposizioni dei testimoni. Questa mattina l'accusa comincerà a esporre il suo caso chiamando il primo testimone. La signorina Loescher, che in questo processo è il pubblico ministero, esaminerà ogni testimone rivolgendogli domande specifiche. Questo viene definito interrogatorio diretto. Quando l'accusa avrà terminato di interrogare i suoi testimoni, il signor Antonelli, il legale della difesa, potrà a sua volta, se lo desidera, rivolgere alcune domande. Questo si chiama controinterrogatorio. Al termine dell'esposizione del caso da parte dell'accusa, anche la difesa avrà l'opportunità di chiamare i suoi testimoni. Porrà loro le sue domande, dopodiché l'accusa potrà controinterrogarli». Fece una pausa, quindi inclinò la sua piccola testa da una parte come se stesse per impartire un'istruzione di particolare importanza. «Ci saranno occasioni, e ne avete già viste alcune durante le dichiarazioni di apertura, in cui verrà mossa un'obiezione a una domanda o a una risposta. Queste obiezioni sollevano questioni di diritto, questioni sulle quali è mio dovere deliberare. A volte mi sentirete accogliere un'obiezione, altre volte respingerla. Non dovrete mai pensare che tali decisioni significhino che mi sono fatto un'opinione specifica in merito al caso. E di sicuro non
dovrete pensare che nutra dei sentimenti di animosità o di parzialità nei confronti di questo o quel legale. Il fatto che io non sia d'accordo con l'argomentazione di uno o dell'altra non significa che giudichi più deboli le sue argomentazioni». Lasciò che i giurati riflettessero sul significato delle sue parole, dedicandosi a sistemare alcune carte che aveva portato con sé. «Signorina Loescher», domandò infine rialzando la testa, «l'accusa è pronta a cominciare?». Cassandra Loescher indossava un abito blu di cotone stampato e si era raccolta i capelli sulla sommità del capo. «Sì, vostro onore», rispose alzandosi dalla sedia. «Può chiamare il suo primo testimone». Si voltò verso la porta sul retro dell'aula. «L'accusa chiama Sharon Arnold». Sulla trentina, con lunghi capelli neri e occhi scuri e civettuoli, la prima testimone aveva lavorato come cancelliere di Quincy Griswald per poco più di quattro anni. Era stata lei a trovarne il corpo nel garage, accasciato contro la sua auto. «Come mai si trovava nel garage a quell'ora?», chiese la Loescher in tono calmo e controllato. Le gambe accavallate, Sharon Arnold attese che gli occhi del viceprocuratore si staccassero dalla giuria e si posassero su di lei. «Quel giorno non avevo l'auto. L'avevo lasciata al concessionario per il tagliando. Il giudice Griswald mi avrebbe dato un passaggio». Posando la mano sulla balaustra del banco della giuria, la Loescher cercò di riempire il vuoto. «Avevate appuntamento alla sua macchina?». La domanda provocò un'occhiata vacua. Poi, non appena comprese ciò che aveva tralasciato, la Arnold riprese come se non si fosse dimenticata di nulla. «Siamo usciti insieme dall'ufficio, ma quando abbiamo raggiunto la porta esterna il giudice mi ha chiesto se potevo andare a prendergli un fascicolo su cui voleva lavorare quella sera». Quincy Griswald non era l'unico giudice che dipendeva dal suo cancelliere per ricordarsi dov'erano le cose e sincerarsi che i tempi venissero rispettati. Erano i cancellieri a governare il palazzo di giustizia, e dopo averlo fatto per anni alcuni di loro arrivavano a conoscere la legge meglio dei giudici per cui lavoravano. Era normale che Griswald le avesse chiesto di tornare in ufficio a prendergli quel fascicolo: se ci fosse andato lui, non avrebbe saputo dove cercare.
La Loescher rimase vicina al banco della giuria, sul lato opposto dell'aula rispetto a quello dei testimoni. Ogni volta che formulava una domanda i volti dei giurati si giravano verso di lei, e quando finiva tornavano a osservare Sharon Arnold. «Dunque è tornata in ufficio per prendere il fascicolo che le aveva chiesto il giudice. All'incirca quanto tempo è passato dal momento in cui l'ha lasciato davanti alla porta a quello in cui l'ha trovato?». La Arnold era abituata a prendere decisioni rapide. «Pochi minuti», rispose immediatamente. Senza avvicinarsi alla testimone, la Loescher si staccò dal banco della giuria fino a fronteggiarla. «La prego», le raccomandò, «faccia con calma. Cerchi di essere il più precisa possibile. Quando dice "pochi minuti", quanti minuti intende?». Lavorando per Quincy Griswald, Sharon Arnold era entrata in aula con la stessa frequenza del giudice, si era seduta sotto di lui sul lato del seggio opposto a quello del banco dei testimoni ed era stata un modello di efficienza amministrativa. Non era abituata a doversi spiegare, e ora non riusciva a nascondere del tutto la propria irritazione. «Be', non saprei. Cinque, dieci minuti, qualcosa del genere». La Loescher fece due passi verso di lei, alzò la testa e le scoccò un'occhiata che era come un colpo di avvertimento. Quella non era l'aula di Griswald, e lei era la testimone in un processo per omicidio, non un'assistente viziata che poteva rovinare l'esistenza a un avvocato ogni volta che lo desiderava. «La prego di riflettere bene sulla sua risposta», disse facendo un altro passo nella sua direzione. «Erano più cinque o più dieci?». La Arnold riaccavallò le gambe e cominciò a giocherellare nervosamente con le mani. Risucchiò le guance e assunse un'espressione pensosa. «Ho dovuto percorrere tutto il corridoio fino all'ascensore. Ricordo di averci impiegato un bel po'. Poi ho dovuto aprire la porta dell'ufficio, che era chiusa a chiave. La cartella era nello schedario della scrivania del giudice. Infine ho richiuso a chiave la porta e... immagino che siano passati quasi dieci minuti prima di scendere in garage e trovarlo disteso in mezzo a tutto quel sangue». Ora che aveva assunto il controllo della situazione, la Loescher riprese la sua posizione preferita accanto alla giuria e condusse la testimone nell'esposizione della storia che voleva farle raccontare. La Arnold aveva trovato Quincy Griswald in un lago di sangue e si era resa immediatamente con-
to che era morto. Aveva lasciato cadere la cartella e si era precipitata gridando nel palazzo di giustizia. Due guardie in uniforme l'avevano seguita di nuovo in garage fino al corpo che lei era stata la prima a vedere. Ma io ero molto più interessato a ciò che non aveva visto. «Ha mai visto quest'uomo prima d'ora?», chiesi non appena giunse il mio turno di interrogarla. Sorridendole, mi portai alle spalle di Danny e gli posai una mano sulla spalla. «No, non credo». Tolsi la mano dalla spalla del ragazzo e aggirai lentamente il banco degli avvocati. Strinsi le dita sul bordo del tavolo dietro di me e mi ci appoggiai, accavallando un piede sull'altro. «Non l'ha visto nel garage quando ha trovato il giudice Griswald?», domandai in tono noncurante. «No». «E non l'ha visto quando ci è tornata con i due agenti?». «No». «Non l'ha visto all'interno del palazzo di giustizia mentre stava uscendo insieme al giudice Griswald?». «No». Incrociai le braccia sul petto e abbassai gli occhi a terra. «Prima di stamattina non l'aveva mai visto, vero?», domandai guardandola dal basso verso l'alto. «No, non credo». Rialzai il capo. «Le viene in mente nessuno che potesse volere la morte del giudice Griswald?». Era una reazione automatica, l'altra faccia della regola per cui non si doveva mai parlar male dei morti: la cieca convinzione che malgrado una persona fosse stata uccisa, nessuno poteva desiderare che accadesse. «No, naturalmente no». Inarcai le sopracciglia, poi abbassai la testa e coprii i pochi passi che mi separavano dal banco della giuria. «Lei si rende conto, vero», domandai girandomi di scatto verso la Arnold, «che erano in molti, compreso Quincy Griswald, a desiderare che Calvin Jeffries morisse?». «Vostro onore!», gridò la Loescher balzando in piedi dalla sedia. Alzai una mano prima che Bingham potesse aprire la bocca. «Riformulerò la domanda. Lei ha lavorato a stretto contatto con il giudice Griswald?». Guardai la Arnold negli occhi.
«Sì, per quattro anni». «E nel corso di quei quattro anni, lavorando a stretto contatto con lui, è giunta a conoscerlo bene, è così?». Lei non esitò. «Sì». «E sapeva bene cosa pensava degli altri, compresi i suoi colleghi, giusto?». La Loescher era ancora in piedi, e ci osservava con attenzione. Bingham scrutava la testimone con entrambe le braccia appoggiate sul seggio. «Sì». «E Calvin Jeffries non gli piaceva, vero? Non gli piaceva per niente, esatto?». «Vostro onore», insistette la Loescher. Continuando a osservare la Arnold, Bingham alzò una mano. «No, la teste può rispondere». «No, non gli piaceva». Feci per formulare la domanda successiva, ma la Arnold non aveva ancora finito. «A dire la verità, credo che ne fosse un po' impaurito». «Impaurito? In che senso?». «Forse sarebbe meglio dire intimidito. Il giudice Jeffries sembrava avere quell'effetto su molte persone». «Sicché possiamo dire che non provò dispiacere quando Calvin Jeffries venne assassinato?». «Non ho detto questo», rispose di scatto, affrettandosi a correggere l'impressione che temeva di aver dato. «Non rimase addolorato quando Calvin Jeffries morì?». Non volle rispondere, accontentandosi di lasciar parlare il silenzio. Cassandra Loescher si era seduta. Picchiettava sul banco con la gomma di una matita, pronta a muovere una nuova obiezione. «Lei lavorava per il giudice Griswald da poco più di quattro anni, esatto?». «Sì». «Dunque non era con lui dodici anni fa, quando presiedette il processo di Elliott Winston?». «Vostro onore... è pertinente?», chiese la Loescher levando le mani al cielo. «È pertinente alla teoria della difesa, vostro onore», dissi come se fosse una spiegazione. «E a parte la questione della pertinenza, vostro onore», insistette la Loe-
scher, «oltrepassa la sfera dell'interrogatorio diretto». Bingham mi guardò. «Vostro onore, è stata l'accusa a stabilire la relazione lavorativa fra la teste e la vittima. Sto semplicemente esplorando l'estensione di tale rapporto». «In tal caso, lo faccia il più rapidamente possibile e poi passi ad altro». «Durante il periodo in cui ha lavorato per lui», domandai, «l'ha mai sentito nominare Elliott Winston?». La Arnold ci rifletté un istante. «No, non mi sembra». «Ne è sicura?». «Era il primo marito della moglie del giudice Jeffries?». «Esatto». Un sorriso scaltro si fece strada sulle sue labbra. «Un giorno ha detto qualcosa, ma non su di lui, non direttamente, cioè. Era arrabbiato con il giudice Jeffries, non so per quale ragione. "Mi chiedo se sua moglie l'avrebbe sposato sapendo che era pazzo quanto il suo primo marito", ha detto. È stato allora, credo, che ha usato quel nome, Elliott Winston». «Sicché pensava che Elliott Winston fosse pazzo?». Si strinse nelle spalle. «Non lo so. Ho pensato che fosse soltanto un modo di dire». Non avevo altre domande, e Cassandra Loescher non aveva quesiti che giustificassero un nuovo interrogatorio. Sharon Arnold poté alzarsi e l'accusa chiamò il testimone successivo, uno dei due agenti di sicurezza che erano tornati insieme a lei nel punto in cui aveva scoperto il corpo di Griswald. Breve e concreta, la sua deposizione aggiunse ben poco a ciò che era stato già detto. Sicura che fosse morto, ma timorosa di toccare il corpo, la Arnold aveva lasciato che fosse la guardia a controllargli il polso. Il primo agente venne seguito dal secondo, e invece di chiedere loro se avessero visto l'imputato sulla scena del delitto non mi presi la briga di controinterrogarli. La Loescher concluse il primo giorno di testimonianze chiamando il fotografo della polizia che aveva lavorato sulla scena. Malgrado la mia obiezione, le fotografie vennero ammesse come reperti e alla giuria venne mostrata la vivida oscenità di una morte violenta. Quincy Griswald, i cui occhi in vita traboccavano spesso di rabbia e la cui bocca era spesso contorta dalla furia, mostrava un'espressione di perplessa innocenza, come se non fosse riuscito a capire perché qualcuno avesse voluto fargli del male. Guardai a lungo quella fotografia prima di restituirla al cancelliere. Tutti gli anni che avevano lasciato il segno sulle sue fattezze rugose sembravano essere svaniti al momento della morte, e con
loro tutte le delusioni della sua esistenza. Sembrava quasi tornato giovane. Il mattino dopo la Loescher chiamò il medico legale, che descrisse la causa del decesso, e il detective Kevin Crowley, il responsabile delle indagini. Cominciavo a provare ammirazione per il modo in cui il viceprocuratore svolgeva il suo lavoro. Ogni testimone veniva chiamato a deporre secondo una sequenza perfettamente logica e calcolata, e i loro racconti andavano a formare una storia seguendo un rigido ordine cronologico. La Loescher era pronta a formulare una stessa domanda in tre modi diversi, se questo era l'unico modo per chiarire i dettagli. E il suo scopo non era soltanto quello di descriverli ai giurati. Voleva che si rendessero conto di cosa significava trovare qualcuno che conoscevi accoltellato a morte; voleva che capissero cosa aveva provato la vittima l'istante in cui aveva capito che stava per morire. Indossando un vestito marrone e un paio di scarpe con il tacco basso, si parava davanti alla giuria, attenta e paziente, mentre il detective Crowley spiegava come la polizia aveva arrestato il sospettato. «Quando l'avete trovato aveva in mano il coltello?». Piccolo e tozzo, con occhi guizzanti, Crowley era leggermente troppo ansioso di rispondere. «Sì», disse prima ancora che la Loescher avesse terminato la domanda. «Chiedo scusa», fece lei senza tradire alcuna visibile irritazione. «Qual era la sua risposta?». Stavolta Crowley attese. «Sì». «Cosa ne ha fatto del coltello, dopo averlo tolto di mano al sospettato?». «L'ho infilato in una busta di plastica, che ho sigillato ed etichettato». La Loescher si era avvicinata al tavolo davanti al cancelliere. Prese una grossa busta di cellofan che conteneva un coltello da cucina con un manico di legno e una lama da quindici centimetri e la porse al testimone. «È questa la busta?». «Sì». «E questa è l'etichetta di cui parlava?». Il detective la sollevò e la esaminò con cura. «Sì, questa è la mia sigla». «A quel punto cosa ne ha fatto?». «L'ho portata nella sala prove del quartier generale e l'ho fatta inviare al laboratorio». «Per quale ragione?». «Per rilevare le impronte digitali ed effettuare l'esame del DNA». «Avremo testimonianze più specifiche sulle impronte digitali rilevate
sull'arma e sui risultati degli esami del DNA», osservò la Loescher tornando accanto al banco della giuria. «Ma mi consenta di chiederle, detective Crowley, quali ulteriori passi sono stati compiuti nelle indagini dopo che è stato stabilito a chi appartenevano le impronte sul manico e il sangue sulla lama?». Crowley guardò la busta di plastica e il coltello che conteneva. «Il caso è stato chiuso», rispose alzando gli occhi. La Loescher rivolse un'occhiata significativa alla giuria, poi tornò a voltarsi verso il testimone. «La ringrazio, detective Crowley. Non ho altre domande». «Quando avete cominciato le indagini», domandai alzandomi dalla sedia per iniziare il mio controinterrogatorio, «non siete rimasti colpiti dalle somiglianze fra l'omicidio di Quincy Griswald e quello di Calvin Jeffries?». «Io non avevo niente a che fare con le indagini sul caso Jeffries», disse Crowley. Lo guardai fisso. «Non le ho chiesto questo, detective. E fra l'altro», soggiunsi quasi volessi fare un inciso, «se questo è vero, lei doveva essere l'unico poliziotto in tutto lo stato a non avere niente a che fare con quell'indagine. Lasci che le ripeta la domanda: quando avete cominciato a indagare, non siete rimasti colpiti dalle similitudini fra i due casi?». «C'erano alcune somiglianze», concesse Crowley. Spostò il peso in avanti, allargò le gambe e appoggiò le mani sulle ginocchia. Mi seguì con gli occhi mentre cominciavo a passeggiare avanti e indietro davanti al banco degli avvocati. «Erano entrambi giudici della corte circoscrizionale, giusto?». «Sì». «Entrambi erano stati uccisi nei pressi delle loro macchine nel garage in cui parcheggiavano?». «Sì». «Entrambi erano stati pugnalati a morte?». «Sì». «Allora mi dica, detective Crowley, in qualità di responsabile dell'inchiesta: che tipo di indagini ha svolto la polizia sui possibili collegamenti fra i due delitti? Sarò ancora più preciso». Mi fermai e alzai la testa. «Quali sforzi sono stati compiuti per determinare se vi fosse qualcuno, magari qualcuno che entrambi i giudici avevano mandato in prigione, che poteva avere un movente per ucciderli?». «Il caso Jeffries era già stato risolto. Non c'era alcun collegamento. Era
impossibile». «In altre parole», chiesi spazientito, «non avete potuto indagare su quella possibilità perché ritenevate che non esistesse?». «Obiezione», intervenne la Loescher prima che Crowley potesse rispondere. «È un'affermazione, non una domanda». Bingham ci rifletté. «Magari potrebbe riformulare la domanda, signor Antonelli». «Poco fa ha dichiarato che non aveva a che fare con le indagini sul delitto Jeffries, esatto?». «Sì». «Dunque la sua conoscenza del caso, di quello che è veramente accaduto, è nella migliore delle ipotesi indiretta, giusto?». «Suppongo di sì», rispose Crowley scoccandomi un'occhiata torva. Mi voltai fino a fronteggiare la giuria, tenendo il testimone alla mia destra. «Ma c'è un'altra somiglianza, non è vero? In entrambi i casi, alla polizia è stato segnalato il rifugio del presunto assassino. Non è così, detective Crowley?». «Sì, abbiamo ricevuto una telefonata». «Una telefonata anonima», precisai tornando a voltarmi verso di lui. «Una telefonata anonima in cui l'autore, in entrambi i casi, ha cercato di dissimulare la propria voce, non è vero?». Crowley cercò di parare il colpo. «Voleva mantenere l'anonimato». Lo ignorai. «E non trova un po' strano che in entrambi i casi - questi due casi che lei presume non abbiano alcun collegamento - la polizia sia stata condotta nello stesso luogo, un bivacco di senzatetto sotto il ponte di Morrison Street?». Crowley colse l'occasione al volo. «Dimentica che l'assassino del primo caso aveva confessato e si era ucciso. Non poteva avere a che fare con il secondo omicidio, no?». Scossi il capo con fare annoiato e accantonai la sua replica con un gesto vago della mano. «Chiedo che la risposta venga cancellata, vostro onore, perché evasiva. E a parte questo», soggiunsi con un'occhiata alla Loescher, «è una testimonianza fondata sul sentito dire». Bingham ordinò alla giuria di fingere di non aver mai udito ciò che probabilmente non avrebbe dimenticato. Esaurite le mie domande, mi sedetti e attesi che la Loescher chiamasse il successivo testimone. Con i suoi baffi penduli e i suoi capelli grigi spettinati, Rudolph Blensley sembrava più un anziano professore di matematica che un detective di
polizia. La Loescher cominciò stabilendo le sue credenziali di esperto di impronte digitali, quindi gli chiese a chi appartenevano le impronte rilevate sul coltello sequestrato all'imputato. «Le uniche impronte sull'arma», rispose Blensley, «corrispondono a quelle dell'imputato, John Smith». Era raffreddato, e le parole gli uscivano di bocca smorzate e confuse. Non appena la Loescher si sedette, estrasse un fazzoletto dalla tasca laterale della giacca e si soffiò il naso. Rimise in tasca il fazzoletto e cercò di asciugarsi gli occhi arrossati e lacrimanti con il dorso della mano. «Vuole un sorso d'acqua?», chiesi. Ci eravamo già trovati faccia a faccia in tribunale, e Blensley aveva sempre risposto alle mie domande con la stessa schiettezza che dimostrava nei riguardi dell'accusa. «I raffreddori estivi sono i peggiori», osservai mentre beveva. Quando ebbe finito, si rilassò sulla sedia e attese la mia domanda. «Le impronte da lei rilevate appartengono all'imputato, conosciuto come John Smith?». «Sì». «A proposito, le impronte di John Smith erano già in archivio oppure le sono state fornite dalla polizia dopo il suo arresto?». Sapeva dove volevo andare a parare. «Vuole sapere se abbiamo rilevato le impronte sul coltello e poi le abbiamo inserite nella banca dati per identificarle o se le abbiamo confrontate con la serie che ci è stata fornita? Le abbiamo confrontate con la serie che ci è stata fornita, con le impronte dell'imputato». «Capisco. In altre parole, non si è trattato di un'indagine in cui avete usato le impronte rilevate sull'arma del delitto per scoprire chi, fra i milioni di individui le cui impronte sono registrate, poteva aver impugnato il coltello e averlo usato per uccidere?». «Esatto», disse Blensley infilando la mano in tasca alla ricerca del fazzoletto. Attesi che si soffiasse il naso, poi gli chiesi se voleva un altro bicchiere d'acqua. «Sto bene, grazie». «Se non le avessero fornito le sue impronte», domandai indicando Danny, «sarebbe stato in grado di identificare l'imputato come colui le cui impronte erano sul coltello?». Blensley tossì coprendosi la bocca con la mano. «No», rispose infine. «Le sue impronte non figuravano nella banca dati».
