Dan Sperber Il contagio delle idee Teoria naturalistica della cultura
Traduzione di Gloria Origgi
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Dan Sperber Il contagio delle idee Teoria naturalistica della cultura
Traduzione di Gloria Origgi
Titolo dell'opera originale EXPLAINING CULTURE A Naturalistic Approach © 1996 Dan Sperber Traduzione dall'inglese di GLORIA ORIGGI
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Campi del sapere" marzo ISBN 88-07-10258-7
Prefazion e
Uno spettro si aggira per le scienze sociali, lo spettro di una scienza naturale del sociale. Alcuni aspettano che lo spettro si faccia conoscere e che renda finalmente le scienze sociali davvero scientifiche, altri denunciano il rischio dello scientismo e del riduzionismo. Alcuni dicono di parlare a nome dello spettro, altri che si tratta soltanto di uno scherzo. La mia opinione è che non di uno spettro si tratti, ma di un bambino nel limbo. Un programma naturalistico nelle scienze sociali è concepibile, ma deve ancora essere sviluppato. In questo libro presento un frammento di tale programma: un approccio naturalistico alla cultura. I sei saggi qui raccolti costituiscono argomenti e contributi per un'epidemiologia delle rappresentazioni. Sono stati scritti durante fasi differenti del mio lavoro negli ultimi dieci anni, ma nella mia mente sono tutti parte di uno stesso progetto. Dopo il II sapere degli antropologi (Feltrinelli, 1984), che intendeva essere soprattutto una critica, ho cercato di dare un contributo al "ripensamento dell'antropologia" invocato da Edmund Leach nella sua famosa conferenza inaugurale delle Malinowski Memorial Lectures nel 1959. Le conferenze su cui sono basati questi capitoli sono state presentate a un pubblico vario: antropologi, archeologi, studiosi di letteratura, filosofi, psicologi dello sviluppo e psicologi sociali. I capitoli non presuppongono alcuna competenza specialistica da parte del lettore. Il primo è una sintesi di due saggi precedenti, mentre il quinto è interamente nuovo. Gli altri quattro sono basati su materiale già pubblicato. Concepiti l'uno in relazione all'altro, ma scritti separatamente, sono stati rivisti in modo da formare un insieme coerente. Possono essere letti di seguito, o, se si preferisce, indipendentemente l'uno dall'al
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tro, dato che ognuno ricapitola le idee di base che legano il progetto nel suo insieme. La parte migliore del mio lavoro negli ultimi quindici anni è stata fatta con Deirdre Wilson, ed è stata dedicata allo sviluppo della teoria della pertinenza come teoria della comunicazione umana e come approccio generale a molti problemi legati alla cognizione. Il mio interesse iniziale nel nostro progetto di collaborazione aveva a che fare con il ruolo che la comunicazione gioca nella cultura. Uno dei miei obiettivi è di ricavare le implicazioni che la teoria della pertinenza può avere per un'epidemiologia delle rappresentazioni. Durante gli anni, molte persone mi hanno aiutato con i loro consigli, le loro critiche e il loro incoraggiamento, in particolare Daniel Andler, Robert Axelrod, Maurice Bloch, Radu Bogdan, Francesco Cara, Philip Carpenter, Jean-Pierre Changeux, Bernard Conein, Leda Cosmides, Helena Cronin, Daniel Dennett, Frank Döring, Jean-Pierre Dupuy, Catherine Elgin, Heidi Feldman, Allan Gibbard, Margaret Gilbert, Vittorio Girotto, Jack Goody, Gilbert Harman, Odile Jacob, Pierre Jacob, Gérard Jorland, Jerry Katz, Helen Lees, Richard Nisbett, Gloria Origgi, David Premack, François Recanati, Jenka Sperber, John Tooby, Jean van Altena, Deirdre Wilson e tre revisori anonimi. Le idee che sviluppo qui sono state discusse per la prima volta con Scott Atran, Pascal Boyer e Larry Hirschfeld; i loro commenti mi sono sempre stati particolarmente utili e il mio lavoro è legato al loro sotto molti aspetti. Grazie a tutti.
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Introduzion e
Il tema centrale di questo libro è molto semplice. Ognuno dei nostri cervelli individuali è abitato da un gran numero di idee che determinano il nostro comportamento. Per esempio, il mio cervello è abitato da idee sulla cultura che hanno fatto sì che io scrivessi questo libro. Alcuni dei comportamenti di un individuo, o alcune delle tracce lasciate da questi comportamenti nell'ambiente, vengono osservati dagli altri: eccovi qui a leggere questa pagina, che costituisce una traccia del mio lavoro. Osservare un comportamento o le sue tracce dà origine a idee dello stesso tipo di quelle che proprio in questo momento vi vengono in mente. A volte le idee causate da un comportamento assomigliano a quelle che lo hanno causato. Sarebbe così, per esempio, se fossi riuscito a farmi capire. Attraverso un processo materiale come quello che ho appena evocato, un'idea, nata nel cervello di un individuo, può avere discendenti che le somigliano nel cervello degli altri individui. Le idee possono essere trasmesse e, nella trasmissione da una persona all'altra, si possono anche diffondere. Alcune - le idee religiose, le ricette di cucina o le ipotesi scientifiche, per esempio - si propagano così efficacemente che, in versioni differenti, possono finire per invadere stabilmente intere popolazioni. La cultura è fatta prima di tutto di queste idee contagiose. È fatta anche di tutte le produzioni (scritti, opere d'arte, manufatti, ecc.) la cui presenza nell'ambiente condiviso da un gruppo umano permette la propagazione delle idee. Spiegare la cultura significa allora spiegare perché e come alcune idee sono contagiose. Ciò richiede lo sviluppo di una vera e propria epidemiologia delle rappresentazioni. La parola 'epidemiologia' viene dal termine greco epidemia, che significa 'permanenza o arrivo in un paese'. Nel suo uso più
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comune, epidemia (così come le altre parole derivate) si riferiva alla permanenza o all'arrivo di persone, ma si poteva anche riferire alla permanenza o all'arrivo di cose come la pioggia, le malattie o le usanze. Paragonare la diffusione delle malattie a quella delle idee è un vecchio luogo comune, e la parola 'contagio' è usata così frequentemente per gli stati mentali che il carattere metaforico di quest'uso non è quasi più riconoscibile. Allo stesso modo, l'uso di 'epidemiologia' per uno studio della distribuzione degli stati mentali in una popolazione è un'estensione appena metaforica del termine. Benché la parola 'epidemiologia' sia lunga e rara, l'idea che esprime è molto semplice e generale. Pensate di avere una popolazione (per esempio un gruppo umano) e alcune proprietà interessanti (per esempio essere diabetico, avere i capelli bianchi, o credere nelle streghe) che i membri di questa popolazione possono avere o non avere. Un approccio epidemiologico consisterebbe nel descrivere e spiegare la distribuzione di tale proprietà nella popolazione. L'epidemiologia non è ristretta alle malattie contagiose: il diabete non è contagioso, credere nelle streghe non è una malattia, così come non lo è avere i capelli bianchi. Nel suo uso di modelli esplicativi l'epidemiologia è eclettica. Alcuni sono presi a prestito dalla genetica delle popolazioni, altri dall'ecologia e altri dalla psicologia sociale, e se ne possono sviluppare di nuovi se necessario. Ho scelto il termine 'epidemiologia' precisamente per la sua generalità e il suo eclettismo. Un approccio naturalistico alla cultura prende in considerazione la distribuzione di fenomeni mentali e ambientali molto diversi. Per questo sono necessari contemporaneamente modelli causali differenti. Tutti i modelli epidemiologici, seppure differenti, hanno in comune il fatto di spiegare i macrofenomeni che si producono alla scala di una popolazione, come le epidemie, in quanto effetto cumulativo di microprocessi che causano eventi individuali, come il contrarre una malattia. Sotto questo aspetto, i modelli epidemiologici sono palesemente in contrasto con le spiegazioni 'distiche', in cui i macrofenomeni sono spiegati in termini di altri macrofenomeni - per esempio, la religione in termini di strutture economiche (o viceversa). Mentre l'idea del contagio culturale è antica, il primo tentativo serio di un'epidemiologia scientifica della cultura va cercato probabilmente nell'opera del sociologo francese Gabriel Tarde (Les Lois de l'imitation, 1895). Pur non usando quasi la terminologia epidemiologica, egli insistette sul fatto che la cultura, e quindi la vita sociale in generale, dovesse essere spiegata
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come l'effetto cumulativo di un numero di processi di trasmissione interindividuale attraverso l'imitazione. Più di recente, alcuni autori - tra i quali Donald Campbell (1974), Richard Dawkins (1976, 1982), Cavalli-Sforza e Feld- man (1981), Lumsden e Wilson (1981), Boyd e Richerson (1985) e William Durham (1991) - hanno adattato il modello darwinista della selezione al caso della cultura. Si tratta sempre di approcci epidemiologici (così chiamati da Cavalli-Sforza e Feldman, descritti semplicemente come 'evoluzionisti' dagli altri). Richard Dawkins ha reso popolare l'idea che la cultura sia fatta di unità, da lui denominate 'memi', le quali, al pari dei geni, vengono riprodotte e selezionate. Gli approcci darwinisti, che prendono a prestito i loro modelli dalla genetica delle popolazioni, garantiscono solo un ruolo limitato alla psicologia. I micromeccanismi che causano la propagazione delle idee sono invece per la maggior parte psicologici, e più specificamente cognitivi. La psicologia cognitiva ha conosciuto uno sviluppo senza precedenti negli ultimi tre decenni. Essa ha beneficiato recentemente di una prospettiva evoluzionistica sull'evoluzione psicologica della specie umana sviluppata indipendentemente dagli approcci darwinisti alla cultura (vedi Cosmides e Tooby 1987). Credo che la psicologia cognitiva fornisca una delle fonti principali di intuizione per spiegare la cultura. L'approccio che difendo qui è insieme epidemiologico e cognitivo e, come vedremo, più vicino al darwinismo sul versante cognitivo che su quello epidemiologico. Penso all'epidemiologia delle rappresentazioni come a un programma di ricerca naturalistico nelle scienze sociali. Le scienze sociali costituiscono un'alleanza insieme vasta e debole di programmi di ricerca con scopi molto differenti, che variano dalla sociolinguistica all'economia di mercato, dalla storia giuridica all'etnopsichiatria, dallo studio dei testi vedici a quello delle scelte degli elettori. Molti programmi di ricerca nelle scienze sociali vertono su argomenti regionali o storici; molti sono guidati da preoccupazioni pratiche. Anche un unico campo come l'antropologia (sul quale mi concentrerò) include programmi di ricerca su argomenti tanto diversi quanto la semantica dei termini di parentela, la tecnologia della pesca, lo studio postmoderno del postcolonialismo, lo studio culturale della scienza, l'antropologia della nutrizione e quella della coscienza. Quasi tutti questi programmi di ricerca nelle scienze sociali insistono sull'etichetta 'scienza', anche solo perché è verso la scienza che vanno i soldi della ricerca. Insistere che non si tratta davvero di scienze, come se 'scienza' fosse un marchio di qualità, lo champagne dei prodotti intellettuali, è spesso solo
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un modo indiretto per negare loro rispettabilità e risorse. Anche se non tutti i programmi di ricerca meritano lo stesso sostegno, i tentativi di sminuire le scienze sociali ignorano in generale la difficoltà del loro compito, le competenze che esse hanno accumulato e il ruolo che svolgono nella vita democratica. Lasciamo liberi gli scienziati sociali di utilizzare l'etichetta 'scienza'. La questione interessante non è se le scienze sociali siano scienze, ma se siano in continuità con le scienze naturali (assumendo, come faccio qui, che le scienze naturali siano tra di loro in continuità). I programmi di ricerca nelle scienze sociali tendono a esibire un salutare eclettismo nella loro metodologia, e si servono di qualsiasi strumento di cui hanno bisogno. In particolare, quando risulta produttivo usare metodi mutuati dalle scienze naturali, solitamente li usano. Ma, molto spesso, la metodologia delle scienze naturali è ingombrante e inutile per gli scopi delle scienze sociali. L'immaginazione psicologica, la comprensione intuitiva e le valutazioni basate sull'esperienza sono strumenti più efficaci. L'uso dei metodi delle scienze naturali può comunque essere necessario, ma non è sufficiente per far sì che un progetto di ricerca sia un progetto di ricerca naturalistico (com'è illustrato dal caso dell'economia: molto scientifica nei suoi metodi, ma per nulla naturalistica). Ciò che conta di più è l'obiettivo. Un obiettivo naturalistico prototipico è scoprire qualche meccanismo che spieghi un ampio spettro di fenomeni in una maniera controllabile. Pochi programmi di ricerca nelle scienze sociali si pongono questo tipo di obiettivo. Quelli che lo hanno e hanno un ragionevole successo - come per esempio la storia demografica - si occupano di aspetti molto particolari dell'ambito sociale. Non conosco nessun programma naturalistico che abbia realmente delineato un approccio causale e meccanicistico ai fenomeni sociali in generale. Perché non esiste ancora oggi una scienza naturale del sociale? Primo, perché pochi scienziati sociali si sono impegnati a sviluppare una scienza simile. Secondo, e ancora più importante, perché gli oggetti su cui vertono le scienze sociali - come la politica, la legge, la religione, la moneta, l'arte non si inscrivono in modo evidente nel mondo naturale. Come si può fare per situare gli oggetti sociali nella natura, in altre parole per 'naturalizzarli'? Qui la scienza cognitiva è rilevante sotto più di un aspetto. Un programma naturalistico è un programma che stabilisce continuità fondamentali tra il proprio ambito e quello di una delle scienze naturali adiacenti. Le scienze psicologiche sono immediatamente attigue alle scien
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ze sociali e alcuni dei loro programmi di ricerca, grosso modo quelli che rientrano sotto l'etichetta di 'scienza cognitiva', sono oggetto di uno sforzo di naturalizzazione più o meno avanzato. È presumibile quindi che naturalizzare l'oggetto delle scienze sociali significhi stabilire una certa continuità tra queste e i programmi della scienza cognitiva. Lo sviluppo della scienza cognitiva ha posto sotto una nuova luce la domanda: Come si situano i fenomeni mentali nella natura? Benché non abbia ricevuto ancora una risposta univoca, questa domanda è oggi compresa molto meglio della questione analoga su come si situano i fenomeni sociali nella natura. Situare i fenomeni mentali nella natura è un problema che può essere affrontato con almeno tre strategie differenti. La prima consiste nel tentare di ridurre il mentale al neurologico, il cui carattere naturale è palese. Secondo il riduzionismo, ogni descrizione di un fenomeno mentale in termini psicologici potrebbe essere tradotta puramente e semplicemente in termini neurologici. La seconda strategia consiste nell'indebolire i criteri secondo i quali si riconosce un fenomeno come naturale. Si può sostenere che ogni fenomeno mentale particolare sia un fenonieno neurologico e quindi naturale, anche se la sua descrizione in termini di categorie psicologiche non è traducibile in categorie neurologiche. Un naturalismo minimale, senza riduzionismo. La terza strategia di naturalizzazione del mentale consiste nel riconcettualizzare l'intero ambito, e nell'eliminare tutti i concetti che non si riducano a entità naturali. Si parla in questo caso di eliminativismo. Nello stesso spirito, si possono immaginare tre modi di naturalizzare il sociale. Ognuno comporta delle difficoltà. Si potrebbe voler ridurre il sociale al naturale. I fenomeni sociali come li conosciamo sono riducibili a fenomeni naturali? Le vere riduzioni sono grandi successi scientifici. Nelle scienze sociali, comunque, 'riduzionista' è un termine offensivo, come se la riduzione fosse un'opzione vera e propria che per qualche ragione deve essere impedita. In realtà, non è mai stata suggerita né sviluppata alcuna seria riduzione dei concetti o delle teorie delle scienze sociali a quelli delle scienze naturali. La riduzione è quindi una possibilità di principio importante per il ruolo che gioca nelle altre scienze e ancor di più nella filosofia della scienza - ma in questo caso non è né una speranza né un rischio effettivo. Oppure si potrebbero indebolire i criteri naturalistici. Si potrebbe sostenere (adattando un'idea di Putnam e Fodor in filosofia della mente) che ogni fenomeno sociale particolare sia un fenomeno naturale particolare, anche se le categorie della sociologia sono irriducibili a quelle di qualsiasi altra scienza. Ma
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in che senso questo aiuterebbe a formulare il tipo di generalizzazioni che una scienza sociale naturalista dovrebbe produrre? Le generalizzazioni vertono inevitabilmente su categorie e non su fenomeni particolari. La terza possibilità è di riconcettualizzare il sociale. Potrebbe darsi che il nostro modo di sezionare concettualmente il sociale non ne segua le giunture naturali. In questo caso, gli attuali concetti delle scienze sociali dovrebbero essere sostituiti - almeno nel quadro di un programma naturalistico - con una nuova batteria di concetti. Il sociale dovrebbe essere sezionato in modo tale che le categorie dei fenomeni sociali corrispondano chiaramente alle categorie dei fenomeni naturali. Ma come fare? E, supposto che si sappia come fare, come potremmo evitare il rischio, eliminando il vecchio schema concettuale, di privarci allo stesso tempo delle competenze espresse attraverso questo schema? Se queste sono le tre maniere concepibili di naturalizzare il sociale, e se ognuna incontra tali difficoltà, perché non rinunciare semplicemente al progetto? Perché le scienze sociali non dovrebbero restare per conto loro? La riduzione mi sembra impossibile, e un indebolimento del termine 'naturale' inutile (almeno nel caso delle scienze sociali; il caso delle scienze cognitive è diverso; si veda il capitolo 1). Credo invece che un approccio epidemiologico renda possibile, e anche necessario, riconcettualizzare il sociale. La mia proposta è la più modesta possibile per quanto sia concesso a progetti così ambiziosi. Mostrerò che il nuovo schema concettuale stabilisce una relazione sistematica con quello standard, e ciò rende possibile trarre il massimo dei benefìci dai risultati già acquisiti nelle scienze sociali. Lo scopo del programma naturalistico si rivela essere non una Grande Teoria - una fisica del mondo sociale, come l'immaginava Auguste Comte ma un complesso di modelli interconnessi di scala media. La vita sociale umana è solo un aspetto della vita di una specie animale tra milioni su un piccolo pianeta da qualche parte nel cosmo. È il risultato di una congiunzione improbabile di infiniti fattori diversi. Non c'è ragione di attendersi che la vita sociale umana esibisca la semplicità e la sistematicità che si trovano in fisica o in chimica, o, in misura minore, in biologia molecolare. Molte scienze naturali - la geografia, la climatologia, l'epidemiologia, per esempio - hanno oggetti ben poco chiari e nessuna Grande Teoria. Così sarebbe anche una scienza sociale naturale intesa come epidemiologia delle rappresentazioni. Il capitolo 1, Come essere un vero materialista in antropologia, introduce il progetto di un'epidemiologia delle rappresen
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tazioni da un punto di vista filosofico. Si può perseguire un programma naturalistico nelle scienze sociali, ma questo richiede di ripensare le categorie stesse attraverso le quali affrontiamo il problema. Il capitolo 2, Interpretare e spiegare le rappresentazioni culturali, presenta il progetto da un punto di vista più social-scientifico. Esso prende in considerazione i differenti tipi di comprensione cui l'antropologia dovrebbe mirare, mettendo a confronto, in particolare, le spiegazioni interpretative e quelle causali. Il progetto epidemiologico viene inquadrato in relazione ad altri tipi di spiegazioni causali. Il capitolo 3, Antropologia e psicologia: verso un'epidemiologia delle rappresentazioni, amplia l'idea generale di un'epidemiologia delle rappresentazioni introdotta nei due capitoli precedenti e la illustra brevemente. Fu presentato per la prima volta come Malinowski Memorial Lecture alla London School of Economics nel 1984 ed è divenuto un testo di riferimento, al quale ho apportato poche modifiche. Il capitolo 4, L'epidemiologia delle credenze, sviluppa uno dei temi dei capitoli precedenti e illustra come la psicologia e l'antropologia possano essere molto rilevanti luna per l'altra sia nel rispondere ad alcune delle tradizionali e rispettive domande, sia nel formulare nuovi problemi comuni. È basato su miei lavori precedenti sulle credenze apparentemente irrazionali (si veda Sperber 1985, cap. 2), integrati in una prospettiva epidemiologica. Mentre l'idea centrale di un'epidemiologia delle rappresentazioni è relativamente semplice da spiegare, alcune delle principali questioni che questo approccio potrebbe aiutare a illuminare sono molto complesse. Gli ultimi due capitoli riguardano questi problemi, e sono ancora più ambiziosi dei quattro precedenti, e anche un po' più difficili. Il capitolo 5, Selezione e attrazione nell'evoluzione culturale, riguarda i differenti modi di modellizzare l'evoluzione culturale. Confronto i modelli 'selezionisti' dell'evoluzione culturale difesi da Richard Dawkins e altri con un modello epidemiologico più generale dell'attrazione culturale, in cui viene dato un ruolo maggiore ai meccanismi psicologici. Il capitolo 6, Modularità del pensiero ed epidemiologia delle rappresentazioni, prende come punto di partenza un'idea proposta molto tempo fa da Noam Chomsky (e alla quale avevo latto eco in Sperber 1968 e in altri scritti dell'epoca). Chomsky sostiene che sarebbe meglio concepire la mente umana non come un'intelligenza generale capace di fare tutto, ma come una combinazione di molti meccanismi che sono in parte programmati geneticamente. Questi 'moduli' (per usare il termine reso
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famoso da Jerry Fodor) sono specializzati in modi differenti, sia per quanto riguarda i domini cognitivi che trattano, sia per il genere di trattamento dell'informazione che effettuano. Tra questa visione molto innatista della cognizione e il riconoscimento della diversità culturale esiste però una tensione che suggerisce, al contrario, che la mente sia indefinitamente malleabile. Un modo di risolverla sarebbe negare, o minimizzare, la modularità della mente. In questo capitolo faccio esattamente l'opposto: difendo una modularità massiva della mente cercando poi di mostrare come le forti predisposizioni cognitive, geneticamente determinate, non solo siano compatibili con il tipo di diversità culturale che incontriamo, ma contribuiscano addirittura a spiegarla.
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1. Come essere un vero materialista in antropologia
Che tipo di cose sono le cose socioculturali? (Mi fermo subito. Non credo che tra cose sociali e cose culturali esista una differenza, né voglio ripetere per tutto il libro l'espressione 'socioculturale'; lancio quindi una moneta: se viene testa, opterò per 'sociale', se viene croce, per 'culturale'. Croce! Da qui in avanti 'culturale' significherà 'socioculturale', anche se mi riservo il diritto di usare occasionalmente 'sociale' e 'socioculturale', in particolare nell'esporre le posizioni di altri.) Che tipo di cose sono le cose culturali? Dove sono situate nel mondo e quale rapporto hanno con ciò di cui parlano le altre scienze? Si tratta di domande filosofiche, o più precisamente ontologiche (l'ontologia, in senso classico, è quella branca della filosofia che cerca di rispondere alla domanda: Cosa c'è nel mondo? a un livello molto astratto). Le domande ontologiche hanno implicazioni pratiche per la ricerca antropologica; in particolare è in gioco il modo in cui gli antropologi possono, o devono, collaborare con altre discipline, e la misura in cui quello che hanno da dire ha un ruolo in una visione del mondo generale e coerente (anche se, ovviamente, frammentaria). Le scienze naturali raggiungono un alto livello di coerenza e interazione reciproca, in parte perché sono basate sulla stessa ontologia materialista. Per un materialista moderno,1 tutto ciò che ha un potere causale lo deve esclusivamente alle sue pro
1 Un termine più esatto sarebbe 'fisicalista' (chi crede che tutto ciò che esiste esista fisicamente, lasciando ai fisici il compito di spiegare che cosa significa 'fisicamente'), dato che la nozione stessa di materia implicata in 'materialista' è poco chiara. Il vecchio termine 'materialista' è più conosciuto, specialmente nelle scienze sociali, e, in ogni caso, le sottili discussioni sul ruolo della materia in fisica sono irrilevanti per il mio scopo.
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prietà fisiche; ciò vale allo stesso modo per le molecole, le stelle, i fiumi, i batteri, le popolazioni animali, i cuori e i cervelli. Il materialismo non implica il riduzionismo. Esso non vincola gli scienziati che lo accettano a descrivere gli oggetti della loro disciplina - e i processi causali in cui tali oggetti entrano - con il lessico della fisica, ma li vincola a descrivere gli oggetti e i processi in modo tale che identificare le proprietà fisiche coinvolte sia alla fine un problema trattabile e non un mistero insondabile (per usare la famosa distinzione di Chomsky - si veda Chomsky 1975). Antropologia e ontologia Sembra invece che nel mondo delle scienze sociali - e in particolare in quello dell'antropologia - sia assente qualsiasi vincolo ontologico. È vero che gli antropologi a volte esprimono le proprie visioni ontologiche, ma esse generalmente non portano a nessun impegno metodologico. Le visioni ontologiche possono essere di tre tipi: due tipi di 'materialismo', uno vuoto, l'altro autocontraddittorio, e una visione dualista o pluralista secondo la quale esiste un livello culturale autonomo della realtà. La tesi dell'autonomia ontologica della cultura è generalmente espressa in una serie di negazioni: i fatti culturali non sono fatti biologici; non sono fatti psicologici; non sono una sommatoria di fatti individuali. Ma allora cosa sono? Dove sono situati nello spazio e nel tempo? A quali leggi causali obbediscono? Come si collegano ad altri tipi di fatti? Non ci sono risposte ben argomentate a queste domande. Se assumiamo che esista una discontinuità fondamentale tra il biologico o il mentale da un lato e il culturale dall'altro, il risultato è di isolare l'antropologia sia dalla biologia che dalla psicologia, e di rifiutare come un errore a priori qualsiasi contributo e, ancor di più, qualsiasi critica proveniente da tali discipline. Per raggiungere questo discutibile risultato non c'è bisogno di sviluppare in dettaglio l'idea di un'autonomia della cultura; basta postularla. Il materialismo vuoto consiste nel dire che tutto è materiale, anche le cose socioculturali, e fermarsi qui. È possibile; ma fino a quando non si comincia a riflettere sull'esistenza materiale di tali cose, fino a quando si invocano relazioni causa-effetto tra loro senza nemmeno provare a immaginare quali processi materiali possano causarle, ci si limita semplicemente a utilizzare modi di dire materialistici. Si può ricorrere a un certo numero di metafore standard che evocano il carattere materiale delle cose socioculturali: la metafora meccanica delle 'forze' so
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ciali, quella astronomica della 'rivoluzione', quella geologica della 'stratificazione', e molte metafore biologiche della 'vita' ( culturale, della 'riproduzione', e così via. Nessuna di esse è però mai stata sviluppata in un modello materialistico plausibile; il materialismo vuoto aiuta a eludere le accuse di idealismo o di dualismo, ma, al di là di ciò, non ha effetti sulla pratica della ricerca. Il materialismo autocontraddittorio è un effetto collaterale del marxismo mal digerito. Esso consiste in due affermazioni, La prima coincide con quella del materialismo vuoto: tutto ciò che esiste, comprese le cose socioculturali, è materiale. La seconda è che l'aspetto materiale dell'ambito sociale, grosso modo l'ecologia e l'economia, ne determina quello non materiale, grosso modo la politica e la cultura. La contraddizione è patente-: la seconda affermazione, che mette a confronto un aspetto materiale e uno non materiale o meno materiale dell'ambito sociale, è dualistica, incompatibile quindi con il materialismo nel senso ontologico del termine. Se il materialismo è corretto, allora tutto è materiale: la legge, la religione e l'arte non meno delle forze e dei rapporti di produzione. Da un punto di vista realmente materialistico, gli effetti non possono essere meno materiali delle cause. Ci sono due modi di evitare la contraddizione di questo tipo di materialismo. Il primo consiste nell'abbandonare il materialismo ontologico e adottare qualche forma di pluralismo ontologico: nel mondo sociale ci sono sia oggetti materiali che oggetti non materiali. A questo prezzo, deve essere concepibile (ma non mi si chieda come) che le cose materiali determinino quelle non materiali. Il secondo modo di uscire dalla contraddizione è più fedele al marxismo (almeno a quello di Engels) e consiste nel togliere alla seconda tesi, quella del determinismo economico, ogni portata ontologica: un aspetto del mondo materiale determina un altro aspetto del mondo materiale. Forse è così, ma l'ontologia, e in particolare il tipo di materialismo su cui si basano le scienze naturali, non ha nulla a che fare con questo. Ciò che resta, quindi, dal lato ontologico, è la prima tesi: tutto ciò che esiste è materiale; ma ricadiamo così nuovamente nel classico materialismo vuoto. Guardare al modo in cui gli scienziati sociali articolano la loro ontologia non è la sola via - e forse nemmeno la migliore - per scoprire quali siano gli oggetti di questa ontologia; guardare alla loro pratica potrebbe dirci qualcosa di più. L'antropologia implica l'esistenza di cose culturali irriducibili? Gli antropologi parlano con naturale competenza di clan, lignaggi, matrimoni, sistemi di parentela, tecniche agricole, miti,
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rituali, sacrifici, istituzioni religiose, sistemi politici, codici giuridici e così via. Questi tipi culturali non sono e non corrispondono a tipi biologici o psicologici. Gli antropologi hanno buone ragioni quindi di opporsi a qualsiasi tipo di riduzionismo - in particolare quello biologico o psicologico - nello studio della cultura, e buone ragioni per trattare la cultura autonomamente. L'antiriduzionismo degli antropologi e la loro adesione all'autonomia della cultura non devono, però, essere interpretati come un vero dualismo. L'antiriduzionismo è in realtà compatibile con una forma modesta di materialismo che renda conto dei differenti livelli ontologici in un mondo interamente materialista, come mostrano i recenti sviluppi della filosofia della psicologia. L'esempio della psicologia può aiutare gli antropologi ad andare al di là della sgradevole scelta tra un pigro dualismo e un materialismo vuoto o contraddittorio? L'ontologia della psicologia: un esempio da seguire? Anche in psicologia si è pensato a lungo di dover scegliere tra il dualismo - i fatti mentali e quelli materiali, in particolare quelli neurologici, sono di natura radicalmente differente - e il materialismo vuoto. Esistevano metafore materialiste, le metafore biologiche di Freud, la metafora meccanica della piage- tiana 'equilibrazione', per esempio, ma nessun modello materialista. Solo alcuni comportamentisti trassero conclusioni pratiche dal loro materialismo, ma che conclusioni! Incapaci di fornire spiegazioni materialiste dei fenomeni mentali, essi cercarono di bandirli dalla psicologia. Verso la metà degli anni trenta, il matematico Alan Turing concepì un meccanismo realizzabile materialmente in grado di elaborare informazione. Fatto ancora più importante, egli dimostrò che una macchina di Turing (come venne battezzata) può eseguire qualsiasi operazione sull'informazione codificata che ogni altro meccanismo fisico finito, quali che siano la sua organizzazione e il modo in cui codifica l'informazione, può eseguire. Per dirla in breve, la scoperta di Turing e, più in generale, la teoria matematica degli automi, sembrarono fornire un modo di comprendere come la materia può pensare. Furono necessari ancora vent'anni, con lo sviluppo dei computer e alcuni importanti progressi in neurologia, perché l'impatto della scoperta di Turing si facesse sentire in psicologia, e venisse sviluppato un approccio realmente materialista alla cognizione. Dopo decenni di censura comportamentista fu possibile studiare nuovamente i processi mentali senza ridurli a processi comportamentali o neurologici. Studiarli significava ora stabi
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lirne l'esistenza materiale, il che a sua volta significava scomporli in sottoprocessi elementari la cui realizzazione materiale, per esempio in un computer, era divenuta non problematica. Stabilire la possibilità materiale di un tipo di processo mentale - per esempio ricordarsi di una sequenza sonora - non è lo stesso che descriverne l'effettiva realizzazione in un cervello umano. Il processo di ricordare la stessa informazione può essere eseguito attraverso vari tipi di processi materiali in cervelli diversi, animali o umani, o addirittura nello stesso cervello in occasioni differenti. Il processo può essere programmato in maniere diverse, ed eseguito in vari modi da calcolatori differenti. Un modello materiale di un tipo di processo mentale può non assomigliare per nulla ai processi mentali che lo realizzano effettivamente, anche se questo tipo di modelli può anche servire come ipotesi più o meno dettagliata sulla forma reale dei processi mentali rappresentati (con implicazioni verificabili in termini di tempi di reazione, tipi di patologia, ecc.). Mentre le versioni più forti di materialismo implicano che i tipi psicologici possono essere ridotti o eliminati a favore dei tipi neurologici, il materialismo più modesto che ispira l'attuale ricerca cognitiva non implica il riduzionismo. Esso implica semplicemente che ogni occorrenza di un processo mentale è identica a un'occorrenza di un processo neuronale (vedi Fodor 1974). Tale materialismo più modesto, combinato con i progressi nella teoria formale degli automi e nella neurologia, è comunque una forma di vero materialismo con conseguenze pra- tiche: esso impone forti vincoli su quali siano i modelli psicologici accettabili. Si tratta di un materialismo con implicazioni teoretiche: i poteri causali che si attribuiscono ai processi men- tali dipendono dalle loro proprietà materiali. Identificare tali proprietà diventa così un obiettivo intelligibile, seppure difficile. Il materialismo modesto assicura tuttavia una certa autonomia al livello psicologico. Gli antropologi potrebbero ispirarsi, fino a un certo punto, agli scienziati cognitivi. Potrebbero essere tentati di dire che, se da un lato ogni occorrenza di una cosa culturale è un'occorren- za di una cosa materiale, dall'altro lato tipi di cose culturali non corrispondono o non possono essere ridotti a tipi di cose materiali. Non si tratterebbe però di molto di più di una versione moderna del materialismo vuoto. Perché l'antropologia dovi ebbe essere differente dalla psicologia? Per due ragioni. Per cominciare, il luogo materiale dei processi psicologici è abba- stanza chiaro, ed è omogeneo: le occorrenze dei processi psicologici sono occorrenze di processi neurologici, e questi ultimi iniziano a essere compresi meglio. Invece, se i processi cultura
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li hanno una realizzazione materiale, essa è varia poiché comporta ogni sorta di processo psicologico, biologico e ambientale. In secondo luogo, non esiste una scoperta formale paragonabile a quella di Turing che ci fornisca una comprensione radicalmente nuova della realizzazione materiale degli oggetti culturali. Il carattere materiale dei tipi culturali riconosciuto dagli antropologi resta misterioso come sempre. Fra il caso dell'antropologia e quello della psicologia esiste una disanalogia ancora più profonda. La ragione principale per adottare un materialismo modesto in psicologia è l'esistenza di un ricco corpus di conoscenze condivise, la formulazione delle quali richiede di rendere conto di molti tipi psicologici come la credenza, il desiderio, la memoria, l'inferenza, l'immaginazione e così via. Non sembra ragionevole rinunciare a tale corpus, né realistico vedere in questi tipi semplici strumenti terminologici privi di riferimento nel mondo. Nonostante l'opposizione di alcuni filosofi - Churchland (19882), Dennett (1987) o Stich (1983) -, dettata da ragioni differenti, è possibile accettare i presupposti ontologici della psicologia, così com'è, insieme a un presupposto materialista più generale. Ora, la questione è se esista in antropologia un corpus di conoscenze che valga la pena di conservare e che ci costringa ad accettare l'esistenza di tipi culturali irriducibili. David Kaplan ha sostenuto che sia proprio così: L'antropologia ha formulato concetti, entità teoriche, leggi (o se si preferisce, generalizzazioni) e teorie che non fanno parte dell'apparato teoretico della psicologia e non possono essere ridotte a essa. Questa è la base logica per trattare la cultura come una sfera autonoma di fenomeni, che non si possono spiegare che in termini gli uni degli altri. È inutile sostenere che gli antropologi non possono procedere in questo modo, perché la verità brutale è che, nella loro ricerca empirica, questo è il modo in cui essi più spesso procedono. (Kaplan 1965, p. 973)
L'argomento di Kaplan contro il riduzionismo si basa, a buon diritto, su una valutazione dei risultati in antropologia che può essere messa in questione in due modi: di uno farò menzione soltanto perché non mi sembra corretto, dell'altro, che ho già sviluppato altrove (Sperber 1985), cercherò di mostrare alcune implicazioni ontologiche impreviste. Fra gli antropologi non c'è accordo su nulla, eccetto che sul rifiuto di qualche vecchia teoria, come le interpretazioni meteorologiche del simbolismo religioso e la difesa della professione dagli attacchi esterni. Non esiste un solo concetto comune a tutti i ricercatori, né una teoria condivisa da tutti. In con
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dizioni simili, si potrebbe sostenere che lo stato della disciplina non permette di concludere nulla sull'autonomia della cultura. Non insisterò su questa linea di argomentazione perché sono convinto che gli antropologi, senza arrivare ad alcun tipo di consenso teorico, abbiano ugualmente sviluppato una competenza comune ricca e genuina nello studio dei fenomeni cultu- rali. Una valutazione dei risultati antropologici che non includa una spiegazione di questa competenza è incompleta, e quindi insufficiente per confutare l'argomento di Kaplan. La mia proposta è invece che i pretesi "concetti", le pretese "entità teoriche, leggi e teorie" dell'antropologia siano in realtà strumenti teorici di un altro tipo, cioè strumenti interpretativi. Non è possibile trarre conseguenze ontologiche a partire dalla loro esistenza e utilità: si può riconoscere il sapere degli antropologi in fatto di cultura, e negare che sappiano (o si preoccupino di sapere) quali tipi di oggetti culturali esistono veramente. A questo proposito ancora, il caso dell'antropologia è molto differente da quello della psicologia. Un vocabolario interpretativo La questione non è tanto sapere se gli antropologi condividano dei concetti teorici, ma se abbiano concetti teorici propri. Quello che possiedono è una serie di termini tecnici - tecnici nel senso che sono termini del mestiere piuttosto che del linguaggio comune (o sono termini del linguaggio comune usati In modo non comune). Non si tratta però di termini teorici: la loro origine, il loro sviluppo, significato e uso sono largamente indipendenti dallo sviluppo o dal contenuto di una ve- ra e propria teoria (del tipo di quelle che presuppongono un'ontologia). Nel caso della storia dell'antropologia, molti termini tecnici sono stati analizzati criticamente: si vedano, per esempio, la «critica di 'tabù' di Franz Steiner (1956) e Mary Douglas (1966), di 'totemismo' di Goldenweiser (1910) e Lévi-Strauss (1962b), di 'patri-' e 'matri-linearita di Leach (1961), di 'credenza' di Needham (1972), e, ovviamente, di 'cultura' da parte di un grande numero di antropologi (si vedano Kroeber e Kluckhohn 1952, Gamst e Norbeck 1976). La vaghezza o l'arbitrarietà di questi termini è stata sottolineata molte volte ma, nonostante il lavoro critico, non ci sono segnali che ci dicano che gli antropologi stiano convergendo su un insieme di nozioni meglio definite e più motivate. Si può dire che oggi ci siano più divergenze rispetto a mezzo secolo fa, ma non una maggior precisione intellettuale.
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Leach (1961) e Needham (1971, 1972, 1975) hanno sostenuto con convinzione che la vaghezza dei termini antropologici non è accidentale, ma ha a che fare con il modo in cui si sono sviluppati e con i tipi di oggetti in riferimento ai quali sono stati impiegati; se in antropologia vogliamo dei veri e propri termini teorici, dobbiamo costruirne di nuovi. Needham ha anche sostenuto che in antropologia è meglio intendere i termini tecnici come termini che hanno 'somiglianze di famiglia' o termini 'politetici', cioè termini che si riferiscono a cose tra le quali esiste una somiglianza, ma che non cadono sotto una sola definizione. L'esempio classico, sviluppato da Wittgenstein (1953), di un termine che ha una 'somiglianza di famiglia' è quello di 'gioco'. Caratteristiche tipiche dei giochi sono: l'essere 'competitivi', 'divertenti', o l''obbedire a regole'. In realtà, i solitari non sono competitivi; una partita a scacchi non è sempre un divertimento e si può giocare a palla senza regole particolari. Più tecnicamente, un termine 'politetico' è caratterizzato da un insieme di tratti dei quali nessuno è necessario, ma di cui ogni sottoinsieme sufficientemente ampio basta per far sì che qualcosa possa essere compreso nel termine. Un termine politetico non deve essere completamente politetico: tutti i suoi referenti possono condividere una o più caratteristiche; ma fino a quando tali caratteristiche necessarie non sono sufficienti insieme, il termine rimane politetico. In realtà si deve dubitare che vengano mai usati termini interamente politetici (ossia senza nessun tratto necessario). Tutti i membri di una classe politetica utile appartengono normalmente allo stesso dominio, che determina almeno una caratteristica comune. Tutti i membri della classe 'gioco' hanno la caratteristica comune di essere delle attività. Voglio mostrare che i termini antropologici hanno un'organizzazione fondata su un tipo di somiglianza, ma un tipo diverso da quella indicata da Wittgenstein e Needham. Essi intendevano una somiglianza tra gli oggetti descritti dallo stesso termine. Per esempio, ogni cosa descritta come un gioco assomiglia alle altre cose descritte come giochi (possiamo chiamarla una 'somiglianza descrittiva'). I termini tecnici antropologici non vengono però usati semplicemente per descrivere, ma anche per tradurre o rendere i vocaboli o le nozioni dei nativi (o quelle che gli antropologi attribuiscono loro). Essi non sono usati descrittivamente, ma interpretativamente: più che di una somiglianza tra le cose cui ci si riferisce con il termine, si tratta di una somiglianza di significato fra tutte le nozioni rese attraverso il termine: possiamo chiamarla una 'somiglianza interpretativa'. Tutte le nozioni che
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possono essere interpretate appropriatamente attraverso lo stesso termine avranno un"aria di famiglia'; anche se può succedere che due di esse non si somiglino, è certo che esiste almeno un'altra nozione cui entrambe somigliano. Si può essere tentati di obiettare che si tratta di una distinzione priva di differenza dato che, dopo tutto, nella misura in cui i termini hanno significati simili, sono simili anche le cose che essi denotano. Ci sono però termini che possono avere significato pur essendo privi di denotazione, vale a dire senza riferirsi a nulla. La somiglianza tra 'elfo', 'folletto', 'spiritello' e 'gnomo' è una somiglianza tra significati, tra idee, e non tra cose. Se un antropologo usasse la parola 'elfo' per rendere conto di una nozione del popolo che studia, ciò non significherebbe che creda all'esistenza di creature come gli elfi, ma solo che esistano rappresentazioni di elfi. I termini usati interpretativamente non richiedono che chi li utilizza presupponga l'esistenza delle cose che questi dovrebbero denotare. La visione secondo la quale l'antropologia è essenzialmente una scienza interpretativa è ben conosciuta, ed è stata notoriamente difesa da Clifford Geertz (1973). Ritengo anch'io che gli antropologi che studiano una singola cultura siano - a ragione - coinvolti principalmente in un'impresa interpretativa: rappresentare le rappresentazioni indigene attraverso traduzioni, parafrasi, riassunti e sintesi comprensibili per i loro lettori. Non vedo possibili obiezioni al fatto che, per questo scopo, essi debbano usare un vocabolario interpretativo. D'altronde, se ho ragione nel sostenere che il vocabolario dell'antropologia è interpretativo, allora le spiegazioni antropologiche sono straordinariamente prive di presupposti ontologici. Così come l'uso appropriato di 'elfo' da parte di un antropologo non ci dice nulla sull'esistenza degli elfi, l'uso appropriato di 'matrimonio', 'sacrificio' o 'tribù' non ci dirà se i matrimoni, i sacrifici o le tribù sono parte dell'arredo del mondo. 'Matrimonio' 'Matrimonio', ecco incontestabilmente un termine tecnico dell'antropologia, e una categoria di fenomeni culturali ben conosciuta. Ma si tratta davvero di un tipo? Tùtti i matrimoni rientrano in una singola definizione o abbiamo ragioni per credere che essi condividano qualche essenza comune non analizzata? Analizziamo per prima cosa un paio di caratterizzazioni del matrimonio che sono state proposte. Il Notes and Queries in Anthropology (1951) proponeva: "Il matrimonio è un'unione tra
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un uomo e una donna tale che i bambini nati dalla donna sono riconosciuti come prole legittima di entrambi i genitori" [tr. it. in Leach 1961, p. 162]. Non c'è bisogno di cercare controesem- pi esotici: nella maggior parte delle società occidentali la distinzione tra discendenti legittimi e illegittimi è stata abolita, e i bambini nati all'interno o fuori del matrimonio possono godere degli stessi diritti. L'unico senso in cui alcuni figli possono essere ancora chiamati 'illegittimi' è precisamente che sono nati al di fuori del matrimonio. Ma questo, ovviamente, rende circolare la definizione di matrimonio in termini di legittimità dei discendenti. Esaminiamo la posizione di Lévi-Strauss: "Anche se ci sono molti tipi di matrimoni osservati nelle società umane [...] il fatto sorprendente è che ovunque esiste una distinzione tra matrimonio, ossia legame legale, sancito dal gruppo, tra un uomo e una donna e il tipo di unione permanente o temporanea che risulta o dalla violenza o dal solo consenso" (1956, p. 268, corsivo mio). Nello stesso saggio, Lévi-Strauss trova un controesem- pio alla sua caratterizzazione. Egli sostiene che molte "società cosiddette poligamiche [...] stabiliscono una differenza importante tra la 'prima' moglie che è la sola vera sposa cui spettano tutti i diritti che uno stato maritale comporta, mentre le altre non sono molto di più di concubine ufficiali" (ivi, p. 267). Il legame tra un uomo e la sua concubina ufficiale è sicuramente sancito dal gruppo, altrimenti in che senso sarebbe 'ufficiale'? Quindi, se Lévi-Strauss vuole distinguere questo legame dal vero matrimonio, la sua caratterizzazione del matrimonio non regge. Non è un caso che questi tentativi di definire il 'matrimonio' falliscano. Leach ha sostenuto che "il matrimonio è [...] un 'insieme di diritti'; da ciò deriva che tutte le definizioni universali di matrimonio sono inutili" (1961, p. 105; tr. it. p. 161). I diritti pertinenti variano a suo parere da società a società. Leach elenca dieci tipi di diritti, da quello di "stabilire il padre legale dei figli di una donna" a quello di "stabilire una 'relazione di affinità' socialmente significativa tra il marito e i fratelli della moglie" e mostra come non uno solo di questi diritti sia presente in tutti i tipi di matrimonio. Portando avanti l'argomento di Leach, Needham conclude che 'matrimonio' è una parola 'tuttofare': è molto utile in tutti i tipi di enunciati descrittivi, ma più che fuorviarne nelle comparazioni e priva di valore nell'analisi (1971, p. 8). Ci sono due modi in cui la parola 'matrimonio' può essere definita una parola 'tuttofare': essa viene utilizzata contemporaneamente in maniera differente da ogni antropologo; inoltre, cosa più im-
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portante, viene utilizzata in maniera differente da ogni antropologo all'interno del suo stesso campo. Immaginate un antropologo che studia gli Ebelo. Egli può iniziare con il chiedersi se posseggano l'istituzione del matrimonio, ma sarebbe strano se lo facesse: fra gli antropologi viene generalmente dato per assodato che il matrimonio sia universale. Il nostro antropologo non si aspetta però di incontrare una pratica che corrisponda perfettamente a una definizione costituita di matrimonio per il semplice fatto che questa definizione non esiste. Quello che si aspetta di trovare è un'istituzione indigena che egli possa chiamare 'matrimonio' con la stessa giustificazione che hanno gli altri antropologi quando usano questa parola. Il problema che deve affrontare non è se gli Ebelo si sposino 0meno, ma, come ha detto Peter Rivière, "quali delle forme di relazione tra i sessi [...] deve essere considerata la relazione maritale" (1971, p. 65). La logica è quella di un gioco di società: quale di queste forme di relazione potrebbe essere quella del matrimonio? Ci vorrebbe una società davvero strana, o un antrppologo davvero distratto, per non rispondere a questa domanda. Non è sorprendente, allora, che il matrimonio si trovi in tutte le società. Ciò è possibile proprio perché il termine 'ma1trimonio', quale che sia la sua utilità, non designa un tipo preciso di oggetto culturale. Come agisce allora il nostro antropologo per identificare quale forma ebelo di relazione è quella 'maritale'? Guarda le diverse relazioni? No, le relazioni non sono il tipo di cose che si possono guardare. Quello che fa, approssimativamente, è chiedere agli Ebelo di descrivere con i loro termini i tipi di relazioni che essi intrattengono; poi decide quale delle nozioni native, e, possibilmente, quale dei termini nativi è reso meglio con 'matrimonio'. Il nostro antropologo arriva alla conclusione che 'matrimonio' corrisponde al termine ebelo kwiss e spiega ciò che ritiene credano gli Ebelo: il matrimonio - ossia kwiss - è un legame tra un uomo e una donna benedetto dagli spiriti degli antenati. Si noti, tra l'altro, che in questa caratterizzazione del significalo di matrimonio/kwiss anche 'legame', 'benedetto', 'spiriti degli antenati' sono nozioni usate interpretativamente. Esse non sono cioè usate per descrivere cose, ma per rendere conto di altre nozioni ebelo. Un nuovo caso di matrimonio, quello ebelo, è stato ora aggiunto allo stock antropologico sulla base di una somiglianza. 'Matrimonio' è diventato un termine tecnico dell'antropologia quando un antropologo - o forse uno storico? - decise che
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qualche nozione esotica o antica poteva essere resa in modo migliore dalla parola del linguaggio comune 'matrimonio'. Da allora, il termine 'matrimonio' ha cominciato a estendersi, e i suoi contorni a farsi più sfumati, a mano a mano che nozioni differenti venivano interpretate per suo tramite. Il significato di 'matrimonio' negli scritti antropologici è diventato una pratica sintesi o un composto delle nozioni particolari e ben diverse che il termine serve a interpretare. Si deve sottolineare che, perché una nuova nozione possa essere resa con 'matrimonio', non è necessario che ricada sotto qualche nozione generale trasmessa dal termine; tutto quello di cui c'è bisogno è che somigli nel contenuto al significato esteso del termine antropologico. Ecco perché la vaghezza dei termini antropologici non è un ostacolo al loro uso; essa non è mai un inconveniente - anzi, spesso è un vantaggio - quando si tratta di stabilire delle somiglianze. Non è quindi per caso che la nozione di 'matrimonio' sia fondata su un'aria di famiglia: è il risultato del modo in cui è stata ed è sviluppata. È la somiglianza e non il possesso di una caratteristica particolare che determina a quali casi si applichi il termine 'matrimonio'. Non c'è ragione di aspettarsi che lo sviluppo dell'antropologia cambi questo stato di cose. In realtà, più aumenta la quantità di casi diversi conosciuti dagli antropologi, e più vaga diventa la somiglianza tra esempi di matrimonio. Ma la somiglianza che determina l'applicabilità di 'matrimonio' è una relazione tra cose chiamate 'matrimonio' o tra nozioni interpretate attraverso questo termine? È, in altre parole, una somiglianza descrittiva o interpretativa? Se la spiegazione che ho abbozzato del modo in cui gli antropologi identificano nuovi casi di matrimonio è corretta, allora evidentemente si tratta di una somiglianza interpretativa. Implicazioni I due tipi di somiglianza di famiglia, quello descrittivo e quello interpretativo, hanno implicazioni ontologiche differenti. Se si suppone che il termine 'matrimonio' sia basato su una somiglianza descrittiva, allora si deve considerare la possibilità che sia solo parzialmente politetico. Certamente tutti i matrimoni sono legami sociali; tutti implicano diritti e doveri legali. Quindi, quando si descrive qualcosa come un matrimonio, si presuppone almeno l'esistenza di legami sociali e di diritti e doveri sociali come tipi di cose basilari nell'ambito delle scienze sociali. I tipi sociologici non sembrano poter essere ridotti ai ti-
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p i d i oggetti che si possono ritrovare nelle scienze vicine, come la psicologia, la biologia o l'ecologia. Le tipologie basate su una somiglianza di famiglia descrittiva, nonostante la loro vaghezza, possono perciò implicare l'esistenza di tipi culturali irriducibili. Non avviene così nel caso della somiglianza interpretativa. Immaginate che il nostro antropologo riferisca che due individui obelo, per esempio Piero e Maria, sono sposati. Nel fare questo, afferma che esiste un legame tra Piero e Maria che è stato benedetto dagli spiriti degli antenati? Presumibilmente no, anche solo perché dovrebbe credere all'esistenza degli spiriti degli antenati. Quello che riferisce è invece (in stile libero indiretto, si si veda Sperber 1982) ciò che gli Ebelo coinvolti credono di Piero e Maria. Egli interpreta delle idee ebelo. Quali sono le implica- zioni ontologiche di questa interpretazione? Essa implica che esistano degli Ebelo e che nella mente di questo popolo ci siano delle rappresentazioni. C'è qualcosa che lo costringe a ricono- scere l'esistenza di un oggetto o di uno stato di cose che può essere chiamato pertinentemente 'matrimonio'? Non mi pare. Il nostro antropologo, se è come gli altri antropologi, può essere disposto ad accettare l'esistenza del matrimonio. Probabilmente da per scontata l'esistenza di qualcosa come il matrimonio, realizzata, in particolare, tra gli Ebelo, ma niente nella sua spiegazione del kwiss ebelo ci obbliga a seguirlo su questa posizione, tutto ciò che sappiamo per certo, se crediamo nella sua etnografia, è che ci sono alcuni Ebelo che credono che Piero e Maria (e così molti altri) siano kwissati. Ma perché dovremmo condi- videre con loro questa credenza, o anche una sua versione razionalizzata in cui vengono omessi gli spiriti ancestrali? Cosa si può dire allora dell'uso del termine 'matrimonio' nelle ricerche antropologiche di tipo teorico o comparativo? Non cor- risponde almeno a un concetto generale? Se credete che sia così, provate a dire a quale. Non sostengo che sarebbe impossibile definire un concetto generale che possa essere espresso ragionevol- mente con 'matrimonio'.2 Quello che voglio dire è semplicemente che non c'è nessuna ragione evidente perché si debba definire un concetto che risponda a questa condizione particolare e che gli antropologi, nonostante le apparenze, non si sono mai veramen- te preoccupati di farlo: hanno trovato utile astrarlo dai resoconti
1 Si potrebbe, per esempio, adottare l'approccio di Searle (1969) ai 'fatti istituzionali' e definire, grosso modo, 'essere sposato' come essere considerato tale dalle persone appropriate. Questa definizione non è ovviamente quella degli (indigeni; essa conserva tutti i problemi di vaghezza delle nozioni basate su una somiglianza di famiglia, presenta problemi specifici di circolarità e non è usa- 1 IH In nessuna teoria interessante.