«Non è forse vero, detective Blensley, che le impronte digitali vengono prese a tutti coloro che vengono arrestati per un crimine, anche un reato minore?». «Sì, è vero». «E le impronte vengono inserite nella banca dati?». «Sì». «Dunque quello che sta dicendo è che l'imputato non era mai stato arrestato; nemmeno una volta, giusto?». Blensley levò le braccia al cielo con le palme rivolte verso l'alto. «Tutto quello che posso dire è ciò che ho detto: le sue impronte non erano nella banca dati». Tornai al banco degli avvocati e mi fermai accanto alla mia sedia. «Vostro onore, possiamo mostrare al testimone il reperto numero 106?». Il cancelliere porse al detective la busta di plastica con il coltello. «Non le chiederò di tirarlo fuori e provarlo, ma a prima vista la lama le sembra affilata? In altri termini, sembra che abbia una parte tagliente?». «No, non ce l'ha». «Non le sembra alquanto smussata, a dire il vero?». Blensley annuì e attese. «Naturalmente, anche un coltello dalla lama smussata può essere usato per accoltellare qualcuno, giusto?». Annuì di nuovo, e dovetti rammentargli di rispondere ad alta voce. «Sì». «Ora, se non le dispiace, guardi l'impugnatura. Non sembra anche a lei consumata, l'impugnatura di un coltello che è stato usato molte volte?». «Sì, direi di sì». «In altre parole, lo definirebbe un coltello alquanto vecchio, di sicuro non nuovo?». «Direi di sì», rispose tamponandosi il naso con il fazzoletto. «Probabilmente usato da un gran numero di persone diverse dal momento in cui è stato venduto, no?». «Immagino di sì». «Eppure, se ho capito bene, le uniche impronte che ha trovato sul coltello appartengono all'imputato. Malgrado tutti quelli che hanno usato quel coltello, decine, forse centinaia di persone, ci sono soltanto le impronte dell'imputato. Questo non le suggerisce nulla, detective Blensley?». Esitò, incerto sul significato delle mie parole. Drizzai la schiena e domandai in tono appassionato: «Non le suggerisce che chiunque abbia avuto
quel coltello prima che giungesse in possesso dell'imputato doveva aver cancellato le sue impronte?». Blensley fece per rispondere, ma glielo impedii. «Non le suggerisce che chiunque abbia avuto quel coltello prima dell'imputato non voleva che lo si sapesse? E per quale ragione pensa che non volesse far sapere di aver impugnato quel coltello, il coltello che l'accusa ci assicura sia stato usato per uccidere Quincy Griswald, se non perché era stato lui a ucciderlo?». La Loescher balzò in piedi sbraitando la sua obiezione. «Non ho altre domande, vostro onore», dissi cominciando a sedermi, ma prima di toccare la sedia balzai di nuovo in piedi. «C'è un'altra cosa, vostro onore». La Loescher mi guardò con la bocca ancora aperta, Bingham con la bocca ancora chiusa. «Detective Blensley, le impronte che ha rilevato, le impronte dell'imputato... ci può dire se sono state lasciate prima dell'omicidio di Quincy Griswald?». Blensley scosse il capo. «No, non c'è alcun modo di saperlo». «In altre parole potrebbero essere state lasciate dopo la morte di Quincy Griswald. È così?». «Sì, è così». 26 L'accusa cominciò il terzo giorno di deposizioni con il dottor Friedrich Zoeller, direttore del laboratorio che aveva condotto l'esame del DNA sui residui di sangue trovati sul coltello. Alto e magro, con zigomi sporgenti e occhi infossati, stava scompostamente seduto al banco dei testimoni facendo dondolare una gamba sopra l'altra e sporgendo un braccio da una parte. Con sbalorditiva rapidità snocciolò fatti e cifre, e lo fece con tale sicurezza che era quasi impossibile pensare che si potesse sbagliare. Dalle nove e mezzo del mattino alla pausa per il pranzo, il dottor Zoeller tenne una vera conferenza sulla natura del DNA e sull'assoluta certezza che il sangue sul coltello apparteneva a Quincy Griswald e a nessun altro. Cassandra Loescher lo trattò con un rispetto che non aveva mostrato con nessun altro. Zoeller non era soltanto un esperto, era anche uno scienziato, e la scienza, sembrava dire il viceprocuratore con ogni sua rispettosa domanda, era l'unica cosa che nessuno poteva mettere in discussione. La deposizione del testimone d'accusa secondo la quale il coltello trovato in possesso dell'imputato, il coltello che aveva soltanto le sue impronte, era
stato usato per uccidere Quincy Griswald era qualcosa di cui soltanto un folle poteva dubitare. Fermandomi davanti alle tabelle e ai grafici che erano stati sistemati con cura su due grandi cavalletti fra il banco della giuria e quello dei testimoni, studiai per un attimo i reperti colorati e accuratamente etichettati. Giunsi le mani dietro la schiena e mi portai in fondo al banco della giuria. «Temo di essere soltanto un avvocato, dottor Zoeller», esordii guardando i volti dei giurati. «In precedenza abbiamo ascoltato la testimonianza di un esperto di impronte di' gitali. Se ho seguito bene quello che ha detto, il DNA è lo stesso genere di cosa. Dico bene?». Il dottore abbandonava di rado la languida posizione che aveva assunto all'inizio. Fece ruotare la testa sulle spalle e mi guardò dall'alto in basso. «In un certo senso», rispose con un sorriso indulgente. «La differenza è che le impronte digitali sono semplicemente ciò che l'espressione stessa suggerisce: la cute superficiale dei polpastrelli. Il DNA invece, come ho cercato di spiegare, può essere ottenuto da qualsiasi parte del corpo: pelle, sangue, capelli, fluidi corporei come la saliva». «No, chiedo scusa», dissi agitando le mani. «Questo l'ho capito. Quello che voglio che mi spieghi è un'altra cosa: il DNA, come le impronte digitali, è qualcosa di unico per ciascun individuo? Non esistono due persone con le stesse impronte digitali o lo stesso DNA, giusto?». «Sì, esatto», disse Zoeller scoccandomi lo stesso sorriso condiscendente. «Con l'eccezione dei gemelli monozigotici». Ricambiai il sorriso. «E mi dica, dottor Zoeller, i gemelli monozigotici hanno le stesse impronte digitali?». Batté le palpebre, smise di sorridere e strinse il bracciolo della sedia con una mano per raddrizzarsi. «Non credo», rispose con cautela. «Non crede?», ripetei continuando a sorridere. «Non lo sa?». «No, non penso che siano uguali», disse impallidendo leggermente. Accantonai la cosa come se non avesse particolare importanza. «Le impronte digitali non sono la sua specialità. Lei è un esperto di DNA». Parve sollevato. «Sì, esatto». «Allora mi dica questo. Ci ha spiegato in modo straordinariamente chiaro come funziona. Il codice genetico che lei ha descritto, composto da miliardi di istruzioni specifiche... è un'immagine corretta?». Si era drizzato a sedere, e seguiva ogni mia parola. «Sì, è abbastanza precisa».
«È come un enorme, complicatissimo programma informatico, non è vero?». «Sì, è una buona analogia». Mi fermai e guardai la giuria. «È un miracolo, non trova?». «Sì, si può dire...». «Un miracolo che la scienza abbia provato l'esistenza di Dio?». «No, non credo che si possa...». «Ma è stato lei a dirlo, no? Ha detto che è come un programma informatico. E ogni programma ha un programmatore, qualcuno che l'ha progettato, giusto?». «Sì, ma...». «E lei conosce un programma informatico più intricato e complesso del codice genetico?». «No, ma...». «Lei è uno scienziato, dottor Zoeller. Trova ragionevole, trova razionale presumere che sistemi meno complessi possano essere nati per volontà di qualcuno, ma che quelli più complessi siano stati generati dal caso?». Zoeller si rilassò con un sorriso condiscendente. «O da milioni d'anni di evoluzione». «Cioè caso più durata», dissi con un'occhiata perentoria. «Ora, dottor Zoeller, in qualsiasi modo sia nato il codice genetico, lei ha potuto stabilire che il sangue sul coltello apparteneva alla vittima grazie al fatto che il DNA di un campione corrispondeva a quello di un altro, esatto?». «Sì», rispose Zoeller indicando uno dei grafici sui cavalletti. «Capisco. Lei ci ha mostrato come i segni orizzontali che rappresentano il DNA della vittima combacino con quelli del DNA ricavato dal sangue sul coltello. E poiché tutti i segni dei due campioni combaciano, possiamo essere certi che appartengano alla stessa persona, giusto?». «Sì, esattamente». «Possiamo essere certi, in altre parole, che abbiano un'origine comune?». Sembrava divertito dal modo in cui mi sforzavo di capire qualcosa che alla sua mente addestrata risultava evidente. «Sì, hanno un'origine comune; appartengono alla stessa persona. Come ho detto, sono identici». «Dunque possiamo essere sicuri, possiamo avere la certezza scientifica che se due cose sono uguali sotto tutti gli aspetti fondamentali, significa che hanno la medesima origine?». «Sì, sì, naturalmente», disse con fare rilassato e sicuro di sé.
«Perfino due omicidi?», chiesi in tono innocente mentre mi voltavo verso la giuria e facevo ritorno al banco degli avvocati. La Loescher mi scoccò un'occhiata irosa mentre si alzava di scatto e, ansiosa di mostrare a tutti quanto mi sbagliassi, pronunciò quasi gridando il nome del suo successivo testimone. «Lo stato chiama il detective Jack Stewart». Malgrado il codice di abbigliamento formale fosse stato da tempo abbandonato anche dai membri più importanti del dipartimento, Stewart lo rispettava ancora. Forse ricordava i tempi in cui era entrato per la prima volta in un'aula di tribunale vestito in uniforme e aveva testimoniato al cospetto di una giuria in cui ogni donna indossava un vestito e ogni uomo era in giacca e cravatta; forse, vivendo da solo e ormai prossimo alla pensione, aveva semplicemente bisogno di una scusa per vestirsi bene. Anche Cassandra Loescher era elegante con un completo a righe scure di sartoria che le stava a pennello. Era nuovo e costoso, e più che il suo aspetto cambiava il modo in cui si sentiva. Il suo mento era leggermente più alto, le sue spalle leggermente più dritte di prima. Quando ruotava sui tacchi, il suo passo era più deciso e nei suoi occhi c'era una sorta di fredda scintilla. Mentre Stewart prestava giuramento, si fermò in piedi con una mano sul braccio, accarezzandosi la manica della giacca. Dopo aver determinato il grado e l'esperienza di Stewart con poche, rapide domande, passò direttamente all'unico argomento rimasto, l'idea assurda che l'imputato potesse essere innocente poiché chiunque avesse ucciso Quincy Griswald aveva ucciso anche Calvin Jeffries. La sua mano era ancora posata sulla manica, e le dita vi tamburellavano silenziose mostrando quanto fosse spazientita dalla necessità di provare ciò che sapevano tutti. «Lei era il responsabile delle indagini relative all'omicidio del giudice Calvin Jeffries?». «Ero uno dei responsabili». Ruotò di novanta gradi fino a trovarsi di fronte alla giuria. «Ed è stato effettuato un arresto?», domandò. «Sì. Jacob Whittaker è stato incriminato per l'omicidio del giudice Jeffries». «E le dispiace dire alla giuria», riprese pizzicando la lanugine dalla manica e spazzolandola via, «se l'uomo che avete arrestato ha confessato di aver commesso il delitto?». Il testimone non rispose, e la Loescher alzò gli occhi. «Detective?».
«Ha confessato, questo è vero». Era una risposta meno enfatica e immediata di quella che si aspettava, ma era sufficientemente chiara. Un'altra domanda e non ci sarebbe più stato spazio per il dubbio, e quella leggera esitazione nella voce del testimone sarebbe passata nel dimenticatoio, uno scherzo momentaneo della memoria, il genere di cosa che accade di frequente ai testimoni. La Loescher posò lo sguardo sulla giuria con un sorriso sicuro sulle labbra. «E ci dica, detective Stewart, che cosa ha fatto l'assassino di Calvin Jeffries dopo aver confessato?». «Quella notte è stato trovato morto nella sua cella». Il sorriso le si congelò sulle labbra, e i suoi occhi lo guardarono fiammeggiando. «Intende dire che si è ucciso, vero?». «Quella è stata la conclusione ufficiale, sì», rispose Stewart in tono piatto. La Loescher lo guardò, cercando di capire come mai non stesse rispondendo alle sue domande nel modo in cui avrebbe dovuto rispondere e stesse invece facendo tutte quelle inutili distinzioni. Era un poliziotto, non un avvocato; e come non avrebbe dovuto mentire, così non avrebbe dovuto nemmeno ostacolare la comprensione della verità. «Allora, tirando le somme. C'è un arresto, c'è una confessione, e viene ufficialmente stabilito che il reo confesso si è tolto la vita. Un'ultima domanda, detective Stewart. Dopo l'arresto, dopo la confessione, dopo il suicidio, che ne è stato delle indagini? Sono proseguite oppure il caso è stato chiuso?». «Il caso è stato chiuso», rispose Stewart. La Loescher si rivolse alla giuria. «L'assassino è stato arrestato, l'assassino ha confessato e il caso è stato chiuso». Si sedette; poi, come se le fosse venuto in mente soltanto a quel punto, alzò lo sguardo verso il seggio. «Non ho altre domande, vostro onore». Balzai in piedi così rapidamente che dovetti afferrare al volo la sedia per impedire che cadesse. «Noi ci conosciamo, vero detective Stewart?», chiesi ridendo di me stesso mentre mi allontanavo incespicando dalla sedia. Stewart non esitò. «È vero». La Loescher alzò la testa e guardò prima lui e poi me. «Lei ha testimoniato per l'accusa in diversi processi in cui io ero l'avvocato difensore, esatto?», domandai raddrizzando la sedia e allontanandomi dal tavolo. «Sì».
La Loescher riportò lo sguardo sul suo blocco giallo e vi scribacchiò un appunto. «Jacob Whittaker, l'uomo che è stato arrestato, che ha confessato, che è stato trovato morto nella sua cella... come sapevate dov'era?». «Grazie a una telefonata anonima». «E dove ha detto che l'avreste trovato, l'autore di questa telefonata anonima?». «Sotto il ponte». «Il ponte di Morrison Street?». «Sì». «Ed è stato lì che avete trovato Whittaker, sotto il ponte di Morrison Street, in mezzo a un gruppo di senzatetto?». «Sì». «E come crede che l'autore della telefonata anonima sapesse chi era e dove si trovava l'assassino?». Stewart scosse la testa. «Non saprei». «Whittaker aveva la minima idea di chi poteva essere l'informatore?». La Loescher si alzò emettendo un gran sospiro. «Vostro onore, non riesco a vedere la pertinenza di tutto ciò». Il giudice Bingham mi guardò e attese. «Sto cercando di determinare uno schema comune, vostro onore. In entrambi i casi è stata una telefonata anonima a segnalare alla polizia dove avrebbe trovato il presunto assassino, e in entrambi i casi si trattava del ponte. Sto cercando di scoprire chi poteva avere queste informazioni sui delitti». La Loescher allargò le braccia. «È una semplice coincidenza. La testimonianza del detective ha già stabilito che l'assassino di Calvin Jeffries non può aver avuto a che fare con l'omicidio di Quincy Griswald». Scoccò un'occhiata alla giuria. «Visto che era morto». «Si rivolga alla corte», scattò Bingham. «Ora, signor Antonelli», riprese nel suo tono normale, «ha esaurito questo argomento?». «Quasi, vostro onore». Tornai a rivolgermi al testimone. «Whittaker non sapeva nulla dell'informatore?». Stewart inclinò il capo, arricciò le labbra e ridusse gli occhi a due lunghe fessure. «Non lo so. Ma se sapeva qualcosa, a noi non l'ha detto». «Quando è stato arrestato e condotto alla stazione lei ha dato per scontato che fosse un senzatetto, non è vero?». «Sì».
«Mi dica, detective Stewart, è stato prima o dopo la chiusura del caso che ha scoperto che l'uomo che aveva confessato di aver ucciso Calvin Jeffries era un paziente dell'ospedale psichiatrico?». Nell'aula vi fu una vera e propria eruzione, e per la prima volta dall'inizio del processo Bingham dovette usare il martelletto per far tacere la folla. L'opinione pubblica non sapeva che l'assassino di Jeffries era fuggito dall'ospedale psichiatrico, e a giudicare dall'espressione sul suo volto, non lo sapeva nemmeno la Loescher. «Whittaker è stato arrestato, ha confessato ed è morto nello stesso giorno», spiegò Stewart quando nell'aula ridiscese la calma. «Abbiamo saputo chi era, o cos'era, soltanto qualche giorno dopo, quando le sue impronte digitali sono state identificate». Mi scagliai contro di lui come se fossimo vecchi avversari e non amici recenti. «Era accanto a lui quando ha confessato e non ha notato niente di strano? Le è sembrato un individuo del tutto sano e normale?». Anche se fossi stato spinto dalla rabbia, non avrei avuto alcun effetto: Stewart rimase imperturbabile. «C'erano alcune cose, in lui, che non sembravano normali». «Per esempio?». «Il modo in cui continuava a ripetere sempre la stessa frase quando gli domandavo perché l'avesse fatto. "Non posso dirlo", continuava a rispondere. Sulle prime ho creduto che intendesse dire che non sapeva, che non poteva spiegare perché l'aveva fatto. Ma poi, gradualmente, ho cominciato a pensare che lo sapesse, ma che per qualche ragione non potesse o non volesse parlarne». Mi arrestai di botto. «Che non avesse il permesso di parlarne?». Stewart non intendeva farsi mettere in bocca una risposta di cui non era convinto. «Che sapesse perché l'aveva fatto, ma che non avesse intenzione di dircelo. Perché non volesse dircelo è un interrogativo a cui non posso rispondere. Non lo so». «Ma le è sembrato strano che qualcuno confessasse di aver commesso un delitto ma poi si rifiutasse di spiegare perché l'aveva fatto?». «Sì, mi è sembrato strano», convenne. Era tutto ciò di cui avevo bisogno; l'ammissione da parte di un testimone dell'accusa, dell'investigatore responsabile delle indagini sull'omicidio di Calvin Jeffries, che nella confessione dell'assassino c'era qualcosa di strano, qualcosa che non andava. Mi dava l'opportunità di sostenere che vi fos-
se una valida ragione per dubitare che il responsabile della morte di Jeffries fosse stato trovato, e che vi fosse motivo di credere che i due omicidi erano collegati. La Loescher, troppo intelligente per non rendersene conto, me lo impedì con poche domande ben formulate nel suo secondo interrogatorio. «Lei ha appena dichiarato che Jacob Whittaker ha confessato di aver ucciso Calvin Jeffries ma non ha voluto dirle perché», disse alzandosi dalla sua sedia. Stewart annuì. «Sì». La Loescher rimase accanto al banco, i polpastrelli della mano sinistra a sfiorarne la superficie. «E il signor Antonelli le ha chiesto se non le fosse sembrato "strano", credo sia stata questa la parola che ha usato. Esatto?». «Sì». Si concesse il sorrisetto soddisfatto della prima della classe che sapeva la risposta e, peggio ancora, sapeva che tu la ignoravi. «Ma il signor Antonelli le ha anche chiesto se fosse a conoscenza del fatto che Jacob Whittaker era un malato di mente. In base alla sua esperienza, detective Stewart, trova strano che un malato di mente faccia cose che il resto di noi considererebbe strane?». «No», ammise Stewart. La Loescher alzò il mento, e il suo sorriso venne rimpiazzato da un'espressione di fervida convinzione. «Lei era l'investigatore responsabile di quel caso. Ci dica una cosa: dubita in qualche modo che Jacob Whittaker abbia ucciso il giudice Jeffries?». «No, non ho alcun dubbio», rispose Stewart senza un attimo di esitazione. La Loecher si voltò verso la giuria e ripeté in modo enfatico la risposta. «Non ha alcun dubbio». Bingham, seduto di traverso rispetto al seggio, alzò gli occhi da qualcosa che reggeva in grembo. «Secondo controinterrogatorio?» «Detective Stewart», dissi alzandomi, «come fa a essere così sicuro che Whittaker abbia ucciso il giudice Jeffries? È già successo che qualcuno abbia confessato un crimine che non ha commesso, non è così?». «Sì, ma in questo caso Whittaker sapeva alcune cose dell'omicidio, certi dettagli, che erano stati tenuti nascosti». «Quali dettagli, detective Stewart?». «Il giudice Jeffries non era stato semplicemente pugnalato: l'assassino l'aveva sventrato».
«Sbudellato?». «Sì». «E quando Whittaker l'ha confessato, il suo racconto è stato chiaro e convincente?». «Sì». «Non delirava, non vaneggiava, non faceva nessuna di quelle "strane" cose che tendiamo ad associare ai matti?». «No, niente del genere». «Lei ha scoperto che Whittaker era un paziente dell'ospedale psichiatrico. Per quale ragione? Era stato ricoverato nella struttura civile o in quella criminale?». «Whittaker era stato giudicato inabile a subire un processo per un crimine che aveva commesso». Mi avvicinai al banco della giuria. «E di che crimine si trattava, detective Stewart?», domandai chinando la testa e allacciando le mani dietro la schiena. «Omicidio». Potei avvertire il sussulto silenzioso, la tensione che si era impadronita dell'aula alla rivelazione che l'assassino di Calvin Jeffries aveva già ucciso. Non alzai lo sguardo. «E chi aveva ucciso, detective Stewart?». «Il padre». Levai lentamente il capo. «Suo padre? Con un coltello?». «No, l'aveva picchiato a morte a mani nude». «Quando è accaduto?». Stewart si era sporto in avanti, i gomiti puntati sui braccioli della sedia. Mosse il capo da una parte all'altra. «Aveva alle spalle una lunga storia di abusi. Suo padre era un ubriacone, e aveva l'abitudine di picchiare la moglie, la madre di Whittaker. Alla fine, suppongo, gli si spezzò qualcosa nel profondo e uscì letteralmente di senno». «Sicché aveva un movente?». «Sì». «E che movente aveva per uccidere Jeffries?». Stewart scosse la testa e scrollò le spalle. «Non lo so». «Lo conosceva?». «No». «Era stato Jeffries a farlo ricoverare nell'ospedale psichiatrico?». «No».
«È vero, detective Stewart, che non siete riusciti a stabilire alcun collegamento fra Whittaker e la sua vittima?». «Sì, è vero». «E non c'erano altre ragioni apparenti?». «No». Mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Non è stata una rapina, vero?». «No». «Al giudice Jeffries non è stato rubato nulla?». «No». «Dunque non è stata una rapina né una vendetta; Whittaker non lo conosce nemmeno e senza alcun motivo decide di aspettarlo e di ucciderlo in un modo particolarmente sanguinoso. Ma naturalmente era un malato di mente, era folle, e questo spiega tutto, non è vero?», domandai in tono retorico rivolgendo un'occhiataccia a Cassandra Loescher. «Dov'era ricoverato Whittaker, detective Stewart?». «Nell'ospedale di stato dell'Oregon», rispose lui in tono sorpreso. «Vi si trovava da più di dieci anni, giusto?». «Credo di sì». «Nella sezione criminale dell'ospedale di stato?». «Sì». «E non è la stessa sezione in cui Elliott Winston è rinchiuso da dodici anni?». «Obiezione!», protestò la Loescher prima che Stewart potesse rispondere. «Non c'è alcun fondamento che dimostri che il testimone ne sia direttamente a conoscenza». «Ritiro la domanda, vostro onore». Mi fermai in fondo al banco della giuria, le braccia incrociate sul petto. «Ora, detective Stewart, lei ha dichiarato di non nutrire alcun dubbio sulla colpevolezza di Jacob Whittaker, ma ha anche ammesso che c'era qualcosa di strano nella sua confessione. Non ho bisogno di rammentarle che è sotto giuramento, ma voglio che rifletta con attenzione prima di rispondere alla mia prossima domanda. Quando Whittaker le diceva, quando continuava a ripeterle che non poteva dirle perché lo avesse fatto, ha creduto che ci fosse sotto qualcosa, che esistesse una ragione per cui aveva ucciso un uomo che non conosceva e che non aveva mai incontrato?». «Sì, ho pensato che fosse possibile». «E quando Quincy Griswald è stato ucciso, ha pensato che potesse esserci un collegamento fra i due delitti, anche se il secondo non poteva esse-
re stato commesso dallo stesso uomo che aveva commesso il primo?». «I due omicidi sono quasi identici». «Quasi?». «Sì. Entrambe le vittime sono state pugnalate, ma soltanto la prima è stata sventrata». «Ma a parte quell'eccezione sono identici?». «Sì, ma sulle prime proprio quell'eccezione sembrava escludere un collegamento. Era l'unico dettaglio importante che non era stato reso noto. Sulla base di ciò, ho creduto che il secondo delitto fosse stato opera di un imitatore». «In un primo tempo?». «Sì. Ho cominciato a nutrire qualche dubbio solo quando ho saputo come si era arrivati all'arresto e dov'era stato effettuato: la telefonata anonima, il senzatetto che viveva sotto lo stesso ponte. Era difficile credere che non ci fosse alcun collegamento». «E ha agito sulla base di questo sospetto?». «Quando hanno arrestato l'imputato...». Fece una pausa e indicò il banco degli avvocati con un cenno del capo. Danny era seduto con la testa ciondoloni sul petto, semiaddormentato. «Ho assistito all'interrogatorio». «Non prendeva parte alle indagini?». «No». Diedi un'occhiata a Danny e poi tornai a rivolgermi a Stewart. «L'imputato ha confessato?». «No. L'interrogatorio non è durato molto. Era lurido, e doveva essere ripulito, ma no, non ha confessato». Dal banco della giuria mi portai dietro alla sedia di Danny, che stava cominciando a prestare attenzione a ciò che dicevamo, e gli posai le mani sulle spalle. «La signorina Loescher le ha chiesto se aveva qualche dubbio sulla colpevolezza di Jacob Whittaker. Lei ha assistito all'interrogatorio dell'imputato. Ha qualche dubbio sulla sua colpevolezza?». Stewart aveva anni di esperienza alle spalle, e sapeva che in quella domanda c'era qualcosa che non andava. Più per istinto che per una precisa volontà, diede all'accusa il tempo di obiettare. Non dovette attendere molto. Il braccio della Loescher scattò verso l'alto con tanta forza che parve trascinarsi dietro il resto del corpo. «Vostro onore!», gridò calando una manata sul banco. «Questo va oltre...».
Bingham sembrò quasi divertito dalla sua esplosione. «Desidera muovere un'obiezione, signorina Loescher?». Lei lo guardò a bocca aperta e batté le palpebre. «Sì, vostro onore», disse calma. «La domanda richiede una congettura». «L'accusa ha chiesto al testimone quale fosse la sua opinione sulla colpevolezza dell'uomo accusato dell'omicidio del giudice Jeffries», replicai. «Ciò ha aperto la strada a una domanda, rivolta al medesimo testimone, circa la colpevolezza dell'imputato». Bingham dissentì garbatamente. «Temo di non essere d'accordo con lei, signor Antonelli. Nel primo caso, il testimone era il responsabile delle indagini. Gli è stata chiesta la sua opinione sulla base di quelle indagini. E quella domanda non ha suscitato alcuna protesta», soggiunse facendomi capire che con l'obiezione giusta non avrebbe concesso nemmeno la prima. «Ma lei gli sta chiedendo di esprimere la sua opinione su un caso di cui non si è occupato. Per questo motivo, l'obiezione dev'essere accolta». «Riformulerò la domanda, vostro onore», dissi cominciando a voltarmi verso Stewart. «Non importa come la formula, vostro onore», disse la Loescher. «È una domanda che non si può porre». «L'accusa ha ragione, signor Antonelli». «Mi limiterò a ciò che ha osservato il detective Stewart». «A patto che non chieda le sue opinioni riguardo al caso in questione», insistette Bingham. «Sì, vostro onore. Prometto che non chiederò al testimone cosa pensa veramente». «Vostro onore!», gridò la Loescher. Bingham alzò una mano, quindi si abbandonò sulla sedia e prese a tamburellare silenziosamente le dita fra loro, la fronte rannuvolata da un'espressione grave. Poco dopo si sporse in avanti sul seggio, e il sorriso educato che di rado veniva turbato tornò sulle sue labbra eleganti e regolari. «Non mi sarei mai aspettato una cosa simile da lei». Avrei potuto ignorare e quasi gustare gli strilli di rabbia di uno dei molti giudici aggressivi e boriosi che provano piacere a far soffrire gli avvocati. Ma ciò che disse Bingham mi ferì, tanto più perché aveva ragione. Quello che avevo provato era un trucco di bassa lega che non funzionava mai. «Le chiedo scusa, vostro onore. È stato imperdonabile». Bingham continuò a guardarmi per un altro istante, poi si rivolse alla giuria.
«A volte, nel corso di un processo, vengono dette cose che non dovrebbero essere dette e di cui ci si pente immediatamente. Questo è particolarmente vero in un caso come questo, in cui si discute di una questione di particolare importanza. Il signor Antonelli ha detto una cosa che vi chiederò di ignorare e che, lo so, rimpiange di aver detto. Voglio che questo vi sia chiaro. Al detective Stewart è stato chiesto se avesse un'opinione sulla colpevolezza o l'innocenza dell'imputato. Non so se ce l'abbia oppure no; so soltanto che non ha importanza. Le opinioni non contano; contano i fatti, e soltanto i fatti. Il detective Stewart, come qualsiasi altro testimone, può deporre su ciò che sa, ovvero sui fatti di cui è a conoscenza. Le conclusioni che devono essere ricavate dai fatti presentati nel corso di questo processo, compresi quelli riferiti dal detective Stewart, devono essere raggiunte non dai testimoni, di sicuro non dagli avvocati e nemmeno da me. Quel compito è vostro, appartiene alla giuria e soltanto alla giuria. Pertanto devo ordinarvi di ignorare quello che ha detto il signor Antonelli e di non desumerne che il testimone sia convinto dell'innocenza o della colpevolezza dell'imputato. Avete capito?». Quando i dodici giurati annuirono all'unisono, Bingham tornò a rivolgersi a me. «Può proseguire». Non era un male che i giurati notassero il mio zelo; sarebbe stata la mia fine come avvocato se avessero pensato che i rimproveri mi avessero tolto la volontà di combattere. Era l'aula del giudice Bingham, ma era il mio caso. «Lei era presente durante l'interrogatorio dell'imputato?». «Sì». «Quando gli veniva rivolta una domanda, distoglieva lo sguardo?». «No». «Giocherellava nervosamente con le mani?». «No». «Soppesava a lungo le risposte prima di pronunciarle?». «No». «Ha fatto qualsiasi cosa che, sulla base della sua esperienza, poteva far pensare a un sotterfugio?». «No». «Ha negato di aver ucciso Quincy Griswald?». «Sì». «E lei gli ha creduto?» «Vostro onore!», gridò la Loescher.
«Signor Antonelli...», cominciò Bingham. «Ritiro la domanda», annunciai con un gesto della mano allontanandomi dal testimone in direzione della mia sedia. 27 Non appena lo vidi, sorrisi. Howard Flynn indossava il suo abito migliore, quello che portava ai matrimoni, ai funerali e per qualsiasi altra cerimonia a cui veniva occasionalmente invitato. Era l'unico abito che gli avessi mai visto indossare, e per quanto ne sapessi l'unico che possedeva. La giacca blu scuro non tradiva una grinza, e i pantaloni in tinta avevano una piega perfetta. Con una camicia bianca inamidata e un paio di scarpe nere lucidate, una cravatta grigia e un fazzoletto da tasca dello stesso colore sembrava il ricco avvocato di successo che avrebbe dovuto essere. Non era difficile capire per quale ragione si fosse preso il disturbo di mettersi in ghingheri. «Lieta di vederti, Howard», disse Jennifer porgendogli la mano. Flynn era in piedi accanto al tavolo, e stringeva un tovagliolo bianco. «Lieto di vederti, Jennifer», rispose prendendo dolcemente la sua mano nelle grosse dita. «Scusaci del ritardo», disse lei mentre Howard le scostava una sedia. «È colpa mia. Ho impiegato un po' più del previsto per prepararmi». Era un fenomeno raro che non mi sarei perso per niente al mondo. Flynn non era soltanto in orario: era arrivato addirittura in anticipo. Per assicurarsi che ci dessero un buon tavolo, spiegò, come se fosse una cosa che faceva sempre o che avrebbe fatto in ogni caso se fosse uscito a cena soltanto con me. Il cameriere, un uomo di mezz'età stempiato, dalle guance grassocce e dalla bocca piccola e pensosa, ci portò i menu. Jennifer ordinò un bicchiere di vino, Flynn una Diet Coke. «E lei cosa desidera?», chiese il cameriere dandomi una occhiata da sopra il suo taccuino. «Scotch e soda», risposi. Jennifer mi lanciò uno sguardo ansioso. «Non ti preoccupare», la rassicurai, «ne berrò uno solo». Poi mi resi conto che non ero io a impensierirla. «Per Howard non è un problema». Arrossendo leggermente, Flynn le confermò che la cosa non lo infastidiva affatto. «A patto che non se lo goda troppo», soggiunse per cercare di metterla a suo agio.
Il cameriere ci servì da bere e prese le nostre ordinazioni. Mescolando il ghiaccio nel bicchiere, ripensai all'ultima volta che io e Flynn eravamo stati in quel locale, quel sabato sera in cui Jennifer era dovuta tornare a casa presto, la sera in cui lo avevo chiamato perché mi facesse uscire di lì. Sorseggiando il mio drink li osservai chiacchierare amabilmente, e seppi che qualsiasi cosa fosse successa avrei sempre potuto contare su di loro. Ero lieto che si piacessero, anche se sarei rimasto sorpreso del contrario. Mentre parlavano cominciai a pensare al caso, o meglio fu il caso, che aveva preso possesso della mia vita, a insinuarsi di nuovo nei miei pensieri. Quel pomeriggio ero uscito a grandi passi dall'aula, esultando per quello che ero riuscito a ottenere con il controinterrogatorio di Stewart. Era la vanità dell'esibizione, e si era sgonfiata man mano che mi allontanavo. Che cosa avevo ottenuto, in realtà? L'ammissione che c'era qualcosa di strano nel malato di mente che aveva ucciso Calvin Jeffries e qualcosa di insolito nelle similitudini fra i due delitti. Avevo sollevato interrogativi ma non avevo fornito risposte, quanto meno nessuna che fossi in grado di provare. «Domani comincerò con lo psicologo», dissi ad alta voce. Jennifer e Flynn interruppero la loro conversazione e mi guardarono. «E poi farò testimoniare Danny». Sedevo con le mani in grembo, la sedia scostata dal tavolo per poter accavallare le gambe. «Credi che se la possa cavare? Lo vedi ogni giorno, gli parli...». Jennifer guardò Flynn e poi me con aria interrogativa. «Howard va regolarmente a trovarlo dopo il processo. Cerca di spiegargli cos'è successo quel giorno e cosa accadrà il successivo». «Capisco», disse lei guardando Flynn con rinnovata stima. «In aula cerco di parlargli quando posso, ma lui si limita a guardarmi con quei suoi occhi fiduciosi, a sorridere, a dire sì o no. La metà delle volte credo che non sappia di cosa sto parlando». «Sa più di quanto credi», disse Flynn mentre il cameriere ci serviva la cena. «Gli chiederò soltanto come si chiama, quanti anni ha, chi gli ha dato il coltello e se ha ucciso Griswald. Capirà queste domande?». «Le abbiamo ripassate una dozzina di volte», mi rammentò Flynn. Ero irritabile e impaziente, e lo sapevo. «Scusami». Jennifer mi posò la mano sul polso e poi mi carezzò il braccio. «Vincerai», disse con un sorriso d'incoraggiamento. La guardai negli occhi per un istante, quindi scossi il capo. «Stai per scoprire che in realtà non sono che un impostore. Odio questo lavoro. Odio
fare queste cose. Odio non essere capace di pensare ad altro che a ciò che devo fare per vincere. Dio, odio quando sono innocenti». Jennifer aveva un istinto per l'essenziale. «Preferiresti che il ragazzo fosse colpevole?». «No», ammisi con un sospiro. «Ma renderebbe tutto molto più facile». Flynn posò la sua forchetta. «Hai mai pensato che forse il problema è proprio il fatto che è troppo facile?». «No», dissi inarcando le sopracciglia. «Devo confessare che è un pensiero che non ho avuto». Flynn diceva sul serio. Scostò il suo piatto, posò gli avambracci sul bordo del tavolo e si sporse in avanti. «Se Elliott Winston è davvero il mandante di entrambi i delitti, perché non ha complicato le cose? Perché le ha rese così lampanti?». Intrecciò le grosse dita dai peli biondi. «Perché fare tutto allo stesso modo? E non parlo solo delle modalità dei due omicidi. Perché la stessa telefonata anonima, lo stesso rifugio per gli assassini?». Ritrasse il capo come per vedermi meglio. «Perché mai avrebbe dovuto volere che venissero trovati? Che Jacob Whittaker confessasse? Che si sapesse che Whittaker era rinchiuso nel suo stesso ospedale psichiatrico? Tanto valeva firmare gli omicidi». Jennifer aveva smesso di mangiare. «Dimentichi una cosa», sbottò. Sorpreso, Flynn si drizzò a sedere e, forse senza rendersene conto, le sorrise mentre lei cercava di scusarsi. «Perdonatemi». Fece una risatina imbarazzata alzando una mano. «Mi è scappato». «Che cosa dimentica?», chiesi. «Tu», rispose lei facendo brillare gli occhi. «Tu sei l'unico che sapeva... no, tu sei l'unico che avrebbe potuto sapere che esistevano dei collegamenti. Ce ne sono due, giusto?», domandò guardando prima Flynn e poi me. «Quello fra Elliott Winston e Whittaker e quello fra lui e i due giudici assassinati. E se non fossi stato al corrente del secondo, il primo non avrebbe avuto alcun significato, non trovi? E chi altri, oltre a te, avrebbe avuto motivo di cercarlo?». Annuii e guardai Flynn. «Che ne pensi?». «Penso che essere sposato con una persona molto più intelligente di te ti farà un gran bene». Jennifer si alzò e posò una mano sulla spalla di Flynn per impedirgli di fare lo stesso. «Torno subito», disse prendendo la borsetta. «Ha ragione, sai», dissi non appena si fu allontanata. «Sono d'accordo
con quello che hai detto: se davvero c'è Elliott dietro a tutto questo, ha firmato entrambi i delitti ma non c'è motivo di pensare che volesse far sapere che la firma era la sua». Mentre mi ascoltavo parlare, mi chiesi se davvero ci credessi. L'ultima volta che avevo parlato con Elliott non l'avevo forse provocato evocando la sensazione di impotenza che si prova quando si compie un gesto senza che nessuno lo sappia? E ora stavo forse negando la possibilità di essermi sbagliato, la possibilità che Elliott avesse previsto tutto mentre io cercavo ancora di capire come aveva fatto? Flynn mosse la mandibola da una parte all'altra e fece ondeggiare la testa avanti e indietro. Appoggiò un braccio sullo schienale della sedia e accavallò le gambe. «Quell'uomo è rinchiuso lì dentro da dodici anni. Che sia pazzo o no, credi che non abbia pensato a ogni minimo aspetto della questione? Pensaci un attimo: dodici anni prima di agire. Forse ha avuto bisogno di tutto quel tempo per trovare uno come Whittaker o come l'assassino di Griswald, forse ha avuto bisogno di tutto quel tempo per convincerli, ma dopo dodici anni lui vuole ancora vendicarsi». Nella sua argomentazione c'era qualcosa di inespresso. «Vuole vendicarsi?», domandai. «Credi che Jeffries e Griswald non gli bastino?». Flynn non rispose direttamente. «Jennifer aveva ragione: tu sei l'unico che sarebbe riuscito a risalire fino al collegamento fra Elliott e Whittaker, ma ci sono altri che potrebbero stabilire quello tra Elliott e i due giudici». Me ne venivano in mente almeno due. «Sua moglie», dissi. «E Asa». «Esatto. Ora, se era pronto a far uccidere Quincy Griswald soltanto perché aveva presieduto l'udienza che l'aveva fatto rinchiudere nell'ospedale psichiatrico, che mi dici dell'avvocato che avrebbe dovuto proteggerlo? E della moglie che l'aveva tradito? Dodici anni, ha aspettato. Credi che li dimenticherà? Non pensi che magari abbia voluto mostrar loro il collegamento fra i primi due delitti perché perdano il sonno pensando a quando arriverà il loro turno?». «Ma non avrebbero mai potuto capirlo», obiettai. «Né Asa né la moglie di Elliott. Non avrebbero avuto motivo di pensare che non fosse soltanto una terribile coincidenza, sempre che ci abbiano pensato. Ha ragione Jennifer. Sono io quello che ha ricostruito il quadro, rivelando che Whittaker era un paziente del manicomio. Sono io quello che ha accusato Elliott di essere il mandante di entrambi gli omicidi». «Il che potrebbe essere esattamente quello che Elliott voleva che faces-
si». Prima che potessi esprimere un dubbio, un dubbio di cui io stesso non ero del tutto sicuro, Flynn scosse il capo e si avvicinò al tavolo. «Ascolta, sappiamo due cose. Primo, ha lasciato una traccia che tu hai potuto seguire». «Ma come poteva sapere che ci sarei riuscito?», lo interruppi. «Come poteva sapere che mi sarei lasciato coinvolgere? Che avrei preso le difese del ragazzo accusato di omicidio?». Flynn inarcò le sopracciglia. «Il primo assassino confessa e poi si uccide. Il secondo assassino cosa fa? Affida l'arma del delitto a qualcun altro e poi scompare». «Viene scaraventato nel fiume», gli rammentai. Scrollò le spalle. «Non importa. Il punto è che ha dato l'arma del delitto a qualcun altro. E non dimenticare», soggiunse inarcando ancora una volta le sopracciglia, «che prima la pulisce perché risultino soltanto le impronte del ragazzo. Per quale motivo?». Cercai di ostentare più scetticismo di quello che provavo. «Perché venisse accusato un innocente e io accettassi il caso?». Più Flynn andava avanti, più era sicuro di avere ragione. Travolse la mia tiepida obiezione. «Ha aspettato dodici anni per far uccidere Jeffries, ma soltanto un paio di mesi per Griswald». Lo disse come se spiegasse ogni cosa, ma io non ero sicuro che spiegasse alcunché. «Per dodici anni non accetta visite. Per dodici anni tu non vai a trovarlo, ma poi, dopo tutto quel tempo, Jeffries viene ucciso ed ecco che ti presenti. Elliott sa che hai pensato all'intera faccenda, come avrebbe fatto chiunque: hai pensato a com'era lui stesso quando vi eravate conosciuti, a come l'avevi introdotto nello studio, all'uomo e all'avvocato che tu credevi sarebbe diventato. Ci pensiamo tutti, no? A quello che sarebbe potuto succedere, a quello che non è successo. Elliott sa anche che hai ripensato a quel malvagio bastardo di Jeffries, al male che ha fatto alla gente». Flynn bevve una lunga sorsata d'acqua e fece scorrere lo sguardo sulle coppie eleganti che si godevano una tranquilla cenetta infrasettimanale, il genere di individui che erano abituati al buon cibo e non pensavano due volte a quanto costava. Per quante sere, mi domandai, Elliott Winston aveva fissato le pareti neutre della sua cella ed era impazzito ancora di più al pensiero della sua bella, giovane moglie che cenava in un posto come questo insieme a Calvin Jeffries?