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etnografici interpretativi per arrivare a modelli interpretativi generali. Questi modelli non sono veri di niente; quello che fanno è fornire un'immagine sintetica della conoscenza etnografica, fungendo anche come schizzi di interpretazioni possibili per il lavoro etnografico successivo. Il termine 'matrimonio', negli scritti antropologici generali è sia una parola vaga che indica approssimativamente l'argomento di cui si sta parlando, sia un termine interpretativo usato sinteticamente. Quello che vale per 'matrimonio' vale in generale per il vocabolario dell'antropologia. 'Tribù', 'casta', 'clan', 'schiavitù', 'stato', 'guerra', 'rituale', 'religione', 'tabù', 'magico', 'stregoneria', 'possessione', 'mito', 'storie' e così via, sono tutti termini interpretativi. Esiste una somiglianza di famiglia - di tipo interpretativo - fra tutte le nozioni che ognuno di questi termini serve a rendere; quando sono usati per riferire esempi specifici di eventi o di stati di cose, essi aiutano il lettore a farsi un'idea del modo in cui le persone descritte percepivano la situazione ('vedere le cose dal punto di vista indigeno', come si usa dire). Cosa ci dicono questi resoconti interpretativi della natura di quello che sta avvenendo? Sicuramente che alcune rappresentazioni sono state concepite e comunicate. In antropologia esistono termini che non sono interpretativi in questo senso, ma che non comportano l'esistenza di un livello ontologico distinto per la cultura. Alcuni sono chiaramente psicologici, come 'classificazione dei colori'; altri ecologici, come 'piramide delle età'. Quello che differenzia i termini psicologici o ecologici usati in antropologia dal lessico specifico della disciplina è che essi si applicano indipendentemente dal 'punto di vista' delle persone in questione. Gli individui possono classificare i colori senza essere al corrente dell'esistenza delle classificazioni, così come altre popolazioni animali possono avere una piramide delle età senza avere idea di cosa essa sia. Anche un antropologo pienamente convinto dell'esistenza dei matrimoni sarebbe invece d'accordo sul fatto che nessun matrimonio reale sia davvero contratto a meno che le persone coinvolte non concepiscano l'idea che un matrimonio (o un kwiss o qualcosa di questo tipo) è stato contratto. Ripeto: la sola cosa certa quando si dice che un uomo e una donna sono sposati è che qualche rappresentazione del fatto che sono sposati o kwissati è circolata. Di cosa sono fatte le cose culturali? Iniziamo nel modo più semplice possibile. Le cose culturali sono in parte fatte da movimenti fisici degli individui e da mo-
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dificazioni dell'ambiente da essi risultanti - per esempio, persone che battono dei tamburi, costruiscono un edificio, o uccidono un animale. Il carattere materiale di questi fenomeni non costituisce un problema, ma è necessario andare oltre. Si tratta di un esercizio musicale, di un messaggio in codice o di un rituale? Di una casa, di un negozio o di un tempio? Di una macellazione o di un sacrificio? Per rispondere si devono considerare le rappresentazioni coinvolte in tali comportamenti. In ■ qualsiasi contesto teorico o metodologico le rappresentazioni giocano un ruolo essenziale nel definire i fenomeni culturali. Ma di cosa sono fatte le rappresentazioni? Si noti che, per cominciare, ci troviamo davanti a due tipi di
■rappresentazioni: mentali e pubbliche. Le credenze, le intenzioni e le preferenze sono rappresentazioni mentali; fino alla rivoluzione cognitiva, il loro statuto ontologico era oscuro. I segnali, le frasi, i testi e i disegni sono rappresentazioni pubbliche dotate, naturalmente, di un aspetto materiale. Descrivere questo aspetto - i suoni delle parole, le forme e i colori di un quadro - non coglie però il fatto più importante, cioè che queste tracce materiali possono essere interpretate: esse rappresentano qualcosa per qualcuno. Per spiegare il fatto che le rappresentazioni pubbliche sono interpretabili, bisogna assumere l'esistenza di un sistema sottostante: per esempio, un linguaggio, un codice, un'ideologia. Nelle ■tradizioni della semiotica e della semiologia, questi sistemi di interpretazione sottostante sono stati descritti in astratto invece che in termini psicologici, e la loro esistenza è stata spesso considerata extrapsicologica. Con un simile approccio, l'esistenza materiale di tali sistemi resta oscura, e oscura la materialità delle rappresentazioni pubbliche interpretate e quella dei fenomeni culturali descritti a partire da queste. Anche i sisistemi di interpretazione sottostanti possono essere considerati rappresentazioni mentali complesse; è per esempio quello che fu Noam Chomsky quando descrive una grammatica come un meccanismo mentale. Il secondo approccio ci riporta alla psicologia delle rappresentazioni mentali e quindi alle nuove prospettive aperte dallo sviluppo delle scienze cognitive. La maggiore difficoltà per sviluppare anche soltanto un materialismo minimalista nelle scienze sociali derivava dal ruolo che vi giocavano le rappresentazioni. Ora in psicologia il caratterre materiale delle rappresentazioni mentali è passato dallo statuto di mistero a quello di problema intelligibile. La questione è sapere se le scienze sociali possono ridefinire la loro nozione di rappresentazione sulla base di una nozione cognitiva di rappresentazione. Vorrei qui suggerire come ciò sia possibile
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e come, di conseguenza, l'intera ontologia delle scienze sociali possa essere ridefinita, come insomma diventi possibile un programma realmente materialista nelle scienze sociali. Un'epidemiologia delle rappresentazioni Così come si può dire che una popolazione umana sia abitata da una popolazione molto più numerosa di virus, si può dire anche che sia abitata da una popolazione molto più numerosa di rappresentazioni mentali. La maggior parte delle rappresentazioni si trova in un solo individuo; alcune, invece, vengono comunicate: sono prima trasformate da chi le comunica in rappresentazioni pubbliche e poi ritrasformate da chi le percepisce in rappresentazioni mentali. Un numero molto ristretto di queste rappresentazioni comunicate viene comunicato ripetutamente. Attraverso la comunicazione (o, in altri casi, l'imitazione), alcune di esse si diffondono in una popolazione umana e possono abitarne ogni singolo membro per molte generazioni. Rappresentazioni così diffuse e durevoli sono casi paradigmatici di rappresentazioni culturali. La domanda è: perché alcune rappresentazioni si propagano in modo generale o in contesti particolari? Rispondere significa sviluppare una sorta di 'epidemiologia delle rappresentazioni'. La metafora epidemiologica ci può aiutare se ne conosciamo i limiti; il primo è autoevidente: non intendiamo certamente implicare che le rappresentazioni culturali siano in qualche senso patologiche. Un altro limite, meno palese, è molto più importante: mentre nel processo di trasmissione gli agenti patogeni come i virus e i batteri si riproducono e mutano solo occasionalmente, le rappresentazioni vengono trasformate praticamente ogni volta che sono trasmesse, e restano stabili solo in casi limite. In particolare, una rappresentazione culturale è fatta di molte versioni, mentali e pubbliche; ogni versione mentale risulta dall'interpretazione di una rappresentazione pubblica che è a sua volta un'espressione di una rappresentazione mentale. Si possono scegliere come soggetto di studio le catene causali fatte di rappresentazioni mentali e pubbliche e cercare di spiegare come gli stati mentali degli organismi umani possano far sì che esse modifichino il loro ambiente, in particolare nella produzione di segni, e come le modificazioni dell'ambiente possano causare modificazioni degli stati mentali di altri organismi umani. (Si tratta ovviamente di 'catene' molto complesse, spesso più simili a intricati reticoli; ciononostante, esse sono fatte solo di due tipi di connessioni: dal mentale al pubblico e dal pubblico al mentale.) L'ontologia di una simile impresa as-
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somiglia a quella dell'epidemiologia, anche se si tratta di un'on- tologia piuttosto eterogenea, in cui si mescolano fenomeni psi- cologici ed ecologici, proprio come nell'epidemiologia si me- •colano fenomeni patologici ed ecologici. In entrambi i casi, quello che si deve spiegare è la distribuzione di condizioni individuali, patologiche o psicologiche e, in entrambi i casi, la spiegazione prende in considerazione sia lo stato degli individui sia quello del loro ambiente comune, che è in sé ampiamente modificato dal comportamento degli individui. Nonostante questa eterogeneità, l'ontologia di un'epidemiologia delle rappresentazioni è strettamente materialista: le rappresentazioni mentali sono stati del cervello descritti in termini funzionali, e l'interazione materiale tra cervelli, organismi e ambiente ne spiega la distribuzione. Data l'eterogeneità ontologica dei fenomeni epidemiologici, non esiste una teoria epidemiologica generale, ma una varietà di modelli differenti con generalità maggiore o minore e una metodologia comune. Allo stesso modo dubito che nello studio dei fenomeni culturali dovremmo aspirare a una grande teoria generale. Tipi diversi di rappresentazioni possono avere una spiegazione molto differente della loro distribuzione. Per il momento, un obiettivo realistico e ambizioso sarebbe quello di sviluppare modelli esplicativi di distribuzione plausibili dal punto di vista materialistico: per esempio delle diverse tassonomie popolari, dei miti, delle tecniche, delle forme di arte, dei rituali, delle leghi, e così via. Sono ovviamente preferibili modelli dotati della maggiore generalità possibile e realmente esplicativi. Porsi dall'inizio l'obiettivo di una teoria olistica, come fanno molti scienziati sociali, ha spesso come risultato, per ragioni pratiche - e forse sostanziali - di non portare a nessuna teoria. Provo a illustrare brevemente l'approccio epidemiologico con due esempi. 'Mito'
Prendiamo un mito, per esempio il mito bororo dello snidatore di uccelli, che Lévi-Strauss usa come punto di partenza del suo Mythologiques. In un approccio tradizionale, questo mito sarebbe presentato nella forma di una versione canonica cui si è arrivati selettivamente sintetizzando le diverse versioni rac- colte. Questa versione canonica è un oggetto astratto, che non esiste nella società studiata; può servire a fini espositivi, ma, così com'è, non fornisce, né richiede, una spiegazione. Lo stes- so Lévi-Strauss si discosta dall'approccio tradizionale: per lui,
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studiare un mito significa studiare le relazioni di 'trasformazione' (per esempio, il modo in cui sono strutturate somiglianze e differenze) tra le diverse versioni del mito e tra questo e altri miti. Con tale approccio, nessuna singola versione, né una sintesi di molte versioni, è un oggetto appropriato di studio. Un mito deve essere considerato, invece, come l'insieme di tutte le sue versioni. Lo statuto ontologico di un mito come insieme delle sue versioni e il valore esplicativo dell'analisi delle relazioni di trasformazione tra le versioni non sono chiari, ma possono essere chiarificati in una prospettiva epidemiologica. La mia proposta, in sintesi, è di cercare di modellizzare non l'insieme, ma le catene causali che legano tra loro le diverse versioni dei miti; ciò significa considerare non solo le versioni pubbliche, ma anche quelle mentali (senza le quali non ci sarebbero catene causali). Naturalmente, solo alcune versioni pubbliche del mito sono state registrate, e nessuna di quelle mentali, ma completare le osservazioni con ipotesi su entità non osservate - o anche non osservabili - è una pratica normale della scienza. Inoltre, per spiegare la distribuzione di versioni dello stesso mito, il nostro compito non sarebbe quello di descrivere tutti i legami nella catena, ogni singolo passo della trasformazione mentale e della trasmissione pubblica. Si tratterebbe piuttosto di spiegare i tipi di fattori causali che hanno favorito la trasmissione in certe circostanze e la trasformazione in certe direzioni. Lo studio di un mito da questa prospettiva comporta allora tre tipi di oggetti: 1)narrazioni; ossia rappresentazioni pubbliche che possono essere osservate e registrate, ma che possono essere interpretate solamente prendendo in considerazione: 2)storie; ossia rappresentazioni mentali di eventi che possono essere espresse come, o costruite a partire da narrazioni; 3)catene causali: storie-narrazioni-storie-narrazioni... Ogni oggetto particolare che appartiene a uno di questi tre tipi è un oggetto materiale; ogni narrazione particolare è un evento acustico preciso; ogni storia particolare è uno stato cerebrale specifico. Una catena che collega causalmente ogni cosa materiale specifica è ovviamente una cosa materiale. La spiegazione causale dell'esistenza di queste narrazioni pubbliche e di queste storie mentali è fornita dalla descrizione delle catene causali in cui esse occorrono. La spiegazione di tali catene causali richiede un modello in cui siano in gioco tanto fattori ecologici quanto psicologici. Per esempio, un fattore ecologico cruciale sarebbe l'assenza, nella società presa in esame, del tipo di contenitori esterni di memoria forniti dalla scrit-
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tura; le rappresentazioni orali, a differenza di quelle scritte, sono eventi ambientali più che stati ambientali. Un fattore psicologico cruciale può essere l'organizzazione della memoria uma- na spontanea. L'interazione tra questi due fattori aiuterebbe a spiegare perché in una tradizione orale una narrazione con una struttura facilmente memorizzabile viene trasmessa con poche variazioni. Che ne è del vecchio concetto antropologico di mito in tutto questo? Naturalmente, dire che una catena di versioni è un mi- to e come dire che un'epidemia di influenza è un caso di in- fluenza. Diversamente dall'influenza, però, che resta tale anche senza un'epidemia, ogni storia mentale e ogni narrazione pubblica è in sé culturale, e quindi mitica, solo nella misura in cui appartiene a questa catena. Nessun oggetto materiale è quindi intrinsecamente un mito; parlare di miti può servire al massi- mo a portare l'attenzione su un corpo di dati collegati l'uno al- laltro. Ma il concetto di base necessario per studiare tali dati è quello di catena causale di narrazioni e storie. Un'ontologia davvero materialista porta a una riconcettualizzazione del dominio. Il fatto che in una popolazione che non conosce la scrittura troviamo narrazioni che possono essere considerate versioni l'una dell'altra (e che così sono considerate dai nativi) è quello che ci porta a identificare un 'mito'. Esistono altre forme cultu- rali, come le 'credenze', le 'classificazioni popolari', le 'tecniche tradizionali', che sono caratterizzate da un'ampia distribuzione di rappresentazioni molto simili. I vincoli ontologici sui concet- ti implicati nello studio di ognuno di questi fenomeni sono abbastanza chiari: essi richiedono che siano eliminate le versioni sintetiche astratte di queste rappresentazioni e che siano conservate solo le diverse versioni pubbliche e mentali e le loro catene causali. Ancora sul 'matrimonio' L'ontologia delle istituzioni sociali, che è l'argomento per eccellenza delle scienze sociali, fa sorgere ulteriori problemi. Per- ché ci sia uno stato, un mercato, una chiesa, un rituale, non è necessario che ogni individuo che partecipa all'istituzione deb- ba averne una versione mentale; anzi, nella maggior parte dei Casi l'idea stessa è priva di significato. Le istituzioni non sono rappresentazioni né mentali né pubbliche. Come può allora un'epidemiologia delle rappresentazioni aiutare a fornire una spiegazione materialistica delle istituzioni? Un'epidemiologia delle rappresentazioni non riguarda le rap
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presentazioni, ma il processo di distribuzione. In alcuni casi rappresentazioni simili - per esempio, versioni dello stesso mito - sono distribuite attraverso una catena ripetitiva di rappresentazioni pubbliche e mentali; in altri casi un processo di distribuzione coinvolge molte rappresentazioni differenti, con contenuti che non somigliano l'uno all'altro. In particolare, alcune delle rappresentazioni coinvolte possono giocare un ruolo regolativo rappresentando il modo in cui alcune delle altre rappresentazioni coinvolte devono essere distribuite. La distribuzione delle rappresentazioni regolative gioca un ruolo causale in quella di altre rappresentazioni dello stesso complesso. I fenomeni istituzionali sono caratterizzati da queste catene causali gerarchiche. Ritorno all'esempio del 'matrimonio', ma in una versione più conosciuta di quella ebelo: il matrimonio civile nella Francia di oggi. L'approccio classico consisterebbe nel definire il matrimonio come un vincolo giuridico di un certo tipo tra un uomo e una donna, stabilito attraverso un rituale specifico - la cerimonia di nozze. Se gli indigeni francesi, incluso il sottoscritto, non hanno problemi a usare queste nozioni, lo scienziato dovrebbe rimanere perplesso davanti allo statuto ontologico di una cerimonia, di un legame giuridico, e quindi anche del matrimonio. L'approccio epidemiologico fornisce una soluzione alle perplessità. Il processo materiale che fa sì che gli indigeni dicano, per esempio, che Piero e Maria sono sposati, implica due livelli di rappresentazione. A un livello più alto c'è la rappresentazione regolativa delle azioni da compiere: soddisfatte certe precondizioni, un ufficiale civile dichiara un uomo e una donna uniti in matrimonio. La versione pubblica alla base di questa rappresentazione è un capitolo del Codice civile, l'origine e la distribuzione del quale sono in larga misura documentate pubblicamente. Questa rappresentazione di livello superiore descrive un tipo di rappresentazione di livello inferiore e le condizioni in base alle quali possono essere prodotte e distribuite versioni di essa. L'ufficiale civile che dichiara Piero e Maria marito e moglie produce una di queste rappresentazioni di livello inferiore in accordo con quella regolativa di livello superiore. La rappresentazione di livello inferiore può poi essere riprodotta, parafrasata, elaborata e così via. Chiunque ora dica che Piero e Maria sono sposati non sta descrivendo un fatto materiale, ma sta riaffermando la rappresentazione originaria dell'ufficiale civile. Tutti coloro che enunciano i diritti e i doveri di Piero e Maria in quanto coniugi stanno producendo, in riferimento a questi due individui, una versione più o meno fedele della rappresentazione generale di livello superiore dei diritti e doveri delle
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persone sposate, la versione originale della quale si trova anch'essa nel Codice civile. Matrimonio', 'diritti', 'doveri', sono entità immateriali che esistono nell'ontologia degli indigeni, quindi nella nostra ontologia quotidiana. Nella nostra ontologia materialista a uso scientifico esistono d'altra parte solamente rappresentazioni pubbliche o mentali del matrimonio in generale, di matrimoni particolari, di diritti e doveri, e la catena causale complessa in cui queste rappresentazioni compaiono. Le rappresentazioni che gli indigeni hanno delle entità immateriali sono esse stesse materiali; la loro distribuzione può avere effetti sul comporta- mento dei nativi molto simili a quelli che gli indigeni attribuiscono - erroneamente - allo stato di cose immateriale rappre- sentato. La differenza di ontologie non è incompatibile quindi con un certo grado di corrispondenza tra due descrizioni, quella del nativo e quella dello scienziato. Il programma che propongo non è privo di precedenti. L'approccio diffusionista in antropologia e archeologia si poneva il problema della distribuzione delle entità culturali nello spazio e nel tempo. Una delle sue debolezze era la povertà delle assunzioni psicologiche. Una debolezza dello stesso tipo si può trovare in diversi approcci recenti di ispirazione biologica alla cultura, dove il complesso mente/cervello è visto essenzialmente comr un meccanismo di duplicazione (si vedano per esempio Lloyd e Richerson 1985; Cavalli Sforza e Feldman 1981; Dawkins 1976; Lumsden e Wilson 1981). La lezione più evidente dei recenti lavori in ambito cognitivo è che recuperare informazione non è l''inverso di immagazzinarla e comprendere non è l'inverso di esprimersi. La memoria e la comunicazione trasformano l'informazione. Quindi, se si vogliono trattare le rappresenta- zioni, mentali o pubbliche, come cause materiali tra le altre cause materiali, si deve fondare lo studio del pensiero e della comunicazione sulla psicologia cognitiva. Un'epidemiologia delle rappresentazioni stabilirà una rela- zione di reciproco interesse tra le scienze cognitive e le scienze sociali, simile a quella tra la patologia e l'epidemiologia. Questa relazione non è in alcun modo una riduzione del sociale allo psicologico: in questo approccio i fenomeni socioculturali sono distribuzioni ecologiche di fenomeni psicologici; i fatti sociologici vengono definiti in termini di fatti psicologici, ma non si riducono a essi.
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2. Interpretare e spiegare le rappresentazioni culturali
Una rappresentazione stabilisce una relazione fra almeno tre termini: ciò che rappresenta, ciò che è rappresentato e il fruitore della rappresentazione. Si può aggiungere un quarto termine quando esiste un produttore della rappresentazione distinto dal fruitore. Una rappresentazione può esistere all'interno di chi la fruisce: si tratta allora di una rappresentazione mentale, come un ricordo, una credenza, o un'intenzione. Produttore e fruitore della rappresentazione mentale sono in questo caso la stessa persona. Una rappresentazione può anche esistere nell'ambiente del suo fruitore, come per esempio nel caso del testo che state leggendo ora; si tratta allora di una rappresentazione pubblica. Le rappresentazioni pubbliche sono solitamente modi di comunicazione tra un fruitore e un produttore distinti l'uno dall'altro. Una rappresentazione mentale ha, ovviamente, un solo fruitore. Una rappresentazione pubblica può averne diversi. Si può fare un discorso davanti a molte persone; un testo stampato è pensato per un largo pubblico. Prima che tecniche come la stampa o la registrazione su nastro magnetico rendessero possibile la duplicazione precisa di una rappresentazione pubblica, li trasmissione orale permetteva la produzione di rappresentazioni simili l'una all'altra: l'ascoltatore di una storia poteva per esempio diventarne a sua volta il narratore. Bisogna sottolineare però che la trasmissione orale non è un mezzo affidabile di rìproduzione, in quanto genera un insieme vago di rappresentazioni costituito da versioni più o meno fedeli invece che da copie esatte luna dell'altra. Consideriamo un gruppo sociale: una tribù, gli abitanti di una città o i membri di un'associazione. Il gruppo e l'ambiente circostante sono abitati, per così dire, da una popolazione più Brande di rappresentazioni, mentali e pubbliche. Ogni membro 37
del gruppo ha nella sua testa milioni di rappresentazioni mentali, alcune delle quali hanno vita breve mentre altre sono registrate nella memoria a lungo termine e costituiscono la 'conoscenza' dell'individuo. Un esiguo numero di queste rappresentazioni mentali viene ripetutamente comunicato e finisce per essere distribuito attraverso il gruppo e quindi per avere una sua versione mentale nella maggior parte dei membri del gruppo. Quando parliamo di rappresentazioni culturali abbiamo in mente - o dovremmo avere in mente - tali rappresentazioni largamente distribuite e di lunga durata. Le rappresentazioni culturali così intese sono un sottoinsieme dai confini sfumati dell'insieme delle rappresentazioni pubbliche e mentali che abitano un certo gruppo sociale. Gli antropologi non concordano su una visione comune delle rappresentazioni culturali, o su un insieme di questioni comuni riguardo a esse, o ancora su una terminologia comune per descriverle. La maggior parte degli autori affronta i vari generi di rappresentazioni separatamente e parla di credenze, norme, tecniche, miti, classificazioni e così via a seconda del caso. Vorrei tuttavia proporre una riflessione sul modo in cui gli antropologi (e gli altri scienziati sociali) rappresentano e cercano di spiegare le rappresentazioni culturali in generale. Interpretare le rappresentazioni culturali Supponete di voler rappresentare un cesto: potete produrre l'immagine di un cesto, o descriverlo. In altre parole, potete produrre un oggetto che assomiglia al cesto - per esempio una fotografia o un disegno - oppure una frase. La frase non assomiglia per nulla al cesto, ma dice qualcosa di vero su di esso. (La verità è, ovviamente, una condizione necessaria ma non sufficiente perché la descrizione sia adeguata.) Potrebbe sembrare che la situazione sia la stessa quando quello che volete rappresentare è una rappresentazione: la favola di Cappuccetto Rosso, per esempio. Potete registrare o trascrivere la favola (o meglio, una sua versione), produrre cioè un oggetto che somigli alla storia nello stesso modo in cui una fotografia o un disegno somiglia a un cesto. Potete anche descriverla dicendo, per esempio: "È una storia diffusa in tutta Europa, in cui i personaggi sono un animale e vari esseri umani". Ma mancherebbe ancora qualcosa a queste rappresentazioni di Cappuccetto Rosso: la registrazione della trascrizione rappresenta in se stessa solo una forma acustica, mentre la descrizione proposta ci dice poco sul contenuto della storia, che, dopo tutto, è la storia. Si può sostenere che tutto quello di cui avete bisogno
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è di descrivere la favola più dettagliatamente. Potete dire per esempio: "Cappuccetto Rosso è una favola diffusa in tutta Europa che racconta di una bambina che viene mandata dalla madre a portare un cesto di viveri alla nonna. Sul cammino incontra un lupo...". Così facendo, potete ricostruire il contenuto della storia quanto precisamente volete; ma attenzione: invece di descrivere la storia, la state raccontando di nuovo. Potete produrre un oggetto che rappresenta la storia, non perché dice qualcosa di vero di essa, ma perché le assomiglia: in altre parole, potete produrre un'altra versione della storia. Generalizziamo: per rappresentare il contenuto di una rappresentazione, usiamo un'altra rappresentazione con un contenuto simile. Non descriviamo il contenuto della rappresentazione lo parafrasiamo, lo traduciamo, lo riassumiamo, lo sviluppatilo: insomma, lo interpretiamo.1 Un'interpretazione è una rappresentazione di una rappresentazione in virtù di una somiglianza di contenuto. In questo senso, una rappresentazione pubblica, il cui contenuto assomiglia alla rappresentazione mentale che serve a comunicare, è un'interpretazione di quella rappresentazione mentale. Di converso, la rappresentazione mentale che risulta dalla comprensione di una rappresentazione pubblica ne è un'interpretazione. Il processo di comunicazione può essere scomposto in due processi di interpretazione: uno dal mentale al pubblico, l'altro dal pubblico al mentale. Nella nostra vita mentale le interpretazioni sono comuni come le descrizioni; sono una forma di rappresentazione prodotta e compresa da tutti. Esprimersi o comprendere le espressioni di altre persone è, implicitamente, un atto di interpretazione. Produciamo interpretazioni anche quando rispondiamo a domande come: Che cosa ha detto? Che cosa pensa? Che cosa vogliono? Pe r rispondere, rappresentiamo il contenuto delle frasi, dei pensieri o delle intenzioni attraverso frasi di contenuto simile. Lo studio antropologico delle rappresentazioni culturali non può ovviamente prescindere dai loro contenuti; di conseguenza, che ci piaccia o no, il lavoro dell'antropologo è in gran parte interpretativo. Proprio perché l'interpretazione è basata su una capacità alquanto comune e non su qualche tecnica professionale sofisticata, la maggior parte degli antropologi ha prodotto interpretazioni proprio come il Monsieur Jourdain di Molière produceva prosa: senza essere coscienti di farlo, o almeno senza rifletterci troppo.
Sulla distinzione tra interpretazione e descrizione si vedano Sperber 1982, Clip. 1, e Sperber e Wilson 1986, cap. 4. 1
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Nella misura in cui l'interpretazione riguarda singoli pensieri o singole parole, il grado di libertà che l'interprete può concedersi può essere manifesto e non provocare problemi. Con una frase pronunciata in tono sarcastico mi comunicate quello che ha detto il Primo ministro nella conferenza stampa; per me non è difficile comprendere che, se l'idea è del Primo ministro, la concisione e il sarcasmo sono vostri. Allo stesso modo, i resoconti antropologici comuni di singole parole e singoli pensieri sono, abbastanza spesso, facili da comprendere e da accettare (se sono stati formulati esattamente e, anche in questo caso, è indispensabile che la traduzione sia stata accurata). In realtà, in antropologia ciò che viene interpretato è spesso una rappresentazione collettiva attribuita a un intero gruppo sociale ("Gli X credono che..."), vale a dire qualcosa che non è stato mai pensato, o espresso, da nessun individuo del gruppo. Non c'è né una chiara spiegazione dettata dal senso comune di quello che può essere una rappresentazione collettiva di questo tipo né un modo semplice per controllare la veridicità del resoconto. La mancanza di una metodologia chiara rende difficile valutare, e quindi sfruttare, queste interpretazioni. Ciononostante, nelle spiegazioni antropologiche esse rivestono un ruolo importante, e, come vedremo, a volte vengono presentate come spiegazioni definitive. Ecco un esempio. La scena, riportata dall'antropologo francese Patrick Menget, ha luogo tra i Txikao del Brasile. Alla fine di un pomeriggio piovoso, Opote tornò a casa con un bel pesce matrinchao che aveva catturato nelle sue reti. Lo depose senza dire una parola accanto a Tubia, uno dei quattro capi famiglia della sua casa. Tubia lo pulì e lo mise ad affumicare. Ne mangiò fino a quando fece notte, da solo, a piccoli bocconi, sotto gli occhi interessati degli altri abitanti della casa. Nessun altro toccò il matrinchao né mostrò il desiderio di mangiarne un po', anche se la fame era dovunque e la carne del matrinchao è tra le più prelibate. (Menget 1979, p. 193)
Fin qui si tratta essenzialmente di una descrizione comune: ogni frase esprime una proposizione che l'antropologo presenta come vera. La situazione descritta, in realtà, è piuttosto strana: "Perché," si chiede Menget, "questa astensione generale?". E risponde così:
Il pescatore Opote, possessore del potere della pesca, non poteva consumare la preda senza il rischio di danneggiare il proprio potere. Gli altri capi famiglia evitavano la carne del matrinchao per paura di mettere in pericolo la salute e la vita dei loro bambini, o la propria salute. Dato che le mogli stavano allattando, dovevano 40
astenersi per lo stesso motivo. I bambini, infine, avrebbero assorbito lo spirito particolarmente pericoloso di quella specie. (Ibidem)
Questa volta l'antropologo - che non crede nella magia o negli spirili - non sta presentando come verità il fatto che Opote corra il rischio di danneggiare il proprio potere, o i bambini di assorbire uno spirito particolarmente pericoloso. Egli presenta queste frasi come simili nel contenuto alle credenze che motivazioni l'astinenza della gente di Opote. Le sue frasi sono interpretazioni, e non sono più difficili da comprendere né più sospette di quelle che usiamo in continuazione per parlare l'uno dell'altro. Lo scopo ultimo dell'antropologo non è tuttavia di descrivere eventi particolari. Nel riportare l'aneddoto del matrinchao di Opote, per esempio, scopo di Menget era di illustrare alcune ipotesi sulla 'couvade', prima tra i Txikao stessi, poi tra gli indiani sudamericani e infine sulla couvade in generale. Come si sa, nella letteratura antropologica il termine 'couvade' indica un insieme di precauzioni che un uomo deve prendere durante e subito dopo la nascita di un figlio (per esempio, riposare, stare sdraiati, sottoporsi si a restrizioni alimentari), del tutto simili a quelle imposte, 'più comprensibilmente, alla madre del bambino (si veda Rivière 1974). Menget propone un'analisi sottile delle più rilevanti visioni txikao sulla vita e la sua trasmissione, e conclude: Ogni cosa accade come se ci fossero due principi antagonisti che governano i processi della vita [...] un principio forte, legato al sangue, al grasso, alle carni ricche e alla fermentazione risulta dalla trasformazione somatica costante di sostanze più deboli, l'acqua, il latte, lo sperma, la farina, le carni magre. Ma, inversamente, il corpo umano, con ritmi che dipendono da età, sesso e condizione, anabolizza le sostanze forti e ne neutralizza il pericolo. | . . . ] Nella couvade, l'intero insieme di tabù occupazionali, alimentari e sessuali arriva alla fine a impedire sia un eccesso di sostanze forti, la cui mancata assimilazione porta a malattie di gonfiore, sia una perdita di sostanze deboli somatizzate. [...] La creazione di un nuovo essere umano attiva l'intero processo universale di trasformazione delle sostanze, ma anche la separazione di una parte della sostanza somatizzata dei genitori e l'iniziazione di un ciclo individuale. (Menget 1979, pp. 202-203)
Ancora una volta, l'antropologo sta interpretando: non crede, né intende affermare che "il corpo umano anabolizza delle sostanze", "la cui mancata assimilazione porta a malattie di gonfiore". Egli presenta queste formulazioni come simili nel contenuto alle rappresentazioni culturali che sottostanno alle pratiche della couvade txikao. D'altronde, mentre è abbastanza facile immaginarsi Opote
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che pensa o che dice, grosso modo negli stessi termini, che non può consumare il pesce che ha preso senza danneggiare il proprio potere, è difficile immaginare i pensieri o le frasi txikao riguardanti la "trasformazione somatica costante di sostanze deboli" o la "anabolizzazione delle sostanze forti". La somiglianza di contenuto tra l'interpretazione e le rappresentazioni interpretate è manifestamente più debole qui che nel caso delle interpretazioni comuni di pensieri o frasi individuali, e il grado di somiglianza è difficile o addirittura impossibile da valutare. (Quello che mi interessa non è il lavoro di un singolo antropologo: al contrario, ho deciso di discutere l'esempio di Menget perché lo giudico un buon esempio della migliore antropologia contemporanea. Ciò che è interessante sono i limiti inerenti all'approccio interpretativo alle rappresentazioni culturali.) Un antropologo deve affrontare una grande varietà di comportamenti che progressivamente arriva a comprendere individuando le intenzioni sottostanti: ossia diventando capace di concettualizzare tali comportamenti come azioni. In particolare, egli impara a discernere le intenzioni che governano gli atti linguistici, o, in altri termini, a comprendere quello che i suoi interlocutori vogliono dire. Le intenzioni così comprese richiedono una comprensione ulteriore, più profonda; poniamo il caso che si accetti che "gli altri capi famiglia evitavano la carne del matrinchao per paura di mettere in pericolo la salute e la vita dei loro bambini, o la propria salute". Ma in che modo questo sarebbe un mezzo per raggiungere tali fini? Comprendere meglio le intenzioni significa cogliere come potrebbero essere razionali, o, in altre parole, vedere come potrebbero derivare da desideri e credenze sottostanti. Se, per i Txikao, la carne del matrìnchao è 'forte' e pericolosa per la salute, se padre e figlio sono la stessa sostanza, una sostanza che, contrariamente alle apparenze, non si divide in due esseri indipendenti ancora per un certo periodo dopo la nascita, allora cominciamo a comprendere perché il comportamento della gente di Opote potrebbe essere razionale. Per capirne di più, dovremmo stabilire la razionalità delle credenze sottostanti, ossia non solo la loro mutua coerenza, ma anche la loro compatibilità con l'esperienza dei Txikao. Nel nostro sforzo quotidiano per capire gli altri, ci accontentiamo di interpretazioni parziali e speculative (più gli altri sono differenti da noi, più le interpretazioni sono speculative) perché, benché parziali e speculative, esse ci aiutano - come individui, come popoli - a capirci gli uni con gli altri. Gli antropologi hanno contribuito a una maggiore comprensione e quindi a una maggiore tolleranza della diversità culturale. Per fare questo
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non si sono basati su una teoria scientifica o su metodi rigorosi, che non sono parte del corredo antropologico standard. Data la disianza culturale, gli obiettivi di comprensione che gli antropologi si pongono sono particolarmente ardui e ambiziosi, ma la forma di comprensione è del tutto comune: essi interpretano i comportamenti - quelli verbali in particolare - attribuendo credenze, desideri e intenzioni agli agenti individuali o collettivi, in modo tale che tali comportamenti sembrino razionali. Si può fare l'ipotesi che la migliore interpretazione sia la più fedele, ossia quella dal contenuto più simile a quello della rappresentazione interpretata. Se si riflette, però, le cose non sono così semplici. Se il suo scopo fosse quello di massimizzare la fedeltà, l'antropologo pubblicherebbe solo le traduzioni delle parole davvero pronunciate. La maggior parte delle frasi ascoltate dall'antropologo hanno invece senso solo nel contesto molto specifico in cui sono state pronunciate; sono basate su rappresentazioni culturali condivise che le frasi stesse non esprimono direttamente. L'antropologo deve, prima di tutto per se stesso, andare al di là della mera traduzione: solo allora può sperare di comprendere ciò che ascolta, e quindi di essere davvero capace di tradurlo: deve speculare, sintetizzare, riconcettualizzare. Le interpretazioni che l'antropologo costruisce nella sua mente e nei suoi appunti sono troppo complesse e dettagliate per interessare i suoi futuri lettori; inoltre solitamente sono formulate in un gergo idiosincratico in cui si mescolano liberamente termini nativi, termini tecnici usati ad hoc e metafore personali. Più tardi, quando scriverà per un pubblico che dedicherà solo qualche ora a uno studio al quale egli ha consacrato anni, l'antropologo dovrà sintetizzare le proprie sintesi, ritradurre il proprio gergo, e, Inevitabilmente, allontanarsi ancor di più dai dettagli che i suoi ospiti gli trasmettono. Per essere più pertinente, dovrà essere meno fedele. Ancora, la somiglianza di contenuto varia al variare del punto di vista e del contesto. Dire, per esempio, che per i Txikao il corpo umano anabolizza sostanze forti è suggestivo e non fuorviante nel contesto della discussione di Menget: in quel contesto la nozione di anabolizzazione è presa metaforicamente; in altre parole, la somiglianza tra la nozione chimica di anabolizzazione e la nozione txikao che essa interpreta può essere considerata pertinente, ma molto restrittiva. D'altra parte, la stessa affermazione interpretativa sarebbe fuorviante nel contesto di uno studio comparativo delle visioni culturali della chimica della digestione, dove saremmo portati da considerazioni di pertinenza a 43
prendere la nozione di anabolizzazione in un senso molto più letterale. Il carattere intuitivo dell'interpretazione, dipendente dal contesto, non implica che tutte le interpretazioni siano buone o cattive allo stesso modo, ma implica che i nostri criteri di valutazione siano essi stessi in parte intuitivi e di una validità intersoggettiva limitata. Alcune delle interpretazioni immaginabili sarebbero riconosciute da tutti come cattive: per esempio, che il vero contenuto del dogma della Trinità è una ricetta per la mousse al cioccolato. Ma può capitare che interpretazioni significativamente differenti della stessa rappresentazione sembrino ugualmente plausibili. I dati interpretati da Menget in una maniera 'intellettualistica' (per esempio come se riguardassero uno sforzo di spiegazione del mondo) possono essere avvicinati con altrettanta sottigliezza in una prospettiva psicoanalitica. Davanti ai due tipi di interpretazione, i lettori sceglierebbero sicuramente secondo le loro preferenze intellettuali. E, facendo così, agirebbero in maniera razionale. Ma qui sta il problema: se è razionale preferire un'interpretazione particolare a un'altra sulla base di preferenze intellettuali precedenti, è difficile - se non impossibile - convalidare o confutare una teoria generale sulla base di un'interpretazione particolare. L'interpretazione ci permette una forma di comprensione di cui non possiamo fare a meno nella vita di tutti i giorni: la comprensione delle rappresentazioni, mentali e pubbliche, e quindi la comprensione degli altri. Nello studio scientifico delle rappresentazioni, l'interpretazione è uno strumento indispensabile così come lo è nella vita quotidiana. Ma possiamo usare come strumento scientifico una forma intuitiva, in parte soggettiva, di interpretazione? Nessun dato è completamente certo, e si può sostenere che non ci siano dati davvero indipendenti dalla teoria. Nonostante questo, il requisito fondamentale per l'uso scientifico di qualsiasi dato non è che esso debba essere assolutamente certo e indipendente dalla teoria, ma solo che sia più affidabile della teoria che serve a confermare o a confutare, e quindi indipendente da queste teorie particolari (o da qualsiasi teoria ugualmente controversa). Alcune interpretazioni sono più affidabili di altre e più accettabili intersoggettivamente. Se queste interpretazioni dipendono in qualche modo da 'teorie' della comprensione umana, si tratta di teorie tacite di cui gli esseri umani in generale, e gli antropologi in particolare, non sono coscienti, e che quindi non tendono a mettere in questione. Saremmo dunque tutti disposti, immagino, a credere a Menget e ad accettare la sua affermazione che
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Opote non poteva mangiare quello che pescava senza il rischio di danneggiare il proprio potere della pesca almeno come un'interpretazione ragionevolmente approssimata di parte di ciò che Opote stesso o altri attorno a lui potrebbero aver detto. Ossia, noi ci fidiamo della capacità di Menget di comprendere e ogni tanto anticipare ciò che un singolo Txikao può avergli detto in un'occasione specifica, così come ci fideremmo di noi stessi se ci fossimo trovati al posto di Menget, una volta appreso il linguaggio dei Txikao, trascorso un po' di tempo fra di loro, e così via. Le interpretazioni piatte e letterali di frasi particolari e di intenzioni comuni fatte da interpreti che conoscono la lingua e la popolazione non sono totalmente affidabili o indipendenti dalla teoria, ma lasciano poco spazio alla controversia. Le interpretazioni del senso comune di frasi particolari e di altri comportamenti intelligibili sono abbastanza affidabili per essere usate, con cautela metodologica, come dati fondamentali per la teorizzazione antropologica. Tali interpretazioni sono cioè significativamente più affidabili delle teorie che vogliamo verificare attraverso di esse. Da un altro lato, le forme speculative di interpretazione, come le interpretazioni delle credenze che i credenti stessi non sono capaci di articolare, o le interpretazioni delle 'mentalità collettive', non possono costituire dei dati nonostante i loro meriti e la loro attrattiva. La questione allora è: può la teoria antropologica basarsi solo sul primo tipo di interpretazione, più affidabile, ma anche più modesto? La risposta dipende da quale tipo di teoria si sta cercando. -Spiegare le rappresentazioni culturaliSi può intendere la parola 'spiegare' in due sensi. Nel primo senso, spiegare una rappresentazione culturale - per esempio un testo sacro - significa renderla intelligibile, ossia interpretarla. La sezione precedente trattava di tali spiegazioni interpretative. In un secondo senso, il solo che sarà affrontato in questa sezione, spiegare le rappresentazioni culturali ha uno scopo essenzialmente teoretico: l'identificazione del meccanismo generale che è in funzione. La maggior parte degli antropologi, il cui interesse principale è l'etnografia, non si pone questo obiettivo teorico, che è perseguito solo in maniera asistematica e individuale. Non esiste nemmeno un punto di vista principale - figuriamoci un accordo generale - su cosa si debba considerare come un'ipotesi esplicativa particolare in antropologia. Semplificando molto (con tante scuse per l'ingiustizia che questa semplificazione comporta), distinguerò in antropologia
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quattro tipi di spiegazioni, o di pretese spiegazioni, tre delle quali diffuse: la generalizzazione interpretativa, la spiegazione strutturalista, la spiegazione funzionalista; e un tipo più raro di spiegazione, di cui io difendo una versione: i modelli epidemiologici. Generalizzazioni interpretative Sembra che molti antropologi pensino che un - se non il - modo corretto di arrivare a ipotesi teoriche consista nel prendere l'interpretazione di qualche fenomeno particolare di una data cultura e generalizzarlo progressivamente a tutti i tipi di fenomeni in tutte le culture, tenendo conto di dati sempre più diversi. L'idea stessa di couvade, per esempio, è il risultato di una sintesi interpretativa di comportamenti molto disparati. Le varie teorie della couvade differiscono, da un lato, rispetto al modo di sintetizzare i dati e, dall'altro, rispetto agli altri fenomeni che considerano legati in maniera cruciale alla couvade. Sulla base degli esempi europei, la couvade fu a lungo considerata come un modo simbolico - più precisamente iperbolico con cui il padre reclamava alcuni vantaggi della maternità. Scrive per esempio Mary Douglas: "il marito impegnato nella couvade sta dicendo: 'Guardatemi, ho crampi e contrazioni più di lei! Non prova questo che sono il padre del bambino?'. È una dimostrazione primitiva di paternità" (1975, p. 75). Claude Lévi-Strauss propone un'altra interpretazione generale della couvade, basata su esempi amerindi: sarebbe falso dire che l'uomo vi assume la parte della puerpera. A volte marito e moglie debbono soggiacere alle stesse preoccupazioni perché essi fanno tutt'uno col loro bambino che, nelle settimane o nei mesi susseguenti alla nascita, è esposto a gravi pericoli. A volte, come spesso avviene in America del Sud, il marito è obbligato a precauzioni ancora maggiori della moglie, perché, date le teorie indigene sulla concezione e la gestazione, è particolarmente la sua persona a confondersi con quella del figlio. In entrambe le ipotesi, il padre non fa la parte della madre, ma quella del bambino. (Lévi-Strauss 1962b, pp. 258-259; tr. it. p. 2 1 5 )
Nel suo saggio Patrick Menget, che sviluppa la proposta di LéviStrauss, conclude in maniera più astratta (astrazione amplificata dall'effetto della citazione fuori contesto): La forza della couvade sta nell'essere l'articolazione di una logica di qualità naturali dell'essere e di una problematica di successione, e di significare, nella sua progressività e nella sua durata l'irreversibilità del tempo umano. (Menget 1979, p. 263)
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Questo tipo di interpretazioni antropologiche solleva due questioni. Primo, che cosa devono realmente rappresentare tali interpretazioni? Si potrebbe dire che rappresentino il significato letterale dell'istituzione che interpretano. Ma qualsiasi veicolo di significato, che sia un testo, un gesto, un rituale, non veicola il sigificato stesso, ma il significato per qualcuno. Per chi, dunque, l'istituzione in questione ha il presunto significato? Sicuramente per le persone che vi partecipano, per esempio Opote e i suoi compagni. Ma ci sono tutte le ragioni per pensare che i partecipanti i abbiano sulla loro istituzione una prospettiva più ricca, più varia e più legata a considerazioni locali di quanto un'interpretazione transculturale potrà mai sperare di esprimere. Nella migliore delle ipotesi, allora, le interpretazioni generali sono un tipo di condensazione decontestualizzata di idee locali molto diverse: aumento di generalità significa perdita di fedeltà. La seconda questione sollevata da queste generalizzazioni interpretative è la seguente: in che senso esse spiegano qualcosa? Perché e per chi l'esecuzione di un facile rito da parte del marito di una donna che partorisce servirebbe da "dimostrazione di paternità"? In che modo il fatto che il padre reciti il ruolo del figlio protegge - o sembra proteggere - il figlio da gravi pericoli? Chi accetterebbe grandi privazioni al fine di "significare [...] l'irreversibilità del tempo umano"? Un significato non è una causa; e l'attribuzione di un significato non è una spiegazione causale. (Naturalmente può accadere che l'attribuzione di significato a un comportamento riempia un vuoto in una spiegazione causale che è altrimenti soddisfacente, ma non è il nostro caso.) Le generalizzazioni interpretative non spiegano nulla e non sono, in senso stretto, ipotesi teoriche: sono modelli che posson essere selezionati, rifiutati e modificati a piacere al fine di Costruire interpretazioni dei fenomeni locali. A questo scopo, e solo a questo, possono essere utili. Spiegazioni strutturaliste Le spiegazioni strutturaliste cercano di mostrare che l'estreuna diversità delle rappresentazioni culturali può risultare o da variarazioni di un piccolo numero di temi sottostanti, o da varie combinazioni di un repertorio finito di elementi, o da trasformazioni regolari di strutture sottostanti semplici. Le analisi strutturali partono da generalizzazioni interpretative e cercano di andare oltre a quelle. Che l'analisi strutturale poggi su generalizzazioni interpretative è particolarmente evidente nel lavoro di uno dei fondatori del genere, Georges Dumézil (si veda per esempio Dumézil 1968). Dumézil cercò di mo47
strare che i miti e i rituali degli Indoeuropei sono variazioni dello stesso modello soggiacente: una tripartizione della vita sociale in tre 'funzioni': sovranità, guerra e produzione. Il modello tri-funzionale è, ovviamente, una generalizzazione interpretativa, ma Dumézil lo elaborò in maniera propriamente strutturalista. Egli cercò di mostrare come questo modello dia origine a diversi sviluppi strutturali a seconda del tipo di fenomeno culturale in questione (pantheon, miti, epica, riti, ecc.) e della particolare cultura. Non cercò una spiegazione di questo modello comune e dei suoi vari sviluppi culturali nell'interpretazione, ma nella storia, ponendo le basi della linguistica storica. Nello stile dell'analisi culturale di Dumézil, così come nelle generalizzazioni interpretative standard, le sole relazioni tra rappresentazioni ritenute rilevanti sono quelle di somiglianza: due rappresentazioni che si somigliano possono essere interpretate tramite una terza che astrae dalle loro differenze. Lévi- Strauss (1958, 1973) ampliò il dominio dell'analisi strutturale considerando le differenze sistematiche non meno rilevanti delle somiglianze.2 Per esempio, sostenne che un mito può derivare da un altro mito non solo per imitazione, ma anche per inversione sistematica di alcune delle sue caratteristiche: se, per esempio, l'eroe del primo mito è un gigante, l'eroe del secondo può essere un folletto; se il primo è un assassino, l'altro può essere un guaritore, e così via. Si può quindi scoprire una rete di corrispondenze più ricche delle semplici relazioni di somiglianza tra rappresentazioni: sia tra rappresentazioni dello stesso tipo - i miti - sia tra tipi diversi di rappresentazioni - i miti e i rituali, per esempio. Menget adotta una prospettiva à la Lévi-Strauss quando cerca di mettere in relazione la couvade con la proibizione dell'incesto. La couvade, secondo la sua interpretazione, esprime una separazione progressiva della sostanza del bambino da quella dei suoi genitori. La proibizione dell'incesto impedisce a un uomo e a una donna che provengono dagli stessi genitori di rifondere una sostanza che era stata separata attraverso la couvade. Esiste sia una relazione di continuità tra la couvade e il divieto dell'incesto, visto che quest'ultimo tiene separato ciò che la prima ha separato dalla sostanza comune, sia una complementarità funzionale, nella misura in cui la couvade regola una comunicazione all'interno del gruppo sociale che permette la sua diversificazione, e
Per una discussione dell'approccio di Dumézil e un confronto con Lévi- Strauss, si veda Smith e Sperber 1971. 2
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la proibizione dell'incesto ne stabilisce la comunicazione esterna. (Menget 1979, p. 208) Un'analisi strutturale di questo tipo non spiega la couvade: ma, se la si accetta, essa modifica l'oggetto stesso della spiegazione. L'explanandum non è più semplicemente la couvade; è un complesso di rappresentazioni e di pratiche che hanno a che fa- re con il meccanismo della riproduzione biologica (così com'è inteso dai Txikao), un complesso di cui l'antropologo cerca di stabilire la coerenza, nonostante il suo carattere apparentemente eteroclito. L'analisi strutturale solleva due problemi principali, uno metodologico, l'altro teoretico. Il problema metodologico è il seguente: per stabilire relazioni strutturali tra rappresentazioni, l'antropologo le interpreta. Le somiglianze e le differenze saranno individuate fra le interpretazioni ottenute, e non tra i dati osservati o registrati. Ora, con un pizzico di ingegnosità interpretativa, qualsiasi coppia di oggetti complessi può essere messa in questo tipo di relazione strutturale. Si potrebbe mostrare, per esempio, che Amleto e Cappuccetto Rosso stiano in una relazione di 'inversione strutturale':
Questi divertissement non invalidano ovviamente l'analisi strutturale, ma ne illustrano i limiti: l'affidabilità dell'analisi non può essere maggiore di quella delle interpretazioni che utilizza. E la realtà è che gli strutturalisti, come tutti gli altri antropologi, praticano l'interpretazione guidati essenzialmente dalla loro intuizione, senza nessuna metodologia esplicita. Anche le intuizioni dell'interprete sono guidate dagli scopi dell'analisi strutturale, con un evidente rischio di circolarità e con mezzi di controllo meno evidenti.