«Lui sa tutto questo», riprese Flynn, «e cosa ne fa? Ti racconta quello che gli hanno combinato Jeffries e sua moglie, come l'hanno fatto impazzire dalla gelosia finché per poco non ti uccideva. Ti fa capire che ha ogni motivo al mondo per odiarli, non è vero? E poi cosa succede, dopo la tua visita? Griswald viene ammazzato nello stesso esatto modo in cui è stato ucciso Jeffries. Elliott sa che ci rifletterai; sa che prima o poi capirai tutto. E ti conosce, non dimenticarlo. Sa di potersi fidare di te e sa che non lascerai condannare un innocente». «Fidarsi di me? Che cosa te lo fa pensare?». Un sorriso storto gli aggrinzi le labbra. «Ti aveva sparato, no? Aspetta», soggiunse quando feci per protestare. «Dico sul serio. Aveva cercato di ucciderti, ma tu gli hai detto che non credevi che ne avesse veramente l'intenzione. E a parte questo, sa che ti senti in parte responsabile per ciò che gli ha fatto Jeffries». Jennifer non era ancora tornata. Mi voltai verso il corridoio che conduceva ai servizi sul davanti del locale. «E c'è un'altra cosa», proseguì Flynn mentre io cercavo Jennifer con lo sguardo. «Se il delitto Griswald non fosse stato sufficiente, se non fosse bastato a farti capire cosa stava succedendo, c'era sempre Asa Bartram. A quel punto non ci sarebbe stato più alcun dubbio sul collegamento». Tornai a voltarmi verso di lui. «Avevo già deciso di chiamare Asa a testimoniare. Non gli ho spiegato il perché, ma è meglio metterlo in guardia. Asa è vecchio, e dubito che abbia collegato i due omicidi. Ti dispiace chiamare il suo ufficio come prima cosa domattina? Parla con Jonah Micronitis, lui saprà cosa fare», dissi guardandomi alle spalle nella speranza di vedere Jennifer. «Hai detto che c'erano due cose», soggiunsi. «La prima è che Elliott ha lasciato una traccia che avremmo potuto seguire. Qual è la seconda?», domandai chiedendomi che cosa stesse trattenendo Jennifer così a lungo. Flynn rimase immobile, fissandosi le mani. «Per la prima volta in dodici anni, Elliott Winston uscirà dall'ospedale psichiatrico», disse alzando lentamente gli occhi. «Per testimoniare a un processo», precisai. Flynn inclinò il capo. «Se mai arriverà in tribunale». «Sua moglie?», chiesi alzandomi. «Credi che sia questo che voleva? Uscire per poter...?». «Perché lei è l'unica persona che vuole uccidere con le sue stesse mani?», rifletté Flynn ad alta voce, facendosi condurre da pensieri sempre più
sinistri nelle loro estreme implicazioni. «Torno subito», dissi pensando a due cose nello stesso tempo. «Vado a vedere cosa sta combinando Jennifer». Nel corridoio che portava ai bagni non c'era nessuno. Bussai alla porta delle signore. Non ebbi risposta. Bussai più forte, ma senza alcun risultato. «Permesso», disse qualcuno alle mie spalle. Una donna dai capelli tinti d'argento mi guardava irritata, nell'attesa che mi levassi di torno. Mi scusai ma non mi mossi dalla porta. «Sono un po' preoccupato per la mia fidanzata», le spiegai. «Le spiacerebbe vedere se va tutto bene?». L'irritazione svanì. «Ma certo», disse. «Ci metterò un istante», promise aprendo la porta mentre mi scostavo. «Oh, mio Dio!», la udii gridare, il suono della sua voce attutito dalla porta che si era richiusa. Mi precipitai all'interno e per poco non la travolsi. Dietro di lei, raggomitolata sul pavimento di piastrelle bianche, Jennifer si stringeva le braccia attorno al corpo con tutte le sue forze, mentre le sue membra erano scosse da violente convulsioni. Teneva la bocca chiusa, stringendo i denti con tale violenza da sbiancare in volto. I suoi occhi erano spalancati sulla parete di fronte con uno sguardo fisso come la morte. Mi inginocchiai accanto a lei e la presi fra le braccia, cullandola e dicendole che andava tutto bene. Quando finalmente si voltò e mi guardò cercò di ritrarsi, di allontanarmi, e io la strinsi per impedirle di colpirmi o di farsi del male. «Va tutto bene», ripetei più volte. Jennifer smise di oppormi resistenza, e un attimo dopo la sentii afflosciarsi fra le mie braccia. «Posso fare qualcosa?», chiese una voce ansiosa. Avevo scordato la donna. Era ancora lì, e osservava terrorizzata e troppo gentile per andarsene. «Al nostro tavolo c'è un uomo: corpulento, capelli rossicci ondulati, completo blu scuro. Potrebbe chiedergli di venire?». Esitò, torcendosi le mani. «Forse dovrei chiamare un'ambulanza, un dottore?». Jennifer respirava normalmente, e l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era il modo più rapido per riportarla a casa. «No», risposi. «Si riprenderà. Non è niente di grave. Se potesse soltanto avvertire il mio amico. Si chiama Howard Flynn». «Pensi di farcela ad alzarti?», sussurrai a Jennifer quando la donna se ne fu andata. Pallida ed esausta, Jennifer mi rivolse un'occhiata calma e curiosa, come se fossi uno sconosciuto di cui sapeva istintivamente di potersi fidare. Con
il mio aiuto si rimise lentamente in piedi. Continuando a reggerla, mi chinai a raccogliere la borsetta. Flynn arrivò mentre aprivo la porta. Nel vedere Jennifer, impallidì. «A casa o all'ospedale?», chiese mentre io la prendevo in braccio. Non ne ero più sicuro. Avrei voluto dire a casa, ma ora sembrava un luogo lontano. Flynn mi lesse la risposta negli occhi. «Falla coricare dietro», disse tenendo aperta la portiera. «Meglio che tu salga con lei», soggiunse aggirando l'auto e salendo al volante. Guidò con cautela, cercando di evitare gli scossoni, mentre io tenevo la testa di Jennifer in grembo mormorandole parole il cui suono sembrava confortarla. Appena prima che arrivassimo mi prese la mano e se la strinse al volto. Dal momento in cui l'avevo trovata sul pavimento del bagno non aveva detto una parola né aperto la bocca per provarci. Il pronto soccorso dell'ospedale era semideserto. Un donnone ispanico alzò gli occhi spaventati quando feci irruzione chiamando aiuto. Un'infermiera agile e sottile e un inserviente dalle braccia muscolose presero Jennifer, la sistemarono su una sedia a rotelle e la fecero scomparire dietro una doppia porta oscillante. Firmai tutti i documenti che l'infermiera dell'accettazione mi mise davanti, e senza ascoltare ciò che dicevo risposi alle sue domande tenendo lo sguardo fisso sulle porte verdi che avevano inghiottito Jennifer. Tre quarti d'ora dopo il nostro arrivo (tre quarti d'ora di rabbia e di strani pensieri contrastanti il cui solo collegamento era la donna che conoscevo da una vita e conoscevo a malapena) le porte si aprirono e un giovane dottore con una mascherina chirurgica allacciata attorno al collo e un sottile fascicolo sottobraccio chiamò il mio nome. Lo seguii oltre la porta e lungo il corridoio. L'aria odorava di disinfettante, e per un attimo rividi l'ospedale in cui da piccolo seguivo i giri di visite di mio padre. Il dottore mi condusse in una sala visite deserta e chiuse la porta. Presi posto su una sedia di plastica incastrata fra un lavandino di acciaio inossidabile e un diagramma a colori del sistema circolatorio umano appeso al muro. «Ha già avuto crisi simili?», domandò il dottore. Erano le dieci e mezza di sera, ma dalla sua voce si sarebbero dette le tre del mattino. Sapevo anch'io cosa significava lavorare talmente tanto da dimenticare cos'era la stanchezza. «No», risposi. «Forse», soggiunsi. «In realtà non lo so». Il dottore controllò la cartella clinica, poi la posò su un angolo del tavolo. «So che l'ha già detto all'infermiera dell'accettazione, ma le dispiace ri-
petermi cos'è successo?». Gli descrissi ciò che avevo visto quando l'avevo trovata, e lui domandò se potevo fornirgli qualche altro elemento. «Jennifer è affetta da mania depressiva. È stata ricoverata già una volta, molto tempo fa. Per quanto ne sappia, da allora non aveva più avuto problemi gravi». «Assume qualche farmaco?». «Sì». «Litio?». «Sì». «Con regolarità?». «Sì, io... credo di sì». «Sa di preciso quando è stata ricoverata e quanto a lungo?». «Circa sette anni fa, penso. E credo che vi sia rimasta per circa sei mesi. Non ne sono sicuro», risposi chinando il capo. Sentii la sua mano sulla spalla. «Non si preoccupi», disse. «Ci procureremo la sua cartella clinica. Non ci vorrà più di qualche giorno». Rialzai la testa. «Qualche giorno?». «Dovrà trattenersi un po' qui». «Qualche giorno?». «Se tutto va bene, non di più. Ma temo di non potermi sbilanciare. Dovremo fare qualche esame». Cominciavo a sentirmi disorientato e arrabbiato. «Senta, lei è un dottore. Cosa le è successo?». «Non lo so ancora. Ha avuto una sorta di attacco, un episodio». Mi parve una strana parola. «Episodio?». «Sono un medico del pronto soccorso, signor Antonelli, non uno specialista di medicina psichiatrica. Quello che so è che la mania depressiva è causata da uno scompenso chimico nel cervello». Era una condizione, spiegò, che poteva essere latente per anni, senza manifestare alcun sintomo, finché non sopravveniva una lieve alterazione nell'equilibrio chimico dell'organismo. Di solito succedeva soltanto una volta, dopodiché, con le cure appropriate, l'equilibrio veniva ristabilito e il paziente poteva condurre un'esistenza normale. Ma altre volte la crisi si ripeteva, in certi casi dopo un lungo intervallo. Nessuno poteva prevedere quando e nessuno sapeva ancora perché. Udii le sue parole e le capii, ma mi parve che provenissero da molto lontano e che fossero destinate a un altro. Riuscivo soltanto a pensare a Jenni-
fer. «Posso vederla?», chiesi ancora prima che il dottore avesse finito. «Ma certo», rispose lui mentre mi alzavo. «Sta dormendo, le abbiamo somministrato un sedativo. Ma naturalmente la può vedere». Percorremmo il corridoio fino all'ultima stanza. Dietro una tendina bianca che separava il suo letto da quello vuoto accanto, Jennifer giaceva con la testa su un guanciale. Al suo braccio era collegata una flebo. «Abbiamo dei bravi specialisti al reparto medicina psichiatrica. Riceverà le cure migliori», disse il dottore facendo scivolare la sua cartella sotto quella del paziente successivo. Mi trattenni accanto al letto di metallo e abbassai lo sguardo sul volto dolce di Jennifer. Nella penombra della stanza, le minuscole rughe agli angoli degli occhi diventavano invisibili e la sua pelle era liscia e chiara come la prima volta che l'avevo vista, una ragazza graziosa che non avevo mai smesso di considerare la donna più bella della mia vita. Rimasi lì a lungo, guardandola dormire, parlandole con il pensiero, spiegandole cosa provavo, dicendole ciò che già sapeva. Mi sarei trattenuto di più, sarei rimasto lì finché non mi avessero allontanato, ma Flynn mi stava aspettando ed era in pensiero per noi. «Starà bene?», domandò affiancandomi mentre uscivo dall'ospedale. «Starà benissimo», risposi guardando davanti a me e chiedendomi, mentre cercavo di asciugarmi le lacrime, quando avevo cominciato a piangere. 28 Avevo la strana sensazione di ruotare su me stesso e guardare tutto ciò che mi circondava come un osservatore invisibile, senza che nulla di quello che vedevo e sentivo mi sfiorasse. Per la prima volta sapevo cosa poteva provare Danny, e forse lo stesso Elliott Winston: soli e isolati da tutto, scacciati dal mondo, ogni singolo collegamento interrotto, nessuna speranza di condurre un'esistenza normale. Potevo udire Morris Bingham che si rivolgeva a me dal suo seggio; potevo vedere i dodici giurati che mi guardavano solenni e attenti attendendo la mia risposta, tutti concentrati, dal giudice ai giurati agli altri occupanti di quell'aula affollata, su un individuo che occupava il mio posto ma che non ero io. Attesi come chiunque altro di vedere cosa avrei fatto, e poi, come chiunque altro, osservai cos'avrebbe fatto il giudice dopo che non gli avevo risposto. «Signor Antonelli, la difesa desidera chiamare un testimone?», doman-
dò, tornando a rivolgermi lo stesso sorriso educato e lo stesso quesito di poco prima. Era questo che significava uscire di senno? Avere la percezione, l'intensa, acuta percezione di tutto ciò che accadeva intorno a te, restare colpito dalla stranezza di ciò che avevi sempre dato per scontato, sbalordito dalle infinite complicazioni che caratterizzavano anche le cose in apparenza più semplici? Le parole, per esempio: inspiravi per restare in vita, espiravi per produrre suoni in grado di spiegare a te stesso e magari anche agli altri la ragione per cui avresti dovuto continuare a farlo. Era questo che significava? Ritrovarti prigioniero di te stesso, vedendo cose con una chiarezza che prima non avevi mai avuto, e poi, quando cercavi di spiegarti, di spiegare cosa avevi visto, scoprire che avevi scordato come si parlava? «Sì, vostro onore», mi udii rispondere, sorpreso di essere in piedi. «La difesa chiama il dottor Clifford Fox». Le spalle della sua giacca marrone rossiccio erano leggermente troppo ampie, e i pantaloni erano raggrinziti in vita dalla cintura. I capelli grigi gli si arricciavano sul collo. Parlava in tono sommesso e sceglieva con cura le parole. Aveva i modi tolleranti di chi passava gran parte del suo tempo con i bambini. Gli feci le solite domande sui suoi studi e sulla sua esperienza, e pensando a Jennifer prestai scarsa attenzione alle sue risposte. «E ha avuto occasione di esaminare l'imputato, il giovane conosciuto come John Smith?», chiesi aprendo la cartella che conteneva il suo referto. «Sì». Richiusi il fascicolo. «E...?». Fox si sporse in avanti, posando i gomiti sui braccioli di legno della sedia. «E...?». «Sì. Che cosa ha scoperto? Che cosa può dirci di John Smith?». Scostai la sedia dal banco degli avvocati e accavallai le gambe. Mi posai le mani in grembo e cominciai a tamburellare le dita fra loro. «Da dove vuole che cominci?». Stavo osservando il mio piede che ondeggiava avanti e indietro, e non udii la sua domanda. «Signor Antonelli?». «Sì, vostro onore?», dissi alzando gli occhi sul giudice Bingham. Sembrava preoccupato. «Il testimone le ha chiesto da dove voleva che cominciasse. Si sente bene, signor Antonelli?». «Naturalmente, vostro onore», dissi facendo scivolare la gamba a terra e
tornando a rivolgermi a Fox. «Cominci pure dall'inizio, dottore», dissi. Accavallai l'altra gamba e cominciai a muovere il piede. Fox aveva appena cominciato a parlare. «Vostro onore», lo interruppi balzando in piedi. «Possiamo fare una breve pausa?». Prima che Bingham potesse rispondere, mi voltai e uscii a passo rapido dall'aula. Proseguii lungo il corridoio accelerando a ogni singolo passo, calando il pugno contro il muro, imprecando sottovoce, chiedendomi come mai non riuscissi a trovare un telefono. Stavo svoltando l'angolo quando qualcuno mi posò una mano su una spalla, m'infilò l'altra sotto il braccio e mi scaraventò nel bagno. Era Howard Flynn, e faceva fatica a controllarsi. «Che stai combinando?», gridò costringendomi a girarmi. Strabuzzava gli occhi, e il suo volto era paonazzo. «Non farlo! So cosa stai passando, maledizione, ma non puoi farlo!». Il suo petto si sollevava a ogni faticoso respiro. «Vuoi finire come me? Vuoi diventare un ubriacone che passa il resto della sua vita a pentirsi di quello che ha fatto? Credi che questo sistemerà tutto?», disse con una smorfia di scherno. «Non stai aiutando Jennifer! Non stai aiutando quel ragazzo! Non stai aiutando te stesso!», mi sbraitò in faccia. Non volevo sentire queste cose. Mi voltai, mi chinai su un lavandino e mi spruzzai un po' d'acqua sul volto. «Devo trovare un telefono», dissi asciugandomi con una salvietta di carta. «Devo chiamare l'ospedale». «Ascoltami, dannazione», riprese Flynn sforzandosi di trattenersi. «Sei nel pieno di un processo per omicidio. Stai interrogando un testimone. Non puoi entrare e uscire dall'aula come se avessi cose più importanti da fare altrove». Mi girai e gli rivolsi un'occhiata furiosa. «Devo chiamare l'ospedale», ripetei. «Non me ne sarei dovuto andare ieri sera. Dovrei essere lì, non qui». «E il ragazzo? Che ne sarà di lui?». «Non mi interessa che ne sarà di lui! Non capisci? Non m'importa! L'unica cosa che mi importa è come sta lei. Dovrei essere al suo fianco». «Lascia che i medici facciano il loro lavoro e pensa al tuo!», insistette Flynn. «Standotene seduto all'ospedale non puoi fare niente per aiutarla». «Ma devo esserci!». «Non è vero». «È così. Forse, se tu fossi stato con tua moglie», gridai provocandolo, «invece di passare il tempo a cercare di fare l'avvocato...». La rabbia, la frustrazione, la paura indefinibile che mi avevano scosso nel profondo, rendendomi cieco a tutto ciò che era estraneo alla mia soffe-
renza, svanirono in un istante, e mi resi conto di quanto fosse orrendo ciò che avevo appena detto. Feci per posargli una mano sul braccio, ma Flynn lo ritrasse. «Mi dispiace tantissimo», dissi. «Non volevo dirlo». Flynn aveva ripreso colore in volto. Tirò su col naso un paio di volte e si schiarì la gola. «Ti conviene aggiustarti la cravatta», disse. La sua voce era pacata, sommessa. «Non avrei dovuto afferrarti in quel modo». Chinò il capo mordicchiandosi l'interno del labbro. Quando rialzò gli occhi, mi sondò con lo sguardo. «Non c'è niente di peggio che vivere con il pensiero che avresti potuto salvare qualcuno e non l'hai fatto. Non permettere che ti succeda». Tornai a voltarmi verso lo specchio e mi sistemai la cravatta. «Ci rivediamo in aula». La porta si richiuse alle sue spalle, e io mi aggrappai con entrambe le mani al lavandino, chinai la testa e cercai di convincermi di avere qualche scusante per ciò che avevo fatto. Aprii il rubinetto, mi spruzzai ancora un po' d'acqua sul volto e presi un'altra salvietta di carta dal distributore. Flynn aveva ignorato le mie scuse e aveva provato dispiacere per me, perché avevo fatto qualcosa che mi faceva sentire il bisogno di scusarmi. Era una dimostrazione della sua forza e della mia debolezza. Quando rientrai in aula, mi fermai sull'angolo del banco degli avvocati, attesi che il giudice Bingham riconvocasse la giuria e prima ancora che l'eco della sua voce si spegnesse cominciai con le mie domande. «Ci dica, dottor Fox: l'imputato è ritardato o mentalmente minorato?». «No, Danny... è il nome che gli è stato dato, non so se da sua madre o da altri... non è ritardato. Ha un'intelligenza entro i limiti normali, anche se non saprei valutarla di preciso». «Per quale ragione?». «Perché non sa leggere, ha un vocabolario estremamente limitato e non sa quasi nulla di aritmetica. Non ho potuto sottoporlo a tutti gli esami che normalmente affronto con un bambino». «Ma Danny non è un bambino, vero?». Mi voltai verso il mio cliente. Stava sorridendo al dottor Fox, agitando la mano per salutarlo ogni volta che riusciva a catturare il suo sguardo. «È un adulto». «Fisicamente sì; ma mentalmente è un bambino, un bambino molto piccolo. Un bambino molto innocente, oserei dire». Cassandra Loescher si alzò pronta a obiettare, ci ripensò e si sedette. «Le dispiace spiegare la sua ultima affermazione, dottor Fox? Che cosa
intende dire con "un bambino molto innocente"?». Il dottor Fox aveva un'innata gentilezza, una luce che brillava senza sosta sotto le ombre dei suoi occhi malinconici. Per quanto spesso fosse stato ingannato e deluso da ciò che diventavano da adulti, nei bambini riusciva sempre a trovare un motivo di speranza. Mi sorrise. «Ha mai letto Robinson Crusoe, da ragazzo?». Credevo che stesse per descrivere Danny come un individuo solo e isolato, privo di esperienza e istruzione. «Ma Robinson Crusoe era un uomo istruito, e aveva a sua disposizione i principi della scienza moderna. Danny non sa nemmeno leggere». «No, signor Antonelli. Danny non è come Robinson Crusoe, è come Venerdì. Non è istruito, ma ciò non significa che sia stupido, e sa sopravvivere in qualsiasi situazione si trovi. Rovesci il quadro: non pensi a Robinson Crusoe sull'isola ma a Venerdì a Londra, e si sarà avvicinato a ciò che intendo». Aveva catturato la mia attenzione e, ancora più importante, quella della giuria. Clifford Fox era una meraviglia di assennatezza e intuizione che aveva ascoltato i mormorii di un cuore infantile e li aveva trasformati in un agghiacciante racconto di indifferenza e depravazione. Ancora più della storia che raccontava, era l'innocenza con cui lo faceva ad attirarti. Potevi quasi vedere le sigarette accese premute sulla pallida carnagione di Danny o udire quanto meno l'eco delle sue grida, finché non capivi che le grida non facevano che scatenare i suoi aguzzini. Poi sentivi il silenzio, e il silenzio stesso diventava insopportabile. Facendogli le mie domande, conducendolo prima in una direzione e poi nell'altra, tenni Fox sul banco dei testimoni finché non ebbe riferito alla giuria tutto ciò che era riuscito a ricostruire nelle lunghe ore trascorse a parlottare con lo strano giovane accusato di omicidio che sedeva accanto a me. Mentre descriveva il modo in cui Danny era stato tenuto in cattività, incatenato alla struttura metallica di un letto, imbrattato delle sue stesse feci, legato a un palo in cortile e costretto a dormire all'addiaccio, i giurati si asciugavano gli occhi e si soffiavano il naso. Se il processo si fosse concluso a quel punto, la giuria avrebbe emesso un verdetto unanime di non colpevolezza prima ancora di raggiungere la porta della camera di consiglio. Avevo un'ultima domanda. «Dottor Fox, sulla base dei suoi esami e della sua esperienza professionale, ritiene che l'imputato sia in grado di commettere un omicidio?». Gli avevo chiesto una conclusione, un'opinione sulla materia stessa del
caso. Mi aspettavo un'obiezione, ma la Loescher non si alzò. Posando il mento sulle mani intrecciate, osservò il testimone cercando di fingere di non aver udito nulla di nuovo e di essere sicura di ciò che faceva come lo era in precedenza. Mi aspettavo anche una risposta monosillabica, ma non ottenni nemmeno quella. Spostando il suo peso sull'altro fianco, il dottor Fox accavallò le gambe e si appoggiò al bracciolo della sedia. «Non se intende un atto violento premeditato e programmato allo scopo di uccidere un altro essere umano». Cercai di parare il colpo. «È la definizione stessa di omicidio. Grazie, dottor Fox», conclusi sedendomi. Fox aveva risposto alle mie domande per tre ore; nel giro di quindici minuti, la Loescher riuscì a rovinare gran parte del mio lavoro. La sua prima domanda prese spunto dalla mia ultima. «In altre parole, dottor Fox, esistono circostanze in cui l'imputato sarebbe in grado di commettere un atto violento, esatto?». Fox inarcò le sopracciglia come faceva dopo ogni singola domanda, segno che stava per rispondere. «Esistono circostanze in cui noi tutti siamo in grado di commettere un atto violento». Le braccia incrociate sul petto, la Loescher si avvicinò al banco dei testimoni con un'espressione lievemente divertita sulle labbra. «L'autodifesa, per esempio? Per proteggersi dal pericolo, o da quello che lui poteva percepire come pericolo?». Le sopracciglia tornarono a sollevarsi. «Sì, naturalmente. Come ho detto...». «Dunque la sua opinione è che se l'imputato si fosse trovato dove non doveva essere, per esempio in un garage, se fosse stato sorpreso e avesse pensato che qualcuno stava per fargli del male, in simili circostanze avrebbe potuto commettere un atto violento?». «È possibile, ma...». «Secondo la sua testimonianza», riprese la Loescher senza farlo finire, «l'imputato è stato vittima di torture fisiche, di abusi sessuali, di atti peggiori di quelli che molti di noi abbiano mai dovuto immaginare?». «Sì, non c'è dubbio...». «E non è altrettanto vero, dottor Fox, che spesso coloro che da bambini hanno subito degli abusi finiscono per esercitarli a loro volta? E non è altrettanto vero che i bambini sottoposti al genere di sevizie che lei ci ha descritto diventano non soltanto propensi alla violenza ma quasi incapaci di qualsiasi altro comportamento?».