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Il problema teorico posto dall'analisi strutturale è il seguente: in che senso essa costituisce una spiegazione dei fenomeni culturali? Alcuni difensori dello strutturalismo vedono nel proprio approccio semplicemente un modo per ordinare i dati di cui dispongono, ossia un modo per classificare più che per spiegare. Dumézil combinava l'analisi strutturale con la spiegazione storica. Lévi-Strauss combina, in un modo più complicato, l'analisi strutturale con un tipo di spiegazione genetica essenzialmente psicologico: le strutture svelate dall'analisi strutturale sono per lui il prodotto della mente umana che ha la tendenza a riempire le strutture astratte di esperienze concrete ed esplorare le possibili variazioni di tali strutture. Per esempio, un dato gruppo culturale si serve di rappresentazioni di personaggi animali per mettere in scena, in un mito, alcuni contrasti concettuali fondamentali: tra natura e cultura, consanguineità e affinità, vita e morte. Un gruppo vicino può trasformare il mito, rivoltando il valore di alcuni personaggi e quindi simbolizzando, al di là del mito, la differenza del gruppo rispetto ai vicini da cui il mito è stato adottato. Le trasformazioni progressive del mito da un gruppo all'altro possono renderlo irriconoscibile; ma il carattere delle trasformazioni permette all'analisi strutturale di mettere in evidenza le strutture comuni soggiacenti che, in ultima analisi, devono essere considerate le strutture della mente umana. Lévi-Strauss non ha quasi mai cercato di mettere in relazione le sue ricerche con quelle della psicologia contemporanea. I meccanismi mentali che dovrebbero generare le rappresentazioni culturali sono postulati, non descritti. Più in generale, il problema teorico sollevato dall'analisi strutturale si riduce a questo: gli oggetti complessi, come i fenomeni culturali, hanno varie proprietà, la maggior parte delle quali sono epifenomeniche, ossia dipendono da proprietà fondamentali del fenomeno ma non sono tra queste. In particolare, esse non rivestono alcun ruolo causale nell'emergenza e nello sviluppo del fenomeno e non sono, quindi, esplicative. L'analisi strutturale mette in evidenza alcune proprietà sistematiche dei fenomeni, ma non permette di distinguere tra proprietà epifenomeniche e strutturali. Insomma, l'analisi strutturale non spiega: al massimo aiuta a capire ciò che ha bisogno di spiegazione. Spiegazioni funzionaliste Mostrare che un fenomeno culturale ha effetti benefici per un gruppo sociale è stata la forma di 'spiegazione' preferita in antropologia. Le analisi funzionaliste si distinguono a seconda del tipo di effetto benefico (biologico, psicologico, sociale) che
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si vuole accentuare. Nella versione riveduta e corretta dell'analisi lunzionalista costituita dal marxismo (si veda Bloch 1983 per una rassegna), per comprendere la dinamica delle società si tiene conto anche degli effetti negativi e delle disfunzioni. Le analisi funzionaliste sono state particolarmente feconde nelle scienze sociali. Ciononostante, esse si scontrano con due obiezioni, una, ben nota, che concerne il potere esplicativo, l'altra, meno conosciuta, che riguarda il loro uso delle interpretazioni. Può la descrizione di un fenomeno culturale fornire una spiegazione per questo fenomeno? In linea di principio sì, ma con due riserve: primo, gli effetti del fenomeno non possono mai spiegare il suo emergere; secondo, per mostrare come gli effetti del fenomeno ne spieghino lo sviluppo, o almeno la persistenza, bisogna stabilire l'esistenza di qualche meccanismo di feedback. Supponiamo che una certa istituzione culturale - la couvade, per esempio - abbia effetti benefici sui gruppi che l'hanno adottata. Perché questo aiuti a spiegare la presenza di alcune forme di couvade in così tante culture, bisogna mostrare che questi effetti benefici aumentano significativamente le possibilità di sopravvivenza dei gruppi culturali che sono, per così dire, i 'portatori' di questa istituzione, e quindi le possibilità che tale istituzione persista. L'onere della prova è ovviamente rimandato ai difensori dell'analisi strutturale. In pratica, la maggior parte dei funzionalisti si accontenta di mostrare, spesso con grande ingegnosità, che le istituzioni che essi studiano hanno molti effetti benefici. L'esistenza di un meccanismo esplicativo a ritroso non viene mai stabilita, e raramente discussa. Immaginiamo, per esempio, un funzionalista che prenda come punto di partenza un'interpretazione della couvade simile a quella proposta da Mary Douglas. Egli potrebbe facilmente sostenere che la couvade rafforza i legami familiari, in particolare quello del padre con i suoi figli, e quindi aumenta la coesione sociale. Ma come farebbe a passare da questo a un meccanismo esplicativo a ritroso? Inoltre, non sarebbe troppo difficile stabilire che molte istituzioni, inclusa la couvade, hanno effetti nocivi: le privazioni alimentari, come quelle subite da Opote e dai suoi compagni, possono in alcuni casi essere dannose. La maggior parte delle istituzioni culturali non ha effetto sulle possibilità di sopravvivenza dei gruppi in questione, almeno non tanto da poterne spiegare la persistenza. In altre parole, per la maggior parte delle istituzioni, una descrizione dei loro poteri funzionali non è esplicativa. Anche quando tale descrizione spiega un certo fenomeno, lo fa in maniera molto limitata: il
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meccanismo di feedback non spiega né l'introduzione delle forme culturali attraverso l'innovazione o l'adozione, né la trasformazione delle forme culturali esistenti. Un'altra debolezza, meno notata, dell'approccio funzionali- sta è che esso non fornisce alcun principio specifico per l'identificazione di tipi di fenomeni culturali, ma si basa in modo totalmente acritico su un approccio interpretativo.3 Quali sono i criteri secondo i quali pratiche differenti e locali vengono considerate come casi particolari dello stesso tipo generale, la couvade, un tipo che gli antropologi devono allora cercare di descrivere e interpretare? L'identificazione dei tipi non è mai basata sulla loro funzione: per esempio, nessuno sosterrebbe che le diverse pratiche che hanno la 'funzione' di rafforzare i legami tra padre e figli debbano costituire un tipo antropologico distinto e omogeneo. L'identificazione dei tipi non è basata sul comportamento: alcuni comportamenti possono valere come couvade in una società e come nevrosi individuale in un'altra. In realtà, quali che siano la sua funzione e le sue caratteristiche fondamentali, una pratica è categorizzata come un caso particolare di couvade solo in funzione del punto di vista degli attori. Ma i punti di vista sono locali e molto diversi anche nella stessa cultura. In conclusione, l'identificazione di un tipo culturale è basata sull'interpretazione antropologica sintetica di un insieme di diverse interpretazioni locali. La couvade è così definita grazie a una generalizzazione interpretativa: le pratiche locali che possono essere interpretate come precauzioni rituali che un padre deve prendere prima o dopo la nascita del figlio vengono classificate come couvade. Come ho sostenuto prima, il prezzo di questo uso interpretativo è una grossa perdita di fedeltà: la concezione di un rituale, quella di una precauzione appropriata, cosa significa che una pratica sia imposta a qualcuno, che è considerato un padre, e così via, variano da cultura a cultura. Al livello di generalità adottato dagli antropologi nel loro lavoro 'teorico', queste concezioni locali possono essere interpretate in un'infinità di modi. Nella tradizione antropologica restano poche interpretazioni; la maggior parte delle variazioni locali e le altre possibilità interpretative vengono semplicemente ignorate. La perdita di fedeltà rispetto alle rappresentazioni locali è
3 La debolezza delle tipologie funzionaliste è stata discussa da Leach 1961 e, più a fondo, da Needham 1971, 1972. Ho sostenuto che queste tipologie vaghe e non definite sono basate su criteri interpretativi invece che descrittivi; si veda il capitolo 1.
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compensata da un aumento di pertinenza? Più specificamente, i tipi definiti attraverso le generalizzazioni interpretative sono utili per il lavoro teorico? Non vedo ragioni per pensare che lo siano. Perché non ci si dovrebbe aspettare che tutti i casi parti- colari di un tipo definito interpretativamente cadano sotto una spiegazione funzionale comune, specifica - o, per quello che conta, sotto una specifica spiegazione causale? Il punto non vale solo per la couvade, ma per tutti i casi di istituzioni definite Interpretativamente, ossia per tutti i tipi di istituzioni definite in antropologia. Dal punto di vista di una spiegazione causale, le tipologie antropologiche basate su considerazioni interpretative sono completamente arbitrarie. I modelli epidemiologici Chiamiamo 'culturali' le rappresentazioni che sono ampiamente diffuse in forma durevole in un gruppo sociale. Se è così, allora non esiste un limite, una soglia precisa, tra le rappresentazioni culturali e quelle individuali. Le rappresentazioni sono più o meno ampiamente diffuse e durature, e, quindi, più o meno culturali. In queste condizioni, spiegare il carattere culturale di alcune rappresentazioni significa rispondere alla domanda: Perché queste rappresentazioni hanno più successo di altre in una popolazione umana? E, per rispondere, dobbiamo considerare la distribuzione di tutte le rappresentazioni. La spiegazione causale dei fatti culturali diventa allora una sorta di epidemiologia delle rappresentazioni. Un'epidemiologia delle rappresentazioni cercherà di spiegare i macrofenomeni culturali come l'effetto cumulativo di due tipi di micromeccanismi: i meccanismi individuali responsabili della formazione delle rappresentazioni mentali e quelli interindividuali che, attraverso alterazioni dell'ambiente, sono la causa della trasmissione delle rappresentazioni. Da una prospettiva epidemiologica, quello che l'antropologo chiama couvade tra i Txikao non è altro che una catena causale ricorrente di pensieri e comportamenti individuali. Spiegare il fenomeno, così concettualizzato, significa identificare i fattori psicologici ed ecologici che favoriscono questo concatenamento. Non sono in grado di fornire una spiegazione epidemiologica della couvade txikao, e dubito che i dati etnografici, raccolti all'interno di un quadro esplicativo molto diverso, possano aiutare a stabilire una spiegazione di questo tipo. Vorrei però indicare quali sono le domande sollevate da questo caso da un punto di vista epidemiologico, e quali risposte si potrebbero cercare.
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Molto spesso si trovano rituali associati a rischi prevedibili, come la mortalità perinatale, che hanno lo scopo di proteggere da tali rischi. Da un punto di vista epidemiologico, la ricorrenza di pericoli di un certo tipo è un fattore ecologico capace di stabilizzare una pratica rituale; ogni pratica concepita come difesa contro un tipo di pericolo ricorrente è riattualizzata regolarmente dal pericolo stesso. Ma questo dipende dalla credenza delle persone nell'efficacia del rito: non si possono spiegare pratiche come la couvade txikao senza spiegare il fatto che esse sono considerate efficaci. In larga misura, se i Txikao credono nell'efficacia della couvade, questo dipende, generazione dopo generazione, dal fatto che sono nati in un mondo in cui la sua efficacia è data per scontata. In altre parole, questa credenza è fondata sulla fiducia nell'autorità degli anziani. Da un punto di vista cognitivo, sarebbe però sorprendente che l'osservazione di casi sfortunati non avesse effetti sulla forma della credenza. Assumendo che questa pratica sia, in realtà, totalmente inefficace, ci si dovrebbe aspettare che la credenza nella sua efficacia si eroda progressivamente di generazione in generazione, specialmente dato il fatto che essa presenta svantaggi evidenti. Ci sono quattro tipi di casi che, se presi in considerazione, dovrebbero indicare se una pratica è efficace o meno. 1a) La pratica è stata seguita rigorosamente, e la calamità non si è prodotta. 1b) La pratica è stata seguita rigorosamente, e la calamità si è prodotta. 2a) La pratica non è stata seguita rigorosamente, e la calamità non si è prodotta. 2b) La pratica non è stata seguita rigorosamente, e la calamità si è prodotta. Se pensiamo a una pratica come la couvade txikao, che non ha alcuna reale efficacia, l'esame di questi quattro tipi di casi dovrebbe, a un certo punto, convincere le persone che il tipo di calamità di cui hanno paura si produce con la stessa frequenza tanto se la pratica è seguita, quanto se non lo è. 0, perlomeno, l'esame dei casi reali non dovrebbe costituire una prova dell'efficacia della pratica. Ci sono allora due ipotesi possibili: o le persone sono indifferenti alla loro esperienza, o le inferenze che ne traggono non sono adeguate. Si può mostrare che non solo gli esseri umani, ma anche gli animali sono capaci di valutare spontaneamente probabilità specifiche e di tenerne conto, per esempio nella ricerca del cibo. D'altronde, è anche stato mostrato che in molte situazioni le
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probabilità sono mal comprese e tendono a essere distorte in maniera sistematica.4 In generale ci sono tre motivi per pensare che risulti spontaneo dare un peso eccessivo ai casi 2b, cioè ai casi in cui il mancato rispetto della pratica è stato seguito dalla calamità. Primo: solo la sfortuna richiede sempre una spiegazione; secondo, quando il mancato rispetto di una pratica è seguito dalla calamità, sembra esserne la causa; terzo: spiegare una calamità come se fosse provocata dal comportamento di alcune persone rende possibile attribuire delle responsabilità, e quindi dare almeno una risposta sociale a una situazione che altrimenti lascia impotenti. In queste condizioni, seguire una pratica protegge almeno dal rischio di essere accusati di aver prodotto una calamità. La pratica ha oggettivamente questo tipo di efficacia. La disposizione cognitiva ad assegnare spontaneamente un peso eccessivo a casi che hanno una maggiore rilevanza nella vita di qualcuno (ma non necessariamente una maggiore rilevanza statistica) interagisce con un fattore ecologico, ossia la frequenza dei diversi tipi di casi. È probabile (ed è verificabile empiricamente) che, dato che la frequenza dei quattro tipi di casi varia con i tipi diversi di calamità, risulti più facile o più difficile valutare adeguatamente l'efficacia o l'inefficacia delle pratiche rituali coinvolte. È più difficile, per esempio, sbagliarsi riguardo all'efficacia di una pratica che si pensa debba proteggere contro un rischio molto elevato. Si può quindi predire che pratiche inefficaci finalizzate a evitare una calamità inevitabile, per esempio la morte di persone molto anziane, siano soggette a una rapida erosione cognitiva. Pratiche di questo tipo dovrebbero essere molto più rare nelle culture umane delle pratiche inefficaci che servono a impedire calamità con un'incidenza intermedia, come la mortalità perinatale nelle società non medicalizzate. Si può anche predire che quando l'osservanza di una pratica inefficace scende al di sotto di una certa soglia specifica (che è essa stessa una funzione dell'incidenza del tipo di calamità in questione), la sua inefficacia diventa manifesta e la pratica scompare o viene radicalmente trasformata. Le osservazioni precedenti aiutano a spiegare perché le pratiche che dovrebbero proteggere da vari tipi di calamità possono
4 I fatti pertinenti sono stati messi in rilievo nel lavoro di Daniel Kahneman e Amos Tversky (si veda Kahneman et alii 1982), Gerd Gigerenzer e i suoi collaboratori, e nel dibattito tra i due approcci (si vedano Gigerenzer 1991, 1993; Gigerenzer e Hoffrage 1995; Kahneman e Tversky 1995)
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stabilizzarsi, anche se sono prive di efficacia. Ma come si fa a identificare il contenuto specifico di tali pratiche? Perché i tentativi dei Txikao di proteggere i propri neonati consistono nell'astinenza alimentare e non in canzoni o banchetti? Questo potrebbe essere il punto di partenza degli studi interpretativi o strutturalisti come quello di Menget, che tendono a mostrare che la couvade txikao è una parte di un insieme coerente di rappresentazioni culturali. Anche tenendo conto dell'enfatizzazione della coerenza tipica dell'antropologia interpretativa, è vero che elementi di singole culture tendono a essere altamente coerenti. Ma in sé, la coerenza è qualcosa da spiegare, non la spiegazione di qualcosa. Ecco la proposta dell'approccio epidemiologico e cognitivo. Nel processo di trasmissione le rappresentazioni vengono trasformate; ciò non avviene solo in maniera casuale, ma in direzione di contenuti che richiedano minor sforzo mentale e generino un maggior numero di effetti cognitivi. Questa tendenza a ottimizzare il rapporto effetto-sforzo - e quindi la pertinenza delle rappresentazioni trasmesse (si veda Sperber e Wilson 1986) - porta alla trasformazione progressiva delle rappresentazioni in una data società verso contenuti pertinenti nel contesto l'uno dell'altro. Il contenuto particolare di una pratica come la couvade txikao sarà tanto più stabile quanto più essa è pertinente nel contesto delle altre rappresentazioni culturali txikao. Per spiegare la couvade txikao si deve allora studiare il contesto particolare in cui hanno luogo le attività comunicative e cognitive txikao, cercando di identificare i fattori che, attraverso queste attività, stabilizzano l'istituzione. L'approccio epidemiologico può quindi interagire con l'etnografia standard, traendo conclusioni a partire da risposte già fornite e facendo nascere nuove domande. L'approccio epidemiologico rende gestibile il problema metodologico sollevato dal fatto che il nostro accesso al contenuto delle rappresentazioni è inevitabilmente interpretativo. La soluzione di tale problema non si trova in un'ermeneutica speciale che ci dia accesso alle rappresentazioni che appartengono a una cultura, ma che non esistono nella testa degli individui o nell'ambiente circostante. La soluzione consiste semplicemente nel rendere più affidabile la nostra capacità ordinaria di comprendere ciò che persone come voi, Opote e io possiamo dire e pensare. Questo perché, in una spiegazione epidemiologica, i meccanismi esplicativi sono meccanismi mentali individuali e meccanismi di comunicazione interindividuali; le rappresentazioni da considerare sono quelle costruite e trasformate da questi micromeccanismi. In altre parole, le rappresentazioni pertinenti
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sono allo stesso livello concreto di quelle che lo scambio sociale quotidiano ci fa interpretare. Un altro vantaggio metodologico dell'approccio epidemiologico è di fornire un principio per identificare i tipi di cose culturali per cui si deve cercare una spiegazione più generale. Gli oggetti propri della teoria antropologica sono tipi di catene causali del genere che ho descritto. Questi tipi di catene causali sono individuati in termini di caratteristiche che giocano un ruolo causale nel loro emergere e nel loro mantenersi; esse possono essere ecologiche o psicologiche: per esempio la labilità dei testi orali rispetto alla stabilità dei testi scritti è un fattore ecologico chiave per spiegare la loro rispettiva distribuzione; l'alta memo- rabilità delle narrazioni rispetto alla bassa memorabilità delle descrizioni è un fattore psicologico chiave. Questi due fattori in- teragiscono in modo evidente, e giustificano il fatto che si considerino le narrazioni orali come un tipo psicologico proprio. Le caratteristiche psicologiche pertinenti per determinare i I ipi di cose culturali possono includere tratti del loro contenuto, i quali possono essere caratterizzati solo interpretativamente. Dire che varie interpretazioni condividono un tratto del contenuto significa dire che possono essere interpretate allo stesso modo, a un certo livello e da un certo punto di vista. Ma la proprietà dell'interpretabilità comune, con tutta la sua vaghezza, può bastare, se non a descrivere, almeno a cogliere una classe di fenomeni determinati tutti da identici fattori causali. Esiste per esempio un tipo di dato che gli antropologi raccolgono sistematicamente sul campo: le genealogie. A seconda della società e della classe sociale, la lunghezza delle genealogie varia: alcuni ricordano lunghe linee di antenati, mentre altri possono difficilmente andare al di là della generazione dei loro nonni. Come imparano gli studenti del primo anno di antropologia, le relazioni riconosciute come genealogiche sono diverse in ogni società, e non sono equivalenti a quelle di semplice discendenza biologica. In queste condizioni, la nozione stessa di genealogia come tipo di rappresentazione culturale è definita interpretativamente e quindi è vaga. Ciononostante è plausibile che le genealogie, in tutte le loro versioni, siano localmente rilevanti e quindi culturalmente stabili, in parte per ragioni universali. In una prospettiva epidemiologica, la spiegazione di un fatto culturale ossia di una distribuzione di rappresentazioni - deve essere cercata non tanto in un macromeccanismo, ma nell'effetto combinato di molti micromeccanismi. Quali sono i fattori che portano un individuo a esprimere una rappresentazione
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mentale nella forma di una rappresentazione pubblica? Quali rappresentazioni mentali è probabile siano costruite dai destinatari di una rappresentazione pubblica? Quali trasformazioni di contenuto è probabile che siano generate da questo processo? Quali fattori e quali condizioni rendono probabile la comunicazione ripetuta di alcune rappresentazioni? Quali proprietà, generali o contestuali, deve avere una rappresentazione per conservare un contenuto relativamente stabile nonostante le comunicazioni ripetute? Le questioni poste da un approccio epidemiologico sono difficili, ma almeno gli antropologi condividono molte di esse con gli psicologi cognitivi ed è possibile che tra le due discipline emerga un'utile relazione di pertinenza reciproca. Per rispondere a queste domande, come nel caso di tutte le domande antropologiche, le interpretazioni devono essere usate come dati. Ma, almeno, le interpretazioni richieste da questo approccio sono dello stesso tipo di quelle che usiamo nelle nostre interazioni quotidiane. Ovviamente, anche queste interpretazioni pongono qualche problema, ma dobbiamo riconoscerne il valore di dato; dopotutto ci basiamo su di esse in questioni personali che ci stanno ben più a cuore della teorizzazione scientifica.5
5 Alcuni studi di etnografia hanno messo a fuoco i micromeccanismi di trasmissione culturale e sono di particolare interesse per l'approccio epidemiologico. Per citare solo due classici: Barth 1975; Favret-Saada 1977.
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3. Antropologia e psicologia: verso un'epidemiologia delle rappresentazioni
All'epoca in cui Malinowski era studente, l'antropologia e la psicologia costituivano campi di ricerca ben integrati: un antropologo, o uno psicologo, poteva tenersi al corrente di tutto quello che avveniva nella propria disciplina. Non solo. Erano molti coloro che conoscevano a fondo entrambi i campi: Rivers, Wundt, e Malinowski stesso. Tre quarti di secolo dopo, la situazione è profondamente mutata: l'antropologia e la psicologia non sono più campi di ricerca, ma famiglie di campi di ricerca, associazioni istituzionali di imprese scientifiche più o meno collegate. Per dire le cose come stanno, 'antropologia' e 'psicologia' designano più due dipartimenti universitari che due scienze. Gli antropologi e gli psicologi a volte mostrano interesse gli uni nel lavoro degli altri, dibattono, cooperano. Non mi propongo di passare in rassegna queste interazioni; altri lo hanno già fatto meglio di come saprei fare io.1 Quello che vorrei prendere in considerazione qui è la relazione fra una preoccupazione centrale in antropologia, la spiegazione causale dei fatti culturali, e una centrale in psicologia, lo studio dei processi concettuali di pensiero. Nonostante il ruolo centrale rivestito da entrambe, né la spiegazione dei fatti culturali, né la psicologia del pensiero costituiscono discipline ben sviluppate. Si tratta di ricerche a uno stadio programmatico, al più pionieristico, e lo stesso vale, ovviamente, per la loro interazione. Malinowski riteneva che i fatti culturali dovessero essere parzialmente spiegati in termini psicologici. Questa visione è stata spesso accolta con scetticismo, o addirittura derisa, come
Si vedano Levine 1973; Jahoda 1982. 1
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se si trattasse di un errore concettuale ingenuo ed evidente; quello che trovo sbagliato è il tipo di argomenti usati contro tale posizione, mentre trovo ingenua l'idea che le capacità mentali umane rendano possibile la cultura ma non ne determinino in alcun aspetto il contenuto e l'organizzazione. Non ci stiamo chiedendo se, in linea di principio, le spiegazioni psicologiche dei fatti culturali siano ammissibili. Ci stiamo chiedendo quali considerazioni psicologiche siano effettivamente esplicative. Su questo aspetto, la posizione che difendo contrasta con quella di Malinowski: egli poneva l'accento sulla psicologia delle emozioni, io su quella della cognizione.2 Malinowski riteneva che alcune rappresentazioni culturali fossero basate su disposizioni psicologiche e rispondessero a bisogni psicologici (così come vedeva altri aspetti della cultura come risposte a bisogni biologici). Ritengo che, più importante dei bisogni e almeno altrettanto delle disposizioni, esista una ricettività psicologica alla cultura. Epidemiologia La mente umana è suscettibile alle rappresentazioni culturali così come il corpo lo è alle malattie. Ovviamente le malattie sono per definizione nocive mentre le rappresentazioni non lo sono, ma pensate davvero che tutte le rappresentazioni culturali siano utili, funzionali o adattive? Io non lo credo. Alcune rappresentazioni sono utili, altre dannose; la maggior parte non ha probabilmente alcun effetto evidente negativo o positivo sul benessere individuale, del gruppo o della specie - o almeno non il tipo di effetti che ci fornirebbero una spiegazione. Che cosa vogliamo spiegare? Prendiamo un gruppo umano abitato da una popolazione più numerosa di rappresentazioni; alcune di esse restano in un individuo solo per qualche secondo, altre abitano l'intero gruppo per molte generazioni. Tra questi due estremi, si trovano rappresentazioni con distribuzioni più o meno ampie. Quando parliamo di cultura ci riferiamo normalmente a rappresentazioni largamente distribuite e di lunga durata, anche se non esiste una soglia tra le rappresentazioni culturali da un lato e quelle individuali dall'altro. Le rap
2 Non voglio dire che la psicologia delle emozioni non sia pertinente alla spiegazione della cultura. Tendo a credere però che ci sia bisogno di considerevoli progressi dal lato cognitivo per capire meglio il ruolo delle emozioni nella cultura. Per una discussione recente si vedano Lewis 1977; Schweder 1979a, 1979b, 1980; D'Andrade 1981; Gibbard 1990.
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presentazioni sono più o meno distribuite, e quindi più o meno culturali. Spiegare la cultura allora significa rispondere alla domanda: Perché alcune rappresentazioni hanno più successo di altre in una popolazione umana, perché sono più contagiose? Per rispondere, bisogna considerare in generale la distribuzione delle rappresentazioni. Vedo quindi la spiegazione causale dei fatti culturali necessariamente nella forma di una sorta di epidemiologia delle rappresentazioni.3 In primo luogo esistono somiglianze superficiali evidenti; per esempio, una rappresentazione può essere culturale in molti modi diversi. Alcune sono trasmesse lentamente attraverso le generazioni - sono quelle che chiamiamo tradizioni e sono paragonabili alle malattie endemiche; altre - le mode, tipiche delle culture moderne - si diffondono rapidamente in un'intera popolazione e sono paragonabili alle epidemie. Gli epidemiologi hanno costruito modelli matematici sofisticati della trasmissione delle malattie, ed è interessante cercare di applicarli alle varie forme di trasmissione culturale. È questa la linea di Cavalli-Sforza e Feldman (1981). Benché il loro lavoro sia di notevole interesse, specialmente data la penuria di modelli esplicativi nello studio della cultura, essi trascurano alcune differenze importanti fra la trasmissione delle malattie e la trasmissione culturale, oltre che somiglianze più profonde tra l'epidemiologia delle malattie e quella delle rappresentazioni. La trasmissione di malattie infettive è caratterizzata da processi di replicazione di virus o batteri; solo occasionalmente, invece di una replicazione si verifica una mutazione. I modelli epidemiologici standard rappresentano la trasmissione di malattie stabili o di malattie con variazioni limitate e prevedibili; le rappresentazioni tendono invece a essere trasformate ogni volta che sono trasmesse. Per esempio, la vostra comprensione di quello che sto dicendo non è una riproduzione nella vostra mente dei miei pensieri, ma una costruzione di pensieri vostri più o meno collegati ai miei. La replicazione o riproduzione di una rappresentazione, se mai avviene, è un'eccezione. Un'epidemiologia delle rappresentazioni è quindi prima di tutto lo studio delle loro trasformazioni: essa considera la riproduzione di rappresentazioni come un caso limite di trasformazione. L'epidemiologia delle malattie deve talora spiegare perché una malattia si trasforma durante il processo di trasmissione. L'epidemiologia delle rappresentazioni, invece, deve spiegare perché alcune rappresentazioni restano relativamente stabili, cioè perché
Per un'introduzione all'epidemiologia si veda MacMahon e Pugh 1970. 3
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diventano propriamente culturali. Di conseguenza, se e quando ci sarà bisogno di modelli matematici per la trasmissione culturale, non si tratterà di modelli epidemiologici standard. Lo stesso vale per altri modelli biologici della cultura, come quelli presentati da Dawkins (1976) e da Lumsden e Wilson (1981). È però possibile servirsi dell'analogia epidemiologica in una direzione diversa, più significativa. L'epidemiologia non è una scienza indipendente che studia un livello autonomo della realtà; essa studia la distribuzione delle malattie e le malattie sono caratterizzate dalla patologia. La distribuzione delle malattie non può essere spiegata senza tenere conto del modo in cui esse colpiscono l'organismo, ossia senza guardare alla patologia individuale, e, più in generale, alla biologia individuale. A sua volta, l'epidemiologia è una fonte di dati fondamentale per la patologia. La patologia sta all'epidemiologia come la psicologia del pensiero sta all'epidemiologia delle rappresentazioni: ritengo che l'epidemiologia delle rappresentazioni, in quanto spiegazione causale dei fatti culturali, e la psicologia del pensiero debbano stare in una relazione di sovrapposizione parziale e pertinenza reciproca. La maggior parte delle discussioni sulla relazione fra l'antropologia e la psicologia, al livello teorico che stiamo considerando ora, sono state espresse in termini di riduzionismo versus antiriduzionismo, come se fossero alternative reali e le sole possibili. Per i riduzionisti, i fatti culturali sono fatti psicologici che devono essere spiegati in termini psicologici; per gli antiriduzionisti, i fatti culturali appartengono a un livello autonomo di realtà, e devono essere spiegati essenzialmente nei termini di un altro livello. Credo che in questo caso tanto il riduzionismo quanto l'antiriduzionismo non abbiano molto senso, e che l'analogia epidemiologica fornisca un approccio molto più plausibile. La nozione di riduzione di una teoria a un'altra è abbastanza chiara, ed è illustrata da casi famosi, come la riduzione della termodinamica alla meccanica statistica (si veda Nagel 1961, cap. 11). La nozione di riduzione di un campo di ricerca a un altro, come la riduzione dell'antropologia alla psicologia, è invece più vaga, specialmente quando nessuno dei due campi è dotato di una teoria ben stabilita. In questi casi, dire che un campo non può essere ridotto all'altro significa appoggiarsi su convinzioni a priori più che su argomenti scientifici; alcuni credono nell'unità della scienza, altri nell'emergere dell'evoluzione. Le relazioni tra diversi campi sono comunque troppo varie e sottili
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per essere analizzate semplicemente, o primariamente, in termini di riduzione o non riduzione.4 L'epidemiologia, per esempio, è lo studio ecologico dei fenomeni patologici; la sua ontologia è eclettica come quella dell'e- ecologia, non ha maggiore autonomia di quanta ne abbia que- st'ultima. Non si riduce alla patologia, ma non può essere definita o sviluppata indipendentemente da essa. È ovviamente possibile sviluppare un'epidemiologia della buona salute o di ogni altra condizione e, come propongo io, si può sviluppare un'epidemiologia delle rappresentazioni. Ma qualsiasi 'epidemiologia' si stia considerando, essa deve essere definita in relazione a qualche disciplina affine. Ciò che voglio dire attraverso l'analogia epidemiologica è che la psicologia è necessaria ma non sufficiente per la spiegazione e la caratterizzazione dei fenomeni culturali. I fenomeni culturali sono distribuzioni ecologiche di fenomeni psicologici, non appartengono a nessun livello autonomo di realtà, come vorrebbero gli antiriduzionisti, né alla sola psicologia, come vorrebbero i riduzionisti. L'analogia epidemiologica è allora appropriata in un altro senso. La distribuzione di malattie differenti - come la malaria, il cancro ai polmoni e la talassemia - segue percorsi differenti e richiede spiegazioni molto diverse. Quindi, mentre esiste un approccio epidemiologico caratterizzato da questioni, procedure e strumenti specifici, non esiste una teoria generale dell'epidemiologia. Ogni tipo di malattia richiede una teoria ad hoc e, anche se le analogie sono frequenti e suggestive, non esiste una limitazione di principio riguardo a quanto possano differire le une dalle altre. Per le stesse ragioni, il progetto di una teoria generale della cultura mi sembra fuorviarne. I diversi fenomeni culturali - i riti funerari, i miti, l'artigianato e le classificazioni dei colori - possono rientrare in modelli esplicativi differenti. Quello che l'analogia epidemiologica suggerisce è un approccio generale, un tipo di domande da porsi, un modo di costruire i concetti e una pluralità di scopi teorici non troppo ambiziosi.
Rappresentazioni La nozione di rappresentazione è spesso usata negli studi sulla cultura, ma sin dai tempi delle 'rappresentazioni colletti
Come si vede per esempio nei lavori recenti di filosofia della biologia; si vedano Darden e Maull 1977; Darden 1978. 4
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ve' di Durkheim, il suo statuto ontologico resta molto vago. Se vogliamo seriamente sviluppare un'epidemiologia delle rappresentazioni, non possiamo accontentarci di questo. Una rappresentazione implica una relazione fra tre termini: un oggetto è una rappresentazione di qualcosa, per qualche meccanismo che elabora informazione. Prenderemo qui in considerazione solo rappresentazioni per individui umani, ignorando altri meccanismi di elaborazione dell'informazione come i telefoni e i computer anche se essi influenzano la distribuzione delle rappresentazioni nelle popolazioni umane. Considereremo rappresentazioni di quello che vogliamo: ambiente, fantasia, azione, rappresentazioni di rappresentazioni, e così via, ignorando i complicati problemi filosofici implicati. Il problema che non possiamo ignorare è il seguente: di che tipo di oggetti stiamo parlando quando parliamo di rappresentazioni? Possiamo parlare di rappresentazioni come di oggetti concreti, fisici, collocati nello spazio e nel tempo? A questo livello concreto, dobbiamo distinguere due tipi di rappresentazioni: ci sono rappresentazioni interne al meccanismo di elaborazione dell'informazione, le rappresentazioni mentali; e ci sono rappresentazioni esterne al meccanismo e che il meccanismo tratta come input, le rappresentazioni pubbliche. Consideriamo, per esempio, la ricetta della salsa Mornay in un libro di cucina; si tratta di una rappresentazione pubblica, più precisamente di una serie di segni di inchiostro su carta che può essere letta, cioè trattata come input di un certo tipo. Il lettore costruirà una rappresentazione mentale della ricetta che potrà ricordare, dimenticare o trasformare, oppure seguire, cioè convertire in comportamento. Consideriamo una madre che racconta alla figlia la favola di Cappuccetto Rosso; anche qui ci troviamo davanti a una rappresentazione pubblica, più precisamente a una serie di suoni che provocano la costruzione di una rappresentazione mentale da parte del bambino, il quale può a sua volta ricordarla, dimenticarla, trasformarla e raccontarla, ossia convertirla in un comportamento fisico, in questo caso vocale. A questo livello concreto, ci sono milioni di esemplari della ricetta della salsa Mornay, milioni di esemplari di Cappuccetto Rosso, ossia milioni di rappresentazioni sia pubbliche sia mentali. Un'epidemiologia delle rappresentazioni è uno studio delle catene causali in cui sono coinvolte le rappresentazioni mentali e pubbliche: la costruzione o il recupero di rappresentazioni mentali può far sì che un individuo modifichi l'ambiente fisico circostante, per esempio producendo una rappresentazione pubblica. Tali modificazioni dell'ambiente possono far sì che
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altri individui costruiscano altre rappresentazioni mentali, le quali possono venire immagazzinate e poi recuperate, e successivamente far sì che gli individui modifichino l'ambiente, e così via. Esistono allora due classi di processi rilevanti per un'epidemiologia delle rappresentazioni: processi intraindividuali di memoria e pensiero, e processi interindividuali dove le rappre sentazioni di un soggetto influenzano quelle di altri soggetti attraverso modificazioni dell'ambiente comune circostante. I processi intraindividuali sono puramente psicologici; quelli interindividuali hanno a che fare con gli input e gli output del cervello - cioè con l'interfaccia tra il cervello e il suo ambiente; essi sono in parte psicologici, in parte ecologici. Anche le rappresentazioni possono essere considerate a un livello puramente astratto, senza fare riferimento né alla loro forma mentale nel cervello umano, né alla loro forma pubblica fisicamente percepibile. A tale livello astratto, si possono discutere le proprietà formali delle rappresentazioni: possiamo osservare per esempio che la ricetta della salsa Mornay contiene quella della besciamella e trattarla come esempio di cucina francese borghese - un'altra astrazione. Possiamo analizzare la favola di Cappuccetto Rosso, confrontarla con altre storie e cercare di sostenere, à la Lévi-Strauss, che il personaggio di Cappuccetto Rosso sta in una relazione di inversione simmetrica con Pollicino (più realisticamente che con Amleto, come proponevo in un esempio del capitolo 2). In quanto oggetti astratti, le rappresentazioni hanno proprietà formali ed entrano in relazioni formali le une con le altre. D'altra parte, gli oggetti astratti non entrano direttamente nelle relazioni causali. A causare la vostra indigestione non è la ricetta della salsa Mornay in astratto, ma il fatto che il vostro ospite avesse letto una rappresentazione pubblica, avesse costruito una rappresentazione mentale e l'avesse seguita con maggiore o minore successo. A provocare nel bambino un'eccitante sensazione di paura non è la favola di Cappuccetto Rosso in astratto, ma la comprensione delle parole della madre. Per insistere ancora su questo punto, ciò che ha fatto sì che la salsa Mornay o Cappuccetto Rosso siano diventate rappresentazioni culturali non sono - o meglio, non sono direttamente - le loro proprietà formali; è la costruzione di milioni di rappresentazioni mentali legate causalmente da milioni di rappresentazioni pubbliche. Tra questi processi concreti e le proprietà formali delle rappresentazioni trattate esiste una relazione? Le proprietà formali delle rappresentazioni possono essere considerate in due mo
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di (che non sono incompatibili): come proprietà di oggetti astratti presi in considerazione in quanto tali (approccio plato- nista) o come proprietà che un meccanismo di trattamento dell'informazione, in questo caso la mente umana, può attribuire e utilizzare (approccio psicologico). In altre parole, le proprietà formali delle rappresentazioni (o almeno alcune di esse) possono essere considerate come proprietà potenzialmente psicologiche e sono significative per un'epidemiologia delle rappresentazioni. Ci si può chiedere, per esempio, quali proprietà formali fanno sì che la favola di Cappuccetto Rosso sia più facile da comprendere e da ricordare - e quindi abbia più probabilità di diventare un oggetto culturale - di un resoconto dell'andamento della Borsa valori di oggi. L'approccio platonista può essere di grande interesse intrinseco,5 ma non è appropriato nel caso della ricerca di una spiegazione causale dei fatti culturali. Bisogna considerare sia le rappresentazioni mentali sia quelle pubbliche, e le proprietà formali devono essere descritte in termini psicologici. Presupposti La maggior parte delle discussioni, tanto in antropologia quanto nello studio delle religioni o nella storia delle idee, tratta le rappresentazioni culturali come oggetti astratti: si discute un mito, una dottrina religiosa, un'istruzione rituale, una norma giuridica o anche una tecnica senza nessuna considerazione dei processi psicologici di cui sono oggetto o del passaggio continuo dalle loro versioni mentali a quelle pubbliche. Anche chi si considera materialista discute le rappresentazioni senza considerarne l'esistenza mentale in quanto stimoli, processi e stati psicologici. La differenza tra coloro che si proclamano materialisti e coloro che sono da essi accusati di idealismo è che i materialisti vedono le rappresentazioni più come effetti di condizioni materiali, mentre gli idealisti le vedono più come cause di tali condizioni. Sia i 'materialisti' che gli 'idealisti' parlano delle rappresentazioni considerate in astratto come se entrassero in relazione causale con il mondo materiale; quale che sia l'ordine delle cause e degli effetti preferito, presuppone una forma di idealismo ontologico molto difficile da difendere.
Per due versioni differenti dell'approccio platonista si vedano Popper 1972 e Katz 1981. 5
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Naturalmente, si può pensare che le spiegazioni causali di fatti culturali possano essere formulate a un livello molto astratto, che trascuri i micromeccanismi di cognizione e comunicazione. È certamente quello che hanno cercato di fare gli antropologi e i sociologi, per esempio collegando l'infrastruttu- ra economica e la religione. Ma, per quanto corretta possa essere, tale spiegazione risulta incompleta: perché l'infrastruttura economica possa influenzare la religione, essa deve prima di tutto influenzare le menti degli individui. Ci sono solo due modi, uno cognitivo e l'altro non cognitivo, in cui si può influenzare una mente individuale. Essa può essere influenzata da stimoli, cioè da modificazioni molto specifiche dell'ambiente fisico del cervello; oppure può esserlo attraverso modificazioni fisiche non cognitive, in particolare modificazioni chimiche del cervello provocate per esempio da carenze nutritive o da un elettroshock. Per dimostrare che le condizioni economiche influenzano la religione, bisogna essere in grado di dimostrare che esse influenzano, tanto in modo cognitivo quanto non cognitivo, l'interazione tra i cervelli e gli ambienti a loro circo- stanti. Bisogna inoltre dimostrare che questa azione causa modificazioni cognitive e comportamentali che, a un livello più astratto, vengono descritte come religione. Al momento non disponiamo né di una spiegazione generale convincente dei fatti culturali a livello astratto, né di un'epidemiologia delle rappresentazioni. La domanda che si pone è allora: dove dirigere i nostri sforzi? Ovviamente è positivo che ognuno segua la propria intuizione e che non diamo tutti la stessa risposta a questa domanda. Nel difendere un'epidemiologia delle rappresentazioni, non volevo trasformare gli antropologi in epidemiologi; volevo semplicemente attirare l'attenzione su questo approccio alternativo. immaginiamo che sia possibile, a livello astratto, una spiegazione soddisfacente dei fenomeni culturali; essa sarebbe, nella migliore delle ipotesi, incompleta, e non potrebbe sostituire un'epidemiologia delle rappresentazioni solidamente radicata nella psicologia, che sarebbe comunque necessario sviluppare. Immaginiamo ora un'epidemiologia delle rappresentazioni ben sviluppata. Per quel che sappiamo, essa potrebbe fornire solo una spiegazione incompleta o inutilmente pesante dei fatti culturali. Ma esiste anche la possibilità che fornisca tutte le spiegazioni causali di cui abbiamo bisogno: un'epidemiologia delle rappresentazioni è sicuramente necessaria, e forse sufficiente, per la spiegazione causale dei fatti culturali. E questa mi sembra una ragione forte per sviluppare un approccio epidemiologico. Con questo argomento non spero di convincere gli antropo
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logi e i sociologi che sono paghi di restare al livello astratto e di ignorare i problemi psicologici, il cui atteggiamento è meno basato su un'ontologia sbagliata che su una psicologia semplicistica. Benché riconoscano che la cultura debba avere una realizzazione psicologica, essi continuano a ritenere che la mente umana sia tale da permettere una facile realizzazione di tutto, priva di effetti sui contenuti della cultura. Nella maggior parte della letteratura, i processi intra- e interindividuali sono semplicemente postulati, implicitamente o esplicitamente, per assicurare una circolazione rapida e facile di qualsiasi rappresentazione concepibile. La possibilità che le capacità cognitive umane possano funzionare meglio per certe rappresentazioni che per altre è di solito ignorata. Le trasformazioni causate dallo stoccaggio e dal recupero dell'informazione vengono raramente considerate: è come se il recupero fosse l'effetto inverso della memorizzazione. Allo stesso modo i processi interindividuali sono considerati semplici imitazioni, o codifiche e decodifiche automatiche di rappresentazioni. Se queste ipotesi fossero corrette, i micromeccanismi causali di trasmissione delle rappresentazioni avrebbero solo una pertinenza marginale; qualsiasi rappresentazione potrebbe passare inalterata attraverso i canali della comunicazione sociale, con solo un'alternanza regolare tra le sue forme pubbliche e mentali ripetute indefinitamente. Un'epidemiologia delle rappresentazioni affronterebbe problemi banali; si potrebbe parlare di rappresentazioni culturali in termini puramente astratti senza perdere niente di essenziale. In realtà, è sufficiente esplicitare queste assunzioni psicologiche per mostrarne l'ingenuità. Sappiamo tutti, senza bisogno di fare appello alla psicologia accademica ma grazie all'esperienza personale, che alcune rappresentazioni, come la dimostrazione del teorema di Godei, sono molto difficili da comprendere, anche se desideriamo farlo. Alcune rappresentazioni, per esempio un numero di venti cifre, sono difficili da ricordare anche se non da comprendere. Altre, profondamente personali, sono difficili o addirittura impossibili da trasmettere senza perdite e distorsioni. D'altro lato, ci sono alcune rappresentazioni, come la favola di Cappuccetto Rosso, o un motivo popolare, che non possiamo fare a meno di ricordare anche quando vorremmo dimenticarcene. Che cosa fa sì che alcune rappresentazioni siano più difficili da interiorizzare, ricordare o trasmettere di altre? Si può essere tentati di rispondere: la loro complessità, e di intendere la 'complessità' come una proprietà astratta delle rappresentazioni. Ma questa risposta non serve. Un numero di venti cifre non è più complesso della favola di Cappuccetto Rosso: qualsiasi compu-
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ter può lavorare sul primo molto più facilmente che sulla seconda Infatti, mentre è abbastanza facile fornire al computer una versione di Cappuccetto Rosso, non è chiaro come potremmo fornire in input la storia in sé. Gli esseri umani invece ricordano Una storia più facilmente di un testo; ciò che è complesso per un cervello umano è diverso da ciò che lo è per un computer; la complessità non è una spiegazione, ma qualcosa da spiegare. Quello che fa sì che alcune rappresentazioni siano più difficili da interiorizzare, ricordare, o esplicitare di altre, ossia quello che le rende più complesse per gli esseri umani è l'organizzazione delle capacità cognitive e comunicative umane. Disposizioni e ricettività Introdurrò ora una distinzione tra disposizioni e ricettività, e passerò brevemente in rassegna alcune questioni classiche nello studio della cultura per sostenere che, in una prospettiva epidemiologica, l'antropologia e la psicologia possono essere reciprocamente pertinenti. Le capacità cognitive umane determinate geneticamente sono il risultato di un processo di selezione naturale. Possiamo assumere legittimamente che siano adattamenti: ossia che abbiano aiutato la sopravvivenza e la diffusione della specie. Ciò non significa che tutti i loro effetti siano degli adattamenti. Alcuni effetti del nostro patrimonio genetico possono essere descritti come disposizioni, altri come ricettività, anche se non sempre è facile cogliere la distinzione. Le disposizioni sono state selezionate positivamente nel processo di evoluzione biologica; le ricettività sono effetti collaterali delle disposizioni. Le ricettività che hanno effetti fortemente nocivi sull'adattamento sono eliminate assieme agli organismi ricettivi; quelle che hanno forti effetti positivi possono, nel tempo, essere selezionate e divenire quindi indistinguibili dalle disposizioni. La maggior parte delle ricettività, però, ha solo effetti marginali sull'adattamento; esse devono la loro esistenza alla pressione selettiva che ha pesato non su di loro, ma sulle disposizioni di cui esse sono effetti collaterali. Sia le disposizioni che le ricettività hanno bisogno di condizioni ambientali appropriate per il loro sviluppo ontogenetico. Le disposizioni trovano le proprie condizioni ottimali nell'ambiente in cui si erano sviluppate filogeneticamente. Le ricettività si possono rivelare solo come risultato di un cambiamento delle condizioni ambientali. L'Homo sapiens, per esempio, ha una disposizione per il cibo dolce. Nell'ambiente naturale in cui la specie si è sviluppata
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si trattava ovviamente di un valore adattivo che aiutava gli individui a selezionare il cibo più appropriato. Nell'ambiente moderno, in cui si produce lo zucchero artificialmente, ciò provoca una predisposizione all'eccessivo consumo di zucchero, con tutti gli effetti nocivi ben conosciuti. Concetti di base Tenendo a mente la distinzione tra disposizioni e ricettività, consideriamo in primo luogo i problemi suscitati dai sistemi concettuali. Ogni cultura è caratterizzata da un sistema di concetti differenti. Un problema antropologico tipico è capire le possibili variazioni dei sistemi concettuali da cultura a cultura. Ci sono vincoli universali sulla struttura di questi sistemi? Un problema psicologico è capire come i concetti si formino nelle menti individuali. Una visione della formazione dei concetti, che ha ispirato l'analisi componenziale in antropologia6 e i primi studi sulla formazione dei concetti in psicologia,7 sostiene che un nuovo concetto è formato combinando diversi concetti già disponibili. Per esempio, se un bambino ha già il concetto di genitore e quello di femmina, può formare il concetto di 'madre' combinando 'genitore' e 'femmina'. Secondo questa visione della formazione dei concetti, i concetti che non possono essere scomposti in altri più elementari non possono essere acquisiti, e devono quindi essere innati. La maggior parte dei nostri concetti non può essere scomposta in questo modo: provate a scomporre per esempio 'giallo', 'giraffa', 'oro', 'elettricità', 'machiavellico' o 'dignità'. Non riuscite? Allora, secondo tale teoria, questi concetti e altre centinaia o migliaia, devono essere innati, cosa che, a eccezione di 'giallo', non sembra davvero plausibile. Inoltre, anche quando si può formare un concetto combinandone di più elementari, ci possono essere ragioni di dubitare che questo sia il modo in cui avviene davvero la sua formazione: sicuramente i bambini non formano il concetto di madre costruendo l'intersezione di 'femmina' e 'genitore'. Essi formano piuttosto il concetto di genitore attraverso l'unione di 'madre' e 'padre'. Un altro modo in cui i concetti possono essere insegnati e appresi è per ostensione. Mostrate un uccello a un bambino e
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Si veda Tyler 1969. Si vedano Vygotsky 1965; Bruner et alii 1956.
ditegli: "Questo è un uccello"; dopo alcune di queste esperienze, il bambino acquisirà il concetto di uccello. L'ostensione genera problemi ben noti: potete puntare il dito nella direzione dell'uccello, ma indicherete contemporaneamente nella direzione di un oggetto materiale, un animale, un corvo, questo corvo particolare, un corpo piumato, la coda di un uccello, una cosa su un albero, una fonte di rumore, una cosa nera e un'infinità di altre cose. Come fa il bambino a realizzare che intendevate portare la sua attenzione solo su una di esse, e che la parola che avete pronunciato corrisponde solo a uno di questi concetti? La combinazione logica e l'ostensione non sono però mutualmente incompatibili. Un'ipotesi più plausibile si può trovare mescolando le due teorie. L'ostensione funziona se opera sotto forti vincoli logici. Immaginate che un bambino, senza avere un concetto innato di uccello, abbia uno schema innato per i concetti zoologici e una disposizione innata per applicare e sviluppare questo schema ogni volta che gli viene fornita l'informazione che sembra rilevante allo scopo. Se puntate il dito nella direzione di un animale e pronunciate una parola, allora, a meno che il contesto suggerisca altrimenti, la prima ipotesi del bambino sarà che gli forniate il termine che corrisponde al concetto zoologico, e, più specificamente, a un concetto tassonomico. Il bambino si aspetterà che il concetto da sviluppare abbia le proprietà logiche caratteristiche dei concetti tassonomici. Se vi comportate secondo le sue aspettative, allora il bambino sarà sulla buona strada (e se non lo fate, che genitori siete?). Le implicazioni antropologiche o epidemiologiche di questa visione della formazione dei concetti sono chiare: gli esseri umani hanno una disposizione a sviluppare concetti come quello di uccello; di conseguenza, tali concetti sono 'contagiosi'. Ai bambini è sufficiente ben poca esperienza e incoraggiamento per svilupparli e applicarli in modo appropriato; e, una volta che essi siano presenti nel linguaggio, è difficile dimenticarli. In ogni linguaggio si troverà dunque un gran numero di questi concetti. Generalizziamo queste speculazioni. Assumiamo di avere una disposizione innata a sviluppare concetti secondo certi schemi. Abbiamo schemi differenti per domini differenti: i nostri concetti di specie viventi tendono a essere tassonomici; quelli di manufatti tendono a essere caratterizzati in termini di funzioni; quelli di colore tendono a essere centrati ognuno su una sfumatura focale, e così via. I concetti che si conformano a questi schemi sono facili da interiorizzare e da ricordare. Chiamiamoli concetti di base. In ogni lingua si trova un grande numero di concetti di base; essi naturalmente differiscono da una
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lingua a un'altra, ma non di molto. I concetti di base di un'altra lingua tendono a essere facili da riconoscere, imparare e tradurre comparativamente. Esiste un numero crescente di ricerche sui concetti di base sia in psicologia che in antropologia, un dominio che ha generato più collaborazione tra le due discipline di qualsiasi altro. 8 Questo lavoro tende a mostrare che la formazione individuale dei concetti, e quindi la variabilità culturale, sono realmente governate da schemi e disposizioni innati. Ciò è stato dimostrato solo per pochi domini semantici. È possibile generalizzare? Tutti i concetti sono formati con pochi schemi innati? Ne dubito molto. Primo, non c'è nessuna ragione a priori per assumere che la formazione dei concetti avvenga sempre nello stesso modo e quindi cada sotto un unico modello. Secondo, mentre alcuni concetti sono acquisiti facilmente dopo una breve esposizione, cosa che suggerisce che ci sia una predisposizione ad acquisirli, la formazione di altri concetti, come quelli scientifici o religiosi, richiede una grande quantità di tempo, interazione e spesso anche insegnamento metodico. Questi concetti elaborati sono acquisiti all'interno del quadro delle rappresentazioni complesse del mondo. Tali rappresentazioni, e quindi i concetti che ne sono caratteristici, sono basate più su ricettività che su disposizioni. Rappresentazioni culturali Vediamo ora come l'approccio epidemiologico si applica allo sviluppo sociale e alla formazione individuale delle rappresentazioni del mondo. Le capacità cognitive umane agiscono, tra l'altro, come filtro sulle rappresentazioni che hanno buone probabilità di diffondersi in una popolazione umana, ossia che sono suscettibili di diventare rappresentazioni culturali. In un certo senso, il ruolo di filtro è stato riconosciuto da tempo. Gli antropologi accettano generalmente che un resoconto adeguato delle credenze presenti in una cultura debba mostrare che esse sono in qualche modo razionali nel loro contesto. Ciò che si intende con razionalità non è né chiaro né costante. Generalmente si ritiene che la razionalità implichi almeno un certo grado di coerenza tra credenze e tra credenze ed
8 Si vedano Berlin e Kay 1969; Miller e Johnson-Laird 1976; Rosch e Lloyd 1978; Keil 1979; Ellen e Reason 1979; Smith e Medin 1981; e gli articoli di sintesi di Scott Atran (1981, 1983, 1987).
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esperienza. La razionalità presuppone quindi dei meccanismi cognitivi che tendano a prevenire o a eliminare le incoerenze empiriche e le contraddizioni logiche. Molti antropologi, da Durkheim a Clifford Geertz, hanno sostenuto, implicitamente o esplicitamente, che tutte le credenze di una cultura, banali o misteriose che siano, vengano rappresentate mentalmente nello stesso modo, e quindi obbediscano agli stessi criteri di razionalità. Nei nostri termini, esse sono fíltrate dagli stessi meccanismi cognitivi. Quando si tratta di spiegare le credenze apparentemente irrazionali, questa posizione tende a portare al relativismo culturale, ossia all'ipotesi che i criteri di razionalità variano da cultura a cultura. Altri antropologi9 hanno sostenuto che la conoscenza empirica quotidiana del mondo - come la rappresentazione che il miele sia dolce -, le credenze religiose - come il dogma della Santissima Trinità -, e le ipotesi scientifiche - come la teoria della relatività - non siano lo stesso tipo di oggetto mentale. Differenti tipi di rappresentazioni hanno criteri di razionalità diversi, sono filtrati cognitivamente da processi diversi. Proviamo a confrontare brevemente la conoscenza empirica quotidiana e le credenze religiose. Faccio l'ipotesi che esista una disposizione per costruire una certa forma di conoscenza empirica che può essere caratterizzata come segue: -Essa consiste di rappresentazioni semplicemente memorizzate nella memoria enciclopedica e trattate dalla mente come vere descrizioni del mondo solo per il fatto di essere memorizzate in questo modo. -Le rappresentazioni così formate sono formulate nel vocabolario dei concetti di base; non si può quindi avere questo genere di conoscenza riguardo agli atomi, ai virus, al mana o alla democrazia (che credo non siano concetti di base). -La loro coerenza reciproca è verificata automaticamente, in particolare la loro coerenza con gli input percettivi. La conoscenza empirica quotidiana si è sviluppata sotto forti vincoli: concettuali, logici e percettivi; di conseguenza tende a essere coerente ed empiricamente adeguata. D'altro lato, essa si applica solo ad alcuni ambiti cognitivi, e in maniera molto rigida. Ci sono altre forme di rappresentazione mentale che si sono sviluppate con maggiore flessibilità e con meccanismi di filtraggio più deboli. Esse dipendono da altre capacità cognitive,
Per esempio Bloch 1977; Sperber 1974b, 1982. 9
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in particolare quella di formare rappresentazioni di rappresentazioni. Gli esseri umani possono rappresentare mentalmente non solo i fatti ambientali e somatici, ma anche alcuni stati mentali, alcune rappresentazioni, alcuni processi. Il sistema umano di rappresentazione interna - il linguaggio del pensiero, per usare l'espressione di Jerry Fodor (1975) - può servire come suo proprio metalinguaggio. Questa capacità metarappresentazionale, come possiamo definirla, è essenziale all'acquisizione della conoscenza umana (oltre che alla comunicazione verbale, anche se qui non discuterò di questo). Primo, essa permette agli esseri umani di dubitare e di non fidarsi: dubitare e non fidarsi implica rappresentare una rappresentazione come improbabile o falsa. Presumibilmente altri animali non hanno la capacità di non fidarsi di quello che percepiscono o di quello che decodificano. Secondo: le capacità metarappresentazionali permettono agli esseri umani di trattare un'informazione che non comprendono completamente, un'informazione della quale non sono capaci al momento di costruire una rappresentazione ben elaborata. Se un meccanismo di trattamento dell'informazione senza capacità metarappresentazionali non è in grado di rappresentare informazione attraverso una formula ben elaborata del suo linguaggio interno, non può trattenere o utilizzare l'informazione completamente. Un meccanismo che ha capacità meta- rappresentazionali, d'altro lato, può contenere una rappresentazione incompleta all'interno di una metarappresentazione ben elaborata. I bambini usano in continuazione questa capacità per trattare informazione non pienamente compresa. Vengono dette loro cose che non capiscono molto bene da persone a cui essi credono; hanno quindi buone ragioni per pensare che quanto viene detto loro è vero, anche se non sanno esattamente che cos'è stato detto loro. A un bambino viene comunicato per esempio che il signor Tal dei Tali è morto, senza che egli abbia ancora un concetto preciso della morte. La migliore rappresentazione che può formarsi è incompleta, dato che contiene un concetto compreso a metà. Per trattare questa rappresentazione incompleta, egli deve metarappresentarsela, ossia inserirla in una rappresentazione della forma "è un fatto che il signor Tal dei Tali è 'morto', qualsiasi cosa significhi 'essere morto'". Ciò permette al bambino di trattenere l'informazione, anche se non la comprende completamente, e costituisce anche un incentivo per sviluppare il concetto di morte, fornendogli allo stesso tempo un dato pertinente per lo sviluppo di tale concet-
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lo. Anche gli adulti, naturalmente, quando incontrano nuovi concetti e idee che comprendono solo a metà li inseriscono in metarappresentazioni. La mia ipotesi è che gli esseri umani abbiano una disposizione a usare le capacità metarappresentazionali per ampliare la propria conoscenza e il proprio repertorio concettuale. D'altronde, le capacità metarappresentazionali creano anche notevoli ricettività. La funzione più plausibile della capacità di avere concetti e idee compresi a metà è di fornire un passo intermedio nel processo di comprensione. Ma la stessa capacità rende possibile l'invasione della mente da parte di misteri concettuali che non potranno mai essere chiariti. II vincoli razionali sulle idee comprese a metà non sono molto stretti: la coerenza interna di un'idea non completamente compresa e la sua coerenza rispetto ad altre idee e ipotesi non possono essere verificate in modo appropriato: se si rileva un'incoerenza, potrebbe dipendere da un'interpretazione errata della credenza. Per il bambino, l'idea stessa della morte e quindi l'affermazione che qualcuno è morto può sembrare autocontradditoria; egli può tuttavia accettarla, senza rischio di irrazionalità, sotto l'ipotesi che il difetto è nella propria comprensione e non nel concetto o nell'affermazione. Nel caso delle idee non comprese appieno, 'l'argomento di autorità' ha davvero autorità. IIIl fatto che idee e concetti misteriosi possano facilmente soddisfare i criteri di razionalità non è sufficiente a garantirne il successo culturale. Esiste un'infinità di misteri in competizione per occupare lo spazio mentale, e quindi lo spazio culturale. Di quale vantaggio dispongono i misteri che vincono la competizione? La mia ipotesi è che i misteri culturali siano più evocativi e quindi più facili da ricordare. L'evocazione può essere vista come una forma di risoluzione di problemi: il problema sta nel trovare un'interpretazione più precisa per qualche idea compresa a metà. Per fare questo, si cercano nella memoria ipotesi e credenze nel contesto delle quali le idee comprese a metà abbiano senso. A volte il problema posto da un'idea non compresa appieno - per esempio una definizione delle parole crociate - è risolto facilmente con una breve evocazione. In altri casi l'idea è compresa così male, ed è così distante dalle altre rappresentazioni mentali del soggetto, che l'evocazione non sa dove cominciare. Le rappresentazioni più evocative sono quelle più vicine alle altre rappresentazioni del soggetto, ma a cui non si può dare un'interpretazione definitiva. Sono questi misteri pertinenti, come possiamo chiamarli, ad avere il maggior successo culturale. L'interesse delle credenze culturali consiste apparentemente
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nel fatto che la loro irrazionalità apparente non dipende da un certo distacco dal senso comune, o dal fatto che siano timide estrapolazioni non sostenute dall'evidenza: si tratta di violente provocazioni contro la razionalità del senso comune. Esse includono credenze in creature che possono essere contemporaneamente in due luoghi, o che possono essere qui ma restare invisibili, e quindi violare apertamente alcune assunzioni universali sui fenomeni fisici; oppure possono vertere su creature che possono trasformarsi da una specie animale a un'altra, in aperta contraddizione con le assunzioni universali sui fenomeni biologici; su creature che sanno ciò che è successo e ciò che succederà senza che nessuno lo abbia detto loro, e quindi in aperta contraddizione con le assunzioni universali sui fenomeni psicologici. Se queste credenze paradossali fossero rappresentate in modo ben formato, la loro incoerenza risulterebbe chiara. Ma rifiutarle genererebbe un altro tipo di paradosso: sarebbe contraddittorio con la fiducia nei confronti della credibilità della fonte delle credenze. Si può ottenere una coerenza totale solo trattando queste credenze come misteri, perché, in quanto tali, esse sono pertinenti proprio a causa del loro carattere paradossale, ossia a causa del ricco sfondo di conoscenze empiriche da cui si distaccano sistematicamente. La loro pertinenza permette loro di ottenere l'attenzione delle persone, e quindi di essere meglio distribuite rispetto alle rappresentazioni semplicemente oscure. I tentativi di spiegare le credenze religiose e altri misteri culturali in termini di alcune disposizioni psicologiche universali non si sono rivelati convincenti. Io li ritengo fuorviami. A differenza della conoscenza empirica, le credenze religiose non si sviluppano a partire da una disposizione, ma da una ricettività.
Memoria e letteratura orale Fino a ora ho preso in considerazione solo il ruolo dei processi cognitivi di formazione dei concetti e delle rappresentazioni. Ci sono altri processi cognitivi, processi di memorizzazione e di recupero dell'informazione, e processi di comunicazione, altrettanto essenziali alla spiegazione dei fatti culturali. Consideriamo il caso di una società di tradizione orale, senza scuola o altre istituzioni educative. In una società del genere, la maggior parte dell'apprendimento è spontanea. La maggior parte delle rappresentazioni mentali sono costruite, memoriz-
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zale e recuperate senza sforzo deliberato. Vorrei proporre una legge dell'epidemiologia delle rappresentazioni che si applica a questa società: in una tradizione orale, tutte le rappresentazioni culturali sono facili da ricordare; quelle difficili da ricordare vengono dimenticate, o trasformate in rappresentazioni più facili da ricordare, prima di raggiungere il livello di distribuzione culturale. Questa legge ha un'applicazione immediata allo studio delle narrazioni orali. Possiamo dare per scontato che i racconti, i miti e così via siano oggetti ottimali per la memoria umana, e che diversamente sarebbero stati dimenticati. Che cosa rende certi racconti così memorizzabili? Che cosa fa sì che la mente umana sia così adatta a ricordarli? Qui l'importanza reciproca dell'antropologia e della psicologia dovrebbe risultare evidente; ciononostante, in antropologia, con qualche eccezione, si studia la letteratura orale senza badare alla psicologia.10 D'altra parte, nella psicologia cognitiva esiste un numero crescente di ricerche sulla struttura dei racconti e sui suoi effetti sulla memoria,11 ma non viene tratto alcun vantaggio dalla competenza antropologica. Con la comparsa di nuove tecniche di comunicazione, in particolare la scrittura, è possibile comunicare più cose, e alla memoria interna si aggiungono depositi esterni12; di conseguenza la memorizzazione e la comunicazione hanno un minore effetto di filtraggio. Si possono sviluppare per esempio altre forme di letteratura, e le forme particolari che si trovano nella tradizione orale possono anche non essere mantenute.
Osservazioni conclusive Vorrei ripetere ancora che non è mia intenzione presentare l'epidemiologia delle rappresentazioni come sostituto di altre prospettive antropologiche, ma come un ulteriore contributo, essenziale alla spiegazione causale dei fatti culturali e allo sviluppo di un'interazione interessante fra antropologia e psicolo-
10 In particolare Colby e Cole 1973. Lévi-Strauss (specialmente 1971) ha fatto riferimento al ruolo della memoria nella formazione dei miti, ma senza approfondire la psicologia della memoria. Si veda Sperber 1974b, 1982, cap. 3, per una discussione del suo contributo. 11 Si vedano per esempio Rumelhardt 1975; Kintsch 1971; Mandler e Johnson 1977; van Dijk 1980; Brewer e Lichtenstein 1981; Wilensky 1983. 12 Si veda Goody 1977, per una discussione antropologica.
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già. Si può ugualmente obiettare che il compito che assegno a un'epidemiologia delle rappresentazioni è troppo grande. Si potrebbe dire che tutti gli esempi che ho discusso finora - concetti, credenze, narrazioni riguardano rappresentazioni che possono essere interiorizzate individualmente, e che sono culturali nella misura in cui molti individui le interiorizzano. Ma che cosa dire delle istituzioni? Certamente una scuola, un rituale, un sistema giudiziario sono cose culturali; ma non sono quel genere di cose che può essere interiorizzato individualmente. Non escono dall'ambito di un'epidemiologia delle rappresentazioni, e l'affermazione che la spiegazione causale dei fatti culturali debba avere la forma di un'epidemiologia non è palesemente esagerata? Ecco la controbiezione. Un'epidemiologia delle rappresentazioni non studia le rappresentazioni ma la loro distribuzione (e quindi le modificazioni dell'ambiente che sono implicate causalmente da tali rappresentazioni). Le classificazioni culturali, le credenze, i miti, e così via sono caratterizzati da distribuzioni omogenee; versioni molto simili della stessa rappresentazione sono distribuite in una popolazione umana. Altre distribuzioni culturali sono differenziali: la distribuzione di certe rappresentazioni in certi modi fa sì che altre rappresentazioni lo siano in altri modi. Ciò, a mio avviso, è caratteristico delle istituzioni. Alcuni insiemi di rappresentazioni includono rappresentazioni del modo in cui l'insieme deve essere distribuito. Un'istituzione è la distribuzione di un insieme di rappresentazioni che è governato da rappresentazioni che appartengono all'insieme stesso. Ciò fa sì che le istituzioni siano in grado di autoperpetuarsi. Studiare le istituzioni significa allora studiare un tipo particolare di distribuzione di rappresentazioni e tale studio ricade esattamente nell'ambito di un'epidemiologia delle rappresentazioni. Terminerò illustrando questa caratterizzazione delle istituzioni con un esempio. Pensate alle Malinowski Memorial Lec- tures. Come converrete, si tratta di un'istituzione. Quando le conferenze furono istituite per la prima volta, venne messa su carta una rappresentazione, alla quale nel corso del tempo vi sono state aggiunte non scritte. La rappresentazione prevede che ogni anno vengano distribuiti degli inviti: uno al relatore e gli altri ai membri del pubblico. Essa stabilisce inoltre che il relatore distribuisca al pubblico quella rappresentazione complessa che definiamo 'conferenza'; che faccia rispettosamente riferimento a Malinowski; che dopo circa un'ora si fermi, in
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modo che il pubblico possa andare a dissetarsi e che consegni, qualche settimana più tardi, una versione scritta della sua rappresentazione orale alla rivista "Man" per assicurarne una distribuzione più ampia e duratura. Quando tutte queste rappresentazioni particolari sono state distribuite secondo quanto stabilito dalla prima di esse, quello che avete - o, in questo caso, avete avuto - è una Malinowski Memorial Lecture.
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4. L'epidemiologia delle credenze
Vorrei cercare di unire due tipi di speculazioni: le speculazioni antropologiche sulle rappresentazioni culturali e quelle psicologiche sull'organizzazione cognitiva delle credenze e proporre, come risultato, alcuni frammenti di una possibile risposta alia domanda: In che modo certe credenze diventano parte della cultura? A questo stadio è possibile solo dare una risposta vaga, parziale e approssimativa oppure accantonare la domanda: non esiste una teoria abbastanza valida, né vi sono dati sufficienti per agire diversamente. Speculazioni antropologiche Uso l'espressione 'rappresentazioni culturali' in senso lato, includendovi tutto quanto sia culturale e sia contemporaneamente una rappresentazione. In questa accezione le rappresentazioni culturali possono essere descrittive ("le streghe volano sui manici di scopa") o normative ("con il pesce si beve vino bianco"); semplici, come in entrambi gli esempi proposti, o complesse, come il diritto consuetudinario o l'ideologia marxista; verbali, come nel caso di un mito, o non verbali, come nel caso di una maschera, oppure multimediali come per esempio una messa. Per cominciare, due osservazioni sulla nozione di rappresentazione. In primo luogo, 'rappresentare' non mette in relazione due termini - qualcosa rappresenta qualcosa - ma tre: qualcosa rappresenta qualcosa per qualcuno. In secondo luogo, dobbiamo distinguere tra due tipi di rappresentazioni: le rappresentazioni interne o mentali - come per esempio i ricordi, che sono pattern nel cervello e che rappresentano qualcosa
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solo per il possessore del cervello - e le rappresentazioni esterne o pubbliche - come per esempio le espressioni linguistiche, che sono fenomeni materiali nell'ambiente delle persone e che rappresentano qualcosa per chi le percepisce e le interpreta.1 Quali sono le rappresentazioni di base, quelle private o quelle pubbliche? La maggior parte degli psicologi cognitivi (per esempio Fodor 1975) vede le rappresentazioni mentali come più basilari: perché le rappresentazioni pubbliche siano rappresentazioni tout court devono essere rappresentate mentalmente dai loro utenti; per esempio, un enunciato rappresenta qualcosa solo per chi lo percepisce, lo decodifica e lo comprende, ossia vi associa una rappresentazione mentale a più livelli. Le rappresentazioni mentali, invece, possono esistere senza una controparte pubblica; molti dei nostri ricordi, per esempio (e tutti, o quasi, quelli di un elefante) non vengono mai comunicati. Le rappresentazioni mentali sono quindi più di base di quelle culturali. La maggior parte degli studiosi di scienze sociali (e anche filosofi quali Ludwig Wittgenstein [1953] e Tyler Burge [1979]) non sono d'accordo, in quanto considerano le rappresentazioni pubbliche più basilari di quelle mentali. Le rappresentazioni pubbliche sono osservabili, sia da chi ne fruisce sia da chi le studia, mentre l'esistenza di quelle mentali può essere solo congetturata. Fatto ancor più importante, sostiene per esempio Vy- gotsky (1965), le rappresentazioni mentali sono il risultato dell'interiorizzazione di rappresentazioni pubbliche e di sistemi sottostanti come il linguaggio e le ideologie, senza i quali nessuna rappresentazione è possibile. In tale prospettiva, le rappresentazioni pubbliche sono più basilari di quelle mentali: ciò esclude gli animali non sociali dalla possibilità di avere rappresentazioni, ma i sostenitori di questa posizione non sembrano dar peso a tale limite. In un certo senso è evidente che le rappresentazioni pubbliche precedano quelle mentali: un bambino nasce in un mondo pieno di rappresentazioni pubbliche e ne è bombardato fin dal primo giorno di vita. Il bambino non scopre il mondo da solo, rendendo poi pubbliche le rappresentazioni che ha sviluppato privatamente; una gran quantità delle sue rappresentazioni del mondo è in realtà acquisita indirettamente, non attraverso l'esperienza ma attraverso la comunicazione o la combinazione di
1 II parallelismo è eccessivo: le vostre rappresentazioni mentali non rappresentano qualcosa per voi nello stesso senso in cui queste parole rappresentano qualcosa per voi, ma nulla di essenziale alla discussione dipende da questo.
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esperienza e comunicazione; proprio la capacità di comunicare efficacemente dipende in modo contingente dall'acquisizione da parte del bambino del linguaggio e degli altri strumenti di comunicazione della comunità. D'altronde, chi ritiene che le rappresentazioni mentali siano basilari non nega questo fatto; quello che nega è che le rappresentazioni pubbliche possano essere utilizzate da un bambino senza che abbia fin dalla nascita un sistema di rappresentazioni mentali con il quale accostarsi a quelle pubbliche. Al contrario, chi ritiene che le rappresentazioni di base siano quelle pubbliche non sostiene solo, o non dovrebbe sostenere, l'idea banale per cui ogni individuo, essendo nato in un mondo ricco di rappresentazioni pubbliche, fa affidamento in modo decisivo su di esse. Ciò che sostiene, o dovrebbe sostenere, è che non solo la forma fisica delle rappresentazioni pubbliche è pubblica, al di fuori della mente di ogni persona e percepibile dagli altri individui, ma che è pubblico anche il significato delle rappresentazioni pubbliche, situato nel mondo affinché gli altri possano coglierlo. Da questa prospettiva, il significato - cioè il rapporto regolare tra ciò che rappresenta e ciò che è rappresentato - è sociale prima di essere colto individualmente; le rappresentazioni pubbliche sono perciò più di base, e ciò porta gli antropologi a ritenere che "la cultura è pubblica perché il significato è pubblico" (Geertz 1973, p. 12; tr. it. p. 49). La maggior parte degli antropologi studia la cultura come un sistema di rappresentazioni pubbliche dotate di significati pubblici, senza alcun riferimento alle rappresentazioni mentali corrispondenti. Sono per tendenza materialista (vedi Sperber 1987); non nel senso che questa parola spesso assume nelle scienze sociali, dove per materialista si intende qualcuno che crede che l'Infrastruttura economica' determini la 'sovrastruttura ideologica', ma nel senso filosofico e delle scienze naturali per cui tutte le cause e tutti gli effetti sono materiali. La mia domanda è allora: che tipo di oggetti materiali o di proprietà potrebbero essere i significati pubblici? Non mi convince Geertz quando liquida così la questione: Quello che ci si deve chiedere sulla parodia di un ammiccamento o su un'incursione semiseria per rubare delle pecore [due degli esempi di Geertz di rappresentazioni pubbliche] non è quale sia il loro status ontologico. È lo stesso di quello delle rocce da una parte e dei sogni dall'altra: si tratta delle cose di questo mondo. La cosa da chiedersi è quale sia il loro significato [...] ciò che viene detto quando avvengono e mediante la loro azione. (Geertz 1973, p. 10; tr. it. p. 47)
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Non sono convinto, perché il compito dell'ontologia non è dire quali cose sono 'nel mondo' e quali no, ma in che modo, o in che modi, le cose possono essere di questo mondo, e, per quanto riguarda gli oggetti culturali, si tratta di un problema effettivo. Riusciamo a comprendere come gli oggetti materiali possano adattarsi al mondo; non sappiamo invece come possano esistere oggetti materiali, e, se esistono, come possano adattarsi al mondo. Quindi per ogni classe di oggetti, che siano pietre, ricordi o rappresentazioni culturali, quando è possibile, in termini di semplicità e di intelligibilità, è preferibile un resoconto materialista. Nel caso degli oggetti mentali, come i ricordi, la maggior parte degli psicologi accetta ormai almeno un materialismo minimale, detto 'fisicalismo delle occorrenze' (token-physicalism). Secondo questa visione, le occorrenze degli stati mentali sono identiche a occorrenze di stati e processi neuronali, mentre i tipi (types) di stati mentali non devono necessariamente essere identici a tipi di stati neuronali (vedi Block 1980). Ciononostante, ogni tipo di stato mentale deve essere descritto in modo da indicare quali occorrenze che vi rientrano possono essere esemplificate materialmente. Per esempio, gli psicologi cognitivi cercano di descrivere le rappresentazioni mentali nei termini di stati che possano essere implementati in un computer. Grazie allo sviluppo della psicologia cognitiva, cominciamo a cogliere che tipo di oggetti materiali possono essere le rappresentazioni mentali. Ora, quando si arriva alle rappresentazioni culturali dotate di significati pubblici, sia che adoperiamo il vocabolario materialista e dichiariamo che anch'esse sono materiali, sia che ci arrendiamo al pluralismo ontologico, la verità è che non abbiamo nessuna idea di quale sia la maniera in cui esse possano essere 'oggetti del mondo'. L'alternativa materialista significa assumere che le rappresentazioni, pubbliche o private, siano oggetti strettamente materiali e accettare seriamente le implicazioni di questa ipotesi. I sistemi cognitivi, come i cervelli, costruiscono rappresentazioni interne del loro ambiente in parte sulla base di interazioni fisiche con esso. Grazie a queste interazioni, le rappresentazioni mentali sono, in una certa misura, connesse regolarmente a ciò che rappresentano, e, come risultato, hanno proprietà semantiche o 'significati' autonomi (vedi Dretske 1981; Fodor 1987b). Le rappresentazioni pubbliche, d'altro canto, sono connesse a ciò che rappresentano solo tramite il significato attribuito a esse da chi le produce e da chi le utilizza; non hanno proprietà se
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mantiche intrinseche. In altre parole, le rappresentazioni pubbliche hanno significato solo se sono associate a rappresentazioni mentali. Generalmente, alle rappresentazioni pubbliche viene attribuito lo stesso significato da parte dei loro produttori e fruitori, altrimenti esse non potrebbero servire a comunicare. Questa somiglianza di attribuzione di significato è resa possibile dal fatto che le persone hanno un linguaggio e una conoscenza enciclopedica simili. La somiglianza tra le persone rende possibile prescindere dalle differenze individuali e descrivere il 'linguaggio', o la 'cultura' di una comunità, il 'significato' di una rappresentazione pubblica, o parlare, per esempio, della 'credenza' che le streghe volano sui manici di scopa come di una singola rappresentazione, indipendentemente dalle sue espressioni pubbliche o realizzazioni mentali. Ciò che viene quindi descritto è un'astrazione. Tale astrazione può essere utile in molti modi: può rivelare le proprietà comuni di una famiglia di rappresentazioni correlate, sia pubbliche che mentali; può servire a identificare in modo economico un oggetto di ricerca. È un errore però confonderla con un oggetto 'di questo mondo', e certamente bisogna tener conto del suggerimento di Geertz: meglio ignorare il suo statuto ontologico. Da un punto di vista materialista, quindi, vi sono solo rappresentazioni mentali che nascono, vivono e muoiono nella testa degli individui, e rappresentazioni pubbliche che sono fenomeni banalmente materiali - onde sonore, configurazioni di luci, ecc. - nell'ambiente degli individui. Prendiamo una particolare rappresentazione, le streghe sui manici di scopa, a livello astratto: ciò che le corrisponde a livello concreto sono i milioni di rappresentazioni mentali e pubbliche, il cui significato (intrinseco nel caso delle rappresentazioni mentali, attribuito nel caso di quelle pubbliche) è simile a quello dell'enunciato "le streghe volano su manici di scopa". In quanto oggetti materiali, questi milioni di rappresentazioni pubbliche e mentali possono entrare in relazioni di causa-effetto. Possono quindi svolgere un ruolo sia come explanans sia come explanandum nelle spiegazioni causali. La sfida materialista è che per i fenomeni culturali non vi sia bisogno di altre spiegazioni oltre a quelle causali. Le spiegazioni causali devono essere distinte con attenzione da quelle interpretative, cioè le parafrasi, i riassunti o le esegesi delle rappresentazioni culturali. Ho sostenuto altrove che, mentre entrambe le spiegazioni sono utili in antropologia, solo quelle causali sono generalizzate nelle ipotesi teoriche. Dato che il mio interesse qui è teoretico più che etnologico o metodologico,
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non discuterò le spiegazioni interpretative (si vedano Sperber 1985, cap. 1, e 1989). Consideriamo un gruppo umano: esso contiene un insieme più grande di rappresentazioni. Alcune di queste rappresentazioni sono costruite sulla base di esperienze idiosincratiche, come, per esempio, il mio ricordo del giorno in cui smisi di fumare; altre sono basate su esperienze comuni, come, per esempio, la credenza che il carbone sia nero; altre ancora derivano dalla comunicazione più che dall'esperienza diretta, come, per esempio, la nostra credenza che Shakespeare abbia scritto Macbeth. L'esperienza comune e la comunicazione sono la causa della somiglianza delle rappresentazioni tra gli individui, o, detto più semplicemente, del fatto che alcune rappresentazioni siano condivise da diversi individui, a volte dall'intero gruppo. Questo discorso è accettabile solo se è chiaro che quando diciamo che una rappresentazione è 'condivisa' da molti individui, ciò che intendiamo è che questi individui hanno rappresentazioni mentali abbastanza simili per essere considerate versioni luna dell'altra. Se così è, possiamo produrre un'ulteriore versione - pubblica questa volta - per identificare sinteticamente i contenuti di queste rappresentazioni individuali. Quando parliamo di rappresentazioni culturali - la credenza nelle streghe, le regole per servire il vino, il diritto consuetudinario o l'ideologia marxista - ci riferiamo a rappresentazioni che sono largamente condivise in un gruppo umano. Spiegare le rappresentazioni culturali significa allora spiegare perché alcune di esse sono così largamente condivise; dato che le rappresentazioni sono più o meno condivise, non c'è un limite netto tra le rappresentazioni culturali e quelle individuali. Una spiegazione di una rappresentazione culturale, quindi, deve essere parte di una spiegazione generale della diffusione delle rappresentazioni tra gli esseri umani, parte cioè di un'epidemiologia delle rappresentazioni. L'idea di un approccio epidemiologico alla cultura non è affatto nuova; fu proposta da Gabriel Tarde (1895, 1898) e i biologi contemporanei l'hanno sviluppata in vari modi. Il valore di un approccio epidemiologico consiste nel rendere mutualmente rilevante la nostra conoscenza dei microprocessi di trasmissione e dei macroprocessi di evoluzione. D'altronde, se i microprocessi vengono fondamentalmente fraintesi, come credo avvenga nel caso degli approcci epidemiologici precedenti, il risultato complessivo ha un valore limitato. Quali che siano meriti e differenze, gli approcci passati condividono un difetto cruciale: essi ritengono che il processo di base della trasmissione culturale sia la replica, e considerano le alterazioni degli incidenti.