Fox non cedette. «Non nel caso di sevizie come queste», rispose drizzandosi a sedere e rabbrividendo per il disgusto. «No, non è così che una vittima reagisce a questo tipo di tortura. Inoltre lei dimentica...». «Dottor Fox, lasci che le chieda...». «Obiezione, vostro onore», dissi balzando in piedi e puntando rabbiosamente il dito contro la Loescher. «Non ha lasciato che il teste concludesse la sua risposta». Bingham guardò la Loescher, che guardò il testimone, che a sua volta guardò il giudice. «Può concludere», disse Bingham. «Stavo per dire due cose. Primo, la reazione al tipo di tortura sistematica e continuata a cui è stato sottoposto l'imputato è la paura, non l'aggressività. Secondo, la sua debolezza e vulnerabilità sono state intensificate dall'isolamento. Stiamo parlando di un individuo che non è mai andato a scuola, che non si è mai trovato in compagnia di altri bambini o di altre persone oltre a quelle che abusavano di lui». Il cardinale Richelieu disse che gli sarebbero bastate sette frasi per far condannare chiunque; la Loscher ce l'avrebbe fatta con cinque. Prese la risposta di Fox come se fosse ciò che aveva sempre voluto sentire. «Capisco», disse inarcando a sua volta le sopracciglia. «Era isolato, ignorante, vulnerabile e spaventato. Giusto?». «Sì», rispose Fox senza esitare. «Esatto». Fissandosi le scarpe blu scuro dal tacco alto, la Loescher tornò a ostentare la stessa, irritante espressione divertita di poco prima. «Esatto», ripeté assaporando la parola come se avesse un valore che soltanto lei comprendeva. «Quando dice vulnerabile, intende qualcuno di cui ci si può facilmente approfittare, qualcuno privo dell'abilità di distinguere fra buone e cattive intenzioni?». «Sì, assolutamente». Tornò ad abbassare gli occhi e ripeté anche quell'ultima parola. «Un individuo che, non essendosi mai trovato in compagnia di altri bambini o di altre persone, sarebbe più ansioso di accontentare qualcuno che vede come un amico, di cui crede di potersi fidare, che è convinto non gli farebbe mai del male?». «Sì, senza dubbio». «Senza dubbio», ripeté spostando un piede leggermente davanti all'altro. «Sicché, se il signor Antonelli ha ragione, se c'è veramente un mandante dietro gli omicidi del giudice Jeffries e del giudice Griswald, qualcuno in grado di convincere altri a uccidere per lui, un individuo vulnerabile e in-
fluenzabile come l'imputato sarebbe il candidato perfetto, non trova?». «No, lei non...». Ruotando sui tacchi, puntò il dito contro l'imputato e diede sulla voce del testimone. «Avrebbe potuto uccidere il giudice Griswald perché lui l'aveva sorpreso a fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare, avrebbe potuto ucciderlo perché qualcun altro gli aveva detto di farlo o avrebbe potuto ucciderlo per migliaia di altre strane ragioni, e non c'è niente nei suoi studi, nella sua esperienza o nella sua valutazione psicologica dell'imputato che ci possa convincere del contrario, non è vero?». Fox attese di essere sicuro che avesse finito. «Non sono affatto sicuro che Danny sia in grado di uccidere, nemmeno per legittima difesa». La Loescher tornò a voltarsi verso di lui, fissandolo implacabile ed ergendosi in tutta la sua altezza. «All'inizio della sua testimonianza non ha detto questo. Vuole che le faccia rileggere le sue parole, la parte in cui ha dichiarato che esistono circostanze in cui chiunque sarebbe in grado. di commettere violenze?». «"Atti violenti"», la corressi senza alzarmi. Lei mi guardò con aria vacua, poi alzò gli occhi verso il giudice. «L'espressione "atto violento" suggerisce un evento singolo, forse unico; il termine "violenze" indica un'inclinazione. Il dottor Fox ha detto "atti violenti", vostro onore. Forse la signorina Loescher vuole che le faccia rileggere le sue parole?», dissi rispondendo al suo falso sorriso con uno tutto mio. L'accusa aveva ottenuto il risultato che si prefiggeva, la difesa altrettanto. Senza esitare, la Loescher passò ad altro. «Lei ha visto John Smith, l'imputato, soltanto qualche tempo dopo il suo arresto, giusto?». «Sì, è esatto». «Quando l'ha visto era rasato, aveva i capelli corti come adesso e indossava indumenti puliti?». «Sì». «È consapevole di quale fosse il suo aspetto quando è stato arrestato? È consapevole del fatto che aveva capelli lunghi e unti, una barba incolta e lurida, un mucchio di stracci per indumenti e fogli di cartone al posto delle suole delle scarpe?». «A quanto ho capito, sì». «Ha anche capito che il suo corpo era ricoperto di parassiti, che i suoi capelli e altri punti del corpo erano infestati dai pidocchi e che era talmente lurido che hanno dovuto tagliargli gli indumenti di dosso e sottoporlo a
fumigazione? Non è forse vero, dottor Fox, che l'imputato, oggi seduto insieme a noi con un abito blu scuro, la cravatta e un'aria da giovane professionista, viveva come un animale?». Fox annuì tristemente. «A quanto ho capito, sì». «Come un animale», ripeté la Loescher rivolgendo un'occhiata di traverso alla giuria mentre tornava al suo posto. Era stato uno dei controinterrogatori più efficaci a cui avessi mai assistito, e cambiò ogni cosa. Avevo programmato di chiamare l'imputato come successivo testimone per la difesa. Avrebbe dovuto essere tutto molto semplice e chiaro. Lo psicologo ci avrebbe fornito un ritratto a grandi linee dell'esistenza di Danny, e con la deposizione dello stesso Danny i giurati avrebbero potuto vedere con i loro occhi quant'era timido, innocuo e desideroso di piacere. Ma la Loescher aveva usato le parole del mio testimone per mostrare come proprio quella vulnerabilità e quel desiderio di piacere avrebbero potuto spingerlo a uccidere nel modo che io stesso avevo suggerito. Mi aveva fatto quello che io avevo cercato di fare a lei: aveva preso il punto di forza del mio caso e l'aveva trasformato in quella che ora sembrava una debolezza. Era brava, molto più brava di quanto avessi immaginato, e io ero seriamente nei pasticci. L'unica cosa di cui ero sicuro era che non potevo permettere che sottoponesse Danny a quel genere di spietato controinterrogatorio. L'avrei chiamato soltanto alla fine del processo, come ultimo testimone della difesa, e soltanto se non avessi avuto altra scelta. «Vostro onore», dissi alzandomi mentre soppesavo tutto questo nella mia mente, «la difesa chiama Asa Bartram». Vestito con un costoso doppiopetto gessato grigio, Jonah Micronitis fece capolino nell'aula, si guardò intorno con attenzione e tornò fuori. Un attimo dopo le porte si riaprirono e Asa Bartram, tallonato da Micronitis, avanzò lungo il passaggio centrale. Micronitis incrociò il mio sguardo, mi rivolse un cenno del capo e si sedette in prima fila. Si voltò verso il retro dell'aula, perlustrandola da parte a parte con lo sguardo, muovendo la piccola testa per tenere d'occhio il pubblico, pronto a intervenire al primo contrattempo. «Signor Bartram», esordii, «da quanti anni fa l'avvocato?». Asa inclinò il capo e giocherellò con un ciuffo di capelli candidi. Un sorriso allegro gli attraversò il volto rugoso, e i suoi occhi chiari scintillarono. «Più di quanti mi piaccia ricordare». «Più di quaranta?». «Sì».
«In che ramo del diritto ha esercitato durante questi anni: civile o penale?». «Soprattutto civile». «Intende controversie civili, lesioni personali, casi di quel genere?», domandai da dietro il banco degli avvocati. «No, non esattamente. Agli inizi affrontai anche qualcuno di quelli, ma il mio campo è più quello che si potrebbe definire diritto commerciale: proprietà immobiliari, transazioni commerciali». «Quando ha detto "soprattutto civile", intendeva sottintendere che si è anche occupato di diritto penale?». «Soltanto agli inizi. Quando stai cominciando», spiegò con un sorriso nostalgico, «fai un po' di tutto». Mi portai lentamente verso il banco. «Quando è stata l'ultima volta che ha portato un caso in tribunale, civile o penale che fosse?». «Come ho detto, il mio campo è principalmente commercia...». «L'ultima volta?», insistetti. Non lo sapeva con precisione. «Una trentina d'anni fa, immagino». «Quand'è stata l'ultima volta che si è occupato di un caso penale? Non le sto chiedendo se l'ha portato in tribunale, signor Bartram. Quand'è stata l'ultima volta che ha rappresentato un cliente che era stato incriminato?». Si strinse nelle spalle. «Più o meno lo stesso, suppongo: una trentina d'anni fa». Feci un passo verso di lui. «Ma dodici anni fa non rappresentò Elliott Winston per un'accusa di tentato omicidio?». Asa puntò entrambi i piedi a terra, strinse le mani grosse e segnate dalle vene alle estremità dei braccioli e scosse la testa. «No, non è esatto. Accettai di rappresentarlo soltanto in un'udienza. Non divenni mai il suo avvocato». Mi avvicinai di un altro passo. «Temo di non capire. Lo rappresentò in un'udienza ma non divenne mai il suo avvocato?». Piegandosi in avanti, Asa intrecciò le dita e premette i pollici uno contro l'altro. «Non ci sarebbe stato altro, soltanto quell'udienza. Tutti sapevano che sarebbe stato rinchiuso nell'ospedale psichiatrico. L'udienza era una pura formalità, ma si doveva tenere e ci doveva essere un legale. Lo feci come favore». «Un favore a Elliott Winston?». «No», disse scuotendo il capo. «Un favore a sua moglie?».
Mi guardò, cominciando per la prima volta a capire che intendevo andare più a fondo del semplice fatto che Elliott Winston era stato dichiarato incapace di intendere e di volere nel corso di un regolare procedimento giudiziario. «No, non a sua moglie». «Un favore a Calvin Jeffries?», domandai posando un piede sul gradino sotto il banco dei testimoni. «Lo fece come favore al giudice perché gliel'aveva chiesto lui, non è vero?». «Sì. Calvin, voglio dire il giudice Jeffries, mi aveva chiesto di farlo». «Ma lui non era il giudice in quel caso, esatto?». «No, non lo era». «Ricorda chi era il giudice?». «Sì. Quincy Griswald». «A quei tempi, Calvin Jeffries era il presidente della corte circoscrizionale?». «Sì». «E a quei tempi era l'ufficio del presidente della corte circoscrizionale ad assegnare i casi, vero?». «Sì, credo che allora funzionasse così». «In altre parole, il fatto che fosse proprio il giudice Griswald a presiedere l'udienza non era affatto casuale, è così?». Asa mi guardò, chiedendosi fin dove mi sarei spinto. «Risparmiamo tempo, signor Bartram. Quell'udienza, l'udienza per stabilire se Elliott Winston fosse incapace di intendere e di volere allo scopo di presentare una dichiarazione di colpevolezza con l'attenuante della follia era combinata, vero?». «Combinata?», sbottò. «Nemmeno per sogno. Cosa intende dire con "combinata"?». «Lei ha dichiarato di avere accettato l'incarico per fare un favore a Calvin Jeffries. Perché l'aveva chiesto proprio a lei e non a uno qualsiasi fra centinaia di altri avvocati per sua stessa ammissione più esperti di lei in materia di diritto penale? Perché crede che l'avesse fatto? Forse perché sapeva di poter contare sul fatto che il suo ex socio, colui che continuava a gestire i suoi affari, facesse quello che gli chiedeva senza fare domande?». La Loescher intervenne prima che Asa potesse rispondere: «Vostro onore, sta attaccando il suo stesso testimone». «Mi permetta di riformulare la domanda», dissi senza distogliere lo sguardo dal teste. «Quando Calvin Jeffries le chiese di fargli questo favore,
che motivo addusse?». «Calvin... il giudice Jeffries... mi disse che non c'era alcun dubbio che Winston fosse uscito di senno e che aveva bisogno di essere ricoverato in ospedale, dove avrebbero potuto aiutarlo». «E come mai era così preoccupato da ciò che poteva accadere a Elliott Winston, a differenza di qualsiasi altro imputato?». «Winston era un giovane avvocato, e il giudice Jeffries gli voleva molto bene». «Voleva bene anche a sua moglie?». «Voleva bene a entrambi». Feci un passo indietro e guardai la giuria. «In seguito, la moglie di Elliott Winston divorziò e sposò Calvin Jeffries, giusto?». «Sì». «In realtà, lei e il giudice Jeffries avevano una relazione fin da prima che Elliott Winston venisse incriminato, non è così?». «Non lo so», disse Asa con la tipica cautela da avvocato. «In realtà, il giudice Jeffries e la moglie di Elliott Winston fecero di tutto per portarlo a sospettare che lei avesse una relazione con qualcun altro». «Non ne so nulla», insistette. «In realtà», proseguii senza distogliere gli occhi dalla giuria, «lo convinsero a tal punto, lo tormentarono con quell'idea fino a farlo incriminare per il tentato omicidio dell'uomo che loro stessi gli avevano fatto credere fosse l'amante della moglie, giusto?». «Non so perché fosse arrivato a pensare ciò che pensava». Mi fermai e mi voltai a guardarlo. «Ma si sarà fatto un'idea. Doveva esserci qualcosa in merito nel referto psichiatrico, una qualche spiegazione del perché fece ciò che fece?». Asa scosse la testa con fare stanco. «È passato troppo tempo». «Così tanto che ha dimenticato il nome della vittima? Quello doveva esserci, nel referto». «No», disse con un lieve sorriso. «Quello lo ricordo bene». «Ci dica chi era», lo invitai tornando a rivolgermi alla giuria. «Chi era l'uomo che Elliott Winston credeva andasse a letto con sua moglie? Chi era l'uomo che Elliott Winston cercò di uccidere?». «Era lei. Joseph Antonelli. Era lei che cercò di uccidere». «Sì», dissi girandomi. «Di questo era accusato: tentato omicidio. La sorprenderebbe sapere che non ho mai creduto che volesse uccidermi? Non penso che avrebbe sparato, se io non avessi cercato di strappargli di mano
la pistola. Ma ci dica, signor Bartram: lei che l'ha letto, che cosa diceva in merito il referto psichiatrico? Che cosa diceva riguardo a quello che Elliott Winston pensava, a quello che intendeva fare in realtà?». Asa alzò le mani con le palme verso l'alto. «Gliel'ho detto, è passato troppo tempo. Mi dispiace, ma proprio non ricordo». Mi avvicinai rapidamente al banco degli avvocati, aprii una cartella e feci scorrere il dito lungo un elenco dattiloscritto. «Potrei chiedere al cancelliere di consegnare al testimone il reperto numero 109?». Il cancelliere trovò il reperto, una grossa busta marrone, e la portò al testimone. «Le dispiace aprirla ed estrarre la cartella?», chiesi ad Asa. Quando l'ebbe fatto, alzò gli occhi su di me. «Ora le dispiace aprirla e dirci di che si tratta?». Era il fascicolo del caso Lo Stato contro Elliott Winston e conteneva la documentazione ufficiale del procedimento che aveva condotto alla delibera sull'incapacità di intendere e di volere di Elliott Winston e sul suo ricovero forzato presso l'ospedale psichiatrico per un periodo non superiore a quello che avrebbe dovuto scontare in carcere. «Le dispiace prendere il referto psichiatrico alla base della decisione della corte?». Asa rovistò fra i documenti finché trovò una busta marroncina più piccola. «È sigillata». «La apra». «Vostro onore!», protestò la Loescher. «È sigillata, non può essere aperta». «Può essere aperta se lo ordina la corte, vostro onore. E non c'è alcuna ragione per non farlo. Questo è un processo per omicidio, e che sia stato giusto o sbagliato sigillare il referto psichiatrico, mantenerlo tale non serve a proteggere gli interessi di nessuno». Bingham rifletté per un istante, quindi acconsentì. «Prego», dissi ad Asa. «La apra». Asa esitò. «Dia qui», soggiunsi strappandogli la busta di mano. L'aprii e ne sfilai un documento dattiloscritto e pinzato. Glielo cacciai sotto il naso. «Lo legga. Lo legga ad alta voce. Legga il referto sulla base del quale Elliott Winston venne dichiarato incapace di intendere e di volere». Asa si rifiutava di guardarlo, e così lo lessi al posto suo. Era il registro quotidiano del tribunale, e la data era quella dell'udienza di Elliott Win-
ston. Non c'era mai stato alcun esame psichiatrico. Elliott Winston era stato giudicato folle soltanto perché Calvin Jeffries aveva voluto così. 29 «Cosa avresti fatto se ci fosse stato il referto?», mi chiese Howard Flynn, sorpreso e leggermente turbato dal rischio che avevo corso. «Non potevi sapere che non era stato effettuato». Guardai fuori dal finestrino, osservando il fiume e la montagna allontanarsi sempre più a mano a mano che risalivamo la collina in direzione dell'ospedale. Sparpagliate per l'alta volta del cielo azzurro, grosse nubi rigonfie avevano assunto il colore della polvere di rame; nella città giù a valle, il sole del tardo pomeriggio riflesso dagli edifici di vetro stendeva su ogni cosa una patina dorata dai bordi neri, avanzando, riluttante, incalzato dalla dolce serata estiva. «Mi dispiace per quello che ho detto. È stato imperdonabile», dissi guardando Flynn. Lui non distolse gli occhi dalle curve della strada, reagendo soltanto con una leggera inclinazione del capo per farmi capire che non era importante. «Sapevo cosa conteneva», dissi mentre ci avvicinavamo all'ingresso dell'ospedale. «Come facevi a saperlo?». «Avevo letto il fascicolo». Flynn arrestò l'auto. «Quella parte era sigillata». «Solo un po' di adesivo», spiegai mentre raccoglievo la valigetta che mi aveva regalato Jennifer e aprivo la portiera. «E poi l'hai richiusa?». Flynn scosse il capo, sbalordito dall'assoluta semplicità di ciò che avevo fatto. «Era difficile credere che anche uno come Jeffries potesse giungere a tanto», spiegai. «Dovevo esserne sicuro». Feci scorrere le dita sulle lettere del mio nome incise sulla sottile targhetta di ottone, e ripensai a ciò che era accaduto in aula e a quello che era successo dodici anni prima. «Ti spinge a chiederti», dissi a Flynn mentre scendevo dall'auto, «chi dei due fosse il vero pazzo». Dovetti attendere a lungo per poter parlare con i dottori, e rimasi con Jennifer finché non mi dissero di andare, ma Flynn era ancora lì ad aspettarmi, seduto su una panchina a fumare una sigaretta. Gli chiesi se ne avesse un'altra, e senza dire una parola lui infilò la mano nel taschino interno
della giacca e ne estrasse un pacchetto spiegazzato. Il fumo mi prese in gola e mi fece tossire. Lasciai scivolare la sigaretta dalle dita e la schiacciai con il tacco. «Stanno ancora facendo esami», dissi cercando di sembrare rincuorato. «E domani ne faranno altri». Flynn aspirò un'ultima boccata dalla sua sigaretta, la schiacciò sotto la scarpa e si alzò. «Ti accompagno a casa, che ne dici? Devi dormire. Sono solo i nervi a reggerti in piedi». Non volevo andare a casa; ne avevo paura. Avevo trascorso la notte precedente cercando di sfuggire a spettri generati da me stesso, pensieri esasperanti su cosa avrei potuto fare per prevenire l'accaduto. Non avevo chiuso occhio, e non ci avevo nemmeno provato. «Perché non ceniamo insieme?», suggerii mentre facevamo ritorno all'auto. «Ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare per domani». Flynn sapeva che non era vero, ma fece finta che lo fosse. Mangiammo un panino e una minestra in una tavola calda che non conoscevo, e quando Flynn mi offrì di passare da casa mia a prendere un cambio d'abiti e di trascorrere la notte da lui, accettai con un entusiasmo che sorprese persino me stesso. Ma prima di tutto facemmo una puntata in prigione. «Ho promesso a Danny che sarei passato», spiegò Flynn mentre aspettavamo che il secondino aprisse la porta di metallo. «Se non mi presentassi, potrebbe cominciare a dubitare di me». Mi sedevo accanto a lui ogni giorno in tribunale, e tranne quando volevo usare un gesto o un'apparente parola di incoraggiamento per convincere la giuria che credevo nella sua innocenza, notavo a malapena la sua presenza. Non aveva né i manierismi di un bambino né le idiosincrasie di un adulto; il suo volto non possedeva alcuno dei tratti fisici che rivelano il carattere, le linee essenziali di chi siamo. Era una pagina bianca sulla quale non era stato ancora scritto nulla di permanente. Non ci trattenemmo a lungo. «Siamo venuti a salutarti», disse allegro Flynn quando il prigioniero venne condotto nella saletta. Danny gli rivolse un sorriso sonnolento. «Ciao, Howard». Flynn ricambiò il sorriso. «Hai appena cenato, vero?». «Era buona», rispose Danny voltandosi verso di me. «Salve, signor Antonelli. Domani mi vesto ancora bene?». «Vuoi un'altra cravatta?».