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L'immagine della trasmissione culturale come un processo di replica è fondata non solo su un'analogia biologica - la mutazione è un incidente, la replica è una norma -, ma anche su due tendenze dominanti nelle scienze sociali: in primo luogo, come abbiamo visto, le differenze individuali sono idealizzate e le rappresentazioni culturali sono troppo spesso trattate come se fossero identiche per tutti gli individui all'interno di un gruppo umano o di un sottogruppo; in secondo luogo, la visione predominante della comunicazione come processo di codifica seguito simmetricamente da un processo di decodifica implica che la replica dei pensieri del comunicatore nella testa del ricevente sia il normale risultato della comunicazione. In La pertinenza, Deirdre Wilson e io abbiamo criticato il modello del codice nella comunicazione umana, sviluppandone uno alternativo che attribuisce un ruolo importante ai processi inferenziali (si veda Sperber e Wilson 1986). Uno degli aspetti che abbiamo sostenuto - in realtà un aspetto banale, che non sarebbe valsa la pena sottolineare se non per il fatto che è così spesso dimenticato - è che ciò che si riesce a ottenere attraverso la comunicazione umana è soltanto un certo grado di somiglianza tra i pensieri di chi comunica e quelli di chi ascolta. La riproduzione precisa, se esiste, dovrebbe essere vista come un caso limite di massima somiglianza invece che come la norma della comunicazione. Un processo di comunicazione è fondamentalmente un processo di trasformazione. Il grado di trasformazione può variare tra due estremi: duplicazione e distruzione. Solo le rappresentazioni che vengono ripetutamente comunicate e molto poco trasformate dal processo diventano alla fine parte della cultura. Gli oggetti di un'epidemiologia delle rappresentazioni non sono né le rappresentazioni astratte, né quelle individuali concrete, ma, per così dire, famiglie di rappresentazioni concrete tenute insieme da relazioni causali e dalla somiglianza di contenuto. Alcune delle domande a cui vogliamo rispondere sono: qual è la causa della formazione di queste famiglie, del loro espandersi, dividersi, mescolarsi l'una all'altra, cambiare nel corso del tempo, scomparire? Così come l'epidemiologia standard non fornisce una sola spiegazione generale per la diffusione di tutte le malattie, non c'è ragione di aspettarsi che per ogni rappresentazione esistano uguali risposte a queste domande. La diffusione di un racconto popolare e quella di una pratica militare, per esempio, coinvolgono capacità cognitive diverse, motivazioni diverse e fattori ambientali diversi. Un approccio epidemiologico non dovrebbe perciò far sperare in una grande teoria unitaria, ma piuttosto cercare di fornire domande interessanti e
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strumenti concettuali utili e di sviluppare i diversi modelli richiesti per spiegare l'esistenza e il destino delle varie famiglie di rappresentazioni culturali. Benché i fattori che possono contribuire alla spiegazione di una famiglia di rappresentazioni non possano essere stabiliti prima, in ogni caso alcuni dei fattori da considerare saranno psicologici e altri ambientali o ecologici (assumendo che l'ambiente abbia inizio al livello delle terminazioni nervose dell'organismo di un individuo e che includa, per ogni organismo, tutti gli organismi che interagiscono con esso). I fattori psicologici potenzialmente pertinenti includono la facilità con cui una particolare rappresentazione può essere memorizzata, l'esistenza di una conoscenza di fondo rispetto alla quale la rappresentazione è pertinente, e una motivazione per comunicare il contenuto della rappresentazione. I fattori ecologici includono la ricorrenza di situazioni in cui la rappresentazione dà luogo o aiuta un'azione appropriata; la disponibilità di depositi esterni di memoria, in particolare la scrittura; l'esistenza di istituzioni impegnate nella trasmissione della rappresentazione. Per una discussione sulla nozione di 'istituzione' da una prospettiva epidemiologica, si veda Sperber (1987). Non sorprende che i fattori psicologici ed ecologici siano essi stessi condizionati dalla distribuzione delle rappresentazioni. Le rappresentazioni culturali precedentemente interiorizzate sono un fattore chiave nella predisposizione delle persone a immagazzinare nuove rappresentazioni. L'ambiente umano è in gran parte fatto dagli uomini e costruito sulla base di rappresentazioni culturali; di conseguenza, ci si deve aspettare la presenza di feedback sia all'interno dei modelli che spiegano particolari famiglie di rappresentazioni, sia tra un modello e l'altro. La complessità risultante è di ordine ecologico e non organico. Benché l'organicismo sia scomparso dalla scena antropologica, la visione organicista della cultura come un tutto ben integrato resiste ancora. L'approccio epidemiologico prende le distanze da questo tipo di olismo culturale rappresentando le culture come sistemi largamente aperti invece che quasi chiusi, e che si approssimano all'equilibrio ecologico tra famiglie di rappresentazioni invece di esibire un'integrazione di tipo organico. Una questione interessante è allora quella di trovare quali famiglie di rappresentazioni traggano vantaggio luna dall'altra e quali invece siano in competizione. L'identificazione dei fenomeni epidemiologici (nell'epidemiologia classica) nasce spesso dallo studio di patologie individuali, ma vale anche il contrario: l'identificazione di particolari malattie è spesso aiutata da considerazioni epidemiologiche. Al
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lo stesso modo, quando alcuni tipi di rappresentazioni mentali vengono identificati a livello psicologico, sorge il problema epidemiologico e, viceversa, quando particolari famiglie di rappresentazioni, o famiglie che si supportano a vicenda, vengono identificate a livello epidemiologico, si pone la questione del loro carattere psicologico. Più in generale, così come per la patologia e l'epidemiologia delle malattie, la psicologia e l'epidemiologia delle rappresentazioni devono dimostrare di essere reciprocamente pertinenti. Speculazioni psicologiche Gli antropologi, al pari degli psicologi, fanno l'ipotesi che gli esseri umani siano razionali. Non perfettamente razionali, né sempre razionali, ma sufficientemente razionali. Ciò che si intende per razionalità può variare, o restare vago, ma implica sempre almeno l'idea che le credenze umane siano prodotte da processi nel complesso epistemologicamente validi, nel senso che gli esseri umani percepiscono approssimativamente ciò che vi è da percepire e inferiscono approssimativamente ciò che è garantito dalle loro percezioni. Esistono naturalmente illusioni percettive ed errori inferenziali, e la rappresentazione del mondo che ne risulta non è totalmente coerente, ma, così come sono, le credenze degli esseri umani consentono loro di elaborare e svolgere progetti in una maniera che nella maggior parte dei casi porta alla loro realizzazione. Non so perché altri antropologi e psicologi assumano la razionalità umana, ma so perché io faccio questa ipotesi: è sensata dal punto di vista biologico. Perché i vertebrati si sono evoluti in modo da avere sistemi cognitivi sempre più complessi che culminano in quello umano, se non perché questo rendeva le loro interazioni con l'ambiente (nutrirsi, proteggersi) più efficaci? Ora, solo un sistema cognitivo epistemologicamente valido (ossia che produca approssimazioni alla conoscenza invece di belle associazioni o enigmi stupefacenti) può servire allo scopo, e, per questo, deve essere sufficientemente razionale. Questo modo di spiegare perché gli esseri umani sono razionali implica l'esistenza di una realtà oggettiva e che almeno una funzione della cognizione umana sia quella di rappresentare nei cervelli aspetti di questa realtà. Può sembrare psicologicamente banale unire in questo modo realtà e ragione, ma molti antropologi - fino a poco tempo fa la maggior parte sono troppo ben informati per credervi. Le persone di culture diverse hanno credenze non soltanto molto
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diverse, ma addirittura mutualmente incompatibili. Le loro credenze dal nostro punto di vista, e le nostre dal loro, sembrano irrazionali. Se vogliamo continuare a sostenere che siamo entrambi razionali, una via di uscita evidente dalla prospettiva del paradosso consiste nel negare che esista una realtà oggettiva da cui partire. La realtà, da questo punto di vista, è un costrutto sociale, e ci sono almeno tanti 'mondi' o 'realtà' quante sono le società. In mondi diversi socialmente costruiti vi saranno credenze razionali diverse. Ho combattuto a lungo questa visione (si veda Sperber 1974a, 1982); qui mi limiterò a enunciare il mio orientamento in proposito: trovo che una pluralità di mondi sia ancora meno attraente di una pluralità di sostanze; se ci fosse un modo, ne farei volentieri a meno. Un modo esiste, ma prima bisogna fare un po' di pulizia concettuale.2 Di cosa parliamo quando parliamo di 'credenze'? Facciamo un esempio: tendiamo a fare l'ipotesi che Piero crede che pioverà se lo dice, o se assente quando qualcuno lo dice o, in alcuni casi, se prende l'ombrello con sé prima di uscire. Non confondiamo però questi comportamenti con la credenza in sé: riteniamo che siano causati dal fatto che Piero aveva tale credenza, e quindi li consideriamo come indizi di essa. Potremmo allora essere tentati di dire, come molti filosofi hanno fatto (per esempio Ryle 1949), che una credenza è una disposizione a esprimere una proposizione, o ad acconsentire a essa, o ancora ad agire in accordo con essa. Come psicologi però vorremmo andare più a fondo: quali tipi di stati mentali possono determinare tale disposizione? Una risposta ricorrente è che gli esseri umani hanno una specie di 'archivio' o 'scatola delle credenze' (per usare un'espressione di Schiffer) dove sono immagazzinate alcune delle rappresentazioni concettuali. 3 Tutte le rappresentazioni immagazzinate in quella scatola particolare sono trattate come descrizioni del mondo reale. Quando la circostanza è ap-
2 La letteratura filosofica sulle credenze è molto vasta (si vedano per esempio Ryle 1949; Hintikka 1962; Armstrong 1973; Harman 1973; Dennett 1978; Dret- ske 1981; Stich 1983; Bogdan 1986; Brandt e Harnish 1986), ma non dedica molta attenzione alle proprietà delle credenze che interessano particolarmente gli scienziati sociali. Benché 'credenza' sia sempre stato un termine del bagaglio antropologico, Needham 1972 è la sola discussione dettagliata del concetto da un punto di vista antropologico (ispirata da Wittgenstein). 3 II termine 'scatola' ovviamente deve essere inteso in senso lato: più che corrispondere a un luogo nel cervello, può riferirsi, per esempio, a un modo di indicizzare le rappresentazioni. Così intesa, la storia della scatola delle credenze non è particolarmente nuova né controversa, ma ci aiuta a mettere in rilievo ciò che generalmente viene semplicemente presupposto.
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propriata, si generano gli indizi comportamentali della credenza, in particolare l'enunciazione e l'assenso. La scatola delle credenze, per quanto attraente, non risolve tutti i nostri problemi. Molte delle proposizioni alle quali siamo disposti a dare il nòstro assenso non sono affatto rappresentate nella nostra mente - un'obiezione ben nota - e molte delle proposizioni che non solo avrebbero il nostro assenso, ma che saremmo anche disposti a esprimere e in accordo alle quali saremmo disposti ad agire, non sono, o non sono semplicemente, immagazzinate in una base di dati o in una scatola delle credenze obiezione più controversa. Avete da sempre creduto che esistano più fenicotteri rosa sulla terra che sulla luna, anche se nessuna rappresentazione mentale nella vostra testa, fino a questo momento, ha mai descritto questo stato di cose. Possiamo avere un'infinità di queste credenze non rappresentate, e in gran parte esse sono condivise da molti, senza che, ovviamente, vengano mai comunicate. È ragionevole d'altronde supporre che ciò che fa sì che queste credenze non rappresentate siano credenze (più specificamente proposizioni a cui siamo disposti a dare il nostro assenso) è il fatto che siano inferibili da altre credenze che sono mentalmente rappresentate. Ciò che dobbiamo quindi aggiungere alla scatola delle credenze è un meccanismo inferenziale che possa riconoscere credenze non rappresentate sulla base di quelle realmente rappresentate. Le inferenze in questione non sono fatte consciamente, quindi il meccanismo inferenziale accoppiato alla scatola delle credenze deve restare distinto dalle capacità umane di ragionamento conscio, e non deve somigliarvi (si veda Sperber e Wilson 1986, cap. 2). Oltre a rendere conto delle credenze non rappresentate, e a servire da complemento alla scatola delle credenze, un meccanismo inferenziale introduce un fattore di razionalità nella loro costruzione. Supponiamo che alcune delle rappresentazioni nella nostra scatola delle credenze provengano dalla percezione (intesa in senso lato, in modo da includere anche la 'percezione' degli stati mentali di qualcuno) e che tutte le altre credenze siano direttamente o indirettamente inferite da quelle basate sulla percezione; ciò sarebbe già sufficiente a garantire aree di coerenza tra le nostre credenze. Supponiamo inoltre che il meccanismo inferenziale riconosca un'incoerenza quando la incontra e la corregga; questo implica, tra l'altro, che le credenze prodotte percettivamente possono essere invalidate inferenzialmente, in altre parole che la percezione può determinare il contenuto di una credenza ma non è sufficiente da sola a costituirla: può essere necessaria anche la conferma inferenziale, o almeno l'as
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senza di invalidazione (vedi Fodor 1983). In questo modo si ottiene una tendenza a estendere le aree di coerenza (anche se possono rimanere credenze contraddittorie, a condizione che non siano state usate congiuntamente come premesse di un'inferenza). Mentre la percezione e l'inferenza inconscia possono spiegare in modo esaustivo le credenze di un elefante, non è così per quelle degli esseri umani. Ciò avviene per due ragioni, tra loro connesse: in primo luogo molte delle credenze umane, probabilmente la maggior parte, non sono ancorate alla percezione delle cose che sono oggetto delle credenze ma dipendono dalla comunicazione riguardo a queste cose. In secondo luogo, gli esseri umani hanno una capacità metarappresentazionale o interpretativa. Essi possono non solo costruire descrizioni, cioè rappresentazioni di stati di cose, ma anche interpretazioni, vale a dire rappresentazioni di rappresentazioni.4 Gli esseri umani usano questa abilità interpretativa per capire ciò che viene loro comunicato e, più in generale, per rappresentare i significati, le intenzioni, le credenze, le opinioni, le teorie, ecc., che siano condivisi o meno. In particolare, possono rappresentare una credenza, assumere un atteggiamento favorevole a essa e quindi esprimerla, dare il loro assenso, o in generale palesare i comportamenti sintomatici della credenza su basi molto differenti dal criterio di inclusione nella scatola delle credenze. Per esempio, la maestra dice a Lisa: "Ci sono piante femmine e piante maschi". Lisa intende 'maschio' e 'femmina' più o meno come un'estensione agli animali della distinzione tra uomo e donna: le femmine fanno i figli, i maschi sono più portati a combattere, e così via. Poiché nelle piante non vede nulla che somigli a questa distinzione, non le è ben chiaro cosa significhi quello che la maestra ha detto in classe. Lo comprende però in parte - capisce che in alcune specie di piante esistono due tipi differenti e suppone che questa differenza sia legata alla riproduzione, ecc. Lisa crede alla maestra e se la maestra dice che esistono piante maschi e piante femmine, Lisa tende a dire la stessa cosa, a dire che crede a questo e a esibire vari comportamenti sintomatici della credenza. Ma dietro al comportamento di Lisa, sintomatico di quella particolare credenza, c'è una vera e propria credenza? Non è del tipo di quelle contenute nella scatola delle credenze, dato che
Sul contrasto fra descrizione e interpretazione si vedano Sperber 1982, cap. 1 e Sperber e Wilson 1986, cap. 4. 4
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un'idea compresa a metà non può provenire dalla percezione o da un'inferenza a partire da percezioni: si tratta invece di un tipico risultato di comunicazione non totalmente riuscita. Ricordiamoci inoltre che vogliamo che il meccanismo inferenziale operi liberamente sulle credenze nella scatola delle credenze, così da poter generare un numero maggiore di credenze muralmente coerenti; dobbiamo allora guardarci dal permettere che le idee comprese a metà possano entrare direttamente nella scatola, dato che la loro coerenza con le altre rappresentazioni e le loro implicazioni sono in gran parte indeterminate. Come è dunque possibile che la credenza di Lisa, non completamente compresa, che esistano piante maschi e piante femmine, sia rappresentata nella sua mente? Nella sua scatola delle credenze potrebbero esserci le seguenti rappresentazioni: "Ciò che dice la maestra è vero". "La maestra dice che ci sono piante maschi e piante femmine." La comprensione parziale di Lisa di 'ci sono piante maschi e piante femmine' è così inclusa in una credenza che appartiene alla scatola delle credenze riguardo a quello che la maestra ha detto. Questa credenza, insieme a quella che "ciò che dice la maestra è vero", fornisce un contesto di conferma per la rappresentazione inclusa nelle parole della maestra. Ciò fornisce a Lisa una base razionale per esibire molti dei comportamenti sintomatici di quella credenza, ma una base ben diversa da quella fornita dall'inclusione diretta nella scatola delle credenze. Quest'esempio suggerisce che le credenze che noi attribuiamo alle persone sulla base degli indizi che il loro comportamento ci fornisce non appartengono a un solo tipo psicologico; in altri termini, stati mentali di tipo alquanto differente portano a identici comportamenti sintomatici di una credenza. Sostengo che esistono due tipi fondamentali di credenze rappresentate nella mente. Ci sono le descrizioni degli stati di cose immagazzinate direttamente nella scatola delle credenze - chiamiamole credenze intuitive che sono intuitive in quanto prodotto tipico di processi inferenziali e percettivi spontanei e inconsci; per avere credenze intuitive non c'è bisogno di essere consapevoli di possederle, e ancor meno delle ragioni per cui le abbiamo. Ci sono poi le interpretazioni di rappresentazioni inserite nel contesto di conferma di una credenza intuitiva, come nell'esempio precedente - chiamiamole credenze riflessive - che sono riflessive in quanto oggetto di credenze di secondo ordine e che sono credute in virtù di esse.5
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In Sperber 1974b, ho descritto le credenze riflessive come se fossero 'tra
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Le credenze intuitive derivano o sono derivabili dalla percezione attraverso il meccanismo inferenziale. Il vocabolario mentale delle credenze intuitive è probabilmente limitato a concetti di base, vale a dire concetti che si riferiscono a fenomeni identificabili percettivamente, e a concetti astratti innati, preformati e non analizzati (come, per esempio, norma, causa, sostanza, specie, funzione, numero o verità). In circostanze normali, le credenze intuitive riguardano tutto ciò che è concreto e affidabile. Insieme, esse rappresentano una specie di visione del mondo dettata dal senso comune. I loro limiti sono quelli del senso comune: sono abbastanza superficiali, più descrittive che esplicative e vengono assunte con una certa rigidità. A differenza delle credenze intuitive, quelle riflessive non costituiscono una categoria ben definita. Ciò che hanno in comune è il loro modo di occorrenza: sono inserite in credenze intuitive (oppure, dato che vi possono essere inserimenti multipli, in altre credenze riflessive). Esse causano i comportamenti sintomatici della credenza perché, in un modo o nell'altro, sono confermate dalla credenza intuitiva in cui sono inserite. Possono però variare profondamente: una credenza riflessiva può essere compresa a metà ma completamente comprensibile, come nell'esempio precedente sul sesso delle piante; oppure, come mostrerò brevemente, può rimanere per sempre compresa a metà o, al contrario, venir compresa completamente. Il contesto di conferma può essere l'identificazione della fonte della credenza riflessiva con un'autorità affidabile (come per esempio la maestra) oppure un ragionamento esplicito. Data la varietà di possibili conferme contestuali per una credenza riflessiva, l'adesione a tali credenze può variare ampiamente, da opinioni superficiali a credo fondamentali, da semplici sospetti a convinzioni ben meditate. Le credenze riflessive giocano ruoli differenti nella conoscenza umana, come illustrerò brevemente. Per Lisa, formare e immagazzinare la credenza, compresa a metà, che ci sono piante femmine e piante maschi può essere un passo verso una comprensione più adeguata della distinzione maschio-femmina. Questa credenza le fornisce un pezzo incompleto di informazione, che può essere completato grazie a ulteriori incontri con indizi rilevanti. Una volta raggiunta una comvirgolette'; in Sperber 1982 ho confrontato credenze 'fattuali' e credenze 'rappresentazionali'; in Sperber 1985, riprodotto qui con qualche modifica come capitolo 3, ho confrontato credenze 'fondamentali' e credenze 'speculative'. Ognuna di queste terminologie si è rivelata difettosa sotto qualche aspetto. Spero che l'attuale proposta sia migliore.
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prensione adeguata dell'argomento, la sua credenza che esistono piante maschi e piante femmine può essere trasferita o duplicata nella scatola delle credenze. Un ruolo delle credenze riflessive può essere quindi quello di trattenere un'informazione che ha bisogno di essere completata per poter costituire una credenza intuitiva. Consideriamo ora il caso seguente. Il piccolo Roberto ha nella sua scatola delle credenze le due rappresentazioni: "Ciò che dice la mamma è vero". "La mamma dice che Dio è dappertutto." Roberto non capisce pienamente come qualcuno, chiamalo Dio, possa essere dappertutto. D'altronde, il fatto che sua madre lo dica gli dà un fondamento sufficiente per esibire tut- ti i comportamenti sintomatici della credenza: può ripetere che Dio è dappertutto, acconsentire alla stessa frase detta da altri e astenersi dal commettere peccati anche in luoghi dove apparentemente nessuno lo può vedere. Che Dio sia dappertutto è per Roberto una credenza riflessiva. Crescendo, egli può mantenere la credenza e arricchirla in molti modi, ma il suo significato esatto, se ne esiste uno, diventerà ancora più misterioso di quanto fosse all'inizio. Questo è un caso di una credenza che, come gran parte delle credenze religiose, non si presta a un'interpretazione finale chiara, e che quindi non può mai diventare una credenza intuitiva. Parte dell'interesse per le credenze religiose, per coloro che le hanno, deriva precisamente da questo elemento di mistero, dal fatto che non le si può mai interpretare completamente. Mentre l'utilità cognitiva delle credenze religiose, o di altri tipi di credenze misteriose, può essere limitata (ma vedi Sperber 1974b), non è molto difficile vedere come il loro mistero crei dipendenza nei loro confronti. Nei due esempi considerati fino a qui - Lisa e il sesso delle piante, Roberto e l'onnipresenza divina - ciò che faceva sì che la rappresentazione riflessiva fosse una credenza era l'autorità garantita alla fonte della rappresentazione: la maestra o la mamma. Anche l'uomo comune accetta le credenze scientifiche sulla base dell'autorità. Per esempio, noi tutti crediamo che E = mc2 avendo soltanto una comprensione molto limitata del significato di questa formula e nessuna idea degli argomenti che ne hanno portato all'adozione. La nostra credenza è quindi una credenza riflessiva di contenuto misterioso giustificata attraverso la nostra fiducia nella comunità dei fisici. Non è molto differente, sotto questo aspetto, dalla credenza di Roberto che Dio è dappertutto. Una differenza però esiste. Anche per il teologo, che Dio sia
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dappertutto è un mistero accettato sulla base dell'autorità; per il fisico, invece, la teoria della relatività non è un mistero perché le ragioni per accettarla non hanno nulla a che vedere con la fede. Le credenze riflessive realmente comprese, come le credenze scientifiche degli scienziati, includono un resoconto esplicito delle basi razionali che hanno condotto alla loro assunzione. La loro reciproca coerenza e la loro coerenza con le credenze intuitive può essere accertata, e questo gioca un ruolo importante, anche se molto complesso, nel determinarne il rifiuto o l'accettazione. Anche per il fisico la teoria della relatività è pur sempre una credenza riflessiva, una teoria, una rappresentazione esposta al giudizio e aperta alla revisione e alla competizione con altre teorie, più che un fatto che può essere percepito o inferito inconsciamente dalla percezione. Le credenze misteriose o comprese a metà sono molto più frequenti e culturalmente più importanti di quelle scientifiche. Poiché non sono completamente comprese, e restano quindi suscettibili di reinterpretazioni, la loro coerenza o incoerenza con altre credenze intuitive o riflessive non è mai autoevidente e non fornisce un criterio forte di accettazione o rifiuto. Il loro contenuto, considerata l'indeterminazione, non può essere sufficientemente corroborato né dai dati empirici, né da argomenti che ne garantiscano l'accettazione razionale. Ciò non significa che tali credenze siano irrazionali: esse sono assunte razionalmente se esistono basi razionali per dare fiducia alla fonte delle credenze (i genitori, la maestra o lo scienziato). Questa è la mia risposta a chi vede nella grande diversità delle credenze umane e nella loro apparentemente frequente incoerenza un argomento a favore del relativismo culturale: esistono due classi di credenze che raggiungono la razionalità in modi diversi. Le credenze intuitive devono la loro razionalità a meccanismi percettivi e inferenziali essenzialmente innati; pertanto esse non variano in modo cruciale da una cultura all'altra e sono reciprocamente coerenti o facilmente conciliabili. Le credenze che variano attraverso le culture al punto da sembrare irrazionali dalla prospettiva di un'altra cultura sono credenze riflessive con un contenuto in parte misterioso anche per coloro che vi credono. È razionale assumere queste credenze non per il loro contenuto, ma per la fonte: il fatto che persone differenti possano dare fiducia a differenti fonti di credenze - io, i miei maestri, tu, i tuoi - è esattamente ciò che ci aspettiamo in un mondo di persone ugualmente razionali che semplicemente vivono in luoghi diversi.
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Tipi differenti di credenze, meccanismi differenti di distribuzione Cerchiamo di integrare le speculazioni antropologiche e psicologiche sviluppate sin qui. Se ci sono diversi tipi di credenze dovremmo aspettarci che i meccanismi della loro distribuzione siano differenti, più precisamente, che la distribuzione delle credenze intuitive, che sono relativamente omogenee, rispetti percorsi abbastanza comuni6 e che la distribuzione delle credenze riflessive, che sono molto più varie, avvenga in modi molto differenti. In quest'ultima sezione vorrei convincervi che le cose stanno davvero così. In tutte le società umane, tradizionali e moderne, dotate o meno di scrittura e di istituzioni pedagogiche, ogni individuo normale acquisisce un ricco corpus di credenze intuitive riguardo a se stesso e al proprio ambiente naturale e sociale. Tali credenze riguardano il movimento dei corpi fisici, quello del proprio corpo, gli effetti delle varie interazioni corpo-ambiente, il comportamento di molti esseri viventi, quello degli esseri umani della sua comunità. Le credenze vengono acquisite nel corso della normale interazione con l'ambiente e con gli altri; non richiedono né uno sforzo di apprendimento conscio da parte di chi apprende, né uno sforzo di insegnamento conscio da parte degli altri (si veda Atran e Sperber 1991). Anche senza insegnamento, sono acquisite facilmente da tutti - le più fondamentali molto presto -, al punto da suggerire l'esistenza di una predisposizione innata estremamente forte; si vedano Keil 1979; Carey 1982, 1985; Gelman e Spelke 1981 e Hirschfeld 1984. Alcune credenze intuitive riguardano particolari (singoli luoghi o eventi, animali o persone) e sono idiosincratiche e condivise solo molto localmente; altre sono generali (o riguardano particolari largamente conosciuti come fatti e personaggi storici), e sono diffuse in una società. Le credenze intuitive generali variano da cultura a cultura, ma non di molto. Per citare solo un dato aneddotico, bisogna ancora trovare una cultura in cui le credenze intuitive sullo spazio e il movimento siano talmente diverse da quelle occidentali moderne da rendere seriamente problematico per i nativi guidare un'automobile. Molti lavori recenti in etnologia mostrano che le differenze transculturali ri-
6 Ci sono ragioni fondate per ritenere che le credenze intuitive in diversi domini cognitivi - fisica ingenua, zoologia ingenua, psicologia ingenua - abbiano diverse strutture concettuali (si vedano Sperber 1975; Atran 1987; Atran e Sperber 1991). Queste differenze però non sembrano generare modi molto diversi di distribuzione.
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guardo alle classificazioni zoologiche, botaniche o cromatiche sono piuttosto superficiali e che esistono strutture universali sottostanti a ognuno di questi domini, e presumibilmente anche ad altri; si vedano Berlin e Kay 1969; Berlin et alii 1973; Berlin 1978, e Atran 1985, 1986, 1987. Che ruolo gioca la comunicazione nella costruzione delle credenze intuitive? La risposta non è semplice. Le credenze intuitive sono (o sono trattate come) l'output dei processi di percezione e di inferenza inconscia, sia propri del soggetto sia di altri, nel caso in cui le credenze siano acquisite tramite la comunicazione. Anche quando una credenza intuitiva è derivata dalle percezioni proprie del soggetto, le risorse concettuali e le assunzioni di fondo che si combinano con l'input sensoriale per generare la vera e propria credenza sono state in parte acquisite tramite la comunicazione. Sembra così che tanto la percezione quanto la comunicazione siano sempre implicate, o come fonte diretta della credenza, o come ipotetica fonte indiretta (il che impone un serio vincolo sui possibili contenuti delle credenze intuitive). La comunicazione è sempre coinvolta sia come fonte diretta, sia, almeno, come fonte di concetti e di informazione contestuale.7 Qual è la relazione tra la proporzione di percezione e comunicazione nella costruzione di una credenza intuitiva e nella sua distribuzione sociale? È vero che maggiore è la proporzione di comunicazione, più vasta è la distribuzione? Ancora una volta la risposta non è semplice. Un gran numero di credenze molto diffuse devono l'ampiezza della loro distribuzione al fatto che tutti i membri di una società, o, in alcuni casi, tutti gli esseri umani, hanno le stesse esperienze percettive. D'altronde, come ho già detto, le stesse risorse della percezione sono in parte derivate dalla comunicazione. Prendiamo la diffusa credenza che il carbone sia nero: ci è stato detto, oppure l'abbiamo inferito dalle nostre percezioni? Difficile da sapere. Ma anche se l'abbiamo inferito dalla percezione, nel farlo abbiamo usato i concetti di nero e di carbone; come li abbiamo acquisiti? Per quanto riguarda 'nero', sembra
7 La ricerca sullo sviluppo cognitivo nei neonati (si veda per esempio Spelke 1988) mostra che i neonati hanno anticipazioni precise su fenomeni quali il movimento degli oggetti, che non possono provenire dalla comunicazione. Se queste aspettative sono credenze intuitive nel senso pertinente, e non dipendono da credenze intuitive influenzate dal linguaggio, allora si può pensare che alcune credenze intuitive degli esseri umani siano indipendenti dalla comunicazione.
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che la categoria sia predisposta in modo innato, e quando apprendiamo la parola 'nero' acquisiamo semplicemente un modo di esprimere verbalmente un concetto che già possediamo (si vedano Berlin e Kay 1969; Carey 1982). Nessuno sosterrebbe invece che 'carbone' sia un concetto innato, ma ciò che può essere innata è la struttura dei concetti di sostanza e l'aspettativa di caratteristiche fenomeniche regolari, in particolare il colore. Così, anche se probabilmente abbiamo acquisito il concetto di carbone nel processo di apprendimento della parola 'carbone', l'acquisizione del concetto non ha significato niente di più che prendere lo schema concettuale innato appropriato e 'riempirlo'. Nel processo di riempimento, o ci viene detto da qualcuno che il carbone è nero, oppure lo inferiamo da quello che vediamo. Non fa molta differenza, allora, se una credenza individuale che il carbone sia nero sia derivata dalla percezione o dalla comunicazione: una volta che il concetto di carbone viene comunicato, la credenza che il carbone sia nero seguirà in un modo o nell'altro. Ciò vale generalmente per le credenze diffuse, che si conformano ad aspettative cognitive basate su disposizioni innate arricchite culturalmente e sono confermate ampiamente dall'ambiente. Come risultato, differenti esperienze percettive dirette e differenti esperienze indirette acquisite attraverso la comunicazione convergono perciò sulle stesse credenze intuitive generali. Le credenze intuitive diffuse, anche le più esotiche, sono raramente sorprendenti. Non sono il tipo di credenze che suscitano generalmente la curiosità degli scienziati sociali, a eccezione degli antropologi cognitivi. Tra gli psicologi, solo quelli interessati allo sviluppo hanno cominciato a studiarle in modo dettagliato. In realtà le credenze intuitive non determinano solo gran parte del comportamento umano, ma forniscono anche uno sfondo comune per la comunicazione e per lo sviluppo delle credenze riflessive. Mentre le credenze intuitive diffuse devono la loro distribuzione sia a esperienze concettuali comuni che alla comunicazione, le credenze riflessive diffuse la devono quasi esclusivamente alla comunicazione. La distribuzione delle credenze riflessive ha luogo, per così dire, all'aperto: le credenze riflessive non solo sono consce, ma sono anche distribuite deliberatamente. Per esempio i credenti di una religione, gli ideologi politici e gli scienziati, per quanto possano essere diversi sotto altri aspetti, ritengono sia un loro dovere fondamentale far sì che altri condividano le loro credenze. Più precisamente, dato che la distribuzione delle credenze riflessive è un processo sociale altamente
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visibile, dovrebbe essere evidente che tipi differenti di credenze riflessive raggiungono un livello di distribuzione culturale in modi molto diversi. Consideriamo molto brevemente tre esempi: un mito in una società senza scrittura, la credenza che tutti gli uomini nascono uguali, e il teorema di Godei. Un mito è una storia trasmessa oralmente che si considera rappresenti eventi reali, anche 'soprannaturali', incompatibili con le credenze intuitive. Un mito dunque, per essere accettato senza incoerenze, deve essere isolato dalle credenze intuitive, vale a dire considerato come una credenza riflessiva. Un mito è una rappresentazione culturale: ciò significa che è una storia con differenti versioni pubbliche raccontata abbastanza spesso perché una quantità sufficientemente elevata di esseri umani la conosca abbia cioè versioni mentali di essa. Per questo, due condizioni devono essere soddisfatte. In primo luogo, la storia deve poter essere ricordata abbastanza facilmente e dettagliatamente sulla base del solo input orale. Alcuni temi e alcune strutture narrative sembrano essere migliori di altri dal punto di vista transculturale. Anche il cambiamento dello sfondo culturale influenza la capacità di ricordare; un mito infatti tende a modificarsi nel corso del tempo in modo da conservare il massimo grado di memorabilità. In secondo luogo, devono esserci incentivi sufficienti per rievocare e raccontare la storia in un numero di occasioni sufficiente perché sia ricordata. Può trattarsi di incentivi istituzionali, come per esempio occasioni rituali dove sia obbligatorio raccontare la storia; ma l'incentivo più sicuro deriva dall'attrattiva della storia per il suo pubblico e dal successo che il narratore può aspettarsi. È interessante, anche se non sorprendente, che gli stessi temi e le stesse strutture che aiutano a ricordare la storia la rendano particolarmente attraente. Se vengono soddisfatte le condizioni psicologiche di memorabilità e attrattiva, la storia ha buone possibilità di essere distribuita, ma, per essere un mito e non una semplice storia riconosciuta e apprezzata come tale, essa deve essere creduta vera. Che tipo di basi razionali ha la gente per accettarla come tale? La fiducia in chi racconta la storia: di solito, la fiducia negli antenati nei quali le persone hanno buone ragioni di credere e che non si rifanno ad altra autorità se non a quella derivata dai loro avi. L'origine della catena può essere un innovatore religioso che, proponendo una versione notevolmente differente di miti più antichi, si richiamava all'autorità divina. Il riferimento agli antenati genera una struttura di autorità che si autoperpetua per una storia che ha già una struttura di trasmissione autoper- petuantesi. La struttura di autorità è tuttavia più fragile di quel-
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.1 di trasmissione: molti miti perdono infatti credibilità, ma non memorabilità o fascino, e diventano storie. La credenza che tutti gli uomini siano uguali è una tipica credenza riflessiva: non è prodotta dalla percezione né dall'infe- renza inconscia a partire dalla percezione. In realtà, a eccezione dei pochi filosofi che sono all'origine di tale credenza, tutti coloro che vi credono sono arrivati a essa per mezzo della comunicazione. Una credenza di questo tipo non costituisce un peso significativo per la memoria, ma rappresenta una sfida per la comprensione ed è certamente intesa in modo differente a seconda delle persone. Come è già stato detto, il fatto che si presti a numerose interpretazioni ha contribuito probabilmente al suo successo culturale. Il fattore più importante nel successo della credenza che tut- ti gli uomini siano uguali è la sua estrema pertinenza, vale a dire, secondo Sperber e Wilson (1986), l'abbondanza delle sue implicazioni contestuali in una società fondata sulle differenze nei diritti di nascita. Le persone che riconobbero, e certo desiderarono le implicazioni di questa credenza, trovarono basi per accettarla e diffonderla. La diffusione della credenza (anche se non il fatto di averla) comportava tuttavia un rischio, e dunque essa si diffuse solo dove e quando vi era un numero sufficiente di persone disposte ad assumerlo. In altre parole, a differenza di un mito, che sembra avere una vita propria e sopravvivere e diffondersi sotto forma di mito o di leggenda in una grande varietà di condizioni storiche e culturali, il destino culturale di una credenza politica è legato a quello delle istituzioni. Nello spiegare la distribuzione di una credenza politica i fattori ecologici, in modo particolare l'ambiente istituzionale, giocano un ruolo più importante di quelli cognitivi. Consideriamo ora una credenza matematica come il teorema di Godei. Anche in questo caso, tutti coloro che la condividono, tranne Godei stesso, vi sono arrivati tramite la comunicazione. Ciononostante, la comunicazione e quindi la diffusione di una credenza di questo tipo incontra difficoltà cognitive estreme. Solo le persone con un livello elevato di conoscenza della logica matematica possono intraprenderne lo studio per cercare di capirla. Al di fuori delle istituzioni scolastiche, mancano sia gli strumenti che le motivazioni per affrontare una simile impresa. D'altra parte, una volta superate le difficoltà di comunicazione l'accettazione non pone problemi: capire il teorema di Godei significa credervi. L'organizzazione cognitiva umana è tale per cui non è possibile comprendere credenze di questo tipo e non condividerle. In qualche senso, e con gli evidenti limiti, questo vale per tutte le 1
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teorie scientifiche moderne che hanno avuto successo. La loro robustezza cognitiva ne compensa, per così dire, l'astrusità e ne spiega il successo culturale. Il fatto che le teorie scientifiche vincenti si impongano a coloro che le comprendono è manifesto anche a chi non le comprende. Questo fa sì che la gente comune sia portata, molto razionalmente, a credere che tali teorie siano vere e a esprimere come proprie credenze ciò che riescono a citare o a parafrasare da esse. Il teorema di Godei e le teorie scientifiche in generale diventano così credenze culturali - di livello differente e accettate su basi differenti - sia per gli scienziati che per la comunità allargata. Possiamo confrontare i nostri tre esempi: il mito è fortemente determinato da fattori cognitivi e in misura minore da fattori ecologici. Le credenze politiche sono determinate poco da fattori cognitivi e molto da fattori ecologici e le credenze scientifiche sono fortemente determinate sia da fattori cognitivi che da fattori ecologici. D'altronde, anche questo confronto enfatizza le somiglianze fra i tre casi: i fattori cognitivi coinvolti nel mito e nella scienza e i fattori ecologici coinvolti nella politica e nella scienza sono molto differenti. È proprio la struttura delle credenze riflessive, il fatto che esse siano atteggiamenti relativi a rappresentazioni e non direttamente a stati di cose ipotetici o reali, a permettere un'infinità di differenze. Nonostante le differenze, la spiegazione delle credenze culturali, intuitive o riflessive, e se riflessive, tanto comprese a metà quanto completamente, implica l'attenzione a due aspetti: come vengono elaborate cognitivamente dagli individui e come vengono comunicate in un gruppo. Per usare uno slogan: la cultura è il precipitato della conoscenza e della comunicazione in una popolazione umana.
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5. Selezione e attrazione nell'evoluzione culturale
Supponiamo di voler sviluppare una spiegazione naturalistica e causale dei fenomeni culturali (non credo, peraltro, che le spiegazioni causali siano le sole che valga la pena di sviluppare; quelle interpretative, che sono standard in antropologia, rispondono meglio ad alcune domande). Una spiegazione causale è meccanicistica quando analizza una relazione complessa come un'articolazione di relazioni causali più elementari. È naturalistica nella misura in cui ci sono ragioni fondate per credere che tali relazioni più elementari potrebbero essere a loro volta analizzate meccanicisticamente fino a un livello di descrizione al quale il loro carattere naturale risulterebbe completamente non problematico. Il tipo di naturalismo che ho in mente ha lo scopo di gettare un ponte tra scienze differenti e non di ridurre l'una all'altra. È molto probabile che, se non si spiegassero le relazioni causali in termini di meccanismi di livello sottostante, si perderebbero generalizzazioni importanti. È altrettanto probabile che, tenendo conto solo dei meccanismi di livello inferiore, si perderebbero altre generalizzazioni interessanti: se vogliamo un ponte, è per muoverci liberamente in due direzioni. Le spiegazioni nelle scienze sociali sono talvolta meccanicistiche, ma difficilmente sono naturalistiche (con rare eccezioni nella demografia e nella linguistica storica). Esse non sono naturalistiche anche solo perché attribuiscono liberamente poteri causali a entità come le istituzioni o le ideologie, il cui modo materiale di esistenza non è esplorato. Se vogliamo sviluppare un programma naturalistico nelle scienze sociali, dobbiamo imporci un certo ritegno ontologico e fare appello solo a entità i cui poteri causali possano essere compresi in termini naturalistici.
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La mia proposta è di riconoscere gli organismi umani nel loro ambiente materiale (naturale e artificiale) e di concentrarci sui loro singoli stati e processi mentali e sulle cause e sugli effetti fisico-ambientali di questi oggetti mentali.1 Ecco in che modo, avendo ristretto la nostra ontologia, possiamo prendere in considerazione il sociale. Una popolazione umana è abitata da una popolazione molto più estesa di rappresentazioni mentali, cioè di oggetti che si trovano nella mente/cervello degli individui, come le fantasie, le credenze, i desideri, le intenzioni, e così via. L'ambiente fisico comune della popolazione è abitato dalle produzioni pubbliche dei suoi membri. Con 'produzione pubblica' intendo ogni modificazione percepibile dell'ambiente causata dal comportamento umano; esse includono i movimenti fisici e i loro risultati. Alcune produzioni sono di lunga durata, come i vestiti o gli edifici; altre sono effimere, come le smorfie o i suoni delle parole. Tra le cause e gli effetti delle produzioni pubbliche ci sono le rappresentazioni mentali, che possono a loro volta causare altre produzioni pubbliche, che possono causare altre rappresentazioni mentali, e così via. Ci sono così catene causali complesse dove si alternano rappresentazioni mentali e produzioni pubbliche. Le produzioni pubbliche possono avere come cause molte rappresentazioni mentali, e, di converso, ogni anello di una catena causale può saldarsi a molti altri, sia in un verso che nell'altro del percorso causale. Di particolare interesse sono le catene causali che vanno dalle rappresentazioni mentali alle produzioni pubbliche alle rappresentazioni mentali, e così via, in cui i discendenti causali si assomigliano nel contenuto. La più piccola catena causale di questo tipo è un atto di comunicazione riuscito. Solitamente, le produzioni pubbliche coinvolte nella comunicazione sono rappresentazioni pubbliche, come gli enunciati linguistici. Le rappresentazioni pubbliche sono artefatti la cui funzione è assicurare una somiglianza di contenuto tra una delle loro cause mentali nell'emittente e uno dei loro effetti mentali nei destinatari. La comunicazione è uno dei principali meccanismi di trasmissione, insieme all'imitazione. La trasmissione è un proces
1 Ovviamente, che gli oggetti materiali possano essere naturalizzati è tutt'al- tro che stabilito. Se così non è, se non si può gettare un ponte tra il livello neurologico e quello psicologico, allora il mio discorso si riduce a una proposta di collegamento tra il livello psicologico e quello delle scienze ecologiche. Se, come credo, il programma naturalistico può avere successo in psicologia, allora questa è una proposta per unire le scienze sociali e quelle naturali grazie alla psicologia e all'ecologia.
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so che può essere intenzionale o meno, cooperativo o meno, e che provoca una somiglianza di contenuto tra una rappresentazione mentale in un individuo e il suo discendente causale in un altro. Nella maggior parte dei casi, le rappresentazioni mentali non sono trasmesse; la maggior parte delle trasmissioni sono eventi locali che hanno luogo una volta sola. Può accadere però che il ricevente di un atto di trasmissione divenga a sua volta un trasmettitore, così come il ricevente successivo, e così via, producendo una lunga catena di trasmissione e una serie di rappresentazioni mentali (insieme con le rappresentazioni pubbliche, nel caso della comunicazione) tenuta insieme sia causalmente che dalla somiglianza di contenuto. I pettegolezzi, che si trasmettono velocemente, e le tradizioni, che si trasmettono lentamente, sono esempi paradigmatici di queste catene culturali.
Il modello della selezione Quando abbiamo una serie di rappresentazioni mentali sufficientemente simili nel contenuto da sembrare ognuna una versione dell'altra, è possibile e spesso utile produrre un'ulteriore versione pubblica che rappresenti in modo prototipico il loro contenuto in parte comune. Parliamo allora della credenza nella metempsicosi, della ricetta del risotto con i funghi, della storia di re Artù, ognuna identificata da un contenuto. Si tratta ovviamente di astrazioni, almeno quanto lo sono la zebra, l'ordine dorico, o il contadino russo. È interessante vedere tutte le rappresentazioni concrete a cui può essere attribuito lo stesso contenuto tramite una versione prototipica, con variazioni trascurabili, come se fossero una la replica dell'altra. Una volta fatto ciò, è molto facile vedere tutti gli esemplari della 'stessa' rappresentazione come se formassero una classe distinta di oggetti nel mondo, così come si ritiene che l'insieme di tutte le zebre costituisca un genere naturale. L'unità così costruita delle serie di rappresentazioni rende possibile usare, per sviluppare una spiegazione causale della cultura, uno degli strumenti più potenti della storia intellettuale: l'idea darwinista di selezione. In questa prospettiva, le rappresentazioni culturali sono 're- plicatori', ossia oggetti in grado di autoriprodursi. Esse si auto- riproducono incitando coloro che le adottano a produrre comportamenti pubblici che ne provochino l'adozione da parte di altri, e così via. Occasionalmente le rappresentazioni 'mutano', dando a volte inizio a una nuova serie. Il compito di spiegare i contenuti e l'evoluzione di una certa cultura può essere visto co
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me quello di trovare quali rappresentazioni sono più adatte a replicarsi, sotto quali condizioni e perché. Diverse versioni di questa idea sono state difese da Karl Popper, Donald Campbell, Jacques Monod, Cavalli-Sforza e Feldman, Boyd e Richerson, William Durham, e Richard Dawkins, che ha inventato il termine 'memi' per i replicatoti culturali.2 Ho spesso sostenuto che esiste una seria difficoltà nel cercare di sviluppare una spiegazione naturalistica della cultura sulla base del modello darwinista di selezione. Non ho nessuna riserva intellettuale riguardo al darwinismo; al contrario, sono convinto che le considerazioni darwiniste svolgano un ruolo centrale nella spiegazione della cultura umana, dato che contribuiscono a rispondere alla domanda fondamentale: quali meccanismi biologici, e in particolare cerebrali, fanno sì che gli esseri umani siano animali culturali con il tipo di cultura che conosciamo? In altre parole, per capire in che senso la cultura umana è 'umana', dobbiamo fare appello alla biologia, dunque alla teoria dell'evoluzione, dunque al modello darwinista di selezione. È la nozione di cultura che richiede di essere affrontata in una prospettiva nuova, e secondo me differente, che tuttavia è in parte debitrice del darwinismo.3 I punti centrali che ho sostenuto in questi anni e nei capitoli precedenti del libro sono stati: 1) che le rappresentazioni in generale non si replicano nel processo di trasmissione, ma si trasformano; e 2) che si trasformano sulla base di processi cognitivi costruttivi. La riproduzione, se mai avviene, deve essere vista come un caso limite di assenza di trasformazione. Le mie osservazioni sono state prese come una maniera enfatica di insistere su un punto corretto, ma non così importante, ossia che la riproduzione non è perfetta. 4 Ma, dopotutto, non è forse vero che anche Dawkins ha osservato che "nessun processo di copia è infallibile" e che "non fa parte della definizione di replicatore l'idea che tutte le sue copie debbano essere perfette" (Dawkins 1982, p. 85; tr. it. p. 93)?
Si veda Sober 1991. Una posizione sull'evoluzione culturale molto simile alla mia è quella di Pascal Boyer (1993, cap. 9). Gli argomenti di Boyer e i miei sono in parte simili, in parte complementari. Boyer propone una discussione dettagliata dei modelli di Lumsden e Wilson (1981), Boyd e Richerson (1985) e Durham (1991). C'è anche una certa convergenza con Tooby e Cosmides (1992). Due altri approcci originali e iinportanti, quello dell'antropologo cognitivista Ed Hutchins (1994) e della filosofa Ruth Millikan (1984, 1993) meriterebbero una discussione a parte. 4 È così almeno che mi sembra di essere interpretato da Dennett (1995, pp. 357359). 2 3
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Dawkins è cosciente del problema: Il processo di copia è probabilmente molto meno preciso del caso dei geni: ci possono essere certi elementi 'mutazionali' in ogni evento di riproduzione. [...] I memi possono mischiarsi parzialmente uno nell'altro, cosa che i geni non fanno. Le nuove 'mutazioni' possono essere 'dirette' invece che causali, rispetto alle tendenze evolutive. [...] Queste differenze possono essere sufficienti per rendere inutile, o addirittura fuorviante, l'analogia con la selezione naturale genetica. (Dawkins 1982, p. 112; tr. it. p. 126) Il principale interesse di Dawkins e il suo contributo più rilevante consistono nell'aver osservato che i meccanismi di selezione naturale darwinista non sono in nessun modo riservati al materiale biologico, ma possono essere applicati a replicatoti di qualsiasi sostanza e qualsiasi tipo. 5 I virus dei computer sono (purtroppo) replicatoti non biologici molto ben riusciti. Ecco un altro esempio di replicatore culturale. Mi succede di ricevere per posta lettere della 'catena di sant'Antonio' che dicono cose del genere: Fai dieci copie di questa lettera e mandale a dieci persone differenti. Questa catena è stata cominciata a Santiago de Compostela. Non spezzarla! La signora Rossi spedì dieci copie della lettera il giorno stesso e, la stessa settimana, vinse alla lotteria. Il signor Bianchi la gettò via senza copiarla, e il giorno dopo perse il lavoro. Ecco un testo il cui effetto è tale per cui un numero sufficiente degli individui che lo ricevono lo replicano e lo inviano, così da garantire la stabilità della distribuzione del processo. In presenza di talune condizioni, i replicatoti saranno sottoposti a un processo di selezione darwinista. Le due condizioni principali sono che ci siano variazioni tra i replicatoti, e che i diversi tipi di replicatoti abbiano probabilità differenti di essere replicati. Nel caso della selezione dei geni, la fonte di variazione è la mutazione casuale, che è, in realtà, un fallimento nella riproduzione corretta. Perché la selezione operi su replicatoli capaci di mutazioni, bisogna che sia soddisfatta un'altra condizione, che ha a che fare con il tasso di mutazioni. Se i geni mutassero non solo occasionalmente, ma in continuazione, non sarebbero più replicatoti e la selezione sarebbe inefficace. Quale grado di mutazione è compatibile con una selezione efficace? Ecco la risposta di George Williams:
Un tema sviluppato in dettaglio da Millikan (1984). 5
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L'essenza di una teoria genetica della selezione naturale è una tendenza statistica nei tassi relativi di sopravvivenza delle alternative (geni, individui, ecc.). L'efficacia di questa tendenza nel produrre l'adattamento dipende dal fatto che si mantengano certe relazioni quantitative tra fattori operativi. Una condizione necessaria è che l'entità selezionata abbia un alto grado di permanenza e un basso grado di trasformazione endogena, relativa al grado di tendenza (Williams 1966, pp. 22-23)
I replicatori interessanti - i geni nel caso biologico - possono in realtà essere caratterizzati come entità che si replicano abbastanza bene da essere oggetto di una selezione efficace.6 Nel caso dei geni, il tasso tipico di mutazione può essere di una mutazione ogni milione di replicazioni. Con questi bassi tassi di mutazione, anche una piccola tendenza selettiva è sufficiente per avere, nel tempo, grandi effetti cumulativi. Se invece nel caso della cultura ci può essere "un certo elemento 'mutazionale' in ogni evento di riproduzione", come Dawkins riconosce, allora la possibilità stessa di effetti cumulativi è messa in questione.7 Ci sono, ovviamente, pezzi di cultura che si replicano. Alcune persone copiano le lettere della 'catena di sant'Antonio', i monaci medioevali copiavano i manoscritti, molti manufatti tradizionali sono repliche. Un vaso può essere copiato da un vasaio, alcuni dei suoi vasi possono essere copiati da altri vasai, e così via per molte generazioni di vasi e vasai. Questo lento processo di riproduzione manuale è stato sostituito nei tempi moderni da tecnologie sempre più sofisticate, come la stampa, la televisione o la trasmissione per posta elettronica, che permettono di produrre un numero enorme di repliche. Il numero di copie di un cosiddetto esemplare culturale è però solo un indicatore indiretto e incompleto del suo genuino successo culturale. I cestini della carta straccia, e i loro equivalenti elettronici, sono pieni di informazione massivamente riprodotta ma priva di interesse, mentre alcuni articoli scientifici letti solo da pochi specialisti hanno cambiato il nostro mondo culturale. L'importanza culturale di una produzione pubblica deve essere misurata non in termini del numero di copie nell'ambiente, ma del suo impatto sulla mente della gente.
6 Williams arriva a proporre che "In una teoria evoluzionista, un gene può essere definito come un'informazione ereditaria per la quale esiste una tendenza selettiva favorevole o non favorevole uguale a diverse o molte volte il suo tasso di cambiamento endogeno. La prevalenza di queste entità stabili nell'eredità delle popolazioni è una misura dell'importanza della selezione naturale" (1966, p. 25). 7
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Si vedano Wilson e Bossert 1971, pp. 61-62; Maynard Smith 1989, pp. 20-24.
I casi più evidenti di riproduzioni riguardano le rappresentazioni pubbliche invece che quelle mentali. Quando una replica pubblica viene prodotta da un individuo invece che da una mac- china, questa produzione è causata da un'intenzione o da un piano dell'individuo, vale a dire da una rappresentazione mentale. Le rappresentazioni mentali che causano la produzione di repliche pubbliche possono essere a loro volta viste come repliche mentali di rappresentazioni mentali. La rappresentazione mentale che Maria ha di un vaso fa sì che lei costruisca un vaso in conformità con essa. Piero vede il vaso, e ciò causa in lui una rappresentazione mentale identica a quella di Maria. La rappresentazione di Piero fa sì che egli costruisca un vaso identico a quello di Maria, e così via. Sorge a questo punto la questione se i memi veri e propri siano produzioni pubbliche - vasi, testi, canzoni, e così via -, al contempo effetti e cause delle rappresentazioni mentali, o, come sostiene Dawkins (1982), rappresentazioni mentali che sono insieme cause ed effetti delle produzioni pubbliche. Entrambe le opzioni presentano problemi simili. Per cominciare, la maggior parte degli oggetti culturali, sia mentali che pubblici, hanno un numero elevato e variabile di ascendenti immediati pubblici o mentali. Se non consideriamo la riproduzione meccanica o elettronica, i casi di nuovi oggetti effettivamente prodotti copiando un vecchio oggetto sono rari. Quando cantate La bella lavanderina non state cercando di riprodurre una particolare versione precedente della canzone, e molto probabilmente la vostra versione mentale della canzone è figlia delle versioni mentali di molte altre persone. La maggior parte dei vasai che copiano vasi quasi identici non sta in realtà copiando un vaso particolare, e la loro abilità non è derivata da un solo maestro (anche se ci può essere un maestro più importante degli altri, il che complica ulteriormente la vicenda). In generale, se descrivete seriamente un'unità culturale - singoli testi, vasi, canzoni, capacità individuali di produrne - come riproduzione di unità precedenti, dovete allora chiedervi per qualsiasi oggetto culturale di quale esemplare precedente è una replica diretta? Nella maggior parte dei casi sarete costretti a concludere che ogni esemplare non è una replica di un esemplare-genitore, né (come nella riproduzione sessuale) di due esemplari genitori, né di un numero definito di esemplari genitori, ma di un numero indefinito di esemplari, alcuni dei quali hanno giocato un ruolo 'genitoriale' maggiore di altri. Si può pensare che questo processo di riproduzione sintetica di un numero variabile di modelli sia effettuato da un equivalente
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naturale di un programma di morphing (un programma che prende, per esempio, l'immagine di un gatto e quella di un uomo come input e produce come risultato l'immagine di una creatura a metà tra un gatto e un uomo). Come nei programmi di morphing, ai diversi input si danno pesi diversi: il vostro uomo-gatto può essere più simile a un uomo o più simile a un gatto, e le conoscenze di Piero sui vasi possono essere più simili a quelle di Maria che a quelle di Carlo, anche se dipendono da entrambe. Il modello che viene in mente ora ricorda meno la nozione darwinista di selezione e più la nozione di 'influenza' usata nella storia delle idee e nella psicologia sociale. Nel caso della selezione, i geni riescono a replicarsi oppure no, e gli organismi sessuali riescono a fornire la metà dei geni di un nuovo organismo oppure non ci riescono. La relazione di discendenza determina perciò rigorosamente la somiglianza genetica (se ignoriamo le mutazioni). L'influenza, invece, è una questione di grado. Due maestri vasai possono avere gli stessi allievi, e quindi gli stessi discendenti culturali, ma i loro discendenti culturali comuni possono subire più l'influenza di un maestro che dell'altro. Anche i vasi risultanti possono essere i discendenti dei vasi di entrambi i maestri, ma più simili ai vasi di uno che dell'altro. Esistono tuttavia alcune somiglianze tra il modello dei memi e quello dell'influenza: entrambi implicano la nozione di competizione. Entrambi definiscono una misura di successo, in termini del numero di discendenti in un caso, e del grado e della diffusione di influenza nell'altro; entrambi predicono che gli oggetti più riusciti saranno predominanti nella cultura, e che la cultura evolverà in risposta alle differenze di successo tra oggetti in competizione. Il modello dei memi può essere visto come un caso limite del modello dell'influenza: il caso in cui l'influenza è cento per cento o zero per cento, cioè in cui i discendenti sono repliche. I modelli formali dell'influenza nella psicologia sociale tendono a concentrarsi su questi casi limite (si vedano per esempio Nowak et alii 1990). Sia il modello dei memi che quello dell'influenza considerano gli organismi umani come agenti di riproduzione o di sintesi, con un contributo minimo o nullo al processo che avviene in loro. Al più, l'agente replicativo può scegliere in qualche misura non solo quale input sintetizzare, ma i pesi relativi da assegnare a input differenti. Tra i fattori cruciali sia del successo riproduttivo che dell'influenza c'è allora l'attrazione che i diversi input hanno per gli agenti. Una volta che sono stati scelti gli input (e i pesi nel caso della sintesi), il risultato di un processo riuscito di riproduzione o di sintesi è completamente determinato. Inoltre, secondo questi due approcci, le rappresentazioni mentali impli-
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cate nella trasmissione culturale non contengono mai più informazione degli input che dovrebbero sintetizzare. Il modello dell'attrazione A differenza del modello dei memi, quello dell'influenza giustamente non tratta la riproduzione nella trasmissione culturale come la norma ma come un caso limite (di influenza al cento per cento). Entrambi sbagliano, però, nell'assumere che, in generale, il risultato di un processo di trasmissione sia completamente determinato dagli input (e dai pesi, nel caso dell'influenza) accettati o scelti dall'organismo ricevente. I due modelli fanno l'ipotesi che la trasmissione culturale sia completamente determinata dagli stimoli, cosa che non costituisce la norma. Una quantità limitata di cultura viene trasmessa grazie a processi elementari di imitazione e sintesi. I monaci medioevali che copiavano i manoscritti esempi apparentemente perfetti di riproduzione culturale - comprendevano quello che copiavano e, a volte, sulla base di quello che capivano, correggevano ciò che consideravano un errore precedente di copiatura. In generale, i cervelli umani usano tutta l'informazione che viene loro sottoposta non per ricopiarla o sintetizzarla, ma come dato più o meno pertinente con cui costruire le proprie rappresentazioni. Ecco qualche rapido esempio. Primo: considerate le vostre idee su Silvio Berlusconi. Probabilmente sono assai simili a quelle di molti altri, e sono state influenzate dalle posizioni di qualcuno in particolare. Non è però molto probabile che formiate le vostre idee semplicemente copiando o sintetizzando quelle degli altri. Ciò che fate è piuttosto usare la vostra conoscenza di background e le vostre preferenze per porre in prospettiva le informazioni che vi sono state date su Berlusconi e, attraverso un misto di reazioni emotive e di inferenze, arrivare alle vostre idee attuali. Il fatto che siano simili a quelle di molti altri non può essere spiegato da un processo di riproduzione, e solo in parte da un processo di influenza, ma dalla convergenza dei vostri processi cognitivi e affettivi con quelli di molti altri verso punti di vista psicologicamente attraenti nell'ampio spazio dei possibili punti di vista su Berlusconi. Prendiamo come secondo esempio le lingue (si veda anche Boyer 1993, p. 281). Le lingue sono, a prima vista, esempi superbi di memi: un sapere complesso trasmesso da generazione a generazione e abbastanza simile da permettere la comunicazione tra gli individui. Nonostante ciò, come ha sostenuto a
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lungo Noam Chomsky (1968/1972, 1975, 1986), una lingua come l'inglese è un'astrazione cui corrispondono grammatiche mentali nella testa degli individui e frasi pronunciate nell'ambiente. Gli individui non incontrano mai le grammatiche o le rappresentazioni delle grammatiche delle altre persone, ma apprendono la lingua sviluppando la propria grammatica a partire da un numero alto ma limitato di enunciati linguistici. Individui differenti incontrano insiemi di enunciati molto differenti. Acquisire non significa imitare questi enunciati. In realtà la maggior parte di essi non viene mai ripetuta: i nuovi enunciati non sono derivati né dalla sintesi né dalla ricombinazione dei vecchi. Ciò che succede nell'acquisizione del linguaggio è che gli enunciati sono usati come dati per la costruzione di una grammatica mentale. Quanto contano questi dati? Chomsky ha sostenuto - in modo molto convincente che i dati linguistici disponibili a un bambino sottodeterminano ampiamente la grammatica. Molti enunciati inoltre sono scorretti grammaticalmente, e costituiscono quindi dati fuorviami. Questa sottodeterminazione, le differenze degli input disponibili ai diversi bambini, il fatto che tutti i bambini sviluppino una grammatica e che, per di più, nella stessa comunità queste grammatiche convergano, fanno sorgere un serio problema. Dobbiamo sempre a Chomsky almeno la forma generale della soluzione: nella mente di ogni bambino esiste un meccanismo di acquisizione del linguaggio modulare, specificato geneticamente. Nel vasto ambito di usi possibili degli stimoli forniti dagli enunciati linguistici, i bambini sono portati a quelli che permettono loro di costruire una grammatica, e finiscono con il convergere sulla grammatica psicologicamente possibile per i dati che sono stati loro forniti. Così come è indifferente da quale parte di una bacinella lasciate cadere una biglia - si fermerà nel centro -, allo stesso modo è indifferente quali frasi italiane ascolti un bambino italiano - costruirà una grammatica italiana. Come terzo esempio, considerate Cappuccetto Rosso come caso di un meme veramente ben riuscito. Si tratta qui di un gran numero di individui che ascoltano la storia e vogliono ripeterla, se non letteralmente, almeno in maniera fedele al suo contenuto. Ovviamente, non sempre ci riescono, e molte delle versioni pubbliche prodotte da un narratore a beneficio di uno o due ascoltatori sono diverse da quelle standard. Immaginate per esempio un narratore inesperto che racconta che il cacciatore estrae Cappuccetto Rosso dal ventre del lupo ma si dimentica di menzionare la nonna. I teorici
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ilei memi potrebbero sostenere - e io sarei d'accordo - che questa versione ha meno probabilità di essere replicata rispetto a quella standard. La loro spiegazione sarebbe che essa lia minori probabilità di avere dei discendenti. Ciò è certamente plausibile, ma esiste un'altra spiegazione altrettanto plausibile: molto probabilmente, nel ripetere la favola, gli ascoltatori che la conoscono in questa versione difettosa la correggeranno consciamente o inconsciamente in modo da salvare anche la nonna. Nello spazio logico delle possibili versioni di una storia, alcune hanno una forma migliore, ossia una forma che viene percepita senza parti superflue e senza omissioni, più facile da ricordare e quindi più attraente. I I attori grazie ai quali una forma è migliore di un'altra dipendono in parte dalla psicologia umana e in parte dal contesto culturale locale. Nel ricordare e verbalizzare la storia, i narratori sono attratti dalle forme migliori. Entrambe le spiegazioni, in termini di selezione e in termini di attrazione, possono essere simultaneamente vere; la ragione per la quale le versioni difettose hanno meno repliche può essere sia perché hanno meno discendenti, sia perché i loro discendenti non sono repliche. Spero che sia ora chiara l'idea generale: c'è maggiore scarto tra discendenza e somiglianza nel caso della trasmissione culturale di quanto non ci sia nel caso biologico. La maggior parte dei discendenti culturali sono trasformazioni, non repliche; le trasformazioni implicano somiglianza: minore è il grado di trasformazione, maggiore è quello di somiglianza. Ma la somiglianza tra oggetti culturali è maggiore di quanto ci si potrebbe aspettare osservando i gradi reali di trasformazione nella trasmissione culturale. La somiglianza tra oggetti culturali deve essere spiegata in buona misura dal fatto che le trasformazioni tendono a essere influenzate dalla direzione di posizioni-attrattore in uno spazio di possibilità. Come si dovrebbe modellizzare la trasmissione culturale? Il modello della selezione darwinista è ancora la migliore approssimazione - da correggere ma non da scartare? Per cercare di rispondere, presenterò la questione attraverso alcune semplici considerazioni formali. Immaginiamo una popolazione di oggetti individualmente capaci di produrre discendenti, e con una durata di vita limitata. Immaginiamo anche che questi oggetti siano di 100 tipi, con relazioni di somiglianza fra i tipi che possiamo rappresentare in uno spazio delle possibilità come una matrice di 10 per 10. Consideriamo uno stato iniziale (che può essere per
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esempio stabilito sperimentalmente) nel quale abbiamo una distribuzione casuale di 10.000 oggetti scelti fra i 100 tipi. Supponiamo di esaminare la nostra popolazione dopo un certo numero di generazioni, e osservare una distribuzione differente.
Mentre l'intera popolazione ha all'incirca la stessa grandezza, ed esistono ancora oggetti sparsi nello spazio delle possibilità, alcuni tipi sono ora meglio rappresentati di altri. Più specificamente, osserviamo che gli oggetti tendono a concentrarsi intorno a due tipi. Immaginiamo che osservazioni ripetute ci mostrino che questa configurazione è abbastanza stabile.
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Un tipo di spiegazione ben conosciuto di questo stato di coss sarebbe che alcuni dei tipi avevano dall'inizio un maggiore successo riproduttivo, incrementando così il numero delle unità fino al raggiungimento di un equilibrio biologico nel quale i tipi più riusciti possono mantenere una rappresentazione maggiore degli altri. Supponiamo di cercare la maniera In cui gli oggetti di questa popolazione producono realmente discendenti e di scoprire che un discendente non è mai dello stesso tipo del genitore. I discendenti sono invece sempre di uno degli otto tipi adiacenti nella matrice a quello dei loro genitori (si veda figura 2). La spiegazione non può più essere quella di un equilibrio ecologico tra replicatoli più o meno efficaci, dato che si tratta di un sistema trasformazionale e non riproduttivo. Una spiegazione alternativa partirà dall'ipotesi che le otto possibilità della discendenza di un genitore di un certo tipo non sono equiprobabili. Un genitore ha maggiori probabilità di produrre una trasformazione che si distanzia da esso in una certa direzione. Supponiamo che le differenze nelle probabilità di trasformazione siano tali per cui la matrice abbia due attrattori. 8 Se disegniamo la linea di discendenza di una certa unità, essa non sembrerà seguire un percorso completamente casuale nello spazio delle possibilità, ma sembrerà invece muoversi verso uno di questi attrattori, tanto che il punto di arrivo ha buone probabilità di essere nelle vicinanze di uno di loro. Se il punto di partenza è vicino a un attrattore, allora è probabile che l'intera linea gli resti vicino. Se un'unità avesse solo repliche, allora le differenze iniziali di successo riproduttivo e l'equilibrio ecologico spiegherebbero
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Nozioni sofisticate di attrattori ('attrattori strani' in particolare) sono state 115
la distribuzione osservata. Ma dato che l'unità genera mutanti, una spiegazione migliore è fornita dalle differenze tra le probabilità di trasformazione. Trasformazione e riproduzione possono essere combinate. Per esempio, tutti i tipi possono avere sempre una probabilità su nove di replicarsi invece di trasformarsi. In questo caso, anche se avvenisse qualche riproduzione, la differenza nella distribuzione dei tipi sarebbe spiegata interamente dalle differenze nelle probabilità delle trasformazioni date. La probabilità che un'unità si replichi invece di trasformarsi può essere diversa a seconda del tipo. Potremmo allora, in linea di principio, avere una spiegazione duplice, che invochi sia il successo riproduttivo sia l'attrazione. Ma in questo caso, per ragioni di semplicità e di generalità, è meglio considerare il successo riproduttivo in una regione data come ciò che definisce o contribuisce a definire quella regione come un attrattore. Anche la molteplicità e il numero variabile di 'genitori' o fonti per lo stesso oggetto, che sono un aspetto tipico dell'evoluzione culturale, vengono gestiti meglio in termini di attrazione. La generazione di nuove unità in uno spazio delle possibilità con delle regioni-attrattori deve essere attesa da qualche parte tra le unità esistenti e gli attrattori vicini. Non ci si deve aspettare però una metrica generata da una distanza semplice: i meccanismi reali di generazione determinano contemporaneamente quali unità verranno trasformate e in quale modo. Il modello dell'attrazione include come caso speciale quello dell'influenza: il caso in cui lo spazio delle possibilità non include un attrattore vicino e dove una metrica semplice predice dove emergerà la nuova unità. Si noti che gli attrattori, come li ho caratterizzati, sono costrutti astratti, statistici, come un tasso di mutazione o una probabilità di trasformazione. Dire che c'è un attrattore in uno spazio di possibilità significa solo dire che le probabilità di trasformazione sono configurate in un certo modo: esse tendono a essere influenzate in modo tale da favorire le trasformazioni verso un punto specifico, e quindi si distribuiscono intorno a quel punto.
sviluppate nella dinamica dei sistemi complessi e possono risultare utili in una futura modellizzazione dell'evoluzione culturale; in questo contesto ci è sufficiente considerare una nozione molto elementare di attrattore.
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Un attrattore non è una cosa materiale; non attrae' fisicamente nulla. Dire che esiste un attrattore non significa dare una spiegazione causale, ma mettere in luce ciò che richiede una spiegazione causale - cioè la distribuzione di unità e la sua evoluzione -, e suggerire il tipo di spiegazione da cercare - cioè l'identificazione degli autentici fattori causali che influenzano le microtrasformazioni. Fattori ecologici e psicologici di attrazione Due tipi di fattori spiegano l'esistenza degli attrattori: fattori psicologici ed ecologici. L'ambiente determina la sopravvivenza e la composizione delle popolazioni portatrici di cultura; esso con
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tiene tutti gli input ai sistemi cognitivi dei membri della popolazione; determina quando e dove e per mezzo di cosa può avvenire la trasmissione e impone vincoli sulla formazione e la stabilità di tipi differenti di produzioni pubbliche. L'organizzazione mentale degli individui determina quali input disponibili vengono trattati, come vengono trattati e quale informazione guida i comportamenti che, a loro volta, modificano l'ambiente. Ifattori psicologici interagiscono con quelli ecologici a molti livelli che corrispondono a diverse scale temporali: quella dell'evoluzione biologica, quella della storia sociale e culturale, quella dello sviluppo cognitivo e affettivo degli individui e quella dei microprocessi di trasmissione. È all'interno della scala temporale dell'evoluzione biologica che emerge una specie dotata di capacità mentali che rendono possibile la trasmissione culturale. Il ruolo della biologia non si esaurisce nel rendere possibile la cultura, senza alcun effetto sul suo carattere o sul suo contenuto. L'immagine del complesso mente/cervello umano come una tabula rasa su cui culture differenti scrivono liberamente la loro visione del mondo e quella delle visioni del mondo come sistemi integrati interamente determinati dalla storia socioculturale, ancora così di moda tra gli scienziati sociali, sono incompatibili con le nostre attuali conoscenze di biologia e psicologia. IIcervello è un organo complesso. La sua evoluzione è stata determinata da condizioni ambientali che hanno aumentato o diminuito le probabilità dei nostri antenati di riprodursi nel corso della filogenesi. Ci sono buone ragioni di pensare che il cervello contenga molti sottomeccanismi, o 'moduli', che sono evoluti come adattamenti a diverse sfide e opportunità ambientali (si vedano Cosmides e Tooby 1987, 1994; Tooby e Cosmides 1989, 1992). I moduli mentali - ossia gli adattamenti a un ambiente ancestrale - sono fattori cruciali nell'attrazione culturale. Essi tendono a fissare gran parte del contenuto culturale attorno al dominio cognitivo nel trattamento del quale sono specializzati (si veda il capitolo successivo). Le pressioni evolutive hanno probabilmente favorito non solo l'emergere di meccanismi mentali specializzati, ma anche un certo grado di efficienza cognitiva all'interno di ognuno di questi meccanismi nella loro reciproca articolazione. In ogni momento, gli esseri umani percepiscono più fenomeni di quelli ai quali sono in grado di prestare attenzione, e hanno più informazione immagazzinata in memoria di quanta non possano usare. L'efficienza cognitiva significa fare la scelta giusta nel selezionare quale nuova informazione disponibile deve essere presa in considerazione e quale informazione in memoria deve essere re-
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cuperata per trattare la nuova. Le scelte giuste sono quelle che uniscono nuova e vecchia informazione in modo tale da fornire la maggior quantità possibile di effetti cognitivi con il minimo sforzo mentale. Deirdre Wilson e io abbiamo sostenuto che l'equilibrio effet- to-sforzo nel trattamento di qualsiasi tipo di informazione deter- mina il suo grado di pertinenza (Sperber e Wilson 1986). La nostra idea è che i processi cognitivi umani siano guidati verso la massimizzazione della pertinenza. La maggior parte dei fattori che determinano la pertinenza sono altamente idiosincratici e hanno a che fare con la collocazione spazio-temporale unica di un individuo. Altri invece sono radicati in aspetti della psicologia determinati geneticamente. L'elaborazione degli stimoli per i quali esiste un modulo specializzato richiede allora comparativamente uno sforzo minore ed è potenzialmente più pertinente. Per esempio, fin dalla nascita gli esseri umani trattano i suoni della parola come stimoli pertinenti (un'aspettativa spesso delusa, ma mai abbandonata). È possibile che gli individui siano fatti in modo tale da ottimizzare il rapporto effetto/sforzo non solo dal lato dell'input, ma anche da quello dell'output. Le produzioni pubbliche, dai movimenti fisici al linguaggio alle costruzioni, anche quando sono modellate a partire da produzioni precedenti tendono a muoversi verso forme in cui l'effetto voluto può essere ottenuto al costo minimo. La cultura è sufficientemente vecchia per aver avuto qualche effetto sull'evoluzione biologica. La 'coevoluzione' gene-cultura (Boyd e Richerson 1985; Lumsden e Wilson 1981) aiuta a spiegare in particolare l'esistenza negli esseri umani di forme di sapere specializzate nell'interazione culturale, come per esempio la facoltà del linguaggio (Pinker e Bloom 1990; Pinker 1994). Essa è però un processo troppo lento per spiegare i cambiamenti culturali nella storia. Generazione dopo generazione, gli esseri umani sono nati essenzialmente con lo stesso potenziale, che realizzano però in modi molto differenti. Ciò è dovuto alla diversità degli ambienti, in particolare di quello culturale, in cui sono nati. Ciononostante, sin dal primo giorno la psicologia di un individuo è arricchita e resa più specifica dagli input culturali. Ogni individuo diviene rapidamente uno dei molti luoghi in cui si ripartisce il 'pool' di rappresentazioni culturali che abitano la popolazione. La storia culturale di una popolazione è al contempo quella del suo pool di rappresentazioni culturali e quella del suo ambiente culturale. Questi macroinsiemi - il pool di rappresentazioni e
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l'ambiente - evolvono come effetti di microprocessi nei quali le cause appartengono all'ambiente e gli effetti al pool, o viceversa. In generale, l'espressione 'ambiente culturale' è usata in un senso molto lato, e si riferisce a un insieme di significati, valori, tecniche, e così via. Così intesa, essa ha poco a che fare con l'ambiente fisico; il suo statuto ontologico è, nella migliore delle ipotesi, molto vago; i suoi poteri causali sono misteriosi. Con 'ambiente culturale' intendo un insieme di oggetti materiali: tutte le produzioni pubbliche nell'ambiente che sono cause ed effetti delle rappresentazioni mentali. L'ambiente culturale così inteso si confonde con quello fisico di cui fa parte. I poteri causali che esercita sulla mente umana non danno problemi: le produzioni pubbliche stimolano gli organi sensoriali nel modo materiale usuale. Essi causano la costruzione di rappresentazioni mentali dotate di un contenuto determinato in parte dalle proprietà degli stimoli che le hanno provocate, e in parte da risorse mentali preesistenti. Gli attrattori culturali emergono, svaniscono o si muovono nella storia, alcuni rapidamente altri lentamente, altri ancora all'improvviso. Alcuni di questi cambiamenti hanno cause ecologiche comuni: nicchie ecologiche eccessivamente sfruttate perdono la loro attrazione economica; sentieri troppo raramente calpestati si ricoprono d'erba; alcune pratiche tendono ad aumentare l'ampiezza della popolazione che potrebbe essere attratta da esse, altre a diminuirla. La maggior parte dei cambiamenti storici negli attrattori deve essere spiegata in termini di interazioni tra fattori psicologici ed ecologici di un tipo particolare di evoluzione culturale. L'ambiente culturale determina in ogni momento la formazione delle rappresentazioni mentali, che poi a loro volta possono essere la causa di produzioni pubbliche, e così via. Questo processo modifica la densità relativa delle rappresentazioni mentali, così come quella delle produzioni pubbliche, in aree differenti dello spazio di possibilità. In particolare, la densità tende ad aumentare la vicinanza degli attrattori. Un aumento di densità delle produzioni pubbliche in vicinanza di un attrattore tende a rinforzare l'attrattore, anche solo perché aumentano le probabilità che si presti attenzione a queste produzioni più numerose. D'altra parte, l'aumento della densità di rappresentazioni mentali nella vicinanza dell'attrattore può indebolirlo: la ripetizione di rappresentazioni che hanno lo stesso contenuto può diminuirne infatti la pertinenza e far sì che gli individui perdano interesse in esse o le reinterpretino in modo diverso. Le pratiche stabilite (in materia di abbigliamento, cibo, etichetta, ecc.) sono forti attrattori. Allo stesso tempo, è proprio la
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loro prevedibilità a diminuirne la pertinenza a vantaggio di un chiaro distacco dalle pratiche stabilite che costituiscono un modo tacile per attirare l'attenzione e raggiungere un grado elevato di pertinenza. Una volta che le produzioni pubbliche convergono in massa su qualche attrattore culturale, possono provocare l'emergenza di un attrattore concorrente vicino, come ben illustrano i cambiamenti repentini delle mode, che perdono rapidamente interesse proprio a causa del loro successo. Quando invece si incontrano pratiche che restano stabili per generazioni, si può supporre che mantengano un livello sufficiente di pertinenza nonostante la loro ripetizione, e vedere se sia davvero così e perché. Una pratica ripetitiva può rimanere pertinente perché lo sono i suoi effetti. Ciò succede, per esempio, con le pratiche tecnologiche che hanno effetti economici importanti sul benessere degli individui o addirittura sulla loro sopravvivenza. Una pratica ripetitiva può rimanere pertinente perché è in competizione con altre pratiche, e la scelta di una invece che dell'altra da parte di un certo individuo a un dato momento può essere estremamente significativa - è il caso delle pratiche usate per affermare che qualcuno appartiene a una minoranza. Una pratica ripetitiva può essere pertinente perché individui differenti si contendono il diritto di adottarla e perché il successo in questa competizione è importante - è il caso delle pratiche rituali che segnano la promozione a uno status desiderato. Una pratica ripetitiva può restare pertinente perché, senza modificare percepibilmente la sua forma pubblica, si presta a interpretazioni differenti a seconda dell'agente, delle circostanze e dello stadio della vita. Questa possibilità di reinterpretazione è tipica delle pratiche religiose (si veda Sperber 1974b). Anche sulla scala temporale dei cicli della vita individuale i fattori ecologici e psicologici interagiscono in una maniera specifica; a stadi differenti del loro sviluppo psicologico, gli individui sono attratti in direzioni differenti. Inizialmente i principali fattori ecologici di attrazione sono geneticamente determinati; ma l'esperienza - ossia gli effetti cognitivi delle interazioni passate con l'ambiente - diventa un fattore di attrazione sempre più importante. Durante l'infanzia, l'informazione che permette al bambino di sviluppare competenze per le quali egli ha una disposizione innata è registrata e usata a questo scopo. Il bambino acquista le competenze per parlare, arrampicarsi, mangiare, bere, maneggiare gli oggetti, prevedere il comportamento altrui, riconoscere gli animali, e così via. In tutti questi domini, la nuova informazione risulta facilmente pertinente perché soddisfa i bisogni ancora insaturi di moduli specializzati. Una volta acquisite le com
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petenze di base, l'attrazione tende alla nuova informazione pertinente nel contesto della conoscenza di base già acquisita. Essa tende anche all'informazione pertinente per i vari scopi che l'individuo è ora in grado di immaginare e perseguire. Il contributo degli individui alla trasmissione culturale varia durante il ciclo di vita. Non solo gli individui trasmettono quantità differenti e contenuti differenti, ma trasformano anche quello che trasmettono in direzioni differenti, e lo trasmettono a pubblici differenti a seconda della fase della loro vita. L'ampiezza delle trasformazioni varia anche con l'età e il ruolo sociale del comunicatore e con quelli del suo pubblico. In alcune configurazioni, una comunicazione relativamente più conservatrice può sembrare più pertinente; in altri casi, la ricerca della pertinenza richiede innovazione. Dal punto di vista degli individui, gli attrattori culturali sembrano muoversi lungo un percorso che in realtà combina cambiamenti storici con movimenti individuali nel loro ciclo di vita e nelle loro relazioni sociali. Sono i microprocessi di trasmissione culturale che rendono possibile la coevoluzione gene-cultura e che provocano l'evoluzione storica della cultura e lo sviluppo culturale degli individui. L'idea di questo libro è che questi microprocessi non siano in generale processi di replica. Non sto negando che possano avvenire riproduzioni che giocano un ruolo nell'evoluzione culturale. Sostengo semplicemente che sia meglio vedere le riproduzioni come casi limite delle trasformazioni. I processi cognitivi costruttivi sono coinvolti sia nella rappresentazione degli input culturali sia nella produzione degli output pubblici. Tutti gli output dei processi mentali individuali sono influenzati dagli input passati; solo pochi output sono semplici copie degli input passati. Il modello neodarwinista della cultura è basato su un'idealizzazione - fenomeno abituale nella pratica scientifica ma, e qui sta il problema, su un'idealizzazione a sua volta basata su una seria distorsione dei fatti pertinenti. Il modello neodarwinista e le idee di riproduzione e selezione sembrano offrire una spiegazione all'esistenza e all'evoluzione di contenuti culturali relativamente stabili. Com'è possibile, se la riproduzione non è la norma, che tra tutte le rappresentazioni e le produzioni pubbliche che abitano una popolazione umana e il suo ambiente condiviso sia così facile distinguere tipi culturali stabili, come le posizioni comuni su Silvio Berlusconi, le narrazioni di Cappuccetto Rosso, gli enunciati italiani, e anche le strette di mano, i funerali e gli autobus di linea? Per due ragioni: primo, perché attraverso meccanismi interpretativi, il cui controllo è parte della nostra competenza sociologica, tendiamo a esagerare la somiglianza degli oggetti culturali e la
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distinzione dei tipi (si veda il capitolo 2); secondo, perché nel formare rappresentazioni mentali e produzioni pubbliche, ogni uomo in qualche misura, e sicuramente tutti i membri di una ■stessa popolazione, sono attratti nella stessa direzione. Benché in contrasto con i modelli neodarwinisti della cultu- ra presentati da Dawkins e da altri, il modello dell'attrazione culturale che ho proposto è di ispirazione darwinista nel senso che spiega regolarità su larga scala come l'effetto cumulativo di microprocessi. La cultura di una data popolazione è descritta come la distribuzione di rappresentazioni mentali e produzioni pubbliche. L'evoluzione culturale è spiegata come l'effetto delle differenze di frequenza tra diverse trasformazioni possibili di rappresentazioni e di produzioni nel processo di trasmissione. Nello studio dell'evoluzione culturale, prendere a prestito il mo■dello di selezione darwinista non è il solo modo, e forse non il migliore, di servirsi delle intuizioni fondamentali di Darwin.9
Per questo capitolo, ringrazio Ned Block, John Maynard Smith ed Eliot So- ber per i loro utili commenti. 9
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6. Modularità del pensiero ed epidemiologia delle rappresentazioni
Dieci anni fa, Jerry Fodor pubblicò La mente modulare, un libro che ricevette una grande e meritata attenzione. L'obiettivo polemico era l'idea allora dominante secondo la quale non esistono discontinuità importanti tra processi percettivi e processi concettuali. L'informazione scorre libera tra i due tipi di processi: le credenze forniscono informazione alla percezione così come ne ricevono da essa. Contro questa visione della mente Fodor sostenne che i processi percettivi (e quelli di decodifica linguistica) sono effettuati da meccanismi specializzati e rigidi. Ognuno di questi 'moduli' ha un suo dominio specifico, e non tratta informazione prodotta dai processi concettuali. In realtà La mente modulare era un titolo paradossale (anche se forse non intenzionalmente, e il fatto non fu notato) dato che, secondo Fodor, la modularità può essere ricercata solo alla periferia della mente, nei suoi sistemi di input.1 La parte centrale e più estesa della mente è per Fodor decisamente non modulare. I processi concettuali, cioè il pensiero vero e proprio, sono presentati come un grande blocco olistico, in cui è impossibile ritagliare articolazioni. Le principali controversie si sono concentrate più sulla tesi della modularità dei processi percettivi e linguistici che su quella della non modularità del pensiero. Due sono gli obiettivi di questo articolo. In primo luogo difenderò la tesi che anche il pensiero può essere modulare (quello che Fodor [1987a, p. 27] chiama "la teoria della modularità impazzita"... ahimè!), pur riprendendo Fodor nel sostenere che
1 Fodor menziona la possibilità che anche i sistemi di output, ossia i sistemi motori, possano essere modulari. Assumo che sia così, senza discutere qui il problema.
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"quando dico che un sistema è modulare intendo modulare 'in un senso interessante'" (Fodor 1983, p. 37; tr. it. p. 69). Il secondo obiettivo è quello di articolare una visione modulare del pensiero umano con la concezione naturalistica della cultura umana che sto sviluppando sotto il nome di epidemiologia delle rappresentazioni (Sperber 1985). I due obiettivi sono strettamente correlati: la diversità culturale è stata sempre presa a esempio per mostrare la plasticità della mente umana, mentre la tesi della modularità del pensiero sembra negarla. Mi interessa mostrare che, diversamente dall'immagine tradizionale, organismi forniti di menti genuinamente modulari generano culture genuinamente diverse. Due argomenti di buon senso contro la modularità del pensiero La distinzione tra processi percettivi e processi concettuali è, almeno a grandi linee e a livello molto astratto, chiara: i processi percettivi ricevono in input l'informazione fornita dai recettori sensoriali, e producono in output una rappresentazione concettuale che categorizza l'oggetto percepito. I processi concettuali hanno rappresentazioni concettuali sia in input che in output. Vedere una nuvola e pensare: Ecco una nuvola! è un processo percettivo; inferire da questo: Potrebbe piovere è un processo concettuale. L'idea di base della modularità è anch'essa molto semplice. Un modulo cognitivo è un meccanismo computazionale specificato geneticamente nella mente/cervello (d'ora in poi: la mente) che lavora soprattutto da solo su input che appartengono a domini cognitivi specifici e che sono forniti da altre parti del cervello (per esempio, recettori sensoriali, o altri moduli). Date queste nozioni, la visione secondo la quale i processi percettivi possono essere modulari è effettivamente molto plausibile, come sostiene Fodor. D'altra parte, esistono due argomenti tratti dal senso comune (oltre a molti altri più tecnici) che fanno pensare che i processi concettuali non siano modulari. Il primo argomento tratto dal buon senso contro la modularità massiva del pensiero ha a che fare con l'integrazione dell'informazione. Il livello concettuale è il livello al quale l'informazione che proviene da differenti moduli di input, ognuno presumibilmente legato a una modalità sensoriale, viene integrata in un mezzo indipendente dalla modalità. Si può vedere, udire, sentire, toccare, parlare di un cane: i percetti sono differenti, il concetto è lo stesso. Come dice Fodor:
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Nella sua forma più generale, questo ragionamento risale almeno ad Aristotele; le rappresentazioni che vengono realizzate dai sistemi di input devono interfacciarsi da qualche parte e i meccanismi computazionali che effettuano tale interfacciamento devono avere ipso facto accesso ad informazioni provenienti da più di un dominio cognitivo. (Fodor 1983, pp. 101-102; tr. it. p. 159) Il secondo argomento intuitivo contro la modularità del pensiero riguarda la diversità e la novità culturale. I processi concettuali di un essere umano adulto coinvolgono gli argomenti più diversi, dai partiti politici alla storia del calcio alla manutenzione delle motociclette, dal buddhismo Zen alla cucina francese all'opera italiana, dal gioco degli scacchi alle collezioni di francobolli e all'esempio scelto da Fodor: la scienza moderna. La comparsa di una grande quantità di questi domini nella cognizione umana è molto recente, e non è correlata in modo rilevante con cambiamenti nel genoma umano. Molti dei domini variano di contenuto in modo cruciale da una cultura all'altra e non si trovano in tutte le culture. Sarebbe assurdo quindi assumere che esista una disposizione ad hoc, specificata geneticamente per i domini concettuali che si sviluppano con la cultura. Questi due argomenti di buon senso sono così convincenti che le considerazioni più tecniche di Fodor (che hanno a che fare con l'isotropia, le illusioni cognitive, la razionalità, ecc.) sembrano davvero uccidere un'idea già morta. Il mio scopo è di scuotere l'immagine del senso comune e suggerire che si possa raccogliere la sfida di articolare modularità, integrazione concettuale e diversità culturale per migliorare la nostra comprensione della psicologia e dell'antropologia. Si noti subito che sia l'argomento dell'integrazione sia quello della diversità culturale sono abbastanza compatibili con una parziale modularità a livello concettuale. È vero che sarebbe inutile riprodurre a livello concettuale la stessa partizione di domini che si trova a livello percettivo, e avere un modulo concettuale differente per trattare separatamente l'output di ciascun modulo percettivo. Non ci sarebbe nessuna integrazione: il cane visto e il cane sentito non potrebbero mai essere lo stesso mastino Fido. Ma chi dice che i domini concettuali debbano corrispondere ai domini percettivi? Perché non pensare, a livello concettuale, a una partizione di domini completamente differente, più o meno ortogonale ai domini percettivi, con meccanismi concettuali che ricevono gli input da più moduli percettivi? Per esempio, tutti gli output concettuali dei moduli percettivi che contengono il concetto MASTINO (e che sono quindi
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capaci di riconoscere la presenza di un mastino) possono essere inseriti in un modulo specializzato (ossia un meccanismo in- ferenziale che tratta i concetti di specie vivente) e che si occupa, tra l'altro, di Fido in quanto mastino. Allo stesso modo, tutti gli output concettuali dei moduli di input che contengono il concetto TRE possono essere inseriti in un modulo specializzato che si occupa delle inferenze sui numeri e così via. In questo modo, l'informazione che proviene da diversi sistemi di input può essere integrata genuinamente, anche se non in un solo sistema concettuale, ma in molti. Ovviamente, se per esempio avete una regola prudenziale che vi dice di allontanarvi quando incontrate più di due cani litigiosi, non vi basterà essere informati dal modulo degli esseri viventi che nel vostro ambiente si trova la categoria CANE LITIGIOSO, e dal modulo numerico che ci sono più di due cose di un certo tipo. Una maggiore integrazione deve aver luogo. Si può addirittura sostenere - anche se questo non è per nulla ovvio - che un modello plausibile della cognizione umana debba permettere a qualche livello un'integrazione completa di tutta l'informazione concettuale. In un altro senso, l'integrazione parziale o totale può avere luogo 'in alto', tra gli output dei moduli concettuali, invece che in basso, tra quelli dei moduli percettivi. L'integrazione concettuale non è incompatibile con almeno un po' di modularità concettuale. Anche l'argomento della diversità concettuale sembra escludere che alcuni domini concettuali (una competenza filatelica, per esempio) possano essere modulari, ma certo non implica che nessuno di essi possa esserlo. Per esempio, nonostante le variazioni superficiali, la classificazione degli esseri viventi presenta forti somiglianze attraverso le culture (si veda Berlin 1978) in modo tale da suggerire la presenza di un modulo cognitivo specifico per il dominio (si veda Atran 1987, 1990). La tesi che alcuni processi di pensiero centrali siano modulari riceve conferma da un consistente numero di lavori (ben presentati in Hirschfeld e Gelman 1994) che tendono a mostrare come molti processi concettuali di base presenti in tutte le culture e in tutti gli esseri umani completamente sviluppati sono governati da competenze specifiche a seconda del dominio. Per esempio, è stato sostenuto che la comprensione ordinaria che la gente ha del movimento di un oggetto solido inerte, della sembianza di un organismo, o delle azioni di una persona sia basata su tre meccanismi mentali distinti: una fisica ingenua, una biologia ingenua e una psicologia ingenua (si vedano Atran 1987, 1994; Carey 1985; Keil 1989,
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1994; Leslie 1987, 1988, 1994; Spelke 1988). Sembra inoltre che tali meccanismi siano, almeno in una forma rudimentale, parte dell'equipaggiamento che rende possibile l'acquisizione della conoscenza, e che non si tratti quindi di competenze ac- quisite. Accettare come possibilità un certo grado di modularità nei sistemi concettuali è abbastanza innocuo. Anche Fodor ha recentemente preso in considerazione favorevolmente la posizione secondo la quale "la psicologia intenzionale del senso comune è essenzialmente un repertorio modularizzato innato" (1992, p. 284, corsivo mio) senza per questo distaccarsi dalle sue posizioni precedenti sulla modularità. Ma cosa dire dell'ipotesi di una consistente modularità a livello concettuale? È davvero esclusa dai due argomenti del senso comune, l'integrazione e la diversità?