Parve allarmato, e capii che credeva di dover rinunciare a quella che già aveva. «Così ne avrai due fra cui scegliere». Si rischiarò subito in volto. «Certo. Mi piacerebbe». Quando uscimmo dal carcere e attraversammo la città diretti verso l'appartamento di Flynn, il buio era ormai quasi completo. Sotto il cielo brunito una foschia scarlatta aleggiava bassa all'orizzonte, l'ultima luce fino al mattino. Flynn mi preparò il letto sul divano massiccio e sbrindellato nel suo studio di fortuna mentre io mi trattenevo sulla soglia e guardavo di soppiatto la vecchia fotografia del figlio scomparso. «Mi dispiace davvero per quello che ho detto». Stringendo un guanciale sotto il mento, Flynn cercava di infilarlo in una federa bianco sporco. «Lo so», grugnì. «Lascia perdere. Si dicono certe cose, ma non significa nulla». Diede un ultimo strattone alla federa. «Ecco, dovresti essere a posto», disse gettando il guanciale all'estremità del divano. Un sorriso ironico gli percorse la bocca ampia e carnosa. «Cosa ti aspettavi, una caramella sul cuscino?». Lo seguii in cucina. Il gatto ci udì arrivare e, prima che Flynn potesse afferrarlo, balzò giù dal tavolo e corse via. «Quell'idiota di un gatto non ci rinuncia: è convinto che in quel vaso ci debba essere qualcosa da mangiare», ringhiò indicando con un cenno del capo la frutta di cera e l'uva di cristallo. Cominciarono a tornarmi in mente cose che avevo scordato e che il giorno prima erano sembrate importanti. «Devi aver chiamato l'ufficio di Asa. È per questo che Jonah è venuto in tribunale insieme a lui», dissi mentre ci sedevamo al tavolo di formica grigia. «Strano piccoletto», osservò Flynn. «Quando gli ho detto che Bartram poteva essere in pericolo di vita, si è messo a ridere. Ha detto che sei matto. Lo giuro su Dio, parole sue. E non era felice per l'ordine di comparizione. Pensava che tu non avessi alcun diritto di far perdere tempo al vecchio per chiamarlo a testimoniare sul caso di un mattoide di una dozzina d'anni fa». «Tipico di Jonah. Mi chiedo cosa penserà adesso, dopo aver saputo di cosa si è reso complice il buon vecchio Asa». Mi tornò in mente l'altra telefonata che avevo chiesto a Flynn di fare. «Hai parlato con la vedova Jeffries?». «Non c'era nessuno in casa», disse. «Ho lasciato un messaggio, ma non mi ha mai richiamato. Forse non è in città».
«Le conviene rientrare prima di domattina», dissi stiracchiando le braccia. «È la mia prossima testimone». Flynn si alzò per prendere una bottiglia di latte dal frigorifero. «Cosa le chiederai?». Le feci una domanda che un gentiluomo non avrebbe mai formulato, e ottenni una risposta che una signora non avrebbe mai dato. «Mi dica, signora Jeffries», domandai il mattino dopo non appena ebbe prestato giuramento, «lei e io siamo mai andati a letto insieme?». Jean Jeffries non era più giovane, ma con una giacca grigia e una gonna lunga fino alle caviglie era, se possibile, ancora più bella di quando l'avevo conosciuta anni prima, quando era la moglie di Elliott Winston. Già allora era un po' troppo sicura di sé. «Perché?», replicò con un'occhiata provocante. «Non si ricorda?». In piedi all'angolo del banco degli avvocati, la guardai di rimando. «Sono sicuro che me ne ricorderei, signora Jeffries. Ne deduco che la sua risposta è no. Il che mi porta alla domanda successiva. Per quale ragione suo marito, il suo primo marito, pensava il contrario?». «Perché era profondamente malato. Lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro, signor Antonelli. Ha cercato di ucciderla, no?». «Sicché la sua convinzione che lei avesse una relazione non aveva alcun fondamento nella realtà?». «No, certo che no». «Ma lui ne era così convinto, così convinto che lei avesse una relazione con me, che cercò di uccidermi?». «A quanto sembra». «Perché era pazzo?». «Era malato». «Non è forse vero, signora Jeffries», ripresi guardandola fissa, «che Elliott pensava che avessimo una relazione perché gliel'aveva detto Calvin Jeffries?». «No di certo. Calvin non avrebbe mai...». «E non è forse vero che lo fece per impedirgli di scoprire che in realtà eravate voi due ad avere una relazione?», chiesi con un'occhiata caustica. Era seduta sul bordo della sedia, teneva le mani rigide in grembo e faceva fiammeggiare gli occhi dalla lunghe ciglia, ammutolita dalla rabbia. Mi avvicinai alla giuria con le braccia conserte, guardando a terra e cercando di riprendere il controllo. «Quanto spesso ha fatto visita a suo mari-
to da quando è rinchiuso nell'ospedale psichiatrico?», chiesi in tono sommesso. Non ebbi risposta, e senza alzare gli occhi ripetei la domanda. «Non ci sono mai andata», disse lei schiarendosi la gola. «Non sono sicuro che tutti l'abbiano sentita. Le spiacerebbe ripetere?». «Non ci sono mai andata», ripeté più forte e in tono più irritato. «E i suoi figli, i figli di Elliott? Quanto spesso hanno fatto visita al padre nei dodici anni che ha passato in quel posto?». Ascoltai il silenzio a capo chino e sentii una punta della solitudine che Elliott doveva aver sperimentato. Poi provai qualcos'altro, e mi scagliai contro la moglie di Jeffries con una rabbia che riconoscevo a malapena. «Non ha mai permesso loro di vedere il padre, vero? Temeva quello che sarebbe potuto accadere, quello che lui avrebbe potuto dire, non è così?». Le sue mani, convulsamente giunte in grembo, presero a tremare. «Avevo paura di quello che avrebbe potuto fare! Ne ho ancora paura!». «Paura che potesse farle del male? Che potesse fare del male ai suoi figli?». «Sì». «Perché l'ha minacciata? Le ha scritto lettere minatorie?». «Sì». «A causa di quello che lei e Calvin Jeffries gli faceste?». «Non gli abbiamo fatto niente», insistette. «Non è mai andata a trovarlo, ha divorziato, ha sposato Calvin Jeffries e insieme a lui gli ha tolto i bambini in modo che Jeffries potesse adottarli e chiamarli suoi figli, e ciò malgrado», dissi fulminandola con lo sguardo, «può dire "non gli abbiamo fatto niente"? Lei gli ha fatto di tutto, e lo sa, e sa anche cos'ha fatto lui di conseguenza, non è così? È riuscito a uccidere suo marito. E lei sa chi sarà la sua prossima vittima, vero?». La Loescher stava sbraitando la sua obiezione, cercando di sovrastare il baccano che era esploso nell'aula. «Lei sapeva che Calvin Jeffries aveva combinato l'udienza per far rinchiudere Elliott in manicomio», gridai mentre Bingham cercava di riportare il silenzio in aula. «Calvin lo fece per me», gridò lei di rimando. «Non volevo che Elliott finisse in prigione!». Il fracasso era cessato, e tutti si voltarono nella sua direzione. La sua voce riecheggiò dalle pareti silenziose dell'aula e si spense lentamente. Mi fermai a qualche passo da lei, le mani in tasca, e la osservai mentre incassava la testa fra le spalle e cominciava a strofinarsi le mani.
«Dunque sapevate entrambi, lei e Calvin Jeffries, che Elliott non aveva bisogno di essere rinchiuso nell'ospedale psichiatrico, perché sapevate che non era veramente pazzo. È così?». Jean Jeffries alzò la testa e smise di sfregarsi le mani. «No, non volevo dire questo. Volevo dire che...». Mi voltai e con un breve gesto della mano l'interruppi prima che potesse finire. «Non ho altre domande, vostro onore». Come io avevo mostrato rabbia e disprezzo, la Loescher ostentò noia e indifferenza. Si alzò, riuscendo a farla sembrare un'impresa, poi scosse la testa e sospirò. Fronteggiando la testimone con un sorriso contrito, le rivolse due o tre domande per sottolineare il fatto che la vedova del giudice Jeffries non sapeva nulla né dell'imputato né dell'omicidio di Quincy Griswald. Poi, quando ebbe finito, mi rivolse un'occhiata perplessa e scosse di nuovo la testa, come se stesse cercando di capire perché mai facessi perdere tutto quel tempo alla giuria. Infine si sedette, sorridendo soddisfatta fra sé. Mi restavano soltanto due testimoni da chiamare, a meno che non decidessi di far deporre l'imputato. Uno di loro era in attesa in corridoio, l'altro avrebbe dovuto essere in viaggio. Mi chiesi se Elliott Winston sarebbe mai arrivato al palazzo di giustizia. «La difesa chiama il dottor Melvin Friedman», annunciai prima ancora che la moglie di Calvin Jeffries avesse raggiunto la porta in fondo all'aula. Se il nome del dottore del suo ex marito significava qualcosa per lei, non lo diede a vedere. Aprì la porta a testa alta e uscì dall'aula, sicura come non mai che tutti gli occhi fossero ancora fissi su di lei. Le mani occupate a reggere un fascio di cartelle, la bocca contratta da un tic nervoso, il dottor Friedman superò il cancelletto che divideva in due l'aula. Non sapendo bene che fare dei documenti, alzò gli occhi sul giudice. Bingham sorrise, rivolse un cenno del capo al cancelliere, attese che costei alleggerisse Friedman del suo fardello e tornò a sorridere. «Dottor Friedman», esordii, «lei è stato convocato in quest'aula con un mandato di comparizione, esatto?». Il dottore si sistemò il bavero della giacca estiva e si raddrizzò i pantaloni. «Sì», rispose tirando un polsino della camicia. «Le è stato anche notificato un invito a presentare alcuni documenti alla corte. Ha con sé quei documenti?». «Sì, li ha il cancelliere», rispose tirando l'altro polsino. «Presso l'ospedale di stato c'è un paziente che risponde al nome di Che-
ster MacArthur?». «Sì». «Ha con sé la sua cartella clinica?». «È uno dei documenti che mi è stato chiesto di portare». A un mio cenno, il cancelliere gli consegnò la cartella. «Chester MacArthur era un professore di storia che, convinto di essere un soldato in Vietnam, uccise un uomo, un assicuratore, mentre questi era diretto verso la sua automobile in garage. Lo fece perché era convinto che l'uomo fosse un Vietcong. Dico bene, dottor Friedman?». Stringendo la cartella in grembo, Friedman assentì. «Si nascose nel garage, attese il suo momento e poi gli tagliò la gola con un coltello, esatto?». «Sì». Appoggiandomi al bordo anteriore del banco degli avvocati, indicai la cartella. «Può dirci se durante il suo periodo di detenzione Chester MacArthur sia mai uscito dall'ospedale psichiatrico?». Non aveva bisogno di controllare; l'aveva già fatto, aveva già consultato e riconsultato il fascicolo dopo che io avevo ottenuto l'ordine di mostrarmi il contenuto della cartella clinica di MacArthur. «Per un periodo di otto mesi ha preso parte a un programma standard di reinserimento nella comunità. Fa parte di un'iniziativa controllata per aiutare i pazienti a rientrare nella società civile», spiegò alla giuria. «Quanto spesso è uscito grazie a questo programma?». «All'inizio i pazienti vengono dimessi per tre giorni ogni due settimane, ma poi i periodi di libertà aumentano gradualmente fino a una settimana o anche più, a seconda di come i soggetti si adattano al mondo esterno». «MacArthur non partecipa più al programma, vero?». «No. Lo trovava troppo difficile. Pensava di non essere ancora pronto». Comunicai al dottor Friedman la data in cui era stato ucciso Quincy Griswald. «Quel giorno Chester MacArthur era fuori?». Friedman aprì la cartella e sfogliò nervosamente le pagine. «Sì», disse alzando gli occhi e tenendo il segno con un dito. «È rimasto fuori per due settimane». «Ed è stata l'ultima volta che è uscito, giusto?». «Sì, ma...». «Questo programma di reinserimento non è lo stesso a cui partecipava anche Jacob Whittaker?». Il dottor Friedman sembrò esitare. «Le è stato chiesto di presentare anche la sua cartella. Se ha bisogno di consultarla,
posso chiedere al cancelliere di portargliela». «No, è vero», disse annuendo bruscamente. «Si tratta dello stesso programma». «Ma Jacob Whittaker non è più rientrato, vero? Ha assassinato Calvin Jeffries e poi si è tolto la vita, non è così?». Premendo le labbra, Friedman si guardò le mani. «Temo di sì». Rialzò la testa di scatto. «Ma non c'è motivo di credere che Chester MacArthur abbia fatto la stessa cosa». «Erano entrambi ricoverati nel manicomio criminale. E avevano entrambi già ucciso». Prima che potesse rispondere aggiunsi: «Ed erano entrambi ricoverati insieme a Elliott Winston, vero?». «Abbiamo centinaia di pazienti nel manicomio criminale, molti dei quali fanno parte del programma di reinserimento di cui stavamo parlando». «Qual è il secondo nome di Chester MacArthur?». «William». «Nessuno lo chiama Billy?». Friedman parve sorpreso che lo sapessi. «Sì, è il nome che lui preferisce. Chester non gli piace, lo trova troppo formale. È stato suo padre a insistere su quel nome, e lui lo associa con l'autorità». «Elliott Winston lo chiama Chester, non è vero?». Scrollò le spalle. «Può essere. Non lo so». «Non lo sa? Capisco. Bene, ci dica un'altra cosa: quanto tempo deve passare prima che un paziente possa partecipare al programma di reinserimento?». Voleva farlo sembrare il più sicuro possibile. «Diverso tempo. Un paziente deve essere molto vicino al termine della sua detenzione, e anche in quel caso viene accettato nel programma soltanto se non viene considerato un pericolo per gli altri. Sfortunatamente», soggiunse decidendo di parlarne prima che fossi io a sollevare l'argomento, «nel caso di Jacob Whittaker è stato commesso un errore. Quando si ha a che fare con la mente umana, si ha a che fare con qualcosa che in parte resterà sempre un mistero». Mi allontanai dal banco degli avvocati e coprii quasi del tutto la distanza che ci separava. «Ma non fino al punto di impedirvi di decretare chi è sano di mente e chi non lo è, giusto?». «Parlavo del singolo caso, del tentativo di stabilire con precisione cosa c'è che non va nella mente di un malato e cosa si può fare per aiutarlo». «Elliott Winston: cosa c'è che non va in lui?». Friedman aggrottò la fronte e annuì lentamente. «Schizofrenia paranoi-
de». «Ne è sicuro? Ne è assolutamente sicuro?», domandai guardandolo negli occhi. «Qualunque sia il suo problema, Elliott Winston è diverso dagli altri pazienti dell'ospedale psichiatrico, non è vero, dottor Friedman?». «In che senso?». «È più intelligente». «È assai intelligente, questo è vero», rispose Friedman con cautela. «Assai intelligente? Questa non è una riunione dello staff medico, dottor Friedman. Non è un seminario accademico sulle anomalie della psiche. Siamo in un'aula di tribunale, e lei è sotto giuramento. Elliott Winston è o no il più intelligente di tutti i suoi pazienti?». «Sì». «Ed è il suo caso più interessante?». «Be', non so se posso... Ma sì, il suo è un caso di estremo interesse». «All'interno di quel gruppo, di quella massa di malati di mente, alcuni di loro potrebbero essere particolarmente suscettibili al condizionamento? Potrebbero essere spinti a credere a certe cose anche se non sono vere, allo stesso modo in cui crediamo in ciò per cui siamo disposti a morire?». Cercò di liquidare l'argomento. «Mi sembra un po' esagerato». «Lei trova? Avrà letto dei fondamentalisti islamici che si fanno saltare in aria nel corso di un attacco terroristico. Lo definirebbe il gesto di un uomo del tutto sano di mente?». «Certo che no». «E come definirebbe un comunista russo che confessa un crimine che non ha commesso perché è convinto che sia l'unico modo che gli resta per servire la causa del comunismo? Un folle?». «Direi proprio di sì», rispose annuendo nervosamente. «E un soldato americano che si tuffa su una bomba a mano innescata per salvare la vita dei suoi commilitoni? Un folle?». «Be', no, è completamente diverso», disse cambiando posizione con fare inquieto. «Lei cura i malati di mente. Con la terapia, con i farmaci cerca di stabilire... di ristabilire un equilibrio, una struttura nel loro modo di ragionare, esatto?». «Sì, è quello che cerchiamo di fare». «E una parte importante di quella struttura mentale funzionante non è quello che chiamate un sistema coerente di credenze?». «Sì, è così».
«Se potessi farle credere che il mondo è piatto, lei probabilmente non effettuerebbe più lunghe traversate in nave, giusto?». «No, probabilmente no», ammise cominciando a rilassarsi. «E se la convincessi che Calvin Jeffries e Quincy Griswald sono i peggiori esseri umani sul pianeta e che lei non sarà mai al sicuro finché o uno o l'altro non saranno morti, questo potrebbe fornirle un motivo per uccidere, non è vero?». Avevo finito, ma Cassandra Loescher sapeva esattamente da dove cominciare. Rivolse un sorriso malizioso prima a Friedman, quindi alla giuria. «Il mondo è piatto, dottor Friedman?». «No», rispose lui, lieto di parlare finalmente con una persona sana di mente. «E c'è qualcosa che il signor Antonelli potrebbe fare per convincerla del contrario?». Friedman era sicuro di no. «Sono molti i pazienti del manicomio criminale convinti che il mondo sia piatto?». «No». «Dunque esistono limiti oltre i quali perfino una persona con un'immaginazione fervida come il signor Antonelli non riuscirebbe a convincere qualcuno di una falsità?». Avrei potuto obiettare, ma lasciai correre. Avevo un'altra domanda da fare. «Ci dica, dottor Friedman», ripresi nel mio secondo interrogatorio. «C'è un telefono nel reparto, un apparecchio che i pazienti possono usare per chiamare all'esterno?». «C'è un telefono pubblico. I pazienti lo usano se ne hanno il permesso». «Ha un altro testimone?», chiese Bingham dopo aver congedato Friedman. «Sì, vostro onore. La difesa intende chiamare Elliott Winston». Il giudice consultò l'orologio sulla parete posteriore dell'aula e fece segno a me e alla Loescher di avvicinarci. «Sa se è già arrivato?», mi chiese accanto al seggio. «L'ospedale ha chiamato poco prima che cominciassimo dicendo che erano appena partiti. Dovrebbe essere già qui». Non sapevo come mai non fossero ancora arrivati, e non volevo parlare di ciò che temevo potesse essere successo. «È quasi mezzogiorno», osservò Bingham prendendo una decisione. «Faremo una pausa per il pranzo e riprenderemo all'una e mezza. A quel punto dovrebbe essere qui».
Stava per congedarci quando gli venne in mente un'altra cosa. «Non ci sarà altro? È il suo ultimo testimone?». Non ero ancora pronto a prendere una decisione definitiva. «A meno che non chiami l'imputato». «Ho capito», rispose Bingham. «Quanto crede ci vorrà per interrogare il testimone? Riuscirà a concludere entro la fine della giornata?». «Non dovrebbe essere un problema», lo assicurai. «Sicché se non chiama l'imputato...». Bingham guardò la Loescher. «Nessun testimone per la confutazione? Non la considero una risposta vincolante», continuò nel vedere la sua riluttanza a rispondere. «Non penso», disse lei. «Dunque potremo rimettere il caso alla giuria prima di domani sera. Bene». Dopo aver brevemente spiegato che la difesa avrebbe chiamato il suo successivo testimone dopo pranzo, Bingham ripeté ai giurati gli ammonimenti che avevano ormai sentito una dozzina di volte e diede loro appuntamento all'una e mezza. Non appena la giuria si fu ritirata, provai l'impellente desiderio di allontanarmi dal tribunale e da chiunque potesse chiedermi di parlare del processo. Più che altro volevo stare da solo. Sapevo che sarebbe successo qualcosa, e non sapevo cosa. Mi rendevo solo conto che ad aspettarmi al varco di li a novanta minuti c'erano il testimone più strano e l'interrogatorio più importante della mia vita. Sempre che Elliott Winston si fosse presentato in aula. Dov'era, e perché ci metteva tanto? Mentre attraversavo il parco ombreggiato verso l'intimità e la solitudine del mio studio, cominciai a pensare cosa poteva significare per lui tornare nella città dove un tempo viveva e nel palazzo di giustizia dove un tempo esercitava la sua professione. Cercai di immaginare cosa gli passasse per la testa mentre usciva per la prima volta dall'ospedale, da quel luogo triste e desolato che era diventato l'unico mondo che conosceva, e rivisitava la sua vita dodici anni dopo che gli era stata sottratta. Avrebbe notato il modo in cui la città era cambiata, il modo in cui si era estesa sull'altra riva del fiume, il modo in cui gli edifici del centro toglievano la luce. Ma ancora più vividamente di ciò che gli si parava davanti agli occhi avrebbe visto il volto di sua moglie, l'aspetto che aveva l'ultima volta che l'aveva guardata, giovane e bella, fredda e falsa, la madre dei suoi figli, la puttana dell'uomo di cui si era fidato, dell'uomo che aveva venerato. Come
poteva non desiderare di ucciderla? Una donna che non conoscevo era in attesa nella sala d'aspetto. Ero troppo assorto nei miei pensieri per soffermarmi sui particolari, al di là del fatto che aveva un volto dolce e tondeggiante e due occhi amichevoli. Helen afferrò la pila di messaggi telefonici e mi raggiunse mentre mi lasciavo andare sulla sedia di pelle della mia scrivania. Ma non appena mi guardò negli occhi cambiò idea. «Questi possono aspettare», disse sedendosi sull'orlo della poltrona di fronte a me. «Hai bisogno di riposare», aggiunse con un sorriso preoccupato. «Chi è quella donna?», chiesi indicando la porta. «Non posso vedere nessuno, devo rientrare in aula fra un'ora. Non ho tempo, e anche se l'avessi...». Helen tradiva l'espressione di chi non sapeva cosa fare. «È una certa signora Lewis. Aspetta da un'ora. Dice che è una tua vecchia conoscenza, e che voleva soltanto salutarti». «Ma io non la conosco», dissi sinceramente. «Sembra una brava persona. È venuta a trovare una sua amica, ha letto il tuo nome sul giornale e ha pensato di farti un saluto. Sono sicura che non vorrà trattenersi più di pochi minuti». Se non l'avessi ricevuta, Helen avrebbe dovuto sbarazzarsene e, malgrado la sua dura scorza, Helen detestava essere scortese. Mi arresi, e me ne pentii non appena vidi comparire la signora Lewis sulla soglia e potei osservarla meglio. Non l'avevo mai vista in vita mia, ne ero certo. «Cosa posso fare per lei, signora Lewis?», chiesi con noncuranza. Lei cominciò a sorridere, poi lo fece in modo più deciso. «Non c'è ragione per cui si ricordi di me, signor Antonelli. Sono passati dieci anni. Lei ha aiutato mia madre, e quando ho letto il suo nome sul giornale e il processo in cui è coinvolto mi sono detta che era giunto il momento di ringraziarla. Perché ha aiutato anche me». Alzai le mani, imbarazzato di non rammentare né lei né sua madre. «Ha difeso mia madre quando è stata accusata delle stesse cose che mi stava facendo mio padre. Mia madre era Janet Larkin». All'improvviso mi scordai del processo e di Elliott Winston. «Lei è la figlia di Janet Larkin?», domandai sbalordito. «Amy», mi rammentò lei. «Amy Lewis, adesso». Fece una risata di gola. «Amy Lewis da un bel pezzo, a dire il vero».
«È sposata?», domandai con una sorta di stupida sorpresa, come se fosse successo la settimana prima e io avrei dovuto esserne informato. «Due figli», rispose con una punta di orgoglio materno. Mi rilassai sulla sedia e la guardai, scuotendo il capo nel vedere quanto sembrasse normale, meravigliosamente equilibrata. «Un tempo ero preoccupato per lei. Mi chiedevo che fine avrebbe fatto dopo... dopo tutto quello che era successo». Un'ombra le passò sugli occhi, una traccia del segreto che l'avevo costretta a rivelare a un'aula piena di sconosciuti, e mi domandai se l'avesse mai confidato a nessun altro. Ma non glielo chiesi. «Ho avuto una bella vita», disse lei. Il suo sorriso si era affievolito, e per qualche istante non aggiunse nulla. Fece vagare lo sguardo per lo studio, sugli scaffali pieni di volumi di diritto, sulle finestre che offrivano una vista della città, del fiume e della montagna che in qualche modo dava un senso di permanenza a tutto ciò che di transitorio accadeva ai suoi piedi. «La mia vita sarebbe potuta essere meno bella se lei non avesse salvato mia madre. È morta due anni fa, e penso di avere soltanto cominciato a capire quanto le devo, e quanto ha dovuto sopportare a causa mia». «Che ne è stato di...?». «Mio padre? Non lo so. Dopo il processo non l'ho più rivisto. Si è trasferito da qualche parte, non lo so». «E suo fratello?». Un'espressione distante s'impadronì del suo sguardo. «Non era vero, sa, quello che diceva di mia madre. Povero Gerald. Non era riuscito a trovare un altro modo per provare a riportarci insieme». I suoi occhi si rimisero a fuoco. «Era proprio questa la cosa peggiore. Gerald sapeva che era una menzogna ma non riusciva ad ammetterlo, e più andava avanti a negarlo, più la cosa diventava reale. E credo che alla fine sia arrivato a credere che fosse davvero successo». Amy Larkin mi guardò con lo sguardo sincero di una donna che aveva imparato in modo più doloroso di altri che il passato non scompare mai. «A volte penso che sia stata colpa mia, ma poi ricordo quant'ero giovane. Non sembra giusto, vero? Che Gerald e mia madre abbiano dovuto pagare per quello che mio padre mi faceva». Non era giusto, ma era difficile trovare molte cose che lo fossero. Ci alzammo e ci salutammo. Amy notò la fotografia sulla credenza, un ritratto mio e di Jennifer scattato poche settimane prima. «Sua moglie? È
bellissima». Non c'era alcun motivo di correggerla. «Sì. La conosco da quando eravamo ragazzi. La cosa strana», osservai mentre l'accompagnavo alla porta, «è che anche se ci sono stati lunghi periodi in cui non ho più pensato a lei, ora mi rendo conto che non ho mai smesso di amarla». Le dissi che ero felice che fosse venuta a salutarmi e la osservai per un istante mentre percorreva il corridoio verso l'ascensore. Quando richiusi la porta e mi girai, vidi Helen che reggeva la cornetta del telefono coprendo il microfono con la mano. «È l'ospedale», spiegò. «Il dottore ti vuole parlare». 30 Arrivai in tribunale con mezz'ora di anticipo. Un vecchio dalle scapole prominenti e dal petto incavato mi precedette zoppicando nell'aula con un giornale sottobraccio. Si sedette in ultima fila, lungo il passaggio centrale, appena oltre la porta. Era un assiduo visitatore del palazzo di giustizia, spesso l'unico spettatore di banali processi che tutti dimenticavano l'istante stesso in cui finivano. Non sapevo come si chiamasse, ma mi era stato detto che era stato un avvocato per tutta la vita e che dopo essere andato in pensione si era ritrovato senza sapere cosa fare. «Caso interessante», osservò mentre gli passavo accanto. Proseguii fingendo di non aver sentito, ma poi, forse per una sensazione, un ricordo di qualcosa che non mi era ancora accaduto, mi fermai e mi voltai. «Lei era avvocato, vero?», domandai cercando di sembrare interessato. Le sue sopracciglia grigie e folte rivelarono due occhi chiari e luminosi. «Fino ai settantacinque anni, quando una conventicola di dottori famigerati e incompetenti mi ha privato dell'unica ragione che mi restava per vivere». Si batté un dito ossuto sul petto. «Cuore», spiegò. «Sono passati dieci anni. Credo che ormai i dottori siano tutti morti». Si alzò e appoggiò le mani sulla panca davanti a sé. «E adesso vengo ad assistere. Mi piacciono i processi. Ciascuno fa storia a sé; ciascuno ha un finale, e si scopre sempre come sono andate le cose». Era voglioso di parlare con qualcuno, con un altro avvocato, con chi poteva capirlo. «La vita non è così. Non sai quando finirà, e non sai cosa accadrà. In un processo sai sempre se hai perso o se hai vinto. Come fai a capirlo fuori da
un'aula di tribunale?». Con una traccia di turbamento nello sguardo, rifletté sulla sua stessa domanda. Poi, raddrizzandosi, mi diede un colpetto sul braccio. «Meglio che si prepari», soggiunse con un sorriso di incoraggiamento. «Processo interessante», ripeté mentre mi voltavo e m'incamminavo verso la parte dell'aula riservata agli avvocati ancora vuota. Seduto al mio posto mi guardai alle spalle, ma il vecchio era immerso nella lettura del giornale, forse i necrologi di alcuni di coloro ai quali era riuscito a sopravvivere. Quello che aveva detto era vero: i processi erano storie, storie sulle vite degli altri, raccontate in modo che i singoli pezzi si incastrassero fra loro come se fin dall'inizio avessero seguito un unico disegno e fossero giunti a formare un qualcosa di unitario e coerente. Ecco ciò che ero: un narratore di storie che trovava un significato nelle esistenze degli altri ma non riusciva a trovarne alcuno nella sua. Ero un narratore che non aveva una propria storia da raccontare. La porta sul retro dell'aula si aprì con un cigolio, e udii i passi strascicati di un altro spettatore che prendeva posto. Qualche minuto dopo, la porta si aprì di nuovo. Era Harper Bryce, armato di taccuino e pronto ad annotare tutto ciò che reputava essenziale per la storia che avrebbe scritto per i lettori del giornale del giorno dopo. Cinque minuti più tardi, all'una e venti, la prima giurata fece il suo ingresso diretta verso la camera di consiglio, badando a non guardare nella mia direzione. L'ufficiale giudiziario, un amabile vicesceriffo dai baffi grigi, la raggiunse e le tenne la porta aperta. L'aula cominciò a riempirsi, e la stenografa, approntandosi per la ripresa dei lavori, inserì un nuovo rotolo di carta nella sua macchina. La mia mente era vuota; non provavo nulla, nemmeno una vaga curiosità per quello che sarebbe successo. Ascoltavo i rumori dell'aula che si risvegliava gradualmente, e l'unico pensiero che avevo era che, come per il vecchio che osservava alle mie spalle, questo era ciò che la mia vita era sempre stata e sempre sarebbe stata: l'infinita, continua ripetizione di un processo, di una storia. L'aula era ormai piena, ed era arrivato anche l'ultimo giurato. L'imputato era stato fatto rientrare e sedeva accanto a me. Cassandra Loescher era al suo posto all'estremità opposta del lungo banco di mogano, intenta a prendere appunti. Il cancelliere, una donna di buon cuore in attesa della pensione, raggiunse quello che per vent'anni era stato il suo posto. Ognuno si trovava dove si sarebbe dovuto trovare. Come un vecchio soldato, l'ufficiale giudiziario raddrizzò le spalle e pronunciò l'unico ordine che conosceva:
«In piedi». Prima ancora che le parole gli uscissero dalle labbra tutti si alzarono, in attesa che Morris Bingham, lo sguardo fisso davanti a sé, raggiungesse il suo seggio. Anche Calvin Jeffries camminava in quel modo, senza mai guardarsi intorno, ma si muoveva più rapidamente, come se fosse sempre di fretta, come se stesse cercando di fare due cose nello stesso tempo. Bingham rivolse un cenno di saluto alla giuria. «Buon pomeriggio», disse nel suo tipico tono gradevole e sommesso. «La difesa è pronta a chiamare il suo prossimo testimone, signor Antonelli?», mi domandò. «Sì, vostro onore», dissi alzandomi. «La difesa chiama Elliott Winston». Fissai la doppia porta in fondo all'aula, chiedendomi se si sarebbe aperta e se Elliott Winson l'avrebbe varcata. Attesi a lungo ma non accadde nulla, nemmeno un suono. Era fuggito proprio come temevo, e forse in quel preciso momento si trovava nell'ascensore, diretto verso l'appartamento nel quale la donna che odiava aveva vissuto insieme all'uomo che aveva fatto uccidere. Mi voltai, pronto a spiegare che il mio testimone non si era presentato e che in sua assenza la difesa avrebbe chiamato l'imputato. «Vostro onore», cominciai, ma Bingham stava guardando qualcosa alle mie spalle. «Credo che il suo testimone sia arrivato, signor Antonelli». Elliott Winston era fermo appena oltre la porta dell'aula mentre uno dei due muscolosi inservienti che l'avevano accompagnato gli sganciava le manette che gli imprigionavano i polsi dietro la schiena. Era vestito esattamente come la prima volta che l'avevo visto all'ospedale: l'abito liso troppo stretto, la logora camicia bianca il cui colletto era chiuso alla gola dal nodo della stessa cravatta storta. I due inservienti si appoggiarono di schiena alla parete in fondo all'aula mentre Elliott, massaggiandosi i polsi, percorreva il passaggio centrale con passi lenti e metodici, guardandosi attentamente da una parte e dall'altra. I suoi occhi non cessarono mai di muoversi, né mentre il cancelliere gli faceva prestare giuramento, né mentre si sedeva al banco dei testimoni. Era come se stesse cercando di imprimersi nella mente l'immagine duratura di ogni centimetro quadrato visibile dell'aula e di tutto ciò che conteneva. «Ci può dire il suo nome e sillabare il suo cognome, per cortesia?», domandai. Lui mi guardò per un rapido istante; poi, con un lampo di impazienza, riprese a perlustrare l'aula. Quando ebbero terminato il giro, i suoi occhi si arrestarono non su di me ma su Cassandra Loescher.
«Lei è il pubblico ministero?», chiese chinandosi leggermente nella sua direzione. Dopo un primo istante di sorpresa, la Loescher assunse un'espressione infastidita e rivolse un'occhiata alla corte. «Signor Winston», intervenne il giudice Bingham in tono tranquillo ma fermo, «i testimoni rispondono alle domande, non le fanno. Ma sì, la signorina Loescher rappresenta la pubblica accusa. Ora la prego di rispondere alla domanda che le ha rivolto il signor Antonelli. Dica il suo nome per intero e sillabi il cognome». Elliott si irrigidì sulla sedia, e il suo volto assunse un'espressione imperiosa. Trattò la richiesta di Bingham come la proposta di un servitore: qualcosa che avrebbe potuto ascoltare ma che non avrebbe mai riconosciuto. Si voltò verso di me, mise il pollice sotto il mento e l'indice e il medio sullo zigomo. Un pensiero gli guizzò in mente, lasciandosi dietro un rapido sorriso. «Il mio nome è Elliott Lowell Winston», disse finalmente, quindi sillabò il cognome. Abbassai gli occhi sulla cartella che giaceva aperta sul banco. «Credo che la domanda successiva sia "qual è il suo impiego"?». Rialzai la testa di scatto. Il suo sorriso, che voleva essere zelante, non riusciva a nascondere un certo sentimentalismo né a mascherare un'ombra di nostalgia. «Non ho alcun impiego. Sono un membro della classe agiata che, come lei sa, vive sempre alle spese dello stato». «È un paziente dell'ospedale psichiatrico». «È quello che ho appena detto». «Da quanto vi si trova?», chiesi chiudendo la cartella. «Dodici anni, cinque mesi, tre settimane e quattro giorni», rispose Elliott in tono aspro, quasi brutale. Sembrava esserne fiero, e pronto a sfidare chiunque osasse contraddirlo. Mi mossi lungo il retro del banco, oltrepassando l'imputato, il povero, confuso Danny, che sembrava affascinato da quella strana creatura seduta al banco dei testimoni, e superando Cassandra Loescher, che suo malgrado non riusciva a distogliere lo sguardo da Elliott. «Dodici anni, cinque mesi, tre settimane e quattro giorni», ripetei fermandomi in fondo al banco e rivolgendo un'occhiata obliqua al testimone. «E com'è riuscito a sopravvivere per tutto questo tempo sapendo che in lei non c'era niente di strano, niente di così grave da non poter essere curato
con un po' di riposo e di terapia?». Elliott non rispose, e io capii che si stava chiedendo cosa sapessi. «Sappiamo tutto, Elliott». Mi appoggiai sulla parte anteriore del banco e giunsi le mani. «Sappiamo che Calvin Jeffries ti ha fatto ricoverare in manicomio senza un esame psichiatrico. E sappiamo perché l'ha fatto. Voleva sbarazzarsi di te, rinchiuderti in un posto dove non avresti potuto fare niente quando ti avesse preso moglie e figli. Quello che non sappiamo è quando l'hai capito, quando ti sei reso conto che non ci saresti rimasto soltanto qualche mese. È questo che ti aveva promesso, vero? Che saresti entrato in ospedale ma che ti avrebbe fatto uscire esercitando la stessa influenza grazie alla quale ti aveva fatto ricoverare?». Cupo di rabbia, mi scoccò un'occhiata penetrante. «Ho sempre saputo di potermi fidare dell'onorevole giudice Jeffries!». «Quando hai cominciato a capire che eri stato ingannato, che non saresti uscito dall'ospedale per vent'anni o forse più?». Staccò la mano dal volto e la posò sul ginocchio. Si piegò in avanti tenendo la schiena dritta, mentre un sorrisetto più enigmatico di qualunque espressione avessi mai visto gli apriva il volto. «L'avevo capito la prima volta che l'avevo visto posare gli occhi su mia moglie, ma mi sono reso conto di averlo capito quand'ero ormai rinchiuso da quasi sei mesi». Notò con una punta di soddisfazione la mia perplessità. «Quando ho realizzato che lei non sarebbe mai venuta a trovarmi; quando ho ricevuto una copia della sentenza di divorzio; quando mi è stato notificato che i miei diritti paterni erano stati revocati; quando ho scoperto che lei aveva sposato Jeffries e che insieme avrebbero dato il suo cognome ai miei figli. Nel rendermi conto di quello che mi avevano fatto, ho visto ogni cosa sotto una luce diversa. Sguardi, parole, gesti hanno assunto significati tutti nuovi. Il modo in cui si baciavano quando ci salutavamo, il modo in cui lui la toccava, cose che credevo dimostrassero soltanto quanto Jeffries le fosse affezionato, mi facevano capire, ripensandoci, quanto si desiderassero, quanto fosse difficile per entrambi tenere le mani al loro posto». La sua bocca s'incurvò verso il basso in una smorfia di disprezzo. «Ho scoperto, capisci, che il passato non era quello che io credevo che fosse. Loro l'avevano cambiato», soggiunse, spostando la mano dal ginocchio al bracciolo della sedia e tornando ad appoggiarsi allo schienale della sedia. «E a quel punto cos'hai fatto, quando hai capito di essere stato tradito?». I suoi occhi erano freddi, duri, beffardi. «Ci ho pensato». Fece una pausa e inclinò leggermente la testa. «Ti sorprende? Che ci abbia pensato?».