Modularità ed evoluzione Se la modularità è un fenomeno naturale autentico, un aspetto dell'organizzazione del cervello, allora la sua definizione deve essere frutto di una scoperta scientifica, non di una delibera. Fodor stesso discute una serie di caratteristiche tipiche e diagnostiche della modularità; i moduli, secondo lui, sono "specifici per un dominio particolare, determinati geneticamente, preprogrammati, autonomi" (1983, p. 36; tr. it. p. 53). Le loro operazioni sono obbligate e rapide. Sono "incapsulati informazionalmente": ossia la sola informazione di background che è loro disponibile è quella che si trova nel loro proprio repertorio di dati. Essi sono "associati a un'architettura neuronale fissata". Fodor discute anche altre caratteristiche che non sono essenziali per la discussione presente. C'è un aspetto della modularità che segue dalla descrizione di Fodor, anche se egli non ne fa menzione. Se, come sostiene, un modulo è specificato in modo innato, preprogrammato e autonomo, allora un modulo cognitivo è un meccanismo evoluto con una storia filogenetica distinta. Si tratta di una caratteristica tipica, ma non diagnostica, perché non sappiamo quasi niente della reale evoluzione dei moduli cognitivi. Leda Cosmi- des e John Tooby mi hanno però convinto che sappiamo abbastanza sull'evoluzione da un lato, e sulla cognizione dall'altro per arrivare ad assunzioni ben motivate (anche se, ovviamente, non sicure) su quando ci si può aspettare la modularità, quali proprietà dei moduli aspettarsi e addirittura quali moduli (si veda Cosmides 1989; Cosmides e Tooby 1987, 1994; Tooby e
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Cosmides 1989, 1992).2 Questa sezione del capitolo deve molto alle loro idee. Fodor stesso menziona le considerazioni evoluzionistiche, ma solo di passaggio. Egli sostiene che, filogeneticamente, i sistemi modulari di input devono avere preceduto quelli centrali non modulari: L'evoluzione cognitiva sarebbe allora avvenuta nella direzione di una liberazione graduale di certi tipi di sistemi per la soluzione di problemi da certi vincoli a cui sono soggetti gli analizzatori di input - e di qui della produzione, come acquisizione relativamente tarda, di capacità inferenziali comparativamente libere rispetto al dominio di applicazione, che evidentemente mediano i voli più alti dei processi cognitivi. (Fodor 1983, p. 43; tr. it. p. 77) Consideriamo alcune delle implicazioni dell'indicazione evoluzionistica di Fodor. A uno stadio iniziale dell'evoluzione dovremmo trovare analizzatori modulari degli input sensoriali connessi direttamente con i sistemi motori di controllo. Non c'è ancora un livello in cui l'informazione proveniente da diversi sistemi percettivi possa essere integrata attraverso un processo concettuale. Emerge poi un sistema concettuale, ossia un meccanismo di inferenza che non è direttamente legato ai sistemi motori. Il sistema concettuale accetta input da due o più sistemi percettivi, costruisce nuove rappresentazioni che sono garantite da questi input, e trasmette informazioni ai meccanismi motori. All'inizio questo sistema concettuale è semplicemente un altro modulo: è specializzato, preprogrammato, rapido, automatico, e così via. Ma, se seguiamo Fodor, il meccanismo cresce e diventa sempre meno specializzato; è possibile che si unisca ad altri sistemi concettuali simili, fino a diventare un grande sistema concettuale, capace di processare tutti gli output di tutti i moduli percettivi e di trattare tutta l'informazione disponibile all'organismo. Nell'eseguire un compito cognitivo questo sistema veramente centrale non può attivare tutti i dati che gli sono accessibili o sfruttarli nelle sue diverse procedure; l'automaticità e la velocità non sono più possibili. Se il sistema centrale facesse automaticamente tutto ciò che è capace di fare, avremmo un'esplosione computazionale senza fine. Una spiegazione evoluzionistica dell'emergere di un modulo concettuale in una mente che ha conosciuto solo processi per-
Si vedano anche Rozin 1976; Symons 1979; Rozin e Schull 1988; Barkow 1989; Brown 1991; Barkow et alii 1992. 2
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iettivi è abbastanza facile da immaginare, ma la sua demodularizzazione sarebbe più difficile da spiegare. Facciamo un esempio, usando un modellino-giocattolo. Supponiamo che esista una specie di organismi, i 'protorg', minacciata da un pericolo di un certo tipo. Questo pericolo (l'avvicinarsi degli elefanti che possono calpestarli) è segnalato dalla presenza simultanea di un rumore R e di una vibrazione del suolo V. I protorg hanno un modulo di percezione acustica che riconosce R e un modulo di percezione delle vibrazioni che riconosce V. Il riconoscimento di R da parte di un modulo percettivo o di V dell'altro attiva una procedura di fuga. Sarebbe perfetto, se non che la presenza del solo R o del solo V spesso non implica nessun pericolo. I protorg si ritrovano con molti 'falsi positivi', inutili fughe che fanno loro sprecare energie e risorse. Alcuni discendenti dei protorg, gli 'org', hanno sviluppato un nuovo meccanismo mentale: un meccanismo concettuale di Inferenza. I moduli percettivi non attivano più direttamente la procedura di fuga. I loro input pertinenti - ossia l'identificazione del rumore R e delle vibrazioni V - sono trattati dal nuovo sistema. Questo meccanismo concettuale agisce essenzialmente come quello di 'AND-gate' di un programma di computer. Quando, e solo quando, sia R che V sono stati identificati percettivamente, il meccanismo concettuale entra in uno stato che si può dire rappresenti la presenza del pericolo, ed è questo stato che attiva la procedura di fuga appropriata. La storia continua con la vittoria degli org sui protorg nella competizione per le risorse di cibo, ed è questa la ragione per cui non si vedono in giro più protorg. Il meccanismo concettuale degli org, anche se non è un modulo di input, è comunque un caso evidente di modulo: è un risolutore di problemi specifico per un dominio, è rapido, incapsulato informazional- mente, associato con un'architettura neuronale fissa, e così via. Ovviamente è un modulo piccolo, ma niente ci impedisce di immaginare che diventi più grande. Invece di accettare solo due input da due moduli percettivi semplici, il modulo concettuale può arrivare a gestire più informazione da più fonti, e a controllare più di una procedura motoria, ma essere ancora automatico, specifico, rapido, ecc. A questo punto, abbiamo due scenari evolutivi possibili tra cui scegliere. Secondo lo scenario suggerito da Fodor, il modulo concettuale dovrebbe evolvere verso una specificità ridotta, una minore incapsulazione informazionale, una minore velocità, e così via. In altre parole, dovrebbe diventare sempre meno modulare, possibilmente confondersi con altri meccanismi
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demodularizzati e diventare infine una sorta di sistema centrale del tipo di quelli che Fodor pensa siano i nostri ('quinenani', 'isotropici', ecc.). Questo scenario presenta due problemi. Il primo riguarda i meccanismi mentali, ed è messo in luce da Fodor stesso nella sua "Prima legge della non esistenza della scienza cognitiva". La legge dice in sostanza che i meccanismi dei processi di pensiero non modulari sono troppo complessi per essere compresi. Si deve prendere per buono che esistano, senza chiedere perché. Il secondo problema nello scenario di Fodor riguarda il processo evolutivo che dovrebbe provocare lo sviluppo di un meccanismo così misterioso. Associare un certo numero di micromoduli inferenziali in una macrointelligenza avanzata generale, se qualcosa di simile esiste, potrebbe avere qualche vantaggio. Per esempio, dei 'superorg' dotati di intelligenza generale potrebbero sviluppare tecnologie per eliminare il pericolo una volta per tutte, invece che continuare a fuggire. Ma l'evoluzione non offre scelte così contrastanti: le alternative disponibili in ogni momento si distaccano di poco dalla situazione esistente. La selezione, la forza principale che determina l'evoluzione, è miope (mentre le altre forze come la deriva genetica, ecc. - sono cieche). Un'alternativa immediatamente vantaggiosa ha molte probabilità di essere selezionata tra le poche alternative disponibili, e questo può bloccare la strada ad alternative più vantaggiose nel lungo termine. Uno scenario di demodularizza- zione non è plausibile proprio per questa ragione. Si supponga infatti che in alcuni org mutanti l'analizzatore concettuale di pericolo sia modificato non per essere più efficace nell'esecuzione di questo compito preciso, ma in modo da essere meno specializzato. Il sistema concettuale modificato tratta non solo informazione pertinente alle possibilità immediate di fuga, ma anche informazione che riguarda caratteristiche innocue della situazione di pericolo, e di altre situazioni che presentano le stesse caratteristiche; il meccanismo non fa solo inferenze pratiche urgenti, ma anche inferenze di carattere più teoretico. Quando un pericolo viene avvertito, il nuovo sistema meno modulare non innesca immediatamente il comportamento di fuga, e quando lo fa, lo fa più lentamente - la velocità e l'automaticità vanno insieme alla modularità - ma ha idee interessanti che immagazzina in memoria per il futuro, se per questi org mutanti dotati di un simile meccanismo demo- dularizzato c'è un futuro. Ovviamente, la velocità e l'automaticità sono particolarmente importanti per gli analizzatori di pericolo, ma lo sono meno per altri moduli plausibili, per esempio quelli che governano la scel
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la dei partner sessuali. Resta ovviamente il punto generale: i moduli cognitivi dovrebbero essere risposte a problemi ambientali specifici. Ridurre il grado di specializzazione del modulo non avrà tanto l'effetto di rendere l'organismo più flessibile, quanto di diminuire l'automaticità della sua risposta al problema. Nella misura in cui l'evoluzione tende verso il miglioramento delle capacità di una specie, dovremmo allora aspettarci dei miglioramenti nel modo in cui i moduli esistenti svolgono il loro compito, o l'emergere di nuovi moduli per gestire nuovi problemi, invece di una demodularizzazione. È vero che è possibile immaginare situazioni in cui una marginale demodularizzazione di un meccanismo concettuale possa essere vantaggiosa, o almeno non negativa, nonostante la perdita di velocità e affidabilità che essa implica. Si immagini per esempio che scompaia dall'ambiente il pericolo per riconoscere il quale il modulo era stato selezionato; il modulo non è più adatto e una demodularizzazione non sarebbe dannosa. Ma in che modo potrebbe essere utile? Tali possibilità teoriche sono lontane dal suggerire una spiegazione positiva del modo in cui, per dirlo con le parole di Fodor, "l'evoluzione cognitiva [...] sarebbe consistita nel liberare progressivamente certi tipi di sistemi di risoluzione di problemi dai vincoli sotto i quali lavorano i loro analizzatori di input". Non che questa affermazione non possa essere giusta, ma ci sono poche ragioni di pensare che sia vera. In realtà, la sua sola giustificazione sembra essere il desiderio di integrare l'idea che i processi centrali non sono modulari in una vaga prospettiva evolutiva. Meglio rendere ufficiale la lacuna nella spiegazione con una "Seconda legge della non esistenza della scienza cognitiva", secondo la quale le forze che hanno determinato l'evoluzione cognitiva non possono essere identificate.3 Prendete per buono che l'evoluzione cognitiva è avvenuta (risultando nella demodularizzazione del pensiero) e non domandate come. Invece di cominciare con un'immagine enigmatica dei processi di pensiero dell'Homo sapiens e concludere che la loro evoluzione passata è un mistero insondabile, perché non cominciare con qualche considerazione evoluzionistica plausibile
3 La questione non è solo che le forze che hanno determinato l'evoluzione non possono essere identificate con certezza; questo è banalmente vero. Il punto deve essere che queste forze non possono neanche vagamente essere identificate, a differenza di quelle che hanno determinato, per esempio, gli organi della locomozione. Si vedano Piattelli-Palmarini 1989 e Stich 1990 per argomenti intelligenti ma non convincenti in favore di questa seconda legge.
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e chiedersi quale organizzazione cognitiva possiamo aspettarci in una specie che per la sua sopravvivenza si basa fortemente sulle sue capacità cognitive. Questo ci porta al nostro secondo scenario. Come ho già detto, è ragionevole aspettarsi che i moduli concettuali aumentino in complessità, sottigliezza e ricchezza inferenziale nello svolgere la loro funzione. Come per ogni sistema biologico, la funzione di un modulo può variare nel tempo, ma non c'è ragione di aspettarsi che le nuove funzioni siano sistematicamente più generali delle vecchie. È ragionevole invece aspettarsi che emergano nuovi moduli concettuali in risposta a diversi tipi di problemi e opportunità e, di conseguenza, l'accumulo di un numero sempre maggiore di moduli. Dato che i moduli cognitivi sono il risultato ciascuno di una storia filogenetica differente, non c'è ragione di aspettarsi che siano costruiti sullo stesso modello generale e poi interconnessi in maniera elegante. Benché la maggior parte dei moduli concettuali, anche se non tutti, siano meccanismi inferenziali, le procedure inferenziali che utilizzano possono essere molto diverse. Quindi, da un punto di vista modulare, non è ragionevole domandarsi quale sia la forma generale dell'inferenza umana (regole logiche, schemi pragmatici, modelli mentali, ecc.) come viene spesso fatto nella letteratura sul ragionamento umano (si veda Manktelow e Over 1990 per una rassegna recente). I domini dei moduli possono variare per grandezza e sostanza: non c'è ragione di aspettarsi moduli specializzati ognuno dei quali tratti un dominio della stessa dimensione. In particolare, non c'è ragione di escludere micromoduli il cui dominio abbia la dimensione di un concetto, invece che di un dominio semantico. Sostengo infatti che molti concetti sono modulari: dato che i moduli concettuali sono probabilmente numerosi, le loro interconnessioni e le loro connessioni con i moduli percettivi e di controllo possono essere molto diverse. Come ha sostenuto Andy Clark (1987, 1990), faremmo meglio a pensare alla mente come a un assemblaggio di pezzi e componenti aggiunti in momenti diversi e interconnessi in un modo che farebbe orrore a un ingegnere. Modularità e integrazione concettuale L'input al primo modulo concettuale apparso nell'evoluzione cognitiva non poteva venire che dai moduli percettivi. Ma una volta apparsi i moduli concettuali, i loro output potevano servire da input ad altri moduli concettuali.
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Supponiamo che gli org possano comunicare tra di loro at- attraverso un piccolo repertorio di segnali vocali; supponiamo inoltre che l'interpretazione ottimale di alcuni di questi segnali sia sensibile a fattori contestuali. Per esempio, un segnale ambiguo di pericolo indica la presenza di un serpente quando è emesso da un org sopra a un albero, e di un elefante quando è emesso da un org a terra. I moduli percettivi identificano i segnali e l'informazione contestuale pertinente. L'output pertinente di questi moduli percettivi è trattato da un modulo concettuale ad hoc che interpreta i segnali ambigui. Ora, potrebbe essere un miglioramento significativo se il modulo concettuale specializzato nell'inferire l'avvicinarsi degli elefanti accettasse in input non solo l'informazione percettiva sui rumori specifici e sulle vibrazioni del suolo, ma anche le interpretazioni dei segnali pertinenti emessi dagli altri org. Questo meccanismo concettuale di inferenza del pericolo riceverebbe allora input non soltanto dai moduli percettivi, ma anche da un altro modulo concettuale, l'interprete dei segnali sensibile al contesto. Nel caso umano, è generalmente dato per scontato che le capacità specifiche possano trattare non solo informazione primaria che appartiene al loro dominio ed è fornita dalla percezione, ma anche informazione comunicata verbalmente o figurativamente. Per esempio, gli esperimenti sullo sviluppo della conoscenza zoologica usano come materiale non solo gli animali reali, ma anche le figure e le descrizioni verbali. Questa metodologia meriterebbe di essere discussa; ma non sembra far sorgere problemi molto seri, e già questo è interessante. Alcuni moduli concettuali possono poi ricevere tutti i loro input da altri moduli concettuali. Immaginate, per esempio, che un org emetta un segnale di pericolo solo quando sono soddisfatte due condizioni: da un lato quando ha inferito la presenza di un pericolo e, dall'altro, quella di org amici in pericolo. Entrambe le inferenze sono fatte attraverso moduli concettuali. Se è così, allora il modulo concettuale che decide se emettere o no il segnale di pericolo riceve tutti i suoi input da altri moduli concettuali, e nessun input dai moduli percettivi. L'immagine è adesso quella di una rete complessa di moduli concettuali, alcuni dei quali ricevono i loro input dai moduli percettivi, mentre altri ne ricevono almeno alcuni dai moduli concettuali, e così via. Ogni informazione può venir combinata in molti modi con molte altre sia tra i diversi livelli che all'interno di un solo livello (anche se una completa integrazione concettuale è da escludere). Quale può essere il comportamento di un organismo dotato di questi processi di pensiero modulari? Non lo sappiamo. Si comporterebbe in maniera flessibile,
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come fanno gli esseri umani? Sicuramente le sue risposte sarebbero molto precise e adeguate. Ma flessibilità significa qualcosa in più? 'Flessibilità' è una metafora senza una chiara interpretazione letterale, e quindi difficile da definire. Quando però pensiamo alla flessibilità umana, abbiamo in mente in particolare la capacità di apprendere dall'esperienza. Un sistema completamente modulare può imparare? L'imprinting è un esempio molto semplice di apprendimento modulare. Cosa sanno, per esempio, gli org l'uno dell'altro? Se gli org sono animali che non apprendono, almeno devono essere forniti di un riconoscitore dei conspecifici e di riconoscitori di alcune proprietà degli altri org, come il sesso o l'età, senza per il resto essere capaci di riconoscere un individuo in quanto tale, nemmeno la propria madre. Oppure, se hanno capacità primitive di apprendimento, possono avere un modulo per riconoscere la propria madre il cui funzionamento è fissato una volta per tutte dalla prima percezione dell'org neonato di una grande creatura che si muove nelle vicinanze immediate (con un po' di fortuna, sua madre), e dall'imprinting risultante dell'informazione pertinente. Il modulo diventa allora un riconoscitore per l'individuo particolare che ha causato l'imprinting. In generale, vorrei introdurre a questo punto una nozione tecnica, quella di 'inizializzazione', presa a prestito dal vocabolario informatico. Un modulo cognitivo può, esattamente come un programma di computer, essere incompleto nel senso che un certo numero di informazioni deve essere specificato prima che il programma possa funzionare normalmente. Un programma di posta elettronica, per esempio, può chiedervi di fissare alcuni parametri (per esempio la velocità di trasmissione, o il tipo di terminale) e di riempire alcune caselle vuote (per esempio i numeri di telefono o le password). Solo dopo essere stato inizializzato il vostro programma può funzionare. Allo stesso modo, secondo Chomsky (1986) (il cui lavoro è stato fondamentale per lo sviluppo di un approccio modulare alla mente umana - si veda l'introduzione di Hirschfeld e Gelman 1984), l'acquisizione della prima lingua implica la fissazione, per molti parametri grammaticali comuni a tutte le lingue, dei valori che tali parametri hanno nella lingua da acquisire, e che vengano riempite le caselle vuote del lessico. L'inizializzazione del riconoscitore della propria madre descritto nel paragrafo precedente richiede semplicemente di riempire la casella vuota di tale modulo con la rappresentazione percettiva di un singolo individuo. Se si tratta di una specie con capacità di apprendimento un po' più sofisticate, gli org possono avere la capacità di costruire
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diversi riconoscitori per diversi individui della stessa specie. Potrebbero avere un modulo-stampo molto simile a un ricono- scitore della propria madre, con la differenza che può essere inizializzato molte volte, proiettando ogni volta una copia ini- zializzata differente di se stesso, che è specializzata per l'identi- ficazione di un individuo differente. Le copie inizializzate del modulo-stampo sono anch'esse moduli? Non vedo perché no. La sola differenza importante è che i diversi moduli proiettati non sembrano essere hard-wired, ossia già predisposti nel cervelo, nello stesso modo in cui lo è il modulo responsabile del processo di imprinting. Al di là di questo, i due tipi di moduli sono inizializzati e operano esattamente allo stesso modo. I nostri org più sofisticati hanno, per così dire, una capacità modulare speciale per rappresentare mentalmente individui della stessa specie, una capacità che dà come risultato la generazione di un micromodulo per ogni individuo rappresentato. Consideriamo in questa prospettiva la capacità specializzata umana di categorizzare le specie viventi. Una possibilità è che ci sia un modulo iniziale che costituisce lo stampo della specie vivente e viene inizializzato molte volte, producendo ogni volta un nuovo micromodulo che corrisponde al concetto di un essere vivente (il modulo GATTO, il modulo CANE , il modulo PESCE ROSSO, ecc.). Pensare che questi concetti siano modulari può essere, a prima vista, sconcertante. Ma riflettiamo: i concetti sono ovviamente specifici di un dominio, hanno un repertorio di informazione propria (l'informazione enciclopedica che si trova sotto il concetto), e meccanismi computazionali autonomi (lavorano, a mio avviso, su rappresentazioni al cui interno si trova il concetto appropriato, così come gli enzimi della digestione lavorano sul cibo in cui si trova la molecola appropriata). Quando, oltre a tutto ciò, i concetti sono in parte specificati geneticamente (attraverso qualche stampo concettuale specializzato) essi sono modulari almeno in qualche misura interessante, o no? Può succedere che la relazione stampo-copia coinvolga più livelli. Un metastampo generale di categorizzazione degli esseri viventi può proiettare non i concetti direttamente, ma altri stampi più specifici per diversi domini di esseri viventi. Per esempio, un parametro fondamentale da fissare potrebbe specificare se si tratta di oggetti semoventi o no (Premack 1990), generando due modelli, uno per i concetti zoologici e l'altro per quelli botanici. Un'altra possibilità è che il metastampo iniziale abbia tre tipi di caratteristiche: 1) proprietà stabili che caratterizzano gli esseri viventi in generale - per esempio, una parte inalterabile
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di qualsiasi concetto di essere vivente potrebbe essere l'esistenza di un'essenza sottostante (Atran 1987; Gelman e Coley 1991; Gelman e Markman 1986, 1987; Keil 1989; Medin e Ortony 1989); 2) parametri che abbiano valori di default e che possano essere alterati nelle copie dei modelli - per esempio 'semovente', 'non umano' possono essere proprietà rivedibili dello stampo iniziale; 3) caselle vuote per l'informazione sui tipi individuali. In questo caso, lo stampo con i valori di default potrebbe servire così com'è per i concetti animali non umani. Usare lo stampo per i concetti botanici o per includere gli esseri umani nella tassonomia degli animali implicherebbe una variazione dei valori di default dello stampo iniziale. Com'è governato il flusso di informazione tra i moduli? Esiste un meccanismo di regolazione? È un pandemonio? È un'economia di mercato? Si possono considerare molti tipi di stampi? Ecco una possibilità semplice. L'ouput dei moduli concettuali e percettivi è costituito da rappresentazioni concettuali. I moduli percettivi categorizzano gli stimoli distali (come le cose viste) e ciascuno di loro possiede il repertorio concettuale necessario per le categorizzazioni che sono capaci di fornire in output. I moduli concettuali possono inferire le nuove categorizzazioni prodotte dalle rappresentazioni concettuali che essi trattano in input; per fare questo devono avere un repertorio concettuale in input e in output. Assumiamo che i moduli concettuali accettino in input qualsiasi rappresentazione concettuale in cui sia presente un concetto che appartiene al loro repertorio di input. In particolare, i micromoduli di un solo concetto trattano tutte le rappresentazioni in cui è presente proprio quel concetto, e solo quelle. Questi micromoduli generano trasformazioni della rappresentazione di input sostituendo il concetto con qualche sua espansione garantita inferenzialmente. Essi sono altrimenti ciechi per le altre proprietà concettuali delle rappresentazioni che trattano (come le procedure di 'calcolo' nei programmi di videoscrittura, che analizzano il testo ma 'vedono' solo numeri e segni matematici). Generalmente, la presenza di concetti specifici in una rappresentazione determina quali moduli saranno attivati e quali processi di inferenza avranno luogo (si veda Sperber e Wilson 1986, cap. 2). Una caratteristica fondamentale della modularità nella descrizione di Fodor è l'incapsulamento informazionale. Un vero modulo usa un repertorio di dati limitato e non è in grado di servirsi di informazione pertinente per eseguire il suo compito, se questa non si trova nel suo repertorio. I processi centrali non hanno invece tali vincoli, ma sono caratterizzati da un flusso li-
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bero dell'informazione. Le credenze sul formaggio Camembert possono svolgere allora un ruolo nell'elaborazione di conclusioni sui quark, anche se è difficile pensare che appartengano allo stesso dominio concettuale. E questo è un fatto, che non mi sogno di negare. Ma quali sono le sue conseguenze per la modularità dei processi concettuali? Il fatto che una certa visione non può essere corretta. Immaginate un solo strato di pochi grandi moduli, non connessi tra di loro; l'informazione trattata da un modulo non può servire da input a un altro. Se, d'altra parte, l'output di un modulo concettuale può servire come input a un altro, i moduli possono essere incapsulati informazio- nalmente, mentre le catene di inferenza possono trasferire le premesse concettuali da un modulo all'altro, e integrare così il contributo di ognuno alla conclusione finale. Un effetto distico non deve essere il risultato di una procedura distica. Una volta raggiunto un certo livello di complessità nel pensiero modulare, possono emergere moduli la cui funzione non è di trattare i problemi sollevati esternamente dall'ambiente, ma internamente dal funzionamento della mente stessa. Un problema che un sistema modulare ricco del tipo che stiamo immaginando potrebbe incontrare, così come i processi centrali non modulari di Fodor, è quello dell'esplosione computazionale. Assumiamo che emerga un dispositivo con la funzione di 'fare una lista' delle informazioni che devono essere trattate con priorità. Chiamiamo questo dispositivo 'attenzione', e concepiamolo come una memoria di lavoro temporanea. Solo le rappresentazioni presenti in questa memoria temporanea sono trattate (per i moduli dei quali esse soddisfano le condizioni di input) e ciò non avviene fino a quando restano nella memoria temporanea. Tra le rappresentazioni mentali c'è una sorta di competizione per ottenere un posto nell'attenzione che tende ad effettuarsi in modo da massimizzare l'efficacia cognitiva, ossia a selezionare le informazioni più pertinenti disponibili a un dato momento perché abbiano posto nella memoria di lavoro, e quindi un ruolo nelle inferenze. Ci sarebbe una storia molto più lunga da raccontare qui: l'abbiamo narrata in Sperber e Wilson 1986. Naturalmente l'attenzione non è specializzata nel trattamento di un dominio cognitivo particolare, ma costituisce un adattamento evidente a un problema di funzionamento interno, quello cui va incontro qualsiasi sistema cognitivo in grado di identificare percettivamente e di conservare in memoria molta più informazione di quella che può trattare simultaneamente a livello concettuale. Un sistema siffatto deve avere un
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modo di selezionare l'informazione che sarà trattata concettualmente. Un meccanismo di attenzione guidato da considerazioni di pertinenza può costituire un mezzo di questo tipo. Non importa se sia meglio chiamare questo dispositivo 'modulo' o no: l'attenzione così concepita trova perfettamente il suo posto in un'immagine modulare del pensiero. Non spero che queste speculazioni vi convincano - non ne sono completamente convinto neanche io; lo sarò un po' di più alla fine del capitolo - ma spero che siano comprensibili. Possiamo immaginare un sistema altamente modulare che integri le informazioni in tanti modi parziali cosicché non sia più affatto evidente che noi esseri umani le integriamo meglio. L'argomento contro il pensiero modulare basato su una supposta impossibilità di un'integrazione modulare dovrebbe almeno perdere il fascino immediato che il buon senso sembra conferirgli. Dominio reale e dominio proprio dei moduli Ogni modulo ha il suo dominio proprio, ma un gran numero di domini del pensiero umano, forse la maggioranza, sono troppo nuovi e troppo diversi tra le culture perché a essi corrisponda un modulo geneticamente determinato. Questo secondo argomento di buon senso contro la modularità è rinforzato da alcune considerazioni sull'adattamento. Nel caso di un gran numero di moduli, sarebbe difficile attribuire a una competenza culturale il carattere di un adattamento biologico. Ciò vale non solo per domini relativamente nuovi, come il gioco degli scacchi, ma anche per domini antichi, come la musica. Non è quindi verosimile che ci sia un meccanismo biologico la cui funzione sarebbe quella di conferire agli individui una competenza in questi ambiti. Naturalmente è sempre possibile imbastire una storia che tenda a dimostrare che, per esempio, la competenza musicale è un adattamento biologico e contribuisce al successo riproduttivo degli individui che ne sono dotati. Ma postulare il carattere adattivo di un tratto senza che ci sia una dimostrazione plausibile costituisce un abuso ben noto della teoria dell'evoluzione. Vorrei provare una strada completamente diversa. Un adattamento è in generale un adattamento a condizioni ambientali date. Se si considera un tratto adattivo fuori contesto, all'interno dell'organismo, e si dimentica tutto ciò che si sa dell'ambiente e della storia, non si è in grado di dire quale sia la funzione di questo tratto, a cosa si sia adattato. La funzione del
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collo lungo della giraffa è di aiutarla a raggiungere il cibo sugli alberi, ma in un altro ambiente - per liberare l'immaginazione, diciamo su un altro pianeta - la funzione di una parte identica di un organismo identico potrebbe essere quella di permettere all'animale di vedere più lontano, o di evitare di respirare un'aria viziata troppo vicino al suolo, o ancora di ingannare dei predatori giganti facendo loro credere che la propria carne è tossica. Un'idea molto simile - o meglio, un'applicazione particolare di questa idea - ha giocato un ruolo centrale nei dibattiti recenti in filosofia del linguaggio e della mente tra 'individualisti' ed 'esternisti'. Secondo gli individualisti, il contenuto di un concetto è nella testa dell'individuo, o, in altri termini, il contenuto concettuale è una proprietà intrinseca dello stato cerebrale di un individuo. Secondo gli esternisti, con i quali concordo, lo stesso stato cerebrale che realizza un concetto dato in un certo ambiente potrebbe realizzare un concetto differente in un altro, così come tratti biologici identici, considerati da un punto strettamente interno all'organismo, possono realizzare funzioni diverse in ambienti diversi.4 Il contenuto di un concetto non è una proprietà intrinseca, ma una proprietà relazionale5 del sistema di neuroni che realizza tale concetto. Il contenuto dipende dall'ambiente e dalla storia (compresa la preistoria filogenetica) del sistema neuronale dato. L' osservazione si estende in modo evidente ai casi dei moduli specializzati nel trattamento di un dominio concettuale particolare. Un dominio è definito in termini semantici, ossia a partire dal concetto che comprende gli oggetti a esso appartenenti. Il dominio di un modulo non è dunque una proprietà della sua struttura interna (sia che la si descriva in termini neurologici sia in termini computazionali). Niente permetterebbe a un modulo cognitivo specializzato di appropriarsi di un dominio in virtù della sua sola struttura interna o anche delle sue connessioni con altri moduli cognitivi. Tutto ciò che la struttura interna fornisce è quello che Frank Keil (1994) chiama un "mode of construal", un insieme di regole di costruzione che permette di organizzare l'informazione in un certo modo e trarre alcune inferenze. Un modulo cognitivo
4 Putnam 1975 e Burge 1979 hanno presentato gli argomenti iniziali per l'esternismo (per quanto mi riguarda, sono convinto da Putnam ma non da Burge). Per una discussione sofisticata, si veda Recanati 1993. 5 Si può sostenere che il contenuto sia una funzione biologica, intesa in senso largo si vedano Dennett 1987; Dretske 1988; Millikan 1984; Papineau 1987. Le mie posizioni sono state influenzate da quelle di Millikan.
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ha anche rapporti strutturali con gli altri dispositivi mentali con i quali interagisce. Questi rapporti determinano in particolare le condizioni di input del modulo, vale a dire attraverso quali altri dispositivi l'informazione deve pervenirgli, e come deve essere categorizzata da questi. Ma fino a quando restiamo all'interno della mente, ignorando le connessioni tra i moduli percettivi e l'ambiente, la conoscenza delle connessioni di un modulo cognitivo specializzato all'interno del cervello non basta a determinarne il dominio. Le istruzioni per l'uso che rendono possibile un modulo mentale, potrebbero in linea di principio adattarsi anche ad altri domini. Questo non renderebbe il modulo meno specializzato. Lo stesso discorso vale per la chiave della mia porta: pur potendo aprire molte altre porte, essa ha l'unica funzione di aprire la mia. Le istruzioni per l'uso e il dominio, così come la mia chiave e la mia serratura, hanno una lunga storia in comune. Come fanno allora le interazioni con l'ambiente a determinare nel tempo il dominio di un modulo cognitivo? Per rispondere a questa domanda, bisogna distinguere tra dominio reale e dominio proprio di un modulo. Il dominio reale di un modulo concettuale è l'insieme delle informazioni nell'ambiente dell'organismo che possono (una volta trattate dai moduli percettivi e in certi casi da altri moduli concettuali) soddisfare le condizioni di input di un modulo. Il suo dominio proprio è l'insieme delle informazioni che il modulo ha la funzione biologica di trattare. Semplificando, la funzione di un dispositivo biologico è costituita da un insieme di effetti di tale dispositivo, che contribuiscono a fare del dispositivo un tratto permanente di una specie duratura. La funzione di un modulo è di trattare un insieme particolare di informazioni in modo specifico. Questo trattamento contribuisce al successo riproduttivo dell'organismo. L'insieme di informazioni che un modulo ha la funzione di trattare costituisce il suo dominio proprio. Ora, quello che un modulo tratta effettivamente, sono le informazioni che si trovano nel suo dominio reale, che appartengano o meno al dominio proprio. Ritorniamo agli org. Il pericolo caratteristico che inizialmente li spaventava era di essere schiacciati dagli elefanti. Grazie al modulo, gli org avevano reagito selettivamente a vari segnali normalmente prodotti nel loro ambiente dall'awicinarsi degli elefanti. Ovviamente, certe cariche di elefanti a volte non venivano riconosciute, mentre altri eventi indipendenti e innocui provocavano l'attivazione del modulo. Ma anche se il modulo non riusciva a selezionare tutte e sole le cariche di elefanti descriviamo la funzione come se fosse solo questa (invece di
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descrivere quello che realmente ha fatto). Perché? Perché è il successo relativo nel realizzare questo scopo che spiega il fatto che sia un tratto permanente di una specie duratura. Anche se non sono esattamente coestensivi, il dominio proprio e quello reale coincidono in modo sufficiente con il dominio delle cari- che degli elefanti. Solo quest'ultimo è però il dominio proprio del modulo. Molte generazioni dopo, gli elefanti sono scomparsi dall'ambiente degli org, mentre gli ippopotami si sono moltiplicati e ora sono loro a schiacciare gli org distratti. Lo stesso modulo che aveva reagito alla maggior parte delle cariche degli elefanti e a pochi altri eventi, reagisce ora alla maggior parte delle cariche degli ippopotami e a pochi altri eventi. Si può dire che il dominio proprio del modulo sia diventato il dominio delle cariche di ippopotami? Sì, e per le stesse ragioni di prima: il successo relativo nel reagire all'avvicinarsi degli elefanti spiega perché il modulo sia rimasto un tratto permanente di una specie duratura.6 Oggi, anche gli ippopotami sono scomparsi, e c'è una linea ferroviaria che passa nel territorio degli org; dato che gli org non si avvicinano alle rotaie, i treni non sono un pericolo per loro. Ma è sempre lo stesso modulo che ha reagito selettivamente agli elefanti e agli ippopotami che ora reagisce ai treni in avvicinamento (e provoca un inutile panico negli org). Il dominio reale del modulo include ora anche i treni che si avvicinano. Ma il suo dominio proprio è diventato quello dei treni che passano? La risposta questa volta è no': reagire ai treni è ciò che il modulo fa, non la sua funzione. Il fatto che il modulo reagisca ai treni non spiega perché esso rimanga un tratto permanente della specie. In realtà, se il modulo e la specie sopravvivono, lo fanno nonostante questo effetto marginale negativo.7 Uno psicologo animale potrebbe ugualmente arrivare alla conclusione che essi hanno una capacità specifica di reagire ai
6 Ci sono qui alcuni problemi concettuali (si vedano Dennett 1987; Fodor 1987b). Si potrebbe sostenere per esempio che il dominio proprio del modulo non fossero né gli elefanti né gli ippopotami, ma qualcosa come 'grandi animali in avvicinamento capaci di schiacciare gli org'. Sono con Dennett nel ritenere che qualsiasi descrizione scegliamo le cose non cambiano di molto: la spiegazione generale resta esattamente la stessa. 7 Questa è la ragione per la quale sarebbe un errore dire che la funzione di un sistema è di reagire a qualsiasi cosa possa soddisfare le sue condizioni di input, rendendo così equivalenti domini propri e domini reali. Anche se non ci sono dubbi sulla corretta assegnazione di un dominio proprio a qualche sistema (si veda la nota precedente), la distinzione tra dominio proprio e dominio reale è tanto solida quanto quella tra funzione ed effetto.
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treni. Si potrebbe chiedere come l'hanno sviluppata, dato che i treni sono stati introdotti nell'area troppo recentemente per permettere l'emergere di un adattamento biologico specifico (il cui valore adattivo sarebbe comunque piuttosto misterioso). La verità ovviamente è che i domini propri più antichi del modulo, ossia le cariche degli elefanti e degli ippopotami, sono ora vuoti; che il suo dominio reale, per caso, coincide praticamente con quello dei treni in avvicinamento; e che la spiegazione di questo caso è che le condizioni di input del modulo, che sono state selezionate positivamente in un ambiente differente, si trovano soddisfatte dai treni e da quasi nient'altro nell'ambiente attuale degli org. Basta con gli esperimenti mentali. Nel mondo reale, è raro che gli elefanti vengano sostituiti dagli ippopotami e gli ippopotami dai treni, e che ognuna di queste categorie soddisfi le condizioni di input di un modulo specializzato. Gli ambienti naturali, e quindi le funzioni cognitive, sono relativamente stabili. È più facile che si verifichino piccole trasformazioni della funzione cognitiva piuttosto che cambiamenti radicali. Quando nell'ambiente avvengono cambiamenti importanti - per esempio come risultato di un cataclisma naturale - la cosa più probabile è che si perdano alcune funzioni cognitive. Se gli elefanti se ne vanno, se ne va anche il vostro riconoscitore di elefanti. Se un modulo perde la sua funzione, o, il che è lo stesso, se il suo dominio proprio si svuota, allora è difficile che il suo dominio reale sia riempito da oggetti che rientrano sotto una categoria, come i treni che passano. È più probabile che lo spettro degli stimoli che causano la reazione del modulo finisca per essere un tale insieme di cianfrusaglie da scoraggiare qualsiasi descrizione del dominio reale del modulo in termini di una categoria specifica. I domini reali solitamente non sono domini concettuali.
Domini culturali ed epidemiologia delle rappresentazioni La maggior parte degli animali ricevono dai loro conspecifici informazione occasionale e altamente prevedibile. I loro rari stimoli intellettuali vengono dunque dall'ambiente. Gli esseri umani sono speciali. Essi sono per natura produttori, trasmettitori e consumatori di informazione in dose massiccia; acquisiscono dai loro conspecifici una quantità e una varietà di informazioni considerevole, e producono e registrano informazione anche per un consumo personale e privato. È per questo, come cercherò di mostrare, che il dominio reale dei moduli co
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gnitivi umani ha avuto la tendenza a diventare molto più vasto dei loro dominio proprio. Inoltre i domini reali, invece di costi- tuire un caos che impedisce qualsiasi categorizzazione, tendono a essere parzialmente organizzati e categorizzati dagli esseri umani stessi. In queste condizioni, è meglio distinguere il dominio culturale sia da quello proprio che da quello reale. Una rapida illustrazione, prima di passare a uno schizzo più sistematico e a un paio di esempi più seri. Prendiamo un neonato nella sua culla, dotato di una comprensione ingenua, ma tuttavia specializzata e modulare, del mondo fisico. Il dominio proprio del modulo in questione è l'insieme degli eventi fisici che si producono tipicamente nella natura e la cui comprensione sarà cruciale alla sopravvivenza dell'organismo. Sicuramente esistono altri primati dotati di un modulo simile. Il modulo della fisica ingenua del cucciolo di scimpanzé (e del cucciolo di Homonon-ancora-sapiens nel Pleistocene) reagisce alla caduta occasionale di un frutto o di un ramo, alla buccia di banana gettata via, agli effetti dei movimenti che lui stesso produce, e può stupirsi davanti a movimenti irregolari, come la caduta di una foglia. Nel nostro neonato umano, invece, il modulo è stimolato non solo dagli eventi fisici che si producono per caso, ma anche da una 'lavagna di attività' attaccata a un lato del lettino, da un carillon che pende sopra di lui, dai palloni tirati dai suoi fratelli, dalle immagini che si muovono sullo schermo televisivo, e da un insieme di giocattoli educativi concepiti proprio per stimolare il suo interesse innato nei processi fisici. Che cosa rende il caso umano così speciale? Gli esseri umani modificano il loro ambiente a un ritmo che la selezione naturale non può seguire. Il risultato è che certi tratti geneticamente determinati dell'organismo umano sono adattamenti a certi tratti dell'ambiente che hanno cessato di esistere o che sono molto cambiati. Lo stesso può valere non solo nel caso di adattamenti all'ambiente non umano, ma anche di adattamenti a stadi primitivi dell'ambiente sociale degli ominidi. In particolare non è molto verosimile che il dominio reale di un modulo cognitivo umano, quale che sia, possa essere coestensivo, anche solo approssimativamente, con il suo dominio proprio. È molto probabile al contrario che il dominio reale di un intero modulo cognitivo umano comprenda una grande quantità di informazioni culturali che soddisfano le sue condizioni di input. Questo stato di cose non dipende né dal caso, né da un piano. È l'effetto del processo sociale di distribuzione dell'informazione. Gli esseri umani non costruiscono solo rappresentazioni mentali individuali dell'informazione, ma producono anche infor
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mazione gli uni per gli altri sotto forma di rappresentazioni pubbliche, per esempio di enunciati, di testi scritti, di immagini, o sotto forma di oggetti o di comportamenti informativi. La maggior parte delle informazioni comunicate sono comunicate d'altronde solo a un piccolo numero di persone, spesso una sola, in un'occasione particolare, e là si fermano. A volte, però, il destinatario di un primo atto di comunicazione comunica l'informazione ricevuta ad altri destinatari che la comunicano a loro volta ad altri, e così via. Questo processo di trasmissione ripetuto può continuare fino alla formazione di una catena di rappresentazioni mentali e pubbliche legate causalmente e simili nel contenuto - proprio grazie ai loro legami causali - che percorrono un'intera popolazione umana. Le tradizioni e i pettegolezzi si diffondono in questo modo. Altri tipi di rappresentazioni possono essere distribuite da catene causali di forma differente (attraverso l'imitazione, con o senza istruzioni, o attraverso la comunicazione di massa). Definiamo cultura' tutte queste rappresentazioni causalmente collegate e largamente distribuite. Ripeto, spiegare la cultura significa spiegare perché certe rappresentazioni sono molto diffuse: una scienza naturalistica della cultura deve essere un 'epidemiologia delle rappresentazioni e spiegare perché certe rappresentazioni hanno più successo - sono più contagiose' - di altre. In questa prospettiva epidemiologica, tutte le informazioni che gli esseri umani introducono nel loro ambiente comune possono essere viste in competizione8 per lo spazio e il tempo privato e pubblico, ossia per l'attenzione, la memoria interna, la trasmissione e la memoria esterna. Molti fattori determinano il successo di un'informazione e il raggiungimento un alto livello di distribuzione, cioè se si stabilizza in una cultura. Alcuni sono psicologici, altri ecologici; la maggior parte di essi sono relativamente locali, altri molto generali. Il fattore psicologico più generale che influenza la distribuzione dell'informazione è la sua compatibilità con l'organizzazione cognitiva umana. In particolare, l'informazione pertinente, la cui pertinenza è
8 Qui, come nel caso delle rappresentazioni che sono in competizione per l'attenzione, il termine competizione' è solo una vivida metafora che non implica nessuna intenzione o disposizione a competere. Quello che significa è che, tra tutte le rappresentazioni presenti in un gruppo umano in un dato momento, alcune, a un estremo, si diffonderanno e dureranno, mentre altre, all'altro estremo, avranno solo una breve esistenza locale. Non si tratta di un processo casuale, e per ipotesi le proprietà dell'informazione giocano un ruolo causale nel determinarne la distribuzione ampia o limitata.