Scrollò le spalle e alzò le mani al cielo. «Cos'altro potevo fare?». Tornò a piegarsi in avanti, m'inchiodò sul posto con un'occhiata e calò una gran manata sul bracciolo di legno. «Cos'altro potevo fare?», gridò. «Ero stato dichiarato pazzo, vivevo in un manicomio, cos'altro potevo fare se non pensarci? È quello che ho fatto per dodici anni: ci ho pensato!». «A quello che ti avevano fatto?». «Sì». «A quello che tu gli avresti fatto?», chiesi cercando di condurlo a un'ammissione che avrei potuto usare. La sua testa rigida ed eretta cominciò a tremare, e i suoi occhi fiammeggiarono di disprezzo. Poi si fermò. «Ho pensato a molte cose», disse con un sorriso così lieve che riuscii a malapena a scorgerlo sotto i baffi all'angolo della bocca. «Mi è venuto in mente, devo ammetterlo», soggiunse in tono rauco e gutturale, «che facendomi dichiarare pazzo mi avevano anche conferito l'assoluta immunità per qualsiasi altro reato avessi voluto commettere». Per la prima volta da quando si era seduto al banco dei testimoni, si voltò verso i giurati. «Un tempo ero avvocato», spiegò con un sorriso educato che era così simile al modo in cui il giudice Bingham li accoglieva in aula che mi chiesi se non fosse intenzionale. Elliott sembrava essersi scordato ciò che voleva dire. «Ti avevano conferito l'assoluta immunità», ripetei. «Sì», esclamò tornando a guardarmi. «Come puoi immaginare, con quel pensiero in testa ho cominciato a lavorare di fantasia. Ero matto, lo diceva lo stato, e nessuno avrebbe mai potuto considerarmi responsabile delle mie azioni». Una scintilla astuta gli illuminò lo sguardo. «In quel senso, e forse non soltanto in quello, ero uguale a Calvin Jeffries, giusto? Al di sopra, o quanto meno al di fuori della legge. Non è quello che desiderano tutti? Fare quello che vogliono e non essere costretti a pagarne le conseguenze?». Fece una pausa e riprese a percorrere l'aula con lo sguardo. «Ti piace ancora tutto questo?», domandò con fare pensieroso. «Fare l'avvocato, affrontare processi? Avrei dovuto darti retta quando cercasti di avvertirmi riguardo a Jeffries», soggiunse mordicchiandosi il labbro e sgranando gli occhi. La sua mente stava cominciando a tornare al principio di tutto. «Questo è ciò che ho sempre desiderato fare», disse guardandomi con gli occhi socchiusi e scuotendo la testa. «Essere in un'aula di tribunale, cercare di convincere una giuria che ho ragione». Sembrò ritrarsi in se stesso. Percorsi il banco degli avvocati in tutta la
sua lunghezza e mi fermai alla fine, nel punto più vicino alla giuria e al testimone. Indicai Danny. «Elliott», dissi piano, «non l'hai mai visto prima d'ora, vero?». Eliott non mi udì, o se lo fece scelse di non rispondere. Qualunque fosse il pensiero che stava attraversando la sua mente torturata, l'aveva fatto prigioniero. I suoi occhi si spalancarono e divennero più intensi, il suo collo si gonfiò, il colletto già stretto della camicia gli penetrò nella carne mentre il volto diventava paonazzo. «La follia conferisce immunità, ma l'immunità non è pertinente quando è una questione di legittima difesa», disse mitragliando le parole. «Hai il diritto di togliere la vita a qualcuno quando questo qualcuno cerca di toglierla a te, non è così?», mi domandò sfidandomi a contraddirlo. «Lo conosci? L'hai mai visto prima d'ora?», chiesi con insistenza tornando a indicare Danny. Elliott rivolse un'occhiata all'imputato, poi tornò a voltarsi verso di me. «No, non l'ho mai visto in vita mia», rispose spazientito. «Sarebbe legittima difesa, no?». «No», risposi a voce bassa. «Non potrebbe essere legittima difesa. Nessuno ha cercato di ucciderti. Ma anche se l'avessero fatto, sono passati dodici anni». Provai una strana sensazione. Per un attimo mi parve che stessimo ripetendo una conversazione che avevamo già avuto, una delle centinaia che avevamo affrontato quando Elliott era un associato dello studio e parlavamo di diritto penale e delle varie e spesso fantasiose strategie difensive per i casi di omicidio. «La legittima difesa dev'essere contemporanea all'aggressione. In caso contrario, non c'è niente contro cui difendersi. Non puoi semplicemente togliere la vita a qualcuno che in passato ti ha ferito. È pura e semplice vendetta». Elliott mi lasciò a malapena finire la frase. «Ne sei sicuro?», chiese con uno sguardo febbrile negli occhi. «E se l'imputato avesse cominciato a difendersi non appena è cominciata l'aggressione, ma lentamente? E se», proseguì sporgendo la testa in avanti, «l'aggressione stessa fosse andata avanti per anni, giorno dopo giorno? E se qualcuno gli avesse tolto la vita gradualmente, strangolandolo sempre più con il pensiero di quello che stava facendo con sua moglie e con i suoi figli? Finché un bel giorno, anni dopo che tutto è cominciato, lui vi mette finalmente fine. Sei sicuro che non sia legittima difesa?».
Mi rifiutavo di concederglielo. «No, non è legittima difesa e tu lo sai. Stai parlando di ciò che provavi, dell'effetto che ha avuto su di te quello che ti ha fatto Calvin Jeffries. Non è stata legittima difesa perché era troppo tardi per impedirgli di fare ciò che aveva fatto, e perché non si può cambiare il passato. Tutto ciò che potevi fare era provare a vendicarti. Ed è quello che hai fatto, non è vero?». Elliott era fuori di sé dalla rabbia. «Non si può cambiare il passato? Ma non capisci? Il passato è l'unica cosa che si può cambiare!». I suoi occhi si spalancavano sempre più, la sua voce aumentava di tono con ogni parola che pronunciava. Stava per perdere il controllo. Dovevo fargli ammettere subito ciò che aveva fatto o sarebbe diventato troppo tardi. Feci un passo verso di lui. «Credevi che facendo uccidere Calvin Jeffries e Quincy Griswald saresti riuscito a cambiare il passato?». «Certo!», insistette. «Loro avevano cambiato il mio, no?». I suoi occhi guizzarono verso la giuria. «Mia moglie, la donna che amavo, era diventata la donna che mi aveva tradito. I miei figli, i figli che amavo, erano diventati i figli che mi avevano dimenticato. Non capite? Il mio passato era quello di un uomo amato; ed era diventato quello di un uomo odiato e abbandonato». Tornò a guardarmi negli occhi. «Non si può cambiare il passato? Cosa sarebbe il mio passato se avessi vissuto quegli anni nel manicomio criminale? Cosa vedresti, ripensando alla mia vita? Un pazzo. E cosa vedresti», domandò in tono rabbioso, «ripensando alle esistenze di Jeffries, di Griswald e della madre dei miei figli? Qualsiasi cosa sia, non è quello che vedi adesso, giusto? Non si può cambiare il passato? Loro l'hanno fatto a me, e io l'ho fatto a loro. Hanno cercato di scrivere la storia della mia vita, e invece sono stato io a scrivere la loro!», gridò balzando in piedi. Il giudice scambiò un'occhiata preoccupata con l'ufficiale giudiziario, che cominciò immediatamente ad avvicinarsi al banco dei testimoni. «Va tutto bene, Elliott», dissi per cercare di calmarlo mentre facevo un altro passo avanti. L'ufficiale giudiziario mi guardò, poi si volse verso il giudice. Bingham esitò, quindi alzò una mano facendogli cenno di fermarsi. Non avevo ancora finito con Elliott. C'era qualcos'altro che dovevo sapere. «Come hai fatto? Come sei riuscito a convincere Jacob Whittaker a uccidere Jeffries? Come hai convinto Chester... Billy... ad ammazzare Gri-
swald?». Mi guardò come se fossi un idiota. «Ho dato loro una ragione per vivere. Ho dato loro una ragione per morire. Ho dato loro qualcosa in cui credere». «Cos'è questo qualcosa, Elliott? In cosa credevano fino al punto di uccidere?». «Credevano che il male esiste davvero, che le persone malvage esistono davvero, e che se non le fermi continueranno a compiere atti malvagi». Esitò, e un sorriso gli si formò sulle labbra. «Sono matti, ricordi?». Ci guardavamo dritti negli occhi. Feci un altro passo verso di lui. Fra noi non c'era più di un braccio di distanza. «Ammetti di avere ordinato loro di uccidere Jeffries e Griswald?». Scoppiò a ridere. «Ordinato? Non ho ordinato niente a nessuno. Abbiamo tenuto un processo, proprio come questo». Si guardò intorno nell'aula. «O forse più simile al procedimento che tennero quando mi fecero rinchiudere. Ho illustrato il mio caso come avrebbe fatto qualsiasi buon avvocato: sono stato chiaro, coerente e convincente, proprio come te. E alla fine loro hanno raggiunto un verdetto, hanno emesso una sentenza e l'hanno eseguita. Io non ci ho messo mano». I suoi occhi brillavano di soddisfazione, ma non aveva ancora finito. C'era qualcos'altro che voleva dire, qualcosa di importante. «Lo vedi?», riprese. «Ho cambiato il passato». Fu allora che accadde, quella terribile, patetica batteria di parole dal suono simile, infinitamente peggiore di quelle che avevo udito in precedenza. «Ho cambiato il passato... dato... fato... lato». Le parole si susseguivano a brevi raffiche, secche e sempre più rapide. Elliott cominciò a soffocare e si allargò il colletto della camicia, staccandolo dalla gola come se fosse quello a impedirgli di respirare. Strabuzzò gli occhi e scese barcollando dal banco dei testimoni, dando strattoni sempre più energici al colletto. All'improvviso inciampò; frenai la sua caduta con entrambe le mani ma venni travolto dal suo peso, e l'ufficiale giudiziario accorse in nostro aiuto. Elliott doveva aver sognato quel momento, doveva esserselo immaginato nel sonno, doveva averci ripensato migliaia di volte, programmando ogni singolo movimento delle mani e dei piedi fino a farlo diventare istintivo come un passo di danza. Ero lì con lui, reggendolo e cercando di aiutarlo, eppure non mi resi conto di cosa succedeva. All'improvviso stringevo il vuoto, ed Elliott era in piedi, e in mano reggeva la pistola dell'ufficiale
giudiziario. «Silenzio!», ordinò mentre l'aula sprofondava nel caos. «Silenzio!», gridò di nuovo, ma il panico aveva ormai preso il sopravvento. Coloro che erano venuti a vedere ora cercavano di nascondersi, tuffandosi a terra fra le panche, in certi casi sopra quelli che ci erano arrivati per primi. Elliott puntò l'arma verso il fondo dell'aula e sparò un colpo. Tutti si immobilizzarono. «Ora», disse lui reggendo la pistola con mano ferma, «voglio che mi ascoltiate con attenzione». La sua voce era sorprendentemente calma. «Molto lentamente, a cominciare dalla prima fila, voglio che tutti quelli che erano seduti lì se ne vadano», spiegò indicando le panche del pubblico con un cenno del capo. «Subito», aggiunse. «Con calma, come se usciste dalla chiesa dopo un matrimonio o un funerale. Una fila alla volta». Obbedirono ai suoi ordini, una fila alla volta, voltandosi a guardarlo nel timore che cambiasse idea prima che avessero raggiunto l'uscita. Quando furono usciti tutti, Eliott si voltò verso i dodici, atterriti membri della giuria. Agitando la pistola, ordinò loro di entrare in camera di consiglio. «Andate con loro», disse quindi con un cenno al cancelliere e alla stenografa. Quando anche loro ebbero lasciato l'aula, si rivolse all'ufficiale giudiziario e gli disse di ricondurre l'imputato in prigione. «Va' con lui, Danny», dissi quando vidi che era riluttante a lasciarmi. Eravamo rimasti soltanto in tre: Bingham, la Loescher e io, il giudice, l'accusa e la difesa. Elliott attraversò l'aula e si appoggiò al banco della giuria ormai deserto, facendo penzolare la pistola dalla mano. «Dobbiamo richiamare la giuria e avere un nostro processo?», chiese guardando la Loescher. «O pensa che abbia provato a sufficienza le mie accuse a Calvin Jeffries e mia moglie?». Cassandra Loescher era stata una dei pochi a non farsi prendere dal panico quando Elliott aveva impugnato la pistola. Si era alzata ed era rimasta ferma, fulminandolo con lo sguardo come se invece di minacciarla di morte l'avesse insultata. Rifiutò di rispondere, e quando Elliott ripeté la domanda la sua unica reazione fu un'occhiata di disprezzo ancor più profondo. Il suo silenzio fece infuriare Elliott, e io cercai di attirare la sua attenzione. «Che cosa vuoi, Elliott?», chiesi facendo un primo, esitante passo verso di lui. Il suo sguardo mi intimò di non avvicinarmi.
«Non puoi uscire di qui», gli dissi cercando di sembrare calmo e sicuro di me. «E anche se potessi, cosa faresti? Andresti a uccidere tua moglie? È questo che volevi? Uscire dall'ospedale per poter uccidere tua moglie?». «Ucciderla?», esclamò lui in tono febbrile. «Non voglio che muoia, voglio che viva in eterno. Ve l'ho già detto», gridò agitando la pistola con un'occhiata torva e minacciosa. «Sono venuto in tribunale per testimoniare su quello che è successo, come fai quando ricorri in appello per un caso che non avresti mai dovuto perdere. Ucciderla? Voglio che viva con la consapevolezza che tutti sanno quello che è e quello che ha fatto!». Ero troppo infuriato, troppo stanco, troppo esasperato da tutto ciò che era successo per provare paura. «E allora perché stai agendo in questo modo? Hai testimoniato, hai cambiato il passato. Ora sanno tutti. Cos'altro ti resta da fare?». I suoi occhi fiammeggiavano. «Finire quello che cominciai dodici anni fa». «Che cominciasti...?». «Quando venni nel tuo ufficio, quando feci per...». All'improvviso capii, non soltanto cosa stava per fare, ma cosa aveva sempre avuto intenzione di fare, e stranamente, sotto un certo aspetto, aveva una sua logica. «Non farlo», dissi istintivamente, ma sapevo che non c'era nulla che potessi fare, nulla che l'avrebbe spinto a cambiare idea. Era troppo tardi. Era sempre stato troppo tardi. Elliott mi puntò addosso la pistola. «È giunto il momento che voi due ve ne andiate», disse rivolgendo un'occhiata al giudice e un'altra al pubblico ministero. La Loescher si voltò per allontanarsi, ma Bingham non ne volle sapere. «Questa è la mia aula», disse con fermezza. Elliott sembrò sorpreso. «Jeffries sarebbe già fuori dalla porta», osservò. Mi guardò per vedere se fossi d'accordo e tornò a osservare Bingham. Tendendo il braccio armato verso la mia testa, gli chiese di nuovo di andarsene. «Le sarei molto grato se uscisse», disse con una sorta di rispetto, nel tono in cui un tempo doveva aver pensato che bisognasse rivolgersi a qualsiasi giudice. Bingham, ancora riluttante, mi guardò. «Non si preoccupi», lo rassicurai. «Me la caverò. È meglio che vada». Quando fummo rimasti soli, Elliott prese posizione davanti al seggio, subito sotto il punto in cui era seduto Bingham. Agitando la pistola mi fece
cenno di raggiungere l'estremità più lontana del banco degli avvocati, quella più vicina al banco della giuria e più lontana dalla porta sul retro. Ci fermammo in quelle posizioni, fronteggiandoci, e per quella che parve un'eternità non ci dicemmo nulla. Il silenzio che era calato su quell'aula già così tranquilla era tale che avrei potuto giurare di udire i pensieri che guizzavano nella mente di Elliott Winston. «Non c'è ragione di farlo, Elliott». Lui alzò gli occhi sull'orologio. «Le quattro e quarantaquattro. Aspetteremo un altro minuto, fino alle quattro e tre quarti». Rimasi lì immobile, impotente, fissando la canna della rivoltella, e dal profondo della mia coscienza rievocai il racconto di Anatoly Chicherin su Dostoevskij davanti al plotone di esecuzione, in attesa che giungesse l'ordine di far fuoco, consapevole che quella sarebbe stata l'ultima parola che avrebbe udito. «Non farlo», implorai. «Quello che è successo dodici anni fa è stato un incidente, non un crimine». Per un attimo mi parve di rivedere l'Elliott Winston che conoscevo agli inizi, il giovane brillante ed entusiasta con una moglie che amava e due figli che adorava, con una vita intera davanti a sé, sicuro che non gli sarebbe mai successo niente di male. Ma poi scosse il capo. «Non è stato un crimine?». Sorrise. «Non era quello che intendevo». Udii l'orologio scattare sulle quattro e quarantacinque. «Non farlo», implorai di nuovo. Lo sparo mi esplose nell'orecchio, dopodiché non vi fu che il silenzio, un silenzio assoluto. Poi udii il suono di passi rapidi, precipitosi, e voci, un ruggito animale, assordante, e per finire il suono della porta alle mie spalle che veniva spalancata. Alzai lo sguardo appena in tempo per vedere Elliott, tranquillo e impavido, che mi sorrideva abbassando la pistola con cui aveva appena sparato al soffitto. «Non fatelo», pregai ancora una volta voltandomi verso la porta da cui la polizia aveva cominciato il suo assalto. Nessuno mi udì, ma anche se mi avessero sentito non sarebbe servito a nulla. Quel singolo sparo era stato il segnale dell'esecuzione. Elliott giaceva ai piedi del seggio, gli occhi aperti, un rivolo di sangue che colava da quello strano sorriso che gli era rimasto impresso sulla bocca. Due agenti cercarono di aiutarmi a uscire dall'aula.
«Elliott Winston non era venuto nel mio studio per uccidere me, ma se stesso», dissi loro. «E stavolta ha lasciato che a farlo fosse qualcun altro». I due agenti si guardarono. Non avevano idea di cosa stessi dicendo. 31 Malgrado le avessi già raccontato tutto lo feci di nuovo, cercando di rammentare ogni cosa con assoluta precisione. «Bingham era serio quando ha detto che era la sua aula», spiegai mentre la Porsche superava facilmente un'ampia curva. Gli occhi di Jennifer erano fissi sulla strada. I capelli le svolazzavano sopra le spalle man mano che la velocità dell'auto aumentava. «Il mattino dopo ha fatto tornare tutti in tribunale. "Signor Antonelli", mi ha chiesto, "desidera chiamare altri testimoni?". "No, vostro onore", ho risposto io. "La difesa ha finito". «Si è rivolto alla Loescher. "L'accusa desidera chiamare qualche testimone per la confutazione?" Lei ha scosso la testa. "No, vostro onore". «È tornato a guardarmi. "La difesa desidera presentare una mozione?", mi ha chiesto. "Sì, vostro onore", ho risposto. "La difesa chiede un verdetto di non colpevolezza". «Si è voltato verso la Loescher come fa sempre quando ti sta interpellando. "L'accusa non ha obiezioni", ha detto lei con un leggero cenno del capo. «E non c'è stato altro. Cinque minuti ed era tutto finito. Bingham ha ringraziato i giurati e ha detto loro che sebbene non credesse che avrebbero dimenticato quello che era successo, sperava anche che rammentassero che giustizia era stata fatta e che un uomo innocente era stato scagionato». Sfrecciammo su un rettilineo facendo urlare il motore, e Jennifer levò la faccia al vento e sorrise. Ripresi a parlare. «A volte penso a Elliott, a quello che gli è successo e a quello che ha fatto». Calando alle nostre spalle, il sole di ottobre tingeva i campi, i vigneti e i frutteti di marrone, arancione, verde scuro e nero, gli ultimi colori dell'autunno prima che le piogge invernali stendessero su ogni cosa un lugubre, fradicio velo grigio. «A volte penso a quegli individui là fuori, quelli che vivono sotto i ponti, quelli che non hanno alcun luogo che possano chiamare casa. A volte mi chiedo se non siano ovunque, in ogni momento della giornata, e se il
fatto che li notiamo soltanto di notte dipenda dal nostro sentirci più vulnerabili e impauriti. A volte mi chiedo se non ce ne siano altri là fuori, altri che Elliott conosceva in ospedale». Dopo un po' smisi di parlare e presi semplicemente a osservare la strada davanti a noi, rivolgendo ogni tanto un'occhiata al viso che mi aveva ossessionato per tutta la vita, felice che fossimo di nuovo insieme. «Qualcosa di bello è venuto fuori, da questa storia. Danny ha trovato una casa. Avevi ragione sul fatto che Howard Flynn lo vedeva come un figlio. L'ha preso con sé, gli ha dato un tetto». Si stava facendo buio, ed eravamo stati fuori tutto il pomeriggio. Jennifer era stanca. L'aiutai a scendere dall'auto e le ressi il braccio accompagnandola fino alla porta. Le luci all'interno erano accese. «Buonasera, signor Antonelli. Jennifer si è goduta la gita?», chiese l'infermiera prendendole il braccio che avevo lasciato andare. «Ci vediamo la settimana prossima?», domandò con un sorriso gentile. «Certo», risposi. Le guardai allontanarsi lungo il corridoio, sperando fino all'istante in cui scomparvero dietro l'angolo che Jennifer si girasse, mi riconoscesse e pronunciasse il mio nome. Fuori, nell'aria fresca della sera, aprii la portiera della Porsche e prima di salire al volante rivolsi un'occhiata in fondo alla strada, verso l'estremità opposta dell'edificio a due piani, e rammentai la prima volta che ero venuto all'ospedale psichiatrico per visitare Elliott Winston. Feci ritorno a Portland percorrendo le strade buie. Per non pensare a Jennifer accesi la radio, e qualche minuto dopo, quando la musica cessò, udii la notizia. Asa Bartram era stato assassinato, pugnalato a morte davanti al suo studio, accanto alla sua auto parcheggiata in strada. Ringraziamenti Wendy Sherman, la mia agente, mi ha dato tutto il sostegno e l'incoraggiamento di un'amica. Rob McMahon, il mio editor, mi ha mostrato come scrivere il libro che volevo scrivere. In modi che soltanto lei conosce, mia moglie, Kathryn Martin, mi ha fatto credere che fosse qualcosa che valeva la pena di fare. FINE