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relativamente indipendente dal contesto immediato, ha più possibilità, ceteris paribus, di raggiungere un livello culturale di distribuzione. La pertinenza garantisce la motivazione sia per memorizzare che per trasmettere informazione, e l'indipendenza da un contesto immediato significa la pertinenza in un contesto più ampio di aspettative e credenze stabili. In una prospettiva modulare dei processi concettuali le credenze che sono stabili all'interno di una popolazione sono quelle che giocano un ruolo centrale nell'organizzazione modulare e nel trattamento della conoscenza. L'informazione che arricchisce o con- traddice queste credenze modulari ha quindi maggiori possibilità di successo. Ho sostenuto altrove (Sperber 1974b, 1980 e nei capitoli 3 e 4) che le credenze che violano le aspettative che determinano in noi i moduli cognitivi (per esempio quelle in esseri sovrannaturali capaci di azioni a distanza, ubiquità, metamorfosi, ecc.) acquisiscono proprio per questo fatto una visibilità e una pertinenza che contribuisce al loro vigore culturale. Pascal Boyer (1990) ha giustamente sottolineato che tali violazioni di aspettative intuitive nella descrizione degli esseri sovrannatura- li sono in realtà poche, e avvengono su uno sfondo di aspettative modulari soddisfatte. Kelly e Keil (1985) hanno mostrato che l'uso culturale delle rappresentazioni delle metamorfosi è strettamente vincolato da una struttura concettuale specifica. In generale, dovremmo aspettarci che molte rappresentazioni culturali di successo siano solidamente ancorate a un modulo concettuale, differenziandosi sufficientemente dalle informazioni che figurano ordinariamente nel dominio proprio del modulo per catturare l'attenzione. Un modulo cognitivo stimola in ogni cultura la produzione e la distribuzione di un grande ventaglio di informazioni che soddisfano le sue condizioni di input. Queste informazioni, prodotte artificialmente e organizzate dagli individui stessi, sono concettualizzate dall'inizio e appartengono a domini concettuali che propongo di chiamare domini culturali dei moduli. In altri termini, la trasmissione culturale suscita nel dominio reale di ciascun modulo cognitivo una proliferazione di informazioni parassitarie che imitano il dominio proprio del modulo. Proverò a illustrare il mio approccio epidemiologico partendo da un caso non concettuale, quello della musica; il mio intento è semplicemente di mostrare il funzionamento di tale approccio, non di formulare un'ipotesi scientifica seria, che non avrei le competenze per sviluppare. Immaginiamo che la capacità e la disposizione a prestare attenzione a certe sequenze sonore e ad analizzarle abbiano con
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tribuito al successo riproduttivo per un periodo sufficientemente lungo nella preistoria umana. Le sequenze sonore saranno state identificate grazie alle variazioni in altezza e ritmo. Quali suoni presentavano questa struttura? La prima possibilità che viene in mente è quella dei suoni vocali prodotti dagli umani per comunicare. Non è necessario che si tratti dei suoni delle lingue dell'Homo sapiens, ma si può immaginare un antenato umanoide dotato di capacità articolatorie molto più povere, che si basasse ben più degli umani moderni sul ritmo e sull'altezza per produrre segnali vocali. In queste condizioni sarebbe stata possibile l'evoluzione di un modulo cognitivo specializzato. Questo modulo avrebbe dovuto combinare le capacità percettive di discriminazione necessarie con un aspetto motivazionale che avrebbe incitato gli individui a prestare attenzione alle sequenze sonore pertinenti. Tale motivazione avrebbe potuto essere di carattere edonistico: aspettative positive di piacere invece di paura del dolore. Supponiamo che le sequenze sonore si producessero in mezzo a rumori dai quali era difficile distinguerle. Le capacità vocali di questi antenati avrebbero potuto essere molto limitate, così che la sequenza sonora voluta potesse essere parassitata da un flusso di suoni senza pertinenza (come per esempio quando si parla con la voce rauca o raffreddata o con la bocca piena). In queste condizioni, la componente motivazionale del modulo avrebbe dovuto essere calibrata in modo tale che il riconoscimento di un livello relativamente basso della proprietà pertinente fosse sufficiente a procurare un piacere motivante. Il dominio proprio che propongo di immaginare è quello delle proprietà acustiche delle comunicazioni vocali primitive. È possibile che il dominio proprio sia oggi vuoto: un altro adattamento, l'apparato vocale umano, può averlo reso obsoleto. Oppure è possibile che le proprietà acustiche pertinenti giochino ancora un ruolo nelle lingue umane (in particolare in quelle tonali) e che il modulo sia ancora funzionale. I suoni che il modulo analizza, causando così piacere all'organismo di cui fa parte - ossia i suoni che soddisfano le condizioni di input del modulo - sono raramente presenti in natura (con l'eccezione evidente del canto degli uccelli), ma possono essere prodotti artificialmente. E così è stato, cosa che ha fornito al modulo un dominio culturale particolarmente ricco, la musica. La sequenza acustica pertinente della musica è molto più facile da distinguere e più piacevole di qualsiasi altro suono nel dominio proprio del modulo. Il meccanismo motivazionale, sintonizzato naturalmente sugli input difficili da discriminare, è stato ora
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• limolato a un grado tale da creare una vera dipendenza nei confronti dell'intera esperienza. L'idea allora è che gli esseri umani hanno creato un dominio culturale, la musica, che è parassitario di un modulo cognitivo il cui dominio proprio esisteva prima della musica e non aveva nulla a che fare con essa. L'esistenza di questo modulo cognitivo ha favorito la diffusione, la stabilizzazione e la progressiva crescita e diversificazione di un repertorio che soddisfa le condizioni di input. All'inizio furono scoperti per caso suoni piacevoli, poi vennero prodotte deliberatamente sequenze sonore che divennero vera e propria musica. Questi pezzi di cultura competono per lo spazio e il tempo pubblici e mentali e per avere la possibilità di stimolare il modulo in questione in più individui possibile per il tempo più lungo possibile. In questa competizione, alcuni brani musicali riescono a sopravvivere almeno per qualche tempo, mentre altri vengono eliminati, e così musica e competenza musicale evolvono. Nel caso della musica, il dominio culturale del modulo è molto più sviluppato e visibile del suo dominio proprio (nell'ipotesi che un dominio proprio esista ancora), al punto che è l'esistenza stessa di un dominio culturale e della specificità di competenze che sono manifestamente coinvolte a giustificare la ricerca, nel presente o nel passato, di un dominio proprio che non è immediatamente manifesto. In altri casi, l'esistenza di un dominio proprio è almeno tanto immediatamente manifesta quanto quella del dominio culturale. Consideriamo la conoscenza zoologica. L'esistenza di una competenza specifica in questo caso non è difficile da riconoscere, se si ammette l'idea di una specificità di domini cognitivi. Si può pensare, come ho suggerito, che gli esseri umani abbiano uno stampo modulare per costruire i concetti degli animali. La funzione biologica di questo modulo è fornire agli umani un modo di categorizzare gli animali che possono incontrare nel loro ambiente e di organizzare l'informazione che hanno su di loro. Il dominio proprio di questa capacità modulare è la fauna locale vivente. Succede in realtà che, grazie all'input culturale, si finisca per costruire concetti di specie animali con cui non si avrà mai nessuna interazione. Se siamo occidentali del ventesimo secolo, possiamo per esempio avere un sottodominio culturale di dinosauri, o persino essere esperti di dinosauri. In un'altra cultura, avremmo potuto essere esperti di draghi. Questa invasione del dominio reale di un modulo concettuale da parte dell'informazione culturale avviene indipendentemente dalla grandezza del modulo. Consideriamo un micromodulo come il concetto di un animale particolare, il topo per 149
esempio. Anche in questo caso, probabilmente avremo fissato tra i dati di quel modulo l'informazione culturalmente trasmessa sui topi, sia di carattere scientifico che di carattere folcloristico, che va ben al di là del dominio proprio di quel micromodulo, vale a dire ben al di là dell'informazione derivabile dalle interazioni con i topi e pertinente a esse. Naturalmente questa informazione culturale sui topi può essere utile alle nostre interazioni con gli altri esseri umani, fornendo per esempio un repertorio che si può sfruttare nella comunicazione metaforica. Dal lato macromodulare, ammettiamo per la discussione che lo stampo modulare su cui sono costruiti i concetti zoologici sia esso stesso una versione inizializzata (forse la versione per default) di un metastampo più astratto per gli esseri viventi. Questo metastampo è inizializzato in altri modi per altri domini (per esempio la botanica) e proietta diversi stampi specifici, come ho suggerito prima. Ciò che determina una nuova inizializzazione è la presenza di informazione che (1) soddisfa le condizioni generali di input specificate dal metastampo, ma (2) non soddisfa le condizioni più specifiche di input che si trovano nel modulo del metastampo. Non è necessario che l'informazione si trovi nel dominio proprio del modulo del metastampo. In altre parole, il metastampo può essere inizializzato in una maniera che non corrisponde affatto al suo dominio proprio, ma solo a un dominio culturale. Un dominio culturale cui si può pensare in questo contesto è quello delle rappresentazioni degli esseri sovrannaturali (si veda Boyer 1990, 1993, 1994), ma ci possono anche essere casi meno evidenti. Consideriamo in questa prospettiva il problema sollevato da Hirschfeld (1988, 1993, 1994), secondo il quale i bambini hanno una disposizione a categorizzare gli esseri umani in 'gruppi razziali'. Essi fanno anche inferenze a partire da questa categorizzazione, come se i gruppi razziali differenti avessero 'essenze' o 'nature' differenti, paragonabili alle diverse nature attribuite alle diverse specie animali. I bambini possiedono una competenza la cui funzione è quella di sviluppare tali categorizzazioni? In altri termini, esiste una disposizione naturale al razzismo? Per evitare questa conclusione così poco attraente, è stato suggerito (Atran 1990; Boyer 1990) che i bambini trasferiscano alla sfera sociale una competenza che hanno in precedenza sviluppato per gli esseri viventi, e che lo fanno per dare un senso alle differenze sistematiche nell'aspetto umano (per esempio, il colore della pelle) che possono avere osservato. In realtà, gli esperimenti di Hirschfeld mostrano che la categorizzazione razziale si sviluppa senza che ci si appoggi inizialmente a input percettivi rilevanti. Questo sembra
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mostrare che esista, dopotutto, una competenza specializzata per la classificazione razziale. Ciò che suggerisce un approccio epidemiologico è che la classificazione razziale può risultare da uno stampo specializzato, ma non innato, derivato dal metastampo per gli esseri viventi, attraverso un'inizializzazione provocata da un input cul- lurale. Esperimenti recenti mostrano infatti che, in certe condizioni, il solo fatto che un oggetto sia designato con un'etichetta verbale modifica il modo in cui il bambino lo categorizzerà in direzione di un costrutto 'essenzialista', secondo il quale i tratti percepibili delle specie sono manifestazioni di un'essenza sottostante (Markman e Hutchinson 1984; Markman 1990; Davidson e Gelman 1990; Gelman e Coley 1991). È possibile allora che, quando i bambini sentono che alcuni esseri umani sono designati con etichette verbali particolari che a prima vista non rivelano nessuna descrizione o definizione specifica, si attivi, in un contesto appropriato, l'inizializzazione di un modulo-stampo ad hoc. Se così è, allora la percezione delle differenze fisiche tra gli esseri umani non è in realtà il fattore che determina il processo di classificazione razziale. Esiste, come propone Hirschfeld, una competenza geneticamente determinata che governa le classificazioni razziali senza importarne i modelli da un altro dominio concreto. Ma questa competenza soggiacente può anche non avere il suo dominio proprio nelle classificazioni razziali, le quali possono costituire un dominio puramente culturale, ossia fondato su una competenza soggiacente che non ha un dominio proprio. L'inizializzazione di uno stampo specializzato per la classificazione razziale potrebbe quindi non essere altro che un effetto di informazioni culturali parassitarie di un modulo di apprendimento di più alto livello, la cui funzione è generare stampi specializzati per diversi domini di specie viventi vere e proprie, come il dominio zoologico o quello botanico. Se l'ipotesi è corretta - non lo affermo, evoco solo la possibilità -, allora nessuna disposizione al razzismo è stata oggetto di una selezione biologica positiva presso gli esseri umani (non è stata selezionata per, nel senso di Sober 1984). Ciononostante, le disposizioni che sono state l'oggetto di una selezione positiva rendono gli umani anche troppo ricettivi al razzismo quando incontrano un input culturale minimale e in apparenza inoffensivo. Il rapporto fra il dominio proprio e i domini culturali dello stesso modulo non è un rapporto di trasferimento; il modulo non ha preferenze tra i due generi di domini e, in realtà, ignora completamente la distinzione, che è fondata sull'ecologia e sulla storia.
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Anche adottando una prospettiva evoluzionistica ed epidemiologica, la distinzione tra il dominio proprio e culturale di un modulo non è sempre facile. I domini propri e quelli culturali possono sovrapporsi. Inoltre, dato che i domini culturali sono oggetti di questo mondo, tra le funzioni di un modulo ci può essere quella di gestire un dominio culturale, cosa che lo trasforma in un dominio proprio. Si osservi che l'esistenza stessa di un modulo culturale è un effetto dell'esistenza di un modulo; conseguentemente, almeno in partenza, un modulo non può essere un adattamento al suo dominio culturale. Un modulo deve essere stato selezionato a causa di un dominio proprio preesistente. In linea di principio, potrebbe acquisire come funzione quella di gestire il proprio dominio culturale; dovrebbe avvenire così quando la capacità del modulo di gestire il dominio culturale contribuisce alla sopravvivenza della specie. Il solo caso chiaro dell'adattamento di un modulo ai suoi propri effetti è quello della facoltà linguistica che, nella sua forma iniziale, non può essere stata un adattamento a un linguaggio pubblico che non poteva esistere senza di essa. D'altra parte, sembra difficile dubitare del fatto che il linguaggio sia diventato il dominio proprio della facoltà del linguaggio.9 Se esistono capacità modulari per prendere parte a forme particolari di interazione sociale (come ha suggerito Cosmides 1989) allora, come nel caso della facoltà del linguaggio, il dominio culturale di tali capacità deve almeno intersecare il loro dominio proprio. Un altro esempio interessante in questo contesto è quello dei rapporti tra la numerosità, che costituisce il dominio proprio di un modulo cognitivo, e il sistema dei numeri, che costituisce un dominio culturale dipendente dal linguaggio (si vedano Gelman e Gallistel 1978; Gallistel e Gelman 1992; Dehaene 1992). In generale però, non c'è ragione perché la produzione e la gestione dei domini culturali costituiscano una funzione biologica di tutti i moduli cognitivi umani, o anche della maggior parte di essi. Se questa concezione è corretta, ha implicazioni importanti per lo studio della specializzazione modulare nella cognizione umana: essa smonta a mio avviso l'argomento contro la modularità del pensiero fondato sulla diversità culturale. Perché, anche se il pensiero fosse interamente modulare, si dovrebbe trovare un gran numero di domini culturali così diversi da cultura
Si vedano Pinker e Bloom 1990 e il mio contributo alla discussione del loro articolo (Sperber 1990b). 9
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a cultura che sarebbe assurdo scambiarli per i domini propri dei moduli stabiliti dall'evoluzione biologica. Il fatto che un dominio cognitivo abbia un carattere culturale tipico e non con- tribuisca all'adattamento biologico, non ne impedisce l'appartenenza, in quanto dominio culturale, a un modulo geneticamente determinato.
Capacità metarappresentazionali ed esplosione culturale Se ancora non siete convinti che il pensiero umano potrebbe essere totalmente modulare, se avete la sensazione che l'integrazione concettuale sia maggiore di quanto permettano di spiegare le ipotesi avanzate finora, se scorgete domini del pensiero che non corrispondono a nessun modulo plausibile, allora siamo d'accordo. Non solo le credenze sul Camembert potrebbero svolgere un ruolo nella formazione delle conclusioni sui quark, ma non abbiamo nemmeno problemi a immaginare e comprendere una rappresentazione concettuale dove figurano contemporaneamente il Camembert e i quark. Il solo fatto che abbiate compreso la frase precedente ne è un esempio. In ogni caso, con o senza Camembert, le idee sui quark non hanno un posto evidente in un'immagine modulare del pensiero. È chiaro che non appartengono al dominio effettivo della fisica ingenua, così come le idee sui cromosomi non appartengono al dominio della biologia ingenua, quelle sugli uomini-lupo non appartengono a quello della zoologia ingenua, e quelle sulla Santissima Trinità o sugli automi cellulari non corrispondono a nessun modulo possibile. Ciò significa che esiste un insieme di credenze extramodulari di cui le credenze religiose e scientifiche sarebbero gli esempi più evidenti? Non credo. Non abbiamo ancora esaurito le risorse dell'approccio modulare. Gli esseri umani hanno la capacità di formare rappresentazioni mentali di rappresentazioni mentali; in altri termini, hanno una capacità metarappresentazionale che è così particolare, sia per il suo dominio che per le sue proprietà computazionali, che chiunque sia disposto a prendere sul serio la tesi della modularità del pensiero deve essere disposto a considerare questa capacità come modulare. Lo stesso Fodor è disposto a farlo (Fodor 1992). Il modulo metarappresentazionale10 è un modulo concettuale speciale, un modulo di secondo
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La capacità di formare e trattare le metarappresentazioni potrebbe ri-
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ordine, per così dire. Mentre gli altri moduli concettuali trattano di concetti e di rappresentazioni di cose, normalmente di cose percepite, quello metarappresentazionale tratta di concetti di concetti e di rappresentazioni di rappresentazioni. Il dominio reale del modulo metarappresentazionale è abbastanza chiaro: è l'insieme di tutte le rappresentazioni di cui l'organismo è capace di inferire o di apprendere in qualche modo l'esistenza e il contenuto. In cosa potrebbe consistere il dominio proprio di questo modulo? Molti lavori recenti (per esempio Astington, Harris e Olson 1989) avanzano l'ipotesi che la funzione della capacità di formare e trattare metarappresen- tazioni sia di fornire agli umani una psicologia ingenua. In altri termini, questo modulo è un 'modulo di teoria della mente' (Leslie 1994) e il suo dominio proprio è costituito dalle credenze, dai desideri e dalle intenzioni che sono le cause del comportamento umano. La capacità di comprendere e di categorizzare il comportamento non solo in termini di semplici movimenti fisici, ma anche di stati mentali soggiacenti, costituisce un adattamento essenziale per organismi che devono cooperare ed entrare in competizione gli uni con gli altri in modi molto differenti. Una volta che nella nostra ontologia si trovano gli stati mentali e la capacità di attribuirli agli altri, c'è solo un passo da fare perché abbiamo desideri su questi stati mentali - il desiderio che quella persona creda questo, che desideri quello, ecc. - e perché elaboriamo l'intenzione di modificare gli stati mentali altrui. La comunicazione umana è sia un modo di soddisfare questi desideri metarappresentazionali, sia di sfruttare le capacità metarappresentazionali degli altri. Come ha suggerito òrice (1957) e come ho sviluppato con Deirdre Wilson, attraverso il comportamento comunicativo chi comunica aiuta in modo deliberato e manifesto il suo destinatario a inferire il contenuto della rappresentazione mentale che vuole fargli adottare (Sper- ber e Wilson 1986). La comunicazione è radicalmente facilitata dall'emergere di una lingua pubblica, la quale soggiace a un altro modulo, la facoltà del linguaggio. Noi sosteniamo però che lo sviluppo stesso di una lingua pubblica non è la causa, ma l'effetto dello sviluppo di una comunicazione resa possibile dal modulo meta- rappresentazionale. Lo sviluppo della comunicazione, e in particolare della coguardare non un singolo modulo, ma molti, ognuno dei quali metarappresenta un dominio o un tipo di rappresentazione differente. Per mancanza di argomenti convincenti, ignorerò questa reale possibilità.
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municazione linguistica, ha per effetto che il dominio effettivo del modulo metarappresentazionale sia pieno di rappresentazioni rese manifeste dai comportamenti comunicativi: le intenzioni di chi comunica e i contenuti comunicati. La maggior parte delle rappresentazioni sulle quali ci sarebbe una storia epidemiologica interessante da raccontare sono comunicate in questo modo ed entrano dunque nella mente degli individui at- traverso i loro moduli metarappresentazionali. Come ho già suggerito, i contenuti comunicati, possono arrivare al modulo pertinente anche se penetrano attraverso il modulo metarappresentazionale. Quello che ci viene detto sui gatti è integrato con quello che vediamo dei gatti in virtù del fatto che la rappresentazione comunicata contiene il concetto GATTO. Disponiamo ora dell'informazione in due formati: quello di una rappresentazione di gatto trattata da un modulo concettuale di primo ordine e quello di una rappresentazione di rappresentazione (di secondo ordine) di gatto trattata da un modulo metarappresentazionale. Il modulo metarappresentazionale non sa nulla dei gatti, ma può sapere qualcosa dei rapporti semantici Ira le rappresentazioni, può avere una certa capacità di valutare la validità di un'inferenza, il valore dimostrativo di una certa informazione, la plausibilità relativa di due credenze contraddittorie, ecc. Può essere capace anche di valutare una credenza non a partire dal suo contenuto, ma a partire dall'affidabilità della fonte. Il modulo metarappresentazionale può quindi formare e accettare credenze sui gatti per ragioni che non hanno niente a che fare con il genere di conoscenze intuitive fornite dal modulo GATTO (O dal modulo, quale che sia, che si occupa dei gatti). Un organismo dotato di moduli percettivi e di moduli concettuali di primo ordine ha delle credenze fornite da essi, ma non ha credenze su queste credenze né su quelle degli altri, né dunque un atteggiamento riflessivo rispetto alle proprie credenze. Il vocabolario delle credenze di un tale organismo è limitato al vocabolario di output dei suoi moduli; non può concepire o adottare un nuovo concetto, né criticare o respingere vecchi concetti. Un organismo che ha in più un modulo metarappresentazionale può rappresentare concetti e credenze in quanto tali, valutarli in modo critico e accettarli o respingerli per ragioni metarappresentazionali. Può formare rappresentazioni di concetti e di credenze che dipendono da qualsiasi dominio concettuale, concetti e credenze fatti in modo tale che i moduli specializzati in questi stessi domini sarebbero incapaci di elaborarli o di assimilarli. Così facendo, questo organismo più dotato non fa che utilizzare il
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proprio modulo metarappresentazionale per trattare gli oggetti che appartengono al dominio di tale modulo, ossia alcune rappresentazioni. Gli esseri umani, in virtù delle loro notevoli capacità metarappresentazionali, possono dunque avere credenze relative allo stesso dominio concettuale ma radicate in due moduli ben diversi: il modulo di primo ordine, specializzato nel dominio concettuale in questione e quello metarappresentazionale di secondo ordine, specializzato nelle rappresentazioni. Si tratta però di due credenze differenti, 'credenze intuitive', basate sul modulo di primo ordine, e 'credenze riflessive', basate su quello metarappresentazionale (si vedano Sperber 1982, cap. 2, 1985, 1990a). Le credenze riflessive possono contenere dei concetti (per esempio 'quark', 'Trinità') che non appartengono al repertorio di nessun modulo e sono dunque disponibili agli esseri umani solo in modo riflessivo, attraverso le credenze e le teorie all'interno delle quali appaiono tali concetti. Le credenze e i concetti che variano di più da cultura a cultura (e che spesso sembrano inintelligibili, ossia irrazionali dal punto di vista di un'altra cultura) sono le credenze riflessive e i concetti acquisiti attraverso di loro. Le credenze riflessive possono essere controintuitive (più precisamente possono essere controintuitive rispetto all'oggetto in questione, mentre allo stesso tempo le ragioni meta- rappresentazionali per accettarle sono intuitivamente imperative). Ciò è rilevante per l'argomento tecnico più interessante che Fodor invoca contro la modularità dei processi centrali. Il carattere incapsulato e automatico dei moduli percettivi è messo, in evidenza, come sottolinea Fodor, dalla persistenza delle illusioni percettive, anche quando il loro carattere illusorio è manifesto. Non c'è niente, secondo lui, di equivalente a livello concettuale. È vero che le illusioni percettive hanno la qualità di vissuto e la vivacità delle esperienze percettive, qualità che non si incontrano a livello concettuale, ma ci può capitare di abbandonare una credenza sentendone ancora la forza intuitiva, e insieme sentendo il carattere controintuitivo della credenza con la quale l'abbiamo sostituita. Si può credere con una fede totale alla Santissima Trinità ed essere tuttavia coscienti della forma intuitiva dell'idea secondo la quale un padre e un figlio non possono essere una sola e la stessa persona. Possiamo comprendere perché non si può vedere un buco nero, e sentire però la forza dell'idea che un oggetto solido, grosso e denso non può che essere visibile. L'opposizione tra la fisica ingenua e la fisica moderna fornisce numerosi
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altri esempi lampanti.11 Quello che avviene, a mio avviso, è che il modulo della fisica ingenua resta essenzialmente impenetrabile alle idee della física moderna, e persiste nel fornire le stesse intuizioni anche quando ci sembrano sbagliate, almeno a livello riflessivo. Più in generale, il modulo metarappresentazionale, la dualità delle credenze che questo modulo rende possibile e il passaggio che apre al contagio culturale completano l'immagine modulare della mente che ho cercato di abbozzare. Ho raffigurato una mente a tre strati: uno strato unico e spesso di moduli di input, come afferma Fodor; poi una rete complessa di moduli concettuali di primo ordine di tutti i generi, e infine un modulo metarappresentazionale di secondo ordine. All'origine, il modulo metarappresentazionale non è molto diverso dagli altri moduli concettuali, ma permette lo sviluppo della comunicazione e dà avvio a un'esplosione culturale di tale grandezza che il suo dominio effettivo si estende oltre misura e finisce per ospitare una moltitudine di rappresentazioni culturali che dipendono da diversi domini culturali. Ecco come si può avere una mente realmente modulare che svolga un ruolo causale primario nell'emergere di una reale diversità culturale.
E un folto numero di esempi più sottili sono stati analizzati in una prospettiva cognitiva da Atran (1990). 11
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Conclusione: la posta in gioco
Quando si cerca di ripensare in modo nuovo un vecchio ambito di ricerca, quando si procede nel buio, a tentoni, cercando punti di riferimento, percorsi, passaggi, si è ben lontani dal concludere. A ogni passo però, ci si può chiedere: qual è la sfi- da? Quali sono i rischi? La sfida scientifica è chiara. Si tratta di costruire un nuovo strumento potente per spiegare e comprendere i fenomeni sociali. Ripeto, un'epidemiologia delle rappresentazioni non intende sostituire i mezzi di comprensione esistenti, ma vuole essere complementare a essi. Sarebbe però ingenuo pensare che tutti i programmi di ricerca possano convivere in armonia. Per cominciare, nelle istituzioni accademiche le risorse umane e materiali sono limitate e la competizione è inevitabile, per cui ciascuno tende a valorizzare il proprio programma, presentando semplici speranze come promesse - se non come risultati - e screditando i programmi concorrenti. Ma ci sono anche autentici conflitti teorici più interessanti. Per esempio i freudiani e gli junghiani non possono avere contemporaneamente ragione, e neppure i funzionalisti classici e i loro critici marxisti. Non esiste un conflitto teorico - o almeno non dovrebbe esistere tra gli approcci interpretativi che cercano di rendere i fenomeni sociali intuitivamente comprensibili e un approccio epidemiologico che cerca spiegazioni causali. D'altra parte, esso è oggettivamente in conflitto con i programmi teorici che cercano di spiegare i fenomeni sociali causalmente senza riconcettualizzare l'intero dominio. L'approccio epidemiologico presentato in questo libro è diverso anche da altri approcci naturalistici che si basano quasi esclusivamente sulla biologia, e nella spiegazione delle culture accordano solo un ruolo minore e banale alla psicologia umana.
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Al di là delle questioni che riguardano la pratica o i contenuti della scienza, dobbiamo riflettere anche sulle nostre ragioni profonde per proporre un'analisi dei fenomeni sociali da un punto di vista scientifico, più specificamente naturalistico. Ogni sforzo di analizzare i fenomeni sociali e culturali in modo scientifico, in particolare ogni sforzo naturalistico, rischia di suscitare accuse di riduzionismo. Non è difficile mostrare come, in questo caso, l'etichetta 'riduzionista' sia doppiamente impropria: in primo luogo perché nessuno propone una riduzione dei fenomeni sociali; in secondo luogo perché, se una simile proposta fosse fatta sul serio, dovrebbe destare più interesse che disprezzo, dato che le vere riduzioni costituiscono un fondamentale avanzamento della scienza. Si può anche sostenere che un'analisi naturalistica dei meccanismi mentali e sociali tenderebbe a evidenziarne la ricchezza e sottigliezza, invece di svalutarli, come spesso si teme. Si può cercare di mettere i critici con le spalle al muro perché mostrino che i programmi cosiddetti riduzionisti sono scorretti, o trovino le ragioni morali per censurarli. Benché queste accuse non siano molto articolate né forniscano argomenti seri contro il progetto, esse provengono tuttavia da un disagio legittimo. Ogni ricerca implica responsabilità e rischi. Nelle scienze sociali responsabilità e rischi sono morali e politici. I movimenti politici moderni, siano essi reazionari, conservatori, progressisti o rivoluzionari, si basano su teorie delle scienze sociali e fanno del loro carattere 'scientifico' un motivo di legittimazione. Spesso sono gli stessi scienziati sociali a incoraggiare tale uso delle proprie teorie. Che la scienza possa guidare l'azione: cosa potrebbe essere più desiderabile? In realtà gli abusi della scienza sono frequenti, e vanno dall'arroganza al crimine. È ragionevole dunque stare in guardia; un approccio naturalistico al sociale suscita inquietudini di due tipi, alcune legate al ruolo attribuito alla biologia, altre a quello che può sembrare scientismo. Le scienze sociali, e in particolare l'antropologia, hanno avuto la loro parte di responsabilità nei crimini del colonialismo e del razzismo. Sempre, lo sfruttamento e lo sterminio sono stati giustificati nel nome di una presunta superiorità biologica degli sfruttatori sugli sfruttati, o degli sterminatori sulle vittime; ci sono ancora oggi persone che difendono varie forme di discriminazione sociale o razziale in nome della biologia. Ciò implica forse che ogni richiamo alla biologia nelle scienze umane non possa che aprire le porte al razzismo? Si tratta di un sospetto in se stesso sospetto, perché sarebbe giustificato
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solo se lo studio della biologia avesse fornito argomenti a favore del razzismo. Esiste in realtà una differenza radicale e lampante tra gli scopi scientifici di una psicologia e un'antropologia evoluzionistiche e le preoccupazioni pseudoscientifiche di chi è motivato da un'attrazione per il razzismo. Ciò che può contribuire a una migliore comprensione delle vicende umane è una prospettiva biologica su quello che gli esseri umani hanno in comune; quello che cercano i razzisti sono differenze biologiche tra i gruppi umani che spieghino e giustifichino destini ineguali. Anche senza approfondire i dati e gli argomenti che mostrano il contrario (ma si veda Cavalli Sforza et alii 1994), dovrebbe risultare chiaro che la ricerca razzista non ha meriti scientifici. Ogni essere umano (con l'eccezione dei gemelli monozigoti) è geneticamente diverso da tutti gli altri. Ma gli esseri umani sono anche tanto simili da essere in grado di imparare qualsiasi lingua umana e di acquisire qualsiasi cultura. Non si tratta solo di una possibilità teorica, ma di un fatto essenziale per la comprensione della storia dell'uomo. Nella storia umana sono ricorrenti i movimenti di popolazione da una società all'altra; essi presuppongono e sono basati sull'unità fondamentale della specie. La specie umana non è divisa in sottogruppi distinti e geneticamente omogenei; non esistono razze umane; le differenze genetiche tra gruppi umani, se se ne trovano, sono superficiali e transitorie e non possono svolgere che un ruolo estremamente marginale nella spiegazione (che ancora stiamo cercando) della diversità delle culture umane. Chi - nonostante la mancanza di giustificazione scientifica - investe energia nella ricerca di una spiegazione genetica delle differenze storiche e culturali tra i gruppi, o è uno studioso incapace, o, più probabilmente, un razzista che cerca di investire la propria causa del prestigio e dell'autorità della scienza, senza sottomettersi ai vincoli di oggettività e fecondità. Questi pseudoscienziati vanno tenuti alla larga, cosa che si può fare semplicemente mantenendo elevati gli standard scientifici, soprattutto quando le cosiddette affermazioni scientifiche hanno implicazioni sociali significative (come in tutte le scienze, la ricerca che può colpire interessi umani è valutata con particolare rigore). Un approccio naturalistico può causare altre inquietudini, più diffuse forse, ma non meno pertinenti. In quanto attori sociali, tutti noi abbiamo una forma di comprensione dei meccanismi della vita sociale che ci aiuta a valutare le scelte, a decidere e ad agire. In una società democratica, le scelte non riguardano solo le relazioni sociali in cui siamo personalmente
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coinvolti, ma anche l'avvenire della società in generale. La nostra pratica individuale ci dà soltanto una comprensione grezza, e probabilmente tendenziosa, dei fenomeni sociali globali. Le scienze sociali, dunque, hanno un ruolo fondamentale da svolgere nella vita democratica: quello di aiutare i cittadini a comprendere. La ricerca nelle scienze sociali si sviluppa in larga misura in risposta alle richieste degli attori politici: cittadini, militanti e autorità. Esiste fortunatamente una continuità tra gran parte di questa ricerca e la comprensione della realtà sociale che ci è data dal nostro senso comune. Una ricerca puramente teorica nelle scienze sociali non risponde allo stesso tipo di bisogno sociale. Ciononostante, dato che i concetti che usa provengono dal senso comune, anche la maggior parte della ricerca teorica è comprensibile al lettore comune. Ci si può chiedere se ciò sarebbe vero anche nel caso di un programma naturalistico del tipo di quello che difendo. Dopotutto, si tratta di ridefinire proprio i concetti ordinariamente usati nel pensiero sociale. Dobbiamo accettare la sfida di allontanare le scienze sociali dal senso comune? Anche se i programmi naturalistici sono, nella migliore delle ipotesi, allo stadio iniziale, non c'è il rischio che un giorno gli scienziati coinvolti si possano presentare come esperti che discutono tra esperti e che pretendono di poter decidere al posto nostro? Anche se il pericolo è remoto, non si tratta di una preoccupazione assurda e, di conseguenza, si potrebbe essere tentati di trarre la conclusione che sia meglio opporsi in partenza a qualsiasi programma naturalistico. La mia conclusione è che si debba difendere una pluralità di metodi e di punti di vista. Il pluralismo è essenziale nelle scienze in generale, in quanto è una condizione del loro progresso. Qualsiasi prospettiva nuova e potenzialmente feconda merita di essere esplorata. Il pluralismo è doppiamente essenziale nelle scienze sociali, che devono - non singolarmente, ma insieme - rispondere a richieste sociali diverse, in particolare a quella di intelligibilità che suscita la democrazia (per imperfetta che sia). Un programma naturalistico può far nascere un'altra preoccupazione. Come in uno specchio, le scienze sociali riflettono la nostra immagine. Non riconoscerci nell'immagine riflessa ci disturba. La psicologia cognitiva non riflette un'immagine di noi stessi immediatamente riconoscibile, né lo fa un'epidemiologia delle rappresentazioni. Ancor peggio, ciò che riteniamo essenziale e primario - la nostra esistenza di persone coscienti - risulta essere una combinazione instabile, proiettata socialmente su una struttura biologica, essa stessa precaria. Se ci dovessimo accontentare di questa singola immagine inquietante,
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ci sarebbe da allarmarsi. Ma le immagini più comuni che abbiamo di noi stessi non subiscono alcuna minaccia. La fìsica moderna lascia essenzialmente intatta l'immagine del mondo materiale che guida i nostri passi; così, nessuna scienza sociale del futuro potrà sostituire la nostra comprensione comune di noi stessi. La scienza potrà tutt'al più mettere in prospettiva il senso comune. Le scienze sono capaci di darci un tipo speciale di piacere intellettuale: quello di vedere il mondo in una luce che in un primo momento sconcerta, ma poi costringe alla riflessione e approfondisce la nostra conoscenza, relativizzandola. Mi piacerebbe che le scienze sociali ci dessero più spesso un piacere di questo tipo.
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174
Font i
Il capitolo 1 è una sintesi (con alcune revisioni) di due articoli precedenti: Issues in the Ontology of Culture, pubblicato in R.B. Marcus et alii (eds), Logic, Methodology and Philosophy of Science, vol. 7, Elsevier Science Publishers, Amsterdam 1986, pp. 557-571 e Les sciences cogni- tives, les sciences sociales et le matérialesme, in "Le Débat", 47, 1987, pp. 105-115. Una versione inglese rivista del secondo articolo, intitolata Culture and Matter, è stata pubblicata in J.-C. Gardin e C.S. Peebles (eds), Representations in Archeology, University of Indiana Press, Bloo- mington 1991, pp. 56-65. Il capitolo 2 è una revisione dell'omonimo articolo pubblicato in G. Palsson (ed.), Beyond Boundaries: Understanding, Translation and Anthropological Discourse, Berg, Oxford 1993, pp. 162-183. Una versione più breve è stata pubblicata in francese con il titolo L'Étude anthro- pologique des representations: problèmes et perspectives, in D. Jodelet (ed.), Les Représentations sociales, Puf, Paris 1989, pp. 115-130. Il capitolo 3 è stato originariamente presentato come Malinowski Memorial Lecture nel 1984 e poi pubblicato in "Man", 20, 1985 pp. 73- 89. Viene qui ristampato con il consenso del Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland. Il capitolo 4 è stato precedentemente pubblicato in C. Fraser e G. Gaskell (eds), The Social Psychological Study of Widespread Beliefs, Clarendon Press, Oxford 1990, pp. 25-44; tr. it. L'epidemiologia delle credenze, Anabasi, Milano 1994. Il capitolo 5 è stato presentato per la prima volta al Darwin Seminar della London School of Economics nel maggio 1995 e come conferenza al Convegno Internazionale di Logica, Metodologia e Filosofìa della Scienza a Firenze nell'agosto 1995. Il capitolo 6 è basato su un intervento a un congresso organizzato nel 1990 ad Ann Arbor, Michigan da Scott Atran, Susan Gelman, Larry Hirschfeld e da me, dal titolo Domain Specificity in Cognition and Culture. Gli interventi sono pubblicati in L.A. Hirschfeld, e S.A. Gelman, (eds), Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge University Press, New York 1994, pp. 39-97.
175
Indice dei nomi
Altena, J.van 6 Andler, D. 6 Aristotele 127 Armstrong, D. 90 n. Astington, J. 154 Atran, S. 6, 72 n„ 97 e n., 98, 128, 138, 150, 157 n. Axelrod, R. 6
Barkow, J. 130 n. Barth, F. 58 n. Berlin, B. 72 n„ 98, 99, 128 Bloch, M. 6, 51, 73 n. Block, N. 84, 123 n. Bloom, P. 119, 152 n. Bogdan, R. 6, 90 n. Bossert W. 108 n. Boyd, R. 9, 35, 106 e n„ 119 Boyer, P. 6, 106 n., Ili, 147, 150 Brandt, M. 90 n. Brewer, W.F. 77 n. Brown, A. 130 n. Bruner, J. 70 n. Bürge, T. 82, 141 n. Campbell, D. 9, 106 Cara, F. 6 Carey, S. 97, 99, 128 Carpenter, P. 6
Cavalli-Sforza, L.L. 9, 35, 61, 106,
161 Changeux, J. 6 Chomsky, N. 13, 16, 29, 112, 136 Churchland, P. 20 Clark, A. 134 Colby, B. 77 n. Cole, M. 77 n. Coley, J. 138,151 Comte, A. 12 Conein, B. 6 Cosmides, L. 6, 9, 106 n„ 118, 129, 130, 152 Cronin, H. 6 D'Andrade, R. 60 n. Darden, L. 63 n. Darwin, C. 123 Davidson, N. 151 Dawkins, R. 9, 13, 35, 62, 106107, 108, 109, 123 Dehaene, S. 152 Dennett, D. 6,20,90 n„ 106 a, 141 n„ 143 n. Dijk, T.A. van 77 n. Döring, F. 6 Douglas, M. 21, 46, 51 Dretske, F. 84, 90 n„ 141 n. Dumézil, G. 47-48 e n., 50 Dupuy, J.-P. 6 Durham, W. 9, 106 e n.
177
Durkheim, E. 64, 73 Elgin, C. 6 Ellen, R. 72 n. Engels, E 17 Favret-Saada, J. 58 n. Feldman, M.W. 6, 9, 35, 61, 106 Fodor, J. 11, 14, 19, 74, 82, 84, 92, 125-127, 129, 130, 131-132, 133, 138, 139, 143 n., 153, 156, 157 Freud, S. 18
Gallistel, R. 152 Gamst, F. 21 Geertz, C. 23, 73, 83, 85 Gelman, R. 97, 152 Gelman, S. 128, 136, 138, 151 Gibbard, A. 6, 60 n. Gigerenzer, G. 55 n. Gilbert, M. 6 Girotto, V. 6 Godei, K. 68, 100, 101, 102 Goldenweiser, A. 21 Goody, J. 6, 77 n. Grice, P. 154 Harman, G. 6, 90 n. Harnish, M. 90 n. Harris, P. 154 Hintikka, J. 90 n. Hirschfeld, L. 6, 97, 128, 136, 150, 151 Hoffrage, U. 55 n. Hutchins, E. 106 n. Hutchinson, J. 151
Jacob, O. 6 Jacob, P. 6 Jahoda, G. 59 n. Johnson, N.S. 77 n. Johnson-Laird, P. 72 n. Jorland, G. 6 178
Kahneman, D. 55 n. Kaplan, D. 20, 21 Katz, J.J. 6, 66 n. Kay, P. 72 n„ 98, 99 Keil, F. 72 n., 97, 128, 138, 141, 147 Kelly, M. 147 Kintsch, W. 77 n. Kluckholn, C. 21 Kroeber, A.L. 21 Leach, E. 5,21,22,24, 52 n. Lees, H. 6 Leslie, A. 129, 154 Levine, R. 59 n. Lévi-Strauss, C. 21, 24, 31, 46, 48 e n., 50, 65, 77 n. Lewis, I.M. 60 n., Lichtenstein, E.H. 77 n. Lloyd, B. 72 n. Lumsden, C.J. 9, 35, 62, 106 n„ 119
MacMahon, B. 61 n. Malinoswki, B. 59, 60, 78 Mandler, J. 77 n. Manktelow, K. 134 Markman, E. 138, 151 Maull, N. 63 n. Maynard Smith, J. 108 n., 123 n. Medin, D.L. 72 n., 138 Menget, P. 40-45, 46, 48-49, 56 Miller, G. 72 n. Millikan, R. 106 n., 107 n., 141 n. Molière 39 Monod, J. 106 Nagel, E. 62 Needham, R. 21, 22, 24, 52 n„ 90 n. Nisbett, R. 6 Norbeck, E. 21 Nowak, A. 110 Olson, D. 154 Origgi, G. 6
Ortony, A. 138 Over, D. 134 Papineau, D. 141n. Piattelli-Palmarini, M. 133 n. Pinker, S. 119, 152 n. Popper, K. 66 n„ 106 Premack, D. 6, 137 Pugh, T.F. 61 n. Putnam, H. 11, 141 n. Reason, D. 72n. Recanati, F. 6, 141 n. Richerson, P. 9, 35, 106 e n„ 119 Rivers, W.H. 59 Rivière, P. 25, 41 Rosch, E. 72 n. Rozin, P. 130 n. Ruhmelhardt, D. 77 n. Ityle, G. 90 e n. Schiffer, S. 90 Schull, J. 130 n. Schweder, R. 60 n. Searle, J. 27 n. Shakespeare, W. 86 Smith, E.E. 72 n. Smith, P. 48 n. Sober, E. 106 n„ 123 n„ 151
Spelke, E. 97, 98 n., 129 Sperber, D. 13, 20, 27, 39 n„ 48 n„ 56, 73 n., 77 n„ 83, 86, 87, 88, 90,91,92 n„ 93 n„ 95, 97 e n., 101, 119, 121, 126, 138, 139, 147, 152 n., 154, 156 Sperber, J. 6 Steiner, F. 21 Stich, S. 20, 90 n„ 133 n. Symons, D. 130 n. Tarde, G. 8, 86 Tooby, J. 6, 9, 106 n„ 118, 129 Turing, A. 18, 20 Tversky, A. 55 n. Tyler, S. 70 n.
Vygotsky, L. 70 n. 82 Wilensky, R. 77 n. Williams, G. 107108 e n. Wilson, D. 6, 39 n„ 56, 87, 91, 92 n„ 101, 108 n., 119, 138,139,154 Wilson, E.O. 9, 35, 62, 106 n„ 108 n„ 119 Wittgenstein, L. 22, 82, 90 n. Wundt, W. 59
179
Indi ce
Pag. 5
Prefazione 7
Introduzione
151. Come essere un vero materialista
in antropologia
16Antropologia e ontologia 18
L'ontologia della psicologia: un esempio da seguire?
21
Un vocabolario interpretativo
23
'Matrimonio'
26
Implicazioni
28
Di cosa sono fatte le cose culturali?
30Un'epidemiologia delle rappresentazioni 31'Mito' 33
Ancora sul 'matrimonio'
372. Interpretare e spiegare le rappresentazioni culturali 38Interpretare le rappresentazioni culturali 45Spiegare le rappresentazioni culturali 46Generalizzazioni interpretative 47Spiegazioni
strutturaliste
50
Spiegazioni
funzionaliste
53
I modelli epidemiologici
593.
Antropologia e psicologia: delle rappresentazioni
verso
un'epidemiologia
60Epidemiologia 63
Rappresentazioni
66
Presupposti
69Disposizioni e ricettività 70Concetti di base 72
Rappresentazioni culturali
76Memoria e letteratura orale 77Osservazioni conclusive
81
4. L'epidemiologia delle credenze
81
Speculazioni antropologiche
89 97
Speculazioni psicologiche Tipi differenti di credenze, meccanismi differenti di distribuzione
103
5. Selezione e attrazione nell'evoluzione culturale
105
II modello della selezione
111
II modello dell'attrazione
117
Fattori ecologici e psicologici di attrazione
1256. Modularità del pensiero ed epidemiologia delle rappresentazioni 126Due argomenti di buon senso contro la modularità del pensiero
129
Modularità ed evoluzione
134
Modularità e integrazione concettuale
140
Dominio reale e dominio proprio dei moduli
144
Domini culturali ed epidemiologia delle rappresentazioni
153
Capacità metarappresentazionali ed esplosione culturale
159
Conclusione: la posta in gioco
165
Bibliografia
175
Fonti
177
Indice dei nomi
Stampa Grafica Sipiel Milano, marzo 1999